Luigi Speranza -- Grice e Carabellese:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’arena e la
pietra -- la sabbia e la roccia – il segno – scuola di Molfetta – filosofia
barese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo
di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Molfetta). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Molfetta, Bari, Puglia. Grice: “I
love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and the sand,’ which reminds me
of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic on the sand and rocks, which
I’m sure were common in Ostia, too, back in the day! Carabellese speaks of a
‘semiotic scandal’ so it all connects with my pragmatics of dialectics or
conversation.” Studia
a Napoli e Roma. Insegna a Palermo e a Roma.A partire da una critica ferrata
alla dottrina cartesiana (Le obbiezioni al cartesianesimo; il metodo, l’idea,
la dualita; Il circolo vizioso in Cartesio) porta a compimento studi critici su
diversi autori, tra i quali spiccano Kant e Rosmini. Elabora la dottrina dell'ontologismo
critico, in cui l'essere non è mero oggetto della coscienza ma è a essa
intrinseco come fondamento irriducibile, cioè essere-di-coscienza, che in
ultima istanza altri non è che Dio (che, come già asseriva Vico, "è"
e non "esiste"). Difese
l'oggettività essenziale dell'essere e la filosofia, non come sapere
specialistico trincerato, ma come operatrice per l'umanità tutta così che la
coscienza filosofica esplica quella teoria che nel diversificarsi concreto
della spiritualità risulta necessariamente implicita. E allora lo sforzo della
filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto seppure la teoria si
attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del concreto. Insomma
Carabellese difese la filosofia come ascesa teoretico-razionale a realtà
teologiche, o come sentiero che volge al fondamento comune della vita politica
e che alla politica rimane irriducibile. Altre opere: Critica del concreto; Il
problema della filosofia da Kant a Fichte; Il problema teologico come
filosofia; L'idealismo italiano; L'idea politica d'Italia; Da Cartesio a
Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico. L'essere e la
manifestazione. L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme. L'essere.
Filosofo della coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La sabbia e
la roccia: l'ontologia critica di Pantaleo C.. Il problema dell'io in C..
Metafisica in C.. Kant e C. Dizionario
Biografico degl’italiani. Autolimitazione della metafisica critica? Momenti
della recezione italiana di Fichte con particolare riferimento all'ontologismo
critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento
della vera scoperta di Kant, ed era all ' origine della moderna... intesa come
« scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il
Semerari chiama « lo scandalo...seDalla filosofia intesa come « scoperta »
deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama
“lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo, a
prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo
linguistico, " in G. Semerari, La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty,
Sens et non - sens, Paris, Nagel; It. trans. by Caruso, Senso e non senso, Milan, Il
Saggiatore. La ontologia di C., così, si prospetta come una ontologia della coscienza
assiologica e semantica, ossia come una critica antinaturalistica e
antipsiscologistica dei valori e dei significati dell’essere. L’importanza del
lavoro filosofico carabellesiano, secondo Semerari, consiste nell’esigenza
radicale di lavorare alle radici del linguaggio filosofico, di andare al di là
della storia già fatta, come scrive Semerari citando C., scendendo sino ai suoi
presupposti: ciò significa portandosi al grado zero della parola per
reinventare il linguaggio filosofico e le connessioni che in esso si sono
stabilite lungo la sua storia, a partire dalla cosa stessa, ossia dall’essere
in cui la coscienza è già implicata. Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo
non si può trascurare la convergenza con la ontologia critica di quella parte
della filosofia linguistica contemporanea per la quale, al limite tra
fenomenologia, esistenzialismo e analitica, porre la questione del linguaggio è
portarsi al grado zero della parola, al silenzio come radice di ogni
possibilità linguistica, fare giudice della critica del linguaggio, com’è stato
suggestivamente detto, la ‘coscienza silenziosa’. singolari di Coscienza si
costituiscono come soggetti pensanti in comunicazione tra loro. L’alterità
dell’altro io presuppone l’identità dell’io che lo esperisce come altro.
Reciprocamente la coscienza della propria identità egologica richiede il
rapporto di alterità come intrinseco all’essere stesso dell’io. L’alterità
sempre afferma chi dice io, il quale ciò dicendo, anche trascendentalmente si
distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce di
fronte a sé. Con questo chi egli afferma una relazione reciproca con la quale
attua l’egoità. Soggettività ed egoità pura sono sempre pura alterità. L’alterità
di ciascun io è, come scrive C., «l’insondabile residuo di meità intraducibile
in esperienza dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è il limite che la
meità ha nell’esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e
non pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento
dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità.. Alterità e
non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la compattezza non la
relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività molteplice. La relazione
è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente, implica necessariamente
l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea C. Diversamente l’io assoluto
fichtiano, dilaga nella coscienza, identificandosi con essa, riducendo
l’oggettività a negazione; ma resta così l’io nella sua solitudine e, senza
l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io fichtiano, nell’interpretazione
del C., elimina gli altri io dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in tal modo
perde la meità, approdando all’Unico, che egli vede come una nuova forma di
eleatismo. C. sottolinea che se non è da percorrere l’identificazione dell’io
con la coscienza, tuttavia questo non conduce alla cancellazione della meità;
invece, pensare l’immediata appartenenza del me all’essere di coscienza, non
assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri. Non l’annullamento del me
costituisce la base per la relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma
proprio partendo dal me, per C. si giunge agli altri come altri “di” me,
esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli altri “da” me. Il me
esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori di cui parla C., in
primo luogo non si identifica con il corpo, in quanto quest’ultimo trova il suo
limite nell’altro corpo e, più in generale nell’altra cosa: «Io, come
innegabile esigenza di coscienza non sono, o se volete, non sono affatto corpo.
pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono uno esistente, e il mio corpo,
che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può trovar altra) nel limite, che
il mio corpo trova negli altri corpi, e che io non trovo, se non voglio cadere
nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» C. rifiuta l’ipotesi materialistica,
perché se l’io si identificasse con il corpo non potrebbe affermare nemmeno la
propria corporeità, ossia che il corpo è suo. Nella concezione materialistica
l’io si identifica con il corpo che diventa la radice dell’opposizione con gli
altri. Se si realizzasse questa identificazione in realtà si avrebbe la
soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli altri non sarebbero più
altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si porrebbe
contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione spiritualistica che
intende l’io come spirito finito, ha come esito la riduzione dell’io a corpo,
perché sostenere la limitatezza dello spirito implica sottoporlo al limite,
come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte ha evitato la riduzione
dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità identificando l’io con la
coscienza. Infatti nell’io empirico il me è sostanzialmente ridotto a corpo, a
non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se stesso. In Hegel, poi, ogni residuo
di meità è tolta nel Soggetto assoluto. L’io perciò è spirito infinito, ma da
questo non deriva per C. che venga eliminata la distinzione dell’io dal tu
nella coscienza, ossia che vengano tolti gli altri, con il rischio di tornare a
Fichte. Per il filosofo italiano «togliere il limite è affermare gli altri»,
non annullarli; infatti, per giungere alla negazione dell’altro, o degli altri,
«bisogna prima ammettere – osserva C. – che gli altri, in quanto tali,
escludano l’uno di tale essere, e che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè
cominciare proprio con l’opporre ad uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi
ed opposti a questo e cioè col presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli
altri no, e perciò siano non io, non coscienza. Cioè bisogna cominciare col
presupporre la empirica limitazione dei corpi, la quale appunto, nella
identificazione di me col corpo mio, fa ritenere me, col mio corpo, coscienza e
gli altri, che col loro corpo limitano il corpo mio, non coscienza». Già ne Il
problema teologico come filosofia C. afferma, polemizzando con Fichte, che la
molteplicità soggettiva non è semplicemente empirica, ma pura, condizione
trascendentale della “concretezza”; la singolarità non è solitudine, ma
relazione reciproca nel pensare, sentire, agire l’Universale/Dio. L’io
esistente, singolare, è uno, e come tale è ciascuno, essenzialmente altro. «Il
singolare è quell’uno, di cui si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno,
unusquisque. Uno che non sia ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente:
«Io sono altro: solo così “sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io,
per C. non è esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una
identificazione con l’oggetto realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema C. sostiene
l’“identità” dei soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze la
determinazione dell’omogeneità, senza però indicare come possano differenziarsi
i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se
non voluto, è evidente; infatti per spiegare il darsi della molteplicità
soggettiva egli parla di alterazione, come moltiplicazione infinita riferendola
però non all’uno, al soggetto, ma all’Unico, ossia all’essenza divina, al che.
Tuttavia, se la moltiplicazionealterazione è riferita da C. all’Unico, non
all’uno: allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un
impossibile altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo, come possono
derivarne i soggetti? In realtà possiamo muovere anche a C. l’osservazione di
involgersi in una sorta di circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è
la qualità infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione,
nello stesso tempo a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti.
L’uno di cui parla C. è l’io che immediatamente si intuisce singolare, e che
altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia ciascuno, non è
uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di ricondurre e ridurre la
meità ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità e
l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per C.
invece proprio il recupero dell’altro consente la realizzazione di sé. Ma, se
si andasse più profondo in questo amor di me spirituale, che è, o dovrebbe
essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe, si
vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una positività a questa negazione
del “non tu”, se non voglio divenire un puro e semplice “non” devo considerare
me come uno tale che possa e debba riversare l’amor di me uno in altro uno, che
è uno come me, cioè devo riconoscere l’unità, che sono io, nell’alterità.
L’amor mio proprio, che non voglia essere soltanto amor del mio corpo, è
proprio amor dell’altro. L’amor proprio spirituale non mi costringe alla
assolutezza (unicità e incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla sua
alterità: l’amore è sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo. La
struttura dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in
altri. termini, l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura
coscienziale a dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di
ciascuno si afferma e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli
altri: «Io facendo dagli altri riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come
altro, non tolgo ma affermo la mia originalità». Per C. l’amor di sé ha insita
l’esigenza della relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come
l’Unico chiuso in se stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla di
offesa dell’amor proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è più
nemmeno soggetto. Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro
identico rischia di essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera
relazione, più una sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che
il faticoso cammino del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per
cui sono infinitamente penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è
già data immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e
gli scontri a livello empirico. L’altro per C. è un altro me, non la negazione
del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e all’opposizione che
Platone pone tra uno e altri. Per C., sulla base dell’essere di coscienza, tale
opposizione non si dà; alla domanda del Socrate platonico su quel che siano gli
altri, quando io sia, si può rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma
altri uno, sono perciò altri “me”. C. individua la causa della “cacciata” degli
altri dalla coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta
con l’io: per tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri
è individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità”
pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né
oggetto. L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se
nell’essenziale relazione, di cui parla C. è apriori, non si identifica con il
singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e
limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e
illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra
il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra
miglior coscienza e coscienza empirica, per utilizzare in chiave euristica
espressioni di Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della coscienza, non
facendo ancora riferimento alla volontà come principio metafisico. Però proprio
il pensare, da lui inteso in senso ampio come intendere, sentire e volere che
si esplicano nell’attività spirituale umana, esige il livello della purezza
coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza, per C. l’assolutizzazione della.
Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina dell’idea, antologia a cura di Mirri,
Armando, Roma. dimensione spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe
all’annullamento dell’attività spirituale umana. C. non intende semplicemente
opporre la propria concezione a quella fichtiana, ma intende condurne
all’estremo le conseguenze, ipotizzando una sorta di esperimento mentale.
Infatti, se l’Io si ritenesse assoluto e si arrogasse il diritto di sopprimere
il tu, riducendolo soltanto a sua esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io,
ma solo in quanto avrebbe soppresso il tu e quindi anche l’esperienza, che egli
ne ha: non ci sarebbero più i tu, che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto
io empirici: gli altri non sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu
(altri) ci sarei ancora io (uno)?»18. In realtà, per C. c’è un'unica soluzione,
che esclude la fine tragica della disputa: «Non c’è dunque altra via d’uscita
da esso, se non quella che io non mi contenti di ricambiare la tuità, ma gli
ricambi proprio la meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un
altro io, e perciò mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce,
gli contesto il diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così
egli sopprime se stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e
parlare come Io, Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita,
costituisce l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o
moltiplicazione, con tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il
possibile l’esito fichtiano. Secondo C. si può dire che «sono l’identico io
proprio perché siamo due»: se fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo
ad esperienza, sarebbe eliminato anche quel consentire in cui consiste la
stessa esperienza. Non solo l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma
in generale il pensare, che è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21
l’Universale, Dio. Quel cum non è un'aggiunta irrilevante, in quanto la
dimensione intersoggettiva, comunitaria, è essenziale a tutte le forma
dell’attività spirituale umana. «Ci sarà – afferma C. –, anzi c’è senza dubbio,
quella empirica alterità, nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un
insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa
intraducibilità, che è il limite che la meità ha nella esperienza, non prova
che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il
contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura
come schietta egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te,
persone viventi, non è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno
singolare; io, alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è
immesso nell’altro uno, Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in C.. Cfr. in
proposito C., La coscienza. immissione, senza della quale è assurdo non solo
l’innegabile consentimento ma anche la divergenza di noi nell’alterità nostra;
consentimento, e divergenza, per i quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti soggetti
dell’Unico, che è immanente a noi molti. La differenza fra le egoità si dà solo
a livello empirico, a livello trascendentale e metafisico i soggetti sono
identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente penetrativi. C. contrasts the rock of concrete, temporal, plural, relational being in
the light of which the problem of the origin, of the foundation, of validity
cannot be given up, with the sand of historicist becoming, of the historicist
succession of the facts in which law and value coincide with the succession
itself. The metaphor of sand and rock used by the same C. in his later writings
is taken up by Semerari in the title of an essay dedicated to critical
ontologism. This metaphor gives us a good idea of the fundamental theoretical
instance relating to the problem of history. Such a theoretical instance is
asserted by Carabellesian ontology in its opposition to historicism through the
ontological recovery of time and of existence and by contrast as well with the
interpretation, traceable in Heidegger, of time and existence as the outside,
as the not of meta–temporal and meta–existential Being, that is, as its decayed
phenomena21.”La responsabilita profonda, grave, se una se ne vuol trovare, e
questo aver SCAMBIATA LA SABBIA DELL’IERI, OGGI, E DOMANI, SEPARATI, AVER
SCAMBIATA LA SABBIA DEL “FUI” PER LA ROCCIA DELL’ “ESSERE” -- l’eterno – nell’eterno -- nella roccia,
l’ieri, l’oggi, e il domani non sono separati ne successivi – la copula S EST P
– non S FUI P --. La
responsabilita profonda e di questa coscienza storicista, che si resolve
appunto nel credere che tutta la CASA umana sia FATTA SU SABBIA [on sand, not
on rock]– e DI SABBIA. Abbandoniamo questa coscienza storicista di Croce, che
spessso si nasconde, forse piu intransigente anche nel dommatismo ultramondano
degl’ANTI-STORICI, che pur soltanto UNA SABBIOSA STORIA (la storia della
semiotica, la storia di Vitruvio) concedeno all’umana attivita consapevole.
CERCHIAMO LA ROCCIA al di sotto di questo SGRETOLAMENTE (la greta), che sono i successive
e separati ieri, oggi, e domani. CI riuscira forse cosi di ritrovare il
fondamento e di trarre anche dallo SCAVO DI FONDAZIONE, PER LA COSTRUZIONE
DELLA NOSTRA CASA, materiale piu atto che non sia quello datoci dal SABBISO
SUCCEDERSI DI ETA UMANE E COSMICHE. Certo nessuna costruzione noi uomini
pensanti possiame fare SULLA ROCCIA se queso nostro PENSARE NON TOCCA LA
ROCCIA. Nessuna costruzione possiamo fare se nostro pensare no ha LA ROCCIA A
SUO INTIMO FONDAMENTO. Ma tanto meno potremo alcuna costruzione fare SE
INTENDIAMO FARLA CON POLVERE di idee che si facciano sorgere o tramonatre con
la storia. Su Polvere e di polvere non si costruisce. Si COSTRIUCE SOLO CON
PIETRA [stone] DURA [hardened – D. Paul] SULLA ROCCIA. ROCCIA E L’ESSERE
SPIRITUALE CHE *dura* -- durazione, duro – ETERNO.” 24 Omnis ergo, qui audit verba mea haec et
facit ea, assimilabitur viro sapienti, qui aedificavit domum suam supra
petram. 25 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt
venti et irruerunt in domum illam, et non cecidit; fundata enim erat supra
petram. 26 Et omnis, qui audit verba mea haec et non facit ea, similis erit
viro stulto, qui aedificavit domum suam supra arenam. 27 Et descendit pluvia,
et venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et
cecidit, et fuit ruina eius magna ”.Pantaleo Carbellese. Keywords: la sabbia
e la roccia – il segno, lo scandalo del significato, io/tu, Husserl,
intersoggetivita, intersoggetivo, interpersonal, interattivo – interazione,
azione sociale – orientazione all’altro, razionalita strategica, razionalita
comunicativa, complessita intensionale, il significato, i significati,
l’nsieme, la comunita, il noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Caracciolo:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del colloquio – scuola
di San Pietro di Morubio – filosofia veronese – filosofia veneta -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (San Pietro di Morubio). Filosofo
veronese. Filosofo veneto. Filosofo italiano. San Pietro di Morubio, Verona,
Veneto. Grice: “I like Caracciolo – at Harvard, I joked on
Schlipp, and stated that Heidegger was then the greatest (grossest, in German)
living philosopher – as he then was, living --. Caracciolo has dedicated his
life to translate Heidegger’s ‘Dutch’ mannerism into the ‘volgare’: and now I
have concluded that Heidegger is perhaps the grossest dead philosopher – “in
cammino verso il linguaggio: il dire originario” –“. Grice: “Note that Caracciolo’s ‘cammino’
translates Heidegger’s ‘weg’ – my ‘way’ of words – but for Heidegger is ‘way
to’ (weg zur) – as it should!” cf. Speranza, “in cammino verso la
conversazione” – versus “il cammino della convresazione’ –“ Grice: “Note that
in Italian, unlike German, you drop the otiose ‘the’ of ‘way – “Nel cammino” is
o-kay, but “in cammino” is the choice by Caracciolo!” – cf. Aligheri, ‘nel
cammino’ OF his life, towards heaven, or paradise, that is.” Studia a
Verona e Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con il quale collaborò alla stesura
dei Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno dei più noti martiri della Resistenza
e a lui Caracciolo dedica un saggio, “Teresio Olivelli: biografia di un
martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi, Brescia, e Genova. La sua filosofia si
sviluppa inizialmente all'interno della tradizione crociana, ma poi acquisisce
tratti più originali a contatto con Jaspers, Löwith e Heidegger. In cammino
verso il Linguaggio. Di particolare interesse e importanza sono i suoi studi
sul nichilismo a partire da Leopardi e sulla dimensione religiosa
dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure mostrato una forte
attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra pensiero e musica. Altre
opere: “L'estetica di Croce nel suo svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica
e la religione di Croce (Arona); Estetica (Brescia); Etica e trascendenza,
Brescia); Arte e pensiero nelle loro istanze metafisiche. I problemi della
"Critica del giudizio", Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona
e il tempo, Arona; Saggi filosofici, Genova); Studi jaspersiani, Milano); La
religione come struttura e come modo autonomo della coscienza, Milano); Arte e
linguaggio, Milano); Religione ed eticità, Napoli); Löwith, Napoli);
Nichilismo, Napoli); Nichilismo ed etica, Genova); Studi heideggeriani,
Genova); Nulla religioso e imperativo dell'eterno, Genova); Politica e
autobiografia, Brescia); Leopardi e il nichilismo, Milano); La virtù e il corso
del mondo (Alessandria); L'assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni,
Napoli); Filosofia della religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania.
Lo spirito della religione antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza.
Lo spazio della trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo.
Sentieri del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino verso il
linguaggio. Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die Sprache im Gedicht. Il
linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht. Aus einem
Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und einem Fragenden. Das Wesen
der Sprache. L’essenza
del linguaggio. Das Wort. La parola. Il verbo. Der Weg zur Sprache. In cammino
verso il linguaggio. Essere e tempo. La riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον
λόγον ἔχον. Ermeneutica e metodo storico-ermeneutico. Il ‘non’ come fondamento.
Più in alto della realtà sta la possibilità. La Kehre. L’essere: un problema
che rimane problema. Poesia. L'arte come messa in opera della verità.
Hӧlderlin. Il tempo della povertà. Il pensiero come Kehre. In cammino verso il
silenzio. La differenza e il fondamento. In cammino verso il linguaggio: il
dire originario. In cammino verso il linguaggio: il suono del silenzio.
“Heidegger is the greatest living philosopher”. Heidegger In cammino
verso il linguaggio Curatore: C. Mursia. Heidegger scrisse In cammino verso il
linguaggio. Ci sono alcune cose interessanti e volevo proporvele questa sera.
Innanzi tutto l’esordio in cui è molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo
parla, noi parliamo nella veglia e nel sonno, parliamo sempre anche quando non
proferiamo parola ma ascoltiamo o leggiamo soltanto perfino quando neppure
ascoltiamo o leggiamo ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in
un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci
è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà, si dice
che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza
della pianta e dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo
non si intende affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità
anche quella del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa
dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in
quanto parla, è la lezione di Humboldt, resta però da riflettere che cosa
significhi “l’Uomo”. Ora considera una poesia di Kraus: Quando la neve cade
alla finestra a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è
pronta, la casa è tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta
per oscuri sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa
della terra, silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la
soglia, là risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita
piena di grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo”
colui che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che
cosa “chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che
“chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove
ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è
l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già
detta, in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce
in ciò che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di
Lacan e di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò
che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che
grazie ad esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e
troppo spesso, ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il
passato del parlare. // Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama”
la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel
senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di
cui parla Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il
luogo 2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza
serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel
nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra
breve il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è
l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della
neve” (qui cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che
si oscura inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li
porta come mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali
alla terra, le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso
di sé cielo e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e
i divini” costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose
trattengono presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e
trattenere consiste l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e
terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi
lo chiamiamo “il mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro
essenza, queste nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel
mondo esse stanno e in questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro
durata, le cose in quanto sono e operano come tali portano a compimento il
mondo. Nel tedesco antico “portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i
termini “gebären” “generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la
loro essenza le cose sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse
generano il mondo. La prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro
di venire, tal dire chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo
stesso sospinge verso le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano,
per questo la prima strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama
i molti che come mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose
condizionano i mortali ciò a questo punto significa: le cose visitano di volta
in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla
nell’atto che dice alle cose di venire, la seconda strofa parla in modo diverso
dalla prima eccetera … qual è la questione qui? Importante perché ci sta
dicendo che c’è il mondo che è fatto di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”,
il mondo è ciò per cui le cose sono quelle che sono, adesso ve la dico in modo
molto più semplice e capirete subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è
l’Essere. In questa posizione sta dicendo che senza il mondo cioè senza
l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è preciso qui quando dice “la caduta
della neve” per esempio nel verso “porta gli uomini sotto il cielo che si
oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della campana della sera li porta
come mortali di fronte al divino” cioè queste parole costruiscono la scena
entro la quale la “cosa” può apparire, come se fosse, adesso preciseremo
meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di significante, adesso sto un po’
stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il significato, senza significante
non c’è significato e viceversa, il significato cioè ciò che questa “cosa”,
questa parola produce, se lui nomina il “suonare della campana” è chiaro che
questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca il divino, evoca la religione,
evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo una, ma potrebbero essere
sterminate ed è all’interno di questo che l’ente compare, Intervento: come se
le cose potessero apparire solo in questa scena che è il “mondo”. Esattamente,
però senza gli enti il mondo non c’è. Intervento: il mondo è la totalità degli
enti? Sì, esattamente, poi: Come il chiamare che nomina la cose chiama presso e
rimanda lontano, così il dire che nomina il “mondo” è invito a questo a farsi
vicino e al tempo stesso lontano. Cosa vuole dire che “chiama presso e rimanda
lontano” questo “chiamare”? le chiama le cose parlando, io chiamo le cose
quindi è come se me le avvicinassi ma mentre avvicino queste cose, queste cose
si allontanano anche, si allontanano perché di cosa sono fatte? Intervento: c’è
sempre quell’assenza di prima. Sì, queste parole sono assenti, nel senso che
non sono lì in quanto tali, sono lì sempre in quanto riferite al mondo ecco:
esso, il chiamare, affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le
cose nello splendore del mondo, il mondo concede alle cose la loro essenza.
Quindi è questo mondo, questa scena, io adesso uso dei termini che lui non usa
ma solo per rendere le cose più semplici, è questo “mondo” che dà alle cose la
loro essenza, qui sembra essere ancora platonico, questo mondo 3 potrebbe
essere pensato come il mondo delle idee ed è questo mondo delle idee che da
alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose d’altra parte fanno essere il
mondo, il mondo consente le cose. Il parlare delle prime due strofe parla
nell’atto che sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le
cose- tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa il linguaggio: neppure
però costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non sono infatti realtà
che stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano vicendevolmente,
compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in questo si
costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e
l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il
“fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde
il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a
pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e
adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure,
L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si
distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra
mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora
adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione
della “differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del
frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui
sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui
area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si
parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con
essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla
quale, e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità
della dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che differenziando
porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser mondo, porta le
cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un verso l’altro. Il
termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione posta tra oggetti
del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo sono quelli che
il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una relazione
oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero presentativo
venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è comunque relazione
tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento negata e trascesa
– cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa che le cose
emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga come quello
che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto misura nella sua
interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio di mondo e cosa,
la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta generandola la
misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel nominare che chiama
“cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la dif-ferenza. A questo
punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato necessariamente a Derrida, il
quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger ma tra breve sarà ancora più
evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha riletto con De Saussure dice:
“Questo chiamare” ricordate prima ha detto del chiamare: Questo chiamare è
l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata dalla quale soltanto ogni
“chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale pertanto ogni possibile
“chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto suono nella “quiete”
(adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta, (ovviamente) portando mondo
e cose alla loro essenza, il fondare e comporre mondo e cose nel modo
dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il linguaggio, il suono della
quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi evento, l’essere del
linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della quiete non è nulla di
umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il termine “parlante”
significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. (lui
è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il linguaggio che parla, e
il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari degli altri, infatti
quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un abominio per
Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere oggetto
dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua portato a
se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere all’essenza del
linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene all’essenza del
linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete) si realizza in
quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si avvale del parlare
dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono della quiete”,
solo in quanto 4 gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete,
i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni. Il parlare
dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è fondamentale in Heidegger lo
ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è invito alle cose e al mondo
farsi presso muovendo dalla semplicità della differenza. La pura del parlare
mortale è la parola della poesia, l’autentica poesia non è mai un modo più
elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto il contrario, che cioè il
parlare quotidiano è una poesia dimenticata come logorata nella quale a stento
è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. Ecco la questione
che sta ponendo è esattamente quella che pone Derrida, questo suono, questo
suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia è ciò che costituisce la
condizione della parola che chiama, beh è ciò che Derrida ha elaborato come
“differance”, lui usa per indicare questo suono che non c’è, usa questo
esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si scrive così, però a
“difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi “differance” che in
francese è scorretto perché si scrive “difference”, però dice anche cambiando
la e con la a, il suono della parola in francese “differance” non cambia, è
esattamente lo stesso cioè questa e non si sente, che metta la e o metta la a,
è uguale, non si sente, cioè quella cosa che lui chiama la “differance” è
esattamente questo suono muto, che tuttavia è quella cosa che consente alla
parola di essere tale e cioè di, mettiamola così, lui, forse dovrei aggiungere
qualcosa, lui, Derrida muove a queste considerazioni partendo da De Saussure,
dal segno di De Saussure “significante/significato” e quindi ciò che dice è che
questa barra è quella che divide il significante dal significato ma è quella
che compone il segno, senza questa barra che distingue il significante dal
significato il segno non c’è, però questa barra si scrive, si mette il
trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel significante né
nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella cosa che non
compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia segno, cioè
perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono di cui parla
qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo “cosa e
mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno altro,
l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito
all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in
essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla
né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla,
per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa
invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto
precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio
non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra
altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan
quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato
Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto
del fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una
proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il
linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa
una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le
cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di
fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la
quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile
costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le
cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in
effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola
“costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella
cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad
Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste”
tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo
mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto
interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono
minimamente interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto
conto di queste asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino
verso il linguaggio” 5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del
linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice
che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non
esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che
mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo
molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in
quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice
denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola
come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un
aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa,
alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire
lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza
una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è
il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e
connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo
dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche
cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il
mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo
determina, non lo può determinare. Intervento: lo potrebbe determinare
l’esserci, “Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente
di volta in volta. Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare che
l’essere non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che, così
notava Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza
improbabile, è come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È
niente. Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere,
significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non
possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo
come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In
questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e
si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più
alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti,
l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la
“presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due
momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua
propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui
lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità,
sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa
differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza
tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono
tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il
significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica
qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa,
chiama anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il
quale mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla
semiotica, in fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati
in queste questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado
dicendo ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili,
perché quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio
è inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per
Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni
all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la
psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono
associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata.
Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto
spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi
Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può
accadere certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche
simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato”
sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si
può pensare la differenza in quanto tale, così come non può 6 neanche
dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice
Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi
la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: non
avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune cosa
ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui incomincia a
parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto “Essere e
tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che una
riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al linguaggio
necessariamente. Il parlare inteso nella sua pienezza significante trascende
sempre la dimensione puramente fisico sensibile del suono ovviamente il parlare
non è soltanto il suono ma il linguaggio come significato fattosi suono o segno
scritto è qualcosa di essenzialmente soprasensibile, qualcosa che perennemente
oltrepassa il puramente sensibile, il linguaggio così inteso è per sua
costitutiva natura metafisico.) È la metafisica che rappresenta, badate bene:
si parla, si rappresenta, se si rappresenta si compie un’operazione metafisica.
Poi sul volere sapere: Il voler sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non
portano mai a un interrogare pensante, nel volere sapere si cela già sempre la
presunzione di un auto coscienza che si appella a una ragione auto fondata e
alla sua razionalità, il volere sapere non vuole che si stia in ascolto di
fronte a ciò che è degno di essere pensato. Intervento: è una forma di
controllo Esattamente, e poi c’è la seconda parte di cui ci occuperemo nel
prosieguo perché ciò che stiamo facendo è straordinariamente vicino a ciò che
qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha dubbi sul fatto che l’uomo è quello
che è, perché c’è il linguaggio, non ha nessun dubbio lo pone proprio nelle
prime pagine il che comporta ovviamente delle implicazioni, perché se l’uomo
non è se non nel linguaggio allora, dice lui giustamente, occorre porsi in
ascolto del linguaggio, che non significa ascoltare quello che qualcuno dice,
ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi in ascolto della domanda che c’è nel
linguaggio, nella chiamata che il linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le
cose e fra le cose, chiama anche l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione
perché ci sia questa chiamata. Questa è una questione sempre presente in
Heidegger, infatti è stato accusato di “umanismo”, “accusato” tra virgolette,
mentre lui si è sempre difeso da questo, la sua non è una posizione
esistenzialista, ha dovuto attraversare l’esistenzialismo perché l’unico
esistente è l’uomo, questo accendisigari per Heidegger non esiste, c’è, ma non
esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto coloro che sono in condizioni di
porre la domanda, questo aggeggio, questo accendino non fa nessuna domanda. Per
Heidegger l’uomo è il portatore in un certo senso del linguaggio, forse non
necessariamente l’unico, però a quanto ci consta per il momento si, e questo,
sempre per Heidegger, è fondamentale perché l’uomo può trarre la verità, cioè
la verità sull’essere e quindi il fatto che l’essere non sia nient’altro che
l’esserci dell’uomo in quanto progetto ciascuna volta, solamente nel dialogo.
Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un dialogo dove le cose si interrogano,
dove si mantiene aperta la domanda non la chicchera, il parlare per il sentito
dire, il sentito dire vuole dire anche averlo letto da qualche parte, ma non
averlo interrogato in modo autentico. Interrogare in modo autentico e lasciarsi
interrogare dalla cosa: una qualunque cosa pone delle questioni, per esempio
“che cos’è?” o quando mi trovo all’interno di un progetto su come posso
utilizzare quella certa cosa, pone comunque sempre delle domande, l’uomo è
sempre all’interno di questo domandare, continuamente. Questo è il domandare
autentico, quello che si lascia interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che
sta facendo, le cose che sta incontrando, non da colui che invece si precipita
a dare la risposta o come dicevo prima ha la fretta di sapere tutto
dimenticandosi della domanda. Nella parte successiva ci saranno delle cose
molto interessanti da dire. per esempio sulla poesia che per lui è importante
perché la poesia accenna, e in questo accennare lascia che la parola chiami le
cose, senza fermarle, senza bloccarle, senza mortificarle ma le lascia essere,
lasciar essere questo è sempre stato fondamentale per Heidegger. Heidegger
prosegue: La ricerca scientifica e filosofica mira da qualche tempo (siamo nel
‘59) in modo sempre più deciso a costruire ciò che viene chiamato
“metalinguaggio” (qui ce l’ha con i filosofi analitici) giustamente pertanto la
filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale super linguaggio,
intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona come metafisica,
non soltanto suona “come” ma è, la metalinguistica è infatti la metafisica
della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento
interplanetario di informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica e
tecnica missilistica sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia
di Stefan George, il titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o
sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia
Norna (Norna è la dea del fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte,
meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e
splende per tutta la marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno
giunsi colà dopo un viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a
lungo e al fine mi annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso
sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi
triste la rinuncia: “nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito
di persone considera non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio,
questa “cosa” che gira vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è
mondo, e per molti essa era ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della
tecnica moderna, la quale dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido
il pensiero che sia la parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le
parole ma le azioni contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario,
lasciamo la fretta del pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa
è, e così come essa è, in nome del suo nome? Certamente. Se l’affrettare nel
senso del massimo potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel
cui spazio temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere
quello che sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità
cioè esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato
all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica
ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se
la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno
sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il
suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo
dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma
sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose
perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che
se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla.
Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che
riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso infatti
appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das Wort
gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato diverso da
quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del discorso indiretto
che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che segue i due punti,
dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo “così io presi triste
la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non indica ciò cui si
rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve immettersi, indica il
comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola e cosa ora esperito,
(“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si esperisce la cosa, allora
c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il poeta ha preso la rinuncia
è la sua precedente opinione nei riguardi del rapporto fra cosa e parola,
rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola a lui fino a quel momento
consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto diverso, nel verso “Kein
ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe allora sul piano grammaticale
un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”, l’indicativo è “ist”) al posto
dell’indicativo “ist” bensì una forma dell’imperativo, un ordine cui il poeta
obbedisce per rispettarlo anche in futuro, nel verso “nessuna cosa “sia”
laddove la parola manca”, il “sia” significherebbe allora “non considerare
d’ora in poi una cosa come esistente dove la parola manca” (è un imperativo
categorico” e non so per quale via mi ha evocato le parole di Parmenide “sulla
via del non essere non ti ci incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con
quel “sia” inteso come 8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella
rinuncia per cui egli abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista,
anche quando la parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La
parola “Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica
dice “Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa”
“rinunciarvi”. Zeihen corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco
“sagan” (il sagen del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un
Entsagen, letteralmente un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al
suo precedente rapporto con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui
rifiuta qualcosa, già gli è stato destinata una chiamata alla quale egli non si
sottrae più. (nella sua rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa
ci sia anche senza la parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di
fronte a ciò che incontro, a pensare che questa cosa che incontro sia già lì
prima che io la dica, prima della parola, non che io la dica propriamente, però
aggiunge no, non è proprio così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato
destinato “una chiamata alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a
quella maniera, se non la parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che
solo la parola fa sì che la parola appaia e sia pertanto presente come quella
cosa che è, la rinuncia che il poeta apprende è della natura di quella compiuta
rinuncia alla quale soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è
propriamente già destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come
una chiamata alla parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione,
seguendo questa chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa,
questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola
dall’altra (qui c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la
parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in
modo che essa è una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte
del linguaggio (poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia
bisogno di portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre
commentando la poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole
che a quella fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo
quelle che convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua
fantasia, prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita
delle sue precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando
di George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già,
da e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto
consistesse poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e
rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è
parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è
per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione
portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui
meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la
poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del
poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge
però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora
gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno
riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i
poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e
anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni
e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo
gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e
questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure
sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale
dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale”
cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la
parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano
quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia
che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di
lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo
semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul
fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia
terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge
all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella
poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non
poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza
del 9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale
l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a
un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di
lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto
proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la
delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività
si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”.
Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta
appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è
all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice
qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite
del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo
allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è
quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire
l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta
cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della
parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola
che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un
altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più
senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo
parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o
meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non
è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso
all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola
manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe
essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire
di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il
discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle
forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il
linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento
in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che
differenzia l’istinto dalla pulsione. Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a
possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della
parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che
si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale
organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda
primitiva, o comunque dai gruppi degli animali. Intervento: dal branco degli
animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei
così. Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una
domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve
esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già
non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza,
sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci
deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui,
come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la
parola sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò
che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita
ancora la frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra
parola e cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in
quanto essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa
(qualunque essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del
rapporto, il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io
che porta all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha
incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è un’esperienza,
un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il passaggio tra la
prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo, il passaggio fra
la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al riguardo
un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si occupa in
prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle scienze la via
al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός” “attraverso il
cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella scienza moderna un
puro strumento al servizio della scienza 10 anzi al contrario è il metodo
che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo fatto è stato visto in tutta
la sua portata per la prima volta da Nietzsche, che così ne parla nelle
annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus degli inediti pubblicato
postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà di potenza”. La prima dice
“ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la vittoria della scienza ma
la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”. L’altra notazione incomincia
con la proposizione “Le idee più importanti furono trovate per ultime, ma le
idee più importanti sono i metodi” in realtà anche Nietzsche è giunto assai
tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza e precisamente l’ultimo
anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino. Nelle scienze non solo il
tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel metodo e vi resta sottoposto,
la corsa folle, che oggi trascina le scienze verso mete che esse stesse
ignorano, ha la sua forza propulsiva nel potenziamento e nel progressivo
assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a questo
intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il tema rientra nel
metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni, mercoledì prossimo
riprendiamo questo testo. Vi rileggo la poesia di Stefan George perché la
riprende si chiama “La parola”, Das Wort: Meraviglia di lontano o sogno io
portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna il
nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare
consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. Un giorno
giunsi colà dopo viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a
lungo e alfine mi annunciò “qui nulla d’eguale dorme sul fondo”. Al che esso
sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi
triste la rinuncia “nessuna cosa è dove la parola manca”. C’è da dire qui che
la questione che sta ponendo questa poesia è interessante perché di fatto sta
chiedendo alla Norna di fornirgli, dicevamo l’altra volta, la parola della
parola, e cioè un qualche cosa che è fuori della parola e che dovrebbe
garantire l’essere della parola. Ovviamente cercare la parola fuori dalla
parola è un problema, tant’è che la Norna, saggia, dice “qui nulla d’eguale
dorme sul fondo” e allora lui ha appreso la rinuncia: non troverà mai qualche
cosa che da fuori della parola possa garantire la parola. Intervento: sarebbe
il significato del significato? Non esattamente, perché il significato del
significato è ancora un altro significato, quindi un altro termine, un altro
elemento linguistico, qui cerca invece proprio la garanzia, cioè il qualche
cosa che è fuori dal linguaggio e che dia alla parola la sua consistenza.
“Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra parola e cosa,
prospettandolo in modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa
trae all’essere e mantiene nell’essere ogni cosa, qualunque essa sia. // Infatti
fra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale rientra il
rapporto tra cosa e parola e precisamente nella figura del rapporto tra essere
e dire, questo rapporto sorprende il pensiero in modo così subitaneo e
sconvolgente da dirsi in una sola parola, esso suona “λόγος”, ma ancora più
sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza
pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso in base a quel
rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta dicendo che il linguaggio non
“si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare il linguaggio, di uscire dal
linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio sapendo di che cosa si sta
parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il linguaggio ricusa, in questo
senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa realmente è, perché appunto
dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo rifiuto fa parte dell’essenza
del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio non solo si trattiene
così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma trattenendosi esso in sé,
con la sua origine nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel quale
comunemente ci muoviamo, per questo non possiamo nemmeno più dire che l’essenza
del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza (come diceva prima) a meno che la
parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro che cioè quel
rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi, proprio esso, parla. (In altri
termini sta dicendo che il linguaggio non dice se 11 stesso, si trattiene
dal dire di se stesso nell’accezione che indicavo prima, e cioè come se volesse
parlare da fuori il linguaggio per dire che cos’è esattamente il linguaggio, si
trattiene dal fare questo. Heidegger dice che non possiamo nemmeno più dire che
l’“essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza” come diceva prima e
cioè che l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al linguaggio è il
linguaggio dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel linguaggio che parla
di ciò che è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio non lo si intenda
nelle due cose in modo differente e cioè nel secondo caso intendendo che è
proprio lui che parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò che parla
continuamente, il linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per dirla con
Heidegger, il “dire originario”, quel dire cioè che muove nel momento in cui è
qualcosa, qualcosa appare e questo dire lascia che ciò che appare interroghi,
ciò che si dice, a questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le cose, a questo
punto è lui, è soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse qualcosa che è
ancora più chiaro, dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”. Così
suona la rinuncia del poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene in evidenza il
rapporto fra cosa e parola. (Il rapporto tra cosa e parola è importante perché
è ciò che la metafisica ha sempre cercato di stabilire con certezza, lì c’è la
parola e lì c’è la cosa, però è un problema come dicevamo la volta scorsa, è la
questione tipica della metafisica e cioè il problema del “terzo uomo” come
diceva già Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve fare da tramite tra
i due, il problema è che questo terzo elemento che deve consentire il bloccarsi
di questa relazione tra cosa e parola, anziché compiere questo rinvia la cosa
all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il quarto, c’è il quinto c’è
il sesto e così via all’infinito e quindi non raggiungerà mai la cosa): Abbiamo
anche detto che “cosa” (lui lo mette tra virgolette) indica qui ogni possibile
essente quale ne sia il modo d’essere. (cioè qualunque cosa) Abbiamo detto
ancora riguardo alla parola, che questa non solo sta in rapporto con la cosa ma
porta la cosa che di volta in volta nomina, la cosa in quanto essente che è e
tale, “è”(tra virgolette) in questo reggendola, trattenendola, dandole per così
dire il sostentamento a essere cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la
parola che fa essere ciò che dice, nel momento in cui dice le cose è in quel
momento che esistono, che sono quello che sono. È questo che sta dicendo.
Conseguentemente abbiamo detto che la parola non si limita ad essere in
rapporto con la cosa ma che la parola stessa è ciò che porta e serba la cosa
come cosa. (che è ancora di più che “la parola stessa è la cosa”, perché la parola
è ciò che porta e “mantiene” e fa perdurare la cosa in quanto cosa, dice che la
“parola in quanto ciò che porta e serba è il rapporto stesso”. Qui badate bene
che dice “è il rapporto stesso” anzi l’ha già detto varie volte, come dire che
questo rapporto tra parola e cosa è la parola stessa, quindi non c’è più la
parola e la cosa ma c’è una relazione tra parola e cosa, nel senso che la
parola rende la cosa quella che è, e solo la parola può farlo, cioè il λόγος, e
questo è la parola. Qui si potrebbe anche fare un accenno alla questione della
metafisica, così come trascorre da Platone fino a Heidegger, non è altro che lo
spostare una cosa presente a una cosa che presente non è, e che deve dare il
senso, il significato a ciò che è presente, da qui tutte le distinzioni dalle
più antiche alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”, “immanente –
trascendente”, “significante – significato”, “enunciazione – enunciato”,
l’ultimo in ordine di tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico che tutta
questa struttura è metafisica, è metafisica sempre in questa accezione
ovviamente, cioè ciò che questo significato di “metafisica” che, come dicevo,
trascorre da Platone fino ad Heidegger, indica che ciascuna volta in cui
qualche cosa deve la sua esistenza, la sua essenza, il suo significato, a
qualche cos’altro, questa è una struttura metafisica. Che ha degli effetti
ovviamente, perché comporta la supposizione che una certa cosa sia quello che è
in base a quell’altra, quindi quell’altra dà alla prima il suo significato, lo
ferma, lo blocca e che quindi questo secondo elemento costituisca l’essenza,
potremmo quasi dire, del primo, bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe,
dico “potrebbe”, consentire un passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla
metafisica. È da considerare che invece ciò che dà il significato al primo
elemento costituisca anche questo un elemento che trae il proprio significato
da altro, poi da altro, poi da altro ancora e così via all’infinito, a questo
punto non c’è la possibilità di bloccare un significato 12 ovviamente, ma
questo significato, come ci dice la semiotica, non è altro che un rinvio
continuo, infatti, a quella serie di contrapposizioni potremmo anche aggiungere
quella di Greimas, cioè i sememi danno un senso ai semi nucleari ché da solo,
di per sé, il sema nucleare non significa niente. Ora è chiaro che è il
linguaggio che è strutturato così, per questo da tempo sto dicendo che la
metafisica illustra il modo in cui il linguaggio funziona, né più né meno, per
cui non hanno neanche tutti i torti i metafisici a dire che non c’è uscita
dalla metafisica. Posta in questi termini in effetti non c’è uscita dalla
metafisica, e neanche attraverso la via immaginata da Heidegger ovviamente): La
“parola per la parola” non è dato trovarla là dove il destino dona il
linguaggio (cioè se c’è il linguaggio allora la parola per la parola non c’è,
una parola che dica la parola in modo definitivo, l’ultima parola sulla parola,
non c’è, non si trova perché c’è il linguaggio, il linguaggio che nomina e fa
essere, quindi non c’è), linguaggio che nomina e fa essere per l’essente, non
c’è la parola che dica l’essenza del linguaggio, perché questa sia e come
essente splenda e fiorisca la parola per la parola un tesoro certamente ma un
tesoro non conquistabile per la terra del poeta, e per il pensiero? Può il
pensiero? Quando il pensiero cerca di meditare la parola poetica (cioè la
parola autentica per Heidegger) questo si rivela: la parola, il dire non ha
essere. Il nostro modo corrente di concepire si ribella quando gli si propone
un pensiero così audace. Scritte o parlate ognuno pur vede e sente delle
parole, esse sono. Possono essere come cose, realtà afferrabili dai nostri
sensi, basta solo per far l’esempio più banale aprire un dizionario è pieno di
“cose” stampate, certamente puri vocaboli, non una sola parola, poiché la
parola grazie alla quale i vocaboli si fanno parola, un dizionario non è in
grado né di captarla né di custodirla, dove dobbiamo andare a cercare la
parola? dove il dire? Dall’esperienza poetica della parola ci viene un cenno
che può essere di grande aiuto: la parola non è cosa, nulla di essente, invece
noi abbiamo cognizione delle cose quando per esse c’è a disposizione la parola
allora la cosa è. Ma qual è la natura di questo “è”, “la cosa è”? e questo “è”
è anch’esso una cosa sovrapposta a un’altra, messale su come un cappuccio, noi
non troviamo mai questo “è” come cosa sopra altra cosa, per questo “è” la
situazione è la stessa che per la parola, questo “è” non fa parte delle cose
che sono più di quanto non lo faccia la parola. (sta dicendo che la parola non
è, nel senso dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia comunemente, e cioè
come ente, qui allude al fatto che la parola non sia determinabile, così come
lo è per esempio un vocabolo, un lessema, quindi intende con parola ovviamente
un’altra cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo dalla sonnolenza di un pensare
frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in ciò che l’esperienza del
linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il rapporto fra questo “è” che per
sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione che cioè non è nulla
che sia, (qui sta cercando di complicare le cose, adesso vediamo se) né l’“è”
nella parola hanno l’essenza della cosa, (l’abbiamo detto prima: non sono enti)
l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la parola al quale è affidato il compito
di concedere via, via un “è”, (sta dicendo che né questo è, quando diciamo che
“la parola è qualcosa”, questo “è” per lui costituisce un problema, diciamo “la
parola è”, “è” cosa? infatti né l’“è” né la parola in questa frase hanno
l’essenza della cosa, cioè non hanno l’Essere) né ha (soggetto l’Essere) il
rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non di meno, né l’“è”, né la parola e il
dire di questa, possono venire cacciati nel vuoto del niente (non sono niente,
qualcosa pur sono) Che indica l’esperienza poetica della parola quando il
pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degno d’essere pensato,
pensare il quale si pone al pensiero fino dai tempi più antichi e anche se in
modo velato come suo proprio compito, esso rimanda a quello di cui in tedesco
può dirsi “es gibt senza che possa dirsi “ist” cioè è, “gibt” “esso dà” “si
offre”, di ciò di cui può dirsi “est gibt” fa parte anche la parola (adesso
incomincia a intravedersi che cosa intende con quello che sta dicendo “la
parola non è, propriamente, ma è ciò che si dà, ciò che si offre”.)forse non
solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in modo tale che nella parola e nella
sua essenza si cela quello che “gibt” appunto “dà”, nella parola si cela quello
che essa stessa da. Della parola pensando con rigore non dovremmo mai dire “es
ist” cioè “essa è” ma “es gibt”, ciò non nel senso di quando si dice “es gibt
Worte” “qualcosa dà la parola” ma nel senso che la parola stessa dà, non è
qualcosa che dà la parola ma è la parola che dà, la parola: la datrice. Ma che
dà la parola? 13 secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica
del pensiero la parola dà: l’Essere (ecco perché prima diceva che la parola non
è l’Essere, la parola dà l’Essere) Ma se così stanno le cose allora in quel
“es, das gibt” “esso, il dare” noi dovremmo pensando cercare la parola come ciò
stesso che dà e mai è dato. La parola “es gibt” si trova in tedesco usata in
molteplici modi, si dice per esempio “es gibt an der sonningen Halde Erdbeeren”
“ci sono fragole sul pendio soleggiato”, “là ci sono le fragole”, nella nostra
riflessione “es gibt” è usato diversamente non “des gibt …” “si dà la parola”
ma “es das Word gibt…” cioè “essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war,
soll Ich werden” questo “es” può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là
dove qualcosa era occorre che io avvenga” è una delle traduzioni che sono state
fatte di questa frase. Così dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti
al quale molti e a ragione trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere
pensato resta, si fa anzi evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che
noi indichiamo con l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che
propriamente è degno di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la
determinazione di questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse
il poeta li conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la
rinuncia nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella
parola che dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che
non ce l’ha) il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma
comportata dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma
sfugge in che senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è
trattenere ma qui appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio
della parola, il gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte
insignificanza del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la
parola non è Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale
incapacità di dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a
dirla, dice:) no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si
sottrae nel mistero che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i
versi introduttivi al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone
cioè un dire e in forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che
non è la parola che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola
come già aveva fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione
che indica Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità
tra poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che
l’evento domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice
della sua essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre
raggiunto il segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo
solo se ha risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto
nel linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché
la presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa
dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo
si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché
la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione
dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica
nucleare, non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e
tempo (in tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre
esattamente gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in
grado di produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a
crollare l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché
non avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto
parla contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di
interpretare il cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”,
sennonché ciò che spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è
primariamente la passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad
essere quel che sono in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina
il pensiero moderno nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e
nella difficile situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia
dietro la quale si cela un passivo che non può essere sanato né da parte della
scienza, né da parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente
poi qual è questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere
ciò che stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco
l’ultimo capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande):
(Ripete di nuovo il verso 14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la parola
manca) Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione “Nessuna
cosa è dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè c’è una
frattura, un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle qualcosa,
farle mancare qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo quando c’è la
parola per dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che è la parola
per avere tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della parola per
essere? 3) Che significa qui “essere”, dal momento che appare come un dono
conferito alla cosa dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò che ha
detto nel libro praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono
conferito alla cosa dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde
alle domande poi, perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di
Heidegger che sia antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti
per lui l’uomo è oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si
accorge che l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso
sull’Essere, cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che
parla, senza colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la
risposta “meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta
giunge notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita
nel sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio
come realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole
tenere per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi
sono parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume
così consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così
facendo esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i
“nomi” sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi,
perché “i nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo
modo e cioè che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma
anche che “i nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che
rappresentano parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole
che rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i
nomi) propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù
rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è
l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli
deve prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso
potremmo dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt
consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi
non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si
riferisce sempre alla poesia di George) sono come qualcosa che dorme, che ha
bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle cose,
nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che poi
viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a quel
momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano la
realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto quella
che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si trova? (il
gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello deve sì
restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No, altro
accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che manca il
nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della parola, è
quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente: (cioè la
parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo prende e lo
porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola presenta
improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa sulla realtà,
come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che consiste nel dare
un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta dinnanzi, al
contrario (qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce la presenza
cioè l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente, quest’altro potere
della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo brusco e improvviso,
al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca, perciò il gioiello
dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un tesoro che poi il poeta
non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si dilegua, che cosa manca?
Qui non siamo nella questione della “mancanza a essere”, siamo al fatto che ciò
che manca è quella parola che da fuori del linguaggio finalmente dica che cos’è
veramente la parola. Il nome che si dà alla parola è un’altra parola, non è
qualcosa che da fuori 15 dovrebbe garantire che sia esattamente quella
cosa. E qui insiste sul fatto che la parola fa sì che la cosa sia, cosa
tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra del poeta mai giunge a
possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la potenza e la vita della
parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della parola? il fatto di fare
essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola, alla
sua propria parola ma la parola, per l’essenza della parola, non viene
concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è questo che non viene
concesso, è questo che manca, in questo senso diceva. L’ultimo capitoletto “In
cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al testo. Ecco qui parla
dell’¡λήθεια: il testo di Aristotele evidenzia con un dire chiaro e sobrio
quella classica struttura in cui si cela l’essenza del linguaggio inteso come
parlare, le lettere indicano i suoni, i suoni indicano le affezioni dell’anima,
le affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima, il “mostrare” “das Zeigen”
è quello che costituisce e regge l’intera impalcatura, in modo vario, velando e
disvelando, esso il mostrare, porta qualcosa ad apparire, fa che ciò che appare
sia avvertito e ciò che viene avvertito sia considerato (cioè esista) quando
riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo abbandonato il modo
di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul linguaggio. Non
possiamo più andare alla ricerca di concetti generali come “energia” “attività”
“lavoro” “forza spirituale” “visione del mondo”, espressione sotto i quali
condurre il linguaggio come un caso particolare di tale generalità. Anziché
spiegare il linguaggio come questa o quest’altra cosa fuggendone in tal modo
lontano, il cammino verso il linguaggio vorrebbe fare esperire il linguaggio
come linguaggio, nell’essenza del linguaggio, il linguaggio è sì compreso, ma
afferrato per mezzo di altro da esso è il famoso metalinguaggio (di cui diceva
prima il metalinguaggio come metafisica) se volgiamo invece l’attenzione unicamente
al linguaggio come linguaggio, questo pretende allora da noi che mettiamo
finalmente in evidenza tutto quello che fa parte del linguaggio in quanto
linguaggio (è quello che ho cercato di fare in questi anni intendendo che cosa
fa funzionare il linguaggio) Nel parlare rientrano i parlanti, ma il rapporto
tra parlanti e parlare non è riducibile a quello tra causa ed effetto (se no
sarebbe come dire che qualcosa dà la parola, mentre lui è stato preciso, “è la
parola che dà”, ma cosa dà? Le cose, l’Essere.) I parlanti trovano piuttosto
nel parlare il loro essere presenti, presenti a che? A ciò con cui parlano,
presso cui dimorano in quanto realtà che sempre già li riguarda, è quanto dire
“gli altri, le cose, tutto ciò che fa che queste siano cose, queste precise
cose e quelli gli altri quei concreti altri” (questo fa la parola, fa esistere
tutte queste cose qui) A tutto questo ora in un modo, ora in un altro già
sempre è andato l’appello del parlare. // Ma come sono pensati il parlare e il
“parlato”, nel breve racconto che si è precedentemente fatto del linguaggio?
Essi si rivelano già come ciò per cui e in cui qualcosa si fa parola, giunge a
farsi evidente in quanto qualcosa è detto. Dire e parlare non sono la stessa
cosa, uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla,
un altro invece tace, non parla e può col suo non parlare dire molto, ma che
significa dire, “sagen” in tedesco? Per esperire questo è necessario attenersi
a ciò che la lingua tedesca già costringe a pensare con la parola “sagen”.
“Sagan” significa “mostrare” “far che qualcosa appaia” “si veda” “si senta” //
Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il dire originario “die
saghe” in quanto “mostrare” “die Zeige”, il mostrare proprio di questo non si
basa su un qualche segno ma tutti i segni traggono origine da un mostrare nel
cui ambito e per i cui fini soltanto acquistano la possibilità di essere segni.
(Ma non sta proprio in questo mostrare, nel fatto che tutti i segni traggono
origine da un mostrare che si impianta la metafisica stessa, la sua stessa
possibilità? Ma ne riparleremo perché è una questione tutt’altro che semplice)
// (siamo alla fine volevo riprendere le tre domande che faceva prima, adesso
possiamo rispondere a ciò che si è domandato): Il dire originario è mostrare,
in tutto ciò (ricordate: il dire originario è mostrare. Questo è il dire
originario per Heidegger) in tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca
come oggetto di parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non detto è
in attesa di noi, non solo ma in quello stesso parlare, che noi veniamo
mettendo in atto, che è operante il mostrare sempre e comunque, in virtù di
questo che ciò che è presente appare, ciò che è assente dispare. Questo (è
sempre il dire originario il soggetto) dischiude ciò che è presente nel suo
esser presente (che sembra una ripetizione inutile “dischiude il suo essere
presente nel suo essere presente” ma il fatto che qualcosa sia presente
per Heidegger non è così automatico, occorre qualcosa che dischiuda, apra l’orizzonte
entro il quale qualche cosa può essere presente, non basta che sia presente
perché che sia presente da sé non significa niente se non c’è il linguaggio che
fa essere presente.) il dire originario domina compone in unità la libera
distesa di quella radura … da dove viene il mostrare? La domanda vuol sapere
troppo e troppo in fretta (non è che possiamo sapere tutto subito) gioverà
accontentarsi di osservare la natura e l’origine del moto presente nel
mostrare, non è necessaria qui una lunga ricerca è sufficiente l’intuizione
repentina, non obliabile e perciò sempre nuova, di ciò che, sì, è a noi
familiare, ma che noi tuttavia lungi dal riconoscere nel modo che ci conviene
neppure cerchiamo di conoscere, questa realtà sconosciuta e non di meno familiare
da cui ogni mostrare del dire originario trae il proprio moto, è per ogni
essere presente ed essere assente l’alba di quel mattino nel quale soltanto può
trovare inizio la vicenda del giorno e della notte. Alba che insieme l’ora
prima e l’ora più remota tale realtà appena ci è dato nominarla, essa è l’“ort”
che non tollera “Er-örterung”. Il tempo che non concede di essere raggiunto
perché è luogo di tutti i luoghi e di tutti gli spazi del gioco del tempo, noi
la chiameremo con una parola antica e diremo: ciò che muove nel mostrare del
dire originario è lo “Eignen”. Lo Eignen adduce ciò che è presente e assente in
quello che gli è proprio, cosicché emergendone la cosa presente e assente, si
rivela nella sua vera identità e resta se stessa. // Il linguaggio non si
irrigidisce in se stesso nel senso di un narcisismo di tutto dimentico tranne
che di sé, come sarebbe potuto apparire, (eventualmente) come dire originario
il linguaggio è il mostrare appropriante, che appunto prescinde da sé per
dischiudere così per mostrare la possibilità di rilevarsi nella figura che gli
è propria, (cioè il linguaggio consente alla cosa di mostrarsi e permette anche
alla cosa di mostrarsi per quello che è. Il linguaggio è questa possibilità
delle cose di essere quelle che sono. Ma non toglie alle cose il fatto che sono
quelle che sono.) Il linguaggio che parla dicendosi cura che il nostro parlare,
ascoltare il dire che non ha suono, corrisponda a quel che esso (linguaggio)
viene dicendo, in tal modo anche il silenzio che non di rado si pone a
fondamento del linguaggio, come sua scaturigine, è già un corrispondere
(corrispondere alla chiamata del dire, ovviamente, cioè del λόγος. La
conclusione sarà a questo punto la risposta a quelle tre domande.) Poiché noi
uomini, per essere quelli che siamo, restiamo immessi nel linguaggio, né mai
possiamo uscirne e posarci a un punto da cui ci sia dato circoscriverlo con lo
sguardo, noi vediamo il linguaggio sempre solo in quanto il linguaggio stesso
già si è affissato su di noi (appoggiato su di noi, fissato su di noi) ci ha
appropriato a sé, il fatto che del linguaggio ci è precluso il sapere, (perché
per sapere sul linguaggio bisognerebbe uscire dal linguaggio e tutte queste
storie) il sapere inteso secondo la concezione tradizionale fondata sull’idea
che conoscere sia rappresentare, non è certamente un difetto bensì il
privilegio grazie al quale siamo eletti e attratti in una sfera superiore, in
quella in cui noi assunti a portare a parole il linguaggio dimoriamo come
immortali insomma siamo fortunati ad essere parlanti. Allora le tre domande
alle quali potete, a questo punto, rispondere voi stessi: Che è la parola per
avere tanto potere? È l’Essere è il logos. Perché la parola ha tanto potere?
Perché è ciò che in quanto Essere è ciò che consente alle cose di apparire, ma
che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? La parola ha bisogno
della parola per essere la cosa, e quindi è quella cosa che diventa cosa
soltanto se la parola la fa essere cosa. Terza domanda: che significa qui
Essere dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola?
che significa qui Essere? Λόγος, nient’altro che λόγος e bell’è fatto. Ecco, io
vi ho fatto considerare queste cose perché non è tanto il fatto del contenuto
delle affermazioni di Heidegger quanto il modo in cui approccia la questione
del linguaggio, in un modo che lui direbbe “non presentativo” cioè non mostra,
non dice che cos’è il linguaggio come fa la linguistica, come fa la filosofia
del linguaggio, come fa la filosofia in generale approcciando il linguaggio
come ente, perché sta qui la differenza ontologica: ente/Essere. Il linguaggio
è Essere non è ente. Sono considerazioni interessanti che possono portare ad
altre considerazioni, possono aprire altre vie, per questo motivo vi ho letto
alcune cose di questo testo di Martin Heidegger. The uttered
speech of private life is fluctuating and variable. In every period it
varies according to the age, class, education, and habits of the speaker.
His social experience, traditions and general background, his ordinary
tastes and pursuits, his intellectual and moral cultivation are all
reflected in each man’s conversation. These factors determine and modify
a man’s mode of speech in innumerable ways. They may affect his
pronunciation, the speed of his utterance, his choice of vocabulary, the
shade of meaning he attaches to particular words, or turns of phrase, the
character of such similes and metaphors as occur in his speech, his word
order and the structure of his sentences. But the individual
speaker is also affected by the character of those to whom he speaks. He
adjusts himself in a hundred subtle ways to the age, status, and mental
attitude of the company in which he finds himself. His own state of mind,
and the mode of its expression are unconsciously modified by and attuned
to the varying degree of intimacy, agreement, and community of experience
in which he may stand with his companions of the moment. Thus
an accomplished man of the world, in reality, speaks not one but many
slightly different idioms, and passes easily and instinc- tively, often
perhaps unknown to himself, from one to another, according to the
exigence of circumstances. The man who does not possess, to some extent
at least, this power of adjustment, is of necessity a stranger in eveuy
company but that of one particular type. No man who is not a fool will
consider it proper to address a bevy of Bishops in precisely the same way
as would be perfectly natural and suitable among a party of fox-hunting
country gentlemen. A learned man, accustomed to choose his own
topics of conversation and dilate upon them at leisure in his College
common room where he can count upon the civil forbearance of other people
like himself, would be thought a tedious bore, and a dull one at that, if
he carried his pompous verbiage into the Officers’ Mess of a smart
regiment. 'A meere scholler is but a woefull creature says Sir Edmund
Verney, in a letter in which he discusses a proposal that his son should
be sent to Leyden, and observes concerning this ‘ 'tis too private for a
youth of his yeares that must see company at convenient times, and studdy
men as well as bookes, or else his bearing may make him rather ridiculous
then esteemed ^ There is naturally a large body of colloquial
expression which is common to all classes, scholars, sportsmen, officers,
clerics, and the rest, but each class and interest has its own special
way of expressing itself, which is more or less foreign to those outside
it. The average colloquial speech of any age is at best a compromise
between a variety of different jargons, each evolved in and current among
the members of a particular section of the community, and each, within
certain social limits, affects and is affected by the others. Most men
belong by their ciicumstanccs or inclinations to several
speech-communities, and have little difficulty in maintaining Ihhmsclvcs
creditably in all of these. The wider the social opportunities and
experience of the individual, and the keener his lin- guistic instinct,
the more readily does he adapt himself to the company in which he finds
himself, and the more easily docs he fall into line with its accepted
traditions of speech and bc aiing. But if so much variety in
the details of colloquial usage exists in a single age, with such
well-marked differences between the conventions of each, how much greater
will be the gulf which separates the types of familiar conversation in
different ages. Do we realize that if we could, by the workings of some
Time Machine, be suddenly transported back into the seventeenth century,
most of us would find it extremely difficult to carry on, even among the
kind of people most nearly corresponding with those with whom we are
habitually associated in our present age, the simplest kind of decent
social intercourse? Even if the pronunciation of the sixteenth century
offered no difficulty, almost every other element which goes to make up
the medium of communication with our fellows would do so. We
should not know how to greet or take leave of those we met, how to
express our thanks in an acceptable manner, how to ask a favour, pay a
compliment, or send a polite message to a gentleman's wife. We should be
at a loss how to begin and end the simplest note, whether to an intimate
friend, a near relative, or to a stranger. We could not scold a footman,
commend a child, express in appropriate terms admiration for a woman’s
beauty, or aversion to the opposite quality. We should hesitate every
moment how to address the person we were talking to, and should be
embarassed for the equivalent of such instinctive phrases as look here,
old man ; my dear chap ; my dear Sir ; excuse me ; I beg your pardon
; I’m awfully sorry; Oh, not at all; that 's too bad ; that ’s most
amusing ; you see ; don't you know ; and a hundred other trivial and
meaningless expressions with which most men fill out their sentences. Our
innocent impulses of pleasure, approval, dislike, anger, disgust, and so
on, would be nipped in the bud for want of words to express them. How
should we say, on the spur of the moment what a pretty girl 1 ; what an
amusing play I ; how clever and witty Mr. Jones is ! ; poor woman ;
that's a perfectly rotten book ; I hate the way she dresses ; look here,
Sir, you had better lake care what you say ; Oh, shut up ; I'm hanged if
I'll do that ; I’m very much obliged to you. I'm sure ? It is
very probable that we perfectly grasp the equivalents of all these and a
thousand others when we read them in the pages of Congreve and his
contemporaries, but it is equally certain that the right expressions
would not rise naturally to our lips as we required them, were we
suddenly called upon to speak with My Lady Froth, or Mr. Brisk. The
fact is that we should feel thoroughly at sea in such company, and should
soon discover that we had to learn a new language of polite society. In
illustrating the colloquial style of the fifteenth century we have to be
content, either with the account of conversations given in letters, or
with such other passages from letters of the period as appear to be
nearest to the speech of everyday life. The following
passages are from the Shillingford Letters, to which reference is
repeatedly made in this book (see p. 65, &c.}, and are extracted from
the accounts given by the stout and genial Mayor of Exeter, in letters to
his friends, of his conversations with the Chancellor during his visit to
London. Shillingford begins by referring to himself as ‘ the Mayer
but suddenly changes to the first person in describing the actual
meeting, again returning for a moment to the impersonal phrase.
Jolm Shillingford* ‘The Saterdey next (28 Oct. 1447)
tberafter the mayer came to West- minster sone apon ix. atte belle, and
ther mette w* my lorde Chanceller atte brode dore a litell fro the steire
fote comyng fro the Sterrechamber, y yn the courte and by the dore
knellyng and salutyng hym yn the moste godely wyse that y cowde and
recommended yn to his gode and gracious lordship my feloship and all the
comminalte, his awne peeple and bedmen of the Cite of Exceter. He seyde
to the mayer ij tymes “ Well come ’’ and the tyme “Right well come
Mayer'’ and helde the Mayer a grete while faste by the honde, and so went
forth to his barge and w* hym grete presse, lordis and other, &c. and
yn especiall the tresorer of the kynges housholde, w* wham he was at
right grete pryvy communication. And therfor y, mayer, drowe me apart,
and mette w* hym at his goyng yn to his barge, and ther toke my leve of
hym, seyyng these wordis, “ My lord, y wolle awayte apon youre gode
lordship and youre better leyser at another tyme He seyde to me ayen,
“Mayer, y pray yow hertely that ye do so, and that ye speke w* the Chief
Justyse and what that ever he will y woll be all redy”. And thus
departed. A little later: *
Nerthelez y awayted my tyme and put me yn presse and went right to my
lorde Chaunccller and seide, “My lorde y am come at your coinmaundc-
ment, but y se youre grete bysynesse is suchc that ye may not attencle ”,
He seide “Noo, by his trauthe and that y myght right well se”. Y scide
“Yee, and that y was sory and hadde pyty of his grete vexacion”. He seide
“ Mayer, y moste to morun ride by tyme to the Kyng, and come ayen this
wyke : ye most awayte apon my comyng, and then y wol speke the justise
and attende for yow ” &c. He seyde “ Come the morun Monedey ” (the
Chancellor was speaking on Sunday). .. “the love of God ” Y seyde the
tyme was to shorte, and prayed hym of Wendysdey ; y enfourmed hym (of
t)he grete malice and venym that they have spatte to me yn theire
answeris as hit appercth yn a copy that y sende to yow of. My lorde seide,
“ Alagge alagge, why wolde they do so ? y woll sey right sbarpely to ham
therfor and y nogh Brews* The following brief extracts from
the letters of Brews, the affianced wife of Jolm Fasten (junior) are like
a ray of sunlight in the dreary wilderness of business and litigation,
which are the chief subjects of correspondence between the Pa&tons.
Even this Iove*letter is not wholly free from the taint, but the girl's
gentle affection for her lover is the prevailing note* * Yf
that ye cowde be content with that good and my por persone I wold be the
meryest mayclen on grounde, and yf ye thynke not your selffe soe
satysfyed or that ye myght hafe much mor good, as I hafe ujtidyrstonde be
youe afor ; good trewe and iovyng volentyne, that ye take no such labur
iippon yowe, as to come more for that matter, but let it passe, and never
more to be spokyn of, as I may be your trewe lover and bedewoman during
my lyfe .’ Pas ton Letters^ hi, A few years later Mrs. Fasten writes to her
'trewe and Iovyng volentyne ' : ' My mother in lawe thynketh longe
she here no word from you. She is in goode heaie, blissed be God, and al
yowr babees also. I marvel I here no word from you, weche greveth me ful
evele. I sent you a letter be Basiour sone of Norwiche, wher of I have no
word.’ To this the young wife adds the touching postscript : ' Sir I pray
yow if ye tary longe at London that it wii plese to sende for me, for I
thynke longe sen I lay in your armes.’ Paston Letie?-Sj Sir Thomas More. No figure in the
eaily part of Henry VIII’s reign is more distin- guished and at the same
time more engaging than that of Sir Thomas More* A few typical records of
his conversation, as preserved by his devoted biographer and son-in-law
Roper, are chosen to illustrate the English of this time. The context is
given so that the extracts may appear in Roper's own setting.
'Not long after this the Watter baylife of London (sonietyme his
servaunte) liereing, where he had beene at dinner, certayne Marchauntes^
liberally to rayle against his ould Master, waxed so discontented
therwith, that he hastily came to him, and tould him what he had hard:
"and were I Sir” (quoth he) " in such favour and authoritie
with my Prince as you are, such men surely should not be suffered so
villanously and falsly to misreport and slander me. Wherefore 1 would
wish you to call them before you, and to there shame, for there lewde
malice to punnish them.” Who smilinge upon him sayde, " Watter
Baylie, would you have me punnish them by whome 1 reccave more benefit!
then by you all that be my frendes ? Let them a Gods name speakc as
lewdly as they list of me, and shoote never soe many airowcs at me, so
long as they do not hitt me, what am I the worse? But if the should once
hitt me, then would it a little trouble me : howbeit, I trust, by Gods
helpe, (here shall none of them all be able to touch me. I have more
cause, Water Bayly (I assure thee) to pittie them, then to be angrie with
them.” Such frutfiill communication had he often tymes with his familiar
frendes. Soe on a tyme walking a long the Thames syde with me at Chelsey,
in talkinge of other thinges he sayd to me, " Now, would to God,
Sonne Roger, upon condition three things are well estab- lished in
Christendome, I were put in a sacke, and here presently cast into the
Thames.” " What great thinges be these, Sir ” quoth I, " that should
move you $0 to wish?” "Wouldest thou know, sonne Roper, what they
be” quoth he? “Yea marry, Sir, with a good will if it please you”, quoth
I, “ I faith, they be these Sonne ”, quoth he. The first is, that where
as the most part of Christian princes be at mortall warrs, they weare at
universal peace. The second, that wheare the Church of Christ is at this
present soare afflicted witli many heresies and errors, it were well
settled in an uniformity. The third, that where the Kinges matter of his
marriage is now come into question, it were to the glory of God and
quietnesse of all parties brought to a good conclusion : ’’ where by, as
I could gather, he judged, that otherwise it would be a disturbance to a
great part of Christ endome/ ‘ When Sir Thomas Moore had continued
a good while in the Tower, my Ladye his wife obtayned license to see him,
who at her first comminge like a simple woman, and somewhat worldlie too,
with this manner of salutations bluntly saluted him, ‘‘What the good
yeai'e, Moore” quoth shee, I marvell that you, that have beene
allwayes hitherimto taken for soe wise a man, will now soe playe the
foole to lye here in this close filthie prison, and be content to be
shutt upp amonge myse and rattes, when you might be abroad at your
libertie, and with the favour and good will both of the King and his
Councell, if you would but doe as all the Bushopps and best learned of
this Realme have done. And seeing you have at Chelsey a right fayre
house, your librarie, your books, your gallerie, your garden, your
orchards, and all other necessaries soe handsomely about you, where you
might, in the companie of me your wife, your children, and houshould be
merrie, I muse what a Gods name you meane here still thus fondlye to
tarry.’' After he had a while quietly hard her, “ I pray thee good Alice,
tell me, tell me one thinge.” “ What is that ? ” (quoth shee). “ Is not
this house as nighe heaven as myne owne?” To whome shee, after her
accustomed fashion, not likeinge such talke, answeared, “ Tilh valie,
Tille valle ” “How say you, Alice, is it not soe?” quoth he. Bone deus,
bone Deusy man, will this geare never be left?” quoth shee. “Well
then Alice, if it be soe, it is verie well. For I see noe great cause
whie I should soe much joye of my gaie house, or of any thinge
belonginge thereunto, when, if I should but seaven yeares lye buried
under ground, and then arise, and come thither againe, I should not fayle
to finde some Iherin that would bidd me gett out of the doores, and tell
me that weare none of myne. What cause have I then to like such an house
as would soe soone forgett his master?” Soe her perswasions moved him but
a little.* The last days of this good man on earth, and some of his
sayings just before his death, are told with great simplicity by Roper.
We cannot forbear to quote the affecting passage which tells of Sir
Thomas More’s last parting from his daughter, the writer’s wife.
‘When Sir Tho. Moore came from Westminster to the Towreward againe,
his daughter my wife, desireous to see her father, whome shee thought
shee should never see in this world after, and alsoe to have his finall
blessinge, gave attendaunce aboutes the Towre wharfe, where shee knewe he
should passe by, eVe he could enter into the Towre. There tarriinge for
his coininge home, as soone as shee sawe him, after his blessinges on
her knees reverentlie receaved, shoe hastinge towards, without
consideration and care of her selfe, pressinge in amongest the midst of
the thronge and the Companie of the Guard, that with Hollbards and Billes
weare round about him, hastily ranne to him, and then openlye in the
sight of all them embraced and tooke him about the necke, and kissed him,
whoe well likeing her most daughterlye love and affection towards him,
gave her his fatherlie blessinge, and manye goodlie words of comfort
besides, from whome after shee was departed, shee not satisfied with the
former sight of her deare father, havinge respecte neither to her self,
nor to the presse of the people and multitude that were about him,
suddenlye turned backe againe, and rann to him as before, tqoke him about
the necke, and divers tymes togeather most lovinglay kissed him, and at
last with a full heavie harte was fayne to departe from him; the
behouldinge whereof was to manye of them that were present thereat
soe lamentablcj that it made them for very sorrow to mourne and
weepe.’ In his last letter to his ' dearely beloved daughter, written with
a Cole Sir Thomas More refers to this incident :' And I never liked
your manners better, then when you kissed me last. For* I like when
daughterlie Love, and deare Charitie hath noe leasure to looke to
worldlie Curtesie Next morning ‘ Sir Thomas even, and the
Utas of St. Peeter in the yeare of our Lord God, earlie in the morninge,
came to him Sir Thomas Pope, his singular trend, on messedge from the
Kinge and his Councell, that hee should before nyne of the clocke in the
same morninge suffer death, and that therefore fourthwith he should
prepare himselfe thereto. Pope sayth he, for your good tydinges I
most hartily thankyou. I have beene allwayes^ bounden much to the Kinges
Highnes for the benehtts and honors which he hath still from tyme to tyme
most bounti- fully heaped upon mee, and yete more bounden I ame to his
Grace for putting me into this place, where I have had convenient tyme
and space to have remembraunce of my end, and soe helpe me God most of
all Pope, am I bound to his Highnes, that it pleased him so shortlie to
ridd me of the miseries of this wretched world. And therefore will I not
fayle most earnestlye to praye for his Grace both here, and alsoe in
another world, .And I beseech you, good Pope, to be a meane unto his Highnes,
that my daughter Margarette may be present at my buriall.’’ “ The King is
well contented allreadie*' (quoth M^’ Pope) ‘‘that your Wife, Children
and other frendes shall have free libertie to be present thereat “O how
much be- hoiilden” then said Sir Thomas Moore “am I to his Grace, that
unto my poore buriall vouchsafeth to have so gratious Consideration.*’
Wherewithal! Pope takeinge his leave of him could not refrayne from
weepinge, which Sir Tho. Moore perceavinge, comforted him in this wise, “
Quiete yourselfe good M^ Pope, and be not discomforted. For I trust that
we shall once in heaven see each other full merily, where we shall bee
sure to live and love togeather in joyfull blisse eternally.Wolsey.
The Ij/e of Wolsey, by George Cavendish, a faithful and devoted
servant of the Cardinal, who was with him on his death-bed, gives a
wonderfully interesting picture of this remarkable man, in affluence and
in adversity, and records a number of conversations which have a convincing
air of verisimilitude. The following specimens are taken from the
Kelmscott Press edition of 1893, which follows the spelling of the
author's MS. in the British Museum. ‘ After ther departyng^ my lord
came to the sayd howsse of Eston to his lodgyng, where he had to supper
with hyme dyvers of his frends of the court. And syttyng at supper, in
came to hyme Doctor Stephyns, the secretary, late ambassitor unto Rome ;
but to what entent he came I know not ; howbeit my lord toke it that he
came bothe to dissembell a certeyn obedyence and love towards hyme, or
ells to espie hys behaviour, and to here his commynycacion at supper. Not
withstandyng my lord bade hyme well come, and commaundyd hyme to sytt
down at the table to supper; with whome my lord had thys commynycacion
with hyme under thys maner. Mayster Secretary, quod my lord, ye
be-welcome home owt of Rally; whan came ye frome Rome? Forsothe, quod he,
I came home allmost a monethe agoo ; and where quod my lord have you byn
ever sence? Forsothe, quod he, folowyng the court this progresse. Than
have ye hunted and had good game and pastyme. Forsothe, Syr, quod he,
and so I have, I thanke the kyngs Majestie, What good greyhounds have
ye? quod my lord. I have some syr quod he. And thus in huntyng, and
in lyke disports,, passed they all ther commynycacion at supper. And
after supper my lord and he talked secretly together until it was
mydnyght or they departed.’ Than all thyng beyng ordered as it is before
reherced, my lord prepared hyme to depart by water. ^ And before his
departyng he com- maundyd Syr William Gascoyne, his treasorer, to se
these thyngs byfore remembred, delyverd safely to the kyng at his
repayer. That don, the seyd Syr William seyd unto my lord. Syr I ame
sorry for your grace, for I understand ye shall goo strayt way to the
tower. Ys this the good comfort and councell, quod my lord, that ye can
geve your mayster in adversitie? Yt hathe byn allwayes your naturall
inclynacion to be very light of credytt, and mych more lighter in
reporting of false newes, I wold ye shold knowe, Syr William, and all
other suche blasphemers, that it is nothyng more false than that, for I
never, thanks be to god, deserved by no wayes to come there under any
arrest, allthoughe it hathe pleased the kyng to take my howse redy
furnysshed for his pleasyr at this tyme. I wold all the world knewe, and
so I confesse to have no thyng, other riches, honour, or dignyty, that
hathe not growen of hyme and by hyme ; therefore it is my verie dewtie to
surrender the same to hyme agayn as his very owen, with al my hart, or
ells I ware and onkynd servaunt. Therefore goo your wayes, and geve good
attendaunce unto your charge, that no thyng be embeselled.’ ‘And the next
day we removed to Sheffeld Parke, where therle of Shrews- bury lay within
the loge, and all the way thetherward the people cried and lamented, as
they dyd in all places as we rode byfore. And whan we came in to the
parke of Sheffeld, nyghe to the logge, my lord of Shrewesbury, with my lady
his wyfe, a trayn of gentillwomen, and all my lords gentilmen, and yomen,
standyng without the gatts of the logge to attend my lords commy ng,
to receyve hyme with myche honor ; whome therle embraced, sayeng these
words. My lord quod he, your grace is most hartely welcome unto me, and
glade to se you in my poore loge ; the whiche I have often desired ; and
myche more gladder if you had come after another sort. Ah, my gentill
lord of Shrewesbury quod my lord, I hartely thanke you ; and allthoughe I
have no cause to rejoyce, yet as a sorowe full hart may joye, I rejoyce
my chaunce, which is so good to come into the hands and custody of so
noble a persone, whose approved honor and wysdome hathe byn allwayes
right well knowen to all nobell estats. And Sir, howe soever my ongentill
accusers hathe used ther accusations agenst me, yet I assure you, and so
byfore your lordshipe and all the world do I protest, that my demeanor
and procedyngs hathe byn just and loyall towards my soverayn and liege
lord ; of whose behaviour and doyngs your lordshipe hathe had good
experyence ; and evyn accordyng to my trowthe and faythfulnes, so I
bescche god helpe me in this my calamytie. I dought nothyng of your
Irouthe, quod therle, tlierfore my lorde I beseche you be of good chere
and feare not, for I have receyved letters from the kyng of his owen hand
in your favour and entertaynyng the whiche you shall se. Sir, I ame
nothyng sory but that I have not wherwith worthely to receyve you, and to
entertayn you accordyng to your honour and my good wyll ; but suche as I
have ye are most hartely welcome therto, desiryng you to accept my good
wyll accordyngly, for I wol not receyve you as a prisoner, but as my good
lord, and the kyngs trewe faythfull subjecte ; and here is my wyfe come to
salute you. Whome my lord kyst barehedyd, and all hir gentilwomen ; and
toke my lords servaunts by the hands, as well gentilmen and yomen as
other. Then these two lords went arme in arme into the logge, conductyng
my lord into a fayer chamber at thend of a goodly gallery within a newe
tower, and here my lord was lodged.’ Here are some short portions of dialogue
between Wolsey and his friends, just before his death : *
Uppon Monday in the mornyng, as I stode by his bedds' side, abought viii
of the clocke, the wyndowes beyng cloose shett, havyng wake lights
burnyng uppon the cupbord, I behyld hyme, as me seemed, drawyng fast to
his end. He perceyved my shadowe uppon the wall by his bedds side, asked
who was there. Sir I ame here, quod I. Howe do you ? quod he to me. Very
well Sir, if I myght se your grace well. What is it of the clocke ? quod
he to me. Forsothe Sir, quod I, it is past viii. of the clocke in the
mornyng. Eight of the clocke, quod he, that cannot be, rehersing dyvers
times eight of the clocke, eight of the clocke. Nay, nay, quod he at the
last, it cannot be viii of the clocke, for by viii of the clocke ye shal
loose your mayster ; for my tyme drawyth nere that I must depart out of
this world.’‘ Mayster Kyngston farewell. I can no moore, but why she all thyngs
to have good successe. My tyme drawyth on fast. I may not tary with
you. And forget not I pray you, what I have seyd and charged you with all
: for whan I ame deade, ye shall peradventure remember my words myche
better. And even with these words he began to drawe his speche at lengthe
and his tong to fayle, his eyes beyng set in his hed, whos sight faylled
hyme ; than we began to put hyme in rembraunce of Christs passion, and
sent for the Abbott of the place to annele hyme ; who came with all spede
and mynestred unto hyme all the servyce to the same belongyng ; and
caused also the gard to stand by, bothe to here hyme talk byfore his
deathe, and also to here wytnes of the same ; and incontinent the clocke
strake viii, at whiche tyme he gave uppe the gost, and thus departed he
this present lyfe.’Latimer. The Sermons of Bp. Latimer present good
examples^ of colloquial oratory, and the style is but little removed from
the colloquial style of the period. The following are from the Sermon of
the Ploughers, preached. ' For they that be lordes vyll yll go to plough.
It is no mete office for them. It is not semyng for their state. Thus
came up lordyng loiterers. Thus crept in vnprechinge prelates, and so
haue they longe continued. ‘ For how many vnlearned prelates haue
we now at this day ? And no maruel. For if ye plough men yat now be, were
made lordes they woulde cleane gyue ouer ploughinge, they woulde leaue of
theyr labour and fall to lordyng outright, and let the plough stand. And
then bothe ploughes nor walkyng nothyng shoulde be in the common weale
but honger. For euer sence the Prelates were made Loordes and nobles, the
ploughe standeth, there is no worke done, the people starue.
‘ Thei hauke, thei hunt, thei card, they dyce, they pastyme m theyr
pre- lacies with galaunte gentlemen, with theyr daunsmge mmyons, and
with theyr freshe companions, so that ploughinge is set a syde. And by
tne lordinge and loytryng, preachynge and ploughinge is cleane gone .
‘But^iiowe for the defaulte of vnpreaching prelates me thinke I coulde
gesse what myghte be sayed for excusynge of them : They are so troubeled
wyth Lordelye lyuynge, they be so placed in palacies, couched m courte^
ruffelynge in theyr rentes, daunceyng in theyr dominions, burdened with
ambassages, pamperynge of theyr paunches lyke a monke that maketh
his jubilie, moundiynge in their maungers, and moylynge in their gaye
manoures and mansions, and so troubeled wyth loy terynge in theyr Lordeshyppes
: that they canne not attende it. They are other wyse occupyed, some in
the kynges matters, some are ambassadoures, some of the pryuie counsell,
some to furnyslie the courte, some are Lordes of the Parliamente, some
are presidentes, and some comptroleres of myntes. Well, well.
Is thys theyr duetye? Is thys theyr offyee? Is thys theyr callyng?
Should we haue ministers of the church to be comptrollers of the myntes ?
Is thys a meete office for a prieste that hath cure of soules ? Is this
hys charge ? I woulde here aske one question : I would fayne knowe who
comp- trolleth the deuyll at home at his parishe, whyle he comptrolleth
the mynte ? If the Apostles mighte not ieaue the office of preaching to
be deacons, shall one Ieaue it for myntyng ? ’ Wilson’s Ar^e
of Rhetorique (1560) has a section 'Of deliting the hearers, and stirring
them to laughter ’ in which are enumerated ' What are the kindes of
sporting, or mouing to laughter'. The subject is illustrated by various '
pleasant ' stories, which if few of them would now make us laugh, are at
least couched in a very easy and colloquial style and enlivened by scraps
of actual conversation. The most amusing element in the whole chapter is
the attitude of the writer to the subject, and the combination of
seriousness and scurrility with which it is handled. ' The occasion
of laughter’ says Wilson, 'and themeane that maketh us mery ... is the
fondnes, the filthines, the deformitie, and all such euill be- hauiour as
we see to be in other? ... Now when we would abashe a man for some words
that he hath spoken, and can take none aduauntage of his person, or
making of his bodie, we either doubt him at the first, and make him
beleeue that he is no wiser then a Goose : or els we confute wholy his sayings
with some pleasaunt iest, or els we extenuate and diminish his doings by
some pretie meanes, or els we cast the like in his dish, and with some
other devise, dash hym out of countenance : or last of all, we laugh him
to scorne out right, and sometimes speake almost neuer a word, but only
in continuaunce, shewe our selues pleasaunt’. ^p. 136. ‘ A frend of
mine, and a good fellowe, more honest then wealthie, yea and more
pleasant then thriftie, liauing need of a nagge for his iourney that he
had in hande, and being in the countrey, minded to go to Parlnaie faire
in Lincolnshire, not farre from the place where he then laie, and meeting
by the way one of his acquaintaunce, told him his arrande, and asked him
how horses went at the Faire. The other aunswered merely and saidc,
some trot sir, and some amble, as farre as I can see. If their paces be
altered, I praye you tell me at our next meeting. And so rid away as fast
as his horse could cary him, without saying any word more, whereat he
then being alone, fel a laughing hartely to him self, and looked after a
good while, vntil the other was out of sight.’ p. 140. 'A
Gentleman hauing heard a Sermon at Panics, and being come home, was asked
what the preacher said. The Gentleman answered he would first heare what
his man could saie, who then waited vpon him, with his hatte and cloake,
and calling his man to him, sayd, nowe sir, whate haue you brought from
the Sermon. Forsothe good Maister, sayd the seruaunt your cloake and your
hatte- A honest true dealing seruaunt out of doubt, piaine as a
packsadclle, bauing a better soule to God, though his witte was simple,
then those haue, that vnder the colour of hearing, giuc them selues to
priuie picking, and so bring other mens purses home in their bosomes, in
the steade of other mens Sermons.’ pp. 14X-2. These two stories are
intended to illustrate the point that ' We shall delite the hearers, when
they looke for one ansvvere, and we make them a cleane contrary, as though
we would not seeme to vnderstand what they would haue
^Churlish aunsweres like the hearers sometimes very well. When the
father was cast in judgement, the Sonne seeing him weepe : why weepe you
Father? (quoth he) To whom his Father aunswered. ^What? Shall I sing I
pray thee seeing by Lawe I am condemned to "dye. Socrates likewise
bieing^ mooued of his wife, because he should dye an innocent and
guiltlesse in the Law: Why for shame woman (quoth he) wilt thou haue me
to dye giltic and deseruing. When one had falne into a ditch, an other
pitying his fall, asked him and saied : Alas how got you into that pit ?
Why Gods mother, quoth the other, doest thou aske me how I got in, nay
tell me rather in the mischiefe, how I shall get out.’ The nearest
approach to the colloquial style in Bacon is to be found in the
Apophthegms, in which are scraps of conversation. A few may be quoted, if
only on account of the author. ‘ Master Mason of Trinity College,
sent his pupil to an other of the fellows, to borrow a book of him, who
told him, I am loth to lend my books out of my chamber, but if it please
thy tutor to come and read upon it in my chamber, he shall as long as he
will.” It was winter, and some days after the same fellow sent to M^‘
Mason to borrow his bellows ; but M^’ Mason said to his pupil, ‘‘ I am
loth to lend my bellows out of my chamber, but if thy tutor would come
and blow the fire in my chamber, he shall as long as he will.” ApophtJi.
There were fishermen drawing the river at Chelsea: M^* Bacon came thither
by chance in the afternoon, and offered to buy their draught : they were
willing. He askcvl them what they would take ? They asked thirty
shillings. M^ Bacon offered them ten. They refused it. Why then said M^*
Bacon, I will be only a looker on. They drew and catched nothing. Saith
M^ Bacon, Are not you mad fellows now, that might have had an angel in
your purse, to have made merry withal, and to have warmed you thoroughly,
and now you must go home with nothing. Ay but, saith the fishermen, we had
hope then to make a better gain of it. Saith M^’ Bacon, ‘‘ Well my
master, then I will tell you, hope is a good breakfast, but it is a bad
supper.” Otway^s Comedies have all the coarseness and raciness of
dialogue of the latter half of the seventeenth century, and a pretty vein
of genuine comicality. They are packed with the familiar slang and
colloquialisms of the period. A few passages from Friendship in Fashion
illustrate at once the speech and the manners of the day.
Enter Lady SQUEAMISH at the Door, Sir Noble Clmnsey, Hah, my Lady
Cousin ! Faith Madam you see I am at it. Malagene, The
Devil’s wit, I think ; we could no sooner talk of wh but she must come in, with a pox to her.
Madam, your Ladyship’s most humble Servant. Ldy Squ. Oh,
odious ! insufferable ! who would have thought Cousin, you would have
serv’d me so fough, how he stinks of wine, I can smell him hither. How
have you the Patience to hear the Noise of Fiddles, and spend your time
in nasty drinking ? Sir Noble, Hum ! ’tis a good Creature : Lovely
Lady, thou shalt take thy Glass. Ldy Sgu, Uh gud ; murder 1 I
had rather you had offered me a toad. B b Sir N, Then
Malagene, here’s a Health to my Lady Cousin’s Pelion upon Ossa. [Drinks
and breaks the Ldy Squ, Lord, dear Malagene what ’s that ?
MaL A certain Place Madam, in Greece, much talk’t of by the Ancients
; the noble Gentleman is well read. Ldy Squ. 'Nay he’s an
ingenious Person I’ll assure you. Sir N. Now Lady bright, I am
wholly thy Slave: Give me thy Hand, I’ll go straight and begin my
Grandmother’s Kissing Dance ; but first deign me the private Honour of
thy Lip. Ldy Squ. Nay, fie Sir Noble 1 how I hate you now ! for
shame be not so rude : I swear you are quite spoiled. Get you gone you
good-natur’d Toad you. [Exetmti\ Malagene, . . . I’m a very
good Mimick ; I can act Punchinello, Scara- mouchir, Harlequin, Prince
Prettyman or anything. 1 can act the rumbling of a Wheel -barrow.
Valentine, The rumbling of a Wheel-barrow ! MaL Ay, the
rumbling of a Wheel-barrow, so I say Nay more than that, I can act a Sow
and Pigs, Saussages a broiling, a Shoulder of Mutton a roasting : I can
act a fly in a Honey-pot, Truman, That indeed must be the Effect of
very curious Observation. MaL No, hang it, I never make it my
business to observe anything, that is Mechanicke. But all this I do, you
shall see me if you will : But here comes her Ladyship and Sir
Noble. Ldy Squ, Oh, dear M^ Truman, rescue me. Nay Sir Noble for
Heav’n’s sake. Sir N, I tell thee Lady, I must embrace thee :
Sir, do you know me ! I am Sir Noble Clumsey : I am a Rogue of an Estate,
and I live Do you want any money ? I have fifty pounds. VaL
Nay good Sir Noble, none of your Generosity we beseech you. The Lady, the
Lady, Sir Noble. Sir N. Nay, ’tis all one to me if you won’t take
ft, there it is. Hang Money, my Father was an Alderman. MaL
’Tis pity good Guineas should be spoil’d, Sir Noble, by your leave.
[Picks up the Guineasl\ Sir N. But, Sir, you will not keep my
Money ? MaL Oh, hang Money, Sir, your Father was an Alderman.
Sir N, Well, get thee gone for an Arch-Wag I do but sham all this
while i ^but by Dad he ’s pure Company. Lady, once more I say be civil, and
come kiss me. VaL Well done Sir Noble, to her, never spare.
Ldy Squ, I may be even with you tho for all this, Valentine : Nay
dear Sir Noble : M^ Truman, I’ll swear he’ll put me into Fits. Sir
N, No, but let me salute the Hem of thy Garment, Wilt thou marry me?
[LTneels.] MaL Faith Madam do, let me make the Match.
Ldy Squ, Let me die Malagene, you are a strange Man, and Fll swear
have a great deal of Wit. Lord, why don’t you write ? MaL Write? I
thank your Ladyship for that with all my Heart. No I have a Finger in a
Lampoon or so sometimes, that ’s all. Truman, But he can act.
Ldy Squ, I’ll swear, and so he does better than any one upon our
Theatres; I have seen him. Oh the English Comedians are nothing, not
comparable to the French or Italian: Besides we want Poets. SirN,
Poets! Why I am a Poet; I have written three Acts of a Play, and have
nam’d it already. ’Tis to be a Tragedy. Ldy Squ. Oh Cousin, if you
undertake to write a Tragedy, take my Counsel : Be sure to say soft
melting tender things in it that may be moving, and make your Lady’s Characters
virtuous whatever you do. Sir N. Moving I Why, I can never read it
myself but it makes me laugh : well, ’tis the pretty’st Plot, and so full
of Waggery. Ldy Sgti, Oh ridiculous I Mai But Knight,
the Title ; Knight, the Title. Sir N, Why let me see ; ’tis to be
called The Merry Conceits of Love ; or the Life and Death of the Emperor
Charles the Fifth, with the Humours of his Dog Boabdillo. Mai
PI a, ha, ha. . Ldy Squ, But dear Malagene, won’t you let us see you act a
little something of Harlequin? I’ll swear you do it so naturally, it
makes me think Fm at the Louvre or Whitehall all the time. [Mai acis.] O
Lord, don’t, don’t neither ; I’ll swear you’ll make me burst. Was there
ever any- thing so pleasant ? Trwn, Was ever anything so
affected and ridiculous ? Her whole Life sure is a continued Scene of
Impertinence. What a damn’d Creature is a decay’d Woman, with all the
exquisite Silliness and Vanity of her Sex, yet none of the Charms ! [Mai
s^peaks in PunchinelMs voicei\ Ldy Squ, O Lord, that, that ; that
is a Pleasure intolerable. Well, let me die if I can hold out any
longer. A Comparison between the Stages, wiih an Examen of the
Generous Conqueror^ printed in 1702, is a dialogue between ^ Two Gentlemen’,
Sullen and Ramble (see below), and ^a Critick’,upon the plays of the day
and others of an earlier date. The style is that of easy and natural
familiar con- versation, with little or no artificiality, and
incidentally, the tract throws light upon contemporary manners and social
habits. The following examples are designed to illustrate the colloquial
handling of indifferent topics, and the small-talk of the early
eighteenth century, as well as the treatment of the immediate subject of
the essay. Sullen. They may talk of the Country and what they will,
but the Park for my money. Ramble. In its proper Season I
grant you, when the Mall is pav’d with lac’d shoes ; when the Air is
perfum’d with the rosie Breath of so many fine Ladies ; when from one end
to the other the Sight is entertain’d with nothing but Beauty, and the
whole Prospect looks like an Opera. Sull And when is it out of
Season Ramble ? Ram. When the Beauties desert it ; when the absence
of this charming Company makes it a Solitude : Then Sullen, the Park is
to me no more than a Wilderness, a very Common ; and a Grove in a country
Garden with a pretty Lady is by much the pleasanter Landscape.
Sull To a Man of your Quicksilver Constitution it may be so, and
the Cuckoo in May may be Music t’ee a hundred Miles off, when all the
Masters in Town can’t divert you. Ram. I love everything as
Nature and the Nature of Pleasure has con- triv’d it ; I love the
Town in Winter, because then the Country looks aged and deform’d ;
and I hate the Town in Summer, because then the Country is in its Glory,
and looks like a Mistress just drest out for enjoyment. Sull Very
well distinguish’d : Not like a Bride, but like a Mistress. Ram. I
distinguish ’em by that comparison because I love nothing well enough to
be wedded to ’t : I’m a Proteus in my Appetite, and love to change my
Abode with my Inclination, Sull I differ from you for the very
Reason you give for your change ; the Town is evermore the same to me ;
and tho* the Season makes it look after another manner, yet still it has
a Face to please me one way or other, and both Winter and Summer make it
agreeable, pp. 1-3* B b 2 Here is a conversation during
dinner at the ' Blew Posts \ Critik, What have you order’d ?
Ramh. A Brace of Carp stew’d, a piece of Lamb, and a Sallet ; d’ee
like it ? Crit, I like, anything in the World that will indure
Cutting : Prithee Cook make haste or expect I shall Storm thy
Kitchin. SulL Why thou’rt as hungry as if thou hadst been keeping
Garrison in Mantua : I don’t know whether Flesh and Blood is safe in thy
Company. CriL I wish with all my Heart thou wert there, that thou
mightst under- stand what it is to fast as 1 have done : Come, to our
Places • . . the blessed hour is come. . . . Sit, sit . . . fall to,
Graces are out of Fashion. Ramb. I wish the Charming Madam Subligny
were here. CriL Gad so don’t 1 : I had rather her P'eet were pegg’d
down to the Stage; at present my Appetite stands another way : Waiter,
some Wine ., . or I shall choak. . Suit, This Fellow eats like an
Ostrich, the Bones of these great Fish are no more to him than the Bones
of an Anchovy ; they melt upon his Tongue like marrow Puddings.
Crit Ay, you may talk, but I’m sure I find ’em not so gentle ; here
’s one yet in my Throat will be my death ; the Flask . . . the Flask . .
., Ramb. But Critick, how did you like the Play last Night ?
Crit. I’ll tell you by and by, Lord Sir, you won’t give a Man time to
break his Fast: This Fish is such washy Meat ... a Man can’t fix his
knife in ’t, it runs away from him as if it were still alive, and was
afraid of the Hook : Put the Lamb this way. SulL The Rogue
quarrels with the Fish, and yet you cou’d eat up the whole Pond ; the
late Whale at Cuckold’s point, with all its oderiferous Gar- badge, wou’d
ha’ been but a Meal to him : Well, how do you like the Lamb ? does that
feel your knife? Crit. A little more substantial, and not much :
Well, I shou’d certainly be starv’d if I were to feed with the French, I
hate their thin slops, their Pot- tages, Frigaces, and Ragous, where a
Man may bury his Hand in the Sauce, and dine upon Steam : No, no, commend
me to King Jemmy’s English Surloin, in whose gentle Flesh a Man may
plunge a Case-knife to the tip of the Handle, and then draw out a Slice
that will surfeit half a Score Yeoman of the Guard. Some Wine ye Dog . .
. there ., . now I have slain the Giant ; and now to your Question . . .
what was it you askt me ? Ramb. Won’t you stay the Desert ? Some
Tarts and Cheese ? Crit I abominate Tarts and Cheese, they’re like
a faint After-kiss, when a Man is sated with better Sport ; there ’s no
more Nourishment in ’em, than in the paring of an Apple. Here Waiter take
away. . . . Ramb. Then remove every Thing but the Table-cloth.’,
. Ramb. Here Waiter send to the Booksellers in Pell mell for the
Generous Conqueror and make haste . ., you say you know the Author
Critick. Crit. By sight I do, but no further ; he ’s a Gentleman of
good Extraction, and for ought I know, of good Sense. Ramb.
Surely that’s not to be questioned; I take it for granted that a Man that
can write a Play, must be a Man of good Sense. Crit That is not
always a consequence, I have known many a singing Master have a worse
voice than a Parish Clerk, and I know two dancing Masters at this time,
that are directly Cripples : . . . A Ship-builder may fit up a Man of War
for the West Indies, and perhaps not know his Compas : Or a great
Trpelier, with Heylin, that writ the Geography of the whole World, may,
like him, not know the way from the next Village to his own House. Ramb.
Your Comparisons are remote M*^ Critick. Cfit. Not so remote as
some successful Authors are from good sense ; Wit and Sense are no more
the same than Wit and Humour; nay there is even in Wit an uncertain Mode,
a variable Fashion, that is as unstable as the Fashion of our Cloaths :
This may be proved by their Works who writ a hundred Years ago, compar’d
with some of the modern ; Sir Philip Sidney, Don, Overbury, nay Ben
himself took singular delight in playing with their Words : Sir Philip is
everywhere in his Arcadia jugling, which certainly by the example of so
great a Man, proves that sort of Wit then in Fashion ; now that kind of
Wit is call’d Punning and Quibbling, and is become too low for the Stage,
nay even for ordinary Converse ; so that when we find a Man who still
loves that old fashion’d Custom, we make him remarkable, as who is more
remarkable than Capt. Swan. Ramb. Nay, your Quibble does well now a
Days, your best Comedies tast of ’em ; the Old Batchelor is rank. Crit.
But ’tis every Day decreasing, and Queen Betty’s Ruff and Fardin- gale
are not more exploded ; But Sense Gentlemen, is and will be the same to
the World’s end. SulL And Nonsense is infinite, for England never
had such a Stock and such Variety. Ramb. Yet I have heard the
Poets that flourish’d in the last Reign but two, complain of the same
Calamity, and before that Reign the thing was the same : All Ages have
produced Murmurers ; and in the best of times you shall hear the
Trades-man cry Alas Neighbour ! sad Times, very hard Times .., not a
Penny of Money stirring .Trade is quite dead, and nothing but War . . .
War and Taxes . . . when to my knowledge the gluttonous Rogue shall drink
his two Bottles at Dinner, and his Wife have half a Score of rich Suits,
a purse of Gold for the Gallant, and fifty Pounds worth of Gold and
Silver Lace on her under Petticoats. Sail, Nay certainly,
this that Ramble now speaks of is a great Truth; those hypocritical
Rogues are always grumbling; and tho’ our Nation never had such a Trade,
or so much Money, yet ’tis all too little for their voracious Appetites :
As I live says he, I can’t afford this Silk one Penny cheaper d’ee mind the Rogues Equivocation ? as I live ^that
is, he lives like a Gen- tleman but let him live like a Tradesman and be
hang’d ; let him wear a Frock, and his Wife a blew Apron.
Ramb, See, the Book ’s here : go Waiter and shut the Door. pp.
76-9. The dialogue of Hichardson, ' sounynge in moral vertu ^
devoid of all the lighter touches, is typical of the age that was
beginning, the age of reaction against the levities and negligences in
speech and conduct of the seventeenth and early eighteenth
centuries. The following conversation of rather an agitated
character, between a mother and daughter, is from Letter XVI, in Clarissa
Ifarlozue{i*j4S): * • * • My mother came up to me. I love, she was
pleased to say, to come into this appartment. No emotions child I No
flutters ! Am I not your mother FAm I not your fond, your indulgent
mother P- Do not discompose me by discomposixig Do not occasion me
uneasiness, when I would glveyau nothing but pleasure. Come my
dear, we will go into your closet. . . . PI ear me out and then speak ;
for I was going to expostulate. You are no stranger to the end of M^
Solmes’s visits O Madam! Hear me out; and then speak. He is not indeed
everything I wish him to be : but he is a man of probity and has no vices
No vices Madam ! Hear me out child. You
have not behaved much amiss to him : we have seen with pleasur *. that
you have not O Madam, must I not now speak ! I shall have done pre.‘
fently, A young creature of your virtuous and pious turn, she was pleased
! say, cannot surely love a predicate ; you love your brother too well,
to wish p see any one who had like to have killed him, and who threatened
youri incles and defies us all You have had your own way six or seven
times : v|? | w^nt to secure you against a man so vile. Tell me (I have a
right to know) whether you prefer this man to all others ? Yet God forbid
that I should know you do ; for such a declaration would make us all
miserable. Yet tell me, a.re your affections engaged to this man ?
I know what the inference would be if I had said they were not You
hesitate You answer me not You cannot answer me Rising Nevermore
will I look upon you with an eye of favour O Madam, Madam ! Kill me
not with your displeasure I would not, I need not, hesitate one moment,
did I not dread the inference, if I answer you as you wish. Yet be that
inference what it will, your threatened displeasure will make me speak.
And I declare to you, that I know not my own heart if it be not
absolutely free. And pray, let me ask my dearest Mamma, in what has my
conduct been faulty, that like a giddy creature, I must be forced to
marr^r, to save me from from what ? Let me beseech you Madam to be the
Guardian of my reputation \ Let not your Clarissa be precipitated into a
stale she wishes not to enter into with any man ! And this upon a
supposition that otherwise she shall marry herself, and disgrace her
whole family. When then, Clary [passing over the force of my plea]
if your heart be free O my beloved Mamma, let the usual generosity of
your dear heart operate in my favour.^ Urge not upon me the inference
that made me hesitate. I won’t be interrupted, Clary You have seen
in my behaviour to you, on this occasion, a truly maternal tenderness ;
you have observed that I have undertaken the task with some reluctance,
because the man is not everything ; and because I know you carry your
notions of perfection in a man too high. Dearest Madam, this one time
excuse me ! Is there then any danger that I should be guilty of an
imprudent thing for the man’s sake you hint at ? Again interrupted! Am I
to be questioned, and argued with? You know this won’t do somewhere else.
You know it won’t. What reason then, ungenerous girl, can you have for
arguing with me thus, but because you think from my indulgence to you you
may ? What can I say ? What can I do ? What must that cause be that
will not bear being argued upon ? Again ! Clary Harlowe Dearest Madam forgive me : it was always
my pride and my pleasure to obey you. But look upon that man see but the
disagreeableness of his person Now, Clary, do I see whose pei'son you
have in your eye ! Now is M^’ Solmes, I see, but coinparatively
disagreeable ; disagreeable only as an« other man has a much more
specious person. But, Madam, are not his manners equally so 1 Is
not his person the true representation of his mind ? That other man is
not, shall not be, anything to me, release me from this one man, whom my
heart, unbidden, resists. Condition thus with your father. Will he
bear, do you think, to be thus dialogued with? Have I not conjured you, as
you value my peace What is it that / do not give up ?*~-This very task,
because I apprehended you would not be easily persuaded, is a task indeed
upon me. And will you give up nothing ? Have you not refused as many as
have been offered to you ? If you would not have us guess for whom,
comply ; for comply you must, or be looked upon as in a state of defiance
with your whole family. And saying thus she arose, and went from
me.’ Miss AusteiL. The following examples of Miss
Austen’s dialogue are not selected because they are the most sparkling
conversations in her works, but rather because they appear to be typical
of the way of speech of the period, and further they illustrate Miss
Austeff s incomparable art. The first passage is ixomEmma^ which was
written between i8ii and 3^5 i8i6. Mr. Woodhouse and his
daughter have just received an invitation to dine with the Coles,
enriched tradespeople who had settled in the neighbourhood. Emma's view
of them was that they were ' very respect- able in their way, but they
ought to be taught that it was not for them to arrange the times on which
the superior families would visit them On the present occasion, however,
‘ she was not absolutely w^ithout inclina- tion for the party. The Coles
expressed themselves so properly there was so much real attention in the
manner of it so much consideration for her father/ Emma having decided in
her own mind to accept the invitation some of her intimate friends were
going it remained to explain to her father, the ailing and fussy Mr. Woodhouse,
that he would be left alone without his daughter s company for the
evening, as it was out of the question that he should accompany her. ‘ He
was soon pretty well resigned.’ ‘ I am not fond of
dinner-visiting ” said he ; “I never was. No more is Emma. Late hours do
not agree with us. I am sorry and Cole should have done it. I think it
would be much better if they would come in one afternoon next summer and
take their tea with us ; take us in their afternoon walk, which they
might do, as our hours are so reasonable, and yet get home without being
out in the damp of the evening. The dews of a summer evening are what I
would not expose anybody to. However as they are so very desirous to have
dear Emma dine with them, and as you will both be there [this refers to
his friend Weston and his wife], and Knightley too, to take care of her I
cannot wish to prevent it, provided the weather be what it ought, neither
damp, nor cold, nor windy.” Then turning to Weston with a look of gentle
reproach “Ah, Miss Taylor, if you had not married, you would have staled
at home with me.” “ Well, Sir ”, cried Weston, as I took Miss
Taylor away, it is incumbent upon me to supply her place, if I can ; and
I will step to M^’® Goddard in a moment if you wish it.” . . . With this
treatment M^ Woodhouse was soon composed enough for talking as usual. “
He should be happy to see M^*® Goddard. He had a great regard for
Goddard; and Emma should write a line and invite her. James could take
the note. But first there must be an answer written to M’^® Cole.”
“ You will make my excuses, my dear, as civilly as possible. You will
say that I am quite an invalid, and go nowhere, and therefore must
decline their obliging invitation ; beginning with my comj^limentsy of
course. But you will do everything right. I need not tell you what is to
be done. We must remember to let James know that the carriage will be
wanted on Tuesday. I shall have no fears for you with him. We have never
been there above once since the new approach was made ; but still I have
no doubt that James will take you very safely ; and when you gel there
you must tell him at what time you would have him come for you again ;
and you had better name an early hour. You will not like staying late.
You will get tired when tea is over.” “ But you would not wish me
to come away before I am tired, papa ? ” Oh no my love ; but you
will soon be tired. There will be a great many people talking at once.
You will not like the noise.” “But my dear Sir,” cried M^’ Weston,
“if Emma comes away early, it will be breaking up the party.”
“ And no great harm if it does ” said Woodhouse. “ The sooner every
party breaks up the better.” “ But you do not consider how it may
appear to the Coles. Emma’s going away directly after tea might be giving
offense. They are good-natured people, and think little of their own
claims ; but still they must feel that anybody’s hurrying away is no
great compliment ; and Miss Woodhouse’s doing it would be more thought of than
any other personas in the room. You would not wish to disappoint and
mortify the Coles, I am sure, sir; friendly, good sort of people as ever
lived, and who have been your neighbours these /en years.”
‘^No, upon no account in the world, Weston, I am much obliged to
you for reminding me. I should be extremely sorry to be giving them any
pain. I know what worthy people they are. Peny tells me that Cole never
touches malt liquor. You would not think it to look at him, but he is
bilious M^' Cole is very bilious. No, I would not be the means of giving
them any pain. My dear Emma we must consider this. I am sure rather than
run any risk of hurting and Cole you would stay a little longer than you
might wish. You will not regard being tired. You will be perfectly safe,
you know, among your friends.” Oh 5^es, papa. I have no fears at
all for myself ; and I should have no scruples of staying as late as
Weston, but on your account. I am only afraid of your silting up for me.
I am not afraid of your not being ex- ceedingly comfortable with Goddard.
^ She loves piquet, you know ; but when she is gone home I am afraid you
will be sitting up by youiself, instead of going to bed at your usual
time ; and the idea of that would entirely destroy my comfort. You must
promise me not to sit up.” * The next example is in a very
different vein. It is from Sense and Sensibility (chap, xxi) and records
the mode of conversation of the Miss Steeles. These two ladies are among
Miss Austen's vulgar characters, and their speech lacks the restraint and
decorum which her better-bred personages invariably exhibit. While the
Miss Steeles’ con- versation is in sharp contrast with that of the Miss
Dashwoods, with whom they are here engaged, both in substance and manner,
it evidently passed muster among many of the associates of the latter,
especially with their cousin Sir John Middleton, in whose house, as
relations of his wife's, the Miss Steeles are staying. Apart from the
vulgarity of thought, the diction appears low when compared with that of
most of Miss Austen's characters. As a matter of fact it is largely the
way of speech of the better society of an earlier age, which has come
down in the world, and survives among a pretentious provincial
bourgeoisie. What a sweet woman Lady Middleton is” said Lucy Steele .
'‘And Sir John too ” cried the elder sistei', “ what a charming man he is
! And what a charming little family they have ! I never saw such fine
children in my life. I declare I quite doat upon them already, and indeed
I am always destractedly fond of children.” "I should guess so” said
Elinor with a smile “from what I witnessed this morning.” “I
have a notion” said Lucy, “you think the little Middletons rather too
much indulged ; perhaps they may be the outside of enough ; but it is
natural in Lady Middleton; and for my part I love to see children full of
life and spirits ; I cannot bear them if they are tame and quiet”
“I confess ” replied Elinor, “that while I am at Barton Park, I
never think of tame and quiet children with any abhorrence. And how do
you like Devonshire, Miss Dashwood ? (said Miss Steele) I suppose you
were very sorry to leave Sussex. In some suiyrise at the familiarity of
this question, or at least in the manner in which it was spoken, Elinor
replied that she was. “Norland is a prodigious beautiful place, is
not it?” added Miss Steele, “We have heard Sir John admire it
excessively,” said Lucy, who seemed to think some apology necessary for
the freedom of her sister. “ I think MISS LUCY STEELE
B11 every one admire it ’'replied Elinor, “who ever saw the
place; though it is not to be supposed that any one can estimate its
beauties as we do." “ And had you many smart beaux there ? I
suppose you have not so many in this part of the world ; for my part I
think they are a vast addition always." “ But why should
you think " said Lucy, looking ashamec^ of her sister, “that there
are not as many genteel young men in Devonshire as Sussex." “
Nay, my dear, Fm sure I don’t pretend to say that there an’t. Fm sure
there ’s a vast many smart beaux in Exeter ; but you know, how could I
tell what smart beaux there might be about Norland? and I was only afraid
the Miss Dashwoods might find it dull at Barton ; if they had not so many
as they used to have. But perhaps you young ladies may not care about
beaux, and had as lief be without them as with them. For my part, I think
they are vastly agreeable, provided they dress smart and behave civil.
But I can’t bear to see them dirty and nasty. Now, there’s Rose at
Exeter, a pro- digious smart young man, quite a beau, clerk to Simpson,
you know, and yet if you do but meet him of a morning, he is not fit to
be seen. I sup- pose your brother was quite a beau, Miss Dashwood, before
he married, as he was so rich ? " “ Upon my word,"
replied Elinor, “I cannot tell you, for I do not per- fectly comprehend
the meaning of the word. But this I can say, that if he ever was a beau
before he married, he is one still, for there is not the smallest
alteration in him." “ Oh ! dear 1 one never thinks of married
men’s being beaux they have something else to do."
“Lord! Anne", cried her sister, “you can talk of nothing but beaux; you will make Miss Dashwood believe you think
of nothing else."’ It is not surprising that ‘ “ this specimen
of the Miss Steeles’" was enough. The vulgar freedom and folly of
the eldest left her no recommendation and as Elinor was not blinded by
the beauty, or the shrewd look of the youngest, to her want of real
elegance and artlessness, she left the house without any wish of knowing
them better Greetings and Farewells. Only the slightest
indication can be given of the various modes of greet- ing and bidding farewell
These seem to have been very numerous, and less stereotyped in the
fifteenth and sixteenth centuries than at present. It is not easy to be
sure how soon the formulas which we now employ, or their ancestral forms,
came into current use. The same form often serves both at meeting and
parting. In 1451, Agnes Paston records, in a letter, that
"after evynsonge, Angnes Ball com to me to my closett and dad me
good evyn \ In the account, quoted above, p. 362, given by Shillingford
of his meetings with the Chancellor, about 1447, he speaks of
"saluting hym yn the moste godely wyse that y coude ' but does not
tell us the form he used. The Chancellor, however, replies "
Welcome^ ij times, and the tyme Right met come Mayer'% and helde
the Mayer a grete while faste by the honde I In the sixteenth
century a great deal of ceremonial embracing and kissing was in vogue.
Wolsey and the King of France, according to Cavendish, rode forward to
meet each other, and they embraced each other on horseback. Cavendish himself
when he visits the castle of the Lord of Cr^pin, a great nobleman, in
order to prepare a lodging for the Cardinal, is met by this great
personage, who ^ at his first coming embraced me, saying I was right
heartily welcome'. Henry VIII was wont to walk with Sir Thomas More, '
with his arm about his neck \ The actual formula used in greeting and
leave-taking is too often un- recorded. When the French Embassy departs
from England, whom Wolsey has sb splendidly entertained, Cavendish says '
My lord, after humble commendations had to the French King bade them
adieu'. The Earl of Shrewsbury greets the Cardinal thus ‘ My Lord, your
Grace is most heartily welcome unto me', and Wolsey replies ‘Ah my
gentle Lord of Shrewsbury, I heartily thank you '. It is not
until the appearance of plays that we find the actual forms of greeting
recorded with frequency. In Roister Doister, there are a fair number: God
heepe thee worshipful Master Roister Doister; Welcome my good wenche ;
God you saue and see Nourse ; and the reply to this Welcome friend Merrygreeke; Good flight Roger
old farewell Roger old knaue ; well mef^ I bid you right welcome, A
very favourite greeting is God he with you, God continue your
Lordship is a form of farewell in Chapman's Monsieur D'Olive, and God-den
‘ good evening occurs in Middleton's Chaste Maid in Cheapside. Sir Walter
Whorehoimd in the same play makes use of the formula ‘ I embrace your
acquaintance Sir \ to which the reply is vows your service Str\
Massinger's New Way to pay old Debts contains various formulas of
greeting. I ain still your creature^ says Allworth to his step-mother
Lady A. on taking leave ; of two old domestics he takes leave with ‘ rny
service to both \ and they reply ‘ ours waits on you In reply to the
simple Farewell Tom, of a friend, All worth answers ^ All joy stay with
you \ Sir Giles Overreach greets Lord Lovel with ‘ Good day to My Lord '
; and the prototype of the modern how are you is seen in Lady Allworth's
‘ Hoiv dost thou Marrall P ' A graceful greeting in this play is ‘ Fou
are happily encountered'. The later seventeenth-century comedies
exhibit the characteristic urbanity of the age in their formulas of
greeting and leave-taking. ‘ A happy day to you Madam is Victoria's
morning compliment to Mrs. Goodvile in Otway's Friendship in Fashion, and
that lady replies ‘ Dear Cousin, your humble servant'. Sir Wilfull
Witwoud in Congreve's Way of the World, says ‘ Save you Gentleman and
Lady ' on entering a room. His younger brother, on meeting him, greets
him with ‘ Four servant Brother", and the knight replies ‘ servant!
Why yours Sir, Four servant again ; "s heart, and your Friend and
Servant to that \ Tm everlastingly your humble servant, deuce take me
Madam, says Mr. Brisk to Lady Froth, in the Double Dealer.
Your servant is a very usual formula at this period, on joining or
leaving company. In Vanbrugh's Journey to London, Colonel Courtly on
entering is greeted by Lady Headpiece Colonel your servant; her daughter
Miss Betty varies it with^ Four servant Colonel, and the visitor replies
to both Ladies, your most ohedienL Mr. Trim, the formal coxcomb in
ShadwelFs Bury Fair, parts thus from his friends Sir, I kiss your hands ;
Mr, Wildish -S’/r your most humble servant; Trim Oldwii I am your most
faithful servant; Mr. Oldwit Four servant sweet il/'* Trim, Four
servant, madam good morrow to you, is Lady Arabella's greeting to Lady
Headpiece, who replies to you Madam (Vanbrugh's Journey to London). The
early eighteenth century appears not to differ materially from the
preceding in its usage. Lord Formal in Fielding's Love in Several
Masques, says Ladies your most humble servafit, and Sir Apish in the same
play Four Ladyships everlasting creature^ Epistolary
Formulas. The writing of letters, both familiar and formal, is such
an inevitable part of everyday life, that it seems legitimate to include
here some examples of the various methods of beginning and ending private
letters from the early fifteenth century onwards. A proper and
exhaustive treatment of the subject would demand a rather elaborate
classification, according to the rank and status of both the writer and
the recipient, and the relation in which they stood to each other whether
master and servant, or dependant, friend, subject, child, spouse, and so
on. In the comparatively few examples here given, out of many
thousands, nothing is attempted beyond a chronological arrangement The
status and relationship of the parties is, however, given as far as
possible. We note that the formula employed is frequently a conventional
and more or less fixed phrase which recurs, with slight variants, again
and again. At other times the opening and closing phrases are of a more
personal and individual character. 1418. Archbp* Chichele to
Hen. V, Signs simply: your preest and bede- man. Ellis, i. i. 5.
142 5. IVilL Fasten to . Right worthy and worshepfull Sir. I recom-
maunde me to you, &c. Ends : Almyghty God have you in his
governaunce. Your frend unknowen. Past. Letters, i. 19-20.
1440. Agnes to Will. Fasten. Inscribed: To my worshepful housbond
W. Paston be this letter takyn. Dere housbond I reccommaunde me to yow.
Ends : The Holy Trinite have you in governaunce. P. L. . Dtike of Buckingham to
Lord Beau 7 nont, Ryght worshipful and with all my herte right enterly
beloved brother, I recomaunde me to you, thenking right hastili your good
brotherhode for your gode and gentill letters. I beseche the blissid
Trinite preserve you in honor and prosperite. Your trewe and feithfull
broder H. Bukingham. P. L- i. 61-2. 1443. Margaret to John Paston.
Ryth worchipful husbon, I reccomande me to yow desyryng her tel y to her
of your wilfar. Almyth God have you in his kepyn and sendo yow helth,
Yorys M. Paston. P. L. i. 48-9. 1444. James Gresham to Will.
Fasten. Please it your good Lordship to wete, &c. Ends : Wretyn right
simply the Wednesday next to fore the Fest. By your laiost symple
servaunt P. L. i, 50. 1444, Duchess of Norfolk to J. Past 07 i.
Ryght tmsty and entirely wel- bclovcd we grete you wel hertily as we kan,
. . and siche agrement as, &c. ... we shall duely performe yt with
the myght of Jesu who haff you in his blissed keping. P. L. i. 57,
1444. Sir R. Ckamberlayn to Agn. Paston. Ryght worchepful cosyn, I
comand me to you. And I beseche almyty God kepe you. Your Cosyn Sir Roger
Chamberlain. 1445. Agnes to Edm. Fasten. To myn welbelovid sone. I
grete you wel. Be your Modre Angnes Paston. COLLOQUIAL IDIOM 1449, Marg, to
John Paston. Wretyn at Norwych in hast, Be your gronyng Wyfr.-~i.
76“7- 1449. Same to sa 7 ne. No mor I wryte to ^ow atte this tyme*
Your Mar- karyte Paston. i. 42-3. 1449. John Paston, Ends :
Be ^owre pore Broder* . E Its. ^ Clare to J, Paston, No raore I wrighte to
50 w at this tyme, but Holy Cost have 50W in kepyng. Wretyn in haste on
Scynt Peterys day be candel lyght, Be your Cosyn E. C. P. L. i.
89-90. 1450. Duke of Suffolk to his son. My dear and only
welbeloved sone. Your trewe and lovynge fader Suffolk. P. L. i. 12
1-2. 1450, IVilL Lomme to J, Paston, I prey you this bille may
recomaunde me to mastrases your moder and wyfe. Wretyn yn gret hast at
London. P.L. i. 126. 1450.
y. Gresham to ^ my Mats ter Whyte Esguyer\ After due recomen- dacion I
recomaund me to yow. 1450. J, Paston to above, James Gresham, I
pray you labour for the, &c. i. 145* 1450. Justice
Yelverton to Sir J, Fastolf, By your old Servaunt William Yelverton
Justice. P, L. i. 166. 1453. Agnes toJ, Paston, Sone I grete you
well and send you Godys blessyng and myn. Wretyn at Norwych ... in gret
hast, Be your moder A. Paston. P. L. i. 259. 1454. J, Paston
to Earl of Oxford* Youre servaunte to his powr John Paston. P. L. i.
276, 1454. Lord Scales to J, Paston, Our Lord have you in
governaunce. Your frend The Lord Scales. P. L. i. 289. 1454,
Thomas Howes to J, Paston, I pray God kepe yow. Wiyt at Castr hastly ij
day of September, Your owne T. Howes. P. L. i. 301. 1454. The same.
Your chapleyn and bedeman Thomas Howes. *i. 31 8. 1455. /• PoLstolf
to Duke of Norfolk, Writen at my pore place of Castre, Your humble man
and servaunt. P. L. i. 324. 1455. /. Cudworth, Bp. of Lmcoln^ to J,
Patton, And Jesu preserve you, J. Bysshopp of Lincoln. P.L. i. 350. 1456. Archbp,
Bourchier to Sir J, Fastolf, The blissid Trinitee have you everlastingly
in His keping, Written in my manoir of Lamehith, Your feith- full and
trew Th, Cant. P. L. i. 382. 1456 (Nephew to uncle). H, Fylinglay
to Sir J, Fastolf Ryght wor- shipful unkell and my ryght good master, I
recomniaund me to yow wyth all my servys. And Sir, my brother Paston and
I have, &c. Your nevew and
servaunt P. L. i. 397. 1458. John Jerningham to Marg, Paston. Nomor
I wryte unto you at this tyme. . . . Your owne umhle servant and cosyn J.
J. P, L. i. 429. 1458 (Daughter to her mother). Elh, Poynings to
Agn, Paston, Right worshipful and my most entierly belovde moder, in the
most lowly maner I recomaund me unto your gode moderhode. . . . And Jesu
for his grete mercy save yow. By your humble daughter. P. L. . Chancellor
and University of Oxford to Sir John Say, Ryght wor- shipful our trusty
and entierly welbeloued, after harty commendacyon. . . . Ends : yo’-'
trew and harty louers The Chancelir and Thuniversite of Oxon- ford. Ellis.
1477. John Paston to Ms mother* Your sone and humbyll servaunt P. P. L. iii. 176. 1481-4. Edm,
Paston to Ms mother, umble son and servant. P. L. J, Paston to Ms mother. Your sone
and trwest servaunt P. h* iii. 290. 1482. Margery Paston to
her hushaftd. No more to you at this tyme, Be your servaunt and bede
woman. iii. 293, 1485. Duke of Norfolk to J, Faston. Welbelovyd frend I
cummaund me to yow. I shall
content you at your metyng with me, Yower lover J. Nor- folk. iii.
320, 1485. Eliz, Browne to J. Paston. Your loving awnte E. B.
1485. Duke of Suffolk to f Paston, Ryght welbeloved we grete you
well. ., . Suffolk, yor frende. iii. 324-5. 1490. Bp* of
Durham to Sir fohn Paston* IH2, Xps*. Rygiit wortchipful sire, and myne
especial and of long tyme apprevyd, trusty and feythful frende, I in myne
hertyeste wyse recommaunde me un to you. . ., Scribyllyd in the moste
haste, at my castel or manoir of Aucland the xxvij of Januay. Your own
trewe luffer and frende John Duresme. iii. 363. 1490. Lumen H ary
son to Sir f Past on. Onerabyll and well be lov^^'d Knythe, I commend me
on to 5our masterchepe and to my lady 5owyr wyffe. ., . No mor than God
be wyth 50W, L. H. at ^ouyr comawndment. 1503. Q. Margaret of
Scotland to her father Hen. VII. My moste dere iorde and fader in the
most humble wyse that I can thynke I recommaunde me unto your Grace
besechyng you off your dayly blessyngys. . . . Wrytyn wyt the hand of
your humble douter Margaret. Ellis i. i. 43. Hen. VI J to his
Mother.^ the Countess of Richmond. Madam, my most enterely wilbeloved
Lady and Moder . . . with the hande of youre most humble and lovynge
sone. Ellis, i. i. 43-5. Margaret to Hen. VI 1 . My oune suet and
most deare kynge and all my worldly joy, yn as humble manner as y can
thynke I recommand me to your Grace ... by your feythful and trewe
bedewoman, and humble modyr Mar- garet R, Ellis Q. Margaret oj Scotland
to Hen. VI IL Richt excellent, richt hie and mithy Prince, our derrist
and best belovit Brothir. . . . Your louyn systar Margaret. Ellis, i. i.
65. (The Queen evidently employed a Scottish Secre- tary.)
1515. Margaret to Wolsey. Yours Margaret R. Ellis, i. i. 131.
1515. Thos. Lord Howard, Lord Admiral, to Wolsey. My owne gode
Master Awlmosner. . . . Scrybeled in gret hast in the Mary Rose at
Plymouth half o^' after xj at night . . . y^ own Thomas Howard.
. West Bp. of Ely to Wolsey. Myne especiall good Lorde in my most
humble wise I recommaund me to your Grace besechyng you to con- tynue my
gode Lorde, and I schall euer be as I am bounden your dayly bedeman. . .
. Y^ chapelayn and bedman N 1 . Elien. c. 1520. Archbp. Warham to
Wolsey. Please ityo^ moost honorable Grace to understand. ... At your
Graces commaundement, Willm. Cantuar. Ellis, iii. I. 230. Also : Euer, your own
Willm. Cantuar. Langland Bp. of Lincoln to Wolsey. My bownden duety
mooste lowly remembrede unto Your good Grace. . . . Yo^ moste humble
bedisman John Lincoln. Ellis, iii. l. 248. Cath, of Aragon to
Princess Mary. Doughter, I pray you thinke not, &c. Ellis. . Your
lovyng mother Katherine the Queue. Archibald, E. of Angus.
Addresses letter to Wolsey : To my lord Car- dinallis grace of Ingland. Ellis,
iii. i. 291. 1521. Bp. Tunstal to Wolsey. Addresses letter : to the
most reverend fader in God and his most singler good Lorde Cardinal. Ellis,
iii. i* 273. Ends a letter : By your Gracys most humble bedeman
Cuthbert TunstalL Ellis - . Duke of Buckingham to Wolsey,
Yorys to my power E. Bukyngham. Gccvin Douglas, Bp. of
Dunkeld, to Wolsey. ZgI chaplan wy^ his lawfull seruyse Gavin bischop of
Dunkeld. Ellis, iii. i. 294- Zo^ humble servytor and Chaplein of Dunkeld.
Ellis, iii. i. 296. Zo^ humble seruytor and dolorous Chaplan of Dunkeld.
Ellis, iii. i. 303- Wolsey to Gardiner {afterwards Bp. of
Winchester)* Ends : Your assurjd lover and bedysman T. Car^s Ebor. Ellis,
i. 2. 6. Again : Wryttyn hastely at Asher with the rude and shackyng hand
of your dayly bedysman and assuryd frende T. Car^^® Ebor.
1532. T/ios, AudUy {Lord Keeper) to CromwelL Yo^' assured to his
litell Thomas Audeley Gustos Sigiili. Edw. E, of Hertford
{afterwards Lord Protector). Thus I comit you to God hoo send yo^‘
lordshep as well to far as I would mi selfe . . . w^ the hand of yo^
lordshepis assured E. Hertford. Hen. VI 11 to Catherine Parr. No
more to you at thys tyme swethart both for lacke off tyme and gret occupation
off bysynes, savyng we pray you in our name our harte blessyngs to all
our chyldren, and recommendations to our cousin Marget and the rest off
the laddis and gentyll women and to our Consell alsoo. Wryttyn with the
hand off your lovyng howsbande Henry R. Ellis, i. 2. 130.
Princess Mary to CromwelL Marye Princesse. Maister Cromwell I
commende me to you. Ellis, i. 2. 24, Prince Edward to Catherine
Parr. Most honorable and entirely beloued mother. . . . Your Grace, whom
God have ever in his most blessed keping. Your louing sonne, E. Prince. Ellis,
i. 2. 13 1. . Henry Radclyf E. of Sussex, to his wife. Madame with
most lovyng and hertie commendations. Ellis, i. 2. 137.
Princess Elizabeth to Ediv. VI. Your Maiesties humble sistar to
com- maundement Elizabeth. Ellis, i. 2. 146 ; Your Maiesties most humble
sistar Elizabeth. Ellis Princess Elizabeth to Lord Protector.
Your assured frende to my litel power Elizabeth. Ellis, i. 2. 158.
Edward VI to Lord Protector Somerset. Derest Uncle. . . • Your good
neuew Edward. Ellis, ii. i. 148. Q.Mary to Lord Admiral Seymour.
Your assured frende to my power Marye. Ellis, i. 2. 153.
Princess Elizabeth to Q. Mary (on being ordered to the Tower). Your
Highnes most faithful subjec that hath bine from the begining and wyl be
to my ende, Elizabeth. (Transcr. of 1732). Ellis, ii. 2. 257.
, Princess Elizabeth to the Lords of the Council. Your verye
lovinge frende, Elizabeth- Ellis, ii. 2. 213. 1554, Henry
Darnley to Q. Mary of England. Your Maiesties moste bounden and obedient
subjecte and servant Henry Darnley. Queen Dowager to Lord Admiral
Seymour. By her ys and schalbe your humble true and lovyng wyffe duryng
her lyf Kateryn the Quenc. Ellis, i. 2. 152. Q. Mary to
Marquis of Winchester, Your Mystresse assured Marye the Queue. -Ellis,
ii. 2. 252. Sir John Grey of Pyrgo to Sir William Cecil. It is a
great while me thinkethe, Cowsine Cecill, since I sent unto you. ... By
your lovyng cousin and assured frynd John Grey. Ellis, ii, 2. 73-4; Good
cowsyne Cecil!. ., . By yo^ lovyng Cousine and assured pouer frynd
dowring lyfe John Grey. Ellis, ii. 2.
276. Lady Catherine Grey, Cmmtess of Hertford, to Sir W, Cecil.
Good cosyne Cecill . . . Your assured frend and cosyne to my small power
Katheryne Hartford. Ellis, ii. 2. 278 ; Your poore cousyne and assured
frend to my small power Katheryne Hartford. Ellis, ii. 2. 287.
1564. Sir W. Cecil to Sir Thos. Smith. Your assured for ever W.
Cecill. Ellis, ii. 2. 295 ; Yours assured W. Cecill Ellis, ii, 2. 297 ;
Your assured to command W, Cecill Ellis, ii. 2, 300. 1 566.
Duchess of Somerset to Sir W. Cecil. Good M^ Secretary, yf I have let you
alone all thys whyle I pray you to thynke yt was to tary for my L, of
Leycesters assistans. ... I can nomore . ., and so do leave you to God
Yo’^ assured lovyng frynd Anne Somerset, Ellis, ii. 288. Christopher
Jonson, Master of Winchester^ to Sir W, CeciL Right honourable my duetie
with all humblenesse consydered. . . . Your honoures most due to commando,
Christopher Jonson. Ellis, ii. 2. 313. 1569. Lacfy Stanhope to Sir
W, CeciL Right honorable, my humble dewtie premised. . . . Your honors
most humblie bound Anne Stanhope. Ellis,
il 2. 324., 1574. Sir Philip Sidney to the E. of Leicester, Righte
Honorable and my singular good Lorde and Uncle. . . . Your L. most obedi.
. ., Philip Sidney. Works, p. 345. 1576. Sir Philip Sidney to
Sir Francis Walsingham, Righte Honorable ... I most humbly recommende my
selfe unto yow, and leaue yow to the Eternals most happy protection, ., .
Yours humbly at commawndement Philipp Sidney. 1578. Sir
Philip Sidney to Edward Molineux^ Esq. (Secretary to Sir H. Sidney),
Molineux, Few words are best My letters to my father have come to the
eyes of some. Neither can I condemn any but you. . . . (The writer
assures M. that if he reads any letter of his to his father ^ without his
commandment or my consent, I will thrust my dagger into you. And trust to
it, for I speak it in earnest’. . . .) In the meantime farewell. From
court this last of May 1 578, By me Philip Sidney. p. 328.
1580. Sir Philip Sidney to his brother Robert. My dear Brother . .
. God bless you sweet boy and accomplish the joyful hope I conceive of
you., . . Lord I how I have babbled : once again farewell dearest brother.
Your most loving and careful brother Philip Sidney. 1582.
Thomas Watson ^ To the frendly Reader^ (in Passionate Centurie of Love).
Courteous Reader, . . and so, for breuitie sake
aprubtlie make and end ; committing the to God, and my worke to
thy fauour. Thine as thou art his, Thomas Watson. Anne of
Denmark to James L Sir ... So kissing your handes I remain she that will
ever love Yow best, Anna R. Ellis, i. 3. 97. c. 1585. Sir Philip to
Walsingham. Sir, . . your louing cosin and frend. In several letters to
Walsingham Sidney signs *your humble Son’. ^ 1586. Wm. Webbe to Ma.
(= ^ Master ’) Edward Sulyard Esquire (Dedi- catory Epistle to the
Discourse of English Poetrie). May it please you Syr, thys once more to
beare with my rudenes, &c. ... I rest, Your worshippes faithfull
Seruant W. W. 1593. Edward Alleyn to his wife. My good sweete mouse
. . . and so swett mouse farwell. Mem. of Edw. Alleyn, L 36; my good
sweetharte and loving mouse . . . thyn ever and no bodies else by god of
heaven. ibid. , Thos., Lord Buckhurst, afterwards Earl of Dorset^
to Sir Robert CeciL Sir . . . Your very lo: frend T. Buckhurst.
1 , Sir W. Raleigh to Cecil. S*^ I humblie thanke yow for your letter .,
. S^ I pray love vs in your element and wee will love and honor yow in
ours and every wher. And remayne to be comanded by yow for evermore
W Ralegh. 1602. Same to same. Good Secretary. . . . Thus I rest,
your very loving and assured frend T, Buckhurst, Works, xxxiv-xi.
1603. Same to same. My very good Lord. . ♦ . So I rest as you know,
Ever yours T. Buckurst 1605, Same to same. ... I pray God for your
health and for mine own and so rest Ever yours ... 1607. Same
to the University of Oxford. Your very loving friend and Chancellor T.
Dorset xlvi. cr. . Sir Menry Wotton to Henry Prince of Wales. Youre
zealous pooie servant H. W. Ellis, i. 3* loo. Q. Anne of
Denmark to Sir George Villiers (afterwards Duke of Buc- kingham). My kind
Dog. # • . So wishing you all happiness Anna R. Ellis, i. 3,
ICO. Charles Duke of York to Prince Heniy. Most loving Brother I
long to see you, . . . Your H. most loving brother and obedient servant,
Charles. Ellis, i. 3. 96. 1612. Prince Charles to James L Your most
humble and most obedient sone and servant Charles. Ellis, i. 3.
102. Same to Viljiers. Steenie, There is none that knowes me so
well as your- self. ., . Your treu and constant loving frend Charles P. Ellis,
i. 3. 104. King Jaynes to Buckingham or to Prince Charles, My onlie
sweete and deare chylde I pray thee haiste thee home to thy deare dade by
sunne setting at the furthest. Ellis, i. 3. 120. Sa 7 ne to
Buckingham, My Steenie. . . . Your clear dade, gosseppe and
stewarde. Ellis, i. 3, 159.
Same to both. Sweet Boyes. . . . God blesse you both my sweete
babes, and sende you a safe and happie returne, James R. Ellis, i.
. Prmce Charles a?id Buckingham to James, Y’our Majesties most
humble and obedient sone and servant Charles, and your humble slave and
doge Steenie.Ellis, Buckingham to James. Dere Dad, Gossope and Steward. .
. • Your Majestyes most humble slave and doge Steenie. Ellis, i, 3.
146-7. 1623. Lord Herbert to James, Your Sacred Majesties most
obedient, most loyal, and most affectionate subjecte and servant, E.
Herbert The letters of Sir John Suckling (Works, ii, Reeves et Turner)
are mostly undated, but one to Davenant has the date 1629, and another
to Vane that of 1632. The general style is more modern in
tone than those of any of the letters so far referred to. (See on
Suckling’s style, pp. 152-3.) The beginnings and endings, too, closely
resemble and are sometimes identical with those of our own time.
To Davenant, Vane, and several other persons of both sexes,
Suckling signs simply ^ Your humble servant J. S.’, or 'J. Suckling’. At
least two, to a lady, end * Your humblest servant The letter to
Davenant begins ‘WilL; that to Vane ‘Right Honorable’. Several
letters begin ‘ Madam ‘ My Lord one begins ‘ My noble friend
another ‘ My Noble Lord several simply ‘ Sir The more fanciful
letters, to Aglaura, begin ‘ Dear Princess ’, ‘ Fair Princess ’, ‘ My
clear Dear ‘ When I consider, my dear Princess ’, &c. One to a cousin
begins ‘ Honest Charles The habit of rounding off the concluding
sentence of a letter so that the valedictory formula and the writer’s
name form an organic part of it, a habit very common in the eighteenth
century in Miss Burney, for instance is found in Suckling’s letters. For
example : ‘ I am still the humble servant of my Lord that 1 was,
and when I cease to be so, I must cease to be John Suckling’; ‘yet
could never think myself unfortunate, while I can write myself Aglaura
her humble servant ’ ; ‘ and should you leave that lodging, more wretched
than Montferrat needs must be your humble servant J. S.’, and so
on. The longwindedness and prolixity wiiich generally distinguish
the openings and closings of letters of the fifteenth and the greater
part of the sixteenth century, begin to disappear before the end of the
latter period. Suckling is as neat and concise as the letter-writers of
the eighteenth century. ‘Madam, your most humble and faithful
servant' might serve for Dr. Johnson. Most of our modern formulas
were in use before the end of the first half of the seventeenth century,
though some of the older phrases still survive. But we no longer find
" I commend me unto your good master- ship, beseeching the Blessed
Trinity to have you in his governance and such-like lengthy introductions.
The Correspondence of Dr. Basire (see pp. 163-4) is very instructive, as
it covers the period from 1634 to 1675, by which latter date letters have
practically reached their modern form. Dr. Basire writes in 1635-6 to
Miss Frances Corbet, his fiancee, 'Deare Fanny ^ Deare Love ^ ^ Love and
ends ' Your most faithfuil frend J. B.', 'Thy faithful frend and loving
servaunt J. B.", 'Your assured frend and loving well-wisher J. B/,
'Your ever iouing frend J. B.' When Miss Corbet has become his wife, he
constantly writes to her in his exile which lasted from 1640 to 1661,
letters which apart from our present purpose possess great human and
historical interest. These letters generally begin ' My Dearest', and '
My deare Heart', and he signs himself ' Your very Iouing husband',
'Yours, more than ever', 'Your faithful husband', ' My dearest. Your
faithful friend ', ' Yours till death ' Meanewhile assure your selfe of
the constant love of My dearest ^Your
loyall husband The lady to whom these affectionate letters were
addressed, bore with wonderful patience and cheerfulness the anxieties
and sufferings incident upon a state bordering on absolute want caused by
her husband's depriva- tion of his living under the Commonwealth, his prolonged
absence, together with the cares of a family of young children, and very
indifferent health. She was a woman of great piety, and in her letters ‘
many a holy text around she strews ' in reply to the religious
soliloquies of her husband. Her letters all begin ' My dearest ’, and
they often begin and close with pious exclamations and phrases 'Yours as
much as euer in the Lord, No, more thene euer ' ; ' My dearest, I shall
not faile to looke thos plases in the criptur, and pray for you as
becometh your obedient wife and serunt in the Lord F. B. ’ ; another
letter is headed ' Jesu 1 and ends ' I
pray God send vs all a happy meting, I ham your faithful in the Lord, F.
B.' Many of the letters are headed with the Sacred Name. Others of
Mrs. Basire's letters end 'Farwall my dearest, I ham yours faithful for
euer'; 'I euer remine Yours faithfuil in the Lord'; 'So with my dayly
prayers to God for you, I desire to remene your faithfuil loveing and
obedient wif '. It may be worth while to give a few examples of
beginnings and ends of letters from other persons in the Basire
Correspondence, to illustrate the usage of the latter part of the
seventeenth century. These letters mostly bear, in the nature of an
address, long superscrip- tions such as 'To the Reverend and ever
Honoured Doctour Basire, Prebendary of the Cathedral Church in Durham. To
be recommended to the Postmaster of Darneton' (p. 213, dated 1662).
This letter, from Prebendary Wrench of Durham, begins ' Sir and
ends ' Sir, Your faithfuil and unfeigned humble Servant R. W.' In
the same year the Bishop of St. David's begins a letter to Dr.
Basire ' Sir and ends ' Sir, youre
uerie sincere friend and seruant, Wil. St, David's, The
Doctor's son begins ' Reverend Sir, and most loving Father ' and ends
with the same formula, adding ' Your very obedient Son, P. B ^ p. 221. To his Bishop (of Durham) Dr. Basire
begins 'Right Rev. Father in God, and my very good Lord ending ' I am
still, My L<i, Your Lp 3 . faithfull Servant Isaac Basire’. In 1666
the Bishop of Carlisle, Dr. Rainbow, evidently an old friend of Dr. B/s,
begins 'Good Mr. Archdeacon and ends ' I commend you and yours to God’s
grace and remaine,'Your very faithfull frend Edw, Carlioi’, p. 254.
In 1668 the Bishop of Durham begins ' M^ Archdeacon ’ and ends ' In
the interim I shall not be wanting at this distance to doe all I can, who
am, Sir, Your very loving ffriend and servant TJo. Duresme', p. 273. Dr.
Barlow, Provost of Queen’s, begins 'My Reverend Friend’, and ends ‘Your
prayers are desired for, Sir, Your affectionate friend and Seruant, Tho.
Barlow’. Dr. Basire begins a letter to this gentleman ‘ Rev. Sir and my Dear Friend ’ . ., ending '
I remain, Reverend Sir, Your affectionate frend, and faithful servant To
his son Isaac, he writes in 1664 'Beloved Son’, ending ‘So prays
your very lovinge and painfull Father, Isaac Basire ’. Having
now brought our examples of the various types of epistolary formulas down
to within measurable distance of our own practice, we must leave this
branch of our subject. Space forbids us to examine and illus- trate here
the letters of the eighteenth century, but this is the less necessary as
these are very generally accessible. The letters of that age, formal or
intimate, but always so courteous in their formulas, are known to most
readers. Some allusion has already been made (pp. 20-1) to the tinge of
ceremoniousness in address, even among friends, which survives far into
the eighteenth century, and may *be seen in the letters of Lady Mary
Montagu, of Gray, and Horace Walpole, while as late as the end of the
century we find in the letters of Cowper, unsurpassed perhaps among this
kind of literature for grace and charm, that combination of stateliness
with intimacy which has now long passed away. Exclamations, Expletives,
Oaths, &e. Under these heads comes a wide range of expressions,
from such as are mere exclamations with little or no meaning for him who
utters or for him who hears them, or words and phrases added, by way of
emphasis, to an assertion, to others of a more formidable character which
are deliberately uttered as an expression of spleen, disappointment, or
rage, with a definitely blasphemous or injurious intention. In an age
like ours, where good breeding, as a rule, permits only exclamations of
the mildest and most meaningless kind, to express temporary
annoyance, disgust, surprise, or pleasure, the more full-blooded
utterances of a former age are apt to strike u$ as excessive. Exclamations
which to those who used them meant no more than ' By Jove ’ or ' my word
’ do to us, would now, if they were revived appear almost like rather
blasphemous irreve- rence. It must be recognized, however, that swearing,
from its mildest to its most outrageous forms, has its own fashions.
These vary from age to age and from class to class. In every age there
are expressions which are permissible among well-bred people, and others
which are not. In certain circles an expression may be regarded with dislike,
not so much because of any intrinsic wickedness attributed to it, as
merely because it is vulgar. Thus there are many sections of society at
the present time where such an expression as ‘ O Crikey * is not in use.
No one would now pretend that in its present form, whatever may
underlie it, this exclamation is peculiarly blasphemous, but many persons
would regard it with disfavour as being merely rather silly and
distinctly vulgar. It is not a gentleman’s expression. On the other hand,
^ Good Heavens \ or ^ Good Gracious \ while equally innocuous in meaning
and intention, would pass muster perhaps, except among those who object,
as many do, to anything more forcible than ‘ dear me \ Human
nature, even when most restrained, seems occasionally to require some
meaningless phrase to relieve its sudden emotions, and the more devoid of
all association with the cause of the emotion the better will the
exclamation serve its purpose. Thus some find solace in such a formula as
‘ O liitle haiC which has the advantage of being neither particularly
funny nor of overstepping the limits of the nicest decorum, unless indeed
these be passed by the mere act of expressing any emotion at all. It is
really quite beside the mark to point out that utterances of this kind are
senseless. It is of the very essence of such outbursts the mere bubbles
on the fountain of feeling ^that they are quite unrelated to any definite
situation. There is a certain adjective, most offensive to polite ears,
which plays apparently the chief r 61 e in the vocabulary of large
sections of the community. It seems to argue a certain poverty of
linguistic resource when we find that this word is used by the same
speakers both to mean absolutely nothing being placed before every noun,
and often adverbially before all adjectives and also to mean a great deal
everything indeed that is unpleasant in the highest degree. It is rather
a curious fact that the word in question while always impos- sible,
except perhaps when used as it were in inverted commas, in such a way
that the speaker dissociates himself from all responsibility for, or
proprietorship in it, would be felt to be father more than ordinarily
intolerable, if it were used by an otherwise polite speaker as an
absolutely meaningless adjective prefixed at random to most of the nouns
in a sen- tence, and worse than if it were used deliberately, with a
settled and full intent. There is something very terrible in an oath torn
from its proper home and suddenly implanted in the wrong social
atmosphere. In these circumstances the alien form is endowed by the
hearers with mysterious and uncanny meanings ; it chills the blood and
raises gooseflesh. We do not propose here to penetrate into the sombre
history of blasphemy proper, nor to exhibit the development through the
last few centuries of the ever-changing fashions of profanity. At every
period there has been, as Chaucer knew a companye Of yonge
folk, that haunteden folye, As ryot, hasard, stewes and tavemes, Wher-as
with harpes, lutes and gitemes, They daunce and pleye at dees both day and
night, And ete also and drinken over hit might, Thurgh
which they doon the devel sacrifyse Within the develes tempel in cursed wyse,
By superfiuitee abhominable; c c 2 Hir othes been
so grete and so dampnable^ That it is grisly for to here hem
swere; Our blissed lordes body they to-tere; Hem though
te Jewes rent him noght y-nough. We are concerned, for the most
part, with the milder sort of expres- sions which serve to decorate
discourse, without symbolizing any strong feeling on the part of those
who utter them. Some of the expletives which in former ages were used
upon the slightest occasion, would certainly appear unnecessarily
forcible for mere exclamations at the present day, and the fact that such
expressions were formerly used so lightly, and with no blasphemous
intention, shows how frequent must have been their employment for
familiarity to have robbed them of all meaning. So saintly a
person as Sir Thomas More was accustomed, according to the reports given
of his conversation by his son-in-law, to make use of such formulas as a
Gods name^ p. xvi ; would to God, ibid. ; in good faith, xxviii, but
compared with some of the other personages mentioned in his Life, he is
very sparing of such phrases. The Duke of Norfolk, ‘his singular deare
friend*, coming to dine with Sir Thomas on one occasion, ‘ fortuned to
find him at Church singinge in the quiere with a surplas on his backe ;
to whome after service, as the(y) went home togither arme in arme, the
duke said, “ God body, God body, My lord Chauncellor, a parish Clark, a
parish Clarke ! On another occasion the same Duke said to him ^ By the
Masse, Moore, it is perillous strivinge with Princes ... for Gode's body,
Moore, Indignatio principis mors est *, p. xxxix. In the conversation in
prison, with his wife, quoted above, p. 364, we find that the good
gentlewoman ‘ after her accustomed fashion * gives vent to such exclama-
tions as ‘ What the goody ear e Moore ' : ‘ Tille mile, tille vallc ' ; ^
Bone deus, hone Deus man \ ‘ I muse what a Gods name you meane here
thus fondly to tarry*. At the trial of Sir Thomas More, the Lord
Chief Justice swears by St, Julian
‘ that was ever his oath p. li. ‘ Tilly folly, Sir John,
ne’er tell me and ‘ What the good year ! ' are both also said by Mrs.
Quickly in Henry IV, Pt. II, ii. 4. Marry, which means no more than ‘
indeed *, was a universally used expletive in the sixteenth century,
Roper uses it in speaking to More, Wolsey uses it, according to Cavendish
; it is frequent in Roister Doister, and is con- stantly in the mouths of
Sir John Falstaff and his merry companions. By sweete Sanct Anne, by
cocke, by gog, by cocks precious potsiick, kocks nownes, by the armes of
Caleys, and the more formidable by the passion of God Sir do not so, all
occur in Roister Doister, and further such exclama- tions as O Lords,
hoigh dagh !, I dare sweare, I shall so God me saue, I make God a vow
(also written avow), would Christ I had, &c. Meaning- less
imprecations like the Devil take me, a mischiefe take his token and him
and thee too are sprinkled about the dialogue of this play. The later
plays of the great period offer a mine of material of this kind, but only
a few can be mentioned here. What a Devil (instead of the Devil), what a
pox, hfr lady, bounds, d blood, Gods body, by the mass, a plague on thee,
are among the expressions in the First Part of Henry IV, In the
Second Part Mr. Justice Shallow swears by cock and pie. By the side of
these are mild formulas such as Tm a Jew else^ Tm a rogue if I drink
today. In Chapman’s comedies there is a rich sprinkling both of the
slighter forms of exclamatory phrases, as well as of the more serious
kind. Of the former we may note j/ faitk^ Ur lord^ Ur lady, by the Lord,
How the divell (instead of how a devil), all in A Humorous Day's Mirth ;
He he sworne, All Fooles; of the latter kind of expression Gods precious
soles., H. D. M. ; sjoot, shodie, God^s my life, Mons. D'Olive ; Gods my
passion, H. D. M. ; swounds, zwoundes, Gentleman Usher.
Massinger's New Way to pay old Debts has 'slight, 'sdeath, and a
fore- shadowing of the form of asseveration so common in the later
seventeenth century in the phrase ‘ If I know the mystery may I perish
ii. 2, It is to the dramatists of the later seventeenth and early
eighteenth century that the curious inquirer will go for expletives and
exclamatory expressions of the greatest variety. Otway, Congreve, and
Vanbrugh appear to excel all their predecessors and contemporaries in the
fertility of their invention in this respect. It is indeed probable that
while some of the sayings of Mr. Caper, my Lady Squeamish, my Lady
Plyant, my Lord Foppington, and others of their kidney, are the creations
of the writers who call these ' strange pleasant creatures ' into
existence, many others were actually current coin among the fops and fine
ladies of the period. Even if many phrases used by these characters are
artificial con- coctions of the dramatists they nevertheless are in
keeping with, and express the spirit and manners of the age. If Mr.
Galsworthy or Mr. Bernard Shaw were to invent corresponding slang at the
present day, it would be very different from that of the so-called Restoration
Dramatists. The bulk of the following selection of expletives and oaths
is taken from the plays of Otway, Congreve, Wycherley, Mrs. Aphra
Behn, Vanbrugh, and Farquhar. A few occur in Shadwell, and many
more are common to all writers of comedies. These are undoubtedly
genuine current expressions some of which survive. Among the
more racy and amusing are : Ld me
die : ‘ Let me die your Ladyship obliges me beyond expression* (Mr.
Saunter in Otway's Friendship in Fashion) ; ^ Let me die, you have a
great deal of wit' (Lady Froth, Congreve's Double Dealer); also much used
by Melantha, an affected lady in Dryden's Marriage \ la Mode. . .
1 Ld me perish ‘ I'm your humble servant let me perish ' (Brisk,
Double Dealer) ; also used by Wycherley, Love in a Wood.
^le (Vanbrugh's Relapse), Death and eternal iartures Sir, I
vow the packet's (= pocket) too high (Lord Foppington), Burn
me if I do (Farquhar, Way to win him). Mai me, ^ rat my packet
handkerchief (Lord Foppington). Never Never stir if it did not'
(Caper, Otway, Friendship in Love) ; * Thou shalt enjoy me always,
dear, dear friend, never stir '• BU take my death you're handsomer
' (Mrs. Millamont, Congreve, Way of the World)., Bm a
Person (Lady Wishfort, Way of the World). Stap my vitals (Lord Foppington
; very frequent). Split my wmdpipe Lord Foppington gives his
brother his blessing, on finding that the latter has married by a trick
the lady he had designed for himself 'You have married a woman beautiful
in her person, charming in her airs, prudent in her canduct, canstant in
her inclina- tions, and of a nice marality split my windpipe
As I hope to breathe (Lady Lurewell, Farquhar, Sir Harry Wildair),
Tm a Dog if do (Wittmore in Mrs. Behn’s Sir Patient Fancy).
By the Universe (Wycherley, Country Wife). I swear and
declare (Lady Plyant) ; / swear and vow (Sir Paul Plyant, Double Dealer)
; I do protest and vow (Sir Credulous Easy, Aphra Behn’s Sir Patient
Fancy) ; I protest I swoon at ceremony (Lady Fancyfull, Vanbrugh,
Provok'd Wife) ; 1 profess ingenuously a very discreet young man (Mrs,
Aphra Behn, Sir Patient Fancy). Gads my hfe (Lady Plyant).
O Crimine (Lady Plyant). O Jeminy (Wycherley, Mrs. Pinchwife,
Country Wife). Gad take me, between you and I, I was deaf on both
ears for three weeks after (Sir Humphrey, Shadwell, Bury Fair).
ril lay my Life he deserves your assistance (Mrs. Sullen, Farquhar,
Beaux' Strategem). By the Lord Harry (Sir Jos. Wittol, Congreve,
Old Bachelor). the universe (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country
Wife). Gadzooks (Heartfree, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; Gadt s Bud
(Sir Paul Plyant, Double Dealer) ; Gud soons (Lady Arabella, Vanbrugh,
Journey to London) ; Marry-gep (Widow Blackacre, Wycherley, Plain Dealer)
; ^sheart (Sir Wilful, Congreve, Way of the World) ; Eh Gud, eh Gud
(Mrs. Fantast, Shadwell, Bury Fair); Zoz I was a modest fool; ads^- zoz
(Sir Credulous Easy, Devonshire Knight, Aphra Behn, Sir Petulant Fancy);
'D's diggers Sir (a groom in Sir Petulant Fancy); ^sheart (Sir Wilf.
Witwoud, Congreve, Way of the World); odsheart (Sir Noble Clumsey, Otway,
Friendship in Fashion); Adsheart (fkx Jos, Wittol, Congreve, Old
Bachelor) ; Gadswouns (Oldfox, Plain Dealer). By the side of marry,
frequent in the sixteenth and seventeenth centuries, the curious
expression Marry come up my dirty cousin occurs in Swift's Polite
Conversations (said by the young lady), and again in Fielding's Tom Jones
said by the lady's maid Mrs. Honor. With this compare marry gep above,
which probably stands for ' go up Such expressions as Lard are
frequent in the seventeenth-century comedies, and the very
modern-sounding as sure as a gun is said by Sir Paul Plyant in the Double
Dealer. The comedies of Dryden contain but few of the more or less
mild, and fashionable, semi-bantering exclamatory expressions which
enliven the pages of many of his contemporaries ; he sticks on the whole
to the more permanent oaths 'sdeath, ^sblood, &c. It must be allowed
that the dialogue of Dry den's comedies is inferior to that of Otway or
Congreve in brilliancy and natural ease, and that it probably does not
reflect the familiar colloquial English of the period so faithfully as
the conversation in the works of these writers. Dryden himself says, in
the Defense of the Essay of Dramatic Poesy, ' I know I am not so fitted
by Nature to write Comedy : 1 want that Gaiety of Flumour which is
required to it. My Conversation is slow and dull, my Humour Saturnine and
reserv’d : In sliortj I am none of those who endeavour to break all Jests
in Com- pmy, or make Repartees It may be noted that the
frequent use almost in ever;^ sentence of such phrases as A/ me perish,
hum me, and other meaningless interjec- tions of this order, is
attributed by the dramatists only to the most frivolous fops and the most
affected women of fashion. The more serious characters, so far as such
exist in the later seventeenth-century comedies, aie addicted rather to
the weightier and more sober sort of swearing. It is perhaps unnecessary
to pursue this subject beyond the* first third of the eighteenth century.
Farquhar has many of the manner- isms of his slightly older
contemporaries, and some stronger expressions, e. g. ‘ There was a
neighbour's daughter I had a woundy kindness for Truman, in Twin Rivals ;
but Fielding in his numerous comedies has but few of the objurgatory
catchwords of the earlier generation. Swearing, both of the lighter kind
as well as of the deliberately profane variety, appears to have
diminished in intensity, apart from the stage country squire, suc h
as Squire Badger in Don Quixote, who says ^ShodUkins and ecod, and Squire
Western, whose artless profanity is notorious. Ladies in these plays, and
in Swift's Polite Conversations, still say lard, O Ltid, and la, and
mercy, ^shuhs, God bless my eyesight, but the rich variety of expression
which we find in Lady Squeamish and her friends has vanished. Some few of
the old mouth-filling oaths, such as zounds, ^sdeath, and so on, still linger
in Goldsmith and Sheridan, but the number of these available for a
gentleman was very limited by the end of the century. From the beginning
of the nineteenth century it would seem that nearly all the old oaths
died out in good society, as having come to be considered, from
unfamiliarity, either too profane or else too devoid of content to serve
any purpose. It seems to be the case that the serious oaths survive
longest, or at any rate die hardest, while each age produces its own
ephemersil formulas of mere light expletive and asseveration.
Hyperbole ; Compliments ; Approval ; Disapproval ; Abuse, Very
characteristic of a particular age is the language of hyperbole and
exaggeration as found in phrases expressive on the one hand of
compliments, pleasure, approval, amusement, and so on, and of disgust,
dislike, anger, and kindred emotions, on the other. Incidentally, the
study of the different modes of expressing such feelings as these leads
us also to observe the varying fashion in intensives, corresponding to
the present-day awfully, frightfully, and the rest, and in exaggeration
generally, especially in paying compliments. The following
illustrations are chiefly drawn from the seventeenth century, which offers
a considerable wealth of material. It is wonderful what a variety
of expressions have been in use, more or less transitorily, at different
periods, as intensives, meaning no more than i>iry, very much, &c.
Rarely in Chapman^s Gentleman Usher ^How
did you like me aunt? 0 rarely, rarely \ ^Oh lord, that, that is a
pleasure intolerahU \ Lady Squeamish in Otway’s Friendship in Love ; ‘Let
me die if that was not extravaganily pleasant vtry amusing), ibid. ; ^ I
vow he himself sings a tune extreme prettily \ ibid. : ‘ I love dancing
immoderately \ ibid. ; ‘ O dear ’tis violent hot \ ibid. ; ‘ Deuce take
me if your Ladyship has not the art of surprising the most naturally in
the world I hope you'll make me happy in communicating the Poem Brisk in
Congreve's Double Dealer ; ‘With the reserve of my Honour, I aSvSure you
Careless, I don't know anything in the World I would refuse to a Person
so meritorious You’ll pardon my want of expression', Lady Plyant in
Double Dealer; to which Careless replies ‘O your “Xadyship is abounding
in all Excellence^ particularly that of Phrase ; My Lady Froth is very
well in her Accomplishments But it is when my Lady Plyant is not thought
of if that can ever be ' ; Lady Plyant : ‘O you overcome me That is so excessive' ;
Brisk, asked to write notes to Lady Froth's Poems, cries ‘ With all my
Heart and Soul, and proud of the vast Honour let me perish ‘ I swear
Careless you are very alluring^ and say so many fine Things, and nothing
is so moving as a fine Thing. ., . Well, sure if I escape your
Importunities, I shall value myself as long as I live, I swear ; Lady
Plyant. The following bit of dialogue between Lady Froth and Mr. Brisk
illustrates the fashionable mode of bandying exaggerated, but i*ather
hollow compliments. ‘ Ldy P. Ah Gallantry to the last degree Brisk
was ever anything so well bred as My Lord ? Brisk Never anything but your
Ladyship let me perish. Ldy F, O prettily turned again ; let me die but
you have a great deal of Wit. Mellefont don^t you think Brisk has a World
of Wit ? MeUefont O yes Madam. Brisk O dear Madam Ldy F» An mfinite deal! Brisk, O Heaven
Madam. 'Ldy F. More Wit than Body. Brisk Pm everlastingly your humble
Servant^ deuce take me Madam. Lady Fancyful in Vanbrugh’s Provok'd
Wife contrives to pay herself a pretty compliment in lamenting the
ravages of her beauty and the con- sequent pretended annoyance to herself
‘ To confess the truth to you, Fm so everlastingly fatigued with the
addresses of unfortunate gentlemen that were it not for the extravagancy
of the example, I should e'en tear out these wicked eyes with my own
fingers, to make both myself and mankind easy Swift's Polite
Conversations consist of a wonderful string of slang words, phrases, and
clicMs^ all of which we may suppose to have been current in the
conversation of the more frivolous part of Society in the early
eighteenth century. The word pure is used for very ‘ this almond pudden
is pure good ’ ; also as an Adj., in the sense of excellent^ as in ‘ by
Dad he's pure Company \ Sir Noble Clumsey's summing-up of the 'Arch- Wag'
Malagene. To divert in the characteristic sense of ‘amuse', and instead
of this ‘ Well ladies and gentlemen, you are pleased to divert
yourselves'. Lady Wentworth speaks of
her ‘munckey' as ‘ full of devertin tricks and twenty years earlier Cary
Stewkley (Verney), taxed by her brother with a propensity for gambling,
writes ‘ whot dus becom a gentilwoman as plays only for divariion I hope
I know The idiomatic use of obliging is shown in the Polite
Conversations, by Lady Smart, who remarks, in answer to rather excessive
praise of her house ‘ My lord, your lordship is always very obliging ' ;
in the same sense Lady Squeamish says 'I sweai*e Mr. Malagene you are a
very obliging person \ Extreme amusement, and approval of the
persons who provoke it, are frequently expressed with considerable
exaggeration of phrase. Some instances are quoted above, but a few more
may be added^. ‘ A you mad slave you, you are a ticUing Acior\ says
Vincentio to Pogio in Chapman’s Gentleman Usher. Mr. Oldwit,
in Shadwelbs Bury Fair, professes great delight at the buffoonery of Sir
Humphrey : ‘ Forbear, pray forbear ; you'll be the death of me ; 1 shall
break a vein if I keep you company, you arch Wag you, . . . Well Sir
Humphrey Noddy, go thy ways, thou art the ar«hesT Wit and Wag. I must
forswear thy Company, thou'lt kill me elsei' The arch wag asks ' What is
the World worth without Wit and Waggery and Mirth ? and describing some
prank he had played before an admiring friend, remarks Mf you’d seen his
Lordship laugh! I thought my Lord would have killed himself. He desired
me at last to forbear ; he was not able to endure it! 'Why what a notable
Wag^s this" is said sarcastically in Mrs. Aphra Behn’s Sir Patient Fancy.
The passages quoted above, pp. 369-71, from Otway’s Friendship in
Love illustrate the modes of expressing an appreciation of ' Waggery
In the tract Reasons of Mr. Bays for changing his religion (1688),
Mr. Bays (Dryden) remarks a propos of something he intends to write ^you 'll half kill yourselves with laughing at
the conceit and again ' I protest Ml’ Crites you are enough to make
anybody split with laugh- ing', Similarly 'Miss’ in Polite Conversation
declares 'Well, I swear you'll make one die with laughing The
language of abuse, disparagement, contempt, and disapproval, whether real
or in the nature of banter, is equally characteristic. The
following is uttered with genuine anger, by Malagene Goodvile in Otway’s
Friendship in Love, to the njusicians who are entertaining the company '
Hold, hold, what insufferable rascals are these ? Why you scurvy
thrashing scraping mongrels, ye make a worse noise than crampt hedgehogs.
’Sdeath ye dogs, can’t you play more as a gentleman sings ? ’
The seventeenth-century beaux and fine ladies were adepts in the
art of backbiting, and of conveying in a few words a most unpleasant
picture of an absent friend 'O my Lady Toothless’ cries Mr. Brisk in
the Double Dealer, ' O she ’s a mortifying spectacle, she "s always
chewing the cud like an old Ewe ’ ; ' Fie M*^ Brisk, Eringos for her
cough ’ pro- tests Cynthia ; Lady Froth :
' Then that t’other great strapping Lady I can't hit of her name ;
the old fat fool that paints so exorbitantly ’ ; Brisk : ' I know whom
you mean But deuce take me I can't hit of her Name neither Paints d’ye
say ? Why she lays it on with a trowel’ Mr. Brisk knows well how to
'just hint a fault ' Don't you apprehend me My Lord? Careless is a very
honest fellow, but harkee ^you under- stand me somewhat heavy, a little
shallow or so Lady Froth has a picturesque vocabulary to express
disapproval '0 Filthy M** Sneer? he's a nauseous figure, a most fulsamic
Fop . Nauseous and filthy are favourite words in this period, but are
often used so as to convey little or no specific meaning, or in a tone of
rather affectionate banter. ^ He ’s one of those nauseous offerers at wit
Wycherley’s Country Wife ; ^ A man must endeavour to look wholesome ’
says Lord Foppington in Vanbrugh's Relapse, ‘lest he make so nauseous a
figure in the side box, the ladies should be compelled to turn their eyes
upon the Play ’ ; again the same nobleman remarks ‘ While I was but a
Knight I was a very nauseous fellow ’ ; and, speaking to his tailor I
shall never be reconciled to this nauseous packet A remarkable use of the
verb, to express a simple aversion, is found in Mrs. Millamont’s ^ I
nauseate walking ; 'tis a country divertion ' (Congreve, Way of the
World). In the Old Bachelor, Belinda, speaking of Belmour with whom
she is Th In^e, cries out, at the suggestion of such a possibility ‘ Filthy Fellow I ... Oh I love your
hideous fancy I Ha, ha, ha, love a Man 1 ' In the same play Lucy the maid
calls her lover, Setter, ‘ Beast, filthy toad ’ during an exchange of
civilities. ‘ Foh, you filthy toad I nay, now IVe done jesting ’ says
Mrs. Squeamish in the Country Wife, when Horner kisses her. ‘Out upon you
for a filthy creature' cries ‘Miss^ in the Polite Conversations, in reply
to the graceful banter of Neverout. Toad is a term of endearment
among these ladies ; ‘ I love to torment the confounded toad' says Lady
Fidget, speaking of Mr. Horner for whom she has a very pronounced
weakness. ‘ Get you gone you good- natur’d toad you ' is Lady Squeamish's
reply to the rather outre compli- ments of Sir Noble. Plague
(Vb.), plaguy^ plaguily are favourite expressions in Polite Con-
versations. Lord Sparkish complains to his host ‘ My Lord, this venison
is plaguily peppered ' ; ' 'Sbubs, Madam, I have burnt my hand with your
plaguy kettle ' says Neverout, and the Colonel observes, with
satisfaction, that ‘ her Ladyship was plaguily bamb'd ‘ Don't be so
teizing ; you plague a body so ! can't you keep your filthy hands to
yourself? ' is a playful rap administered by ‘ Miss ' to Neverout.
Strange is another word used very indefinitely but suggesting mild
disapproval ‘ I vow you'll make me hate you if you talk so strangely, but
let me die, I can't last longer ' says Lady Squeamish, implying a certain
degree of impropriety, which nevertheless makes her laugh ; again, she
says, ‘I'll vow and swear my cousin Sir Noble is a strange pleasant
creature We have an example above of exorbitantly in the sense of
‘out- rageously', and the adjective is also used in the same sense ^‘Most
exorbitant and amazing' is Lady Fantast’s comment, in Bury Fair, upon her
husband's outburst against her airs and graces. We may close this series
of illustrations, which might be extended almost indefinitely, with two
from the Verney Memoirs, which contain idiomatic uses that have long
since disappeared. Susan Verney, wishing to say that her sister's husband
is a bad-tempered disagreeble fellow, writes ‘poore peg has married a
very humersome cros boy as ever I see' (Mem.). Edmund Verney, Sir Ralph's
heir, having had a quarrel with a neigh* bouring squire concerning
boundaries and rights of way, describes him as ‘very malicious and
stomachfull' (Mem.). The phrase ‘as ever I see' is common in the Verney
letters, and also in the Wentworth Papers. Preciosity, &c.
We close this chapter with some examples of seventeenth-century
preciosity and euphemism. The most characteristic specimens of this kind
of affected speech are put by the writers into the mopths of female
characters, and of these we select Shadwell's Lady Fantast and her
daughter (Bury Fair), Otway's Lady Squeamish, Congreve's Lady Wishfort,
and Vanbrugh's Lady Fancyful in the Provok'd Wife. Some of the sayings of
a few minor characters may be added ; the waiting- maids of these
characters are nearly as elegant, and only less absurd than their
mistresses. Luce, Lady Fantast's woman, summons the latter's
stepdaughter as follows : ^ Madam, my Lady Madam Fantast, having attir'd
herself in her morning habiliments, is ambitious of the honour of your
Ladyship's Company to survey the Fair ' ; and she thus announces to her
mistress the coming of Mrs. Gertrude the stepdaughter : ‘ Madame, M^s Gatty ' will kiss your
Ladyship's hands here incontinently '. The ladies Fan- tast, highly
respectable as they are in conduct, are as arrant, pretentious, and
affected minxes as can be found, in manner and speech, given to
interlarding their conversation with sham French, and still more dubious
Latin. Says the daughter ‘To all that
which the World calls Wit and Breeding, I have always had a natural
Tendency, a penchen^ derived, as the learned say, ex traduce, from your
Ladyship : besides the great Prevalence of your Ladyship's most shining
Example has perpetually stimulated me, to the sacrificing all my
Endeavours towards the attaining of those inestimable Jewels ; than
which, nothing in the Universe can be so much a mon gre, as the French
say. And for Beauty, Madam, the stock I am enrich'd with, comes by
Emanation from your Ladyship, who has been long held a Paragon of
Perfection : most Charmanf, most Tuant! ‘Ah my dear Child' replies the
old lady, ‘II alas, alas 1 Time has been, and yet I am not quite gone .
When Gertrude her stepsister, an attractive and sensible girl, comes in
Mrs. Fantast greets her with ‘ Sweet Madam Gatty, I have some minutes
impatiently expected your Arrival, that I might do myself the Great
Honour to kiss your hands and enjoy the Favour of your Company into the
Fair ; which I see out of my Window, begins to fill apace.'
To this piece of afifectation Gatty replies very sensibly, ‘ I got ready
as soon as e'er I could, and am now come to wait on you ', but old
Lady Fantast takes her to task, with ‘ Oh, fie, Daughter ! will you never
attain to mine, and my dear Daughter's Examples, to a more polite way
of Expression, and a nicer form of Breeding ? Fie, fie ; I come to wait
on you! You should have said; I assure you Madam the Honour is all
on my side ; and I cannot be ambitious of a greater, than the sweet
Society of so excellent a Person. This is Breeding/ ‘Breeding!' exclaims
Gatty, ‘ Why this had been a Flam, a meer Flam And with this judgement,
we may leave My Lady Fantast. We pass next to Lady Squeamish, who
is rather ironically described by Goodvile as ‘the most exact Observer of
Decorums and Decency alive Her manner of greeting the ladies on entering,
along with her cousin Sir Noble Clumsey, if it has the polish, has also
the insincerity of her age' Dear Madam Goodvile, ten thousand Happinesses
wait on you ! Fair Madam Victoria, sweet charming Camilla, which way
shall I express my Service to you ? Cousin your honour, your honour to
the Ladies. Sir Noble : Ladies as low as
Knee can bend, or Head can bow, I salute you all : And Gallants, I am
your most humble, most obliged, and most devoted Servant/ The
character of this charming lady, as well as her taste in language, is
well exhibited in the following dialogue between her and Victoria.
Oh my dear Victoria ! the most unlock’d for Happiness ! the pleasantest
Wlc^ent ! the strangest Discovery ! the very thought of it were enough to
cure Melancholy. Valentine and Camilla, Camilla and Valentine, ha, ha,
ha, Viet, Dear Madam, what is ’t so transports you ?
Ldy Sqti, Nay ’tis too precious to be communicated : Hold me, hold
me, or I shall die with laughter
ha, ha, ha, Camilla and Valentine, Valentine and Camilla, ha, ha,
ha 0 dear, my Heart’s broke. Viet, Good Madam refrain your Mirth a
little, and let me know the Story, that I may have a share in it.
Ldy Squ, An Assignation, an Assignation tonight in the lower Garden ; by strong good Fortune I overheard it all just
now but to think of the pleasant
Consequences that will happen, drives me into an Excess of Joy beyond all
sufferance. Viet, Madame in all probability the pleasantest
Consequence is like to be theirs, if any body’s ; and I cannot guess how
it should touch your Ladyship in the least. Ldy Squ, O Lord,
how can you be so dull ? Why, at the very Hour and Place appointed will I
greet Valentine in Camilla’s stead, before she can be there herself ;
then when she comes, expose her Infamy to the World, till I have thorowly
revenged my self for all the base Injuries her Lover has done me.
Viet But Madam, can you endure to be so malicious ? Ldy Squ,
That, that ’s the dear Pleasure of the thing ; for I vow I’d sooner die
ten thousand Deaths, if I thought I should hazard the least Temptation to
the prejudice of my Honour. Viet, But why should your Ladyship run
into the mouth of Danger? Who knows what scurvy lurking Devil may stand
in readiness, and seize your Virtue before you are aware of him ?
Ldy Squ, Temptation? No, I’d have you know I scorn Temptation: I
durst trust myself in a Convent amongst a Kennel of cramm’d Friers:
Besides, that ungrateful ill-bred fellow Valentine is iny mortal
Aversion, more odious to me than foul weather on a May-day, or ill smell
in a Morning. ... No, were I inclined to entertain Addresses, I assure
you I need not want for Servants ; for I swear I am so perplexed with
Billet-Doux^ every day, I know not which way to turn myself: Besides
there’s no Fidelity, no Honour in Mankind. O dear Victoria I whatever you
do, never let Love come near your Heart : Tho really 1 think true Love is
the greatest Pleasure in the World.’ And so we let Lady
Squeamish go her ways for a brazen jilt, and an affected, humoursome
baggage. If any one wishes to know whither her ways led her, let him read
the play. Only one more example of foppish refinement of speech
from this play the remarks of the whimsical Mr. Caper to Sir Noble
Clumsey, who coming in drunk, takes him for a dandng-master ^ I thought you had known me’ says he,
rather ruefully, but adds, brightening 'I doubt you may be a little overtaken.
Faith, dear Heart, Fm glad to see you so merry I ’ The
character of Lady Wishfort in the Way of the World is perhaps one of the
best that Congreve has drawn; her conversation in spite of the deliberate
affectation ir^ phrase is vivid and racy, and for all its preciosity has
a naturalness which puts it among the triumphs of Con- greve’s art. He
contrives to bring out to the full the absurdity of the lady’s
mannerisms, in feeling and expression, to combine these with vigour and
ease of diction, and to give to the whole that polish of which he is the
unquestioned master in his own age and for long after. The position
of Lady Wishfort is that of an elderly lady of great ouii ward propriety
of conduct, and a steadfast observer of decorum, in sjl^ch no less than
in manners. Her equanimity is considerably upset by the news that an
elderly knight has fallen in love with her portrait, and wishes to press
his suit with the original. The pretended knight is really a valet in
disguise, and the whole intrigue has been planned, for reasons into which
we need not enter here, by a rascally nephew of Lady Wishfort’s. This,
however, is not discovered until the lover has had an interview with the
sighing fair. The first extract reveals the lady discussing the coming
visit with Foible her maid (who is in the plot). ‘ I shall never
recompose my Features to receive Sir Rowland with any Oeconomy of Face Fm
absolutely decayed. Look, F oible. Foible, Your Ladyship has
frown’d a little too rashly, indeed Madam. There are some Cracks
discernible in the white Varnish. Ldy W, Let me see the Glass
Cracks say’st thou ? Why I am arrantly flead (e. g. flayed) I look like
an old peel’d Wall. Thou must repair me Foible before Sir Rowland comes,
or I shall never keep up to my picture. F, I warrant you, Madam ; a
little Art once made your picture like you ; and now a little of the same
Art must make you like your Picture. Your Picture must sit for you,
Madam. Ldy W, But art thou sure Sir Rowland will not fail to come ?
Or will he not fail when he does come? Will he be importunate, Foible,
and push? For if he should not be importunate ... I shall never break
Decorums I shall die with Confusion ; if I am forc’d to advance O
no, I can never advance. ... I shall swoon if he should expect Advances.
No, I hope Sir Rowland is better bred than to j)ut a Lady to the
Necessity of breaking her Forms. I won’t be too coy neither. I won’t give
him Despair But a little Disdain is not amiss ; a little Scorn is
2X\mm%,--Foible.--h little Scorn becomes your Ladyship . Ldy IV. Yes, but Tendeimess becomes me
best A Sort of a Dyingness You see that Picture has a Sort of a Ha Foible
! A Swimmingness in the Eyes Yes, I’ll look so My Neice affects it but
she wants Features. Is Sir Rowland handsom ? Let my Toilet be remov’d
I’ll dress above. I’ll receive Sir Rowland here. Is he handsom ? Don’t
answer me. I won’t know : I’ll be surpris’d ; He’ll be taken by Sm-
prise. By Storm Madam. Sir Rowland’s a brisk Man. TV. Is he ! O then
he’ll importune, if he ’s a brisk Man. I shall save Decorums if Sir
Rowland importunes. I have a mortal Terror at the Apprehension of
offending against Decorums. O Pm glad he ’s a brisk Man. Let my things be
remov’d good Foible*’ The next passage reveals the lady ready
dressed, and expectant of Sir Rowlands arrival. ‘Well, and how do I look Foible! Z; Most
killing well, Madam. Ldy IV, Well, and how shall I receive him ? In what
Figure shall I give 39S colloquial IDIOM his
Heart the first Impression ? There is a great deal in the first
Impression, Shall I sit? No, I won’t sit I’ll walk ay I’ll walk from the
door upon his Entrance; and then turn full upon him No, that will be too
sudden. I’ll lie, ay Ell lie down I’ll receive him in my little
Dressing-Room. There *s a Couch Yes, yes, I’ll give the first Impression
on a Couch I won’t lie neither, but loll, and lean upon one Elbow; with
one Foot a little dangling off, jogging in ^ thoughtful Way Yes Yes
and then as soon as he appears, start, ay, start and be surpris’d,
and rise to meet him in a pretty Disorder Yes O, nothing is more alluring than a Levee from
a Couch in some Con- fusion It shews the Foot to Advantage, and furnishes
with Blushes and recomposing Airs beyond Comparison. Hark ! there ’s a
Coach.’ .^t it is when theure du Berger draws near, as she
supposes, that Lady Wishfort rises to the subiimest heights of expression
: ‘Well, Sir Rowland, you have the
Way, you are no Novice in the Labyrinth of Love— You have the Clue But as
I’m a Person, Sir Rowland, you must not attribute my yielding to any
sinister Appetite, or Indigestion of Widow- hood ; nor impute my
Complacency to any Lethar^ of Continence I hope you don’t think me prone
to any iteration of Nuptials If you do, I protest I must recede or think
that I have made a Prostitution of Decorums, but in the Vehemence of
Compassion, or to save the Life of a Person of so much Importance Or else
you wrong my Condescension If you think the least Scruple of Carnality
was an Ingredient, or that Here Foible enters and announces that
the Dancers are ready, and thus puts an end to the scene at its supreme
moment of beauty and absurdity. Even Congreve could not remain at that
level any longer. It is worth while to record that in this play, a
maid, well called Mincings announces ‘ Mem, I am come to acquaint your
Laship that Dinner is impatient The hostess invites her guests to go into
dinner with the phrase ‘ Gentlemen, will you walk ? ' This
chapter and book cannot better conclude than with a typical piece of
seventeenth-century formality. May it symbolize at once the author's
leave-taking of the reader and the eagerness of the latter to pursue the
subject for himself. The passage is from the Provok’d Wife : ‘ Lady FancyfuL Madam, your humble
servant, I must take my leave. Lady Brute. What, going already
madam ? Ldy F. I must beg you’ll excuse me this once ; for really 1
have eighteen visits this afternoon. . . . {Goin^ Nay, you shan’t go one
step out of the room. Ldy B. Indeed I’ll wait upon you
down. Ldy F. No, sweet Lady Brute, you know I swoon at
ceremony. Ldy B, Pray give me leave Ldy F. You know I won’t I^dy B.
You know I must. Ldy F. Indeed you shan’t Indeed I will Indeed you
shan’t Ldy B. Indeed I will. Ldy F. Indeed you shan’t. Indeed,
indeed, indeed, you shan’t’ [Exit running. They follow.\ Alberto
Caracciolo. Keywords: il colloquio, in cammino verso il linguaggio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Caracciolo” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Caramella:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’eroi di Vico – scuola
di Genova – filosofia genovese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Caritone
e Melanippo -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Genova). Filosofo
genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice:”I like
Caramella – like me, he is into the metaphysics of conversation! And he reminds
me that I should re-read Vico!” -- Grice:
“I like Caramella; he prefaced Fichte’s influential tract on ‘la filosofia
della massoneria’ – but also wrote on more orthodox subjects like Kant,
Cartesio, Bergson, and most of them!” – Grice: “Like me, he thought truth is
found in conversation!” Ancora al liceo, comincia a collaborare con Gobetti,
il quale gli affida la trattazione della filosofia su “Energie Nove”. Dopo un
primo contatto con PGobetti e La Rivoluzione liberale, su segnalazione di
questi, entra in collaborazione con Radice, da cui apprese le dottrine del
neo-idealismo di Croce e Gentile. Dopo la laurea, insegna a Genova. Per le sue
idee antifasciste fu arrestato e rinchiuso prima nelle carceri di Marassi a
Genova, e poi fu trasferito a San Vittore a Milano; fu scarcerato, ma venne
sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Ottenne, per intercessione di
Croce, l'incarico di filosofia a Messina. Vinse la cattedra a Catania. Prese
parte ai convegni organizzati dalla Scuola di mistica fascista Insegna a Palermo, ereditando la cattedra che
era stata di Gentile. Il suo allievo principale, che ne cura il lascito, è Armetta,
docente alla Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia. La sua vasta cultura, gli permise di vedere
la continuità della filosofia antica romana classica e e, nell'ambito della
filosofia italiana, l'unità delle opposte dialettiche nella legge vivente dello
spirito e nel dinamismo della natura e della storia. Apprezzato storico della
filosofia. La sua filosofia si può definire un neo-idealismo crociano e
gentiliano, ma reinterpretatto alla luce dello spiritualismo. La sua filosofia
supera lo storicismo e la dottrina crociana degli opposti e dei distinti, e si
esprime nell'interpretazione della pratica come eticità storica.. La religione
e la teosofia rappresentano la possibilità dello spirito attento da un lato
alla concretezza dell'uomo e dall'altro all'ineffabilità. Lo spirito, anziché
risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il
progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione dello
spirito ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferito una distinta
funzione teoretica. Altre opere: “Problemi
e sistemi della filosofia, Messina); “Religione, teosofia e filosofia”; “Logica
e Fisica” (Roma); “La filosofia di Plotino e il neoplatonismo” Catania);
Ideologia”; “Metafisica, filosofia dell'esperienza”; “Metalogica, filosofia
dell'esperienza” (Catania); “Autocritica, in: Filosofi italiani contemporanei,
M.F. Sciacca, Milano); “L'Enciclopedia di Hegel, Padova); “La filosofia dello
Stato nel Risorgimento, Napoli); “Introduzione a Kant, Palermo); “Conoscenza e
metafisica, Palermo); “La mia prospettiva etica, Palermo); “Carteggio con Croce.
Carteggio. La dialettica del vero e del certo nella "metafisica
vichiana" di C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di
Caramella, Palermo. Ontologia storico-dialettica di C..Lo spirito nella
filosofia di C..C.. La verità in dialogo. Carteggio con Radice.Dizionario
biografico degli italiani. Il linguaggio come auto-analisi. 2 C., La cultura
ligure nell’alto Medioevo, in II Comune di Genova, La recente Vita d
i Bruno, con documenti e inediti 1, in cui Vincenzo Spampanato lia potuto
finalmente sintetizzare oltre vent’anni di ricerche bruniane, mi suggerisce
l’opportunità di un breve eenno sul soggiorno del filosofo nella n o s tra
regione, così sulla base di quanto lo Spampanato ha messo novamente in luce
come su quella delle antiche notizie da lui rinfrescate. Cel resto l’unica
seria esposizione dei fatti che stiamo per narrare era, prima delle dotte
pagine dello Spampanato, nella biografia del Berti2: ma sommaria e imprecisa
per molti rispetti. Arrivò il Bruno in Genova poco prima della domenica delle
Palme, nell’anno in cui la festa cadeva il 15 aprile? Cont raria m en te al
parere del Berti, il quale sostiene non essere capace di prova che il filosofo
sia entrato nella nostra città, dobb iam o infatti tener presente una scena del
Candelaio dove tino dei protagonisti giura, entrando in scena, sulla benedetta coda dell’asino, che adorano i
Genoesi’3 », e il passo correlativo dello Spaccio d e lla B e stia trio n fa n
te, che dice proprio così: Ho visto io i
religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata
coda, dicendo: non toccate, baciate: questa è la santa reliquia di quella
benedetta asina che fu fatta degna di portar il nostro Dio dal monte Oliveto a
Jerosolina. Adoratela, baciatela, -porgete limosina: Centum accipietis, et vita
aeternam possidebitis». I religiosi di
Castello» sono, è evidente, i Domenicani di Santa Maria di Castello, dove
uffiziavano: e la preziosa reliquia doveva certo esser mostrata 1 Messina,
Principato, Vedi, per l’argomento di questa com unicazione, Torino, Paravia,
ed. Spampanato (Bari, Laterza), ed. Gentile (Dial. morali di G. B.), Quetifet
Echard, S c rip t. ord. praed., t. il, p. in. Società Ligure di Storia Patria -
al p opolo nella precisa circostanza della commemorazione del giorno in cui
Gesù discese trionfante su ll’asina a Gerusalemme 1. Il Bruno veniva da Roma,
um ile fu ggiasco. A v ev a avu to notizia che il processo istruttorio p
endente presso l’inquisizione, per i sospetti di erodossia avanzati contro di
lui, non annunziava buon esito: e così, deposto l’ abito, si diresse verso la
valle Padana. Più tardi raccontò egli stesso, ai giudici di V enezia, di essere
andato subito a N oli. Ma è prob abile c h e la peste, da cui quella plaga fu
proprio in quel torno di rem po violentemente aiflitta, lo abbia genericam ente
con sigliato a v o lgersi verto la Liguria, contrada m eno infetta, o non
ancora raggiunta dal contagio, e a fermarsi alm eno qualche giorno a Genova. Le
sarcastiche espressioni dello Spaccio ci fanno im m aginare agevolmente il
Bruno là sulla piazzetta della vetusta ch iesa romanica, pieno l’animo non già
di ammirazione estetica perla caratteristica facciata o per gli ornamenti
molteplici dell’ interno, eh’ è tutto un m usaico di con q uiste orientali, - e
tanto meno di interesse psicologico e religioso per la folla affluente ed
effluente dal tempio, - ma di cruccio e disdegno: lui da poco a ccostatosi alle
nuove idee dei riformatori oltremontani, lui per questo costretto a fuggire di
patria e dall’ am ato convento napoletano di San Domenico Maggiore, dove gli
allievi p endevano dalla sua parola, dottamente teologizzante. La peste arrivò
presto, anzi subito, anche a Genova; a Milano l’ ambasciatore veneto Ottaviano
di Mazi ne aveva già n o tizia tre giorni dapo il 15 aprile, il m ercoledì
santo 2. E allora il Bruno, com e ci attestano, questa volta, più veracem ente,
le sue note dichiarazioni ai giudici veneti, se ne andò a N oli. Forse il
ricordo dantesco, che per lui u m anista p oteva con tar qualche cosa, e la
simiglianza del nom e con quello della sua Nola; forse la persistente libertà
della piccola repubblica, e anche, chissà, qualche lettera di raccomandazione,
qualche c o n siglio di amico lo spinsero in quel tranquillo rifugio, l’
unico veramente tranquillo per lui nella storia delie sue lunghe
peregrinazioni. Andai a Noli, territorio
genoese, d ove m i intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la gram m atica
a’ putti ». Io 1 Per la storia d ella re
liqu ia v. Imbriani, Natanar II in Propu gnatore, Vili, M utin elli, Storia
arcana ed aneddotica d’Italia, Società Ligure di Storia Patria - biblioteca
digitale - stetti in Noli circa quattro o cinque mesi, insegnando la grammatica
a’ figliuoli e leggendo la Sfera o certi gentiluomini...1 ». Lo Spampanato, per
ragioni di coerenza con ulteriori dati biografici, pensa che il soggiorno sia
durato un po’ più di quattro mesi. Comunque, le occupazioni del Nolano a Noli
sono ben chiare: l’ esule cercava di trar qualche mezzo di vita con lezioncine
private. Ma anche leggeva la Sfera a
certi gentiluomini »: la Sfera, cioè il famoso trattato di Giovanni da
Sacroboseo, professore alla Sorbona e monaco domenicano quasi contemporaneo di
Dante: che si soleva considerare come perfetta e sintetica esposizione di una
teoria fisico-geometrica fondamentale per l’astronomia tolemaica, (la teoria delle
sfere celesti), e che Γ insinuarsi dell’ ipotesi copernicana aveva, nella
seconda metà del Cinquecento, rimesso in gran voga2. Persino a Noli era dunque
penetrato il novello interesse del secolo per i problemi astronomici; perfino a
Noli alcuni giovani signori sentivano il bisogn o di stipendiare un povero
erudito piovuto di lontano perchè spiegasse loro il sistema del mondo. E il
Bruno cominciava di quia occuparsi direttamente di quelle indagini che fur o n
o oggetto delle polemiche da lui sostenute in Inghilterra e che formano
l’argomento della Cena delle Ceneri. Non possiamo n atu ralm e n te sapere (a
meno che venissero fuori i quaderni di queste sue legioni liguri) s’ egli già a
Noli professasse la dottrina copernicana, servendosi della Sfera per criticare
il sistema tolem aico: o invece, come il Galilei ne’ suoi corsi allo Studio di
Padova, si limitasse all’illustrazione del classico libretto. Un sacerdote
napoletano, anzi padre Iazzarista, Raffaele de Martinis, che p otè consultare
gli atti del Santo Uffizio, asserisce nella sua biografia del Bruno che a
questi fu intentato in Vercelli un processo (che sarebbe il quarto dopo i primi
due di Napoli 1 Docc. veneti, vili, c. 8 r-v. (SPAMPANATO). Vedi A. Pellizzar i,
Il quadrivio nel Rinascimento (Genova, Perrella). Bruno (Napoli). Ma cfr.
Amabile, in Atti Acc. Scienze mor. e politiche di Napoli n.; espampanato (e
anche Tocco in Arch. fiir Gesch. der P h ilo s., Bonghi, ne La Cultura, Gentile,
Bruno e il pensiero del Rinascimento, [Firenze, Vallecchi Società Ligure di
Storia Patria - e il terzo di Roma) dalla Inquisizione dello Repubblica g e n o
vese»: ma dell’asserzione importantissima (secondo la quale si potrebbe proprio
pensare aver il Bruno palesato ancora una volta la sua eterodossia
nell’insegnamento di Noli) il De Martinis non dà, e confessa di non aver potuto
trovare, le prove. E la notizia non pare affatto fondata, posto che manca ogni
riferimento a questo processo genovese nei posteriori documenti processuali di
Venezia, e di Roma dove pur dovrebbe trovarsi, posto che a Vercelli non ci
consta che il Bruno facesse soggiorno (nè quindi l’inquisizione genovese
avrebbe avuto ragione alcuna di perseguirvelo).
Eppoi me partii de là [da Noli] ed andai prima a Savona, dove stetti
circa quindeci giorni; e da Savona a Turino, dove non trovando trattenimento a
mia satisfazione venni a Venezia per il Po1 ». Da Venezia, di lì a due mesi, a
Padova; da Padova a Brescia, Bergamo, Milano. Qui rivestì l’ abito, e poi per
Buffalora, Novara, Vercelli, Chivasso, Torino, Susa arrivò alla Novalesa, sotto
il Cenisio. Un giorno ancora e fu in Francia, oltre monti, lanciato per la gran
carraia della Sua fortuna. Troverà onori, trionfi accademici, soddisfazioni di
filosofo e di scrittore; ma la queta pace di Noli, mai più. C. 1 Docc. veti.,
c. La Logica di Porto Reale. Con Prefazione del Prof. Santino... Storia del
pensiero e del gusto letterario in Italia ad uso dei licei. La scuola di
mistica fascista e la discoperta del vero VICO L'azione combinata della
storiografia al bianchetto e della credulità strisciante fra le righe del
conformismo teologico, ha fatto sparire la notizia della sfida al neoidealismo,
che fu lanciata dalle avanguardie cattoliche inquadrate nella scuola milanese
di mistica fascista. In tal modo la memoria storica degli italiani è stata
privata della nozione necessaria a contrastare seriamente l'ideologia
totalitaria e ad avviare gli studi filosofici su un cammino di ricerca opposto
a quello tracciato dall'intossicante influsso del gramscismo. Un percorso,
quella anticipato dalla scuola di mistica fascista, che avrebbe messo capo ad
un'evoluzione del Novecento - un'autentica rivoluzione italiana - di segno
contrario al coatto e calamitoso trasferimento (narrato da Zangrandi) degli
intellettuali fascisti nel partito di Togliatti. L'accertata esistenza di una
forte opposizione cattolica alla filosofia di matrice hegeliana, comunque, fa
crollare i due pilastri della mistificazione comunista: la leggenda della complicità
cattolica con l'ideologia anticomunista prevalente in Germania - leggenda
sintetizzata dal calunnioso slogan Pio XII papa di Hitler» - e la
rappresentazione degli intellettuali italiani nella figura di un coacervo
nazifascista, redento in extremis dalla longanimità del partito
staliniano. La vicenda degli oppositori italiani all'idealismo rivela,
invece, l'autonomia, la straordinaria vitalità e l'attitudine del pensiero
cattolico ad entusiasmare ed orientare i giovani studiosi, che avevano aderito
al fascismo senza separarsi dalla radice religiosa della patria italiana.
Curiosamente, l'autorità del pensiero cattolico si rafforzò nella prima fase
della II guerra mondiale, quando la Germania nazionalsocialista sembrava
avviata a vincere la guerra. Dopo che il governo italiano ebbe sottoscritto
l'alleanza con la Germania, il dubbio si era, infatti, diffuso fra i giovani,
causando la divisione dell'area fascista in due opposte scuole di pensiero: una
corrente maggioritaria, intesa a metter fine al dominio della cultura tedesca e
perciò risoluta a percorrere la via d'uscita indicata dalla tradizione
cattolica, e una corrente minoritaria, rimasta fedele ai princìpi
dell'idealismo e perciò decisa a seguire le avanguardie germaniche sulla via
del fanatismo e dell'estremismo anticristiano. Espressione del fermento in atto
durante quegli anni cruciali è un magnifico saggio di Tripodi, interprete delle
novità introdotte nella scuola milanese di mistica fascista da Schuster e dal
fondatore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, il francescano Gemelli
(confronta Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo», Milani).
Tripodi, grazie ad una profonda conoscenza della filosofia italiana tentò un
audace confronto tra lo storicismo cristiano di VICO e la dottrina politica di MUSSOLINI. L'affinità
del fascismo e della scienza nuova, nell'acuta analisi di Tripodi, non è
causata dalle letture (Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla comune
tendenza a riconoscere che maestra non è la mente di questo o quell'uomo che
razionalmente pone un principio, ma la storia delle attività di tutti gli
uomini che si svolgono come debbono svolgersi perché provvidenzialmente si
compia la socialità che ad esse è intrinseca». La scelta di Tripodi cade su
Vico poiché fu perenne nel suo spirito la distinzione tra la sostanza divina e
quella delle creature, tra l'essenza o ragion di essere di Dio e quella delle
cose create, come fu perenne ed inequivocabile la inintelligibilità di Dio se
ricercata nel mondo bruto della natura anziché in quello della storia, nella
quale la Provvidenza si manifesta, chiamando gli uomini a collaboratori della
divinità». Pubblicato e presto rimosso dalla censura di sinistra e
dall'indifferenza di destra, il saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i
risultati delle ricerche iniziate da quegli studiosi cattolici (nel testo sono
citati Chiocchetti, Vecchio, Amerio, Gemelli, Olgiati, C., Orestano, Carlini e
Giuliano) che avevano sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla
filosofia tedesca, confutando le tesi di Croce e di Gentile su VICO precursore
dell'idealismo. Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per
quanto concerne l'ontologia, ha sempre creduto nella finitezza dell'umano,
riconoscendo che esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano
non può scrivere che una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di
sfondare quella parete, hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il
monismo soggettivista o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli
inequivocabili atteggiamenti dualistici di essa. Di qui il ribaltamento
della linea neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di VICO quale
orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli apparenti
successi della modernità: La stessa barriera che Vico oppone, in nome della
genuinità del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo
all'idealismo. Né GENTILE, né CROCE, anche se il primo ha la camicia nera e
cercò di darla al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina». Tripodi
indica in VICO l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo dominanti
nell'età moderna: Vico non può essere idealista perché la sua filosofia impugna
Cartesio e fa impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine, costruite
unicamente su di una realtà interiore». La filosofia vichiana, inoltre, è
apprezzata perché rivendica la responsabilità dell'azione umana nei fatti della
storia che altre indagini speculative avevano invece interpretato o come
involuti in una meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale definita
dal pensiero che l'aveva posta. La coscienza delle proprie virtù creatrici
della storia non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa prima di
esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori perché
affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e
rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina
provvidenza». L'invito a separare il destino dell'Italia fascista dalle
chimere del razionalismo e dalle suggestioni dell'attivismo prometeico e
dell'amor fati, non poteva essere formulato con maggiore chiarezza. Nelle
penetranti tesi formulate da Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema
della strategia culturale elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori
dell'avanguardia cattolica (Vecchio, Petruzzellis, Sciacca, Noce, Tejada,
Montano, Grisi, Torti) che nella filosofia di VICO vedranno lo strumento adatto
a contrastare e battere i poteri dell'astrazione hegeliana trasferita, intanto,
nella parodia inscenata dal gramscismo. La posta in gioco era la corretta
impostazione della dottrina del diritto naturale, in ultima analisi la
soluzione del problema riguardante il rapporto tra la giustizia ideale e le
cangianti leggi che i popoli producono nel corso della loro storia. Dagli
scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse una indicazione che gli permise di
risolvere il problema senza nulla concedere alle dottrine storicistiche
contemplanti un pensiero dell'assoluto che evolve nel tempo: esiste non una
separazione ma una diversa gradazione d'intensità etica tra giustizia e
diritto. La prima è un diritto naturale soprastorico, che è patrimonio
universale e depositario del sommo vero. Il secondo è dato dall'insieme delle
norme che il mondo delle nazioni partitamente elabora nel suo progressivo
avvicinamento alla giustizia». Di qui l'indicazione di due altri motivi del
consenso fascista alla scienza nuova: il fermo rifiuto delle astrazioni
suggerite dal contrattualismo e la confutazione delle teorie utilitaristiche,
che ritengono l'interesse materiale unica molla delle azioni umane. Nella
definizione del comune fondamento della teoria dello Stato, Tripodi sostiene,
pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di Mussolini la Provvidenza
fa prevalere la solidarietà sull'istinto egoistico: la provvidenza ha il suo
più alto attributo nel senso della socialità che perennemente richiama agli
uomini, facendo loro vincere il senso egoistico per cui vorrebbero tutto
l'utile per se e niuna parte per lo compagno». Tripodi conclude il suo
ragionamento affermando che l'unitario ordine di idee nel quale relativamente
alla concezione dello Stato si muovono la dottrina vichiana e quella fascista»
è dimostrato dalla condivisione del fine soprannaturale: l'uomo trova nello Stato
l'organizzazione storica che gli consente di realizzare quei principi morali
conferitigli dalla divinità e con ciò di assolvere alla sua stessa funzione
trascendente di uomo». E' evidente che l'identificazione della dottrina
fascista con la filosofia vichiana era, per Tripodi, un mezzo usato al fine
rafforzare la convinzione sulla necessità, imposta dai dubbi destati
dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere con la cultura prevalente
in Germania e di condurre all'approdo cattolico le vere ragioni dell'ideologia
fascista. E' però incontestabile che le tesi di Tripodi erano un ottimo
strumento per estinguere l'ipoteca che la filosofia tedesca aveva acceso sulla
cultura italiana. Non a caso, nel dopoguerra, Tripodi occupò un posto di prima
fila nel gruppo degli intellettuali dell'INSPE (Vecchio, Costamagna, Ottaviano,
Marzio, Teodorani, Volpe, Sottochiesa, Tricoli, Siena, Grammatico, Rasi)
l'istituto che progettava la trasformazione del MSI di Arturo Michelini in
avanguardia di una moderna e rigorosa destra cattolica. L'attenzione prestata
da Pio XII all'evoluzione del MSI in conformità alle tesi di Tripodi, aprivano
le porte del futuro alla destra. Il congresso del MSI, che doveva tenersi a
Genova, doveva, infatti, approvare in via definitiva la lungimirante linea
culturale e politica di Tripodi, mandando a vuoto i progetti dell'oligarchia
favorevole all'apertura a sinistra. Purtroppo la tollerata (dai democristiani)
violenza della piazza comunista impedì lo svolgimento di quel congresso,
respingendo il MSI nel sottosuolo dionisiaco del pensiero moderno e nelle
magiche grotte del tradizionalismo spurio. La lunga immersione nell'area
dell'indigenza filosofica impoverì a tal punto la cultura di destra che, quando
la discesa in campo di Berlusconi offrì un'altra occasione all'inserimento
nella politica di governo, la classe dirigente del MSI, ottusa dalla retorica
almirantiana ed espropriata dal pensiero neodestro, non seppe produrre altro
che le esangui e rachitiche tesi di Fiuggi. Nato a Genova da Eleucadio e
da Delfò, segui gli studi classici nella città natale. Ancora liceale, cominciò
a collaborare a Energie nuove di Gobetti, con il quale aveva preso contatto
epistolare, dicendosi lettore entusiasta del periodico e seguace della dottrina
filosofica crociana. Gobetti, ormai orientato verso interessi più
specificamente politici, affidò al giovane C. la trattazione sulla rivista dei
temi filosofici. Su segnalazione di GOBETTI (si veda), Radice comincia ad
accogliere i suoi scritti su L'Educazione nazionale. In linea con
l'orientamento pedagogico idealistico del Lombardo Radice, fin dall'inizio
degli anni Venti il C. prese le distanze dal positivismo pedagogico con un
contributo (Studi sul positivismo pedagogico, Firenze), nato proprio da un
suggerimento del pedagogista siciliano che glielo aveva proposto come tema di
studio. È qui osteggiato un pensiero ispirato agli schemi
dell'evoluzionismo deterministico e del positivismo scientifico; in particolare
e avversato il meccanicismo naturalistico biologicoevolutivo (Spencer e
Ardigò), cui viene opposta la concezione umanistica dell'educazione di un
Angiulli, di un Siciliani, di un Gabelli. Un'idea di fondo anima le critiche
del C.: è inutile ogni speculazione teoretica che non sappia apportare nuove
indicazioni pedagogiche per il miglioramento delle condizioni di vita umana,
sociale e pratica. Nello stesso orizzonte critico degli Studi si muovono
Le scuole di Lenin (Firenze), La pedagogia di Gioberti e la Guida bibliografica
della pedagogia, specialmente italiana e recente, che faceva seguito alla
Bibliografia ragionata della pedagogia (Milano) scritta in collaborazione con
Radice. Nutrito di idee democratiche, che gli facevano ritenere
inadeguato per l'obiettivo della costruzione di una "nuova Italia" il
vecchio quadro politico postunitario, il C. si impegnò politicamente
partecipando alla costituzione a Genova di un gruppo democratico di sinistra,
che aveva tra i leader Codignola. Collaborò sia all'Arduo, sia al quotidiano
socialriformista Il Lavoro. In particolare, tipico dei gruppo di
pedagogisti che, in certo qual modo, si ponevano nell'ambito del pensiero
gentiliano (verso cui anche il C. veniva avvicinandosi sulla scia del Lombardo
Radice, sia pure su posizioni autonome), è il tema dell'educazione come
strumento di realizzazione di una coscienza democratico-nazionale. Da qui,
anche per l'influsso delle idee gobettiane, l'attenta considerazione di quanto
veniva fatto in quel campo in Unione Sovietica, all'indomani della rivoluzione
bolscevica. In Le scuole di Lenin l'ammirazione con cui il C. guardava al piano
scolastico educativo diretto da Lunačarskij era determinata in concreto dalla
considerazione che si trattava di una rivoluzione culturale unica nella storia
dell'umanitàl tesa all'elevazione delle classi inferiori per farle partecipare
alla guida della società; la critica più forte, propria della formazione
laico-democratica del C., stava nella denuncia del carattere dogmatico delle
idee del Lunačarskij, quando questi sosteneva che la sua scuola del lavoro non
era disgiungibile dal sistema sociale comunista e dal controllo politico del
partito. Conseguita la laurea in filosofia, ottenne presso l'università di
Genova la libera docenza in storia della filosofia e vinse il concorso per le
grandi sedi per la cattedra di filosofia, pedagogia ed economia negli istituti
magistrali, ottenendo come sede Genova. Frattanto la collaborazione con
Gobetti, che più che un sodalizio intellettuale aveva costituito un formativo
comune impegno politico-sociale all'insegna del programma di democrazia
liberale, lo portò in breve tempo allo scontro con il fascismo ormai
trionfante. è la diffida dei prefetto di
Torino contro la Rivoluzione liberale (alla quale il C. collabora) e i suoi redattori.
La conferma di questo impegno politico e intellettuale, il C. la offrì
ulteriormente curando la pubblicazione postuma di Risorgimento senza eroi
(Torino) del Gobetti e continuando a far uscire IlBaretti, pur orientando la
rivista sempre più verso temi letterari e filosofici onde evitare scontri
ancora più aspri con il regime. Nel 1926, grazie al Croce, che ormai era
divenuto per lui - come per tanti altri antifascisti - "maestro di
libertà", assunse la direzione della collana "Scrittori
d'Italia" edita da Laterza. Nel maggio di quell'anno fu costretto a
rinunciare alla collaborazione all'Enciclopedia Italiana, a cui era stato
invitato dal Gentile, per gli atttacchi mossigli dalla stampa di regime.
Il dissenso dalla politica del fascismo ne provoco l'arresto; rinchiuso prima
nelle carceri. di Marassi a Genova e quindi trasferito a S. Vittore a Milano,
fu scarcerato. Venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Le
accuse - come si legge in una lettera al Croce (in Il Dialogo) - erano tra
l'altro di aver collaborato "al giornale socialistoide-democratico Il
Lavoro" di Genova e di aver avuto rapporti con l'associazione antifascista
Giovane Italia, insomma di essere "in una condizione di incompatibilità
con le direttive generali del governo". Scagionato anche grazie
all'intervento del Croce, il C. fu riammesso all'insegnamento e la libera
docenza gli fu restituita con d. m. Venne però destinato all'istituto
magistrale di Messina, dove prese servizio. Dall'ottobre di quell'anno
ottenne l'incarico di filosofia e storia della filosofia e di pedagogia presso
il magistero dell'università di Messina. Mantenne questi incarichi finché vincitore
di più concorsi, fu chiamato a coprire la cattedra di pedagogia nell'università
di Catania. Passa alla cattedra di filosofia teoretica, conseguendo l'ordinariato.
Furono questi anni di studio intenso. Pur nel crocianesimo di base, si
intravvede in Religione, teosofia, filosofia (Messina) e in Senso comune.
Teoria e pratica (Bari) lo sforzo di plasmare un proprio e originale impianto
teoretico. In dialogo con i principali pensatori dell'idealismo tedesco e
italiano, il C. si misura particolarmente con la crociana logica dei distinti.
L'indagine si muove sul terreno dell'attività teoretico-pratica dello Spirito.
Particolarmente Religione, teosofia, filosofia rappresenta questo tentativo
compiuto dal C. per una revisione del sistema idealistico: vi è fatta emergere
l'esigenza di un pensiero spirituale più attento da una parte alla concretezza
dell'uomo e dall'altra alla ineffabilità di Dio. Perseguendo tale assunto,
nella ricerca di un ordine della verità oltre la logica e la nozione di storia
del Croce, il C. ripercorre in Senso comune le tappe storiche del pensiero
occidentale, ricostruendo la genesi della dualità dello Spirito nella filosofia
greca e poi seguendola nel suo sviluppo e nel suo problematicizzarsi nel
pensiero moderno. La concezione della filosofia come educazione e storia, la
stretta connessione tra la filosofia e la sua storia pongono il C. medianamente
tra Croce e Gentile, e tuttavia nel senso di una sicura indipendenza dal loro
pensiero. La sua posizione teoretica può essere così schematizzata: la teoresi
è fondamentalmente caratterizzata dalla dialettica dei distinti, mentre la
prassi genera lo scontro tra gli opposti; la sintesi dei distinti non è un
tertium quid da essi distinto, ma consiste nella loro stessa inscindibile
relazione. La loro circolarità consente, come riaffermerà in Ideologia
(Catania), di guardare alla pratica come alla realizzazione della teoria, così
che si può parlare e di un finalismo teoretico della pratica e di un finalismo
pratico della teoria. All'approfondimento critico dei neoidealismo
italiano, il C. affianca l'approfondimento del rapporto tra ricerca filosofica
e fede religiosa. Egli mantiene costante il dialogo tra filosofia, scienza e
fede nelle trattazioni della piena maturità: Ideologia (Catania), Metalogica:
filosofia dell'esperienza, Metafisica vichiana (Palermo), in cui è auspicata la
possibilità della sopravvivenza del problema metafisico nell'orizzonte di una
metafisica rinnovata, Conoscenza e metafisica. In quest'ultima opera è
affrontato il rapporto verità-conoscere, con l'intento di delimitare i confini
del sapere scientifico e di affermare razionalmente la capacità di intelligere
la realtà della rivelazione. Qui la religione, anziché risolversi nella
filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il progresso della
filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione della religione ad
atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferita una distinta funzione
teoretica. La piena adesione del C. allo spiritualismo cristiano, dunque, fa si
che sia elusa la riduzione della filosofia a metodologia, senza dover
rinunciare alla fondamentale esigenza di criticità, e che l'interesse si
concentri su quelle istanze spiritualistiche, invero in lui presenti dagli anni
giovanili sia come atteggiamento di vita - lo si evince dalle Lettere dal
carcere - sia come ricerca originale di pensiero. In tal senso, l'adesione allo
spiritualismo cristiano va dunque letta più nella prospettiva della continuità,
dinamica e perciò trasformantesi e trasformante, che in quella della
svolta. Durante la sua lunga e proficua attività accademica, il C.
ricoprì numerose cariche, tra cui quella di preside della facoltà di lettere e
filosofia dell'università di Catania; fu presidente di sezione del British
Council di Catania e presidente di sezione della Società filosofica italiana a
Catania e a Palermo; fu anche presidente di sezione dell'Associazione
pedagogica italiana. A Palermo si era stabilito definitivamente allorché venne
chiamato prima alla cattedra di pedagogia e poi a quella di filosofia teoretica
presso la facoltà di lettere e filosofia. Il C. morì a Palermo. Opere:
Per un elenco completo si rinvia a Bibliografia degli scritti di C., a cura di
T. Caramella, in Miscellanea di studi filosofici in memoria di C. (Atti
dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo), Palermo. Oltre alle opere
citate ci limitiamo a ricordare qui: Bergson, Milano; Antologia vichiana,
Messina, Breve storia della pedagogia, La filosofia di Plotino e il
neoplatonismo, Catania; Autocritica, in Filosofi italiani contemporanei, a cura
di Sciacca, Milano L'Enciclopedia di Hegel, Padova; La filosofia dello Stato
nel Risorgimento, Napoli; Introduzione a Kant, Palermo La pedagogia tedesca in
Italia, Roma; Pedagogia. Saggio di voci nuove, Fonti e Bibl.: Roma, Arch.
centrale dello Stato, Casellario politico centrale, Per l'epistolario del C.
contributi in: Lettere dal carcere di C., in Giornale di metafisica, Carteggio
con Croce e Gobetti, in Il Dialogo, Carteggio Radice-C., a cura di T.
Caramella, Genova. Vedi inoltre: M.F. Sciacca, Profilo di C., in Annali della
facoltà di magistero della università di Palermo, Di Vona, Religione e filosofia nel pensiero
giovanile di C., Conigliaro, Verità e dialogo nel pensiero di C., in Il
Dialogo, Guzzo, C., in Filosofia, Sciacca, Il pensiero di C., in Atti
dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo, Sofia, Il dialogo di S. C.
con gli uomini d'oggi, in Labor, Cafaro, Commemoraz. di C., in Nuova Riv.
pedagogica, Piovani, La dialettica del vero e del certo nella "metafisica
vichiana" di C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di C.,
Palermo Ganci, C., Raschini, Commemoraz. del prof. S. C., in Giornale di
metafisica, Brancato, C.: senso fine e significato della storia, Trapani; V.
Mathieu, Filosofia contemporanea, Firenze; P. Prini, La ontologia
storico-dialettica di C., in Theorein, Pareyson, Inizi e caratteri del pensiero
di C., in Giornale di metafisica, Corselli, La vita dello spirito nella
filosofia di C., in Labor, Raschini, Storiografia e metafisica nella
interpretazione vichiana di C., in Filosofia oggi; M. Corselli, La figura di
C., in Labor, Sciacca, C. filosofo, pedagogista, educatore, in Pegaso. Annali
della facoltà di magistero della università di Palermo. δικά, ώς φησιν
Ηρακλείδης ο Ποντικός εν τω περί
Ερωτικών. ούτοι Φανέντες επιβουλεύοντες Φαλάριδί, Chariton& Melanippus και
βασανιζόμενοι αναγκαζόμενοί τε λέγειν τους συν- confpirant ειδότας,ουμόνονουκατείπον, αλλά καιτονΦάλα-
adν.Ρhala ριν αυτόν είς έλεον ' των βασάνων ήγαγον, ως α π ο λύσαι αυτουςπολλά
επαινέσαντα. διοκαιοΑπόλ. λων, ησθείς επί τούτοις, αναβολην του θανάτου το
Φαλάριδίέχαρίσατο, τούτο έμφήνας τουςπυν θανομέ νουςτης Πυθία ςόπωςαυτόεπιθώνται
έχρησέτεκαι cπερί των αμφί τον Χαρίτωνα, προτάξας του εξαμέ τρου το
πεντάμετρον, καθάπερ ύστερον και Διονύσιος 'Αθηναίος εποίησεν, ο επικληθεις
Χαλκους, εν τοις Έλεγείοις. έστιδεοχρησμόςόδε ετε -- Ευδαίμων Χαρίτων και
Μελάνιππος έφυ, θείαςαγητηρες έφαμερίοις φιλότατος. 1 Perperamέλαιονms. Εp. et moxα
πολαύσαι1ns. A.proαπολύσαι. α> 737 Σ 2 Alibi άγητήρες. 2 amasius, ut ait
Heraclides Ponticus in libro de Amatoriis. Hi igitur deprehensi insidias
ftruxisse Phalaridi et tormentis subiecti quo coniuratos denunciare coge
rentur, non modo non denunciarunt, fed etiam Phala rin ipsum ad misericordiam
tormentorum commoverunt, ut plurimum collaudatos dimitteret. Quare etiam
Apollo, delectatusfacto, moram mortisindullit Phalaridi, hoc ipsum declarans
his qui ipsum de ratione, qua tyran num adgrederentur, consuluerunt: atque et iamde
Charitone et Melanippo oraculum edidit, in quo pentame ter praepofitus
hexametro erat; quemadmodum etiam poftea Dionysius Athenienfis, isqui Aeneuseft
cognomi natus, in Elegiis fecit. Erat autem oraculum
hocce Felix et Chariton et Melanippus erat, mortalium genti auctores coeleftis
amoris. Santino
Caramella. Keywords: il culto dell’eroe, gl’eroi, il culto degl’eroi, Niso ed
Eurialo, Nicodemo, gl’eroi di Vico, “la verita in dialogo”, soggetto,
intersoggetivita, lo spirito oggetivo, spiriti intersoggetivi, Apollo su
Nicodemo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramella” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Caramello:
la ragione conversazionale e l’implictatura conversazionale dell’interpretare –
scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Torino). Filosofo
torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I
love Caramello – he exemplifies all that I say about latitudinal and
longitudinal unities of philosophy – Aquinas is a ‘great,’ and Caramello has
dedicated his life to him!” Studia al prestigioso
liceo classico Gioberti di Torino, entra in seminario e riceve l'ordinazione
presbiteriale con una speciale dispensa papale dovuta alla giovane età a cui aveva
completato gli studi. Si laurea a Torino. Insegna a Torino, e Chieri. Studia e
cura Aquino. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo
sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia
praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum
principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de
partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire
quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et
idem significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex
quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae
definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia
cognoscuntur. Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de
simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo
determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse
consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices
intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum.
Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis; et sic
determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et
verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine
tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod
constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis
constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione
terminorum in libro priorum. Potest iterum dubitari quare, praetermissis
aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum
est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas
illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio
constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non
autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his
duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales
orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quæ, etsi non
nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur:
sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine
convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis,
significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et
alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.
His igitur præmissis quasi principiis, subiungit de his, quæ pertinent ad
principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quæ
sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum
(alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam
esse), sed partes subiectivæ, idest species. Quod quidem nunc supponatur,
posterius autem manifestabitur. Sed potest dubitari: cum enunciatio
dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem,
sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio
ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum
differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica
enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in
demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat
aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis
demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis
enunciationis. Et ideo Aristoteles prætermisit tractatum de hypotheticis enu
nciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quæ est genus
negationis et affirmationis; et oratio, quæ est genus enunciationis. Si
quis ulterius quærat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est
quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis
philosophiæ, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione
animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad
constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium.
Videtur autem ordo enunciationis esse præposterus: nam affirmatio naturaliter
est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per
consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus
inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quæ
divisionem continet, eadem ratione præponit affirmationi, quæ consistit in
compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis
accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod præmittitur negatio,
quia in iis quæ possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat
negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex
æquo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum præponatur.
Præmisso prooemio, philosophus accedit ad propositum
exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces
significativæ complexæ vel incomplexæ, ideo præmittit tractatum de
significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de quibus
in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit
significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum
complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa
primum duo facit: primo quidem, præmittit ordinem significationis vocum;
secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex
impositione; ibi: et quemadmodum nec litteræ et cetera. Est ergo
considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur
quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animæ passiones, ex
quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et
sic passiones animæ originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset
naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animæ passiones, quibus ipsis
rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis
innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces
significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi,
qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si
homo uteretur sola cognitione sensitiva, quæ respicit solum ad hic et nunc,
sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et cæteris
animalibus, quæ per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant:
sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quæ abstrahit ab hic et
nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de præsentibus secundum locum et
tempus, sed etiam de his quæ distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his
qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturæ.
Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum,
quæ est immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem
considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota,
non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici.
Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus:
quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quæ sunt in voce,
notæ, idest, signa earum passionum quæ sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi
ex præmissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et
verbo et aliis prædictis; hæc autem sunt voces significativæ; ergo oportet
vocum significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat,
ea quæ sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum prædictis.
Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Hæc autem
tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio
modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit
ergo, ea quæ sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia
consequentia, quæ tantum sunt in voce, sunt notæ. Vel, quia non omnes voces
sunt significativæ, et earum quædam sunt significativæ naturaliter, quæ longe
sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet suum
dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quæ sunt in voce, idest quæ
continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam
naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quæ advenit
rei naturali sicut materiæ, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina et
verba et alia consequentia dicit, ea quæ sunt in voce, ac si de lecto
diceretur, ea quæ sunt in ligno. Circa id autem quod dicit, earum quæ sunt in
anima passionum, considerandum est quod passiones animæ communiter dici solent
appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut
dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod
huiusmodi passiones significant naturaliter quædam voces hominum, ut gemitus
infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicæ. Sed nunc sermo est
de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones
animæ hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et
orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim
potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi
apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a
singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem
singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis
separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter
secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit
Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et
eis mediantibus res. Sed quia non est consuetum quod conceptiones
intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum
non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animæ
vocat omnes animæ operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici
potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est
sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat
passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem,
etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in
III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia
ex aliqua animæ passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem
conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum
refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum
cuiusdam impressionis vel passionis. Secundo, cum dicit: et ea quæ
scribuntur etc., agit de significatione Scripturæ: et secundum Alexandrum hoc
inducit ad manifestandum præcedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit
sensus: ita ea quæ sunt in voce sunt signa passionum animæ, sicut et litteræ
sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et
quemadmodum nec litteræ etc.; inducens hoc quasi signum præcedentis. Quod enim
litteræ significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversæ voces
apud diversos, ita et diversæ litteræ. Et secundum hanc expositionem, ideo non
dixit, et litteræ eorum quæ sunt in voce, sed ea quæ scribuntur: quia dicuntur
litteræ etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod
sunt in Scriptura, dicantur litteræ; secundum autem quod sunt in prolatione,
dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quæ
scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut
Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem
significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quæ sunt in voce,
sunt signa eorum quæ sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quæ
scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quæ sunt in voce. Deinde cum
dicit: et quemadmodum nec litteræ etc., ostendit differentiam præmissorum
significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum
naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam
signum, quo manifestatur quod nec voces nec litteræ naturaliter significant. Ea
enim, quæ naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem
litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc
quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum
ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per
artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit,
utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine
litterarum, quæ sicut non sunt eædem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste
relinquitur quod sicut nec litteræ, ita nec voces naturaliter significant, sed
ex institutione humana. Voces autem illæ, quæ naturaliter significant, sicut
gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud omnes. Secundo,
ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animæ naturaliter esse, sicut et
res, per hoc quod eædem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem; idest sicut
passiones animæ sunt eædem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum
primarum, hæ, scilicet voces, sunt notæ, idest signa; comparantur enim
passiones animæ ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non proferuntur,
nisi ad exprimendum interiores animæ passiones), et res etiam eædem, scilicet
sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hæ, scilicet passiones animæ sunt
similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa
vocum, et voces passionum animæ similiter; passiones autem animæ dicit esse
similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per
aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litteræ
autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua
ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut et in multis aliis
signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem animæ oportet attendi
rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non
ex institutione. Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc
quod dicit passiones animæ, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo
quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur
esse eædem apud omnes animæ passiones. Ad quod respondet Boethius quod
Aristoteles hic nominat passiones animæ conceptiones intellectus, qui numquam
decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si
quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest
esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod
cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima;
referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant
voces incomplexæ), quæ sunt eædem apud omnes: quia, si quis vere intelligit
quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat, non
intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt,
quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicæ quod ratio, quam
significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum hæ
notæ sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo
significatas. Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus æquivocis, in
quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quæ significatur apud omnes. Et
respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam
intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui
loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod
referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis
non est asserere identitatem conceptionis animæ per comparationem ad vocem, ut
scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversæ apud diversos;
sed intendit asserere identitatem conceptionum animæ per comparationem ad res,
quas similiter dicit esse easdem. Tertio, ibi: de his itaque etc.,
excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animæ
passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima.
Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam
philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum
significatione: quarum quædam significant verum vel falsum, quædam non. Et circa
hoc duo facit: primo, præmittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi:
circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus præambulæ
sunt ordine naturæ vocibus, quæ ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex
similitudine differentiæ, quæ est circa intellectum, assignat differentiam, quæ
est circa significationes vocum: ut scilicet hæc manifestatio non solum sit ex
simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus. Est ergo
considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio
intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et
falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit
quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem
ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativæ formantur ad
exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur
signato, necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quædam
significent sine vero et falso, quædam autem cum vero et falso. Deinde
cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum
ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de
assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera.
Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso,
quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est
circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum
operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet
intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per
seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero
operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul
componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest
componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in
prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima. Sed circa
hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad
indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas
vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones
intellectus sint similitudines rerum, ea quæ circa intellectum sunt dupliciter
considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum
rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se
quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis
nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quæ sunt circa intellectum
secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quæ nunquam
invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem
conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio,
quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum
conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum,
quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum
alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus
affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei
significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum
separationem. Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et
divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel
falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam
simplex conceptio intellectus, quæ est similitudo rei, non careat veritate et
falsitate. Præterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in
sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla
est compositio, ut probatur in XII metaphysicæ; et tamen ibi est prima et summa
veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem. Ad
huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur
dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente
vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam
in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum,
non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet.
Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde
de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum.
Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea
quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res
comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad
mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum
humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei,
falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse
vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui
naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum
hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria
cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquæ veræ vel falsæ per
comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed
effective, in quantum scilicet natæ sunt facere de se veram vel falsam
existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem
modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in
intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse
verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a
ratione artis. Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum
divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quælibet res dicatur
esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem
divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum
convertuntur, quia quælibet res naturalis per suam formam arti divinæ
conformatur. Unde philosophus in I physicæ, formam nominat quoddam
divinum. Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram,
ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde
sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti.
Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit
verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque
compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est
autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen
cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis
suæ ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi
habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest
cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicæ quod veritas
est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem
prædictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in
re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non
cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a
re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quæ significat verum intellectum,
falsa autem quæ significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quædam, dicatur vera sicut et aliæ res. Unde hæc vox, homo est asinus, est vere
vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.
Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod
pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus
componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque
compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit
materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit
compositionem et divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur
ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex præmissis quod, cum solum circa
compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens
est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui
est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil
aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur
esse vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est instantia de eo, qui per
unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quærenti:
quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod
fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non
significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primæ et secundæ personæ, et de verbo exceptæ
actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est
implicita compositio, licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem
etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur
ex hirco et cervus et quod in Græco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus,
et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam
conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel
falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quæ exprimitur iudicium
intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum præsens tempus,
quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel
secundum tempus præteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed
secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem
utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo
statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit
verum vel falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine
significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus
significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quæ est
subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet prænoscere principia
subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa
enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo
facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis,
scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale,
scilicet orationem, quæ est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine,
quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat
actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod
consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen;
secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.;
tertio, excludit quædam, quæ perfecte rationem nominis non habent, ibi: non
homo vero non est nomen. Circa primum considerandum est quod definitio
ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil
rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid
aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat. Et ideo
quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per
quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus
ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur
autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque
vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris,
sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex præmissis
concludit quod nomen est vox significativa. Sed cum vox sit quædam res
naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum,
videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quæ est ex natura, sed
magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale;
sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas
ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas. Sed
dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiæ ex parte materiæ,
in genere autem accidentium ex parte formæ: nam formæ artificialium accidentia
sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum
autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est
quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione
ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi
differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina
accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel
subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum
est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas
accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in
eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella
est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus
autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas
formas artificiales in abstracto. Tertio, ponit secundam differentiam cum
dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito
hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus
naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.
Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt
nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus
significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari.
Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quædam, et sic potest
significari a nomine, sicut quælibet alia res. Alio modo, potest considerari
id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et
principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio,
ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore.
Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et
pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum
secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo
verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen.
Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod
significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. Quinto,
ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa
separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis
secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma
nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab
homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione,
cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. Deinde cum
dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat præmissam definitionem. Et primo,
quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero
placitum et cetera. Nam primæ duæ particulæ manifestæ
sunt ex præmissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur
in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo,
manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc
differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum
et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat,
per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est
equiferus, hæc pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac
oratione, quæ est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad
significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur
nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis
imponitur a læsione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad
significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi,
quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem
conceptionis compositæ, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio
significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem
conceptionis compositæ. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit
quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod
non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in
simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque
secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet
significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine
equiferus. Hæc autem ratio differentiæ est, quia nomen simplex sicut imponitur
ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab
aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita
conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. Deinde
cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem prædictæ
definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum
placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter,
sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando
imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed
naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut
ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos
quam voces, quia quædam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed
tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem
horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non
significat naturaliter. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa
quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter
significant: nec differt quæ res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt
quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales
similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter
significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut
Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod
eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una
res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multæ
similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa
diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est
nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam
nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis
sonus est nomen, ut dictum est. Deinde cum dicit: non homo vero etc.,
excludit quædam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus
nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non
homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut
homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut
Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque
determinatam personam significat. Imponitur enim a
negatione hominis, quæ æqualiter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo
potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si
dicamus, Chimæra est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum
dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret
subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de
ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per
modum nominis, quod potest subiici et prædicari, requiritur ad minus suppositum
in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo
huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non
significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem
non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit
negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit
huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem
significationis, ut dictum est. Deinde cum dicit: Catonis autem vel
Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia
huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen,
per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem
obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis
originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem
dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod
cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo
quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui
cadens ligno infigitur. Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit
consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio,
quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in
hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit
semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter
autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quædam alia verba,
scilicet impersonalia, quæ cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum
dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum;
ac si diceretur, poenitentia habet Socratem. Sed contra: si nomen
infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est præmissa nominis
definitio, quæ istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra
communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat
subtrahendo hæc a nomine. Vel dicendum quod præmissa definitio non simpliciter
convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus
nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est.
Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa
hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quædam a ratione
verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit
convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et
cetera. Circa
primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi:
dico autem quoniam consignificat et cetera. Est autem considerandum quod
Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quæ sunt
nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quæ dixerat
in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi:
quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod
consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen
significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur
verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra
significat. Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur
hoc debuisse prætermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad
placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum
est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quæ componuntur ex nominibus; ut cum
dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quædam orationes quæ componuntur
ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum,
oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod
quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum
significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi
quædam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quædam pars materialis et
subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari. Tertia vero particula
est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio
quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quæ de altero prædicantur
nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte
subiecti et prædicati, sed verbum semper est ex parte prædicati. Sed hoc
videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quæ interdum ponuntur ex
parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod
verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et
in Græco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut
et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet
rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet
actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo,
per se in abstracto, velut quædam res, et sic significatur per nomen; ut cum
dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum
actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhærens ei ut subiecto, et
sic significatur per verba aliorum modorum, quæ attribuuntur prædicatis. Sed
quia etiam ipse processus vel inhærentia actionis potest apprehendi ab
intellectu et significari ut res quædam, inde est quod ipsa verba infinitivi
modi, quæ significant ipsam inhærentiam actionis ad subiectum, possunt accipi
ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res
quasdam. Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum
videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed
dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter,
secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter
significat ipsam vocem, quæ accipitur ut res quædam. Et ideo tam verba,
quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi
nominum. Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit
definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat
tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quæ de altero
prædicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non
exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod
verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia
significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se
existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit
verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus
tempore mensurari; actiones autem nobis notæ sunt in tempore. Dictum est autem
supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum.
Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest
nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit
nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam
particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut
cui inhæret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de
cuius ratione est ut inhæreat, semper ponitur ex parte prædicati, nunquam autem
ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo
verbum semper esse nota eorum quæ dicuntur de altero: tum quia verbum semper
significat id, quod prædicatur; tum quia in omni prædicatione oportet esse
verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua prædicatum componitur
subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quæ de subiecto vel
in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter
prædicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto
prædicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel
passionem, quæ sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quæ
dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et
ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de
subiecto prædicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione
utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum
Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quæ de altero prædicantur,
non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quæ prædicantur,
quia cum prædicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa
verba sunt quæ prædicantur, magis quam significent prædicata. Est ergo
intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua prædicentur, quia omnis
prædicatio fit per verbum ratione compositionis importatæ, sive prædicetur
aliquid essentialiter sive accidentaliter. Deinde cum dicit: non currit
vero et non laborat etc., excludit quædam a ratione verbi. Et primo, verbum
infinitum; secundo, verba præteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem
curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non
proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum
actionis vel passionis; quod prædictæ dictiones non faciunt: removent enim
actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem
significent. Sed
quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quæ supra
posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus,
quia significat agere et pati, quæ sicut sunt in tempore, ita privatio eorum;
unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est
quod semper ponitur ex parte prædicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia
negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat
actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita prædictæ
dictiones significant remotionem actionis vel passionis. Si quis autem
obiiciat: si prædictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba;
dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter
sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a
perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi
dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum
verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea
verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum
indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur
enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis.
Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba
a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba
vero negativa in vi duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem
curret etc., excludit a verbo verba præteriti et futuri temporis; et dicit quod
sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est
futuri temporis, vel currebat, quod est præteriti temporis, non sunt verba, sed
sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat præsens
tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem
signanter præsens tempus, et non simpliciter præsens, ne intelligatur præsens
indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut
passio; sed oportet accipere præsens tempus quod mensurat actionem, quæ
incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quæ consignificant
tempus præteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum
proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod
significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed
agere vel pati in præterito vel futuro est secundum quid. Dicuntur etiam
verba præteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod
consignificat præsens tempus; quia præteritum vel futurum dicitur per respectum
ad præsens. Est enim præteritum quod fuit præsens, futurum autem quod erit præsens.
Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas,
variatio quæ fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis
variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quæ est
per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus
verbi. Nam
verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba præteriti vel
futuri temporis. Sed verba indicativi modi præsentis temporis non dicuntur
casus, cuiuscumque sint personæ vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc.,
ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo,
proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant
aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt
nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quæ sumuntur in vi nominis, ut
dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive
sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed hæc non videtur esse
intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et
ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat
quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum
agere vel pati est quædam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant,
idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter
acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub
determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde
nomina possunt subiici et prædicari. Deinde cum dicit: et significant
aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant
aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel
falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo
primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant
aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces
significativæ significant intellectus. Unde proprium vocis significativæ est
quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum
quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum,
constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod
ille, qui audit, quiescit. Sed hoc videtur esse falsum: quia sola
oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si
per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo
dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam.
Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum
est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum
quantum ad primam operationem, quæ est simplex conceptio alicuius, et secundum
hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum
proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum
quantum ad secundam operationem, quæ est intellectus componentis et dividentis,
ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere
audientem. Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum
significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et
divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit.
Probat autem consequenter per illa verba, quæ maxime videntur significare
veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum
infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum
veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc
generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non
significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum
verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non
sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem
esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non
currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel
non esse. Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum
subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi
notandum est quod in Græco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum
quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non
esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de
quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens æquivoce dicitur de
decem prædicamentis; omne autem æquivocum per se positum nihil significat, nisi
aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se
dictum significat quod est vel non est. Sed hæc expositio non videtur
conveniens, tum quia ens non dicitur proprie æquivoce, sed secundum prius et
posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur:
tum etiam, quia dictio æquivoca non nihil significat, sed multa significat; et
quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis
expositio non multum facit ad intentionem præsentem. Unde Porphyrius aliter
exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc
nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit
quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est
intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret
aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum,
sicut nec præpositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut
Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel
falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam
compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum
dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio
significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quæ non potest
intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus
et verbis, non videtur hæc expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui
assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba
Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem
esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc
est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime
videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic
videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico
est. Et si quidem hæc dictio ens significaret esse principaliter, sicut
significat rem quæ habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed
ipsam compositionem, quæ importatur in hoc quod dico est, non principaliter
significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde
talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem:
quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi,
nisi secundum quod innectit extrema compositionis. Si vero dicatur, nec
ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum
significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se
dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum
esse videtur compositio quædam, et ita hoc verbum est, quod significat esse,
potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc
excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non
potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab
extremis, quæ si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis,
ut possit in ea esse verum, vel falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum
est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex
consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum
actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et
ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter
significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formæ, vel actus
substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare
quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus
illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem
secundum præsens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex
consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus
determinavit de nomine et de verbo, quæ sunt principia materialia
enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quæ
est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc
tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam;
ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio
omnis et cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in
definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo,
cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione
nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius
definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis,
studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione
orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et
verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero
significat intellectum compositum. Secundo autem ponit id, in quo oratio
differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est
separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per
se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem
non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid
partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quæ
secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad
alterum. Sed
quia duplex est significatio vocis, una quæ refertur ad intellectum compositum,
alia quæ refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit
orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est
significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut
affirmatio, quæ componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de
affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit
affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat
aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Sed contra hanc
definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis
convenire. Sunt enim quædam orationes, quarum partes significant aliquid ut
affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et
ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et
posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius
speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo
quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio
simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel
potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in
communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi
simplici et compositæ. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio,
competit soli orationi, compositæ; sed habere partes significantes aliquid per
modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici
et compositæ. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc
non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit
affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod
significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem
redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper
differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne
dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut
dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii,
non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus
autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod hæc definitio orationis
daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi
alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum
ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic
decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum
perfectum, quædam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et
tectum ad domum, et membra organica ad animal: quædam vero mediantibus partibus
principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante
pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet
manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter
referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quæ etiam
ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi
perfectæ, quam imperfectæ. Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc.,
exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur;
secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et
cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse
significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat
aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse
vel non esse. Et
hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius
additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum. Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset
hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel
negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed
quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id,
quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium
eius sit significativum separatim. Sed quia pars
alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem
totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus
immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de
partibus nominis vel verbi, quæ sunt syllabæ vel litteræ. Et ideo dicitur quod
pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quæ est una
nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quæ quandoque possunt esse
dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una
dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quædam syllaba
huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola.
Dictio enim quædam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando
habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et
ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quæ sit vox, inquantum
autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde
syllabæ quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum
tamen quod in nominibus compositis, quæ imponuntur ad significandum rem
simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid
significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus,
idest in nominibus compositis, syllabæ quæ possunt esse dictiones, in
compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito
et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se,
prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.
Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim
aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad
placitum. Ad
probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse
naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem
interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia.
Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa
interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens
operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana
significans, sed naturaliter. Huic autem rationi, quæ dicitur esse
Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod
omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet
naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativæ sunt guttur et
pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac
articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus
virtutis interpretativæ per instrumenta prædicta. Sicut enim virtus motiva
utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes
eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit
quod oratio significat ad placitum, idest secundum institutionem humanæ
rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia
causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem
interpretativam non attribuamus virtuti motivæ, sed rationi; sic non est virtus
naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus
alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quæ
movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis
utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc
modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis:
quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de
principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et
dividitur pars hæc in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in
secunda, de diversitate enunciationum, quæ provenit secundum ea quæ simplici
enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de
aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In
prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima
oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi:
quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit
definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem
differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus
etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et cæteræ
quidem relinquantur. Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis
non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen
instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet
definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et
omnis vocis significativæ est significare conceptionem intellectus, ut supra
dictum est: duæ autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur
veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo
orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non
omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi
considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem
orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et
definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est:
ut intelligatur quod hæc sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in
qua verum vel falsum est. Dicitur autem in enunciatione esse verum vel
falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est
verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicæ, in re autem sicut in
causa: quia ut dicitur in libro prædicamentorum, ab eo quod res est vel non
est, oratio vera vel falsa est. Deinde cum dicit: non autem in omnibus
etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis
orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non
significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo
audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo
consistit verum vel falsum. His igitur prætermissis, sciendum est quod perfectæ
orationis, quæ complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa,
deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum
est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid
partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed
per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non
autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem
orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa
sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel
falsum. Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso
veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum
alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam
orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquæ aliæ
orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur.
Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad
attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum
voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere;
et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad
superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu
superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii.
Quia igitur istæ quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus,
in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est
quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quæ
significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi
orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur:
quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad
interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam. Deinde cum
dicit: cæteræ igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est
agendum; et dicit quod aliæ quatuor orationis species sunt relinquendæ, quantum
pertinet ad præsentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est
rhetoricæ vel poeticæ scientiæ. Sed enunciativa oratio præsentis
considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe
ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem
inducitur ad consentiendum vero ex his quæ sunt propria rei; et ideo
demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus,
significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et
poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quæ sunt
propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetæ
plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut
philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum
orationis, quæ pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub
consideratione rhetoricæ vel poeticæ, ratione sui significati; ad
considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum
constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et
dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda,
manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera. Circa primum
considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones
enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quædam est una simplex,
quædam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quæ sunt extra animam,
aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum
colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et
omnem enunciationem aliqualiter esse unam. Alia vero
subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa
aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici
ratione, secundum tria quæ supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum
intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa
enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio
addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus
affirmativa enunciatio, quæ significat compositionem intellectus, est prior
negativa, quæ significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior
est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est
corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quæ
significat esse, prior est negativa, quæ significat non esse: sicut habitus
naturaliter prior est privatione. Dicit ergo quod oratio enunciativa
una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod
dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est
posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una,
scilicet simpliciter, subdit quod quædam aliæ sunt unæ, non simpliciter, sed
coniunctione unæ. Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander
quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio
generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus
enim univoce prædicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius:
unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius prædicatur
de substantia, quam de novem generibus accidentium. Sed dicendum quod
unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo,
secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum
participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non
tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius
secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen æqualiter
participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius
multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest
esse genus substantiæ et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quæ
est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud
et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione;
tamen æqualiter participant rationem enunciationis, quam supra posuit,
videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est. Deinde
cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo,
manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel
coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio
simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex
enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, præmittit quædam, quæ
sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum;
ibi: est autem una oratio et cetera. Circa primum duo facit: primo, dicit
quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est præsentis
temporis, vel ex casu verbi quod est præteriti vel futuri. Tacet autem de verbo
infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum.
Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non
facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta.
Definitio enim oratio quædam est, et tamen si ad rationem hominis, idest
definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quæ sunt
casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi,
nondum est oratio enunciativa. Potest autem esse dubitatio: cum
enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine,
sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla
oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua
enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum;
ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum
est, verbum est nota eorum quæ de altero prædicantur. Prædicatum autem est
principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva
ipsius. Unde vocatur apud Græcos propositio categorica, idest prædicativa.
Denominatio autem fit a forma, quæ dat speciem rei. Et ideo potius fecit
mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum
est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione
verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur
affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua
denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio
Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem
complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia
dixerat quod quædam enunciatio est una simpliciter, quædam autem coniunctione
una; posset aliquis intelligere quod illa quæ est una simpliciter careret omni
compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet
esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine
compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non
importat compositionem, et ideo non exigit præsens intentio ut de nomine
faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit
aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod
dico, animal gressibile bipes, quæ est definitio hominis, est unum et non
multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi
rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum;
unde in VII et in VIII metaphysicæ ratio huius assignatur: quia scilicet
differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa
ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia
sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit
vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam
rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc
definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquæ, idest sine aliqua
interpositione coniunctionis vel moræ. Et quidem non interruptio locutionis
necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio
partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur
ut actu multæ in locutione: et idem operatur interpositio moræ, qua utuntur
rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod
partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re
naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed
prædicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit
etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quæ non sunt simpliciter
unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles
valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur,
neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex
quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam prædicatum
comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad
genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter. Deinde cum dicit:
est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam prædictam divisionem. Et
primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una;
secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum
autem hæc simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam
divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et
verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem
unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos
pluralitatis. Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute,
scilicet quæ unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quæ est
coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes
plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo
modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales
opponuntur secundo modo unitatis. Circa quod considerandum est, secundum
Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex
autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio
quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in
unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio,
sed composita, quæ quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex
pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex
pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quæ quidem unum significant
et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas
cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans;
ut si dicam, canis latrat, hæc oratio plures est, quia plura significat, et
tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio,
puta cum ponuntur plura in subiecto vel in prædicato, ex quibus non fit unum,
sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus
disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum
coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat.
Et secundum hoc sensus litteræ est quod enunciatio una est illa, quæ unum de
uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et
similiter enunciationes plures dicuntur quæ plura et non unum significant: non
solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel
etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque
aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen æquivocum,
multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex
quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus
currit. Sed hæc expositio non videtur esse secundum intentionem
Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur
distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quæ est
coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non
multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum
et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod
Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam
coniunctione unam, vult hic manifestare quæ sit una. Et quia supra
dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile
bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate
nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quæ unum
significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quæ multa significet, non erit
una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, hæc enunciatio, animal
gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in
prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quæ
sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod
plures dicuntur enunciationes quæ plura significant. Contingit autem aliqua
plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile,
sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen hæc
enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut
dicatur hoc esse additum propter definitionem, quæ multa significat quæ sunt
unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus
pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam
illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo
modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur
primo modo pluralitatis. Ea autem quæ non sunt opposita, possunt simul esse.
Unde manifestum est, enunciationem quæ est una coniunctione, esse etiam plures:
plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus
accipere tres modos enunciationis. Nam quædam est simpliciter una, in quantum
unum significat; quædam est simpliciter plures, in quantum plura significat,
sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quædam sunt
simpliciter plures, quæ neque significant unum, neque coniunctione aliqua
uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia
quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est
coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Deinde cum
dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et
verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quæ unum significat: posset autem
aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum
significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio
sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo
loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis.
Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest
dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel
verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi
enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes;
puta si quæratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem
utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit.
Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non
enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui
profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte.
Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad
interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium
enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod
intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quærenti,
quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si
ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est
quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem
inducit sicut conclusionem eius quod supra præmisit: necesse est omnem
orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Deinde cum dicit: harum autem hæc simplex etc., manifestat præmissam
divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quæ
unum de uno significat, et alia est quæ est coniunctione una. Ratio autem huius
divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et
ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, hæc
dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est
coniunctione. Hæc quidem simplex enunciatio est, quæ scilicet unum significat.
Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad
excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis,
vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Hæc autem ex his coniuncta,
quæ scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi
dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo præmissa, sicut aliquod
unum dividitur in simplex et compositum. Deinde cum dicit: est autem
simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet
quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Hæc autem divisio
primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit
compositæ enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem prædictæ divisionis
dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid:
quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad
negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum præsens tempus, subdit:
quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis
temporibus sicut et in præsenti. Alexander autem existimavit quod
Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis
videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod
enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam
ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce prædicatur de multis
(quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non
potest notificari nisi per illa multa quæ significantur. Et inde est quod quia
unum non dicitur æquivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius,
Aristoteles in præcedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus
est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum
enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de
affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Sed contrarium
apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut
genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio
est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio
vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine
autem æquivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo
Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et
definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non
est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed
quia differentiæ divisivæ generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum
quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius
dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa
de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed
virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse
vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et
negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem
esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab
aliquo. Sed
sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quæ sunt
propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et
significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum
Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim
posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est
verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de
affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime
procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas.
Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox
significativa de eo quod est, quæ est differentia specifica affirmationis, vel
de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo
ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit:
quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse;
et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium
enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse
dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter
enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa
prædeterminata et solvit; ibi: in his ergo quæ sunt et quæ facta sunt et
cetera. Circa
primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri;
secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera.
Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione
affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi
oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera.
Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio
opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis
absolute; ibi: et sit hoc contradictio et cetera. Circa primum
considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit
duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo
enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per
quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur
aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua
dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur
aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin
est oratio falsa. Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio,
secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re
enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta
cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur
aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum
dicitur, Æthiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod
in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus
est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod
pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus
autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris præponit: inter quas
negativam præmittit affirmativæ, cum dicit quod contingit enunciare quod est,
scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit
affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse.
Tertio autem, ponit affirmativam veram, quæ opponitur negativæ falsæ, quam
primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto
autem, ponit negativam veram, quæ opponitur affirmationi falsæ, cum dicit: et
quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum
quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam
existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per
prædicatum insit vel non insit rei significatæ per subiectum. Nam cum dicitur,
corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res
existens. Et sicut istæ quatuor differentiæ enunciationum inveniuntur in
propositionibus, in quibus ponitur verbum præsentis temporis, ita etiam
inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba præteriti vel futuri
temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel
ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet
variari diversimode enunciationem circa ea, quæ sunt extra præsens tempus,
idest circa præterita vel futura, quæ sunt quodammodo extrinseca respectu præsentis,
quia præsens est medium præteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne
quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod
quidem manifestum est ex præmissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est
in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum
contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari,
et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote
ex opposito contradictoriæ, consequens est quod quælibet affirmatio habeat
negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo
posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare
non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc.,
manifestat quæ sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo,
manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera.
Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e
converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio.
Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur
intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni
affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem
opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio
est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem,
quæ requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem
opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et prædicato,
requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint
eiusdem prædicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est
contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur,
Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur
quod identitas subiecti et prædicati non solum sit secundum nomen, sed sit
simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non
sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una,
requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quæ
unum de uno significat; et ideo subdit: non autem æquivoce, idest non sufficit
identitas nominis cum diversitate rei, quæ facit æquivocationem. Sunt autem et
quædam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas,
præter eam quæ est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non
omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Hæc autem diversitas
potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes
subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Æthiops est albus dente et non
est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte prædicati: non enim est
contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si
dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit
diversitas ex parte mensuræ, puta loci vel temporis; non enim est contradictio
si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non
pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si
dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et hæc
omnia designat cum subdit: et quæcumque cætera talium determinavimus, idest
determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates,
idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus
plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem
affirmationis et negationis esse contradictionem, quæ est eiusdem de eodem,
consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et
negationis, ut cognoscatur quæ sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit:
primo, præmittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad prædictam
differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si
ergo universaliter et cetera. Præmittit autem divisionem enunciationum quæ
sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo,
dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum,
ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen
vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum
simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis
distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quædam sunt universalia,
quædam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo
quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus
prædicari, singulare vero quod non est aptum natum prædicari de pluribus, sed
de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est
universale, Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc
divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicæ, universale non
est aliquid extra res existens. Item, in prædicamentis dicitur quod secundæ
substantiæ non sunt nisi in primis, quæ sunt singulares. Non ergo videtur esse
conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullæ res videntur
esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic
dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quæ subiiciuntur in
enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi
mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur
secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quæ sunt coniuncta in rebus
intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione
alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est
proprium illi rei, in quantum est hæc res, sicut Socrati vel Platoni in quantum
est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis
quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut
risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi
soli rei in quantum est hæc res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid
singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis
aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen
significat naturam sive dispositionem aliquam, quæ est communis multis. Quia
igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra
animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale
et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod
universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum
animæ intellectivæ, quod est prædicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam
secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur
quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque
quod propria ratio alicuius formæ intellectæ non repugnat ei quod est esse in
pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter
adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit
propter conditionem materiæ, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet
rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formæ ipsius, sed quia non
est alia materia susceptiva talis formæ; et ideo non dixit quod universale est
quod prædicatur de pluribus, sed quod aptum natum est prædicari de pluribus.
Cum autem omnis forma, quæ nata est recipi in materia quantum est de se,
communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod
significatur per nomen, non sit aptum natum prædicari de pluribus. Uno modo,
quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam,
sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est
in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quæ non est
nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis;
sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde
esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si
essent species rerum separatæ, sicut posuit Plato, essent individua. Potest
autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus prædicari,
quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet
responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit nomina in
universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale
dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus prædicari, sed id, quod
significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit
in prædictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam
humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen
imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic
eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed æquivocum. Deinde
cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem
enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quædam
sunt universalia, quædam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur
aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui
singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus:
quoniam autem sunt hæc quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est
autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam
universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per
se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum
esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter.
Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam
operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est prædicabile de multis,
sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus
attribuens eas naturæ intellectæ, secundum quod comparat ipsam ad res, quæ sunt
extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato,
quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei
non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in
rebus, quæ sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima
creaturarum. Hoc enim convenit naturæ humanæ etiam secundum quod est in
singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis
irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra
animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei
prædicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout
est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturæ
universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet,
vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal,
vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione
singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad
actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem
attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in
apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel prædicabile de uno
solo. Quandoque autem, ratione naturæ communis; ut cum dicitur,
Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur,
Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod
contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem hæc
tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod
enunciationum quædam est una simpliciter, quædam vero coniunctione una. Quæ
quidem est divisio analogi in ea de quibus prædicatur secundum prius et
posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius
in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et
negationem. Quæ quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum
differentiam prædicati ad quod fertur negatio; prædicatum autem est pars
formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad
qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod
differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quæ
sumitur secundum differentiam subiecti, quod prædicatur de pluribus vel de uno
solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas
consequitur materiam. Deinde cum dicit: si ergo universaliter
etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum
diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos
oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversæ
oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has
quidem impossibile est et cetera. Circa primum considerandum est quod cum
universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod
est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut
supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventæ
sunt quædam dictiones, quæ possunt dici determinationes vel signa, quibus
designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo prædicetur. Sed quia
non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia
subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad
designandum illum modum prædicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a
singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere,
adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid
attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale
separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se
hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale
secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et
ideo adinventæ sunt quædam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid
universali sic accepto. Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid
attribuitur universali ratione ipsius naturæ universalis; et ideo hoc dicitur
prædicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam
multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis prædicationibus
adinventa est hæc dictio, omnis, quæ designat quod prædicatum attribuitur
subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In
negativis autem prædicationibus adinventa est hæc dictio, nullus, per quam
significatur quod prædicatum removetur a subiecto universali secundum totum id
quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Græco
dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali
a quo prædicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid
vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in
affirmativis quidem adinventa est hæc dictio, aliquis vel quidam, per quam
designatur quod prædicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius
particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis,
sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum
vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere,
non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi
diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter
removeat, in quantum excludit universalem affirmationem. Sic igitur tria
sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali prædicatur. Una
quidem est, in qua de universali prædicatur aliquid universaliter; ut cum
dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid prædicatur de universali
particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua
aliquid de universali prædicatur absque determinatione universalitatis vel
particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem
autem sunt negationes oppositæ. De singulari autem quamvis aliquid
diversa ratione prædicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad
singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari
individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum
aliquid prædicetur de eo ratione universalis naturæ; ut cum dicitur, Socrates
est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. Si igitur tribus prædictis enunciationibus addatur singularis, erunt
quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet
universalis, singularis, indefinitus et particularis. Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas
oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam
universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad
particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria
facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem;
secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.;
tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera. Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali
universaliter, idest secundum continentiam suæ universalitatis, quoniam est,
idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariæ enunciationes;
ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio
est, quia contraria dicuntur quæ maxime a se distant: non enim dicitur aliquid
nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album,
quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab
albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem,
omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus.
Oportet ergo quod negatio removeat modum quo prædicatum dicitur de subiecto,
quem designat hæc dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit hæc
enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quæ est extrema
distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo
convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. Deinde cum dicit:
quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in
indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum
per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem
manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo
primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non
tamen universaliter, non sunt contrariæ enunciationes, sed illa quæ
significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non
universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non
dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis
indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quæ ponit, dicens fieri in
universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus
homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo,
qui subiicitur, est universale, sed tamen prædicatum non universaliter de eo prædicatur,
quia non apponitur hæc dictio, omnis: quæ non significat ipsum universale, sed
modum universalitatis, prout scilicet prædicatum dicitur universaliter de
subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de
eo dicatur universaliter. Tota autem hæc expositio refertur ad hoc
quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt
contrariæ. Sed hoc quod additur: quæ autem significantur contingit esse
contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a
diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad
contrarietatem veritatis et falsitatis, quæ competit huiusmodi enunciationibus.
Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est
albus; et sic non sunt contrariæ, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut
cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati
videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum
pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate
enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus
dici. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem prædicati.
Contingit enim quandoque quod prædicatum negatur de subiecto propter hoc quod
inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et
sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse
contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si
contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur,
aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel
habitus seu potentiæ; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens
potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus
natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quæ
significantur contingit esse contraria, sed ipsæ enunciationes non sunt
contrariæ, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariæ opiniones quæ
sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quæ est, quod
aliquid non est bonum. Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis
pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de
contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio
Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non
determinatur utrum prædicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret
contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret
contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitæ non
sunt contrariæ secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque
ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid
universali ratione naturæ universalis, quamvis non apponatur signum universale;
ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hæ enunciationes
eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal,
nullus homo est animal. Deinde cum dicit: in eo vero quod etc.,
removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam
diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a
parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod
similis diversitas nasceretur ex parte prædicati, ex hoc scilicet quod
universale prædicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad
hoc excludendum dicit quod in eo quod prædicatur aliquod universale, non est
verum quod prædicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest
ratio. Una quidem, quia talis modus prædicandi videtur repugnare prædicato
secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra
quod prædicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars
materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum
universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quæ sub se
continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum
habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet
ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale
neque particulare convenienter additur prædicato, sed magis subiecto:
convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus
asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo
est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare
appositum prædicato, ad insinuandum quod prædicatum est in plus quam subiectum,
et hoc præcipue cum, habito genere, investigant differentias completivas
speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero
ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet
locum in affirmationibus quæ falsæ essent si prædicatum universaliter prædicaretur.
Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in
qua, scilicet vere, de universali prædicato universaliter prædicetur, idest in
qua universali prædicato utitur ad universaliter prædicandum; ut si diceretur,
omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum prædicta, quod hoc prædicatum
animal, secundum singula quæ sub ipso continentur, prædicaretur de singulis quæ
continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si prædicatum sit
in plus quam subiectum, neque si prædicatum sit convertibile cum eo. Oporteret
enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quæ
repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali. Nec est
instantia si dicatur quod hæc est vera, omnis homo est omnis disciplinæ
susceptivus: disciplina enim non prædicatur de homine, sed susceptivum
disciplinæ; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne
susceptivum disciplinæ. Signum autem universale negativum, vel
particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non
tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte prædicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: hæc
enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter hæc est vera, omnis
homo aliquod animal est. Sed hæc, omnis homo omne animal est, in quacumque
materia proferatur, falsa est. Sunt autem quædam aliæ tales enunciationes
semper falsæ; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quæ habet eamdem causam
falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quæ aliæ similes, sunt
semper falsæ: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus
reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes
consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de oppositione
enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic
determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares.
Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una
quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis
ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariæ vero et cetera.
Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie
loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum;
subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter
sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque;
et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel
negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de
eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum præmissa.
Dicit ergo primo quod enunciatio, quæ universale significat, scilicet
universaliter, opponitur contradictorie ei, quæ non significat universaliter
sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa
(sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso);
ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod
dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde æquipollet ei
quæ est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si
diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hæ
duæ, quidam homo est albus (quæ est particularis affirmativa), nullus homo est
albus (quæ est universalis negativa), sunt contradictoriæ. Cuius ratio
est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem;
universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec
aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa
removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod
particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativæ. Unde
relinquitur quod universali affirmativæ contradictorie opponitur particularis
negativa, et particulari affirmativæ universalis negativa. Deinde cum
dicit: contrariæ vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et
dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariæ;
sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis
negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat
extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc
pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et
negativa se habent sicut medium inter contraria. Deinde cum dicit:
quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio
oppositæ ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum
ad contradictorias; ibi: quæcumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum
ad ea quæ videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quæcumque autem in
universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et
universalis negativa sunt contrariæ, impossibile est quod sint simul veræ.
Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quæ contradictorie
opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut,
non omnis homo est albus, quæ contradictorie opponitur huic, omnis homo est
albus, et, quidam homo est albus, quæ contradictorie opponitur huic, nullus
homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam
album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et
nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum,
sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariæ enunciationes non
possunt simul esse veræ, sed earum contradictoriæ, a quibus removentur, simul
possunt esse veræ. Deinde cum dicit: quæcumque igitur contradictiones etc.,
ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod
considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non
plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno
modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum
est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate
refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec
potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis
affirmativa semper contradicit singulari negativæ, supposita identitate prædicati
et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium
universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum,
semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse
simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur
esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse
quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum. Deinde
cum dicit: quæcumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant
veritas et falsitas in his, quæ videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et
circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum;
ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset
dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum
considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus
videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non
determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse
de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quæcumque affirmative et
negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper
oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera.
Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et
quod homo est probus, et, homo non est probus. In quo quidem, ut
Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita
negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo
quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione
materiæ; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod
indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis
affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro
particulari affirmativa: sed negativam universalem, quæ totum destruit, dicunt
esse indigniorem particulari negativa, quæ destruit partem, sicut universalis
corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa
sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et
etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut
dicitur in libro Physic. quod non est motus præter res; et in libro de anima,
quod non est sensus præter quinque. Sed istæ rationes non concludunt. Quod enim
primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est
secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non
autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et
turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi
per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato
etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro
universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis
affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens;
ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem
in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id
quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa
esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo
indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior,
sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione
partis contentæ sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod prædicatum uni
parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas
particularis affirmativæ sufficit ad veritatem indefinitæ affirmativæ. Et
simili ratione veritas particularis negativæ sufficit ad veritatem indefinitæ
negativæ, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione
suiipsius, vel ratione suæ partis. Utuntur autem quandoque philosophi
indefinitis negativis pro universalibus in his, quæ per se removentur ab
universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in
his, quæ per se de universalibus prædicantur. Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod
est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa
verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas
affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum
sunt opposita prædicata: quæ quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno
modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus,
opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus,
opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est
probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo
est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istæ duæ veræ simul, homo
est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo
non est probus; ergo istæ duæ sunt simul veræ, homo est probus, homo non est
probus: et eadem ratione istæ duæ, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia
autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri
opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non
esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est
in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo hæc est vera, homo est
albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit
albus, hæc est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo
istæ duæ sunt simul veræ, homo est albus, homo non est albus. Deinde cum
dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa prædicta;
et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod
dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare
cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque
idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex prædictis
manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in
enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio
opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una
negatio opponitur; secundo, ostendit quæ sit una affirmatio vel negatio, ibi:
una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio,
epilogat quæ dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Dicit ergo
primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc
quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum
genera, videbatur quod uni affirmationi duæ negationes opponerentur; sicut huic
affirmativæ, omnis homo est albus, videtur, secundum prædicta, hæc negativa
opponi, nullus homo est albus, et hæc, quidam homo non est albus. Sed si quis
recte consideret huius affirmativæ, omnis homo est albus, negativa est sola
ista, quidam homo non est albus, quæ solummodo removet ipsam, ut patet ex sua æquipollenti,
quæ est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in
suo intellectu negationem universalis affirmativæ, in quantum includit
particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet
importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem
eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis
affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde cum dicit: hoc enim etc.,
manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico
autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est
quod negatio opponitur affirmationi, quæ est eiusdem de eodem: ex quo hic
accipitur quod oportet negationem negare illud idem prædicatum, quod affirmatio
affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare,
sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed
hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod
affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola
negatio. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico
autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in
singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, hæc sola opponitur,
Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud prædicatum
vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut
ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quæ est, Socrates est albus;
neque etiam illa quæ est, Plato est albus, huic quæ est, Socrates non est
albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale
universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur
sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quæ æquipollet
particulari negativæ. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est
universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis
homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus.
Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum
quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod
isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa
quæ est, non est homo albus. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed
videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita
verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest
verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem
affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur
intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc
potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini
ratione sui ipsius (quod est per se de eodem prædicari), et hoc ipsum negatio
negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui
singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una
affirmatio etc., epilogat quæ dicta sunt, et concludit manifestum esse ex prædictis
quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum
et negationum aliæ sunt contrariæ, aliæ contradictoriæ; et dictum est quæ sint
utræque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositæ, ut supra
dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et
sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et
negationis: nam in his quæ sunt vere contradictoriæ semper una est vera, et
altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum
est supra; quia scilicet quædam non sunt contradictoriæ, sed contrariæ, quæ
possunt simul esse falsæ. Contingit etiam affirmationem et negationem non
proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem
quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quæ
vere sunt contradictoria. Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc.,
ostendit quæ sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi
habitum est quod una est enunciatio, quæ unum significat; sed quia enunciatio,
in qua aliquid prædicatur de aliquo universali universaliter vel non
universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non
impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod
unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quæ continetur sub
universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas
enunciationis per multitudinem, quæ continetur sub sola nominis unitate; ibi:
si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio
cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale
universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale
particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una,
omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quæ est eius negatio,
scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quæ sunt manifesta.
In fine autem apponit quamdam conditionem, quæ requiritur ad hoc quod quælibet
harum sit una, si scilicet album, quod est prædicatum, significat unum: nam
sola multitudo prædicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem
universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium
comprehendat, quia prædicatum non attribuitur multis singularibus, secundum
quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. Deinde cum
dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad
unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat;
ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare
nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus
rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex
quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc
quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc
enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et
differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio
modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint
partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quæ sunt partes definitionis:
sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis
fit domus. Si ergo sit tale prædicatum quod attribuatur rei, requiritur ad
unitatem enunciationis quod illa multa quæ significantur, concurrant in unum
secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si
vero sit tale prædicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si
dicam, canis est nomen. Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat
quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum
hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una,
neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim
differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et
equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est
albus, et, equus est albus; sed istæ, homo est albus, et equus est albus,
significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est
alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas:
si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat,
quia non est aliqua res quæ componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod
non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus,
non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam hæc copulativa,
homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit
vera: sed hæc, tunica est alba, prædicta positione facta, potest esse vera
etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices
propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum
quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus
et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur prædicatum;
ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba. Deinde cum dicit: quare nec
in his etc., concludit ex præmissis quod nec in his affirmationibus et
negationibus, quæ utuntur subiecto æquivoco, semper oportet unam esse veram et
aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio
affirmet. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et
ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositæ enunciationes; hic inquirit
de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t
similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo
facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis
affirmatio et cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in
præmissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit
secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter
vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet
enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem,
utpote quod enunciatio quædam est universalis, quædam particularis, quædam
indefinita et quædam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio
enunciationum secundum tempus. Nam quædam est de præsenti, quædam de præterito,
quædam de futuro; et hæc etiam divisio potest accipi ex his quæ supra dicta
sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo
vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat præsens tempus; casus
autem verbi sunt, qui consignificant tempus præteritum vel futurum. Potest
autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quæ quidem divisio
attenditur secundum habitudinem prædicati ad subiectum: nam si prædicatum per
se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali;
ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero prædicatum
per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio
esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si
vero medio modo se habeat prædicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se
repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia
possibili sive contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis,
non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde
philosophus dicit, ex præmissis concludens, quod in his quæ sunt, idest in
propositionibus de præsenti, et in his quæ facta sunt, idest in enunciationibus
de præterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel
falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis;
nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid
universaliter prædicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet
affirmativa vel negativa, et altera falsa, quæ scilicet ei opponitur. Dictum
est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid
universaliter prædicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e
converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativæ,
sed particularis; et sic oportet, secundum prædicta, quod semper una earum sit
vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quæ etiam
contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in
quibus aliquid prædicatur de universali non universaliter, non est necesse quod
semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambæ esse simul veræ, ut
supra ostensum est. Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones,
quæ sunt de præterito vel de præsenti: sed si accipiamus enunciationes, quæ
sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quæ sunt de
universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia
necessaria omnes affirmativæ determinate sunt veræ, ita in futuris sicut in præteritis
et præsentibus; negativæ vero falsæ. In materia autem impossibili, e
contrario. In contingenti vero universales sunt falsæ et particulares sunt veræ,
ita in futuris sicut in præteritis et præsentibus. In indefinitis autem, utraque
simul est vera in futuris sicut in præsentibus vel præteritis. Sed in
singularibus et futuris est quædam dissimilitudo. Nam in præteritis et præsentibus
necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in
quacumque materia; sed in singularibus quæ sunt de futuro hoc non est necesse,
quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad
materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem
similis ratio est in futuris singularibus, sicut in præsentibus et præteritis.
Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie
ad singularia pertinent quæ contingenter eveniunt, quæ autem per se insunt vel
repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc
igitur versatur tota præsens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de
futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit
vera et altera falsa. Deinde cum dicit: nam
si omnis affirmatio etc., probat præmissam differentiam. Et circa hoc duo
facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa
esse impossibilia quæ sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris
non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo,
ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque
quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam
consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est
vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est
quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit:
quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Græco, probat
consequentiam prædictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat
aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem
ipsum non esse futurum; supposita præmissa positione, scilicet quod in
singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam
vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non
autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus
futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet
locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum
dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc
probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet
quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod
manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de
necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate
sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex
necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam
convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex
necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et
e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod
affirmans vel negans mentiatur. Est ergo processus huius rationis talis.
Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit
vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat
verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non
esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est
omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint
ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur. Quædam
enim contingunt ut in paucioribus, quæ accidunt a casu vel fortuna. Quædam vero
se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam
ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quædam vero eveniunt ut in pluribus;
sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia
ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil
est quantum ad ipsam permanentiam eorum quæ permanent contingenter; neque fit
quantum ad productionem eorum quæ contingenter causantur; nec casu quantum ad
ea quæ sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea
quæ se habent æqualiter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum
horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De
eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum
dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit,
iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde
et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non
incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere
potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius
incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non
determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici,
neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad
utrumlibet ex præmissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio
vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille
qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse
aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret,
et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem
considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut
in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit
quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut
dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a
casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus:
nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi
quod deficit in minori parte. Deinde cum dicit: amplius si est album etc.,
ponit secundam rationem ad ostendendum prædictam dissimilitudinem, ducendo ad
impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in præsentibus et
futuris, sequitur ut quidquid verum est de præsenti, etiam fuerit verum de
futuro, eo modo quo est verum de præsenti. Sed determinate nunc est verum
dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud
fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur
esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod
hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quæ
facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de præsenti quoniam
est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius
consequentiæ ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere
dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in
significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod
dicitur de præsenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit præsens vel
futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est
impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo
quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex præmissis
quod omnia, quæ futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod
nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non
est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro
inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum
esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum. Ad cuius evidentiam
considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod
est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in præsenti
habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu
aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa:
quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex
necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde
determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa,
ut quæ habet inclinationem ad suum effectum, quæ tamen impediri potest; unde et
hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici
potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in
sua causa pure in potentia, quæ etiam non magis est determinata ad unum quam ad
aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici
quod sit futurum, sed quod sit vel non sit. Deinde cum dicit: at vero
neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus
futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut
non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate,
sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque
erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit
etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio
et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi:
nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et
nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic
oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed
secundum prædictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec
tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non
existente vera; ergo prædicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas
desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad hæc si verum est et
cetera. Quæ talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit;
puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque
esse. Et ita de futuro sicut de præsenti: sequitur enim esse cras, si verum est
dicere quod erit cras. Si ergo vera est prædicta positio dicens quod neque cras
erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra
rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad
alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur
idem inconveniens quod in præmissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad
inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero
oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus
dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quæ adduxerat esse impossibilia.
Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quæ sequebantur;
secundo, concludit quomodo circa hæc se veritas habeat; ibi: igitur esse quod
est et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia
quæ sequuntur; secundo, ostendit hæc inconvenientia ex prædicta positione
sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia
inconvenientia memorata; ibi: quod si hæc possibilia non sunt et cetera. Dicit
ergo primo, ex prædictis rationibus concludens, quod hæc inconvenientia
sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut
in universalibus, quod scilicet nihil in his quæ fiunt sit ad utrumlibet, sed
omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo
inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari:
probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quæ sunt ex
necessitate, sed solum de contingentibus, quæ possunt esse et non esse.
Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanæ, quæ sunt propter aliquem
finem (puta negotiatio, quæ est propter divitias acquirendas), erunt superfluæ:
quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit
quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione
videntur consiliari et negotiari ut, si hæc faciant, erit talis finis, si autem
faciunt aliquid aliud, erit alius finis. Deinde cum dicit: nihil enim
prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta
positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit prædicta inconvenientia
sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia
sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit
ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud
homines erat præcogitatum, vel præordinatum de his quæ nunc aguntur, unus
dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem
dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est
vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit
alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo
omnia ex necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at vero neque hoc
differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil
enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc
esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc
factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum
affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia
veritas nostræ enunciationis non est causa existentiæ rerum, sed potius e
converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur,
utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque
tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore præterito, ita se habebat veritas
enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad
hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel
fieri; consequens est quod unumquodque eorum quæ fiunt, sic se habeat ut ex
necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiæ rationem assignat per hoc, quod si
ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut
supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim
significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur.
Eadem autem habitudo est eorum, quæ nunc dicuntur, ad ea quæ futura sunt, quæ
erat eorum, quæ prius dicebantur, ad ea quæ sunt præsentia vel præterita; et
ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc
factum est, utpote in præsenti vel in præterito existens, semper verum erat
dicere, quoniam erit futurum. Deinde cum dicit: quod si hæc possibilia
non sunt etc., ostendit prædicta esse impossibilia: et primo, per rationem;
secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam
in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res
humanas ostendit esse impossibilia quæ dicta sunt, per hoc quod homo manifeste
videtur esse principium eorum futurorum, quæ agit quasi dominus existens suorum
actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium
si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanæ, et omnia principia
philosophiæ moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua
utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis,
quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur
tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto
quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per
hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quæ agunt absque consilio non
habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quæ sunt agenda, sed
quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis.
Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari
vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet
quod omnia ex necessitate eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est
omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in
rebus naturalibus esse quædam, quæ non semper actu sunt; ergo in eis contingit
esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem
quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est
album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album
permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit
etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel
fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non
fieri, esse et non esse. Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc.,
ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova;
manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec
ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod
possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo
supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per
assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita
possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non
inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et
ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quæ non sunt in actu
semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate
sunt vel fiunt, sed eorum quædam sunt ad utrumlibet, quæ non se habent magis ad
affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum
contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod
altera pars sit vera, et non alia, quæ scilicet contingit ut in pluribus.
Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa
possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim
distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse
impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile
vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt hæc
secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non
potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a
veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem
distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non
enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper
erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio
est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium,
quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere
non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut
scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum
ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile
autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum
quam ad alterum, sive se habeat æqualiter ad utrumque, quod dicitur contingens
ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste
hæc est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem
possibilitatis et contingentiæ, in his quidem quæ sunt a nobis ex eo quod sumus
consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque
oppositorum. Sed videtur hæc ratio non esse sufficiens. Sicut enim
in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse
et non esse, ita etiam in corporibus cælestibus invenitur potentia ad diversa
ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde
dicendum est quod possibilitas materiæ ad utrumque, si communiter loquamur, non
est sufficiens ratio contingentiæ, nisi etiam addatur ex parte potentiæ activæ
quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad
unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in
actum potentiam passivam eodem modo. Hoc igitur quidam attendentes
posuerunt quod potentia, quæ est in ipsis rebus naturalibus, sortitur
necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum
Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes
quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est
effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multæ causæ ad hoc
concurrentes accipiunt rationem unius causæ sufficientis; et ita concludebant
quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed hanc rationem solvit Aristoteles
in VI metaphysicæ interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim
quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud
quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis
ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam,
et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet
causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam hæc est falsa,
quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis
causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non
possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per
effusionem aquæ impeditur combustio. Si autem utraque propositionum prædictarum
esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si
quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque
dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic
quousque esset devenire ad causam, quæ nunc est in præsenti, vel iam fuit in præterito;
si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum
deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet:
si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus.
Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc
excludendum ostendit utramque prædictarum propositionum esse falsam, ut dictum
est. Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens
reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens
reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens
reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum
accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et
similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa
aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se,
quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed
causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad
causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicæ dicitur. Quidam
vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt
reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se,
quam ponebant esse virtutem cælestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes
nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa
non potest provenire necessitas in omnibus quæ hic aguntur. Multa enim hic
fiunt ex intellectu et voluntate, quæ per se et directe non subduntur virtuti cælestium
corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quæ est in ratione, non
sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est
quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti cælestium
corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream.
Vires autem sensitivæ in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens
subduntur actioni cælestium corporum. Unde philosophus in libro de anima
opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui cæli adscribit his, qui
non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis cælestium
corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus
et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones
virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam
continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per
philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute cælestium corporum non
provenit necessitas in his quæ per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec
in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per
accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in
causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturæ se habet ad
unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod hæc
enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum.
Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa
præexistunt in corporibus cælestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non
eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam
impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam cælestem;
tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam
causam naturaliter agentem. Sed considerandum est quod id quod est per
accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod
quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum
scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id,
quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem
intellectum præordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est
per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest
tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo
loco sibi occurrant. Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quæcumque in
hoc mundo aguntur, etiam quæ videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem
providentiæ divinæ, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui
stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri,
qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et
velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit
omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem
ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem
cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit
omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso
quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod
est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid
cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per
intellectum agens. Sed si providentia divina sit per se causa
omnium quæ in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex
necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiæ eius: non enim potest eius
scientia falli; et ita ea quæ ipse scit, videtur quod necesse sit evenire.
Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest;
videtur ergo quod omnia quæ vult, ex necessitate eveniant. Procedunt
autem hæ obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinæ
voluntatis pensantur ad modum eorum, quæ in nobis sunt, cum tamen multo
dissimiliter se habeant. Nam primo quidem ex parte cognitionis vel
scientiæ considerandum est quod ad cognoscendum ea quæ secundum ordinem
temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quæ sub ordine temporis
aliqualiter continetur, aliter illa quæ totaliter est extra ordinem temporis.
Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum
philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est
prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi
homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine
transeuntium continetur habet cognitionem de præcedentibus et subsequentibus,
in quantum sunt præcedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui
eos præcedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset
aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri
constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via
existentes, non sub ratione præcedentis et subsequentis (in comparatione
scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum
alium præcedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per
se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet
adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius
cognitione cadant res sub ratione præsentis, præteriti et futuri. Et ideo præsentia
cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; præterita
autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum
sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si
totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate
evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri
possint, sicut quæ sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis
sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quæ
sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in
potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX
metaphysicæ. Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce æternitatis
constitutus, quæ est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum
unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quæ aguntur
secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso
existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo
ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino æternaliter
sic videt unumquodque eorum quæ sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus
videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt
Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quæ respicit ordinem causæ ad
effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem
sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est.
Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia
quæ fiunt in tempore; et tamen ea quæ in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex
necessitate, sed contingenter. Similiter ex parte voluntatis divinæ
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quædam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiæ entis possibile et necessarium; et ideo ex
ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes
deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel
necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut
a prima causa, quæ transcendit ordinem necessitatis et contingentiæ. Hoc autem
non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia
causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiæ; et ideo oportet quod
vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed
necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus
eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem
contingentiæ, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui
subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex
necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non
potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur
bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi
videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex
necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium
et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis
differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam
verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex
necessitate intellectus assentit; sunt autem quædam vera non per se nota, sed
per alia. Horum autem duplex est conditio: quædam enim ex necessitate consequuntur
ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis
existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi
veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad
principia, non autem prius. Quædam autem sunt, quæ non ex necessitate
consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis
existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit
intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in
aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut
felicitas, quæ habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate
inhæret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices.
Quædam vero sunt bona, quæ sunt appetibilia propter finem, quæ comparantur ad
finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II
physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus,
non posset aliquis esse felix, hæc etiam essent ex necessitate appetibilia et
maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere
et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus
humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut
sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut
abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod
bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate
inducitur ad hæc eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem
contingentiæ in his quæ fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est
eorum quæ sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus
media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et
hæc quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiæ, quas hic Aristoteles
ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quæ ex prædictis
rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et
circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab
enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quæ circa res
sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas
circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare
quoniam orationes veræ sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas;
secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi:
et in contradictione eadem ratio est et cetera. Dicit ergo primo, quasi ex
præmissis concludens, quod si prædicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia
ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod
omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non
esse quando non est. Et hæc necessitas fundatur super hoc principium:
impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est
illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non
esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo
necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est
quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse
est non esse pro illo tempore quando non est: et hæc est necessitas non
absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici
quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non
esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate,
et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat
necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod
dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est
simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando
non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est,
quod si in his, quæ sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam
fieret alterum determinate esset futurum. Deinde cum dicit: et in
contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa
res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in
contradictione, quæ est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute
necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse
quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium
per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit,
et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et hæc necessitas
fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse
vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse
est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est
illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est
navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum
futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia
hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum
cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quæ est sub
disiunctione. Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet
circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit
quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et
non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi:
quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent
orationes enunciativæ ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex
eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in
omnibus rebus quæ ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quæcumque ita se
habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive æqualiter
sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se
habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quæ sint illæ res,
quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quæ neque
semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed
quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter
se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum
enunciationum, quæ sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione
altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen hæc vel illa
determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars
contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quæ sunt ut in
pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum
determinate sit vera vel falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est
etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex prædictis quod
non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet
veritas et falsitas in his quæ sunt iam de præsenti et in his quæ non sunt, sed
possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum
est, quia scilicet in his quæ sunt necesse est determinate alterum esse verum
et alterum falsum: quod non contingit in futuris quæ possunt esse et non esse.
Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit
de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione,
secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria
in enunciatione considerari: primo, ipsæ dictiones, quæ prædicantur vel
subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba;
secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione
affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam.
Dividitur ergo hæc pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat
enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel prædicato
positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad
determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis
etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum
provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum
autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio
facta ad prædicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis,
quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem.
Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex
additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat
circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de
pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de
enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur
tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus
nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex
parte prædicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum
duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes;
secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio
et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi
enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem
ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: præter verbum autem et cetera. Circa
primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes;
secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio,
concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. Resumit ergo
illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet
affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est
proprie nota eorum quæ de altero prædicantur, consequens est ut illud, de quo
aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum;
et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis,
sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum
est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia
ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet
determinationem formæ. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione
subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id
quod est, scilicet prædicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc
loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum
talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. Deinde cum dicit:
nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit
nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est
nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed
infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis
remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non
enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam
formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat
negationem formæ alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam
uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde
sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid,
idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicæ, ita etiam negatio est unum
secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis
dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum
de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet
quod duplex est modus affirmationis. Quædam enim est affirmatio, quæ constat ex
nomine et verbo; quædam autem est quæ constat ex infinito nomine et verbo. Et
hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid
significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi
ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et
negare, ut in primo habitum est. Deinde cum dicit: præter verbum
etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi.
Dictum est enim supra quod, præter verbum nulla est affirmatio vel negatio.
Potest enim præter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si
ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non
potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum
verbum constituitur per additionem infinitæ particulæ, quæ quidem addita verbo
per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut
addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem
potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum.
Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet
verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex
parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur
compositio, quæ importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione
positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas
enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut
faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori
intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit
affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut
diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis præter differentiam
finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam
verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut
in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in
casibus verbi includitur ipsum verbum præsentis temporis. Præteritum enim et
futurum, quæ significant casus verbi, dicuntur per respectum ad præsens. Unde
si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc
est præteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo
subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quæcumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero prædictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad præsens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex præmissis distinctionem enunciationum in quibus nomen
finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex
differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem;
alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter,
vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito
sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo
est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem,
non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit
illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quæ sunt
quatuor, sicut et illæ in quibus est subiectum non universaliter positum. Prætermisit
autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut,
Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod
signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia
inveniri. Similiter etiam prætermittit exemplificare de enunciationibus, quarum
subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim
habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem
aliquam differentiam ex parte verbi, quæ posset sumi secundum casus verbi, quia
sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in præterito et in futuro,
quæ circumstant præsens, est eadem ratio sicut et in præsenti, ut iam dictum
est. Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel
infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas
enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti
et ex parte prædicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi
enunciationes; secundo, manifestat quædam quæ circa eas dubia esse possent;
ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit
de enunciationibus in quibus nomen prædicatur cum hoc verbo, est; secundo de
enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et
cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum
triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de
enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum;
secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi:
similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen
infinitum; ibi: aliæ autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa
primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium
enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem;
ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et
cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit
quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet
intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens prædicatur.
Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in
enunciatione prædicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod
nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura.
Quandoque vero non prædicatur per se, quasi principale prædicatum, sed quasi
coniunctum principali prædicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum
dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem
esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et
ideo in talibus, est, prædicatur ut adiacens principali prædicato. Et dicitur
esse tertium, non quia sit tertium prædicatum, sed quia est tertia dictio
posita in enunciatione, quæ simul cum nomine prædicato facit unum prædicatum,
ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres. Secundo,
considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum
est, tertium adiacens prædicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod
considerandum est quod in præmissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur
solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta
si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una
oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens prædicatur,
oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam
nominis prædicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut hæc est una
oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo
est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per
appositionem negativæ particulæ ad hoc verbum est, quod est nota prædicationis.
Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est
tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est,
adiacet, scilicet prædicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest
enim ipsum est, dici nomen, prout quælibet dictio nomen dicitur, et sic est
tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi,
dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit,
vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur
nomen vel verbum. Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit
numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit
earum habitudinem; ibi: quarum duæ quidem etc.; tertio, rationem numeri
explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duæ
sunt oppositiones, quando est tertium adiacens prædicatur, cum omnis oppositio
sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes
illæ in quibus est, tertium adiacens, prædicatur, subiecto finito non
universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duæ quidem etc., ostendit
habitudinem prædictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duæ dictarum
enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam,
sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Græco habetur, sicut
privationes; aliæ vero duæ minime. Quod quia breviter et obscure dictum est,
diversimode a diversis expositum est. Ad cuius evidentiam
considerandum est quod tripliciter nomen potest prædicari in huiusmodi
enunciationibus. Quandoque enim prædicatur nomen finitum, secundum quod
assumuntur duæ enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo
est iustus, et homo non est iustus; quæ dicuntur simplices. Quandoque vero prædicatur
nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duæ aliæ, scilicet homo est non
iustus, homo non est non iustus; quæ dicuntur infinitæ. Quandoque vero prædicatur
nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duæ aliæ, scilicet homo est
iniustus, homo non est iniustus; quæ dicuntur privativæ. Quidam ergo sic
exposuerunt, quod duæ enunciationes earum, quas præmiserat scilicet illæ, quæ
sunt de infinito prædicato, se habent ad affirmationem et negationem, quæ sunt
de prædicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes,
idest sicut illæ, quæ sunt de prædicato privativo. Illæ enim duæ, quæ sunt de
prædicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quæ sunt de
finito prædicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad
negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quæ est
affirmatio de infinito prædicato, respondet secundum consequentiam negativæ de
prædicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito
prædicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativæ de finito prædicato,
huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quæ sunt
de infinito prædicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de
privativo prædicato respondet secundum consequentiam negativæ de finito prædicato,
scilicet hæc, homo est iniustus, ei quæ est, homo non est iustus. Negativa vero
affirmativæ, scilicet hæc, homo non est iniustus, ei quæ est, homo est iustus.
Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illæ, quæ sunt de
finito prædicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda
autem linea, negativa de infinito prædicato sub affirmativa de finito et
affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo prædicato
similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in
subscripta figura.Sic ergo duæ, scilicet quæ sunt de infinito prædicato, se
habent ad affirmationem et negationem de finito prædicato, sicut privationes,
idest sicut illæ quæ sunt de privativo prædicato. Sed duæ aliæ quæ sunt de
infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus,
manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit
herminus hoc quod dicitur, duæ vero, minime, referens hoc ad illas quæ sunt de
infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum præmisisset
quatuor enunciationes, duas scilicet de finito prædicato et duas de infinito,
subiungit quasi illas subdividens, quarum duæ quidem et cetera. Duæ vero,
minime; ubi datur intelligi quod utræque duæ intelligantur in præmissis. Illæ
autem quæ sunt de infinito subiecto non includuntur in præmissis, sed de his
postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur. Et
ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod prædictarum
quatuor propositionum duæ, scilicet quæ sunt de infinito prædicato, sic se
habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et
negationis, ut privationes, idest ut privativæ affirmationes seu negationes. Hæc
enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed
secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non
est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de
negativa, quæ est de infinito prædicato. Duæ vero, quæ sunt de finito prædicato,
non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed
simpliciter. Hæc enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et hæc,
homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit
verbis Aristotelis. Dicit enim infra: hæc igitur quemadmodum in resolutoriis
dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens.
Et ideo Ammonius ex his, quæ in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quæ
sunt de finito vel infinito vel privativo prædicato, alium sensum
accipit. Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit,
enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in
enunciatione significatur vere prædicari potest: sicut hæc enunciatio, homo est
iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est
homo iustus; et similiter hæc enunciatio, homo non est iustus, se habet ad
omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus.
Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus
est quam affirmativa infinita, quæ ei correspondet. Nam, quod sit homo non
iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiæ;
sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum
iustitiæ, sed etiam de eo qui penitus non est homo: hæc enim est vera, lignum
non est homo iustus; tamen hæc est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam
animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam
ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo
quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa
infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et
de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non
iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa
vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non
iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non
est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa
infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine
habente habitum iustitiæ, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum
quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de
omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiæ neque habent habitum
iniustitiæ. His igitur visis, facile est exponere præsentem litteram hoc
modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum prædictarum, duæ quidem, scilicet
infinitæ, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices,
quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in
modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duæ privativæ: quia
scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non
convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem
affirmativam sequitur negativa privativa, quæ est in plus, et non convertitur.
Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quæ est in
minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam
affirmativam, quæ est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est
habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quæ est etiam
privativarum. Sequitur, duæ autem, scilicet simplices, quæ relinquuntur,
remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor præmissis, minime, idest non ita
se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativæ se habent ad eas; quia
videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa
infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia
vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed
affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet
quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativæ
se habent ad infinitas. Quamvis autem
secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse
aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas
habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in prædicta
expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea
dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis
conveniens litteræ Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit;
secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum
consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor
præmissarum, duæ quidem, scilicet affirmativæ, quarum una est simplex et alia
infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut
scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam
simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur
negativa simplex. Duæ vero, scilicet negativæ, minime, idest non ita se habent
ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativæ, sicut ex
affirmativis sequebantur negativæ. Et quantum ad utrumque similiter se habent
privativæ sicut infinitæ. Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc.,
manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor prædictæ
enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est
solum prædicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito:
puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum
quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra
harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa.
Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod prædictis duabus enunciationibus affirmativis
respondet duæ aliæ negativæ. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices
enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra
dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis
dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quædam
quadrata figura, in cuius uno angulo describatur hæc enunciatio, homo est
iustus, et ex opposito describatur eius negatio quæ est, homo non est iustus;
sub quibus scribantur duæ aliæ infinitæ, scilicet homo est non iustus, homo non
est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum
vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur
quatuor enunciationes. Ultimo autem concludit quod prædictæ enunciationes
disponuntur secundum ordinem consequentiæ, prout dictum est in resolutoriis,
idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut
non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini
adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur
ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quæ sunt de infinito
subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte prædicati.
Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte prædicati
ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod prædicta littera sit
corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter
Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in
quibuscunque nominibus ponantur exempla. BOEZIO. COMMENTARII in LIBRUM
ARISTOTELIS IIEPI EPMHNEIAS RECENSUIT CAROLUS MEISER. PARS POSTERIOR SECUNDAM
EDITIONEM ET INDICES CONTINENS. CHE T HILLr L,v-LIPSIÆ IN ÆDIBUS B. G. TEUBNERI.
LIPSIÆ: B. G. TETJBNERI. In secundæ editionis textu recensendo lii libri manu
scripti mihi præsto fuerunt: S codex (Salisb. 10) bibliothecæ Palatinæ
Vindobonensis (Endlicheri) qui continet f. 1 8V versionem continue scriptam libri
Aristotelici itEQi EQiirjvecag, quam littera 2J signavi, deinde f. 9 176v sex libros Boetii commentariorum. F codex
Frisingensis Monacensis s. XI et X: vetustior
manus s. X
incipit a f.
(editionis Basileensis = nostræ editionis). T codex (Tegernseensis)
Monacensis, qui f. 1 56v priorem editionem expositionis BOEZIO, f. 57v 65v
versionem continuam, quam 1. % signavi, f. 66v191 secundam editionem
complectitur. E codex (Ratisb.
S. Emm. 582)
Monacensis 14582 s. XI. Præter hos quattuor codices, quorum
plenam scripturæ discrepantiam studio
legentium proposui, hi quattuor alii libri a
mehic aut illic inspecti et difficilioribus locis excussi sunt: X codex
Einsidlensis 301 s. X, in quo non pauca
desiderantur: nam desunt, 17 huius editionis
conposita sit possibile non necessarium, postremo desinit
in verba de
contingenti et de
possi (sic), ut
finis quinti et
sextus liber totus
perierit. J codex Einsidlensis PRÆFATIO. G codex
Sangallensis 830 s.
XI. B codex
Bernensis, in quo desunt p. 383, 1 ut
in eo et dicit. Hos omnes codices
ex uno eodemque
fonte fluxisse inde
apparet, quod eædem
in omnibus lacunæ,
eædem interpolationes, eadem
vitiorum genera deprehenduntur, et
de lacunis quidem
conferas præterea de interpolationibus autem iisdem vero cunctos vitiis
foedatos esse ut demonstrem, satis erit
unum aut alterum
ex plurimis passim
obviis proferre exemplum,
nam et p. 361, ubi
Peripatetica interrogationis divisio
proditur, cum in
codicibus nostris v.
8 sqq. legatur:
'non dialecticæ autem interrogationis duæ sunt species, sicut audivimus
docet 5, manifestum est pro vocabulo corrupto audivimus 5 Eu de mus
restituendum fuisse, 23 quin recte
scripserim: ad tenacioris memoriæ subsidium 5, cum codices inperversa
scritione t elatior is consentiant, quis est qui dubitet?
confer præterea locum illum in omnibus æqualiter libris turbatum. Pro
fundamento autem textus constituendi codicem S habui, omnium longe præstantissimum, qui non raro
ceteris fidelius veræ scripturæ vestigia servaverit, confer e. c. ubi huius
codicis lectio a bonum 5 propius ad verum ad unum 5 accedit quam reliquorum ad
bonum 5, hoc unum dolendum est, quod a correctore quodam, quamquam multa
emendata sunt, tamen ipsis locis difficillimis ita rasuris depravatus est, ut
quid primitus in eo scriptum fuerit sæpe dinosci non possit, nec tamen
multum interest, cum propter
similitudinem ceterorum codicum fere semper quid S habuerit ex aliis suspicari
liceat. V Codici S plerumque consentit F, nisi quod in hoc librarius interdum
pravo varietatis studio et verba transposuisse et pro solitis rariora vocabula
inculcasse videtur, nam cum hic codex p.
395, 20 pro voce Socratem mire elimannum
posueri, quod aperte falsum est, iure in dubium vocari potest, num recte aliis
locis hunc codicem solum contra ceterorum consensum secutus sim. quare hos
locos notare velim et quid F habeat, quid ceteri adscribam: F ceterip.
, 21 autumant putant itidem
similiter infit dicit , 1 potiores meliores 246,
20 itidem similiter. Ad S et F libros optimos proxime accedit E, et ipse optimæ notæ idemque pulcherrime
et diligentissime scriptus,
a secunda manu
et in S
(= S2) et
in E (=
E2), rarius in
F (= F2)
multa egregie sunt emendata. N J G et ipsi in optimis numerandi sunt et
intima cognation cum S F E coniuncti,
sed vix quidquam novi ex iis elicitur, quod non in ceteris
reperiatur. Minus fidei codici T tribuendum
est, quippe qui fere semper cum secunda manu codicis G (=
G2) consentiat, ut quæ
in G supra
lineam vel in
margine leguntur in
T in textum
irrepserint, quare nec
interpolationibus vacat et
variæ lectiones promiscue
iuxta positæ inveniuntur,
sunt tamen quæ
in hoc codice
melius quam in
ceteris servata videantur. Minimæ auctoritatis
et omnium deterrimus
est codex B
(plerumque = E2),
qui pauca emendavit,
plurima demendo addendo
mutando turbavit ac
miscuit. Ut in
prima, sic in
secunda editione lemmata
non plenum Aristotelis
textum exhibent, sed
pauciora in secunda
editione desiderantur, quorum
quædam in E
Boetii comment. II.
a**VI PRÆFATIO. a secunda manu
in margine et
in B sunt
addita, ceteram B sæpius prima
tantum et postrema
Aristotelis verba expositioni
BOEZIO præmittit, quæ vocula
'usque5 (vel 'reliqua
usque5) iunguntur. De versione
BOZIO ana libri Aristoteliei Ttegi eQ[ir}-
vaiccg eiusque a nostro Aristotelis textu discrepantia in Fleckeiseni
annal. vol. CXVII . 247 253
disputavi. Monachii mense
Martio a. MDCCCLXXX.
Car. Meiser. Boezio. IH LIBRVM
ARISTOTELIS nEPI EPMHNEIAS COMMENTARII.
SECVNDA EDITIO. BOEZIO (vedasi) comment. S = codex (Salisb. n. 10) Vindobonensis n.
80. ( E præmissa
translatio). F =
codex Frisingensis Monacensis T
= codex (Tegernseensis) Monacensis
(X = præmissa
translatio). E =
codex (Ratisb. S.
Emm. n. 582)
Monacensis n. 14582.
N = codex Einsidlensis . J
= codex Einsidlensis
G = codex
Sangallensis. B =
codex Bernensis b =
editio Basileensis BOEZIO
COMMENTARIORVM IN LIBRVM
ARISTOTELIS IIEPI EPMHNEIA2 SECVNDÆ EDITIONIS LIBER PRIMYS. Alexander in
commentariis suis hac se inpulsum causa pronuntiat sumpsisse longissimum
expositionis laborem, quod in multis ille a priorum scriptorum sententiis
dissideret: mihi maior persequendi operis
causa est, quod non facile quisquam vel transferendi vel etiam
commentandi continuam sumpserit seriem, nisi
quod Vetius Prætextatus priores
BOEZIO VIRI ILLVSTRIS EX CONSVLV ORDINE
(CONS ORD F) IN PERIERMENIAS
ARISTOTOLIS (ARESTOTELIS F) EDITIONIS SECVNDÆ
LIBER I INCIPIT. SF
A-M-S-B- SECVNDA ÆDITIO IN LIBRVM PERI HERMENIAS INCIPIT. GT BOEZIO VIRI
ILL ÆDITIONIS SCDÆ IN PERIERMENIAS ARIST-
LIB I INCIPIT. J
BOEZIO VIRI CLARISSIMI ET ILLVSTRIS EX CONSVLARI ORDINE PATRICII SCDÆ EDITIONIS EXPO SITIONV IN ARISTOTELIS PERIHERMENIAS
INCIPIT LIBER I E titulum om. NB 1 Alexander longissimum
om. N 2 longissimg T 4 dissidet
F 6 etiam om.
F 1* ed.Bas
SECVNDA EDITIO postremosque analyticos non vertendo Aristotelem LATINO
SERMONE tradidit, sed transferendo Themistium, quod qui utrosque legit facile
intellegit. ALBINO quoque de isdem rebus
scripsisse perhibetur, cuius ego geometricos quidem libros editos scio,
de DIALECTICA uero diu multumque quæsitos reperire non valui, sive igitur ille
omnino tacuit, nos prætermissa dicemus, sive aliquid scripsit, nos quoque docti viri imitati studium in eadem
laude versabimur. sed quamquam multa sint Aristotelis, quæ SUBTILISSIMA
PHILOSOPHIÆ arte celata sint, hic tamen ante omnia liber nimis et acumine
sententiarum et verborum brevitate constrictus est. quocirca plus hic quam in X prædicamentis
expositione sudabitur. Prius igitur quid
VOX sit definiendum est. hoc enim perspicuo et manifesto omnis libri
patefiet intentio. VOX est æris per linguam percussio, quæ per quasdam gutturis
partes, quæ arteriæ vocantur, ab animali profertur, sunt enim quidam alii SONI,
qui eodem perficiuntur flatu, quos lingua non percutit, ut est tussis, hæc
enim flatu fit quodam per arterias egrediente, sed nulla linguæ inpressione
formatur atque ideo nec ullis subiacet elementis, scribi enim nullo modo
potest, quocirca vox hæc non dicitur, sed tantum sonus, illa quoque potest esse
definitio vocis, ut eam dicamus SONUM esse cum quadam imaginatione SIGNIFICAND,
vox namque cum emittitur, SIGNIFICATIONIS alicuius causa profertur, tussis
vero cum sonus sit, nullius SIGNIFICATIONIS causa subrepit
3 Qu§ qui T 4 eisdem E 5
ergo T 6
repp. sic semper
codices 7 omnino
ille T 12
nimis tacumine T
omnis om. F
intentio de voce
SG-J et in
marg. T definitio
vocis E diff
vocis F2 19
guturis F alicuius
SIGNIFICATIONIS G2
in marg. tusis
F 30 subripit
S surripit GT
I. 5 potius quam profertur, quare quoniam noster flatus ita sese habet,
ut si ita percutitur atque formatur, ut eum lingua percutiat, vox sit: si ita
percutiat, ut terminato quodam et circumscripto sono vox exeat, LOCUTIO fit quæ
Græce dicitur Xs%ig. locutio enim est
ARTICULATA VOX (neque enim hunc sermonem
id est Xe%iv dictionem
dicemus, idcirco quod cpccGiv dictionem
interpretamur, Xi%iv vero locutionem), cuius
locutionis partes sunt litteræ,
quæ cum iunctæ fuerint, unam efficiunt vocem coniunctam conpositamque,
quæ locutio prædicatur. sive autem aliquid quæcumque vox SIGNIFICET, ut
est hic sermo
“homo”, sive omnino nihil, sive
positum alicui nomen SIGNIFICARE possit,
ut est “HLITYRI” (hæc enim vox per se cum nihil SIGNIFICET, posita tamen ut alicui
nomen sit SIGNIFICABIT), sive per se quidem nihil SIGNIFICET, cum
aliis vero iuncta designet, ut sunt coniunctiones: hæc omnia locutiones vocantur, ut sit propria
locutionis forma vox conposita quæ litteris describatur, ut igitur sit locutio, voce opus est id est eo sono quem
percutit lingua, ut et vox ipsa sit per linguam determinata in eum sonum qui
inscribi litteris possit, sed ut hæc locutio SIGNIFICATIVA sit,
illud quoque addi oportet, ut sit aliqua
significandi imaginatio, per quam id quod in voce vel in locutione est
proferatur: ut certe ita dicendum sit: si
in hoc flatu, quem per arterias
emittimus, sit linguæ sola percussio, vox est; sin vero talis percussio sit, ut
in litteras redigat sonum, locutio; quod
si vis quoque quædam imaginationis
adda- 1 quoniam dei. S2
om. F 2
percutitur atque formatur
g2p2g2g. percuti atq.
formari SFEN, percuti
atq. formari possit T
(possit supra lin.
GJ) ut cu
eu B 3
sit] est STGNJ
( corr. S2) 5 fit]
sit S2FE2 lexis
codices, item et
8 lexin, 7
phasin 9 literæ
in marg. S quæ coniunctæ
S, corr. S2
13 alicuius SF
14 blythyri SG
blithyri NT blytbiri
EF? {in fine
suprascr. s F)
21 et ut b 22
scribi? 28 fit T
tur, illa SIGNIFICATIVA vox redditur. concurrentibus
igitur his tribus: linguæ percussione, articulato vocis sonitu,
imaginatione aliqua proferendi fit
interpretatio, interpretatio namque est
vox articulata per se ipsam 5
SIGNIFICANS, quocirca non omnis vox interpretatio est. sunt enim ceterorum animalium voces, quæ
interpretationis vocabulo non tenentur, nec omnis locutio interpretatio
est, idcirco quod (ut dictum est) sunt locutiones quædam, quæ significatione careant et cum per se quædam
non significent, iunctæ tamen cum aliis
significant, ut coniunctiones. interpretatio autem in solis per se significativis et articulatis vocibus
permanet. quare convertitur, ut quidquid sit interpretatio, illud significet,
quidquid significat, interpretationis vocabulo nuncupetur, unde etiam
ipse quoque Aristoteles in libris quos
de poetica scripsit locutionis partes esse syllabas vel etiam
coniunctiones tradidit, quarum syllabæ in eo quod sunt syllabæ nihil omnino
significant, coniunctiones vero consignificare quidem possunt, PER SE VERO
NIHIL DESIGNANT, interpretationis vero
partes hoc libro constituit nomen et verbum, quæ scilicet per se ipsa
SIGNIFICANT, nihilo minus quoque
orationem, quæ et ipsa cum vox sit ex significativis partibus iuncta
significatione non caret quare quoniam non de oratione sola, sed etiam de verbo
et nomine, nec vero de sola locutione, sed etiam de SIGNIFICATIVA locutione, quæ est interpretatio, hoc libro
ab Aristotele tractatur, id circo
quoniam in 16 Ar. Poet. c. 20.
1 significatiua b: significatio
SG-TE, significatione FS1 2E2?
redditur uox T
4 interpretatio om.
SNF, in marg.
addunt GE quæ
namq; S2F 10
iunctæ F: iuncta
ceteri 14 illud
quoq; E arte
poetica S2FE 23
post orationem addit
partem esse tradidit
S2F cum om. T 28
in hoc S2F
ab om. T I.
7 verbis atque nominibus et in significativis locutionibus nomen
interpretationis aptatur, a communi nomine eorum, de quibus hoc libro
tractabitur, id est
ab interpretatione, ipse
quoque de interpretatione liber
inscriptus est. cuius
expositionem nos scilicet
quam 5 maxime
a Porphyrio quamquam
etiam a ceteris
transferentes Latina oratione
digessimus, hic enim
nobis expositor et
intellectus acumine et
sententiarum dispositione videtur
excellere, erunt ergo
interpretationis duæ primæ
partes nomen et
verbum, his enim
10 quidquid est
in animi intellectibus
designatur; his namque
totus ordo orationis
efficitur, et in
quantum vox ipsa
quidem intellectus significat,
in duas (ut
dictum est) secatur
partes, nomen et
verbum, in quantum
vero vox per
intellectuum medietatem subiectas
intellectui res demonstrat,
significantium vocum Aristoteles
numerum in X prædicamenta partitus
est. atque hoc
distat libri huius
intentio a prædicamentorum in denariam
multitudinem numerositate p. 291 collecta, ut hic quidem tantum de numero
SIGNIFICANTIUM vocum quæratur,
quantum ad ipsas
attinet voces, quibus
significativis vocibus intellectus
animi designentur, quæ
sunt scilicet simplicia
quidem nomina et
verba, ex his
vero conpositæ orationes:
prædicamentorum vero hæc
intentio est: de
significativis rerum vocibus
in tantum, quantum
eas medius animi
SIGNIFICET intellectus, vocis
enim quædam qualitas
est nomen et
verbum, quæ nimirum
ipsa illa decem
prædicamenta significant, decem
namque prædicamenta numquam
sine aliqua verbi
qualitate vel 30
nominis proferentur, quare
erit libri huius
intentio de significativis vocibus
in tantum, quantum
con- 1 in
om. E 3 in
hoc S2F 9 dispositio
S corr. S2 10
partes primæ T
11 intellectus F
corr. F1 totius
F 18 in hoc T
20 in tantum?
26 uocibus tractare
F, uoc. dicere
TE, tractare inmarg. S 31proferuntur S2F
32 signatiuis S corr. S2 8 SECVNDA EDITIO ceptiones animi
intellectus que significent,
de decem prædicamentis
autem libri intentio
in eius commentario
dicta est, quoniam
sit de significativis rerum
vocibus, quot partibus
distribui possit earum
signifi- 5 catio
in tantum, quantum
per sensuum atque
intellectuum medietatem res
subiectas intellectibus voces
ipsæ valeant designare,
in opere vero
de poetica non
eodem modo dividit
locutionem, sed omnes
omnino locutionis partes
adposuit confirmans esse
locu- 10 tionis
partes elementa, syllabas,
coniunctiones, articulos, nomina,
casus, verba, orationes,
locutio namque non
in solis significativis vocibus
constat, sed supergrediens
significationes vocum ad
articulatos sonos usque
consistit, quælibet enim
syllaba vel quodlibet nomen
vel quælibet alia
vox, quæ scribi
litteris potest, locutionis
nomine continetur, quæ Græce dicitur
sed non eodem
modo interpretatio. huic
namque non est
satis, ut sit
huiusmodi vox quæ
litteris valeat adnotari,
sed ad hoc
ut aliquid quoque
significet, prædicamentorum vero
in hoc ratio
constituta est, in
quo hæ duæ
partes interpretationis res
intellectibus subiectas designent,
nam quoniam decem
res omnino in
omni natura reperiuntur,
decem quoque intellectus
erunt, quos intellectus quoniam verba
nominaque significant, decem
omnino erunt prædicamenta,
quæ verbis atque
nominibus DESIGNENTUR, duo vero quædam id est nomen et verbum, quæ
ipsos significent intellectus,
sunt igitur elementa
interpretationis verba et
nomina, propriæ vero
partes 30 quibus
ipsa constat interpretatio
sunt orationes, orationum
vero aliæ sunt
perfectæ, aliæ inperfectæ.
7 Ar.
Poet. c. .
3 pro quoniam:
cum F 4 quod F
7 arte poetica
FE2, arte in
marg. S 17 lexis
FTE 31 aliæ
uero inp. TE,
aliæ inperf. om.
S in marg.
addit S2 I.
9 perfectæ sunt
ex quibus plene
id quod dicitur
valet intellegi, inperfectæ
in quibus aliquid
adhuc plenius animus
exspectat audire, ut est Socrates
cum Platone. nullo
enim addito orationis
intellectus pendet ac
titubat et auditor
aliquid ultra exspectat
audire, perfectarum vero
orationum partes quinque
sunt: deprecativa ut
Iuppiter omnipotens, precibus
si flecteris ullis,
Da deinde auxilium,
pater, atque hæc
omina firma, imperativa
ut Yade age,
nate, voca Zephyros
et labere pennis,
interrogativa ut Dic
mihi, Damoeta, cuium
pecus? an Meliboei?
vocativa 0 pater,
o hominum rerumque
æterna potestas, enuntiativa,
in qua veritas
vel falsitas invenitur,
ut Principio arboribus
varia est natura
serendis, huius autem
duæ partes sunt,
est namque et
simplex oratio enuntiativa
et conposita. simplex ut
dies est, lucet,
conposita ut si
dies est, lux
est. in hoc
igitur libro LIZIO de
enuntiativa simplici oratione
disputat et de
eius elementis, nomine
scilicet atque verbo,
quæ quoniam et
significativa sunt et
significativa vox articulata
interpretationis nomine continetur,
de communi (ut
dictum est) vocabulo
librum de interpretatione appellavit,
et Theophrastus quidem
in eo libro,
quem de adfirmatione
et negatione conposuit,
de enuntiativa oratione
tractavit, et Stoici
quoque in his
libris, quos ttsqI
a^tco^uzcov appellant, de
isdem 7 Yerg. Æn. II
689. 691 9
Yerg. Æn. IY
223 11 Yerg.
Ecl. III 1
12 Yerg. Æn.
X 18 14
Yerg. Georg. II
9 9 omnia
TE 10 pinnis
S^1 11 damgta
T 12 melibei
T ut b
:'om. codices, alterum
o om. SFE1
15 creandis Vergilii
codices 16 et
om. E est
et conp. S2FE2
lux est F2E2
21 uox et
art. S2FE2 27
peri axiomaton codices
5 10 15 20 25 nihilominus disputant,
sed illi quidem
et de simplici
et de non
simplici oratione enuntiativa
speculantur, Aristoteles vero
hoc libro nihil
nisi de sola
simplici enuntiativa oratione
considerat. Aspasius quoque
et 5 Alexander
sicut in aliis
Aristotelis libris in
hoc quoque commentarios
ediderunt, sed uterque
Aristotelem de oratione
tractasse pronuntiat, nam si oratione
aliquid proferre ut
aiunt ipsi interpretari
est, de interpretatione liber
nimirum veluti de
oratione per scriptus
est, quasi vero
sola oratio ac
non verba quoque
et nomina interpretationis vocabulo
concludantur. æque namque
et oratio et
verba ac nomina,
quæ sunt interpretationis elementa,
nomine interpretationis vocantur, sed
Alexander addidit inperfecte
sese habere libri
titulum: neque enim
designare, de qua
oratione perscripserit, multæ
namque ut dictum
est sunt orationes;
sed adiciendum vel
subintellegendum putat de
oratione illum scribere
philosophica vel dialectica
id est, qua
verum falsumque valeat
expediri sed qui semel
solam orationem interpretationis nomine
vocari recipit, in
intellectu quoque ipsius
inscriptionis erravit, cur
enim putaret inperfectum
esse titulum, quoniam
nihil de qua
oratione disputaret adiecerit?
ut si quis
interrogans quid est
homo? alio respondente animal
culpet ac dicat
inperfecte illum dixisse,
quid sit, quoniam
non sit omnes
differentias persecutus, quod
si huic, id
est homini, sunt
quædam alia communia
ad nomen animalis,
nihil tamen inpedit
perfecte demonstrasse, quid
homo esset, eum
qui animal dixit:
sive enim differentias
addat quis sive
non, hominem animal
esse necesse est.
eodem quoque modo
et de oratione,
si quis hoc
concedat primum, nihil
aliud interpretationem dici
nisi orationem, 5
alios libros in
hunc? 21 recepit?
21.22 scriptionis S^1
23. 24 adiecit
T 26 non
o. diff. sit
E 30 addit
T interpretatione F I. 11 cur
qui de interpretatione inscripserit
et de qua
interpretatione dicat non
addiderit culpetur, non
est. satis est
enim libri titulum
etiam de aliqua
continenti communione fecisse,
ut nos eum
et de nominibus
et verbis et
de orationibus, cum bæc omnia
uno interpretationis nomine
continerentur, supra fecisse
docuimus, cum bic
liber ab eo
de interpretatione notatus
est. sed quod
addidit illam interpretationem solam
dici, qua in
oratione possit veritas
et falsitas inveniri,
ut est enuntiativa
oratio, fingentis est
ut ait Porphyrius
significationem nominis potius
quam docentis, atque
ille quidem et
in intentione libri
et in titulo
falsus est, sed
non eodem modo
de iudicio quoque
libri buius erravit.
Andronicus enim librum
bunc Aristotelis esse
non puta,quem Alexander
vere fortiterque redarguit,
quem cum exactum
diligentemque Aristotelis librorum
et iudicem et
repertorem iudicarit antiquitas,
cur in huius
libri iudicio sit
falsus, prorsus est
magna admiratione dignissimum,
non esse namque
proprium Aristotelis bine
conatur ostendere, quoniam
quædam Aristoteles in
principio libri huius
de intellectibus animi
tractat, quos intellectus
animæ passiones vocavit,
et de bis
se plenius in
libris de anima
disputasse commemorat, et
quoniam passiones animæ
vocabant vel tristitiam
vel gaudium vel
cupiditatem vel alias
huiusmodi adfectiones, dicit
Andronicus ex boc
probari hunc librum
Aristotelis non esse,
quod de huiusmodi
adfectionibus nihil in
libris de anima
tractavisset, non intellegens
in hoc libro
Aristotelem passiones animæ
non pro adfectibus,
sed pro intellectibus
posuisse, his Alexander
multa alia addit
argumenta, cur hoc
opus Aristotelis maxime
esse videatur, ea
namque dicuntur hic,
quæ sententiis Aristotelis
quæ sunt de
enuntia- [5. 6 continentur F 6 cum om. F1 hæc S, corr. S2
10. 11 potius sign. nom. S2F et animæ T
in supra lin. T vocabat b prius pro om. S1 Hic E1 5 12 SECVNDA
EDITIO] tione consentiant; illud
quoque, quod stilus
ipse propter brevitatem
pressior ab Aristotelis
obscuritate non discrepat;
et quod Theophrastus,
ut in aliis
solet, cum de
similibus rebus tractat,
quæ scilicet ab
Aristotele ante tractata
sunt, in libro
quoque de adfirmatione
et negatione, isdem
aliquibus verbis utitur,
quibus hoc libro
Aristoteles usus est.
idem quoque Theophrastus
dat signum hunc
esse Aristotelis librum:
in omnibus enim,
de quibus ipse
disputat post magistrum, leviter
ea tangit quæ
ab Aristotele dicta
ante cognovit, alias
vero diligentius res
non ab Aristotele
tractatas exsequitur, hic
quoque idem fecit,
nam quæ Aristoteles
hoc libro de
enuntiatione tractavit, leviter
ab illo transcursa
sunt, quæ vero
magister eius tacuit,
ipse subtiliore modo
considerationis adiecit. addit
quoque hanc causam,
quoniam Aristoteles quidem
de syllogismis scribere
animatus num- quam
id recte facere
potuisset, nisi quædam
de propositionibus adnotaret.
mihi quoque videtur
hoc subtiliter
perpendentibus liquere hunc
librum ad analyticos
esse præparatum, nam
sicut hic de
simplici propositione disputat,
ita quoque in
analyticis de simplicibus
tantum considerat syllogismis,
ut ipsa syllogismorum
propositionumque simplicitas non
ad aliud nisi
ad continens opus Aristotelis
pertinere videatur, quare non est audiendus Andronicus, qui propter passionum nomen hunc librum ab
Aristotelis operibus separat.
Aristoteles autem idcirco passiones animæ intellectus vocabat, quod
intellectus, quos sermone dicere et oratione proferre consuevimus, ex aliqua
causa atque utilitate profecti sunt: ut enim dispersi homines colligerentur et
legibus vellent esse subiecti civitatesque condere, utilitas quædam fuit et
causa, quocirca 3 et b:
uel codices 15
subtilior S1 16
addidit E 17 pro scribere:
est T 19
hoc uidetur F
22 in om. F1 29
uocauit E I
c, 1. 13 quæ
ex aliqua utilitate
veniunt, ex passione
quoque provenire necesse
est. nam ut
divina sine ulla
sunt passione, ita
nulla illis extrinsecus
utilitas valet adiungi:
quæ vero sunt passibilia
semper aliquam causam
atque utilitatem quibus
sustententur inveniunt
quocirca huiusmodi intellectus,
qui ad alterum
oratione proferendi sunt,
quoniam ex aliqua
causa atque utilitate
videntur esse collecti,
recte passiones animi
nominati sunt, et
de intentione quidem
et de libri
inscriptione et de
eo, quod hic
maxime Aristotelis liber
esse putandus est, hæc dicta
sufficiunt, quid vero
utilitatis habeat, non
ignorabit qui sciet
qua in oratione
veritas constet et
falsitas. in sola
enim hæc enuntiativa
oratione consistunt, iam
vero quæ dividant
verum falsumque quæve
definite vel quæ
varie et mutabiliter
veritatem falsitatemque partiantur,
quæ iuncta dici
possint, cum separata
valeant prædicari, quæ
separata dicantur, cum
iuncta sint prædicata,
quæ sint negationes
cum modo propositionum, quæ
earum consequentiæ aliaque
plura in ipso
opere considerator poterit
diligenter agnoscere, quorum
magnam experietur utilitatem
qui animum curæ
alicuius investigationis adverterit,
sed nunc ad
ipsius Aristotelis verba
veniamus. Primum
oportet constituer, quid
nomen et quid
verbum, postea quid
est negatio et
adfirmatio et enuntiatio
et oratio. Librum
incohans de quibus
in omni serie
tractaturus sit ante
proposuit, ait enim
prius oportere de
2 sunt om.
F1 5 inuenient
E 8 animæ?
11 sufficiant b
16 patiantur T
16. 17 quæ
iuncta om. F,
in marg. quæ
iunctim F2? 17.18
iuncta cum
om. S1 20.21
consideratior SF*T 21
quorum ego: quarum
codices 22 curæ
ego: cura codices
23 ipsius om.
F 25 quid
Ar. xL: quid
sit codices 26
sit uerbum codices
præter 2/E2 est
om. 2% {eras,
in S) quibus
disputaturus est definire,
hic enim constituere
definire intellegendum est.
determinandum namque est
quid hæc omnia
sint id est
quid nomen sit,
quid verbum et
cetera, quæ elementa
interpretationis esse prædiximus, sed
adfirmatio atque negatio
sub interpretatione sunt,
quare nomen et
verbum adfirmatio- nis
et negationis elementa
esse manifestum est.
his enim conpositis
adfirmatio et negatio
coniunguntur. exsistit hic quædam quæstio,
cur duo tantum
nomen et verbum se
determinare promittat, cum
plures partes orationis
esse videantur, quibus
hoc dicendum est tantum Aristotelem
hoc libro definisse,
quantum illi ad
id quod instituerat
tractare suffecit, tractat
namque de simplici
enuntiativa oratione, quæ
scilicet huiusmodi est, ut
iunctis tantum verbis
et nominibus conponatur.
si quis enim
nomen iungat et
verbum, ut dicat
Socrates ambulat, simplicem
fecit enuntiativam orationem,
enuntiativa namque oratio
est ut supra
memoravi quæ habet
in se falsi
verique designationem, sed in
hoc quod dicimus
Socrates ambulat aut
veritas necesse est
contineatur aut fal-
sitas. hoc enim
si ambulante Socrate
dicitur, verum est,
si non ambulante,
falsum, perficitur ergo
enuntiativa oratio simplex
ex solis verbis
atque nominibus quare superfluum
est quærere, cur
alias quoque quæ
videntur orationis partes
non proposuerit, qui
non totius simpliciter
orationis, sed tantum
simplicis enuntiationis instituit
elementa partiri, quamquam
duæ propriæ partes
orationis esse dicendæ
sint, nomen 30
scilicet atque verbum,
hæc enim per
sese utraque significant,
coniunctiones autem vel præpositiones nihil
omnino nisi cum
aliis iunctæ designant;
participia verbo cognata
sunt, vel quod
a gerundivo modo
2 definire om.
S1 17 et
T 22. 23
est verum F
25 quæ om.
S1 26 proposuit
T 33 uerbis
E2? vero verbo
editio princeps conata
T gerundi FXE
(gerunti? F) I
c. 1. 15
veniant vel quod
tempus propria significatione contineant;
interiectiones vero atque
pronomina nec non
adverbia in nominis
loco ponenda sunt,
idcirco quod aliquid
significant definitum, ubi
nulla est vel
passionis significatio vel
actionis, quod si
casibus horum quædam flecti
non possunt, nihil
inpedit. sunt enim
quædam nomina quæ
monoptota nominantur, quod
si quis ista
longius et non
proxime petita esse
arbitretur, illud tamen
concedit, quod supra
iam diximus, non
esse æquum calumniari
ei, qui non
de omni oratione,
sed de tantum
simplici enuntiatione proponat,
quod tantum sibi
ad definitionem sumpserit,
quantum arbitratus sit
operi instituto sufficere,
quare dicendum est Aristotelem non
omnis orationis partes
hoc opere velle definire,
sed tantum solius
simplicis enuntiativæ orationis,
quæ sunt scilicet
nomen et verbum,
argumentum autem huius
rei hoc est.
postquam enim proposuit
dicens: primum oportet
constituere, quid sit
nomen et quid
verbum, non statim
inquit, quid sit
oratio, sed mox
addidit et quid
sit negatio, quid adfirmatio,
quid enuntiatio, postremo
vero quid oratio,
quod si de
omni oratione loqueretur,
post nomen et
verbum non de
adfirmatione et negatione
et post hanc
de enuntiatione, sed
mox de oratione
dixisset, nunc vero
quoniam post nominis et
verbi propositionem adfirmationem, negationem
et enuntiationem et
post orationem proposuit,
confitendum est, id
quod ante diximus,
non orationis universalis,
sed simplicis enuntiativæ
orationis, quæ dividitur
in adfirmationem atque
negationem, divisionem partium
facere voluisse, quæ
sunt nomina et
verba, hæc enim
per se ipsa
intellectum simplicem servant,
1. 2 continent
F 7 monopta
S concedat b
10 calumpniari E
eum? tantum de
E2 enuntiatione om.
S1 12 sumpserat
F 14 omnes
SFT 20 et
om. F 26 et negationem
et F 31
uerba et nomina
F „ quæ
eadem dictiones vocantur,
sed non sola
dicuntur, sunt namque
dictiones et aliæ
quoque: orationes vel
inperfectæ vel perfectæ,
cuius plures esse
partes supra iam
docui, inter quas
perfectæ orationis species
est enuntiatio, et hæc quoque
alia simplex, alia
con- posita est.
de simplicis vero
enuntiationis speciebus inter
philosophos commentatoresque certatur,
aiunt enim quidam
adfirmationem atque negationem
enuntiationi ut species
supponi oportere, in
quibus et Porphyrius est:
quidam vero nulla
ratione consentiunt, sed
contendunt adfirmationem et
negationem æquivoca esse
et uno quidem
enuntiationis vocabulo nuncupari,
prædicari autem enuntiationem
ad utrasque ut
nomen æquivocum, non
ut genus univocum;
quorum princeps Alexander
est. quorum contentiones
adponere non videtur
inutile, ac prius
quibus modis adfirmationem
atque negationem non
esse species enuntiationis
Alexander putet dicendum
est, post vero
addam qua Porphyrius
hæc argumentatione
dissolverit. Alexander namque
idcirco dicit non
esse species enuntiationis
adfirmationem et negationem,
quoniam adfirmatio prior
sit. priorem vero
adfirmationem idcirco conatur
ostendere, quod omnis
negatio adfirmationem tollat
ac destruat, quod
si ita 25
est, prior est
adfirmatio quæ subruatur
quam negatio quæ
subruat, in quibus
autem prius aliquid
et posterius est,
illa sub eodem
genere poni non
possunt, ut in
eo titulo prædicamentorum dictum
est qui de his quæ
sunt simul inscribitur.
amplius: negatio omnis, inquit,
divisio est, adfirmatio
conpositio atque coniunctio.
cum enim dico
Socrates vivit, vitam
cum Socrate coniunxi;
cum dico Socrates
non vivit, vitam
a Socrate disiunxi.
divisio igitur quædam
negatio est, coniunctio
adfirmatio. conpositi autem
est con- 1 eædem SF
sola ego: solæ
codices 2 quoq;
ut b .
est species F
5 alias alias
E2 12 unum
S1T 22 fit
T I c. 1.
iunctique divisio, prior
est igitur coniunctio,
quod est adfirmatio;
posterior vero divisio,
quod est negatio,
illud quoque adicit,
quod omnis per
adfirmationem facta enuntiatio
simplicior sit per
negationem facta enuntiatione,
ex negatione enim
particula negativa 5
si sublata sit,
adfirmatio sola relinquitur,
de eo enim
quod est Socrates
non vivit si
non particula quæ
est adverbium auferatur,
remanet Socrates vivit.
simplicior
igitur adfirmatio est
quam negatio, prius
vero sit necesse
est quod simplicius
est. in quantitate
etiam quod ad
quantitatem minus est
prius est eo
quod ad quantitatem
plus est. omnis
vero oratio quantitas
est. sed cum
dico Socrates ambulat,
minor oratio est
quam cum dico
Socrates non ambulat,
quare si secundum
quantitatem adfirmatio minor est,
eam priorem quoque
esse necesse est.
illud quoque adiunxit
adfirmationem quendam esse
habitum, negationem vero
privationem, sed prior
habitus privatione: adfirmatio
igitur negatione prior
est. et ne
singula persequi laborem,
cum aliis quoque
modis demonstraret
adfirmationem negatione esse
priorem, a communi
eas genere separavit,
nullas enim species
arbitratur sub eodem
genere esse posse,
in quibus prius
vel posterius consideretur,
sed Porphyrius ait
sese docuisse species
enuntiationis esse adfirmationem
et negationem in
his commentariis quos
in Theophrastum edidit;
hic vero Alexandri
argumentationem tali ratione
dissolvit, ait enim
non oportere arbitrari,
quæcumque quolibet modo
priora essent aliis,
ea sub eodem
genere poni non posse,
sed quæ- cumque
secundum esse suum
atque substantiam priora vel
posteriora sunt, ea
sola sub eodem
genere non ponuntur,
et recte dicitur,
si enim omne
quidquid si om.
S^E1 16 quoq.
priorem F esse
om. SF separaret
SF, separabat S2F2,
separat T nullus
SF1 aliquid prius
GrTE consideratur F
26 iis F2
Boetii comxnent. prius
est cum eo
quod posterius est
sub uno genere
esse non potest,
nec primis substantiis
et secundis commune
genus poterit esse
substantia; quod qui
dicit a recto
ordine rationis exorbitat,
sed quemadmodum quamquam
sint primæ et
secundæ substantiæ, tamen
utraque æqualiter in
subiecto non sunt
et idcirco esse
ipsorum ex eo pendet, quod
in subiecto non
sunt, atque ideo
sub uno substantiæ
genere conlocantur: ita
quoque quamquam adfirmationes
negationibus in orationis
prolatione priores sint,
tamen ad esse
atque ad naturam
propriam æqualiter enuntiatione
participant, enuntiatio vero est
in qua veritas
et falsitas inveniri
potest, qua in
re et adfirmatio
et negatio æquales
sunt, æqualiter enim
et adfirmatio et
negatio veritate et
falsitate participant, quocirca
quoniam ad id quod
sunt adfirmatio et
negatio æqualiter ab
enuntiatione participant, a
communi eas enuntiationis
genere dividi non
oportet, mihi quoque
videtur quod Porphyrii
sit sequenda sententia,
ut adfirmatio et negatio communi
enuntiationis generi supponantur,
longa namque illa
et multiplicia Alexandri
argumenta soluta sunt,
cum demonstravit non
modis omnibus ea quæ priora
sunt sub communi
genere poni non
posse, sed quæ
ad esse proprium
atque substantiam priora
sunt illa sola
sub communi genere
constitui atque poni
non posse. Syrianus
vero, cui Philoxenus
cognomen est, hoc
loco quærit, cur
proponens prius de
negatione, post de
adfirmatione pronuntiaverit dicens:
primum oportet constituere, quid
nomen et quid
verbum, postea quid
est negatio et
adfirmatio. et primum
quidem nihil proprium
dixit, quoniam in
quibus et ad-
1 posterius] prius
S^E1 6 utræque
b 8 sint
E 13 et
post re om. F 16
ad ego addidi:
om. codices pro
a: et SF
supponatur SF multiplica
F ^ quid
sit n. codices
31 est om.
F primum S:
primo S2 et
ceteri I c.
1. firmatio potest
et negatio provenire,
prius esse negatio,
postea vero adfirmatio potest, ut de Socrate sanus est. potest ei aptari
talis adfirmatio, ut de eo dicatur Socrates sanus est; etiam huiusmodi potest
aptari negatio, ut de eo dicatur Socrates sanus non est. quoniam ergo in eum
adfirmatio et negatio poterit evenire, prius evenit ut sit negatio quam ut
adfirmatio. ante enim quam natus esset: qui enim natus non erat, nec esse
poterat sanus, liuic illud adiecit:
servare LIZIO conversam propositionis et exsecutionis distributionem. hic
enim prius post
nomen et verbum
de negatione proposuit,
post de adfirmatione,
dehinc de enuntiatione,
postremo vero de
oratione, sed proposita
definiens prius orationem,
post enuntiationem, tertio
adfirmationem, ultimo vero
loco negationem determinavit,
quam hic post
propositionem verbi et
nominis primam locaverat,
ut igitur ordo
servaretur conversus, idcirco
negationem prius ait
esse propositam, qua
in expositione Alexandri
quoque sententia non
discedit, illud quoque
est additum, quod
non esset inutile,
enuntiationem genus adfirmationis
et negationis accipi
oportere, quod quamquam
(ut dictum est)
ad prolationem prior
esset adfirmatio, tamen
ad ipsam enuntiationem
id est veri
falsique vim utrasque
æqualiter sub enuntiatione
ab Aristotele constitui,
id etiam Aristotelem
probare, præmisit enim
primam negationem, secundam
posuit adfirmationem, quæ
res nihil habet
vitii, si ad
ipsam enuntiationem adfirmatio
et negatio ponantur
æquales, quæ enim
natura æquales sunt,
nihil retinent contrarii
indifferenter acceptæ, est
igitur ordo quo
proposuit: primum totius
orationis est. potest T
2 non est
F; non supra
lin. SE; sanus
est delet S2
de eo om.
T1 6 eo?
8 post esset
addit potuit dici
sanus non est
T, in marg.
G2 enim om.
F, eras, in
E et hinc
E primum F ergo T
est F (in
rasura) probare dicit
FTE2S2(m»Mf^.) probare dr Misit G
(suprascr. dicit Premisit
G2) enim om.
E1 quod F,
quoq. T elementum, nomen
scilicet et verbum,
post hæc negationem
et adfirmationem, quæ
species enuntiationis sunt,
quorum genus id
est enuntiationem tertiam
nominavit, quartam vero
orationem posuit, quæ
ipsius enuntiationis genus
est. et horum
se omnium definitiones
daturum esse promisit,
quas interim relinquens
atque præteriens et
in posteriorem tractatum
differens illud nunc
addit quæ sint
verba et nomina
aut quid ipsa
significent, quare antequam
ad verba Aristotelis
ipsa veniamus, pauca
communiter de nominibus
atque verbis et
de his quæ
significantur a verbis
ac nominibus disputemus,
sive enim quælibet
interrogatio sit atque
responsio, sive perpetua
cuiuslibet orationis
continuatio atque alterius
auditus et intellegentia, sive
hic quidem doceat
ille vero discat,
tribus his totus
orandi ordo perficitur:
rebus, intellectibus, vocibus,
res enim ab
intellectu concipitur, vox
vero conceptiones animi
intellectusque significat, ipsi
vero intellectus et
concipiunt subiectas res
et significantur a
vocibus, cum igitur
tria sint hæc
per quæ omnis
oratio conlocutioque perficitur,
res quæ sub-
iectæ sunt, intellectus
qui res concipiant
et rursus a
vocibus significentur, voces
vero quæ intellectus
designent, quartum quoque
quiddam est, quo
voces ipsæ valeant designari,
id autem sunt
litteræ, scriptæ namque
litteræ ipsas significant
voces, quare quattuor
ista sunt, ut
litteræ quidem significent
voces, voces vero
intellectus, intellectus autem
concipiant res, quæ
scilicet habent quandam
non confusam neque fortuitam consequentiam, sed
terminata naturæ suæ
ordinatione constant, res
enim semper comitantur
eum qui ab
ipsis concipitur
intellectum, ipsum vero
intellectum vox sequitur,
sed voces elementa
id est quarum? res
vocibus om. F,
in marg. add.
F1? significent SF
suæ naturæ E
constat SE comitatur
F2 eum dei.
F2 intellectus F I
c. 1. litteræ,
rebus enim ante
propositis et in
propria substantia constitutis
intellectus oriuntur, rerum
enim semper intellectus
sunt, quibus iterum
constitutis mox significatio
vocis exoritur, præter
intellectum namque vox
penitus nihil designat,
sed quoniam voces
sunt, idcirco litteræ,
quas vocamus elementa,
repertæ sunt, quibus
vocum qualitas designetur,
ad cognitionem vero
conversim sese res
habet, namque apud
quos eædem sunt
litteræ et qui
eisdem elementis utuntur,
eisdem quoque nominibus
eos ac verbis
id est vocibus
uti necesse est
et qui vocibus
eisdem utuntur, idem
quoque apud eos
intellectus in animi
conceptione versantur, sed
apud quos idem
intellectus sunt, easdem
res eorum intellectibus
subiectas esse manifestum
est. sed hoc
nulla ratione convertitur,
namque apud quos eædem res
sunt idemque intellectus,
non statim eædem
voces eædemque sunt
litteræ. nam cum ROMANUS,
Græcus ac barbarus
simul videant equum,
habent quoque de
eo eundem intellectum
quod equus sit et apud
eos eadem res
subiecta est, idem
a re ipsa
concipitur intellectus, sed Græcus aliter
equum vocat, alia
quoque vox in
equi significatione ROMANA
est et barbarus
ab utroque in
equi designatione dissentit,
quocirca diversis quoque
voces proprias elementis
inscribunt, recte igitur
dictum est apud
quos eædem res
idemque intellectus sunt,
non statim apud
eos vel easdem
voces vel eadem
elementa consistere, præcedit
autem res intellectum,
intellectus vero vocem,
vox litteras, sed
hoc converti non
potest, neque enim
si litteræ sint,
mox aliqua ex
his significatio vocis
exsistit, hominibus namque
qui litteras ignorant
nullum nomen quælibet
elementa significant, quippe
quæ nesciunt, nec
si voces 1
positis F habent
T sit om. F1
designi- ficatione S1
intellectum res F
31 consistit E
sint, mox intellectus
esse necesse est.
plures enim voces
invenies quæ nihil
omnino significent, nec
intellectui quoque subiecta
res semper est.
sunt enim intellectus
sine re ulla
subiecta, ut quos
centauros vel chimæras poetæ
finxerunt, horum enim
sunt intellectus quibus
subiecta nulla substantia
est. sed si
quis ad naturam
redeat eamque consideret
diligenter, agnoscet cum
res est, eius
quoque esse intellectum:
quod si non
apud homines, certe
apud eum, qui
propriæ divinitate substantiæ
in propria natura
ipsius rei nihil
ignorat, et si
est intellectus, et
vox est; quod
si vox fuerit,
eius quoque sunt
litteræ, quæ si
Ignorantur, nihil ad
ipsam vocis naturam,
neque enim, quasi
causa quædam vocum
est intellectus aut
vox causa litterarum,
ut cum eædem
sint apud aliquos
litteræ, necesse sit
eadem quoque esse
nomina: ita quoque
cum eædem sint
vel res vel
intellectus apud aliquos,
mox necesse est
intellectuum ipsorum vel
rerum eadem esse
vocabula, nam cum
eadem sit et res
et intellectus hominis,
apud diversos tamen
homines huiusmodi substantia
aliter et diverso
nomine nuncupatur, quare
voces quoque cum eædem sint,
possunt litteræ esse
diversæ, ut in
hoc nomine quod
est homo: cum
unum sit nomen,
diversis litteris scribi
potest, namque Latinis
litteris scribi potest,
potest etiam Græcis,
potest aliis nunc
primum inventis litterarum
figuris, quare quoniam
apud quos eædem
res sunt, eosdem
intellectus esse necesse
est, apud quos
idem intellectus sunt,
voces eædem non
sunt et apud
quos eædem voces
sunt, non necesse
significant F 3
est semper E omnes T2
Denm b 10
snbst. div. E
13 nataram pertinet
F2 14 quædam
causa F ut
enim cum S2F
pro litteræ: uoces
E2 easdem E2
pro nomina: literas
E2 18 mox
non S2FE2 25
namque potest in
marg. F res
om. F1 non
eædem (non supra
lin .) F prius
sunt om. F
I c. 1. est
eadem elementa constitui;
dicendum est res et intellectus,
quoniam apud omnes idem sunt, esse NATURALITER constitutos, voces vero
atque litteras, quoniam diversis hominum
positionibus permutantur, NON ESSE NATURALITER, SED POSITIONE,
concludendum est igitur, quoniam apud
quos eadem sunt elementa, apud eos eædem quoque voces sunt et apud quos eædem
voces sunt, idem sunt intellectus; apud quos autem idem sunt intellectus, apud
eosdem res quoque eædem subiectæ sunt:
rursus apud quos eædem res sunt,
idem quoque sunt
intellectus; apud quos
idem intellectus, non eædem voces;
nec apud quos eædem voces
sunt, eisdem semper
litteris verba ipsa
vel nomina designantur,
sed nos in
supra dictis sententiis
elemento atque littera
promiscue usi sumus,
quæ autem sit
horum distantia paucis
absolvam, littera est
inscriptio atque figura
partis minimæ vocis
articulatæ, elementum vero
sonus ipsius inscriptionis: ut
cum scribo litteram
quæ est a,
formula ipsa quæ atramento
vel graphio scribitur
littera nominatur, ipse
vero sonus quo
ipsam litteram voce
proferimus dicitur elementum,
quocirca hoc cognito
illud dicendum est,
quod is qui
docet vel qui
continua oratione loquitur
vel qui interrogat,
contrarie se habet
his qui vel
discunt vel audiunt
vel respondent in
his tribus, voce scilicet,
intellectu et re (prætermittantur enim
litteræ propter eos
qui earum sunt
expertes), nam qui
docet et qui
dicit et qui
interrogat a rebus
ad intellectum profecti
per nomina et
verba vim propriæ
actionis exercent atque
officium (rebus enim
subiectis ab his capiunt
intellectus et per
nomina verbaque 0
14 designentur T
doctis S1 . min. p. art.
voc. E littera
T pro a: id
T 20 grafio STE 24. 25 vel qui F1 29 profecti
ego : profecto SFE,
profectu T, profectus
S2F2E2 exercent ego:
exercet codices atque
in marg. S
pronuntiant), qui vero
discit vel qui
audit vel etiam
qui respondet a
nominibus ad intellectus
progressi ad res
usque perveniunt, accipiens
enim is qui
discit vel qui
audit vel qui
respondet docentis vel
dicentis vel interrogantis
sermonem, quid unusquisque
illorum dicat intellegit
et intellegens rerum
quoque scientiam capit
et in ea
consistit, recte igitur
dictum est in
voce, intellectu atque
re contrarie sese
habere eos qui
docent, dicunt, interrogant
atque eos qui
discunt, audiunt et
respondent, cum igitur
hæc sint quattuor,
litteræ, voces, intellectus,
res, proxime quidem
et principaliter litteræ
verba nominaque significant,
hæc vero principaliter
quidem intellectus, secundo
vero loco res
quoque designant, intellectus
vero ipsi nihil
aliud nisi rerum
significativi sunt, antiquiores
vero quorum est
Plato, Aristoteles, Speusippus,
Xenocrates hi inter
res et significationes intellectuum
medios sensus ponunt
in sensibilibus rebus
vel imaginationes quasdam,
in quibus intellectus
ipsius origo consistat,
et nunc quidem
quid de hac
re Stoici dicant
prætermittendum est. hoc
autem ex his
omnibus solum cognosci
oportet, quod ea quæ sunt
in litteris eam
significent orationem quæ
in voce consistit
et ea quæ
est vocis oratio
quod animi atque
intellectus orationem designet,
quæ tacita cogitatione
conficitur, et quod hæc intellectus
oratio subiectas principaliter
res sibi concipiat
ac designet, ex
quibus quattuor duas
quidem Aristoteles esse
NATURALITER dicit, res et
animi conceptiones, id
est eam quæ
fit in intellectibus
orationem, idcirco quod
apud omnes eædem
atque inmutabiles sint;
6 et om.
S1 uerba et
nomina S2F, nomina
et uerba (in
ras .) E hæc designant in
marg. E significationes F
16 //usippus S,
siue usippus S2FT
nunc om. SFT
dicunt SF et
quod S2FE2 est
om. S1 uocis
est F 24
quod dei. S2,
om. FE 29
intellectus S1 I
c. 1. duas vero
NON NATURALITER, SED POSITIONE constitui, quæ sunt scilicet verba nomina
et litteræ, quas idcirco NATURALITER fixas esse non dicit, quod ut supra demonstratum est non eisdem
vocibus omnes aut
isdem utantur elementis,
atque hoc est
quod ait: Sunt ergo
ea quæ sunt in voce earum quæ
sunt in anima passionum notæ et ea quæ scribuntur
eorum quæ sunt
in voce, et
quemadmodum nec litteræ
omnibus eædem, sic
nec voces eædem,
quorum autem hæc
primorum notæ, eædem
omnibus passiones animæ
et quorum hæ
similitudines, res etiam
eædem, de his
quidem dictum est
in his quæ
sunt dicta de
anima, alterius est
enim negotii. Cum igitur prius
posuisset nomen et
verbum et quæcumque
secutus est postea
se definire promisisset,
hæc interim prætermittens
de passionibus animæ
deque earum notis,
quæ sunt scilicet
voces, pauca præmittit,
sed cur hoc
ita interposuerit, plurimi
commentatores causas reddere
neglexerunt, sed a
tribus quantum adhuc
sciam ratio huius
interpositionis explicita est.
quorum Hermini quidem
a rerum veritate
longe disiuncta est.
ait enim idcirco
Aristotelen de notis
animæ passionum interposuisse
sermonem, ut utilitatem
propositi operis inculcaret,
disputaturus enim de vocibus,
quæ sunt notæ
animæ passionum, recte
de his quædam
ante præmisit, nam
cum suæ nullus
animæ passiones ignoret,
notas quoque cum
animæ passionibus non
nescire utilissimum est. neque enim
illæ cognosci possunt
nisi per voces
quæ sunt 1
non om. S1
4.5 eisdem FE
noces eædem F
Ar.: eædem uoces
ceteri hæ codices
cf. p. 43, 6 12 animæ sunt
codices : sunt om.
Ar. cf. ed. I hæ
27, he§ X: eædem ceteri
14 dicta post
anima X enim
om. X1 (enim
est X2) definire
se F neglexerunt
h: neglexerant codices
. explicata E (
corr . E2) Aristotelem
F SECVNDA EDITIO earum
scilicet notæ. Alexander
vero aliam huius-
modi interpositionis reddidit
causam, quoniam, iquit,
verba et nomina
interpretatione simplici continentur,
oratio vero ex
verbis nominibusque coniuncta est
et in ea
iam veritas aut
falsitas invenitur; sive
autem quilibet sermo
sit simplex, sive
iam oratio coniuncta
atque conposita, ex
his quæ significant
momentum sumunt (in
illis enim prius
est eorum ordo
et continentia, post
redundat in voces):
quocirca quo- 10
niam significantium momentum
ex his quæ
signifcantur oritur, idcirco
prius nos de
his quæ voces
ipsæ significant docere
proponit, sed Herminus
hoc loco repudiandus
est. nihil enim
tale quod ad
causam propositæ sententiæ
pertineret explicuit. Ale-
15 x and
er vero strictim
proxima intellegentia prætervectus
tetigit quidem causam,
non tamen principalem
rationem Aristotelicæ propositionis
exsolvit. sedPor- phyrius
ipsam plenius causam
originemque sermonis huius
ante oculos conlocavit,
qui omnem apud
priscos philosophos de
significationis vi contentionem
litemque retexuit, ait
namque dubie apud
antiquorum philosophorum sententias
constitisse quid esset
proprie quod vocibus
significaretur, putabant namque
alii res vocibus
designari earumque vocabula
esse ea quæ sonarent
in vocibus arbitrabantur, alii
vero incorporeas quasdam
naturas meditabantur, quarum
essent significationes quæcumque
vocibus designarentur: Platonis
aliquo modo species
incorporeas æmulati dicentis
hoc ipsum homo
et hoc ipsum
equus non hanc
cuiuslibet subiectam substantiam,
sed illum ipsum
hominem specialem et
illum ipsum equum,
universaliter et incorporaliter co-
2 interprætationis T
pro iam: autem
S, om. F
7 significantur b
13 ad in
marg. E 20
de om. F1
apud om. E1
22 sententiæ S1
24 eorum/////q; SE,
eorumq; T uocubula
T 25 sonarent
ego: sonauerunt S,
sonauerint S2FE, sonuerint
T 31 equum
significare T I
c. 1. gitantes incorporales
quasdam naturas constituebant, quas
ad significandum primas
venire putabant et
cum aliis item
rebus in significationibus posse
coniungi, ut ex
his aliqua enuntiatio
vel oratio conficeretur,
alii vero sensus,
alii imaginationes significari
vocibus arbitrabantur. cum
igitur ista esset
contentio apud superiores
et hæc usque
ad Aristotelis pervenisset
ætatem, necesse fuit
qui nomen et
verbum significativa esset
definiturus prædiceret quorum
ista designativa sint.
Aristoteles enim nominibus
et verbis res
subiectas significari non
putat, nec vero
sensus vel etiam
imaginationes, sensuum quidem
non esse significativas voces
nomina et verba
in opere de
iustitia sic declarat
dicens cpvdeL yaQ ev&vg diriQ^rai
tcc rs votf-
{ Lata nal ta
aiGfrri [luta, quod interpretari
Latine potest hoc
modo: NATURA enimdivisa
sunt intellectus et
sensus, differre igitur
aliquid arbitratur sensum
atque intellectum, sed
qui passiones animæ
a vocibus significari
dicit, is non
de sensibus loquitur,
sensus enim corporis
passiones sunt, si
igitur ita dixisset
passionescorporis a vocibus
significari, tunc merito
sensus intellegeremus, sed
quoniam passiones animæ nomina
'et verba significare
proposuit, non sensus
sed intellectus eum
dicere putandum est. sed quoniam imaginatio
quoque res animæ
est, dubitaverit aliquis
ne forte passiones
animæ imagi- Ar.
fragm. coli.
VRose 76 2
per quas se
F2 9 designativa
b: designificatiua codices
14 dirjQ7]Tcu ego
(cf. Ar. 1162,22
eth. Nic. VIII,
14: sv&vs yocQ
di7iQi]Tcu tu %Qya
v.ul S6TLV sxsQu
uvSqos Y.ui yv-
vaixog): anhphtai SGNJTE;
verba Græca om.
F (rsEl FAP
EY& et alia
in marg. F2),
dicens hic deest
grecum quod interpretari
B 15 AIZTHMATA
EN Latine om.
F 16 potes
VRose statim ego
add.: om. codices
diuersa E2 est
N 19 a
om. S*F 23
designificare F 26
animæ om. F nationes,
qnas Græci (pavraCiag
nominant, dicat, sed hæc in
libris de anima
verissime diligentissimeque separavit
dicens etircv de
cpavraoCa eteqov epaOeog
nal unoepaGeag' Gvintloxr}
yaQ vorj[icctav etirlv
ro ccArjfreg 5 xcd ro
tyevdog. rd de
tcqcotcc vocata t C
dioCcei rov [. irj
cpavrccANTAZMsl codices pro
rj: N codices
7 interpretatur EN
aliquid S2F . demonstret T,
corr. T2 quis
F 25 idem (
pro id
est) T2 26
pro qui: quid
S, quod S2F
I c. 1. ginatio
quædam primæ figuræ
sunt, supra quas
velut fundamento quodam
superveniens intellegentia nitatur,
nam sicut pictores
solent designare lineatim
corpus atque substernere
ubi coloribus cuiuslibet
exprimant vultum, sic
sensus atque imaginatio
naturaliter in animæ
perceptione substernitur, nam
cum res aliqua
sub sensum vel
sub cogitationem cadit,
prius eius quædam
necesse est imaginatio
nascatur, post vero
plenior superveniat intellectus
cunctas eius explicans
partes quæ confuse
fuerant imaginatione præsumptæ. quocirca inperfectum
quiddam est imaginatio,
nomina vero et
verba non curta
quædam, sed perfecta
significant. quare recta
Aristotelis sententia est:
quæcumque in verbis
nominibusque versantur, ea
neque sensus neque
imaginationes, sed solam
significare intellectuum qualitatem,
unde illud quoque
ab Aristotele fluentes
Peripatetici rectissime posuerunt
tres esse orationes,
unam quæ scribi
possit elementis, alteram
quæ voce proferri,
tertiam quæ cogitatione
conecti unamque intellectibus, alteram
voce, tertiam litteris
contineri, quocirca quoniam
id quod significaretur a
vocibus intellectus esse
Aristoteles putabat, nomina
vero et verba
significativa esse in
eorum erat definitionibus positurus,
recte quorum essent
significativa prædixit erroremque lectoris ex
multiplici veterum lite
venientem sententiæ suæ
manifestatione conpescuit. atque
hoc modo nihil in eo deprehenditur esse
superfluum, nihil ab
ordinis continuatione se-
iunctum. quærit vero
Porphyrius, cur ita
dixerit: sunt ergo ea quæ sunt in voce, et non sic: sunt si quod
S^1 7 ait. sub om. F
enim (pro eius)
E 10 confuse
b: confusæ SF,
confusa TE in
im. S2, in
yma- ginationem F præsumpta T
imaginationis SFE1? 18
sit ( pro possit)
S1 19 cogitationem
SFE conecti ego :
conectit codices, connectitur
b 21 teneri
F, corr. F2 esse om. T1 ad T igitur
voces; et rursus
cur ita et
ea quæ scribuntur
et non dixerit:
et litteræ, quod
resolvit hoc modo,
dictum est tres
esse apud Peripateticos
orationes, unam quæ
litteris scriberetur, aliam
quæ proferretur in
voce, tertiam quæ
coniungeretur in animo,
quod si tres
orationes sunt, partes
quoque orationis esse
triplices nulla dubitatio
est. quare quoniam
verbum et nomen
principaliter orationis partes
sunt, erunt alia
verba et nomina quæ scribantur, alia quæ dicantur, alia quæ tacita mente
tractentur, ergo quoniam proposuit dicens: primum oportet constituere, quid
nomen et quid verbum, triplex autem nominum natura est atque verborum, de
quibus potissimum proposuerit et quæ definire velit ostendit, et quoniam de his
nominibus loquitur ac verbis, quæ voce proferuntur, idem ipsum planius
explicans ait: sunt ergo ea quæ sunt in voce earum quæ sunt in anima passionum
notæ et ea quæ scribuntur eorum quæ sunt in voce, velut si diceret: ea verba et
nomina quæ in vocali oratione proferuntur [H. P. Grice: UTTER] animæ passiones
denuntiant, illa autem rursus verba et nomina quæ scribuntur eorum verborum
nominumque SIGNIFICANTIÆ præsunt quæ voce proferuntur [H. P. Grice: UTTER], nam
sicut vocalis orationis verba et nomina CONCEPTIONES [not passions] animi
intellectusque significant, ita quoque verba et nomina illa quæ in solis
litterarum formulis iacent ijjorum verborum et nominum significativa sunt quæ
loquimur, id est quæ per vocem sonamus, nam quod ait: sunt ergo ea quæ sunt in
voce, subaudiendum est verba et nomina, et
rursus cum dicit: et ea quæ scribuntur, idem subnectendum rursus est
verba scilicet vel nomina, et quod rursus 1 cur om. F1 proferetur F2T
post nomen ras.
sex vel octo
litt. in S
quid sit n.
codices ergo om. SF uerba
rursus F uerba
orationis F .
cum dicit rursus
F vel] et b I
c. 1. adiecit:
eorum quæ sunt in voce,
addendum eorum nomimum
atque verborum quæ
profert atque explicat
vocalis oratio, quod
si nihil deesset
omnino, ita foret
totius plenitudo sententiæ:
sunt ergo ea
verba et nomina
quæ sunt in
voce earum quæ
sunt in anima
passionum notæ et
ea verba et
nomina quæ scribuntur
eorum verborum et
nominum quæ sunt
in voce, quod
communiter intellegendum est,
licet ea quæ
subiunximus deesse videantur,
quare non est
disiuncta sententia, sed
primæ propositioni continua.
nam cum quid
sit verbum, quid
nomen definire constituit,
cum nominis et verbi NATURA sit
multiplex, de quo verbo et nomine
tractare vellet clara significatione distinxit, incipiens igitur ab his
nominibus ac verbis quæ in voce sunt, quorum essent significativa disseruit,
ait enim hæc passiones animæ designare. illud quoque adiecit quibus ipsa verba
et nomina quæ in voce sunt designentur, his scilicet quæ litterarum formulis
exprimuntur, SED QUONIAM NON OMNIS VOX SIGNIFICATIVA EST, VERBA VERO VEL NOMINA
NUMQUAM SIGNIFICATIONIBUS VACANT QUONIAMQUE NON OMNIS VOX QUÆ SIGNIFICAT QUÆDAM
*POSITIONE* DESIGNAT, SED *QUÆDAM NATURALITER*, UT LACRIMÆ, GEMITUS ATQUE MÆROR
– ANIMALIUM QUOQUE CETERORUM QUÆDAM *VOCES NATURALITER ALIQUID OSTENTANT* UT EX
CANUM LATRATIBUS IRACUNDIA EORUMQUE ALIA QUADAM VOCEM BLANDIMENDA *MONSTRANTUR
--verba autem et nomina positione significant neque solum sunt verba et nomina
voces, sed voces significativæ nec solum significativæ, sed etiam QUÆ POSITIONE
DESIGNENT ALIQUID, NON NATURA: non
dixit: sunt igitur voces earum quæ sunt in anima passionum notæ, namque
neque omnis vox significativa quæ
sunt in v. nomina in marg. F
15 sunt] sunt designantes TGr
17 et uerba
et T 20
vel] et b vacant ego: vacarent codices, carent b que
om. S1 quadam S2E moerorem S, merore FE
nam FT est et SUNT QUÆDAM *SIGNIFICATIVÆ* QUÆ *NATURALITER* NON POSITIONE
SIGNIFICENT, quod si ita dixisset, nihil ad proprietatem verborum et nominum
pertineret, quocirca noluit communiter dicere
voces, sed dixit tantum ea quæ sunt in voce, vox enim universale quiddam
est, nomina vero et verba partes, pars autem omnis in toto est. verba ergo et
nomina quoniam sunt intra vocem, recte dictum est ea quæ sunt in voce, velut si diceret: quæ intra vocem continentur
intellectuum designativa sunt, sed hoc simile est ac si ita dixisset: vox certo modo sese habens significat
intellectus. non enim ut dictum est nomen et verbum voces tantum sunt, sicut nummus quoque non solum æs inpressum
quadam figura est, ut nummus vocetur, sed etiam ut alicuius rei sit
pretium: eodem quoque
modo verba et
nomina non solum
voces sunt, sed
POSITÆ AD QUANDAM INTELLECTUUM SIGNIFICATIONEM, vox
enim quæ nihil
designat, ut est GARALUS, licet eam grammatici figuram vocis
intuentes nomen esse contendant, tamen
eam nomen philosophia non putabit, nisi
sit posita ut designare animi
aliquam conceptionem eoque
modo rerum aliquid
possit, etenim nomen
alicuius nomen esse
necesse erit; sed
si vox aliqua
nihil designat, nullius
nomen est; quare
si nullius est, ne
nomen quidem esse
dicetur, atque ideo
huiusmodi vox id
est significativa non
vox tantum, sed
verbum vocatur aut
nomen, quemadmodum nummus
non æs, sed
proprio nomine nummus,
quo ab alio ære discrepet,
nuncupatur, ergo hæc
Aristotelis sententia qua
ait ea quæ
sunt in voce
nihil aliud designat
nisi eam vocem,
quæ non solum
vox sit, sed quæ cum
vox sit habeat
tamen aliquam proprietatem
et 4 dicere pro
dixit T. des.
s. intell. T,
corr. T2 nummos S1
garulus F putabit
ego: putavit codices
aliq. rer. F
dicitur T ideo
om. F1 non nummus
in marg. S
qua ait om.
F1 I c. 1.
aliquam quodammodo figuram
positæ significationis inpressam.
horum vero id
est verborum et
nominum quæ sunt
in voce aliquo
modo se habente
ea sunt scilicet
significativa quæ scribuntur,
ut hoc quod
dictum est quæ
scribuntur de verbis
ac nominibus dictum quæ
sunt in litteris
intellegatur, potest vero hæc quoque
esse ratio cur
dixerit et quæ
scribuntur: quoniam litteras
et inscriptas figuras
et voces, quæ
isdem significantur formulis,
nuncupamus (ut a
et ipse sonus
litteræ nomen capit
et illa quæ
10 in subiecto
ceræ vocem significans
forma describitur), designare
volens, quibus verbis
atque nominibus ea quæ in
voce sunt adparerent,
non dixit litteras,
quod ad sonos
etiam referri potuit
litterarum, sed ait quæ scribuntur,
ut ostenderet de his litteris
dicere quæ in
scriptione consisterent id est quarum
figura vel in
cera stilo vel
in membrana calamo
posset effingi, alioquin
illa iam quæ
in sonis sunt
ad ea nomina
referuntur quæ in
voce sunt, quoniam
sonis illis nomina
et verba iunguntur.
sed Porphyrius de
utraque expositione iudicavit
dicens: id quod
ait et quæ
scribuntur non potius
ad litteras, sed
ad verba et
nomina quæ posita
sunt in litterarum
inscriptione referendum, restat
igitur ut illud
quoque addamus, cur
non ita dixerit:
sunt ergo ea quæ sunt
in voce intellectuum notæ,
sed ita earum
quæ sunt in
anima passionum notæ, nam
cum ea quæ
sunt in voce res intellectusque significent, principaliter quidem
intellectus, res vero
quas ipsa intellegentia
con- prehendit secundaria
significatione per intellectuum medietatem, intellectus
ipsi non sine
quibusdam passionibus sunt,
quæ in animam
ex subiectis veniunt
rebus, passus enim
quilibet eius rei
proprietatem, 3 sese E 5
et F scriptas b se
de? . quæ
inscriptione T menbrana
F proposita F
24 illas Tl
26 si T .
medietatibus (pro pass.) T BOEZIO
(si veda) comment. II. quam
intellectu conplectitur, ad
eius enuntiationem designationemque contendit,
cum enim quis
aliquam rem intellegit,
prius imaginatione formam
necesse est intellectæ
rei proprietatemque suscipiat
et fiat vel
passio vel cum
passione quadam intellectus
perceptio, hac vero
posita atque in
mentis sedibus conlocata
fit indicandæ ad
alterum passionis voluntas,
cui actus quidam
continuandæ intellegentiæ protinus
ex intimæ rationis
potestate supervenit, quem
scilicet explicat et
effundit oratio nitens
ea quæ primitus
in mente fundata
est passione, sive,
quod est verius,
significatione progressa oratione
progrediente simul et
significantis seorationis motibus
adæquante, fit vero bæc passio
velut figuræ alicuius
inpressio, sed ita ut in
animo fieri consuevit,
aliter namque naturaliter
inest in re
qualibet propria figura,
aliter vero eius
ad animum forma
transfertur, velut non
eodem modo ceræ
vel marmori vel
chartis litteræ id
est vocum signa
mandantur. et imaginationem
Stoici del PORTICO a rebus in
animam translatam loquuntur,
sed cum adiectione
semper dicentes ut
in anima, quocirca
cum omnis animæ
passio rei quædam
videatur esse proprietas,
porro autem designativæ
voces intellectuum principaliter, rerum
dehinc a quibus
intellectus profecti sunt
significatione nitantur, quidquid est
in vocibus significativum, id
animæ passiones designat,
sed hæ passiones animarum ex
rerum similitudine procreantur, videns 4
intellegi T (corr. T1)
intellectio T Hæc
T 8 quidem
F quem actum
F, actum supra
lin. J, s.
actum supra lin.
S2 oratione ego:
oratio codices; oratio
suprascr. s. explicat
S2, oratio explicat F
significatione dei et
post simul transponit
F2 (E in
marg.: aliter siue
quod est verius
significatione progrediente oratio progressa simul et se signif. or.
mot. adæq.) metibus
S1, mentibus F1
transferetur T, corr.
T2 17 vel om. F
a om. S1
25 nitatur S^1
animorum SFE et T^1 I
c. 1. namque
aliquis sphæram vel
quadratum vel quamlibet
aliam rerum figuram
eam in animi
intellegentia quadam vi
ac similitudine capit,
nam qui sphæram
viderit, eius similitudinem
in animo perpendit
et cogitat atque
eius in animo
quandam passus imaginem
id cuius imaginem
patitur agnoscit, omnis
vero imago rei
cuius imago est
similitudinem tenet: mens
igitur cum intellegit,
rerum similitudinem conprehendit.
unde fit ut,
cum duorum corporum
maius unum, minus
alterum contuemur, a
sensu postea remotis
corporibus illa ipsa
corpora cogitantes illud
quoque memoria servante
noverimus sciamusque quod
minus, quod vero
maius corpus fuisse
conspeximus, quod nullatenus
eveniret, nisi quas
semel mens passa
est rerum similitudines
optineret. quare quoniam
passiones animæ quas
intellectus vocavit rerum
quædam similitudines sunt,
idcirco Aristoteles, cum
paulo post de
passionibus animæ loqueretur,
continenti ordine ad
similitudines transitum fecit,
quoniam nihil differt
utrum passiones diceret
an similitudines, eadem
namque res in
anima quidem passio est, rei vero similitudo, et Alexander hunc locum: sunt ergo ea quæ sunt
in voce earum quæ sunt in anima passionum notæ et ea quæ scribuntur eorum quæ
sunt in voce, et quemadmodum nec litteræ omnibus eædem, sic nec voces eædem hoc
modo conatur exponere: proposuit, inquit, ea quæ sunt in voce intellectus animi
designare et hoc alio probat exemplo,
eodem modo enim ea quæ sunt in voce passiones animæ SIGNIFICANT,
quemadmodum ea quæ scribuntur voces DE-SIGNANT, ut id quod ait et ea quæ 1 aliquis
om. T, aliqui
E feram S,
speram S2FT ui§ (pro
vi ac) SF
speram FT duum
S2F2 sciamusque ego:
sciemusq. codices mens
om. T pass. animæ
editio princeps inscribuntur SFE
eædem uoces codices
enim modo F scribuntur
ita intellegamus, tamquam
si diceret: quemadmodum
etiam ea quæ
scribuntur eorum quæ
sunt in voce,
ea vero quæ
scribuntur, inquit Alexander,
notas esse vocum
id est nominum
ac verborum ex
hoc monstravit quod
diceret et quemadmodum nec litteræ
omnibus eædem, sic
nec voces eædem,
SIGNVM namque est vocum
ipsarum significationem litteris contineri, quod ubi variæ sunt litteræ et
non eadem quæ scribuntur varias quoque voces esse necesse est. hæc
Alexander. Porphyrius vero
quoniam tres proposuit orationes, unam
quæ litteris contineretur,
secundam quæ verbis
ac nominibus personaret,
tertiam quam mentis
evolveret intellectus, id
Aristotelem significare pronuntiat,
cum dicit: sunt ergo ea quæ sunt
in voce earum quæ sunt in anima passionum notæ, quod ostenderet si ita
dixisset: sunt ergo ea quæ sunt in voce et verba et nomina animæ passionum | notæ, et
quoniam monstravit quorum essent voces SIGNIFICATIVÆ, illud quoque
docuisse quibus SIGNIS [“Words are not signs” – H. P. Grice] verba vel nomina
panderentur ideoque addidisse et
ea quæ scribuntur
eorum quæ sunt in voce,
tamquam si diceret:
ea quæ scribuntur
verba et nomina
eorum quæ sunt in
voce verborum et
nominum notæ sunt. nec
disiunctam esse sententiam
nec (ut Alexander
putat) id quod
ait: et ea quæ scribuntur
ita intellegendum, tamquam
si diceret: sicut
ea quæ scribuntur
id est litteræ
illa quæ sunt
in voce significant,
ita ea quæ
sunt in voce
notas esse animæ passionum, primo
quod ad simplicem
sensum nihil addi
oportet, deinde tam
brevis ordo tamque
necessaria orationis non
est intercidenda partitio,
tertium vero quoniam,
si similis significatio
est litterarum vo-
5 quo TE1
eædem F, eedem
T quæ F
aristotelen T 18
prius et om.
TE et b
sunt om. SF primum?
quidem quod b
deinde quod b
tamque] tamquam T esset
E2 I c.
1. cumque, quæ
est vocum et
animæ passionum, oportet
sicut voces diversis
litteris permutantur, ita
quoque passiones animæ
diversis vocibus permutari,
quod non fit.
idem namque intellectus
variatis potest vocibus
significari, sed Alexander
id quod eum
superius sensisse memoravi
boc probare nititur
argumento, ait enim
etiam in hoc
quoque similem esse
significationem litterarum ac
vocum, quoniam sicut
litteræ non naturaliter
voces, sed positione
significant, ita quoque
voces non naturaliter
intellectus animi, sed
aliqua positione designant, sed
qui prius recepit,
ut id quod
Aristoteles ait: et
ea quæ scribuntur
ita dictum esset,
tamquam si diceret:
sicut ea quæ
scribuntur, quidquid ad
hanc sententiam videtur
adiungere, æqualiter non
dubitatur errare, quocirca
nostro iudicio qui
rectius tenere volent
Porphyrii se sententiis adplicabunt. Aspasius quoque
secundæ sententiæ Alexandri,
quam supra posuimus,
valde consentit, qui
a nobis in
eodem quo Alexander
errore culpabitur. LIZIO vero
duobus modis esse
has notas putat
litterarum, vocum passionumque
animæ constitutas: uno
quidem positione, alio
vero naturaliter. atque hoc
est quod ait: et
quemadmodum nec litteræ omnibus eædem, sic nec voces
eædem, nam si
litteræ voces, ipsæ
vero voces intellectus
animi naturaliter designarent,
omnes homines isdem
litteris, isdem etiam
vocibus uterentur, quod
quoniam apud omnes
neque eædem litteræ
neque eædem voces
sunt, constat eas non
esse naturales, sed
hic duplex lectio
est. Alexander enim hoc
modo legi putat oportere: quorum
autem hæc primo-
oporteret E 11 recipit S, corr. S2 quam
Alexander in marg.
S vocum om. S1
. eædem v.
codices hisdem S2F2TE hisdem
SF2TE hæ codices rum NOTÆ, eædem
omnibus PASSIONES animæ et
quorum eædem similitudines, res etiam
eædem, volens enim
Aristoteles ea quæ
positione significant ab
bis quæ aliquid DE-SIGNANT NATVRALITER segregare hoc
interposuit: ea quæ POSITIONE
(thesei, not physei – Grice) SIGNIFICANT varia
esse, ea vero
quæ naturaliter apud
omnes eadem, et
incobans quidem a vocibus ad litteras venit easque
primo non esse
naturaliter significativas demonstrat
dicens: et quemadmodum
nec litteræ omnibus
eædem, sic nec
voces eædem, nam
si idcirco probantur
litteræ non esse
naturaliter significantes, quod
apud alios aliæ
sint ac diversæ,
eodem quoque modo
probabile erit voces
quoque NON NATURALITER
SIGNIFICARE, quoniam singulæ
hominum gentes non eisdem
inter se vocibus
conio quantur. volens vero similitudinem
intellectuum rerumque subiectarum
docere NATVRALITER
constitutam ait: quorum
autem hæc primorum
notæ, eædem omnibus passiones
animæ, quorum, inquit,
voces quæ apud
diversas gentes ipsæ
quoque diversæ sunt SIGNIFICATIONEM
retinent, quæ scilicet
sunt animæ passiones,
illæ apud omnes
eædem sunt, neque
enim fieri potest,
ut quod APVD ROMANOS “homo” intellegitur lapis apud
barbaros intellegatur, eodem
quoque modo de
ceteris 25 rebus,
ergo huiusmodi sententia
est, qua dicit
ea quæ voces significent apud omnes hominum
gentes non mutari,
ut ipsæ quidem
voces, sicut supra
monstravit cum dixit
quemadmodum nec litteræ
omnibus eædem, sic
nec voces eædem,
apud plures diversæ
sint, illud vero
quod voces ipsæ
significant apud omnes
homines idem sit
nec ulla ra- 1
animæ sunt codices inchoatis T
significas S1, signifitivas
T colloquuntur b
ait S, quod
ait TE (quod
dei. E1?) apud om. F, add.
F1 qui T modo quoq.
F 29 apud
ego: cum apud
codices fit F I
c. 1. tione valeat
permutari, qui sunt
scilicet intellectus rerum,
qui quoniam naturaliter
sunt permutari non
possunt, atque hoc
est quod ait:
quorum autem hæc
primorum notæ, id
est voces, eædem
omnibus passiones animæ,
ut demonstraret voces quidem
esse diversas, quorum
autem ipsæ voces
significativæ essent, quæ
sunt scilicet animæ
passiones, easdem apud
omnes esse nec
| ullratione, quoniam
sunt constitutæ naturaliter,
permutari, nec vero
in hoc constitit,
ut de solis
vocibus atque intellectibus
loqueretur, sed quoniam voces
atque litteras non esse naturaliter constitutas per id significavit, quod eas
non apud omnes easdem esse proposuit,
RURSUS INTELLECTUS QUOS ANIMÆ PASSIONES VOCAT PER HOC ESSE NATURALES
OSTENDIT, QUOD *APUD OMNES IDEM SINT,
a quibus id est
intellectibus ad res
transitum fecit, ait
enim quorum hæ
similitudines, res etiam
eædem hoc scilicet
sentiens, quod res
quoque naturaliter apud
omnes homines essent
eædem: sicut ipsæ
animæ passiones quæ ex
rebus sumuntur apud
omnes homines eædem
sunt, ita quoque
etiam ipsæ res
quarum similitudines sunt
animæ passiones eædem
apud omnes sunt,
quocirca quoque naturales
sunt, sicut sunt
etiam rerum similitudines, quæ
sunt animæ passiones.
H er minus
vero huic est
expositioni contrarius. dicit
enim non esse verum
eosdem apud omnes
homines esse intellectus,
quorum voces significativæ sint,
quid enim, inquit, in æquivocatione
dicetur, ubi unus
idemque vocis modus
plura significat? sed
magis hanc lectionem
veram putat, ut
ita 30 sit:
quorum autem hæc
primorum notæ, hæ
omnibus passiones animæ et quorumhæ similitudines, res etiam hæ:
ut demonstratio vi- 4 hæ codices animæ
sunt codices quarum b: quorum codices
homines F, corr.
F2 res quoq.
b sunt F
autem ovi.deatur quorum voces
significativæ sint vel quorum passiones animæ similitudines, et lioc
simpliciter accipiendum est secundum
Her minum, ut ita
dicamus: quorum voces
significativæ sunt, illæ sunt
animæ passiones, tamquam diceret:
animæ passiones sunt,
quas significant voces,
et rursus quorum
sunt similitudines ea quæ intellectibus
continentur, illæ sunt
res, tamquam si
dixisset: res sunt
quas significant intellectus.
sed Porphyrius de
utrisque acute subtiliterque iudicat et
Alexandri magis sententiam
probat, hoc quod
dicat non debere
dissimulari de multiplici
æquivocationis
significatione, nam et
qui dicit ad
unam quamlibet rem
commodat animum, scilicet
quam intellegens voce declarat,
et unum rursus
intellectum quemlibet is
qui audit exspectat,
quod si, cum uterque
ex uno
nomine res diversas
intellegunt, ille qui
nomen æquivocum dixit designet
clarius, quid illo
nomine significare voluerit,
accipit mox qui
audit et ad
unum intellectum utrique
conveniunt, qui rursus
fit unus apud
eosdem illos apud
quos primo diversæ fuerant animæ
passiones propter æquivocationem nominis.
neque enim fieri
potest, ut qui
voces POSITIONE SIGNIFICANTES A NATVRA eo distinxerit
quod easdem apud
omnes esse non
diceret, eas res quas esse
naturaliter proponebat non eo
tales esse monstraret,
quod apud omnes
easdem esse contenderet,
quocirca Alexander vel
propria sententia vel Porphyrii auctoritate probandus est. sed quoniam ita dixit Aristoteles: quorum
autem hæc primorum notæ, eædem omnibus
passiones animæ sunt, quærit Ale- .
suptiliterq. SE 11 hoc dei. S2, om. F
quod F: quo
STEGN, quoque E2
dicit E2 voce
eras, in F
utrique? 17 designat T quod T
nomen S1 distinxerint T quos
(suprascr. d) S, qui
(in marg. quod)
T eas] is?
demonstraret T pro
porphirii E hæ
codices I c. 1. x
and er: si
rerum nomina sunt,
quid causæ est
ut primorum intellectuum
notas esse voces
diceret Aristoteles? rei
enim ponitur nome,
ut cum dicimus
“homo” SIGNIFICAMUS (ROMANI) quidem intellectum, rei tamen nomen est id
est animalis rationalis mortalis, cur ergo non primarum magis rerum notæ sint
voces quibus ponuntur potius quam intellectuum? sed fortasse quidem ob hoc dictum est, inquit, quod licet voces
rerum nomina sint, tamen non idcirco utimur vocibus, ut res significemus, sed
ut eas quæ ex rebus nobis io innatæ sunt animæ passiones, quocirca propter
quorum significantiam voces ipsæ proferuntur, recte eorum primorum esse dixit
notas, in hoc vero Aspasius permolestus est. ait enim: qui fieri
potest, ut eædem
apud omnes passiones
animæ sint, cum
tam diversa sententia
de iusto ac
bono sit? arbitratur
Aristotelem passiones animæ
non de rebus
incorporalibus, sed de
his tantum quæ
sensibus capi possunt
passiones animæ dixisse,
quod perfalsum est.
neque enim umquam
intellexisse dicetur, qui
fallitur, et fortasse
quidem passionem animi
habuisse dicetur, quicumque id
quod est bonum non eodem modo quo est, sed aliter ARBITRATVR, intellexisse vero
non dicitur. Aristoteles autem cum de similitudine loquitur, de intellectu
pronuntiat, neque enim fieri potest, ut qui quod bonum est malum esse
arbitratur boni similitudinem mente conceperit, neque enim intellexit rem
subiectam. sed quæ sunt iusta ac bona ad positionem omnia naturamve referuntur,
et si de
iusto ac bono ita loquitur, ut de eo
quod civile ius
aut civilis in-
1 quod T
causa S F
dixerit b pro
tamen: quidem T
sunt E, corr.
E2 quidem post
dictum F 10
nris STE (corr.
S2E2) sint S præter T esse prim.
F id S, cum
id TE (cum
dei. E2) quidem
(pro quod est)
T quo S2F2:
quod SFTE dicetur?
si om. S1
ita om. F1 iuria
dicitur, recte non eædem sunt
passiones animæ, quoniam
civile ius et
civile bonum positione
est, non natura,
naturale vero bonum atque
iustum apud omnes
gentes idem est. et de deo
quoque idem: cuius quamvis
diversa cultura sit,
idem tamen cuiusdam
eminentissimæ naturæ est
intellectus, quare repetendum
breviter a principio
est. partibus enim
ad orationem usque
pervenit: nam quod
se prius quid
esset verbum, quid
nomen constituere dixit,
hæ minimaæ orationis partes
sunt; quod vero
adfirmationem et negationem,
iam de conposita
ex verbis et nominibus oratione
loquitur, quæ eædem
rursus partes sunt
enuntiationis, et post
enuntiationis propositionem de
oratione loqui proposuit,
cuius ipsa quoque
enuntiatio, pars est.
et quoniam ut
dictum est triplex
est oratio, quæ
in litteris, quæ
in voce, quæ
in intellectibus est,
qui verbum et
nomen definiturus esset
eaque significativa positurus,
dicit prius quorum
significativa sint ipsa
verba et nomina
et incohat quidem
ab his nominibus
et verbis quæ
sunt in voce
dicens: sunt ergo
ea quæ sunt
in voce et
demonstrat quorum sint SIGNIFICATIVA adiciens earum
quæ sunt in
anima passionum notæ.
rursus nominum ipsorum verborumque
quæ in voce
sunt ea verba
et nomina quæ
essent in litteris
constituta significativa esse
declarat dicens et
ea quæ scribuntur
eorum quæ sunt
in voce, et
quoniam quattuor ista
quædam sunt: litteræ,
voces, intellectus, res,
quorum litteræ et
voces positione sunt,
natura vero res
atque intellectus,
demonstravit voces non
esse naturaliter, sed
positione per hoc
quod ait non
easdem esse apud
omnes, sed varias,
ut est et
quemadmodum nec 1
non recte F
a ego add.:
om. codices 8
quod om. T 15.
16 or. est
F 16 postrem. in om. FE ea
quæ FE positurus
b: positurus est codices
sign. sint F
eorum SFE litteras
et voces? per
om. SFT quod
b: quo///F, quo
STE I c. .
litteræ omnibus eædem,
sic nec voces
eædem. ut vero
demonstraret intellectus et
res esse naturaliter,
ait apud omnes
eosdem esse intellectus,
quorum essent voces
significativæ, et rursus
apud omnes easdem esse
res, quarum similitudines
essent animæ passiones,
ut est quorum
autem hæc primorum
notæ, scilicet quæ
sunt in voce,
eædem omnibus passiones
animæ et quorum
hæ similitudines, res
etiam eædem, passiones
autem animæ dixit,
quoniam alias diligenter
ostensum est omnem
vocem animalis aut ex passione animæ aut propter passionem
proferri, similitudinem vero passionem animæ vocavit, quod secundum LIZIO nihil
aliud intellegere nisi
cuiuslibet subiectæ rei
proprietatem atque imaginationem
in animæ ipsius reputatione
suscipere, de quibus animæ passionibus in libris se de anima commemorat
diligentius disputasse, sed quoniam demonstratum est,
quoniam et verba et nomina et
oratio intellectuum principaliter significativa
sunt, quidquid est
in voce significationis ab
intellectibus venit, quare
prius paululum de
intellectibus perspiciendum ei
qui recte aliquid
de vocibus disputabit,
ergo quod supra
passiones animæ et
similitudines vocavit, idem
nunc apertius intellectum
vocat dicens: Est
autem, quemadmodum in
anima aliquotiens quidem
intellectus sine vero
vel falso, aliquotiens
autem cui iam
necesse est horum
alterum inesse, sic
etiam in voce;
circa conpositionem enim
et divisionem est
falsitas veri- . eædem v.
codices et] ut
intellectus esse quarum b: quorum codices 6 hæc E Ar. : hæ Eet ceteri
8 animæ sunt
codices aliud S:
aliud est est
aliud TE ait. quon.] quomodo
E 22 perspiciendum
S: persp. est S2FTE
de om. SF
disputauit S^F1TE 28
cui Ar. <p
cf. ed. I:
cum codices 30
autem falsitas veritasq; veritas
fals. ceteri SECVNDA EDITIO tasque. nomina igitur ipsa et verba
consimilia sunt sine
conpositione vel divisione
intellectui, ut homo vel album, quando
non additur aliquid;
neque enim adhuc
verum aut falsum
est. huius autem
signum hoc est:
hircocervus enim significat
aliquid, sed nondum verum vel falsum, si non vel esse vel non esse
addatur, vel simpliciter vel
secundum tempus. Pietro
Caramello. Keywords: interpretare, peryermeneias, Aquino, blityri – blythyri SG
blithyri NT blythiri EF? (in fine suprascr. S F)”. “signatiuis”
“significativis” garalus garulus F. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramello” –
The Swimming-Pool Library. Caramello.
Luigi Speranza -- Grice e Carando:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Socrate – scuola
di Pettinengo – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
The Swimming-Pool Library (Pettinengo). Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Pettinengo, Biella, Piemonte. Grice:
“I like Carando; a typical Italian philosopher, got his ‘laurea,’ and attends
literary salons! – There is a street named after him – whereas at Oxford the
most we have is a “Logic lane!” -- Ennio
Carando (Pettinengo), filosofo. Studia a Torino. Si avvicina all'anti-fascismo
attraverso l'influenza di Juvalta (con cui discusse la tesi di laurea) e di Martinetti.
Collaborò alla Rivista di filosofia di Martinetti, dove pubblicò un saggio su
Spir. Insegna a Cuneo, Modena, Savona, La Spezia. Sebbene fosse quasi
completamente cieco dopo l'armistizio si diede ad organizzare formazioni
partigiane in Liguria e in Piemonte (fu anche presidente del secondo CLN
spezzino). Era ispettore del Raggruppamento Divisioni Garibaldi nel Cuneese,
quando fu catturato in seguito ad una delazione. Sottoposto a torture atroci, non tradì i
compagni di lotta e fu trucidato con il fratello Ettore, capitano di artiglieria
a cavallo in servizio permanente effetivo e capo di stato maggiore della I
Divisione Garibaldi. Un filosofo socratico. La metafisica civile di un filosofo
socratico. Partigiano. Dopo l'armistizio Ennio Carando, che insegnava a La
Spezia presso il Liceo Classico Costa, entrò attivamente nella lotta di
liberazione organizzando formazioni partigiane in Liguria e in Piemonte. A chi
gli chiedeva di non avventurarsi in quella decisione così pericolosa rispondeva
fermamente: "Molti dei miei allievi sono caduti: un giorno i loro genitori
potrebbero rimproverarmi di non aver avuto il loro stesso coraggio". For centuries the First Alkibiades was respected as a major
dialogue in the Platonic corpus. It was considered by the Academy to be
the proper introduction to the study of Plato's dialogues, and actually
formed the core of the serious beginner's study of philosophy. Various
ancient critics have written major commentaries upon the dialogue (most
of which have subsequently been lost). In short, it was looked upon as a
most important work by those arguably in the best position to know.
In comparatively recent times the First Alkibiades has lost its
status. Some leading Platonic scholars judge it to be spurious, and as a
result it is seldom read as seriously as several other Platonic
dialogues. This thesis attempts a critical examination of the dialogue
with an eye towards deciding which judgement of it, the ancient or the
modern, ought to be accepted. I wish to take advantage of this opportunity at
last to thank my mother and father and my sister. Lea, who have always
given freely of themselves to assist me. I am also grateful to my
friends, in particular Pat Malcolmson and Stuart Bodard, who, through
frequent and serious conversations proved themselves to be true dialogic
partners. Thanks are also due to Monika Porritt for her assistance with
the manuscript. My deepest gratitude and affection extend to
Leon Craig, to whom I owe more than I am either able, or willing, to
express here. Overpowering curiosity may be aroused in a reader upon his
noticing how two apparently opposite men, Socrates and Alkibiades, are
drawn to each other's conversation and company. Such seems to be the
effect achieved by the First Alkibiades, a dialogic representation of the
beginning of their association. Of all the people named in the titles of
Platonic dialogues, Alkibiades was probably the most famous. It seems
reasonable to assume that one's appreciation of the dialogue would be enhanced
by knowing as much about the historical Alkibiades as would the typical
educated Athenian reader. Accordingly, this examination of the dialogue
will commence by recounting the major events of Alkibiades' scareer, on the
premise that such a reminder may enrich a philosophic understanding of
the First Alkibiades. The historical Alkibiades was born to Kleinias and
Deinomakhe. Although the precise date of his birth remains unknown
(cf. 121d), it was most surely before 450 B.C. His father,
Kleinias, was one of the wealthy men in Athens, financially capable
of furnishing and outfitting a trireme in wartime. Of Deinomakhe we know
nothing save that she was well born. As young children Alkibiades
and his brother, Kleinias, lost their father 4 in
battle and were made wards of their uncle, the renowned Penkles. He
is recognized by posterity as one of the greatest statesmen of Greece.
Athens prospered during his lengthy rule in office and flourished to such
an extent that the "Golden Age of Greece" is also called the
"Age of Perikles." When Alkibiades came under his care, Perikles held
the highest office in Athens and governed almost continuously until
his death which occurred shortly after the outbreak of the Peloponnesian
War. At an early age Alkibiades was distinguished for his striking
beauty and his multi-faceted excellence. He desired to be triumphant in
all he undertook and generally was so. In games and sport with other boys
he is said to have taken a lion's share of victories. There are no
portraits of Alkibiades in existence from which one might judge his
looks, but it is believed that he served his contemporaries as the
standard artistic model for representations of the gods. No doubt partly
because of his appearance and demeanor, he strongly influenced his
boyhood companions. For example, it was rumored that Alkibiades was
averse to the flute because it prevented the player from singing, as well
as disfiguring his face. Refusing to take lessons, he referred to
Athenian deities as exemplars, calling upon Athena and Apollon who had
shown disdain for the flute and for flautists. Within a short time
flute-playing had ceased to be regarded as a standard part of the
curriculum for a gentleman's education. Alkibiades was most surely the talk of
the town among the young men and it is scarcely a wonder that tales
of his youthful escapades abound. Pursued by many lovers, he for
the most part scorned such attentions. On one occasion Anytos, who was
infatuated with Alkibiades, invited him to a dinner party. Instead, Alkibiades
went drinking with some of his friends. During the evening he collected
his servants and bade them interrupt Anytos' supper and remove half of
the golden cups and silver ornaments from the table. Alkibiades did not
even bother to enter. The other guests grumbled about this hybristic
treatment of Anytos, who responded that on the contrary Alkibiades had been
moderate and kind in leaving half when he might have absconded with all.
Alkibiades certainly seems to have enjoyed an extraordinary sway over
some of his admirers. Alkibiades sought to enter Athenian politics as
soon as he became eligible and at about that time he first met
Socrates. The First Alkibiades is a dramatic representation of what might
have happened at that fateful meeting. Fateful it was indeed, for the
incalculable richness of the material it has provided for later thought as well
as for the lives of the two men. By his own admission, Alkibiades felt that
his feeling shame could be occasioned only by Socrates. Though it
caused him discomfort, Alkibiades nevertheless chronically returned
to occasion to save Alkibiades' life. The generals were about
to confer on him a prize for his valor but he insisted it be awarded to
AlkiThis occurred near the beginning of their friendship, at the start of
the Peloponnesian War. Later, during the Athenian defeat at the
battle of Delion, Alkibiades repaid him in kind. In the role of
cavalryman, he defended Socrates who was on foot. Shortly thereafter,
Alkibiades charged forward into politicsbiades., campaigns he mounted
invariably meeting with success. Elected strategos (general) in 420 B.C.
on the basis of his exploits, he was one of the youngest ever to wield
such high authority. Generally opposing Nikias and the plan for peace,
Alkibiades as the leader of the democrats allied Athens with various
enemies of Sparta. His grandiose plans for the navy rekindled Athenian
ambitions for empire which had been at best smouldering since the death
of Perikles. Alkibiades' policy proposals favored the escalation of the
war, and he vocally supported Athens' continuation of her position as the
imperial power in the Mediterranean. His first famous plan, the
Athenian alliance with Argos, is recounted in detail by Thucydides.
Thucydides provides an especially vivid portrait of Alkibiades and
indicates that he was unexcelled, both in terms of diplomatic maneuvering
and rhetorical ability. By arranging for the Spartan envoys to
modify their story from day to day, he managed to make Nikias look foolish
in his trust of them. Although Alkibiades suffered a temporary loss of
command, his continuing rivalry with Nikias secured him powerful
influence in Athens, which was heightened by an apparent failure of major
proportions by Nikias in Thrace. Alkibiades' sustained opposition to Nikias
prompted some of the radical democrats under Hyperbolos to petition for
an ostrakismos . This kind of legal ostracism was a device intended
primarily for the overturning of stalemates. With a majority of the vote an
ostrakismos could be held. Citizens would then write on a potsherd the
name of the one man in all of Attika they would like to see exiled. There
has been famous ostracisms before this time, some ofwhich were almost
immediately regretted (e.g., Aristeides the Just, in 482 B.C.). At any
rate, Hyperbolos campaigned to have Alkibiades ostracized. Meanwhile, in
one of their rare moments of agreement, Alkibiades persuaded Nikias to
join with him in a counter-campaign to ensure that the percentage of
votes required to effect Alkibiades' exile would not be attained. They
were so successful that the result of the ostrakismos was the exile
of Hyperbolos. That was Athen's last ostrakismos. Thucydides devotes
two books (arguably the most beautiful of his History of the
Peloponnesian War) to the Sicilian Expedition. This campaign Alkibiades
instigated is considered by many to be his most noteworthy adventure, and was
certainly one of the major events of the war. Alkibiades debated with
Nikias and convinced the Ekklesia (assembly) to launch the expedition. Clearly
no match for Alkibiades' rhetoric, Nikias, according to the
speeches of Thucydudes, worked an effect opposite his intentions
when he warned the Athenians of the ex- 19 Rather than
being daunted by the magnitude of the cost of the pense
expedition, the Athenians were eager to supply all that was
necessary. This enthusiasm was undoubtedly enhanced by the recent reports
of the vast wealth of Sicily. Nikias, Alkibiades and Lamakhos were
appointed co-commanders with full power (giving them more political
authority than anyone in Athen's recent history). Immediately
prior to the start of the expedition, the Hermai throughout Athens
were disfigured. The deed was a sacrilege as well as 22
a bad omen for the expedition. Enemies of Alkibiades took this
opportunity to link him with the act since he was already suspected of
pro¬faning the Eleusian Mysteries and of generally having a hybristic disregard
for the conventional religion. He was formally charged with impiety.
Alkibiades wanted to have his trial immediately, arguing it would
not be good to command a battle with the charge remaining undecided. His
enemies, who suspected the entire military force would take Alkibiades'
side, urged that the trial be postponed so as not to delay the awaiting
fleet's scheduled departure. As a result they sailed with Alkibiades'
charge untried. When the generals arrived at Rhegion, they
discovered that the 24 stories of the wealth of the
place had been greatly exaggerated. Nonetheless, Alkibiades and
Lamakhos voted together against Nikias to remain and accomplish what they
had set out to do. Alkibiades thought it prudent that they first
establish which of their allies actually had been secured, and to
try to persuade the rest. Most imperative, he 26
believed, was the persuasion of the Messenians. The Messenians
would not admit Alkibiades at first, so he sailed to Naxos and then
to Katana. Naxos allied with Athens readily, but it is suspected
that the Katanaians had some force used upon them. Before the Athenians
could address the Messenians or the Rhegians, both of whom held
important geographic positions and were influential, a ship arrived
to take Alkibiades back to Athens. During his absence from Athens,
his enemies had worked hard to increase suspicion that he had been
responsible for the sacrilege, and now, with the populace aroused
against Alkibiades, they urged he be 28 immediately
recalled. Alkibiades set sail to return in his own ship, filled
with his friends. At Thouri they escaped and went to the
Peloponnese. Meanwhile the Athenians sentenced him to death. He revealed
to the Spartans his idea that Messenian support in the west was
crucial to Athens. The Spartans weren't willing to trust Alkibiades
given his generally anti- Spartan policies, and they particularly
did not appreciate his past treatment of the Spartan envoys. In a
spectacular speech, as recounted by Thucydides, Alkibiades defended
himself and his conduct in leaving 30 Athens. Along with a
delegation of Korinthians and Syrakusans, Alkibiades argued for Sparta's
participation in the war in Sicily. He also suggested to them that their
best move against Athens was to fortify a post at Dekelia in
Attika. In short, once again Alkibiades proved himself to be a
master of diplomacy, knowing the right thing to say at any given
time, even among sworn enemies. The Spartans welcomed Alkibiades. Because
of his knowledge of Athenian affairs, they acted 32
upon his advice about Dekelia (413 B.C.). Alkibiades did further
service for Sparta by inciting some Athenian allies in Asia Minor, particularly
at Khios, to revolt. He also suggested to Tissaphernes, the Persian
satrap of Asia Minor, that he ought to consider an alliance with 33
Sparta. However, in 412 B.C. Alkibiades lost favor with the
Spartans. His loyalty was in doubt and he was suspected of having
seduced the Spartan queen; she became pregnant during a long absence of
the king. Alkibiades prudently moved on, this time fleeing to the
Persian court of Tissaphernes where he served as an advisor to
the satrap. He counselled Tissaphernes to ally
neither with Sparta nor with Athens; it would be in his best
interests to let them wear each other down. Tissaphernes was
pleased with this advice and soon listened to Alkibiades on most
matters, having, it seems, complete confidence in him. Alkibiades
told him to lower the rate of pay to the Spartan navy in order to
moderate their activities and ensure proper conduct. He should also
economize and reduce expenditures. Alkibiades cautioned him against
being too hurried in his wish for a victory. Tissaphernes was so
delighted with Alkibiades' counsel that he had the most beautiful
park in his domain named after him and developed into a luxury
resort. The Athenian fleet, in the meantime, was at Samos, and with
it lay the real power of Athens. The city had been brought quite low
by the war, especially the Sicilian expedition, which left in the hands
of the irresolute and superstitious Nikias turned out to be disastrous
for the Athenians. Alkibiades engaged in a conspiracy to promote an
oligarchic revolution in Athens, ostensibly to ensure his own acceptance
there. However, when the revolution occurred, in 411 B.C., and the Council of
Four 37 Hundred was established, Alkibiades did not
associate himself with it. He attached himself to the fleet at
Samos and relayed to them the promise of support he had exacted from
Tissaphernes. The support was not forthcoming, however, but despite the
sentiment among some of the Athenians at Samos that Alkibiades intended
to trick them, the commanders and 38 soldiers were
confident that Athens could never rise without Alkibiades. They appointed
him general and re-instated him as the chief-in-command of the Athenian
Navy. He sent a message to the oligarchic Council of Four Hundred in
Athens telling them he would support a democratic boule of 5,000 but that
the Four Hundred would have to disband. There was no immediate
response. In the meantime, with comparatively few men and ships,
Alkibiades managed to deflect the Spartans from their plan to form
an alliance with the Persian fleet. Alkibiades became an
increasingly popular general among the men at Samos, and with his
rhetorical abilities he dissuaded them from adopting policies that
would likely have proven disastrous. He insisted they be more
moderate, for example, in their treatment of unfriendly
ambassadors, such as those from Athens. The Council of Four Hundred
sent an emissary to Samos, but Alkibiades was firm in his refusal to
support them. This pleased the democrats, and since most of the
oligarchs were by this time split into several factions, the rule of
the 40 Four Hundred fragmented of its own accord.
Alkibiades sent advice from Samos as to the form of government the 5,000
should adopt, but he still 42 did not consider it the
proper time for his own return. During this time Alkibiades and the
Athenian fleet gained major victories, defeating the Spartans at
Kynossema, at Abydos (411 B.C.), and 43 at Kyzikos
(410 B.C.) Seeking to regain some control, Tissaphernes
had Alkibiades arrested on one occasion when he approached in a
single ship. It was a diplomatic visit, not a battle, yet
Tissaphernes had him imprisoned. Within a month, however,
Alkibiades and his men escaped. In order to ensure that
Tissaphernes would live to regret the arrest, Alkibiades caused a
story to be widely circulated to the effect that Tissaphernes had
arranged the escape. Suffice it to say the Great King of Persia was not
pleased. Alkibiades also recovered Kalkhedonia and Byzantion for the
Athenians. After gathering money from various sources and assuring
himself of the security of Athenian control of the Hellespont, he
at last decided to return to Athens. It had been an absence of
seven years. 46 He was met with an enthusiastic
reception in the Peiraeus. All charges against him were dropped and
the prevailing sentiment among the Athenians was that had they only
trusted in his leadership, they would still be the great empire they had
been. With the hope that he would be able to restore to them some of
their former glory, they appointed Alkibiades general with full powers, a
most extraordinary command. He gained further support from the Athenians
when he led the procession to Eleusis (the very mysteries of which he had
earlier been suspected of blaspheming) on the overland route. Several
years earlier, through fear of the Spartans at Dekelia, the procession
had broken tradition and gone by sea. This restoration of tradition
ensured Alkibiades political support from the more pious sector of the
public who had been hesitant about 48 him. He had so
consolidated his political support by this time that such ever persons
as opposed him wouldn't have dared to publicly declare 49
their opinions. Alkibiades led a number of successful
expeditions over the next year and the Athenians were elated with
his command. He had never failed in a military undertaking and the
men in his fleet came to regard themselves a higher class of soldier. However,
an occasion arose during naval actions near Notion when Alkibiades had to
leave the major part of his fleet under the command of another captain
while he sailed to a nearby island to levy funds. He left instructions not to
engage the enemy under any circumstances, but during his absence a battle
was fought nonetheless. Alkibiades hurriedly returned but arrived too late to
salvage victory. Many men and ships were lost to the Spartans. Such was
his habit of victory that the people of Athens suspected that he
must have wanted to lose. They once again revoked his citizenship.
Alkibiades left Athens for the last time in 406 B.C. and retired
to a castle he had built long before. Despite his complete loss of
civic status with the Athenians, his concern for them did not cease.
In his last attempt to assist Athens against the Spartan fleet
under Lysander, Alkibiades made a special journey at his own
expense to advise the new strategoi . He cautioned them that what
remained of the Athenian fleet was moored at a very inconvenient
place, and that the men should be held in tighter rein given the
proximity of Lysander's ships. They disregarded his advice with
utter contempt (only to regret it upon their almost 52
immediate defeat) and Alkibiades returned to his private retreat.
There he stayed in quiet luxury until assassinated one night in 404
B.C. The participants in the First Alkibiades, Socrates and
Alkibiades, seem at first blush to be thoroughly contrasting. To start
with appearances, the physical difference between the two men who meet this
day could hardly be more extreme. Alkibiades, famous throughout Greece
for his beauty, is face to face with Socrates who is notoriously ugly.
They are each represented in a dramatic work of the period.
Aristophanes refers to Alkibiades as a young lion; he is said to
have described Socrates as a "stalking
pelican." Alkibiades is so handsome that his figure and face
served as a model for sculptures of Olympian gods on high temple
friezes. Socrates is referred to as being very like the popular
representation of siloni and satyrs; the closest he attains to
Olympian heights is Aristophanes' depiction of him hanging in a
basket from the 55 rafters of an old house.
Pre-eminent among citizens for his wealth and his family, Alkibiades
is speaking with a man of non-descript lineage and widely advertised
poverty. Alkibiades, related to a family of great men, is the son of
Kleinias and Deinomakhe, both of royal lineage. Socrates, who is the son
of Sophroniskos the stone-mason and Phainarete the midwife, does not seem
to have such a spectacular ancestry. Even as a boy Alkibiades was famous
for his desire to win and his ambition for power. Despite being fearful
of it, people are familiar with political ambition and so believe they
understand it. To them, Alkibiades seemed the paragon of the political
man. But Socrates was more of a mystery to the typical Athenian. He
seemed to have no concern with improving his political or economic status.
Rather, he seemed preoccupied to the point of perversity with something
he called 'philosophy, 1 literally 'love of wisdom.' Alkibiades sought
political office as soon as he became of age. He felt certain that in
politics he could rise above all Athenians past and present. His combined
political and military success made it possible for him to be the
youngest general ever elected. Socrates, by contrast, said that he was
never moved to seek office; he served only when he was required (by legal
appointment). In his lifetime Socrates was considered to have been
insufficiently concerned with his fellows' opinions about him, whereas
from his childhood people found Alkibiades' attention to the demos
remarkable - in terms either of his quickness at following their cue, or
of his setting the trend. Both men were famous for their speaking
ability, but even in this they contrast dramatically. The effects of
their speech were different. Alkibiades could persuade peop le, and
so nations, to adopt his political proposals, even when he had been
regarded as an enemy. Socrates' effect was far less widespread. Indeed,
for most people acquainted with it, Socratic speech was suspect. People
were moved by Alkibiades' rhetoric despite their knowing that that was
his precise intention. It was Socrates, however, who was accused of
making the weaker argument defeat the stronger, though he explicitly
renounced such intentions. Alkibiades' long moving speeches persuaded
many large assemblies. Socrates' style of question and answer was not
nearly so popular, and convinced fewer men. Socrates is reputed to
have never been drunk, regardless of how much he had imbibed. This contrasts
with the (for the most part) notoriously indulgent life of Alkibiades. He
remains famous to this day for several of his drunken escapades, one of
which is depicted by Plato in a famous dialogue. Though both men were
courageous and competent in war, Socrates never went to battle
unless called upon, and distinguished himself only during general
retreats. Alkibiades was so eager for war and all its attendant glories
that he even argued in the ekklesia for an Athenian escalation of the
war. He was principally responsible for the initiation of the Sicilian
expedition and was famous for his bravery in wanting to go ever further
forward in battle. It was, instead, battles in speech for which Socrates
seemed eager; perhaps it is a less easily observed brand of courage which
is demanded for advance and retreat in such clashes. Both men could
accommodate their lifestyles to fit with the circumstances in which they found
themselves, but as these were decidedly different, so too were their manners of
adaptation. Socrates remained exclusively in Athens except when accompanying
his fellow Athenians on one or two foreign wars. Alkibiades travelled
from city to city, and seems to have adjusted well. He got on so
remarkably well at the Persian court that the Persians thought he was one
of them; and at Sparta they could not believe the stories of his love of
luxury. But, despite his outward conformity with all major Athenian
conventions, Socrates was st ill considered odd even in his home
city. In a more speculative vein, one might observe that
neither Alkibiades nor Socrates are restricted because of their common
Athenian citizenship, but again in quite different senses. Socrates,
willing (and eager) to converse with, educate and improve citizen and
non-citizen alike, rose above the polis to dispense with his need for it.
Alkibiades, it seems, could not do without political or public support
(as Socrates seems to have), but he too did not need Athens in
particular. He could move to any polis and would be recognized as an
asset to any community. Socrates didn't receive such recognition, but he
did not need it. Still, Alkibiades, like Socrates, retained an
allegiance to Athens until his death and continued to perform great deeds
in her service. Despite their outwardly conventional piety (e.g.,
regular observance of religious festivals), Alkibiades and Socrates were
both formally charged with impiety, but the manner of their alleged
violations was different. Alkibiades was suspected of careless blasphemy
and contemptuous disrespect, of profaning the highest of the city's
religious Mysteries; Socrates was charged with worshipping other deities
than those allowed, but was suspected of atheism. Though both men were
convicted and sentenced to death, Alkibiades refused to present himself
for trial and so was sentenced in absentia . Socrates, as we know,
conducted his own defense, and, however justly or unjustly, was legally
convicted and condemned. Alkibiades escaped when he had the chance and sought
refuge in Sparta; Socrates refused to take advantage of a fully arranged
escape from his cell in Athens. Alkibiades, a comparatively young man,
lived to see his sentence subsequently withdrawn. Socrates seems to have
done his best not to have his sentence reduced. His relationship with Athens
had been quite constant. Old charges were easily brought to bear on new
ones, for the Athenians had come to entertain a relatively stable view of
him. Alkibiades suffered many reverses of status with the Athenians.
Surprised from his sleep, Alkibiades met his death fighting with
assassins, surrounded by his enemies. After preparing to drink the hemlock,
Socrates died peacefully, surrounded by his friends. It seems
likely that Plato expects these contrasts to be tacitly in the mind of
the reader of the First Alkibiades . They heighten in various ways the
excitement of this dialogue between two men whom every Athenian of their
day would have seen, and known at least by reputation. Within a generation
of the supposed time of the dialogue, moreover, each of the participants
would be regarded with utmost partiality. It is unlikely that even the most
politically apathetic citizen would be neutral or utterly indifferent
concerning either man. Not only would every Athenian (and many
foreigners) know each of them, most Athenians would have strong feelings
of either hatred or love for each man. The extraordinary fascination of these
men makes Plato's First Alkibiades all the more inviting as a natural
point at which to begin a study of political philosophy. In
the First Alkibiades, Socrates and Alkibiades, regarded by posterity as
respective paragons of the philosophic life and the political life, are
engaged in conversation together. As the dialogue commences, Alkibiades
in particular is uncertain as to their relationship with each other.
Especially interesting, however, is their implicit agreement that these
matters can be clarified through their speaking with one another.
The reader might first wonder why they even bother with each other;
and further wonder why, if they are properly to be depicted together at
all, it should be in conversation. They could be shown in a variety
of situations. People often settle their differences by fighting, a
challenge to a contest, or a public debate of some kind. Alkibiades and
Socrates converse in private. The man identified with power and the man
identified with knowledge have their showdown on the plain of speech. The
Platonic dialogue form, as will hopefully be shown in the commentary, is
well suited for expressing political philosophy in that it allows
precisely this confrontation. A Platonic dialogue is different from a
treatise in its inclusion of drama. It is not a straightforward
explication for it has particular characters who are interacting
in specific ways. It is words plus action, or speech plus deed. In a
larger sense, then, dialogue implicitly depicts the relation between
speech and deed or theory and practice, philosophy and politics, and reflecting
on its form allows the reader to explore these matters. In
addition, wondering about the particulars of Socratic speech may shed
light upon how theory relates to practice. As one attempts to discover
why Socrates said what he did in the circumstances in which he did, one
becomes aware of the connections between speech and action, and
philosophy and politics. One is also awakened to the important position
of speech as intermediary between thought and action. Speech is unlike
action as has just been indicated. But speech is not like thought either.
It may, for instance, have immediate consequences in action and thus
demand more rigorous control. Philosophy might stand in relation to
thought as politics does to action; understanding 'political philosophy'
then would involve the complex connection between thought and speech, and
speech and action; in other words, the subject matter appropriate to
political philosophy embraces the human condition. The Platonic dialogue
seems to be in the middle ground by way of its form, and it is up to the
curious reader to determine what lies behind the speech, on both the side
of thought and action. Hopefully, in examining the First Alkibiades these
general observations will be made more concrete. A good reader will take
special care to observe the actions as well as the arguments of this
dialogue between the seeker of knowledge and the pursuer of power.
Traditionally, man's ability to reason has been considered the
essential ground for his elevated status in the animal kingdom. Through
reason, both knowledge and power are so combined as to virtually place
man on an altogether higher plane of existence. Man's reason allows him to
control beasts physically much stronger than he; moreover, herds outnumber man,
yet he rules them. Both knowledge and power have long attracted men
recognizably superior in natural gifts. Traditionally, the highest
choice a man could 57 confront was that between the
contemplative and the active life. In order to understand this as the
decision par excellence, one must comprehend the interconnectivity between
knowledge and power as ends men seek. One must also try to ascertain the
essential features of the choice. For example, power (conventionally
understood) without knowledge accomplishes little even for the mighty. As
Thrasymakhos was reminded, without knowledge the efforts of the strong
would chance to work harm upon themselves as easily as not (
Republic). The very structure of the dialogue suggests that the
reader attentive to dramatic detail may learn more about the relation
between power and knowledge and their respective claims to rule.
Alkibiades and Socrates both present arguments, and the very dynamics of
the conversation (e.g., who rules in the dialogue, what means he uses
whereby to secure rule, the development of the relationship between the
ruler and the ruled) promise to provide material of interest to this
issue. B. Knowledge, Power and their Connection through
Language As this commentary hopes to show, the problem of the human
use of language pervades the Platonic dialogue known as the First
Alkibiades. Its ubiquity may indicate that one's ability to
appreciate the significance of speech provides an important measure of one's
understanding of the dialogue. Perhaps the point can be most effectively
conveyed by simply indicating a few of the many kinds of references to
speech with which it is replete. Socrates speaks directly to Alkibiades
in complete privacy, but he employs numerous conversational devices to
construct circumstances other than that in which they find themselves.
For example, Alkibiades is to pretend to answer to a god; Socrates feigns
a dialogue with a Persian queen; and at one point the two imagine
themselves in a discussion with each other in full view of the Athenian
ekklesia . Socrates stresses that he never spoke to Alkibiades
before, but that he will now speak at length. And Socrates emphasizes
that he wants to be certain Alkibiades will listen until he finishes
saying what he must say. In the course of speaking, Socrates employs both
short dialogue and long monologue. Various influences on one's speaking
are mentioned, including mysterious powers that prevent speech and
certain matters that inherently demand to be spoken about. The two men
discuss the difference between asking and answering, talking and
listening. They refer to speech about music (among other arts), speech
about number, and speech about letters. They are importantly concerned
with public speaking, implicitly with rhetoric in all its forms. They
reflect upon what an advisor to a city can speak persuasively about. They
discuss the difference between persuading one and many. The two men refer to
many differences germane to speaking, such as private and public speech,
and conspiratorial and dangerous speech. Fables, poems and various other
pictures in language are both directly employed by Socrates and the
subject of more general discussion. Much of the argument centers on
Alkibiades' understanding of what the words mean and on the implicit
presence of values embedded in the language. They also spend much time
discussing, in terms of rhetorical effect, the tailoring of comments to
situations; at one point Socrates indicates he would not even name
Alkibiades' condition if it weren't for the fact that they are completely
alone. They refer to levels of knowledge among the audience and the
importance of this factor in effectively persuading one or many. And in a
larger sense already alluded to, reflection on Plato's use of the
dialogue form itself may also reveal features of language and aspects of
its relation to action. Socrates seems intent upon increasing
Alkibiades' awareness of the many dimensions to the problem of
understanding the role of language in the life of man. Thus the reader of
the First Alkibiades is invited to share as well in this education about
the primary means of education: speech, that essential human power. Perhaps
it may be granted, on the basis of the above, that the general issue of
language is at least a persistent theme in the dialogue. Once that is
recognized it becomes much more obvious that speech is connected both to
power, or the realm of action, and knowledge, the realm of thought.
Speech and power, in the politically relevant sense, are thoroughly
interwoven. The topics of freedom of speech and censorship are of
paramount concern to all regimes, at times forming part of the very
foundation of the polity. This is the most obvious connection: who is to
have the right to speak about what, and who in turn is to have the power
to decide this matter. Another aspect of speech which is crucial
politically seems to be often overlooked and that is the expression of
power in commands, instruction and explanation. The more subtle side of
this political use of speech is that of education. Maybe not all
political men do understand education to be of primary importance, but
that clearly surfaces as one of the things which Alkibiades learns in this
dialogue. At the very least, the politically ambitious man seeks
control over the education of others in order to secure his rule and make
his political achievements lasting. With respect to education, the
skilled user of language has more power than someone who must depend
solely on actions in this regard. Circumstances which are actually unique
may be endlessly reproduced and reconsidered. By using speech to teach,
the speaker gains a power over the listener that might not be available
had he need to rely upon actions. Not only can he tell of things that
cannot be seen (feelings, thoughts and the like), but he can invent
stories about what does not even exist. Myths and fables are
generally recognized to have pedagogic value, and in most societies form
an essential part of the core set of beliefs that hold the people
together. Homer, Shakespeare and the Bible are probably the most
universally recognized examples influencing western society. To mold and
shape the opinions of men through fables, lies and carefully chosen
truths is, in effect, to control them. Such use of language can be
considered a weapon also, propaganda providing a most obvious example.
Hobbes, for instance, recognizes these qualities of speech and labels
them 'abuses.' Most of the abuse appears to be constituted by the deception or
injury caused another; Hobbes all the while 58
demonstrates himself to be master of the insult. Summing up these
observations, one notices that speech plays a crucial part in the realm
of power, especially in terms of education, a paramount political
activity. The connection of speech to knowledge, the realm of
thought is much less in need of comment. The above discussion of
education points to the underlying concern about knowledge. Various
subtleties in language (two of which - metaphor and irony - will be
presently introduced), however, make it more than the instrument through
which knowledge is gained, but actually may serve to increase a person's
interest in attaining knowledge; that is, they make the end, knowledge,
more attractive. A most interesting understanding of speech emerges when
one abstracts somewhat from actual power and actual knowledge to look at
the relationship between the realms of action and thought. Action
and thought, epitomized by politics and philosophy, both require speech
if they are to interact. Politics in a sense affects thought, and
thought should guide action. Both of these exchanges are normally effected
through speech and may be said to describe the bounds of the subject area
of political philosophy. Political philosophy deals with what men do and
think (thus concerning itself with metaphysics, say, to the extent to
which metaphysical considerations affect man). Political philosophy may
be understood as philosophy about politics, or philosophy that is
politic. In this latter sense, speech via the expression of philosophy in
a politic manner, suggests itself to be an essential aspect to the
connection between these two human realms - thought and action. The reader of
the First Alkibiades should be alert to the ways in which language
pertains to the relationship between Socrates and Alkibiades. For
example, their concern for each other and promise to continue conversing
might shed some light on the general requirements and considerations
power and knowledge share. As has already been indicated, considerable
attention is paid to various characteristics of speech in the discussion
between the two men. Rhetoricians, politicians, philosophers and
poets, to mention but a few of those whose activity proceeds primarily
through speech, are aware of the powers of language and make more or less
subtle use of various modes of speech. The First Alkibiades teaches about
language and effectively employs many linguistic devices. Called for at
the outset is some introductory mention of a few aspects of language, in
order that their use in the dialogue may be more readily reflected
upon. Metaphor, a most important example, is a complex and exciting
feature of language. A fresh and vivid metaphor is a most effective
influence on the future perceptions of those listening. It will often
form a lasting impression. Surely a majority of readers are familiar with
the experience of being unable to disregard an interpretation of
something illuminated by an especially bright metaphor. Many people have
probably learned to appreciate the surging power of language by having
themselves become helplessly swamped in a sea of metaphor. There are two
aspects to the power of attracting attention through language that a
master of metaphor, especially, can summon. Both indicate a rational
component to language, but both include many more features of reason than
mere logical deduction. The first is the power that arises when someone
can spark connections between apparently unrelated parts of the world.
This is an interesting and exciting feature of man's rational capability,
deriving its charm partly from the natural delight people apparently take
in having connections drawn between seemingly distinct objects.
The other way in which he can enthrall an audience is through
harvesting some of the vast potential for metaphors that exist in the
natural fertility of any language. There are metaphors in everyday speech
that remain unrecognized (are forgotten) for so long that disbelief is
experienced when their metaphoric nature is revealed. Men's opinions
about much of the world is influenced by metaphor. A most important set of
examples involve the manner in which the invisible is spoken of almost
exclusively through metaphoric language based on the visible. This
curious feature of man's rationality is frequently explored by Plato. The most
famous example is probably Socrates's description of education as an ascent out
of a cave ( Republic), but another perhaps no less important example
occurs in the First Alkibiades . Not only is the invisible metaphorically
explained via something visible, but the metaphor is that of the organ of sight
itself (cf. 132c-133c, where the soul and the eye are discussed as
analogues)! The general attractiveness of metaphor also
demonstrates that man is essentially a creature with speech. That both
man and language must be understood in order for a philosophic
explanation to be given of either, is indicated whenever one tries to
account for the natural delight almost all people take in being shown new
secrets of meaning, in discovering the richness of their own tongue, and
in the reworking of images - from puns and complex word games to simple
metaphors and idiomatic expressions. Man's rationality is bound up with
language, and rationality may not be exclusively or even primarily logic;
it is importantly metaphor. Subtle use is often made of the captivating power
of various forms of expression. One of the most alluring yet bedevilling
of these is irony. Irony never unambiguously reveals itself but suggests
mystery and disguise. This enhances its own attractiveness and
simultaneously increases the charm of the subject on which irony is
played; there seems little doubt that Socrates and Plato were able to
make effective use of this feature for they are traditionally regarded as
the past masters of it. Eluding definition, irony seems not amenable to a
simple classifi- catory scheme. It can happen in actions as well as
speeches, in drama as well as actual life. It can occur in an infinite
variety of situations. One cannot be told how exactly to look for irony; it
cannot be reduced to rules. But to discover its presence on one's own is
thoroughly- exciting (though perhaps biting). The possibility of double
ironies increases the anxiety attending ironic speech as well as its
attractiveness. The merest suggestion of irony can upset an otherwise
tranquil moment of understanding. Probably all listeners of ironic speech
or witnesses of dramatic irony have experienced the apprehensiveness
that follows such an overturned expectation of simplicity. It
appears to be in the nature of irony that knowledge of its presence in no
way diminishes its seductiveness but rather enhances its effectiveness.
Once it is discovered, it has taken hold. This charming feature of
Socrates' powerful speech, his irony, is acknowledged by Alkibiades even as he
recognizes himself to be its principal target (Symposium 215a-216e). The
abundance of irony in the First Alkibiades makes it difficult for any
passage to be interpreted with certitude. It is likely that the following
commentary would be significantly altered upon the recognition of a yet
subtler, more ironic, teaching in the dialogue. It is thus up to each
individual, in the long run, to make a judgement upon the dialogue, or
the interpretation of the dialogue; he must be wary of and come to
recognize the irony on his own. The Superior Man is a Problem for
Political Philosophy One mark of a great man is the power of
making lasting impressions upon people he meets. Another is so to
have handled matters during his life that the course of after events is
continuously affected by what he did. Winston Churchill
Great Contemporaries It may be provisionally suggested that both
Socrates and Alkibiades are superior men, attracted respectively to
knowledge and power. Certainly a surface reading of the First Alkibiades
would support such a judgement. One could probably learn much about the
character of the political man and the philosophic man by simply
observing Socrates and Alkibiades. It stands to reason that a wisely crafted
dialogue representing a discussion between them would reveal to the careful,
reflective reader deeper insight into knowledge, power and the lives of
those dedicated to each. Socrates confesses that he is drawn
to Alkibiades because of the youth's unquenchable ambition for
power. Socrates tells Alkibiades that 59 the way to
realizing his great aspirations is through the philosopher. Accordingly
Socrates proceeds to teach Alkibiades that the acquisition of knowledge
is necessary in order that his will to power be fulfilled. By the end of
the dialogue, Socrates' words have managed to secure the desired response
from the man to whom he is attracted: Alkibiades in a sense redirects his
eros toward Socrates. This sketch, though superficial, bespeaks the dialogue's
promise to unravel some of the mysterious connections between knowledge
and power as these phenomena are made incarnate in its two exceptional
participants. The significance of the superior man to political
philosophy has, for the most part, been overlooked in the
last century or so, the exceptions being rather notorious given their
supposed relation to the largest political event of the Twentieth
Century.^ in contemporary analysis, the importance of great men, even in
the military, has tended to be explained away rather than understood.
This trend may be partly explained by the egalitarian views of the
dominant academic observers of political things. As the
problem was traditionally understood, the superior man tends to find
himself in an uneasy relationship with the city. The drive, the erotic
ambition distinguishes the superior man from most others, and in that
ambition is constituted their real threat to the polity as well as their
real value. No man who observed a war could persist in the belief that
all citizens have a more or less equal effect on the outcome, on history.
A certain kind of superiority becomes readily apparent in battle and the
bestowal of public honors acknowledges its political value. Men of such
manly virtue are of utmost necessity to all polities, at least in times
of extremes. Moreover, political philosophers have heretofore recognized
that there are other kinds of battlefields upon which superior men
exercise their evident excellence. It is, however, during times of
peace that the community experiences fear about containing the lions,^
recognizing that they constitute an internal threat to the regime. Thus,
during times of peace a crucial test of the polity is made. A polity's
ability to find a fitting place for its noble men speaks for the nobility
of the polity. In many communities, the best youths turn to narrow
specialization in particularized scientific disciplines, or to legal and
academic sophistry, to achieve distinction. It is not clear whether this
is due to the regime's practicing a form of politics that attracts but
then debases or corrupts the better sort of youth, or because the best
men find its politics repugnant and so redirect their ambitions toward
these other pursuits. In any event, the situation in such communities is
a far cry from that of the city which knows how to rear the lion
cubs. Not surprisingly, democracy has always had difficulty with the
superior men. Ironically, today the recognition of the best men in
society arises most frequently among those far from power or the desire to
enter politics. Those who hold office in modern democracies are not able
to uphold the radically egalitarian premises of the regime and still
consistently acknowledge the superiority of some men. This has repercussions at
the base of the polity: the democratic election. Those bent on holding
public office are involved in a dilemma, a man's claim to office is that
he possesses some sort of expertise, yet he cannot maintain a platform of
simple superiority in an egalitarian regime. Many aspirants are required
to seek election on the basis of some feature of their character (such as
their expenditure of effort) instead of their skills, and such criteria
are often in an ambiguous relation to the duties of office.
The problem is yet more far-reaching. Those regimes committed to
the enforced equalization of the unequal incongruously point with pride
to the exceptional individuals in the history of their polities. A
standard justification for communist regimes, for example, is to refer to
the distinguished figures in the arts and sports of their nation.
Implicitly the traditional view has been retained: great men are one of
the measures of a great polity. A less immediate but more profound
problem for political philosophy is posed by the very concept of the best
man. Three aspects of this problem shall be raised, the last two being
more fully discussed as they arise in commenting upon the First
Alkibiades . All who have given the matter some thought will
presumably agree that education is, in part at least, a political
concern, and that the proper nurture of youth is a problem for political
philosophy. Accordingly, an appropriate beginning is the consideration of the
ends of nurture. The question of toward what goal the nurture of youth is
to aim is a question bound up with the views of what the best men are
like. This is inevitably the perspective from which concerned parents
adopt their own education policies. Since the young are nurtured in one
manner or another regardless, all care given to the choice of nurtures is
justified It must be remembered that children will adopt models of
behavior regardless of whether their parents have guided their choice. As
the tradition reminds is, the hero is a prominent, universal feature in
the nurture of children. Precisely for that reason great care ought to
be taken in the formation and presentation (or representation) of
heroic men and deeds. The heroes of history, of literature and of
theater presumably have no slight impact on the character of youth. For
instance canons of honesty are suggested by the historical account of
young Lincoln, codes of valor have been established by Akhilleus, and
young men's opinions about both partnerships and self-reliance are being
influenced by the Western Cowboy. The religious reverence with
which many young observe the every word and deed of their idols
establishes "the hero" as a problem of considerable
significance. One could argue that the hero should be long dead. His less
than noble human characteristics can be excised from the public memory
and his deeds suitably embellished (cf. Republic 391d.6). Being dead, the
possibility of his becoming decadent or otherwise evil is eliminated.
Although attractive, this suggestion presents a rather large problem,
especially in a society in which there is any timocratic element. The
honors bestowed on living men may be precisely what transforms them into the
"flesh and blood" heroes of the young. Should honors not be
delivered until after a man's death, however (when he cannot turn to
drink, women or gambling), it may dampen many timocrats' aspirations. If
the superior man is not recognized during his lifetime, he must at least
obtain some assurance of a lasting honor after his death. This might be
difficult to do, if he is aware of how quickly and completely the
opinions of those bestowing honor, the demos, shift. Since this turned
out to assume great importance historically for Alkibiades, the reader of
the First Alkibiades might be advised to pay attention to what Socrates
teaches the young man about power and glory. The role of heroes extends beyond
their pedagogic function of supplying models to guide the ambitions of
youth. Heroes contribute to the pride of a family, help secure the glory
of a nation and provide a tie to the ancestral. Recognition of this
should suffice to indicate that the problem of superior men is a
significant one for political philosophy. Presumably any
political theory requires some account of the nature of man. It may
already be clear at this point that a comprehensive philosophic account of
man's nature must include a consideration of the superior man.
Traditionally, in fact, the concept of the best man has been deemed
central to an adequate understanding. Many people who would readily grant
the importance of the problem of understanding human nature consider it
to be a sort of statistical norm. That position does not concede the
necessity of looking toward the best man. For the immediate purpose of
analyzing this dialogue, it seems sufficient that the question be
reopened, which may be accomplished simply by indicating that there are
problems with seeing nature as "the normal." Without any
understanding of the best man (even one who is not actualized),
comparison between men would be largely meaningless and virtually any
observation of, or statement about persons would be ambiguous since they
involve terms which imply comparing men on some standard. There would be
no consistent way to evaluate any deviation whatsoever from the normal.
For example, sometimes it is better to be fierce, sometimes it is not. If
one describes a man as being more capable of fierceness than most men one
would not know how to evaluate him relative to those men, without more
information. It is necessary to have an understanding of the importance
of those matters in which it is better to be fierce, to the best man. If
it is important for the best man to be capable of being very fierce,
then, and only then, it seems, could one judge a man who is able to be
fierce at times to be a better man with respect to that characteristic.
Any meaningful description of him, then depends on the view of the best
man. This is implicit in the common sense understanding anyway. The
statement "X is more capable of fierceness than most men,' prompts
an implicit qualitative judgement in most men's minds on the basis of
their views of the best man. The statement "X has darker hair than
most men," does not, precisely because most understandings of the
best man do not specify hair color. A concept of the best is necessary if
a man is to be able to evaluate his position vis a vis others and discern
with what he must take pains with himself. The superior man understands
this. Aiming to actualize his potential to the fullest in the direction
of his ideal, he obviously does not compete with the norm. He strives
with the best of men or even with the gods. Whenever he sees two
alternatives, he immediately wonders which is best. The superior youth
comes to learn that a central question of his life is the question of
with whom is his contest. Having raised this second aspect of
the philosophic concern about the best man, one is led quite naturally to
a related problem he poses for political philosophy with respect to what
has been a perennial concern of the tradition, indeed perhaps its guiding
question, namely: "What is the best regime?" The
consideration of the best regime may be in light of a concern for the
"whole" in some sense, or for the citizen or for the
"whole" in some sense, or from some other standpoint. Apart
from the problem of how to understand "the whole," a large
philosophic question remains regarding whether the best for a city is
compatible with the best for a man. The notion of the superior man
provides a guide of some sort (as the 'norm' does not) to the answer
regarding what is best for a man; the view of the best regime suggests
(as the 'norm' does not) what is good for a city. But what must one
do if the two conflict? As has become apparent, the complex question of
the priority of the individual or the social order is raised by the very
presence of the superior man in a city. The dialogue at various points
tacitly prompts the reader to consider some of the intricacies of this
issue. Upon considering what is best for man generally, for a man
in particular, and for a city, one notices that most people have
opinions about these things, and not all of them act upon these opinions.
One eventually confronts a prior distinction, the difference between
doing what one thinks is good, knowing what is good, and doing what one
knows is good. While it is not entirely accurate to designate them respectively
as power, knowledge, and knowledge with power, these terms suggest how
the problems mentioned above are carried through the dialogue in terms of
the concern for the superior man. Provisionally, one may suggest
that Alkibiades provides a classic example of the superior man. In a sense
not obvious to the average Athenian, so too is Socrates. They both
pose distinct political problems, and they present interesting
philosophic puzzles as well. But there is another reason, no less
compelling for being less apparent, that recommends the study of
the First Alkibiades . Since antiquity the First Alkibiades has
been subtitled, "On the Nature of Man." At first blush this
subtitle 63 is not as fitting as the subtitles of some
other aporetic dialogues. The question "What is the nature of
Man?" is neither explicitly asked nor directly addressed by
either Socrates or Alkibiades, yet the reader is driven to consider
it. One might immediately wonder why " Alkibiades " is
the title of a dialogue on the nature of man, and why Socrates chooses
to 64 talk about man as such with Alkibiades. Perhaps
Alkibiades is particularly representative, or especially revealing about man.
Perhaps he is unique or perhaps he is inordinately in need of such a
discourse. One must also try to understand Socrates' purpose, comprehend
the significance of any of Alkibiades' limitations, and come to an
understanding of what the character of his eros is (e.g., is it directed
toward power, glory, or is it just a great eros that is yet to be
directed). In the course of grappling with such matters, one also
confronts one's own advantages and liabilities for the crucial and
demanding role of dialogic partner. Perhaps the very things a
reader fastens his attentions upon are indicative of something essential
about his own particular nature. If the reader is to come to a decision
as to whether the subtitle affixed in antiquity to the dialogue is indeed
appropriate, these matters must be judged in the course of considering
the general question of whether the dialogue is indeed about "the
nature of man." The mystery and challenge of a dialogue may serve to
enhance its attractiveness. One of the most intriguing philosophic
problems of the First Alkibiades may well be the question of whether it
is in fact about man's nature. With a slight twist, the reader is faced
with another example of Socrates' revision of Meno's paradox ( Meno 80e).
Sometimes when a reader finds what he is looking for, discovering something
he was hoping to discover, it is only because his narrowness of attention
or interest prevented him from seeing conflicting material, and because
he expended his efforts on making what he saw conform to his wishes.
The good reader of a dialogue will, as a rule, take great care to avoid
such myopia. In order to find out whether the dialogue is primarily about
the nature of man (and if so, what is teaches about the nature of man),
the prudent reader will caution himself against begging the question, so
to speak. If one sets out ignorant of what the nature of man is, one
may have trouble recognizing it when one finds it. Conversely, to
complete the paradox, to ask how and where to find it (in other words,
inquiring as to how one will recognize it), implies that one ought already
know what to expect from knowledge of it. This could be problematic,
for the inquiry may be severely affected by a preconceived opinion
about which question will be answered by it. "Philosophical
prejudices" should have no part in the search for the nature of man.
This is a difficulty not faced to the same extent by other aporetic
dialogues which contain a question of the form "What is _?"
Once this first question is articulated, the normal way of pursuing
the answer is open to the reader. He may proceed naturally from
conventional opinion, say, and constantly refine his views according to
what he notices. It appears, however, that the reader of the First Alkibiades
cannot be certain that it will address the nature of man, and the
dialogue doesn't seem to directly commence with a consideration of
conventional opinions. Most readers of the dialogue know what a man is
insofar as they could point to one (111b,ff.), but very few know what man
is. Perhaps as the dialogue unfolds the careful reader will be educated
to a point beyond being ignorant of how to look for something that he
mightn't recognize even when he found it. By this puzzle the reader is
drawn more deeply into the adventure of touching on the mysteries of his
own nature. To borrow a metaphor from a man who likely knew more about
Socrates and Alkibiades than has anyone else before or since, the same
spirit of adventure permeates the quest for knowledge of man as
characterizes sailing through perilous unknown waters on a tiny, frail
craft, attempting to avoid perishing on the rocks. One can only begin
with what one knows, such as some rudimentary views about navigation
technique and more or less correct opinions about one's home port. Upon
coming to appreciate the difficulties of knowing, fully and honestly,
one's own nature, one realizes how treacherous is the journey. In all
likelihood one will either be swamped, or continue to sail forever, or
cling to a rock under the illusion of having reached the far shore.
This thesis is an introduction to the First Alkibiades . Through
their discussion, and more importantly through his own participation in
their discussion, Socrates and Alkibiades reveal to the reader something
about the nature of man. Both the question of man's nature and the
problem of the superior man have been neglected in recent political
theory; especially the connection between them has been overlooked. To
state the thesis of this essay with only slight exaggeration: an understanding
of politics - great and small - is impossible without knowledge of man,
and knowledge of man is impossible without knowledge of the best of men.
This thesis, investigating the dialogue entitled the First Alkibiades,
focusses on certain things the dialogue seems to be about, without pretending
to be comprehensive. It is like the dialogue in one respect at least: it
is written in the interest of opening the door to further inquiry, and
not with subsequently closing that door. Through a hopefully careful,
critical reading of the First Alkibiades, I attempt to show that the
nature of man and the superior man are centrally tied both to each other
and to any true understanding of (great) political things. The spirit of
the critique is inspired by the definition of a "good critic"
ascribed to Anatole France: "A good critic is one who tells the
story of his mind's adventures among the masterpieces." The First
Alkibiades begins abruptly with the words "Son of Kleinias, I
suppose you are wondering..." The reader does not know where the
dialogue is taking place; nor is he informed as to how Socrates and
Alkibiades happened to meet on this occasion. Interlocutors in other
direct dramatic dialogues may sooner or later reveal this information in
their speeches. In narrated dialogues, Socrates or another participant
may disclose the circumstances of the discussion. In the case of
this dialogue, however, no one does. The reader remains uncertain
that it is even taking place in Athens proper and not in the countryside
about the city. It may be reasonable to suggest that in this case the
setting of the dialogue does not matter, or more precisely, the fact that
there is no particular setting is rather what matters. The discussion is
not dependent on a specific set of circumstances and the dialogue
becomes universally applicable. The analysis will hopefully show the
permanence of the problems thematically dealt with in the dialogue.
Philosophically it is a discussion in no way bound by time or place.
Further support is lent to this suggestion by the fact that there is no
third person telling the story and Socrates is not reporting it to
anyone. Nobody else is present. Plato presents to the reader
a dramatic exchange which is emphatically private. Neither Socrates nor
Alkibiades have divulged the events of this first dialogic encounter
between the man and the youth. The thorough privacy of the
discussion as well as the silence concerning the setting help to impute to the
reader an appreciation of the autonomous nature of the discourse. There
is a sense in which this dialogue could happen whenever two such people
meet. Consequently, the proposition implicitly put forth to the reader is
that he be alive to the larger significance of the issues treated; the
very circumstances of the dialogue, as mentioned here, sufficiently
support such a suggestion so as to place the onus for the argument in the
camp of those who want to restrict the relevance of the dialogue to
Socrates and Alkibiades in 5th century Athens. That the two
are alone is a feature that might be important to much of the reader's
interpretation, for attention is drawn to the fact by the speakers
themselves. Such privacy may have considerable philosophic significance,
as it has a clear effect on the suitability of some of the material being
discussed (e.g., 118b.5). There is no need for concern about the effect
of the discussion upon the community as there might be were it spoken at
the ekklesia ; the well-being of other individuals need not dissuade them
from examining radical challenges to conventional views, as might be the
case were they conversing in front of children or at the marketplace; and
there is no threat to either participant, as there might be were they to insult
or publicly challenge someone's authority. Conventional piety and
civic-mindedness need place no limitations on the depth of the inquiry;
the only limits are those implicit in the willingness and capability of the
participants. For example, an expectation of pious respect for his
guardian, Perikles, could well interfere with Alkibiades' serious
consideration of good statesmanship. The fact that they are
unaccompanied, that Perikles is spoken of as still living, and that
Socrates first mentions Perikles in a respectful manner (as per 118c,
104b-c), permits a serious (if finally not very flattering) examination
of his qualifications. Socrates and Alkibiades are alone and are not
bound by any of the restrictions normally faced in discussions with an
audience. The reader's participation, then, should be influenced by this spirit
of privacy, at least in so far as he is able to grasp the political
significance of the special "silence" of private
conversation. Somewhere in or about their usual haunts, Socrates
and Alkibiades chanced to meet. If their own pronouncements can be taken
literally, they were in the process of seeking each other. Alkibiades had
been about to address Socrates but Socrates began first (104c-d). Since
his daimon or god had only just ceased preventing him from talking
to Alkibiades (105d), Socrates was probably waiting at Alkibiades'
door (106e.10). Although the location is unknown, the reader
may glean from various of their comments a vague idea of the time of the
dialogue. In this case, it appears, the actual dramatic date of the
dialogue is of less importance than some awareness of the substance of
the evidence enabling one to deduce it. Alkibiades is not yet twenty
(123d) but he must be close to that age for he intends shortly to make
his first appearance before the Athenian ekklesia (106c). Until today
Socrates had been observing and following the youth in silence; they had
not spoken to each other. This corroborates the suggestion that the
action of the dialogue takes place before the engagement at Potidaia
(thus before the outbreak of the Peloponnesian War, i.e. before 432 B.C.)
for they knew each other by that time ( Symposium, 219e). Perikles and
his sons are referred to as though they were living, offering
further confirmation that the dramatic date is sometime before or about
the onset of the war with Sparta. The action of the dialogue must take
place before that of the Protagoras,^ since Socrates has by then a
reputation of sorts among the young men, whereas Alkibiades seems not to
have heard very much of Socrates at the beginning of the First Alkibiades
. Socrates addresses Alkibiades as the son of Kleinias. This
perhaps serves as a reminder to the young man who believes himself so
self- sufficient as to be in need of no one (104a). In the first place,
his uniqueness is challenged by this address. His brother (mention of
whom occurs later in the dialogue - 118e.4) would also properly turn
around in response to Socrates' words. More importantly, however, it
indicates that he too descended from a family. His ancestry is traced to
Zeus (121a), his connections via his kin are alleged to be central to
his self-esteem (104b), and even his mother, Deinomakhe, assumes a role
in the discussion (123c) . He is attached to a long tradition.
Through observation of Alkibiades' case in particular, the fact
that a man's nature is tied to descent is made manifest. Alkibiades lost
his father, Kleinias, when he was but a child (112c) . He was made a ward
of Perikles and from him received his nurture. For most readers, drawing
attention to parentage would not distinguish nature from nurture. One is
a child of one's parents both in terms of that with which one is born,
one's biological/genetic inheritance, and of that which one learns. In
the case of Alkibiades, however, to draw attention to his father is to
draw attention to his heredity, whereas it was Perikles who raised him.
The philosophic distinction between nature and nurture is emphasized by the
apparent choice of addresses open to Socrates. Alkibiades is both the son
of Kleinias and the ward of Perikles. It seems fitting that a dialogue on
human nature begin by drawing attention to two dominating features of all
men's characters, their nature and their nurture. Socrates believes
that Alkibiades is wondering. He is curious about the heretofore hidden
motives for Socrates' behavior. As a facet of a rational nature, wonder
or curiosity separates men from the beasts. Wondering about the world is
characteristic of children long before they fully attain reason, though
it seems to be an indication of reason; most adults retain at least some
spark of curiosity about something. The reader is reminded that the
potential for wonder/reason is what is common to men but not possessed by
beasts, and it serves to distinguish those whom we call human.
Reason in general, and wonder in particular, pose a rather complex
problem for giving an account of the nature of man. Though enabling one
to distinguish men from beasts, it also allows for distinctions between
men. Some are more curious than others and some are far more rational
than others. The philosopher, for example, appears to be dominated by his
rational curiosity about the true nature of things. Some people wonder
only to the extent of having a vague curiosity about their future. It
appears that the criteria that allow one to hierarchically differentiate man
from beast also provide for the rank-ordering of men. Some people would
be "more human" than others, following this line of analysis.
This eatablishes itself as an issue in understanding what, essentially,
man is, and it may somehow be related to the general problem of the
superior man, since his very existence invites comparison by a
qualitative hierarchy. He might be the man who portrays the human
characteristics in the ideal/proper quantities and proportions. He may
thus aid our understanding of the standard for humans. Another opportunity
to examine this issue will arise upon reaching the part of the dialogue
wherein Socrates points out that Alkibiades can come to know himself
after he understands the standard for superior men, after he understands
with whom he is to compete (119c,ff.). There are at least two other
problems with respect to the analysis of human curiosity. The first is
that it seems to matter what people are curious about. Naturally children
have a general wonder about things, but at a certain stage of
development, reason reveals some questions are more important than and
prior to others. It seems clear that wondering about the nature of the
world (i.e., what it really is), its arche (basic principles), and man's
proper place in it, or the kind of wondering traditionally associated
with the philosophic enterprise, is of a higher order than curiosity
about beetles, ancient architecture, details of history, or nuances of
linguistic meaning. This further complicates the problems of
rank-ordering men. The second problem met with in giving an account
of wonder and its appropriate place in life is that next to philosophers
and children, few lives are more dominated by a curiosity of sorts than
that of the "gossiping housewife." She is curious about the
affairs of her neighbors and her neighbor's children. The passion for
satisfying that curiosity is often so strong as to literally dominate her
days. It seems impossible to understand such strong curiosity as "merely
idle," but one would clearly like to account for it as essentially
different from the curiosity of the philosopher. That the reader may not
simply disregard consideration of gossiping women, or consider it at best
tangential, is borne out by the treatment of curiosity in the First
Alkibiades. It is indicated in the dialogue that daughters, wives
and mothers must figure into an account of wonder. There are seven uses of
'wonder' 6 V ( thaumadzein ). The first three involve
Socrates and Alkibiades attesting to Alkibiades' wonder, including a rare
pronouncement by Socrates of his having certain knowledge: he knows well
that Alkibiades is wondering (104c.4; 103a.1, 104d.4). The last three are
all about women wondering. Keeping in mind the centrality of
wondering to the nature of the philosopher (it seems to be a chief thing
in his nature), one sees that careful attention must be given to
curiosity. We have other reasons to suspect that femininity is in some
way connected to philosophy, and perhaps a careful consideration of the
treatment of women in the dialogue would shed light on the problem.
There is a sense in which wonder is a most necessary prerequisite
to seeking wisdom (cf. also Theaitetos 155d). To borrow the conclusion of
Socrates' argument with Alkibiades concerning his coming to know justice
(106d-e; 109e), one has to be aware of a lack of something in order to
seek it. A strong sense of wonder, or an insatiable curiosity drives one
to seek knowledge. This type of intense wondering may conceivably be a major
link in the connection between the reason and the spirit of the psyche
(cf. Republic 439e-440a). In the Republic these two elements are said to
be naturally allied, but the reader is never explicitly told how they are
linked, or what generally drives or draws the spirit toward reason. An
overpowering sense of wonder seems the most immediate link. Perhaps
another link is supplied when the importance of the connection of knowledge to
power is recognized; a connection between the two parts of the psyche
might be supplied by a great will to power, for power presumably requires
knowledge to be useful. However, final judgement as to how the sense of
wonder and the desire for power differ in this regard, and which, if any,
properly characterizes the connections between the parts of Alkibiades'
psyche must await the reader's reflection on the dialogue as a whole.
Likewise, his evaluation as to which class of men contains Alkibiades
will be properly made after he has finished the dialogue.
Socrates believes that Alkibiades is wondering. Precisely that
feature of Alkibiades' nature is the one with which Socrates chooses to
begin the discussion and therewith their relationship. One may thus
explore the possibility that wondering is what distinguishes Alkibiades,
or essentially characterizes him. The discussion to this point would
admit of a number of possibilities. Curiosity could set Alkibiades apart
from other political figures, or it may place him above men
generally, indicating that he is one of the best or at least potentially
one of the best men - should reason/curiosity prove to be characteristic
of the best. Alkibiades' ostensible wondering could bespeak the high
spirit which characterized his entire life; perhaps one of the reasons he
would choose to die rather than remain at his present state (105a-b) is
that he is curious to see how far he can go, how much he can rule.
Socrates remarks that he is Alkibiades' lover; he is the first of
Alkibiades' lovers. Socrates suggests two features of his manner which,
taken together, would be likely to have roused the wonder of Alkibiades.
Socrates, the first lover, is the only one who remains; all the other
lovers have forsaken Alkibiades. Secondly, Socrates never said a word to
Alkibiades during his entire youth, even though other lovers pushed
through hoardes of people to speak with Alkibiades. A youth continuously
surrounded by a crowd of admirers would probably wish to know the motives
of a most constant, silent observer - if he noticed him. Socrates has at
last, after many years, spoken up. Assuring Alkibiades that no
human cause kept him from speaking, Socrates intimates that a daimonic
power had somehow opposed his uttering a single word. The precise nature
of the power is not divulged. Obviously not a physical restraint
such as a gag, it can nevertheless affect Socrates' actions. Socrates,
one is led to believe, is a most rational man. If it was not a human
cause that kept him from speaking, then Socrates' reason did not cause
him to keep silent. It was not reason that opposed his speech. Whatever
the daimonic power was, it was of such a force that it could match the
philosopher's reason. An understanding of how Socrates' psyche would be under
the power of this daimonic sign would be of great interest to a student
of man. In at least Socrates' case, this power is comparable in force to
the power of reason. Socrates tells Alkibiades that the power of the
daimon in opposing his speaking was the cause of his silence for so many
years. The reader does not forget, however, that the lengthy
silence was not only Socrates'. Something else, perhaps less divine, kept
Alkibiades silent. It is noteworthy that the first power
Socrates chooses to speak of with Alkibiades is a non-human one, and one
which takes its effect by restraining speech. Alkibiades is interested in
having control over the human world; the kind of power he covets involves
military action and political management. Young men seem not altogether
appreciative of speech. Even when they acknowledge the power made
available by a positive kind of rhetorical skill, they do not appear
especially concerned with any negative or restraining power that limits speech
such as the power of this daimon. Not only is talk cheap, but it is for
women and old men, in other words, for those who aren't capable of
actually doing anything. The first mention of power ( dynamis) in the
dialogue cannot appear to Alkibiades to pertain to his interest in ruling
the human world, but it does offer the reader both an opportunity for
reflection on power in general, and a promise to deal with the connection
between power and speech in some fashion. What the dialogue teaches about
language and power will be more deeply plumbed when Alkibiades learns the
extent of the force of his words with Socrates (112e, ff.).
According to Socrates, Alkibiades will be informed of the power of
this daimonic sign at some later time. Since apparently the time is not
right now, either Socrates is confident that he and Alkibiades will
continue to associate, or he intends to tell Alkibiades later during the
course of this very dialogue. Socrates, having complied with his daimon,
comes to Alkibiades at the time when the opposition ceases. He appears to
be well enough acquainted with the daimon to entertain good hopes that it
will not oppose him again. By simple observation over the years,
Socrates has received a general notion of Alkibiades' behavior toward his
lovers. There were many and they were high-minded, but they fled from
Alkibiades' surpassing self-confidence. Socrates remarks that he wishes
to have the reasons for this self-confidence come to the fore. By
bringing Alkibiades' reasons to speech, Socrates implies, among other
things, that this sense of superiority does not have a self-evident basis
of support. He also suggests that there is a special need to have reasons
presented. Perhaps Alkibiades' understanding of his own feelings either
is wrong or insufficient; at any rate, they have previously been left unstated.
If they are finally revealed, Alkibiades will be compelled to assess
them. Socrates proceeds to list the things upon which Alkibiades prides
himself. Interestingly, given his prior claim that he learned
Alkibiades' manner through observation, most of the things Socrates
presently mentions are not things one could easily learn simply through
observation of actions. One cannot see the mobility of Alkibiades' family
or the power of his connections. More important to Socrates' point, one
cannot see his pride in his family. He might "look proud," but
others must determine the reason. It is difficult to act proud of one's
looks, family and wealth while completely abstaining from the use of
language. It has thus become significant to their relationship that
Socrates was also able to observe Alkibiades' speech, for it is through
speech that pride in one's family can be made manifest. By listing these
features, Socrates simultaneously shows Alkibiades that he has given
considerable thought to the character of the youth. He is able to explain
the source of a condition of Alkibiades' psyche without having ever
spoken to Alkibiades. Only a special sort of observer, it seems, could
accomplish that. Alkibiades presumes he needs no human assistance
in any of his 68 affairs; beginning with the body and ending
with the soul, he believes his assets make him self-sufficient. As all
can see, Alkibiades is not 69 in error believing his
beauty and stature to be of the highest quality. Secondly, his family is
one of the mightiest in the city and his city the greatest in Greece. He
has numerous friends and relatives through his father and equally through
his mother, who are among the best of men. Stronger than the advantages
of all those kinsmen, however, is the power he envisions coming to him
from Perikles, the guardian of Alkibiades and his brother. Perikles can
do what he likes in Greece and even in barbarian countries. That kind of
power - the power to do as one likes - Alkibiades is seeking (cf. 134e-135b).
The last item Socrates includes in the list is the one Alkibiades least
relies on for his self-esteem, namely his wealth. Socrates
places the greatest emphasis on Alkibiades' descent and the advantages
that accrue therefrom. This is curious for he was purportedly supplying Alkibiades'
reasons for feeling self-sufficient; if this is a true list, he has done
the contrary, indicating Alkibiades to be quite dependent upon his
family. Even so, the amount of stress on the family appears to exceed
that necessary for showing Alkibiades not to be self-sufficient. As has
already been observed, this is accomplished by paying close attention to
the words at the start of the dialogue. At this point, Alkibiades'
father's relations and friends, his mother's relations and friends, his
political connections through his kinsmen and his uncle's great power are
mentioned as well as the position of his family in the city and of his
city in the Hellenic world. Relative to the other resources mentioned,
Socrates goes into considerable depth with regards to Alkibiades'
descent. It is literally the central element in the set of features that
Socrates wanted to be permitted to name as the cause of Alkibiades'
self-esteem. Quite likely then, the notion of descent and its connections
to human nature (as Alkibiades' descent is connected, by Socrates'
implication, to qualities of his nature) are more important to the
understanding of the dialogue than appears at the surface. This
discussion will be renewed later at the opening of the longest speech in
the First Alkibiades . At that point both participants claim divine
ancestry immediately after agreeing that better natures come from
well-born families (120d-121a). That will afford the reader an
opportunity to examine why they might both think their descent
significant. Socrates has offered this account of Alkibiades'
high-mindedness suggesting they are Alkibiades' resources "beginning
with the body and ending with the soul." In fact, after mentioning
the excellence of his physical person, Socrates talks of Alkibiades'
parents, polis, kinsmen, guardian, and wealth. Unless the reader is to
understand a man's soul to be made by his family (and that is not said
explicitly), these things do not even appear to lead toward a
consideration of the qualities of his soul, but lead in a different
direction. One might expect a treatment of such things as Alkibiades'
great desires, passions, virtues and thoughts, not of his kinsfolk and
wealth. Perhaps the reader is not yet close enough to an understanding of
the human soul. At this point he may not be prepared to discern the
qualities of soul in Alkibiades which would properly be styled
"great." Socrates and Alkibiades may provide instruction for
the reader in the dialogue, so that by the end of his study he will be
better able to make such a judgement were he to venture one now, it might
be based on conventional opinions of greatness. By not explicitly stating
Alkibiades' qualities of soul at this point, the reader is granted the
opportunity to return again, later, and supply them himself. The psyche
is more difficult to perceive than the body, and as is discussed in the
First Alkibiades (129a-135e), this significantly compounds the problems of
attaining knowledge of either. If this is what Socrates is indicating by
apparently neglecting the qualities of Alkibiades' soul, he debunks
Alkibiades' assets as he lists them. The features more difficult to
discern, if discerned, would be of a higher rank. Fewer men would
understand them. Socrates, however, lists features of Alkibiades that are
plain for all to see. The qualities that even the vulgar can appreciate, when
said to be such are not what the superior youth would most pride himself upon.
The many are no very serious judges of a man's qualities. In
view of these advantages, Alkibiades has elevated himself and overpowered
his lovers, and according to Socrates, Alkibiades is well aware of how it
happened that they fled, feeling inferior to his might. Precisely on
account of this Socrates can claim to be certain that Alkibiades is
wondering about him. Socrates says that he "knows well" that
Alkibiades must be wondering why he has not gotten rid of his eros . What
he could possibly be hoping for, now that the rest have fled is a
mystery. Socrates, by remaining despite the experience of the rest, has
made himself intriguing. This is especially the case given his analysis
of Alkibiades. How could Socrates possible hope to compete with
Alkibiades in terms of the sort of criteria important to Alkibiades?
He is ugly, has no famous family, and is poor. Yet Socrates had not
been overpowered; he does not feel inferior. Here is indeed a strange
case, or so it must seem to the arrogant young man. Socrates has managed
to flatter Alkibiades by making him out to be obviously superior to any
of his (other) lovers - but he also places himself above Alkibiades,
despite the flattery. In his first speech to Alkibiades, Socrates
has praised him and yet undercut some of his superiority. He has aroused
Alkibiades' interest both in Socrates and in Socrates' understanding of
him. It is conceivable that no other admirer of Alkibiades has been so
frank, and it is likely that none have been so strange - to the point of
alluding to daimons. Yet something about Socrates and Socrates' peculiar
erotic attraction to Alkibiades makes Alkibiades interested in hearing
more from the man. It is clear that he cannot want to listen
merely because he enjoys being flattered and gratified, for Socrates'
speech is ironic in its praise. He takes even as he gives.
Philosophically, this op ening speech contains a reference to
most of the themes a careful reader will recognize as being treated in
the dialogue. Some of these should be listed to give an
indication of the depths of the speech that remain to be plumbed. The
reader is invited to examine the nature of power - what it is essentially
and through what it affects human action. As conventionally understood,
and as it is attractive to Alkibiades, power is the ability to do what
one wants. According to such an account, it seems Perikies has power.
This notion of power is complicated by the non-human power referred to by
Socrates which stops one from doing what one wants. Power is also shown
to be connected to speech. Another closely related theme is knowledge.
All of these are connected explicitly in that the daimonic power knew
when to allow speech . In the opening speech by Socrates, he claims to
know something, and the reader is introduced to a consideration of observation
and speech as sources of knowledge. He is also promised a look at what
distinguishes one's perception of oneself from other's opinions of one,
through Socrates' innuendo that his perception of Alkibiades may not be
what Alkibiades perceives himself to be. There is also reference to a
difference in ability to perceive people's natures - namely the many's
ability is contrasted with Socrates', as is the ability of the high-
minded suitors. The dialogue will deal with this theme in great depth.
Should it turn out that this ability is of essential importance to a
man's fulfillment, the reader is hereby being invited to examine what are
the essentially different natures of men. Needless to say, the reader of
the dialogue should return again and again to this speech, to the
initial treatment of these fundamental questions. The
relationship of body to soul, as well as the role of 'family' and ' polis
' in the account of man's nature, are introduced here in the opening
words. They indicate the vastness of the problem of understanding the
nature of man. Socrates and Alkibiades seem superior to everyone else,
but they too are separate. Socrates is shown to be unique in some sense
and he cites especially strange causes of his actions. There is no
mention of philosophy or philosopher in this dialogue, but the reader is
introduced to a strange man whose eros is different from other men, including
some regarded as quite excellent, and who is motivated by an as yet
unexplained daimonic power. On another level, the form of the
speech and the delivery itself attest to some of the thought behind the
appropriateness or inappropriateness of saying certain things in certain
situations. Even the mechanics or logistics of the discussion prove
illuminating to the problem. In addition, the very fact that they are
conversing tog ether and not depicted as fighting together in
battle, or even debating with each other in the public assembly, renders
it possible that speech - and perhaps even a certain kind of speech
(e.g., private, dialectical) - is essential to the relation between the
two superior men said to begin in the First Alkibiades .
Finally (though not to suggest that the catalogue of themes is
complete), one must be awakened to the significance of the silence being
finally broken. With Socrates' first words, the dialogue has begun to
take place. Socrates and Alkibiades have commenced their verbal
relationship. There is plenty of concern in the dialogue about language:
what is to be said and not said, and when and how it is to be said.
The first speech by Socrates in the First Alkibiades has alerted the
reader to this. Alkibiades addresses Socrates for the first
time. Though already cognizant of his name, Alkibiades does not appear to
know anything else about him. To Socrates' rather strange introduction he
responds that he was ready to speak with reference to the same issue;
Socrates has just slightly beat him. Alkibiades seems to have been
irritated by Socrates' constant presence and was on the brink of asking
him why he kept bothering him. Socrates' opening remarks have probably
mitigated his annoyance somewhat and allowed him to express himself in
terms of curiosity instead. He admits, indeed he emphatically affirms
(104d), that he is wondering about Socrates' motives and suggests he
would be glad to be informed. Alkibiades thus expresses the reader's own
curiosity; one wonders in a variety of respects about what Socrates'
objective might be. Alkibiades might perceive different possibilities
than the reader since he seems thoroughly unfamiliar with Socrates. A
reader might wonder if Socrates wanted to influence Alkibiades, and to
what end. Did Socrates want to make Alkibiades a philosopher; what kind
of attraction did he feel for Alkibiades; why did he continue to
associate with him? These questions and more inevitably confront the
reader of the First Alkibiades even though they might at first appear to
be outside the immediate bonds of the dialogue. For these sorts of
questions are carried to a reading of the dialogue, as it were; and given
the notoriety of Alkibiades and of Socrates, it is quite possible that
they were intended to be in the background of the reader's thoughts.
Perhaps the dialogue will provide at least partial answers.
If Alkibiades is as eager to hear as he claims, Socrates can assume that
he will pay attention to the whole story. Socrates will not then have to
expend effort in keeping Alkibiades' attention, for Alkibiades has
assured him he is interested. Alkibiades answers that he certainly shall
listen. Socrates, not quite ready to begin, insists that Alkibiades
be prepared for perhaps quite a lengthy talk. He says it would be
no wonder if the stopping would be as difficult as the starting
was. One does not expect twenty years of non-stop talk from
Socrates, naturally, and so one is left to wonder - despite (or
perhaps because of) his claim that 70 there is no cause
for wonder - why he is making such a point about this beginning and the
indeterminacy of the ending. The implication is that there remains some
acceptable and evident relation between beginnings and endings for the
reader to discern. In an effort to uncover what he is, paradoxically, not
to wonder about, the careful reader will keep track of the various things
that are begun and ended and how they are begun and ended in the First
Alkibiades . Although innocuous here, Alkibiades' response "speak
good man, I will listen," gives the reader a foreshadowing of his
turning around at the end of the dialogue. There it is suggested that
Alkibiades will silently listen to Socrates. Until the time of the
dialogue the good man has been silent, listening and observing while any
talking has been done by Alkibiades or his suitors. Assured
of a listener, Socrates begins. He is convinced that he must speak.
However difficult it is for a lover to talk to a man who disdains lovers,
Socrates must be daring enough to speak his mind. This is the first
explicit indication the reader is given concerning certain qualities of
soul requisite for speaking, not only for acting. It also suggests some
more or less urgent, but undisclosed, necessity for Socrates to speak at
this time. Should Alkibiades seem content with the above mentioned
possessions, Socrates is confident that he would be released from his love for
Alkibiades - or so he has persuaded himself. Socrates is attracted to the
unlimited ambition Alkibiades possesses. The caveat introduced by Socrates
(about his having so persuaded himself) draws attention to the difference
between passions and reason as guides to action, and perhaps also a
difference between Socrates and other men. For the most part one cannot
simply put an end to passions on the basis of reason. One may be able to
substitute another passion or appetite, but it is not as easy to rid
oneself of it. However, instead of having to put away his love, Socrates
is going to lay Alkibiades' thought open to him. Socrates
intends to reveal to Alkibiades the youth's ambition. This can only be useful
in the event that he has never considered his goals under precisely the
same light that Socrates will shed on them. By doing this Socrates
will also accomplish his intention of proving to Alkibiades that he has
paid careful attention to the youth (105a). Alkibiades should be in a
position to recognize Socrates' concern by the end of this speech; this
suggests a capability on the part of both. Many cannot admit the motives
of their own actions, much less reveal to someone else that person's own
thoughts. Part of the significance of the following discussion,
therefore, is to indicate both Socrates' attentiveness to Alkibiades and
Alkibiades' perception of it. Should some (unnamed) god ask
Alkibiades if he would choose to die rather than be satisfied with the
possessions he has, he would choose to die. That is Socrates' belief. If
Socrates is right, it bespeaks a high ambition for Alkibiades, and it does
so whether or not Alkibiades thought of it before. His possessions,
mentioned so far, include beauty and stature, great kinsmen and noble
family, and great wealth (though the last is least important to him). In
an obvious sense, Alkibiades must remain content with some of what he
has. He cannot, for example, acquire a greater family. His ambition,
then, as Socrates indicates, is for something other than he possesses.
The hopes of Alkibiades' life are to stand before the Athenian ekklesia
and prove to them that he is more honorable than anyone, ever, including
Perikles. As one worthy of honor he should be given the greatest
power, and having the greatest power here, he would be the greatest among
Greeks and even among the barbarians of the continent. If the god
should further propose that Alkibiades could be the ruler of Europe on
the condition that he not pass into Asia, Socrates believes Alkibiades
would not choose to live. He desires to fill the world with his name and
power. Indeed Socrates believes that Alkibiades thinks no man who ever lived
worthy of discussion besides Kyros and Xerxes ( the Great Kings of
Persia). Of this Socrates claims to be sure, not merely supposing - those
are Alkibiades' hopes. There are a number of interesting features
about the pretense of Alkibiades responding to a god. Alkibiades might
not admit the extent of his ambition to the Athenian people who would
fear him, or even to his mother, who would fear for him; it therefore
would matter who is allegedly asking the question. It is a god, an
unidentified god whose likes and dislikes thus remain unknown. Alkibiades
cannot take into account the god's special province and adjust his answer
accordingly. The significance of the god is most importantly that
he is more powerful than Alkibiades can be. But why could not Socrates
have simply asked him, or, failing that, pretend to ask him as he does in
a moment? It is possible that speaking with an omniscient god would allow
Alkibiades to reveal his full desire; he would not be obliged to hid his
ambition from such a god as he would from most men in democratic Athens.
But it is also plausible that Socrates includes the god in the discussion
for the purpose of limiting Alkibiades' ambition (or perhaps as a
standard for power/knowledge). Not to suggest that Socrates means to
moderate what Alkibiades can do, he nevertheless must have realistic
bounds put upon his political ambition. Assume, for the moment, that more
questions naturally follow the proposal of limiting his rule to Europe.
If Alkibiades were talking to Socrates (instead of to a deity with
greater power), he might not stop at Asia. If he thought of it, he might
wish to control the entire world and its destiny. He would dream that
fate or chance would even be within the scope of his ambition. The
god in this example is presented as being in a position to determine
Alkibiades' fate; he can limit the alternatives open to Alkibiades and
can have him die. With Socrates' illustration, Alkibiades is confronting
a being which has a power over him that he cannot control. The young man
is at least forced to pretend to be in a situation in which he cannot
even decide which options are available. It is important for a political ruler
to realize the limits placed on him by fate. The notion that the
god is asking Alkibiades these questions makes it unlikely that
Alkibiades would answer that he should like to rule heaven and earth, or
even that he would like supreme control of earth (for that is likely to
be the god's own domain). Alkibiades probably won't suggest to a god that
he wants to rule Fate or the gods of the Iliad who hold the fate of humans
so much in hand. Chance cannot be controlled by humans, either
through persuasion or coersion. It can only have its effect reduced
by knowledge. Alkibiades' political ambitions have to be moderated
to fit what is within the domain of fate and chance and to be
educated about the limits of the politically possible. Socrates, by
pretending that a god asks the questions, can allow Alkibiades to admit
the full extent of his ambitions over humans, but it also serves to
keep him within the arena of human politics. If he would have
answered Socrates or a trusted friend in discussion, he might not
have easily accepted that limit. It is necessary for any
politically ambitious man, and doubly so if he is young, to
cultivate a respect for the limits of what can politically be
accomplished under one's full control. This may have helped Alkibiades
establish a political limit m his own mind. Another feature of the
response to the god which should be noted is that it marks the second of
three of Socrates' exaggerated claims to know aspects of Alkibiades'
soul. In the event that the reader should have missed the first one
wherein he claims to "know well" that Alkibiades wonders
(104c), Socrates here emphasizes it. He is not simply inferring or
guessing, he asserts; he knows this is Alkibiades' hope (105c). Shortly
he will claim to have observed Alkibiades during every moment the boy was
out of doors, and thus to know all that Alkibiades has learned
(106e). Just as it is impossible for Socrates to have watched
Alkibiades at every moment, so he cannot be certain of what thought is
actually going through Alkibiades' mind. Socrates' claim to knowledge has
to be based on something other than physical experience or being
taught. Alkibiades has not told anyone that these are his high
hopes. Perhaps Socrates' knowledge is grounded in some kind of experience
He knows what state Alkibiades' soul is in because he knows what
Alkibiades must hope, wonder and know. It may be that Socrates has
an access to this knowledge of Alkibiades' soul through his own
soul. His soul may be or may have been very like Alkibiades'. Since
Socrates will later argue that one cannot know another without
knowing oneself perhaps one of the reasons he knows Alkibiades' soul so
well is that it matches his in some way. It is not out of the question
that their souls share essential features and that those features perhaps
are not shared by all other men. Clearly not all other men have found
knowledge of Alkibiades' soul as accessible as has Socrates. And Socrates
will be taking Alkibiades' soul on a discussion beyond the bounds of
Athenian politics and politicians. He instructs Alkibiades that his soul
cannot be patterned upon a conventional model, just as Socrates is
obviously not modelling himself upon a standard model. These two men are
somehow in a special position for understanding each other, and their
common sight beyond the normally accepted standards may be what allows
Socrates to make such apparently outrageous claims. At this point,
instead of waiting to see how Alkibiades will respond, Socrates
manufactures his own dialogue, saying that Alkibiades would naturally ask
what the point is. He is supposing that Alkibiades recognizes the truth
of what has gone before. Since it is likely that Alkibiades would have
enjoyed the speech to this point and thought it good, Socrates must bring
him back to the topic. By using this device of a dialogue within a
speech, Socrates is able to remind Alkibiades (and the reader) - by
pretending to have Alkibiades remind Socrates - that they were supposed
to learn not Alkibiades' ambitions, but those of Socrates (supposing that
they are indeed different). Socrates responds (to his own question)
that he conceives himself to have so great a power ove
r Alkibiades that the dear son of Kleinias and Deinomakhe
will not be able to achieve his hopes without the philosopher's
assistance (105d). Because of this power the god prevented him from
speaking with Alkibiades. Socrates hopes to win as complete a power over
Alkibiades as Alkibiades does over the polis . They both wish to prove
themselves invaluable, Socrates by showing himself more worthy than
Alkibiades' guardian or relatives in being able to transmit to him the
power for which he longs. The god prevented Socrates from talking when
Alkibiades was younger, that is, before he held such great hopes. Now,
since Alkibiades is prepared to listen, the god has set him on.
Alkibiades wants power but he does not know what it is, essentially.
Yet he must come to know in order not to err and harm himself. Part
of the relationship between philosophy and politics is suggested here,
and perhaps also some indication of why Socrates and Alkibiades need
each other. An understanding of the causes of their coming together would
be essential to an account of their relation, it seems, and such
understanding is rendered more problematic by the role of the god.
Socrates wants as complete power over Alkibiades as Alkibiades does
over the polis . If one supposes that the power is essentially similar,
this might imply that Socrates would actually have the power over the
polis . A complete power to make someone else do as one wants (as power
is conventionally understood) seems to be the same over an individual as
over a state. Socrates and Alkibiades hope to prove themselves invaluable
(105a). That is not the same as being worthy of honor (105b); past
performance is crucial to the question of one's honor, whereas a
possibility of special expertise in the future is sufficient to indicate
one is invaluable. If a teacher is able to promise that his influence
will make manifest to one the problems with one's opinions, and will help
to clarify them, the teacher has indicated himself to be invaluable.
Should one then, on the basis of the teacher's influence change one's
opinions, and thus one's advice and actions, the teacher will, in effect,
be the man with power over all that is affected by one's advice and
actions, over all over which one has power. Socrates, in affecting
politically-minded youths, has an effect on the polity. To have power
over the politically powerful is to have power in politics. Socrates'
daimon had not let Socrates approach while Alkibiades' hopes for rule
were too narrowly contained. His ambitions had to become much greater. If
for no other reason than to see that over which Socrates expects or
intends to have indirect power, one should be eager to discover
Alkibiades' ambition - to discover that end which he has set for himself,
or which Socrates will help to set for him. The reader also has in mind
the historical Alkibiades: to the extent to which Alkibiades' designs in
Europe and Asia did come to pass, was Socrates responsible as Plato,
here, has him claim to be? The reader might also be curious about the
reverse: what actions of the historical Alkibiades make this dialogue
(and Socrates' regard) credible? Alkibiades is astounded, Socrates
sounds even stranger than he looks. But Alkibiades' interest is aroused,
even if he is skeptical. He doesn't admit to the ambitions that
have been listed; however he will concede them for the sake of finding
out just how Socrates thinks of himself as the sole means through whom
Alkibiades can hope to realize them. Perhaps he never had the opportunity
to characterize his ambitions that way - he may never have talked to a
god. Socrates may only have clarified those hopes for Alkibiades;
but on the other hand, the philosopher (partly, at least) may be
responsible for imparting them to the young man. At any rate, even
if Socrates merely made these goals obvious to the youth, one must
wonder as to his purpose. Alkibiades feels confident in claiming
that no denial on his part will persuade Socrates. He asks Socrates
to speak (106a). Socrates replies with a question which he answers
himself. He asks if Alkibiades expects him to speak in the way
Alkibiades normally hears people speak - in long speeches.
Alkibiades' background is thus indicated to some
extent. He has heard orators proclaim. Socrates points out that he
will proceed in a way that is unusual to Alkibiades - at least in
so far as proving claims. By suggesting there is more than one way
to speak, Socrates indicates that differences of style are
significant in speech, and he invites the reader to judge/consider
which is appropriate to which purposes. Socrates protests
that his ability is not of that sort (the orator's), but that he
could prove his case to Alkibiades if Alkibiades consents to do one
bit of service. By soliciting Alkibiades' efforts, Socrates may be
intending to gain a deeper commitment from the youth. If he is
responsible somewhat for the outcome he may be more sincere in 74
his answers. Alkibiades will consent to do a service that is not
difficult; he is interested but not willing to go to a
great deal of trouble. At this stage of the discussion he has no
reason to believe 75 that fine things are hard. Upon
Socrates' query as to whether answering questions is considered
difficult, Alkibiades replies that it is not. Socrates tells him
to a nswer and Alkibiades tells Socrates to ask. His response suggests
that Alkibiades has never witnessed a true dialectical discuss
ion. He has just played question and answer games. Not many
who have experienced a dialogue, and even fewer who have spoken with
Socrates, would say it is not hard. Alkibiades, too, soon
experiences difficulty. Socrates asks him if he'll admit he has
these intentions but Alkibiades won't affirm or deny except toget
on with the conversation. Should Socrates want to believe it he
may; Alkibiades desires to know what is coming before he
acknowledges more. Accepting this, Socrates proceeds. Alkibiades,
he notes, intends shortly to present himself as an advisor to the
Athenians. If Socrates 76 were to take hold of him as
he was about to ascend the rostrum in front of the ekklesia and were to
ask him upon what subject they wanted advice such as he could give, and
if it was a subject about which Alkibiades knew better than they, what
would he answer? This is an example of a common Socratic device,
one of imagining that the circumstances are other than they are. Socrates
hereby employs I it for the third time in the dialogue,
and each provides a different effe ct. On the first occasion,
Socrates pretended a god was present to provide Alkibiades with an
important choice. Socrates did not speak in his own name. The second
example was when Socrates ventured that Alkibiades would ask a certain
question, and so answered it without waiting to see if he would indeed
have asked that question. In both of those, the physical setting of the
First Alkibi ades was appropriate to his intentions. This
time, however, Socrates supplies another setting - a very different
setting - for a part of the discussion. Speech is plastic in that
it enables Socrates to manufacture an almost limitless variety of
situations. By the sole use of human reason and imagination, people are
able to consider their actions in different lights. This is highly
desirable as it is often difficult to judge a decision from within the
context in which it was made. The malleability of circumstances that is
possible in speech allows one to examine thoughts and policies from other
perspectives. One may thus, for example, evaluate whether it is principle
or prejudice that influences one's decisions, or whether circumstance and
situation play a large or a small role in the rational outcome of the
deliberation. This rather natural feature of reason also permits some
consideration of consequences without having to effect those
consequences, and this may result in the aversion of disastrous
results. The plastic character of speech is crucial to philosophic
discourse as well, providing the essential material upon which dialectics
is worked. In discussion, the truly important features of a problem may
be more clearly separated from the merely incidental, through the careful
construction of examples, situations and counterexamples. If not for the
ability to consider circumstances different from the one in which one
finds oneself, thinking and conversing about many things would be
impossible. And this is only one aspect of the plasticity of speech which
proves important to philosophic discussion. Good dialogic partners
exhibit this ability, since they require speech for much more than
proficiency in logical deduction. Speech and human imagination must work
upon each other. Participants in philosophical argument must recognize
connections between various subjects and different circumstances. To a large extent,
the level of thought is determined by the thinker's ability to 'notice'
factors of importance to the inquiry at hand. The importance of 'noticing'
to philosophic argument will be considered with reference to two levels of
participation in the First Alkibiades, both of which clearly focus on the
prominence of the above mentioned unique properties of speech as opposed
to action. 'Noticing' is important to dialectics in that it
describes how, typically, Socrates' arguments work. An interlocutor
will suggest, say, a solution to a problem, and upon reflection, Socrates
- or another interlocutor (e.g., as per llOe) - will notice, for example, that
the solution apparently doesn't work in all situations (i.e., a counter-example
occurs to him), or that not all aspects of the solution are satisfactory,
and so on. The ability of the participants to recognize what is truly
important to the discussion, and to notice those features in a variety of
other situations and concerns, is wha t lends depth to the
analysis. As this has no doubt been experienced by anyone who has engaged
in serious arguments, it presumably need not be further elaborated.
The other aspect in which 'noticing' is important to philosophy and
how it influences, and is in turn influenced by, rational discourse is in
terms of how one ought to read a philosophic work. As hopefully will be
shown in this commentary on the First Alkibiades, a reader's ability to
notice dramatic details of the dialogue, a nd his persistence in
carefully examining what he notices, importantly affects the benefit he
derives from the study of the dialogue. Frequently, evidence to this
effect can be gathered through reflective consideration of Socrates'
apparently off-hand examples, which turn out upon examination to be
neither offhand in terms of their relation to significant aspects of the
immediate topic, nor isolated in terms of bringing the various topics in
the dialogue into focus. As shall become more apparent as the
analysis proceeds, the examples of ships and doctors, say, are of
exceedingly more philosophic importance than their surface suggests. Not
only do they metaphorically provide a depth to the argument (perhaps
unwitnessed by any participant in the dialogue besides the reader) but
through their repeated use, they also help the reader to discern
essential philosophic connections between various parts of the subject
under discussion. The importance of 'recognition' and 'noticing' to
dialectics (and the importance of the malleability of subject matter
afforded by speech) may be partly explained by the understanding of the
role of metaphor in human reason. Dialectics involves the meticulous
division of what has been properly collected (c.f., for example Phaidros
266b). Time and time again, evidence is surveyed by capable partners and
connections are drawn between relevantly similar
matters before careful distinctions are outlined. The ability to
recognize similarities, to notice connections, seems similar to the
mind's ability to grasp metaphor. Metaphor relies to an important extent
on the language user's readiness to 'collect' similar features from
various subjects familiar to him, a procedure the reader of the First
Alkibiades has observed to be crucial to the philosophic enterprise.
Socrates often refrains from directly asking a question, prefacing it by
"supposing someone were to ask" or even "supposing I were
to ask." The circumstances of the encounters need to be examined in
order to understand his strategy. What might be the relevance of Socrates
asking Alkibiades to imagine he was about to ascend the platform, instead of,
for example, in the market place, in another city, near a group of young
men, or in the privacy of his own home? And why could not the setting be
left precisely the same as the setting of the dialogue? The situation at
the base of the platform in front of the ekklesia is, needless to say,
quite a bit different from the situation they are in now. Alkibiades is
not likely to give the same answer if his honor and his entire political
career are at stake, as they might be in such a profoundly public
setting. Socrates' device, on this occasion helps serve to indicate that
what counts as politic, or polite, speech varies in different
circumstances. As Socrates has constructed the example, the
Athenians proposed to take advice on a subject and Alkibiades presumed to
give them advice. This might severely limit the subjects on which
Alkibiades or another politician could address them. Were the ekklesia
about to take counsel on something, it would be a m atter they felt
was settled by special knowledge, and a subject on which there were some
people with recognizable expertise. The kinds of questions they believe
are settled by uncommon knowledge or expertise may be rather limited. It
is not likely that they would ask for advice on matters of justice. Most
people feel they are competent to decide that (i.e., that the knowledge
relevant to deciding is generally available, or common). Expertise is
acknowledged in strategy and tactics, but knowledgeability about politics
in general is less likely to be conceded than ability in matters of
efficacy. All of these sentiments limit the kinds of advice which can be
given to the ekklesia, and the councillor's problems are compounded by
such considerations as what things can be persuasively
addressed in public speeches to a mixed audience, and what will be
effective in pleasing and attracting the sympathy of the audience to the
speaker. To be rhetorically effective one must work with the
beliefs/opinions/prejudices people confidently and selfishly hold. Alkibiades
agrees with Socrates that he would answer that it was a subject about
which he had better knowledge. He would have to. If Alkibiades wishes to
be taken seriously by them, he should so answer in front of the people.
Even if he would be fully aware of his ignorance, he might have motives
which demand an insistence on expertise. He couldn't admit to several
purposes for which he might want to influence the votes of the citizenry.
Not all of those reasons can be made known to them; not all of those
reasons can be voiced from the platform at the ekklesia . Sometimes
politicians have to make decisions without certain knowledge, but must
nevertheless pretend confidence. These considerations indicate again the
importance of the role of speech to the themes of this dialogue. There is
a difference between public and private speech. Some things simply cannot
be said in front of a crowd of people, and other things which would not
be claimed in private conversation with trusted friends would have to be
affirmed in front of the ekklesia . Just as a speaker may take
advantage of the fact that crowds can be aroused and swept along by
rhetoric that would not so successfully move an individual (e.g.,
patriotic speeches inciting citizens to war, and on the darker side,
lynch mobs and riots), so he understands that he could never admit to a
crowd things he might disclose to a trusted friend (e.g., criticizing re
ligious or political authorities). Socrates suggests that
Alkibiades believes he is a good advisor on that which he knows, and
those would be things which he learned from others or through his own
discovery. Alkibiades agrees that there don't seem to be any other
alternatives. Socrates further asks if he would have learned or
discovered anything if he hadn't been willing to learn or inquire into it
and whether one would ask about or learn what one thought one knew.
Alkibiades readily agrees that there must have been a period in his life
when he might have admitted to ignorance to which he doesn't admit now.
Socrates suggests that one learns only what one is willing to learn and
discovers only what one is willing to inquire into . The asymmetry of
this may indicate the general problems of the argument as the difference
in phrasing (underlined) alerts the reader to examine it more
closely. Discoveries, of course, usually involve a large measure
of accident or chance. And if they are the result of an inquiry, the
inquiry often has a different or more general object. Columbus didn't set
out to discover the New World; he wanted to establish a shorter trading
route to the Far East. Darwin did not set out to discover evolution; he sought
to explain why species were different. Earlier he did not set out to
discover that species were different; he observed the animal kingdom. Not
only may one stumble upon something by accident, but by looking for one
thing one may come to know something else. For example, someone might not
be motivated by a recognition of ignorance but may be trying to prove a
claim to knowledge. In the search for proof he may find the truth. Or,
alternatively, in the pursuit of something altogether different, such as
entertainment through reading a story, one may discover that another way
of life is better. The argument thus appears to be flawed in that it is not
true that one discovers only what one is willing to inquire into. Thus
Alkibiades may have discovered what he now claims to know without ever
having sought it as a result of recognizing his ignorance. Socrates has
been able to pass this argument by Alkibiades because of the asymmetry of
the statement. Had he said "one discovers only what one is willing
to discover," Alkibiades might have objected. Another
difficulty with the argument is that one is simply not always willing to
learn what others teach and one nevertheless may learn. One might
actually be unwilling, but more often one is simply neutral, or oblivious
to the fact that one is learning. In the case of the former (learning
despite being unwilling), one need only remember that denying what one
hears does not keep one from hearing it. Propaganda can be successful even when
it is known to be propaganda. However, by far the most common
counter-example to Socrates' argument is the learning that occurs in
everyday life. Many things are not learned as the result of setting out
to learn. Such knowledge is acquired in other ways. Men come to have a
common sense understanding of cause and effect by simply doing and
watching. One learns one's name and who one's mother is long before
choosing to learn, being willing to study, or coming to recognize one's
ignorance. Language is learned with almost no conscious effort, and one
is nurtured into conventions without setting out to learn them. Notions
of virtues are gleaned from stories and from shades of meaning in the
language, or even as a result of learning a language. And, in an obvious
sense, whenever anything is heard, something is learned - even if only
that such a person said it. One cannot help observing; one does not
selectively see when one one's eyes are open, and one cannot even close
one's ears to avoid hearing. The above are, briefly, two problems
with the part of Socrates' argument that suggests people learn or
discover only what they are willing to learn or inquire into. The other
parts of the argument may be flawed as well. Socrates has pointed to the
reader's discovery of some flaws by a subtle asymmetry in his question.
It is up to the reader to examine the rest (in this case - to be willing
to inquire into it). For example, there may be difficulties with the first
suggestion that one knows only what one has learned or discovered. It is
possible that there are innate objects of knowledge and that they are
important to later development. Infants, for example, have an ability to
sense comfort and discomfort which is later transferred into feeling a
wide variety of pleasures and pains. They neither learn this, nor
discover it (in any ordinary sense of "discovery"). The sense
of pleasure and pain quite naturally is tied to and helps to shape a
child's sense of justice (110b), and may thus be significant to the argument
about Alkibiades' knowledge or opinions about justice. In any event,
closer examination of Socrates' argument has shown the reader that the
problem of knowing is sufficiently complex to warrant his further
attention. The rest of the dialogue furnishes the careful reader with
many examples and problems to consider in his attempt to understand how
he comes to know and what it means to know. Socrates knows
quite well what things Alkibiades has learned, and if he should omit
anything in the relating, Alkibiades must correct him. Socrates
recollects that he learned writing, harping and wrestling - and refused
to learn fluting. Those are the things Alkibiades knows then, unless he
was learning something when he was unobserved - but that, Socrates
declares, is unlikely since he was watching whenever Alkibiades stepped
out of doors, by day or by night. The reader will grant that the
last claim is an exaggeration. Socrates could not have observed every
outdoor activity of the boy for so many years. Yet Socrates persists in
declaring that he knows what Alkibiades learned out of doors. As
suggested earlier, Socrates may be indicating that he knows Alkibiades
through his own soul. In that event one must try to understand why Socrates
couldn't likewise claim to know what went on indoors, or why Socrates
doesn't announce to Alkibiades an assumption that what goes on indoors is
pretty much the same everywhere. The reader may find what Alkibiades may
have learned "indoors" much more mysterious, and he may
consider it odd that Socrates does not have access to that- What occurs
indoors (and perhaps to fully understand one would need to acknowledge a
metaphoric dimension to "indoor") that would account for
Socrates drawing attention to his knowledge of the outdoor activities of
Alkibiades? Even if one confines one's attention to the literal
meaning, there is much of importance in one's nurture that happens inside
the home. Suffice it to notice two things. The first is that the domestic
scene in general, and household management in particular, are of crucial
importance to politics. The second is that the teachers inside the home
are typically the womenfolk. These are of significance both to this
dialogue and (not unrelated) to an understanding of politics. Attention is
directed, for example, toward the maternal side of the two
participants in this dialogue. In addition, as has already been mentioned,
the womenfolk in this dialogue are the only ones who wonder, besides
Alkibiades. The women are within (cf. Symposium 176e); they have quite an
effect on the early nurture of children (cf. Republic 377b-c and
context). Perhaps the women teach something indoors that Socrates could
not see, or would not know regardless of how closely akin he was to
Alkibiades by nature. If that is so, the political significance of
early education, of that education which is left largely to women,
assumes a great importance. Women> it is implied, are able to do something
to sons that men cannot and perhaps even something which men cannot fully
appreciate. An absolutely crucial question arises: How is it proper for
women to influence sons? Socrates proceeds to find out which of the
areas of Alkibiades' expertise is the one he will use in the assembly
when giving advice. In response to Socrates' query whether it is when the
Athenians take advice on writing or on lyre playing that Alkibiades will
rise to address them, the young man swears by Zeus that he will not counsel
them on these matters. (The possibility is left open that someone else
would advise the Athenians on these matters at the assembly). And,
Socrates adds, they aren't accustomed to deliberating about wrestling in
the ekklesia. For some reason, Socrates has distinguished wrestling from the
other two subjects. Alkibiades will not advise the Athenians on any of
the three; he will not talk about writing or lyre-playing even if the
subject would come up; he will not speak about wrestling because the
subject won't come up. Regardless of the reader's suspicion that the
first two subjects are also rarely deliberated in the assembly, he should
note the distinction Socrates draws between the musical and the gymnastic
arts. The attentive reader will also have observed that the e
ducation a boy receives in school does not prepare him for advising
men in important political matters; it does not provide him with the
kinds of knowledge requisite to a citizen's participation in the ekklesia
. But then on what will Alkibiades advise the Athenians? It
won't be about buildings or divination, for a builder will serve better
(107a- b). Regardless of whether he is short, tall, handsome, ugly,
well-born or base-born, the advice comes from the one who knows, not the
wealthy; the reader might notice that this undercuts all previously
mentioned bases of Alkibiades' self-esteem. According to Socrates, the
Athenians want a physician to advise them when they deliberate on the
health of the city; they aren't concerned if he's rich or poor, Socrates
suggests, as if being a successful physician was in no way indicated by
financial status. There are a number of problems with this
portion of the argument. Firstly, the advisor's rhetorical power (and not
necessarily his knowledge) is of enhanced significance when that of which
he speaks is something most people do not see to be clearly a matter of
technical expertise, or even of truth or falsity instead of taste. This
refers especially to those things that are the subject of political
debate. Unlike in the case of medicine, people do not acknowledge any
clear set of criteria for political expertise, besides perhaps 'success'
for one's polity, a thing not universally agreed upon. Most people have
confidence in their knowledge of the good and just alternatives available
(cf. llOc-d). Policy decisions about what are commonly termed
’value judgements' are rarely decided solely on the basis of reason.
Especially in democracies, where mere whims may become commands, an
appeal to irrational elements in men's souls is often more effective.
Men's fears too, especially their fear of enslavement, can be manipulated
for various ends. Emotional appeals to national pride, love of family and
fraternity, and the possibility of accumulating wealth are what move men,
for it is these to which men are attracted. Rational speech is only
all-powerful if men are all-rational. Secondly, it is not
clear that a man's nobility or ignobility should be of no account in the ekklesia.
At least two reasons might be adduced for this consideration.
There is no necessary connection between knowing and giving good advice.
Malevolence as well as ignorance may- cause it. A bad man who knows might
give worse advice than an ignorant man of good will who happens to have
right opinions. Unless the knower is a noble person there is no guarantee
that he will tender his best advice. An ignoble man may provide advice
that serves a perverse interest, and he might even do it on the basis of
his expert knowledge. Another reason for considering nobility important
in advisors is that it might be the best the citizens can do. Most
Athenians would not believe that there are experts in knowledge about
justice as there are in the crafts. If they won't grant that expertise
(and there are several reasons why it would be dangerous to give them the
power to judge men on that score), then it is probably best that they
take their advice from a gentleman, a nobleman, or even a man whose
concern for his family's honor will help to prevent his corruption.
Thirdly, since cities obviously do not succumb to fevers and
79 bodily diseases, one must in this case treat the "physician
of the diseased city" metaphorically. It is not certain that the Athenians
would recognize the diseased condition of a city. To the extent to which
they do, they tend to regard political health in economic terms (as one
speaks of a "healthy economy"). In that case, whether a man was
rich or poor would make a great deal of difference to them. They wouldn't
be likely to take advice on how to increase the wealth (the health) of a
city from someone who could not prove his competence in that matter in
his private life. In addition, since most people are importantly motivated by
wealth, they will respect the opinions of one who is recognizably better
at what they are themselves doing - getting wealthy. It seems to be
generally the case that people will attend to the speech of a wealthy man
more than to a poorer but perhaps more virtuous man. In other
words, then, it is not clear that what Socrates has said about the
Athenian choice of advisors is true (107b-c). Moreover, it is not clear
that it should be true. Factors such as conventional nobility probably
should play a part in the choice of councillors, even if it is basically
understood in terms of being well-born. People's inability to evaluate
the physicians of the city, and people's emphasis on wealth also are
evidence against Socrates' claims. Socrates wants to know what
they'll be considering when Alkibiades stands forth to the
Athenians. It has been established that he won't advise on writing,
harping, wrestling, building or divination. Alkibiades figures he
will advise them when they are considering their own affairs.
Socrates, in seeming perversity, continues by asking if he means
their affairs concerning ship-building and what sorts of ships they
should 80 have. Since that is of course not what Alkibiades
means, Socrates proposes that the reason and the only reason is that the
young man doesn't understand the art of ship-building. Alkibiades agrees,
but the reader need not. Socrates, by emphasizing the exclusivity of
expertise through the use of so many examples, has alerted the reader,
should he otherwise have missed the point, that there are many reasons
for not advising about something besides ignorance. In some
matters, for example, it is hard to prove knowledge and it may not always
be best to go to the effort of establishing one's claim to expertise. If
the knowledgeable can perceive, say, that no harm will come the way
things are proceeding, there might not be any point to claiming
knowledge. Another reason for perhaps keeping silent is that the correct
view has been presented. There are thus other things with which to occupy
one's time. Perhaps a major reason for keeping silent about advising on
some matters is simply indifference; petty politics can be left to
others. In fact there are, it would seem, quite a number of reasons for
keeping silent besides ignorance. And, on the other hand, it is unlikely
that someone with a keen interest would acknowledge ignorance as a
sufficient condition for their silence. Many who voice their opinions on
public matters do not thereby mean to implicitly claim their expertise,
but only to express their interestedness. Socrates' ship-building
example has a few other interesting features. Firstly, in a strict sense
what Socrates and Alkibiades agree to is wrong: knowledge of shipbuilding
is not the exclusive basis for determining which ships to build.
Depending on whether it is a private or public ship-building program, the
passenger, pilot or politician decides. Triremes or pleasure-craft, or
some other specific vessels are demanded. The ship-builder then builds it
as best he can. But his building is dictated by his customers, if he is
free, or his owners, if he is a slave. The prominence of
Plato's famous "ship-of-state" analogy ( Republic 488a-489c)
allows the reader to look metaphorically at the example of 'ship-building,'
and the question of what sort of 'ships' ought to get built. In terms of
the analogy, then, Socrates is asking Alkibiades if he will be giving
advice on statebuilding and what kind of polis ought to be constructed.
This is, it seems, the very thing upon which Alkibiades wants to advise
the Athenians. He wants very much to build Athens into a super Empire.
The recognition of the ship-of-state analogy brings to the surface a most
fundamental political question which lurks behind much of the discussion
of the dialogue: which sort of regime ought to be constructed? The
importance of the question of the best regime to political philosophy is
indicated and reinforced by the very test of the importance of the
question in the analogy. The consideration of what sort of ship ought to be
built stands behind the whole activity of ship-building, and yet is one
that is not answered by the technical expert. The user
(passenger/citizen) and the ruler (pilot/ statesman) are the ones that
make the decision. On the basis of an example that has already been shown
to be suspect, namely Socrates' mention of ship-building, the reader of
the First Alkibiades is provided with the opportunity to consider the
intricasies of the analogy and a question of central importance to the
political man. Alkibiades must gain t he ability to advise the
Athenians as to what ships they ought to build. For the
moment, however, Socrates asks on what affairs Alkibiades means to
give advice, and the young man answers those of war or peace or
other affairs of the polis . Socrates asks for clarification on
whether Alkibiades means they'll be deliberating about the manner
of peace and war; will they be considering questions of on whom,
how, when and how long it is better to make war. But if the
Athenians were to ask these sorts of questions about wrestling,
Socrates remarks, they'd call not on Alkibiades but on the
wrestling master, and he would answer in light of what was better.
Similarly, when singing and accompanying lyre-playing and dancing, some
ways and times are better. Alkibiades agrees.The word 'better' was used
both in the case of harping to accom- 82 pany singing and in
the case of wrestling (108a-b). For wrestling the standard of the better is
provided by gymnastics; what supplies it in the case of harping?
Alkibiades doesn't understand and Socrates suggests that he imitate
him, for Socrates' pattern could be generalized to yield a correct answer
in all cases. Correctness comes into being by the art, and the art in the
case of wrestling is fairly ( kalos) said to be gymnastics (108c). If
Alkibiades is to copy Socrates, he should copy him in fair conversation,
as well, and answer in his turn what the art of harping, singing and dancing
is. But Alkibiades still cannot tell him the name of the art (108c).
Socrates attempts another tact and deviates slightly from the pattern he
had suggested Alkibiades imitate. Presumably Alkibiades will be able to
answer the questions once Socrates asks the right one. He doesn't assume
that Alkibiades is ignorant of the answer, so he takes care in choosing
the appropriate questions. Perhaps his next attempt will solicit the
desired response. The goddesses of the art are the Muses. Alkibiades can
now acknowledge that if the art is named after them, it is called
'Music.' The musical mode, as with the earlier pattern of gymnastics,
will be correct when it follows the musical art. Now Socrates wants
Alkibiades to say what the 'better' is in the case of making war and
peace, but Alkibiades is unable. There are a number of reasons why
he would be unable on the basis of the pattern Socrates has supplied. One
of these has to do with the pattern itself. It is not clear there is an
art ( techne), per se, of making war and peace. The closest one could
come to recognizing such an art would be to suggest it is the art of
politics, but even if that is properly an art (i.e., strictly a matter of
technical expertise) knowing only its name would not provide a clear standard
of 'better.' The term 'political' does not of its own designate a better
way to wage war and peace. Despite the possibility that the art in this
case is of a higher order than music or gymnastics, it remains unclear
that Alkibiades can use the same solution as Socrates suggested in the
case of music. Who are the gods or goddesses who give their name to the
art of war and peace? Perhaps one way to understand this curious feature
of the discussion is to consider that Socrates might be suggesting that
there is a divine standard for politics as well as for music.
According to Socrates, Alkibiades' inability to answer about the
standard or politics is disgraceful (108e). Were Alkibiades an advisor on
food, even without expert knowledge (i.e., even if he wasn't a
physician), he could still say that the 'better' was the more wholesome.
In this case, where he claims to have knowledge and intends to advise
as though he had knowledge (notice the two are not the same), he should
be ashamed to be unable to answer questions on it. At this
point the reader must pause. If Socrates simply wanted to make this point
and proceed with the argument, he has chosen an unfortunate example in
discussing the advisor on food. There are a number of features of his use
of this example that, if transferred, have quite important repercussions
for the discussion of the political advisor. Firstly, it may be remarked
that Socrates has admitted that the ability to say what the 'better' is,
is not always necessarily contingent upon technical knowledge. Secondly,
someone who answers "more wholesome" as the better in food has
already implicitly or explicitly accepted a hierarchy of values. He has
architectonically structured the arts that have anything to do with food
in such a manner as to place health at the apex. Someone who had not
conceded such a rank-ordering might have said "cheapest,"
"most flavorful," or even "sweetest." Thus this example clearly
indicates the centrality of understanding the architectonic nature of
politics. Thirdly, and perhaps least importantly, Socrates has more
clearly indicated a distinction that was suggested in the previous
example. It is a different matter to know that 'wholesome' food is better
for one than it is to know which foods are wholesome. Socrates had, prior
to this, been attempting to get Alkibiades to name the art which provides
the standard of the good in peace and war. Even if Alkibiades had been
able to name that art, there would have been no indication of his
substantive knowledge of the art. Conversely it might be possible that he
would have substantive knowledge of something without being able to refer
to it as a named art. One might account for Alkibiades' inability
to n ame the art of political advice by reference to something
other than his knowledge and ignorance. Perhaps the very subject matter
would render such a statement difficult. For instance, if politics is the
'art' which structures all others, it would be with a view to politics
that the respective 'betters' in the other arts would be named. The
referent of politics would be of an entirely different order however.
Perhaps its 'better,' the comprehensive 'better,' would be simply 'the good.'
At any rate, it is a question of a different order, a different kind of
question, insofar as the instrumentally good is different from the good
simply. This suggestion is at least partly sustained by the observation
that Socrates uses a different method to discover the answer in this case
than in the previous 'patterns' supplied by wrestling and harping.
Alkibiades agrees that it does indeed seem disgraceful, but even
after further consideration he cannot say what the 'better' (the aim or
good providing a standard of better) is with respect to peace and war. As
Socrates' question about the goddesses of harping deviated from the
example of wrestling, so Socrates' attempt here is a deviation. He asks
Alkibiades what people say they suffer in war and what they call it.
The reader might note peace has been omitted from consideration.
Alkibiades says that what is suffered is deceit, force and robbery
(109b), and that such are suffered in either a just or an unjust way.
Now it is clearer why 'peace' was not mentioned. It might be more difficult
to argue in parallel fashion that the most important distinction in peace
was between just peace and unjust peace. Socrates asks if it is
upon the just or the unjust that Alkibiades will advise the Athenians
to make war. Alkibiades immediately recognizes at least one
difficulty. If for some reason it would be necessary to go to war with
those who are just, the advisor would not say so. That is the case not
only because it is considered unlawful, but, as Alkibiades adds, it
is not considered noble either. Socrates assumes Alkibiades will appeal to
these things when addressing the ekklesia . Alkibiades here proves
he understands the need for speaking differently to the public, or
at least for remaining prudently silent about certain matters. Within
the bounds of the argument to this point, wealth and prestige (not
to mention dire necessity) may be 'betters' in wars as readily as justice.
One may only confidently infer two things from Alkibiades' admissions.
The people listening to the advice cannot be told that those warred upon
are just; and to tell them so would be unlawful and ignoble. One might be
curious as to the proper relation between lawfulness, nobility and
justice, and the reader of the dialogue, in sorting out these considerations,
might examine the argument surrounding this statement of their
relation. The next few discussions in the First Alkibiades seem to focus
on establishing Alkibiades' claim to knowledge about justice.
Either Alkibiades has not noticed his own ignorance in this matter or
Socrates has not observed his learning and taking lessons on justice.
Socrates would like to know, and he swears by the god of friendship that
he is not joking, who the man.was who taught Alkibiades about
justice. Alkibiades wants to know whether he couldn't have learned
it another way. Socrates answers that Alkibiades could have learned
it through his own discovery. Alkibiades, in a dazzling display of
quick answers, responds that he might have discovered it if he'd
inquired, and he might have inquired if there was a time when he thought
he did not know. Socrates says that Aliibiades has spoken well, but
he wants to know when that time was. Socrates seems to acknowledge
Alkibiades' skill in speaking. These formally sharp answers would
probably be the kind praised in question and answer games. Socrates says
Alkibiades has spoken well, but immediately instructs Alkibiades about
how to speak in response to the next question. Alkibiades is to speak the
truth; the dialogue would be futile if he didn't answer truly. So here it
is acknowledged that truth (at least for the sake of useful dialogue) is
the standard for speaking well. He quickly follows the insincere praise
with an indication of the real criteria for determining if something was
well-spoken. Socrates is not destroying Alkibiades' notion of his ability
to achieve ideals, he is instead destroying the ideals. He acknowledged
Alkibiades' skill and then suggests it is not a good skill to have.
Socrates, in effect, tells Alkibiades to forget the clever answers and to
speak the truth. One of the themes of Socrates' instruction of the youth
seems to be the teaching of proper goals or standards.
Alkibiades admits that a year ago he thought he knew justice and
injustice, and two, three and four years ago as well. Socrates remarks
that before that Alkibiades was a child and Socrates knows well enough
that even then the precocious child thought he knew. The philosopher had
often heard Alkibiades as a boy claim that a playmate cheated during a
game, and so labelled him unjust with perfect confidence (110b).
Alkibiades concedes that Socrates speaks the truth but asks what else
should he have done when someone cheated him? Socrates points out that
this very question indicates Alkibiades' belief that he knows the answer.
If he recognized his ignorance, Socrates responds, he would not ask what
else he should have done as though there was no alternative.
Alkibiades swears that he must not have been ignorant because he
clearly perceived that he was wronged. If this implies that, as a child,
he thought he knew justice and injustice, then so he must. And he admits
he couldn't have discovered it while he thought he knew it (110c).
Socrates suggests to Alkibiades that he won't be able to cite a time when
he thought he didn't know, and Alkibiades swears again that he cannot.
Apparently, then, he must conclude that he cannot know the just on the
basis of discovery (llOd). This argument appears to depend on the
premise that one begins at a loss, completely ignorant, and then one
subsequently discovers what justice is. But such an assumption is surely
unwarranted. The discovery could be a slow, gradual process of continual
refinement of a child's understanding of justice. Often one's opinions
are changed because one discovers something that doesn't square with
previous beliefs. If one is sufficiently confident of the new factor,
one's beliefs may change. During the course of the succeeding dialogue, the
reader may see a number of ways in which this procedure might take place
in a person's life. Socrates draws to Alkibiades' attention
that if he doesn't know justice by his own discovery, and didn't
learn it from others, how could he know it. Alkibiades suggests
that perhaps he said the wrong thing before and that he did in fact
learn it, in the same way as everyone else. It is not clear that
this is a sincere move on Alkibiades' part (though it proves later
in the dialogue to have support as being the actual account of the
origin of most people's views of justice). Perhaps in order to win
the argument he is willing to simply change the premises.
Unfortunately, his changing of this one entirely removes the need
for the argument. Socrates doesn't bother to point out to
Alkibiades that if everybody knows it, and in the same way, then
Alkibiades has no claim to special expertise, and so no basis for
presuming to advise the Athenians. Alkibiades' abilities in speaking
have been demonstrated, a care and willingness to learn from
dialogue 86 have yet to be instilled. As is
presently indicated to Alkibiades, his answer brings about a return
to the same problem - from whom did he learn it? To his reply that
the many taught him (llOe), Socrates responds that they are not
87 worthy teachers in whom he is taking refuge. They are not
competent 88 to teach how to play and how not to play
draughts and since that is insignificant compared to justice, how can
they teach the more serious matter? Alkibiades perceptively counters this
by pointing out that they can teach things more worthy than draughts; it
was they and no single master who taught Alkibiades to speak
Greek. Alkibiades by this point proves that he is capable of quick
and independent thought. He doesn't merely follow Socrates' lead in
answering but in fact points out an important example to the contrary.
The Greek language is taught by the many quite capably even though they
cannot teach the less important draughts nor many other peculiar skills.
A number of issues important to the discussion are brought to the
surface by this example. First, one should notice that language is
another thing Alkibiades has learned which Socrates didn't mention.
Language is necessary for learning most other subjects, and one can learn
quite a lot by just listening to people speaking. A common language is
the precondition of the conversation depicted in the First Alkibiades, as
is some general agreement, however superficial, between Socrates and
Alkibiades as to what they mean when they say 'justice.' In order to have
an argument over whether or not one of them is indeed knowledgeable about
justice and injustice, they must have some notion of what 'justice'
conventionally means. They are not talking about the height of the sky,
the price of gold, or the climate on mountaintops. Justice ( dikaios) is
a word in the Greek language. Most people share sufficient agreement
about its meaning so as to be able to teach people how the word should be
used. This conventional notion of justice thus informs a child's sense of
justice, and as is shown by the strategy of the Republic as well as of
the First Alkibiades, the conventional opinions about justice must be
dealt with and accounted for in any more philosophic treatment. One
must assume that conventional opinions about justice have some
connection, however tenuous, with the truth about it. This exemplifies the
peculiar nature of 'agreement' as a criterion of knowledge. That experts
agree about their subject matter is not altogether beside the point, but
too much emphasis should not be placed upon it. There are innumerable
examples of "sectarian" agreements, none of which by that fact
have any claim to truth. There is also considerable agreement in
conventional opinions and the "world-views" of various
communities which must be accounted for but not necessarily
accepted. Socrates admits to Alkibiades (whom he chooses to
address, at this moment, as "well-born," perhaps in order to
remind him that he distinguishes himself from the many) that the people can be
justly praised for teaching such things as language, for they are
properly equipped (and actually the many do not teach one how to use
language well). To teach, one ought to know, and an indication of their
knowing is that they agree among each other on the language. If they
disagreed they couldn't be said to know and wouldn't be able to teach.
One might parenthetically point to some other important things that the
many teach. Children learn the laws from the many, including the
laws/rules of games. To call someone a cheater (110b) does not mean someone
knows justice; they simply must know the rules of the game and be able to
recognize when such rules have been violated. Rules of games are strictly
conventional. They gain their force from an agreement, implicit or
explicit, between the players. One might wonder if justice is,
correspondingly, the rules of a super- game, or if it is something
standing behind all rule-obeying. The many agree on what stone and
wood are. If one were to say "stone" or "wood," they
could all reach for the same thing. That is what Alkibiades must mean by
saying that all his fellow citizens have knowledge of Greek. And they are
good teachers in as much as they agree on these terms in public and
private. Poleis also agree among each other (cf. Lakhes 186d). Anyone who
wanted to learn what stone and wood were would be rightly sent to the
many. The fact that Greeks agree with each other when they name
objects hardly accounts for their knowledge of the language, much less
their ability to teach it. Naming is far from being the bulk of
speaking a, 89 language, (Hobbes and Scripture to the contrary
notwithstanding ). Not only is it improper to consider many parts
of speech as having the function of designating things, but even
descriptive reference to the sensible world is only a partial
aspect of the use of language. To mention only a few everyday
aspects of language that do not obviously conform, consider the
varied use of commands, metaphors, fables, poetry and exclamation.
To suggest that what constitutes one's knowledge of a language is
to point to objects and use nouns to name them, would be completely
inadequate. It would be so radically insufficient, in fact, that it
could not even account for its own articulation. Language consists
of much more than statements which correspond to observables in the
actual world. But even were one to restrict one's examination of language
to understanding what words mean, or refer to, one would immediately run
into difficulties. All sorts of words are used in everyday language which
demand some measure of evaluation on the part of the user and the
listener. A dog may be pointed to and called "dog." A more
involved judgement is required in calling it a "wild dog," or
"wolf," not to say a "bad dog." Agreement or disagreement
on the use of such terms does not depend on knowledge of the language as
much as on the character of the thing in question. There are
problems even with Socrates' account of naming. One cannot be certain
that the essence of a thing has been focussed upon by those giving the
name to the thing. One might fasten upon the material, or the form, or yet some
other feature of the object. For example, a piece of petrified wood, or a
stone carving of a tree would significantly complicate Socrates' simple
example. It is not at all clear that the same thing would be pointed to
if someone said "stone." The reader may remember that the
prisoners in the cave of the Republic spend quite a bit of their time
naming the shadows on the wall of the cave ( Republic 515b, 516c). The
close connection between this discussion and that of the Republic is
indicated also by the fact that the objects which cast the shadows in the
cave are made of stone and wood ( Republic). People in the cave don't
even look at the objects when they name things. According to the analogy
of the cave they would be the people teaching Alkibiades to speak Greek;
they are the people in actual cities. And what they call
"stone" and "wood" are only an aspect of stone and
wood, the shadowy representations of stone and wood. If the essences of
stone and wood, comparatively simple things, are not denoted by language,
one can imagine in what the agreement might consist in the popular use
of words like "City" and "Man." The question of the
relation of a name to the essential aspect of the thing adds a
significant dimension to the philosophic understanding of the human use
of language. Alkibiades and Socrates seem to be content with this
analysis of naming, however, and Socrates readily proceeds to the next
point in the argument. If one wanted to know not only what a man or a
horse (note the significance of the change from stone and wood) was, but
which was a good runner, the many would not be able to teach that - proof
of which is their disagreement among themselves. Apparently finding this
example insufficient, Socrates adds that should one want to know which
men were healthy and which were diseased, the many would also not be able
to teach that, for they disagree (llle). Notice two features
of these examples that may be of philosophic interest. To begin
with, the respective experts are, first the gymnastics trainer and second,
the physician. In this dialogue, both the gymnastics expert and the
doctor have arguments advanced on their behalf, supporting their claim to
be the proper controllers of, or experts about, the whole body (126a-b,
128c). As supreme rulers of the technae of the body they have different
aspects of the good condition in mind and consequently might give
different advice (for example on matters of diet). Thereupon one is
confronted with the standard problem of trying to maintain two or more
supreme authorities: which one is really the proper ruler in the event of
conflict. There is yet another aspect of the same problem that is
of some concern to the reader of the First Alkibiades . One might say
that the relation of the body to the soul is a very persuasive issue in
this dialogue, and the suggestion that there are two leaders in matters
of the body causes one to wonder whether there is a corresponding
dual leadership in the soul. Secondly, the reader notices
that the composition of "the many" shifts on the basis of what
is being taught. On the one hand, the doctor fits into "the
many" as being unable to tell the good runner; on the other hand,
when the focus is on health, all but the doctor appear to constitute
"the many." The question of how to understand the make-up
of the many points to a very large issue area in philosophy, namely that
which is popularly termed the 'holism vs. individualism debate,' or more
generally, the question of the composition and character of
groups. What essentially characterizes groups - in particular that politically
indispensible group, "the many?" This issue is not superfluous
to this dialogue, nor to this portion of this dialogue. By placing the
doctor alone against the many (in the second example), one unwittingly
contradicts oneself. Alkibiades and Socrates fall among the ranks of the
Many as well as the Few. Perhaps the most obvious problem
connected with determining the composition of the group, "the
many," is brought into focus when one tries to discover how one
"goes to the many" to learn (llld). There are quite a few possibilities.
Does the opinion of "the many" become the average (mean)
opinion of all the different views prevalent in a city? Or is it
the opinion held by the majority? One might go to each individual, to each of a
variety of representative individuals, or even to 51% of the individuals
in a given place, and then statistically evaluate their opinions,
arriving at one or another form of majority consensus. Or, one
might determine conventional opinion by asking various indi-
91 viduals what they believe everyone else believes. There
seem to be countless ways of understanding "the many," each of
which allows for quite different outcomes. The problems for the student
of political affairs, as well as for the aspiring politician, are
compounded because the many do not appear to hold a single view
unanimously or unambiguously on many of the important questions.
Regardless of which is the appropriate understanding of "the
many, the reader must at all events remember that "the many"
and "the few" are a perennial political division. There are,
likewise, several ways in which "the few" are conceived. Some
consider them to be the men of wealth, the men of virtue, the men
of intelligence, and so on. Reference to "the few," however, is
rarely so vague as reference to the many, since people who speak of
"the few" are usually aware of which criteria form the bases of
the distinction. Despite the lack of clarity concerning the division between
"the many" and "the few," it is appealed to, in most
regimes as being a fundamental schizm. Most regimes, it may be ventured,
are in fact based either upon the distinction, or upon trying to remove
the distinction, and they appeal to this division, however vague, to
legitimate themselves. At this point in the discussion of the First
Alkibiades (llle), Alkibiades and Socrates are considering whether the
many are capable teachers of justice. They appear to be making their
judgement solely on the basis of the criterion of agreement. One might
stop to consider not only whether agreement is sufficient to indicate
knowledge, but indeed whether it is even necessary. One cannot simply
deny the possibility that one might be able to gain knowledge because of
disagreements. Profound differences of opinion might indicate the best
way of learning the truth, as, for example the disagreements among
philosophers about justice teaches at the very least what the important
considerations might be. Socrates continues. Since disagreement
among the many indicates that they are not able to teach (though lack of
ability rarely prevents them from trying anyway, cf. Apology 24c-25a;
Gorgias 461c), Socrates asks Alkibiades whether the many agree about
justice and injustice, or if indeed they don't differ most on those very
concerns. People do not 92 fight and kill in battle
because they disagree on questions of health, but when justice is in
dispute, Alkibiades has seen the battles. And if he hasn't seen
them (Socrates should know this, after all, cf. 106e) he has heard of the
fights from many, particularly from Homer, because he's heard the Odyssey
and Iliad. Alkibiades' familiarity with Homer is of great significance.
It, along with his knoweldge of Greek, are probably the two most
crucial "oversights" in Socrates' list of what Alkibiades
learned. In fact, they are of such importance that they overshadow the
subjects in which he did take lessons, in terms of their effect on his
character development, his common-sense understanding, and on his
suitability for political office. Homer is an important source of
knowledge and of opinion, and is responsible for there being considerable
consensus of belief among the Greeks in many matters. He provides the
authoritative interpretation of the gods as well as of the qualities and
actions of great men. If Alkibiades knows Homer and if he knows that
Homer is about justice, then he has learned much more about justice than
one would surmise on the basis of his formal schooling.
Alkibiades agrees with Socrates' remark that the Iliad and Odyssey
are about disagreements about justice and injustice. He also accepts the
interpretation that a difference of opinion about the just and the unjust
caused the battles and deaths of the Akhaians and Trojans; the dispute
between Odysseus and Penelope's suitors; and the deaths and fights of the
Athenians, Spartans and Boiotians at Tanagra and Koroneia. (One notes
that Socrates has blended the fabulous with the actual, and has chosen,
as his non-mythic example, probably the one over which it is most
difficult for Alkibiades to be non-partisan - the battle in which his
father died. This also raises his heritage to the level of the epic.) The
reader need not agree with this interpretation on a number of counts.
Firstly, the central case is noteworthy in that Socrates interprets
Odysseus' strife with the men of Ithaka to be over a woman, and not
primarily the kingdom and palace. It is not at all clear, moreover, that what
caused the altercation between Odysseus and the suitors was a difference
of opinion about justice. They might have all wanted the same thing, but
the reaction of the suitors at Odysseus' return indicates that they
didn't feel they were in the right - they admitted 93 gurlt.
Secondly, what is noticeable in Homer is that only one aspect of the epic
is about the dispute about justice (and also, both Homeric examples
involve a conflict between eros and justice, represented by Helen and
Penelope). In the epics the disagreement among the many refers not to the
many of one polis but of various poleis against each other. Indeed the
many of each polis in the Trojan war agree. These observations
foreshadow the discussion that will presently come to the fore in the
dialogue under somewhat different circumstances. The problem of the
difference between the just and the expedient is a key one in political
philosophy, and it is introduced by the reflection that in a number of
instances disagreement does not focus on what the just solution is, but
on who should be the victor, who will control the thing over which the
sides are disputing. Both sides agree that it would be good to control
one thing. More shall be said about this later in the context of the
discussion. Socrates inquires of Alkibiades whether the people
involved in those wars could be said to understand these questions if
they could disagree so strongly as to take extreme measures. Though he
must admit that teachers of that sort are ignorant, Alkibiades
had nevertheless referred Socrates to them. Alkibiades is quite unaware of the
nature of justice and injustice and he also cannot point to a teacher or
say when he discovered them. It thus seems hard to say he has
knowledge of them. Alkibiades agrees that according to what Socrates has
said it is not likely that he knows (112d). Socrates takes this
opportunity to teach Alkibiades a most important lesson. Though
apparently a digression, it will mark a pivotal point in the turning
around of Alkibiades that occurs by the middle of the discussion.
Socrates says that Alkibiades' last remark was not fair ( kalos)
because he claimed Socrates said that Alkibiades was ignorant, whereas
actually Alkibiades did. Alkibiades is astounded. Did he_ say it?
Socrates is teaching Alkibiades that the words spoken in an
argument ought indeed to have an effect on one's life, that the outcomes
of arguments are impersonal yet must be taken seriously, and that
responsibility for what is said rests with both partners in dialogue. The
results of rational speech are to be trusted; reason is a kind of power
necessarily determining things. Alkibiades cannot agree in speech and
then decide, if it is convenient, to dismiss conclusions on the grounds
that it was someone else who said it. Arguments attain much more significance
when they are recognized as one's own. One must learn they are not
merely playthings (cf. Republic 539b). Accepting responsibility for them
and their conclusions is essential. It is important politically
with reference to speech, as well as in the more generally recognized
sense of assuming responsibility for one's actions. To cite an instance
of special importance to this dialogue, who is responsible for Alkibiades
- Perikles? Athens? Socrates? Alkibiades himself? One can often place
responsibility for one's actions on one's society, one's immediate
environment, or one's teachers. Perhaps it is not so easy to shun
responsibility for conclusions of arguments. Most men desire consistency
and at least feel uneasy when they are shown to be involved in
contradictions. In this discussion of who must accept responsibility for
the conclusions of rational discourse, Alkibiades learns yet another
lesson about the power of speech. He has, by his own tongue, convicted
himself of ignorance. Socrates demonstrates to Alkibiades that if he asks
whether one or two is the larger number, and Alkibiades answers that two
is greater by one, it was Alkibiades who said that two was greater than
one. Socrates had asked and Alkibiades had answered; the answer was the speaker.
Similarly, if Socrates should ask which letters are in "Socrates"
and Alkibiades answered, Alkibiades would be the speaker. On the
basis of this the young man agrees that, as a principle, whenever there
is a questioner and an answerer, the speaker is the answerer. Since so
far Socrates had been the questioner and Alkibiades the answerer,
Alkibiades is responsible for whatever has been uttered. What
has been disclosed by now is that Alkibiades, the noble son of
Kleinias, intends to go to the ekklesia to advise on that of which he
knows nothing. Socrates quotes Euripides - Alkibiades "hear it
from [himself] not me." Socrates doesn't pull any
punches. Not only does he refer to an almost incestuous woman to speak of
Alkibiades' condition, but he follows with what must seem a painfully
sarcastic form of address (since it is actually ironic) which the young
man would probably wish to hear from serious lips. Alkibiades, the
"best of men,' is contemplating a mad undertaking in teaching what
he has not bothered to learn. Alkibiades has been hit, but not hard
enough for him to change his mind instead of the topic. He thinks that
Athenians and the other Greeks don't, in fact, deliberate over the
justice of a course of action - they consider that to be more or
less obvious - but about its advantageousness. The just and the advantageous
are not the same, for great injustices have proven advantageous, and sometimes
little advantage has been gained from just action. Socrates announces
that he will challenge Alkibiades' knowledge of what is expedient, even
if he should grant that the just and the advantageous are ever so
distinct. Alkibiades perceives no hindrance to his claiming to know
what is advantageous unless Socrates is again about to ask from which
teacher he learned it or how he discovered it. Hereupon Socrates remarks
that the young man is treating arguments as though they were clothing
which, once worn, is dirtied. Socrates will ignore these notions of
Alkibiades, implying that they involve an incorrect understanding of
philosophic disputation. Alkibiades must be taught that what is ever
correct according to reason remains correct according to reason. Variety
in arguments is not a criterion affecting their rational
consistency. Socrates shall proceed by asking the same question,
intending it to, in effect, ask the whole argument. He claims to be
certain that Alkibiades will find himself in the same difficulty with
this argument. The reader will recognize that Alkibiades is not
likely to encounter precisely the same problems with this new argument. The
nature of the agreement and disagreement by individuals and states over
the matter of usefulness or advantageousness is different than that
concerning justice. A man may know it would be useful to have something,
or expedient to do something, and also know it to be unjust. States,
too, may agree on something's advantageousness, say controlling the
Hellespont but they may disagree on who should control it. The conflict
in these cases is not the result of a disagreement as to what is true
(e.g., it is true that each country's interests are better served by
control of key sea routes), but it is based precisely on their agreement
about the truth regarding expediency. When states and individuals are
primarily concerned with wealth, then knowing what is useful presents far
fewer problems than knowing what is just. Since Alkibiades is
so squeamish as to dislike the flavor of old arguments, Socrates will disregard
his inability to corroborate his claim to knowledge of the expedient.
Instead he will ask whether the just and the useful are the same or
different. Alkibiades can question Socrates as he had been questioned, or
he can choose whatever form of discourse he likes. As he feels incapable
of convincing Socrates, Alkibiades is invited to imagine Socrates to be
the people of the ekklesia ; even there, where the young man is eager to
speak, he will have to persuade each man singly (114b). A knowledgeable
man can persuade one alone and many together (114b-c). A writing master
is able to persuade either one or many about letters and likewise an
arithmetician influences one man or many about numbers. For quite a
few reasons the reader might object to Socrates' inference from these
examples to the arena of politics. Firstly, they are not the kinds of
things discussed in politics, and one might suspect that the
"persuasion" involved is not of the same variety. Proof of this
might be offered in the form of the observation that the inability to
persuade in politics does not necessarily imply the dull-wittedness of
the audience. Strong passions bar the way for reason in politics like
they rarely do in numbers and letters. This leads to the second
objection. Not only is knowledge of grammar and arithmetic fundamentally
different than politics, but they represent extreme examples in themselves.
They correspond to two very diverse criteria of knowledge both of which
have been previously introduced in the dialogue. The subject matter of
letters is decided upon almost exclusively by agreement; that of numbers
is learned most importantly through discovery, and this does not depend
on people's agreement (cf. 112e-113a, 126c; and 106e reminds one that
Alkibiades has taken lessons only in one of these). Presumably,
however, if the arithmetician and grammarian can, then Alkibiades also
will be able to persuade one man or many about that which he knows.
Apparently the only difference between the rhetorician in front of a
crowd and a man engaged in dialogue is that the rhetorician persuades
everyone at once, the latter one at a time. Given that the same man persuades
either a multitude or an individual, Socrates invites Alkibiades to
practice on him to show that the just is not the expedient. (Ironically,
there may be no one Alkibiades ever meets who is further from the
multitude). If it weren't for his earlier statement (109c) where he
indicated his recognition of the difference between private and public
speech, it would appear that Alkibiades had quite a lot to learn before
he confronted the ekklesia . One might readily propose that there is
indeed very little similarity between persuading one and persuading the
multitude. In a dialogue one man can ask questions that reveal the
other's ignorance; Socrates does this to Alkibiades in this
dialogue, he might not in public. In a dialogue, there needn't always be public
pressure with which to contend (an important exception being courtroom
dialogue); a public speech, especially one addressing the ekklesia must
yield to or otherwise take into account the strength of the many. Often
when addressing a crowd one only has to address the influential. At other
times one need only appeal to the least common denominator. There are
factors at work in crowds which affect reactions to a speaker,
factors which do not seem to be present in one-to-one dialogue. When
addressing a multitude, a speaker must be aware of the general feelings
and sentiments of the group, and address himself to them. When in
dialogue he can tailor his comments to one man's specific interests. To
convince the individual, however, he will have to be precisely right in
his deduction of the individual's sentiments - in a crowd a more general
understanding is usually sufficient. Mere hints at a subject will
be successful; when addressing a multitude with regard to a policy, a
rhetorician will not be taken to task for every claim he makes. If his
general policy is pleasing to the many, it is unlikely that they will
critically examine all of his reasons for proposing the policy. Also, when
speaking to a crowd, one is not expected to prove one's technical
expertise. An individual may be able to discover the limits of one's
knowledge; a crowd will rarely ask. This whola analysis, however, is
rendered questionable by the ambiguity of the composition of "the
many," discussed above. One could, for example, come across a very
knowledgeable crowd, or a stupid individual and many of the above
observations would not hold. However, the situations most directly
relevant to the dialogue involve rhetoric toward a crowd such as that of
the ekklesia, and thoughtful dialogue between individuals such as
Alkibiades and Socrates. If Alkibiades ever intends to set forth a
plan of action to the Athenians, the adoption of his proposal will depend
on his convincing them in the ekklesia . The ability to persuade the
multitude attains great political significance; and especially in
democracies, a man's ability in speaking is often the foundation of his
power. Once recognized, this power is susceptible to cultivation. Rhetoric,
the art of persuasive speech, is the art which provides the knowledge
requisite to gain effective power over an audience. All political
men are aware of rhetoric; their rhetorical ability to a large
extent determines their success or failure. Of course, there
are at least two important qualifications or limits on the power of even
the most persuasive speech. The first limit is knowledge. A man who
knows grammar and arithmetic will not be swayed wrongly about numbers,
when they are used in any of the conventional ways. That an able
rhetorician escape detection in a lie is a necessity if he is to be
successful among those knowledgeable in the topic he addresses.
Presumably those who possess only beliefs about the matter would be more
readily seduced to embrace a false opinion. The second limit
is more troubling. It is the problem of those who simply are not
convinced by argument. They distrust the spoken word. These seem to
fall into three categories. The first is exemplified in the
character of Kallikles in the Gorgias . It primarily includes those
who are unwilling to connect the conclusions of arguments to their
own lives. They may agree to something in argument and, moments
later, do something quite contrary to their conclusions. This
characteristic is well- displayed in Kallikles who, when driven to
a contradiction doesn't even care. He holds two conflicting
opinions and holds them so strongly that he doesn't even care that they
support conclusions that are contrary to reason and yield contrary
results. Kallikles is unwilling to continue discussing with Socrates (
Gorgias); he does not want to learn from rational speech. He remains
unconvinced by Socrates' argument and by his rhetoric ( Gorgias). If
Socrates is to rule Kallikles, he will need more than reason and wisdom
and beautiful speech ( Gorgias 523a-527e); he will need some kind of coercive
power. Secondly, almost all people have some experience of those
who inconsistently maintain in speech what they do not uphold in deed. This
is the most immediate level on which to recognize the problem of the
relation of theory to practice. Alkibiades seems to have this opinion of
speech at the beginning of the dialogue, for he can admit almost anything
in speech (106c.2). Two things, however, show that he is far above it.
He implicitly recognizes that the realm of speech is the realm within
which he must confront Socrates, and he has a desire for consistency.
Kallikles is too dogmatic to even recognize his inconsistency. But when
Socrates forces Alkibiades to take responsibility for all the conclusions
they have reached to that point, he realizes he must have made an error
either in his premises or his argument. This marks the first and major
turning around of Alkibiades. He recognizes that he has said he is
ignorant. A third type of person who is not convinced by
rhetoricians is the one who distrusts argument because he recognizes the
skill involved in speaking. Not because he is indifferent to the
compulsion of reason but precisely because he wants to act according to
reason, he desires to be certain of not being tricked. (Most people are
also familiar with the feeling that something vaguely suspicious is going
on in a discussion.) He is convinced that there are men - e.g.,
sophists - who are skilled at the game of question and answer and can
make anyone look like a fool. And so what? He is not at all moved
by their victory in speech. Something other than rational speech is needed to
convince him. Indeed, this is one of the most difficult challenges
Socrates meets in the Republic, and indicates a higher level of
the theory/practice relationship. Adeimantos is not convinced by mere
words. He has to be shown that philosophy is useful to the city, among
other things ( Republic 487b.1-d.5; 498c.5 ff; 367d.9-e.5; 367b.3;
389a.10). Although he is distrustful of mere speech, he learns to respect
it as a medium through which to understand the political. He has the example of
Socrates whose life matches, or is even guided by, his speech. Socrates'
difficulty lies in making the case in speech to this man who does not put
full stock in the conclusions of speech. One must wonder, moreover, what kinds
of deeds will suffice for those others who cannot even view Socrates.
This is the problem faced by all writers who want to reach this sort of
person. Perhaps one might consider very clever speakers like Plato
to be performing the deed of making the words of a Socrates appear like the
deeds of Socrates, in the speech of the Dialogues. Almost paradoxically,
they must convince through speech that speech isn't "mere
talk." Alkibiades charges Socrates with hybris and Socrates
acknowledges it for the time being, for he intends to prove to Alkibiades
the opposite view, namely that the just is the expedient (114d). Socrates
doesn't deny the charge, or even, as one might expect, playfully redirect
it as might be appropriate; the accusation is made by a man who, not
much later, will be considered hybristic by almost the entire Athenian
public. It is not clear precisely what is hybristic about Socrates' last
remarks. Hybris is a pride or ambition or insolence inappropriate to men.
Perhaps both men are hybristic as charged; in this instance it is not
imperative that they defend themselves for they are alone. Possibly
anyone who seeks total power as does Alkibiades, or wisdom like Socrates,
is too ambitious and too haughty. They would be vying with the gods to
the extent that they challenge civic piety and the supremacy of the
deities of the polis . One wants to rule the universe like a god, the
other to know it like a god. The charge of hybris has been
introduced in the context of persuading through speech. Allegedly the
person who knows will have the power to persuade through speech. This is
itself rather a problematic claim as it implies all failure to persuade
is an indication of ignorance. However questionable the assertion,
though, the connection it recalls between these three important aspects
of man's life - knowledge, power and language - is too thoroughly
elaborated to be mere coincidence. It is very likely that the reader's
understanding of these two exceptional men and the appropriateness of the
charge of hybris will have something to do with language's relation to
knowledge and power. Alkibiades asks Socrates to speak, if he intends
to demonstrate to Alkibiades that the just is not distinct from the
advantageous. Not inclined to answer any questions (cf. 106b), Alkibiades
wishes Socrates to speak alone. Socrates, pretending incredulity, asks if
indeed Alkibiades doesn't desire most of all to be persuaded and
Alkibiades, playing along, agrees that he certainly does. Socrates
suggests that the surest indication of persuasion is freely assenting,
and if Alkibiades responds to the questions asked of him, he will most
assuredly hear himself affirm that the just is indeed the advantageous.
Socrates goes so far as to promise Alkibiades that if he doesn't say it,
he never need trust anybody's speech again. This astonishingly
extravagant declaration by Socrates bespeaks certain knowledge on his
part. Socrates implies he is confident of one of two things. Perhaps he
knows that the just is advantageous, or the true relationship between the
two, and thus argues for the proof of the claim that anyone who knows can
persuade. (The immense difficulties with this have already been
suggested.) What is more likely, however, is that he does not think the
just is identical to the advantageous, but he knows he can win the
argument with Alkibiades and drive him to assert whatever conclusion he
wants (that he could in effect make the weaker argument appear the
stronger). If the latter is true, the reader is reminded of the power of
speech and the possible dangers that can arise from its use. He will also
wonder if Socrates is quite right in his proposal that Alkibiades need
never trust anyone's speech if he cannot be made to agree. It seems to be
more indicative of the untrustworthiness of speech if Alkibiades should
agree, not that he refuse to agree. However, the reader has been placed
in the enviable position of being able to judge for himself, through a
careful review of the argument. His personal participation, to the limit
of his ability, is after all the only means through which he can be
certain that he isn't being duped into believing something instead of knowing
it. Alkibiades doubts he will admit the point, but agrees to
comply, confident that no harm will attend his answers. Whereupon
Socrates claims that Alkibiades speaks like a diviner (cf. 127e, 107b,
117b), and proceeds, presuming to be articulating Alkibiades' actual
opinion. Some just things are advantageous and some are not.
Some just things are noble and some are not. Nothing can be both base
and just, so all just things are noble. Some noble things might be evil
and some base things may be good, for a rescue is invested with nobility
on account of courage, and with evil because of the deaths and
wounds. However, since courage and death are distinct, it is with respect
to separate aspects that the rescue can be said to be both noble and
evil. Insofar as it is noble it is good, and it is noble because of
courage. Cowardice is an evil on par with (or worse than, 115d) death.
Courage ranks among the best things and death among the worst. The rescue
is deemed noble because it is the working of good by courage, and
evil because it is the working of evil by death. Things are evil because
of the evil produced and good on account of the good that results. In
as much as a thing is good it is noble and base inasmuch as it is evil.
To designate the rescue as noble but evil is thus to term it good
but evil (116a). In so far as something is noble it is not evil, and
neither is anything good in so far as it is base. Whoever does nobly does
well and whoever does well is happy. People are made happy through
the acquisition of good things. They obtain good things by doing well and
nobly. Accordingly, doing well is good and faring well is noble.
The noble and good are the same. By this argument all that is noble
is good. Good things are expedient (116c) and as has already been
admitted, those who do just things do noble things (115a); those who do
noble things do good things (116a). If good things are expedient then
just things are expedient. As Socrates points out, it is
apparently Alkibiades who has asserted all of this. Since he argues that
the just and the expedient are the same, he could hardly do other than
ridicule anyone who rose up to advise the Athenians or the Peparathians
believing he knew the just and the unjust and claiming that just things
are sometimes evil. Before proceeding, the reader must pause and attempt
to determine the significance of the problem of the just versus the
expedient. No intimate familiarity with the tradition of political
philosophy is required in order to observe that the issue is dominant
throughout the tradition/ perhaps most notably among the moderns in the
writings of Machiavelli and Hobbes who linked the question of justice and
expediency to the distinction between serving another's interest and
serving one's own interest. They, and subsequent moderns, in the spirit
of the "Enlightenment," then proceed with the intention of
eradicating the distinction. Self-interest, properly understood, is right and
is the proper basis for all human actions. Not only is there a widespread
connection between the issue, the traditional treatment of the issue, and
human action - but the reader might recall that the ancient philosophers,
too, considered it fundamental. One need only realize that the
philosophic work par excellence, Plato's Republic, receives its impetus
from this consideration. The discussion of the best regime (perhaps the
topic of political philosophy) arises because of Glaukon's challenging
reformulation of Thrasymakhos' opinion that justice is the advantage of the
stronger. Recognition of this fact sufficiently corroborates the view
that this issue warrants careful scrutiny by serious students of
political philosophy. Socrates has chosen this topic as the one on which
to demonstrate the internal conflicts in Alkibiades' soul. Perhaps
that is a subtle indication to the reader as to where he might focus when
he begins the search for self-knowledge, the inevitable prerequisite
for his improvement. Alkibiades swears by all the gods. He is
overwhelmed. Alkibiades protests that he isn't sure he knows even what he
is saying; he continually changes his views under Socrates' questioning.
Socrates points out to him that he must be unaware of what such a
condition of perplexity signifies. If someone were to ask him whether he
had two or three eyes, or two or four hands, he would probably respond
consistently because he knows the answer. If he voluntarily gives
contradictory replies, they must concern things about which he is
ignorant. Alkibiades admits it is likely; but there are probably other
reasons why one might give contradictory answers, just as one might
intentionally appear to err - in speech speech. Alkibiades'
ignorance with regard to justice, injustice, noble, base, evil and good
is the cause of his confusion about them. Whenever a man does not know a
thing, his soul is confused about that thing. By Zeus (fittingly),
Alkibiades concedes he is ignorant of how to rise into heaven. There is
no confusion in his opinion about that simply because he is aware that he
doesn't know. Alkibiades must take his part in discerning Socrates'
meaning. He knows he is ignorant about fancy cookery, so he doesn't get
confused, but entrusts it to a cook. Similarly when aboard ship he
knows he is ignorant of how to steer, and leaves it to the pilot.
Mistakes are made when one thinks one knows though one doesn't. Otherwise
people would leave the job to those who do know. The ignorant person who
knows he is ignorant doesn't make mistakes (117e). Those who make
mistakes are those who think they know when they don't; those who know
act rightly; those who don't, leave it to others. All this is
not precisely true for a number of reasons. Chance or fortune always
plays a part and something unexpected could interfere in otherwise
correctly laid plans. Also, as any honest politician or general would
have to say, sometimes courses of action must be decided and acted upon,
even when one is fully cognizant of one's partial ignorance.
The worst sort of stupidity, Socrates testifies is the
stupidity conjoined with confidence. It is a cause of evils and the most
pernicious evils occur through its involvement with great matters like
the just, the noble, the good and the advantageous. Alkibiades'
bewilderment regarding these momentous matters, coupled with his
ignorance of his very ignorance, imputes to him a rather sorry condition.
Alkibiades admits he is afraid so. Socrates at this point makes
clear to Alkibiades the nature of his predicament. He utters an
exclamation at the plight of the young man and deigns to give it a name
only because they are alone. Alkibiades, according to his own confession,
is attached to the most shameful kind of stupidity. Perhaps to contrast
Alkibiades' actual condition with what he could be, Socrates chooses
precisely this moment to refer to Alkibiades as "best of men"
(cf. also 113c). With such apparent sarcasm still reverberating in the
background, Socrates intimates that because of this kind of ignorance he
is eager to enter politics before learning of it. Alkibiades, far from
being alone, shares this lot with most politicians except, perhaps, his
guardian Perikies, and a few others. Already recognized to be
obviously a salient feature of the action of the dialogue, the fact that
the two are alone, engaged in a private conversation, is further stressed
here as the reader approaches the central teaching of the First
Alkibiades . Alkibiades has been turned around and now faces Socrates.
They can confide in each other even to the extent of criticizing all or
nearly all of Athens' politicians. They shall, in the next while,
be saying things that most people should not hear. And at this moment it
seems to be for the purpose of naming Alkibiades' condition that Socrates
reminds the reader of their privacy. A number of possible reasons
for the emphasis on privacy in this regard come to mind. Socrates likely
would not choose to call Alkibiades stupid in front of a crowd.
In the first place, his having just recognized his ignorance makes
him far less stupid than the crowd and it would be inappropriate to have
them feel they are better than he. Alkibiades is by nature a cut above
the many, and it would be a sign of contempt to expose him to ridicule in
front of the many. Though he may be in a sorry condition, he is being
compared to another standard than the populace. Secondly, to expose
and make Alkibiades sensitive to public censure is probably not in his
best interests. A cultivation in most noble youths of the appropriate
source of their honor and dishonor is important. Socrates, by not making
Alkibiades feel mortified in front of the many, is heightening his
respect for the censure of men like Socrates. Without this alternative,
the man who seeks glory is confronted with a paradox of sorts. He wants
the love/adoration of the many, and yet he despises the things they love
or adore. Alkibiades is being shown that the praise of few (and if the
principle is pushed to its limit, eventually the praise of one - oneself,
i.e. pride) is more to be prized. Thirdly, as Socrates explains to
Meletus in his trial ( Apology 26a), when someone does something
unintentionally, it is correct to instruct him privately and not to
summon the attention of the public. Alkibiades is not ignorant on
purpose; Socrates should privately instruct him. It is also probable that
Alkibiades will only accept private criticism which doesn't threaten his
status. And perhaps fourthly, if Socrates were to insult Alkibiades
in public the many would conclude that there was a schizm between
them. Because they are men whose natures are akin, and because of
their (symbolic) representation of politics and philosophy, or power and knowledge,
any differences they have must remain private. It is in their best
interest as well as the interest of the public, that everyone perceive the two
as being indivisible. And as was observed earlier, even the wisest
politicians must appear perfectly confident of their knowledge and plans.
This is best done if they conceal their private doubts and display
complete trust in their advisors, providing a united front when facing
the many. When Socrates suggests Perikles is a possible exception,
Alkibiades names some of the wise men with whom Perikles conversed to
obtain his wisdom. Those whom he names are conventionally held to be
wise; Alkibiades might not refer to the same people by the end of this
conversation with Socrates. In any event, upon Alkibiades' mention of the
wise men, Socrates insinuates that Perikles' wisdom may be in
doubt. Anybody who is wise in some subject is able to make another wise
in it, just as Alkibiades' writing teacher taught Alkibiades, and
whomever else he wishes, about letters. The person who learns is also
then able to enlighten another man. The same holds true of the harper and the
trainer (but apparently not the flute player, cf. 106e). The ability to
point to one's student and to show his capability is a fine proof of
knowing anything. If Perikles didn't make either of his sons wise, or
Alkibiades' brother (Kleinias the madman),why is Alkibiades in his sorry
condition? Alkibiades confesses that he is at fault for not paying
attention to Perikles. Still, he swears by the king of gods that there
isn't any Athenian or stranger or slave or foreman who is said to have
become wise through conversation with Perikles, as various students of
sophists have been said to have become wise and erudite through lessons.
Socrates doesn't need to explicate the conclusion. Instead, he asks
Alkibiades what he intends to do. The conclusion of the
argument is never uttered. It is obviously meant to question Perikles'
wisdom, but rather than spell it out, the topic is abruptly changed. If
Perikles were dead, not alive and in power, piety would not admit of even
this much criticism to be levied. Alkibiades would be expected to defend
his uncle against those outside the family; and all Athenians to defend
him against critics from other poleis . In addition, if this was a public
discussion, civic propriety would demand silence in front of the many
concerning one's doubts about the country's leaders. But since they are
indeed alone, and need not worry about the effects on others of their
discussion of Perikles' wisdom, they might have concluded the argument.
The curious reader will likely examine various reasons for not finishing
it. Three possibilities appear to be somewhat supported by the discussion
to this point. One notices, to begin with, that it would be
adequate for the argument, if a person could be found who was reputed to
have gained wisdom from Perikles. Given that a reputation among the many
has not been highly regarded previously in the dialogue, there seems
little need to press this point in the argument. If a man was said to
have been made wise by Perikles, the criteria by which that judgment
would be made seem much less reliable than the criteria whereby the many
evaluate a man's skill in letters. There is no proof of Perikles' ability
to make another wise in finding someone who is reputed to be wise.
Conversely, Perikles may well have made someone wise who did not also
achieve the reputation for wisdom. A second point in
connection with the argument is that the three subjects mentioned are
those in which Alkibiades has had lessons. Alkibiades has ability in them, yet
cannot point to people whom he has made wise in letters, harping or
wrestling. That does not seem sufficient proof that he is ignorant (thus
that his master was ignorant and so on) . It is also not clear that
Alkibiades' teachers could have made any student whomsoever they wished,
wise in these subjects; Perikles 1 sons must have achieved their
reputation as simpletons (118e) from failing at something. Knowledge cannot
require, for proof, that one has successfully taught someone else. Not
all people try to teach what they know. There must be other proofs of
competence, such as winning at wrestling, or pleasing an audience through
harping. Similarly, not having taught someone may not prove one's
ignorance; it may just indicate unwilling and incapable students.
Alkibiades, for example, didn't learn to play the flute. There is no
indication that his teacher was incapable - either of playing or of
teaching. Alkibiades is said to have refused to learn it becaus e of
considerations of his own. It might also be suggested that pointing to
students doesn't solve the major problem of proving someone's knowledge.
Is it any easier to recognize knowledge in a student than in a
teacher? A third closely connected point is that some knowledge may
be of such significance that the wise man properly spends his time
actively using it (e.g., by ruling) and not teaching it. Perikles,
through ruling, may have made the Athenians as a whole better off, and
perhaps even increased their knowledge somewhat. Had his son and heirs to
his power observed his example while he was in office, they too might
have become wiser. Adding further endorsement to this notion is the
quite reasonable supposition that some of the things a wise politician
knows cannot be taught through speech but only through example, just as
some kinds of knowledge must be gained by experience. He may communicate
his teaching through his example, or even less obviously, through
whatever institutions or customs he has established or revised.
Some subjects should probably also be kept secret for
the state, and some types of prudential judgement are acquired only
be guided experience. Perikles's very silence, indeed, may be a
testimony to his political wisdom. In response to Socrates'
question as to what Alkibiades will do, the young man suggests that they
put their heads together (119b). This marks the completion of Alkibiades'
turning around. Alkibiades, who began the discussion annoyed and haughty
has requested Socrates' assistance in escaping his predicament. He is ready to
accept Socrates' advice. This locution (of putting their heads together)
will be echoed later by Socrates and will mark another stage of their
journey together. The central portion of the dialogue, the portion
between the two joinings of their heads, is what shall be taken up
next. Since most of the men who do the work of the polis are uneducated,
Alkibiades presumes he is assured of gaining an easy victory over them on
the basis of his natural qualities. If they were educated, he would have
to take some care with his learning, just as much training is required to
compete with athletes. But they are ignorant amateurs and should be no
challenge. Socrates launches into an exclamatory derision of this
"best of men." What he has just said is unworthy of the looks
and other resources of his. Alkibiades doesn't know what Socrates means
by this and Socrates responds that he is vexed for Alkibiades and for his
love. Alkibiades shouldn't expect this contest to be with these men here.
When Alkibiades inquires with whom his contest is to be, Socrates asks if
that is a question worthy of a man who considers himself superior.
Alkibiades wants to ascertain if Socrates is suggesting that his contest
is not with these men, the politicians of the polis . This
passage is central to the First Alkibiades . The answer implicit in Socrates'
response I deem to be far more profound than it might seem to the casual
observer. Hopefully the analysis here will support this judgement and
show as well, that this question of the contest (agon) is a paramount
question in Alkibiades' life, in the lives of all superior men, and in
the quest for the good as characterized by political philosophy. If
Alkibiades' ambition is really unworthy of him, if he thinks he ought to
strive only be be as competent as the Athenians, then Socrates is vexed
for his love. Earlier (104e) the reader was informed that Socrates would
have had to put aside his love for Alkibiades if Alkibiades proved not to
have such a high ambition. Thus Socrates was attracted to Alkibiades'
striving nature. He followed the youth about for so long because Alkibiades'
desires for power were growing. What thus differentiates Alkibiades from other
youths (such as several of those with whom Socrates is shown in the
dialogues, to have spent time) is that he has more exalted ambitions than
they. Should Socrates come to the conclusion that Alkibiades does not in fact
have this surpassing will for power, the philosopher would be forced to
put away his love for Alkibiades. Now, after some discussion, it seems
there is a possibility that Alkibiades wants only to be as great as other
politicians. Many boys wish this; Alkibiades' eros would not be
outstanding. Were this true, it would indeed be no wonder if Socrates
were vexed for his love. However, it appears that this is just
something Alkibiades has said (119c.3, 9). Socrates' love is not
released, so Alkibiades passes this, the test of Socrates' love. It is at
this point in the dialogue that one can finally discern the character of
the test. The question, really, is what constitutes a high enough
ambition. An athlete must try to find out with whom to train and fight,
for how long, how closely, and at what time (119b; 107d-108b). He
determines all of this himself; he determines, in other words, the extent
of his ambition to improve and care for himself in terms of his contest.
That with whom he fights determines how he prepares himself. The contest
is thus a standard against which to judge his achievement.
The next step appears to be obvious: for the athlete of the soul as
well as the athlete of the body, the question is with whom ought he
contest. Socrates suggests shortly that should Alkibiades' ambition be to
rule Athens, then his contest would rightly be with other rulers, namely
the Spartan kings and the Great King of Persia. Since Socrates apparently
proceeds to compare in some detail the Spartan and Persian princes'
preparations for the contest, the surface impression is that Alkibiades
really must presume his contest to be with the Persians and Spartans. The
reader remembers, however, that Alkibiades would rather die than be
limited to ruling Athens (105b-c). What is the proper contest for someone
who desires to rule the known, civilized world and to have his rule
endure beyond his own lifetime; what is the preparation requisite for
truly great politics? At this point the question of the contest assumes
an added significance. The reference cannot be any actual ruler; the
inquiry has encountered another dimension of complexity. The larger
significance is, it is suspected, connected to the earlier, discussion
about the role of the very concept of the superior man in political
philosophy, particularly in understanding the nature of man. The very
idea that a contest for which one ought to prepare oneself is with something
not actualized by men of the world (at least not in an obvious sense
since it cannot be any actual ruler) poses problems for some views of
human nature. For example, in the opinion of those who believe that man's
"nature" is simply what he actually is, or what is "out
there"; the actual men of the world and their demonstrated range of
possibilities are what indicate the nature of man. On this view, man's
nature, typically is understood to be some kind of statistical norm.
These people will agree that politics is limited by man and thought about
political things is thus limited by man's nature, but they will not concede the
necessity of looking toward the best man. The argument to counter
this position is importantly epistemological. It is almost a surety that any
specific individual will deviate from the norm to some degree, and the
difference can only be described as tending to be higher or lower than,
or more or less than, the norm. This deviation, which is to one side or
other of the norm, makes the individual either better or worse than the
norm. Thus individuals, it may be said, can be arranged hierarchically
based on their position relative to the norm and the better. Whenever
one tries to account for an individual's hierarchical position vis a vis
the norm, it is done in terms of circumstances which limit or fail to
limit his realization of his potential. Since no one is satisfied with an
explanation of a deviation such as "that is understandable, 25% of the
cases are higher than normal," some explanation of why this individual
stopped short, or proceeded further than average is called for. 100 The
implicit understanding of the potential, or of the proper/ideal
proportions, then, is what allows for comparison between individuals. By
extension, this understanding of the potential, whether or not it is
actualized, is what provides the ability to judge between regimes or
societies. The amount a polity varies (or its best men, or its average
men) from the potential is the measure of its quality relative to other
polities. The explanation of this variation (geographic location, form of
regime, economic dependency, or other standard reasons) will be in terms
of factors which limit it from nearing, or allow it to approach nearer
the goal. As it is not uniformly better to have more and not less
the normal of any characteristic, any consistent judgement of deviation
from the norm must be made in light of the best. Indeed, it usually is,
either explicitly or implicitly. This teleological basis of comparison is
the common-sensical one, the prescientific basis of judgement. When
someone is heard to remark "what a man," one most certainly
does not understand him to be suggesting that the man in question has
precisely normal characteristics. Evaluating education provides a clear
and fitting example of how the potential, not the norm, serves as the
standard for judging. A teacher does not attempt to teach his students to
conform to the norm in literary, or mathematical ability. It would be
ludicrous for him to stop teaching mid-year, say, because the normal
number of his students reached the norm of literacy for their age.
Indeed, education itself can be seen as an attempt to exceed the norm (in
the direction of excellence) and thereby to raise it. That can only be
done if there is a standard other than the norm from which to judge the
norm itself. The superior man understands this. He competes with the
best, not the norm. As a youth he comes to know that a question
central to his ambition, or will for power is that of his proper
contest. The theoretical question of how one knows with whom to
compete is very difficult although it may (for a long time) have a
straightforward practical solution. It is at the interface between the
normally accepted solution and the search for the real answer that
Alkibiades and Socrates find themselves, here in the middle of their
conversation. For most people during part of their lives, and for
many people all of their life, the next step in one's striving, the next
contestant one must face, is relatively easy to establish. Just as a
wrestler proceeds naturally from local victory through stages toward world
championship, so too does political ambition have ready referents - up to
a point. It is at that point that Alkibiades finds himself now, no
doubt partly with the help of Socrates prodding his ambitions (e.g.,
105b. ff, 105e). What had made it relatively easy to know his contestant
before were the pictures of the best men as Alkibiades understood them,
namely politically successful men, Kyros and Xerxes (much as an
ambitious wrestler usually knows that a world championship title is held
by someone in particular). Alkibiades' path had been guided. Socrates has
chosen to address Alkibiades now, perhaps because Alkibiades' ambition is
high enough that the conventional models no longer suffice. Alkibiades is
at the stage wherein he must discover what the truly best man is, actual
examples have run out. He recognizes that he needs Socrates' help (119b);
no one else has indicated that Alkibiades' contest might take place
beyond the regular sphere of politics, with contestants other than the
actual rulers of the world. But how is he to discover the best man in
order that he may compete? This is the theoretical question of most
significance to man, and could possibly be solved in a number of ways.
Within the confines of the dialogue, however, this analysis will not move
further than to recognize both the question/ and its centrality to
political philosophy. 101 To note in passing, however, there may be many
other questions behind that of the best man. There may, for example, be
more than one kind of best man, and a decision between them may involve
looking at a more prior notion of "best." At any rate, it
has been shown that it is apparently no accident that the central
question in a dialogue on the nature of man is a question by a superior
youth as to his proper contest. What is not yet understood is why a
philosophic man's eros is devoted to a youth whose erotic ambition is for
great politics, a will to power over the whole world. By means of a
thinly veiled reference to Athen's Imperial Navy, over which Alkibiades
would later have full powers as commander, Socrates attempts to illustrate
to the youth the importance of choosing and recognizing the proper contestants.
Supposing, for example, Alkibiades were intending to pilot a trireme into
a sea battle, he would view being as capable as his fellows merely a
necessary qualification. If he means to act nobly ( kalos ) for himself
and his city, he would want to so far surpass his fellows as to make them feel
only worthy enough to fight under him, not against him. It doesn't seem
fitting for a leader to be satisfied with being better than his soldiers while
neglecting the scheming and drilling necessary if his focus is the
enemy's leaders. Alkibiades asks to whom Socrates is referring and
Socrates responds with another question. Is Alkibiades unaware that their
city often wars with Sparta and the Great King? If he intends to lead
their polis, he'd correctly suppose his contest was with the
Spartan and Persian kings. His contest is not with the likes of Meidias
who retain a slavish nature and try to run the polis by flattering, not
ruling it. If he looks to that sort for his goal, then indeed he needn't
learn what's required for the greatest contest, or perform what needs
exercising, or prepare himself adequately for a political career.
Alkibiades, the best of men, has to consider the implications of believing
that the Spartan generals and the Persian kings are like all others
(i.e., no better than normal). 103 Firstly, one takes more care of
oneself if one thinks the opponents worthy, and no harm is done taking
care of oneself. Assuredly that sufficiently establishes that it is
bad to hold the opinion that they are no better than anyone else.
Almost as a second thought, Socrates turns to another criterion
which might indicate why having a certain opinion is bad - truth
(cf. Republic 386c). There is another reason, he continues, namely
that the opinion is probably false. It is likely that better
natures come from well-born families where they will in the end
become virtuous in the event they are well brought up. The Spartan and
Persian kings, descended from Perseus, the son of Zeus, are to be
compared with Socrates' and Alkibiades' ancestral lines to see if they
are inferior. 100 Alkibiades is quick to point out that his goes back to
Zeus as well, and Socrates adds that he comes from Zeus through Daidalos
and Hephaistos, son of Zeus. Since ancestral origin in Zeus won't
qualitatively differentiate the families, Socrates points out that in
both cases - Sparta and Persia - every step in the line was a king,
whereas both Socrates and Alkibiades (and their fathers) are private men.
The royal families seem to win the first round. The homelands of the
various families could be next compared, but it is likely that Alkibiades'
her itage, which Socrates is able to describe in detail,
would arouse laughter. In ancestry and in birth and breeding, those
people are superior, for, as Alkibiades should have observed, Spartan
kings have their wives guarded so that no one outside the line could
corrupt the queen, and the Persians have such awe for the king that no
one would dare, including the queen. With the conclusion of
Socrates' and Alkibiades' examination of the various ancestries of the
men, and before proceeding to the discussions of their births and nurtures, a
brief pause is called for to look at the general problem of descent and
the philosophic significance to have in this dialogue. References to
familial descent are diffused throughout the First Alkibiades . It begins
by calling attention to Alkibiades' ancestry and five times in the
dialogue is he referred to as the son of Kleinias. On two occasions he is even
addressed as the son of Deinomakhe. If that weren't enough, this
dialogue marks one of only two occasions on which Socrates' mother, the
midwife Phainarete, is named (cf. Theaitetos 149a). The central of the
things on which Socrates said Alkibiades prides himself is his family,
and Socrates scrutinizes it at the greatest length. The sons of
Perikles are mentioned, as are other familial relations such as the
brother of Alkibiades. The lineages of the Persian kings, of the Spartan
kings, of Alkibiades and Socrates are probed, and Socrates reveals that
he has bothered to learn and to repeat the details. The mothers of the
Persian kings and Spartan kings are given an important role in the
dialogue, and in general the question of ancestry is noticeably dominant,
warranting the reader's exploration. As already discussed in
the beginning, the reference to Alkibiades' descent might have philosophic
significance in the dialogue. Here again, the context of the concern
about descent is explicitly the consideration of the natures of men.
Better natures usually come from better ancestors (as long as they also
have good nurtures). At the time of birth, an individual's ancestry is
almost the only indication of his nature, the most important exception
being, of course, his sex. But, as suggested by Socrates' inclusion of
the proviso that they be well brought up (120e), a final account of man's
nature must look to ends not only origins, and to his nurture, not only
descent. Nurture ( paideia) is intended to mean a comprehensive sense of
education, including much more than formal schooling; indeed, it suggests
virtually everything that affects one's upbringing. The importance of this
facet in the development of a man's nature becomes more obvious when one
remembers the different characteristics of offspring of the same family (e.g.,
Kleinias and Alkibiades, both sons of Kleinias and Deinomakhe, or the
sons of Ariston participating in the Republic ). These suggestions, added
to the already remarked upon importance of nurture in a man's life,
mutually support the contention that nature is to be understood in terms
of a fulfilled end providing a standard for nurture. The nature of man,
if it is to be understood in terms of a telos, his fulfilled potential,
must be more than that which he is born as. An individual's nature, then,
is a function of his descent and his nurture. Often they are
supplementary, at least superficially; better families being better educated,
they are that much more aware and concerned with the nurture of their
offspring. 'Human nature' would be distinguished from any individual's
nature in so far as it obviously does not undergo nurture; but if properly
understood, it provides the standard for the nurture of individuals. To the
point of birth, then, ancestry is the decisive feature in a man's nature,
and thus sets limits on his nature. When his life begins, that turns
around, and education and practice become the key foci for a man's
development. After birth a man cannot alter his ancestry, and nurture
assumes its role in shaping his being, his nature. The
issue is addressed in a rather puzzling way by Socrates' claim that
his ancestry goes through Daidalos to Hephaistos, the son of Zeus.
This serves to establish (as authoritatively as in the case of the
others) that he is well-born. It does nothing to counter
Alkibiades' claim that he, like the Persian and Spartan kings, is
descended from Zeus (all of them claiming descent from the king of
the Olympians); in other words, it does not appear to serve a
purpose in the explicit argument and the reader is drawn to wonder
why he says it. Upon examination one discovers that this is not the
regular story. Normally in accounts of the myths, the paternal heritage of
Hephaistos is ambiguous at best . Hesiod relates that Hephaistos
was born from Hera 109 with no consort. Hera did not
mate with a man; Haphaistos had no father. 1 '*’ 0 Socrates thus
descends from a line begun by a woman - the queen of the heavens, the
goddess of marriage and childbirth (cf. Theaitetos; Statesman). By
mentioning Hephaistos as an ancestor, Socrates is drawing attention to
the feminine aspect of his lineage. An understanding of the feminine is
crucial to an account of human nature. The male/female division is the
most fundamental one for mankind, rendering humans into two groups (cf.
Symposium 190d-192d). The sexes and their attraction to each other
provide the most basic illustration of eros, perhaps man's most powerful
(as well as his most problematic) drive or passion. Other considerations
include the female role in the early nurture of children (Republic 450c)
and thus the certain, if indirect effect of sex on the polls (it is not
even necessary to add the suspicions about a more subtle part for
femininity reserved in the natures of some superior men, the
philosophers). Given this, it is quite possible that Socrates is suggesting the
importance of the male/female division in his employment of 'descent' as
an extended philosophic metaphor for human nature. A brief
digression concerning Hephaistos and Daidalos may be useful at this point.
Daidalos was a legendary ingenious craftsman, inventor and sculptor (famous for
his animate sculptures). He is said to have slain an apprentice who
showed enough promise to threaten Daidalos' supremacy, and he fled to
Krete. In Krete he devised a hollow wooden cow which allowed the queen to
mate with a bull. The offspring was the Minotaur. Daidalos constructed
the famous labyrinth into which select Athenian youths were led annually,
eventually to be devoured by the Minotaur. ^ Daidalos, however, was
suspected of supplying the youth Theseus (soon to become a great
political founder) with a means to exit from the maze and was jailed with
his son Ikaros. A well known legend tells of their flight. Minos, the
Kretan king was eventually killed in his pursuit of Daidalos.
Hephaistos was the divine and remarkably gifted craftsman of the
Olympians, himself one of the twelve major gods. Cast from the heavens as
an infant, Hephaistos remained crippled. He was, as far as can be told,
the only Olympian deity who was not of surpassingly beautiful physical
form. It is interesting that Socrates would claim descent from him.
Hephaistos was noted as a master craftsman and manufactured many wondrous
things for the gods and heroes. His most remarkable work might have been
that of constructing the articles for the defence of the noted warrior,
Akhilleus, the most famous of which was the shield (Homer, Iliad).
The next topic discussed in this, the longest speech in
the dialogue, is the nurture of the Persian youths. Subsequently
Socrates discourses about Spartan and Persian wealth and he
considers various possible reactions to Alkibiades' contest with
the young leaders of both countries. The account Socrates presents
raises questions as to his possible intentions. It is quite likely
that Socrates and Xenaphon, who also gives an account of the
nurture of the Persian prince, have more in mind than mere
interesting description. Their interpretations and presentations of
the subject differ too markedly for their purposes to have been simply to
report the way of life in another country. Thus, rather than worry
over matters of historical accuracy, the more curious features of
Socrates' account will be considered, such as the relative emphasis on
wealth over qualities of soul, and the rather lengthy speculation about
the queens', not the kings', regard for their sons. In pointed
contrast to the Athenians, of whose births the neighbors do not even
hear, when the heir to the Persian throne is born the first festivities
take place within the palace and from then on all of Asia celebrates his
birthday. The young child is cared for by the best of the king's eunuchs,
instead of an insignificant nurse, and he is highly honored for shaping
the limbs of the body. Until the boy is perhaps seven years old, then,
his attendant is not a woman who would provide a motherly kind of care,
nor a man who would provide an example of masculinity and manliness, but
a neutered person. The manly Alkibiades, as well as the reader, might
well wonder as to the effect this would have on the boy, and whether it
is the intended effect. At the age of seven the boys learn to ride
horses and commence to hunt. This physical activity, it seems, continues
until the age of fourteen when four of the most esteemed Persians become the
boys' tutors. They represent four of the virtues, being severally
wise, just, temperate, and courageous. The teaching of piety is conducted
by the wisest tutor of the four (which certainly allows for a number of
interesting possibilities) . He instructs the youth in the religion of
Zoroaster, or in the worship of the gods, and he teaches the boy that
which pertains to a king - certainly an impressive task. The just tutor
teaches him to be completely truthful (122a); the temperate tutor to be
king and free man overall of the pleasures and not to be a slave to
anyone, and the brave tutor trains him to be unafraid, for fear is
slavery. Alkibiades had instead an old (and therefore otherwise
domestically useless) servant to be his tutor. Socrates suspends
discussion of the nurture of Alkibiades' competitors. It would promise to
be a long description and too much of a task (122b). He professes that
what he has already reported should suggest what follows. Thereby
Socrates challenges the reader to examine the manner in which this
seemingly too brief description of nurture at least indicates what a
complete account might entail. This appears to be the point in the
dialogue which provides the most fitting opportunity to explicitly and
comprehensively consider nurture. It has become clear to Socrates and
Alkibiades that the correct nurture is essential to the greatest contest,
and Socrates leaves Alkibiades (and the reader) with the impression that
he regards the Persian nurture to be appropriate. One might thus presume
that an examination of Persian practices would make apparent the more
important philosophical questions about nurture. Socrates had been
specific in noticing the subjects of instruction received by Alkibiades
(106e), and the reader might follow likewise in observing the lessons of
the Persian princes. On the face of it, Socrates provides more detail
regarding this aspect of their nurture than others, so it might be
prudent to begin by reflecting upon the teaching of religion and kingly
things, of truth-telling, of mastering pleasures, and of mastering fears.
Perhaps the Persian system indicates how these virtues are properly seen
as one, or how they are arranged together, for one suspects that conflicts
might normally arise in their transmission. These subjects are being
taught by separate masters. A consistent nurture demands that they are
all compatible, or that they can agree upon some way of deciding
differences. If the four tutors can all recognize that one of them ought
to command, this would seem to imply that wisdom somehow encompasses all other
virtues. In that case, the attendance of the one wise man would appear to
be the most desirable in the education of a young man. The wise man's
possession of the gamut of virtues would supply the prince with a model
of how they properly fit together. Without a recognized hierarchy, there might
be conflicts between the virtues. Indeed, as the reader has had occasion
to observe in an earlier context of the dialogue, two of the substantive
things taught by two different tutors may conflict strongly. There are
times when a king ought not to be honest. The teacher of justice then
would be suggesting things at odds with that which pertains to a king.
How would the boys know which advice to choose, independently of any
other instruction? In addition, Socrates suggests that the bravest
Persian (literally the 'manliest') tells or teaches the youth to fear
nothing, for any fear is slavery. But surely the expertise of the
tutor of courage would seem to consist in his knowing what to fear and what not
to fear. Otherwise the youth would not become courageous but reckless.
Not all fears indicate that one is a slave: any good man should run out
of the way of a herd of stampeding cattle, an experienced mountain
climber is properly wary of crumbling rock, and even brave swimmers ought
to remain well clear of whirlpools. For this to be taught it appears that
the courageous tutor would have to be in agreement with the tutor of
wisdom. These sorts of difficulties seem to be perennial, and a system of
nurture which can overcome them would provide a fine model, it seems, for
education into virtues. If the Persian tutors could indeed show the virtues
to be harmonious, it would be of considerable benefit to Alkibiades to
understand precisely how it is accomplished. The question of what
is to be taught leads readily to a consideration of how to determine who is to
teach. The problem of ascertaining the competence of teachers seems to be
a continuing one (as the reader of this dialogue has several occasions to
observe - e.g., llOe, ff.). But besides their public reputation there is
no indication of the criteria employed in the selection of the Persian
tutors. To this point in the dialogue, two criteria have been
acknowledged as establishing qualification for teaching (or for the knowledge
requisite for teaching). Agreement between teachers on their subject matter
(lllb-c) is important for determining who is a proper instructor, as is a
man's ability to refer to knowledgeable students (118d). As has already
been indicated, both of these present interesting difficulties. Neither,
however, is clearly or obviously applicable to the Persian situation. The
present king might prove to be the only student to whom they can point
(in which case they may be as old as Zopyros) and he might well be the
only one in a position to agree with them. It is conceivable that some
kinds of knowledge are of such difficulty that one cannot expect too many
people to agree. If the Persians have indeed solved the problems of
choosing tutors, and of reconciling public reputation for virtue with
actual possession of virtue, they have overcome what appears to be a most
persistent difficulty regarding human nurture. Another issue which
surfaces in Socrates' short account of the Persian educational system is
that of the correct age to begin such nurture. Education to manhood
begins at about the age of puberty for the prince. If the virtues are not
already quite entrenched in his habits or thoughts (in which latter case
he would have needed another source of instruction besides the tutors -
as perhaps one might say the Iliad and Odyssey provide for Athenian
youths such as Alkibiades), it is doubtful that they could be inculcated
at the age of fourteen. Socrates is completely silent about the Persians'
prior education to virtue, disclosing only that they began riding horses and
participating in "the hunt." Since both of those activities
demand some presence of mind, one may presume that early Persian
education was not neglected. This earliest phase of education is of the
utmost importance, however, for if the boy had been a coward for fourteen
years, one might suspect tutoring by a man at that point would not likely
make him manly. And to make temperate a lad accustomed to indulgence
would be exceedingly difficult. Forcibly restricting his consumption
would not have a lasting effect unless there were some thing to draw upon
within the understanding of the boy, but Socrates supplies Alkibiades
with no hint as to what that might be. Presently the young man will be
reminded of Aesop's fables and the various stories that children hear.
If, in order to qualify as proper nurturing, such activities as children
participate in - e.g., music and gymnastics - ought to be carried out in
a certain mode or with certain rules (cf. Republic), Socrates gives no
indication of their manner here. Unless stories and activities build a
respect for piety and justice, and the like, it is not obvious that the
respect will be developed when someone is in his mid-teens. It would seem
difficult, if not impossible, to erase years of improper musical and
gymnastic education. Socrates remains distressingly silent about so very
much of the Persian (or proper) method of preparing young men for the
great contest. The only one who would care about Alkibiades 1
birth, nurture or education, would be some chance lover he happened to
have, Socrates says in reference to his seemingly unique interest in
Alkibiades' nature. He concludes what was presumably the account of the
education of the Persian princes, intimating that Alkibiades would be
shamed by a comparison of the wealth, luxury, robes and various
refinements of the Persians. It is odd that he would mention such items
in the context immediately following the list of subjects the tutors were
to teach in the education of the soul of the king - including the
complete mastery of all pleasure. It is even more curious that he would
deign to mention these in the context of making Alkibiades sensitive to
what was required for his preparation for his proper contest. The
historical Alkibiades, it seems, would not be so insensitive to these
luxuries as to need reminding of them, and the dialogue to this point has not
given any indication that these things of the body are important to the
training Alkibiades needs by way of preparing for politics. The fact that
Socrates expressly asserts that Alkibiades would be ashamed at having
less of those things corroborates the suggestion that more is going on in
this long speech than is obvious at the surface. Briefly, and
in a manner that doesn't appear to make qualities of soul too appealing,
Socrates lists eleven excellences of the Spartans: temperance,
orderliness, readiness, easily contented, great-mindedness,
well-orderedness, manliness, patient endurance, labor loving, contest
loving and honor loving. Socrates neither described these glowingly, nor
explains how the Spartans come to possess them. He merely lists them.
Then, interestingly, he remarks that Alkibiades in comparison is a child
. He does not say that Alkibiades would be ashamed, or that he would
lose, but that he had somehow not yet attained them. Like some children
presumably, he may have the potential to grow into them if they are part
of the best nature. There is no implication, then, that Alkibiades'
nature is fundamentally lacking in any of these virtues, and this is of
special interest to the reader given the more or less general agreement,
even during his lifetime, as to his wantonness. Socrates here suggests
that Alkibiades is like a child with respect to the best
nature. This part of Socrates' speech reveals two possible
alternatives to the Persian education, alternatives compatible with the
acquisition of virtue. A Spartan nurture was successful in giving
Spartans the set of virtues Socrates listed. Since Alkibiades obviously
cannot regain the innocence necessary to benefit from early disciplined
habituation, and since Socrates nevertheless understands him to be able
to grow into virtue in some sense, there must be another way open to him.
This twenty year old "child" has had some early exposure to
virtue, at least through poetry, and perhaps it is through this youthful
persuasion that Socrates will aid him in his education. Indeed Socrates
appeals often to his sense of the honorable and noble - which is related
to virtue even if improperly understood by Alkibiades. As the dialogue
proceeds from this point/ Socrates appears to be importantly concerned
with making Alkibiades virtuous through philosophy. He is trying to
persuade Alkibiades to let his reason rule him in his life, most
importantly in his desire to know himself. Perhaps, on this account, one
might acquire virtue in two ways, a Spartan nurture, for example, and
through philosophy. Again, however, Socrates stops before he has
said everything he might have said, and turns to the subject of wealth.
In fact, Scorates claims that he must not keep silent with regard to
riches if Alkibiades thinks about them at all. Thus, according to
Socrates, not only is it not strange to turn from the soul to wealth, but
it is even appropriate. Socrates must attest to the riches of Spartans,
who in land and slaves and horses and herds far outdo any estate in
Athens, and he most especially needs to report on the wealth of gold and
silver privately held in Lakedaimon. As proof for this assertion, which
certainly runs counter to almost anyone's notion of Spartan life,
Socrates uses a fable within this fabulous story. Socrates
assumes Alkibiades has learned Aesop's fables - somehow - for without
supplying any other details he simply mentions that there are many tracks
of wealth going into Sparta and none coming out. In order to explain
Socrates' otherwise cryptic remarks, the children's fable will be
recounted. Aesop's story concerns an old lion who must eat by his wits
because he can no longer hunt or fight. He lies in a cave pretending to
be ill and when any animals visit him he devours them. A fox eventually
happens by, but seeing through the ruse he remains outside the cave.
When ths lion asks why he doesn't come in, the fox responds that he sees
too many tracks entering the cave and none leaving it. The
lion and the fox represent the classic confrontation between power and
knowledge. 114 One notices that in the fable the animals generally
believe an opinion that proves to be a fatal mistake. The fox doesn't. He
avoids the error. The implication is that Socrates and Alkibiades have
avoided an important mistake that the rest of the Greeks have made. One
can only speculate on what it is precisely. They seem to be the only ones
aware of one of Sparta's qualities, a quality which, oddly, is in some
sense essential to Alkibiades' contest. Perhaps Socrates' use of the
fable merely suggests that erroneous opinions about the nature of one's
true contestant may prove fatal, but there may be more to it than
that. This fable fittingly appears in the broad context of
nurture; myths and fables are generally recognized for their pedagogic
value. Any metaphoric connection this fable brings to mind with the more
famous Allegory of the Cave in Plato's Republic will necessarily be
speculative. But they are not altogether out of place. The cave, in a
sense, represents the condition of most people's nurtures and thus
represents a fitting setting for a fable related in this dialogue. Given
Socrates' fears of what will happen to Alkibiades (132a, 135e) and
Alkibiades' own concern for the demos, the suggested image of people
(otherwise fit enough to be outside) being enticed into the cave and
unable to leave it might be appropriate. At any rate, in
terms of the argument for Sparta's wealth, this evidence does nothing to
show that the wealth is privately held. It is apparent, after all, that
the evidence indicates gold is pouring into Spsi’ts. from all over
Greece, but not coining' out of the country, whereas Socrates seems to
interpret this as private, not public wealth. Perhaps the reader may
infer from this that a difference between city and man is being subtly
implied. Socrates is suggesting that wealth is an important part of the
contest, and yet he includes himself in the contest at a number of
points. This rather inconclusive and ambiguous reference to the wealth of
Sparta and the Spartans might suggest that the difference between the
city and man regarding riches, may be that great wealth is good for a
city (for example, as Thucydides observes, wealth facilitates warmaking),
and is thus something a ruler should know how to acquire - but not so
good for an individual. Socrates' next statement supports this
interpretation. A king's being wealthy might not mean that he uses it
privately. Socrates informs Alkibiades that the king possesses the most
wealth of any Spartans for there is a special tribute to him (123a- b) .
In any case, however great the Spartan fortunes appear compared with the
fortunes of other Greeks, they are a mere pittance next to the Persian
king's treasures. Socrates was told this himself by a trustworthy person
who gathered his information by travelling and finding out what the local
inhabitants said. Socrates treats this as valuable information, yet
which, given his chosen way of life, he couldn't have acquired
firsthand. Large tracts of land are reserved for adorning the
Persian queen with clothes, individual items having land specially set
aside for them. There were fertile regions known as the "king's
wife's girdle," veil, etc.Certainly an indication of wealth, it also
seems to suggest a wanton luxury, especially on the part of women (and
which men flatter with gifts). Returning to the supposed
contest between Alkibiades and the Spartan and the Persian kings, Socrates
adopts a very curious framework for the bulk of the remainder of this
discourse. He continues in terms of the thoughts of the mother of the
king and proceeds as though she were, in part, in a dialogue with
Alkibiades 1 mother, Deinomakhe. If she found out that the son of
Deinomakhe was challenging her son, the king's mother, Amestris, would
wonder on what Alkibiades could be trusting. The manner in which Socrates
has the challenge introduced to Amestris does not reveal either of the
men's names. Only their mothers are referred to - and the cost of the
mothers' apparel seems to be as important to the challenge or contest as
the size of the sons' estates. Only after he is told that the barbarian
queen is wondering does the reader find out that her son's name is
Artaxerxes and that she is aware that it is Alkibiades who is
challenging her son. She might well have been completely ignorant of the
existence of Deinomakhe's family, or she may have thought it was
Kleinias, the madman (118e), who was the son involved. Since there is no
contest with regards to wealth - either in land or clothing - Alkibiades
must be relying on his industry and wisdom - the only thing the Greeks
have of any worth. Perhaps because she is a barbarian, or because
of some inability on her part, or maybe some subtlety of the Greeks, she
doesn't recognize the Greeks' speaking ability as one of their greatest
accomplishments. Indeed, both in the dialogue and historically, it was
his speaking ability on which Alkibiades was to concentrate much of his
effort, and through which he achieved many of his triumphs. Greeks in
general and Athenians in particular spent much time cultivating the art
of speaking. Sophists and rhetoricians abounded. Rhapsodists and actors
took part in the many dramatic festivals at Athens. Orators and
politicians addressed crowds of people almost daily Cor so it
seems). Socrates continues. If she were to be informed (with
reference to Alkibiades' wisdom and industriousness) that he was not yet
twenty, and was utterly uneducated, and further, was quite satisfied with
himself and refused his lover's suggestion to learn, take care of himself and
exercise his habits before he entered a contest with the king, she would
again be full of wonder. She would ask to what the youth could appeal and
would conclude Socrates and Alkibiades (and Deinomakhe) were mad if they
thought he could contend with her son in beauty ( kalos ), stature,
birth, wealth, and the nature of his soul (123e). The last quality, the
nature of the soul, has the most direct bearing on the theme of the
dialogue, and as the reader remembers, is the promised but not previously
included part of the list of reasons for Alkibiades' high opinion of
himself (104a. ff.). Since it is also the most difficult to evaluate, one
might reasonably wonder what authority Amestris' judgement commands. It
is feasible for the reader to suspect that this is simply Socrates'
reminder that a mother generally favors her own son. But perhaps her
position and experience as wife and mother to kings enables her in some
sense to judge souls. Lampido, another woman, the daughter,
wife and mother of three different kings, would also wonder, Socrates
proposes, at Alkibiades' desire to contest with her son, despite his
comparatively ignoble ( kakos ) upbringing. Socrates closes the
discussion with the mothers of kings by asking Alkibiades if it is not
shameful that the mothers and wives (literally, "the women belonging
to the kings ) of their enemies have a better notion than they of the
qualities necessary for a person who wants to contend with
them. The problem of understanding human nature includes centrally
the problem of understanding sex and the differences between men and
women. Thus political philosophy necessarily addresses these matters.
Half of a polity is made up of women and the correct ordering of a polity
requires that women, as well as men, do what is appropriate. However,
discovering the truth about the sexes is not simple in any event, partly
at least because of one's exclusion from personal knowledge about the
other sex; and it has become an arduous task to gather honest opinions
from which to begin reflecting. The discussion of women in this
central portion of the dialogue is invested with political significance
by what is explored later regarding the respective tasks of men and women
(e.g., 126e-127b). Before proceeding to study the rest of this long
speech, it may be useful to briefly sketch two problem areas. Firstly the
outline of some of the range of philosophic alternatives presented by
mankind's division into two sexes will be roughly traced out. This will
foreshadow the later discussion of the work appropriate to the sexes.
Secondly, a suggestion shall be ventured as to one aspect of how 'wonder'
and philosophy may be properly understood to have a feminine element - an
aspect that is connected to a very important theme of this dialogue.
Thus, in order to dispel some of the confusion before returning to
the dialogue, the division of the sexes may imply, in terms of an
understanding of human nature, that there is either one ideal that both
sexes strive towards, or there is more than one. If there is one goal or
end, it might be either the 'feminine,' the 'masculine, a combination of the
traits of both sexes, or a transcendent "humanness" that rises
above sexuality. The first may be dismissed unless one is willing to posit
that everything is "out-of-whack" in nature and all the wrong
people have been doing great human deeds. Traditionally, the
dominant opinion has implicitly been that the characteristics of 'human'
are for the most part those called 'masculine', or that males typically
embody these characteristics to a greater extent. Should this be correct,
then one may be warranted in considering nature simply "unfair"
in making half of the people significantly weaker and less able to attain
those characteristics. Should the single ideal for both sexes be a combination
of the characteristics of both sexes, still other difficulties arise. A
normal understanding of masculine and feminine refers to traits that are
quite distinct; those who most combine the traits, or strike a mean,
appear to be those who are most sexually confused. The other
possibility mentioned was that there be two (or more) sets of
characteristics - one for man and one for woman. The difficulty with this
alternative is unlike the difficulties encountered in the one- model
proposal. One problem with having an ideal for each sex, or even with
identifying some human characteristics more with one sex than the other,
is that all of the philosophic questions regarding the fitting place of
each sex still remain to be considered. Some version of this latter
alternative seems to be endorsed later in the First Alkibiades. There it
is agreed £md agreement frequently is the most easily met of the
suggested possible criteria of knowledge mentioned in the dialogue) that
there are separate jobs for men and women. Accordingly, men and women are
said to be rightly unable to understand each other's jobs and thus cannot
agree on matters surrounding those jobs. One of the implications of
this, however, unmentioned by either Socrates or Alkibiades, is that women
therefore ought not to nurture young sons. A woman does not and cannot
grasp what it is to be a man and to have manly virtue. Thus they cannot
raise manly boys. However, this is contrary to common sense. One would
think that if there was any task for which a woman should be suited (even
if it demands more care than is often believed) it would be motherhood.
Because of this a mother would have to learn a man's business if she
would bear great sons. At this point the problems of the surface account
of the First Alkibiades become apparent to even the least reflective
reader. If it is the same task, or if the same body of knowledge
(or opinion) is necessary for being a great man as for raising a great
man, then at least in one case the subjects of study for men and women
are not exclusive. Women dominate the young lives of children. They must
be able to turn a boy's ambitions and desires in the proper direction
until the menfolk take over. Since it would pose practical problems for
her to attempt to do so in deed, she must proceed primarily through
speech, including judicious praise and blame, and that is why the fables and
myths women relate ought to be of great concern to the men (cf. for
example. Republic). If, on the other hand, it requires completely
different knowledge to raise great sons than it does to be great men, then
men, by the argument of the dialogue should not expect to know women's
work. If this is the proper philosophic conclusion the reader is to
reach, then it is not so obviously disgraceful for the womenfolk to know
better than Socrates and Alkibiades what it takes to enter the contest
(124a). The disgrace, it seems, would consist in being unable to see the
contradictions in the surface account of the First Alkibiades, and thus
not being in a position to accept its invitation to delve deeper into
the problem of human nature. At this point a speculation may
be ventured as to why, in this dialogue, wonder takes on a feminine
expression, and why elsewhere. Philosophy herself is described as
feiminine Ce.g., Republic 495-b-c, 536c, 495e; Gorgias 482a; cf.
also Letter VII 328e, Republic 499c-d, 548b-c, 607b). One might say
that a woman's secretiveness enhances her seductiveness. Women are
concerned with appearance (cf. 123c; the very apparel of the
mothers of great sons is catalogued) . Philosophy and women may be more
alluring when disclosure ("disclothesure") of their innermost
selves requires a certain persistence on the part of their suitors.
Philosophy in its most beguiling expression is woman-like. When
subtle and hidden, its mystery enhances its attractiveness. Perhaps it
will be suggested - perhaps for great men to be drawn to philosophy she
must adopt a feminine mode of expression, in addition to the promise of a
greater power; if viewed as a goddess she must be veiled, not wholly
naked. To further explore the analogue in terms of expression, one
notices that women are cautious of themselves and protective of their
own. They are aware, and often pass this awareness on to men that in some
circles they must be addressed or adorned in a certain manner in order to
avoid ridicule and appear respectable. As well, a woman's protection of
her young is expected. Philosophy, properly expressed, should be careful
to avoid harming the innocent; and a truly political philosopher should
be protective of those who will not benefit from knowing the truth. If
the truth is disruptive to the community, for example, he should be
most reluctant to announce it publicly. The liberal notion that every
truth is to be shared by all might be seen to defeminize philosophy.
Women, too in speech will lie and dissemble to protect their own; in deed,
they are more courageous in retreat, able to bear the loss of much in
order to ensure the integrity of that of which they are certain is of
most importance. Political philosophy is not only philosophy about
politics; it is doing (or at least expressing) all of one's
philosophizing in a politic way. Its expression would be
"feminine." This suggestion at least appears to square with the
role of women in the dialogue. It accounts for the mothers' lively
concern over the welfare and status of the powerful; it provides a possible
understanding of how the 'masculine' and 'feminine' may have
complementary tasks; it connects the female to 'wonder'; it lets the
reader see the enormous significance of speech to politics; it reminds
one of the power of eros as a factor in philosophy, in politics, in
Socrates' attraction to Alkibiades, and in man's attraction to
philosophy; it helps to explain why both lines of descent, the maternal
as well as the paternal, are emphasized in the cases of the man coveting
power and the man seeking knowledge. Through the very expression of either,
politics and philosophy become interconnected. Socrates addresses
Alkibiades as a blessed man and tells him to attend him and the Delphic
inscription, "know thyself." These people (presumably Socrates
is referring to the enemy, with whose wives they were speaking; however,
the analysis has indicated why the referent is left ambiguous: there is a
deeper sense of 'contest' here than war with Persians and Spartans) are
Socrates' and Alkibiades' competitors, not those whom Alkibiades thinks.
Only industriousness and techne will give them ascendancy over their real
competitors. Alkibiades will fail in achieving a reputation among Greeks
and barbarians if he lacks those qualities. And Socrates can see that
Alkibiades desires that reputation more than anyone else ever loved
anything. The reader may have noticed that the two qualities
Socrates mentions are very similar to the qualities of the Greeks mentioned by
the barbarian queen above. Socrates is implicitly raising the Greeks
above the barbarians by making the Greek qualities the most important,
and he diminishes the significance of their victory in terms of wealth
and land. He thus simultaneously indicts them on two counts. They
do not recognize that Alkibiades is their big challenge, sothey are in
the disgraceful condition of which Alkibiades was accused, namely not
having an eye to their enemies but to their fellows. By raising the Greek
virtues above the barbarian qualities, Socrates throws yet more
doubt on the view that they are indeed the proper contestants for
Alkibiades. It is interesting that the barbarian queen knew or believed
these were the Greek's qualities but she did not correctly estimate their
importance. Another wonderful feature of this longest speech in the
First Alkibiades is the last line: "I believe you are more desirous
of it than anyone else is of anything," (124b). Socrates ascribes to
Alkibiades an extreme eros . It may even be a stranger erotic attraction
or will to power than that marked by Socrates' eros for Alkibiades. But
the philosopher wants to help and is able to see Alkibiades' will.
Socrates even includes himself in the contest. Socrates is indeed a
curious man. So ends the longest speech in the dialogue.
Alkibiades agrees. He wants that. Socrates' speech seems very true.
Alkibiades has been impressed with Socrates' big thoughts about politics,
for Socrates had indicated that he is familiar enough with the greatest
foreign political powers to make plausible/credible his implicit is* orf or
explicit criticism of them. Socrates has also tacitly approved of
Alkibiades 1 ambitions to rule not only Athens, but an empire over the
known world. Alkibiades must be impressed with this sentiment in
democratic Athens. In addition to all this, Socrates has hinted to the
youth that there is something yet bigger. Alkibiades requests Socrates'
assistance and will do whatever Socrates wants. He begs to know what is
the proper care he must take of himself. Socrates echoes
Alkibiades' sentiment that they must put their heads together
(124c; cf. 119b). This is an off-quoted line from Homer's Iliad. In the
Iliad the decision had been made- that information must be attained
from and about the Trojans by spying on their camp. The brave warrior,
Diomedes, volunteered to go, and asked the wily Odysseus to accompany
him. Two heads were better than one and the best wits of all the Greek
heroes were the wits of Odysseus. Diomedes recognized this and suggested
they put their heads together as they proceed to trail the enemy to their
camp, enter it and hunt for information necessary to an Akhaian
victory. Needless to say, the parallels between the Homeric
account, the situation between Alkibiades and Socrates, and the Aesopian
fable, are intriguing. When Alkibiades uttered these lines previously, it
was appropriate in that he requested the philosopher (the cunning man) to
go with him. Alkibiades and Socrates, like Diomedes and Odysseus, must
enter the camp of the enemy to see what they were up against in this
contest of contests, so to speak. Alkibiades, assuming the role of
Diomedes, in a sense initiated the foray although an older, wiser man had
supplied the occasion for it. Alkibiades had to be made to request
Socrates' assistance. The part of the dialogue following Alkibiades's quoting
of Homer was a discussion of the contest of the superior man and
ostensibly an examination of the elements of the contest. They thoroughly
examined the enemy in an attempt to understand the very nature of this
most important challenge. This time, however, the wilier one
(Socrates/Odysseus) is asking Alkibiades/Diomedes to join heads with him.
The first use of the quote served to establish the importance of its link
to power and knowledge. The second mention of the quote is perhaps
intended to point to a consideration of the interconnectedness of power and
knowledge. In what way do power and knowledge need each other? What draws
Socrates and Alkibiades together? The modern reader, unlike
the Athenian reader, might find an example from Plato more helpful
than one from Homer. Some of the elements of the relationship are
vividly displayed in the drama of the opening passages of the
Republic . The messenger boy runs between the many strong and the few 120
... wise. His role is similar to that of the auxiliary class of
the dialogue but is substantively reversed. Although he is the
go-between who carries the orders of one group to the other and has the
ability to use physical means to execute those orders (he causes Socrates
literally to "turn around," and he takes hold of Socrates'
cloak), he is carrying orders from those fit to be ruled to those fit to
rule. What is especially interesting is the significance of these opening lines
for the themes of the First Alkibiades . The first speaker in the
Republic provides the connection between the powerful and the wise . And he
speaks to effect their halt. There has to be a compromise between those who
know but are fewer in number, and those who are stronger and more numer
ous but are unwise. The slave introduces the problem of the
competing claims to rule despite the fact that he has been conventionally
stripped of his. Polemarkhos, on behalf of the many (which
includes a son of Ariston) uses number and strength as his claims over
the actions of Socrates and Glaukon. Socrates suggests that speech opens
up one other possibility. Perhaps the Few could persuade the Many. He
does not suggest that the many use speech to persuade the few to remain
(although this is what in fact happens when Adeimantos appeals to the
novelty of a torch race). Polemarkhos asks "could you really
persuade if we don't listen?" and by that he indicates a limit to
the power of speech. Later in the dialogue it is interesting that
the two potential rulers of the evening's discussion, Thrasymakhos and
Socrates, seem to fight it out with words or at least have a contest. The
general problem of the proper relation between strength and wisdom might
be helpfully illuminated by close examination of examples such as those
drawn from the Republic, the Iliad and Aesop's fable. In any
event, Socrates and Alkibiades must again join heads. Presumably, the reader
may infer, the examination of the Spartans and Persians was insufficient.
(That was suspected from the outset because Alkibiades would rather die
than be limited to Athens. Sparta and Persia would be the proper
contestants for someone intending only to rule Europe.) Perhaps they will now
set out to discover the real enemy, the true contestant. The remainder of
the dialogue, in a sense, is a discussion of how to combat ignorance of
oneself. One might suggest that this is, in a crucial sense, the enemy of
which Alkibiades is as yet not fully aware. Socrates, by switching
his position with Alkibiades vis-a-vis the guote, reminds the reader that
Odysseus was no slouch at courage and that Diomedes was no fool. It also
foreshadows the switch in their roles made explicit at the end of the
dialogue. But even more importantly, Socrates tells Alkibiades that he is
in the same position as Alkibiades. He needs to take proper care of
himself too, and requires education. His case is identical to Alkibiades'
except in one respect. Alkibiades' guardian Perikles is not as good as
Socrates' guardian god, who until now guarded Socrates against talking
with Alkibiades. Trusting his guardian, Socrates is led to say that
Alkibiades will not be able to achieve his ambitions except through
Socrates. This rather enigmatic passage of the First Alkibiades
(124c) seems to reveal yet another aspect of the relation between
knowledge and power. If language is central to understanding knowledge
and power, it is thus instructive about the essential difference, if
there is one, between men who want power and men who want knowledge.
Socrates says that his guardian (presumably the daimon or god, 103a-b,
105e), who would not let him waste words (105e) is essentially what makes
his case different than that of Alkibiades. In response to Alkibiades'
question, Socrates only emphasizes that his guardian is better than
Perikles, Alkibiades' guardian, possibly because it kept him silent until
this day. Is Socrates perhaps essentially different from Alkibiades
because he knows when to be silent? The reader is aware that according to
most people, Socrates and Alkibiades would seem to differ on all
important grounds. Their looks, family, wealth and various other features
of their lives are in marked contrast. Socrates, however, disregards them
totally, and fastens his attention on his guardian. And the only thing
the reader knows about his guardian is that it affects Socrates'
speech. Socrates claims that because he trusts in the god he is
able to say (he does not sense opposition to his saying) that Alkibiades
needs Socrates. To this Alkibiades retorts that Socrates is jesting
or playing like a child. Not only may one wonder what is being
referred to as a 121 jest, but one notices that Socrates
surprisingly acknowledges that maybe he is. He asserts, at any
rate, he is speaking truly when he remarks that they need to take care of
themselves - all men do, but they in particular must. Socrates thereby
firmly situates himself and Alkibiades above the common lot of men. He
also implies that the higher, not the lower, is deserving of extra care.
Needless to say, the notion that more effort is to be spent on making the
best men even better is quite at odds with modern liberal views.
Alkibiades agrees, recognizing the need on his part, and Socrates
joins in fearing he also requires care. The answer for the comrades
demands that there be no giving up or softening on their part. It would
not befit them to relinquish any determination. They desire to become as
accomplished as possible in the virtue that is the aim of men who are
good in managing affairs. Were one concerned with affairs of horsemanship, one
would apply to horsemen, just as if one should mean nautical affairs one
would address a seaman. With which men's business are they concerned,
queries Socrates. Alkibiades responds assured that it is the affairs of
the gentlemen ( kalos kai agathos) to whom they must attend, and these
are clearly the intelligent rather than the unintelligent. Everyone
is good only in that of which he has intelligence (125a). While the
shoemaker is good at the manufacture of shoes, he is bad at the making of
clothing. However, on that account the same man is both bad and good and
one cannot uphold that the good man is at the same time bad (but cf.
116a). Alkibiades must clarify whom he means by the good man. By altering
the emphasis of the discussion to specific intelligence or skills,
Socrates has effectively prevented Alkibiades from answering "gentlemen"
again, even if he would think that the affairs of gentlemen in
democracies are the affairs with which a good ruler should be concerned.
Given his purported ambitions, it is understandable that Alkibiades
thinks good men are those with the power to rule in a polis (125b). Since
there are a variety of subjects over which to rule, or hold power,
Socrates wants to clarify that it is men and not, for example, horses, to
which Alkibiades refers. Socrates undoubtedly knew that Alkibiades meant
men instead of horses; the pestiness of the question attracts the
attention of the reader and he is reminded of the famous analogy of the
city made by Socrates in the Apology . Therein, the city is likened to a
great horse ( Apology 30e). It would thus not be wholly inappropriate to
interpret this bizarre question in a manner which, though not apparent to
Alkibiades, would provide a perhaps more meaningful analysis. Socrates might be
asking Alkibiades if he intends to rule a city or to rule men (in a
city). It is not altogether out of place to adopt the analogy here;
corroborating support is given by the very subtle philosophic
distinctions involved later in distinguishing ruling cities from ruling
men (cf. 133e). For example, cities are not erotic, whereas men are;
cities can attain self-sufficiency, whereas men cannot. It does not
demand excessive reflection to see how erotic striving and the
interdependency of men affects the issues of ruling them. What is good
for a man, too, may differ from what is good for a city (as mentioned
above with reference to wealth), and in some cases may even be
incompatible with it. These are all issues which demand the consideration
of rulers and political thinkers. Additional endorsement for the suitability
of the analogy between city and man for interpreting this passage, is
provided by Socrates in his very next statement. He asks if Alkibiades
means ruling over sick men (125b). Earlier (107b-c) the two had been
discussing what qualified someone to give advice about a sick city.
Alkibiades doesn't mean good rule to be ruling men at sea or while
they are harvesting (though generalship and farming, or defence and
agriculture, are essential to a city). He also doesn't conclude that good
rule is useful for men who are doing nothing (as Polemarkhos is driven to
conclude that justice is useful for things that are not in use - Republic
333c-e). In a sense Alkibiades is right. Rulers rule men when they are
doing things such as transacting business, and making use of each other
and whatever makes up a political life. But rule in a precise, but
inclusive, sense is also rule over men when they are inactive. The
thoughts and very dreams are ruled by the true rulers, who have controlled or
understood all the influences upon men. Socrates fastens onto one
of these and tries to find out what kind of rule Alkibiades means
by ruling over men who make use of men. Alkibiades does not mean
the pilot's virtue of ruling over mariners who make use of rowers,
nor does he mean the chorus teacher who rules flute players who lead
singers and employ dancers; Alkibiades means ruling men who share life as
fellow citizens and conduct business. Socrates inquires as to which techne
gives that ability as the pilot's techne gives the ability to rule fellow
sailors, and the chorus teacher's ability to rule fellow singers. At this
point the attentive reader notices that Socrates has slightly altered the
example. He has introduced an element of equality. When the consideration
of the polis was made explicit, the pilot and chorus teacher became
"fellows" -"fellow sailors" and
"fellow singers." This serves at least to suggest that
citizenship in the polis is an equalizing element in political life. To
consider oneself a fellow citizen with another implies a kind of
fraternity and equality that draws people together. Despite, say, the
existence of differences within the city, people who are fellow citizens
often are closer to each other than they are to outsiders who may
otherwise be more similar. There is another sense in which
Socrates' shift to calling each expert a "fellow" illuminates
something about the city. This is discovered when one wonders why Socrates
employed two examples - the chorus teacher and the pilot. One
reason for using more than a single example is that there is more than
one point to illustrate. It is then up to the reader to scrutinize the
examples to see how they importantly differ. The onus is on the reader,
and this is a tactic used often in the dialogues. Someone is much more
likely to reflect upon something he discovered than something that is unearthed
for him. One important distinction between these two technae is that a
pilot is a "fellow sailor" in a way that the chorus teacher is
not a "fellow singer." Even in the event a pilot shares in none
of the work of the crew rules (as the chorus teacher need not actually
sing), if the ship sinks, he sinks with it. So too does the ruler of a
city fall when his city falls. This is merely one aspect of the analogy
of the ship-of-state, but it suffices to remind one that the ruler of a
polity must identify with the polity, perhaps even to the extent that he sees
the fate of the polity as his fate (cf. Republic 412d). Perhaps more
importantly, there is a distinction between the chorus master and the
pilot which significantly illuminates the task of political rule. A pilot
directs sailors doing a variety of tasks that make sailing possible#
whereas the chorus master directed singers performing in unison . Perhaps
political rule is properly understood as involving both. Alkibiades
suggests that the techne of the ruler (the fellow- citizen) is good
counsel# but as the pilot gives good not evil counsel for the
preservation of his passengers, Socrates tries to find out what end the
good counsel of the ruler serves. Alkibiades proposed that the good
counsel is for the better management and preservation of the polis.
In the next stage of the discussion Socrates makes a number of
moves that affect the outcome of the argument but he doesn't make a point
of explicating them to Alkibiades. Socrates asks what it is that becomes
present or absent with better management and preservation . He suggests
that if Alkibiades were to ask him the same question with respect to the
body, Socrates would reply that health became present and disease absent.
That is not sufficient. He pretends Alkibiades would ask what happened in
a better condition of the eyes# and he would reply that sight came and
blindness went. So too deafness and hearing are absent and present when
ears are improved and getting better treatment . Socrates would like
Alkibiades# now# to answer as to what happens when a state is improved
and has better treatment and management . Alkibiades thinks that friendship will
be present and hatred and faction will be absent. From the simple
preservation of the passangers of a ship# Socrates has moved to
preservation and better management# to improved and getting better
treatment# to improvement, better treatment and management. Simple
preservation# of course# is only good (and the goal of an appropriate
techne) when the condition of a thing is pronounced to be
satisfactory, such that any change would be for the worse. In a ship the
pilot only has to preserve the lives of his passengers by his techne, he
does not have to either make lives or improve them. In so far as a city
is involved with more than mere life, but is aiming at the good life,
mere preservation of the citizens is not sufficient. Socrates' subtle
transformation indicates the treatment necessary in politics.
Another point that Socrates has implicitly raised is the hierarchy
of technae . This may be quite important to an understanding of politics
and what it can properly order within its domain. Socrates employs the
examples of the body and the eyes. The eyes are, however, a part of the
body. The body cannot be said to be healthy unless its parts, including
the eyes, are healthy; the eyes will not see well in a generally diseased
body. The two do interrelate, but have essentially different virtues. The
virtue of the eyes and thus the techne attached to that virtue, are
under/within the domain of the body and its virtue, health. The
doctor, then, has an art of a different order than the optometrist. (The
doctor and his techne may have competition for the care of the body; the
gymnastics expert has already been met and he certainly has things to say
about the management of the body - cf. 128c but the principle there would
be a comprehensive techne .) Given the example of the relation of the
parts to the whole, perhaps Socrates is suggesting that there is an
analogue in the city: the health of the whole city and the sight of a
part of the city. The reader is curious if the same relation would hold
as to which techne had the natural priority over the other. Would the
interests of the whole rule the interests of a part of the city?
Socrates' examples of the body and the part of the body could, in
yet another manner, lead toward contemplation of the political. There is a
possible connection between all three. The doctor might well have to
decide to sacrifice the sight of an eye in the interests of the whole
body. Perhaps the ruler (the man possessing the political techne) would
have to decide to sacrifice the health (or even life) of individuals (maybe
even ones as important as the "eyes" of the city) for the well-being
of the polis . Thus, analogously# the political art properly rules
the various technae of the body. Earlier the reader had
occasion to be introduced to a system of hierarchies (108c-e). Therein he
found that harping was ruled by music and wrestling by gymnastics.
Gymnastics, as the techne of the body, is, it is suggested, ruled by
politics. Perhaps music should also be ruled by politics. In the Republic,
gymnastics is to the body roughly what music is to the soul. Both,
however, are directed by politics and are a major concern of political
men. It is fortunate for Alkibiades that he is familiar with harping and
gymnastics (106e), so that as a politician he will be able to advise on
their proper performance. One already has reason to suspect that the
other subject in which Alkibiades took lessons is properly under the
domain of politics. Alkibiades believes that the better management
of a state will bring friendship into it and remove hatred and faction.
Socrates inquires if he means agreement or disagreement by friendship.
Alkibiades replies that agreement is meant, but one must notice that this
significantly reduces the area of concern to which Alkibiades had given
voice. He had mentioned two kinds of strife, and one needn t think long
and hard to notice that friendship normally connotes much more than
agreement. Socrates next asks which techne causes states to agree about
numbers; does the same art, arithmetic, cause individuals to agree among
each other and with themselves. In addition to whatever suspicion
one entertains that this is not the kind of agreement Alkibiades meant
when he thought friendship would be brought into a city with better
management/ one must keep in mind the similarity between this and an
earlier argument (111c). In almost the same words, people agreed
"with others or by themselves" and states agreed, with regard to
speaking Greek, or more precisely, with naming. There are two features of this
argument which should be explored. Firstly, one might reflect upon
whether agreement between states is always essentially similar to
agreement between people, or agreement with oneself. People can fool
themselves and they can possess their own "language." Separate
states may have separate weights and measures, say, but individuals
within a state must agree. Secondly, there may be more than one kind of
agreement with which the reader should be concerned in this dialogue.
This might be most apparent were there different factors which compelled
different people, in different circumstances, to agree. Men sometimes arrive at
the same conclusions through different reasons. The first two
examples employed by Socrates illuminate both of these points. Arithmetic
and mensuration are about as far apart as it is possible to be in terms
of the nature of the agreement. Mensuration is simply convention or
agreement, and yet its entire existence depends on people's knowing the
standards agreed upon. Numbers, on the contrary, need absolutely no
agreement (except linguistically in the names given to numbers) and no
amount of agreement can change what they are and their relation to each
other. The third example represents the type of agreement much
closer to that with which it is believed conventional politics is
permeated. It is the example of the scales — long symbolic of justice.
Agreement with people and states about weights on scales depends on a
number of factors, as does judgement about politics. There is something
empirical to observe, namely the action as well as the various weights;
there is a constant possibility of cheating (on one side or another)
against which they must take guard; there is a judgement to be made which
is often close, difficult and of crucial importance, and there is the
general problem of which side of the scale/polity is to receive the
goods, and what is the standard against which the goods are measured. To
spell out only one politically important aspect of this last factor,
consider the difference between deciding that a certain standard of life
is to provide the measure for the distribution of goods, and deciding that
a certain set of goods are to be distributed evenly without such a
standard. In one case the well off would receive no goods, they being the
standard; in the other case all would supposedly have an equal chance of
receiving goods. Other political factors are involved in determining what
should be weighed, what its value is, who should preside over the
weighing, and what kind of scale is to be used. The third example, the
scales, surely appears to be more pertinent to Socrates and Alkibiades
than either of the other two, although one notices that both arithmetic
and mensuration are involved in weighing. Alkibiades is
requested to make a spirited effort to tell Socrates what the agreement
is, the art which achieves it, and whether all parties agree the same
way. Alkibiades supposes it is the friendship of father and mother to
child, brother to brother and woman to man (126e). A good ruler would be
able to make the people feel like a family - their fellow citizens like
fellow kin. This seems to be a sound opinion of Alkibiades; many actual
cities are structured around families or clans or based on legends of
common ancestry (cf. Republic 414c-415d) . There is a complication,
however, which is not addressed by either participant in the dialogue.
Socrates had suggested three parts to the analysis of agreement - its
nature, the art that achieves it, and whether all agree in the same way.
Alkibiades in his response suggests three types of friendship which may
differ dramatically in all of the respects Socrates had mentioned. And
the political significance of the three kinds of friendship also has
different and very far-reaching effects. Consider the different ties, and
feelings that characterize man-woman relationships. And imagine the different
character of a regime that is patterned not on the parent-child relation,
but instead characterized by male-female attraction! In a
dialogue on the nature of man in which there is already support for the
notion that "descent" and "family" figure prominently
in the analysis of man's nature, it seems likely that the three kinds
of familial (or potentially familial) relationships mentioned here would
be worthy of close and serious reflection. Socrates, however, does not
take Alkibiades to task on this, but turns to an examination of the
notion that friendship is agreement, and the question of whether or not
they can exist in a polis . Socrates had himself suggested that
Alkibiades meant agreement by friendship (126c), and in this argument
that restricted sense of friendship plays a significant role in their
arriving at the unpalatable conclusion. The argument leads to the
assertion that friendship and agreement cannot arise in a state where
each person does his own business. asks Alkibiades if a man
can agree with a woman about wool—working when he doesn't have knowledge
of it and she does. And further, does he have any need to agree, since it
is a woman's accomplishment? A woman, too, could not come to agreement with a
man about soldiering if she didn't learn it - and it is a business for
men. There are some parts of knowledge appropriate to women and some to
men on this account (127a) and in those skills there is no agreement
between men and women and hence no friendship - if friendship is
agreement. Thus men and women are not befriended by each other so far as
they are performing their own jobs, and polities are not well-ordered if each
person does his own business (127b). This conclusion is unacceptable
to Alkibiades; he thinks a well-ordered polity is one abounding in
friendship, but also that it is precisely each party doing his own
business that brings such friendship into being. Socrates points out that
this goes against the argument. He asks if Alkibiades means friendship
can occur without agreement, or that agreement in something may arise
when some have knowledge while others do not. These are presumably the
steps in the argument which are susceptible to attack. Socrates
incidentally provides another opening in the argument that could show the
conclusion to be wrong. He points out that justice is the doing of one's
own work and that justice and friendship are tied together. But
Alkibiades, perhaps remembering his shame (109b-116d), does not pursue this
angle, having learned that the topic of justice is difficult. In order
to determine what, if anything, was wrongly said, various stages of
the argument will now be examined. By beginning with the
consideration of why anyone would suppose a state was well-ordered when
each person did his own business, one observes that otherwise every
individual would argue about everything done by everybody. The reader may
well share Alkibiades suspicion that what makes a state well-ordered is
that each does what he is capable of and trusts the others to do the same.
This indicates, perhaps, the major problems with the discussion between
Socrates and Alkibiades. Firstly, there are many ways that friendship
depends less upon agreement than on the lack of serious disagreement.
Secondly, agreement can occur, or be taken for granted, in a number of
ways other than by both parties having knowledge. As revealed
earlier in the dialogue, Alkibiades would readily trust an expert in
steering a ship as well as in fancy cooking (117c-d). Regardless of
whether it was a man's or a woman’s task, he would agree with the expert
because of his skill. In these instances he agreed precisely because he
had no knowledge and they did. Of course, faith in expertise may be
misplaced, or experts may lose perspective in understanding the position of
their techne relative to others. But though concord and well-ordered
polities do not necessarily arise when people trust in expertise,
friendship and agreement can come about through each man's doing his own
business. Agreement between people, thus, may come about when one
recognizes his ignorance. It may also arise through their holding similar
opinion on the issue, or when one holds an opinion compatible with
knowledge possessed by another. For example, a woman may merely have
opinions about soldiering, but those opinions may allow for agreement
with men, who alone can have knowledge. Soldiering is a man's work, but
while men are at war the women may wonder about what they are doing, or
read stories about the war, or form opinions from talking to other
soldiers' wives, or have confidence in what their soldier—husbands tell
them. There is also a sense in which, if war is business for men,
women don't even need opinions about how it is conducted for they are not
on the battlefield. They need only agree on its importance and they need
not even necessarily agree on why it is important (unless they are
raising sons). Women will often agree with men about waging war on
grounds other than the men's. For example, glory isn't a prime motivator
for most women's complying with their husbands' desires to wage war. It
has been suggested that agreement may arise on the basis of opinion and
not knowledge, and further that opinions need not be similar, merely
compatible. As long as the war is agreed to by both sexes, friendship
will be in evidence regardless of their respective views of the motives
of war. Apathy or some other type of disregard for certain kinds of
work may also eliminate disagreement and discord, provided that it isn't
a result of lack of respect for the person's profession. For example,
a man and a woman might never disagree about wool-working He may not
care how a spindle operates and would not think of interfering. And
he certainly wouldn't have to be skilled at the techne of wool-working
to agree with his wife whenever she voiced her views - his agreement
with her would rest on his approval of the resulting coat.
Socrates has not obtained from Alkibiades' speech the power to
learn what the nature of the friendship is that good men must have.
Alkibiades, invoking all the gods (he cannot be sure who has dominion
over the branch of knowledge he is trying to identify), fears that he
doesn't even know what he says, and has for some time been in a very
disgraceful condition. But Socrates reminds him that this is the correct time
for Alkibiades to perceive his condition, not at the age of fifty, for
then it would be difficult to take the proper care. In answering Alkibiades'
question as to what he should do now that he is aware of his condition,
Socrates replies he need only answer the questions Socrates puts to him.
With the favor of the god (if they can trust in Socrates' divination)
both of them shall be improved. What Socrates may have just implied
is that while Alkibiades' speech is unable to supply the power to even
name the qualities of a good man, Socratic speech in itself has the power
to actually make them better. All Alkibiades must do is respond to the
questions Socrates asks. The proper use of language, it is suggested, has
the power to make good men. One may object that speech cannot have that
effect upon a listener who is not in a condition of recognizing his
ignorance, but one must also recognize that speech has the power to bring men
to that realization. Almost half of the First Alkibiades is overtly
devoted to this task. Indeed it seems unlikely that people perceive their
plight except through some form of the human use of language except when
they are visually able to compare themselves to others. It would be difficult
to physically coerce men into perceiving their condition. An emotional
attempt to draw a person's awarness - such as a mother's tears at her
son's plight - needs speech to direct it; the son must learn what has
upset her. Speech is also necessary to point to an example of a person
who has come to a realization of his ignorance. Socrates or someone like
him, might discern his condition by himself, but even he surely spent a
great deal of time conversing with others to see that their confidence in
their opinions was unfounded. In any event, what is important for the
understanding of the First Alkibiades is that Socrates has succeeded in
convincing Alkibiades that thoughtful dialogue is more imperative for him
at this point than Athenian politics. Together they set out to
discover (cf. 109e) what is required to take proper care of oneself; in
the event that they have never previously done so, they will assume
complete ignorance. For example, perhaps one takes care of oneself while
taking care of one's things (128a). They are not sure but Socrates will
agree with Alkibiades at the end of the argument that taking proper care of
one's belongings is an art different from care of oneself (128d). But
perhaps one should survey the entire argument before commenting upon it.
Alkibiades doesn't understand the first question as to whether a
man takes care of feet when he takes care of what belongs to his feet, so
Socrates explains by pointing out that there are things which belong to
the hand. A ring, for example, belongs to nothing but a finger. So too a
shoe belongs to a foot and clothes to the body. Alkibiades still doesn't
understand what it means to say that taking care of shoes is taking care
of feet, so Socrates employs another fact. One may speak of taking
correct care of this or that thing, and taking proper care makes
something better. The art of shoemaking makes shoes better and it is by
that art that we take care of shoes. But it is by the art of making feet
better, not by shoemaking, that we improve feet. That art is the same art
whereby the whole body is improved, namely gymnastic. Gymnastic
takes care of the foot; shoemaking takes care of what belongs to the
foot. Gymnastic takes care of the hand; ring engraving takes care of what
belongs to the hand. Gymnastic takes care of the body; weaving and other
crafts take care of what belongs to the body. Thus taking care of a
thing and taking care of its belongings involve separate arts. Socrates
repeats this conclusion after suggesting that care of one's
belongings does not mean one takes care of oneself. Further support
is here recognized, in this dialogue, for a hierarchical arrangement of
the technae, but that simultaneously somewhat qualifies the conclusion of
the argument. Gymnastic is the art of taking care of the body and
it thus must weave into a pattern all of the arts of taking care of
the belongings of the body and of its parts. Its very control over
those arts, however, indicates that they are of some importance to
the body. Because they have a common superior goal, the taking care
of the body, they are not as separate as the argument would
suggest. Just as shoes in bad repair can harm feet, shoes well made
may improve feet (cf. 121d, for shaping the body). They are often
made in view of the health or beauty of the body as are clothes and
rings. Because things which surround one affect one, as one's activities
and one's reliance on some sorts of possessions affect one, proper
care for the belongings of the body may improve one's body.
Socrates continues. Even if one cannot yet ascertain which art
takes care of oneself, one can say that it is not an art concerned with
improving one's belongings, but one that makes one better. Further, just
as one couldn't have known the art that improves shoes or rings if one
didn't know a shoe or a ring, so it is impossible that one should know
the techna that makes one better if one doesn't know oneself (124a).
Socrates asks if it is easy to know oneself and that therefore the writer
at Delphi was not profound, or if it is a difficult thing and not for
everybody. Alkibiades replies that it seems sometimes easy and sometimes
hard. Thereupon Socrates suggests that regardless of its ease or
difficulty, knowledge of oneself is necessary in order to know what the
proper care of oneself is. It may be inferred from this that most people
do not know themselves and are not in a position to know what the proper
care of themselves is. They might be better off should they adopt the
opinions of those who know, or be cared for by those who know more. In
order to understand themselves, the two men must find out how,
generally, the 'self' of a thing can be seen (129b), Alkibiades
figures Socrates has spoken correctly about the way to proceed, but
instead of 124 thus proceeding, Socrates interrupts in
the name of Zeus and asks whether Alkibiades is talking to Socrates and
Socrates to Alkibiades. Indeed they are. Thus Socrates says, he is the
talker and Alkibiades the hearer. This is a thoroughly baffling
interruption, for not only is its purpose unclear, but it is
contradictory. They have just agreed that both were
talking. Socrates pushes onward. Socrates uses speech in talking
(one suspects that most people do). Talking and using speech are the
same thing, but the user and the thing he uses are not the same thing.
A shoemaker who cuts uses tools, but is himself quite different from a
tool; so also is a harper not the same as what he uses when harping.
The shoemaker uses not only tools but his hands and his eyes, so,
if the user and the thing used are different, then the shoemaker and
harper are different from the hands and eyes they use. So too, since man
uses his whole body, he must be different from his body. Man must be the
user of the body, and it is the soul which uses and rules the body. No
one, he claims, can disagree with the remark that man is one of three
things. Alkibiades may or may not disagree, but he needs a bit of
clarification. Man must be soul, or body, or both as one whole. Already
admitted is the proposition that it is man that rules the body, and the
argument has shown that the body is ruled by something else, so the body
deesn't rule itself. What remains is the soul. The unlikeliest
thing in the world is the combination of both, gQQj-^-(- 0 g suggests
(130b), for if one of the combined ones was said not to share in the rule,
then the two obviously could not rule. It is not necessary to point out
to the reader that the possibility of a body's share in the rule was
never denied, nor to indicate that what Socrates ostensibly
regards as the unlikeliest thing of all, is what it seems most reasonable
to suspect to be very like the truth. Emotions and appetites, so closely
connected with the body, are a dominant and dominating part of one's
life. They account for a major part of people's lives, and even to a
large extent influence their reason (a faculty which most agree is not
tied to the body in the same way). The soul might be seen to be at least
partly ruled by the body if it is appetites and emotions which affect
whether or not reason is used and influence what kind of decisions will
be rationally determined. Anyhow, according to Socrates, if it is
not the body, or the combined body and soul, then man must either be nothing at
all, or he must be the soul (130c). But the reader is aware that only on
the briefest of glances does this square with "the statement that no
one could dissent to," (cf. 130a). Man cannot be 'nothing' according
to that statement any more than he can be anything else whatsoever, such
as 'dog,' 'gold,' 'dream,' etc. 'Nothing' was not one of the
alternatives. Alkibiades swears that he needs no clearer proof that
the soul is man, and ruler of the body, but Socrates, overruling the
authority of Alkibiades' oath, responds that the proof is merely
tolerable, sufficing only until they discover that which they have just
passed by because of its complexity. Unaware that anything had been
by-passed (Socrates had interrupted that part of the discussion with his
first conventional oath - 129b), the puzzled Alkibiades asks Socrates. He
receives the reply that they haven't been considering what generally
makes the self of a thing discoverable, but have been looking at
particular cases (130d; cf. 129b). Perhaps that will suffice, for the
soul surely must be said to have a more absolute possession of us than
anything else. So, whenever Alkibiades and Socrates converse with
each other, it is soul conversing with soul; the souls using words
(130d.l). Socrates, when he uses speech, talks with Alkibiades' soul, not
his face. Socratic speech is thus essentially different from the speech
of the crowds of suitors who conversed with Alkibiades (103a, cf. also
106b). If Socrates' soul talks with Alkibiades' soul and if Alkibiades is
truly listening, then it is Alkibiades' soul, not one of his belongings
that hears Socrates (cf. 129b-c). Someone who says "know thyself" means "know thy soul";
knowing the things that belong to the body means knowing what is his, but
not what he is. The reader will note how the last two steps of the
argument subtly, yet definitely, indicate the ambiguous nature of the
body's position in this analysis. Someone who knows only the belongings
of the body will not know the man. According to the argument proper,
someone who knew the body, too, would still only know a man's
possessions, not his being. Socrates continues, pressing the
argument to show that no doctor or trainer, insofar as he is a doctor or
a trainer, knows himself. Farmers and tradesmen are still more
remote, for their arts teach only what belongs to the body (which is
itself only a possession of the man) and not the man. Indeed, most people
recognize a man by his body, not by his soul, which reveals his true
nature. 126 gocrates pauses briefly to introduce
consideration of a virtue. Seemingly out of the blue, he remarks that
"if knowing oneself is temperance" then no craftsman is
temperate by his te c h ne (131b). Because of this the good man disdains
to learn the technae . This sudden introduction of the virtue/ defining
temperance as self-knowledge/ will assume importance later in the dialogue
(e.g., at 133c). Returning to the argument, Socrates proposes that
one who cares for the body cares for his possessions. One who cares for
his money cares not for himself, nor for his possessions, but for
something yet more remote. He has ceased to do his own business.
Those who love Alkibiades' body don't love Alkibiades but his
possessions. The real lover is the one who loves his soul. The one
who loves the body would depart when the body's bloom is over,
whereas the lover of the soul remains as long as it still tends to the
better. Socrates is the one that remained; the others left when the bloom
of the body was over. Silently accepting this insult to his looks, one of
his possessions, Alkibiades recognizes the compliment paid to himself.
The account of the cause of Socrates' remaining and the others'
departure, however, has changed somewhat from the beginning CIO3b, 104c).
Then the lovers left because a quality of Alkibiades' soul was too much
for them (but not for Socrates) to handle. Now it is a decline in a
quality of the body that apparently caused them to depart, but it is
still an appreciation of the soul that retains Socrates' interest.
Perhaps the significance of this basic shift is to indicate to
Alkibiades the true justification for his self-esteem. His highmindedness was
based on his physical qualities and their possessions, not on his soul.
Socrates may be insulting the other lovers, but he is at the same time
making it difficult for Alkibiades to lose his pride in the things of the
body. Thus Socrates' reinterpretation of the reasons for the lovers'
departure reinforces the point of the argument, namely that one's soul is
more worthy of attention and consideration than one's body. Alkibiades
is glad that Socrates has stayed and wants him to remain. He shall, at
Socrates' request, endeavour to remain as handsome as he can. So
Alkibiades, the son of Kleinias, "has only one lover and
128 that a cherished one," Socrates, son of Sophroniskos
and Phainarite. Now Alkibiades knows why Socrates alone did not
depart. He loves Alkibiades, not merely what belongs to Alkibiades.
Socrates will never forsake Alkibiades as long as he (his soul) is
not deformed by the Athenian people. In fact that is what especially
concerns Socrates. His greatest fear is that Alkibiades will be damaged
through becoming a lover of the demos - it has happened to many good
Athenians. The face (not the soul?) of the "people of great-hearted
Erekhtheos" is fair, but to see the demos stripped is another thing.
As the dialogue approaches its end, Socrates becomes poetic in his
utterances. On this occasion he prophetically quotes Homer ( Iliad II,
547). When listing the participants on the Akhaian side of the Trojan
War, Homer describes the leader of the Athenians, the "people
of the greathearted Erekhtheos," as one like no other born on earth for
the arrangement and ordering of horses and fighters. Alkibiades would
become famous for his attempts to order poleis and his arranging of naval
military forces. In the Gorgias, Scorates relates a myth about the
final judgement of men, and one of the interesting features of the story
is that the judges and those to be judged are stripped of clothes and
bodies ( Gorgias 523a-527e). 129 All that is judged is the soul. This
allows the judges to perceive the reality beneath the appearance that a
body and its belongings provide. Flatterers (120b) would not be as able to get
to the Blessed Isles/ although actually, in political regimes, living
judges are often fooled by appearances. Judges too are stripped so that
they could see soul to soul (133b; cf. Gorgias 523d), and would be less
likely to be moved by rhetoric, poetry, physical beauty or any other of
the elements that are tied to the body through, for example, the emotions
and appetites. It seems thus good advice for anyone who desires to enter
politics that he get a stripped view of the demos . In addition, those
familiar with the myth in the Gorgias might recognize the importance of
Alkibiades stripping himself, and coming to know his own soul, before he
enters politics. Socrates is advising Alkibiades to take the proper
precautions. He is to exercise seriously, learning all that must be known
prior to an entry into politics (132b). Presumably this knowledge will
counteract the charm of the people. Alkibiades wants to know what the
proper exercises are, and Socrates says they have established one important
thing and that is knowing what to take care of. They will not
inadvertently be caring for something else, such as, for example,
something that only belongs to them. The next step, now that they know upon
what to exercise, is to care for the soul and leave the care of the body
and its possessions to others. If they could discover how to
obtain knowledge of the soul, they would truly "know
themselves." For the third time Socrates refers to the Delphic
inscription and he claims he has discovered another interpretation of it
which he can illustrate only by the example of sight. Should someone say
"see thyself" to one's eye, the eye would have to look at
something, like a mirror, or the thing in the eye that is like a mirror
(132d-e). The pupil of the eye reflects the face of the person looking
into it like a mirror. Looking at anything else (except mirrors, water,
polished shields, etc.) won't reflect it. Just as the eye must look into
another eye to see itself, so must a soul look into another soul. In
addition it must look to that very part of the soul which houses the
virtue of a soul - wisdom - and any part like wisdom. The part of the
soul containing knowledge and thought is the most divine, and since it
thus resembles god, whoever sees it will recognize all that is divine and
will get the greatest knowledge of himself. In order to see
one's own soul properly, then, Socrates suggests that it is necessary to
look into another's soul. Alkibiades must look into someone's soul to
obtain knowledge of himself, and he must possess knowledge of himself in
order to be able to rule himself. This last is a prerequisite for ruling
others. Since it lacks a 'pupil,' the soul doesn't have a readily
available window/mirror for observing another's soul, as the eye does for
observing oneself through another's eye. Such vision of souls can only be
had through speech. Through honest dialogue with trusted friends and
reflection upon what was said and done, one may gain a glimpse of their
soul. The souls must be "stripped" so that words are spoken and
heard truly. Socrates, by being the only lover who remained, and, having
shown his value to Alkibiades, will continue to speak (104e, 105e). He is
offering Alkibiades a look at his soul. This is in keeping, it
appears, with the advice that Alkibiades look to the rational part of the
soul. Socrates is the picture of the rational man; through his speech the
reader is also offered the opportunity to try to see into Socrates' soul to
better understand his own. Again, as discussed above, a man's nature can
be understood by looking to the example of the best, even if it is only an
imitation of the best in Dialogues. Socrates now recalls the
earlier mention of temperance as though they had come to some conclusion
regarding the nature of the virtue. They had supposedly agreed that
self-knowledge was temperance (133c; cf. 131b). Lacking self-knowledge or
temperance, one could not know one's belongings, whether they be good or
evil. Without knowing Alkibiades one could not know if his belongings are
his. Ignorance of one's belongings prohibits familiarity with the belongings of
belongings (133d). Socrates reminds Alkibiades that they have been
incorrect in admitting people could know their belongings if they didn't
know themselves. This latter argument raises at least two
difficulties. Firstly, it renders problematic the suggestion that one
should leave one's body and belongings in another's care. These others,
it seems, would be doctors and gymnastics trainers - the only experts of
the body explicitly recognized in the dialogue. Remembering that neither doctor
or trainer knows himself, one might wonder how he can know
Socrates' and Alkibiades' belongings. He cannot, according to the
argument here (133c-d) know his own belongings without knowing himself
and he cannot be familiar with others' belongings while ignorant of his
own. The argument, secondly, creates a problem with the
understanding heretofore suggested about how men generally conduct their
lives. Most people do not know themselves and do not properly care for
themselves. The argument of the dialogue has intimated that they in
fact care for their belongings. Thus it would seem that, in some sense,
they do know their belongings, just as Alkibiades' lovers, ignorant of
Alkibiades and probably ignorant of themselves, still know that
Alkibiades' body belonged to Alkibiades. And they knew, like he knew
C104a-c) that his looks and his wealth belong to his body. The reader
might conclude from this that the precise knowledge they do not have is
knowledge either of what the belongings should be like, or what their
true importance and proper role in a man's life should be. Knowledge of
one's soul would consist, partly, in knowing how to properly handle one's
belongings. That allows one to do what is right, and not merely do
what one likes. It is the task of one man and one techne (the chief
techne in the hierarchy) to grasp himself, his belongings, and their
belongings. Someone who doesn't know his belongings won't know other mens'. And
if he doesn't know theirs, he won't know those of the polity. This
last remark raises the consideration of what constitutes the belongings
of a polity. And that immediately involves one in reflection upon whether
the city has a body, and a soul. What is the essence of the city? The reader
is invited to explore the analogy to the man, but even more, it is
suggested that he is to reflect upon how to establish the priority of one
over the other. This invitation is indicated by the discussion of the one
techne that presides over all the bodies and belongings. The relation of the
city to the individual man has been of perennial concern to political
thinkers, and a most difficult aspect of the problem terrain involves the
very understanding of the City and Man (cf. 125b). The
question is multiplied threefold with the possibility that an adequate
understanding of the city requires an account of its soul, its body and
its body's belongings. An account of man, it has been suggested in this
dialogue, demands knowing his soul, body, possessions, and the
relation and ordering of each. It is quite possible that what is
proper best for a man will conflict with what is best for a city.
The city might be considered best off if it promotes an average
well-being. Having its norm, or median, slightly higher than the
norm of the next city would indicate it was better off. It is also
possible that the circumstances within which each and every man thrives would
not necessarily bring harmony to a city. The problem of priority
is further complicated by the introduction of the notion that the welfare
of each citizen is not equally important to the city. Perhaps what is
best for a city is to have one class of its members excel, or to have it
produce one great man. What is to be understood as the good of the city's very
soul? Furthermore, even if the welfare of the whole city is to
be identified with the maximum welfare of each citizen, it might still
be the case that the policies of the city need to increase the welfare of
a few people. For example, in time of war the welfare of the whole
polity depends on the welfare of a few men, the armed forces. As long as
war is a threat, the good of the city Cits body, soul, or possessions)
could depend on the exceptional treatment of one class of its men.
Knowledge of the true nature of the polity is essential for
political philosophy and so for proper political decision-making. Men
ignorant of the polity, the citizens, or themselves cannot be statesmen
or economists (133e; cf. Statesman 258e). Such a man, ignorant of his and
others' affairs will not know what he is doing, therefore making mistakes
and doing ill in private and for the demos . He and they will be
wretched. Temperance and goodness are necessary for well-being, so
it is bad men who are wretched. Those who attain temperance not those
who become wealthy, are released from this misery. ^ Similarly, cities
need virtue for their well-being, not walls, triremes, arsenals,
numbers or size (134b; The full impact of this will be felt if one
remembers that this dialogue is taking place immediately prior to
the outbreak of the war with Sparta. Athens is in full flurry of
preparation, for she has seen the war coming for a number of years)
. Proper management of the polis by Alkibiades would be to impart
virtue to the citizens and he could not impart it without having it
(134c). A good governor has to acquire the virtue first. Alkibiades
shouldn't be looking for power as it is conventionally understood - the
ability to do whatever one pleases - but he should be looking for justice
and temperance. If he and the state acted in accordance with those two
virtues, they would please god; their eyes focussed on the divine, they
will see and know themselves and their good. If Alkibiades would act this
way, Socrates would be ready to guarantee his well-being (134e). But if
he acts with a focus on the godless and dark, through ignorance of humself his
acts will go godless and dark. Alkibiades has received the
Socratic advice to forget about power as he understands it, in the
interest of having real power over at least himself. Conventionally
understood, and in most applications of it, power is the ability to do
what one thinks fit ( Gorgias 469d) . Various technae give to the skilled
the power to do what they think fit to the material on which they are
working. The technae, however, are hierarchically arranged, some ruling others.
That is, some are archetectonic with respect to others. What is actually
fit for each techne is dictated by a logically prior techne . The techne
with the most power is the one that dictates to the other techne what is
fit and what is not. This understanding seems to disclose two
elements of power: the ability to do what one thinks is fit, and knowing
what is fit. If a man can do what he wants but is lacking in
intelligence, the result is likely to be disastrous (135a; Republic
339a-e, Gorgias 469b, 470a). If a man with tyrannical power were
sick and he couldn't even be talked to, his health would be
destroyed. If he knew nothing about navigation, a man exercising
tyrannical power as a ship's pilot may well 132 cause
all on board to perish. Similarly in a state a power without
excellence or virtue will fare badly. It is not tyrannical
power that Alkibiades should seek but virtue, if he would fare well, and
until the time he has virtue, it is better, more noble and appropriate
for a man, as for a child, to be governed by a better than to try to
govern; part of being 'better' includes knowledge that right rule is in
the subject's interest. It is appropriate for a bad man to be a
slave; vice befits a slave, virtue a free man (135c; it seems
strange that vice should be appropriate for anyone, slave or free,
perhaps, rather, it defines a slave). One should most certainly avoid all
slavery and if one can perceive where one stands, it may not at present
be on the side of the free (135c). Socrates must indicate to Alkibiades
the importance of a clearer understanding of both what he desires, power,
and what this freedom is. In a conventional, and ambiguous sense, the man with
the most freedom is the king or tyrant who is not sub ject to
anyone. Socrates must educate Alkibiades. The man who wants power like
the man who seeks freedom, doesn't know substantively what he is looking
for; the only power worth having comes with wisdom, which alone can make
one free. Socrates confides to Alkibiades that his condition ought
not to be named since he is a noble ( kalos) man (cf. 118b - is this
another condition which will remain unnamed despite their solitude?).
Alkibiades must endeavour to escape it. If Socrates will it, Alkibiades
replies, he will try. To this Socrates responds that it is only noble to
say "if god wills it." This appears to be Socrates' pious
defence to a higher power. However, since he has drawn attention to the
phrase himself, a reminder may be permitted to the effect that it is not
necessarily quite the conventional piety to which he refers: a strange
parade of deities has been presented for the reader's review in this
dialogue. Alkibiades is eager to agree and wants, fervently, to
trade places with Socrates (135d). From now on Alkibiades will be
attending Socrates. Alkibiades, this time, will follow and observe
Socrates in silence. For twenty years Socrates has been silent toward
Alkibiades, and now, thinking it appropriate to trade places, Alkibiades
recognizes that silence on his part will help fill his true, newly found
needs. In the noise-filled atmosphere of today, it is especially
difficult to appreciate (and thus to find an audience that appreciates)
the importance of the final aspect of language that will be discussed in
connection with knowledge and power - silence. The use of silence for
emphasis is apparently known to few. But note how a moment of silence on
the television draws one's attention, whether or not the program was
being followed. And an indication of a residual respect for the power of
silence is that one important manner of honoring political actors and
heroes is to observe a moment of silence. Think, too, how judicious use
of silence can make someone ill at ease, or cause them to re-examine
their speech. The words "ominous" and "heavy" may often be
appropriately used to describe silence. Silence can convey knowledge as
well as power, and as the above examplss may serve to show, it may have a
significant role in each. When one begins to examine the role of silence
in the lives of the wise and the powerful, one begins to see some of the
problems of a loud society. To start with, the reader
acquaints himself with the role of silence in political power. As
witnessed in the dialogue, and, as well, in modern regimes, there are
many facets of this. Politicians must be silent about much. Until
recently, national defence was an acceptable excuse for silence on the
part of the leaders of a country. The existence of a professional
"news" gathering establishment necessitates that this silence be
total, and not only merely with respect to external powers, for some
things that the enemy must not know must be kept from the citizens as
well (cf. 109c, 124a). Politicians are typically silent about some
things in order to attain office, and about even more things in order to
retain it. Dissenters prudently keep quiet in order to remain undetained or
even alive. Common sense indeed dictates that one observe a politic
silence on a wide variety of occasions. Men in the public eye may conceal
their disbelief in religious authority in the interests of those in the
community who depend on religious conviction for their good conduct. Most
consider lying in the face of the enemy to be in the interests of the
polity, and all admire man who keeps silent even in the face of severe enemy
torture. Parents often keep silent to protect their children, either when
concerned about outsiders or about the more general vulnerability of
those unable to reason. One important political use of silence is in terms
of the myths and fables related to children. Inestimable damage may be
done when the "noble lie" that idealistically structures the
citizen's understanding of his regime is repudiated in various respects by
the liberal desire to expose all to the public in the interests of
enlightenment. At the point where children are shown that the great men
they look up to are "merely human," one most clearly sees the
harm that may be done by breaking silence. Everybody becomes really
equal, despite appearances to the contrary, since everyone - even the heroes -
acts from deep, irrational motives, appetites, fears, etc. High ideals
and motives for action are debunked. Since many of the
political uses of silence mentioned above concern appropriate silence about
things known, the next brief discussion will focus on silence and
knowledge. The primary aspect of the general concern for silence in the
life devoted to the pursuit of knowledge is a function of the twin
features of political awareness and political concern. Though closely tied to
the aforementioned appropriate uses of silence, this is concerned less
with the disclosure of unsalutary facts about the life and times of men
than with questions and truths of a higher order. For example, if it
could be discerned that man's condition was abysmal, that he would
inevitably become decadent, it would not be politically propitious to
announce the fact on the eight-o'clock newscast There seem to be at least
two situations in which such facts are revealed A politically unaware man
might not realize it; a politically aware but somehow unconcerned man
might not care about the well-being of the community as a whole.
There are at least two additional respects in which silence is important
to the life of knowledge. Both play a part in Alkibiades' education in the
First Alkibiades and contribute to his desire to trade places with
Socrates. Firstly one must be silent to learn what others have to say. On
the face of it, this seems a trivial and fairly obvious thing to say.
However when one appreciates the importance of trust and friendship in
philosophic discourse, one perceives that the notion of silence important
to this aspect of learning is much broader than the mere logistics of
taking turns speaking. To mention only a single example, one has to prove
one's ability to "keep one's mouth shut" in order to develop
the kind of trust essential to frank discussion among dialogic
partners. Secondly, silence enhances mystery if there is reason to
suspect that the silent know more than they have revealed. This
attraction to the mysterious accounts for many things, including to
mention only one example, the great appeal of detective stories. If both
witnesses and the author did not know more than they let on in the
beginning, if the reader/detective did not have to take great care in
extracting the truth from muddled accounts, it is not likely that the
genre would have the enduring readership it now enjoys. Both
of these might be tied directly to Socrates' initial silence toward
Alkibiades. Socrates had kept quiet until Alkibiades had reached a
certain stage in the development of his ambition. His prolonged silence,
and then his repeated reminders of it, as he begins to speak, increases
Alkibiades' curiosity. As it becomes more and more apparent to Alkibiades
that Socrates knows what he is talking about, Alkibiades becomes
increasingly desirous of learning. He wants Socrates to reveal the truth
to him, the truth he suspects Socrates is keeping to himself. Throughout the
discussion the men discuss ever more important subjects and it is readily
apparent that their mutual trust grows at least partly because of
their recognition of what is appropriately kept silent. In addition, at
yet another level, it has been frequently observed that Socrates' silence
ragarding a part of the truth, or the necessity of an example, or a
segment of the argument, indicates to the careful reader a greater depth
to the issues. Recognition of this silence increases the philosophic
curiosity of the readers as he attempts to discover both the subject of,
and the reason for, the silence. Alkibiades has suggested that he
shall switch "places" with Socrates. Socrates has attended on
him for all this time and now Alkibiades wants to follow Socrates. This
is only one of a number of "switches" that occur in the turning
around of Alkibiades, witnessed only by Socrates and the careful
reader. In the beginning Socrates says that the lovers of
Alkibiades left because his qualities of soul were too overpowering. He
is flattering Alkibiades in order, perhaps, to entice Alkibiades to begin
listening. In the end he suggests they ceased pursuing the youth because
the bloom of his beauty (the appearance of his body) has departed from
him. At first glance this is not complimentary at all. Nevertheless it is
now that Alkibiades claims to want very much to remain and listen. He
will even bear insults silently. At the start Alkibiades is
haughty, superior and self-sufficient. In the end he wishes to
please Socrates, recognizing his need for the power of speech in his
coming to know himself. At first he believes he already knows, and
arguments seem extraneous. By the end he wants to talk over the proper
care of his soul at length with Socrates. Probably the most notable
turning around in the dialogue is the lover—beloved switch between the
beginning and the end (cf. also Symposium 217d). But a number of puzzling
features come to the fore when one attempts to draw out the implications
of the change. In what way is their attraction switched? Socrates is
attracted to Alkibiades' unquenchable eros . Perhaps a mark of its great will
for power is that it is now directed toward Socrates. However, what does
that suggest about Socrates' eros in turn, either in terms of its
strength or its direction? What kind of eros is attracted to a most
powerful eros which in turn is directed back to it? Do Socrates and
Alkibiades both have the same intensity of desires and are their ambitions not
directed toward the same ends? Perhaps Socrates' answer will
suffice. He is pleased with the well-born man. His eros is like a stork -
he has hatched a winged eros and it returned to care for him. (This is
the first indication that Socrates assumes responsibility for the form of
Alkibiades' desires; it also indicates another whole series of problems
regarding how Alkibiades will "care for" Socrates). They are
kindred souls (or at least have kindred eros), and their relationship is
now one of mutual aid. Socrates will look into Alkibiades' soul to find
his own and Alkibiades will peer into Socrates' soul in attempting to
discern his. The reader is implicitly invited to look too; he has the privilege
starting again and examining the souls more closely each time he returns
to the beginning. Alkibiades agrees that that is the situation in
which they find themselves and he will immediately begin to be concerned
with justice. Socrates wishes he'll continue, but expresses a great fear.
In an ironic premonition of both their fates, he says he doesn't distrust
Alkibiades' nature, but, being able to see the might of the state (cf.
132a), he fears that both of them will be overpowered.There is always an
irony involved in concluding an essay on a Platonic dialogue. The
most fitting ending, it seems, would be to whet one's appetite for
more. This I shall attempt to do by pointing out an intriguing
feature about the dialogue in general. If one were to look at the
Platonic corpus as a kind of testament to Socrates, a story by
Plato of a Socrates made young and beautiful regardless of their
historical accuracy. For example, the Theaitetos, Sophist and
Statesman all take place at approximately the same time, shortly
before Socrates' trial. Similarly, the Euthyphro and Apology occur
about then. The Crito and Phaido follow shortly thereafter, and so
on. The First Alkibiades has its own special place. The First
Alkibiades may well be the dialogue in which Socrates makes his earliest
appearance. The Platonic tradition has presented us with this as
our introduction to Socrates, to philosophy. Why? This dialogue
marks the first Socratic experience with philosophy that we may
witness. Why? The fateful first meeting between Socrates and
Alkibiades is also our first meeting with Socrates. Why? The
reader's introduction to the philosopher and to philosophizing is in
a conversation about a contest for the best man. Why? One must
assume that, for some reason, Plato thought this fitting. Plato,
Republic 377a.9-10. The dialogue is known as the First Alkibiades,
Alkibiades I and Alkibiades Major . Its title in Greek is simply
Alkibiades but the conventional titles enable us to distinguish it from
the other dialogue called Alkibiades . Stephanus pagination in the text
of this thesis refers to the First Alkibiades of Plato. The Loeb text
(translated by W. Lamb, 1927) formed the core of the reading. However,
whenever a significant difference was noted between the Lamb translation
and that of Thomas Sydenham ( circa 1800), my own translation forms the
basis of the commentary. Unless otherwise noted, all other works referred
to are by Plato. 2. The major sources for Alkibiades' life are
Thucydides, Xenophon, Plutarch and Plato. It seems to be the case that no
history can be "objective." Since one cannot record everything,
a historian must choose what to write about. Their choice is made on the
basis of their opinion of what is important and therein vanishes the
"objectivity" so sought after but always kept from modern
historians. The superiority of the accounts of the men referred to above
lies partially in that they do not pretend to that
"value-neutral" goal, even though their perspective may nonetheless
be impartial. I wish to take this opportunity to emphasize the
limited importance of the addition of this sketch of the historical
Alkibiades. Were it suggested that such a familiarity were essential to
the understanding of the dialogue, it would be implied that the dialogue
as it stands is insufficient, and that I was in a position to remedy that
inadequacy. As a rule of thumb in interpretation one should not begin
with such presuppositions. However, there are a number of ways in which the
reading of the dialogue is enriched by knowing the career of Alkibiades.
For example, the reader who doesn't know that Alkibiades' intrigues
with (and illegitimate son by) the Spartan queen was a cause of his
fleeing from Sparta and a possible motive for his assassination, would
not have a full appreciation of the comment by Socrates on the security
placed around the Spartan queens (121b-c). At all events, extreme caution
is necessary so that extra historical baggage will not be imported into
the dialogue. It might be quite easy to prematurely evaluate the
historical Alkibiades, and thereby misunderstand the dialogue. We
are also told she had dresses worth fifty minae. Plutarch, Life of
Alkibiades, 1.1 (henceforth referred to simply as Plutarch); Plato,
Alkibiades I, 112c, 124c, 118d—e. Plutarch, II. 4-6. 6.
Diodoros Siculus, Diodoros of Sicily, XII. 38. iii-iv (henceforth
Diodoros). 7. This is the Anytos who was Socrates' accuser. He was
also notorious in Athens for being the first man to bribe a jury
(composed of 500 men)! He had been charged with impiety. Some suspect
that Alkibiades' preference for Socrates caused Anytos to be jealous and
that this was a motive for his accusation of Socrates. 8.
Plutarch The historical accuracy of the representation is impossible to
determine and, so far as we need be concerned, philosophically
irrelevant. 10. Actually Alkibiades admits this in a dialogue which
Plato wrote (cf. Symposium 212c-223b, esp. 215a, ff.). 11.
Plutarch, VI. 1. 12. Plato, Symposium 219e-220e; Plutarch. Plato,
Symposium 220e-221c; Plutarch VII. 4; Diadoros cf. Thucydides, History of the
Peloponnesian War. Thucydudes, Cf. also Plutarch, Plutarch, XIV. 6-9;
Thucydides Plutarch, XIII. 3-5. Cf. Aristotle's discussion in his
Politics, Thucydides, Diodoros, Thucydides, Thucydides, Plutarch, XVIII. 1-2;
Thucydides.The Hermai were religious statues, commonly positioned by the
front entrance of a dwelling. Hermes was the god of travelling and of
property. Cf. Thucydides, Thucydides, Plutarch, Thucydides, Thucydides,
VI. 48-50. Thucydides, Thucydides,
Plutarch, Diodoros, Thucydides, Plutarch, Thucydides, Plutarch, Thucydides,
Thucydides, Plutarch; cf. also Plato, Alkibiades, where Plato's mention might
provide some support for a claim that the motive was other than
lust. 35. Thucydides, Plutarch, Plutarch, Thucydides, Diodoros,
XIII. 41. iv-42iii; Plutarch, Thucydides Thucydides, Thucydides, VIII. 97. For
an excellent and beautiful examination of this in Thucydides, read Leo Strauss,
"Preliminary Observations of the Gods in Thucydides' Work."
INTERPRETATION, Nijhoff, The Hague,
Netherlands. Plutarch, Xenophon, Hellenika, Diodoros Xenophon,
Hellenika, I, i, 9-10; Plutarch, Xenophon, Hellenika,
Xenophon, Hellenika, I, iv, 8-17; Plutarch, Xenophon,
Hellenika, I, iv, 20-21; Plutarch,Plutarch, Diodoros, Plutarch, Xenophon,
Hellenika I, v, 11-16; Plutarch, Plutarch, Diodoros, Plutarch. There are
various accounts, the similar feature being the Spartan instigation. It
is not likely that it was a personal assassination (because of the
queen), but it was probably not purely due to political motives, either.
54. Aristophanes, Frogs; cf. Aristophanes, Clouds, Plato, Symposium,Aristophanes,
Clouds, 217 ff. 56. Politically speaking, however, this is not to
be thoroughly disregarded, for in their numbers they can trample even the
best of men. Cf. for example: Plato, Gorgias 500c, Aristotle,
Politics 1324a24 ff., Rousseau, Social Contract, Marx, Theses on
Feuerbach, Hobbes, Leviathan, edited by C. B. MacPherson, Pelican Books,
Middlesex It is interesting that Socrates uses the promise of power to
entice Alkibiades to listen so that he can persuade him that he doesn't
know what power is. It is very important for the understanding of the
dialogue that the reader remember that Socrates has characterized
Alkibiades' desire for honor (105b) as a desire for power. This is of
crucial significance throughout the dialogue, and in particular in connection
with Socrates' attempts to teach Alkibiades from whom to desire honor,
and in what real power consists. The reader is advised to keep both in
mind throughout the dialogue. Perhaps at the end he may be in a position
to judge in what the difference consists. 60. The most notorious
example, perhaps, is Martin Heidegger, although he was surely not the
only important man implicated with fascism. 61. Cf. Aiskhylos,
Agamemnon 715-735, and Aristophanes, Frogs, for the metaphor. The latter is a
reference to Alkibiades himself, the former a statement of the general
problem. (f. also Republic 589b; Laws 707a; Kharmides 155d; and
Alkibiades I 123a). 62. The fully developed model resulting from
this effort should probably only be made explicit to the educators. The
entire picture (including the hero's thoughts about the cosmos, etc.)
would be baffling to children and most adults, and would thus detract
from their ability to identify with the model. Perhaps a less
thoroughly-developed example would suffice for youths. However, the
entire conception of the best man that the youths are to emulate should
be made explicit. The task is difficult but worth the effort, since the
consistency of two or more features of the model can only be positively
ascertained if he is fully developed. An obvious example of where conflicts
might arise should this not be done is where, say, a very hybristic,
superior and self- confident young man is the leader of the radical
democratic faction of a city. Some kind of conflict is inevitable there,
and those tensions are much more obvious though not necessarily more
penetrating than those caused by incompatible metaphysical views.
63. For example, Lakhes, Kharmides, Republic, Euthyphro . 64.
These questions are not the same, for in many dialogues the person named
does not have the longest, or even a seemingly major speaking part; e.g.,
Gorgias, Phaedo, Minos, Hipparkhos .Protagoras, 336d. Here Alkibiades is
familiar with Socrates, for he recognizes his "little joke"
about his failing memory. However, Socrates was not yet notorious
throughout Athens, for the eunuch guarding the door did not recognize him
( Protagoras 314d). Much of this speculation as to the date depends on there
not being anachronisms between (as opposed to within) Platonic dialogues.
We have no priori reason to believe there are no anachronisms. However,
it might prove to be useful to compare what is said about the
participants in other dialogues. The problem of anachronisms within
dialogues is a different one than we are referring to in our discussion
of the dramatic date. Plato, for a variety of philosophic purposes,
employs anachronisms within dialogues, including perhaps, that of
indicating that the teaching is not time-bound. This is obviously related
to teleology, a way of accounting for things that concentrates on the
fulfilled product, the end or teleos of the thing and not on its origin,
as the most essential for understanding the thing. The prescientific, or
common-sensical, understanding of things is a teleological one. The superior/ideal/proper
characteristic of things somehow inform the ordinary man's understanding of
the normal. This prescientific view is important to return to, for it
is such an outlook, conjoined with curiosity, that gives rise to
philosophic wonder. For this kind of detailed information, I
found the Word Index to Plato, by Brandwood, an invaluable guide.
68. The challenge to self-sufficiency is important to every
dialogue, to all men. It is something we all, implicitly or explicitly,
strive towards, a key question about all men's goals. Even these days,
one thing that will still make a man feel ashamed is to have it suggested
that he depends on someone (especially his spouse). The first step
toward self-improvement has to be some degree of self-contempt, and that
might be sparked if Alkibiades realizes his dependency. 69.
Socrates might be saying this to make the youth open up. It isn't purely
complimentary; he doesn't say you are right. (Cf. also Kharmides). I am
indebted for this observation to Proclus whose Commentary on the First
Alkibiades, is quite useful and interesting. In order to claim that
something is or is not a cause for wonder, one apparently would have to
employ some kind of criteria. Such criteria would refer to some larger
whole which would render the thing in question either evident or
worthy of wonder or trivial. None of these has been explicitly suggested
in the dialogue with reference either to difficulty of stopping speech or
beginning to talk. 71. It may be important to note that this
discussion refers to political limits, political ambitions. Perhaps a
higher ambition (perhaps indeed the one Socrates is suggesting to Alkibiades)
can be understood as an attempt to tyrannize nature herself, to rule (by
knowing the truth about) even the realm of possibility and not to be
confined by it. One notices that this, by implication, is a claim by
Socrates to know himself, not exactly a modest claim. 73.
Interestingly, he does not consider what Alkibiades heard in such
speeches to be part of his education, "comprehensively" listed
at 106e. 74. This appears similar to Socrates' strategy with
Glaukon. Cf. Craig, L.H., An Introduction to Plato's Republic, pp.
138-202; especially pp. 163-4; Bloom, A., "Interpretive Essay,"
in The Republic of Plato. Cf. Republic. Cf. Republic, 327b, 449b; Kharmides,
153b; Parmenides, 126a.While imagined contexts may influence one's thinking
and speaking in certain ways, one is not naively assuming that then one
will speak and act the same as one would if the imagined were
actualized. Many things might prevent one from doing as well as one
imagined. An example familair to the readers of Plato might be the
construction of the good city in speech. Cf. 105d, 131e, 123c, and
121a. One might be curious as to the difference between Phainarete's
indoor teaching of Socrates and Deinomakhe's indoor teaching of
Alkibiades. Also perhaps noteworthy is that Alkibiades was taught indoors
by his actual mother: the masculine side of his nurture was not provided
by his natural father. Except see Hobbes, Leviathan, chapter 29; Plato,
Republic, 372e. And one must remember that when the plague strikes, the
city is dramatically affected. 80. Thucydides. Note two
things: (1) Athenians don't debate about this at the ekklesia ; (2)
Alkibiades, as well as the wrestling master, would be qualified
(118c-d). Socrates drops dancing here; perhaps it is similar enough
to wrestling to need no separate mention/ and to provide no additional
material for consideration. But if that were so one might wonder why it
was mentioned in the first place. 83. Perhaps "all
cases" should be qualified to "all cases which are ruled by an
art." The general ambiguity surrounding this remark invites the reader's
reflection on the extent to which Socrates' suggestion could be seen to
be a much more general kind of advice. Perhaps Alkibiades would be better
off imitating Socrates - period. Or perhaps something else about
Socrates' pattern (of life) could be said to provide "the correct
answer in all cases," - he is after all a very rational man. The
referent here is unclear in the dialogue. It could be 'lawfulness' and
'nobility' just as readily as the 'justice' which Socrates chooses to
consider; that choice significantly shapes the course of the dialogue.
Note: Socrates brought up 'lawful' (even though there probably is no law
in Athens commanding advisors to lie to the demos in the event they war
on just people); whereas Alkibiades' concern was nobility.
85. This would be especially true if considerations of justice
legitimately stop at the city's walls. Cf. also Thucydides, I. 75, and
compare the relative importance of these motives in I. 76. This
conclusion may not be fair to Alkibiades, for he is clearly not similar
to Kallikles (see below) since he is convinced that he must speak with
Socrates to get to the truth. He wants to keep talking. But he is still
haughty. He has just completed a short display of skill that wasn't
sufficiently appreciated by Socrates, and, most importantly, there will
be an unmistakeable point in the dialogue at which Alkibiades does become
serious about learning. Alkibiades will confess ignorance and that will
mark a most important change in his attitude. His attention here isn't
focussed on the premises but on the conclusion of the argument.
There are a number of possibilities here for speculation as to the cause
of his taking refuge - from shame? from the truth? from the
argument? 88. Draughts is a table game with counters, presumably
comparable to chess. Draughts is a Socratic metaphor for philosophy or
dialectics. The example arises in connection with language, and seem to
indicate the reader's participation in the dialogue. First, of course,
Plato must have us in mind, for Alkibiades cannot know that draughts are
Socrates' metaphor for philosophical dialectics. Second, the metaphor
itself demands reflecting upon. How not to play is a strange thing to
insert. Though proceeding through negation is often the only way to
progress in philosophy, one doesn't set out to learn how not to play. The
many indeed cannot teach one to philosophize, but the question of how not
to philosophize often has to be answered in light of the many, as does
the question of how not to "argue." The philosopher must show
caution both because of the many's potential strength over himself, and
through his consideration of their irenic co-existence; he must not rock
the boat, so to speak. Cf. Hobbes, Leviathan, p. 100; Genesis
2:19-20. 90. It is interesting that with reference to
"running" (the province of the gymnastics expert or horseman)
Socrates mentions both horses and men. In the example of
"health" he mentions only men. Presumably he is indicating that there
is some distinction to be made between men and horses that is relevant to
the two technae . Quite likely this distinction shall prove to be a
significant aid in the analysis of the metaphors of 'physician 1 and
'gymnast' that so pervade this dialogue. Borrowing the analogy of
'horses' from the Apology (30e), wherein cities are said to be like
horses, one might begin by examining in what way a gymnastics expert
pertains more to the city than does a doctor, or why "running"
and not "disease" is a subject for consideration in the city,
while both are important for men. Perhaps a good way to begin would be by
understanding how, when man's body becomes the focus for his concerns,
the tensions arise between the public and private realm, between city and
man. 91. The practical political problem, of course, is not
simply solved either when the philosophic determination of 'the many' is
made, or when empirical observation yields the results confirming what
'the many' believe. The opinions must still be both evaluated and accounted
for. However, when it is an extreme question of health - e.g.,
starvation, a plague - a question of life or death, they do. The condition of
the body does induce people to fight and the condition of the body seems
to be the major concern of most people and is thus probably a real,
though background, cause of most wars and battles. 93. Homer,
Odyssey; In Euripides' play, Hippolytos, Phaedra, the wife of Theseus, is
in love with her stepson Hippolytos, and though unwilling to admit, she
is unable to conceal, her love from her old nurse. She describes him so
the nurse has to know, and then says she heard it from herself, not
Phaedra. 95. It is undoubtedly some such feature of power as this
that Alkibiades expects Socrates to mention as that power which only he
can give Alkibiades. It may be that Socrates' power is closely tied
to speech - we are not able to make that judgement yet - but
Alkibiades is certainly not prepared for what he gets. The
reader is cautioned to remember that Socrates is assuming power to be the
vehicle for Alkibiades' honor. At least one sense in which this is
necessary to Socrates' designs has come to light. Alkibiades could
be convinced that he should look for honor in a narrower group of people
once he thought they were the people with the secret to power. It is not
as likely that he would come to respect that group (especially not for
being the real keys to power) if he hadn't already had his sense of honor
reformed. Cf. Gorgias, beginning at 499b and continuing through the end.
He certainly doesn't seem to care, although it may be a bluff or a pose.
97. Such as, perhaps, a dagger only partially concealed under his
sleeve - Gorgias 469c-d. 98. This, of course, is from the
perspective of the city. Very powerful arguments have been made to the
contrary. The city may not be the primary concern of the wisest
men. 99. Perhaps it should be pointed out, though, that men who
devote themselves to public affairs frequently neglect their family -
again the tension between public and private is brought to our attention
(cf. Meno, 93a-94e). 100. The fact that oaks grow stunted in
the desert does not mean that the stunted oak of the desert is natural.
The only thing we could argue is natural is that 'natural' science could
explain why the acorn was unable to fulfill its potential, just as
'natural' science can explain how there can be two-headed, gelded, or
feverish horses. In any explanation of this sort the reference is to a
more ideal tree or horse. And any examination of an existing tree or
horse will involve a reference to an even more perfect idea of a tree or
a horse. 101. It may be of no small significance that Socrates uses
the word ' ideas ' in this central passage. It is the only time in
this dialogue that the word is used and it seems at first innocuous.
'Ideas' is another form of ' eidos ' - 'the looks' so famous in the
central epistemological books of the Republic. What is so
exceptional about the " * use here is that it
occurs precisely where the question of the proper contest, the question
of the best man, is raised. Socrates says, "My, my, best of men,
what a thing to say! How unworthy of the looks and other advantages of
yours." We are perhaps being told it is unworthy of 'the looks,'
'the ideas, 1 that Alkibiades does not pose a high enough ambition. The
translators (who never noted this) are not in complete error. Their error
is one of imprecision. The modifier "your" ( soi) is an
enclitic and would have been understood (by Alkibiades) to refer to
"looks" as well as to his other advantages. However, as an
enclitic, it is used as a subtle kind of emphasis, and it is clearly the
"other advantages" that are emphasized. The 'soi' would
normally appear in front of the first of a list of articles. It doesn't
here, and the careful reader of the Greek text would certainly be first
impressed with it as " the looks." The reference to Alkibiades'
looks would be a second thought. And only in someone not familiar with
the Republic or with the epistemological problem of the best man, would
the "second- thought" be weighty anough to drown the first
impression. Incidentally, it is indeed interesting that the word
for the highest metaphysical reality in Plato's works is a word so
closely tied to everyday appearance. Once again there is support for the
dialectical method of questioning and answering, to slowly and carefully
refine the world of common opinion and find truth or the reality behind
appearance. Whether the war justly or unjustly is not mentioned. I believe
that the referent to "others" is left ambiguous. Note also that
here (120c) Socrates speaks of the Spartan generals ( strategoi ), a
subtle change from 'king' (120a) a moment earlier. Perhaps he is implying a
difference between power and actual military capability. This is/ of
course/ generally good advice. Cf. Thucydides I 84: one shouldn't act as
though the enemy were ill-advised. One must build on one's foresight, not
on the enemy's oversight. The important provision of nurture is added to
nature. Cf. 103a and the discussion of the opening words of the
dialogue. 106. Socrates has included himself in the deliberation
explicitly at this point, serving as a reminder to the reader that both
of these superior men should be considered in the various discussions,
not just one. A comparison of them and what they represent will prove
fruitful to the student of the dialogue. 107. Plato, another
son of Ariston, is perhaps smiling here; we recall why it is suspected
that Alkibiades left Sparta and perhaps why he was killed.
Two more facets of this passage are, firstly, that this might be
seen as another challenge by Socrates (in which case we should wonder as
to its purpose). Secondly, it implies that Alkibiades' line may have been
corrupted, or is at least not as secure as a Spartan or Persian one.
Alkibiades cannot be positive that his acknowledged family and kin are
truly his. 108. There is a very important exception and one
significant to this dialogue as well as to political thinking in general.
One may change one's ancestry by mythologizing it (or lying) as Socrates
and Alkibiades have both done. This may serve an ulterior purpose;
recall, for example, the claims of many monarchies to divine right.
109. Hesiod Theogony 928; cf. also Homer, Iliad, The opposite of Athena,
Aphrodite ( Symposium 180d), and Orpheus ( Republic 620a).
111. A number of Athenians may have thought this was much the same
effect as Socrates had. He led promising youths into a maze from which it
was difficult to escape. This discussion should be compared in detail with
the education outlined in the Republic . Such a comparison provides even
more material for reflection about the connection between a man's nurture
and his nature. (One significant contrast: the Persians lack a
musical education). Compare, for example, the difference concerning
horseback riding: Plato, Alkibiades I, 121e; and Xenophon,
Kyropaideia, I, iii, 3. Cf., for example, Machiavelli, The Prince, chapters 18,
19. The only other fox in the Platonic corpus (besides its being the name
of Socrates' deme - Gorgias) is in the Republic where the fox is
the wily and subtle deceiver in the facade of justice which is what
Adeimantos, in his elaboration of Glaukon's challenge, suggests is all
one needs. The reader of the dialogue has already been reminded of
the Allegory of the Cave, also in the context of nurture. Sydenham,
Works of Plato, points out that Herodotos tells us that this is not exclusively
a Persian custom. Egyptians, too, used all the revenue from some sections
of land for the shoes and other apparel of the queen. Cf. Herodotos,
Histories, II, 97. 117. Cf. Pamela Jensen, "Nietzsche and
Liberation: The Prelude to a Philosophy of the Future," Interpretation:
"[Nietzsche] does not suppose truth to be God, but a woman, who has
good reasons to hide herself from man: her seductiveness depends upon her
secretiveness. This greatly compounds the problems of understanding the
two men and their eros . What has heretofore been interpreted by Socrates
as Alkibiades' ambition for power is now explicitly stated to be an
ambition for reputation. Are we to understand them as more than
importantly connected, but essentially similar? And what are we to make
of Socrates' inclusion of himself at precisely this point? Does he want
power too? Reputation? Perhaps we are to see both men (and maybe even all
erotic attraction whatsoever) as willing to have power. Socrates sees
power as coming through knowledge. Alkibiades sees it as arising
from reputation. Is Socrates in this dialogue engaged in teaching Alkibiades
to respect wisdom over glory in the interests of some notion of power?
The philosopher and the timocrat come out of (or begin as) the same class
of men in the Republic. The reader should examine what differences
relevant to the gold/philosophic class, if any, are displayed by Socrates
and Alkibiades. Perhaps Socrates' education of Alkibiades could be seen
as a project in alchemy - transforming silver into gold. 119.
Homer, Iliad, X. 224-6. Cf. Protagoras, 348d; Symposium, 174d; Alkibiades
II, 140a; as well as Alkibiades. This is not intended to challenge Prof.
Bloom's interpretation ( The Republic of Plato, p. 311). As far as I am capable
of understanding it and the text, his is the correct reading. However,
with respect to this point I believe the dialogue substantiates reading
the group of men with Polemarkhos as the many with power, and Socrates
and Glaukon as the few wise. This is left quite ambiguous. The jest
could refer to: a) Socrates' claim to believe in the gods
b) Socrates' reason as to why his guardian is better c)
Socrates' claim that he is uniquely capable of providing Alkibiades with
power. In the Republic, inodes and rules of music are considered of
paramount political importance. Cf. Republic [citato da H. P. Grice] Cf.
however. Symposium, 174a, 213b. At this stage of the argument Socrates
does not distinguish between the body and the self. 124. This is
the only time Socrates swears by an Olympian god. He has referred
to his own god, the god Alkibiades "talked" to, a general
monotheistic god, and he has sworn upon the "common god of
friendship" (cf. Gorgias 500b, 519e, Euthyphro 6b), as well as
using milder oaths such as 1 Babai 1. It would probably be very
interesting to find out how Socrates swears throughout the
dialogues and reflect on their connection to his talk of piety, and of
course, his eventual charge and trial. Strictly speaking that is the
remark on which there won't be disagreement, not the one following it.
"Man is one of three things," is something no one can
disagree with. (He is what he is and any two more things may be added to
make a set of three.) Why does Socrates choose to say it this way? And
why three? Are there three essential elements in man's nature? As we
shall presently see, he does assume a fourth which is not mentioned at
this time. 126. Though first on the list of Spartan virtues,
temperance ( sophrosyne ), a virtue so relevant to the problem of
Alkibiades, does not receive much treatment in this dialogue. One might
also ask: if temperance is knowing oneself, is there a quasi-virtue, a
quasitemperance based on right opinion? 127. This is what Socrates'
anonymous companion at the beginning of Protagoras suggests to Socrates
with respect to Alkibiades. Homer, Odyssey, II. 364. Odysseus' son,
Telemakhos, is called the "only and cherished son" by his nurse
when he reveals to her his plan of setting out on a voyage to discover
news about his father. His voyage too (permitting the application
of the metaphor of descent and human nature) is guarded by a divine
being. Alkibiades/Telemakhos is setting out on a voyage to discover his
nature. 129. For other references to "stripping" in the
dialogues, see Gorgias 523e, 524d; cf. also Republic 601b, 612a, 359d,
361c, 577b, 474a, 452a-d, 457b; Ion 535d; Kharmides 154d, 154e;
Theaitetos; Laws 772a, 833c, 854d, 873b, 925a; Kratylos 403b;
Phaidros; Menexenos; Statesman; Sophist. This word for release,
apallattetai, has only been used for the release of eros to this point in
the dialogue. Parenthetically, regarding this last passage, we note also
that the roles of wealth and goodness in well-being have not been
thoroughly 0 xplored. Perhaps he is suggesting a connection between
becoming rich and not becoming temperate. One might interject here
that perhaps the virtues resulting from, say, a Spartan nurture, do not
depend on the virtues of the governors. Perhaps they depend on the virtue
or right opinion of the lawgiver, but maybe not even that. There might be
other counterbalancing factors, as, for example, Alexander Solzhenitsyn
suggests about Russians today - (Harvard Commencement Address, 1978,
e.g., paragraph 22). 132. As was mentioned with respect to their
other occurrences in the dialogue, the metaphors of the diseased city,
physician of the city, doctor of the body, pilot of ship, ship-of-state
and passenger are all worth investigating more thoroughly, and in
relation to each other. There is a dialogue, the Parmenides, in which the
"Young Socrates" speaks. We do not know what to make of this,
but the fact that he is called the "Young" Socrates somehow
distinguishes his role in this, from the other dialogues. He is not
called "Young Socrates" in the Alkibiades I, nor is he referred
to as "Middle-aged Socrates" in the Republic, nor is he named
"Old Socrates" in the Apology. Having come this far, the reader
might want to judge for himself some recent Platonic scholarship
pertaining to the First Alkibiades. In comparatively recent times the
major source of interest in the dialogue has been the popular dispute
about its authenticity. Robert S. Brumbaugh, in Plato for the
Modern Age, (p. 192-3) concludes: But the argument of the
dialogue is clumsy, its dialectic constantly refers us to God for
philosophic answers, and its central point of method - tediously made -
is simply the difficulty of getting the young respondent to make a
generalization. There is almost none of the interplay of concrete situation and
abstract argument that marks the indisputably authentic early dialogues
of Plato. Further, the First Alkibiades includes an almost textbook
summary of the ideas that are central in the authentic dialogues of
Plato's middle period; so markedly that it was in fact used as an
introductory textbook for freshman Platonists by the Neo-Platonic
heads of the Academy it would be surprising if this thin illustration of
the tediousness of induction were ever Plato's own exclusive philosophic
theme: he had too many other ideas to explore and offer. Jowett,
translator of the dialogue and thus familiar with the writings, says in
his introduction to the translation: we have difficulty in supposing that the
same writer, who has given so profound and complex a notion of the
characters both of Alkibiades and Socrates in the Symposium should have
treated them in so thin and superficial a manner as in the Alkibiades, or
that he would have ascribed to the ironical Socrates the rather
unmeaning boast that Alkibiades could not attain the objects of his
ambition without his help; or that he should have imagined that a
mighty nature like his could have been reformed by a few not very
conclusive words of Socrates... There is none of the undoubted dialogues
of Plato in which there is so little dramatic
verisimilitude.Schleiermacher, originator of the charge of spuriousness,
analyzed the dialogue. It is to him that we owe the current dispute.
Saving the best for last: there is nothing in it too difficult or
too profound and obscure for even the least prepared tyro. This
work appears to us but very insignificant and poor and genuinely
Platonic passages may be found sparingly dispersed and floating in a mass
of worthless matter and we must not imagine for a moment that in
these speeches some philosophic secrets or other are intended to be
contained. On the contrary, though many genuine Platonic doctrines are
very closely connected with what is here said, not even the
slightest trace of them is to be met with and in short, however we may
consider it, the Alkibiades, is in this respect either a
contradiction of all other Platonic dialogues, or else Plato's own
dialogues are so with reference to the rest. And whoever does not feel
this, we cannot indeed afford him any advice, but only congratulate him
that his notions of Plato can be so cheaply satisfied... In
any event, much could be said about whether anything important to the
philosophic enterprise would hinge upon the authorship. My comments
concerning the issue will be few. Firstly there is no evidence that could
positively establish the authorship. Even should Plato rise from the dead
to hold a press conference, we are familiar enough with his irony to
doubt the straightforwardness of such a statement. Secondly, many of the
arguments are based on rather presumptuous beliefs that their proponents
have a thorough understanding of the corpus and how it fits together. I
will not comment further on such self- satisfaction. Thirdly,
there are a number of arguments based on stylistic analyses. If only for
the reason that these implicitly recognize that the dialogue itself must
provide the answer, they will be addressed. Two things must be
said. First, style changes can be willed, so to suggest anything
conclusive about them is to presume to understand the author better than
he understood himself. Second, style is only one of the many facets of a
dialogue, all of which must be taken into account to make a final
judgement. As is surely obvious by now, that takes careful study. And
perhaps all that is required of a dialogue is that it prove a fertile
ground for such study. Aristophanes. The Eleven Comedies . New York:
Liveright, The King James BIBLE. Nashville, U.S.A.: Kedeka,Bloedow, E. F.
Alcibiades Reexamined . Weisbaden: Franz Steiner Verlag, 1973.
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Masters and J. Masters. New York: St. Martin's, RYLE (citato da H. P.
Grice), Plato's Progress. Cambridge, Schleiermacher. Introduction to the
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platonico, l’amore socratico, l’implicatura di Socrate, filosofo socratico,
Socrate, Alcibiade. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carando” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Carapelle:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – linguaggio e
metafilosofia – linguaggio oggetto – meta-linguaggio – Peano – Tarski 1944 – bootstrapping
– scula di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofia campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I
like Carcano; I cannot say he is an ultra-original philosopher, but I may – My
favourite is actually a tract on him, on ‘meta-philosophy,’ or rather ‘language
and metaphilosophy,’ which is what I’m all about! How philosophers misuse
‘believe,’ say – but Carcano has also philosophised on issues that seem very
strange to Italians, like ‘logica e analisi,’ ‘semantica’ and ‘filosofia del
linguaggio’ – brilliantly!” Quarto Duca di Montaltino, Nobile dei
Marchesi di C.. Noto per i suoi studi di fenomenologia, semantica, filosofia
del linguaggio e più in generale di filosofia analitica. Studia a Napoli,
durante i quali si formò alla scuola di Aliotta e si dedica allo studio delle
scienze. Studia a Napoli e Roma. Sulla scia teoretica del suo tutore volle
approfondire le problematiche poste dalla filosofia e riesaminare attentamente
il linguaggio in uso. La sua tesi centrale è che correnti come il pragmatismo,
il positivismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo e la psicoanalisi, fossero
il portato dell'esigenza teoretica di una maggiore chiarezza – la chiarezza non
e sufficiente -- delle varie questioni che emergevano da una crisi culturale,
vitale ed esistenziale. Al centro di tale crisi giganteggia la polemica fra
senza senso metafisico e senso anti-metafisica, soprattutto a causa del vigore
critico del positivismo logico, contro il quale a sua volta lui -- che ritiene
necessaria una sostanziale alleanza o quantomeno un aperto dialogo fra la
metafisica e la scienza -- pone diversi rilievi critici, principale dei quali è
quello di minare alla base l'unità dell'esperienza, alla Oakeshott -- che senza
una cornice o una struttura metafisica in cui inserirsi rimarrebbe
indefinitamente frammentata in percezioni fra loro irrelate. A questo
inconveniente si può rimediare temperando il positivismo con lo
sperimentalismo, ovvero accompagnando alla piena accettazione del metodo una
piena apertura all’esperienza così come “esperienza” è stata intesa, ad
esempio, nella fenomenologia intenzionalista intersoggetiva di Husserl. In
questo senso si può procedere a mantenere una costante tensione sui problemi
posti dalla filosofia, in opposizione a ogni dogma di sistema, e al contempo
non cadere nell'angoscia a cui conduce lo scetticismo radicale che tutto
rifiuta, compresa l'esperienza. Non si tratterebbe dunque per la filosofia di
definire verità immutabili ma di sincronizzarsi col ritmo del metodo basato
sull’esperienza fenomenologico, sussumendo i risultati sperimentali e
integrandoli nel continuum di una struttura metafisica mediante il ponte
dell'esperienza. Altre opere: “Filosofia e civiltà” (Perrella, Roma); Filosofia
(Foro Italiano, Roma); Il problema filosofico. Fratelli Bocca, Roma); La
semantica, Fratelli Bocca, Roma – cf. Grice, “Semantics and Metaphysics”)
Metodologia filosofica, una rivoluzione filosofica minore. Libreria scientifica
editrice, Napoli. Esistenza ed alienazione” (MILANI, Padova); Scienza
unificata, Unita della scienza (Sansoni, Firenze); Analisi e forma logica (MILANI,
Padova); Il concetto di informativita, MILANI, Padova); La filosofia
linguistica, Bulzoni Editore, Roma. Dizionario biografico degli italiani, Roma.
Ben altrimenti articolato e puntuale ci sembra l'intervento operato sulla
fenomenologia da C., ed allievo di Aliotta a Napoli e pur fedele estensore
delle sue teorie, sulle quali, per questo mo tivo, ci siamo nell'ultima parte
dilungati sorvolando sullo scarso ruolo t-he gioca in esse l'opera di Husserl.
L'iter formativo di C. interseca
situazioni ed esperienze riscontrabili, come ve dremo, anche in altri giovani
filosofi della stessa generazione. Di più, nel.suo caso, c'è una singolare e
probabilmente indotta analogia con la vicenda teoretica del primo Husserl. In
realtà, scrive l'autore in un brano autobiografico io non posso dire di essere
venuto alla filosofia in maniera diretta, per un'intima voca zione alla
speculazione o per un normale maturarsi dei miei studi e della mia men talità
giovanile, ma questa era soprattutto caratterizzata da un'intensa passione
pèrle scienze e da una viva disposizione per la matematica. Questo germinale
orientamento, unito a una sensibilità religiosa che non tarderà a manifestarsi,
ebbe come primo e scontato effetto di allontanare C. dall'area neo-idealistica,
il cui radicale immanentismo, la esclusione dei concetti di peccato e di grazia
e l'avversione per ogni for- P. Filiasi
C., 17 ruolo della metodologia nel rinnovamento della filo sofia
contemporanea, La filosofia contemporanea in Italia. Invito al dialogo, Asti,
Arethusa. ma di naturalismo, non potevano in alcun modo essere accettati.
Di qui un sentimento di estraneità e di insoddisfazione subito denunciati fin
dai primi scritti, l'intima perplessità e la difficoltà di orientarsi in una
temperie culturale già decisa e fissata nelle sue grandi linee da altri. E,
d'altro canto, un naturale rivolgersi al problema metodologico, come pre
liminare assunzione di consapevolezza circa i percorsi teoretici che con
veniva seguire per ottenere uno scopo valido, senza tuttavia ancora nul la
presumere circa la necessità di quei percorsi o la natura di questo sco po. In
tal senso, l'elaborazione di una qualsivoglia metodologia doveva prevedere come
esito programmatico, da un lato, una sorta di epochizza- zione delle grandi
tematiche metafisiche e della tradizionale formulazione dèi problemi,
dall'altro lato, un lungo e paziente lavoro di analisi, con fronto,
chiarificazióne e comprensione che consentisse di recuperare, di quelle
tematiche e di quei problemi, il contenuto più autentico. Ma più lo sguardo
critico del giovane filòsofo andrà maturando fino ad abbracciare nel suo
complesso il controverso panorama culturale del tempo, più quel programma
iniziale perderà la sua connotazione prope deutica per trasformarsi in compito
destinale, in una ' fighi for clarity* che assumeva i termini di un radicale
esame di coscienza nei confronti della filosofia. Scrive Filiasi Carcano:
Confesserò che varie volte ho avuto ed ho l'impressione di non aver abba
stanza compreso, e per questo alla mia spontanea insoddisfazione (al tempo
stesso scientifica e religiosa) si mescola un senso di incomprensione. Questo
stato d'animo spiega bene il mio atteggiamento che non è propriamente di
critica, ma ha piut tosto il carattere di un prescindere, di una sospensione
del giudizio, di una messa in parentesi, in attesa di una più matura
riflessione 56. Al fondo dei dualismi e delle vuote polemiche che, nella
comunità filoso- fica italiana degli anni Trenta, sembravano prevaricare sulle
più urgenti esigenze scientifiche e di sviluppo, Filiasi Carcano coglie i
sintomi dì un conflitto epocale, di una inquietudine psicologica e di
un'incertezza morale che andranno a comporsi in una vera e propria
fenomenologia della crisi. ' Crisi della civiltà ', anzitutto, come recita il
titolo della sua opera prima, dove al desiderio di fuggire l'alternativa del
dogmatismo fa da 55 Per questi punti mi sono riferito a M. L. Gavazzo, Paolo
Filiasi Carcano,. «Filosofia oggi»; * P; Filiasi Carcano, // ruolo della
metodologia, Cfr. C., Crisi della
civiltà e orientamenti della filosofia contraltare l'eterno dissidio tra
ragione e fede. Crisi esistenziale, di con seguenza, dovuta al prevalere delle
tendenze scettiche e antimetafisiche su quelle spirituali e religiose. Crisi
della filosofia, infine, fondata sulla raggiunta consapevolezza del suo
carattere problematico, sull'incapacità di realizzare interamente la pienezza
del suo concetto. Come moto di reazione immediata occorreva allora, oltreché
circoscrivere le proprie pre tese conoscitive ponendosi su un piano
risolutamente pragmatico, assur gere ad una più compiuta presa di coscienza
storica e conciliare la filoso fia con una mentalità scientificamente educata.
Solo, cioè, il confronto con una seria problematica scientifica (la quale C.
vede realizzata nell'ottica positivista dello sperimentalismo aliottiano) avreb
be potuto segnare per la filosofia l'avvento di una più matura riflessione
intorno alle proprie dinamiche interne e ai propri genuini compiti critici. E a
questo scopo parve a Filiasi Carcano, fin dai suoi studi d'esor dio,
singolarmente soccorrevole proprio l'opera d’Husserl. Scri ve Angiolo Maros
Dell'Oro: A un certo punto si intromise Husserl. C. pensa, o spera, che là
fenomenologia sarebbe stata la scienza delle scienze – REGINA SCIENTIARVM –
Grice --, capace di indicargli la via zu den Sachen selbsf, per dirla con le
parole del suo fondatore. Da allora è stata invece per lui l'enzima patologico
di una problematica acuta. Sùbito rifiutata, in realtà, come idealismo
metafisico, quale eira frettolo samente spacciata in certe grossolane versioni
del tempo (non esclusa, lo abbiamo visto,.quella del suo, maestro), la
fenomenologia viene aggredita alla radice dal giovane studioso, con una cura e
un rigore filologico i quali pure
riscontreremo in altri suoi coetanei — giustificabili solo con l'urgenza di una
richiesta culturale cui l'ambiente nostrano non poteva evidentemente
soddisfare. Non è un caso che C. insista, fin dal suo primo articolo dedicato
ad Husserl, sul valore della fenomeno logia, ad un tempo, emblematico, nel
quadro d'insieme della filosofia contemporanea, e liberatorio rispetto al giogo
dei tradizionali dogmi idealistici che i giovani, soprattutto in Italia, si
sentivano gravare sulle spalle. contemporanea, pref. d’Aliotta, Roma,
Perrella, Cf. Il pensiero scientifico
ìtt Italia 'Creiriòria, Màngiarotti; Cfr. Cartario/ Da Carierò'ad H«w&f/,:«
Ricerche filosofìche. In piena coscienza,
scrive il filosofo se abbiamo voluto scio gliere l'esperienza da una
necessaria interpretazione idealistica, non è stato per forzarla nuovamente nei
quadri di una metafisica esistenziale, ma per ridare ad essa, secondo lo
schietto spirito della fenomenologia, tutta la sua libertà. Tale schiettezza,
corroborata da un carattere decisamente antisistema tico e dal recupero di una
vitale esigenza descrittiva, avrebbe consentito lo schiudersi di un nuovo,
vastissimo territorio di indagine, sospeso tra constatazione positivistica e
determinazione metafisica, ma capace, al tem po stesso, di metter capo ad un
positivismo di grado superiore e ad un più autentico pensare metafisico. Si
trattava, in sostanza, non tanto di dedurre i caratteri di una nuova positività
oppure di rifondare una me- tafisica, quanto piuttosto di guadagnare un più
saldo punto d'osserva zione dal quale far spaziare sul multiverso
esperienziale il proprio sguar do fenomenologicamente addestrato. È in questo
punto che la fenome nologia, riabilitando l'intuizione in quanto fonte
originaria di autorità (Rechtsquelle), operando in base al principio
dell'assenza di presupposti e offrendo i quadri noetico-noematici per la
sistemazione effettiva del suo programma di ricerca, veniva ad innestarsi sul
tronco dello sperimenta lismo di stampo aliottiano, che FC. aveva assimilato a
Napoli negli anni del suo apprendistato filosofia). Il ritorno alle cose stesse
predetto dalla fenomenologia non solo manteneva intatta la coscienza cri tica
rimanendo al di qua di ogni soglia metafisica, ma anche e più che mai serviva a
ribadire il carattere scientifico e descrittivo della filosofia. In un passo si
possono scorrere, a modo di riscontro, i punti di un vero e proprio manifesto
sperimentalista: Descrivere la nostra esperienza nel mondo con l'aiuto della
critica più raffi nata; cercare di raccordarne i vari aspetti in sintesi
sempre più vaste e più com prensive, esprimenti, per cosi dire, gradi diversi
della nostra conoscenza del mon do; non perdere mai il senso profondo della
problematicità continuamente svol- gentesi dal corso stesso della nostra
riflessione; infine stare in guardia contro tutte le astrazioni che rischiano
di alterare e disperdere il ritmo spontaneo della vita: sono questi i
principali motivi dello sperimentalismo e al tempo stesso, i modi mediante i
quali esso va incontro alle più attuali esigenze logiche e metodologiche del
pensiero contemporaneo. D'altro canto, si diceva, non è neppure precluso a
questo program- C., Crisi della civiltà; C., Anti-metafisica e sperimentalismo,
Roma, Perrella ma un esito trascendente, e a fenderlo possibile sarà ancora una
volta, in virtù della sua cruciale natura teoretica, proprio l'atteggiamento
feno menologico. Scrive C. In realtà, il dilemma tra una scienza che escluda
l'intuizione e una intui zione che escluda la scienza, non c'è che su di un
piano realistico ma non su di un piano fenomenologicamente ridotto: su questo
piano scienza e intuizione tornano ad accordarsi, accogliendo una pluralità di
esperienze, tutte in un certo senso le gittime e primitive, ma tutte viste in
un particolare atteggiamento di spirito che sospende ogni giudizio metafisico.
È questo, com'io l'intendo, il modo particola rissimo con cui la filosofia può
tornare oggi ad occuparsi di metafisica. Certo, nella prospettiva husserliana,
il problema del trascendens puro e semplice, che farà da sfondo a tutto il
percorso speculativo di Filiasi Carcano, sembrava rimanere ingiudicato o,
almeno, intenzionalmente rin viato in una sorta di ' al di là ' conoscitivo,
Ma in ordine alla missione spirituale che l'uomo deve poter esplicare nel mondo
storico, il metodo fenomenologico conserva tutta la sua efficacia. Esso nota C.
nelle ultime pagine del suo Antimetafisica e spe rimentalismo — certo
difficilmente può condurre a risultati, ma compie per lo meno analisi e
descrizioni interessanti, e tanto più notevoli in quanto tende a sollevare il
velo dell'abitudine per farci ritrovare le primitive intuizioni della vita
religiosa. Dato questo suo carattere peculiare e l'orizzonte significativo nel
quale viene assunta fin dal principio, la fenomenologia continuerà a va lere
per Filiasi Carcano come referente teoretico di prim'ordine, accom pagnandolo,
con la tensione e la profondità tipiche delle esperienze fon damentali, in
tutti i futuri sviluppi della sua speculazione. La terza grande area di
interesse per il pensiero hussèrliano negli anni Trenta in Italia, fa capo
all'Università.di Torino e si costituisce prin cipalmente intorno all'attività
4i tre studiosi: il primo, già incontrato e che, in qualche modo, fa da ponte
fra questa e la neoscolastica mila nese è Mazzantini; il secondo è Annibale
Pastore ne parleremo ora che teneva
nell'ateneo torinese la cattedra di filosofia teoretica; C.,. Crisi.della civiltà,:; C., Anti-metafisica
e sperimentalismo. Apparently, Hilbert is the first to use the prefix meta (from
the Greek over) in the sense we use it in meta-language, meta-theory, and now
meta-system. Hilbert introduces the term meta-mathematics to denote a
mathematical theory of mathematical proof. In terms of our control scheme,
Hilbert's MST has a non-trivial representation: a mapping of proofs in the form
of usual mathematical texts (in a natural language with formulas) on the set of
texts in a formal logical language which makes it possible to treat proofs as
precisely defined mathematical objects. This done, the rest is as usual: the
controlled system is a mathematician who proves theorems; the controlling
person is a metamathematician who translates texts into the formal logical
language and controls the work of the mathematician by checking the validity of
his proofs and, possibly mechanically generating proofs in a computer. The
emergence of the metamathematician is an MST. Since we have agreed not to
employ semantically closed languages, we have to use two different languages in
discussing the problem of the definition of truth and, more generally, any
problems in the field of semantics. The first of these languages is the
language which is "talked about" and which is the subject- matter of
the whole discussion; the definition of truth which we are seeking applies
to the sentences of this language. The second is the language in which we
"talk about" the first language, and in terms of which we wish, in
particular, to construct the definition of truth for the first language. We
shall refer to the first language as "the object-language,"and to the
second as "the meta-language." It should be noticed that these terms
"object-language" and "meta- language" have only a relative
sense. If, for instance, we become inter- ested in the notion of truth applying
to sentences, not of our original object-language, but of its meta-language,
the latter becomes automatically the object-language of our discussion; and in
order to define truth for this language, we have to go to a new
meta-language-so to speak, to a meta- language of a higher level. In this way
we arrive at a whole hierarchy of languages. The vocabulary of the
meta-language is to a large extent determined by previously stated conditions
under which a definition of truth will be considered materially adequate. This
definition, as we recall, has to imply all equivalences of the form (T): (T) X
is true if, and only if, p. The definition itself and all the equivalences
implied by it are to be formulated in the meta-language. On the other hand, the
symbol 'p' in (T) stands for an arbitrary sentence of our
object-language. Let “A(p)** mean “I assert p between 5.29 and 5.31’*.
Then q is “there is a proposition p such that A(p) and p is fake”. The
contradiction emerges from the supposition that q is the proposition p in
question. But if there is a hierarchy of meanings of the word “false**
corresponding to a hierarchy of propositions, we shall have to substitute
for q something more definite, i.e. “there is a proposition p of order «,
such that k{p) and p has falsehood of order n*\ Here n may be any
integer: but whatever integer it is, q will be of order « + i? and will not be
capable of truth or falsehood of order n. Since I make no assertion of
order n, q is false, The hierarchy must extend upwards
indefinitely, but not downwards, since, if it did, language could never
get started. There must, therefore, be a language of lowest type. I
shall define one such language, not the only possible one.* I shall
call this sometimes the “object-language”, sometimes the “primary
language”. My purpose, in the present chapter, is to define and describe
this basic lai^age. The languages which follow in the hierarchy I shall
call secondary, tertiary, and so on; it is to be understood that each
language contains all its predecessors. The primary language, we
shall find, can be defined both logically and psychologically; but before
attempting formal definitions it will be well to make a preliminary
informal explora- tion. It is clear, from Tarski’s argument,
that the words “true” and “false” cannot occur in the primary language;
for these words, as applied to sentences in the language, belong to
the (« -t- language. This does not mean that sentences in the
primary language are neither true nor false, but that, if “/>” is a
sentence in this language, the two sentences “p is true” and “p is false”
belong to the secondary language. This is, indeed, obvious apart from
Tarski’s argument. For, if there is a primary language, its words must
not be such as presuppose the existence of a language. Now “true” and
“false” are words applicable to sentences, and thus presuppose the
existence of language. (I do not mean to deny that a memory consisting of
images, not words, may be “true” or “false”; but this is in a
somewhat different sense, which need not concern us at present.) In
the primary language, therefore, though we can make assertions, we
cannot say that our own assertions or those of others are either true or
false. When I say that we make assertions in the primary
language, I must guard against a misunderstanding, for the word
“assertion” and, since q is not a possible value of p, the argument
that q is also true collapses. The man who says ‘T am telling a lie of
order n” is telling a He, but of order n 4 - I. Other ways of evading the
paradox have been suggested, e.g. by Ramsey, “Foundations of
Mathematics”, p. 48. * My liierarchy of languages is not identical
with Carnap's or Tarski's. Proceeding psychologically, I construct a
language (not the language) fulfilling the logical conditions for the
language of lowest type; I call this the “object-language” or the
“primary language”. In this language, every word “denotes” or “means” a
sensible object or set of such objects, and, when used alone, asserts the
sensible presence of the object, or of one of AN INQUIRY INTO MEANING AND
TRUTH the set of objects, which it denotes or means. In defining
this language, it is necessary to define “denoting” or “meaning” as
applied to object-words, i.e., to the words of this language. Paolo
Filiasi Carcano di Montaltino di Carapelle. Paolo Filiasi Carcano di Montaltino
de Carapelle, quarto duca di Montaltino. Paolo Filiasi Carcano. Paolo Carcano.
Montaltino. Keywords: linguaggio e metafilosofia, semantica, quarto duca di
montaltino, semantica ed esperienza, semantica e fenomenologia, filiasi
carcano, montaltino, carapelle. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carapelle” –
The Swimming-Pool Library. Carapelle.
Luigi Speranza -- Grice e Carbonara:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale l’esperienza e la
prassi – Cicerone e il pratico – scuola di Potenza – filosofia basilicatese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Potenza). Filosofo
basilicatese. Filosofo italiano. Potenza, Basilicata. Grice: “I like Carbonara;
my favourite of his tracts are one on ‘del bello,’ – another one on ‘dissegno
per una filosofia critica dell’esperienza pura: immediatezza e reflessione’ –
but mostly his ‘esperienza e prassi,’ which fits nicely with my functionalist
method in philosophical psychology: there is input (esperienza), but there is
‘prassi,’ the behavioural output --; I would prefer this to the tract on the
‘filossofia critica’ since I’m not sure we need ‘reflexion’ to explain, say,
communication – not at least in the way Carbonara does use ‘reflessione,’ alla
Husserl. Conseguito il
diploma liceale, si trasferì a Napoli, frequentando la facoltà di filosofia.
Ottenuta la laurea sotto Aliotta, collabora per “Logos”. Insegna a Campobasso, Nocera
Inferiore, Cagliari, Catania, e Napoli.
Con “Disegno d'una filosofia critica dell'esperienza pura”, rifacendosi
alla filosofia kantiana e riprendendo il discorso idealistico ne mette in
rilievo il tentativo fallito di Gentile di dare concretezza all’astratto.
Nell'attualismo, il ritorno all’atto, al fatto, si risolve infatti nell'atto
sempre uguale e sempre diverso del pensare, unica realtà e verità del pensiero
e della storia: «vera storia non è quella che si dispiega nel tempo, ma quella
che si raccoglie nell'eterno atto del pensare».. Il problema secondo C.
anda esaminato riportandolo alla sua origine, cioè al problema del rapporto tra
esperienza e concetto, tra realtà e concetto così come era stato affrontato
dalla filosofia kantiana e che Gentile crede di risolvere stabilendo un rapporto
dialettico tra il concetto e il suo negativo all'interno del concetto stesso.
La soluzione invece era in nuce secondo C. nella sintesi a priori kantiana dove
convivono forma (segnante) e contenuto (segnato) per cui la coscienza è per un
verso forma, contenitore (segnante) di un contenuto (segnato) storico e per un
altro *coincide* col suo contenuto (segnato) in quanto il contenuto (segnato)
non avrebbe realtà al di fuori della forma della coscienza segnante. La
successiva questione si pone considerando oltre il rapporto del pensiero – il
segnante -- con la materia quella collegata all'origine del pensiero stesso.
Ancora una volta Kant intravede la soluzione nella teoria dell' “io penso” che
però va ora intesa non come la struttura logico-metafisica della realtà
storica, ma come la sua struttura psicologica ma *trascendentale* o
"esistenziale", secondo una concezione della "filosofia
dell'esperienza pura" nel senso che l'esperienza coincide col divenire
della vita dello spirito e deve restare indifferente al problema, ch'è
propriamente di natura ontologica, circa la sua dipendenza o indipendenza da
una realtà diversa dal mio spirito. Il rapporto tra pensiero e materia porta C.
ad indagare quello tra filosofia e scienza con “Scienza e filosofia” in
Galilei, in cui sostiene che mentre da un punto di vista filosofico non si può
andare oltre l'ambito dell'autocoscienza (il mio spirito – Il “I am hearing a
noise” di Grice) del cogito cartesiano, al contrario la scienza si basa sulla
necessità di fondarsi sul mondo esterno (nel spirito dell’altro –
intersoggetivita). Forse la soluzione di questa antinomia, sostiene Carbonara,
va ricercata nell'insoddisfazione dello stesso idealismo verso se stesso non potendo rinunciare a se stesso ma neppure
al suo opposto -- nec tecum nec sine te -- solus ipse. Si interessa anche
della filosofia rinascimentale a Firenze. Nota come in quel periodo si fosse
realizzata una fusione tra il cristianesimo e il neo-platonismo così come ad
esempio in Ficino prete cattolico che visse la sua fede come teologia razionale
dando una base filosofica, trascurando la stessa rivelazione, alla sua
spiritualità religiosa: In Ficino, il platonismo si congiunge al
cristianesimo non soltanto sul fondamento di una religiosità profonda da cui il
primo appare permeato, ma anche per una tradizione storica ininterrotta, per
cui l'antichissima saggezza, ripensata da Platone e dai neoplatonici, si
ritrova trasfigurata ma tuttavia persistente nei Padri della Chiesa e nei
dottori della Scolastica. Come apprendiamo dall'Epistolario di Ficino, la
sapienza e intesa come un dono divino e come mezzo per cui l'uomo può elevarsi
fino a Dio. Tale principio fu poi appreso da Pitagora, Eraclito, Platone,
Aristotele, i neoplatonici. Riemerse nella speculazione filosofica ispirata
dalla Rivelazione cristiana e si ritrovò quindi in Agostino. Lo stesso Cicerone
figura nella catena dei platonici romani. Riallacciandosi a quella
tradizione e meditando sui testi platonici, Ficino concepí il disegno, portato
a termine di ricostruire su fondamento platonico la teologia il platonismo vi è
considerato come il nucleo essenziale di una teologia razionale i cui princípi
coincidono con quelli della rivelazione. Tale coincidenza è il principale
argomento con cui si riesce a dimostrare l'eccellenza del cristianesimo
rispetto alle altre religioni positive. Del resto Ficino è disposto ad
ammettere che qualsiasi culto, purché esercitato con animo puro, reca onore e
gradimento a Dio. Altre saggi: “L'individuo, i dividui, e la storia; Scienza e
filosofia in Galilei; Esperienza; Umanesimo e Rinascimento (Catania) Del Bello;
Introduzione alla Filosofia (Napoli; Materialismo storico e idealismo critico; Sviluppo
e problemi dell'estetica crociana; I presocratici; Esperienza ed umanesimo
(Napoli) La filosofia di Plotino; “Persona e libertà”; Ricerche di un'estetica
del contenuto”; Esperienza e prassi; Discorso empirico delle arti, Il
platonismo nel Rinascimento. In un momento diverso dalla storica ora presente
offrire in veste italiana alla coltura filosofica del nostro paese il sistema
di dottrina morale secondo i principi della dottrina della scienza di Fichte
sarebbe stata opera già esaurientemente giustificata e dalla grandezza di
quel genio speculativo, e dal vivo crescente interesse del nostro tempo per il
suo originale sistema idealistico-romantico, e dalla capitale importanza che
nella struttura del sistema stesso ha la dottrina morale, e dall’opportunità,
quindi, di agevolare la diretta conoscenza di questa a quanti tra noi non
fossero in grado di leggerla e gustarla nè nella classica (nonostante i
suoi difetti) edizione tedesca dovuta alla pietà filiale di Fichte — divenuta
oggi assai rara, ma di recente lori. Fichte, Das System der Sittenlehre
nach leu Prinzipletl (lev Wìsseuschaftslehre, Jena und Leipzig, Gabler V. il
voi. IV delle Opere complete (Sitmmtliche 1 Werke) di Fichte, edite con assai
utili prefazioni da Eli. Ehm. Fichte (Berlin, Veit e C.), dopo altri tre
volumi di Opere postume (Nachgelasseiie Werlce) apparsi per cura dello
stesso editore a Bonn, ma aggiunti come ultimi agli precedenti. I
difetti, che sono stati rim- fedelmente riprodotta (con tatti i suoi
difetti) da Fritz Me- proverati all’edizione di Fichte figlio, consistono,
tra gl’altri a parte le critiche riguardanti l’ordinamento generale degli
scritti paterni (sulle quali v. Ravà, Le opere di Fichte, Rivista di Filosofia)
in errori di stampa, lacune casuali o soppressioni arbitrarie di una o più
parole, aggiunte o trasposizioni di vocaboli, deposizione dei capoversi e
punteggiatura non sempre quali si avrebbe ragione di aspettarsi, ecc. ;
donde non poche nè lievi difficolta per intendere bene e rendere esattamente in
altra lingua il pensiero dell’autore. La qual cosa ci preme far rilevare, anche
perchè non sembri esagerazione, se diciamo che fu lavoro di non poca
lena, sostenuta soltanto dall’interesse per l’opera fiehtiana, quello da
noi compiuto attorno a una traduzione che ci proponemmo eseguire
con la più 'scrupolosa fedeltà al testo originale, ma, in pari tempo,
curando il più possibile la chiarezza del contenuto e l’italianità della
forma. Al quale duplice fine ci parve opportuno di riportare tra parentesi
curve le espressioni genuine e più caratteristiche dell’autore, quando il
nostro idioma non si prestava a riprodurle se non inadeguatamente ovvero
assumendo un certo aspetto di stranezza, e di chiudere tra parentesi
quadre [ J le espressioni aggiunte dal traduttore con intento interpretativo o
dilucidativo. Il lettore, in tal modo, è sempre messo sull’avviso circa i
punti in cui il linguaggio dell’autore è meno trasparente e può giudicare
se talvolta al traduttore — secondo il noto bisticcio - non sia accaduto di
essere involontariamente il traditore del pensiero tichtiano. TI quale pensiero
riesce tanto più difficile a restituire nella sua forma genuina, in
quanto che esso non solo fu iu continua evoluzione e trasformazione, ma
ebbe dal Fichte, più oratore elio scrittore, le mutevoli formulazioni
occasionali adatte alla predicazione, all’insegnamento e alla polemica, anziché
la stabile struttura definitiva di un’opera d’arte destinata a tramandare ai
posteri il documento autentico di un sistema compiuto; e la Dottrina
inorale, di cui ci occupiamo qui, risente anch’essa, nello stile, del
carattere proprio a quella gran parte delle opere del Fichte, che sono o
riproduzioni o preparazioni, ampiamente elaborate in iscritto, di lezioni
e corsi accademici. Si aggiunga a ciò che la Sit- tenlehre, e nel
contenuto e uella forma, è la continuazione c l’applicazione di quella
Wissetischaflslehre che il Medicus, in una sua monografia dedicata al
Fichte, uou esita a chiamare “ il libro, torse, più difficile che esista
in tutta la letteratura filosofica (sie ist vielleicht das schiiieriijste
Rudi in der yesmnten philósophischen Lucratile) „ (cfr. Grosse Denker,
editi a Lipsia, Verlag
Quelle dicus —, uè nella libera e, proprio nei punti ove H
testo è meno chiaro, monca versione inglese fattane dal Kroeger; (in
francese o in altra lingua non ci risulta sia stata mai tradotta, il che
non ha certo contribuito ad accrescerle et Meyer, senza «lata, <la E.
vou Aster) della Dottrina della Scienza abbiamo iu italiano la traduzione
fattane da A. Tilouer (Bari, Laterza) — j si noti, inline, che il Fichte
figlio sconsigliava il Bouillier dal tradurre in altra lingua quelle, tra le
opere del padre, che non avessero un contenuto popolare e fossero
scritte in una rigorosa forma scientifico-filosofica — ecco le sue parole.
Te conseille de ne pas traduire les oeuvres
scientifiques proprement dites, «:t d’ uno forme philosophique
rigoureuse. 11 est à peu près impossi- ble de les traduire «lana votre
luugne; il faudrait les transformer et eu changer l’exposition. Uue
traduction littérale mirait le doublé iu- convénient de taire violence à
votre 1 angue, et de ne pas reproduire le veritable esprit du système. „ (cfr.
MéUiode pour arrivar à la tir bica heureuse par Udite, traditit par M.
Bouillier, aver, uno Introdaction par Fichte le File, Paris, Ladrango): e
si sarà, speriamo, meglio disposti a giudicare con qualche indulgenza le
manchevolezze anche da noi sentite, ma che non riuscimmo ad evitare, so
pur erano evitabili, iu questa nostra traduzione, in cui la lettera doveva
più che mai venir suggerita e giustificata dallo spirito della dot- liiua
tradotta, onde ci s imponeva di continuo la necessità di ripen- norr e,
per quanto ci fu possibile, di rivivere il pensiero del Fichte. 11 Jmc
Gotti*. Fichte, IVerke, Auswahl in sechs Btinden (mit nielli ci en
Bildnisxen Fichtes ), edizione e introduzione di FimtzMediCUS, Leipzig.
Non intendiamo detrarre nulla alle lodi giustamente! tributate d’ ogni
parte a questa nuova edizione delle principali opere del Fichte, condotta
di recente a termine e salutata nel mondo fìlosofico come un importante e lieto
avvenimento, soprattutto per il contributo che porterà alla diffusione e alla
conoscenza della dottrina lichtiana; dobbiamo soltanto osservare che,
almeno per quanto concerne .1 System der Sittenlehre, di cui diamo qui la
traduzione, la collazione del testo nelfediz. del Medicus non presenta
assolutamenta nulla di diverso e nulla di migliorato, rispetto a quella
curata da Lm. Era. Fichte ; se mai, anzi, qualche errore di stampa in più
; onde essa non ci è stata di nessun aiuto. Tanto per la verità. The Science of Etìlica as based on thè Science
of knowledge by Ioh. Gotti. Fichte, tradnz. di A. E. Kroeoeh. edita da
Harris (London, Kegau Paul, Treucli, Trubner et Co., Ltd.). il numero
dei lettovi). Dorante, poi, l’attuale immane cataclisma bellico che sì
inaspettatamente ha tutta Europa sconvolto e le nostre coscienze profondamente
turbato, in questa tragica ora chè tigne il mondo di sanguigno, perchè
proprio nella terra classica dell’idealismo filosofico, sfrenatasi
l'ebbrezza mistica di una supposta superiorità di razza e di coltura, prevalso
un malinteso spirito di egemonia mondiale, straripata la prepotenza del
militarismo, scatenatisi gli istinti e le cupidigie più basse, la civiltà
sembra inabissata nel buio e la scienza si è trasformata, con scempio di
ogni leggo umana e divina, in strumento di barbarie, rinnegando quel carattere
umano che della scienza è e deve essere la vera, sovrana, immortale bellezza,
in questa immensa mina di tutta la scala dei valori, due forti ragioni di
più — contrariamente a quanto potrebbe parere a prima vista — c’inducono
all’opera stessa: da un lato mostrare con quale serenità, imparzialità e
altezza di vedute noi italiani, che più volte nella storia fummo maestri di
civiltà, sappiamo riconoscere, pur quando gli animi nostri siano
agitati da moti sentimentali avversi, il possente contributo di pensiero
e di moralità che gli spiriti geniali, a qualunque nazione appartengano, hanno
recato alla coltura ; dal- 1’ altro fornire, con la divulgazione delle
dottrine morali di un filosofo tedesco come il Fichte — da cui più
specialmente con grave errore si vorrebbe derivare il pangermanismo una prova
di più della radicale deviazione che le fiualità della Germania odierna,
rappresentata dai Nietzsche, dai Treitschke, dai Bernhardi, dai
Chamberlain, dai Woltmaun, segnano rispetto alle idealità
profondamente umane e universali rifulgenti in tutta la letteratura e in
tutta la filosofia della Germania classica, rappresentata da un Leibniz,
da un Lessing, da un Herder, da un Gboethé, da uno Schiller, da un Kant e
dallo stesso Fichte. Perchè anche il Fichte, al pari del suo grande
predecessoro Kant il filosofo della pace a cui Con esattozza soltanto relativa
egli fu contrapposito come il filosofo della guerra, aspirava, pur con
tutte le esagerazioni essenzialmente teutoniche del suo pensiero, al regno
della ragione, al Vemunftstaat, basato sul riconoscimento del valore dello
spirito quale unico, vero e assoluto valore, e costituito da personalità
autonome e responsabili che devono svolgersi soltanto entro le linee di
un ordinamento razionale del tutto. Che se la magnificazione e la
glorificazione della lingua e del popolo tedesco a cui il Fichte
assurge, a cominciare dai Caratteri fondamentali dell’età presente -- Revue
de Métaphysique et de Morale, l’importante articolo di. Basch, L’Allemagne
classique et le pangermanisme. V. inoltre Sante Ferra ni, Fra la guerra e
V Università (Seatri Ponente); in questo discorso inaugurale dell'anno
accademico all’università di Genova, l'A., dopo avere stigmatizzato con
indignata parola “ la nuova sofìstica, più audace e più operativa
dell'antica, die in Germania per decenni lavorò a eccitare gli spiriti e
a iriebbriarsi nel sogno del dominio mondiale a qualunque patto,,, “ le
iniquità senza pari, corruttrici, vigliacche, brutali, e le violazioni dei
patti più solenni che quel popolo sostituisce al valore degli eroi
pagani, alla cavalleria del guerriero medievale „ e u la volontà sinistra
che informò i metodi alla subdola preparazione dell'immane delitto, invita
a distinguere in'quella nazione lo opere dei grandi avi e quelle dei
uepoti : “ Quali e quante pagine troveremmo nei primi, atto a rintuz- i
zare, a riprovare, a distruggere le smodate ambizioni dell’ oggi ! e
quanti successori vedremmo rinnegati!, e, per antitesi, si ferma a
illuminare nella loro sublime purezza le figure del Kant e a» del
Fichte. Grundziige dea gegenviirtigen Zeilullers (Sanimi!. Werke).
Queste conferenze si direbbero quasi altrettanti aifreschi di filosofia
della storia, di cui lo Herder aveva dato il mo. sino ai Discorsi alla,
nazione tedesca (*), attraverso la serie di opuscoli politici intermedi,
hanno potuto giustamente apparire come la radice del pangermanismo, non
ne segue perciò che il Pielite stesso fosse un pangermanista. u Come
! esclama il Basoh, pangermanista quel Fichte che parla a Berlino,
ancora occupata dai francesi, dinanzi a spie francesi, dopo Auerstftdt e
Iena, dopo Eylau e Fried iand, dopo quel trattato di Tilsit di cui
sappiamo le stipulazioni draconiane ! Chi non vede che appunto perchè il
suo popolo era asservito, umiliato, esposto a essere cancellato dalla carta d
Europa con un tratto di penna del- l’onnipossente imperatore francese, e
appunto perchè la Germania era stata spezzettata, la Prussia smembrata,
egli ha, per legittima reazione e con sflflrzo ammirevole,
esaltato, idealizzato, divinizzato quel popolo, opponendo alla
realtà la visione magnifica di un avvenire che a lui stesso appare
problematico? Le Reden sono un’ utopia ; un’ utopia cento volte quel
Germano autoctono, quel Mutterland, quella lingua madre; e il Fichte lo
sapeva bene e 1’ ha dello, e in cui il Ciclite, con una miscela di
nazionalismo mistico o di cosmopolitismo umanitario, tratteggia a grandi
periodi l’evoluzione dei genere umano dalle sue più lontane origini sino
ai suoi più remoti destini futuri, passaudo attraverso le cinque età: ni
dell’ innocenze o ragiono istintiva, b) dell’ autorità o ragione
coercitiva, c) del peccato o ribellione contro la ragione sia istintiva
sia coercitiva, d) della giustizia o arte della ragione, e) della santità o
scienza della ragione. Reden an die deutsche Nailon (Summit.
Werke). Segnaliamo, tra gli altri, i Discorsi ai combattenti tedeschi all’inizio
della campagna (Reden an die deutschen Kricgev zu All funge des
Feldzuges) (Stillanti. 11 erke t VII) e i dialoghi patriottici, Il patriottismo
e il suo contrario (Dei Patriotismus und sein Gegentheil), (Sananti.
Werke, Nacliyel. Werke). det-.fo egli st.esso. Questa lingua, questo
popolo egli li póne non come già esistenti, ma come qualcosa che bisogna
creare, se si voleva salvare la nazione tedesca dalla rovina totale e
impedire che fosse radiata dal numero dei popoli \ilidipendenti. Questa
lingua e questo popolo non erano una realtà, ma un ideale -- o meglio un
imperativo. Del lèsto non abbiamo avuto anche noi, nella nostra
letteratura, un (fenomeno analogo ai Discorsi alia nazione tedesca,
in <\\i<\PRIMATO MORALE E VIRILE [SIC] DEGL’ITALIANI, in cui,
invertendo, il puuto di vista fichtiano, GIOBERTI costrue una filosofa
della storia non meno utopistica, ma che pur tanti petti sdpsse, taute
anime accese negli anni più belli del nostro riscatto? Che se poi il
saggio eloquente ed essenzialmente. opera di fede di Fichte sia inteso non alla
lettera ma nel suo profondo significato filosofico, spogliato dei suoi
particolari riferimenti spaziali e temporali e considerato sub specie
aeternitatis, allora non solo oltrepassa il valore di ubo scritto
d’occasione, ma si eleva all’altezza di un’ opera sublime, perennemente
suggestiva di nobili pensieri e di eroiche azioni. L’ autore, sempre
ispirandosi a quel suo idealismo immanente, che egli contrappone a [Li
il leit-motiv proprio di tutta la filosofia fichtiana porre il dover
essere ossia 1’idealo come condizione creatrice e ragione sufficiente e
spiegazione finale dell’ u essere ossia del reale. Se il Kant potè dirsi
il Copernico dolla filosofia, in quanto trasferì il punto di vista del
problema filosofico dall' oggetto al soggetto, dall'essere al conoscere, Fichte
può dirsi anch’egli il Copernico della filosofia, in quanto spostò di
nuovo quel punto di vista dal conoscere al fare, dall’essere al
dover-esserc: la vera realtà, il vero assoluto sta per lui nell’ideale,
nel dovere. Rivista di Filosofa. A. Faggi, Il “ Primato „ del Gioberti e i
“ Discorsi alla nazione tedesca „ del Fichte. qualsivoglia dogmatismo,
specialmente se materialistico, sostiene in sostanza che non c’è
possibilità di filosofia e di poesia, di religione e di educazione, di
libertà e di progresso, se non là dove lo spirito crei o trovi in sè, e
in nessun modo attinga dal di fuori, il principio propulsore e
direttivo di tutta l’esistenza. Questo idealismo immanent/ egli chiama
filosofia tedesca, ossia viva, di fronte a qualsiasi filosofia straniera,
ossia morta. E che intende egli, per tedesco ? Non occorre ricordare che secondo il Fichte
vi sono dué sistemi filosofici rigorosamente conseguenti, ciascuno dal
suo punto di vista: il dogmatismo, l’ idealismo. Ul^cio della filosofia è
spiegare l’esperienza, la quale è costituita dalle rappresentazioni delle cose.
Ora si può a) o far derivare la rappresentazione dalle cose, come fa il
dogmatismo, b) o far derivare la cosa dalla rappresentazione, cóme fa
l’idealismo. Lo scegliere l’una piuttosto che l’altra delle dué vie
possibili dipende dal carattere individuale. Un sistema filosofico basterebbero queste parole a mostrare quanta
fede pratica, quanta iniziativa personale ed energia spirituale Fichte mettesse
nella sua filosofia e quanta ne esigesse da chi questa filosofia voglia
comprendere non è uno strumento
inanimato che si possa a piacimento possedere o alienare : esso scaturisce dal
più profondo dell’anima umana: “ Iras far eine Philosophie man wàihle,
hangt... davon ab, was man far ein Mensch ist: demi ein philosophisclies
System ist nicht ein todter Hausrath, dea man ablegen oder abnehmen honnte,
irte es mis beliebte, sonderà es ist beseelt durch die Seele des
Menschen, der es ìiat. „ (Erste Ein leitung in die Wissensehaftsle'ire,
Scimmtl. IVerke). La scelta sarà diversa secondo che prevarrà in noi il
sentimento dell’indipendenza e dell’attività o il sentimento della dipendenza e
della passività; un carattere flaccido per natura, ovvero rilassato e
incurvato dalla schiavitù dello spirito, dal lusso raffinato o dalla
vanità, non s’innalzerà mai all’idealismo: 11 ein von Notar schiaffar oder
durch Geistesknechtschaft gelehrten Luxus and Eitelkeit erschla/fler
und gekrùmmler Chardhter toird sich nie zum Idealismus erheben. E ciò,
indipendentemente dalle ragioni teoretiche che anch’esse dànno
un’incontestabile superiorità di filosofia esaurientemente persuasiva
all’idealismo di fronte all’in9ufficiente e assurdo dogmatismo. Nel
settimo discorso, in cui si approfondisce il .concotto àe]Y originarie là, e
germanicità di un popolo l’autore stesso ha cura di far rilevar^ u con
chiarezza peretta „ ciò che in tutto il suo libro ha intesò per tedesco
(was uoir in unsrer bishcrigen Schilderung unter Deutschen verstanden haben). “
Il vero e proprio punto di divisione egli scrive sta in questo: o si crede che
nell’uomo ci sia qualcosa di assolutamente primo e originario, si crede
nella libertà, nell’infinito miglioramento e nell’eterno progresso della nostra
specie, oppure si nega tutto ciò e si crede di vedere e comprendere
chiaramente che è vero tutto il contrario. Coloro che vivono creando e
producendo il nuovo, coloro che, se non hanno questa sorte, almeno
abbandonano decisamente quel che non ha valore (das Nichtige) e vivono
aspettando che da qualche parte la corrente della vita originaria venga a
rapirli con sè, coloro che, non essendo neppure tanto avanti, almeno
presentono la verità, e non l’odiano o non la paventano, ma l’amano:
tutti costoro sono uomini originari e, considerati come popolo, sono un
popolo vergine (Urvolk), sono il popolo per eccellenza, sono tedeschi.
Coloro, invece, che si rassegnano a essere un che di secondo e derivato e
chiaramente concepiscono e riconoscono sè stessi come tali, tali sono in
realtà, e sempre più tali divengono in forza di questa loro credenza;
essi sono un’appendice della vita che una volta prima di loro o accanto a
loro viveva per impulso proprio, essi sono l’eco che la roccia rimanda
di [S’intitola: Noch tiefere Erfassung der Ursprunglichkeit utid
Deutscheit eines Volkes (Sammtl. Werke, nella trad. ita!. Burich,
Palermo, Sandron). una voce già spenta, e, considerati come popolo, non
sono un popolo vergine, anzi di fronte a questo sono stranieri ed
estranei (Fremete und Andando-) Ecco, dunque, che cosa significa:
tedesco! non già il tedesco considerato Ine et nune, ma il simbolo di un
tipo ideale, onde Fichte, continuando, aggiunge: u Chiunque crede nella
spiritualità, nella libertà e nel progresso di questa spiritualità
mediante la libertà, egli, dovunque sia nalo, qualunque lingua
parli (wo es auch geboren seg und in welcher Sprache cs reile) e
dei nostri, appartiene a noi, ci seguirà; chiunque, invece, crede nella
stasi generale, nella decadenza, nel ricorso circolare e pone a governo del
mondo una natura morta, egli, dovunque sia nato, qualunque^lingua parli,
è non-tedesco (undeutscll), è per noi uno straniero, ed è desiderabile
che quanto prima si stacchi completamente da noi. I Discorsi alla nazione
tedesca, dunque, soltanto occasionalmente si rivolgono al popolo germanico,
mentre nella loro profonda verità si rivolgono a tutti i popoli moderni,
a tutti gli uomini che hanno fede nella libera spiritualità, di
qualunque paese essi siano, additando a ciascuno la via sulla quale si
può servire alla propria patria particolare e insieme alla gran patria comune,
si può essere a un tempo nazionalista e cosmopolita, perchè gl’ interessi
supremi ed essenziali dell’umanità sono sempre e dovunque gli
stessi. Ma a dimostrare in modo* 1 definitivo quanto l’autore
dei Discorsi sia alieno dal cosidetto pangermanismo sta il [ Reden an die
deutsche Nalioti (Stimmll. Werke), il nerette delle parole "
dovunque sia nato ecc. „ è nostro discorso decimoterzo, donde trae maggior luce
il significato di tutti gli altri. Si direbbe che i pangermanisti, ai
quali piace farsi forti dell’auLorità del uostro filosofo, si siano
di proposito arrestati dinanzi a questa sua arringa, che pure è il
punto culminante verso cui tendono le rimanenti e che può dirsi un vero
catechismo antimperialistico. Tutto ciò che all’imperialismo della
Germania odierna sembra l’ideale che essa sarebbe chiamata ad attuare: il
possesso di colonie, l’esclusiva libertà dei mari, il commercio e
l’industria mondiali, le guerre di aggressione e ili conquista, la
barbarie scientificamente organizzata, le vessazioni sui paesi
invasi, la visione di una monarchia universale, l’egemonia
assoluta, vi ò rappresentato come odioso e insensato. Ammettiamo pure che
il Fichte abbia combattuto questa criminosa megalomania perchè essa
s’incarna sotto i suoi occhi nella Francia napoleonica; non è men
vero, però, che l’ideale opposto, a lui caro, rispondeva in modo reciso a
tutta una concezione politica che fa di lui il figlio e il rappresentante
più genuino della rivoluzione francese. La sua vita, i suoi scritti di
filosofia pratica e di filosofia della storia nte sono prova ampia,
piena, sicura, e se anche subirono modificazioni, queste riguardano non il suo
pensiero e i suoi sentimenti, i quali in fondo rimasero sempre gli
stessi, ma le mutate circostanze esteriori, il mutato aspetto della
Francia, divenuta, da repubblicana e liberatrice, imperialistica e liberticida.
Nato popolo figlio di un povero tessitore, infatti, comincia la vita
avviandosi al mestiere paterno e guardando le oche, egli sempre po-
[Kedeii ecc. (Sàmmll. I Verke) polo è rimasto nel più profondo
dell’anima, per quanto ricca e forte sia divenuta poi la sua coltura, a
qualunque sommità della scienza, dell’eloquenza e della gloria
siasi inalzato il sùo genio. Già sin dagl’inizi della sua fama si
rivela un democratico ardente, giacobino quasi, irrecouciliabile avversario di
ogni pregiudizio religioso, politico e nazionalistico. Subito dopo la sua
Rivendicazione della libertà di pensiero dai principi d'Europa die /ino
allora l'acecano oppressa, egli, nei suoi Contributi alla rettifica
dei giudizi del pubblico sulla rivoluzione francese, plaude ai principi dell’89
col fervido entusiasmo d’un uomo la cui classe usciva redenta da quel
grande atto di liberazione sociale, e aterina la sua fede nella
rivoluzione stessa, proclama i diritti del popolo, frusta a sangue il
militarismo, maledice alle guerre mosse da interessi o da capricci
dinastici, e lancia contro principi e monarchie assolute i primi strali di
quell’eloquenza appassionata che fa di lui forse il più grande oratore
della Germania. Zuruckfarderung der Denkfreihe.it von den Filrsten
Europas, die eie bisher unterdriikten (Sdmmtl. If erkeI). Beitriige zar
Berichtigung der Urtheile des PubVcuins iiber die franzòsische Revolution
(Sananti. Werke). In queste sue prime opere politiche, elio per lungo
tempo furono messe all’indice in tutta la Germania, Fichte mostra che la
rivoluzione francese fu il prodotto necessario della libertà del
pensiero, che la persona morale ha il diritto di elevarsi contro lo
Stato, e che l’uomo uscito dalle mani della natura è autonomo, e che è
inalienabile il diritto dei cittadini di moditicare la costituzione, di uscire
da un’associazione politica per crearne una nuova, di fare ciò che
appunto si chiama una rivoluzione. Fine ultimo degli uomini ò la
coltura di tutti per la libertà, ma le monarchie, egli afferma, invece di
lavorare al perfezionamento dei sudditi, sono state centro di depravazione
morale. Come hanno inteso, infatti, i sovrani la coltura dei sudditi a
loro affidati? Sotto forma di educazione alla guerra; perchè, dicono
essi, la guerra coltiva. Qra, è vero che la guerra Il Fondamento del DIRITTO
NATURALE secondo i principi inalza le nostre anime a sentimenti e azioni
eroiche, al disprezzo del pericolo e della morte, alla noncuranza dei
beni continuamente esposti ni saccheggio, a una simpatia per tutto ciò
che ha aspetto umano, perchè i pericoli e i dolori sopportati in comune
stringono di più gli altri a noi. Ma non crediate di vedere in queste mie
parole un panegirico della vostra follia bellicosa, o fors’anco l’umile
preghiera che l’umanità dolente v’indirizzerebbe perchè non cessiate dal
decimarla con guerre sanguinose. La guerra non inalza all’eroismo se non
le anime già per natura eroiche; incita, invece, le anime poco nobili
alla ruberia e all'oppressione della debolezza priva di difesa. La
guerra crea a un tempo eroi e vili rapinatori, ma aitimi ’ delle due
specie quale in numero maggiore ? „ (cfr. Sàmmtl. Werke). Nel
fondare e governare i loro Stati i monarchi mirano a rafforzare la loro
onnipotenza all’interno, ad allargare le loro frontiere all’esterno: due
fini, questi, tutt’altro che favorevoli alla coltura dei loro sudditi. 1
monarchi pretendono di essere i custodi del necessario equilibrio delle
forze europee; ma questo fine, se è il loro, è perciò anche quello dei
loro popoli? “ Credete proprio egli domanda ai principi tedeschi che l'artista
o il contadino lorenese o alsaziano abbia molto a cuore di veder
menzionata la propria città o il proprio villaggio, nei manuali di
geografia, sotto la rubrica dell’impero germanico, e che por ottenere ciò
butti via lo scalpello o l’aratro? Il pericolo della guerra, ossia di ciò
che lede e ferisce a morte la coltura, ultimo fine dell’evoluzione umana,
deriva unicamente dalla monarchia assoluta, la (piale tende per necessità
alla monarchia universale. Sopprimete questa causa, e tutti i mali che ne
derivano scompariranno anch’essi, e le guerre terribili e i preparativi
della guerra, ancor più terribili, non saranno più necessari. Più oltre,
poi, troviamo Fichte antisemita e anti-militarista: antisemita contro quegl’ebrei che
sono refrattari ad assimilarsi alle nazioni in mezzo a cui pluvi vono anti-militarista
contro l’esercito del suo tempo che
mette il proprio onore nella propria umiliazione e trova nell’impunità per le
sue angherie contro i borghesi e i contadini un compenso ai pesi del
proprio stato. E continua. Il più
brutale semi-barbaro crede acquistare con la divisa militare una
superiorità sul contadino timido e spaventato, che sopporta le sue
prepotenze e i suoi insulti per non essere, per soprammercato, anche
bastonato.Il giovincello che può vantare più antenati, ma non certo più
coltura, considera la propria spada come un titolo sufficiente per
guardare dall’alto e con disprezzo il commerciante, l’uomo di scienza e
l’uomo di Stato. \Vilt della Dottrina della scienza e Lo Stato
commerciale chiuso contengono auch’essi una filosofia politica che, scaturita
interamente, oltreché dal pensiero kantiano, dai principi della rivoluzione
francese, supera quel pensiero e questi principi per le conseguenze
economiche che egli fu il primo a trarne, e approda aH’atfermazione di
un diritto dei popoli e di un diritto dei cittadini del mondo
(Volker- und Weltbnrgerrechl) e alla necessità di un’anione di popoli (
Vdlkerbund) ben diversa da uno Stato
di popoli (Volkerstaat) — che garantisca la giustizia e porti
gradatamele alla Pace perpetua (zUm ewigen Friede) Grundlage des Natnrrechte
nach Prinzipien dee ìVissenscliafls Pin e (Siimmil. Werhe, IH). Ber
geschlossene Handelsstaat (StillimiI. Werhe, III). Vediue- auclie la
traduz. ita!, di tì. B. P., Dell'intimo ordinamento di uno Stato ec<\,
Lugano, e l’altra (anonima) Lo Stato secondo ragione e lo Stato
commerciale chiuso, Torino, Bocca. Ecco, sommariamente, la dottrina
politico-economica del Fichte: La radice più profonda dell’Io è l’Io
pratico o la libera volontà; e poiché alla libera volontà di eiasenu
individuo si contrappone quella degli altri, nasce una libera azione
reciproca tra lo diverse volontà individuali, per regolare la quale gli
uomini'hanno concluso IL CONTRATO SOCIALE – “un mito” – H. P. Grice -- da cui è
uscito lo Stato. Nello Stato il potere legislativo appartiene alla comunità dei
cittadini; l’esecutivo può essere affidato sia all’elezione (democrazia), sia
alla cooptazione (aristocrazia), sia all’elezioue e alla cooptazione
insieme (aristodemocrazia). Tutte queste forme di governo sono egualmente
legittime, purché vi sia accanto a esse uu altro potere ìndipendente,
VSforato, il quale decida dei casi in cui il potere esecutivo, essendo
caduto in errori o colpe, deve risponderne dinanzi alla comunità. Oltre a
questo contratto sociale-politico, il Fichte, oltrepassando la prudenza
borghese di Kant, il quale ammetteva come legittima l’ineguaglianza
economica accanto all’eguaglianza politica, istituisce un contratto
sociale-economico (Eitjenthumverlrag) egli proclama originari in ciascun
uomo il diritto alla vita e il diritto al lavoro, e di fronte alla
proprietà privata (prodotti del suolo coltivato, bestiame, case, mobili, ecc.)
dichiara proprietà dello Stato ciò che la natura produce da sola e ciòcia' la
col- sino all’alt,imo anno della sua vita, nelle lezioni sulla
Z>n/- letti vitti produce meglio del
singolo individuo (miniere, foreste, grandi industrie, seryizì pubblici,
ecc.). Per l’elaborazione dei prodotti naturali richiede corporazioni di
competenza tecnica, e sulla qualità o quantità dei prodotti industriali
il diritto di sorveglianza Ha parte dello Stato. Donde segue la necessità
che da uu lato i cittadini ri- uuuzino alla libertà industriale, e
dall’altro si stabilisca uno scambio armonico tra i prodotti naturali e i
prodotti industriali, essendo reciprocamente gli uni indispensabili alla
produzione degli altri. Per questo scambio si è formata la classe
speciale dei commercianti. Per impedire ai produttori di elevare ad arbitrio i
prezzi dei prodotti, lo Stato accumula iu magazzini generali, mediaute
prestazioni in natura degli agricoltori e prestazioni d’opera degli
artigiani, i frutti della terra e gli strumenti del lavoro, si che i
prezzi veugouo livellati. Per obbligare i produttori a vendere, lo stato mette
iu circolazione la moneta, la quale rappresenta la somma di ricchezza che
può essere venduta, e rende possibile a uu produttore di cedere i suoi
prodotti anche in un momento iu cui non gli occorra ancora di prendere in
cambio altri prodotti. E atiinehè sia garantita la proprietà e regolata
la circolazione dei prodotti e mantenuto l’equilibrio tra agricoltori,
industriali e commercianti equilibrio che sarebbe turbato
dall’importazione di prodotti stranieri, dei quali i cittadini debbono
assolutamente poter fare a meno - è necessario che lo Stato vieti tutti
gli accessi ai commercianti di fuori e ai contrabbandieri di dentro, che
sia cioè uno Stato commerciale rigorosamente chiuso. Fichte si
ripromette le conseguenze più vantaggiose per la moralità del popolo
fortunato elio adotti la perfetta chiusura commerciale e viva soltanto di
ciò che ò prodotto e fabbricato dal paese, venduto e consumato nel paese
(cfr. Der geschlossene llandelsstaat, Sàmmll. ÌVerke), e conclude che di li
innanzi sarà la scienza il miglior legame intemazionale tra tutte le nazioni
divenute Stati chiusi : perché “ nessuno Stato della terra, dopoché il
sistema politico-economico dianzi descritto sia diventato universale, e
siasi fonduta pace perpetua tra i popoli, avrà il menomo interesse a celare ad
altri le proprie scoperte, giacché ogni Stato potrà servirsene soltanto
all’interno per il proprio sviluppo e non già per opprimere gli altri
Stati o acquistare una qualsivoglia preponderauza su di essi. Nulla, quindi,
impedirà la libera comunicazione tra i dotti e gli artisti di tutte le
nazioni: di 11 innanzi i giornali, invece di guerre e battaglie, trattati
di pace e di alleanza, conterranno soltanto notizie dei progressi della
scienza, delle nuove invenzioni, del perfezionamento della legislazione e
degli trina dello Sialo, tenute a Berlino, proprio quando la Prussia
si preparava a quella guerra d’indipendenza che egli tanto si era adoperato a
suscitare, si domanda ancora una volta quale sia la guerra
legittima (der Wahrhafte Krieg) e risponde: Una guerra è giusta
soltanto qualora la libertà e l’indipendenza nazionale di un popolo siano
attaccati; gli uomini, per compiere il loro destino, devono formare
società libere, e uno Stato non ha valore se non in quanto può
contribuire all’avvento del regno universale della libertà e della
ragione. A questa guerra veramente popolare vuole Fichte nelle sue
le- ordinamenti di governo; e. ogni Stato si affretterà ad arricchirsi
delle scoperte degli altri popoli.
Nè si ha a temere, del resto, dalla chiusura commerciate dei
singoli Stati il loro isolamento, perchè i rispettivi sudditi, iu quanto
cittadini del mondo (Weltbiirger), circolano liberamente da uno Stato
all’altro, portando seco i diritti inerenti alla persona e alla
proprietà; occorre anzi, per questo, una legislazione comune che
garantisca tali diritti e punisca l’ingiustizia commessa dal cittadino di uno
Stato a danno del cittadino di un altro Stato. I diversi Stati, inoltre,
fanno contratti, concludono trattati e sono rappresentati gli uni presso
gli altri da ambasciatori. Nel caso che uno degli Stati contraenti violi
il contratto, la guerra è 1’ unico mezzo per punirlo di questa
violazione. Ma ogni guerra è aleatoria, e se proprio lo Stato che violò
il contratto rimanesse vittorioso, in quanto più forte?! A evitare tale
ingiustizia bisogna che un’Unione distati, meglio ancora, un’unione di
popolim Vslkerbund, s'impegni a punire, viribus uniti, lo stato che,
appartenente o no all’unione, si rifiuti di riconoscere l’indipendenza
degli stati uniti o violi un contratto concluso con uno di essi, Orundlage
des Nata rrechts nach Prinsipien der Wissenscliaftslelire, Sa minti- Werke.
Quanto più questa unione si allarga, estendendosi a poco a poco su tutta
la terra, tanto meglio è assicurata la pace perpetua, der ewige Friede,
che è il solo rapporto legale tra gli stati. La guerra dev’essere soltanto
mezzo al fine supremo, che è la conservazione della pace; mai fine a sé stessa.
Die Slaalslehre oder uber das Verhaltniss des Urstaates zum
Vernunftreiche (Siimintl. Werke). zioni preparare gli uditori, perchè è questa
la guerra legittima, la guerra cioè in cui non si tratta di
famiglie regnanti, ma in cui il popolo si leva a difendere la propria
vita, la propria individualità, le proprie prerogative, la guerra a eui
soltanto i vili vorrebbero sottrarsi, e per cui invece i cittadini con
esultanza daranno i loro beni, il loro sangue, rifiutando ogni proposta
di pace sino a che non siano garantiti contro ogni minaccia ulteriore. L’oratore,
è vero, contrappone ancora una volta qui il carattere germanico al
carattere neolatino e specialmente al francese, per concluderne che non
bisognava aspettarsi certo da un Napoleone, strangolatore della nascente
libertà della Francia rivoluzionaria, l’attuazione del regno di giustizia
che l’architetto del mondo affidava invece al popolo tedesco; ma ciò
attesta anche come il filosofo patriota fosse sempre sotto la medesima
ispirazione che lo animava veut’anni prima nel suo entusiasmo per
la rivoluzione francese; e, malgrado tutte le apparenze in contrario, è
sempre la medesima ispirazione quella che traspare nel Disegno ili uno scritto
politico della prima cera, destinato a illustrare il proclama del re di PRUSSIA
“ Al mio popolo, quivi il Fichte, se, dinanzi al pericolo mortale che
minacciava la nazione tedesca, riconosce la necessità di porle a capo
come despota sovrano (Zwingherr) il re di PRUSSIA, uou perciò rimane meno
fedele al suo ideale democratico; per lui
ha dovuto riconoscerlo lo stesso [Veber den Begriff des wahrhaften
Krieges (Summit. Werke) «a dem Entwurfe zu etnei- politischen Schrift
ini FruhUnge (Stimma. Werke). Treifcscbke la Repubblica, senza re, senza
principe, senza signori, è sempre il vero Stato di ragione. Passato
il pericolo, il sovrano stesso dovrà adoperarsi con tutte le sue forze a
disabituare i suoi sudditi dalla soggezione, a Fichte nini die nationale
Idee, in Historische und politiseli Aufsalse, 4. ediz. Leipzig, Hirzel. Nodi
inumo- sehwebt ihm als hòchtes Zini vor Augeu eine “ Republik dei-
Deutschen oline FUrsten und Erbadel dodi er begreift, dosa diesea Zini
in weiter Ferne liege. Fui- jetzt gilt ee da* “ die Deutscbeu sioh
selbst mit Bewus 9 tsein maoheu „ ». Si, è vero, il Fichte colloca in
un tempo ancora assai lontano la vagheggiala attuazione del suo
ideale repubblicano, al punto che uno ilei frammenti di una sua opera
politica, scritta a Kònigsberg e rimasta incompiuta s’intitola: La repubblica
tedesca sotto il suo V." protettore (Die Republik der Deutschen su Anfani des
sirei- und zwanzigsten Jahrhunderls, un ter ihrem fiinften Reichsvogtei,
ina intanto quale coraggioso e severo linguaggio rivoluzionario egli
tiene contro i principi alemanni, cosi in questo frammento come altrove! Cou la
spietata crudeltà del chirurgo che, per guarire radicalmente una piaga
purulenta, affonda il bisturi nel pili vivo delle carni, egli mette a
nudo tutti i difetti e le turpitudini del suo tempo e del suo paese e
propone come rimedio una nuova costituzione, la quale dovrebbe stabilire
l’eguaglianza di tutti' i popoli teutonici e non ammettere altra disuguaglianza
tra gl’individui elio non sia quella del- p ingegno; una costituzione adatta
a una nazione come la germanica, la quale, die’egli, pressoché incurante
del giudizio dello altre nazioni, ha la caratteristica di raccogliersi in se
stessa e di min chiedere nulla più che di vivere pacificamente secondo il
proprio genio. Una nazione, la quale, còme la tedesca, non mira che ad
affermare e conservare per sé la propria torma disesistenza (ibr
eigentìiiimliches St'jti) e in nessun modo a imporla ad altri
(keinesweges anderen es aufzudringen), non senza intenzione é stata
collocata in mezzo a popoli, i quali, tosto che abbiano acquistato una mediocre
quantità di coltura, sentono il bisogno di diffonderla al di fuori;
nell’eterno disegno della storia umana essa è destinata a servire di diga a
questa intempestiva invadenza e a fornire non solo a sé stessa, ma a
tutti gli altri popoli d’Europa la garanzia di poter progredire, ciascuno
a suo modo, verso il fine comune (sie seg [die deutsche Natimi ],
im eteigen Entwurfe eines Menschengeschlechles jm Qanzen, bestimint,
als ein Damm dazustehen gegen jene unzeitige Zudringlichheit, und
uni renderli, in altri termini, capaci di fare a meno di lui.. u Se
cosi non dovesse avvenire nel futuro della Germania — esclama egli con
forza importerebbe poco che una
parte di essa fosse governata da un maresciallo francese come
Bernadotte, nel cui spirito almeno sono passate le visioni entusiasmanti
della libeità, piuttosto che da un signorotto tedesco, tronfio
d’orgoglio, immorale e di una brutalità e di un’arroganza sfrontate „
('). Quando si leggano queste parole contenute in quel medesimo Scritto
politico della primavera. ISIS, che non interamente a torto si è potuto
considerare come il luogo letterario in cui l’autore si è più inoltrato
sulla via del nazionalismo, e quando si ricordi il noto particolare della
vita del Fichte, ili avere cioè dopo la disastrosa campagna di Russia, impedito
come un orrendo delitto il macello a tradimento della guarnigione
lfaucese rimasta a Berlino, chi vorrà ancora vedere nel nostro filosofo
un pangermanista a cui si possa far risalire la responsabilità non solo
delle teorie insensate degli odierni teutomani, ma persino del cinismo
satanico con cui e per terra e per aria e per mare pretendono apnichf
tuie sich, sonderà nudi alien anderen europaischen Vblkern die Garantie
zu leisten, ilass sie auf dire eigene Weise laufen konnten zìi detti
gemeinsamen Siete) (Sdmmtl. Werke). Quale stridente contrasto tra
l'ufficio storico-politico che il Pielite assegnava alla nazione tedesca o
quello che la Germania odierna pretende arrogarsi ! Aus dem Enluourfe eie.
{Siimitili. ÌVerke). « Weun wir dahor nieht im Auge behielten, vvas
Deutschland zu werden hat, so 18ge an sich nicht so viel durun, ob ein
franzusischer Marscliall, wie Bernadotte, an dem weuigstens friiher
begeisternde Bilder der Freiheit voriibergegangen sind, oder ein
deutscher aufgehaseuer Edel- maun, ohne Sitten uud mit Rohlieit und
frechem Ueberrauthe, iiber eineu Theil von Deutschland gebiete. ] plicarle
i novelli barbari odierni, i rossi devastatori joiù veri e maggiori dello
stesso Attila flagellum Dei? Tanto più tempestivo, e tanto più salutare e
confortevole ci sembra, dunque, dinanzi alla mostruosa degenerazione del senso
morale di cui dà spettacolo l’odierna nazione tedesca, ostentando di non
riconoscere altro diritto all’infuori del despotismo e della forza bruta,
rievocare dalla letteratura classica di questa stessa nazione la dottrina
morale di uno dei più grandi assertori e della forza del diritto e del
diritto che individui e pispoli hanno alla giustizia, all’indipendenza,
alla libertà. Chi abbia seguito nella storia della filosofia le
vicende toccate alla dottrina di
Fichte ('), avrà notato come al grande entusiasmo e ai vivaci
dibattiti suscitati dal suo primo apparire succedesse per vari decenni un
immeritato oblio, dovuto al predominio delle 1 dottrine uscite dal
suo seno e specialmente dello hegelismo, i cui rappresentanti,
imponendo alla storia della filosofia un loro preconcetto di scuola,
quello cioè di non tener conto nella speculazione prehegeliana se non di
quanto avesse contribuito a preparare il sistema del loro maestro, avevano
abituato a vedere nel Fichte nulla più che il pensatore da cui era
derivato un deciso indirizzo idealist ico alla speculazione post kantiana.
Vani furono gli sforzi del figlio ilei Ficht.e, Ema- Ofr. in proposito A.
Ravà, Introduzione allo studi» tirila filosofia (li Fichte, Modena,
Formiggiui, V., per es., Karl Ludw. Michelet, Geschichte der lefzten
Sy- steme der Philosophie in Deutschland voli Kant bis Hegel (Berlin), in
cui alla prima filosofia del Fichte seno dedicate le miele Ermanno, per
mostrare il valore che la filosofia, paterna aveva per sè stessa. Soltanto col
risvegliarsi dello spirito nazionale germanico, risorse la fortuna del
grande rigeneratore della coscienza tedesca, del filosofo popolare,
dell’oratore eloquente, del fervido nazionalista, ilei supposto pangermanista;
ma, appunto per questa circostanza, l’attenzione fu rivolta di
preferenza alla sua filosofia politica, arbitrariamente o
artificiosamente interpretata, e il centenario della nascita del Fichte fu
solennemente celebrato da tutta la Germania ilei voi. I, e alla seconda
filosofia; A. Oli', avendo avuto il torto di prendere quest’opera come
guida principale per una conoscenza della filosofia tedesca postkantiana,
fu trattò a un’eccessiva reazione contro il Kant e contro lo
hegelismo nel suo libro: Hegel ri la philosophie allemande (Paris).
Di Em. Ehm. Fichte, oltre le Prefazioni (dianzi ricordate) a vari degli
undici voli, delle Opere complete di G. A. Pielite, vedi ancora: i
Beitràge sur Charuk'teristik dar ncueren Philosophie (Sulzbach) di cui la
2.“ ediz. può considerarsi come un’opera nuova; il voi. Fichte ' s Lehen
and litterarlscher Briefwechsel (Sulzbach, ISSO), con cui, prima ancora
che con la pubblicazione delle opere, cercò richiamare l’attenzione sulla
personalità e sull’attività pratica del padre, affinchè nascesse cosi
gradatamente anche l’interesse per il suo pensiero; e infine V Introduci
ion (in frane.) alla Méthodc pour arriver à la vie blenheureuse par
Fichte (traduz. Bouillier) (Paris). V., per es.: t due voli, del Busse,
Fidile und sei ne Bezìehung zar Gegenwart des deutsehen Volkes (Halle),
la conferenza dello Zeli.eh, l'idi lo aìs Politiker (ristampata in
Zelleh, Vor- Irdgr und Abliandlinigen, Leipzig) e l’opuscolo del
Lassalle, Melile's poìilisches Vermdchtnis and die neuesle Gegenwart
(Hamburg, ristampato in Lassallk, Reden und Schriflen, Berlin). Bisogna, invece,
uscire dalla Germania per trovare un’esposizione prettamente storica e
serenamente obiettiva di tutta la filosofia del Fichte quale si ha nella solida
opera del Willm, Histoire de la Philosophie allemande drpttis Kant
jusqu’k Hegel (Paris), opera premiata, su relazione del de iléinusat,
dall'istituto di con significato più politico che filosofico; mia singolare fatalità, poi, (che
sembra un’ironia della storia a chi intenda il vero senso delle teorie
politiche del Fichte) ha voluto che il cèntenario della sua morte coincidesse
con l’irrompere improvviso della premeditata aggressione pangermanistica!
Francia e ancora utile e pregevole, nonostante la sua vetustà; la si può
leggere con profitto anche dopo le ampie ed eccellenti monografie
posteriori del Fischer (Fichles Leben,\Verke und Lehre, Heidelberg) e del Leon
(La philosophie de Fichte et ses rapportò uvee la conscience coti tempo
faine, Paris), il quale ultimo dedica al suo soggetto un lungo studio e un
grande amore. Questo carattere politico-nazionalistico degli scritti
usciti in occasione del centenario del Fichte fu ben rilevato da von
Rkichi.IN- Memusco nel suo articolo l)er hundertòte Geburistng ./. O. Fichtes (in Zeitschrift fiir Philosophie uud philos. Kritih,
Halle). Vedine
la lunga lista nell’UKBERWKO-HEiNZE. Grundriss der Geschiclite dcr
Philosophie, IV, Berlin; qui basti ricordare per tutti il discorso già citato
del Treitbchke, Fichte i ind die nutionale Idee. L’uso e l’abuso del
Fichte a scopi patriottici e imperialistici non cessa io Germania col conseguimento
dell'unità tedesca. Più di una volta le conferenze tenute nelle università
tedesche in occasione del natalizio dell’imperatore hanno avuto per argomento
preferito la personalità o qualche dottrina particolare di Fichte: per
es., all’università di Strasburgo, terra di conquista, Windelband fa
un’alta affermazione di germanismo parlando dell’idea dello stato tedesco
secondo Fichte; Windelband, Fiehte's Idee des dentschen Stante, Freiburg i.
Breisgau. All’università di Kiel, Martius inneggia al cinquantesimo anno
di Guglielmo II, ricordando la vita e l’opera d’un uomo, il quale
grandemente co-opera all’elevazione e all’emancipazione delle forze
morali della Germania, e della cui azione efficacissima, insieme e accanto
alla concezione politica dello Stein, ricorre oggi il centenario; d’un uomo,
a cui appunto ora la nazione tedosca si appresta a dimostrare la propria
gratitudine inalzandogli un monumento nella capitale [e il monumento è poi
sorto a Berlino], insomma, di Fichte, (Redc zur Feier des Geburtstages
seiner Majeshit des Deutschen Kaisers Kdttigs von Preiissen Wilhelm 11 von Golz
Martius, Kiel). Se tra molti scritta' rolli di occasione cominciò ad
apparire qualche studio serio di tutta l’opera fichtiaua, il suo aspetto,
per lo spostamento dell’attenzione dal lato politico ai fondamenti teoretici
del sistema, è non meno unilaterale di quello che continuarono a
presentare, in tempi più recenti, le dissertazioni te le monografie sulla
dottrina giuridico-sociale del [Ricordiamo, per es.: Lòwio, Die
Philosophie Fichte’s iiach (lini Gesaimntergehnisse ihrer EntuHchelung
und in ihrem Verhiiltnitise zìi Kant unii Spinosa, Stuttgart [l’Autore, seguace
del dualismo de[ Giintlior e perciò d’indirizzo radicalmente opposto
a tinello di Fichte, mira specialmente a mostrare la logica
coerenza in cui le due diverse forme assunte dal sistema fichtiauo
stanno al principio fondamentale del sistema stesso anche là dove, secondo lui,
si contraddicono, pei concluderne l’insufficienza del principio stesso]; il
L.\s- soN, .Fichte Un Verhaltniss zu Kirche und Slaat (Berlin)
[l’Autore, dominato, com’è, dall’ idea religiosa quale può rientrare
nella concezione hegelismi, considera fondamentale la seconda forma
della lilosolia lichtiana, quella in cui prevale il pensiero religioso,
pur giudicandola non riuscita e insoddisfaeeute] ; e sopra tutti il già
ricordato Fibciusr, Fichtes Leben, Werke und Lehre (Heidelberg, Geschichtc
der neueren Fhilosophic) opera veramente classica per la larghissima
e accuratissima esposizione di quasi tutte le opere del grande
idealista; in essa si sostiene la tesi che le due forme della filosofia fichtiana
non sarebbero che duo opposte direzioni assuute rispetto allo stesso
principio fondamentale del sistema: uel primo periodo il Fichte, partendo
dalla lilosolia teoretica, si sarebbe elevato alla filosofia del diritto, alla
lilosolia morale, alla filosofia religiosa, all'Assoluto; quivi, infatti,
il postulato di quell'ordiuamento morale del mondo, che per lui la tutt
uno con 1 In assoluto e con Dio (die lebendige unii loirkende moralische
Ordnung itti selbst Goti), è il punto di arrivo; noi secondo periodo,
invertito il cammino e trasformato quel postulato da punto di arrivo in
putito di partenza, il Fidilo avrebbe preceduto dall’Assoluto alla
religione, alla morale, al diritto e alla scienza. — Più denigratore che
profoudo è stato giustamente giudicato, infine, il libro del NoàCK, J. G.
Fichte nach sei non Leben, Leliren und Wirken (Leipzig). filosofo
tedesco, inopportunamente staccata da tutto il resto deli’edifizio
speculativo. Anche nella maggior parte degli odierni studi storici
sul Lichte divenuti più che mai frequenti dopoché al moto neo-kantiano
iniziatosi al grido: ritorniamo al Kant! (zurìick zu Kant!) si associò,
come orientamento filosofico, un moto neo-fichtiano: ritorniamo al
Fichte!j(zuriick zu Fichte!) che è andato sempre più accentuandosi
dagli ultimi decenni del secolo scorso ai giorni nostrf è \11 ritorno a Kant si suole farlo
risalire alla celebre lezione dello Zellar: Ueber die Bedeutung und
Aufgabe der Er/ iJnntnistheorie (Heidelberg); ma già il Weisse
pronunziava a Lipsia un discorso: In welchem Sitine sich die deutsche
Philisopkie wieder a " Kanl zu orientieren hai (Leipzig),. dal quale
si rileva la sua avversione alla dialettica hegeliana e il suo sforzo por
contrapporre al panteismo idealistico un teismo etico. n? V '
m P ro P oa ìto I’Uebeuweg-Hbinzb, Grundtjss der Geschichle (ter p/iilosop/tie
seit Beginn des neunzehnten Jahrhundcrts (Berlin), Elnwìrkung Fichtes auf
neuere Lahren. Se ne ricava il largo é potente influsso che la filosofia
fichtiana, intesa sia come idealismo soggettivo, sia come idealismo
etico, sia come panpsichismo, ha esercitato e sopra le varie nuove dottrine
sorte in Germania e sopra menti speculative di altri paesi (Inghilterra,
Nord-America, ecc.). Per la recente e assai ricca letteratura intorno al nostro
filosofo vedi lo stesso voi. dell’Uebervveg-Heinze, Baldwin, Dictionary
of philosophy and psychology, London, e per quella recentissima, ancor yù
abbondante, cfr. i voli, editi da Rude,
Die P/iilosop/tie der Gegemoarl (Heidelberg) e contenenti pressoché tutta la
bibliografia filosofica. Nel centenario della morte del Fichte e scoppio
della guerra europea) la Bibliotheh fUr Philosop/tie, edita da Stein,
pubblica l’opuscolo di Stàhler, Fichte, ein deutscher Den/ter (conferenza
tenuta nel circolo tedesco di Charcow in Russia), in cui FA., movendo dal bisogno
spirituale oggi sempre più intensamente sentito di una nuova orientazione circa
la concezione del mondo, affermava essere appunto Fichte il più atto a fornire
una chiara risposta alla questione, una forse da rilevare una certa
esclusività d’interesse, corrispondente all’ interesse prevalentemente critico
e gnoseologico che ha animato siuo a ieri il pensiero contemporaneo; di
guisa che in questa rifioritura di studi fichtiani, mentre alla
teoria della conoscenza ò assegnato per lo più il posto d’onore, le altre
parti del sistema, in ispecie le più pratiche, vengono relativamente lasciate
nell’ombra. Il che nuoce alla dottrina e anche alla figura del nostro
filosofo, le quali così risultano monche e diminuite, e spesso oscurale e
falsate; quando invece Fichte reclamava sempre e vivamente che i futuri
critici non giudicassero la sua concezione se non nella sua totalità, se non
ponendosi cioè in quel punto di vista centrale, da cui si dominano e
s'illuminano tutti gli aspetti; tanto più, poi, che nessuu’altra concezione
come la sua aspirava a essere una rigorosa unità, organica, inscindibile,
completa, a rispecchiare, quasi, queiraltra rigorosa unità, altrettanto
massiccia quanto severa e semplice, che era la personalità stessa di
Fichte, il quale appartiene all’eletta schiera di spiriti eminenti che
nella storia deH’uinauità seppero unire in intima connessione la
speculazione filosofica con la vita vissuta, fondendo armonicamente pensiero e
azione, investendo del medesimo prorisposta che 11 non ha nè corna nè denti (die
u tceder Horner nodi Zàhne hai), ed essere sempre Fichte “ la stella
polare (der Leit- sternj verso la quale possiamo di nuovo orientare la
nostra vita e il nostro sapere „ (cfr. la prefazione). Peccato che
l’opuscolo dello Srahler uscisse accompagnato nello stesso anno da altri
due volumetti della stessa Biblioteca, riguardanti, sebbene con intento
puramente storico, figure filosofiche ben diverse dall’ideale figura del
Fichte, e di significato più sintomatico in quel nefasto anno, e cioè: il
Protagoras-Niclzsche-Stirner di B. Iachsiann e il Nietzsches Metaphysik-
limi ihr Verhdltniss zu Erkenntnialheorie u. Ethih di S. Flemming. fondo
interesse le più fredde concezioni astratte della ricerca teoretica e le
più ardenti questioni concrete dell’attività pratica, intensificando la
luce diffusa dalla loro opera in- stauratricè nel campo del sapere col
calore irradiantesi dalla loro missione riformatrice nel campo del dovere.
E invero non si può negare al sistema del nostro filosofo la sua
principale caratteristica : quella di essere cioè È veramente ammirevole in
Fichte che Zeller giustamente definiva anche per il carattere morale un
idealista nato il rapporto stretto
che uni sempre la sua vita alla sua dottrina. Jamais la manière d’agir et di sentir cosi scrive Bauthoi.mf.ss nella
sua Ili- gioire critique des doefriu^s religieuses de la philosophie
moderne (Paris) — jamais la conduite et l’àrae ne fu- rent séparées chez
lui de la manière de penser et de voir. Ce qu : il croyait était eu méme
temps le nerf de sa volonté, le soufflé et. l’inspiration de son existence
entière. Prenant au sérieux tous les mou- vements de son intelligence, il
vonlait vivre de ce qu' il coucevait, et taire vivre ce qu’ il savait, cornine
il ne vonlait savoir que ce qu’ il pouvait aimer, admirer et pratiquer.
Ce n’ótait pas lii l’héroique effet d’uu parti pris, c’était le propre de
sa naturo méme, où lo seu- timent de la valeur morale, de la diguité
personnelle, se confondait avec une telle hauteur de pensée, avec une
hardiesso de speculatimi si intrèpide, qu’ elle pouvait, semidei- la
rósolution d’nn caractère l'u- domptable. La ilestiuée, il est vrai,
avait surtout coutribué à Pac- croissemeut de nette énergie, de cette
trempe primitive. Fiofite avait eu longtemps à combattre, non seulement
des adversaires et des enne- mie, mais les soucis et la misère, le froid
ot la faim. Avant, do lutter pour la libertà de penser et pour P
indépendance de sa patrie, il avaiti pour s'assurer le pain dn jour,
endnré tout.es les rigueurs matórielles ot sociales; et de tant
d’èpreuves diverses, il était sorti plus vigoureux, plus courageux, plus
convaiucu de ce que peut et vaut la no- b lesse d’àme. Ausai ne
saurait-ou contempler, sans ètre à.la foia tou- chó et fortifié, le
tableau de ses souffrauces et de ses victoires, na'i- vemeut et
inodesteraeut trace dans cette Vie et correspondance, qu’ a publiée lo
lils qui porte si eonvenablemeut son illustre nom. con tutti i suoi difetti, i
suoi errori e, diciamolo pure, la sua oscurità un vero sistema. In esso
trovi subito un’idea che l’ha generato tutto quanto, che ne è il
centro, l’anima e ne fa l’unità : idea ovunque presente e ovunque
feconda, da cui nascono il metodo, le divisioni, gli svolgimenti, le
applicazioni, e da cui germogliano in ogni direzione soluzioni, buone o
cattive, a tutti i problemi teoretici e pratici. Esso è non solo uno nel suo
insieme e omogeneo nelle sue parti, ma universale: tutte le grandi questioni
intorno a Dio, all’uomo, alla natura, e ai loro rapporti, rientrano nel suo
quadro e vi si coordinano; vi si potranno notare lacune, rifacimenti,
mutevolezza di atteggiamenti e di espressioni, indefinitezza di disegno e
incompiutezza di linee, ma ciò va attribuito più alle contingenze
esteriori in mezzo a cui il sistema si svolse (‘), che non alla sua idea
ispiratrice, la quale, posta l’universalità della dottrina a cui dà vita,
non poteva non esercitare un influsso auch’esso universale sulla coltura del
tempo e delle età posteriori sino a noi, assicurando così al nome
dell’autore una fama imperitura nella storia dello spirito umano. Intorno itilo
svolgimento del pensiero fichtiano et'r. \V.Kaiutz, S ludi<’u z.
EnUoicklungsgeschichU der Fichteschen Wissemchaftslehre (Berlin) e nnolie
E. Focus, Vom Werden rlreier Denker : Fichte, Schelling, Schleiermachcr, Tiibingen.
cfr. anello IC. Voit LÀNDlSK, Geschichte der Philosophie, Leipzig, Schlegel
considera la Wissenschaftslehre di Fichte una delle “ tre maggiori
tendenze del secolo (circi griissten Tetidenzen iteti Jahrshunderts) „
accanto al Wilhelm Meister del Goethe e alla Rivoluzione francese. E
innegabile che il filosofo di Jena fu il filosofo per eccellenza della scuola
romantica, le cui idee, a giudizio concorde degli storici e in
particolare dello I-Iaym, che su ciò insiste ctm forza (cfr. Die
romantische Schuie), sono derivate in Quale questa idea ispiratrice? È
l’idea più alta e, pei la coscienza comune, la più paradossale che sia
sorta nella storia della filosofìa : la sintesi, cioè, di due termini in
apparenza così inconciliabili come l’io e il non-io, il conoscere e l’essere,
la libertà e la necessità, lo spirito e la natura, nel monismo superiore, nella
“ superiore filosofia (Jiohere Phihsophie) direbbe lo Schelling, della
libertà. Il sistema del Fichte consiste, intatti, in una * filosofia
della libertà e poiché il suo principio metafisico s’identifica con l’ideale
morale, giustamente fu chiamato un Idealismo elico. La vecchia metafisica
s’intitolava scienza dell’essere, ontologia, e nell’essere riponeva
l’assoluto, il reale, e dall’essere derivava ciò che dev’essere l’ideale.
Secondo Fichte, invece l’assoluto, il
principio ultimo e supremo da cui veniamo e a cui tendiamo non ù 1 essei e,
ma grandissima parte dalla Dottrina tirila scienza. E si spiega la
predi- lezione dei romantici per un sistema come il ttchtiano, il «piale
trasforma il kantismo ancora esitante in un idealismo assoluto, e a tutto
uscire, sotto il rispetto metafisico, da «piella stessa genialità dell’
lo, da cui i romantici tutto derivavano sotto il rispetto estetico. Fu
detto anche Idealismo soggettivo, ma tale definizione e ei- ronea, perchè
V Io che il Fichte pone al principio di tutto il suo sistema non è l’io
individuale, sì bene 1 ’/o collettivo, universale, che sta a fondamento
di tutti gl’individui, l’/o,assoluto, l’originaria incognita X, dalla cui
unità, ancora chiusa in sè stessa e incosciente, dovrà uscire, in virtù
di quel misterioso urto (Ansiosa), che è il t eus er m china di tutta la
metafisica Uchtiana, l’antitesi cosciente del soggettivo e
dell’oggettivo. Il mio lo assoluto - dice Fichte - non è l’individuo;
soltanto cortigiani offesi e filosofi irritati contro di me hanno cosi
male interpretato la mia filosofia, per attribuirmi l’infame dottrina
dell’egoismo pratico (mein absolutes Teh tst mcht das Individuili» ; so
haben beleidigte Hóflinge und drgerhchc Phiìo- sophm mich erklàrt, uni
mir die sehandliche Lehre des prahtischen Egoismus anzudichten. Cfr. G.
Ws ioi.lt. Zar GescMchte derneue reti Philosophie (Hamburg). il
dovere, è un ideale che non è, ma dev'essere. L’essere in quanto essere,
in quanto quid stabile e compiuto, in quanto cosa o materia inerte, a
rigore non esiste ; la fissità, l’immobilità di ciò che chiamiamo sostanza, sostrato,
materia, non è che apparenza. Agire, tendere, volere, ecco in che
consiste la realtà vera. L’universo è il fenomeno della Volontà pura, il
simbolo dell’ Idea morale, che è la vera cosa in se, il vero Assoluto.
Filosofare significa com vincersi che l'essere non è nulla, che il dovere
è tutto; significa riflettere sul proprio io empirico, individuale,
unica ultivilà libera che tende incessantemente ad attuare ciò che dev'
essere, ossia il Dovere, il Bene, /.’ Io assoluto, universale; significa
acquistare la coscienza di por- lare con sè la libertà che crea e
soggioga il mondo, appunto per attuare il Dovere, il Bene, l'Ideale
morale, l Io o la Libertà assoluta. Il Kant aveva bene ammesso
che il soggetto, ossia la ragione e la libertà, impone una forma e una
legge agli oggetti della conoscenza: dell’ Io egli aveva fatto, si,
il legislatore del mondo, ma non era giunto a farne addirittura il
creatore; poiché aveva lasciato sussistere ancora, ili fronte al
soggetto, uu oggetto, una cosa in sè, capace d’imporre un limite al
soggetto. Per il Fichte, invece, il quale dà all’ io empirico un
significato universale, questa pretesa cosa in sè, ultimo residuo del
dogmatismo, è una chimera che bisogna esorcizzare, perchè è
semplicemente la parte dell’ Io ancora incosciente che il progresso
della conoscenza trae a poco a poco alla luce della coscienza ;
sarebbe assurda, infatti, di fronte alla Libertà assoluta, alIo assoluto e
universale, una materia non creata da lui e a lui imposta dal di fuori. E
poi, questa misteriosa cosa in sè. supposta al ili là di ogni conoscenza,
questo essere senza intelligenza, a che si riduce, se non a un
contenuto mentale (Oeilankending ) e quasi a un fantasma, creato da
noi stessi a spiegarci le sensazioni e le rappresentazioni che in noi
sorgono, non per libera creazione nostra, ma prodotte dal di fuori. Se un
limite esiste all'attività del- ]> jo, gli è perchè l ’lo stesso lo
pone liberamente alla propria attività illimitata, con lo scopo di avere il
modo di sopprimerlo e di esentare cosi quella stessa attività propria e
di rivelare a si stesso la propria essenza, che è la libertà. La moralità
e la virtù, del resto, non suppongono lo sforzo e la lotta? bisogna,
dunque, per attuarle, crearsi perenue- mente ostacoli e superarli; onde V
Io nel primo momento della propria evoluzione “ pone sè stesso, tesi, nel
secondo momento u contrappone a sè il non-Io, antitesi, e nel terzo
momento si riconosce nel non-Io, sintesi. Tre aiti, questi, a cui corrispondono
i tre modi di esistenza, i tre oggetti del sapere, che sono l’io, il
mondo, il tu. Guai se l’7o desistesse un solo istante dali’esercizio
della propria libera attività! cesserebbe immantinente di esistere;
di qui il carattere titanico che il Fischer ammira nel- p Jo fichtiano,
destinato per natura sua a continuamente agire, produrre, volere. Per
approssimarsi in qualche modo al concetto dell lo iich- tiauo nel quale
va ricercato il fondamento di ogni esperienza, giova fare completamente
astrazione da qualsiasi contenuto rappresentalo della nostra coscienza
empirica. Dopo questa immensa sottrazione, si consideri la
rappresentazione più vuota che possa pensarsi, 1 unica affermazione che
non abbisogni di nessuna dimostrazione, il principio logico d’identità: A
è A, col quale uon si afferma nemmeno che zi esiste, ma soltanto che: se
A esiste, A dev’essere A. Orbene, quantunque con tale affermazione si formuli
soltanto una vuota venta e Un cosi intenso idealismo non era mai
sorto prima.del Pielite. Esso insegna che il variopinto e multisono
mondo sensibile, che si estende nello spazio e si svolge nel tempo,
non ha esistenza propria e indipendente : 1’ unico ch'e veramente esista è l’
lo. E lo stesso Io esiste solo in quanto agisce. Dal suo operare, dal suo
rifrangersi in In e non-lo, sorge per lui il mondo visibile, percepibile
e connesso da non i ponga
nessuna esistenza, si compie, tuttavia, un atto del pensiero, un giudizio, e un
giudizio d’incrollabile certezza, il quale porta direttamente a porre e a
riconoscere 1'esistenza reale dell’/o. Infatti, donde proviene il verbo “è”
con cui il primo A è messo in relazione col secondo A, il soggetto col
predicato? Il nesso tra i due termini del giudizio è beu soltanto nell’/o e per
opera dell’/o. Dunque, nellu precedente proposizioue: A è A, ebe è la più
evidente, per quanto la più vuota di contenuto, che si possa formulare,
si nasconde già l’ lo, si trova già l’attività certa di aè stessa; perché,
meutre per A non si ha il diritto di fare, oltre il giudizio ipotetico:
se A esiste, A è A, nnehe il giudizio categorico: A esiste, in quantiche
anatale affermazione richiederebbe un’ulteriore dimostrazione, per V Io,
invece, anello se non sappiamo assolutamente nulla più di questo: che è
A, possiamo dire non solo: se V Io esiste, l’ Io è l’/o, ma altresì: l’
Io esiste (ciò elio ricorda l’agostiniano e il cartesiano: Cogito ergo
sum). Ma V Io è, per natura sua, essenzialmente attività, e, prima
ancora di acquistare coscienza dei propri prodotti, dei propri atti, e di
sè stesso, crea, con la sua immagiuazione produttrice, perenne e
inesauribile, le innumerevoli rappresentazioni, che poi lu riHeasioue
farà apparire alla sua intelligenza come oggetti, come non-lo;
perchè va sempre ricordato questo punto originale della dottrina del
Fichte - il non-lo, ossia il mondo esterno, è posto ilall’/o inconscio,
non già dall' Io cosciente; è un prodotto, quindi, anteriore a quella
relazione di antitesi e sintesi tra soggettivo e oggettivo che è la coscienza,
e quando la coscienza nasce, s’impone a essa come già dato. Così, grazie
a questa produzione inconscia dell’ immaginazione dell' lo — di
quell’immaginazione che già per il Descartes era il trait d’union tra l’anima e
il corpo, e per il Kant l’intermediaria tra le intuizioni pure della
sensibilità e le categorie dell’intelletto —, il non-lo apparisce all’
intelligenza come un limite dal di fuori senza essere perciò estraneo
all’/o, essendo sempre un prodotto dell’/o inconscio. leggi, il quale
perciò non è che il sistema delle nostre rappresentazioni, il rispecchiarsi
dell’ lo nell’/o. Ma anche questo rispecchiamento non ci rivela in modo puro e
immediato ]’ intima essenza del nostro spirito, perchè non uel rappresentarsi
è il nostro più alto operare, non nel rappresentarsi è tutto il nostro
Io. Noi operiamo veramente soltanto nel libero volere morale; noi
attuiamo completamente il nostro Io soltanto «piando, con attività
rinnovata al lume della coscienza, ci sforziamo di soggiogare il mondo
delle rappresentazioni scaturite dall’inesauribile fonte dell’ lo
inconscio il quale mondo non è che “ il materiale sensibilizzato
del nostro dovere (unsre Welt ist das versinnlichte Muterial unsrer
Pjlicht) e ci sforziamo di trasformarlo nel mondo della libertà, nel
mondo soprasensibile ed eternamente in fieri del Bene; poiché, esclama il
Fichte, essere liberi è nulla, divenir liberi è il cielo (frei se‘in ist
nichts, frei wenlen ist dei' Ilimmel)! La costruzione filosofica del Fichte può
dirsi monolitica, ed è tale da superare in semplicità persino quella
eretta, da un punto di vista e con centro «li gravita affatto
opposti, dallo Spinoza: al Jacobi
il sistema del filosofo tedesco appariva il rovescio del sistema del
filosofo olaudese. E qui sta il vantaggio della concezione fichtiana
anche sulla kantiana; il Kant non aveva tanto fornito un sistema,
quanto, piuttosto, i germi e i materiali per più sistemi; nella lotta
contro il dogmatismo e contro lo scetticismo egli aveva voluto inalzare
alla scienza propriamente detta, più che un tempio, una fortezza; e, per
rendere questa fortezza iuespuguabile da tutti i lati, ne aveva
costruito -i bastioni quasi in tempi diversi, quasi in stile diverso
: onde nella sua filosofia non solo rimane il dualismo inconciliabile tra
l’essere e il conoscere, tra il conoscere'e il lai e, ma nell ambito
stesso del conoscere manca una rigorosa unità tra i diversi poteri conoscitivi,
tra la sensibilità con lo sue intuizioni pure, l’intelletto con le sue
categorie, la ragione con le sue idee metafisiche. Il filosofa di
Ko- nigsbei'g da una parte pareva chiudere lo spirito umano tutto
nel giro del proprio mondo interno, nel fenomeno, dall altra gli lasciava
intravedere, al di là di questo mondo interno, un altro mondo, il
noumeno, avvolto sempre da densa nebbia e sempre refrattario alla
conoscenza. Donde la domanda : questo mondo esistente in sè è quello
stesso che ci si i ivela nella voce della coscienza, ed è possibile
tiadui lo in atto con la pura e buona volontà? La risposta di Kant, almeno
nell’espressione datale dall’autore, se non nello spirito dell’autore
stesso, era stata cosi cauta, che ognuno poteva trarne le conseguenze a
suo proprio rischio. Iusomma, non si poteva non riportare l’impressione
che nella, dotti ina kantiana la verità fosse svelata soltanto a
mezzo, e che a essa mancasse, dal punto di vista scientifico, cosi il
fondamento come il coronamento. Fichte, invece, da quel pensatore ben più
ardito e deciso ch’egli eia e che si era formato sullo stampo dello
Spinoza, s’impossessò dei materiali kantiani, e fece della Critico un sistema
unitario: Tutto ciò che è, è per noi; tutto ciò che è per noi, può essere
soltanto per opera nostra; nell’attività dell’ lo è racchiuso il conoscere e
l’essere, il sensibile e il soprasensibile, il reale e 1’ ideale ;
nell’autocoscienza (Selbstbeiousstsein)
lo stesso Kant aveva già insinuato che la misteriosa incognita
nascosta sotto i fenomeni sensibili poteva benissimo essere quella stessa
che portiamo con noi è l’unità di tutti i poteri dello spirito, l’unità
delle forme cosi del fenomeno come della cosa in sè che sta a fondamento
del fenomeno, l’unità del sistema delle nostre rappresentazioni e del sistema
dei nostri doveri, l’unità della nostra essenza teoretica e della nostra
essenza pratica: 1’ unità, e con 1’ unità il fondamento e il coronamento
di tutta la dottrina. Se il Reinhold aveva cercato un principio
superiore, come principio unico indispensabile a dare forma sistematica
di scienza alla dottrina della conoscenza, se il Beck aveva interpretato
lo spirito della filosofia kantiana nel senso idealistico, se il Jacobi
aveva reclamato l’eliminazione della cosa in sè ecco nella filosofia di
Fichte soddisfatti tutti insieme questi desideri, e in pari tempo
fornita ai risultati della CRITICA DELLA RAGIONE 1’evidenza richiesta
dallo Schulze. La filosofia di Kant, raccoglie, a dir cosi, in un'unità
vivente tutti i germi e principi motori del pensiero moderno, e il
sistema di Fichte non è che una delle direzioni che poteva prendere il
kantismo. La direzione fichtiana, quindi, scaturisce naturalmente
dalle premesse kantiane, ma non deve considerarsi perciò, come vuole
Leon, quasi l’unico e necessario completamento del kantismo. Altre
direzioni, assai divergenti dalla fichtiana, l'anno capo
legittimamente aneli’esse a Kant, dei cui discepoli può ripetersi ciò che
CICERONE (si veda) diceva dei diversi discepoli di Socrate: ALII ALIVII SVINPSENVIT.
Fichte è un kantiano — Grice un hardieiano -- all’incirca nel medesimo senso
che L’ACCADEMIA è socratica, e sta allo Spinoza come Platone a VELIA (si veda)e;
con Kaut afferma l’ideale morale, con Spinoza l’unità dei “ due
moudi onde la Bua filosofia, dicemmo già, è un’originale sintesi, forse
Unica nel suo genere ai tempi moderni, di ciò che sembra
assolutamente inconciliabile: il monismo e la libertà, il mondo delle
cause o il inondo dei fini. Anziché ritornare sui singoli problemi della
Critica della ragione, egli s’impadronisce del centro animatore di
quella Critica, e trae fuori dal pensiero fondamentale dell’
auto-attività dello spirito, in quanto forza reale e fine a sé stesso, un
uuovo quadro del mondo di grandiosa arditezza, entro il quale
l’idealismo, che nella filosofia kautiana era latente sotto 1’ involucro
di prudenti re- La filosofia di Fichte, abbiamo detto, è una
filosofia della libertà, poiché ha per principio una realtà
assoluta, intesa come Io pratico, come Attività pura, come
Auto-determinazione, ed è uno sforzo poderoso per dedurre da questo
principio oltreché le condizioni della vita etica, anche le funzioni
della ragione teorica, celebrando in tal modo quel primato della ragione
pratica che Kant già proclama, e facendo perciò della ragione pura un
organo della moralità. L’attività dell’ Io assoluto alterna i suoi
atti di produzione inconscia con i suoi atti di riflessione cosciente, la
sua direzione centrifuga ed espansiva che si protende verso l’infinito,
con la direzione centripeta e coustrizioni, viene chiamato a potente vita, e
ciò che di sublime il grande lilosofo dell’ imperativo categorica aveva
insegnato intorno alla libertà morale di fronte alla necessità naturale,
viene tradotto dal linguaggio di un moderato contegno in quello di un
energico entusiasmo. li mondo può comprendersi soltanto in base allo spirito
e lo spirito soltanto in base alla volontà. La dottrina di Fichte è
tutta nel vivere e nel fare, tanto vero che comincia non con la
definizione di un concetto, ma con la richiesta di un atto, Thathandlung,
Poni te stesso, fai con coscienza ciò che bui fatto inconsapevolmente
ogni qual volta ti sei chiamato io, analizza questo atto di
autocoscienza e riconosci nei suoi elementi le energie da cui scaturisce
ogni realtà Questa intima vitalità del principio lichtiaiio, che ricorda
l'atto puro aristotelico e il perpetuo divenire eracliteo, e in
conseguenza della quale Dio, anziché una sostanza assoluta già compiuta,
sarebbo un ordino cosmico sempre attenutesi, mai attuato, si ridette
anche uell’opera filosòfica dell’autore, il cui spirito, fiero e irrequieto, si
svolse iu continua lotta non solo nella pratica, ma anche nel pensiero.
Nelle sue lezioni, come nei suoi scritti, spesso egli riprende daccapo
la serie delle sue deduzioni e sempre iu modo diverso e quasi conversando
coi suoi uditori e coi suoi lettori, mai trascurando le possibili
obiezioni da parte di questi; sicché il suo filosofare sembra compiersi
trattile che arresta la prima e respinge V Io in sè stesso; pone a sè
stessa l’urto (Anstoss) della sensazione, il limite della
rappresentazione, l’intoppo del non-Io ; è insomma teoretica : soltanto
al fine di diventare pratica. Tutto 1’ apparato della conoscenza non
serve che a darci la possibilità di compiere il nostro dovere: quel dovere che
è 1’ unica realtà vera, 1’ unico in-sè (An-sich) del mondo fenomenico,
perchè le cose sono in sè ciò che noi dobbiamo farne; 1’io teoretico pone
oggetti, affinchè 1’io pratico trovi resistenze -- Gegenstand, oggetto, è
qui preso come sinonimo di Widerstund, resistenza. L’oggettività esiste
soltanto per essere la materia indispensabile all’azione, per ricevere da
questa la forma che deve elaborarla e inalzarla sì da rendere sempre più
visibile alla presenza d’interlocutori, è come un filosofare in
comune e per più rispetti richiama alla mente il dialogo platonico. Del
resto al Fichte sarebbe parsa vana una filosofia avulsa dal suo ambiente
naturale, l’umanità, ond'egli si faceva un dovere di agire e influire
energicamente sui suoi contemporanei e su quanti fossero in relazione con lui,
e visse in continuo coutatto col mondo e con la società; al contrario del Kant,
tra la vita e la speculazione del quale non appare certo Io stretto
connubio che è nel nostro filosofo ; infatti, i rapporti sociali e tutto il
contegno esteriore del grande solitario di Konigsberg furono, rispetto alla sua
vita interiore e al suo pensiero, cosi indifferenti come il guscio al
gheriglio ma turo ; mentre il Kant per molti e molti auui aveva portato
entro di so,i suoi gravi pensieri senza che alcuno sospettasse nemmeno
che cosa accadesse nell’ intimo di questo professore che senza differenza
dagli altri teneva i suoi corsi universitari, il Fichte, invece,
impaziente di ogni ritardo nella missione rigeneratrice, a cui con
orgogliosa coscienza di sè si sentiva chiamato, lasciava prorompere la
manifestazione delle sue idee, anche se non definitivamente elaborate,
man mano che scaturivano dal profondo della sua anima agile e trasmutabile e
disposta agli atteggiamenti più diversi secondo i campi a cui si
applicava, secondo i problemi ché affrontava, secondo i momenti in cui
agiva. 1’ attività dell lo. In conclusione, noi siamo Intelligenza
Per poter essere Volontà. La Dottrina della Scienza, quindi, nel sistema
del Fichte, è tutta in servigio della filosofia pratica, la quale,
attraverso la dottrina del diritto, va a culminare nella dottrina morale,
e'mira ad attuare quel regno dei fini che Kant contrapponeva al
regno delle cause, e che jier il nostro filosofo consiste nell’adempimento
completo del Dovere, nel dominio assoluto dell’ lo, nel trionfo supremo
della Libertà. E invero, mentre da un lato la Dottrina della Scienza
ci apprende che il fondo, l’essenza dello spirito umano non è
l’intelligenza ma 1’ attività, non il pensare ma il volere nella forma,
almeno, in cui attività e volere sono accessibili all’uomo, e che
l’intelligenza — pur essendo inseparabile dall’attività, da cui è
condizionata e di cui e condizione
resta subordinata all’ attività come la forma al proprio
contenuto, come la riflessione al proprio oggetto, d’altra parte la
Dottrina morale ci mostra il procedimento con cui lo spirito umano si sforza —
il che è preciso suo dovere di prendere coscienza, mediante
l’intelligenza, di quell’attività pura, di quella volontà, di quella
libertà infinita, che è appunto il fondo suo, la sua essenza assoluta.
Dal che risulta evidente lo stretto nesso che avvince la Dottrina morale
alla Dottrina della Scienza ; quella si deduce direttamente dai principi
di questa, in quanto la moralità, secondo il Fichte, non è che uno
dei momenti pii importanti, anzi il più essenziale, dell’ attuazione di
quell’ Io puro, di quella Libertà assoluta che la Dottrina della Scienza
pone al di là dei limiti di ogni coscienza, e da cui l’io empirico deriva
e a cui l’io empirico aspira. Il passaggio dall’ Io puro, assoluto e
infinito, per via di limiti e determinazioni, all’ io empirico,
relativo e finito, ossia dalla Libertà all’Intelligenza, è il
problema a cui pili specialmente si applica la dottrina della scienza
; il passaggio dall’io empirico, relativo e finito, per via di
superamenti e liberazioni, all’Io puro, assoluto, infinito, è il problema
a cui più specialmente si applica la Dottrina morale. L’ un problema è il
reciproco dell’ altro, e la soluzione di entrambi dipende dalla soluzione
dell’antinomia tra la finitezza dell’Io-intelligenza, attività
oggettivante (che pone oggetti, limitazioni, resistenze), e
l’infinitezza dell’ Io-libertà, attività pura (= che ha per essenza l’assolutezza,
l’illimitatezza, l’autonomia). E come Fichte risolve tale antinomia con
quell’attività a un tempo finita e infinita che è lo sforzo (Streben) —
attività finita, perchè lo sforzo implica una limitazione, una
determinazione, che impedisce l’immediato compimento dell’atto nella sua
infinità; attività infinita, perchè questa determinazioue non ha nulla di
assoluto, di fisso, è un limite che l’attività fa indietreggiare
incessantemente per conseguire l’infinità, ne segue che l’idea dello
sforzo è, nella sua filosofia, il cardine fondamentale dell’ attività
teoretica non meno che dell’ attività pratica, dell’ Intelligenza non
meno che della Volontà, della Dottrina della Scienza non meno che
della Dottrina morale. Nella Dottrina morale, a oui ora è rivolta la
nostra attenzione, lo sforzo esprime la tendenza dell’Io a identificare
la sua attività oggettivante con la sua attività pura, e lo svolgimento
dell’ Io è tutto nel rapporto tra queste due attività : l’infinita Libertà
non può attuarsi se non at traverso la limitazione e l’Intelligenza, ma
non c’è limitazione uè Intelligenza se non rispetto all’infinita
Attività pura elle di continuo le sorpassa. Lo sforzo, quindi, può
definirsi un’attività in cui l’infinito è posto non come stato attuale,
ma come meta da raggiungere, un’attività in cui 1’ adeguazione del finito
e dell’ infinito non è, ma dev'essere, un’attività, insomma, che ha per
contenuto il Dovere e che del Dovere è a sua volta il contenuto.
Diamo, in breve, il disegno della Dottrina morale. La Dottrina morale si
apre I) con un’ Introduzione, in cui sono sinteticamente presentati i
presupposti filosofici dell’etica; e si svolge in tre Libri, dei quali
II) il primo trae da quei presupposti il principio della moralità)
il secondo deduce da essi la realtà e l’applicabilità di questo
principio) il terzo fa l’applicazione sistematica del principio stesso, ed
espone quindi la morale propriamente detta. I presupposti filosofici dell'
etica, contenuti nell’Introduzione e perfettamente conformi alla Dottrina
della Scienza, muovono dal principio che la vera filosofia soltanto
allora è possibile, quando si abbia un punto in cui il soggettivo e
l’oggettivo, l’essere in sè e la rappresentazione di esso non siano divisi, ma
facciano tutt’uno, e che un tal punto si trova nell’EGOITÀ o io puro,
nell’Intelligenza o Ragione. Senza questa assoluta identità del soggetto e
dell’oggetto nell’Io, la quale peraltro non si lascia cogliere
immediatamente come un dato della coscienza attuale, ma soltanto argomentare
per via di ragionamento, la filosofia non approda a nessun risultato.
Bisogna, dunque, ammettere un’Unità fondamentale e primitiva, la
quale, tosto che nasce una coscienza attuale o anche soltanto
l’autocoscienza, si scinde necessariamente in soggetto e oggetto, poiché “
solamente in quanto io, essere cosciente, mi distinguo da me, oggetto
della coscienza, divengo cosciente di me stesso. Bisogna ammettere, inoltre,
che l’oggettivo abbia causalità sul soggettivo, e viceversa il
soggettivo sull’oggettivo, per rendere concordi tra loro, e in generale
possibili, il pensiero e il pensato, la ragione e il suo dominio sulla
natura. E appunto perchè il legame causale tra soggetto e oggetto è
duplice — ognuna delle due parti è causa ed effetto dell’altra: il
soggettivo è effetto dell’oggettivo nel conoscere, Soggettivo è effetto
del soggettivo nell 'operare, la filosofia si divide in teoretica e
pratica. Senonchè, come avemmo già occasione di notare, l’Io
puro, ossia l’Unità soggettivo-oggettiva ancora indivisa, non è un fatto
(Thatsache ), ma un atto ( Thathand - tutiff), la sua natura originaria è
attività: è, dunque, pratica. Perciò il principio : “ Io mi trovo come operante
nel mondo sensibile è di capitale importanza per il nostro
conoscere. Da esso comincia ogni coscienza ; senza la coscienza della mia
attività non è possibile nessuna autocoscienza, senza l’autocoscienza nessuna
coscienza di un quid diverso da me. Infatti, la percezione della mia
attività suppone una resistenza al di fuori di noi; “ ovunque e in quanto
tu percepisci attività, tu percepisci necessariamente anche resistenza ;
altrimenti tu non percepisci attività (Ora la resistenza è affatto
indipendente dalla [Sittenlehre (Stimanti. Werke.) Cfr. pvec. Sittenlehre.
mia attività, è anzi il suq opposto; è qualcosa che esiste soltanto e in
nessun modo agisce, qualcosa di quieto e morto, die tende semplicemente a
rimanere quel che è, qualcosa che nel proprio campo contrasta
all’azione*della libertà, ma non può mai invadere il campo di questa.
Un qualcosa di simile, dunque, è pura oggettività, e si chiama.,
col suo proprio nome, materia. Senza la rappresentazione di una tale materia,
niente resistenza alla nostra attività, quindi niente attività, niente
autocoscienza, niente coscienza, niente essere. La rappresentazione
del puro oggettivo resta così dedotta necessariamente dalle leggi
stesse della coscienza. Con la medesima necessità con cui viene dedotto il
puro oggettivo, viene posto anche il suo contrario, il soggettivo, ossia
1’ attività propriamente detta, sotto la forma di un’ agilità (Agililàt)
o forza efficiente. Ma poiché nella coscienza, quasi come in un prisma,
ogni unità si rifrange in soggetto e oggetto, così in essa, avvenuto lo
sdoppiamento dell’Io puro in soggettivo e oggettivo, anche il soggettivo si
sdoppia a sua volta, e si ha da una parte 1’ attività propriamente detta,
veduta come una forza reale, come un oggettivo esistente in me,
dall’altra il soggettivo, fonie inesauribile di questa forza reale, fonte
originaria non derivante da nessun oggettivo, e dalle cui
profondità oscure e inaccessibili sgorga, con libero, spontaneo e
talora impetuoso moto interno, l’infinita varietà delle nostre
rappresentazioni, dei nostri concetti ; per conseguenza la mia attività
ossia il soggettivo ancora indiviso nella sua unità anteriore alla
coscienza —, quando sia veduta attraverso il tramite della coscienza, appare
come un oggettivo, che da un lato scaturisce da un soggettivo
perennemente rinascente a ogni estrinsecarsi dell’oggettivo, dall'altro
determina l’oggetti vita pura dianzi chiamata materia. Così si rivela
alla coscienza la nostra assoluta auto-attività, la cui essenza sta nel
produrre rappresentazioni, nel creare concetti, e la cui manifestazione
sensibile dicesi libertà. Ciascun concetto, riguardato come determinante
l’oggettivo in virtù della propria causalità, diventa un concetto-line,
e allora esso stesso appare un qualcosa di oggettivo e si chiama uua
volizione; e lo spirituale che in noi si considera come principio immediato
delle volizioni dicesi volontà. Spetta, dunque, alla volontà agire
sulla materia ed esercitare causalità nel mondo sensibile ; ma ciò non
le sarebbe possibile se non avesse uno strumento che sia esso
stesso materia, ossia quel corpo articolato che è il nostro [Nel Leon
trovasi ben descritta la natura dell’attività spirituale nel senso
fichtiano, attività clic è, a un tempo e continuamente, produzione di sè
e riflessione sopra di sè, oggettivazione e soggettività, io reale e io ideale,
attualità e potenzialità; chi voglia intendere una tale attività, che ha
la caratteristica di esistere e di essere anteriore alla propria esistenza,
devo ricordarsi che essa non va pensata alla maniera delle cose, perché,
contrariamoute alla natura di queste ultime, la cui realtè si esaurisce
tutta quanta nell'essere oggettivo, l’attività spirituale può ripiegarsi
su di sé, può riflettersi. E a ciò si deve quel fenomeno meraviglioso e
cosi lontano dal meccanismo materiale, per cui 1’ esistenza ideale
determina l’esistenza reale, l’idea ha causalità, lo spirito è libertà.
Onde si vede che la libertà è proprio (come il Kant aveva ailermato,
senza però dimostrarlo) il comiuciamento assoluto d’uno stato, la
creazione di un’ esistenza seuza rapporto di dipendenza reale con un’
altra esistenza. E si vede altresì che solamente l’essere ragionevole,
dotato d’intelligenza e riflessione, è capace di libertà, poiché in lui
soltanto è possibile una causalità in forza di un
concetto. organismo. E invero u io, consideralo come un principio di
attività nel mondo dei corpi, sono un corpo articolato, e la
rappresentazione del mio corpo non è altro che la rappresentazione di me
stesso come causa nel inondo materiale 5 e perciò, mediatamente, non
altio che un ceito aspetto della mia attività assoluta. Volontà e
corpo sono quindi una medesima cosa, riguardata però da due lati
diversi: una medesima cosa, perchè soltanto fin dove si estende
l'immediata causalità della volontà sul corpo, si estende il corpo
articolato, necessario strumento della causalità sulla materia;
riguardata però da due lati diversi, perchè, in virtù dell’ azione sdoppiatrice
della coscienza, la volontà appare come il soggettivo che esercita la sua
causalità sul corpo, e il corpo come 1 ’oggettivo i cui mutamenti
coincidono con quelli di tutta l’oggettività o realtà corporea.
Similmente una medesima cosa, riguardata però anch’ essa da due lati diversi,
sono la natura che la mia causalità può cangiare, ossia la costituzione
e l’ordinamento della materia, e la natura non cangiabile, ossia la
materia pura : la natura mutevole è l’oggettivo considerato soggettivamente
e in connessione con 1’io, intelligenza attiva ; la natura immutevolo è
Soggettivo considerato oggettivamente e soltanto in sè. Secondo il
precedente ragionamento, i molteplici elementi che l’analisi ritrova nella
percezione della nostra causalità sensibile vengono dedotti dalle leggi
della coscienza e ridotti all' unità, all’ unico assoluto su cui si tonda
ogni coscienza e ogni essere, all 'attività pura. Questa attività, in virtù
della legge fondamentale della coscienza, Sittenlehre. per cui 1 essere
attivo non si comprende senza una resistenza su cui agisce, non si comprende
cioè se non come un Io-soggetto operante sopra un non-io-oggetto, appare
sotto forma di efficienza su qualcosa fuori dell'Io. Ma tutti gli
elementi contenuti in questa apparenza, a partire dal concetto-fine propostomi
assolutamente da me stesso, sino alla materia greggia del mondo esterno su
cui esercito la mia causalità, non sono che anelli intermedi
dell’apparenza totale, e perciò semplici apparenze anch’essi. L’unico
reale 1 vero è la mia auto-attività, la mia indipendenza, la
mia libertà. Da tali presupposti bisogna ora dedurre il
principio della moralità. L’ uomo trova in sè un’ obbligazione assoluta e
categorica a fare o non fare certe azioni indipendentemente da ogni fine
esteriore, la quale si accompagna immancabilmente con la natura umana e
costituisce la nostra caratteristica morale. Donde ha origine questa
obbligazione o Dovere, che vai quanto dire la leggo morale, ossia il'
principio della moralità? Secondo che esige la Dottrina della Scienza,
tale origine non va ricercata altrove che in noi stessi, nell’ Jo. Onde
il primo problema da risolvere a tal fine è:^ u Pensare sè stesso
come puramente sè stesso, ossia come distaccato da tutto ciò che non è io.
La soluzione di questo problema si ottiene così : Io non trovo me stesso
se non nella mia volontà, se non come volente ; e trovarsi volente
significa riconoscere in se una sostanza che vuole. L’intelligenza è la
coscienza puramente soggettiva; la coscienza del proprio io in
quanto io non può nascere che dalla volontà,. Ma la volontà non si
concepisce se non supponendo qualcosa di diverso dal1’ io, perchè ogni volontà
reale è una determinata volizione che ha un concetto-fine, che tende cioè
ad attuare un oggetto concepito come possibile, un oggetto che stia fuori
di noi. Ne segue che, per trovare me stesso e nuli’altro che me
stesso, bisogna fare astrazione da questo oggetto esterno della mia
volontà: ciò che rimane allora sarà il mio essere puro, la volontà assoluta, il
principio della nostra filosofia. Ne segue altresì che il carattere essenziale
e distintivo dell’ io è una tendenza ad agire di propria iniziativa e
indipendentemente da ogni impulso estraneo, a determinare sè stesso in modo
incondizionato e autonomo, è, in una parola, la libertà. Ora, appunto
questa tendenza e questa libertà costituisce l’io preso in sè, l’io
considerato all’ infuori di ogni relazione con checchessia di
diverso da sè. Ma ogni essere non è se non in quanto viene
riferito a un’ intelligenza, la quale sa che esso è ; in altri
termini suppone una coscienza. L’io, quindi, non è se non in quanto
si pone, non è se non in forza della coscienza che ha di sè; onde esso
deve avere la coscienza di quella tendenza alla libera auto-determinazione che
dicemmo costituire la sua essenza. E invero l’io che, mediante l’intelligenza,
pone sè stesso come tendenza all’autonomia assoluta o libertà, è un
essere il cui principio si trova non in un altro essere, ma in un quid di
categoria diversa l’unico quid che
possa concepirsi oltre l’essere — e cioè nel pensiero, inteso non come qualcosa
di sostanziale, sì bene come attività pura, come movimento
dell’intelligenza senza restrizioni e senza fissità. Orbene, da questa
intima fusione dell’io in quanto tendenza all’attività assoluta o libertà
e dell’io in quanto intelligenza, dell’io in quanto essere e dell’
io in quanto riflessione, è possibile dedurre il principio della moralità.
Come? L’io assoluto, non ancora rifratto dal prisma della
coscienza, è determinato, come abbiamo detto, dalla sua tendenza
all’attività assoluta, e questa determinazione diventa oggetto o contenuto
dell’ intelligenza. Ma, siccome l’Io assoluto nella sua unità integrale,
nella sua semplicità e identità originaria non può essere mai oggetto
della coscienza, bisogna che questa si sforzi di apprenderlo, almeno per
approssimazione, attraverso la dualità dell’essere oggettivo e della
riflessione soggettiva, mediante quella specie di espediente che consiste
nel considerare il soggettivo e 1’oggettivo come determina»tisi
reciprocamente l’uno l’altro, come complementari, quindi come inseparabili
e impensabili l’uno senza l’altro. E allora, se si concepisce il soggettivo
come determinato dall’ oggettiv'o (nel qual caso nasce quella relazione
psicologica che si chiama sentimento), essendo l’oggetto, rispetto al
soggetto, qualcosa di per sè stante, di fisso .e permanente, si troverà
che il contenuto del pensiero è immutabile e necessario e che l’intelligenza
impone a sè stessa la legge di una attività propria e assoluta. Se poi si
concepisce l’oggettivo come determinato dal soggettivo (nel qual caso
nasce quell’altra relazione psicologica che si chiama volontà), essendo il
soggetto, rispetto all’ oggetto, qualcosa di mobile, di attivo e
indipendente, si troverà che l’io si pone come libero. Si arriverà cosi
combinando, i due risultati, la legge necessaria da una parte e la
libertà illimitata dal1’altra all’ idea di una legge che l’io liberamente
-impone a sè stesso: la legge ha per contenuto la libertà, e la libertà è
sottoposta alla legge. Legge e libertà, per tal modo, si determinano
reciprocamente : esse fanno insieme una sola e medesima unità. Tra la
libertà ( = attività incondizionata e illimitata) e l’autonomia ( =
imposizione spontanea di una legge a sè stesso) non c’ è incompatibilità;
esse nascono entrambe da quello sdoppiamento che è dovuto alla natura
dell’ attività spirituale e che è a un tempo posizione di sè e
riliessione sopra di sè, oggetto e soggetto. In altri termini, si ha qui
l’intima fusione, nel- 1’ unità dell’ io, tra 1’ intelligenza, che
concepisce la nostra essenza come libertà, e la volontà, che è 1’
attuazione del1’autonomia, tra la libertà-concetto e la libertà-atto, e
il legame che unisce 1’ una all’ altra è di causalità non Inec-
canico-coercitiva ma psichico-imperativa, è di necessità non teorica ma
pratica, è il legame morale del dovere. La libertà-idea non può non
tradursi, dece tradursi in libertà- realtà; il Dovere, obbligazione per
eccellenza, sta nell’attuare l’essenza nostra, nel divenire, attraverso la
coscienza, quel ohe siamo in fondo al nostro essere assoluto
anteriore alla coscienza, nel renderci cioè liberi ; e in ciò precisamente
consiste il principio supremo di tutta la moralità, il quale per tal
guisa risulta dedotto, come ci proponevamo, dalla natura dell’
io. Posto l’io, è in pari tempo posta anche la tendenza all’assoluta
auto-attività, alla libertà; ma la libertà non acquista valore se non per
un’ intelligenza che ne faccia la legge determinante delle nostre azioni
; ne segue che l’io deve sottoporsi con coscienza e quindi con libertà
alla legge della propria natura, che è la legge della
libertà, senz’altro fine che la libertà, stessa. La moralità,
appunto perchè esprime direttamente l’essenza dell’io, la sua praticità
assoluta e la sua autonomia, è una perpetua legislazione dell’io imposta a sè
stesso, sotto un triplice rispetto : rispetto all’adozione stessa della
legge morale, adozione la quale non può essere che una libera
sottomissione, una spontanea adesione alla logge; rispetto
all’applicazione della legge a ciascun caso particolare, applicazione
nella quale il giudizio morale è sempre un atto di autonomia, un consenso di
noi con noi stessi ;rispetto al contenuto della legge, uel quale
contenuto è evidente che ogni determinazione della volontà da parte di
una causa estranea a sè stessa, che vai (pianto dire alla ragione,
costituirebbe un’eteronomia affatto contraria alla legge morale. Per tal modo
si può concludere che la vita morale tutta quanta non è altro che una
ininterrotta auto-legislazione dell’io, una perenne autonomia dell’essere
razionale; e dove questa autolegislazione cessa, ivi comincia l’ immoralità.
IH- - Alla deduzione del . principio della moralità segue la deduzione
della realtà e dell’ applicabilità del principio stesso, senza di che
quest’ ultimo rimarrebbe un’ astrazione e la morale si ridurrebbe a un
formalismo vuoto e sterile. Invece la morale ha una realtà, la
legge morale ha efficacia nel mondo sensibile in cui viviamo ; onde
il principio della moralità è non solo vero, logica). A chiarire ancor meglio
la deduzione della legge morale dall’Io, ricollegandola con i principi e
le conseguenze della Dottrina della Scienza giova il seguente schema
fornito un mente possibile e giustificato dalla ragione, ma
altresì reale e applicabile : reale, perchè è un concetto che deve
attuarsi nel mondo sensibile ; applicabile, perchè il mondo sensibile è
tale, per origine e natura, da prestarsi come strumento all’attuazione di
quel principio. da Fischer (Geschichte der neuem Philosophie, Fichte
unti seine Vorgànger) e nel quale viene simboleggiato lo sdoppiarsi
dell’ Io nella coscienza teorica e il suo reintegrarsi nella legge
morale: Io Soggetto = Oggetto Coscienza (Divisione) Soggetto
Autoattività Causalità del
Concetto Libertà Oggetto Materia Causalità della Materia Necessità Libertà
= Necessità Legge della Libertà Libertà sotto la Legge della Libertà (Assoluta
Autonomia) Legge Morale. Come si vede, qui la realtà del principio
morale non è la realtà già attuata di ciò che esiste nel mondo meccanico
dei fatti naturali o nel mondo giuridico della convivenza sociale, ma la
realtà di ciò che deve esistere nel mondo morale della volontà; le prime
due specie di realtà sono sotto la categoria della necessità (leggi
naturali) o della coercizione (leggi sociali), l’ultima, invece, di cui
ora si tratta, è sotto la categoria della contingenza, della libertà
(legge morale). Infatti, il principio della moralità dianzi dedotto
è a un tempo un principio teorico, in quanto l’io si determina da
sè dinanzi a sè stesso come essere assolutamente indipendente e libero — il che
costituisce la materia della legge morale —, e un principio pratico, in
quanto l’io impone da sè a sè stesso 1’ attuazione della propria natura il che
costituisce la forma (imperativa) della legge morale. Ogni singolo io è libero,
ecco il principio teorico ; Ovatterai ogni singolo io come un essere
libero, ecco il principio pratico derivante, sotto forma di comando,
da quel principio teorico. In sostanza la legge pratica della libertà
potrebbe formularsi così: Opera secondo la conoscenza che hai della natura e
del fine originario degli esseri Giusta i principi della Dottrina della
Scienza, le cose che abbiamo posto fuori di noi non sono, in fondo,
che le nostre idee ; di qui l’armonia tra la determinazione teorica degli
oggetti e gl’ imperativi morali che da questa determinazione teorica
scaturiscono rispetto agli oggetti stessi. La spiegazione dell’ accordo dei
fenomeni con la nostra volontà sta nell’accordo della volontà con la
natura, a cominciare dalla natura nostra : noi non possiamo volere se non
ciò a cui ci spinge 1’ impulso naturale ; questo impulso non è la legge
morale, ma^ legge morale non può nulla comandare il cui oggetto non sia
nella sfera di questo impulso. L’essere ragionevole, il quale deve
porre sè stesso come assolutamente libero e indipendente, non può far
ciò senza in pari tempo determinare teoricamente il suo mondo mediante la
rappresentazione ; e la sua libertà, che è un principio pratico, esige
che questa determinazione teorica da parte del pensiero si mantenga e si
completi mediante l’azione da parte della volontà. L’azione della liberta dell’
io sul mondo determinato come rappresentazione consiste nella modificazione di
uno stato del mondo stesso mercè il dominio di un concetto anteriormente
posto ; è la produzione di una realtà conformemente a un’idea data
come suo principio ; significa, per conseguenza, proprio l’inverso della
rappresentazione, la quale è la determinazione di un concetto secondo una
realtà anteriormente posta. E come l’enigma della rappresentazione, ossia
il rapporto tra la cosa e l’idea, trovava la sua soluzione nell’identità
originaria dei due termini, essendo la cosa un prodotto inconscio dell’ io,
similmente qui il l’apporto tra il concetto e la realtà ha il suo
fondamento nel fatto che la produzione di questa realtà non è la produzione di
una cosa in sè, di una realtà assoluta, che sarebbe in qualche modo
esteriore alla coscienza, ma è sempre uno stato di coscienza, una
determinazione dell’ io. E allora non è più questione di sapere come sia
possibile nel mondo una modificazione da parte della libertà, poiché,
essendo il mondo esso stesso un prodotto della libertà, un limite che
l’io pone a sè stesso, è questione di sapere come sia possibile,
mediante la libertà, un cangiamento nell’io, un’estensione dei suoi
limiti ; e se si osserva che 1’ io, oggetto di questa modificazione, è l’io
limitato., ossia l’io empirico, e che la legge della libertà, sotto la
quale si operano nell’ io empirico queste modificazioni, esprime l’io
puro, l’io assoluto, è evidente che il problema circa la realtà del
principio morale, circa l’attuazione della libertà, si riduce, in fondo,
alla questione già esposta anteriormente circa i rapporti tra l’io
empirico, naturale, e l’io eterno, assoluto Sittenlehre. Per dedurre ora la
realtà e la conseguente applicabilità del principio dell’ etica, bisogna
dedurne la materia e la sfera d’ azioue, bisogna stabilire, cioè,
anzitutto l'oggetto della nòstra attività in generale, poi la causalità
reale dell’essere ragionevole. Quanto al primo punto si ha questo teorema.
L’essere l'agionevole non può attribuirsi nessun potere, senza pensare in pari
tempo qualcosa fuori di sè a cui quel potere sia diretto; egli, infatti,
non può attribuirsi la libertà, senza pensare più azioni reali e
determinate come possibili per opera della libertà, e non può pensare
nessun’ azione come reale e determinata, senza supporre all’ esterno qualcosa
su cui quest’ azione sia esercitata. Esiste, dunque, fuori di noi e posta dal
pensiero, una materia a cui la nostra attività si riferisce e che
può essere modificata all’ infinito. Quanto al secondo punto si ha
quest’altro teorema. L’essere ragionevole non può trovare in sè
nessun’applicazione della propria libertà, ossia nessun volere reale,
senza in pari tempo attribuire a sè stesso una reale causalità o
efficienza sul mondo esterno r, e non può attribuirsi una siffatta
causalità o.efficienza, senza determinarla in una certa maniera. Ora,
l’attività pura non può essere determinata in sè, altrimenti non sarebbe
più pura; essa non può essere 'determinata se non da ciò che le si
oppone, ossia dai suoi limiti. Questi limiti non possono essere percepiti se
non nell’esperienza sensibile e, inquanto oggetto d’intuizione sensibile,
consistono in una diversità o varietà di materia. Onde l’io, il quale non
sarebbe attivo se non si sentisse limitato, viene posto come un’ attività che
preme, per allargarli, sopra i limiti entro cui lo rinserra la diversa
materia che gli resiste, il nou-io che gli si oppone. L’essere
ragionevole, dunque, esercita una causalità reale nel mondo sensibile, e
tale causajit.à consiste non già nel creare o distruggere la materia su cui
si esercita tale materia è
condizione indispensabile per l’attività dell’essere ragionevole, ma
nell’introdurvi ulteriori determinazioni nuove ; u io ho causalità „
significa sempre: u io allargo i miei confini che vai quanto
dire: io attuo progressivamente il concetto di libertà secondo che mi è
imposto dalla legge morale, pur non giungendo mai a un’ attuazione completa. Di
guisa che la nostra esistenza, mentre uel mondo intelligibile è legge morale,
nel mondo sensibile è azione reale: il punto in cui le due esistenze si
riuniscono è la libertà intesa come facoltà assoluta di determinare
1’azione mediante la legge. Risulta da quanto precede che il principio della
moralità, ossia la libertà, non può attuarsi se non opponendo
all’attività pura dell’ io una limitazione o un sistema di limitazioni, e
imponendo alla medesima attività un progres [Abbiamo qui una delle
idee fondamentali del sistema ficbtiauo, cioè: l’impossibilità per noi
di separare il sensibile dall’intelligibile, la negazione del dualismo,
l’assurdità di concepire nell’ àmbito della coscienza un carattere noume-
nico radicalmente distinto dal carattere fenomenico. Secondo Fichte
scrive Léon il sensibile è la condizione per l’intelligibile; Benza il
sensibile, il quale determinandolo lo attua, il puro intelligibile
rimarrebbe allo stato di potenza indeterminata e vuota. Questa concezione
segua la rovina del misticismo, che pretende isolare lo spirito dal corpo
e relegarlo in una sfera chimerica ; l'Io fichtiano – cf. l’io griceino –
Fichte’s I, Grice’s I -- non è fatto di singoli pezzi separabili ad arbitrio;
esso forma in tutti i suoi elementi una gerarchia, un vero
organismo. sivo ampliameuto di
questa limitazione o sistema di limitazioni. Il che si verifica anche quando si
tratti non di un fine ultimo, come la libertà assoluta, ma di fini
intermedi. Il più spesso’ci accade di non poter attuare immediatamente un
determinato fine scelto dalla nostra volontà, e siamo costretti, per conseguirlo,
a servirci di certi mezzi già determinati in* antecedenza senza il nostro
intervento : non perveniamo al nostro fine se non attraverso una
serie di gradi interposti ; che equivale a dire : tra il sentimento
da cui sono partito con la volontà e il sentimento a cui mi sforzo di
giungere intercedono altri sentimenti, di cui ognuno è l’esponente dei
limiti che mi si oppongono, limiti che con la mia causalità, con la mia azione,
io fo indietreggiare ogni volta di più, estendendo cosi pi-ogressiva-
mente la mia attività reale. La mia causalità, dunque, appare come un’azione
continua e diversa, come una serie ininterrotta di sforzi e di sentimenti
svariati ; poiché essa è assolutamente una e identica in quanto attività,
ma presenta tuttavia infiniti aspetti multiformi a causa della multiforme
resistenza che incontra da parte degl’ infiniti oggetti esterni; esterni,
s’intende, e posti indipendentemente da noi, per chi non adotti o ignori il
punto di vista della filosofia trascendentale e rimanga al punto di
vista della coscienza comune. Intesa nel modo descritto, la causalità
dell’ essere ragionevole contiene in sé la sintesi assoluta della conoscenza e
dell’ attività, determinantisi reciprocamente nella concezione e nel
perseguimento di un medesimo fine. L’essere ragionevole, infatti, non ha una
conoscenza se non in seguito a una limitazione della propria attività, tesi; ma
d’altro canto non ha attività se non in seguito a una
conoscenza (antitesi) ; conoscenza e attività sono poste come identiche
nella volontà, sintesi. Come si ottiene questa sintesi? Basta pensare
all’ essenza originaria dell’ io oggettivamente considerato : sappiamo
che tale essenza è assoluta attività e nuli’altro che attività; e poiché
l’attività, oggettivamente presa, è impulso, e nell’io nulla esiste o
accade di cui egli non abbia coscienza, cosi, posto nell’ io oggettivo un
impulso, vien posto altresì iu esso un sentimento di questo impulso. Il
sentimento o coscienza primitiva dell’impulso è, dunque, l’anello sintetico
in cui con l’attività è posta la conoscenza e con la conoscenza
l’attività. Soltanto è da aggiungere che, se dal punto di
vista pratico la conoscenza e l’attività sono inseparabili, la coscienza
che accompagna qui l’impulso non è affatto la coscienza riflessa e iu nessun
grado una riflessione libera ; in essa non c’ è neppure quella specie di
libertà che caratterizza la rappresentazione e che ci permette di non
rappresentarci l’oggetto, di fare cioè astrazione da esso ; è una
coscienza tutta spontanea, che s’impone a noi con necessità, è un
sentimento di cui non siamo in nessun modo padroni. Il sistema d’impalisi
e di sentimenti di che s’intesse 1’io empirico oggettivo deve quindi
concepirsi come natura, come la nostra natura, come cioè qualcosa di
dato, di non prodotto da noi, d’ indipendente dalla libertà, ma su
cui la libertà può esercitarsi, e si esercita, allorché l’io-soggetto ne
fa oggetto di riflessione e consente o no a soddisfarlo ; e invero, tosto
che riflettiamo sui nostri impulsi originari, non siamo più dominati da
essi ; sono essi, invece, dominati da noi, perchè dipende da noi
assecondarli o no ; comincia allora il vero ufficio della nostra libertà
cosciente. Nasce così la differenza tra la facoltà appetitiva inferiore
del semplice impulso di natura e la facoltà appetitiva superiore del
medesimo impulso sottoposto alla riflessione e alla libertà. Giova
chiarire meglio la facoltà appetitiva inferiore, prima di passare alla
superiore. Abbiamo detto che essa costituisce ciò che in noi si chiama
natura; ma bisogna distinguere la natura nostra dalla natura delle cose
in cui regna il puro meccanismo. Nel mondo meccanico non c’è
attività propriamente detta, c’ è soltanto una trasmissione di urti
attraverso tutta la serie di cause ed effetti, senza che nessun anello
produca o modifichi la forza trasmessa. Nella natura nostra, al
contrario, c’è una vera spontaneità, la quale non è ancora la libera
causalità del pensiero, del concetto, perchè è una necessaria
determinazione dell’esistenza reale per opera di questa esistenza stessa, ma
sta tuttavia al disopra del puro meccanismo, perchè consiste in una
determinazione proveniente da una serie di cause ed effetti disposta non
più secondo un ordine lineare di successione, sì bene secondo un ordine
ricorrente di reciprocanza ; quivi, infatti, le singole parti sono a un tempo
effetti e cause del tutto, onde si ha quel che si dice un or- (Per essere
più chiari : l’impulso e il sentimento che l’accompagna mancano di
libertà; la volontà e la riflessione che ne è condizione hanno per
essenza la libertà; a parte, però, questa differenza di capitale importanza ma
soltanto formale, l’impulso e il sentimento, per quanto riguarda il loro
contenuto materiale, sono identici alla volontà e alla riflessione; l’oggetto a
cui tendono necessariamente i primi diventa l’oggetto liberamente accettato o
ripudiato dalle seconde. gallismo, ossia una costituzione, la
quale, lungi dal dipendere da un’azione esterna, Ira in sè stessa il principio
della propria determinazione, è dotata insomma di spontaneità,. La
reciprocanza di azione tra le parti di un tutto organico in natura si spiega
così: a ciascuna di esse le altre non lasciano che una certa quantità di
realtà, onde ciascuna parte per la rimanente realtà che le manca non ha
che una tendenza o impulso risultante dallo stato determinato delle altre parti
: ciascuna tende a formare il tutto, a integrarsi con la realtà delle
altre ; e cosi in un’ unità organica la realtà è in proporzione inversa
della tendenza (o impulso) derivante dalla mancanza di realtà; realtà e
tendenzfP (o impulso) si completano a vicenda ; ciascuna parte tende a
soddisfare il bisogno di tutte, e tutte a loro volta tendono a soddisfare
il bisogno di ciascuna ; ogni singola parte tende a combinare la propria
essenza e la propria azione con l’essenza e l’azione delle rimanenti, e
questa tendenza giustamente si dice impilino plastico (Bildungstrieb), cosi nel
senso attivo come nel senso passivo della parola, perchè è la facoltà a
un tempo così d’imprimere come di ricevere forme. Questa facoltà
organizzatrice è universale, essenziale, inerente a tutte le parti e a
tutti gli elementi, onde ciò che si chiama un tutto naturale, ossia un
tutto chiuso, può altresì chiamarsi un prodotto organico della natura, a
costituire il quale certi elementi della natura, in virtù della causalità
di cui questa è dotata, hanno riunito il loro essere e il loro operare
in un solo e medesimo essere, in un solo e medesimo operare. Ciò posto,
ecco quanto accade in quel tutto organico della natura che è l’io
individuale, empirico, a partire dai più bassi impulsi sino alle più alte
tendenze. Iu ciascun io individuale, appunto perchè esso è un
tutto organico della natura, l’essenza delle parti consiste in una
tendenza a conservare unite a sè altre determinate parti, e siffatta
tendenza, se attribuita al tutto, dicesi impulso all' autoconservazione ; alla
conservazione, s’intende, non dell’esistenza in generale, che è
un’astrazione, ma di un’esistenza determinata. L’impulso
all’autoconservazione, che è poi la tendenza a perseverare nel proprio
essere, porta 1’ essere organico a inferire a sè certi oggetti
della natura; di qui l’appetito o la brama verso questi oggetti,
appetito o brama dapprima vaghi e indeterminati, quasi COME IL PRIMO GRIDO
INARTICOLATO DELL’ORGANISMO ANCORA INFANTE, POI SEMPRE PIÙ DETERMINATI E
DIFFERENZIATI, COME IL LINGUAGGIO ARTICOLATO DELL’ORGANISMO ADULTO. E — si
noti bene — non già la diversità degli oggetti determina lo
specificarsi dei vari appetiti e desideri; al contrario, i diversi modi del
desiderio, mediante le proprie determinazioni, si creano i propri oggetti. La
coscienza o l’intelligenza* che ci rappresenta gli oggetti non è che il
riflesso dei nostri istinti,, inclinazioni, tendenze, della nostra
vita pratica in generale; non, dunque, gli oggetti suscitano, quasi
loro fine, gli appetiti, ma gli appetiti hanno il proprio fine in sè
stessi, nella propria soddisfazione, e noi non perseguiamo, attraverso gli
oggetti, altro che i nostri desideri esteriorizzati nelle cose. Ma se è
così, se ciò che ci sforziamo d’ottenere è non l’oggetto — il quale si riduce
a im simbolo, sì bene la soddisfazione della nostra tendenza, della nostra
brama, in altri termini, il nostro godimento, il nostro piacere, si comprende
come, tanto dal punto di vista della pura natura irriflessa, quanto da
quell» della riflessione sulla natura, sia il piacere il fine supremo
della nostra condotta ; di guisa che, nel primo passaggio immediato dallo
stato di pura natura allo stato di coscienza riflessa, la nostra azione cangia
di forma da necessaria e istintiva diventa libera e riflessa, e tale
cangiamento ne modifica radicalmente il carattere, ma il suo contenuto
rimane ancora il medesimo, è ancora il piacere: al punto da far sembrare
che l’uomo con la riflessione non si elevi al di sopra della natura, se
non per sottoporlesi meglio e perseguire con pili luce e sicurezza il fine
edonistico. Ora, finché è spinto al piacere e dipende dagli oggetti dei
suoi appetiti, ]' uomo rimane confinato nell’ esercizio della
facoltà appetiti va inferiore. Ma l’attività ragionevole in lui tende con
coscienza e riflessione a determinarsi assolutamente da sé, a rendersi
indipendente da ogni oggetto che non sia essa stessa, quindi anche e
soprattutto dal piacere; e allora la nostra azione si differenzia da
quella compiuta allo stato di pura natura, oltreché per la forma, anche
per il contenuto, essendo questo costituito non pili dal piacere —
comunque ricercato, per istinto cieco e necessario, ovvero per volontà,
cosciente e libera, ma dalla libertà stessa, che è l’es senza nostra e il
nostro vero fine supremo. L’ uomo si eleva cosi all’esercizio della
facoltà appetitiva superiore, di quella che appartiene non a lui prodotto
di natura, ma a lui spirito puro. Ciò non ostante, le due facoltà appetitive,
l’inferiore e la superiore, costituiscono un solo e medesimo impulso
originario dell’io, dell’io veduto da due lati diversi : nella facoltà
appetitiva inferiore, ossia nell’ impulso naturale, mi concepisco come oggetto,
uella facoltà appetitiva superiore, ossia nell’impulso spirituale, mi
concepisco come soggetto, mentre tutta la mia essenza si ritrova nell’
identità del soggetto e dell’oggetto, ò soggetto-oggetto. Dall’azione
reciproca dei due impulsi nascono tutti i fenomeni dell’ io ; ma entrambi
si fondono in un unico e medesimo io, onde debbono essere conciliati, unificati
; ed ecco in qual modo : l’impulso superiore rinunzia alla purezza della
propria attività — purezza che consiste nel non essere determinato da un
oggetto —, lasciandosi determinare da un oggetto, e l’impulso inferiore
rinunzia al piacere in quanto fine, al piacere per il piacere ; si ha
così per risultato della loro unione un’ attività oggettiva, il cui
oggetto e fine ultimo è un’ assolute libertà, un’assoluta indipendenza da
ogni natura;'un fine, questo, proiettato all’infinito e perciò irraggiungibile
raggiungerlo sarebbe porre termine in pari tempo all’attività e alla
natura che dell’attività è il limite correlativo, la condizione
indispensabile; un fine, tuttavia, a cui è possibile avvicinarsi sempre più,
facendo uso della libertà e della facoltà appetitiva superiore. Non si
obietti qui — dice il Fichte ( Sittenlehre) che un’approssimazione
all’infinito è contraddittoria, in quantoche un infinito a cui potessimo
avvicinarci cesserebbe d’essere un infinito e diverrebbe in certo qual
modo suscettivo di misura. L’infinito non è una cosa, un oggetto posto
come dato e verso il quale si avanzerebbe come verso un termine fissato
in precedenza, ma è igu ideale, ossia appunto ciò che si oppone alla
realtà del dato, ciò che nessun dato può esaurire ; Infatti, grazie alla
sintesi dianzi descritta, l’io svelle sè stesso da tutto ciò che sembra
trovarsi fuori di lui, entra in possesso di sè e si pone dinanzi a sè
come assolutamente indipendente, essendo l’io riflettente indipendente per sè
stesso, l’io riflettuto tutfc’ uno con l’io riflettente, ed entrambi uniti in
una sola inseparabile persona, alla quale il riflettuto dà la forza reale
e il riflettente la coscienza. La persona così costituita non può più agire
ormai se non secondo e mediante concetti, e poiché tutto ciò che ha
la propria ragion d’ essere in un concetto è un prodotto della libertà,
cosi d’ ora innanzi l’io non agirà più se non liberamente, anche quando
non faccia che assecondare l’impulso di natura, perchè anche in tal caso egli
non opera meccanicamente ma con coscienza, e in lui non più il
cieco impulso naturale, si bene la coscienza da lui acquistata di questo
impulso naturale è il primo fondamento del suo operare, il quale perciò è
libero come poco fa notammo — se non nel contenuto, almeno nella forma. Ma che
significa essere libero e agire liberamente? Prima di giungere alla
riflessione l’io è di natura sua e questo ideale clie portiamo in
noi stessi indietreggia dinanzi a noi man mano che ci eleviamo verso di
esso. Noi possiamo bene allargare i nostri limiti, inalzarci sempre più verso
la libertà, ma non possiamo mai sopprimere totalmente questi limiti, attuare
cioè la libertà; a qualunque grado di liberazione noi si giunga, la libertà
assoluta rimane sempre un ideale. Insomma, .con l’idea di un progress o
infinito il Fichte risolve la contraddizione tra la libertà e la natura :
la natura deve tendere alla libertà come a un fine infinito, e se
l’infinito potesse essere attuato, la natura s’identificherebbe con la libertà
; la realtà di questo progresso non è nel conseguimento impossibile di un fine fissato a un dato
punto, ma nel valore sempre più alto della nostra azione. (Cfr. Léon)] libero,
ma per un’ intelligenza fuori di lui, non già per sè stesso ; per essere
libero anche agli occhi propri egli deve porsi come tale, e come tale non
si pone se non allorché diventa cosciente del suo passaggio dallo stato
indeterminato a uno stato determinato. L’ io determinante e l’io
determinato scftio un solo e medesimo io, prodotto dalla sintesi del
inflettente e del riflettuto, dell’ io-soggetto e del1’io-oggetto. Per siffatta
sintesi la concezione di un fine diventa immediatamente azione e l’azione
diventa conoscenza della libertà. Senonchè l’indeterminatezza non è
soltanto uon-determinatezza (ossia zei'o), sì bene un deciso
librarsi tra più possibili determinazioni (ossia una grandezza negativa)
; altrimenti essa non potrebbe essere posta e sarebbe un nulla. Ora, finché non
intervenga la facoltà appetitiva superiore, non si vede in che modo la libertà
possa scegliere tra più determinazioni possibili; perchè: o si
trova in presenza del solo impulso naturale, e allora non ha nessuna
ragione per non seguirlo, anzi ha ogni ragione per seguirlo; ovvero si
trova in presenza di più impulsi la quale ipotesi non si comprende nel
caso di cui ora si tratta e allora
seguirà naturalmente il più forte ; nel- l’una e nell’altra ipotesi,
dunque, nessuna possibilità d’indeterminatezza. Siccome però l’essere
ragionevole non può esistere senza quella tra le condizioni della sua
ragionevolezza che si chiama sentimento morale e consapevolezza della
libertà, bisogna bene ammettere, nell’ impulso originario delirio, un impulso
ad acquistare la coscienza e della moralità e della libertà. Ma tale
coscienza, si è visto, ha per condizione uno stato indeterminato, e non
si produce se l’io obbedisce unicamente all'impulso naturale ; occorre,
dunque, che vi sia nell’io un impulso o tendenza a trarre dal
proprio seno, e non già dall’impulso naturale, il contenuto o
l’oggetto dell’azione; occorre, in altri termini, che vi sia una tendenza
alla libertà per sè stessa, e che alla libertà formale quella per cui lo
stesso risultato, che la natura avrebbe prodotto se avesse potuto ancora
agire, nasce invece da un nuovo principio, da una nuova forza, ossia
dalla coscienza libera si aggiunga la libertà materiale quella per cui si ha non solo un nuovo
principio operante, ma altresì una serie di effetti tutta nuova anche nel
contenuto, onde non solo è l’intelligenza la forza che opera, ma essa
intelligenza opera qualcosa di ben diverso da ciò che avrebbe operato la
natura. In virtù della libertà materiale io mi sento emancipato dall’
impulso di natura, gli oppongo resistenza, e tale resistenza, considerata come
essenziale all’ io, quindi come immanente, è essa stessa un impulso, l ’impulso
purodell’ io. L’impulso naturale si manifesta come iuclinazione e,
per il fatto che io posso dominare la sua forza e sottoporla alla
mia libertà, questa forza diventa qualcosa di cui non fo stima. L’impulso
puro, invece, in quanto mi eleva sopra la natura e mi pone in grado di
contrappormele con la più semplice risoluzione, si manifesta come tale da
ispirarmi stima e da investirmi di una dignità, la quale, essendo al disopra di
ogni natura, m’ impone rispetto verso me stesso; l’impulso puro, anziché
al piacere, porta al disprezzo del piacere ed esige l’affermazione e la
conservazione della mia assoluta indipendenza e libertà. L’adempimento di
questa esigenza e il suo contrario significano rispettivamente l’accordo
e il disaccordo tra l’ideale tendenza essenziale dell’ io puro all’assoluta
libertà e il reale stato accidentale dell’io empirico ; suscitano,
quindi, il mio interesse
m’interessa, infatti, ossia tocca direttamente il mio sentimento, tutto
ciò che lia immediata relazione col mio impulso fondamentale, si accompagnano,
dunque, a piacere o dolore; ma e questo è di capitale importanza si
tratta qui di stati affettivi che non hanno nulla a fare con
l’affettività comune, perchè consistono in una contentezza e in un
disgusto di sè la cui natura non si confonde mai con quella del piacere o
del dolore dei sensi. Il piacere sensibile che nasce dall’ accordo tra
l’impulso naturale e la realtà non dipende da me in quanto sono un io,
ossia in quanto sono libero ; esso è tale da strappare me a me, da
rendermi estraneo a me stesso e da farmi dimenticare in esso ; è, in una
parola, involontario, e questa qualità lo caratterizza nel modo più
esatto. Altrettanto vale del suo opposto, ossia del dolore sensibile. Il
piacere morale, al contrario, che nasce dall’accordo tra l’impulso puro e
la realtà, è qualcosa non di estraneo ma di dipendente dalla mia libertà,
qualcosa che potrei aspettarmi in conformità d’una regola, come non potrei
aspettarmi, invece, il piacere involontario ; esso, quindi, non mi
trasporta fuori di me, anzi mi fa rientrare in me stesso e, meno
tumultuario, ma più intimo del piacere sensibile, m’in- [Intorno al
concetto dell’ interesse Fichte fa una specie di digressione (
Sittenlehre) per meglio illuminare la sua trattazione sul sentimento morale e
sulla coscienza morale. fonde, in quanto soddisfazione e
auto-stima, nuovo coraggio' e nuova forza. Similmente il suo opposto,
ossia il dolore morale, appunto perchè dipende dalla libertà, è un
rimprovero interno, si associa a un sentimento di auto-disistima e
sarebbe insopportabile se il sentirci ancora capaci di provarlo non ci
risollevasse dinanzi a noi stessi, e non ravvivasse la coscienza della nostra
natura superiore e della nostra assoluta libertà, insomma la coscienza morale
fdas Oetoissen), vale a dire : la consapevolezza immediata dell’adempimento
del dovere, dell’accordo cioè tra l’azione (nel mondo della natura) e il
fine ideale (la libertà). Ora, la coscienza morale si connette strettamente
con l’impulso morale, il quale è di natura mista, perchè partecipa a un
tempo dell’impulso puro e dell’impulso naturale. Come? Ogni volizione
reale tende all’azione e ogni azione si porta sopra un oggetto : ogni
volizione reale, quindi, è empirica. E poiché non posso agire sugli oggetti se
non mediante una forza fisica, la quale non proviene che dall’impulso naturale,
cosi ogni fine concepito dall’intelligenza finisce per coincidere con 1^
soddisfazione di un IMPULSO NATURALE. Certo, chi vuole è l'io -intelligenza non
già la na- /M/'fl-iucoscieuza ; ma, quanto al contenuto, il mio
volere non può avere materia diversa da quella che la natura
vorrebbe anch’essa, se di volere fosse capace : non c’ è libertà circa la
materia delle azioni. E allora quale causalità rimane all’impulso puro,
che pur non può esserne destituito? Affinchè rimanga una causalità all’
impulso puro, bisogna che la materia dell’azione sia conforme a esso non
meno (Siltenlekre) che all’IMPULSO NATURALE. Tale duplice conformità si
comprende soltanto così: l’impulso puro nell'operare tende alla piena
emancipazione dalla natura ; ma i limiti che l’attività dell' io impone a
sè stessa costringono l’operare entro i confini dell’ impulso naturale ; onde
l’azione conforme a questo secondo impulso diventa conforme anche al
primo quando al pari di esso tenda alla piena emancipazione dalla natura,
si trovi cioè in una serie di sforzi, continuando la quale all’infinito,
l’io si approssima sempre più all’indipendenza assoluta. Deve esservi una
serie di tal genere, che muova dal punto in cui la persona si trova posta
per la propria natura e si prolunghi all’ infinito verso il .fine supremo
e ideale si badi bene a questo
appellativo che esclude ogni possibilità, di attuazione completa di ogni
attività, altrimenti uon sarebbe possibile una causalità dell’
impulso puro : questa serie si può chiamare la destinazione morale
dell’ essere ragionevole finito, e seguendola possiamo sapere in ogni
momento quale è il nostro dovere. Il principio della morale può, dunque,
formularsi cosi. Adempì in ogni momento la tua destinazione. Quel che in ogni
momento è conforme alla nostra destinazione morale, ossia al fine a cui
si dirige l’impulso puro, è in pari tempo conforme all’impulso
naturale, ma uon tutto quel che è conforme all’impulso naturale è conforme alla
nostra destinazione morale. Appunto perciò l’impulso morale è misto: esso
riceve dall’impulso naturale la materia dell’operare, dall’impulso pui'O la
forma; per esso io debbo agire con la coscienza di adempiere un dovere ;
gl’ impulsi ciechi della natura, come la simpatia, la compassione, la
benevolenza spontanea, in quanto tali non hanno nulla di morale, perchè
contraddice alla moralità il lasciarsi spingere ciecamente. L’impulso
morale differisce profondamente dal cieco impulso naturale, e molto ai
avvicina all’ impulso puro, perchè la sua causalità è ambigua, può avere
effetto e può anche non averne, perchè esso comanda: sii libero (cioè: sii in
grado di fare e di a'stenerti dal fare). E in questo comando appare per
la prima volta un imperativo categorico, un imperativo che è un
prodotto nostro proprio (nostro in quanto siamo intelligenze capaci
di agire per concetti), e il cui oggetto è il fine non subordinato a nessun
altro fine. L’impulso morale, infatti, non ha per fine nessun godimento ;
esso esige u la libertà per la libertà. È poi evidente in questa formula
imperativa il duplice significato della parola “ libertà la quale sta a
designare nel primo posto un operare in quanto tale, ossia un puramente
soggettivo, e nel secondo posto uno stato oggettivo che dev’essere
conseguito, ossia 1’ ultimo fine assoluto, la piena nostra indipendenza
da tutto ciò che è fuori di noi. In altri termini : io debbo agire con
libertà per divenire libero; e soltanto determinandomi da me stesso e non
seguendo altro che le ispirazioni del sentimento del dovere agisco con
libertà e divengo veramente indipendente dalla natura, veramente libero.
A questa distinzione tra la libertà come attività e la libertà come risultalo,
che è di così grande importanza nel nostro sistema, se ne aggiunge
un’ altra entro il concetto stesso di libertà intesa come attività: la
distinzione, cioè, tra la forma e la materia dell’attività libera; distinzione
da cui nasce la divisione della dottrina morale e con cui si passa all’
applicazione sistematica del principio della moralità. Fichte discorre delle
condizioni formali della moralità delle nostre azioni, del contenuto
materiate della legge morale; e dei doveri. Il principio formale di
ogni moralità può enunciarsi così. Opera sempre secondo la convinzione
che hai intorno al tuo dovere. Questo imperativo o legge che
presuppone naturalmente e logicamente una libera volontà— si scinde in
due precetti, di cui 1’ uno concerne la forma o la condizione : u procurati la
convinzione di ciò che è tuo dovere; l’altro la MATERIA o il condizionato.
Fai ciò che ritieni con convinzione tuo dovere 9 failo soltanto perchè lo
ritieni tale Ora, la convinzione nasce dall’accordo di un atto della
facoltà giudicatrice coll’impulso morale, e il criterio della giustezza della
nostra convinzione è un sentimento intimo al di là del quale non si
può risalire, perchè con esso si raggiunge 1’ espressione diretta della
nostra essenza assoluta e della nostra finalità. Per conseguenza, la
coscienza morale, che in quel sentimento ha radice, va immune per natura sua da
dubbio e da errore, non può ingannarsi, nè è suscettiva di
rettifiche da parte di un’ inconcepibile coscienti più interiore, è
essa stessa giudice di ogni convinzione e le sue sentenze non ammettono
appello. Voler oltrepassare la propria coscienza morale per timore che
possa essere erronea, sarebbe come voler uscire fuori di sè, voler
separarsi da sè stesso. È condizione formale della moralità, quindi, non
decidersi [Della volontà iu particolare e della sua natura cosi opposta
al juro meccanismo, il Pielite tratta nella Sitlenlehre] all’azione se
non per soddisfare alla propria coscienza morale, all’impulso originario
dell’io puro, senza sottostare ad altra autorità che non sia quella della
propria convinzione, del proprio giudizio. Chi, dunque, agisce senza consultare
la sua coscienza, senza essersi prima assicurato j delle decisioni di
questa, agisce, come suol dirsi, senza coscienza, e perciò immoralmente, è
colpevole e non può imputare la sua colpa ad altri che a sè stesso. Similmente
opera senza coscienza, e perciò senza moralità, chi si lascia guidare
dall’autorità altrui, perchè la convinzione della coscienza morale e la
certezza della sua giustezza non nascono mai da giudizi estranei, ma traggono
origine esclusivamente dal soggetto: sarebbe una flagrante contraddizione fare
di qualche cosa che non sono io stesso un sentimento di me stesso. In
conclusione: in tutta la nostra condotta (si tratti della ricerca
scientifica, ovvero della vita pratica) l’azione, per essere morale, deve
uscire da un’intima convinzione, perchè soltanto allora essa
esprime veramente la nostra autonomia spirituale. Ogni azione fatta
per autorità (si tratti dell’ accettazione di una verità che non risponde
in noi a una convinzione, ovvero del compimento di un’ azione che accettiamo
come un ordine) va direttamente contro il verdetto della coscienza, è
male, è I colpa. Giova ricordare che per Fichte non vi sono azioni
indifferenti; tutte debbono essere riferite alla legge morale, uon
foss’altro per assicurarsi che sono lecite; onde anche le azioni più
indifferenti iu apparenza, vanno sottoposte a matura riflessione, sempre
iu vista della legge morale (Siltenlehre). Risulta qui ancora una
volta definitivamente stabilito il primato della ragione pratica sulla
ragione teorica; di quella ragione pratica che agli occhi E facile
argomentare da ciò quale sia la causa del male o della colpa nell’essere
ragionevole finito. Quel che in generale costituisce l’essere ragionevole
trovasi necessariamente ih ciascun individuo ragionevole, altrimenti
questi non sarebbe più tale. Ora, secondo la legge morale, l’io
individuale, finito, empirico, che vive nel tempo, deve tendere a
divenire un’esatta copia dell’Io primitivo, originario, infinito,
extra-temporale; ma, sottoposto com’è alla condizione del t^mpo, non può
acquistare la chiara coscienza di tutto ciò che primitivamente e
originariamente fa l’essenza dell’Io, se non mediante un lavoro
successivo e una progressione nel tempo. Finché questo lavoro più o
meno faticoso e questa progressione più o meno lenta non abbiano compiuto
nell’ io empirico individuale il passaggio dallo stato d’ irriflessione
al massimo sviluppo della coscienza morale, c’ è sempre luogo nella nostra
condotta all’immoralità, alla colpa, al male. Conviene, dunque, seguire
questa storia dello sviluppo della coscienza emjnrica, per vedere
attraverso quali fasi germogli e maturi il seme della moralità, notando a
tal proposito ohe tutto sembrerà succedere come casualmente, perchè tutto
dipende dalla libertà, e in nessun modo da una meccanica legge di natura.
Anzitutto, e al suo grado pivi dàsso, l’io empirico si riduce a
un’attività istintiva ; l’istinto, senza dubbio, si accompagna con la
coscienza, dista però ancor molto dalla di Fichte è veramente la ragione,
e nella quale si attua l’accordo dell’essere e dell’agire, dell’oggetto e
del soggetto, della produzione e della riflessione, e che ci fornisce
l’intuizione, la coscienza immediata dell’ Io assoluto. E risulta anche
come la morale di Fichte fluisca per essere in sostanza una morale del
sentimento.] riflessione; l’uomo allora segue meramente e semplicemente l’impulso
naturale e, così facendo, è libero per un’ intelligenza fuori di lui, ma per sè
stesso è puro animale. I Tuttavia l’uomo può riflettere su questo stato; e
tale riflessione è per natura sua un atto di libertà : essa non è
nè fisicamente nè logicamente necessaria, ma soltanto moralmente obbligatoria:
chi vuole adempiere la propria destinazione e acquistare in sè la coscienza
dell’ Io puro, deve riflettere su questo suo stato, e mercè tale
riflessione si eleva, quasi, sopra sè stesso, si stacca dalla natura,
se ne distingue e le si oppone come intelligenza libera ; acquista cosi
il potere di differire ‘la propria autodeterminazione e di scegliere quindi tra
più modi — la pluralità dei modi nasce appunto dalla riflessione e dal
differimento della risoluzione di
soddisfare l’impulso naturale. Tale scelta si compie secondo una massima
liberamente adottata dall’ io individuale, e perciò profondamente diversa
dal PRINCIPIO supremo che scaturisce dalla legge morale e CHE NON È, COME LA
MASSIMA, UN LIBERO PRODOTTO DELLA COSCIENA EMPIRICA. Per conseguenza, nel caso
di una MASSIMA cattiva, la colpa spetta tutta all’ io individuale. Ora,
in questa seconda fase di sviluppo, dovuta al primo grado della riflessione,
l’io acquista coscienza del fine a cui tende 1’ impulso naturale, lo fa suo e
adotta come regola di .condotta la MASSIMA della felicità. L’uomo rimane
dunque ancora un animale, ma diventa un animale intelligente,
prudente: è già formalmente libero. Soltanto mette la sua libertà
al servigio dell’impulso naturale. La MASSIMA della felicità, per
quanto sia un prodotto della sua libertà, non può essere diversa da quella che
è, e, una volta posta, egli le obbedisce necessariamente. Senonchè la MASSIMA
stessa, e con essa il carattere ohe ne risulta, non ha nulla di necessario
e non è detto che l’io individuale debba arrestarvi»]/ se vi si arresta è
soltanto sua colpa. Nulla lo costringe L progredire, è vero, ma egli deve
e può progredire, facenti uso della propria libertà ed elevandosi
liberamente a qn piu alto grado di riflessione. Il male morale non deriva
ile non dal fatto che l’uomo il più delle volte non esercita la
propria libertà, onde a ragione Kant
riteneva il male radicale innato nell’uomo e nondimeno prodotto dalla
sua libertà. Quando però — con nuovo miracolo della sua
spontaneità — 1’ uomo, nella fase ora descritta, esercita la propria libertà,
una seoonda riflessione si compie, che, al pari della precedente, ha
carattere non di necessità fisica o logica, ma di obbligatorietà morale, e in
virtù di essa nasce una terza fase, nella quale l’io individuale prende
coscienza della sua opposizione rispetto alla natura e della spontaneità
del proprio operare, ed erige questa spontaneità stessa, ossia la propria
volontà, a nuova massima di condotta. Non piu la ricerca della felicità guida
ora le sue azioni, ma il godimento di un’ indipendenza dal nou-io
la quale non ammette freno al proprio capriccio e fa di sè stessa il
proprio idolo. Si ha, quindi, un progresso verso la libertà assoluta, ma
non ancora la vera libertà morale, non ancora la volontà riflessa
sottoposta alla legge del dovere. Anzi, mentre la MASSIMA della felicità è, si,
mancanza di legge, ma non addirittura rovesciamento della legge > n l’ostilità
contro questa, lt MASSIMA della volontà egoistica e arbitraria, invece,
può portare sino alla trasgressione intenzionale della legge. Il carattere
della condotta ispirata a tale MASSIMA è soltanto la soddisfazione
dell’amor proprio, dell’ orgoglio, del bisogno di dominare, ottenuta
a qualsiasi costo, anche di dolori corporei ; e appunto questa
idolatria della volontà egoistica spiega pressoché tutta la storia umana.
Essa riempie grandissima parte del teatro del inondo con le sue lotte e
le sue guerre, con, le sue vittorie e le sue sconfitte. u II
soggiogamento dei corpi e delle anime dei popoli, le guerre di conquista
e di religione, e tutti i misfatti cou cui l’umanità si è disonorata non si
spiegano altrimenti. Che cosa indusse l'invasore, l’oppressore a perseguire il
proprio fine con pericolo e fatica ? Sperava egli forse che per tal modo
si accrescerebbero le fonti dei suoi godimenti sensitivi? No davvero. 1
Ciò ohe io voglio deve accadere, a quel che io dico si deve stare ’ :
ecco 1’ unico principio che lo moveva. Un siffatto culto della volontà
egoistica certamente non è senza una certa aureola di grandezza, poiché
giunge anche al disinteresse: non al disinteresse che deriva dall'
obbedienza al dovere e che solo ha significato morale, ma a un disinteresse
di carattere impulsivo, derivante dal desiderio di suscitare ammirazione,
di cattivarsi stima, e che rimane tuttora una forma di amor proprio e di
orgoglio. E un culto che porta sino al sacrifizio della vita e ci
vuole del coraggio a vincere in noi la natura. Ma questo sacrifizio è
senza valore etico, perché è fatto soltanto al proprio io individuale, è
puro egoismo. Certo, rispetto alla fase precedente, la quale non mira che
alla felicità sensibile, la fase ora descritta segna un progresso e
sta come a rappresentare l’età eroica dello sviluppo morale. Ma dal punto
di vista della moralità nulla di più pericoluso che arrestarvisi, perchè essa
ci abitua a considerare come nobili e meritori, come rari e ammirevoli,
come opera mpererogativa, atti che sono semplicemente doverosi, e a
considerare d’ altra parto tutto ciò che a vantaggio nostro si fa da Dio,
dalla natura, dagli altri uomini, come nulla più che doveri verso di noi.
Con siffatte pretensioni la massima della volontà egoistica e senza,
freno, adottata in questa fase, è peggiore di ogni altra, perchè finisce
addirittura col corrompere le stesse radici della moralità: “ >1
pubblicano peccatore non vale più del fariseo sedicente giusto, in quanto
che nessuno dei due ha il menomo valore ; ma il secondo è assai più difficile a
convertire del primo. Per elevarsi al disopra di questa terza fase basta
che l’uomo con un terzo atto di riflessione, al pari dei precedenti
spontaneo ma inesplicabile, non necessario ma obbligatorio acquisti
coscienza chiara di quell’ originario impulso all’ indipendenza assoluta
che, considerato (analogamente a un eminente grado di capacità
intellettuale) come un dono gratuito della natura, può chiamarsi
genio della virtù, ma che, allo ^tato d’impulso cieco, pi'oduce un
carattere assai immorale. Mercè la riflessione, quell’ impulso si trasforma in
una legge assolutamente imperativa, e poiché ogni riflessione limita e
determina ciò che è riflettuto, anche quell’impulso sarà limitato dalla
riflessione, e da cieco impulso verso una causalità sconfinata
diventerà una legge di causalità condizionata ; riflettendo, l’uomo
sa di dovere assolutamente qualche cosa ; e affinchè questo sapere
si tramuti in azione, bisogna che egli adotti la MASSIMA: adempì il Ino dovere
perchè è tuo dovere. Sorge così la coscienza morale, la quale impone
appunto alla volontà arbitraria, alla volontà senza regola uè freno della
fase precedente, l’obbedienza al principio assoluto della ragione. Una volta
conseguita questa chiara coscienza del dovere, la nostra condotta vi si
conforma necessariamente, essendo inconcepibile che noi ci decidiamo di
proposito e con piena chiarezza a ribellarci alla nostra legge, a
mancare al nostro dovere, appunto perchè è la nostra legge, appunto
perchè è il nostro dovere. Vi sarebbe in ciò, oltre che una
contraddizione evidente, una condotta veramente diabolica, se lo stesso
concetto u diavolo non fosse contraddittorio. Soltanto può accadere che la
chiara coscienza del dovere si annebbii, si oscuri, che la riflessione non si
mantenga sempre alle altezze della moralità, e la nostra condotta, perciò,
cessi di essere conforme alla legge morale. Il dovere primo, quindi, e anche il
più alto, è mantenere la coscienza del dovere in tutta l’intensità della
sua luce e «Iella sua forza. Bisogna vegliare continuamente su noi
stessi, alimentare senza tregua il fuoco sacro della riflessione; possiamo fare
di questa riflessione un’abitudine, senza perciò renderla una necessità,
senza pregiudizio cioè della libertà, allo stesso modo diesi può fare
un’abitudine dell’irriflessione, con cui la coscienza empirica comincia,
e persistere in essa, senza renderla perciò una necessità e senza
escludere quindi 1’ esercizio della libertà. Nella sua Ascetih «fa Animili/ zur
Murai ( Ascetica conir appendice alta Morale) contenuta in Nuahgelarsene
Werke, e tradotta in inglese da Kroeger. Se la coscienza morale svanisce
del tutto, si da non lasciar sopravvivere più nessun sentimento del
dovere, noi The sciunce of Elltics bij Fichte dianzi ricordato Pielite si adopera a fornire il mozzo
pratico per mantener viva o luminosa, una volta nata per opera della
libertà, la coscienza del dovere, 'l'ale mezzo consiste ned’associazione
delle idee, intermediaria tra la necessità della natura e la libertà della
ragione, e precisamente nell’associare in precedenza la rappresentazione
dell'atto futuro con la rappresentazione dell’atto conforme al dovere.
Occorre, in altri termini, che i due propositi : voglio fare quest’azione; non
voglio agire se non conforme al dovere, siano indissolubilmente uniti
in ima sintesi, e la funzione propria dell’ascetica consiste appunto
in questa associazione permanente e anticipata del concetto del dovere
non solo col concetto della nostra condotta in generale il che sarebbe
ancora troppo vago e astratto ma con i concetti di azioni determinate,
soprattutto di quelle ABITUALI, QUOTIDIANE, in cui più facilmente possiamo
peccare per omissione o violazione del dovere. Mentre invece per le azioni
eccezionali e straordinarie difficilmente manca I intervento della
riflessione e la conseguente chiarezza della coscienza. Di qui due
regole: un esame di coscienza generale dei casi in cui siamo più esposti
al pericolo di cadere in colpa; e la risoluzione ferma e sempre attiva di
ridettero, in questi casi, sopra noi stessi e di sorvegliarci, opponendo
alla forza cieoa e alla resistenza passiva di certi stati di coscienza,
divenuti abitudini quasi invincibili, la causalità iutelligAte della
coscienza morale: è noto ohe spesso basta ridettero sulla propria
passione e rendersi consapevoli delle associazioni che la costituiscono per
liberarsene, dissociando mentalmente i fattori da cui nasce e
controbilanciando il piacere che ci aspettiamo dal suo soddisfacimento
col disprezzo che accompagna la trasgressione del dovere. Ma, affinchè l’esame
della propria coscienza abbia valore etico, bisogna che non si riduca a
una pura aulocontemplazione, a un’ analisi fatta quasi per semplice
giuoco estetico. Bisogna, invece, che si proponga la nostra riforma
morale, il miglioramento della nostra attività. Tale esortazione, del
resto, si rivolge non già agli uomini privi di coltura, la cui vita é
tutta rivolta all’azione, ond’essi non ridettono se non per agire, ma
agli artisti, ai letterati, e persino ai lilosotì e ai sacerdoti, per i
quali è frequente il grave pericolo di dimenticare il valore pratico
delle coso, di arrestarsi alla contemplazione e di nou tradurre la
speculazione in azione. ricadiamo in uno degli stati che precedono
la moralità e OPERIAMO SECONDO LA MASSIMA o della felicità o del dominio
arbitrario della nostra volontà egoistica. Se, invece, ci ri mane ancora un
sentimento vago e intermittente del dóvere. possono verificarsi le
seguenti tre specie d’indeterminatezza corrispondenti alle tre condizioni
che rendono determinato il dovere. L’indeterminatezza può concernere la MATERIA
del dovere, cioè l’applicazione della legge morale a un dato caso : in
ciascun singolo caso tra più azioni possibili non ce n è che una conforme
al dovere. Ma, per insufficiente attenzione e riflessione, noi cediamo
segretamente, e quasi a nostra insaputa, a qualche altra sollecitazione e
perdiamo il filo conduttore della coscienza --; il MOMENTO del dovere :
in ciascun singolo caso si deve adempiere subito ciò che è dovere. Ma,
per l’affievolirsi della coscienza, ci illudiamo che non occorra
affrettarsi a ciò, procrastiniamo il nostro perfezionamento e ci
abituiamo a procrastinarlo all’ infinito --; la FORMA del dovere :
l’imperativo morale è categorico, esige obbedienza assoluta e incondizionata. Ma,
se perdiamo di vista tale sua caratteristica, consideriamo il dovere,
anziché come un comando, COME UN SEMPLICE CONSIGLIO DI PRUDENZA che si può
seguire quando piaccia e non costi troppa abnegazione, e con cui si può
anche transigere; di qui quei compromessi, quegli accomodamenti con
la propria coscienza che sono altrettanti modi di eludere la legge morale,
altrettante cause di torpore per la riflessione, e che pongono nel
massimo pericolo la nostra salvezza spirituale, quando per caso non
sopravvenga dall’esterno una forte scossa, la quale ci sia occasione
a rientrare in noi, a ravvederci. Quest’ultima maniera d’intendere il
dovere, infatti, accusa la morale di RIGORISMO impraticabile, sotto lo specioso
pretesto che l’ adempimento del dovere impone troppi sacrifizi, quasi che
non fosse appunto in ciò l’obbligo nostro. Nel sacrificar tutto al
dovere, la vita, l’onore e ogni cosa all’uomo più caramente diletta. Quale
che sia il modo di oscurarsi della coscienza, si può dire in generale che
la causa di questo suo oscurarsi e del conseguente smarrirsi della
moralità, la causa iu- somma del male, va ricercata in una sconfitta
della libertà. Se la riflessione che ci eleva alla libertà consiste in
una creazione da parte della libertà e quasi in un colpo di grazia
che ci strappa all’oppressione della natura, il mantenimento della chiara
coscienza del dovere non può essere che un perpetuo riprodursi di questo atto
creativo, una creazione continuata, uno sforzo incessante della
riflessione, dell’attenzione ; e appunto perciò al menomo affievolirsi della
nostra vigilanza consegue la nosti-a caduta e il trionfo delle forze
antagonistiche della natura, le quali sono sempre e necessariamente in
azione: tosto che cessa lo sforzo morale, l’impulso naturale
inevitabilmente ha il sopravvento e, con la luce della coscienza, si
spegue anche LA VIRTÙ. Ogni uomo, dallo stato di natura, con cui
s’inizia la sua vita in una specie d’innocenza perchè sono ancora
ignorati gli stati superiori in cui l’innocenza primitiva assume aspetto
di colpa, perviene necessariamente alla coscienza di sé stesso: a ciò gli
basta riflettere sulla libertà che ha di scegliere tra più azioni possibili per
soddisfare l’impulso naturale. SIAMO ALLORA IN QUELLA FASE IN CUI EGLI OPERA
SECONDO LA MASSIMA DELL’INTERESSE O DELLA FELICITÀ (Siuenlehre). In questo
grado di sviluppo rimano volentieri, trattenutovi dalla forza d 'inerzia che
l’uomo, in quanto essere sensibile, ha in comune con tutta la natura
fisica. È vero che, in virtù della sua natura superiore, egli deve
'strapparsi a questo stato, e può farlo perchè dotato di libertà. Ma proprio la
sua libertà è impedita in questo stato, essendo essa alleata con quella
forza d'inerzia, da cui dovrebbe invece svincolarsi. Come farà egli a elevarsi
alla libertà, quando per questa elevazione stessa deve far uso
della libertà ? Donde attingerà la forza che faccia da contrappeso nella
bilancia per vincere la forza d’inerzia? Certamente non nella sua natura
empirica, la quale in nessun modo fornisce alcunché di simile. Gli
occorre, dunque, un aiuto superiore. L’uomo naturale qui non può nulla da
sé – ma da un miracolo puo essere salvato. Intanto sappiamo che l’inerzia,
la pigrizia — la quale a forza di riprodursi indefinitamente diviene
impotenza morale — è il vizio radicale, il male innato, il peccato
originale. L’'uomo è per natura pigro, dice assai giustamente Kant. Da pigrizia
nasce immediatamente viltà, il secondo vizio fondamentale dell’ uomo. LA
VILTÀ E LA PIGRIZIA D’AFFERMARE LA PROPRIA LIBERTÀ E INDEPENDENZA NELLO
*SCAMBIO ili AZIONE CON GLI ALTRI: donde tutte le specie di schiavitù
fisica e morale tra gli uomini. In genere si ha abbastanza coraggio
dinanzi a coloro di cui si conosce la debolezza relativa, ma si è disposti
a cedere, a umiliarsi, dinanzi a una supposta e temuta superiorità
qualsiasi. Si preferisce la sottomissione piuttosto che lo sforzo
necessario a resistere. Precisamente come quel marinaio che preferiva le
eventuali pene dell’ inferno al lavoro faticoso di correggersi in questa
vita. Il vile si consola di questa sottomissione forzata con l’astuzia e
con la frode. Da viltà nasce inevitabilmente il terzo vizio fondamentale:
falsità. È questa il risultato di uno sforzo indiretto che si
compie per ricuperare l’indipendenza perduta, quell’indipendenza
che nessun nomo può sacrificare ad altri cosi interamente come il pigro
finge di fare per essere dispensato dalla fatica di difenderla in aperta
battaglia. Falsità, menzogna, malizia, insidia derivano dall’esistenza di un
oppressore, e ogni oppressore deve aspettarsi tali frutti. Soltanto il
vile è falso. Il coraggioso non mente e non è falso. Per orgoglio, se non
per virtù. Ma come pud aiutarsi l’uomo, quando in lui è radicata la
pigrizia, la quale paralizza appunto l’unica forza con cui' egli deve
aiutarsi ? Che cosa gli manca propriamente? Non già t la forza, che egli ben
possiede, ma la coscienza della forza e l’Impulso a farne uso. E
donde gli verrà questo impulso? Non da altra foute che dalla
riflessione: è necessario che l’io empirico, avendo in sè l’immagine dell’Io
assoluto, e vedendosi in tutta la propria bruttezza, senta orrore di sè ;
soltanto per questa via potrà formarsi la coscienza di quel che deve
essere, soltanto di là verrà l’impulso. In genere gl’ individui che
formano la grande maggioranza degli uomini hanno bisogno di apprendere la
propria libertà da altri individui liberi, che essi contemplano come
modelli. Ma vi souo nella moltitudine spiriti eletti a cui fu dato di essere
gl’ iniziatori della moralità e quasi i primi maestri dell' umanità, per
es. i fondatori di religione. Si comprende come costoro, non avendo
attinto dall’ esempio altrui la consapevolezza della propria
indipendenza, e non trovando nella propria natura empirica il principio
dell’ emancipazione da questa natura empirica, si credano ispirati dall'
alto da una grazia soprannaturale, da uno spirito divino, mentre invece non
han fatto che obbedire alla propria natura superiore, all’Io assoluto, di
cui l’io finito e individuale deve divenire la copia fedele. Una volta emancipato dalla schiavitù della
natura e divenuto cosciente della propria libertà formale, l’uomo deve
far uso di questa per compiere l’infinita serie di azioni diretta verso l’assoluta
libertà materiale. Quale la materia di queste azioni? In qual modo l’ io
individuale si puo elevere gradatamente sino a quell’ indipendenza
assoluta, a quello stato oggettivo di libertà, che è il fine ultimo della
sua libera attività soggettiva? L’accennammo già. L’attuazione dello stato
di libertà non si ottiene se non determinando il mondo in funzione
della libertà stessa, operando cioè come chi considera e tratta le cose
dal punto di vista non della loro esistenza data, ma della loro FINALITÀ,
non del loro essere, ma del loro dover-essere, e le modifica perciò e le
adatta progressivamente nella direzione di questa FINALITÀ, di questo
dovere. Tale determinazione del mondo secondo l’idea della libertà,
determinazione posta come obbligatoria e come praticamente necessaria,
costituisce il sistema dei nostri doveri, la materia della moralità. In
altri termini, la morale propriamente detta non è che l’insieme delle condizioni
a cui il mondo va sottoposto e a cui deve prestarsi per essere strumento
all’ attuazione della libertà. Queste condizioni possono ridursi a tre,
perchè triplice è il punto di vista da cui può considerarsi il mondo.
Il mondo si può considerare in sè, come pura e semplice materia,
come natura corporea; o nel suo rapporto col pensiero, come materia di
conoscenza; o, finalmente, nel suo rapporto col volere, come oggetto
indispensabile all’ esercizio dell’ attività, come il luogo d’incontro delle
molteplici sfere di libertà individuale, come IL TEATRO DELLA SOCIETÀ. E per
la morale si tratta appunto di mostrare nella nostra natura corporea,
nella nostra intelligenza, e nella NOSTRA VITA SOCIALE, gli strumenti per
l’attuazione della libertà, la quale non può DIVENIRE REALE se non OPERANDO
sul mondo oggettivo, PER MEZZO del corpo, dell’intelligenza e DELLA
SOCIETÀ. Come, dunque, dobbiamo trattare, in vista del fine ideale da
raggiungere: il corpo, l’intelligenza, LA SOCIETÀ? Il nostro corpo, essendo da
una parte prodotto di natura, dall’ altra strumento della causalità del
concetto, funziona da intermediario tra la necessità e la libertà.
La volizione si esercita immediatamente su di esso, e per esso
modifica mediatamente il mondo esterno secondo i nostri concetti. Di qui
risulta chiaro un triplice dovere rispetto al corpo: un dovere negativo :
non far mai del proprio corpo il fine ultimo delle proprie azioni ; un
dovere positivo : conservare e coltivare il proprio corpo nell’interesse
della libertà ; un dovere limitativo : evitare come illecito ogni piacere
corporeo che non si riferisca al fine ultimo della nostra attività. u
Mangiate e bevete in onore di Dio: se questa morale vi sembra troppo
austera, tanto peggio per voi ; non ce n’ è un’ altra. L’intelligenza è
la forma indispensabile attraverso cui può attuarsi la libertà, poiché
soltanto la riflessione dà alla libertà la sua legge; fuori
dell’intelligenza ci sarà 1’ istinto cieco, non già la coscienza morale ;
l’intelligenza è il veicolo stesso della moralità. Diciamo di più-: per
la legge morale, mentre il corpo è condizione materiale puramente esterna
e soltanto della sua causalità, l’intelligenza è condizione materiale veramente
interna e di tutta quanta la sua essenza. Di qui un triplice dovere
anche verso l’intelligenza : un dovere negativo : non subordinare mai
materialiter ossia nelle sue
ricerche e cognizioni
l’intelligenza a nessuna autorità, foss’anche quella della legge
morale ; la ricerca da parte della ragione teorica dev’ essere
assolutamente libera e disinteressata, non deve preoccuparsi di altro che
non sia l’acquisto della conoscenza ; un dovere positivo : formare
l’intelligenza il più possibile ; il più possibile imparare, pensare,
indagare ; un dovere limitativo: subordinare formaliier l’intelligenza
alla moralità, la quale rimane sempre il fine supremo ; riferire al
dovere tutte le nostre investigazioni ; coltivare la scienza non per
curiosità ma per dovere, essendo essa strumento di moralità. LA SOCIETÀ,
infine, può dirsi addirittura l’espressione vivente della libertà, in quanto
questa non si concepisce come qualcosa d’individuale, ma soltanto come
una recijjrocanza di RAPPORTI TRA PIU INDIVIDUI corporei, intelligenti e VOLENTI.
L’ideale della libertà, quindi, si attua non nel singolo uomo, ma NELLA
COMUNITÀ di tutti gli uomini, in seno alla quale l’individuo DIVIENE
PERSONA e senza la quale per l’ individuo nessun perfezionamento, anzi
nemmeno l’esistenza stessa, sarebbe possibile, essendo individuo e SOCIETÀ
termini correlativi, coudizionantisi a vicenda. Se così è, se l’io
empirico non può porsi altrimenti che come individuo, e se come tale NON PUO
PRESCINDERE DA SUOI RAPPORTI CON LA SOCIETÀ, che vai quanto dire dalla
esistenza di ALTRI INDIVIDUI e dalla loro libertà, è evidente che egli
non può voler sopprimere questa esistenza e questa libertà, da cui sono
determinate l’esistenza e la libertà sua propina. La mia tendenza
all’indipendenza assoluta, fine supremo della mia attività, è dunque SUBOARDINATA
ALLA LIBERTÀ DEGLI ALTRI. Le libere azioni degli altri sono gli originari
punti di confine della mia individualità, e a esse io reagisco f non meno
liberamente, autodeterminandomi a quella serie di azioni che prescelgo e da
cui uscirà costituita la mia personalità, non essendo io se non
quel che mi fo • con le mie azioni, e non consistendo il mio essere in
altro che nel mio operare. Soltanto che mentre il mio operare, rispetto a
quegli originari punti di confine della mia individualità, ossia rispetto
ai liberi influssi degli altri, mi appare l’effetto della mia assoluta
autodeterminazioue, della mia libera causalità, quei punti di confine,
quei LIBERI INFLUSSI DEGLI ALTRI, invece, mi appaiono come predeterminati a
priori. Alla stessa guisa che dal punto di vista altrui s’invertono le
parti, e agli altri appare liberamente autodeterminato il loro agire
su di me e predeterminato a priori il mio reagire su di loro. Il
che dà luogo, è vero, a un’ antinomia tra predeterminazione e
autodeterminazione, ma a un’ antinomia che si risolve facilmente cosi. Tutte
le azioni libere (le mie come le altrui) sono predeterminate ab æterno
(ossia fuori del tempo) dalla ragione universale. Ma il momento in
cui ciascuna deve accadere e gli attori di essa non sono predeterminati.
Ecco, quindi, predestinazione e libertà perfettamente conciliate. Ciò premesso
- è evidente il-dovere fondamentale verso la società. Non impedire, con
l’esercizio della propria libertà, la libertà degli altri, hou trattare gli
altri uomini come cose, come semplici strumenti della propria libertà. Ma
anche nell’ interno di questo dovere sembra annidarsi un’ antinomia. Da una
parte devo tendere all’ indipendenza assoluta, all’ emancipazione
da ogni limitazione, dall’altra DEVO RISPETTARE LA LIBERTA ALTRUI, LA
QUALE E UNA VERA LIMITAZIONE ALLA MIA LIBERTA. Da una parte devo agire
sul moudo sensibile si da farne, come il mio corpo, il mezzo per giungere
al line supremo, all’ assoluta libertà, dall’ altra non mi è lecito modificare
i prodotti della libertà altrui. Come comporre questa nuova contraddizione?
Non difficile la soluzione. Basta supporre tra le molteplici libertà
individuali, anziché contrasto, vera COMUNANZA DI AZIONE. Se dal punto di
vista giuridico occorre una forza coercitiva -- l’autorità dello stato --
la quale, restringendo l’esercizio delle libertà individuali
antagonistiche, renda possibile il loro mutuo sviluppo, dal punto di
vista morale, invece, tutti gli individui sottostanno alla medesima
legge, tutti perseguono il medesimo fine, tutti sono in certo qual modo
identici nella loro condotta conforme al dovere. perchè tutti hanno il
medesimo dovere, e l’emancipazione degli uni, lungi dall’opporlesi, è
necessaria all’emancipazione degli altri, perchè l’indipendenza di ciascuno va
di pari passo con l’indipendenza di tutti, perchè LA LIBERTA, INTESA NEL
SENSO MORALE, NON SI ATTUA SE NON NELLA COLLETTIVITA DEGLI ESSERI LIBERI. Dunque,
non già limitazione o interferenza tra le libertà individuali, sì bene CONFLUENZA,
COLLABORAZIONE, CO-OPERAZIONE A UN’OPERA COMUNE, AL TRIONFO DELLE RAGIONE: il
rispetto della libertà altrui è qui compatibile con l’esercizio assoluto
della libertà propria, perchè questa e quella si accordano e si
completano reciprocamente, la liberazione dell’uno è in pari tempo
la liberazione di tutti. E invero, 1’ originaria tendenza
all’indipendenza assoluta non si riferisce a un determinato individuo; ha
per oggetto la libertà assoluta, l’autonomia della ragione in
generale. L’ultimo fine della moralità è il regno della ragione in quanto
ragione, il che NON SI OTTIENE SE NON NELLA COMUNANZA E CON LA COOPERAZIONE di
tutti gli esseri che partecipano della ragione, di tutta l’umanità ; la
libertà, ripetiamo non hì concepisce sotto la forma dell' individualità,
essa è di natura essenzialmeute sociale e universale, e non si attua nel
singolo uomo se uon in quanto questi da u individuo „ si eleva a “ PERSONA„
per confondersi in ispirito con tutti, gli esseri ragionevoli. Di qui
trae luce e spiegazione la nota formula kantiana. Opera in modo da poter
pensare LA MASSIMA DELLA TUA VOLONTA come PRINCIPIO d’ una legislazione
universale, formula più euristica che costitutiva della moralità, perchè
non è un principio come sembra al
Kant, a cui il metodo da lui adottato interdiceva di penetrare sino al
fondo delle cose ma soltanto una
conseguenza di quel vero principio che consiste nel comando dell’ assoluta
indipendenza della ragione. Di qui deriva la necessità che
tutti-siano veramente liberi, che nessuno sia impedito nell’esercizio
dulia ragione e nell’adempimento del dovere, che ciascuno si adoperi ad
avvicinare sempre più quell’ ideale
per quanto destinato a rimanere sempre un ideale — che è la
moralizzazione dell’umanità. Soltanto l’uso della libertà contrario alla
legge morale ho il dovere di annullare ; ma siccome ciascuno deve operare
secondo le proprie convinzioni, cosi mi è lecito cercar di determinare o
modificare soltanto la convinzione degli altri, mai la loro azione.
E poiché non si può agire sulle convinzioni degli altri uomini se
non vivendo in mezzo a essi, anche per questa via si ribadisce la necessità
morale della società e il dovere per ognuno di vivere in essa. Segregarsi
dalla società significa rinunziare ad attuare il fine della ragione ed
essere indifferente al propagarsi della moralità, al trionfo della
libertà, al bene dell’ umanità. Chi si propone di aver cura
sola- Secondo Fichte la suddetta formula kantiana va intesa non già
nel senso: perchè un quid può essere principio di una legislazione
universale, perciò dev’essere MASSIMA DELLA MIA VOLONTA ma nel senso opposto : perchè un quid DEV’ESSERE MASSIMA DELLA
MIA VOLONTÀ, perciò può essere anche PRINCIPIO di uua legislazione
universale. In altri termini, non la forma determina il contenuto della
moralità, ma il CONTENUTO determina la forma. Se la moralità ha per contenuto
l’attuazione universale della ragione, ne segue che ciascun individuo il quale
operi di siuteressatameute, secondo ragione, può pensare la propria
condotta come un dovere per chiunque altro operi nelle medesime
circostanze. La proposizione kantiana, appunto con questa universalizzazione
della condotta individuale, non fornisce altro che un eccellente mezzo
di controprova per accertarci se, agli effetti della morale, la
condotta di un individuo sopporti o no universalità, possa o no erigersi
a legge per tutti: è perciò una proposizione euristica, non già
costitutiva della moralità.] mente di sè, dal lato morale, in verità non ha
cura neppure di si, perchè suo fine ultimo dev’essero il prendersi cura
di tutto il genere umano, la sua virtù non è virtù, ma soltanto im
servile, venale egoismo. Non già con una vita eremitica, dedita a
pensieri sublimi e speculazioni pure, non già col fantasticare, ma
soltanto con 1’operare nella e per la società si soddisfa al dovere. La
necessità etica della società e il dovere che ne deriva all’ individuo di
vivere in essa e di lavorarvi alla moi'alizzazione degli uomini, operando
sul loro spirito e formando le loro convinzioni, implica l’istituzione di
quella repubblica morale che i?i chiama la Chiesa e che è condizione
indispensabile per la reciproca azione sociale diretta a produrre
credenze pratiche concordi e con esse il progresso della moralità. La Chiesa,
infatti, rappresenta nel suo simbolo, accettato da tutti i suoi membri,
quell’accordo primitivo e, a dir così, minimo, che solo rende possibile
una comunità spirituale. Ma il simbolo non è, nè può essere, che un punto di
partenza o un mezzo, nou già un punto di arrivo o uu fine ; esso è
indefinitamente perfettibile mercè la continua reciproca azione degli spiriti
gli uni sugli altri e il conseguente sviluppo della moralità, e non
può, quindi, rimanere fisso e invariabile. Così, appunto, l’intende il PROTESTANTISMO.
Invece, come fa il papismo, lavorare pur contro la propria convinzione a
mantenere il simbolo in una fissità assoluta, a rendere la ragione stazionaria,
a costringere gli altri in una fede già superata, significa, oltre che
ignoranza, trasgressione del dovere, perchè allora si fa del simbolo non
più 1’ espressione puramente prdVvisoria di un accordo destinato a
permettere la discussione delle diverse opinioni in vista dell’ ulteriore
sviluppo morale della comunità, ma la formula definitiva di una verità assoluta
e immutevole, il che sta in recisa opposizione con lo spirito della
moralità, la cui essenza consiste nello sforzo e nel progresso all’
infinito. Come la Cliiesa è istituzione necessaria al perfezionamento morale
per quanto riguarda le convinzioni interne, COSI LO STATO E ISTITUZIONE
NECESSARIA per quanto riguarda le azioni esterne, l’operare sul mondo
sensibile. Ciò che sta fuori del mio corpo, ossia tutto il mondo
sensibile, è patrimonio comune e il coltivarlo secondo le leggi
della ragione non spetta a me soltanto, ma a tutti gli individui
ragionevoli; di guisa che il mio operare su di esso interferisce con l’ operare
degli altri, e può accadermi, perciò, di arrecar danno alla libertà
altrui, quando il mio operare non sia all’ unisono con 1’ altrui volontà:
il che assolutamente non mi è lecito. Quel che interessa tutti io non
posso fare senza IL CONSENSO di tutti, e
senza seguire, quindi, principi universalmente accettati, previo ACCORDO,
tacito o esplicito, circa una parziale restrizione volontaria e generale
delle diverse libertà individuali. Il consenso a questa restrizione e 1’accordo
che determina i comuni diritti e la reciproca azione sul mondo sensibile è
oggetto del cosidetto contratto sociale e costituisce lo Stato. Lo
Stato, grazie alle leggi conosciute e accettate da tutti i cittadini,
rende possibile a ciascuno di essi di conciliare l’esercizio della
propria libertà col rispetto dovuto alla libertà degli altri; rende
passibile, iu altri termini, prevenendo eventuali conflitti nell’incontro delle
libertà individuali, quella convivenza sociale die è condizione strie iy
ua non della moralità'; di qui il suo alto significato e il suo
valore etico. La necessità del simbolo nella Chiesa, il rispetto delle
leggi nello Stato, impongono, non tanto alle convinzioni dell’individuo le quali sono incoercibili quanto alla loro manifestazione e
comunicazione, certi limiti che non si possono oltrepassare senza
mettersi fuori del simbolo o fuori della legge, fuori, iusomma, della
comunità morale e civile ottenuta iu un dato momento del progresso
umano. E pur tuttavia si è tenuti non solo a formarsi una convinzione
indipendente da ogni autorità, ma anche ad affermarla e parteciparla agli
altri. Come conciliare questa contraddizione tra 1’ assoluta libertà delle
singole coscienze e il rispetto alla fede comune? come risolvere questo
conflitto di doveri ? Non altrimenti che mediante una LIMITAZIONE RECIPROCA dei
due doveri, che vai quanto dire : ammettere la libertà assoluta delle
convinzioni e della loro comunicazione, ma circoscrivere questa libertà e
questa comunicazione a quel particolare gruppo sociale che è
il pubblico dotto. E invero, l’assoluta libertà delle convinzioni e
della loro comunicazione, se è impraticabile nel vasto ambito della
Chiesa e dello Stato, perchè per essere morale dovrebbe raccogliere cosa impossibile 1’ adesione unanime di tutti i membri della
comunità chiesastica e politica, è, invece, praticabile nel ristretto pubblico
dei dotti, il quale sta come anello di congiunzione tra la
convinzione comune e la privata. Il carattere distintivo del
pubblico dotto è uifa assoluti libertà e indipendenza di pensiero ; il
principio della sua costituzione è LA MASSIMA di non sottoporsi a nessuna
autorità, di basarsi in tutto sulla propria riflessione e di rigettare
assolutamente da sè tutto ciò che non sia da questa confermato. Nella
repubblica dei dotti non è possibile nessun simbolo, nessuna direttiva
prestabilita, nessun riserbo ; tra dotti si deve poter dichiaral e
tutto ciò di cui si è persuasi, appunto come si oserebbe dichiararlo alla
propria coscienza ; giudice della verità sarà il tempo, ossia il
progresso della coltura. E come assolutamente libera è l’investigazione
scientifica, così pure libero a tutti deve essere 1’ adito a essa. Per
chi nel suo intimo non può più credere all’ autorità, è contro coscienza
continuare a credervi, è dovere di coscienza associarsi al pubblico dotto. Lo stato
italiano e la chiesa debbono tollerare i dotti, altrimenti violerebbero»
te coscienze, perchè nessuna potenza terrena ha il diritto d’imporsi in materia
di coscienza. Lo tato e la Chiesa debbono anzi riconoscere la repubblica
dei dotti, perchè questa è condizione del loro progresso morale, in
quanto che soltanto in essa possono elaborarsi i concetti che
modificheranno, perfezionandoli, e il simbolo e la costituzione dello
Stato: sin anche come pubblici ufficiali
per es. nelle università i dotti
possono lavorare all’educazione degli uomini e alla formazione
scientifica degli insegnanti e dei funzionari tutti della Chiesa e dello
Stato. È da aggiungere, però, che il dotto, insieme con l’incontestabile
diritto che ha all’ esistenza, all' indipendenza e alla massima libertà di
ricerca e critica nel campo del pensiero, lia anche il preciso dovere di
sottomettersi all’autorità della Chiesa e dello Stato nel campo
deU’azioue ; onde non è lecito a chi ne faccia parte nè diffondere le
propine convinzioni, ancora discutibili e non universalmente accettate,
tra i fedeli e i cittadini che vivono fuori della repubblica dotta, nè,
tanto meno, attuarle senz’ altro nel mondo sensibile, minando cosi,
o addirittura sovvertendo, senza il consenso di tutti, gli ordinamenti e
i poteri costituiti; Stato e Chiesa hanno il diritto di impedire ciò. Sarebbe
un’oppressione della coscienza proibire al predicatore di esporre in
scritti scientifici le sue convinzioni dissenzienti, ma rientra
perfettamente nel1’ordine vietargli di portarle sul pulpito, ed egli
stesso, se'è illuminato, sentirebbe la propria immoralità quando
facesse così. In conclusione: l’ultimo fine di ogni attività
sociale è l’accordo universale tra gli uomini, accordo non
possibile se non sul puro ragionevole, perchè qui soltanto
ritrovasi ciò che agli uomini è comune. Col presupposto d’ un tale
accordo cade la differenza tra un pubblico dotto e un pubblico non dotto ;
scompaiono anche Chiesa e Stato. Condividendo tutti le medesime convinzioni, a
che servirebbe più il potere legislativo e coercitivo dello Stato?
Riunite tutte le coscienze individuali nella visione diretta della
verità assoluta, a ohe servirebbero più i simboli provvisori e mutevoli
della Chiesa ? Il pensiero e l’azione di ciascuno confluirebbe col
pensiero e 1’ azione di tutti, la legge morale troverebbe la sua espressione
nella sublime armonia di tutti gli esseri ragionevoli e buoni, nella
suprema comunione dei santi, l’io empirico e individuale,
completamente liberato da ogni limitazione, svanirebbe completamente
in seno all’Io puro e assoluto, si attuerebbe, insomma, nella
realtà l’Ideale, l’Infinito, Dio. Il contenuto materiale della moralità è
tutto in Questo perenne e progressivo attuarsi del regno della ragione
nel regno della natura, è tutto in questa ascensione, in
quest’approssimarsi del mondo verso lo spirito, vei’so la Libertà. Da
quanto precede risulta evidente che l’io empirico q la persona è soltanto
mezzo all’ attuazione del fine supremo morale. La proposizione del Kant :
L’uomo è /ine in se, è giusta purché completata così : l'uomo è fine in
.sr. ma per gli altri. Siccome la legge si dirige a ciascuno e il suo
fine è la ragione in generale, ossia 1’ umanità tutta quanta, ne segue
che tutti sono fine a ciascuno, ma nessuno è fine a se stesso; 1’ attività di
ciascuno è semplice strumento per attuare la ragione. Con che la dignità
del1’ uomo non è abbassata, è anzi inalzata, poiché a ciascun individuo
vien affidato il raggiungimento del fine universale della ragione e dalla cura
e dall’ attività di lui dipende l’intera comunità degli esseri ragionevoli,
mentre egli, invece, non dipende da nulla. Ciascuno diventa Dio
nella misura che gli è possibile, ossia con riguardo alla libertà degli
altri, e appunto perchè tutta la sua iudividualità scompare, egli diventa pura
rappresentazione della legge morale nel mondo sensibile, vero Io puro.
Errano di molto coloro che pongono la perfezione in pie meditazioni, in
un devoto covare sopra sé stessi, e di qui aspettano l’annientarsi della
propria individualità e il loro confluire culi la divinità; la loro virtù è, o
rimane, e geliamo ; essi vogliono fare perfetti soltanto se stessi. La
vera virtù, invece, consiste nell’operare, e nell’operare per la comunità
: è quindi oblio, abnegazione intera di sè nell’interesse della totalità
degli esseri ragionevoli. Se cosi è, se l’io empirico o individuale
serve solamente di mezzo all’attuazione del fine supremo, ossia all’avvento del
regno della ragione, ne segue che i doveri verso l’io empirico sono
mediati e condizionati di fronte a quelli che, riferendosi direttamente
al fine supremo, diconsi immediati e incondizionati, ossia assoluti. Senonchè
la promozione del fine supremo è possibile soltanto in virtù di una ben
disegnata divisione di lavoro, altrimenti potrebbe molto accadere in più
modi, e molto non accadere affatto. È necessario, dunque, attuare una
tale divisione di lavoro, mediante 1’ istituzione di divei'se professioni,
da cui nascono doveri diversi, che diremo particolari o trasferibili
(perchè s’impongono soltanto a chi abbia scelto quella data professione)
di fronte ai doveri che sono generali o intrasferibili (perchè
s’impongono indistintamente a tutti gli esseri umani). Combinando questa
seconda classificazione dei doveri, fatta dal punto di vista del soggetto
della moralità, con la precedente, fatta dal punto di vista dell’oggetto
della moralità, si hanuo quattro specie di doveri: generali
condizionati; particolari condizionati; generali incondizionati; e particolari
incondizionati. I doveri generali condizionati
abbiamo dette si riferiscono all’io empirico in quanto mezzo e
strumento indispensabile per 1 adempimento della legge morale:
primo tra essi, dunque, V autoconservazione, la conservazione,
cioè, di questo mezzo o strumento. *L’ autoconservazione già
richiesta dal diritto naturale come condizione necessaria al I attuarsi di quel
futuro da cui attendiamo la soddisfazione implicita nell’oggetto del
nostro volere presente, e perciò come qualcosa di relativo diventa per la moralità materia di un
comando assoluto ; per 1’ uomo morale si tratta non più di attendere un
risultato più o meno egoistico e interamente conseguibile nel tempo,
ma di lavorare disinteressatamente all’attuazione di quel fine
supremo di cui egli non potrà mai godere, perchè posto all’
infinito. Dal dovere dell’ autoconservazione nasce : un divieto : evita tutto ciò che,
secondo la tua coscienza, può mettere in pericolo la tua conservazione in
quanto strumento della moralità (il digiuno e 1’intemperanza in riguai do al
corpo, l’inerzia intellettuale, il soverchio sforzo, l’occupazione
irregolare, il disordine della fantasia, la coltura unilaterale, ecc. in
riguardo all’ intelligenza) ; non espone al pericolo la tua salute, il
tuo corpo, la tua vita, quando non vi sia necessità morale. Segue da ciò
la più recisa condanna del suicidio : la moralità può comandare di
esporre la vita, non già di distruggerla ; la vita è la condizione stessa
dell’ adempimento del dovere, e il suicidio, distruggendo la vita, la sottrae
appunto al dominio della legge ; suicidarsi significa dichiarare di non
voler più adempiere il dovere; un comando : opera tutto quello che
ritieni necessario alla tua conservazione (il buon mauteuimeuto del corpo,
il nuo adattamento perfetto ai fini che deve conseguire, la coltura
dell’intelligenza, la ricreazione estetica, eco.). Non va mai
dimenticato, però, che il dovere dell’auto-conservazioue è condizionato,
essendo l’io empirico semplice strumento della moralità : quindi, dove il fine
della moralità non fosse compatibile col dovere «Iella conservazione,
sarebbe moralmente necessario che la vita dell’individuo venisse sacrificata a
quel fine, che il dovere coudizionato fosse subordinato al dovere
incondizionato : quando la moralità lo esige, ho il dovere di arrischiare
la mia vita, e tutti i pretesti con cui cercassi di nascondere la
mia viltà per es., quello di
risparmiarmi la vita per operare ancora dell’ altro bene che altrimenti
rimarrebbe incompiuto andrebbero
contro il dovere, il quale comanda in modo assoluto e non ammette indugi al
suo adempimento. Tra i doveri particolari condizionati attinenti, cioè, ai diversi uffici e
alle diverse professioni individuali sta
anzitutto quello d’avere un ufficio, d’esercitare una professione
nell’interesse della società, di contribuire in qualche misura all’
esistenza e all’ organizzazione sociale ; poi 1’ altro di scegliersi a
ogni modo un ufficio, una professione, e non già secondo l’inclinazione, ma con
la coscienza d’ avere la migliore attitudine all’ uno o all’ altra,
considerate le proprie forze, la propria coltura, le condizioni esterne
dipendenti da noi, poiché non il sodisfaci- mento dei nostri gusti dev’
essere lo scopo della nostra vita, ma 1’ avanzamento del fine della
ragione : onde gli uomini uou dovrebbero scegliersi uno stato prima
d’essere giunti alla necessaria maturità della ragione, e sino a
questa maturità si dovrebbe educarli tutti allo stesso modo; infine il
dovere di attendere con tutta coscienza all’ufficio o alla professione
prescelta, formando sempre meglio all’uno o all’ altra il corpo e lo
spirito, secondo che più occorre (all’agricoltore, per es., occorre più
la forza e la resistenza fisica, all’ artista la destrezza e 1’ agilità
dei movimenti, allo scienziato la coltura spirituale in tutte le
direzioni, ecc. Di una gerarchia delle professioni e degli uffici secondo
il loro grado di dignità, si può parlare dal punto di vista sociale
soltanto nel senso che le molteplici occupazioni umane sono subordinate
le une alle altre come il condizionato e la condizione, come il mezzo e il fine
; ma dal punto di vista morale esse hanno tutte lo stesso valore,
tutte la stessa dignità : quel che importa è adempieide bene. I doveri
generali incondizionati si riferiscono non più allo strumento, ma al fine
stesso della moralità, che è il dominio della ragione nel mondo sensibile
e nella totalità degli individui per opera di ciascun individuo.
Primo tra essi il dovere verso quella libertà formale di tutti gli
esseri ragionevoli, nella quale sta 1’origine, la radice stessa della
moralità. La libertà formale di eia- scun individuo poggia sopra due
condizioni : la permanenza del rapporto tra la volontà individuale e il
corpo che ue è 1’ organo esecutivo; la permanenza del rapporto tra il
corpo individuale e il mondo sensibile che ne è la sfera d’ azione. Di
qui due specie di doveri concerneuti l’inviolabilità: del corpo altrui; della
altrui libertà d’azione: L'inviolabilità del corpo altrui implica; il
divieto di esercitare qualsiasi violenza o coercizione fisica su altri (la
condanna, quindi, della schiavitù, della tortura, dell’ omicidio eoe.); il
comando d’aver cura della vita e della salute degli altri come della
propria, essendo gli altri, al pari di noi, strumenti della
moralità (ama il tuo prossimo come te stesso); L’ altrui libertà
d’azione esige : in primo luogo l’esatta
conoscenza dei rapporti tra le cose, senza la quale manca ogni garanzia
che il risultato dell’ azione sarà conforme al disegno della volontà ; di
qui il dovere della veracità, il quale implica: il divieto d’ingannare il
prossimo, con l’inganno [Grice, SNEAKY INTENTIONS] si danneggia la libertà degl’altri,
trattandoli non come persone ma come cose, e la conseguente condauna DEL
VENIR MENO ALLE PROMESSE E DEL MENTIRE. Nessuna menzogna è lecita,
neppure la menzogna pietosa, o la pretesa menzogna necessaria, neppure col
pretesto dell’interesse altrui, o, peggio ancora, con quello dell’
interesse della moralità, perchè la menzogna stessa, per essenza sua,
nasce da viltà ed è sempre radicalmente immorale; comando
d’illuminare e istruire il prossimo e di COMUNICARGLI LA VERITÀ. In
secondo luogo la proprietà, ossia quella sfera d’azione nel mondo
sensibile senza la quale manca, oltreché la materia prima per attuare i
disegni della propria volontà, altresì la sicura coscienza di non
disturbare, con l’esercizio della propria libertà, la libertà degli
altri, come esige la legge morale ; di qui il dovere dell’ istituzione e
della conservazione della proprietà, il quale implica : a) il divieto di
distruggerla, usurparla o menomarla in qualsiasi maniera; il comando
d’acquistarsi una proprietà e di procurarne una a ciascun individuo (come
ogni oggetto dev’ èssere proprietà di ciascuno affinchè tutto il mondo
sensibile rientri nel dominio della ragione, così ognuno deve avere
una proprietà ; in uno Stato in cui un sol cittadino non abbia una
proprietà, ossia una sfera esclusiva se non di oggetti, almeno di diritti
a certe azioni, non esiste in generale nessuna legittima proprietà ; la
beneficenza consiste non nel fare l’elemosina, ma nel fornire a ciascuno
il modo di vivere del proprio lavoro). In fatto di libertà non può
mai nascere conflitto tra esseri che operino secondo ragione ; ma quando
della libertà si faccia un uso contrario al diritto, nasce collisione tra
determinati atti di più individui e viene posta in pericolo, quindi, la
vita o la proprietà, insomma la libertà del singolo. E poiché è
proprio dello Stato attuare l’idea della legalità, così spetta allo Stato
appianare gli eventuali conflitti tra individui, contenendo, mediante la
forza della legge giuridica, ciascuno entro i propri confini. Non sempre, però,
lo Stato può immediatamente intervenire a comporre contese : sottentra
allora il dovere della persona privata. È dovere universale, in tal caso,
salvare dal pericolo la libertà del1’ essere ragionevole, senza far distinzione
se si tratti di noi o di altri, perchè tutti, indistintamente, siamo
strumenti della logge morale. Se sono io l’aggredito, il dovere dell’
autoconservazione m’impone di difendermi con tutte le forze ; se è in
pericolo il mio simile a me vicino, l’amore del prossimo m’impone di
salvarlo anche a rischio della mia vita ; se più di uno è assalito nello
stesso tempo, si devo portare aiuto anzitutto a quello ohe si può
salvare più presto e del quale oi accorgiamo prima. In questo
adempimento del dovere non può essere mai mio fine uccidere 1’ aggressore, il
nemico, ma soltanto disarmarlo ; posso cercare d’indebolirlo, di ridurlo
all’ impotenza di ferirlo, ma
sempre in modo che la sua morte non sia il mio fine. u Se, peraltro,
rimanesse ucciso, ciò dipende dal caso, contro la mia intenzione, e io
non sono perciò responsabile „. Si deve, insomma, trattare il nemico con
1’ amore dovuto a ogni altro prossimo, perchè è aneli’ egli strumento
della moralità e se dalle sue azioni per il momento non si può concludere che
1’ opposto, non si deve, tuttavia, mai disperare che egli sia capace di
miglioramento. L’ uomo animato da sentimento morale non ha. nè riconosce,
nessun nemico personale; chi sente piu vivamente un’ ingiustizia soltanto
perchè fatta a lui, è ancora un egoista, è ancora lontano dalla vera
moralità. La libertà formale altrui, verso la quale s’impongono i doveri
ora descritti, è condizione necessaria ma non sufficiente per la moralità negli
altri ; questa è resa possibile da quella, ma, alfiuchè sia anche reale,
bisogna che gli altri prendano di fatto coscienza del loro dovere. Di
qui il comando, per chi si sia già elevato alla coscienza del
dovere, di allargare e promuovere la vita morale intorno a sè, di elevare
gli altri alla moralità. In qual modo? Poiché sarebbe assurdo voler
produrre la virtù con mezzi coercitivi, con premi o gastighi : la
moralità non si lascia imporre dal di fuori, nè per forza, ma nasce
soltanto da una determinazione interiore ; come può, dunque, tale
determinazione nascere per opera di un altro in colui che. ne è il
soggetto e che deve possedere già dentro di sé le condizioni atte a
produrla? 14li è che, per chi guardi bene, realmente esiste la
possibilità, di un influsso ^morale da coscienza a coscienza, ed esiste
grazie a un sentimento che serve di leva alla virtù, ma il cui sviluppo
esige appunto un’ azione dal di fuori, l’azione dell’esempio altrui : è
questo il sentimento del rispetto o della stima, il quale, sempre latente
nel cuore dell’uomo, da cui è inestirpabile, si desta, dinanzi alla condotta
virtuosa degli altri, suscita, a sua volta, il bisogno di provare il
medesimo sentimento dinanzi alla condotta propria, il bisogno,
cioè, dell’autostima, e sprona, per tal via, alla moralità. Sorge,
così, per ognuno il dovere del buon esempio, essendo l’esempio il vero
strumento dell’educazione morale. E poiché l’esempio, per avere efficacia, per
agire sulla coscienza altrui, dev’ essere pubblico, ne segue che anche la
pubblicità della condotta morale è per noi un dovere : essa nasce dalla
franchezza dell’ operare virtuoso e non ha nulla di comune con 1’
ostentazione, la quale deriva dal desiderio d’ essere ammirato. I doveri
particolari condizionati si dicono così perchè hanno sempre per oggetto
il fine supremo della moralità, il dominio della ragione, ina, anziché
all’umanità o alla società in genere, si riferiscono a ben
determinate relazioni umane, a ben definiti organismi sociali,
quale che sia la loro origine, vuoi da una stabile legge di natura — nel
qual caso diconsi naturali vuoi dalla
mobile scelta delle singole volontà — nel qual caso diconsi artificiali. Dalle
relazioni naturali nascono i doveri di stato, dalle artificiali i doveri
di vocazione. Due relazioni naturali sono possibili per l’uomo, e insieme
costituiscono l’organismo sociale della famiglia : la relazione tra
coniugi, la relazione tra genitori e figli. Di qui due specie di doveri
di stato : doveri tra coniugi, doveri tra genitori e figli, La relazione
coniugale è già 1’ inizio della moralità nella natura, segna già il
passaggio da questa a quella, perchè è uno stato che da una parte si
fonda sopra un IMPULSO NATURALE l’istinto sessuale — dall’ altra implica, in
entrambi x sessi, sentimenti — reciproca dedizione completa e perpetuo reciproco
amore, reciproca fedeltà che trasformano la sensualità brutale in una
spiritualità umana. Il coniugio, associazione naturale e morale a un tempo, è
condizione precipua per l’esistenza di quella società che vedemmo
essere a sua volta condizione cosi indispensabile per 1’attuarsi della
moralità, e, in quanto t,ale, costituisce un dovere che implica: il comando di
contrarre matrimonio, quando si verifichi la sua base naturale, 1’amore,
(l’individuo umano fisico non è un uomo o una donna, è, a un tempo, 1’uno
e 1’altra; lo stesso dicasi dell’individuo umano morale: vi sono in lui
aspetti dell’ umanità e proprio i
più nobili e disinteressati i quali
solamente nel matrimonio possono formarsi ; perciò u rimaner celibi
senza propria colpa è una grande infelicità, ma rimaner celibi per
propria colpa è una gran colpa „) ; fi) il divieto di relazioni sessuali
fuori del matrimonio (queste relazioni, infatti, sono fondate o sull’
amore della donna, e allora s’impone moralmente il matrimonio, ovvero soltanto
sul' piacere o sull’interesse, ohe vai quanto dire sull’indegnità
della donna, e allora sono immorali non solo per la donna ohe si
avvilisce, ma anche per l’uomo che l’avvilisce, che vede in lei non più
un essere umano e ragionevole, ma un semplice strumento di voluttà. La
relazione tra genitori e figli dà luogo a due serie inverse di
doveri: da parte dei genitori il dovere di vigilare la vita e la
salute dei loro nati e in pari tempo di suscitare e favorire in essi lo
sviluppo della libertà secondo la direzione del fine umano : insomma il
dovere dell’allevamento e del- P educazione alla moralità. L’adempimento
di questo dovere che del resto è una
specificazione del dovere universale che a tutti incombe di plasmare sè e gli
altri in conformità della legge morale
risponde nella famiglia a un bisogno del cuore, perchè la prole,
per i coniugi, non è semplicemente prossimo, ma il prodotto del loro
reciproco amore ; da parte dei figli, se minorenni il dovere di
obbedienza, se maggiorenni il dovere di rispetto, venerazione, assistenza ai
genitori. Due relazioni artificiali,ma non meno indispensabili delle
naturali alla vita comune, possono essere stabilite dalla libera scelta dei
singoli individui e insieme costituiscono l’organismo sociale dello
Stato: agire direttamente sugli uomini, in quanto esseri ragionevoli
; agire sulla natura, in quanto mezzo o strumento per le nostre
azioni verso gli uomini. Su questa base e in forza della suaccennata
necessità di una armonica divisione del lavoro movale e di una
organizzazione gerarchica dell’attività degl’ individui per la promozione del
fine supremo, si distinguono due specie di classi sociali, con due
corrispondenti specie di doveri di vocazione : classi superiori (scienziati,
educatori, artisti, impiegati), che lavo- t vano al
progresso spirituale della società, e sono, perciò, quasi 1’ anima dello
Stato; classi inferiori (minatori, agricoltori, artigiani, commercianti)
che assicurano 1’ esistenza economica della società e sono, perciò, quasi
il corpo dello &tato. Quali i doveri di vocazione delle classi
superiori ? L’ uomo allora soltanto adempirà la sua vera destinazione
quando abbia una visione chiara del dovere ; è necessario, dunque, formare
anzitutto la sua conoscenza teorica. Tale ufficio è la missione del dotto. Chi
consideri tutti gli uomini come una sola famiglia, è tratto a fare
delle loro cognizioni un unico sistema, il quale si accresce e si elabora
attraverso i secoli, come si accresce e si elabora attraverso gli anni l’esperienza
del singolo individuo. Ciascuna generazione, quindi, eredita dal passato
un tesoro di formazione scientifica, che la classe dotta è chiamata
a conservare e aumentare. I dotti sono i depositari e quasi 1’
archivio della coltura della loro età; non però alla maniera dei non dotti, che
si arrestano ai risultati, si bene come chi possiede anche i principi ohe
condussero lo spi- L’essenza e la missione del dotto furono più volte per
il Fichte argomento di conferenze e di lezioni. Vedi in proposito
nel voi. VI dei Sàmmtl. Werke Ueber die Bestimmung des Gelchrten, lezioni
tenute a Erlangen; e nel voi. Ili dei Nachgel. Werhe, Ueber die
Bestimmung des Gelchrten, cinque lezioni tenute a Berlino. A
rito umano a questi risultati. E primo dovere del dotto, quindi,
acquistare una veduta stori co-filosofica del cammino della scienza sino al suo
tempo: altrimenti egli non potrebbe nè intendere il significato della
verità, uè epurarla dagli errori che 1* offuscano. È inoltre dovere del
dotto amare rigorosamente la verità e lavorare al suo progresso mediante una
ricerca sincera e disinteressata. la quale non si proponga altro che
servire al fine ultimo dell’umanità, all’avvento del regno della ragione
nel mondo. Il dotto, come ogni virtuoso, deve obliare se stesso in
questo fine : fare sfoggio di abilità nel difendere errori sfuggiti o
brillanti paradossi è soltanto egoismo e vanità che la morale disapprova
e un’ elementare prudenza sconsiglia ; perchè soltanto il vero e il buono
permane : il falso, per quanto sfolgori a tutta prima, è destinato
a perire. La formazione della conoscenza teorica è solfante mezzo
al fine supremo di promuovere la moralità, ed è un mezzo inefficace
quando non vi si aggiunga l’operare pratico, quando, cioè, alla visione da
parte dell’intelligenza non si aggiunga l’azione da parte della volontà.
Ora, è ufficio d’ur.a speciale classe di dotti, dedicarsi in modo
particolare all’ educazione della volontà del pubblico non dotto, alla
moralizzazione del popolo : sono essi i ministri della Chiesa, i quali,
appunto perchè si sono messi al servizio della comunità etico-religiosa, hanno
il dovere di adempiere il loro ufficio in nome della comunità
stessa, attenendosi scrupolosamente a ciò ohe è oggetto di fede
generale, al simbolo. Debbono, si, essere uomini di scienza e, ilei loro
campo speciale, vedere al di là e meglio di quanto vedano le anime
affidate alla loro cura, ma nel- 1 educare queste anime, nell’ inalzarle
a vedute superiori, devono procedere in modo che tutte a un tempo
possano seguirli, altrimenti si romperebbe quell’accordo spirituale
che fa 1 essenza della Chiesa. Gli educatori del popolo, in quanto tali,
non devono svolgere o dimostrare conoscenze teoretiche e principi, e tanto meno
polemizzarvi sopra, come si fa nella repubblica dotta; non è loro
missione porre articoli di fede o creare la fede — perchè articoli e fède
esistono già come legame vivente della comunità etico-religiosa ma ravvivare e rafforzare la fede che
il credente ha già nel progresso morale, ed elevare con essa lo spirito
di lui all’eterno, al divino. Soprattutto l’esempio che danno è
importante a tal fine ; la fede della comunità riposa in grandissima
parte sulla fede loro, e il più spesso non è che una fede nella loro
fede. Ora, se in essi la vita non risponde alla fede, la fiducia in
questa rimane profondamente scossa. Spetta al dotto formare
1’intelligenza, spetta all’educatore morale formare la volontà dell’ uomo : sta
tra i due l’artista, il quale ha il privilegio di educare il senso
estetico, interposto come tratto d’unione tra la conoscenza teoretica e 1
attività pratica. L’ artista non agisce soltanto sull’ intelletto, come
fa 1’ uomo di scienza, nè soltanto sul cuore, come fa il moralista
popolare, ma sullo spirito umano tutto quanto : l’arte bella investo e
pervade tutta l’anima in quanto siuLesi di tutte le facoltà. La formula
pili espressiva di ciò che 1’ arte fa è la seguente : l' arie rende coninne il
punto di vista trascendentale. Il filosofo si eleva ed eleva con sé gli
altri a questo punto di vista col lavoro del pensiero e seguendo una regola ;
l’artista vi si trova già senza rendersene conto : nou ne conosce
altri. Bai punto di vista trascendentale il mondo è fatto :
dal » punto di vista comune il mondo è dato ; dal punto di
vista estetico il mondo è dato, sì, ma non altrimenti che come tatto. Il
mondo reale, voglio dire la natura, presenta due aspetti : da un lato è
il prodotto delle determinazioni o limitazioni a noi poste, dall’altro è
il prodotto della nostra attività libera, ideale, trascendentale. Sotto
il primo rispetto la natura è essa stessa limitata da ogni parte,
sotto il secondo è da per tutto libera. La prima maniera di vedere è
volgare, la seconda è estetica. Per es., ogni forma nello spazio può
considerarsi come circoscritta dai corpi vicini, ma anche come la
manifestazione della forza espansiva, della pienezza interna del corpo
che ha questa forma. Chi vede i corpi nelle prima maniera uon vede
che forme contorte, compresse, mostruose : vede la bruttezza ; chi li vede
nella seconda maniera, vede in essi la vigoria, la vita, lo sforzo della
uatura: vede la bellezza. Vale altrettanto della legge morale: in quanto
comanda assolutamente essa comprime ogni tendenza della natura, e
veder la nostra uatura a questo modo è come vederla schiava ; ma la legge
morale fa tutt’ uno con l’Io, ne è anzi l’espressione più intima, onde,
obbedendo ad essa, obbediamo a noi stessi : veder la nostra natura a
quest’altra mauiei’a è vederla esteticamente ^ ossia come bellezza. L’artista
vede tutto dal lato bello, vede in tutto energia, vita, libertà ; il suo
mondo è interiore, è nel1 umanità, e perciò 1’ arte riconduce 1’ uomo al fondo
di ne stesso, strappandolo al dominio della natura, liberandolo dai
vincoli della sensibilità e rendendogli l’indipendenza, che e il supremo
fine morale. Idi guisa che il senso estetico non e.la virtù, ma prepara alla
virtù, e la coltura estetica ha, un rapporto positivo con l’avanzamento
del fine morale. La moralità dell’ artista può raccogliersi in
questi due precetti : un itimelo per
tutti gli uomini : non ti fare artista a dispetto della natura, non pretendere
di essere artista quando la natura uon t’ispira ; un comando per il vero
artista: guardati dal favorire, o per egoismo, o per desiderio di fama,
il gusto corrotto del tuo tempo; sforzati soltanto a riprodurre l’ideale
che è in te; ispiiati alla santità della tua missione, e sarai, a un
tempo, uomo migliore e migliore artista. L opera del dotto
dell’educatore e dell’artista, in servigio del fine supremo morale, presuppone
sempre quella libera reciprocità d’azione tra gli uomini, che è condizione
prima di ogni comunità e a garantir la quale — finché il regno della
ragione non sia una realtà è necessario
lo Stato. Quali sono ora i doveri degli impiegati, ossia degli
ufficiali dello Stato ? L’ impiegato subalterno è rigorosamente legato alla
lettera della legge, la quale, perciò, dev’ essere chiara e uon dar luogo
a dubbi d’interpretazione. Quanto all impiegato superiore, al legislatore,
al giudice inappellabile, i quali non sono che i gerenti della
volontà comune affermatasi, espressamente o tacitamente, nel contratto
sociale, debbono aneli’ essi conformarsi alla costituzione politica
attuale, nata dalla volontà comune, con la riserva, però, di
perfezionarla secondo le idee della ragione, tenendo gli occhi tìnsi alla
costituzione ideale. Chi regge lo Stato deve avere una chiara veduta
circa il fine della costituzione
il quale non può essere che il progresso umano — deve, perciò,
elevarsi mediante concetti sopra 1’ esperienza comune, dev’essere un do'tto
nella sua materia, deve, come dice Platone, partecipare alle Idee,
e lavorare all’attuazione dell’ideale, favorendo la coltura delle classi
superiori. Da queste classi il progresso si diffonderà poi nella comunità tutta
quanta e trarrà seco, col suffragio universale, la riforma della
costituzione. Il reggitore di uno Stato, quindi, è sempre responsabile
dinanzi al suo popolo del modo ond’egli lo governa, e se può considerarsi
come legittima ogni costituzione che non renda impossibile il progresso
in generale e quello dei singoli individui, sarebbe assolutamente
illegittimo e immorale un governo che si proponesse di conservare tutto
com’ è attualmente. Quali i doveri di vocazione delle classi inferiori ?
La nostra vita e il nostro operare sono condizionati dalla materia, la
quale va trattata conformemente al fine supremo che è il dominio della
ragione sulla natura. Quanto piu questo dominio si estende, tanto più
l’umanità progredisce ; è necessario, dunque, elaborare la rozza natura e
renderla adatta ai fini spirituali ; è qui, appunto, 1’ ufficio delle
classi sociali inferiori, il cui lavoro, riferendosi come ogni altro alla
moralità di tutti, ha il medesimo valore etico del lavoro delle classi
superiori, alla pve/sibilità del quale è condizione indispensabile. E
poiché dal perfezionamento meccanico e tecnico del lavoro materiale è
facilitata] la conquista della natura, ed è quindi promosso il
progresso dell’ umanità, è nu dovere per le classi inferiori
migliorare e inalzare il loro mestiere. TI che riohiede 1’adempimento
d un altro dovere concernente i rapporti tra la classe inferiore e la
superiore. Il perfezionamento industriale dipende da conoscenze, scoperte,
invenzioni, che rientrano nell ufficio professionale dei dotti ; è
dovere, dunque, della classe inferiore, onorare la classe piò colta
appunto perchè, tale e attenersi ai consigli e alle proposte che da essa
le provengono per quanto riguarda il miglioramento di questo o quel
ramo d’industria, di questo o quel genere di vite, domestica, di questo o
quel sistema di educazione, ecc. Dal canto suo, poi, la classe superiore,
ben lungi dal disprezzai e, deve tenere nella piu alta stima la classe
inferiore, rispettarne la libertà, riconoscere il valore dell’opera
sua in riguardo agli interessi superiori dell’ umanità. Soltanto in
una giusta reciprocanza di rapporti tra le varie classi sociali sta la
base del perfezionamento umano, inteso come fine supremo di ogni dottrina
morale. Riassumendo, la dottrina morale, nelle tre parti in cui si
divide, si propone un triplice oggetto e ottiene un triplice
risultato. Anzitutto nella deduzione del principio della moralità Fichte
mostra come LA RAGIONE E LA LIBERTÀ, le quali a tutta prima per la
coscienza empirica non sono che ideali, divengano poi in essa principi di
azione, esercitino una causalità. L’io empirico individuale non può porsi
nè pensarsi se non in base all’io puro universale, se non in quanto
ha per principio e per fine l’Ideale; e l’io puro universale non può
attuarsi se non ha per strumento l’io empirico individuale. L’ unità
dell’ ideale non acquista causalità, non diviene efficace nel mondo se non
pluralizzandosi, quasi in centri luminosi, in spiriti individuali, i
quali soltauto possono dirsi realmente esistenti e attivi. Ora, appunto
questo reciproco rapporto tra i molteplici io empirici e 1’unico Io puro
fornisce il contenuto del dovere e rende il dovere intelligibile. Il
dovere, infatti, è la necessita imposta all’io puro, ossia alla Libertà, di
attraversare 1’intelligenza, ossia l’io empirico, di divenire quindi
intelligibile, per passare dallo stato ideale di potenza a quello leale
di atto, necessità che non significa eteronomia perchè non impone alla
Libertà se non la propria attuazione. L’intelligibilità del dovere : ecco il primo
risultato che Fichte ottiene, colmando l’abisso che Kant lascia
aperto tra la conoscenza e la volontà – cf. H. P. Grice, KANTOTLE --, e
facendo dell’ intelligenza la condizione interna, il veicolo della
libertà; poiché l’intelligenza esprime quasi lo sforzo della libertà infinita
per assumere, con la coscienza di sè, la forma del reale. In secondo
luogo, a proposito dell’applicabilità del principio morale, Fichte mostra
come il mondo si presti all attuazione della ragione e della libertà ; il
che significa che la natura non è radicalmeute cattiva, non è
assolutamente refrattaria allo spirito; c’ è anzi una stretta parentela tra lo
spirito e la natura, non essendo questa che un prodotto inconscio di
quello. Soltanto che l’attuazione del1’ideale morale non si compie a un tratto
nel mondo con un semplice decreto della volontà, ma è la meta di un
progresso. L’idea di sviluppo, di progresso è una categoria della
moralità; ecco il secondo risultato che Fichte ottiene eliminando l’assoluta
irriducibilità riaffermata dal Kant tra libertà e natura . spirito e
materia, idealità e realtà, e facendo la natura, la materia, la realtà
suscettive di un progressivo liberarsi, spiritualizzarsi, idealizzarsi
all’infinito. Infine, nel fare 1’applicazione del principio morale, Fichte
mostra come il progresso richieda, per compiersi, una duplice condizione; l’uua
formale : occorre che 1’individuo acquisti in sè la coscienza della
libertà e della legge morale; 1’altra materiale : occorre che
1’individuo apprenda come il contenuto del dovere sia nell’ attuare
la moralità non solo in lui, ma anche fuori di lui, negli altri
individui, nel genere umauo tutto quanto, la cui totalità appunto
rappresenta la ragione universale ; occorre, insomma, che 1’individuo sappia di
essere strumento indispensabile per 1’ attuarsi dell’ ideale nel mondo, per
1’emancipazione cioè dell’ umanità intera dai vincoli della natura e per
la sua elevazione al regno dello spirito. La sostituzione d’ un ideale sociale
a un ideale individuale: ecco il terzo risultato che Fichte ottiene
trasformando la formula kantiana. Ogni uomo è esso stesso fine in quest’altra:
ogni uomo è esso stesso fine in quanto mezzo ad attuale la ragione
universale „ e subordinando così il singolo al tutto, 1’individuo all’
umanità. È facile argomentare, in base a questo triplice risultato, le
radicali innovazioni di cui, rispetto alla morale tradizionale, è feconda la
dottrina fichtiana. L’intelligibilità del dovere porta seco la
razionalità dell’azione e sostituisce alla fede, opera della grazia
divina o di uu impulso incosciente, la convinzione della
propria coscienza, l’unione indissolubile dell’energia della volontà
con la luce del pensiero. Per ben operare, all’ intellettualismo socratico
basta il retto giudizio, al volontarismo cristiano basta il cuore puro: Fichte
fonde i due 'punti di vista ed esige per la moralità degli atti così la
dirittura del giudizio come la purezza del cuore, così l’intima
persuasione come la buona volontà. Un dovere IRRAZIONALE, impenetrabile a ogni
sforzo della riflessione è, secondo lui, altrettanto immorale quanto un
dovere adempiuto per secondi fini. Inintelligibilità e insincerità sono per
Fichte ugualmente incompatibili col concetto del dovere. L’ idea di
sviluppo e di progresso, intesa come categoria della moralità, porta seco la
riabilitazione della natura rispetto allo spirito, alla cui attuazione, anziché
ostacolo, è condizione e mezzo. Senza la natura vedemmo mancherebbe allo
spirito l’oggetto su cui esercitare la propria attività, la quale ha bisogno
d’agire sulla natura per liberarsi dalla natura; senza i corpi
individuali, che della natura fanno parte, mancherebbe alla libertà dello
spirito il modo di pluralizzarsi in tante sfere d’ azione, le
quali, sebbene distinte, sono in recipi'oco rapporto fra loro, sì
da applicarsi tutte al medesimo universo e da rappresentare, unite
insieme, e attuare la vivente unità del cosmo e della ragione universale.
Ogni organismo corporeo, infatti, è strumento indispensabile affinchè la libera
attività spirituale abbia causalità nel mondo ; e da ciò deriva a esso e,
per estensione, a tutta quanta la natura, una consacrazione morale, che
non si accorda con la condanna della natura e del corpo pronunziata dall’
ascetismo cristiano, ma nemmeno con l’apoteosi della natura e del corpo
celebrata dall’edonismo pagauo ; una consacrazione morale che vieta a un
tempo così la macerazione, come il blandimento della carne, e che mentre,
restituisce alla vita dei sensi il suo ufficio subordinato e la sua vera
finalità nella vita morale si ricordi la prescrizione fichtiana già
citata: Mangiate e bevete a gloria di Dio ; se questa morale vi sembra
troppo austera, tanto peggio per voi ; non ce n’ è un’ altra „ non ritiene necessario nè una risurrezione
dei corpi, nè un’ immortalità personale. Perché Fichte non si
contenta più di una moralità che miri a una vita futura, o che si appaghi
di un sogno di perfezione interiore, ma vuole attuare sulla terra stessa
il regno dei cieli, riponendo la beatitudine, come già il Lessing aveva detto
della verità, non nel possesso, ma nella conquista della
libertà: essere liberi è nulla, divenire liberi è il cielo! La
sostituzione dell’ ideale sociale all’ ideale individuale porta seco
l’inversione del rapporto di dipendenza tra morale e diritto,
1’accentuazione massima del valore del regime di giustizia e la radicale
trasformazione del concetto tradizionale di carità. È, infatti, un’
originale caratteristica della dottrina fichtiana l’aver posto non più
come si soleva in passato la morale a condizione del diritto, ma il
diritto a condizione della morale. Per Fichte la libertà, materia del
dovere, non si concepisce senza la società, ma la società non si
concepisce senza rapporti di giustizia, dunque la giustizia, ossia il
diritto (juslitiu da jus = diritto) è il fondamento della morale ;
affinchè la moralità possa attuarsi, occorre prima assicurare a
tutti 1’EGUAGLIANZA nel possesso della libertà esteriore, e procurare a
tutti indistintamente, con una legislazione regolatrice dell’attività
economica, quella parte di agiatezza materiale che è necessaria all’opera di
emancipazione morale o di elevazione verso la vita dello spirito. Questa
emancipazione ed elevazione spirituale, poi, non deve uè può finire nel singolo
individuo, che nella dottrina fiohtiana nou ha per sè nessun valore
assoluto, ma dev’ essere promossa da ciascun uomo in tutti gli altri
uomini, perchè l’ideale etico, ben lungi dal ridurci a una salvezza
individuale, a una perfezione interiore, a una santità eremitica
incurante della sorte delle altre anime, o una santità operosa soltanto
per conquistarsi un posto nel cielo, consiste invece nella moralizzazione
e nella salvezza di tutto il genere umano, nell’avvento del regno della
ragione su questa terra e in tutta 1’umanità. Di qui deriva, secondo
Fichte, il vero concetto della carità : sforzarsi d’inalzare i nostri
simili alla moralità. Ciascuno deve proporsi non la propria felicità, e
nemmeno soltanto la propria libertà e indipendenza particolare, ma la libertà
universale, la salute spirituale di tutti; il culmine della virtù per
l’individuo è darsi in olocausto per la salvezza del mondo,
accettando coraggiosamente l’imperativo ingrato, se si vuole, ma
categorico, di lavorare senza riposo e senza ricompensa, a un fine di cui
non vedrà mai l’adempimento completo, al trionfo infinitamente lontano
della ragione, e di lavorarvi in un ambiente spesso indifferente ed
ostile, con penosi sacrifizi, senz’ altro stimolo che il puro amore del dovere,
senz’ altra gioia che quella di avere colla propria abnegazione contribuito
all’ordine universale! Concezione sublime questa, che ricorda l’altra
affine dello Zend Avesta, la quale fa dipendere aneli’ essa la salvezza
di ciascuno dalla salvezza di tutti e comanda a ognuno di combattere,
secondo i propri mezzi e secondo il posto assegnatogli, il regno delle
tenebre e del male e di lavorare al trionfo della luce e del bene. E
nonostante questa abnegazione di sè nell’ interesse della ragione
universale, l’io individuale conserva tutta la propria realtà e personalità,
nè potrebbe avere una dignità ma'ggiore, poiché quale dignità può
ritenersi più grande di quella di un essere dalla cui azione dipende la
salvezza di tutti e alla salvezza del quale concorre 1’ universalità degli
esseri ragionevoli [Tale concezione trovasi eloquentemente illustrata da
Ficlite anche nella terza delle conferenze da lui tenute a Jena
sulla Missione ilei dotto ; ne riportiamo qui, liberamente tradotta, la
bella chiusa che è quasi una lirica: Se l’idea liuora svolta si considera auche
prescindendo da ogni rapporto con noi stessi, siamo portati a vedere fuori di
uoi una collettività in cui nessuno può lavorare per sè senza lavorare per gli
altri, nè lavorare per gli altri senza lavorare in pari tempo per sè,
essendo il progresso dell’ uno progresso di tutti, la perdita dell’ uno
perdita di tutti : spettacolo questo che ci sodisfa intimamente e solleva
alto il nostro spirito con la visione dell’armonia nella varietà.
L’interesse aumenta se, riportando lo sguardo sopra noi stessi, ci riconosciamo
membri di questa grande e stretta comunione. Sentiamo rafforzarsi la
coscienza della nostra dignità e della nostra forza, quando diciamo a noi
stessi ciò che ognuno può dire : la mia esistenza non è inutile e senza
scopo ; io sono un anello necessario dell’ infinita catena che, dal
momento in cui 1’ uomo assurse per la prima volta alla piena
consapevolezza del proprio essere, si svolge verso l’eternità; quanti,
tra gli uomini, furono grandi, buoni e saggi, i benefattori dell' umanità
i cui nomi leggo registrati nella storia del inondo, e i tanti i cui
meriti rimangono, mentre i nomi sono dimenticati, tutti hanno lavorato per
me; io raccolgo i frutti delle loro fatiche; ricalco sulla via che essi
percorsero le loro orme benefiche. Io posso, tosto che lo voglia, riprendere 1’
ufficio altissimo che essi si erano proposto ; rendere, cioè, sempre più
saggi e più felici i nostri fratelli ; posso continuare a costruire là
dove essi dovettero smettere; posso portare più vicino al compimento il
tempio magnifico che essi dovettero lasciare incompiuto. Ma anch’ io dovrò
smettere il [mio lavoro come essi, dirà qualcuno Oh ! questo è il pensiero più elevato di
tutti. Se assumo quell’ ufficio altissimo, non lo potrò mai portare a
termine ; quanto è certo che è mio dovere l’accettarlo, altrettanto è
certo che Amiamo sperare che la precedente esposizione della
Dol/t'ina morale del Fichte non riesca inutile per chi si accinga a
leggere il volume, se non nella lingua, nello stile del suo autore. Certo
non tutti accetteranno integralmente l’ardita metafisica ivi presupposta che volentieri chiameremmo Etilica come
quella dello Spinoza e che è forse, per adoperare una felice espressione
del Barzelletti, la più eroica presa di possesso che mai mente umana
abbia potuto fare, a un tempo, e del mondo delle idee e del mondo della
realtà ma tutti, senza dubbio, saranno colpiti dalla originalità,
profondità e finezza delle vedute psicologiche ivi proiettate e
analizzate con arte insuperabile, e in particolar modo dalla nobiltà dei
senti- non potrò mai cessare d’operare; quindi non potrò mai cessare
d’essere. Ciò che si suoi chiamare morte non può interrompere 1’ opera
mia; perchè l’opera mia dev’essere compiuta, e non può essere compiuta nel
tempo ; perciò la mia esistenza non è limitata nel tempo ed io sono
eterno. Assumendo parte di quell’ufficio sommo, ho fatto mia l’eternità.
Sollevo fieramente il capo verso le rocce minaccioso, verso le cascate
spumeggianti, verso le nuvole velegginoti in un oceano di fuoco, e dico :
io sono eterno e sfido il vostro potere. Irrompete tutti su di me, e tu, cielo,
e tu, terra, precipitate in un selvaggio tumulto, e voi tutti, o elementi,
spumeggiate e rumoreggiato e stritolate nella lotta selvaggia pur 1’
ultimo atomo del corpo che io dico mio ; la mia volontà sola, col suo
fermo proposito, aleggerà ardita e fredda sopra le rovine dell’ universo,
perchè io ho assunto la mia missione, e questa è più duratura di voi : è
eterna, e, al pari di essa, sono eterno io (Einige Vorlesungen ilber
din Bcstimmung dea Gelehrten, Summit. Werke) V. la trad. franc., di Nicolas, De la
destinatimi da savant et de l'liomine de lettres par Fichte, Paris, De
Ladrauge; e la trad. ital. di E. Roncali, con prefaz. di Vitali, G. A.
Fichte, La missione del dotto, Lanciano, Carabba; La Storia della
Eiloso/ia (estratto dalla Nuova Antologia) p. 2. menti ivi espressi con
forza sempre, e spesso con vivezza di colorito. Del resto non c’è una
sola opera del nostro filosofo che non elevi e non fortifichi l’anima del
lettore perchè i suoi seritti, .emanazione diretta delle più intime
e salde convinzioni, e la sua vii* di pensiero, rientrano nel ciclo di
quella vita d’azione che fa del Fichte una personalità tipica, un
represen latice man, direbbe l’Emerson. E invero egli appartiene come già affermammo all’eletta schiera di quegli eroi, la cui
apparizione nella storia diventa un possesso eterno per l’umanità,
e la memoria dei quali durerà quanto il mondo lontana. Il carattere
adamantino della sua figura morale, la quale è un’ unità altrettanto
solida quanto ben fusa, grazie alla più perfetta armonia tra idee pai-ole
e opere, risulta scultoreamente espresso in questa solenne dichiarazione,
da lui fatta all’ inizio della sua carriera universitaria : u Io
sono un sacerdote della verità ; la mia esistenza è votela al suo
servizio; sono impegnato a tutto fare, tutto osare, tutto soffrire per
essa. Se per causa sua fossi perseguitato e odiato, se dovessi anche
morire, che farei di straordinario? nulla più che il mio assoluto dovere. Parole,
queste, che spiegano bene il poderoso influsso, spiritual- mente
rigeneratore, esercitato dal Fichte sui suoi conna- ziouali e
contemporanei, influsso che, propagandosi nello spazio e nel tempo, ha
suscitato e susciterà sempre sublimi emozioni e risoluzioni virili in mille e
mille anime, Cfr. prec. Einiye Vorlesungen iiber die Bestini muny (Ics
Gelehrten (Sdmmtl. Werke). che pur non udirono mai la voce di lui. Costante
missione di questo eminente spirito fu : destare negli uomini il senso
della divinità della propria natura, fissare i loro pensieri sopra una
vita spirituale come l’unica e vera, insegnar loro a guardare a qualcos’
altro che la pura apparenza e irrealtà e guidarli così allo sforzo tenace
verso i più alti ideali di purezza, abnegazione, giustizia, SOLIDARIETÀ e
libertà. Questa infinita risonanza di idee, sentimenti e propositi,
attraverso le generazioni, nel tempo e nello spazio, questa immensa
simpatia e solidarietà umana che eccelle
tra i principi fondamentali della dottrina liclitiana èprofondamente sentita dal Fichte
stesso, come può rilevarsi anche dalla seguente bella pagina con cui si
chiude la seconda conferenza sulla Missione del Dotto. Ognuno può dire :
chiunque tu sia, tu che hai sembianze umane, sei un membro di questa
grande comunità; sia pure infinito il numero di quelli che stauuo tra me e te,
io so, nondimeno, che il mio influsso giungerà sino a te, e il tuo sino a
me ; chiunque porti sul viso, per quanto rozzamente espressa, l’impronta
della ragione, non esiste invano per me. Ma io non ti conosco, nè tu
conosci me. Oh! quanto è corto che ambedue siamo chiamati a esser buoni e
a divenire sempre migliori, tanto è certo che verrà il giorno, e sia pure
tra milioni e bilioni d’ anni (che è mai il tempo ?), verrà il giorno,
dico, in cui trascinerò anche te nella mia sfera d’azione, in cui potrò
beneficarti e ricevere benefizi da te, in cui anche il tuo cuore sarà
avvinto al mio coi viucoli, i più belli, di un libero scambio di reciproche
azioni (Siimmtl. Werke. Cleto Carbonara. Keywords: l’esperienza e la prattica, esperienza,
dull title: “l’empirismo come filosofia dell’esperienza”! – i periti
conversazionale – esperienza dell’altro, persona e persone – solipsism,
anti-solipsismo – esperienza, sperimento, esperire, perito, perizia, per, fare,
fahren, --. altri, altro, l’altro, l’altri, la filosofia pratica, etica e
diritto, la filosofia pratica di Giovanni Amedeo Fichte, il pratico e
l’aletico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carbonara” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Carbone: la
ragione conversazionale e l’implicatrua conversazionale – scuola di Mantova –
filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco
di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Mantova). Filosofia lombarda. Filosofo italiano. Mantova, Lombardia. Grice: “I
love Carbone; my favourite of his tracts are on the ‘unexpressible’ – a
contradictio in terminis – and on ‘the flesh and the voice’ – but the favourite-favourite are his tract on ‘il bello’ (‘eidos ed eidolon’)
and even more, his “La dialettica”. Si laurea a
Bologna con “Marxismo: i soggetti nella storia". Studia a Padova. Insegna
a Milano. Opere: Condannàti alla libertà, adattamento teatrale del romanzo di
Sartre L'età della ragione, che è stato messo in scena in quello stesso anno.
Fonda a Pisa con il sostegno del Leverhulme Trust un
Programma di ricerca sulla filosofia, concentrandolo
su alcune delle sue figure più importanti e sulle parole-chiave: l'essere, la
vita, il concetto». Dirige la collana f«L'occhio e lo spirito. Estetica,
fenomenologia, per Mimesis Edizioni. Si
concentra sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, indagandone il duplice ma
unitario significato estetico di riflessione filosofica sull'esperienza
percettiva e sull'esperienza artistica attraverso l'esame del parallelo
interesse manifestato da Merleau-Ponty per Cézanne e Proust. Tale indirizzo di
studi si è allargato dapprima a una più vasta considerazione della
fenomenologia e poi a quella del pensiero post-strutturalistico sviluppatosi in
Francia, pur mantenendosi imperniato sul parallelo interesse per la riflessione
filosofica sulla pittura e sulla letteratura moderne. Questo ampliamento ha
inoltre condotto gli studi ad affrontare tematiche di carattere gnoseologico e
ontologico, spingendolo anche a problematizzare il tradizionale rapporto tra la
filosofia e la "non filosofia". Tli orientamenti hanno trovato sbocco
in una riflessione sul peculiare statuto delle immagini nella nostra epoca,
sulle possibili implicazioni etico-politiche del rapporto con esse e sulla
dimensione ontologica dell'"essere in comune" (morire insieme,
dividualita, dividuo). che in tali implicazioni troverebbe espressione. Cura Merleau-Ponty
(Il visibile e l'invisibile; Linguaggio Storia Natura, La Natura, È possibile
oggi la filosofia? Saggi eretici sulla filosofia della storia) e Cassirer -- Eidos
ed eidolon, il bello. Influenzato prevalentemente
da Merleau-Ponty, di cui ha sviluppato in maniera teoreticamente personale
alcune nozioni. Tra queste, spicca il concetto di "idea sensibile",
intesa quale essenza che s'inaugura nel nostro incontro col sensibile e da
questo rimane inseparabile, sedimentandosi in una temporalità retroflessa --"tempo
mitico". Alla prima di queste nozioni è dedicato il dittico “Ai confini
dell'esprimibile” e “Una deformazione senza precedente: la idea sensibile Porta
a sintesi le implicazioni filosofiche delle nozioni sopra citate nel concetto
di "de-formazione senza precedenti", con cui egli intende
caratterizzare il peculiare statuto che a suo avviso la de-formazione assume
nell'arte, al fine di staccarsi dal principio imitativo della rappresentazione
e dunque dalla concezione del modello inteso quale “forma” preliminarmente
data. Alle nozioni sopra menzionate si è andata successivamente collegando
quella di "precessione reciproca" tra l’immaginario e il reale che
Carbone ha proposto di dar conto del prodursi della peculiare temporalità
retroflessa detta "tempo mitico". Cerca di sviluppare le implicazioni
etico-politiche della concezione della memoria legata all'idea di
"deformazione senza precedenti" nella sua riflessione sue venti di
cui ha sottolineato l'irriducibile carattere visivo indagandolo pertanto
mediante un approccio anzitutto estetico. Cerca le radici ontologiche di tali
implicazioni etico-politiche della filosofia, proponendo le nozioni di
"a-individuale" e di "dividuo" per sottolineare
l'intrinseco carattere re-lazionale (e dunque il divenire e la divisibilità) di
ogni identità. Altre saggi: “Ai confini
dell'esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust, Milano,
Guerini); Il sensibile e l'eccedente. Mondo estetico, arte, pensiero, Milano,
Guerini e Associati); Di alcuni motivi in Marcel Proust, Milano, Libreria
Cortina); La carne e la voce. In dialogo tra estetica ed etica, Milano, Mimesis);
Essere morti insieme (Torino, Bollati Boringhieri). Sullo schermo
dell'estetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare, Milano, Mimesis). Una
deformazione senza precedenti. la idea sensibile, Macerata, Quodlibet). Mereologia
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concetti e principi filosofici è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla
secondo le convenzioni di Wikipedia. In filosofia la mereologia (composizione
del grecoμέρος, méros, "parte" e -λογία, -logìa,
"discorso", "studio", "teoria"[1]) è uno dei
"cosiddetti" «sistemi di Leśniewski», ossia è la teoria, o scienza,
delle relazioni parti-tutto[3]; presentata da Achille Varzicome teoria «delle
relazioni della parte al tutto e da parte a parte con un tutto»[4] (o «teoria
delle parti e dell'intero»), da Hilary Putnam come «"il calcolo delle
parti e degli interi"» e da Claudio Calosi come la «teoria formale delle
parti e delle relazioni di parte». Per Ferraris tale relazione parte-interopuò
essere tra oggetti concreti, regioni spazio-temporali, processi (parti
temporali), eventi e oggetti astratti.[8] Storia Modifica Lo studio delle
parti affonda le sue radici nelle speculazioni filosofiche dei presocratici,
per poi essere portato avanti da Platone, Aristotele e Boezio. Di grande
importanza nello sviluppo della mereologia furono anche i contributi di
numerosi filosofi medievali, tra i quali AQUINO, Pietro Abelardo ed Occam. Nel
periodo illuminista, anche Kant e Leibniz si interessarono a quest'ambito.
Tuttavia, la diffusione della mereologia in età contemporanea si dovette a
Franz Brentano e ai suoi studenti, in particolare Husserl, assieme al primo
vero tentativo di avviarne un'analisi attraverso strumenti formali. Leśniewski creò il termine mereologia per
denominare la teoria (che gli si presentò tramite un ragionamento di Husserl)
delle relazioni tra le parti e il tutto a partire dalla differenziazione — il
cui principale fine era "evitare" l'antinomia di Russell— tra
interpretazione distributiva (un oggetto come elemento di una classe) e
interpretazione collettiva (un oggetto come parte di un intero) dei simboli di
classe. Leśniewski, parzialmente influenzato da Whitehead, elaborò poi la
teoria in un sistema assiomatico deduttivo entro cui poter esprimere il calcolo
proposizionale e il calcolo delle classi. I sistemi di Leśniewski. Anche
se cronologicamente è il primo dei sistemi di Leśniewski la mereologia contiene
gli altri due: la prototetica (scienza delle tesi più originarie,
fondamentali ..le «prototesi») che è una logica proposizionale con
l'equivalenza come unico termine primitivo, la proposizione come categoriafondamentale
(ammettente la quantificazione per le proposizioni e i funtori di qualunque
categoria), un solo assioma, e delle regole di separazione, sostituzione,
definizione, separazione dei quantificatori e di estensionalità. l'ontologia
così denominata per la presenza del funtore indicato con ε «preso nel suo senso
esistenziale» (non indica l'appartenenza insiemistica), essa è derivante dalla
prototetica ed è anche denominata «calcolo dei nomi» poiché gli è aggiunta la
categoria dei nomi. Con la mereologia si presenta una differente definizione
d'insieme. Esso non è definito distributivamente ma
collettivamente(mereologicamente): l'insieme è una concreta totalità di
elementi, un aggregato e dunque un oggetto fisico composto di parti, che è solo
se, e finché, esse sono (v. dipendenza ontologica]). Da ciò risultano varie
differenze dalla "normale" teoria degli insiemi tra le quali che in
mereologia è "insensato" ammettere l'esistenza di un insieme vuoto;
indi insiemi di un solo elemento sono tale elemento e la proprietà, unico
termine primitivo della mereologia, di «essere un elemento» è transitiva e
antisimmetrica e riflessiva. Assiomi e definizioni Modifica Il fondamento
concettuale alla base della mereologia è la nozione di parte. In generale,
nelle lingue naturali con «parte» si intende una porzione costitutiva di un
oggetto, gruppo o situazione. Si può dire, ad esempio, che «la maniglia è parte
della porta», che «il Gin è parte del Martini», che «il cucchiaio è parte
dell'argenteria» o che «il calciatore è parte della squadra». Tuttavia,
nell'ambito della mereologia si cerca di seguire un impianto nominalista
definendo questa nozione in termini puramente logici, prendendo in esame le
relazioni tra gli oggetti senza entrare nel merito di eventuali considerazioni
ontologicheriguardo questi ultimi. Di conseguenza, la relazione di parte si può
applicare anche a concetti più astratti, come ad esempio nelle frasi «la
razionalità è parte dell'essere umano» o «la lettera 'c' è parte della parola
'cane'». Assiomi fondamentali Modifica La nozione mereologica di parte
può essere formalizzata mediante il linguaggio della logica del primo ordine
come un predicato, solitamente indicato con P. Un'espressione del tipo
{\displaystyle Pxy} dunque si legge «x è parte di y». Per convenzione, questo
predicato è concepito come una relazione binaria che gode di tre proprietà
fondamentali: il principio della riflessivitàdella nozione di parte (Rp), il
principio dell'antisimmetria della nozione di parte (aSp) e il principio di transitività
della nozione di parte (Tp). (Rp) ogni cosa è parte di se stessa
{\displaystyle (\forall x)(Pxx)}, (aSp) per ogni x e y distinti, se x è parte
di y, allora ynon è parte di x {\displaystyle (\forall x)(\forall y)(Pxy\land
x\neq y\rightarrow \neg Pyx)}, (Tp) per ogni x, y e z, se x è parte di y e y è
parte di z, allora x è parte di z {\displaystyle (\forall x)(\forall y)(\forall
z)(Pxy\land Pyz\rightarrow Pxz)}.[9][4] In altri termini, la relazione di parte
è un ordine parzialelargo. Nonostante bastino solo questi assiomi per porre le
fondamenta della mereologia standard (o sistema M), si possono definire
ulteriori concetti a partire dal predicato P. Di seguito sono riportati quelli
più frequenti: Uguaglianza {\displaystyle EQxy:=Pxy\land Pyx} (x e y sono
uguali se sono uno parte dell'altro), Parte propria {\displaystyle
PPxy:=Pxy\land \neg (x=y)} (x è una parte propria di y se è parte di y ma è
distinto da esso), Sovrapposizione {\displaystyle Oxy:=(\exists z)(Pzx\land
Pzy)} (x è sovrapposto a yse c'è una parte di x che è anche parte di y),
Disgiunzione {\displaystyle Dxy:=\neg Oxy} (x è disgiunto da y se non ha
sovrapposizioni con esso). In particolare, la nozione di parte propria descrive
un ordine parziale stretto (irriflessivo, asimmetrico e transitivo) a
differenza del suo corrispondente primitivo, mentre la sovrapposizione è
riflessiva, simmetrica ma non necessariamente transitiva. È anche possibile
ridefinire il concetto di parte in termini di parte propria: {\displaystyle
Pxy:=PPxy\lor x=y}, ovvero x è parte di y quando è parte propria di y oppure
quando è identico a y. Decomposizione e composizione Modifica Per
disporre di una teoria mereologica che sia realmente in grado di rendere conto
dell'uso del termine «parte» in maniera adeguata, occorre imporre ulteriori
restrizioni sull'ordine parziale P. Nello specifico, vi sono due tipologie di
principi aggiuntivi: quelli di decomposizione (che ragionano dall'intero alle
parti) e quelli di composizione (che ragionano dalle parti all'intero).
Tra gli assiomi di decomposizione, il principio di supplementazione debole (o
WSpp) afferma che nessun intero può avere una singola parte propria. Ciò
risponde all'intuizione comune secondo la quale se un intero possiede una parte
propria, allora deve averne almeno anche un'altra, che costituisce il
rimanente. In simboli si ha che: (WSpp) {\displaystyle PPxy\rightarrow
(\exists z)(Pzy\land \neg Ozx)}, ovvero se x è una parte propria di y, allora
esiste (almeno) un zche è parte di y ma non è sovrapposto ad x. Similmente, il
principio di supplementazione forte (o SSp) prevede che un se y non è parte di
x, allora y ha una parte che non è sovrapposta a x. In simboli: (SSpp)
{\displaystyle \neg Pyx\rightarrow (\exists z)(Pzy\land \neg Ozx)}. Una
conseguenza logica del principio di supplementazione forte è l'estensionalità
(Exp). Questa importante proprietà afferma che due oggetti non possono essere
differenti se hanno le stesse parti proprie, o, in maniera equivalente, se due
oggetti hanno le stesse parti proprie, allora sono lo stesso oggetto. In simboli: (Exp) {\displaystyle x=y\rightarrow (\forall
z)(PPzx\leftrightarrow PPzy)}. Un sistema mereologico che accetta, oltre
agli assiomi fondametali di M, anche i principi di supplementazione debole,
supplementazione forte ed estensionalità è detto mereologia estensionale (o
EM). Considerazioni ulteriori, che però non fanno riferimento al
significato della nozione di parte, possono includere l'idea che esista un
oggetto privo di parti proprie, ovvero l'atomismo, oppure l'idea che, al
contrario, ogni cosa ha parti proprie, o simili, come la proprietà della
densità, che nega l'esistenza di parti proprie immediate. Atomismo
{\displaystyle (\forall x)(\exists y)(Pyx\land \neg (\exists z)(PPzy))}
Infinitismo{\displaystyle (\forall x)(\exists y)(PPyx)} Densità {\displaystyle
(\forall x)(\forall y)(PPxy\rightarrow (\exists z)(PPxz\land PPzy))} Tra
gli assiomi di composizione, il principio di somma mereologica o fusione
formalizza l'idea esistano degli interi composti esclusivamente ed esattamente
da un certo numero di parti. Ad esempio, la Spagna e il Portogallo compongono
la Penisola Iberica (o, in maniera equivalente, la Penisola Iberica è la somma
mereologica di Spagna e Portogallo). Di contro, la mano destra e la mano sinistra
non compongono il corpo umano, poiché quest'ultimo possiede anche altre parti
(gli occhi, il naso, i piedi, ecc.). Nei casi che, come in quest'esempio,
prevedono solo due parti la somma mereologica può essere definita come
segue: {\displaystyle Szxy:=Pxz\land Pyz\land (\forall w)(Pwz\rightarrow
(Owx\lor Owy))}(ovvero z è la somma mereologica di x e y se x e ysono parte di
z e ogni parte di z è sovrapposta a x o y) Si tratta di un principio
controverso, soprattutto se le parti che compongono la somma sono
potenzialmente infinite e non soltanto due. È infatti possibile generalizzare
tale definizione per indicare una somma di infinite parti: {\displaystyle
Sz\varphi x:=(\forall x)(\varphi x\rightarrow Pxz)\land (\forall
w)(Pwz\rightarrow (\exists x)(\varphi x\land Owx))}, dove φ indica una generica
proprietà. Vi sono almeno tre possibili posizioni che si possono assumere nei
confronti dell'esistenza somma mereologica: Nichilismo mereologico Non
esistono somme mereologiche, e anche gli oggetti che a prima vista sembrano
composti sono in realtà semplici. In altri termini, utilizzando un'immagine già
evocata da Peter van Inwagen, non esiste il tavolo, ma esistono solo atomi
disposti a forma di tavolo. Per un nichilista mereologico la Spagna e il
Portogallo non compongono la Penisola Iberica allo stesso modo di come la mano
destra e la mano sinistra non compongono il corpo umano, perché né la Penisola
Iberica né il corpo umano esistono (in senso mereologico, perlomeno).
Moderatismo Le somme mereologiche esistono soltanto in determinati casi e solo
qualora vengano soddisfatte determinate circostanze. Un moderatista potrebbe
ammettere che la Spagna e il Portogallo compongano la Penisola Iberica in virtù
di qualche proprietà di queste parti, ma negare che la mano destra e quella
sinistra compongano qualcosa. Universalismo Le somme mereologiche esistono in
tutti i casi, anche qualora non sembri possibile a prima vista. Per un
universalista qualsiai insieme di oggetti, ancorché totalmente differenti,
compone qualcosa. Non soltanto, dunque, la Spagna e il Portogallo compongono la
Penisola Iberica, ma anche la mano destra e quella sinistra compongono una
somma, benché non esista un termine per riferirsi ad essa. La nozione di somma
mereologica, assieme a quella di prodotto mereologico, costituisce la base
della mereologia estensionale classica (o CEM). -Logia, in Treccani.it –
Vocabolario Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Coniglione Leśniewski,
Stanisław, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Varzi ^ Achille Varzi, Ontologia e metafisica, in Agostini e Nicla
Vassallo (a cura di), Storia della Filosofia Analitica, Torino, Einaudi, Putnam
Calosi; Ferraris Torrengo Inwagen, Material Beings, New York, Cornell
University Press, Ithaca, Varzi (2014) per una definizione di prodotto
mereologico. Cotnoir e Varzi, Mereology, Oxford, Lando, Mereology: A
Philosophical Introduction, Londra, Bloomsbury. Varzi, Mereology, in The
Stanford Encyclopedia of Philosophy, Stanford, Edward N. Zalta, Calosi,
Mereologia, in APhEx (Analytical and Philosophical Explanation),, Lezione 2 -
In difesa della relatività concettuale., in Etica senza ontologia, tr. it. di
Eddy Carli, prefazione di Luigi Perissinotto, Milano, Paravia Bruno Mondadori
Editori, Coniglione, 2.2.8. I contributi in campo logico, in Nel segno della
scienza: la filosofia polacca del Novecento, Milano, FrancoAngeli, Torrengo,
2.6.5. Parte-intero, in Maurizio Ferraris (a cura di), Storia dell'ontologia,
Milano, Bompiani, Ferraris, Glossario, in Ontologia, Napoli, Guida, Voci
correlate Modifica Logica Ontologia Achille Varzi, Spatial reasoning and
ontology: parts, wholes, and locations ( PDF ), in M. Aiello, I.
Pratt-Hartmann, e J. van Benthem (a cura di), Handbook of Spatial Logics, Berlino,
Springer-Verlag, Varzi, Ontologia, in SWIF Edizioni Digitali di Filosofia,
Volume Supplementare 2, Roma, Università degli Studi di Bari, Bosco, La
Fundierung nella Terza ricerca logica di Husserl, in Dialegesthai, Roma. Portale
Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima
modifica 18 giorni fa di FrescoBot Quantificatore Rappresentabilità Geometria
senza punti Mauro Carbone. Keywords: mereologia, organicismo in Hegel, il tutto
e le parti, dialettica, “individuo e dividuo”, divisio, visio, compositio,
de-compositio, divisum, indivisum -- eidos, forma, shape, il bello, essere en
comune, mit-sein, l’impersonale, l’intrapersonale, l’interpersonale – tutto,
parte, tutto-parte, totum-pars, unita, a-tomon, a-tomism, atomismo logico.
tomismo logico, il tutto e le parti -- #DialetticaDegl’EntrambiDividui -- --
--. Merleau-Ponty ‘linguaggio’, individuus, dividuus, dividuo -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Carbone” – The Swimming-Pool Library. Carbone.
Luigi Speranza -- Grice e Carboni: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale disegno dal vivo,
disgeno del nudo dal vero, disegno dal vero, disegno del nudo dal vero -- disegno
dall’antico, desegno dalla natura -- drawn from life -- tratto dalla vita – royal
academy –drawn from the antique – scuola di Livorno – filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Livorno). Filosofo toscano. Filosofo italiano. Livorno, Toscana. Grice: “I love
Carboni – my favourite of his tracts is ‘between the image and the ‘parable’” –
a semiotics of communication with sections on ‘the tacit response,’ through the
looking-glass’, ‘towards the hypertext,’ and quoting extensively from some
‘conversational-implicature’ passages in Aristotle’s metaphysics, ‘To ask ‘why
is man man?’ is to ask nothing!” “For some expressions, analogy suffices!”
Insegna a Roma, Bari, Viterbo. Altre
opere: L’angelo del fare. Melotti e la ceramica (Skira) e Il colore nell’arte
(Jaca). Cura Dorfles, Brandi, Deleuze,
Guattari, Adorno. Tra le recensioni dei suoi saggi si segnalano: Giacomo
Marramao, Gianni Vattimo (“L’Espresso”), Gillo Dorfles (“Il Corriere della
Sera”), Victor Stoichita (“il manifesto”). Al Festival delle Letterature di
Mantova hanno presentato i suoi saggi Sini
e Didi-Huberman. Scrive su “Nòema” e “Images Re-vues” e sulla “Rivista di
Estetica”. “L’Impossibile Critico. Paradosso della
critica d’arte, Kappa); “Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Editori
Riuniti); “Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi);
“Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento,
Castelvecchi); “L’ornamentale. Tra arte e decorazione, Jaca); “L’occhio e la
pagina. Tra immagine e parola, Jaca); “Lo stato dell’arte. L’esperienza
estetica nell’era della tecnica, Laterza); “La mosca di Dreyer. L’opera della
contingenza nelle arti, Jaca); “Di più di tutto. Figure dell’eccesso,
Castelvecchi); “Analfabeatles. Filosofia di una passione elementare,
Castelvecchi); “Il genio è senza opera. Filosofie antiche e arti contemporanee”
Jaca); “Malevič. L'ultima icona. Arte, filosofia, teologia, Jaca). Drawing after the Antique at the British Museum: “Free” Art Education
and the Advent of the Liberal State, Martin Myrone Drawing after the Antique at
the British Museum: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State; Myrone.
The British Museum in London began regularly to open its newly established
Townley Gallery so that art students could draw from the ancient sculptures
housed there. This article documents and comments on this development in art
education, based on an analysis of the 165 individuals recorded in the
surviving register of attendance at the Museum. The register is presented as a
photographic record, with a transcription and biographical directory. The
accompanying essay situates the opening of the Museum’s sculpture rooms to
students within a farreaching set of historical shifts. It argues that this new
museum access contributed to the early nineteenth-century emergence of a
liberal state. But if the rhetoric surrounding this development emphasized
freedom and general public benefit in the spirit of liberalization, the
evidence suggests that this new level of access actually served to further
entrench the “middleclassification” of art education at this historical
juncture. Authors Martin Myrone is an art historian and curator based in
London, and is currently convenor of the British Art Network based at the Paul
Mellon Centre for Studies in British Art. Acknowledgements The register of
students admitted to the Townley Gallery was originally consulted during my
term as Paul Mellon Mid-Career Fellow in 2014–15. Thanks to Hallett and Turner
of the Mellon Centre for their continuing support and guidance, to Baillie Card
and Rose Bell for their careful editorial work, Tom Scutt for crafting the
digital presentation of my research, the two anonymous readers for their
valuable critical input, and to Antony Griffiths, formerly of the British
Museum, and Hugo Chapman, Angela Roche, and Sheila O’Connell of the British
Museum, for providing access to the register and for their advice. I am
especially indebted to Mark Pomeroy, archivist, and his colleagues at the Royal
Academy of Arts for the access provided to materials there and for advice and
suggestions. I would also like to thank Viccy Coltman, Brad Feltham, Martin
Hopkinson, Sarah Monks, Sarah Moulden, Michael Phillips, Jacob Simon, Greg
Sullivan, and Alison Wright. Cite as Martin Myrone, "Drawing after the
Antique at the British Museum: “Free” Art Education and the Advent of the
Liberal State", British Art Studies, Issue 5,
dx.doi.org/10.17658/issn.2058-5462/issue-05/mmyrone From the summer of 1808 the
British Museum in London began regularly to open its newly established
galleries of Graeco-Roman sculpture for art students. The collection, made up
almost entirely of pieces previously owned by Charles Townley, had been
purchased for the nation in 1805 and installed in a new extension to the
Museum’s first home, Montagu House, which was built earlier. After some
protracted discussion with the Royal Academy, detailed below, the collection
was made available for its students in time for the royal opening of the
Townley Gallery on 3 June 1808. A written record was kept of students admitted
to draw from the antique. This volume survives in the library of the Department
of Prints and Drawings at the British Museum and identifies one hundred and
sixtyfive separate individuals admitted through to 1817. 1 The register forms
the focus of this essay and is presented here as a facsimile and transcription,
with an accompanying directory of student biographies (see supplementary
materials below). This may be taken as a straightforward contribution to the
literature on early nineteenth-century art education, and the author hopes it
may be useful as such. However, it also situates the opening of the Museum’s
sculpture rooms to students within a rather more far-reaching set of historical
shifts. Namely, it argues that this new form of museum access was part of the
early nineteenth-century emergence of a liberal state that “actively governs
through freedom (free ‘individuals’, markets, societies, and so on, which are
only ‘free’ because the state makes them so)”. 2 Access to the British Museum
was “free” in that there were no charges or fees. Meanwhile, the arrangement
offered a degree of freedom to the students themselves; they were expected to
be largely self-selecting and self-regulating. When the arrangement was exposed
to public scrutiny, as a result of questions asked in parliament in 1821, the
freedom of access and the service this did to the public good were emphasized.
But, once closely scrutinized, the evidence suggests that this manifestation of
the freedoms encouraged by the liberal state had a social disciplinary role
(even if disciplinary function can hardly be recognized as such), in serving to
further entrench the “middle-classification” of art at this historical
juncture. 3 The conjunction of art education and a grandiose notion such as the
liberal state may be unexpected, and rests on three key assertions. The first
is that art worlds are structured and in their structure have a homological
relationship with the larger social environment. 4 The initial part of this
statement (that art worlds are structured) may not be especially hard to
swallow, given the relatively formalized and hierarchical nature of the London
art world during the early nineteenth century, when cultural authority was
vested in a small number of institutions, and the practices associated with
academic tradition in principle still held sway. However, that the structure of
the art world, in its hierarchical dimension, may also be homologically related
to the larger field of power, so that social relationships are reproduced
within this relatively autonomous sphere, is more clearly contentious, and runs
contrary to commonplace beliefs and expectations about talent and luck in
determining personal fate in the modern age—artists’ fortunes most especially.
In fact, in the period under review here, the artist became an exemplary figure
in the new narratives of social mobility: the art world came to serve as a
model of how talent or sheer good fortune could override social origins and
destinies. 5 The second assertion is that the Royal Academy and British Museum
were developing new forms of state institution, underpinned by the conjoined
principles of freedom of access and public benefit. Such has been argued
importantly by Holger Hoock, and while I depart from his arguments in some key
regards, his insights into the status of these institutions and the role of
forms of public–private partnership in their formation are crucial. 6 The third
assertion (and this marks a departure from Hoock), is that the state is not a
stable, centralized entity, or site of power either “up above” or “below”
historical actors. Instead, it is taken to be the sum of actions and
dispositions ostensibly volunteered by these historical agents in all their
multitude and variety. The crucial point of reference here is the sustained
body of work on the liberal state by the historian Patrick Joyce, deploying the
work of Bruno Latour and Michel Foucault, among others, to yield a more materialistic
and decentralized understanding of the emergence and role of state bodies. 7
The state, in this view, is composed of technologies, disciplinary structures,
habits of mind, and ways of doing things. The mechanics of art education,
insofar as this involves the movement through or exclusion of individuals from
identified places, the arrangement of their bodies in relation to one another
and to their model, the management of their behaviour within those places, the
very motion of their bodies, hands, and eyes under the surveillance of their
peers, teachers or other authorities, may be considered as a form of
biopolitics; the student who entered his or her name into the British Museum’s
register of admission was producing his or her governmentality. 8 The argument
here is emphatically historical and states that this arrangement, while it may
have precedents and may have been seminal, belongs to an historical moment—the
emergence of the liberal state. My case, which can be sketched out only in
outline in this context, is that the emergence of the familiar institutional
arrangements of the modern art world between the 1770s and the 1830s (in the
form of actual institutions and regulatory structures or permissions, including
annual exhibitions, centralized art schools supported by the state directly and
indirectly, emphasis on quantifiable measures of access and engagement as the
test of public value, and so forth) represents in an exemplary way the illusory
freedoms promoted by liberalism, and renewed by present-day “neo- liberalism”,
as addressed by commentators from the prophetic Karl Polanyi through to the
later work of Foucault and Bourdieu on the state, and Luc Boltanski and Eve
Chiapello, among others. 9 The early nineteenth-century art world can be
proposed as a privileged focus of attention because it was still of a scale
which can allow for the kinds of data-based analysis which must underpin any
sort of sociological exploration, and because its individual membership can be
documented in fine detail in a manner which is simply not possible at an
earlier historical date. Paradoxically, despite its announced commitment to
non-intervention and personal freedom, the emerging liberal state generated
huge amounts of documentation about society and its individual members—tax
records, parochial and civil records, the national census from 1801—which
digitilization has made more readily available than ever before, allowing this
generation of artists to be documented as never previously. 10 The production
of artistic identities through these records is not unrelated to changes in
artistic identity itself over the same timeframe. One way of realizing this
might be to consider the period outlined above——not as a period from the
foundation of the Royal Academy to its removal to Trafalgar Square, or even as
the era of Romanticism, as much literary and cultural history-writing would
dictate, but as the era from Adam Smith’s Wealth of Nations (1776) to the
Reform Act (1832) and the Speenhamland system, a last experiment in patrician
social care before the Poor Law Amendment Act (1834), taking in Thomas Malthus
and David Ricardo. The challenge is thinking of these two frameworks not in
sequential or spatially differentiated ways, but as simultaneous and identical.
Within this emerging liberal state the figure of the artist is attributed with
a special degree and form of freedom, what has conventionally been alluded to,
in generally sociologically imprecise ways, as a feature of “Romanticism”,
slumping into “bohemianism” and a generic idea of art student lifestyle. If
this was a moment of unprecedented state investment in the arts (from the Royal
Academy through to the Schools of Design) and government scrutiny (notably with
the Select Committees), it simultaneously saw the emergence of artistic
identities expressing the values of personal freedom, freedom from regulation,
and even active opposition to the state. I propose that art education, as it
took shape in the emerging liberal state, might be explored as a “liberogenic”
phenomenon: among those “devices intended to produce freedom which potentially
risk producing exactly the opposite.” 11 As such, it may have renewed
pertinence for our own time, although this does not entail seeing a “causal”
relationship between the past and present, or a linear genetic relationship
between then and now. In fact, the purpose of this commentary, and the larger
project it arises from, 12 is rather to trouble our relationship with that
past. The intention is not, however, to point unequivocally to the era under
consideration as here entailing “the making of a modern art world”, with the
rise of art education and museums access representing a stage towards
democratization, as illuminated in stellar fashion by the great Romantic
artists (J. M. W. Turner—famously the son of a lowly London
barber—pre-eminently). I would want instead to take seriously Jacques
Rancière’s call for “a past that puts a radical requirement at the centre of
the present”, eschewing causality and “nostalgia” in favour of “challenging the
relationship of the present to that past”. 13 If giving attention to the
“freedom” of art education at the advent of the liberal state provides any
insight at all, it should do so by troubling rather than affirming our
narratives of the genesis of a modern art world. Access to the Townley Gallery
The arrival at the Museum of the Townley marbles, together with the development
of the prints and drawings collection and its installation in new, secure rooms
in the same wing, fundamentally changed the character of the institution. As
Neil Chambers has noted, having been primarily a repository of (often
celebrated) curiosities of many different forms, quite suddenly “The Museum was
now a centre for art and the study of sculpture.” 14 The shift was acknowledged
internally at the Museum by the creation in 1807 of a distinct Department of
Antiquities, which also had responsibility for the collection of prints and
drawings. But while the significance of the opening of the Townley Gallery in
the history of the British Museum is clear, the opening of the collection to
students has barely been noticed in the art-historical literature. The register
has been overlooked almost entirely, and the relevance of this development in
student access may not even be immediately obvious. 15 Figure 1. William
Chambers, The Sculpture Collection of Charles Townley in the dining room of his
house in Park Street, Westminster, 1794, watercolour, 39 x 54 cm. Collection of
the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum
Figure 2. Attributed to Joseph Nollekens, The Discobolus, 1791–1805, drawing,
48 x 35 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of
Trustees of the British Museum Townley’s collection had already famously been
on display for many years at his private house in Park Street, London. William
Chambers’ (or Chalmers’) drawing of the Park Street display from 1794 includes
a well-dressed young woman drawing under the supervision or advice of a man,
promoting the idea that the collection was available for sufficiently genteel
students of the art more generally (fig. 1). In his recollections of the London
art world, J. T. Smith described “those rooms of Mr Townley’s house, in which
that gentleman’s liberality employed me when a boy, with many other students in
the Royal Academy, to make drawings for his portfolios”. 16 Smith’s former
employer, the sculptor Joseph Nollekens, has been identified among the more
established artists who were also engaged by Townley to draw from marbles in
the collection (fig. 2). As Viccy Coltman has noted, “The townhouse at 7 Park
Street, Westminster became an unofficial counterpoint to the English arts
establishment that was the Royal Academy: as an academy of ancient sculpture,
much as Sir John Soane’s London housemuseum in Lincoln’s Inn Fields would
become an academy of architecture in the early 19th century.” 17 Evidently, a
number of the students and artists admitted to draw from the Townley marbles
once they were at the British Museum knew them formerly at first hand from
visiting 7 Park Street; for instance, William Skelton, admitted to draw at the
Museum in 1809, had apparently already studied and engraved three busts from
the collection for inclusion in the design of Townley’s visiting card (fig. 3).
Townley had hoped for a separate gallery to be erected to house the collection,
but his executors, his brother Edward Townley Standish and uncle John Townley
were unable to agree a plan. 18 The sale of the collection to the Museum was a
compromise. With the erection of a new gallery space for the collection
underway, the Museum considered how special access might be given to artists.
That the question was posed at all should be an indication of how far the realm
of cultural consumption and production was being folded in to the emerging
liberal state at this juncture. At a meeting of the Trustees on 28 February
1807, a committee was set up to consider how the prints and drawings
collections might be used by artists, and to draw up “Regulations... for the
Admission of Strangers to view the Gallery of Antiquities either separately
from, or together with the rest of the Museum: And also for the Admission of
Artists”. 19 Figure 3. William Skelton, Charles Townley's visiting card,
1778–1848, etching, 65 x 96 cm. Collection of the British Museum. Digital image
courtesy of Trustees of the British Museum With the Gallery still under
construction, the Sub-Committee was not obliged to move quickly, and it proved
to be a protracted and unexpectedly fractious affair. 20 It was not until the
Museum’s general meeting of 13 February 1808, that the principal librarian,
Joseph Planta, reported “his opinion of the best time et mode of admission of
Strangers as well as artists, to the Gallery of Antiquities”, with the request
that Benjamin West, President of the Royal Academy, be asked to attend a
further meeting. 21 After delays, he did so on 10 March, after which the
Council drew up a set of regulations. 22 These went back to the Academy with
additions and changes, which were accepted by the Council who wrote to the
British Museum on the 10 May to that effect, noting that a General Meeting of
the Academy was to take place, “to prepare the final arrangement for his
Majesty’s approbation”. 23 Accordingly, at the British Museum, the
Sub-Committee’s reports and proposals were approved by the Standing Committee,
with “Resolutions founded on the above mentioned Reports” read at the General
Meeting of 14 May. 24 The resolutions, numbered so as to be inserted in the
existing regulations regarding admissions, were confirmed in the meeting of 21
May, over three months after what should have been a straightforward matter was
raised (see Appendix, below). 25 Clause number eight, concerning the payment of
Academicians charged with the supervision of students, evidently caused some
consternation within the Academy, as recorded in the diary of Joseph Farington.
26 The relative authority of the Council and General Assembly had been a
contentious matter in previous years, and the lengthy dispute over arrangements
with the Museum reflected lingering tensions. On 12 July 1808 the proposals
were read, and “After a long conversation it was Resolved to adjourn.” 27 The
subject was taken up on re-convening on 21 July, but without resolution. 28 At
yet another meeting, on 26 July 1808, the point about the Academy’s provision
of superintendents to monitor the students while at the British Museum was
referred back to Council. 29 We have to turn to Farington’s diary for a fuller
account. He noted that the Academy’s General Assembly had met on 12 July “for
the purpose of receiving a Law made by the Council ‘That permission having been
granted by the Trustees of the British Museum for Students to study from the
Antiques &c at the Museum, certain days are fixed upon for that purpose, et
that an Academician shall attend each day at the Museum et to be paid 2 guineas
for each day’s attendance’... Much discussion took place.” 30 At a further
meeting: “The Correspondence of the Council with the Sub Committee of the
British Museum was read from the beginning” and “much discussion” was had about
the supervision of the students, Farington making the point that: as the
studies of the British Museum shd. be considered those of completion and not to
learn the Elements of art the Academy shd. not recommend any student whose
abilities et conduct wd. not warrant it, that it should be considered the last
stage of study, when those admitted wd. not require constant inspection;
therefore daily attendance of a Member of the Academy wd. not be necessary. 31
The point of contest may have concerned the right of the Council to organize
things independent of the General Assembly of the Academicians, and a more
general question about economy (“Northcote proposed that the Academician who in
rotation shall attend at the British Museum, shd. have 3 guineas a day. West
thought one guinea sufficient”). 32 But Farington’s point is more revealing in
indicating the expectation that the selected students of the Academy were to be
largely self-regulating, and self-disciplining; they were to be granted freedom
because they had already internalized the discipline required by these
institutions. Figure 4. Front cover, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum The matter finally settled,
students were admitted to the Townley Gallery from at least the beginning of
1809: the first entries in the register book are dated 14 January 1809 (figs. 4
and 5 to 11). On that date four students were enrolled, although only one of
them was at the Royal Academy. That was Henry Monro, the son of Dr Thomas
Monro, Physician at Bedlam and an amateur and collector who ran the influential
“academy” at his home in Adelphi Terrace. The other students included two of
the daughters of Thomas Paytherus, a successful London apothecary, and a Ralph
Irvine of Great Howland Street, who seems quite certainly to have been Hugh
Irvine, the Scottish landscape painter and a member of the landowning Irvine
family of Drum, who gave that address in the exhibition catalogue of the
British Institution’s show in 1809. Another five students registered in
February and July. This included another recently registered Royal Academy student,
Henry Sass, whose name was entered into the Academy’s books in 1805,
recommended for study at the British Museum by the architect and RA John Soane,
and the artists William Skelton, Adam Buck, Samuel Drummond, and Maria
Singleton. The mix of amateur and professional artists, young and old, and
indeed the mix of male and female students (discussed below), continued
throughout the register. View this illustration online Figure 5. Page 1,
Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection
of the British Museum. Digital image courtesy of British Museum View this
illustration online Figure 6. Page 2, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online
Figure 7. Page 3, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities,
1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees
of the British Museum View this illustration online Figure 8. Page 4, Register
of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the
British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View
this illustration online Figure 9. Page 5, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online
Figure 10. Page 6, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17.
Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the
British Museum View this illustration online Figure 11. Page 7, Register of
Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the
British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Eight
of the twelve students registered on 11 November were current Academy students;
this proportion of Academy students to others continues throughout the record.
But on the same day Planta noted to the standing committee that the Royal
Academicians not having availed themselves of the Regulations in favour of
their Pupils, et many applications having been made to him for leave to draw in
the Gallery of Antiquities, he therefore submitted to the consideration of the
Trustees, whether persons duly recommended might not be admitted in the same
manner as in the Reading Room. 33 The matter was referred on to the general
meeting. 34 On 9 December 1809 the new regulations were confirmed: Students who
apply for Admission to the Gallery are to specify their descriptions et places
of abode; and every one who applies, if not known to any Trustee or Officer,
will produce a recommendation from some person of known et approved Character,
particularly, if possible, from one of the Professors in the Royal Academy. 35
On 10 February 1810 it was instructed “That the Regulation respecting the mode
of Admission of Students to the Gallery of Sculpture, as made at the last
General Meeting be printed et hung up in the Hall, et at the entrance into the
Gallery”. 36 The students admitted through 1810 were predominantly students at
the Royal Academy, but also included the emigré natural history painter the
Chevalier de Barde and Charles Muss, already established as an enamel and glass
painter. The same pattern was apparent in subsequent years. Twenty-five
students were registered in 1811 and again in 1812, before numbers dropped to
twelve in 1813, eight in 1814, picking up with nineteen in 1815, and dropping
to nine in 1816. The Museum’s original stipulation that no more than twenty
Academy students be admitted each year did not, it appears, create any undue
constraints on the flow of admissions. Far from having a monopoly over student
admissions, as the Museum’s original regulations had anticipated, the Royal
Academy had apparently been distinctly laissez-faire, doing little to try to
push students forward to make up the numbers. The galleries the students gained
access to comprised a sequence of rooms within the new wing added to accommodate
the growing collection of sculptural antiquities, notably the Egyptian material
taken from the French at Alexandria in 1801. The Egyptian antiquities dominated
the galleries in terms of sheer size, although the visual centrepiece, whether
viewed from the Egyptian hall or through the extended enfilade of rooms II–V
where the Townley marbles were displayed, was the Discobolus (fig. 12). 37 The
intimate scale of the galleries brought benefits, as German architect Karl
Friedrich Schinkel noted on his visit of 1826: “Gallery of antiquities in very
small rooms, lit from above, very restful and satisfying”. 38 But is also
imposed a practical limit on the numbers of students who could attend. This
changed when, in 1817, the Elgin marbles were put on display at Montagu House
in spacious, if warehouse-like, temporary rooms newly annexed to the Townley
Gallery (fig. 13). The spike of interest recorded in the register, with
thirty-seven students listed under the heading “1817”, must reflect this new
opportunity. The register terminates at this point, although the volume
continued to be used to record students and artists admitted to the prints and
drawings room (upstairs from the Townley Gallery) from 1815 through to the
1840s. 39 Figure 12. Anonymous, View through the Egyptian Room, in the Townley
Gallery at the British Museum, 1820, watercolour, 36.1 x 44.3 cm. Collection of
the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum
Figure 13. William Henry Prior, View in the old Elgin room at the British
Museum, 1817, watercolour, 38.8 x 48.1 cm. Collection of the British Museum.
Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Some form of register
must have been maintained, but appears not to have survived, and evidence of
student attendance after 1817 is largely a matter of anecdotal record. 40 These
later records also, incidentally, point to the variety of student practice in
the galleries. While the Museum’s original stipulations made the presumption
that admitted artists would be drawing (“each student shall provide himself
with a Portfolio in which his Name is written, and with Paper as well as
Chalk”), students evidently worked in different media as well. James Ward
referred explicitly to “modelling” in the Museum in his diary entries of 1817;
and George Scharf’s watercolour of the interior of the Townley Gallery from
1827 (fig. 14) shows a student sitting on boxes at work at an easel, with what
appears to be a paintbrush in his right hand and a palette in his left. 41
Nonetheless, the Townley marbles had lost much of their allure. Jack Tupper, a
rather unsuccessful artist associated with the Pre-Raphaelite Brotherhood,
recalled his growing disillusion when studying at the British Museum in the
late 1830s: “So the glory of the Townley Gallery faded: the grandeur of ‘Rome’
passed.” 42 Figure 14. George Scharf, View of the Townley Gallery, 1827,
watercolour, 30.6 x 22 cm. Collection of the British Museum. Digital image
courtesy of Trustees of the British Museum The material record of student
activity in the Townley Gallery, in the form of images which seem definitely to
derive from this special access to the Museum, is extremely scarce. 43 Whatever
was produced in the Gallery was, after all, generally only for the purposes of
study, and was unlikely to be retained or valued after the artist’s death. John
Wood, a dedicated student at the Royal Academy from 1819, noted: “I am
surprised at the comparatively few drawings I made in the Antique School at the
Royal Academy, including my probationary one, not exceeding five, with an
outline from the group of the Laocoon.—In the British Museum I made a chalk
drawing from the statue of Libēra for Mr Sass”, that is, the Townley Venus,
apparently drawn by Wood as an exercise for the well-known drawing teacher
Henry Sass. 44 Student drawings after the antique must have been numerous, but
that does not mean they were preserved. J. M. W. Turner had apparently attended
the Plaster Academy over one hundred and thirty times up to the point he became
an ARA, in 1799. 45 Yet even with a figure of his stature, whose studio
contents were so completely preserved, and whose dedication to academic study
was so notable, we have only a handful of drawings which appear certainly to
derive from his time at the schools. 46 There are, doubtless, traces of study
in the Museum to be uncovered in finished works of the period. Charles Lock
Eastlake’s youthful figure of Brutus in his ambitious early work is evidently a
direct lift from the marble of Actaeon attacked by his own hounds in the
Townley collection; he had been admitted to draw from the antique in 1810
(figs. 15 and 16). But given the dissemination of classical prototypes (in
graphic form as well as in plaster) it would be hard to insist that it was only
access to the British Museum’s antiquities which made such allusion strictly
possible. Figure 15. Charles Lock Eastlake, Brutus Exhorting the Romans to
Revenge the Death of Lucretia, 1814, oil on canvas, 116.8 x 152.4 cm.
Collection of the Wiliamson Art Gallery et Museum. Digital image courtesy of
Wiliamson Art Gallery et Museum Figure 16. Anonymous, Marble figure of Actaeon
attacked by his hounds, Roman 2nd Century, marble, 0.99 metres high. Collection
of the British Museum (1805,0703.3). Digital image courtesy of Trustees of the
British Museum The Register of Students as Social Record Of arguably greater
interest than the question of the “influence” of access to the marbles on
artistic practice is the evidence the register provides about the social
profile of the students. This takes us to the heart of the question about the
relationship between art education and the state. This was, in fact, a question
raised at the time. The British Museum was in 1821 obliged to draw up a report
on student and public attendance of the Museum, prompted by Thomas Barrett
Lennard MP, who had entered a motion in the House of Commons seeking
reassurance that this publicly funded institution was not “merely an
establishment for the gratification of private favour or individual patronage”.
47 Lennard’s questions arose from a growing body of criticism directed against
the Museum, which turned on the question of whether, as a publicly funded body,
everyone could expect free access, or only a more specialist minority. As one
critic jibed in 1822, “If the British Museum is open only to the friends of the
librarians, et their friends’ friends, it ceases to be a public institution.”
48 The report elicited by Lennard’s question provided a detailed breakdown of
admissions. With regard to providing access to draw from the antique, the
Museum indulged the impression that it not only fulfilled but exceeded its
commitment to admitting Royal Academy students: providing the figures for the
period 1809–17 (based, surely, on the register under consideration here), the
Museum’s report elaborated: The Statute for the admission of Students in the
Gallery of Sculptures being among those required by the Order of the House of
Commons, it may not be irrelevant to add, that the number of students who were
admitted to make drawings in the Townley Gallery, from the year 1809 to the
year 1817, amounted to an average of something more than twenty. 49 Notably,
this summary gives the clear impression that the antiques were being opened to
the students of the Royal Academy; such is, quite reasonably, presumed by Derek
Cash in his recent, careful commentary on admission procedures at the Museum.
50 The report also pointed to recent changes: In 1818, immediately subsequent
to the opening of the Elgin Room, two hundred and twenty-three students were
admitted: in 1819, sixty-nine more were admitted, and in 1820, sixty-three. It
asserted that, now: Every student sent by the keeper of the Royal Academy, upon
the production of his academy ticket, is admitted without further reference to
make his drawings: and other persons are occasionally admitted, on simply
exhibiting the proofs of their qualification. According to the present
practice, each student has leave to exhibit his finished drawing, from any
article in the Gallery, for one week after its completion. 51 Thus stated, the
Museum appeared to be fulfilling its public duty in providing free access to
appropriately qualified students. The bare figures might seem to indicate a
steady rise in student interest, which could be taken as a marker of
quantitative success. In one of the earliest historical accounts of the Museum,
Edward Edwards implied that the statistical record was evidence of how Planta
had progressively extended access to the Museum: “From the outset he
administered the Reading Room itself with much liberality... As respects the
Department of Antiquities, the students admitted to draw were in 1809 less than
twenty; in 1818 two hundred and twenty-three were admitted.” 52 At that level
of abstraction the information appears beyond dispute. What I test in the
remainder of this essay is how these statements stand up to the more
individualized account of student activity represented in the biographical
record. That record does include the most assiduous students of the Royal
Academy of the time, who certainly did not need the kind of “constant
inspection” Farington worried about, the kind of student anticipated by the
Museum’s regulations. Among these we could count Henry Monro, Samuel F. B.
Morse and Charles Robert Leslie, William Brockedon, Henry Perronet Briggs,
William Etty and Henry Sass, the last two famously dedicated as students of the
Academy. 53 However, the full biographical survey of the register points to a
more complicated situation. Of the one hundred and sixty-five individuals named
in the register, it has proved possible to establish biographical profiles for
the majority: details are most lacking for about twenty-four of the attending
students, although in most of those cases we can conjecture at least some
biographical context. 54 Slightly less than half the total number of
individuals listed were recorded as students at the Academy at a date which
makes it reasonably likely that they were actively attending the schools when
they were admitted to the British Museum (eighty in all). 55 Around twenty more
established male artists attended, and several of these were formerly students
at the Royal Academy, including John Samuel Agar, John Flaxman, and James Ward.
Whether they were pursuing their private studies or undertaking more specific
professional tasks is not always clear. There are, certainly, a few cases where
the latter appears to be the case. When William Henry Hunt was admitted it was
explicitly for the purpose of preparing drawings for a publication; both William
Skelton and John Samuel Agar were probably admitted in connection with his
ongoing work engraving from sculptures at the Museum. It seems likely that the
“Students to Mr Meyer”, that is, the engraver and print publisher Henry Meyer,
were engaged on professional business, as was Thomas Welsh, recommended by the
publisher Thomas Woodfall. More striking, though, is the determined presence in
the register of artists who did not pursue the art professionally or full-time,
including the relatively well-documented Chevalier de Barde, Arthur
Champernowne, John Disney, Hugh Irvine (assuming he is the “Ralph Irvine” who
appears in the register), Robert Batty, Edward John Burrow, Edward Vernon
Utterson, and a number of others designated as “Esq”, so clearly from the polite
classes, even if their exact identities remain unclear. There are at least
fifteen male individuals who appear to come from backgrounds sufficiently
socially elevated or affluent enough to suggest they were taking an amateur
interest rather than pursuing serious studies. 56 Enough of these men are known
to have practised art to make it quite certain that they were not, at least
generally, being admitted to consult the collection without intending to draw,
and John Disney was admitted explicitly “to make a sketch of a Mausoleum”.
Notable, in this regard, are the large number of women admitted to study, most
of whom are or appear to be from polite backgrounds, including the Paytherus
sisters, Elizabeth Appleton, Louisa Champernowne, Miss Carmichael, Elizabeth
Batty, Miss Home, Lucy Adams, Jane Gurney, Maria Singleton, and Anne Seymour
Damer. 57 Some were established artists, or became so; others were pursuing art
as a polite accomplishment, or at least we can assume so given their family
circumstances; in other cases the situation is by no means clear-cut. All were
admitted without special comment or notice despite the issues of propriety
around the drawing of even the sculptured nude figure by female artists which
crops up in contemporary commentaries. 58 This may be all the more striking
given the relative paucity of women admitted as readers at the British Museum
library over the same period: only three out of the three hundred and
thirty-three admitted between 1770 and 1810, as surveyed by Derek Cash. 59 On
this evidence, the field of artistic study was, in the most literal terms,
relatively female compared even to the study of literature or history. This
points to an under-explored context for the inculcation of the students into
life as an artist: the “feminine” sphere of the home, and of siblings (whether
brothers or sisters) alongside parents. We have, surely, barely begun to
consider the family as the context in which artists are made as much as, if not
more than, the studio and academy. Nor is it straightforward to assume that
those individuals who had enrolled as Academy students also had expectations
about the professional pursuit of the art. Among the Academy students who
attended, a large proportion, including a majority of the most assiduous, were
from polite social backgrounds, with fathers in the professions, or who were
office-holders or from the landowning classes, including Henry Monro, John
Penwarne, Richard Cook, William Drury Shaw, Charles Lock Eastlake, Henry
Perronet Briggs, Alexander Huey, Thomas Cooley, Samuel F. B. Morse, Andrew
Geddes, John Zephaniah Bell, Thomas Christmas, John Owen Tudor, and Samuel
Hancock. Others were the sons of elite tradesmen, highly specialized craftsmen
or merchants, including William Brockedon, Seymour Kirkup, Charles Robert
Leslie, Gideon Manton, and John Zephaniah Bell. These were not, either,
predestined to be artists, by simply following in their father’s footsteps, but
were opting in to an artistic career, having had, usually, a decent education,
and access to material and social support. In many cases their brothers, who
shared the same upbringing, became doctors or lawyers, property-owners or
merchants. A number of individual students gave up the practice of the
art—Thomas Christmas became a landowner in Willisden; Richard Cook was able to
retire, wealthy; Seymour Kirkup languished in Rome dabbling in the arts;
William Brockedon became more engaged as an inventor and traveller; while
others were never really obliged to draw an income from their practice but
pursued art as a pastime. It remains the case that there was a high level of
occupational inheritance; perhaps thirty-eight of the students (23 percent) had
fathers who were architects, engravers or artists in painting or sculpture.
Many were the sons of established artists (including Rossi, Bone, Stothard,
Ward, Dawe, Wyatt, Bonomi, and the brothers Stephanoff); a few were part of
“dynasties” encompassing generations engaged in the arts (Wyatt, Wyon,
Hakewill, Landseer). Even then, there is the case of John Morton (noted
confusingly as “John Martin” in the register, although the address given
provides for a firm identification), who, although the son of an artist and a
student at the Royal Academy, exhibited personally as an “Honorary”, suggesting
he was not professionally engaged. That his brother became quite prominent as a
physician suggests that this was a quite emphatically middle-class family
setting. There are several points to derive from this information, even as
lightly sketched as it necessarily is here. Firstly, it is noteworthy that
while female students were a minority they were a definite presence; in this
regard, the British Museum was like other spaces of artistic study, notably the
painting school at the British Institution. 60 The observation is upheld by the
contemporary records of student attendance at the British Institution or of
copyists at Dulwich Picture Gallery, and should serve as a reminder that the
Royal Academy was exceptional among the spaces of art education in being so entirely
male. 61 Secondly, it is striking how few came from humble backgrounds
unconnected with the art world; really, only a handful, which would include
John Tannock (son of a shoemaker in Scotland), William Etty (son of a baker in
York), John Jackson (son of a village tailor in Yorkshire), and William Henry
Hunt (whose father was a London tin-plate worker). The circumstances which led
to their gaining access to the London art world are, therefore, noteworthy, as
a third and most important point would be to emphasize how emphatically
metropolitan, polite, and middle-class was the British Museum as a site of
artistic education. The Townley Gallery on student days was a place where
working artists, students, amateurs, and patrons mingled. 62 While the Royal
Academy is conventionally seen as an engine of professionalization, it is
striking that the social affiliations of artists point to strong, arguably
increasingly strong, affiliations between amateurs and professionals—to the
extent that our terminology around this point needs to be reconsidered. Looking
over the biographical survey, the kind of social suffering or precariousness
typically associated with artists’ lives, perhaps especially during the era of
industrialization, is markedly absent. When it does appear—most strikingly with
the grim life-stories of the siblings Jabez and Sarah Newell—they are among the
minority of students from backgrounds neither closely connected with the art
world, nor comfortably middle-class or genteel. The examples of stellar social
ascent and achievement on the basis of talent alone are real; but they are the
exceptions rather than representative. The relative weight of personal and
Academic connection is exposed in the record of the provision of references for
students. Of the forty-three referees recorded between 1809 and 1816, less than
half (nineteen) were Academicians. One of those was Henry Fuseli, who as Keeper
of the Academy Schools through this period must have provided references as
part of his duties, and accordingly provided the second largest number of
recommendations (nineteen; all but one students at the RA). The lead in
providing references was taken by William Alexander, artist and keeper of
prints and drawings (twenty-two; mainly but not exclusively students). Overall,
officers and Trustees were most active in admitting students. Most only ever
provided a reference for one, or at most a handful, and the jibe about “friends
of the librarians, et their friends’ friends” contains some truth. But the same
point applies to the artists, most of whom only ever recommended one student,
often known personally to them already: David Wilkie recommended his assistant,
John Zephaniah Bell; George Dawe provided a reference for his own son; Thomas
Lawrence for his pupil William Etty; Thomas Phillips and John Flaxman, the
relatives of fellow Academicians; Thomas Stothard, the son of a neighbour
(Kempe). Geography, too, seems to have played a role, with referees often
coming from the same area as their favoured student: Francis Horner recommended
John Henning, whom he had known in their native Scotland; the Scottish George
Chalmers recommended James Tannock; Arthur Champernowne put forward William
Brockedon, his protégé, whom he had supported in moving from Devon to the
metropolis to pursue art; James Northcote recommended two fellow West
Countrymen; Benjamin West, notorious for giving special assistance to visiting
American students, two such (Leslie and Morse). If the admission procedure
could be interpreted as an opportunity for the Academy to assert a corporate,
professionalized identity, based purely on merit, we can nonetheless detect
underlying patterns of kinship, personal, social, and geographical affiliation.
Simply stated, even if study at the Museum was free and freely available, any
given student would still need to access a letter of reference and the time to
go to the Museum (as well as the material means to acquire the portfolio,
paper, and chalks anticipated by the Trustees). The opening hours for students
militated against anyone attending who had to use these daylight hours for
work, a point which was made quite often with reference to the Reading Room
through this period. 63 The most assiduous students needed the time free to
study at the British Museum, something that well-off students like Eastlake,
Brockedon, Briggs, and Monro had readily available to them. Their peers at the
Academy who were obliged to work during the day to make a living, or who were
serving apprenticeships, would simply not be able to make the hours available
at the Museum. 64 The ambitious painter Thomas Christmas was free to attend the
Museum, having dedicated himself to study after working as a clerk, but his
brother, Charles George Christmas, who held down a job in the Audit Office,
would have struggled; accounting for his studies at the Academy, he had told
Farington, “He shd. continue to do the business at the Auditors' Office,
Whitehall, which occupies Him from 10 oClock till 3 each day, as it will keep
His mind free from anxiety abt. His means of living and leave Him with a
feeling of independence.” 65 Given that the students were admitted to the
Townley Gallery from noon to 4 o’clock in the afternoon, and that the Trustees
continued to prohibit the use of artificial lights in the Museum, there was
scarcely any real possibility of Charles George Christmas attending, although
he also enjoyed the comforts of a middle-class home background (their father
was a Bank of England official). With the ascent of utilitarian criticism,
visitor levels were turned to anew as a measure of the institution’s fulfilment
or failure to fulfil its “national” purpose. On strictly statistical terms, the
Museum seemed to be successful at providing opportunities for art students.
Only under the closest scrutiny, with attention to the “micro-history” of
individual lives, does that illusion start to be tested. It is, though, at this
“micro” level that we can apprehend the characteristic paradox of an emerging
cultural modernity, one that is still with us. Yet the point, to follow
Rancière, is not to see the past ascent of a present situation, but to force
ourselves to feel uneasy with that sense of recognition and its tacit model of
history. The evidence is that free access to culture and the (circumscribed)
promotion of equality were combined with socially restrictive patterns of
preferment. 66 Study at the British Museum may have been free, and freely
available to properly qualified students of the Academy, but you needed to be
in the right place at the right time, to have the time available, and, indeed,
to know or at least be able to access the right people, to get in. This point
may seem unduly sociological or even tendentious, but overlooking it involves a
denial of the socially invested nature of time, specifically, of the scholastic
time (given over to study or contemplation or to creation) mythically removed
from the influence of social forces. 67 The acts of nomination which saw
certain men and women given special access to the Townley Gallery, acts so
seemingly trivial in themselves involving perhaps only an exchange of words and
a scribbled note, were microcosmic manifestations of social authority of the
most far-reaching kind. 68 When Robert Butt, the principal manager of the
bronze and porcelain department at Messrs Howell et James, Regent-street, was
examined by the Select Committee on Arts and Manufactures in 1835, he noted:
The process by which a knowledge of the arts of painting and sculpture is now
acquired is this: a young man receives tuition from a private master; he draws
from the antique at the British Museum for a certain time, and when he shows
that he has sufficient talent to qualify him for a student of the Royal Academy
he is admitted; but the expense of acquiring that preliminary knowledge is considerable,
and the young artist must also be maintained by his relatives during the time
that he is acquiring it. 69 The following year, in a further parliamentary
committee, this time dedicated to testing out the British Museum’s claims to
public status, James Crabb, “House Decorator” of Shoe Lane, Fleet Street, was
asked, “Did you ever obtain any assistance, by means of casts, from the better
specimens of sculpture in the Museum or elsewhere?”, to which he replied, “I
should derive assistance from them if I had the opportunity, but I have not
time.” 70 Considered sociologically, as the personal experience of these men
seems to have obliged them to do, time was certainly of the essence. The
prevalence of students with secure middle-class backgrounds at the British
Museum might, then, be taken as evidence of an early phase in the
“middle-classification” of art practice, the awkward but evocative phrase used
recently by Angela McRobbie in her eye-opening observations of careers in the
present-day creative industries. 71 Whatever emphasis may be put on equality of
access to educational opportunity, however rigorously fairminded and anonymized
the tests and measures involved in admission procedures, without forms of
positive support to counterbalance or actively adjust social inequalities,
those same inequalities will tend to be reproduced, homologically, in the
educational field. This is patently not a simple matter of social and material
advantage underpinning artistic enterprise in a wholly predictable way; such
would be a nonsense, in light of the many students who did not enjoy such
advantages. Instead, it is the very flexibility built into the exclusionary
processes of the emerging cultural field which is significant—the possibility
that talented students could get access, gain reputation, achieve success,
without being limited by their social origins. “Freeing” art education allowed
for the expression of personal preferences or dispositions at an individual
level, which at an aggregate level reproduced larger power relations. Exposing
that ultimately exclusionary process, which may be marked only in small
differences, in personal dispositions and behaviours, in the personal choices
and decisions which are neither truly personal nor really pure as choices, is no
small task. This essay, and the biographical survey accompanying it, with its
details of a multitude of student lives otherwise scarcely recorded or
recognized, is intended as a small contribution to that larger project, with
the excess of data presented here perhaps imposing, in itself, new requirements
on our understanding of the history of art education. Appendix Regulations for
the admission of students of the Royal Academy to the Townley Gallery at the
British Museum (May 1808): [7] That the students of the Royal Academy be
admitted into the Gallery of Antiquities upon every Friday in the months of
April, May, June, et July, et every day in the months of August and September,
from the hours of twelve to four, except on Wednesdays and Saturdays the
Students, not exceeding twenty at a time, to be admitted by a Ticket from the
President and Council of the Royal Academy, signed by their Secretary. [8] The
better to maintain decorum among the Students, a person properly qualified
shall be nominated by the Royal Academy from their own body, who shall attend
during the hours of study; the name of such person to be signified in writing,
from time to time, by the Secretary of the Royal Academy to the Principal
Librarian of the British Museum. [9] That the members of the Royal Academy have
access to the Gallery of Antiquities at all admissible times, upon application
to the Principal Librarian or the Senior under Librarian in Residence [10] That
on the Fridays in April, May June et July one of the officers of the Department
of Antiquities do attend in the Gallery of Antiquities according to Rotation in
discharge of his ordinary Duty. [11] That in the months of August et September
some one of the several Officers of the Museum, then in Residence, do
(according to a Rotation to be agreed upon by themselves et confirmed by the
Principal Librarian) attend on the Gallery upon the Days for the admission of
Students. [12] That the attendants in the Department of Antiquities be always
present in the Gallery during the times when the Students are admitted. 72
Footnotes The original register is held in the Keeper’s Office, Department of
Prints and Drawings, British Museum. Patrick Joyce, “Speaking up for the State”
(2014), https://www.opendemocracy.net/ourkingdom/ patrick-joyce/ speaking-up-for-state. These points are
made in light of a larger research project, which has given rise to the present
study: a biographical survey of all the students of paintings, sculpture, and
engraving who were active at the Royal Academy schools between its foundation
in 1769 and 1830 together with a monograph, provisionally titled The Talent of
Success: The Royal Academy Schools in the Age of Turner, Blake and Constable,
c. 1770–1840 (forthcoming). This fuller survey indicates several important
shifts over these decades, including a fundamantal shift in the proportion of
students coming from family backgrounds in the arts and design-oriented
trades, in comparison with those coming from professional and genteel
backgrounds. It exposes, specifically, a new group whose fathers were engaged
as “officers”, in the civil service or bureaucratic roles, who in turn had a
disproportionate representation within the developing art establishment (as
Academicians, or as officials in other cultural bodies). The term “art world”,
as designating a space of co-production, stems from Howard S. Becker, Art
Worlds (1984), rev. edn (Berkeley, CA: University of California Press, 2008).
As deployed here, it is closer in conception to the sociological “field” as
detailed by Pierre Bourdieu across a succession of influential works. Notable
among these, for present purposes because of its methodological statement about
the homological analysis of the world (field) of art in relation to the field
of power, is The Rules of Art, trans. Susan Emanuel (Cambridge: Polity Press,
1996), esp. 214–15. See, notably, the chapter on “Workers in Art” in Samuel
Smiles’s Self-Help, first published 1859 with numerous further editions. On the
self-motivated artist as the model for all forms of work, see Angela McRobbie,
Be Creative: Making a Living in the New Culture Industries (Cambridge: Polity
Press, 2016), esp. 70–76. Holger Hoock, The King’s Artists: The Royal Academy
of Arts and the Politics of British Culture, 1760–1840 (Oxford: Oxford
University Press, 2003) and Hoock, “The British State and the Anglo-French Wars
Over Antiquities, 1798–1858”, Historical Journal 50, no. 1 (2007): 49–72.
Patrick Joyce, The Rule of Freedom: Liberalism and the Modern City (London:
Verso, 2003) and Joyce, The State of Freedom: A Social History of the British
State Since 1800 (Cambridge: Cambridge University Press, 2013); also his “What
is the Social in Social History?”, Past and Present 206, no. 1 (2010): 213–48.
On this Foucauldian framing of art education and creative production within
liberalism, see McRobbie, Be Creative, 71–76 and passim. Karl Polanyi, The
Great Transformation: The Political and Economic Origins of Our Time (1944;
Boston, MA: Beacon Press, 2002); Michel Foucault, The Birth of Biopolitics:
Lectures at the Collège de France, 1978–1979, ed. Michel Sennelert, trans.
Graham Burchell (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2008); Luc Boltanski and Eve
Chiapello, The New Spirit of Capitalism, trans. Gregory Elliott (London and New
York: Verso, 2007); Pierre Bourdieu, On the State: Lectures at the Collège de
France, 1989–1992, ed. Patrick Champagne and others, trans. David Fernbach
(Cambridge: Polity Press, 2014). See Edward Higgs, Identifying the English: A
History of Personal Identification 1500 to the Present (London: Bloomsbury,
2011), 97–119. Higgs’s account is, essentially, positive about the liberties
and rights secured by this rising documentation. The position taken here is
more determinedly Foucauldian. For the foundational role of statistics in
“liberalisation”, and the hidden affinities between the liberal and the
totalitarian, see Michael Foucault, “Society Must Be Defended”: Lectures at the
Collège de France, 1975–76, ed. Mauro Bertani and Alessandro Fontana,
trans. David Macey (London: Penguin, 2004). Foucault, Birth of
Biopolitics, 69. A biographical dictionary of Royal Academy students from
1769–1830. See note 3, above. Jacques Rancière, The Method of Equality:
Interviews with Laurent Jeanpierre and Dork Zabunyan, trans. Julie Rose
(Cambridge: Polity Press, 2016), 108. Neil Chambers, Joseph Banks and the
British Museum: The World of Collecting, 1770–1830 (London: Routledge, 2007),
107. The register is mentioned in the notice of Seymour Kirkup in G. E.
Bentley, Blake Records, 2nd edn (New Haven, CT, and London: Yale University
Press, 2004), 289n. Kirkup was an unusually assiduous student at the Museum,
admitted in 1809 and renewing his ticket through to 1812. The reference in
Bentley appears to be the only published reference to the register. The
admission of the Paytherus sisters to draw at the Museum is noted by James
Hamilton in his London Lights: The Minds that Moved the City that Shook the
World, 1805–51 (London: John Murray, 2007), 72, although with reference to the
early Reading Room register (marked “1795”) in the British Museum Central
Archive, rather than the volume in Prints and Drawings. See J. T. Smith,
Nollekens and his Times, 2 vols., 2nd edn (London: Henry Colburn, 1829), 1:
242. Viccy Coltman, Classical Sculpture and the Culture of Collecting in
Britain since 1760 (Oxford: Oxford University Press, 2009), 242–44. See B. F.
Cook, The Townley Marbles (London: British Museum Press, 1985) and Ian Jenkins,
Archaeologists and Aesthetes in the Sculpture Galleries of the British Museum,
1800–1939 (London: British Museum Press, 1992). Chambers, Joseph Banks, Derek
Cash, “Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to 1836”, British
Museum Occasional Papers 133 (2002), 68.
http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/
access_to_museum_culture.aspx. The British Museum, Central Archive,
C/1/5/1029–30. Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/50–52.
Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/59. The British Museum, Central
Archive, C/1/5/1034. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1043–144. Cf.
“Chapter III: Concerning the Admission into the British Museum”, in Acts and
Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of the Contents of the
British Museum (London, 1808), 15–16. Joseph Farington, The Diary of Joseph
Farington, ed. Kenneth Garlick, Angus Macintyre, and others, 17 vols. (New
Haven, CT, and London: Yale University Press, 1978–98), 9: 3284. Library of the
Royal Academy of Arts, London, GM/2/366, 370. Library of the Royal Academy of
Arts, London, GM/2/371. Library of the Royal Academy of Arts, London,
GM/2/372–73. Diary of Joseph Farington, 9: 3313. Diary of Joseph Farington, 9:
3317. Diary of Joseph Farington, 9: 3284. The British Museum, Central Archive,
C/3/9/2426. The British Museum, Central Archive, C/3/9/2428. The British
Museum, Central Archive, C/1/5/1069. The British Museum, Central Archive,
C/1/5/1070. The arrangement of the galleries was first detailed in a written
description provided by Westmacott for Prince Hoare’s Academic Annals (London,
1809) and in Taylor Combe’s A Description of the Ancient Marbles in the British
Museum, 3 vols. (London, 1812–17). See Cook, Townley Marbles, 59–61. Karl
Friedrich Schinkel, “The English Journey”: Journal of a Visit to France and
Britain in 1826, ed. David Bindman and Gottfried Riemann (New Haven, CT, and
London, 1993), 74. The record of admissions to view prints and drawings must
have arisen from the new regulations issued by the Trustees in November 1814;
see, Antony Griffiths, “The Department of Prints and Drawings during the First
Century of the British Museum”, The Burlington Magazine 136, 1097 (1994): 536.
In March 1817 the student artist William Bewick wrote to his brother: “I last
Monday set my name down as a student in the British Museum.” See Thomas
Landseer, ed., Life and Letters of William Bewick (Artist), 2 vols. (London:
Hurst and Blackett, 1871), 1: 37. Edward Nygren, “James Ward, RA (1769–1859):
Papers and Patrons”, Walpole Society 75 (2013): 16. Jack Tupper, “Extracts from
the Diary of an Artist. No.V”, The Crayon, 12 December 1855, 368. An album of
drawings of the Townley Marbles in the British Museum (2010,5006.1877.1–40)
appears to have been collected by Townley himself, so dates to before the
installation of the marbles at the Museum. The drawings serve as records of the
objects rather than student exercises. The drawings by John Samuel Agar in the
Getty Research Institute are evidently preparatory for the prints published in
Specimens of Antient Sculpture. BL Add MS 37,163 f.106. This and other figures
in the Townley collection could also be found as casts in the Royal Academy’s
plaster schools, so even if Wood’s drawing, for example, could be traced, it
could not definitively be said to be made in the Townley Gallery. See Ann
Chumbley and Ian Warrell, Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary
Life, exh. cat. (London: Tate Gallery, 1989), 12–13. Eric Shanes, Young Mr
Turner: The First Forty Years, 1775–1815 (New Haven, CT, and London: Yale
University Press, 2016), 33–34. Hansard (House of Commons), 16 February 1821,
c.724 (online at http://hansard.millbanksystems.com/commons/
1821/feb/16/british-museum). See Cash, “Access to Museum Culture”, 197–225 for
a full account of public discussions around this date. Quoted in Cash, “Access
to Museum Culture”, 208. British Museum: Returns to two Orders of the
Honourable House of Commons, dated 16 th February 1821, House of Commons, 23
February 1821, 2. Cash “Access to Museum Culture”, 71. Quoted in The Literary
Chronicle, 17 March 1821, 168. Edward Edwards, Lives of the Founders of the
British Museum (London: Trübner and Co., 1870), Acts and Votes of Parliament,
Statutes and Rules, and Synopsis of the Contents of the British Museum. London,
1808. Becker, Howard S. Art Worlds (1984). Rev. edn. Berkeley, CA: University
of California Press, 2008. Bentley, G. E. Blake Records. 2nd edn. New Haven and
London: Yale University Press, 2004. Boltanski, Luc, and Eve Chiapello. The New
Spirit of Capitalism. Trans. Gregory Elliott. London and New York: Verso, 2007.
See Martin Myrone, “Something too Academical: The Problem with Etty”, in
William Etty: Art and Controversy, ed. Sarah Burnage, Mark Hallett, and Laura
Turner (London: Philip Wilson, 2011), 47–59. The barest and most conjectural
biographies include those for William Carr of New Broad Street; W. W.
Torrington; Edward Thomson; Richard Moses; and Mr Lewer. Information is most
notably lacking for the trio of Miss Cowper, Miss Moula, and Mr Turner of Gower
Street; William Hamilton of Stafford Place; William Irving of Montague Street;
Thomas Williams of Hatton Garden; Daniel Jones; M. Hatley of Albermarle Street;
Miss Edgar; Miss Carmichael of Granville Street; Mr Atwood; Mr Higgins of
Norfolk Street; George Pisey of Castle Street; Charles White of George Street;
Robert Walter Page of Wigmore Street; Henry A. Matthew; Thomas Welsh; and John
Hall. Students were entered as “probationers” for a period of three months
(which might be extended), and once registered could attend the Schools for a
period of ten years. Ralph Irvine; Arthur Champernowne; the Chevalier de Barde;
John Disney; John Campbell; Edward Utterson; John Lambert; Robert Batty;
Alexander Huey; Richard Thomson; Charles Toplis; John Frederick Williams;
Edward Burrows; William Carr; W. W. Torrington. Jane Landseer; Janet Ross;
Georgiana Ross; the two Misses Paytherus; H. Edgar; Maria Singleton; Elizabeth
Appleton; Louisa Champernowne; Miss Carmichael; Elizabeth Batty; Frances
Edwards; Eliza Kempe; Ann Damer; Miss Cowper; Miss Moula; Miss Trotter; Miss
Adams; Sarah Newell; Emma Kendrick; Jane Gurney. Gentleman’s Magazine (1820)
and A Trip to Paris in August and September (1815), quoted by William T.
Whitley in his Art in England, 1800–1820 (London: Medici Society, 1928), 263,
as evidence that “It was still thought improper for women to study from such
figures” as the Apollo Belvedere. Cash, “Access to Museum Culture”, 113. As the
American Samuel F. B. Morse (a student at the Royal Academy and the British
Museum) noted in 1811: “I was surprised on entering the gallery of paintings at
the British Institution, at seeing eight or ten ladies as well as gentlemen,
with their easels and palettes and oil colours, employed in copying some of the
pictures. You can see from this circumstance in what estimation the art is held
here, since ladies of distinction, without hesitation or reserve, are willing
to draw in public.” See Edward Lind Morse, ed., Samuel F. B. Morse: His Letters
and Journals, 2 vols. (Boston, MA: Houghton Mifflin, 1914), 1: 45. Lists of
students admitted to copy at the British Institution appear in the Directors’
minutes, NAL RC V 12–14, and in contemporary press reports. Individuals
admitted to copy at Dulwich Picture Gallery were routinely listed in the
“Bourgeois Book of Regulations” from 1820; photocopies and notes at Dulwich
Picture Gallery, C1 and H3. This is expecially clearly expressed in James
Ward’s diary notes on his visits in 1817, meeting there the artists William
Skelton, Joseph Clover, Henry Fuseli, and William Long, but also the gentlemen
collectors and scholars William Lock, Edward Utterson, and Francis Douce
(Nygren, “James Ward”). See Cash, “Access to Museum Culture”, 217 and passim.
Although the timing of the Academy’s evening classes might seem to be more
accommodating, even this may have been challenging. The master of Richard
Westall, later a watercolour painter, “permitted him to draw at the Royal
Academy, in the evenings; but for that indulgence he worked a corresponding
number of hours in the morning”. Gentleman's Magazine, February 1837, 213.
Diary of Joseph Farington, 4: 4783. On educational tests as linking “macro” and
“micro”, “both sectoral mechanisms or unique situations and societal
arrangements”, see Boltanski and Chiapello, New Spirit of Capitalism, 32. See
Pierre Bourdieu, Pascalian Meditations, trans. Richard Nice (Stanford, CA:
Stanford University Press, 2000). “Acts of nomination, from the most trivial
acts of bureaucracy, like the issuing of an identity card, or a sickness or
disablement certification, to the most solemn, which consecrate nobilities,
lead, in a kind of infinite regress, to the realization of God on earth, the
State, which guarantees, in the last resort, the infinite series of acts of
authority certifying by delegation the validity of the certificates of
legitimate existence”, Bourdieu, Pascalian Meditations, 245. The potentially
trivial nature of the acts of nomination involved in gaining access to the
British Museum is highlighted in Joseph Planta’s own account of providing
recommendations (for the Reading Room) often only on the basis of casual
conversations. See Cash, “Access to Museum Culture”, 207. Report of the Select
Committee on Arts and Manufactures, House of Commons, 4 September 1835, 40.
Report of the Select Committee on the British Museum, quoted in Edward Edwards,
Remarks on the “Minutes of Evidence” Taken before the Select Committee on the
British Museum, 2nd edn (London [1839]), 14. McRobbie, Be Creative. The British
Museum, Central Archive, Bourdieu, Pierre. On the State: Lectures at the
Collège de France, 1989–1992. Ed. Patrick Champagne and others. Trans. David
Fernbach. Cambridge: Polity Press Pascalian Meditations. Trans. Richard Nice.
Stanford, CA: Stanford University Press,The Rules of Art. Trans. Susan Emanuel.
Cambridge: Polity Press, 1996. Cash, Derek. “Access to Museum Culture: The
British Museum from 1753 to 1836.” British Museum Occasional Papers 133 (2002)
http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/
access_to_museum_culture.aspx Chambers, Neil. Joseph Banks and the British
Museum: The World of Collecting, 1770–1830. London: Routledge, 2007. Chumbley,
Ann, and Ian Warrell. Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary Life.
London: Tate Gallery, 1989. Coltman, Viccy. Classical Sculpture and the Culture
of Collecting in Britain since 1760. Oxford: Oxford University Press, 2009.
Combe, Taylor. A Description of the Ancient Marbles in the British Museum, 3
vols. London, 1812–17. Cook, B. F. The Townley Marbles. London: British Museum
Press, 1985. Edwards, Edward. Lives of the Founders of the British Museum.
London: Trübner Remarks on the “Minutes of Evidence” Taken before the Select
Committee on the British Museum. 2nd edn. London [1839]. Farington, Joseph. The
Diary of Joseph Farington. Ed. Kenneth Garlick, Angus Macintyre and others. 17
vols. New Haven and London: Yale University Press, 1978–98. Foucault, Michel.
The Birth of Biopolitics: Lectures at the Collège de France, 1978–1979. Ed.
Michel Sennelert. Trans. Graham Burchell. Basingstoke: Palgrave Macmillan Society
Must Be Defended”: Lectures at the Collège de France, 1975–76. Ed. Mauro
Bertani and Alessandro Fontana. Trans. David Macey. London: Penguin, 2004. Griffiths, Antony. “The Department of Prints and Drawings during the
First Century of the British Museum.” The Burlington Magazine 136 (1994):
531–44. Hamilton, James. London Lights: The Minds that Moved the City that
Shook the World, 1805–51. London: John Murray, 2007. Higgs, Edward. Identifying
the English: A History of Personal Identification 1500 to the Present. London:
Bloomsbury, 2011. Hoock, Holger. “The British State and the Anglo-French Wars
Over Antiquities, 1798–1858.” Historical Journal The King’s Artists: The Royal
Academy of Arts and the Politics of British Culture, 1760–1840. Oxford: Oxford
University Press, 2003. Jenkins, Ian. Archaeologists and Aesthetes in the
Sculpture Galleries of the British Museum, 1800–1939. London: British Museum
Press, 1992. Joyce, Patrick. The Rule of Freedom: Liberalism and the Modern
City. London: Verso Speaking up for the State” (2014).
https://www.opendemocracy.net/ourkingdom/patrick-joyce/speaking-up-for-state –
The State of Freedom: A Social History of the British State Since 1800.
Cambridge: Cambridge University Press, What is the Social in Social History?”
Past and Present 206, no. 1 (2010): 213–48. Landseer, Thomas, ed. Life and
Letters of William Bewick (Artist). 2 vols. London: Hurst and Blackett, 1871.
McRobbie, Angela. Be Creative: Making a Living in the New Culture Industries.
Cambridge: Polity Press, 2016. Morse, Edward Lind, ed. Samuel F. B. Morse: His
Letters and Journals. 2 vols. Boston: Houghton Mifflin, 1914 Myrone, Martin.
“Something too Academical: The Problem with Etty.” In William Etty: Art and
Controversy, ed. Sarah Burnage, Mark Hallett, and Laura Turner. London: Philip
Wilson, 2011, 47–59. Nygren, Edward. “James Ward, RA (1769–1859): Papers and
Patrons.” Walpole Society 75 (2013). Polanyi, Karl. The Great Transformation:
The Political and Economic Origins of Our Time (1944). Boston, MA: Beacon
Press, 2002. Rancière, Jacques. The Method of Equality: Interviews with Laurent
Jeanpierre and Dork Zabunyan. Trans. Julie Rose. Cambridge: Polity Press, 2016.
Schinkel, Karl Friedrich. “English Journey”: Journal of a Visit to France and
Britain in 1826. Ed. David Bindman and Gottfried Riemann. New Haven, CT, and
London: Yale University Press, 1993. Shanes, Eric. Young Mr Turner: The First
Forty Years, 1775–1815. New Haven, CT, and London: Yale University Press, 2016.
Smiles, Samuel. Self-Help: With Illustrations of Character and Conduct. London:
John Murray, 1859. Smith, J. T. Nollekens and his Times, 2 vols. 2nd edn,
London: Henry Colburn, 1829. Tupper, Jack. “Extracts from the Diary of an
Artist. No.V.” The Crayon, 12 December 1855. Whitley, William T. Art in
England, 1800–1820. London: Medici Society, 1928. drawn from the antique
Artists et the Classical Ideal Adriano Aymonino and Anne Varick Lauder with
contributions from Eloisa Dodero, Rachel Hapoienu, Ian Jenkins, Jerzy Kierkuc
́-Bielin ́ski, Michiel C. Plomp and Jonathan Yarker sir john soane’s museum
2015 Drawn from the Antique: Artists et the Classical Ideal An exhibition
at Teylers Museum, Haarlem 11 March – 31 May 2015 Sir John Soane’s Museum,
London 25 June –26 September 2015 This catalogue has been generously supported
by the Tavolozza Foundation and the Wolfgang Ratjen Stiftung, Vaduz This
exhibition has been made possible through the support of the Government
Indemnity Scheme Sir John Soane’s Museum is a non-departmental body and is
funded by the Department for Culture, Media and Sport Published in Great
Britain 2015 Sir John Soane’s Museum, 13 Lincoln’s Inn Fields, London, wc2a 3bp
Tel: 020 7405 2107 www.soane.org Reg. Charity No. 313609 Text the listed
authors All photographs as listed on pages 254–56 ISBN (paperback):
978-0-9573398-9-7 ISBN (hardback): 978-0-9932041-0-4 Designed and typeset in
Albertina and Requiem by Libanus Press Ltd, Marlborough Printed by Hampton
Printing (Bristol) Ltd Frontispiece: Michael Sweerts, A Painter’s Studio
(detail), c. 1648–50, cat. 12 (p. 134) Page 10: Hendrick Goltzius, The Apollo
Belvedere (detail), 1591, cat. 6 (p. 107) Page 78: William Pether, An Academy
(detail), 1772, cat. 24 (p. 189) Contents Preface 6 Abraham Thomas Introduction
7 Adriano Aymonino and Anne Varick Lauder Acknowledgements 9 Ideal Beauty and
the Canon in Classical Antiquity 11 Ian Jenkins and Adriano Aymonino ‘Nature
Perfected’: The Theory et Practice of 15 Drawing after the Antique Adriano
Aymonino Catalogue Bibliography Photo credits 79 232 254 - authors
of catalogue entries AA: Adriano Aymonino: AVL: Anne Varick Lauder: Eloisa
Dodero: cats 9, 22 JK-B: Jerzy Kierkuc ́-Bielin ́ski: cat. 29 JY: Jonathan Yarker:
cats 24, 25, 26, 27, 28 MP: Michiel C. Plomp: cats 6, 7, 8, 11, 31, 32 RH:
Rachel Hapoienu: cats 1, 2, 4, 33. The exhibition ‘Drawn from the antique:
artists and the classical ideal” examines the crucial role played by antique
sculpture in artistic education and practice, a theme which lies at the heart
of the conception of Sir John Soane’s Museum. As a student at the Royal
Academy, Soane wins a travelling scholarship to embark on the grand tour. This
forms the basis of a classical education which would prove to be an enduring
influence on his subsequent career as one of the most important architects of
the Regency period. The drawings, paintings and prints selected for the exhibition
‘Drawn from the antique – artists and the classical ideal’ offer a glimpse into
an intriguing world of academies, artists’ workshops and private studios, each
populated with carefully chosen examples of statuary which provide compelling
snapshots of classical antiquity. Similarly, within his house and museum at
Lincoln’s Inn Fields, Soane creates his own bespoke arrangements of ancient
statuary and architectural fragments, providing educational tools which defined
an informal curriculum for both his Royal-Academy students and the apprenticed
pupils working within his on-site architectural office. In fact, one could
consider much of Soane’s museum as an extended series of studio spaces,
intended for academic improvement and personal inspiration. The concept of the
exhibition ‘Drawn from the antique – artists and the classical ideal’ evolves from
a series of conversations between Timothy Knox, and the collector K. Bellinger,
to see if there may be some way to showcase the Bellinger extraordinary and
unique collection of art-works *depicting* artists’ studios. We extend a
special thanks to K. Bellinger, not only for her generosity in allowing us to exhibit
these wonderful pieces but also for all the hard work in securing some stunning
loans from other collections. We are grateful for the loans from the Getty
Collection, the Rijksmuseum, the Kunsthaus Zürich, the Kunstbibliothek in
Berlin. For the UK loans we would like to thank The British Museum, the Victoria
and Albert Museum, the Royal Academy of Arts and the Courtauld Gallery. “Drawn
From The Antique: Artists and The Classical Ideal” is a collaboration between The
Soane Collection and the Teylers Collection, and I am grateful to M. Scharloo for
agreeing to host the first leg of this exhibition, and also to Michiel Plomp,
for facilitating the exhibition in Haarlem. It feels rather appropriate that
the founders of our two institutions, Teyler and Soane, were both collectors
with singular visions of how their collections should provide a resource for
academic study and creative practice. This exhibition would not have been
possible without the fantastic curatorial team that K. Bellinger assembled: A.
Aymonino, A. Varick Lauder, and R. Hapoienu. I would like to express my
gratitude to them for bringing the project to fruition. I would also like to
thank Paul Joannides for his editing work on the catalogue and all of my
colleagues at the Soane who worked to make this exhibition a reality, especially
S. Palmer, D. Jenkins and J. Kierkuc-Bielinski, as well as S. Wightman at
Libanus for designing such a beautiful catalogue. Finally, I would like to
extend a special thanks to the Tavolozza Foundation and the Wolfgang Ratjen
Stiftung, Vaduz, for their generous support of the exhibition and the
catalogue. The exhibition explores one of the central practices of artists for
years: drawing after the antique – l’antico. Ancient Graeco-Roman statuary provides
artists with a “model” from which he learns how to represent the volume, the pose
and the expression of the male nude and which simultaneously offers a perfected
example of anatomy and proportion. For an established artist, a piece of antique
statuary or a elief offers a repertory of form that serves as inspiration. Because
the imitation (mimesis) and representation of nature is the principal aim of the
classical artist, education in a workshop or an academy revolves around the
study of geometry and perspective – to represent space – and anatomy, the antique
but also THE LIVE MODEL – to learn how to deploy and mould the male body
convincingly in a piece of statuary. This practical approach to the antique –
as a convenient model for depicting or moulding the naked male form – is accompanied by a more
theoretical, aesthetic, and philosophical one. A piece of ancient Graeco-Roman
statuary statue is perceived as a bench-mark of perfection and of the Platonic
concept of ideal beauty, the physical result of a careful selection of the best
parts of nature. Classical Graeco-Roman authors, such as the Italians Vitruvio,
Cicerone or Plinio, reveal to the artist and the philosopher that antique statuary
is based on a system. There is a Pythagoreian harmonic proportions. This rests
on the mathematical relationships between a part of the body and the whole
body. A piece of ancient statuary therefore embodies the same rational
principle on which the harmony of the cosmos and nature are based. It is the
powerful combination of this rational and universal principle that the antique
expresses, together with its extreme versatility as a model of forms, that
guarantees its ubiquitous success. Students in the early stages of their
training are encouraged to ‘assimilate’ fully the idealised beauty of a classical
statue through the copying of plaster casts. Only then can he be exposed to an
‘imperfections of nature’ as embodied by the live naked male model (“Drawn From
Life”). This is intended to provide the craftsman with a standard of perfection
that is then infused into his own statuary. For an artist, it was considered
essential to travel to Rome. At Rome, the artists confront the venerated
antique ‘original’ – not the copy -- and assembles his own ‘drawn’ collections
of models – ‘drawn from the antique’ only, not ‘drawn from life’, for which you
don’t need to go to Rome. Drawing (desegno) is considered the only intellectual
part of an art – the first sensorial (specifically visual) manifestation of an idea.
Drawing from and ‘after’ the Antique (desegno dall’antico) is the union of
intellectual medium and intellectual subject. It becomes an integral part of
the learning process and the activity of the artist who aims at pleasing the
Society gentleman. It proves crucial for legitimising the ambitions of the artist
who fashions himself as a practitioner of a liberal and intellectual activity.
So widespread is it, that representing the practice itself developed into an
artistic genre. Through a selection of pieces exemplifying this fascinating
category of images, by artists as diverse as the Italian Zuccaro, Dutch Goltzius
and Rubens, French Natoire, Swiss Fuseli and English Turner, we may attempt to
analyse this phenomenon. We begin with an image relating to an early Italian
academy and with a portrait, in which a piece of ancient statuary is included.We
may proceed to an image of an artist as he ‘draws’ after a celebrated statue –
the Apollo del Belvedere and the Laoconte, il torso del Belvedere, l’Antino del
Belvedere – in the cortile ottogono del casino della villa Belvedere in Monte
Vaticano, the Belvedere collection that serves as a model. We next may explore
the varied approaches of artists to a piece of ccanonical statuary in Rome and
the ways in which the Italian academic curriculum – with the antique (l’antico)
as one of the two cornerstones (the other being: ‘natura’) – spreads all over
Rome, where each palazzo claims its collection – Farnese, Ludovisi, Albani – and
even up to La Tribuna di Firenze.An Italian drawing manual is a powerful
vehicle for the uncostested establishment and entrenchment of the classical
ideal. Significantly, a manual illustrates the practice of copying after the antique
in their frontispieces. Next follow two of the most relevant images embodying
the classicist credo of the accademia dell’arte at Rome and academie des beaux
arts a Paris. The accademia a Roma codifies a structured syllabus. First-hand
experience of the Antique ‘original’ in Rome becomes a must. Fuseli magnificently
draws the fragments of the head, right hand, and left foot of the colossal
statue of Constantine at the
Campidoglio. Fuseli’s image expresses a ‘romantic’ attitude towards
classical statuary, based on the direct emotion and empathy – the eros of
Plato, and the catharsis of Aristotle -- rather than a ‘study’ (studio) of an idealised
beauty and proportion. Classicism is embraced and an academic syllabus is
developed to graduate from the academy – as opposed to the nobility who can
still practice amateur and present their statues at the annual exhibitions. The
elite, educated in the classics, has a crucial role in disseminating the
classical ideal. For less privileged students at Oxford (‘only the poor learn
at Oxford’) the Ashmolean starts collecting a plaster cast of this or that
original in Rome. Statues serve a decorative purpose in the villa garden
fountain --- and the palazzo interior -- a clear sign of the commercialisation
and further diffusion of the Antique. But while classical statuary becomes a n
attract when doing the calls. Its role within academic curricula remains well-established.
The Antique as a canonical model begins to be challenged by the more dynamic
and innovative forces of art, a challenge that led to its rapid decline. The
last exhibit shows a plaster copy of the celebrated ancient bust of Homer at
the Farnese collection in Napoli is placed on equal footing with a bust of a
non-classical author, neo-classical statuary, and even with a multicoloured
porcelain parrot, reveals how the Antique becomes just one of the many
historical references favoured by society, if not by Society. Although focused
on images representing the relationship of an artist WITH the Antique, that is,
the act or performance of copying or drawing from or after it, this catalogue
includes also examples of the product of the practice: sketches actually ‘drawn
from the antique’ not by students wanting to pass, but by professionals such as
Goltzius, destined to be disseminated through the engraving. We have also
included drawings by Rubens and Turner showing the compromising practice of
setting a live model in the pose of the antique model – lo spinario, i
lottatori in the case of a syntagma or statuary group -- and an early academic
study by Turner the student of the torso del Belvedere (Aiace contempla
suicidio). An image may portray how the artist HIMSELF in the presence of the
Antique. The point of view should always be that of the intended addressee: the
noble Epicurean connoisseur. The form and ideas that he enjoys and seeks in the
classical model, the diversity of his taste according to his mood, and the
kinds of image that are created to show their own relationship with the
Antique. The attitudes towards classical statuary of a manic collector or an antiquarian,
although touched upon in the essays and in some of the entries, are not
discussed at length. We also decided to focus primarily on free-standing in the
round male nude statue or syntagma (i lottatori), as opposed to a relief. The
free-standing in the round reproduction of the male naked body is what the
gentleman enjoys in terms of the proportion, the anatomy and his beauty. A
relief rather serves as a compositional model and inspiration for a narrative mythological
or historical scene. Drawings after reliefs would be the subject of a different
exhibition. The choice of the two venues is entirely appropriate. Haarlem is one
of the earliest Northern cities where the Antique is a subject of debate –
within the private academy established by Mander, Cornelisz, and Goltzius –
whose magnificent series of drawings after canonical classical statues is
preserved in the Teylers Collection. The Soane Collection at Lincoln Fields, on
the other hand, represents an incarnations of the classicist curriculum. It is
an eccentric, kaleidoscopic academy where, in the name of the union of the
arts, the study of Vitruvian and Palladian architecture gets integrated with
the copying of paintings, classical statuary and plaster casts, to attain that
mastery of drawing of the human forms (uomo
vitruviano) advocated by Vitruvius as a crucial element of architecture (to be
replaced by Le Corbusier’s functionalist metron!). The idea for this exhibition
has evolved. The Bellinger Collection is based on a just one theme: the sculptor
at work. Fascinated by the creative process and the mystique surrounding it.
The Bellinger Collection includes items in a range of media – drawings,
paintings, prints, photographs and sculpture. Rather than stage an obvious
‘greatest hits’ exhibition focusing on celebrity, my idea is to show
little-known, rarely exhibited, works and to present aspects of the collection,
which had been rather neglected by scholarship in an attempt to open new
ground. A preliminary step is made by Knox, who approached K. Bellingerto
enquire whether she might showcase works from the collection in the piano
nobile of the Palazz Soane. It soon became apparent that the theme of the
relationship between the sculptor and antique statuary, which seemed so
suitable to the venue of an architect’s palazzo-cum-academy-cum-museum with its
rooms filled with antiquities and plaster reproductions, would have resonance
with the Few. Accompanying a selection of works from the Bellinger Collection
we have attempted to borrow on loan some of the most ‘iconic’ images, and
others less well-known, that demonstrate the evolution of this practice of this
class of ‘Drawn from the Antique’ over an extended period. Almost half of the
works on display have never previously been exhibited and most have not been
shown. The resulting display provides the first overview of a phenomenon
crucial for the understanding and appreciation of ancient Roman art of the
classical Augustean period, which lays stress on the creative processes of the
Italophile artist and on the norms and conventions that guides and inspires his
art. Presenting a relatively small yet coherent display on a topic that
encompasses one of the major themes in the history of Art has been a serious
challenge but a most pleasurable one. Our exhibition could not have been
accomplished without the unwavering support of K. Bellinger, who generously
agreed to part with fourteen choice examples from her little-seen private
collection of images of artists at work and who has remained committed to the
project since its inception: to Ballinger we owe our deepest gratitude. For the
other works on display, we have benefited from the great generosity of
colleagues at lending institutions for agreeing to send works in their care –
some of them among their most popular and requested – to one or both venues of
the exhibition. We owe sincere thanks to H. Chapman at the British Museum, S. Buck
at the Courtauld, R. Hibbard and H. Dawson at the Victoria and Albert, C.
Saumarez-Smith, H. Valentine and R. Comber at the Royal Academy. Abroad we wish
to acknowledge the generosity of L. Hendrix and J. Brooks at Villa Getty, Bernhard
von Waldkirch at the Kunsthaus Zürich, T. Dibbits at the Rijksmuseum, Amsterdam
and K. Käding at the Kunstbibliothek, Berlin. We are enormously grateful both
to the Soane Collection and the Teylers Collection for hosting this two-venue
exhibition. Thanks are due to T. Knox and A/ Thomas, for their support for the
project, and to S. Palmer, and D. Jenkins, for assisting with the loans. M. Scharloo,
of the Teylers and Michiel Plomp, kindly agreed to house the first showing of
the exhibition and to lend works from their collection. The catalogue was
thoughtfully designed and produced by S. Wightman at Libanus, to whom we owe
our warmest thanks, and printed by Hampton Printing in Bristol. R. Hapoienu,
oversaw the photography and contributed immeasurably to the catalogue. Other
curatorial colleagues have given their time and effort in preparing scholarly
entries or essays: E. Dodero, I. Jenkins, J. Kierkuc -Bielinski, M. Plomp and J.
Yarker. Special thanks are due to Dodero for sharing an infinite knowledge of
antique sources. Finally, we are greatly indebted to Joannides for his input. Any
and all errors are entirely our own. We wish to acknowledge warmly Taylor and
Rembrandt Duits for granting us unfettered access to the Photographic
Collection of the Warburg and other colleagues and friends who assisted in
various ways in bringing this project to fruition: Mattia Biffis, R Blok,
Yvonne Tan Bunzl, Wolf Burchard, Elisa Camboni, Martin Clayton, Zeno Colantoni,
Paul Crane, Daniela Dölling, Alexander Faber, Cameron Ford, Ketty Gottardo,
Martin Grässle, Axel Griesinger, Florian Härb, Eileen Harris, John Harris,
Niall Hobhouse, Matthew Hollow, Peter Iaquinandi, Catherine Jenkins, Theda
Jürjens, Jill Kraye, David Lachenmann, Alastair Laing, Barbara Lasic, Huigen
Leeflang, Cornelia Linde, Anne-Marie Logan, Olivia MacKay, Austeja MacKelaite,
Bernard Malhamé, Patrick Matthiesen, Mirco Modolo, Jane Munro, Lorenzo
Pericolo, Benjamin Peronnet, Camilla Pietrabissa, Eugene Pooley, Pier Paolo
Racioppi, Cristiana Romalli, Gregory Rubinstein, Susan Russell, Nick Savage,
Nicolas Schwed, Ilaria Sgarbozza, Kim Sloane, Perrin Stein, MaryAnne Stevens,
Marja Stijkel, Michael Sullivan, C. Treves, Michiel Ilja M. Veldman, Anna
Villari, Rebecca Wade and Alison Wright. Support for the exhibition and
catalogue was provided by the Tavolozza Foundation and the Wolfgang Ratjen
Stiftung, Vaduz, to whom we owe our sincere gratitude. Ideal Beauty is the
Canon in Classical Antiquity. The practice of drawing from the antique is a
time-honoured one – if not antique! But even the Augustean copy makers knew who
to imitate --. Since Antino became such an icon, we can say that Adrian
finished the practice of ‘drawing from the antique’: He started to ask his
slaves to ‘draw from nature’ – the nature of his lover! The philosopher should
be reminded of the substantial role that the Antique has played in the
education and inspiration of artists for years. Soane famously mixed marble
sculpture with plaster reproductions in the learned and decorative interiors of
his Lincolnfields villa. A constant theme in ancient philosophy (with which any
Oxonian with a Lit. Hum. is more than acquainted with) is that behind the
surface chaos of the tangible sensible world, there is a hidden order (kósmos).
Harmony occurs when the opposite forces in nature (natura, physis), such as wet
and dry, hot and cold, strong and weak, are properly balanced. Well-being
depends upon a set of complementary humours. Reason (logos) – but cf. Dodds on
the irrational -- is the weapon wielded in a constant struggle against the dark
forces of the natural and non-natural artificial conventional realms alike. The
concept of ‘number’ plays an especially important role in the Graeco-Roman, or
Italic world view. Mathematics was most probably acquired from Babylon and
first took root in the cities of Ionia. Pythagora, who had settled in Crotona
and Melosponto in southern Italy, discovers the measurable intervals of the
musical scale This demonstrates that number holds the key to the mysteries of
the harmony of the Universe. Pythagoras was born on the Aegean island of Samos,
which was just one of the many city states that participated in the Ionian
Enlightenment with its concentration of natural philosophers. Applied
mathematics finds a new purpose in the creation of colossal temples in an
architectural culture that takes its inspiration from that of East. The
technical aspects of this new tectonic art are explained in philosophical
treatises. None of them survive but they were known to the Roman philosopher Vitruvio,
who uses them extensively for “De Architectura”. His is the only complete
treatise on ancient Roman architecture to survive. It is the main channel
through which knowledge of ancient Roman architectural principles are handed
down. The impact it has on architecture is paramount. Colossal temples are erected
and foremost among them is the archaic temple of Diana at Efeso. Its forest of
columns, some of them carved pictorially and its painted and gilded mouldings
are breath-taking. The Ionian Enlightenment terminates by the catastrophic
destruction of Mileto y the Persians. The Persians next set out to punish
Athens for her instigation of the revolt. The failure of the Persian invasion
in a series of battles on land and sea serve as a catalyst for a great surge of
art and thought in the city that was the world’s first democracy. It was in
Athens – the ‘Athenian dialectic’ -- that humanity’s sense of self is forged.
It is there that mankind acquires a unique and individual soul with personal
responsibility for its welfare. In classical antiquity mankind places itself at
the centre of the universe and is as Protagoras famously says, ‘the measure of
all things’. Protagoras’s contemporary, the philosopher Socrates, leads the way
in a moral philosophy aimed at penetrating the dark hinterland of human
existence. Humanism prompts a “realism” (de rerum matura) in product of an ‘ars’ that re-presents the naked
male body in a ‘naturalistic’ way. There were those, however, who ha less
positive view of human capacity for self-determination. A recurring theme in
the philosophy of Socrates’ famous pupil, Plato, is the theory of ‘mimesis’ (‘imitatio’),
whereby the product of an ‘ars’ is twice
removed from reality by virtue of its being a ‘copy’ of Nature, which is itself
a copy of the hidden, intangible reality of the abstract world of the Idea. In
Plato’s kósmos, reality is not to be found in Nature. Reality (and ideal
beauty) cannot be detected by *sensing*. Rather, reality and beauty is ‘noetic’
and exists beyond nature (trans-naturalia) and can be grasped only through an effort
of the ‘intellectual’ (logistikon) part of the tri-partite soul (the other two
parts being the thymoeides and the epithymtikon). A man never gets to ‘know’ or
grasp this ideal beauty. Man must be governed by the philosopher king, who has the
intellectual capacity to achieve true knowledge and understanding of the universal
law. The nature that man knows is itself a ‘copy’ (mimesis, imitation –
imitative) of this suprasensible realm, so Plato argued and. As an imitation of
nature, a product of an ‘ars’ is twice removed from the meta-physical intelligible
world. There is no place for the pretensions of artists in the world of true
reality. Only the pure and virtuous abstract beauty and goodness
(kalloskagathia, bonus et pulchrus) of a ‘form’ (‘forma’) is to be found in the
realm of the idea. The clearest and most developed account of Plato’s
condemnation of the idols or products of ‘ars’ and his reasons for banning it
from his ideal state (polizia, politeia) are to be found in the Socratic
dialogue known to modern readers as The Polizia (Politeia). The ‘Polizia’
(Politeia) is beautifully crafted in a series of carefully honed set-piece
speeches in which, and the irony is obvious, Plato demonstrates his skills as a
philosophical artist – the dialogue aimed at beauty, rather than truth. It is
difficult to say to what extent Plato puts words into or takes them out of the
mouth of Socrates. The historical Socrates never wrote anything himself. We can
at least be sure of Socrates’ insistence upon the imperative to pursue
justified true belief (knowledge) as distinct from mere belief or opinion
(doxa) and to seek understanding, as distinct from mere creed. These are after
all the goals by which Socrates measures the moral integrity of man’s
intelligence. When it comes to the standing of the product of an ‘ars’ in
Socrates’s moral landscape, we may wonder whether this marble worker who had
followed in his father’s ‘ars’ himself shares aristocratic Plato’s anti-thetical
view of the ‘artista’. In a dialogue recorded by Xenophon between Socrates and
Parrhasio, it is concluded that the product of an ‘ars’ cannot achieve beauty
by simply ‘reproducing’ (or imitating, or copying) an individual, particular, single,
naked male live model. He who pursues to give a product of an ‘ars’ must
instead select the best part of more than one particular, singular male naked
live model – this is not Adriano’s portraiture of Antino -- melding (or moulding) those parts (individua) together
in such a way as to transcend, by way of a universalium, nature itself (the
natural naked male live model) and turn the ‘re-presentation’ of a ‘beautiful’
(kalos) naked male live model into an ‘ideally’ beautiful naked male body. Aristotle.
ever practical, ever helpful, opposes Plato in arguing that, instead of being a
slave to Nature, man may create (poien) as nature itself created. In his
Poetics and Politics he recognises the civic role of the product of an ‘ars’,
as he praises the value of the products of the ‘ars’ of Polygnotos. “For
Polygnotos re-presents but tweaks a natural male body better than the natural
male body is. It’s an improving (perfection) on, rather than an imitation, of
‘imperfect’ nature of this or that particular naked male body – again this is
not Antino’s portraiture – To this product of the ‘ars’ Aristotle grants the
label of an ideal model – not the live model of imperfect nature. It is futile
to try to guess who said what when. Suffice it to say that the statuary-maker
is under pressure from various sides to justify the product of his ‘ars’ as a
proper exemplar that perfects the imperfection of the natural male live model,
reflecting the universal law of the kósmos. The artist has to look at
philosophical mathematics. There is a historic change in the re-presentation
(improved re-presentation, improvement) in the product of ‘ars’ of the body of
a naked live model. Ironically, the abstract concept behind a ‘youth’ or ‘kouros’
[e. g. marble 194.6 cm (h) Met Museum 32.11] with its ‘formulaic’ tendency to
convey the naked male form of a live model through a descriptive line and a block-like
(rather than waving) form gives way to contrapositum
(contrapposto), and a greater fluidity – if not ‘naturalism’ -- conjuring a three-dimensional
volume of live flesh. This ‘naturalistic’ figure type becomes the standard or
canon. The ‘canon’ itself (first canon, as we shall see – cf. Lisippo) referred
to the Doriforo of Policleto. Policleto obviously moulded and cast in bronze as
he was in front of the real ‘doriforo’ (name unknown), the canon (qua model
what exemplum) with copyists, notably in the copy of 212 com (h) at Naples –
Museo Archeologico Nazionale, Napoli, 1st century bc copy of
original of c. 440 bc, -- inv. 6011 The
canon was famous in antiquity for its elaborate system of measurements about
which Policleto wites a philosophical treatise known as ‘The Canon.’ To judge
from what philosophers say about the spear-bearer, it is an explanation of the
principle of proportion that Policleto declares to be the key to perfection in
the product of the ‘ars’ qua re-presentation of the body of the male live
model. The concept of ‘symmetria’ (commensuratio) is used to describe this
system of a measured proportion. To the ancient authors, however, it signified
a commensurability of parts measured in relation to one another and to the
whole. Thus, the length of a finger was calculated in relation to the hand and
the hand in relation to the whole arm and so on. Ideal beauty, based on
mathematical perfection was, therefore, quantifiable. The preoccupation with
numbers in idealised sculpture has strong links to the number-based aesthetics
of the Pythagorean school of mathematics, first anticipated in architecture.
Another link to the natural philosophy of the Ionian Enlightenment is the
deliberate balancing of opposite motifs. There was found a bio-mechanical
system of parts that were at once weight-bearing and weight-free, engaged and
disengaged, stretched and contracted, tense and relaxed, raised and lowered –
an overall balancing principle of contrapposto found in the statue Doryphoros
and in many classical statues extremely influential. Polykleitos trains at a
workshop (not an academy like Plato’s!) of Ageladas of Argos, along with Mirone.
Mirone’s statue [v. Museo Nazionale Romano, Roma, inv. 126371 – 155 cm (h) copy
of original of c. 460-450, marble] is said
to have more by way of ‘commensuratio’ about them than any other statues of his
generation. As with the Doryphoros so with Myron’s Discobolo, known only
through Roman copies, it is pretty difficult to hypothesise the exact system of
proportion that he uses. We detect the deployment of balanced opposites in the
composition. The creators of the doriforo and the discobolo share a common
regard for the live model that transcends the nature of the live model. Although
Polykleitos’ Canon and its physical embodiment, the original doriforo, are lost
– the most famous Roman copy was excavated ONLY AT THE END OF THE OTTOCENTO –
various literary sources handed over to the Renaissance the knowledge of them
and the classical principle that the beautiful model is based on proportion,
commensurability and mathematical perfection. This is the quest for the
beautiful model that is measured and defined within the premises of natural
philosophical mathematics. In the minds of commentators, the attribution of the
power of creation (poiesis) to the statue-maker likens him to a seer and affords
him a unique insight into his subject. It was said of Policleto that while his
skill is suitable for representing what Vico (and Carlyle) calls a ‘hero’
(Italian ‘eroe’ – cf. il culto dell’eroe), the imaginative power of Fidia –
author of the Parthenon’s sculptures, notably the Elgin marble of MARTE qua
simbolo della mascolinita – conjures a ‘deus’ (dio). His positive view of the
intuitive process of artistic creation (poiesis) becomes especially important
in Rome where copies of the great works of Greek classical sculpture are
reproduced in large numbers. ‘Re-produced’, that is, but not ‘re-plicated’ (cf.
replicatura). For no two copies are, by definition, ever exactly *the same*
(for one, the piece of marble is ‘another’). A Roman copyist, so-called, is,
mostly an ethnic [it. ennico] Greek. He probably saw his product as a variation
on a theme, or an improvisation (if not improvement) on the ‘original’, not a slavish
copy – plus, his Roman Mecenas couldn’t care less – connoisseurship was looked
own. A Roman vir has other things in mind, such as battle! It is through this
army of Roman copies that Italian artists acquire a fragmentary knowledge of
the proto-type (cf. Weber’s ideal type], the vast majority of which, in bronze,
as they should – for sculpting marble is different than moulding wax -- are
deliberately melted by Christians as blasphemous pagan, heathen, gods and
heroes. The spectre of the greatest mind of all antiquity, Plato, and his
condemnation of art always hover over the heads of artists and art lovers
alike. In the high empire of ancient Rome a neo-Platonist movement challenges Plato’s
extreme opinion and argues for the product of an ‘ars’ of being possessed of the
intellectually beautiful (even if first perceived through the senses – nihil est
in intellectu quod prior non fuerit in sensu. Plotino notes: ‘now it must be noted
that the wax brought under a hand to a
‘beautiful’ ‘form’ or ‘shape’ (eidos, idea, morphe) is ‘beautiful’ not ‘he’ or
qua wax – for so the crude block would be as ‘pleasant’ or pleasurable or
pleasing – but *qua* form, eidos, shape, morphe, or idea. This practical and
workable Aristotelian and neo-Platonic rather than the Platonic philosophy of
art was that adopted by most Italians (even if they let Ficino dreamed about!).
The paradoxical (feigned, ironic, taunting) superiority of the product of an
‘ars’ art to nature – as a selected, ideal, improved, correctio version of it (no
‘warts and all’) – has been a central premise of the “beau ideal” where ‘beau’
can be in the Romance languages both masculine and neuter (‘il bello’ – il
bello ideale) in the humanistic theory of art and especially in its
neo-classical incarnation. A statue is admired and enjoyed as the embodiment of
a moral aesthetic that can be applied also to a plaster cast. It serves both as
the paradigm of art training and as source of inspiration for artists for
centuries. For an introduction to ancient aesthetics and views on art, see
Tatarkiewicz 1970; Pollitt 1974. Selections of primary sources are included in
Pollitt 1983; Pollitt 1990. The main source for this famous sentence is Platone,
Theaetetus 151e. See also Diogenes Laertius, De Vitis ... philosophorum, 9.51.
3 Platone, Republic, 10, esp. 10.596E–597E. 4 Xenophon, Memorabilia, 3.10.1–5.
5 Aristotele, Poetica, 1448a1; Politica, 1340a33. See also Metafisica, 1.1,
981a. 6 Plinio, Naturalis Historia, 34.57–58. 7 Cicerone, Bruto, esp. 69–70,
296; Plinio, Naturalis Historia, 34.55; Galeno’s treatises, esp. De Placitis
Hippocratis et Platonis, 5, and De Temperamentis, 1.9; Quintiliano, Institutio
Oratoria, esp. 5.12.21 and 12.10.3–9; Vitruvio’s De Architectura, 3.1. 8
Quintiliano, Institutio Oratoria, 12.10.3–9. 9 Plotino, Enneads, 5.8.1.
14 ‘Nature Plus-Quam-Perfected’: -- the ‘Drawn from the Antique’ at the
Royal Academy. ‘Desegno dall’antico’, ‘desegno dalla natura’. In his inaugural lecture
as Professor of Painting at The Royal Academy of Arts in London, Opie arranged a
few headings, which included a general definition of painting, the imitation of
Nature, the idea of general beauty, the idea of general perfect beauty, the
idea of perfect beauty the true object of the highest style, as the aim of the
highest style, design, drawing, the most important part of painting, the uses
of knowledge of anatomy, symmetry and proportion the next in importance. great
excellence of the *ancients*, the ancient sculptor in those points; studying
antique statuary to advantage, perfection of the Art of painting under Vinci, Buonarroti,
and Sanzio. Opie’s outline, with its standardised categories, is a clear
example of ‘inglese italianato e un diavolo incarnato’ and a summary of a
time-honoured aesthetic tradition which indeed he is drawing from the antique!
Opie’s proposal of what constitutes ‘the high style’ is a direct continuation
of the humanistic theory of art, formulated in early Renaissance Florence and
expanded and modified in the succeeding centuries, mainly in Italy. At the core
of this tradition is the thesis that art imitates nature and, in art’s highest
manifestation, perfects nature by selecting her best parts, to create (poien,
design) a model of ideal beauty – drawn from the antique -- a universal
standard to which man aspires. Classical statuary plays a crucial role in this
theoretical framework. An antique statues is perceived, and often revered, as
works in which the process of this selection of the best parts of nature is accomplished.
An antique – and thus a sketch ‘drawn from the antique’ -- offers the ‘antique’
(not natural live) model from which the form, the pose, the gesture and the expression
of a naked male is appreciated, in its idealised anatomy and proportion. As the
theory evolves from the 16th century onwards, the three leading protagonists of
the High Renaissance, Vinci, Buonarroti and Sanzio – not mannerist Bernini,
such as Tasso is not in the canon as Ariosto is -- are placed on the same level
as the antique, as the first trio of non-antique or non-ancient (i. e. modern) artists
– cf. Hymns Ancient et Modern) whose statues equal, if not surpass, the antique
(but there was not ‘Drawn from Buonarroti!’). The humanistic theory of art
remains for centuries the philosophical aesthetics. It undergoes many
developments and was at times challenged. It is primarily through the medium of
‘desegno’, drawing, that one is educated in geometry and perspective – to learn
how to re-present space – and in anatomy and the male naked live model – to
learn how to deploy the naked male. ‘Drawn from the antique’ represents the
essential component of this educational method, initially as a convenient model
for the copying the male form, and then progressively as a bench-mark of
perfection whose appreciation one is supposed to assimilate before being
exposed to ‘fallible Nature’, embodied by the naked male LIVE model with all
its imperfections – the profession being underpayed and carried out by
Italians! – and this or that unnecessary feature – however necessary this
unnecessary feature is for the photographer of Antino, before he photoshops! In
its codified and pedantic rigidity, this Vitruvian categorization reveals that,
at the same time as they held theoretical sway, by the beginning of the 19th
century the tradition that he espoused had become increasingly stifling. At the
dawn of the Modern era, a system based on the principle that art is a rational
practice that can be taught by precepts resting on a fixed aesthetic is progressively
being dismantled by those who advocate subjectivity, individual expression and
the conceptual freedom required by inventive genius. Although the normative
principle of the humanistic theory of art remains solidly established within the
academic programme, the creative forces of art are increasingly to be found ‘outside
Plato’s Academy’. With this epochal shift of aesthetic values, classical
statuary, unsurprisingly, suffered most. Precisely because of its status as a
model and standard of perfection in academic curricula, it inevitably
encountered the indifference, if not open hostility, of Marinetti (if not
Mussolini) and those avant-garde Italian artists who did not believe in the
idealising role of art and, increasingly, not even in its imitative one. The
Antique, which sustains and inspires creativity and diversity in art, offering
an immense repertory of forms, expressions and aesthetic principles, loses its
propulsive drive. To understand the pervasive role the classical statue or statuary group plays
in the education and inspiration of artists in the Early Modern period, that is
from the 15th to the early 19th century, we return to the theoretical
foundations and the practical concerns that create and sustain the conditions
for its immense success and eventual decline. After the Middle Ages, in which
the visual arts had been essentially symbolic, aiming to represent the
metaphysical and the divine, in the early Renaissance focus shifts to an art
that, as in antiquity, aims at a convincing ‘imitation’ of the external world,
the world of Nature, with man at its centre. The primary concern of early
Renaissance artists and art theorists is to set a rational rule for the
faithful (or improved) representation of space and the human figure on a
two-dimensional surface, free-standing, in the round. In his “De Pictura”, Alberti
establishes the principle of art as an intellectual discipline, focusing on
geometry, mathematical perspective and the representation of the naked male. The
philosophical conviction that ‘man is the scale and measure of all things’ is applied
to space: Alberti’s choice of viewpoint and scale in the perspective diagrams is
based on the *height* of a well-formed male and the units into which he is divided.
This philosophical position also accepts that the main aim of the art of
statue-making is the depiction of a man’s action, emotion and deed, what
Alberti called “la storia”. Naturally, the study and drawing of the LIVE model
in a work-shop, and later of anatomy and classical statuary in a studio and an academy
or club, are essential for this purpose. Although Alberti’s approach, and even
the literary structure of De Pictura, is based on classical models and
examples, his conception of art is ‘naturalistic’. For Alberti, to become
skilled in the visual arts ‘the fundamental principle will be that all steps of
learning should be sought from nature’ (“dalla natura”, not “dall’antico”). Earlier,
more practical treatises, like Cennino Cennini’s Libro dell’Arte advocates the
study of a painting produced by a master, a practice that encourages repetition
and which could eventually lead to artistic sterility. Alberti accepts the
copying of two-dimensional works by other artists only because ‘they have
GREATER STABILITY OF APPEARANCE than the living, live, lively, model’, but he
privileges the drawing of a statue because, being life-*like* (cf. ‘natura
morta’), it does not impose just ONE viewpoint on its copyist, but infinite –
which makes ‘drawn from the antique’ a fascinating reflection on the
draughtsman, who seeks, say, for rear views!
Hence, while the practice of the early workshop often involved the
copying of three-dimensional models or drawings of such models, it is as a
preparation for life-study (“DRAWN FROM LIFE”) rather than an end in itself. This
is is not to ignore the impact of antique proto-types on artists, which was
enormous. One need only think of Donatello’s Ganimede who was responding to
antique models from very early in the Quattrocento. But from a theoretical
point of view, for Alberti, the emphasis is on the full mastery of the natural
forms (‘DRAWN FROM LIFE’) rather than on the imitation of other works of art,
even those from antiquity. The artist’s goal is to achieve an illusionistic
translation of the external world onto the flat surface of a drawing (‘DRAWN
FROM LIFE’) or into the volumes and masses of sculpture – as in Italian
statuary not based on the Antique: Michelangelo’s Bacco, Bernini’s Enea, etc.
-- Nevertheless, in Alberti we find the roots of two intertwined concepts, both
originating in classical sources, which progressively support and justify the
practice of copying as in ‘drawn from the antique’. The ultimate point is to
create a ‘beautiful’ naked male by selecting the most ‘excellent parts . . .
from the most beautiful naked males. Every effort should be made to perceive,
understand and express beauty. To substantiate this principle, Alberti recalls
the episode of the celebrated painter of antiquity -- depicted by Vasari in his
fresco at his own palazzo in Arezzo, ‘Zeusi compone Elena dalle fanciulle di
Crotona’-- the Italian Zeuxis, who, in order to create Elena, the image of
female perfection, selects the most beautiful maidens from the city of Crotona and
unfairly goes to choose the best part from each. This silly anecdote – sexist,
since the male equivalent would be unthinkable --, derives from ancient
literary sources, and becomes one of the most recurrent adaggi of the art
treatise in the following centuries. Zeuxis embodies and clearly explains the
idea of art as a form of ‘perfected nature’. The beautiful (‘il bello’, for
Italians hardly use ‘bellezza’, unless you are Sorrentino) is based on a system
of a harmonic proportion. For Alberti, in the perfect male the single part – the
two hands, the head, the two legs, he torso, the back, etc. – is related
numerically to the other parts and to the whole (il totto) in the principle of commensurability or
syn-metron, literally the measurability by a common standard. The overall
result is harmonic perfection (‘ Just look in my direction! Ain’t that
perfection!’) which Alberti defines as ‘concinnitas’, a theory that Alberti
bases on Vitruvio’s De Architectura. Pro-portion, which Alberti covers in depth
in his “De Statua” becomes a major subject of philosophical aesthetic
speculation. Vinci and Dürer produce in-depth studies, and Vinci’s ‘uomo
vitruviano’ is the perfect expression of the theory of the mathematical
conception of the naked male [Vinci, Gallerie dell’Academia, Venezia, inv. 228
– Le proporzione dei corpo umano secondo Vitruvio, metal point, pen and brown
ink with touches of wash, 344 x 245 mm c 1490] For Alberti, one selects the best
from nature and reassembles the selection according to a system of harmonic
proportion ultimately resting on the mathematical relation THAT IS rationally inferred
from Nature itself. This principle is the cornerstone of aesthetics. Although
the central textual foundation for the concept that ‘il bello’ is based on
proportion, Policleto’s Canon, had been lost, Renaissance artists and scholars are
well aware through Vitruvio and other classical writers that ancient artist base
his work on this principle. Therefore, from the 16th century onwards, and
especially in the following two centuries, the crucial appeal that an antique
statue had for artists rested not only in its aesthetic quality and form, but
also on the very fact that it embodied the intellectual principle of
proportional perfection. The rationalistic (indeed illuministic) approach of
the Canova’s French academy (when moulding the wax of Napoleon in nudita
eroica) even provides students with manuals in which the numerical proportion
of a statue is carefully laid out. This idea-guided naturalistic attitude of
art theory, which had in any case been greatly modified in High Renaissance
practice, shifts towards an even more idealistic (hyper-idealistic, not
romantic) approach and, simultaneously, a more systematic one, laying the
ground plan for the classicist theory. Because most art theoreticians consider
their era to be a period of artistic decadence and excess after the great
achievements of the High Renaissance, and also because many of them focus on
the codifying of a rule that may be imposed in the academy, the model of
perfection is increasingly deemed mandatory (Dolce, Lomazzo, Armenini), the antique
that they feel inspired and guided the ‘buona maniera’ of Buonarroti and Sanzio
(whom the pre-raphaelites hated), became the standard by which a fault (errore)
of Nature or this or that affectation (say, the length of necks in Modigliani)
is corrected. The ‘drawn from the antique’ takes a decisive lead over the ‘drawn
from life’ (DESEGNO DALLA VITA), and the construction of taste – the lure of
the antique that had lured the antiques themselves, such as Adriano! Correspondingly,
in the classicist tradition that develops in Rome – the headquarters of the
French Academy at Villa Medici -- the Antique (l’antico) becomes the essential
model for the composition. This, definable as the depiction of episodes based
on Roman mythology or Roman history, with a moral value attached, is considered
from Alberti the highest form and final aim and receives the place of honour in
the academic hierarchy of the genres. Although a naturalistic and
anti-classicist tendency remains alive even within the academic system,
classicism establishes itself as the predominant aesthetic principle, as Opie’s
inaugural lecture as Chair of Painting (but not Chair of Sculpture – since
that’s a whole different animal!) at the Royal Academy attests. Its success
rests primarily on the fact that it represents an aesthetic approach that is
considered to express a universal and a ‘true’ principle. And this, because of its
rational nature, can be taught by rule, which suits the systematic attitude of
Enlightenment culture. The proliferation of the academy encourages the penetration
of this set of values even within contexts and cultures that until then had
been only superficially exposed to it. The humanistic theory of art, clothed in
a new and codified form, eventually reaches the most remote corners of the
world, with the antique army as the herald. At the centre of the education of
any artist in the Renaissance was the practice of ‘disegno,’ drawing or design,
considered to be one of the essential foundations of art from Cennini onwards.
‘Disegno,’ (dall’antico, dalla vita), endowed with an intellectual role by
Vasari and other theorists, as the
manifestation of the idea and invention of the artist, becomes the essential
quality of the Roman and Florentine academies. Successively, it assumed a
central role in the theory of European academies as the expression of the
rational common denominator of the three sister arts: painting, sculpture and
architecture. Opie, himself a poor draughtsman – hence his teaching of
‘disegno’ --, still considered ‘Design, or Drawing, the most important part of
Painting’. Drawing after the Antique, or Drawing from the Antique, as a union
of intellectual medium and intellectual end, becomes integral to the learning
process and the activity of artists, along with ‘Drawn from Life’. The academy
is depicted, the studio, an artists copying from some original or drawing from a
cast, in situ in, usually, Rome or back at home. Whether he is drawing from the
antique on paper to learn how to represent outlines and chiaroscuro – the
effects of light on three-dimensional forms – or to assemble a repertory of the
body’s form, pose and expression, or to assimilate a system of ‘correct’
proportions and anatomy, no would-be member of the academy can avoid
confronting the lessons of the Antique, and of adjusting his creative process
in relation to it. Apart from the didactic and inspirational functions of drawing
from the antique (as opposed as from life), many other reasons justified the
practice. As a result of their pervasiveness, a studio ‘drawin from the
antique’ (disegnato dall’antico’) – which are innumerable – are difficult to
categorise because they are produced for different reasons, serve different
purposes and display different conceptions and relations to the antique.
Nevertheless, one might attempt a division. There is the didactic ‘drawn from
the antique’: a copy produced his education as an a course assignment at the
Academy: a drawing produced by a master in a workshop to provide the apprentice
with an accessible repertory of classical forms to copy. There is RECORD drawing:
a sketch created to serve as inspiration for a form, a pose, am expressios, a composition,
a movement, a proportion, etc., for its own artistic purpose. There is translation,
a precisely finished drawings intended to be engraved, usually conveying as
much information as possible about the statue’s form and pose. There is documentary
drawings, produced with the purpose of recording accurately the physical
appearance of an antiquities obviously including any damage the statue may have
undergone. To this category belong many drawings produced specifically for the antiquarian
collector, from the “Codex Coburgensis” to those of the famous ‘Paper Museum’
assembled by Pozzo. There is the marketable
drawing: a finished copy specifically produced to be sold on the market or
commissioned by a collector to fill his ‘paper museum’ of classical
antiquities. Examples are those by Batoni for Richard Topham, Esq. – The Topham
Collection --. There is the promotional drawing, a drawing made with the
specific purpose of promoting the acquisition of an item (statue or statuary
group), such as those by Jenkins to Townley – The Townley Collection. Naturally,
as with any categorisation, these divisions are a simplification and a drawing
may overlap two or more classes, such as this or that drawing by Goltzius, intended
to be engraved, but which also function as a repertory of an antique forms to
be used in the artist’s practice. Whatever their categories, all these drawings
followed the technical evolution of the medium, from the predominant metalpoint
and pen-and-ink to the black and red chalk. Athough pen-and-ink remains a
favoured medium, chalk becomes the choice for FULL-SIZE statuary, as a softer,
more pliable medium it allows a more sophisticated rendering of a tonal passage
and, therefore, of relief and anatomu. Red chalk especially offers the impossibility
of bringing the ANTIQUE (antico) to LIFE (vita), transforming or
transubstantiating inorganic matter into ‘warm flesh’. In artists’ workshops
one of the most important aspects of an apprentice’s training, aside from
mastering the manual procedures of painting, is copying works by the master and
other artists. This is intended as a means to shorten the process of learning
how to represent the THREE-DIMENSIONS onto two thanks to examples already
produced by others. This practice is described by Cennini, although still
intended only to train the apprentice to reproduce the master’s style and not
yet Nature or Life. An aapprentices could resort to copying model books and
sketchbooks already assembled by the master or by others. These were
repertories of a drawing of an animal, a plant, decorative details, a male nude
at rest, a male nude in action, usually produced as teaching tools, and it is
in these collections on paper that we find the earliest surviving drawings
derived from classical antiquities. The Antique is included mainly as a source
of information on the anatomy, its form, modelling, pose, expression,
movementsand the interaction of all t hese elements. Most of the early
drawings that represent antique forms are produced by artists active in Rome
where the largest number of accessible physical remains from antiquity is
concentrated. AN ANCIENT FULL-SIZE STATUE IN THE ROUND may have survived above
ground. Among the most famous publicly displayed examples are the ANTONINO, or
pseudo-Constantine the Great. outside the Lateran Palace, the Spinario, and the
Camillo, both of which are moved from the Lateran to the Campidoglio by Sesto IV;
the Quirinal Horse Tamers, I DIOSCURI, and the two Quirinal Recubantes or
Rivers. Virtually no ancient painting is known, and its appearance was
conjectured from a description (ecphrasis) in a literary sources, notably
Pliny’s Naturalis Historia (esp. book XXXV). It was only with the exploration
at the end of the 15th century of the buried interiors of the Domus Aurea of
Nerone in Rome, known as grotte, that artists access ancient examples, and from
this time a wave of grotesque motifs and decorations spread widely. More
readily available is a sarcophagus relief or a large imperial relief. A drawing
may depict mainly this category of ancient artefacts. They are popular because,
with their complex, frieze-like narratives, it inspires the compostion of a
“storia” as Alberti notes. Among the most frequently represented are the
reliefs of sarcophagi and the imperial reliefs of Trajan’s Column and the
Arches of Titus and Constantine. The subjects preferred by late Gothic or early
Renaissance artists – Bacchic themes, Amazons, the story of Adone, marine
deities or ancient battles – demonstrate an interest in the nude and in the
depiction of movement, dynamism and strong expressions. Although it is recorded
that Donatello and Brunelleschi copy antiquities during their stay at Rome, no
drawings survive by either of them to reveal their approach to the Antique. The
earliest surviving drawings of an antique is by artists in the workshops of
Fabriano and Pisanello, when they were in Rome working for Martino V in St John
in Lateran. The drawings correspond in many ways to the paintings. They show
little awareness of the formal principle of classical art, transforming a figure
from a Roman sarcophagus relief into a Gothic type. They often re-interpret the
pose and, sin! -- proportion of the original, even, as in the case of a sheet of
a fantasia in the Louvre, assembling figures from different s arcophagi. This
process of extra-polation, isolation and modification is common to many
drawings from the Antique. The draughtsman creates a visual repertories of
single figures, or isolated groups of figures which are easy to re-use in their
own compositions. From a teaching point of view, an isolated figure is probably
considered, at least in the model books and sketchbooks, to be more readily
assimilable by the apprentice in the workshop than a whole composition. A good
example of such an approach is seen in a drawing attributed to the so-called
‘Anonymous of the Ambrosiana’, from a sketchbook made in Rome in The original
model is a celebrated sarcophagus relief of the Muses, Minerva and Apollo then
in the church of Santa Maria Maggiore. It was copied in drawings by several
later growing archaeological awareness, in parallel with the spread of
antiquarian studies and rising interest in the classical world and its physical
remains. On the other hand, artists display a free handling and more personal
approach to the original, as they move away from the restraints of the model
book. With the exception of Donatello, from whom he learned much, MANTEGNA is
the quattrocento artist who had the most complex and sophisticated relationship
to the antique. Mantegna’s approach is evident in the introduction of direct
quotations from ancient architecture, reliefs and sculptures in his paintings
and frescoes and in his adoption of a precise, highly sculptural painting
style. A drawing by MANTEGNA – or a copy after a drawing – executed during his stay
in Rome accurately renders a classical proto-type but with a vivacious freedom
in style. It represents one of the Trajanic reliefs inserted in the central
passage of the Arch of Constantine. MANTEGNA sketches it at an angle from the
right side and from below. He precisely records the relief’s damaged condition
by showing both the emperor and the helmeted soldier on the right without their
right hands. He interprets the composition freely, concentrating on the most
prominent actors and on the relief’s formal principle, specifically its
treatment of movement and emotion, qualities praised by Alberti as essential
for the construction of a “storia”. The flow from left to right is accentuated,
Trajan has windswept hair.The horse is shown galloping, less upright and frontal.
The mouths are wide open, as are those of the soldiers on the right, expressing
the intensity of emotion in the victory over the Dacians. A drawing like this
serves a two- fold purpose, as a study of a formal principle and a record of
antique costumes, armours, shields and helmets. Its organisational lessons and
visual references could then be re-used to demonstrate the artist’s power of
inventio and his erudite knowledge of the classical past, as Mantegna indeed does
at Mantova in his sequence of canvases of the Triumph of Caesars [Sarcophagus
of the Muses, with Apollo and Minerva, front, 2nd c. ad, marble,
Kunsthistorisches Museum, Antikensammlung, Vienna, inv. I 171. Andrea Mantegna,
or circle of, Drawing after the Relief on the Arch of Constantine, end of the
15th century – beginning of the 16th, black chalk with brown ink, 273 × 189 mm,
Albertina, Vienna, inv. 2583r. Workshop of Pisanello, Three Nude Figures from
Ancient Roman Sarcophagi, c. 1431–32, silver point, pen and brown ink on
vellum, 194 × 273 mm, Louvre, Paris, inv. 2397]. artists, including Lippi and Franco
and it was engraved by Raimondi. The Ambrosiana draughtsman reproduces only a
few figures, changing their position and disregarding their interrelations and
the background, no doubt with the intention of assembling a range of drapery
studies that could be re-used in the future. The artist selects primarily
figures that offered the greatest variety and movement of cascading robes,
leaving the nude Apollo in the bottom right corner unfinished. Two tendencies,
apparently opposed but both symptomatic of a more profound understanding of the
antique, gains ground in sketchbooks and loose drawings. On one hand there was
a [Anonymous of the Ambrosiana, Figures from an ancient Roman Muses
Sarcophagus, c. 1460, metal point, pen and brown ink, heightened in white, on
pink prepared paper, 310 × 200 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. F. 214
inf.] A similar evolution is seen in drawings that reproduce FREE-STANDING
classical statuary. Not surprisingly, all are after the most famous statues
then visible in Rome which, given their size and anatomical detailing, were an
invaluable source for the study of the male body. The earliest examples are
again a group of drawings by Pisanello. They represent, among other figures,
the ANTONINO and one of the two Horse Tamers or Dioscuri on the Quirinal Hill. The
latter is especially relevant for our purpose, as the Dioscuri constitute the two
most complete free-standing nude in Rome. Both Dioscuri are copied repeatedly,
praised by contemporary written sources, and [Trajan overpowering Barbarians,
Roman, c. 117 ad, marble, Arch of Constantine, central arch, north façade, Rome
remained constant sources of inspiration for artists into the 19th century. In
a drawing of one of the Dioscuri, the draughtsman isolates the sculpture from
its context, and focuses exclusively on rendering the anatomy. The cloak on the
forearm is just outlined. Although it is an impressive achievement and while
the male nude is realised much more plausibly than those figures taken from
sarcophagus reliefs, the ELONGATION and SLIMMING
of the figure and the inaccurate rendering of the idealised anatomy betrays a Gothic
mindset. The same DIOSCURO is copied in a drawing by Gozzoli [ Equestrian
Statue of Marcus Aurelius, Roman, 161–180 ad, bronze, 424 cm (h), Capitoline
Museums, Rome, inv. MC3247. Workshop of Pisanello, Marcus Aurelius, c. 1431–32,
pen, brown ink and wash heightened in white on brown-orange prepared paper, 196
× 156 mm, CASTELLO SFORZESCO, Civico Gabinetto dei Disegni, Milan, inv. B 878
SC. One of the Two Dioscuri or Horse Tamers, Roman copy of the 2nd century ad,
after a Greek original of the 5th century bc, marble, 528 cm, Quirinal Square,
Rome] Pollaiuolo. Many are modelled on an ancient proto-type, like those being
handled and studied by the artists at Bandinelli’s academy. But ‘DISEGNO DALLA VITA’
from a posed apprentice is also widely practised and becomes increasingly
common in the final decades, especially in Florence. Another drawing by Gozzoli’s
circle shows the practice of setting a male naked LIVE MODEL in the pose of
(apres, after) “l’antico” – a contradiction: DISEGNO DALLA VITA E DALL’ANTICO. In
this case the obvious reference is the Spinario, the celebrated bronze antique
figure whose complex pose remains one of the most popular for a live model. The
use of the model book as a teaching tool disappeared but sketchbooks and the travel
book reproducing antiquities became more widespread. Their progressive
diffusion is one of the clearest indications of the spread of interest in the antique
and goes hand-in-hand with the formation of collections of antiquities and the
pursuit of antiquarian studies, such as Biondo’s influential “Roma Instaurata”,
a methodical guide to the monuments of Rome. Enthusiasm for classical art and a
more attentive study of its forms and principles is reflected in the increased
dynamism, pathos and complexity of the compositions that we can see in Italian
painting and sculpture in the work of Florentine artists like Pollaiolo,
Ghirlandaio and Lippi [Workshop of Benozzo Gozzoli, A Nude Young Man Seated on
a Block, His Right Foot Crossed over His Left Leg, c. 1460, metalpoint, over
stylus indications, grey-brown wash, heightened with white, on pink-purple
prepared paper, 226 × 150 mm, The British Museum, Department of Prints and
Drawings, London, inv. Pp, 1.7] probably executed when he was in Rome to assist
Fra Angelico in the St Nicholas Chapel in the Vatican Palace]. In this case the
drawing is again far from accurate, and the draughtsman combines the Dioscuro
with the horse held by his twin. Again the forms are isolated. As in the
earlier drawing the supporting cuirass and the strut between the right arm and
thigh are omitted as is the cloak on the forearm. The group is set against a
neutral backdrop and on the ground rather than on its pedestal. Although the
Dioscuro stands firmly, and although his anatomical structure, his surface
musculature and their modelling are rendered much more convincingly than in the
Pisanello drawing, the idealisation of the male is still not emphasised and we seem
to be looking at a real MALE taming his horse rather than at a heroic marble
statue. Although it is difficult to draw general conclusions based on such
exiguous surviving material, it seems safe to say that formost 15th-century
artists, classical free-standing statuary was seen as a model for the nude male,
its poses and movements. With notable exceptions, such as Donatello, artists
did not try to grasp the anatomical and formal principle of the original nor does
he aspire to recreate the process of idealisation innate in so many classical
nudes. For this reason, the drawings are often not immediately recognisable as
copies after the Antique (‘drawn from the antique’). The Antique could also be
copied inside the workshop using SMALL-SCALE three-dimensional models. We have
plenty of evidence about collections of antique statues, often fragments, and
the ownership of plaster casts by artists. Their presence in the work-shop is also
acknowledged in “De Sculptura” by Gaurico, who speaks of artists having
cabinets ‘filled with any sort of sculptures’ and ‘chests filled with casts’. Although
a cast may OBVIOUSLY BE TAKEN from a male naked live model, as described by
Cennini, others are ‘cast from the antique’, such as those mentioned by
Ghiberti and Squarcione, the teacher of Mantegna, whose workshop at Padova
contained a collection of antiquities. Casts and antiquities are part of the
working material of the bottega. They also serve to elevate the status of the
workshop to that of a STUDIO or STUDIUM, a place of cultivation of liberal
arts, the beginning of that process of the intellectual emancipation of the
artist that would be fully developed with the foundation of the academies. A
beautiful drawing of feet, part of a sketchbook by Gozzoli eloquently shows the
use of casts, in this case most likely taken from antique fragments, as
teaching tools in the bottega. We see here one of the earliest visual records
of a [Spinario, Roman, 1st century bc, bronze, 73 cm (h), Capitoline Museums,
Rome, inv. MC1186. Pisanello, or circle of, One of the Two Dioscuri or Horse
Tamers, c. 1431–32, silverpoint, pen and brown ink on vellum, 230 × 360 mm,
Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. F. 214 inf.10v. Benozzo Gozzoli (attr.), One
of the Two Dioscuri or Horse Tamers, c. 1447–49, metalpoint, grey-black wash,
heightened with lead white, on blue prepared paper, 359 × 246 mm, The British
Museum, Department of Prints and Drawings, London, inv. Pp, 1.18. Workshop of
Benozzo Gozzoli, Studies of Plaster Casts of Feet, c. 1460, silverpoint
heightened with white, on green prepared paper, 225 × 155 mm, Museum Boijmans
Van Beuningen, Rotterdam, Benozzo Gozzoli Sketchbook, fol. 53] practice,
copying from a cast, that would expand exponentially. For the study of the naked
male and the three-dimensional form, a pupil could rely also on small models in
wax, CLAY, or bronze, provided by such sculptors as Ghiberti or Sanzio, Buonarroti,
and Rome as the Centre of the Study of the Antique. The following generation,
that of Buonarroti and Sanzio, sees a seismic shift in the approach to the antique.
They now attempted to equal or even surpass the antique by penetrating its
principles.The two titans of the High Renaissance had a radically different
approach towards the classical naked male form, but they both aime at
assimilating the ancient ‘mimetic’ or imitative standard of an idealised
naturalism, full mastery of the naked male, its anatomy and proportions, and
the convincing rendering of the EMOTION or EX-pression (or affect) of the soul.
Vinci expresses a deep interest in the Antique and is directly exposed to it
in Florence and in Rome. The classical naked male form is referenced in
many of his works, particularly in the unrealised project for an equestrian
statue of Francesco Sforza in Milan. But Vinci’s naturalism, based on empirical
observation, means that he always checks his ancient sources against the
scientific observation of the natural world. He remains a naturalist at heart,
famously stating that ‘he who copies a copy is Nature’s grandchild when he may been
her son’. On the other hand, from a practical point of view, Vinci also
acknowledges the usefulness of copying from a ‘good master’ and sculpture. While
for Vinci the Antique remains an interest secondary to Nature, Sanzio’s and
Buonarroti’s engagement with the antique is on an unprecedented level. The
immense impact that Sanzio and Buonarroti have on their own generation and on
Western art in the centuries that followed lies in the very fact that they are perceived
and celebrated as the first modern masters who had equalled, if not surpassed,
the ancients. Opie, lecturing on painting at the Royal Academy, proclaims the
‘perfection of the Arts under Leonardo da Vinci, Michael Angelo, and
Raffaelle’, but their status as modern classics was already acknowledged during
their lifetime. Bembo elevates Buonarroti and Sanzio to the same pedestal of
the ‘ancient good masters’ and Vasari sustains his uncompromising panegyric of Buonarroti
by affirming that his Davide (Galleria dell’Accademia, Florence) surpasses in
beauty and measure even the best ancient monumental sculptures of Rome, in
particular the various Rivers and the Horse Tamers on the Quirinal. The Mondern,
now capable of providing an idealised nude more convincing than the most famous
surviving classical ones, outshines the Ancient. Artists of Sanzio’s and
Buonarroti’s generation have the advantage of benefiting from more, and more
readily available, ancient statuary, including those discovered in excavations
and those displayed in relatively accessible settings. However, both Vinci and
Buonarroti must already have been exposed to drawings, casts and models after
the Antique respectively in the workshops of Verrocchio and Ghirlandaio. Both
studied (although Vinci briefly) in the Giardino di San Marco, an informal
academy set up by Lorenzo il Magnifico to train artists specifically in drawing
and copying after the antique under the supervision of the sculptor Giovanni. Vasari
informs us that Buonarroti devoted himself obsessively to the task, and Condivi,
Buonarroti’ss biographer, emphatically states that the genius ‘having savoured
their beauty never again goes to Ghirlandaio’s workshop or
anywhere else, but there he would stay all day, always doing something, as in
the best school for such studies’ As a pupil Sanzio probably did not receive a
similar training in the workshop of Perugino, who had less interest in the
Antique. But some drawings with reference to classical models survive and he
certainly participates in the sophisticated antiquarian environment in Florence,
where he moves. It is the impact of what Buonarroti and Sanzio see in Rome,
where they both moved that has the most far-reaching and radical impact on the
evolution of their art and their relationship with the anqique. Under the
pontificates of Rovere (Giulio II and Leone X, Rome establishes herself as the
centre for the study of the Antique. Many of the most celebrated collections of
antiquities – Medici, Farnese, Borghese, Ludovisi, Albani -- are formed or
consolidated, such as those of Riario, Maffei, and Della Valle and later on the Cesi and the Sassi. The collection
of antiquities at the Campidoglio is enlarged with the transfer of the statues
of the Rivers, the Nile and the Tiber from the Quirinal and the Antonino from
the Lateran, the latter a statue so important for the symbolic imagery of Rome
that Buonarroti designs a square around it. However, the real centre of
attention in the early years of Buonarroti and Sanzio in Rome are the new
discoveries emerging from the soil of the city. Within a few years some of the
statues that would attract the attention of artists and connoisseurs for
centuries to come are discovered, [Anonymous engraver after Maarten van
Heemskerck, The Antique Courtyard of the Palazzo Della Valle, 1553, engraving,
289 × 416 mm, Rijksmuseum, inv. RP-P-1996-38] provoking enormous enthusiasm
among contemporaries: the Apollo del Belvedere, the Laoconte, the Cleopatra, the
Ercole Commodo, and the large rivers Tevere and Nilo. By 1512 all could be
admired, with the addition of the Venere Felice in the Cortile Ottogono del
casino della Villa del Belvedere nel Monte Vaticano, a purpose-built space
commissioned by Giulio II from Bramante, the great interpreter of ancient Roman
architecture. The Cortile, displaying some of the most complete and prestigious
sculptures from antiquity, soon became the canonical Roman site for making a copy
‘drawn from the antique’. It retains its unparalleled prestige, as the many
drawings after its statues eloquently attest. It is invaluable, as the Cortile
del Belvedere offers them the opportunity to study different male forms and
positions and different sub-types of ideal beauty at the same time: moving from
the Apollo, to the strong and pronounced muscular anatomy of Ercole Commodo. Two
more statues are added to the Courtyard: the Antino del Belvedere and the Torso
del Belvedere. The Antino del Belvedere is to become the canonical model for
artists for the perfect proportions of the naked male body. The Torso del
Belvedere becomes one of the most copied of all antiquities, a compulsory
reference for the body of the muscular male at rest, especially because of Buonarroti’s
admiration for it and the popular belief that he gives instructions to leave it
unrestored. The master’s praise of the evocative fragment became a leitmotif in
artistic treatises and literary sources to the point that it [Fig. 17.
Hieronymous Cock after Anonymous Draughtsman, The Capitoline Hill, 1562,
etching and engraving, 155 × 212 mm, Metropolitan Museum, New York, inv.
2012.136.358] became known in 18th-century Britain as the ‘School of
Michelangelo’. The Cortile del Belvedere, the Campidoglio, and the collections
in the various palazzi: Palazzo della Valle and others, remain the privileged
centres for copying the Antique in Rome. The increasing number of accessible
classical statues makes Rome a pole of attraction, to congregate and to complete
one’s education and gather on paper a repertory of classical forms and motifs. This
was a phenomenon central to the development of art. It is evocatively described by Bembo. Under Giulio
II and Leone X both Buonarroti and Sanzio are at the centre of the antiquarian
debate and, as Bembo puts it, play an essential role in their efforts to
emulate and surpass the antique (they fail). Indeed Vasari attributes the rise
of the ‘bella maniera’, and the great achievements of Sanzio and Buonarroti, to
their familiarity and exposure to the Belvedere statues. Even if Vasari’s words
are a retrospective celebration aimed at establishing the primacy of the
Florentine and Roman schools, the spirit of classical art permeates much of
Buonarroti’s and Sanzio’s Roman production and specific antique proto-types are
evoked in many of their works. One need only think of the inspiration Buonarroti
derives from the Torso del Belvedere for his Ignudi in the Sistine Chapel. Given
their familiarity with classical antiquity, it may seem strange therefore that
very few drawings after classical statuary by either Buonarroti or Sanzio
survive. Many might have been intentionally destroyed. Vasari recounts
Buonarroti’s burning large numbers of drawings, sketches [Fig. 18.
Apollo del Belvedere, Roman copy of the Hadrianic period (117–138 ad) after a
Greek original of the 4th century bc, marble, 224 cm (h), Vatican Museums, Rome
inv. 1015 Laocoön, possibly a Roman copy of the 1st century ad after a Greek
original of the 2nd century bc, marble, 242 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv.
1064. Cleopatra, Roman copy of the Hadrianic period after a Greek original of
the 2nd century bc, marble, 162 (h), Vatican Museums, Rome, inv. 548] and
cartoons so that none could see the efforts of his creative process. Nonetheless,
in the few surviving drawings which bear direct references to classical models,
one sees their tendency towards ‘assimilating’ the spirit of antique forms
rather than *slavishly* copying them (as an amanuensis would). This attitude
can be shown by comparing a drawing by Aspertini after the Belvedere Cleopatra
with one by Sanzio derived from the same statue. Aspertini’s copy, paired on
the facing page with one from a relief from the Arch of Constantine, embodies
the attitude typically seen in a sketch- book: a more or less faithful
rendering of the antique form, in this case rather finished and accurate, that
serves as a record. Sanzio’s drawing represents a more evolved phase, when the
ancient form takes a new shape: the elegant and difficult pose of the body of
the Cleopatra and the play of the drapery over her intertwined [Aspertini, The
Sleeping Cleopatra and a Relief from Trajan’s Column, (verso) post 1496, pen
and brown ink, over black chalk, on two sheets conjoined, 254 × 423 mm, The
British Museum, Department of Prints and Drawings, London, Sanzio, Figure in
the Pose of the Sleeping Cleopatra, c. 1509, pen and brown ink, 244 × 217 mm,
Albertina, Vienna, inv. 219. Sanzio, The Muse Calliope, detail from the
Parnassus, c. 1509–10, fresco, Stanza della Segnatura, Vatican Palace, Rome] legs
are used as an inspiration for the muse Calliope in his Vatican Parnassus.
Sanzio nevertheless also produces some ‘record’ drawings. Nominated by Leo X as
inspector of all the antiquities in and around Rome and embarked on a project
to reconstruct the aspect of ancient Roman buildings based on precise
architectural surveys of their remains. His method, based on a precise analysis
paired with ancient literary sources, remains unmatched. His scholarly attitude
towards classical art and his thorough understanding of it are clearly
expressed in a famous letter that he wrote to Leo X with the help of the
courtier Castiglione in which he appeals against the destruction of classical
monuments. At the same time, he provides an outstandingly accurate description
of the different styles of ancient sculpture found on the Arch of Constantine. One
of the very few surviving exact copies of classical statues in Sanzio’s hand is
indicative of his precise, almost [Hendrik III Van Cleve, Detail from
View of Rome from the Belvedere of Innocent VIII, 1550, oil on panel, 55.5 ×
101.5 cm, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique, Brussels, inv. 6904.
Pseudo-Antino del Belvedere, Roman copy of the Hadrianic period after a Greek
original of the 4th century bc, marble, 195 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv.
907. Belvedere Torso, Greek or Roman, 1st century bc, marble, 159 cm (h),
Vatican Museums, Rome, inv. 1192] archaeological approach to the Antique, and
we can assume that he produced similar ones during his period as inspector of
Roman antiquities. It is a clear rendering of one of the two horses from the
Horse Tamers on the Quirinal, that we encountered in Gozzoli’s study. There
could not be a better comparison to demonstrate the progress made in the
understanding of classical statuary. Sanzio’s drawing is ‘scientific’. We
clearly recognise that the horse is a piece of marble sculpture, with a
faithful record of its missing left leg and the joint between the neck and the
body. The horse is COPIED, i. e. DRAWN AT EYE LEVEL (Sanzio presumably stood on
a platform) and not seen from below, as in most other contemporary views. This
allows the proper study of the proportion of the sculpture, in a way similar to
an architectural elevation. Outstandingly, even the measurements of the statue
are recorded on the drawing, probably by one of his pupils, making this the
first surviving measured drawing of a classical statue. Incidentally Sanzio’s
drawing also shows the introduction of a new medium – red chalk – which would
become one of the preferred tools for drawing after the Antique. It is likely,
nevertheless, that Sanzio generally left making such specific records of
classical sculptures to the pupils of his large workshop, as several surviving
drawings in the hand of Romano and Polidoro da Caravaggio, among others,
attest. Some of these were probably intended to be engraved, as it is in Sanzio's
circle that we find the first printed images of celebrated statues and reliefs,
such as those of Raimondi, Marco [Sanzio The Right Horse of the Horse Tamers on
the Quirinal Hill, c. 1513, red chalk and pen and brown ink over indentations
with the stylus, 219 × 275 mm, National Gallery of Art, Washington D.C., inv.
1993.51.3.a, Woodner Collection. Buonarroti, Study of an Antique Torso of
Venus, c. 1524, black chalk, 256 × 180 mm, The British Museum, Departments of
Prints and Drawings, London, inv. 1859,0625.570. Buonarroti, A Youth beckoning;
A Right Leg, c. 1504–05, pen and brown ink, black chalk, 375 × 230 mm, The
British Museum, Departments of Prints and Drawings, London, inv. 1887,0502.117.
Romano
(attr.), Apollo del Belvedere, c. 1513–15, pen and brown ink, pencil, 316 × 155
mm, Albertina, Vienna, inv. 22449. Veneziano, Apollo Belvedere, engraving, c.
1518–20, 269 × 169 mm, private collection. Dente and Agostino Veneziano (c.
1490–after 1536; 29). The print medium, which plays a crucial role in
disseminating the knowledge of the Antique is to be increasingly used in
work-shops and academies for training. One first copies the Antique from a flat
image, before turning to the third dimension of a cast or an original. Sanzio’s
approach towards the Antique, based on study, measurement, reconstruction and
dissemination, cannot be more distant from that of Buonarroti, who constantly
confronts the classical models with a challenging spirit. Several anecdotes
reported by contemporaries reveal his approach towards antiquity. Boissard
informs us that shortly after having seen the Laooconte emerging from the
ground of the Esquiline, Buonarroti enthusiastically comments that it is ‘a
singular miracle of art in which we should grasp the divine genius of the
sculptor rather than trying to make an imitation of it’.This quotation is
poignant for understanding the Platonic concept of divine inspiration for
Buonarroti. At the same time it shows clearly that his relationship with the
antique model was not based on a process of imitation but rather on that of ‘aemulatio,’
a creative rivalry possible only after the assimilation and internalisation of
its principle. This approach is reinforced in a celebrated passage from Vasari
which became a recurrent leitmotif in subsequent art literature – in which he
reports that Buonarroti creates figures of nine, ten or even twelve heads high,
searching only for the overall grace in the artistic creation, because in
matter of the proportion, ‘it is necessary to have the compass in the eyes and
not in the hand, because the hands *work* and the eyes *judge*’. Advocating the
principle of grace, consistency of artistic creation, and the artist’s own
judgement, Buonarroti therefore disregards the canon of *eight* heads
comprising the male figure established by Vitruvio, implicitly expressing a
relation with the classical proto-type based on empathy and intimate
understanding of its form, rather than on a rational adherence to a rule based
on a number– an approach he replicates in his architecture. Buonarroti’s
surviving copies after classical statues can be counted on one hand, such as a
series of reproducing the torso of an antique Venus, probably made in
preparation for one of the female figures in the Medici Chapel. His free
relationship with the Antique emerges from many of his drawings, for instance
the Beckoning Youth, loosely inspired by the Apollo del Belvedere. Buonarroti evokes
the pose and aspect of the celebrated statue, but turns it into something new,
where the hint of movement of the original is dramatically accentuated and
balance is replaced by unstable dynamism. Sanzio and Buonarroti have been
discussed at length because their different attitudes towards classical forms
resurface constantly in Art. This polarity may be defined as assimilating the
principles of the Antique by sticking to its rules and system of proportions OR
assimilating the creative spirit of the Antique by breaking its rules. At the
risk of oversimplification we could argue that Reni and Poussin fall within the
first sphere and Rubens and Bernini in the second. It is not by chance that the
classicist credo that permeates the Italian and French academies for most of
their history elects *Sanzio* as their champion, while the eccentric and unruly
Buonarroti remains a figure more difficult to celebrate from a didactic point
of view. The Antique in Theory plays a Role in the Academic ‘Alphabet of
Drawing’. More statues emerge from the soil of Rome and those already
discovered are given new life and integrity by partial or full ‘restoration’. A
statue is usually unearthed in fragmentary states, as can be seen from the
evocative drawings of Roman collections by Heemskerck. Whether philologically
correct or not, the practice of restoration allows one to copy the naked male in
its entirety rather than in mutilated fragments. Celebrated restorations
included those of the Apollo del Belvedere and the Laooconte by MONTORSI on the
recommendation of Buonarroti. Among the excavated statues three must be
mentioned as they immediately became constant references for artists. The place
of honour goes to the Ercole Farnese. It provides an ideal model for the
muscular male at rest and copies after it become ubiquitous in artists’
work-shops and academies. The other two statues are discovered together in and
immediately entered the collection of the Villa Medici in Rome: I LOTTATORI,
representing two males in a complexly interlocked ‘syntagma’ or group.
I LOTTATORI are used often in later academies as a source for posing TWO LIVE
MODELS – SYNTAGMA DISEGNATO DALLA VITA (see cats 16 and 27b); and the Niobe Group
whose suffering expressions would be widely referenced as a source for drama
and pathos, for instance by Reni, among others. In time, a standard set of
ideal types (to use Weber’s term) begins to take shape, thanks to the diffusion
of bronze and plaster casts and, especially, of prints. After the loose sheets
of Raimondi, Dente and Veneziano, more systematic enterprises are launched.
Collections such as SPECVLVM ROMANÆ MAGNIFICENTIÆ by Lafréry or ANTIQVARVM STATVARVM URBIS ROMAE by
Cavalieri, play a crucial role in the wide dissemination of a canonical
selection of classical statues, thus attracting more and more artists to Rome
to study the originals. This tendency towards codification also affects the
relationship of artists and art writers with the Antique, as the imitation of
classical statuary is given theoretical underpinning. At the same time the
Antique acquires a clear role within the curricula of the emerging academies as
a teaching tool, systemising a practice that, as we have seen, is already
widely diffused within Renaissance workshops. Art theory in general goes
through a process of radical systematization. Many artists and writers feel that
rules are required to give ‘ars’ an intellectual frame-work that would lift its
status from ‘mechanical’ to ‘liberal’ arts – (as in M. A. Magister in Arts, MA
before DPhil Lit Hum) an ambition dating back to the writings of Alberti. Most
theoreticians and artists believe that a codified precept is also vital to
inculcating the ‘correct’ principle in an age that they considered to be one of
artistic corruption. Armenini speaks explicitly of the ‘pain’ that masters like
Sanzio and Buonarroti would have felt in seeing the art of his own time. And
Armenini, Lomazzo, Zuccaro and others, notwithstanding differences among them,
consider that the rule can be inferred from study of the best examples of the
great Renaissance masters and those of antiquity. The latter especially, it was
thought, would provide with correct proportions and anatomy and inculcate the ideal
standard. A foundation of this theoretical effort is provided by the
assimilation of Artistotle’s Poetica, the first reliable Latin translation of
which circulated widely. Since no comprehensive treatise on painting had [Cavalieri,
The Laocoön, engraving plate 4, from Antiquarum statuarum urbis Romae, Rome,
1585] readily found in his work. For him the best ancient sculptures embodied
the supreme quality of ‘grazia’, which cannot be attained by study but only by
judgement – a concept that remains one of the central tenets of Italian art
theory. Vasari’s Lives also proclaims the superiority of the Central Italian
School of painting, based on ‘disegno’ to the Venetian one, based on ‘colore’,
initiating a debate over the respective merits of the two traditions. Although
traditionally the Venetians aim at imitating nature directly on the canvas
through colour and therefore are less attached to the laborious practice of
drawing after the antique, classical statuary plays a role in the formation of
many Venetian painters, and casts are used in their workshops. Tintoretto, for
instance, owns a large collection of casts and reductions of ancient and modern
sculptures. The importance attached to the study of the Antique by all the
Italian schools of painting is shown by the fact that one of the very first
consistent formulations of the principle of the ‘imitation’ of classical
statuary is to be found in Dolce’s “Dialogo della pittura.” Dolce’s “Dialogo
della pittura” contains the strongest defence of the Venetian tradition against
the Vasarian point of view. It also contains, if not fully developed, most of
the fundamental elements of the artistic theory. Dolce clearly specifies that
in the search for the perfect proportion of the naked male, the artist should ‘*partly*
imitate nature’ and partly ‘the best marbles and bronzes of the antient [sic]
masters’, because through them he can ‘correct’ this or that defects of this or
that living form – the live model -- as they are ‘examples of perfect beauty’, an
ideal version of Nature. But in Dolce we find also a warning against regarding
the copying of ancient sculpture as an end in itself rather than the means by
which an artist creates his own ideal artistic forms – something already
stressed by Vasari in his Lives. An ancient statue is to be ‘imitated’ with
‘judgement’, to avoid turning a pleasing trait into a formula or, worse, an eccentricity.
This warning would be repeated frequently, notably, y Rubens and Bernini and it
could lead to open opposition to copying the Antique. Similar advice appears in
Armenini’s Veri Precetti della Pittura. Armenini’s “VERI PRECETTI DELLA
PITTURA” is quite systematic and offers one of the most articulated approaches
towards the role of the Antique in the artist’s education. Many of Armenini’s ideas
and much of his advice would becomes standard practice. In the chapter on
‘disegno’, Armenini states that to acquire the ‘bella’ or ‘buona
[The Farnese Hercules, Roman copy of the 3rd century ad of a Greek
original of the 4th century bc, marble, 317 cm (h), MUSEO ARCHEOLOGICO
NAZIONALE, Napoli, inv. 6001. I
LOTTATORI. Roman copy of a Greek original of the 3rd century bc, marble, 89 cm
(h), Uffizi, Firenze, inv. 216. The Niobe, possibly Roman copy of a Greek
original of the 4th century bc, marble, 228 cm (h), Uffizi, Firenze, inv. 294] survived
from antiquity, the Poetics, together with Orazio’s Ars Poetica, offer a
theoretical structure that could be transferred from the literary disciplines
to visual art – justified by Orazio’s celebrated motto ‘ut pictura poesis’, ‘as
is painting so is poetry’. More relevant from our perspective, Aristotle’s
Poetica provides, in several passages, an authoritative ancient source for the
principle that art may ‘perfect’ nature to create an ideal model – a concept
implied but never clearly defined by Alberti – and which constituted one of the
most solid bases for the classicist doctrine of art. This Aristotelian trend
had a counter-balance in a neo-Platonic tendency in which ideal beauty does not
derive from Nature but is infused in the mind of the artist by God, two
approaches that at times were combined by the same author, such as Lomazzo or
Zuccaro. But whether of Aristotelian or Platonic origins, or indeed a
combination of both, the principle of imitation of those works of art that had
already accomplished idealisation – particularly the antique statue – becomes one
of the leitmotifs of Italian art theory (v. Dorfles, “Natura e Artificio”). The
most important writer on art of the Renaissance, Vasari, firmly establishes the
primacy of disegno, design or drawing, as the intellectual part of art, the
‘parent’ of the three sister arts of architecture, sculpture and painting. In
his Lives of the Most Eminent Painters, Sculptors and Architects drawing is described
as the physical, sensible manifestation EX-pression of an idea, encompassing
‘all the objects in nature’. Although he does not provide a theoretical case
for drawing after the Antique, nonetheless passages referring to the impact
that classical statues have on artists are maniera’ of the great
Renaissance masters, the student needs fully to assimilate through drawing
those principles of the ancient statues that those Renaissance masters
themselves copy, as they embody the best of Nature. Armenini’s importance lies
also in the fact that he is the first to list the specific statues and reliefs to
copy and to praise the didactic use of plaster casts, of which he saw many
collections throughout Italy – testifying to a practice that must already have
been quite widespread. The imitation of the Antique also becomes a central
tenet of the earliest art academies. Deriving their name from the ancient
philosophical Academy (Hekademos) of Plato, an ‘accademia’ is intended as a venue
for the cultivation of the practical, but even more, the intellectual aspects
of art. Its role is conceived in parallel and not in opposition to the artist’s
workshop, where the apprentices is still supposed to learn art’s technical
rudiments. One of the first mentions of the word ‘accademia’ in conjunction
with art is found in the first object shown in this catalogue, the Accademia del
Belvedere run by BANDINELLI eengraved by Veneziano. This depicts an ‘accademia’
centred on disegno set up in the Belvedere, where Leo X gives him quarters. It
shows artists learning how to draw the naked male and it is significant that
the focus of their attention is a series of statuettes modelled after a classical
proto-type. This, and the later view of Bandinelli’s Florentine Academy, are
the very first examples of an iconographical genre: the image of an accademia,
workshop, studio, often created with a programmatic or didactic purpose,
showing pupils learning the different branches of art or going through
different stages in their education. Just glancing at the works illustrated in the
catalogue shows how the presence of the Antique becomes progressively relevant.
The centrality of disegno and the naked male is firmly stressed by the
institutional, more organised, ‘accademia’.. The first, and a model for all
future academies, was the aptly named ‘Accademia del Disegno,’ – or ‘dei
disegnanti’ -- founded in Florence by Cosimo de’ Medici on the initiative of
Vasari. Its aim is to emancipate the artist from guild control, and to affirm
the intellectual status of the art.The two most significant academies that
followed before the are ‘Gl’Incamminati’, or ‘Accademia degl’incamminati,
founded in Bologna by the three Carraccis, and the Accademia di San Luca in
Rome, relaunched and given a didactic curriculum under Zuccaro. These academies
– although there were significant differences among them, and often huge
discrepancies between the theory they supported and the everyday teaching they
practised – proposes a system that could give a broad education to aspiring
artists. This usually included the study of mathematics, geometry and
perspective, to teach the student how to represent space rationally; and of
anatomy, the antique and the live model, -- DISEGNO DALL’ANTICO, DISEGNO DALLA
VITA -- to teach him to master the correct depiction of the naked male. We can
see an idealised version of early academic practices in a complex and
fascinating drawing by Stradano,
engraved by Cort, where the stress is on anatomy, the Antique and on the three
arts of disegno. Similar practices are illustrated in an etching by Alberti
showing a structured curriculum of studies involving anatomical dissection,
geometry, the Antique and architectural drawing. These studies codify artistic
exercises (and give a bad name to ‘academic’) that had been current from the
early Renaissance onwards but important new teaching structures were
introduced. These include a rotating academic staff, a competition and a prize,
and an organised debate on artistic questions and they are supported especially
by the regulations of the Accademia di San Luca. Although we do not know to
what extent and how effectively these new structures functioned in the first
decades of the Roman institution, they soon spread to other academies, becoming
the model for the Académie Royale in Paris. All these institutions strongly
advocate the copy of the Antique, both in plaster reproduction or in the
original. The Accademia del Disegno supervises drawing from the Antique both in
the Academy and in the workshops where apprentices were trained. It also owns a
‘libreria’, which includes drawings, models of statues, architectural plans,
and ancient sculpture, all used as teaching tools. The Accademia di San Luca
lists the copying after the Antique in its first statutes and receives a donation of casts, while numerous
plasters – such as reliefs from Trajan’s Column, the bust and the head of the
Laocoonte, one of the Horse Tamers of the Quirinal, the Torso del Belvedere and
many other entire or in fragments – appear in its early inventories. The
importance accorded by Zuccaro, the founder of the Roman Academy’s curriculum,
to the thorough study of Rome’s most famous statues, emerges from his wonderful
drawing of his brother, Taddeo sketching the Laocoonte at the Belvedere. The
series to which this drawing belongs, produced around the same time as the
foundation of the Accademia di San Luca, illustrates the ideal training that am
artist should follow: imitation of the Antique and the works of Renaissance
masters, such as Sanzio’s Stanze and Loggie, Buonarroti’s Last Judgment and
Polidoro’s painted façades. Another sketch, by a Zuccaro follower, depicts Zuccaro
himself in the Accademia, surrounded by students sketching after the cast of an
ancient torso. The Carracci academy too, although primarily focused on
life-drawin (DISEGNO DALLA VITA), advocates study of the Antique and we know
that Carracci makes his collection of drawings, medals and casts available for
students. Early academies also codified a teaching model, defined as the
‘alphabet of drawing’ or the ‘ABC’ method, which, in a less regulated form, was
already established within work-shops and which would have a long-lasting
impact. This contributes significantly to giving the Antique a fixed place
within teaching curricula. Modelled on the learning of grammar, the ‘alphabet’ is
a sequence that encourage students to advance from elementary unity to complex
whole and from the simple and similar to the varied and different. The scheme
once again originated in Alberti, who advises a painter to follow the method
practiced by teachers of writing, from the alphabet to whole words. So the beginner
is supposed to learn first ‘the outlines of surfaces, then the way in which
surfaces are joined together, and after that the forms of all the members
individually; and they should commit to memory all the differences that can
exist in those members’. He recommends the same process for the study of the
male anatomy: starting from the bones, proceeding to the sinews and muscles,
and finally to the flesh and skin. An iincreased stress on the naked male means
that pupils often start from the eye, then assembles different parts of the
body in ever more intricate combinations, and finally reaches the whole naked
male, via the study of ancient sculpture AND the live model. Benvenuto [Workshop
of Federico Zuccaro, A Group of Artists Copying a Sculpture, c. 1600, 190 × 264
mm, pen, black and red chalk on prepared paper, Biblioteca Ambrosiana, Milan,
inv. F 261 inf. n. 128, 125] Cellini reports that starting with the eye is the
common practice and advised, like Alberti, a similar process for the study of
anatomy. This process is reflected in the various images of early academies or
studios, such as Stradanus’ The Practice of the Visual Arts, where one pupil is
shown drawing an eye on his sheet, or Alberti’s Painters’ Academy where an artist
is presenting a similar drawing to his master. A parallel progression led the
student from simplicity to complexity in the depiction of outlines, surfaces,
chiaroscuro, poses and expressions: from copying objects in the same medium and
in two dimensions, to the imitation of three-dimensional figure. The process
usually starts with copying a drawing or print, then paintings, first in
grisaille and then in colour, moving onto ancient sculpture [PRELIMINARY to the
LIVE MODEL – drawn from life], either originals or casts, and, FINALLY, to the
live model. This progression, already outlined by Vinci in his treatise on
painting, and advocated also by Vasari, is codified by Armenini, the first to
list all its stages while simultaneously assigning a central role to classical
statuary in providing a model for ideal forms. Armenini delineates both the
progression from the eye to the whole body and from a drawing or print to the
live model (via the preliminary of the ‘drawn from the antique’, and warned the reader not to subvert this
order. The earliest academies applied this method and Zuccaro’s statutes of the
Accademia di San Luca, which are the most explicit, specifically mentioned the
‘alphabet’ or ‘ABC’ of drawing. It becomes standard practice in academies. The aim is, as most writers reiterated, to
assimilate this repertory of forms through constant study and the exercise of
memory, as to finally be able to create a form from imagination – for a
mythological heroic figure -- *independent* of any object of imitation
(IMITATUM). The ‘alphabet of drawing’ has its physical manifestation in the
publication of the drawing-book, conceived in the environment of the Carracci
academy, such as Fialetti’s “Il vero modo”. The diffusion of such manuals contributed
enormously to spreading the knowledge of the didactic role of the Antique to
artists who makes a grand tour to Rome a compulsory part of his education. Odoardo
Fialetti, Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parti et membra del
corpo humano, Venice, c. 1608, etching, 100 × 140 mm, The Bellinheger Collection].
Rome establishes herself as the preeminent centre for anyone
eager to assimilate the principle of Italian art. The first significant artist,
and one of the greatest of all to do the tour to the Belvedere with the specific
educational intent, is Dürer. Durer spends the years in Rome. The impact of
classical statuary is evident in many of his prints and paintings, for example,
in his “Adam and Eve”. But the largest number of artists to travel to Rome
originates from the Low Countries. Coming from a powerful and influential
pictorial tradition that privileged an analytical representation of nature, and
having received little or no exposure to classical antiquity in their training,
Netherlandish artists seek especially to learn how to master the naked male
through the lessons of the Antique and the works of Sanzio and Buonarroti. Rome
offers also the opportunity of training in one of its many workshops and the
appealing possibility of benefiting from the system of commissions. Indeed the
‘fiamminghi’, as they are called in Rome, gain an increasing number of
commissions, eventually, in their turn, influencing the Roman art world. Some
of them stayed for long periods or moved permanently, such as Stradanus, Giambologna
– il ratto delle sabine, il mcurio di Medici -- or Tetrode. We know about the
Roman years of many of these artists mainly thanks to Mander’s “Schilderboeck”,
the earliest systematic account of Netherlandish and Northern European
painters, based on Vasari’s “Vite”. The approach of these artists towards the
Antique could be varied and multi-faceted. Most fill their sketchbooks with
drawings that served as a collection of forms to be re-used. Others, like
Spranger, according to Van Mander, aim to assimilate the principles of
classical art to establish a repertoires of forms and an attitude towards the
naked male that could be infused in their own creations, rather than spending
too much time in the physical act of drawing. Although ‘Mabuse’ is the first
Fleming to pass time in the peninsula, it was only with Scorel that the lesson
of antiquity was transmitted, through his work-shop at Utrecht. Of his various
pupils, Heemskerck is certainly the most prolific and versatile in copying
antique statuary. Two albums from the
years he spent in Rome are preserved in Berlin. They constitute one of
the largest surviving collections of copies after the Antique and are filled
with exceptional drawings in different media and size, offering an invaluable
opportunity to categorise the many different approaches to classical statuary
that can be described as record drawings. Many are topographical views of Rome
in which Heemskerck indulges in the depiction of architectural ruins and
sculptural fragments, and which he later reuses in imaginary landscapes. Some
of his views are poetic meditations on the colossal ruins of the city, physical
reminders of the passage of time, of human grandeur and fragility, a mood he
shared with other artists, such as Herman [Heemskerck, View of the Santacroce
Statue Court, 1532–37, pen and brown ink, 136 × 213 mm, Staatliche Museen zu
Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I,
fol. 29r] Posthumus. Other drawings are more or less accurate depictions of
classical statues in their physical locations, from the Belvedere to the Campidoglio,
to Roman private courtyards and gardens (figs 16 and 38), where the antiquities
are shown in their still fragmentary state. In numerous detailed drawings
focusing on single statues, we see Heemskerck’s different approaches to copying
the Antique and, correspondingly, the different media he employs to do so. His
drawings range from the precise pen-and-ink study, in which he faithfully
records the condition of celebrated statues, isolating the head as a physiognomic
type to a drawing where the whole statue is presented FROM DIFFERENT ANGLES, to
record the different poses and volumes of the naked male in space. He also makes
copies in which he exploits the softness of red chalk to study anatomical
details, assembling parts from different statues on the same sheet and focusing
on torsos and legs, sometimes even disregarding the face, the drapery or other
details. Finally, in yet other red chalk drawings he carefully records
decorative details from a statue or a relief. The variety of techniques
and handling deployed in these [Fig. 39. (top left) Maarten van Heemskerck,
Head of the Laocoön, 1532–36, pen and brown ink, 136 × 211 mm, Staatliche
Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck
Album I, fol. 39r. Heemskerck, Two Studies of the Head of the Apollo Belvedere,
1532–36, pen and brown ink, 136 × 211 mm, Staatliche Museen zu Berlin,
Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 36v. Heemskerck,
Three Studies of a Fragmentary Statue of a Crouching Venus in the Palazzo
Madama, 1532–36, pen and brown ink, 135 × 210 mm, Staatliche Museen zu Berlin,
Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 06v. Heemskerck,
Studies of Three Torsos and a Leg from Classical Statues in the Casa Sassi,
1532–33, red chalk, 135 × 211 mm, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer
Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 51v. Heemskerck,
The Right Foot of the So-Called ‘Colossal Genius’, 1532–33, red chalk, 135 ×
208 mm, Berlin, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz,
Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 65v ] copies allowed him to
find appropriate solutions to the variety of problems posed by the style and
condition of the works that he copied. The result is a stunning visual
repertory that is easy to access and use, and which would inspire him when he
returned home. Several Frenchmen also established their residence in Rome. Many
of them, such as Beatrizet, Lafréry, or Dupérac, specialise in engraved views
of the city and its ancient remains, catering to a market increasingly
fascinated by Rome’s ruins and statues. In one engraving attributed to
Beatrizet, we find a rare image of an artist in the act of copying from ancient
statuary in situ – in this case the famous colossal “Grande Bellezza” Marforio,
at that time located in the Forum now in the courtyard of the Palazzo Nuovo of
the Campidoglio. The image clearly expresses the sense of awe that one feels in
front of the grandeur of the remains of Roman classical statuary. The fragmentary
condition of so much monumental sculpture inspired thoughts about the fragility
of the human condition and the ultimate insignificance of worldly troubles,
which, as the inscription on the print remarks, the old Marforio ‘does not
consider worth a single penny’. It is against this backdrop that we must
consider Goltzius’ draughtsmanly activity in Rome, where he arrived almost
certainly on the recommendation of his friend Mander, who had already been in
Italy. Goltzius was then is celebrated as an [Fig. 44. Beatrizet (attr.), An
Artist Drawing the ‘Marforio’, 1550, engraving, 370 × 432 mm, published in
Antoine Lafréry’s Speculum Romanae Magnificentiae] engraver throughout Europe.
With Mander and Haarlem he establishes an academy in Haarlem. Although we know
almost nothing about this artistic association, it must have involved
discussions about the Antique and its representation among the three friends,
who had the advantage of direct access to Heemskerck’s Roman drawings, then
owned by Cornelisz. It is therefore significant that while in Rome, Goltzius takes
an approach to classical statuary that is very different from Heemskerck’s. Goltzius
concentrates from the beginning on *thirty* of the most famous classical
statues, of which 43 drawings in total survive. Goltzius’s drawings are highly
finished and unprecedentedly detailed, carefully recording the tonal passages
on the muscles of the statues. The viewpoint is almost always close and frontal
to the statue, or exploits the most dramatic or informative angle. Most
importantly, unlike almost all of his predecessors, who fill single pages of
their sketchbooks with details from unrelated sculptures, he devotes a full
page to *each*, a practice followed by Rubens. Goltzius’s intent from the
beginning is clearly to produce a drawing that may be transformed into an engravings
capable of surpassing in precision all previously published series, and which,
in faithfully reproducing the volume of the naked male, would also demonstrate
his renowned virtuosity in handling the burin. His set is intended for a market
of connoisseurs and collectors, but it is also likely that Goltzius wishes to
provide anyone with correct and detailed images of classical statues that they
could copy during their apprenticeships. Goltzius engraves only three plates,
one of which, significantly, shows an artist at work copying the celebrated
Apollo del Belvedere. A few years after Goltzius’s tour to Rome, Rubens arrives.
He spends two prolonged periods in Rome. Rubens constitutes a special case,
being the perfect embodiment of the humanistic ideal of the artist-scholar: the
son of a wealthy Antwerp family, highly educated in the classics and socially
accomplished, Rubens arrives in Rome already equipped with a thorough
understanding of the Antique and its literary sources, a passion he cultivates throughout
his life with his circle of scholarly friends and patrons. Rubens’s approach
towards classical statuary is therefore fascinating, complex and varied.
Rubens’ appetite for the most famous ancient statues must have been stimulated
already in Antwerp through the engravings by Raimondi and his pupils and
through those in the collections published by Lafréry and De Cavalieri. When in
Rome Rubens devotes himself completely to copying this or that original with
unique thoroughness, both to exercise his draughtsmanship and to create an
immense repertory of forms, to which he refers for inspiration throughout his
life. His approach towards classical statuary istwofold. One is purely intellectual,
focused on understanding the mathematical proportions and volumes of this or
that emblematic antique which he divides into different categories according to
muscular strength, to capture the very essence of their perfection. The other is
more direct: to study the statue exhaustively in order to assimilate its formal
principle For Rubens it is not only necessary to ‘understand the antique’, but
‘to be so thoroughly possessed of this knowledge, that it may diffuse itself
everywhere’. Unlike Goltzius, Rubens studies a statue over and over again,
copying it from many, and often unusual, points of view, devoting a single page
to each. No one before Rubens shows such a painstaking interest in
understanding the formal logic of a single statue intended as a whole. Rubens’s
focus on the naked male – to learn the principles of a perfect naked male – on specificslly ‘muscular’ masculine male
statues, such the Laocoonte, the Torso del Belvedere, and the Ercole Farnese
and his choice of the most favourable points of view, may reflect the specific
advice and examples given in Lomazzo’s Trattato and in Armenini’s Veri Precetti.
But, as Dolce and Armenini had already done before him, Rubens also cautions to
focus on the form and not on the matter of the statue, to avoid the ‘smell’ in a
drawing or a creation. Rubens is aware of the danger of transferring the
characteristics and limits of a three-dimensional medium (is flesh the medium
of the live model?) into another – drawing or painting. In a section titled “De
Imitatione Statuarum” of a larger theoretical notebook that he compiles over
several years, Rubens refers to painters who ‘make no distinction between the
form and the matter -- the ‘figura’ and the flesh, with the result
that ‘instead of ‘imitating’ living flesh from the life of nature, they
only represent marble tinged with various colours’. We can see Rubens’s genius
at re-vitalising the ‘inert’ substance of the antique model as if it were a
live model to be drawn from life, by applying his principle of inventive and
transformative imitation in most of his drawings after the Antique, for which
he uses soft chalk on rough paper better to ‘re-translate’ the substance back into
the natural living flesh, as if drawn from life. This is particularly evident
in muscular figures such as the Torso del Belvedere and the Laocoonte, which he
brings back to life, to the life Virgil instilled Laocoonte with, or Aiace had.
-- adopting a dramatic angle and a diagonal that completely abandons the
static [Rubens, The Back of the Belvedere Torso, c. 1601–02, red
chalk, 395 × 260 mm, Metropolitan Museum of Art, New York, inv. 2002.12b] and
the academic frontal point of view of most academic drawings. This attention to
the qualities of the naked male skin and flesh, and the dynamism, pathos, and
drama that he learns mainly from classically Roman – but POST-classically
Greek] statuary is to become the main traits of his own art. In this he is following
in the footsteps of Buonarroti, who, not by chance, Rubens copied extensively,
focusing especially on the nudes of the Sistine Chapel and on his statues. Rubens
adopts a similar approach to the live model, which he often poses in attitudes
reminiscent of an antique – such as the Spinario, or the Wrestlers. Unsurprisingly,
he frequently cited the Laocoonte and the Torso, but the most recurrent is the
Spinario in the Campidoglio – even though the head is not the original one -- for
which several drawings of the complex pose made from different angles survive. The Spinario pose is already chosen by one of
the pupils of Gozzoli for this particular purpose of the antique-imitating live
model, and it remains one of the most popular, even, easiest, for posing the
live model – everyone has a thorn! -- Rubens’s drawings of the Spinario convey
the essence of Rubens’s attitude towards the ideal human form, and the
Spinario’s attitude towards his own thorn. By posing flesh as imitatiang
another substance imitating flresh, Rubens – or the artist who does this -- is
able to bypass the dangers of the ‘matter’ to focus only on the complex form and
pose of the original statue or statuary group or syntagma (think Lottatori!). Back
in Antwerp, Rubens retains until his death his drawings after the Antique,
bound together in separate books, as a distinctive part of the collection of
his house-museum, which hosted also numerous antiquities. They remain a
constant source of inspiration and they may also have been used as teaching
tools – as in the best tradition of Renaissance workshop practices – judging by
the copies deposited by his pupils in the cantoor, Rubens’s cabinet or studio.
The flux of artists coming to Rome did not cease, although most become
fascinated by the radical naturalism of Caravaggio and his followers, rather
than aiming at recreating the principles of classical art. A group of artists even
develops a successful speciality in the depiction of contemporary Roman street
life and everyday reality: a rustic tavern, a drinking scenes, brigands, street
vendors, charlatans and carnivals. The art of the ‘Bamboccianti’, so named
after their leader, Laer, dubbed ‘Bamboccio’, or ‘ugly puppet’, is fiercely
criticised as a debased form of art that deliberately chose the ‘worst’ of nature
(cf. verismo, and the customs of realistic naturalism) by the supporters of
classicism and history painting, such as Albani, Sacchi, and Rosa, as well as
by the philosophers of ‘ideal beauty’ such as Bellori. In contrast to the
Dutch, among the foreign communities in Rome, it was the French who are to take
the lead in the cause of classicism, the defence of Ideal Beauty and the copy
and study of the Antique. The contrasting attitudes of artists towards the
study of art in Rome is perfectly visualised in a canvas by Goubau, a Flemish
painter influenced by the Bamboccianti, who had been in Rome. On the right,
judicious [Rubens, Study of the Laocoön Seen from the Back, c. 1606–08, black
chalk, 440 × 283 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. 624, F 249 inf. n. 5, 11.
Rubens, Study of the Younger Son FIGLIO PIU GIOVANE of the Laocoön Seen from
the Back, black chalk, 444 × 265 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. 623, F
249 inf. n. 5, 11] artists under the supervision of a master are busy at work
among imaginary Roman ruins, copying and measuring an ancient statue or a relief,
among them the ERCOLE FARNESE; on the left the Bamboccianti indulge in the
pleasures of wine and music under the pergola of a rustic tavern. Nevertheless,
this wittily expressed opposition should not be taken too literally, as the
educational and inspirational role of classical statuary had been deeply
assimilated by artists of every inclination or aesthetic Many move between
genres and artistic currents such as the Flemish genre painter Lint, who
produced many drawings after the Antique while in Rome. Even those close to the
Bamboccianti clearly treasured the didactic role of classical statuary, as can
be seen in the depictions of workshops and artists at work by the Flemish Sweerts.
The Antique, and its didactic role in the Italian model of artistic education,
also made rapid progress in all of civilised Europe, supported by the
publication of Karel van Mander’s Schilderboeck. Knowledge was transmitted
mainly through drawings, drawing-books and plaster casts. These are used in the
drawing schools or private academies that proliferate, some of which were
founded by the same artists who had been exponents of the Bamboccianti in Rome.
These drawing schools often had to struggle against regulations by the guilds,
which remained the dominant associations for artists, dictating what goes on in
a workshop – the notable exception being the academy founded in Antwerp by
royal [Goubau, The Study of Art in Rome, 1662, oil on canvas, 132 × 165 cm,
Royal Museum of Fine Arts, Antwerp, inv. 185] decree. But despite the heavy
hands of the guilds, many thriving workshops, while accepting individual
apprentices, adopt *Italian* academic practices, such as conducting classes for
groups of students, or implementing a training programme focused on drawing and
the mastery of the human form. This often included the ‘alphabet of drawing’,
as was the practice of Rembrandt’s studio in Amsterdam, in which many students were
taught annually, and of Rubens, who, as court painter, did not have to register
his apprentices with the Antwerp guild.142 According to Van Mander, another
studio famous for its educational efficacy was that of Abraham Bloemaert in
Utrecht (see cat. 11).143 During the second half of the century, other private
drawing schools or ‘colleges’ were founded, which cater for a clientele of
artists or the dilettanti giving them the chance to draw from casts and the
nude live model alongside their studio practice. Among the most famous are those
of Sweerts, opened in Brussels and of Bisschop in The Hague. Closely connected
with workshops’ and schools’ drawing practices was the proliferation of
drawing-books and artists’ manuals. Most of them were based on the example of
Odoardo Fialetti’s Il Vero Modo and Giacomo Franco’s De excellentia et
nobilitate delineationis (1611) sometimes re- printing parts of them.147 Like
their Italian predecessors, Netherlandish drawing-books focused on the human
form, on classical statuary, and on the different stages of the academic
learning process.148 The increasing importance of 38 39 the Antique
in the Netherlands is well expressed by the various Dutch translations of
François Perrier’s Segmenta (1638) – the most successful collection of prints
after classical statues of the 17th century (fig. 57 and cat. 16, figs 3–6) –
and by the equal success of its Dutch counterpart, Jan de Bisschop’s Icones
(1668, see cat. 13), explicitly compiled as a teaching tool.149 Antique models
were also copied by young Northern artists in three dimensions, thanks to the
proliferation of casts, as shown in the frontispiece of Abraham Bloemaert’s
Konstryk Tekenboek (c. 1650) – one of the most influential draw- ing-books of
the second half of the century (see cat. 11). Many studios and drawing schools
owned collections of casts, often of famous prototypes such as the Laocoön or
the Apollo Belvedere. Inventories of the studios of Cornelis Cornelisz. van
Haarlem, Hendrik van Balen (1575–1632), and Rembrandt, for instance, testify to
their presence.150 The diffusion of casts appears explicitly in the numerous
paintings depicting young artists at work, which became popular from the middle
of the century onwards (figs 49–53, see also cats 12 and 14). These works
constitute an individual iconographical genre that probably derives from
Fialetti’s striking etching (see cat. 10), which, as we have seen, was well
known and reprinted several times in the Netherlands.151 This genre was
practised mainly by Jacob Van Oost the Elder (1601–71, 50), Wallerant Vaillant
(1623–77, 51), Balthasar Van den Bossche (1681–1715) and Michael Sweerts (fig.
52 and cat. 12), whose canvases tend to represent the ideal training curricu-
lum, where the copying of plaster casts after the Antique has the place of
honour.152 As ‘low’ genre paintings that celebrate the didactic role of the
Antique – traditionally considered to be essential for the lofty genre of
history painting rather than for scenes of daily life – they indirectly attest
to the ubiquitous penetration of classical models in all 17th-century artistic
practices. Incidentally they are also a direct visual source for the most
widely diffused typologies of classical statues in the North of Europe in the
17th century: from busts of the Apollo Belvedere (figs 18 and 50), of the
Laocoön group, both father and sons (figs 19 and 51), and of the so-called
Grimani Vitellius (fig. 52), to reduced copies of the Spinario (figs 15 and
49), the Belvedere Antinous (figs 22 and 51), the Venus de’ Medici (figs 53 and
56), and the Farnese Hercules (see 32 and cat. 14). Also frequently depicted are
busts of Niobe (see 34 and cat. 12), reduced copies of the Wrestlers (fig. 33)
and the Borghese Gladiator (fig. 54). The Italian and the French Academies in
the Seventeenth Century and the Establishment of Classicism The 17th century
witnessed dramatic changes of attitude towards the study of the Antique in
terms of codification, diffusion and theoretical debate; at the same time it
saw the formulation of a style heavily dependent on classical sculp- ture,
setting the stage for the final affirmation of classicism as a pan-European
phenomenon in the following century. The selection of the most significant
antique statues, begun in the 16th century, was further refined, especially in
the cos- mopolitan antiquarian environment of Rome. Excavations continued and
some of the new discoveries immediately joined the canon of ideal models. Three
of them, in particu- lar, were ubiquitously reproduced and copied in studios
and academies: the Borghese Gladiator (fig. 54), discovered in 1611, which soon
became the preferred model for the anatomy of the muscular man in action; the
Dying Gladiator (fig. 55), first mentioned in 1623, whose complex pose could be
drawn from different angles and which offered an ideal of heroic pathos
expressed in the moment of death; and finally, the Venus de’ Medici (fig. 56),
first recorded in 1638 but possibly known in the late 16th century, which
rapidly became the most admired embodiment of the graceful female body.153 New
collections gradually replaced earlier ones and a few families succeeded in
acquiring some of the newly discovered statues that had gained canonical
status. The magnificent urban palaces and suburban villas of the Medici,
Farnese, Borghese, Ludovisi and Giustiniani attracted an increasing number of
visitors and artists, becoming privileged centres for the study of the Antique,
and family names became attached to certain statues, as the Farnese Hercules or
the Venus de’ Medici testify.154 Some of these, such as the Palazzo Farnese
(see cat. 21), and the Casino Borghese retained their status as ‘private
museums’ until the end of the 18th century. Prints continued to play a vital
role in the dissemination of images of classical statues throughout Europe.
They were produced predominantly in Rome, where, as in the 16th century, French
printmakers played a prominent role along- side Italian antiquarians and
engravers.155 Among others, the publications of François Perrier (1594–1649)
and the duo comprising the antiquarian and theoretician Giovanni Pietro Bellori
(1613–96) and the engraver Pietro Santi Bartoli (1615– 1700), offered artists
and the educated public a choice of 54. Agasias of Ephesus, Borghese Gladiator,
c. 100 bc, marble, 199 cm (h), Louvre, Paris, inv. Ma 527 55. Dying Gladiator,
Roman copy of a Pergamene original of the 3rd century bc, marble, 93 cm (h),
Capitoline Museums, Rome, inv. MC0747 49. (top left) Jan ter Borch, The Drawing
Lesson, 1634, oil on canvas, 120 × 159 cm, Rijksmuseum, Amsterdam, inv.
SK-A-1331 50. (top right) Jacob van Oost the Elder, The Painter’s Studio, 1666,
oil on canvas, 111.5 × 150.5 cm, Groeningenmuseum, Bruges, inv. 0000.GRO0188.II
51. (bottom left) Wallerant Vaillant, The Artist’s Pupil, c. 1668, oil on
canvas, 119 × 90 cm, Bonnefantenmuseum, Maastricht, inv. 673 52. (bottom
centre) Michael Sweerts (attr.), Boy Copying a Cast of the Head of Emperor
Vitellius, c. 1658–59, oil on canvas, 49.5 × 40.6 cm, The Minneapolis Institute
of Arts, inv. 72-65 53. (bottom right) Pieter van der Werf, A Girl Drawing and
a Boy near a Statue of Venus, 1715, oil on panel, 38.5 × 29 cm, Rijksmuseum,
Amsterdam, inv. SK-A-472 40 41 the ‘best’ ancient statues and reliefs;
the authority of their selections lasted throughout the 18th century. For
full-length statues, crucial was the appearance in 1638 of Perrier’s Segmenta
nobilium signorum et statuarum (fig. 57 and cat. 16 figs 3–6), a collection of
prints which in many ways fulfils what Goltzius had intended to publish four
decades earlier (see cats 6–7).156 Offering good quality reproductions and different
points of view– three for the Farnese Hercules and four for the Borghese
Gladiator, for instance – Perrier’s images were essential in focusing the
attention of artists on a selected number of models considered exemplary in
anatomy, proportions, poses and expressions. Reprinted and trans- lated several
times, the success of the Segmenta was immense and it was used in studios and
academies as a teaching tool for almost two centuries, as we have seen earlier
in the Netherlands. As late as 1820 John Flaxman was still recom- mending the
use of Perrier to his students at the Royal Academy.157 Such publications were
the results of the antiquarian and theoretical interests of a French-Italian
classicist milieu that flourished in the first half of the century in Rome.158
Innumerable French artists now spent time in the city, filling sketchbooks with
copies after the Antique and Renaissance 56. Venus de’ Medici, Greek or Roman
copy of the 1st century bc of a Greek original of the 4th century bc, marble,
153 cm (h), Uizi, Florence, inv. 224 57. François Perrier, Venus de’Medici,
plate 81, from Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638 masters, and
devoting increasing space to the study of Raphael.159 Two of the most relevant
figures in this context were the great French painter Nicolas Poussin
(1594–1665), who resided in Rome between 1624 and 1665 (with a brief sojourn in
France in 1640–42), and his friend and biographer Giovanni Pietro Bellori,
possibly the most influential art writer of the century, who deserves to be
called the pro- tagonist in the theoretical formulation of classicism. Of
similar significance was the scholar, antiquarian, collector and patron
Cassiano dal Pozzo (1588–1657), a friend of both Poussin and Bellori – and
patron of the former – who assem- bled a vast encyclopaedic collection of
drawings divided by themes, a ‘Paper Museum’, with sections devoted to classi-
cal antiquity commissioned from several contemporary artists.160 Classicism
found probably its clearest and most influen- tial formulations in a landmark
discourse composed by Bellori and delivered in 1664, the year before Poussin’s
death, in the Roman Accademia di San Luca: the ‘Idea of the painter, the
sculptor and the architect, selected from the beauties of Nature, superior to
Nature’ (see Appendix, no. 11). Bellori’s theoretical statement, published as a
prologue to his Vite in 1672, was to become enormously influential in defining
and disseminating the central tenets of the classicist ideal (see cat. 15).161
Joining Aristotelian and neo-Platonic premises, Bellori’s Idea advocates in the
selection of the best parts of Nature according to the right judgement of the
artist in order to create ideal beauty – a concept that we have already
encountered many times. According to Bellori, the Idea had been embodied in art
at several periods of history and he traced its development according to a
scheme of peaks and descents. It took shape first and foremost in the ancient
world and was revived in modern times by Raphael, who is accorded nearly divine
status. After the decadence and excesses of Mannerism, it was revitalised by
the Bolognese Annibale Carracci (1560–1609) and by his pupils and follow- ers,
notably Domenichino (1581–1641). Their flame was kept alive in Bellori’s time
by Poussin and Carlo Maratti (1625– 1713), a protégé of Bellori, who fashioned
himself as the new Raphael and whose Academy of Drawing is the most program-
matic representation of the principles of Roman classicism (see cat. 15).
Bellori’s classicism, heir of the rich debates of the first half of the
century, can be defined as a codification and defence of an idealistic style
and of moralising history painting against the radical naturalism introduced by
Caravaggio and his followers, whose slavish dependence on Nature and choice of
low subjects were seen to undermine the intellectual premises of art. On the
other hand, Bellori also confronted the excesses and liberties of the Baroque,
whose representatives, according to him, leaned towards artificiality and
despised the ‘ancient purity’.162 Classicism in many ways was based on the
princi- ples laid down by the art theory of the second half of the 16th
century, as it shared with it a fundamental premise: the neces- sity of the
defence of what was perceived as the ideal path of art – the ‘bella maniera’ –
against contemporary artistic trends which were considered erroneous or even
noxious.163 The classicist theoretical approach further reinforced the practice
of copying: it reinstated the intellectual value of drawing while providing a
selected group of correct models to follow, with the Antique and Raphael on the
loftiest pedestal. These premises were embraced by the Italian and French
academies, and became the basis of most of the European academies of the
following century – Opie’s words to the young pupils of the Royal Academy in
1807 still reiterate their fundamental tenets. Although the debate was at times
fierce – as for instance within the Accademia di San Luca in the 1630s – a
strict division of 17th-century artists into classicist, naturalist and Baroque
categories would be arbitrary and inaccurate, as many of them moved between
currents and at times incor- porated elements of each in their own creations.
Indeed, artists of all allegiances copied, studied and took inspiration from
the Antique. We know from surviving drawings and contemporary written sources
that ‘classicist’ artists such as Annibale Carracci, Poussin and Maratti copied
antique statues (figs 58–61), yet an equal number of ‘Baroque’ 58. Annibale
Carracci, Head of Pan from the marble group of Pan and Olympos in the Farnese
Collection, 1597–98, black chalk heightened with white chalk on grey-blue
paper, 381 × 245 mm, Louvre, Paris, inv. 7193 artists, such as Rubens
(figs 45–47 and cat. 9), Pietro da Cortona (1596–1669, 62) and Bernini (figs
63–64) spent as much time in absorbing the principles of the Antique.164
Nevertheless their approaches towards the Antique could be very different.
Poussin, the intellectual and antiquarian painter par excellence, copied
hundreds of details from classical sculpture, especially reliefs and
sarcophagi, to give archaeo- logical consistency to his art, so that his
paintings would represent classical histories with the maximum of
accuracy, 42 43 59. Nicolas Poussin, Equestrian Statue of Marcus
Aurelius, c. 1630–32, pen and brown ink and brown wash, 244 × 190 mm, Musée
Condé, Chantilly, inv. AI 219; NI 264 60. Carlo Maratti, The Farnese Flora, c.
1645–70, black chalk, 294 × 159 mm, The Royal Collection, Windsor Castle, inv.
904377 61. Carlo Maratti, or Studio of, The Farnese Hercules, c. 1645–70, red
chalk, 292 × 165 mm, The Royal Collection, Windsor Castle, inv. 904382 62.
Pietro da Cortona, The Trophies of Marius, c. 1628–1632, pen, brown ink, brown
wash, heightened in white, on blue sky prepared paper, 518 × 346 mm, The Royal
Collection, Windsor Castle, inv. RL 8249 integrity and power, an approach in
several ways similar to that of Mantegna and Raphael. Bernini, arguably the
greatest 17th-century sculptor, spent his youth obsessively copying the ancient
statues in the Belvedere (see Appendix, nos 9–10) and in his old age
recommended that students of the Académie Royale in Paris begin their studies
by copying casts of the most famous classical statues before approaching Nature
(see Appendix, nos 9–10). But Bernini’s attitude towards ancient statuary was
poles apart from that of Poussin (whom he nevertheless highly admired): he
assimilated its principles in order to create his own independent forms, at
times deviating radically from the classical model – an atti- tude that we have
already seen in Michelangelo and Rubens. To develop their own style and avoid a
slavish dependency on the Antique – something already stressed by Dolce,
Armenini and Rubens (Appendix, nos 4, 6, 8) – he advised his students to
combine and alternate ‘action and contemplation’, that is to alternate their
own production with the practice of copy- ing (Appendix, no. 10). A wonderful
example that allows us to follow Bernini’s creative process of transforming of
the antique model is provided by a study of the torso of the Laocoön, the
unbalanced and twisted pose of which he then ingeniously adapted in reverse for
the complex attitude of his Daniel (figs 63–66). A recollection of the Laocoön
is further- more recognisable in Daniel’s powerful expression (fig. 66).165 A
practical outcome of the French and Italian theoretical formulation of a
classicist doctrine was the foundation in 1648 of the Académie Royale de
Peinture et de Sculpture in Paris, followed in 1666 by that of the Académie de
France in Rome – the latter intended to give prize-winning students the
opportunity to study the Antique in situ and to provide 44 Louis XIV (r.
1643–1715) with copies of classical and Ren- aissance statues.166 The
foundation of the French Académie in Paris is a turning point in the history of
the teaching of art, as its codified programme – based on Italian examples, and
especially the Roman Accademia di San Luca – would constitute the basis for the
academies that spread over the Western world in the 18th and 19th centuries.
Founded by several artists, most of whom had spent periods in Rome such as
Charles Le Brun (1619–90), the Paris Académie was supported by the monarch and
candidates could apply for admission only after they had trained in a workshop.
Its regulations aimed at full intellectual develop- ment for its students to
prepare them for the creation of the highest genre, history painting, or the
grande manière. Although its curriculum was rather loosely organised and, in the
first tw o decades of its history, fairly tolerant in its aesthetic
positions, during the 1660s the Académie was drastically reformed by the
powerful Minister and Super- intendent of Buildings Jean-Baptiste Colbert
(1619–83) and by Le Brun to become an institution in the service of the
absolutist policy of Louis XIV, with a codified version of classicism as its
official aesthetic. The rationalistic nature of French 17th-century culture
meant that the Académie conceived of art as a science that could be taught by
rules. This was explicitly stated by Le Brun in 1670,167 and efforts were
concentrated in clarifying and applying most of the precepts already devised by
the early Italian academies and theoreticians. If a student followed these
precepts correctly he – and only he, as the institution was limited to male
pupils until the late 19th century – would be able to assimilate the principles
of ideal beauty and create grand art.168 The future European success of this
regimented version of the humanistic theory of art rested exactly in its
rational nature, as a clear system of rules easy to export and replicate,
offering at the same time a safe path towards ‘true’ and universal art. Pupils
were supposed to follow the ‘alphabet of drawing’, from copying drawings, to
casts and statues, to the live model, which remained the most difficult task
and one reserved for the most advanced students. Regular lectures on geometry,
perspective and anatomy were provided. As in Federico Zuccaro’s statutes for
the Accademia di San Luca, professors rotated monthly to supervise the life
class, prizes were awarded to students and regular debates were initiated on
the principles of art – the celebrated so-called Conférences, regularly held
from 1667 onwards on the advice of Colbert, although they faltered by the end
of the century to be revived only a few decades later.169 Other aspects of the
reforms of the 1660s included the division of the drawing course into lower
classes, devoted to copying, and higher classes, for 63. Gian Lorenzo Bernini,
Study of the Torso of the Father in the Laocoön group, c. 1650–55, red chalk
heightened with white on grey paper, 369 × 250 mm, Museum der Bildenden Künste,
Leipzig, inv. 7903 64. Gian Lorenzo Bernini, Two Studies for the Statue of
‘Daniel’, c. 1655, red chalk on grey paper, 375 × 234 mm, Museum der Bildenden
Künste, Leipzig, inv. 7890 65. Gian Lorenzo Bernini, Daniel in the Lion’s Den,
c. 1655, terracotta, 41.6 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 2424 drawing from
the live model. Competitions were further structured to lead towards the
highest reward, the famous Grand Prix or Prix de Rome, which allowed the
winners to spend between three and five years at the Académie de France in
Rome, to complete their education and to assimilate the principles of the
greatest ancient and modern art. The official doctrine of the Paris Académie
was distilled and diffused by André Félibien (1619–95), the most promi- nent
French art theorist of the period, in his preface to the first series of
Conférences held in 1667 and published in 1668. Félibien offered a clear
structure for the hierarchy of genres that would be associated with academic
painting for the next two centuries: at the bottom was still life, followed on
an ascending line by landscape, genre painting, portraiture and finally by
history painting, for which the study of the Antique, of modern masters and of
the live model were considered necessary.170 The first Conférences reveal in
their subjects and approach the central tenets of the Parisian Académie:
paintings by Raphael, Poussin, Le Brun and the Laocoön were meticulously
analysed in their parts according to strict rules: invention, expression,
composition, drawing, colour, proportions etc. Some Conférences were devoted to
specific parts of painting: one given by Le Brun in 1668, on the ‘passions of
the soul’, which was printed posthumously and translated into several
languages, constituted the basis for the study of facial expres- sions until
well into the 19th century.171 The Antique remained one of the favourite
subjects to be dissected by the academicians. After the 1667 Conférence on the
Laocoön (see Appendix, no. 12),172 praised as the ideal model for drawing and
for the ‘strong expressions of pain’,173 many more followed specifically
devoted to the Farnese Hercules, Belvedere Torso, Borghese Gladiator, and Venus
de’ Medici, the ultimate selected canon of sculptures.174 Conférences were also
given on the study of the Antique in general.175 Sébastien Bourdon’s (1616–71)
Conférence sur les proportions de la figure humaine expliquées sur l’Antique,
in 1670 advised students to fully absorb the Antique from a very early age,
measure precisely its proportions and control ‘compass in hand’ the 66. Gian
Lorenzo Bernini, Daniel in the Lion’s Den, 1655–57, marble, over life-size,
Chigi Chapel, Santa Maria del Popolo, Rome 45 live model against
classical sculptures, as they are never arbitrary – a method, according to
Bourdon, approved by Poussin.176 This extreme rationalistic approach, based on
the actual measurement of the Antique, which, as we will see, would generate
opposition, was put into practice by Gérard Audran (1640–1703), engraver and
‘conseiller’ of the Académie (Appendix, no. 13). His illustrated treatise of
1682 (figs 72–73) provided students with the carefully measured proportions of
the antique statues that they were supposed to follow and became a standard
reference work in many languages, continuously republished until 1855. While
the Académie de France in Rome must have started accumulating casts after the
Antique from early on – the inventory of 1684 lists a vast collection of
statues, reliefs, busts, etc.177 – it is not entirely clear how readily the
students of the Académie in Paris had access to casts or copies in the first
decades of the institution’s history. Bernini, in his 1665 visit, explicitly
advised the formation of a cast collection for the Parisian Académie, and some,
among them a Farnese Hercules, were ordered or donated in the following
years.178 But although students certainly copied casts already in Paris, full
immersion in the practice was reserved for the period they spent in Rome.179
‘Make the painters copy everything beautiful in Rome; and when they have
finished, if possible, make them do it again’ Colbert tellingly wrote in 1672
to Charles Errard (c. 1606–9 – 1689), the first Director of the Académie de
France in Rome.180 In Rome a similar practice was encouraged in the Accademia
di San Luca, which, like its Parisian counterpart, was significantly reformed
in the 1660s, perhaps a sign of the increasingly important reversal of
influence, from France to Italy. From the beginning of the presidency of Carlo
Maratti in 1664, a staged drawing curriculum, competitions and lectures were
implemented and new casts were ordered (see cat. 15).181 Some twenty years
later the Accademia received the donation of hundreds of casts of antique
sculp- tures from the studio of the sculptor and restorer Ercole Ferrata
(1610–86).182 Sharing the same values and similar curricula, in 1676 the Accademia
di San Luca and the Parisian Académie Royale were formally amalgamated and on
occa- sion French painters even became principals of San Luca – Charles Errard
in 1672 and 1678, and Charles Le Brun in 1676–77.183 But the Italians could
never feel wholly comforta- ble with the extreme rationalisation of art
characteristic of so much French theory.184 After the publication of the French
Conférences, debates were held in defence of the Vasarian tradi- tion and of
the value of grace, judgement and natural talent against the rules and the
overly rational analysis of art and the Antique by the French.185 The engraving
by Nicolas Dorigny (1658–1746) after Carlo Maratti is the most eloquent 46
visual expression of this intellectual confrontation that con- tinued into the
1680s (cat. 15). Some of the most doctrinal aspects of the Parisian academy
also generated an internal counteraction and the supporters of disegno,
classicism and Poussin, headed by Le Brun, were challenged by the promot- ers
of Venetian colore and Rubens, led by the artist and critic Roger de Piles
(1635–1709) and by the painter Charles de la Fosse (1636–1716). The battle
between ‘Poussinisme’ and ‘Rubénisme’ – a new incarnation of the debate started
more than a century earlier by Giorgio Vasari and Lodovico Dolce – captured the
imagination of the French academic world between the end of the 17th and the
first decade of the 18th centuries. The victory of the Rubénistes led the way
to a freer, anti-classicist and more painterly aesthetic and to the eventual
affirmation of the Rococo in French art.186 But the next century would also
witness the triumph of the classicist ideal, as its principles spread all over
Europe. The Antique Posed, Measured and Dissected Given the rationalistic
approach of French artists and theo- rists to the Antique – ‘compass in hand’ –
it does not come as a surprise that, during the 17th century, they actually
started to measure ancient statues in order to tabulate their pro- portions.
And as well as measuring statues they began to merge the study of anatomy with
study of the Antique to provide young students with ideal sets of muscles to
copy. Such efforts produced a series of extremely influential drawing-books
filled with fascinating and disturbing images, in which ancient bodies are
covered by nets of numbers or flayed and presented as living écorchés. In a way
it was inevitable that the study of human propor- tions applied by Alberti,
Leonardo and Dürer to living bodies 67. Peter Paul Rubens, Study of the Farnese
Hercules, c. 1602, pen and brown ink, 196 × 153 mm, The Courtauld Gallery,
Samuel Courtauld Trust, London, inv. D.1978.PG.427.v, 68. Charles Errard,
Antinous Belvedere, plate on 457 in Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’
pittori scultori e architetti moderni, Rome, 1672 would eventually be merged
with the study of the ideal bod- ies of ancient statues, to test Vitruvius’
assertion that ancient artists worked according to a fixed canon (Appendix, no.
1). The main problem was that the canonical proportions of 5th-century bc
sculpture had been disregarded from the 3rd century bc onwards. Furthermore, as
we now know, most of the ‘perfect’ Greek statues were actually modified Roman
copies of lost originals. The measuring efforts of 17th- century art theorists
were therefore for the most part in vain, as most of the revered marbles did
not embody the principles of commensurability and overall harmonic proportion
that they believed they did. Although we have seen that Raphael had already
initiated the practice of measuring statues (fig. 27), the first to refer
explicitly to this exercise is Armenini in his 1587 De veri precetti della
pittura, in which a chapter is devoted specifically to the ‘measure of man
based on the ancient statues’.187 Rubens also devoted much attention to trying
to discover the perfect num- bers and forms of ancient statues, dividing for
instance the Farnese Hercules, the strongest type of male body, according to
series of cubes, the most solid of the perfect forms (fig. 67).188 Not
surprisingly, Poussin’s approach to the Antique in Rome was similar, and we
know from Bellori that he and the sculptor François Duquesnoy (1597–1643)
‘embarked on the study of the beauty and proportion of statues, measuring them
together, as can be seen in the case of the one of Anti- nous’ – two
illustrations of which he published in Poussin’s life in his Vite (fig. 68).189
But the first artist to provide accurate drawings of the most famous statues
was the future founding director of the Académie de France in Rome, Charles Errard,
who, later, also provided the measured Antinous illustrations for Bellori’s
Vite (fig. 68). In collaboration with the theorist Roland Fréart de Chambray
(1606–76), and most likely inspired by Poussin, he executed in 1640 a series of
intriguing measured red chalk drawings today preserved at the École des
Beaux-Arts in Paris (figs 69–71).190 Produced only two years after the
publication 69. Charles Errard, or collaborator, Measured
Drawing of the Belvedere Antinous, 1640, red chalk, pencil, pen and brown ink,
430 × 280 mm, École nationale supérieure des Beaux-Arts, Paris, inv. PC6415,
no. 27 70. Charles Errard, Measured Drawing of the Laocoön, 1640, red chalk,
pen and brown ink, 430 × 280 mm, École nationale supérieure des Beaux-Arts,
Paris, inv. PC6415, no. 11 71. Charles Errard, Measured Drawing of the Venus
de’Medici, 1640, red chalk, pencil, pen and brown ink, 430 × 280 mm, École
nationale supérieure des Beaux-Arts, Paris, inv. PC6415, no. 28 47 of
Perrier’s successful Segmenta, Errard’s drawings were clearly intended to be
published and to present young artists with a set of certain and ideal
proportions on which they could base their own figures. A similar search for
discipline was undertaken by Fréart de Chambray, and later by other theorists,
among the remains of ancient architecture, which involved an even more intense
effort to discover their ‘perfect’ proportions. Although a few of Errard’s
drawings were published in 1656 by Abraham Bosse – the first professor of
perspective of the Parisian Académie Royale – the first successful manuals
appeared in the 1680s, as a result of the theoretical debates on the
proportions of ancient statues held in the Académie during the previous
decade.191 By far the most influential was a manual we have already
encountered, Gérard Audran’s Proportions du corps humain mesurées sur les plus
belles figures de l’antiquité, published in 1683 (Appendix, no. 13). This
provided a fully ‘classicised’ drawing-book, following the ‘alphabet of
drawing’ from the measured eye, nose and mouth of the Apollo Belvedere (fig.
72), to whole canonical statues, such as the Laocoön (fig. 73). Audran’s book,
republished several times in various languages, became the model for many
similar publications that appeared during the 18th and early 19th centuries and
espoused a practice embraced by many artists. Examples from different nations
include a Dutch manual, where, fascinatingly, the Apollo Belvedere is presented
according to Vitruvian principles (fig. 74; see also 2 and Appendix, no. 1);
drawings by the sculptor Joseph Nollekens (1737–1823; 75); and measured notes
drawn by Antonio Canova over an engraving of the Apollo Belvedere from a
didactic series of prints after the Antique (fig. 76).192 In addition to being
carefully measured, antique bodies were also dissected. If classical statues
displayed perfect anat- omies, then, it was thought, they would offer an ideal
starting point for young students to study bones and muscles. Combining the
study of the Antique with that of anatomy was intended to reinforce the
familiarity of young artists with ancient canonical models, now also analysed
from the inside. Students until then had trained mainly on the immensely
influential De humani corporis fabrica, published by Andrea Vesalius in 1543,
and on the anatomical treatises that were based on it, but from the late 17th
century new ‘classicised’ manuals appeared.193 The first, Anatomia per uso et
intelligenza del disegno..., based on drawings by Errard, was published in 1691
by Bernardino Genga (1655–1720), professor of anatomy at the Académie de France
in Rome.194 Probably conceived much earlier, the set of engravings included
fascinating and somewhat morbid images of the skeletons of classical statues
(figs 77–78; although these were not eventually included in the book) and
several different views of the muscles of the strongest types of ancient
prototypes, the Laocoön, the Borghese Gladiator, the Farnese Hercules and the
Borghese Faun (figs 79–80).195 Genga and Errard’s Anatomia was a model for
several similar books which appeared in the 18th and early 19th centuries to
satisfy the needs of the increasingly classicistic curricula of European
academies. Not surprisingly, only male antiquities, and usually the most
muscular ones, were illustrated, both for reasons of decorum and also because
the 74. Jacob de Wit, Measured ‘Apollo Belvedere’, plate 8 in Teekenboek der
proportien van ‘t menschelyk lighaam, Amsterdam, 1747 75. Joseph Nollekens,
Measured Drawing of the ‘Capitoline Antinous’, 1770, pen and brown ink over
traces of black chalk, 431 × 292 mm, Ashmolean Museum, Oxford, inv. DBB 1460 76.
Giovanni Volpato and Rafaello Morghen, Measured ‘Apollo Belvedere’, engraving
(with inscribed measures in pencil, red chalk, pen and brown ink by Antonio
Canova), post 1786, plate 35 in Principi del disegno. Tratti dall più
eccellenti statue antiche per il giovanni che vogliono incamminarsi nello
studio delle belle arti, Rome, 1786, Museo Civico, Bassano del Grappa, inv. B 42.69 Audran, Measured Details of the ‘Apollo Belvedere’, plate 27
in Les Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures de
l’antiquité, Paris, 1683 73. Gérard Audran, Measured ‘Laocoön’, plate 1 in Les
Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures de
l’antiquité, Paris, 1683 48 49 77. (above left) After
Charles Errard, The Skeleton of the ‘Laocoön’, c. 1691, engraving, 328 × 198
mm, Bibliothèque des Arts décoratifs, Paris, Album Maciet 2-4 (4) 78. (above
centre) After Charles Errard, The Skeleton of the ‘Borghese Gladiator’, c.
1691, engraving, 334 × 280 mm, Bibliothèque des Arts décoratifs, Paris, Album
Maciet 2-4 (1) 79. (above right) After Charles Errard, Anatomical Figure of the
‘Borghese Gladiator’, c. 1691, plate 51 in Bernardino Genga and Charles Errard,
Anatomia per uso et intelligenza del disegno . . ., Rome, 1691 80. (left) After
Charles Errard, Anatomical Figure of the ‘Laocoön’, c. 1691, plate 43 in
Bernardino Genga and Charles Errard, Anatomia per uso et intelligenza del
disegno . . ., Rome, 1691 male body was believed to provide more
anatomical infor- mation compared to the female one. One of the most dis-
turbingly accurate, printed in two colours to distinguish the muscles from the
bones, is the Anatomie du Gladiateur combatant ... published in 1812 by the
military surgeon Jean- Galbert Salvage (1772–1813). Although this provided a
precise anatomical analysis of the head of the Apollo Belvedere (fig. 81), its
main focus was on the anatomy of the Borghese Gladiator analysed in all its parts
(fig. 82). The accuracy of the manual’s plates made it extremely influential
throughout Europe.196 81. Nicolaï Ivanovitch Outkine after Jean-Galbert
Salvage, Muscles and Bones of the Head of the ‘Apollo Belvedere’, engraving in
two colours, plate 1 in Jean Galbert Salvage, Anatomie du Gladiateur combatant
..., Paris, 1812 82. Jean Bosq after Jean-Galbert Salvage, Anatomical Figure of
the ‘Borghese Gladiator’, engraving in two colours, plate 6 in Jean Galbert
Salvage, Anatomie du Gladiateur combatant ..., Paris, 1812 50 The stress on
anatomical precision also produced a spectacu- lar three-dimensional écorché of
the Borghese Gladiator created by Salvage in 1804 and acquired as a teaching
tool in 1811 by the École des Beaux-Arts, where it remains (fig. 83).197 An
earlier model, which had served as inspiration for Salvage, was the gruesomely
naturalistic écorché posed as the Dying Gladiator (see 55) made by William
Hunter (1718– 83), the professor of anatomy at the Royal Academy of Arts in
London, in collaboration with the sculptor Agostino Carlini. Casted on the body
of an executed smuggler, it was aptly Latinised as Smugglerius.198 The Antique
found its way into academic anatomical manuals for students throughout the 19th
century, and its pervasiveness was enormous, extending even beyond Western
culture. A plate with a flayed Laocoön from the popu- lar Anatomie des formes
extérieures du corps humain, published in 1845 by Antoine-Louis-Julien Fau
(fig. 85), served as inspira- tion for a popular artists’ manual produced in
Japan at the end of the century, resulting in an extraordinary image which
fuses the Western canon and the Japanese woodblock print tradition of the
Ukiyo-e (fig. 86).199 The osmosis between the Antique and other disciplines of
the academic curriculum gained ground also in the study of the live model. We
have seen that already in the 15th century it was common practice to pose
apprentices in imitation of ancient sculpture (see 14), and great artists like
Rubens often returned to this expedient (see cat. 9). But the practice became
increasingly diffused within the codified curricula of French and Italian
academies during the 17th and 18th centuries (figs 87–89). Recommended by several
83. Jean-Galbert Salvage, Écorché of the ‘Borghese Gladiator’, 1804, plaster,
157 cm (h), École nationale supérieure des Beaux-Arts, Paris, inv. MU11927 84.
(top left) William Pink after Agostino Carlini, Smugglerius, c. 1775 (this copy
c. 1834), painted plaster, 75.5 × 148.6 cm, Royal Academy of Arts, London, inv.
03/1436 85. (middle left) M. Léveillé, Anatomical Figure of the ‘Laocoön’, lithography,
plate 24 in Antoine-Louis-Julien Fau, Anatomie des formes extérieures du corps
humain, Paris, 1845 86. (middle right) Anatomical Figures of the ‘Laocoön’ and
of a Small Child, woodblock print, plate in Kawanabe Kyo-sai, Kyosai Gadan.
(bottom left) Antoine Paillet, Drawing of a Model Posing as the ‘Laocoön’,
1670, black and white chalk on brown paper, 580 × 521 mm, École nationale
supérieure des beaux-arts, Paris, inv. EBA 3098 88. (bottom centre) Giuseppe
Bottani, Drawing of a Model in the Pose of the ‘Lycean Apollo’ Type, c.
1760–70, red and white chalks on red-orange prepared paper, 423 × 270 mm,
Philadelphia Museum of Art, inv. 1978-70-197 89. (bottom right) Jacques-Luois
David, An Academic Model in the Pose of the ‘Dying Gaul’, 1780, oil on canvas,
125 × 170 cm, Musée Thomas Henry, Cherbourg, inv. MTH 835.102 51
academicians, posing the live model with the same tension and flexing of
muscles as the ancient statues encouraged students to correct their drawings
after fallible Nature against the perfection of the antique examples and to
derive universal principles from particular living models (see cats 16 and
27b).200 The Eighteenth Century and the Diffusion of the Classical Ideal The
seeds planted by 17th-century classicist theory fully blossomed during the 18th
with the affirmation of Neo- classicism in the second half of the century.
Supported by and supporting the exponential diffusion of academies – from some
nineteen in 1720 to more than 100 in 1800 – the cult of the Antique spread to
the four corners of Europe, from St Petersburg to Lisbon and beyond.201 The
‘true style’, as classicism was often called in the 18th century, was inextri-
cably linked with many of the values of Enlightenment culture: in an age in
search of order and universal principles, the appeal of the rational and
‘eternal’ ideals embodied by classical statuary proved irresistible. At the
same time they provided a useful tool for existing political powers and a for-
midable one for new authorities in search of legitimisation. The new academies
based their curricula mainly on that of Paris and Rome, and the didactic role
assigned to the Antique was physically imported through an army of plaster
casts – the ‘Apostles of good taste’ – as Denis Diderot called them, which
became the most recognisable trademark of the newly founded institutions (fig.
90).202 The progressive method of the ‘alphabet of drawing’ definitively
established itself as the basis of the training of European artists well into
the 20th century. Not necessarily followed in practice, as students often
wanted to rush to the copy of the live model, its didactic value was, in 90.
After Augustin Terwesten, The Life Academy at the Royal Academy of Fine Arts in
Berlin, engraved vignette on 217 from Lorenz Beger, Thesaurus Brandenburgicus
Selectus...,3, Berlin, 1701 theory, supported by the vast majority of
academies.203 The plate illustrating the entry on ‘Drawing’ in Diderot and
D’Alembert’s epochal Encyclopédie significantly focuses on the three steps,
being followed in different media (fig. 91).204 While the French model was
spreading throughout Europe during the first half of the century, ironically
the Parisian Académie itself underwent a period of crisis. After the death of
Colbert in 1683 and of Le Brun in 1690, the royal institution became
decreasingly relevant in determining the direction of the national school of
painting. Financial constraints and the waning of royal patronage coincided
with the fact that the vital forces of French art were becoming less interested
in adhering to the precepts of the Académie. A change in taste under the
regency of Philippe d’Orléans (r. 1715–23) favoured the so-called petite
manière, a form of painting dealing with light-hearted subjects – ‘bergeries’,
‘fêtes galantes’ – against the grande manière. Partly as a conse- quence, the
traditional curriculum of the Académie, centred on the study of the human
figure to prepare for history painting, was increasingly neglected.205 But
things changed radically in 1745 with the appointment of Charles-François- Paul
Le Normant de Tournehem – the uncle of Madame de Pompadour – as Surintendant
des Bâtiments du Roi, the official protector of the Académie Royale on behalf
of the king. He initiated a reform involving the reinvigoration of royal
patronage, the re-establishment of Conférences and, more generally, a series of
initiatives aimed at re-establishing the leading role of the Académie and of
history painting in the French art world.206 The principles of Le Normant’s
reform, supported by the influential antiquarian and theorist Comte de Caylus
(1692–1765) and visualised by Charles-Joseph Natoire’s beautiful drawing (cat.
16), paved the way for the final affirmation of the grande manière in the
second half of the century, despite the continuing clamour of dissenting
voices. If Paris progressively became the centre of the modern art world, Rome
retained its status as the ‘academy’ of Europe 91. Benoît-Louis Prévost after
Charles-Nicolas Cochin the younger, A Drawing School, plate 1, illustrating the
entry ‘Dessein’ from Denis Diderot and Jean Le Ronde D’Alambert, Encyclopédie
..., Recueil de planches, sur les sciences, les art libéraux, et les arts
méchaniques ..., Paris, 1763,20 where a thriving international community of
artists congre- gated to round off their education in the physical and spirit-
ual presence of the Antique and the great Renaissance masters.207 The crucial
role that Rome occupied in 18th- century culture is evoked in the words of the
most famous art critic of the age and the champion of classicism Johann Joachim
Winckelmann (1717–68): ‘Rome’ he wrote in his letters ‘is the high school for
all the world, and I also have 208 been purified and tried in it’. Of course,
artists and travel- lers had visited the city to study its art for at least two
centu- ries, but the 18th century represented Rome’s golden age as the
traveller’s ultimate destination. The Grand Tour – as the trip to Italy and to
Rome was known – became a social and cultural phenomenon that included artists,
antiquarians, collectors and, in general, members of European elites.209 It
generated an industry of collectibles that travellers could bring back to their
homeland, and an army of original ancient statues and modern copies in all
media was exported, alongside portraits and paintings of various kinds that
would powerfully recall the time spent by their owners in the eternal city.
Among the most fascinating and systematic evocations of Rome are a series of
celebrated canvases by Giovanni Paolo Panini (1691–1765), where ‘the best of
the best’ of Roman sites and antiquities are gathered together in imaginary
galleries. In the foreground of 92, (see also cat. 20, 5) artists are busy drawing
and measuring with their compasses a selected choice of canonical classical
statues – a reminder of one of the most widespread artistic activities in the
city.210 The demands of the Grand Tour ‘industry’ also generated a specific
category of ‘marketable drawings’ after the Antique destined to fill the ‘paper
museums’ of collectors and anti- quarians all over Europe. They were mainly
produced for collectors and travellers from Britain, a nation that became
increasingly important in the study of the Antique through- out the century.
Among the most famous drawings were those produced in the workshop of the
entrepreneurial painter Francesco Ferdinandi Imperiali (1679–1740) in the 1720s
by various painters and draughtsmen – among them Giovanni Domenico Campiglia
(1692–1775; see cats 19–20) and the young Pompeo Batoni (1708–87; 93).211
Created for the extensive collection of the antiquarian Richard Topham
52 53 92. Giovanni
Paolo Panini, Roma Antica, 1754–57, oil on canvas, 186 × 227 cm, Staatsgalerie
Stuttgart, inv. Nr 3315 (1671–1730), Batoni’s red chalk drawings
are among the most extraordinary produced in the 18th century. With their
preci- sion, attention to detail, fidelity to the originals and frontal
viewpoint, they encapsulate many of the typical qualities of this category of
drawings. Their manner continues and devel- ops some of the characteristics
already seen in the classicist drawings of Carlo Maratti, of whom Batoni was
the natural artistic heir (figs 60–61). Growing interest in the classical past
was also supported by massive expansion in antiquarian publications, such as
the monumental Antiquité expliquée (Paris, 1719–24) by the Abbé Bernard de
Montfaucon, an illustrated encyclopaedia of the Antique for the use of the
European educated public. Artists could also benefit from an increase in
printed collec- tions of classical statues.212 Paolo Alessandro Maffei and
Domenico de Rossi’s Raccolta di Statue Antiche e Moderne (1704) set new
standards of accuracy, and it was followed by the various sumptuous volumes
devoted to the antiquities of the Grand Ducal collection in Florence and of the
Capitoline Museum in Rome (see cats 19–20). With its wealth of patrons,
artistic competitions, acade- mies and artists’ studios, many displaying
collections of casts, Rome also offered an unrivalled opportunity to learn and
practice the arts of disegno.213 The classicist direction given to the
Accademia di San Luca by Giovanni Pietro Bellori and Carlo Maratti, was
sanctioned by the Pope Clement XI (r. 1700–21) who in 1702 established papal-
supported competitions, the celebrated Concorsi Clementini, which thrived
especially during the second half of the century (see cat. 20).214 Open to all
nationalities, the Concorsi 93. Pompeo Batoni, Drawing of the Ceres of Villa
Casali, c. 1730, red chalk, 469 × 350 mm, Eton College Library, Windsor, inv.
Bn. 3, no. 45 were divided into three classes of increasing difficulty, the
third and lowest class being reserved for copying, usually after the Antique
(see cat. 20, 4). This reinforced, as nowhere else in Europe, the study of
classical statuary as the cornerstone of the artist’s education, giving to
Italian and foreign artists alike the chance to be rewarded publicly in
sumptuous ceremonies held in the Capitoline palaces, even in early stages of
their careers. The cosmopolitan atmos- phere of the Accademia di San Luca is
reflected in the fact that among its Principals were several foreigners, such
as the Frenchman Charles-François Poerson (elected 1714) or the Saxon Anton Raphael
Mengs (1771–2) and the Austrian Anton von Maron (1784–6). The Accademia was
also open to leading women painters such as Rosalba Carriera (1675–1757) or
Elisabeth-Louise Vigée Le Brun (1755–1842), although they were not allowed to
attend meetings. Crucial for artistic education was the opening of the
Capitoline as a public museum in 1734, thanks to the enlight- ened policy of
Pope Clement XII (r. 1730–40).215 One of the main reasons behind the papal
decision was specifically to support ‘the practice and advancement of young
students of the Liberal Arts’ through the copy of the Antique.216 An evocative
vignette inserted in the Musei Capitolini – the first sumptuously illustrated
catalogue of the collection – reflects the popularity of its cluttered rooms
among artists of all nations (see cat. 20). With the opening in the Capitoline
of the Accademia del Nudo in 1754 – specifically devoted to the study of the
live model and controlled by the Acca- demia di San Luca – the museum became a
sort of ideal academy where art students could copy concurrently from the
Antique, Old Masters paintings and the live model.217 Apart from the Capitoline
and other traditional places, such as the Belvedere Court or the aristocratic
palaces where original antiquities could be studied in situ (cat. 21), the
other favoured locus for the study of the Antique in the city was the Académie
de France in Rome, which owned the largest collection of plaster casts in
Europe. Although the Académie, like its Parisian counterpart, had gone through
a troubled period in the early decades of the century – the Prix de Rome was
cancelled for lack of funds in 1706–8, 1714 and 1718–20 – its role was revamped
and its practices drastically reformed under the directorship of Nicholas
Vleughels (1668–1737) between 1725 and 1737.218 The casts were redisplayed in
Palazzo Mancini, the Académie’s prestigious new location on the Corso, and
integrated for didactic purposes with the study of the live model (see cat.
16). The collection of the Académie served as an example for similar
institutions throughout Europe, as its arrangement of many copies side- by-side
was considered ideal for the assimilation of classical forms. With the
advancing neo-classical aesthetic, their flawless white appearance was even preferred
for didactic purposes above the originals: young students could concen- trate
on their purified forms, without the signs of time shown by real antiquities.
No other nation had as many members in Rome as France, both as pensionnaires of
the Académie and permanent residents (see cats 17–18, 21).219 The long
directorship of Charles-Joseph Natoire, between 1751 and 1775, greatly devel-
oped and expanded the copying of antiquities that had been reinstated by
Vleughels. But Natoire also encouraged the creation of ‘classical’ landscapes
of the Roman campagna, following the principles established by the great
17th-century French landscapists: Poussin, Dughet and Claude.220 Natoire and
his most gifted and prolific pupil, Hubert Robert (1733– 1808), who spent more
than a decade in Rome between 1754 and 1765, produced a series of drawings in
which copy- ing in the city’s museums and palaces is splendidly evoked (figs
94–97 and cat. 17).221 Focused in particular on the Capitoline collection,
Robert’s images are among the most fascinating products of a genre – that of
the artist drawing in situ surrounded by classical statues – that, as we know,
goes back to the 16th century (see cat. 5 and 44). Robert specialised in
evocative views of the remains of ancient Rome, with artists and wanderers lost
among their crumbling grandeur. In many ways he recaptured the spirit of wonder
and meditation on the ruins of the city expressed by 16th-century Northern
artists, such as Maarten van Heemskerck, Herman Posthumus, and Nicolas
Beatrizet (fig. 44).222 Boosted by the enthusiasm generated by the unearthing
of the remains of Herculaneum and Pompeii in 1738 and 1748, in the second half
of the century the ‘true style’ of Neo-classicism firmly established itself,
spreading from the international community in Rome to the whole of Europe.
Significant figures in the formulation of the new taste were the architect and
engraver Giovanni Battista Piranesi (1720– 78), whose lyrical etchings and
engravings of ancient and modern Rome established – and sometimes created – the
image of Rome among a European public, and the art historian Johann Joachim
Winckelmann, whose powerful descriptions of classical statues inspired
generations of artists and travellers, firmly establishing a new classicist doctrine
in European taste.223 More than ever before, artists now aimed not only at
assimilating the principles of classical sculpture, but at recreating its
formal aspect, as a universal standard of perfection to which any great artist
should aspire. 54 55 94. Charles-Joseph Natoire, Artists Drawing in
the Inner Courtyard of the Capitoline Museum in Rome, 1759, pen and brown ink,
brown and grey wash, white highlights over black chalk lines on tinted
grey-blue paper, 300 × 450 mm, Louvre, Paris, inv. 3931381 Robert, The
Draughtsman at the Capitoline Museum, c. 1763, red chalk, 335 × 450 mm, Musée
des Beaux-Arts et d’Archéologie de Valence, inv. D. 80 96. Hubert Robert, Antiquities at the Capitoline Museum, c. 1763, red
chalk, 345 × 450 mm, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie de Valence, inv. D.
81 97. Hubert Robert, The Draughtsman of the Borghese Vase, c. 1765, red chalk,
365 × 290 mm, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie de Valence, inv. D28 As Winckelmann famously stated in his Reflections on the Painting
and Sculpture of the Greeks (1755): ‘There is but one way for the moderns to
become great, and perhaps unequalled; I mean, by imitating the ancients’ (see
Appendix, no. 15). Although in 1775 new regulations for the Académie de France
in Rome stressed again the centrality in the curriculum of study of the live
model, most pupils now favoured the study of the Antique, an evident sign of
the evolution of taste towards a new radical classicism.224 Of all the artists
converging on Rome, Jacques-Louis David (1748–1825), was one of the most
prolific in making copies after the Antique.225 Leaving Paris in 1775 with the
firm resolution of maintaining his independence and avoiding the seductions of
the Antique, his arrival in Rome, according to his own words, opened his
eyes.226 He started his artistic education again by spending the next five
years as a pension- naire obsessively copying from modern masters and classical
statues, reliefs and sarcophagi with an attention to detail that recalls
Poussin’s approach to antiquity (fig. 98).227 Generally speaking, between the
end of the 18th century and the beginning of the 19th, artists copying from the
Antique concentrated progressively on the outlines of statues rather than on
the modelling or the chiaroscuro, as the neo-classical aesthetic valued the
purity of the line over any other pictorial element, accentuating the stress on
disegno inaugurated by Vasari more than two centuries before. 98. Jacques-Louis
David, Drawing of a Relief with a Distraught Woman with Her Head Thrown Back,
1775/80, pen and black ink with gray wash over black chalk, 196 × 150 mm,
National Gallery of Art, Washington D.C., Patrons’ Permanent Fund1998.105.1.bbb
But coinciding with David’s residence in Rome, other interpretations of the
Antique started to emerge within a circle of artists that included Tobias
Sergel (1740–1814) and Thomas Banks (1735–1805) and which revolved around the
Swiss painter Henry Fuseli (1741–1825).228 The approach of this ‘Poetical
circle’ was utterly anti-academic and prefigures some of the principles that
would be embraced by Romantic artists a few years later. For them ancient
sculptures were embodiments of the emotions of the artists who created them,
rather than models of ideal beauty and proportional perfection. Fuseli’s
extraordinary drawing, The Artist Moved by the Grandeur of Antique Fragments
(cat. 22), which he produced immediately after leaving Rome in 1778, perfectly
expresses this more empathic and meditative relation with classical antiquity
and its lost grandeur. The attitude of Fuseli and his friends represents a
turning point in the relation of the artist with ancient statuary, stressing
the creative genius of the artist, his or her individuality and, in general,
the subjective values of art: all principles that would contribute to the
decline of the classical model in the following century. The Antique in
Britain: The eighteenth century Of the various nationalities of artists
resident in Rome during the 18th century, the British were among the most
numerous. Britain had arrived late on the international artistic stage. Until
the late 17th century, several factors, including the theological disapproval
of pagan and Catholic imagery of large sections of Protestant society, had made
Britain, outside the confined patronage of the Court, a virtual backwater in
the visual arts. There was no established national school of painting or
sculpture and no academy; painters were tied to the craft guild of the Painter
Stainers’ Company; it was illegal to import pictures for sale, and there was no
proper art market.229 However, by a century later, things had changed
radically: following the nation’s dramatic political liberalisa- tion and
economic expansion, Britain had one of the most dynamic national art schools in
Europe and a Royal Acad- emy, founded in 1768. Several hundred thousand
artworks – including a multitude of original antiquities and copies – had been
imported to adorn the urban townhouses and country mansions of the upper
classes; and London had become the centre of the international art market,
displacing Antwerp, Amsterdam and Paris.230 The new ruling class that had
emerged from the Glorious Revolution of 1688 embraced classicism, defined as
the ‘Rule of Taste’; at the same time artists started gathering to form private
academies where they could study together and where beginners could receive at
least some training, based, 56 57 of course, on the continental model,
with the copy after the Antique as one of its cornerstones.231 Many British
artists also travelled to Rome, where they participated in the Concorsi of the
Accademia di San Luca or attended the Accademia del Nudo in the Capitoline and
several built national and interna- tional reputations thanks to their success
in the city.232 In Rome, furthermore, artists encountered British travellers
and potential future patrons. Plaster casts must already have been relatively
widely available during the first half of the 18th century.233 Drawings after
classical sculptures survive by British artists who did not travel to Italy:
among them some fascinating, rough, early studies by Joseph Highmore, possibly
from casts in the Great Queen Street Academy – which operated under Sir Godfrey
Kneller and Sir James Thornhill between 1711 and 1720 – where he enrolled in
1713 (fig. 99).234 But the insular situation of the British art world, where
many painters struggled in vain to create a modern and national school and
genre of painting, plus an innate distrust of cultural models imported from the
Continent, especially France, meant that copying the Antique encountered strong
criticism. The most vociferous opponent was William Hogarth, who, as director
of the second St Martin’s Lane Academy from 1735, became increasingly hostile
to a curriculum based on the French Académie model and to history painting in
general, although, paradoxically, he demonstrated great admiration for a few
classical statues in his writings (see Appendix, no. 14).235 His war against
fashionable imported taste and didactic principles is well 99. Joseph Highmore,
Study of a Cast of the Borghese Gladiator, Seen from Behind, c. 1713, graphite,
ink and watercolour on paper, 354 × 230 mm, Tate, London, inv. T04232 expressed
by the celebrated first plate in his Analysis of Beauty, where the Antique,
anatomy and the study of proportions evocated in the centre of the composition
are surrounded by vignettes illustrating Hogarth’s own aesthetic ideas (fig.
100).236 But despite such discontented voices, fascination with the Antique
would only intensify, and educational curricula based on French or Italian
models would gradually impose themselves. In 1758, a ‘continental’ enterprise
was launched by the 3rd Duke of Richmond with the opening of a gallery attached
to his house in Whitehall ‘containing a large collec- tion of original plaister
casts from the best antique statues and busts which are now at Rome and
Florence’.237 With a curriculum based on the ‘alphabet of drawing’ and under
the directorship of the Italian painter Giovanni Battista Cipriani (1727–85)
and the sculptor Joseph Wilton (1722–1803) – the first Englishman to receive,
in 1750, the prestigious first prize of the Accademia di San Luca – the gallery
was set up specifically with the didactic purpose of training youths on the
basis of the Antique (fig. 101).238 To compensate for the absence of a national
Academy, a semi-formal system developed probably inspired by the joint model of
the Accademia di San Luca and the Capitoline, where many British artists had
worked.239 Students would have started by copying drawings, prints and parts of
the body in the private drawing school set up in 1753 by the entrepreneur and
drawing master William Shipley (1714– 1803); they would then progress to the
Duke of Richmond’s Academy when they were ready to study three-dimensional
forms; finally they would proceed to the study of the live model in the second
St Martin Lane’s Academy.240 Competi- tions were set up and the Society for the
Encouragement of Arts, Manufactures and Commerce, which was founded 100.
William Hogarth, The Analysis of Beauty (Plate 1), 1753, etching and engraving,
387 × 483 mm, private collection, London 101. John Hamilton Mortimer,
Self-portrait with Joseph Wilton, and an Unknown Student Drawing at the Duke of
Richmond’s Academy, c. 1760–65, oil on canvas, 76 × 63.5 cm, Royal Academy of
Arts, London, inv. 03/970 in 1754, awarded prizes for the best drawings after
casts and copies, several of which survive in the institution’s archive (figs
102–03).241 The continental system also reached cities outside London. For
example, academies and artists’ societies were set up in Glasgow – in an image
of the Foulis Academy of Art and Design founded there in 1752 we see the
familiar presence of the Borghese Gladiator (fig. 104) – and in Liverpool (see
cat. 24).242 But it was with the foundation of the Royal Academy in London in
1768 that Britain finally had a national institution with a formal curriculum
based on continental models (see cats 25–27). Directed by Sir Joshua Reynolds
(1723–92) – its first president between 1768 and 1792 – the Academy had a
teaching structure that centred on the Antique or ‘Plaister’ Academy and the
Life Academy, to which students would progress after having practised for years
on plaster casts.243 To advance from one stage to another, they had to supply a
presentation drawing showing their skills in depicting antique forms: one by
the young Turner (1775–1851), who enrolled in the Academy in 1789 as a boy of
fourteen, proba- bly belongs to this category (cat. 27a). Several evocative
images testify to the study of the growing collection of plaster casts, both in
daylight and at night (fig. 105 and cats 25–27),244 while the Life Academy is
evoked in the famous painting by Johan Zoffany (1733–1810) which shows the
first academicians in discussion around two male models – one glancing at us in
the pose of the Spinario – surrounded by familiar plaster casts of classical
and Renaissance sculpture (fig. 106). In the background, on the right, an
écorché appears among the other casts, to remind us that anatomy lessons were
delivered in the Academy by the physician William Hunter (1718–83). By bringing
together plaster casts, anatomy and the study of the live model, Zoffany’s
image declared unmistakably the Royal Academy’s affinity with continental
academic models of teaching. The two female members, Mary Moser (1744–1819) and
Angelica Kauffmann (1741–1807) are evoked through their portraits, as their
presence in the Life Academy was considered improper.245 A system of
discourses, competitions and exhibitions, complemented and completed the
teaching curriculum. The official theoretical line of the Academy, fixed in
Reynolds’ celebrated Discourses – which were delivered between 1769 and 1790 –
was a distillation of the idealistic theory of the previous centuries and
included frequent references to the Antique (see Appendix, no. 17). Reynolds’
highest praise was reserved for the Belvedere Torso, which embodied the 102.
William Peters, Study of a Cast of the ‘Borghese Gladiator’, c. 1760, pencil,
black and white chalk on coloured paper, 410 × 450 mm, Royal Society of Arts,
London, inv. PR/AR/103/14/621 103. William Peters, Study of a Cast of the
‘Callipygian Venus’, c. 1760, pencil, black and white chalk on coloured paper,
525 × 355 mm, Royal Society of Arts, London, inv. PR/AR/103/14/669
58 59 104. David Allan, The Foulis Academy of Art and
Design in Glasgow, c. 1760, engraving, 134 × 168 mm, Mitchell Library, Glasgow,
inv. GC ILL 156 105. Anonymous British School, The Antique School of the Royal
Academy at New Somerset House, c. 1780–83, oil on canvas, 110.8 x 164.1 cm,
Royal Academy of Arts, London, inv. 03/846 106. Johan Zofany, The Portraits of
the Academicians of the Royal Academy, 1771–72, oil on canvas, 100.1 × 147.5
cm, The Royal Collection, Windsor Castle ‘superlative genius’ of ancient art,
and this judgement is reflected in the official iconography of the Royal
Academy, as the Torso appeared, significantly below the word ‘Study’, on the
silver medals awarded in the Academy’s competitions (see cat. 27a).246 The
muscular fragment reappears as well in one of the female allegories of
Invention, Composition, Design and Colour, commissioned by the Royal Academy
from Angelica Kauffman in 1778 to decorate the ceiling of the Academy’s new
Council Chamber and to provide a visual manifesto for Reynolds’ theory of art
(fig. 107).247 Showing her wit and erudition, Kauffman’s Design is a
significant image, as she took the traditional personification of Disegno,
depicted as male (the word is masculine in Italian), and transformed it into a
woman copying the ideal male body – thereby asserting the right of women to
study the Antique and pursue a traditional artistic career. Although
increasingly questioned by anatomists and by a growing number of artists,
plaster casts were used in the Academy’s curriculum well into the 19th century
and beyond. In London the didactic role of original sculptures and casts was
also exploited outside official institutions. This was the case of the
antiquities assembled by the influential antiquar- ian and collector Charles
Townley (1737–1805) at his house on 7 Park Street, which became a sort of
alternative academy where artists, amateurs – and also women – could study the
statues he had imported from Italy (cat. 28).248 Another private space set up
with the specific intention of training young architects in the study of the
Antique was the house- academy established by Sir John Soane (1754–1837) at No.
13 Lincoln’s Inn Fields (cat. 29). In the labyrinthine spaces of Soane’s
interiors, which were constantly enlarged to house 107. Angelica Kaufman,
Design, 1778–80, oil on canvas, 130 × 150.3 cm, Royal Academy of Arts, London,
inv. 03/1129 his growing collections, he obsessively juxtaposed paintings,
architectural fragments, copies of celebrated classical statues, drawings and
objects of all sorts.249 Architecture, sculpture and painting were seamlessly
integrated to create a whole and to express the qualities of ‘variety and
intricacy’, advocated by Reynolds in his 13th Discourse (1786). This variety
was intended to stimulate the imagination of Soane’s students – in 1806 he was
appointed the Royal Academy’s Professor of Architecture – and to invite
would-be architects not to limit themselves but to train in the three sister
arts, as recommended by Vitruvius.250 Academic training continued as students
gathered to copy the Antique in the newly built galleries of the British
Museum,251 but, as the 19th century progressed, its authority faded
dramatically as young artists looked increasingly to the modern world for their
inspiration. Dissenting Voices and Seeds of Decline The linear evolution of the
classical ideal from the early Renaissance to the beginning of the 19th century
was in reality punctuated by several opposing voices. But none of them, with
rare exceptions, ever questioned the greatness and authority of classical art.
What was at times disputed was the didactic value of copying from the Antique
or the slavish dependence on its forms demonstrated by some of the most
dogmatic devotees of classicism. We have seen that even in the 16th century,
art critics like Vasari, Dolce and Armenini had warned against excessive
dependence on classical forms and had advocated an independent and creative
approach based on the artist’s own judgement. Rubens and Bernini too had warned
against the ‘smell of stone’ in painting or psycho- logical dependence on the
model. This balanced approach to the Antique would become a leitmotif among
later genera- tions of art theorists. Furthermore, artistic traditions outside
Central Italy had always demonstrated a good dose of scepticism towards the
dependence of the Florentine and Roman schools on the forms and ideals embodied
by classical statuary. One of the most intelligent expressions of this attitude
is the famous woodcut by Nicolò Boldrini, almost certainly after an original
drawing by Titian, in which Laocoön and his sons are transformed into three
monkeys and set in a bucolic landscape (fig. 108).252 In this complex image
Titian, one of the greatest creative geniuses of the Renaissance, who him- self
had a profound and fruitful relationship with the Antique, was presumably
issuing an ironic statement against the faithful artistic imitation of the
classical models – a behav- iour similar to that of mimicking monkeys. 108.
Nicolò Boldrini after Titian, Caricature of the Laocoön, c. 1540–50, woodcut,
267 × 403 mm, private collection In the 17th century the pernicious effect on
painting from too-slavish imitation of sculptural forms would be summa- rised
by the Bolognese art theorist Carlo Cesare Malvasia (1616–93) with the specific
neologism ‘statuino’ or ‘statue- like’ (see cats 9 and 15).253 But during the
17th and 18th centuries even the most outspoken critics of the perfection of
the Antique, such as the champion of colore versus disegno Roger de Piles, or
the defender of a modern and independent artistic language like Hogarth, always
demonstrated great admiration for classical statues, especially in terms of
their proportions (see Appendix, no. 14).254 According to Bellori, the only
great master who showed no interest at all in them was the ultra-naturalist
Caravaggio. In a famous passage of his Vite, the champion of classicism
reported that Caravaggio expressed ‘disdain for the superb marbles of the
ancients and the paintings of Raphael’ because he had decided to take ‘nature
alone for the object of his brush’. ‘Thus’, Bellori continues, ‘when he was
shown the most famous statues of Phidias and Glycon so that he might base his
studies on them, his only response was to gesture toward a crowd of people,
indicating that nature had provided him with masters enough’.255 But this
anecdote must not be taken too literally, as it certainly contains Bellori’s
defence of idealism against the dangers of the unselective imitation of Nature,
as repre- sented by Caravaggio and his followers. In fact, although it is not
immediately obvious, Caravaggio had a profound under- standing of antique
forms, and was deeply conscious of High Renaissance prototypes by Michelangelo
(his namesake) and by Raphael. Even if Bellori’s account of Caravaggio had been
accurate, such a radical attitude would have to be considered an exception in
the long period covered here. In the 18th century criticism of the academic
curriculum, in particular that of the Parisian Académie, and the art that it
produced, increased. But, once again, two of its sternest 60
61 critics, Diderot and David, had an immense admiration for classical
statuary and Diderot’s attack was directed at the codified and repetitive nature
of academic practices, in particular the drawing lessons, and at the slavish
dependence on the Antique at the expense of Nature of most of his
contemporaries, not at classical models as such (see Appen- dix, no. 16).256
Significantly David, who played a crucial role in the closure of the Parisian
Académie in 1793 during the French Revolution, would become the hero of the
refounded École des Beaux-Arts in the 19th century. More significant criticism
came from the students forced to copy casts for sessions on end. The great
French painter Jean-Siméon Chardin recalled the frustration that many artists
must have felt by being forced to follow the oppressive ‘alphabet of drawing’,
as powerfully evoked in his recollections (see also cat. 26): We begin to draw
eyes, mouths, noses and ears after patterns, then feet and hands. After having
crouched over our portfolios for a long time, we’re placed in front of the
Hercules or the Torso, and you’ve never seen such tears as those shed over the
Satyr, the Gladiator, the Medici Venus, and the Antinous . Then, after having spent entire days and
even nights by lamplight, in front of an immobile, inanimate nature, we’re
presented with living nature, and suddenly the work of all preceding years
seems reduced to nothing.257 But even the painter of still-lifes and domestic
genre scenes Chardin recognised the greatness of the original statues. The
appeal of the forms and principles of the Antique was still supreme within an
aesthetic system – the humanistic theory of art – that placed the
representation of mankind and its most noble behaviours at the centre of the
artistic mission, and this was true even for painters, like Chardin, who did
not abide by the academic hierarchy of genres. The real beginning of the
decline of the authority of the Antique started when these premises began to be
challenged by artists who felt at odds with a conception of art that they
perceived as increasingly inadequate. Romanticism landed a first, but
eventually fatal, blow by challenging the rationalistic, idealistic and supposedly
‘universal’ principles of classicism, in the name of subjective emotion and
individ- ual genius. The drastic changes imposed by industrialisation and
urbanisation accelerated the process. Opie’s outline of what constitutes art,
with which this essay began – a pedantic and codified version of Reynolds’
aesthetic – came to be perceived as increasingly irrelevant by students exposed
to urban life in London, Paris or any other modern city, as the words of the
painter James Northcote (1746–1831) in 1826 clearly express (see Appendix, no.
19). But if various ‘progres- sive’ avant-gardes rejected more decisively the
principles of classicism and academic art, one need only remember that artistic
education remained almost everywhere based on the traditional curriculum and
that casts were used in academies and art schools until a few decades ago. Some
of the greatest modern painters, such as Cézanne, Degas, Van Gogh and Picasso,
spent portions of their youth copying plaster casts. And, as the last part of
this exhibition shows (cats 32, 34–35), with mass-production casts became ever
more available to wider audiences, including women and the bourgeoisie,
entering the realm of the private home, often in a reduced format. But an
assault on the canonical status of many of the most famous sculptures also came
from another ‘academic’ direction, as a new archaeological precision recognised
them as more or less accurate Roman copies of Greek originals. If art education
remained solidly structured around the traditional curriculum, becoming more
and more conserva- tive, the creative forces of European art placed themselves
firmly outside the academic system, and principles of ideal imitation would
become progressively irrelevant. An image that perfectly visualises the dawn of
the new aesthetic era, and an ideal conclusion to our journey, is a painting
produced by Thomas Couture as a satire against the Realist fashion of the
mid-19th century (fig. 109) – a preparatory study for which is in the Katrin
Bellinger collection.258 Couture, who ran a successful studio in Paris,
described his own painting in his Methodes et Entretiens d’Atelier published in
1867: I am depicting the interior of a studio of our time; it has nothing in
common with the studios of earlier periods, in which you could see fragments of
the finest antiquities. At one time, you could see the head of the Laocoön, the
feet of the Gladiator, the Venus de Milo, and among the prints covering the
walls there were Raphael’s Stanze and Poussin’s Sacraments and landscapes. But thanks
to artistic progress, I have very little to show because
the gods have changed. The Laocoön has been replaced by a cabbage, the feet of
the Gladiator by a candle holder covered with tallow or by a shoe . As for the painter , he is a studious artist, fervent, a
visionary of the new religion. He copies what? It’s quite simple – a pig’s head
– and as a base what does he choose? That’s less simple, the head of Olympian
Jupiter.259 Couture’s image, wherein a once revered antique frag- ment of the
Olympian god, Jupiter, has been relegated to a mere stool and the object of
study is now the severed head of a pig, encapsulates the decline of the Antique
in the 19th century and the shift of interest from the ‘ideal’ to the ‘real’.
Little did Couture kn0w that in a few decades not only the traditional role of
imitation would be subverted, but that the principle of imitation itself –
formulated by Alberti four hundred years before – would be questioned in favour
of expressive or abstract values, leaving even less space for the previously
revered Laocoön, Borghese Gladiator and the Venus de Milo. The Antique
continued its life in the 20th century in many, often unexpected ways: quoted,
subverted and deconstructed by many avant-garde artists; in the official art of
totalitarian regimes; in the ironic and playful, but often shallow game of
post-modernism; and even, one may say, in much of the aesthetic of fashion
advertisement. The relation of the classical model and ideal with modernity is
a story that still needs to be written fully and would be a fascinating subject
for another exhibition. 109. Thomas Couture, La Peinture Réaliste, 1865, oil on
panel, 56 × 45 cm, National Gallery of Ireland, Dublin. Hoare 1809, 11. See
also Opie 1809,3–52. The italics are the author’s. On the Renaissance or
humanistic theory of art good overviews are: Lee 1967; Schlosser Magnino 1967;
Blunt 1978; Williams 1997; Barasch 2000,1. Anthologies of primary sources in
English translation are: Gilbert 1980; Gilmore Holt 1981–82; Harrison, Wood and
Gaiger 2000. Alberti 1972. See also M. Kemp’s introduction, in Alberti
1991,1–29. Although initially circulating only in manuscript form, Alberti’s
treatise had an immense impact on artists and successive art theoreticians. The
first Latin (Basel, 1540) and Italian (Venice, 1547) editions, and subsequent
ones, influenced the earliest academies such as Vasari’s Accademia del Disegno,
founded in 1563. The first French translation (Paris 1651) took shape in the
environment of the French Académie Royale, founded just three years before
(1648). The first English translation (London, 1726) was motivated by the
aspirations of English artists towards the foundation of a national academy
based on continental standards. Innumerable transla- tions and editions
contributed to the diffusion of Albertian principles well into the 19th
century. See Alberti 1991,23–24. Alberti 1972, 53 (book 1, chap. 18). Alberti
quotes Protagoras, probably through Diogenes Laertius, De Vitis ...
philosophorum, 9.51: Alberti 1991, 53, note 11. On the sources and structure of
De Pictura see especially Spencer 1957 and Wright 1984. Alberti 1972, 97 (book
3, chap. 55). Ibid., 101 (book 3, chap. 58). Ibid., 99 (book 3, chap. 55).
Ibid., 99 (book 3, chap. 56). Albertis’s sources are Cicero, De inventione,
2.1.1–3 and Pliny, Naturalis Historia, 35.36 (with differences in detail).
Alberti 1972, 75 (book 2, chap. 36). See also Alberti 1988, 156 (book 6, chap.
2) and301–09 (book 9, chaps 5–6), esp. 303. On the theory of proportions see
Panofsky 1955; R. Klein’s introduction to ‘De Symmetria’ in Gaurico 1969, 76–91;
Gerlach 1990. On Leonardo’s Vitruvian Man see Kemp 2006, 71–136; Salvi 2012,
with previous bibliography. Other ancient surviving sources on the Canonical
ideal are Cicero, Brutus, esp. 69–70, 296; Pliny, Naturalis Historia, 34.55;
Galen’s treatises, esp. De 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 Placitis
Hippocratis et Platonis, 5, and De Temperamentis, 1.9; Quintilian, Institutio
Oratoria, esp. 5.12.21 and 12.10.3-9; Vitruvius’ De Architectura, 3.1. For
Alberti’s concept of historia, see Alberti 1972, 77–83 (chaps 39–42). The
clearest definition of history painting according to the academies of the 17th
and 18th centuries is provided by Félibien 1668, Preface (not paginated). The
Codex Coburgensis is preserved in the Kunstsammlungen der Veste Coburg: see
Wrede and Harprath 1986; Davis 1989. Cassiano dal Pozzo’s Paper Museum is
divided between several collections but mainly concen- trated in the Royal
Collection, Windsor Castle and the British Museum, London: see Herklotz 1999;
Claridge and Dodero forthcoming. Macandrew 1978; Connor Bulman 2006; Windsor
2013. London and Rome 1996–97, 257–69; Bignamini and Hornsby 2010. General
introductions to drawing techniques in the Renaissance and beyond are Joannides
1983, 11–31; Bambach 1999, esp. 33–80; Ames Lewis 2000a; Petherbridge 2010;
London and Florence 2010–11. See Ames-Lewis 2000b, 36–37. Recent general
introductions to drawing after the Antique and the training of young artists in
the 15th century include Rome 1988a; Ames-Lewis 2000b, 35–60, 109–40; Jestaz
2000–01; Chapman 2010–11, 46–60. More focused on the 16th century is Barkan
1999. Haskell and Penny 1981, 252–55, no. 55 (Marcus Aurelius), 308–10, no. 78
(Spinario), 167–69, no. 16 (Camillus), 136–41, no. 3 (Horse Tamers); Buddensieg
1983; Nesselrath 1988; Rome 1988a, 232–38 (Marcus Aurelius); Paris 2000–01, 200–25
and 417–20, nos 221–24 (Spinario); Bober and Rubinstein 2010, 223–25, no. 176
(Marcus Aurelius), 254–56, no. 203 (Spinario), 192–93, no. 192 (Camillus),
172–75, no. 125 (Horse Tamers). Dacos 1969; Morel 1997; Miller 1999. Alberti
calls the relief of a sarcophagus in Rome representing the death of Meleager a
historia, specifically praising it as a source for the compositio: see Alberti
1972, 74–75 (chap. 37). Cavallaro 1988b; Cavallaro 1988c; Scalabroni 1988.
Cavallaro 1988b; Scalabroni 1988; Bober and Rubinstein 2010, passim. On Brunelleschi and Donatello’s Roman trip see the famous account by
Antonio di Giannozzo Manetti: Manetti 1970, 53–57. See also Vasari’s
anecdote of Donatello producing a pen drawing after a sarcophagus that he saw
in Cortona on his way back from Rome to Florence: Bettarini and Barocchi
1966–87,3, 151–52. See also Micheli 1983, 93. On the drawings after the Antique
produced in the workshops of Gentile of Pisanello see: Degenhart and Schmitt
1960; Cavallaro 1988a; Degenhart and Schmitt 1996, 81–117; Paris, 1996,
Appendix IX, ‘Le “Carnet de voyage dessins sur parchemin”’, 465–67; Cavallaro
2005. 26 Rome 1988a, 95–96, no. 24 (A. Cavallaro); Paris 1996, 180–81, no. 100.
27 See Rome 1988a, 158–59, no. 51, see also 155–56, no. 49; Bober and
Rubinstein 2010, 87, no. 38. 28 Wegner 1966, 88–89, no. 228; Bober and
Rubinstein 2010, 86–87, no. 38. 29 Weiss 1969. 30 London and New York 1992, 445–48,
no. 145 (D. Ekserdjian); Paris 2008–09b, 378–79, no. 159 (C. Elam); Bober and
Rubinstein 2010, 207, no. 158iii (158c). 31 Bober and Rubinstein 2010, 207–08,
no. 158iii. 32 Alberti 1972, 80–81 (chap. 41). 33 See Lightbown 1986, 140–53,
424–33; Elam 2008–09. 34 For the drawing after the Marcus Aurelius see Rome
1988a, 232–33, no. 80 (A. Nesselrath); Rome 2005, 263, II.10.7, 267–68, no.
II.10.7 (A. Nesselrath). For the drawing after the Horse Tamers see Rome 1988a,
211–12, no. 61 (A. Nesselrath); Paris 1996, 153–54, no. 84; Rome 2005, 334, III.8.1,
338–39, no. III.8.1 (A. Cavallaro). 35 On the fame of their nudity see the
contemporary comments by Angelo Decembrio in his De Politia litteraria, written
in the central decades of the 15th century: Baxandall 1963, 312. For other
mentions in contemporary written sources see Nesselrath 1988, 196–97. 36
Nesselrath 1988, 197, 61; Cole Ahl 1996, 6, pl. 1; Ames-Lewis 2000b, 120, 57;
Cavallaro 2005, 330; London and Florence 2010–11, 118–19, no. 14 (M.M. Rook).
On Gozzoli and the Antique see Pasti 1988. 37 For a notable exception see
Gozzoli’s faithful drawing of a fragmentary classical Venus: Pasti 1988, 137, 38;
Ames-Lewis 2000b, 121, 59. 38 For a general overview see Weiss 1969, 180–202;
Ames-Lewis 2000b, 52–60, 79–85. 39 Gaurico 1969, 62–63; Gaurico 1999, 142–43,
providing a less accurate translation. 40 Cennini 1933,2, 123–31. 41 Fiocco
1958–59; Lightbown 1986, 18; Favaretto 1999. On Ghiberti’s col- lection of
casts see Ames-Lewis 2000b, 81, with previous bibliography. 42 Ames-Lewis 1995.
43 Fusco 1982; Ames-Lewis 2000b, 52–55. 44 Ragghianti and Dalli Regoli 1975;
Ames-Lewis 2000a, 91–123; Forlani- Tempesti 1994. 45 Ames-Lewis 1995, 394, 397,
10. For the practice see Schwartz 2000–01. 46 For an overview see Nesselrath
1984–86. Lists of sketchbooks are provided in Nesselrath 1993, 225–48 and Bober
and Rubinstein 2010, 473–96. 47 The first printed edition of Biondo’s Roma
Instaurata was published in Rome in 1471: Weiss 1969, esp. 59–104. 48 On
Michelangelo’s and Raphael’s attitude towards the Antique the bibliogra- phy is
vast. For Michelangelo good surveys are Agosti and Farinella 1987 (pp. 12–13,
note 3, with the most exhaustive bibliography to date); Florence 1987; Haarlem
and London 2005–06, 58–68; Parisi Presicce 2014. On Raphael: Becatti 1968;
Jones and Penny 1983, 175–210; Burns 1984 (p. 399, footnote 2, with exhaustive
bibliography to date); Nesselrath 1984; Dacos 1986. 49 Clark 1969b;
Marani 2003–04; Marani 2007. 50 Leonardo 1956,1, 51, no. 77. 51 Ibid.,1, 45,
no. 59, 64, no. 112. 52 Bettarini and Barocchi 1966–87,6, 21. On other sources on the para- gone between Michelangelo and the ancients
see Florence 1987, 107–08. 53 Elam 1992; Florence 1992; Joannides
1993; Baldini 1999–2000; Paolucci 2014. 54 Bettarini and Barocchi 1966–87,6, 9–12;
Condivi 1998, 10–11; Condivi 1999, 10. 55 Knab, Mitsch
and Oberhuber 1984, 51–54; Ferrino Padgen 2000. 56 See Franzoni 1984–86;
Cavallaro 2007; Christians 2010. A list of collec- tions with essential
bibliography is providedalso in Bober and Rubinstein 2010, 497–507. 57 For the
Nile and the Tiber see Bober and Rubinstein 2010, 112–13, no. 65. 58 The Apollo
Belvedere was discovered in 1489, the Laocoön in 1506, the Cleopatra in the first
decade of the 16th century, the Hercules Commodus in 1507, the Tiber in 1512
and Nile probably in 1513: see Haskell and Penny 1981, respec- tively 148–51,
no. 8, 243–47, no. 52, 184–87, no. 24, 188–89, no. 25, 310–11, no. 79, 272–73,
no. 65; Bober and Rubinstein 2010, respectively 76–77, no. 28, 164–68, no. 122,
125–26, no. 79, 180–81, no. 131, 113–14, no. 66, 114–15, no. 67. The discovery
date of the Venus Felix is not known, but it was placed in the Belvedere
Courtyard in 1509: Haskell and Penny 1981, 323–25, no. 87; Bober and Rubinstein
2010, 66–67, no. 16. For the Belvedere Courtyard see Brummer 1970; Winner,
Andreae and Pietrangeli 1998. The first mention of the Belvedere
Antinous-Hermes is in 1527 and it was placed in the Belvedere Courtyard by
1545; the Belvedere Torso is recorded from 1432 and by the middle of the 16th
century it was displayed in the Courtyard: see Haskell and Penny 1981,
respectively 141–43, no. 4 and 311–14, no. 80; Bober and Rubinstein 2010,
respectively 62, no. 10 and 181–84, no. 132. The first mention of
Michelangelo’s praise of the Torso is in Aldrovandi 1556, 121. For a selection
of other primary sources see Barocchi 1962,4, 2100–03; Agosti and Farinella
1987, 43–44. For the Torso as ‘School of Michelangelo’ see Haskell and Penny
1981, 313. Schwinn 1973, 24–37. Bettarini and Barocchi 1966–87,6, 108. Bober
and Rubinstein 2010, 126, no. 79. Joannides 1983, 192, no. 240r; Knab, Mitsch
and Oberhuber 1984, 615, no. 375. In this drawing Raphael also references Michelangelo’s
Sistine Adam. Golzio 1971, 38–40, 72–73; Nesselrath 1984. The original Italian
is in Camesasca 1994, 257–322 (esp. 290–98); Shearman 2003, 500–45. For an
English translation, see Holt 1981–86,1, 289–96. See also Frommel, Ray and
Tafuri 1984, 437, no. 3.5.1. (H. Burns and H. Nesselrath). Nesselrath 1982, 357,
37; Frommel, Ray and Tafuri 1984, 422, no. 3.2.10 (A. Nesselrath); Jaffé 1994, 187,
no. 315 617*. For the few other surviving Raphael drawings after Roman
antiquities see Frommel, Ray and Tafuri 1984, 438, no. 3.5.3 (A. Nesselrath).
Bober and Rubinstein 2010, 172–75, no. 125. This consideration is already in
Jones and Penny 1983, 205. The practice of measuring classical statues would
become widespread from the 17th century onwards: see 46–49 in the present
volume. A good selection is in Mantua and Vienna 1999. Check also Bober and
Rubinstein 2010, 473–96. Oberhuber 1978; Mantua and Vienna 1999; Viljoen 2001;
Pon 2004. Boissard 1597–1602,1, 12–13, translated by Bober and Rubinstein 2010,
165. According to a letter by Francesco da Sangallo of 1567, Michel- angelo and
Giuliano da Sangallo were sent by the Pope to witness and comment upon the
unearthing of the Laocoön on the Esquiline in 1506: Fea 1790–1836,1, cccxxix–cccxxxi,
letter XVI. Bettarini and Barocchi 1966–87,6, 109. An opinion then appropri-
ated by Vasari himself in the introduction to his chapter on Sculpture:
Bettarini and Barocchi 1966–87,1, 84–86. This was repeated later by many
authors see for instance Lomazzo 1584, 332, reprinted in Lomazzo 1973–74,2, 288.
Wilde 1953, 79–80, nos 43–44, pls lxx–lxxi; Agosti and Farinella 1987, 33–36,
figs 11–14; Tolnay 1975–80,2, 51–53, nos 230–34; Florence 2002, 150–51, nos 2–5
(P. Joannides); Haarlem and London 2005–06, 64–66. Wilde 1953, 9–10, no. 4, pl.
vi; Tolnay 1975–80,1, 58–59, no. 48; Haarlem and London 2005–06, 88–89, 285,
no. 13. On the restoration of classical statues, see Rossi Pinelli 1984–86;
Howard 1990; Pasquier 2000–01a. Specifically on Montorsoli’s restorations:
Haskell and Penny 1981, 148, 246; Vetter 1995; Nesselrath 1998b; Winner 1998;
Bober and Rubinstein 2010, 77, 165. See Haskell and Penny 1981, 229–32, no. 46;
Gasparri 2009–10,3, 17–20, no. 1. On the Wrestlers see Haskell and Penny 1981, 337–39,
no. 94; Cecchi and Gasparri 2009, 62–63, no. 50 (71). For the Niobe Group see
Haskell and Penny 1981, 274–79, no. 66; Cecchi and Gasparri 2009, 316–26, nos
596 (1251) (1–14). On Guido Reni using the Niobe Group as a source for the
expression of many of his figures see Bellori 1976, 529. See Haskell and Penny
1981, 16–22. Haskell and Penny 1981, 16–22. On Lafréry see Chicago 2007–08. On
Cavalieri see Pizzimano 2001. See Lee 1967, esp. 3–16; Blunt 1978, esp. 137–59;
Barasch 2000,1, 203–309. Armenini 1587, 136–37 (book 2, chap. 11). Lee 1967, 7,
note 23. See also Weinberg 1961, 361–423. The first commentary appeared only in
1548 and the first Italian translation in 1549. Horace, Ars Poetica, 361. See
Lee 1967, esp. 3–9. Aristotle, Poetics, see esp. 9; 15.11; 25.1–2; 25.26–28.
Lomazzo 1590, see esp. chap. XXVI; Zuccaro 1607. On this see Lee 1967, 13–14;
Panofsky 1968, esp. 85–99; Blunt 1978, 137–59. Also in Bettarini and Barocchi
1966–87,1, 110. The definition of Disegno was added only to the second edition
of the Lives in 1568. On Vasari and the Antique see Barocchi 1958; Cristofani
1985. Puttfarken 1991; Rosand 1997, 10–24. Walters 2014, 57. Whitaker 1997. See
for instance Vasari’s comments in the lives of Andrea Mantegna and Battista
Franco: Bettarini and Barocchi 1966–87, respectively 3, 549–50 and vol 5, 459–61.
Armenini 1587, see esp. 59–60 (book I, chap. 8), 86–89 (book II, chap. 3). See
also Lomazzo’s treatment of the Antique: Lomazzo 1584, 481 (book VI, chap. 64).
General surveys about the development of European academies include Pevsner
1940; Goldstein 1996. See also Levy 1984; Olmstead Tonelli 1984; Boschloo 1989.
On images of academies see Kutschera-Woborsky 1919; Pevsner 1940, passim; Roman
1984. On the Florentine Accademia del Disegno see Pevsner 1940, 42–55;
Goldstein 1975; Dempsey 1980; Wa ́zbin ́ski 1987; Barzman 1989; Barzman 2000.
On the Carracci Academy see Dempsey 1980; Goldstein 1988, esp. 49– 88; Dempsey
1989; Feigenbaum 1993; Robertson 2009–10. On the Accademia di San Luca the
bibliography is vast. On its early history see Pevsner 1940, 55–66; Pietrangeli
1974; Lukehart 2009. On the teaching in the first decades of the Accademia see
Roccasecca 2009. On Alberti’s print see Roccasecca 2009, 133. Olmstead Tonelli
1984. Alberti 1604, esp. 2–15. Jack Ward 1972, 17–18; Olmstead Tonelli 1984, 96–97.
On the donation of the Salvioni collection of casts in 1598 see Missirini 1823,
73. On the inventories see Lukehart 2009, Appendix 7, esp. 368–69, 371–73,
379–80. On the drawing see Bora 1976, 125, no. 126. Malvasia 1678, 1, 378;
Goldstein 1988, esp. 49–50. On this see Meder 1978, 1, 217–95; Amornpichetkul
1984; Bleeke- Byrne 1984; Roman 1984, 91; Bolten 1985, 243. Alberti 1972, 97
(book 3, chap. 55). Alberti 1972, 75 (book 2, chap. 36). Cellini 1731, 156–59.
Leonardo 1956, 1, 45, chaps 59–61, and esp. 64, chap. 112; Bettarini and
Barocchi 1966–87, 1, 112; Armenini 1587, 51–59, esp. 57 (book 1, chap. 7); See
Bleeke-Byrne 1984. Armenini 1587, see esp. 86 (book 2, chap. 3). The necessity
of exercising one’s memory recurs in Alberti (Alberti 1972, 99, book 3, chap.
55); Leonardo (Leonardo 1956, 1, 47, chaps 65–66); Vasari (Bettarini and
Barocchi 1966–87, 1, 114–15); Cellini (Cellini 1731, 157); and Armenini
(Armenini 1587, 53, book 1, chap. 7). Gombrich 1960; Rosand 1970; Maugeri 1982;
Amornpichetkul 1984; Bolten 1985. On Dürer in Italy see Rome 2007. Dacos 1995; Meijer 1995; Dacos 1997; Dacos 2001. Van Mander 1994-99, 1, 342–45
(fols 271r–v). See Meijer 1995, 50, note 18. Dacos 1995, 19–20;
Dacos 2001, 23–34. Hülsen and Egger 1913–16; Veldman 1977; Dacos 2001, 35–44;
Bartsch 2012; Christian 2012; Veldman 2012. On Beatrizet see Bury 1996; on
Lafréry see Chicago 2007–08; on Dupérac see Lurin 2009. For the print
attributed to Beatrizet see Paris 2000–01, 378–79, no. 184 (C. Scailliérez). On
the Marforio see Haskell and Penny 1981, 258–59, no. 57; Bober and Rubinstein
2010, 110–11, no. 64. ‘I disagi e li affanni tutti del mondo non stima un
quattrino’. On the so-called Haarlem Academy see Van Thiel 1999, 59–90.
Veldman 2012, 21, with previous bibliography. Reznicek On Rubens in Rome and
his approach to the Antique see esp. Stechow 1968; Jaffé 1977, 79–84; Muller
1982; Van der Meulen 1994–95, 1, 41–81; Muller 2004, 18–28; London 2005–06, 88–111.
Jaffé 1977, 79; Van der Meulen 1994–95, 1, 42, note 6. Copies of Lafréry’s
Speculum Romanae Magnificentiae and De Cavalieri’s Antiquarum statuarum urbis
Romae, are listed in Rubens’ son Albert’s library: Van der Meulen 1994–95, 1, 42,
note 6. It is most likely that they were originally in Peter Paul’s possession,
although we do not know whether he acquired them before, during or after his
Italian years. See Van der Meulen 1994–95, 1, 69–74. Armenini 1587, see esp. 59–60
(book I, chap. 8), 86–89 (book II, chap. 3). On the ultimate Aristotelian
character of this principle see Muller 1982. See also Cody 2013. On Rubens’
handwritten Notebook, lost in a fire in Paris in 1720, but known through
several transcriptions and partial publications see Van der Meulen 1994–95, 1,
esp. 71, note 11 and 77–78, note 44, with previous bibliography; Jaffé and
Bradley 2005–06; Jaffé 2010. On the drawing after the Torso see Van der Meulen
1994–95, 1, 70–71, 2, 56–59, nos 37–39; New York 2005a, 140–44, no. 34. On the
Laocoön drawings see: Van der Meulen 1994–95, 2, 98, no. 81, 3, 153 (father), 2,
103–04, no. 93, 3, 164 (son); London 2005– 06, 90–91, nos 24 (son), 25
(father); Bora 2013. The question of whether he copied the original Laocoön in
Rome, or a cast derived from it, possibly Federico Borromeo’s in Milan, remains
open: see Van der Meulen 1994–95, 1, 48; London 2005–06, 90–91, no. 25. Muller
2004, 22; Edinburgh 2002, 43–46, nos 8–14; Wood 2011, 1, 129–241; Cody 2013.
Van der Meulen 1994–95, 1, 80–81. Muller 2004, 22. On Rubens’ collection see
Antwerp 2004, with previous bibliography. Jaffé 1977, 80; Healy 2004. On the
Bamboccianti see Briganti, Trezzani and Laureati 1983; Cologne and Utrecht
1991–92; Rome and Paris 2014–15. On the fierce criticism by artists see
Malvasia 1678, 2, 267 (Sacchi), 268–69 (Albani); Cesareo 1892, 1, 223–55
(Rosa); Castiglione 2014–15. On Bellori’s condemna- tion
see Bellori 1976, 16. On Goubau see Briganti, Trezzani and Laureati 1983, 295–99.
On the painting see Paris 2000–01, 382–83, no. 188 (J. Foucart); Cappel- letti
2014–15, 48–50. Vlieghe 1979. On other Dutch artists copying the Antique in
Rome in the 17th century see Van Gelder and Jost 1985, 35–36. Already at the
beginning of the 17th century Karel Van Mander explicitly laments the poor
state of the visual arts in the Netherlands, blaming the ‘shameful laws and
narrow rules’ by which in nearly all cities save Rome ‘the noble art of
painting has been turned into a guild’: Van Mander 1994–99, 1, 264–65 (fol.
251v). See also Bleeke-Byrne 1984. On the Antwerp Academy see Pevsner 1940, 126–29;
Van Looij 1989. See Emmens 1968, 154–59; Bleeke-Byrne 1984, 30, 38, notes
76–77. Van Mander 1994–99, 1, 448–49 (fol. 297v); Bolten 1985, 248. De Klerk
1989. Bolten 1985, 248–50. For Bisschop’s school see Van Gelder 1972, 11.
Bolten 1985. Bolten 1985, 119, 131, 133–34, 141, 143, 153, 157, 188–207,
243–56; Walters 2009, 1, 79. Bolten 1985, 159–60. Also many Dutch theoretical
treatises on the art of painting and drawing insisted on the human form and on
the stages of the learning process. For instance William Goeree’s influential
Inleydinge tot de al-gemeene Teycken-Konst, Middelburgh, 1668, revised and
reprinted many times, lays out the five stages of artistic training: copy of
prints, drawings, paintings, plaster casts and the life model (pp. 31–37). See
Bleeke- Byrne 1984, 34 and note 45; De Klerk 1989, 284. On Perrier’s diffusion
in the Netherlands see Bolten 1985, 257–58; Van Gelder and Jost 1985, 51–52;
Van der Meulen 1994–95, 76. For Van Haarlem’s 1639 inventory see Van Thiel
1965, 123, 128; Van Thiel 1999, 84, and Appendix II, 254–255, 257, 270–71, 273.
For van Balen’s 1635 and 1656 inventories, see Duverger 1984–2009, 4, 200–11.
For Rembrandt’s 1656 bankruptcy inventory see Strauss and Van der Meulen 1979, 349–88.
For Rembrandt’s use of statues, casts and models, see Gyllenhaal 2008. See also
cat. 23 in this catalogue, note 18. For the use of plaster casts in 17th- and
18th-century artists’ studios in Antwerp and Brussels, see Lock 2010. Also
collections of original antiquities were formed in the 17th century, especially
in the Southern Netherlands and in Antwerp: Van Gelder and Jost 1985, 35–50,
esp. 35, note 65. 64 65 151 For a copy in reverse, dated 1639, see Bolten
1985, 133–34, and 138, fig.a. 152 On Jan ter Boch’s painting (fig. 49) see
Paris 2000–01, 401–02, no. 207 (J. Foucart). On Van Oost the Elder’s painting
(fig. 50), see Antwerp 2008, 77, no. 20 (S. Janssens). On Vaillant’s painting
(fig. 51), see MacLaren 1991, 1, 440, note 8; Amsterdam 1997, 349, 2. On the
painting attrib- uted to Sweert (fig. 52) see Waddingham 1976–77; Amsterdam
1997, 348–52, under no. 74; Paris 2000–01, 400–01, no. 206 (J. Foucart);
Houston and Ithaca 2005–06, 134–36, no. 40 (J. Clifton), where the painting is
attributed to Wallerant Vaillant. On Balthasar Van den Bossche’s paintings of
artists’ workshops see Mai 1987–88; Paris 2000–01, 402–03, no. 208 (J.-R.
Gaborit and J.-P. Cuzin); Lock 2010. 153 For the Borghese Gladiator see Haskell
and Penny 1981, 221–24, no. 43; Paris 2000–01, no. 1, 150–51 (L. Laugier);
Pasquier 2000–01c. For the Dying Gladiator see Haskell and Penny 1981, 224–27,
no. 44; Mattei 1987; La Rocca and Parisi Presicce 2010, 428–35. For the Venus
de’ Medici, see Haskell and Penny 1981, 325–28, no. 88; Cecchi and Gasparri
2009, 74–75, no. 64 (137). 154 See Haskell and Penny 1981 esp. 23–30. On the
Medici collection of classical sculptures see Cecchi and Gaspari 2009. On the
Farnese’s see Gasparri 2007. On the Borghese’s: Rome 2011–12; on the
Ludovisi’s: Rome 1992–93; on the Giustiniani’s Rome 2001–02. 155 Haskell
and Penny 1981, 16–22; Coquery 2000; Picozzi 2000. 156 Picozzi 2000;
Laveissière 2011; Di Cosmo 2013; Fatticcioni 2013. 157 Haskell and Penny 1981, 21; Goldstein 1996, 144; Coquery 2000, 43–44.
On Perrier’s success in the Netherlands see Bolten 1985, 257–58; Van Gelder and
Jost 1985, 51–52; Van der Meulen 1994–95, 76. 158 Boyer 2000; Montanari 2000;
Rome 2000a; Bonfait 2002; Bayard 2010; Bayard and Fumagalli 2011. 159
Bertolotti 1886; Bousquet 1980; Coquery 2000. 160 Herklotz 1999; see also the
ongoing catalogue raisonné of Cassiano dal Pozzo’s Paper Museum:
http://warburg.sas.ac.uk/research/projects/ cassiano 161 For the text of
Bellori’s Idea see Bellori 1976, 13–25, and for an English translation see
Bellori 2005, 55–65. On it see Mahon 1947, esp. 109– 54, 242–43; Panofsky 1968,
103–11; Bellori 1976, esp. XXIX–XL; Barasch 2000, 1, 315–22; Cropper 2000. 162
Bellori 1976, 299. 163 See Barasch 2000, 1, 310-72. 164 Bellori mentions many
of these artists devoting time and efforts in the copying of celebrated
classical statuary, such as the Farnese Hercules, the Belvedere Torso, the
Niobe Group, the Borghese Gladiator: Bellori 1976, 75, 90–91 (Annibale
Carracci), 529–30 (Guido Reni), 625 (Carlo Maratti). For Rubens, Bernini and
Cortona see Bellori 1976, XXXI. For Annibale Carracci and the Antique see also
Weston-Lewis 1992. For his drawing (fig. 58) see Washington D.C. 1999–2000, 177,
no. 50 (G. Feigenbaum). For Poussin and the Antique the literature is vast: see
Bull 1997; Bayard and Fumagalli 2011; Henry 2011, with previous literature. For
his drawing (fig. 59) see Rosenberg and Prat 1994, 1, 312–13, no. 161. For
Maratti’s drawings (figs 60–61) see Blunt and Cooke 1960, 63, nos 378, 380. On
Pietro da Cortona and the Antique see Fusconi 1997–98. Some of his drawings
after the Antique were commissioned for the Paper Museum of Cassiano dal Pozzo.
On the drawing (fig. 62) see Rome 1997–98, 71, no. 2.4 (G. Fusconi). 165
Wittkower 1963; Princeton, Cleveland and elsewhere 1981–82, 159–73; New York
2012–13, 234–38, no. 25. 166 Pevsner 1940, 82–114;
Goldstein 1996, 40–45. On the Académie Royale de Peinture et de Sculpture in
Paris see Vitet 1861; Montaiglon 1875–92; Hargove 1990; Tours and Toulouse
2000; Michel 2012. On the Académie de France in Rome see Montaiglon and
Guiffrey 1887–1912; Lapauze 1924; Henry 2010–11; Coquery 2013, 173–219, with
previous bibliography. 167 Montaiglon 1875–92, 1, 346. 168 Women were admitted
to the Académie, then named École des Beaux- Arts, only in 1896 and allowed to
enrol for the Prix de Rome in 1903: Goldstein 1996, 61. 169 Montaiglon 1875–92,
1, 315–17. 170 Félibien 1668, Preface (not paginated). 171 Le Brun 1698. On it
see Montagu 1994. 172 Félibien 1668, 28–40; Lichtenstein and Michel 2006–12, 1.1,
127–35. 173 Félibien 1668, Preface (not paginated). 174 Lichtenstein and Michel
2006–12, see esp. vols 1-2, passim. 175 Lichtenstein and Michel Lichtenstein and Michel 2006–12, 1.1, 374–77.
See also Goldstein 1996, 150. 177 Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, 1, 129–32.
178 Montaiglon 1875–92, 1, 293 (for a Venus donated by Chantelou in 1665), 300,
330–31 (for the cast of the Farnese Hercules ordered in 1666 and delivered in
1668), 366 (for several casts after ancient reliefs and statues copied for the
Académie from the Royal collection on the order of Colbert). 179 See Foster
1998; Schnapper 2000 and Macsotay 2010. 180 Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, 1,
36. 181 Goldstein 1978, esp. 2–5. 182 Golzio 1935. 183 Boyer 1950, 117; Goldstein
1970; Bousquet 1980, 110–11; Goldstein 1996, 45–46. 184 Mahon 1947, 188–89. 185
Missirini 1823, 145–46 (chap. XCI); Mahon 1947, 189; Goldstein 1996, 46. 186
Teyssèdre 1965; Puttfarken 1985; Montagu 1996; Arras and Épinal 2004. 187
Armenini 1587, 93–99, esp. 96 (book 2, chap. 5). 188 See esp. Van der Meulen
1994–95, 1, 69–75; Muller 2004, esp. 18–21; Jaffé and Bradley 2005–06; Jaffé
2010. For the drawing (fig. 67) see Van der Meulen 1994–95, 1, 71–72, notes 11,
14, 16 with previous literature. Rubens applied this method to several other
statues. 189 Bellori 1976, 451, 473–77, ; Bellori 2005, 311, and for the plates
334–37. See Rome 2000b, 2, 403–04, no. 9 (V. Krahn); Henry 2011; Coquery 2013, 361,
nos G. 179–80. 190 The surviving 39 drawings are today preserved in an ‘Album
de dessins et mesures de statues romaines...’ at the École nationale supérieure
des Beaux-Arts in Paris: Coquery 2000, 48–50; Paris 2000–01, 389–90, no. 195;
Coquery 2013, 37–40; Stanic 2013. For the three drawings repro- duced here see
Coquery 2013, 281, no. D114 (Laocoön), 283, no. D130 (Belvedere Antinous), 283,
no. D131 (Venus de’Medici). 191 Bosse 1656. See the Conférences by Sébastien Bourdon, Charles Le Brun, Henri Testelin,
Michel Anguier, etc.: Lichtenstein and Michel 2006–12, 1.1, esp. 161–66
(Charles Le Brun), 316–33 (Charles Le Brun), 332–35 (Michel Anguier), 374–77
(Sébastien Bourdon); 1.2, 636–38 (Michel Anguier), 667–71 (Henry Testelin). 192 On De Wit’s Teekenboek (fig. 74) see Bolten 1985, 82–86. On Nollekens’
drawing (fig. 75) see Blayney Brown 1982, 484, no. 1460; Nottingham and London
1991, 58–59, no. 31 (Venus de’ Medici); Lyon 1998–99, 123–24, no. 101. On
Volpato’s and Morghen’s print annotated by Canova (fig. 76) see Rome 2008, 144,
no. 25, with previous bibliography. 193 On the study of anatomy in the
Renaissance and the 17th century see Schultz 1985; Ottawa, Vancouver and
elsewhere 1996–97; London, Warwick and elsewhere 1997–98; and the excellent
essays in Paris 2008– 09a, esp. Carlino 2008–09. On the combination of the
study of anatomy and of the Antique between the 17th and 19th centuries see
esp. Schwartz 2008–09. 194 Paris 2000–01, 391–92, no. 197; Coquery 2013, 195–200;
Paris 2008–09a, 222–23, no. 79. 195 For the skeletons (figs 77–78) and
anatomical figures (figs 79–80) of the Laocoön and Borghese Gladiator see
Coquery 2013, respectively 384, no. G.416, 383, no. G.413, 381, no. G.400, 382,
no. G.408. A series of Conférences at the Académie Royale in Paris had been
devoted to the Antique and anatomy: see esp. Lichtenstein and Michel 2006–12, 1.2, 581–93 (Pierre Monnier, ‘Sur les
muscles du Laocoon’, 2 May 1676). 196 See Paris
2000–01, 393–94, no. 199, with previous bibliography; Paris 2008–09a, 226–27,
no. 85. 197 See Paris 2000–01, 392–93, no. 198, with previous bibliography;
Paris 2008–09a, 226–27, no. 82. Sauvage also made écorchés of other classical
prototypes. 198 The original cast appears to have been destroyed. The écorché
preserved at the Royal Academy of Arts is a 19th-century copy by William Pink:
see Postle 2004, esp. 58–59, with previous bibliography. 199 See Jordan and
Weston 2002, 97, 4.7. 200 For the practice see Paris 2000–01, 415–29; Schwartz
2008–09; London 2013–14, 62–69. On Paillett’s drawing (fig. 87) see London
2013–14, 21, pl. 1, 96, no. 1. For Bottani’s (fig. 88) see Philadelphia 1980–
81, 59–60, no. 47. For David’s painting (fig. 89) see Rome 1981–82, 101–02, no.
25. 201 202 203 204 205 206 207 Pevsner 1940, 140–41. On the diffusion of
academies in the 18th century see Boschloo 1989, passim. A good recent overview
is Brook 2010–11. Diderot’s remark appeared in an article in the Correspondance
littéraire, philos- ophique et critique, no. 13, 1763: ‘Sur Bouchardon et la
sculpture’, 45. See an English translation in Diderot 2011, 19. On the
diffusion of casts in the 18th century see Haskell and Penny 1981, esp. 79–91,
chap. 11; Rossi Pinelli 1984; Rossi Pinelli 1988; Pucci 2000a; Frederiksen and
Marchand 2010. London 2013–14, 36, 46–47. See the explanatory text for the
plate: Diderot and D’Alembert 1762–72, 20, entry ‘Dessein’, 1–20, esp. 2–5. See
also Michel 1987, 284, 288. Locquin 1912, 5–13; Toledo, Chicago and elsewhere
1975–76; Plax 2000. Locquin 1912, 5–13; Schoneveld-Van Stoltz 1989, 216–28,
with previ- ous bibliography. Excellent introductions to the art world of Rome
in the 18th century are the essay contained in Philadelphia and Houston 2000
(see esp. Barroero and Susinno 2000) and in Rome 2010–11b. Goethe 2013, 2, 373.
Overviews on the Grand Tour are Black 1992; London and Rome 1996–97; Chaney
1998; Black 2003. On Panini’s painting see London and Rome 1996–97, 277–78, no.
233; Philadelphia and Houston 2000, 425, no. 275, with previous literature.
Macandrew 1978; Connor Bulman 2006; Windsor 2013, with previous bibliography.
Haskell and Penny 1981, esp. 23–30, 43–52; Paris 2010–11, with previous
bibliography. On drawing in Rome in the 18th century see Bowron 1993–94; Percy
2000, with previous bibliography. On collections of casts in private academies
see Bordini 1998, 387. On the Concorsi see Cipriani and Valeriani 1988–91;
Rome, University Park (PA) and elsewhere 1989–90; Cipriani 2010–11. On the
early years of the Capitoline as a public museum see Arata 1994; Franceschini
and Vernesi 2005; Arata 2008. See Arata 1994, 75. On the Accademia del
Nudo see Pietrangeli 1959; Pietrangeli 1962; MacDonald 1989; Barroero 1998;
Bordini 1998. Haskell and Penny 1981, 62–63; Raspi Serra 1998–99;
Macsotay 2010; Henry 2010–11. The main source for Vleughels’ reform, rich in
information on the study of the Antique in the Académie under his directorship,
is Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vols 7–9, passim (for description of the
collection of casts see 7, 333–37). Boyer 1955; Loire 2005–06, 75–81.
Caviglia-Brunel 2012, 115–63. For Natoire’s drawing (fig. 94) see Paris
2000–01, 372, no. 177; Caviglia- Brunel 2012, 415–16, no. D.558. On Robert’s
drawings (figs 95–96) see Paris 2000–01, 373–74, nos 178–79; Rome 2008, 132–33,
nos 12–13; Ottawa and Caen 2011–12, 22–23, nos 1a–1b. For 97 see Paris 2000–
01, 384, no. 190. On Robert in Rome see Rome 1990–91. On Piranesi and his
influence on artists see Fleming 1962; Wilton Ely 1978; Rome, Dijon and
elsewhere 1976; Brunel 1978. On Winckelmann see Potts 1994, with previous
bibliography. Henry 2010–11. For David in Rome see Rome 1981–82. For his
drawings after the Antique see Sérullaz 1981–82; Rosenberg and Prat 2002,
passim, esp. 1, 391– 746, 2, 754–866. Sérullaz 1981–82, 42. For David’s drawing
(fig. 98) see Rosenberg and Prat 2002, 499, no. 642. See Pressly 1979; Valverde
2008; Busch 2013. On all these aspects see Pears 1988, esp. 1–26. As general
introductions see Denvir 1983; Solkin 1992; Brewer 1997; Bindman 2008. On the
‘Rule of Taste’ see Lipking 1970; Barrell 1986, esp. 1–68; Pears 1988, 27–50;
Ayres 1997. For a recent overview see Aymonino 2014. On academies in Britain
before the foundation of the Royal Academy see Bignamini 1988; Bignamini 1990.
See MacDonald 1989. An excellent introduction to the use of the Antique in
artists’ education in 18th-century Britain is Postle 1997. For casts in Britain
in the first half of the 18th century see: Bignamini 1988, 59, note 63, 65, 77,
note 9, 81, note 65, 88, 103. Einberg and Egerton 1988, 64–71. Kitson 1966–68,
esp. 85–86; Postle 1997, esp. 83–84. See Paulson 1971, 2, 168–71; Nottingham
and London 1991, 62, no. 37. Coutu 2000, 47; Kenworthy-Browne 2009. On
Mortimer’s painting see Nottingham and London 1991, 45, no. 11, with previous bibliography.
MacDonald 1989. Allan 1968, 76–88; Bignamini 1988, 108; Postle 1997, 85–87;
Coutu 2000, 52; Kenworthy-Browne 2009, 43–44. Ibid. On the Glasgow Foulis
Academy see Pevsner 1940, 156; MacDonald 1989, 84–85; Fairfull-Smith 2001. On
the Royal Academy see Hutchison 1986. On its regulations see also Abstract
1797. On the Antique School at the Royal Academy (fig. 105) see Nottingham and
London 1991, 43, no. 7; Rome 2010–11b, 432, no.V.6. On Zoffany’s painting see
New Haven and London 2011–12, 218–21, no. 44, with previous bibliography. For
the medal see Hutchison 1986, 34. On Kauffman’s painting see Rome 2010–11b, 325,
432–33, no. V.7. For Townley see particularly Coltman 2009. On Soane’s
collection of plaster casts see Dorey 2010. De Architectura, 1.1, esp. 1.1.13;
Watkin 1996. Jenkins 1992, 30–40. Venice 1976, 114–15, no. 49. Malvasia 1678, 1,
359, 365, 484. On the 17th-century neologism ‘statuino’ see Pericolo’s
forthcoming article. See De Piles 1677, 253–54; De Piles 1708, esp. 128–38.
Bellori 1976, 214; Bellori 2005, 180. See Pucci 2000a; Bukdahal 2007 Diderot
1995, 4. See also Haskell and Penny 1981, 91. Boime 1980, 330–35, pl. ix.47.
Couture 1867, 155–56. 6609a, 226–27, no. 85. 197 See Paris 2000–01, 392–93, no.
198, with previous bibliography; Paris 2008–09a, 226–27, no. 82. Sauvage also
made écorchés of other classical prototypes. 198 The original cast appears to
have been destroyed. The écorché preserved at the Royal Academy of Arts is a
19th-century copy by William Pink: see Postle 2004, esp. 58–59, with previous
bibliography. 199 See Jordan and Weston 2002, 97, 4.7. 200 For the practice see
Paris 2000–01, 415–29; Schwartz 2008–09; London 2013–14, 62–69. On Paillett’s
drawing (fig. 87) see London 2013–14, 21, pl. 1, 96, no. 1. For Bottani’s (fig.
88) see Philadelphia 1980– 81, 59–60, no. 47. For David’s painting (fig. 89)
see Rome 1981–82, 101–02, no. 25. Pevsner 1940, 140–41. On the diffusion of
academies in the 18th century see Boschloo 1989, passim. A good recent overview
is Brook 2010–11. Diderot’s remark appeared in an article in the Correspondance
littéraire, philos- ophique et critique, no. 13, 1763: ‘Sur Bouchardon et la
sculpture’, 45. See an English translation in Diderot 2011, 19. On the
diffusion of casts in the 18th century see Haskell and Penny 1981, esp. 79–91,
chap. 11; Rossi Pinelli 1984; Rossi Pinelli 1988; Pucci 2000a; Frederiksen and
Marchand 2010. London 2013–14, 36, 46–47. See the explanatory text for the
plate: Diderot and D’Alembert 1762–72, 20, entry ‘Dessein’, 1–20, esp. 2–5. See
also Michel 1987, 284, 288. Locquin 1912, 5–13; Toledo, Chicago and elsewhere
1975–76; Plax 2000. Locquin 1912, 5–13; Schoneveld-Van Stoltz 1989, 216–28,
with previ- ous bibliography. Excellent introductions to the art world of Rome
in the 18th century are the essay contained in Philadelphia and Houston 2000
(see esp. Barroero and Susinno 2000) and in Rome 2010–11b. Goethe 2013, 2, 373.
Overviews on the Grand Tour are Black 1992; London and Rome 1996–97; Chaney
1998; Black 2003. On Panini’s painting see London and Rome 1996–97, 277–78, no.
233; Philadelphia and Houston 2000, 425, no. 275, with previous literature.
Macandrew 1978; Connor Bulman 2006; Windsor 2013, with previous bibliography.
Haskell and Penny 1981, esp. 23–30, 43–52; Paris 2010–11, with previous
bibliography. On drawing in Rome in the 18th century see Bowron 1993–94; Percy
2000, with previous bibliography. On collections of casts in private academies
see Bordini 1998, 387. On the Concorsi see Cipriani and Valeriani 1988–91;
Rome, University Park (PA) and elsewhere 1989–90; Cipriani 2010–11. On the
early years of the Capitoline as a public museum see Arata 1994; Franceschini
and Vernesi 2005; Arata 2008. See Arata 1994, 75. On the Accademia del
Nudo see Pietrangeli 1959; Pietrangeli 1962; MacDonald 1989; Barroero 1998;
Bordini 1998. Haskell and Penny 1981, 62–63; Raspi Serra 1998–99;
Macsotay 2010; Henry 2010–11. The main source for Vleughels’ reform, rich in
information on the study of the Antique in the Académie under his directorship,
is Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vols 7–9, passim (for description of the
collection of casts see 7, 333–37). Boyer 1955; Loire 2005–06, 75–81.
Caviglia-Brunel 2012, 115–63. For Natoire’s drawing (fig. 94) see Paris
2000–01, 372, no. 177; Caviglia- Brunel 2012, 415–16, no. D.558. On Robert’s
drawings (figs 95–96) see Paris 2000–01, 373–74, nos 178–79; Rome 2008, 132–33,
nos 12–13; Ottawa and Caen 2011–12, 22–23, nos 1a–1b. For 97 see Paris 2000–
01, 384, no. 190. On Robert in Rome see Rome 1990–91. On Piranesi and his
influence on artists see Fleming 1962; Wilton Ely 1978; Rome, Dijon and
elsewhere 1976; Brunel 1978. On Winckelmann see Potts 1994, with previous
bibliography. Henry 2010–11. For David
in Rome see Rome 1981–82. For his drawings after the Antique see Sérullaz
1981–82; Rosenberg and Prat 2002, passim, esp. 1, 391– 746, 2, 754–866.
Sérullaz 1981–82, 42. For David’s drawing (fig. 98) see Rosenberg and Prat
2002, 499, no. 642. See Pressly 1979; Valverde 2008; Busch 2013. On all these
aspects see Pears 1988, esp. 1–26. As general introductions see Denvir 1983;
Solkin 1992; Brewer 1997; Bindman 2008. On the ‘Rule of Taste’ see Lipking
1970; Barrell 1986, esp. 1–68; Pears 1988, 27–50; Ayres 1997. For a recent
overview see Aymonino 2014. On academies in Britain before the foundation of
the Royal Academy see Bignamini 1988; Bignamini 1990. See MacDonald 1989. An
excellent introduction to the use of the Antique in artists’ education in
18th-century Britain is Postle 1997. For casts in Britain in the first half of
the 18th century see: Bignamini 1988, 59, note 63, 65, 77, note 9, 81, note 65,
88, 103. Einberg and Egerton 1988, 64–71. Kitson 1966–68, esp. 85–86; Postle
1997, esp. 83–84. See Paulson 1971, 2, 168–71; Nottingham and London 1991, 62,
no. 37. Coutu 2000, 47; Kenworthy-Browne 2009. On Mortimer’s painting see
Nottingham and London 1991, 45, no. 11, with previous bibliography. MacDonald
1989. Allan 1968, 76–88; Bignamini 1988, 108; Postle 1997, 85–87; Coutu 2000, 52;
Kenworthy-Browne 2009, 43–44. Ibid. On the Glasgow Foulis Academy see Pevsner
1940, 156; MacDonald 1989, 84–85; Fairfull-Smith 2001. On the Royal Academy see
Hutchison 1986. On its regulations see also Abstract 1797. On the Antique
School at the Royal Academy (fig. 105) see Nottingham and London 1991, 43, no.
7; Rome 2010–11b, 432, no.V.6. On Zoffany’s painting see New Haven and London
2011–12, 218–21, no. 44, with previous bibliography. For the medal see Hutchison
1986, 34. On Kauffman’s painting see Rome 2010–11b, 325, 432–33, no. V.7. For
Townley see particularly Coltman 2009. On Soane’s collection of plaster casts
see Dorey 2010. De Architectura, 1.1, esp. 1.1.13; Watkin 1996. Jenkins 1992, 30–40.
Venice 1976, 114–15, no. 49. Malvasia 1678, 1, 359, 365, 484. On the
17th-century neologism ‘statuino’ see Pericolo’s forthcoming article. See De
Piles 1677, 253–54; De Piles 1708, esp. 128–38. Bellori 1976, 214; Bellori
2005, 180. See Pucci 2000a; Bukdahal 2007 Diderot 1995, 4. See also Haskell and
Penny 1981, 91. Boime 1980, 330–35, pl. ix.47. Couture 1867, 155–56. 66 67. Primary
Sources On The Antique. Rome to copy its antiquities as a source of
inspiration, a phenomenon that increased over the subsequent four hundred
years. Bembo is, in addition, one of the earliest writers to rank Raphael and
Michelangelo on the level of artists from antiquity. Excerpt from Bembo,
Prose . . . della volgar lingua, Venice, 1525, XLII r (translation Michael
Sullivan). At all times of day [Rome] witnesses the arrival of
artists from near and far, intent on reproducing in the small space of their
paper or wax the form of those splendid ancient figures of marble, sometimes
bronze, that lie scattered all over Rome, or are publicly and privately kept
and treasured, as they do with the arches and baths and theatres and the other
various sorts of buildings that are in part still standing: and hence, when
they mean to produce some new work, they aim at those examples, striving with
their art to resemble them, all the more so since they believe their efforts
merit praise by the closeness of resemblance of their new works to ancient ones,
being well aware that the ancient ones come closer to the perfection of art
than any done afterwards. These have succeeded more than others, Messer Giulio
[de’ Medici], your Michelangelo of Florence and Raphael of Urbino so
outstanding and illustrious that it is easier to say how close they come to the
good old masters than decide which of them is the greater and better artist. 4.
Ludovico Dolce (1508–68) on the necessity for artists copying from antique
statues to learn how to correct the defects of Nature and to aim for perfect
beauty. In his treatise Dialogo della pittura . . . (1557), the humanist,
writer and art theorist Lodovico Dolce upheld a strong defence of the Venetian
school of painting, based on colour, against the Florentine and Roman ones,
based on drawing, supported by Giorgio Vasari. At the same time he included one
of the earliest theoretical statements on the necessity to study the Antique as
a model of idealised nature and perfect beauty – especially in the study of the
proportions of the human figure. However, in Dolce, one finds also a warning
against the indiscriminate copying of classical sculptures – which should
always be imitated with the correct artistic judgement to avoid eccen-
tricities – a principle that would become a leitmotif in subsequent art
literature, as shown here in excerpts from Rubens (no. 8) or Bernini (no. 10).
For Dolce a slavish dependence on the Antique can lead to the excesses of
Mannerism. Exerpts
from Ludovico Dolce, Dialogo della pittura intitolato l’Aretino . . ., Venice,
1557, 32r–33r. The following translation is from the first English
edition: Aretin: A Dialogue on Painting. From the Italian of Ludovico Dolce,
London, 1770, 127–32. Whoever would do this [to form a justly proportioned
figure] should chuse the most perfect form he can find, and partly imitate
nature, as Apelles did, who, when he painted his celebrated Venus emerging from
the sea [p. 128] drew her from Phryne, the most famous
courtesan of the age; and Praxiteles also formed his statue of the Venus of
Gnidus, from the same model. Partly he should imitate the best marbles and
bronzes of the [p. 129] antient masters, the admirable perfection [p. 130] of
which, whoever can fully taste and posses, may safely correct many defects of
Nature herself, and make his pictures universally pleasing and grateful. These
contain all the perfection of the art, and may be properly proposed as examples
of perfect beauty. [p. 131] Proportion being the principal
foundation of design, he who best observes it, must always be the best master
in this respect: and it being necessary to the forming of a perfect body, to
copy not only nature but the antique, we must be careful that we do this with
judgement, lest we should imitate the worst parts, whilst we think we are
imitating the best. We have an instance of this, at present, in a painter, who
having observed that the [p. 132] antients, for the most part, designed their
figures light and slender, by too strict an obedience to this custom, and
exceeding the just bounds, has turned this, which is a beauty, into a very
striking defect. Others have accustomed themselves in painting heads
(especially of women) to make long necks; having observed that the greatest
part of the antique pictures of Roman ladies have long necks, and that short
ones are generally ungrace- ful; but by giving into too great a liberty, have
made that which was in their original pleasing, totally otherwise in the copy.
5. Giorgio Vasari (1511–74) on drawing as the intellectual foundation of all arts;
on grace, and on the classical sculptures in the Belvedere Courtyard in the
Vatican as the source for the ‘beautiful style’ of High Renaissance masters.
Giorgio Vasari’s Lives of the Most Eminent Painters, Sculptors and Architects –
published first in 1550 and in an expanded edition in 1568 – is arguably the
most influential example of art literature of the Renaissance. Vasari’s
biographies of the most famous modern artists set the standard for a
progressive conception of the history of art, with the Florentine and Roman
schools representing its culmination. At the start of his essay on painting, in
a section added to the 1568 edition of the Lives, he provides a definition of
disegno, drawing, to give a theoretical underpinning to his defence of the Central
Italian schools of painting. Vasari’s conception of drawing as the first
physical manifestation of the artist’s idea – the intellectual part of art
common to painting, sculpture and architecture – would provide the founda- tion
for the centrality of drawing in the curriculum of future acade- mies. In
another passage to be found in both editions, Vasari praises the best ancient
sculptures, as they embodied the supreme quality of grazia, or grace, which
cannot be attained by study but only by the judgement of the artist – a concept
that remained one of the central tenets of Italian art theory for the next two
centuries. He attributes the rise of the modern manner or ‘bella maniera’, and
the great achievements of Raphael and Michelangelo, to their familiarity and
exposure to the best examples of classical sculpture in the Belvedere Courtyard
in the Vatican. Excerpts
from Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et
architettori, Florence, 1568, part 1, 43. The following translation
is from Vasari on Technique, ed. G. Baldwin Brown, trans. L. S. Maclehose,
London, 1907, 205–06. 69 SOURCE #1 VITRUVIO (80–70 bc – post c. 15 bc) On
harmonic proportions as the principle of ideal beauty. Marcus Vitruvius
Pollio’s De Architectura, c. 30–20 bc, is the only complete treatise on
classical architecture to have survived from antiquity and its impact on
Western architecture from the Renaissance onwards is paramount. Manuscript
copies of the treatise circulated widely in the 15th century and were well
known to Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Donatello and to
subsequent generations of early Renaissance artists and architects. The first
printed Latin edition appeared in 1486, followed by a more popular version in
1511 (edited by Fra Giovanni Giocondo). Italian translations appeared in 1521
(by Cesare Cesariano) and in 1556 (edited and translated by Daniele Barbaro
with illustrations by Andrea Palladio). The first chapter of book 3, provided
architects and artists with an authoritative account of the principle of
harmonic proportions based on commensurability which had inspired ancient
sculptors and paint- ers in search of ideal beauty. The celebrated passage on
the perfect proportions of the human body was visualised by Leonardo in his
‘Vitruvian Man’ (see 17, 2). The following translation is from the first
integral English edition: The Architecture of M. Vitruvius Pollio. Translated
from the Original Latin, by W. Newton Architect, London, 1771, book 3, chapter
1, 45–46: ‘On the Composition and Symmetry of Temples’.1 The composition of
temples, is governed by the laws of symmetry; which an architect ought well to
understand; this arises from pro- portion, which is called by the Greek,
Analogia. Proportion is the correspondence of the measures of all the parts of
a work, and of the whole configuration, from which correspondence, symmetry is
produced; for a building cannot be well composed without the rules of symmetry
and proportions; nor unless the members, as in a well formed human body, have a
perfect agreement. For nature as so composed the human body, that the face from
the chin to the roots of the hair at the top of the forehead, is the tenth part
of the whole height; and the hand, from the joint to the extremity of the middle
finger, is the same; the head, from the chin to the crown, is an eight part; the
rest of the members have their measures also proportional; this the ancient
painters and statuaries strictly observed, and thereby gained universal
applause. The central point of the body is the navel:
for if a man was laid supine with his arms and legs extended, and a circle was
drawn round him, the central foot of the compasses being placed over his navel,
the extremities of his fingers and toes would touch the circumferent line; and
in the same manner as the body is adapted to [p. 46] the circle, it will also
be found to agree with the square; for, if the measure from the bottom of the
feet to the top of the head is taken, and applied to the arms extended, it will
be found that the breadth is equal to the height, the same as in the area of a
square. Since, therefore, nature has so composed the human body, * All
sentences in Italics are by the present author throughout. 68 that the members
are proportionate and consentaneous to the whole figure, with reason the
ancients have determined, that in all perfect works, the several members must
be exactly proportional to the whole object. 1 The Latin word ‘symmetria’ of
Vitruvius’ text has often been translated in English with ‘symmetry’, while
commensurability – the mathematical relation between the part and the whole
within a given body or building resulting in overall harmonic proportions –
would be a better translation. 2. Cennino d’Andrea Cennini (c. 1370–c. 1440) on
drawing as the foundation of art and on the advantage for young artists of
copying from other masters. Written around 1390 possibly in Padua, Cennini’s Il
Libro dell’Arte is the first art treatise composed in Italian. Although mainly
concerned with practical advice to painters, Cennini also devoted some of the
chapters to the education of the young artist, ofering the first written
evidence of the importance of drawing in the apprenticeship of the aspiring
painter, and especially the copying of works by other artists. Later, in early
Renaissance workshop practices, this increasingly included antique sculpture.
Although not published until 1821, manuscript copies of the Libro circulated
widely in the 16th and 17th centuries, evidenced by the fact that references to
it and passages from it reappear in subsequent art treatises. Excerpts
from Cennino Cennini, Il Libro dell’Arte, ed. F. Brunello, Vicenza, 1971
(translation, present author). [P. 6, chapter 4] The
foundations and the principles of art, and of all these manual works, are
drawing and colouring. [P. 27, chapter 27] If you want to progress further on
the path of this science you must follow this method: take
pain and pleasure in constantly copying the best things that you can find done
by the hands of the great masters. And if you are in a place where many masters
have been, so much better for you. But I will give you some advice: be careful
to imitate always the best and the most famous; and progressing every day, it
would be against nature that you will not eventually be infused by the master’s
style and spirit. 3. Pietro Bembo (1470–1547) on artists going to Rome to copy
the Antique, and on Michelangelo and Raphael having equalled the ancient
masters. Italian scholar, poet, literary theorist, collector and cardinal,
Pietro Bembo was a central figure in the cultivated antiquarian milieu at the
court of Pope Leo X (r. 1513–21) and a personal friend of Raphael and
Michelangelo. His Prose . . . della volgar lingua, a treatise published in
1525, but composed over the previous two decades, contains one of the earliest
and most eloquent reports of artists converging on Seeing that Design,
the parent of our three arts, Architecture, Sculpture and Painting, having its
origin in the intellect, draws out from many single things a general judgement,
it is like a form or idea of all the objects in nature, most marvellous in what
it compasses, for not only in the bodies of men and of animals but also in
plants, in buildings, in sculpture and in painting, design is cognizant of the
proportions of the whole to the parts and of the parts to each other and to the
whole. Seeing too that from this knowledge there arises a certain conception
and judgement, so that there is formed in the mind that something which
afterwards, when expressed by the hands, is called design, we may conclude that
design is not other than a visible expression and declaration of our inner
conception and of that which others have imagined and given form to their idea.
And from this, perhaps, arose the proverb among the ancients ‘ex ungue leonem’
when a certain clever person, seeing carved in a stone block the claw only of a
lion, apprehended in his mind [p. 206] from its size and form all the parts of
the animal and then the whole together, just as if he had had it present before
his eyes. Excerpts
from Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et
architettori, Florence, 1568, part 3, 1, 2–3 of the Preface (unpaginated). The following translation is from Lives of the Most Eminent Painters,
Sculptors and Architects by Giorgio Vasari, ed. and trans. by G. du C. de Vere,
London 1912–14, 4, 81–82. [Fifteenth-century artists] were advancing towards
the good, and their figures were thus approved according to the standards of
the works of the ancients, as was seen when Andrea Verrocchio restored in
marble the legs and arms of the Marsyas in the house of the Medici in Florence.
But they lacked a certain finish and finality of perfection in the feet, hands,
hair, and beards, although the limbs as a whole are in accordance with the
antique and have a certain correct harmony in the proportions. Now if they had
had that minuteness of finish which is the perfection and bloom of art, they
would also have had a resolute boldness in their works; and from this there
would have followed delicacy, refine- ment, and supreme grace, which are the
qualities produced by the perfection of art in beautiful figures, whether in
relief or painting; but these qualities they did not have, although they give
proof of diligent striving. That finish, and that certain something that they
lacked, they could not achieve so readily, seeing that study, when it is used
in that way to obtain finish, gives dryness to the manner. After them indeed,
their successors were enabled to attain to it through seeing excavated out of
the earth certain antiquities cited by Pliny as amongst the most famous, such
as the Laocoön, the Hercules, the Great Torso of the Belvedere, and likewise
the Venus, the Cleopatra, the Apollo, and an endless number of others, which,
both with their sweetness and their severity, with their fleshy roundness
copied from the great beauties of nature, and with certain attitudes which
involve no distortions of the whole figure but only a movement of certain
parts, [p. 82] and are revealed with a most perfect grace, brought about the
disappearance of a certain dryness, hardness, and sharpness of manner, which
had been left to our art by the excessive study . 6. Giovan Battista Armenini (c. 1525–1609)
on assimilating the principles of the Antique through constant drawing as a
safe guide for artistic creation. Giovan Battista Armenini’s De veri precetti
della pittura (1587), consti- tutes one of the most systematic art treatises of
the second half of the 16th century. In it we find the clearest formulations of
a progressive method of learning, later defined as the ‘alphabet of drawing’
(see no. 7), and of the necessity of assimilating the principles of the Antique
through drawing. Armenini is also the first to provide a proper canon of
sculptures and reliefs in Rome that students should copy and to praise the
didactic use of plaster casts. Excerpts from Giovan Battista Armenini, De
veri precetti della pittura, Ravenna, 1587, book 1, ch. 8, 61–63. The following translation is from G. B. Armenini, On the True Precepts
of the Art of Painting, ed. and trans. by J. Olszewski, New York, 1977, 130–34.
[To obtain a good style] it is the general and universal rule only to draw
those things which are the most beautiful, learned and most like the good works
of ancient sculptors. Having familiarised him- self with them through continual
study, the student must know these things so thoroughly that when the occasion
demands he can reproduce one or more of these compositions. He must be so
familiar with them that whatever is good in the old works will be marvellously
reflected in his rough sketches, as well as in finished drawings, and
consequently in large paintings . For
the con- tinual drawing and copying of things which are well made ensures that
one has a proper guide to follow and executes his own work very well. In
order that you may fully know the basis of art, make it the foundation of your
own works, and learn how to recognise excellence with certainty, particularly
in figures, we shall place before you as principal models some of the most
famous ancient sculp- tures which most closely approach the true perfection of
art and are still intact in our own days. [p. 131] For it is well known that
the ancients who fashioned these statues first chose the best that nature
offered in diverse models and then, guided by their excellent judgement,
combined the best perfectly into one work. These
ancient statues are as follows: the Laocoön, Hercules, Apollo, the great Torso,
Cleopatra, Venus, the Nile, and some others also of marble, all of them to be
found in the Belvedere in the papal palace in the Vatican. Some others are
scattered throughout Rome and among the [p. 132] foremost is the Marcus
Aurelius in bronze, now in the square of the Campidoglio. Then there are the
Giants of Monte Cavallo, and the Pasquino, and others not as good as these.
Also well known because of the histo- ries depicted thereon are those in the
arches with very beautiful manner of half and low relief as in the two columns,
the Trajan and the Antonine, which still stand, even though time is hostile to
human work. And even though this study we have been
discussing is not in the power of all students, since as is well known not all
can stay in Rome labouring long and at great expense, yet even they have many
of these works in their own homes. I am speaking of those copies of the
originals fashioned by the masters in plaster or other material. I have seen a
wax copy of the Roman Laocoön, not larger than two spans, but one could say
that it was the original in small size. Still, if those parts that are modelled
in gesso from these works can be obtained, they are better without doubt since
every detail is there precisely as in the marble, so that they can be
scrutinised and serve the student’s needs excellently. Also, they are very
convenient because they are light and easily handled and transported. And, as
for price, one can say it is very cheap, that is, in comparison with the
originals. Therefore, with such excellent aids available, there is no excuse
for anyone who really wishes to learn the good and ancient path. I have seen
studios and chambers in Milan, Genoa, Venice, Parma, Mantua, Florence, Bologna,
Pesaro, Urbino, Ravenna and other minor cities full of such well formed copies.
Looking at these, it seemed to me that they were the very works found in Rome.
Nor is any beautiful living model excluded from these, and the closer it is to
the aforementioned [p. 133] sculptures, the better it may be considered to be,
but this is rarely the case. Now, with so many examples and reasons, such as
these, I believe [p. 134] you should have a good idea of all that you must
consider and observe carefully. 7. The ‘alphabet of drawing’ and the role of
the Antique in the first orders and statutes of the Roman Accademia di San Luca
(1593). The first ‘orders and statutes’ of the Roman Accademia di San Luca,
laid out by Federico Zuccaro (c. 1541–1609) in 1593 and published by Romano
Alberti (active 1585–1604) in 1604, codified a progressive method in learning
how to draw the human figure, considered as the central subject of art: from
details, like the eye, to the whole body. This ‘alphabet of drawing’, based on
Renaissance workshop practices, would become enormously influential in the
teaching of art in Europe well into the 20th century. The Antique had a crucial
role in it, as it gave students the possibility to learn how to approach the
third dimension of the human body through models of idealised beauty, anatomy
and proportions, and the role of ancient statuary is clearly specified in
another passage of the Accademia’s rules and regulations. Excerpts from
Romano Alberti, Origine, et progresso dell’Academia del Dissegno, de’ Pittori,
Scultori, et Architetti di Roma, Pavia, 1604, 5–8 (translation, present
author). [P. 5] Another hour will be devoted to practice and to
teaching drawing to young students, showing them the way and the good path of
study, and for this purpose we have appointed twelve Academicians, one for each
month of the year, in charge of taking particular care and responsibility in
assisting the students in this task. .
The Principal will order the young students to produce something by their hand,
while he will draw himself, and he will award his resulting drawings to the
best students. The first figures – to start from the Alphabet of Drawing (so to
speak) – will be the A, B, C: eyes, noses, mouths, ears, heads, hands, feet,
arms, legs, torsos, backs and other similar parts of the human body, as well as
any other sort of animals and figures, architectural elements, and reliefs in
wax, clay and similar exercises. [P. 8] [The Academician in charge] will start
instructing the students in what to study, assigning to each of them a
different task according to his individual disposition and talent: some will
draw from drawings, others from cartoons or from reliefs; others will copy
heads, feet, hands; others will go out during the week drawing after the
antique or the facades by Polidoro, or land- scapes, buildings, animals and
other similar things; other students in convenient times will draw after live
models, and they must copy them with grace and judgement. Others will do
exercises in architecture and in perspective, following its correct and good
rules, and the best students shall always be rewarded . 8. Peter Paul Rubens (1577–1640) on the
usefulness and dangers of copying from the Antique. The great Flemish artist
Peter Paul Rubens spent two extended periods in Rome, between 1601 and 1602 and
from late 1605 to late 1608, with short interruptions. His erudite approach
towards the Antique and his desire to assimilate its principles resulted in
many extraordinary drawings after classical statues, mostly in black and red
chalk. In his theoretical treatise, De Imitatione Statuarum (‘On the Imitation
of Statues’), c. 1608–10, he warned against the dangers of slavishly copying
the Antique and transferring the characteristics and limits of one medium –
marble – into another – drawing or painting. Although Rubens’ manuscript
remained unpublished in his lifetime, it was owned by the influential French
art theorist Roger de Piles (1635–1709), who first published it in his Cours de
peinture par principles, Paris, 1708, 139–47. The following translation is from
the first English edition: Roger de Piles, The Principles of Painting, London,
1743, 86–92. To some painters the imitation of the antique statues has been
extremely useful, and to others pernicious, even to the ruin of their art. I
conclude, however, that in order to attain the highest perfection in painting,
it is necessary to understand the antiques, nay, to be so thoroughly possessed
of this knowledge, [p. 87] that it may diffuse itself everywhere. Yet it must
be judiciously applied, and so that it may not in the least smell of stone. For
several ignorant painters, and even some who are skilful, make no distinction
between the matter and the form, the stone and the figure, the necessity of
using the block, and the art of forming it. It is certain, however, that the
finest statues are extremely beneficial, so the bad are not only useless, but
even pernicious. For beginners learn from them I know not what, that is crude,
liny, stiff, and of harsh anatomy; and while they take themselves to be good
proficient, do but disgrace nature; since instead of imitating flesh, they only
represent marble tinged with various colours. For there are many things [p. 88]
to be taken notice of, and avoided, which happen even in the best statues,
without the workman’s fault: especially with regard to the difference of shades
. [p. 89] He who has, with discernment,
made the proper distinctions in these cases, cannot consider the antique
statues too attentively, nor study them too carefully; for we of this erroneous
age, are so far degenerate, that we can produce nothing like them. 70 71
9. Gianlorenzo Bernini (1598–1680) described as a young boy devoting his days
to copying the statues in the Belvedere Courtyard in the Vatican. In 1713
Gianlorenzo Bernini’s son Domenico (1657–1723) published a biography of his
father that constitutes, with Filippo Baldinucci’s Vita del cavaliere . . .
Bernino (MS. 1682), one of the most important sources on the life and art of
the great Baroque sculptor and architect. A passage describing the impact of
the art of Rome on Gianlorenzo, after his arrival from his native Naples,
vividly evokes the dedication and devotion of the young sculptor in
assimilating day and night the principles of the great classical examples in
the Belvedere Courtyard – especially the Antinous Belvedere, the Apollo
Belvedere and the Laocoön. Excerpts from Domenico Bernini, Vita del
cavalier Gio. Lorenzo Bernino, Rome, 1713, 12-13. The following translation is from Domenico Bernini, The Life of Gian
Lorenzo Bernini, ed. and trans. by F. Mormando, University Park (PA), 2011, 101.
There now opened before him in Rome a marvellous field in which to cultivate
his studies through the diligent observation of the precious remains of ancient
sculpture. It is not to be believed with what dedication he frequented that
school and with what profit he absorbed its teachings. Almost every morning,
for the space of three years, he left Santa Maria Maggiore, where Pietro, his
father, had built a small comfortable house, and travelled on foot to the
Vatican Palace at Saint Peter’s. There he remained until sunset, drawing, one
by one, those marvellous statues that antiquity has conveyed to us and that
time has preserved for us, as both a benefit and dowry for the art of
sculpture. He took no refreshment during all those days, except for a little
wine and food, saying that the pleasure alone of the lively instruction
supplied by those inanimate statues caused a certain sweetness to pervade his
body, and this was sufficient in itself for the maintenance of his strength for
days on end. In fact, some days it was frequently the case that Gian Lorenzo
would not return home at all. Not seeing the youth for entire days, his father,
however, did not even interrogate his son about this behaviour. Pietro was
always certain of Gian Lorenzo’s whereabouts, that is, in his studio at Saint
Peter’s, where, as the son used to say, his girlfriends (that is, the ancient
statues) had their home. The specific object of his studies we must deduce from
what he used to say later in life once he began to experience their effect on
him. Accordingly, his greatest attention was focussed above all on those two
most singular statues, the Antinous and the Apollo, the former miraculous in
its design, the latter in its workmanship. Bernini claimed, however, that both
of these qualities were even more perfectly embodied in the famous Laocoön of
Athen0dorus, Hagesander, and Polydorus of Rhodes, a work of so well-balanced
and exquisite a style that tradition has attributed it to three artists,
judging it perhaps beyond the ability of just one man alone. Two of these three
marvellous statues, the Antinous and the Laocoön, had been discovered during
the time of Pope Leo X amid the ruins of Nero’s palace in the gardens near the
church of San Pietro in Vincoli and placed by the same pontiff in the Vatican
Palace for the public benefit of artists and other students of antiquity. 10.
Gianlorenzo Bernini (1598–1680) on the formative role of ancient sculpture in
the education of young artists. In 1665 Bernini visited France at the
invitation of Louis XIV to discuss designs for the completion of the Palais du
Louvre. His five-month stay was recorded by his guide Paul Fréart, Sieur de
Chantelou in his lively Journal du voyage du Cavalier Bernin en France. The
advice given by Bernini on his visit to the Académie Royale de peinture et de
sculpture is among the clearest statements on the formative role assigned to
antique statuary in the education of young artists in 17th- century Rome. At
the same time it reveals the opinion of the great Baroque sculptor on the
dangers of copying from classical models without also involving independent
inspiration and artistic creations. The manuscript of the Journal du voyage du
cavalier Bernin en France par M. de Chantelou was published for the first time
by Ludovic Lalanne in a series of articles in the Gazette des Beaux-Arts in
1877–84 (a new edition by M. Stanic ́ was published in Paris in 2001). The
following translation is from Paul Fréart de Chantelou, Diary of the Cavaliere
Bernini’s Visit to France, ed. by A. Blunt, trans. by M. Cornbett, Princeton,
1985, 165–67. 5 September: The Cavaliere worked as usual, and in the evening
went to the Academy [p. 166]. The Cavaliere glanced at the
pictures round the room: they are not by the most talented mem- bers. He also
looked at a few bas-reliefs by various sculptors of the Academy. Then, as he
was standing in the middle of the hall sur- rounded by members, he gave it as
his opinion that the Academy ought to possess casts of all the notable statues,
bas-reliefs, and busts of antiquity. They would serve to educate young
students; they should be taught to draw after these classical models and in
that way form a conception of the beautiful that would serve them all their
lives. It was fatal to put them to draw from nature at the beginning of their
training, since nature is nearly always feeble and niggardly, for if their
imagination has nothing but nature to feed on, they will be unable to put forth
anything of strength or beauty; for nature itself is devoid of both strength or
beauty, and artists who study it should first be skilled in recognis- ing its
faults and correcting them; something that students who lack grounding cannot
do [p. 167]. He said that when he was very young
he used to draw from the antique a great deal, and, in the first figure he
undertook, resorted continually to the Antinous as his oracle. Every day he
noticed some further excellence in this statue; certainly he would never have
had that experience had he not himself taken up a chisel and started to work.
For this reason he always advised his pupils, and others, never to draw and
model without at the same time working either at a piece of sculpture or a
picture, combining creation with imitation and thought with action, so to
speak, and remarkable progress should result. For support of his contention
that original work was absolutely essential I cited the case of the late
Antoine Carlier, an artist known to most of the members of the Academy. He
spent the greater part of his life in Rome modelling after the statues of
antiquity, and his copies are incomparable: and they had to agree that, because
he had begun to do original work too late, his imagination had dried up, and
the slavery of copying had in the end made it impossible for him to produce
anything of his own. 11. Giovanni Pietro Bellori (1613–96): his ‘Idea of the
painter, the sculptor and the architect, selected from the beauties of Nature,
superior to Nature’ as the manifesto of the classicist doctrine. Giovanni Pietro
Bellori, a central figure in 17th-century art theory and the champion of
classicism, delivered his epochal speech, the ‘Idea’, in front of the Roman
Accademia di San Luca in 1664 and later published it as a preface to his
influential Vite of 1772. In this he provided one of the clearest and most
influential systematisations for the concept of the idealistic mission of art,
already formulated by various Renaissance art theorists such as Dolce, Vasari,
Armenini and Zuccaro. Joining Aristotelian and neo-Platonic premises, for
Bellori God’s perfect Ideas become corrupted in our world because of accidents
and the innate imperfection of the ‘matter’. The role of ‘noble’ artists is
therefore to aim at recreating the perfection of the original divine ideas in
their works by selecting the best parts of nature. Classical statues ofer the
best guide and example for the modern artists as they are the result of this
process of selection already achieved by ancient artists. In the final
paragraph quoted here, Bellori stresses the value of the imitation of the
Antique against some contemporary artists and theorists, like the Venetian
painter and writer Marco Boschini (1605–81), who criticised the practice. Excerpts
from Giovan Pietro Bellori, Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni,
Rome, 1672, 3–13. The following translation is from G. Bellori, The
Lives of the Modern Painters, Sculptors and Architects: a New Translation and
Critical Edition, ed. by H. Wohl, trans. by A. Sedgwick Wohl, introduction by
T. Montanari, Cambridge, 2005, 57–61. [P. 57] The supreme and eternal
intellect, the author of nature, looking deeply within himself as he fashioned
his marvellous works, established the first forms, called Ideas, in such a way
that each species was an expression of that first Idea, thereby forming the
wondrous context of created things. But the celestial bodies above the moon,
not being subject to change, remained forever beautiful and ordered, so that by
their measured spheres and by the splendour of their aspects we come to know
them as eternally perfect and most beautiful. The opposite happens with the
sublunar bodies, which are subject to change and to ugliness; and even though
nature intends always to make its effects excellent, nevertheless, owing to the
inequality of matter, forms are altered, and the human beauty in particular is
confounded, as we see in the innumerable deformities and disproportions that
there are in us. For this reason noble painters and sculptors, imitating that
first maker, also form in their minds an example of higher beauty, and by
contemplating that, they emend nature without fault of colour or of line. This
Idea, or rather the goddess of painting and sculpture , reveals itself to us and descends upon
marbles and canvases; originating in nature, it transcends its origins and
becomes the original of art; measured by the compass of the intellect, it
becomes the measure of the hand; and animated by the imagination it gives life
to the image. [P. 58] Now Zeuxis, who chose from five virgins to fashion the
famous image of Helen that Cicero held up as an example to the orator, teaches
both the painter and the sculptor to contemplate the Idea of the best natural
forms by choosing them from various bodies, selecting the most elegant.1 For he
did not believe that he would be able to find in a single body all those
perfections that he sought for the beauty of Helen, since nature does not make
any particular thing perfect in all its parts. Now if
we wish also to compare the precepts of the sages of antiquity with the best of
[p. 59] those laid down by our modern sages, Leon Battista Alberti teaches that
one should love in all things not only the likeness, but mainly the beauty, and
that one must proceed by choosing from very beautiful bodies their most praised
parts.2 Raphael of Urbino, the great master of those
who know, writes thus to Castiglione about his Galatea: In order to paint one
beauty I would need to see more beauties, but as there is a dearth of beautiful
women, I make use of a certain Idea that comes to into my mind.3 [P. 61] It
remains for us to say that since the sculptors of antiquity employed the
marvellous Idea, as we have indicated, it is therefore necessary to study the
most perfect ancient sculptures, in order that they may guide us to the emended
beauties of nature; and for the same purpose it is necessary to direct our eye
to the contemplation of other most excellent masters; but this matter we shall
leave to a treatise of its own on imitation, to meet the objections of those
who criticise the study of ancient statues. 1 Cicero, De inventione, II, 1,
1–3. 2 Alberti 1972, 99 (book 3, chap. 55). 3 Quoted the first time in Pino
1582, 2, 249. 12. A Conférence of the Parisian Académie Royale de peinture et
de sculpture on the artistic excellence of the Laocoön, 1667. Among the
celebrated seven Conférences given at the Académie in 1667, devoted to the
analysis of famous paintings of the Italian and French schools, the third, held
by the sculptor Gerard van Opstal (1594–1668), was specifically dedicated to
the Laocoön. Opstal’s approach, in which each aspect of the famous statue, from
its anatomy, to its proportions, character and expressions, is discussed in
detail, clearly expresses the analytical and didactic approach of the Académie to
the Antique. Excerpts from André Félibien, Conférences de l’Académie
Royale de Peinture et de Sculpture, pendant l’année 1667, Paris, 1668, 28–40. The following translation is from the first English edition: Seven
Conferences held in the King of France’s Cabinet of Paintings . . ., London,
1740, 33–42 (pagination is discontinuous). [Gerard van Opstal] examined all the
Parts of this Figure in order to shew the Excellence of it: and observed with
what Art the Sculptor had given in a large Breast and Shoulders, all the Parts
of which are expressed with a great deal of Exactness and Tenderness. He also
took Notice of the Height of the Hips, and the Nervousness of the Arms: the
Legs neither too thick nor too lean but firm 72 73 and well muscled; and
in general he observed that in all the other Members, the Flesh and Nerves were
expressed with as much strength and sweetness as in Nature herself, but in
Nature well formed. [p. 34]. He did not forget to shew likewise
the strong Expressions which appear in this admirable Figure, where Grief is
not only diffused over the Face, but also over all the other Parts of the Body,
and to the Extremities of the Feet, the Toes of which violently contract
themselves. [p. 35] As every thing about this Statue is contrived with
surprising Art, every one will own that it ought to be the chief study of
Painters and Sculptors: But which they should not consider chiefly as a Model
that only serves to design by; they ought to observe exactly all the Beauties,
and imprint on their Minds an Image of all that is excellent in it: because it
is not the Hand that is to be employed if one desires to make himself perfect
in this Art, but Judgement to form these great Ideas and Memory carefully to
retain them. But as those strong Expressions cannot teach one to design after a
Model, because we cannot put such a Person in a State where all the Passions
are in him at once, and it is likewise difficult to copy them in Persons who
are really active because of the quick Motion of the Soul: It is therefore of
great Importance for Artists to study Causes, and then to try with how great
Dignity [p. 30] they can represent their Effects, and we may aver that it is
only to these fine Antiques they must have recourse since there they will meet
with Expressions which it will be difficult to draw after nature. [P. 31] Every
one will agree that it is from this Model [that] we may learn to correct the
Faults which are commonly found in Nature; for here all appears in a State of
Perfection . 13. Gérard Audran
(1640–1703) on the perfect proportions of antique sculptures. Gérard Audran,
engraver and conseiller of the Parisian Académie Royale, published the most
popular illustrated manual on the measured proportions of selected canonical
ancient statues in 1682 (see 48, figs 72–73). We find in the Preface one of the
clearest expressions of the rationalistic attitude of the Académie: the Antique
here represents an infallible standard of perfect proportions, which Audran has
made available, ‘compass in hand’, for young artists, providing them with
precise references on which to base their own figures. Excerpts from Gérard Audran, Les proportions du corps humain mesurées sur
les plus belles figures de l’antiquité, Paris, 1683, 1-4 of the Preface
(unpaginated). The following translation is from The Proportions of
the Human Body, measured from the most Beautiful Statues by Mons. Audran . . .,
London,There will be, I think, but little occasion to enlarge upon the
Necessity of a perfect Knowledge of the PROPORTIONS, to every Person conversant
in Designing; it being very well known, that without observing them they can
make nothing but mon- strous and extravagant Figures. Everyone agrees to this
Maxim generally consider’d, but everyone puts it differently in practice; and
here lies the Difficulty, to find certain Rules for the Justness and Nobleness
of the Proportions; which, since Opinions are divided, may stand as an
infallible Guide, upon whose Judgement we may rely with Certainty. This appears
at first very easy; for since the Perfection of Art consist in imitating Nature
well, it seems as if we need consult no other Master, but only work after the
Life; nevertheless, if we examin the Matter farther, we shall find, that very
few Men, or perhaps none, have all their Parts in exact Proportion without any
Defect. We must therefore chuse what is beautiful in each, taking only what is
called the Beautiful Nature. I see nothing but the Antique in which we can
place an entire confidence. These Sculptors who have left us those beautiful
Figures have in some sort excell’d Nature; for there
never was any Man so perfect in all his Parts as some of their Figures. They
have imitated the Arms of one, the Legs of another, collecting thus in one
Figure all the Beauties which agreed to the Subject they represented; as we see
in the Hercules all the Strokes that are Marks of Strength; and in the Venus
all the Delicacy and Graces that can form an accomplished Beauty. [p. 2].
I give you nothing of myself; everything is taken from the Antique: but I have
drawn nothing upon the Paper till I had first mark’d all the Measures with the
Compasses, in order to make the Out-Lines fall just according to the Numbers.
14. William Hogarth (1697–1764) against fashionable taste and the uncritical cult
of the Antique. The celebrated painter and engraver William Hogarth played a
crucial role in establishing an English school of painting in the 18th century.
As director of the second St Martin’s Lane Academy from 1735, he became
increasingly hostile to a curriculum based on the French Académie model. In his
theoretical treatise The Analysis of Beauty, published in 1753, he attacked the
idealistic concept of art – as a selection of the best parts of nature – in
favour of a more naturalistic approach. At the same time he disputed the
validity of studies on proportion such as those produced by Dürer and Lomazzo
in the 16th century. Hogarth retained a bold independent-minded position
towards the Antique, criticising the slavish reverential attitude of connoisseurs
and men of taste, while recognising the greatness of certain antiquities. Their
peculiar elegance, according to Hogarth, is the expression of the ‘serpentine
line’, the central principle of his own aesthetic. Excerpts from William
Hogarth, The Analysis of Beauty, London, 1753. [P. 66] We have all along had
recourse chiefly to the works of the ancients, not because the moderns have not
produced some as excellent; but because the works of the former are more
generally known: nor would we have it thought, that either of them have ever
yet come up to the utmost beauty of nature. Who but a bigot, even to the
antiques, will say that he has not seen faces and necks, hands and arms in
living women, that even the Grecian Venus doth but coarsely imitate? [p. 67]
And what sufficient reason can be given why the same may not be said of the
rest of the body? [P. 77, ‘On Proportions’] Notwithstanding the absurdity of
the above schemes [of Dürer and Lomazzo], such measures as are to be taken from
antique statues, may be of some service to painters and sculptors, especially
to young beginners [p. 80]. I firmly believe, that one of our
common proficients in the athletic art, would be able to instruct and direct
the best sculptor living, (who hath not seen, or is wholly ignorant of this
exercise) in what would give the statue of an English-boxer, a much better
proportion, as to character, than is to be seen, even in the famous group of
antique boxers, (or some call them, Roman wrestlers) so much admired to this
day. [P. 91] As some of the ancient statues have been of such singular use to
me, I shall beg leave to conclude this chapter with an observation or two on
them in general. It is allowed by the most skilful in the imitative arts, that
tho’ there are many of the remains of antiquity, that have great excellencies
about them; yet there are not, moderately speaking, above twenty that may be
justly called capital. There is one reason, nevertheless, besides the blind
veneration that generally is paid to antiquity, for holding even many very
imperfect pieces in some degree of estimation: I mean that peculiar taste of
elegance which so visibly runs through them all, down to the most incorrect of
their basso-relievos: [p. 92] which taste, I am persuaded, my reader will now
conceive to have been entirely owing to the perfect knowledge the ancients must
have had of the use of the precise serpentine-line. But this cause of elegance
not having been since sufficiently understood, no wonder such effects should
have appeared mysterious, and have drawn mankind into a sort of religious
esteem, and even bigotry, to the works of antiquity. 15. Johan Joachim
Winckelmann (1717–68) on the Antique. Winckelmann, the greatest art historian
of the 18th century, moved to Rome from Dresden in 1755 and soon established
himself as one of the leading antiquarians and scholars of Europe. His powerful
and intimate descriptions of ancient sculptures, especially those in the
Belvedere Courtyard, had a tremendous impact on the European public and
contributed decisively to the difusion of the classical ideal and the airmation
of the neo-classical aesthetics. His analysis of Greek art provided a stylistic
classification of antiquities by period, stressing the importance of contextual
conditions such as the climate and political freedom of the ancient Greek city
states. This revolutionised the approach to the Antique and contributed to the
establishment of a modern art historical method. He recommended to artists the
imitation of ancient statuary as the only way to achieve perfection, in both
aesthetic and moral terms. Excerpts from Johan Joachim Winckelmann, Gedanken
über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst,
ed. by C. L. von Ulrichs, Stuttgart, 1885, 6–12, 24. The following translation
is from the first English edition: J. J. Winckelmann, Reflections on the
Painting and Sculpture of the Greeks . . ., trans. by Henry Fuseli, London,
1765. [P. 1] To the Greek climate we owe the production of Taste, and from
thence it spread at length over all the politer world. [P. 2] There is but one
way for the moderns to become great, and perhaps unequalled; I mean, by
imitating the antients. And what we are told of Homer, that whoever understands
him well, admires him, we find no less true in matters concerning the antient,
especially the Greek arts. But then we must [p. 3] be as familiar with them as
with a friend, to find Laocoon as inimitable as Homer. By such intimacy our
judgment will be that of Nicomachus: Take these eyes, replied he to some paltry
critick, censuring the Helen of Zeuxis, Take my eyes, and she will appear a
goddess. With such eyes Michael Angelo, Raphael, and Poussin considered the
performances of the antients. They imbibed taste at its source; and Raphael
particularly in its native country. We know, that he sent young artists to
Greece, to copy there, for his use, the remains of antiquity. Laocoon
was the standard of the Roman artists, as well as ours; and the rules of
Polycletus became the rules of art. [P. 4] The most beautiful body of ours
would perhaps be as much inferior to the most beautiful Greek one, as Iphicles
was to his brother Hercules. The forms of the Greeks, prepared to beauty, by
the influence of the mildest and purest sky, became perfectly elegant by their
early exercises. Take a [p. 5] Spartan youth, sprung from heroes, undistorted
by swaddling-cloths; whose bed, from his seventh year, was the earth, familiar
with wrestling and swimming from his infancy; and compare him with one of our
young Sybarits, and then decide which of the two would be deemed worthy, by an
artist, to serve for the model of a Theseus, an Achilles, or even a Bacchus [p. 6].
By these exercises the bodies of the Greeks got the great and manly Contour
observed in their statues, without any bloated corpulency. [P. 9] Art claims
liberty: in vain would nature produce her noblest offsprings, in a country
where rigid laws would choak her progressive growth, as in Egypt, that
pretended parent of sciences and arts: but in Greece, where, from their
earliest youth, the happy inhabitants were devoted to mirth and pleasure, where
narrow- spirited formality never restrained the liberty of manners, the artist
enjoyed nature without a veil. [P. 30] The last and most eminent characteristic
of the Greek works is a noble simplicity and sedate grandeur in Gesture and
Expression. As the bottom of the sea lies peaceful beneath a foaming surface, a
great soul lies sedate beneath the strife of passions in Greek figures. ’ Tis
in the face of Laocoon this soul shines with full lustre, not confined however
to the face, amidst the most violent sufferings. 16. Denis Diderot (1713–84) on
the excessive dependence on the Antique at the expense of the study of Nature.
Philosopher, polymath and editor of the Encyclopédie, Diderot is one of the
central figures of the French Enlightenment. His celebrated art criticism was
directed towards the biennial Salons organised by the Académie Royale de
peinture et de sculpture in Paris, and covered the period from 1759 to 1781.
His review of the 74 75 1765 Salon included a section on sculpture in
which he criticised Winckelmann’s semi-religious dependence on the Antique and
instead urged artists to return to the study of Nature, as the source of all
excellence in art, classical statues included. Diderot’s ‘naturalistic’ and
anti-academic approach – already difused into European art theory at least from
the 17th century onwards – became predominant in the 19th century.
Nevertheless, Diderot had an immense admiration for classical sculpture in
itself; for him it represented the best result of that fruitful study of Nature
and freedom of artistic creativity that he advocated for contemporary French
art. Diderot’s review of the Salon of 1765 was written for Melchior Grimm’s
Correspondence littéraire, which circulated in manuscript form. It was printed
for the first time in Jacques-André Naigeon, Oeuvres de Denis Diderot publiés
sur les manuscrits de l’auteur, 15 vols, Paris, 1798, 13, 314–16. This
translation is from Diderot on Art – 1: The Salon of 1765 and Notes on
Painting, ed. and trans. by J. Goodman, New Haven and London, 1995, 156–57. I
am fond of fanatics [p. 157]. Such one is Winckelmann when he
compares the productions of ancient artists with those of modern artists. What
doesn’t he see in the stump of a man we call the Torso? The swelling muscles of
his chest, they’re nothing less than the undulation of the sea; his broad bent
shoulders, they’re a great concave vault that, far from being broken, is
strengthened by the burdens it’s made to carry; and as for his nerves, the
ropes of ancient catapults that hurled large rocks over immense distances are
mere spiderwebs in compari- son. Inquire of this charming enthusiast by what
means Glycon, Phidias, and the others managed to produce such beautiful,
perfect works and he’ll answer you: by the sentiment of liberty which elevates
the soul and inspire great things; by rewards offered by the nation, and public
respect; by the constant observation, study and imitation of the beautiful in nature,
respect for poster- ity, intoxication at the prospect of immortality, assiduous
work, propitious social mores and climate, and genius . There is not a single point of this response
one would dare to contradict. But put a second question to him, ask him if it’s
better to study the antique or nature, without the knowledge and study of
which, without a taste for which ancient artists, even with all the specific
advantages they enjoyed, would have left us only medio- cre works: The antique!
He’ll reply without skipping a beat; The antique! and in
one fell swoop a man whose intelligence, enthusiasm, and taste are without
equal betrays all these gifts in the middle of the Toboso. Anyone who scorns
nature in favour of the antique risks never producing anything that’s not
trivial, weak, and paltry in its drawing, character, drapery, and expression.
Anyone who’s neglected nature in favour of the antique will risk being cold,
lifeless, devoid of the hidden, secret truths which can only be perceived in
nature itself. It seems to me that one must study the antique to learn how to
look at nature. 17. Sir Joshua Reynolds (1723–92) on the role of the Royal
Academy and on the study of the Antique. Sir Joshua Reynolds, the foremost
portrait painter in England in the 18th century, served as first president of
the Royal Academy between 1768 and 1792. His fifteen Discourses on Art,
delivered to the students and members of the Academy between 1769 and 1790,
became widely popular in Britain and abroad. They represent a distillation of
the idealistic and academic art theory of the previous centuries in support of
the ‘Grand manner’, mixed with his personal views, such as Reynolds’ huge
admiration for Michelangelo. The Discourses range from didactic guidelines for
the Academy to more theoretical discussions, and references to the Antique can
be found throughout, especially in Discourse 10, devoted to sculpture. Excerpts
from Discourses of Art. Sir Joshua Reynolds, ed. by R. R. Wark, New Haven and
London, 1997. [P. 15] Discourse 1 (1769): The principal advantage of an Academy
is, that, besides furnishing able men to direct the student, it will be a
repository for the great examples of the Art. These are the materials on which
genius is to work, and without which the strongest intellect may be fruitlessly
or deviously employed. By studying these authentic models, that idea of
excellence which is the result of the accumulated experience of past ages may
be at once acquired; and the tardy and obstructed progress of our predecessors may
teach us a shorter and easier way. The student receives, at one glance, the
principles which many artists have spent their whole lives in ascertaining;
and, satisfied with their effect, is spared the painful investigation by which
they come to be known and fixed. [P. 106] Discourse 6 (1774): All the
inventions and thoughts of the Antients, whether conveyed to us in statues,
bas-reliefs, intaglios, cameos, or coins, are to be sought after and carefully
studied: The genius that hovers over these venerable reliques may be called the
father of modern art. From the remains of the works of the antients the modern
arts were revived, and it is by their means that they must be restored a second
time. However it may mortify our vanity, we must be forced to allow them our
masters; and we may venture to prophecy, that when they shall cease to be
studied, arts will no longer flourish, and we shall again relapse into
barbarism. [P. 177] Discourse 10 (1780): As a proof of the high value we set on
the mere excellence of form, we may produce the greatest part of the works of
Michael Angelo, both in painting and sculpture; as well as most of the antique
statues, which are justly esteemed in a very high degree . But, as a stronger instance that this
excellence alone inspires sentiment, what artist ever looked at the Torso
without feeling a warmth of enthusiasm, as from the highest efforts of poetry?
From whence does this proceed? What is there in this fragment that produces
this effect, but the perfec- tion of this science of abstract form? A MIND
elevated to the contemplation of excellence perceives in this [p. 178] defaced
and shattered fragment, disjecti membra poetae, the traces of superlative
genius, the reliques of a work on which succeeding ages can only gaze with inadequate
admiration. 18. The Encyclopédie by Denis Diderot (1713–84) and Jean-Baptiste
le Rond d’Alembert (1717–83) on the advantages for artists to go to Rome to
experience the Antique and modern works of art. The second edition of Diderot’s
and D’Alembert’s epochal Encyclopédie included an entry on the Académie de
France in Rome, in which the role and mission of the institution is celebrated
in superlative terms. A period in Rome was still considered, even by the
anti-academic Diderot, to be essential for young artists to round of their
education in the physical and spiritual presence of the Antique and the great
Renaissance masters. This apology and defence of the Roman Académie was also
perhaps intended to counter the opinion of those, such as the sculptor
Etienne-Maurice Falconet (1716–91), who judged the trip to Rome no longer
necessary, given the quantity of plaster casts available in France. Excerpt from D. Diderot and J.-B. le Rond D’Alembert, Encyclopédie ou
dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des metiers . . ., new ed.,
Geneva, 1, 1777, 238–39 (translation Barbara Lasic). The French Academy in Rome is a school of painting that King Louis XIV
established in 1666, et one of the most beautiful institu- tions of this great
monarch for the glory of the kingdom and the progress of the fine arts . It was one of the greatest causes for the
perfection of art in France ; thus Le
Brun thought that young Frenchmen who intended to study the fine arts should go
to Rome and spend some time there. This is where the works of Michelangelo,
Vignola, Domenichino, Raphael and those of the ancient Greeks give silent
lessons far superior to those that our great living masters could give . Italy has the uncontested advantage and
glory of having the richest mine of antique models that can serve as guides to
the modern artists, and enlighten them in the quest for ideal beauty; of having
revived in the world the arts that had been lost; of having produced excellent
artists of all types; and finally of having given lessons to other people to
whom it had previously given laws [p. 139]. Italy is for artists a true
classical land as an Englishman calls it. Everything there entices the eye of
the painter, everything instructs him, everything awakens his attention. Aside
from modern statues, how many of those antiques, which by their exact
proportions and the elegant variety of their forms, served as models to past
artists and must serve to those of all centuries, does not the superb Rome
contain amid its walls? Although there are in France some very fine statues
like the Cincinnatus and a few others, we can state, without fear of being
mistaken, that there are none of the first rate, or of those that the Italians
call preceptive and that can be put in parallel with the Apollo, the Antinoüs,
the Laocoon, the Hercules, the Gladiator, the Faun, the Venus and many more
that decorate the Belvedere, the Palazzo Farnese, the Borghese grounds and the
gallery of Florence. The gallery Giustiniani alone is perhaps richer in antique
statues than the entire French kingdom. 19. James Northcote (1746–1831) on the
decline of the Antique as a model and on the thirst for novelty in art. The
pungent and lively conversations between the writer and art critic William
Hazlitt (1778–1830), and the painter James Northcote, were published in various
articles in The New Monthly Magazine in 1826 and then collated in 1830, causing
scandal for their frankness among contemporaries. The passage selected is one
of the most revealing testimonies on the growing dissatisfaction with the
Antique and the widespread demand for new forms of art. Excerpts from William
Hazlitt, Conversations of James Northcote, Esq., R.A., London, 1830, 51–53.
‘Did you see Thorwaldsen’s things while you were there? A young artist brought
me all his designs the other day, as miracles that I was to wonder at and be
delighted with. But I could find nothing in [p. 52] them but repetitions of the
Antique, over and over, till I was surfeited.’ ‘He would be pleased at this.’
‘Why, no! that is not enough: it is easy to imitate the Antique: – if you want
to last, you must invent something. The other is only pouring liquors from one
vessel into another, that become staler and staler every time. We are tired of
the Antique; yet at any rate, it is better than the vapid imitation of it. The
world wants something new, and will have it. No matter whether it is better or
worse, if there is but an infusion of new life and spirit, it will go down to
posterity; otherwise, you are soon forgotten. Canova too, is nothing for the
same reason – he is only a feeble copy of the Antique; or a mixture of two
things the most incompatible, that and opera-dancing. But there is Bernini; he is
full of faults, he has too much of that florid, redundant, fluttering style,
that was objected to Rubens; but then he has given an appearance of flesh that
was never given before. The Antique always looks like marble, you never for a
moment can divest yourself of the idea; but go up to a statue of Bernini’s, and
it seems as if it must yield to your touch. This excellence [p. 53] he was the
first to give, and therefore it must always remain with him. It is true, it is
also in the Elgin marbles; but they were not known in his time; so that he
indisputably was a genius. Then there is Michael Angelo; how utterly different
from the Antique, and in some things how superior!’ 76 77. CATALOGUE. Notes to
the reader support. All drawings and prints are on paper. measurements:
Mesurements of all works, both exhibited and reproduced as comparative
illustrations, are given height before width, in millimeters for drawings and
prints and in centimeters for paintings and sculpture. inscriptions: Recto and
verso indications for inscriptions are given only for drawings. For prints it
is assumed they are on the recto. Abbreviations: u.l.: upper left; u.c.: upper
centre; u.r.: upper right; c.l.: centre left; c.r.: centre right; l.l.: lower
left; l.c.: lower centre; l.r.: lower right. The original spelling is always
respected. provenance: Provenance is given in chronological sequence, as
completely as possible. Collectors’ names are given as listed in Lugt
(abbreviated L., L. suppl.) literature/exhibitions: Prints are included in the
Exhibition references when the actual impression catalogued here was shown;
when another impression was exhibited, it is mentioned under Literature. For
exhibition catalogue entries included in the Literature and Exhibition
references, the author or authors are given only when their initials are
specified at the end of the entry. Otherwise it is assumed that the entry was
written by the compilers of the catalogue. If an object has been illustrated in
a publication, a figure or plate number is included. If the object has been
illustrated without a figure or plate number, ‘repr.’ is used. If nothing is
specified, the object was not illustrated. For exhibition catalogues, only the
catalogue number is provided, as it is assumed that it was reproduced. Otherwise,
‘not repr.’ is used. #1 Agostino dei Musi, called Agostino Veneziano
(Venice c. 1490–after 1536 Rome) After Baccio Bandinelli (Gaiole, near Chianti
1493–1560 Florence) The Academy of Baccio Bandinelli in Rome 1531 Engraving,
state II of III 274 × 299 mm (plate), 278 × 302 mm (sheet) Inscribed recto,
l.c., on front of table support: ‘ACADEMIA . DI BAC: / CHIO . . MDXXXI. /. A.
V.’ selected literature: Heinecken 1778–90, 2, 98; Bartsch 1803–21, 14, 314–15,
no. 418; Pevsner 1940, 38–42, 5; Ciardi Duprè 1966, 161; Wittkower 1969, 232, 70;
Oberhuber 1978, 314.418, repr.; Florence 1980, 264, no. 687; Roman 1984, 81–84,
62; Weil-Garris Brandt 1989, 497–98, 1; Landau and Parshall 1994, 286, 304;
Barkan 1999, 290–98, 5.12; Fiorentini 1999, 145–46, no. 29; Munich and Cologne
2002, 319, no. 110; Thomas 2005, 3–14, figs 1–3; Hegener 2008, 396–403 and
624–25, pl. 228; Antwerp 2013, 26, repr.; Florence 2014, 528–29, no. 77.
BRANDIN . provenance: Elizabeth Harvey-Lee, North Aston (Oxfordshire), from
whom acquired in 1995. IN . / ROMA . / IN LUOGO . DETTO / . BELVEDERE . /
exhibitions: Not previously exhibited. The Bellinger Collection, inv. no.
1995-047 This renowned print by Agostino Veneziano after a design by Baccio
Bandinelli, the Florentine sculptor and draughts- man, depicts Bandinelli’s
academy for artists in the Belvedere in Rome, where he was granted the use of
rooms by Pope Leo X (r. 1513–21) and Pope Clement VII (r. 1523–34).1 We are
informed of this by the prominent inscription below the table, which renders
this engraving a particularly appropri- ate work to begin this catalogue,
because as well as being the first known representation of artists copying from
statuettes modelled after antique prototypes, it is the first recorded use of
the word ‘accademia’ in conjunction with art and the training of artists.2 This
term had previously been used to describe informal gatherings of men to discuss
liberal or intellectual subjects, such as philosophy or literature.3 Though the
scene does not depict an art academy in the modern sense – the origins of which
are found some thirty years later in Vasari’s Accademia del Disegno4 –
Bandinelli made the association between art and intellectual endeavour very
clear. His design focuses on the fundamental elements of a young artist’s
training, namely, intensive study and copying of the antique sculptures in
miniature scattered around the room, replicated on the artists’ tablets. It is
there- fore evident that artistic academies were from the beginning conceived
of as humanistic educational institutions, reliant, among other things, on
ancient statues as sources of inspira- tion. There is a conspicuous absence
here of drawing from life, which would later become one of the central elements
of Italian and French academic practices.5 The scene also places emphasis on
disegno, a word that encompasses much more than its mere translation as
‘drawing’. It comprises the intellectual capacity to create any kind of art,
including painting and sculpture, as well as drawing itself.6 In Bandinelli’s
own words, his was an ‘Accademia par- ticolare del Disegno’.7 In the print
exhibited here, the almost claustrophobic room and closely bunched apprentices
imply that study was a collaborative endeavour in Bandinelli’s academy, with
discussion among the students encouraged in order that they might better
comprehend the objects of their study, and capture them more effectively on
paper. Bandinelli himself is seated on the right, wearing a fur-lined collar,
holding a statuette of a female nude for his students’ contem- plation. The
results of their efforts are drawn on paper placed on drawing boards, using
quills and ink pots; what appears to be a blotter rests on the near edge of the
table. The noctur- nal setting evokes an atmosphere of mystery and a sense that
the central candle, with its forcefully radiating light, has, as well as a
physical function, a symbolic one, to illuminate the secrets of art and
disegno. The theme of drawing at night recurs throughout this exhibition (cats
2, 23, 24, 34) and reflects a persistent belief that such a setting is
essential for stimulating the introspection necessary for artistic success. It
also implies diligence and commitment, the ability and will to continue working
through day and night, that is required from a master artist.8 For these
reasons, a candle or lamp often symbolises ‘Study’, as seen in Federico
Zuccaro’s allegorical drawing (see cat. 5, 5). It also reveals a didactic
reliance on artificial light as preferable to natural light to emphasise the
contours of the sculptures and the contrasts of their planes, thereby
facilitating the copying process, an idea earlier espoused by Leonardo da Vinci
(with whom the young Bandinelli had personal contact) and later by Benvenuto
Cellini (1500–71).9 There is a striking interplay of the shadows cast by the
candlelight on the back walls, with the heads of both statues 80 81 and
artists overlapping one another. This may refer to a well- known passage from
Pliny’s Natural History: ‘The question as to the origin of the art of painting
is uncertain but all agree that it began
with tracing an outline around a man’s shadow’.10 The central figure on the
rear shelf casts an improbable shadow, as the hand held perpendicular to the
body is reflected on the wall as upright and perpendicular to the ground. This
was corrected in a copy after the second state (British Museum, London), which
is slightly smaller.11 The design of this copy is more crudely executed than
the original, and there are a number of significant changes to the scene that
are unique to this plate, which suggests that it was created by someone other
than Bandinelli.12 This demonstrates the relative freedom of printmakers to
make adjustments to designs, and may help us to infer that this print was
especially popular; such changes would have necessitated a new plate, which
would imply that demand outstripped the supply, or that the original plate was
under especially tight control by a single owner.13 The male and female statues
on the table are the focus of the artists’ devotion, and are reminiscent of
Apollo and Venus, specifically of the Venus Pudica type.14 They are probably
inspired by the famous statues of the Apollo Belvedere (see 26, 18 and cat. 5, 1)
and Venus Felix (fig. 1), which stood in the Belvedere Court and were
constantly used by artists as ideal models.15 They would have been easily
acces- sible to Bandinelli while lodging at the Belvedere. The male figures may
alternatively be types after Hercules, a figure 1. Venus Felix and Cupid, c.
200 ad, marble, 214 cm (h), Museo Pio-Clementino, Vatican Museums, Rome, inv.
936 that is prevalent throughout Bandinelli’s work (see cat. 3). In fact, Maria
Grazia Ciardi Duprè identified the upper left male figure on the shelf as a
bronze statuette of Hercules Pomarius, now at the Victoria and Albert Museum,
London, and on that basis suggested the statuette be newly attributed to
Bandinelli.16 Many subsequent scholars have accepted this,17 but the
differences in the two figures’ poses leaves the present author unconvinced,
and it seems more likely that the figures in the print are generic, idealised
types. In an almost meta-narrative, the intense focus on antique statuary is
echoed even by the central male statuette, as he gazes at a miniature statuette
poised on his own outstretched palm, which twists back to face him, returning
his gaze (fig. 2). The three statues arrayed on the shelf along the back wall –
two male and one female – are all of the same type as those on the table, and
may be either copies or casts of them in wax or clay. The statuettes probably
represent objects sculpted by Bandinelli himself referencing the Antique;
Vasari tells us that while using the rooms at the Belvedere, Bandinelli made
‘many little figures [. . .] as of Hercules, Venus, Apollo, Leda, and other
fantasies of his own’.18 One of these survives in bronze, a Hercules Pomarius
at the Bargello, in Florence (fig. 3), and it resembles the figures in the
engraving.19 The produc- tion of small models in wax, clay or bronze –
many modelled on ancient prototypes – for young artists to practice drawing in
the workshop, was already common in the 15th century. Several were created, for
instance, by Lorenzo Ghiberti (c. 1381–1455) and Antonio Pollaiuolo (c.
1431–98).20 They 2. Detail of Veneziano’s engraving, statue gazing at an even
smaller statuette 3. Baccio Bandinelli, Hercules Pomarius, c. 1545, bronze,
33.5 cm (h), Museo Nazionale del Bargello, Florence, inv. 281 Bronzi served the
purpose of familiarising young artists with the forms and poses of antique
models, allowing them to learn how to draw the three-dimensional human figure
from different angles on a flat surface. The juxtaposition of the statuettes
with several antique-style pots and vessels in the engraving reinforces the
connection between Bandinelli’s ‘academy’ and the classical past, as does the
fragment of a foot on the book that serves as a plinth for the male figure on
the right. The statuettes are positioned so that each faces a slightly
different direction, enabling the viewer to observe them from all angles, just
as the artists are instructed to do. Our participation is further encouraged by
the figure on the far left and by Bandinelli: both gaze outward and seem to
acknowledge our presence. The viewer is thus accorded a role as a fellow
student among the apprentices learning from Bandinelli in his academy. This
link with the academy was less explicit in the original version of Bandinelli’s
design. Ben Thomas drew attention to the first state of the print (Ashmolean
Museum, Oxford),21 in which the inscription – so prominent below the table in
the print exhibited here – was presented only in an abbreviated form on the
tablet hanging on the wall at the far right, without the word ‘academia’, and
with only Veneziano’s monogram and the date 1530, a year earlier than the
present engraving. This tablet, deprived of the inscription in the later
states, became an awkwardly superfluous element of the composition. Also
missing in the first state are the drawings on the sheets of the artists gathered
around the table. In changing these elements in the second state, as
represented here,22 Bandinelli deliberately ensured there was no possibil- ity
of misinterpreting this as a literary, rather than artistic, endeavour; it also
serves as propaganda for the artist himself, as a dissemination of not only his
powers of design, but his role as a teacher and an innovator. This makes it all
the more surprising that on the current print, his name is inscribed as
‘Bacchio Brandin.’ rather than Bandinelli. He adopted the Bandinelli surname in
1529 to align himself with a noble family from Siena, thereby making himself
eligible for the Order of Santiago, which he was awarded by Emperor Charles V
in 1530.23 The inscription dates the print to 1531, after his adoption of this
new genealogy, and so must reflect an error on the part of the engraver,
Veneziano.24 In his self-portrait, seated at the table, Bandinelli also does
not wear the insignia of the Order of Santiago, as he does in his other
self-portraits (cats 2 and 3), and so the design for this print most likely
dates prior to the granting of this award in 1530. Tommaso Mozzati suggested a
date earlier than 1527, when the sack of Rome forced both artists to flee the
city, Veneziano to Mantua, Bandinelli first to Lucca and then Genoa.25 The
inscription itself tells us the design was made in Rome, depicting a room in
the Belvedere. If Veneziano engraved the design after the two artists went
their separate ways, it could explain how the mistake in nomenclature was
allowed to occur.26 Bandinelli’s relentless self-promotion and willingness to
rewrite his family tree to achieve noble status can be explained by his
upbringing. His father, Michelangelo di Viviano (1459–1528), was a prominent
goldsmith in Florence, but the family had lost much of its wealth and prestige
by the time his son was born in October 1493.27 As Bandinelli’s three siblings
left home or died young, he was essentially the only child, charged with
restoring the family’s social standing. His father encouraged his training as
an artist from an early age, as an apprentice within his own workshop.
Bandinelli also worked with the sculptor Gian Francesco Rustici (1474–1554),
learning from him the process of model- ling sculptures in wax and clay for
casting into bronze. This association no doubt provided the opportunity to meet
Rustici’s collaborator at the time on St John the Baptist Preaching (Florence
Cathedral, Baptistry), Leonardo da Vinci (1452– 1519). Bandinelli was a staunch
Medici supporter, even throughout the family’s exile, and this cemented his
financial success as soon as two Medici popes came to power (Giovanni de’
Medici as Leo X in 1513 and Giulio de’ Medici as Clement VII in 1523). However,
it also inspired rabid criticism from many Florentines, who were Republican by
nature. 82 83 Our view of him is also coloured by Vasari’s
biography, in which Bandinelli is treated as the villain to his heroic rival,
Michelangelo.28 Such a bias is perhaps not completely unwar- ranted, as all
three prints on display here by Bandinelli reflect his insistence not only on
publicising his own image, but in vaunting his abilities as both a teacher of
the next generation of artists, as well as having a special and privi- leged
relationship to the Antique. This betrays the arrogance 29 that is also evident
in his writings, and may well have contributed to the negative opinions of his
character that persist to this day. rh 1 Vasari tells us that Bandinelli was
given use of the Belvedere (Bettarini and Barocchi 1966–87, 5, 246, 250) but he
never mentions an academy (Barkan 1999, 290). This engraving and cat. 2, as
well as Bandinelli’s own account in his autobiographical Memoriale (which
exists in a single manuscript in the Biblioteca Nazionale in Florence, Cod.
Pal. Bandinelli 12, and is transcribed in Colasanti 1905 and Barocchi 1971–77, 2,
1359– 1411) are the only evidence we have for the existence of Bandinelli’s
academy. 2 A less explicit link between art and the term ‘accademia’ is found
on engravings after Leonardo da Vinci’s designs of knot work, which are
inscribed ‘Academia Leonardi Vinci’ (see Pevsner 1940, 25; Roman 1984, 81; and
Goldstein 1996, 10 and frontispiece). For Bandinelli as the first to use this
word in conjunction with art training, see Pevsner 1940, 39; Barkan 1999, 290;
Munich and Cologne 2002, 319 under no. 110; Thomas 2005, 8; Hegener 2008, 401
and 403. 3 Visual arts were regarded as applied disciplines rather than liberal
arts and thus unsuitable for intellectual discussion (Pevsner 1940, 30–31;
Goldstein 1996, 147; Cologne and Munich 2002, 319 under no. 110; Thomas 2005, 8–9).
4 Although Vasari was the instigator and organiser of the Accademia, officially
it was opened in 1563 by Cosimo de Medici (Pevsner 1940, 42). For more about
the Accademia see Goldstein 1975; Waz ́bin ́ski 1987; Barzman 1989; Barzman
2000. 5 Goldstein 1996, chap. 8; Barkan 1999, 292; Costamagna 2005. 6 Goldstein
1996, 14. 7 Barocchi 1971–77, 2, 1384–85. 8 Roman 1984, 83; Munich and Cologne
2002, 319; Thomas 2005, pp.6–7. 9 Weil-Garris 1981, 246–47, note 39; Barkan
1999, 292; Hegener 2008, 401. 10 ‘De picturae initiis incerta quaestio est omnes
umbra hominis lineis circumducta, itaque primam talem’: Pliny the Elder, Nat.
Hist., 35.5. See Pliny 1999, 270–71. 11 The British Museum print’s inventory
number is V,2.136. 12 Some changes are: the removal of Veneziano’s monogram,
the underlining of ‘Belvedere’ in the inscription and the figure sketches on
the artists’ sheets (Thomas 2005, 12). 13 Thomas 2005, 12. 14 For other statues
of the Venus Pudica type known in the early Renaissance, see Tolomeo Speranza
1988. 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 Hegener 2008, 401. For Venus
Felix, see Spinola 1996–2004, 1, 97, PN 23 and 14 on 98. Ciardi Duprè 1966, 161.
The inventory number of the statuette is A.76-1910. Or they have at least
restated Ciardi Duprè’s thesis without contestation. This includes Fiorentini
1999, 145; Thomas 2005, 11, note 21; and Hegener 2008, 403. Paul Joannides
disagrees and attributes the statuette in the Victoria and Albert Museum to
Michelangelo, saying that it in turn inspired Bandinelli to create his own
version of Hercules Pomarius, now in the Bargello, in Florence (fig. 3), which
is widely accepted as by Bandinelli (Joannides 1997, 16–20). Volker Krahn also
expressed doubt that it is by Bandinelli (Florence 2014, 374). ‘Fece molte
figurine come Ercoli, Venere, Apollini, Lede, ed altre
sue fantasie’ (Bettarini and Barocchi 1966–87, 5, 251). See Florence 2014, 372–75, no. 32. Fusco 1982; Ames-Lewis 2000b, 52–55.
See also Aymonino’s essay in this catalogue, 22–23. Thomas 2005, 11. The
print’s inventory number is WA1863.1759. There is also a third state owned by
the Davison Arts Center of Wesleyan University, CT, in which the publisher
Antonio Salamanca’s name is added at the bottom right (Thomas 2005, 12).
Bartsch noted only one state (the second), but was also aware of the copy of
the second state discussed here (Bartsch 1803–21, 314–15, no. 418). The sheet
exhibited here may repre- sent a later impression of the second state, as the
underlining of ‘Belvedere’ has become so worn that it is only visible below the
first ‘el’ and the ‘r’. There is some debate as to when Bandinelli received
this honour. Scholars usually agree on 1529, but in his autobiography,
Bandinelli said it occurred in the same year as the emperor’s coronation, which
was in February 1530. According to Weil-Garris Brandt, the confusion arose
because the Florentine year ended in March (Weil-Garris Brandt 1989, 501, note
26). Ben Thomas agrees with her and says the emperor sent news of the honour to
Bandinelli from Innsbruck, after departing from Bologna on 22 March 1530
(Thomas 2005, 9 and note 12). This is perhaps not the only print to exhibit
such a mistake, as Bandinelli, in his Memoriale, bemoaned a similar error that
had to be corrected on a print of his Martyrdom of St Lawrence (Barocchi
1971–77, 2, 1396). However, this complaint itself is inaccurate, as the
inscription of ‘Baccius Brandin. Inven.’ on the St Lawrence print would have
been a correct appella- tion at the time of its execution in 1524, well before
Bandinelli’s adoption of his new name. Such an anachronism has prompted
speculation that the Memoriale is not actually by Bandinelli, but rather a
forgery by one of his descendants (Thomas 2005, 10); nevertheless, it
represents a familial dissatisfaction with the dissemination of Bandinelli’s
designs once removed from his control. Minonzio 1990, 686 and Florence 2014, 528
under no. 77. However, by 1530, the date on the first state of this print, both
Veneziano and Bandinelli had returned to Rome (Thomas 2005, 11). This does not
preclude Veneziano from having engraved the design during their separa- tion.
It is unlikely that the design was executed at this later date because of the
absence of the insignia of the Order of Santiago; even if the image were
retrospective, it seems unlikely that Bandinelli would miss an opportunity for
self-aggrandisement. For Bandinelli’s biography, see Bandinelli’s own Memoriale
(see note 1), Vasari’s account in Bettarini and Barocchi 1966–87, 5, 239–76,
and more concise surveys in Weil-Garris 1981, 224–42 and Waldman 2004, xv–xxviii.
Weil-Garris 1981, 224. Pevsner 1940, 42. 2. Enea Vico ( Parma 1523–1567
Ferrara) After Baccio Bandinelli (Gaiole, near Chianti 1493–1560 Florence) The
Academy of Baccio Bandinelli c. 1545/50 Engraving, state II of III 314 × 486 mm
(sheet) Inscribed recto, u.r., on left page of open book: ‘Baccius / Bandi: /
nellus / invent’; on right page: ‘Enea vi: / go Par: / megiano / sculpsit.’
Inscribed verso, l. c., on additional paper fragment, now attached, in pencil:
‘Eneas Vico ca 1520 – ca 1570 / Nagler XXII/515 bl 49 / Ein Hauptblatt’; and
below, in pencil, ‘B. Vol 15 B 305 No. 49’; l.l. in pencil: ‘£ 3013 60’ [the
rest illegible] provenance: Venator et Hanstein, Cologne, 3 November 1998, lot
2722, from whom acquired. selected literature: Heinecken 1778–90, 2, 98–99;
Bartsch 1803–21, 15, 305–06, no. 49; Passavant 1860–64, 6, 122, no. 49; Pevsner
1940, 40–42, 6; Ciardi Duprè 1966, 163–64, 26; Goldstein 1975, 147, 1;
Weil-Garris 1981, 235–36, 14; Roman 1984, 84–87, 66; Spike 1985, 305.49-I and
305.49-II, repr.; Landau and Parshall 1994, 286, 303; Barkan 1999, 290–98, 5.13;
Fiorentini 1999, 146–47, no. 30; Houston and Ithaca 2005–06, 86–88, no. 21;
Thomas 2005, 12–14, 5; Hegener 2008, 404–12 and 625–26, pl. 232; Compton Verney
and Norwich 2009–10, 18, 15; Florence 2014, 530–31, no. 78. 84 85 exhibitions:
Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 1998-039 This
print by Enea Vico after a design by Baccio Bandinelli depicts a scene similar
to that in his earlier self-styled acad- emy (cat. 1), but it has been expanded
and amplified: the table which occupies all of the space in Agostino
Veneziano’s engraving has been moved to the right side of Vico’s print, and the
perspective is widened to allow a larger room to come into view. The number of
apprentices has grown from six to twelve, the books from one to six and the
antique sculptures from five to ten. The style of the print, as well as Vico’s
chronology, suggest that it is not the Belvedere acad- emy that is depicted here,
but a second academy, established by Bandinelli some twenty years later after
his return to Florence in 1540.1 As in the earlier print, the classical figu-
rines appear to be generalised interpretations of antique statuary rather than
exact copies of specific models, although they have been diversified here by
the addition of a horse’s head and a bust of a Roman emperor on the shelf.
Added to the fragments strewn about the room are skeletons and skulls, which
are now given a status equal to classical sources as inspiration for artists.
These refer to the growing tendency to study the anatomy of the human body in
Italian work- shops around the mid-16th century, mainly through skele- tons, a
practice that was codified by Benvenuto Cellini (1500–71) some twenty years
later in his Sopra i Principi e l’ Modo d’Imparare l’Arte del Disegno, in which
he advised artists to copy anatomical parts in order to attain skill as
draughts- men.2 While Bandinelli’s representation is one of the first to
document the spread of anatomical study among young artists, the practice was
formalised in the second half of the 16th century in the curricula of the first
academies, where sophisticated anatomy lectures were given and dissections were
performed.3 Both antique sculptures and skeletons became common elements in
subsequent representations of artists’ workshops, studios and academies, as
seen in Stradanus’ studio image and Cort’s engraving after it (cat. 4). This is
also reflected in an etching by Pierfrancesco Alberti of a painter’s studio or
academy (fig. 1), which shows a more structured curriculum of studies involving
anatomical dissection, geometry, the Antique and architectural drawing, closely
reflecting the disciplines taught in the earliest Italian academies, particularly
the Roman Accademia di San Luca.4 The light source is another difference
between the two prints after Bandinelli. The single candle in Veneziano’s
engraving has become three forcefully radiating fires, with the candle on the
table now partially dissolving the face of the student standing to its right.
The importance of studying at night, and the diligence and introspection this
implies, is again a primary theme. Another engraving after a Bandinelli design,
The Combat of Cupid and Apollo,5 also places impor- tance on fire as a source
of not only visual illumination, but as a symbol of philosophical and spiritual
revelation. The recurrence of this motif has been regarded as indicative of
Bandinelli’s neo-Platonic leanings; the flame symbolises divine Reason and its
power to defeat the darker, profane vices of the human condition, allowing man
to perceive true, celestial beauty, even while bound to the terrestrial realm.6
Indeed, the very concept of an academy is closely inter- twined with
Neo-Platonism, as it was widely considered that the first academy founded since
the end of classical times was that of Marsilio Ficino (1433–99) in Florence,
which was specifically based on the philosophy and teachings espoused by
Plato.7 Bandinelli himself is again represented, but he now stands at the
far right, instructing the two students who face him. He also now wears the
cross of St James, as befits a knight of the Order of Santiago, which he was
awarded in 1530, and which is seen in his other self-portrait (cat. 3). The
same insignia is placed prominently above the fireplace between the two cupids.
Bandinelli’s design therefore takes on a more propagandistic role, and has been
described by some scholars as a ‘manifesto’ for his academy.8 The staging here
stresses Bandinelli’s nobility, humanism and sophistication, while the
importance of copying from antique sculpture is rather downplayed, with the
casts relegated to the margins of the scene. None of the artists is now looking
at the casts; their focus is instead inward, as best exemplified by the figure
who sits at the centre of the composition, with his head in his hand. Only one
of the students’ drawings is visible, on the tablet of the standing apprentice
at the centre of the scene, and the female nude emerging from his stylus is
unrelated to any of the sculptures surrounding him, although clearly referring
to a model all’antica. She must therefore be a product of his mind, and so the
emphasis here is on the artist’s memory and imagination; the skeletons and
antique sculptures were essential for building his graphic vocabulary of the
human form, but they have been discarded now that he has successfully
internalised them and no longer needs to copy them directly.9 The exercise of
memory was one of the central principles of the pedagogical practices of the
Italian Renaissance, going back as far as Leon Battista Alberti (1404– 72) and
Leonardo (1452–1519).10 Giorgio Vasari (1511–74), in his Vite explicitly
recommended that ‘the best thing is to draw men and women from the nude and
thus fix in the memory by constant exercise the muscles of the torso, back,
legs, arms and knees, with the bones underneath. Then one may be sure that,
through much study, attitudes in any position can be drawn by help of the
imagination without one having the living forms in the view’.11 The importance
of memory was also stressed by Cellini in his treatise.12 There are three
states of this print, differentiated by the inscriptions.13 In the first state,
the inscription identifying Bandinelli as the designer on the left page of the
book on the upper right is included, as is the address of the Roman pub-
lisher, Pietro Palumbo, below the sleeping dog in the lower centre (not seen
here). In the second state, Enea Vico’s name is added on the right-hand page of
the same book, in a differ- ent script. In the final state, the name of
Palumbo’s successor as the publisher of this print, Gaspar Alberto, is added
below the skulls in the lower centre. Nicole Hegener believed there was an
additional state between the first and second, repre- sented by a version at
Yale in which Agostino’s Veneziano’s name was inscribed on the right-hand page
of the book before it was replaced by Vico’s.14 However, it was noted in 2005
that this was added by hand in pen-and-ink, and was therefore just a
modification of the first state of the print.15 The print exhibited here was
also believed to be a unique 86 87 1. Pierfrancesco Alberti,
Painters’ Academy, c. 1603–48, etching, 412 × 522 mm, Rijksmuseum, Amsterdam,
RP-P-1952-373 example of a state between the first and second, as both
Bandinelli’s and Vico’s names are present on the book, but Palumbo’s is
missing.16 However, close examination of the verso reveals extensive abrasion
over the area where Palumbo’s address would have been. The inscription was
therefore erased from this sheet, and does not reflect any changes to the
original plate. It must, therefore, be an example of the second state, which
was subsequently altered for an unknown reason. Palumbo’s name on the first state
also makes the dating of this print difficult. On stylistic grounds, most
scholars date it to c. 1545/50,17 but Palumbo was not active 1731: Cellini
1731, 155–62 (on the study of the bones and muscles, 157–62). See Olmstead
Tonelli 1984, esp. 101. See also Schultz 1985; Ottawa, Vancouver and elsewhere
1996–97; London, Warwick and elsewhere 1997–98; Carlino 2008–09. Roman 1984, 91.
See Appendix, no. 7 for the statutes of the Accademia di San Luca. Repr. in
Panofsky 1962, 107. Panofsky 1962, 148–51. Goldstein 1996, 14. For the
neo-Platonic movement during the Renais- sance, see Panofsky 1962, chap. 5.
Compton Verney and Norwich 2009–10, 18; Florence 2014, 520. Thomas 2005, 13–14;
Houston and Ithaca 2005–06, 87. Alberti 1972, 96–99 (book 3.55); Leonardo 1956,
1, 47, chap. 65–66. See also Aymonino’s essay in this catalogue, 33. Brown
1907, 210; Bettarini and Barocchi 1966–87, 1, 114–15. Cellini 1731, 157.
Bartsch mistakenly conflated the second and third states and therefore only
listed two states (Bartsch 1803–21, 15, 305–06). He was corrected by Passavant
(1860–64, 6, 122, no. 49) and this is accepted by subsequent scholarship (i.e.
Thomas 2005, 13). Hegener 2008, 405. Houston and Ithaca 2005–06, 88, note 1.
See also Florence 2014, 530. Venator et Hanstein sale, Cologne, 3 November
1998, lot 2722. Pevsner remarks on the characteristic ‘Mid-Cinquecento
Mannerism’ of Vico’s print in contrast to Veneziano’s style, which is
reminiscent of Raimondi (Pevsner 1940, 40). The following agree on the
approximate dates c. 1545/50: Weil-Garris 1981, 235; Thomas 2005, 13; Houston
and Ithaca 2005–06, 86; Florence 2014, 530. Fiorentini suggested c. 1550
because after that date Vico used ‘sculptere’ on his works, rather than
‘sculpsit’ as here (Fiorentini 1999, 147). However, the form of Vico’s
inscription as ‘Enea Vigo’ on this print is completely unique, as his other
extant works are signed either ‘E.V.’, ‘Enea Vico’ or variations on ‘AENEAS
VICUS’ (Thomas 2005, 13). Therefore we must be very cautious in making any
assumptions based on this particular inscription. London 2001–02, 230. He
continued working until c. 1586. Florence 2014, 531. 3. Anonymous, 16th-century
Italian Artist After Niccolò della Casa (Lorraine fl. 1543–48) After Baccio
Bandinelli (Gaiole, near Chianti 1493–1560 Florence) Self-Portrait of Baccio
Bandinelli, Seated 1548 Engraving, 416 × 306 mm
Datedl.c.:‘1548’;inscribedl.r:‘A.S.Excudebat.’;inscribedl.c.inpencil:‘No
7.’andbelowtor.inpencil:‘No 7’. With the initials of the publisher, probably
Antonio Salamanca (1478–1562). provenance: Léon Millet, Paris (his stamp, not
in Lugt, in blue ink on the verso: ‘Léon Millet / 13 rue des Abbesses’ and
below, printed in black ink: ‘12 Mars 1897’);1 Bassenge, Berlin, 3 December
2003, lot 5155, from whom acquired. selected literature: Heinecken 1778–90, 2, 90;
Bartsch 1854–76, 15, 279–80; Nagler 1966, 1, 542, under no. 1266; Le Blanc
1854-88, 3, 414, 1–2; Steinmann 1913, 96-97, note 8; Florence 1980, 264, 266,
no. 690; Los Angeles, Toledo and elsewhere 1988–89, 76–77, no. 20; Fiorentini
1999, 153–54, no. 34, 34 (see also 150–53, under no. 33); Fiorentini and
Rosenberg 2002, 37, 20, 38, 42, 44; Houston and Ithaca 2005–06, 32–34, no. 1
(J. Clifton); Hegener 2008, 391–96, version II, 57, 617–18, no. 16 (see also 380–91,
under version I); Florence 2014, 526–27, no. 76 (T. Mozzati). before c. 1562 at
Sant’ Agostino in Rome, Bandinelli’s death. Tommaso Mozzati speculated that
Bandinelli transferred his design to Vico before 1546, when the engraver left
Florence for Rome, and that the publication may have been delayed by a
deteriorating relationship between the two artists.19 If Vico intentionally
withheld the design until after Bandinelli’s death, it might explain how
Palumbo became its first publisher more than a decade later. 1 2 Pevsner 1940, 40–41;
Houston and Ithaca 2005–06, 86. This engrav- ing, cat. 1 and Bandinelli’s own
writings in his Memoriale are the only evidence we have for the existence of
his academies (see cat. 1, note 1). Weil-Garris 1981, 246–47, note 39.
Cellini’s fragmentary treatise was probably written during the last two decades
of his life but published only 88 89 which post-dates rh exhibitions: Not
previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2003-020 This
engraving reproduces, in reverse and with variations in detail, an unfinished
engraving by Niccolò della Casa, based on a lost drawing by Bandinelli.2 It is
unclear why the Della Casa engraving, which is known in only a few impressions,
was never finished. The present engraving is smaller than its model, resulting
in a few compositional differences. It was attributed to Nicolas Beatrizet (c.
1507/15–1573) by Erna Fiorentini and Raphael Rosenberg and while this was
accepted by James Clifton, it was rejected by Nicole Hegener and Tommaso
Mozzati.3 Until further information comes to light, it is perhaps safer to
attribute it to an unidentified Italian engraver working in Rome in the
mid-16th century. Hegener identified a further state with the added inscription
at centre right, ‘effigies / Bacci Bandinelli sculp / florentini’ and Karl
Heinrich von Heinecken mentioned yet another without inscriptions (untraced).4
If Bandinelli’s self-portrait inserted among his students in his academies
(cats 1–2) emphasises his role as teacher and mentor, this image speaks of a
solitary and relentless self-promoter.5 By 1548, the engraving’s date,
Bandinelli had achieved great success. He had served two Popes, Leo X (Giovanni
de’ Medici) and Clement VII (Giulio de’ Medici), for whom he had carried out
several important commissions including the classicising Orpheus and Cerberus
(Palazzo Medici Riccardi, Florence, c. 1519) modelled after the Apollo
Belvedere, the monumental Hercules and Cacus (Piazza della Signoria, Florence,
1523–34) and the papal tombs in Santa Maria sopra Minerva (1536–41).6 He was
currently serving the Grand Duke Cosimo I de’ Medici. And yet, it was Baccio’s
close alliance with the Medici, coupled with his on- going rivalry with
Michelangelo, a staunch anti-Medicean Republican, and others, like Benvenuto
Cellini (1500–71) that denied him the full respect and admiration of his
Florentine contemporaries. His intense competitiveness and difficult character
only exacerbated his contemporaries’ widespread dislike of him.7 Projecting strength,
power and authority, this arresting image, clearly intended for circulation,
was no doubt Baccio’s attempt to right those perceived wrongs.8 By fusing
motifs from his own work with motifs from antique sculpture – absorbed and
recast – Bandinelli sought to elevate his status and rank and to assert his
position while defending his work by associating it with the art of Greece and
Rome.9 The multi-layered and intertexual combination of themes and references
that resulted contributes to the engraving’s enigmatic allure and demands
careful interpretation. Significantly, it is the first image in the exhibition
to demon- strate how Antique imagery could be used by an artist to promote his
own art and his own achievements. The engraving shows us a man of great
physical presence, seated as though enthroned. His elevation is enhanced by a
rich costume – the luxurious fur-lined cloak nonchalantly slides off one
shoulder – more typical of an aristocrat than an artist. Emblazoned on his
chest is the cross of St James, the emblem of the prestigious 12th-century
Spanish military Order of Santiago, conferred on Bandinelli in 1530 by the Holy
Roman Emperor Charles V who over- ruled protests that it was unmerited.
Bandinelli took great pride in the honour, justifiably, since he was the only
artist to be awarded the cross of St James, which he included in other
self-portraits (see cat. 2).10 Immediately below the sharp lower point of the
cross his prominent codpiece protrudes through the folds of his tunic, an
unsubtle reference to his virility. His ‘progeny’ – a selection of his small
models and statu- ettes – are seen throughout. Proprietorially and prominently
cradled, and elevated on its own column base, is the figure of Hercules, the
son of Zeus, who heroically carried out the Twelve Labours. Hercules played a
central role in Bandinelli’s work.11 His near obsession with the demi-god, the
embodi- ment of strength in the face of adversity, is demonstrated in Hercules’
constant appearance – in bronze, marble, stucco and drawing – throughout
Bandinelli’s career.12 And since Hercules was the mythical founder of Florence
and an exemplum much favoured by the Medici, in linking his own image so
closely to the hero, Bandinelli was also referencing his association with his
native city and its ruling house.13 Hercules was the perfect foil to David,
another protector of Florence, and to represent the hero gave Baccio the
opportu- nity to display his mastery of the muscular male nude in heroic and
often violent action. Bandinelli also holds a rather different figure of
Hercules in the della Casa engraving, c. 1544 and in his grand painted
self-portrait of c. 1550 (Isabella Stewart Gardner Museum, Boston) he proudly
displays a preparatory drawing for the Hercules and Cacus his most spectacular
and ambitious sculpture.14 This colossal group, – a pendant to Michelangelo’s
David – and a commission that he had taken away from Michelangelo, brought him
considerable fame despite the unfavourable reception that it received on its
unveiling in 1534.15 In effect, Hercules was Bandinelli’s calling card and his
prominence in his self-portraits is unsurprising.16 Small-scale, classicising
models made in wax and terra- cotta such as those seen here and in his other
prints (cats 1–2), were central to Bandinelli’s work as tools for teaching, and
as preparation for large-scale sculpture; many were translated into bronze, as
independent statuettes.17 Here, for example, the pose of the male nude seen
from behind standing in contrapposto at the right anticipates that of Adam in
Baccio’s Adam and Eve group of 1551 (Bargello, Florence).18 Perhaps because
Bandinelli was still working out the pose or perhaps to give the figure the
aura of a damaged antique, the left arm is missing below the elbow; several of
the other figurines in the engraving derive from the Antique but have been, as
it were, naturalised into Bandinelli’s own idiom. On equal footing with the
statuette of Hercules that he holds are the two standing female nudes on the
left, also elevated on a column shaft. They derive from the Cnidian Venus of
the 4th century bc, among the most famous works of the Greek sculptor,
Praxiteles, which was probably known 1. Baccio Bandinelli, A Standing
Female Figure, c. 1515, red chalk, 410 × 242 mm, private collection,
Switzerland 2. Giulio Bonasone, Saturn Seated on a Cloud Devouring a Statue, c.
1555–70, etching and engraving, 254 × 154 mm, The British Museum, Department of
Prints and Drawings, London, H,5.137 3. Anonymous, Ferrarese School, Fortitude,
playing card, c. 1465, engraving, 179 × 100 mm, The British Museum, Department
of Prints and Drawings, London, 1895,0915.36 90 91 4. Amico Aspertini, Lion Attacking a Horse,
pen and light brown ink, 107 × 146 mm, Staatliche Museen, Kupferstichtkabinett,
Berlin, KdZ 25020 to Bandinelli through a Roman copy.19 Intent on demonstrat-
ing his full knowledge of the statue Baccio presents one woman frontally, while
the other, headless, is seen from behind.20 Slim and regularly proportioned,
the Cnidian Venus was Bandinelli’s preferred female type and examples abound in
his sculpted and graphic work.21 A highly finished red chalk drawing (private
collection Switzerland, 1) compares well with the engraved nude on the left.22
The foreground is occupied with further statuettes: another Hercules stands on
a pedestal on the left and five male torsos are scattered on the ground at his
feet. While they loosely evoke the Antique – the two on the lower left, for
example, recall the Belvedere Torso (p. 26, 23), they have become generalised.23
Headless and limbless, like antique fragments, they suggest once more that
Bandinelli was equating his work with that of the ancients. The lion has been
interpreted diversely and Bandinelli may well have intended multi-layered
interpretation. It has widely been seen as a heraldic Medici lion (marzocco)
and, as such, a reference to Bandinelli’s favoured position with the Medici as
well as his loyalty to their regime.24 Interpreted as devour- 25 ing a lower
thigh and knee, the lion has also been seen as a symbol of the artist’s prowess
in sculpture. A more complex explanation suggests a link with Saturn devouring
a boulder, a subject illustrated in a print by Giulio Bonasone (fig. 2), which
is accompanied by the motto, ‘in pulverem reverteris’ (‘unto dust shalt thou
return’).26 As such, Bandinelli is not merely subjugating a wild animal but
also triumphing over Time.27 More simply, the lion may also refer to
Bandinelli’s favourite hero, Hercules, who conquered the Nemean lion, or evoke
Fortitude whose traditional attributes were a lion and a broken column, here
transformed into a plinth (fig. 3).28 Finally, it may be that Bandinelli was
again referencing the Antique: the Lion Attacking a Horse – part of a colossal
Hellenistic group (Palazzo dei Conservatori, Rome) – in Bandinelli’s day, a
limbless fragment on the The fragment was considered ‘of such excellence that
Michelangelo judged it to be most marvellous’.31 There has been much
speculation about Bandinelli’s pose in the engraving. It might, in fact, refer
to the Belvedere Torso,32 as ‘restored’ in an engraving by Giovanni Antonio da
Brescia (1485–1525) of c. 1515 (fig. 5).33 The arrangement of his legs is also
close, in reverse to that of Laocoön, (p. 26, 19), a direct copy of which, in
marble (c. 1520–25, Florence, Uffizi) com- missioned by Leo X, was one of
Baccio’s greatest successes.34 His preparatory drawing for the sculpture also
in the Uffizi (fig. 6) shows him seated in a comparable pose as seen here.35
Once again, therefore, we see the sculptor referencing and promoting his own
work, employing the associative authority of Antique imagery. In sum,
Bandinelli presents himself here not only with the strength and fortitude of a
modern Hercules who successfully vanquished his adversaries but also as the
greatest, most recognisable hero- martyr and father from antiquity, Laocoön,
with his sculpted ‘offspring’ triumphant. Weil-Garris 1981, 236–37. For the
painting, see O. Tostmann, in Florence 2014, 510–13, no. 69, repr.; Mozzati
2014, 458–63. For a full discussion of the statue, see Vossilla 2014, 156–67,
repr.; Florence 2014, 573, no. VII. For Herculean imagery in the engraving, see
Hegener 2008, 382–86, 389–91, 395–96. Barkan 1999, 304; Krahn 2014, 324–31. As
first observed by Bruce Davis in Los Angeles, Toledo and elsewhere 1988–89, 77.
For the sculpture, see D. Heikamp, in Florence 2014, 314–15, no. 22, repr. He
also appears, in adapted form, in other works by the sculptor (Fiorentini 1999,
152). First noted by B. Davis, in Los Angeles, Toledo and elsewhere 1988–89, 77;
Barkan 1999, 308–09, 5.19. One half expects to see to a third figure to
complete the ‘Three Graces’. On the use of this double-view and his drawings
that may relate to these figures, see Fiorentini 1999, 151–52. Barkan 1999, 309–12;
V. Krahn, in Florence 2014, 356–59, no. 28. B. Davis in Los Angeles, Toledo and
elsewhere 1988–89, 77. The drawing was formerly with Yvonne Tan Bunzl (Bunzl
1987, no. 5, repr.; see also V. Krahn, in Florence 2014, 356, 1). Other copies
by Bandinelli after the same statue, one in red chalk, the other, in pen and
ink, are on a double- sided sheet in in the Biblioteca Reale, Turin (Bertini
1958, 17, no. 37; Barkan 1999, 311, figs. 5.21, 5.22). The same Cnidian Venus
type occurs at left in his drawing, Four Female Nudes, in the Art Gallery of
Toronto, 2006/432 (repr. in Aldega and Gordon 2003, 8, no. 1). A woman very
similar to that engraved at left both in pose, body type and hairstyle, appears
on a sheet in the Louvre, formerly classed as Bandinelli and now given to
Giovanni Bandini (1540–1599), Viatte 2011, 246–47, R2, repr. Houston and Ithaca
2005–06, 34. Of course, they could also be a further Herculean reference, as
the Torso was in the Renaissance believed to be that of Hercules (Haskell and
Penny 1981, 313). Fiorentini 1999, 150, followed by Hegener 2008, 388,
considered one of the torsos, the second from the left, to be based on the
torso of a satyr now in the Villa Barbarini, Castel Gandolfo, Rome, which was
in the Ciampolini collection in the Renaissance (Liverani 1989, 92, no. 34,
94–95, figs. 34.1–4). Given the differences in pose, the present author cannot
accept this view. Bandinelli adapted the pose of the Torso Belvedere for his
red chalk drawing, A Nude Man, Seated on a Grassy Bank in the Courtauld
Gallery, as noted by Ruth Rubinstein (Cambridge 1988, 26–27, no. 8, repr.); see
also Barkan 1999, 308–09, fig 5.17. Hegener 2008, 383. Houston and Ithaca
2005–06, 34. T. Mozzati, in Florence 2014, 527, who reports that this view is
shared by Mino Gabriele. That author notes (repeating Massari 1983, 125) that
the concept is paralleled in a passage from Ovid’s Metamorphosis (15.236–38).
However, it is also part of a famous passage from Genesis 3:19: ‘In the sweat
of thy face shalt thou eat bread, till thou return unto the ground; for out of
it wast thou taken: for dust thou art, and unto dust shalt thou return.’ For
the print, see Massari 1983, 1, 125, no. 223, repr. T. Mozzati, in Florence
2014, 527, who also considers that Bandinelli holds a complete statuette, not a
fragment like the others in the print, as a modern manifestation of classicism.
Zucker 1980, 185, no. 53-A (136), repr.; Zucker 2000, 47, .036a. See also
Ripa’s illustrated edition of 1603 (Buscaroli 1992, 142–44, repr.). Fiorentini
1999, 151; Hegener 2008, 383. For the statue: Haskell and Penny 1981, 250–51,
no. 54, 128; Bober and Rubinstein 2010, 236–37, no. 185. Faietti and Kelescian
1995, 220–21, no. 4; Bober and Rubinstein 2010, 237, 185a. Aldrovandi 1556, 270,
cited and translated by Bober and Rubinstein 2010, 236. As proposed by Hegener
(2008, 380, 382, 389–90) who considered his arms to be based on those of Christ
in Michelangelo’s Last Judgment. Zucker 1980, 78, no. 5 (100), repr.; Zucker
1984, 350–51, .028, repr. The pose also anticipates Bandinelli’s God the Father
sculpture of the 1550s in S. Croce, Florence (Florence 2014, 595–98, no. XVIII,
repr.). Although intended as a gift for François I, it never reached its
intended recipient and remained with the next Pope Clement VII, in Florence.
Bober and Rubinstein 2010,pp. 165–66, no. 122b. Capecchi (2014, 129–55)
provides a thorough account of the project. D. Cordellier, in Paris 2000–01, 237–40,
no. 74, repr. 29 Aspertini (1472–1552) (fig.4; Kupferstichtkabinett, Berlin).
avl Rhea Blok has noted (e-mail, 12 August 2014) that the same collector’s mark
is found on Henri Mauperché’s etching, L’Ange conseillant Tobie, with A. et D.
Martinez (Paris 2003, 5, no. 20) and a print by Vincenzo Mazzi (Stage Set from
the Caprici Teatrali, Bologna, 1776) in the Metropolitan Museum of Art, New
York, 66.500.27. It also appears on the reverse of the drawing by Hubert
Clerget, La Maison de Boucher, rue Carnot à la Ferte-Bernard, with C. J.
Goodfriend, New York, in 2014. Fiorentini 1999, 150–53, no. 33; Fiorentini and
Rosenberg 2002, 36, 19; Hegener 2008, 380–91, version I, 221, 617, no. 15. J.
Clifton in Houston and Ithaca 2005–06, 32–34, no. 1; Hegener 2008, 391; Mozzati
in Florence 2014, 526–27, no. 76. Erna Fiorentini previously attributed it to
Casa with a query (1999, 153). Hegener 2008 618, no. 17, 226; Heinecken
(1778–90, 2, 90). For his portraiture and use of it for self-promotion, see
Weil-Garris 1981, 237–38; Weil-Garris Brandt 1989; Mozzati 2014, 452–63. Florence 2014, 568, no. III; 573, no. VII; 576–81, nos IX.-X. (R.
Schallert). The Orpheus and his copy of the Laocoön (ibid., 571,
no. V) earned his reputation as ‘a great young talent who can export the
Belvedere’. (Barkan, 1999, 279). His personality is revealed in his letters and
the lengthy account in Vasari’s Lives (Bettarini and Barocchi 1966–87, 5, 238–76).
See also Weil-Garris 1981, 223–24; Weil-Garris Brandt 1989, 497. Along with the
date, 1548, the engraving bears the initials and inscription, ‘A.S.Excudebat.’,
presumably Antonio Salamanca, the leading publisher of prints in Rome in the
mid-16th century (Fiorentini and Rosenberg 2002, 38). Many of the prints he
published were of Roman antiquities. See London 2001–02, 233; Pagani 2000;
Witcombe 2008, 67–105. Weil-Garris 1981, 231; Weil-Garris Brandt 1989, 497. For
a fundamental discussion of Bandinelli and the Antique, see Barkan 1999, 271–408.
Weil-Garris Brandt 1989, 497, 499–500. Weil-Garris 1981, 237. See V. Krahn, in
Florence 2014, 372–75, cat no. 32 who further notes the similarity between the
Hercules appearing in outline leaning on his club at right in the unfinished
print by Niccolò della Casa (Fiorentini and Rosenberg 2002, 36, 19), and
Bandinelli’s Hercules with the Apple of the Hesperides, c. 1545, in the
Bargello in Florence (372–75, cat. no. 32, repr.). There are many other
engraved representations of Hercules subjects by or based on Bandinelli, who
evidently planned a series, as noted by Roger Ward (in Cambridge 1988, 74,
under cat. no. 42). See also M. Zurla, in Florence 2014, 388–93, cat. nos
37–39. Weil-Garris 1981, 237; Houston and Ithaca 2005–06, 34. Campidoglio –
freely interpreted by artists like Amico 92 93 5. Giovanni Antonio
da Brescia (fl. 1490–1519), The Belvedere Torso with Legs and Feet, as
Hercules, c. 1500–20, engraving, 166 × 103 mm, The British Museum, Department
of Prints and Drawings, London, 1845,0825.258 6. Baccio Bandinelli, Laocoön,
pen and brown ink, 1520s, 417 × 265 mm, Uizi, Florence, inv. 14785 F
(recto) 4a. Jan van der Straet, called Johannes Stradanus (Bruges
1523–1605 Florence) The Practice of the Visual Arts 1573 Pen and brown ink with
brown wash and white heightening with touches of grey, incised for transfer 436
× 293 mm Inscribed recto, l.c., in pen and brown ink, in reverse sense: ‘io
stradensis flandrvs in 1573 cornelie cort excv’ provenance: Sir H. Sloane
bequest, 1753. literature: Hind and Popham 1915–32, 5, 182, no. 1; Ameisenowa
1963, 58; Wolf-Heiddeger and Cetto 1967, 171, no. 73, repr. on 431; Heikamp
1972, 300 and 1 on 302; Heidelberg 1982, 29, no. 52, pl. 1 on 17; Sellink 1992,
46; Rotterdam 1994, 195–99 (in Dutch), 200–05 (in English), a on 204; Baroni
Vannucci 1997, 63–64, 247, no. 313, repr. on 246. exhibitions: Florence 1980, 213,
no. 523, not repr. (G. G. Bertelà); London 1986, no. 144, repr. on 193 (N.
Turner); Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97, 148–49, no. 39 (M. Kornell);
London, Warwick, and elsewhere 1997–98, 19, 25, 119, no. 142 (D. Petherbridge
and L. Jordanova); London 2001–02, 21, no. 4 (M. Bury); Bruges 2008–09, 227–28,
no. 20 (A. Baroni). The British Museum, Department of Prints and Drawings,
London, SL,5214.2 exhibited in london only 4b. Cornelis Cort (Hoorn 1533–before
1578 Rome) After Jan van der Straet, called Johannes Stradanus (Bruges
1523–1605 Florence) The Practice of the Visual Arts 1578 Engraving State I of
II1 432 × 295 mm Inscribed recto, l.c., on wooden box: ‘Cornelius Cort fecit. /
1578’; along bottom: ‘Illmo et Exmo Dn ́o Iacobo Boncompagno Arcis Praefecto,
ingenior, ac industriae fautori, Artiú nobiliú praxim, á Io, Stradési Belga
artifiosè expressá, Laureti’ Vaccarius D.D. Romae Anno 1578.’; u.r.: ‘PICTVRA’;
c.l. on table in background: ‘FVSORIA’; u.c. below statue: ‘STATV ARIA’; l.l.
on table: ‘ANATOMIA’; below statue of horse: ‘SCVLPTVRA’; c.r. on book on
table: ‘ARCHITECTVRA’; r. on paper on table: ‘Typorum eneorum / INCISORIA’;
l.c. on stool: ‘Tyrones pi / cture’. provenance: possibly entered Rijksmuseum
collection late 19th century (L.2228)2 literature: Hind and Popham 1915–32, 5, 182;
Bierens de Haan 1948, 199, no. 218, 53; Hollstein 1949–2001, 5, 58, no. 218,
repr.; Ameisenowa 1963, 58; Wolf-Heiddeger and Cetto 1967, 171–72, no. 74,
repr. on 431; Heikamp 1972, 300, 2 on 302; Strauss 1977, 1, 278–79, repr.;
Florence 1980, 213; Parker 1983, 76–77, repr. (as state II); Roman 1984, 88–91,
69; Strauss and Shimura 1986, 249, 218.199; Liedtke 1989, 190, no. 53, repr. on
191; Sellink 1992, 46, 18 on 47; Rotterdam 1994, 195–99 (in Dutch), 200–205 (in
English), no. 69; Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97, 148–51, no. 40;
Baroni Vannucci 1997, 63–64, 436, no. 772; Sellink and Leeflang 2000, part 3, 118–19,
no. 210; London 2001–02, 18–21, no. 3; Munich and Cologne 2002, 321–22, no.
112; Wiebel and Wiedau 2002, 154, repr. on 155; Perry Chapman 2005, 116, 4.7 on
117. exhibitions: Vienna 1987, 320, no. VII.25 (M. Boeckl); Amsterdam 2007, no.
5 (C. Smid and A. White); Bruges 2008–09, no. 21 (A. Baroni); Compton Verney
and Norwich 2009–10, 18–19, no. 16. their careers in Italy. Jan van der Straet
was born in Bruges in 1523, but we know very little of his life before he
arrived in Italy around 1545.4 He settled in Florence but worked in both Rome
and Naples, and became a close collaborator of Giorgio Vasari (1511–74), assisting
him in the decoration of the Palazzo Vecchio and at Poggio a Caiano. Like
Vasari, Van der Straet was immensely versatile, working on paintings and
portraits, making cartoons for tapestries and creating hundreds of designs for
prints. He died in Florence in 1605, and is better known to posterity by the
Italianised version of his name, Johannes Stradanus. He nevertheless maintained
his Flemish identity by signing his works with variations of ‘FLANDRUS’, as
seen in the exhibited drawing; however, it is difficult to decipher, because
Stradanus wrote the inscrip- tion in reverse. This is clear evidence that the
drawing was intended as a design for a print. All the figures use their left
hands, which is further proof, as are the clear indentation lines made to transfer
the design to the plate. Stradanus’ inscription is dated 1573, and includes the
name of the Dutch- man Cornelis Cort, who would engrave the drawing five years
later, in 1578.5 Cort is first documented working in the printing house of
Hieronymous Cock (c. 1510–70) in Antwerp, around 1553, before he travelled to
Italy in 1565.6 At first he worked in Venice, where he formed a famous
partnership with Titian (c. 1488–1576), but he later moved to central Italy.
Cort probably met Stradanus in 1569 in Florence, where the Medicis had
requested his presence to engrave their family tree.7 In the engraving, Cort
moved his own name to the block at the centre foreground, where he also
inscribed the date 1578. Stradanus’ inscription was replaced by one from the publisher,
Lorenzo Vaccari (active 1575–87), dedicating the work to Giacomo Boncampagni,
Prefect of the Castel Sant’Angelo and son of the newly appointed Pope Gregory
XIII (r. 1572–85).8 Cort made several further changes to Stradanus’ design, the
most obvious of which are the inscriptions added to clarify the various
activities being conducted around the room. Thus we can identify the three arts
of disegno taking place in one institution, with painting (‘PICTVRA’) on the
wall, sculpture (‘STATVARIA’ and ‘SCVLPTVRA’) on the plinths in the centre, and
architecture (‘ARCHITECTVRA’), which is given short shrift, repre- sented only
by the man seated at the table before the Venus, holding a pair of dividers.
The architect is in fact overshad- owed by the unusual addition beside him of a
seated engraver, whose burin rests on the corner of the table next to the more
prominent inscription ‘Typorum eneorum INCISORIA’. Michael Bury thought this
focus on engraving was added at Cort’s urging,9 but Stradanus, as the inventor
of more than 560 designs for prints, may himself have decided to place
unprecedented emphasis on the graphic arts.10 Of the three genres of painting –
landscape, portraiture and history paint- ing – the latter was considered the
most admirable, and so it is appropriate that the painting on the wall depicts
an ancient battle scene. Sculpture is depicted hierarchically, with prom-
inence given to the grand marble sculptures atop the plinth, distinguished from
the lesser arts of wax modelling and bronze casting, embodied by the rearing
horse below. While the older bearded masters are at work within their
individual disciplines, their true purpose is to guide the next generation of
artists – the young, clean-shaven students scattered around the room. The foreground
is therefore occupied with training exercises, as the pupils learn to draw
after the Antique and the human body before attempting the loftier projects of
sculpture and painting, exemplified in the upper back registers of the scene.
The role of the Antique is actually more prominent in the print than in the
drawing, as the statuette of Venus – which, like the statuettes in Bandinelli’s
academies (cats 1 and 2), is probably all’antica rather than an antique
original – meets the gaze of a young pupil, whose quill is poised to draw her.
This same youth in Stradanus’ design has already filled his sheet with repeated
sketches of eyes. This reflects a different practice, referred to as the
‘alphabet of drawing’, in which students were encouraged to start with the
smallest part of the human body, usually the eyes, gradually building up a
repertoire of the individual parts before assembling them into more complex
configurations. In the same way, a writer must first learn the alphabet and how
to form indi- vidual letters into words before being able to construct
sentences. Benvenuto Cellini (1500–71) described this as a common practice:
‘The teachers would put a human eye in front of those poor and most tender
youths as their first step in imitating and portraying; this is what happened
to me in my childhood, and probably happened to others as well’ . 1 1 His
statement is corroborated not only by Stradanus’ drawing, but by a similar
youth in Pierfrancesco Alberti’s (1584–1638) etching of a studio (cat. 2, 1)
and by a sheet of eyes from Odoardo Fialetti’s (1573–1638) drawing-book (p. 34,
37). Stradanus repeated the youth and his drawing of eyes in another design for
a print, which appeared in a series called Nova Reperta, published by Philips
Galle (1537– 1612) in the 1590s (fig. 1). This ‘A B C ’ technique of drawing,
as well as the important role of the Antique, were codified in Federico
Zuccaro’s (c. 1540–1609) first statutes for the Accademia di San Luca,
‘re-founded’ in Rome in 1593.12 The idea of progressing from simple elements to
a complex whole originated with Leon Battista Alberti (1404–72), and he
recommended a similar method for the study of human anatomy, starting with the
bones before adding muscles and Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-BI-6381 exhibited
in haarlem only This crowded, idealised vision of a workshop for training
artists is the natural successor to the earlier academies depicted by Baccio
Bandinelli (cats 1 and 2). The Antique still plays a prominent role, seen in
the large marble statues in the centre depicting Rome personified next to the
river god Tiber, both based on the well-known sculptures in the Capitoline,3
and by the statuette of a Venus Pudica type with her back to us standing on the
table in the foreground. Equal importance, however, is accorded to the study of
anatomy, 94 and the young pupils in the foreground focus their attention on the
skeleton and cadaver suspended from ropes and pulleys. This reflects the later
16th-century emphasis on the study of anatomy as an integral part of the artist’s
education, a tendency that was already evident in the skeletons added to
Bandinelli’s second academy print (cat. 2), and which is fully realised in this
scene. The drawing and print catalogued here were produced in close
collaboration by two Northern artists who both made 95 96 97
finally flesh.13 The students in Stradanus’ drawing are dili- gently following
these instructions by examining the bones of a skeleton, while a bespectacled
tutor flays the arm of a corpse to grant them a view of the musculature.
Regardless of which object they are studying, all the pupils are engaged in
drawing, considered to be the essential element in their education. Stradanus’
design is therefore an allegory of the ideal academy, in which all of the arts
are improbably combined under one roof to offer the most well-rounded and
comprehensive instruction to the next generation of artists. Detlef Heikamp,
however, believed it to represent a specific academy, the Accademia di San Luca
in Rome, and to be the pendant to another drawing by Stradanus, now in
Heidelberg, depicting the Accademia del Disegno in Florence (fig. 2).14 Most
other scholars disagree, however, as the Accademia di San Luca was not
officially founded until 1593, exactly 20 years after the drawing was made.15
The drawing also predates a Breve issued by Pope Gregory XIII in 1577, urging
the foundation of such an academy.16 Heikamp was correct, however, in pointing
out the Roman symbolism of this drawing, evident in the grand statue of Rome
personified, based iconographically on Minerva, flanked by the river god Tiber
and the she-wolf suckling Romulus and Remus. The Heidelberg drawing, by
contrast, is decidedly Florentine, showing Brunelleschi’s dome, the river god
of the Arno and the Florentine lion, the Marzocco. However, the two drawings
are very different 2. Johannes Stradanus, Allegory of the Florentine Academy of
Art, c. 1569–70, pen and brown ink, brown wash and white heightening, 465 × 363
mm, Kurpfälzisches Museum der Stadt Heidelberg, Inv. Nr. Z 5425 in size,17 and
the consensus of opinion is that they are not a pair, representing separate
allegorical, idealised Roman and Florentine teaching traditions.18 Stradanus
himself was a founding member of the Accademia del Disegno, which opened in
1563 in Florence. The study of anatomy was a central precept of the Acca-
demia, and, while acting as a consul in the winter of 1563, Stradanus was
responsible for organising a dissection for the students.19 His experience
guiding and shaping young Florentine artists must have informed his designs.
Perhaps Stradanus was compelled to portray such an academy in which the three
arts of disegno are exalted and glorified in order to allay growing concerns
about the status of art and artists.20 Alessandra Baroni made the radical
proposal that Cort was the driving force behind the project, and that it was
conceived around 1569 when he and Stradanus were both working in Florence.21
The Medicis commissioned Cort to engrave their family tree, and while he was in
Florence he created a series of prints with Florentine and Medici themes,
including engravings of tombs in the Medici Chapel. Cort may have undertaken
these projects on his own initiative, and the Heidelberg drawing would have
made a fitting addition to the series. An engraving of it, however, was never
executed, perhaps because a receptive audience could not be found, but in Rome
four years later, Cort may have found a more conducive atmosphere and convinced
Stradanus to resume the endeavour. Whatever the motiva- tion, the design proved
very popular, as evidenced by the existence of two early copies of the
engraving, the first of 22 which was published in Venice around 1580. Clearly,
Italian audiences were fascinated by the subject of art and the requisite
training necessary for its creation, in which the Antique played a pivotal
role. The second state was printed 200 years later, when the plate came into
the possession of Carlo Losi, who changed the date on it to 1773 (Bruges
2008–09, 229). I am grateful to Erik Hinterding, Curator of Prints at the
Rijksmuseum, for his correspondence regarding this provenance. Bober and
Rubinstein 2010, 89–90, no. 42 and 113–14, no. 66. Janssens 2012, 9–10. Karel
van Mander’s biography of Van der Straet is very brief (Van Mander 1994–99, 1, 326–29).
A better source is Borghini 1584, 579–89. There is an excellent chronology of
his life, including lists of the related archival documents, in Baroni Vannucci
1997, 446–51. The inscription ‘CORNELIS CORT EXCV’ suggests that Cort had intended
to publish the print himself. He may have struggled to do so, explaining the
five-year gap between the date of the drawing and the pub- lication of the
print, and it was published by another man, Lorenzo Vaccari (Bruges 2008–09, 228–29).
It may even have been published post- humously, as Cort died in 1578 (Sellink
and Leeflang 2000, part 3, 119). For Cort’s biography, see Thieme-Becker
1907–50, 12, 475–77. Cock was also the first publisher with whom Stradanus
worked, in 1567, and they had a long partnership (Baroni 2012, 91). Bruges
2008–09, 228. Boncompagni was appointed to this post in 1572, and in April 1573
was promoted to Governor General of the Church. It is strange that the inscrip-
tion added to the print in 1578 refers to Boncompagni by the lesser title of
Prefect, which Michael Bury took as proof that the print was more likely to
have been executed in 1573, the same year as the drawing. He thought it
possible that the ‘3’ had simply been changed to an ‘8’ in the date 1578 on the
stool; however there are no extant 1573 versions of the print (London 2001–02, 18,
21). London 2001–02, 18. Leesberg 2012a, 161. Amornpichetkul 1984, 117 and
Cellini 1731, 141. Cellini went on to say he considered this a ‘poor method’
but he agreed on the means of building up the bones of a skeleton in order to
draw a successful nude. See also Aymonino’s essay in this catalogue, 33–34.
Appendix, no. 7. Alberti 1972, 75 (book 2, chap. 36) and 97 (book 3, chap. 55).
Heikamp 1972, 300. It is true that for decades the idea for such an institution
had been simmer- ing, especially at the behest of Federico Zuccaro, a founding
member of the Accademia del Disegno in Florence. He was unhappy with its tenets
and sought reforms, eventually simply founding the Accademia di San Luca
instead (Pevsner 1940, 59–60). Heikamp’s theory has been rejected in London
2001–02, 21 and Bruges 2008–09, 226. The Pope decried the level of decadence in
contemporary art and blamed it on defective training of young artists, arguing
that if they had been properly instructed in both art and religion, they would
not sink to such lows (Pevsner 1940, 57). The Heidelberg drawing is much larger
and measures 465 × 363 mm. The figures in the Heidelberg drawing also all use
their left hands, so it must have been intended for a print; however, no such
print has come to light (London 2001–02, 21). Ottawa, Vancouver and elsewhere
1996–97, 148. Rotterdam 1994, 200. Bruges 2008–09, 226–27. Bruges 2008–09, 229.
For a list of the copies, see Sellink and Leeflang 2000, part 3, 119. For the
practice of copying after Stradanus’ prints, see Leesberg 2012a. 98
99 1. Published by Philips Galle after a design by Johannes Stradanus, Color
Olivi, plate 14 in Nova Reperta series, c. 1580–1600, engraving, 201 × 271 mm,
private collection 5. Federico Zuccaro (Urbino c. 1541–1609 Rome) Taddeo
in the Belvedere Court in the Vatican Drawing the Laocoön c. 1595 Pen and brown
ink, brush with brown wash, over black chalk and touches of red chalk, 175 ×
425 mm Inscribed recto in brown pen and ink by the artist on the building in
the background: ‘le camore di Rafaello’; on the figure’s tunic in capital
lettering, ‘THADDEO ZUCCHARO’; numbered u.r. in brown ink: ‘17’. provenance:
Gilbert Paignon Dijonval (1708–92); Charles-Gilbert, Vicomte Morel de Vindé
(1759–1842), see L. 2520; Samuel Woodburn (1786–1853), 1816; Thomas Dimsdale
(1758–1823), see L. 2426; Samuel Woodburn, 1823; Sir Thomas Lawrence
(1769–1830), L. 2445; Samuel Woodburn, 1830; Sold Christie’s, London, 4 June
1860, part of lot 1074; bought by Sir Thomas Phillipps (1792–1872); Thomas
Fitzroy Fenwick (1856–1938); Dr A. S. W. Rosenbach (1876–1952), 1930; Philip H.
and A. S. W. Rosenbach Foundation until 1978; The British Rail Pension Fund,
1978; Their sale, Sotheby’s, New York, 11 January 1990, lot 17; Finacor, Paris;
Their sale, Christie’s, London, 28 January 1999, part of lot 35 (no. 17), from
whom acquired. selected literature:1 Rossi 1997, 64; Acidini Luchinat ; Paul
2000, 5–6, 1; Paris 2000–01, 379–80, under no. 185 (C. Scailliérez); Silver
2007–08, 86; Lukehart 2007–08, 105; Cavazzini 2008, 50, 26; Tronzo 2009, 49, 6,
52–54; Deswarte-Rosa 2011, 27–28, 31, 4; Pierguidi 2011, 29–30, 3; Luchterhandt
2013–14, 38–39, 11. exhibitions: London 1836, 11, no. 17, not repr.; Los Angeles
1999 (no catalogue); Rome 2006–07, 159–60, no. 51 (M. Serlupi Crescenzi); Los
Angeles 2007–08, 24, 33–34, no. 17 (see also, 7, 40, 70, 86, 127). 1. Apollo
Belvedere, Roman copy of the Hadrianic period (117–138 ad) from a Greek
original of the 4th century bc, marble, 224 cm (h), Vatican Museums, Rome inv.
1015 2. Laocoön, possibly a Roman copy of the 1st century ad after a Greek
original of the 2nd century bc, marble, 242 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv.
1064 The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, 99.GA.6.17 exhibited in
london only Look here, O Judgment, how he observes the antique and Polidoro’s
style as well as Raphael’s work he studies. (Ecco qui, o Giuditio, osservando
Va de l’antico, e Polidoro il fare E l’opre insiem di Rafael studiando)2 The
series of twenty drawings by Federico Zuccaro of his older brother, Taddeo
(1529–66), is a unique treasure of Renaissance drawing.3 With cinematic realism
and narrative flair, the drawings tell the story of Taddeo’s travails and even-
tual success as a young artist in Rome in the 1540s. It begins with his
heart-rending departure at fourteen from the family home in S. Angelo in Vado,
a provincial town in the Marches, and his arrival in the Eternal City. There
Taddeo sets about following the prescribed course of study typical for any
aspir- ing painter of the period. First, he apprentices with a local painter,
performing menial tasks – preparing pigments and household chores – and finding
time to draw, mostly only at night. After being mistreated by the painter’s
wife, he escapes to discover Rome for himself. He assiduously copies statues
and reliefs from classical antiquity and the work of contem- porary masters
including the frescoes in the Logge and the Stanze of the Vatican by Raphael,
the Last Judgment by Michelangelo and façade paintings by Polidoro da
Caravaggio. After much focused and disciplined study, he triumphs victoriously
with his first major success: the painted façade of Palazzo Mattei (1548). And
this is where the story ends (Taddeo would die prematurely of illness at the
age of thirty-seven). In this drawing, number seventeen, we enter the story in
medias res. Here Taddeo, affectionately identified by name on his tunic, is at
Vatican Belvedere Statue Court studying the most iconic antique sculptures of
the day: the Apollo Belvedere on the left (fig. 1; see also 25–26), the Nile
and Tiber in the centre and the object of his attention, possibly the most
famous work in the collection, the Laocoön on the right (fig. 2; see also 25–26).4
With his back turned, we peer voyeuristi- cally over his shoulder as he draws
intently. He has settled in for a day of intense study; his meagre sustenance,
a small loaf of bread and flask of wine on the ground next to him, has remained
untouched. The notion of the artist drawing inces- santly with little to eat or
drink anticipates the vivid descrip- tion of the young Gian Lorenzo Bernini
(1598–1680) who as a boy spent dawn to dusk at the statue court making copies.5
Significantly, this is the earliest known image of an artist at work at the
Belvedere, the most important and certainly the most influential collection of
classical antiquities assem- bled in the Renaissance.6 Given its unique
accessibility – unlike the collections housed in private aristocratic palaces –
it provided a sanctuary for the unencumbered study of antique statuary, which
also included recently excavated works. Thus, it served a key role in providing
an artistic instruction not just direct but exhilaratingly au courant. It also
meant that the sculptures displayed there would become famous as their images
were disseminated through prints and drawings. When Taddeo visited the
sculpture court in the 1540s, it had undergone a major renovation.7 In 1485,
under Pope Innocent VIII (r. 1484–92), a private villa was built on the hill
behind the old Vatican place, named the Belvedere (‘fair view’), for its
position. In 1503, Pope Julius II (r. 1503–13) commis- sioned the architect,
Donato Bramante (1444–1514), to incor- porate the house with the Vatican complex
thereby creating an enclosed rectangular garden courtyard, the Cortile del
Belvedere, to display his expanding antiquities collection. Wishing it to be
accessible to the public, the Pope had Bramante construct a spiral staircase
that enabled visitors to arrive at the courtyard directly, without having to
enter the palace proper.8 The courtyard was an enchanted world filled with
orange trees, fountains, an elegant loggia, and displayed in the centre of the
court, the colossal marble statues of the Nile and Tiber mounted as fountains.9
Statues including the celebrated Apollo Belvedere and the Laocoön were
displayed in especially created niches.10 Maarten van Heemskerck’s drawing in
the British Museum, c. 1532–33 (fig. 3), the earliest known view of the
Cortile, gives a sense of the space and the disposition of the sculpture
displayed there.11 Immediately evident is that Federico’s al fresco evocation
bears little resemblance to Heemskerck’s and to other con- temporary
descriptions of the courtyard. The setting is now a sun-drenched rise with a
vista, no t an enclosed garden, and the statues are freed from the
confines of their niches. And yet in other ways Federico has gone to lengths to
convince us of the time period – 1540s – as we will see. In fact, so well-known
was this space that Federico needed only to refer to it in short-hand. The
statues depicted would have been instantly recognisable to any viewer and
Taddeo’s location in the Belvedere understood. Since its discovery in January
of 1506 in the ground of a private vineyard on the Esquiline near the remains
of the so-called Baths of Titus, the Laocoön group, comprising the ill-fated
Trojan priest and his two sons violently struggling to free themselves from two
serpents who devour them, was immediately venerated.12 While still in the
ground, the architect and antiquarian, Giuliano di Sangallo, sent to inspect it
by Pope Julius II, identified it as the famous statue singled out by Pliny the
Elder as ‘of all paintings and sculptures the most worthy of admiration’
(Natural History 36.37–38).13 It was installed in the Belvedere in a
chapel-like recess.14 The sculpture’s fame was instant and far-reaching.
Entranced by it, Michelangelo proclaimed it an inimitable miracle.15 Collectors
eagerly sought copies, commissioning Jacopo Sansovino (1486–1570), Baccio
Bandinelli (see cat. 3) and others to make replicas of various sizes in bronze,
marble, wax, terracotta, even gold.16 For artists, its effect was manifold. It
provided an anatomical model for the male nude that was strong, forceful and
capable of dynamic movement. The range of ages and emotions conveyed and
symbolised – fear, agony, heroism in death – also inspired emulation. 3.
Maarten van Heemskerck (1498–1574), View of the Belvedere Sculpture Court, c.
1532–36/37, pen and brown ink, brush with brown wash, 231 × 360 mm, Department
of Print and Drawings, British Museum, London, 1946,0713.639 100
101 102 103 Epitomising human suffering, the statue became a
model for portraying martyrs from Christendom, especially in the
Counter-Reformation.17 For centuries that followed artists would imitate and
infuse this muscular body type and expres- sions in their work (cat. 16). The
group’s influence endured well into the 19th century.18 When the Laocoön was
first discovered, his right arm and that of his youngest son on the left were
missing, as were among other losses the fingers of the eldest son’s right hand.
By the 1530s, the missing appendages were restored including a terracotta arm
by the sculptor, Giovanni Antonio Montorsoli (1507–63).19 Federico’s drawn
version is something of an enigma. In some respects it appears pre-restoration:
the fingers of the eldest son on the right are still missing. But he has
included part of the previously absent right arm of the son on the left but
made him hand-less. Laocoön is shown with his right arm restored but it is out
of view so the angle cannot be determined. In any case, it seems that Federico
has attempted to represent the sculpture as he thought Taddeo and others of his
generation might have first seen it, undoubt- edly to create an air of
authenticity. It is possible that he consulted print sources such as Marco
Dente da Ravenna’s ( f l . 1515–27) Laocoön of c. 1520–23, which makes a
compelling comparison.20 The perfect foil for the Laocoön is the commanding
figure of the Apollo Belvedere anchoring the composition on the left.21 So
instantly recognisable was he that Federico needed only to indicate his lower
half. Discovered at S. Lorenzo in Panisperna in 1489, the statue was acquired
by Giuliano della Rovere, Cardinal of S. Pietro in Vincoli, the future Pope
Julius II, who displayed it in the garden of his palace next to SS. Apostoli.22
After he became Pope, it was brought to the Vatican in 1508 and installed in a
niche in the Belvedere cortile in 1511. Based on a lost Greek bronze original,
it became one of the most famous statues to survive from antiquity and was
copied by innumerable artists (see cats 6, 25, 26).23 If the Laocoön
exemplified the powerful male nude body in action, the Apollo encapsulated the
qualities of its counterpart, the perfect male youth: elegant, graceful,
confident and restrained; in repose yet poised for action. As the god Apollo he
was thought to have just discharged his arrow at the python of Delphi (see cat.
6) or else, to be on the verge of killing the sons of Niobe with his arrows, as
punishment for her boasting.24 Praised by Vasari for its instructive
importance, every aspiring artist visited the Apollo in the Belvedere.25 The
statue retained immense popularity in the centuries that followed.26 Federico’s
abbreviated description of the Belvedere Courtyard is a clever device as it
allows him to combine several episodes of Taddeo’s self-education in the same
104 drawing and a highly sophisticated continuous narration.27 All show Taddeo
studying the Antique in various forms – free- standing statues, narrative
reliefs and contemporary works in an all’antica style. So while the most
prominent Taddeo is at work copying the Belvedere statues, a second Taddeo is
visible in the distance, perched on a window ledge copying Raphael’s celebrated
Stanze frescoes in the papal apartments in the Vatican.28 At the far left is
Trajan’s Column of 113 ad under which are figures, including an artist
sketching the famous reliefs carved on the column shaft, presumably Taddeo
again. These monuments were very distant from one other and yet, countering
this artificial structure, Federico has striven for local historical accuracy.
For example, he shows the column as it would have appeared in Taddeo’s day,
omitting the bronze statue of St Peter at the top that was added by Sixtus V in
1588.29 Lightly sketched in the left distance is the dome of the Pantheon and
on the far right, what appears to be the Mausoleum of Augustus of 28 bc
identifiable by the trees on the summit.30 Another drawing from the series
(fig. 4) further demon- strates the importance Federico attributed to copying
after the Antique, one of the pillars of artistic education.31 It shows Taddeo
studying a relief – perhaps the right-hand front section of a Muse sarcophagus
of a type similar to an example now in the Kunsthistorisches Museum, Vienna (p.
20, 5).32 Having already sketched the figures – possibly a Muse holding a mask
and Apollo – in black chalk, he is about to go over the contours with pen and
ink. Resting on the relief is the armless body of a male youth similar in type
to the Torso of Apollon Sauroktonos, the so-called Casa Sassi Torso now in the
Museo Archeologico Nazionale in Naples.33 In the back- ground, in another
example of continuous narration, Taddeo copies façade paintings by Polidoro da
Caravaggio, who, specialising in monochrome frescoes imitating marble or bronze
reliefs, represented another type of contemporary all’antica style, one which
would exert an enormous influence on Taddeo’s own approach to painting.34 It is
significant that Federico executed the Taddeo series in the mid-1590s, around
the time that he established a reformed Accademia di San Luca of which he was
elected president in 1593. Learning to draw by copying the work of others – the
Antique, Michelangelo, Raphael and Polidoro da Caravaggio – was already a key
phenomenon of Renaissance workshop practice. Federico codified this practice
further by making such a disciplined approach to drawing central to the
curricu- lum.35 Successful learning also required virtue and hard work – fatica
– both physical and intellectual, and such quali- ties are extolled in
Federico’s drawings of Taddeo.36 According to the guidelines Federico wrote for
the academy, students were required to ‘go out during the week drawing after
the antique’ (see Appendix, no. 7).37 It is significant that in the final image
of the series (fig. 5), an allegorical personification of Study – represented
by a young man diligently copying an antique male torso with other sculptures –
flanks the left side of the Zuccaro family emblem.38 He is joined by
Intelligence on the right. Along with training, Federico was also concerned
with the welfare of young artists and proposed reforms to the artists’ academy
in Florence, the Accademia del Disegno.39 At his death in 1609, he intended the
family palace, the Palazzo Zuccari (now the Bibliotheca Hertziana, Max Planck
Institute for Art History) to house young, struggling artists in Rome, so that
they would not suffer as Taddeo had.40 Appropriate in subject matter, the
drawings may well have prepared a complex arrangement of paintings for the
walls of the palace’s Sala del Disegno.41 This might account for the present
drawing’s unusual dumbbell format.42 Regardless of its intended purpose, the
Early Life of Taddeo series, a touching tribute to one brother from another,
sends a clear message. Drawing, especially after the Antique in all its various
forms, was the cornerstone of artistic education in 16th-century Italy and was
to become a canonical activity throughout Europe in the centuries that
followed. As one of the first great illustrations of this phenomenon in
practice, the present drawing is an ideal visual representation of this
exhibition’s theme. avl 4. Federico Zuccaro, Taddeo Drawing after the
Antique; in the Background Copying a Façade by Polidoro, c. 1595, pen and brown
ink, brush with brown wash, over black chalk and touches of red chalk, 423 ×
175 mm, The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, 99.GA.6.12 5. Federico Zuccaro,
Allegories of Study and Intelligence Flanking the Zuccaro Emblem, c. 1595, pen
and brown ink, brush with brown wash, over black chalk and touches of red
chalk, 176 × 425 mm, The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, 99.GA.6.20
105 1 Additional bibliography for the drawings in the series up to 1999
is given in the catalogue of the Christie’s sale, London, 28 January 1999, 70,
lot 35. 2 This poem written by Federico Zuccaro to accompany this drawing
appears on the back of another sheet in the series (Los Angeles 2007–08, 34,
no. 18, 40). Translation by J. Brooks (ibid., 33–34). 3 The Early Life of
Taddeo series, acquired by the J. Paul Getty Museum in 1999, was the subject of
an exhibition and in-depth catalogue by J. Brooks (Los Angeles 2007–08). 4 For
the Tiber and the Nile see Haskell and Penny 1981, 272–73, no. 65 and 310–11,
no. 79; Klementa 1993, 9–51, nos A1–A39, pls 1–18; 52–71, nos B1–B15, pls
19–23. 5 See Appendix, no. 9. 6 For essential reading on the Cortile and its
history, see Ackerman 1954; Brummer 1970; Coffin 1979, 69–87; Haskell and Penny
1981, 7–11; Nesselrath 1994, 52–55; Nesselrath 1998a, 1–16. 7 See Coffin 1979, 69–87;
Haskell and Penny 1981, 7. 8 Coffin 1979, 82. 9 For the two Rivers, see above,
note 4. 10 For statues in their niches, see Haskell and Penny 1981, 11, 4, and
Bober and Rubinstein 2010, 122c. 11 First published as Heemskerck in Winner and
Nesselrath 1987, 867; see also M. Serlupi Crescenzi, in Rome 2006–07, 148–49,
no. 37. For a sense of the atmosphere, see the painting by Hendrik III van
Cleve (1524–89), 1550, in the Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique,
Brussels (M. Serlupi Crescenzi, in Rome 2006–07, 146–47, no. 34), see
Aymonino’s essay in this catalogue, 26, 21. 12 For the group, see Haskell and
Penny 1981, 243–47, no. 52; Bober and Rubinstein 2010, 164–68, no. 122,
Pasquier 2000–01b and the exhibition catalogue devoted to it, Rome 2006–07. 13
Haskell and Penny 1981, 243; M. Buranelli, in Rome 2006–07, 127–28, no. 13. 14
Coffin 1979, 82; Haskell and Penny 1981, 243. 15 Bober and Rubinstein 2010, 165,
see also Aymonino’s essay in this catalogue, 28. 16 Haskell and Penny 1981, 244
and Settis 1998, 129–60. 17 Ettlinger 1961, 121–26; Brummer 1970, 117–18; Bober
and Rubinstein 2010, 166. 18 For the statue’s critical reception, see Bieber
1967; Brilliant 2000; Décultot 2003 and Rome 2006–07. 19 Haskell and Penny
1981, 246–47; Nesselrath 1998b, 165–74; Bober and Rubinstein 2010, 165.
Montorsoli’s additions were removed in 1540 when Primaticcio made a mould of
the group unrestored to prepare a cast in bronze for Francis I (Rome 2006-07, 150–51,
no. 40). The additions were then put back. 20 Oberhuber 1978, 50, no. 353
(268); T. Schtrauch, in Rome 2006–07, 152–53, no. 42. 21 For their
juxtaposition, see Tronzo 2009, 49–55. 22 According to a document published by
Fusco and Corti 2006 (Appendix I, 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37
38 39 40 41 42 309, doc. 112; see also 52–56). For the statue, see Haskell and
Penny 1981, 148–51, no. 8; Bober and Rubinstein 2010, 76–77, no. 28. In 1532–33
Montorsoli replaced the existing right arm and restored the hands (Bober and
Rubinstein 2010, 77). Federico presents it in its restored state with bow.
Haskell and Penny 1981, 150. Bober and Rubinstein 2010, 76; Vasari’s preface to
Part III of the Lives, 1568 ed. (Bettarini and Barocchi 1966–87, 4, 7). See
Roettgen 1998, 253–74. He employs the same device in other drawings in the
series (Los Angeles 2007–08, 7). Federico indicates the location on the drawing
itself with the inscription, le camore di Rafaello (the rooms of Raphael).
Another drawing in the series shows him copying the frescoes in the loggia of
the Villa Farnesina, see Los Angeles 2007–08, 20, 32, no. 13. For the column,
its reliefs and history, see Bober and Rubinstein 2010, 208–10, no. 159.
Francesco Soderini purchased the Mausoleum in 1546 in order to transform the
tomb into a garden museum with antique statuary. See Riccomini 1995, especially
267, 91 (Etienne Du Pérac’s engraving, 1575) and 271, 95 (Alò Giovannoli’s
engaving, 1619) and Riccomini 1996. Los Angeles 2007–08, 19, 31–32, no. 12. For
essential reading on Taddeo, Federico and the antique and the absorption of it
in their work, see Silver 2007–08, 86–91. Wegner 1966, 88–89, no. 228, plates
11–12. Los Angeles 2007–08, 31. In Taddeo’s time the torso (CensusID 159347 and
Ruesch 1911, 158, no. 491) was in the courtyard of the Sassi family palace
displayed in a niche as seen in Heemskerck’s famous view reproduced in etching
(Paris 2000–01, 360–62, no. 169, entry by C. Scailliérez). For Polidoro and the
Zuccari, see Los Angeles 2007–08, 71–77. Armenini had already advised artists
to copy Polidoro’s frescoes (1587, 58, book 1, chap. 7). Alberti 1604, 7. See
also Armenini, 1587, 52–59 (book 1, chap. 7). See also Aymonino’s essay in this
catalogue, 32–33 Rossi 1997, 66–68. Alberti 1604, 8 (‘e chi andarà frà la
settimana dissegnando all’antico’), cited and translated in Silver 2007-08, 86).
Los Angeles 2007–08, 27, 35, no. 20. Ibid., 2. Ibid.
For previous arguments on the topic and a fascinating hypothetical recon-
struction of the Sala del Disegno, see Strunck 2007–08, 113–25. The shape is
adapted slightly in a version of the present drawing in the Uffizi, Florence, of
similar dimensions (Paris 2000–01, 379–80, no. 185 (entry by C. Scailliérez),
believed by Gere to be autograph (1990, under no. 17) but by Brooks as unlikely
to be and the present author agrees. See Los Angeles 2007– 08, 45, note 48,
where two other copies are also noted: Biblioteca Nacional, Madrid 7656 and the
other sold Phillips, London, 9 July 2001, lot 148. 6. Hendrick Goltzius
(Bracht-am-Niederrhein 1558–1617 Haarlem) a. The Apollo Belvedere 1591 Black
and white chalk on blue paper indented for transfer; 388 × 244 mm provenance:
Queen Christina of Sweden (1626–89)1; Cardinal Decio Azzolini (1623–89);
Marchese Pompeo Azzolini (1654–1706); Don Livio Odescalchi (1658–1713);
purchased from the Odescalchi family by the Teylers Foundation, 1790. selected
literature: Reznicek 1961, 1, 326, no. 208, 2, 170; Van Regteren Altena 1964, 19,
101–02, no. 32; Miedema 1969, 76–77; Brummer 1970, 70–71, repr.; Stolzenburg
2000, 426–27, repr., 439, no. 173; Brandt 2001, 148; Hamburg 2002, 114, repr.
under no. 33; Amsterdam, New York and elsewhere 2003–04, 269, repr.; Bober and
Rubinstein 2010, 77, under no. 28; Leesberg 2012b, 2, 370 under no. 380;
Göttingen 2013–14, 22–23, 6; Nichols 2013a, 56, 84, 54; Veldman 2013–14, 105.
exhibitions: Münster 1976, 138, no. 111, 140, repr. Teylers Museum, Haarlem,
inv. no. K III 23 exhibited in haarlem only b. Apollo Belvedere 1592 Engraving,
412 × 300 mm State II of II Inscribed on the base of the statue: ‘HG sculp.
APOLLO PYTHIUS Cum privil. Sa. Cæ. M.’. With the address of the printer at
right ‘Herman Adolfz excud. Haerlemens.’. Inscribed with two lines in the lower
margin, at centre: ‘Statua antiqua Romae in palatio Pontificis belle vider /
opus posthumum HGoltzij iam primum divulgat. Ano. M.D.C.X.VII.’.2 Two Latin
distichs by Theodorus Schrevelius in margin l.l. and l.r.: ‘Vix natus armis
Delius Vulcaniis / Donatus infans, sacra Parnassi iuga’ / ‘Petii. draconem
matris hostem spiculis / Pythona fixi: nomen inde Pythii. Schrevel’.3 Numbered
in l.l. corner: ‘3’. Published by Herman Adolfsz. (fl. 1607) in 1617
provenance: et D. Colnaghi Co., London, from whom acquired in 1854. literature:
Bartsch 1854–76, 3, 45, no. 145; Hirschmann 1921, 60–61, no. 147; Hollstein
1949–2001, 8, 33, no. 147.II, repr.; Strauss 1977, 2, 566–67, no. 314, repr.;
Leesberg 2012b, 2, 370, no. 380, 373–74, repr. exhibitions: Not previously
exhibited. The British Museum, Department of Prints and Drawings, London,
1854,0513.106 106 107 It was undoubtedly at the urging of Karel van Mander
(1548– 1606), his friend and fellow Haarlem artist, that Hendrick Goltzius left
for Rome in 1590 in order to study the remnants of classical antiquity and the
works of modern Italian masters.4 He was already thirty-two years old. Northern
artists usually went south when they were much younger, sometimes even half
that age. The tradition of artists travel- ling from Northern Europe to Italy,
eager to learn, had begun almost a century earlier with Jan Gossaert, called
Mabuse (c. 1472–1532). Other well-known Dutch artists who had derived
inspiration from antique remains in Rome and who had produced drawings after
them, were Jan van Scorel (1495–1562) and above all, Maarten van Heemskerck
(1498– 1574), also a native of Haarlem.5 Like these artists Goltzius travelled
to Rome as a mature draughtsman, eager to deepen his knowledge and see with his
own eyes the works of art of which he had heard so much. It was probably family
obligations and his flourishing print workshop that had delayed his Italian
trip for so long. Finally in 1590–91, hoping for relief from the consumptive
state of his health, Goltzius made the long anticipated journey.6 We know from
Van Mander that on arriving in Rome, Goltzius concentrated almost exclusively
on drawing the most important classical sculptures carefully and industri-
ously.7 Goltzius was now a celebrity, for his prints had spread his fame
throughout Europe, but he travelled largely incognito. In Rome, for example, he
donned rustic garb in order to blend in with pupils and amateurs drawing from
the Antique. According to Van Mander, they looked at him pityingly until they
saw what he was capable of, whereupon they started asking him for advice.8
Although this story may be a topos – art-loving Italy values a gifted outsider
– it is not hard to imagine such an encounter when one considers Goltzius’
Roman drawings.9 Forty-three of Goltzius’ drawings after thirty different
classical statues survive, plus one after Michelangelo’s Moses; all are
preserved in the Teylers Museum in Haarlem.10 In the short time at Goltzius’
disposal – he was only in Rome for seven months – he managed to copy all the
most impor- tant sculptures, in both public and semi-public locations
108 109 such as churches and papal palaces, and in some private
collections.11 He must have prepared thoroughly for his drawing expedition and
have studied travel books and prints before his departure. Certainly at his
disposal would have been Maarten van Heemskerck’s Roman sketchbook, now in the
Berlin Kupferstichkabinett, but then owned by his fellow Haarlem artist,
Cornelis Cornelisz. van Haarlem (1562–1638) (see 35, figs 39–43 and cat. no.
8).12 Strikingly Goltzius’ selection more or less corresponded with the antique
statues described in travel literature.13 Evidently, a canon of the most
outstanding classical statues in Rome had already been established and disseminated
to the North and although this canon would later be expanded, most of the
statues drawn by Goltzius in 1591 continued to remain popular models for
artists in subsequent centuries (see cat. nos 14–16, 21, 25–27 and 31).
Goltzius did not make his drawings merely as an exercise. The artist and
printshop owner was well aware of the importance of those statues for their
reproductive potential. He must have envisaged a series of engravings from the
very outset and that is why he went to such lengths to select the most
celebrated and, by then, canonical sculptures. The series he had in mind would
have rivalled existing print series of antique sculptures in Rome, such as
Antoine Lafréry’s Speculum Romanae Magnificentiae, published between 1545 and
1577 (fig. 1), or Giovanni Battista de’ Cavalieri’s Antiquarum Statuarum Urbis
Romae, published between the 1560s and the 1590s.14 Cavalieri’s reproductions
were printed on small plates, without backgrounds, and incorporated little
information about the sculptures in their locations; the lighting is not
consistent and there is a lack of naturalism in the statues’ rendering. While
the differences between Lafréry’s reproductions and what Goltzius planned to
create are less striking, the burin technique is more refined in Goltzius’
works, his rendering of the statues more realistic and his prints fractionally
larger; moreover, he generally represented the statues from closer vantage
points, thereby creating more engaging compositions.15 What audience did
Goltzius have in mind when he produced his drawings and his prints? While
Cavalieri and Lafréry’s publications were mainly intended for antiquaries and
art lovers, Goltzius seems to have aimed at a broader audience encompassing
artists as well as amateurs. This is supported by his emphasis on
anatomical precision and the sculptures’ three-dimensional character, rather
than accu- racy of reproduction – he sometimes omitted inscriptions, for
example (see cat. 8); the presence of the draughtsman in the print displayed is
also significant in this connection. Goltzius’ project was timely for around
this period a market seems to have been developing for prints after 110
publication, but found himself overwhelmed with other projects. In most of his
drawings after antique sculpture, Goltzius began with a sketch in black and
white chalk on bluish-grey paper, like this drawing of Apollo Belvedere. The
trial-and- error lines by the figure’s legs and waist suggest that he had
difficulty deciding on a vantage point. He would then have used a stylus to
indent the contours of that sketch onto a second sheet of paper, on which he
subsequently produced an extremely precise drawing of the statue. That second
version in red chalk, unfortunately now lost, would have served as the model
for the engraver. Teylers Museum has both drawings for the Farnese Hercules
Seen from Behind (see cat. 7a and 2) but at some point Goltzius’ second version
of the Apollo Belvedere was separated from the group that ended in the Teylers
Museum,20 for in the early 18th century it belonged to the famous collector
Valerius Röver (1686– 1739) of Delft,21 and was listed in his inventory: ‘The
Apollo, with red chalk, transferred to the copper by Goltzius, which print is
herewith attached, fl. 3:10’.22 The engraving is in the same direction as the
black chalk drawing, and the size of the statue is identical in both.23 The
most striking difference between them is the rendering of volume. The statue
appears a little flat in the drawing, while in the print it is highly
sculptural, with a keenly observed interplay between light and shade across the
form lending relief and depth to the engraving. As noted above, Goltzius would
have developed these features in the lost red chalk version of the subject. It
may be that this lost drawing also incorporated the draughtsman seen in the
lower right corner of the print, and the large cast shadow on the left,
accessories and details that Goltzius tended to vary from work to work. In any
event, these added elements reinforce the sense of depth; the draughtsman also
conveys an idea of the scale of the statue (see cat. 7). But perhaps Goltzius
added the young draughtsman for yet another reason. His rendering of this
figure is so direct, so true to life, that it appears to be a portrait. The two
small figures in his reproduction of the Farnese Hercules are also represented
in a fashion which suggests that these too are portraits (cat. 7, 4). It seems
that in Rome Goltzius asked a local artist, Gaspare Celio (1571–1640), to draw
copies of both classical and modern artworks for him and they may have drawn
some works together.24 Could this figure be Celio? Pure speculation, of course,
for remarkably little is known about this mysterious individual.25 At any rate
the figure of the draughtsman is seated exactly as Goltzius must have
positioned himself, although at a different angle, employing the same technique
(n.b. the porte-crayon), the same format paper and probably the same travel
board. And this may point to another reason for Goltzius’ introduction of the
young draughtsman: to emphasise the didactic inten- tion of the series and to
convey the message that these prints allowed artists to draw the finest Roman
sculptures, just like the draughtsman in the image, without having to go to
Rome. Whatever the reason for this figure’s inclusion, his presence
demonstrates – as does Van Mander’s story of Goltzius amidst younger artists –
that during this period the copying of antique sculptures in Rome was very
widespread. The Apollo Belvedere is a Roman copy of a Greek original by
Leochares from c. 330–320 bc. The copy probably dates from the reign of Hadrian
(117–138 bc). In the late 15th cen- tury the Apollo was in the collection of
Cardinal Giuliano della Rovere, who, as Pope Julius II, placed it in the
Belvedere, where it was displayed in the small Cortile delle Statue (see 26, 21
and cat. 5). The Apollo Belvedere soon became one of the most famous sculptures
in the collection and was drawn by many artists. Prints of the sculpture by
Agostino Veneziano (c. 1518–20, see 28, 29), Marcantonio Raimondi (c. 1530) and
Goltzius himself (c. 1617), among others, ensured that its fame spread
throughout Europe. However, the Apollo’s prestige began to fade in the 19th
century and nowadays the sculpture, while well-known to art historians is less
appreciated by the general public.26 1. Anonymous engraver after
Marcantonio Raimondi, published by Antoine Lafréry, Apollo Belvedere, 1552,
engraving, 323 × 228 mm, Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-H-232 antique statues for
artists to employ as models. Between 1599 and 1616 Goltzius’ stepson Jacob
Matham published the first known printed sketchbook after the Antique,
Verscheijden Cierage,16 intended, according to its title page, for an interna-
tional public of artists and amateurs.17 And it seems likely that Goltzius
envisaged the same international audience for his projected series, perhaps
particularly young students in Northern Europe – and no doubt his own pupils –
who were not able to undertake the trip to Rome but could use his engravings as
models.18 It was probably in 1592, soon after his return from Italy, that
Goltzius embarked on the print series, engraving after his own drawings three
of the statues: the Farnese Hercules Seen from Behind (cat. 7), Hercules and
Telephus and this Apollo Belvedere. It is unlikely that Goltzius was
disappointed with the results but he progressed no further with the project and
never officially printed the plates which were published posthumously in 1617,
bearing the address of the Haarlem publisher Herman Adolfsz.19 We do not know
why Goltzius did not publish these prints in his lifetime but it may have been
the result of excessive ambition. He probably hoped to market a much longer
series of prints in a single mp I. M.
Veldman revealed the Rudolf II provenance for Goltzius’ Roman portfolio to be a
myth. A more logical provenance might be, as Veldman suggests, through Jacob
Matham (1571–1631), Theodor Matham (1605/06– 76), Joachim von Sandrart
(1606–88) and/or Pieter Spiering (1594/97–1652): Veldman 2013–14, 109–13. ‘An
antique statue in Rome, in the Pope’s Belvedere Palace; a work by H. Goltzius
that is now being published posthumously for the first time, in the year 1617’.
‘Barely born, I, Apollo of the island of Delos, received arms from Vulcan; I
sought the sacred heights of Parnassus; with my arrows I pierced the dragon
Python, my mother Leto’s enemy; thus it is that I bear the name “Pythian”’. I
wish to thank Professor Ilja Veldman, who generously put at my disposal her
Goltzius entries for the forthcoming catalogue of the 16th-century
Netherlandish drawings in the Teylers Museum, which she is preparing with
Yvonne Bleyerveld. For the early tradition of Northern European artists going
to Rome (includ- ing Gossaert, Van Scorel and Van Heemskerck), see Brussels and
Rome 1995. Van Mander 1994–99, 1, 388–89 (fol. 282 verso). Ibid., 390–91
(fol. 283 recto). Ibid. Luijten 2003–04, 123. Reznicek 1961, 1, 89–94, 319–46,
nos 200–38; 245–48. From the 1689–90 inventory of Goltzius drawings owned
by Queen Christina of Sweden it is known that Goltzius also produced (now lost)
drawings of two famous antique figures, the Spinario (now in the Capitoline
Museums, Rome, see 23, 15) and the Farnese Bull (now in the Museo Archeologico
Nazionale, Naples); see Stolzenburg 2000, 437, 140–41, 440, no. 180 and Veldman
2013–14, 101. Veldman 2012, 11–23. Reznicek 1961, 90; Brandt 2001, 136. Haskell
and Penny 1981, 18; Brandt 2001, 136. Brandt 2001, 143–46. Fuhring 1992, 57–84.
111 17 Ibid., 64–65, 76, pl. 1. 18 It is tempting at this point to think
of the ‘Haarlem Academy’, of which Goltzius was a member before his departure
for Italy as a true academy, where artists could draw from life and presumably
also after sculptures. However, in all probability this ‘academy’ comprised no
more than three artists: Karel van Mander, Cornelis Cornelisz. and Goltzius.
See also cat. 8. 19 Leesberg 2012b, 2, 368–75, nos 378–80; Luijten 2003–04, 119–20.
20 For the provenance of the drawings see Stolzenburg 2000 and Veldman 2013–14.
21 Van Regteren Altena 1964, 101–02, under no. 32. 22 ‘De Apollo, met
rootaarde, door Goltzius int koper gebragt, welke print hierbij gevoegt is, f
3:10.’ See the manuscript catalogue by Valerius Röver in the Amsterdam
University Library, inv.no. II A 18: Catalogus van boeken, schilderijen,
teekeningen, printen, beelden, rariteiten [1730], portefeuille 2, no. 3. 23 In
view of the incomplete right hand and the missing left hand it seems likely
that the sheet has been trimmed on the right and left, and possibly at the top
as well. 24 Baglione 1642, 377. 25 26 All we really know is that Celio must
have drawn a copy of Raphael’s fresco, The prophet Isaiah in the San Agostino
in Rome for Goltzius (see Luijten 2003, 118). Goltzius used this copy for his
engraving; see Leesberg 2012b, 2, 292–93, no. 333, repr. For a recently
published drawing by Celio in the Uffizi Gallery in Florence, with a parade
carriage of his own design incorporating pyrotechnic features, see Stemerding
2012, 13–17. For the history and the fortuna critica of the Apollo Belvedere:
Haskell and Penny 1981, 148–51, no. 8; Bober and Rubinstein 2010, 76–77, no.
28. Regarding the sculpture’s reputation today, which some describe as
bordering on total neglect, Kenneth Clark observed in 1969: ‘. . . for four
hundred years after it was discovered the Apollo was the most admired piece of
sculpture in the world. It was Napoleon’s greatest boast to have looted it from
the Vatican. Now it is completely forgotten except by the guides of coach
parties, who have become the only surviving transmitters of traditional
culture.’ Clark 1969a, 2. 7. Hendrick Goltzius (Bracht-am-Niederrhein 1558–1617
Haarlem) a. The Farnese Hercules Seen from Behind 1591 Red chalk, indented for
transfer, 390 × 215 mm. Verso: Design lightly traced in black chalk from recto.
The upper corners cut. literature: Scholten 1904, 40, cat. N 19; Hirschmann
1921, 59; Reznicek 1961, 1, 337, cat. K 227, 2, 179; Miedema 1969, 76–77, repr.
(recto and verso); Schapelhouman 1979, 67, note 3; Amsterdam 1993–94, 361–62,
under no. 24 (B. Cornelis); Stolzenburg 2000, 439, no. 164; Brandt 2001, 139,
144, 132, 148; Hamburg 2002, 116, under no. 34 (A. Stolzenburg) ; Leeflang
2012, 24–25, 5; Leesberg 2012b, 2, 368–69, under no. 378; Göttingen 2013–14, 210;
Veldman 2013–14, 102–05. exhibitions: New York 1988, 58–60, no. 12; Brussels
and Rome 1995, 204, no. 101; Luijten 2003–04, 132–36, no. 42.2. Teylers Museum,
Haarlem, inv. N 19 exhibited in haarlem only b. The Farnese Hercules, 1592
(published 1617) Engraving Only state 416 × 300 mm Lettered on the base of the
statue: ‘HERCULES VICTOR’. Lettered in l.l. corner: ‘HGoltzius sculpt. Cum
privilig. / Sa. Cæ. M.’ and ‘Herman Adolfz / excud. Haerlemen’. Inscribed with
two lines in the lower margin, at centre: ‘Statua antiqua Romae in palatio
Cardinalis Fernesij / opus posthumum H Goltzij iam primum divulgata Ano
M.D.CXVII.2 Two Latin distichs by Theodorus Schrevelius in margin l.l. and
l.r.: ‘Domito triformi rege Lusitaniae / Raptisque malis, quae Hesperi sub
cardine / Servarat hortis aureis vigil draco, / Fessus quievi terror orbis
Hercules.’3 Numbered in l.l. corner: ‘1’. provenance: Bequest of Carel Godfried
Voorhelm Schneevoogt (1802–77), Haarlem. literature: Bartsch 1803–21, 3, 44–45,
no. 143; Hirschmann 1921, 58–59, no. 145; Hollstein 1949–2001, 8, 33, no. 145,
repr.; Strauss 1977, 2, 562–63, no. 312, repr., 569; Leesberg 2012b, 2, 368–69,
no. 378, repr. 112 113 1 Odescalchi (1658–1713); purchased from the Odescalchi
family by the Teylers Foundation, 1790. provenance: Queen Christina of Sweden
(1626–89); Cardinal Decio Azzolini (1623–89); Marchese Pompeo Azzolini
(1654–1706); Don Livio exhibitions: Not previously exhibited. Teylers Museum,
Haarlem, inv. KG 02263 The Farnese Hercules, which bears a Greek inscription
naming ‘Glykon of Athens’, a sculptor unknown in classical litera- ture, was
one of the most famous statues in Rome from the time of its discovery until the
end of the 19th century (fig. 1).4 The first certain mention of it dates from
1556, when it stood in Palazzo Farnese.5 The fragments, unearthed at different
times, must have been reassembled shortly before. The head was found in a well
in Trastevere, probably around 1540. The torso was discovered six years later
in the Baths of Caracalla, followed by the legs.6 However, the legs emerged too
late to be incorporated in the statue because it had already been ‘restored’
and given new ones by Guglielmo della Porta (1500/10–1577). Oddly enough,
Michelangelo allegedly appealed to the Farnese family to leave the new legs in
place and not replace them with the originals, ‘in order to show that works of
modern sculpture can stand in compari- son with those of the ancients’.7 The
statue recovered its original legs only in the 18th century. In addition to the
Palazzo Farnese, Goltzius drew studies on the Capitol, the Quirinal and in the
Belvedere statue court (see cats 6, 8). He had an ambitious plan for his
drawings: they were to prepare a series of high-quality and accurate engravings
of the most important classical statues, on a scale not previ- ously
attempted.8 The importance he attached to the project is evident from the care
he lavished on many of his drawings. In preparation for this one, which is in
red chalk, he first made an equally large, slightly freer and more loosely
drawn black chalk version on blue paper (fig. 2; see cat. 6a). He then indented
the contours through onto the white sheet on which he made the present drawing.
The contours are conse- quently razor-sharp. He then exercised phenomenal skill
in depicting the statue’s volume and the smooth texture of the marble with a
subtle interplay of light and shade. He achieved this by leaving reserves of
white paper, by alternating pressure on the chalk and by stumping it here and
there so that individual strokes are no longer visible.9 114
115 1. The Farnese Hercules, back view, Roman copy of the
3rd century ad of a Greek original of the 4th century bc, 317 cm (h), Museo
Archeologico Nazionale, Naples, inv. 6001 2. Hendrick Goltzius, The Farnese
Hercules seen from Behind, 1591, black and white chalk on blue paper indented
for transfer, 360 × 210 mm, Teylers Museum, Haarlem, inv. K III 30 3. Hendrick
Goltzius, The Farnese Hercules, black and white chalk on blue paper, indented
for transfer, 382 × 189 mm, Teylers Museum, Haarlem, inv. N 20 4. Hendrick
Goltzius, Two Male Heads: Jan Matthijsz Ban and Philips van Winghen (?),
metalpoint on an ivory-coloured prepared tablet, 92 × 117 mm, Amsterdam Museum,
inv. A 10180 demonstrate that he had seen the sculpture in the round, making
this clear by depicting the figure’s ‘alien’ back as well as its usual front.
His choice was probably inspired by a combination of these factors. The Amsterdam
Museum houses Goltzius’ preparatory drawing (fig. 4) of the two men whose
admiring, upturned gazes provide such a fine connection between the front and
back of the Farnese Hercules.16 In the engraving they are repre- sented in
mirror image and have been exchanged for each other. They have portrait-like
features and their identities have been a subject for speculation. The most
serious suggestion made so far, dating from the end of the 19th century, is
that they were Goltzius’ temporary travelling companions: Jan Matthijsz Ban on
the left and Philips van Winghen (d. 1592) on the right; they may even have
witnessed him drawing this statue.17 It is difficult to verify this sugges-
tion, but it is certainly interesting and plausible. Goltzius had produced, albeit
on a larger scale, several portraits of his circle of acquaintances in Rome and
elsewhere such as Giambologna (1529–1608), Dirck de Vries ( fl. 1590–92) and
Jan van der Straet, also called Stradanus (1523–1605; see cat. 4).18 Most of
his sitters, like Ban and Van Winghen, were northern artists active in Italy.
Ban was a silversmith, and Van Winghen is described by Karel van Mander as ‘a
learned young nobleman from Brussels [ . . . ] who was a great
archaeologist’.19 According to Van Mander the three of them made an excursion
from Rome to Naples in the spring of 1591.20 Van Winghen died unexpectedly in
1592,21 and it was maybe as a tribute to his friend that Goltzius included him
in the plate that he cut that same year. mp
See footnote 1 in cat. 6. ‘An antique statue in Rome, in the palace of
Cardinal Farnese; a work by H. Goltzius that is now being published
posthumously for the first time, in the year 1617’. ‘Now that I have vanquished
the King of Spain with his three bodies [Geryon] and have stolen the apples
that were guarded by a vigilant dragon under the western heaven in the golden
garden, I, Hercules, the terror of the world, rest from my labours’. I wish to
thank Professor Ilja Veldman, who generously put at my disposal her Goltzius
entries for the forthcoming catalogue of the sixteenth- century Netherlandish
drawings in the Teylers Museum, which she is preparing with Yvonne Bleyerveld. U.
Aldrovandi, ‘Delle statue antiche, che per tutta Roma ... si veggono’, in Mauro
1556, 157–58. The Hercules, today in the Museo Archeologico
Nazionale in Naples, is regarded as an enlarged copy of the 3rd century ad
after an original by Lysippos or someone from his school of the 4th century bc.
For its history and fortuna critica see Haskell and Penny 1981, 229–32, no. 46;
Gasparri 2009–10, 3, 17–20, no. 1. Haskell and Penny 1981, 229. Baglione 1642
(facsimile edition, Rome 1935), 151: ‘. . . per mostrare con quel rifarcimento
si degno al mondo, che le opere della scultura moderna potevano stare al paragone
de’lavori antichi’. Reznicek 1961, 2, 89–94; Brandt 2001, passim; Luijten
2003–04, 117–25. For both drawings see Luijten 2003–04, 132–36. Göttingen
2013–14, 210–11. For the prints by Bos and Ghisi see Göttingen 2013–14, 205–07,
no. II. 18 (Ghisi) and 285–86, no. IV.09 (Bos). Brandt 2001, 143–46. It has
been suggested that Goltzius was prompted to make his unorthodox choice by a
description in Pliny of a painting by Apelles of Hercules with Face Averted,
whose features could nevertheless be guessed. Goltzius may have known the
related engraving by G. J. Caraglio after Rosso Fiorentino: see Luijten
2003–04, 134 (with previous literature). For the dating of the three prints see
Reznicek 1961, 419; Boston and St. Louis 1981–82, 12, under no. 6. See the painting
Rest by Nicolaes Berchem the Elder (1620–83) dated 1644 in the Metropolitan
Museum of Art in New York and the painting The Return from the Hunt, also by
Berchem, from c. 1670 in The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, both of which
include a male figure whose attitude is clearly based on that of the Farnese
Hercules (Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, 67, 2; Haarlem, Zurich and
elsewhere 2006–07, 85, cat. 45, repr.). A drawing by Berchem, Standing Herdsman
from the Back in the Rijksmuseum, prepares the figure of the standing herdsman
in the New York painting (see Amsterdam and Washington D.C., 1981–82, 67, 1).
Schapelhouman 1979, 67 (with earlier literature); Luijten 2003–04, 135–36.
Hymans 1884–85, 187, note 1. Schapelhouman (1979, 67) does not believe this,
while Luijten (2003–04, 135–36) considers it plausible. It is curious that
Goltzius altered the preparatory drawing of the two men’s heads in the
engraving (fig. 3): in addition to representing them in mirror image and
swopping them over, he depicted them in the same scale as well. Ban (if it is
indeed Ban) is now somewhat taller than Van Winghen, which would reflect
reality for Van Mander reports that Ban was a sizeable man (Van Mander 1994–99,
1, 392–93, fol. 283v). Schapelhouman 2003–04, 147–58. Van Mander 1994–99, 1, 392–93
(fol. 283v). Ibid. Between 1592 and 1597 Jacob Matham engraved a portrait of
Philips van Winghen after another (unknown) drawing by Goltzius; see Widerkehr
and Leeflang 2007, 2, 256, no. 263. However beautiful the two drawings in black
and red chalk may be, it is only in Goltzius’ engraving that we really see what
he intended. The backlit effect of the Farnese Hercules is seen to best
advantage in the print, in which the added clouds have a functional role by
creating a sense of depth and atmosphere. It is enhanced by the two observers,
also only introduced in the print stage, who help to convey the statue’s scale.
As we view Hercules from behind, the two admirers are gazing upon the sunlit
front. The resulting interaction between front and back, between seeing and
imagining, gives the print an agreeable tension that is missing in the
drawings.10 Goltzius was probably familiar with the Farnese Hercules even
before he went to Italy from descriptions in travel guides to Rome, through
prints of 1562 and around 1575 by Jacobus Bos (c. 1520–c. 1580) and Giorgio
Ghisi (1520–82)11 and possibly also from the larger print series by Giovanni
Battista de’ Cavalieri (1570–84) and Antoine Lafréry (c. 1575).12 All showed
the Hercules from the front, but Goltzius drew it from both sides (fig. 3). He
seems to have been the first artist to appreciate its beauty from the back, or,
at least, the first to record it on paper. He must have been very pleased with
the 116 unorthodox view13 because he chose this viewpoint in 1592 when he
issued the engraving, one of the only three that he engraved from his series of
drawings (see also cat. 6b).14 It was thanks to Goltzius’ engraving that the
back view of the statue became as popular as the front (see cats 16 and 21).
Something of this popularity is revealed by the fact that by the mid-17th
century the Hercules Farnese seen from the rear, bending slightly forwards with
his arm on his back, had permeated Dutch genre painting.15 The question arises:
why did Goltzius choose to adopt this angle? Could it be that he had a didactic
purpose in mind when he produced the first rendering in a print series of the
back of a muscular male body at rest? With Goltzius’ magnificent print in hand,
young artists could now study the anatomy of a ‘hero’s’ back and use this in
their own work. Goltzius’ print of the Apollo Belvedere (cat. 6b) offered a
similar aid with the anatomy of an elegant youth. Goltzius also drew other
figures, such as the Belvedere Torso (cat. 8), from several angles, but in
these he was probably experi- menting with different points of view rather than
having a didactic aim in mind. Goltzius might also have chosen to represent
both sides of the Farnese Hercules expressly to 117 8. Hendrick Goltzius
(Bracht-am-Niederrhein 1558–1617 Haarlem) The Belvedere Torso 1591 Red chalk,
255 × 166 mm provenance: Queen Christina of Sweden (1626–89)1; Cardinal Decio
Azzolini (1623–89); Marchese Pompeo Azzolini (1654–1706); Don Livio Odescalchi
(1658–1713); purchased from the Odescalchi family by the Teylers Foundation,
1790. literature: Scholten 1904, 42, no. N 31; Reznicek, 1961, 2, 321–22, no.
201, 2, 156; Miedema 1969, 76–77; Brummer 1970, 146, note 27, 148, repr.; Van
Gelder and Jost 1985, 1, 109; Stolzenburg 2000, 437, no. 143; Brandt 2001, 148;
Goddard 2001–02, 39 (erroneously as a drawing in black chalk); Florence 2008, 62,
under no. 33 (M. Schapelhouman); Bober and Rubinstein 2010, 183, under no. 132;
Nichols 2013a, 56, 146, under no. A-37, 31. exhibitions: Recklinghausen 1964,
no. 87 [unpaginated]; Munich and Rome 1998–99, 44, 43, 160, no. 49; Luijten
2003–04, 130–31, no. 41.1. Teylers Museum, Haarlem, inv. no. N 31 From
the High Renaissance onwards the Belvedere Torso was one of the most celebrated
of ancient statues, despite its fragmentary state.2 In the past it was
identified as the torso of Hercules because of the anatomy and the lion’s skin
on which it is seated. However, in the late 19th century doubts were raised as
to whether the skin really was that of a lion, making the Hercules
identification uncertain.3 Although the Torso is comprehensively signed
‘Apollonius, son of Nestor, of Athens’, his name is not found in classical
literature. It is assumed that he lived in the 1st century bc and that the
Torso is a repetition or paraphrase of an earlier model. Although the statue
was known from the 1430s, it was only when it was in the collection of the
sculptor Andrea Bregno in the later 15th century that it began to arouse
interest; in the early 16th century the sculpture entered the papal collections
and was placed in the Belvedere (see 26, 23). Direct correspondences with many
of Michelangelo’s painted and drawn nude figures demonstrate the importance of
the Belvedere Torso for the great Italian artist and shortly after
Michelangelo’s death a number of stories emerged connecting him with the
Torso.4 According to such one tale, he had been surprised by a cardinal
kneeling before the statue (though only in order to examine it as closely as
possible).5 In 1590 Giovanni Paggi wrote from Florence to his brother Girolamo:
‘Michelangelo called himself a pupil of the Belvedere Torso, which he said he
had studied greatly, and indeed that he speaks the truth of this is to be seen
in his works.’6 Describing the statue as ‘the school of Michelangelo’ took this
association a step further.7 And yet the Renaissance artist appears to have
spoken only once about the Torso, albeit in highly positive language: Ulisse
Aldrovandi (1522– 1605) noted, in 1556 when the artist was still alive, that
the Torso was ‘singularmente lodato da Michel’Angelo’.8 Not surprisingly the
statue acquired great status both north and south of the Alps. This status
probably preserved it from the restoration suffered by many antique sculptures
in later centuries. Goltzius also seems to have felt the mysterious beauty of
the Torso, for he drew it no less than four times. All four drawings were
together in the collection of Queen Christina of Sweden (1626–89).9 But while
two are now in the Teylers Museum (fig. 1) the other two have been lost.
Goltzius undoubtedly knew the Torso even before he arrived in Italy, for
reduced copies after the sculpture circulated throughout Europe in the 16th
century; thus Goltzius’ friend and fellow Haarlem artist, Cornelis Cornelisz.
van Haarlem (1562–1638), had used the Torso as the model for a nude figure in a
painting 1. Hendrick Goltzius, The Belvedere Torso, c. 1591, black chalk, 253 ×
175 mm, Teylers Museum, Haarlem, inv. no. K I 30 118 119 of the
late 1580s.10 It is reasonable to suppose that the Torso would have been
discussed at meetings of the ‘Haarlem Academy’,11 which Karel van Mander,
Cornelis Cornelisz. van Haarlem and Goltzius had set up in the mid-1580s. One
of the purposes of their ‘academy’ was to allow them to ‘study from life’ (om
nae ‘t leven te studeeren), which meant they drew from nude models and probably
from sculpture, plaster casts or other three-dimensional specimens as well.12
We may assume that during these drawing sessions they discussed human anatomy
and the exemplary way classical artists had depicted it. All three were able to
quote directly from the antique with the aid of Maarten van Heemskerck’s Roman
sketchbook (now Kupferstichkabinett, Berlin), which was then owned by Cornelis
Cornelisz. van Haarlem13 and which contained two views of the Torso.14 It is
noteworthy that Goltzius, who was generally meticulously faithful in his
depiction of classical sculptures, was not always so precise in his treatment
of the inscrip- tions on their pedestals.15 In his red chalk drawing of the
Belvedere Torso from the front he has omitted the signature, which would have
been clearly visible on the base. Even more curious is the fact that he
completely ignored the wear suffered by the statue, the result of decades spent
outdoors. Instead his drawings give the sculpture a freshness that makes it
seem alive. This emphasis on the statue’s lifelikeness and beauty can probably
be explained by Goltzius’ intention that these drawings should serve as
preparations for prints with an educational purpose: the study of anatomy based
on ideal models. The muscles of Goltzius’ Torso appear to be tensed, the skin
lifelike and infused with warmth. The muscles’ extreme exaggeration and
restless tension clearly display a Mannerist emphasis.16 Once in Rome,
surrounded by the clear, classic, ideal vocabulary of ancient statuary,
Goltzius would reject Mannerist exaggeration so the fact that he did not decide
to do so here may indicate that these two studies after the Torso were among
the first drawings he produced after his arrival in Rome. It is interesting to
note that Goltzius clearly used the Belvedere Torso in his fine Back of an
Athletic Man, now in the Uffizi Gallery in Florence (fig. 2).17 This drawing is
one of his Federkunststücke, or virtuoso drawings in pen, whose linear
execution often imitates engravings, with lines that swell and taper.
Curiously, the backbone in this drawing curves slightly to the left, while that
of the sculpture curves to the right. Is this a conscious change by Goltzius or
did he recall the statue in mirror image? The suggestion has sometimes been
made that Goltzius produced this great drawing in Italy to display his
virtuosity with the pen;18 however, we know that Goltzius travelled incognito
to avoid admirers (see cat. 6), 120 9. Peter Paul Rubens (Siegen 1577–1640
Antwerp) Two Studies of a Boy Model Posed as the ‘Spinario’ c. 1600–02 Red
chalk with touches of white chalk, 201 × 362 mm Inscribed recto, l.r., in pen
and brown ink by a late 17th- or early 18th-century hand: ‘Rubens’ provenance:
Gabriel Huquier (1695–1772); William Fawkener; his bequest to Museum, 1769.
literature: Hind and Popham 1915–32, 2, 22, no. 52; Burchard and D’Hulst 1963, 1,
34–35, no. 16 and 2, pl. 16; Stechow 1968, 53–55, 43; Held 1986, 82, no. 39,
pl. 23 on 172; New York 1988, 77, under no. 18, 18-I; Van der Meulen 1994–95, 1,
80; Paris 2000–01, 419, under no. 222, 222a. exhibitions: London 1977, 28–29,
no. 14 (J. Rowlands); London 2009–10 (no catalogue). Department of Prints and
Drawings, The British Museum, London, inv. T,14.1 2. Hendrick Goltzius,
Back of an Athletic Man, pen and brown ink, 150 × 165 mm, Uizi, Florence, inv.
no. 2365 F so he is unlikely to have felt a need to demonstrate his virtuoso
skills. Perhaps Goltzius created this virtuoso draw- ing after his Italian
trip, or even before he went to Italy as he was already producing pen work of
this quality in the 1580s.19 The son of a wealthy Antwerp family, Rubens was
born in the German city of Siegen in 1577 but in 1589 returned with his family
to Antwerp where he received a humanistic education at the Latin School run by
Rumoldus Verdonck (1541–1620) and an artistic one with the painters Tobias
Verhaeght (1561–1631), Adam van Noort (1561–1641) and Otto van Veen (c.
1556–1629). After entering the Guild of St Luke as an established painter in
1598, Rubens set out for Italy in May 1600. This fundamental step in Rubens’
training had been carefully prepared not only by the study of engravings of
classical statues and Renaissance masters by Marcantonio Raimondi (c.
1480–1527/34) and his pupils assembled by van Veen in his workshop, but also by
eager reading of Roman texts such as Suetonius, Tacitus and Pliny the Elder.1
The impact of classical antiquity on Rubens’ art and theory of art was immense.
Before arriving in Rome in 1601, Rubens spent time in Venice, then Mantua, in
the service of the Duke Vincenzo I Gonzaga (r. 1587–1612) as a painter and a
curator of his collections, and also in Florence. Although based in Mantua,
Rubens spent two extended periods in Rome, first from July 1601 until April
1602 and again from late 1605 (or early 1606) until October 1608.2 During this
second period he shared a house with his scholarly elder brother Philip
(1574–1611), a pupil of the Flemish philologist and humanist Justus Lipsius
(1547–1606). In Rome Philip Rubens worked on the Electorum Libri duo published
in Antwerp in 1608, an influential study of the customs, morals and dress of
the ancients. Peter Paul assisted Philip in making drawings from ancient
monuments in prepara- tion for the plates, and he also contributed to their
explanatory notes. Rubens’ commitment to the systematic study of classical
antiquities, and in particular of sculpture in the round, is testified to by
the large number of sketches and drawings he made during his Italian period,
but also by those he executed after his return to Antwerp in 1608.3 In Rome
Rubens visited the Belvedere Courtyard and some of the most important private
aristocratic collections, such as the Borghese, the Medici, the Farnese, the
Mattei and the Giustiniani. His drawings after the Antique are among the most
extraordi- nary ever produced, most of them in red or black chalk; they show
Rubens’ great virtuosity in handling the medium and, at the same time, his deep
understanding of the formal principles of the antique statues. He obsessively
sketched some of the most ‘muscular’ masterpieces of classical statuary, such
as the Laocoön (see 26, 19) and the Farnese Hercules (see 30, 32), from all
sides, many angles and in great detail, in order to assimilate thoroughly the
anatomical structure and the mathematical proportions of the human body as part
of his search for the rules of perfection achieved by ancient artists.4
Returning to Antwerp in 1608, Rubens established his own studio in an
Italianate villa in the centre of the city – today the Rubenshuis. His drawings
after the Antique, bound in several books, remained in his studio and continued
to serve not only as an important reference and source of inspiration for
Rubens himself, but probably also as teaching tools for his pupils. The
purchase in 1618 by Rubens of the collection of ancient sculptures owned by the
English diplomat and collector Sir Dudley Carleton (1573–1632) represented the
first step towards the formation of one of the most important – but short-lived
– collections of antiqui- ties in Northern Europe, which Rubens sold on to the
1st Duke of Buckingham in 1626.5 The pre-eminent figure of the Flemish Baroque,
a universal genius, Rubens also had an active diplomatic career which in the
1620s led him to travel between the courts of Spain and England. His last
decade, the 1630s, was mostly spent in Antwerp, where he devoted himself
entirely to painting. Rubens’ theory on both the usefulness and dangers of
copying after the Antique are effectively expressed in his essay De Imitatione
Statuarum, a short treatise on the imitation of sculpture that remained in
manuscript in Rubens’ lifetime mp See footnote 1 in cat. 6. Haskell and Penny
1981, 311–14, no. 80, 165; Munich and Rome 1998–99; Bober and Rubinstein 2010, 181–84,
no. 132. Wünsche 1998–99, 67. Michelangelo did indeed use the Torso directly as
a model; see Wünsche 1998–99, 31–37; Haarlem and London 2005–06, 116–17.
Haskell and Penny 1981, 312. Guhl 1880, 2, 42; Schwinn 1973, 36–37. Wright
1730, 1, 268; Haskell and Penny 1981, 312–13; Schwinn 1973, 172; Montreal 1992,
76–77. ‘...
un torso grande di Hercole ignudo, assiso sopra un tronco del medisimo marmo:
non ha testa, ne braccia, ne gambe. È stato questo busto singularmente lodato
da Michel’Angelo’. U. Aldrovandi, ‘Delle statue antiche, che per tutta Roma ...
si veggono’, in Mauro 1556, 115. For Aldrovandi’s complete text ‘nel giardino
di Belvedere, sopra il Palagio del Papa’, see Brummer 1970, 268–69. Stolzenburg 2000, 437, nos 142–44, 439, no. 161. Van Thiel 1999, 79,
294, no. 7, pl. 34. According to an anonymous biographer, shortly after
arriving in Haarlem, around 1583, Karel van Mander entered into a collaboration
with Goltzius and Cornelis Cornelisz. van Haarlem, described as follows: ‘the
three of them maintained and made an Academy, for studying from life’, see Van
Mander 1994–1999, 1, 26–27 (fol. S2 recto), 2, 70–72; Van Thiel 1999, 59–90. It
should be stressed that this academy was in no way an institution for advanced
professional training: such institutions came into being only in the 18th
century (see Van Mander 1994–99, 2, 70). It is unclear how and for what length
of time this ‘Haarlem Academy’ exactly functioned (see also Leeflang 2003–04a, 16;
Leeflang 2003–04b, 252. Veldman 2012, 11–23. Hülsen and Egger 1913–16, 1, 34
(fol. 63), 40 (fol. 73). See also Brummer 1970, 144–45, figs 125–26. Brandt
2001, 143. Reznicek 1961, 1, 321–22, no. K 201; Luijten 2003–04, 131. Reznicek
1961, vol 1, 452, no. 431, 2, 132; Florence 2008, 61–62, no. 33 (M.
Schapelhouman). Reznicek 1961, 1, 452. Schapelhouman (in Florence 2008, 62) has
previously questioned the Italian dating for Back of an Athletic Man; for pen
works by Goltzius from the 1580s see: Amsterdam, New York and elsewhere
2003–04, 238–39, figs 93–94, 242–46, nos 84–85. 121 but was published by
the art theorist Roger de Piles in his Cours de peinture par principles of 1708
(see Appendix, no. 8).6 While emphasising the importance for an artist of
becoming deeply familiar with the perfection embodied in ancient models, Rubens
warned that ‘[the imitation of antique statues] must be judiciously applied,
and so that it may not in the least smell of stone’.7 The warning against the
risk of hardening one’s style by copying ancient sculptures, thus creating
paintings that looked ‘dry’ and eccentric, had already been pointed out by
several 16th-century artists and theore- ticians, such as Giorgio Vasari
(1511–74), Ludovico Dolce (1508–68) and Giovanni Battista Armenini
(1530–1609).8 Later in the 17th century the pernicious effect on painting of
too-slavish imitation of antique statuary would be summa- rised by the
Bolognese art theorist Carlo Cesare Malvasia (1616–93) with the specific
neologism ‘statuino’ or ‘statue- like’.9 As stressed by Rubens in the De
Imitatione, young artists needed to learn how to transform marble into flesh
instead of depicting figures as ‘coloured marble’. The two studies on one sheet
presented here perfectly express Rubens’ views: they are in fact an example of
a practice – setting live models in the poses of famous ancient statues –
already diffused from the Early Renaissance (see 23, 14) and common practice
within the curricula of the French and Italian academies.10 Through this
exercise Rubens could concentrate on the classical pose and disre- gard the
‘matter’, something that he repeated in modified form several times, in studies
of live models in poses remi- niscent of the Belvedere Torso, the Laocoön and
other canonical statues.11 In the present drawing, the young model is seen from
his left side in the pose of one of the most celebrated bronzes in Rome, the
Spinario (‘Thorn-puller’), recorded in the city as early as the 12th century
among the antiquities at the Lateran Palace and donated by Pope Sixtus IV (r.
1471– 84) to the Palazzo dei Conservatori in 1471 (fig. 1, see also 23, 15).12
Interpreted in the Renaissance as the personifi- cation of the month of March
or a shepherd, the Spinario has been recently recognised as the young Ascanius,
the son of Aeneas and founder of the gens Iulia.13 The right-hand drawing
faithfully imitates the pose of the statue, with the head looking down towards
the gesture of extracting a thorn from the foot; the left-hand drawing, in
contrast, modifies the original by turning the head towards the spectator and
altering the action so that the youth no longer withdraws a thorn from his
foot, but dries it with a towel. Two similar studies, presumably after the same
young model, are preserved in the Musée des Beaux-Arts, Dijon (fig. 2) and in
London (private collection): the former, in red chalk, shows the model from his
back and his right;14 the latter, in black chalk, from his left.15 The three
drawings were probably done in the same session and they have been dated to one
of Rubens’ two Roman periods, probably the first one (1600–02).16 As long ago
noted by Wolfgang Stechow,17 the pose of 122 123 1. (left)
Spinario (Thorn-Puller), 1st century bc, bronze, 73 cm (h), Capitoline Museums,
Sala dei Trionfi, Rome, inv. 1186 2. (above) Peter Paul Rubens, Two Studies of
a Young Model Posing as the Spinario, red chalk with touches of black chalk,
246 × 382 mm, Musée des Beaux-Arts, Dijon, inv. sup. 49D the Spinario was
employed by Rubens for a young man drying his feet in the Baptism of Christ,
painted for the Jesuit church of Santa Trinità in Mantua in 1605 and now in the
Royal Museum of Fine Arts in Antwerp, a preparatory drawing for which is in the
Louvre,18 as well as for Susanna in Susanna and the Elders, a painting executed
in Rome about 1606–08, 19 ed 1 For Rubens’ early years see Muller 2004, 13–15.
2 On Rubens in Rome and his approach to the Antique see esp. Stechow 1968;
Jaffé 1977, 79–84; Muller 1982; Van der Meulen 1994–95, 1, 41–81; Muller 2004, 18–28.
3 On Rubens’ drawings after the Antique see the fundamental catalogue in Van
der Meulen 1994–95, 2. 4 See Ayomonino’s essay in this catalogue, 46–52. 5 See
Muller 1989, passim; Muller 2004, 35–56. On the collection of antiquities see
in particular Muller 1989, 82–87; Antwerp 2004, 260–63 (F. Healy). On the sale
to the 1st Duke of Buckingham see Muller 2004, 62–63. 6 On the De Imitatione
see Muller 1982; Van der Meulen 1994–95, 1, esp. note 11, 77–78, note 44;
Antwerp 2004, 298–99; Jaffé and Bradley 2005–06; Jaffé 2010. Transcribed in
Appendix, no. 8, from De Piles 1743, 87–88. For Vasari see Bettarini Barocchi
1966–87, for instance 3, 549–50 and 5, 495–61. For Dolce see Appendix, no. 4.
See Armenini 1587, esp. 59–60 (book I, chap. 8), 86–89 (book II, chap. 3). The
concept was repeated later also by Bernini during his visit to Paris in 1665:
see Appendix, no. 9. See also Van der Meulen 1994–95, 1, 77–78. Malvasia 1678, 1,
359, 365, 484. On the 17th-century neologism ‘statuino’ see Pericolo,
forthcoming. See Aymonino’s essay in this volume, 50–52. Van der Meulen
1994–95, 1, 80–81. The statue is traditionally considered to be an eclectic
work of the 1st century bc: see Stuart Jones 1926, 43–47, no. 2; Haskell and Penny
1981, 308–10, no. 78; Bober and Rubinstein 2010, 254, no. 203. Recent analysis
has proved that the classicistic head, dating to the 5th century bc, was added
to the Hellenistic body and given a Roman subject presumably in the 1st century
bc, see Rome forthcoming. Rome forthcoming. Held 1986, 82; Paris 2000–01, 417–18,
no. 222. Held 1986, 82; Paris 2000–01, 418, 222b. Held 1986, 82. Stechow 1968, 54–55.
See also Van der Meulen 1994–95, 1, 80–81. Lugt 1949, 12–13,
no. 1009, pl. XIV; Antwerp 1977, 129, no. 121. Coliva 1994, 170, no. 88. 10.
Odoardo Fialetti (Bologna 1573–c. 1638 Venice) Artist’s Studio c. 1608 Etching
in Odoardo Fialetti, Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parti et
membra del corpo humano, Venice, Justus Sadeler, 1608 110 × 152 mm (plate); 194
× 238 mm (sheet) Inscribed l.l. with Fialetti’s monogram and ‘A 2’ and ‘No
208’. provenance: Elmar Seibel, Boston, from whom acquired. literature: Rosand
1970, 12–22, 10; Buffa 1983, 315–37, nos 198 (295) – 243 (301), repr. (for the Artist’s Studio, 321, no. 210 (298), repr.); Amornpichetkul
1984, 108–09, 83; Bolten 1985, 240–43, 245 and 248; Boston, Cleveland and
elsewhere 1989, 248–49, no. 130 (D. Becker); London 2001–02, 198–200, no. 143;
Houston and Ithaca 2005–06, 94–96, no. 24 ( J. Clifford); Walters 2009, 1, 68–79,
2, 254–76, figs. 3.9–3.53; Walters 2014, 62–63, 59; Whistler 2015
(forthcoming). and now in the Borghese Gallery. 124 125 exhibitions: Not
previously exhibited. Katrin Bellinger collection, London, 2002–013 A prolific
artist whose large and diverse body of work comprises some fifty-five paintings
and about 450 prints, Fialetti was born in Bologna in 1573 but moved to Venice
where he was apprenticed to Jacopo Tintoretto (1519–94) and where he later
collaborated with Palma Giovane (c. 1548– 1628).1 By 1596 he was listed as a
printmaker and, from 1604 to 1612, a member of the Venetian painters’ guild,
the Arte dei Pittori; he joined the Scuola Grande di San Teodoro between 1620
and 1622.2 His wide-ranging graphic oeuvre comprises religious, mythological,
and literary subjects as well as landscapes, portraits, depictions of sport
(fencing and hunt- ing), ornamental motifs and anatomical studies, and appears
in different formats and genres, from single or series of prints to complete
illustrations for books.3 His etchings remained influential for decades after
his death not only in Venice and northern Italy, but even in France and
England.4 Without doubt Fialetti’s most admired and influential works were his
two volumes of etchings: Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parte et
membra del corpo humano (‘The true means and method to draw all the parts of
the human body’) and Tutte le parti del corpo humano diviso in piu pezzi . . .
(‘all the parts of the human body divided into multiple pieces’). The first was
published in Venice in 1608 by Justus Sadeler (Flanders 1583–1620), and the
second, which is undated, presumably appeared in Venice shortly thereafter. The
two books are varied in their plates and paginations and exist in different
compilations, sometimes confusingly, combining elements of both as in the
example shown here.5 The first of their kind to be published in Italy, these
books served as portable instruction manuals in drawing for beginners and
amateurs. They provided techniques for the correct construction of the human
face and body and they also illustrate the crucial role of copying plaster
casts in work- shop practice at the end of the 16th and beginning of the 17th
centuries. The Bellinger volume includes a frontispiece dedication to Cesare
d’Este, the Duke of Modena and Reggio (1561–1628), a leaf with a further
dedication to Giovanni Grimani (the Venetian patrician and collector of
antiquities, 1506–93), six pages with step-by-step instructions on draw- ing
eyes, ears and faces, another title page, Tutte le parti . . . and thirty
leaves of further faces, various parts of the body – arms, legs, torsos –
grotesque heads and portraits.6 The volume concludes with two religious
etchings by Palma Giovane.7 Unusual for manuals of the period is the scene
depicted on the first plate following the dedications: a lively and infor- mal
artists’ workshop, sometimes thought to be Tintoretto’s.8 In the foreground,
young students seated on low wooden benches draw diligently before models and
assorted plaster casts of body parts arranged on and below a table, while two
older artists are painting at large easels in the background.9 At the far left,
an apprentice grinds pigments. Scattered on the ground are various artists’
tools including compasses, an inkwell and feather quill pen. Boy draughtsmen
representing three different ages – roughly from six to sixteen – diligently
record a cast of the young Marcus Aurelius, similar in type to the marble of
161– 180 ad now in the Capitoline Museum in Rome (fig. 1).10 Behind them, two
slightly older boys enthusiastically discuss a completed copy. The torso next
to the bust, although reminiscent of the Belvedere Torso, (p. 26, 23), appears
to be based on a different antique sculpture, which seems to be the subject of
a drawing of seven male torsos in various positions in a sketchbook by an
unidentified Northern artist working in Rome in the mid- to late 16th century
(Trinity College Library, Cambridge, 2).11 The torso seen in Fialetti’s etching
is comparable to the one with the upraised right arm placed at the lower centre
of the Trinity page;12 it was evidently a favourite of Fialetti’s as it
reappears later in his book. The cast of the armless female torso on the
floor on the right in the etching also derives from an antique prototype. She
is probably based on a now-lost version of Venus Tying her Sandal, a
Hellenistic type well known in the Renaissance and one that inspired many adaptations,13
such as that in an anonymous Italian drawing in the Fitzwilliam Museum,
Cambridge (fig.). The male torso depicted in that drawing is also very similar
to that in the etching. Fialetti would have had ample opportunity to study
Antique statuary first-hand during a trip to Rome, made before he settled in
Venice, though plaster casts were an integral part of Venetian workshop
practice from the 16th century onwards.14 They were in wide use in Tintoretto’s
studio where Fialetti trained. According to his biographer, Carlo Ridolfi,
Tintoretto collected plaster casts of ancient and Renaissance marbles avidly
and at great expense: ‘Nor did he cease his continuous study of whatever hand
or torso he had collected’.15 From the chalk drawings he produced, ‘thus did he
learn the forms requisite for his art’.16 The casts remained in the Tintoretto
family workshop when Domenico, his son, took it over and are 1. Portrait of
Marcus Aurelius as a Boy, 161–180 ad, marble, 74 cm (h), Capitoline Museums,
Palazzo Nuovo, Albani Collection, Rome, MC 279 2. Anonymous artist working in
Rome, Studies of Male Torsos, mid to late 16th c., pen and brown ink, 280 × 450
mm, folio 47v from the Cambridge Sketchbook, Trinity College Library,
Cambridge, R. 17.3 recorded in his will of 1630.17 The younger Tintoretto for a
period considered bequeathing to painters his house and studio with its
contents – reliefs, drawings and models – so that an academy could be
established to train future generations of Venetian artists, although nothing came
of this scheme.18 Whether the Artist’s Studio seen here is actually
Tintoretto’s or simply a generalised venue, Fialetti asserted the centrality of
drawing, especially for young artists.19 This also recorded his own experience:
when as a boy, he asked what he should do in order to make progress, he was
advised by Tintoretto that he ‘must draw and again draw’.20 By the early 17th
century, repeated and systematic study from studio drawings, plaster casts,
sculpture, as well as anatomy and the live model was deemed essential
preparation for the accurate portrayal of the human figure.21 But in order to
depict the body as a whole, students first had to master its individual parts,
a tenet of Central Italian working practice that was perpetuated throughout the
16th century by artists and writers like Giovan Battista Armenini (1525–1609)
and Federico Zuccaro (c. 1541–1609), who instructed pupils to draw parts of the
body, an ‘alphabet of drawing’.22 Similar principles were espoused by the
Carracci Academy in Bologna, of which Fialetti was no doubt aware.23 While
precedents for instructional drawing books are found in 15th-century model and
pattern books containing motifs that artists could copy into their compositions
(p. 20, figs 3–4),24 Fialetti’s were the first aimed at students and amateurs
as well as art lovers and collectors.25 They also seem to be the first of their
kind to be printed in Venice.26 Other publications modelled after them soon
followed in the Veneto and elsewhere in Italy, notably De excellentia et
nobilitate delineationis libri duo, published 126 127 by
Giacomo Franco in 1611 based on designs by Palma Giovane and prints by Battista
Franco (c. 1510–1561) as well as Gasparo Colombina’s Paduan publication of
1623.27 Like Fialetti’s compendia, Giacomo Franco’s treatise featured several
plates incorporating antique motifs: busts of the Laocoön (p. 26, 19), the
Emperors Vitellius (p. 40, 52) and Galba were inserted among the etched
portraits on plates 18 and 20 while plates 14 and 25 showed torsos of a female
Venus Tying her Sandal type much like that seen in Fialetti’s etching.28 In the
decades that followed, the Antique would assume a greater role in drawing
manuals.29 Several published at the end of the 17th century, like Gérard
Audran’s Les Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures
de l’antiquité,1683 (p. 48, figs 72–73) and Jan de Bisschop’s Icones, 1668/69
(see cat. 13) and into the 18th century, such as Giovanni Volpato and Raffaello
Morghen’s Principi del disegno, 1786 (p. 49, 76), would focus on antiquities
exclusively. The influence of Fialetti’s books was far-reaching and persisted
long after his death. Plates from them were copied and adapted for publications
appearing both in Italy and elsewhere:30 for example Johannes Gellee copied the
Artist’s Studio and other etchings in his Tyrocinia artis pictoriae caelatoriae
published in Amsterdam in 1639.31 Fialetti’s vol- umes also influenced a great
many other books published in the Netherlands, paving the way for Abraham
Bloemaert’s Tekenboek of 1740 (cat. no. 11).32 Furthermore, Fialetti’s manuals
catered to a new demo- graphic – the connoisseur, gentleman scholar and mature
artist – and would inspire similar books printed in England.33 With the growing
market for Venetian art in England during the first decades of the 17th century
and accelerated interest in drawing, Fialetti’s work was esteemed not just by
Venetians but by aristocratic collectors visiting Venice like Sir Henry 3.
Odoardo Fialetti, Two Male Torsos Seen from Behind, c. 1608, etching, 103 × 142
mm, plate 30 from Il vero modo...1608, Katrin Bellinger collection 4.
Anonymous, Roman School, Studies after Antique Statuary (Fragments), c. 1550,
pen and brown ink and brown wash, black chalk, heightened with white on
blue-green paper, 294 × 212 mm, Fitzwilliam Museum, Cambridge, inv. 2978. The
Fitzwilliam Museum, Cambridge Wotton (1568–1639) and Thomas Howard, the 2nd
Earl of Arundel (1585–1646), among others, who undoubtedly admired his facile
draughtsmanship.34 Interestingly, Fialetti’s biographer, Malvasia, who praised
his versatility, mentioned that as well as giving drawing lessons to Venetians,
he also instructed Alethea Talbot, the Earl of Arundel’s wife, whose grandson
owned one of Fialetti’s books.35 Through connections like these, Fialetti
attracted the attention of English-based artists and architects including
Edward Norgate (c. 1580–1650), Inigo Jones (1573–1652) and Anthony Van Dyck
(1599–1641).36 Copied and emulated, Fialetti’s plates would play a key role in
the development of the drawing book in England.37 Treatises by Norgate
(1627–28, 1st ed.; 1648–49, 2nd ed.), Isaac Fuller (1654), Alexander Brown
(1660), and others helped to further the principles set forth in Fialetti’s
books, which were copied well into the 19th century.38 avl For a full appraisal of his life and work on
which this biographical account is based, see Walters 2009 and Walters 2014, 57–67.
Walters 2009, 1, 6–7; Walters 2014, 58. Walters 2014, 57. Walters 2009, 1, vi. Beginning
with Bartsch, there has been considerable confusion over the size and content
of the two editions. See Walters 2009, 1, 68–70, particularly note 40 and
Walters 2014, 66–67, note 23; Greist 2014, 14–15. Alexandra Greist (ibid., 12–18)
published a little-known instruc- tional text by Fialetti dictating how he
wished the manual to be used, printed on the versi of nine prints bound
together with early editions of both books (Rijksmuseum, Amsterdam,
C/RM0024.ASC/552*1, Shelfmark 325G6). Among the plates not included in the
present volume is the painter’s studio showing artists measuring human
proportions: Buffa 1983, 321, no. 211 (298). The Holy Family and Christ
Preaching. Boston, Cleveland and elsewhere 1989, 248; Nichols 2013b, 195, 236,
note 134. The standing painter in profile is believed by some scholars to be
Tintoretto (Ilchman and Saywell 2007, 392; Nichols 2013b, 236, note 134).
Nichols points to the similarity with the painter as seen in Francesco Pianta
the Younger’s wood-carving, Tintoretto as ‘Painting’, in the Scuola Grande di
San Rocco, Venice (Nichols 1999, 238, 212). His elongated body, unlike the
others in the etching, and his energetic pose and outstretched right arm,
recall Tintoretto’s studies of single figures. Alternatively, Catherine
Whistler (2015, forthcoming) has suggested that the studio may evoke Palma
Giovane ‘given that there is something of his panache in the figure of the
painter at work and in the costume of the seated artist’. She further noted
their similarities to his self-portrait in the Brera (Mason Rinaldi 1984, 92–93,
213, 117). Fittschen and Zanker 1985, 1, 67–68, no. 61, 2, pls 69, 70, 72.
CensusID: 46328. Michaelis 1892, 99, no. 60v; Dhanens 1963, 185, no. 52v, fig.
30; Fileri 1985, 39–40, no. 48, repr. Given in the 19th c. to a Flemish artist
working in Rome around 1583 (Michaelis 1892), more recently the sketchbook has
been associated with the sculptor, Giambologna (1529– 1608), and his Roman trip
of 1550 (Dhanens 1963 and Fileri 1985). As pointed out by Eloisa Dodero
(personal communication). Künzl 1970; Bober and Rubinstein. 2010, 69,
no. 20; CensusID: 58121. Walters 2014, 57. Ridolfi 1984, 16. Ridolfi 1914, 2, 14;
Whitaker 1997. Ridolfi 1914, 2, 14; Ridolfi Tozzi 1933, 316. Ridolfi 1914, 2, 262–63.
Rosand 1970; Walters 2009, 1, 73. Because ‘drawing was
what gave to painting its grace and perfection’, Ridolfi added (Ridolfi 1914, 2,
65; Ridolfi 1984, 16). Muller 1984; Bolten 1985; Walters 2009, 1, 73. Armenini
1587, 52–59 (book 1, chap. 7); Alberti 1604, 5 (quoting Federico Zuccaro);
Amornpichetkul 1984; Bleeke-Byrne 1984; Roman 1984, 91; Greist 2014, 15.
Gombrich 1960, 161–62; Rosand 1970, 7, 14–15; Bolten 1985, 245; Boston,
Cleveland and elsewhere 1989, 248 (D. Becker); Houston and Ithaca 2005–06, 95
(J. Clifford); Walters 2009, 1, 74; Walters 2014, 62, 66, note 6. On the
Carracci’s influence on model books, see Amornpichetkul 1984, 113–16. For model
books, see Gombrich 1960, 156–72; Rosand 1970, 5; Ames- Lewis 2000a, 63–69;
Nottingham and London 1983, 94–101; Amornpichetkul 1984, 109. D. Becker, in
Boston, Cleveland and elsewhere 1989, 248; J. Clifford, in Houston and Ithaca
2005–06, 95. Catherine Whistler has argued persua- sively that the book was
aimed at a growing market of virtuosi, art lovers and collectors, who placed a
social value on the knowledge of drawings (Whistler 2015, forthcoming). Walters
2009, 1, 69; Walters 2014, 62. For the growing interest in publishing prints at
this time in Venice, see Van der Sman 2000, 235–47. Rosand 1970, 17–19;
Amornpichetkul 1984, 110–12; Walters 2009, 1,p.74. Rosand 1970, 15, 27.
Amornpichetkul 1984, 115. Ibid., 112; D. Becker in Boston, Cleveland and
elsewhere 1989, 248 (D. Becker); Walters 2009, 1, 75–79. Bolten 1985, 132–39.
Ibid., 119, 131, 133–34, 141, 143, 153, 157, 188–207, 243–56; Walters 2009, 1, 79.
Whistler 2015 (forthcoming). For a fundamental discussion of Fialetti and his
impact in England, see Walters 2009, 1, Chapter 5, 152–197. See also Walters
2014, 64–65. Malvasia 1678, 2, 312; Greist 2014, 12. Walters 2009, 1, 152;
Walters 2014, 64–65 Amornpichetkul 1984, 112; Walters 2009, 1, 78, 152. Walters
2009, 1, 78, 180–97; Greist 2014, 14. 128 129 11. Frederick
Bloemaert (Utrecht c. 1616–90 Utrecht) after Abraham Bloemaert (Gorinchem
1566–1651 Utrecht) A Student Draughtsman, Drawing Plaster Casts 1740 Engraving
and chiaroscuro woodcut with two-tone blocks (brown and sepia), titlepage from
Het Tekenboek (‘The Drawing Book’), Amsterdam, Reinier and Josua Ottens, 1740
303 × 222 mm (image); 378 × 286 mm (sheet) provenance: Elmar Seibel, Boston,
from whom acquired. literature: Strauss 1973, 348, no. 1 64, repr.;
Lehmann-Haupt 1977, 155–57, 125; Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, 16–17;
Bolten 1985, 49, repr., 57–67; Roethlisberger and Bok 1993, 1, 395, 2, T1a;
Bolten 2007, 1, 362, 366, under no. 1150. exhibitions: Not previously
exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 1995-071 Abraham Bloemaert, a
prolific artist by whose hand over two hundred paintings and sixteen hundred
drawings are known, was born in Gorinchem in 1566.1 From the age of 15 or 16,
he spent three years in Paris from 1581–83, studying for six weeks with the
otherwise unknown Jehan Bassot and then for two and a half years with the
similarly obscure ‘Maistre Herry’. His third teacher in Paris was his fellow
countryman Hieronymus Francken I (1540–1610).2 In 1611, along with Paulus
Moreelse and several colleagues, Bloemaert founded the new painters’ guild in
Utrecht, the Guild of St Luke, and became its deacon in 1618.3 Shortly after
the guild’s foundation, around 1612, some form of drawing academy must have
been established in Utrecht, again with Bloemaert’s involvement. We learn about
this from a letter to the Utrecht antiquarian Arnout van Buchell and in Van ’t Light der Teken en Schilder
konst (‘About the Light of the Art of Drawing and Painting’) of 1643–44, by
Crispijn de Passe the Younger (c. 1597– c. 1670).4 In the introduction to his
book De Passe recalls how he learned his art together with the son of Paulus
Moreelse ‘in a famous drawing school which was, at that time organized by the
most eminent masters’.5 The well-known print Modeltekenen (‘Model Drawing’)
from De Passe’s book is thought to repre- sent this school (fig. 1) and it has
even been suggested that one of the two tutors looking over the students’ work
is Abraham Bloemaert himself.6 We do not know how long this ‘Academy’ existed.
Bloemaert had a large studio of his own with many pupils, including his four
sons and many well-known Dutch artists, such as the Italianate painters
Cornelis van Poelenburgh (1594/95–1667), Jan Both (c. 1618–52) and Jan Baptist
Weenix (1621–60/61), as well as the Caravaggists Gerrit van Honthorst
(1590–1656) and Hendrick ter Brugghen (1588–1629).7 A development can be traced
in Bloemaert’s work from a robust Mannerism, influenced by artists such as
Joachim van Wtewael (c. 1566–1638), towards a more classicist style which he
presumably derived from Hendrick Goltzius (1558–1617) and his Haarlem
colleagues. Caravaggism made a brief appearance in Bloemaert’s work during the
early 1620s, when his first pupils returned from Italy – which, inciden- tally,
he never visited himself. At the end of Bloemaert’s life his style grew
smoother and more even. In teaching, Bloemaert undoubtedly used his own
drawings as examples for his many pupils to copy.8 He found this approach so
productive – and perhaps commercially attractive – that towards the end of his
life he joined forces with his son Frederick (c. 1616–90) in the publication of
the Tekenboek or ‘Drawing Book’, a compilation of specimen drawings.9 The
prints in the Tekenboek, which were cut by Frederick after drawings by his
father, were published in instalments from c. 1650.10 Abraham’s reversed
preparatory drawings, which he probably began around 1645 and some of which
reproduce earlier work, are preserved en groupe in the Fitzwilliam Museum in
Cambridge,11 including that for 1. Crispijn de Passe, Model Drawing, from: Van
’t Light der Teken en Schilder konst (‘About the Light of the Art of Drawing
and Painting’), 1643, engraving, 330 × 390 mm, Rijksmuseum Research Library,
Amsterdam, inv. no. 330B13 130 131 2. Abraham Bloemaert, A Student
Draughtsman, Drawing Plaster Casts, pen and brown ink, 397 × 301, Fitzwilliam
Museum, Cambridge, Inv. PD 166–1963.5. The Fitzwilliam Museum, Cambridge the
title page displayed here (fig. 2). The title page of Bloemaert’s Tekenboek,
catalogued here in the most popular 18th-century edition (1740), shows an
artist seated on the floor of an imaginary studio, drawing 13 artist has again
created the suggestion of antique pieces. Images of artists drawing in a studio
combined with assem- blages of plaster casts are highly appropriate subjects
for drawing books. In earlier Italian and Netherlandish examples we encounter
similar images, such as Modeltekenen (‘Model Drawing’) by De Passe from 1643
(fig. 1), by Petrus Feddes (1586–c. 1634) from around 1615, and especially by
Odoardo Fialetti (1573–c. 1638), in his highly influential Il vero modo et ordine
per dissegnar tutte le parte et membra del corpo humano (‘The true means and
method to draw all the parts of the human body’) and Tutte le parti del corpo
humano diviso in piu pezzi . . . (‘all the parts of the human body divided into
multiple pieces’) of c. 1608 (also featured here as cat. 10).18 For
apprentices the copying of two-dimensional works, such as prints and drawings –
and also paintings – was followed by drawing from plaster casts, a crucial
activity in the work- shop practice. Ideal examples were employed to prepare
the student for drawing from life, from the real world and especially from
clothed and nude models.14 Such plaster casts invariably included copies of
well-known classical statues, plus copies of more modern works and casts of limbs
and body parts taken from live models, such as those seen here hanging on the
wall behind the draughtsman. In this image the casts do not include any firmly
identifiable antique statues, although a number are clearly intended to suggest
them, such as the female head at lower right with the short, rounded hairstyle
and the male torso beside it, which resembles the Belvedere Torso (p. 26, 23);
the pose of the reclining man is reminiscent of an antique River God. In this
image Bloemaert made clear his allegiance to classical tradition, and the
importance of antique works as the Bloemaert’s Tekenboek, which only contains
specimens 3. Frederick Bloemaert after Abraham Bloemaert, A Draughtsman Sitting
at a Table, Drawing after Plaster Casts, engraving, 280 × 165 mm, Katrin
Bellinger collection, London from the plaster figure of an elderly, reclining
man. foundation for the learning of art.15 Midway through the Tekenboek,
Bloemaert reiterates this 132 133 sentiment regarding the importance of antique
works by incorporating a similar title page, A Draughtsman Sitting at a Table,
Drawing after Plaster Casts (fig. 3), in the section on ‘Mannelijke en
Vrouwelijke Academie Figuren’ (‘Male and Female Academy Figures’).16 This
features the same or a similar draughtsman, now seated at a table in a more
realistic setting and drawing from a plaster model of a nude male torso. Around
him lie other casts: a male head, a foot and a further torso seen from the
back. As in the first title page, no recognisable antique sculptures can be
seen, although the 17 of heads, faces, body parts and figures, is a product of
direct studio practice. It is thus different in approach from the other
important mid-17th century Netherlandish drawing book, mentioned above, Van ’t
Light der Teken en Schilder konst (‘About the Light of the Art of Drawing and
Painting’; 1643), by De Passe the Younger. De Passe primarily focuses on the
structure, proportion and anatomy of the human body;19 examples of models and
ways to learn to draw them are of secondary importance. Bloemaert’s Tekenboek
is actually closer in character in its approach and images to the two volumes
of etchings produced by Fialetti, which were probably known to the Bloemaerts
in one of the Dutch editions.20 The Bloemaerts’ publication might well be
described as the Northern counterpart to Fialetti’s books.21 And as in those
the emphasis in the Tekenboek is on providing many practical examples of heads,
faces and limbs to draw. Like Fialetti’s works it may be regarded as a portable
instruction manual for drawing. Bloemaert’s Tekenboek was exceptionally popular
from the time of its publication around 1650 to the end of the 18th century.22
Many editions followed the first (very rare) editio princeps, which probably
contained 100 plates arranged in five parts.23 After his father’s death in
1651, Frederick must have published one or more sub-editions with 120 plates in
six parts and around 1685 Nicolaes II Visscher (1649–1702) another with 160
plates. Several decades later, in 1723, an edition by Louis Renard (dates
unknown) appeared (of which only one copy is known), with 166 plates in eight
parts arranged by Bernard Picart (1673–1733).24 The same arrangement was
retained in the best-known edition of Bloemaert’s work, published by Reinier
and Josua Ottens, the magnificent 1740 volume displayed here. At that time the
title was changed to Oorspronkelyk en vermaard konstryk tekenboek van Abraham
Bloemaert (‘Original and famous artful drawing book of Abraham Bloemaert’).
Bloemaert’s popula- rity was certainly not restricted to the Dutch Republic:
artists such as François Boucher (1703–70) and Balthasar Denner (1685–1749)
also took the Utrecht master as a model for their own work.Teekenschool/die op
dien tijt van de voornaamste meesters wiert gehouden heb gedaan’. Schatborn
suggests that this drawing school might have been in France where Van de Passe
spent a long period, 1617–30 (see Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, 21).
Veldman emphasises that De Passe’s book is a tribute to the city of Utrecht, thanking
the city for spiritual nourishment including the Utrecht Drawing School
(Veldman 2001, 337–38). Suggestion by Bok in Roethlisberger and Bok 1993, 1, 571.
Roethlisberger and Bok 1993, 1, 645–51. Such a group of drawings (mixed with
prints) occurs for example in the estate of the painter Gaspar Netscher
(1639–84): ‘In the brown portfolio [ ] are 327 both prints and drawings [ ]
serving for disciples to copy’; see Amsterdam and Washington D. C. 1981–82, 17;
Plomp 2001, 37. For artists’ practical education in the Netherlands and Italy
in the 16th and 17th centuries see Bleeke-Byrne 1984, 28–39. Bloemaert’s
Tekenboek was published with the Latin title: Artis Apellae, liber hic,
studiosa juventus, / Aptata ingenio fert rudimenta tuo ... (This book, studious
youths, brings to your minds the appropriate rudiments of the art of Apelles
...); see Bolten 1985, 51; Roethlisberger and Bok 1993, 1, 395 [translation]).
It is possible that Abraham Bloemaert conceived the idea of producing such a
Tekenboek much earlier in his career: the Giroux album, containing many figure
studies, may well constitute Bloemaert’s initial selection for such a didactic
project; see Bolten 1993, 9, note 6; Bolten 2007, 1, 350–61. For the
publication in instalments see: Bolten 2007, 1, 362. Bolten 1985, 66; Bolten
2007, 1, 362–97, 1150–1311. For doubts regarding Bloemaert’s authorship of the
drawings in Cambridge see Bolten 1985, 48 (‘A. or F. Bloemaert’);
Roethlisberger 1992, 30, note 41; Roethlisberger and Bok 1993, 1, 391; Bolten
1993, 6–8. Bolten 2007, 1, 363, no. 1150, 2, 1150. The scene was engraved, then
supplemented with a chiaroscuro woodcut with two-tone blocks (brown and sepia).
This technique and the dimen- sions (303 × 222 mm [image]) are the same in the
editio princeps from c. 1650 and the 1740 edition displayed here (see
Roethlisberger and Bok 1993, 1, 395). See Aymonino’s essay in the present
volume, 15–77. According to Roethlisberger and Bok (1993, 1, 395), there is
little or no discernible influence of ancient sculpture in his own work. The
engraving, A Draughtsman Sitting at a Table, Drawing after Plaster Casts (fig.
3), does not appear in the editio princeps from circa 1650, but does feature in
the 1685 edition and later ones (Bolten 2007, 1, 392, under no. 1290). The
original drawing for this engraving is also in the Fitzwilliam Museum,
Cambridge: Bolten 2007, 1, 392, no. 1290, 2, 1290. For Feddes, see Bolten 1985,
18, repr.; Roethlisberger and Bok 1993, 1, 395. For De Passe’s Tekenboek see:
Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, 15–17, 21, repr. For Dutch editions of
Fialetti and for Dutch publications based or partially reprinting Fialetti see
Bolten. According to Strauss (1973, 348) Bloemaert’s title page was ‘patterned
partly on the frontispiece of Odoardo Fialetti’s Vero modo et ordine per
dessignar Tutte le parti et membra del corpo humano, Venice (Sadeler), 1608’.
See also Lehmann-Haupt 1977, 157. For Bloemaert’s fortuna critica see:
Roethlisberger and Bok 1993, 1, 47–50. Regarding the Tekenboek Roethlisberger
surmises that the 1740 edition was intended for print and book collectors,
rather than artists: ibid., 1, 394. For the various reprints of Bloemaert’s
Tekenboek cited in this paragraph see Bolten 2007, 1, 362. There were also
various editions of sets of prints copied after Frederick’s engravings
[consequently printed in reverse] during the second half of the 17th century
and in the 18th century (see ibid., 362, note 22). The only known copy of the
1723 edition is in the Centraal Museum in Utrecht (see Bolten 2007, 1, 362).
Slatkin, 1976; Gerson 1983, 109–10 (Boucher and Fragonard), 189
(Piazzetta). 1 2 3 4 5 mp For Bloemaert’s life on which this biographical
account is based, see Roethlisberger and Bok, 1993, 1, 551–87; Bolten 2007, 1, 3–5.
For ‘new’ Bloemaert paintings, see Roethlisberger, 2014, 79–92. Van Mander
1994–99, 1, 448–49 (fol. 297v). Roethlisberger and Bok 1993, 1, 570. Ibid., 1, 571.
Verbeek and Veldman 1974, 146, no. 191; De Passe 1643–44, unpaginated
introduction, Aen de Teekunst-lievende en-gunstige lezers, to the first part,
met de zoon van Paulus Moreelse en anderen) in een vermaarde 12. Michael
Sweerts (Brussels 1618–1664 Goa, India) A Painter’s Studio c. 1648–50 Oil on
canvas, 71 × 74 cm provenance: Private collection, Moscow; acquired by Dr
Abraham Bredius (1855–1946); purchased by the Rijksmuseum in 1901 for f. 400.
selected literature: Martin 1905, 127, 131, pl. II [a]; Martin 1907, 139, 149,
no. 10; Horster 1974, 145, 147, 2; Van Thiel 1976, 532, A 1957, repr.; Döring
1994, 55–58, 2, 60–62; Kultzen 1996, 88–89, no. 6, repr., with previous
bibliography. exhibitions: Milan 1951, no. 166, pl. 117; London 1955, 90–92,
no. 77 (D. Sutton), not repr.; Rome 1958–59, 32–34, no. 4 (R. Kultzen);
Rotterdam 1958, 36–37, no. 4; Toyko 1968–69, no. 63; Cologne and Utrecht
1991–92, 270–72, no. 33.1 (R. Kultzen); Hannover 1999, 18–20, 9; Amsterdam, San
Francisco and elsewhere 2002, 97–99, no. VII (G. Jansen); Antwerp 2004–07 (no
catalogue); Brussels 2007–08 (no catalogue); Doha 2011 (no catalogue).
Amsterdam, Rijksmuseum, SK-A-1957 We have entered the shadowy inner sanctum of
a painter’s studio in mid-17th-century Rome. A young draughtsman perched on a
wooden stool to the left studies a life-size model of a flayed nude écorché,
assuming a balletic pose at centre right. Behind it, another boy draughtsman,
younger still, sketches a classical female bust resting on a table, which is
shared on the right by the studio assistant who grinds red-hued pigments.
Working at an easel in the left back- ground is a painter, perhaps the master
of the studio, capturing the likeness of a male nude posed in the corner.
Partly obscured in the shadows on the far left are two gentle- men visitors in
Dutch dress. One glances in our direction while the other gestures to our
right, perhaps towards the painter or the écorché. The main attraction,
however, is the abundant array of plaster casts, mostly antique, piled up in
the foreground – heads, torsos, limbs and a relief – all bathed in warm, golden
light. Though widely admired in his lifetime, Sweerts remains a somewhat
enigmatic figure about whom relatively little is known.1 He was born in
Brussels in 1618, but is first docu- mented from 1646 to 1651 as residing on
the Via Margutta in the parish of S. Maria del Popolo in Rome, an area favoured
by Dutch and Flemish expatriates.2 Already twenty-eight when he arrived in the
city, he would have had at least some artistic training before then, probably
in the North, though his early teachers have not been identified. Neither
signed nor dated, this canvas was probably executed by Sweerts c. 1648–50 in
Rome, where he remained until 1652 or later.3 In travelling south, Sweerts was
following a long-standing educational tradition, one succinctly articulated by
Dutch painter and art theorist Karel van Mander (1548–1606) who stated: ‘Rome
is the city where before all other places the Painter’s journey is apt to lead
him, since it is the capital of Pictura’s Schools’.4 It is evident from the
Painter’s Studio and other depictions of the same or similar theme of the
artist at work, a subject that clearly fascinated him, that Sweerts was well
aware of artistic theory of the day, particularly the importance placed on
learning through drawing.5 Karel van Mander recom- mends beginning artists to
‘seek a good master’, one who has decent works of art in his workshop, that is,
an ample supply of study materials such as books, prints, drawings and plaster
casts. The pupil must learn to draw ‘first with charcoal, then with the chalk or
pen’.6 After making copies of prints and drawings by various masters, the
student should progress to plaster casts, an important step. On equal footing
with the copying of casts was the study of anatomy. However, given the
difficulty of procuring corpses, artists at this time copied anatomical figures
in plaster or ‘flayed plaster casts’.7 This was followed by study of the living
figure before the student finally proceeded to painting. Written at the
beginning of the 17th century, Van Mander’s book thus made available for
Northern artists those principles of artistic education, the ‘alphabet of
drawing’ that had been codified in Italy during the 15th and 16th centuries.8
By clearly setting out the stages of study established by Van Mander and
others, first drawing from casts and anatomical figures in plaster, then the
live model, Sweerts’ composition is a visual lesson in the main principles of
studio practice required to become a successful painter.9 The goal is
manifested in Sweerts’ completed Wrestling Match canvas of c. 1648–50 displayed
on the wall in the back- ground, which features figures based on classical
models.10 His didactic intent to illustrate the step-by-step approach to
learning recalls Odoardo Fialetti’s Artist’s Studio, c. 1608, from Il vero
modo, the instructional manual on drawing published in Venice about forty years
earlier (cat.), no doubt known to Sweerts through one of the Dutch publica-
tions that reproduced plates from it.11 Plaster casts and models were in
constant use in Northern workshops from the late 16th century onwards.12 Though
he never travelled to Italy, Van Mander’s friend, Cornelis Cornelisz. van
Haarlem (1562–1638), had a collec- tion of ninety-nine casts after antique and
anatomical 134 135 models.13 Van Mander praised his colleague (with whom
he started, along with Hendrick Goltzius, an informal academy in Haarlem in
1583) for selecting for his work ‘from the best and most beautiful living and
breathing antique sculptures’.1 4 Sumptuously displayed in a large pile in the
foreground, a veritable feast for the eyes, casts play a starring role in
Sweerts’ painting (detail, fig.). While light enters both from the window and
the open door, which reveals an urban view, that light that illuminates the
sculptures so brilliantly and mysteriously emanates from an unseen source, over
the viewer’s shoulder. The casts are presented with clarity and in sharp focus,
in marked contrast to the more generalised treatment of most of the other
elements in the composi- tion.15 While the human expressions seem almost blank,
those of the casts are animated and alive: the comment often made about
Sweerts, that ‘his people often look like sculptures and his plaster casts seem
almost human’, rings very true here.16 Several sources for the antique casts
can be identified, beginning with the head of a woman on the table, the subject
of study for the young boy sketching in the middle distance. As noted
previously,17 she is a much reduced copy of the colossal so-called Juno
Ludovisi (considered now to be a portrait of Antonia Augusta, daughter of
Octavia Minor and Mark Antony), which, from 1622, was in the Ludovisi
collection in Rome and is now in the Palazzo Altemps in Rome.18 The most
prominent among the jumble of casts in the foreground on the right is the head
of a woman, usually identified as Niobe from the famous group in the Uffizi
(fig. 2, see also 30, 34), but equally, the head could be that of one of her
daughters from the same group.19 They were discovered together with the
Wrestlers (p. 30, 33) on a vineyard outside Rome.20 Immediately to the left of
the Niobe, is a cast of a limbless Apollo based on a model by François
Duquesnoy (1597–1643).21 The head of an old woman in profile at the back of the
pile to the left is inspired by the Roman copy of a Hellenistic original
donated in 1566 by Pius V to the Con-servatori Palace and today in the
Capitoline Museum (fig. 3).22 She contrasts with the youthful beauty to her
right, the head of the celebrated Venus de’ Medici (Florence, Uffizi, see 42, 56).
Behind the old woman is a head of the Laocoön, ‘bronzed’ in effect, while the
rest of his body, seen from behind, rests on the top of the pile of casts (p.
26, 19).23 The relief propped up against the table at the back is a cast of a
Roman terracotta plaque, Winter and Hercules, from the Campana collection and
acquired by the Louvre in 1861 2. Niobe, from the Niobe Group, possibly a Roman
copy of a Greek original of the 4th century bc, marble, 228 cm (h), Uizi,
Florence, inv. 294 3. Statue of an Old Woman, Roman copy of a Hellenistic
original, marble, 145 cm (h), Capitoline Museums, Rome, inv. Scu 640
1. Michael Sweerts, A Painter’s
Studio (detail) 136 (fig. 4).24 It was admired by artists like Giovanni da
Udine (1487–1564) in the 16th century when it was recorded in the collection of
Gabriele de’ Rossi (1517),25 and into the 17th by others such as Pietro da
Cortona (1596–1669) and Pietro Testa (1612–50), whose copies after it are
preserved respec- tively in the Uffizi, Florence, and in the Royal Collection
at Windsor Castle.26 That this collection of casts was an important part of
Sweerts’ working practice is suggested by their regular appearance in other
compositions. Some familiar faces – the head of the old woman, the Juno
Ludovisi, the Niobe and others – return in Sweerts’ later Artist’s Studio,
signed and dated 1652, in the Detroit Institute of Arts (fig. 5). They are seen
among examples, including a cupid and torso by François Duquesnoy; this is
being scrutinised by an elegant young man, probably in Rome on the Grand Tour,
while the painter appears to be explaining how Duquesnoy’s 4. Winter and
Hercules, Roman, 1st century ad, terracotta, 60 × 52 cm, Louvre, Paris, inv. Cp
4169 figures once formed part of a group.27 Closer to the present composition
in conception, is the Artist’s Studio with a Woman Sewing in the Collection Rau
Foundation UNICEF, Cologne (fig. 6).28 Though almost certainly a workshop
picture, it evidently documents Sweerts’ original design and intention. There
is a similar haphazard arrangement of casts, with many of the same specimens
reappearing, including the bronzed head of Laocoön and his torso, placed beside
modern works, including the copy after a marble relief of François Duquesnoy,
Children Playing with a Goat.29 Many other celebrated compositions by Sweerts
feature antique casts (see 40, 52). It is not known why he chose to display
them with such prominence and so frequently, but he may well have been catering
to a new class of patron, the Dutch Grand Tourist.30 Among Sweerts’ most
important benefactors in Rome in the 1640s were Dutch tourists, especially
merchants.31 Thus three of five brothers from the Deutz textile merchant family
were in Italy between 1646 and 1650, and that is when they probably acquired
the many paintings by Sweerts listed in their inventories, including an
Artist’s Studio owned by Joseph Deutz.32 Significantly, the documents also
suggest that Sweerts acted as the Deutz’s agent for purchasing antique
sculpture as well as modern pictures, as so many other painters were to do in
the next century.33 Another important patron in Rome, Prince Camillo Pamphilj,
the nephew of Pope Innocent X (r. 1644–55), may have involved Sweerts in
teaching. He painted a range of works for the Prince, who, interestingly,
possessed a version in porphyry of the ever-present Head of the Old Woman; he
137 also owned the Duquesnoy relief that occurs in Sweerts’
Artist’s Studio now in Cologne (fig. 6).34 An intriguing pay- ment recorded in
the Pamphilj account book to Sweerts on 21 March of 1652 for ‘various amounts
of oil used since 17th February in His Excellency’s academy’, suggests Sweerts’
direct involvement with an academy in Rome.35 By the summer of 1655, Sweerts
had returned to Brussels where he founded ‘an academy of life drawing’,
primarily to educate tapestry and carpet designers.36 Something of its original
appearance might be gleaned from Sweerts’ Drawing School in the Frans Hals
Museum in Haarlem (c. 1655–60), where students of various ages draw from a live
male nude.37 In this painting, conspicuously absent are plaster casts; the
animation is now provided by the more than twenty young students assuming
various attitudes, some concentrating on the task at hand, others less focused.
However, there was probably another version by Sweerts of this painting, now
known only in a copy, where the live nude has been substi- tuted by a cast of a
classical female sculpture.38 Evidently plaster models were never far from his
mind. aa et avl 1 For his life and work, see Kultzen 1996 and Amsterdam, San
Francisco and elsewhere 2002, with previous literature. 2 Sutton 2002, 12;
Bikker 2002, 25–26. 3 Sutton 2002, 21. 4 In his ‘Foundation of the Painter’s
Art’ (Grondt der Schilder-Const), published together with his ‘Lives’ and his
two other theoretical treatises in the Schilder-Boeck (1604). See Van Mander
1604, fol. 6v, chap. 1, no. 66; Van Mander 1973, 1, 92–93, chap. 1, no. 66;
Stechow 1966, 57–58. Van Mander further noted, ‘From Rome bring home skill in
drawing, the ability to paint from Venice, which I had to bypass for the lack
of time.’: Stechow 1966, 58; Sutton Sutton 2002, 11, 17. In the preface to his
book on painters: Van Mander 1604, fol. 9r, chap. 2, no. 9; Van Mander 1973, 102–03,
chap. 2, no. 9; Martin 1905, 126. Martin 1905, 127. See Aymonino’s essay in
this catalogue, 33–34. Martin 1905, 127. Staatliche Kunsthalle Karlsruhe;
Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, 94–96, no. VI (G. Jansen). For
example, Johannes Gellee’s Tyrocinia artis pictoriae caelatoriae published in
Amsterdam in 1639 where copied versions of the Artist’s Studio and other
etchings appear: see Bolten 1985, 132–39 and for other publications based or
reprinting parts of Fialetti’s treatise see Bolten. For the use of plaster
casts in 17th- and 18th-century artists’ studios in Antwerp and Brussels, see
Lock 2010. Rembrandt’s bankruptcy inventory of 1656 lists numerous plaster
casts, from life as well as from the Antique, which were doubtless an essential
part of his workshop practice (Strauss and Van der Meulen 1979, 349–88;
Gyllenhaal 2008). See also cat. 23, note 18. Van Thiel 1965, 123, 128; Van
Thiel 1999, 84, and Appendix II, 254–55, 257, 270–71, 273; Sutton 2002, 18. Van
Mander 1604, fol. 292v; Van Mander 1973, 428–29. Sutton 2002, 18. This also may
be due, in part, to the compromised condition of the canvas. Sutton 2002, 20.
Martin 1905, 127; Horster 1974, 145. Haskell and Penny 1981, 100; Palma and de
Lachenal 1983, 133–37, no. 58 (de Lachenal). Horster 1974, 145; Döring 1994, 60;
Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, 97. For the group, see Haskell and
Penny 1981, 274–79, no. 66, figs 143–47, and for the daughter that it resembles
the most, 145; Cecchi and Gasparri 2009, 318–19, no. 596.1. Haskell and Penny
1981, 274; Cecchi and Gasparri 2009, 62–63, no. 50. Noted by Döring 1994, 60–61.
For the Duquesnoy sculpture, see Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, 122,
no. XV-2. On Duquesnoy’s fame as a ‘classical’ sculptor during the 17th century
and later see Boudon-Mauchel 2005, 175–210. As first observed by Döring 1994, 62.
For the statue see Stuart Jones 1912, 288–89, no. 22. Döring 1994, 63. The
subject was noted by Denys Sutton (London 1955, 91) and Marita 138 139 5,
Michael Sweerts, An Artist’s Studio, 1652, oil on canvas, 73.5 × 58.8 cm, The
Detroit Institute of Arts, inv. 30.297 6, After Michael Sweerts, Artist’s
Studio with a Woman Sewing, c. 1650, oil on canvas, 82.5 × 106.7 cm, Collection
RAU-Fondation UNICEF, Cologne, inv. GR 1.874 25 26 27 28 29 Horster (1974, 145)
who both identified the motif from a sketchbook by Francisco de Hollanda.
Sutton and Guido Jansen (Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, 97)
believed the plaster relief to combine scenes from two separate ones: the
Winter and Hercules and the Cretan Bull. However, as Eloisa Dodero has noted
(personal communication), it is based on the single terracotta relief in the
Louvre, see Christian 2002, 181–84 no. II.15, 25; De Romanis 2007, 235–238, 1.
For the acquisition by the Louvre, see Sarti 2001, 121. Dacos 1986, 222;
Christian 2002, 181–86. For the Cortona drawing: Briganti 1982, 286.27; for the
Testa sheet at Windsor: Christian 2002, 181–82, 26. See Amsterdam, San
Francisco and elsewhere 2002, 120–23, no. XV, where the painting is discussed
at length. Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, 110, xii–i (as by or
after Sweerts). Many copies are known suggesting it was a much-admired
composition. Bikker Sutton 2002, 15–16; Bikker 2002, 27–28. Described in
documents in general terms as ‘Ein Schildersacademetje’, it is not known which
of the surviving studio pictures it was. According to the collections database,
Detroit Institute of Arts website, it was theirs (fig. 5). Bikker 2002, 27–28.
Ibid., 28–31, figs 25, 27. Ibid., 29. This was probably a private academy and
not the Accademia di San Luca, of which Sweerts was possibly a member. He was
responsible for collecting membership dues from his compatriots: see Bikker
2002, 25–26. Lock 2010, 251; Bikker 2002, 31. Amsterdam, San Francisco and
elsewhere 2002, 133–35, no. xix (G. Jansen). Present whereabouts unknown; see
Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, 133, xix–i. 13. Jan de
Bisschop (Amsterdam 1628–1671 The Hague) Two Artists Drawing an Antique Bust
(recto); A Reclining Man seen from Behind (verso) c. 1660s Pen and brown ink,
brushed with brown wash, 91 × 135 mm Inscribed recto l.r. in pencil: J.
Bisschop. watermark: part of the crowned coat of arms of Amsterdam.1
provenance: Private collection, Germany; Sotheby’s, London, 13 April 1992, lot
260, from whom acquired. literature: London 1992 (unpaginated), repr.; Broos
and Schapelhouman 1993, 51, under no. 34, b. exhibitions: Not previously
exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 1992-012 Born in
Amsterdam in 1628, Jan de Bisschop was among a group of talented amateur
artists, including his immediate contemporaries and friends Constantijn Huygens
the Younger (1628–1697) and Jacob van der Ulft (1627–1689) who all worked in
Netherlands around the mid-17th century.2 De Bisschop was classically educated
and trained as a lawyer; he became an advocate at the judicial court of The
Hague. But he also distinguished himself as a writer, theoretician, literary
scholar, and as a connoisseur of the Antique. And although without formal artistic
training, he was an accomplished draughtsman and etcher who, through his
publications reproducing ancient sculpture and Old Master drawings,
disseminated in the Netherlands an anti- quarian culture and an aesthetic based
on the works of classical antiquity. He also helped introduce the practice of
drawing after both antique sculpture and live models in the Hague.3 His large
corpus of drawings, numbering in the upper hundreds, consists of sun-infused,
Italianate land- scapes, lively figure and genre studies, portraits, and many
copies after antique sculpture and paintings by Old Masters, 1. Bust of the
so-called Lysimachus, Roman copy of the Augustan period from a Greek original
of the 2nd c. bc, marble, 49 cm (h), Museo Archeologico Nazionale di Napoli,
inv. 6141 usually executed in pen and brush and wash with a distinc- tive warm,
golden-brown ink, referred to from the late 17th century as bisschops-inkt
(Bisschop’s ink).4 As in the examples illustrated here, he often effectively
combined dense washes with reserves of untouched paper to create a
light-drenched, fresh out-of-doors effect. In this lively and rapid sketch,
probably made on the spot, two seated draughtsmen, seen from the back, draw
after an antique bust of a man. On the reverse one of them is sketched again,
casually reclining. The object of their gaze is a bust nowadays identified as
of Lysimachus, the Greek successor to Alexander the Great, who from c. 306 to
281 bc reigned as King of Thrace, Asia Minor and Macedonia.5 Discovered c.
1576, it was acquired by Cardinal Odoardo Farnese from the Giorgio Cesarini
collection, and is preserved today in the Museo Archeologico Nazionale di
Napoli (fig. 1). Doubt- less known to de Bisschop through one of the plaster
casts which circulated in Northern Europe at the time, the bust was in the 17th
century thought to represent a philosopher; from the 18th century he was
identified more specifically – but wrongly – as the Athenian legislator, Solon.
It was copied profusely from the 17th century onwards, and was included, for
example, in a portrait painted by Isaac Fuller (1606–72) in c. 1670 (Yale
Center for British Art, New Haven) of the architect and sculptor, Edward Pierce
(c. 1635–95), who rests one hand on the bust while gesturing to it with the
other.6 Admiration for the sculpture continued in the 18th century, in France,
where a red chalk copy of it was made by the sculptor, Edmé Bouchardon
(1698–1762) or a member of his circle,7 and particularly in England, where,
catering to a n emerging neo-classical aesthetic, a blemish-free replica of the
Lysimachus was carved in 1758 by Wilton; this was acquired by Rockingham, for
his VILLA at Wentworth and is now in the The J. Paul Getty Museum, Los
Angeles.8 Another copy of the bust, made by the sculptor and restorer of
ancient statues, Bartolomeo Cavaceppi (see cat.), was mentioned in a
letter from the dealer and agent, Thomas Jenkins, to his client, Charles
Townley, as a possible acquisition. His scheme involved fusing Cavaceppi’s bust
with the body of a statue of Achilles; mercifully, this was abandoned when the
original head of Achilles was recovered.9 Its diminutive size and spontaneous
style of execution would suggest the present sheet came from a sketchbook,
probably one like that held by the artist on the right. The draughtsmen have
not been securely identified but they are no doubt to be found among de
Bisschop’s friends and associ- ates; one may be Huygens the Younger, with whom
he made sketching excursions in and around The Hague and Leiden. In fact, drawings
by de Bisschop are often mistaken for works by Huygens, to whom this sheet was
previously assigned.10 A treatment of a similar theme, of two draughtsmen from
the front seated in a landscape but without an antique model to study, is found
in de Bisschop’s drawing in the Amsterdam Museum (fig. 2).11 Executed with the
same loose pen work and spontaneous handling of the brush, characteristic of de
Bisschop after 1660, it shows one artist on the left gazing downwards to – or
reading from – a loose sheet held in both hands, while the other appears to be
sketching in a small book. A third rendering of two artists sketching out of
doors, one, with hat removed, holding a drawing board, is among the sheets by
Huygens the Younger in the Municipal Archives of The Hague (fig. 3).12 As with
the present study, the figures are seen from behind in a sunlit setting but on
a bench, near the entrance to the country house, Zorgvliet, near The Hague, and
the subject of their attention is out of view. De Bisschop’s drawings were admired
by collectors and connoisseurs from John Barnard (1709–84) to Horace Walpole
(1717–97), but his main contribution to scholarship was the publication of two
influential books. The first was the Signorum veterum icones issued in two
volumes in 1668–69; 2. Jan de Bisschop, Two Draughtsmen Seated Outdoors, pen
and brown ink with the brush and brown wash, grey ink, 97 × 149 mm, Amsterdam
Museum, inv. nr. A 18179 142 4. Jan de Bisschop, Allegory of Sculpture, title
page to the Signorum veterum icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, etching, 245
× 114 mm, Warburg Institute Library, London also consulted prints by François
Perrier (1590–1650), who had published a selection of antique statuary in Paris
and Rome in 1638 (Segmenta nobilium signorum et statuarum . . .).18 An album of
140 drawings by de Bisschop suggests that he intended to publish a third volume
of Icones on antique Roman reliefs, based largely on another publication by
Perrier of 1645 (Icones et segmenta . . .).19 However, de Bisschop’s death from
tuberculosis at forty-three meant that the third volume was never realised. In
addition to his writings on art, de Bisschop contrib- uted in other ways to
furthering artistic education in the Netherlands. He participated in local
confraternities of artists and co-founded a private drawing academy with his
friends, including Huygens the Younger; they met several times a week in the
evenings, often drawing after a live model.20 In 1682, eleven years after de
Bisschop’s death, the first drawing academy in the Northern Netherlands –
includ- ing in its curriculum the study of plaster casts after the Antique –
was established in The Hague.21 De Bisschop’s influence may have extended
further, perhaps as a direct consequence of the Icones. Of significance is a letter
dated 1688 from the artist Romeyn de Hooghe (1645–1708) to the burgermasters of
Haarlem, asking their assistance in setting up an academy for students to study
‘the best ancient statues, such as Venus, Apollo, Laocoön, in order to
familiarise themselves with the idea of classical beauty’.22 Although that
request was turned down, a Haarlem Drawing Academy was founded in 1772 and
although it was closed in 1795, in the following year, the Haarlem Drawing
College was established, with the study of the Antique remaining a vital part
of the curriculum (see cat. 31).23 3. Constantijn Huygens, the Younger, Two
Draughtsmen near Zorgvliet, detail, pen and brown ink and wash with the
brush over traces of graphite, 243 × 373 mm, Municipal Archives of The Hague,
Gr. A 110 the first volume was dedicated to his friend, Huygens the Younger and
the second, to Johannes Wtenbogaard, the Receiver-General of Holland and a
neighbour of his parents. In 1671, de Bisschop published the Paradigmata
graphices variorum artificum, which he dedicated to the collector Jan Six; this
comprised forty-seven etchings based on Italian Old Master drawings and ten
antique busts.13 The two volumes of the Icones were republished together with
the Paradigmata, in later editions.14 Of particular relevance to us is de
Bisschop’s Icones, featuring one-hundred etched plates after antique sculpture.
Its purpose was didactic: to provide a compilation of the best-known works and
to establish norms of classical beauty for artists, amateurs and collectors. In
de Bisschop’s words, they were ‘sculptures and reliefs of the greatest
perfection in art and the best sources for students’.15 The book proved to be
an enormously useful resource especially as it featured, in some cases, the
same sculpture seen from different angles; in essence, in the round. For
instance, de Bisschop’s presented five views of the celebrated Wrestlers
sculpture in the Uffizi (see 30, 33, and cats 16 and 27), two of which are
shown here (figs 5–6).16 In the Icones, the unusual left profile view of the
Farnese Hercules, in reverse was probably known to Jan Claudius de Cock and
Wallerant Vaillant, who reproduced it from the same viewpoint (see cat. 14, 4).
In fact, Cock took inspiration from several of the Icones plates for his
Allegory of the Arts series (cat. 14). As de Bisschop probably never travelled
to Italy, many of his prints relied on antique sculptures in Dutch collections,
or on casts, and especially on drawings by artists who had travelled south to
visit collections in Florence and Rome, such as Willelm Doudijns (1630–97),
Pieter Donker (1635– 68), Adriaen Backer (1635/35–84) and others.17 De Bisschop
avl 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 See Churchill
1967, pl. 8, no. 9, date: 1665 or pl. 9, no. 11, date: 1670. For this life and
work, see Van Gelder 1972. Van Gelder 1972, 27. Goeree 1697, 91. Gasparri
2009–10, 2, 55–57, no. 32 (F. Coraggio), and 188–89, pl. XXXII, figs 1–4.
Charlton-Jones 1991, 100–01, pl. 89. The subject of the Louvre drawing
(Guiffrey and Marcel 1907–75, 1, no. 1353) was identified by Rausa 2007a, 172,
no. 165.1. Fusco 1997, 56. Coltman 2009, 87. Sold as Huygens at Sotheby’s,
London, 13 April 1992, lot 260. Broos and Schapelhouman 1993, 51, no. 34 (B.
Broos). Amsterdam 1992, 37, no. 22 (R. E. Jellema and M. Plomp). Van Gelder
1972, 1–2. Both books are published in their entirety with commentary by Van
Gelder and Jost 1985, 2 vols. See also Bolten 1985, 257–58 and Plomp 2010, 39–47.
Bolten 1985, 71. Van Gelder 1972, 19. Van Gelder and Jost 1985, 1, 106–08, nos
18–22, 2, pls 18–22. Further plates are after other artists as well as drawings
by Jacob de Gheyn III (1596–1641), who is not known to have travelled to Italy
but visited collections in England (Van Gelder and Jost 1985, 1, 15–16, 155).
Van Gelder 1972, 19–20. The album of classical statues, reliefs, Roman
architecture and contempo- rary Dutch figures and scenes is at the Victoria and
Albert Museum, London, inv. D.1212:1 to 141-1989. On it see Van Gelder 1972, 8–9
and especially Turner and White 2014, 1, 25–67, no. 23. Van Gelder 1972, 11.
Van Gelder 1972, 27. Van der Willigen 1866, 137; Washington D.C. 1977, under
no. 69 (F. W. Robinson). Haarlem 1990, 16–17, 34–38. 5. Jan de Bisschop, The
Wrestlers, from the Signorum veterum icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, pl.
18, etching, 164 × 215 mm, Warburg Institute Library, London 6. Jan de
Bisschop, The Wrestlers, from the Signorum veterum icones, part 1, Amsterdam
(?), 1668, pl. 21, etching, 199 × 133 mm, Warburg Institute Library,
London 143 14. Attributed to Jan Claudius de Cock (Brussels
1667–1735 Antwerp) An Allegory of Painting c. 1706 Etching, 141 × 100 mm
watermark: possibly part of a coat of arms. provenance: Bassenge, Berlin, 6
December 2001, lot 5452 (as Anonymous, Southern German, c. 1700), from whom
acquired. literature:None. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin
Bellinger collection, inv. no. 2001-037 In the corner of a painter’s
workshop, students draw after plaster casts, selected according to their age and
level of study. The youngest, wearing a Roman-style toga and stand- ing at a
pedestal, which supports his open sketchbook, records the likeness of the head
of a boy similar to him in age. He may be copying the bust itself, or more
likely, the drawing after the bust, propped up next to it. At the left, another
pupil, a pre-teen representing a higher level of study, thoughtfully examines a
reduced model, in reverse, of a rather unfit Farnese Hercules (see 30, 32 and
cats 7, 16, 21) elevated on a plinth, and shown in a similar pose as
illustrated by Jan de Bisschop’s Icones (fig. 1). The student and 1. Jan de
Bisschop, The Farnese Harcules, from the Signorum veterum icones, part 1,
Amsterdam (?), 1668, pl. 8, etch- ing, 221 × 105 mm, Warburg Institute Library,
London the statuette are so posed that they appear to exchange glances. In the
background, partially obscured by the sculp- ture’s base, is a third boy,
probably midway in age between the others, who bows his head in concentration.
Displayed on the shelf and walls above are workshop props – a globe, hourglass,
books, compass and additional fragments of plaster casts, included a female
torso and a male one which may be based on the Belvedere Torso (p. 26, 28).
Presiding over the scene is a voluptuously dressed female figure with an
elaborate hairstyle and bared breasts, who holds a palette with brushes in one
hand, and gestures to the statue of Hercules with the other. She is leaning on
a richly carved wooden table bearing bottles of spirit, compasses and completed
figural drawings. She is an Allegory of Painting, as described by Cesare Ripa
in his Iconologia, the widely consulted emblematic handbook first published in
1593 – and probably known to de Cock through the Dutch editions of 1698 or
1699: a beautiful woman with twisted, unruly hair, holding the tools of the
painter.1 She represents the goal; once pupils had completed their prescribed
course of study, mastering the succession of stages dictated by the established
norms of 16th-century studio practice – first, drawing the individual parts of
the body through drawings of others, prints, fragments and casts, and finally,
the entire figure, a statue or live model – only then, may they progress to
painting (see also cat. 10).2 The attainment of the goal is encapsulated in the
prominently displayed picture on the wall above Hercules, probably a Mars and
Venus. Though acquired as by an anonymous southern German artist, c. 1700, the
etching shares similarities with the work of the Flemish painter, sculptor,
etcher and writer, Jan Claudius de Cock.3 It is particularly close in style and
execution to his drawing of the Allegory of Sculpture drawing, signed and dated
1706 (Metropolitan Museum of Art, New York, 2), which is carried out with the
same meticulous handling and degree of finish.4 Direct references to antique
sculpture abound in the New York sheet with plaster casts freely modelled after
the Pan and Apollo from the Cesi collection (Museo Nazionale 144
145 2. Jan Claudius de Cock, Allegory of Sculpture, 1706, pen and brown
ink, 317 × 195 mm, The Metropolitan Museum of Art, New York, 2010.533 Romano,
Rome) at right and, at the left, the Wrestlers, acquired by the Medici in 1583
(Uffizi, Florence; see 30, 33).5 Antique-inspired motifs – busts, putti,
fragments and a strigilated krater – are also visible throughout. As with the
etching, there is a female personification – in this case, of sculpture – her
hand resting on one bust and pointing to a second with the other, just as
Painting does here in the etching. At her feet are the tools of her trade:
scalpels, mallet and a drill. Other drawings of similar subject matter, format
and date suggest de Cock planned a series on the Allegories of the Arts,
perhaps intending them to appear as etchings in a book. His drawing of a female
sculptor modelling a recumbent Venus (fig. 3), another Allegory of Sculpture,
is also signed, and dated (1706) and is numbered like the New York drawing.6
Further studies by de Cock no doubt relate to the same series.7 However, while
the drawings are roughly the same size, the present etching is considerably
smaller. The colossal Farnese Hercules became enormously popular immediately
after its discovery in the 16th century, and 146 3. Jan Claudius de Cock, An
Allegory of Sculpture, 1706, pen and brown ink, black chalk, 321 × 192 mm,
Christie’s, London, 19 April 1988, lot 140 numerous copies after it were
produced, often reduced to life-size or the scale seen here, to make it more
manageable and portable.8 A model strikingly similar to that in the etching
occurs in a mezzotint of a boy drawing in a studio, c. 1660–75, by the Dutch
painter and engraver, Wallerant Vaillant (1623–77), where it is perched on a
table at a nearly identical angle (fig. 4).9 Both prints suggest that by the
early 18th century, plaster models of the Hercules were commonplace in Flemish
and Netherlandish workshops.10 Several of the antiquities in both the etching,
here attrib- uted to de Cock, and his two related drawings discussed above,
argue knowledge of Bisschop’s Icones, by then the standard reference for
antique sculptures in the Netherlands (see cat. 13). For example, the rather
unusual left-profile view of the Farnese Hercules in the etching and the pose
of the Wrestlers in the New York drawing (fig. 2), both shown reversed in
respect to the antique originals, find their counterparts in the Icones (fig. 1
and cat. 13, 5).11 And the pensive Muse, possibly Clio, at the upper right of
the 4. Wallerant Vaillant, A Boy Drawing in a Studio, c. 1660–75, mezzotint,
324 × 300 mm, Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-1889-A-14489 second Allegory of
Sculpture drawing (fig. 3), is a literal quotation from a plate in the second
volume of Bisschop’s 12 Born in Brussels, de Cock was apprenticed in the
workshop of Peeter Verbrugghen the Elder (c. 1609–86) in Antwerp. After
Verbruggen’s death, he established himself in that city, although he later
moved to Breda, where King William III Stadholder of the Netherlands
commissioned him to work on sculpture for a courtyard in the town.14 However,
by 1697 or 1698, de Cock had returned to Antwerp and devoted himself more to
teaching, establishing a large workshop with many pupils, some learning
drawing, others, goldsmithing.15 In 1720, he wrote a didactic poetical treatise
for his students, Eenighe voornaemste en noodighe regels van de beeldhouwerije
om metter tijdt en goet meester te woorden (‘Some avl For Pittura from Ripa’s
first illustrated edition (1603), see Buscaroli 1992, 357 and in the Dutch
edition of 1698, reprinted in 1699, see Hoorn 1698, II, 515 [c]. Armenini 1587,
52–59 (book 1, chap. 7); Alberti 1604, 5 (quoting Federico Zuccaro); Roman
1984, 91. Nagler (1966, 3, no. 2100) and Wurzbach (1906–11, 1, 304–05) only
briefly mention his etchings and this subject does not occur. Acquired
Christie’s, London, 7 July 2010, lot 328. It is signed at lower left: ‘Joannes
Claud: de Cock invenit delineavit Anno= MDCCVI’ and numbered below, ‘4’. A
further inscription by the artist on the verso, “Sculptura Pace, et
Abondante=”/[. . .], may refer to another drawing in the series, perhaps an
Allegory of Peace and Abundance or a Concordia. Haskell and Penny 1981, 286–88,
no. 70; 337–39, no. 94. Christie’s, London, 19 April 1988, lot 140. According
to the catalogue, it is signed and dated, ‘Joan Claudius de Cock/invenit
delineavit/AoMDCCVI’ and numbered ‘3’ below. They include another signed
Allegory of Sculpture close to the New York drawing in composition, with
differences and executed in pencil, 326 × 194 mm (Christie’s, Amsterdam, 15
November 1993, lot 115) and a signed Allegory of Architecture, pen and
brown-grey ink and wash, 328 × 234 mm (Christie’s, Amsterdam, 21 November 1989,
lot 52). Haskell and Penny 1981, 232; Gasparri 2009–10, 3, 17–20, no. 1, repr.
on 207–13. Hollstein 1949–2001, 31, 119, no. 96. The 1635 studio inventory of
the painter, Hendrik van Balen (1575–1632) mentions a cast of the Hercules
among other antique works (Duverger 1984–2009, 4, 208). The torso of a draped
male statue on the shelf at upper right in the drawing probably derives from a
further etching by Bisschop, based on copies by Willelm Doudijns (1630–97),
reproducing a marble in the Pighini collection and now in the Vatican (Van
Gelder and Jost 1985, 1, 110–11, no. 26, 2, pl. 26; Helbig 1963–72, 1, 194, no.
250). Van Gelder and Jost 1985, 1, 184–85, no. 98, 2, pl. 98. In that drawing,
the male torso seen from the back on the shelf at right recalls de Bisschop’s
etching of the Belvedere Torso (Van Gelder and Jost 1985, 1, 108–10, no. 24, 2,
pl. 24). Van Gelder and Jost 1985, 1, 184–85; Haynes 1975, pl. 18. De Gheyn was
in London in the summer of 1618 and his drawing (untraced), was in the
collection of J. A. Wtenbogaert in Amsterdam (Van Gelder and Jost 1985, 1, 16,
155, 185). For his life and work, see C. Lawrence, “Cock, Jan Claudius de”.
Grove Art Online. Oxford Art Online, accessed December 10, 2014,
http://www.oxford- artonline.com/subscriber/article/grove/art/T018366. Pauwels
1977, 37. Published in Brussels by Mertens 1865; Lawrence 1986, 283. Mertens
1865; Lawrence 1986, 283. The original marble from the Earl of Arundel’s
collection, known to de Bisschop through a drawing after it by Jacques de Gheyn
III, is now in the Ashmolean Museum, Oxford.13 publication. chief and notable
rules from the sculptor in order to become a good master in due course’)
although it remained unpublished until the 19th century.16 It is entirely
possible that he intended the Allegory of Arts series to illustrate this
treatise, in which he expressed his great admiration for classical sculpture,
namely the Laocoön, the Medici Venus – and, most importantly – the Farnese
Hercules.17 147 15. Nicolas Dorigny (Paris 1658–1746 Paris),
after Carlo Maratti (Camerano 1625–1713 Rome) The Academy of Drawing c. 1702–03
Etching and engraving, 470 × 321 mm (plate); 503 × 331 mm (sheet) State I of II
(second state dated 1728 with the address of Jacob Frey). Inscribed on the
plate, l.l. on the ground: ‘TANTO CHE BASTI’, same inscription repeated l.r. on
the perspective drawing on the easel, and c.l. on the pedestal of the
anatomical model. Inscribed
u.c. above the statue of Apollo: ‘NON / MAI ABASTANZA’; u.r. above the Three
Graces: ‘SENZA DI NOI OGNI FATICA E VANA’. Inscribed l.c. with the title, ‘A
Giovani studiosi del Disegno’, followed by ten lines explaining the scene: ‘La
Scuola del Disegno, che s’espone delineata con le presenti Figure dal Sig.r
Cavalier Carlo Maratti, può molto contribuire al’disinganno di coloro che
credono di potere con la cognizione, e studio di molte Arti divenir perfet.ti
nell’Arte del dipingere senza procurare in primo luogo d’esser perfettissimi
nel Disegno, e senza il dono naturale, et un particolare istinto di saper con
grazia, e facilità animare, e disporre vagamente le parti di quell’Opera, che
prenderanno a delineare, e và figurando questo suo nobil pensiero con il mezzo
dell’azzioni, che qui si additano. Vedonsi alcuni studiosi delle mathematiche
in quella parte, che spetta alla Geometria, et Ottica, che conferiscono alla
Prospettiva: dall’altro lato, altri applicati all’osservazione d’un Corpo
anatomico, dà cui si apprende la giusta proporzione delle membra, e sito
de’muscoli, e nervi, che compongono una figura, dimostrato eruditame-te dà
Leonardo da Vinci espresso co- la propria effige, con il motto . Tanto che
basti . per dimostrare, che di tali professioni basta, che quello, che
attenderà al Disegno sia mediocrem.te erudito, per ridurre ad un’perfetto fine
qualunque Idea. Mà per coloro, che si esprimono attenti allo studio delle
statue antiche, non serve una leggiera applicazione alle mede, essendo lor
d’uopo di farvi sopra una lunga, et esatta riflessione, e studio per apprendere
le belle forme; e si pone l’esemplare delle statue antiche, come le più
perfette, nelle quali quei grandi Huomini espressero ì Corpi nel più perfetto grado,
che possano dalla natura istessa crearsi, e perciò vi si pone il motto . Non
mai abastanza . Tutto però riuscirebbe vano di conseguire senza l’assistenza
delle Grazie, che intende, come accennammo, per quel natural gusto di disporre,
et atteggiare con grazia, e delicatezza le positure, et ì movimenti delle
Figure, dalle quali poi risulta quella vaghezza, e leggiadria, che destano
meraviglia, e piacere in chiunque le mira, ponendosi queste a tal oggetto in
alto, e sù le nuvole per significare, che questo dono non viene che dal Cielo,
con il motto . Senza di noi ogni fatica e vana . Vivete felici.’1 Inscribed
l.l. margin: ‘Eques Carolus Maratti inven. et delin. Cum privil Summi Pont. et Regis Christ.mi’, and l.r.: ‘N. Dorigny
sculp.’. watermark: Possibly a four-legged animal inscribed in a double circle.
provenance: Possibly Hugh Howard (1675–1737); Charles Francis Arnold Howard,
5th Earl of Wicklow (1839–81), from whom acquired in 1874. literature: Le Blanc
1854–88, II, 140, no. 51; Mariette 1996–2003, 3, 511, no. 76, 189;
Kutschera-Woborsky 1919, 9–28, 5; Goldstein 1978, 1, 1; Rudolph 1978, Appendix,
203, n. 38; Philadelphia 1980–81, 114–16, no. 101 A (A. E. Golahny); Johns
1988, 17–21, 5; Goldstein 1989, p.156, 1; Winner 1992, 1; Jaffé 1994, 128,
under no. 251 646; Mertens 1994, 222–24, 94; Goldstein 1996, 47, 14; Rome
2000b, 2, 483–84, no. 2 (S. Rudolph); Pierguidi 2014. exhibitions: Not
previously exhibited. The British Museum, Department of Prints and Drawings,
London, 1874,0808.1713 This intriguing and complex image has a central
role in this catalogue, as it represents the most eloquent visual expres- sion
of the classicistic credo of the Roman Accademia di San Luca in the final
decades of the 17th century. More generally, it is a strong defence of the
Florentine and Roman academic traditions, with their stress on drawing, their
celebration of Raphael and, above all, on the study, copy and reverence of the
Antique. As we shall see, the original drawing from which the print is derived
was most likely conceived in 1681–82, at a time when the aesthetic belief
supported by the Accademia di San Luca was being challenged by other
pedagogical methods and criticised from other theoretical viepoints, hence its
programmatic nature and didactic aim. Carlo Maratti was the most authoritative
painter in Rome during the final decades of the 17th century and the beginning
of the 18th and the champion of classicism.2 As a boy of twelve he had entered
the large workshop of Andrea Sacchi (1599–1661), where he remained until the
master’s death in 1661. His training followed the usual curriculum of 148 Roman
studios, centred on drawing, and on the copy of the Antique, and of Renaissance
and early 17th-century masters.3 His lifelong friend, mentor and biographer,
the great art theorist and antiquarian, Giovanni Pietro Bellori (1613–96),
tells us that he concentrated especially on copying Raphael’s frescoes.4 He
pursued this commitment throughout his life, incorporating the essential
qualities of the great Renaissance champion of classicism into his own
painting, to the point that he became known as the Raphael of his time.5 In
1664 Maratti became ‘principe’, or president, of the Accademia di San Luca,
where, in the same year, Bellori’s discourse, the ‘Idea of the painter, the sculptor
and the archi- tect, selected from the beauties of Nature, superior to Nature’,
was publicly delivered (see Appendix, no. 11).6 Bellori’s theoretical
statement, then published as a prologue to his Vite in 1672, was to become
enormously influential in defin- ing and diffusing the central tenets of the
classical ideal, preparing the ground for the eventual affirmation of classi-
cism in the 18th century.7 Maratti remained an influential 149 figure
within the Accademia for almost fifty years – while Bellori held the position
of secretary several times – playing a vital role in reorganising its
curriculum according to a comprehensive pedagogical programme, based on the
exer- cise of drawing from drawings, from casts after the Antique and from the
live model, and on students’ competitions and regular lectures.8 The print,
which embodies this theoretical and didactic approach, is based on a drawing
now preserved at Chatsworth (fig. 1), commissioned from Maratti by one of his
most faithful patrons, Gaspar Méndez de Haro y Guzmán, 7th Marquis of Carpio,
(1629–87), Spanish ambassador in Rome between 1677 and 1682.9 A sketchier
version, in the same direction as the print but with differences in detail, is
at the Wadsworth Atheneum (fig. 2).10 Art lover, collector and patron, Carpio
commissioned from contemporary Roman artists a large series of drawings with
the practice, theory, and nature of painting as their subject.11 The result was
a sophisticated collection of allegories of art, of which Maratti’s drawing is
by far the most celebrated, largely due to Dorigny’s print.12 Another drawing
with the Allegory of Ignorance Ensnaring Painting and Massacring the Fine Arts,
now in the Louvre, was probably produced by Maratti for Carpio as a pendant to
the Academy of Drawing, and as such was later engraved by Dorigny with a
similar explanatory inscription devoted to the ‘Lovers of the Fine Arts’ (fig.
3).13 Possibly intended from the beginning to be printed, Maratti’s drawing for
the Academy of Drawing was later engraved by the Parisian printmaker, Nicolas
Dorigny, 1. Carlo Maratti, The Academy of Drawing, c. 1681–82, pen and brown
ink with brown wash, heightened with white gouache, over black chalk, 402 × 310
mm, Chatsworth, The Duke of Devonshire and the Chatsworth Settlement Trustees,
inv. 646 2. Carlo Maratti, The Academy of Drawing, c. 1681–82, pen and brown
ink and red chalk, 505 × 355 mm, Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford,
CT, inv. 1967.309a who spent the years 1687–1711 in Rome. The rare first state,
exhibited here, was probably published around 1702–03 under the supervision of
Maratti, who owned the copper- plates and who, no doubt, was the author of the
explanatory inscriptions below this print and its pendant.14 The reason why it
took twenty years for the original drawing and its pendant to be engraved, may
be due to the fact that Carpio left Rome in 1683 to become Viceroy of Naples
and his move might have brought the original publication project to a halt.
After Maratti’s death in 1713, the plates were purchased by Jacob Frey
(1681–1752) who published a second state in 1728.15 The image is a very
condensed and crowded composi- tion, in line with similar examples by Stradanus
(cat. 4), Pierfrancesco Alberti (cat. 2, 1), and others, which would certainly
have been known to Maratti.16 The Academy of Drawing is presented as an antique
academy devoted to intellectual pursuits, clearly reminiscent of Raphael’s
School of Athens in the Vatican Stanze, and in general subtle refer- ences to
Raphael’s works are ubiquitous throughout.17 We are invited to follow the
different disciplines and principles essential for the education of the young
artists, distributed visually and symbolically in an ascent: from the technical
and mathematical rudiments for the representation of space in the foreground,
to the ideal models for the depiction of the human figure in the upper left
part of the composition, and finally to the divinely inspired grace and
artistic talent on the upper left background, without which all the previous
learning would be useless. Bellori, in his biography 3. Nicolas Dorigny after
Carlo Maratti, Allegory of Ignorance ensnaring Painting and mas- sacring the
Fine Arts, 1704–10, etching and engraving, 468 × 319 mm, The British Museum,
Department of Prints and Draw- ings, London, inv. 1874,0808.1714 that. We know
from another passage in Bellori that Maratti, although he ‘always considered perspective and anat- omy necessary to the
painter’, abhorred some ‘masters, or rather modern censors who, having learned
a line or two of perspective or anatomy, the minute they look at a picture look
for the vanishing point and the muscles, and scold,
correct, accuse and criticise the most eminent masters’.23 Maratti’s attitude
was, in fact, very much in line with the Italian art theory of the second half
of the 16th century.24 Most writers agreed that, although the knowledge of
mathematical sciences was vital, the artist’s judgement and his eye must be the
ultimate criteria in the artistic process. Giorgio Vasari (1511–74) clearly
formulated this concept, paraphrasing Michelangelo’s famous saying that ‘it was
necessary to have the compasses in the eyes and not in the hand, because the
hands work and the eyes judge’.25 This opinion was rephrased by Giovanni Paolo
Lomazzo (1538– 1600) who wrote precisely that ‘all the reasoning of geome- try
and arithmetic, and all the proofs of perspective were of no use to a man
without the eye’, and shared also by Federico Zuccaro (c. 1540–1609) the
founder and first principal of the reformed Accademia di San Luca in 1593 (see
cat. 5).26 A similar approach was reserved for the study of anatomy, the excess
of which, as represented by Michelangelo – who is not alluded to in the print –
was explicitly condemned by Giovan Battista Armenini (c. 1525–1609) and others,
an opinion supported by Bellori and Maratti.27 The ‘Young Students of Drawing’,
to which the print is dedicated, need instead to focus their attention on, and
constantly draw from, ancient statues, here represented by 4. Raphael, Apollo,
detail, School of Athens, 1509–11, fresco, Stanza della Segnatura, Apostolic
Palace, Vatican City of Maratti, left unfinished at his death in 1696,
provides a description of one of Maratti’s original drawings (figs 1–2) and
this, plus the explanatory inscription on the print, constitute the best guide
to interpret the composition.18 At the centre a ‘master of perspective’
indicates to a young disciple the visual pyramid and various geometrical
figures traced on a canvas placed on an easel, at the bottom of which we read:
‘TANTO CHE BASTI’, ‘Enough to suffice’.19 The same inscription recurs on the
ground on the left, in front of another pupil intent at drafting geometrical
figures on the abacus with his compass, a gesture evoking that of Archimedes in
Raphael’s School of Athens. As Bellori explains, this is to signify that ‘once
the young have learned the rules necessary to their studies’ – geometry and
perspec- tive – ‘they should pass on without stopping’.20 On the right, below
the easel, we see a stool supporting the physical tools of the art of painting:
another compass and a palette with various brushes. Behind them a ruler leans
diagonally against the canvas. The same warning ‘TANTO CHE BASTI’ reappears on
the left on the pedestal supporting a life-size anatomical écorché, in a pose
reminiscent of the Borghese Gladiator (see 41, 54 and cat. 23, 1). Several
students draw its muscles, directed by Leonardo, whose anatomical studies were
very well known, especially after the first publication of his treatise on
painting in 1651.21 ‘Anatomy and the drawing of lines’ continues Bellori, ‘do
indeed fall under definite rules and can be learned perfectly by anyone, just
as geometry used formerly to be learned in school from childhood’.22 They
therefore constitute those sciences that can be taught by rational precepts.
But if the young students want to become great artists they need much more
than 150 151 the gigantic Farnese Hercules (see 30, 32 and
cat. 7, 1), by a Venus Pudica reminiscent of the Venus de’Medici (see 42, fig.
56) and by an Apollo, the latter clearly derived from the statue presiding over
the philosophers in the School of Athens (fig. 4).28 Apollo, as patron of the
arts, combining together a reference to the Antique and to Raphael,
conveniently substitutes for the Belvedere Antinous (see 26, fig. 22 and cat.
19) seen on the earlier sketch (fig. 2).29 The study of classi- cal sculptures,
as the inscription on the wall behind the Apollo instructs us, is ‘NON MAI
ABASTANZA’, ‘Never enough’, as they contain ‘the example and the perfection of
painting together with good imitation selected from
nature’ as Bellori tells us.30 In other words, they materialise Bellori’s
concept of the ‘Idea’, intended as the selection of the best parts of Nature
according to the right judgement of the artist in order to create ideal beauty
(see Appendix, no. 11). If a young artist assimilates their principles, he will
have a secure guide towards artistic perfection. On the left, sitting on
clouds, the Three Graces – again referring to the similar figures painted by
Raphael in the Villa Farnesina in Rome – are there to remind us: ‘SENZA DI NOI
OGNI FATICA E VANA’, ‘Without us, all labour is in vain’. Without natural
talent and divine inspiration, all the efforts and studies depicted below would
be ultimately useless. The concept of grace was one of the crucial features in
Vasari’s theory of art, intended as a certain sweetness and facility of
execution, dependent on natural talents – namely judgement and the eye – as opposed
to beauty which is based on the rules of proportions and mathematics.31 But the
great artist must cultivate this natural gift through constant study and, for
Bellori, constant imitation of the Antique and of the great masters, especially
Raphael, the excellence and grace of whom he exalted in several of his
publications.32 Therefore our print reminds us in its subject of the necessary
union of natural talent and study. At the same time it provides in its very
forms an ideal example of inventive imitation, namely Maratti’s assimilation of
the Antique and Raphael. The need to insist on these very points reflects the
particular moment in which our image was created. In 1676 the Accademia di San
Luca and the Parisian Académie Royale were formally amalgamated and at times
French painters became principals of San Luca – Errard and Brun. While sharing
the same values and attitudes, the Italian could never feel comfortable with
the extreme ration- alisation of art characteristic of so much French theory
and academic approach.34 The methodical and precise dissection of painting into
its main components, as expressed for instance in the Académie’s Conférences,
is in fact probably 152 alluded to in the speaker seen below the Graces in our
image, who uses his fingers to enumerate the main points of his arguments –
referring to Socrates in the School of Athens. The early Académie’s Conférences
were published by André Félibien (1619–95) in 1668, and their official
presentation at San Luca in 1681 generated a discussion that was most likely at
the origin of Maratti’s Academy of Drawing, as reported by Melchior Missirini
(1773–1849) in his history of the Accademia di San Luca.35 After the reading of
the last two Conférences, devoted to the analysis of the drawing, colour,
composition, proportions and expressions of Poussin’s paintings, one of San
Luca’s members, Giovanni Maria Morandi (1622–1717), raised the objection that
the French had left out art’s most important and beautiful element: grace, that
sublime and delicate quality of the ‘imitative practice’, which appeals to the
heart rather than the mind.36 The elderly Bellori, present in the audience,
interrupted the speech remarking that grace was indeed Apelle’s and Raphael’s
best quality, ‘and it is well known’, continues Missirini, ‘that Maratti, who
also devoted every effort to obtain this quality, induced by these words
painted his three graces with the motto ‘Without you, everything is
worthless’.37 No doubt conceived as a response to this intellectual debate, as
a defence of the Florentine and Roman attitude and tradition versus its French
counterpart, Maratti’s Accademia must be understood also as a celebration of
classicism against those painters and theorists who were at that time
criticising its values and outcomes. In particular the Venetian Marco Boschini
(1515–80) and the Bolognese Cesare Malvasia (1613–93) in their treatises
published in the 1770s had attacked the pictorial tradition based on disegno
and imitation of the Antique, supporting instead colore and naturalism.38 They,
as Bellori remarks right before his discus- sion of Maratti’s drawing, taught
‘in their schools and in their books that Raphael is dry and hard, that his
style is statue- like’.39 This dispute had its counterpart in France where the
Querelle du coloris had been fiercely debated in the 1770s.40 The theoretical
battle escalated further with the publication in 1681 of the Notizie de’
professori del disegno by the Florentine Filippo Baldinucci (1625–97), who
strongly defended Vasari and the Central Italian tradition, at the same time
directly attacking Malvasia.41 The early 1680s were therefore a moment of
intense debate within and between the Italian and French artistic schools and
theoretical traditions, of which this image is one of the most telling
documents. In the following decades Maratti became the leading artistic
authority in Rome. His devotion to Raphael was rewarded in 1693 when he was
appointed Keeper of the Vatican Stanze, which he then restored in 1702–03,
having already worked on the restoration of Raphael’s frescoes in the Farnesina
from 1693.42 In 1699 he was re-elected principal of San Luca, a position he
held until his death in 1713. Pope Clement XI (r. 1700–21) nominated Maratti
Director of the Antiquities in Rome in 1702, and officially sanctioned support
for his classicism by establishing papal-sponsored competitions, the Concorsi
Clementini, at the Academy.43 It is probably in celebration of the final
affirmation of this classicist aesthetic that Maratti decided to finally print
in 1702, or soon after, the complex drawing celebrating above all the study of
Antique that he had produced twenty years 44 ‘The School of Drawing, a
figurative drawing by Cavalier Carlo Maratti, can contribute much to the
disenchantment of those who believe that through knowledge and study of many
arts they can become most accomplished in the art of painting without first
acquiring the highest skill in drawing and without the natural gift and innate
capacity to give, with grace and ease, life and shapeliness to the parts of a
work they set out to depict. In addition, he [Maratti] gives form to his fine
thought through the activities pointed out here. To one side there are some
students of the mathematics of Geometry and Optics that feed into Perspective:
elsewhere there are others intent on the observation of an anatomical model,
from which can be learned the just proportions of the limbs, the placement of
the muscles and sinews that compose a figure, as set out with precision by
Leonardo da Vinci, a likeness of whom is given, with the motto ‘Enough to
suffice’, to evince that, of these professional skills, he who pursues drawing
must be competent enough to bring any idea to a perfect outcome. But for those
shown engaged in the study of classical statues, slight attention to the same
is of no use since the point is to make a long and detailed study so as learn
the forms of the beautiful; and classical statues are given as the most perfect
for this since those great sculptors gave shape to bodies in the most perfect
state that Nature herself can create, which explains the presence of the motto:
‘Never enough’. Everything, however, would be futile without the assistance of
the Graces, understood, as mentioned, as a natural bent for composing and arranging
with grace and delicacy those postures and movement of figures from which
derive the beauty and allure that stir wonder and pleasure in the spectator,
wherefore they are set for that purpose up above on the clouds as indication
that this gift comes only from heaven, and are given the motto: ‘Without us all
labour is in vain’. Live happily’ (translation by Michael Sullivan). For a
biographical summary see Rudolph 2000. Schaar and Sutherland Harris 1967. See
Bellori 1976, 625, 636, 639. See Baldinucci 1975, 307. On Maratti’s cult for
and imitation of Raphael see also Mena Marqués 1990. Goldstein 1978, 3. For the
text of Bellori’s Idea see Bellori 1976, 13–25, and for an English translation
see Bellori 2005, 55–65. On it see Mahon 1947, esp. 109– 54, 242–43; Panofsky
1968, 103–11; Bellori 1976, esp. xxix–xl; Barasch 2000, 1, 315–22; Cropper
2000. On Maratti’s role within the Accademia see Goldstein 1978, esp. 2–5. On
Bellori’s see Cipriani 2000. Jaffé 1994, 128, no. 251 646. It is not fully
clear whether Dorigny used the Chatsworth drawing or a lost copy of it, as he
arrived in Rome in 1687, five years after Del Carpio had left the city to
become Viceroy of Naples: see Rome 2000b, 2, 483, no. 1 (S. Rudolph).
Philadelphia 1980–81, 116, note 3 and 4; Winner 1992, 512, 5. Bellori 1976, 629–31.
On Del Carpio’s commission see Haskell 1980, 190–92; Pierguidi 2008; Frutos
Sastre 2009, 369–71. For other drawings of the series, see Winner 1992. For the
drawing (Louvre, Paris, inv. 17950) see Rome 2000b, 2, 484, no. 3 (S. Rudolph).
For the print see Philadelphia 1980–81, 114–16, no. 101 B (A. E. Golahny); Rome
2000b, 2, 484–85, no. 4 (S. Rudolph). For the transcription of the print’s
inscription see Winner 1992, 517–18, note 7. See Philadelphia 1980–81, 114–16,
no. 101 A and B (A. E. Golahny); Rome 2000b, 2, 483, no. 2 (S. Rudolph). This
second state contains the address of Frey. Rudolph (Rome 2000b, 2, 483, no. 2),
supposes that the long explanatory inscription was added only to this second
state, while the impression exhibited here proves that it was inserted in the
first state as well. The inscription is mentioned also in a chronological list
of Maratti’s prints produced in 1711: see Rudolph 1978, Appendix, 203, no 38.
Kutschera-Woborsky 1919; Winner 1992, especially 521–22, 531. Although some
will be discussed here, the references to Raphael are too many to be covered
comprehensively. For a fuller discussion see Winner 1992. Bellori 1976, 629–31.
For an English translation, see Bellori 2005, 422–23. Bellori’s unfinished
biography of Maratti was first published with modifications in 1731 and
independently in 1732. See Bellori 1976, 571, note 1; Bellori 2005, 435, note
4. For modern critical editions of the text, see Bellori 1976, 569–654; Bellori
2005, 395–440. Winner (1992, 524) suggests that the ‘master of perspective’
could be Vitruvius, as the geometrical figures on the canvas are similar to
those illustrated by Andrea Palladio in Daniele Barbaro’s edition of Vitruvius’
De architectura (1556). On the other hand the visual pyramid clearly refers to
Albertian perspective, as it had been recently republished and illustrated in
Dufresne 1651, see especially 17–18. Bellori 1976, 630; Bellori 2005, 423.
Dufresne 1651: see esp. the ‘Vita di Lionardo da Vinci descritta da Rafaelle du
Fresne’, at the beginning of the volume (not paginated) and 5, ch. XXII, 12,
ch. LVII. Bellori 1976, 631; Bellori 2005, 423. Bellori 1976, 629; Bellori
2005, 422. On Bellori’s sources in general see esp. Barocchi 2000; Perini
2000a. Bettarini and Barocchi 1966–87, 6, 109. See also
Vasari’s introduction to his chapter on Sculpture: Bettarini and Barocchi
1966–87, 1, 84–86. Lomazzo 1584, 262 (book V, chap. 7). Zuccaro 1607, 2, 29–30
(book II, chap. 6). See Armenini 1587, 63–67 (book I, chap. 8); Bellori 1976, 630;
Bellori 2005, 423. On this see also Pierguidi 2014. Bellori had specifically
praised the Farnese Hercules and the Venus de’Medici in his Idea: Bellori 1976,
18; Bellori 2005, 59. On this see also Winner 1992, 532. On the Farnese
Hercules see Haskell and Penny 1981, 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, 3, 17–20,
no. 1. On the Venus de’ Medici see Haskell and Penny 1981, 325–28, no. 88;
Cecchi and Gasparri 2009, 74–75, no. 64 (137). On the Belvedere Antinous see
Haskell and Penny 1981, 141–43, no. 4; Bober and Rubinstein 2010, 62, no. 10. Bellori
1976, 630; Bellori 2005, 423. Bettarini and Barocchi 1966–87, 3, 399, 4, 5–6.
See also Blunt 1978, 93–99. Bettarini and Barocchi 1966–87, 3, 399; Bellori
1976, 625–26; Bellori 2005, 421. Also for Armenini
‘una bella e dotta maniera’ could be acquired only if the artist has a natural
gift cultivated by study (Armenini 1587, see esp. 6 of the Proemio and 51–69,
book I, chs 7 and 8). Bellori’s essays on Raphael, written at various dates,
were published in Bellori 1695. On Raphael and grace in Bellori see Maffei
2009. On the cult of Raphael in the 17th century see Perini 2000b. Boyer 1950, 117;
Goldstein 1970, 227–41; Bousquet 1980, 110–11; Goldstein 1996, 45–46. Mahon
1947, 188–89. Missirini 1823, 145–46 (ch. XCI); Mahon 1947, 189; Goldstein
1996, 46. Missirini 1823, 145. Ibid., 146. Boschini 1674; Malvasia 1678. Bellori
1976, 627; Bellori 2005, 421. On the ‘statuelike’ concept, or ‘statuino’ see
esp. Malvasia 1678, 1, 359, 365, 484. See also Pericolo’s forthcoming article.
I wish to thank Dr Lorenzo Pericolo for generously putting this study at my
disposal. See Teyssèdre 1965; Puttfarken 1985; Arras and Épinal 2004 with
previous bibliography. Baldinucci 1681, see esp. his ‘Apologia’ at 8–29. On the
controversy between Malvasia and central Italian art theorists see Perini 1988;
Rudolph 1988–89; Emiliani 2000. See Zanardi 2007. See Johns 1988. The second
state of both prints, published by Jacob Frey in 1728 was explic- itly issued
in parallel to the reward ceremony of the 1728 Concorso Clementino: see Rome
2000b, 2, 484–85, no. 4. earlier, with the Allegory of Ignorance as its pendant
16. Charles-Joseph Natoire (Nîmes 1700–1777 Castel Gandolfo) The Life
Class at the Royal Academy of Painting and Sculpture 1746 Pen, black and brown
ink, grey wash and watercolour and traces of graphite over black chalk 453 ×
322 mm Signed and dated by the artist on recto, on the box at l.c., in pen and
dark grey ink: ‘C. NATOIRE f. 1746’. provenance: Possibly sold at the artist’s
posthumous sale, Alexandre-Joseph Paillet, Paris, 14 December 1778, lot 100;1
purchased Aubert for 120 livres; Gilbert Paignon-Dijonval (1708–92); Bruzard,
Paris, 23–26 April 1839, part of lot 208; Walker Gallery, acquired Sir Robert
Witt (1872–1952) (L. suppl. 2228b); Sir Robert Witt Bequest, 1952. selected
literature: Bérnard 1810, 142, no. 3348; Mirimonde 1958, 282, 3; Princeton
1977, 22–23, 3; Troyes, Nîmes and elsewhere 1977, 80, under no. 42; Roland
Michel 1987, 58–59, 45; Foster 1998, 55–56, 13; Amsterdam and Paris 2002–03, 85–88,
under no. 25; Paris 2009–10, 40, 13; Petherbridge 2010, 222, pl. 152;
Caviglia-Brunel 2012, 122, repr., 336, no. D. 370, repr.; Rowell 2012, 179–80, 9;
London 2013–14, 8, repr., 69, 24. selected exhibitions: London 1950, 18, no.
54; London, York and elsewhere 1953, 27–28, no. 79, not repr.; London 1953, 91–92,
no. 391, not repr. (K. T. Parker and J. Byam Shaw); Los Angeles 1961, 51, 58,
no. 25; London 1962, 9–10, no. 37, not repr.; Swansea 1962, unpaginated, no.
38; London 1968a, 101, no. 490 (D. Sutton); King’s Lynn 1985, vi, no. 33, not
repr.; London 1991, 80, no. 35 (G. Kennedy); Paris 2000–01, 405–06, no. 210
(J.-P. Cuzin); London and New York 2012–13, 161–65, no. 33 (K. Scott).
The Courtauld Gallery, Samuel Courtauld Trust, London, D. 1952.RW.397 exhibited
in london only Painter, draughtsman and educator, Natoire was a contem- porary
of François Boucher (1703–70) and like him, executed both cabinet pictures and
decorative schemes, as well as history paintings.2 Trained in the studio of
Lemoyne, Natoire started his career with a series of successes: having won in
1721 the Prix de Rome of the Académie Royale, he spent the years 1723–28 in
Rome where in 1727 he received the most prestigious reward for a young painter,
the first prize of the Accademia di San Luca. Back in Paris in 1730, he was
received (reçu) as a full member of the Académie in 1734 and spent the following
two decades executing decorative ensembles in Royal Palaces and various hôtels
and châteaux of the aristocracy, such as the celebrated Hôtel de Soubise (now
the Archives Nationales) in Paris. In 1751 he was appointed Director of the
Académie de France in Rome and spent the rest of his life there, dying at
Castel Gandolfo in the Alban Hills in 1777. Natoire’s large and beautifully
preserved drawing – of which there is another version, dated 1745, almost
identical but less finished, in the Musée Atger in Montpellier – offers a rare
glimpse of the École du modèle of the Académie royale de peinture et de
sculpture in Paris, where young students spent hours copying the live model.3
But rather than a faithful view of the École du modèle, which was a similar but
rather different space,4 it is an idealised representation of how Natoire
thought it ought to be. In essence, it is a visual manifesto for the Académie’s
reform at a time, as we shall see, when many of its original practices had been
abandoned or neglected. Trying, in a programmatic image, to convey as much
infor- mation as possible, Natoire ingeniously reconfigures the 154 space for
his purpose: a very high ceiling and an angular point of view allow maximum
concentration and display of objects. Crammed together, one on top of the
other, we see drawings, bas-reliefs, paintings of different format and size
and, most importantly, plaster casts after the Antique. Our attention is
immediately drawn to the seated figure at the lower left-hand corner wearing a
bright red cloak, no doubt Natoire himself: he had been appointed assistant
pro- fessor at the Académie royale in 1735, professor in 1737 and from 1736 was
instructor in the life class for the month of February.5 Comfortably seated in
an armchair, his tricorne hat resting on the box in the centre, he carefully
corrects the black chalk drawings after the two live models presented by his
pupils. At the centre of the composition, the attention of all students is
directed to the two models posed together, a monthly event at the Académie that
had been introduced in the mid-1660s.6 The teacher was responsible for placing
the models ‘in an attitude’ for afternoon classes lasting two hours, using
sunlight during the summer and artificial light during the winter months.7 The
sunlight filtering in from the left is therefore imaginary, as in February,
when Natoire was in charge of the École du modèle, illumination would have been
from lamps. Only male models were allowed, despite repeated requests for female
models from the students, all of whom were also male since women were not
allowed to join the Académie until the end of the 19th century.8 The same pose
was retained for three days in a row for a total of six hours and students were
supposed to produce two study drawings of the figures each week.9 As in this
case, a curtain was usually placed behind the model or models, to enhance
155 the contours and isolate the figure from the background. The plinth
supporting the model had hooks at the corner to allow the professor to move it
according to the fall of the light. In addition to posing the model, the ‘duty
teacher’ from 1664 onwards was supposed to make his own drawing to serve as an
example for the students and to devote part of each session to correcting students’
works, as we see represented in this drawing.10 Natoire’s own drawing of the
two models may be in the portfolio leaning against the box in the centre;
indeed an identical red chalk composition survives – although reversed –
proving that this pose was actually used during one of his sessions (fig. 1).11
The models’ attitude in the middle follows the well- established practice
within the Académie of adopting and adapting poses to recall ancient
statuary.12 In this case they evoke the dynamic, interlocking bodies of the
Wrestlers (see 30, 33), of which the Académie possessed a plaster cast, or
possibly the pose of the so-called Pasquino.13 The main purpose of the practice
was to pose the live model with the same tension and flexing of muscles as the
ancient statues, so that students could then correct their drawings from
‘fallible Nature’ against the perfection of the antique exam- ple. The practice
was diffused already in the 17th century and explicitly recommended by
Sébastien Bourdon (1616–71), in his famous Conférence Sur les proportions de la
figure humaine expliquées sur l’Antique delivered at the Académie in 1670.14 We
1. Charles-Joseph Natoire, Two Models, c. 1745, red chalk, 490 × 420 mm, sold
Sotheby’s, Paris, 18 June 2008, lot 101 know from the influential Abrégé de la
vie des plus fameux peintres, published by the art writer Argenville, that the
great painter Champaigne devoted ‘his evenings to
drawing at the Académie and, on his return, he would correct from the Antique
what he had done from the model’.15 Natoire was exposed to a similar exercise
during the years he spent at the Académie de France in Rome during the 1720s
and he must often have returned to this practice during his sessions at the
Académie in Paris.16 Distributed in a semi-circle around the models are
students of different ages, busy drawing the figures. Most of them are using
chalk in porte-crayons, drawing on large sheets of paper. The exceptions are
the two more mature students on the right who are modelling bas-reliefs in clay
with their fingers and wooden sticks; the one on the right holds a sponge in
his hand to clean the clay with water as seen in the drawing by Cochin engraved
for the Encyclopédie (p. 52, 91).17 The process is clearly described in the
Istruzione elementare per gli studiosi della scultura, the famous manual for
students of sculpture published by Francesco Carradori (1747–1824) in 1802, and
illustrated with a strikingly similar image (fig. 2).18 A third student, in the
lower right corner, is wetting rags in a bucket to keep the clay damp and avoid
cracks, as Carradori advised. On his left a dog – could it be Natoire’s? –
stares at us from its sheltered position. The 2. Carradori, Istruzione
elementare per gli studiosi della scultura, Florence, 1802, detail of plate 5
disposition of the students reflects the admission conditions and entrance
hierarchy of the École du modèle: two-thirds were painters and one-third
sculptors, placed in the back rows.19 Behind the semi-circle of students we see
life-size plaster casts of four of the most canonical classical sculptures:
from left to right the Farnese Hercules (see 30, 32; cat. 7), the Laocoön (see 26,
19; cat. 5), the Venus de’ Medici (see 42, 56) and the Borghese Gladiator (see 41,
54; cat. 23).20 The Hercules and the Venus are looking away from the viewer, as
if to signal that the study of the Antique constitutes a different – though
inextricably connected – practice from the study of the live model. The four
statues provided the students with idealised models of human proportions,
anatomy, beauty and emotion: the muscular strength of the heroic male body at
rest, embodied by the Hercules, the complex pose and the pathos and drama of
the Laocoön, the grace and beauty of the female body ideally incarnated by the
Venus and, finally, the active anatomy of the muscular man in motion as
expressed by the Gladiator. They repre- sented a sort of ‘canon within the
canon’ of classical sculptures for artists, and their choice here is not
accidental. These four statues – plus the Belvedere Torso and an antique
Bacchus at Versailles – had been specifically selected as subjects of the
Conférences devoted to the Antique held at the Académie Royale during the 1660s
and 1670s; the text describing them was constantly being re-read by academi-
cians since then.21 At the time this drawing was made, the Académie owned casts
of all four statues – among many others – but Natoire ingeniously concentrates
here what was actually distributed over various rooms.22 Significantly, all the
statues in the drawing are in reverse as Natoire did not copy them from the
casts but from prints in François Perrier’s celebrated Segmenta nobilium
signorum et statuarum of 1638 (figs 3–6).23 Perrier’s collection of engravings
after ancient statues had been for more than a century the standard work of
reference for students beginning their study of the Antique, providing them
with images in two dimensions that they could master before approaching the
three-dimensional casts. This course was firmly recommended at the time of the
foundation of the Académie in 1648 by Abraham Bosse (1602–76), its first
professor of perspective.24 References to the glorious past of the Académie
continue on the walls, where we are invited to ascend from drawings and
bas-reliefs to paintings. On the lower tier are the designs and reliefs after
the model that teachers had to produce from 1664 onwards (although this
requirement was eventually abolished in 1715).25 Above these are displayed a
series of canvases representing some of the greatest triumphs of modern French
painting: the largest and most prominent, on the left, is Charles Le Brun’s
Alexander at the Tent of Darius (1661); to its right, Jean Jouvenet’s
Deposition (1697) and below it, barely discernible, Eustache Le Sueur’s Solomon
and the Queen of Sheba (1650). Above, in the upper register, is hung another Le
Sueur, the circular Alexander and His Doctor (1648– 49). On the right is
François Lemoyne’s Annunciation (1725); and finally, below it Sébastien
Bourdon’s Holy Family (1660– 70).26 The two square paintings on the upper left,
probably a reclining Nymph or Venus and a Cupid and Psyche, have not been
identified; it would be tempting to think that they might be Natoire’s own
creations, but they do not correspond to any of his known works.27 None of the
paintings were displayed at that time in the Académie and all are reversed,
meaning that Natoire deliberately assembled them in this crowded space from
prints.28 All were revered examples of history paintings by famous past
academicians, ranging from Le Brun, Le Sueur and Bourdon, who had been among
the twelve original founding members of the Académie in 1648, to Lemoyne,
Natoire’s own teacher. Showing different kinds of history painting – Biblical
subjects, Mythology and secular history – they here provide the young students
with models both to imitate and aspire to. On the central pier, presiding over
all the artistic activity below, is Bernini’s 1665 bust of Louis XIV, of which
the Académie then displayed a plaster cast,29 reminding us of the glories of
the institution under the reign of the Sun King. Such a deliberately
programmatic image, which assem- bles so many references from different places
and times, must be understood as a visual manifesto in favour of a retour à
l’ordre within the Académie. At the time Natoire conceived it, many of the
original academic practices and credos had long been neglected. After the late
17th century almost no new Conférences were held, and teachers simply re-read
the old ones and the biographies of past academicians.30 Nor does it seem that
the study of the Antique was much promoted and certainly the collection of
casts was not integrated with the École du modèle.31 Finally, and most impor-
tantly, during the first half of the 18th century, history painting had lost
its place of pre-eminence within the Académie, a process foreshadowed by the
success of Jean- Antoine Watteau (1684–1721) and his acceptance into the
Académie in 1717 as a painter of fêtes galantes, a new category that encouraged
the development of the ‘lesser genres’ of painting.32 At the same time, because
of the popularity of ‘the Rococo interior’, history painters were often obliged
to adapt their canvases for decorative schemes, to the point that Natoire
complained in 1747 that his painting was regarded as mere furniture.33
Significantly, a completely different model was in place in Rome during the
years spent by Natoire in the city as a young 156 157 3.
(top left) François Perrier, Farnese Hercules, plate 4, from Segmenta nobilium
signorum et statuarum, Rome, 1638 4. (top right) François Perrier, Laocoön,
plate 1, from Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638 5. (bottom
left) François Perrier, Venus de’Medici, plate 83, from Segmenta nobilium
signorum et statuarum, Rome, 1638 6. (bottom right) François Perrier, Borghese
Gladiator, plate 28, from Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638
years implemented a series of radical changes – such as the re-establishment of
the Conférences, the acquisition of new casts, and making the history paintings
of the Royal Collection accessible to students – which paved the way to the
triumph of the highest genre in the second half of the century.36 It is at this
moment that Natoire’s drawing was conceived, probably as a statement in support
of Tournehem’s reforms. These, in essence, involved a return to the original
credo and mission of the Académie as devised by Louis XIV’s Minister Colbert
and his Premier Peintre Charles Le Brun (1619–90): a royal institu- tion
intended to support and cultivate History Painting through the practice of
drawing and the study of the live model and the Antique. Natoire would apply
many of the principles proclaimed in his drawing during his tenure as director
of the Académie de France in Rome after 1751. The fact that everything in the
Courtauld drawing – statues, paintings and even models – appears in reverse
would suggest that it was intended to be engraved.37 How- ever, the students
hold the porte-crayons in their right hands, which would seem to contradict
this theory. In any case, it is highly likely that this complex image was
conceived to be diffused for promotional purposes, possibly on the example of
Dorigny’s engraving after Maratti (cat. 15), which Natoire would certainly have
known.38 It would have been a persuasive way to promote the study of the live
model together with the study of the Antique, a training that would effectively
prepare young artists to revive those noble forms of painting that had been the
glory of the Grand Siècle. London 2013–14, 33. See the 11th article of the 1664
reformed statutes of the Académie: Montaiglon 1875–92, 1, 253. See also London
2013–14, 33–34. The fact that the drawing is in reverese seems to suggest that
it is a counter- proof. For the drawing see Caviglia-Brunel 2012, 481, no.
D.794, repr. in colour at 128. The drawing was sold at Sotheby’s, Paris, 18
June 2008, no. 101. Some of Natoire’s drawings after the live model were
published in 1745: Huquier 1745. Paris 2000–01, 415–29; London 2013–14, 62–69.
Guérin 1715, 148, no. 49; London 2013–14, 94, note 62. On the pose of the two
models see also Foster 1998, 56–57. On the Pasquino see Haskell and Penny 1981,
291–96, no. 72; Bober and Rubinstein 2010, 202, no. 155 Lichtenstein and Michel
2006-12, 1.1, 374–77. See also Goldstein 1996, 150. Dezailler d’Argenville
1745–52, 2, 182. Macsotay 2010, 189–90. As noted by Gillian Kennedy in London
1991, 80, no. 35. I wish to thank Camilla Pietrabissa for a fruitful discussion
on the subject. Carradori 1802, esp. 3–4, article 2, and plate 5; Carradori
2002, 23–24, and 60–61, plate 5. London 2013–14, 34. On the Farnese Hercules
see Haskell and Penny 1981, 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, 3, 17–20, no. 1.
On the Laocoön see Haskell and Penny 1981, 243–47, no. 52; Bober and Rubinstein
2010, 164–68, no. 122. On the Venus de’ Medici see Haskell and Penny 1981, 325–28,
no. 88. On the Borghese Gladiator see Haskell and Penny 1981, 221–24, no. 43;
Paris 2000–01, no. 1, 150–51 (L. Laugier); Pasquier 2000–01c. Lichtenstein and Michel
2006–12, see esp. vols 1–2, passim. See also Aymonino’s essay in this
catalogue, 45–46. Guérin 1715, 62, no. 35, 105–06, nos 1–2, 185, no. 41; London
and New York 2012–13, 162; London 2013–14, 94, note 62. On Perrier’s
Segmenta see Picozzi 2000; Laveissière 2011; Di Cosmo 2013; Fatticcioni 2013. Bosse
1649, 98. On the success of the Segmenta see Haskell and Penny
1981, 21; Goldstein 1996, 144; Coquery 2000, 43–44. See also Aymonino’s essay
in this catalogue, 42. London 2013–14, 53. On a similar display in the real
École du modèle see Guérin 1715, 258 London 1991, 80, no. 35; Caviglia-Brunel
2012, 334, no. D.362; London and New York 2012–13, 161. The Montpellier version
also shows Poussin’s circular Time defending Truth against the Attacks of Envy
and Discord on the ceiling: see Caviglia-Brunel 2012, 334, no. D.362. I would
like to thank Alastair Laing for discussing these two paintings with me. London
1991, 80, no. 35. It was previously thought that the print from Lemoyne’s
Annunciation was not in reverse but this has been disproven by Rowell 2012, see
p. 178, 7 and p. 180, note 27. Guérin 1715, p. 165, no. 1. See Lichtenstein and
Michel 2006–12, passim. Guérin 1715, 257–60. See also Foster 1998, 56–57;
Schnapper 2000; Macsotay 2010. Locquin 1912, 5–13; Plax 2000. Jouin 1889;
London 1991, p. 80, no. 35. On the Concorsi Clementini see Cipriani and
Valeriani 1988–91 and Aymonino’s essay in this catalogue, p. 54. See also cat.
15. Macsotay 2010; Henry 2010–11. Locquin 1912, 5–13; Schoneveld-Van Stoltz
1989, 216–28; Caviglia- Brunel 2012, 86–87. As already noted in Troyes, Nîmes
and elsewhere 1977, p. 80, no. 42. Dorigny’s print was reissued in 1728, in
parallel to the award ceremony of the Concorsi Clementini, when Natoire was
still in Rome (see cat. 15). student. The Accademia di San Luca
officially supported the copying of the Antique and the production of history
painting through the system of the Concorsi Clementini, established in 1702, of
which, as we know, Natoire obtained the first prize.34 At the same time the
Académie de France in Rome saw a complete reorganisation under the directorship
of Nicholas Vleughels (1668-1737) between 1725 and 1737. Its enormous
collection of casts was redisplayed and integrated with the Ecole du modèle and
its students, like Natoire, were strongly encouraged to compare the ideal of
casts from the Antique against nature in the form of the live model, as we see
promulgated in our drawing.35 These principles began to be re-introduced in
Paris after the election in 1745 of Charles- François-Paul Le Normant de
Tournehem – the uncle of Madame de Pompadour – as director of the Bâtiments du
Roi, the official protector of the Académie Royale on behalf of the king.
Tournehem initiated a reform aimed at the rehabilitation of history painting,
and in the following 158 159 1 2 3 4 5 6 7 8 aa Lot 100 is probably this
drawing but it could also refer to the very similar version of this sheet now
preserved at the Musée Atger, Montpellier, inv. MA1, album M43 fol. 26: see
Troyes, Nîmes and elsewhere 1977, p. 80, no. 42; London 1991, p. 80, no. 35;
Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362 and p. 336, no. D. 370, where the lot
description is transcribed in full. On Natoire see Troyes, Nîmes and elsewhere
1977; Caviglia-Brunel 2012. For the Monpellier drawing see above note 1. Guérin
1715, 257–60, plate between 256–57; Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362;
London and New York 2012–13, 161–62, 68. Montaiglon 1875–92, 5, 171, 193;
London 1991, p. 80, no. 35; Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362. Guérin
1715, p. 259; London 1991, p. 80, no. 35; London 2013–14, 46, 62. See the 4th article of the 1648 statutes of the Académie: Montaiglon
1875–92, 1, p. 8. See also Guérin 1715, p. 258. London 2013–14, p. 40. Women
were admitted to the Académie, then named École des Beaux-Arts, only in 1896
and allowed to enrol for the Prix de Rome in 1903: Goldstein 1996, p. 61.
17. Hubert Robert (Paris 1733–1808 Paris) The Artist Seated at a Table, Drawing
a Bust of a Woman c. 1763–65 Red chalk, 333 × 441 mm provenance: Poulet, whence
acquired by Pierre Decourcelle (1856–1926), Paris in October 1912 for 300
francs;1 by descent; Decourcelle sale, Christie’s, Paris, 21 March 2002, lot
317, from whom acquired. literature: Paris 1933, p. 124, under no. 197; Rome 1990–91,
p. 191, under no. 135; Ottawa, Washington D.C., and elsewhere 2003–04, p. 308,
under no. 92, 142. exhibitions: Paris 1922, p. 16, no. 85, not repr.
Katrin Bellinger collection, inv. no. 2002–012 Hubert Robert received a
classical education at the Collège de Navarre before studying drawing in the
studio of the sculptor, Michel-Ange Slodtz (1705–64). Even during this early
period, he showed an interest in ‘architecture in ruins’.2 Although not
eligible for a place at the Académie de Rome – he had not attended the
requisite École Royale des élèves protégés – family connections allowed him to
bypass this regulation and on 4 November 1754 Robert arrived in Rome in the
retinue of the new French ambassa- dor, Étienne-François, comte de Stainville
(1719–85), later duc de Choiseul. The diplomat sponsored Robert for the first
three years of his stay before he was granted pensionnaire status at the
Academy in 1759, under the directorship of Joseph-Charles Natoire (see cat.
16).3 Robert remained in Rome – with intermittent study trips to Naples,
Florence and elsewhere in Italy – for eleven years, responding to the fertile
archaeological climate, sparked by recent excavations at Pompeii and
Herculaneum as well as the newly opened Capitoline Museum, and indulging his
fascination for classical ruins. Natoire encouraged Robert and the other
students to sketch antiquities outdoors in situ, in the Roman campagna and
beyond. Robert also took inspiration from the work of other mentors including
the celebrated vedu- tista, Giovanni Paolo Panini (c. 1692–1765), and the
printmaker and draughtsman, Giovanni Battista Piranesi (1720–78). With his
friend and compatriot, Jean-Honoré Fragonard (1732–1806), Robert
enthusiastically sketched classical monuments and antiquities in and around
Rome, later fusing real and imagined elements to create highly original
compositions – often punctuated by ancient ruins or dilapidated architectural
fragments – that would become a trademark of his work. The vast repository of
motifs amassed by him during this productive Roman period, coupled to his
facile draughtsmanship, would serve him well for years to come. He became a
star pupil of the Academy and his drawings in particular would be eagerly
sought after before he returned to France in 1765, where he entered the
Académie Royale and successfully exhibited at the Salons.4 160 Undoubtedly one
of his finest red chalk drawings, the present study shows the artist in a rare
moment of casual repose, seated at a table and drawing, legs casually extended
and crossed, stockinged feet resting carelessly on a large portfolio of
drawings lying open on the floor.5 His relaxed, almost dishevelled appearance
and level of undress – the fallen left knee-sock slumped around his ankle, the
unbut- toned breeches and the disregarded, rumpled, coat, strewn on a chair
opposite alongside his hat and the long shadows cast – all suggest that it is
the end of a long day and he is at home, resuming a favourite activity:
drawing. The focus of Robert’s gaze is the bust of an attractive young woman in
right profile placed on the table. With his chalk-filled porte-crayon in hand,
he stares intently at her, poised to sketch. Her head titled downwards, she
returns his steady gaze; there is a palpable tension between them. However, the
presence of a third figure threatens to interrupt their private moment. With a
side-glance, a bearded man drawn on a sheet pinned up on the wall between them
also watches the young woman, thereby completing an amusing love triangle of
Robert’s invention. The object of the men’s attention is the Roman Empress,
Faustina the Younger (c. ad 125/30–175), daughter of Emperor Antonius Pius and
Faustina the Elder (fig. 1). She married Emperor Marcus Aurelius, perhaps the
bearded rival in the drawing on the wall.6 Her marble bust was discovered in
Hadrian’s Villa at Tivoli and in 1748 presented by Benedict XIV to the
Capitoline Museum where Robert would have seen it.7 Bartolomeo Cavaceppi, the
Roman sculptor and antiquities restorer, who worked on the original for a year
after its discovery and made several copies after it, was an acquaintance of
Robert’s who occasionally visited his studio (cat. 18).8 In fact, his red chalk
drawing in the Château Borély in Marseilles (cat. 18, 6) records an antiquities
restorer, quite possibly Cavaceppi himself, working on a female bust.9 The
present composition is repeated in a small signed painting in the Museum
Boijmans Van Beuningen in 161 room’s generous proportions, the beamed
ceiling and for- mal window, the elegant Louis XV-style table– are consistent
with those found in Robert’s detailed sanguine of Breteuil’s grand Salone.13
Thus, it is highly likely that the composition was conceived during his stay at
the Ambassador’s residence, 1763–65, and that it is Breteuil’s guest room that
is shown. Perhaps the drawing, more a ricordo than a preliminary study for the
painting, was intended as a gift to the host, as a gesture of gratitude and
friendship. A highly regarded collector and patron of the arts, Breteuil was an
ardent admirer of Robert’s work.14 At the outset of his posting in Rome,
Natoire praised the diplomat as an informed collector who already owned
‘quelque chose’ by Robert.15 Breteuil would later procure many of Robert’s
drawings as well as paintings.16 A close friendship between patron and artist
followed, evidently based on a shared love of art and antiquity in all its
forms.17 Together they translated texts by Virgil and took sightseeing trips in
Rome, and at least one to Florence.18 The Ambassador asked Robert to accompany
him to Sicily ‘pour visiter et dessiner les beaux morceaux antiques qui sont
dans ses cantons-là’, but, it seems, the trip never took place.19
Representations of artists in the act of drawing antique sculpture and other
works of art are recurrent in Robert’s oeuvre along with representations of
classical architecture in ruin. Detailed studies made on the spot such as The
Draughts- man at the Capitoline, c. 1763 (p. 56, 95) convey something of the
wonder and excitement that he must have felt at 20 encountering these
celebrated sights for the first time. He often represented himself or his
associates in grandiose, stage-like settings or as art tourists, of the sort
that he would frequently have encountered. But as an intimate scene of private
contemplation, the present drawing stands apart 2. Hubert Robert, The Artist in
his Studio, c. 1763–65, oil on canvas, 37 × 48 cm, Museum Boijmans van
Beuningen, Rotterdam, 2586 (OK) 3. Hubert Robert, Young Artists in the Studio,
red chalk, with framing lines in pen and brown ink, 352 × 412 mm, Metropolitan
Museum of Art, New York, 1972.118.23 from these. It bears a close resemblance
to a composition in the Metropolitan Museum of Art (fig. 3) showing the same
room but on another day with visitors: a bare-footed servant and two artists –
one drawing, the other inspecting the portfolio.21 A little-known red chalk
study formerly in the Camille Groult collection in Paris (fig. 4) probably
preceded 22 the present drawing. It shows the same relaxed figure alone –
Robert – in identical attire but fully dressed and outdoors, lying on the
ground and sketching, presumably after his favourite subject: the Antique. 4.
Hubert Robert, Le Dessinateur, red chalk, 300 × 400 mm, present whereabouts
unknown 1. Bust of Empress Faustina the Younger, 147–48 ad,
marble, 60 cm (h), Musei Capitolini, Rome, inv. MC449 Rotterdam (fig. 2).10 It
is of similar dimensions to the drawing but a few modifications were made:
Robert no longer has a full head of hair and the open portfolio used as a foot
rest is now safely closed, while another leans against his chair. The view of
the room is wider and includes a high, beamed ceiling, a generously sized
window and a table on the right, on which rest tools and utensils. A further
nod to antiquity is a lively copy after the celebrated Roman sculpture,
Germanicus (cat. 33, 4) on a pedestal on the left. While it was found in Rome,
in Robert’s time the statue was already in Versailles.11 But its fame endured
in Italy and a plaster cast was available for study at the French Academy in
Rome. Further playful details were introduced: a framed picture and
precariously hung drawings (including a possible por- trait of Faustina); a
charming dog that takes a keen interest in Robert’s casually flung slippers.
While the intimate nature of the scene, bordering on genre, suggests this is
indeed Robert’s private space, its spacious grandeur is not that of his student
lodging at the Academy. When his official term as pensionnaire ended in October
1763, his stay was extended by the largesse of the French Ambassador of the
Order of Malta to the Holy See, the Bailli de Breteuil (1723–85), who housed
him at his palace on the Via dei Condotti until he returned to Paris in July 1
2 3 4 5 6 7 8 avl According to N. Schwed (e-mail, 30 July 2014), this
information was provided to Christie’s at the time of the Decourcelle sale in
2002. Taillasson 1808, 473. Letters exchanged between the influential Marquis
de Marigny, Director General of King Louis XV’s buildings (and brother of his
mistress, Madame de Pompadour), and Charles-Joseph Natoire, Director of the
French Academy in Rome published by A. de Montaiglon and J. Guiffrey between
1887–1912 provide essential details about Robert and his stay in Italy. For Robert and Choiseul, see ibid., 11, 262, no. 5331. Collector and
connoisseur, Pierre-Jean Mariette preferred Robert’s draw- ings to his
paintings: ‘ses tableaux est fort inferieur à ses desseins [sic], dans lesquels
il met beaucoup d’esprit’ (Mariette 1850–60, 4, 414). Letters between Marigny and Natoire mention requests from Mariette for
drawings: Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, 11, 365, no. 5477; 367, no. 5483; 388,
no. 5521; 428, no. 5589. The traditional view that the drawing is a
self-portrait (Paris 1922, 16, no. 85; Paris 1933, 124, under no. 197), upheld
in the recent literature, need not be questioned. The figure resembles Augustin
Pajou’s marble bust of Robert (1780) in the École Nationale Supérieure des
Beaux-Arts and Elisabeth Vigée-Lebrun’s 1788 portrait of him in the Louvre. He
has all the characteristics of an emperor from the Antonine period. It could
well be a reference to the bust of Marcus Aurelius in the Capitoline Museum.
See Fittschen and Zanker 1985, 1, 76–77, no. 69, 2, pls 79, 81–82. A copy by
Cavaceppi in terracotta is preserved in the Museo del Palazzo di Venezia, see
Rome 1994, 104, no. 19, repr. For the bust, see Fittschen and Zanker 1983, 1,
pp.20–21, no. 19, 2, pls 24–26. For its restoration, see London 1983, 66–67.
Cavaceppi’s posthumous inventory of 1802 mentions two marble Faustinas and one
plaster cast 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 (Gasparri and Ghiandoni
1994, 264, no. 310, 270, no. 624 and 286, no. 109). For surviving copies by
Cavaceppi, predominantly acquired by English collectors, see Howard 1970, 123,
figs 8 and 9, 128; Howard 1982, 240, no. 6, 313, 133, 83, 251, 25–26, 326, 211,
264, no. 14, 268, no. 15, 419; I. Bignamini, in London and Rome 1996–97, 211–12,
no. 159; D. Walker, in Philadelphia and Houston 2000, 242, no. 120. This is
not, however, Faustina, as Marianne Roland Michel proposed (Marseille 2001, 96,
no. 109). For the painting, see J. Ebeling, in Ottawa, Washington D.C. and
elsewhere 2003–04, 308–09, no. 92, 372, with select previous literature listed.
See Haskell and Penny 1981, 119–20, no. 42, 114. Montaiglon and Guiffrey
1887–1912, 12, 86, no. 5856. Paris, Louvre. Méjanès 2006, 77, no. 33 and Ottawa
and Caen 2011–12, 140–41, no. 53. The connection was first noted by J. de
Cayeux in Rome 1990–91, 191, under cat. no. 135. On Breteuil, see
Yavchitz-Koehler 1987, 369–78, Depasquale 2001, and Ottawa and Caen 2011–12, 13–17
and 140–41, no. 53. Letter from Natoire to Marigny, 25 April 1759 (Montaiglon
and Guiffrey 1887–1912, 11, 272–73, no. 5346). For the drawings, see letter
from Natoire to Marigny, 5 January 1763, Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, 11,
455, no. 5636. Compositions by Robert are among the copies made in 1770 by Ango
(active 1759 – after 1773) after works in Breteuil’s collection (Choisel 1986,
nos 23–26, 44, 80). Their close rapport was recorded by Robert’s friend, the
painter Elisabeth Vigée-Lebrun (Gabillot 1895, 80–81). Breteuil owned antique
works as well as copies after the antique by contemporary artists. Some are
recorded in drawings by Ango (Choisel 1986, 29, 45, 47, 51, 54–57, 71–72,
74–75, 83 and 125) including a small bronze Venus Pudica, no. 56, and a copy by
Laurent Guiard (1723–88) after the Venus Calllypige from the Farnese collec-
tion (no. 75). Additional antique works and copies are listed in Breteuil’s
posthumous sale in Paris of 16 January 1786, including a copy of the Gladiator
by Luc-François Breton (1731–1800), no. 135, and a copy of the bust of
Germanicus in the Capitoline, no. 143. Although no bust of Faustina is listed,
he may have owned the copy that Robert draws in the present drawing. Gabillot
1895, 61, 81–82. Letter from Natoire to Marigny, 5 January 1763 and another
from Marigny to Natoire, 20 February 1763. Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, 11,
455, no. 5636 and 462, no. 5649. J.-P. Cuzin, in Paris 2000–01, 373, no. 178.
Michel 1998–2000, 60, 62, 13. Sold Galerie Charpentier, Paris, 21 March 1952,
lot 52. Present whereabouts unknown. 163 of 1765. 162 12 Certain
decorative features in the painting – the 18. Hubert Robert (Paris
1733–1808 Paris) The Roman Studio of Bartolomeo Cavaceppi c. 1764–65 Black
chalk, 339 × 443 mm Inscribed verso l.r. in pencil: ‘Salon de 1783 / No. 61
Intérieur d’un atelier à Rome / dans lequel on restaure des statues / antiques
/ Cet atelier est pratiqué et construit / dans les debris d’un ancien temple /
5 pieds de large sur 3 pieds 9 pounces de haut’ watermark: A coat of arms,
possibly containing a star, three hills and the initials ‘CB’ below, surmounted
by a Cardinal’s hat with tassels on each side (see Heawood 1950, nos 791–99).
provenance: Charles Albert de Burlet (1882–1956), Berlin, around 1910; Sold
Galerie Fischer, Lucerne, 13 November 2006, lot 1944; Private collection,
Switzerland, in 2006; Le Claire Kunst, Hamburg, in 2011; Sold Villa Grisebach,
Berlin, 28 November 2013, lot 307R, from whom acquired. literature: Le Claire
Kunst 2011, no. 13 (unpaginated), repr.; Yarker and Hornsby 2012-13, 65–66, 37;
Körner 2013, lot 307R, repr. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin
Bellinger collection, inv. no. 2013-030 A visit to the studio of
Bartolomeo Cavaceppi (1716–99) the sculptor, dealer, antiquarian, collector and
especially, restorer of ancient sculpture was essential for any serious art
tourist or collector in Rome on the Grand Tour.1 Known as the ‘Museo
Cavaceppi’, by the 1770s it was listed in guide- books as among the top sights
of the Eternal City.2 Johann Wolfgang von Goethe (1749–1832), who lived nearby,
and visited it in 1788 noted that one could experience in the studio ancient sculpture
from close proximity in all its gran- deur and beauty.3 The painters, Henry
Fuseli (1741–1825) and Giovanni Casanova (1728/30–1795) and the sculptor,
Antonio Canova (1757–1822), also came to see the collection.4 The ‘Museo’ was
an international meeting place, frequented by many artists including the
English sculptor, Joseph Nollekens, who worked for Cavaceppi as an assistant in
the 1760s, and the English painter, Charles Grignoin, who resided with him in
1787.5 Strategically located between the Spanish Steps and the Piazza del
Popolo and thus in the social hub of Rome, the sprawling workshop was graced by
European royalty – Catherine the Great, Maria Christina, Duchess of Teschen,
Princess Sophia Albertina of Sweden, her brother, King Gustav III – and a
steady stream of English Grand Tourists like Charles Townley (see cat. 28),
many of whom became important clients.6 From a modest background, Cavaceppi
trained as a sculp- tor before enrolling in the Accademia di San Luca in 1732.
Albani, the nephew of Pope Clement XI and then the most respected private
collector of antiquities in Rome, appoints Cavaceppi as his personal restorer.
The association brought him many profitable commissions from foreign tourists
for whom he found antique statues, restored them, or made copies, in marble or
plaster. He also created original works, rarely signed, that were often
confused with authentic antique originals. Through his friend, the art
historian and archaeol- 164 ogist, Johann Joachim Winckelman (1717–68), who, in
1764, published The History of Art in Antiquity (Geschichte der Kunst des
Alterthums), Cavaceppi secured many English clients, taken with the current
mania for classical antiquity. He later served as chief restorer to the Pope at
the Museo Clementino and was made Knight of the Golden Spur in 1770. In 1768
Cavaceppi published the first volume of his Raccolta d’antiche statue, busti,
teste cognite ed altre sculture antiche con- taining sixty plates of antique
statues that had been repaired in his studio, often ‘corrected’ with missing or
broken parts filled in. Over half of these had been acquired by English
collectors.7 A year later, he published the second volume, essentially a
promotional catalogue with works available for purchase, followed by a third in
1772. Illustrating a total of 196 works, these influential volumes, the first
of their kind, helped to satisfy the seemingly insatiable demand for
unblemished antique sculpture – free of fragmentary vestiges or other perceived
flaws – and to encourage an emerging neo-classical aesthetic. For modern
scholars they serve as an indispensible tool for identifying works he restored.
By 1756 Cavaceppi established his vast studio on the Via del Babbuino, a
workshop and showroom. Cavaceppi employed a range of skilled and unskilled
workers with different roles and specialisations, fifteen of whom have been identified
by name, with Giuseppe Angelini and Carlo Albacini being the most
accomplished.8 The frontispiece to the first volume of Cavaceppi’s Raccolta
provides a fascinating look at his active studio with assistants exercising
different techniques of restoration and antiques in various stages of
completion (fig. 1). It offers a glimpse at what must have been a sprawling
complex of rooms with distinctive architectural details – high ceilings,
lattice windows and an enfilade of vaulted archways connecting each room, one
leading to an open garden courtyard at the back.9 165 1. View of Cavaceppi’s Roman Studio,
engraving, in Raccolta d’antiche statue, 1, frontispiece, Rome, 1768. Photo:
Warburg Institute, London Hubert Robert certainly encountered Cavaceppi during
his Roman sojourn, 1754–65 (see cat. 17), and visited his studio on occasion,
as this drawing testifies. Executed in soft black chalk, it offers a view of
one of the many rooms in the Cavaceppi workshop. As in the engraving, there is
a high ceiling with lattice windows, statues and blocks of stone are scattered
about, and affixed to the wall on the left, is the same type of wooden
structure and lead point suspended on a cord used for measuring sculpture.10
With a chisel in one hand and a mallet in the other, a restorer dressed in
formal attire, perhaps Cavaceppi himself, is busy worker-cutting on the
cascading drapery of an enormous statue of an armless woman. We can identify
this as Cavaceppi’s studio with virtual certainty as two works in the drawing
were illustrated in perhaps Cavaceppi himself, working on a female bust (fig.
6). Captivated by the theme of the artist at work, Robert would return to the
subject of the restorer’s studio. In 1783 he successfully showed the
impressive, rather generically entitled, The Studio of an Antiquities Restorer
in Rome at the Salon (Toledo Museum of Art), which, though clearly an idealised
vision featuring some of the most famous antique works of the day (including
the River Nile, Cupid and Psyche, etc.), is also a wistful reminiscence of the
artist’s own Roman years and passionate study of antique statuary: a diminutive
figure of an artist sketching is visible in the foreground.18 In another
little-known privately owned picture attributed to Robert, well-clad visitors
admire antique statues in a sculptor’s studio while the ubiquitous artist is
seen drawing (fig. 7). Though certain features suggest the small painting may
also represent Cavaceppi’s studio, as with the Toledo canvas, topographical
exactitude is tempered with a more generalised, romantic – and highly saleable
view – of remnants from Rome’s ancient. For his life and work, see especially
Howard 1970, Howard 1982, London 1983, Howard 1991, Gasparri and Ghiandoni
1994, Rome 1994, Piva 2000, Barr 2008, Weiss and Dostert 2000, Bignamini and
Hornsby 2010, 252–55; Piva 2010–11, C. Piva in Rome 2010–11, 418–19, no. IV.1
and Meyer and Piva 2011, 149–55 (for essential bibliography). Howard 1988, 479;
Piva 2000, 5; Barr 2008, 86. Goethe 1827–42, 540, cited in C. Piva in Rome
2010–11b, 418–19, no. IV.1. Piva 2000, 6, 17, note 4; Honour and Mariuz 2007, 26,
60–63. For Nollekens, see Howard 1964, 177–89; Coltman 2003, 371–96. For
Grignoin, see Ingamells 1997, 433–34. Howard 1988, 479. For Cavaceppi’s works
from British collections, see London 1983. Haskell and Penny 1981, 68. Barr
2008, 104 and 184, Appendix B. Some of the same topographical details are
discernible in a little-known floor plan of the building (Piva 2000, 10, 7).
For more on this device and an engraving demonstrating its use (published by D.
Diderot and J. le Rond d’Alembert in the Encyclopédie in 1765), see Myssok
2010, pp. 272–73, 13.2. As first noted by Stefan Körner (Körner 2013, under lot
307R). Ibid., under lot lot 307R; U. Müller-Kaspar, in Hüneke 2009, 416, no.
270. Körner 2013, under lot lot 307R; U. Müller-Kaspar, in Hüneke 2009, 430,
no. 283. Müller-Kaspar 2009, 395. D. Kreikenbom, in Hüneke 2009, pp. 578–79,
no. 357. According to Winckelmann, many statues (including Kalliope and
possibly also Lucilla) were acquired by Bianconi in 1766 from the sale of
Cavaliere Pietro Natali’s collection in Rome. Conceivably, they were brought to
Cavaceppi’s studio while they were still in Natali’s possession (Müller- Kaspar
2009, 395; U. Müller-Kaspar, in Hüneke 2009, pp. 416, 430). Marseille 2001, 96, no. 109. Guiffrey 1869–72, 32, p.25, no. 61:
‘L’intérieur d’un Attelier à Rome, dans lequel on restaure des statues
antiques. Cet Attelier est pratiqué et construit dans les debris d’un ancien
Temple’. 2.
Lucilla Sotto sembianza d’Urania, anch’essa or esistente in Germania, engraving
in Raccolta d’antiche statue, 1, Rome, 1768, pl. 58. Photo: Warburg Institute, London 3. Kore as Urania, body, Antonine, c.
150 ad after a Greek model, 4th century bc; head, 160–170 ad; marble, 270 cm
(h), Berlin, SMBPK, Antikensammlung, Sk 379 in the drawing, to the right, the
muse Kalliope, lost in Berlin during World War II, was also restored by
Cavaceppi (figs 4–5).13 Both were acquired in 1766 by the Bolognese doctor and
antiquarian, Giovanni Ludovico Bianconi, another friend of Winkelmann’s, for
King Frederick William II of Prussia and assigned to Cavaceppi for restoration
before being sent to the Sansssouci Palace in Potsdam in 1767.14 The child’s
sarcophagus visible in the drawing on the left wall is also similar to that
preserved today in Charlottenhof Palace in Potsdam though it does not appear in
the Raccolta.15 The dating of Robert’s drawing is problematic as in 1766, the
year Lucilla and Kalliope were acquired by Bianconi, the 4. Kalliope, engraving
in Raccolta d’antiche statue, 1, Rome, 1768, pl. 45. Photo: Warburg Institute,
London 5. Kalliope, Roman, marble, 98 cm, formerly Berlin, SMBPK,
Antikensammlung, Sk 600, lost c. 1945 6. Hubert Robert, L’Atelier du
restaurateur de sculptures antiques, black chalk, 368 × 323 mm, Château Borély,
Marseilles, Inv. 68-194 painter was already back in Paris, having left Rome in
July 1765. However, it seems highly likely that the works were lodged in
Cavaceppi’s studio before their acquisition and, indeed, they are drawn in
their pre-restoration state.16 During the same period Robert probably made the
black chalk drawing now in Marseille showing an antiquities restorer, 17 7.
Hubert Robert, Studio of a Sculpture Restorer, oil on panel, 13 × 10 cm,
private collection. Photo: Witt Library his Raccolta. 166 11 One of
them, the monumental female statue in the centre, re-appears in the
publication, with arms added and an entirely different head (fig. 2). Cavaceppi
identified her as Lucilla, daughter of Marcus Aurelius, with the attrib- utes
of Urania, the muse of Astronomy (‘Lucilla Sotto sembian- za d’Urania,
anch’essa or esistente in Germania’). A staggering 220-cm in height she is
preserved today, with further restorations, in Berlin (fig. 3).12 The seated
figure behind her past. avl 167 19. Georg Martin Preissler (Nürnberg
1700–54 Nürnberg) after Giovanni Domenico Campiglia (Lucca 1692–1775 Rome)
Self-Portrait of Campiglia Drawing 1739 Engraving, first state (before the lettering)
226 × 167 mm (image); 315 × 223 mm (sheet) Inscribed l.l. below image in
pencil: ‘Campiglia se ipse del.’; l.r.: in pencil: ‘G. M. Preisler.Sc.Nor.; and
l.c. in pencil: ‘Joh. Dominicus Campiglia, / Pictor Florent. Delineator / Musei
Fiorentini.’ provenance: Trinity Fine Art, London, 1999, from whom acquired.
literature: Le Blanc 1854–88, 3, 244, no. 6, ‘Campiglia (Giov. – Dom.). 1739.
In – fol. -1er état : avant le lettere.’ exhibitions: London 1999b, 8, no. 16,
not repr. Katrin Bellinger collection, inv. no. 1999–054 A prolific and
accomplished draughtsman, painter and reproductive engraver, Campiglia was a
central figure in promoting and disseminating images of the Antique during the
middle decades of the 18th century and therefore, is a key figure in the
present exhibition.1 His formative years were spent training with his uncle and
local painters in Lucca, Bologna and Florence where he studied drawing, as well
as anatomy and perspective and made copies after the Old Masters. By 1716, he
was residing in Rome studying the most important collections of antique
sculpture. That year he received a first prize for painting and for drawings to
illustrate a booklet for the Accademia di San Luca. He was already respected
for his wide culture and his work was admired by English collectors like
Richard Topham, who esteemed his refined and highly finished chalk studies of
antique sculpture, as well as his portraits.2 His close involve- ment in two
lavishly illustrated and highly successful and influential publications largely
devoted to antique sculpture – the Museum Florentinum and the Museo Capitolino
(cat. 20) – brought him lasting fame and consolidated the taste for classical
antiquity that continued through the rest of the 18th century and beyond.3 In
the early 1730s the Florentine antiquarian, Anton Francesco Gori (1691–1757),
began to assemble a set of vol- umes that aimed to provide a visual record of
the art collec- tions of Florence, mainly those of the Medici, the ruling
dynasty. He commissioned Campiglia, already in the city in 1726, and others to
make drawings of the works selected to be engraved. The Museum Florentinum was
published between 1731 and 1766. It comprised twelve large volumes divided into
four parts: Gemmae antiquae ex Thesauro Mediceo et privatorum dactyliothecis
florentiae..., devoted to engraved gems (1731–32); Statuae antiquae deorum et
virorum illustrium, on antique statues and monuments (1734), Antiqua numismata
aurea et argentea, dedicated to ancient coins (1740–42) and, lastly, Serie di
ritratti degli eccellenti pittori, illustrating 320 portraits of prominent
artists, published in 1752–66. This last volume, based on art- ists’
self-portraits in the Uffizi’s collection, is of particular relevance here, as
we shall see later. This rare engraving by Preissler, hitherto unpublished and
known only in a single impression of the first state, is probably based on a
now untraced self-portrait of Campiglia.4 Without explanation, Le Blanc dates
the print to 1739 – when the artist was 47.5 Wearing an ermine collar with a
crisp, white, open-necked shirt and directly engaging the viewer, he presents
himself as straightforward, successful and brim- ming with confidence. Assuming
that Le Blanc’s date is cor- rect, the print appeared at time when Campiglia
was enjoying considerable success. The first two parts of the Museum
Florentinum had already been published, he had begun work on the Capitolino
(see cat. 20) and, precisely in 1739, he had been appointed Superintendent of
the Calcografia Camerale, the papal printing press. These successes culmi-
nated in his nomination for membership of the Accademia di San Luca in November
of that same year.6 Resting a sheet of paper against a drawings portfolio held
in his left hand, with his right hand he is drawing with a porte-crayon a model
of the Belvedere Antinous standing on the table before him (fig.). At the
statue’s feet is a figurine of a herm with the head of a youth, perhaps
Mercury, and two medals, one showing a man holding a lyre, who may be Homer.7
It is not surprising that Campiglia, whose reputation was established through
skilfully reproducing artefacts from the ancient world, should present himself
with the Belvedere Antinous, one of the most celebrated statues to survive from
antiquity. Renowned since its discovery in the 16th century and for its
placement in the Belvedere court, it soon ranked among the most famous statues
of Rome.8 Casts of the statue of the handsome youth, the lover of the Roman
emperor, Hadrian, who drowned himself in the Nile and was deified by 168same
year.6 Resting a sheet of paper against a drawings portfolio held in his left
hand, with his right hand he is drawing with a porte-crayon a model of the
Belvedere Antinous standing on the table before him (fig. 1). At the statue’s
feet is a figurine of a herm with the head of a youth, perhaps Mercury, and two
medals, one showing a man holding a lyre, who may be Homer.7 It is not
surprising that Campiglia, whose reputation was established through skilfully
reproducing artefacts from the ancient world, should present himself with the
Belvedere Antinous, one of the most celebrated statues to survive from
antiquity. Renowned since its discovery in the 16th century and for its
placement in the Belvedere court, it soon ranked among the most famous statues
of Rome.8 Casts of the statue of the handsome youth, the lover of the Roman
emperor, Hadrian, who drowned himself in the Nile and was deified by 168
169 adopts the same pose in the print as he did for his person- ification
of painting in the little-known Il Genio della Pittura of around 1739–40 in the
Accademia Nazionale di San Luca (fig. 2).13 The chalk holder becomes a paint
brush and the drawings portfolio a canvas. Not coincidentally, Campiglia seems
to have donated this painting as his entry work to the Academy c. 1740, about
contemporary with the present engraving.14 He cleverly fuses iconographic
elements in an amusing black chalk study of c. 1737–38 in the British Museum
(fig. 3) acquired by Charles Frederick (1709–85) while in Rome on the Grand
Tour, where he depicts himself drawing in the company of a seated monkey who
playfully holds up a paint brush, a clear allegorical reference to art
imitating nature or ‘art as the ape of nature’ as Aristotle describes it in the
Poetics.15 Characterised as ‘a very well-bred communica- tive man’, Campiglia
and his portraits were enormously popular with English collectors.16 Campiglia
made several other self-portraits throughout his career.17 Of particular
relevance is the painting made around 1766 for his pupil and collaborator,
Pietro Antonio Pazzi (c. 1706–after 1766) and now in the Uffizi.18 It shows the
artist at ease, his hands casually resting on his ever-present portfolio. The
picture appears, like so many of the Uffizi self-portraits, as an engraving by
the same Pazzi in the final volume of the Museum Florentinum (fig. 4).19 In
Pazzi’s engraving the format and central image dimensions are nearly identical
to our print of Campiglia by Georg Martin Preissler, who, not coincidentally,
engraved other portrait plates in the Museum Florentinum. Furthermore, the
pencil lettering, Joh. Dominicus Campiglia, / Pictor Florent. Delineator,
beneath the image in our engraving is similar in style and format to the
engraved inscriptions accompanying the other portraits in the book. Also
telling is the final pencil inscription, Delineator Musei Fiorentini, under his
name in the print. All this evidence strongly suggests that Campiglia intended
to use the present image for the Museum Florentinum – and had it engraved by
Preissler for that purpose – but he decided not to use it. Perhaps it served as
a kind of test-print for the engraved self-portraits in the volume. Although
the portrait series was not published until 1752–66, by 1739, Gori and
Campiglia would already have started to plan the format of the later sections.
Interestingly, Charles Le Blanc similarly describes Preissler’s engravings of
Dürer, Eglon van der Neer, Rubens and Raphael, all destined for the Museum
Florentinum, as first states ‘before the lettering’.20 But whatever our print’s
true purpose, by the time the portrait volumes appeared, Campiglia, then well
into his sixties and in the twilight of his career opted to present a more
recent and relaxed version of himself. avl 2. Giovanni Domenico Campiglia,
Genius of Painting, c. 1739–40, oil on canvas, 48 × 63.3 cm, Accademia
Nazionale di San Luca, Rome, Inv. 0075 3. Giovanni Domenico
Campiglia, Self-Portrait of Campiglia Drawing, with a Monkey Seated on the
Table at Left, c. 1737–38, black chalk, 417 × 258 mm, Department of Prints and
Drawings, British Museum, London, 1865,0114.820 4. Pietro Antonio Pazzi after
Giovanni Domenico Campiglia, Self-Portrait of Campiglia, engraving in Museum
Florentinum, Florence, 12, 1766, plate XXII, 274 × 176 mm (plate), Sir John
Soane’s Museum Library, London, 2848 1. Belvedere Antinous, Roman copy of the
Hadrianic period (117–138 ad) from a Greek original of the 4th century bc,
marble, 195 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 907 the grief-stricken emperor,
were produced almost immedi- ately after its discovery and copies in marble and
bronze were made through the 17th century.9 Considered to embody perfection,
according to Bellori the statue was the subject of studies in ideal proportion
by François Duquesnoy (1597– 1643) and Nicolas Poussin (1594–1665) (p. 47, 68).
The figure had wide-reaching appeal to collectors and connois- seurs, and
enticed a range of artists, who, from the 16th century included it in
portraits.10 During the 18th century small-scale models in bronze or marble,
like that seen in the engraving, were produced in large numbers with ‘restored’
arms, as seen here. Archaeologist and art historian, Winckelmann, no doubt
contributed to the statue’s elevated status even more with his claim, ‘our
Nature will not easily create a body as perfect as that of the Antinous admir-
andus’.11 The widely held belief that the statue was the embodiment of ideal
beauty would be upheld into the 19th century: even the usually acerbic William
Hogarth admitted its proportions were ‘the most perfect of any of the antique
statues’.12 Campiglia was not shy and his other self-portraits make a
compelling comparison with this one. Interestingly, he 1 2 3 4 5 6 7 For
essential biography, see Prosperi Valenti 1974, pp. 539–41; Quieto 1984a;
Quieto 1984b. Through his agent, Francesco Ferdinano Imperiali, Topham commis-
sioned Campiglia and others, including the young Pompeo Batoni, to make dozens,
if not hundreds of drawings with the aim of systematically illus- trating Roman
collections of antiquities. Many of these drawings are now preserved at Eton
College. See Connor Bulman 2002, 343–57 and Windsor 2013, 11, 14–15. The corpus
of his drawings for the Museum Florentinum are in the Uffizi in Florence
(Quieto 1984b, 10) and for the Museo Capitolino, in the Istituto Nazionale per
la Grafica in Rome (Quieto 1984b, 10, 17–26, 29–36; I. Sgarbozza in Rome
2010–11b, 402, no. II.15a-b). It is listed by C. Le Blanc (1854–88, 3, 244, no.
6) among the prints by G. M. Preissler: ‘Campiglia (Giov. – Dom.). 1739. In –
fol. -1er état : avant le lettere. Frauenholz, 4 flor.’ To the knowledge of the
present writer, no impression of the second state exists nor, for that matter,
has either state previously been published or discussed. The name and price Le
Blanc men- tions – Frauenholz, 4 florins – refer to the Nuremberg-based print
dealer and publisher, Johann Friedrich Frauenholz (1758–1822), who may have
owned the catalogued impression and who sold (or acquired) it for the price of
4 florins. While it is possible that the present impression is the one
described, none of Frauenholz’s collector’s marks or inscriptions (L. 951, L.
994, L. 1044 and L. 1458) appear on it. Campiglia’s relatively youthful
appearance suggests the drawn or painted original may have been executed a
decade or so earlier. He was proposed by Sebastiano Conca on 15 November 1739
and his mem- bership confirmed, 3 January 1740 (Quieto). As noted by Eloisa
Dodero (personal communication), the herm is similar to the one seen in the background
of Campiglia and Pazzi’s engraving, Students Copying Antiquities at the
Capitoline Museum (see following entry, cat. no. 20). 8 9 10 11 12 13 14 15 16
17 18 19 20 Haskell and Penny (1981, 139–42, no. 4) give a full account of the
sculp- ture’s history and reception. See also Krahn 1996. See V. Krahn in Rome
2000b, 2, 403–04, no. 9. Haskell and Penny 1981, 142 and Krahn 1996. Haskell
and Penny 1981, 142; and Winckelmann 1968, 153. Hogarth 1753, 81–83. Faldi
1977, 504, 508, 8. Quieto 1983, 5; Rome 1968, 22, no. 5. Liverpool 1994-95, 72,
no. 19. Ibid., 72. Gentleman’s Magazine 1853, 40, 237, as quoted by H.
Macandrew 1978, 138. Painted self-portraits are in the Palazzo Altieri, Viterbo
(formerly Faldi collection, Rome; Quieto 1983, 5–6, 8, 3, c. 1726–28), the
Lemme collection, Rome (ibid., 1983, 5, 7–8, 4, 1732–34). See also the two
mentioned in note 18, below. Drawn self-portraits of a later date have appeared
on the London art market: Chaucer Fine Arts, 2003 (London 2003a, no. 12),
Christie’s, December 6, 2012, lot 56 and Christie’s, April 21 1998, lot 126.
See Quieto 1983, 4–5, 2 and Quieto 2007, 93–94, 27. As that author noted, it
reprises the composition of an earlier work painted for the Accademia di San
Luca (1983, 5, cover). Although in 1766 the painting was not yet in the Uffizi
– it was not left by Pazzi to the Grand Ducal collection until 1768 (Quieto
1983, 5) – it is likely that at that date he had already planned to bequeath
it, given the self- portraits in the Museum Florentinum are based on the
Uffizi’s collection. Le Blanc 1854–88, 3, 244, 8, 23, 28, 30. Interestingly, Le
Blanc indicates that the Dürer and Raphael were also once owned by Frauenholz.
It seems that all these early first states were in a folio together. 170
171 20. Pietro Antonio Pazzi (Florence c. 1706 – after 1766 Florence)
after Giovanni Domenico Campiglia (Lucca 1692–1775 Rome) Students Copying
Antiquities at the Capitoline Museum 1755 Engraving in Giovanni Gaetano
Bottari, Musei Capitolini, 3, Rome, 1755, 1 99 × 186 mm (plate), 444 × 287 mm
(sheet) Inscribed l.l.: ‘Gio. Dom. Campiglia inv. e disegn.’; and l. r.: ‘P.
Ant. Pazzi incis.’ provenance: Robert Adam (1728–92); his
sale, Christie’s, London, 20–21 May 1818; purchased by Sir John Soane
(1753–1837), not listed in the Christie’s sale catalogue (according to hand
list, Sir John Soane’s Museum, Priv. Corr. XVI.E.3.12: ‘Books purchased at Mr
Adam’s sale’). literature: Haskell and Penny 1981, 84, fig. 46; Lyon 1998–99, 109–10,
under no. 89, not repr. (A. Themelly); Paris 2000–01, 370, fig. 2; Macsotay
2010, 194, fig. 9.3. exhibitions: Not previously exhibited. Sir John
Soane’s Museum Library, London, 4033 exhibited in london only Few images
capture the process of learning to draw after the Antique in 18th-century Rome
as vividly as Campiglia and Pazzi’s densely populated engraving. More readily
accessible than the Belvedere Courtyard in the Vatican (cats 5 and 6) and the
private aristocratic collections, such as the Borghese and Farnese (cats 6 and
21), the Capitoline Museum was the ideal venue for students to draw in situ
from some of the most celebrated antiquities preserved in Rome. Founded in 1471
with Pope Sixtus IV’s (r. 1471–84) dona- tion of several important ancient
bronzes – the She Wolf, the colossal bronze head and hand of Constantine, the
Spinario and the Camillus – all preserved until then in the Lateran Palace, the
Capitoline grew in time to become one of the largest and most prestigious
collections of classical antiqui- ties ever assembled in Rome.1 In 1734, in
conjunction with the recent acquisition of the celebrated collection of
Cardinal Alessandro Albani, and thanks to the enlightened policy of Pope
Clement XII (r. 1730–40), the Capitoline opened as a public museum.2
Established with the two-fold civic and educational purpose of preserving and
making accessible to the public the city’s antiquities and to cultivate ‘the
practice and advancement of young students of the Liberal Arts’, the museum
soon became a lure for Italian and foreign antiquar- ians and artists alike.3
The didactic function of the museum was emphasised further by Pope Benedict XIV
(r. 1740–58) with the opening of the Pinacoteca Capitolina in 1748, the first
public collection of painting in Rome, and, in 1754, the establishment of the
Accademia del Nudo.4 The Capitoline thus became the first public museum in
Europe in the modern sense of the word and an ideal academy where art students
could copy concurrently from the Antique, Old Master paintings and the live
model. The museum’s educational mission was sanctioned by its growing associa-
tion with the Accademia di San Luca. Academy members 172 presided over the life
classes at the Accademia del Nudo (Campiglia directed classes there in April
1757 and November 1760)5 and prizes for the student competitions at the
Accademia di San Luca, the Concorsi, were awarded in sump- tuous ceremonies in
the rooms of the Capitoline palaces.6 This image is the engraved vignette that
introduces the volume devoted to ancient statues of the Musei Capitolini, an
ambitious publication produced with the pedagogical intent of spreading
knowledge of the museum and its collection of antiquities.7 Conceived by
Cardinal Neri Maria Corsini, the nephew of Pope Clement XII, it consisted of
large engraved plates (fig. 1), all based on designs by Campiglia, accompa-
nied by a substantial commentary by the antiquarian Bottari; both artist and
writer had worked together previously on the monumental Museum Florentinum
(cat. 19). First published in Italian as Del Museo Capitolino (Rome, 1741–82)
and then translated into Latin as Musei Capitolini (4 vols, Rome, 1750–82) in
order to reach a wider foreign audience, the large volumes can be 1. Carlo
Gregori after Giovanni Domenico Campiglia, The Dying Gladiator, engraving, 202
× 300 mm, plate 68 from Giovanni Gaetano Bottari, Musei Capitolini, 3, Rome,
1755 173 considered the first systematic catalogue of a public
museum.8 The prestige of the publication, the clarity and neatness of the
illustrations – produced by many of the engravers who, like Pietro Antonio
Pazzi, had participated in the Museum Florentinum – soon made it a celebrated
and indispensible reference work that greatly contributed to the diffusion of
the classical taste in Europe. It was a familiar presence in the libraries of
connoisseurs and artists as this copy, owned by Soane and before him by Robert
Adam (1728–92), testifies. The engraving is a celebration of the new
educational role of the museum and its association with the Academy of San
Luca, of which Campiglia had been a member since 1740 (see cat. 19). In a
crowded space, a group of students is seen sketching and modelling in clay
after two of the most famous statues that had been recently acquired for the
museum: the so-called Dying Gladiator (fig. 2) and the Capitoline Antinous
(fig. 3), now believed to represent respectively a Gaul and Hermes. The former,
discovered around 1623, and already famous in the 17th century when it was in
the Ludovisi collection, had been acquired in 1737 by Clement XII for the 9 Capitoline.
Placed at the centre of the composition, with 2. The Dying Gladiator, Roman
copy of a Pergamene original of the 3rd century bc, marble, 93 cm (h),
Capitoline Museums, Rome, inv. MC0747 3. The Capitoline Antinous, Roman copy of
the 2nd century ad of a Greek original of the 4th century bc, marble, 180 cm
(h), Capitoline Museums, Rome, inv. MC0741 the young artists assembled in a
semi-circle around it as if in a life class, the Gladiator invited analysis and
study of the male anatomy in a complex pose, as well as offering an example of
a noble and heroic death. The Capitoline Antinous, recorded in Cardinal
Albani’s possession from 1733, had been acquired with the rest of the
Cardinal’s collection in the same year and was displayed in the museum a few years
later.10 Quickly eclipsing the Belvedere Antinous (see 26, 22 and cat. 19, 1),
it represented a perfect image of the male body in its youth. It is not by
chance that the young students are focusing on these two statues among the many
towering over them in the room, for the Dying Gladiator and the Capitoline
Antinous were the chosen subjects for the third class of the Concorso
Clementino – reserved for the copy – either drawing or modelling – usually
after the Antique, organised by the Accademia di San Luca for the year 1754
(fig. 4).11 But if the engraving alludes to a contemporary event, the
establishment of the museum as a ‘Scuola del Disegno’,12 it is also a
capriccio, as it gathers together sculptures that were in fact displayed
elsewhere in various rooms and collections, much as Hubert Robert would do in
his beautiful red chalk drawing of almost ten years later (p. 56, 96). The
Dying Gladiator, the Capitoline Antinous and the two stand- ing statues behind
him, the Antinous Osiris and the Wounded Amazon, could all be admired and
studied in the privileged space of the Salone of the Palazzo Nuovo, which
housed some of the best masterpieces of the collection.13 The so- called Albani
Crater, half visible on the far left, and the seated Agrippina behind the
Antinous, were however, displayed elsewhere in the Palazzo Nuovo, respectively
in the Stanza del Vaso and in the Stanza dell’Ercole.14 Moreover, Campiglia did
not confine himself to depicting only works from the Capitoline collections:
even more out of place are the two figures on the right, who turn their backs
to 4. Giovanni Casanova, Drawing of the Capitoline Antinous (third award for
the third class in painting of the Concorso Clementino), 1754, red chalk on
brown prepared paper, 510 × 290 mm, Accademia Nazionale di San Luca, Rome, inv.
A.380 5. Giovanni Paolo Panini, View of Ancient Rome or Roma Antica, detail,
c.1755, oil on canvas, 169.5 × 227 cm, Staatsgalerie Stuttgart inv. Nr. 3315 us
as if to signify that they belong elsewhere. These are the much revered
Antinous Belvedere and the Venus de’ Medici – dis- played at that time
respectively in the Vatican and in the Tribuna of the Uffizi.15 Their presence
here probably served to sanction and affirm the canonical status of their
Capitoline companions, all recently excavated or acquired. What we see is
therefore a symbolic space, where reality and fantasy are combined to
legitimise and promote the relatively new collection of the museum. The volumes
of the Musei Capitolini served as a reference tool for many artists and no
doubt inspired the scene showing young students drawing the Dying Gladiator in
the foreground of Giovanni Paolo Panini’s renowned View of Ancient Rome (fig.
5, and 53, 92), the first version of which, not coincidentally, was painted at
about the same 6. Carlo Gregori after Giovanni Domenico Campiglia, Young
Artists Copying the ‘Arrotino’, engraving, 118 × 151 mm, page 225 in Anton
Francesco Gori, Museum Florentinum, Florence, 1754 time as the publication of
this particular volume. Campiglia devised similar graceful allegorical
vignettes for the contemporary volumes of the Museum Florentinum.16 One in
particular, engraved by Carlo Gregori (1719–59), seems to be the Florentine
counterpart of the Roman image, showing students sketching the Arrotino,
surrounded by the symbols of the arts and books on anatomy and geometry (fig.
6).17 Although in the second half of the 18th century access to the museum
sometimes proved difficult due to lack of personnel, and while artists had to
go through the bureau- cratic process of applying to the papal camerlengo or to
the director of the museum for licence to make copies, the Capitoline remained
one of the most popular sites among artists and travellers, as the many views
of its interiors testify (pp. 55–56, figs 94–96).For recent and brief
introductions on the history of the Capitoline collec- tions, with previous
bibliography, see Parisi Presicce 2010; Paul 2012. On the early years of the
Capitoline as a public museum see Arata 1994; Franceschini and Vernesi 2005;
Arata 2008. Document dated 5 December 1733 quoted in Arata 1994, 75. On the
Pinacoteca see Marinetti and Levi 2014. On the Accademia del Nudo see
Pietrangeli 1959; Pietrangeli 1962; MacDonald 1989; Barroero 1998. On Campiglia’s supervision of life classes at the Accademia del Nudo see
Pirrotta 1969. On the Concorsi see Cipriani and Valeriani 1988–91; Rome,
University Park (PA) and elsewhere 1989–90; Cipriani 2010–11. See Quieto 1984b;
Kieven 1998; Philadelphia and Houston 2000, 484– 86, no. 329 (S. Prosperi
Valenti Rodinò); Rome 2004, 96–108, nos 1–7 (A. Gallottini); Rome 2010–11b, p.
401, no. II.14 (I. Sgarbozza). Campiglia started working on his designs for the
plates in 1735: see Franceschini and Vernesi 2005, 59–60. See Haskell and Penny
1981, 224–27, no. 44; Mattei 1987; La Rocca and Parisi Presicce 2010, 428–35.
See Haskell and Penny 1981, 143–44, no. 5; La Rocca and Parisi Presicce 2010, 500–01.
The statue was exhibited in the museum from 1739 or 1742. Cipriani and
Valeriani 1988-91, 2, 219–20, 228. While the 1754 prize drawings depicting the
Antinous survive in the archives of the Accademia, the terracottas representing
the Dying Gladiator are lost. The Dying Gladiator was also chosen as the
subject for the third class in painting in 1758 and the Capitoline Antinous for
the third class in sculpture in 1779, and in painting in 1783: ibid., 3, 9–22,
120, 129–30, 141–46. It was referred to as such in the award ceremony for the
Concorso: see Belle Arti 1754, 36. On the Antinous-Osiris, donated to the
museum by Benedict XIV in 1742 and from 1838 in the Vatican Museum, see Paris,
Ottawa and elsewhere 1994– 95, 78–79, no. 24 (M. Pantazzi). On the Wounded
Amazon, acquired in 1733 as part of Albani collection, see Weber 1976, 46–56.
On the Albani Crater and its base, both previously in the Albani collection,
see Grassinger 1991, 189–90, no. 32. On the so-called Agrippina, already
recorded in the Capitoline collections in 1566, see Haskell and Penny 1981, 133–34,
no. 1; Rome 2011, 324–25, no. 5.9 (A. Avagliano). On their display at that
time, see Venuti 1750, 23, 30, 33–34; Arata 1994. For the Antinous Belvedere
and the Venus de’ Medici see above 26, 22 and 42, 56. Many are found in volumes
8 to 12. On the so-called Arrotino or Knife Grinder, once in the Villa Medici
in Rome and from 1680 in the Tribuna of the Uffizi see Haskell and Penny 1981, 154–56,
no. 11; Bober and Rubinstein 2010, 83–84, no. 33. On access to the Capitoline
Museum in the 18th century see Sgarbozza 2010–11. 174
175 21. Louis Chays (Aubagne c.1740–1811 Paris) The Courtyard of the
Farnese Palace in Rome with the Hercules Farnese 1775 Pen and brown ink, brown
wash, pencil and white gouache, 434 × 534 mm Inscribed recto, l.l., in pen and
black ink: ‘chaÿs f. a rome 1775.’; and l.c., in pencil, possibly by different
hand: ‘Cour du Palais Farnése’. provenance: Hippolyte Destailleur (1822–93)
collection (no. 110). literature: Berckenhagen 1970, 394, no. 3027, repr.;
Giuliano 1979, 100, 13; Michel 1981b, 584, 8; De Seta 1992, 240, repr.;
Gasparri 2007, 53, 45 and p. 178, no. 273.4; Macsotay 2010, p. 194; Göttingen
2013–14, p. 208, 53. exhibitions: Not previously exhibited.
Kunstbibliothek, Berlin, Hdz 3027 exhibited in london only Private aristocratic
collections of antiquities in Rome contin- ued to attract large numbers of
artists and visitors during the 18th century. The Farnese Palace, with its
group of canon- ical ancient sculptures – the Farnese Hercules (see p. 30, 32)
the Farnese Bull and the Farnese Flora among others – and its Gallery with the
Loves of the Gods, the widely admired fresco cycle by Annibale Carracci
(1560–1609), offered the ideal opportunity to copy the Antique and a tour de
force of early 17th-century mythological decoration at the same time.1 Drawings
after the famous Farnese statues by Maarten van Heemskerck (1498–1574),
Hendrick Goltzius (1558–1617) (see cat. 7), Annibale Carracci (see p. 43, 58),
Peter Paul Rubens (1577–1640; see p. 46, 67), Nicolas Poussin (1594–1665),
Anthony van Dyck (1599–1641), Carlo Maratti (1625–1713; see p. 43, figs 60–61),
Hubert Robert (1733–1808), Jacques Louis David (1748–1825) and
Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780– 1867), to name just a few, testify to the
enduring fame of the palace and its legendary collection of antiquities among
European artists residing in Rome.2 In the 18th century the palace went through
changes of ownership, passing in 1731 from the Farnese to the Bourbon, but it
remained a lively envi- ronment, with many artists and others residing in its
rooms, and was readily accessible for those who wished to draw or model.3
Between 1786 and 1800 all the ancient statues of the collection were removed by
the Bourbon King Ferdinand IV to Naples – where they can be seen today in the
National Archaeological Museum – a decision that marked the end of the palace
as a privileged place for studying the Antique.4 Louis Chays is one of the
lesser-known figures among the French artists who gravitated towards the
Académie de France in Rome in the 1770s. He studied at the Academy in Marseille
under Jacques-Antoine Beaufort (1721–84), before moving to Rome thanks to the
patronage of Louis-Joseph Borély, a wealthy Marseille merchant.5 His five years
in Rome, between 1771 and 1776, were probably spent in the company of such pensionnaires
of the Academy as Joseph-Benoît Suvée (1743–1807), Jean-Simon Berthélemy
(1743–1811), Pierre- Adrien Pâris (1745–1819) and François-André Vincent
(1746–1816). These young artists were of the same generation, they all arrived
in Rome in 1771 and stayed there for a similar span of years. They seem to have
travelled around the city and the Roman campagna as a group, sketching sites,
ruins and landscapes, and they naturally shared a similar style and
repertoire.6 The result of Chays’ artistic wanderings consists mainly of
evocative drawings in the manner of Hubert Robert and Jean-Honoré Fragonard
(1732–1806) though Chays’ drawings lack their characteristic vivacity. The
corpus of his drawings is preserved in the Kunstbibliothek in Berlin.7 This study,
with its companion, The Colonnade of St Peter’s Square, stands apart in Chays’
known graphic production in being a large-scale and highly finished
pen-and-wash draw- ing.8 The lively view is the only known representation of
groups of students, rather than just individuals, at work in the courtyard of
the Palazzo Farnese; nor does the present writer know of any similar record of
study in other private collections of antiquities in Rome. It is also an
important historical document, being one of the last images to show the statues
in their original location before their removal to Naples, from 1786 onwards.
Chays cleverly chose a low view- point and an angle that allows for maximum
drama: the receding pillars of the portico frame the focus of our atten- tion,
the massive statue of the Farnese Hercules. We are standing in the shadowy
passage leading to the gardens of the palace and we see the Hercules from
behind, by then a view as successful as the front (see cats 7 and 16). Other
images of the Hercules from the back in the Farnese courtyard had been produced
decades earlier by Giovanni Paolo Panini (1691–1765) (fig. 1), Giacomo
Quarenghi (1744–1817) (fig. 2) and Frédéric Cronstedt (1744–1829), and one
wonders whether Chays had seen any of them.9 In any case, to animate his
composition Chays certainly took inspiration from the many capricci by Panini
where the Hercules towers over groups of wanderers and also from such drawings
showing artists at 176 177 1. Giovanni Paolo Panini, View of the
Courtyard of the Palazzo Farnese with the ‘Hercules’ seen from Behind, c. 1730,
pen and black and grey ink and wash, and coloured wash, heightened with white,
419 × 417 mm, private collection work in Rome produced by Charles-Joseph
Natoire (see 55, 94) or Hubert Robert (see 56, figs 95–97). We see here the
usual cast of characters familiar from Robert’s drawings: a combination of
artists, beggars, dogs, young children, and bystanders, some of them dressed in
the current fashion, like the elegant aristocratic couple in the centre, no
doubt accompanied by a tour guide or cicerone. Others are presented in
all’antica dress, such as the beggar and muscular male student on the right,
both of whom wear Roman togas and gaze intently at the sculpture from behind.
But among the many visitors to the courtyard, the true protagonists are the
students, busy at work, sketching on large sheets resting on drawing boards or
modelling in clay, as in Campiglia’s and Pazzi’s engraving (cat. 20). Some
focus on the Hercules, while others, seated on chairs or on the ground in the
middle of the courtyard, turn towards the other star of the collection, the
Farnese Flora, visible to the right of the Hercules.10 The entire palace seems
to have been turned into an academy, with animated conversations taking place
throughout: particularly intriguing is the lively discus- sion taking place
around a large drawing in the central bay of the first floor loggia. In the
distance, through the entrance vestibule on the lower right, we have a glimpse
of the Piazza Farnese and the external world. While the technique in this
drawing is precise and although the details are lively, the rendering of the
architec- ture, which was evidently drawn first and before the figures were
superimposed, is less successful. It is notable that the 2. Giacomo Quarenghi,
View of the ‘Farnese Hercules’ in the Portico of the Courtyard of the Farnese
Palace, c. 1775–79, pen and black ink and wash and coloured wash, 304 × 233 mm,
private collection scale of the two sides of the courtyard visible behind the
por- tico does not quite correspond. In fact, Chays’ real forte was landscape
rather than accurate architectural views, although reasonably faithful
depictions of the Villa Madama and other Roman buildings survive.11 Although
this view is largely imaginary, it seems to evoke the spirit of the courtyard
as it appeared to pupils of the Accademia di San Luca and pensionnairesof the
Académie de France in Rome who frequented the palace regularly. Visits to
grandiose palaces such as this must have left a lasting impression on these
young students. The Accademia di San Luca sent its students around Rome to copy
the Antique, especially on the occasion of academic competitions, the
Concorsi.12 In the 18th century the Hercules and the Flora were chosen several
times as subjects for the third class of the Concorso Clementino – reserved for
the copy, a drawing or a model, usually after the Antique – and the students’
gather- ings in those occasions must have offered a scene as animated as that
we see in Chays’ drawing.13 Most of the artists depicted here are sketching on
large sheets of paper, generally reserved in the 18th century for academic
drawings after the Antique, as seen also in Campiglia’s and Pazzi’s engraving
(cat.).14 The Académie de France in Rome had been founded in 1666 with the
specific intent of shaping the taste and manner of young artists ‘sur les
originaux et les modèles des plus grands maîtres de l’Antiquité et des siècles
derniers’ and of furnishing the royal gardens at Versailles with copies of the
most famous antiquities from Rome.15 Although the direct copy from antique
statuary had been neglected for certain periods since the Académie’s founding,
it had once again gained a central place in the official curriculum of the
pensionnaires during the direc- torates of Nicolas Vleughels (1725–37) and
Charles-Joseph Natoire (1751–75) (see cat. 16). Although no surviving drawings
after the Antique by Chays are known, he probably produced them as he spent
considerable time in Rome copying Old Master paintings, such as those by
Raphael, Titian and Reni.16 He returned to Marseilles in 1776 and spent the
following years decorating the château of his patron, today the Musée Borély,
where he put into practice the lessons and skills he had acquired in Rome.17
After becoming one of the professors of the Académie in Marseilles, Chays
participated in the Revolution and as sergeant-major took part in 1790 in the
occupation of the fort of Notre-Dame de la Garde by the Garde National.18 He
later published a collection of etchings some of which he based on the views
that he had assembled in his Roman years.19 Among the last mentions we have of
him are his Paris Salon entries of 1802 and 1804: perspective drawings of the
antiquities collection of the Louvre. SeeMéjanès1976;WashingtonD.C.1978–79,pp.148–155.
Berckenhagen1970,pp.393–96,nos3026–3074and3673–3674. Ibid.,p.394,no.3026. For
Panini’s drawing see Arisi 1961, 245, no. 80, 359; Sotheby’s New York, 29–30
January 2013, lot 113. Two paintings attributed to Panini (wrongly, in the
opinion of the present writer) in a French private collec- tion show similar
views: see Munich and Cologne 2002, 408–10, nos 187 a/b. For Quarenghi’s
drawing see Sotheby’s New York, 27 January 2010, lot 90. Another, almost
identical version is in the Hermitage, St Petersburg (inv. 25819): Bergamo
1994, 185–86, no. 234. For Cronstedt’s drawing, executed in 1772, now in the
National Museum, Stockholm see Palais Farnèse 1980–94, 2, 131, b. Before the
18th century the same viewpoint had been represented in a drawing by an
anonymous Dutch draughtsman of c. 1540–60, now in the Herzog Anton
Ulrich-Museum, Braunschweig (inv. Z 320r): see Gasparri 2007, 17, 4 and 178,
no. 273.1. The Flora is here shown with its Renaissance restorations by
Guglielmo Della Porta and Giovanni Battista de Bianchi and before Carlo
Albacini’s new restorations undertaken after 1787: see Gasparri 2009–10, 3,
esp. 38–40. See for instance, Berckenhagen 1970, 395, no. 3030. On the Concorsi
see cat. 20, note 6. Both were chosen for the third class in sculpture in 1703:
Cipriani and Valeriani 1988-91, 2, 26–27. The Hercules was chosen for the third
class in both painting and sculpture in 1728 and later on in sculpture in 1783
and in 1789 (this time from a plaster since the statue had been transported to
Naples in 1787): ibid., 2, 182, 3, 130, 153. The Flora was chosen for the third
class in painting in 1750: ibid., 2, 209–10. See the size of the drawings for
the third class of the Concorsi Clementini of the Accademia di San Luca in
Cipriani and Valeriani 1988–91, vols 2–3. See also Macsotay 2010, 193–94. ‘On
the originals and the examples of the greatest Antique masters and those of
preceding centuries’: letter from Jean-Baptiste Colbert to Nicolas Poussin,
1664, mentioned in Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, 1, 1 and in Lapauze 1924,
1, 2. See Aymonino’s essay in this catalogue, 44–46. These copies now survive
in the Musée des Beaux-Arts and in the Musée Borély in Marseille: Paris 1989, 268–69,
no. 113 (J.-F. Méjanès). Benoît 1964. Vialla
1910, 484. ‘Ouvrage de 36 feuilles tirées des Porte-feuilles du C[itoye]n S.
[sic] Chays...’. See Thieme-Becker 1907–50, 6, 445. See also Le Blanc 1854–88, 1,
625. ‘Dessins perspectives de différens points de vue, qui donnent le
développe- ment de toutes les figures antiques du Musée [du Louvre], ainsi
qu’une juste idée du local et de la décoration du palais’: Sanchez and Seydoux
1999– 2006, 1, 46, no. 58 (1802), 76, no. 105 (1804). See also Paris 1989, 268–69, no. 113 (J.-F. Méjanès). 178 179 1 2 3 4 5
aa On the Farnese Hercules see above 30 and cat. 7. On the Farnese Flora see
Haskell and Penny 1981, 217–19, no. 41; Gasparri 2009–10, 3, 37–42, no. 8, pl.
VI, 1–5 (C. Capaldi). On the Farnese Bull see Haskell and Penny 1981, 165–67,
no. 15; Gasparri 2009–10, 3, 20–25 no. 2, pl. II, 1–16 (F. Rausa). See Gasparri
2007, 11 and 157–78. See Michel 1981b and La Malfa 2010–11. In 1775, the year
of this drawing, the palace had 180 inhabitants. See the list in Michel 1981a, 565.
For a list of artists residing in the palace see Michel 1981b, table between 610–11.
Rausa 2007b, 57–60. On Chays (often spelled differently, Chaÿs, Chais, Chaix)
see: Thieme- Becker 1907–50, 6, 445; Benoît 1964; Toronto, Ottawa and elsewhere
1972–73, 143–44, no. 23; Paris 1989, 268–69, no. 113 (J.-F. Méjanès); Raspi
Serra 1997. 22. Fuseli (Zürich–London) The Artist Moved by the Grandeur
of Antique Fragments; The Right Hand and Left Foot of the Colossus of
Constantine c. 1778–79 Pen and sepia ink and wash, red chalk, 420 × 352 mm
Inscribed recto on the pedestal of the foot: ‘S.P.Q.R’, followed by illegible
characters and l.r. in pencil: ‘85 W. Blake’ (false signature, perhaps 19th
century) watermark: ‘ZP’ and the coat of arms of the city of Zurich1
provenance: Susan Coutts, Countess of Guildford (1771–1837) (her stamp on the
verso2); Paul Hürlimann, from whom acquired in 1940. selected literature: Irwin
1966, 47, pl. 32; Schiff 1973, 1, 115, 478–79, no. 665, 2, 145, 665; Tomory
1972, 49, 90, 4; Füssli 1973, 60–61, repr.; Schiff and Viotto 1980, pl. viii,
no. D35 on 112; Klemm 1986, no. 4; Lindsay 1986, 483–84, 1; Taylor 1987, 125,
repr.; Noch- lin 1994, 7–8, 1; Rossi Pinelli 1997, 15, 18, repr.; Bartels 2000,
23, note 2; Patz 2004, 271, 3; Bungarten 2005, cover; Pacini 2008, 55–56, 4;
Valverde 2008, 163–64, 5; Trumble 2010, 6–7, repr.; Barroero 2011, no. 22,
repr.; Mongi-Vollmer 2013, 294, 127. selected exhibitions: Zurich 1941, no.
251; New York 1954, no. 31; Zurich 1969, no. 165; Copenhagen 1973, 55, no. 21,
not repr. (B. Jørnæs); Hamburg 1974–75, 129, no. 45 (G. Schiff); London 1975, 54–55,
no. 10 (G. Schiff ); Paris 1975, unpag., no. 10 (G. Schiff ); Milan 1977–78, 19–20,
no. 6 (L. Vitali); Geneva 1978, 8, no. 3; Munich 1979–80, 279–80, no. 154 (J.
Gage); Tokyo 1983, 62–63, no. 7 (G. Schiff ); Zurich 1984, 49, 179, no. 25;
Stockholm 1990, 33, no. 3 (G. Cavalli-Björkman and R. von Holten); Stuttgart
1997–98, 5–7, no. 10 (C. Becker); Zurich 2005, 256, no. 1, frontispiece 2;
Paris 2008, 120, no. 36 (B. von Waldkirch). The Kunsthaus, Graphische
Sammlung, Zürich, inv. no. 1940/144 exhibited in london only This celebrated
drawing is one of the most powerful images ever produced on the relationship of
the artist with the Antique. It presents a very different response to classical
antiquity from the many didactic compositions shown in this catalogue,
expressing the extremism and the Sturm und Drang that imbued early Romanticism.
The artist here confronts the Antique not as a source of information or
inspiration but on a deeper level: he meditates on the grandeur of a lost past
both as a philosopher, considering the fragility of the human condition and,
more powerfully still, as a creator in despair at his own inability to match
the achievements of classical antiquity. Fuseli’s evocative image effectively
summarises the dramatic change in the approach to the Antique which took place
in Rome in the late 18th century within a circle of anti-academic and largely
self-taught artists, such as Alexander Runciman (1736–85), John Brown
(1749–87), Tobias Sergel (1740–1814) and Thomas Banks (1735–1805), among whom
Fuseli was the most influential.3 For them the ancient sculptures were alive, a
tangible expression of the emotions and individuality of their creators, rather
than models of ideal beauty and proportional perfection. Born Johann Heinrich
Füssli in 1741 in Zurich into a fam- ily of artists, his father, Caspar
(1706–82), a painter and histo- rian, was one of the Swiss correspondents of
Anton Raphael Mengs (1728–79) and Johann Joachim Winckelmann (1717– 68).4
Fuseli’s early education benefited from the teaching of Johann Jakob Bodmer
(1698–1783) and Johann Jakob Breitinger (1701–76), forerunners of the literary
and artistic movement Sturm und Drang, who introduced the young artist to the
study of Homer, Dante, Shakespeare, Milton and the Niebelungenlied, decisively
contributing to the eclecticism of his imaginative sources. Fuseli moved to
London in 1764 and soon became well acquainted with the city’s lively cultural
milieu and quickly acquired fame as a painter. In 1770, on the advice of Sir
Joshua Reynolds (1723–92), Fuseli travelled to Rome. He stayed there for eight
years, with very few inter- ruptions, leaving in 1778. After spending a few
months in Zurich, he returned to London where he was destined to spend the rest
of his life. Elected academician at the Royal Academy of Art in 1790 and
Professor of Painting in 1799, Fuseli became one of the most acclaimed artists
of his generation; he died in the residence of the Countess of Guilford, one of
his patrons and previous owner of the pre- sent drawing, in Putney Hill in
south-west London, in 1825. The eight years Fuseli spent in Rome were of great
impor- tance for the development of his artistic language and theory of art.
Fascinated by the majestic relics of imperial Rome, but even more impressed by
Michelangelo’s masterpieces, Fuseli soon distanced himself from the idealised
and harmonious view of the Antique espoused in the theoretical works of Gotthold
Ephraim Lessing (1729–81) and of Winckelmann, who had been murdered in Trieste
two years before Fuseli arrived in Rome. This death was symbolic for, although
ini- tially a great enthusiast for Winckelmann’s writings, some of which he
translated into English, Fuseli became one of his most radical detractors by
asserting the importance of appreciating the emotions and conflicts that ran
through 180 181 ancient works of art.5 As Fuseli stated many years later
in the introduction to his Lectures on Painting presented at the Royal Academy,
German critics had taught the artist ‘to substitute the means for the end, and,
by a hopeless chase after what they call beauty, to lose what alone can make
beauty interest- ing – expression and mind’.6 ‘Expression animates, convulses,
or absorbs form. The Apollo is animated; the warrior of Agasias is agitated;
the Laocoon is convulsed; the Niobe is absorbed’. This is one of the Aphorisms
on Art compiled by Fuseli in the late 1780s, although it was first published
only in 1831 by John Knowles in his The Life and Writing of Henry Fuseli.7
These famous masterpieces of ancient sculpture, the Apollo Belvedere, the
Borghese Gladiator, the Laocoön and the Niobe Medici, are not seen by Fuseli
simply as the embodiment of a canon of perfection, models to imitate, or points
of reference in the academic education of a young artist; they are treated as
animated forms of the subjectivity of the artists who created them and,
ultimately, of their ways of expressing feeling and emotion.8 Fuseli’s many
studies after the Antique are never an end in themselves, they are rather means
of expression and, because of that, ancient statues can be adapted, distorted,
even desecrated by him.9 A homosexual scene depicted on an ancient Greek
red-figured vase can become the model for a Shakespearean composition showing
the King of Denmark poisoned by his brother in his sleep.10 Likewise, one of
the Horse Tamers on the Quirinal Hill (see 22, 10), reproduced and adapted many
times by Fuseli, can be turned into Odin receiving the Prophecy of Balder’s
Death.11 If Winckelmann praised the Laocoön for his dignified grandeur,12 in
two of his late sketches Fuseli transformed the Trojan priest into the object
of a courtesan’s sexual desire.13 Even the famous Nightmare (1781),14 one of
the most disquieting compositions ever created by Fuseli, still retains
memories of the Antique, from the devilish head of the horse peeping out of the
curtain, so like those of the Quirinal horses, to the reclining figure in which
one can recognise a transposition of the celebrated Cleopatra in the Belvedere
Court (see 26, fig. 20).15 The Artist Moved by the Grandeur of Antique
Fragments per- fectly embodies the artist’s revolutionary approach to the
Antique. Although no doubt based on sketches made on the spot, and using a
technique, sepia ink and wash, often used by Fuseli in Rome, the watermark with
the coat of arms of the city of Zurich suggests that the drawing was made
during or soon after his brief stay in his home town after he left Rome in
1778.16 The drawing shows a scantily clad figure seated on a block dwarfed by
two adjacent marble fragments, the left foot and the right hand of a gigantic
statue set on plinths before a wall composed of majestic, square blocks.17 The
pose of the artist, loosely inspired by Michelangelo’s Ancestors of Christ on
the Sistine Ceiling, is deeply expressive; he cradles his head in deep grief
and anguish, and his mood, with his legs casually and unguardedly crossed, is
one of total surrender; the forlornness is enhanced by the wild weed that
audaciously pushes its way up against the colossal marble hand. The antique
fragments are easily recognisable as the left foot and the right hand of a
colossal statue of the emperor Constantine the Great (r. 306–37 ad; figs 1–2)
which were found in the west apse of the Basilica of Maxentius in 1486 under
the papacy of Innocent VIII (r. 1481–92) along with other fragments including
the head (fig. 3) and the right foot. By Fuseli’s time they could be admired in
the courtyard of the Palazzo dei Conservatori on the Capitoline hill, where
they are still preserved today.18 The monumental scale of these fragments
fascinated generations of artists from the Renaissance onwards, but they became
increasingly a focus of attention in the 17th and 1. Colossal Statue of
Constantine the Great: Right Hand, 313–24 ad, Luna marble, 166 cm (h),
Capitoline Museums, Courtyard of the Palazzo dei Conservatori, Rome, inv.
MC0786 2. Colossal Statue of Constantine the Great: Left Foot, 313–324 ad,
Parian marble, 120 cm (h), Capitoline Museums, Courtyard of the Palazzo dei
Conservatori, Rome, inv. MC0798 3. Colossal Statue of Constantine the
Great: Head, 313–24 ad, marble, 260 cm (h), Capitoline Museums, Courtyard of
the Palazzo dei Conservatori, Rome, inv. MC0757 in the drawing (‘S.P.Q.R.’) can
actually be found on the pedestal supporting the right foot and not the left
one, as Fuseli represents it here. The detail, however, is not irrelevant,
since it is part of the inscription, commemorating a restoration of the
fragments promoted by Pope Urban VIII (r. 1623–44) in 1635 and 1636, so that
one can read a clear reference to the awe inspired by the greatness of the ‘Res
Romana’.22 Awe of the Antique is expressed in the drawing by the contrast between
the muscular fragments of the colossus and the diminutive, frail and almost
abstract figure, who can be interpreted both as a personification of a modern
man in general and as a symbolic self-portrait of the artist – ‘Füssli’ in
German means ‘little foot’, thus suggesting a visual word- play.23 However, the
title of the drawing given by Gert Schiff, The Artist Moved by the Grandeur of
Antique Fragments, captures only one aspect of the composition, that is, the
feeling of artistic and intellectual inadequacy before the sublime Past.24
Possibly, even the inconsistent perspective of the pedestal of the foot was
consciously introduced to express the artistic inferiority of the moderns
compared to the ancients. But the pose, which recurs many times in Fuseli’s
works, can convey at the same time other meanings.25 It could cause a deep 5.
Hubert Robert, Ancient Sculptures of the Capitoline, red chalk, 442 × 330 mm,
Staatliche Museen, Kunstbibliothek, Berlin, Inv. Hdz 3076 18th centuries:
two wanderers are shown among the colossal ruins in a drawing by Stefano della
Bella (1610–64; 4),19 while the foot and hand appear in an evocative capriccio
by Hubert Robert (1733–1808; 5).20 As in their studies, Fuseli’s drawing shows
the base sustaining the colossal upward pointing right hand on the pedestal
supporting the left foot; only in the early 19th century was the hand moved to
its present location along the wall of the courtyard. Fuseli, however, modifies
the disposition of the fragments in order to create a perfect triangle, whose
apex coincides with the index finger of the hand, pointing authoritatively
upward. The fact that the drawing was made when Fuseli had already left Rome
may account for a few inconsistencies, such as swapping the right foot – flat
on the ground – and the left foot – with the heel slightly raised and set on a
support.21 Moreover, the first line of the inscription roughly transcribed 4. Stefano
della Bella, Courtyard of the Palazzo dei Conservatori, after 1659, pen and
grey ink and grey wash, 152 × 194 mm, Istituto Nazionale per la Grafica, Rome,
inv. FC 126001 sense of loss before the dismembered
statue as well as a melancholic frustration at the impossibility of achieving a
whole, satisfactory knowledge of the ancient world. Finally this evocative
image is clearly a grim meditation on human Vanitas, on the cruelty of time and
its inevitability, capable of destroying even the most impressive human
creations.26 In his vision of antiquity Fuseli was following in the footsteps
of Giovanni Battista Piranesi (1720–78), the great engraver of ancient Rome,
who populated his images with similar figures dwarfed and seemingly lost among
the colossal remains of Rome’s decaying statues and buildings. Piranesi’s
ancient ruins, the gigantic stones of which fill his modern onlookers with
wonder, are evoked by Fuseli in the massive blocks of the background wall,
which are not part of the courtyard of the Palazzo dei Conservatori. Piranesi
died in 1778, the year that Fuseli left Rome for Zurich where he created this
harrowing memory of the city he had just left behind him. Could the present
drawing be a posthumous homage to the great Italian artist, with whom Fuseli
shared the same inventive, original and imaginative vision of the Antique? aa
et ed 1 Schiff 1973, 479. 2 Ibid., 479. 3 See Pressly 1979; Valverde 2008;
Busch 2013. 4 For Fuseli’s biography see Tomory 1972, 9–46; Schiff 1973, 1;
Zurich 2005, 13–31. 5 See Pucci 2000b and Busch 2009. During his London years
between 1764 and 1770, Fuseli translated into English Winckelmann’s
Beschreibung des Torso del Belvedere Zu Rom (1764, translated as Description of
the Torso Belvedere in Rome in 1765) and the Gedanken über die Nachahmung der
griechischen Werke in der Malerei Und Bildhauerkunst (1755, translated as
Reflections on the Painting and the Sculpture of the Greeks in 1765). 6 See
Wornum 1848, 345. On Fuseli’s Lectures see in particular Bungarten 2005. 7
Knowles 1831, 3, 90, aphorism no. 88. 8 For these statues see respectively 26, 18;
41, 54; 26, 19; 30, 34. 9 For a checklist of Fuseli’s drawings of ancient
sculptures see Schiff 1973, 1, 475–79, Schiff 1973, 1, 450, no. 445 (dated
1771); the ancient scene is taken from D’Hancarville 1766–67, 2, pl. 32. Schiff
1973, 456–57, nos 485 and 487 (c. 1776). See in particular Winckelmann. See
also Appendix, no. 15. Schiff 1973, 1, 547, nos 1072 and 1072a (1801–05).
Schiff 1973, 1, 496, no. 757. See Powell 1973, 67–75. See in particular
Waldkirch 2005, 63–78. For a drawing showing a figure in a similar attire see
Schiff 1973, 1, 476, no. 561 (1777–79); and for one with similar blocks in the
background ibid., 1, 447, no. 425. For the right hand and the left foot see
Stuart Jones 1926, 11, no. 13, pl. 5 (hand), 13–14, no. 21, pl. 5 (foot). For a
discussion on the original colos- sal statue see Fittschen and Zanker 1985, 147–52,
pls 151–52; Deckers 2005; Parisi Presicce 2007 (in particular for the history
of the display); Bardill 2012, 203–17. The provenance of the colossus from the
Basilica is testified to by a caption on a drawing by Francesco di Giorgio
Martini (1439–1501) (Morgan Library et Museum, New York, Codex Mellon, fol.
54r), see Buddensieg 1962; census.bbaw.de/easydb/censusID= 233951. See Paris
2000–01, 371 no. 176 (J.-P. Cuzin); Rome 2004, 346, no. 46 (V. Di Piazza);
another similar drawing is in the Louvre, see Viatte 1974, 63 no. 46, 65, 46.
See Berckenhagen 1970, 332; Paris 2000–01, 374, no. 180 (J.-P. Cuzin). These
details are clearly rendered on the drawings by Della Bella and Robert. Bartels
2000, 23 no. 1.7: ‘Senatus Populus Que Romanus APOLLINIS COLOSSUM A Marco
LUCULLO/ COLLOCATUM IN CAPITOLIO DEIN TEMPORE AC VI SUBLATUM EX OCULIS TU TIBI
UT ANIMO REPRAESENTES PEDEM VIDE ET ROMANÆ REI MAGNITUDINEM METIRE’. (‘The
Senate and the People of Rome; that you may bring before your mind’s eye the
colossal statue of Apollo set by Marcus Lucullus on the Capitol Hill, later
removed from sight by the violence of time; look at this foot and be aware of
the greatness of Rome’: translation Eloisa Dodero). Lindsay 1986, 483. Schiff
1973, 1, 115, 478–79, no. 665, 2, 145, 665. The pose finds parallels in other
works by Fuseli chiefly illustrating mourn- ful scenes, such as the painting
showing Milton Dreaming of His Dead Wife Catherine: Schiff 1973, 1, 523–24, no.
920; Zurich 2005, 223, no. 184. Remarkable is the closeness of Fuseli’s figure
with the famous Democritus by Salvator Rosa (Statens Museum, Copehangen; see
Scott 1995, 97, 101; the composition was known also through a number of
etchings, see for instance Naples 2008, 281, no. 8). The philosopher in Rosa’s
composition is shown deep in thought and surrounded by several symbols of
mortality including antiquities; the caption on the etchings describes the
scene as ‘Democritus omnium derisor/in omnium fine defigitur’ (‘Democritus, who
used to laugh about everything, here meditates on the end of every- thing’).
23. Philippe Joseph Tassaert (Antwerp 1732–1803 London) A Drawing Academy 1764
Pen and black ink, grey and black wash drawn with the brush over black chalk,
331 × 309 mm provenance: Private collection, Vienna; Gallery Kekko, Lucerne,
2004, from whom acquired. literature:None. exhibitions: Brussels 2004, 75–76,
repr.; London 2007–08, no. 59, not repr. Katrin Bellinger collection, inv. no.
2004-004 Although Tassaert was born in Flanders, he moved at a young age to
London where he trained with the expatriate Flemish drapery painter, Joseph van
Aken (c. 1699–1749), and where he established his career; aside from occasional
trips to the continent, Tassaert remained in London until his death.1 Van Aken
had a large practice executing draperies for most of the major British portrait
painters active during the 1730s and 1740s, and after his death, Tassaert seems
to have followed his example, assisting especially the portrait painter, Thomas
Hudson (1701–79). In 1769, Tassaert joined the Society of Artists of Great
Britain and served as its presi- dent from 1775–77; he exhibited with the
Society until 1785.2 Also active as a dealer and picture restorer, Tassaert
worked as an agent for the auctioneer, James Christie (1730–1803), valuing
paintings in French and English collections, includ- ing that of Sir Robert
Walpole at Houghton Hall, for sale to Catherine the Great in 1779.3 He later
moved for a period to Italy, residing in Rome between 1785 and 1790.4 As a
mezzotinter, Tassaert reproduced many composi- tions after earlier painters,
especially those by Peter Paul Rubens (1577–1640). The present drawing – a
relatively rare survival compared with his production of prints – shows young
students, dressed in the costumes of Rubens’ era, sketching a reduced model of
the Borghese Gladiator (fig. 1), illuminated by candlelight from above.5 Two
instructors, including the imposing figure of Rubens him-self in the doorway on
the right, inspect drawings made by two pupils who await their verdict. Casts
of busts and statuettes are placed on the shelf above the lamp, as seen in
artists’ work- shops from the Renaissance onwards (see cats 2, 10, 14).6 The
present drawing is closely related to another, rather larger and more loosely
executed, representation of an academy by Tassaert now in the British Museum
(fig. 2), that is observed from a closer viewpoint and is horizontal rather
than vertical in format.7 Rendered in warm brown instead of grey ink, the
British Museum drawing focuses on the group clustered around the sculpture on
the left. The master, in the doorway in our drawing, now leans against a chair
gesturing towards the sculpture and the copy of it made by one of the pupils.
But that student, seen in left profile studying the Gladiator intently, remains
essentially unchanged in both sheets. The British Museum drawing is signed and
dated, ‘Tassaert. del Bruxelles. 1764’, and the Bellinger drawing was no doubt
made at the same time. Both were probably made in preparation for a painting,
now lost, but described in a 1774 review of the Society of Artists’ exhibition
at the Strand in London: ‘Mr. TASSAERT, Director, F.S.A. [ . . .] 285. An
academy with youth’s [sic] at study. -Yellow shaded with black, has a starved
effect’, a description which suggests that it may have been monochrome. 8 A
keen admirer and copyist of Rubens’ work, Tassaert clearly intended to evoke
the atmosphere of the master’s studio. A drawing by Tassaert, ‘Rubens
instructing his pupils’ 1. Agasias of Ephesus, Borghese Gladiator, c. 100 bc,
marble, 199 cm (h), Louvre, Paris, inv. Ma 527 184 185 2.
Philippe Joseph Tassaert, A Drawing Academy, 1764, pen and brown ink and brown
wash over black chalk, 330 × 406 mm, The British Museum, Department of Prints
and Drawings, London, 2003,1129.1 which was sold in London in 1785 was probably
one of the two drawings under consideration.9 The master in both is
physiognomically identical, and wears the wide-brimmed hat and voluminous cloak
seen in Rubens’ mature self-portraits, such as that of 1623 in the Royal
collection, Windsor Castle, an image widely disseminated through engravings.10
Another self-portrait,showingtheartistatsixty,intheKunsthistorisches Museum,
Vienna (1633–35), may also have been known to Tassaert through prints.11 No
doubt Tassaert’s drawings and the lost painting for which they presumably
prepared, were intended to commemorate the fact that Rubens’ studio in Antwerp,
founded on his return from Italy in 1608, was one of the first in Northern
Europe to be organised on the ‘academic’ Italian model. Ruben’s studio – much
more than a workshop – encouraged the intellectual as well as practical
ambitions of young artists, who vied with each other to become his pupils. The purpose
of Tassaert’s lost painting is not certain, but one possibility is that he
intended to present it to the recently revamped Brussels art school. It may be
significant that Tassaert, who hailed from Antwerp (where he became a member of
the Guild of St Luke in 1756), signed the British Museum drawing ‘Tassaert. del
Bruxelles’, and dated it, 1764, the year the Brussels school began to flourish
under new stewardship.12 Reportedly discovered in Nettuno in 1611, the Borghese
Gladiator, signed by Agasias of Ephesus, is thought to copy a statue of the
school of Lysippus.13 It was acquired by Cardinal Scipione Borghese
(1576–1633), and between 1650 and 1807, was displayed in a room bearing its
name on the ground floor of the Casino Borghese before it was sold to
Napoleon.14 The statue was keenly admired by artists from the mid-17th century
onwards as it embodied the male nude in an active, heroic and resolute pose.
François Perrier (1590–1650) ranked it among the finest statues in Rome and
published four views of it in his influential collection of etching after
antique sculpture (Segmenta nobilium signorum et statuarum . . ., Paris, 1638,
pls. 26–29), more than he devoted to any other figure. Casts of it were made
for Philip IV of Spain and for the Académie Royale in Paris (see cat. 16) and
the Académie de France in Rome.15 It became a standard presence in artists’
manuals from the 17th century onwards, as the perfection of its anatomy and
proportions made it an ideal model for young pupils to copy. Its fame endured
well into the 18th century as many of the objects in this catalogue make clear
(cats 16, 24, 26).16 Rubens, who was thirty-four when the statue was found,
revered it greatly. Although his two Roman sojourns (1601– 02 and 1600–08)
pre-date its discovery in 1611, he certainly knew the statue through copies and
probably owned a cast of it.17 That plaster casts came to be widely used in
Northern workshops of the period is shown in the 1635 and 1656 studio
inventories of Rubens’ contemporary, Balen and of Rembrandt and by the many
paintings that depict artists making copies of them (see 40, figs 49–53 and
cat. 14).18 Rubens’ deep interest in antique sculpture, which he collected
enthusiastically, is well-documented.19 In one of his theoretical notebooks, De
Imitatione Statuarum (‘On the Imitation of Ancient Statues’), recording his
observations from 1600 to 1610 on the proportions of the human form, symmetry,
perspective, anatomy and architecture, he defined canonical male body types of
the first rank: the strongest and most robust, the Farnese Hercules (see cats
7, 14, 16, 21); the less muscular and fleshy, Commodus in the Guise of Hercules
and the River Nile (see cat. 5) and the third, lean and slender, with prominent
bones and a longer face, the Borghese Gladiator, which he analysed in a
diagram.20 Finally, there was the slim and handsome type, less strong, among
which statues of Apollo and Mercury were classed.21 Rubens referred to the
Gladiator again in another of his notebooks and he adapted it in some of his
paintings, such as the Mercury and Argus of 1636–37 (Prado, Madrid) where
Mercury in a pose strongly reminiscent of the Gladiator, is about to behead the
multi-eyed giant.22 Although Tassaert would not have known Rubens’ manuscript,
parts of it were published in 1708 by Roger de Piles in his Cours de peinture
par principles, translated into English in 1743 as The Principles of Painting
(see Appendix, no. 8).23 Within twenty years of its discovery, casts of the
Borghese Gladiator were commissioned by Charles I and other English patrons and
it soon became one of the most celebrated 186 187 antique sculptures in
the British Isles.24 By the 18th century, copies of it had becoming a mainstay
of country house collections.25 Joseph Wright of Derby (1734–1797) depicted a
reduced model of the Gladiator studied by candlelight (private collection; see
cat. 24, 2), exhibiting it at the Society of Artists in 1765, just a year after
Tassaert’s drawings and William Pether made a mezzotint after Wright’s painting
in 1769.26 When Tassaert showed his painting of a similar subject, probably
based on his earlier studies, at the same venue in 1774 he may have been
responding to the challenge of his English colleagues, particularly the fellow
mezzotinter, Pether.27 Indeed, it is tempting to suppose that Tassaert, by
exhibiting the finished painting, was asserting the suprem- acy of Flemish
academies over the English ones by establish- ing that the sculpture was
well-known and used as a teaching tool already in Rubens’ time. As will be seen
later (see cats 24–26), study after plaster casts increasingly became an
indispensible part of artistic training in the English Academies as the 18th
century progressed. It is especially significant in the present context that
the catalogue of the posthumous sale of the effects of Tassaert’s master,
Joseph Van Aken, in 1751 in London, lists no fewer than sixty models in
terracotta and plaster after the Antique, among them, the Laocoön, the Farnese
Hercules, heads of Antinous and, significantly, two Gladiators.28 It is well
known that antique models were widely diffused in England in the first half of
the 18th century, well before the foundation of the Royal Academy in 1768 (see
cat. 25), but Van Aken’s collection and Tassaert’s preoccupations suggest that
interest in the Antique had a particularly Flemish dimension. Of course, such
models served a vital role for artists in helping to achieve an idealised
representation of the anatomy, poses and expressions of the human body, but
also, as in the case of Van Aken, they could act as lay-figures for the
arrangement of drapery.29 avl 1 For brief accounts of Tassaert’s life and work,
see Edwards 1808, who, on 282–83, asserts that Tassaert was ‘the scholar’ of
van Aken; Redgrave 1874, 2, 402; Wurzbach 1906–11, 2, 689–90; Thieme-Becker
1907–50, vol, 32, 456; Bénézit 2006, 13, 708–09; Wallens 2010, 328. Edwards
(1808, 282) reports his association with van Aken though the latter had already
moved to London in 1720, before Tassaert was born. They probably met there
though he was only about seventeen when van Aken died. According to Bénézit
(2006, 708), Tassaert was the brother of the sculptor, Jean Pierre Antoine
Tassaert (1727–1788). 2 For his involvement with the Society (and disagreements
with), see Hargraves. His paintings were shown also at the Royal Academy. 3 He
is listed frequently as buyer/seller in Christie’s sale catalogues of c. 1779–
82 (see Kerslake 1977, 1, 337). For Tassaert at Houghton, see Twist 2008, 106–07.
4 Wallens. For his engravings, see Le Blanc 1854–88, 4, 9; Wurzbach 1906–11, 2,
689–90; Smith 1878–83, 3, 1354–56. A further drawing by Tassaert of an artist’s
studio, but with figures in contemporary dress, is in Tate Britain, from the
Oppé collection, black chalk on blue paper, 490 × 317 mm, inv. no. T09847. They
may also be seen lightly sketched at upper right in Tassaert’s drawing of an
artist’s studio in the Tate (see note 5 above). Lock 2010, 255, 12.4; Phillips
2013, 127, 5. ‘Conclusion of the Account of the Pictures now exhibiting at the
Artist’s [sic] great Room near Exeter Exchange, Strand’, published in The
Middlesex Journal, 30 April – 3 May 1774, 2 (as noted by Elizabeth Barker,
under inv. no. 2003,1129.1, British Museum collection database). The same
subject painted by Tassaert, probably more than once, is listed in several
Christie’s sales in London between 1805–12: 1805 (1–2 March, lot 69, seller:
John Mayhew; unsold; 14–15 June, lot 40, seller: John Mayhew; unsold); 1806
(7–8 March, lot 33, seller: John Mayhew; unsold); 1808 (11–12 March, lot 18,
seller: Adam Callander; unsold; 14 May, lot 33, seller: Rev. Philip Duval;
bought by Daubuz); 1809 (17–18 November, lot 65, seller: Adam Callander; bought
by J. F. Tuffen) and 1812 (22 May, lot 44, seller: John Mayhew; unsold; 18–19
December, lot 80, seller: John Mayhew; bought by J. F. Tuffen). Source: Getty
Provenance Index. Jean-Baptiste-Guillaume de Gevigney, his sale, Greenwood,
London, 14–15 April 1785, lot 44. Presumably the same drawing was sold two
years later: ‘An academy by Tassaert, washed in bisque, fine’, Greenwood,
London, 14–15 March 1787, lot 29 to John Thomas Smith for £1.0. Jaffé 1989, 281,
no. 764. Ibid., 371, no. 1379. Between 1764 and 1768, the school was
revitalized under Count Charles Cobenzl (Phillips 2013, 127–28). Paris 2000–01,
no. 1, 150–51 (L. Laugier); Pasquier 2000-01b. Haskell and Penny 1981, 221;
Laugier 2000–01. See also Aymonino’s essay in this catalogue, 41. Haskell and
Penny 1981, 221. Ibid., 221–24, no. 43, 115. For Rubens’ study of sculpture in
Roman collections, see Van der Meulen 1994-95, 1, 41–68. For van Balen’s
inventory, see Duverger 1984–2009, 4, 200–11. Among the casts listed are the
Laocoön, Hercules, Apollo, Athena and Mercury (ibid., 208). Rembrandt’s 1656
bankruptcy inventory (Strauss and Van der Meulen 1979, 349–88) mentions several
plaster casts from life, including hands, heads and arms (ibid., 365, 383), and
after the antique (‘A plaster cast of a Greek antique’ (Een pleijster gietsel
van een Griecks anticq), 383, no. 323). Also mentioned are antique statues of
unspecified medium, including a Faustina, Galba, Laocoön, Vitellius (ibid., 365,
nos 166, 168; 385, nos 329, 331) and several others. For Rembrandt’s use of
statues, casts and models, see Gyllenhaal 2008. For his collection, see Muller
1989, Appendix C, 82–87 and Muller 2004, especially, 18–23. The Johnson
manuscript (manuscript transcript of the Rubens Pocketbook), mid-18th century,
Courtauld Gallery, London, MS.1978.PG.1, fols 4v-5r, cited in Muller 2004, 19.
See also Muller 1982, 235–36 and Van der Meulen 1994–95, 1, 72–73. Van der
Meulen 1994–95, 1, 73. Ms de Ganay (formerly Paris, Marquis de Ganay), fols
22r–23r, transcribed and translated in Van der Meulen 1994–95, 1, 254–58. In
addition to the Madrid painting (Georgievska-Shine and Silver 2014, 136, 5.3),
the pose of the sculpture was utilised in other drawn and painted composi-
tions by the artist (Van der Meulen 1994–95, 1, 239, note 9). De Piles 1708, 139–48;
De Piles 1743, 86–92. . Haskell and Penny 1981, 221. However, due to the demand
for casts the Borghese tried to stop moulds from being made (Haskell and Penny
1981, 221). Liverpool 2007, 132, no. 10; Clayton 1990, 236, no. 154, P3.
Tassaert and Pether, both members of the Society of Artists, had a disagree-
ment over the latter’s proposed exhibition fee for fellows (Hargraves 2005, 141–42).
Landford’s, London, among lots 1–77. It has been suggested that Rembrandt
worked from draped plaster casts, especially during his Leiden years
(Gyllenhaal 2008, 51). 24. William Pether (Carlisle 1731–1821 Bristol) after
Joseph Wright of Derby (Derby 1734–1797 Derby) An Academy 1772 Mezzotint, 579 ×
458 mm Inscribed l.l.: ‘Iosh., Wright, Pinxt.’; and l.r.: ‘W. Pether, Fecit.’;
on the boy’s portfolio in the centre: ‘An / Academy / Published by W Pether, /
Feby, 25th / 1772’; td and l.c., at the foot of the seated artist: ‘Done from a
Picture in / the Collection of the R . Hon. / L . Melburne.’ provenance: The
Hon. Christopher Lennox-Boyd (1941–2012), from whom acquired by the British
Museum in 2010. literature: Chaloner Smith 1883, 2, 46, not repr.; Clayton
1990, 240, no. 159, P9, this impression listed under II, not repr.; Liverpool
2007, 159–62, no. 33. exhibitions: Not previously exhibited. The British
Museum, Department of Prints and Drawings, London, 2010,7081.2228 In 1769
Joseph Wright of Derby exhibited An Academy by Lamplight (private collection)
at the Society of Artists in London.1 The painting depicted six young boys
drawing from casts of antique sculpture in a vaulted space lit only by a
concealed lamp. Wright repeated the composition the following year for his
patron, Peniston Lamb, 1st Viscount Melbourne (Yale Center for British Art, 1)
and it was from this second version that William Pether took the present
mezzotint, renamed simply An Academy, published in its first state in February
1772.2 The subject-matter is related to Wright’s earlier painting, Three
Persons Viewing the Gladiator by Candlelight (private collection, 2),3 but, by
showing a group of students at work, addresses more directly the theme of
education by studying casts of antique sculpture by candlelight. Artistic
education was of paramount importance to Wright. In December of 1769, the year
he settled in Liverpool, twenty-two men in the burgeoning city formed a Society
of Artists that gathered at a member’s house to make drawings from a
substantial collection of prints and, more signifi- cantly, thirty-five plaster
casts.4 These casts had been pur- chased from John Flaxman senior, a plaster-cast
salesman in Covent Garden, for £8.8.3, and were intended specifically for
furnishing an academy.5 While Wright is not listed as a member of the Society
of Artists, his friend, the engraver Peter Perez Burdett (c. 1735–93), was its
first President and Wright’s landlord in Liverpool, Richard Tate (1736–87), was
an amateur painter who showed works at the Society’s first public exhibition in
1774, so he was certainly aware of the group’s aspirations. Wright seems also
to have had at least one student in Liverpool, Richard Tate’s brother, William,
who was described by Wright in a letter in 1773 as ‘a pupil of mine’.6 Artistic
education would therefore have been a pressing concern when he was conceiving
An Academy by Lamplight. Wright no doubt encouraged William Tate to take the
same route that he had followed as a pupil of Thomas Hudson (1701–79): first
copying drawings by accomplished masters (which for Tate would have included
works by Wright him- self) as well as prints, before moving to the study of plaster
casts and, ultimately, the life model.7 In 1774 Tate exhibited ‘Venus with a
Shell, a drawing in black chalk’ at the first 1. Joseph Wright of Derby, An
Academy by Lamplight, 1770, oil on canvas, 127 × 101 cm, Yale Center for
British Art, Paul Mellon Collection, New Haven, inv. B1973.1.66 2. Joseph
Wright of Derby, Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight, 1765, oil
on canvas, 101.6 × 121.9 cm, private collection 188 189
Liverpool Society of Artists exhibition, and a sheet in the Derby Museum and
Art Gallery of this subject has been recently been identified as Tate’s
drawing.8 This title of that drawing is highly suggestive as it is pre- cisely
the so-called Nymph with a Shell that the students are shown drawing in
Wright’s painting and Pether’s mezzotint. Housed in the Borghese collection
during the 18th century, the sculpture is now in the Louvre (fig. 3).9 While a
cast of this statue is not listed among those purchased by the Liverpool
Society of Artists, one was probably owned by Wright himself. The other statue
shown in the background on the right is the familiar Borghese Gladiator (see 41,
54 and cat. 23) – the sculpture being studied in Wright’s earlier Three Persons
Viewing the Gladiator by Candlelight (fig. 2). Wright’s composition depicts
young students in different attitudes, some at work drawing the Nymph, which is
illumi- nated by a hanging lamp, from varying angles, while others merely
admire her. Wright has created an ideal representation of an academy of young
men, precisely the environment which his contemporaries were attempting to
create in Liverpool. The students’ visible drawings are in black chalk similar
to Wright’s own and those of his ‘pupil’, Tate. The varying ages of the
students, from young boys to young men, also suggests an ideal academic
establishment. The date of the work has further resonance: 1769 was the year
after the foundation of the Royal Academy in London, where a precise programme
of artistic education, which included drawing from antique sculpture, was being
formulated (see cat. 25). The composition continues a theme Wright addressed in
Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight (fig. 2), the first painting
he exhibited in London, showing it at the Society of Artists in 1765. Such was
its popularity that Pether produced a mezzotint of it in 1769 and we can
suppose that our 3. Nymph with the Shell, Roman copy of the 1st century ad
after a Hellenistic type of the 2nd century bc, marble, 60 cm (h), Louvre,
Paris, inv. MR 309-N 247 (Ma 18) mezzotint, published three years later, was
conceived as a pendant.10 Wright’s Three Persons Viewing the Gladiator by
Candlelight depicts three men – traditionally identified as Wright himself,
Peter Perez Burdett (c. 1735–93) and John Wilton – comparing a reduced model of
the Borghese Gladiator with a drawn copy of it in black chalk. We know Wright
made drawings of the sculpture; and a study in pen and brown ink on brown paper
by him is preserved at Derby.11 Dating from before his journey to Italy, it
seems likely to have been made from a reduced model. Whilst there is no
evidence that Wright owned a model of the Gladiator, it seems likely that he
did: reduced models of it appear in numerous artists’ sales during the 18th
century and they were also readily available in Derby at the time.12 Viewing
and drawing sculpture by candle-light was a feature of many European academies
as for example those of Bandinelli and Tassaert (see cats 1 and 23).13 This was
intended to emphasise the contrast of the sculpture’s anatomy and facilitate
its copy. There were many perceived artistic benefits in owning models. William
Hogarth noted in his Apology for Painters: ‘the little casts of the gladiator
the Laocoon or the venus etc. if true copies – are still better than the large
as the parts are exactly the same [–] the eye [can] comprehend them with most
ease and they are more handy to place and turn about’.14 It therefore seems
likely that Wright’s picture depicts an evening viewing of his own cast.
Burdett was an amateur draughtsman and printmaker, and the comparison between
Wright’s own drawing and the model is the probable topic of their conversation.
This was the theme that Wright developed more fully in An
Academy. Liverpool 2007, 159, no. 31. For Yale version of the painting
ibid., 159, no. 32. Nicolson 1968, 1, 234, no. 188; London 1990, 61–63, no. 22;
Liverpool 2007, 132, no. 10. For a discussion of the foundation of the Society
of Artists and a list of the casts it acquired see Mayer 1876, 67–69. Ibid., 5.
Joseph Wright to William Thompson, Derby 25 March, 1773, in Barker 2009, 72.
Wright’s work in Hudson’s studio is remarkably well documented in an archive of
his drawings as a student preserved in Derby Museum and Art Gallery: see Derby
1997, 49–65. Liverpool 2007, 162, no. 34. For the relationship between Tate,
Wright and the Liverpool Society of Artists see Barker 2003, 265–74. For the
Nymph with the Shell see Haskell and Penny 1981, 281–82, no. 67; Rome 2000b, 2,
335, no. 10 (F. Rausa); Gaborit and Martinez 2000–01; Paris 2000–01, 327–28,
no. 147 (J.-L. Martinez); Rome 2011–12, 402–05 (I. Petrucci, M.-L.
Fabréga-Dubert, J.-L. Martinez). Clayton 1990, 236, no. 154, P3. Derby 1997, 88,
no. 152. An Italian plaster-modeller based in Oxford, ‘Mr Campione’ is recorded
selling: ‘a large and curious collection of statues, modelled from the Antiques
of Italy ... in fine plaister paris work’ in the Red Lion in Derby. See Barker
2003, 25. On this see Roman 1984, 83. See also cat. 1, 80, note 8. Kitson
1966–68, 86. 190 191 25. Edward Francis Burney (Worcester 1760–1848
London) The Antique Academy at Old Somerset House 1779 Pen and grey ink with
watercolour wash, 335 × 485 mm Signed recto, on the portfolio depicted in the
drawing at l.c., in pen and black ink: ‘E.F.B. 1779’; and inscribed verso, in
pen and black ink, with a key identifying the casts and objects shown on recto,
numbered 1–43: ‘View of the Plaister Room in the Royal Academy old Somerset
House / 1. Cincinnatus / 2. Apollo Belvedere / 3. Meleager / 4. Biting Boy / 5.
Foot of the Laocoon / 6. Arm of M. Angelo’s Moses / 7. Paris / 8. Faun / 9
Anatomy of a Horse / 10. Head of Antinous / 11. A young Orator by M. Angelo /
12. Antoninus Pius / 13. Bacchus / 14. PompeyAlexander Model of a Cow Agrippa /
18. Nero / 19. Augustus / 20. Cicero / 21 Other Roman Emperors / 22. Door of Mr
Mosers little Room / 23. Heads. Casts from Trajans pillar / 24. Table for
Drawing Hands Heads etc. on / 25. Screens to prevent Double Lights / 26.
Modelers stands / 27. Large chalk Drawing of the Virgin etc. by Leon: da Vinci
/ 28. Homer / 29. Laocoon / 30. Esculapius / 31. Proserpine / 32. Carracalla /
33. Mithridates / 34. Bacchus / 35. Antinous / 36. River Gods from M. Angelo /
37. Boys by Fiamingo / 38. Dying Gladiator / 39. Lamps for lighting the figures
in Winter / 40. Antique Bass Relieves / 41. Laughing Boys / 42. Head of a Wolf
/ 43. Legs cast from nature etc. etc. etc.’ provenance: From an album of
drawings in the possession of the Burney family; et D. Colnaghi, London, from
whom acquired 5 July 1960. literature: Byam Shaw 1962, 212–15, figs 54–55;
Hutchison 1986, 192, 27; Wilton 1987, 26, 25; Rossi Pinelli 1988, 255, 4;
Nottingham and London 1991, 63, under no. 39, 3; Fenton 2006, 98–99, 100–01,
repr.; Kenworthy-Browne 2009, 45–46, pl. 16; Wickham 2010, 300–01, 14; Brook
2010–11, 158, 5. exhibitions: London 1963, 34, no. 87, not repr.; London 1968b,
211–12, no. 651, not repr.; London 1971, 18, no. 71, not repr.; London 1972, 316,
no. 521, not repr. (R. Liscombe); York 1973, 40, no. 98, not repr.; London
2001, 46, no. 85. Royal Academy of Arts, London, 03/7485 With its
companion The Antique Academy at New Somerset House (fig. 1), this drawing
constitutes one of the best and most evocative visual records of the Antique or
‘Plaister’ Academy at the Royal Academy of Arts in London.1 The Academy was
founded in 1768 and initially occupied rooms in Pall Mall before moving to
Somerset House in 1771. The rather chaotic early records of the Academy means
that Burney’s detailed drawings are fundamental in establishing precisely which
antiquities were available to the first generation of students at the Academy.
Although copying after casts had been a practice fol- lowed in previous British
academies and schools of art – such as the Duke of Richmond’s Academy – it was
only with the foundation of the Royal Academy that it became part of an
extended curriculum modelled on the Roman and Parisian Academies.2 The first
Academicians draughted surprisingly few rules governing the education of
students, other than the requirement that a student have a ‘Drawing or Model
from some Plaister Cast’ approved for admission to the Antique Academy, and
again to progress into the Life Academy.3 For at least the first fifty years of
its existence there was no stipulation about the length of time students should
spend in either School. The timetable itself was fairly minimal, follow- ing
the traditional model in which the purpose of an Academy was to provide
instruction in draughtsmanship and theory whilst the student learned his chosen
art of painting, sculpture or architecture with a master. The Antique or
Plaister Academy was open from 9 to 3 pm with a two-hour session in the
evening, while the Life Academy consisted of only a two- hour class each night.
Until 1860, both were attended by male students only. The collection of casts
was under the control of the Keeper, while a Visitor attended monthly to
examine and correct the students’ drawings and to ‘endeavour to form their
taste’.4 Following the theoretical model of continental academies, the main
didactic purpose of drawing from plaster casts was to teach young students to
become acquainted with and to internalise ideal beauty before being exposed to
Nature in the Life Academy. As Benjamin West (1738–1820), president of the Royal
Academy for almost thirty years from 1792, put it, pro- ficiency was ‘not to be
gained by rushing impatiently to the school of the living model, correctness of
form and taste was first to be sought by an attentive study of the Grecian
figures’.5 Edward Francis Burney studied at the Royal Academy Schools from 1777
and left in the 1780s to become a suc- 1. Edward Francis Burney, The Antique
Academy at New Somerset House, c. 1780, pen and grey ink with watercolour wash,
335 × 485 mm, Royal Academy of Arts, London, cessful book illustrator.6 As a
young pupil of the Antique Academy, he recorded in the present drawing of 1779
and its companion the rebuilding of Somerset House begun in 1776 by Sir William
Chambers (1723–96). This drawing shows the Academy before Chambers’
intervention in a room that was probably designed by John Webb in 1661–64, on the south side of the building
facing the Thames. These rooms had windows exposed to direct sunlight and
therefore may have required the ‘Screens to prevent Double Lights’, visible in
the upper left corner of the drawing and annotated on the verso. The drawing
depicts four students at work, the one on the right in the middle distance
being guided by George Michael Moser (1706–83), the first Keeper of the Royal
Academy Schools, including the Antique Academy.7 In the room everything was
moveable. Boxes could be used as seats or as supports for drawing boards, as
one is by the student in the foreground on the left, while rails were used for
holding the individual students’ candles (see cat. 26). Even the pedestal of
the casts could be moved on castors, so that the Keeper could change their
position weekly. The collection of plaster casts was one of the largest
assembled in Britain in the 18th century.8 Many came from the second St
Martin’s Lane Academy, brought by Moser who had been one of its directors.9 The
collection was then expanded considerably thanks to donations from aristocratic
collectors and acquisitions on the London market.10 Among the most easily
identifiable casts are those ubiqui- tous in European workshops and academies
from the 17th century onwards, all listed in the long inscription on the verso
of the drawing: the Apollo Belvedere (p. 26, 18) at left centre, behind, in the
background, the Faun with Kid, and on the far right, the Dying Gladiator (p.
41, 55), which a student is copying, as innumerable other students had done
before him (see cat. 20).11 In addition, a series of peculiarly ‘English’ casts
are on display, some donated, others copied from origi- nals recently brought
to England from Rome. Partly obscured in shadow on the left is a cast of
Cincinnatus – which still survives in the collection of the Royal Academy (fig.
2) – close 6. Relief from an Honourary Monument to Marcus Aurelius: Triumph,
176–180 ad, marble, 324 × 214 cm, Capitoline Museums, Rome, inv. MC0808 7.
Relief with Warriors, Roman, 1st or 2nd century ad, marble, 93 × 82 cm, San
Nilo Abbey, Grottaferrata, inv. 1155 Academy’s collection (figs 8–9). Finally,
between the shelves and the door on the right, it is possible to discern
Leonardo’s cartoon of The Virgin and Child with St Anne and St John the
Baptist, today one of the most celebrated works in the National Gallery in
London – the present drawing is the earliest to document its presence in the
collection of the Royal Academy.16 The cast collection was of paramount
importance to the Royal Academy during its first decades, but the ad hoc nature
of its accumulation and the inclusion of casts of ‘Grand Tour’ souvenirs – such
as Lord Shelburne’s Cincinnatus – left it open to criticism. In 1798 the
Academy’s Professor of Painting, James Barry (1741–1806), launched a stinging
public attack complaining that the Academy was ‘too ill supplied with materials
for observations’ lamenting ‘the miserable beggarly state of its library and
collection of antique vestiges’.17 As a direct result, the sculptors Flaxman
and Bacon were charged with purchasing new casts from the sale of George
Romney’s (1734–1802) collection.18 Flaxman spent much of the rest of his career
attempting to improve the Academy’s cast collection; after 1815, he finally
convinced the Prince Regent to sponsor the 8. Plaster Cast of Head of a Roman
Soldier in Helmet, from Trajan’s Column, 15.7 × 15.4 × 4.4 cm, Royal Academy of
Arts, London, inv. 10/3267 9. Plaster Cast of the Head of Trajan, from Trajan’s
Column Royal Academy of Arts, London, iaa&jy
FortheearlyhistoryoftheRoyalAcademysee Hutchison1986,pp.23–54. For drawing
after casts in Britain before the foundation of the Royal Academy see esp.
Postle 1997; Coutu 2000; Kenworthy-Browne 2009. Hutchison 1986, 29–31. For the
full admission process see London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council
minutes, 1, 4, 27 Dec. 1768; Abstract, 18–19.
Hutchison1986,p.27.Forthe‘RulesandOrders,forthePlaisterAcademy’, see London,
Royal Academy of Arts, PC/1/1 Council minutes, 1, 6, 27 Dec. 1768, and 17, ;
Abstract 1797, 22–23. For the role of the visitors see ibid., 8. Hoare1805,p.3.
SeeRogers2013. The identification of the teacher with Moser is confirmed by
other like- nesses: see Edgcumbe 2009. The only other collection that could
compete in numbers of casts was the Duke of Richmond’s Gallery: see Coutu 2000;
Kenworthy-Browne 2009. On the Royal Academy collection of casts see Baretti
[1781], esp. 18–30. See Thomson 1771, 42–43; Strange 1775, 74. We would like to
thank Nick Savage for pointing out these two sources to us.
OnplastershopsandtradersinBritaininthesecondhalfofthe18thcentury see Clifford
1992. Among private donors, Thomas Jenkins, the Rome based dealer, sent a cast
of the so-called Barberini Venus shortly after the Royal Academy’s foundation:
London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, 1, 38, 9 Aug. 1769.
Jenkins in turn encouraged many of his clients in London to donate casts, including
John Frederick Sackville, Duke of Dorset who sent in 1771 ‘a Bust of Antinous
in his collection’ and ‘a cast of Pythagoras’: ibid., 111, 25 Oct. 1771, and 118,
18 Dec. 1771. Other early donors were Sir William Hamilton, the Rome-based
dealer Colin Morrison and the Anglo-Florentine painter Thomas Patch.
FortheFaunwithKidseeHaskellandPenny1981,pp.211–12,no.37. The Council Minutes
record on 11 June 1774: ‘Resolved that casts be made from three statues in the
possession of Lord Shelburne, viz the Meleager, the Gladiator putting on his
sandals, et the Paris, leave having been already obtained from his lordship’,
London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, 1, 179. The three
sculptures had recently been sup- plied by Gavin Hamilton (1723–98) from Rome
and were largely recently excavated pieces: the Meleager had been found at Tor
Columbaro; the Paris and the so-called Cincinatus had both come from an
excavation at Hadrian’s Villa near Tivoli, called Pantanello. See Bignamini and
Hornsby 2010, 1, 321–22 for Shelburne; for the excavation and purchase of the
Cincinnatus and Paris see 1, 162–64, nos 1 and 12; for the excavation and
purchase of the Meleager see 1, 180–81, no. 7. London, Royal Academy of Arts,
PC/1/1, Council minutes, 1, 38, 9 Aug. 1769 ‘Charles Townly Esq. having
presented the Academy with a cast of the Lacedemorian Boy ... ordered that
letters of thanks should be wrote.’ On the original relief see Boudon-Mauchel
2005, 251–52, no. 43 and on Duquesnoy’s fame as a ‘classical’ sculptor ibid., 175–210.
The cast of the relief had been sent by Sir William Hamilton, then British
ambassador to the court of Naples, in 1770 together with a cast of ‘Apollo’:
see Ingamells and Edgcumbe 2000 32, no. 25, 17 June 1770; see also London, Royal
Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, 1, 72, 17 March 1770. For the Marcus
Aurelius relief see Haskell and Penny 1981, 255–56, no. 56; Rome 1986–87. For
the relief with warriors see Musso 1989–90, 9–22. The relief was illustrated in
Winckelmann 1767, pl. 136. The same cast appears in Zoffany’s celebrated
Portrait of the Academicians of the Royal Academy, 1771–72, in the Royal
Collections. See Webster 2011, 252–61; New Haven and London 2011–12, 218–21,
no. 44 (M. A. Stevens). For Leonardo’s cartoon see London 2011–12, 289–91, no.
86 (L. Syson). Barry 1798, 7. London, Royal Academy of Arts, PC/1/3, Council
minutes, 3, 99–100, 22 May 1801. They purchased 16 casts in total for £68.10.3.
WindsorLiscombe1987. 2. Plaster Casts of the So-Called Lansdowne ‘Cincinnatus’,
1774, 162 cm (h), Royal Academy of Arts, London, inv. 03/1488 3. Lansdowne
Paris, Roman copy of the Periodo ADRIANICO – ADRIANO (si veda), from a Greek
original of the 4th century bc, marble, 165 cm (h), Louvre, Paris, inv. MNE 946
(n° usuel Ma 4708) 4. Lansdowne Hermes/Meleager, Roman copy of the Hadrianic
Period (117–138 ad) of a Greek original of the 4th century bc, marble, 219 cm
(h), Santa Barbara Museum of Art, Gift of Wright S. Ludington, inv. 1984.34.1
to the Faun with Kid is a Paris (fig. 3), and behind Moser the so-called
Lansdowne Meleager (fig. 4). All of these were cast in 1774 from the originals
in the collection of William Petty, 2nd Earl of Shelburne (1737–1805), recently
returned from his Grand Tour.12 Behind the Cincinnatus is partly discernible a
cast of the Knucklebone Players given by Charles Townley in 1769, the antique
original of which could be admired in his London town-house at 7 Park Street
(cat. 28, 1).13 As was customary, the Academy’s collection included also casts
of busts and statuettes distributed on shelves and of ‘dismembered’ body parts
– arms, legs and feet – hung on the wall, so that students could learn how to
draw anatomical details before approaching the whole human figure. Pupils were
also required to draw from reliefs, to become acquainted with the composition
of historie, or narrative scenes, based on classical models. Above the
chimneypiece is a large cast of a relief with music-making angels by François
Duquesnoy (1597–1643) – the Boys by Fiamingo identified on the reverse of the
drawing – whose most classicising works had, by the end of the 17th century,
acquired the same status of antique statuary (fig. 5).14 Above was displayed a
reduced version of one of the Marcus Aurelius reliefs in the Capitoline Museum
(fig. 6), and a comparatively obscure relief with warriors, which had clearly
gained fame because of its inclusion in Winckelmann’s Monumenti Antichi
Inediti, published in 1767 (fig. 7).15 Further identifiable casts included a
series of heads from Trajan’s Column, which we can see hanging from the shelves
on the end wall, many of which remain in the 5. François Duquesnoy, Relief with
Music-Making Angels, 1640–42, marble, 80 × 200 cm. Filomarino Altar, Church of
Santi Apostoli, Naples commissioning of a series of new casts from Antonio
Canova (1757–1822) in Rome.19 Burney’s image illustrates both the Royal
Academy’s aspiration to offer an ‘academic’ education in line with great
Continental examples, but also its differ- ences from them, as a private
organisation sponsored by the monarch rather than a state-run academy.
194 195 26. Anonymous British School, 18th century A View of the
Antique Academy in the Royal Academy c. 1790s Pen and brown ink and grey wash,
with watercolour, over graphite, 294 × 223 mm Stamped recto, l.l., in brown
ink: ‘J.R’; on separate piece of paper now attached to the reverse of the
mount, in pen and black ink: ‘Henry Fuseli R A / 1741–1825. / Bought at Sir J.
Charles Robinson’s sale 1902 / E.M.’ provenance: Robinson; Robinson (not listed in his sales: Christie’s 12–14
May 1902; or Christie’s 17–18 April 1902); Sir Edward Marsh (1872–1953); his
bequest through The Art Fund (then called National Art Collection Fund), 1953.
literature:None. exhibitions: London 1969, no.1 (unpaginated), not repr. The
British Museum, Department of Prints and Drawings, London, 1953,0509.3 This
satirical drawing, probably made by a distracted student who ought to have been
studying diligently from one of the casts, shows an imposing, heavy-set man
towering physi- cally and psychologically over three young seated pupils
drawing in the Antique Academy. While traditionally he has been identified as
the painter Henry Fuseli (1741–1825), Keeper of the Royal Academy Schools from
1803 to 1825, given the style of the drawing and the subject’s dress he is more
likely to be either Agostino Carlini (c. 1718–90), Keeper between 1783 and
1790, or Joseph Wilton (1722–1803) who held the position between 1790 and
1803.1 The view shows one of the end walls of the Antique, or ‘Plaister’
Academy, housed from 1780 in a purpose-built room in Somerset House.2 The same
wall, with a similar arrangement of casts, appears in the evocative candlelight
view of the room by an anonymous British artist (see 60, 105). The young
students are busy at work, copying from casts of the Belvedere Torso (p. 26, 23),
the Apollo Belvedere (p. 26, 18) and the Borghese Gladiator (p. 41, 54), models
of different ideal types of beauty, masculinity and anatomy, repeatedly praised
by Sir Joshua Reynolds in his third Discourse of 1770. It is likely that the
three moveable casts were often set side by side by the Keepers to reflect
Reynolds’ conception of ideal beauty and of the ‘highest perfection of the
human figure’, which ‘partakes equally of the activity of the Gladiator, of the
delicacy of the Apollo, and of the muscular strength of the Hercules’, as
expressed in his third Discourse.3 On the wall behind the casts, are two
cupboards possibly containing students’ drawings, which support smaller casts
and busts. Whilst the Antique Academy was a serious, professional space, it was
naturally the focus of humour from the students, who ranged in ages from
fourteen to thirty-four. Several other caricatures exist testifying to the
lighter side of academic life, including an earlier study by Thomas Rowlandson
(1756–1827) showing a bench of students at work in the Life Academy in 1776 and
including mocking depictions of Rowlandson’s fellow students (fig. 1).4 In
terms of its public image the cast collection was an important symbol of the
Academy’s prestige but this view does not seem to have been shared by some of
the students, many of whom must have considered the long hours spent copying
after the Antique as a constraining and repetitive exercise. Joseph Wilton was
a crucial figure within the acad- emy in promoting a rigid curriculum based on
the classical ideal. He never abandoned his firm belief in the didactic value
of plaster casts, established while he was director of the Duke of Richmond’s
Gallery in the late 1750s.5 His strict teaching methods must have generated
discontent and considerable derision, brilliantly visualised in a satirical
print by Cruikshank (fig. 2) which shows Wilton – trans- formed into Bottom
with the head of an ass – inspecting the drawing of an irritated student in the
Antique Academy.6 Wilton’s exacting standards, as the lines below the cartoon
make clear, would prevent him from seeing the genius of a modern day Raphael
and it is clear that some students of the Academy saw him as a ‘formal old
fool’. Unlike the Life Academy, where the Visitor presided, setting the model
and frequently drawing from it himself, the Antique Academy was presided over
by the Keeper of the Schools. Each week the Keeper would set out specific casts
and direct and comment on the students’ work. According to 1. Thomas
Rowlandson, A Bench of Artists, 1776, pen and grey and black ink over pencil,
272 × 548 mm, Tate Gallery, London, inv. T08142 196 197 2. Isaac
Cruikshank, Bless The Bottom, bless Thee-Thou art translated – Shakespere,
1794, hand-coloured etching, 295 × 212 mm, G. J. Saville the rules, students
did not choose which casts to draw and they were not allowed to move them
without permission.7 But depictions of the Antique Academy suggest that the
situation was probably more flexible and may have allowed for individually
tailored study. Several anecdotes point to the unruly life of the Academy and
its students, who were allowed to choose their own seats, with utter chaos
resulting. Joseph Farington (1747–1821) noted in 1794, that they behaved like
‘a mob’: Hamilton says the life Academy requires regulation: but the Plaister
Academy much more. The Students act like a mob, in endeavouring to get places.
The figures also are not turned so as to present different views to the 8 The
reason for the commotion was that once a student had a seat, he was expected to
retain it for the week. The atmos- phere seems to have been generally
boisterous and there are numerous reports in the Council Minutes of the Academy
of misbehaviour, high spirits and students throwing at each. It would be
productive of much good to the Students to deprive them of the use of bread; as
they would be induced to pay more attention to their outlines; and would learn
to draw more correct, when they had not the perpetual resource of rubbing
out.11 aa&jy For the traditional attribution of the sitter see the entry on
the collection online database of the British Museum. The identification of the
sitter with Joseph Wilton has been proposed already by Andrew Wilton in London
1969, no. 1. For a list of Keepers of the Royal Academy see Hutchison 1986, 266–67.
Both Carlini and Wilton presented similar physical character- istics as the man
in the drawing. For a list of their likenesses see respectively Trusted 2006
and Coutu 2008. See Baretti [1781], 18–30. See Reynolds 1997, 47. London 1997, 170–71,
no. 67. See Coutu 2000; Kenworthy-Browne 2009. George 1870–1954, 7 (1793–1800),
118, no. 8519. See ‘Rules of the Antique Academy’: Royal Academy of Arts
PC/1/1, Council Minutes, 1, 4–6, 27 Dec. 1768, quoted in Hutchison 1986, 31.
Farington 1978–98, 1, 281. Pressly 1984, 87. Farington 1978–98, 2, 461–62.
Ibid., 2, 462. These two drawings by Turner epitomise the two principal stages
of education provided by the Royal Academy Schools during the late 18th
century: the Antique, or Plaister, Academy and the Life Academy. Turner
enrolled as a student in the Schools in December 1789 as a boy of fourteen,
spent more than two years in the Antique Academy, and then progressed to the
Life Academy in June 1792, presumably after presenting a drawing for inspection
by the Visitor.1 Although there is no record of the drawing Turner submitted,
it may well have been this finished study of the Belvedere Torso (see 26, 23) a
sculpture of enduring popu- larity among artists as demonstrated by Goltzius’
drawing made almost exactly two hundred years earlier (cat. 8). Turner copied
the same cast of the Torso shown in the satiri- cal view of the Academy (cat.
26). He is recorded as having visited the Antique Academy on 137 separate
occasions during his studentship but only some twenty of his drawings after the
Antique survive (figs 1–4) – many from the casts seen in Burney’s drawing (cat.
25) – and none as highly ren- dered as the present study.2 Turner’s signature
at the lower right also suggests it was esteemed by the artist himself and
prepared for some formal purpose. Whilst the surviving Academy Council Minutes
do not record in detail the process of progression from the Antique Academy to
the Life Academy, contemporary accounts offer some insight. Turner’s
contemporary, Stephen Rigaud noted: I was admitted as a Student in the Life
Academy by Mr Wilton the Keeper, and Mr Opie, the Visitor for the time being,
on the presentation of a drawing from the Antique group of the Boxers, in which
I had copied the strong effect of light and shade in the whole group coming out
by strong lights on one side, and reflected lights on the other, with which Mr
Opie expressed himself much pleased.3 The study of the Torso has all the
characteristics of a presenta- tion drawing. It is on better, more regularly
cut paper than Turner’s other drawings after the Antique and the figure is
highly worked and boldly modelled with hatching and cross- hatching in chalk to
convey the ‘strong effects of light and shade’ mentioned by Rigaud. This is in
keeping with the established tradition of copying casts by candlelight to
enhance contrast, so that the students could learn how to render planes and
anatomical details. Unlike Goltzius’ Torso, being copied in daylight after the
original in the Belvedere Courtyard in Rome, Turner’s cast is strongly lit from
above by an oil lamp and set against a neutral screen to provide a uniform
background – as clearly visible in the view of the Antique Academy (p. 60, 105).
Furthermore, this is the only drawing from the Antique where Turner employed
trois crayons, adding red to black and white chalk, a technique he usually
reserved for studies from life. Might it be that Turner was attempting to turn
marble into flesh, the practice 198 199 students. other the lumps of bread they
were given to erase their draw- ings. Stephen Francis Rigaud (1777–1862), son
of the Royal Academician, John Francis Rigaud (1742–1810) and a student in the
early 1790s, wrote that the Schools were also the forum for political
agitation: The peaceable students in the Antique Academy being continually
interrupted in their studies by others of an opposite character, who used to
stand up and spout forth torrents of indecent abuse against the King One evening I rose and protested that if they
continued to use such abominable language in a Royal Academy I would denounce
every one of them to the Council and procure their expulsion [. . .] this
threat checked them a little; but they shewed their spite by pelting me well
with [. . .] pieces of bread.9 This incident reached the ears of the Academy
Council from which the Keeper was excluded. Wilton told Joseph Farington in
1795: The Students in the Plaister Academy continue to behave very rudely; and
that they have a practise of throwing the bread, allowed them by the Academy
for rubbing out, at each other, so as to waste so much that the Bill for bread
sometimes amounts to Sixteen Shillings a week.10 The Council took the decision
to stop the allowance of bread altogether, as the President, Benjamin West,
noted: 27. Joseph Mallord William Turner (London 1775–1851 London) a. Study of
a Plaster Cast of the Belvedere Torso c. 1792 Black, red and white chalk, on
brown paper, 331 × 235 mm Signed recto, l.r., in pen and black ink: ‘Wm
Turner.’ literature: Postle 1997, 91–93, repr.; Owens 2013, 102–03, pl. 76.
exhibitions: Nottingham and London 1991, 51, no. 18 (M. Postle); Munich and
Rome 1998–99, 49, 50, 164, no. 62 (M. Ewel and I. von zur Mühlen); Munich and
Cologne 2002, 414, no. 192 (J. Rees); London 2011 (no catalogue). Victoria and
Albert Museum, Prints et Drawings Study Room, London, 9261 b. The Wrestlers c.
1793 Black, red and white chalks, on brown paper, 504 x 384 mm Signed recto,
l.r., in pen and black ink: ‘Wm Turner.’ literature: Wilton 2007, 16, repr.
exhibitions: Not previously exhibited. Victoria and Albert Museum, Prints et Drawings
Study Room, London, 9262 provenance: Both drawings purchased by the Museum in
1884 from R. Jackson with four other academic drawings by different artists
(Victoria and Albert Museum Register of Drawings 1880–1884, 171, 174).
200 201 prescribed by Rubens (see Appendix, no. 8), something
he may have thought would demonstrate that he was ready to progress to the Life
Academy? The Torso would have been a clever choice for a presentation drawing,
since the antique fragment held a position of great prominence in the mission
and the iconography of the Royal Academy. According to Reynolds the Torso was
the greatest exemplar of classical art. ‘What artist’, he asked in his 10th
Discourse of 1780, ‘ever looked at the Torso without feeling a warmth of
enthusiasm, as from the highest efforts of poetry?’ For him only ‘a MIND
elevated to the contemplation of excel- lence perceives in this defaced and
shattered fragment the traces of superlative genius, the reliques
of a work on which succeeding ages can only gaze with inadequate admi- ration’
(see Appendix, no. 17).4 The muscular figure featured prominently under the
words ‘STUDY’ on the obverse of several medals annually distributed as premiums
to the students and in Angelica Kauffman’s Design for the ceiling of the
Council Chamber, which served also as a second room of the Antique Academy (see
60, 107).5 In Turner’s time as a student, the Academy possessed two casts of
the Torso, one of which we know was presented by the dealer Colin Morrison in
1770, and significantly Turner himself donated a further cast in 1842.6 The
second drawing exhibited here was made from posed models in the Life Academy.
The model would be set by the Visitors and Turner studied under a number of
them, including Henry Fuseli, James Barry and Thomas Stothard (1755–1834). This
drawing possibly dates from 1793 and may represent an unusually elaborate pose
set by the sculptor John Bacon (1740–99). Stephen Francis Rigaud, who entered
the Life Academy a year after Turner, noted: I remember Mr Bacon once setting a
well composed group of two men, one in the act of slaying the other; or a
representation of the history of Cain and Abel, which was continued for double
the time allowed for a single figure, and which gave general satisfaction to
the students.7 This precisely accords with the present group, which shows
specific models engaged in combat. Although designed to represent a biblical
subject, the pose of the two figures was reminiscent of antique groups,
especially the Wrestlers (see 30, 33) which had already served as inspiration
for posing the live models in the Italian and French academies – as seen for
instance in Natoire’s imaginary view of the Académie Royale (cat. 16). Turner
continued to attend the Schools throughout the 1790s until he was awarded
Associateship of the Academy in 1799; he would continue to visit the Life
Academy intermit- tently for the rest of his life.8 He was made inspector of
the cast collection of the Royal Academy in 1820, 1829 and 1838 and served as
Visitor in the Life Academy for a total of eight years between 1812 and 1838.9
In the latter role he became famous for setting the live model in postures
reminiscent of classical sculpture, clearly recalling what he had learned
during his time as a student. Lauding this practice and lamenting its decline,
the artists and essayists Richard (1804– 1. Joseph Mallord William Turner, Study of a
Plaster Cast of the Apollo Belvedere, c. 1791, black and white chalks on brown
laid wrapping paper, 419 × 269 mm, Tate Gallery, London, inv. D00057 (Turner
Bequest V D) 2. Joseph Mallord William Turner, Study of a Plaster Casts of
Marquess of Shelbourne’s Cincinnatus, c. 1791, pencil with black and white
chalks and stump on laid buf paper, 425 × 267 mm, Tate Gallery, London, inv.
D00055 (Turner Bequest V B) 4. Joseph Mallord William Turner, Study of a
Plaster Cast of a Helmeted Head from the Trajan Column, with Other Studies, c.
1791, black, red and white chalks and stump on dark buf paper, 337 × 269 mm,
Tate Gallery, London, inv. D40220 (Turner Bequest V R, verso) 88) and Samuel
(1802–76) Redgrave noted: When a visitor in the life school he introduced a
capital practice, which it is to be regretted has not been contin- ued: he
chose for study a model as nearly as possible corresponding in form and
character with some fine antique figure, which he placed by the side of the
model posed in the same action; thus, the Discobulus (sic) of Myron contrasted
with one of our best trained soldier; the Lizard Killer with a youth in the
roundest beauty of adoles- cence; the Venus de’ Medici beside a female in the
first period of youthful womanhood. The idea was original and very instructive:
it showed at once how much the antique sculptors had refined nature; which, if
in parts more beautiful than the selected form which is called ideal, as a
whole looked common and vulgar by its side.10 aa et jy For Turner’s attendance
at the Academy see Hutchison 1960–62, 130. Finberg 1909, 1, 6–8. See also
Wilton 2012. Pressly 1984, 90. Reynolds 1997, 177–78. On the medals see
Hutchison 1986, 34; Baretti [1781], 28; see also London, Royal Academy of Arts,
PC/1/1, Council minutes, 1, 24, 20 May 1769. For the Council Chamber see
Baretti [1781], 25–26. On the two copies of the Torso in the Royal Academy see
Baretti [1781], 9, 28. On Colin Morrison’s donation of a cast of the Torso,
together with ‘Cast of a Bust of Alexander’ in 1770 see London, Royal Academy
of Arts, PC/1/1, Council minutes, 1, 70, 17 March 1770; on Turner’s donation
see Gage 1987, 33. Pressly 1984, 90. Hutchison 1960–62, 130. See Gage 1987, 32–33.
Redgrave and Redgrave 1890, 234, quoted in Gage 1987, 33. 202 203 3.
Joseph Mallord William Turner, Study of a Plaster Casts of the Borghese
Gladiator, c. 1791–92, black and some white chalk on buf wove paper, 580 × 457
mm, Tate Gallery, London, inv. D00071 (Turner Bequest V S) 1 2 3 4 5 6 7 8 9
10 28. William Chambers ( fl.1794) The Townley Marbles in the Dining Room
of 7 Park Street, Westminster 1795 Pen and grey ink with watercolour and
touches of gouache, indication in graphite, heightened with gum Arabic, 390 ×
540 mm provenance: Charles Townley (1737–1805); by descent to Lord O’Hagan (b.
1945); Sotheby’s, London, 22 July 1985, lot 559; Frederick R. Koch; Sotheby’s,
London, 12 April 1995, lot 90, from whom acquired by the British Museum.
literature: Cook 1977, 8–9, fig.1; Cook 1985, 44–45, 41; Walker 1986, 320–22,
pl. A; Cruickshank 1992, 60–61, 5; Morley 1993, 228, 285, pl. LVII; Webster
2011, 425, 321. exhibitions: Essen 1992, 432–36, no. 360a (C. Fox and I.
Jenkins); London 1995 (no catalogue); London and Rome 1996–97, 258–60, no. 214
(I. Jenkins); London 2000, 229–30, no. 167; London 2001, 42, no. 72;
London. The British Museum, Department of Prints and Drawings, London,
1995,0506.8 Charles Townley (1737–1805) was the most influential collec- tor of
antique sculpture in Britain during the second half of the 18th century.1 From
1777 Townley’s considerable collection was arranged in his London residence, 7
Park Street (now 14 Queen Anne’s Gate), a proto-house-museum praised both for
the strength of its collections and their display. It was to become one of the
principal tourist sites in London. Writing about the house, James Dallaway
claimed that ‘the interior of a Roman villa might be inspected in our own
metropolis’.2 Park Street was also a centre of antiquari- anism and Townley –
particularly after 1798, when wars with France curtailed travel to the
Continent – was a hugely 1. Johann Zofany, Charles Townley and Friends in His
Library at Park Street, Westminster, 1781–90 and 1798, oil on canvas, 127 ×
99.1 cm, Towneley Hall Art Gallery et Museum important figure in promoting the
study and interpretation of classical sculpture in Britain initiating numerous
publica- tions, including the Society of Dilettanti’s Specimens of Antient
Sculpture (1809). Townley also formed a famous library and an immense archive
of drawings – in effect a ‘paper museum’ – recording antiquities in both
British and European collections. To complete this ‘paper museum’ and to
prepare publications such as the Specimens, Townley employed numerous young
artists to record his own collection. It is clear from the surviving portions
of his diary and other records that 7 Park Street became, in effect, an
alternative academy in London. Writing in 1829, the then Keeper of Prints and
Drawings at the British Museum, J. T. Smith, published a description of 7 Park
Street and its contents, observing: I shall now endeavour to anticipate the
wish of the reader, by giving a brief description of those rooms of Mr
Townlye’s house, in which that gentleman’s liberality employed me when a boy,
with many other students in the Royal Academy, to make drawings for his
portfolios.3 Townley’s surviving drawings, housed, along with his sculp- ture
collection, in the British Museum, testify to the range of artists he employed
and demonstrate the popularity of Park Street as a venue for artists both to
meet and to draw. Records show that William Chambers – not to be confused with
the architect of the same name – was one of the draughtsmen employed by Townley
to prepare drawings for his ‘portfo- lios’. A payment of £5.5.0 to Chambers is
recorded on 21 October 1795 for the pendant to this drawing, a view of sculp-
ture in the hall at 7 Park Street, also in the British Museum.4 Townley’s diary
records the comings and goings of painters, particularly his friend, Johann
Zoffany (1733–1810) who painted the iconic, largely imaginary view of Townley’s
library filled with his sculpture collection and with the owner in conversation
with his unofficial curator, the Baron d’Hancarville, and two other friends
(fig. 1).5 204 205 The dining room was one of the principal public
spaces of the house and contained some of the largest sculptures in the
collection. These included the Townley Venus, the Discobolus (fig. 2), the
Townley Caryatid, the Townley Vase, and the Drunken Faun, which Chambers places
in the foreground. The modish decoration reflected both advanced neo-classical
thinking and Townley’s own passions; the walls were articulated by simulated
porphyry columns surmounted by capitals whose design came from Terracina; as
d’Hancarville explained: ‘the ove is covered with three masks representing the
three kinds of ancient drama, the comic, tragic and satyric the
choice and disposition of these ornaments leave no doubt that this capital was
intended to characterise a building con- secrated to Bacchus and Ceres’.6
Visitors are shown admiring the collection while a woman seated in the
foreground is drawing from the Drunken Faun. A drawing attributed to Chambers
of the same sculpture, taken from the same angle, made for Townely’s
portfolios, is also in the British Museum (fig. 3). Townley’s wide circle of
acquaintances included a number of amateur and professional female artists,
includ- ing Maria Cosway (1760–1838), whom Townley first met in Florence in 1774.
His interest in encouraging young artists led to the publication by Conrad Metz
of a drawing manual based on studies of the sculpture in Park Street: Studies
for Drawing, chiefly from the Antique. 30 plates (1785). Townley’s support of
artists resulted in his taking an active role in the Royal Academy of Arts from
its foundation. He donated casts of his own sculpture and solicited dona- tions
from friends. The Academy’s Council Minutes record his first donation in August
1769 of a ‘cast of the Lacedemonian Boy’ the so-called Knucklebone Players
which appears in Edward Burney’s view of the RA’s Antique Academy on the far
left, behind the Cincinnatus (cat. 25).7 One of the artists who appears
regularly in Townley’s diary was the sculptor Nollekens who is recorded
donating to the Academy a ‘cast in plaister of the head of Diomede’ belonging
to Townley in 1792.8 Townley also donated casts of sculptures in other
collections, among them, in 1794 one ‘of the celebrated Bas relief in the
Capitol, of Perseus et Andromeda’, a cast still in the collection of the
Academy.9 Townley’s solicitude for the Royal Academy and the educa- tion of
young artists continued throughout his life; in 1797 the painter and diarist
Joseph Farington noted: ‘Townley thinks the Academy should have additional
rooms for Statues &c’.10 29. Joseph Michael Gandy (London 1771–1843
Plympton) View of the Dome Area by Lamplight looking South-East 1811 Pen and
black ink, watercolour, 1190 × 880 mm selected literature: Lukacher 2006, 132–33,
fig.150 exhibitions: London 1999a, 160, no. 68 (H. Dorey); Munich 2013–14, 43;
London 2014, (unpaginated). Sir John Soane’s Museum, London, For Townley see
particularly Coltman 2009. Dallaway 1816, 319, 328. Smith 1829, 1, 251. In
February that year he had also paid Chambers £2.2.0. for some unspeci- fied
drawings, and in August £1.1.0. for ‘drawing gems’: see London 2000, 229.
Townley’s diary records Chambers returned in May 1798 when he began to make a
record of an altar of Lucius Verus Helius which Townley had recently acquired
from the Duke of St Albans; he finished the study on Sunday 7 July: London,
British Museum, Townley Archive, TY/1/10. For William Chambers’ pendant to this
drawing see London 2001, 42, no. 71 (with previous bibliography). Webster.
London and Rome 1996–97, 258–60. London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council
minutes, 1, 38, 9 Aug. 1769. It arrived with a cast of a Venus donated by
Townley’s principal antiquities dealer in Rome, Thomas Jenkins. The original
Knucklebone Players is in the British Museum, Department of Greek et Roman
Antiquities, inv. 1805,0703.7. London, Royal Academy of Arts, PC/1/2, Council
minutes, 2, 173–4, 3 Nov. 1792. The original marble bust is in the British
Museum, Department of Greek et Roman Antiquities, inv. 1805,0703.86, now called
the Head of a follower of Ulysses. London, Royal Academy of Arts, PC/1/2,
Council minutes, 2, 201, 7 Feb. 1794. The cast is in the Royal Academy, inv.
03/2018. The original is in the Capitoline Museums, Rome, inv. 501: see Helbig
Farington 1978-98, 3, 840. 2. The Townley Discobolus, Roman copy of the 2nd
century ad after a Greek original of the 5th century bc by Myron, marble, 170
cm (h), British Museum, Department of Greek et Roman Antiquities, London, inv.
1805,0703.43 3 Attributed to William Chambers, Drawing of a Statue of an
Intoxicated Satyr, 1794–1805, black chalk and grey wash, 280 × 193 mm, British
Museum, Department of Greek et Roman Antiquities, London, inv. 2010,5006.87 The
Royal Academy School of Architecture was central to the formation of the
professional career and teaching of Sir John Soane (1754–1837), who is chiefly
remembered today as architect to the Bank of England, of Dulwich Picture
Gallery and of his incomparable house-museum at No. 13 Lincoln’s Inn Fields, London.
The unique installations of antiquities and casts after the Antique in the
Museum, which he built at the back of the house, and which J. M. Gandy so
atmospherically evokes in this drawing, also attest to the influence of the
Academy on Soane’s pattern of collecting and his own role as a teacher. Soane
entered the Academy in 1771 at the age of eighteen; he was the 141st pupil
since the Academy’s foundation in 1768 and amongst the first students of the
School of Architecture, the earliest institution in Britain to teach
architecture in a formalised way. The School was modelled by Sir William
Chambers (1723–96) on his own experience of studying architecture in
Jean-François Blondel’s École des Arts in Paris, in 1749–50, when the status of
the architect and teaching methods in Britain were then very different from
those in France. The Académie Royale d’Architecture, of which Chambers became a
member in 1762, had been founded in 1671 and was followed, in 1743, by
Blondel’s more progressive École. The École’s curriculum was rigorous; it was
open for study from Monday to Saturday and from eight in the morning until nine
in the evening. The students’ day began with formal discussion of various
topics, followed by lectures on set matters relating to drawing such as mathe-
matics, geometry, perspective, or to building types such as military
architecture, or to practical issues such as drainage and water supply. In the
spring, students would undertake site visits to notable buildings in Paris and
its environs.1 In Britain, by contrast, the professional status of architect
was ill-defined, and was not always distinguished from that of the builder or
mason. The ambiguous status of architecture was not entirely clarified by the
time Soane entered the architecture school. It was the smallest of the
departments at the Royal Academy and Soane was one of only nine pupils admitted
in 1771. And although inspired by Blondel’s École, the programme of the
architecture school was nothing like so rigourous. Students of architecture
were required to attend only six lectures per year.2 The reason for this very
limited formal teaching was that most students were attached to a professional
archi- tect’s office during the day; when Soane enrolled at the Royal Academy
he was working for George Dance the Younger (1741–1825).3 Nor were the teaching
collections available to students at all extensive. The collections of plaster
casts after the Antique (and antiquities) were dominated by the requirements of
painters and sculptors; in the 1810 inventory of 385 casts, only nineteen can
be identified as being architec- tural.4 It is against this backdrop that we
must understand Soane’s own founding of an ‘academy of architecture’ in his
house-museum. The history of Soane’s collections of casts and the manner in
which they were installed, deinstalled and reinstalled over a period of time
and over three different properties belonging to Soane (two at Lincoln’s Inn
Fields and one in Ealing, London) is not straightforward. From the 1790s, Soane
started collecting and displaying casts for the use of the young pupils and
assistants working in his first office in No. 12 Lincoln’s Inn Fields.5
However, as his collection grew and as his career as an architect developed,
the function of the collection of antiquities and of casts after the Antique
changed. Gandy’s drawing shows the Dome Area of Soane’s Museum as it appeared
in 1811 (a year after the 1810 Royal Academy inventory of casts was com-
piled).6 In this view, atmospherically lit from below by an undisclosed light
source, we can readily identify a number of casts of antique sculpture and of
architectural fragments. The largest casts are the Corinthian capital shown on
the south wall, and a fragment of entablature, shown on the east wall, both
taken from the Temple of Castor and Pollux in Rome, which Soane had purchased
in 1801 from the sale of the architect Willey ‘the Athenian’ Reveley.7 Below
the capital, and forming part of the parapet of the Dome we see a cast of one
of the panels, decorated with a festoon, from the portico of the Pantheon,
purchased from the sale of the architect James Playfair.8 Sculpture is also
represented in the casts, and a number of well-known antiquities can be
206 207 described. Just visible through the arch in the lower
right- hand corner, is an arrangement of four casts taken from the base of one
of the so-called Barberini Candelabra, among the most prized antiquities in the
Museo Pio-Clementino, Rome, which shows the gods Minerva, Jupiter (twice), and
Mercury in low relief.9 On the east wall, below the entablature of the Temple
of Castor and Pollux, is a cast of a relief of two of the ‘Corybantes’, taken
from the marble original in the Vatican Museums and also purchased from the
Playfair sale.10 Although Soane would rearrange these casts and antiquities as
his ‘Museum’ expanded, most are still to be found at No. 13 Lincoln’s Inn
Fields and the general impression of a dense, ‘romantic’ arrangement remains.
If, originally, Soane’s collection of casts and antiquities was intended to
provide exemplars for the architects training and working in his office, by the
time Gandy drew the arrangements as they appeared in 1811 a shift in their
purpose had occurred. In 1806, Soane became Professor of Architecture at the
Royal Academy and, as a former student, he was well aware of the relatively
meagre resources allocated to the School. He comments on this in his 6th
lecture, given to his students at the RA.11 The arrangement of casts shown by
Gandy was installed between 1806 and 1809, when Soane was preparing his Royal
Academy lectures, of which he gave the first in 1809.12 It has been argued that
they are a three-dimensional analogue of the lectures and their drawn
illustrations.13 Indeed, Soane saw the casts as being central to his teaching:
... I propose in future that the various drawings and models, shall, on the day
before, and if necessary, the day after the public reading of each lecture, be
open at my house for the inspection of the students in architecture, where at
the same time, they will likewise have an oppor- tunity of consulting the
plaster casts and architectural fragments.14 Shortly after Gandy completed this
view of the Dome Area, the European Magazine and London Review described
Soane’s house-museum as an ‘... Academy of Architecture’.15 At the same time as
he was responding to the lack of architectural casts and fragments in the
collections of the Royal Academy, Soane’s ‘academy’ should also be seen as
Soane’s reflection on the ways in which he himself had come to experience Roman
architecture. Unlike the Royal Academy lectures, which Soane arranged
programmatically, the ‘Piranesian’ displays of antiquities, casts and
architectural 16 to recreate the experience of visiting Rome and to recall the
excitement of viewing there the disorganised remains of antiquity.17 However,
another reason why Soane rejected a rational academic approach to the
arrangements of antiquities in his house-museum might lie in the way that Soane
used the collections to form his own identity as an architect. In our drawing
Gandy includes a portrait of Soane who is illuminated from the same undisclosed
light source as his casts, gesturing in, by 1811, the slightly archaic manner
of an interlocutor. He is at once teacher, architect and collector.18 The arrangements
of casts and antiquities are not just for the use of his students and pupils
but also, as he put it, ‘... studies for my own mind’.19 They reflect one
individual’s view of art and architecture through the idiosyncratic
juxtapositions that he created. However, there is yet another level of
self-identification in Soane’s collection and display of antiquities and
architec- tural fragments. In Gandy’s drawing, far above Soane on a shelf, can
be seen a row of Roman antique cineraria and cinerary vases. That at the far
left, decorated with Ammon masks, came from the ‘Museum’ of the great Italian
architect and etcher, Piranesi, as did the cinerary vase decorated with
griffins seen on top of the cinerarium in the middle, and the cinerarium
decorated with genii on the far right. Though it is not seen in this view, in
1811, a full-size cast of the Apollo Belvedere would join the collections of
the ‘academy’. Dating to 1717, it had formerly been owned by Lord Burlington
and displayed in his villa at Chiswick. In 1818, further antiquities – this
time from the sale of the effects of Robert and James Adam – would enhance the
installations. The names of these prominent antiquaries and architects are
significant: they create an intellectual genealogy for Soane, who was born the
son of a bricklayer. Sir John Soane’s Museum is a very rare survival of an
early 19th-century private ‘academy’ in which his collections of casts and of
antiquities can be experienced much in the same manner as his own pupils and
his Royal Academy students experienced them. It also demonstrates how Soane
drew upon the Antique to create his intellectual persona. fragments are
set out idiosyncratically and imaginatively. Why did Soane reject a more
conventional arrangement of casts and antiquities in his ‘academy’? Perhaps he
wished 208 1 2 3 4 j k-b See Bingham 1993, p.5. ‘In regard to the students in
architecture, it is exacted from them only that they attend the library and
lectures, more particularly those on Architecture and Perspective...’.
Reprinted, La Ruffinière du Prey 1977, 47. Soane subsequently entered the
office of Henry Holland in 1772. Bingham 1993, 7. The lack of collections of
casts or of architectural fragments in public collections in Britain, until Sir
John Soane formed his collection, was also commented upon by John Britton in
the preface to his 1827 ‘guide’ to Soane’s house-museum, Britton 1827, p.viii.
209 5 Soane had originally started collecting and displaying casts for
the use of the architects working in his first office in No.12 Lincoln’s Inn
Fields in the 1790s. He also hoped to inspire his eldest son – John Soane
Junior – to become an architect and arranged antiquities and casts at his
country villa, Pitzhanger Manor in Ealing, acquired in 1800 and rebuilt by
Soane, to act as an ‘academy’ for John. For a full description of Soane’s
acquisition and installation of casts in his house-museum and his use of them
see: Dorey 2010. 6 This part of the house was in fact behind No. 13 Lincoln’s
Inn Fields. 7 Reveley had collected these casts in Italy and Soane purchased
every cast from this sale. Dorey 2010, 600. 8 Dorey 2010, p.600. 9 These were
found in the remains of Hadrian’s Villa at Tivoli in 1730 and were heavily
restored by Bartolomeo Cavaceppi. The British antiquary Thomas Jenkins acted as
agent for the Pope when negotiating their acquisition. 10 This had been found
in 1788 near Palestrina. The subject of the relief is also sometimes identified
as the Pyrrhic Dance. 11 ‘...I have often lamented that in the Royal Academy
the students in architecture have only a few imperfect casts from ancient
remains, and a very limited collection of works on architecture to refer to.’
Reprinted in Watkin 1996, 579. 12 As Soane explained in his 6th Royal Academy
lecture: ‘On my appoint- ment to the Professorship I began to arrange the
books, casts, and models, 13 14 15 16 17 18 19 in order that the students might
have the benefit of easy access to them. Reprinted in Watkin. See: Dorey 2010, 606.
Watkin 1996, p.579. Observations 1812, 382. In fact, Soane does seem to have
entertained the idea of creating a more ‘rational’ Museum where casts,
antiquities and fragments would be arranged according to academic taxonomies. A
drawing by George Bailey, also dating to 1811 and showing the Dome Area (SM
14/6/3), includes a plan relating to a scheme of c. 1809–11 whereby both Nos 12
and 13 Lincoln’s Inn Fields would be used by Soane. In this proposed scheme,
the whole of No. 13 would become the Museum with the collections displayed
according to type. As Soane explained in a rejected draft of his sixth Royal
Academy lecture, No. 13 would incorporate: ‘... a gallery exceeding one hundred
feet in length for the reception of architectural drawings and prints, another
room of the same extent over it, to receive models and parts of buildings
ancient and modern’. Reprinted in Watkin 1996, 356. Soane even used plain
yellow glass in the skylights that illuminated the Dome Area, perhaps to evoke
the light of the Mediterranean world rather than that of London. Soane explores
the use of architecture as a type of ‘self-portrait’ in notes he made when
preparing his Royal Academy lectures. See: Soane. J., Extracts, Hints, Etc. for
Lectures, 1813–18, SM Soane Case 170, f.135. Soane, Gijsbertus Johannus Van den
Berg (Rotterdam 1769–1817 Rotterdam) The Drawing Lesson c. 1790s Black and red
chalk, 483 × 375 mm. Framing lines in black chalk. Signed recto l.r. in black
chalk: GVD Berg. fecit provenance: Paris, Drouot, 26 March 1924, part of lot
55, La Leçon de Dessin (sold as a pair with another drawing, La Marchande de
frivolités); Private collection, France; Private collection, England; Florian
Härb, London, from whom acquired. literature:None. exhibitions: Not previously
exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2011-013 Born in Rotterdam,
Van den Berg was a pupil of Johannes Zaccarias Simon Prey (1749–1822), a
leading portrait and decorative painter in that city.1 In the 1780s, he studied
for three years in Antwerp where he received special recogni- tion for his drawings
after live models and casts; he also resided for a time in Düsseldorf and
Mannheim.2 In 1790, he returned to Rotterdam where he established himself as a
portrait painter and miniaturist. The same year he was appointed ‘Corrector’, a
judge and arranger of poses for live models, of the Rotterdam Drawings Society,
whose motto was Hierdoor tot Hooger (‘From Hereby to Higher’).3 For the
remainder of his career, he devoted himself to teaching. His pupils included
his son, Jacobus-Everardus-Josephus (1802–61), who also became a professional
painter and from 1844, director of the Teeken-Akademie in the Hague.4 One of
Van den Berg’s biographers makes special mention of the finished portrait
studies in black and red chalk that he made after his return to Rotterdam; the
present drawing is certainly one of them.5 Berg preferred studying female
models, usually posing two together: here, two elegantly dressed women in a
panelled interior focus their attention on an idealised head, probably a
variant of the head of an antique Venus.6 The seated draughtswoman holds up her
chalk-filled porte-crayon above an angled drawing-board, intently appraising
her subject. She engages with it much in the same way as Hubert Robert did some
thirty years earlier in his self-portrait with the Faustina bust (cat. 17). The
second woman appears to be commenting on the work in progress. A portfolio
leans against a table leg on the floor below. Comparably attired women –
possibly the same ones – are shown reading a letter in a sheet by Van den Berg
in a private collection.7 The present composition is similar in style and
format to several other chalk studies by the artist of the 1790s. It is
especially close to his drawing of a female artist seated at a table in the
Rijksmuseum, Amsterdam (fig. 1). But instead of holding a porte-crayon, this
young woman operates a zograscope, an optical device invented in the mid-18th
century that included a magnifying lens to enhance an image’s depth and relief;
the subject of her scrutiny remains out of view.8 Another comparable drawing,
signed and dated 1791 (Royal Collection, Windsor Castle; 2), shows an elderly
man, perhaps a drawing instructor, inspecting a portrait study from a
portfolio.9 He is seated at a table which is nearly identical to that in the
Bellinger example, but Berg shows him in a less formal attitude, holding a long
clay pipe and resting his feet on a portable stove, in a manner reminis- cent
of Dutch 17th-century genre subjects. This drawing, plus a number of other
figure drawings by Van den Berg preserved at Windsor, were probably obtained as
a group by 1. Gijsbertus Johannus Van den Berg, Study of a Woman Seated at a
Table, with an Optical Mirror, black and red chalk, 396 × 303 mm, Rijksmuseum,
Amsterdam RP-T-1997-10 210 211 2. Gijsbertus Johannus Van den Berg, A
Connoisseur Examining Drawings, 1791, black and red chalk, 407 × 284 mm, Royal
Collection, RL 12865 King George III around 1810.10 Most are probably studies
after live models set in poses determined in advance in classes at the
Rotterdam Drawings Society.11 Draped plaster casts were used when models were
unavailable.12 As with the Bellinger drawing, their style, with their sensitive
employment of black chalk and red accents for the skin, is strongly reminiscent
of portrait drawings by the English artist Richard Cosway (1742–1821) and no
doubt register the prevailing taste for English art in Rotterdam at the time.13
It is possible that Van den Berg intended his figure studies to be engraved,
perhaps for a series on the art of drawing.14 Women artists did not begin to
acquire the same privileges and educational advantages as men until the end of
the 19th century; as a general rule they were denied membership of academies
and were not permitted to draw after nude or anatomical models.15 They were
largely confined to producing art in private studios and especially in
aristocratic houses, where drawing tutors were sometimes hired to supplement
the education of young women.16 For the most part, they were restricted to
producing non-histor- ical, non-mythological and non-biblical subjects, such as
portraits and still-lifes, as their exclusion from study of the live model and
anatomy was thought to – and generally did 3. Georg Melchior Kraus, Corona
Schröter Drawing a Cast of the ‘Eros of Centocelle’, 1785, watercolour, 380 ×
315 mm, Klassik Stiftung Weimar, KHz/01632 – prevent them from acquiring full
mastery of the human form.17 Instead, they studied sculptural models and espe-
cially antique casts, often ones deemed thematically appro- priate for their
gender, such as the ideal head featured in the Van den Berg drawing catalogued
here. A comparable situa- tion is depicted in a watercolour close in date by
Georg Melchior Kraus (1737–1806), then director of the Weimar drawing school,
in which a beautiful and smartly dressed young lady, Corona Schröter, draws
after a cast of the girlish son of Venus, the Eros of Centocelle (1785; Klassik
Stiftung Weimar; 3), a statue known through Roman copies – namely, the example
discovered by Gavin Hamilton in 1772 in the outskirts of Rome and now in the
Vatican – after a lost bronze original by Praxiteles.18 The tradition of women
drawing from antique plaster casts in Holland, which began in the 17th
century,19 was well advanced by the first quarter of the 18th century,
evidenced in Pieter Van der Werff’s portrayal of a girl draw- ing after the
Venus de’ Medici (1715; Rijksmuseum, Amsterdam; 40, 53). Van den Berg’s
drawing, and others like it, confirm that the practice developed further during
the latter part of the century, and became still more widespread in the 19th.
The importance of plaster casts in artistic training in 212 213 Holland
at this time is indicated by the activities of the Rotterdam Drawing School,
but also by Van den Berg’s own self-portrait of 1794, where a reduced model of
the Dying Gladiator and others are given prominence of place on the shelf
directly behind the artist (Museum Rotterdam).20 avl 1 For his life and work,
see Van der Aa 1852–78, 2, 368–69; Thieme- Becker 1907–50, 3, 387; Scheen Van der Aa 1852–78, 2, 368–69. 3 Ibid., 2, 369;
For the society and his involvement therein, see Amsterdam 1994, 2–3
[unpaginated]. 4 Ibid. 5 Ibid.; Amsterdam 1994, 3 [unpaginated]. 6 Amsterdam
1994, 3 [unpaginated]; Berg also oversaw private classes where students drew
after nude female models. 7 Ibid., 3–4 [unpaginated], no. 9. 8 Bulletin van het
Rijksmuseum, 45, no. 3, 1997, 239, fig. 9. For an in-depth study of this
device, known in the 18th century as an ‘optical machine’, see Koenderink 2013,
192–206. 9 Puyvelde 1944, 20, no. 81, pl. 142; Amsterdam 1994, 2 [unpaginated].
10 Puyvelde 1944, 20–21, 75–83. See also on-line collections database:
http://www.royalcollection.org.uk 11 For the society’s use of posed models, see
Amsterdam 1994, 2 [unpagi- nated]. 12 On the role of casts, see Amsterdam 1994,
2 [unpaginated]. An intrigu- ing view of the society’s drawing room, on the
upper floor of the Delftse Poort in Rotterdam, was published in Plomp 1982, 11–12
(drawn by an anonymous artist, 1780, whereabouts unknown). Casts of the
Laocoön, the Apollo Belvedere, and L’Ecorché (Figure of a Flayed Man), 1767 by
Jean-Antoine Houdon (1741–1828) are clearly visible. For the latter, see
Washington D.C., Los Angeles and elsewhere 2003–04, 62–66, no. 1 (Poulet). It
has also been suggested that the finished quality of Van den Berg’s drawings
are reminiscent of engravings by George Morland (Amsterdam 1994, 3
[unpaginated]; Bulletin van het Rijksmuseum, 45, no. 3, 1997, 239). As proposed
by Florian Härb, unpublished fact sheet on the Bellinger drawing, c. 2011. For
essential reading on the subject of women artists from the Renaissance to the
mid-20th century, see Los Angeles, Austin and elsewhere 1976–77 and especially the
authors’ introductory essay, 12–67. See also Goldstein 1996, 61–66. A very
small number of women artists managed to get elected to the French academy
including Adélaïd Labille-Guiard (1749– 1803) and Elisabeth Vigée Lebrun
(1755–1842) in 1783. But from 1663 to the dissolution of the Academy in 1793,
only fourteen in total were accepted (Montfort 2005, 3, 16, note 8). The French
Salon in Paris was not open to non-Academy members until 1791, when women were
permitted to exhibit their work. Goldstein 1996, 62–64. See Los Angeles, Austin
and elsewhere 1976–77, especially 13–58; Goldstein 1996, 62–63. Söderlind 1999,
23. For the statue, see Spinola 1996–2004, 2, 61, fig. 11, 63, no. 85; Piva
2007, 48–49, fig. 7. See for example, A Young Woman Seated Drawing, 1655–60, by
Gabriel Metsu (1629–67) in the National Gallery, London (NG 5225; Waiboer 2012,
205–06, A-62) and A Lady Drawing, c. 1665, by Eglon van der Neer (1635/36–
1703) in the Wallace Collection, London (inv. no. P243; Schavemaker 2010, 462,
no. 29). Dordrecht 2012–13, no. 64A (F. Meijer). 31. Wybrand Hendriks
(Amsterdam 1744–1831 Haarlem) The Haarlem Drawing College 1799 Oil on canvas,
63 × 81 cm Signed and dated lower left: ‘W. Hendriks Pinxit 1799’ provenance:
Wybrand Hendriks (1744–1831); his sale, R.W.P. de Vries et C.F. Roos, Amsterdam,
27–29 February 1832, lot 30; private collection, Paris; Adolph Staring
(1890–1980), Vorden; given to the Teylers Museum in 1987 by Mrs. J.H.M.
Staring-de Mol van Otterloo. literature: Knoef 1938, repr.; Knoef 1947a, 11–13;
Staring 1956, 174, fig. LIV; Van Regteren Altena 1970, 312, 316; Praz 1971, 37;
Van Tuyll 1988, 17–18, fig. 21; Haarlem 1990, 35–36. exhibitions: Rotterdam
1946, 8, no. 13; London 1947, 4, no. 2; Amsterdam 1947–48, 8, no. 10; Haarlem
1972, 25–26, no. 29, fig. 44; Munich and Haarlem 1986, 96–97, no. 13. 214 215
Teylers Museum, Haarlem, KS 1987 002 exhibited in haarlem only In this painting
we have been admitted to a gathering at the Haarlem Drawing College. In the
18th and early 19th century every self-respecting Dutch town had its own drawing
‘college’ or ‘academy’. It was where artists and wealthy amateurs met, drew
together from the nude or draped model, and where they looked at drawings
together during so-called art viewings or ‘kunstbeschouwingen’. In 1799, the
year this picture was painted, the Haarlem Drawing College had twenty-six
working (as opposed to honorary) members, and this is very probably a group
portrait of them and their committee (leaving aside the boy playing marbles on
the left, who may be the son of one of the members). The setting is a house
that the Haarlem artists rented in Klein Heiligland. The question that
immediately arises is: ‘who’s who?’ Although the label listing the sitters that
was still with the painting at the sale of Hendriks’s estate in 1832 is no
longer preserved, many of the figures can nevertheless be identified with a
fair degree of certainty. The two in the middle are very probably the
secretary, Jan Willem Berg who gestures to the viewer’s left, and the balding
treasurer, Pieter S. Crommelin. On the far right, beneath the bas-relief on the
wall, is Hendriks himself.1 The man in the left background, pointing at one of
the plaster casts on the mantelpiece, has been recognised as Adriaan van der
Willigen (1766–1841), author and art historian avant la lettre.2 Prominently
displayed against the chimneybreast are various plaster casts. The large head
of the famous Apollo Belvedere in the middle is the most eye-catching (see 26,
fig. 18). To the right of it is the classical Callipygian Venus and to the
left, the crouching Nymph Washing Her Foot after Adriaen de Vries (1556–1626).3
Of the two male casts seen frontally, that on the right is after the classical
Farnese Hercules (see 30, fig. 32), while that on the left is probably after a
Mercury by François Duquesnoy (1597–1643).4 Hanging on the wall above
Hendriks’s head is Vulcan’s Forge, also after Adriaen de Vries, and in the
corner on the left is the life-sized cast of another classical statue: the
Venus de’ Medici (see 42, 56).5 The casts displayed, therefore, reproduce as a
whole or in part, statues from classical antiquity and from 16th- and
17th-century Netherlandish sculpture, which in turn reference the Antique. The
casts depicted belonged to the Haarlem Drawing Academy, the forerunner of the
College. Hendriks had bought them and the rest of the inventory in 1795 to help
pay off the academy’s debts, and he donated everything to the Drawing College
when it was founded the following year. The prime mover behind the gift was
probably the Teylers Foundation, a Haarlem body that had been set up in 1778 to
stimulate the arts and sciences. The foundation subsidised art education in
Haarlem for decades, and Hendriks was the curator of its art collection, which
was housed in the Teylers Museum.6 The fact that these plaster casts were
transferred immediately to the Drawing College indicates how impor- tant they
were for a society that promoted drawing, and this is confirmed by the
prominence they are accorded in this group portrait. On the other hand, it
should be appreciated that the supremacy of classical art and the rules of
classicism, which in fact had never been applied very strictly in the Dutch
Republic, were no longer so sacred in the Netherlands by 1800. Members of some
drawing academies often argued that genres like landscape and scenes from
everyday life in which nature was imitated literally and not idealised, should
be valued as highly as history paintings, which were generally inspired by
classical or neo-classical principles. The idea that Adriaan van der Willigen
is the man point- ing at the casts is intriguing. He was a learned amateur and
the best-versed person in the gathering when it came to the history of the
arts. He was very well aware how much they owed to the example of ancient Greece
and Rome. A few years after this painting was executed he wrote an essay
in the Verhandelingen uitgegeven door Teyler’s Tweede Genootschap (Discourses
published by Teylers Second Society) discussing ‘the cause of the lack of
superior history painters in the Netherlands, and the means suitable for their
training’. He praised his countrymen for their colouring, chiaroscuro, fidelity
to nature and brushwork, yet accused them of impre- cise drawing, inelegant
compositions and bad taste. What, Van der Willigen asked, could be done to
overcome these defects? To draw from the ‘purest casts in plaster of the finest
classical statues, busts and bas-reliefs’! And he then gave a list of the
well-known canon of classical sculpture, which included the Apollo Belvedere,
the Laocoön, the Venus de’ Medici and the Belvedere Torso.7 In short, he was
utterly convinced of the importance of classical sculpture and its formative
nature. For him, it was clearly still of paramount importance. mp 1 2 3 4 5 6 7
For the various identifications see Haarlem 1972, 25 and Haarlem 1990, 35–36.
The Van der Willigen identification was made by A. Staring and has been adopted by other authors (see
above, note 1). According to Staring, some of the portraits were added later,
when the composition had already been determined, including that of Van der
Willigen, who was not yet living in Haarlem in 1799. Van der Willigen is best
known today for writing a comprehensive collection of biographies of artists
living in the Netherlands from 1750 onwards, together with Roeland van Eynden:
Van Eynden and Van der Willigen 1816–40. For the Callipygian Venus see Haskell
and Penny 1981, 316–18, no. 83; Gasparri 2009–10, 1, 73–76, no. 31 and repr. on
267–69. For the Nymph Washing Her Foot after Adriaen de Vries: Amsterdam,
Stockholm and elsewhere 1998, 131–33, no. 10. For Duquesnoy’s Mercury, of which
there are several versions, some of them slightly different, see Boudon-Mauchel
2005, 264–70. For the Farnese Hercules see Haskell and Penny 1981, 229–32, no.
46; Gasparri. For the Venus de’ Medici see Haskell and Penny 1981, 325–28, no.
88, and for De Vries’ Vulcan’s Forge see Amsterdam, Stockholm and elsewhere
1998, 187–89, no. 27. The plaster casts stood in the top front room of the
house in Klein Heiligland. For a description of the house and of Hendriks’
involvement with the casts, see Sliggers 1990, no. 26, 16–17. Van der Willigen
1809, 282 (colouring etc.), 298 (plaster casts). 216 217 32.
Woutherus Mol (Haarlem 1785–1857 Haarlem) The Young Draughtsman c. 1820 Oil on
canvas 52.3 × 42.6 cm provenance: A. Pluym; his sale, R.W.P. de Vries, A.
Brondgeest, C.F. Roos, Amsterdam, 24 November 1846, 7, no. 22; sold to Gerrit
Jan Michaëlis (1775–1856) for the Teylers Foundation (f 400,-) literature: Van
Eynden and Van der Willigen 1816–40, 4, 244; Huebner 1942, 69, 63; Knoef 1947b,
8–10, repr.; Van Holthe tot Echten 1984, 60–63, 4; Jonkman 2010, 35; Geudeker
2010, 60, 78, 74. exhibitions: Amsterdam 1822, no. 222; Moscow and Haarlem
2013–14, 50 (not numbered). Teylers Museum, Haarlem, KS 015 exhibited in
haarlem only A young draughtsman sitting by an open window is engrossed
in his work. He seems to be copying the object leaning against the wall in
front of him, but whether it is a drawing or a bas-relief is not entirely
clear. The tree visible through the window and the building beyond it stand in
a garden or by a narrow canal-side street. The colourful flowers in a vase on
the windowsill bring a touch of that outside world indoors. The leaded windows,
ceiling beams, whitewashed walls and above all the ornately carved cup- board
show that this is an old Dutch interior. Standing on the cupboard are imposing
plaster casts of famous classical statues: the Dancing Faun, the Venus de’
Medici (p. 42, 56) 1. Woutherus Mol, Painter and Draughtsman in a Studio, c.
1820, oil on canvas, 43.5 × 37 cm, present whereabouts unknown and an
unidentified statue of the Apollo Citharoedus type.1 It is difficult to make
out whether the other objects also record classical prototypes: a bas-relief, a
baby’s head, a couching lion and a vase with prominent handles. The interior is
bathed in a serene calm, so much so that the song of the little bird in the
cage high up on the wall is almost audible. One scholar recently put forward a
fascinat- ing argument that the picture is a commentary on the Classicist view
of art.2 If the tree and the bouquet of flowers are interpreted as ‘nature’,
and the plaster casts as ‘classical antiquity’, then the young draughtsman is
occupying a special position, mid-way between them. According to that view of
art, nature had to be idealised with the aid of beautiful examples, and such
examples were available in abundance in classical antiquity. Statues like the
Venus de’ Medici, the Apollo Belvedere and the Dancing Faun had been for
centuries part of the canon of the most treasured sculptures. At the same time,
however, Mol is remaining true to his Dutch origins, for he has very clearly
set The Young Draughtsman in a traditional Dutch interior. A similar painting
by him, Painter and Draughtsman in a Studio (fig. 1), is again set in a typical
17th-century Dutch space, with a wooden cross window, ‘Kussenkast’ cupboard,
and a massive table with ball feet. It too contains a prominent display of
classical sculpture.3 The apprentice draughtsman is copying a plaster cast of
the Dancing Faun, and on the cupboard are casts of the same Apollo Citharoedus
that we see in our picture, a reproduction of the so-called Priestess in the
Capitoline Museum, and another of the Farnese Hercules (see 30, 32 and cat. 7, 3).
Standing beside the cupboard there is even a copy after a classical vase,
probably the famous Borghese Vase.4 Deliberately or not, the combination of
classical art and a 17th-century Dutch setting relates Mol’s two studio scenes
directly to the debate about the ‘national taste’ being con- ducted in the
Netherlands around 1800 and for some decades 218 219 thereafter. It
was felt that Dutch painting was in a deplorable state: essays were written
about how standards could be raised and competitions were held to encourage
improve- ments. Classical sculpture was regularly invoked: it was only logical
that Dutch painters were lagging behind, it was said, given the absence of
classical statues in Holland, and drawing academies should therefore acquire
copies after antique statues (see cat. 31), and so on.5 Reading between the
lines, though, one sees that the same writers were often great admirers of
17th-century Dutch painting. The painters of that Golden Age had paid little
heed to Classicist art theory; they imitated nature and did not idealise it.
Mol’s two studio scenes contain elements that can be associated with both
artistic theories. He was very much at home in both worlds. Born in Haarlem, he
had received an old- fashioned Dutch training with the landscapist Hermanus van
Brussel (1763–1815). In 1806, however, he went to Paris, where he worked for
several years, partly as an élève in the framework of the new arts policy of
King Louis Napoleon of Holland (1778–1846), apprenticed to none other than
Jacques Louis David (1748–1825). In other words, classicist views about art
were well-known to him. 33. Anonymous, Danish School, 19th century Two Artists
and a Guard in the Antique Room at Charlottenborg Palace c. 1835 Oil on canvas,
38.6 × 33.9 cm provenance: Private collection, Denmark; Thomas Le Claire
Kunsthandel, Hamburg with Daxer et Marschall, Munich in 2003 (as Knud
Andreassen Baade), from whom acquired. literature: Zahle 2003, 271, 117 (as
Julius Friedlænder (?)); Copenhagen 2004, 110–11, no. 8, 16 (as unknown
artist); Fuchs and Salling 2004, 3, 194–95, repr. (as unknown artist). 1 2 3 4
5 mp Haskell and Penny 1981, respectively 205–08, no. 34 (Dancing Faun), 325–28,
no. 88 (Venus de’ Medici). T. van Druten, in Moscow and Haarlem 2013–14, 50.
Mak van Waay sale, Amsterdam, 26 May 1964, lot 366. Haskell and Penny 1981, 205–08,
no. 34 (Dancing Faun), 229–32, no. 46 (Farnese Hercules), 314–15, no. 81
(Borghese Vase). For the Priestess in the Capitoline Museum see Stuart Jones
1912, 345, no. 6, pl. 86; Helbig 1963–72, 2, no. 1227. Koolhaas-Grosfeld and De
Vries 1992, 119, 128. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger
collection, inv. no. 2003-028 The Antique Room of the Copenhagen Academy of
Fine Arts, housed in Charlottenborg Palace, was a popular choice of subject for
19th-century Scandinavian art students, such as H. D. C. Martens (1795–1864),
Martinus Rørbye (1803–48) and Christian Købke (1810–48). The Academy was
founded in 1754 by King Frederik V, but an informal art school had been
established in 1740 by his predecessor, Christian VI, so that there was already
a small collection of casts for the students to study, including one of the
Laocöon, but with the older son missing.1 The Academy’s programme was modelled
on those of others across Europe, especially that in Paris, in which plaster
copies after antique models served as the basis for the instruction of artists;
in some cases casts were even valued above the originals because they made details
more readily accessible to copyists. The expansion of the collection was
primarily due to the efforts of three mem- bers of the Academy: a professor of
sculpture, Christoph Petzholdt (1708–62), who contributed twenty-five casts and
restored many others that had suffered from being moved too often;2 the
sculptor and Academy Fellow Johannes Wiedewelt (1731–1802), who in 1758 sent
three large chests of casts back to Denmark from Rome;3 and the painter and
sculptor Nicolai Abildgaard (1743–1809), who was appointed Director in 1789 and
purchased several casts, including Germanicus and the Belvedere Torso, and the
missing son of the Laocoön.4 The cast collection focused mainly on Roman
copies, and it was not until the first decades of the 19th century that casts
of Greek originals were added.5 This was characteristic of academies across
Europe, which began to recognise the value of the Greek originals over their
Roman derivations, thus diverging from Italian academic tradition. In the
painting on display, an artist in his work-robe holds up a plumb-line to check
the vertical axis of the cast that he is sketching. He draws his copy on a
sheet attached to a drawing-board that rests on his lap, and his portfolio
crammed with other drawings leans against a stool in front of him, along with
his discarded top hat and cravat. A fellow artist considers his handiwork, but
they are about to be interrupted by a museum guard bearing a scroll. When it
was acquired in 2003, this canvas was attributed to the Norwegian artist, Knud Andreassen
Baade (1808–79), whose painting of the same room now belongs to the National
Museum of Art, Architecture and Design in Oslo (fig. 1), and also features a
draughtsman at work, holding up a stylus to check the horizontal reference line
of his subject. The depic- tion of the room in the Oslo painting, which is
dated 1828, just precedes its renovation later that year when, under the
direction of the architect Hansen (1756–1845), the walls were plastered smooth,
as seen in the painting on display here.6 A comparison of the two canvases
shows the way the room was modified to accommodate the growing collection, as
casts were shifted around according to aesthetic, thematic or chronological
principles. In the Oslo painting, the Borghese Gladiator (see 41, 54 and cats
16, 23–24) is placed in the extreme left foreground, creating a diagonal
perspective. The same technique is used in the present painting, though it is
now a statue of Perseus that anchors the work, with his outstretched hand
grasping a missing Medusa’s head. The Perseus was created in 1801 by Canova, 1.
Knud Andreassen Baade, Scene from the Academy in Copenhagen, 1828, oil on
canvas, 32.4 × 23.8 cm, The National Museum of Art, Architecture and Design,
Oslo, inv. no. NG.M.01589 220 221 2. Relief of an Eagle with
a Wreath, 2nd century ad, marble, church of Santi Apostoli, Rome who donated a
cast of it to the Academy in 1804, thereby becoming a member. Another modern
sculpture hangs on the upper wall at left, which is a roundel with an allegory
of Justice, in which Nemesis reads a list of the guilty to Jupiter, who sits in
judgment. This was the work of Bertel Thorvaldsen (1770–1844), the leading
sculptor in Europe after Canova’s death, who had been trained in the Academy.7
Also modern is the bust of Frederik V at the end of the room by the sculptor J.
F. J. Saly. The remaining casts in the room are of antique statues and reliefs,
and extant inventory lists attest to the dates of their acquisition.9 The
relief of the eagle in a wreath, after the original in the church of Santi
Apostoli in Rome (fig. 2), is displayed on the wall above a reduced copy of a
frieze, taken from the Parthenon, both of which were transferred to this
southern wall as part of the 1828 reconstruction.10 Facing the viewer and
leaning on a column is a reproduction of the Marble Faun (fig. 3). This was a
relatively overlooked sculp- ture, more valued for its conjectural attribution
to Praxiteles 3. Marble Faun, Roman copy, c. 2nd century ad, after a Greek
original of the 4th century bc, marble, 170.5 cm (h), Capitoline Museums, Rome,
inv. no. S.739 4. Germanicus, Roman, c. 20 ad, after a Greek original of the
5th century bc, marble, 180 cm (h), Louvre, Paris, inv. no. MA1207 than for its
aesthetic significance. It did not achieve world- renown until the publication
of The Marble Faun by Nathaniel Hawthorne in 1860, after which it became one of
the highlights of the Capitoline Museum.11 Behind the Faun stands a cast of
Germanicus (fig. 4), which, in contrast to the Faun, was one of the most
revered antiquities almost from its discovery in the mid-17th century.12 Casts
of it were commissioned for collections across Europe, including Florence,
Mannheim, Madrid and the Duke of Devonshire’s collection at Chatsworth in
Derbyshire. The identity of this figure is uncertain, and it has been thought
by different scholars to represent Augustus, Brutus, Mercury or an anonymous
Roman general; however, its identification as Germanicus, nephew of Tiberius,
has persisted since 1664.13 Between Perseus and the Faun is the seated figure
of Mercury, cast after the bronze original discovered in Herculan- eum in 1758
(fig. 5). It was one of the most celebrated archaeo- logical discoveries of the
18th century, and its presence is critical to the dating of the Bellinger
painting because the cast was only acquired by the Academy in 1834, thus
provid- ing a terminus post quem and supporting for it a date of c. 1835.14
This precludes the authorship of Baade, who left Copenhagen in 1829 and spent
the early 1830s travelling in his native Norway. In 1836 he followed his
mentor, the landscapist J. C. C. Dahl, to Germany, where he lived until his
death in 1879.15 Jan Zahle tentatively proposed that the painter was Julius
Friedlænder (1810–61),16 who is also thought to be the artist of another
painting of the Antique Room in Charlottenborg, dated 1832 (current whereabouts
unknown).17 To commemorate the 250th anniversary of the Seated Mercury,
Roman copy, 1st century ad, after a Greek original of the late 4th century or
early 3rd century bc, bronze, 105 cm (h), Museo Archeologico Nazionale, Naples,
inv. NM 5625 Academy in 2004, the Bellinger painting was presented in the
accompanying exhibition catalogue as by an unknown artist,18 and until further
evidence comes to light, it is prudent to maintain its anonymity. While the
Academy continues to function, the cast collection was relocated and dispersed
several times; first in 1883, due to lack of space, to a new building. The
pieces by Thorvaldsen were transferred to his eponymous museum, founded during
his lifetime in 1839 and opened to the public in 1848. In 1895 the rest of the
collection was absorbed into the newly created Royal Cast Collection, which
shared a building with the newly founded National Gallery of Art, in
Copenhagen.19 These casts were neglected over the subse- quent years, as
interest in plaster copies waned in favour of original and unique works of art.
When the museum under- went renovations from 1966 to 1970, the majority of the
casts were packed away and allowed to deteriorate. Only in 1984, due to the
combined efforts of concerned art historians, classical archaeologists and
artists, were thousands of casts rescued and restorations begun. They were
rehoused in the West India Company Warehouse, 6. Antique Room in Charlottenborg
Palace recreated in 2004, curated by Pontus Kjerrman and Jan Zahle, with
sculptor Bjørn Nørgaard originally a storehouse for products of the slave
trade, and approximately 2,000 casts can be seen on display there. The Faun and
Germanicus both belong to this collection, while Canova’s Perseus was
transferred to the Ny Carlsberg Glyptotek. However, in 2004, as part of the
anniversary exhibition, replicas of these casts were reunited in the Antique
Room of the Palace, just as seen in numerous 19th-century paintings, such as
this one. A visitor in 2004, therefore, could stand in the very same spot as
our anony- mous painter, and witness a nearly identical scene (fig.).
literature:None. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger
collection, inv. no. 1997-020 In this striking candlelight view of a
19th-century bourgeois interior by the little-known artist, Desflaches,1 a man
examines a work of art displayed on an easel but hidden from our view. In one
hand he holds an oil lamp or candle, illuminating the corner of the room in
soft, golden light and casting strong and dramatic shadows. It is exactly
10:30, according to the clock on the mantle, and the visitor, proba- bly a
connoisseur, has called on the artist at home, presum- ably to inspect his
latest work. He has removed his hat and cloak, placed on the chair on the left,
and with a pipe in hand, assumes a relaxed yet concentrated stance. Viewing and
producing art by candlelight is a tradition that hearkens back to the Renaissance
when artist-theorists, Leon Battista Alberti (1404–72), Leonardo da Vinci
(1452– 1519), Benvenuto Cellini (1500–71) and others, advised students to draw
sculpture by artificial light, to enhance the effects of relief,
three-dimensionality and shadow.2 Baccio Bandinelli put this concept into
practice, and drawing by candlelight was central to artistic training at his
academy (see cats 1–2). Others followed suit including Jacopo Tintoretto and
his followers who used an oil lamp when making studies after casts of
Michelangelo’s Medici tomb figures and other models ‘so that he could compose
in a powerful and solidly modelled manner by means of those strong shadows cast
by the lamp’.3 The practice of drawing after models, especially casts, at night
continued in the 17th century, as seen in Rembrandt’s small etching, Man
Drawing from a Cast, (c. 1641).4 Nocturnal viewings became common in the late
18th century; white casts were popularly studied by flickering torchlight
because it made them appear animated.5 Indeed, the spectators’ delight is
clearly evident in William Pether’s mezzotints, Three Persons Viewing the
Gladiator by Candlelight (1769) 6 and An Academy (1772; cat. 24), both after
Joseph Wright of Derby. The female model in the Bellinger painting is a reduced
plaster cast of the Crouching Venus – a Hellenistic original of which several
antique variations are known (fig. 1).7 The figure was enormously popular,
especially in the 17th and 18th centuries when many artists produced imitations
of her, the most celebrated being the marble completed in 1686 by the French
sculptor, Antoine Coysevox (1640–1720), also reproduced in bronze.8 She is
generally believed to represent Venus in, or emerging from, the bath, her head
turned sharply to the right and her arms sensuously and protec- tively crossing
her body, suggesting that her ablutions have been interrupted. In Desflaches’
canvas the Crouching Venus has been brightly lit and given primacy of place,
suggesting she may be the subject of the canvas displayed on the easel; her
animation is enhanced by the direct gaze with which she engages the viewer.
While the cast in our painting probably ultimately derives from the antique
marble in the Uffizi, it seems to have been idealised and modified, to reflect
a dis- tinctively Coysevesque sensibility, evidenced in the refined and
delicate features of her face.9 Other identifiable works in the Desflaches
composition include a second plaster cast – a male portrait bust – partly
visible on the covered table in the background, to the visitor’s right. He
probably derives from the marble head of a young man in the Museo
Pio-Clementino in the Vatican (Roman, 1st 1. Crouching Venus, Roman copy, 1st
c. ad after Hellenistic original, marble, 78 cm (h), Uizi, Florence, inv. no.
188 Zahle 2003, 272. For the history of
the Copenhagen Academy see Meldahl and Johansen 1904. Saabye 1980, 6 and Zahle
2003, 272 Zahle Jørnæs 1970, 52. Zahle 2003, 275. Jørnæs 1970, 58. Helsted
1972, lxxxvi. Copenhagen 2004, 201 (S85). An inventory from 1809 is especially
extensive (Fortegnelse over Marmor-og Gibs-Figurerne, samt Receptions-Stykkerne
og flere Konstsager i Den Kongelige Maler-, Billedhugger- og Bygnings-Academie
paa Charlottenborg, partially transcribed in Zahle 2003, 269) and records were
kept for several years by the art historian Julius Lange (see, for example,
Lange 1866). Copenhagen 2004, 198 (S51) and 199 (S61). Haskell and Penny 1981, 210;
La Rocca and Parisi Presicce 2010, 446–51, no. 5. Haskell and Penny 1981, 219.
Ibid., 220. Copenhagen 2004, 200 (S72). Thieme-Becker 1907–50, 2, 297. Zahle
2003, 271. Copenhagen 2004, 110, no. 7. Ibid., 110, no. 8. Zahle 2003, 278. 34.
Desflaches (Christian name unknown; probably Belgian, fl. 19th century) The
Connoisseur c. 1850 Oil on canvas, 60 × 50 cm Signed recto lower right,
Desflaches provenance: Galerie Fischer-Kiener, Paris; property of a European
Foundation; their sale, Sotheby’s, New York, 26 October 1990, lot 144; Didier
Aaron Inc., New York; Harry Bailey, New York; Didier Aaron Inc., New York;
Their sale, Christie’s, New York, 22 May 1997, lot 116, from whom
acquired. 224 225 2. Head of Lucius or Gaius Caesar,
or the Young Octavian (Augustus), 52 cm (h), marble, possibly end of the 1st c.
ad or later, Museo Pio-Clementino, Vatican Museums, Rome, inv. 714 3. Godfried
Schalcken (1643–1706), An Artist and a Young Woman by Candlelight, oil on
canvas, 44 × 35 cm, private collection, New York century ad; 2).10 This
bust, believed to be either one of the brothers, Lucius or Gaius Caesar, or a
rare depiction of the young Octavian before he became Emperor Augustus in 27
bc,11 enjoyed considerable popularity and was copied by many artists,
particularly in the 19th century. Its authen- ticity has occasionally been
doubted – at one point it was even attributed to the neo-classical sculptor,
Antonio Canova (1757–1822) – but the confirmation of its discovery by Robert
Fagan in the ruins of Tor Boacciana (Ostia) in 1800–02, supports its antique
origin despite it being consid- erably reworked.12 In addition to works
deriving from antique sources are others that directly reference Dutch art of
the 17th century. Immediately behind the Crouching Venus is what appears to be
a pencil drawing after Rembrandt’s celebrated etching, Self Portrait Leaning on
a Stone Sill (1639).13 It is in the same direction as the etching though the
line is faint and the lower half of the figure, with the distinctively posed
left arm, has been omitted altogether, suggesting the source was either a later
impression of the print or a further, reduced copy of the original. To the
right of the Rembrandt, is a moonlit landscape strongly reminiscent of the work
of Aert van der Neer (1603/4–77). On the opposite wall is a portrait of a man,
possibly by, or at least in the manner of, the portraitist and genre painter,
Frans Hals (1582/83–1666). Partly obscured in shadow below appears to be a
drawing, possibly by Jan van Goyen (1596–1656), or one of his contemporaries.
As the distinctive trappings would suggest, the artist may well be Dutch, and
this is supported further by a com- parison with a painting by Godfried
Schalcken (1643–1706) in a private collection, New York (fig. 3), which may
have been known to Desflaches. A pupil of Gerrit Dou (1613–75), Schalcken
specialised in night scenes; here a man, drawing in hand, presumably the
artist, with his female pupil, points suggestively to a small but lively model
of the Crouching Venus, animatedly illuminated by an oil lamp; clearly there is
more 226 than just a drawing lesson at play here. An antique head lies dormant,
face-up on the table below. By the 19th century, the Antique was readily
available, even to amateur artists, via plaster casts, as Desflaches’
composition suggests. Ancient sculpture could now readily be combined with art
of different types and in diverse settings, both on the continent – seen, for
instance, in the work of Woutherus Mol (cat. 32), which also features Dutch and
antique motifs – and in England (cat. 35). As the canon became more diffuse,
the standing of the Antique also declined, as other styles, historical and
modern, became increasingly more dominant as the century progressed. The
painting bears that name at lower right. In the Christie’s catalogue, New York,
22 May 1997, lot 116, the initial of the first name is given as ‘P’, without
explanation, and the nationality, French/Belgian. A painting attributed to the
artist, Still Life with Brass Oil Lamp, Skeleton Key and Pitcher, oil on
canvas, 33 × 29.2 cm, was sold New Orleans Auction Galleries, 20 July 2002, lot
324 (as Desflaches). Weil-Garris 1981, 246–47, note 39; Roman 1984, 83; Hegener
2008, 401. Ridolfi 1914, 2, 14; Ridolfi 1984, 16. White and Boon 1969, 1, 68,
no. B130, 2, 119, repr. Borbein 2000, 31 (see also note 23 listing further
bibliography on night- time viewing of casts). Clayton 1990, 236, no. 154, P3.
Haskell and Penny 1981, 321–23, no. 86, 171. The authors catalogue the example
in the Uffizi, Florence, but discuss the other extant versions as well. See
Lullie 1954, 10–17 and Havelock 1995, 80–83. Haskell and Penny 1981, 40, 22,
323. The marble version is in the Louvre and the bronze, at Versailles (Souchal
1977–93, 1, 191–92). The cast in the painting bears a striking resemblance to
one preserved in the Salzburg Museum, Austria, another idealisation of the
original in the Uffizi, see http://www.salzburgmuseum.at/972.0.html It was in
the collection of the painter, Anton Raphael Mengs (1728–79). In 1782, the
Court of Saxony acquired it, among other casts from his estate, for the Dresden
Academy of Art. Spinola 1996–2004, 2, 131, 22, 137–38, no. 123 with previous
bibliography. Spinola 1996–2004, 2, 137. Ibid. White and Boon 1969, 1, 9–10,
no. B21, 2, 10, repr. 227 35. William Daniels (Liverpool 1813–1880
Liverpool) Self-Portrait with Casts: The Image Seller c. 1850 Oil on canvas,
feigned circle, 43.3 × 43.3 cm provenance: Richard S. Timewell, Tangier, by
descent; Timewell family sale, Brissonneau et Daguerre, Paris, 15 June 2005,
lot 56; W. M. Brady et Co., New York, 2005, from whom acquired. literature:
Bowyer 2013, 49–50, 36. exhibitions: New York 2005b, no. 13, repr.; Compton
Verney and Norwich 2009–10, 12–16, 9, 98. Katrin Bellinger collection,
inv. no. 2005-016 Born into a modest working-class family in Liverpool, Daniels
was apprenticed to his father, a brick maker, loading and arranging new stock;
in his spare time, he drew faces on the bricks and carved and modelled small
figures in wood and clay.1 His artistic talents were recognised by Alexander
Mosses (1793–1837), a local painter, who encouraged him to take evening classes
in drawing at the Royal Institution in Liverpool. The young Daniels was awarded
first prize for a large study ‘in black and white’ of the Dying Gladiator
‘drawn from the round’ which, allegedly, Mosses ‘begged ... off the lad and had
... framed’.2 Daniels later became apprenticed to the painter but was confined
to menial tasks, and could only paint at night, slyly returning the cleaned
brushes in the morning.3 The resulting night scenes or ‘candlelight pic-
tures’, primarily portraits and genre subjects, would become his trademark and
he achieved considerable local success, exhibiting at the Liverpool Academy,
Post Office Place and the Liverpool Society of Fine Arts, and then in London at
the Royal Academy in 1840, 1841 and 1846.4 He became known as the ‘Liverpool
Rembrandt’ or the ‘English Rembrandt’, according to one source reputedly
quoting John Ruskin.5 Daniels also shared with the Dutch master a life-long
preoccupation with his own image; many of his finest painting were portraits of
himself, as noted in one of his obituaries.6 And like the youthful Rembrandt he
was particularly fond of depicting those on the fringes of society with whom he
seemed to share a certain affinity, often representing himself in the guise of
the urban poor – beggars, gypsies, brigands and others.7 Described by one
biographer as ‘of fine, manly form, very handsome’ with ‘a profusion of jet
black curly hair’ and a swarthy complexion, it was sometimes said of him that
there was ‘gypsy blood in his veins’ and that wear- ing earrings only enhanced
his ‘resemblance to the wander- ing tribe.’8 In the striking example seen here,
Daniels has fashioned himself as an Italian travelling salesman of plaster
casts, a popular subject for Victorian artists.9 With the increasing demand for
images in museums, schools and academies but also as adornments in ordinary
homes, celebrated 228 sculptures from antiquity, together with portraits of
modern worthies, were mass-produced in plaster, generally in reduced form.10
The technique was simple and inexpensive: a mixture of marl and clay was poured
into a slip mould of plaster of Paris that absorbed the water, leaving a thin
layer of clay inside the mould that could be easily removed, lightly fired,
producing a brittle but light-weight and easily portable cast.11 Favourite
antique and contempo- rary subjects – including the Farnese Hercules and the
Apollo Belvedere as well as busts of Byron, Milton, Napoleon and Queen Victoria
– were now displayed and offered for sale together.12 While English firms had
been manufacturing casts since the 18th century, the market became increasingly
dominated by Italian makers, particularly from around Lucca who organised large
groups to sell their wares on the streets of London and beyond.13 Having
considerable reach through their travels, these vendors played a seminal role
in disseminating knowledge of the iconic works of antiquity through all classes
of society.14 The British public regarded the image-makers and sellers, men and
boys from forty to fifteen with curiosity and with some suspicion.15 One of the
earliest images of them is an amusing caricature by Rowlandson in the Victoria
and Albert Museum, London (c. 1799, 1). Appearing dishevelled with unbuttoned
shirt and jacket, the salesman peddles his wares to an enthusiastic family
while a woman watches a peep show in the background. A slightly later example,
accompanied by the title, Very Fine. Very Cheap, was etched by Smith, known as
‘Antiquity Smith’, the writer, poet and Keeper of Prints and Drawings at the
British Museum from 1816 to 1833 (fig.). On the seller’s board, a reduced cast
of the Farnese Hercules (see 30, 32) has been relegated to the background,
obscured by a cast of a Roman vase. With a slightly sinister glint in his eyes,
this figure was included in Smith’s Etchings of Remarkable Beggars, Itinerant
Traders and other Persons, published in London, 1815. William James Muller
(1812–45) produced a more sympathetic, even romantic portrayal of the itinerant
cast seller in 1843 (fig. 3). More closely allied to the Daniels’ 229
Copyright: Christie’s Images Limited (2012) painting than the others, this
hawker is less an object of derision than one of wonder, even admiration.17 In
the present example, Daniels, dressed in modest work- man’s attire and
silhouetted against a dark backdrop, bal- ances on his head a board fully
loaded with a casts of every shape and size, securing it with one hand. Many
were based on examples in his own collection, probably used in his studio to prepare
accessories in his portrait commissions. Immediately recognisable in the centre
right is the bust of Shakespeare, whom Daniels particularly admired. He was
said to have a deep familiarity with the poet’s work and could identify the
exact source for every quotation, ‘without a moment’s hesitation’.18 In fact,
busts of the bard are listed in Daniel’s posthumous sale of 1880, one of which
is likely to be the example seen here.19 With the other arm, he cradles a bust
of Homer, the blind epic poet of the Iliad and the Odyssey, another favourite
of Daniel’s as noted by his biographer.20 The source for this cast was a Roman
marble of the Antonine period (138-93 ad, after a lost Hellenistic original of
c. 300 bc), probably the version preserved in the Museo Archeo- logico
Nazionale di Napoli (fig. 4).21 Known in several variants after the same lost
Greek original, this is arguably the most celebrated image of Homer from
antiquity and was used by many artists; arguably the most famous example is
Rembrandt’s Aristotle with a Bust of Homer which passed through various English
private collections in the 19th century (now Metropolitan Museum of Art, New
York), and 230 which Daniels was probably referencing, reinforcing his
association with both poet and artist.22 The other casts on the tray in the
painting appear to reproduce a mixture of English and French works of the mid-
to late 18th and 19th century. They include the brightly coloured parrot,
probably based on a Staffordshire porcelain example, c. 1850, after a Meissen
original of the 18th century, and the hooded figure on the front left, possibly
an adapta- tion of ‘La Nourrice’ (Nurse and Child) modelled by Joseph Willems
at Chelsea (c. 1752–58), after a French terracotta original of the 17th
century.23 Popular images of the three 4. Bust of Homer, marble, 72 cm (h),
Roman Antonine period after a lost Hellenistic original of c. 300 bc, Museo
Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 6023 theological virtues, Faith, Hope
and Charity, made by the Wood family at Burslem in Staffordshire, 1800–10,
appear to be the inspiration behind some of the other figures on the tray: Hope
at the far right, seen in profile with hands clasped; Faith, directly behind
the parrot; and Charity, seen from the back, behind the Nurse and Child.24 It
has also been suggested that the bust of a boy seen from the back, directly
above Daniels’ right hand, might be Alexandre Brongniart by Houdon, known in
examples in marble, terracotta, bronze, plaster and biscuit porcelain.25
Daniels appears to be between thirty-five and forty years old in this painting,
slightly older than his self-portrait at the easel of c. 1845 in the Walker Art
Gallery, Liverpool (fig. 5); a completion date of around 1850 therefore seems
likely.26 The theme of the cast vendor clearly intrigued Daniels for he would
return to it again about twenty years later. In An Italian Image Seller (1870;
Walker Art Gallery, Liverpool; 6), the protagonist (probably Daniels again)
rests on the wall of an 27 English country lane. The tray is no longer present
but on the ground to his right are two casts, one, a Mercury, the other, the
nymph, Clytie (sometimes identified as Antonia, daughter of Mark Antony and
mother of the Emperor Claudius). The marble original of the nymph, acquired in
Naples by the Grand Tour collector, Charles Townley (1737– 1805) and reportedly
his favourite, is now in the British Museum.28 Copies of the popular statue
were made in porce- lain by the firm Copeland from 1855 and it has been
suggested that Daniels based his depiction on one of them.29 Daniels certainly
owned a copy of the Clytie and other busts after the Antique including a
Jupiter, Apollo, Diana and Laocoön, ‘which he treated with almost reverential
admiration’.30 As Daniels’ Image Seller shows, by the mid-19th century iconic
antique statues, once rarefied models of ideal beauty, were now commercialised
and readily available on the open 5. William Daniels, Self-Portrait, c. 1845,
oil on canvas, 91.5 × 71.7 cm, Walker Art Gallery, Liverpool, WAG 1724 6.
William Daniels, An Italian Image Seller, 1870, oil on canvas, 80 × 63.5 cm,
Walker Art Gallery, Liverpool, WAG 3114 market through mass-produced casts.
While the Antique continued to be central to the education of artists both in
the studio and in the academy, it became an ubiquitous presence in the home,
especially in middle-class interiors where reductions of famous statues were
displayed alongside works from other periods, sometimes even assuming a
secondary role to them. The amalgamation of styles and influences, in which
Ancient, Byzantine, Gothic, Renaissance and Modern were placed on equal
footing, was, by the mid-19th century, the result of an historicist aesthetic
in which the Antique had become just one of the possible artistic references,
thus losing its canonical status and aesthetic primacy. Rowlandson, An
Image Seller, c. 1799, watercolour, 326 × 264 mm, Victoria and Albert Museum,
London, no. 1820-1900 2. John Thomas Smith, Very Fine. Very Cheap, c. 1815,
etching, 192 × 114 mm (plate); 267 × 185 mm (sheet), from Etchings of
Remarkable Beggars, Itinerant Traders and other Persons, published in London,
31 December 1815, National Portrait Gallery, London, Reference collection
D40098 3. William James Muller, The Plaster Figure Seller, oil on canvas, 82.5
× 52.1 cm, sold Christie’s, London, 6 November 2012, lot 333. avl An extensive
tribute to Daniels was published anonymously in serial form in the Liverpool
Lantern (1880), by his friend, K. C. Spier, editor of the paper. It may be
consulted at: http://art-science.com/WDaniels/LLessay.html where the artist’s
obituaries and private letters and notes also are transcribed, some of which
are referred to in Spier’s essay (cited here as Spier 1880). For other accounts
of his life and work, see Tirebuck 1879; The Magazine of Art, 5, June 1882, 341–43;
Marillier 1904, 95–98; Thieme- Becker 1907–50, 8, 362–63; Fastnege 1951;
Bennett 1978, 1, 79. Spier 1880, chapter 4. The drawing, presumably after a
cast of the famous sculpture in the Capitoline Museum, Rome (see cat. 20, 2)
remains untraced. Spier 1880, chapter 4. Marillier 1904, 96–97; Fastnege 1951, 80;
Bennett 1978, 1, 79. Obituary, Liverpool Journal, 16 October 1880; Liverpool
Mercury 15 April 1884; Daily Post Liverpool, June 1908. Liverpool Journal. Representations
of the urban poor in British art was an increasingly popu- lar genre from
around the mid-18th century onwards. See Hansen 2010. Spier 1880, chapter 5.
Lambourne 1982; Compton Verney and Norwich 2009–10, 13. For the history and use
of casts, see Borbein 2000. For a translation in English by Bernard Fischer,
see http://www.digitalsculpture.org/casts/ borbein/index.html For British cast
makers and/or sellers in the 18th to early 19th c., see Clifford 1992 and for
the 19th c., Haskell and Penny 1981, 117–24; Lambourne 1982; and Simon 2011.
Lambourne 1982, 119. Ibid. Clifford 1992; Simon 2011. Lambourne 1982, 121.
Simon 2011 [unpaginated]. Ibid., 3. For other images of the subject, see
Lambourne 1982, 118–23, figs 1–10. Spier 1880, chapter 2; New York 2005b, under
no. 13. Walker et Ackerley, Liverpool, 6 December 1880, discussed in in Spier
1880, chapter 24. The present writer has not been able to locate a copy of this
catalogue. Spier
1880, chapter 2. Richter 1965, 1, 50, no. IV, no. 7, figs 70–72; Gasparri
2009–10, 2, 15–16, no. 2 (M. Caso), pl. II, 1–4. Liedtke
2007, 2, 629–54, no. 151. Kindly pointed out by Paul Crane (personal
communication), who notes the following example: Melbourne 1984–85, no. 56. As
noted further by Paul Crane, who points out their similarity to examples sold
at Sotheby’s, New York, 15 April 1996, lot 73 (personal communication).
According to Shackelford (personal communication). See Washington D.C., Los
Angeles and elsewhere 2003-04, 127–32, no. 15 (G. Scherf). Bennett 1978, 1, 80,
no. 1724, 2, 129; New York 2005b, under no. 13. Bennett 1978, 1, 83, no. 3114, 2,
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of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) 67. The Samuel Courtauld Trust, The Courtauld Gallery, London . Photo out of
copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) 69. bpk, Berlin /
École nationale supérieure des Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand Palais bpk,
Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand
Palais 71. bpk, Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts de Paris,
Dist. RMN – Grand Palais 72. Photo out of copyright (The
Warburg Institute, Photographic Collection) . Photo out of copyright (The
Warburg Institute, Photographic Collection) . Rijksmuseum,
Amsterdam 75. Ashmolean Museum, University of Oxford 76. Su gentile concessione
del Museo Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa 77. Photo Les Arts décoratifs 78. Photo Les Arts décoratifs. National
Library of Medicine National Library of Medicine The Metropolitan Museum of
Art, Gift of Lincoln Kirstein, metmuseum.org . Royal Academy of Arts, London 83. bpk, Berlin / École nationale supérieure
des Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand Palais 84. Royal Academy of Arts, London Royal Academy of Arts, London 86. Private collection 87. bpk, Berlin / École nationale supérieure des
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Thomas-Henry D.Sohier . Heidelberg University Library 91. The Trustees of the
British Museum. All rights reserved . Staatsgalerie Stuttgart Foto:
Staatsgalerie Stuttgart 93. Reproduced by permission of the Provost and Fellows
of Eton College 94. bpk, Berlin / Musée du Louvre, Dist. RMN – Grand Palais /
Susanne Nagy . Musée de Valence, photo Philippe Petiot . Musée de
Valence, photo Philippe Petiot Musée de Valence, photo Philippe Petiot Courtesy
National Gallery of Art, Washington 99. Tate, London .
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Royal Academy of Arts, London; Photographer: John Hammond Fig. . RSA, London
Fig. 103. RSA, London Fig. CSG CIC Glasgow Museums and Libraries Collection:
The Mitchell Library, Special Collections Fig. 105. Royal Academy of Arts,
London; Photographer: Prudence Cuming Associates Limited Fig. . Royal
Collection Trust/Her Majesty Queen Elizabeth II 2015 Fig. 107. Royal Academy of
Arts, London Fig. 108. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
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Cat. 1 Exhibit. Matthew Hollow Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg
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Matthew Hollow Fig. 1. Rijksmuseum, Amsterdam Cat. 3 Exhibit. Matthew Hollow .
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reserved. The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. . bpk,
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della città di Firenze – Gabinetto Fotografico Cat. 4 Exhibit a. The Trustees
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British Museum. 4. Digital image
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b. The Trustees of the British Museum. All rights reserved 1. Rijksmuseum,
Amsterdam Cat. 7 Exhibit a. Teylers Museum, Haarlem Exhibit b. Teylers Museum,
Haarlem Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection)
2. Teylers Museum, Haarlem 3. Teylers Museum, Haarlem 4. Courtesy Amsterdam
Museum Cat. 8 Exhibit. Teylers Museum, Haarlem 1. Teylers Museum, Haarlem 2.
S.S.P.S.A.E e per il Polo Museale della città di Firenze – Gabinetto
Fotografico Cat. 9 Exhibit. The Trustees of the British
Museum. All rights reserved 1. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Musée des Beaux-Arts de Dijon. Photo François Jay Cat.
10 Exhibit. Matthew
Hollow 1. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni . Courtesy of the Master and Fellows of Trinity College Cambridge 3.
Matthew Hollow 4. The Fitzwilliam Museum, Cambridge Cat. 11 Exhibit. Matthew
Hollow 1. Rijksmuseum, Amsterdam 2. The Fitzwilliam Museum, Cambridge Matthew
Hollow Cat. 12 Exhibit. Rijksmuseum, Amsterdam 1. Rijksmuseum, Amsterdam 2.
Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) . Archivio
Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni 4. The Warburg
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UNICEF / Gruppe Köln, Hans G. Scheib Cat. 13 Exhibit. Matthew Hollow 1. Photo
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Amsterdam Museum 3. Courtesy Municipal Archives of The Hague 4. Photo out of
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copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Cat. Exhibit. Matthew Hollow 1. Photo out of
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Institute, Photographic Collection ‘Nature Perfected’: The Theory et Practice
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Photographic Collection) 2. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) 3. bpk, Berlin / Musée du Louvre, Dist. RMN – Grand
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Picture Library 5. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig.. Albertina, Vienna Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) 8. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) . Comune di Milano Photo out of copyright
(The Warburg Institute, Photographic Collection) 11. Veneranda Biblioteca
Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library 12. The Trustees of the
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Rotterdam. Loan Museum Boijmans Van Beuningen Foundation (collection Koenigs) /
photographer: Studio Tromp, Rotterdam The Trustees of the British Museum. All rights
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photo: J. Geleyns / Ro scan 22. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
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Kupferstichkabinett / Jörg P. Anders bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Jörg
P. Anders 40. bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider 41. bpk,
Berlin / Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider bpk, Berlin /
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Volker-H. Schneider 44. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
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Biblioteca Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library 48. Royal Museum for Fine Arts Antwerp Lukas-Art in Flanders vzw, photo Hugo
Maertens Rijksmuseum, Amsterdam 50. Musea Brugge Lukas-Art in Flanders vzw,
photo Hugo Maertens 51. ©Peter Cox/Bonnefantenmuseum Maastricht 52. Minneapolis
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Bridgeman Images 53. Rijksmuseum, Amsterdam 54. Louvre, Paris,
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Palais / Richard Lambert 59. bpk, Berlin / Musée Condé, Chantilly, Dist. RMN –
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Elizabeth II Cat. 15 Exhibit. The Trustees of the British Museum. All
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of Chatsworth Settlement Trustees / Bridgeman Images 2. Wadsworth Atheneum
Museum of Art, Hartford, CT The Trustees of the British Museum. All rights
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16 Exhibit. The Samuel Courtauld Trust, The Courtauld Gallery, London 1. Image
courtesy of Sotheby’s 2. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) 3. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) Photo out of copyright (The Warburg Institute,
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Photographic Collection) 6. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) Cat. 17 Exhibit. Matthew Hollow 1.
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Photographic Collection) Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) 3. bpk, Berlin / Antikensammlung, SMB 4. Photo out of
copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) bpk, Berlin /
Antikensammlung, SMB / Johannes Laurentius . photo Musées de Marseille 7.
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Cat. 19 Exhibit. Matthew Hollow 1. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) 2. Accademia Nazionale di San Luca.
Tutti i diritti riservati 3. The Trustees of the British Museum. All rights reserved . By courtesy of the Trustees of Sir John Soane’s
Museum Cat. Exhibit. By courtesy of the
Trustees of Sir John Soane’s Museum 1. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) 2. Archivio Fotografico dei Musei
Capitolini. Photo Zeno Colantoni 3. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo
Zeno Colantoni 4. The Warburg Institute, Photographic Collection 5.
Staatsgalerie Stuttgart Foto: Staatsgalerie Stuttgart 6. Photo out of copyright
(The Warburg Institute, Photographic Collection) Cat. 21 Exhibit. bpk /
Kunstbibliothek, Staatliche Museen zu Berlin 1. Image
courtesy of Sotheby’s 2. Image courtesy of Sotheby’s Cat. 22 Exhibit. 2014
Kunsthaus Zürich. All rights reserved. 1. Archivio Fotografico dei Musei
Capitolini. Photo Paulo Cipollina 2. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini.
Photo Lorenzo De Masi 3. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo
Lorenzo De Masi 4. Istituto Centrale per la Grafica Canoni fotografici (MIBACT)
5. bpk, Berlin / Kunstbibliothek, SMB / Dietmar Katz Cat. 23 Exhibit. Matthew Hollow 1. Louvre, Paris, France/Bridgeman Images 2. The Trustees
of the British Museum. All rights reserved Cat. 24 Exhibit. The Trustees of the
British Museum. All rights reserved 1. Yale Center for British Art, Paul Mellon
Collection Private collection 3. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) Cat. 25 Exhibit. Royal Academy of Arts, London 1.
Royal Academy of Arts, London 2. Royal Academy of Arts, London 3. bpk, Berlin /
RMN – Grand Palais / Stéphane Maréchalle 4. Santa Barbara Museum of Art, Gift
of Wright S. Ludington 5. Conway Library, The Courtauld Institute of
Art, London . Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni 7.
Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) 8. Royal Academy of Arts, London; Photographer: Paul
Highnam Royal Academy of Arts, London; Photographer: Paul Highnam Cat. Exhibit. The Trustees of the British Museum.
All rights reserved Tate, London 2.
Courtesy of www.gjsaville-caricatures.co.uk Cat. 27 Exhibit a. Victoria and
Albert Museum, London Exhibit b. Victoria and Albert Museum, London 1. Tate,
London 2014 2. Tate, London. Tate, London . Tate, London 2014 Cat. 28 Exhibit. The
Trustees of the British Museum. All rights reserved 1. Towneley Hall Art
Gallery and Museum, Burnley, Lancashire/Bridgeman Images . Photo out of
copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) 3. The Trustees of
the British Museum. All rights reserved Cat. 29 Exhibit. By courtesy of the
Trustees of Sir John Soane’s Museum Cat. 30 Exhibit. Matthew Hollow 1. Photo
Collection RKD, The Hague 2. Royal Collection Trust/Her Majesty Queen Elizabeth
II 2015 3. Klassik Stiftung Weimar, Bestand Museen. Photo Sigrid Geske Cat. 31
Exhibit. Teylers Museum, Haarlem Cat. 32 Exhibit. Teylers Museum, Haarlem 1.
Photo Collection RKD, The Hague Cat. 33 Exhibit. Matthew Hollow 1. The National
Museum of Art, Architecture and Design, Oslo, photographer Jacques Lathion 2.
Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) . Archivio
Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni 4. Louvre, Paris, France
/ Bridgeman Images 5. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) 6. Courtesy of Pontus Kjerrman Cat. 34 Exhibit.
Matthew Hollow Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Courtesy of Olga Liubimova Tomas Abad Cat. 35 Exhibit. Matthew
Hollow Victoria and Albert Museum, London National Portrait Gallery, London
Christie’s Images Limited Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) National Museums Liverpool, Walker Art Gallery [National
Museums Liverpool, Walker Art Gallery Sammlung. ZMassimo Carboni.
Keywords: tratto dalla vita, estetica, arte, icona, parola, immagine, filosofia
antica, il concetto dell’antico, l’antico – l’antico e il moderno – drawing
from the antique – antico – filosofia antica, arte antica, statuaria antica,
the lure of the antique – il gusto e l’antico --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Carboni” – The Swimming-Pool Library.
levi: filosofo italiano - Italian philosopher of
Jewish descent. Author
of “Storia della filosofia romana.”
giornale
critico della filosofia italiana.
Giovanni
d. “Positivismo italiano.”
Luigi
Speranza -- Grice e Cattaneo: essential Italian philosopher. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e Cattaneo," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice
e Carace – Roma – filosofia
italiana – Claudio Carace – Charax – Much admired by Antonino.
Luigi Speranza -- Grice e Carchia: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’ars amandi – signi
d’amore – erotico del bello – comunicazione degl’amanti primitive – scuola di
Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia romana – filosofia
italiana -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Torino). Filosofo
torinese. Filosfo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I
once joked that if I’m introduce dto Mr. Poodle as ‘our man in eighteenth
century aesthetics, the implictum is that he ain’t good at it! Not with
Carchia: because (a) Carchia is a serious philosopher (b) he conceives
aesthetics alla Baumagarten, having to do with communication (“nome e immagine”, “interpretazione ed
emancipazione”) and with not just the aesthetis qua sensus – but its truth
value (“immagine e verita,” “l’intelligible estetico”) – a genius! On topc, my
favourite piece of his philosophising is on the torso del belvedere as
representing the ‘rhetoric of the sublime’!” Si laurea a Torino
sotto Vattimo con la dissertazione “Il Linguaggio”. Insegna a Viterbo e Roma. Studioso
di filosofia antica, traduttore. Opere: Orfismo e tragedia; Estetica ed
erotica; Dall'apparenza al mistero; La legittimazione dell'arte; Arte e
bellezza; L'estetica antica, ecc. Si è
anche occupato, di arte e comunicazione dei popoli 'primitivi' e di artisti
contemporanei quali Savinio, Sbarluzzi e Lanzardo. La casa editrice Quodlibet
raccoglie le sue opere postume. Rusce ad immaginare la filosofla, a porla in
immagini -- nel solco della filosofia italiana dall'Umanesimo a Vico. Minima
immoralia. Aforismi tralasciati nell'edizione italiana (Einaudi, 1954), Milano:
L'erba voglio); Comunità e comunicazione (Torino: Rosemberg et Sellier); prefazione
e cura di Henry Corbin, L'imâm nascosto, Milano: Celuc, 1979; Milano: SE); Orfismo
e tragedia. Il mito trasfigurato, Milano: Celuc); Estetica e antropologia. Arte
e comunicazione dei primitivi, Torino: Rosemberg et Sellier); Erotica. Saggio
sull'immaginazione, Milano: Celuc) L'intelligibile (Napoli: Guida);
Dall'apparenza al mistero. La nascita del romanzo, Milano: Celuc); Il mito in
pittura. La tradizione come critica, Milano: Celuc); cura di Arnold Gehlen,
Quadri d'epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna, Napoli: Guida) Retorica
del sublime, Roma-Bari: Laterza); Il bello (Bologna: Il Mulino); Interpretazione
ed emancipazione. Torino: Dipartimento di ermeneutica); introduzione a Karl
Löwith, Scritti sul Giappone, Soveria Mannelli: Rubbettino); “La favola
dell'essere. Commento al Sofista” (Macerata: Quodlibet); Estetica, Roma-Bari:
Laterza); L'estetica antica, Roma-Bari:
Laterza); L'amore del pensiero, Macerata: Quodlibet); Nome e immagine (Benjamin,
Roma: Bulzoni); Immagine e verità. Studi sulla tradizione classica, Monica
Ferrando, prefazione di Sergio Givone, Roma: Edizioni di storia e letteratura,
Kant e la verità dell'apparenza, Gianluca Garelli, Torino: Ananke, introduzione a Walter Friedrich Otto, Il
poeta e gli antichi dèi, Rovereto: Zandonai. L’immaginazione come orizzonte
nomade della conoscenza. Produttività e trascendentalità dell’immaginazione
nella critica del giudizio. L’immaginazione senza immagini. La notte delle
immagini, il ricordo, la memoria. L’immaginazione come autotrasparire
dell’apparenza rappresentativa. Naturalismo simbolico e simbolica naturale.
Angelologia. Alighieri: spiritus phantasticus e alta fantasia. Gemellarità
dell’immaginazione gnostica. L’immaginazione speculativa. Simbolismo e
imagismo. Il fantastico come ideologia. Il romantico. L’immaginazione come
dimora del padre. Demone e allegoria. La forza del nome. Icona e coscienza
sofianica. Mistica. Mimesi e metessi. La nuova accademia: l’estetico.
Paradigma, schema, immagine. OVIDIO (vedasi). Arte amatoria. Chi peregrin
nell’amorosa scuola Entra, me legga, se vuol esser dotto. Non
usansi senz’arte e vele e remi; Non senz’arte guidar si puote il
cocchio; Non senz' arte si può reggere Amore. Ben sapeva condurre
Automedonte Co’ focosi, destrieri il caiiro, e Tifi r Sedea maestro \sair
emonia poppa. Ne’ mister} d’ Àmot me fece esjperto Venere bella, e
ben dirmi poss’ io D’Aniore un altro Tifi e Automedonte. Ch^ ei sia
crude!, noi niego » e spesse volte Contro me stesso si rivolta; pure
Egli è fiinciullo, e l’immatuTa' etàde Atta si rende al fren. Docile e
mite Rese Chiron l’ impetuoso^ Achilie Automédonte, figlio di Dioreo,fu
il Cocchierò d*lAchille, Tifi condusse gli Argonauti in Coleo sul-
la nave Argo, che qui dicesi emonia, perchè era su <mella Giasone
figlio del Re di Tessaglia, e perchè la Tessaglia si chiamala Emonia dal
monte Emo. Chirone figliuol di Fillira fu il Precettore d’A’^
chille^il qual nen chiamato ^acides fia Eaep suo Avo, Col dolde suon
della canora cetra^ Ed ei, che fu il terrore e lo spavento
De^suoi compagni spessore de’nemici. Dicesi che temesse il vecchio
annoso; E quelle mani, che dovean un giorno Gettare a terra
il forte Ettor, porgea, Quando Chirone le chiedea,alla sferza. Ei fu d’
Achille, io son d’ Amor maestro; L’uno e 1^ altro è fanoiul feroce, e
traggo L’ un e r altro da Diva i suoi natali Come r aratro il
toro, e come il freno Doma il cavai focoso ; io cosi Amore Render
placido voglio ancor che il petto Con r arco mi ferisca, e con la
face Tutte ro’ abbruci le midolle e T ossa. Quanto più Amore hammi
ferito ed arso. Tanto più voglio vendicarmi . Apollo, Non io,
ché mentirei, dirò che appresi < Da tl» quest’ arte, o che fui reso
dotto Dal canto degli .augelli A me non Clio, Né le Sorelle sue,
come al Pastore Della valle d’ Ascrea, compatver mai ; Me un lung’ uso
feMstrutto ; e fè pròstate Air esperto Poeta . <Ió cose vere
Canto:Madre d* Amor.^, siimi propizia. Gite lungi j o Vestali., e voi
Matrone, Che i piè celaté sotto lunga veste. J3Ì Achilie uccise
Ettore al assedio di Troja Achille nacque dalla Dea Tetide, Amore dalla
Dea Venere, a Mentre Esiodo, cugino e quasi contemporaneo
nero, pascolava in Elicona le pecore di suo pa* dre ^ fu dalle Muse
condotto al fonte Ippocrene, e Col hefer 4i quell* acqua divenne
Poeta, Come seguir sensa periglio Amore Si possa, eA i concessi
furti io canto; Nullo i miei carmi chiuderan delitto. Tu, che
novel nell’ amorosa schiera Entri soldato, le tue cure volgi Prima
a trovar de’ voti tuoi 1’ oggetto. Indi a farlo per te amoroso, e
infine Onde lunga stagìon 1’ amor si serbi. È questo il modo,
è questo il campo, in cui Scorrere il nostro cocchio debbo ; è
questa Del corso nostro la prescritta meta. Or che il tempo è
propizio, or che si puote Andare a briglia sciolta, una ne scegli,
Cui dir tu possa ; a me tu sola piaci. Questa dal Ciel non già pensar che
scenda. Ma qui trovar la dei con gli occhi tuoi. Onde tender le
reti al cervo debba. Sa bene il caccìator, e non ignora La
valle, ove il cignal s’asconde: i rami L’ UGcellator conosce, onde si
gettano 61 ’incauti augelli, e al pescator son note L’acque, che
maggior copia hanno di pesci. Tu, che d^on lungo amor cerchi
materia. Impara i luoghi, ove frequenti veggonsi Le vezzose
donzelle . Io non ti dico, Che dar le vele ti fia duopo al
vento. Né córrer lunga e faticosa strada. Perseo
dall’Indie ne condusse Andromeda, E .Paride rapì di Grecia Eléna. Ma in
Roma, in Roma ritrovar potrai Fanciulle, che in beltà portino il
vanto Più che del Mondo in altra parte . Come Gargaro, Castello sul monte
Ida era celebre V abbondanza delle sue biade, e Metinna, Città
nek» V Isola di Lesbo, per V abbondanza d^ suoi vini. La
gargara contrada abbonda in biade» In uve la metinnia » in pesci U
mare» In augei il bosco s e còme nell* Olimpo Splendono
stelle; così in Roma ammiransi Amabili Fanciulle: qui sua sede Pose
del grand’ Enea la bella Madre. Se a nascente beltà ti porta il genio»
Tenera donzelletta eccoti innante; Se già formata giovine
desideri» Mille ti piaceranno » e fian costretti A rimaner
sospesi i voti tuoi; Che se a te figlia più matura e saggia
Piaccia » ne avrai, mel credi, un folto stuolo. De’ portici pompeii all’
ombra i lenti Pàssi rivolgi, allor che Febo i campi Dall’erculeo Leon
saetta ed arde, O a quel che adorno de’ più scelti marmi Da
lontani paesi a noi venuti, LaMadre aggiunseindonoa’don
delFigHo.(8) Nè quello lascerai » ohe tragge il nome Da Livia,
ornato delle pinte tele De’Pittori più celebri ed antichi; Uno
de'piU dtliziosi Portici di Roma ora cer^ tornente ^uet di Pompeo .
Giaceva questo in vicinanza dtl suo Veatro, « i Romani lo frequentavano
moltis'^ simo in tempo d* estate, OTTAVIANO (si veda) sotto il nome
d’Ottavia fabbrica un portico in vicinanza del Teatro da lui dedicato a
Marcello figlio della medesirrsa e però
dice il Poeta, che la Madre, cioè Ottavia, a^iunse il dono del
portico al don d^figlio, cioè al Teatro a lui innalzato d’OTTAVIANO,
R questo il portico che Livia moglie d* Augusto fabbricò nella Via sacra
; ne fa menzione Svetonio, e vien riputato da Strabono uno d^più be’
monumenti di Roma, Visiterai pnr anco i Inoghi, dove (io)
In atto di far strage de’ Consorti Effigiate son P empie
Danàidi; E il lor Padre crudel, che nudo tiene L’acciajo
micidial nell’ empia destra; Nè il Tempio oblia, u’ Venere la
morte Plora del caro Adon, nò il giorno Sabbato Sacro al culto
giudeo • Sarà tua cura A’xneiifitìcì templi esser presente Della
liniger’ Iside ; seconda I voti questa Dea delle fanciulle»
Che desian donne diventar, coni’ essa Lo fu di Giove ^ Fra i
clamori alterni Del Foro strepitoso ( e chi mai fede Prestar ci
puote ? ) Amor rivolta trova Atto alle fiamme sue pascolo ed esca.
In quella parte ove s’innalza al cielo L’ onda d’Appio » che giace
appiè del Tempio Di ricchi marmi adorno, a Vener sacro Prigioniero
d’ Amore è 1 ’ Avvocato, Il portico d’Apollo palatino fabbricato da
Au^ gusto in una parte della sua casa era adornato di fiin^
ts immagini rappresentanti la strage^ che de*pro- prj Mariti fecero
le Danaidi per comando di Danna loro padre. Si adorala Iside
figlinola d*Inaco in Menfi Città d^Egitto, donde furono trasportati in
Roma i suoi sacrificj . Fu questa amata impudicamente da Giove, il
quale la cangiò per timor di Giunone in una Giovenca j e poi la restitm
agli Egiziani nella sua pri^ stina forma . B^la e i suoi sacerdoti
andavano coperti di lino e però si chiamava linigera. APPIO – il
primo filosofo romano -- Censore conduce V acqua nel Foro di Cesare; e d’architettura
d* Archelao fu ivi innalzato a Venere un Tempio, che per somma fretta poi
rimase imperfetto. Che attento alla difesa altrui, se stesso
Guardar non sa • Oh quante volte, oh quante In quel loco gli manca la
favella, E deir amor che V agita ripieno, Non della
caiìsa altrui, ma della propria S’occupa solo ! Dal propinquo
Tempio Ride la Dea di Pafo, e il difensore Trasformato veder gode
in cliente. Ma più che. altrove ne'curvi Teatri Troverai da
far paghi i voti tuoi: Ivi mille bellezze lusinghiere Si
oifrìranno al tuo sguardo, e tal potrai Per stabile passion scegliere, e
tale Onde Tore passare in gioco e in festa. Come frequente la
formica in schiera Vanne al granajo a far preda di cibo; E
come Papi in olezzante suolo Volan sul timo e sopra i fior ; le
culte Donne in tal modo in folto stuolo assistono Agli scenici ludi
* È cosi grande il numero di questo, cho sospeso Mille volte rimase
il mio giudizio. Non a’ Teatri per mirar, soltanto, Come per
far di lor superila mosffa Vanno non senza del pudor periglio.
Tu questi giochi strepitosi il primo, ROMOLO, instituisti; allor che
il ratto NeW anno del mondo 3a3i. fabbricò Romolo nei monte Palatino una
Città o sia Fortezza, che dal suo nome chiamò Roma. Per accrescere il
numero dei Cittadini ^ aprì un asilo fra il Palatino e il Campi*
doglio, in cui si ricevevano i Servi fuggitivi^, i De* hitori y i
Malefici . Siccome i Popoli confinanti, e per conseguenza i Sabini nor
volevano con tal gente col* Segui delle Sabine Ancor non marmi^
E non tappeti ornavano i Teatri, Nè il palco vago era per
piote tele; Ivi semplicemente allor far posti I
virgulti eie foglie, che recava II bosco palatino, e non si
vide Decorata la scena allor con V arte Sopra i sedili di
cespugli infesti Assistea il popol folto, uhe all’irsuta Chioma di
fronde sol cingea corona Col cupid’occhio ognuno intanto nota
Quella, che far desia sua preda, e molti Pensieri nel suo cor tacito
volge. Mentre d’agreste flauto il suono muove Grottesca
danza, ed il confuso plauso Ferisce il ciel, ecco che il Re dà
segno Onde alla preda sua ciascun sì volga. Rapido il proprio loco
ognuno lascia, Fanne co’ gridi il suo desio palese, E le
cupide mani addosso slancia Sulle Vergin d’insidie ignare, come
Fogge la timidissima Colomba Dall’ Aquila, e de’ Lupi il fiero
aspetto Agna novella ; di spavento piene Volean cosi le misere
Sabine De’ rapitori lor schivar gli amplessi; Ma da Ogni
patte senza legge inondano^ Ninna serba il color, che aveva
innante; ' ' a z lòcar U lor Donne, Romito gli ' inoitò
insieme con Ì 0 sorelle,'7e moglie e le figlie a unof spettacolo, che
fe^ce* ìebrare in onore del Dio Conso, ossia di Nettuno^ € comandò
d* suoi Romani che cigscun ri rapiste fr0 quelle femmine una
Consòrte. Tutte assale il timore ^ e in Tarj modi: Questa il petto
peroote^ il crin si straccia; Quella riman priva di sensi ; alcuna
Non {>er il duol fa proferir parola; Altra la cara madre appella
invano; Chi quale statua immobile rimane; Chi fugge, e
chi di grida il cielo assorda. Ma le rapite Oiovani condotte Son
via, qual preda geniale e cara. Dì pudico rossoj tinsero
molte Le delicate guance, e vìe più piacquero. Se troppa ripugnanza
alcuna mostra, £ seguir nega il suo compagno, questi La porta
fra le sue cupide braccia, E si le dice: a che d’amaro pianto
Da begli occhj tu versi un fiume? teco Sarò come alla Madre è il
Genitore. Romolo, fu il primiero a’tuoi soldati Vera recar felicità
sapesti; Se tal sorte goder potessi anch’io, > Io
pur non sdegnerei esser soldato. Però da quell’esempio anco a’dì
nostri Trovan le Belle ne’Teatri insidie.. D’esser presente
ognor cerca e procura ^ Alle corse de’rapidi destrieri. Di
gran popol capace il ;Circo augusto Molti a te rechei!à comodi ; d’ uopo
^ Onde spiegare i tuoi pensieri arcani Non avrai delle dita ;
nè co* cenni Intendere dovrai. Franco t’assidi, Che ninno il vieta, alla
tua donna accanto. Quanto più puòi t’accosta al di lei fiaheo\ lE
procura che il loco a.nzi ti sforzi A toccarla, quand’eUa ancor non !
voglia. Onde seco parlar cerca materia, E da’ discorsi pubblici
incomincia. Quando i cavalli appariranno, tosto Di chi sieno
richiedi, e quello, a cui Dirige i voti suoi, tu favorisci;
Macon frequente pompaallor che giungono Le statue degli Dei, fa
plauso a Venere Quale a tua Diva tutelar. Se mai Della tua bella sulla
veste cada Polve, la scoti con la mano, e fingi * Scoterla quando
pur netta si serbi; E sollecito ognor prandi motivo Da
leggiere cagion d’esserle grato. Se la sua veste strascinasse,
pronto Sii tosto a tòrla dalP immonda terra; Per cosi tenui
cure avrai in mercede, Ch^ ella poi soffrirà, che le sue
gambe Tu possa riguardar. Sia tuo pensiero, Che quei, che
sono assisì al vostro tergo, ^ ginocchi al di lei dosso, Non le
rechin molestia. I lievi ufBcj L^alme fiscili adescano: fu a molti
Util Fa ver con destra man composto Il coscino, agitar con piccol
foglio Il volubile vento, e saper porre Sotto tenero piè concavo
scanno. Farà la strada al nuovo amore il Circo, Solevano I
ROMANI portar per ih Circo le Statue degli Dei e degli Uomini sommi, quando ivi
davano lo spettacolo della corsa de^ Cavalli 0 d^ altri giochi'. V* era
fra aueste Statue ancor quella di Venere, cui vuole il Poeta che si faccia un
gran plauso* Si veda la seconda Elegia del Libro III, degli amori
scritti dgl modesimo Autore E la sparsa nel foro infausta
arena Ivi pugnò spesso il Fanciul di Venere, £ chi andò
per mirar altri piagato, Ferito pur rimase. Ah quante volte
Mentre un la lingua a ragionar discioglie^ HoWà. la mano, tiene il libro,
e cerca II; vincitore del proposto premio. Il .volatile strai
senti nel seno, Gemè piagato, e accrebbe pregio al gioco!
fu bello il mirar quando con pompa Solenne Cesare introdissse il
primo (i 5 ) Non avvezze a pugnar in finta guerra E le persiche
navi e le cecropie! Da questo e da quel mar vennero allora
Giovani vaghi, amabili donzelle, E la Città racchiuse immenso
mondo. Fra tanta turba di leggiadri oggetti Chi non tigvò da
far paghi i suoi voti? Oh quanti e quanti a forestiero laccio
Porsero il piè! Ma Cesar s’apparecchia (Cesare Augusto fece presso il Tevere
rappre sentore una battaglia navale detta Ncumachia. Intro^ dusse
in questa a combattere le flotte che Marc* An-^ ionio aveva raccolte
contro di lui nell* Oriente ^e le navi ateniesi denominate Cecropie da
Gecrope primo Re d* Atene y che seguirono il partito di M. Antonio^
Furono queste armate navali vinte tutte da Azio, e servirono nella
Neumachia d’un brillante spettacelo a futta Roma. OTTAVIANO destinò
una spedi^àon per V Oriente contro Frante, e vi mandò il suo Nipote
Cajo nato da Agrippa e da Giulia. Marco Crasso e Publio suo figlio
avidi delle ricchezze de* Parti intrapresero contro i medesimi una guerra, in
cui furono poi essi miseramente trucidati con undici Legioni . Per far
a Cesare un encomio, dice ora il Poeta, che deve Cajo riportar
vittoria di que* popoli, e riacquistar la ^ne romane da loro tolte Crassi.
Già il restò a sog^ogar del Mondo inter#^ E già Taltiino Oriente è nostro
ancora. La pena avrai dovuta, o Parto audace, £ voi
godete, ombre deaerassi estinti, E con voi godan le romane
insegne Di barbarica destra a ragion schive. Ecco il vindice
vostro, ognun racclama Invitto Duce nelle schiere prime;
Giovin sostiene perigliose guerre Quasi invecchiato fra le stragi e
Parmi. Deh non vogliate, o timidi, il valore Dagli anni loro
argomentar de’Numi; E la virtù ne’Cesari preepee. Degli
anni Suoi più assai rapido sorge Celeste ingegno, e mal tollera
Ponte D’una pigra dimora. Era bambino Ercole allor che ì due serpenti
oppresse. Ed èra in fasce pur degno di Giove. O Bacco^otu che
ancor fanciullo sei, (18) Essendosi Giove innamorato perdutamente
d^Alc^ mena, si presentò a lei vestito delle sembianze d*An^
fitrione suo maritoy quando questi trovavasi alla guerra di Tehe.Da Giove e da
Alcména nacque Ercole, che fu allevato in Tirinta Città in Marea vicina
ad Argo, e però fu detto Tirinzto . Intenta per ciò la gelosa Giunone a
vendicarsi delP infedeltà di Giove, suscitò contro d* Ercole due serpenti
; ma egli li uccise valorosamente, benché fosse di tenera età,
Bacco armato, d^ una lung^ asta, e seguito da Ufi esercito d* Uomini e di
Donne, corse intrepido nel* VOriente,e soggiogò quVpaesi che allor
tutti,si comprendevano sotto il nome d* India . Essendo quelV asta così
acuta, che imitava la conica figurai del Pino, fu detta dagli antichi
Poeti il Tirso, giacché Thirza ià lingua ebraica nuW altro significa, se
non se un ramo di Pino^ •Intrecciavano le Baccanti sul tirso V uve
e i pampini cotk P edera p perché Bacco insegnò affli Qoanto fosti
mai grande allor che i tuoi Tirsi dovè temer l’India domata!'
E tu prode Garzon sotto gli auspiej (ly) Del Padre, Tarmi tratterai
vincendo. Sotto un nome sì chiaro aver tu dei I primi erudì menti,
e come il Prence (ao) uomini la maniera di coltivar la vite .
Alcuni Eruditi poi fChe ricercan la moralità nelle favole ^
pretendono che dipìngasi sempre giovine questo divino coltivator
della vigna ^perche gli uomini si rendon col vino in lor vecchiezza
amorosi e lascivi, come lo furono in gioventù,. Mons„ de Lavaur con molti
altri, i quali hanno^ attentamente 'considerato le imprese di Bacco
e l* etimologia stessa del Tirso, porta verisimilmente opinione y che sia
questa favola tratta in origine da que^libri della sacra Scrittura, che
parlano di Mosè. e di JVoè, Si rivolge il Poeta a Cajo,che
fu adottatò figlio da Cesare Augusto. Romolo dalle tre Tribù, nelle quali aveva
di^ stribaito il popolo romano y raccolse per ciascheduna
cento uomini, che fer nascita, per ricchezze, e per altri pregi ^^^no i
più riguardevoli. Furono questi chiamati Cavalieri y perchè trascélse
quésoli, che fesser meritevoli d* un Cavallo, su cui dovean combattere in
difesa di lui ; e si distribuirono in tre Ceti* turie, che conservando il
nome delle Tribù, dov*erano sfate raccolte, si chiamavano é/e^Rammensi da
Romolo, dei Tasienzi da Tazio Re dé Sabini, e dei Laceri Lucomone JRe d'Etruria,
che fu, come dicono., il fondatore della Città di Lueca . Da
Tarquinio Prisco, e da Servio Tullio vennero in seguito accresciati di
numero y senza mutar però il nome di Cen* iurte ; esercitarono poi varie
luminose incombenze ; e JU'denominato il loro ordine Senatus
Seminarium, perchè in esso scieglievansi i Senatori • i 5 . Lu*
Jglio facevano i Cavalieri ogni anno splendidamente in lor
rassegna, mentre dal Tempio dell’Onore, che era situato fuori della città,
andavano al campìdo* coronati d* ulivo, cinti d^ una purpurea veste
det- Or de’Giorani sei, sarai col tempo L’oroamento miglior
do'rccchj Padri. Vendica ofFesi i tuoi fratelli, e i dritti (ai)
Del Genitor sostieni: della Patria £ Padre 6 Dlfensor Parcne ti
cìnse; Ed or che l’inimico i regni invola, Cruccioso alla vendetta egli t’invita.
Scellerati di lor saran gli strali. Pietà e Giustizia i tuoi
vessilli, e Parrni Della causa miglior sostenitrici. ' ta
trabea, t assisi sopra i loro cavalli . 0 §ni cinque anni poi appena
giunti al Campidoglio, scendevano da Cavallo, e presolo per mano lo
guidavano avanti al Censore ivi assiso sopra una sedia curale ; ed
egli comandava di ritenere il Cavallo, se bene aveva il Cavaliero
adempiuto a suoi doveri ^e di venderlo, se aveva malamente eseguito le
sue incombenze. Leg^ geva il Censore in tale occasione il catalogo de^
Cavalieri yC si chiamava il Principe de* Giovani o della Gioventù quello
che era da lui nominato il primo ; e ciò non perchè fossero attualmente
tutti gióvani, ma perchè lo fàrono nella prima istituzione^ e perchè
Veta giovanile si estendeva pressò i Romani fino a quarantacinque
anni. Principe de’Senatori o del Senato ne*primi tempi della
Repubblica si chiamava quello che il primo tra*Sena- tori viventi era
stdto Censorey poi quel che dal Censore fosse stato nominato ili primo
nel leggere il catalogo d^ Senatori y e nell\ anno dalla fondazione
di Roma quel, che dal Censore era riputato degnissimo.
(al) Pompeo y domato il Re Tigrane y costrinse gli Armeni a
ricevere da* Romani in segno di servitù i Rettori. Si liberarono essi da
un tal giogo y ma Cajo li obbligò nuovamente a soffrirlo, e vendicò in
tal guisa i dritti d*Augusto y che dal Senato e dal Po^ polo romano
fu per mezzo di Valerio onorato del luminoso titolo di Padre della pAt<‘ia,
^ (^a) I Parti tentavano di farsi padroni delV Ar- mersia Ora
il mio Duce alle latine aggiunga L*eoe ricchezze. E voi j Cesare e
Marte, Entrambe Padri soccorrete il Figlio, Che in difesa di
Roma espon sua vita; Come già Marte^or tu, Cesar, sei nunie Ecco raugurio
mio; tu vìncerai; Sciorrò co’ carmi allora il voto ; degno*
Tu allor fatto sarai d’alto poema. Porrai le squadre in
ordinanza, e all’ armi Co’ versi miei 1 ’ esorterai: tenaci Di me
nel tuo pensiero i detti imprimi. 11 petto forte de’ Romani, il tergo
(24) Io canterò de’ Parti, e l’inimico Telo, che vibran dal
cavallo in fuga. Mentre tu fuggi, o Parto, e cosa al vinto, Oude
sia vincitor, tu lasci ? Il tuo .Marte recò finora infausto
augurio. Dunque quel dì verrà, Cesare, in cui Tu di natura la piò
amabìl opra Di lucìd’ oro adorno andrai tirato Da quattro^
candidissimi cavalli ? Or mal sicuri nella fuga i Regi
Partici andranno innanzi, il collo carco Dì pesante catena • Insiem
confusi Giovani lieti e tenere Donzelle, D* un’insòlita gioja
il cor ripieno, Mireran lo spettacolo gradito. "
Se una di quelle a te richiegga i nomi Di que’ Re, di que’ monti,
di que’ fiumi, (a3) Fu Cesare Augusto ascritto in aita fra i Dei,
$d ebbe perciò onori diHni. ’ (a4) Avevano i Parti in ' costume di
guerreggiar fuggendo, ed anzi si rendevano formidàbili, mentre
^ibravan le lor saette^ da wjt cavalle rivoltp in fuga. Di que* paesi 9 a
tatto ciò' rispóndi; £ non richiesto ancora il; tutto narra,
E le cose puf anco a te mal note. Cinto di canna il crin
l’Eufrate è questo, (aS) 11 Tigri è quel colla cerulea chioma.
Ecco gli Armeni^, e Perside che tragge (a6) Da Perseo il nome suo ;
nell’ achemenie Valli questa Città si giacque . Il nome Dirai di
questi e di que’Re, se il sai, O almen 1 ’ adatta . L’imbandite
mense Facile danno ed i conviti accesso, Ove da far contenti
i tuoi desiri V’ è cosa anc’ oltre i vini: ivi sovente Calcò di
Bacco l’orgogliose corna Con le tenere mani il bel Cupido, Di
cui se intrise sien 1 ’ ali nel vino Più non puote fuggir: grave s^
asside; Tu umide penne, è ver, veloce Scote. Ma non
vola per questo, anzi novelli Desta incendj nelP alme, che dal vino
Sono disposte e rese atte al calore. Ogni atra cura e molce e fuga
il vino; Allora il riso ha loco ; allor l’abietta Mendica gente
pure il capo innalza; Fuggon le cure, il duci ; le crespe fronti
Vengono liete ; e la si rara in questi Tempi semplicitade i più
secreti Pensier dell’alma svela, che il Dio Bacco UEufrate ed il
Tigri, avendo, secondo Vo^ pinione d*alcuni, la lor sorgente nei Monti
armenii si prendono qui dal poeta per li principali fiumi del» V
Armenia, (a6) Persìde è una famosa città, che vuoisi fab.-»
bracata da Perseo figlio di Danae nelle valli persiar ne, dette
achemtiiie dal Re Achemene Ogni mistero svela e l’arte infrange De’ Giovanetti
il cor ivi ben spesso Rapiron le Fanciulle ; Amor nel vino Fu foco
a foco unito • Ma non troppo A lucerna ti fida ingannatrice;
Mal nella notte, e fra i bicchier ricolmi Della beltade si può far
giudizio. Allo splendor del giorno, a cielo aperto Paride
rimirò le Dive allora Che alla Madre d* Amor disse: tu vinci L’ una
e 1 ’ altra in beltà, Venere bella. S’ asconde nella notte ogni
difetto; Ad ogni vizio si perdona, e allora Ogni donna
sembrare alPuom può bella; Consulta il di guai gemme e quali lane,
Tinte di tìria porpora, sien atte A fsLjp bella la faccia e il corpo ^
Come Io delle Donne numerare il ceto Di non ardua conquista ? E
assai maggiore Dell’ arene del mar . Come di veli Di Baja. i lidi
narrerò coperti. E per calido zolfo acque fumanti? Riportando
talun ferito il petto Da queir.onde, non son, ( come racconta La
fama ) dice, salutari ognora. Ecco di Cinzia suburbana il
tempio Ì ayl Alludesi al
pros^erhio latino in vino veritas. Baja in Campania, o com'oggi dicesi in
ter-^ ra di Lavoro i era un amenissimo Castello^ che con- teneva
entro di se degli ottimi bagni caldi, e alcuni laghi in cui rrnvigavan
gli antichi con diverse barche variamente dipinte, sulle quali facevano ancora
de^ gli allegri conviti. Questa Dea, che si chiama Lucina in
Cielo, Eeate neW inferno, e Diana in terra, ha ancor fra Silvestre»
ed ecco ì conquistati Regni. Perchè vergifte ella è » perchè ella in
odio Ave d’Amor gli 8tijali,.al popol diede» £ mai sempre
darà mille ferUè. Fin qui Talia
sopra ineguali rote Come tu debba scer T amato oggetto» E dove
tender t’insegnò le reti. Della tua Bella onde adescare il
cére Preparo or io delF arte opra speciale. Uomini» voi chiunque »
e donde siate, Porgete al mio parlar docili menti» E le
promesse mie ptopizj udite. Tosto nell’ alma tua scenda la speme Di
conquistarle» e vincitor sarai; gli altri nomi quello di Cinzia »
perchè essa ed Apoi* lo nacquer nelVIsola di Deio » ov^ è il Monte
Cinto. I popoli del Chersoneso » o com* ora chiamansi » della
Crimea » le immolavano gli ospiti ivi spinti dalle tempeste, he femmine
romane » dopo Vavere ottérsuto ciò che htamavun co" voti, andavano
a* d*Agosto con le. faci ardenti in mano, e la corona eul
capo\ al Tempio suhurbano di questa Dea situato in Arì^ eia. Quivi
frequentemente i Sacerdoti succedevano gli uni agli altri » mentre, non
godevano di questa di* gnità solamente gV ingenui, ma se la
contrastavano anche i servi e i fuggitivi in una guerra particola*
re » in cui chi riportava la vittoria, otteneva a un tempo stesso il
Sacerdozio » che apprezzavano come un Kegno. Una tal Dea peraltro y
quantunque sten* desse dal cielo per godere del suo Pastorèllo Endimione
» fu sommamente gelosa della propria pudici* zia, giacché trasformò in
Cervo Atteone \ perchè osò di guardarla quando era nuda in un
bagno. (3o) Talia è quella Musa » che presiede principale
mente a* Canti piacevoli e amorosi. Dice OVIDIO che dia insegnò sopra
inegnali rote ec. alludendo al diè stico latino » il di cui Esametro ha »
com* è noto ^ sA piedi, e cinque il Pentametro^ Ma intanto
tender dei T insidie: prima Gli augelli taceran di primavera,
Le cicale in estate, e il can d^Arcadia Incontro a lepre prenderà
la fuga, Che dolcemente Femmina tentata A Giovine resista ; e
quella ancora Tu vincerai, che ti parrà ritrosa. Come il
piacer furtivo è grato alF Uomo, £ grato alla Donzella . Asconde
questa Le brame sue, T nomo le cela invano; Ma se tu possa*
vincerla una volta, Preverrà con le sue le tue preghiere. Ne’
molli prati al suo Torello accanto La giovenca muggisce ; e la
Cavalla Col suo nitrir fa lusinghiero invito Al cornipede maschio .
In noi pkt forti^ Ma non però cosi furiosi, sono Gli stimoli d’
amor i lodevol fine Ha la fiamma delP Uomo. A che di Biblì Ricorderò, che
d’ un vietato amore Arse pel suo Fratello, e pon un laccio Vendicò
da se stessa il suo misfatto? Non, come Figlia dee,Mirra amò il
Padre,( a^ BiUi nata da
Mileto e dalla Ninfa. Gianczf, amò perdutamente Canno suo fratello.
Siccome non Ve riuscì di renderlo à sitò riguardo amoroso ^ si die
in preda a un pianto così dirotto ( se si presti je e al libro IX. delle
Metamorfosi ) che fu convertita VI un fonte yo( se si crede al libro
presente ) si prò-- curò ella etessa con un laccio la morte. Avendo
Mirra concepito un immenso amore per Cinìra suo padre, gli fu posta in
letto da me nutrice in luogo della consorte. Accortosi Cinira del
fallo, tentò di uccìderla } ma essa fuggì bay ove fu cangiata in albero,
e diede alla luce il bellissimo Adone, che fU V ‘unico frutto d un st
fu nesto incestuoso accoppiamento. E oppressa ora si cela in chiasa
scorza: Delle lagrime poi, che dal suo tronco Odoroso essa elice ^
ungiam le membra. Che s^ban quteste stille il primo nome, Del
frondos’Ida nelVombròse valli. Era forse
la gloria e la delizia Deir armento un Torel candido, solo Negro
segnale avea fra corno e corno: Una sol f^u la maccbìa, e latteo il
resto. Questo bramaron sostener sul tergo Le giovenche ginosie e di
Canea. Oodea di farsi adultera Pasifae (34) Del Toro., e'nel
ano ooj geloso sdegno Nutria contro le amabili giovenche: Io
cose note canto; e ciò non punte Creta negar, quantunque
siai*iqendace. Creta, cui son cpnto Città soggette. Con r
inesperta man ; Pasifae ali Totro Dicesi recideste or verdi frondey S
1 Or r erbe tenerissime de’ prati.2 Erra compagna
dèli’st>nentOì,;e invano- Del maiitoy pensier T arresta j vinto.
Era Minos da-un hove ^ A rche* tu vesti, . Donna, preziose spoglie
? Il tuo Diletto Mà è un mont 0 ^ Creta ; nè deéù qui còn^ fondere
cpl Monta, Ida^ pqiaao, ope seguii la famgsa lite fra Venere y Pallade e
Óit^none. (34) Sdegnata Venere contro il Sole y perchè Vavea
fatta sorprèndete da^*Numi det letto con Marte ffe* à che Pasifae figlia
del .medesimo, e moglie di Mi-» nos Re di Creta, ^ innamorasse
ardentemente d* un Toro. Essendosi questa racchiusa in una Giovenca
di legno coitmtta da Dedìdà y si congiunse col Toro diletto, e
diede al Sole, in nipote il celebre Minotaio- To, che fu ucciso da Teseo
nel famoso làbcrkito» Di tai ricchezze non conósce il pregio.
Mentre vai di montano armento io traccia, A che giova lo specchio, a che
le chiome. Lassa, adornar si spesso ? Ah I presta fede Pare allo
specchio 4 che bovina forma Ti nega ; invan veder sulla tua fronte
Desideri le cornac Se ti piace ' Minos, a che un adultero ricerchi
P E se brami ingannarlo, a ché noi fai Con un Uomo? Per boschi e
per foreste Oià la Regina, il talamo lasciato, ^ Vanne quasi
fiaccante, a cui furore Spiri P aonio Dio . Oh quante volte La
giovènca «rivai con volto iniquo Mirò, e fra se, perchè tu piaci,
disse, Al mio Signor ? Ve^com^* in
facciala lai* Scherza sull’erbe tenere, ed esulta,, E tài
fóIlié/-non dubito non credai ^ Per lei decenti: mentre in suo
pensiero: Volge tai còse, ordina che sia tolta* Dal gregge immenso, è
immeritevol venga Al curvo giogo strascinata, o vuole Di
snperstizion sacrai * fra-l’are Vittima cada;!e nella fi^ta dtwtr^
Gode tener .le.:.viscero fumanti -Dell’uccisa rivai. AHI quante voke ?
Gon le uccise rivaV placando i NUìiii, ^ Disse,
tenendo'visceri\-'piacete Al mio
Dilettov e quante volte ancora Chiese in Europa èsserconversa e in Io,
Europa figlia di Agenorg Re di Fenicia, ^ éorella di Cadmo, era dotata
di^ sorprendente^ bellezza. Aree Giòvo per Ui. di un amore così violento,
aS Che questa è una Giovenca, e quella ìMotso' Premè d’ un
Bovo . Fè le strane voglie Paghe Pasifae ascosa in lignea vacca,
Onde il parto alla luce uscì biforme. Se sapeva piacere ad un
sol uomo^ (36) E foggia di Tieste il turpe amore D’ Atreo la
Sposa, non avrebbe Febo Il cammino sospeso in mezzo al corso,
E rivoltato il carro, i suoi destrieri Mossi incontroairAurora.
Anco la Figlia, Che i purpurei capelli involò a Niso, Coprì del corpo suo
le parti estreme Con la sembianza de’ rabbiosi cani. thè
trasformatosi in Toro, la portò sul suo dorso in quella parte di Mondo,
che dal nome della medesu ma si chiama Europa. Io y o Iside
fu, come Si è detto al numerò ii. epnoertita dallo stesso Giove in una
Giovenca. Erope moglie d* Atreo giacque con Tieste fra^ tello del
medesimo, e nacquer da essi due figlj, che avendo Atreo dati a mangiare
al lor padre medesimo in un convito, il Sole per celare un tanto
misfattò tornò indietro, e corse incontro aWAurora. Scilla, figlia
di Niso Re di Megara s^ inva^ ghì di Minos Re di Creta, che le assediava
la pa^* trìa, e a lui recò il purpureo capello del padre, dal qual
dipendevano i fati di quella Città. Essa fu jj^i disprezzata harharamente
dalV ingrato Minos, e fu, secondo le metamorfosi, cangiata in uccello.
Vi fu però un^altra Scilla figlia di Eorci, la quale, avendo bevuto
un^acqua per lei avvelenata da Circe, venne subito trasformata in un
mostro, la di ciS parte inferire era simile a quella di un Cane.
Con-^ eepì la medesima tanto orror di sé stessa, che si get>» tò
in un golfo del mar di Sicilia, che ha preso da ^ella il suo nome» Ovidio
ha qui confuso fseste due Il Figliuolo d^Atieo, che in terra e in mare
Di Marte e di Nettuno evitò V ira. Cadde vìttima poi della
Consorte. Chi di Creusa sull’inìqua hamma Non sparse il
pianto, e sulla Strage orrenda Che fe* de’proprj figli un* empia Madre
? Frivo degli occhi pur pianse Fenicio, (4o) E voi, oarallì
spaventati, il vostro Agamennone è veramente figlio di Filistene, ma da
Ornerò^ e da tutti gli antichi poeti gli vien dato per padre Aireo suo
aco come un personaggio più celebre» Fu dichiarato Agamennone per le sue
mira^ bili imprese il Re deTle di Grecia, e per tradimento di
Clìtennestra sua moglie ucciso da Egisto, dal quale era ella amata
impudicamente, Giasone j abbandonata Medea, sposò Creusa figlia di
Creonte Re di Corinto, Medea per vendicarsi di tafe infedeltà, f^ strage
di due teneri fanciulli nati da lei 4 da Giasone, e ridusse con fuoco
ariifi- doso in cenere ì* infelice Creusa e tutta la famiglia e la
Reggia di Cleonte, (40) Furono tratti gli occhi a Fenicio figliuol
d^A^ mintore, perchè una concubina del padre Vaccusò falsamente
d'acerle tolto Vonore, Ricuperò egli la vista per i farmaci a lui apprestati da
Chirone, il qual gli die poi in custodia il giovine Achille, con
cui andò aWassedio d,i Troja, Ippolito figlio di Teseo disprezzo
Vamorosa corrispondenza che gli esibì Fedra sua matrigna, Sdegnata ella
fieramene di ciò, disse al padre, che le aveva il medesima insidiato V
onestà ^ e Teseo lo abbandonò al furor di Nettuno, Essendo per ciò comparso un
orribil mostro marino^ mentre Ippolito se ne andava sul suo, carro lungo
la spiaggia del mare, i cavalli per lo spavento preser la fuga,
marciarono il legno in pezzi ^ e trucidarono miseramente il lor
Cgxìdottii^o, > Condottier tracidaste.E perchè» o Pinco, Gli
occhi tu togli agPinnpcenti figlj ? Ah che la atessa ^eaa. il tuo
delitto Un dì vendicherà. Tali infortunj ^ Da uno sfrenato aq^or
trasse sorgente Delle lubriche donpe . Ornai t’ affretta, £
non temer di ritrovar contrasto Nelle Donzelle ; appena, una fra
molte * Ne incontreraiepe. a te neghi vittoria. E r indulgènti e,
le ritrose pure lì Goì^qu esser pregata; pna ripulsa I Non ti
spaventi ^ è questa ingannatrice. iMa perchè ingannatrice Y ognor pip
grata INuova per esse voluttà riesce. |E l’alma loro adescan
facilmente |l novelli amatori ..'Il vici^ campp Ci sembra più
.ijber^^so,^0 il gregge altrui Vedi che a parte sia della Padroni
Ov, Arte (Tarn. b Fineo
figlimi Agenore Re Arcadia yO come ad altri piaqe, di Tracia, o di Paflagonia y
sposò Cleopafi^a figlia di Bqrea, e‘. n*ehbe due figli. O sia che questa
morissero che fosse da lui ripudiata y prese il medesimo in moglie Arpài ice, e
cornane dò, che fossero ioltìr gli occhi a* due figlj della sua
prima eoniorte, perché temè che aiiesjser avuto un illecito commercio con Ija
novella sua sposa. Fu da Borea vendicata V innocenza do* nipoti con
Vacciecof- mento di Fineo, e Giunone e Nettuno gli mandarono sulle mense
le Arpie y che a lui macchiavano turpemente quelle ‘ vivandé y che non
mangiavano essa stesse De’ nascosti consiglj, e de’ piaceri Suoi
più segreti. Con promesse e prieghi Corrompi la sua fi; tutto
otterrai, Quand’ ella voglia, e non ti sia contraria, Dalla
facil. tua Bella • Il tèmpo scelga. Come i Medici sogliono,
propìzio. Onde il tuo amor nel dodi cor le infonda. Ella il
tuo amor le infonderà nel core, Quando per lieti eventi andrà
giuliva Come lussureggiare in pìngue campo ' Suole la biada. Quando
r alma è scarca Dalle pallide cure, e lieta esulta. Si spande
allora, e dà facile accesso ÀH’arti lusinghevoli d’amore.
Mentre fra i neri affanni involta visse " Troja, con V armi si
difese ; e lieta (43) Il cavai di soldati e insìdie pieno
Àccolèe entro le mòra. Ancor si tenti, £ non rimanga inyendicata,
quando Si dorrà, chè riceve ingiuria e scorno Dall* impudica Amante
del Marito. La punga a sdegno la fedele Ancella, Quando col pettin
mattutin compone Gl* indocili capelli, ed alle vele. L’ ajuto
aggiùnga anco de’ remi, e dica, Sospir seco tràehdo, in bassa vocè:
Tu noli potrai, cred’io » come si merta. Rendergli la pariglia.
Allor le parli Di te con detti insinuanti, e.giuri Che tu brugi per
lei d’immenso amore. Mentre il tempo è propizio, ella s’ affretti
Alludesi al cavallo di Ugno ^cht il perfido Sinone introdusse pien
di soldati in Troja, quando tra assediata da* Greci» Virgilio Endde
IÀh»lÌ»v» Che non cadan le vele, e cessi il vento. Come sì scioglie
il gel, V ira, indugiando^ Si dilegua così. Forse mi chiedi.
Se la servente innamorar ti giovi ? Tai cose ammesse, il
rischio é manifesto^ Una rende V amor più diligente, L’ altra
più tarda e meno attenta: questa Alla Padrona sua ti serba in dono,
Quella a se stessa • esito dipende Dalla fortuna, che quantunque
arrichì Agli audaci ^ a te do fedel consiglio. Che d’ un’
impresa tal lasci il pensiero. Non per scoscese perigliose strade
Andrò, nè, duce me, verrà ingannato Alcun Giovine amante * Ma se
poi, Mentre riceve e assiduamente porta L’innamorate cifrerà te non
solo Per la sua fedeltà piaccia, com’ anco Per la beltà del corpo ;
allor procura Della Padrona in pria il possesso, e ch’indi Questa
la segua: l’amoroso gaudio Non dall’ Ancella incominciar tu dei*
Se all’arte mia si crede, e i detti miei Non portano pel mar rapaci
i venti, Questo consìglio mìo nell’alma imprimi: Non mai tentar 9
se non compisci l’opra» Se a parte ella verrà del tuo delitto. Non
la temere accusatrìce • Invano Invischiato l’angel tenta la fuga.
Nè riesce già uscir dalle allentate Reti al cinghiale • Il pesce
all’ amo colto Si scota invano ; tu la premi e assedia. Nè la
lasciar, se vincitor non sei. Se a una colpa comune ella
soggiace, Non temer tradimenti ; a te saranno Note della Padrona
opre e parole. Se cauto celerai 1’ accusatrice. Sempre,
contezza avrai della tua Amica. Folle è colui che in suo pensier si
crede òhe sol debban del cielo osservar gli astri Della terra il
cultore ed i nocchieri. Non a’ campi fallaci ognor sì debbe
Cerere abbandonar, nè alle tranquille*^ Cerulee onde del mar la curva
prora. Ah 1 che non sempre assicurar ti puoi Il cor di vincer
delle Belle; spesso Ciò s’otterrà, se il tempo sìa propìzio.
Se deir Amica il natalizio giorno (44) (44) Era presso gli
Antichi in gran venerazione il giorno natalizio: e gli Amanti celebravano
‘ con feste e con doni quello^ in cui eran nate le Donne che ama^
vano . Si dee preferir certamente questa lieta costui manza a quella che
hanno adottato i Messicani e i Cinesi, i quali riguardano un tal giorno
come infausto e doloroso . Alcuni di essi invece di ricevere con
acclamazioni di gioja la nascita d^ un figlio, gli rispondono ai suoi primi
singulti, mio figlio tu sei venuto al mondo per soffrire \ soffri ^ e
t’acquieta . Si fab- hrican altri di buon^ ora la tomba, e vanno
ogni giorno a renderle omaggio come al termine consolator é d^.lor giorni
. Non poco influisce, a dir vero, un tal uso a fomentare il barbaro
costume d^ uccidere i proprp figli in un popola ^ il guala non gli Ottimi
suoi libri classici illustrati dall* immortai Confueio e con le
savissime leggi, su cui ha stabilito il suo pacifico Impero, cerca di
rendersi virtuoso ed illuminato. Èra presso i Romani nel suo pieno
vigore P uso delle visite e de* doni nel principio dell* anno, il
qua- le incominciava anticamente col mese di Marzo, le di cui
Colende eran consacrate al Dio Marte . Cele- hravand in Roma nel primo
giorno d*un tal mese alcune feste dette matronali in memoria della
pace Ricorra, o le Calende che seguito Abbiaa quelle di Marte, a
Vener piace, O sia che il Circo sì rimiri adorno, Non come in altre
età, di statue lievi. Ma per le spoglie ivi de i Re deposte,
L’ opra differirai: sovrasta allora Con le piovose Plejadi P
inverno; Allor nella marina onda s’immerge Il Capro tenerello
; allora giova Deporre ogni pensier . Chi al mar s’afSda Del lacero
naviglio appena puote 1 miseri campar naufraghi avanzi. Tu se
in quel dì incominci, in cui si vide che le Sabine avevano appunto
in tal di stabilita fra i loro SpoH, ed i loro Padri, i quali volevano
con V armi vendicare il ratto delle medesime . Le persone maritate
avevano solamente diritto a queste feste / ed OraT^io nell* Ode ottava
del Libro III. si scusa, perchè vi prende parte anch? egli, essendo
celibe. Siccome il mese d* Aprile è sacro a Venere, e suc^
cede a quello di Marzo dedicato a Marte, dice il Poeta che Venere gode
che abhian le sv^e Calende seguito quelle di Marte per alludere
alVamorosa cor^ rispondenza che ella aveva coi Dio della guerra .
Le Ihnne e le Matrone romane facevan nelle Calende d*Aprile gran
festa a questa lor Pea tutelare ; e gH Amanti contribuivano alle medesime
con le donazioni. Non vuole il Poeta, che si studino i Giovani per
adescar le Donne nel lor giorno natalizio, nel principio dell* anno, e in
occasione de^trionfi celebrati nel Circo, perchè essendo le medesime
allora occupate in adornarsi, incontrerebbono qiiP gravi pericoli,
che sono qui espressi con l* allegoria dell* Inverno, e con quella
delle Plejadi e del Capro, le quali stelle sorgon sull* orizzonte nel
mese d* Ottobre, che è un tempo pieno di pioggia e di tempeste, e perciò
non propizia a* Naviganti.. Scorrer sanguigno umor la flébìl Allia
Per le piaghe latine, o in quello in cui Torna la festa settima, che è
sacra Al Palestin siriaco, e in cui s’ astiene Ognun dalla fatica,
avrai mai sempre Culto superstizioso al di natale Delia tua Bella ;
pur funesto giorno Sia quello, in cui tu offrir dono le debba; Ma a
te lo rapirà, se tu gliel nieghi, Che a Femina mancar non puote 1’
arte Per carpir le ricchezze a Giovin caldo. Del Mercante il Garzon
verrà discinto Alla vogliosa ed avida Padrona, E porrà le sue
metti in vaga mostra, Mentre tu giungi, e al fianco suo t’assidi.
Essa ti pregherà, che tu le osservi Per additarne il prezzo ^ e
liberale Ti sarà di preghiere e ancor di baci, Perchè le compri, e
giurerà contenta D’ esserne per molt’ anni, e che non puoi
Comprarle cosa che le sia più accetta. Se poi ti scusi che non hai
denaro, Ti chiederà il tuo nome, e turpe fia Per scusa addur,
che tu firmar noi sai. Rinasce poi, quando le fa bisogno, A ih.
Agosto ebbero i Romani una sconfitta da* Galli sul fiume Allia non
lontano da Roma, onde come infausto e di pessimo nome fu condannato
un tal giorno . Crede il Poeta, che debbano i Giovani onorare il dì
natalizio delle lor Belle, e vuole che intraprendano V amorose loro
conquiste 0 in que malinconici tempi qui figurati sotto il giorno
alliense, CUI aman le Donne d* esser rallegrate, o in que^giorni
festivi simili a* sabbati giudaici, ne* quali non è alle medesime
permesso 4 * occuparsi in alcun lavoro. Che dell* offerte natalizie il
giorno Rìeda y e di pianto sa bagnare il volto Per la supposta
perdita di pietra. Che le orna 1’ orecchio . D’altre cose L’ uso ti chiedrà,
che date poi Renderle nega ; tu le perdi, e invano Speri per ciò
che grata ti si mostri. No, quando avessi dieci lìngue e
dieci Bocche, io già non potrei dell’ impudiche Donne n^^rare le
sacrìleghe arti, li guado tenti un ben vergato foglio; E
della mente tua la prima volta Sia nunzio ; le carezze, e le
parole, Che imitino il linguaggio d’ un Aliante Rechi, e
fervide aggiungi anco preghiere. Donò da’prieghi mosso a
PriamoAchille Di Ettor l’esangue spoglia; e Iddio sdegnato A voci
supplichevoli si piega. Prometti pur, che nuocer già non ponno Mai le
prorjaesse ; ognun può farai ricco Con semplici parole. La speraD 2
$a Data una volta, lungo tempo dura: C' inganna, è ver, ma
Diva utile è a noi. Se liberal con lei fosti di doni, Avrà
ragion d* abbandonarti ; quello, Che già le desti, è suo, nò può
timore Di perdita nutrir . Ognor tu devi Achille dc^ aper
ttraseinato tre volte intorno alle mura di Troja il corpo d* Ettore da
lui ucciso alV assedio di quella Città y lo rese finalmente y 0 a
dir meglio, lo vendè\ a- ^Priamo Padre del, medesimOy che prostrato
a* suoi pièdi > lo pregava di ciò caldamente^ Exanimumaue amo oorpns
vendebat Achillea. 1 Virgil Finger di dar quel che non desti;
spesso Fu deluso così di steril campo II credulo Padron • Così,
perdendo A perder segue il giocator, nè lascia Per questo il gioco
; e il lusinghiero dado Nelle cupide mani agita ognora.
Questa è Tiinpresa, e qui il Valore è posto; Ascolta ; senza doni
il suo cor tenta La prima-volta, ancor che ì doni apprezzi; Se lor
liberal ti sia, 8«^rallo Ognora. Vada dunque il tuo foglio, ma
vergato Con detti lusinghieri ; della Bella La mente esplori,*e
primo il caihmin tenti. Cidippe ingannò un pomo, in bui rincue Note
leggendo, fu di queste preda. O Giovani romani, io vel
consiglio. Deh coltivate le bell’ arti ; solo Non utili Saran
per la difesa ' De^ paurosi Rei ; ma dalla forza Del facondo
parlar, vinta la mano A voi daran col Giudice severo. Con lo
scelto Senato, e ilPopol folto Ancor le culte amabili Donzelle. Da
Zea una delle Isole Clclàdì andò Acanzio in Deio per assistere a*
sacrifici di- Diana, che là si celebravano splendidamente. Ivi ei concepì
uìà^ immenso amore per Cidippe, ma non ardiva di chiederla in is-
posa . Stette molto tempo dubbioso nello scegliere lin mezzo per appagare
la sua passione ^ ma in lui ces^ sarono i dubbj quando intese che vigeva
in Deio una legge, per cui restava concluso tutto ciò che si diceva
nel tempio di Diana ; è però gettò a* jùedi della sita Bella un pomo y in
cui erano scritti i versi seguenti* Juro tibi sane per mystica sacra
Dianae He Ubi venturam comitem sponsamque futuram: Ascosa V arte
resti, e da principio Non sii eloquente. Da’vergati, foglj Vadan
lungi parole aspre e ricerche. Chi mai, se non. di senno affatto
privo» In tuono volgerà declamatorio . ; Alla tenera
Amica il suo discorso? Oh quante volte fu giusta cagione Di
grave sdegno un foglio ! 1 detti tuoi Meritin fede, e adopra usati
accenti» Ma sempre, lusinghieri » onde l,e sembri^
D’udirti ragionare . Se ricusa, Di ricevere il foglio, e sena’ averlo,
. Letto a te lo rimandi » |a speranza Però non t’abbandoni »
e,il mio consiglio, Serba in memoria, II. collo al giogo piega Il
Giovenco difficile col tempo» E a soffrir s’ammaestra il lento
freno Col tempo anco il Cavallo. Un ferjreo anello Dal cootinao nso
si consuma » e il vomere* Dal continuo rivolgere la terra Che del
sasso è più duro? e che più molle ' Avvi dell’ onda ? eppure il duco sasso
Dall’ onda molle vieu scavato . Ancora» Se sii costante» vincerai
col tempo Penelope med^sma: » A vero»,, Caddero al suolo le
trojatie.^muri^» Ma pur caddero alfin 1 ìtiglj tuoi,
Leggerà anch’ oasa » e non darà risposta» Cui tu non debbi
violentarla: solo Fa che ognor legga lusinghieri accenti» £
di risposta alba sarà cortese A ciò che l^sse ; a gradi e con
misura Succedefansi questi ufficj ; Forse / Verrà da. prima A
tc foglio dolente», à a Con cui ti pregherà, che r
amoroso Linguaggio cessi ; nia desia il contrario Entro il suo
core, e vuol che tu prosegua. Continua danque;e alfin resi contenti
Saranno ì voti tuoi . Quando supina Vien trasportata sulle molli
piume. Fingendo indifferenza, ti presenta Della Padrona alla
lettiga ; e canto, E in cifre ambigue quanto puoi favella.
Onde qualchfe importuno udir non possa Il vostro ragionar 7 Sé’ volge il
piede Negli spaziosi portici, tu quivi Trattienti fin eh* ella^ vi
fa dimora. Or la precedi ed or la segui a tergo: Or
lento movi il passo, ed or t* affretta. Nè d^ inoltrarti iU ntezzb alle
colonne Abbi rossor, nè di sederle al fianco. Non ne’ Teatri
senza te si trovi, E segnai póVti al teigo, onde la vegga.
Giacch* ivi il puoi, contemplala, e le dici Quanto brami co’segni è con
lo sguardo. Alla saltante applaudisci l e sii Favoirevole a quei
che rappresenta Personaggio amoroso . S* ella sorge, Sorgi ;
e ti assidi pur, s’ ella s’assida; £ a suo ^piacere il tèmpo tuo
consuma. Ma non volere innanelìare il crine Coiì’càldo ferro,
e con lUordacè pomice ' Stropicciarti le gambe ; il che tu lascia
A’molli Sacerdoti di Cibale. Oj9e, o Vesta, che ancor dicevi Rea yC la
Dea Buona, è Madre degli Dei, e si chiama Cibale ; perche nel monte
Gibele dU Frigia U furono la prima Beltà negletta agli uomini
conviene: Vinse Teseo; Afianna » e la rapio Disa.doroo
le<t;onipie, il cria scompQsto;( So) Arse pe}*:FiglÌQ:Fe.drtt., ed era
incolto; Cura e deli^^ia. della Dea ;d’. Amore . Fu Adon,:che
fra le selve i di traeva. S’ann^grin pur le membra al marzio Campo,
Ma si^o monde, e monda sia la ve8te.(Si) Aspra non sia la lingua, e netti
sieno.i Dalla lug^e i denti; il mobil».piede . > Non nuoti ih
larga pollo ;^*ed ìne6perta i>olta kelel^ati i sacrificj » T
suoi Sacerdòti" éràtio ew.- nuchi, e ogni giorno,ger comparir moftdi,
si raschia^ van membra, t
Ari^nay figlia del Re Minos, s’innamorò perdutamente di Teseo, che fu
da* Greci mandato con al- tri giovani in Creta per esser divorato dal
Ii/Iinotauro~, Etsa gV insegnò la maniera d*'uscir dal làbérinto
quàn^ do avesse ucciso quel mostroe in compagnia di dra sua sorella
s*.iifcamminò con. VAmante^ che dpmato il Minofauro y tornava in Grecia
vittorioso . Teseo chi nel viaggio orasi gik invaghito di Fedra ^ lasciò
bar-' Caramente in Nasso Arianna, .e andò con la sorella Ì2i Atene
sua patria . Ivi questa dioonne, come si è detto, amante d*Ippplito nato
da Tesele da Ippolita Regina duello Amaz%oni. Venere amò
ardehtemente Adone ^figlio di Cinirq, e di Mirra, quantunque vivesse
continuamente né^ boschi intento a caccksre le fiere. Pianse ella
amaramert’^ te perchè questo giovinetto fu ucciso da un cinghiale^
e nony avrebbe mai reso a Proserpina, se Giove non comandava', che per
otto mesi avesse Venere il possesso d* Adone, e per gli altri quattro sei
godesse Proserpina. Nel Campo martió d facevano in Roma alcuni giochi,
pe*quali i giocatori si snudavano interamente, « si dngevan le membra con degli
unguenti, che rendeano a* medesimi nera la pelle Forbice non ti renda il
crin deforme t Ma da maestra iuan^ ti sia recisa E la chioma e la
barba i $enza macchie Sian r unghie, nè soverchinoi le dita;
Nelle concave nari non si scorga Alcun pelo; nè esali nn tris^to
fiato* - ' La bocca; e il naso non rimanga olfeilO „ Da che il
fetido becco ognora sape^ ' A lasciva Fanciulla il resto
lascia, £ alla bardassa . Ma già Bacco òhiama Il vate suo: soccorre
ei pur gli amanti; E, la fiamma che learde ei favorisce. Furente
errava la creten.^ Ppnna Pcjr di Nasso ignota arena, Che
flagellano ognor T onde dei mare» Ella coperta con discinta
veste Come nel sonno, nudo il pjede e sciolte Le crocee chiome, al
sordo mar si volge;. E bagnando di lagrime le gote, Teseo chiama in
alto suòli: grida, E in un piangea la mìsera, ma in lei Era
tutto decente ; nè men bella Fu di lagrime aspersa « di dolore.
Mentre di nuovo con le man fa ingiuria Al delicato petto, a che
fuggisti t É cosa fia.di me, perfido? dice^ Di me che fia,
ripete ; e intanto il lido De* cìtnbali e de’timpani p^cossi'
Da un* attonita mano il suono assorda. Quando Arianna si vide
aèhandonata nell* sola di Dfasso^si diede in preda all* ultima
dispera^ sùone . Bacco ivi accorso con le Baeeànti e Cón Sileno,
sfio pedagogo, la prpse in sposa y e collocò la. di hi chioma in Cieìp
prenQ ad 4 rtur ^t \ v.t Ca<l’ ella al suolo 4a timor sorpresa;
Le mbucaa le iparole ; e piik pon scorro Per le;geliAe} oppresse
membra il sangue. S’ appreesan ile ^eoauti^ U<cfia disciulto^ Ed
opQO;i liéyl 3iltiri soiio Previa turbo del DiOi*;£coo sul dorso D*
uo< pasciuto asinel V ebrio Sileno Carico d’ anoi.y^^che :si reggo
appena, E profiumo aspirare>i )brevi crini. Meiìftr
eglit seguei'le! Saeeanti, e queste Lo cfaiadianp /oggende ; l’inesperto
. Cavaliere il qjUadrtipedo, suo si^za. Deir aaiào orecchiuto
al capo scorre, E a terra cade: i Satiri griderò; Sorgi
V deh sorgi y o Padre . Intanto giunge 11 Dio ^ che d’ uva al carro
adorno accoppia Le tigri, a ouircoh le dorate briglie 11 freno
regge, • Partì: Teseo, e insieme D’ Arianna, fa voce ed il dolore.
Tentò tre volte di fuggir, ma invanoy Chè il timor la trattenne, e
inorridita Tremò qUal steril spiga al vento,e com# Leggiera canna
in umida palude; Allora il Dio le disse: * ogni timore,
Cretease 'Donna, dal tuo cer disgombra; In me tu* vedi un più fedele
amante; Di Baceo anzi sarai la dolce sposa. Tu
spazierai nel ciel ; la tua corona Lucida stella in ciel sarà di
scorta Air incerto Nocchiero in suo cammino. Di^se, e dal carro
scese, onde non debba Seatir paura delle tigri, e il piede Sulla
docil arena impresse Torme. Eapilla poscia, e se la strinse al
seno> Chè tentato avria id van forgi! contralto^ Mentre fonile a
un Dio tutto si rende. De’suoi segnacr imen cantd una parte, L’altra
ripetè in alto snon gli evviva. Cosi al letto nuziale il 0io 4 la Sposa
' Furon guidati^ e s’annoSdaro insieme. Quando tu sederai con donna
a mensa, E di Bacco a te offerti i doiii siedo, > Tu
a Bacco,èa‘*NunJi che^han fa cena in euri Porgerai voti, onde (dal Vrn
non venga Offeso il capo ’ tuo ; Quivi* tu puoi ‘ ‘ Con
ambigue parole a lèi far iloti’ " ; I segreti del cor, ma per6^in
modo ' Che ben s’ accorga esser a lei dirette. Potrai tu ancor con
gocmole di vino Teneri accenti esporre, onde conosca, Ch’
ella assolnto ha nel tuo core impero. Co’ tuoi s’incontrin jgli oocbi
suoi,<ed il fòco Che t’arde il sené, a lei foccian palese; Parla
talora col silenzio il volto. Procura il primo di rapir la
tazza. In cni bevv’ ella, e dove i labbri impresse. Bevi tn
pur: qualunque il cibo sia Bichieder dei, che tocco avrà col dito;
E mentre il chiedi, a lei strìngi la mano. Volgi i tuoi voti pure,
onde tu piaccia Della Bella, al Marito . Assai ti puoto *
Util recar, se a te sia fatto amìcoi Se dai la legge al bere, a lui
la mano Solevano i Rfìmarù appena posti a mensa eleg^, gere il maestro
della cena y che da Orazio {lib. i.od^ 9. ) li chiama il Taliarco\
Prescriveva il medesimo U leggi del convito e la manieM di^ becere y'e
ordi^ Ce^i, e riponi dal tuo capo tolta La corona sul suo.
Sia a te inferiore, Egual sia pur, si serva in tutto il primo; E
seconda parlando il suo linguaggio. Col Telo d’amistà tessere
inganno È vìa sicura e frequentata, pure Non è senza delitto. 11
Talìarco Ancor che troppo generoso appresti I moltiplici vini e le
vivande; £ benché creda di dover più assai Veder di quel che
fu ordinato, certa Avrai nel ber da noi legge e misura. Onde la
mente e il piè si serbin atti A’ loro ufficj: d’ evitar procura Gli
alterni detti e gV ingiuriosi accenti, £ vìe più ancor se sien dal
vin prodotti; E troppo faeil non indur la mano napa alle
Polte Commensali che ognuno, bevuto il suo bicchiere di pino, proponesse
qualche amena que^ stione . Auguravansi spesso tanti anni quanti
bicchieri di vino bevevano, e spesso ne bevean tanti quante e- ran
le lettere che formapano il nome della Beliamo deW Uomo insigne, a cui
facevano un tale onore . Se molti erano gli anrd augurati, o se molte
erari le leU tere componenti il nome della persona in onore di cui
heveano ; mescepano allora il vino in una tazza assai grande, e
compensavan così i molti bicchieri che apreb’^ ber doputo puotare . Era
poi in uso al termine della mensa il vibrare in aria con le due prime
dita i semi d* una mela fresca: si credepano fortunati in amore
quando toccapan con quelli il soffitto della camera ov*era apparecchiata
la tavola^ e si riputavano infe* ìici quegli amanti, che non li facean
sorgere a queU V altezza, De^moÙi altri giochi ^ che i Romani usa^
vano in queste circostanze, non ne è a noi perve^ nuta che un* oscura
notizia A perigliosa rissa. Al suol trafitto Euritone cadéo, perchè
soverchio Bebbe i vini apprestati. A* dolci scherzi Atta è la mensa
e il vìu: 8*hai bella voce^ Non ricusa cantar ; salta s’ hai molli
E pieghevoli braccia ; e finalmeute S’hai doti onde piacer, piaci. La
vera Ebrietà nuoce ^ può giovar la finta. Balbetti in tronco suon
l’astuta lingua^ Onde di ciò che tu ragioni, o fai Oltra ’l dovere,
il vino sol s'incolpu Augura alla Padrona ed al Marito Una notte
felice ; ma per questo Fa tacito nel core opposto voto^ Tolta
la mensa, allor che i Convitati Saranno per partir, tra lor ti mischia
; ( La turba e il loco ti daran T accesso ) A lei che
fogge t’ avvicina, e il fianco Le premi dolcemente, e il piè col piede
•. Abbia ora il conversar libero campo, E tu lungi, o pudor
rustico, vanne. Che la fortuna e Venere propizj Sono agli
audaci. De’ precetti nostri Or r eloquenza tua non abbisogna;
Principia pur che ben sarai facondo. Imitare il linguaggio dell’
amante Debbi, e mostrar d’ aver ferito il core; E onde ti
presti fede ogni arte adopra.. Ardua impresa non è 1’esser creduto.
{Sii^ ElurUone è quel Centauro^ che reso caldo dab vino y tentò
nelle nozze dì Piritoo di rapire Ippoda»^ mia: Teseo lo percosse perciò
così fortemente, che fw costretto y.come dice Ovidio nelle Metamorfosi,
cu vo^ nàtar V anima e il vino Mentre Donna non v’ha, che sè non
stìmi^ Sia, quanto imn^agìhar ài può, deforme. Atta a piacer ; e
aémprè inver non epiace. Quante vòlte in^amor chi sol fingendo Incominciò,
d’ un vera amòr fu preda! Siate indulgenti pur, vezzose Donne,
«Con questi menzogner, se voi bramate Che in sincerò si cambi un
falso amore. Con accorte lusinghe ora si tenti Di guadagnar le
Belle, come Tacque Sa penetrar la sottoposta riva. Deh non
t’incresca ora lodar la faccia, Ora i capelli, i lunghi è ì
rotondetti Diti, ed il breve piè. Le più ritrose E le più caste
godono alle lodi Della loro bellezza ; e son pur grate ^T innocenti
Vergini i anzi il primo È la beltà d* ogni lor cura oggetto.
Percliè tuttora di rossor la faccia Tingon Palla c Giunca volgendo
iti mente Le frigie selve ed il fatai giudìzio f L’augel sacro a
Gìunon le penne ostenta (56; Se tu le lodi ; e le nasconde allora
Che tacito le miri» Anco il destriero. Quando contrasta il rapido
cammino. Péllade e Giunone ^vergognandosi d^essere stc^ te da Paride
giudicate .met^ belle di Venere, tentare Tono di ripagare una tate
infamia col procurare n questa Dea
vincitrice del Pomo tutti que*danni, eh% sono resi ormai cèlebri' da'
Virgilio e da Omero z Manet i^ha Bueat# repo^tuiu' Judicium
Faridis spretaeqtte ipjuria fbrmae. VIRGILIO (si veda), Eneid. I
Paooni ^(hrisi ^li at^elH di Giunone, pospr che solcpano'essLHinàfe
ibìqarroidi fonta Dea*, 4» Gode vedersi il crine adorno, e il
collo Accarezzato. Franco pur prometti, E tutti chiama in
testimonio i Numi, Che alle promesse pedon facilmente Le tenere
Donzelle. Su dal Paltò D*un spergiuro amator Giove si ride, £
comanda che sien per l’aria spersi I giuramenti dagli eolii venti.
Solea per l’onda stigia a Giuno il falso Giove giurar ; utile è un
tale esempio. Giova de^ Numi resistenza e giova Che noi pur la
crediamo ; incenso e vino Lor su gli antichi focolari offriamo: No,
non è ver che una secura quiete! A letargo simil gli occupi; i
Numi Veggon r opere nostre. Innocua vita Si tragga adunque ; ad
altri il suo si renda; Sii religioso in consesrYar la fede, Stia
la frode lontana, ed abbi ognora Vacua la dostra* dalle stragi.
Solo È permesso ingannar, se siete saggi, Le donne
impunemente. Abbi rossore D’ogni altra frode pur, ma non di questa.
Le ingannatrici inganninsi, che sono La maggior parte di profana
stirpe; Cadan ne* lacci, cbt^ da lor far tesi, l^àrrasi che
restasse un di l’Egitto ^ DelFacqua a* campi salntevol privo Per
ben nov*anni ; allor che al Re Busiri Trasio si fece innante, e mostrò
come Possa Pira placar di Giove il sangue D^un ospite; la vittima
tù il primo Sarai di Giove, a lui disse Busiri, Ed ospite darai
Pacqua all’ Egitto. Falarìde cosi nell’ infocato Toro arder fè le
membra di Perillo, E T infelice autore il primo empiéo L’opera sua. Fu
1’uno e l’altro giusto^ Nè vi puote esser mai legge più equa
Di quella y che a morir l’autor condanna Del tormento inventato. La
tradita Donna si dolga che col proprio esempio Spergiurando
s’ingannan lé spergiuro Meritamente. Utili a te saranno Le lagrime;
con queste anco il diamante Ti ha dato ammollir. Fa, se lo puoi^
Che di pianto bagnate ella rimiri Le guancie tue; se il pianto a te
non scende, Che non si versa sempre a grado nostro^ Tu con la mano
inumidisci il cìglio. Chi mai alle dolci parolette i baci
Saggio non mischierà ? S’ ella ricusa Darli, tu li rapisci,In prima
forse Combatterà ; di scellerato il nome Avrai da lei; ma pur ella
desia Pugnando che la vinca. Sìa tua cura, Che da' rapiti
baci i tenerelli Labbri non sian offesi, o non si dolga Che furon
duri. Quei che i baci tolse. Se il resto non procura, è degno
invero Di perder ciò che a lui fu dato. Quanto Perillo fabbricò un
Toro di bronzo, e lo dor nò a Falaride crudelissimo Tiranno de'Grigeati
in Si cilia, perchè collocandolo pieno di rei sopra il fuo* co )
potesse intendere d^ lamenti simili a' muggiti de'booì. Falaride accettò
il dono y e volle che subito w entrasse Perillo per incominciar da lui il
proposto esperimento» Mancò a far paghi dopo i baci i voti!
Ciò non pador, rusticità s’appella. Benché si chiami forza, è
questa grata Alle donzelle ) che amano sovente Esser forzate a dar
quello che giova. 1 piaceri d’amor, se sian rapiti,
Gode la Donna, e la franchezza ha il premio. Ma quella che poteva
esser forzata. Ed intatta rimase, ancor che in volto Mostri
allegrezza, ha mesto in seno il core. Soffrir violenza Febe e la sorella,
Ma fu grato ad entrambe il rapitore. La donzella di Sciro ìnsiem
congiunta Con l’emonio Guerrier, favola è invero Nota, ma degna pur
d’esser narrata. Dopo la lite della valle Idea Per la lodata sua
bellezza il premio Già la Diva avea dato. A Priamo giunta Dall’
opposta regio Deaera la nuova, E già viveva nell’ iliache mura Come
un’argiva sposa. I Greci”tutti Castore e Pollice rapirono le due sorelle
Febe e ilavra, che Leucippo padre delle medesime aoea date in spose a Ida
e Linceo, Venere per premio del Pomo da lei ottenuto, promise a
Paride Èlena moglie di Menelao ^ e Pa^ rìde la rapì, e la condusse in
Troja sua Patria. Siacome i TVojani ricusarono di render Piena Greci ^
che la richiescr più volte, questi intrapresero contro quelli un
formidabU assedio. Tetide adendo inteso, che il suo figlio Achille
sarebbe morto se andava al* la guerra di Troja, per assicurargli la vita
lo mandò in abiti femminili a Licomede Re di Sciro. Ivi s’innamorò
perdutamente di Deidamia Princi* possa reale, ed ebbe dalla medesima in
figlio il ce* Icóre Pirro. Deir offeso marito avean giurato Di
vendicar V oltraggio, e fero allora D^'un sol uomo il dolor causa
comune. Se noi forzava^ le materne preci. Eterna infamia coprirebbe
Achille, Perchè con lunga veste ascose Tuomo., Che fai, nipote d^Eaco ?
Non sono Atte a filar le mani tue la lana. Con arte ben
diversa ora tu dei Volger la mente alla palladia gloria. A
che questi cestelli ? Il braccio tuo Deve portar lo scudo; e in quella destra.
Per cui un giorno cadrà Ettore, io veggo Or la conocchia ? Del filato
stame I fusi carchi getta, e Pasta impugna. Un letto sol la Vergine
reale E Achille accolse ; ed ivi ella conobbe Che di femmina avea
solo la gonna. Con la forza fa vìnta ; almen sì crede;
Soggiacere alla forza a lei fu dolce. Quando soverchio s’affrettava
Achille, Che altr’armi avea che la deposta rocca. Spesso gli disse:
per pietà t’ arresta. Qual valore or dov’è ? Perchè trattieni Con
lusinghiera supplichevol voce Li’autore,o Deidamia,di tua
sconfitta? Di pudico rossor copre la gota. Se dee la donna far la prima
offerta, lilla Tè grato il soffrirs*altri incomincia. Ah I nella
sua beltà troppo si fida Quel giovine, che aspetta che primiera
Ella lo preghi. Deve sempre 1* uomo Essere il primo ad accostarsi a
lei; Ju uom le sue preci esponga, e le sue r Riceverà
cortesemente. Fréga Che ti voglia accordare il suo possesso;
Ella ha piacer d’ esser di ciò pregata. Fa lor palese il tuo
desio, che Giove Supplichevol si fece ognora innanzi AlF antiche
Eroine, e non fanciulla Offrì preghiere, benché grande, a Giove. Ma
se t’ accorgi che alle tue preghiere Si fa vie più superba, allora
l'opra Abbandona, ed il piè rivolgi altrove. Molte amano chi fugge
^ ed odian quello Che troppo le frequenta; impara dunque A non
tediarle. Nè chi prega sempre Dee del delitto palesar la speme,
Ma sotto il manto d’ amistà velato insinui Amor. Con questo
mezzo vidi Deluse rimaner ritrose e fiere Donzelle, e divenir T
amico amante. Non dee il nocchier, che le marine spume Solca
soggetto alla solare sferza, Candido avere il volto, e pur
disdice Al cultore de* campi, chfe rivolge Col vomer curvo, e con
pesanti rastri Le dure zolle, e per te turpe fia Candide aver le
membra, che il tuo crine Cerchi adornare del palladio ulivo.
Sia pallido ogni amante ; è questo il suo Proprio color ; tinto di
questo il volto Sarai creduto infermo. Fra le selve Pallido errò
per Lirice Orione, Giops, Mercurio, e Nettuno furono henisd*
mo accolti in casa d* Iréo uomo assai povero* Avendo questi domandato medesimi
un figlio, che non dovesse ad alcuna donna la nascita, i tre Ospiti di- E
per ritrosa Najado fu Dafni Pallido L^almà discopra il volto Estenuato ;
nè a schifo; avrai di pórre Sulla nitida ^chioma un pìcòiol manto.
Le cure ^ il duolo ^ le vegliate notti. Che origin traggon dà nn
Violento amore, I Giovanetti estenuai! ; non tf incresca Comparire
infelice, se tu brami Di far paghi-ì tuoi voti,'onde ognun dica Che
ti rimirà: è (Questi unWeto amante. Mi dorrò fbrsè, 0 pur' ti farò
dk>ttò A usar rarti pt^rmessé e le vietate? Ah che amicizia è
fè^^on^nòmf vani i Lodar quella, che adori, al tuo ^compagno, E
perigliosa imprésa, ché se crede Alle tue Iodi, gli verrà vaghezza
D'entrar nél posto tuo. L'atto rea prole Non cercò profanai* d-Achillé 11 letto
vini hagnàti^no della ptopHa ofina la pelle del Toro da lui ucciso per
Viàrio loro in cidoy é assicurarono che da mtella nascerebbe un fanciullo:
JVé nacque infatti Orione ^ che fu un ottime Cacciatore. Non si sa
chi sia Lirico da lui: amata Vedansi le note faU te a questo libro dal
Ckier Néiruio.^ Dafni figlmel di Merèurio rtacque in Sicilia, ed k
VAutore de^virsi buìieeliei. Amando egli una' Ninfa, da cui era ^matà
egualmente, ottenne dal Cielo, che divenisse cieco chi di loro oiolasse
il primo la fede giùtata,Immemore Dafni del voto fatto, j* mnémo rò
d^ uha ritrosa Nomade, e divenne cieco. Quando i Romard soffrivano qualche
incorno^ do di sai ute, si coprivano il capo con un piccol maa- to
da loro iifè/to Piu li alani. Patroclo nipote d^Attore € figlio di
Mentàpo fu amicissimo Achille. Non cercò Fedr^ di sedar T
amico. Di Teseo Piritoo ;aè in altra guisai [ Pilade la consorto
af«(ò à' Oreste, Che come Fcho Palla ^ od il tuo O Tindaro,gemeUo amò ia
suora^ Ma non sperato rionofvatì spesson J Sìmili esempi, se non
spe^ri ancora ; Veder spuntar dal tramarisco i pomi, E in
mezzo al huine ritroTare,il mele. . Quello che è turpe :giova > e ognun
ricerca Il piacer proprio > che divien più grato. Se
altrui costa dolor . Do^e, 8 !:intese Scelleraggin piA grande ? Pel
nemico Non debhi .amante: paventar .soltanto, Ma fuggir dei,
se vuoi viver, sicuro,; . Quei che credi fedeli, e siimi amici. Il
Fratello, il Cognato,, ed il diletto ; Compagno temi ; questa tufba
tutta;, ; Vera ti recherà cagion d^ angoscia. Già
toccavo la meta ; ma diversi. Sono cosi delle Fanciulle^ \i i ’u Che varj mezzi ancora usar si
4enno, Piritoo e Teseo concepirono V uno per Poltro una stima
si f^rànde, ohe giurarono di non àhhan^\ donarsi giammai, o itifMi si
prestarono vicendevole mente soccorso in tutte U occtìrrettoo^ Pirotop ^
querie tunque frequentasse taaasa di Teseo, limita sèmpre la sua
beneoolenaa per Fedra a* sentimenti d* amìci"\ aia e di stima.Pilade
figliuolo di. Strofa ^ ehbé per Oreste un*amicizia con sincera^ ^le.nonjo
abbandonò nel- le più pericolose circostanze a rischio di perder
anche la vita. Castore e Polluce figli di Tindaro amaron la lor
sorella Elena con quell* amore, con cui debbono i fratelli amare le
sorelle. Per adescarle. Non la stessa terra Ogni cosa produce ; atta
alle viti £ questa ; quella vuol gli olivi ; e in altra Lussureggian
le biade. I nostri affetti Varian come nel mondo le figure.
Piegar si sa chi ha senno ad ogni umore; E come Proteo, si farà
nell’ onde ( 67 ) Sottile ; ed or sarà leone, ed ora Àlbero 9 ed or
cinghiale irsuto. I pesci Altri si piglieran col dardo, ed altri
Con r amo ^ e alcuni ancor saranno tratti Àir ampie reti con la corda
tesa. Nè giova ad ogni età lo stesso modo; La vecchia
cerva scorgerà da lungi Le insidie . Se s’accorge l’ignorante Che
tu sii dotto, e ardito una modesta, Si porranno in difesa, onde
avvien spesso Che quella che di darsi a un uom d’ onore Ebbe
temenza, fra gli amplessi vili Giaccia d’ un servo . Parte avanza
ancora. Parte ebbe fin dell’ opra intrapresa ; Fermo qui tenga
l’ancora il naviglio. Arte ^am. c Proteo figliuol di Nettuno era un Dio
mari-^ no, che si solwa cangiare in ^alsivoglia forma y e di qui ha
origine il proverbio: Proteo mutabilior. I3ite e ridite lodi al
delio Nome: La desiata preda è alfin caduta In queste reti.
A’versi miei ramante Lieto conceda rigogliosa palma; Al Vale
ascreo ed al meonio Omero (i) Son Dreferito. Tal di Priamo il figlio
(a) Con la rapita^ a Menelao consorte Trionfante spiegò le bianche
vele Dair armifera Amìcla, e tal pur era Il Vate ascreò è Esiodo ^ e
ph si è veduto al» V annotazione 5 del Lib, /. perchè gli venga dato
uts tal nome. Critei de, ad onta della custodia che ne aveva Vargivo
Creonte^ senza divenir moglie d*alcuno^ divenne madre d^un figlio, che
chiamò Meletigene dal jwmt Me]e«^ in vicinanza del quale parton. Si
sa, che essendo Melesigene accieeato, fu soprannominato Omero, perchè i Cumani
chiamavan con tal nome tutti i ciechi ; ma non si sa se questo
inimita» ìfil Poeta dicasi meonio perchè Meone fosse suo pa» dre, o
perchè da Meone Re de^Lidj fu poscia adot» tato in suo
figlio. Paride figlio di Priamo rapì Elena moglie di Menelao nella
Città d*Amicla, donde la condusse trionfante in T^oja sua patria Pelope
allox che te vinta traeva Sul
carro peregrino, o Ippodamia: Perchè, o giovin t’afFretti ? in
mezzo alPonde Naviga il tuo naviglio, e lungi è,il poxto Più dt
quello ché bramo* A te non’basta Che tratta t’abbia la fanciulla
innanzi Io tuo poeta: presa fu con l’arte; Con l’arte ancora
conservar si debbe. Non vi bisogna già niìnor virtude Perchè
non fu^gan^ritroVatè: è quella Opra del caso, e questa sol
delParte. Siimi propizio, o Amore, e Citerea; E tu, Er^tp pur
V qhe* il ncfme pqrti ': D’Àmor,
m’assisti» pra a cantar m’accipgo Enomao Re Elìde e^ di Pisa senti
coloy, ohe sarebbe eglt-uodid nel ygiorno^ da avesse presoi in isposa la
sua figlia Ippodan^a^ Per allontanare dalla medesima à molti giovani,
che ambivano d'acquistarsi una 5 I belici fttnóiulia in con^ sorte,
gV invitò tutti un giorno a far ^secè il gioco d'una corsa, col patto
che. sarebbe^ irpmancabilmente trucidato chi fosse rimasto vinto da lui,
e che do-^ vesse > chi aveva la fortuna di vincerlo^ sposare
Ip-> podamia. Pelope fu vincitore con Vajnto di bfirtilo, a cui
promise, che. nella prima notte de^ suoi sponsali gli avrebbe in ricompensa
accordato }L dolce possesso 4dla sposa novella. Immernorè egli però della
data parola, e del segnalato servigio a lui reso ^ con^ dusse sul carro
vincitore in trionfo la bellissima Ip- podamia, e quando Mirtilo gli
richiese Vadempirnento delle sue lusinghiere promesse, lo gettò
barbaramente in .mare. Da EpMT«, che in greco idioma significa
Amo-, re, ha preso il suo nome la Musa Erato. Fu essa, madre di
Tamita ^ che cantò il primo di tutti i versi^ amorosi, ed a lei si
attribuisce da alcuni greci ùom-^ mentatòri V invenzion della Éiusica c
del BaUf^ Cose stupende: con qual arte Amore Tener si possa io vi
dirò, bench’ abbia In Vasto mondo ei di vagar diletto. Egli è
leggiero, © doppio p^rta al tergo * OrdÌB‘'*di'jpènbo, Onde' riniporgli
legge È difiScfr impresa. Àvea'aMa fuga DelP ospito Mibos ckiusa
Ogni via, (5) Ma ntì'àmdace sentier trovò con Tali. Poiché
Dedalo chiuse il Minotauro, Giustissimo Minos, disse, abbia £ne
Ora'il’mio esilio, ed il paterno suolo 11 ceder mio riceva. Io non
potei. Perseguitato ogUór da iniqui fati, Vivore in patria,
almen morir vi possa. Se a me ricusi un tal favor, che sono
Carico d*anni ^ lo concedi al figlio, E se al figlio .noL vuoi ^ lo
dona al padre. Queste e molt^ altre ancor cose dicea, • Ma a
lui Minos hón permettea il ritorno. Di sua eVentura cèrto», a se medesmo
Allor Dedalo disse, hai tu materia Onde mostrar Pingegno; e terra e
mare È in poter di Minos: e mare e terra Or ci vieta la foga ; a me
rimane Il cammino del ciel ; questo si tenti l^tdato, come già si è
accennato, fabbricò irs Creta il celebre Labirinto, in cui fu racchiuso
il Sfinoiaiiro. A^endògli' Minos vietato d* uscir da quel^ '
io' f non trovò altro mezzo per ritornare alla patria y se non se di
fabbricar dell* ali congiungendo insieme varie penne d* aòcelii, ed
accingersi in tal guisa a ' 'Volar per il cielo in compagnia d'Icaro suo
figlio. Questi per altro innalzò troppo il suo volo, e preci^ pkò
miseramente in quel mare, che prese da lui ii nome Icario. Sommo
Giove, perdona ^ questa impresa: DelP Empireo stellato non aspiro
Già le sedi a toccar ; sol questa strada Onde fuggir dal mio Signor mi
resta* Se Io stìgio sentiero a me si mostri, 10 r onde
stigie varcherò • Debh’ ora I dritti rinnovar di mia natura.
I mali aguzzan 1* intelletto. E quando Si avrebbe dato fà che un
uom potesse Premer le vie del cielo.? In ordìn vario Dispon le
penne, che per V aria sono 11 remo degli augelli ; e unisce
insieme Con del ritorto Un 1’ opera lieve. Con cera al foco
sciolta insieme accoppia Le parti estreme ; e già della nuov’ arte
Era venuta la fatica a fine; Ma intanto che trattava e penne e
cera. Rideva il figlio, ignaro che quell* armi Sarian la sua difesa
al tergo unite. Con tal naviglio, a lai diceva il Padre,
Si può alla Patria far ritorno ; in questa Guisa fuggir Minos, che
ogni altra chiude Fuor che T aerea via « Tq che lo pupi, Con questa
ch’io inventai arte novella^ Fendi gli aerei spazj ; ma la vista
Della Vergin tegea, e del compagno
Calisto i Licaone Ra d* Arcadia ^ è soprannominata Tegea, da
una Città di tal nome soggetta alV impero del padre della medesima.
DaU V illecito commercio, che ebbe essa con Giope, diede alla luce
un figlio chiamato Arcade, e fu da Giunone per ciò tra^ormata in Orsa ad
oggetto di ven* dicarst deW infedele suo sposo ^ il quale la collocò
in oielo fra le stelle col nome, che ancor oggi conserta, d’Orsa
Maggiore. Di Boote Orion cinto di spada Tu dei fuggir • Con V apprestate
penne Mi segui ; io ti precedo, e sia tua cara Batter^ V isteasa
via ; da rae guidato Incolume sarai, li’aeree strade Se calcherem
troppo vicini al Sole, Al suo caler si scioglierà la oera;
Se al mar propinqui batterem le pennei Da’ vapori del mar saran
bagnate. Spiega il tuo voi fra ^1 Sole e il mare; i venti Pur
anco temi, o figlio ; e all’ aure in preda Dà le tue vele allor che sian
propizie. Mentre in tal modo V istruisce ^ ài figlio Il lavoro
dispone, e mostra come Muover lo debba: in guisa tal la madre La
pennuta ammaestra inferma prole. L’àJe poi di sua man per se
costrutte Accomoda al suo tergo, e nel novello Cammin timido libra,
in aria il - corpo.. Allor che al volo si accingeva, al figlfo Diò
molti baci, e le paterne gnauce Furon di calde lagrime bagnate.
Sorgea sul piano un colle assai minore Del monte, e quivi V uno e
l’altro corpo Si diede in preda a perigliosa fuga. Mentre le penne
sne Dedalo move. Quelle osserva del figlio, e ognor sostiene In aria
il corso Icaro si diletta Del
novello sentiero, e ornai deposto Orione figlio Ireo ( annot.) Untò
di dare un disonesto assalto alla casta Diana ; ma essa lo fece uccìdere
da uno scorpione, e poi mossa a pietà lo trasmutò presso a Boote in una
costellazione fatta a guisa di spada Ogni timor con arte audace
vola Più ibrtemente. Un che insidiava a’ pesci Con la tremula
canna, alzato il guardo, Li vide in ariane abbandonò P
impresa. Già da sinistra avean passato Samo, E Nasso e Paro e
Delio al clario Dio Sommamente gradita ^ ed alla destra Si lasciar
dietro Labioto, e Calìnna Per selve ombrosa, e Stampaglia di guadi
Feraci in pesci cinta, allor che il figlio Temerario con troppo incauto
ardire Spiegò senza ìL suo duce in alto il volo* S’allentano
i legami ; al Sol vicina Liquefassi la cera, e i .tenui venti Male
sostengon le commosse braccia. Dal sommo cielo spaventato il
guardo Rivolse al mare, e dal timor già sorta Si offro al suo
sguardo tenebrosa notte. Si liquefò la cera, e i nudi braco!
Dibatte ; trema ; e ìnvan ricerca il modo Di sostenersi *« Cadde, e
o padre, o padre Gridò cadendo, via son tratto, e T onda Cerulea
chiuse al suo parlare il varco. Ma Pinfeiice Padre.(ah non più
padre!) Icaro, grida, Icaro, dove sei? Sotto qual asse voli ?
Icaro grida, £ nuotanti sul mar mira le penne Copre P
ossa la terra, è prende il mare Il nome suo • Minos già non poteo
D’ un uoni frenarle penne,ed io m’accingo Un Nume alato a trattener? S*
inganna Cfii fa ricorso all’ arti emonie, e appresta Dalla tenera
fronte del cavallo Lo svelto a forzalppomane. Non Verbe ( 7 )
Pon di Medéa far viv*?re l’amore; Non 1 Tharsfejj^ncàntesmi . Se
potesse Una tal'arte ptolàligàrto, avria ' Medea Giasbn',
Cfrcfe teénto Ulisse . ( 8 ^ Nè i pallidi apprestati*
éill%*dónzelle F'iTtri* Valséro { aU’alrne Son nòcivi, Ed inspirai) farot
.'Ogni delitto Vada put lungi ; se attti essere amato, Amabile ti-
ttióstraf I a: ciò^ nTort giova * Solo’ le^ menibtk àlve'r’by^^ e
là-faècia. ^ Sii pur Nireó tfaro^ ^11’ aiitibd^ Omero ; ' ^. t L ; >(Q^^àevano gli an tichi,
e fra questi ancora Pii- nio ea Aristotile, che si potesse
còncìliar l*amore per mezzo éAl^lppòinsLne, cioè di qtàel pézzetté
rotondo di carrie .nera ^ che han\ sulla, fronte iì cavalli nati di
fres^qp, Jfa Mars^ figlio^^efia/venefica Circe^^ t^aj- ser l a lo ro orig
ine i M ar si. Abitarono questi popoli m lidlia non fontani,àa Uòma ^e Jfùrorio~reputati,
èc- celleràPneWarte dellc^ ' niagìq:,iÌÌe«/èa \e Circe fdronp dii^
ihsiAni Ma^he ^ je insieme due a^passioriaté 'mài. cohisposte
dmànii\ poicHè 'fiorì pótérono có'loro magici incanti trattenere
Ùiasoné\d Utisse i che amavano tèneramente,
t Filtri preparati dalle Maghe, eran composti di fichi salvatici ^
éP uòva e di penne di civetta, di * sangue e di. pòlfnone di ranocchie, e
d*os5Ì di cani e 'di serpenti'Sventrati. Lèggasi ài Libro quinto V
Ode 'd*Orazio cprìlró Canidia. Nireo], nafo dd Aglajd e dal Re
Cecrope, andò alt*assedio di Trojq ; e vien da Omero nel Li-* hro
secondo dell*Iliade lodato per la sua sorprenden^ te bellezza. Ercole amò
sommamente Ila figliuol di ‘Teodamahte, c lo condusse con se, quando
navigò alla volta di Coléo. MetltP era iri viaggio lo mandò un
giórno ad attinger Vacq.ua dal fiume Ascanio nel’» la Misià ma essendo
ivi disgraziatarkente caduto^ han finto i poeti, che fosse rapito dalle
Nufadi Dea de*fiumu O il tenerello un giorno Ila rapito Dalle callide
Najadì: se brami Conservarti Y amor della toA donna, E non
vederti abbandonato, aggiogni Deir alma i preg) alla beltà del
corpo. È la beltade un ben caduco e frale, Che con gli
anni decresce, e a un fisso tempo Fugge mai seiupre • Le violette^ e i
gigij Non fioriscono ognor;Ia spina, ^ cui Colta la rosa sìa,
rigida viena*,^ ^ ' Vago garzon, i tuoi capelli un giorno Verranno
bianchi, e il corpo tuo le rughe Ti solcheranno . Formati ed
aggiungi Alla beltade un animo che ^uri: Sol ei riman fino
agli estremi roghi* Ni sia rultima ina cura con Farti Ingenuo
Padornarlo ^ e di due lingua Renderlo dotto . Non fu bello Dlisso,
Colisse t figlia, come credono alcuni, delVO* etano e dì TeHde, accolse
cortesemente il naufrago Ulisse nell* ìsola Ogigia, ov* essa regnala.
Dimorò questi per sette anni con la Ninfa suddetta, da cui ebbe
varj figli, e poi fu costretto a dividersi da lei per comando de*Numi,
quantunque non lasciasse elìa alcun mezzo intentato per ritenerlo sempre
appresso di se. Reso Re dei Traci detto odrisio perchè cornane dava
alla Traqia nazione degli Odrini, e sitonio^ perchè anticamente la Tracia
^si chiamava Sithon, fu ucciso da Ulisse e da Diomede, mentre
andava con un esercito in soccorso di Troja. D* ordine de*suoi
Troiani si portò Dolone ad osservar gli andamenti dell*armata de* Greci ;
ma incontratosi con Diomede td Ulisse, che pure osservavano la condotta
del cam^ po Trojano, svelò a*meiesimi, dopo d*aver preso Vim^
punita y tutte le più segrete determinazioni de* suoi concittadini.
Volendo egli poi per premio i cavalli emonj d*Achille, fu ba^aramente
trucidato da Ulio^ se e Diomede uccisori di Reso Ma facondo ; c per lui
ferito H petto Portar* r equoree Dive. Oh quante volte Di sua
partenza si lagnò Calisso^ E dicea che non atte erano a* remi
L’onde del mar! Oh quante volte udire Bramò di Troja i casi, ed ei
sovente Narrò lo stesso con diversi modi I Stavan sul lido insiem,
quando la bella Calisso ehiese la dolente istoria Del Duce odrisio;
ed ei con tenue verga ( Mentre a caso la verga in man teqea ) Finge
Popra richiesta in sull’arena. Questa» le^disse, è Troja (e fe’sul
lido I muri) . È questo il Simoe,e queste fingi Che« sieno le mie
tende . Il campo osserva (E intanto lo disegna) che col sangue Sì
sparse di Dolon, quando gli emonj Cavalli scaltro d’ involar
procura. Fur del sìtenio Reso ivi le tende; In questa
uotte da i deitrier rapiti ^ Fui strascinato . Dipingea più cose,
Ma improvvisa del mar onda furiosa Via trasse Troja, e col suo Duce
ancora . Le trinciere di Reso. Allor la Diva, Vedi quai nomi
s’inghiottiron Ponde^ £ vuoi che al tuo cammiò sieno
propizie? Ardirai dunque di fissar tua speme In fallace fij^ura? e
più del corpo Altro tu non avrai solido e degno? L’accorta
compiacenza a noi concilia Gl’ animi, ma l’asprezza e le severe
Parole contro noi muovon lo sdegno. Si ha in edio lo sparvier, perchè tra V
armi Traggo sua jriU, e i lupi che assalire Hanno in costume il
timoroso gregge. Mite è la rondinella, e innocua vive
Dall’insidie dell’uomo ; e l’alte torri Abita là colomba a lei
gradite. Vadali lungi le liti e i detti amari; Con soavi
parole amor si nutre. Stia la discordia tra marito e moglie;
Si faggan questi, e credano a vicenda Di difender lor dritti • Ciò
conviene Alle tnògli/che ognor funesta dote Recan di lìti . Il
dolce suono ascolti Degli • accenti bramati ognor V amica; Legge
non havvi per gli amanti ; in loro^ Ìj amore è legge • Parolette grate
Reca, e dolce lusinga à lei 1’ orecchio. Onde alla vista tua lieta si
faccia. Non io d^ Amor maestro a’ ricohì parlo. Che chi pnote donar
> dell’ arte mia Non abbisogna • Chi quando a lui piace, Prendi
j può dir, non manca mai d’ingegno. Cedere a Ini dobbiam, che più
gradito Sarà dell’opra nostra. Il vate io sono J>e’ poveri, dhe
ognor povero amai. Dar doni non poteva, e diei parole.
Cauto ognor sìa povero amante, e tenga La lìngua a freno, e soffra
quel che un ricco Non soifrirebbe . l^el ponsier mìo torna, Che
irato aia di delia mia Bella feci Al crine oltraggio . Un tale sdegno ah
quanti Giorni mi fe’ passar pallidi e tristi I Noi credo, e noi
compresi, che la vesta Io le stracciassi allor, ma lo diss’ ella,
£ comprarne altra a me fu d’ uopo. O voij Che avete ingegno, del
Maestro vostro Fuggite il fallo, e né temete i danni. J8ia la
guerra co’ Parti, e ognor la pace Con l’Amica diletta'. Usa gli
scherzi, E tutto quel che favorisce Amore. Se a te che
l’ami, docil non si mostra Qual vorresti e cortese, il suo rigore
So^ri costante, e diverrà benigna. La forza usando, il curvo ramo
frangi, Che con dolcezza addirizzar potevi. Varcasi 1’ acqua cón
pazienza, e malo Vìnconsi i fiumi, se pigliar tu tenti Contrarie
Tonde rapitrici k nuoto. I numidi leon, le fiere tigri Pan le
lusinghe mansuete e miti; Ed al rustico aratro la cervice /
A poco a poco sottopone iJ toro. Dell'arcade Atalanta e chi più
fiera. Mostrossi mài? Eppur quella crudele Soggiacque anch’essa al mèrito
d* un uomo, Narra la fama, Melamon piangesse, Sotto un arbor
giacente all’ombra, spesso Suoi tristi casi e la crudel Fanciulla.
Spesso* portò le ingannatrici reti Sul vinto collo, e con spietato
ferro L’arcade Atalanta, figlia di Jasio o d’Aban^ te, fu
un.’eccellente cacciatrice,e si fe* compagna di Diana per consertare
illibato il candore della sun verginità, Finta essa p<ù dalla fedele e
lunga servitù prestatale da Meleagro o da Melanione, si abbando^ nò
finalmente in braccio ni medesimo, ed ebbe in fi^ glio il celebre
Partenopeo, Sono tra loro cod diverse le memorie .a- noi lasciate
dagli antichi scrittori riguardo a Melanione 0 aid Atalanta, che è
impossibile il dar de’ medesimi «Hit distìnta notizia Uccise spesso i
barbari cinghiali. L’arco teso d’Ileo soffri piagato, Ma
conoscea più ancor 1’ arco d’ Amore. Non vo’che armato le menalie
selve Tu salga, e che le reti al collo porti; Hò già
t’impongo il petto alle vibrate Saette espor • Dolci più assai
saranno, Se udir mi vuoi, dell’ arte mia le leggi. A
lei che è ripugnante, ognora cedi; E vincitore partirai
cedendo. Eseguisci fedel ciò eh’ ella impone: Biasma Quello
che biasima, ed approva Quel che le piace, e il suo parlar seconda.
Di rider ti ricordo al riso suo. Di piangere al suo pianto, e i
moti ancora A suo piacer del vento tuo componi. Se giocale
nella man P eburneo dado Agita, tu ancor l’agita, e lo getta (14)
Oltre il gioco de* dadi era presso i Romani in uso quello dclVAlìosso
detto da loro Talut, che con^ sistema in piccoli quadrati d*osso j ne*
quattro lati de* quali erano notati separatamente i numeri uno,
tre, quattro, sette. Doleva pagar senza lucr^o una mone^ ta chi
avesse gettato l* uno, che chiamatasi Ganis o Òanicula. Guadagnata sei
monete e ciò che ateta perduto nel gettare il Cane chi scoprita la parte
op* posta all* uno ^ cioè il sette che ateta il nome di * Yenns o
Gons,* ne guadagnata tre chi gettata il Seniofper cui intendetasi il tre,
e quattro chi ates^ se rappresentato U Ghio, che esprimeva il
numero quattro. Si rileva da**latini Scrittori che fu VAliosso
giocato anche ditersamente ; ma basta per la chiara intelligenza di
questi versi U sapere che erano i Cani dannosi ^ mentre esprimevano l*
ano ^per cui si dote^ va senza lucro pagare una moneta. Il Gioco, ohe
rasfvmbra a guerra, è, come facilmente ri QQtnprew* dp ^ qugllo degli
Scacchi, In modo cV«lIa vinca. L’Àliosso Se trae, farai in maniera
cbe la pena Non soffra d’ ^sser vinta, e tuoi saranno Sempre i
dannosi cani ; e s’ ella' pone Opera a gioco « che rassembri a
guerra, Fa cbo perisca dal nemico vinto Il tno soldato. Sulle
verghe steso Tieni r ombrello, e, nella densa folla Per dove idee
passare, il varco l’apri; Vicino al letto non t’incresca porre Lo
scanno, e fai piede dilioato togli E riponi la scarpa .iDei sovente. Benché
ti prenda orror, della Padrona L’algente,mano riscaldare al seno.
Non creder turpe, henchè a te rassembri. Con destra ingenna
sostener lo specchio, Se a lei ciò piacerà. Chi ’l fiero sdegna
Otaneb.della matrigna in domar mostri. Che ora è nel Ciel, ohe
primo egli sostenne. Si crede, tra Ife joniche Fanciulle Che
tenesse il cestello, e che filasse Rnstiche lane . Si l’Eroe
tirinzio Servi all’impero d'una Bella ; or dnnqne Dubiti di
soffrir ciò eh’ei sofferse? Se ti comanda esser presente al Foro
-Previeni 1’ ora del comando, e sempre ^eoU ' mnst valorosamente (
Annoi.) tutu s mostriyche contro di lui suscitò la tua rnatngna Giunone,
e sostenne sulle sue spai- ad Atlante affa- incarico.
Innamoratosi egli poi dH)n- '‘iff reale della Lidia, vestì abiti
femi- mh, e m qualità d’ancella iella medesima filò vilmente l»inne
con quella man valorosa, con cui per le rmrabilt sue gesta s’ era colmato
di gloria. Ne partirai più tardi • Se ^t* impoiàfe Di gire in altro
loco’, ogni altra cura Lascia da parte, corri ^ uè la turba ''
LMutrapreso cammìti trattenga, e còma ‘ Servo, sé vuol, tu Taccompagna a
Casa- Tolte le mense, e^già sorta^ la liOtte; > Se fosse in
villa,*e tf dicesse: vr<eni> Col piè premi la via, se manca il
eocebiò, Che Amor odia gl’inerti . Il btiitasoosò Tempo nè la
Canicola assetàtai ^ ' n / Nè per scaduta nòve il sentìev biénco -
p’ ostacolò ti aien ^ Simile a gòfei/ra * ^ E r amore, da cui vadano
lungi ' I codardi . Nò, sotéo tali itìsegné* II timid’ uòmo
guerreggiar tiòu' debbe* La notte, il verno, disastrose strade, '
’ Dolor cocenti, e ogni altr’aspra fatica Racchiudono que’mòlli
ttccampaihetttli* Di pioggik dalle untole tìiscioitu'^ Ben
spesso intrisa avrai la -veste,-è‘Spesso Gelato giacerai sul nudo
suolo." Dicesi che dì Cinto il'Nume' nu giorno (i 6)
Pascesse le ierée vacche d’ Admeto, £ s’ascondesse in umil
capanna.' A chi non converrà ciò che coriTenné ‘ Apollo, che
dicesi i/-Nuine- 4 ì'Cinto fper^hè ( Ànrvot. 1^9. del Lib, /. ) nacqueove
giace 4 in tal monte y sentì il pin, intenso, dolere ^ quanda Giove
fulminò Esculapio di, lui figlio, perchè faceva rivivere i morti con V
ajuto della -Medicina. Per veti^ dicenrA pertanto in qualche maniera d*
una tale ingiur- ria, egli uccise i. Ciclopi y che fabbricavano le
saette a quel Nume supremo, il quale lo spogliò per ques to della
divinità, e lo costrinse a pascolar le vacithe 4 * Admeto Re de* Ferei in
te staglia^ A Febo ? O ta, che in lungo amor ^impegni, Il
fasto lascia • Se un cammiii seeuro £ facil ti si nega, e se alla
porta Ritrovi impedimento, allor t’insinua Dal precipizio d’ùn
aperto tetto, O da ascoso sentier d’ alta finestra.
Lieta ne fia, quando del tuo periglio Intenda la cagion ; di certo
amore Sarà per la tua Bella un grato pegno. Spesso potevi dalla tua
Diletta Star lontanerò Leandro, ma varcavi ( L’ onda del roar, perchè le
fosse noto L’ amante core • Guadagnar l’ancelle Non abbi a vile, e
in special modo quella. Che sarà favorita, e ancora i servi.
Non temer d’ avvilirti: ognun saluta Col proprio nome, e alle lor
destre umili, Ambizioso, d'unir cerca la tua; Ma al servo che
ti prega ( è lieve spesa) Porgi piccoli doni, ed in quel giorno
Pure air ancella, in cui restò ingannata Leandro amò Con tal forza Ero
Sacerdotessa di venere, che spesse volte varcò VEllesponto per
visi^ tarla. Essa accendeva Una fiaccola sopra una torre, affinchè
potesse il suo Amante camminar piu sicura^ mente, e quando intese, che
era il medesimo misera^ mente annegato, si diede in preda aW ultima
dispe-* razione, e slanciossi intrepida nel mare, Ai q di
Luglio celebravasi in Roma splendi--^ damente una festa, a cui
concorrevano le Servé‘ ve^ stile a Matrone romane, in memoria delV util
servii gio che avevano esse in tal giorno prestato alla Pu^ tria.
Ecco ciò che ne dice il Macrohio, Post Urbe in captam, cum aedatus esset
gallicus motus, res vero publica esset ad tenue reducta, Finìtimi
opportuni- Da veste maritai gallica truppa, E che pagò d’ un
folle ardire il fio. Ti fida a me ; fa tua la plebe, e sempre
Sia fra (juesta V ascierò, e quel che giace Sulla porta del Talamo . Io
non voglio Che ricchi doni appresti alla Padrona; Piccioli sian, ma
convenienti e accorti. Mentre è ferace il campo, e mentre i rami
Piegan pel peso di mature frutta. Porti fanciullo in un cestel gli
agresti Doni, e dir ben potrai che da una villa Suburbana ti
vengano, quantunque tatem invadendi romani nominis aucupati
praeferant sibi Postlmmium Livium, Fideoatiam Dictatorem, qui,
mandatis ad Senatum misis, postalayit, nt si yelleut reliquias suae
ciyitatis manere, matres fa* Hiilias sibi et yirgines dederentur . Cumque
Patres esseat in ancipiti deliberatione suspensi, ancilla nomine Phìlotib
teu/ Tutela, poilicita est se cum cae- teris ancillis sub nomine
Dominarum ad hostes ita- ram: habituqae matrnm familiat et yirginum
sumpto, hostibas cum prosequeatium lacrjmis ad iidem dolorii iogestae
sunt. Quae cum a Livio in castris di- stributae faissent, viros plurimo
vino proyocarunt, diem fbstum apud se esse simulantes. Quibus sopo-
ratis, ex arbore caprifico, quae castris erat proxima, signum Romania
dederunt, qni oum repentina incursione snperassent ; memor beneficii Senatus,
omnet ancillas manu jùssit emitti, dotemque eis ex publico fecit,
et ornatum quo tunc erant usae, gestare cou- cesfit, diemque ìpsum Nonas
Gaprotinas nuncupa- yit ab illa Caprifico, ex qua signum yictoriae
coe- perunt, sacrificiumque statuit annua solemnitate ce<-
lebrandum, cui lac, quod ex Caprifico manat, propter memoriam facti
praecedentis adhibetur. Questa è la fedele esposizione del fatto, d cui
non pare che si uniformi il Poeta Tu gli abbi compri nella laera via. (
19 ) Rechi pur Tu ve » e le aastagne care Un giorno ad Amafilli, e
che ora a vile Parehè dono legger avrebbe anch* esso, Co’t^rdi pure
e con ghirlanda mostra Che memor vivi della tna padrona. Si compra
turpemente con tai mezzi D’orbo vecchio l’affetto, e la speranza Di
godere i suoi beni. Ahìperan qnelli Che Così vii disegno a donar
move. E che ! t’insegnerò teneri versi Io diluviar Fa me lo
credi, i carmi Non ton molto graditi ; e benché Iodi Ottengano
talor, maggior lusinga Han gli splendidi doni: Un ricco piace Ancor
che nato in barbara contrada. Questa è per vero dir l’età dell’oro^
Giacché con Voto compransi gli onori, Criacchè con V oro piegatisi le
Belle. Se tu medesmo con le Mute, Omero, Venga privo di doni,
ab ! tu seaeciato Sarai di casa. Di fanciulle dotte ^ Havvi
turba rarissima, ed un’altra. Che sé reputa tal benché
ignorante, L’une e l’altre s’encomino co’versi^ Che
ottengan dal lettor lodo pel suono Facile e lusinghiero \ a queste e a
quelle Tenue e da aVersi a vii sembrerà dono In loro onore vigilato
carme. ^ Usa in maniera ché V amica ognora VendéQasim Ronia
ogni torta di frutti e d*al^ tri generi nella Via sacra, che acquistotti
un tal nóme, perchè furono ivi conclusi con gran^ sagrifizf i patti fra
Romolo e Tazior A far ti preghi quel che util ti sembra, E che
far già volevi. Se promessa Abbi ad alcun de’ Cuoi' la li ber Cade,
Fa pur elisegli la chiegga alla padrona. Se ta rimetti al
servo il suo delitto,^ Se le catene sue dure disciogU, ;
Te ne sia debitrice. ^ A lei la •gloria> A tediatile
venga. Sul:tuo eore Mostra ohe elFabbia un prepotènte impèro^ Ma
illesi serba ognora i dritti tuoi. Tu che nutrì desio della tua
cara ' ^ ^ Consfetvarti V amor, fà oh’ ella pensi Che tu
getonito sei di sua Heltade.* Se le sue menàbra in vtiria veste
avvolga, Le sii largo (U lodi, e se le doe ' . Cinge, dirai che
accrescono i suoi Veazi. Se poi s* adorna con aurata veste, *
Dille che più splendente èli’è dell’ oro. Se prende la
pelUcela, e tu T approva; * Se la tomita lieve, allora, esclama '
Che, desta incendj, e con ièmmes^a voce Pregala che schivar proeuii
il. freddo. Sia il orine in duo diviso, oppur da oaldo Ferro
ritorta, tu dirai: mi piace. Di lèi, se.danai, ammirerai
le,braccia, Di lei, ^ canta, 1* armoniosa voce,. ' E a lei
dimostra con dolèntii note^ Perchè fpresto diè fine, il tuo
scontento. Loda gli abbmcciamenti,:e in suon piètoso E querulo ie
mostra con KJUéiI foraa ..Presso i Homani eruno cortamente i servi in una
condizione sì miserache (^iputavansi fortuna^- a, quando i padroni per un
effetto di^somma cUmon^n accordavano loro la liberty, ^
-, D’insolita jilaowrfe: il. cor t’inonda. Gon questi-
un4incoc che-|}iù. violenta Foss’ ella di Medusa ^ e indite: e giusta
(ai) Dìvetrài.co», l’ ansante,* Sia .tua cura - Di non sembrane
-iagantiatore ; e il volto Kon distrugga i tnoi> detti. Ascosa
Térte Giova j e svelata la vergogna apporta, E Ii^ tfe. 00»
ragiOp j toglie per. sempre. Spesso Sotba l’ÌAu)tjnA0tì,( iiti quella
bella Parte dall’sanitOf,-^ cui vosaeggia Priva Del purpureo, lioór
; rieolnta » quando Il freddo,«cura la?f»reiuej ed era il «aldo La
soioglie,). Pìncostante. aere d cagione Di languore, alle-metubra,*
Elhi^pur viva Sana, masO'.inat giaceja-in, letto in ferma.
Soffrendo. ..drd tmaligqogciol V Infinstoi La tua pìetade:;ecP
AQt^ctW> palese Sia alloca .alla fanqiullaj^ fi getta il aenae
Di ciO .cbe mieter, debbi, a larga falce.' Nè del liingaauo mal poja',ti,
prenda^, E faccia» le tue man cid che permette. Te rimiri
piangente, ed i .tuoi baci: Non
r.inore«qa;S<^l-Ìr,;'flon arse labbia, Beva il tàO ;piantp,. 4 Ì»
.ciel voti farai. Ma ognor,.palesi,,e di narmr: ti .piaccia
Be» spesso,fausti' sogni..:Àn| sua'magione Guida la-ivacohiarella, che
con ?ìolfo iaa) (ai) ]ffedasa figlia di Forci^'ed ufl'a delle tre
Gorgoni, incontrò-lo tdogn» di Minerva, perché à prestò all’ impudiche
iooglie, di Nettuno • nel Tempio della medesima* Questa Dea le trasformò^
pertanto i capelli in serpenti, e fece si che fosse convertito in
-sasso chiunque ardiva di riguardarla. (ìa) ponducivàn gli
antichi le vecchiarelle nello àuse d^gV frifermi, affinché con le lor
preghiere di Purifichi la stanza e insieme il letto, E con tremola
man T ova le rechi. Di tua premura avrà cosi 1* amica Kon
dubbj segni, e con tai mezzi molti Far dalle Belle istituiti eredi.
Ma deir inferma per soverchia cura Deh non volerti procacciar
lo/sdegno; Àbbian tuoi dolci uffioj il lor confinej Non le vietare
il cibo ; il tuo rivale, • E non la destra tua* pòrga la
tazaa Colma de* succhi amari. Or che n^ll* alto ^ Del mar solca la
nave, usar non dei Lo stesso vento, con cui già dal lido Le vele
hai sciolto. Mentre Amor va errando Novello ancor, con Taso forza
acquisti; Stabil verrà, se lo saprai ' nutrire. Ebbe vitel le
tue carezze il toro, Che or è de'tuoi timori oggetto, e Talbore,
Sotto cui posi, un di fu tenue ^etga. Nasce povero d'acque il fittnré, e
forza Acquista nel suo corso, e dà Ogni parte Gli vien tributo di
novello umore. S’accostumi con te, che nulla puote Più di tal
cosuetudiue giovarti. Mentre l’adeschi, a te grave* non sia
Di soffrire ogni tedio • Abbia te sempre Dinanzi al guardò ; ognor tuoi
détti ascólti; La notte e il di le pinga il volto tuo* Ma
quando poi sicura avrai fiducia Di poter esser ricercato, allora
Scacciassero Sa quelle, gli spettri. Epicuro deve soffrire i
rimproveri degli Stoici, e VOratore Eschino quei di Demostene, perchè
avevano le lor madri Ulk simile impiego che riputavasi vile Vanne
pur lungi, che la cura sua Sarai benché lontan . Prendi riposo;
Ciò che s’afBda al campo riposato Bende ei ben generoso e l’arsa
terra Bey e l’acqua del ciel. Finché pxesente Fa a Filli Demofonte, il di
lei seno Senti mediocre amor, ma in vasto incendio Arse allor che
le vele ci diede^’ venti. Mentre vivea lontan l’astuto UÌìsse
Penelope soffriva cura mordaeCr Tu ti dolesti pur, Laodamla, Lontan
Protesilao. Brieve tardanza £ mai sempre sicara. Allevia il tempo
11 dolor dell’assenza ^ e dal pensiero e dà loco a nuovo amor 1’
assente* Mentre tu, Menelao, stavi lontano Fillidt, figlia di lÀcurgo He
di 'Tracia, rice* Vè cortesemente nella Reggia e nel letto il
naufrago Demofoonte figlw di Teseo. Quandi egli partì per % Città
d* Atene ., colera chiamato dalla cupidigia di regnare, le diede parola
di ritornarsene a lei dentro un mese . Aspettò Fillide lungo tempo il suo
caro sposo, e poi afflitta e disperata per la tardanza di lui, si
tolse da se stessa crudelmente la vita. È noto il verace affetto
che aoea Penelope pet Ulisse suo spesole però si può facilmente
comprendere quanto fosse vivo il suo dolore per la lunga dimora che fece fi
medesimo alV assedio di Troja. ^uS^ Laodamia amo sì ardentemente
Protesilao detto in latino Phyllacides daFilaco.4uo avo, che fu sempre
occupata dal più vivo dolore mentre era esso al- V assedio di Troja, e
fece far del medesimo dopo la sua morte, una statua di cera, che ogni
notte pone- vasi nel letto quando vi andava a dormire.
Menelao trovavasi in Vreta, ove .l* aveano richiamato i suoi affari,
quando Paride di lui confi- mcpte gli rapì la bellissima E.lena pia
consorte Sulle piume giacer sole non volle Siena, e nella notte al caldo
seno l)eir ospite fu striata. E chi mai puote Di ciò nutriremo
Menelao, stupore? Solo partivi, e nel medesmo tetto Era la
moglie e T ospite. In custodia T,ii folle le colombe al. falco
fidi, Ed al montano lupo il pieno ovile? Siena non ha
colpa, e non commise L’adultero delitto ; ei fece quello Che tu
faresti, e che farebbe ognuno. Ad esserti iiifedel la donna
sfórzi^.j Se il tempo e il loco a lei concedi. Quale
Oonsiglio ella usò mai se non il tuo? Che dovea far ? Il suo
marito è lungi, Ed un amabil ospite presente, E giacer
sola teme in vacuo letto. Ciò a Menelao era noto. Io dal
delitto Siena assolvo ; usar volle di quella Libertà, che il marito
a lei concesse Cortese c umano. Non così feroce Flavo cinghiai si
mostra in mezzo all’ira Contro i rabidi cani, allorché il dente
Fulmineo rota, nè così lionessa Che a’cari figli suoi porga le
mamme, Nè da piè ignaro vipera calcata ; Coni’ àrde e
mostra 1 ’ agitata mente Donna che la rivai trovi nel letto Del suo
consorte: e corre, e dà di piglio Al ferrò e al foco, e ogni decor
deposto, Rassembrà una Baccante. La spietata Medea nel sangue vendicò
de’figlj fay) Vedaii V annotaz.
del Lib Del marito il misfatto ^ ed i violati Dritti di sposa.
Àltr^empia genitrice, Mirala in rondinella trasformata. Or di
sangue macchiato il petto porta. Tali delitti sciolgono V amore
Meglio composto e più costante ; e cauto Gli dee r uomo fuggir, gli dee
temere. Nè ad una sola donna io ti condanno; Portin migliore
augurio i sommi Dei ! Così rigida legge appena puote Seguir
sposa novella. Abbiano pure Loco gli scherzi, ma celar ti piaccia
Sotto furto modesto il fallo tuo. Da cui già non voler cercar la
gloria. Altra non mai conosca i doni tuoi; Nè prefigger tu
dei 1 * ora medesma Agli amori furtivi, e in un sol loco Condur le
belle, onde non le sorprenda La donna tua ne’ noti nascohdiglj ;
E quante volte scrìvi, i fogli osserva; Che molte leggeran più
assai di quello Che tu loro scrivesti. Amante offesa Move bene a
ragion Tarmi, e sovente Come a lei desti, a te di duol dà causa.
Mentre il figlio d'Atréo fu d’ una sola (29) Ov. Arte d^am. d
Progne figlia di Pandìone, e moglie di Teseo ^ fu dagli Dei cangiata in
Rondine, perchè vendicane dosi deW ingiuria recata da Teseo a Filomena di
lei sorella, uccise Iti suo figlio ^e lo apprestò al Padre
barbaramente per cibo, Agamennone rapì Criseide figlia di Crise
cerdote d*Apollo, il quale in abiti sacerdotali si portò inutilmente dal
medesimo per ricuperarla j tolse Bri* seide ai Achille ; e condusse poi
in Grecia Cassandra Contentò e pago, quella visse casta. Ma
per i vìej del marito poi Divenne infame. Inteso avèa che Crise, Le
fasce in capo e il lauro in man portando, Ottener non potè 1* amata
figlia. Inteso avea il tuo ratto, il tuo rossore, O
Briseide, e per quai turpi dimore Fosse la guerra prolungata.
Queste Cose la fama a lei narrava. Vide Con gli occhi prhprj poi la
figlia stessa Di Priamo: vincitor fosti ad un tempo E preda, o
Agamennon, della tua preda. Nel cor, nel letto ricevè ella poscia
Il figlio di Tieste, e vendicossi Così de’falli del marito infido.
Gli amori tuoi tener cerca nascosti. Ma se fian noti e
manifesti, sempre Però li nega, nè ti mostra allora Nè più sommesso
o più giocondo: reo Ti fa ria ciò scoprir. Novelle prove Le dà deir
amor tuo. Queste il sostegno Son della pace. La tua prima amante Fa
che di ciò non abbia unqua contezza. Havvi chi la nociva erba
consiglia Santoreggia di prender; ma ciò stimò Atro veleno.
Mischian altri il pepe Nel seme dell’ortica, e nell’ annoso Vino
tritano il callido pilatro., figlia di Priamo, la qual fu a luì
concassa nella di* Vision della preda. Clitennestra sua moglie, e
figlia di Tindaro non potè reggere a tanta infedeltà, e /?«- rò
accolse nel letto Egisto figlio^ di Tieste, da cui ' { Annotaz.) uccidere
il suo marito. La Dea che sul ombroso Érice monte Ave
il suo tempio, no, soffrir non puote Che siau forzati i suoi piacer. Si
prenda Pure il candido Bulbo che a noi manda La Città di Megara, e
la salace Erba che cresce ne’giardini. L’ova, L’imetto mel,
del pin le acute noci Si prendan pur. Perchè alla medie’ arte,
Erato, or tu ti volgi f II cocchio nostro Debbe più da vicin toccar la
meta. Tu che celavi per consiglio mio Poc* anzi i tuoi
delitti, or altra strada Batti, e per mio consiglio i furti scopri.
Nè di volubil già merto la taccia: Non col medesmo vento i
passeggieri Porta la curva nave ; ora si corre Col tracioBorea, ed
or con Euro, e spesso Dal Zeffiro si fan goiihe le vele,
Talor da Noto. Osserva come in cocchio L’auriga ora le brìglie
allenta, ed ora Frena con l’arte i rapidi cavalli. Compiacenza
servii le rende ingrate, E amor senza rivale illanguidisce.
Se la fortuna sia propizia, Talme Divengono lascive, e faci!
cosa Venere aveva un magnifico Tempio in Sicilia sul monte Erice,
donde fu detta firicina., Sotto il nome di Bulbo iniendonsi tutte^
le radici rotonde come agl) e cipolle, che i Romani facevan venire
dalla Città di Megara fabbricata da Alcatoo figlio di Pelope.
{jòi) Il vento Borea f spirando a Settentrione, vien qià dette
treicio perchè la Tracia è più settentrional della Grecia y e dell*
Italia, Euro spira da Levante [ Zeffiro da ponente, e Noto da
Mezzogiorno, Non è serbare in mezzo allieti eventi IL cor
tranquillo. Come lieve foco, Che perduto abbia a gradi il suo vigore,
Ascpndesi, e nell’ ultime faville La cenere biancheggiale se
v’unisci Zolfo, Testinta fiamma manifesta, E a splender torna
il consueto lume; Così ove pigra e torpida si giaccia L’alma,
destar cop forti e lusinghieri Stimoli è d’uopo in essa allor
Tamore. Fa che di te paventi: ognor riscalda L’intiepidito
core, e impallidisca Al, solo udir che tu infedel le sia. Oh
quattro volte e quante io non so dire Felice quei, di cui si lagna
offesa La sua fanciulla, e che giugnendo annunzio D’un tal delitto
alle sue triste orecchie Cade, e il color le manca e la favellai Ah
foss’io quello, a cui furente straccia Il crine ! ah foss’ io quello a
cui con l’unghie Sgraffia le gote, che or piangente mira Or con
bieco ciglio, e senza cui Vorria, ma non può vivere ! Se chièdi Il
tempo, onde di te la lasci offesa Lagnarsi, io ti dirò: sia questo
breve. Perchè lo sdegno suo forza maggiore Con dimora soverchia non
acquisti. Con le tue braccia il bianco collo cingi^ E
piangente nel tuo seno l’accogli; Asciuga co* tuoi baci il . pianto
suo, E i piaceri di Venere concedi A lei che piange. Già la
pace è fatta; Con questo mezzo sol cessa lo sdegne. Se feroce
divenga, e a te rassembri Veramente nemica » allor le chiedi Un
dolce amplesso, e la vedrai placata. Ivi déposte Varmi è la
concordia^ £d in qael loco » a me lo credi, nacque La tenera
amistade. Le colombe. Che già fecero guerra, i rostri insieme
Dolcemente congiungono ; di quelle 11 mormorio son voci, e son
carezze. Fu il mondo in prima una confusa mole; Non ordine
regnò, non vi fu legge ; £ stelle e terra e mar solo una
faccia Mostravan ; sulla terra il ciel fu posto E fu dal mar la
terra circondata, £ diviso cessò l’inane caos. Presero
ad abitar le fiere allora Entro le selve ; a star gli augelli la
aria; £ s’ascosero i pesci entro dell* onde. L’uomo errò allor
ne^aoUtarj campi. Ma rozao 9 inerte corpo, e senza genio*
T'u il bosco la sua casa ; il cibo l* erba; Lie frondi il letto ; e
già per lungo tempo Visser fra loro sconosciuti. Dicesi, Che
le feroci loro alme piegasse La dolce voluttà. Lo steiso loco
Abitarono insiem Tuoibo e la donna; Non da maestro furon fatti
dotti Di ciò che dovean far ; Venere loia La dolce opra compì
senz’arte alcuna. Trova da amar Paugel dolce compagna, E in
mezzo all’acqae pur con chi s’accoppj Non manca al pesce. Il maschio
ainato segue La cerva, ed il serpente a’dolci inviti. Della femmina
cede. Insiem congiunta La cagna al can s’annoda. Il suo montone
Soffre lieta Tagnella; la giovenca Gialiva è col torello, e la
stizzosa Capra 1’immondo becco non disdegna. Parenti le cavalle i
maschj segnono Per lungo spazio, e varcan fino i fiumi Che li
tengon divisi. A che più tardi ? T’affretta dunque, e alla sdegnata
porgi Il bramato sollievo; questo calma L’atroce suo dolore, e
questo vince I succhi d’Esculapio • Il fallo tuo Dei con ciò
cancellar, tornarle in grazia. Mentr’ io cantava queste cose,
Apollo apparve » e mosse dell’ aurata lira Col pollice le corde •
In man tenea L’ alloro, di cui cinta avea la chioma; ^Queir
ammirando vate allor mi disse: O de’ lascivi amor maestro,
guida 1 tuoi scolari alfine al tempio mio; Ivi sta incisa la famosa
legge, Che conoscer se stesso a ognuno impone. Amar solo
potrà prudentemente Quegli che se medesmo appien conosce, E
alle sne forze sa adattar Tìmprese. Procuri che la Bella ognor Io
guardi Quel cui Natura diè leggiadra faccia. Si mostri spesso
con le spalle ìgnude Chi candide ha le membra ; parli pure Quei che
lo fa soavemente, e canti, E beva quel che a bevere e a
cantare Con arte apprese, ma non mai interrompa Alludtd al Tempia
consacrato in Delfo ad Apollo ove era scritta a caratteri à* oro qaest^
aurea legge: nosco te ipiam L’altrui discorw P eloquente, e in
mezzo Al ragionar non reciti importuno I suoi carmi il Poeta
. In questa guisa Febo i^egnomnii, e. voi di Febo adesso Seguit^e i
precetti. Ah no ! non ponno Mancar di fe gli oracoli d’ Apollo.
Or son chiamato a più'vicini oggetti. Chi sagace amerà ; chi
la nostr’ arte In uso saprà porre f avrà vittoria. Non sempre
i campì rendon con usura Le biade seminate, e a dubbia n^ve,
Non sempre fausto è il vento. Ah! sono brevi I piaceri d’
amor, lunghe le pene. Onde Amante a soffrire il cor disponga:
Quante in Ato son lepri, e quante in Ibla Pascolan api, quante olive
accoglie II verd' arbor di Palla, • quante il lido Del mat
conchiglie ; tanti son gli affanni Che soffrenti in amor, tanti gli
strali Jlal felo intrisi che ci passan V alma. A te diran che
usci fuora di casa Quando con gli occhi tuoi forse la vedi. Ma
creder dei che uscì, che vedi il faUo. Mella notte promessa a te la
porta Forse chiusa sarà ; soffri, e le membra Riposa e adagia
sull’immonda terra. Mendace ancella forse in tuon superbo Dirà;
perchè le nostre porte assedjf Cortese e supplichevole stropiccia
Il limitar della crudel Fanciulla, ^ E al capo tolte ivi le rose
appendi. Quando vorrà, t'appressa, e quando il vieta Tu vanne
lungi. Uomo non dee sincero Di sua presenza far soffrir la noja.
Digitized by Google 8o Non sempre con
ragion ti potrà Jirer A me fuggir costui non è permesso* Non
creder turpe di soffrir ingiurie, Nè d* esser dalla tua Bella
battuto, Nè sul tenero piè d’imprimer baci. Ma a che mi
fermo nelle tenui cosef Or subietto maggior m’agita l’alma.
Io canterò prodigj ; il volgo attonito Ascolti i detti miei, mi sia
propizio. A difficile impresa ora m’accingo. Che nel difficil
sol glòria si merca. Dall’arte una si chiede ardua fatica.
Soffri il rivai pazientemente ; teco Starà vittoria, e n’otterrai
trionfo. Non già un mortai, male pelasghe querce(33) Ti dieron tai
precetti . Ah i iio, non puote Dir r artè mia di ciò cosa maggiore.
Farà un cenno amoroso al tuo rivale, E tu lo soffri ;
sctiverà, e t’ astieni Dal toccar le sue carte ; e venga e tomi
Senza le tue doglianze ove le piace Con legittima moglie usi il
marito Quest’indulgenza pure, alior che notte Le tenebre distende,
e il sonno regna. Non io, Io debbo confessar, non sono In
quest’arte perfetto. E che far deggiof Io de’ precetti miei minor mi
trovo. Io soffrirò che, me presente, un segno Si faccia alla
mia Bella, e il freno all’ira Io potrò por ? Ah mi ricordo ancora
^3) Fabbricarono i Pelasgi un Tempio dedicalo a Giovò, in vicinanza
del quale era situato un bosco di querce, da cui davano le colomba
risposta umana Che il suo marito nn di le diede un bacio, Ed io del bacio
a lei feci querela; Abbonda il nostro amor di crudeltade.
Non una volta sol mi fu nocivo Un vizio tal ; piti dotto invero è
quello Per cui, lieto il marito, in casa ingresso Hanno altri
amanti. Ma saria più grato L’esser di questo ignari. Ah lascia
dunque D’amore i furti ascosi, onde non fugga Dal vinto labro,
confessando i fallì, Lungi il pudor. Deh risparmiate, o
amanti. Di sorprender colpevoli le amate. Schetzino pur, ma
almeno a se medesme Perauadan che il fer’ solo in parole. Sorprese,
in esse pel rivai maggiore Si fa r affetto ; e dove egual la sorte
Fa di due, 1* uno e Paltro son costanti La causa in sostener del danno
loro. Favola iu tutto il elei nota si narra: Venere e Marte dagP
inganni presi Pur di Vulcan. Ferito il petto avea Marte per Vener da
un apaore insano, E divenuto di guerriero amante. Nè
rustica o difficile mostroàsi (Non v’è di questa Diva altra jpiù
molle) Venere al suppliéhevole Gradivo (34). Oh quante
voltè la lasciva risé ^ da Marte si Marna Gradivo da apa/vav,
ehe si^ grufiea in greco linguaggio vtbraziorfe d'AVta. Aven^ do
Giooo preeijntaio Vulcano in Lenno 'per 1 la defar-^ mità del suo corpo,
si tuppè questo misero Diojin tal caduta una gamba ^ e così divenendo
zoppo ^ di^ canne ancorst mSgiortncnU deforme. Sa ^ Di
Valcano pei piedi e per le mani Nere e incallite pel lavoro e il
foco. Contraffaceva pur di Marte in faccia Sempre piena dì grazie
il suo marito^ Ma solean ben celare i primi amplessi, E
coprian col pudore il fallo loro; Ma il Sol che tutto vede ( e chi
ingannare 11 Sol può maif ) fece a Vulcan palesi L’ opre della
Consorte • Ah quai ne porgi Funesti e perigliosi, o Sole, esetuplit
Perchè del tuo tacere a lei non chiedi Un dono, eh* avrebb* ella il tuo
silenzio Potuto compensare in mille modi. Vulcan sopra e
d’intorno adatta al letto Un* invisìbil rete, e finge a Lenno Di
far viaggio: a’ noti abbracciamenti Tornan gli amanti, e nudi entrambe
sono Ne^ lacci avvinti. Quegli i sonimi Dei Convoca, e fanno L
prìgiohier di loro Vago spettacol. Potè appena il pianto Venere
allora trattener sul ciglio; Non alla loro nudità potere
Oppor la mano, e non coprir la faccia* Uno de’ numi allor
ridendo disse: O fortissimo Marte,
in me que’ lacci Deh trasferisci pur^ se ti son gravi. Nettuno,
appena per le tue preghiere Ebbero i prigionier le membra sciolte.
Chela Dea in Pafo, e Marte andonne in tracia. £cco,o Vulcano, il tuo
profitto: in prima Celavano il Ipr fallo ; or senza freno Lo
commetton, fuggito ogni pudore. Sovente, o stolto, confessar dovrai
Che tu dj^rasd da pazzo, e già ( la fama Karra.) dell’ira tua ti aei
pentito* Quest’ io vietai. La 6glìa dionea (35) Or
vieta a voi di tender quelP insidie Ch’ ella stessa soffrì. Nè voi
cercate Por ne’ lacci il rivai, nò legger quello Che vergato ha^la
bella in cifre arcane. Faccian questo (se lor piace) i mariti Che
legittimi rese e T onda e il foco. (36) Io'di nuovo, raffermo: in queste
carte Nulla vietato dalle leggi chiudo» Nè a pudica Matrona i
nostri scherzi Recano ingiuria. Chi a’profani i riti Osò di Cerere
svelare, e i sacri Misteri nati nella tracia Sanio f Non nel' silenzio
per coprir gli arcani Gran; virtude abbisogna è colpa grave Però
dir'qnfello che (tacer si dehbe^ t Ben a. ragion da Tantalo «loquace
Venere, sepondo alcuni, eifbe in madre Dio^ ne 9 e però si chiama la
Figlia dionea. (36) Solevano i Romani nelle nozze solenni
offerii re alla Sposa V acqua ed il foco \ 'perchè pensavano
che si genesUts^ il tutto dall* umore -e dal icàhre ^ ed anzi lavatiri^
Inacqua f stessa i piei^ Sposa ed alla Sposo^ ', I I
Sagrifiz) di Cerere t)ea delle biade, ehe furono, secondò Dtodoro, '
inventati Heltà' Samotrd» eia, si celelfravanà dagli aw^ìd con tal \
segretezza g che acqmdurono il nome di mister Tqntalo, figlio della
Ninfa Piote, palesò agli uomini le' supreme, determinazioni, che si
manìfesta^^ reno scambievolmente gli Dei in un Convito, cui fu
ammesso e^i*pare.da^Giolve.,peTiitaleiempH-^ tà joacpiatO riell^ infermo,
iOfl^ à cofitidftaeqMate,cfudar^ io da una barbara fape, e^
chè è,eireondatò dàìVacqua e da diversi ' phmi, ékà fuggono àgnor
shp'suòl Idìlli i^qmndo *viol*pré*a'^ arsene Fuggono i pomi; o
all*assetato labfo L'acqua mai sempre. Citerea comanda In special
modo di tener celate Le sacre cerimonie. Io v’ammonisco Che alcun
garrulo'a quelle non s’accosti* Se sepolti non restano fra’cesti I
mister] di Venere, se i bronzi Per furiose percosse non risuonano,
Usi abbiam noi pih moderati, e in mòdo* Che si voglion però tenére
ascosi. / Quando le vesti Venere depone, La nudità con la
sinistra copre. Nella pubblica via spesso 1 * ugnella.
Si unisce al suo compagno, e la fanciulla^ Da tal oggetto altrove
il guardo volgew Atto è il talamo chiuso a’furti nostri E a non
mirar ciò che la veste > ascóndo* i Non le tenebre noi, ma nube opacUi
ì; Cerchiamo, e i luoghi ove 1’ aperta luce - Minor risplenda. Fin
d’allor ché il tetto Non difendea dal Sol, non dalla pioggia, £
dava il cibo e in un la quercia albergò. Gli uomini non gustar’
palesemente. I piaceri di' Venfet ma negli antri ^ ' •
f i ne^bosqhi; cosi dell’onestade * i preudea cura quella
ro^sza gente** \ Ora gli atti si celebraa notturni,, £ nulla
più si compra a caro prezzo Che di poter’ parlar: or le donzellò Ovniique
cercherai solo onde dica Qiinsla ancora fo. nostra, ed onde .posniA ^
Mòsttktla ò' dito, e &r ohe sia deb vol^, ' Dc^^b li
pòssèsso^tuòVfev;òIa ^ r.«r. poco «iwiihe ^ini «dolSP* aU>Ì,
Òose che nègherebbono accadute* £ di favori vantatisi non
veri ; E se invàn di toccar, cercare il corpo. Cercano àlmen
d’offenderne P onore, Che le accusi la fama ancor che caste.
Chiudi, o custode rigido, le porte ; Guarda la tua fanciulla, e
cento spranghe A’durissimi stipiti ora opponi. Cosa havvi di
sicuro in faccia a questi Adulteri di nome, che creduti Esser
desian ciò che tentare invano ? Parchi in parlar noi siam de’veri
ainori^ E fedelmente ognor tenghìam celati Col velo deP mistero 1
furti nostri. Deh non voler rimproverar giammai Di nati^ra i
difetti alle donzelle. Che fù dissinìularli utile à molti. ^
Perseo che al piè portò le gemìn’ ali (3g), Tlon del color d*
Andromedà lagnossi. Comparve a tutti Andromaca maggiore D’ uim
giusta statura, ed Ettor solo iXèrcurió adatfò *U idi Ud ambedue i piedi
di J^érseo^ iluo amiiéo y e fi^ió di Danae e di Giope, de qu§$iix
AndrovaeduslegaiOKyad uno scoglio per ra'deillcNeTcìdi,^e,\c]^pe, che
dovea^esser dioorata da Ceto mastro marin^,,perchè Cassìope, madre
della medesima ebèè la vanagloria di dire ^ che la sua fi-* glia
vinceva > ir^ bellezza le stesse Nereidi, Mosso Perseo a pietà, della'
sventurata donzella, uccise il mostro col jmrgli. davanti agli cicchi la
testa di Me^ dusa f è dopo d^aveHa in tal guisa saLveta da un tanto
pericolo y V ottenne in isposa, he mai le riìf fàpciÒ[ suo fosco colori,
essendo ella nata in Etiopia, " Andromaca è figlia di Elione .
Re di Tebe e mo* glià di Ettore j il qual chiamava medìo^e la sua
statura quantunque fosse veramente sproporziqnatq. Mediocre la dicea. Quel
che or ti lembra Darò a soffrir, deh soffri; e verrà uà giorno Che
lieve impresa ti sarà il soffrire^ Mentre ogni pena raddolcisce il
tempo. Nuoyo arboscel che in verde scorza cresce^ Cade, se vento
placido lo scote ; Ma indorato dal tempo arbor diviene.
Resiste a* fieri Noti ^ e alfin s’ adorna, Degl* innestati fratti. Un
giorno spio Paò la bruttezza cancellar del corpo,^, £ sempre
il tempo fa sembrar minore Ogni difetto. L* inesperte nari Mal da
principio pon soffrir 1* odore Della pelle del toro, ma dalTuso
Dome non più risentono mólestia. I vizj ricoprir con dolci nomi Fa
di mestier: bruna chiamar si debbo Quella che piùehe pece ha negro il
sangue» Se ha gli occhi loschi, a Vener l!as 8 omiglia^^ E se
bianchi, a Minerva. Sia 9 Ì scarna, Che appena in piedi sostener si
possa. Gracile la dirai. Nana rassembri, E tu svelta la
chiama, e piena quellf .,. Che è turgida oltremodo g, e asconder
tenta. Col bene non lontano il vizio ognora. Gli anni mai non cercar,
nè sotto quale \ Consol sia nata: al rigido Censore. Tai cure
lascierai. Maggior riguardo . Usa per quelle che passate il
fiore Hanno di giovinezze » e i più bei giorni, Non si sa
paacepire corno Ooidio chiami loschi gli occhi di Venere, quando essa fu
lodata da Pari^ de. Dubitano alcuni pertanto y che nelF originale
la^, ' ripe si 4tiba leggere leu invece di peU»
E cui incomincia a incanutir la chioma* .Utile è questa o
più matura etade, 0 giovani ; e aarà ferace in biade Questo
campo » ed arar però si debbe. Mentre gli anni il permettono e le
forze, Soffrire la fatica. Ah già la curva Vecchiezza con piè
tacito s’accosta! O il mar co’ remi solchisi, o la terra Col
vomere, o s^impugnin Tarmi fiere, O si usi il fianco, T opra, e la
forza Con le fanciulle^è questa una milizia, E con ciò pur s’
accumulan ricchezze. S’ artoge a ciò che la prudenza in loro
Maggior sempre delT opere risiede, E l’esperienza sol può far
maestro. San compensare dell’ etade i danni Con la mondezza,
e in opra e studio ed arto Pongon per ricoprir la tarda etade.
Come più brami accarezzarti sanno In mille guise ; in più diversi
modi Pittor non puote colorir le tele. Non irritata voluttà
per loro Si gode, e danno e gustano il piacere; 10 se
non è scambievole Tho in odio, E però fuggo de’garzon P
amore. Odio il furor di quella che il concede. Perchè a darlo
è forzata, e pensa solo All’ ntil proprio. A me non è gradito
11 piacer che mi dan sol per dovere; Da questo io violentier
le donne assolvo. Godo ascoltar le voci che il diletto Mi palesin
di loro, e di frenarmi Mi preghino ora, ed or perchè mi affretti.
Godo di rimirai languidi gU dicchi . Della mìa bella, che mi dica: è
assai. Questi favor natura non concede Air inesperta gìoventCì ; si
godono Quando il settimo lustro ornai si compie. Chi soffre sete,
il nuovo mosto beva; Di vecchio vin ricolmo a me s’ appresti
Vaso che sotto i Consoli vetusti Sia fabbricato. Al sol resiste vecchio
Il platano, ed offesi i nudi piedi Sono da’nuovi prati; e chi
potria Ad Elena preporre Ermione? Altea (Era forse miglior della sua
madre ? Se tu t’ accosti a una noi^, giovin bella, £
sii costante, avrai degna mercede. Già riceve i dae.amanti il
conscio lètto; Fuof delle chiuse porte ora rimanti, O Musa ;
senaa te sapran ben essi Trovar di che occuparsi, chè lor porge
Amore i mezzi. Il valoroso Ettorre (4a) Di cui fu il brando a Troja
util cotanto, Giacque pur con Andromaca, ed Achille Con la
lirnessia giovine rapita, Allorché dal nemico affaticato
Prese ristoro sulle molli piume. Da quelle man di frigio sangue
tinte Ricevevi, o‘Brhcide, le carezze, E perciò forse à te
più assai gradito Fu alla vittfice destra unir tue meuibra.
(4 A Ermione è figlia della famosa Elena moglie di Menelao,
(4a) Achille # aseedìafa la Città di Lirnesso, uccise barbaramente Minete
marito della bella Briseide^ che si prese egli stesso in isposa, e che
dal noma 4 M(k iiMk Pàtria soprannominata iÀtuwia Di Venéfe
i piaceri » a me lo credi, Non SI deniio affrettar; ma a lunghi
torsi Berli. La donnà, se vedrai diletto Che abbia d’èsser toccata,
a te non freni Pudore allora inopportuno. Gli occhi Suoi scintillar
d*'un tremulo splendore Mirerai, come dalle liquìd’ onde ^ Riflette
il Sole i suoi splendidi raggia. ^ Udrai nn lamento e uh dolce
mormorio^ Gemiti grati, ed amòtose note. Quando thtte le Vele
avrai spiegate, Tu abbandonar non dei la tua diletta.
Nè preceder ti debbe ella nel corso. Correte insieme alla
prescritta meta. Che il piacer vostro diverrà perfetto.
Se giacerete a un tempo stesso vinti. Queste leggi seguir dovete
quando A voi concessi siano 02 ] tranquilli, Nè ad iin
furtivo oprar timor v* astringa. Quando Tindugio è mal sicuro,
allora Tutti forzar si denno i remi, e il fianco Premere del cavai
d’acuto sprone. L’opra è condotta al fin. Giovani grati, A me
la palma concedete, e il crine Odoroso cìngetemi di mirto.
Non presso i Greci Podalirio tanto Fu per la medie’ arte in pregio,
Achille Per il valore, e Nestor per pi'udenza; Non fu Calcante così
esperto e grande Nel conoscer le viscere, nè Ajaco Nel maneggio
dell’armi, e Automedonte Nel condur cocchj ; compio sono espCito E
grande nell’amor. Me celebrate, Uomini tutti ; a me si dian le
lodi; Nel mondo intero il nome mio ti canti. L* armi io
vi porsi come già Vulcano Le diede a Achille. Or con tal doni voi
Vincete pur, com’egli vinse un giorno; Ma chi col brando mio potò le
fiere Amazzoni atterrar, sopra le vinte Spoglie scriva: Nason ci fa
Maestro. Le tenere fanciulle a m^ le preci Ecco che porgono, onde
lor cortese Sia de’ precetti miei. Ah t sì, sarete Cura primiera
de* futuri carmi porsi contro lo guerriere donne A’ Greci 1’ armi ;
or dare a te le deggìo^ Pentesilea, e alle Amazzoni seguaci. Ite
alla guerra uguali, e vincan quelle Cui son propizi Venere e il
Fanciullo, Che in tutto il mondo ha di volar diletto. Giusto non
era il combatter nude Contro gli armati ; e vincerle per voi.
Uomini, turpe mi sembrava. Alcuno Dirà fra molti: perchè aggiunger
cerchi 11 veleno alle serpi ? e perchè in preda Lasci alle
lupe rabide 1’ ovile? Di poche il fallo non vogliate in tutte
Diffonder ; pe’ suoi merti ogni Donzella Considerar si dee . Se
Menelao Ha di dolersi d’ Elena cagione^ Pentesilea Regina delle Amazzoni
andò contro i Greci in soccorso d^ Trojani,e fu dopo varie glo^
riose azioni uccisa da Achille. Sotto il nome di Greci P intendono però-
dal Poeta quegli uomini, che cingono a conquistare le donne qui figurate sotto
il nome di Amazzoni. Vedasi V Annotaz, 5 q del Lib. I. e
l*Annotaz, ueuSdelldb.If. Ved. Vannot. 38 del Lib. /.
eVannot. ao del Lib. II. £ se di Clitennestra i rei costami
SoQ gravi ad Agamennon ; se d’Ecleo
Il figlio scese co* cavalli vivi. Dalla spietata
Enfile^ tradito, Vivo egli stesso a Stige^havvi pur anco
Penelope che pia serbossi e fida Al suo marito, benché senza
lei Due lustri errasse, e per due lustri ancora Passasse i giorni
suoi sempre alla guerra. Protesilao rimira e la consorte, Che, come
narran, pria degli anni suoi Vide Testremo fatele scese a Dite
Ombra indivisa del marito . Mira La Sposa pegasea dall’empia sorte Anfiarao figlio di EcUo ed eccellente
indovino ^ ascose in un luogo segreto per non esser costretto a
portarsi alla guerra di Tebe, in cui sapeva di do-* ver certamente
morire* Eri file sua moglie allettata da un aureo monile promessole, da
Polinice, insegnò a questo ov'egli sfava, celato* 4 n 4 à pertanto
Anfiarao forzatamente alla guerra^ ma appena giunse in Tebe, gli si
spalancò sotto i piedi la terra, e rimase in quella sepolto.Penelope è V
esempio deWamor con fugale* Si conservò essa sempre fedele al suo sposo
Ulisse, ben* che vivesse egli lontano da lei per lunghissimo spa*
zio di tempo, e benché fosse ella continuamente assediata da mille fervidi
amanti. Protesilao andò aneW egli all*assedio di Troja, e fu il
primo tra Greci, che vi perdesse la vita poi che Ettore lo ferì
mortalmente, nientre scendeva dal* la sua nave. Desolata Laodàmia sua
moglie da una tale sventura, ottenne con le sue lagrime da* Numi di
poter veder V ombra del suo amato consorte, e neWabbracciarla
morì* Soffriva Admeto una malattia coà grave, che secondo la
risposta dell* oracolo ^ era necessario per salvargli la vita^ che un
uomo o una donmft^ morisse Admeto liberare, onde famoso Rese il suo
nome . Evadne a Capaneo Disse: m* accogli ; il cener nostro insieme Si
confonda ; e slanciossi in mezzo al rogo; È la Virtude d’abito e di nome
Femina, nè stupore è, se propizia Si mostra e favorisce al sesso
suo. La nostr’arte però queste non chiede Alme sublimi 9 e
con minori vele Naviga il legno mio • Per me soltanto S’imparano a
trattar amor lascivi. Io insegnerò in qual modo amar si debba
La donna, che non face ed arco scote Sempre crudeli ; agli uomini
quest’armi Nuoccìon più parcamente 9 io ben lo vedo: Gli uomini più
spesso ingannano di quello^ Che ingannin noi le tenere fanciulle;
E poche troverai, se cerchi, xee Di perfido delitto. Il
traditore Giason Medea lascia già
madre 9 e in braccio Gittossi ad altra sposa. Oh quante volte Per
te 9 Teseo 9 Arianna abbandonata (io) per lui4 Alceste sua moglie^
che dicesi sposa pagasea dalla città di Pagasa in Tessaglia, volle essa
stessa liberar gen^osamente il caro suo spoeo, ed incontrò con
intrepidezza la morte. Quando Eoadne intese che era stato ucciso a/« la
guerra di Tebe il caro suo sposo Capaneo ^ conce» pi nell’animo un dolor
sì fiero ^ che corse valorosor mente a morire sul rogo dell* estinto
consorte. (8) Adoravano i Romani la Dea Virtù vestita in
abiti femminili. Annotaz. 89 del Lih. /Arianna fu da Teseo abbandamata
{Annoi. So. del lÀb» I. ) nell*isola di Nasso j e però avrà te»
muto gli Augelli marini provenienti da quella pcffte di mare, in cui
viaggiava il suo perfido amante la solitaria t sconosciuta riva Temè gli
auge! marini ! E perchè Filli Calcò per nove volte il sentier
stesso. Cerca, e perchè, la chioma lor deposta, Piansero Filli le
dolenti selve. L’Ospite, che concetto ha di pietoso. Porse la
cauta e il ferro alla tua morte, Misera Elisa. E che I narrar vi deggio
Delle vostre sventure io la sorgente? Voi non sapeste amar ; mancò
in voi l’arte, Mentre con l’arte solo amor si eterna. Sariano
ignare ancor, ma Cìterea Vuol che per versi miei sien fatte dotte.
Mentr’ella stessa innanzi al mio cospetto Si fermò, e disse: di qual
fallo mai Si fecer ree le misere fanciulle. Che inermi si
abbandonano agli armati? Tu con gemini libri bai resi questi
Nell’arte esperti ; or co’ precetti tuoi Tu devi ancora ammaestrar le
donne. SteSicoro ohe in pria cantò i delitti Impaziente FUlide per
la lontananza del suo Demofoonte eorse per nooe volte al lido, dà cui
do^ vetfa egli passare nel ritorno ; e alfine disperata cd afflitta
per la tardanza di lui ( Annoi, a 3 del Lib, li.) si tolse da se stessa
crudelmente la vita. Le fabbricarono i suoi parenti un sepolcro, in
vicinanza di cui nacquer degli alberi, che in un certo tempo,
secondo quello che han scritto i poeti, deposte le lor foglie, piangevano
la morte della medesima. (la) Enea, che vien soprannominato il Pio,
di^ sprezzando Vamore, che è il nome proprio di Didone, fu
causa cVella si precipitasse sulle fiamme ohe ardevano la eittà e la
reggia di Cartagine. Stesicoro siciliano è un poeta lirico ^ che
doto-' Sto ne* suoi versi Elena detta tersnoea dal castello ìa D*
Elena, poi con più felice lira Disse le lodi sue. Se V indol bene
Io tua conobbi, no ^ non sei capace offender Tamorose e culle
donne. Per fin che vivi a te tal grazia chieggo. Disse, e di mirto
(poiché avea le chiome Di mirto ornate quando a me comparve ) A me
una foglia diede e poche bacche. Ricevuti i suoi doni, io mi sentii
Invaso dal suo nume, e Paer più puro Splendermi intorno, e facile
l’impresa Comparirmi al pensier. Mentre l’ingegno E desto, a me i
precetti richiedete, Che a voi, donne, ascoltarli ora è
permesso Dal pudor, dalle leggi e da ogni dritto. Siate memori
ognor della ventura Vecchiezza, e per voi il tempo ozioso mai Non
passerà. Scherzate ora che lice, Nè si consumi invano il fior degli
anni, Che come 1 onde fuggono veloci. Tornar non puote alla
sorgente il fiume. Tornar non puote la passata etade. Cadete
dunque, che trascorre il tempo Con frettoloso piè, nè lieto mai
Come il primiero siede. Or bianco miri Questo stelo, su cui già in prima
vidi Io rosseggiar le viole, e questa spina Grata al c^pe mi porse
un di corona. Stagion verrà che tu, che "fchivi adesso
L’amante, fredda e abbandonata in letto cui, nacque y perche^ da
essa ebbe erigine la rovina di Troja. Ma i fratelli della medesima,
Castore e Polluce Vacciecarono crudelmente ; ed ei per ricuperare
la sta, fu costretto a comporre un poema in sua lode»
Digitized by Google Giàf&ttsi vecchia giacerai.
Notturna Rifsa non fia che la tua porta atterri, Nè sul
mattino troverai di rose II limitar della tua casa asperso.
Misero me ! come corrotti presto VeggoDsi i corpi dalle rughe, e,
come ^ Langue ih nitido volto il color primo! Quei che sul capo tuo
bianchi capelli Si miran* or,che fin da’di più acerbi Giuri che
furon tali ; ah che ben tosto Si spargeran per tutto il capo. Méntre (i
4) La sua spoglia sottile il serpe lascia. Ringiovanisce ; e
rinnovando i cervi Le corna, non rassembrano^ mai vecchi. Fuggon
senza speranza i nostri beni; Cogliete il fior, che se non colto
vegna, Cadrà miseramente. A questo aggi ungi Che fan più breve
giovinezza i parti; Invecchia il campo per continua messe. Non di
vergogna a te, Cinzia, fu causa Il latmio Endimion, nè già doveo
Per il rapito Cefalo arrossire I Serpenti si spogliane ogni anno
della luto scorza* I Cervi cangiano ogni anno le qorna ; ma ne *
rimangono privi se sian castrati mentre le hanno de~ poste, e più non le
varifino, se soffrano una tale ope* razione phma di deporle. Impiegano i
medesimi cin^ que o sei anni nel crescere, e però tioono’ solamente
circa trentacinque o quarànta anni, ttd ortta di tutte * le fuoole, che
gli antichi hanno scritte sulla lunga ìor vita. Buffon nella sua Storia
naturale. Cinzia ( Annoi, del Lih, I. ) scendeva dal cielo
per godersi Endimione, che qui dicesi latmio per^ chè s^ascondeva ifi
Latmo spelonca del monte, di Caria. S* innamorò la rosea Aurora di Cefalo
figlio di Mercurio, e però lo rapì « Prgcri sua moglie La rosea Diva.
Adori si lasci a parte, Tuttor di pianto a Vetieré^ cagione,
Com’ebb’olla Antonia, cotii* ébbe Enea ? Seguite" tiiir P esémpid delle
Dive, O bellezze tóót^aK, é a^ desiosi ' UomìAì
noilitìegate il favor vostro.: Siano essi ingannatori ; e che
perdete? Mille vi godan pur<;‘tutto rimane Nello stato pritòiér.
Gon Fuso il ferro* Si consuma e la‘ pietra ; in Vói non pudte
Cosa alcuna peirir, ricever danno. Chi ^vieterà cW dal vicino
lùme*^ Il lume non si prenda ? e chi nel vasto Seno del mar V
onde serbar procura? Tu mi dirai che non convien che a un
uomo Si dia la donna in preda ; ma che perdi Altro che l’acqua che
ricever puoi? Non vogliono i mìei carmi o la mia vocb» Al
libero dell* uom commercio esporvi^ Ma vietanvi temer le cose
inani; Non posson soffrir danno i doni vostri. Me
un’aura lieve, mentre siamo in porto» Spìnga, che,al soffio dì più forte
vento Sono per cominciar maggior viaggio. Dalla cnltura io do
princìpio. Il vino Ceneroso dan sol le calte vigne, £ sol
né’campiVcoltìvatì miri Lussureggiar le biade. £ la bellezza Dono
del cielo, e come ah vien superba OQ.Arteà'am. e La Dea Venere éhhe
à(jL Arichise il figlio Enea, e da Marte la figlia Anmónia, Bastano .
tàli esemp) per provare che ella permise a molti di possederla .
Digitized by Google pJbeU^z<i ogui danpa 1 1Ja
«ran parte Di voi prirs rù^.A quf»to 4ouo. . Con U coltura la beiti
ai 4CqWti Cile si perdo nfgfct^ ^ apci^r cjio eguale A gueili
fosse dpU'idalia Diy*., Se Io prische fasullo, il corpo Joì;a
Non coti custodirò ^ se gli autieri Uomini incolti vissero, se
cinse; Pesante gonna.AndroiMCjayìo non yeggo>(f 9 ) Bagjon
4i,,ayiglia^I es^SA d’un rezzo, Guerrier fu^^mpgli^. Fprsé a Ajace
incontro Adorna andap dpvea la sua consorte, (ao) Se a Ini la^
pflle .poi di sette bovi Servia di veste ? Ne^ primieri tempi Rozza
regnò semplìcitade, e immense Ricchezze Roma del soggetto mondo Ora
possiede. Osserva quale adesso \
Sia,il OampidogUo, e gual no’giorni andati^ E dovrai dir c]lie,fa d'un
altro Giove. Ventre dicesi idalia dal monte Idale in Cif^ro a lei consagrato, Andromaca
fa moglie A*Ettore Capitano deU VArmata Uroijana, Annótàz, 89 del Lih,
li. (ao) AJaae figli^di Telamone è oelebràto daOm'e^' ro
nella sua Iliade come uno piu valorosi Prine^ che andarono all*assedio di
Trofa. Sposò egU an*an^ cella nominata Teemessa; e però dice Or
ozio Movit Ajacem Telamone natura ’ Fórina captiTflB Dominuin
Teemessa. La Curia fu anticamente, secóndo F’arrone,
distribuita in due parti, in una delle quali custodi^ vano i Sacerdoti le
cose diwine, ’e neWaltra tratta^ vano i Senatori le cose umane. TaaUr fu
un Re de Sabini così accorto 9 che seppe ottener da Rpmelaiina
parte del Regno dopo d*aver perduto un'atroce bai» taglia. La Curia, che
di tanto ora' rasaembra Concìlio degna, fu di Tazio a’tempi Di
rozza paglia intesta. Qoe'palagi- Ch# ora risplendon sacri a Febo e
a’Ooci; Che furon maì^ se non pascolo un giorno Agli aratori buoi f
Piacciano ad altri Le cose antiche ; io meco stesso godo D’essere
in questa età nato conrorme A’ miei costumi, non perchè si tragga
Dalle vìscere cieche della terra 11 dutil oro, o perchè venga a noi
Scelta conchiglia da diverso lido; Nè perchè i monti facciansi
minori Per i marmi scavati ^ o perchè altere * Sorgano moli ove
giaceva il mare; Ma perchè regna or la cultura, e a’nostri
Tempi rusticitade agli avi antichi Cara non giunse. non fate carchi
1 vostri orecchi di preziose pietre, Che in mar lo scolorilo Indìan
raccoglie; Nè comparite già gravi per Toro Tessuto sulle vesti, onde
ben spesso Le ricchezze cercate e le rapite. Dalla mondezza
noi sìam vinti. Il crine Si disponga con legge; un pettin dotto R
dona e toglie a suo piacer bellezza. Non r ornamento stesso a tutte
giova; Quello scelga ciascuna, in cui più splende^ E si consigli
col fedel suo specchio. Chiede una lunga faccia che sul capo (za) OTTAVIANO
(si veda) fabbrica nel suo palazzo un Tempio consacrato ad Apollo
Palatino. 1 Duci ^ a* quali ^ dim cesi sacro il palazzo medesimo, sono
Augusto e Tim bario, mentre quegli vi nacque, e questi vi abitò»
loe Siati ben divisi non velati i crini; Così avea
Laodàmia le chiome adorne* Voglion le piene e ritondette guance^
Che della &onte sul confin vi lasci Piccol nodo onde veggansi,
gli orecchi, D’an*altra il orin flagelli ambe* le spalle,^
Quale al canoro Apollo allor che in mano Piglia la lira. Come Pagi!
Diana Altra gli .abbia legati, alLor che al bosco Peiseguita le
fiere pau^ròse. Convien che questa abbia i capelli gonfj; £
strettamente quella il crine implichi* Altra s’adorni in guisa tal la
ehioma,^ Che alla cilleuia cetera assomigli; Questa V
increspi in modo ohe rassembri Onda marina. Numerar non puoi Quante
sulla ramosa elea sian ghiande. Quante in Ibla sian api, e quante fiere
S’ascondano nell’alpi, io pur non posso A te narrare le diverse
fogge Di dar la legge al crin, mentre ogni giorno Ne sorgono
novelle. A molte giova Che sia negletto: crederai che il capo
Quelle jerì s^ornasser, che con nuova Cura testé si pettinar’la
chioma. Studia con l’arte d’imitar Natura. Era Jole
così, quando la vide Mercurio inventò la Lira fatta a gedsa di te»
staggine, e questa dicesi cillenia ^ perchè egli nacque nel monte Cillene
in Arcadia, Se Ooìdio tornasse a vigere in questo secolo, dorrebbe
certamente veder con Rubilo che le nostre Dame seguono con la
massima esattezza i suoi proietti nell* adornarsi i capelli. Amò
Èrcole ardentemente Jole figlia di Eu» riio, il qual rìcue/ò di dargliela
in isposa, quoMtun» Ercole ; presa la cittade » e disse: lo ramo; e tal Pabbandonata ; donna
Quando sai carro sosteneala Bacco» E i Satiri gridare: evviva »
evviva. Quanto in favor della bellezza vostra Fu Natura
indulgente» o donne I Voi In mille modi ricoprir potete Z vostri
danni. Invan noi ci asix^ndiamò; Cadono per 1’etade i capei nostri
Come le foglie allor ebe Borea soffia. Con le germanicb’ erbe
asconder pnote (aS) La donna la canizie » e può con Parte Miglior
del vero altro cercar colore. Vanne la donna con la chioma folta
f 'glUVaotsu solennemente proméssa, frritmto gli pertanto da una
tal negativa, debellò la Città d^Occatia » 09 e questi regnava » e gli
rapì la sua diletta denteila. :(a&) si sa veramente auali si
fossero quell^er- he germaniche ^ del di egù amore eUrattivo
compone- vano gli antichi un medicamento » col quale i capelli bianchi si
riducevan neri o biondi. Si Sono però, trovate a’ nostri tempi molte
ricette, ohe compensano largamente una tal mancanza. Cosi se i capelli
sìan bianchi, si posson ridut neri col far uso d*una pomata, a cui siasi
aggiunto una piccola porzione di nero d*aoorio ben macinato » oooero di
sughero bru- glato unito all’azzurro di Berlino. Resta pm assai
difficile di ridurli biondi » se non si vogUono adoperar polveri d^amido
leggiermente torrefatte. La miglior ricetta che si può per quest* effetto
accennare » é la seguente: si faccia una forte liscioìa di cenere
di sarmenti ; vi si unisca una piccola quantità di radice di brionia e di
celidonia; si faccia il tutto bollire; ed in fine vi Raggiunga altra più
piccola pdtr- zione di zafferano dell* Indie, di fiorì di stecaae e
di ginestra. Si coli per tela, e si laoino con una tal acqua piu volte i
capélli. fOft Per i compri capelli, e col denaro In
mancanza de* saoi porta gK altrou Nò il coidprar ciò palesemente
teca Ve^ogna i noi vediam che son venduti D* Ercole in faccia e del
virgineo coro. (a6) Che dirò della veste f Oro ed argento 10 non
ricerco ^ o che rosseggi tinta La lana in tiria porpora. Se mille A
prezzo più leggier vi son colori,,, É qual è dì follia segno piò espresso
Che di portar sul corpo i propr} censìf Ecco il color delFaria allor che
searca Si rimira di nubi, e il tepid*au8tro Non apporta la pioggia:
eccone un altro Simile a te che sostenesti nn giorno Come si narra,
e Frisse ed Elle quando Fuggir* le frodi d* Inoe. Imita questo
11 cernleA mare ^ da ciò traggo Il proprio nome, e di tal
veste 10 credo Si coprisser le Ninfe. Altro è simile (28) Si
rUeva di qui, che in faccia mi Tempia fMrtcata in onore d'Èrcole e delie
Muse, avevano i Romani una bottega 9 in cui vendei ansi i capelli.
' (a^) Frisso ed Elle figli dì Adamante Re di Tebe fuggir dalle
frodi d* Inoe loro matrigna, salirò no' sopra il montone ornato del Vello
d^oro^ che Mercurio diè in dono a Nefale madre d^ medesimi. Frisso
fu da quello felicemente portato in Coleo, ma Elle'precipitò in quel mare,
che prese da lei il nome d^ Ellesponto. Con ^esta favola vuol però dire
il Poe* ta 9 che era presso i Romani in uso ( e lo è pure cd di
nostri ) il colore che si assomiglia a quello dell* oro^ -Essendo il
giovinetto Croco impaziente di poe* cedere Snùlaoe sua dUetta amante 9 fu
trasformato in un fiore che dicesi volgarmente ZefBivano, o che da
lui Ica preso il nome di Croco. £t Grocam ia parros yersam cum Smilace flore». Ovid,
Metam. TOS
AI Croco, e qàaiido accoppia i Ittraihbsi Destrier, con cròcea
reste pur' si rela La rugiadosa Dea. Di'Pafo a’mirti ' Questo
assomiglia, e quello alle purpuree Amariste, alle rose biancheggianti
(29) Uno‘^ ed tin altro aÈa'straniera grue. Le ghiande tuè ti
sod pure, o Ainarilli, Nè ri tnancanr le mandorle, e il suo nome
Diede alle lane per la eera. Quanti Fiori produce la norella terra
~ Allor che fugge iUpìgro rCrnò, e stilla Gemme la rite ^
tanti beo la lana Color dirersi, e quello scei tu dei> Che
col tuo rolto Si confà. Ogni reste Non conriene a ciascuna. I neri
ammanti- Fan risplender le bianche. Assai più. bella firiseide,
allor che fu rapita, apparre, Perchè le membra accolse in negra
reste*. Odora alle brune donne il color bianco: E tu piaceri,
o di Oefeo, ( 5 o) In bianca resta allor che di Serifo
Passeggiar! le rie* Io diei consiglio Che del capro il fetor sotto V
ascelle Non passi, e che non sian per duri peli Aspre le gambe,. Ma
non io già deggio Delle caucasee rupi le £snciulle Far dotte, o
quelle che di Caico misio ÀmaUsta è una gemma, il di. oui colore è- quasi
simile a quel della porpora. La figlia di Cefeo à Andromaca: avrà
essa probabilmente passeggiai per le vie di Serifo > perchè è
questa una piccola Isola del mare egeo, nella quàU fu edueato Perseo suo
liberatore. Gli abitatori del monte Caucaso furore antica--
menteiCome lo sono tuttora, ferocissitni. FI Caico-è unfiu^ me della
Frigia e della Lidia ^ che proviene dalla JS/Lsia. Bevano all*onde. Che
non siano i denti V*ammonirò per hidblenza foschi, E che si
lavin sul mattin 1 ^ guanoe Con man dell’onda aspersa. Voi sapete
Pjocacciarvi il candor con distemprata Cera; e con Parte divien rossa
quella. Cui non colora il sangue suo la. faccia: Voi con Parte il
confin nudo del ciglio Fate ripieno, e voi con tenue pelle Ricoprite
talor |e vere gote. Stropicciar gli occhi poi non è vergogna
Con la cenere tepida „ o col crocb Che nasce presso te, lucido . Cinno.
(3a) Tengo un libretto picciolo, ma grande ^ Opra per il pensiero,
in cui i rimedj - Qià v’insegnai per la bellezza vòstra Con felice
successo adoperarono le Dame Ro^ mane la cera distemprata per far fianca
la peUe ; e con faUe^ ti Adopera ancora in questi tempi dalle
nostre Dame . Ecco il modo di prepararla: ad una parte di cera bianca di
Venezia si uniscono otto parti d* acqua, a cui si aggiunge una piccola
porzione d*alcali vegetale y e si di^cioglie il tutto finché non si
abbia una sostanza consimile al latte* he Dame ro^ mane solevano ancora
adornare co* colori, e riempire co*peli ben disposti quello spazio ài
pelle nuda che é fra il ciglio e il sopracciglio, s ! • Il le
•apercìlium magaa faligine tinctum « Obliqua producit acu.
Giovenale. Dalla Cilicia che è irrigata dal fasme Ciano
fa» cevano esse venire il zaffarono ed altre céneri atte a purgar
gli occhi dagli umori soverchp; e a renderli per cònseguenza
maggiormente^vivaci. Ha scritto Opì- dio un piccolo libro de medicamiue
faciei quale inségna alle Donne tutti i rimedj, che possono
contri» buire a far bella la lor faccia e le loro membra. Quindi
riparo alla figura offesa Cercate, che non è per gli usi Vostri
Inefficace Farte mia. L’apiaìite Non miri apertamente i vasi
esposti. Che Tarte ascosa giova alla beltade. A chi non
spiaceria mirar sul volto Stendere quella feccia, e lentamente'
Cader pel peso suo nel caldo seno? Quàl dall* immonda lana dell*
agnella €2
Fahhricavasi in Atene con In lana sudicia e molle un medicamento che i
Greci chiamavano Etipo. Le Donne facevano uso di questo per mollificare
le ulceri di qualche delicata lor parte. Vedasi Diosco* ride y
Plinio il Mattioli nel suo erbario ; che ne parlano a lungo, ed insegnano
la maniera di fabbri^ cario, ' Non d può accennare qui il
modo, con cui prepa^ radano gli antichi i midolli della Cerva yper
averne un composto atto a far bianchi i denti, era i molti medicamenti
che hanno per quesV effetto inventati i nostri Chinùci, ci piace di
riportar qui la polvere, V oppiata i e le spunghe ; di^ cui dà Mons,
Beaumé la ricetta nella sua Farmacia, Ad un*oncia di pomice,
di terra sigillata^ e di corallo rosso s*aggiunga mexz*oncia di sangue di
Dra^ go, un* oncia e mezza di cremar di tartaro^ se ne fac^ da una
polvere sottilissima, e vi si unisca una pie- cola porzione di garofani e
di cannella. Per compor quindi V oppiata > si prenda un* oncia
della polvere suddetta, due once di lacca rossa da Pittori, quattro di
mele di Narhonne, due di siroppo di more ; a queste ù uniscano due gócce
d* dio essen-- ziale di garofani, e si avràr un* oppiata, che S4^à
opportuna, come la polvere, a ripulire, imbianchire, e preservare i denti
da molti incomodi. Una stessa virtà hanno le spunghe preparate,
e intrise in una tintura fatta con lìfibre quattro a^ua, in cui
abbina hoUUo quattVonce di legno del Bras^* Daraiìne ing^rato odòrè- il
'sugo estratta^ Benché da Atene a noi si mandi t Inverò^ Lodar non
so cl^ alla presenza altrui Della cerva i midolli insìem mischiati
Piglinsi, e che palesemente i denti Si faccian netti* Utili alla
beltade Sono. tai cose, ma deformi troppa Agli occhi nostri* Molte
cose fatte Piacciono, e turpi son mentre si fanno» Le statue di
Mirone opre famose, Furono inerte peso e dura massa, Per farsi
anello, Toro in pria si frange, E quelle vestì, onde vi fate
adorne,, Furon. sordide lane* Era aspro marmo,. Mentre erano a
scolpirla intenti, quella Statua nobile in cui Venere nuda Trae
fuor dall* onde gli umidi capelli. Fa che pensar possìam che dormi
allora Che tu Vadornì, Io lusingl>ieTa forma Sarai mirata se
alla tua cultura le, tre dramme di cocciniglia soppesta, e quattri)
di alume di rocca . Quando queste spunghe si sono, imbevute d* una
sufficiente quantità d* una tal tintura, si fanno asciugare, si pongono
per alcune ore nello- spirito di vino, a cui siasi aggiunte una porzione
di- olio di cannella y di garofani,.e di spigo ec.; quindi si
spremono, e sì conservano per valersene al bisogno, ih vaso di Oetre ben
ehiuso. Mirone discepolo d^ Ageladé seppe formare in bronzo còsi
perfettamente le statue, che Petronio dite aver egli compreso nel bronzo
V anima degli uomini e delle bestie Alludesi alla famosa statua di
PrassiteU, che rappresenta Venere nuda neW atto d^ uscir dal
mora. Fu questa collocata in Roma nel Tempio di Bruto Callaico
insieme col Colosso di Marte pvesso - il Circeo ffaminio Diligente darai
T ultima mano. Del talamo le porte ben raccbiudi.
Perchè vuoi far^ palese un’opra rozaaf Molte COEC' ignorar gli
uomini danno. Di. cui gli ofiendón molte, se non copri Ciò, che et d’uopor
di tener, celato. Vedi quelle che pendono^ da un culto> Teatro
aurate statue, a osserva bene Qual lieve foglia il legno lor
ricopra.. Ma come quelle al popolo* non lice Veder ae non
sien poste in vaga mostra^ Così se non elea gli uomini lontani,
Non si procuri d’acquistar bellezza. Non vieteiò cbe al
pettine abbandoni Palesemente 1 tuoi capelli, quando Scender potran
per tutto il tergo aspersi. Di non esser procura allor molesta, •
Ne aciorre spesso le mal calte chiome. Sicura sìat quella che il crin t’adorna;
Odio colei che le ferisce il volto Con l’un ghie liCi con rapito ago le
punge 1 ( braccia Allor d’ancella là detesta. Le tocca il
capo, e sull’odiate trecce* Col piaotn suo scende mischiato il
sangue* Quella che il capo.ha.quaai calvo,ipoDga^ Sulla porta il
oustode, o della Dea Gibele al ten^pio ad adornar si vada. ’ CibéU aveva
in Roma un Tempio, in cui non potevano aver gli uomM V accesso: 4 Sacra Bona maribas non adeunda
Des. Tibullo, Insinua pmttauio Ovidio con questa frase
Me Donne di non pettinarsi alla pretenza^ degli uomini^ se non so»
Mli i ìorq capelli fui annunziato airimprovviso un giorno A una
-donzalla; e torbida i non suoi Velò capelli. Uo tal ro 88 or >
ricopra La faccia alle nettiicbe, e questa^ infamia Fra le
particele Nuore abbia soggiorno. Turpe è Tarmento senza corna, e
turpe Senza gramigna è il campo, Tarboscello Senza le foglie, e
senza i crini il ^apb» Non-vennero ad udire i miei precetti Semele,
Leda ^ o la sidonia donna Che via portò pel tnar fallace Toro, O la
tua sposalo Menelao, cW chiedi Bene a ragione, e che a ragion si
tiene 11 Rapitor Trojano^Ecco una turba Di belle donne
e dì deformi a un tempo ( Ahi sèmpre il ben dal male è snperato ! )
Che chiède i miei precetti, ma non tanto Cercan questi le belle, e men
dell^rfe Procurano rajoto. Han quelle in dota Beltade senza Parte
assai possente. Quando tranquillo è il mar, sicuro bessa^ Il
nocchier dal lavoro, e mentre è gonfio Si asside, e in opra pone ogni
socConk). Rara è beltà che senza macchie Sia; Le cela, e i
vizj del tuo jcorpo ascondi Semeie figlia di Cadmo He di TeÒe
e.madre^ di Bacco, Leda figlia di Tindaro, e sorella di Ca- stare e
Pollice, Buropa figlia di Agenore He di Fenicia ove giace la città di Sidone,
da cui élla vieti detta Sidonia, furono dotate d’una tal bellezza,
che innamorarono vivamente lo stesso Giove, il quale non^ ebbe à
vile di prender per esse le più strane sem^ hianze. Queste con Elena
mogUè 'di Menelaosi pro» ^ pongono qui dal Poeta, come eiélnpi troppe
rari dì: perfetta bellezza. Quanta più puoi'« Se di statura breve
Tu sei, t’assidi, onde seder non sembri Allor che in piedi stai. Se oltre
misura Però lo fo^si^ allor ti porca, e ascondi Con le vesti
su’piedi un tal difetto. Quelle che sono gracili e minute Debbon di
grossi drappi ornarsi, i quali Sciolti cader si lascin dalle
spallo. Tocchi il suo corpo con purpurea verga Chi è pallida ; e chi è nera abbia
ricorso Al fario, pesce. Un piò lungo e deforme Sottu candida
alunda pgnor si celi, Nè secche gambe .sciolgansi da lacci. È certo,
gU onticfd aoéoano de* medicamenti, co* quali ti coloravan la faccia ^, benché
non d sappia di qual natura^ quelli si fossero . Il belletto >
che si usa pretentemente è composto di rosso e di biancone sarà forse pià
efficace di quel che adopra* vano le Daàte romane. Si è per qualche,
tempo im-^ piegata Cernita il magistero di Bismuto^ detto
altrimenti bianco di spanna com« quello, che avendo un leggiero color d’incarnato,
era pià analogo aHa pelle ; ma sì l’una che l’altro anneriscono e
guastano la carnagione, mentre tutte le calci metallici^ riprèndono una parte
del loro flogisto, e, si ripristinano Si è pertanto sostituita alla
cerussa ed al bismuto la pomata di spermàceti^e l’olio di mandorle
dolci, unendovi una porziànè di falco'biancò finissimo. Col talco
bianco ùmilmente barico,della parte coloranto de* fiori di Cqrt^mfi j a,,cui
si aggiungono poche gocce di olio di Beri, per renderlo pastoso è molle,
si compone il roiso y che ancor chiamasi-rosso di porto- gallo o
roSso'vegetale. Il /arto pesce é il Coccodrillo y degl* interiori e della
sterco del quote sh servivano i Homani e(f i Greci per fare un composto
atto a render bianca e splendida, lo pellé. X’Alauda b una pelle
moUissiuia, Tenue eoscm conviene ad alte spalici E se il petto sìk
turgida, il circondi Fascia, e lo stringa. Se le dità pin^ui^
E scabre T ùnghie avrai, allor di rado Accompagna congesti i detti
tuoi. Chi grave dalla bocca esala oddte ' Digiuna mai non parli ^ e
dalla bocca Deir uom stia lungi. Negri, e troppo grandi Se i denti
siéno, o in non belFordin natii Massimo il «iso allora apporta
danno. Chi ^1 crederiaMiC donne apprendon pure Le. maniere
del ti80,'e in qùesta parte Nuovo per lor procacciano òtnatoeùto.
Non troppo-larga apri la bocca, e brievi Sian le pozzette in ambedne le.
gote, E le radiche ognor copra de’denti L’estremità de’labbri,
e non bisogna. Affaticar con smoderato riso . Il fianco,
mentre deve ancor nel riso. - Dar proprio, delle donne urf dolce
sùono'. V’ è pur chi in mille guise il volto- Con male acconce
risa*, ed altra credi Piangere allor che tutta allegra ride$ Quella
tramanda un, rauco suono ; e stride Cosi inamabilmente, che ^assembra
; Asìnella che ragli, allor che intorue s 5 Alla macina gira.^E'do
Ve l’arte ^ Non giugno ? Coù decòro itnpajfan ) A
lacrimare, e come, e qhandò sembra, ^ Loro opportune. E che dirò di
quelle. Che niegano agli accenti intera forma, E fan
con studio balbettar la linguaf ^ Credon che sia lìa grazia ancor nel
viziò^. E pronunciano mal varie paròle^ rrii E con arte
studiata altre ne lasciano. A tutto ciò, che ben giovar vi
puote^ Ponete cura, e con femineo passo Imparate a portare il corpo
vostro^ Havvi nel portamento anco il decoro. Con cui si
fan fuggir, con cui si allettano Gii uomini ignoti. Muove questa il
fianco Con arte, ed ondeggiar lascia le gopne Air aure in preda, e
stesi i piedi porta Con maniera superba. Altra cammina Qual deir
umbro marito la consorte (4o). Rubiconda, e con piede in dentro
volto rapassi move smisurati •y in q^uesto Serbisi, e in altro pur
giusta misura» Rustici ha questa i moti, e troppo quella^ E molli e
ricercatk LMraa* parte Della spalla, e r estrema ancor del braccio
Di nuda, onde chi posto è al manco lato Veder la possa. -Hi special modo
a voi Gioverà che qual neve avete bianca Ina pelle. Quando questa
io mira, sem-pr^ Sulla spalla scoperta i bacci imprimo. Col dolce suon
della canora voce Fermàr le navi più spedite al corso Le Sirene*
del mare iniqui mostri. Condanna OVIDIO
(si veda) a ragione come rozze le mogli degli Ultori popoli forti e a un tempo
stesso /«- voci f che abitarono in Italia sul monte Appennino, I>c
Sìrerse sono tre barbari mostri che dimorarono nel mar di Sicilia, Col suon
lusinghiero deWarmoniosa lor voce'allettavano queste in tal maniera i
naviganti, che si lasciavano essi predar facilmente. Ulisse per evitare
un tanto pericolo, chiuse con la cera ^^^cchie suoi compagni^ e si legò
strettamente'^ M albero della na^e ^da cui si disciolse dopo
jia Udite qneste, se medesmo sciolse DalParbor della nave, e
con la cera Chiuse Ulisse accompagni ambe le orecchie. È
lusinghiero il canto . Le fanciulle Apprèndano a cantar ; la voce a
molte Senza bellezza conciliò gli affetti. Cantino quel che udirò
ne’ marmorei Teatri f ed or versi costrutti in metro Niliaco; e culta
femina tenere Sappia per mio giudizio or nella destra 11 plettro,
ed or con l’altra man la cetra. Il tracio Orfeo con la sua lira mosse Le
fiere, i sassi, le paludi stigie, Ed il triforme Cane . O della
madre Giusto vendicatore al canto tuo Cortesi i sassi fabbricar’ le
nlura. Benché sia muto, il pesce ( è nota al mondo Favola) al
suon del arionia lira sentito il dolce cànto di quelle . Le donne imparino
dunque a cantare,se ooglionsi conciliare, come dice Otfidio, P qmore
degli uomini, E!ran famigliari a* Romani le canzonette ame^ rose, e
spesso lascile, ahe si cantavano in Egitto, ove scorre il celebre fiume
Nilo, Orfeo nato in Tracia da Apollo e da Calilo • pe col suono
armonioso della sua Lira fece sì che gli corressero dietro per ascoltarlo,
gli alberi, i sassi, i fiumi, e le beloe feroci: Quand* egli intese la
morte d* Euridice sua moglie, scese con la lira all* Infernot e con
quella intenerì talmente gli Dei infernali, che a lui la restituirono,
purché non ardisse di riguar-- darla prima d’uscir dall’Inferno, Non p9té
l* amo^ toso consorte obbedire a tal legge, e però ella dovè
involarsi a suoi sguardi subito ch^ ei la mirò Anfione figlio di Giove e d’Antiope
indusse le pietre col suon della Lira a fabbricar le mura della
città 4i Tebe. Picesi vendicator della madre, perchè. Si fe* pietoso .
Anco a toccare impara Con Tana e l’altra man le dolci corde Del
Salterio ; son atte a cari scherzi Di Callimaco a te smn noti i
carmi. Quelli del eoo Poeta, e quei del tejo Vinoso Vecchio. A te
Saffo sia nota (Son più degli altri i carmi suoi lascivi) E
quel per cui viene ingannato il padre Del servo Oeta con la callid’ arte.
Del tenero Properzio i versi leggi, O quei di Gallo, o quei
del buon Tibullo, O i velli insigni per le bionde fila insieme fratello
Leto la vendicò dall’ingiurie, che recatale Ideo di lei marito y col
trucidarlo nel letto y ove lo sorprese con Dirce sua concubina y a
cui pure tolse la vita. Atwne nacque in Metinna, e fu im
eccellente Po&^ ta lirico, e nel tempo medesimo un ricco
mercante. Ufosid alcuni suoi comùttadini dal desiderio di godere
delle sue ricchezze fissarono di gettarlo in mare, mentre egli se ne tornala
alla patria. Accortosi di ciò Arione cantò intrepidamente una canzonetta,
ed un-' Delfino, allettato da una sì dólce melodià, Vaccai^ se
sulle sue spalle y e lo portò in Tanaro promontorio della Laconia, Accenna
ora Òoidio i Poeti che piacevano ai suoi tempi, e per lo stile e per le
materie galanti, come a* dì nostri piacciono Ariosto, Passo, Guaritù,
è Metastasio ec. Fiteta fiorì a* tempi d*Alessandro Magno per li
suoi' versi elio^afici, e dicesi eoo Poeta y perche Coo /if ia sua
patria. Anacreonte nacque in TeJo, e scrisse mol^ te canzoni veramente
leggiadre in onore del buon vino, delle donne y e del giovinetto Batillo. Terenùo
compose una commedia, in cui il padrone, ed il fratello sono ingannati da
Geta asti^^ to lor servitore. one Àttacino cantò ne* suoi versi la
spe^ dizione in Coleo degU Argonauti. Il vello d* oro, che
j ii 4 Che far fanesti, ó Prisso ^ alla tua
aaara Cantati da Varrone, q il pio Trojano Di coi non y’ha nel
Lazio opra più chiara. Ma forse un dì con 'questi andrà conginnto H
nome nostro, nè i miei scritti in Leta Saran dispersi/Dirà aldino: leggi,
I culti versi del maestro nostro^ Con cui poteo far dotti
uomini c donne.^ Fra’suoi tre libri che hanno infronte scritto
II titolo d* amor 9 scegli que^ verai t Che legger tu potrai con
docil bocca Più mollemente ; oppur con ferma voco, Canta P Eroìdi,
ignota opera agli altri Ch’egli compieo. Ahi cosi piaccia aFebo^
Pel corno a Bacco insigne/ ed allò Muse, Numi che son propizj a noi
Poeti. Chi dubitar potrà ch^ìo la fanciulla Non voglia al
ballo istrutta, onde poi toltq Il vino dalla mensa » ella le
braccia Volga in composte ed ordinato moto? Amansi i danzator che
della scena Sonò spettacol, perchè san con arte: V Saltare y e con decoro. Io mi
vergogno Di doverla ammonir di tenui cose, _ questi ivi
andarono a conquistare, fu funesto ai Elle sorella di Frisso y perchè
ella, come si è accennato y cadde miseramente in mare, mentre il Montone
ador^ no d* un tal vello la portava insiem col fratello ih Coleo,,
Tl pio Trojsno h, come è noto y Enea, sulle aùoni del quale ha scritto
Virgilio quell* aureo Poe» ma che porta il nome d* £aeidb. OVIDIO (si
veda) fra l*altre sue opere annovera ancora ire libri d* Elegie
intitolati gli Amori, ed un libro - intitolato V ^roidi, perchè comprende
ventuno lettere amorose y che fa scrioère scambievolmente dagli
Eroi all’Eroine^ e dalfEroioe agli £roi. P’istruirla a gettare or
l’aliosso, £ a conoscer de’ dadi anco il valore. Or tre
numeri getti, ed ora accorta Pensi qual parte segua acconciamente E qual
richieda. Canta in finta guerra (5o) Muova i soldati, che da duo
assalito Nemici uno perisce. Il Re sorpreso Senza la sua compagna ^
si difenda Da se medesmo, e f’emulo ritorni Per lo stesso seotier.'
La tasca è aperta^ E ornai son sparse le pulite palle; Quella che
prendi sol muover tn dei. Ravvi un: gioco diviso in tante parti
(Sai Quanti numera mesi il luhric^anno. Breve tabella prende
da ogni parte (S3)- Tre tenni pietre, e il vincere consiste Nel
disjpor queste in una dritta Mille giochi vi SOI» che turpe fia A
una donzella d* ignorar ; col gioco Si può l’amore conciliar.
Leggiera Fatica è appreodero a giocar ; maggiore Opra é il compmrre
allora i suoi costumi. Non sappum Diramente per qual ragione si~ éovesse
procurare tempi, in cui vivcóa Ovidio di gettar tre numeri nel gioco d^
Dadi. 5 •S£r»/erÌjco»o questi
versi al gioco degli Scacchi. (Si) questo un gioco, di cui non
possiam dare tucuna notula. Sembraci f che sia questo il
gioco, che r pure * dell» Dama. Alludeu (d gioco del Filetto, che .
or gioeano' nule campagne i ragazzi. Così b decaduto un gioco - 0^
formava la delizia delle Dame romane, e coi» aecaderanno ancor quelli che
si hanno in pregio a‘ dk nostri, ® ' Mentre s’applica al gioco,
incanti siamo, E i reconditi sensi alloc dell’ alma Facoiam
palesi. Ci deforma il volto ^ j Il cieco sdegno, e sono ognot col
gioco Il desio del guadagno, le .pontese, » 11 sollecito
duol, le stolte tìsse.^ j Rinfaccìansi i delitti ; di clamori
* V aere risuona, e in sno favor s’invocano Gl’ irati Dei.
Non v’ è fede nel gioco Il qual co’ voti non divìen secondo;
Vidi le gote ognor molli di pianto: Da voi che amate di
piacere all’uomo, Giove tenga lontan questo delitto. Diè la pigra
natura allo fanciulle Silaili giochi ; ad altri pii sublimi
S* applica l’ uom: per lui sono il paleo»
I dardi, 1 ’ armi, le veloci palle; E il cavallo
costretto a gire i^^no. Voi non acosf^il’-campo.o'ra gelata Vergin, nè voi
sulle sue placid’ onde j Porta il toscano fiume* Ah ! voi potete
Gire all’ ombre pompeje, anzi vi giova 1 Quando i destrier del Sole
ardono il capo H Paleo i urto strumento fatta a guisa Jt trottola,
eoi quale giocaoano i fanciulli romani fa- tendalo con una sferza girare
intorno. Nel Campo Marzio si esercitavano » romani in tutti
que’giuochi cU potevano «P^* renderli valorosi guerrien. Era ivi
ta Vergine dalla fanciulla che ne scopri la sorgente, ed in
quella si lavavano i giratori le di polvere e di sudore. Il Tevere
e qui detto fannie tascsno, perchè dall’Appennino la
Toscana nel f<u-t il siSo corso alla wta di tioma. Annoi, q. del fàh.
I, ^ Alla vergin celeste. I sacri a Febo (5^) i’alagi visitate ;
egli sommerse In alto mar le paretonie navi. I monumenti
ancor» che fur costrutti» Dovete frequentar, da Ottavia e Livia Una suora
del Ehjce, altra consòrte, E quelli pur del valoroso Agrippa,
Che ha cinto il capo di navale onore. Della menfitica Iside agli
altari Siate frequenti, ov^ ardesi P incenso, E ne’luoghi
cospicui a’tie teatri. Di caldo sangue le macchiate arene Ite
a mirare, e la prescritta meta. Rapido intorno a coi si volge il
cocchia. Quel che si cela ò ignoto, e ciò che è ignoto Nessun desio
risveglia ; è lungi il frutto Se manca il testimone a un bel
sembiante. Benché nel canto superi Tamira Dicé con OVIDIO (si veda) ancora
VIRGILIO (si veda), che Apollo nella guerra Azziaca prestò il suo
soccorso ad Augu^ sto y il quale aveoagli innalzato un ternpio nel
pro^ prio palazzo . Apollo in conseguenr^a, ^Hcondo questi poeti,
sommerse le navi egiziane deste paretonie da Paretonio città marittima
d*Egitto, che Pompeo avem va armate contro d*Augusto. Ved^i l*annot,
8 e g del Libro /. Augusto decorò A grippa suo generò della Corona navale
dopo d^aver debellato Pompeo ^ ed innalzò al medesimo un portico y
che fu chiamato il Portico d’A^rippa. Annoi, li del Lib, /. Dice Sirabone
che giacevano tre superbi Teatri in vicinanza del Campa Marzio. Fu
Tamira un poeta tragico che ardì con la sua lira di provocare le stesse
Muse ^ credendosi a quelle superiore nella dolcezza del
cantoma\dalle medesime fu vinto, ed in pena della' sua arrogwiza
gli furono tolti gli occhi. Ed Àmebeo, sarà priva d’ onor« L’ ignota
cetra» Se di Coo il Pittore Vener ritratta non avesse^ immersa
Sare^bbe ancor nelle mailne spume. £ che ricercan maggiormente i
sac^i Poeti che la fama ? E questo il fine Cui tendon tutte le
fatiche nostre. Fur de’Numi e de'Re delizia un giorno. 1
Poeti, ed immensi ottener premj I cori antichi* Venerando allora,
£ d’ una santa maestà ripieno Fu questo nome, ed ebbero
sovente Larghe ricchezze. Ennio che il suo natale Trasse ne’monti
calabresi, degno Si fé’ d’esser unito al gran Scipione. (6i) Or
giaccion senza onor Federe, e il nome Ha d’inerte colui, che i sacri
studj Cari alle Muse a coltivar s’accinge» Giova cercar la
fama, e chi d'Omero Contezza avrebbe, se in obblió sepolta
Ateneo^ Plutarco ed altri parlano con somma lo^ de d*Amebeo
ateniese, perchè sonava eccellentemen- te la cetra, Apelle nativo di Coo
dipinse Venere nel- ratto di uscire dalVonde marine \ ed Augusto
coliocè una tal pittura nel Tempio dì Cesare suo Padre, ÉrUiio è tra
i Latini un poeta che si può da- gV Italiani paragonare a Dante.
Ennius ingenio maximus, arte xudis. Owd. Trist, Ub. IL EL
I, Fu egli, nativo di Rudia in Calabria, e visse sommamente caro a
Scipione Affricano il vecchio, ed a molti altri insigni Cavalieri romani.
Morì in età di anni settanta, e dicevi che fu collocata la sua statua di
marmo nel sepolcro degli Scipioni. Cicerone ^ro Archia Peata, così parla
di ciò: Garas fuit Af- iiricano superiori ngster Ennius ; itaque in
tepulcro ScipioQum putatur is esse constitutus e marmore.
L'Iliade o^ra imxnortal foase rimasa? ^ Chi Danae conosoiata avr^a,
se ascosa (6a) Posse étata mai sempre^ e «e già vecchia' Si
fo8a''ella lacchiusa eptro la torre? Utile è a voi, bèllé e vezzose
donne, Di porre oltre le soglie il vago piede< La
lupa a molte agnello insidie tende Per predarne una, e sopra molti
augelli Vola 1 Augel dj Giove. Il volto mostri Sposa_ leggiadra ^1
P®poI<>> o fra molti Un solo appéna rimai^rà sua preda.
In ogni loco ove si tro^, attenda Sempre a piacere; ed abi>ia
special cura Di sua bellezza. Puote in ogni incontro Sempre molto
la sorte. Getta l’amo, Chè in quel gor^o, ovemen lo pensi, il pé^co
t alor SI trova . Erran sovente indarno Per boschi montuosi i cani, e il
cervo Cade fra’ lacci, mentre uinn l’insegne. D Andromeda
l^ata a un duro scoglio Il niTPf far, che a un uom piacesse Il
pianto sue ? ài cerca spesso un uomo Ne funerali del marito ; i
crini Sciolti portar conviene, e sian la gote Di lagrime
bagnate . Ma fuggite Gl, uomini che d’aver le ^mbra adorne hi
fanno un pregio ; della lor beltade Vanno superbi, e portano le
chiome Con ricercata simmetria, disposte. Ciò che dicono a
vói, dissèro a m{llé; D’ uno in un altro àmot Tàgando vanno,
Senza restarsi in dmha "parte mai. Che d’un tal uomo
effeminato, a cui Forse molti non mancano amatori. Dee fer la donna
? 11 crederete appena. Ma credetelo pur, Troja' àncor ferma Starebbé,se di
Priamo avesse ih uso\ Posto gl* insegnamenti . H'a^yi di quelli Che sotto
il mantó di fallate amore V’assalgono, e tiòèrcan coh‘ tai mezzi
Vergognosi guadagni . Ntìn la chioma Per il liquido nardo nitidissima
^ V'inganni, o breve fascia con cui stringa Le pieghe della veste ;
nè v’ illuda Toga che sia di tenue,fil tèssuta; O anel con
cui s’adorni uno o più. dita. Chi fra questi è più colto, è forse un
ladro, E d’ amore arde per la ricca veste. Gridano spesso le
spogliate Donne; Il mio a me rendi, e il suon per tutto il
foro Rimbomba, e s’ode ; a me deh rendi il mio. Tu da tuoi templi
d’oro adorni miri Con le femmine d’ Appia indifferente, Venere, queste
lìti, Ancor vi sono Pessimi nomi'pei^'non dubbia, fama-. Priamo
iruinuava «’ tuoi Trojatti di rtrtdtr
àoeva nella via appia tomo al quale abitarono molte
donne sacrifici che queste rendevano a quella lor lare,
consistevano in prestar liberante tl lor corpo alle voglie sfrtnatt
desìi uomm Iwrnnio E molte che rimasero ingjinnatp Da molti amanti,
or d’ un egual delitto Si trovan .ree. Dalle quetele altrui;
Imparate a; temer le^ vostre ; chiusa, Sia mai sempre la porta ad
uom fi^lace. Donne ateniesi, uon prestate fade (j66)‘ A Teseo
ancor, che giuri In testimonio
Come invocolli nn giorno, i Numi invoca. Tu del delitto, oJDemofonte,
erede. Di Teseo più non meriti credenza, Perchè ingannasti Fillide . Se
molto A te pròmetteran, loro prometti j Con eguali parale . So di
doni, Ti siano liberali, lor concedi I promessi piacer, ma se
gli nìeghi II dono ricevuto, ancor potrai. La fiamma estinguer
deUa vìgil Vesta, Rapir da’templi dTside gli arredi, E air uom porger T.
aconito mischiato Con la trita cicuta«tll mio desire, Mi
spinge ora a ;fcenarmi, e: tu ritieni. Musa, le brìglie: nè le mosse
rote * Ti dian.terror» Tentino in prima il guado Ov..Arte
d-am. Teseo abbandoni Arianna in Nassa, Demofe^nte non serbò a
Fillide la premesti^ di ritornarsene a lei dentro due mesi, Con
questi versi vuol significare il poeta che è capace di commettere ogni
sceUeratezza quella don~ na, che nega il favor suo a quegli uomini da*
quali ha ricevuto de^ doni, Riputavasi in fatti da* Romani un
enorme delitto il rapire il fuoco custodito dalle Vestali, o i .sacri
arredi del tempio d’Iside; e da ogni nazione si è creduto sempre
colpevole colui che porge alVuQmo /^aconito con la cicuta, cioè il
vet^no. Xrli scritti fogli, e T inviate cifre Riceva accorta ancella
. Apprendi e vedi Dalle stesse parole che tu leggi, Se finga,
o par se son sinceri i prieghi. Dopo breve dimora ognor rispondi^
Mentre, se è bre;i^e, è stimolo agli amanti. Deh non prometti al
giovin che ti prega D’ esser docile mai, ma in duri accenti Non.gli
negar ciò che dimanda . Tema E speri a un tempo^ e ognor che tu il
licenzi Sia minore il timor, maggior la speme. Scrivi culto parole
e consuete, Che un famigliare stil più eh’ altro piace. Ah
quante volte arse per dólci note II cor di dubbio amante, e fu
nociva Una barbara lingua a bella Donna! Benché voi siate
nell’onor perdute. Tutte le cure vostre or son dirette A ingannate i
Mariti . Idonea mano D’esperto giovin, di fidata ancella Rechi le
dolci lettere, e tai pegni Non sian fidati ad un novello amante.
Vidi ben spesso impallidir le donno Per tal timore, e vìvere i lor
giorni Miseramente in sehìavitudin dura. Perfido è quei ohe
tali doni serba. Che qual fulmine etnèo sono in sua mano. Si
può tener, se al vero io non m’appongo, Lungi la frode con la frode
ognora; Contro gli armati impugnar 1 ’ armi, logge Nissuna vieta .
A imprimer sulla carta S’accostumi la man diverse cifre. Ah ! peran
quelli contro cui vi deggio Avvertir di tal cose. In foglio mondo La
risposta si scriva, onde non sembri Da due mani vergato . Al suo
diletto Scriva la donna, .come un uòmo amante Scrive air amata » ed
usi V uom V opposto. Ma da lieve materia innalzar V alma Ora a me
piace a più sublimi cose, E le vele spiegar gonfie dal
vento. Opra è del volto i rabidi trasporti Saper frenar: candida
pace all* nonio Convien come alle belve ira crudele. Si fan
per Tira tumide le guancie; Vengpn nere le vene, e inocchio splende
Più truòemente del gorgòueo ‘fòco. Vanne lungi da 'metromba
importuna^ Disse’Pallade ^ allór che il volto suo (*^0) Mirò )iel
fiume . Se voi iii mezzo all’ ira Riguardate lo specchio ^ alcuna appena
liistinguére pbtm W figura. ' Nè dannosa a Voi supérbr^^
facòià j TurgidJ il voltò ; có^ be^nigiii sguardi Deèsi a^es9ar 1 ’
amóre ‘J Odiahio ( e voi Già 1 fó^cre((efé che. ìie siete esperte)
‘ I fasti inambderatl^e spesso chiude Deir odio 1 sómi
taciturna faccia. / Guard^ ^uel che ii mira, e ùi olle mente
Sorrmi 'a^ueì cjhe rid^ e se à te un cenno §ia . Gorgoni étart t^e
mostri \^enimente orribili per ìaHesta circonddia di serpi, e per Vocchio
spaven^ tegole che ateoanò in: mezzo alla fronte . Chi fissava
occhi in faccia*'alle medesime, rimaneva di sasso, Pallàde /
sécorido^alcuni y gettò via la tromba, perdhè ^s’accorse chè ih sonarla
si faceva troppo gòHf^ la faccia. ‘ ' Con tai preludj il
favcitilletlo Amor» Pose i rozzi da parte, e diè di piglio A!
dardi acuti della sua faretra. Vadan lungi da noi le donne
meste; Ajace ami Tecmessa t noi sol puote Tener ne’lacci suoi
lemina allegra.Non fa giammai che a voi porgessi preci, O Andromaca o
Teome^sa, onde a me foste O r una o Valtra amiche. Appéna posso
Creder che in letto maritar giaceste, Quando, a crederlo astretto io son
da^iiglL Fprse ad Ajace la dolente sposa ‘ Avrà detto: mia luce, e
gli altri accenti, Cari agli uomin|^ tanto f £ chi mai Vieta,
Applicar gravi esempli a tenni cose, E di guerrier non paventare il
npmef Cento soldati a questo^ il Duce esperto Diè a regger cop la
vite,|è a quello cento Cavalieri, e lasciò'T altro in custodia ^
Delle l^andiere A; qual vedete impresa Atti noi siamo ; e^nel suo
posto'o^gntipo ^ Venga locato. Un ricco a voi dia doni^ ' Vi sia
propizi o, il Giudice, e ; il facondo ‘ Difenda i dritti vostri .'|loi
poeti, Donp possiam far solo di carmi. 3a più degli altri
amare il coro nostro; Andròniaca dopo ìa rnòrté ^&toré amato sud
sposo, r dopo V incendio di-Trofa-fpssssò for i rn i s uns nm ti alle
nozze di Pirro ^ e però vìsse con ^uosto/s^ssai malinconicà. Teemessa,
moglie di Ajace, er^ una schiava y e però, secondo Ovidio y. doveva aver
sempre Vanirne occupato da una grave, tristezza Da/ Comandante solevansi affidile^cento
sol- dati al Centurione il quale aveva per sua insegna U 9 ramo di
vite. Uua grata beltà cott ampie lodi Sappiamo celebirare, e va
fainoso Dì Nemesi per noi, di Cinzia il nome. E dove nasce, e dove muore
il Sole Conobbero Licori., e chieggon molti Chi sia Corinna nostra.
Aggiungi a questo Che son T insidie ignote a" sacri Vati,
Che giova V arte nostra a^ lor costumi. Kpa ambiziosa voglia, e non
desio D’aver ci punge. Noi sprezziamo il fòro E son graditi a noi V
ombra ed il letto. Facili amiamo ognor con certa fede, £ in
vasto incendio, il nostro core abbrucia. Con placid’arte docile T
ingegno Facciamo, e ben s’adattano co nostri Studj i postumi. A*
Vati aonj, o donne. Siate indulgènti, che gl^inspira un Nume,. E
lor son fauste le pierie uive. Ci agita un Dio.; abbiam col Cièl
commercio;. Ci vien lo spirto dall* eteree sedi. Chiedere il pre^o è
scelléra^in grande Ad ottimo Poeta. Oh me infelice. Che scelle
raggio tal piti non si teme Dalle jauciulle • ALmen dissimulate,
Nè vi fate veder tosto rapaci. No, non cadrà nella prevista
rete Un novèllo amatore . Il Cav^aliero Nemesi è amata a celebrata
da Tibullo, Cia zìa da Properzio, tdcori da Gallo, a Ovidio ha^da^ to ne^
suoi versi alla propria amante il nome, di Corinna. Le Muse si
chiamavano le Dive pierie, 0 per^ chi abitarono nel monte Pierio in
Tessaglia, o perche vinsero e trasformarono in gazze le figlie di Pierio.Non
reggerà T indomito cavallo Al par di quello che già al freno è
avvezzo* Nè lo stesso sentier batter tu dei Per adescar la verde
gìoventude, E le menti già stabili per gli anni QuelP
inesperto, che la prima volta Sotto si pone all’amorose insegne.
Che preda nuova nel tuo letto giacque. Te sol conobbe, e a te sia
unito ognora; Si cìnga d’ alte siepi una tal messe. Schiva d’aver
rìvjaì;ta vincerai, S’ei r amor suo con altra non divide; 1
regni e amor non vogliono compagni. Quel che invecchiò nell’ amoroso
agone. Con prudenza amerà, saprà soffrire Ciò che invan soffrirla
guerrier novello. Non frangerà le porte, e non furente Fiamma v’
applicherà. Non dell’ amata Farà con 1’ unghie ingiuria al delicato
Volto ; e non straccerà della Fanciulla Le vesti, e non le proprie ; e
per dolore Non svellerassi i crini • Questi eccessi Convengon solo
a’ Giovanetti acerbi Caldi per poca età, per troppo
amore. Tranquillo ei soffrirà la cruda piaga; Qual face
inumidita a foco lento Abbrucìerassì, o quale in giogo alpestre
Fresco ramo reciso: è quest’amore Più certo, è quel più breve e più
fecondo. Con sollecita man cogliete i pomi Che fuggon. Tutto ormai
s* insegni; schiuse Son le porte al nemico ; e siate fide Mentre
ingannate altrui. Facil Donzella Puote mal conservare un lungo
amore. Sla la ripulsa rara » e venga sempre Da lieti scherzi
accompagnata • Giaccia Alla porta nrosteso, alto gridi: Porta
crudele ; e molte cose umile Faccia 9 e molt^ altre minaccioso. Il
dolce Noi mal soffriam ; ci sana il succo amaro; Pere spesso la
nave » e fausto ha il vento. Ecco perchè non amansi le mogli; Seco
stanno i mariti a grado loro. Chiudi la porta 9 e in aspro suon
TuBciero Gli dica f entrar non puoi ; escluso, in seno Di lui per
te si desterà l’amore. Deh riponete i rintuzzati brandi; Con
gli acuti si pugni, ch^ io con l’armi Mie già non temo d’ essere
assalito. Mentre ne^ lacci un amator novello Cade, gli fa sperar
xhe del tuo letto Solo godrà ; poscia il rivai conosca E i divisi
piacer ; senza quest’ arte Amor illanguidisce • Il generoso
Destrier,se venga dal suo career schiuso. Corre velocemente, se il
preceda Altri nel corso, o se lo segua . Estinto Ancor che sembri
l’amoroso foco Con nuova ingiuria si riaccende, ed io, Lo deggio
confessar, soltanto offeso Nutro r amor . Non troppo manifesta Sia
la causa del duolo ; e ansioso creda
L’amante che maggior fia ancor l’offesa Di quello che gli è noto ;
ed or l’inciti L’aspra custodia di fallace servo, n geloso rigore
or del marito; E men grato il piacer senza contrasto Èeiichè tu sii
di Taide più. }asciya, Fingi timpri ; e ancor che per la porta Meglio il
possa introdar, fa eh’egli venga Dalla finestra, e nel tuo volto i
segni Mostra di Donna da timor sorpresa» Venga l’ancella
frettolosa, e dica: Ah siam perduti 111 trepido Garzone
Allora ascondi; col timor si debbe Mischiar piacer sicuro, onde
1’apprezzi» Come il marito accorto e il vigli servo Si possano
ingannare i’avea taciuto Tema una Sposa il suo Consorte^ e viva
Certa che altri la guarda ; è ciò decente; Vuol ciò il padoi:, la legge,
e F equitade. Chi soffrirà che custodita sii Tu, che or la verga
del Prétor redense? Odiose vuoi ingann^kT, miei sacri carmi» T’ osservio
puro occhi miglior di quei Ch’ebbe il guardiano d’io, sii risoluta,
£ tesserai l’inganno E puote invero Chi t’ ha in custodia a te
vietar che scriva Se non si vieta a te di gire al bagno? E se potrà,
de’tuoi segreti a parte, Terenzio da il nome di Taide ad una donna lasciva,
che forma la parte principale della sua Commedia intitolata
/^Eunuco. Parla qui il poeta delle donne schiave y che divenivano
libere quando il Pretore aveva toccato al» le medesime il capo con una
vèrga detta yindiqta, e che occupavano nelle case delle Matrone
Romane unposto corrispondente a quello delle nostre
Cameriere. (Giunone diede, cento occhi ad A^go custode d'io, perchè
potesse soddisfare esattamente al suo incarico, ma il Dio Mercurio
Pàìsdpì col suono del* la lira, e gli recise la testa Recar V ancella i
foglj ricoperti Nel caldo seno da una larga fascia^ O
nasconderli avvinti infra le gambe, O sotto i piedi f Se a tè ciò il
custode Vieti, P ancella porgerà le spalle Di carta invece, e
porterà su queste li^amorose tue cifre impresse. Un foglio Con
fresco latte scrìtto inganna 1’ occhio^ Con la polve l’aspergi del
carbone, £ legger lo potrai • Del paro inganna Lettera pura in cui sia
stato scritto Con la punta del lino inumidito, E le note
‘segrete incise porta . Intento Acrisie a custodir la Figlia, In opra pose ogni
più esatta cura: Eppur col suo delitto il fece eli’ avo. E che
fa il Custode, se cotanti Sono in Roma Teatri, e se a suo grado Non
mancano a^dì nostri degli inchiostri sìrw^ patiei y che superano ne^loro
effetti la virtù degli antichi. Con un^ oncia di Ut or girlo y e cinque
d^ace» to stillato si fa un composto, che chiamasi aceto di
Satarno. Con questo si scrioe sulla carta bianca, e quando è asciutta non
si scorgono in alcun modo i caratteri. Si sparge quindi sopra la carta
una piccola porzione d’un liquore fatto con un’oncia d’or pigmento e due once
di calce viva sciolta nell* acqua ; éd allora compariscono i caratteri
d*un coloraperfet’- tamente nero. Il calore e la luce
coloriscono altresì i caratteri scritti con alcune soluzioni metalliche
allungate con Vacqua, cioè con quella dell’oro, dell’argento, e
principalmenie del bismuto. La tintura di galla è pure ì^n inchiostro
simpatico, purché si faccia passar sopra di essa una qualunque marziale
dissoluzione, Annota (a del lÀb. Presente Può rimirar le corse de*
destrieri f Quando nel tempio d’Isi assister puote Al concerto de sistri,
e p^pte in altri Lochi ella gire » ove l’ingresso poi È vietato a’
compagni ? Se da’ templi Della Dea Buona può fuggir gli sguardi D’ogni
uom fuor di quel eh’ ella desia f lyientre il Custode fuor del bagno
serba Gli abbigliamenti della sua Padrona, Se può mrtivo nel;
sicuro bagno Celar 1* Aàotante ? Se ove 1’ uopo il chiegga Per
finto morbo giacerà 1’amica O se per vero, a lei cederà il letto? Quando la
chiave adultera col suo Medesmo nome cosa far c’insegna^ Nè
sol la porta dà il bramato ingresso? S’inganna pur con molto vin la
cura Di vigile Custode, ancor che colte Vengan l’uve nell’aspro
ispano giogo. Vi sono ancora i farmaci che al sonno Aggravan le pupille
quasi vinte Dalla notte letea • Nè mal trattiene La non ignara
ancella l’importuno Con le tarde delìzie, end’ ella possa Star col
suo vago quanto più le piace. Che far tante parole, e cosi lievi
.Gli uomini non potevano interpénire nel Tenu» pio d'Iside, quando le
donne celebravano le sue fo» ste col serbarsi, almeno apparentemente,
easte per molti giorni, Era agli uomini vietato V ingresso nel
Tem» pio della Dea Buona o sia di Cibele. Denota il Poeta il vin
poco generoso, che i Romani facevano venire dalia Laleiania in gna
provincia di Spagna Porger precetti, se con picciol dono Si corrompe il
Custode ? A me lo credi. Gli Uomini e i Dei guadagnansi co’doni, £
i doni placan pur lo stesso Giove. Che farà il saggio, se de’ doni
ancora Gode lo stolto ? Ricevuti i doni, Si farà muto anco il
marito istesso. Per tutto Panno guadagnar si debbo Una volta il
Custode, e quelle mani Che un di vi diede, vi darà sovente.
Feci querela, e l’ho ferma in pensiero Che temer si dovessero i
compagni; Nè diretta soltanto all’ uomo è questa. Se credula
sarai, carpirann’altre 1 tuoi piaceri, e avrai cacciato il lepre
Per esse. Quella, che t’appresta il letto, E che officiósa a te concede il
loco. Giacque più. volte, a me lo credi, meco. Nè troppo bella sia
l’ancella tua; Sovente meco fe’della padrona Ella le veci. Ah
! dove ora mi lascio Io stolto trasportar ? Perchè contrasto Col
petto inerme contro il mio nemico, Ed io da me medesmo mi
tradiscof Come pigliar si debba al cacciatore L’auge! non mostra y
ed a’ nocivi cani Come inseguirla non la cerva insegna. L’ utll
vostro mi piace: io fedelmente Vi spiegherò i precetti, ed alle donne Di
Lenno io porgerò contro il mio fato Lè Donne di Lenno in una notte, uccimo
i loro mariti, e però Ovidio sotto il nome di tende quelle che con
gli uomini sono troppo severe Sà Da me stesso il coltello. Ahi fate
in modo ( Ardua non è V impresa ) che crediamo D’ esser amati,
mentre ogutìno crede Farcii ciò che desia. La donna miri Con
infocato sguardo il fido amante, Tragga dal sen sospir profondo, e
chiegga Perchè sì tardi venne. Aggiunga il pianto, E finga gelosia
della rivale, £ gli percota con le mani il volto. Tosto
vivrà sicuro, e nel suo petto Facile nutrirà per te pietade,
E dirà fra se stesso: ah si consuma Questa per me d*amore i e
specialmente Se lo specchio consulta, e colto sia, D’innamorar ei
penserà le Dee. Ma a te chiunque sii, grave disturbo Non
arrechin le ingiurie, e sbigottita Non ti mostrar, della rivale il
nome Allor che ascolti, e facile credenza Non presta aMetti altrui.
Ah quanto nuoccia Il creder facilmente, a te lo dica Quello che
adesso narrerò di Proori. Scorre vicino del fiorito Imetto A’ be’
purpurei colli un sacro fonte. Di cui le sponde ognor fan grate e
molli Verdi cespnglj . Ivi non alta selva Procri figlia d’Eretteo Re
Atene per sos- petto di gelosia si portò segretamente nelle selve e
né boschi ad osservar Cefalo figlio di Mercurio, sua Sposo, ed ottimo
cacciatore . Mentre egli prendeva riposo in un ombroso colletto, essa celandosi
dietro alle siepi, mosse disgraziatamente le foghe degli alberi»
Credè Cefalo che s’ascondesse fra quelle una fiera y e però vi scagliò
una saetta che gli uccise la sua dìletta consorte. Un l^co forma; gli
arboscelli l'erba Ricoprono, e un soave odore esalano II rosmarin,
l’alloro, il negro mirto. Non il tenne citiso, il colto pino,
E il fragil tamarisco ivi già manca^ E non folto di foglie il
busso. Scosse Da dolci aeffiretti « e da salubre Aura treman le
foglie mnltiformi, £ le cime dell^ erbe. Ama la quiete
Cefalo. Abbandonati i servi e i cani. Ivi stanco il Garaon spesso
s’adagia; Solea cantar: mobil auretta, vieni Onde t’accolga nel mio
seno, e allevj Il cocente càlor. Le intese voci Da un malaccorto
far recate intere Alle timide orecchie della moglie. Tosto
che Procri il nome adì dell’aura, Qnal fosse uua rivale, a terra
cadde; Ammutolissi pel dolor ; nel volto Impallidid^ come le tarde
foglie. Se colte sieno dalle viti l’uve. Sogliono impallidir
dal verno offese, O i maturi cotogni, i di cui rami Piegansi,
o le corniole ancor non atte A* cibi nostri. Tosto che; rinvenne.
Straccia dal petto suo le tenui vesti. Con V unghie impiaga le
innocenti guance. Jndugie non conosce, e qual Baccante Mossa dal
J'irso, furibonda vola Per le pubbliche vie, sparsa i capelli.
Ma già vicina, in una valle lascia I suoi seguaci ; intrepida e
furtiva Nel bosco con piè tacito s’innoltra. QuaPera il tuo
consiglio, allor che stolta O Procri, t’ascondeyi ; e quale ardore
NelPattonito séno allor ti corset Già tu pensavi di sorprender
l’aura Qualunque fosse, e di mirar co’proprj Occhj P infedeltà del
tuo Consorte. Quivi d’esser venuta ora Rincresce; Or la
rivale di mirar ti piace, Ed or ti penti opposti affetti in seno Destan tumulto.
A creder la costringe ( Che quel che tenie ognor crede l’amante )
L’accusatore, il loco, il nome. Quando SulP erbe vide impresse Torme
umane, Balzolle il cor nel pauroso petto. Già T ombre brevi aVea il
meriggio strette, E in spazio egual giaceva l’Occaso e l’Orto,
Allor che di Mercurio il figlio Cefalo Dalle selve ritorna, e T
innainmate Guance delTacque di quel fonte asperge. O Procri, tu
t’ascondi ansiosa ; ei giace Sull’ erbe consuete, e vieni disse,
ZefHro fucile, o molle curetta vieni. Quando conobbe il dolce error
del nome, AlT infelice il cor tornò nel seno, E il primiero
color sul volto suo. S’alza, movendo il corpo e move ancora Le
frondi circostanti ; e fra le braccia Va per gittarsi del marito Mosso Credendo quel rumor da qualche
belva, Imprudente la man slancia sull’arco. Ed ave i dardi
già nella sua destra. Infelice che fai? non è una fiera, rw Deponi
ì dardi.... Oimè la tua consorte Dalle saette tue giace trafitta. Oh
me infelice i eéclamà ; in petto amico Vibri il tuo dardOi o sposo.
Ah che fa sempre Da te questo trafitto! Io pria del tempo La morte
trovo « noa offesa almeno Da un rivale .^h farà ciò la terra,
Ov* io riposi, a nae cara e leggiera. Fra quest’aure ^ che
odiai sol per un nome. Già spazierà il mipspirto.. oh Dio!•• vacillo. Mi
chiuda i lumi quella destra amata. Le membra moribonde egli sostiene
Nel mèsto seno, e la crudel ferita Con le lagrime asperge^ Ella già
spira, E la bocca del misero marito Lo spirto accoglie che
dal petto incauto Deir infelice, Porcri alfine eeala. Ma sul
sentier si torni. lo debbo adesso Agir palesemente, onde il
naviglio Indebolito tocchi i porti suoi. Ch’io ti scorga a conviti
aspetti forse, e ch’io ti guidi in questo pure attendi? Non
t’affrettar; vien tardi, e già sia posta La lacerna i e decente i passi
volgi. Grato è a Vener Findugio, e molto giova. Benché bratta tu sii,
sembrerai bella, che coprirà la notte i tuoi difetti. Prendi co’ diti
il cibo; havvi pur l’arte nel modo di cibarsi; con l’immonda mano
cerca non ungerti la faccia; nò mangiar prima in casa, ma t’astieni dal
farlo allor che avrai mangiato meno di quel che il ventre tuo capè, e tu
brami. Paride, se veduto avesse Elena cibarsi avidamente, avria per
lei nutrito sdegno, e detto fra se stesso: Ah fui ben stolto nel rapir
costei! Meno disdice a donna il ber, che Bacco £ di Venere il figlio
uniti vanno. Sì beva pur fin che il permetta il capo, E Talma e ì
piè siaxi atti a loro nfficj, nè raddoppiati sembrinti gli oggetti.
Donna che giaccia per soverchio vino, £ turpe, e di soffrir merta ogni
assalto. Sparecchiata la mensa, è gran periglio cadervi per il
sonno; in mezzo a quésto Molte si soglìon far cose impudiche. Io di
stender più innanzi i^niiei precetti Sento rossor. La figlia dionea
Mi disse: utile è a noi quelPòpra ìstessa che in se desta vergogna. A voi
si sveli. Donne, ogni fatto. I varj atteggiamenti Noti vi sien, che
a tutte non conviene la medesma figura. Tu che sei pel volto insigne,
giacerai supina quella che ha bello il tergo, il tergo mostri. Recava
Melanion sulle sue spalle le gambe d’Atalanta; se sian belle. Si dee
imitare allora un tale esempio. Porti il cavai pìccola donna ; avéa statura
immensa la tebana sposa; Suirettoreo cavai però non giacque. Quella che
può mostrare un lungo fianco prema con le ginocchia il letto e alquante ritorca
la cervice chi le membra Ha giovanili, e senza macchie il seno mentre l’uomo
sta in piedi, ella corcata giaccia obliqua sul letto nè già turpe
Credete scioglier qual Baccante il crine. XeSpoifk tsUoa 4fl4rQmcé mQglk E ondeggiando i capei,
piegate il collo. Tu pure, a cui la pronuba Lucana macchiò il ventre di
rugh, imita il l’arte Quando combatte sul cavai fugace, Ben mille son di Venere
le foggie, ma la piò facil, di minor fatica È quella, in cui semisupina giace
Sul destro fianco, I Tripodi febei, O il cornigero Ammon cosa piò vera Non
conteran di quel che or la mia Musa- se Parte, che ci costa un lungo
studio, merita fè, credete, ancor che i carmi Nostri eccedano forse
ogni credensà Venere abbrugi le'midolle e l’ossa delle donne, e sia
caro ad ambedue Lo scambievol piacer. Un mormorio dolce, e parole
lunsinghiere e grate non manchino, nè tacita si stia in mezzo ascari
scherzi unqua la donna, tu, cui d’amor negò natura il gaudio, finger lo
devi con mendace suono; Lucina è un nome di Giunone, la quale presiede a
matrìmon) ed apparti, i Greci dopo d^ a^er ointo i Persiani nella
battaglia di Platea, levarono una decima suUe spoglie per fare un Tripode d’oro
eonsagrato ad Apollo, Ateneo lo chiama il tripode della verità perchè
si ritrovavano verissimi gl’oracoli di questo dio, Ammone è un
soprannome di Giove, Quinto Curzio fa menzione del magnifico Tempio che gli fu
edificato nella Libia, La sua statua avea la figura d’a- liete, e però si
chiama cornigero Ammone. Dava essa de certi oracoli a chi la consultava,
ed era a guisa d’un automa, che crollava la testa per additare a sacerdoti
la strada, che dovean fare quando la portavano in processione. Ben
infelice e miseranda donna È quella, che a sa stessa ìnntil tragga unutile
pèr l’uomo i giorni suoi. Mentre e#ò fingerai, che non ti scofira
Cerca, é col moto, fin con gl’occhi stessi procura d’ingannar. Faccian
palese un frequente respiro e dolci accenti quello che giova. Termini
novelli Sa la donna inventare in quegristanti quella, che chiede dopo il
gaudio i doni, non sia molesta almen con le preghiere. Nè il pieno
giorno introdurrai nel talamo chè giova a voi tener del corpo vostro molte
cose celate. Ha fine il gioco. È tempo ornai di scendere da’Oigni che sul collo
guidaro il nostro cocchio, e come fero i giovanetti un giorno, così la turba
delle donne scrìva sulle spoglie, Nason ci fu maestro. Gianni
Carchia. Keywords: ars amandi, erotica, il bello, la comunicazione dei
primitivi, Ovidio, arte amatoria. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carchia” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Cardano: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del valore civico di
Melanippo -- Caritone -- the tasteful Milanese maschi – prospero – scuola di
Pavia – filosofia pavese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Pavia). Filosofo
pavese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Pavia, Lombardia. Grice: “I’m
sure Cardano does not mean chance by aleae! It’s a Roman
notion, not an Arabic one!” Grice: “Cardano is a fascinating philosopher, but
then so is I [sic]!” Grice: “My faavourite philosophical topic by Cardano is
what he calls, well, his Italian translators call – recall that Italian
philosophy is written in the ‘learned’! – ‘gioco d’azzardo’, ludo alaea – which
is what conversation is – what is conversation is not a game of azzardo? But
Cardano also refutes all that Malcolm says about ‘dreaming,’ never mind Freud –
Italians are obsessed with a male sleeping: Rinaldo, Tasso, Botticelli
(“sleeping Mars”), not to mention the search for the Etruscan equivalent to
‘oneiron,’ the god – one of my most precious souvenirs is a little medal of
Cardano: not so much for his very Roman nose (charming as it is) but for the
backside, which represents Oneiron, indeed, aong the ladies!” Poliedrica
figura del Rinascimento. Riconosciuto come il fondatore della probabilità,
coefficiente binomiale e teorema binomial. A lui si deve anche la parziale
invenzione dell’ implicatura e della serratura, della sospensione cardanicache
permette il moto libero, ad esempio, delle bussole nautiche ed è alla base del
funzionamento del giroscopioe della riscoperta del giunto cardanico. Animos
scio esse immortales, modum nescio. So che l'anima è immortale, ma non ho capito
come funzioni la cosa. Figlio del nobile Fazio, un giurista esperto nella
matematica tanto da essere consultato da da Vinci su alcuni problemi di
geometria. Fazio conobbe a Milano la vedova, madre di tre figli, Chiara
Micheri (o de Micheriis) di cui s'innamora iniziando con questa, che vive con
la famiglia del defunto marito, una relazione clandestina che porta al
concepimento di un quarto figlio. Per non essere coinvolto nello scandalo prega
un suo amico di Pavia, il patrizio Isidoro Resta, affinché assumesse Chiara
come governante nella sua casa. Prima che lei partorisse, i suoi tre figli
morirono quasi contemporaneamente di peste e lei tenta allora di abortire,
senza riuscirci, del nascituro che ebbe il nome di Gerolamo e che lasciò scritto
nella sua autobiografia. Dopo che mia madre tenta senza risultato dei preparati
per abortire, vengo alla luce a Pavia. Come morto, infatti, sono nato, anzi
sono stato strappato al suo grembo, con i capelli neri e ricciuti. Il bambino contrasse
la peste dalla sua balia, che ne morì, e fu allevato da altre nutrici. E
trasferito a Milano dal padre che anda ad abitare con lui solo quando ha solo sette
anni, età in cui prese ad accompagnare il padre nei suoi viaggi d'affari.
Essendo delicato di salute, si ammala gravemente. Solo dopo una lunga
convalescenza poté riprendere a viaggiare con il padre dedicandosi nel
frattempo agli studi di filosofia, nei quali ha modo di eccedere per le sue
doti quando puo iscriversi a Pavia e Mantova per studiare filosofia, contrariamente
ai desideri del padre che avrebbe preferito avviarlo agli studi giuridici.
Lasciata Milano in preda alla peste e sconvolta dalla guerra francese, si
trasfere a Padova e si laurea a Venezia. E oggetto dell'astio che molti tutori
hanno nei confronti di quello tutee geniale ma dal carattere scontroso e talora
offensive. Sono poco rispettoso e non ho peli sulla lingua, soprattutto mi
lascio trascinare dall'ira, al punto che poi mi dispiace e me ne vergogno. Riconosco
che tra i miei vizi ce n'è uno molto grande e tutto particolare: quello di non
riuscire a trattenermianzi ne gododal dire a chi mi ascolta ciò che gli risulta
sgradevole udire. Persevero in questo difetto coscientemente e volontariamente,
pur sapendo quanti nemici da solo mi abbia procurator. Nel frattempo a Milano e
morto il padre che ha regolarizzato la sua convivenza sposando la madre del
filosofo. Non potendo tornare a Milano per l'epidemia e la guerra, prese
dimora a Piove di Sacco. Esercita la sua professione a Gallarate. Ottenne
la cattedra per l'insegnamento della filosofia presso le scuole Piattine di
Milano, dove aveva insegnato anche il padre. La sua fama di esperto dottore si
accrebbe per aver risanato alcuni membri della famiglia Borromeo. Dovette
rifiutare alcuni incarichi di prestigio perché non retribuiti fino a quando e ammesso
nel Collegio dei medici di Milano. Accetta di ricoprire la cattedra di
filosofia a Pavia, rifiutando le offerte che gli venivano reiterate dal papa Paolo
III. Cura, con esiti positivi, l'arcivescovo di Edimburgo John Hamilton, malato
d'asma. Intuì probabilmente la natura allergica della malattia proibendo a
Hamilton di usare cuscini e materassi di piume. Per aumentare la sua fama volle
fare l'oroscopo all'arcivescovo e al re, e lesse nelle stelle un futuro radioso
per entrambi. Hamilton fu impiccato quasi subito dai riformatori. Il re muore
di tubercolosi. Rifiuta le prestigiose e ben retribuite offerte del re di
Francia e della regina di Scozia. Colpito da un doloroso avvenimento
riguardante il figlio Giovanni Battista, medico anche lui, che, nonostante gli
avvertimenti del padre, aveva voluto sposare una donna povera e di cattivi
costume. Per necessità economiche il figlio coabita dai parenti della moglie
avviando una convivenza caratterizzata dalla nascita successiva di tre figli e
da continui litigi dovuti anche alle infedeltà della moglie che egli decise di
uccidere, con la complicità di una serva, facendole mangiare una focaccia
avvelenata con l'arsenico. Arrestato subito per uxoricidio, il figlio confessa
il delitto e dopo un veloce processo, nonostante la difesa con tutti i mezzi
messa in atto dal padre, fu condannato alla decapitazione. Gerolamo, convinto
che la durezza della condanna fosse dovuta all'invidia dei suoi colleghi, per
sfuggire alle malevole voci che lo accusavano di intrattenere rapporti illeciti
con i suoi tutee, si trasfere a Bologna. Venne ulteriormente amareggiato dalla
condotta scapestrata del figlio Aldo che lo diffama per tutta la città e che
arriva a derubarlo così che il padre dovette denunciarlo alle autorità che
espulsero il figlio dal territorio bolognese. A questa disgrazia si aggiunse
inaspettata la notizia che si stava preparando contro di lui un'accusa di
eresia tanto che il cardinale Giovanni Morone gli consigliò di lasciare il
pubblico insegnamento della filosofia. Questa misura prudenziale non valse però
a salvare Gerolamo che fu arrestato per eresia assieme al suo tutee Rodolfo
Silvestri che non volle abbandonare il tutore. Non si conoscono le accuse
che gli erano rivolte dall'Inquisizione. Tuttavia si era distinto per una certa
imprudenza nei confronti della Chiesa, governata dal severo Papa Pio V, per
aver compilato un oroscopo di Gesù, la cui vita così sarebbe stata decisa dalle
stelle, scritto l'encomio di Nerone, persecutore dei cristiani, e soprattutto
per i suoi confidenziali rapporti con i circoli protestanti frequentati dal suo
tuteei, dal genero e dall'editore e tipografo dei suoi libri. Nonostante le
testimonianze a suo favore di quasi tutti i suoi tutee, C. fu messo in carcere
e poi agli arresti domiciliari sino a quando la Sacra Congregazione tramite
l'inquisitore di Bologna gli impose la professione dell'abiura prima in forma
grave (de vehementi) coram populo e successivamente in forma meno infamante (coram
congregationem). Si sottopose docilmente alla abiura promettendo in una
lettera a papa Pio V di non insegnare più pubblicamente filosofia (la cattedra
all'università gli era stata intanto tolta) e di non pubblicare altre
opere. Lasciata Bologna Cardano si trasfere, sotto la diretta protezione
di Pio V, a Roma dove fu ben accolto ma gli fu negata una pensione che gli fu
invece assegnata da Gregorio XIII che era stato suo tutee a Bologna..E ammesso
al Collegio romano. Si dedica alla composizione della sua autobiografia De vita
propria. Il punto focale della sua filosofia è il concetto rinascimentale di “uomo
universale" che dà alla sua ricerca della verità un contenuto
enciclopedico. Scrive più di duecento opere che solo in parte furono pubblicate
nel XVI secolo e che, altrettanto parzialmente, confluirono nei dieci volumi della
monumentale “Opera omnia” dove si trattano temi di metafisica, omosessualita,
mascolinita, il machio, il maschile, la medicina, scienze naturali, matematica,
astronomia, scienze occulte, tecnologia. Egli, che si occupa anche della
interpretazione dei sogni, della chiromanzia, della numerologia, del
paranormale rende difficile distinguere nella sua filosofia il contenuti
moderno del sapere dalle tradizioni metafisiche e magiche del passato. Vuole
arrivare a una sistemazione unitaria della molteplicità dei saperi così che la
nostra incerta conoscenza eviterebbe la confusione se potesse discendere
dall'uno ai molti. Ma questo obiettivo, di origine neo-platonica, sfugge però
all'uomo il quale allora è preferibile che occupi il suo intelletto in quei
campi dove riesce, quasi come un dio creatore o ‘genitore’ – o ingegnero, a
fare le cose. Questo avviene nell’aritmetica che si incarna nell'esperienza in
un rapporto astratto-concreto la cui definizione ancora non è in grado di
elaborare Dopo aver analizzato nel “De subtilitate” i molteplici principi
delle cose naturali e artificiali, si rivolge allo studio di tutto l'universo e
delle sue parti (De rerum varietate), che concepisce come legate da sim-patia
(attrazione) e anti-patia (repulsione) fra gli astri e l'uomo) e connessioni
che consentono al filosofo, che conosce il linguaggio della natura e gli
effetti degli influssi astrali sulla vita sessuale umana, di compiere quei
"miracoli naturali" che sono le magie, di elaborare previsioni
astrologiche e di stendere gli oroscopi delle religioni come quello dedicato a
Cristo. Il contributo in matematica Noto soprattutto per i suoi
contributi all'aritmetica, pubblica le soluzioni dell'equazione cubica e
dell'equazione quartica nella sua “Ars magna”. Parte della soluzione
dell'equazione cubica gli era stata comunicata da Tartaglia. Successivamente
questi sostenne che C. aveva giurato di non renderla pubblica e di rispettarla
come di sua origine. Si avvia così una disputa che dura un decennio. C.
sostenne di averne pubblicato il testo solo quando era venuto a sapere che il
Tartaglia avrebbe appreso la soluzione dalla voce dal bolognese Scipione del
Ferro. La soluzione di Tartaglia, pur essendo successiva a quella di Scipione
Dal Ferro (comunque mai pubblicata), risulta essere indipendente da questa. La
soluzione della equazione cubica è detta comunque di C.-Tartaglia. L'equazione
quartica venne invece risolta da Lodovico Ferrari, un tutee di C.. Nella
prefazione dell'“Ars Magna” vengono accreditati sia Tartaglia che Ferrari. Nei
suoi sviluppi delle soluzioni occasionalmente si serve del concetto di numero
complesso, ma senza riconoscerne l'importanza come invece saprà fare Bombelli. Nell'ambito
della scienza medica, l'esempio di Vesalio, che negli stessi anni aveva
contestato l'anatomia galenica, spinse C. a definire Galeno un cattivo
interprete di Ippocrate. Le sue critiche a Galeno erano comunque presentate
come parte integrante di un tentativo di recuperare una tradizione ancora più
antica e, si presumeva, più autentica. Fu il primo a descrivere la febbre
tifoide. Venne invitato in Scozia a curare l'Arcivescovo di Sant'Andrea che
soffe di asma probabilmente d'origine allergica. Seguendo i precetti di
Maimonide riusce a guarirlo utilizzando delle cure modernissime per l'epoca:
eliminare piume e polvere e mantenere una dieta controllata. Al ritorno dalla
Scozia si ferma a Londra, dove incontrò il re d'Inghilterra per il quale
redasse un oroscopo secondo il quale prospetta Edoardo VI una lunga vita
seppure turbata da alcune malattie. La sua fama di si diffuse in Inghilterra
tanto da interessare Shakespeare che nella "Tempesta" rappresenta un
personaggio molto simile a C. ed inoltre una prova della sua perdurante
popolarità può essere vista nel fatto che un’edizione del suo ‘De Consolatione’
è proprio il libro che Amleto tiene in mano quando recita il suo celeberrimo
monologo ‘Essere o non essere’. De subtilitate e il libro che Amleto tiene in
mano all'inizio del secondo atto, quando Polonio gli domanda cosa stia leggendo
e lui risponde: "parole, parole, parole". Progetta inoltre svariati
meccanismi tra i quali: la serratura a combinazione; la sospensione
cardanica, consistente in tre anelli concentrici collegati da snodi, in grado
di ospitare una bussola o un giroscopio, garantendo la libertà di movimento
dello strumento; il giunto cardanico, dispositivo che consente di trasmettere
un moto rotatorio da un asse a un altro di diverso orientamento e viene tuttora
usato in milioni di veicoli. Ma pare fosse già conosciuto, anche se porta il
suo nome perché appare nella sua opera De Rerum Varietate in una illustrazione navale. L'invenzione di
questo tipo di giunto in realtà risale almeno al III secolo a.C., ad opera di
scienziati greci come Filone di Bisanzio, che nella sua opera Belopoiika lo
descrive chiaramente. Egli dette svariati contributi anche all'idrodinamica. Sostene
l'impossibilità del moto perpetuo, con l'eccezione dei corpi celesti. Pubblica
anche due opere enciclopediche di scienze naturali che contengono un'ampia
varietà di invenzioni, fatti ed enunciati afferenti all'occultismo e alla
superstizione: il De Subtilitate e successivamente il De Varietate. Introdusse
la griglia cardanica, un procedimento crittografico.A Cardano è attribuito
anche il gioco rompicapo descritto nel De subtilitate, ma probabilmente
risalente a un periodo più antico, chiamato Gli anelli di C.. Altre opere: Della
sua vita avventurosa e molto travagliata, rimane testimonianza nella sua autobiografia.
Ebbe spesso problemi di denaro e per cavarsela si dedicò ai giochi d'azzardo
per i quali ha una vera passione di cui si pente. Così ho dilapidato
contemporaneamente la mia reputazione, il mio tempo e il mio denaro. (zeugma –
segnato da ‘dilapidare’ – denaro, dilapidare il suo tempo, dilapidare la sua
reputazione. Pubblica un saggio sulle probabilità nel gioco, “De ludo aleae”
che contiene la prima trattazione sistematica della probabilità, insieme a una
sezione dedicata a metodi per barare efficacemente. Oltre alla produzione
dialettica, di carattere più strettamente filosofico sono invece il De
subtilitate e il De rerum varietate, ampie raccolte delle sue osservazioni
empiriche e delle sue speculazioni occultistiche. Della sua produzione
filosofica sterminata possono considerarsi come le opere più importanti:
De malo recentiorum medicorum usu libellus, Venezia (medicina). Practica
arithmetice et mensurandi singularis, Milano. Artis magnae sive de regulis
algebraicis liber unus (conosciuta anche come Ars magna), Nuremberg. De
immortalitate. Opus novum de proportionibus. Contradicentium medicorum. De
subtilitate rerum, Norimberga, editore Johann Petreius (fenomeni naturali). De
libris propriis, De restitutione temporum et motuum coelestium; De duodecim
geniturarum -- commento astrologico a dodici nascite illustri. De rerum
varietate, Basilea, editore Heinrich Petri. Fenomeni naturali. De signo. De
causis, signis, ac locis Morborum. Bologna. Opus novum de proportionibus
numerorum, motuum, ponderum, sonorum, aliarumque rerum mensurandarum. Item de
aliza regula, Basilea (matematica). De vita propria. Proxeneta (politica).
Metoscopia libris tredecim, et octingentis faciei humanae eiconibus
complexa, Liber de ludo aleae, postumo (probabilità). Le sue opere vennero
raccolte e pubblicate a Lione in 10
volumi. L’Encomio di Nerone. A lui è dedicato il cratere lunare Cardano e
un asteroide. È intitolato a lui l'Istituto "G. C." della sua città natale, nel
cui cortile interno è posta una scultura che rappresenta il giunto cardanico,
nonché infine l'omonimo collegio universitario pavese. La blockchain
"Cardano" (ADA) prende il suo nome, in quanto basata su un approccio
scientifico e matematico. Della mia vita. Somniorum synesiorum omnis generis
insomnia explicantes (Basilea). tti del Convegno, Castello Visconti di San
Vito, Somma Lombardo, Varese ed. Cardano); Università Bocconi. Equazione di
terzo grado" Il Rinascimento. Omeopatia
e allergie, Tecniche Nuove); Cardano, Edizioni Cardano, Il Prospero della
"Tempesta” somiglia tanto a Cardano
in Corriere. La tecnologia scientifica, in La rivoluzione dimenticata: il
pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli Editore); Il libro
della mia vita, Cerebro editore); Della mia vita, Alfonso Ingegno, Serra e Riva
editori, Milano). La formula segreta. Il duello matematico che infiammò
l'Italia del Rinascimento. ileae, per Ludouicum Lucium); “De propria vita”
(Milano, Sonzogno). Lugduni, sumptibus Ioannis Antonii Huguetan et Marci Antonii
Ravaud. Aforismi (Milano, Xenia). Palingenesi. Dizionario biografico degli
italiani. Il filosofo quantistico. L’avventure di Cardano, filosofo e giocatore
d'azzardo (Bollati Boringhieri, Torino Edizione); “La mia vita” (Milano, Luni).
Che sfortuna essere un genio. Indice delle Opera omnia Volume
1 Frontespizio Lettera dedicatoria Praefatio Vita
C. per Gabrielem Naudaeum Testimonia Elenchus
generalis Index librorum tomi primi Previlege du roy 1De
vita propria. De libris propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum
Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum
medicum. Neronis encomium. Podagrae encomium. Mnemosynon. De
orthographia De ludo aleae De uno Hyperchen. Dialectica Contradictiones
logicae Norma vitae consarcinata, sacra vocata Proxeneta De
praeceptis ad filios De optimo vitae genere De sapientia De
summo bono De consolatione Dialogus Hieronymi Cardani et Facii C.
ipsius patris Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione Dialogus
Tetim seu de humanis consiliis Dialogus Guglielmus seu de morte De minimis
et propinquis Hymnus seu canticum ad Deum De utilitate ex adversis
capienda De natura Theonoston seu de tranquilitate Theonoston
seu de vita producenda Theonoston seu de animi
immortalitate Theonoston seu de contemplatione Theonoston seu
hyperboraeorum historia De immortalitate animorum De secretis De
gemmis et coloribus De aqua De vitali aqua seu de aethere De
aceti natura Problemata Se la qualità può trapassare di subbietto in
subbietto Discorso del vacuo De fulgure De rerum varietate De
subtilitate In calumniatorem librorum de subtilitate (Archivio) Indice
rerum De numerorum proprietatibus Practica arithmeticae Libellus qui
dicitur, Computus minor Ars magna Ars magna arithmeticae De
aliza regula Sermo de plus et minus Geometriae
encomium Exaereton mathematicorum De proportionibus Operatione
della linea Della natura de principii et regole musicali De
restitutione temporum et motuum coelestium De providentia ex anni
constitutione Aphorismorum astronomicorum segmenta septem In Cl.
Ptolemaei de astrorum iudiciis De septem erraticarum stellarum
qualitatibus atque viribus. De iudiciis geniturarum De exemplis centum
geniturarum Geniturarum exempla De interrogationibus De
revolutionibus De supplemento almanach Somniorum
synesiorum Astrologiae encomium Medicinae encomium De sanitate
tuenda Contradicentium medicorum De usu ciborum De causis,
signis ac locis morborum De urinis Ars curandi parva De methodo
medendi De cina radice De sarza parilia Disputationes per
epistolas liber unus De venenis In librum Hippocratis de alimento
commentaria In librum Hippocratis de aere, aquis et locis
commentaria In septem aphorismorum Hippocratis commentaria In Hippocratis
coi prognostica commentaria In librum Hippocratis de septimestri partu
commentaria Examen aegrorum Hippocratis Consilia De
dentibus De rationali curandi ratione De facultatibus
medicamentorum De morbo regio De morbis articularibus Floridorum
libri sive commentarii in Principem Hasen Avicenna Vita Ludovici
Ferrarii Vita Andreae Alciati De arcanis aeternitatis (Archivio)
Politices seu Moralium liber unus Elementa Graeca inventione De
naturalibus viribus De musica Artis arithmeticae tractatus de
integris (Archivio) 10.8Expositio Anatomiae Mundini In libros Hippocratis
de victu in acutis commentariaIn libros epidemiorum Hippocratis
commentaria De epilepsia De apoplexia De humanis civilibus
successionibus (Paralipomena) De humana perfectione (Paralipomena) Peri
thaumason seu de admirandis Paralipomena De dubiis naturalibus
(Paralipomena) De rebus factis raris et artificiis humana compositione naturalium De mirabilibus
morbis et symptomatibus (Paralipomena) De astrorum et temporum ratione et
divisionibus Paralipomena De mathematicis quaesitis Paralipomena Historiae
lapidum, metallicorum et metallorum (Paralipomena) Historiae animalium
Historiae plantarum De anima De dubiis ex historiis (Paralipomena) De
clarorum virorum vita et libris (Paralipomena) De hominum antiquorum
illustrium iudicio. De usu hominum et dignotione
eorum, tum cura et errore. De sapiente (Paralipomena. De vita propria. De libris propriis. De
Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut
Cerberi canis. Actio in Thessalicum medicum. Neronis encomium. Podagrae
encomium. Mnemosynon. De orthographia. De ludo aleae. De uno. Hyperchen.
Dialectica. Contradictiones logicae. Norma vitae consarcinata, sacra vocata.
Proxeneta. De praeceptis ad filios. De optimo vitae genere. De sapientia. De summo bono. De consolatione. Dialogus Hieronymi Cardani et Facii Cardani
ipsius patris. Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione. Dialogus
Tetim seu de humanis consiliis. Dialogus Guglielmus seu de morte. De minimis et
propinquis. Hymnus seu canticum ad Deum. De utilitate ex adversis capienda. De
natura. Theonoston seu de tranquilitate. Theonoston seu de vita producenda.
Theonoston seu de animi immortalitate. Theonoston seu de contemplatione.
Theonoston seu hyperboraeorum historia. De immortalitate animorum. De secretis.
De gemmis et coloribus. De aqua. De vitali aqua seu de
aethere. De aceti natura. Problemata. Se la qualità può trapassare di
subbietto in subbietto. Del vacuo. De fulgure. De rerum varietate. De
subtilitate. In calumniatorem librorum de subtilitate. De numerorum
proprietatibus. Practica arithmeticae. Libellus qui dicitur, Computus minor.
Ars magna. Ars magna arithmeticae. De aliza regula. Sermo de plus et minus.
Geometriae encomium. Exaereton mathematicorum. De proportionibus. Operatione
della linea. Della natura de principii et regole musicali. De restitutione
temporum et motuum coelestium. De providentia ex anni constitutione.
Aphorismorum astronomicorum segmenta septem. In Cl. Ptolemaei de astrorum
iudiciis. De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus. De
iudiciis geniturarum. De exemplis centum geniturarum. Geniturarum exempla. De interrogationibus. De revolutionibus. De
supplemento almanach. Somniorum synesiorum. Astrologiae encomium. Medicinae
encomium. De sanitate tuenda. Contradicentium medicorum. De usu ciborum. De
causis, signis ac locis morborum. De urinis. Ars curandi parva. De methodo
medendi. De cina radice. De sarza parilia. Disputationes per epistolas. De
venenis. In librum Hippocratis de alimento commentaria. In librum Hippocratis
de aere, aquis et locis commentaria. In septem aphorismorum Hippocratis
commentaria. In
Hippocratis coi prognostica commentaria. In librum Hippocratis de septimestri
partu commentaria. Examen XXII. aegrorum Hippocratis. Consilia. De dentibus. De
rationali curandi ratione. De facultatibus medicamentorum. De morbo regio. De
morbis articularibus. Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen
(Avicenna). Vita Ludovici Ferrarii. Vita Andreae Alciati. De arcanis
aeternitatis. Politices seu Moralium. Elementa Graeca. De inventione. De
naturalibus viribus. De musica. Artis arithmeticae tractatus de integris. Expositio Anatomiae Mundini. In libros Hippocratis de victu in acutis
commentaria. In libros epidemiorum Hippocratis commentaria. De epilepsia. De
apoplexia. Paralipomena. De humanis civilibus successionibus. De
humana perfectione. Peri thaumason seu de admirandis. De dubiis naturalibus. De
rebus factis raris et artificiis. De humana compositione naturalium. De
mirabilibus morbis et symptomatibus. De astrorum et temporum ratione et
divisionibus. De mathematicis quaesitis. Historiae lapidum, metallicorum et
metallorum. Historiae animalium. Historiae plantarum. De anima. De dubiis ex
historiis. De clarorum virorum vita et libris. De hominum antiquorum illustrium
iudicio. De usu hominum et dignotione eorum, tum cura et errore. De sapiente. Melanippus
and Chariton Italy Greek athletes Lovers separator. Hieronymus the peripatetic says that the loves of youths used to be much
encouraged, for this reason, that the vigour of the young and their close
agreement in comradeship have led to the overthrow of many a tyranny. For in
the presence of his favorite a lover would rather endure anything than earn the
name of coward; a thing which was proved in practice by the Sacred Band,
established at Thebes under Epaminondas; as well as by the death of the
Pisistratid, which was brought about by Harmodius and Aristogeiton. "And
at Agrigentum in Sicily the same was shown by the mutual love of Chariton and
Melanippus - of whom Melanippus was the younger beloved, as Heraclides of
Pontus tells in his Treatise on Love. For these two having been accused of
plotting against Phalaris, and being put to torture in order to force them to
betray their accomplices, not only did not tell, but even compelled Phalaris to
such pity of their tortures that he released them with many words of
praise. Whereupon Apollo, pleased at his conduct, granted to Phalaris a
respite from death; and declared the same to the men who inquired of the
Pythian priestess how they might best attack him. He also gave an oracular
saying concerning Chariton - 'Blessed indeed was Chariton and Melanippus,
Pioneers of Godhead, and of mortals the one most beloved. M/M: Chariton and
Melanippus, Blessed Pair: Athenaeus, Deipnosophistae. Like the Athenian couple
Harmodius and Aristogeiton, the couple Melanippus and Chariton are also seen as
symbols of political freedom. Felix et Chariton et Melanippus
erat, mortalium genti auctores coelestis amoris. εὐδαίμων Χαρίτων καὶ Μελάνιππος ἔφυ, θείας ἁγητῆρες ἐφαμερίοις φιλότατος. Athenaeus, Deipnosophistae; Tr. into Latin by Iohannes
Schweighaeuser Chariton et Melanippus were blessed; Pinnacle of holy love
on earth. ATHENAEUS MAP: Name: Athenaeus Works: Deipnosophists
REGION 4 Region 1: Peninsular Italy; Region 2: Western
Europe; Region 3: Western Coast of Africa; Region 4: Egypt and Eastern Mediterranean;
Region 5: Greece and the Balkans BIO: Timeline: Athenaeus was a
scholar who lived in Naucratis (modern Egypt) during the reign of the
Antonines. His fifteen volume work, the Deipnosophists, are invaluable for the
amount of quotations they preserve of otherwise lost authors, including the
poetry of Sappho. ROMAN GREEK LITERATURE ARCHAIC; GOLDEN AGE;
HELLENISTIC; ROMAN; POST CONSTANTINOPLE; BYZANTINE:M/M: Melanippus and
Chariton, Two Lovers of Freedom Athenaeus, Deip. Like the Athenian couple Harmodius and
Aristogeiton, the couple Melanippus and Chariton are also seen as symbols of
political freedom. ut ait Heraclides Ponticus in libro De Amatoriis. Hi
[Melanippus et Chariton] igitur deprehensi insidias struxisse Phalaridi, et tormentis
subiecti quo coniuratos denunciare cogerentur, non modo non denuntiarunt, sed
etiam Phalarin ipsum ad misericordiam tormentorum commoverunt, ut plurimum
collaudatos dimitteret. ὥς φησιν Ἡρακλείδης ὁ Ποντικὸς ἐν τῷ περὶ Ἐρωτικῶν, οὗτοι φανέντες ἐπιβουλεύοντες Φαλάριδι καὶ βασανιζόμεναι ἀναγκαζόμενοί τε λέγειν τοὺς συνειδότας οὐ μόνον οὐ κατεῖπον, ἀλλὰ καὶ τὸν Φάλαριν αὐτὸν εἰς ἔλεον τῶν βασάνων ἤγαγον, ὡς ἀπολῦσαι αὐτοὺς πολλὰ ἐπαινέσαντα. Athenaeus, Deipnosophistae; Tr. in to Latin by Iohannes
Schweighaeuser. According to The Lovers by Heraclides of Pontus, [Melanippus
and Chariton] were caught plotting against Phalaris. Even when they were
tortured to provide the names of their accomplices, they refused. Moreover,
their plight moved Phalaris’ sympathy to such an extent that he praised them
and released them. ATHENAEUS MAP: Name:
Athenaeus Works: Deipnosophists REGION 4 Region 1:
Peninsular Italy; Region 2: Western Europe; Region 3: Western Coast of Africa;
Region 4: Egypt and Eastern Mediterranean; Region 5: Greece and the
Balkans BIO: Timeline: Athenaeus was a scholar who lived in
Naucratis (modern Egypt) during the reign of the Antonines. His fifteen volume
work, the Deipnosophists, are invaluable for the amount of quotations they
preserve of otherwise lost authors, including the poetry of Sappho. ROMAN
GREEK LITERATURE ARCHAIC; GOLDEN AGE; HELLENISTIC; ROMAN; POST
CONSTANTINOPLE; BYZANTINE. KrisArmodio, che viene riparato dal
braccio sinistro del compagno più adulto. Quel gesto inavvertito o solo
genericamente descritto dalle letture critiche, tese più che altro alla
considerazione dei principali contenuti politico-encomiastici del gruppo si fa
segno leggibile invece di una categoria interiore trasversale a tutte le epoche
e alle geografie e tanto presente nello spirito antico quanto nel nostro: l'omoaffettività.
Un uomo della fine del VI secolo a.C., chiamato Aristogitone, che aveva
affrontato un rivale, oggi potrebbe chiamarsi Marco, Francesco o Giovanni, e
compiere un medesimo atto, allungando poi un braccio come uno scudo su altri
Armodio, dai nomi di Mario, Alessandro e Franco, per la reciprocità,
l'attaccamento, il calore e il mutuo soccorso che il sentimento di essere in
due sempre realizza. Quel gesto del braccio, inventato da Nesiotes e Kritios,
fissa dentro un modello di valore civico per la retorica libertaria il segno di
un amore. Armodio e Aristogitone tirannicidi ateniesi Lingua Segui
Modifica Armodio e Aristogitone (in greco antico: Ἁρμόδιος, Harmódios e Ἀριστογείτων,
Aristoghéitōn) furono gli ateniesi tirannicidi che cercarono di porre termine
al potere personale della famiglia di Pisistrato. Statua di Armodio
e Aristogitone, Napoli. Copia romana di originale greco perduto Sono noti come
"i tirannicidi" per antonomasia, che assassinarono il tiranno di
Atene Ipparco, ma vennero a loro volta uccisi dal fratello di costui,
Ippia. AntefattoModifica Pisistrato riuscì nel 534 a.C., dopo vari
tentativi (meno riusciti) negli anni precedenti, approfittando delle tensioni
che laceravano la città di Atene, ad assumere su di essa un potere personale.
Pisistrato fu un tiranno,[1] prese il potere con la forza, ma, a giudizio
unanime degli storici, fra i quali Erodoto, Tucidide e Aristotele, non ne abusò
per modificare le istituzioni di cui la città disponeva e governò più da
cittadino che da tiranno. Quando morì, i suoi figli Ippia e Ipparco gli
succedettero. Ippia, il figlio maggiore, tese a continuare nella politica
paterna, mentre Ipparcoebbe un ruolo minore nella tirannide, ma l'atteggiamento
del regime mutò profondamente in seguito alla fallita cospirazione. I
fatti si svolsero a quattordici anni dalla morte di Pisistrato. Tucidide
racconta che a far scattare la messa in atto della congiura vi furono motivi
personali di tipo sentimentale. Ipparco s'invaghisce del giovane Armodio che,
secondo quanto racconta lo storico Tucidide, "era allora nel fiore della
bellezza giovanile", dal che si deduce che doveva avere 15 anni. Armodio
era l'eromenos(giovane amante) di Aristogitone, descritto da Tucidide come
"un cittadino di mezza età" - probabilmente aveva 35 anni - e
appartenente ad una delle vecchie famiglie aristocratiche. Le relazioni
sessuali fra un uomo più anziano (l'erastès) e un giovane non erano di costume
sanzionate ad Atene ed altre città greche, sebbene tali rapporti non fossero
omosessuali nel moderno senso della parola, ma pederastici. Certe relazioni
erano governate da severe convenzioni, e le azioni di Ipparco per cercare di
rubare l'eromenos di Aristogitone erano un deciso affronto alle regole
(Tucidide dice aspramente che Aristogitone "era il suo amante e lo
possedeva"). Armodio rifiutò Ipparco e raccontò ad Aristogitone
cos'era successo. Ipparco, rifiutato, si vendicò ottenendo che la giovane
sorella di Armodio fosse esclusa dalla cerimonia di offerta alle feste
Panateneeaccusandola di non essere sufficientemente nobile. Questa offesa fu
così grande per la famiglia di Armodio che egli decise di assassinare, con la
complicità di Aristogitone, sia Ippia che Ipparco e rovesciare la
tirannia. L'uccisione di IpparcoModifica Il piano - che doveva essere
portato a termine con pugnali nascosti nelle corone di mirto cerimoniali -
coinvolgeva anche un certo numero di cospiratori, ma vedendo uno di questi
salutare amichevolmente Ippia il giorno fissato, i Tirannicidi pensarono di
essere stati traditi ed entrarono subito in azione, senza rispettare l'ordine
che si erano dati. Riuscirono così ad uccidere Ipparco, pugnalandolo a morte
mentre stava organizzando le processioni delle Panatenee ai piedi
dell'Acropoli, ma perirono per mano delle guardie del tiranno senza scatenare
ribellioni. Aristotele, nella Costituzione degli Ateniesi, tramanda una
tradizione che vede la morte di Aristogitone avere luogo solo dopo una tortura
volta alla speranza che questi indicasse il nome degli altri cospiratori.
Durante la sua agonia, personalmente sovrintesa da Ippia, questi finse
benevolenza affinché egli tradisse i suoi cospiratori, sostenendo che la sola
stretta di mano del tiranno sarebbe bastata per garantirgli la salvezza. Nel
ricevere la mano di Ippia si dice che Aristogitone l'abbia criticato per aver
stretto la mano dell'assassino di suo fratello, al che il tiranno cambiò
immediatamente idea e lo uccise sul posto. Allo stesso modo, una
tradizione dice che Aristogitone fosse innamorato di una etera dal nome di
Leaena(leonessa) che era ugualmente tenuta in tortura da Ippia - in un vano
tentativo di costringerla a divulgare i nomi degli altri cospiratori - finché
questa morì. Si diceva che era in suo onore che le statue ateniesi di Afrodite
furono da allora accompagnate da leonesse [secondo Pausania].
L'assassinio del fratello portò Ippia a stabilire una dittatura ancora più
severa che fu molto impopolare e che venne rovesciata, con l'aiuto di un
esercito proveniente da Sparta, nel 510 a.C. Questi eventi furono seguiti dalle
riforme di Clistene, che stabilì in città la democrazia. La fama
successivaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Gruppo dei Tirannicidi. La mitologia successiva venne così ad
identificare le figure romantiche di Armodio e Aristogitone come martiri della
causa della libertà ateniese, e divennero noti come i Liberatori (eleutherioi)
e Tirannicidi (tyrannophonoi). Secondo scrittori successivi, ai discendenti di
Armodio e Aristogitone furono concessi privilegi ereditari come la sitesis (il
diritto di mangiare a spese pubbliche al palazzo del governo cittadino),
l'ateleia (esenzione da certi doveri religiosi), e la proedria (posti in prima
fila a teatro). Visto che non si sa se Armodio abbia avuto discendenti (è inverosimile
che li abbia avuti anche Aristogitone), questa potrebbe essere un'invenzione
seguente, ma illustra la loro fama postuma. La storia d’Armodio e
Aristogitone, e come venne trattata dai successivi scrittori greci, è
dimostrativa dell'attitudine nei confronti dell'omosessualità al tempo. Sia
Tucidide che Erodoto dicono che i due erano amanti senza commentare il fatto
presumendo la familiarità dei loro lettori con tale pratica sessuale
istituzionalizzata senza trovarvi stranezze. Per esempio, il politico
Timarco è perseguito per ragioni politiche per il fatto che si è prostituito.
L'oratore che lo difende, Demostene, cita Armodio e Aristogitone, così come
Achille e Patroclo, come esempi degl’effetti benefici delle relazioni
omosessuali. Con la celebre spiegazione di Cornelio Nepote, nel mondo greco vienne
chiamato tiranno chi è signore di una città precedentemente libera Voci
correlate Omosessualità militare nella Grecia antica Omosessualità nell'Antica
Grecia Pederastia greca Tirannide Aristogitone e Armodio, in Dizionario di
storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Armodio e Aristogitone, su
Enciclopedia Britannica. La storia d’Armodio e Aristogitone. Da: Projet
Androphile. Portale Antica Grecia Portale Biografie Portale LGBT
PAGINE CORRELATE Ipparco (tiranno) tiranno di Atene, figlio di Pisistrato Ippia (tiranno) tiranno di Atene, figlio di
Pisistrato Leena di Atene etera ateniese --se Sive Œconomia omnium Operum
Hieronymi Cardam, forum. Signum t prifixum, ea denotat, qui modo in Iuccm
prodeunt. PHILOLOGICA, Logica, Moralia.Vita propria, Libet. Ephemerus, de
Libris proprii». SPe|[)K De Libris propriis, eoruaaquevfu.exeditRovilliji. ltMriijs De Libris
propriis et eorum usu, ex edit.
Henricpetr. V Aeca De Socratis (ludio. Oratio ad Cardinalem Alciatum, (ive
Tricipitis Geryonis, aut Canis
Cerberi. In Theffalum Medicum, Attio secunda. Encomium Neronis. Encomium Podagri.
Mneroofynon. De Orthographia. De
Ludo alel. DIALETTICA.
Contradictiones logici. De Vno.
Hyperchen. Norma viti confarcinata.facra
vocata. Proxeneta, feude Prudentia ciuili. De
Priceptis ad filios. De
Optimovitx genere, De Sapientia. De Summo bono. De Consolatione. Dialogus
Hieton. Cardani, et Facij Cardam patri».
Dialogus Antigorgias, feu De retta vivendi ratione. Diaiogus Tetim, feu
De humanis confiltii. Dialogus De morte, feo Guglielmus. De Minimis et propinquis.
Hymnus, feu Canticum ad Deum, Moralia quidam, Physica. Vtilitate ex adversis
capienda. De Natura, Thconofton de Tranquillitate. Dialogus de Vita producenda,
feu Thconofton Thconofton. dc Animi immortalitate. Thconofton feu de Contemplatione. MTheonofton
seu Hyperboreorum. De Immortalitate animorum. De Secretis. De Gemmis, et coloribus.
De
Aqua. Dc Vitali aqua, seu aethere. De
Aceti natura. Problematum
fc&ionesfcptcm. Discorso del Vacua. Se la qualita puo trapaliare di
subbietto in subbietto. Dc fulgure. Physica. De subtilitate. Aftio prima in
Calumniatorem librorum dc Subtilitate. DcKcrum varietate. Arithmetica,
Geometrica, Mufua. t 1 A E
Numerorum proprietatibus, Pradtira Arithmetica. Computus minor. Artis magnx, sive de Regulis
Algebraicis. Liber Artis magnx,
five quadraginta capitulorum, Si quadraginta quxftionum. De Aliza
regula. Sermo de plus fcminus. Exxreton
mathematicorum. Encomium Geometnx. Operatione della linea, De Proportionibus
numerorum, motuum, ponderum, f onorurm, Delia natura deprincipij, e regolo Muficali. AJlronomica, AJlrologica,
Onirocritica, DE Reftitutione temporum et motuum cacleftium. De Prouidentia ex
anni conftitutionei Aphorifmotum Aftronomicorum fegmenta feptem. Commemarij in
Ptolcmxum, de Aftrorum judiciis. De
feptem Erraticarum ftellarum
viribus. De
Interrogationibus. De ludiciis geniturarum. De Exemplis cdhtum
geniturarum. Liber duodecim genurarum. De Revolutionibus. De fupplemento
Alraanach. Somniorum Synefiorum libri. Medicinalium primus. Ncomiutn Medicini, De Sanitate
tuenda. Contradicentium Medicorum Ubii duo, olim' impreffi, nunc audtiores.
Contradicentium Medicorum Libri
o&opofteriores, nunc primum in lucem emergentes. Medicinalium
fecundus. LVfu ciborum. De Causis,
Signis, ac locis morborum. De Vrinis. Ars curandi parva. De Methodo medendi,
fettiones tres priores.dempta quarta que Confilia quidam continebat, fuo loco redituta. De Radice Cina- De Cyna radice, seu de Decodis
magnis. De Sarza parilia. De Oxyinelicis
usu in plcuritide. De Venenis Commentarij
in librum Hippoc. de Alimento.
Medicinalium tertius. Commentarij in
librum Hippocr. De Aere, aquis, et locis. Commcntarij in Aphorismos
Hippocratis. Conclufiones de Lapidibus Galeni in explicatione Aphorifmoru. Apologia ad Andream
Camutium. Commcncarij in lib. Prognofticorum Hippocrati. Medicinalium quartus et poliremus. Commentarij in
lib. Hippocr. De Septiroeftri partui
Examen agrorum Hippocr. in Epidem. Lonliha varia partim edita,
partimhaidenusanecdota. Opufcula
Medica lenii ia, (eu
de dentibus De
Dentibus, liber cjuintus, seu de morbis articularibus. Floridorum
s ive Comtnent. in Principem Hazen.Vita Ludovici Ferranj, et Alciaci. Miscellanea, ex Fragmentis, et
Paralipomenis: L fragmenta. EArcanis
xternitatis,tractatus. Politica, seu Moralium, Laber vnus. Elemehta lingua:
Grscx. De Inventione.V. t De Naturalibus
viribus, traftatus. De Musica. De Integris, traftatus
Arithmeticus. Expositio Anatomix Mundini-Commentarij in libros Hippocr. de
Viftu in acutis. Commentarij in duos libros priores Epidem.Hippocr. De
Epilcplia, traftatus. De Apoplexia. PARALlFOMENON
Itbri. De humanis ciuilibus fucceffiombus. De humana perfectione. HI. tn«o',
feude Admirandis.De dubiis naturalibus, De rebus faftis raris,
et artificits. M.S. De
humana compolitione naturalium. De mirabilibus
morbis Stfymptomatibus. Deaftrorum et temporum ratione et divisionibus.
De mathematicis quxlitis. Historix lapidum, metallicorum et metallorum.
Hiftorix animalium. Hiftorix plantarum. De anima. De dubiis ex hiftoris.
De clarorum virorum vita Selibris. De hominum antiquorum illuftrium judicio.
De vfu hominum, et dignotione eorum,
tum cura Sc errore. De sapiente. Hieronymus
Cardanus. Hieronimo Cardano. Gerolamo Cardano. Keywords: masculinity, machio –
maschile, Prospero, De signo, De signis, de Casis, signis, ac locis Morborum,
ten volumes of “Opera omnia” analytic index – he wrote about almost everything
– including logic, dialettica, metafisica, psicologia, anima, fisionomia,
same-sex, he criticised Galenus for not realizing the distinction that at 14, a
puer becomes an adolescent – his oeuvre is being examined in masculinity
studies – masculinity Italian, Bolognese masculinity. He claimed that Bolognese
males were ‘tasteful’ and underrated compared to Milaenese or Florentine males
– he lived all over the place – he had many tutees, whose names survive – he
was possibly paranoid – Silvestri was his best known tutee –analytic index of
“Opera Omnia” -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cardano” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Cardano: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del Pietro della Lombardia – scuola
di Lumellogno – filosofia lombarda – filosofia novarese – filosofia piemontese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Lumellogno).
Filosofo lombardo. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Lumellogno, Novara,
Piemonte. lombardia -- Grice: “If William was called Ockham, I should be called
Harborne, and Petrus Lombardia!” --
Pietro Lombardo rappresentato in una miniatura a decorazione di una
littera notabilior di un manoscritto Pietro Lombardo o Pier Lombardo
(Lumellogno di Novara, 1100Parigi, 1160 circa) teologo e vescovo
italiano. Nacque a Novara o nei dintorni (a Lumellogno esiste una lapide
su di una casa che risorda il luogo della nascita), all'inizio del XII secolo.
Ricevette la sua prima formazione teologica a Bologna, dove acquisì una
perfetta conoscenza del Decretum Gratiani. Si recò a Reims e poi a Parigi, dove
fino alla sua elevazione alla sede vescovile di questa città insegnò teologia.
Almeno una volta in questo periodo si recò alla corte pontificia, dove venne a
conoscenza della traduzione del De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno,
compiuta da Burgundio Pisano per incarico di Eugenio III. Quasi certamente è uno
dei teologi che nel sinodo parigino presero posizione contro Porretano.
Dopo un breve episcopato morì. Il suo epitaffio si conservò nella chiesa di
Saint Marcel fino alla Rivoluzione francese. ALIGHIERI (si veda) lo nomina in
Paradiso. Oltre ai commenti all'opera di Paolo di Tarso e ai Salmi, la sua
opera maggiore rimane il Liber Sententiarum (Libro delle Sentenze), per la
quale ottenne l'appellativo di Magister Sententiarum. Sebbene il testo rientri
in un genere letterario tipico della teologia medievale, ossia l'esposizione
delle sentenze delle autorità di fede (i padri della chiesa ed i riferimenti
biblici) l'opera del Lombardo, per l'ampiezza delle fonti e la sua originalità,
diverrà il testo di riferimento per la didattica nelle facoltà di teologia e
l'elaborazione letteraria nello stesso campo. Egli infatti attinge ad una vasta
letteratura in merito, adottando anche testi che normalmente non erano
contemplati in queste composizioni, come Il De fide ortodoxa di
Damasceno. Con la sua opera il Lombardo tenta di sistematizzare e
armonizzare la disparità e le divergenze che la pluralità delle auctoritates
aveva generato, dando luogo ad un certo scompiglio ermeneutico e dottrinale.
Riprendendo la classica distinzione agostiniana tra signa e res, Lombardo
afferma che il motivo delle divergenze non appartiene alla natura delle cose
trattate, bensì alla metodologia esegetica. Il testo si divide in quattro
parti: la prima tratta di Dio, della sua natura e dei suoi attributi; la
seconda delle creazione degli angeli, del mondo e dell'uomo sino al peccato
originale; la terza dell'incarnazione cristica e della promessa della Grazia;
la quarta dei sacramenti. Anche lo sviluppo del testo mantiene la distinzione
tra res (le prime tre parti) e signa (l'ultima) Lo stile del Lombardo snoda
l'esposizione delle sentenze coll'eleganza dialettica di tipo anselmiano
mantenendosi aderente al rispetto delle varie auctoritates anche riguardo o
stile letterario col quale egli opera una volontaria mimesi. Il testo
venne criticato sin dalla sua prima uscita per via del cosiddetto nichilismo
cristologico. Lombardo descrive infatti l'incarnazione nei termini di assumptus
homo, ossia la persona divina del Cristo avrebbe assunto una natura umana
(accessoriamente). Ciò contrastava con la determinazione di origine boeziana
per la quale la natura cristologica traeva la sua forma da un sinolo unico di
divino ed umano. Note Per
approfondimenti vedere: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, II, pag.30 e seg. Novara, Istituto Geografico
de Agostini, per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I contenuti di questo
volume sono tratti da: Abbagnano, Storia della filosofia, Torino, Pomba, e
Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da
Giovanni Fornero, Torino, Pomba 1998)
Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, II, pag. 37 e seg. Novara, Istituto
Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I
contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della
filosofia I, II, III, quarta edizione,
Torino, Pomba, e Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata
ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Pomba); Colish, C., Leiden, Brill; C. Atti
del Convegno: Todi, Spoleto, Fondazione Centro italiano di studi sull'alto
Medioevo, Minuscule 714il manoscritto del Nuovo Testamento e di
"Sententiae". Libri Quattuor Sententiarum Scolastica (filosofia) C.
su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Pelster, Pietro Lombardo, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., su Enciclopedia
Britannica, Siri, C. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia; C., openMLOL, Horizons Unlimited, C., Les Archives de littérature du Moyen Âge; C. Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Rovighi, C., in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, C., Opera Omnia dal Migne Patrologia Latina con indici
analitici.Chisholm, C., in Enciclopedia Britannica, Cambridge; Illustrare 'k
iSlosofia di C. finora casi trascurata
dagli' storici della filosofia è im lavoro del tutto nuovo spedialmente
per lltalia. Protois affe!rim»a decisamente che C. non è un
filosofo, Thaureau ch'egli è il principe degl’indifferenti in materia fìlosofica.
Entrambe le asserzioni sono affrettate. Solo in Germania C. venne
studiato con maggior serietà e con particolare attenzione! Kogel pubblica a
Lipsia una monografia su C. Questa però parve confusa ed inesatta ad Espenberger
che intraprese un studio acuratissimo della filosofia di C. e della posizione
sua nel Beitràge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalter diretti
da BàumJcer e Herttìng. Di tale pubblicazione mi servii in special modo [Notre
auteur ne fui donc pas un philosophe.] De la philosophie scolastique Paris, [Cesi lui qua notes
reconnaissons corame le chef des indiffèrents en matière de philosophie. C. in s. Stellung z. Phil. d.
Mittelal, Leipzig. Die philosophie des C. und ihre Stellung im vwblften
Jahrhundert. Aschendorffschen Milnster] per questi
miei appunti sulla filosofìa di C. sebbene mi pervenisse al momento di
stenderli e troppo lardi per farne Fesaane minuto che essa si merita.
Poiché è veramente questo il primo saggio che si occupa con severa e
profonda indagine critioa della filosofia del Maestro delle Sentenze. L'autore dimostra
una profonda conoscenza delle opere patristiche e delle scritture sacre
colle quali esercita opportuni raffronti. Egli non si è poi solo limitato
all'esame del Libro delle Sentenze, ma ha giustamente esteso le sue
indagini alle altre opere meno conosciute di C. e pure ricche di
impvortanti digressioni filosofiche, quali il Commentano o Gloessa dei
Salmi detto anche Salterio, ed i Commentarli alle Epistole di S. Paolo. Solo
non ha tenuto conto dei Sermoni che sottio tra le cose più interessanti se
non più belle del Sentenz.iario, pur nel severo giudizio di Hanreau e
Bourgain, di cui Protois ha tratto dai mss. degli utili estratti mentre
se ne trova l'intero testo con poche varianti nelle Opere Omnia del
vescovo Ildeberto. Essi sono utili per completare la figura intellettuale
di C. Del quale a questo punto ripeleremo le parole: sed terrei
immensitas laboris. In verità quantunque grande sia la nostra buona
volontà non ci dissimuliamo la vastità del lavoro intrapreso: onde lo
restringeremo entro i limiti a noi concessi, raffigurandoci un poco a
quello spigolatore che move fidente sulle orme dei più abili mietitori
pago di fare un piccolo fascio delle spighe dimenticate. HAUREàU Not. et Extr. t. Ili p.
49. BouBGAiN. La chaire firancaisc au XII siede Paris, cfr. FjsBitT (La faculiè de Theol.). I Padri della Chiesa iniziarono la filosofia
oristiana, ma in forma espositiva, avendo ripugnanza a sottopome troppo
minute dimostrazioni le verità rivelate. È secondo il pensiero di Gregorio una
profanazione fassoggettare il verbo divino ALLE REGOLE DI DONATO. Ma quando, prima
chei si diffondessero per tutta Europa le opere di Aristotile, si attese
a studiare con amore i libri dell’Organum tradotti da BOEZIO, si accede quella
tendenza già iniziata nei secoli antecedenti a fortificare il dogma col
sillogismo e l'autorità della ragione. Da questo connubio della teologia
colla dialettica del LIZIO nasce la scolastica la quale se ha i suoi
precursoiri nei primi secoli del cristianesimo non riconosce i suoi
veri fondatori che nel secolo di Abelardo e di C. Essa nasceva per una
necessità di rendere più conformei la fede al sapere più progredito. E se
da una parte non cessa di fiorire la .scuola dei mistici con Bernardo e
gli Ai tempi di Abelardo e di C. non si possede altro d'Aristotile
che la logica, cioè ciò che si chiama l'Organum e comprende: le Categorie
coll'introduzione di Porfirio, l'Ermeneutica, gl’Analitici, i Topici, la
Sofistica nella traduzione di Boezio, (Cousm Fragments philosophiques
Paris) abati Ugo e Riccardo di S. Vittore, da un'altra il
mal compresso bisogno di libertà di pensiero apre la via ad
interminabili dispute quali giungevano talvolta ad intaccare il dogma, come
accadde per Abelardo. C. apparve come moderatore tra le due opposte
tendenze: la mistica e la speculativa, e valendosi dello stesso
metodo dialettico usato dagli avversarti eerli si propose di dimostrare
come le apparenti contraddizioni che si rileivano nelle Scritture sacre e
patristiche rischi'arate dalla ragione riconducono a rinvigorire maggiormente
te verità della fede. C. però nel Prologo delle Sentenze si scaglia
contro coloro qui non rationi voluntatem suhiiciunt, che la ragion
sommettono al talento, traduce ALIGHIERI, e vogliono fare credere per
verità, i sogni di lor mente inferma. Qui non irationi voluntatem subiiciunt,
nec doctrinae studium impendunt, sed his quae somniarunt sapientiae verba
coaptare nituntiu, non veri sed placiti etiam sectantes. C. è dunque tenuto
dallo stesso compito che egli si era pronosto, cioè di dimostrare cHte
nelle scritture sacre non v'ha vera sconcordanza e che ogni ragionamento
umano si riduce in ultima analisi a dimostrarne la veracità assoluta, a non
imporra egli stesso nuove e diverse dottrine le auala lo avrebbero
condotto fuori della sua serena imparzialità. Se ciò si possa chiamare
indifferentismo io non so, poiché il Maestro delle Sentenze non sdegna di
entrare e di approfondirsi nelle più minute distinzioni e controversite fìlosofìche,
cosi care ai suoi tempi, sforzandosi con passione di ricavarne
le verità da lui srià piresupposte. Nella sua umiltà che diventò poi
lefir-srendaria esrli preferisce lasciar la parola affli altri, a
Gerolamo, ad Ambrogio, e specialmente ad Agostino che è il stio autore
preferito come quello che suipera tutti srli altri padri per profondità
di vedute e copia d’argomenti nelle questioni fondamentali del dogma. Ma
non è vero che il Maestro rimanga empire nascosto e non ap- [Questi
ultimi conobbero oltre Aristotile anche Platone a cui sembrano dare la
preferenza e non furono del tutto stranieri alle vedute dei neoplatonici.
V. Bòbba La dottrina dell’intelletto in Aristotile e nei 8140Ì pie
illustri commentatori; paia di tratto in tratto a mostrarci la via da
seguire, per non perderci nel djedalo inestricabile delle
questioni. JJei «resto i più che hanno parlato di C. si sono
aoconlentati di scorrere i libri delle Sentenze: non hanno letto i suoi
lunghi e lucidi Commentarii alle Epistole di Paolo, e neppure quelli ai
Salmi che egli riunì sotto il titolo sintetico di Psaterium, nom^ i sjuoì
ispirati Sermoni che si trovano manoscritti alla Biblioteca Nazionale
di Parigi, e stampati tra quelli del vescovo Ildeberlo. In tutte
queste opere C. non è solo un puro e disadorno espositore di dottrine.
Certamente il Maestro va considerato precipuamente mei suo saggio delle
Sentenze, il quale lormò testo nelle scuole ed è letto e commentato più
della Bibbia mentre le altre opere vennero più presto dimenticate. Ma
anche qui se egli non espone dottrine nuove, ha però il merito grande e
riconosciuto da tutti gli storici della filosofia di distribuirle con
metodo razionale, cosi che esse ricevevano lume le une dalle
altre. Metodo già sperimentato con altro intento d’Abelardo, ma dal
Nostro condotto a singolare perfezione. Egli slesso sull'autorità d’Agostino,
espone l’ordine col quale si deve disputare. (Sent.): Gaeterum, ut in primo libro de
Trinitate Augustinus docet, primo secundum auctoritates Sanctarum
Scripturanim utrum fides ita ee habeat demonstrandum est. Deinde adversus
gamilos ratiocinatores elaliores magis quam capaciores, rationibus
catholicis et similitudinibus congniis ad defensdonem et assertioneim
fidei utendum est; ut eorum inquisitionibus satisf<icientes, mansuetos
plenius instruamus et illi si nequiverunt invenire quod quaerunt, de suis
menlibus polius quam de ipsa veritate vel de nostra assertione conquerantur. . Il
Deniflb in Carivi, Univer. Paris IntrodttcHo Methodus Abaelardi in IHo etiam
opere quod in schoh's Theologiae per aliquot saecula adhibebatur usurpata
est, dicimus Sententias Magistri C.Per queste come per le altre numerose
citazioni delle opere di C. ci serviamo della Patrologia dil Migne,
Paris. Fu in apecia»! modo ai metodo da mi usato che si deve J'eaiorme
diffusione del libro delle Sentenze nelle scuole. Esso nel mentre veniva a
soddisfare la naturiate curiosità del conoscere ed a dare la spiegazione
di molte credenze poneva dei limiti alla libertà del raziocinio. Ma
vienne sempre lasciato un cantuccio alle discussioni intermmabili sulle
questioni minori, dalla risoluzione delle quali in un senso o in un altro
poco aveva a soffrirne l'ortodossia. yui si esercitavano le intelligenze,
inquisitionibus satisfacientes, SMANIOSE DI SOTTILIZARE e di
sillogizzare, con tanta maggior sicurezza, quanto minore era il pericolo
di intaccare la fede. Lo stesso C. nel suo saggio non si trattiene
dal diffondersi nell'esame di questioni che a noi sembrano del tutto FUTILI e
vane come quelle ad esempio che riguardano la natura degli angeli. E non è raro anche il caso che le lasci
insolute. Cosi nel libro I, laddove domanda perchè mentre amare è
lo stesso che essere, si dice che il Padre ed il Figliuolo non sono
in essenza costituiti dell’amore col quale si amaaio scambievolmente, CONFESSA
MODESTAMENTE CHE LA QUESTIONE GLI SEMBRA TROPPO DIFFICILE e che egli si propone
più di riportare le dottrine dei Padri che di accrescerle: Diffìcile mihi
fateor hanc quaesti onem, praecipue cum ex praedictis oriatur quaei
siniilem videntur habere rationem quod meaei intelligentiae attendens
infirmitas turbatur, cupiens magis ea dictis sanctorum referre. Il De Vulf, Hist,
de la phil. Medievale, Louvain, come il Dknefle da un troppo reciso
apprezzamento. Ces sinthèses
thèologiquea, dont la premiere idee semble appartenir à Abelardo ètaient
appellées a un succès immense. Il faut en chercher le secret dans le besoins de
la classification et d' orgànisation qu^on eprouvait devant la masse des
materiaux rassemblès, bien plus que dans l’originante de ceux qui ont
appose leur signature a ce travail de mise en oeuvre. Cosicché il libro fatto per conciliare ogni
controversia sembrò sortire l'effetto contrario. Erasmits in Mattaei I,
iP (cit. Da Fabricius, Bib. m. aevi) e Siquidem apparet illum hoc egisse
ut semel collectis quae ad rem pertinpbant, questiones omnes excluderet.
Sed ea res in diversum exiit. Videmus enim ex eo opere nunquam
fìnìendarum quaestionum non exanima sed maria prorupisse. Flettrt,
Hist eccl. Paris] ri quam uff erre >k E limsce col
coaicmiDa^e. Eam
tameu quaestionjeon leolorum ddligentiae plenius dijudicandam atque
absolvendam ireiiinquimus ad hoc minus sufficientes. Perciò l'opera del
Sentenziario ha un intento assai modesto, né presume di sciogliere ogni
dubbio e di dirimere ogni questione. Qui il Maestro risentei della scuola
di Abelardo il quale (nel trattato Sic et non riconosceva ai pastori il
diritto di emendare le opere dei dottori della Chaesa (Migne) « Hoc et
ipsi eccleisiastici dactores attendentes et nonnulla in suis operibus
corrigenda esse credentes posteris suis emendaindi vel non sequendi licentiam
concesserunt ». E il nostro C. così dice di sé: (Sent. in prol.): In hoc aulem tractatu, non solum pium
leolorem, sed etiam correctionem desidero, maxime ubi prolunda versatur
veritatis quaestio, quae utinam tot haberet inventores quot habet
contradictores ! » Il libro delle Sentenze dove così riuscire più
accetto giacché il giogo del dogma era imposto alla libera riflessione
del pensiero con assai più illuminata larghezza che non fosse abitudine
del passato. Tanto che parve a più d'uno dei suoi contemporanei la sua
dottrina pericolosa e Giovanni di Goimovaglia potè chiamarlo uno dei
quattro labirinti della teologia ponendolo allo stesso livello di GijDerto
Porretano, Pietro di Podtiers, Abelardo. Scopo di C. è di fare un
trattato che risparmiasse al lettore tempo e fatica. È per rispetto
ai suoi tempi un volgarizzatore della scienza teologica dispersa ne^
libri canonici e negli scritti malagevoli dei Padri e incompiutamente
contenuta nei libri di Abelardo, PuUeyn, Ugo di S. Vittore. Egli compila una
specie di Enciclopedia teologica ove il lettore avesse a trovare senza
sforzo tutto quanto gli facesse al ciaso. Però avverte nel Prologo. «
JNon igitur debet hic labor cuiquam pigro vel multum docto videri
superfluus, cum multis impigris multisque indoctìs, inter quos etiam et
mihi, sàt necessarius: brevi volumine complicans Patrum sentias,
appositis eonim testimoniis ut non sit necesse quaerenti librorum numerositatem
evolvere, cui brevitas quod quaeiritur oBert sine labore». E
cosi nel distribuire la materia egli seguì un nuovo ordine sistematico e
compiuto non seguito né da Ugo di S. Vittore, né da Roberto PuUeyn, né da
Abelardo {Am quali pure trasse assai dalle sue doltrine) e pose a ciascun
capitolo un titolo per facilitare le ricerche (Sani, in prol.) Ut autem quod
quaeritur facilius occurrat, titulos quibus singnlarum capitula
dislingumitur praemisimus. Relijiiooe e scieoza.
Giovanni Scoto Erigena afferma che la teologia e la filosofia
sono una sola e una medesima scienza (1). Ma giustamente si poa&ono
fare a questo punto delle riserve perché la scuola e la chiesa si
accodano nel dire che l'ordine della ifede non é Tordine della jnagione e
che sia pei filosofi come per i teologi vi sono dei limita al
proprio dominio. Con lutto ciò la ragione e la fede non riusdroTio
mai a vivere completamente separate. Ed a torto credano alcuni che si
cominciò propriamente dalla scolastica a coffiy ciliare colla scienza la
religione. Anche ai primi Padri della Chiesa piacque di giovarsi di
entrambe e Clemente Dragone, Agostino, sono nello stesso tempo filosofi
e teologi. L'opposizione alla filosofìa come indegna di essere
applicata ai veri divini, non fu più propria e peculiare dell'età patristica
che della scolastica, le quali non sono già in opposizione, ma Funa é
naturale svolgimento dell'altra. Questo sforzo di comporre il dissidio ira
Taulorità e la speculazione filosofica si continuò per tutta i se^ coli
fino al nostro SERBATI che parlando dell età dei Padri e dei Dottotti
scrive. L'uomo allora sentiva altamente che la teologia non era divisa da
luii, e che, sebbene ella travalicasse, per l'origine e la sostanza, i
limiti della natura, passava dal ragionevole al rivelato, quasi
ascendendo da un palco in* (1) De praedestinatione (Collection de
Mangin). Coniicitur inde veram esse philosophiam veram religionem, conversimque
veram religionem esse veram philosophiam, cit. in Coasin Cours de la phU,
I p. 344. feriare ad un altro superiore dello slesso palagio delia
mente, con un solo disegno da Dio fabbricatogli. La teologia in
quell'età era senza contrasto la conduttrice e la custode di tutte le
altre scienze, la signora delle opinioni. Chi avrebbe allora pensato che
sarebbe venuto un altro tempo in cui alcuni pensassero doversd la teologia
dividere interamente dalla FILOSOFIA? Vediamo ora in quale rapporto si
tirovassero le verità teosofiche colle verità filosofiche nel pensiero di
Lombardo. Il Maestro si attiene in massima alle parole d’Agostino (sup.
Joan). Credimus ut cognoscamus, non cognoscimus ut credamus. E nella
distinzione XXII del libro III, là dove esaminia si Christus in morte
fuit homo, e risponde che benché Pietro morì come uomo, tuttavia era in
morte Dio ed uomo, non mortale e non immortale, e tuttavia vero uomo,
dice a coloro che voglioo io troppo sotìsticare sulla ragione di ciò. Illae
enim et Jiujusmodi argutiae in creaturis locum habent sed fidei
sacramentum a philosophicis est liber. linde Ambrosius (De. fide): Aufer
argiimenta, ubi fides guaeritur. In ipsis gymnasìis suis dam dialectica taceat,
piscatoribus creditur, non diaileoticis. Ma questa fede da pescatori
però, C. aggiuge più oltre, non è cosa a noi lutto affatto estranea,
peirchè essa non può essere di ciò che l'animo ignora. E qui egli sente
rinllusso del misticismo del suo- protettore. Bernardo e dei Vittorini che
primi lo accolsero a Parigi (Sent. Ili dist.). Cum fides sit ex auditu
non modo exteriori sed etiam interiori, non potest esse de eo quod animo
ignoratur. Ancora è necessario fare con Agostino una distinlone. Alcune cose
non sono intese se prima non si credono. Ma è pure vero che alcune cose non si
possono credere se prima non sono intese, come la fede in Dio che [Opere
edite ed inedite di SERBATI Introd. alla Filosofia Casale Tip. Casuccio p« 48
sgg. Per maggiori notizie sul teismo degli scolastici vedi: ERCOLE (si veda), Il teismo filosofico cristiano Torino Pbantl - Geschicte d. Logik] viene
dalla predicazione, e queste pai per la fede intendono di più. Uoc. cil.).
Ex his apparet quaedam intelligi aliquando etiam antequam credanlur al nunc
eliam per tldem ampiius intelligìintur linde colligdtur quaedam non credi
nisi prius intelligantur et ipsa per fidem ampiius inleJlegi. Quanto
poi alle cose che mima sono credute che comprese esse non sd ignorano ael
lutto perchè anche si amano (Sen.). Nec ea quae prius creduntur penitus
ignorantur tamen ex parte, quia non sciumtur. Creditur ergo quod ignoratur
non penitus sdcut etiam amatur, quod ignoratur. Pensiero ripetuto in AQUINO
ed in ALIGHIERI. In conclusione C. si libra Ira un misticismo ed un
razionalismo temperato non sfuggendo alla contraddizione, ma
affronlaaidola. Il suo concetto è quello che informa in gran parte il
cattolicismo. La fede non distrugge la ragione ma al contrario le da ali
più potenli per sollevarsi. Ed è in questo senso che bisogna
mtendere le parole d’Agostino: Intellectum ualde cana, e quelle d’Anselmo:
Fides quaerens intellectum. Principia rerum inquirenda sunt prius ut
earum notitia plenior haberì possi t. (Prol. in Collectanea). Dell’arti e
delle scienza del trivio e del quadrivio, secondo la celebre
classificazione data da Marciano Capella e riprodotta da BRIUZI e da Isidoro,
LA DIALETTICA ovverosia la logica che da principio parve una scienza
preparatoria avente per ogge'tio più le parole che le cose, acquistò nelle
scuole un tale sviluppo che fini col proporsà i più alti problemi
metafisici e diventare la prima delle scienze. Tra questi problemi, il più
importante, anzi il fondamentale che sembra raggruppare sotto di sé tutti
gl’altri, ed agitò potentemente l'età di cui parliamo, è il problema degl’universali,
quale LA FILOSOFIA si è posto innanzi in tutti i tempi. Protois scrive che
la questione degl’universali ha a suo autore Roiscelino. Ma ciò è per lo
meno detto male. Già Aristotele nel LIZIO si è posto innanzi il problema
nelle “Categorie” ed in molti altri suoi libri; e nella prefazione
della Isagoge di Porfirio tradotta da BOEZIO, esso è pure [Haurbaux De la
philosophie scoi. Paris] enuniciato, ma non risolto, parendo esso al
commeintatore d’Aristotele di troppo grave importanza. Ecco le
parole Ui Porfirio. M Cosi tralascierò di dire SE I GENERI E LE SPECIA
SUSSISTONO o sono soltanto e puramente nei pensieii, se come bUSbisleaiti
sono corporei od incorpoi'ei, se sono fuori oppure entro le cose seìusibili e
con esse coeistenti: essendo troppo grave una tale impresa e rictiiedendo
maggiori ricerctxe Porfirio divide cosi il problema nelle sue III
questioni fondamentali e iu in tal modo che esso è segnalato ai
primi scolastici. I I generi e le specie sussistono per sé o
consistono semplicemente in puri pensieri ? II Come sussistenti, sono
essi corporei od mcorporei ? Ed infine: III sono essi separati dagl’oggetti
sensibili o sono contenuti negli oggetti stessi formando con essi qualche cosa
di coesistente? A ragione Porfirio reputa queste questioni di somma
difficoltà. Perchè comunque vi si risponda si è condotti nell'alto mare della
speculazione, ed ognuna di esse sembra pod risolversi nelle suprema
questione della quaile tutte dipendono: Che cosa è l’essere?
JNuUa di più naturale che gli scolastici inoltrandosi a disputare
di un tale argomento con molto ardire ed acutezza d mgegno, ma non con pari preparazione
filosofica sollevassero infinite e tempestose discussioni che
molto spesso non approdavano ad alcun risultato. Tre furono le scuole
principaU che si avviarono ad una diversa soluzione del problema: quella
dei REALISTI, dei NOMINALISTI, dei CONCETTUALISTI. Il nome di realisti è dato a coloro che affermano che i generi e
le specie -- gli universali insomma -- sono una realtà sostanziale, una vera
entità distinta dall’altre. NOMINALISTI sono detti coloro che negano la
realtà di questi universali, e li ritenevano come semplici concezioni astratte
del soggetto ricondotte ad una idea comime per mezzo della comparazione.
Ma poiché questa conclusione, dovendo ammettere che tutto ciò che
v'ha di comune non è ohe im suono, un nome vuoto di significato, flatus vocis,
porta alla negazione di ogni scienza, sorsero i CONCETTUALISTI i quali
aggiungeno che un tale suono, im tal nome rappresenta un pensiero, un
concetto il quale proviene dalla somiglianza
delle cose diverse: il che non è sostanziale ma è percepito dall’intelligenza
umana come inerente a una natura individualmente deiterminata. Dopo che Scoto
porta agl;estremi il realismo, venne Roscelino che parve dirigere la
dottrina del nominalismo contro lo stesso dogma sollevando un grave
scalpore nelle scuole. Poiché, se nulla esiste che non sia
individuale, il dogma del divino, uno in tre persone vienne dalla ragione
ricalzato nelle sue basi. È bensì un errore l'uso stesso d’armi dialettiche prò
e contro i misteri della fede, perchè l'ordine della fede non è quello
della ragione, ma d'altra parte è un errore rimediabile. Ed a difesa della
realtà univereale si leva AOSTA (si veda), prima abate di Bec in Normandia poi
arcivescovo di Cantorberv e Guglielmo di Chamoeaux, il fiero avversario d’Abelardo.
Ed è quella del primo propriamente un realismo mistico, quello del secondo un
realismo scientifico. Abelardo poi è il capo riconosciuto, a volte
vincitore, a volle vinto, del CONCETTUALISMO, col anale si possono
trovare molti riscontri nella filosofìa moderna. Quale dove essere
l'opinione dei Dottori della Chiesa in tanto contrasto di idee?
Evidentemente nessuna delle suesposte- se e quando lo notevano. I
realisti confondeno le cose con la generalità delle idee, i concettualisti negano
il reale fondamento delle idee universali, i nominalisti le idee stesse. I
dottori non possono appartenere a nessuna di queste dottrine pericolose. Essi
doveno essere tratti a trovare un criterio conciliativo, né ciò è
diffìcile, secondo l'avviso dellHaureau. E quale è questo criterio? La
specie non è solamente un concetto. Essa è altresì una cosa, non una cosa in
sé, a parte dell’oggetto sensibie, ma nna cosa facente parte con
essi, formante con essi qualche cosa di co-esistente. Tale a un
dipresso la posizione dei dottori tra le scuole che divideno i logici
disputanti, corrispondenti sotto altro nome alla scuola
dell'idealismo critico ed alla scuola dell’idealismo
trascendentale. Tra questi dottori concilianti che l'Haureau non
propriamente chiama indifferenti si trova il nostro Maestro delle sentenze,
il quale pero non si occupa espressamente della questione, ma solo ne
tratta per incidenza, ragionando della Trinità nel 1 libro delle Sentenze. Per C.,
l'universale non è come per Guglielmo di Champeaux un solo essere
dappertutto identico e però difficile a
comprendere, ma al contrario colla moltiplicazione numerica dell'individuo
diventa anche in essenza tante volle accresciuto. Se l’animale è il genere,
dice il Maestro, e IL CAVALLO la specie si avranno III CAVALLI ed anche tre
ammali (Sent. I d. XIX, 8) CVM SI ANIMAL GENVS ET EQVVS SPECIES APPELLANTUR III
EQVI IIDEMQVE ANIMALIA. Perciò, quando la specie può dirsi triplice
devono anche essere III gli individui. Tutto dunque si raccoglie
nell'individuo. Ma egli poi aggiunge : SMITH, JONES, WILLIAMS -- Abramo,
Isacco, Giacobbe sono tre individui. Ma, nello stesso tempo, anche tre
uomini e tre animali. Specie e genere non sono quindi forme soggettive,
ma un oggetto che è nelle cose poste al difuori di noi. Ma non si dirà
che l'essenza divina è una specie e le persone individui, come è specie
Tuomo e sono individui Àbramo, Isacco e Giacobbe. Poiché se l’essenza
divina fosse una specie come l’uomo, come non si direbbe che Abramo,
Isacco e Giacobbe sono un sol uomo cosi non si direbbe una essenza essere
tre persone (Sent.)..Sicut enim dicuntur Abraham, Isaac, lacob, TRIA
INDIVIDUA ITA TRES HOMINES ET TRIA ANIMALIA 10: Nec speoies est essentia divina
et persona individua, sicut homo species est, individua autem Abraham,
Isaac et lacob. Si enim essentia specìes est ut homo sicut non dicitur
unus homo esse Abraham, Isaac et lacob. ita non dicitur una essentia esse
tres personas. Il Maestro quindi, a mio parere, non nega all’universale un fondamento
reale in quanto però va unito all’oggetto sensibile, ma distingue
nettamente le cose temporali dalle cose divine alle quali NON convengono
i nomi di universale e di partìcdare e le distinzioni della
logica. Abael hist. cai.:Erat antem in ea sententia de communitate universaliam,
nt eandem essenti ali ter rem totam simtil singulis suis inesse astrueret
individuis. cfr. Espenberg Die phil. d C.
EsPENBEROER. « Art nnd Gattung sind demnach nicht subjektive Gebilde, sondern
objektiv in der una mngebenden Auszenwelt begrìindet », Teoria della
coi>osc^i>za. i\el Gommenlario delle Epistole di S. Paolo C.
-venendo a parlare delle visioni le distingue 'n tre generi: corporali,
spirituali, intellettuali. E le ultime sono le. più perfette perchè
vedono non cogli occhi corporali ó colla immaginazione, ma per sé stesse. Qui
il Maestro viene a toccare sebbene in modo indiretto della conoscenza che noi
abbiamo coi sensi corporali, ei di quella che acquistiamo colla memoria,
la quale ci ripresenta immagini vere quali abbiamo già apprese coi sensi o
finte quali rimmagin azione forma secondo il suo potere (Collectanea in
epist. ad Cor.). In bis tribus generibus
(scil. visionis) illud primum manifestum est omnibus quo vid'etur coelum et
omnia oculis conspicua. Nec illud alterum quo absentia oorporalia
cogitantur, insinuare difficile. Coelum enim et terram et quae in eis videre
possumus, etiam in eis constituti cogitamus. Et aliquaiido nihil videntes
oculis corporis* animo tamen corporales imagines intuemur vel veras sicut ipsa
corpora vidimus et memoria retinemus vel fictas sicut cogitatio
formare potuerit. Aliter cogitamur quae novimus,
aliter quae non «novimus w. Altrove nel Commentario dei Salmi
paragona la memoria al ventre che riceve i cibi : (Comm.) Sicut enim venter
escasi recipit ita memoria rerum tenet notitiam. Nel libro III delle
Scinlenze C. pariando della fede dice che essa si riferisce soltanto alle
cose che non ci appaiono è sostanza di cose sperate come disse
Paolo e ripetè poi ALIGHIERI (1), che conobbe il Maestro forse più d’AQUINO.
E qui contrappone la fede alla conoscenza che si ha delle cose evidenti,
tra te qiiali pone anche l'anima deiruomo che sebbene non veduta, è da
lui intuita cogitando. Concetto raccolto poi e svilupipato da Cartesio,
il quale prende la coscienza umana come il punto di par [Paolo (Ep.
ad Eb. XI\* « Est fides sperandanim snbstantia rerum, argumentum non apparentinm.
ALIGHIERI (Par.): Fede è siLStanzìa di cose sperate - ed argomento dene
non parventi. ieaia dì ogni indagiiie filosofica ed argomenterà che
IV sistenza ci è data dal pensiero: cogito ergo sum. Sent.). c( Non sicul
corpora quae videmus oculis corporeis, et per ipsorum imagines quas
memoria tenemus, etiam absentia cogitamus; nec sicut ea quae non videmas et ex
his quae videmus cogitalionem utromque formamus, et memoriae commendamus,
nec sicut hominem, cuius animam etsi non videmus, ex nosbna coniicimus et ex
motibus corporis hominem sicut videndo didicimur, intuemur etiam cogitando: non
sic vìdetur fides in corde in quo est, .ab eo cuius est, sed eam tenel
oerliseima scientia. CosH nel capitolo già citato delle CoUectanea, il
Maestro tocca della conoscenza che noi abbiamo del nostro intelletto
intellicfendo. E' insomma nella ragione stessa la spiegazione della
nostra ragione (In epist. ad Cor.) Hac visione quae didtur
intellectualis ea cemuntur, quae nec cemuntur corporea, nec ullas gerunt formas
similes corponim, velui ipsa mens et omuis animae affectio bona.
Quo enim alio modo nisi intellisrendo intellectus consoicitur?
Nullo. C. paragona l’intellieenza ad una luce interiore che illumina
res<=ere intelligente: (im epist. ad Eph.). Omnis qui inteiligit
quadam luce interi ore illusfrRtiir». Ripete in sostanza il concetto già
espresso da S. Agostino: (in ps. 41 n. 2 Mierne) « omnis qui
inteiligit luce quadam non corporali, non carnali, non exteriore sed
interiore illustratur. Chiarito il modo di conoscere, resta a parlare
dell'oggetto della conoscenza. Che cosa è il vero? Tutto che è è
vero, secondo il concetto della filosofia patristica, come, e questo Io
si vedrà in appresso, tutto ciò che è è pure buono. Il falso va inteso in
un sen®o del tutto privativo, cioè non è sostanza di qualche cosa,
non è ciò che è, ma è ciò che non è. (In ps.). Veritas enim est de eo
quod est. Mendacium vero non est subslantia vel natura ìd est, non est de
eo, quod est natuiraliter, sed de eo, quod non est. Ed in altro luogo dice il Maestro : la verità è ciò
che è come vien detto : (in ps.). Veritas est cum res ita est cum
dicitur. Quia ip9e diodi ei faeta suut Paolo
Sostanza e^ accM^ote. S. Agostino concepiva la
sostanza come il concetto di assenza o di naliu-a preso in senso generale
da subsistere peirchè ogni cosa sussiste a sé slessa : omn«is enim res
ad se ipsam subsistil. Ma in senso più particolare, s'intende di
ciò che è soggetto d'altre cose come del colore, delle forane corporee,
ecc. J\on attrimenti Pier Lombardo: (sent.; in ps.). Substanlia intelligitur illud ouod
sumus: homo, pecus, terra, sol; omnia ista substantiae snnt : eo ipso quo
sunt naturae, ipsae substantiae dicuntur. Nana et quod nulla est
substantia, nihil omnino est. Substantia enim est cdiquid esse ».
Ma in quest'ultima significazione, il
detto .^oncetto non appropriasi a Dio perchè Dio è semplice. (Sent.) « Res ei^o anutabiles. .
. proprie dicuntur substantiae, deus autem, si subsistit, ut substantia
proprie dici possit, inest in eo aliquid in subiecto et non est simplex
». E' quindi a torto che parlando di Dio si
dice che è una sostanza, perchè non vi è nulla in lui che non ©ia
Dio, e la parola sostanza non si dice propriamente che delle creature.
Parlando di Dio è meglio servirsi della parola
essenza» Riguardo all'accidente il maestro delle Sentenze è
dello stesso avviso di BOEZIO che lo definisce: (in Porph. ed. Basii) Accidens est quod
adest et abest praeter subiecli corruptionem. (Sent.) a non sicut accidentia in subiéctis quaé
possunt abesse vel adesse ». S. Agostino e BOEZIO sono i due
filosofi ai quali iì nostro C. attinge con eguale misura. Nelle Sentenze
parla degli accidenti, cioè delle apparenze che gli sembrano piuttosto
esistere senza soggetto che essere nel soggetto, quali il sapore ed il
peso (accidenti) nel sacramento della Eucaristia, che sono senza soggetto,
poiché quivi non è altra sostanza che quella del sangue e del corpo del
Signore, che non soggiaciono a quelli accidenti. Perciò son quegli
accidenti per sé sussistenti. (Sent. IV d. XII, 1; in epist. ad Cor.). Si
autem quaeritur de acciflentibus quae remanent i. e. de speciebus
et sapore et pondere, in quo subiecto fundentur, potius mihi videtur
fatendnm existere sine subiecto quam esse in subiecto, quia ibi non est
substantia nisi corporis et sangumis dominici, quae non affìcitur illis
accidentibus... remanent ergo illa accidentia per se subsistentia ad
myslerium riti ». « Natura multiplex nomen est. Nam et philosophi et ethici et theologi usu
plurimo ponunt hoc nomen». Cosi Porrelano
(in Boet. ed. Basii). Ma se molli sono i nuovi significati presso i
filosofi, vediamo in quale senso più propriamente l'adopera il nostro
Pier Lombardo. Per lui natura è ciò che é concreata colla sostanza.
(Sent.). Substantiae nomine atque naturae dicunt signifìcari
substantias ipsas et ea quae naturali ter habent scilioet quae concreata
sunt eis sicut anima naturaliter habet intellectum et imaginem et volnntatem et
huiusmodi». Le €086 che awemgano per causa seminale, si dice che
aweaigono secondo natura, quelle invece fuori natura avvengano soltanto per
volontà divina. Ne viene che ogni creatura obbedisce a leggi
naturali. (Sent.). Et illa quae secund'um causam seminalem fìunt,
dicuntur naturaliter fieri, quia ita cursus naturae hominibus innotuit.
Alia vero praeter naturam, quorum causae tantum suni in deo... omnis
creaturae cursus habet naturales leges. yuale sarà dunque la legge
naturale ? Quella che ebbero anche i pagani (2), che indica all'uomo ciò che
è bene e ciò che è male e che si riassume nel non fare agli altri
ciò che non si vuole sia fatto a noi. (in epist. ad Rom.). Etsi non
habeat (s'cil. gentilis homo) scriptam legem, habet tamen naturalem,
qua intellexil et sibi conscius est, quid sit bonum quidve malum; lex
enim naturalis iniuriam nemini inferre, nihil alienum praecipere, a
fraude et penuria abstinere, alieno coniugio non insidiari et caelera
alia et ut breviter dicatur nolle aliis facere auod tibi non vis fieri. Quanto
poi alla persona, il Lombardo, parte dal concetto ^ià enunciato da BOEZIO che
la persona è la sostanza individuale d'una natura ragionevole: (ed. Peiper).
Persona est naturae rationalis individua substantia. Ovunque noi troviamo una
sostanza individuale nella specie umana, ivi è una persona. Ma l'anima
che è sostanza razionale, è dunque una persona? C. risponde negativamente
ricorrendo all'airtificio di parole ^à adoperato da BOEZIO nel sfuo libro
de duabus naturìs (ed. Peiper). Cioè Tanima è sostanza razionale,
ma non tuttavia persona, perchè non è per se sormns^ cioè è congiunta ad
altra cosa. Dio solo può agire contro natura: (Sent. loc cit) super hunc
naturalem cursum Creator habet apud se posse de omnibus facere aliud,
quam eorum naturalis ratio habet; ut. scilicet, vir^a arida repente fioreat, et
fructum ^^at. et in juventute sterilis femina, in senectute pariat, ut
asina loquatur et huiusinodi. CICERONE, De leg.; Atque, si natura
confirmatura ius non erit, virtutes omnes toUentur Nam haec nascuntur ex
eo, quia natura propensi sumus ad diligendos homines, quod fundamentum
iuris est. (Sent.) Nam et modo anima est substantia rationalis, non tamen
persona, quia non est per se sonans, imo alii rei comiuncta. Tuttavia
l'anima è persona quando per se est: onde quando è sciolta dal corpo è
persona come è Fangelo. (Sent.) « Anima, non est persona,
quando alii rei unita est personaliter absoluta enim a corpore persona
est siculi angelus. U^ià Agostino parla di una materia
informe dalla quale sarebbero derivate tulle lè cose che sono distinte
e formate. (de genes. contra Manich. Migne). Primo ergo
materia facta est confusa et informis unde omnia fìerenl quae distincta
atqua formata sunt, quod credo a graecis caos appellari). Così pure BOEZIO
(edit Basii p. 1138) parla di una materia informe e siemplice come
la ale e di una materia formata e non semplice come i corpi. Anche per C.
le cose create furono formate da una materia informe (I'n ps.). Quoniam ipse dixit, idest
voluit et facta sunt (scil. coelum et terra) id est formata de informi
materia. E cosi pure nel secondo libro delle
Sentenze : (dist.). Alii vero hoc magis probaverunt et asseruerunt, ut
prima materia rudis atque informis creata sii Postmodum vero ex illa materia
rerum corporalium genera sunt formata secundum species propria. D’Agostino
C. deriva pure il suo concetto della forma. (Sent.) Dicit Augustinus
causas primordiales omnium rerum in deo esse mducens simililudinem
artifìcis in cuius dispositione est qualis futura sii arca. Il Maestro
ripete a questo punto appoggiandosi intieramente ad Agostino quanto Abelardo e
Gilberto Prretano dicono con compiuto linguaggio scientifico
quando chiamaiio le idee forme esemplari della mente divina. Non
così chiara come in questi elementi platonici è l'idea della forma presso
i sentenziarii ai tempi aristotelici. Causalità. Qui il Maestro dà questa
definizione della idea di causa. Tutto ciò che in sé permanendo genera od
opera qualche cosa, è il principio, ossia la causa di ciò che genera od
opera. (Sent.). Si autem quicquid in se manet et gignit vel operatur
aliquid, principium est eius rei quam gignit vel edus quam operatur. Dio però si dice eh fa ed opera qualche cosa, perchè
è la causa delle cose scientemente esistenti. (Sent.). Deus ergo aliquid
agere vel facere dicitur, quia causa est rerum noviter existentium. Con
ciò vien presupposto che tutto ciò che avviene, avviene per una causa
necessaria e che nulla nasce che non sia preceduto da una legittima
cagione. C. in seguito si domanda se nulla possa sfuggire o questa legge
di causalità e possa awemare per caso. Ma egli risponde : se qualche cosa
avviene nel mondo per caso, non tutto il mondo è regolato dalla divina
pìnovvidenza. Se non tutto il mondo è regolato dalla divina provvidenza,
v'è qualche natura o sostanza che non appartiene all'opera della Providenza. Ma
tutto ciò che è, è buono per la partecipazione di quel bene che noi
chiamiamo divina provvidenza. Nulla dunque può avvenire per caso. Inutile
è il notare che questo argomento si trova già in Agostino, Ugo di S.
Vittore, Abelairdo. (Sent.) Si ergo casu aliqua fiunt in
mundo, non providentia universus mundus administratur. Si non providentia
universus mundus administratur, ali- [Vedi EspuNBKBOBB] qua natura vel
substanlia est quod ad opus providentiae non pertinel. Omne autem quod est... boni
illius partecipatione... bonum est, quod divinum bonum provideoliam
vocamus. JNihil ergo casu flit in mundo. Le
nozioni di spazio e di misura, ci vengono date da C., laddove parla di
Dio che è immensurabile ed iniCBteso. (Sent.) Neque
dime(nsionem habet (sdì. deus) sicut corpus cui secundimi locum
assigmatur principium, medium et finis et ante et retro, dextera et
smistra, sursum et deorsum quod sui interpositione facit distantiam et
circumstantiam... dicitur in Scriptura aliquid locale sive circumscriplibile et
e converso, sci!, quia diimensionem (bapierus longiltudinis et
latitudinis distaailiam lacit in loco ut corpus. Più avanti definisce il
luogo nello spazio ciò che è occupato in lunghezza, altezza e larghezza
da un corpo (Sent.) « Locais in spatio est quod lopgiludine et altitudine et latitudine
corporis oocupatur)). Come
Dio neppure gli spiriti creati possono essere circonscritti nello spazio.
Essi però possono in certo modo essere locali perchè quando si trovano in
un luogo (non si trovano in un altro : però non hanno dimensioni e
per quanto siano numerosi, non possono riempirlo. (Sent.) «
Spiritus vero creatus quodammodo est localis, quodammodo non e®t localis.
Localis quidem dicitur, quia definitione loci terminatur, quoniam
cum alicubi praesens sit totus, alibi non invenitur. Non autem ita localòs
est ut dimensionem capiens distantiam in loco faciat. C. infine conclude che Dio non si muove né
nello spazio, né nel tempo, che Tanima si muove nel tempo, ed il corpo
nelo spazio e nel tempo. Di qui le loro diverse natuire. Ecce hic
aperte oistendilur, quodi nec locis aec temporibus mutatur vel movetur
Deus, spiritualis autem natura per tempus unovetur, corporalis vero etiam
per tempus et locmnn. Che cosa è il tempo ? Ad una tale
domanda cosi risponde S. Agostino nelle Confessioni: Se nessuno me lo
chiede lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chieda non lo so: con piena
fede dico tuttavia di sapere che se nulla passasse, non vi sarebbe un
tempo passato e se nulla dovesse avvenire^ non vi sarebbe un tempo
futuro, e se nulla fosse non vi sarebbe un teimpo presente. C. definisce
il tempo, la variazione delle qualità che sono nella stessa cosa che si
muta. (Sent. ) <( Mutari autem per tempus est variari
secundum qualitates quae sunt in ipsa re quae mutatur... Haec enim
mutatio qua fìt secundum tempus, vanatio est qualitalum et ideo vocatur
tempus. L'eternità fa antilesi al tempo. Il Lombardo come Abelardo ripete
qui le parole di Boezio: Stabilisque manens das cuncta momri quando dice: (In ps.)
«Et video, id
est sciam, quoniam tu es proprie qui stabiEs manens das cuncta moveri. Garattei'a appunto dell'eternità è la stabilità, del
tempo la mutabilità (in epist. ad Hebr. I) « In aeternitate enim
stabilitas est, in tempoire autem varietas ; m aeternitate omnia stamit, in
tamporei alia aocedunt, alia sucfcedHint. Il problema cosmologico si presenta
al Maestro nel libro II delle Sentenze alla prima distinzione. Egli
dimostra sulla fede delle Sacre Scritture, che non vi è che un
prinMiGNB ( Espenberger). Quid est
tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim nescio:
fidenter tamen dico scire me, quod si nihil praeteriret, non esset praeteritum
tempus ; etsinihil adveniret, non esset fUtunim tempus, ei si nihil
esset, non esset praesens tempus, cipio solo di tulle le cose. Alcuni (ilosoli,
come Platone ed Anstolile, avevano pensalo che il mondo avesse
molti principii, che la materia che lo comipone fosse increata ed
eterna, che Dio non ne fosse punto il Greatore, ma semplicamente l'
oa^ganizzatore. Ma la dottrina cattolica al contrario ci insegna che Dio
solo, principio di tutte le cose, ha tutto crealo dal nulla, le cose
visibili e le invisibili, il cielo e la terra (Sent.). Creationem rerum
insinuans Scriptura deum esse creatorem initiumque temporis atque omnium
visibilium ved invisibilium creaturarum in primordio suo ostendìft dicens
(g:en. I, 1) In principio creavit deus caelum et terram. His enim verbis
Moyses... in uno principio a deo creatore mundum factum refert elidens
errorem quorundam plura sine principio fuisse opinantium. Plato namque
tria inilia existimavit deum scilicet exemplar et matenam et ipsam
mcreatam sine principio et deum quasi artificem non creatorem. E altrove
conferma che il mondo non è coetemo a Dio e senza alcun principio, ma
creato da Dio come insegna la scrittura. (in ps.) « Quia ipse dixit
et faota sunt hoc dicit contra illos qui dicunt mundum deo coateoiimn. Dio
creò ogni cosa dal nulla : creare è propriamente ricavare qualche cosa
dal nulla : onde a Dio solo compete il nome di creatore (Sent.). Creator
enim est, qui de nihilo aliquid facit. Et creare proprie est de nihilo aliquid
facere hoc nomen (scilicet creator) soli deo proprie congruit. Ipse est ergo
creator et opifex et factor. C. passa
poi ad esamina-re la creazione del mondo e specialmente .l'opera dei sei
giorni commentando il racconto della Genesi. Le spiegazioni ch'egli
offre, sono tolte ai padri antichi tra i quali S. Ambrogio,
Agostino, Gregorio, il venerabile Beda e Giovanni Grisostomo.
Insieme con vedute geniali e profonde, si trovano in quella parte dei
suoi libri ove si paria della creazione, alcune teorie che le scienze
naturali hanno poi definitivamente condannate. Basta ricordare la teoria
dei quattro elementi di cui si compone il cosmo, e quella che considera
il firmamento come una immensa volta solida alla quale sono attaccati gli
astri, e Topinione che i piccoli insetti nascano &6 dalla
corruzione dei carpi organici. Ma il Lombardo espone la scienza dal
secolo decimosecondo : d'altronde egli di tali cose sembra parlare in
forma dubitativa e come è suo costume non fa che esprimere le opinioni
che ai suoi tempi correvano. dell'uorpo
o^il'unlv^rso* Là dove parla della creazione, il Maestro pada anche
del fine per il quale l'uomo e l'angelo furono creati. La somma bontà
divina ha voluto far parte della sua felicità etema a due delle sue
creature, all'angelo ed all'uomo : perciò li creè ragionevoli affinchè
conoscessero il sommo bene, l'amassero, ed amandolo lo jK>ssedesseiro
e possedendolo fossero felici. L'angelo di natura incorporea e l'uomo
composto di anima e di corpo furono creati per lodare e per servire
Iddio; non già perchè questi abbia bisogno dei servigi umani, ma affinchè
l'uomo godesse nel servirlo, poiché in questo si giova chi serve e non
colui al quale si serve. (Sent.) Factus ergo... homo projter
deum dicitur esse, non quia creator deus et summe beatus alterutrius
indiguerit officio... sed ut servirei ei ac fruirelur.'.. in hoc ergo
proficit serviens... non ille cui servi tur. Pensiero che vien
perfezionato da S. Tommaso (Sum. contra gentes) e d'ALIGHIERI (Parad.):
Non per avere a sé di bene acquisto Ch'esser non può, ma perchè suo
splendore Potesse risplendendo, dir: Subsisto. In seguito
aggiunge che come l'uomo è stato fatto per Dio, così il mondo per l'uomo,
il quale si trova in un mezzo tra ciò che a lui serve e ciò a cui egli
stesso deve servire. (Sent.) « Et sicut factus est homo propter deum i.
e. ut ei serviret, ita mundus factus est propter é6
hominem, scil. ut ei servirei. Positus est ergo homo 'n medio ut et
ei servirelur et ipse serviret; ut acciperet utrumque et reflueret totum ad
bonum hominis et quod accepit obsequium et quod impeffidit. L uomo infine si distingue da tutti gli altri
animali per la sua aspirazione alle cose superne, ed è perciò che
egli ha il corpo eretto e quasi rivolto al cielo. (Sent.) « Ecce osl^isum est,
secundum quid sit homo similis dei. Sed in corpore quaaidam proprieitatem
habet quae haec indicat, quia §st erecta statura secundum quam corpus
ajiimae rationali congruit, quia a caelum erectum est ». È LO
STESSO CONCETTO DI CICERONE (De legibus). Nam quum caeteras animantes
abiecisset ad pastum, solum hominem erexit ad caelique quasi cognationis
domiciliique pristini conspectum excitavit. E non di CICERONE soltanto. Tra i gentili cf. OVIDIO
Metamorf. SALLUSTIO Catil. Tra i
filosofi cristiani Agostino (de gen. centra Manich. I, XVII), BRUZI (de
anima cap. IX) Beda (in hexaem I) Abelardo (in hexaem). Tantum enim, ut tradit
auctoritas, cognoscit ibi quiHque quantum diligit. (Sent.) Foteoze d^ll'anirpa. 11 problema psicologico
veniva proposto da Ugo di S. Vittore in queisti termini: (de
sacram.) yuaerunlur autem
quiam plurima de origine animae, quando creata fuit et tolde creala fuit
et qualis creata fuit. (cfr. August. de quant. animæ). August. de quant. animæ). È questione tra i
filosofi secondo Giovanni di Salisbury (Mei.) se è una sola potenza la
quale ora sentisse, ora ricoondasse, ora immaginasse o se pur
rimanendo l'anima semplice, essa è dotata di molte potenze (MieNB) – H.
P. Grice, “The Power Structure of the Soul.”. Recolo enim fuisse philosophos,
quibus placuit, sicut incorpoream simplicem et individuam esse substantiam
animae, ita et unam esse potentiam, quam multipliciter prò rerum
diversitate exercet. Eorum ergo opinio
est, quod eadem potentia, nunc sentiat, nunc memoretur, nunc immaginetur; nunc
discemat investigando nunc investigata assequendo intelligat. Sed plures
sunt e contrario sentientes animam quidem quantitatem simplicem, sed
qualitatibus compositam et sicut multis obnoxiam passionibus, sic multis
potentiis utentem ». V. Espenberger. C. si attiene in ciò a S. Agostino e
definisce quei^le potenze come naturali proprietà dell'anima, yueste sono
una sola sostanza ed esistono nell'animo sostanzialmente; e noiii
accidentalmente : poiché sebbene relative tra di loro ciascuna è sostanzialmente
nella sostanza oell animo. (Sent.) « Hic attendendum est ex
quo sensu accipiendum sit quod supra dixit, illa tria, scilicet memoriam,
intelligentiam, voluntatem esse unum, imam mentem, unani essentiam, quod
utique non videtur esse venim juxta »pix>piietatem sermonis... Illa
vero tria, naturales proprietales seu vii-es sunt ipsius mentis. Sed
jam videndum est quoniodo liaec tria dicantur una substantia. Ideo
quia sciJicet in ipsa anima vel mente substantialiter existunt, non sicut
accideiitia in subiectis, quae possunt adesse vel abesse uiide Augustinus
in lib. IX de Trm. cap. 5 alt : Admonemur, si utcumque videre possumus,
haec in animo existere substantialiter, non tanquam in subiecto, ut
color in corpore; quia etsi relative dicuntur ad invincem, singula tamen
substantialiter sunt in substantia sua. Spiegata cosi coli autorità
altrui la natura delle potenze dell anima, il Lombardo distingue nella ragione
due parti : la parte superiore che si volge alle ragioni eteme
delle cose, la inferiore che si piega a osservare le cose
temporali! (Sent.) « Ratio vero vis animae est superior, quae, ut
ita dicamus, duas habet partes vel differentias, superiorem et inferiorem.
Secundum superio«rem, supemis conspiciendis vel consulendis intendit; secundum
inferiorem, ad temporalium dispositionem conspicit ». Da ciò
deriva la distinzione ch'egli fa della sapienza e della scienza. La
definizione che diedero gli antichi della sapienza, cioè : Sapientia est
rerum divinarum humanarumque scientia, va divisa cosi che sapienza si dica
propriamente della conoscenza delle cose divine, scienza della conoscenza
delle cose umane. (Sent.). Illa definitio dividenda est, ut
rerum divinarum oognitio sapientia proprie nuncupetur, hùmanarum vero
rerum cognitio proprie scientiae nomen obtineat. L'influsso mistico di S.
Bernardo suo protettore e dei suoi primi maestri di S. Vittore, si fa
sentire in C. là dove afferma che la maggiore o minore quantità di sapere
deriva dalla quantità di amore: (Sent.) Sed qui magis diligit plus coginioscit ». Abelardo
definisce Tanima come una certa essenza spirituale e semplice: (introd.
ad theol. Ili, 6) « Anima quippe spiritualis quaedam et simplex essentia
est ». Non diversamente la definisce il nostro C. là dove dice (sent.) « Mens enim i. e., spiritus
rationalis essentia est spiritualis et incorporea ». Così Abelardo come C., si riconnettono a
Agostino che in più luoghi dei libri tratta deU anima -n quanto spirituale
ed incorporea. L'anima si dice semplice perchè non si diffonde in estensione,
ma in qualunque corpo in tutto o in qualsivoglia paorte di essa è
intiera. Cosi quando avviene qualche cosa nella più piccola parte del
corpo, che sia avvertita dall'anima benché non avvenga in tutto il corpo, tutta
Tanima sente perchè non tutta si tien nascosta. (Sent.)
Simplex dicitur anima) quia mole non diffunditur per spatium loci sed in
unoquoque corpore et in toto tota est et in qualibet eius parte tota est.
Et ideo cum fit aliquid in quavis exigua particula corporis quod
sentiat anima, quamvis non fiat in toto corpore, illa tamen tota sentit
quia totam non latet. In ciò segue C. la dottrina professata da Agostino
e da Plotino, il primo nel libro di trinitate, de quantitate animae, de immut,
animae, il secondo in enn. (edit Volkmanm). Ma se l’anima è semplice,
dice il Lombardo nel luogo citato, in confronto del corpo, per sé stessa
non è semplice ma molteplice. Poiché altro è essere operoso, altro
Inerte, altro acuto, altro memore, altro è desiderio, altro è timore,
altro è letizia, altro è tristizia, e queste cose ed altre dello stesso
genere si possono trovare nella natura delVanima ed alcune senza le altre ed
alcune più ed altre meno, onde è manifesto che la natura dell'anima non é
semplice, ma molteplice « unde manifestum est animae non
sim plicem sed multiplicem esse naturam. In conclusione la natura dell’anima
offre due lati: è semplice da un lato se si paragona colla natura del
corpo molteplice se si paragona colle sue potenze Ma ranima è
altresì immortale. L'uomo è fatto a somiglianza di Dio e la somiglianza
nella essenza perchè essa è immortale ed indivisibile (Sent.) Factus est homo ad similitudinem
dei -- similitudo in essentia quia et immortalis eit indivisibilis est. linde
Augustinus, de quant, anim. Anima facta est similiter deo, quia immortalem et
indissolubilem fecit eam deus. Ma la
filosofia scolastica fedele al precetto: distingue prequenier^ come
limita e divide il concetto della semplicità deiranima cosi na limita e
divìde quello della immoortalilà, distinguendo il coooeilto della morte
intesa in senso assoluto di annientamento da quello della stessa intesa in
senso relativo di mutazione : ed in quest'ultimo senso l’anima non
è del tutto immortale (Sent.) In omni mutabili natura nonnulla mors est
ipsa mutatio quia fecit aliquid in ea non esse quod erat, unde et anima
humana quae ideo dicitur immortalis quia secundum modum suum nunquam
desinit vivere^ habet tamen quandam mortem suam. Riguardo all’origine dell’anima
si agitavano ai tempi di C. due diverse opinioni, l’una del traduzionismo
(1) che pretendeva che l’anima vienne generata come il corpo, l'altra del
creazionismo che pretendeva al contrario che è creata da Dio
direttamente. A quest ultima si attiene naturalmente C. con
Abelardo, Roberto PuUus, Ugo di S. Vittore. Dio creò ranima dal nulla
dice il Maestro: (Sent.) «Flatus factus est a deo, non de deo, non
dealiqua materia sed de Odo di Cambra!: (de pen. orig. II) « Sunt autem
multi qui volunt animam ex traduce fieri sicut corpus et cum corporis
semine vim etiam animae procedere » Vedi Espen. 6, I 101
nihilo ». Quindi cornhatte; ropinione di coloro che affermaaio con
Origene che le anime sono state tutte create al principio del mondo, e
quella di coloro che con i Lu^ciferiani e Cirillo ed alcuna dei Latini pensano
che Tanima si comunichi ai figli per generazione e nello stesso
modo che il corpo. Mentre Tanima non è infusa nel corpo che quando
esso è tonnato ed adatto a riceverla. (Sent.) Sed quicquìd de anima
primi hominis aestimeoitur, de alias certissime sentiendum est, quod in
corpore creentur; creando emim infundit eas deus et infundendo creat ». E più
avanti: (Sent.) e( Unde Augustiiniis in ecclesiast, dogm. animas hominum
di<rit non esse ab initio inter creaturas intellectuales natuT^as
nec simili creatas sicut Origenes fìngit necque in corporibtis per
coitum seminum sìcuT Luciferani et Cyrillns et quidam LatiinoiTum
praesuanptoìres affìrmant, sed dicimus corpus tantum per coniugii oopulam
seminari, creationem vero animae solum cneiatoirem nosse eiusque iudicio formato
iam corpore animam creavi atque infimdi ». E nel libro IV spiega
ancor meglio quest'ultimo pensiero ricorrendo all'esempio della casa e del suo
abitatore che vi entra soltaoito quando è ben costruita (Sent.). Sed
iam formato corpori anima datur, non ini conceptu corporis nascitur cum
semine derivata. Nam SI cum semina et
anima existit de anima, tunc et multae animae quotidie pereunt cum semen
fluxu non proficit Ti'ativitati. Primum
oportet domum compaginari et sic habitatorem induci». E qui è
opportu/no ricordare che questa teoria dell'anima si trova pure con poche
varianti nel canto del Purgatorio laddove il Poeta discorre della nascita
dell'uomo e spiega come (Tanimal divenga fante.
Relazione tra Fanirpa ed il corpo. . Seguendo il concetto
aristotelico dell'età di mezzo, il Lombardo ritiene Tanima come forma del
corpo. (Sent.) « Formatum vero intelligitur corpus propria anima
animatum et informe quod nondum Habet animam. Un tal concetto va
intimamente collegato con un passo della Bibbia: (Exod.) « Si quis
percusserit mulierem praegnantem et aborlivum fecerit, sì adhuc
informalum fuerit, multabitur pecunia; quod si formatmn fuerit, reddel
animam prò anima », C. deride le favole di coloro che immaginano che le anime
siano rinchiuse nel corpo, come in un carcere, per i peccati commessi in
cielo (Sent.) Multi in fabulas, vanitatis abierunt dicenls, quod animae sursum
in caelo pecoant, et secundum peccata sua ad corponia prò meritis diriguntur,
et dignis sibi guasi carceribus includuntur. lerunt hi tales post
cogilationes suas et versi sunt in profundum, dicentes animas in caelo ante
conversatas et ibi aliquid vel mali egisse et prò meritis ad corpora
terrena detrusas esse. Hoc autem respuit catholica fides ».
Ma invece Dio diede senso alla natura coirpoTea perchè l’uomo
capisse che se potè unire due cose cosi diverse, quali l'anima è il corpo
in una tale unità, non è impossibile ch'egli possa partecipare per quanto umile
alla sua gloria (Sent.) Lufeamque materiam fecit ad vitae
sensum vegetare, ut sciret homo, quia si potuit deus tam disparem naturam
corporis et animae in federationem unam et in amicitiam tantam coniungere,
nequaquam ei impossibile futurum rationalis creaturae humilitatem ad
sua Rloriae partecipationem sublimare. C. non crede che il corpo sia
carcere dell'anima nel senso che sopra si è detto, perchè f)er essere
opera di Dio è un bene: ma è pure un carcere nel senso che il corpo a
corrompe e corrompendosi aggrava l’anima (in ps.) «Vel potius corpus
est career non utique secundum id, quod deus fecit ipsum bonum est,
sed secundum id, quod comimpitur et aggravat animam i. e. oorruptio
eius quae venit ex peccali, career est. Altrove chiama il corpo quasi strumento
e servo delTanima : (in epist. ad Rom.) « Si corpus, quo inferiore
tamquam famulo vel instrumento utitur anima... ». E cosi pure si legge in
un suo sermone : (2P De codem die: In passione Domini seu in annuntiatione (Protois).
Dominus est spiritus
noster, anima tamquam domina, corpus tanquam servus. Hi tres ini domo una cooperantur et si
oonveniunt in bono, vdr bonus intelligilur ». Che cosa è infatti Tuoino se
non un'aniina fornita di corpo? si domanda Ugo di S. Vittore (1). Però a
questo riguardo il Lombardo usa di una certa moderazione; ed il suo modo
di pensare intomo alla persona deiruomo ci fa credere che egli dà un
posto importante anche alla vita. Il Maestro delle Sentenze sul finire
del suo libro principe, cioè alla distinzione, entra poi a
discorreire della morte e della risurrezione del corpo. E fu il padre
Michele da Carbonara il primo a far notare la conformità che vi è tra le
dottrine svolte da Pier Lombardo e i luoghi della Divina Commedia che parlano
della risurrezione, quantuncfue la ragione fondamentale di essa
data dal Maestro diversifichi in sostanza da quella data dal Poeta.
Nella risurrezione ciascuna anima separata riprenderà il
coqx), ripigtierà sua carne e sua figura (Inf.) quale
era nel fiore della età: e sarà mage^iore allora la sua beatitudine e la
sua cognizione : amplior erit eorum cognitio. Ciò è diffìcile a
spiegarsi, dice il Maestro. Ma è certo che nell'anima è un vivo desiderio
di ripigliare il corpo; riunita al corpo Tanima ha perfectum naturae
suae modum ed ha ampliorem cognitionem. Altri che verranno
poi, si spingeranno più addentro nella questione come farà S. Tommaso.
Ma, dice il Carbonara, il Maestro sta come colui che tira le linee più
larghe d'un quadro, in suU'indeterm inalo; e si legga at[Sent., Migm. Quid enim
est homo nisi anima habens corpus ? Nel sermone 11 (in die Cineris ad
poenitentes .Ms. lat. in Protois p.
138): «vita praesens messi comparatur et aestati, quia nunc inter ardores
tentationum colligenda sunt futurorum merita praemiorum. Carbonara, ALIGHIERI
(si veda e C. (Sent.) con prefazione e per cura di Murari 2 ediz. Città di Castello Collezione di
Opuscoli Danteschi inediti o rari diretti da Passerini. tentamente
questo tratto « ^f mmor sU healitudo sanctorum post iudicium; sì leig'gta
attentamente e si vedrà che se vi è trailo che specchi il canto del
Paradiso, questo tratto è desso. La slessa queslfone, gli stessi punti determinali;
ma Insieme rindeterminatezza, il vago, che neirinsieme domina il Maestro,
si risente nel Poeta. Come la carne gloriosa e santa Pia rivestita, la
nostra persona Più grata fia, per esser tutta quanta :
(cperfeobum natuirae suae modum habebit anima».Omne qaod est, in quantum
est, bonum est. Tutta TEtica scolastica è necessariamente
compenetrala della dogmatica teologica. Quella di C. non diversa in sostanza da
quella dei suoi maestri^ si riattaeca alle discussioni teologiche intorno alla
morale che ai suoi tempi si dibattevano. La prima questione che ci
conviene esaminare, è quella che riguarda il libero esercizio della
volontà. La libertà, pensa egli con Ugo di S. Vittore (Sent.), di
cui sente più volle l'influsso, chiede di poier compiere non solo il
male, ma anche il bene. (Sent.) « Verum nobis magis placet ut ipsa libertas
arbitrii sit et illa, qua magi® liber est malum, et alia qua quis liber
est ad bonum faciendum. Ex causis
enim variis sortitur diversa vocabula. Il Lombardie si chiede in
appresso quali fattori determinano la libertà umana e ne distingue due, cioè la
ragione e la volontà. La prima disceme tra il bene ed il male, la
seconda si muove con desiderio spontaneo ad effettuarlo. Ecco la
definizione e la spiegazione del libero arbitrio secondo C. (Sent.). Liberum verum arbitrium
est facultas rationis et voluntatis, qua bonum eligitur gratia
assistente, vel malum ea desistente. Et dicitur liberum, duantum ad
voluntatem quae ad utrumlibet flecti potest. Arbitrium vero, quantum ad
rationem, cuius est facultas et potentia illa, cuius etiam est discemere
inter bonum et malum et aliquando quidem discrelionem habens boni
et mali, quod malum est eligit, aliquando vero quod bonum est...,.»
e più avanti: (Sent.) Liberum
ergo dicitur arbitrium quantum ad voluntatem, quia voluntaTie moveri et
spontaneo appetitu ferri potest ad ea quae bona vel mala indicet vel
indicare potest. Il Lombardo si affretta poi a spiegare un passo
di S. Agostino, ove questi afferma che l'uomo perde il libero
arbitrio dopo il peccato, onde si legge nei Vangeli: (Pel.) A quo erdm devictus est, huic
servus est (Vedi August. enchirid. Migrie).
TIon ciò non si vuol dire che l'uomo perde intieramente la libertà, ma
solo quella che ci trattiene dalla miseria e dal peccato (Sent.) <( Ecce
liberum arbitrium dicit (scil. Augustinus) hominem amisisse; non
quia post peccatum non habuerit liberum arbitrium, sed quia libertatem
arbitrii perdidit non quidem a necessitate, sed libertatem a miseria et
peccati. Est namque lib^rtas
triplex, scilicet a necessitate, a peccato, a miseria. A necessitate et
ante peccatum et post aeque liberum est arbitrium. Sicut enim lune cogi non poterai, ila nec modo.
Ideoque voluntas merito apud deum indicalur, quae semper a necessitate
libera est *i iiiunquam cogi potest. Ubi necessitas, ibi non est
libertas; ubi non est libertas, nec volunlas et ideo nec merilum. Haec libertas in omnibus est tam in malis quam in
bonis. Il Sentenziario perciò nel suo Commentario nei Salmi (rimprovera
coloro che attribuiscono alle stelle ed al fato, la colpa dei loro
peccati facendone in certo modo responsabile Iddio, che è Tautoire del creato:
(in ps.) « Ila clamel aeger ad medicum, et dicat : Cum libero arbitrio creavi!
me Deus: ideoque si peccavi, ego peccavi non fatum, non fortuna, non
diabolus, me coegit : sed' ego persuadenti consensi ». io:
In conclusione, il maestro delle Sentenze^ come già si è veduto,
definisce il libero arbitrio un& facoltà della ragione' e della vodontà
colla quale si sceglie il bene col soccorso della grazia od il male se la
grazia ci manca. Ma questa definizione, aggiunge l'autore, non conviene
a Dio né ai santi che par essere incapaci di peccare, hanno un
libero arbitrio più perfetto. 11 libero arbitrio di Dio è la sua volontà
ònnisapiente ed onnipotente, che fa senza necessità e liberamente tutto
ciò che le piace. Quella degli angeh e dei santi non può più portarsi
verso il male, perchè essi sono coiiifermati neha beatitudine e
neilla grazia. L'uomo dopo il peccato ha pure conservato il suo, ma
perchè egli voglia il bene gli è necessaria la grazia del
Redentore. La teoria del libero arbitrio, che il Maestro
professa, intesa a conciliaire il dogma coi dettami della ragione,
non sfugge, come è ben naturale, a gravi difficoltà. Cosi egli è
costretto per quaiinto si sforzi di provare il contrario, a mettere
l'uomo in una posizione non del tutto giusta, rispetto alla sua libertà,
poiché se egli fa il male, ne è tutta sua colpa (ideoque si peccavi ego
peccavi in ps. loc. cit.) quantunqua non possa andare ^nte dal
peccalo, mentre se fa il bene, il merito è tutto di Dio.
(Sent.) « Non tamen sine libero arbitrio proveoiiunt merita nostra,
scilicet boni effectus eo-rumque progressus atque bona opera quae Deus
remunerat in noDas et haec ipsa sunt Dei dona. Unde Augustinus ad Sixtum
presbyterum: Cum coronat Deus merita nostra nihil aliud coronai quasn
munera sua. Quamto poi alla obbiezione che se Dio sa tutte le cose che
debbono avvenire, noi non possiamo fare in altro modo di quello che a lui
è noto, dal che ne verrebbe la negazione di ogni libertà umana, egli non oppone
nulla in questo punto dove espone la teorica del libero arbitrio. Ma noi
possiamo conoscere il suo parere in proposito, purché noi ci riportiamo a
quel punto del libro P, ove parla della prescienza di Dio, allora assai
dibattuta dalle sette scolastiche, come quella che sembrava condurre a
riconoscere il fatalismo. Il Maestro delle Sentenze per rispondere
a questo argomento, fa uso della distinzione così nota agli
scolastici del senso composto e del senso diviso, ovvero del senso
congiuntivo e del disgiuntivo; cioè che non si può dare che Dio abbia
preveduto una cosa e ch'essa non avvenga, ma è possibile che essa non
avvenga, e allora Dio non Tavrebbe preveduta. Sottigliezze a cui la
scuola dogmatica è costretta a ricorrere ogni qualvolta vien messa ale
strette. Ondie il Pomponnazzi nel suo libro: De Fato, libero (mbitrio et
providentia Dei (V lib. Bàie) ove si sforza egli pure si conciliare il
destino la provvidenza e la libertà deiruomo, finisce col non saper dare
altre soluzioni che quelle poste innanzi dalla scolastica, confessando
però che esse sono piuttosto delle illusioni che delle vere risposte:
Videntur potius esse illusiones islae quam respomiones. Fine a cui
tendiamo tutti é la felicità : (sent.) Beatos autem esse velie, omnium hominum
esl ». C. ricorda le parole di CICERONE: Beati certe omnes esse volufnus,
ed è lontano dal contraddirvi, ma anzi ne deduce che poiché tutti
desiderano la felicità, tutti ne hanno dentro di sé la conoscenza:
sequitiu' ut omnes beatam vitam sciant. Vediamo ora come procede il
Lombardo neiranalisi della felicità. Sul principio del primo libro egli
comincia dal distinguere la differenza che v*è tra usare di una
cosa e fruirne. Usare d'una cosa è adoperarla a compiere la nostra
volontà, fruirne è usarne con gioia, è aderirvi per amore e ciò non
avviene in questa vita. (Sent.) « Uti est assumere ali<juid! in
f acultateni voluntatìs. Frui autem est, uti cum gaudio, non adhuc
spei sed jam rei... et ita in hac vita non videmur frui sed tantum uti,
ubi gaudeamus in spe, cum supra dictum sit, frui esse amore dnhaerere
alieni rei propter se : qualiter etiam hic multi adhaerant De. ALIGHERI, Purgatorio: Ciascun
confusamente un bene apprende Nel qual si queti T animo, e desira:
Perchè di giugner lui ciascun contende. E poiché questo sembra far
iidsceire eontraddiàoni, egli la rivolse così chiarendo il suo concetto.
Tanto qui come nel futuro si può in certo modo fruire della beatitudine
eterna, ma mentre in cielo noi la godremo in modo perfetto perchè, come
dice S. Agostino, l'avremo vicina qui in terra, non la godiamo che per
riflesso ed è ciò che ci fa sopportare i travagli della vita.
(Sent.) « Haec ergo quae sibi contradicere videmtur, sic determinamus,
dioente», nos et hic et in futuro frui : sed ibi proprie et perfecle et
piene ubi per speciem videbimus quo fruemur, hic autem, dum in spe
ambulamus fruimur quidem sed non adfeo piene... Idem (scil. Augustinus)
in Uh. de Doc. christ. ail (lib. I, cap. 30) : Angeli ilio fruentas jam
beati sunt quo et nos frui desideramus; et quaai'timi in hac vita iam
fruimur, vel per speculum, vel din aenigmate, tanto nostram peregrinationem
et lolerabilius sustioemus et ardentius fruire cupimus ». In questa
teorioa il Lombardo si liem stretto a Agostino ed esprime 41 medesimo
comcetto che più tardi sarà svolto da S. Tommaso col fine mediato ed
iumiediato. guanto alla questione, se si possa gioire della
virtù per sé stessa o solo come mezzo di acquistare la vera felicità,
egli si prova come è suo metodo di conciliare la prima opinio*ne, che
sembra confortata da un passo di Ambrogio, con la seconda professata da S.
Agostino, affermando che la virtù può essere amata per sé slessa,
ma che non dobbiamo fermarci lì, ma bisogna tendere ad un fine più
elevato e riferire la virtù a Dio come fine ultimo. Amoralità d^Ue aztooi
urpaoe* Quali sono le azio^ni umane che si debbono chiamare buone
secondo C. e quali cattive ? Egli
risponde suirautorità di S. Ambrogio e di S. Agostino, che ciò che
fa buona o cattiva una azione è Tintenzione. Ed in ciò non discorda da
Abelardo che afferma appunto nelFEtica: « Unde ab eodem homine cum in diversis
temporibus Ilo idem fiat, prò divemsitate tametn inlentionis
eius operatio modo bona modo mala dicitm* ». Infatti il Maestro nel
libro secondo d^e Sentenze (dist.) dice quasi allo slesso modo : «
Nam simpliciter ac vere sunt boni illi actus, qui bonam causam et
intentionem id est qui voluntatem bonam comitantur et ad bonum finem
tendunt: mali vero simpliciter dici debent qui perversam habent causam et
intentionem ». E cita a questo proposito le parole di S. Agostino : (enarr. in
ps.) « Bonum eriim opus intentio facitìK In conseguenza è
un'azióne buona confortare i poveri se si fa per compassione e misericordia :
ma la stessa azione diventa cattiva se la si fa per ambizione. Vi
sono tuttavia delle azioni le quali sono cattive per sé stesse e
che la intenzione non può rettificare: tali sono la menzogna e la
bestemmia. Ksse poi sono cattive in quanto sono privazioni
dell'essere, perchè ogni cosa, in quanto è, è buona : Omne quod est in
quantum est bonum. L.a le^^e fT)orale« Stabilito cosi guali sono le
azioni buone o cattive, et seconda
dell'intenzione, restava a determinare quale è il caratieire morale che
deve contraddistinguere le nostre azioni e qual norma si deve necessariamente
seguire per muovere al bene : dione insomma dove deve dirigersi- la buona
intenzione. In coerenza colle dottrine da lui professate, •il Maestro
pone la regola delle azioni umane nella legge divina : perciò il peccato
consiste in una infrazione alla legge divina. (Sent.) « Peocatum est omne
dictum vel factum vel concupitum quae fit contra legem Dei, . . Quid est ipeccatum nisi legis divanae
praevaricatio? ». n C. ammette altresì una legge naturale, lex
natu^ raliSj la quale ebbero anche i Gentili, ma questa non basta a
condurre a salvamento. Ili Nofli è qui il luogo di indicare
il difetto originale d una tale dottrina che nel porre fuori di noi la
legge del nostro operare, si condanna alla, contraddizione. Mi basterà
ricoirdare che essa si presenta assai più sviluppata in AQUINO, il quale pone
innanzi iJ concetto aristotelico della ragione umana, la quale è la
natura dell'uomo in quanto è uomo: ondfe poiché ogni cosa è buona quando
è conforme alla sua propria natura, ogni cosa sarà buona rispetto airuomo
quando sarà conforme alla ragione. Ma questa stessa ragione e natura
umana ripete il suo potere regolativo dalla natura divina : « quod autem
ratio umana sit regula voluntatis humanae, ex qua eius bonitas
mensuretur, habet ex lege aeterrm quae est divina ». (Sum theol..).
In conclusione la filosofia patristica e scolastica, si accorda nel
porre il principio normativo dell'operare umano fuori aeiruomo stesso, cioè
nella sapienza divina identica essenzialmente col suo volere. Bei}e
^ n)ale. Abbiaino veduto come Pier Lombardo affermi che tutto ciò
che è, in quanto è, è bene : « Omne quod est, in quantum est, est bonum »
(Sent.). E poiché l3io é d'autor© di tutto ciò che esiste Dio é rautore
di ogni bene. (Sent.) (Deus) omnium quae sunt auctor
est, quae in quantum siuiif bona sunt. Ma non viieme di conseguenza che
Dio sia l'autore anche del male, giacché il Lombardo come tutti gli Scolastici,
concepisce il male come gualche cosa di propriamente negativo, cioè come la
privazione o la corruzione del bene. (Sent.) « Malum enim est
comiptio yel privatio boni... Quid enim aliud quod malum dicitur
nisi privatio boni?». Anche Agostino nel libro De civitate
Dei (Migne) parla di causa deficiente e non efficiente del cattivo
operare « Nemo igilul* quaeral ellkientem causani malae volunfalis: non enim
efficiens est, sed deflciens, quia nec illa effectio est sed defeclio. E
di qui trae buon argomento il Maestro a confutare l'obbiezione di eoJoro
che insinuano che Dio essendo autore di tutto ciò che esiste, deve essere
altresì autore del peccato. (Sent.) « Quocirca mali auctor
non ^t (scil. deus) et ideo ipse summum bonum est, a quo ^n nullo
delicere bonum est, et malum est deflcere. Non est ergo causa deficiendi id' est tendendi
ad jion esse, qui, ut ita dicam, essendi causa est, quia omnTum quae
suoit, auctor est, quae in quantum sunt, bona sunt... Ecce aperte
habes quod deficere a deo... malum est ». L.oiT7bardo nel cielo del
5oIe. Entrato €on Beatrice nella sfera del sole Dante, appreoide
diairanima di S. Tommaso chi essa sia e chi siano i fulgor vivi e
vincenti Sella sua ghirlanda. Se si di tutti gli altri esser vuoi
certo, Di retro al mio parlar ten vien col viso * Girando su per lo
beato serto, QuelValtro fiammeggiare esce dal riso Di
Graziano, che Vano e l'altro foro Alutò si che piace in Paradiso.
L'altro ch'appresso adorna il nostro coro Quel Pietro fu che con la
poverella Offerse a Santa Chiesa suo tesoro {Par.);.
Qui Buti commenta : con la poverella offerse fece la sua offerta
della sua facilità, come la po-verella della quale dice rEvangelio di
Santo loanni, che offerse poco, perchè «poco aveva, ma con buon cuore e
peirò Iddio accettò più la sua offerta che quella del ricco, che, benché
offerisse molto, non offerse con si buono animo. Commento di Buti sopra
la Divina Commedia per cura di C. Giannini Pisa I più dei oammentatapi
ricordano le prime parole del prologo del Liber Sententiarum :
« Cupientas aJiquid de penuria a-c temiitate nostra cum paupercula in
gazophilacium Domini miUere ardua scandere et opus supra vires nostras
praesumpsimus». Le parole di C. chiaramente fidludono al noto
episodio della poverella, riportato da San Luca e da S. Marco e nooi da Giovanni come erroneamente
riferisce il Buli. Dice San Luca: « Respiciens autem
vidit eos, qui mittebant munera sua in gazophilacium diviles. Vidit autem et quamdam viduam
pauperculam mittenlem aera minuta duo. Et dixit: Vero dico vobis, quia
vidua haec pauper, plus quam omnes misit. Nam omnes hi ex abundantia siti
miserunt in munera Dei : haec autem et ex eo, quod deest illi,
omoiem victum suum quem habuit misit. Così ad un dispreeso racconta San Marco con
leggere vananti : solo è da notarsi che egli chiama la donna uidua
una pauper e vidua hxiec pauper e non mai col diminutivo tanto affettuoso di
paupercula che per essera stJ^lo scelto da Pier Lombardo fa pensare
ch'egli si sia riferito in special modo al passo di San Luca della
Volgata. Ma ciò poco importa : importa invece assai il notare come
l'umiltà della vidua paupercula avesse toccato «profondamente il cuore di C. il
quale nel vergare quelle parole doveva forse ricordarsi con teneirezzìa
di un'altra vedova poverella di un lontano paese di Lombardia: e come ALIGHIERI
che nei veirsi che dedicava ai persooiaggi della sua^ Commedia soleva
«per lo più introduirre l’elemento soggettivo dei ricordi ed affetti personali
non senza ragione ricordò quel punto e quello solo dell'opera di C. L'influenza
che il ma^fister Petrus esercitò sul pensiero del Divino Poeta non è stata
ancora tutta quanta spiegata e compresa nella sua giusta entità. 11
tkeologus . Dantes nullius dogmatis expers dà a S<a«n Tommaso il
posto d'onore che gli conviene, ma ad AQUINO commentatore di C.. Se ALIGHERI ed
AQUINO non si possono ancor dire contemporaiiiei sono vissuti a
poca distanza di tempo e sono entrambi commentatori e perfezionatori
dell'opera ancora rozza si ma feconda di Pier Lombardo : l'uno raggiunge
finalmente colla sua maunifica somima quel connubium fidei ac rationis che
il Magister aveva solo tentato, Taltro ina canta il trionfo
glorioso. Che Dante avesse letto il Rbro delle Sentenze con mollo
amore ci è provato non solo dai versi succitati, ma da numeirosi passi
del Paradiso ove come diremo tosto rimitaziione risulta evidente : ed io
sarei anche propenso a credere che rAlighieri non si fosse Termato alla
lettura di quel libro solo ed a tutti noto di Pier Lombardo.
Qui sono tratto ad accennare fuggevolmente alla famosa questione
del viaggio di Dante a Parigi : questione ove troppo, eletti ingegni si
cimentarono perchè io presuma di recare qualche nuovo raggio di luce.
Dante zill'Uoiversiià di Parigi. Giovanni di Serravalle comme«ntatore
racconta. Anagogico dilexit Theojogiam sacram, in qua diu studuit tam in
Oxoniis in regno Angliae quam Parisius in regno Franciae : et fuit
Bachalarius in Universitate Parisiensi in qua legit Senlentias prò forma
magisterii : legit Biblia : respondit omnibus doctoribus, ut moris est,
et fecit omines actus qui fieri debent per doctorandum in Sacra
Theologia. Egli continua poi a dire che Dante non potè ottenere la laurea
perchè gli mancò il denaro per la licenza (deerat pecunia). Onde tornò in
Firenze per acquistarlo, optimus artista, perfectus Theologus e quivi
fatto «priore si diede ai pubblici uffici e più non si curò della
Università di Parigi. Il (racconto di Giovainni di Serravalle fu accolto
dairOzanam e dairArriviabene con maggior serietà che mm me(1) TiBABOSOBi, storia
della leti. Hai. Modena - Fratria F. de Serravalle Translatio et comentum
totius libri Dantis Aldighieri cum textu italico Fratria Da Colle, nunc
primum edito Prati - (Jiachetti in
fol. ritasse. Secondo un tale racconto ALIGHIERI (si veda) sarebbe andato
a Parigi contro raffestazione di Villani, di Boccaccio, di Benvenuto da IMOLA
(si veda) che fanno il viaggio degli ultimi anni. Ed il chiaro professor
Cipolla osserva che è appena credibile che ALIGHIERI (si veda) fossei in
cpiel tempo cosi spirovviiyto di credito da non potere ottenere la
somma che gli era necessaria: onde giudica il racconto di poca
probabilità. Ma TinverosimigHanza di lutto il racconto appare manifesta quando
un poco si pensi al modo come è organizzata la facoltà di FILOSOFIA di
Parigi ai tempi d’ALIGHIERI (si veda). Il buon vescovo di Fermo
volendo mostrarsi molto approfondito nella conoscenza dei gjradi accademici
commette degl’errori grossolani: et fuit Bacchalarius – cf. H. P. Grice, B. A.
Oxon. -- in vniversitate parisiensi in qua legit Sententias pro forma Magisterii:
legit Biblia. Ma si è veduto nella parte storica del lavoro che l’anno in
cui il baccelliere éiventsiV a Sententiarius cioè commenta in pubblico il
libro delle Sentenze non precede, ma segue la spiegazione della Sacra scrittura.
Dopo quell'anno, il baccelliere si chiama baccalaureus FORMATVS, che
risponde, mutatis mutandis al nostro laureando a BOLOGNA. Perciò Giovanni
di Serravalle per essere esatto come vuol parerlo, avrebbe dovuto
invertire l'ordine delle parole. Ma non vogliaino essere molto esigenti su
ciò: c'è ben altro. Gli omnes aclus qui fieri dehent per
doctorandum in sacra Theologia sono e forse Giovanni di Serravalle lo
ignora, i sermoni (sermones) e le conferenze (controversiæ) che si
dovevano tenere nei tre o quattro anni che precedeno la licenza ed infine
le tre dispute pubbliche di cui la più solenne vienne chiamata sorbonica.
Ma la licenzia (LICENTIA) che vienne dopo tali prove accordata e che il
Serravallei chiama con termini vaghi inceptio, conventus non esige alcuna
pecunia di sorta. Il SerravaUe e tutti i Commentatori si riferivano all’accenno
Dantesco; si come il baccelUer s'arma e non paria, fin che il MAESTRO
(MAGISTER – H. P. Grice, M. A. Oxon) la question propone, per approvaria
e non per terminarla. Par. -
i8, Infatti già il concilio Lateranense proclama due punti fondamentali:
la necessità e la gratuità della licenza ed un tale decreto trova posto nelle
Definire di Gregorio IX. Solo per eccezione è eoncesso a Comestore, cancellario
di Nótre Dameij per i suoi pregi personali, da Alessandro III, di
prelevare uoiia piccola rimunerazione per la concessione della
licenza. Ed ancora il Regolamento di Courcon insiste sulla concessione gratuita
ed ìncondiziomita della licenza: ed una tale disposizione veniva
conifermata nelle reigole aggiunte dal papa Gregorio II di cui conosciamo
il benefico intervento nei dissensi tra rUniversità ed di Re di Francia.
Nella famosa bolla Parens scientiarum viene prescritto formalmente « che il
cancelliere non potrà esigere da coloro ai quali conferirà la licenza né
giunamento, né obbedienza, né denaro, né cauzione, né promessa ». Ora
è noto a tutti che lo statuto di Roberto di Courcon confermato e
completato dalla bolla di Gregorio IX, la quale fu pure rinnovata senza
modificazione da Urbano IV continua ad essere per tutto il secolo XIII
'a legge fondamentale deirUniversità e pertanto della facoltà
teologica di Parigi. Per il che sembra a me che il fondo storico del
racconto di Giovanni di Serravalle venga a mancare sempre più di
consistenza. Cipolla nel suo dotto ìavaro Sigieri nella Divina Commedia,
dopo avere ossei-vato che il Sigieri ricordato tra i beati del canto X deve
ritenersi come Sigieri di Brabante, e non va identificato col Sigieri de
Conrtrai {Le Clero) visisuto in epoca diversa, e neppure con quello
di cui si iparla nel sonetto del Fiore (Castets) avverso ad AQUINO, crede
probabile, che ALIGHIERI fn a Parigi negli ultimi anni di sua vita ed
airin e non vi ascoltò le lezioni di Sigieri di Brabante perché questi
era morto avanti il 1300 ( Feret tornando su questa questione nel volume
II deiropera cit. (Les Sorbonnistes) crede errat-ì così, l'opinione del
Le Clerc che del Castets, combatte ^e Giornale storico den« Lett.
It. Torino LoescUer] asserzioni di
Gaston Paris, ed airiimesso che il Sigieri d’ è il SigieriALIGHIERI (si veda)
di Brabante che quitla cette vie en reputation d'une orthodoxie parfaite, non
si discosta mollo dalle oonclusdoni del professor Cipolla che mostra di
mion conoscere. Questo sembrerebbe coaidurci assai fuori del nostro
argomento se una buòna osservazione del prof. Cipolla a questo proposito
della partecipazione dell'Alighieri alle lezioni dd Sigieri non mi
facesse tosto ritornarvi. Egli afferma che « per ciò che riguarda
Sigieri, altro è ammettere nel luogo Dantesco vm ricordo personale,
ed altro è credere che questo ricordo personale sia tale davvero da
comprenderà poS la partecipazione dell'Alighieri alla scuola di quel
filosofo. Alle scuole di Parigi i libri del Sigieri eratno rimasti auasi
come lesti agli scolari, tanta Sama le sue lezioni vi avevano
lasciato. Cosi per ciò che riguarda Pier Lombardo, io aggiungerò che oer
spiegare la profonda conoscenza che Dante ebbe del Libro delle sentenze,
non è necessario di credere col Serravalle che Damle abbia commentato le
sentenze nella scuola di Teologia perchè lo studio che in quei tempi se
ne faceva in Parigi, la fama che vi godeva e che già aveva provocato i
lamenti di Ruggero Bacone, certo potevano non poco contribuire a
farglielo conoscer© più in là del frontìsipizio e del prologo.
Per fama egli conobbe a Parigi Sigieri, per fama vi conosce C. ed
entrambi egli ricordò con particolar cura nei suoi versi ove palpita un affetto
personale. Ma se poca o nessuna influenza ha la filosofìa di
Sigieri nell’opera d’ALIGHIERI; molta invece ne ha in quella di C.
Un esempio: Speme dissHo, è un attender certo Della gloria futura,
il qual produce Grazia divina e precedente merlo. {Par.)
P. Fkrkt La f acuite de Tkeol, de Paris – Ricarcl] Pietro di Dante, TOttimo, la
Chiosa Cassanese, ricordano la definizione di Pier Lombardo: «est spes
certa exjeiotatio futurae beatitudinis veniens ex Dei gralia et
mentis praecedentibus ». (Lib. Seni. IH. dist.). Iacopo della Lama,
rÀnonimo rioooimno assai meno opportunamente a San Toit^màso: spes est
motus appeWiiae virtutis consequens apprehensione boni fulnri adnui possibilis
adiptsci. Ho citato, per ppoporre un esempio, uno dei tanti luoghi
ove il Lombardo viene dal poeta preferito all'Aquinale, o meglio dire ove cosi
San Tommaso come Dante attingono -alla medesima fonte: Pier Lombardo. Qui
si ha una traduzione letterale delle parole del Maestro che
appaiono anche in San Tommaso sotto una veste più filosofica. Ma non è questo
il solo punto ove un tale raffronto è possibile. Fu uno dei più
assidui, il Senatore Carlo Neg'-;ni, a far notare la ^ainde importanza
che ebbe il libro del Maestro nel pensiero di Dante. JNella
prefa/jine al volume. .V. della Bibbia volaare ri884), accennando a Pier
Lombardo della cui opera si giova Tespositore dei salmi di quella Bibbia,
promise di occuparsene : « In un altro mio scritto dove avrò Taiuto
di un teologo profondo, e mio buon amico, farò il confronto tra le
«proposizioni teologiche della Divina Commedia e quelle dei libri delle
Sentenze: ed il lettore vedrà che le prime non sono altro che
Tespressione poetica delle seconde, fedelissima e latta con invidiabile
precisione ». Disgraziatamente Negroni occupato in altri lavori, non potè
adempiere .alla sua promessa, ma dando esempio dì larghezza d'animo,
consigliò ed aiutò l’amico suo Carbone, (Carbonara), poi prefetto
Apostolico deirÉritrea, nell'opera a cui egH non poteva attendere,
e ne promosse la pubblicazione. Carbonara pubblica infatti Slcuni Studi
Danteschi e Tortona Tip. A.
Rossi Stttdi Danteschi; Dante e S. Francesco; ALIGHIERI e FIDANZA (si
veda) Nella Biblioteca Negroni si trovano nel carteggio privato le
lettere che il Carbone indirizzava a Carlo Negroni piene d'erudizione e
di affetto per l'illustre amico. Trov.ansi pure tra i copiosi ms. due
fascicoli; n. 26: Pier L. nel Paradiso; n. 27: Appunti Danteschi. Essi
contengono citazioni, note erudite che il Negroni veniva man mano
scrivendo. La malattia e la morte tolsero il modesto studioso e generoso
filantropo aUa tranquilla ed utile sua operositét letterarii^.
nel volume I. dedicato al Neuroni, prese in esame» il I\'
Libro delle Sentenze collo studio: Dante e C. Questo appunto- che è il migliore
ed il più originale, entrò poco dopo inella collezione di opuscoli
inediti e rari diretta da Passerini per cura di Murari. In esso il
Carbone che si limita «all'esame delle distinzioni delle Sentenze,
conclude che il seme che è nel libro delle Sentenze di Pier Lombardo
mostra i suoi fiori ed i suoi frutti ini Dante. Nella tornata
del 19 Aprile 1891 airAccademia Pontaniana, il socio residente Alberto Agresti
le^e una memoria dal titolo: Eva in Dante ed in Pier Lombardo (1) ed
anch'egli ricordò a proposito di questi studi, Tamico Negroni e lo studio di
frate Michele da CARBONARA (si veda). Ponendo a raffronto i passi
danteschi ove vien citala Eva (tacendo di tre che non danno alcun ^udizio
della sua colpa : (Purg.) uno comune con Adamo (Purg.); gli altri
(Purg.; Par.), ove si dà un giudizio sfavorevole di Eva ed il passo del
DeViilgari Eloquio ove ALIGHERI chiama Eva praesumptuosissimam), cerca
da quali letture Dante ricavò il severo giudizio. Combatte To•pinione di
V. Imbriani, (Studi danteschi. Firenze, Sansoni) che coIFesempio del Boccaccio
vuol dimostrare 'i& scarsa erudizione teologica di Dante. Nella
testimonianza di San Tommaso {Summa) Isidoro {Sentent.), Sant'Anselmo {De
pec-orig.), Ugo da S. Vittore, FIDANZA non trova la ragione delli
eccessiva severità deirAlighieri, bemsì in Pier Lombardo (Lib. II. dist.
22) che così si esprime: Adamo non istimò vero ciò che il diavolo aveva
suggerito; stimò di peccare in maniera da esserne perdonato. Forse come
vide che la donna, gustato il frutto, non era peranco morta, prevaricò e
volle ainch^'egli fare esperimento del legno proibito. Più però Ta donna, perchè
volle usurpare l'eguaglianza della divinità e levata in superbia
nimia vraesumptione^ credette così doversi avverare. Adamo non volle
contristare la donna, ma certo non vinto da carnale concupiscenza, non
sentila peranco in Napoli, Tip. della R. Università, lui, ma
per una certa amichevole heoievotenza per la quale il più delle volte
avviene che si offende Dio per non offender l'amico. In un certo modo Adamo fu
anch'egli deceptus ! Nella donn<a /fu majoris tumoris praesumptio :
ella peccò in sé, nel prossimo, in Dio : l'uomo solo ui sé ed in
Dio. E l'Agresti finisce insomma col concludere che « studiare la
D. Commedia al lume dei libri delle Sentenze è tutto un lavoro nuovo che
manca alla letteratura danteca ». A me non resta che augurarmi che un tale 1'
si compia e che una feconda curiosità subentri alla sterile dilRdenza
nelFaprire il libro di P. L. che Dante non certo per cura della rima
chiamava il suo tesoro. I ìinyiìì dell'erudizione. Ristrettezza
di tempo mi ha impedito di dare, com'era mio desiderio, maggior
svolgimento a questi insufficienti cenni sull'influenza esercitata dal
maestro delle Sentenze sull'opera d’ALIGHIERI (si veda) e non sulla
Divina Commedia soltanto. Dell'utilità di una maggiore e più profonda
conoscenza di tali rapporti, è prov:a quanto si è venuto in questi
anni scrivendo dagli studiosii di Dante coll'intento in verità non
sempre raggiunto di recar "maggiore luce airinterpretazione' del poema
dantesco. Ancora in un recente fascicolo del Bollettino della
Società Dantesca Italiana. Parodi m una dotta recensione consacrata ad un
apprezzato studio del prof. Surra su La conoscenza del futuro e del
presente nei dannati danteschi (Novara, Tip. Guaglio), si vale del
confronto colla dottrina del Maestro delle Sentenze per meglio chiarire i dubbi
che le parole di Farinata non sciolgono sul modo di conosceniza dei
dannati. Contro la tesi del Surra, che fortificandosi del concetto
delFìrrazionale nell'arte, ampiaonente illustrato da Fracoaroli, vuol
chiudere il passo ^ai diritti 3eireru3ìzioaie, Parodi dimostra, citando una
distinzione del IV delle Sentenze. Ve animabus damnatorum si qua habent
notitican eorum quae hic fiunt, come l’esposizione di Farinata cresce
d'importanza venendo a combaciare colla dotlrin<a professata dal
Maestro. Ed è certo che se la contraddizione non può essere evitata dal
pensiero umano, specie cpiando s'aderge sulle ali della poesia, tanto in
Dante come in C., scola5?tóci entrambi, v'è Tidentioa «preoccupazioaiei
di sfug^rle colla cura più scrupolosa. Non si può riconoscere
tuttavia all'erudizione il diritto di andar troppo oltre, specie nelle sue
conclusioni, perchè Terudizioflie è alla poesia come la ragione è
alla fede, che il sapere riconosce potene illuminare senza spiegarla
interamente. Se anche col raffronto più minuto dei passi
danteschi ooiropera di C. (non limitato alle Semtenze) noi potremo
trovare nuove e curiose rispondenze che ci dimostreranno le fonti di sapere e
d'inspirazione del Poeta divino, dovremo limitarci a riconoscere nulla più che
la materia preziosa, ma informe trasportata e nobilitata dalFopera (in
che è il fatto nuovo) dello statuario. E\ per limitarmi ad un solo
esempio, notevole il modo onde mei Sermoni vengono disposti gli argomenti
morali che il Lombardo distilla da un qualunque versetto biblico:
sono quasi sempre tre i sensi che se ne ricadano ed il numero 3 entra con una
particolare predilezione ìiell armonica e spesso sin troppo misurata
distribuzione delle parti nei suoi discorsi. Queste ed altre minuzie di
logica arTres igitur tortae pani8 tres sunt modi dìvinam paginam intelligendi
Triplex igitar pani8 eat intellectus: tropologicus, scilicet moralis vel
historicus; mysticus, idest allegoricus et anagogeticum Moralis mores
componit, exhauriens malos et confovens bonos; allegorìcufl mentis acuit oculos
ut mysterioram abdita penetrare valeant; anagogeticus mentes super se
effundit ut in voce exultationis et confessionis, constituto die, e condensis
usque ad domum Dei rapiatur; nam sicut allegoria alitar intellectus, ita
anagoge superior sermo vel sursum tendens interpretatur. Moralis, idest
tropologicus, est dulcior, historicus facilior, mysticus auctior. Historicus
insipientibus, moralis proficientibus, mxsticus perfìcientibus congruit.-
Sermone: Convertimini fili revertentes
fine inedita riportata da Haureau op. cit* chitettura oasi caire a
Pier Loonbardo, come si avverte nello slesso Prologo delle Sentenze', do
ve vaino esercitare il loro influsso nel poeta della Vita Nuova e del
Paradiso. Ma non dal solo Pier Lombardo, bensì da tutta 'a
scienza teologica, Dante raccolse mei grande specchio ustorio della sua
mente, la luce che brilla nel suo divino Poema. Né possiamo comprendere
come uno studiotso deìlla coltura del prof. Amaduocd, possa restringere
nelrarido opuscolo di San Pier Damiano, quasi l'unica tonte del poema
dantesco, lo schema dottrinale a cui Damte avrebbe informato, con
perfetta fusione della lettera coll'allegoria^ la Commedia, e annunciare
seriamente che distinguendo i 100 canti nelle 42 marcie e fermate {numsioni}
deirallegorico viaggio degli Ebrei contemplato dalla modesta fantasia di
San Pier Damiano, verrà sostituito nell'esame del poema ai fondamenti
ipotetici, il fondamento scientifico, gli enigmi di sei secoli, troveranno
fàcile spiegazione e sarà aperta la via ad una nuova valutazione
artistica. Ma tale via non Tha aperta Dante stesso coU'opera
sua? Z/' opuscolo XXXII di S, Pier Damiano fonte diretta della Divina
Commedia? in Grùymaìe Dantesco dir, da G. L. Passerini - Firenze, Dischi. cfr.
Parodi La fonte diretta della divina
Commedia in Marzocco, Firenze. A questa trattazione epero far seguire
prosslntamefite un canltolo, su C. E LA SCUOLA. Ohe per l'economia
dei presente iavoro non potè essere inoluoo. Le origini oscure. La nascita
a Lumellogno. L'ambiente nativo. Dipendenza di Lmnelil^gno dal Capitolo
Novarese Stato delle scuole
novaresi. Pier Lombardo fu allo studio Bolog^nese? Gap. il Nell'ombra del cammino Alla scuola di
Leutaldo novarese a Reims. « ParisiUiSi »
La universitas scholarium. San Vittore. Santa Genoveffa. Nella luce
della fam^i. La scuoia di Nòtre Dame. L'episcopato. La morte. La tomba di
Marcello. Le onoranze. L'opera e la fortuna di Pier Lombardo. Le Sentenze. I
Sentenziarii. I detrattori. Il « tesoro ». Opere edite ed inedite. I
Seamoni. LA DOTTRINA FILOSOFICA. Posizione di C. nella filosofia.
Metodo. Religione e sciens&a. Problema metafisico e conoscitivo Teoria
degli universali. Teoria ctella oonoscenza. Problema ontologico e
cosmologico. Sostanza ed accidente. Natura e persona. Materia e forma. Causalità.
Spazio e tempo. CosmoJKJgia Posizione
dell'uomo neirunàverso. Cap. Problema psicologico. Potenzie dell'
aiiim.. Natura dell'ajiima. Origine dell'anima. Relazione tra l'anima e il
corpo. Problema morale. Libero arbitrio. Felicità. Moralità delle
azioni umane La legge morale Bene
e mailie. Lm dottrina scolastica in C. e ALIGHIERI (si veda) Pier
Lo!ml>ardo nel cielo del Sole. Dante adl'Università di Parigi. Influenza di
Pier Loonbardo sull'opera di Dante. Aggiunta necesaaria. I limiti
dell'erudizione. Ritratto di Pier Lombardo dall'incisione del Thevet
« Les vrais portraàts ecc. » Paris. Portico della Canonica di Novara da
un'incisione delle « Monografìe Novanesi » MigUo Vene de la VUle de Paris
du coté de Vlsle N. Dame
(antica incisione). A. Nótre Dame de Paris, (antdca incisione). Con
Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa
saldatura fra la teoria del SEGNO e quella del linguaggio. Per trovare una
altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di
linguistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande
importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte
dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il
trattato DE DIALECTICA De dialectica. In esso sono riassunti molti dei
principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi pio che la
conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra verso segni (Simone). Ma
vari elementi differenziano l'impostazione agostinia na da quella stoica. In
primo luogo, infatti, gli stoici, racco gliendo e formalizzando una lunga
tradizione di origine so prattutto medica e mantica, consideravano
propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il
fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri ta. Agostino, invece,
per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni
non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc.,
ma anche le espressioni del linguaggio parlato. Noi diciamo in generale segno
tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole -- De
Magistro. In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e
nunciato il punto di congiunzione tra il significante (semaf non) e il
significato (semain6menon), elemento che comun que non coincideva con il segno
(semefon). Agostino, inve ce, individua nella singola espressione linguistica,
cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui significante e signifi
cato si fondono, e considera questa fusione un segno di qualcos'altro
("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda to che le parole [verba] non
sono nient'altro che segni [signa] e che non può essere segno ciò che non
significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi
sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro le", De
Mag.). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio
che aveva le due caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva
con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora
una teoria del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si
gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo
dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolo semiotico e la
stratificazione ter minologie& È del resto con l'analisi della nozione
stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa
nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche.
Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere
in corrispondenza con i moderni con cetti di significato, significante e
referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus)
della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene
pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal
punto di vista della trasposizio ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito
come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo
luogo, infine, distingue la res, che viene definita come un og getto
qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op pure che sfugge
alla percezione (De dialect.). È così possibile ricostruire il triangolo
semiotico nei se guenti termini: dicibile vox articulata (o sonus) res
Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di
designazione, oltre che da quello della signifi cazione. Questo lo spinge a
elaborare un'ulteriore suddivi sione terminologica in corrispondenza dei due
aspetti che può assumere il referente di una parola: può infatti avve nire che
la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica nel
caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora
prende il nome di verbum; oppure può avvenire che la parola, intesa co me
combinazione del significante e del significato, abbia come referente una cosa
diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel
qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che,
come ha osserva to Baratin, costituisce l'elemento di congiunzione tra la
teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento
semantico che la nozione stoica di léxis (si gnificante articolato, ma senza
essere necessariamente por tatore di significato) ha subìto nel corso degli
studi lingui stici antichi. Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo
stesso significa to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano
i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis
come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici
graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e
l'enunciato, dall'al tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis
venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo sizione alle
lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione
all'enunciato che porta un sen so completo). Lo spostamento di fuoco dalla
centralità stoica dell'e nunciato alla centralità alessandrina della singola
parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet tanti
solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino
definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica:
"La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può
essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito
come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi bile,
presenta anche qualche cosa alla percezione intellet tuale (animus)"
(ibidem). Relazione di equivalenza e relazione di implicazione Ponendo
l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione
platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico,
prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag gio; per
Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è
direttamente percepibile, ovvero dell'es senza della cosa. Ma mentre nel
Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto
iconico (pe raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino
tale rapporto - configura subito come una rela zione di significazione: il
nomt "significa" una cosa (nozione equivalente a quella di "essere
segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione
della parola come segno, si producono alcune modificazio ni teoriche,
conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie
linguistiche precedenti a quella di Agosti no il rapporto tra le espressioni
linguistiche e i loro conte nuti era stato concepito come una relazione di
equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri
guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag gio, in
sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin guaggio veniva
concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per quanto mediato
dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin via
era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo
termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico,
i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere
illustra ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c m_E:! c dove E indica "espressione", C
"contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente
a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello
della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso
mai la dic tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u
nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile
(significato), unità che diviene segno di qualcos'al tro (livello ii).
Conseguenze dell'unificazione delle prospet tive La prima conseguenza
dell'unificazione agostiniana, co me sottolinea Eco, è che la lingua comincia
a tro varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in fatti
costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a
una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come
quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca
e roma na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili tà di
percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre
la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede
un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al
fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che
qualun que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e
l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di
segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il
modello del segno lingui stico finirà per essere senz'altro il modello
semiotico per ec cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure,
che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per dere il
carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri stallizzato nella forma
degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo
contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La
seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il
problema della fondazione della dia lettica e della scienza (Baratin).
Fintanto ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito
nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile
della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere
di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare,
di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui esse sono
segno. Tutta la grande tradizione semiotica, del resto, convergeva nel
considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla
conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è
allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag
gio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle co se che significa.
Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici
nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio
Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: in·
segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemo rare), sia propria sia
degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente informative e
comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del
destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del
dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella
informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le
parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza
che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del
dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua
prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in sieme
di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: il primo caso è
quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa
sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per
se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da
Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,
non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si
rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno in questa
evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De
Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono scitivo tra
segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co noscere preliminarmente
l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la
conoscenza della co sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa.
La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es sa si collega
anche la presa di posizione, di marca ugual mente platonica, che la conoscenza
delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché
"qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella
per cui essa sta" (De Mag.). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono
gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non
altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi li
(intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione
"teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive lazione che viene
fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia tanto deli'informazione
quanto della verità (De Mag.). Ma anche con questa soluzione teologica del
problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte
coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando
conosciamo già l'oggetto di riferi mento, le parole ci ricordano
l'informazione; quando non lo conosciamo, ci spingono a cercare (De Mag.). In
Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse
teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De
Trinitate che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore,
una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani mo. In effetti,
per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un
segno sensibile, per poter . AGOSTINO provocare nell'anima
dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre
parlano (De Trin.). D'altra parte Agostino sottolinea la natura prelinguistica
del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle lingue naturali,
ma deve essere codificato in un segno quan do ha bisogno di essere espresso e
portato alla comprensio ne dei destinatari. Il verbo interiore ha, del resto,
una duplice origine: da una parte esso costituisce una conoscenza immanente, la
cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è determinato dalle im pronte
lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo
caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso
il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni del simbolismo univer
sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo. Quello che comunque
emerge con sempre maggiore chia rezza è il carattere comunicativo della
semiologia agostinia na, che è individuabile anche nello schema riassuntivo
pro posto da Todorov: oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo
verbo divina interiore - esteriore - esteriore pensato proferito sa pere. È
comunque innegabile che se la semiologia agostiniana presenta un aspet to
"teologico", connesso al problema del verbo divino, tut tavia
possiede anche un ben individuato e autonomo aspet to laico, che prende in
considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di
quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si
dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana secondo il modo di
trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni
intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni conven zionali
secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra slato secondo la natura
del designato: segno/cosa con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in
varie altre opere . Todorov individua e analizza cinque tipi di classificazione
a cui Agostino sottopone la nozione di se gno : Todorov lamenta il fatto che
Agostino giustappone quel lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in
quanto gene ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non
è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di
dare una classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo
proposito è possibile ricostruire tale classifica zione ordinandola secondo
uno schema arboriforme (Bernardelli), secondo il modello dell'albero di
Porfirio (Eco). La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu sione,
come tende a essere quella porfiriana; e si può osser vare che se venissero
sviluppati i rami collaterali, si vedreb bero comparire, una seconda volta,
alcune categorie elenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino
stesso a metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge nere a
specie quando definisce la relazione tra nome e paro la come "la stessa
che c'è tra cavallo e animale" e includen do la categoria delle parole in
quella più ampia dei segni (DeMag.). genen· e specie AES SEGNO PAROLA
NOME segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma,
fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata)
differenze (significabilis, non significanti nome in
senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.)
altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno
udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili (
virtus) SIGNIFICANTE delle .. AES" La prima relazione
interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga
diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co
me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono
delle res e l'uomo è libero di as sumere come segno una res che fino a quel
momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene
definita in termini rigorosamente semiologici (Simone): "In senso proprio
ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni
di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr.
Christ.). Ma, immediatamente dopo, cosciente del la pervasività dei processi
di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle
acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo); né quella pietra sulla
quale Giacobbe riposò la sua testa, né quella pecora che Abramo immolò al posto
di suo figlio. L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella
dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ.).
Le cose di cui si usa sono tran sitive, come i segni, che sono strumenti per
giungere a qual cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono
prese in considerazione per se stesse. Nel De Magistro Agostino propone anche
un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi cate
attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche
quest'ultime possano essere assun te con funzione significante. Dopo aver così
articolato i rapporti tra segni e cose, Ago stino propone questa definizione
di segno nel De doctrina Christiana: "Il segno è una cosa (res) che, al di
là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente
(in cogitationem) qualcos'altro". Nel nostro albero porfiriano abbiamo
deciso di ricostrui re la principale suddivisione agostiniana dei segni
secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente
esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è
autorizzata da un passo del De doctrina Christiana in cui, a conclusione di
un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti
quei se gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare
attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle
attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al
carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante
primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione
fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce
zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella
effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che
"tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò
che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito,
pochissimi dagli al tri sensi" (De doctr. Christ.). Tra i segni che
vengono percepiti con l'udito ci sono quel li, fondamentalmente estetici,
emessi dagli strumenti musi cali, come il flauto e la cetra, o anche quelli
essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente,
ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio ne dominante,
anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il
primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di
essi vuole ester nare" (Dedoctr. Christ.). Tra i segni percepibili con la
vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli
attori, le ban diere e le insegne militari, le lettere. Infine vengono
presi in considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato
(l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento
dell'euca ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cristo
e fu guarita). "Signa naturalia" e "signa data" Sicuramente
fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo,
risulta lo schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa
data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si
gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo
significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche le tracce
lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano,
inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti, Agostino
dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici
umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe an
che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo
segnala alla gallina di aver trovato il cibo. Questo crea una marcata
differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i
segni naturali (De int.). Ma Aristotele opponeva "naturale" a
"convenzionale", mentre i signa data non sono i "segni
convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del resto era sta to
proposto dalla traduzione francese di Combès e Farges). I signa data sono i
"segni intenzionali" (Engels; Jackson), e corrispondono a 1:1na
AGOSTINO ben precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto
il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa
data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura
di que sta intenzionalità animale (Eco). Del resto, come nota Todorov, porre
l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale
di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio,
creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in
corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un
significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come
cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici Uno dei punti
fondamentali della semiologia agostiniana è costituito dalla ricerca dei modi
in cui si può stabi lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta
soprat tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce zione
semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi tata" di
Peirce. Come ha rilevato anche Markus, il significato o segnato di un segno,
per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per
esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato;
per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag.). Questa concezione del
significato si rende possibile sol tanto nel momento in cui viene abbandonato
lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello
implicazionale del segno. La teoria semiologica ago stiniana si apre così,
come ha messo in evidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della
descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino
conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta
superis placet urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto
di otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato. L'indagine
comincia da l si l, di cui si riconosce che espri me un significato di
"dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si è trovato un
altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si
passa, poi, a lni hi/1, il cui significato viene individuato come
!'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una
cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il
significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbe
equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e
argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha
bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l
significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe
rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica
contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che non
esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso
virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è
ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negozianti
provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco
(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni
contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (ma
tutti ugualmente registrabili in termini di codice).” La struttura implicativa
permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y, allora significa
B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto al modello
istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è proprio grazie
ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che la semiologia
agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni semiolingui
stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come potente
anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca attuale in
campo semantico (modello istruzionale) . 1 In altre opere, al posto di
dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De Magistro. Si deve
notare che Agostino adopera l'espressione verbum in due sen si: uno tecnico e
specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa rola; uno generale,
che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co me "segno di
ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso
dalJ'ascoltatore. La natura della nozione di dictio, come composizione di
significante e significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione
del cap. V da De dialectica. Quel che ho detto dictio è una parola, ma una
parola che significhi ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la
parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola
[di cibile]". La dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per
significare qualcosa d'altro. Si ricorderà che dagli stoici un segno era
concepito, in termini propo sizionali, come un antecedente che rimandava a un
conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math. Per questa nozione, cfr.
Lotman-Uspenskij. Refs.: Luigi Speranza, “Philosophical psychology in the
commentaries of Pietro Lombardo and Grice,” per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Lombardia Grice: “It is
strange that he was called Piero da Lombardia; it would be like ‘a lad from
shropshire.’ ‘Lombardia,’ unlike Ockham, ain’t a townbut a full regionIt’s
different with ‘veneto,’ which is toponymic and metonymic for Venice. But if Milano
was the main ever settlement in Lombardia this would be “Peter, the one from
Milan.” Lombardo Pietro Lombardo Lumellogno Cardano – Grice: “It’s only natural
that he was Pietro Cardano – after the city in Lombardy, Cardano – Plus, the
implicature that he went by “Peter of Lombardy” having been born in Piemonte,
means that the locals never saw him as one of their own!” -- Pietro Cardano – la stirpe Cardano --. Familia patrizia di Novara. Pietro Cardano. Keywords: Cardano,
implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The Swimming-Pool
Library. Cardano.
Luigi Speranza -- Grice e Cardia: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del culto del laico – scuola di
Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma,
Lazio. Grice: “Cardia is what I would call the Italian Hart – with a tweak –
Italy and religion is Cardia’s forte – recall that the bishop of Rome has the
roots in the ‘pontifex’ of old Rome, so he knows what he’s talking about!” –
Grice: “Like me, Cardia has philosophised, as what the Italians call a
professore di filosofia del diritto, on the ethical versus legal implicatures
of the very idea of a ‘right’ (diritto). We don’t have that economy of
vocabulary in Engish – calling Hart the professor of right would be
unnacepptable at Oxford!”. Si laurea a Roma. Clifton has chapel services and a
focus on Christianity. This is the Chapel: here, my son, Your father thought
the thoughts of youth, And heard the words that one by one The touch of Life
has turn'd to truth. Here in a day that is not far, You too may speak with
noble ghosts Of manhood and the vows of war You made before the Lord of Hosts.
The magnificent Chapel sits at the heart of Clifton both spiritually and
physically and has played an important part of life. Topped by a striking
copper-clad lantern and built from soft red and honey-coloured stone, the
Chapel provides Christian calm, and forms a powerful link between past and
present. It is a place where the community come to mark milestones and
celebrate successes, and for quiet contemplation or spiritual guidance.
Brass plates placed on the back of the staff stalls mark the names of all those
who have carved out a reputation. High on the walls are memorials of pupils of
another age who died by accident or disease serving the Empire. One bears the
moving epitaph ‘A good life hath but few days but a good name endureth
forever.’ The Chapel was built to a design by C. Hansom. It is a
narrow aisleless building. It
is the gift of the widow of W. J. Guthrie. Hansom is given permission to quarry
sufficient stone from the grounds of Clifton for the purposes of the Chapel
building". The Chapel building is licensed by the Bishop of Gloucester and
Bristol. Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista
telematica statoechiese.it) Colaianni (ordinario di Diritto ecclesiastico nella
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari) Quale laicità. Con
questo saggio C. si affaccia sul versante polemistico della letteratura
giuridica con la maestria affinata attraverso una copiosa produzione saggistica
e con la non comune versatilità che negli ultimi anni lo ha portato ad
occuparsi dei problemi di tutela non solo delle confessioni religiose ma anche
dei diritti umani. I bersagli della polemica sono indicati nel sottotitolo:
etica, multiculturalismo, islam, non in sé naturalmente ma in quanto declinati
in maniera rispettivamente relativistica, separatistica, fondamentalistica.
Capaci cioè di esaltare le identità oltre ogni limite e di attentare, quindi, a
quello “stato laico sociale” che, dopo secoli di storia travagliata e i
totalitarismi del secolo breve, a cavallo del nuovo millennio ha trionfato un
po’ dovunque in Europa e in tutto l’occidente. Questo carattere ben si coglie
secondo l’autore nella “rivincita dei concordati”. Un fenomeno effettivamente
impressionante, tanto più perché si inserisce in un trend favorevole alle
relazioni con le confessioni, da cui non prendono le distanze neanche l’Unione
europea, in base ad una dichiarazione allegata al trattato di Amsterdam, e la
Francia della Loi de séparation, secondo le proposte della commissione
governativa Machelon1. Da esso C. deduce che lo stato è ormai amico delle
religioni, che contribuisce attivamente a sottrarre all’irrilevanza degli
affari privati e a reimmettere nel circuito pubblico, relegando l’ostilità del
laicismo ottocentesco nel museo della memoria. C., Le sfide della laicità.
Etica, multiculturalismo, islam, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo,
destinata alla pubblicazione sulla rivista “Laicità”, Torino. Cfr. F. MARGIOTTA
BROGLIO, su Reset Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica Dal
quale non varranno a riesumarla le “guerricciole”, rinfocolate dal
“micro-massimalismo” di chi spera di “rivivere un po’ dell’epopea del passato”
e non si accorge che ormai lo stato italiano gli accordi li fa anche con
confessioni non cattoliche e, peraltro, non è l’unico ad integrare le scuole
private e confessionali nel sistema scolastico, ad assicurare l’insegnamento
religioso confessionale nelle scuole pubbliche, a finanziare lautamente la
chiesa cattolica ma anche le altre confessioni. L’agile sintesi
storico-politica, condotta nella prima metà del libro, consente a C. di
avallare questa laicità realistica, che ad altri è sembrata più propriamente
“praticistica”. A quella stregua l’autore tratta con sufficienza i rinnovati
contrasti tra stato e chiesa (che pure sono al centro delle preoccupazioni di
altri libri coevi3 ) tanto quanto con drammaticità le sfide suindicate. A
cominciare dal multiculturalismo, che in effetti nella versione spinta si
presenta sotto la forma di un comunitarismo senza coesione. Il “fascino
discreto” che in molti differenzialisti suscitano gli statuti personali, di
medioevale o ottomana memoria, è giustamente visto come una relativizzazione
della laicità: a vantaggio, in particolare, dell’islam. Ovviamente C. è severo
con la “partita giocata su due tavoli”: non si può invocare la laicità contro i
“simboli e la memoria del cristianesimo” e a favore di quelli dell’islam, per
cui “verrebbero estromessi i crocifissi, ma sarebbero ammessi il velo e la
preghiera degli islamici”. Ma i termini del paragone sono omogenei solo
apparentemente: il crocifisso fa problema per la laicità non se portato addosso
al corpo, se fa parte del libero abbigliamento dei cittadini (come il velo o
altri segni religiosi), ma in quanto esposto autoritativamente, cioè imposto,
negli spazi pubblici, scolastici, giudiziari. In effetti, è tutta la seconda
parte del libro a risentire di questa drammatizzazione impressa ai vari
scenari. Islam versus cristianesimo. Di là un sistema chiuso ad ogni
interpretazione evolutiva, un’identità fissa e immutabile, di qua una religione
tollerante, aperta all’interpretazione storico-critica dei testi sacri e alla laicità,
la quale in essa sarebbe addirittura “germinata”. La schematizzazione
diventa 2 Per esempio a BELLINI nel saggio coevo Il diritto
d’essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità. Come quelli di
ZAGREBELSKY, Lo stato e la chiesa, o di BIANCHI, La differenza cristiana, o di
RUSCONI, Non abusare di Dio. Stato, Chiese e pluralismo confessionale
Rivista telematica inevitabile. In realtà, l’involuzione della seconda metà del
XX secolo, a parte i fanatismi e i terrorismi, non è riuscita a spegnere le
numerose voci laiche dell’islam moderno4 né, a livello istituzionale, ad
annullare, pur frenandola, l’applicazione negli stati islamici di una legge non
religiosa, il kanun, “nel senso laico di ‘legge di stato’in contrapposizione
alla sharī ‘a” 5. D’altro canto, bisogna riconoscere che abbiamo tutti
sovracaricato il detto evangelico “Quae sunt Caesaris Caesari, quae sunt Dei
Deo” di un significato improprio e anacronistico, in termini appunto di
laicità, che nessun biblista ha mai potuto avallare (vorrei ricordare qui
almeno Barbaglio, che ci ha lasciato pochi mesi fa: nel suo La laicità del
credente non cita mai il versetto di Matteo). Storicamente poi, anche a voler
retrodatare – seguendo Ernst-Wolfgang Böckenförde6 - alla lotta delle
investiture l’inizio del processo di secolarizzazione, non v’è dubbio che per
secoli la chiesa ha sostenuto la supremazia del potere spirituale ratione
peccati o salutis anche nella sfera mondana. E al giorno d’oggi la più netta
distinzione degli ordini formulata dal Concilio non sta impedendo il tentativo
di informare la legislazione italiana al magistero ecclesiastico: è la chiesa
dei no alla procreazione medica assistita (divieto dell’eterologa, della
diagnosi preimpianto dell’embrione), al testamento biologico, visto come
anticamera di pratiche eutanasiche, al riconoscimento pubblico di unioni civili
in qualsiasi forma (pacs, dico, cus, ecc.), emblematicamente (a luglio alla
Camera) al richiamo del principio di laicità come fondamento di una legge sulla
libertà di religione (che pur non tocca la chiesa cattolica). Neanche C.
indulge su questi punti. Il suo no è altrettanto netto. In nome della laicità e
contro il relativismo etico. Ma poiché su quei punti, con varie sfumature, il
pensiero laico (di non credenti e agnostici ma anche di credenti) è per il sì,
è evidente che ci si trova davanti ad una diversa concezione della laicità.
Tanto rispettabile nei suoi riferimenti eteronomi, divini o naturali e perciò
antichi o “ancestrali”, quanto incapace di far capire - per dirla con
Habermas7 - “quale ruolo e significato i fondamenti giuridici
secolarizzati della costituzione possono avere per una società [Cfr.
l’antologia di BRANCA e quelle più recenti di V. COLOMBO. 5 Così ne Il
linguaggio politico dell’Islam B. LEWIS, studioso fra i più citati nel libro.
6 Cfr. BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione. HABERMAS, Il futuro della
natura umana. Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (statoechiese postsecolare”, come la nostra. In una
democrazia necessariamente relativistica (se, al contrario, fosse assolutistica
non sarebbe democrazia, insegna Kelsen) la laicità alimenta norme non di
supremazia ma di compatibilità, espressive di una vocazione non paternalistica,
ma responsabilizzante, nei rapporti tra stato e cittadini: visti non come meri
educandi, da guidare nelle scelte etiche in base a valori esterni, ma come
persone responsabili delle loro scelte nella propria autonomia e capaci di
mediarle alla ricerca di quella “giusta”8. Una laicità pluralistica e perciò
non espressiva di una sola cultura ma interculturale (come dovrebbe porsi ormai
tutto il diritto secondo Otfried Höffe9 ). Le cui sfide, e il libro di Cardia
stimola ad intraprendere questo percorso di riflessione, non vengono da una
parte sola. 8 In questo senso rilegge il da mi factum, dabo tibi
ius RODOTÀ, La vita e le regole. 9 Cfr. O. HÖFFE, Globalizzazione e
diritto penale. LA LAICITA’ IN ITALIA (C.) (Convegno Giuristi) Sommario.
Premessa. 1. La laicità in Italia tra conflitto e moderazione. 2. Laicismo,
intransigenza cattolica, isolamento culturale. 3. Dai Patti Lateranensi al
modello costituzionale di respiro europeo. 4. La crisi della laicità. Laicità
ed etica. 5. Cultura laica e questione islamica. Laicità e multiculturalismo.
Ambiguità e prospettive. Premessa. E’ mia intenzione soffermarmi sulle
problematiche attuali della laicità in Italia, anche perché sono diverse e
complesse. Però, penso sia necessario dare spazio a qualche riflessione storica
che ci aiuti a comprendere meglio le questioni che abbiamo di fronte nel tempo
presente. Si tratta, più che di una analisi organica, di spunti ricostruttivi
utili a cogliere alcune costanti della nostra tradizione. Ho avvertito questa esigenza
perché l’esperienza italiana ha un tratto caratteristico che non si rinviene
altrove, avendo dato vita nello spazio di poco più di un secolo a tre tipologie
diverse di relazioni ecclesiastiche: una laico-separatista, una di tipo
concordatario neo-confessionista, e quella costituzionale che poi si è evoluta
nel quadro di una Europa che ha finito per seguire il nostro modello. Infine,
l’Italia sta vivendo una vera crisi della laicità, in rapporto alla questione
etica, e al multiculturalismo, ed è entrata in quella globalizzazione dei
rapporti tra religione e società che riguarda l’Occidente nel suo complesso.
Quindi, l’esperienza italiana non è comprensibile all’interno di un solo
orizzonte storico-culturale, mentre l’analisi deve mantenere un respiro più
ampio e saper individuare delle linee trasversali di riflessione, dei fili
conduttori che chiariscano il percorso storico complessivo che si è compiuto.
La laicità in Italia tra conflitto e moderazione Il primo filo conduttore che
voglio privilegiare è il rapporto che si è determinato tra conflitto e
moderazione, tra correnti estreme del pensiero laico, e di quello cattolico, e
soluzioni storico- 2 normative che sono state adottate. La storiografia più
accreditata ci ha abituati a interpretare questo rapporto a tutto favore della
conflittualità e a discapito della moderazione. Ancora oggi il conflitto tra
Stato e Chiesa è considerato un tratto eminente della storia italiana, il punto
focale che illumina tutto il resto. Il processo di unificazione nazionale viene
letto alla luce del contrasto tra laici e cattolici, della fine del potere
temporale, della prevalenza della modernizzazione sul conservatorismo
cattolico. Anche l’epoca autoritaria che dà vita ai Patti Lateranensi è vista
in chiave di rivincita cattolica e di sconfitta laica, come un rovesciamento di
fronte rispetto all’epoca liberale. Questa interpretazione resta valida perché
permette di capire tante pagine della nostra storia nazionale, ma può essere
integrata con un’altra chiave di lettura che aiuti a vedere anche i
chiaro-scuri, i toni più morbidi, della storia italiana. Questa chiave di
lettura è quella della moderazione e dell’equilibrio che, pur nelle vicende
aspre che conosciamo, ha segnato la storia italiana. L’Italia è stata moderata ed
equilibrata nel separatismo, in parte nel sistema concordatario, in modo
speciale nella elaborazione della Costituzione. Quando parlo di moderazione non
intendo esaltare il carattere per così dire compromissorio generalmente
riconosciuto alla genti italiche. Mi riferisco ad un dato realmente presente
nelle nostre leggi, in ampi settori della cultura laica e di quella cattolica,
che ci aiuta a meglio comprendere la storia e l’evoluzione della laicità in
Italia. La moderazione del periodo separatista si manifesta in tanti modi, ma
nell’insieme consente all’Italia di operare un sottile, solido compromesso con
l’anima cattolica del paese su punti essenziali, ed evita l’affermazione di
tendenze francesizzanti che pure esistono in esponenti della classe dirigente
liberale. In Italia non si afferma mai l’idea della reformatio ecclesiae come
obiettivo proprio dello Stato. L’aspirazione ad una evoluzione della Chiesa è
parte integrante del pensiero laico e dei riformatori cattolici dell’Ottocento,
ma da noi non si trovano tracce significative di quel disegno (tipicamente
transalpino) che mira alla costituzione civile del clero, a stravolgere le
strutture ecclesiastiche, a creare una chiesa nazionale quieta e obbediente al
potere civile. La struttura della Chiesa, gli enti ecclesiastici mantenuti,
l’educazione e la disciplina del clero, non subiscono ingerenze o
stravolgimenti diretti a modificarne la natura. Nel dibattito sulle Facoltà di
teologia è il ministro Correnti che respinge le tentazioni giurisdizionaliste e
afferma che lo Stato non ha “né interesse, né volontà, né facoltà di creare
teologi”, che l’evoluzione della religione è compito della Chiesa, e la “Chiesa
troverà in sé stessa, e solo in se stessa può trovare, la volontà e la forza di
ravvicinarsi” alla modernità. L’unico intervento chirurgico è quello che
sopprime le corporazioni e le congregazioni religiose. Ma anche in questo
intervento, che storicamente si giustifica con la necessità di ridistribuire la
grande proprietà ecclesiastica, non mancano i segni di moderazione, se vogliamo
della dissimulazione. Come quando le comunità religiose si ricostituiscono
progressivamente al riparo delle c.d. frodi pie, che consentono l’utilizzazioni
di proprietà immobiliari messe a disposizione da veri prestanome. Comunque, a
nessuno in Italia è mai venuto in mente di adottare leggi draconiane come
quelle transalpine, la prima che vieta alle congregazioni religiose non
riconosciute l’insegnamento, la seconda che prevede multa e carcere per chi
apra una scuola nella quale insegni anche un solo religioso. Ho sfioato il
problema della scuola, perché su questo terreno si opera il più grande
compromesso italiano, sul quale storici e giuristi si soffermano poco. Alla
laicizzazione della scuola italiana, con la Legge Casati, non segue la
cancellazione della presenza cattolica nel corpo scolastico pubblico. Se
l’insegnamento religioso viene escluso nelle scuole superiori, rimane però in
quelle elementari. La Legge Coppino non dice nulla al riguardo, e questo
silenzio, con l’aiuto del Consiglio di Stato, consente di mantenere
l’insegnamento religioso che, ci dice Francesco Scaduto, viene attivato da
quasi tutti i Consigli comunali e seguito dalla totalità delle famiglie
italiane. Neanche si può dire che la questione passi sotto silenzio, perché un
Regolamento conferma l’insegnamento religioso, e la Camera respinge nello
stesso anno una mozione di Bissolati che chiede di vietare ogni presenza
religiosa nelle scuole. Molto chiaramente Minghetti compara gli inconvenienti
di una scuola che preveda l’insegnamento religioso a quelli di una scuola che
lo esclude, e afferma che “i primi saranno sempre minori di quelli di una
scuola che dovrebbe essere popolare, ma che senza Dio ripugna alla coscienza
popolare e addiviene atta a soddisfare soltanto una piccola minoranza”. Si può
dire che è poco, invece è moltissimo, perché la scuola elementare è l’unica
vera scuola di massa dell’epoca. Per questa ragione l’Italia separatista ha
operato le grandi riforme della modernità ma ha saputo mantenere un raccordo di
fondo tra il sentire comune della popolazione e una legislazione non aggressiva
e non punitiva. E’ l’Italia laica e separatista che affida ai maestri e alle
maestrine della letteratura dell’Ottocento l’onere di trasmettere elementari ma
importanti valori religiosi e morali nelle nuove generazioni. L’elogio della
moderazione non deve fare aggio sull’altro fattore endemico dell’esperienza
italiana, su quella arretratezza che, in modo diverso, caratterizza alcuni
settori della cultura laica, e della cultura cattolica, e che provoca per lungo
tempo un isolamento rispetto ad altre più avanzate esperienze europee e alla
cultura anglosassone, cioè rispetto al resto del mondo. Mi riferisco alle
correnti laiciste che animano la cultura politica, danno vita al pensiero più
autenticamente anticlericale, rendono la laicità ostile alla religione. Ma
anche all’arroccarsi di quell’intransigenza che frena la capacità di iniziativa
dei cattolici, li estranea a lungo dalla vita politica del Paese. Nel
conflitto, e nel corto circuito, tra intransigenza cattolica e correnti
laiciste sta la radice di una chiusura provinciale che in Italia condiziona a
lungo le relazioni ecclesiastiche. Il radicarsi di queste tendenze immette
nella cultura italiana semi che tornano a fiorire di tanto in tanto. Il
laicismo produce cultura, mentalità, costume, e fa sì che anche da noi come in
Francia, laicità voglia dire tante cose negative: estraniazione della religione
dalla società e dalla dimensione pubblica, ostilità alla scuola privata
nonostante il liberalismo sia altrove il difensore del pluralismo scolastico,
riduzione della Chiesa ad un ambito puramente cultuale. In Italia, come
oltr’Alpe, il termine laico è contrapposto a cattolico, e questa antitesi,
sconosciuta nei paesi anglosassoni, diviene da noi categoria del pensiero e del
linguaggio. Quando faccio riferimento alle tendenze laiciste mi riferisco sia
all’anticlericalismo di matrice ottocentesca che alle correnti culturali di
grande dignità che da Spaventa a Bissolati rivivono poi in Salvemini e in Rossi,
e che di più aspirano ad una Chiesa riformata, apparentemente tutta spirituale
ma muta sul piano civile e sociale. Queste correnti si ravvivano quando
l’accordo tra Chiesa e fascismo di fatto umilia la laicità, provocando una
frattura seria tra la cultura laica ed un cattolicesimo al quale viene
restituito un ruolo di primo piano, ma con il sacrificio di altre idealità e di
altri ruoli. Anche l’intransigenza cattolica riaffiora più volte nella
storia italiana, impedisce a tratti di cogliere le trasformazioni della
società, di discernere gli aspetti positivi dalle spinte disgreganti, porta
all’arroccamento su posizioni che potrebbero essere evitate. La critica più
autentica a questo corto circuito non è diretta alle singole posizioni radicali
che produce, quanto al fatto che da lì è derivato un certo isolamento rispetto
alla cultura anglosassone, rispetto ad altre esperienze europee, come quelle
dell’Olanda, del Belgio e della Germania, dove già nell’Ottocento maturano
equilibri più stabili tra religione e società. Una conferma di questo
provincialismo sta nell’incomunicabilità tra esperienza italiana ed esperienza
statunitense, alla quale pure molti laici si richiamano, senza mai averla
capita e forse conosciuta. Lo stesso Salvemini, che pure conosceva la società
americana, di quell’esperienza evoca sempre e soltanto la parola separatismo,
non i suoi contenuti, né la sua anima pregna di rispetto e di amicizia verso la
religione. Possiamo verificare questa lontananza della cultura laica rispetto
alle correnti del pensiero anglosassone su un particolare problema, quello
della scuola privata, nel quale il liberalismo italiano si è discostato dai
canoni del liberalismo classico per seguire un indirizzo statalistico destinato
a dominare a lungo. C’un dibattito di metà Ottocento (oggi dimenticato ma molto
importante all’epoca) nel quale BERTI (si veda) critica quei liberali che per
paura di monopolio combattono la libertà di insegnamento, e afferma che questa
trae il suo diritto dall’individuo medesimo, dalla sua libertà, ed è da
annoverarsi tra “gli altri diritti naturali”. È SPAVENTA (si veda) che si
oppone a BERTI (si veda) ed esplicita la vera ragione della contrarietà alla
scuola privata. La ragione sta nel fatto che “i paladini” del libero
insegnamento finiscono per portare acqua al mulino della “libertà del papa”,
perché in Italia dare via libera alle scuole private vuol dire favorire la
scuola cattolica. Quindi, con grande trasparenza si riconosce che il vero
liberalismo postula la libertà della scuola, ma in Italia questo liberalismo
non è praticabile perché se ne avvarrebbero i cattolici. Insomma, al
liberalismo si ricorre quando fa comodo, altrimenti lo si mette da parte. 3.
Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo In Italia,
però, si ritrova un altro elemento equilibratore che consente di attenuare le
asperità e finisce col favorire le soluzioni strategiche adottate in sede di
Costituente. Parlo di quella questione romana che nessun altro Paese conosce, e
che tocca all’Italia affrontare e risolvere in modo autonomo. Anche su questo
problema vorrei offrire uno spunto ricostruttivo diverso rispetto alla
storiografia prevalente. E’ vero che la questione romana ha costituito il punto
di maggiore attrito tra Stato e Chiesa, ed ha agito come coagulo
dell’intransigenza cattolica e come bersaglio dell’anticlericalismo. Tuttavia, pur
nei termini del conflitto che conosciamo, essa ha rappresentato anche un
elemento equilibratore nel periodo separatista, con la stipulazione dei Patti
Lateranensi, soprattutto all’atto della elaborazione della Costituzione
democratica. Quando parlo di elemento equilibratore intendo dire che la
presenza della Santa Sede ha fatto uscire il meglio di sé dalla classe
dirigente liberale nell’Ottocento, ha attenuato gli effetti che i Patti
Lateranensi hanno avuto sulla società italiana, ha favorito notevolmente il
lavoro che ha portato alla formulazione del disegno costituzionale complessivo
dei rapporti tra Stato e Chiesa. Già nell’Ottocento, la classe dirigente
liberale conferma la propria lungimiranza con quella Legge delle Guarentigie
che, pur temporaneamente, risolve la più grande questione storica europea, e,
dovendo misurarsi con un evento che interessa i cattolici di tutto il mondo, si
rivela capace di ad attenuare, smussare, equilibrare le asperità del
separatismo. Anche quando il Concordato ferisce duramente la laicità e la
cultura laica italiana, la soluzione definitiva del questione romana stempera
il valore politico del patto con il FASCISMO. Non a caso il giudizio delle
forze politiche ANTI-fasciste sui Patti Lateranensi si presenta come scisso in
due: severo e aspro, anche da parte cattolica, nei confronti dell’accordo
politico tra Chiesa e fascismo e del Concordato, ma positivo e accogliente nei
confronti del Trattato del Laterano. Sin dall’inizio Croce approva la soluzione
della questione romana, riservando le sue critiche al Concordato. Ma anche
Salvemini, durissimo con il Concordato, riconosce che la questione romana è ben
risolta, anzi afferma che ciò che è stato fatto avrebbero dovuto farlo i
liberali. Infine, i programmi elaborati dai leader dell’antifascismo durante la
guerra in vista della ricostruzione del Paese, concordano nel non voler
rimettere in discussione i risultati del Trattato del Laterano. Credo si possa
dire che, senza una questione romana risolta, forse non avremmo avuto quel tipo
di rapporti con la Chiesa che l’Italia elabora e che ha saputo anticipare un
modello oggi utilizzato in un numero considerevole di Paesi europei.
Nell’incontro tra le correnti del cattolicesimo democratico e la maggioranza
della cultura laica, l’Italia trova il modo di abbandonare un certo
provincialismo e riesce a parlare un linguaggio europeo, supera quel corto
circuito che l’aveva appesantita a lungo. Le scelte del costituente non sono
riconducibili al solo articolo, quanto alla maturazione di una laicità che è
destinata a fare scuola, a prefigurare un modello di Stato laico sociale che
diverrà prevalente nell’Europa che si unisce e conosce la fine dei
totalitarismi. Si tratta di una laicità complessa dove converge il meglio della
tradizione separatista (in materia di libertà religiosa), e dove il laicismo è
superato dal riconoscimento pieno della presenza e del ruolo sociale della
religione. Si abbatte il muro della incomunicabilità tra religione e società,
si conferma e si estende il metodo della contrattazione e dell’incontro, tra
Stato e Chiese; si supera l’ultimo tabù dell’Ottocento, per il quale nessun
culto dovrebbe essere finanziato dallo Stato perché lo impedirebbero le
differenti opinioni religiose dei cittadini. Sul finire del Novecento questo
Stato laico sociale trionfa un po’ dovunque. Non si contano più i concordati
tra Santa Sede e Stati in Europa, che sono oltre 20, come non si contano più
intese, accordi, convenzioni tra Stato e confessioni religiose, protestanti,
ebraica, islamica, e altro ancora. Ma è nel merito delle relazioni
ecclesiastiche che il modello italiano fa scuola in Europa. Dall’Atlantico alla
Russia, ovunque troviamo una laicità fondata su principi comuni: libertà
religiosa, tutelata nel quadro dei diritti umani, riconoscimento delle Chiese
come entità impegnate in molteplici attività, sostegno pubblico alle
confessioni. Insomma, un mixer tra la tradizione nordamericana di amicizia
verso la religione, e la tradizione europea di contrattazione e reciproca
integrazione. Tanto solido è questo nuovo orizzonte di laicità sociale che
ormai in Europa si discute di riforma dei rapporti tra Stato e Chiesa soltanto
in Inghilterra e nei Paesi protestanti del nord, dove ancora esistono Chiese
ufficiali sottomesse e apparentate alle dinastie regnanti. La laicità torna
di attualità e vive una crisi di cui non siamo ancora pienamente consapevoli,
su terreni nuovi e in editi, come quelli dell’etica e del multiculturalismo. Si
tratta di fenomeni molto diversi, perché nel primo caso siamo di fronte ad un
uso indebito, quasi una strumentalizzazione, del concetto di laicità, nel
secondo assistiamo ad un pericoloso arretramento dei valori più intimi dello
Stato laico. Non entro nel merito del rapporto tra etica e diritto. Non è
oggetto della mia relazione, non è possibile neanche sfiorarlo nella sua
complessità. La mia attenzione è più ristretta, riguarda il rapporto che
esisterebbe tra laicità ed etica nel momento in cui un ordinamento è chiamato a
pronunciarsi su questioni decisive per la collettività, come la famiglia,
l’ingegneria genetica, l’eutanasia, e via di seguito. Alcune elaborazione
teoriche danno per scontato che il pluralismo etico non è che un altro aspetto
del pluralismo religioso, e “come oggi ammettiamo e rispettiamo le varie confessioni
religiose, così dobbiamo riconoscere le varie moralità che affiancano o
sostituiscono la fede religiosa”. D’altra parte, si aggiunge, come nella
religione non si dà verità oggettiva, ma solo opinioni, così in campo etico lo
Stato deve accettare tutte le convinzioni e le scelte che si contendono il
campo. Questa similitudine tra religione ed etica è accattivante, ma nasconde
un’insidia dialettica. In primo luogo perché la neutralità dello Stato riguarda
le convinzioni religiose, la sfera più intima della spiritualità e della
coscienza, non i comportamenti delle persone, tanto meno quelli che coinvolgono
gli altri. In questa materia la legge non pretende mai di definire qual è la
verità, ma sceglie sulla base di valori che hanno una loro validità nel tempo,
nella struttura sociale nella quale si incarnano, e che possono dar vita a
equilibri diversi tra etica e diritto. In secondo luogo, si trascura il fatto
che una neutralità dello Stato estesa a tutte le scelte etiche porterebbe alla
paralisi del legislatore e allo svuotamento della funzione della legge.
L’ordinamento non si interesserebbe più della procreazione, dei doveri verso i
figli, non potrebbe più disciplinare il matrimonio, dovrebbe consentire tutto
in materia di bioetica. Uno Stato eticamente neutrale dovrebbe disporre il
“rompete le righe” e preoccuparsi solo di regolare il traffico delle attività
sociali. C’è, poi, un corollario di questa impostazione che viene utilizzato
frequentemente. Si tratta di quel ritornello che in Italia viene ripetuto
spesso, secondo il quale in queste materie lo Stato deve permettere, non
proibire. Infatti, se permette non obbliga nessuno, ma se proibisce impedisce a
qualcuno di realizzarsi. Lo Stato che liberalizza l’eutanasia non obbliga
nessuno a praticarla, ma consente a chi vuole di scegliere un’altra opzione. Se
permette la fecondazione eterologa, non la impone, ma se la nega erode spazi
all’autonomia individuale. Io credo che ci troviamo di fronte ad un uso
improprio della laicità, e ad un vero sillogismo. Se applicata coerentemente,
questa logica porterebbe a risultati che ben pochi si sentirebbero di
sostenere. Si legittimerebbe la pratica della clonazione umana, perché una
legge che la liberalizzasse non costringerebbe nessuno a clonare cellule e
individui, mentre un divieto impedirebbe ad alcuni di seguire i propri
convincimenti. Dovrebbe essere permesso di intervenire sul genoma per
determinare alcune caratteristiche del nascituro, come il sesso, o il colore
della pelle o degli occhi, perché in ogni caso non si obbligherebbe nessuno a
queste operazioni, mentre vietandole si diminuirebbe l’autonomia individuale.
Questa impostazione dovrebbe indurre l’Authority inglese a rispondere
positivamente al recente quesito del King’s College, se sia lecito produrre
ibridi di umanità e animalità. Infatti, consentendo questa pratica non si
impone a nessun ricercatore di creare la chimera, ma proibendola si violerebbe
la libertà di quanti non hanno remore nel procedere su questa strada. Molti
sostenitori del relativismo si dichiarano contrari alla clonazione, alla
chimera e ad altre scelte estreme, ma spesso non sanno dire il perché. E non
sanno dirlo perché dovrebbero riconoscere che clonazione e chimera possono
essere escluse soltanto se si fa leva su valori antropologici primari,
meritevoli di trovare spazio nel mondo del diritto. Si dovrebbe allora
riconoscere che la laicità dello Stato non c’entra nulla quando la discussione
riguarda questi valori. E che nel gioco democratico della discussione, del
convincimento, si determineranno gli equilibri essenziali, modificabili nel
tempo, sui confini del diritto, sul rapporto tra autonomia e solidarietà. In
questa discussione vi è spazio per tutti, per le convinzioni religiose e per
quelle filosofiche, per l’apporto delle scienze e la mediazione della politica.
Ma se il confronto viene by-passato ricorrendo alla laicità per sbarrare la
strada a determinate scelte, vuol dire allora che c’è insicurezza in alcune
posizioni relativistiche, le quali non riescono ad elaborare valori convincenti,
e utilizzano impropriamente la laicità per dare alle proprie tesi una forza che
probabilmente non hanno. 5. Cultura laica e questione islamica L’analisi si fa
più complessa se affrontiamo il tema del multiculturalismo, perché questo
fenomeno costituisce una grande opportunità ma anche un grande rischio. Una
opportunità per la laicità, che può far risaltare il suo volto accogliente e il
suo carattere universale di fronte al mischiarsi delle popolazioni, delle
pagine della storia, e della geografia. Ma anche un rischio se con il
multiculturalismo si vogliono reintrodurre nelle nostre società antiche
intolleranze, o costumi e tradizioni che evocano un lontano passato. Le prime
risposte a questo evento sono deludenti, alcune preoccupanti, ma tutte riflettono
un disorientamento generale. Vi sono a volte reazioni di tipo islamofobico che
fanno d’ogni erba un fascio, alimentano paure e diffidenze, che vogliono negare
all’islam ciò che la laicità deve garantire a tutti. Mi sembra, però, che siano
prevalenti le reazioni opposte, perché la cultura laica sta rispondendo con uno
spaesamento che tradisce incertezza e insicurezza. Il multiculturalismo sta
facendo emergere una insicurezza dei valori della laicità, della loro validità
e tendenziale universalità. Anche quell’orgoglio che ha dato forza allo Stato
laico, che ha prodotto diritto e storia, sembra vacillare di fronte a chi
appare più estraneo ai principi di libertà ed eguaglianza. Potrei citare una
pluralità di fatti, ed eventi, che sembrano slegati tra di loro ma sono uniti
da un robusto filo conduttore. Ne indico alcuni per far riflettere sul loro
significato complessivo. Pochi si accorgono che si sta creando un divario
crescente tra l’atteggiamento nei confronti delle Chiese tradizionali e quello
che si manifesta di fronte a clamorose lesioni della laicità per motivi di
multiculturalismo. Le prime riflettono un’antica suscettibilità, quasi la
memoria del conflitto, le altre sono fatte di stupore e di silenzi. Se una
Chiesa lucra ancora oggi qualche favore giuridico, si reagisce con veemenza
perché la laicità dello Stato sarebbe in pericolo. Ma se vengono lanciate fatwe
di morte contro letterati, giornalisti o registi, per offese all’Islam, si
tratta di episodi che non riguardano lo Stato laico, non costituiscono
istigazione all’omicidio. Se una fatwa viene eseguita, l’omicidio è di
competenza della cronaca nera. 8 Se in un paese europeo si discute su
temi etici, le prese di posizione delle Chiese cristiane sono viste come
espressioni di un nuovo temporalismo. Ma se, in Europa o ai suoi confini,
avvengono omicidi di donne che rifiutano regole tribali, di derivazione
islamica o meno, oppure se il diritto di cambiare religione conduce ancora alla
morte o all’emarginazione sociale, si considerano questi eventi come frutto di
arretratezza, anziché un salto indietro nella storia della laicità. Nessun
grido, nessun manifesto, nessun convegno è dedicato loro. Uno strabismo
particolare colpisce la cultura laica quando è in gioco la questione femminile.
Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati strumenti per rendere
effettiva la parità tra uomini e donne, normativa e pratiche aliene che
discriminano le donne, o le umiliano, non suscitano ribellione o ripulsa. Un
tempo la cultura laica reagiva con forza, definendole oscurantiste e censorie,
alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione dei costumi, e di frenare
la licenziosità con cui veniva usata la figura femminile. Oggi tace, quasi si
nasconde, quando le donne vengono chiuse nel burqa, o si chiedono classi
separate nelle scuole, spiagge differenziate, reparti ospedalieri distinti, o
gli uomini rifiutano di essere subordinati sul lavoro a dirigenti donne, e via
di seguito. In diversi paesi occidentali, dall’Inghilterra al Canada, dalla
Germania al Belgio ai paesi del Nord Europa si moltiplicano le proposte di
introdurre la scharì’a, o suoi segmenti, senza che suscitino scandalo per la
ferita che porterebbero ai diritti umani fondamentali. Soltanto il 24 ottobre
corso, con grande ritardo, il Parlamento europeo, ha approvato una risoluzione
(peraltro molto positiva) sulla condizione delle donne, sulla illegalità della
poligamia, sulla lesione dei diritti fondamentali. Le reazioni islamiche al
discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sono ormai note, e non mi ci devo
soffermare. Ma nessuno ha notato un fatto che, in tema di laicità, ha
sovrastato tutti gli altri. Il silenzio che i più rigorosi laicisti hanno
mantenuto nel difendere la libertà di parola e di espressione contro minacce,
violenze, ricatti. Eppure, per decenni questi gruppi hanno ripetuto sino alla
nausea il pensiero di Voltaire per il quale, anche se non si condividono le
idee di un altro, si è però pronti a spendere la propria vita perché l’altro
possa esprimere quelle idee. Ma dopo Ratisbona, non si è spesa neanche una
parola per difendere il diritto del Papa, come di chiunque altro, ad esprimere
le proprie valutazione sul rapporto tra fede e violenza. A questi silenzi si
aggiunge un fenomeno culturale meno appariscente e più sotterraneo. Il cattolicesimo,
e il cristianesimo, sono stati per due secoli letteralmente vivisezionati per
criticare e sradicare tutto ciò che sapesse di temporalismo, di anti-modernità,
per spezzare la loro alleanza con il potere politico. Sull’intreccio tra altre
religioni e sistemi politici dittatoriali, oggi prevale l’afasia nella cultura
liberale, in quella marxista o anti-istituzionale. Sembra quasi che la critica
illuministica e storicistica che, pur con asprezze a faziosità, ha saputo
fustigare, in certa misura ha contribuito a rinnovare, le Chiese delle nostre
società, scelga il silenzio di fronte a ben più pesanti congiunzioni tra
religione, violenza, dispotismi più o meno teocratici. Tutto ciò apre degli
interrogativi sul futuro della laicità in Italia e in Europa; e li apre non su
un punto o su un altro, ma sulla spinta propulsiva che la laicità ha esercitato
nel realizzare lo Stato moderno. Da questi, e altri episodi, sta scaturendo una
sorta di assuefazione rassegnata di fronte alla mutazione genetica della
laicità come la conosciamo in Occidente, che può portare ad un esito
paradossale: ad una laicità occhiuta e diffidente verso le religioni
tradizionali e ad un multiculturalismo disarmato e senza valori verso altre
religioni e tradizioni. Sarebbe la fine della neutralità dello
Stato. Laicità e multiculturalismo in Italia. Ambiguità e prospettive Per
meglio capire i rischi di questa frattura tra laicità e multiculturalismo
torniamo per un attimo all’esperienza italiana. L’Italia, ancora una volta, si
è dimostrata più di altri Paesi equilibrata e accogliente, non condizionata da
pregiudizi etnici o religiosi. L’Italia non ha fatto la guerra al velo, e a
nessun simbolo religioso, forse perché di simboli confessionali ne conosce
tanti da tanto tempo, dalle cattedrali alle chiese, dai conventi ai battisteri,
alle fogge vestiarie di religiosi e religiose d’ogni genere. Quindi non
avvertiamo disagio per un modesto velo che peraltro può appellarsi alla libertà
di abbigliamento. L’Italia ha predisposto una vasta rete di accoglienza e
sostegno sociale per l’immigrazione; sta cercando in tanti modi di soddisfare
le esigenze di culto dei soggetti dell’immigrazione; prevede nei contratti di
lavoro spazi per pratiche religiose, diversità alimentari, tradizioni come
quello del ramadan. Ma questo che può essere considerato legittimamente un
nostro vanto, si sta trasformando lentamente in qualcosa d’altro. Si sta
trasformando nell’oscuramento di principi e valori essenziali, e nella
accettazione di una cultura della separatezza che può colpire la laicità. Parlo
della tendenza a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche, e più in
genere, tutta una simbologia e una tradizione di memorie del cristianesimo,
riprendendo concezioni laiciste superate. E’ di questi giorni la notizia che nelle
scuole, negli alberghi, in luoghi pubblici e privati diminuiscono i presepi e
gli alberi di natale per non urtare suscettibilità di persone aderenti ad altri
culti. Si realizza così quella che da tempo definisco una partita giocata su
due tavoli: quello della laicità che limita o cancella simboli e presenze
cristiane, e quello del multiculturalismo che legittima altri simboli o
presenze religiose. Sempre in Italia si manifestano i primi sintomi di un
cedimento multiculturale che mette a rischio i diritti fondamentali dei
cittadini, in primo luogo delle donne. Si accetta qua e là la presenza del
burqa, aumentano le voci favorevoli alla poligamia, si introducono in qualche
parte forme separate di vita collettiva, nelle scuole, nei luoghi pubblici, si
consente l’apertura di scuole islamiche fuori dei canoni previsti dalle nostre
leggi. Si tratta di primi sintomi, ma sono parecchi e di significato univoco, e
ci dicono che neanche noi siamo immuni dal rischio della perdita di senso della
laicità e dei suoi valori. Altra cosa sarebbe se della laicità si offrisse il
volto più maturo e accogliente, quello che sa distinguere tra quanto di
autenticamente religioso emerge da una tradizione, e quanto appartiene ad
arretratezza storica e culturale. Che sa rispettare e tutelare il patrimonio
spirituale di ciascuna religione ed etnia, ma sa criticare e respingere ciò che
collide con il sistema universale dei diritti umani, con la libertà religiosa,
con l’eguaglianza tra uomo e donna. Che sa, cioè, promuovere il meglio della
nostra e delle altrui tradizioni, ma si impegna a far arretrare il resto.
Sarebbe un’altra cosa, un’altra storia, e potremmo dedicarvi un altro
convegno. Trovare l’uomo capace, e l’investirlo de’ simboli della
capacità (culto, o com’altro sì chiami) così ch’egli possa avere agio a
governare secondo la propria facoltà, è l’officio di ogni procedura
sociale. A questo punto il Carlyle riscrive ‘worship’ WORTH-ship,
per accentuarne l’etimologia da ‘worth,’ valore, compincendosi che la ragione
etimologica venga quasi ad attestare la nocessità del fatto che gli sta tanto a
cuore. Per mantenere questa relazione logica Loubatières muta
‘worship’ nell’*équivalent adequat* di *élection* da prima, e poi di
*élite*. ‘Carlyle,’ soggiunge Loubatières, de son pergant et rapide regard, dénude
la racine des mots et des choses.’ Carlyle
non è punto tenero degli studi etimologici. Le parole gli si
dischiudono ad un tratto come si fendono le roccie allo sguardo diabolico del
suo jötun Hymir. Ci fa ripensare a quello che dice Daudet: ‘Il y a dans cortains
mots que nous employons ordinairement un ressort cachè qui tout à coup les
ouvre jusqu’au fond, nous les explique dans leur intimité exceptionelle.’
‘Puis le mot se replie, reprend sa forme banale et roule insignifiant, usé par
l’habitude et le machinal.’Carlo Cardia. Keywords:
il laico, filosofia vs. teologia, italia anti-papista, il filosofo italiano
deve essere neutro in questione di religione. Verdi – il papa – stati papali –
repubblica italiana – liberta di culto – giurisprudenza – religione dell’antica
roma – il pontifice nella religione romana antica – credenza religiosa –
credenza naturale – credenza super-naturale – il sovra-naturale – il naturale –
l’idea di religione nella antica Roma – il mito romano – la mitologia romana
antica – il sacro – il pagano – la filosofia della roma antica pagana – la
critica dei antichi romani al cristianesimo, il culto del laico, worship of the
hero, il culto dell’eroe -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardia” – The
Swimming-Pool Library. Cardia.
Luigi Speranza -- Grice e Cardone: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- La nudita eroica di
Napoleone -- Clark Kent; ovvero, sul sovrumano – trasumanar – l’eroe di Vico –
hero-worship -- Annunzio e il fascismo – scuola di Palmi – scuola di Reggio
Calabria – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Palmi). Filosofo calabrese. Filosofo italiano.
Palmi, Reggio Calabria, Calabria. Grice: “Cardone plays with a coinage,
sobraumnao, in Dionigio e Luciano – it triggers implicata: what’s wrong with
‘human’? One is reminded
of Pico (‘dignita dell’uomo’) and D’Annunzio – it is a problem of linguistic
botanising for Italian phiosophers, ‘altreuomo’ being rendered as a translation
of Emersen’s ‘plus man’ – and cf. Carlyle – D’Annunzio, who should have known
better, prefers ‘suPer,’ when we know that in the ‘volgare,’ the ‘p’ becomes
‘v’, so Cardone has it just right!” Si
laurea a Roma. Membro de Partito Socialista Unitario. Fonda "Ebe" e
la rivista "Rivista". Fonda “Ricerche filosofiche”. Fonda la Società
Filosofica Calabrese. Aattività deontologica per la realizzazione di un'etica
sociale della Cultura, in difesa e promozione della civiltà, onde onorarlo per
le sue incessanti iniziative anche in favore della fratellanza umana. Altre
opere: Saggi di storia, filosofia e diritto; Il relativismo gnoseologico” (Palmi,
A.Genovesi et figli ed); Reazione collettiva (Torino, Paravia et C); I filosofi
calabresi nella storia della filosofia, con appendice sui sociologi e gli
psicologi, Palmi, A.Genovesi et Figli ed., “La filosofia dello Stato” (Città di
Castello, Casa Editrice Il Solco); Filosofia della vita, Città di Castello,
Casa Editrice Il Solco); Umanismo (Messina); Cristianesimo, liberalismo e
comunismo, Palmi, G. Palermo ed); Il Divenire e l'Uomo, Palmi, Ricerche filosofiche,
“Civiltà, Palmi, G. Palermo ed); Vita di Gesù secondo il Vangelo incompiuto, Modena-Roma,
Guanda Editore); La filosofia di Gesù, Milano, Bocca ed); L'uomo nel cosmo.
Storia e prospettive, Palmi, Ricerche filosofiche ed); Bio critica, a cura
della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Bologna,
Mareggiani ed); Seguito alla Bio critica, a cura della sezione bibliografica
della Società Filosofica Calabrese, Cosenza, MIT); La vita come esperienza inutile,
Cosenza, Pellegrini); L'ozio la contemplazione il gioco la tecnica l'anarchismo,
Roma, Ricerche). Ricerche filosofiche, Torino, Edizioni di Filosofia). Il
Divenire” (Padova, Rebellato Editore). Si vis pacem para pacem, Montepulciano,
Editori Del Grifo, Ludi. Bologna, Soc.
Tip. Mareggiani ed); I confini dell'anima, Palmi, Ed. Del Fondaco di Cultura); La
banca della carità” (Milano, M. Gastaldi Terapia del tramonto (Milano, M. Gastaldi); Il
figlio del dittatore” (Milano, M. Gastaldi); Canti del Sant'Elia, Poggibonsi,
Lalli); L'assenza e la mancanza: meditazioni quasi poetiche, Cosenza, MIT). Dialogo
sulla solitudine. divenir e vita. Filosofo-poeta. Un inattuale nella sua
attualita. i Napoleone non mi sembra per nulla così grande come il
Cromwell. Le sue enormi vittorie, che s’ estesero A 1 «Napoleone fu
l'idolo della comune degli " 3 i gli nomini, perchè a le
qualità e le facoltà degli Cn OI k Ni Chi co: i 0 fesso moderno; auche
quand'è all'apice della fortuna; “gli aleggia dentro lo stesso spirito
che troviamo nei giornali del tempo. da 7 si limitò alla
piccola Inghilte che gli alti trampoli ti la statura dell'uomo per
essi lui sincerità parl d'una specie molto inferiore: NOn quel
suo silenzioso. Per 1 L'universo; NOn il « cammino co lo
chiamava; ‘pensiero, il valore, che S1 co latenti, © 8°
accendono poi quasi amm Napoleone vive in un’ epoca che non avera
più este: ; fede in Dio; che considera non-entità jl significato ;
a d’ogni silenzio, d'ogni qualità latente: non PIù sulla |. È
Bibbia puritan& aveva egli et fondarsi, ì scettiche Enciclopedie.
Eppure, tanto ei giunse- ed
meritorio L essere arrivato così lontano. Tl suo carattere: compatto,
pronto ed articolato, in ogni senso, è in sè stesso piccolo; forse, a paragone
i quello del nostro i grande Cromwell, caotico ed inarticolato. Non è «
muto profeta che si sforza di parlare.; > ha piuttosto in sè un
portentoso miscuglio di ciarlataneria ! Il concetto di Hume, d'una
fanatica ipocrisia, Con quanto è in esso di vero, potrà applicarsi molto
meglio Napoleone che nons’applica a Cromwell, Maometto od ai loro
simili, per 1 quali realmente, preso et tutto rigore, conteneva a mala pena
alcuna stilla di verità. Sin da primcipio, appare in quest’ uomo un elemento di
riprovevole ambizione, che alla fine lo vince, trascina lui e l’opera sua in ruma.
a SE vi be divenne motto prover= era necessario di Ei a Se ARen
alto il coraggio de’ DARE bisognava tenere aggio de’ suol uomini e
così plesso, non ci son ; via. Fio Non è un santo, mon è un
cappuccino, per Usare la nemmeno un eroe, nell'alto signi \ x guificato
d al capo VI: Napoleone o l' uomo di pagata pa tutta 1
Europa, mentre il e: o di et da
espressione sua; È ; » (Emerson, op. cita È dedi
$ A. prrura SEST è i eglio, lungo e stato ID
o resse Ind so, se non at i oleone ste55° ; atti, ba
alcun proposito che sì ; :orno; ch'è destinato e KI x . ‘no
vantaggio può mal ve- anl a dolo one? Le menzogne SI scoul a ruinos@
La prossima agi ‘ near È e prestar fe al bugiardo; quand
an +1 della più alta impor prono, © se nessuno VOST Da
uand' anche s1a che dica il vero» È ;l vecchio grido: <
Al tei venga creduto. A cr È Una bugia è nulla; al nulla, nom
Potere lupo ‘> a farete, e avrete vare qualch - alla
fine, null er giunta rimess Y x È Dare verain Napoleone una
certa sincerità ; anche è) nella insincerità, bisogna
distinguere quanto è super: ficiale da quanto è fondamentale. A traverso
et que ste sue macchinazioni esteriori, et queste ciarlatanerie,
ch''erano molte e riprovevolissime, vediamo pure nel Jla realtà, istintivo
e impossi l'uomo un certo senso de ) bile a sradicare; vediamo ch'
el Sl fondò sul fatto.... SI n lui l'istinto di na tanto ch’ ebbe
alcun fondamento. I tura è superiore alla cultura. Il Bourrienne '
racconta che i suoi savants, in quel viaggio d’ Egitto, s' affanna=
vano una sera a dimostrare che non ci può essere Dio. Erano riusciti a
provarlo, a loro grande soddisfazione, con ogni maniera di logica.
Napoleone, guardando su, alle stelle, risponde : «La dimostrazione è
molto ingegnosa, messieurs ; ma chi ha fatto tutto ciò? » La dot trina
atea gli passa sopra come un’ ondata ed egli rimane al cospetto del
grande fatto: « Chi f ti ci09 > Similm Ì | fece utto ente
nella pratica: come 0 possa essere grande e trionfare i
gni.u9Maro onfare in questo mondo, egli 1 Mémoires de Mi de
Rourri. i Villemarest, Paris, chez Tadrocat, lui-meme, rédigéa par Mi
de Fauyol Fauvolot do Bonrrionna, amico d'infanzia e
segretario timo di Napoleone, colui MA i, colui cho formulò,
d'accordo co diem nl DE Oi orrori contenuti ola COLI REA to I
‘ourrienne et nen erreura volontaires dI RT fontraverso tuttii viluppi,
il nocciolo pra vede, de
direttamente.! tione; ed a quello ten 9 2 bj pei driscalco del suo
palazzo delle Tuileries gli e tappezzerie, dimostrandogli ‘con
me fossero magnifiche, e DEF giunta @ He, mercato; Napoleone, Per
tutta risposta, hiese Sa Ni forbici, mozzò una napPInA dl oro dele
o finestra, se la messe in tasca, e tirò via. Qualche Hai : dopo,
la cavò fuori al momento buono, gran È SE rore del suo fornitore: non era
Oro, ma. orpello! ; notevole come anche a Sant' Elena, sempre; sino et #
ultimi giorni, egli insista sul pratico, sul reale: < A che parlare e
lamentare? et che, sopra tutto, leticare? Non ‘gi viene con ciò ad alcun
risultato; nulla si riesce, a far nulla. E se nulla potete fare; tacete!
> Parla ‘spesso così a’ suoi poveri seguaci malcontenti ; è come
una forza silenziosa tramezzo alle loro morbose querele. A E per
conseguenza, non possiamo dire che fosse in n lui pure una fede
genuina, Der quant’ era possibile? Ve- i deva in questa nuova enorme
democrazia, che s’ affer- n mava nella rivoluzione francese, un fatto che
non sì può sopprimere, un fatto che il mondo intero, con tutte le sue
vecchie forze e le instituzioni, non può metter da parte: di ciò egli
aveva il vero intuito, e quell’ intuito trascinava seco la sua coscienza
ed il suo entusiasmo : era la sua fede. Forse che non ne interpetrò
bene l’oscura portata ? La carriòre ouverte auv talents gli strumenti
et chi sa maneggiarli: quest’ è effettivamente la verità, tutta la verità
anzi, e comprende tutto il si- : bo dell riluzione fece 0 i a ix Ò
n ‘ » al ieri i dda DE nidi pae CE cedono innanzi a quest'uomo Dire
ecm vr i rat dp degli soci dl diplomati e vugle cha ogni ir
facoltà di RIGA RARI HRolnio: egoista, prudente, psn se : ale parvenza
altrùi, uè da e sntisinne. 1a Siocniae da alcuna @ re, da nessuna fretta.
» (Emerson, loco cit, sì VI meg SaIoaaai Si ù Napoleone nel suo primo periodo
sie to “vero democratico ; nondimeno, Per sua natura, QI ati ita
mili sapeva che Ja democrazia, in quanto mai fosse verità, non
poteva essere: RIO ed odiava cordialmente P'anarchia. T1 20 giugno
5 seduto col Bourrienne in un caflè, mentre la folla Diso,
schiamazzando, Napoleone esprime il più DIOCr, a 3 isprezzo per le antorità che
non reprimono que! dio dine. Il 10 agosto sì meraviglia che nessuno
prenda 1 o di que’ poveri Svizzeri : vincerebbero Se uves: dante.
Tanta fede nella democrazia, eP7 comand sero un coman I
I pure tant! odio dell’ anarchia sostengono apoleone IM illanti
campagne grande Opera. Nelle br IO] d'Italia, via via sino
alla pace di Léoben,' 81 direbbe che il suo ideale sia questo: fatta
trionfare la rivoluzione francese; affermarla contro questi simulacri aus
striaci che 0Sano dirla, un simulacro! Nondimeno, egli sente pure; ed ha
diritto di sentire, quanto neces? siria sia una forte autorità; e come
senz) essa l’opera della rivoluzione non possa prosperare nè durare.
Frenare quella granda rivoluzione devastatrice, che divorava sè stessa ;
domarla così, che, raggiunto il suo intrinseco scopo, essa possa divenire
organica, capace di vivere tra gli altri organismi, tra le altre cose
formate, e non soltanto quale opera di devastazione, di distruzione : non
mirava egliin parte a questo come alla vera mèta della sua vita? non
s'ingegnò, anzi, effettivamente, di far IA A traverso Wagram ed
Austerlitz, a traverso Re. SOT aan Hg per osare ed operare, €
s'inalzò ica IRE re. Tutti gli uomini videro sione Cad Ro ioni
soldati solevano dire ai dala avvocati di Parigi, tutti ‘Bisogna
che mettiamo là il Pan Diga ‘andarono, e lo messe ni nostro Petit
Caporal!> E S ro là; essi, e tutta la Trancia in tutta la
sua DAI massa E poi il consolato; 1° impero; la vittoria su
tutta pEuropa {.. È abbastanza naturale che il povero luogo- n
tenente del reggimento La Fère, potesse apparire ai proi ‘n erande fra quanti
nomini fossero da 56 sto punto; quel fatale elem nto di ciarla0.
Rinnegando la sua vel chia fede nei fatti, cOn jò a credere nelle
parvenze, brigò per imparentarsì con le dinastie austriache, col
papati, con le vecchie false feudalità, che pure un tempo gli apparivano
chiaramente false; pensò et fondare una e così via come se la
enorme mirasse che @ dinastia Sua rivoluzione francese
non era dunque € dannato a zogna;> è terribile, m®
il vero dal falso quando v ventosa ammenda, questa, che 1 uomo paghi per
avere ceduto alla infedeltà del cuore. La falsa ambizione
ego stica era divenuta ora il suo dio: una volta scesi sino
all’inganno di sè stessi, tutti gli altri inganni seguono naturalmente, €
si cade sempre più e più basso. In quale gretta e rappezzata miseria, in
quale mascherata teatrale di manti di carta e d'orpello, aveva ravvolta
quest'uomO la propria grande realtà, immaginando cor ciò di farla più
reale! E quel vacuo Concordato col papa; che pretende ristabilire il
cattolicismo mentr' egli stesso 1 riconosce ch è il metodo di estirparlo,
la vaccine religioni e quelle cerimonie d’incoronazione, quelle conÈ
sacrazioni nella chiesa di Notre-Dame per mezzo della Ai. vecchia chimera
italiana cui nulla mancava, come disse l’Augereau,' ca completarne la
pompa, Se non'quel mezzo milione d’uomini, morti per far finire tutto
ciò!...> + | RIA Ae di Cromwell fu con la spada e con la ja, e
dobbiamo dirla genuinamente vera. La spada \aneria prese Da or
Francesco Auger at Drama EETUIGIO), ANA onu, duca di Castiglione,
maresciallo e pari di | ‘che fu governatore a Berlino nel 1818, è difese
Tione 18 fruttidoro (LT9T); © ne ESTA. i ETTURA
SES ; lui senz alcuna chiblemi del purttatni Aveva usato en;
I a et pretendev® ora difenderle! bagliò credette troppo vide
nell'uomo di -]* i ta facilità... della fame ©
di questa 12 Siglo ta (Lor che edificasse sulle nubi, e: SAR ina, e
di arve dal mondo? i ni Sì ‘gua casa IN confusa rund; | i DO
art in ciascuno di noi, esiste quest SE. e potrebbe svilupparsi ove la
tenti ciarlataneria, ; fosse forte abbastanza. € on Ma
il suo sviluppo; invero; | come ingrediente riconoscibil e ie DE:
Sa a di Napoleone, et stessa piccina.
Che fu dunque 1 opere SI i lpore? Uno sprazzo come di po
malgrado di tanto sca p 3 Re vere da fucile largamente sparsa; Una
fiamma t) di eriche secche. Per un'ora, | universo intero
sembra avvolto dal fumo e dalle fiamme; ma per un' ora soltanto. Poi
svanisce, ed ecco riapparire Vl umiverso CON le sue vecchie montagne ed i
vecchi fiumi, con le stelle nell'alto e giù sotto il benefico
suolo. Il duca di Weimar diceva sempre agli amici di farsi
animo, chè questo Napoleonismo era ingiusto, era menzogna, e non poteva durare.
La teoria è vera. Più questo Napoleone calpestava il mondo, tenendolo
tirannicamente + oppresso, più fiera sarebbe un giorno la reazione
del mondo contro di lui. L' ingiustizia si ripaga da sè, e con uno
spaventevole interesse composto. Non so davvero a in dina pro alt
OG Dio si ha risersata jar lui Ladino Boo oi SA TmaSoni ne PESI
Lira si, Sraianol: cho vuol gio del HIFEMENE la la mila cl 1 ila
son fumi tie tnio parere non durabile perchè LARA RE LIE ICINLI
cod’ artiglieria 0 veder affogare il suo reg jelior pal 7 ; cite
rimento migliore, anzichè fucilare quel povero libraio {edesco palm!? Fu
un'aperta ingiustizia, una, tirannia, un assassinio, che nessun
uomo, la dipinga pure con uno strato di colore alto un dito, potrà mai
far apparire altrimenti. Questa ed altre simili ingiustizie s'
impres? sero profonde nei cuori; un fuoco represso balenava dagli
occhi degli uomini quando vi ripensavano aspettando il giorno! Ed il giorno
venne: € la Germania gli si sollevò d’ intorno. L'opera di Napoleone sl
ridurrà a lungo andare et quanto egli compì giustamente, 2 quanto la
natura sancirà con le sue leggi, a quanto di realtà era in lui; ® tanto,
e nulla più. Il resto fu tutto fumo e sciupio. La carrière ouverte Aux
talents: questo grande messaggio di verità, che ha ancora da articolarsi
e da adempiersi dappertutto, ei lo lasciò in uno stato affatto
inarticolato. Egli fu un grande schema, un abbozzo, non mai completato:
ed invero, forse che il grand’ uomo è mai altro? Ma egli, ahimè, rimase
in uno stato tr0ppo rudimentale |... È quasi tragico il riflettere
alle sue opinioni sul mondo, quali le esprime là, a Sant'Elena. Sembra
provare la più sincera meraviglia che tutto sia andato et quel modo: ch’ egli sia stato gettato là,
sulla rupe, e "che il mondo ruoti ancora sul suo asse. La Francia.
è ‘grande, anzi è sola grande; ed in fondo Napoleone è la
Francia. La stessa Inghilterra, egli dice, non è per naura che un'appendice
della Francia; < è per la Francia n'altra isola d’Oleron. >» Così
era per natura, per l ‘Non può comprendere, non sa concepire che la
realtà «ela confederazione del Reno veniva formandosi, la polizia
scoperse al Sci librai furono arrestati ) ono per avervi avuto parte
e Napol Sa commissiono militare. Quattro degli Roca LARE
oro provincie: due, Schiderer e Palm, condannati a mi % 4 to
Napoloone fece grazia, una il libraio Palm di Norimberga vi atura di
Napoleone. Guardate, infatti : ECCOMI QUI da i 1 Nel 1806,
mentre l’ esercito francese occupava ancora la Germania, cuni
documenti, che rivelavano i piani d'un comitato segreto d'insurre-
e LEmTURÀ de mma; che la Francia TR da ci c
jeposto al suo P o, Ji non S1a la Francia. 3 ‘n a credere ciù
andezza, © dI DI ipbia i nesta “iano, COSÌ compatta, così
ana, ì g'è involuta; s'è quasi sua N° 0 ante un temp: e
a di fanfaronnadi da tmosfer: torbida n'ai osto et lasciarsi
calpe: LS contastare come pla si tà alla Francia ed a sè;
0A it A mire! Napoleone 7 1 costene Ma, ahimè, OF he giov
Le, ui ; e natura, anch’ ess% si dia Essendosi UNA volta staccato
1) st e) scamp nel vuoto; è Vv ebbe per o di rado tocco ad un
uomo sorte tanto desolata: e dovette morire; povero
Napoleone!.. mento troppo presto sciupato, sino et "& ecco il nostro ultimo eroe!
A si er * * Sa Tiltimo in un doppio significato, poichè
debbono con ‘]ui terminare queste nostre peregrinazioni a traverso ‘tempi
e luoghi così diversi, cercando, studiando gli eroi. UR ME ne rinoresce:
era un piacere per me in quest’ occupazione, sebbene misto a molta pena. È un
grande s0g= 5 molto grave, molto vasto, questo che io, appunto
darmi tropp'aria di gravità, ho chiamato cult@ Esso penetra profondo
nelle secrete vie del‘e ne’ più vitali interessi di questo mondo; tei ge
bro ben degno di svolgimento. In sei Invece che sei giorni, avremmo
potuto far meglio. lo: chi sa se nemmeno vi sono riuper penetrarvi un
poco, dovetti Dn DIRE Tronno spesso, con bruuttate là isolate, senza
commento, ho ‘cortese benevolenza, non voglio ora parlare. per saviezza e leggiadria, ha
ascoltato pazient pozze parole. Sentitamente, cordialmente, vi
rendo zie, ed a tutti dico: Dio sia con voil Precisely a
century and a year after this of Puritanism had got itself hushed-up into
decent composure, and its results made smooth, in 1688, there broke-out a
far deeper explosion, much more difficult to hush-up, known to all
mortals, and like to be long known, by the name of French Revolution. It
is properly the third and final act of Protestantism ; the explosive
confused return of mankind to Reality and Fact, now that they were perishing
of Semblance and Sham. We call our English Puritanism the second act : “Well
then, the Bible is true ; let ils go by the Bible 1 ” “ In Church,” said
Luther ; “ In Church and State,” said Cromwell, “let us go by what
actually God’s Truth.” Men have to return to reality ; they cannot live
on semblance. The French Revolution, or third act, we may well call
the final one ; for lower than that savage Sansculottism men cannot go.
They stand there on the nakedest haggard Fact, undeniable in all seasons
and circumstances ; and may and must begin again confidently to build-up
from that. The French explosion, like the English one, got its King, who had no Notary parchment to show for
himself. We have still to glance for a moment at Napoleon, our second
modern King. Napoleon does by no means seem to me so great a man
as Cromwell. His enormous victories which reached over all Europe,
while Cromwell abode mainly in our little England, are but as the high
stilts on which the man is seen standing ; the stature of the man is not
altered thereby. I find in him no such sincerity as in Cromwell; only a
far inferior sort. No silent walking, through long years, with the Awful
Unnamable of this Universe; ‘walking with God," as he called it;
and faith and strength in that alone : latent thought and valour,
content to lie latent, then burst out as in blaze of Heaven’s /lightning
1 Napoleon lived in an age when God was no longer believed ; the meaning
of all Silence, Latency, was thought to 'be Nonentity : he had to begin
not out of the Puritan Bible, but out of poor Sceptical EncyclopMies,
This was the length the man carried it. Meritorious to get so far. His
compact, prompt, everyway articulate character is in itself perhaps
small, compared with our great chaotic /^articulate Cromwell’s. In-
stead of 'dumb Prophet struggling to speak,' we have a por- tentous
mixture of the Quack withal I Hume’s notion of the Fanatic-Hypocrite, with
such truth as it has, will apply much better to Napoleon than it did to
Cromwell, to Mahomet or the like, where indeed taken strictly it has
hardly any truth at all. An element of blamable ambition shows itself,
from the first, in this man ; gets the victory over him at last, and
in- volves him and his work in ruin. * False as a bulletin’
became a proverb in Napoleon’s time. He makes what excuse he could for it
: that it was necessary to mislead the enemy, to keep-up his own men’s
courage, and so forth. On the whole, there are no excuses. A man in
no case has liberty to tell lies. It had been, in the long-run,
better for Napoleon too if he had not told any. In fact, if a man
have any purpose reaching beyond the hour and day, meant to be found
extant next day, what good can it ever be to promul- gate lies ? The lies
are found-out ; ruinous penalty is exacted for them. No man will believe
the liar next time even when he speaks truth, when it is of the last
importance that he be believed. The old cry of wolf 1 K Lie is nMhing ; you can- not of
nothing make something ; you make nothing at last, and lose your labour
into the bargain. Yet Napoleon had a sincerity; we are to
distinguish be- tween what is superficial and what is fundamental in
insin- cerity. Across these outer manceuverings and quackeries of
his, which were many and most bian>able, let us discern withal that
the man had a certain instinctive ineradicable feeling for reality ; and
did base himself upon fact, so long as he had any basis. He has an
instinct of Nature better than his culture was. His savans, Bourrienne
tells us, in that voyage to Egypt were one evening busily occupied
arguing that there could be no God. They had proved it, to their
satisfaction, by all man- ner of logic. Napoleon looking up into the stars,
answers, “Very ingenious. Messieurs ; but who made all that?” The
Atheistic logic runs-off from him like water ; the great Fact stares him
in the face : “ Who made all that ?” So too in Practice : he, as every
man that can be great, or have victory in this world, sees, through all
entanglements, the practical heart of the matter ; drives straight
towards that. “N^en the steward of his Tuileries Palace was exhibiting
the new uphol- stery, with praises, and demonstration how glorious it
was, and how cheap withal, Napoleon, making little answer, asked for
a pair of scissors, dipt one of the gold tassels from a window-
curtain, put it in his pocket, and walked on. Some days afterwards, he produced
it at the right moment, to the horror of his upholstery functionary ; it
was not gold but tinsel I In Saint Helena, it is notable how he still, to
his last days, insists on the practical, the real. Why talk and complain
; above all, why quarrel with one another? There is no result in it ; it
comes to nothing that one can do. Say nothing, if one can do no-
thing I” He speaks often so, to his poor discontented follow- ers ; he is
like a piece of silent strength in the middle of their morbid
querulousness there. And accordingly was there not what we can call
a faith in him, genuine so far as it went? That this new enormous
De- mocracy asserting itself here in the French Revolution is an
insuppressible Fact, which the whole world, with its old forces and
institutions, cannot put down ; this was a true insight of his, and took
his conscience and enthusiasm along with it, a faith. And did he not
interpret the dim purport of it well? La carriers ouverte aux ialens^ The
implements to him who ran handle them; this actually is the truth, and
even the whole truth ; it includes whatever the French Revolution, or any
Revolution, could mean. Napoleon, in his first period, was a true
Democrat. And yet by the nature of him, fostered too by his military
trade, he knew that Democracy, if it were a true thing at all, could not
be an anarchy : the man had a heart-hatred for anarchy. On that Twentieth
of June (1792), Bourrienne and he sat in a coffee-house, as the mob
rolled by : Napoleon expresses the deepest contempt for persons in
authority that they do not restrain this rabble. On the Tenth of August
he wonders why there is no man to command these poor Swiss; they
would conquer if there were. Such a faith in Democracy, yet hatred of
anarchy, it is that carries Napoleon through all his great work. Through
his brilliant Italian Campaigns, onwards to the Peace of Leoben, one
would say, his inspir- ation is ; ‘Triumph to the French Revolution ;
assertion of it against these Austrian Simulacra that pretend to call
it ‘a simulacrum’ Withal, however, he feels, and has a right to
feel, how necessary a strong Authority is ; how the Revolution cannot prosper
or last without such. To bridleMn that great devouring, self-devouring
French Revolution ; to tameit, so that its intrinsic purpose can be made
good, that it may be- come organic, and be able to live among other
organisms and formed things, not as a wasting destruction alone : is not
this still what he partly aimed at, as the true purport of his life
; nay what he actually managed to do ? Through Wagrams,
Austerlitzes ; triumph after triumph, he triumphed so far. There was an
eye to see in this man, a soul to dare and do. He rose naturally to be the
King. All men saw that he was such. The common soldiers used to say on
the march. These babbling Avocats, up at Paris ; all talk and no work !
What wonder it runs all wrong ? We shall have to go and put our
Petit Caporal there I” They went, and put him there ; they and France at
large. Chief-consulship, Emperorship, victory over Europe ; till the poor
Lieutenant of La Fire, not unna- turally, might seem to himself the
greatest of all men that had been in the world for some ages.
But at this point, I think, the fatal charlatan-element got the
upper hand. He apostatised from his old faith in Facts, took to believing
in Semblances ; strove to connect himself with Austrian Dynasties,
Popedoms, with the old false Feud- alities which he once saw clearly to
be false ; considered that he
would found “ his Dynasty” and so forth ; that the enormous French
Revolution meant only that ! The man was ‘given-up ^ to strong delusion,
that he should believe a lie a fearful but j most sure thing. did not
knowJrue from false no\y.wheiLj he looked at them, — the fearfulest
penalty a man pays for yielding . to untruth of heart. Self and false
ambition had now become ^ his god : j^^deception once yielded to, all
other deceptions follow naturally more and more. What a paltry patchwork
of theatrical paper-mantles, tinsel and mummery, had this man wrapt
his own great reality in, thinking to make it more real thereby ! His
hollow ^-Concordat, pretending to be a re- establishment of Catholicism,
felt by himself to be the method of extirpating it, ^fa vaccine de la
religion his ceremonial Coronations, consecrations by the old Italian
Chimera in Notre- Dame, “wanting
nothing to complete the pomp of it,” as Augereau said, “nothing but the
half-million of men who had died to put an end to all that” ! Cromwell’s
Inauguration was by the Sword and Bible ; what we must call a
genuinely one. Sword and Bible were borne before him, without any
chi- mera : were not these the’’ r^a/ emblems of Puritanism ; its
true decoration and insignia ? It had used them both in a very real
manner, and pretended to stand by them now 1 But this poor Napoleon
mistook : he believed too much in the Dup^~ ability of men ; saw no fact
deeper in man than Hunger and this 1 He was mistaken. Like a man that
should build upon cloud ; his house and he fall down in confused wreck,
and de- part out of the world. Alas, in all of us this
charlatan-element exists ; and might be developed, were the temptation
strong enough. ‘ Lead us not into temptation’ I But it is fatal, I say,
that it be developed. The thing into which it enters as a cognisable
ingredient is doomed to be altogether transitory; and, however huge it
may look, is in itself small. Napoleon’s working, accordingly, what
was it with all the noise it made ? A flash as of gunpowder wide-spread ;
a blazing-up as of dry heath. For an hour the whole Universe seems wrapt
in smoke and flame ; but only ^for an hour. It goes out : the Universe
with its old mountains and streams, its stars above and kind soil
beneath, is still there. The Duke of Weimar told his friends always, To be
of courage ; this Napoleonism was unjust^ a falsehood, and could
not last. It is true dqctrine. The heavier this Napoleon tram- pled on
the world, holding it tyrannously down, the fiercer would the world’s
recoil against him be, one day. Injustice pays jt- self with frightful
compound-interest. I am not sure but he had better have lost his best
park of artillery, or had his best regiment drowned in the sea, than shot
that poor German Bookseller, Palm I It was a palpable tyrannous
murderous injustice, which no man, let him paint an inch thick,
could make-out to be other. It burnt deep into the hearts of men,
it and the like of it ; suppressed fire flashed in the eyes of men, as
they thought of it, waiting their day 1 Which day came : Germany rose
round him. What Napoleon did will in the long-run amount to what he did
justly j what Nature with her laws will sanction. To what of reality was
in him; to that and nothing more. The rest was all smoke and waste.
La carri^re ouverte aux talens : that great true Message, which has
yet to articulate and fulfil itself everywhere, he left in a most
inarticulate state. He was a great Sbatiche, a rude- draught never
completed ; as indeed what great man is other? Left in too rude a state,
alas 1 His notions of the world, as he expresses them there at
St. Helena, are almost tragical to consider. He seems to feel the
most unaffected surprise that it has all gone so ; that he is flung-out
on the rock here, and the World is still moving on its axis. France is
great, and all-great ; and at bottom, he is France. England itself, he
says, is by Nature only an ap- pendage of France ; “another Isle of
Oleron to France.” So it was by Nature, by Napoleon-Nature ; and yet look
how in fact — Here am I I He cannot understand it : inconceivable that
the reality has not corresponded to his program of it ; that France was
not all-great, that he was not France. ‘Strong delusion,’ that he should
believe the thing to be which is not I The compact, clear- seeing,
decisive Italian nature of him, strong, genuine, which he once had, has
enveloped itself, half- dissolved itself, in a turbid atmosphere of
French fanfaronade. The world was not disposed to be trodden-down
underfoot ; to be bound into masses, and built together, as he liked, for
a pedestal to France and him : the world had quite other pur- poses
in view! Napoleon's astonishment is extreme. But alas, what help now ? He
had gone that way of his ; and Nature also had gone her way. Having once
parted with Reality, he tumbles helpless in Vacuity; no rescue for him.
He had to sink there, mournfully as man seldom did ; and break his
great heart, and die, this poor Napoleon ; a great implement too
soon wasted, till it was useless : our last Great Man I Our last,
in a double sense. For here finally these wide roamings of ours through
so many times and places, in search and study of Heroes, are to
terminate. I am sorry for it: there was pleasure for me in this business,
if also much pain. It is a great subject, and a most grave and wide one,
this which, not to be too grave about it, I have named He?'o-worship.
It enters deeply, as I think, into the secret of Mankind’s ways and
vitalest interests in this world, and is well worth explaining at present.
With six months, instead of six days, we might have done better. I
promised to break-ground on it ; I know not whether I have even managed
to do that. I have had to tear it up in the rudest manner in order to get
into it at all. Often enough, with these abrupt utterances thrown-out
iso- lated, unexplained, has your tolerance been put to the trial.
Tolerance, patient candour, all-hoping favour and kindness, which I will
not speak of at present. The accomplished and distinguished, the beautiful,
the wise, something of what is best in England, have listened patiently
to my rude words. With many feelings, I heartily thank you all ; and say,
Good be with you all ! Domenico
Cardone. Domenico Antonio Cardone. Keywords: Clark Kent; ovvero, sul sovrumano,
“Ricerche filosofiche”; futilitarianism, inutilitarianism, Grice, “The
philosophy of life,” Grice, “Philosophy of life”, essere e divenire – il
sovraumano, Nietzsche, Bergson, D’Annunzio, sobra-uomo, super-uomo. Jesus as a
philosopher! Tommaso Carlyle, Il culto degl’eroi – culto, worth-ship, valore,
Napoleone, natura italiana -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardone” – The
Swimming-Pool Library. Cardone.
Luigi Speranza -- Grice e Carifi: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’ablativi relativi
– Roman implicata – scuola di Pistoia – filosofia toscana -- filosofia italiana
– Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library
(Pistoia).
Filosofo toscano. Filosofo italiano. Pistoia, Toscana.
Grice: “I would call Carifi a poet rather than a philosopher! He did indeed
philosophise ‘in difesa della filosofia,’ but that should read of ‘his’ ‘filosofia,’ which he
sees as an elaboration on death! My favourite are his ‘lezioni’ di
filosofia and his ‘ablativo assoluto,’ something English lacks, but ‘deo
volente’ doesn’t!” -- Studia sotto
Bigongiari, tra i maggiori esponenti dell'ermetismo fiorentino, profondamente influenzato dalle voci liriche
di Rilke e Trakl, su cui si è esercitato anche come traduttore, oltre a essere
poeta, svolge l'attività di critico letterario e filosofico. Autore de “Il
segreto”. Al fianco degli studi filosofici, vi sono quelli di psicoanalisi a
Milano. Mentre nelle liriche si risente la dizione rilkiana e emerge il debito
verso Heidegger, nei componimenti successivi questi motivi vengono amalgamati a
nuove istanze della sensibilità. In particolare dopo la dura prova della
malattia, l'incidente, come lui chiama l'ictus da cui è stato colpito, i suoi
versi abbracciano una nuova forma di rarefazione dissolvente in cui l'essere,
attraversato dal dolore, cerca una via estrema di comunicazione per
ricongiungersi al mondo. Luoghi e figure dell'anima. Due sono i temi che
incardinano la sua poetica: la madre e il legame con la città natale, Pistoia,
che di quel rapporto affettivo è l'emanazione, entrambi raccolti
filosoficamente nel rimando all'infanzia, epoca originaria dei sensi, periodo
d'elezione per l'anima ma anche ingrato, di cui si fatica a cogliere l'essenza
se non a patto di una discesa spossante. Ora è l'attimo che attende, è
l'istante che prepara i tempi a un altro istante dove si deve attendere
l'infanzia, quella bastarda che era là, tragico volto dei bambini. La madre,
dolorosa musa, abbandonata dal marito quando il bambino aveva appena tre anni,
ha lungamente accompagnato e sorretto la voce del figlio. La sua scomparsa è
una perdita incolmabile nella vita e nel suo immaginario. La città rappresenta
un caldo grembo, dove tutto rimanda a quel legame dissolto ma anche alle tante
amicizie e perfino a quegli spiriti gentili di artisti e letterati che
continuano ad aggirarsi, figure di sogno, nelle strette strade del centro. Bigongiari
era di Pistoia. Era figlio del capostazione e abitava in Via del Vento, accanto
a Manzini. Nei miei viaggi onirici li vedo tutti e due, Bigongiari e Manzini,
camminare tra Via del Vento e Via Verdi, in silenzio perché parlano una lingua
muta, una lingua del deserto che solo i poeti e i mistici capiscono. Nei suoi
versi rivive di continuo la devozione spirituale per il luogo, la cui essenza
poetica sta nell'intreccio di memorie che lo abitano, un passato con cui si
misura in uno stato di incerta beatitudine tra sogno e veglia. Nasco
filosofo con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si
è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia
arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia
parla del cielo, delle foreste degli uomini, fa un salto verso la verità.
Abbandona il linguaggio su cui, bene o male, la filosofia regge e sceglie
un linguaggio pre-sentativo'', il linguaggio della presenza. La sua
ricerca è la risposta alle varie vicende dell’uomo. L’uomo colma e coglie sé
stesso attraverso il percorso del lume, l’apertura alla conoscenza. L’uomo mite
che miete la luce, capace di cuore della verità, che non rinuncia al pensiero
della responsabilità e della parola, è l’uomo C.. Non bisogna accostarsi a lui
con il timore di leggere un incomprensibile tomo di filosofia analitica alla
teoria dell’implicatura di Grice, sia pur condividendo con lui che non esistono
concetti semplici, né concetti già pronti, perché la filosofia analitica di
Grice è, Grice morto, in divenire, è in movimento. Un sottile ma preciso filo
conduttore che caratterizza la raccolta delle sue lunghe e silenziose
riflessioni è la pratica dell’intensità, destini che si rivelano fino in fondo.
Esercita il bello della profondità portandola, a tutti, sul piano conoscitivo
della conversazione. Le sue opere sono cammini culturali e spirituali dove
l’uomo ed il valore sono all’unisono un giro concentrico di piaceri. La
conversazione è un abisso che, in un’intima solidarietà, unisce il moto
interiore all’estetica dell’espressione, e la conversazione diviene il veicolo
principale dove il silenzio meditativo e contemplativo si colora di una
dimensione inter-oggettiva. La conoscenza dell'altro.L'uomo del pensiero:
Roberto Edizione Polistampa, Firenze. Poesia e filosofia convivono e si
alternano nella sua vasta produzione, tra i maggiori autori contemporanei. E
conosciuto per i testi filosofici e per l’intensa attività poetica,
influenzata, a partire dagli anni Ottanta, dall’amicizia con Bigongiari; ma
anche per le traduzioni in italiano di Hesse, Rousseau, Racine, Bataille, Trakl
e Weil. La poesia è una stretta di mano su «Naturart», rivista di cultura, Giorgio
Tesi Editrice» Scopre il dolore con la perdita della madre che diventa la
sua ossessione poetica, descritta come un pozzo in cui scendere. Le sue due
antologie poetiche (Infanzia; Nel ferro dei balocchi), pur seguendo percorsi
diversi, si ergono entrambe su due abissi: l'infanzia personale, ma al contempo
quella di intere generazioni europee, segnate da un legame indissolubile.
Archivio Festival Letteratura, Palazzo Ducale, Mantova. È una poesia in cui la
forte componente autobiografica trasfigura il vissuto, in quanto ciò che si
racconta assume valore paradigmatico: situazioni ed episodi emblematici in cui
l’uomo incontra l’assoluto. Incontro su «VIinforma», rivista culturale della
Banca di credito coooperativo di S. Pietro in Vincio» «La raccolta Madre,
proprio perché torna su un tema già fortemente praticato, consente di guardare
al complessivo percorso poetico di Carifi potendo distinguere in esso un
momento di passaggio e di mutamento, determinato prima dall’avvicinamento al
buddismo, poi dalla malattia. Giuseppe Grattacaso, Supplica alla madre su
«Succedeoggi» Cultura nell’informazione quotidiana» Opere Raccolte
poetiche Simulacri (Forum/Quinta Generazione, Forlì); Infanzia (Società di
Poesia, Milano, rist. Raffaelli, Rimini ); L'obbedienza (Crocetti, Milano);
Occidente (Crocetti, Milano); Amore e destino (Crocetti, Milano); Poesie (I
Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); Casa nell'ombra (Almanacco
Mondadori, Milano); Il Figlio (Jaca Book, Milano); Amore d'autunno (Guanda,
Parma-Milano); Europa (Jaca Book, Milano); Il gelo e la luce (Le Lettere,
Firenze); La pietà e la memoria (Edizioni ETS, Pisa); D'improvviso e altre
poesie scelte (Via del Vento edizioni); Nel ferro dei balocchi (Crocetti,
Milano 2008); Tibet (Le Lettere, Firenze ); Madre (Le Lettere, Firenze); Il
Segreto (Le Lettere, Firenze ); Racconti Victor e la bestia (Via del Vento
edizioni, Pistoia); Lettera sugli angeli e altri racconti (Via del Vento
edizioni, Pistoia); Destini (Libreria dell'Orso editrice, Pistoia); Saggi Il
gesto di Callicle (Società di Poesia, Milano); Il segreto e il dono (EGEA,
Milano); Le parole del pensiero (Le Lettere, Firenze); Il male e la luce (I
Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); L'essere e l'abbandono (Il Ramo
d'Oro, Firenze); Nomi del Novecento (Le Lettere, Firenze); Nome di donna
(Raffaelli, Rimini ). Rilke, L'angelo e altre poesie, Via del Vento edizioni,
2008; Georg Trakl, La notte e altre poesie, traduzione di Massimo Baldi e
Roberto Carifi, Postfazione di Roberto Carifi, Via del Vento edizioni. Tiene la
rubrica mensile "Per competenza" sulla rivista «Poesia». Per
ulteriori notizie si veda la sezione dedicata ai cenni biografici del poeta nel
volume Roberto Carifi, D'improvviso e altre poesie scelte, Via del Vento
edizioni, Da Roberto Carifi, Tibet, Le Lettere,. Da Pistoia in parole. Passeggiate con gli
scrittori in città e dintorni, Alba Andreini, introduzione di Roberto Carifi,
Edizioni ETS,. M. Baudino, Nel mitico
mondo di Carifi, «Gazzetta del Popolo»; C. Viviani, Il mito e il nuovo inquilino,
«Il Giorno», F. Ermini, Il mito per relazionarsi al reale, «Il quotidiano dei
lavoratori», G. Giudici, Il gesto di Callicle, «L'Espresso»; A. Porta, Il gesto
di Callicle, «Alfabeta», M. Spinella, La microfisica del significante poetico,
«Rinascita», nQui sento odor di buoni versi, «Il Messaggero»; Infanzia, «Il
piccolo Hans», Al fuoco di un altro amore, Jaca Book, L'anima e la forma nel
verso. «Avvenire»; P.F.Iacuzzi, Il paradosso della poesia italiana. «Paradigma»;
Utopisti e menestrelli, «L'indice», R. Nostalgia del tragico, «Corriere del
Ticino»; I Quaderni del Battello Ebbro. Basso continuo del rumore bellico per
litanie epiche sull'occidente, «Il Manifesto». Il filo del tramonto e del
rimpianto, «Il Giornale», La poesia, il luogo del ritorno a casa, «La Nazione»,
La lingua continua a battere dove la carità duole, «Il Mattino», Il buio
mondo che ci avvolge, «Il Sole 24 ore», Il lato oscuro delle cose, «La
Repubblica»; Sul vuoto appesi alla
parola, «La Nazione», Amore senza tempo, «Il Sole 24 ore»,; E per musa
ispiratrice la nostalgia, «Avvenire», Classici pensosi versi, «Gazzetta di Parma», Amore
per una donna e per il nulla, «Il Giorno», Gli amori di Carifi, «La Nazione»;
B. Manetti, Carifi il poeta errante, «La Repubblica»; D. Attanasio, Amore e
morte trascendenti segreti, «Il Manifesto», R. Copioli, Carifi: il desiderio è
mitico, «Avvenire», 14 maggio 1994; E. Grasso, L'amore quando il lume si spegne,
«L'Unità»; A. Donati, Intervista a Roberto Carifi, «Il Giorno», Doni al confine
del tempo, «Il Sole 24 ore»; L'angelo poetico della solitudine, «Il Giorno», R.
Figli innamorati del proprio destino, «Avvenire»; Il male come provocazione
estetica – estetica del male -- Chiaroscuro con lampada e scialle, «Il Sole 24
ore»; Chi son? Sono un poeta, «Il Giornale»; Il dolore nelle sillabe, «La Gazzetta
di Parma»; Un angelo in esilio, «Avvenimenti»; U. Piersanti, Il figlio, «Tutto
Libri»; Bigongiari, Carifi: parole e voce di Figlio, «La Nazione»; Quel
contratto da verificare, «Il Sole 24 ore», Angeli sospesi tra essere e
abbandono, «Avvenire», Un neoromantico invoca il cuore, i sogni, l'addio, «Tutto
Libri», Amore d'autunno, «L'Espresso», Morte
di madre. Quando la poesia "riversa la vita", «Il Giornale», L’elegia
di uno stile semplice, «Avvenire»; Quei legami vitali tra figlio e madre, «La
Nazione»; Tra infelicità e silenzio, «Il Sole 24 ore»; Un dolcissimo amore d'autunno,
«Il Giornale», L'estetica dell'amore, «Il Tirreno», Dalla parte del cuore,
«Gazzetta di Parma»; E. Coco, Rivista de Literatura. Un dialogo a distanza
sull'alterità del figlio, introduzione a C. e U. Buscioni, Figure
dell'abbandono, maschiettoemusolino, Siena; Il pathos del sublime: la poesia di
Carifi, «Atelier», D. Fiesoli, Europa, «Il Tirreno», B. Garavelli, Addio alla
madre, «Avvenire», G. Colotti, Europa, «Il Manifesto»; La religiosa tragicità di Carifi, «Poesia»; F.
A. Scorrano, La conoscenza dell'altro. L'uomo del pensiero. Edizione
Polistampa, Firenze, S. Ramat, Roberto Carifi nel nome della madre, «Il
Giornale», Per la sezione bibliografica
questa voce trae informazioni dalla
inglese. Piero Bigongiari
Gianna Manzini Pistoia Via del Vento edizioni //poesia.blog.rainews//09/blog
Poesia Rai News L'UOMO DEL PENSIERO. Saggio sulla poesia di Carifi Tre poesie
su «Sagarana», su sagarana.net. Una recensione di Infanzia, su margininversi.blogspot.
Roberto Carifi. Il sisma silenzioso del cuore articolo di Andrea Galgano su
«Clandestino». Grice: “One impotant thing to consider is the passive
voice of the future perfect – TEMPVS PLVSQVAMPERFECTVS PRAETERITVM – there was
a specific form, ‘dedidi’ i. e. an inflected form, only in the passive voice.
However, no record was found of the passive voice, except by use of what I call
an ‘auxiliary’ verb – ‘have’ – cf. my notes on ‘do’ – ‘do’ and ‘have’ as
auxiliary. However, the Romans found a way: the ablativo assoluto – the house
given, she proceeded to furnish it. Money having been given to the merchant,
the buyer left – Admirably, as Aelfric noted, in Latin, the pluperfect,
strictly tempus praeterium plusquamperfectum, is formed without an auxiliary
verb . MODUS INDICATIVUS/SUBJUNCTIVUS. Pecuniam mercatori DEDERAT. Pecunimam
mercatori DEDISSET – Ha had given money to the merchart. He should have given
money to the merchant. The Roman even had a choice of the ablative absolute
hrase, consisting of the noun and the perfect participle in the ablative case.
Pecuniis mercatori datis cessit emptor, Money having been given to the
merchant, the buyer left. pecuniis mercatori non datis non cessit emptor. Money
not having been given to the merchant, the merchant killed one of the buyer’s
slaves. The difference is merely implicatural. In the verbal form (dederat,
dedisset) is is explicated that it was the buyer who paid. In the
absolute-ablative case, it is merely implicated. For all the utterer cares, it
could have been the buyer’s slave. Cicero refers to an use of the RELATIVE
ablative which is even ‘more slippery’ and thus optimal for cross examination.
Money Carifi. Keywords: ablativi
relative, filosofia e poesia – l’implicatura del poeta – l’implicatura di Blake
– l’implicatura di Guglielmo Blake – rhyme or reason – the invention of rhyme –
l’invenzione della rima – empedocle: ragione senza rima -- Heidegger,
conversation, language, silence, being, inter-subjectivity. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carifi” – The Swimming-Pool Library. Carifi.
Luigi Speranza -- Grice e Carle: la
ragione conversazionale e le radici del diritto romano – la legge romana – la
natura romana – scuola di Chiusa di Pesio – scuola di Cuneo – filosofia
piemonese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (Chiusa di Pesio). Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Chiusa di Pesio, Cuneo,
Piemonte. Grice: “I like Carle – he is like Hart, only better – his Latin tract
on ‘exceptio’ is eaxactly what Hart means by defeasibility, only that Carle can
found it on Roman law – Like me, he likes the use of ‘principio,’ as when he
speaks of a ‘principle of responsibility,’ and his essays on what he calls
‘social philosophy’ is pretty akin to my concerns on cooperation as the epitome
of joint behaviour.” Insegna a Torino. Linceo. Esponente del
positivismo. La dottrina giuridica del
fallimento nel diritto privato internazionale, Napoli, Stamperia della Regia
Università); Prospetto d'un insegnamento di filosofia del diritto. Parte generale,
Torino, F.lli Bocca); “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita
sociale. Studio comparativo di filosofia giuridica” (Torino, F.lli Bocca); “Le
origini del diritto romano: ricostruzione storica dei concetti che stanno a
base del diritto pubblico e privato di Roma” (Torino, F.lli Bocca); La
filosofia del diritto nello stato moderno, Torino, Unione Tipografico-Editrice);
Lezioni di filosofia del diritto” (Torino). Dizionario biografico degli
italiani. Positivismo: ius – fatto – non valore – l’implicatura di Romolo
e Remo. Naturalism – giusnaturalismo – forza – autorita – ius – “LE ORIGNI DEL
DIRITTO ROMANO” -- RICOSTRUZIONE STORICA DEI CONCETTI CHE STANNO A BASE DEL
DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO DI ROMA. Fuit haec sapientia quondam Publica
privatis secernere, sacra profanis. HOR., poet Ars. LABOR NOR TORINO FRATELLI
BOCCA EDITORI LIBRAI DI S. M. IL RE D'ITALIA SUOQURSALI ROMA FIRENZE Via del
Corso. Via Cerretapi. DEPOSITI PALERMO NAPOLI CATANIA Università, Piazza
Plebiscito, 2 S. Maria al Ros.°, 23 (Carosio ) Carosio )TORINO BONA. La nobile
Università di Bologna, commemorando in questi giorni l'ottavo centenario dalla
sua fondazione, ci rammenta anche l'epoca, in cui essa iniziando gli studi sul
diritto romano si rese benemerita di tutto il mondo civile. Agli omaggi, che in
questa occasione solenne convengono costi d'ogni paese, mi sia consentito di
aggiungere quello di un'opera ispirata al desiderio di mantenere viva nella
gioventù studiosa italiana la tradizione civile e politica di Roma. Di Lei
Rettore Magnifico bord Torino, Devot.mo ed obblimo. Ritornato di proposito allo
studio del diritto romano, in seguito all'incarico affidatomi di insegnarne la
storia nella R.Università di Torino, parvemi di rileggere uno di quei libri, la
cui meditazione può riempiere tutta una vita, perché ad ogni lettura e ad ogni
età offrono campo ad osservazioni, che prima sono sfuggite. Quegli studii di
giurisprudenza comparata, che in questi ultimi anni si vennero facendo sulle
istituzioni primitive di quel periodo gentilizio, nel quale debbono essere
cercate le fondamenta, sovra cui furono poscia edificate le città, mi parvero
irradiare di nuova luce l'antichissimo diritto di Roma, e aprire nuove vie per
spiegare il processo, con cui ebbe ad essere iniziata la formazione del
medesimo. È strano infatti che, mentre il diritto romano, fra le grandi
elaborazioni del genere umano, è certamente quella, che ebbe ad essere
maggiormente studiata nei frammenti che a noi ne pervennero e nei suoi ultimi
risultati, continui pur sempre ad essere un grande mistero il processo, con cui
i romani giunsero ad elevare un cosi grande edifizio, e il motivo per cui essi
e non altri riuscirono ad innalzarlo. La causa tuttavia di questa singolarità
deve essere riposta in ciò, che per risolvere il problema delle origini del
diritto romano non può bastare lo studio staccato dei frammenti, nė
l'esegesi applicata ai testi, ma conviene ricomporre le epoche, raccogliere i
rottami che ci pervennero di esse, colmarne le la cune, riportarsi col pensiero
alle condizioni economiche e sociali del primitivo popolo romano, sforzarsi di
rivivere in quel tempo e di pensare in certo modo alla romana, tener conto
delle particolari attitudini dell'ingegno romano, far procedere di pari passo
la formazione della città e lo svolgimento delle sue istituzioni pubbliche e
private. Conviene insomma ricostruire la vita del diritto nei suoi rapporti
colla vita sociale di Roma, e cercare cosi di decifrare la pagina più splendida
della vita del diritto nella storia dell'umanità. Certo era naturale cosa, che
uno studioso della vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale mal
sapesse resistere alle attrattive di un simile argomento, credendo con ciò, non
di venir meno,madi perseverare in quel l'ordine di studii, a cui si è dedicato
con tutte le forze. Miproposi pertanto di ricostruire il processo logico e
storico, che governa la formazione deldiritto romano, sopratutto nei suoi
esordii, non coll'intento di sostituirmi ai dottissimi nella materia, ma con
quello più modesto di valermi dei materiali che furono raccolti con tanta
diligenza, sopratutto in Germania. Mi accinsi poi all'arduo compito con un
entusiasmo, che forse più non conviene alla mia età, ma che ebbe il vantaggio
di rendermi aggradevole la lunga fatica, e che vorrei trasfondere nella
gioventù studiosa, unitamente alla convinzione profonda, che le grandi elaborazioni
dell'ingegno umano, mentre cambiarono in maestri dell'umanità coloro, che
giunsero a crearle, hanno anche il pregio di confortare ed elevare il pensiero
di coloro, che si travagliano per comprendere il processo natu rale, che ne
governd la formazione. Debbo tuttavia una confessione al lettore benevolo: ed è
che il presente saggio, cominciato forse coll’idea, non preconcetta, ma
latente, che il diritto pubblico e privato di Roma fosse il frutto di una
evoluzione determinata dalle condizioni esteriori, in cui si trova il popolo
romano, riusci invece a conclusioni alquanto diverse. I romani, cosi nel
formare la propria città, come nell’elaborare le proprie istituzioni pubbliche
e private, seguirono un processo, che chiamo di selezione. Anziché essere
dominati dai fatti esteriori, cercarono invece di dominarli, e di sottometterli
alla logica inesorabile del proprio diritto. Come le mura della loro città sono
costruite coi massi più solidi delle costruzioni gentilizie, cosi i concetti,
che stanno a base del loro diritto pubblico e privato, sono trascelti nel seno
stesso della organizzazione gentilizia. Ma trapiantati nella città ed isolati
cosi dall'ambiente, in cui si erano formati, si cambiarono in altrettante
concezioni logiche, che si vennero poi svolgendo ed accomodando alle esigenze della
vita civile e politica. Anche questo e un processo naturale. Ma non è più il
processo, che governa la formazione degli strati geologici, che si sovrappongono
gli uni agli altri e serbano l'impronta dei bassi fondi sovra cui si vengono
precipitando, bensi il processo, che governa la formazione dei cristalli, per
cui gli elementi affini, depurati da ogni scoria, si vengono, per dir cosi,
ricercando ed attraendo e si dispongono costantemente secondo quelle forme
tipiche, che ne governano la formazione. Di quiconseguita, che il diritto
romano non èu na produzione determinata esclusivamente dall'ambiente e dalle
condizioni esteriori. Ma è già l'opera in parte consapevole dello spirito vivo
ed operoso di un popolo, il quale, valendosi di attitudini naturali, che in
questa parte si possono chiamare veramente meravigliose, riusci a secernere e
ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, a modellarla in
concetti tipici, a svolgere i medesimi in tutte le conseguenze, di cui po
tevano essere capaci, e a trasmettere cosi alle nazioni moderne un
capolavoro di arte giuridica. Questo è il risultato ultimo, a cui sono
pervenuto. Per la prova del medesimo invito gli imparziali amici del vero
a leggere il saggio, nel quale, malgrado la varietà immensa dei particolari,
cerca di riprodurre quella coerenza organica, che è la caratteristica dello
svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. Le
tradizioni e le leggende da cui appare circondata la fondazione di Roma presentano
a primo aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte, Roma ha
infanzia. E fondata di pianta da un avventuriero di origine latina e di stirpe
regia, condottiero di una banda armata, il quale, dopo aver circondata la città
di mura, avrebbe aperto un asilo agl’esuli e ai rifugiati dalle dalle comunanze
vicine. E il fondatore stesso che da a Roma le sue istituzioni pubbliche e
private. Il suo successore le da l'organizzazione del culto, finchè da ultimo
Roma già ingrandita, mediante l'incorporazione di popoli e di genti diverse,
avrebbe ricevuto una nuova organizzazione civile, politica e militare per opera
di Servio Tullio, che si sarebbe così meritato il nome di secondo fondatore
della città. Per tal modo, la forza dapprima, poi la religione -- e da
ultimo la sapienza civile hanno posto, le fondamenta della città, e le sue
istituzioni civili e politiche appariscono come una creazione personale dei re,
fra i quali la tradizione avrebbe perfino distribuito il compito. Il suo
fondatore è latino, mentre invece è sabino l'organizzatore del culto, e da
ultimo è probabilmente di origine etrusca quegli, che ne ha riformato
compiutamente l'organizzazione civile e politica e ha stabilito quelle
istituzioni, che riceveranno poi il proprio svolgimento durante l'epoca
repubblicana. Da un altro lato, invece, la stessa tradizione circonda la
fondazione di Roma di cerimonie religiose, di carattere tradizionale, che supponneno
una religione già compiutamente formata, e fa apparire Roma nella storia con un
nucleo di istituzioni pubbliche e private, che dove poi svolgersi con un rigore
pressochè geometrico, ma che intanto suppongono una lunga elaborazione
anteriore. Di fronte a questa apparente contraddizione, il maggior problema,
che si presenta al filosofo e quello di sostituire alla storia leggendaria
delle origini di Roma una storia viva ed organica di essa, ricercando le
origini delle istituzioni primitive con cui essa appare nella storia. In questa
ricostruzione, la filosofia dapprima si scosto per modo dalle tradizioni a noi
pervenute da scorgere in queste poco più di una serie di leggende. Ma dovette
poi riaccostarsi alle medesime, e finisce per giungere a questo risultato, che
le istituzioni con cui Roma compare nella storia non possono esser ritenute
come l'opera esclusivamente personale dei re. Debbono essere riguardate come il
frutto di una lunga e lenta elaborazione già compiutasi in un periodo anteriore
di organizzazione sociale, che sarebbe il periodo dell'organizzazione
gentilizia o patriarcale. Roma secondo i risultati della filosofia, avvalorati
anche dagli studii comparativi fatti sui popoli primitivi sopratutto di origine
ariana, continua quell'opera di formazione della convivenza civile e politica,
iniziata gia dalle altre popolazioni italiche, le cui memorie risalgono ad
epoca anteriore a quella che è fissata per la fondazione di Roma. Quindi è
presso le genti latine ed italiche, che debbono essere cercate le origini delle
primitive istituzioni di Roma. Secondo il computo più universalmente adottato,
Roma è stata fondata nell'anno – ANNO I – ed e comparsa fra popolazioni
diverse, delle quali alcune in parte già erano uscite dall'organizzazione
gentilizia, e stano avviandosi ad una vera e propria organizzazione civile e
politica. Senza entrare nella questione dei rapporti, che possono correre fra [Per
un riassunto esatto delle tradizioni intorno alla storia primitiva di Roma
accompagnato da una critica finissima per separare il nucleo primitivo della
tradizione dalle aggiunte che si fecero più tardi, è da vedersi BONGHI, Storia
di Roma. Per lo studio delle istituzioni poli tiche importa sopratutto la parte
che si occupa appunto della costituzione politica di Roma, secondo CICERONE,
Livio, Dionisio] le stirpi italiche e le stirpi elleniche e in quella della
loro provenienza dall'Oriente, questo è certo che fra le stirpi italiche già
erano pervenute ad un certo svolgimento di civiltà e di potenza le stirpi umbro-sabellica,
latina ed etrusca. Scavi dimostrano che il sito occupato da Roma dove già
essere popolato da un'epoca assai remota e del tutto pre-istorica. E scoperta
sull'Esquilino una vasta necropoli, la cui esistenza dimostra che una città
etrusca di grande estensione ed importanza (Rasena) esiste anche prima del
periodo reale leggendario, e costituisce una prova molto importante contro
quella teoria che, attribuendo a Roma un'origine esclusivamente latina e
sabina, tende ad escludere o quanto meno ad attenuare l'influenza dell'elemento
etrusco. Tale provenienza delle stirpi italiche dalle razze ariane e la
conseguente loro, parentela colle elleniche, colle germaniche, celtiche e slave,
è oggidì universalmente ammessa, salvo che si mantiene ancora sempre una grande
oscurità circa l'origine della razza etrusca. Tra gli autori recenti ha recato
un contributo alla dimostrazione di tale provenienza Leist, Graeco-italische
Rechtsgeschichte (Jena), sopratutto nella parte in cui dimostra l'identità di
certi concetti primitivi comuni agl’arii dell'India e alle genti italiche ed elleniche.
È da vedersi la parte, che si riferisce alle instituzioni sacrali, in cui
discorre dei concetti di rita, themis e ratio. Quest'origine comune è pure
ammessa dal BERNHÖFT, Staat und Recht der Römischen Königszeit (Stuttgart). Per
quello poi che riguarda il vario svolgimento, che le istituzioni elaboratesi
nell'oriente dagl’arii primitivi ebbero a ricevere presso gli’arii dell'India,
della Persia, e poscia nell'occidente presso i greci, gli’italici ed i germani,
mi rimetto a quanto ho scritto in La vita del diritto nei suoi rapporti colla
vita sociale (Torino), i cui primi due libri sono appunto dedicati a tale
svolgimento. Sono a vedersi in proposito le notizie sugli scavi, che si
pubblicano dall'Accademia dei Lincei. Come riassunto degli studii topografici
fatti intorno a Roma fino a questi ultimi tempi mi sono valso dell'opera di
MIDDLETON, Ancient Rome (Edinburgh). Middleton parla di questi scavi e dei
resti dell'antichissima Rom. Fra gli autori che tendono a scemare l'influenza
del l'elemento etrusco sopra Roma primitiva, abbiamo il MOMMSEN, il LANGE, e il
Pelham nella sua storia di Roma antica pubblicata nell’Encyclopedia Britannica,
ninth edition, Edinburgh, -- voce: Rome. Combatte questa opinione il Taddei nel
suo lRoma e i suoi Municipii (Firenze). Senza pretendere di risolvere la
questione, è lecito osservare che mal si può sostenere la niuna influenza su
Roma primitiva di un popolo come l'etrusco che ha già delle città in siti
vicini, che conosceva quei riti con cui Roma fu fondata, e che diede a Roma i
tre ultimi re, quelli cioè, che rinnovarono più profondamente non solo
l'aspetto esteriore della città, ma anche la costituzione politica della
medesima. 4 Queste varie stirpi, che abitavano il suolo italico, per quanto ora
si ritengano tutte uscite dalla stirpe aria, hanno però dimenticata la
provenienza comune ed apparivano distinte fra di loro di origine, di costumi e
non hanno fra di loro comunanza di matrimonii. Solo sono ravvicinate da feste
religiose e da certi luoghi di mercato, ove taceno i conflitti e si praticao
gli scambi ed i commerci. Quanto alla loro organizzazione sociale, esse,
secondo l'opinione di Mommsen, del Leist, del Lange, si trovano nel periodo di
transizione dall'organizzazione gentilizia di carattere patriarcale
all'organizzazione politica della città e del municipio. Però anche a questo
riguardo si presentano in stadii e gradazioni diverse. La stirpi umbro-sabellica
apparisce con un carattere pro fondamente religioso. Sono dedite ancora più
alla pastorizia che al l'agricoltura. Preferiscono per formarvi le proprie sedi
i luoghi montani e conservano ancora quel carattere di fiera indipendenza, che
è proprio degli abitanti della montagna. Esse non abitano ancora in vere e
proprie città, ma in villaggi aperti, che costituiscono al trettante comunanze
rurali, e serbano le traccie di una potente organizzazione gentilizia, di cui
puo trovarsi un notevole esempio nella gens Claudia. Queste stirpi anche più
tardi dimostrarono poca attitudine alla formazione di un vero e proprio stato,
come lo provano le sorti dei bellicosi sanniti, che sono appunto derivati dal
ceppo umbro-sabellico. Trovansi invece già in condizione più progredita, per
quel che riguarda l'organizzazione sociale, la stirpe latina. Il Lazio infatti
appare diviso in altrettante comunanze di villaggio aperte, che sono costituite
da una aggregazione di famiglie e di genti, le quali discendono da un antenato
comune, di cui portano il nome e professano il culto gentilizio. Tali
aggregazioni di genti, che chiamansi tribù, abitano nei vici e nei pagi. Ma,
riconoscendo la loro origine comune, anzichè avere una esistenza del tutto
separata ed indipendente, sono già a far parte di un'aggregazione più vasta,
che costi [In ciò sono d'accordo Mommsen, Histoire Romaine. Trad. De Guerle. Paris, ed anche il Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad.
Berthelot et Didier. Paris. Lange attribuisce alle genti sabine un carattere
più conservatore che non alle Latine [-tuisce poi il populus e la civitas.
Questa aggregazione più vasta non solo ha comune la lingua, il costume e la
religione, ma eziandio la legge, l'amministrazione della giustizia e la difesa
contro gl’attacchi e l’aggressioni esterne. Essa quindi abbisognava di un
centro comune, a cui potessero metter capo le diverse comunanze di villaggio,
il quale centro comune era l'urbs, così chiamata dall'*orbita* sacra che la
circonda, nel cui recinto trovavasi l'arx o fortezza, a cui riparare nei
momenti di pericolo, il tempio del divino patrono – dius, dius-piter --
dell'intiera comunanza, il luogo ove si amministra giustizia, il sito per il
mercato e per le pubbliche riunioni. Questi stabilimenti pertanto, più che vere
e proprie città quali noile intendiamo, sono piuttosto inizii di città future,
in quanto che esse contenevano sopratutto quegl’edifizii, che hanno pubblica
destinazione. L'urbs era in certo modo il centro della vita pubblica per le
diverse comunanze di villaggio, come lo dimostrano anche le varie porte
esistenti nel muro di cinta, le quali porgevano modo di accedervi agl’abitanti
dei diversi villaggi. Si aggiunge che le varie città latine, le quali, secondo
la tradizione, sarebbero state in numero di XXX, erano anche confederate fra di
loro e mettevano capo ad una capitale: Alba Longa. Cid dimostra come le
popolazioni latine già fossero abbastanza progredite nella loro organizzazione
sociale, poichè, pur continuando ancora a vivere nelle comunanze di villaggio, sono
pero già pervenute a concepire e in parte ad attuare quella vita pubblica
comune, che dove poi svolgersi nella città e nel municipio. Vengono infine la stirpe
etrusca, la cui civiltà è ancora oggidi celata nel mistero, perchè le traccie
di essa furono in certo modo cancellate ed assorbite da Roma. Non può tuttavia
esser dubbio, che esse già erano in condizione di maggior progresso eco nomico
e civile delle altre popolazioni italiche, in quanto che posse devano vere e popolose
città, conoscevano le arti e la moneta, e per essere dedite al commercio si
trovano in comunicazione maggiore cogli altri popoli e sopratutto coi Greci.
Anche presso di queste era largamente svolto l'elemento religioso, come lo
dimostra la sapienza loro attribuita nell'arte augurale e nella consultazione
degli auspizii, come pure la tradizione, che presso di essi esistessero libri,
MOMMSEN, FUSTEL DE COULANGES, La cité antique (Paris) - che determinano i riti
con cui le città dovevano essere fondate, e davano le regole secondo cui la
loro popolazione dove essere ripartita in tribù ed in curie. Del resto anche
l'antica costituzione della città etrusca, secondo Mommsen, si accosta nei suoi
tratti generali a quella della città latina, salvo che in essa il passaggio
dall’organizzazione patriarcale all'organizzazione muicipale già erasi spinto
più oltre, in quanto che la stirpe etrusca, per essere sopratutto dedite alla
navigazione ed al commercio, erano state naturalmente condotte a svolgere di
preferenza le comunanze urbane, che non le comunanze di carattere esclusivamente
rurale. I capi etruschi avevano il nome di Lucumoni. La popolazione delle
loro citt dividevasi in nobili ed in plebei, come pure in tribù ed in curie, e
se al disopra delle singole città apparivano eziandio delle confederazioni, i
vincoli pero che stringevano insieme le varie città, che entravano a
costituirle, non sono cosi intimi e stretti come quelli che esisteno fra le
città della confederazione latina. Esse infine pure presentano le traccie
dell'organizzazione gentilizia, ma queste sono già alquanto più alterate per il
maggior svolgimento a cui è pervenuta la comunanza civile e politica. È a
questo punto dello svolgimento dell'organizzazione sociale e della convivenza
civile, che Roma compare nella storia. Per quanto possano esservi dei dubbi
sull'influenza, che su di essa abbiano esercitato più tardi l'elemento latino e
l'elemento etrusco, questo è certo che il primo nucleo di essa ebbe ad essere
costituito da un gruppo di uomini armati di origine latina. Sono i Ramnenses --
guidati da Romolo -- e usciti come colonia o per secessio da Alba Longa, che
hanno fondato quella Roma palatina, che, per la forma quadrangolare delle sue
mura, di cui sussistono ancora gli avanzi, suole essere indicata col nome di
Roma quadrata. Festo, v° Rituales: Rituales nominantur etruscorum libri, in
quibus prae scriptum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur; qua
sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae, centuriae
distribuantur, exercitus consti. tuentur, ordinentur, caeteraque eius modi ad
bellum ac pacem pertinentia . MOMMSEN. LANGE cerca di distinguere il popolo dei
Rasennae, che sarebbero secondo lui i veri Etruschi, che egli ritiene di
origine aria ma di provenienza settentrionale, dagli abitanti del vicus tuscus,
che apparterrebbero invece ai Tursci, da lui ritenuti di origine umbra. È
questa la Roma, il cui pomoerium è stato descritto da TACITO. Nulla vi ha di
ripugnante nella tradizione, che questa mano di guerrieri, stabilitasi colla
forza in un sito chiuso e fortificato, siasi dapprima trovata in lotta aperta
colle altre comunanze, che erano stabilite in prossimità del Palatino. Essa
però ben presto esercita una attrazione potente sulle popolazioni vicine, e si
trasforma in un centro per la vita pubblica di una confederazione di varie
comunanze di villaggio, che sono disperse in quell'antico septimontium, che ci
è descritto dal giureconsulto M. Antistio Labeone, il quale avrebbe compreso il
Palatino, il Fagutale, la Subura, il Cermalo, l'Oppio, il Celio e il Cespio.
Cosi pure dovette presto entrare nella federazione anche una comunanza di
origine sabina, che era stabilita sul Quirinale. Di qui la conseguenza, che le
tradizioni antiche ed anche gli studi recenti, fatti sulla topografia di Roma,
condurrebbero a conchiudere che Roma primitiva avrebbe attraversato nel
periodo, che suole essere assegnato al regno del suo fondatore, due stadii ben
distinti nella propria formazione. Nel suo primo comparire infatti Roma non è
ancora che lo stabilimento romuleo, il quale, malgrado la denominazione che già
assume di vera e propria città, consiste nella sede fortificata di una tribù di
origine latina, che è quella dei Ramnenses, ancorchè intorno ad essa già si
trovi in via di formazione una plebe, il cui numero sarebbesi accresciuto,
secondo la tradizione, mediante l'asilo aperto ai rifugiati ed agli esuli delle
comunanze vicine. Più tardi invece questo nucleo agreste di guerrieri di
origine latina entra dapprima in ostilità e poscia viene in alleanza con
comunanze già prima stabilite sui colli vicini. Allora Roma diviene centro e
capo di tale federazione, e mutasi in una vera urbs, secondo il con È pur nota
la questione relativa al pomoerium, che alcuni vorrebbero collocare entro le
mura fondandosi su Livio, I, 44, mentre altri sostengono che fosse al di là
delle mura, come lo indicherebbe la stessa parola post-moerium. La questione fu
di recente trattata con grande corredo di erudizione da CARLOWA (Romische
Rechtsgeschichte Leipzig). Carlowa sembra propendere per l'opinione, che il
pomoerium serve di confine fra il territorio dell' urbs e l' ager circostante.
Cf. MIDDLETON Il testo di LABEONE è riportato da HUSCHKE, Iurisprudentiae
anti-Iustinianeae quae supersunt, Lipsiae. Un accenno a questo concetto trovasi
in Lange, Histoire intérieure de Rome. Tuttavia non pare che il medesimo
consideri lo stabilimento romuleo come una semplice tribù.] cetto latino, ossia
nella sede della vita pubblica di queste varie comunanze. Questi due stadii
nella formazione di Roma primitiva, di cui non si tiene sempre sufficiente
conto, sono accennati da diversi autori e fra gli altri anche dal giureconsulto
Pomponio, secondo il quale Romolo non procede alla divisione della città in
curie subito dopo la fondazione di essa. Ma vi sarebbe invece addivenuto
soltanto aucta ad aliquem modum civitate -- cioè quando altre comunanze già
eransi incorporate o meglio federate con essa nel l'intento di partecipare ad
una vita pubblica comune. Gli elementi primitivi, che secondo la tradizione
sonno entrati a far parte della comunanza romana in questo suo primo periodo di
ingrandimento, sono dalla stessa tradizione ridotti a TRE tribù, cioè alla
tribù dei TRIBU I -- Ramnenses, che era quella dei fondatori, a quella TRIBU II
-- dei Titienses, di origine Sabina, stabiliti sul Quirinale, i quali sarebbero
entrati nella comunanza mediante un foedus aequum, come lo dimostra il fatto
che i capi delle due tribù avrebbero regnato insieme e poscia i loro successori
si sarebbero alternati nel comando, e a quella infine TRIBU III -- dei Luceres,
coi quali sembra in vece sia seguito un foedus non aequum. L'origine di questo
ultimo elemento è incerta, ma dovette probabilmente essere etrusca, quando si
consideri, unitamente alla loro denominazione, l'esistenza di un antichissimo
Vicus Tuscus, la serie degli ultimi re che furono di origine etrusca, e si
tenga conto del fatto che le recenti scoperte dimostrano come le genti etrusche
già avessero da epoca ante riore fondato delle vere e proprie città in
prossimità del sito, ove Roma e edificata, Cosi intesa la formazione di Roma
primitiva, si dovrebbe venire alla conclusione, che la incorporazione delle tre
tribù nella comunanza romana avrebbe dovuto operarsi fin dal periodo assegnato
dalla tradizione al regno di Romolo -- il che però non toglie, ed [POMPONIUS,
L. 2 Dig. Credo doversi accogliere questa opinione nell' intricatissima
questione, perchè non si comprenderebbe la divisione tripartita della città,
che viene attribuita a Romolo, quando il concorso delle tre tribù non si fosse
effettuato durante il suo regno. Vero è, che nella storia primitiva di Roma
havvi un momento storico, in cui per l'aggiunzione di nuovi elementi si
raddoppia il numero dei membri dei collegi sacerdotali e quello delle centurie
dei cavalieri, ma il raddoppiamento si fa sempre sulla [ 9 anzi spiega anche
meglio come Roma, risultando di elementi diversi fin dalla propria origine, ha
poi accolte nella comunanza nuove genti di origine latina, come di origine
sabina e di origine etrusca, ed abbia in certo modo esercitata una specie di
attrazione sopra queste varie stirpi italiche, come lo dimostrano le tradizioni
relative alla cooptazione delle genti albane, quelle relative a Celes Vi benna
e alla venuta di Tarquinio a Roma colla sua gente, ed all'in corporazione,
avvenuta negli inizii del periodo repubblicano, della gente Claudia di origine
sabina. Intanto però il fatto, che Roma avrebbe preso le mosse da uno
stabilimento romuleo di origine latina, fondato in guisa analoga a quella con
cui si fondavano anche più tardi le colonie e con una analoga ripartizione dal
territorio occupato, spiega il carattere che Roma ha poi sempre a ritenere di
città eminentemente latina, in quanto che gli elementi, che si vennero
aggiungendo al nucleo primitivo, dovettero entrare nei quadri propri dello
stabilimento latino. Ciò accadde per mezzo di successive federazioni, una delle
quali, quella coi Luceres, sarebbe stata un foedus non aequum, in quanto che il
nuovo elemento sarebbe entrato nella comunanza in una condizione inferiore .
Conviene quindi conchiudere, che Roma primitiva, oltre all'essere di origine
latina, fu anche foggiata sul modello delle città latine, e che quindi, al pari
dell'urbs delle popolazioni del Lazio, diventa fin dapprincipio una città
federale, che può essere considerata come il centro della vita pubblica di
varie comunanze di villaggio. È però naturale, che questa trasformazione, per
cui Roma cessa di essere esclusivamente la sede fortificata di una tribù per
diventare centro e capo di una confederazione, abbia fatto sentire la necessità
di fortificare anche il Capitolino, e di munire di un vallum od agger
l'Aventino, costruzioni queste, che, secondo Dionisio, si sarebbero compiute
dallo stesso Romolo, ma di cui non rimasero più gli avanzi, che sono base di
tre, il che indica che già anteriormente dovevano esservi tre tribù, che con
correvano alla formazione di Roma. Cfr. Bloch, Les
origines du Sénat Romain (Paris) e per l'opinione contraria Bouché-LECLERCQ,
Manuel des institutions romaines (Paris). Il principio prior
in tempore, potior in iure è dai Romani applicato non solo in tema di diritto
privato, ma anche in tema di diritto pubblico. Questo concetto è ancora
espressansente enunciato nella legge 74,
1, Cod. Theod. 12, 1. Anteriore tempore adscitos ipsa aequum est
antiquitate defendi [- invece notevoli quanto alla primitiva Roma quadrata.
Vero è che questa narrazione di Dionisio e posta in dubbio dalla critica
contemporanea. Ma Dionisio è certo che in se stessa non ha nulla di
improbabile, in quanto che era ben naturale, essendosi estesa la comunanza
colla federazione di altre popolazioni vicine, che anche il caput ed il centro
di Roma fosse trasportato in un sito, a cui fosse più facile l'accesso dalle
varie comunanze, e che non fosse la dimora pressochè esclusiva di una delle
tribù confederate, come era della città palatina. Si comprende pertanto come,
sotto lo stesso Romolo o sotto i sei re che lo seguirono, la fortezza della
città e il tempio del divino patrone comune – dius, dius-piter -- siansi
fondati sul Capitolino e come a poco a poco gl’edifizii pubblici di Roma antica
siansi venuti concentrando fra il Palatino ed il Capitolino, in quel sito
appunto in cui ancora oggidi si ammirano le grandi reliquie degli edifizii
pubblici di Roma antica -- edifizii che al tempo d’Ottaviano già sono
considerati come una specie di museo, e come tali erano divenuti oggetto di
venerazione e di culto, ed erano custoditi qual memoria di una vita politica,
che ormai ha cessato di esistere. A questo periodo però, che può dirsi di
semplice confederazione, ne succedette un altro, in cui comincia ad effettuarsi
una vera e propria incorporazione delle varie comunanze di villaggio in una
città, la quale, fortificata e chiusa in se stessa, apparisse paurosa e potente
alle popolazioni vicine. Due cose si richiedevano per una simile
trasformazione. Convenne anzitutto che alla distinzione delle tre tribù
primitive, che ricorda ancor sempre la loro origine diversa, si facessero
sottentrare altre distinzioni, le quali sostituissero al vincolo genealogico il
vincolo territoriale, e che gl’elementi diversi, che sono entrati a far parte
della stessa comunanza politica e militare, fossero anche stretti insieme,
mediante la coabitazione entro le medesime mura. Fu allora, che, secondo la
vigorosa espressione di Floro, comincia a mescolarsi insieme il sangue di
elementi originariamente diversi, i quali finirono col tempo per costituire un
unico corpo ed un organismo coerente in tutte le sue parti. Dion. Cfr. MIDDLETON, Ancient Rome. FLORUS, III, 18. Quippe cum populus romanus
etruscos, latinos, sabinosque miscuerit et unum ex omnibus sanguinem ducat,
corpus fecit ex membris et ex omnibus unus est. Questi sono i
divisamenti, che, incominciando da Tarquinio Prisco, già cominciano a
delinearsi nella mente dei re. È noto infatti che Tarquinio Prisco già avrebbe
tentato, secondo la tradizione, di aggiungere nuove tribù alle tre primitive e
di rompere così il modello primitivo, sovra cui Roma erasi venuta formando. Il
suo tentativo però trova opposizione nell'augure sabino Atto Navio, che qui
evidentemente si fa interprete dello spirito conservatore del patriziato
romano, e quindi l'opera di Tarquinio Prisco dovette limitarsi a fare entrare
gl’elementi sopraggiunti nei quadri delle tribù primitive. Gli è perciò, che
gli viene attribuito di aver raddoppiato il numero delle vestali, di aver
duplicato il numero delle centurie degl’equites, aggiungendo alle tre centurie
dei Ramnenses, Titienses, Luceres primi le tre dei Ramnenses SECUNDI, Titienses
SECUNDI, Luceres SECUNDI, e di avere infine anche raddoppiato o quanto meno
portato a CCC il numero dei senatori con aggiungere ai patres MAIORUM gentium
quelli patres MINORUM gentium Così pure è ormai dimostrato che i re anteriori a
Servio Tullio già iniziano dei lavori di cinta e di fortificazione, che poi
furono com presi nella cinta Serviana, e che la grande opera di questa nuova
cerchia di Roma già e incominciata sotto Tarquinio Prisco. L'una e l'altra
opera fu poi continuata da Servio Tullio, che forte dell'appoggio della plebe e
di parte anche del popolo, sembra aver fatto a meno anche dell'approvazione dei
padri. Egli infatti, senza distruggere la primitiva organizzazione di Roma,
fondata ancora sulla discendenza, riusci a creare, accanto alla medesima, una
nuova organizzazione militare, politica e tributaria, per cui la popolazione
romana ricevette una nuova ripartizione in V CLASSI ed in centurie, e il suo
territorio venne ad essere diviso in tribù locali. Così pure riusci a compiere
quell'opera gigantesca della cinta, che fu dal nome di lui chiamata Serviana, i
cui avanzi formano ancora oggi la meraviglia degli investigatori dell'antichità
e dimostrano da soli la grandiosità e l'unità del concepimento, malgrado che
parecchi re avessero partecipato alla costruzione di quelle mura e di
quell'agger, che poi furono chiamati Serviani; costruzione, che sarebbe
pressochè incomprensibile se non fosse stata compiuta col concorso di quelle
plebs, ormai già fatta numerosa, che con Servio [Cic. de Rep., LANGE -- Tullio
sarebbe entrata a far parte del Populus Romanus Quiritium. È da questo momento
che Roma appare chiusa e fortificata nelle proprie mura, già splendida di
edifizii, ricca eziandio di una popolazione urbana, che può ancora essere
accresciuta senza che occorra di estenderne il pomoerium. È da quest'epoca
parimenti, che Roma, forte del rigore del proprio diritto e della propria
disciplina domestica e militare, si mette in lotta aperta con tutte le tribù o
genti, che non siano disposte ad accettarne la superiorità o l'alleanza. Noi ci
troviamo così di fronte alla Roma storica, conquistatrice e legislatrice prima
dell'Italia e poscia dell'universo, degna di essere studiata nelle sue lotte
intestine e nella sua unità compatta di fronte alle altre genti.Tuttavia, anche
dopo Servio Tullio, Roma non giunge mai a chiudere nelle proprie mura tutta la
sua popolazione, ma soltanto le quattro tribù urbane, mentre è ben maggiore il
numero delle tribù rustiche. e lo spazio dalle medesime occupato. Per tal modo
essa continua ancor sempre ad essere il centro della vita pubblica, a cui
mettono capo le popolazioni sparse nelle comunanze di villaggio o pagi, che la
circondano, ed è la sua persistenza in questo processo già seguito in Roma
primitiva e non mai abbandonato anche più tardi, che spiega come Roma abbia
potuto cambiarsi in una città, i cui cittadini erano sparsi dapprima in tutto
il Lazio, poi per tutta l'Italia, e da ultimo per tutto il territorio
dell'impero. Se insisto alquanto lungamente sopra questo concetto, gli è per
dimostrare come non possa accettarsi l'opinione che sull'autorità di Mommsen e
di altri fu pressochè universalmente accolta e che a mio avviso rende del tutto
incomprensibile la storia primitiva di Roma, secondo cui questa sarebbe stata
fin da principio l'unione, la fusione, l'incorporazione di varie tribù e genti
e dei territorii dalle medesime occupati. Ciò è smentito dal processo seguito
nella formazione delle città latine, quale è descritto dallo stesso Mommsen, ed
è in contraddizione con tutta la storia primitiva di Roma. Roma nei proprii
inizii e modellata sull'urbs dei popoli latini, e come tale non e che la
capitale di una federazione e il centro della sua vita pubblica, mentre lascia
che le genti e le famiglie con [V. in proposito BARATTIERI, Sulle
fortificazioni di Roma all'epoca dei re, Nuova Antologia] -- tinuassero la
propria vita domestica e patriarcale nelle comunanze di villaggio, alle quali
continud a lasciare i proprii territorii gentilizii. La sua formazione pertanto
non è dovuta ad un processo di aggregazione, ma ad un processo di *selezione*,
cosa che sarà più largamente dimostrata a suo tempo. Qui basta il notare che
questo modo di spiegare la formazione di Roma primitiva conduce a conseguenze
molto diverse da quelle, ch e furono pressochè universalmente adottate.
Partendo infatti dall'idea di una semplice aggregazione si giunge a trasportare
le gentes fra le ripartizioni delle città, come ha fatto Niebhur; a sostenere
con Mommsen che la primitiva proprietà di Roma e una proprietà collettiva come
quella delle gentes, ciò che è smentito assolutamente dal diritto primitivo di
Roma, a dare collo stesso autore un carattere assolutamente patriarcale alla
primitiva costituzione di Roma, e ad una quantità di altre illazioni, che
rendono del tutto inesplicabile e contradditoria la storia primitiva di quel
popolo, che ha usato una maggior logica nello svolgimento delle proprie
istituzioni. Con questo sistema si dove necessariamente giungere a considerare
la storia primitiva di Roma come una serie di leggende, che sarebbero state
inventate da un popolo, che in tutto il resto si è dimostrato invece ben poco
fantastico, nell'intento di combinare l'umiltà delle proprie origini colla
grandiosità dello svolgimento, che ebbe a ricevere dappoi. Pare strano che
nella mia pochezza venga a combattere opinioni, le quali appariscono suffragate
da un così gran cumulo di erudizione e di studii. Nè io l'avrei fatto quando si
trattasse di questo o di quel documento storico, ma dal momento che trattasi di
ricostruire in base alle induzioni più probabili il processo, che Roma segue
nella propria formazione, mi parve di doverlo fare, poichè sono appunto le
opinioni inesatte dei grandi filosofi, che pongono gli altri sopra una falsa
via. È incredibile la quantità di induzioni errate, che produsse nella storia
di Roma la confusione fatta da Niebuur dell'organizzazione gentilizia
coll'organizzazione politica allorchè volle scorgere nelle dekódeS di Dionisio
le gentes, e sostenne così che queste fossero una divisione politica della
città. Tutta la critica storica tedesca si pose in questa via e tutti vollero
scorgere nella città un'aggregazione di gentes, il che rese del tutto
inesplicabile la storia primitiva di Roma. Mi basterà citare fra gli altri;
MOMMSEN che dice che le genti erano incorporate tali e quali nello stato con
tutti i loro territorii e con tutte le famiglie, che contenevano e che il
gruppo della famiglia e della gens continuava a sussistere nello Stato. LANGE,
con uno sforzo mirabile, ma sfortunato, di sottigliezza, vuol trovare ad ogni
costo i caratteri della famiglia nello Stato romano. Parmi invece un processo
assai più logico e che può condurre a risultati assai più verosimili quello,
che ha già ad esser iniziato da Bonghi, di prendere Roma, quale essa si
presenta nelle tradizioni esaminate col sussidio della critica. Dal momento che
Roma si è veramente staccata da una popolazione latina, è naturale che essa sia
stata dapprima foggiata sul modello delle città latine, e che abbia continuata
tenacemente l'opera già da queste incominciata di organiz zare, accanto alla
vita patriarcale e gentilizia, quella vita pubblica, che dispiegasi appunto
nell'urbs e nella civitas. Roma si presenta nella storia memore di tutte le
tradizioni, che già si erano formate nel periodo anteriore dell'organizzazione
gentilizia, ed è con queste tradizioni, che si accinge ad organizzare un nuovo
aspetto di vita sociale, che è quello della vita pubblica e municipale. Essa
quindi non assorbe di un tratto nè le tribù nè le gentes, ma lascia che esse
continuino ad essere campo alla vita domestica e patriarcale. Solo richiama a
se lentamente e gradatamente tutti quegli ufficii di carattere pubblico, che
prima si compievano nel seno dell'organizzazione gentilizia, ed è in tale
intento che essa intraprende l'elaborazione del proprio diritto. Una volta poi
che quest'opera è iniziata, Roma, con quella tenacità di proposito, che è
sopratutto propria del popolo romano, non si arresta nell'opera sua sinchè non
sia pervenuta non solo ad organizzare nel proprio seno una vita pubblica e
municipale, ma a cambiare il mondo allora conosciuto in un complesso di città,
di colonie, di provincie organizzate tutte a somiglianza di se medesima, e gli
abitanti dell'impero in cittadini di un'unica città. La qual opera e compiuta
da Roma seguendo sempre quel medesimo processo, a cui erasi attenuta nella sua
primitiva formazione. È per questo
motivo, che era impossibile comprendere le origini delle istituzioni di Roma
senza tener dietro alla sua formazione esteriore, quale può ricavarsi dagli
studii topogra e il Sumner Main [E, L'ancien droit, trad. Courcelle
Seneuil,dove, dopo aver detto che la gens era una aggregazione di famiglie, e
la tribù un ' aggregazione di gentes, finisce per dire che la città non è essa
stessa che un'aggregazione di tribù e la repubblica una collezione di persone
legate per discendenza comune all'autore di una famiglia primitive -- il che
certamente non può ammettersi. Del resto la gravissima questione sarà trattata
più a lungo quando si discorre della
costituzione primitiva di Roma. [fici recentemente fatti intorno all'antica
Roma. Si potrebbe poi fa cilmente dimostrare, che questa formazione
progressiva, che risulta dall'estendersi della cerchia stessa di Roma, viene
anche ad essere provata dal formarsi progressivo della sua religione, del suo
senato, dell'ordine dei cavalieri, del suo esercito, dei suoi collegi
sacerdotali, ma cid risulta anche più chiaramente dalla formazione delle sue
istituzioni, poichè ciascun popolo imprime sopratutto il proprio carattere in
quella parte dell'opera sua, in cui giunse senz'alcun dubbio a maggiore
grandezza. A ciò si aggiunge la considerazione già stata fatta da un autore
assai benemerito della ricostruzione della storia primitiva di Roma, che è
Rubino, secondo il quale le tradizioni, che a noi pervennero circa i primi
tempi di Roma, debbono distinguersi in due specie. Vi hanno quelle relative
alla costituzione primitiva di Roma ed agli istituti religiosi e giuridici, che
sono collegati con essa, e queste fino a prova contraria debbono essere
ritenute per vere. Perchè trattasi [Vi ha questo di particolare nella storia di
Roma, che lo svolgimento di essa, sotto qualsiasi aspetto sia considerato,
presentasi organico e coerente in tutte le sue parti. Ne deriva che tanto le
investigazioni pazienti e minute quanto le ricostruzioni ardite, che si vennero
succedendo, finirono per sussidiarsi a vicenda per l'intelligenza di Roma
primitiva. Vi conferirono gli studiosi della topografia di Roma antica, della
sua arte militare, della sua letteratura, della sua filosofia, dei suoi
monumenti, della sua costituzione politica e delle sue istituzioni giuridiche.
Che anzi la coerenza del suo svolgimento appare così meravigliosa, che vi sono
autori che, seguendo soltanto il formarsi della sua religione e dei suoi
collegi sacerdotali, cercano di inferirne gli stadii della sua formazione
progressiva, come tenta di fare Bouché-LECLERCQ (Les Pontifes de l'ancienne
Rome, Paris, e Manuel des institutions romaines, Paris). Altri, che tentarono
di venire allo stesso risultato, seguendo lo svolgimento di un istituto
particolare, come sarebbe quello del senato, come WILLEMS, Le sénat de la
république romaine (Paris), come pure Blocu (Les origines du sénat romain, Paris),
od anche quello dell'ordine dei cavalieri, come tenta di fare Belot (Histoire
des chevaliers romains, Paris). Non può però esservi dubbio che penetrarono più
profondamente nella vita primitiva di Roma quelli sopratutto, che, come Vico e Niebuur,
ne ricercano la storia nelle lotte degl’ordini, che entrano a costituirla e
nello svolgimento delle istituzioni giuridiche e politiche. Il diritto è la
grande occupazione di Roma, e quindi è quello che conserva meglio le vestigia
di un'epoca pre-romana. Il diritto forma la filosofia costante non solo dei
sacerdoti, dei patrizi, e dei giureconsulti, ma ancora dei poeti, per modo che
fuvvi un autore, il quale raccogliendo, come egli dice, disiecti membra poetae potè
giungere a ricostruire in parte l'edifizio giuridico di Roma, anche nei
particolari minuti della sua procedura. Henriot, Maurs juridiques et
judiciaires de l'ancienne Rome Paris] d'un argomento che ha un carattere
pressochè sacro per il popolo romano, e in cui concentra tutta la propria vita,
per guisa che esso continua sempre a svolgere con pertinacia e con co stanza
quei concetti e quelle istituzioni, che furono posti durante lo stesso periodo
regio. Hanvi invece le tradizioni, che si riferiscono a racconti di guerre e ad
incidenti, che le avrebbero accompagnate, a vicende di uomini illustri, a quei
particolari insomma che danno vita ed attrattiva alla storia romana, e queste
rimasero per lungo tempo affidate alla leggenda popolare e poterono cosi essere
alterate sia dalla vanità nazionale che dalla vanità delle grandi famiglie di
Roma. Bene è vero, come osserva Bonghi, che anche nella prima parte possono
essersi introdotte dell’alterazioni, che sono causate dal partito diverso, a
cui appartengono gli scrittori, ma siccome trattasi di istituzioni, che hanno
un processo storico non mai interrotto, cosi egli è ben più facile di
ristabilire la verità, che non quando trattasi di semplici incidenti della
storia di Roma, che, non collegandosi così strettamente col resto, potevano
dare argomento ad altrettante leggende, che si arricchivano di nuovi
particolari, a misura che si veniva ripetendone la narrazione. Dopo aver cosi
seguita la formazione progressiva della comunanza romana vediamo ora gli
elementi, che si trovano in lotta nell'in terno della medesima. È da vedersi al
riguardo Bonghi, La fede degli storici superstiti di Roma antica, che anche ora
non è pubblicato, malgrado il desiderio che l'illustre autore e gl’italiani
tutti hanno di vedere pubblicata un'opera, che egli solo è in condizione di
compiere. Rivista storica italiana. IUna delle circostanze più accertate della
condizione di Roma primitiva si è, che nella popolazione della medesima comincia
fin dai primordii a manifestarsi un dualismo potente, quello cioè fra il
patrizii – descendenti dei ‘patres patriae’ -- e la plebe. La tradizione cerca
di spiegare questo dualismo dicendo, che Romolo apre un asilo, ove si potessero
rifugiare coloro che per qualunque ragione avessero dovuto abbandonare la
propria città. Ciò farebbe credere che la distinzione fra i patres della patria
(e suoi descendenti) e la plebe e in certo modo nata con Roma, quando non e
certo, che cotale distinzione già esiste in altre città, e non vi fossero
formole antiche, che accennassero al doppio elemento coi vocaboli di populus et
plebes. Sembra anzi che le stesse tribù primitive, che entrarono nella
costituzione della più antica comunanza romana, già avessero con sè una propria
plebe, indipendentemente da quella che si sarebbe rifugiata nell'asilo aperto
da Romolo, in quanto che, secondo il racconto di Dionisio, uno dei primi
provvedimenti di Romolo e quello di affidare al plebeio la coltura dei campi,
l'allevamento del bestiame e l'esercizio delle arti manuali, e di collocarle
sotto la clientela del padre, il che sarebbe anche confermato da Cicerone come
pure da un luogo di Festo, secondo cui il senatore e chiamato pater, in quanto
che e incaricato di fare distribuzione di terre ad un ordine inferiore di
persone (tenuioribus). La distinzione fra il populus e la plebes trovasi ancora
in un documento importantissimo, cioè nella lex latina tabulae Bantinae, ove è
ripetuta più volte la frase quisque eorunt sciet hanc legem populum plebemve
iousisse -- formola che ha certo grande
importanza quando si consideri che era tradizione romana quella di conservare
le formole arcaiche nel tenore della propria legge. Quella formola dimostra che
populus e plebes dovevano dapprima essere distinti e che, quando i due elementi
si fusero insieme nella comunanza, per qualche tempo ancora i due vocaboli
serbarono rispettivamente la primitiva loro significazione. V. la lex latina
tabulae Bantinae nel Bruns, Fontes, Friburgi. Quanto al testo di Dionisio, esso
è riportato nella traduzione latina nel Bruns, Fontes. Quanto a quello di
Festo, vº Patres, è bene di C., Le
origini del diritto di Roma. Questo è certo che il pater e il plebeio, anche
quando giungono a considerarsi come parti della medesima comunanza e a far
parte dello stesso popolo, il che è accaduto molto tempo dopo l'epoca della
fondazione, continuano sempre a costituire due ordini e pressochè due caste
compiutamente distinte, fra le quali non esiste ne identità di istituzioni, nè
comunanza di tradizioni, nè il diritto di connubio. Mentre il pater si presenta
colla tradizione di un passato, le cui origini si perdono nel l'oscurità dei
tempi e deve forse essere cercate nello stesso Oriente, e con una
organizzazione potente, le cui traccie si mantengono ancora durante il periodo
storico. Il plebeio, invece presentasi dapprima come una massa mobile, composta
di elementi eterogenei e di origine probabilmente diversa. Il plebeio ha
pochissima importanza negl’inizio di Roma, ma viene sempre più crescendo in
numero e in potenza, anche perchè, a differenza del pater, può continuamente
accogliere nel proprio seno nuovi elementi. Durante il periodo regio, il
plebeio non sembra ancora essere in condizione di affrontare la lotta col pater,
ma cominciando dalla repubblica i conflitti si fanno pressoché quotidiani, cosi
in materia di diritto e dalle discussioni, che seguono fra I due ordini, si può
raccogliere che le differenze essenziali, che servivano a distinguerli, erano
essenzialmente le seguenti. Il pater anzitutto e e si ritene il fondatore della
urbs e il solo membro della civitas. Il plebeio e un elemento, che trovasi in
condizione inferiore e che per la maggior parte e sopravvenuto più tardi, nè puo
quindi, secondo le idee del pater, pretendere ad un pareggiamento completo. Il
pater ha un'organizzazione potente, che era quella per gentes, la cui forza venne
ancora ad accrescersi mediante l'istituto della qui riportarlo. A patres
senatores ideo appellati sunt, quia agrorum partes attri buerant tenuioribus,
ac si liberis propriis. V. Bruns. Questi passi unita mente a quello di
CICERONE, De rep. Romulus habuit plebem in clientelas principum descriptam -- rispondono
abbastanza all'opinione di coloro, che come LANGE (Histoire intérieure de Rome)
e Padelletti (Storia del diritto romano) ostengono, che l'origine della plebe
sia posteriore alla fondazione della città, ed abbia solo avuto origine
coll'ammissione di persone libere nella cittadinanza e nel territorio dello stato,
avvenuta per atto pubblico e accompagnata dalla concessione in proprietà di
terreni da coltivare. Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., clientele. Il pater quindi
puo indicare la serie dei proprii antenati e dimostrare che i medesimi sono
sempre stati ingenui e che niuno di essi erasi trovato in condizione servile. Il
plebeio, invece, se si deve credere alle ragioni poste innanzi molto più tardi
dagl’oratori patrizii, allorchè trattavasi di Roma di respingere la legge
Canuleia diretta a togliere il divieto dei connubii fra i due ordini, non
conosce ancora la famiglia organizzata in base al potere del padre ed al culto
degli antenati, per cui una unione plebea non e dal pater considerata come
iusta nuptia, nè santificate dalla partecipazione al medesimo culto. E un semplice
matrimonium, in cui il vincolo di parentela e determinato piuttosto dalla
cognazione *maternal*, che dall'agnazione paterna. Di qui la conseguenza, che
ancora dopo la legge di Le XII Tavole il pater non puo comprendere una
comunanza di connubio – iusta nuptia – fra un pater (say, Charles III) e una
plebea (say, Diana), come lo dimostrano le parole di Livio relative al
plebiscito Canuleio. Rogationem promulgavit, qua contaminari sanguinem suum
patres confundique iura gentium rebantur. Da ultimo, una differenza
importantissima consiste anche in questo, che solo il pater possede un auspicium,
cosicchè tutti gl’atti, che lo riguardavano, assumevano un carattere solenne e
religioso. Il plebeo, pur avendo una religione e feste [ Gellio, Noc. Att., 10,
20 chiama la plebe quella parte della popolazione romana, nella quale gentes
patriciae non insunt. È poi noto che, secondo Livio, nelle discussioni fra pater
e plebeo gl’oratori di questa attribuivano ai primi di vantarsi di esser soli
ad avere le gentes con parole, che riassumono i titoli di superiorità del pater.
Semper ista audita sunt eadem: penes vos solos au spicia esse, vos solos gentes
habere, vos solos iustum imperium et auspicium domi militiaeque ecc. Pare
tuttavia che non possa affatto escludersi l'esistenza di gentes plebeiae, le
quali però costituivano una eccezione. La causa di questo fatto può essere
duplice. O queste gentes potevano derivare dalle popolazioni delle città
latine, che già avevano un'organizzazione simile a quella delle genti patrizie,
sebbene non fossero più state ammesse nel patriziato, – o la formazione di
queste gentes accade più tardi, quando una parte della plebe, entrata a far
parte della nobiltà, cerca essa pure di imitare l'organizzazione gentilizia, il
che comincia ad es sere possibile dopo la legge Licinia Sestia, colle quali il
plebeo e ammesso al console. Così Cicerone ci attesta, che la famiglia dei
Marcelli erasi staccata dall'antica gente patrizia dei Claudii (De Orat.). Così
pure Cicerone ci parla di una gens Minucia, che sarebbe stata *plebea* (In
Verr., I, 45 ). Fra i filosofi sull'argomento sono da vedersi il Voigt, XII
Tafeln, Leipzig, e il KARLOWA, Röm., R. G., -- Liv., – popolari, non possedeva
gli auspicia, nè aveva un proprio culto gentilizio -- sacrum gentilicium. Queste
differenze sono tali, che sebbene le circostanze conducessero col tempo i due
ordini a far parte della stessa comunanza, e pero naturale, che essi non
potessero entrarvi alle stesse condizioni. Dalle differenze sovra enumerate
questo intanto si può inferire, che in Roma primitiva la superiorità, che si
attribuiva il pater sul plebeo, trova sopratutto la propria causa in ciò, che
esso era già era più progredito nell'organizzazione sociale, ed era prima
uscito dallo stato di confusione, di privata violenza e di promiscuità
primitive, che esso riteneva in parte essere ancora proprie della plebe. Il
pater sa indicare i proprii antenati, ha conservato gelosamente le proprie
tradizioni, ed e già pervenuto al l'organizzazione di un culto gentilizio. Di
più e la gens, che aggruppandosi insieme avevano dato origine alla tribù, come
pure erano le tribù, che, confederandosi insieme in conformità di certi riti e
dopo aver assunto solennemente gli auspicii, erano pervenute a fondare la città,
in cui provvedevano ai comuni interessi ed obbedeno ad una legge, espressione
della volontà comune. Bene è vero che, per accrescere la forza della loro città
del loro esercito, e spediente di incorporare in essi anche le plebes cioè le
moltitudini, che naturalmente si venivano raccogliendo ove era fondata e
fortificata un'aggregazione di genti patrizie. Ma chi tenga conto della umana
natura, che in questa parte non sembra ancora essersi modificata, non può certo
meravigliarsi se le genti patrizie abbiano applicato colla plebe la massima – prior
in tempore, potior in iure --, e si siano cosi prevalse del vantaggio, che loro
somministra una più antica esperienza delle cose civili ed umane, per
conservare a lungo una posizione privilegiata nella comunanza civile. Piuttosto
è da ammirarsi la tenacità e perseveranza del plebeo, il quale, composta [Quinto
all'origine ed al carattere del patriziato primitivo di Roma, contiene delle
buone ed acute osservazioni l'articolo di FREEMAN nell'Encyclopedia Britannica, vº
Nobility, ove il pater romano è posto a paragone cogli Eupatridi di Grecia,
colla nobiltà feudale, coi Pari Inghilterra ecc. È pure a vedersi il Duruy,
Histoire des Romains, Paris, chi parla del pater come di un'istituzione propria
della società primitiva e nota le analogie e le differenze fra il pater di Roma
e i bramano dell'India. Cfr. Muirhead] dapprima di elementi eterogenei e priva
di qualsiasi organizzazione sociale, seppe col tempo in tutto e per tutto
imitare l'organizzazione propria dei pater, creare genti plebee accanto alle
genti patrizie, contrapporre le tribù alle curie, i tribuni ai veri magistrati,
e che, appena potè ottenere il riconoscimento di un diritto, di quello cioè
della proprietà quiritaria, riusci a valersi del medesimo come di strumento e
di mezzo per ottenere a poco l'uguaglianza giuridica e politica, e perfino
l'ammissione a quegli auspicia, a quei sacerdotia, e a quella scienza del
diritto, che solo molto tardi vennero ad essere comunicati al plebeo. Questo
intanto può aversi per certo, che la formazione del pater e del plebeo costituisce
in certo modo la questione fondamentale della storia politica e giuridica di
Roma. Vero è che accanto ai plebei trovansi pur anche i servi ed i clienti, ma
questi due elementi non hanno certo l'importanza della plebe, che dove poi
avere tanta parte nella storia di Roma, in quanto che un servo entra a far
parte della famiglia ed il cliente ri-entra anch'essi nell'organizzazione
gentilizia. Di più tanto il servo come il cliente, al lorchè riescono a
svincolarsi dal pater, entrano a far parte della plebe, che è quella veramente,
che sostiene e vince la lotta per il pareggiamento giuridico e politico col pater.
Quindi è che nè il servo, né il cliente come tali riescono ad avere una piena
personalità giuridica e civile. Il cliente scomparisce a poco a poco o si
trasforma in semplice salutator. Il servo si mantenne bensì, ma non giungono
mai, durante il predominio di Roma, ad essere riconosciuti come capaci di
diritto. La questione limitasi pertanto al pater ed al plebeo ed è quindi
l'origine di questi due elementi, che è il maggior problema, che offra la
storia primitiva di Roma. Cio non ostante, sinchè non siansi esaminate
l'organizzazione dei patres e la composizione della plebe, non pud certo
affrontarsi il problema della origine delle due classi. Basterà unicamente, per
l'intelligenza di ciò che verrà dopo, di osservare che le differenze, che
esisteno fra di esse negli inizii. Queste lotte per il pareggiamento sono
largamente esposte da LANGE, Histoire intérieure de Rome. I risultati poi della
lotta sono riassunti nel dotto lavoro del GENTILE, Le elezioni e il broglio
nella repubblica romana (Milano) e sopratutto in Le assemblee elettorali] di
Roma, la superiorità pressochè incontestata del pater e l'ossequio pressochè
servile del plebeo nei primi tempi della città dimostrano abbastanza, che la
loro distinzione non potè certamente essere opera della legge, nè delle
circostanze storiche speciali, in cui Roma ha a trovarsi. Dovette essere il
frutto di una lunga evoluzione storica, la cui preparazione deve essere cercata
in un periodo anteriore di organizzazione sociale. Non può esservi dubbio, che
l'origine di una distinzione, così altamente radicata nel costume e nelle
abitudini delle due classi, deve essere cercata in quei cataclismi, che dovettero
avverarsi nell'urtarsi e nel sovrapporsi delle stirpi italiche, di origine aria,
sovra altre stirpi, che già abitavano il suolo, sovra cui esse si arrestarono
nelle proprie migrazioni. Essa è una distinzione, che deve certamente
rannodarsi ad una divisione ben più antica, e le cui traccie si mantengono
sempre nella storia dell'umanità, che è quella fra la classe dei conquistatori,
dei vincitori, dei primi pervenuti a stabilirsi in un determinato suolo, e
quella dei soggiogati, dei vinti, e dei sopraggiunti più tardi a porre la
propria sede in un suolo, che altri hanno prima occupato e sovra cui i medesimi
già si erano stabiliti e fortificati. Egli è certo, che nel sopraggiungere
delle stirpi italiche migranti dall'Oriente dovette certamente avverarsi un
periodo di privata violenza non dissimile da quello, che accadde più tardi
allorchè le popolazioni germaniche invasero il principato. Anche allora
dovettero esservii vincitori ed i vinti, e frammezzo a quella promiscuità di
genti e a quella prevalenza della forza, che ci ricordano ancora gli filosofi latini
quando ci parlano di connubia more foerarum e di viri duro ex robore nati,
dovette sentirsi urgentissimo il bisogno di una protezione giuridica e di una
forte organizzazione sociale. Dovettero [Sono sopratutto i filosofi latini,
come interpreti delle primitive tradizioni e leggende, che alludono
frequentemente a questo stato primitivo, in cui si trovano le genti italiche,
ora descrivendo una età dell'oro, che assegnano al regno di Saturno, che sembra
corrispondere al Savitar degli Arii, ed ora accennando eziandio a un periodo,
in cui avrebbe imperato la forza e la violenza. È veramente preziosa in
proposito e riflette mirabilmente la coscienza primitiva delle genti italiche
la raccolta, che l'Henriot ha a fare dei testi dei filosofi latini, che possono
avere qualche attinenza col diritto, nella sua opera col titolo: Mæurs
juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome d'après les poètes latins (Paris)
sull’età dell'oro e sull'imperio della forza. È poi notabile come tutti i filosofi
accennino al concetto di un diritto della natura, preesistente alla formazione
del civile consorzio, e tutti esprimano con grande efficacia l'altissima
importanza, che dovette avere per l'umanità l'origine della legge] allora
succedere fra le popolazioni italiche dei cataclisminon minori di quelli, che
si attribuiscono al nostro suolo, e furono questi cataclismi, che condussero
necessariamente alla formazione di un aristocrazia – il pater del patriarcato
-- territoriale, militare e patriarcale ad un tempo, che era il solo ed unico
mezzo per uscire da uno stato di promiscuità e di violenza. Fu questa patriarcato
– ottimati -- che comprende il padre nella famiglia, il patre nella gente e il
pater nella tribù, ed abbraccia cosi tutte quelle genti, le quali, memori forse
di istituzioni che eransi altrove elaborate, trapiantarono frammezzo al
disordine ed alla lotta la potente organizzazione gentilizia, che una volta
formata si chiuse in certo modo in se stessa e riguardo come di origine
inferiore tutti coloro che non appartenevano alla medesima. Fu questa
aristocrazia del ‘pater’ potentemente organizzata per gentes, che costituì la
classe privilegiata e che merita dapprima anche di essere considerata come tale.
Ma accanto alla medesima dovette naturalmente formarsi una classe subordinata,
i cui gradi corrispondono precisamente ai varii stadii dell'organizzazione
gentilizia, in quanto che comprende il servo nella famiglia, il cliente nella
gente, ed il plebeo, che cominciano a comparire colla tribù. Per tal modo nelle
popolazioni, che si vengono così organizzando, si disegnano per spontanea e
naturale formazione, due strati, che si corrispondono fra di loro, e mentre in
una lunga e lenta evoluzione, di cui non sopravisse alcun ricordo, salvo nella
lingua e negli oggetti trovati nelle tombe, il ‘pater’ della famiglia si
cambiano in ‘pater’ nella gente e quindi in ‘pater’ nella tribù, anche i servi mano
messi dal ‘pater’ mutansi in clienti del ‘pater’ ed il cliente rimasnne senza ‘pater’]
formano il primo nucleo della plebe. Il pater – qua Padri, patrone e patrizio –
e, in sedimenti successive, la classe alta dei vincitori, dei proprietari delle
terre, dei primi organizzatori di una vita sociale. Il servo, il cliente ed il plebeo
rappresentano i varii stadii, per cui passa la classe inferiore dei vinti, e di
quelli che, per avere una prot zione, si accalcano intorno allo stabilimento di
una casata patrizia. Il primo puo indicare suoi proprii antenati ed escludere
qualsiasi origine servile. Il plebeo, se giunsero col tempo ed essere
indipendenti dal patriziato, appartennero probabilmente alla classe del servo e
del cliente, e non ha dapprima quelle giuste nozze, che accertano la
discendenza per la linea maschile. È in questo modo che il patriziato venne
formandosi l'alto concetto della propria superiorità e che giunse fino a dire,
se non a credere, che discende dal divino (il che del resto non era
intieramente falso dal momento [ - che ha elevato a divinio il proprio antenato).
Mentre la plebe, memore forse della servitù antica, trovasi dapprima in una
abbiezione pressochè servile, da cui non venne a liberarsi che quando ebbe ad
essere rigenerata da un nucleo potente di famiglie latine, che appartenevano
alle città conquistate da Roma. Intanto pero fra le due classi vi ha questa
differenza. La prima tende a tircoscriversi, anche per la difficoltà di far
entrare nuovi elementi in una organizzazione così gerarchica, come era
l'organizzazione gentilizia, la quale non poteva accogliere degli individui ma
soltanto delle altre gente. La plebe, appena viene ad affermare la propria
esistenza, tende invece ad incorporarsi nuovi elementi, senza vagliarne
l'origine, per modo che essa puo accogliere i vinti che non siano ridotti in
ischiavitù, gl’emigranti che non siano ricevuti come cliente. Non solo può
aggregare nel proprio seno delle famiglie, ma anche individui, che essendosi
disgiunti dal gruppo, a cui erano uniti, abbisognino di protezione e di tutela.
Intanto pero fra l'uno e l'altro ordine, la grande differenza è questa, che
nelle origini, solo il pater ha una vera posizione di diritto. Il plebeo non ha
dapprima che una posizione di fatto. Il pater e il popolo da esso costituito è
un ordine. La plebe non è che una moltitudine, una folla non ancora organizzata.
Il pater ha tradizioni militari, religiose, giuridiche. Il plebeo non ha
dapprima che quelle costumanze e quegli usi, che possono formarsi in una folla
di provenienza diversa e di formazione del tutto recente. Il pater ha una
religione gentilizia, formatasi nel suo seno mediante il culto degli antenati.
Il plebeo non ha che un complesso di credenze popolari, che ancora abbisognano
di ricevere una forma religiosa. Ben si comprende quindi, che la distanza e
grande e che dove essere assai malagevole di raccogliere i due elementi nella
stessa comunanza, elaborando un diritto, che potesse essere comune ad entrambi.
Fermi cosi i caratteri generali dei due ordini, importa di ricercare più
particolarmente l'organizzazione già formata del pater, e quella ancora in via
di formazione, che dovrà poi comprendere il plebeo – Livio: En unquam fando
audistis patricios primo esse factos, non de caelo demissos, sed qui patrem
ciere possunt, id est nihil ultra quam ingenuos. Non può esservi dubbio, che a
costituire il patriziato primitivo di Roma concorsero elementi diversi, usciti
per la maggior parte da quelle tre stirpi di popoli, che secondo la tradizione
entrarono a for mare la comunanza romana. Sonvi quindi genti di origine latina,
e fra queste sonovi quelle che figurano come più antiche, genti di origine
sabina, ed altre, in numero forse minore, di origine etrusca. L'origine diversa
poi facilmente persuade, che le loro istituzioni tradizionali dovevano anche
essere dissimili, e che quindi quella completa analogia di istituzioni, che in
esse apparisce più tardi, do vette essere l'effetto di una lenta assimilazione,
che vennesi operando gradatamente mediante la loro partecipazione ad una stessa
comunanza civile e politica. Tuttavia, malgrado le differenze che potevano
esservi nelle sue tradizioni, il pater romano, comunque fosse originariamente
composto, presenta fin dalle origini della città le traccie di
un'organizzazione potente di carattere patriarcale, che è l'organizzazione
gentilizia. Non è qui il caso di cercare, se questa organizzazione per genti
sia stata una necessità storica per uscire da quello stato di conflitto e di
privata violenza, che dovette avverarsi all'epoca delle migrazioni, e se sia
stata invece una istituzione, che le stirpi migranti già avevano elaborata
altrove e che loro servi per sovrap porsi alle popolazioni indigene, il che
sembra essere più probabile. L'enumerazione delle primitive genti patrizie col
riassunto delle opinioni di. verse intorno alla loro origine e alle molteplici
dirainazioni, che partirono da cia scuna di esse, può trovarsi in Bonghi,
Storia di Roma, Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., in princ. Ivi l'autore cerca
perfino di determinare la parte, che nel diritto si attribuisce alle varie
stirpi] questo in ogni caso deve aversi per certo, che è in virtù di questa
organizzazione, che le primitive genti patrizie, per quanto potessero essere
diverse di numero e di potenza, appariscono pero foggiate sul medesimo modello.
Tale organizzazione tuttavia nel periodo storico già trovasi in via di
dissoluzione; ed anche quello che ne rimane già presentasi alquanto alterato
nelle sue primitive fattezze per essersi confuso coll'elemento civile e
politico, dal quale è assai difficile sceverarlo. Ciò non ostante dalle vestigia,
che ne rimangono e che sono dovute sopratutto allo spirito eminentemente
conservatore del popolo romano, si può dedurre che l'organizzazione gentilizia
dovette nel patriziato romano presentarsi in gradazioni diverse, tutte
strettamente connesse fra di loro. Esse sono: la famiglia fondata
sull'agnazione, la gente accresciuta ed afforzata dalla clientela, e da ultimo
la tribú, in cui già compare nei proprii inizii la distinzione fra il
patriziato e la plebe. Sarebbe certo cosa di grande interesse il ricercare qui
se nelle prime origini l'organizzazione gentilizia ha prese le mosse dalla
famiglia, o dalla gente, o dalla tribù. Ma ciò ci recherebbe a quel l'epoca e a
quel sito, in cui le stirpi arie ponevano le prime basi dell'organizzazione
patriarcale, cominciando probabilmente dal più piccolo e più naturale dei
gruppi, che era la famiglia. Qui pero non e inopportuno il mettere innanzi,
almeno a titolo di congettura, che dei varii gradi dell'organizzazione
gentilizia quello, che probabilmente servi per la migrazione delle varie stirpi
dall'Oriente all'Occidente, dovette essere il gruppo della gens. Ciò è dimo [Questa
stessa gradazione è accolta dal SUMNER MAINE, Ancien droit, ma non è invece
quella seguita da Leist, Graeco- Italische R. G., il quale parmi non distingua
sempre abbastanza due cose affatto diverse fra loro, che sono l'organizzazione
gentilizia e l'organizzazione politica, considerando come altrettante divisioni
del populus, non solo le tribus e le curiae, ma anche le gentes. Senza voler
quientrare in una questione, chemi trarrebbe troppo per le lunghe, non posso
però tralasciare di notare, che la così detta famiglia patriarcale non deve
ritenersi come la famiglia veramente primitiva, poichè essa è già una famiglia,
le cui fattezze vengono ad essere trasformate a causa del suo entrare a far
parte della organizzazione gentilizia. È nota in proposito la discussione, anche
oggi non definita, fra il Sumner MAINE, Early law and custom (London) da una
parte, e MORGAN e Mac-Lennan dall'altra, come pure la cri tica fatta, alla
teoria patriarcale del SUMNER Maine, dallo SPENCER, Principes de sociologie,
strato dal fatto, che è dalla gente che il patrizio romano deriva quel nome,
che esso ha ricevuto dall'antenato comune e che deve trasmettere poi ai proprii
discendenti, e che, anche nei tempi storici di Roma, allorchè accade qualche
nuova incorporazione nel patriziato mediante la cooptatio, questa non si
effettua nè per famiglie, nè per tribù, ma per genti. Mentre la famiglia è il
gruppo più ristretto ed unificato in tutte le sue parti e la tribù è già una
vera e propria comunanza di villaggio, in cui si preparano gli elementi
costitutivi della città, la gente invece è il gruppo intermedio, che da
giustamente il suo nome e la propria impronta all'organizzazione gentilizia,
perchè di sua natura è un gruppo più elastico e pieghevole di tutti gl’altri, e
che può meglio accomodarsi a qualsiasi evenienza in un periodo di migrazione.
La gens” infatti è più forte e numerosa della famiglia, perchè continua a
stringere insieme le famiglie, che per discendere da un comune antenato sono
anche unite tra di loro da un medesimo culto, e intanto è più compatta della
tribus, la quale essendo già l'aggregazione di più genti, che o sono di origine
diversa o hanno già dimenticata l'origine comune, può già fornire argomento a
dissidii fra i capi delle varie genti, che entrano a costituirla. La gente poi
è per sua natura tale, che ora può cambiarsi in una carovana in migrazione, ora
attendarsi e stabilirsi in un determinato sito, ed ora anche raccogliersi a
guisa di un ma nipolo di soldati, e tutto ciò senza che possa mai sorgere
questione di preminenza, perchè è la consuetudine, che designa chi debba
esserne il capo e perchè il vincolo della comune discendenza fa sì che tutti i
suoi membri ne subiscano volenterosi il comando. In tanto è nella gente, che si
vengono formando e distinguendo le famiglie, come pure sono le genti che,
aggregandosi intorno ad una preminente fra le altre, danno origine alla tribù,
la quale è già più atta ad arrestarsi in un determinato sito e ad essere così
di avviamento alla convivenza civile e politica. I tre gruppi tuttavia sono
sedimenti di una spontanea e naturale formazione, che si vengono sovrapponendo
l'uno all'altro per modo, che appariscono tutti foggiati sul medesimo modello,
che è quello del gruppo patriarcale, e si vengono reciprocamente influenzando
per guisa, che tutti appariscono come strati diversi di un'unica
organizzazione. Di qui la [Cfr. Willems, Le droit public romain, Paris] conseguenza,
che tutti questi gruppi, dal momento che difetta an cora una vera convivenza
civile e politica, compiono l'uffizio ad un tempo di convivenza domestica e di
convivenza civile, colla differenza tuttavia, che nella famiglia prevale ancor
sempre il vincolo del SANGUE, e nella tribù già si fa strada il vincolo civile
e politico, mentre la gente è quella, che ha il carattere più schiettamente
patriarcale. Cio premesso quanto ai caratteri generali della organizzazione
gentilizia, cerchiamo di ricostruirne le principali fattezze, desumendole dalle
traccie che ancora ne rimangono nella storia primitiva di Roma, nella quale vi
ha questo di particolare che, anche quando un'istituzione si dissolve, si sanno
mantenere le forme esteriori della medesima. In cio sarà bene incominciare
dalla famiglia, come quella che ha ad esser meglio conservata e intanto
costituisce il gruppo più ristretto dell'organizzazione gentilizia. Per quanto
sia vero che la famiglia, quale presentasi più tardi nel diritto quiritario,
sia una istituzione comune così al patriziato che alla plebe, sonvi tuttavia
forti argomenti per credere che la sua primitiva organizzazione fosse di
origine patrizia. Fra gli altr’argomenti l'importantissimo è questo, che una
moltitudine come la plebe, che era di provenienza diversa e di formazione
ancora del tutto recente, non poteva possedere fin dai suoi inizii una
organizzazione famigliare, che presuppone una lunga serie di antenati e perciò
una lunga elaborazione anteriore. Ciò del resto è anche dimostrato da che nelle
origini il vocabolo di patres indica sopratutto i capi delle *famiglie*
patrizie, e perfino gli stessi senatori, che certo usci [Quanto ai caratteri
comuni al gruppo patriarcale degl’arii, alla gens romana ed al gévos dei greci
ed alla letteratura copiosissima sull'argomento, mi rimetto alla mia opera: La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale (Torino), ed all'opuscolo,
Genesi e svolgimento delle varie forme di convivenza civile e politica (Torino).
Recarono un nuovo contributo allo studio comparativo delle istituzioni
primitive presso le genti di origine aria, oltre le opere già citate del Sumner
Maine, il BERNHÖFT, Staat und Recht der röm. Königszeit, Stuttgart, e Leist] vano
dal patriziato, al modo stesso che il vocabolo di patricii indica figlio del
pater. Lo stesso provano eziandio le nozze confarreate, certamente proprie del
patriziato, che nella leggi attribuita a Romolo ed a Numa sembrano essere il
solo modo con cui si puo contrarre le giuste nozze. Si aggiunge infine il
carattere agnatizio della famiglia primitiva di Roma, il quale non è e non può
essere un carattere originario, ma è una conseguenza della stessa
organizzazione gentilizia, di cui la famiglia entra a far parte. Dal momento
infatti, che in questo periodo non esiste ancora una vera comunanza civile e
politica, diveniva inevitabile che l'organizzazione gentilizia ne assumesse le
funzioni e le veci, e che perciò anche la famiglia, in quanto ne fa parte,
venisse a ricevere un'organizzazione piuttosto fondata sul potere del PADRE,
che non sul vincolo del SANGE. È questa la causa per cui la famiglia primitiva
Romana sembra, almeno in apparenza, soffocare i naturali affetti del SANGUE,
per guadagnare in forza ed in potenza, unificandosi sotto la potestà del
proprio capo. Una volta poi che il fondamento della unione domestica si
riponeva nella potestà del PADRE, er una conseguenza logicamente inevitabile,
che come il PADRE prevaleva nella costituzione e nel governo della famiglia,
cosi l'agnazione, ossia la DISCENDENZA dal padre, per la linea MASCHILE, dove prevalere
nella composizione diessa. È in questo senso, che la famiglia primitiva Romana
viene a costituire un organismo potente, che può essere considerato come il
primo anello e come il nucleo più ristretto dell'organizzazione gentilizia.
Essa infatti ha una costituzione eminentemente monarchica, perchè tanto le
persone, che la costituiscono, quanto le cose, che ne formano il PATRI-MONIO,
dipendono esclusivamente dalla potestà del padre. La famiglia patrizia poi è un
vero e proprio organismo, che può considerarsi in due momenti diversi. Finchè
infatti vive il PADRE, nel cui potere essa trovasi unificata, la famiglia è un
vero corpo vivente, che può andar soggetto a continui mutamenti, in quanto che
vi hanno persone che possono uscirne ed altre che pos sono entrarvi. Quando poi
il padre muore, quelli che un tempo erano soggetti alla sua potestà possono
ancora continuare a tenere [Dion., 2, 25 e 2, 63, testo è riportato da Bruns,
Fontes Leges Regiae] indiviso il patrimonio comune, assecondando un antico
costume romano, che si esprimeva colle parole conservateci da Gellio ercto non
cito -- le quali significano in sostanza che non si dovesse procedere alla
divisione immediata del patrimonio. In tal caso si mantiene fra gli agnati un
di soggetti alla patria potestà una specie di società universale di tutti i
beni, per cui sembra in certo modo che si perpetui ancora l'esistenza della
famiglia, e si ha così quella famiglia in largo senso, di cui ci parlano ancora
i giureconsulti, che la chiamano familia omnium agnatorum. Questa indivi sione
dove certamente essere frequente nei tempi primitivi e fu questa la causa per
cui, oltre la famiglia nel vero senso della parola, che comprende tutti quelli
che sono soggetti alla patria potestà, venne delineandosi una famiglia più
vasta, che è quella degli agnati, la quale sebbene abbia cessato di essere
unificata dalla potestà del padre, continua tuttavia ancora ad essere unita
insieme e a costituire un tutto – consortium -- stante l'indivisione del
patrimonio. Ciò però non toglie che il concetto della famiglia agnatizia siasi
poscia cambiato e che si siano compresi col nome di agnati tutti coloro, che [Mi
fo lecito di mettere innanzi questa interpretazione delle parole arcaiche ercto
non cito e ciò in base a quello che ci attesta Servio, il quale interpretando
questa espressione, dice appunto, che essa significa patrimonio vel hereditate
non divisa -- Serv., in Aen., VIII, 642 (Bruns, Fontes). Queste parole furono
poi applicate per indicare in genere la
societas omnium bonorum in virtù
della quale, secondo l'attestazione di Gellio. Comnes simul in cohortem recepti
erant, quod quisque familiae, pecuniae habebat in medium dabat, et coibatur
societas in separabilis, tamquam illud fuit antiquum consortium, quod iure
atque verbo romano appellatur cercto non cito. Che poi queste parole siano in
certo modo un'antica clausola testamentaria, con cui il padre proibiva la
divisione immediata appare da ciò, che ercto deriva certamente da ercisco e
cito è un avverbio che deriva da cieo e significa prontamente . Vedi BRÉAL e Bailly,
Dictionnaire étymologique latin, Paris,
pº Ercisco e Cieo. Che poi veramente presso gli antichi romani fosse
consuetudine di mantenere, per quanto fosse possibile, l'indivisione, appare
dal seguente testo, che trovo citato da KARLOWA, Röm. R. G., ricavato dalle
PETRI, Excep. legum romanarum, lib. I, cap. 19, De vendenda hereditate. Consuetudo
antiquorum esse solebat, ut frater de rebus suis immobilibus non venderet nisi
fratri, propinquus propinquo, nec consors nisi consorti, si emere vellent. È
questo forse il motivo, per cui presso i romani un heredium potera conservarsi
integro nella stessa famiglia per parecchie generazioni, e un vicus poteva
essere costituito per intiero di famiglie appartenenti alla stessa gens, senza
mescolanza di elementi estranei. Cid sarà meglio dimostrato ove trattasi
appunto prietà nel periodo gentilizio >. della pro -- - - 31 erano stati
sotto la patria potestà della stessa persona, come quelli che avevano formato
parte di una medesima casa ed erano usciti dalla medesima gente. Tuttavia, per
ben comprendere il carattere della famiglia patrizia primitiva, vuolsi sempre
aver presente, che essa non è già un organismo isolato, ma è parte di un
organismo maggiore di cui costituisce il nucleo più ristretto. Diqui la
conseguenza che quel potere del padre, che giuridicamente considerato sembra
essere senza confini, trovasi nella realtà limitato sia dal tribunale domestico,
che circonda il capo di famiglia, sia dal consiglio dei padri, che trovasi
nella gente e nella tribù, per guisa che i temperamenti, che non vi sarebbero
nella natura del potere paterno, si incontrano invece nel costume e
nell'organizzazione gerarchica, di cui la famiglia entra a far parte. È per
questo motivo, che tutti gli atti, che toccano in qualche modo l'organizzazione
gentilizia, quali sarebbero l'adrogatio, che serve a perpetuarla quando manca
una prole diretta, il testamento, che modifica le regole con suetudinarie
relative alla successione, ed anche il matrimonio per confarreatio di uno dei
membri della famiglia, devono essere fatti coll' intervento, colla
testimonianza e perfino coll'approvazione dei capi di famiglia, che entrano a
formare la gente e la tribù; il che ancora appare dalle formalità, che
accompagnarono questi atti nei primitempi di Roma. Intanto è incontrastabile,
che anche la successione legittima e la tutela assumono un carattere del tutto
gentilizio, in quanto che l'una e l'altra, sebbene non stabiliscano delle
differenze per causa del sesso o per causa di primogenitura, mirano però fino
all' evidenza a conservare il patrimonio e l'amministrazione di essa nella [Leg.
195, $ 2 e 196, Dig., De verb. signif. (50, 16 ): Communi iure, scrive Ulpiano,
familiam dicimus omnium agnatorum, nam, etsi patre familias mortuo, sin guli
singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte
eiusdem familiae appellabantur, quia ex eadem domo et gente proditi sunt. Qui
viene ad essere evidente, che la giurisprudenza classica, che non poteva più
favorire quella indivisione che era tanto accetta agli antichi romani, conserva
però sempre il concetto della famiglia degli agnati, non più desumendolo dalla
indivisione del patrimonio famigliare, ma dalla circostanza che gli agnati
erano un tempo dimorati nella stessa casa ed erano stati sotto la patria
potestà del medesimo capo. È da vedersi sull'agnazione l'articolo di SEMERARO,
Enciclopedia giuridica italiana, vº agnazione, I, parte 2*, 720. 32] linea
agnatizia. Il che può scorgersi ancora nella legislazione decemvirale, la
quale, come si vedrà a suo tempo, in questa parte riusci a far prevalere
pressochè intieramente il sistema di successione e di tutela, che dovevano
essere in vigore presso il patriziato durante il periodo gentilizio. Quanto al
testamento, esso era certamente conosciuto in questo periodo, ma collo spirito
che prevale nell'organizzazione gentilizia si può affermare con certezza, che
esso, dovendo essere fatto coll'approvazione del consiglio degli anziani e
nelle riunioni gentilizie della tribù, anzichè servire qual mezzo per sottrarre
l'eredità alla gente, dovette invece servire per ritardare od impedire la
soverchia divisione dei patrimoni. Intanto è pure da notarsi il carattere speciale,
che assumeva la famiglia primitiva nel periodo gentilizio, in quanto essa
comprende eziandio nella propria cerchia un numero più o meno grande di servi,
che in antico sono anche detti famuli, dal vocabolo famel, che in lingua osca
significa appunto servo; dal quale, secondo Festo, sarebbe anche derivato
l'antico vocabolo famuletium, che avrebbe significato servitium. È infatti per
mezzo dei servi, a cui era [Si può ricavare l'importantissima conseguenza, che
a suo tempo servirà a spiegare molte istituzioni del diritto romano primitivo,
che il concetto di comproprietà, in virtù del quale i figli durante la vita del
padre sono comproprietarii dell'heredium, e dopo la morte di esso in certa
guisa eredi di se stessi (heredes sui), come pure quello, in virtù di cui è dal
novero degli agnati, che si debbono ricavare i tutori delle femmine, degli
impuberi e dei furiosi, sono tutti concetti, la cui origine rimonta ed è anzi
un effetto della stessa organizzazione gentilizia, di cui la famiglia entra a
far parte. Quanto al testamento fra le genti patrizie non dove certo essere
applicazione del principio: a uti paterfamilias super familia tutelave suae rei
legassit, ita ius esto, ma doveva mirare sopratutto all'ercto non cito. Il
testamento esiste, ma nell'intento di serbare il patrimonio indiviso e di
trasmetterlo tale di generazione in generazione. L'importante concetto di
questa comproprietà famigliare già trovasi nettamente espresso in uno degli
ultimi lavori di Dubois, alla cui memoria mando qui un riverente saluto, nel
suo ultimo diligentissimo lavoro col titolo: La saisine héréditaire en droit ro
main (Paris) pubblicato nella Nouvelle revue historique de droit français et
étranger, ove, combattendo iMaynz ed altri autori, dimostra che gli eredi suoi
erano immediatamente investiti dell'eredità, senza che occorresse accettazione
della medesima e ciò appunto in base a questa comproprietà famigliare. Al
concetto del DuBois è solo da aggiungersi, che cið era un effetto
dell'organizzazione gentilizia prima esistente, idea, che egli già aveva in
germe, come lo dimostrano le parole con cui egli conchiude il suo lavoro, ma
che non ebbe più campo di svolgere. V.
Festo, vº Famuli (Bruns, Fontes, 338 ). 33 affidato il servizio rustico od
urbano (familia rustica, familia urbana) che la famiglia primitiva veniva ad
essere organizzata per modo da bastare a qualsiasi bisogno ed emergenza. Cio
diede un carattere speciale alla vita economica dell'antichità e coopera a dare
alla famiglia antica il carattere di un tutto organico e coerente in tutte le
sue parti. La servitù ebbe per effetto, come ben nota Padelletti, di fare in
guisa che i prodotti non venissero a cambiare di possessore in tutto il corso
del loro processo produttivo, perchè il servo e impiegato non soltanto nella
produzione, ma benanche nella trasformazione e nel trasporto dei prodotti. Per
tal modo ogni famiglia tende a supplire a tutti i suoi bisogni, e intanto ogni
capo di famiglia poteva apparire come possessore difondi, essere ricco di
greggi ed armenti, che costituivano in certo modo il primo capitale, e intanto
attendere eziandio al commercio dei proprii prodotti Puo tuttavia affermarsi
con certezza, che durante il periodo gentilizio le genti patrizie fossero
sopratutto ricche di greggi ed armenti, come lo dimostra l'uso frequentissimo
di vocaboli anche di carattere giuridico de rivanti dall'industria pastorale (quae
ex pecoribus pendent), il che, secondo Festo e Varrone, deriva appunto da cid,
che presso imaggiori le ricchezze ed i patrimoni si componevano sopratutto di
greggi e di armenti . e PADELLETTI,
Storia del dir. rom. Sull'importanza della servitù nella famiglia primitiva è
da vedersi PERNICE, M. Antistius Labeo, Halle, ove parla dei rapporti degli
schiavi colla casa di cui fanno parte, sopratutto MARQUARDT, Das Privatleben
der Römer, Leipzig. Fra questi vocaboli basti citare quello, che ebbe poi tanta
parte nel vocabolario giuridico, di agree, che, secondo BRÉAL, nel suo
significato primitivo suo nava spingere,
stimolare, e si applica sopratutto al gregge; quello di grex talvolta applicato
al popolo; quello di ovilia adoperato per significare i recinti (septa ) ove il
popolo era distribuito per dare il voto nei comizii; i vocaboli di abgregare,
adgregare, congregare citati appunto da Festo come vocaboli di origine
pastorale (Bruns, Fontes, 331); quelli di pecunia, di peculium, di peculatus,
di ager compascuus, e molti altri i quali spiegano come VARRONE (Bruns, Fontes,
p. 388 ) finisca per esclamare. Romanorum populum a
pastoribus esse ortum, quis non dicit? Mulcta etiam nunc, ex vetere instituto,
bubus et ovibus dicitur, et aes anti quissimum, quod est flatum, pecore est
notatum. Si
vedrà invece a suo tempo che mentre la ricchezza del patriziato primitivo
consisteva di preferenza in greggi, in mandre ed armenti, che pascolavano nei
compascua della tribù, e poscia nell'ager pubblicus della città, la plebe
invece fin dagli inizii diede sopratutto opera all'agri coltura, concentrandosi
nella coltura del proprio heredium o mancipium. Questo G. C., Le origini del diritto di Roma. Del resto
quello, che qui importa, e sopratutto di mettere in evidenza il carattere
gentilizio della famiglia; poichè essa, fra le istituzioni anteriori alla
comunanza, è certamente quella che conserva più lungamente il suo carattere
primitivo. Quindi anche nel periodo storico si troveranno nel patriziato romano
quelle stesse formalità solenni e quelle cerimonie religiose, che dovevano
accompagnare gli atti relativi alla famiglia durante il periodo gentilizio. La
sola differenza consiste in questo, che all'approvazione dei padri del gruppo
gentilizio nella comunanza civile e politica sottentrerå - o la testimonianza
dei dieci Quiriti che rappresentano le curie in cui divi devasi la tribù e
l'intervento dei Pontefici, siccome accade nelle confarreatio, - o
l'approvazione delle curie, coll'intervento pure dei Pontefici, siccome accade
nella adrogatio e nel testamento, che per il patriziato verranno a compiersi
davanti all'assemblea delle curie, cioè in calatis comitiis (curiatis). Credo
ad ogni modo, che anche questa breve esposizione dei caratteri della famiglia
del patriziato romano dimostri abbastanza che essa non deve essere riguardata
come una istituzione del tutto primitiva, come alcuni vorrebbero considerarla, in
quanto che la medesima già erasi scostata in parte dalle sue primitive e
naturali fattezze, a causa della influenza, che ebbe ad esercitare su di essa
l'organizzazione gentilizia, di cui e entrata a far parte. Essa in sommanon è
più la famiglia, quale dovette uscire dagli istinti e dalle tendenze naturali
del genere umano; ma è già una famiglia che in parte ha soffocato i naturali
affetti onde fortificarsi per la lotta per l'esistenza e per entrare in
un'organizzazione, che funge da associa zione domestica, religiosa,militare e
politica ad un tempo. Ed è anche questa la ragione, che la renderebbe a noi
pressochè incomprensibile, se non fosse riportata nell'ambiente in cui ebbe a
formarsi. svolgimento storico pertanto conferinerebbe il risultato, a cui giunsero
SPENCER ed altri sociologi, secondo il quale sarebbe stato sopratutto il
periodo della vita pastorale, che avrebbe determinato la formazione e
l'afforzamento di quell'organizzazione gentilizia, che trovasi così
profondamente radicata presso il primitivo patriziato romano (V. SPENCER,
Principes de sociologie, Paris). Tale è ad esempio l'opinione del Sumner Maine,
che in questa parte fu com battuto dallo SPENCER. La gens e la sua importanza
per il patriziato di Roma. 28. Se la famiglia, quale comparisce più tardi nel
diritto Quiri tario, riproduce pur sempre i caratteri dell'antica famiglia
patrizia, altrettanto invece non può dirsi della gens, la quale perciò è assai
più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Sebbene in fatti la
gens mantengasi ancora lungamente durante la comunanza civile e politica, viene
tuttavia fin dalle origini della convivenza civile e politica, ad essere
sottoposta ad un processo di dissoluzione, in quanto che una parte delle sue
funzioni di un tempo, quelle cioè che avevano un carattere politico o militare
o legisla tivo, finiscono per essere a poco a poco assorbite dalla città. A cid
si aggiunge, che in questa parte la grande autorità di Niebhur, sulla fede di
un testo di Dionisio, a cui diede una interpretazione che non può essere
ammessa, pose gli investigatori della storia primitiva di Roma in un indirizzo
erroneo, in quanto che condusse a cre dere per lungo tempo, che la gens non
fosse che una ripartizione politica della città. Per tal modo l'organizzazione
politica della [NIEBHUR, Histoire romaine, trad. Golbery, Paris, ove parla: des maisons patriciennes et des curies e
specialmente a19. Ivi
l'illustre storico, avendo trovato che Dionisio divideva in dekádec le curie,
pensò che queste decurie non potessero essere che le gentes e trasportò così
l'organizzazione gentilizia nella città, concetto, che d'allora in poi ha
dominato le ricerche contempo ranee intorno a Roma primitiva, per guisa che
occorre pressochè universalmente di trovare che la città di Roma si divideva in
tribù, queste in curie e queste ul time in gentes. Così, ad esempio, anche gli
autori più recenti, pur avendo modifi cato il concetto della gens con ritenerlo
un ampliamento naturale della famiglia, continuano pur sempre in questa
distinzione. Citerò fra gli altri KARLOWA, Röm. R. G., il quale continua ad
essere intitolato: Das Volk und seine Gliederungen (tribus, curiae, gentes),
quasi che il popolo romano sia stato mairipartito in gentes; ed iLeist, Graeco-
Italische R.G. che segue pure la stessa distinzione. Così pure il WILLEMS (Le
droit public romain, Paris)che continua ancor esso a dire, che le curie si
suddividono in gentes. Questa distin zione non fu mai accennata dagli antichi
scrittori, i quali soltanto ebbero a dire con Gellio, che i comiziä сuriati si
raccoglievano ex generibus hominum, il che significa solamente, che nella
composizione delle curie si teneva conto della discen denza, mentre invece nei
comizii centuriati si badava al censo e nei tributi alle lo calità. Il populus
insomma è ricavato dalle gentes,ma non fu mai diviso in gentes.] città venne ad
essere confusa con quella patriarcale della gente e i due elementi gentilizio e
politico si confusero per modo che per qualche tempo fu impossibile riuscire a
sceverarli, ed anche oggi si scorgono evidenti, anche in dottissimi scrittori,
le conseguenze di tale confusione. Allora soltanto le indagini furono rimesse
in una via, che poteva condurre a qualche risultato, allorchè gli studii, che
si vennero facendo sul gruppo patriarcale nell'Oriente, dimostrarono che
anteriormente alla città era lungamente durato un altro pe riodo di
organizzazione sociale, che riceveva appunto il suo carat tere fondamentale
dalla gens, la quale, formatasi nell'Oriente, era poi stata trasportata
nell'Occidente tanto dalle stirpi Elleniche, quanto dalle stirpi Italiche. Fu
quindi collo studiare il gruppo patriar cale nell'Oriente, ove per circostanze
storiche speciali erasi mante nuto stazionario ed immobile nelle sue principali
fattezze, che si cominciò a comprendere e a ricostruire nel suo carattere
primitivo quella gente, che in Grecia ed in Roma era stata in parte trasfor
mata colla creazione dell'urbs e della civitas. Questo lavoro di ricostruzione
poté per le genti italiche essere agevolato da ciò, che Quanto alle dekádes di
Dionisio, il MUELLER ebbe a dimostrare che esse sono invece una divisione delle
centurie degli equites, al modo stesso, che esse erano pure una divisione del
senato -- MUELLER, Philologus. Si può infatti comprendere che i senatori, che
erano cento prima e trecento dappoi, si dividessero in decurie, e che così pure
si facesse delle tre centurie primitive degli equites, ma non si può veramente
capire come le curie, divisione dei Quiriti, che erano uomini di arme,
potessero suddividersi in gentes, le quali, essendo un ampliamento della fa
miglia, comprendevano maschi e femmine,maggiori e minori di età e così di
seguito. Il merito di aver richiamato
l'attenzione sul gruppo patriarcale presso le stirpi Arie, è da attribuirsi
sopratutto al Sumner MAINE, L'ancien droit, chap. V. La société primitive et
l'ancien droit,107 a 163. Tuttavia mi pare giustizia il far notare, che il
primo che abbia, se non provata, almeno intuita questa organizzazione
patriarcale delle genti primitive fu sopratutto il nostro Vico, il quale per
compro varla ebbe a citare quegli stessi versi di Omero, in cui parlasi delle
istituzioni pri mitive dei Ciclopi (V. 22, Scienza nuova, ediz. Ferrari,
Milano, ove parla dell'economia poetica e dice che i Polifemi furono i primi
padri di famiglia del mondo), dai quali prende appunto le mosse il SUMNER Maine
(pag. 118 ); versi del resto, che già erano stati citati da Platone nel dia
logo delle Leggi, quando voleva appunto dimostrare che il patriarcato era stata
l'organizzazione sociale primitiva non solo presso i Greci, ma anche presso i
Barbari. Plato, Leges, III, Ed. Didot, Paris, 1848. Del resto che
l'organizzazione gentilizia sia stata comune a tutti gli Arii e quindi anche ai
Greci e agli Italici è cosa, che oggidì non forma più argomento di discussione.
(Per maggiori particolari vedi C., La
vita del diritto, lib. I e II, e sopratutto a90 e seg.) i 37 esse più di tutte
le altre stirpi hanno saputo attribuire al gruppo gentilizio quei contorni
precisi e determinati, che solo si rinvengono presso quelle popolazioni, che
svolgono le proprie istituzioni sotto un aspetto essenzialmente giuridico. Di
qui la conseguenza, che, a parer mio, i veri caratteri dell'organizzazione per
gentes possono più facilmente essere trovati nelle poche reliquie delle
primitive genti del Lazio, che non nella stessa India, ove l'elemento religioso
preponderante fini per assorbire e soffocare ogni altro aspetto della vita
primitiva. 29. Intanto questo ormai si può affermare con certezza, che la
gente, anzichè essere una divisione artificiale della città, deve invece es
sere considerata come il perno, intorno a cui si esplica l'organizza zione
gentilizia. Essa è un naturale ampliamento della famiglia pa triarcale, in
quanto che non comprende più soltanto coloro, che dipendono dalla stessa patria
potestà, maabbraccia tutte le famiglie, che, memori dell'antenato comune, da
cui sono discese, non solo ne portano il nome, ma ne professano e perpetuano il
culto. Però oltre questo carattere, che la gens latina ha comune colle genti
Arie, essa ha eziandio un carattere suo peculiare, ancorchè comune forse alle
genti elleniche, il quale consiste in ciò che le gentes sono considerate come
proprie di quelle aggregazioni domestiche, che oltre all'avere uno stipite
comune, sono riuscite a mantenersi perennemente ingenue, immuni cioè da
qualsiasi rapporto di servitù e di clientela. Delle gradazioni del gruppo
patriarcale, la gens è quella che possiede elasticità maggiore, perchè talvolta
può avere le proporzioni soltanto di una famiglia, col qual vocabolo infatti è
talora indicata la stessa gens. E talvolta invece può avere già dato origine a
tante pro [Il vocabolo ad esempio di familia è adoperato per significare la
gens nel seguente passo di Festo. Familia antea in liberis hominibus dicebatur,
quorum dux et princeps generis vocabatur pater et materfamilias; unde familia
nobilium Pompiliorum, Valeriorum, Corneliorum (Bruxs, Fontes). Si possono
vederne molti altri esempi nel Voigt (Die XII Tafeln, Leipzig). In ciò si ha
una nuova prova che la familia e la gens fanno parte della stessa
organizzazione, per guisa che i due vocaboli si scambiano fra di loro. Mentre è
difficile trovare negli antichi scrittori il vocabolo di familia per indicare
il populus, loro pare invece di essere più esatti, paragonandolo ad un grez e
dividendolo al pari di questo in altrettanti capita. Del resto sono abbastanza
noti i significati molteplici, che ha il vocabolo familia nel diritto primitivo
di Roma, ove significa ora un complesso di persone o 38 paggini diverse da
prendere quasi le proporzioni di una grande e numerosa tribù, come la
tradizione ci narra essere accaduto della gens Claudia, da cui sarebbe
originata la tribù dei Claudienses, e della gens Fabia, le cui proporzioni
pervennero a tale che essa poté colle sole sue forze affrontare, secondo la
tradizione o leggenda che voglia chiamarsi, una impresa militare, che in tristi
circostanze appariva ardua alla intiera città. Non è dubbio tuttavia, che le
popolazioni italiche e sopratutto quelle del Lazio dovettero avere un criterio
per scindere la gens propriamente detta dalla familia in stretto senso e se
fosse lecita una congettura avvalorata da una quantità notevole di indizii, la
stregua dovette essere la seguente. Non vi ha dubbio che i caratteri distintivi
della famiglia primitiva erano due, cioè la patria potestà del suo capo e
l'esistenza di un patrimonio, probabilmente chiamato here dium, che apparteneva
esclusivamente alla famiglia nella persona del proprio capo. Di qui la
conseguenza, che tutti i discendenti nella linea maschile (comprese anche le
femmine non ancora uscite dal gruppo per matrimonio e quelle entrate in esso
per la stessa causa ) che dipendevano da un solo capo costituivano la famiglia
in stretto senso; ma questa poi continuava ancora a mantenersi e a considerarsi
tale, anche dopo la morte del padre, finchè il pa trimonio indiviso di essa
perpetuava in certo modo l'unità fami gliare. Che se invece i fratelli,
dipendenti un tempo dall'autorità di un solo padre, venivano a dividersi il
patrimonio famigliare e a rompere così anche quanto ai beni l'unità primitiva,
in allora venivano ad esservi altrettante famiglie, di cui ciascuna aveva un
proprio capo, ma che tutte facevano parte di una medesima gens, perchè
continuavano ad avere il medesimo nome e il culto comune per il proprio
antenato. La gens comincia pertanto quando cessa l'unità indivisa della
famiglia, e quindi nel periodo gentilizio quelli che erano agnati e che come
tali costituivano ancora la famiglia omnium agnatorum, finchè il loro
patrimonio era indiviso, costituivano già il primo grado della gentilità,
allorchè questa divisione era seguita. È di qui che provenne la difficoltà,
ancora non superata, per distin di cose, ora un complesso di persone, ora
soltanto un complesso di cose (fa milia pecuniaque) – ed ora infine il
complesso dei servi (familia rustica ed urbana).] guere gli agnati dai
gentiles, perchè colla divisione del patrimonio gli uni si potevano convertire
negli altri e fu solo posteriormente allorchè diventò più rara questa
indivisione, che si chiamarono agnati tutti coloro, che un tempo si erano
trovati sotto la patria potestà della stessa persona, ai quali si aggiunsero
poi anche quelli, che lo sarebbero stati se il comune capo non fosse premorto.
Non è quindi il caso di dover supporre col Muirhead, che l'ordine degli agnati,
cosi nella successione che nella tutela legittima, sia stata una creazione
artificiale della legislazione decemvirale per provvedere alla successione e
alla tutela dei plebei, che mancavano di genti. Gl’artificii nelle epoche
primitive sono meno frequenti che non si creda, e non si possono supporre che
quando ve ne siano prove dirette, quale è quella, ad esempio, che abbiamo
quanto alla fin zione di postliminio ed altre analoghe. Per contro il gruppo
degli agnati può benissimo essere attribuito ad una formazione spontanea
durante il periodo gentilizio, poichè era cosa naturale, come notd più tardi il
giureconsulto, che l'essere stati un tempo sotto la patria potestà della stessa
persona e l'aver partecipato al godimento dello stesso patrimonio dovesse
distinguere il gruppo degli agnati da quello più remoto dei semplici gentiles,
che solo avevano comune la discen denza da uno stesso antenato, ma che non
avevano mai dimorato nella stessa casa, nè avevano mai formato parte della
stessa famiglia. D'altronde sarebbe veramente strano ed incomprensibile, che la
le gislazione decemvirale avesse dovuto essa creare il concetto degli agnati,
mentre è appunto quest'agnazione, che sta a base delle or ganizzazioni
domestica e gentilizia, le quali certo già esistevano pre cedentemente. C [Che
l'ordine degl’agnati sia stata una creazione della legislazione decemvi. rale,
è uno dei concetti veramente nuovi enunciati dall'illustre autore dell' Historical
Introduction. Egli quindi insiste più volte sul medesimo e dopo averlo
accennato a43 nel testo e nelle note 2 e 3 vi ritorna sopra a121 e 172 e note
relative. Il solo suo argomento però consiste nei due testi di Ulpiano da lui
citati, ove il giureconsulto mentre dice che: lege duodecim tabularum
testamentariae hereditates confirmantur, usa invece, quanto alla successione
legittima, l'espressione che legitimae
hereditatis ius ex lege duodecim tabularum descendit, espressione che pure
adopera altrove quanto alla tutela legittima. È però evidente, che qui il
giureconsulto non parla solo della successione degli agnati, ma di tutta la
succes sione legittima, e quindi anche degli heredes sui, e dei gentiles, per
guisa che, se stesse il ragionamento del MUIRHEAD, converrebbe dire, che
secondo il giureconsulto tutto il sistema della successione legittima discende
dalle XII tavole. E questo ve [La gente intanto, dopo essere partita dal gruppo
degli agnati, che avevano diviso il patrimonio paterno, poteva poi prendere uno
svol gimento grandissimo, in quanto che essa poteva abbracciare tutte le
diramazioni per la linea maschile, che si staccavano da ciascuno di questi
agnati e non cessava mai di costituire una sola aggregazione gentilizia, finchè
tutte le famiglie continuassero ad avere lo stesso nome e a professare il culto
del medesimo antenato. Potevano perd darsi dei casi, in cui la gente cosi
pervenuta ad un numero stragrande di persone venisse a ripartirsi essa stessa
in diramazioni diverse; tuttavia anche allora il nome primitivo della gens è
sempre conservato, ma ciascuna delle diramazioni prende un proprio agnomen o
cognomen, che ne costituisce in certo modo la caratteri stica, ed è seguendo la
serie dei cognomina, che si possono seguire le propaggini tutte della stessa
pianta. Cosi accadde, ad esempio, della gens Claudia, la quale già
numerosissima conserva ancora una sola denominazione, ma che più tardi venne
assumendo una quantità di cognomina diversi, che indicano in certo modo il
punto, in cui sopra un unico ceppo cominciarono ad apparire diramazioni
diverse. Lo stesso è a dirsi della gens Cornelia e di molte altre, il che
serve, anche a spiegare come nel tempo in cui anche quella parte della plebe,
che già era pervenuta alla nobiltà cerca di imitare l'organizzazione gentilizia,
si veggano delle gentes plebeiae staccarsi da un fusto patrizio. Ciò infatti
deve probabilmente indicare un antico vincolo di clientela, che stringe
l'antenato, da cui parti la formazione della gente plebea, a gente patrizia.
Bastano queste considerazioni per spiegare l'energia vitale, che ramente fu
quello, che volle dire il giureconsulto; poichè furono appunto le XII tavole,
che, nell'intento di appoggiare l'organizzazione gentilizia, trasportarono di
peso la successione legittima esistente nelle tradizioni patrizie anche alla
plebe, nel che può vedersi uno dei motivi, per cui il cittadino romano, per
sottrarsi ad un sistema di successione, che era disadatto alla città e
conduceva all'esclusione di per sone care, credevasi quasi dimorire disonorato,
se moriva senza testamento. Fu quindi tutta la successione legittima e non
soltanto l'ordine degli agnati, che fu creazione dei decemviri, i quali la
tolsero dipeso dell'organizzazione gentilizia; in cui già eranvi le distinzioni
di heredes sui, di agnati e di gentiles, come appare dal fatto, che tutta
l'organizzazione gentilizia è fondata sull'agnazione, il che è pure ammesso dal
MUIRHEAD. Ciò del resto sarà meglio comprovato quando si tornerà sul gravissimo
argomento, discorrendo della successione legittima in base alle XII tavole.
Quanto all'agnazione e ai caratteri di essa è pure da vedersi il Voigt (Die XII
Tafeln) - poteva avere un gruppo, che, ad una compattezza pressochè uguale a
quella della famiglia, accoppiava talvolta il numero e la forza della tribù,
sopratutto allorchè essa era capitanata da uomini di energia tenace e di
propositi costanti, come furono per parecchie genera zioni quelli, che
guidavano la gens Claudia o la gens Valeria, e come in essa potessero anche
perpetuarsi tradizioni diverse, ostili o favorevoli alla plebe dapprima e poi
al partito popolare. È questo carattere della gens, che spiega la perennità di
un numero origi nariamente piccolo di genti patrizie, malgrado una quantità di
influenze, che tendevano a dissolverle e a circoscriverne l'azione. Così pure
deve spiegarsi il fatto che, mentre le tribù primitive, di fronte alla potenza
assorbente della città, finirono per scompa rire fin dal periodo regio con
Servio Tullio, le genti invece per. durarono per parecchi secoli, sostennero in
poche una lotta lunga e pertinace con una plebe, il cui numero veniva facendosi
sempre maggiore, ed anche vinte continuarono sempre a dare un contri buto
larghissimo a quegli onori e a quelle magistrature, che per secoli erano stati
loro privilegio esclusivo, finchè da ultimo anche l'impero fini per
consolidarsi per un certo tempo nei discendenti di antiche genti patrizie, che
si erano imparentate fra di loro. Del resto questa potenza del gruppo
gentilizio fu anche sentita da quella parte della plebe, che mediante
l'ammessione agli onori fini per costituire una nuova nobiltà, come lo dimostra
il fatto, che essa per afforzarsi non trovò mezzo più efficace di quello di
ricorrere al ius imaginum e di imitare cosi una organizzazione, che ormai
trovavasi in decadenza. Intanto i due caratteri fondamentali della gens, quali
si pos sono raccogliere dalle vestigia che ci rimangono delle antiche genti
italiche,malgrado le divergenze, che possono esistere nella descrizione dei particolari
minuti, si riducono essenzialmente ai seguenti, cioè, primo, alla discendenza
da un antenato comune, la quale rivelasi nel nome, nel culto, e nel sepolcro
comune; secondo, ed alla ingenuità perenne dei membri, che entrano a
costituirla, per modo che essa deve essersi ser bata immune da qualsiasi
mescolanza con persone di origine servile. Il primo di questi caratteri è
quello che costituisce la forza, la compattezza e la perennità
dell'organizzazione gentilizia, ed il se condo, che il pontefice Q. Muzio SCEVOLA
volle si aggiungesse alla deffinizione dei gentiles serbataci da Cicerone, è
quello che spiega la superiorità delle genti patrizie di fronte alla plebe.
Esse avevano attraversato un lungo periodo di lotta e di privata violenza
vincitrici sempre e non vinte mai, e quindi la loro gentilitas era indizio, che
esse appartenevano alla classe dei vincitori, il cui sangue non erasi mai
mescolato con quello dei vinti, dei servi e dei clienti, donde la conseguenza
eziandio, che il vocabolo patricii in sostanza non significava che gli ingenui,
il quale ultimo vocabolo allude ap punto alla niuna mescolanza del loro sangue
con quello servile. Questi due caratteri sono dimostrati anzitutto dalle varie
diffinizioni della gens stateci trasmesse da Varrone, da Festo, da Isidoro e da
altri, le quali accennano tutte alla discendenza dei gentili da un antenato
comune, e da quella anche di Cicerone, il quale, parlando di un nome comune – qui
inter se codem nomine sunt -- non esclude certamente, ma conferma il carattere
della comune discendenza e in tanto vi aggiunge quello della ingenuità non
interrotta dei gentiles. Questa del resto è pur confermata da ciò, che la plebe
stessa nelle sue discussioni coi patrizii se non ammetteva la loro discendenza
dal divino riconosce però, che il vocabolo Patrizio nelle sue origini significa
ingenuo. Di qui intanto si comprende come dapprima il patrizio e poscia tutti i
cittadini romani avessero *tre* appellazioni. La prima – prae-nomen -- indicava
l'individuo. L’altra e il vero nome – nomen -- designa la gente, a cui egli appartene in
quanto la gente e in certo modo il gruppo che contene le diverse famiglie. La
terza infine – cognomen – designa la famiglia, in quanto questa era una
particolare diramazione, della gente. A queste appellazioni si potevano poi
anche aggiungere Festus, vo Gentilis: Gentilis dicitur ex eodem genere natus, et is
qui simili nomine appellatur . Bruns, Fontes; VARRO, De lingua Latina. Ut in
hominibus quaedam sunt agnationes ac gentilitates, sic in verbis; ut enim ab
Aemilio homines horti Aemilii ac gentiles, sic ab Aemilio nomine declinatae gen
tilitates nominales. Bruns, Fontes, Isidoro. Gens est multitudo ab uno
principio orta, appellata propter generationes familiarum, id est a gi gnendo
uti natio a nascendo. Bruns; CICERO, Top. Gentiles sunt qui inter se eodem
nomine sunt. Qui ab ingenuis oriundi sunt. Quorum maiorum nemo servitutem
servivit. Qui capite non sunt deminuti. V. anche Livio. Per ciò che si
riferisce ai nomi romani è da vedersi il MICHEL, Du droit de cité romaine (Paris),
e sopratutto la trattazione veramente magistrale del MarQUARDT, Das Privatleben
der Römer, che nota come vi fossero gruppi, che non avevano cognomen, come gli
Antonië, i Duilii, i Flaminii ecc. Quanto agl’esempi citati nel testo a pag.40,
è pare a vedersi Bonghi, Storia di Roma, Appendice sulle primitive genti
patrizie, nella parte, che si riferisce alla gens Claudia e Cornelia] uno o più
soprannomi – agnomina -- che servivano a contraddistinguere l'individuo stesso
o per essere egli stato adottato da altra famiglia, o per impresa da lui
compiuta, o per indicare le suddistinzioni operatesi nella stessa famiglia. Può
darsi che in antico potesse esservi anche qualche indicazione della località
abitata dalla gente, a cui apparteneva l'individuo, come lo dimostrano i
soprannomi di Regillensis, Collatinus, e simili. Di questo si ha un indizio nel
fatto, che allora quando il territorio di Roma e veramente distribuito in tribù
locali, anche la indicazione della tribù comparve a completare le denominazioni
del cittadino romano, e precedette anzi il soprannome suo particolare. Del
resto, questi caratteri particolari della gens sono anche comprovati dalla
radice gen, comune alla gens latina e al genos dei greci, che significa
generare e produrre; come pure da ciò, che i nomi gentilizii sono nomi di
persona piuttostochè di luoghi, e che i diritti gentilizii, come il ius
hereditatis, il ius curae, il ius sepulchri sono di carattere eminentemente
privato. Così è pure dei sacra gentilicia, i quali da Festo sono annoverati fra
i sacra privata, che sono a spese delle singole genti, e contrapposti ai sacra
pubblica, che si compiono invece a pubbliche spese. Solo sembra far eccezione
il ius decretorum. Ma oltrecchè questo diritto sembra nel periodo storico
esercitarsi di preferenza in cose d'ordine privato, il medesimo puo facilmente
essere spiegato quando si consideri, che la genteha compiuto un tempo funzioni
politiche, che non puo scomparire di un tratto anche colla formazione di Roma. Tali
sono le appellazioni di Publius Cornelius Scipio Aemilianus, di Lucius
Cornelius Scipio Asiaticus, di Publius Cornelius Lentulus Spinther, ecc. V. Mar
QUARDT. VARRO, De ling. lat. In hoc ipso analogia non est, quod alii no mina
habent ab oppidis, alii aut non habent, aut non, ut debent, habent. BRUNS. FESTUS,
p Publica: Publica sacra, quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro
montibus, pagis, curiis, sacellis, et privata, quae pro singulis hominibus,
familiis, gentibus fiun. Bruns. I casi ricordati dalla storia, in cui le gentes
si sarebbero valse del ius decretorum, sarebbero i seguenti. La gens Fabia vieta
ai suoi membri il celibato e la esposizione degl’infanti (Dionisio). La gens
Manlia proscrive il prenome di Marcus (Livio). Affine, la gens Claudia proscrive
il prenome di Lucius (Svet., Lib. I), che ri chiamavano per esse tristi
ricordi. Più tardi però e il Senato, che prende simili provvedimenti, vietando
il prenome di Marcus agl’Antonië (Plut., Cic., 19), e quello [È invece assai
più difficile l'argomentare quale potesse essere l'organizzazione interna della
gens da quelle poche traccie, che ne rimangono nel periodo storico. Non si può
anzitutto accertare, se la gens ha sempre e costantemente un proprio capo – princeps
gentis --, o se il medesimo invece fosse eletto dal consiglio dei padri o
indicato dall'anzianità di nascita, solo allorchè trattavasi di qualche impresa
da compiere, come quando, ad esempio, Atto Clauso abbandona Regillo per recarsi
a Roma. Questo però è certo, che la gente dove avere un consiglio di anziani o
di padri, che raccoglieva in sè la somma dei poteri, e conserva e trasmetteva
le tradizioni della gente. Era nel suo seno, che si sceglievano gli arbitri e
gli amichevoli compositori delle controversie, che potevano sorgere fra i varii
capi di famiglia, che appartenevano alla medesima gente. Era questo consiglio
parimenti, che sull’ ager gentilicius fa degli assegni di terre ai clienti,
ed attribuie gl’ Heredia alle nuove famiglie che si formavano nel seno
della gente. E il medesimo ancora, che poteva richiedere il servizio militare
non solo dei suoi membri – gentiles -- ma anche dei dipendenti da essa – gentilicii.
Cosi pure era questo consiglio, che sovra intende alla condotta dei singoli
capi di famiglia, prevenne e reprime l’abuso dell'autorità domestica, ed impede
eziandio che i capi di famiglia, contro il buon costume della gente,
disperdessero quei beni – bona paterna avitaque -- di cui in certo modo erano
custodi nel l'interesse proprio e della famiglia e che, potendo, dovevano
trasmettere ai proprii eredi. E la gente infine che, in mancanza di prossimi
agnati, e chiamata a succedere al capo di famiglia morto senza eredi suoi, e che
dove perciò anche provvedere alla tutela perpetua delle femmine e a quella dei
figli, che fossero rimasti or di Cnaeus ai Calpurnii Pisones (Tacito). Parteno
eziandio dalla gens i provvedimenti, che riguardavano la sepoltura. È da
vedersi in proposito l'opera di Henri DANIEL LACOMBE, Le droit funéraire à Rome
(Paris), dove dice che la gens conserva il suo sepolcro gentilizio, finchè si
mantenne la sua organizzazione e l'unione stretta fra i suoi membri, cioè fin
sotto il principato. E allora che incominciano i sepolcri di famiglia od
ereditarii. Secondo quest'autore, mentre i liberti partecipavano ai sacra
gentilicia, e quindi probabilmente anche al sepulchrum gentilicium, essi invece
erano esclusi del sepolcro della famiglia, al quale hanno diritto soltanto gl’agnati.
In proposito del princeps gentis o magister gentis è da vedersi Voigt, Die XII
Tafeln, ove parla dei poteri al medesimo spettanti.] fani prima di essere
pervenuti alla pubertà, come pure doveva essere essa, che facevasi vindice
delle offese, che fossero recate ad alcuno dei membri che entravano a
costituirla. Da ultimo, fra i membri della gente esiste l'obbligo della
reciproca assistenza, per cui dovevano essere alimentati se indigenti,
riscattati se prigionieri, sostenuti nelle loro controversie, e vendicati se
fossero stati uccisi od ingiuriati. Se a tutto ciò si aggiunga il vincolo del
nome, quello del culto, e quello del sepolcro, e facile il comprendere come un
gruppo così intimamente connesso, unito nel passato e nell'avvenire, in vita e dopo
la morte, nelle cose divine ed umane non potesse essere facilmente distrutto
dalle influenze contrarie che si vennero svolgendo nella città. Esso continua,
durante il periodo storico, ad avere una quantità di istituzioni tutte sue
proprie, come lo dimostrano i vocaboli di gentilis e di gentilicius,
l'esistenza anche nel periodo storico di un ager gentilicius, quelli dei sacra
gentilicia, del sepulchrum gentilicium, per modo che, anche prima del formarsi
di Roma, dove svolgersi tutto un ius gentilicium, che governa appunto i
rapporti fra le varie persone, che entravano a costituire il gruppo gentilizio.
Esso quindi non deve confondersi col ius gentilitatis, che indica il complesso
dei diritti spettanti ai gentiles, al modo stesso che il ius civitatis indica i
diritti spettanti al civis. Così pure non può esservi dubbio, che il vocabolo
di iura gentium, che poscia ebbe a prendere un così largo svolgimento, dove
nascere già in questo periodo per indicare appunto i rapporti, che
intercedevano fra le varie genti e i capi delle medesime. Quanto ai poteri
della gens, tanto sui gentiles quanto sui gentilicii, è a vedersi Voigt, Die
XII Tafeln. La bibliografia copiosissima intorno alla gens può vedersi nel
BOUCHÉ-LECLERCQ, Institutions romaines, come pure nel WILLEMS, Le droit public
romain. Fra gli autori che tentarono la ri-costruzione del ius gentilicium,
sono a vedersi sopratutto KARLOWA, Römische R. G., MUIRHEAD, Histor. Introd. Parmi
tuttavia importante il distinguere il ius gentilicium, che comprende anche i
rapporti fra la classe superiore dei gentiles e quella dei dipendenti da essi o
gentilici, il ius gentilitatis che significa il complesso dei diritti spettanti
ai membri di una stessa gente (gentiles), e i iura gentium, che governano i
rapporti fra le varie gentes. Fra gl’istituti di questo ius gentilicium, quello
che più merita di essere preso in considerazione è certo quello della clientela,
essendo essa una delle cause del numero e dell'importanza, a cui giunsero i gruppi
gentilizii. I clienti, durante il periodo storico, costituiscono una classe
inferiore di persone, che appare vincolata al patriziato da certe obbligazioni
di carattere ereditario, in contraccambio della protezione e difesa che esso
gli accorda. Le due persone, fra cui intercede questo vincolo ereditario, sono
indicate coi vocaboli di patrono e di cliente, il quale ultimo vocabolo,
secondo l'opinione ora generalmente adottata, deriva da cluere, che significa
audire nel senso di essere obbediente. Come tali, i clienti entrano a far parte
della gente, a cui appartiene il loro patrono, ma non assumono perciò la
quantità di gentiles. Ma quella soltanto di gentilicii e costituiscono cosi nel
gruppo gentilizio una classe di uomini, di condizione inferiore, che in una
posizione già alquanto migliorata corrisponde all'ordine dei servi e dei famuli
in seno dell'organizzazione domestica. Il servo e il famulo non partecipano al
ius gentilitatis, ma sono sotto la tutela del ius gentilicium. È Dionisio
quegli, che ci ha conservato l'enumerzione più particolareggiata delle
obbligazioni e dei diritti, che intercedono fra il patrono ed il cliente,
attribuendo l'istituto della clien [Willems, Le droit public romain -- Non
potrei però convenire in ciò, che Willems considera i clienti come una classe
speciale di cittadini di diritto inferiore, perchè la clientela in ogni tempo e
sempre considerata come un rapporto di diritto privato e non mai come un
rapporto di diritto pubblico, che basta ad attribuire da solo la qualità di
cittadino. I clienti poterono poi avere tale qualità quando hanno degli assegni
in terre dal proprio patrono, mediante cui poterono figurare nel censo, ma non
si capisce come potessero essere considerati come cittadini e avere il diritto
di suffragio persone, le quali non potevano nep far valere direttamente le
proprie ragioni in giudizio, ma abbisognano perciò del patrono. Questa è ancora
sempre una conseguenza della confusione fra l'organizzazione gentilizia e
l'organizzazione politica. BRÉAL, Dict. étym. lat., vo Clueo. Cfr. MUIRHEAD,
Encyclopedia Britannica, vº Patron and client] -- tela allo stesso Romolo. Ma
egli è evidente, che anche la sua descrizione già altera alquanto le fattezze
della clientela, stante lo sforzo fatto per trasportare nella convivenza civile
e politica un'istituzione, che ee ata e si era svolta nell'organizzazione
gentilizia. Secondo Dionisio, il cliente ha delle obbligazioni, nelle quali si
può scorgere un carattere, che noi chiameremmo semi-feudale. Il cliente infatti
deve al patrono riverenza e rispetto; deve accompagnarlo alla guerra;
soccorrerlo pecuniariamente in certe occasioni, come nel caso di matrimonio
delle proprie figlie, e di riscatto di sè e dei figli se siano prigionieri,
come pure deve concorrere con lui a sostenere le spese di giustizia, ed anche
quelle dei sacra gentilicia. Ciò tutto fa credere, che i clienti ottenessero
dai loro patroni delle terre a titolo di precario, dalla cui coltura potevano
ricavare dei proventi che loro appartenevano, e che le terre loro assegnate
facevano parte dell' ager gentilicius, proprietà collettiva della gente; il che
non rende esatta, ma spiega l'etimologia as segnata al vocabolo di clientes,
che si dicevano così chiamati quasi colentes, perché avrebbero coltivate le
terre dei padri. Infine, Dionisio parla perfino dell'obbligazione del cliente
di non poter votare contro il patrono, la quale dimostrerebbe come la clientela,
adatta al gruppo gentilizio, venne ad essere un'istituzione ripugnante al
carattere di una comunanza civile e politica. Alla sua volta poi il patrono
dove al cliente protezione e difesa, e quindi e tenuto a provvederlo diciò, che
fosse necessario per il sostentamento di lui e della sua famiglia, il che
facevasi mediante concessione di terre, che il cliente coltiva per suo conto.
Esso dove di più assisterlo nelle sue transazioni con altre persone,
rappresentarlo in giudizio, apprendergli il diritto – clienti promere iura --,
ottenergli risarcimento per le ingiurie patite, averlo in certo [È Servius, In
Aeneidem, 6, 609, che vuol derivare il vocabolo di clients da quasi colentes. Si
enim clientes quasi colentes sunt, patroni quasi patres, tantundem est clientem
quantum filium fallere. (Bruns). Parmi tuttavia che, tenendo conto del contesto
della frase di Servio, qui il vocabolo quasi colentes non accenni tanto al
coltivare le terre, quanto piuttosto all'osservanza ed alla riverenza del
cliente verso il patrono, per guisa che anche l'etimologia di Servio
confermerebbe quella oggidì adottata. Questo passo di Dionisio, in cui egli
riporta le obligazioni rispettive del patrono e del cliente, attribuendo in
certo modo l'origine della clientela a Romolo, è riportato dal Bruns, Fontes] modo
in considerazione di membro della gente, ancorchè in condizione inferiore, in
quanto che nella gerarchia gentilizia il cliente venne bensì dopo gl’agnati, ma
era prima dei cognati e degli affini, i quali appartenevano ad un altro gruppo.
Questi obblighi poi scambievoli, in mancanza di sanzione giuridica, sono
collocati sotto la protezione del fas come lo dimostra la legislazione
posteriore di Le XII Tavole, la quale, sanzionando un obbligazione certo
preesistente, ebbe a stabilire – si patronus clienti fraudem fecerit, sacer
esto -- ed al pari di tutti gli altri rapporti gentilizii hanno un carattere
ereditario. Infine, siccome patrono e cliente appartengono entrambi allo stesso
gruppo gentilizio, ancorchè in posizione diversa, cosi Dionisio va fino a dire,
che essi non possono proseguirsi reciprocamente in giudizio, condizione anche
questa, che, consentanea al carattere dell'organizzazione gentilizia, ripugna
invece a quello della convivenza civile e politica, ove ognuno deve avere il
mezzo di poter far valere le proprie ragioni davanti ad un'autorità, che
accorda a tutti la propria protezione. Basta questa esposizione per dimostrare,
come la clientela e un istituto nato e svolto nell'organizzazione gentilizia
prima esistente, che continua ancora per qualche tempo a produrre i proprii
effetti a Roma, ove tuttavia si trova compiutamente disadatto, perchè ripugna a
quell'uguaglianza di posizione giuridica, che deve esservi fra coloro, che
partecipano alla medesima cittadinanza. Essa quindi era destinata
necessariamente a scomparire o quanto meno a trasformarsi, in quanto che nella
città le persone, che trovansi in condizione inferiore, possono essere
aggruppate nella plebe e fare a meno della protezione del patrono, essendovi
un'altra autorità che li tutela. Di qui la conseguenza, che la clientela potè
ancora mantenersi finchè i due ordini in lotta fra di loro si [MASURIUS SABINUS
– In officiis apud maiores ita observatum est. Primum tutelae, deinde hospiti,
deinde clienti, tum cognato, postea adfini. HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae
sup. -- Aulo Gellio invece accenna ad un'altra opinione, che dà la preferenza
al cliente sull'ospite. Noct. Att., V, 13. Che poi il cliente entri in certo
modo a far parte della famiglia è affermato da Festus, vº Patronus. Patronus a patre cur ab antiquis dictus sit,
manifestum; ut quia ut liberi, sic etiam clientes numerari inter domesticos
quodammodo possunt >; Bruns. Cfr. Karlowa, Römische R. G., attenneno ancora
strettamente alla propria organizzazione e rappresentano in certo modo due
elementi fra di loro contrapposti nella medesima Roma. Ma dopo il pareggiamento
invece dei due ordini, la clientela riusce solo più a mantenersi di nome,
anzichè di fatto. Senza più importare quegli obblighi di carattere religioso ed
ereditario, che ne conseguivano un tempo. I clientes si scambiarono cosi in
semplici aderenti, che accompagnavano il patrizio od anche l' homo novus nella
piazza e nel foro e ne costituivano in certo modo il corteo, e diventarono
anche semplici salutatores; il che tuttavia non tolse, che il vocabolo cliente
sopravvive alla istituzione da esso indicata, e rimanesse ad indicare il
rapporto di colui che si affida al patrocinio legale di un'altra persona,
ricordando così uno dei primitivi uffici, che il patrono ha certamente avuto
verso il proprio cliente. Tuttavia, anche dopo il pareggiamento dei due ordini,
allorchè la vera clientela già scompare nei rapporti fra i cittadini romani. Noi
la vediamo sopravvivere nei rapporti dei cittadini romani colle altre genti, in
quanto che trovansi le traccie di un ius applicationis, la cui origine rimonta
alle tradizioni gentilizie, col quale un individuo, un municipio, un re od un
popolo straniero ricorrevano al patronato di un cittadino romano per far valere
o avanti al Senato o davanti ai magistrati di Roma ragioni e diritti che essi
non sarebbero stati in caso di far riconoscere. Così pure nell'interno di Roma,
la clientela, ancorchè scomparsa come istituzione giuridica, continua pur
sempre ad esercitare una grandissima influenza sopratutto nel periodo dell’elezione
-- nel quale tutte le aderenze si mettono in movimento e quindi anche quelle
che ricordano uno stato di cose ormai scomparso. Accenna al ius applicationis
CICERONE, De orat. ma sembra che già ai suoi tempi fosse assai oscuro il
carattere di questa istituzione. Sonvi però autori, che, come MISPOULET,
vorrebbero scorgere nelmedesimo la forma contrattuale della clientela. Les
institutions politiques de Rome (Paris). In ogni caso converrebbe pur sempre
dire, che il ius applicationis poteva essere la forma, che riveste il rapporto
della clientela nell'epoca romana, ma non si potrebbe affer mare altrettanto
dell'epoca gentilizia. Le formole epigrafiche, da Mispoulet citate in nota, si
riferiscono alla così detta pubblica clientela, che era già stata creata a
somiglianza di quella prima esistente. Del resto punto non ripugna, che anche
la clientela potesse assumere un carattere contrattuale e che la formola di
essa puo anche essere analoga a quella ricostrutta da Voigt. Te mihi patronum
capio. At ego suscipio poichè noi troviamo qualcosa di analogo anche nella
deditio. C. Le origini del diritto di Roma. Quanto alla clientela, e sopratutto
disputata ed ha veramente grande importanza la questione intorno alla origine
di essa. Si è sostenuto in proposito che i clienti fossero i primi plebei stati
ripartiti da Romolo sotto il patronato dei patrizii; che essi fossero i primi
abitanti del Lazio ridotti a vassalli; che fossero gl’immigranti in Roma in
seguito all'asilo aperto da Romolo; che essi infine fossero antichi servi
manomessi, la quale opinione, posta innanzi da Mommsen, si appoggerebbe
sull'analogia, che corre fra gl’obblighi primitivi del cliente verso il patrono
e quelli che ancora si mantengono durante il periodo storico a carico dei *liberti*
verso il patrono. Di queste varie opinioni, quella che andrebbe a sorprendere
la clientela nella sua prima formazione e che sembra essere più con sentanea al
carattere dell'organizzazione gentilizia è l'opinione soste nuta da Mommsen,
per cui i primi clienti della gente sarebbero stati i servi, i quali, manomessi
dopo un lungo e fedele servizio nel seno della famiglia, sarebbero diventati
clienti nel seno della gente, a cui appartene il proprio patrono. Ciò e non
solo naturale, ma indispensabile nell'organizzazione gentilizia in quanto che,
se cosi non e stato, i servi manomessi si sarebbero trovati abbandonati a se
stessi e staccati da quel gruppo, al di fuori del quale non poteva esservi
protezione giuridica, finchè non fu costituita una vera autorità civile e
politica. Si aggiunge che l'organizzazione gentilizia è una formazione naturale
e spontanea, che cerca in ogni suo stadio di bastare a se stessa, e tende così
a ricavare dal proprio seno tutti i suoi successivi sviluppi. Viene quindi ad
essere naturale e serve anche a dare una certa elasticità ai varii gruppi
gentilizii e a permettere il passaggio da uno ad un altro la costumanza per cui
coloro, che erano stati famuli o servi nella famiglia, potessero essere accolti
come clienti o gentilicii nella gente. La clientela in tal modo venne a
costituire una condizione relativamente più elevata a cui poteva aspirare il
servo, e si comprende eziandio come la sua co-abitazione in una famiglia
potesse da una parte disporre la gente a renderlo partecipe del culto e del
sepolcro gentilizio, mentre dall'altra la sua fedeltà ed obbedienza nella
qualità di servo e preparazione all'ossequio ed alla riverenza del cliente, L'esposizione
più particolareggiata delle varie opinioni, colla indicazione degli autori, che
ebbero a professarle, occorre nel.WILLEMS, Le droit public Romain, e nel
Borché-LECLERC, Instit. Rom. È in questo senso che il concetto del Mommsen può
essere accettato. Ma il medesimo vuol essere reso compiuto col ritenere che qui
dovette verificarsi un processo, che è comune a tutte le istituzioni, per cui,
una volta creata la configurazione giuridica della clientela per mezzo di
elementi usciti dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia, si poterono poi
fare entrare in essa tutti coloro, che essendosi per qualsiasi causa staccati
da un gruppo abbisognavano di collegarsi ad un altro e di mettersi sotto la
protezione o difesa di esso. Come quindi e naturale, che il servo affrancato
dal capo di famiglia divenne cliente della gente a cui esso appartene, così
dovette pure essere naturale, che una volta creato il rapporto religioso,
giuridico ed ereditario della clientela e compresi nella medesima anche gli
immigranti, che si rifugiano presso la gente, vincolandosi mediante il ius
applicationis ad uno dei membri di essa, che ne diventava il patrono. Quelli,
che per un diritto di guerra universalmente riconosciuto fra le varie genti,
essendo posti nella condizione di dediticii, venivano ad esser privi di
religione, di territorio, e di mezzi di sussistenza. Quelli, che erano
soggiogati e vinti da una gente o tribù, che sopravveniva e si imponeva nel
sito da essi occupato. Quelli che, fermata la propria sede accanto ad uno stabilimento
di casate patrizie, ne ottenevano concessioni di terra e riconoscevano così il
patronato delle medesime. Tutti quelli insomma, che in un'epoca di lotta e di
violenza cercano protezione e difesa presso la gente, e che questa, per
affinità di stirpe o per altro motivo, riteneva di poter accogliere nella
comunanza gentilizia, assegnando pero ai medesimi una posizione subordinate. Cio
intanto dimostra come la clientela e una istituzione indispensabile in questo
periodo di organizzazione sociale. Serve ad incorporare nel gruppo gentilizio
persone, che altrimenti si sarebbero trovate nell'isolamento e percio prive di
diritto, e quindi, mentre da una parte accresce il numero e la forza delle
genti, dall'altra procura al cliente una protezione giuridica, di cui e stato
altrimenti privato. In questo senso non è certamente [Questa più larga
estensione data all'origine della clientela, che, senza escludere l'opinione di
Mommsen, la comprende, sembra essere giustificata dal seguente passo di Gellio:
Clientes, qui in fidem patrociniumque nostrum sese dediderunt] destituita di
fondamento la potente intuizione del nostro Vico. Vico ritenne che la clientela
o come egli la chiama il famulato e un mezzo indispensabile per giungere al
governo civile, in quanto che essa e il primo mezzo,mediante il quale individui
e famiglie di origine diversa poterono, coll'accettare una posizione dipendente
e subordinata, essere aggregate ad un gruppo, a cui non apparteneno per
nascita, senza tuttavia essere assorbiti intieramente nel gruppo stesso nella
qualità di famuli e di servi. Non può
quindi essere accolta l'opinione di coloro, che vorrebbero collocare il cliente
in una posizione intermedia fra il servo ed il plebeo, poichè sebbene sia vero
che l'uno poteva trasformarsi nel l'altro, tuttavia la clientela e la plebe
sono istituti, che compariscono in stadii diversi dell'organizzazione sociale.
Mentre la clientela appartiene ancora totalmente all'organizzazione gentilizia,
il comparire invece della plebe segna già l'iniziarsi della vita civile e
politica in seno della tribù, donde la conseguenza che la città formandosi
soffoca la clientela, mentre verrà invece a somministrare il terreno, sovra cui
la plebe potrà dispiegare la propria attività ed energia. Al disopra della gens
compare infine nella organizzazione delle genti italiche un'aggregazione più
vasta, che è quella della TRIBU, come lo dimostra il fatto, che, secondo la
tradizione, sarebbe dal confederarsi delle tribù dei Ramnenses, dei Titienses e
dei Luceres, che sarebbe uscita Roma, allorchè essa cesso di essere il
primitivo stabilimento romuleo. La tribù tuttavia, delle istituzioni anteriori
a Roma, è certo la più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze.
Siccome infatti essa, per le funzioni esercitate, e tra le varie aggregazioni
quella, che più si accosta Roma, così è anche quella, che per la prima e
assorbita dalla medesima, per modo che il nome stesso delle tre tribù primitive
di Roma sarebbesi forse perduto, se non l'avesse [Vico, Scienza nuova, Lib.
Della famiglia dei famoli innanzi delle città, senza la quale non potevano
affatto nascere le città – Milano] conservato la curiosità investigatrice di
qualche antiquario, e non ne fossero rimaste le vestigia nelle VI centurie
degli equites -- VI suffragia -- composte dei Ramnenses, Titienses e Luceres
primi et secondi. Gli è perciò che come e assai difficile il discernere la
gente dall'aggregazione più ristretta dalla famiglia, cosi non è meno difficile
il constatare in qual modo alle genti venga a sovrapporsi la tribù e come,
riunendosi le prime, venga ad apparire la seconda. Di questo pero possiamo
essere certi, che le tribù primitive di Roma risultavano composte da una
aggregazione di genti, le quali si venivano raggruppando intorno al capo di una
gente prevalente fra tutte le altre, da cui desumevano il loro nome complessivo,
il quale percio e ricavato dalla persona che guida la tribù, più che dal luogo,
ove questa era stabilita. Così, per arrestarsi alle due tribù primitive, la cui
origine è meglio accertata, si può essere certi, che la tribù dei Ramnenses rica
il proprio nome complessivo da Romolo *e* da Remo, che sono a capo di essa,
secondo la tradizione. Il che è pure di quella dei Titienses, il cui nome
deriva da Tito Tazio, capo della tribù sabina, stabilita sul Quirinale. Nel che
è anche a notarsi, che il nome della tribù viene ad essere composto in guisa
diversa da quello della gens, per guisa che mentre parlasi di una gens Romilia,
Titia è Claudia, le tribù invece vengono ad essere dei Ramnes o Ramnenses, dei
Tities o Titienses, e dei Claudienses. Di qui pud indursi, che la [Non mancano
negli autori delle trattazioni anche relativamente alla tribù; ma di regola
essa suol essere considerata come una ripartizione della città, nè cer casi di
ricostruire la tribù primitiva, che sola può porgere il mezzo di comprendere la
formazione della città. Tutti però concordano in riconoscere, che altre sono le
tribù primitive, fondate sul vincolo genealogico, ed altre quelle posteriori
introdotte da Servio Tallio, desunte invece dalle località, ove erano
stabilite. Cfr. CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte. Non può certamente essere
accettata l'etimologia di VARRONE, De ling. lat. (Bruns), il quale vorrebbe in
certa guisa far derivare il nome delle tre tribù dalle tre parti dell'agro, che
sarebbe stato fra esse distribuito. Ager romanus, primum divisus in partes *tres*,
a quo tribus appellatae Titiensium, Ramnium, Lucerum. Infatti l'opinione di
Varrone in questa parte è contraddetta da Livio, da Servio, da Dionisio, che
fanno invece derivare il nome delle tre tribù non dalle località, ma dal nome
dei loro capi. È quindi evidente, che qui VARRONE confuse in certo modo le
tribù primitive con quelle di Servio Tullio, come lo dimostra il [tribù
comincia a delinearsi, allorchè viene ad avverarsi un'aggregazione di gentes,
le quali, non essendo più strette dal vincolo della comune discendenza, si
raggruppano intorno al capo della stirpe prevalente fra di esse e mentre
conservano in particolare i proprii nomi gentilizii, assumono in comune un
nome, che desumono dal proprio capo. Questa formazione novella viene poi ad
essere determinata ogni qualvolta un'impresa o spedizione qualsiasi può porgere
occasione a questo aggregarsi delle gentes. Di qui la conseguenza che la tribú
- o può assumere un carattere pressochè militare, come accadde della tribù dei
Ramnenses, che sarebbesi formata fra le genti albane in occasione di una
spedizione di carattere militare, o può invece avere il carattere di una
propria comunanza di villaggio, come era di quella dei Titienses già stabilita
sul Quirinale. Tanto nell'uno quanto nell'altro caso la tribu assume immedia
tamente un carattere religioso, ponendosi sotto la protezione del divino domune
patrono – dius, dius-piter -- perchè fra
le genti non si puo comprendere un'aggregazione qualsiasi senza un vincolo
religioso che la stringa insieme. Qui intanto l'unificazione del gruppo divenne
indispensabile, anche per l'intento che la tribù si propone di conseguire, e
quindi viene ad accentuarsi assai più che nella gente la figura di un capo, che
prende il nome di praetor o di dic. fatto, che egli dopo continua con dire. Ab hoc agro quatuor quoque partes urbis tribus dictae ab locis, Suburana,
Palatina, Esquilina, Collina, etc. Del resto non pud neppure ammettersi, che
occorresse una divisione dell'agro fra le TRE TRIBU, dal momento che ciascuna
continua ad avere il proprio terrritorio, salvo che si tratta, non di una
ripartizione di territorio, ma di una divisione meramente amministrativa, come
dovette appunto essere. Secondo Bouché-LECLERCQ, la cui competenza è
incontrastabile nella parte, che si riferisce alla religione di Roma per i suoi
studii sui pontefici e sull'arte della divinazione, il culto delle tribù de'
Ramnenses sarebbe stato quello di Marte e QUIRINO quello della tribù dei
Titienses sarebbe stato quello di QUIRINO e di Giano. Quello infine della tribù
de' Luceres sarebbe stato quello di Giove, sebbene queste varie divinità
sembrino talvolta confondersi fra di loro, il che accade quanto a Marte e a
Quirino, come pure di Giove e di Giano. Si può aggiungere, che del triplice divino
rimasero ancora le traccie nei tre flaminimaggiori, che sono quelli di Marte,
di QUIRINO e di Giove (Gaius I, 112). Di qui LECLERCQ ricava indizi dei diversi
stadii, che Roma ha a percorrere nella sua formazione progressiva. Institutions
Romaines] tator, se la tribù si trova avviata ad una spedizione; di iudex in
tempo di pace; di magister pagi, se trattisi di una comunanza di villaggio già
ferma in un determinato sito; dimeddix, come accadeva presso gl’osci, ed infine
anche di rex, sebbene questo vocabolo, sembri comparire di preferenza quando
trattisi del capo di una città propriamente detta. Tuttavia questo capo suol
essere nella tribù ancora designato di preferenza dalla nascita, che non
dall'elezione; come lo dimostra il fatto, che i due duci della tribù dei
Ramnenses sono entrambi di stirpe regia e per essere *gemelli* debbono
conoscere mediante gli auspicii quale di essi sia chiamato a fondare la città,
o meglio il primo stabilimento romuleo sul Palatino. Quando invece da capo
della tribù dei Ramnenses, Romolo dove già trasformarsi in reggitore della
civitas, formatasi mediante la confederazione di varie tribù, in allora,
secondo Dionisio, e già necessaria l'approvazione dei padri e la creazione del Popolo.
Però accanto al capo si mantiene ancor sempre un consiglio, che può continuarsi
a chiamare dei patres, perchè è effettivamente composto dei capi delle singole
genti, e a cui probabilmente già viene data la denominazione di senatus. Infine,
nella tribù già può avverarsi la riunione – comitium – degl’uomini, che colle
armi – iuniores -- o col consiglio – seniors -- possono provvedere alla comune
difesa od al comune in teresse; donde la conseguenza, che già nella stessa
tribù può venirsi iniziando il concetto eminentemente concreto ed organico del
populus”, salvo che gl’elementi per costituirlo si ricano ancora direttamente
dalle varie genti – ex generibus hominum” -- cosicchè la sua classificazione
continua ancora sempre ad avere un carattere prettamente gentilizio. Questa naturale formazione della tribù
dimostra, come la medesima corrisponda fra le genti italiche a ciò che per
l'Oriente suol essere indicato col vocabolo di vîc” o comunanza di villaggio, e
fra I greci col vocabolo di dñuos. Essa costituisce in certo modo [Dion., HAUSSOULIER,
La vie municipale en Attique”. Devo però far no tare che, secondo l'autore, il
demos dei Greci sarebbe già una vera associazione civile e politica e
corrisponderebbe alla curia” e più soventi al pagus”, sebbene a mio avviso la
curia ed il pagus siano due cose compiutamente diverse. La curia”, infatti, è
una divisione politica di Roma. Il pagus” e la località, in cui dimora la
tribus. Crederei quindi più esatto che il demos corrisponda a quest'ultima.] il
più largo sviluppo, a cui pervenne l'organizzazione patriarcale, perchè mentre
il suo elemento costitutivo e il modello, a cui si in forma, è pur sempre il
gruppo gentilizio, da essa pero già si vengono elaborando quegl’elementi, che,
trasportati nella comunanza civile e politica, finiranno per dare origine ad un
rapporto del tutto nuovo, che è quello della civitas”, il quale più non
dispiegasi nel pagus” come la tribù”, ma bensi nell' urbs”. Ben si potrebbe
osservare contro questo tentativo di ri-costruzione” concettuale, che la tribù
mal puo essere l'ultimo stadio dell'organizzazione patriarcale, mentre essa
ricompare poi come la prima ripartizione della città; ma anche ciò può essere
facilmente spiegato quando si consideri, che era dalla tribus, che si sono
ricavati i primi elementi, in base a cui si costituie Roma, come lo dimostrano
anche i vocaboli di tri-bunus”, tri-butum”, tri-bunal”, i quali tutti
richiamano la tribù”, e quindi era conforme al processo costantemente seguito
nelle formazioni italiche, che l'edifizio novello di Roma si ripartisse
nell'interno sul modello degli elementi primitivi, che con correvano a
costituirlo. D'altronde è noto, che le tribù di Servio Tullio hanno un
carattere di preferenza locale e non già genealogico come le tribù primitive. Intanto,
senza volere per ora trattare a fondo dell'origine della plebe, non sarà
inopportuno indicare, che è certamente colla formazione delle tribù, il cui
nucleo è ancor sempre composto di genti patrizie, che può essersi iniziata la
formazione della plebs, essendo naturale che attorno ad uno stabilimento di
genti patrizie, che già riconoscono un capo, si venne formando una comunanza
plebea, che provede al proprio sostentamento, o coltivando terre concesse dalle
genti o dal capo di esse, o esercitando i mestieri e le professioni diverse. Il
bisogno di questo nuovo elemento puo essere sentito dalle stesse genti, per
quanto esse coi loro servi e coi loro client sono organizzate in guisa da poter
bastare da sole a tutte le loro esigenze. Ciò è comprovato eziandio da quelle
Quanto al diverso svolgimento di questi varii elementi in Roma, vedi C., La vita del diritto nei suoi rapporti
colla vita sociale”] come pure: Genesi e sviluppo delle varie forme di
convivenza civile e politica, colle opere ivi citate. La distinzione è fatta
nettamente da Dionisio, il quale chiama la tribù primitiva qulai revikai” e
quelle di Servio Tullo qulai totikaí”.antiche formole, in cui parlasi di
populus et plebes, dualismo il quale fa credere che dovette esservi un tempo,
in cui si chiamo populus l'assemblea politica e militare ricavata dal seno
delle genti, secondo il rito e l'ordine prescritto dalle consuetudini e dalle
tradizioni, mentre invece si chiama plebes dapprima e poscia plebs (da pleo”,
riempire) quella moltitudine ragunaticcia, che dopo essersi cominciata a
formare con clienti rimasti senza patrono e che come tali venivano ad essere
esclusi dal gruppo gentilizio, potè poi una volta formata accrescersi in guise
varie e molteplici. Questo infatti risulta dalla storia delle istituzioni
sociali, che il compito più difficile nella grande povertà delle idee primitive
è la formazione di un nuovo gruppo. Ma quando esso è formato e corrisponde alle
esigenze dei tempi, viene ad essere un potente richiamo per tutti gl’elementi,
che per questo o quel motivo si vengono staccando dall'organizzazione prima
esistente, e che abbandonati a se cercano un nucleo novello a cui possano
aderire. Riassumendo questa lenta e faticosa ricostruzione dell'organizzazione
sociale delle genti Italiche anteriore a Roma, credo che la medesima abbia
abbastanza dimostrato, come l'organizzazione stessa siasi venuta svolgendo
mediante un processo di naturale e spontanea formazione, costituita in certo
modo da altrettanti sedimenti, che si vennero sovrapponendo l'uno all'altro, in
modo pero che gli elementi, che formansi in ciascuno di essi, subiscono delle
trasformazioni allorchè passano in quelli che vengono dopo. Infatti, anche
lasciando in disparte la grave questione della provenienza delle genti Italiche,
è molto probabile, che esse già recassero con sè l'organizzazione gentilizia,
quantunque la medesima non avesse forse assunto quelle determinazioni precise,
che acquisto più tardi. Furono i conflitti delle genti colle stirpi già stabilite
sullo stesso suolo, le lotte fra vincitori e vinti, e quelle eziandio fra le
stesse genti migranti, che presto dimenticarono la discendenza comune, che
produssero un irrigidirsi dei varii gradi dell'organizzazione gentilizia e
condussero alla formazione di una potente aristocrazia territoriale, militare e
religiosa ad un tempo, che attrasse anche i vinti nei quadri del proprio
ordinamento, collocandoli però in una posizione subordinata a quella dei
vincitori. Ne consegui che la famiglia, per rendersi atta a sostenere i
conflitti cogli altri gruppi, si venne concentrando e raggruppando sotto il
potere del proprio capo, il quale sembra quasi perdere l'aureola di padre per
assumere quella di sacerdote, di giudice, di uomo di guerra e di fondatore di
una schiatta destinata a perpetuarsi. Intanto le persone, cheda lui dipendono,
si dividono in liberi o figli e in servi o famuli, due vocaboli che si
contrappongono fra di loro ed indicano due classi di uomini, che rimarranno
distinte per contrassegnare in certo modo la discendenza dei vincitori e quella
dei vinti. Di qui quel carattere eminentemente monarchico della costituzione
della famiglia gentilizia, che tenacemente conservato nella famiglia quiritaria
fini per attribuire alla medesima quella speciale impronta, che i giureconsulti
romani più non ravvisavano nelle istituzioni famigliari degl’altri popoli. La
gente invece continua sempre a ritenere alquanto dell'elasticità primitiva, nè
giunge ad una concentrazione uguale a quella della famiglia. Ma intanto, memore
del culto del proprio antenato, custode gelosa delle proprie tradizioni,
riunita e resa compatta dai comuni pericoli, accresciuta dai clienti, si cambia
anch'essa in una specie di corporazione potente, che continua ad essere il
perno del l'organizzazione gentilizia, e mentre da una parte tiene unite le
famiglie, dall'altra, aggruppandosi con altre genti, dà origine alla tribù.
Intanto però anche in essa continua quel dualismo, che già erasi rivelato nella
famiglia, salvo che i rapporti fra quelli, che un di furono i vincitori e
quelli che furono i vinti, rimettono al quanto della propria rigidezza, e
vengono cosi a trovarsi di fronte i gentiles ed i gentilicii, i cui rapporti.
prendono un carattere pressochè giuridico nel patronato e nella clientela. Così
pure nella gente, accanto all'elemento monarchico della famiglia, già viene a
svolgersi un elemento, che potrebbe chiamarsi aristocratico, il quale
costituisce un consiglio degl’anziani, che concentra in sè medesimo le
principali funzioni, che appartengono alla gente. Da ultimo, nella tribu havvi
pur sempre un'aggregazione di genti, ma intanto fra le medesime già distinguesi
una gente, che predomina su tutte le altre e viene così ad essere ritenuta come
di stirpe regia. Di qui la conseguenza, che in essa compare la figura di un
capo, che è il principe della gente, che predomina su tutte le altre,
conservasi il consiglio degl’anziani, che già mutasi in senato, perchè è già
composto dei capi di genti diverse, ma intanto aggiungesi l'elemento
democratico o popolare, che componesi di tutti gl’uomini, che, ricavati dalle
varie genti, possono valere come uomini di armi o come uomini di consiglio. Cio
però non toglie, che continui sempre il dualismo, che già esi steva negli altri
gruppi in quanto che accanto al popolo formasi la plebe, la quale trovasi
dapprima al di fuori della comunanza gentilizia e ha percio più un'esistenza di
fatto, che non un'esistenza di diritto. Essa è dapprima riguardata con
disprezzo dal patriziato, perchè esce dai quadri consacrati dalla religione e
dal diritto delle genti. Ma cio non toglie, che passandosi dall'organizzazione
gentilizia a Roma essa sia l'unico elemento, che possa sostenere la lotta
coll'antico ordine di cose. Per tal modo si ha nel periodo gentilizio una vera
formazione naturale delle varie condizioni di persone e dei varii elementi, che
entrarono più tardi a costituire la comunanza civile e politica. Che anzi,
mentre dura ancora il periodo gentilizio, già si vengono lentamente e
gradatamente elaborando quei concetti, che serviranno poi di base a Roma. Tantae
molis erat romanam condere gentem. Non è già che questo processo di naturale
formazione sia proprio soltanto delle genti italiche, in quanto che le traccie
di essa appariscono evidenti presso tutte le stirpi di origine aria. Nessuna
però giunse a racchiudere i varii stadii di questa formazione in forme più
determinate e precise delle stirpi italiche, e sono esse parimenti che,
gettando nel crogiuolo i materiali tutti elaborati e conservati nel periodo
gentilizio, seppero ricavarne le basi e il fondamento di Roma. Ciò è stato
provato largamente dal SUMNER MAINE, L'ancien droit. È poi interessantissima a
questo proposito la comparazione, che fa Revillout fra l'organizzazione
domestica dei romani e quella che vigeva presso gli Egiziani nella sua opera
col titolo, Cours de droit égiptien (Paris) della quale può considerarsi come
un compimento, per ciò che si riferisce alle forme di celebrazione del
matrimonio, il lavoro del suo allievo PATURET, La condition juridique de la
femme dans l'ancien Egipte (Paris). Fra i problemi, che presenta la storia
delle istituzioni primitive di Roma, uno fra i più difficili per comune accordo
degli autori è certo quello, che si riferisce all'origine di quella forma di
proprietà, che suol essere indicata col nome di proprietà quiritaria, la quale
in certo modo venne ad essere il modello, sovra cui si foggia la proprietà
presso la maggior parte dei popoli civili. A questo proposito le tradizioni a
noi pervenute sembrano presentare alcune contraddizioni a prima giunta
inesplicabili. Da una parte infatti, anche dopo la formazione di Roma, si
rinvengono ancora le traccie di una proprietà collettiva, conosciuta sotto il
nome di ager gentilicius e di ager compascuus, mentre dall'altra la proprietà
quiritaria si presenta fin dai proprii inizi con un carattere cosi assoluto ed
esclusivo, che sembra perfino escludere la possibilità dell'esistenza anteriore
di una proprietà collettiva. A cio si aggiunge, che mentre da una parte la
storia primitiva di Roma ci dipinge il patriziato fin dai più antichi tempi in
condizioni tali da concentrare nelle sue mani tutto il capitale – pecunia -- allora esistente, e come il proprietario
pressochè esclusivo di una gran parte del territorio, dall'altra la tradizione
parla di una ri-partizione fatta da Romolo del territorio di Roma e di un
assegno da esso fatto di soli due iugeri – bina iugera -- ai capi di famiglia, che lo segueno, il quale
assegno avrebbe co stituito il primo patrimonio – heredium -- del più antico
patriziato, che era quello della tribù dei Ramnenses. Ecco i principali passi
di filosofi che si riferiscono all'argomento. VARRONE:: Bina iugera, quod a
Romulo primum divisa viritim, quae heredem sequerentur, heredium appellarunt.
PLINIO: Bina tunciugera populo romano satis erant, nullique maiorem modum
attribuit (Romulus). Lo stesso Plinio: M. Curii nota dictio est, perniciosum
intel legi civem, cui septem iugera non essent satis. Haec autem mensura plebi post ex ictos reges adsignata esto. (Brons, Fontes).
Se
ne ricaverebbe pertanto - Non è quindi meraviglia se le congetture a questo
proposito siansi avviate in direzioni compiutamente diverse. Alcuni ritenneno
che la proprietà privata in Roma sia stata una creazione dello stato. Contro
questa opinione si è osservato che l'idea di una sovranità territoriale e
affatto ignota ai romani, per guisa che un'imposta fondiaria qualsiasi sarebbe
loro parsa un segno di soggezione odioso tanto, che fino al principato, Roma e
l'Italia ne furono escluse. In senso contrario, si fa pero notare, che non può
ammettersi che la proprietà in Roma siasi potuta sottrarre a quella evoluzione
storica, che sarebbesi avverata presso tutti i popoli, in quanto che Roma
avrebbe esordito con un concetto della proprietà, che presso gli altr’popoli
non si rinviene che quando essi sono pervenuti al termine della loro
evoluzione. Ne deriva che, lasciando in disparte le gradazioni diverse delle
opinioni intermedie, le teorie estreme si potrebbero ridurre essenzialmente
alle seguenti. Vi ha l'opinione di Niebhur, di Mommsen, seguita anche da molti
altri, fra cui noto De Ruggero, secondo cui la proprietà in Roma, come presso
gl’altri popoli, sarebbe prima esistita sotto forma collettiva e non sarebbesi
cambiata in proprietà esclusivamente privata ed individuale, che colla
ammessione della plebe alla cittadinanza e cogli assegni di terre fatti dallo stato
ai che ai primi fondatori dello stabilimento romuleo l'assegno non fu che di
due iugeri, mentre poi più non parlasi di altri assegni fatti anche al
patriziato. Per contro gli assegni posteriori, incominciando da Numa,
appariscono fatti ai plebei ed anzi ai più poveri della plebe. Solo fa eccezione
Cicerone, il quale dice che Numa divide fra i cittadini l'agro pubblico
conquistato sotto Romolo – agros divisit viritim viribus (De rep.). Ma in ciò è
contraddetto da Dionisio, il quale parla di una distribuzione da Numa fatta ai
più poveri, Quanto agl'assegni attribuiti ai re, che vennero dopo, sono tutti
fatti alla plebe, ed è dopo le leggi Licinie Sestie, che i medesimi furono
portati a sette iugeri. Ciò è attestato fra gl’altri da Columella, De re
rustica. Post reges exactos Liciniana illa VII iugera, quae plebi tribunus
viritim diviserat, maiores quaestus antiquis retulere, quam nunc nobis praebent
amplissima vetereta. Ho citato questi varii testi per provare, che il solo
assegno fatto ai primi padri o capi di famiglia fu quello di II iugeri
attribuito a Romolo, mentre gli altri sono fatti alla plebe; il che dimostra
che i padri dovettero continuare ad avere i loro agri gentilizii. PADELLETTI,
Storia del diritto Romano, con annotazioni di Cogliolo, Firenze, si sforza, e a
parer mio, inutilmente, a dimostrare che il piccolo heredium di II iugeri puo
bastare ai bisogni della famiglia, stante la coltura intensiva applicata al
medesimo.] singoli cittadini; e vi ha quella invece, sostenuta con ardore dal
nostro Padelletti, secondo cui sarebbe affatto esclusa questa origine
collettiva dalla proprietà, in quanto che l'istituto della medesima, quale si è
svolto fin dai più antichi tempi di Roma, per usare le sue stesse parole,
avrebbe assunto un carattere spiccatamente privato ed avrebbe segnato il grado
più perfetto, a cui sia pervenuto il regime della proprietà. È poi degno di
nota che siccome oggidi la ricerca intorno all'origine delle proprietà assunse
le proporzioni di una questione economica e sociale, in quanto che ad essa si
rannodano teorie diverse intorno all'ordinamento delle proprietà, così la
ricerca delle sue origini presso un popolo, le cui istituzioni esercitarono
tanta influenza sopra tutti gl’altri, ha assunto eziandio il carattere di un
problema economico e sociale. Sonvi infatti coloro che, come Laveleye ed altri
autori più o meno apertamente favorevoli ad un ordinamento collettivo della
proprietà, vogliono trovare, anche presso [L'autore, che primo approfondì i
concetti dell' ager publicus e dell’ ager privatus, è certamente Niedhur,
Histoire romaine. Niedhur però sembra partire dal preconcetto, che
anteriormente a Roma non esiste proprietà privata, e che questa e costituita
mediante gli assegni stati fatti alla plebe. La sua opinione e seguita da Puchta,
Corso delle Istituzioni. Trad. Turchiarulo, da MOMMSEN (Histoire romaine). Segue
pare questa opinione De-RUGGERO nei suoi dotti articoli sull’ ager publicus,
ager privatus, e sulle lex agrariae, inserti nell'Enciclopedia giuridica
italiana, come pure nel suo precedente lavoro, La gens in Roma avanti la
formazione del comune (Napoli). PADELLETTI. La questione dell'origine
collettiva della proprietà comincia dall'essere posta in campo dal Sumner Maine
(L'ancien droit, -- Histoire de la propriété primitive). Essa poi fu allargata
da Laveleye nel La propriété et ses formes primitives, dove si oc cupa della
proprietà presso i romani. Di recente poi la discussione -surse di nuovo, a
proposito della proprietà primitiva presso i germani, in occasione di una
dissertazione letta da FUSTEL DE COULANGES all'Accademia di Scienze morali e
politiche di Parigi, in cui sostiene che anche i primitivi germani conosceno la
proprietà famigliare e privata. Alla discussione presero parte GEFFROY,
Glasson, Aucoc e Ravaisson, e ne usce una specie di studio comparativo fra la
proprietà e la famiglia romana e la proprietà e la famiglia dei primitivi germani.
Compte rendu de l'Académie des sciences morales et politiques. L'opinione del
Fustel DE COULANGES, quanto alla proprietà privata già conosciuta dai germani,
e stata già sostenuta in modo anche più esclusivo da Ross, The early of
Land-holding among the Germans (Boston)] i Romani, le traccie di una proprietà
collettiva, mentre altri, sostenitori invece della proprietà privata ed
individuale, cercano di avere per sè l'autorità di un grande popolo per
giustificare la forma di proprietà che è loro prediletta. Il vero si è che
tanto l'una come l'altra teoria solleva dei grandi dubbi. Da una parte infatti,
quando si riconosca presso i romani solo una proprietà originariamente
collettiva, viene ad essere inesplicabile come un popolo, che suole procedere
così gradatamente nella trasformazione delle proprie istituzioni giuridiche,
abbia potuto senza altro operare una rivoluzione così radicale nel concetto
della proprietà. Dall'altra, se si sostiene che la proprietà romana e
senz'altro una proprietà assoluta ed esclusiva, non è men vero che il popolo romano
sembre rebbe appartarsi da tutta l'evoluzione della proprietà, quale almeno
sarebbe stata formolata da coloro, che si occuparono delle forme primitive
dalla medesima assunte. In questa condizione di cose non puo negarsi la gravità
e la importanza del problema, e questo è certo che il medesimo non potrà mai
essere risolto, finché non si ricerchino le condizioni della proprietà presso
le genti del Lazio, per mettersi cosi in caso di apprezzare le trasformazioni,
che esse ebbero a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla comunanza
civile e politica. Tuttavia, prima di inoltrarsi nella ricerca, non e inopportuno
di premunirsi contro alcune idee, che, sopratutto in questi ultimi tempi, si
vennero introducendo intorno alla legge di evoluzione storica, che governa la
proprietà. Laveleye cerca di stabilire sopra una grande quantità di fatti una
legge storica, secondo cui la proprietà comincia dall'esistere sotto forma
collettiva e poi sarebbe venuta assumendo un carattere sempre più individuale,
lasciando così sottintendere, che l'unico rimedio di ovviare a questa
individualizzazione soverchia della proprietà sarebbe quello di richiamare
l'istituzione ai propri inizii. L'opera del LAVELEYE è quella già citata col
titolo, La propriété et ses formes primitives (Paris), e la legge storica
ricordata nel testo è da lui formolata nello stesso primo capitolo, il che
giustifica alquanto la censura fattagli dal PADELLETTI di essersi sforzato a
dimostrare una tesi. Del resto le idee del LAVELEYE trovano molti seguaci e
possono anche essere accettate in certi confini, con che non si voglia cambiare
in una legge storica generale un fenomeno, che ebbe solo a verificarsi in un
periodo dell'umanità stessa, cioè nel periodo gentilizio. Di più si potrebbe [Senza
entrare ora nella discussione di questa legge, devesi però notare, che ricerche
di altri investigatori imparziali, fra i quali
Spencer, hanno già dimostrato, che una legge di questa natura non puo
essere ammessa, in quanto che presso popoli del tutto primitivi già si trovano
le traccie di una proprietà privata ed individuale. Quindi è che l'unica legge
storica, relativa all'evoluzione della proprietà, che allo stato attuale degli
studi possa formolarsi, e che la proprietà, essendo una istituzione
eminentemente sociale, ha in tutti i tempi ad assumere tante forme, quanti sono
gli stadii per corsi dall'organizzazione sociale. Sopratutto poi la storia
delle istituzioni giuridiche presso i varii popoli dimostra, che le sorti della
proprietà si presentano strettamente connesse con quelle della famiglia, cosa
del resto che può essere facilmente compresa quando si consideri, che il primo
bisogno della famiglia e certamente quello di assicurare il proprio
sostentamento. Siccome pero la famiglia nel periodo, che suole essere chiamato
patriarcale, entra essa stessa a far parte di un organizzazione maggiore, che è
l'organizzazione gentilizia, cosi anche la proprietà finisce per assumere tante
con figurazioni diverse, quanti sono i gradi di questa organizzazione sociale.
Ciò può scorgersi anche presso quei popoli, i quali sono recati come esempio da
quelli, che sostengono che nelle origini e prevalso il regime collettivo della
proprietà, quali e le antiche comunanze dell'Oriente e anche dell'Occidente, il
cui ter sempre notare a LAVELEYE e con esso al SUMNER MAINE che, finchè non sia
provato che l'organizzazione patriarcale è l'organizzazione primitiva, non si puo
neppure sostenere che la forma di proprietà, che trovasi durante
l'organizzazione gentilizia, sia la forma primitiva. Quanto alla letteratura
copiosa sull'argomento, può vedersi il dotto lavoro di VioLLET (Précis de
l'histoire du droit français, Paris). L'autore ritiene, che la proprietà
privata e la collettiva possano essere ugualmente antiche, ma che nella origine
ha prevalenza la proprietà collettiva, mentre la proprietà individuale sarebbe
stata ristretta a qualche cosa mobile di uso esclusivamente personale. Questa
proprietà collettiva si e poi venuta frazionando ed avrebbe assunto un
carattere sempre più individuale, in quanto che la proprietà famigliare e
privata ha prevalso su quella più estesa della tribù. L'autore però non spiega,
come ciò abbia potuto accadere, mentre il passaggio può invece essere seguìto
presso i romani. SPENCER, Principes de sociologie, Paris, ove egli parla de la
fausseté de la croyance mise en avant par certains auteurs, à savoir que la
propriété individuelle était inconnue aux hommes primitifs.] ritorio, secondo
consuetudini antichissime, suole essere ripartito in varie parti, di cui una
viene ad essere assegnata alle singole fa miglie. L'altra è lasciata a prato ed
a pascolo, ove i singoli capi di famiglia possono pascolare un numero
determinato di capi di bestiame; e l'altra infine è considerata come proprietà
della intera comunanza, ancorchè sovra di essa continuino ancora ad esercitare
certi diritti i singoli comunisti. Or bene se la legge dell'evoluzione storica
della proprietà è contenuta in questi, che sono i suoi veri confini, credo di
poter affermare in base ai fatti, che la storia della proprietà a Roma non solo
non costituisce un'eccezione alla medesima, ma è quella invece, che conserva le
traccie più evidenti di tale evoluzione. Non è dubbio anzitutto, che presso i romani
le sorti della proprietà e quelle della famiglia procedettero strettamente
connesse fra di loro. Basterebbe a dimostrarlo il fatto, che il quirite entra
nella comunanza civile e politica nella sua doppia qualità di capo di famiglia
e di proprietario sopratutto del suolo, e che nel diritto primitivo di Roma i
poteri del capo di famiglia sopra le persone e le cose si presentano così
strettamente uniti fra di loro, che un solo vocabolo, quello appunto di familia,
comprende le une e le altre. A ciò si aggiunge che è un principio,
costantemente applicato dai romani, quello per cui non può esi stere nè alcuno
stadio di organizzazione sociale, nè alcuna corporazione anche di carattere
sacerdotale senza che le debba essere assegnato un patrimonio, il quale,
indicato col vocabolo generico di ager, [LAVELEYE, come pure il SUMNER Maine,
Village Communities. London, Early history of institutions. London, Early
law and custom. London.
Questa è la significazione che il vocabolo familia riceve nell'antico diritto,
come lo dimostrano le espressioni familia habere, emere, mancipio dare e
simili. Che anzi essa talvolta significa direttamente la proprietà, come può
vedersi nella Lex latina tabulae Bantinae. Le varie significazioni del vocabolo
familia, coi testi che loro servono di appoggio, possono vedersi in Roby,
Introduction to Justinian's Digest. Cambridge, Notae ad Tit. de usufructu , vº Familiae. G. C., Le origini del diritto di Roma] può essere
chiamato, secondo i casi, ager privatus, gentilicius, compascuus, publicus,
communis, peregrinus e simili. Ciò prova fino all'evidenza, che il romano
primitivo, allorchè si presenta nella storia, ha già il concetto profondamente
radicato, che non possa quasi esservi la famiglia senza una proprietà, che le
serva di sede e le fornisca i mezzi di sostentamento, e che questo concetto e
da esso applicato a tutte le altre corporazioni, le quali tutte furono
primitivamente modellate sulla famiglia. Non è quindi possibile il sostenere,
che la proprietà privata o meglio famigliare possa, presso i romani,
considerarsi come una creazione dello stato, ma conviene necessariamente
ammettere che e conosciuta già prima, se appena fondato lo stato, il primo atto
che esso compie, secondo la tradizione, è quello di assegnare una proprietà ai
singoli capi di famiglia. È questo il motivo per cui anche qui, per comprendere
l'istituto della proprietà quale comparisce in Roma, conviene cercarne
l'origine presso le genti, fra cui Roma si è formata. Vero è che sono
pochissime le vestigia veramente genuine, che ci riman gano dello stato di
cose, che esiste anteriormente a Roma. Ma tuttavia anche con pochi frammenti
non è impossibile la ricostruzione di questa condizione anteriore, quando si
tenga conto del processo costantemente seguito dai romani, anche nel periodo
storico, che è quello di trasportare nel periodo seguente i concetti e le
istituzioni, che hanno ad elaborarsi nel periodo anteriore. Intanto un primo sussidio può aversi in
questo carattere del l'organizzazione gentilizia, per cui essa, a misura che
giunge a produrre un nuovo gruppo, che si sovrappone e si intreccia al
precedente, viene ad essere naturalmente condotta a creare una sede esteriore,
in cui il gruppo stesso possa trovare il proprio svolgimento. Come più tardi la
sede esteriore della civitas è stata l' urbs, così le sedi esteriori dei varii
gruppi gentilizii sembrano, presso le antiche genti italiche, essere state
indicate coi vocaboli certo antichissimi di domus, di vicus e di pagus. De-RUGGERO,
Enciclopedia giuridica italiana, vº Ager publicus-privatus. Ciò può vedersi nel
Pictet, Origines Indo Européennes; Paris, come pure nel BRÉAL, Dict. étym. lat.
ai vocaboli indicati. Non vi è dubbio, che tutti questi vocaboli già esistevano
anteriormente alla [Domus è la sede del capo famiglia coi proprii figli e coi
proprii servi, sede, che può anche avere un cortile ed essere circondata da un
piccolo orto e forse anche da un piccolo ager, che uniti colla casa
costituiscono un tutto, che con un vocabolo non meno antico poteva es sere
chiamato heredium da herus, od anche mancipium, perchè di pendeva direttamente
dalla manus del capo di famiglia, intesa come la somma dei poteri al
medesimospettanti, o infine anche familia, perchè comprendeva tanto i liberi
quanto i servi. Non vi ha poi dubbio che è dalla domus, che si staccherà più
tardi il concetto di dominium e si capisce anche che di questo dominium, il
quale potrà poi acquistare una larghissima estensione, la parte più sacra, più
preziosa, quella, da cui il capo di famiglia si separa più a malincuore e che
egli vorrebbe perpetuare nella famiglia, continua sempre ad essere riposta in
quel nucleo primitivo, che costitue l'heredium, e che nel diritto quiritario
prese poi il nome di mancipium. La riunione poi delle abitazioni di diverse
famiglie, provviste di un cortile e cinte da uno spazio, a somiglianza diquelle
che Tacito ci descrive presso i germani, viene a costituire il vicus, il quale
di regola nella organizzazione gentilizia suole comprendere le abitazioni delle
familiae, che dividono il medesimo culto e appartengono alla medesima gente. Il
vicus quindi ha ancora un carattere del tutto patriarcale e si comprendono cosi
le circostanze attestateci da Festo: che i vici si trovavano di preferenza
presso quei popoli, che non avevano ancora delle città, quali erano i Marsi ed
iPeligni; che essi erano stabiliti fra i campi – in agris -- ; e che se essi
già avevano un luogo di mercato, non avevano però sempre un luogo, dove si
amministrasse giustizia, nè sempre nominavano un magister vici, a somiglianza
del magister pagi, che ogni anno si nominava invece nel pagus. Cio dimostra,
che se il vicus puo svolgersi formazione della comunanza, e quindi dalla loro
esistenza si può argomentare che dovevano pur conoscersi le istituzioni, che
con essi erano indicate. Quanto alle domus familiaque è da vedersi il numero
stragrande dei passi raccolti da Voigt, Die XII Tafeln -- TACITUS, Germania. Festo,
vº Vici, fa, quanto al vocabolo di vicus, ciò che suol fare per ogni altro
vocabolo, la cui significazione siasi venuta trasformando, indica cioè le
significazioni diverse, che il medesimo ebbe ad assumere. Egli quindi esamina
il vicus, finchè trovasi ancora fra i campi – in agris --, ed è a proposito di
questo primo vicus, che egli dice: sed ex vicis partim habent rempubblicam, et
ius dicitur, partim nihil eorum et -- talvolta in guisa da prendere le
proporzioni ed avere le esigenze del pagus, nei casi ordinarii però era la sede
di una comunanza puramente gentilizia. E poi naturale, che come le singole
famiglie in esso avevano il proprio heredium, cosi anche il vicus, sede della
gente, fosse circondato dal proprio ager gentilicius, sul quale si potevano
anche fare gli assegni ai clienti. Viene ultimo il pagus, ove esiste un sito
per il mercato, ma che contemporaneamente può anche servire per amministrarvi
giustizia, sito, che probabilmente può già essere chiamato forum, almodo stesso
che in esso già trovasi il magister pagi, dal cui nome ebbe a derivarsi senza
alcun dubbio quel vocabolo di magistratus, che tamen ibi nundinae aguntur,
negotii gerendi causa. Poi trova il vicus nel seno degli oppida, e dice che
comprende id genus aedificiorum, quae
continentia sunt his oppidis, quae itineribus regionibusque distributa inter se
distant, nominibusque dissimilibus discriminis causa sunt distributa . Tuttavia,
anche nella città, il vicus indica ancora qualche cosa di privato, cioè quei
vicoli privati, che dànno accesso esclusivo ad abitazioni contigue. V. Bruns,
Fontes. L'interporsi di un elemento estraneo nel seno del vicus e poi
naturalmente impedito da quella antica consuetudine romana, per cui il fratello
vende al fratello, il vicino al vicino, il consorte al consorte. Che poi
esistesse veramente una proprietà spettante al vicus e destinata ad uso comune
degl’abitanti di esso lo dimostrano certe iscrizioni, in cui il vicus quale *persona
giuridica* fa contratti di compra e di vendita, Corpus inscrip. latin.-- Del
resto anche il Digesto ammette il vicus a ricevere donazionie legati. L. 73, 1
Dig. -- È da vedersi, quanto ai vocaboli con cui ebbe ad essere indicato il
vicus nelle lingue Indo-Europee, il Pictet, Origines Indo-Européennes. Quanto
al concetto del vicus e delle vicinitas presso i germani vedi Ross, Land
holding among the Germans. Boston. Il vocabolo di forum è uno di quelli, che ci
indica il processo col quale le genti latine, trovato una volta il vocabolo,
venivano trasportandolo a tutte quelle significazioni, che corrispondevano al
concetto ispiratore del medesimo. Noi sappiamo da Festo, che forum significa il
vestibolo di un sepolcro, ove convenivano i parenti per dare l'estremo saluto
al defunto. V. Bruns, Fontes. Poi sappiamo da VARRONE, De lingua latina, che le
genti latine quo conferrent suas
controversias et quae vendere vellent quo ferrent, forum appellarunt. Infine
l'abbre viatore di VERRIO Flacco colla sua consueta diligenza ci dice che forum
sex modis intellegitur; primo negotiationis locus; alio, in quo iudicia fieri,
cum populo agi, contiones haberi solent; tertio cum is, qui provinciae praeest,
forum agere dicitur, cum civitates vocat et de controversiis earum cognoscit,
ecc. (Brons). Per tal modo, il luogo di convegno per i parenti, che piangono un
defunto, viene col tempo a convertirsi nel sito, ove il magistrato romano
risolve le controversie fra le città ed i popoli.] serve ad indicare tutte le
cariche della città. Nel pagus per tanto havvi già un accenno alla vita civile,
e quindi si può ritenere con certezza, che esso è già la riunione di più vici e
comprende il complesso delle abitazioni occorrenti per un'intera tribù. Ciò del
resto è dimostrato dal fatto, che le tribù rustiche di Servio Tullio presero il
nome di tanti pagi, che prima esisteno nella stessa località. Così pure, nota
Lange, e dimostrato che il pagus Succusanus e sostituito dalla tribus Suburana,
che è una delle quattro tribù urbane dello stesso Servio, come pure vi sono
iscri zioni, che parlano di un pagus Aventiniensis e di un pagus laniculensis,
nei quali nomi è anche degna di nota la terminazione di essi, che è analoga a
quella, con cui si indicano le popolazioni, che compongono le tribù. È poi
anche naturale, che questo pagus ha pur esso un ager, certamente situato a
maggiore distanza, perchè in prossimità vi sono gli agri gentilicii, e che
questo ager chiamisi compascuus, e che comprenda talvolta eziandio, oltre il
sito destinato per il pascolo, anche delle siloae e dei saltus. Intanto da
questa configurazione esteriore dell'organizzazione gentilizia si può inferire
che, almodo stesso che questa venne forman dosi per una naturale
sovrapposizione di varii gruppi, così anche le varie forme di proprietà si
vennero assidendo l'una sull'altra. L'ager [LANGE, Histoire intérieure de Rome,
NIEBHUR, Histoire Romaine. Del saltus è da vedersi la diffinizione di Elio GALLO
conservatasi da Festo, pº Saltus. I saltus potevano essere oggetto di proprietà
collettiva del pagus e della città, ed anche di proprietà privata. È poi degno
di nota, che il vocabolo saltus, allorchè già si venivano formando i latifondi
per modo che, secondo Plinio, sei persone possedevano metà dell'Africa (Hist.
nat., XVIII, 7), finì per significare quegli immensi dominii, posseduti da
privati e soventi anche dal principe, sovra cui dimora una popolazione, di
carattere pressochè colonico, che dipende più dall'arbitrio del possessore o
del suo procurator, che non dalle leggi del principato. Riguardo ad uno di
questi saltus, situato appunto nell'Africa e chiamato Saltus BURANITANUS, si
scoperse di recente una importante iscrizione, che contiene una petizione della
popolazione del saltus al principe. Fondandosi su di essa ESMEIN, sostiene che
in questi saltus comincia a formarsi l'istituzione del colonato. — Mélanges
d'histoire du droit et de critique. Paris, V. pure FUSTEL DE COULANGES, Le
colonat romain. Paris] si viene, per dir così, atteggiando in tante guise,
quanti sono i gruppi che si vengono sovrapponendo. Presentasi anzitutto la casa
(domus od anche tugurium, se nel contado) colla sua corte, coll'orto e col
campicello attiguo, che appartiene alla famiglia nella persona del suo capo, e
ne costituisce l'heredium, la familia, il mancipium. Ma siccome ogni capo di
famiglia, oltre questa parte sostanziale del suo patrimonio, può anche avere un
capitale circolante, composto di greggi e di armenti e di altre cose mobili,
così è naturale, che accanto al concetto dell'heredium si formi quello del
peculium, accanto a quello della familia quello della pecunia e accanto a
quello del mancipium quello del nec mancipium; distinzione, che tornerà poi in
acconcio per spiegare a suo tempo la famosa divisione del diritto quiritario
fra le resmancipii e le res nec mancipii. Che veramente questa forma di
proprietà già preesiste alla comunanza romana viene ad essere provato da cio,
che fin dal primo formarsi di questa occorrono i concetti di herus, di heredium,
di heres, il qual ultimo vocabolo ha pur la stessa origine di herus e scrivesi
talvolta anche semplicemente eres, per guisa che anche questo vocabolo
significa, se non il proprietario, al meno il comproprietario, come lo prova la
testimonianza di Festo, secondo la quale
heres apud antiquos pro domino ponebatur . Non vi ha poi dubbio, che con
questi vocaboli ha eziandio strettissima attinenza il vocabolo di herctum o
erctum, che significa ripartizione da erciscere, donde proviene la
denominazione certamente antica dell'actio familiae erciscundae. Tuttavia,
comegià si accenna, è un costume antichissimo quello indicatoci dall' ercto non
cito di Aulo Gellio, la cui
significazione letterale è, a mio avviso, quella di non venire ad una pronta
divisione e che indica il più antico dei con [Trovo confermata la descrizione
sovra esposta dell' heredium dal dottissimo lavoro, di recente pubblicato da Voigt,
così benemerito degli studii sull'antica Roma, col titolo, Die römischen
Privataltertümer und römische Kulturgeschichte, estratto dall' Handbuch der
klassischen Altertumswissenschaft, pubblicato dal Beck in Nördlingen. Quivi
Voigt ritiene che l'heredium comprenda l'hortus, l'ager, la cohors o chors, il
pomatum, più tardi detto anche pomerium, e di più la casa, detta anche tugurium,
che comprende il granarium, il foenilium, il palearium ecc. Ivi poi si trova
citata tatta la letteratura sull'argomento, compresa anche l’italiana, così
spesso trascurata. Anche Voigt sembra accostarsi alla significazione qui
attribuita al dualismo di familia pecuniaque, senza però accennare alla
correlazione, che sembra esistere eziandio fra heredium e peculium, mancipium e
nec mancipium, sorzii e delle società, che è quella fra i fratelli e gli
agnati, che lascia vano indivisa l'eredità ed il patrimonio. Intanto la
conseguenza viene ad essere questa, che i vocaboli di mancipium e di manceps,
quelli di familia e di pater familias rimontano tutti al periodo gentilizio, e
segnano, insieme con herus ed heredium, l'atteggiamento diverso sotto cui
poteva essere considerata la figura molteplice del capo di famiglia. Di questi
vocaboli però quello che significa meglio il potere giuridico del capo di
famiglia era quello certamente di man ceps e di mancipium, ed è questa forse la
causa, per cui il vocabolo, che prevarrà più tardi nel diritto quiritario e
quello di mancipium, al quale solo più tardi sottentrerà quello di dominium ex
iure Quiritium. Non vi è poi dubbio, che all'heredium ed all’ager privatus si
sovrapponesse l'ager gentilicius, che era quello spazio, non compreso negli
heredia, che trovavasi nei dintorni e nelle circostanze del vicus e ritenevasi
come proprietà collettiva della intiera gente. Era su quest'ager gentilicius,
che potevansi fare degli assegni ai clienti, i quali però non hanno una
proprietà, ma ritenevano e godevano le terre loro assegnate a titolo di
semplice precario. Dell'esistenza di questo ager gentilicius e del modo di
ripartirlo noi troviamo ancora un esempio durante il periodo storico, in
occasione della venuta a Roma di Atto Clauso, e della sua gente. Questi viene
di Regillo per porre la propria dimora nel territorio stesso di Roma, senza che
vi siano elementi nè per affermare nè per negare, che egli con ciò avesse
rinunziato all'agro gentilizio, che dove certamente essere posseduto colà da
una gente che, come la Claudia all'epoca. Questa induzione, a cui già ebbi
occasione di accennare, parlando della familia omnium agnatorum, trova una
conferma nel diligente lavoro di POISNEL, Les sociétés universelles chez les
Romains, specialmente in quella parte ove si occupa del primitivo consortium,
accennato da Aulo Gellio, il quale avveravasi tra fratelli ed agnati, stante
l'indivisione del patrimonio. Nouvelle revue historique de droit français et
étranger. È anche degna di nota l'attinenza fra i vocaboli di consortium e di
consors con quello di sors, che dapprima indicava la quota di eredità spettante
a ciascuno. V. BRÉAL, Dict. étym. lat., vu Sors. Ciò è anche confermato
dall'espressione di familia inercta nel significato di indivisa, ricordata da
Paolo Diacono [Cfr. in proposito i passi citati da Voigt, Die XII Tafeln. Festo,
v° Patres. Tale è pure l'opinione di Esmein, Les baux de cinq ans en droit
romain – Mélanges d'histoire de droit, Paris.] della sua venuta a Roma, ha,
secondo la tradizione, compresi ben MMMMM clienti. Questo è certo, che dal
momento che egli abbandona la sua sede originaria e veniva accolto nel
patriziato romano, mediante la cooptatio, gli fu dato un tale spazio di terreno
oltre l'Aniene, che egli potè assegnare II iugeri in godimento a tutti i suoi
clienti, oltre al che gli sarebbero ancora rimasti XXV iu geri per sè e la sua
gente. Questo assegno di territorio, mediante il quale e la gente Claudia, che diede
il nome a quella tribù rustica, non impede, secondo Dionisio, che e eziandio
assegnato ad Atto Clauso un sito nel circuito stesso di Roma, ove puo abitare
egli e la sua famiglia. È facile il vedere, che qui occorrono i concetti tanto
dell'heredium, quanto dell’ager gentilicius, e si ha pur anche la prova, che
nell'organizzazione gentilizia e alla stessa gens od al consiglio di essa, che
si appartene di fare il riparto fra le singole famiglie ed anche gli assegni ai
clienti. Di qui deriva la conseguenza, che, fra le varie forme della proprietà
nel periodo gentilizio, quella che predomina sopra tutte le altre è la
proprietà della gente, ossia l'ager gentilicius; perchè al modo stesso che è
nella gens, che si formano le famiglie, cosi è pure dall'ager gentilicius, che
si ricano gli heredia. Cosi pure è anche probabile che, in mancanza di eredi
suoi, i quali possono in certo modo essere considerati quali comproprietarii
dell'heredium, e in difetto eziandio di agnati prossimi, che mantengano ancora
indiviso l'asse paterno, questi heredia tornano all’ager gentilicius, cioè alla
sorgente stessa, da cui essi furono staccati. Da ultimo sonvi eziandio molti
indizii dell'esistenza di una proprietà, che considerasi come spettante alla
intiera tribù, e che prende il nome di ager compascuus, di compascua, di
pascua, presso le genti del Lazio piuttosto dedite alla pastorizia, e di
communia o communalia nell'Etruria. Puo darsianzi, che un ager compascuus puo esservi
già nello stesso vicus, come lo dimostrerebbe la deffinizione di Festo – compascuus
ager relictus ad pascendum com muniter vicinis. Ma in ogni caso non vi ha
dubbio, che questo compascuus ager certo esiste nel pagus e già dava origine ad
una [Dion. Cfr. Bonghi, Storia di Roma. L'esistenza di questi compascua è
dimostrata da diversi passi, sopratutto di agrimensori. Basti il seguente di
FRONTINO – Est et pascuorum proprietas, pertinens ad fundos, sed in commune,
propter quod ea compascua communia appellantur, qui busdam provinciis pro
indiviso. Bruns, Fontes] specie di pubblico reddito (vectigal), consistente nel
contributo, che doveno dare gl’abitanti, che ivi pascolavano i proprii greggi
ed armenti, contributo, che all'epoca romana viene poi ad essere indicato col
nome di scriptura. Una prova dell'esistenza di questi pascua e di ciò, che essi
costituirono forse le prime sorgenti di reddito pubblico, può ricavarsi da un
testo prezioso di Plinio, il quale, dopo aver detto che pecunia a pecude
appellatur, cosa del resto che è attestata da tutti gli antiquarii, aggiunge
questo particolare importantissimo – etiam nunc in tabulis censoriis PASCUA
dicuntur omnia, ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal
fuerat -- il che vuol dire in sostanza, che i romani, in questa parte
conservatori come in tutto il resto, finirono per indicare col vocabolo
primitivo dei Pascua, che costituivano la proprietà collettiva della tribù,
tutta quella parte della proprietà collettiva del populus, ossia dell’ager
publicus, da cui il popolo stesso ricava qualche reddito. Del resto l'esistenza
di questo ager compascuus e anche accennata in quel tradizionale riparto, che
Romolo fa fra i Ramnenses, quando aveva fondata la Roma Palatina, poiché delle
tre parti una sarebbe stata assegnata al Re ed al culto; l'altra alle singole
famiglie e avrebbe costituito gli heredia; e la terza sarebbe stata appunto
l'ager compascuus, che e anche la prima forma di ager publicus, in cui le genti
patrizie, probabilmente dedite ancora in parte alla pastorizia, potevano far
pascolare i proprii greggi ed armenti. Credo che le cose premesse dimostrino
abbastanza che, anche anteriormente alla formazione di Roma, la proprietà già
esi stesse in tante gradazioni, quanti erano i gruppi, che entravano nella
stessa organizzazione gentilizia, per modo che vi era una proprietà privata o
meglio famigliare, una proprietà gentilizia, e una proprietà spettante alla
comunanza della tribù. Di queste varie forme di proprietà, quella che predomina
era la proprietà gentilizia, perchè da essa usceno e ad essa ritornano gli
heredia, come poi erano anche i capi di famiglia delle varie genti, che hanno
il godimento dei compascua; nel che può forse trovarsi l'origine pro [NIEBHUR,
Histoire romaine, Voigt, Die römis. Privataltert., LANGE, Histoire intér. de
Rome --- Plinio -- Dion. NIEBHUR, Hist. rom. - babile di quel fatto
importantissimo nella storia di Roma, per cui le genti patrizie riputarono per
qualche tempo di avere da sole il diritto di occupare l'ager publicus, il quale
a Roma non è che una trasformazione ed un ampliamento per mezzo della conquista
del primitivo ager compascuus. Queste varie forme di proprietà nel periodo
gentilizio si intrecciano insieme per modo, che si vengono temperando e
limitando scambievolmente per guisa, che il potere giuridicamente illimitato
del capo di famiglia sul proprio heredium nel costume gentilizio viene ad
essere trattenuto da una quantità di temperamenti, che ne impediscono qualsiasi
abuso per parte del capo di famiglia. Quindi anche quel potere, che più tardi e
affidato al praetor di interdire nel iudicium de moribus quel padre di famiglia
che disperdesse i bona paterna avitaque, dove certamente rimontare alle
consuetudini gentilizie e che probabilmente appartenne al consiglio degl’anziani
della gens di frenare queste dispersioni e prodigalità del capo di famiglia con
un iudicium, che e de moribus e con una formola, che certo dovette essere
analoga a quella adoperata dal praetor. oLe cose premesse intanto ci mettono
anche in condizione di poter risolvere in poche parole alcune questioni
grandemente agitate fra gli interpreti del diritto romano primitivo. La prima
di esse sta in vedere se gl’antichi heredia, ossia quei bina iugera, che Romolo
distribusce ai capi di famiglia e di cui Varrone dice che erano così chiamati
in quanto che heredem sequerentur, doveno o non ritenersi inalienabili, e se i
figli doveno considerarsi come com proprietarii del patrimonio del padre. Senza
occuparci per ora della trasformazione, che subi l'heredium ossia la proprietà
famigliare e [Questa esclusione dei plebei dall'agro pubblico è attestato da un
testo di Nonio MARCELLO, riportato dagli Annali di qualche autore più antico – Quicumque
propter plebitatem agro pubblico eiecti sunt. Bruns, Fontes, -- il che è pur
confermato da un passo di Sallustio. Regibus exactos servili imperio patres
plebem exercere, agro pellere. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., accenna per
nota, che anche in Grecia vi era un' eguale sollecitudine per i beni aviti.] privata
colla formazione di Roma – ANNO I --, noi possiamo perd affermare con certezza che
questo concetto dell'heredium esiste già anteriormente ed erasi naturalmente
formato durante il periodo gentilizio. O che l'heredium doveva potersi alienare
dal capo di famiglia, perchè, se questa alienazione non e stata possibile, non
si comprenderebbe il concetto e l'esistenza di un commercium, come pure non si
comprende l'esistenza certo antichissima di un iudicium de moribus, di- a retto
appunto ad impedire l'imprudente e prodiga dispersione di questo patrimonio,
che nel suo concetto informatore era destinato ad essere trasmesso dai genitori
nei figli e da questi ai nipoti. O che tuttavia questa alienazione, durante il
periodo gentilizio, dovette essere gover nata da solenni formalità e dovette
forse anche compiersi colla approvazione o quanto meno colla testimonianza dei
notabili del villaggio. O che infine nella primitiva organizzazione gentilizia
i figli si riputano comproprietarii sopratutto di quella parte del patrimonio
paterno che costituie l'heredium, il che e in certo modo indicato dal vocabolo
heres, che in antico avrebbe significato comproprietario, e che posteriormente
continua a significare la medesima cosa mediante l'espressione più completa di
heredes sui. Insomma nel concetto primitivo il padre è come custode e detentore
del patrimonio famigliare nell'interesse suo e della sua prole. È questo
probabilmente il motivo, per cui non dove nei primi tempi di Roma avere nulla
di ripugnante al modo dipensare e diagire del tempo quel concetto giuridico del
diritto quiritario primitivo, che ora a noi appare cosi ostico e pressochè
inesplicabile, per cui tutto ciò che appartiene od è acquistato dalla moglie,
dai figli, dai servi, finisce per essere considerato come di spettanza del
padre e tutto ciò, che essi stipulano od acquistano, deve in certo modo
ritenersi fatto per conto e nell'interesse del capo di famiglia. Questo
concetto infatti, mentre indica l'unificazione potente della famiglia romana
sotto l'aspetto giuridico, prova eziandio la comunione ed intimità di vita, che
dove esistere nel costume della medesima; comunione ed intimità di cui il
diritto non si occupa, perchè non dove occuparsene, ma che sono largamente
attestate da tutti gli scrittori, che richia -- Ciò è anche confermato dalla
nota proposizione di Gaio, II, 157: Qui
quidem heredes sui ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque
parente quo dammodo domini existimantur .] mano la memoria della primitiva
famiglia, governata dal mos pa trius, ac disciplina. Ad ogni modo la
conseguenza ultima della nostra ricerca è questa, che, se gli heredia erano
alienabili allorchè l'individuo era ancora legato nei vincoli strettissimi
dell'organizzazione gentilizia, per maggior ragione dovettero esser tali,
quando egli venne ad essere libero cittadino di una libera Roma. Intanto se si
ammette che nell'organizzazione della proprietà nel periodo gentilizio la forma
prevalente è quella della proprietà gentilizia, in quanto che essa da una parte
origina la proprietà privata e famigliare e dall'altra si estende al godimento
della proprietà collettiva della tribù, è facile il dedurne la conseguenza, che
il sistema di successione, allora introdotto dal costume e che fini col tempo
per cambiarsi in successione legittima, dovette proporsi essenzialmente per
iscopo di mantenere e perpetuare la proprietà nella gente con impedire che la
medesima potesse passare ad estranei. Si comprende pertanto, che in base al
costume gentilizio la proprietà va ai figli, che ne sono comproprietarii, ed
anche agli agnati prossimi, finchè essi mantengono indiviso il patrimonio
paterno, ma appena questi manchino, dovranno succedere i gentiles e questi non
individualmente, come alcuni credono, ma collettivamente in quanto cioè formano
la comunanza gentilizia. Il motivo è questo, che se la legge di Roma puo
favorire il riparto immediato fra gli eredi, il costume invece di una comunanza
gentilizia favorisce invece per quanto esso può l'ercto non cito, come diceno i
Romani, cioè l'indivisione e la comunione dei patrimonii; perchè essa mira, non
a favorire lo svolgimento dell'individualità del capo di famiglia, ma a rendere
compatto per quanto è possibile il gruppo, in cui gli individui vengono ad
essere pressochè assorbiti. Parimenti è certo incontrastabile, che la
successione, quale compare nei primitivi tempi di Roma e quale esiste
anteriormente, non ammette nè distinzioni di primogenitura, nè distinzioni di
sesso, quanto alle persone che erano chiamate a succedere. Ma si può anche [Cic.,
Cato maior, 11, 37, parlando di Appio Claudio il cieco scrive: Quatuor robustos filios, quinque filias,
tantam domum, tantas clientelas Appius regebat et caecus et senex... Tenebat
non modo auctoritatem, sed etiam imperium in suos; metuebant servi, verebantur
liberi, carum omnes habebant; vigebat in illa domo mos patrius ac disciplina.]-
essere certi, che il costume dovette certamente dirigersi costantemente, se non
a favorire il primogenito, almeno ad impedire, che si venisse alla divisione
del patrimonio, ed anche ad evitare, che le femmine colla libera disposizione
della parte di sostanza, che loro apparteneva, potessero compromettere gli
interessi della gente. Ciò infatti viene ad essere comprovato dalla tutela
perpetua, a cui le donne erano soggette per parte degli agnati -- tutela che
aveva sopratutto lo scopo di sottrarre alle femmine la libera disposizione
delle proprie cose, e che col tempo divenne per modo odiosa, che esse, aiutate
dai giu reconsulti, trovano modo di sottrarvisi mediante quell'espediente
giuridico, di carattere eminentemente romano, che è la coemptio fiduciaria. Quanto
alle istituzioni dell'adrogatio e del testamentum, non può esservi dubbio, che
esse doveno certamente esistere nel costume antico dei maggiori, anche
anteriormente alla formazione di Roma, in quanto che esse sono istituzioni, che
compariscono compiutamente formate, come appare da ciò che le XII tavole, nei
frammenti a noi pervenuti, non parlano dell'adrogatio e quanto al testamento
non fanno che confermare una istituzione preesistente. Di più e ben naturale,
che il concetto dell'una e dell'altro doveno presentarsi naturalmente a capi di
famiglia, che da una parte erano tutti in tesi al culto dell'antenato e
dall'altra sono fissi nel pensiero di perpetuarsi in una posterità, che
continuasse il proprio culto gentilizio. Istituzioni quindi, come l'adrogatio e
come il testamento, sono acconcie e indispensabili ad una organizzazione come
la gentilizia, ma intanto cosi l'una che l'altra non possono nella medesima
servire come mezzo per soddisfare ad un affetto o ad una predilezione
capricciosa, ma dovevano avere l'unico scopo di provvedere alla perpetuazione
della famiglia e del suo culto. Questa coemptio fiduciaria, in virtù della
quale la donna passa in manu di una persona che non divenne marito di lei,
nell'intento solamente di farsi manomettere da lui per essere liberata dalla
tutela degli agnati, è ricordata da Gaio. E questa coemptio, che fa dire a
CICERONE, pro Murena, che i tutori, anzichè essere i protettori delle donne, si
erano cambiati in un mezzo per liberarle da ogni tutela. Cfr. MUIRHEAD. Puo
sembrare poco logico, che io qui discorra, trattando della proprietà, anche
dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della famiglia,
ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa
che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui [Questo carattere è
incontrastabile per ciò, che si riferisce al l'antica adrogatio, la quale e una
istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di perpetuare una
famiglia ed un culto, che sarebbero andati perduti per difetto di prole
maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa
sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba
giudicare dalle formalità, che sono poscia seguite dal patriziato nella
comunanza romana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge,
l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie)
conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi
nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul
ceppo sterile di un'altra si opera fra le famiglie della stessa gente, puo
forse bastare l'approvazione del consiglio della gente, ma se seguiva invece
fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, dove
certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. La cosa invece potrebbe
lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento, ma se si
considera, che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis calatis,
cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del tutto
analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne,che lo spirito
informatore del testamento in questo periodo gentilizio dove essere del tutto
analogo a quello, che ispira l'adrogatio. Il testamento per sua natura è tale
che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la propria morte, l'impero
di una volontà arbitraria, così può anche es sere il mezzo per impedire, che si
avveri fra gli eredi quella ripartizione e quell'uguaglianza di parti, che può
essere introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è certo, che la
successione invalsa nel periodo gentilizio, secondo cui succedevano prima i
figli, poi gli agnati prossimi, e infine la gente collettivamente considerata
era bensi già intesa a conservare il patrimonio nella gente, ma intanto aveva
an cora due inconvenienti dal punto di vista gentilizio. L'uno di essi consiste
nel diritto, che i figli hanno di venire ad una ripartizione immediata
dell'asse paterno in porzioni uguali, divisione che face i sacra, e in ciò ha
un'attinenza anche col testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la
famiglia sono ancora strettamente connesse fra di loro, per modo che non può
essere il caso di scindere affatto le istituzioni che le riguardano.] vasi per
stirpi e non per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e
femmine, il che fa si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla
famiglia una parte del patrimonio uguale a quella di un maschio. Queste
conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi
di famiglia, che mirano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a
perpetuarlo come tale nella famiglia. Si può quindi essere certi, che i capi di
famiglia, che si ispirano a questo concetto e che nel fare testamento dovevano
anche avere l'approvazione degl’anziani, che pure avevano la stessa tendenza,
non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla
famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per impedire la
pronta ripartizione del patrimonio, usando le antiche parole ercto non cito – o per accentrare per la maggior parte il
loro patrimonio in uno soltanto dei figli, – o infine per scemare la quota
spettante alle femmine, come quella, che dove essere riguardata come una
sottrazione fatta al patrimonio vero della famiglia perpetuantesi nella linea maschile.
Mone della famiglia e del suo culto. Si può quindi conchiudere, che per lo
genti patrizie il testamento non dovette certamente essere un mezzo per disporre
liberamente e a capriccio delle proprie cose, come fu poi il testamento nel di
ritto quiritario; ma dovette servire alle medesime per conseguire quello scopo,
che anche oggi si propongono bene spesso i capi delle famiglie, anche non
patrizie ma solo ricche ed agiate, allorchè, dettando il loro testamento,
cercano d'accentrare la loro fortuna in una od in poche persone, nell'intento
di assicurare ciò che con linguaggio antico e moderno suole essere chiamato il
decoro e la dignità della famiglia. Pervenuto a questo punto, parmi di aver
dimostrato in un modo, che avendo convinto me potrà forse anche persuadere gli
altri, che le genti patrizie, anche anteriormente alla formazione di Roma, già
conoscevano una proprietà privata, attribuita al capo di famiglia. Ciò pero non
toglie, che quest'ultimo fosse ben lontano dall'avere quella libera
disposizione delle proprie cose per atto tra vivi e per testamento, che trovasi
invece riconosciuta senza alcun confine nel diritto quiritario, e ciò perchè lo
spirito dell'organizzazione gentilizia si informava tutto all'intendimento di
serbare integro il patrimonio alla famiglia, ancora indivisa, degli agnati dap
prima e in mancanza di essa alla gente. Come dunque potrà essersi operata
presso un popolo, di spirito così eminentemente conservatore, una
trasformazione cosi radicale nel carattere della proprietà da cambiare la
medesima di proprietà gentilizia in quiritaria, allorchè esso passò dal periodo
gentilizio alla convivenza civile e politica? Ecco il gravissimo problema, al
quale non credo che siasi data ancora una soddisfacente risposta, a causa del
l'idea universalmente accolta sull'autorità di Niebhur e di Mommsen, che lo stato
romano siasi formato mediante la fusione e l'incorporazione di varie genti e
tribù. Secondo questi autori infatti, lo stato costituendosi avrebbe in certo
modo incorporato in sè la proprietà gentilizia, cambiandola cosi in territorio
nazionale, e sarebbe poi addivenuto al riparto di una parte di esso a favore
dei singoli capi di famiglia, ritenendo il restante come ager publicus. Fra gli
autori, che trattarono largamente e di recente il gravissimo tema, mi limito a
citare De-Ruggero, come quegli che riassume nettamente la opinione
universalmente seguita. Egli, dopo di aver premesso che prima della formazione
dello stato esiste soltanto la proprietà collettiva o gentilizia, la quale
appartene alla gens e non alle singole famiglie, viene alla conclusione
seguente. Fondatosi quindi il comune e lo stato con la unione di più genti,
esso sarebbe divenuto, come la gente stessa nel periodo della sua autonomia, proprietario
del territorio generale di tutte le genti romane, cioè, del territorio
nazionale. E come la gens lascia alle sue singole famiglie la coltivazione e
l'uso di alcuni terreni (fundi), rimanendo gli altri proprietà comune. Cosi
anche lo stato lascia ai privati una parte del territorio come proprietà
(adsignatio romulea) e ritiene per sè un'altra parte destinata a tutta la
cittadinanza (ager publicus). Di fronte ad una teoria così recisa, conforme del
resto alla opinione generalmente seguita, mi sia lecito osservare, che
anzitutto non è provato, che prima della formazione dello stato non vi fosse
che la proprietà gentilizia, e che la gente non lascia alle famiglie, che la
coltivazione e l'uso di alcuni terreni. I vocaboli certamente preesistenti di
herus, heres, heredium, che senza alcun dubbio si applicano al capo di
famiglia, provano invece che il concetto di una proprietà privata già preesiste
fra [DE- RUGGERO, V° Ager publicus-privatus, nella Enciclopedia giuridica
italiana. Del resto queste sono le idee che l'autore aveva già sostenute in La
gens avanti la formazione del comune romano (Napoli), e che stanno pure a base
del suo dotto ed interessante articolo sulle Agrariae leges nella stessa
Enciclopedia giuridica italiana.] le genti del Lazio; poichè se così non fosse
stato non sarebbesi trovata la parola già preparata ed acconcia per indicare
gli assegni fatti ai capi di famiglia, e gli assegni si sarebbero fatti alle
genti, alle tribù e non ai singoli capi di famiglia, o meglio a ciascun
individuo, che segue Romolo nella sua intrapresa. Viha di più, ed è che,
tenendo conto del carattere delle genti latine, in cui l'idea del mio e del tuo
– il nostro -- presentasi in ogni tempo cosi profondamente radicata, non può
essere probabile che le gentes e le tribù, che potevano essere ed erano in
effetto in condizioni disuguali quanto ai loro possedimenti, come continuarono
ancora ad esserlo dopo, si siano contentate dimettere tutto in comune, malgrado
la loro origine diversa, per starsi paghe ai bina iugera, assegnati da Romolo.
Si aggiunge, che se tutta la fortuna del patriziato primitivo Ramnense si
riducesse soltanto ai II iugeri, non si saprebbe veramente comprendere come la
medesima potesse bastare per la famiglia coi servi e coi clienti. Del resto non
consta, che siavi veramente alcun autore antico, che accenni a questa specie di
societas omnium bonorum, per cui si sarebbero messi in comune tutti gl’agri
gentilicii. Noi sappiamo soltanto, che Romolo, in base ad un costume tradizionale
fra le genti latine, che dove già esistere prima e che e applicato anche più
tardi in occasione dell'impianto di colonie, divide Roma in parte fra i proprii
seguaci, mentre un'altra parte ritenne per sè e per il culto, ed un'altra
riservò a titolo di pascolo comune. Intanto pero le varie genti, che
parteciparono alla fondazione di Roma, dovettero continuare a tenere i proprii
agri gentilicii, come lo dimostra il fatto, che anche all'epoca di Servio
Tullio le varie tribù rustiche continuarono a prendere il nome da quelle genti
patrizie, che dovevano avere più larghi possessi nel territorio delle medesime.
Vi ha di più, ed è che la tradizione accenna a due testamenti, fatti durante il
regno stesso di Romolo, a favore del popolo romano, coi quali questo avrebbe
ereditato dei campi presso Roma, ed anche quello stesso campo marzio, che
avrebbe poi costituito il primo nucleo dell'ager publicus; fatti e tradizioni
queste, che sarebbero del tutto incomprensibili, quando lo Stato romano nella
propria formazione fosse diventato il proprietario di tutti i territorii
gentilizii, e li avesse poi distribuiti ai singoli privati. Inoltre se Romolo,
come dicesi, avesse imitato [I testamenti, a cui qui si accenna, sono quelli
ricordati da Aulo Gellio, Noct. Attic., VII, 7, 4, 6, e che egli attribuisce
l'ano ad Acca Laurenzia, la quale fino il sistema gentilizio, i capi di
famiglia avrebbero dovuto soltanto avere la coltivazione e l'uso dei fondi loro
assegnati, mentre la proprietà avrebbe dovuto spettare alle genti; e ciò mentre
noi sappiamo, che non vi fu mai proprietà più assoluta, che la proprietà
quiritaria fin dai proprii inizii. Del resto convien dire, che l'opinione, di
cui si tratta, è per sè una conseguenza logica ed inesorabile del ritenere con
Mommsen, che Roma risulta dall'incorpora zione e fusione delle varie genti e
tribù; poichè è naturale che con un tale sistema lo stato avrebbe dovuto
incorporare ogni cosa nelle proprie mani e farne poi il riparto ai singoli capi
di famiglia. Solo sarebbe a spiegarsi come lo stato, creando esso la proprietà
famigliare e privata, l'avesse costituita senz'altro cosi illimitata, senza
confini e senza alcuna sua ingerenza, quale appare essere stata la proprietà
quiritaria. Tutte queste incoerenze invece scompariscono quando si ritenga che
il comune romano non assorbi nè le tribù, nè le genti, nè le famiglie, ma
intese solo a costituire fra di esse un centro di vita pubblica, e non
distribui quindi ai privati altre terre. Quanto alla divisione dell'agro fra le
tre tribù, a cui accenna Varrone, la medesima non potè essere che una divisione
puramente amministrativa, con cui si riconobbe alle varie tribù la parte del
territorio, che già loro apparteneva, prima che entrassero a far parte della
stessa comunanza. Di qui la conseguenza, che la proprietà quiritaria, ed anche
la famiglia, con cui essa appare strettamente congiunta, non possono essere che
quella proprietà e quella famiglia, che già esistevano nell'anteriore
organizzazione gentilizia, salvo che le medesime, staccate dall'organizzazione
stessa, apparvero con un carattere di assolutezza, che prima era temperato
dall'am dall'epoca romulea avrebbe lasciato allo stato certi campi siti presso
Roma, e da lei ereditati dal proprio marito; e l'altro alla vestale Gaia
Taracia, che avrebbe lasciati al popolo romano tutti quei campi presso il
Tevere, che presero poscia il nome di campo marzio, dove si radunarono più
tardi i comizi centuriati. Pongasi pure che i due racconti siano leggendarii. Ma
essi certo hanno un fondo di vero ed indicano quanto meno, che'i cittadini
romani non hanno mai creduto che lo stato fosse il proprietario di tutto il
territorio. I due testamenti sono anche citati dal De Rug GERO, V ° Ager
publicus privatus, nell'Enc. giur. it. Devo però dichiarare che questa
divergenza di opinione nulla toglie alla stima che ho grandissima per l'autore,
così benemerito per gli studi di diritto pubblico romano.] biente in cui si
erano formate. La causa poi, per cui gli assegni di terre furono fatti ai
singoli capi di famiglia, o meglio ai singoli seguaci di Romolo proviene da ciò
che essi entrarono nella comunanza non come membri delle genti ma nella loro
qualità di capi di famiglia, donde la conseguenza, che di fronte alla nuova
formazione della convivenza civile e politica, mediante una federazione fra le
varie tribù, più non si trovarono di fronte che la proprietà del capo di
famiglia (ager privatus) e la proprietà dell'ente collettivo (ager publicus).
Continuano però ancora sempre a mantenersi nel fatto gli agri gentilizii, i
quali però sono naturalmente destinati a scomparire, a misura che si dissolve
l'organizzazione gentilizia, in quanto che a costituire il populus primitivo
non entrano già i membri delle genti, come tali, ma soltanto i capi di famiglia
in quanto sono ad un tempo proprietarii di terre; il qual carattere del populus
viene ancora ad accentuarsi maggiormente colla costituzione Serviana, in base a
cui ognuno partecipa ai diritti ed agli obblighi di cittadino (munera), in
proporzione del censo. Questo e non altro e il processo seguito nella
formazione di Roma, e per conseguenza anche nella formazione della famiglia e
della proprietà, quali comparvero nel diritto quiritario. Per ora intanto,
prendendo le mosse dall'ordine logico dei fatti e delle idee, che si vennero
svolgendo fin qui, cercherò di riassumere logicamente e sotto forma di ipotesi
quello svolgimento del l'istituto della proprietà, che più tardi appare
comprovato nell'ordine dei fatti. Pongasi che una mano di uomini forti ed
avventurosi, appartenenti a genti diverse ma tutte di stirpe latina – nomen
latinum -- si raccolgano intorno ad un duce di stirpe regia e sotto la sua
guida abbandonino la loro residenza gentilizia, per recarsi a fondare uno
stabilimento fortificato sul Palatino. Essi, lasciando per ora in disparte il
rito religioso seguito nella fondazione, cominciano dall'occupare il suolo
necessario per erigervi il loro stabilimento, e cercano anche di fortificarsi
in esso, per essere in caso di difendersi dalle popolazioni vicine, le quali,
per appartenere forse a stirpi diverse, non possono vedere di buon occhio
quest'ospite novello e pericoloso. Quanto al suolo conquistato ed occupato, è
naturale che si cominci dal ripartirlo, secondo le regole tradizionali seguite
dai maggiori. Del suolo quindi sono fatte tre parti. Una è assegnata al loro
capo, al culto, ai publici edifizi. L’altra è divisa fra i singoli capi di
famiglia in altrettanti piccoli heredia di due iugeri, i quali potranno essere
ritenuti sufficienti quando si consideri, che questi capi di famiglia
continuano ancor sempre ad avere i loro agri gentilizi nei dintorni, e solo
abbisognano di uno spazio per costruirvi le loro case, con un cortile ed un
orto. La terza, infine, è lasciata a pascolo comune per i singoli capi di
famiglia, che possono immettervi i proprii greggi ed armenti, pagando un
corrispettivo (scriptura), che costi tuirà il primo reddito pubblico. Fin qui
però noi non abbiamo ancora, che la tribù dei Ramnenses e lo stabilimento
romuleo da essa fondato sul Palatino. Pongasi ora, che, in seguito ad ostilità
seguite con altre comunanze stanziate sui colli vicini, gl’uomini atti alle
armi e abili per consiglio di queste varie tribù, rappresentati dal proprio
capo, con vengano sotto forma di foedera, di entrare nella loro qualità di capi
di famiglia e di proprietarii di terre a far parte della stessa comunanza
civile e politica. È naturale allora, che il centro e la [Cfr. De RUGGERO, V °
Ager pub. priv., -- ove considera appunto questo riparto attribuito a Romolo
come una istituzione fondamentale romana che, conservatasi nei tempi
posteriori, puo naturalmente essere attribuita, nella ricostruzione che si fa
posteriormente della storia e del diritto primitivo di Roma, anche al fondatore
e al legislatore di questo. Ciò lascia credere che l'autore vegga in questo
riparto, che pur è attestato da tanti autori e che d'altronde non ha nulla
d'improbabile, in quanto che lascia anche le sue traccie nella centuria in
agris e nel centuriatus ager, ricordati da Festo e da VARRONE. Non mipare che
siavi motivo per un dubbio di questa natura, solo che si spieghi la formazione
di Roma, come è accaduta. Che poi il centuriatus ager e la centuria in agris
non comprendessero tutto il territorio romano, nè tutto l'ager romanus
conglobando in esso anche gli agri gentilizi, ma solo la parte di esso, che era
conquistata sul nemico, risulta oltre che dalla definizione datane da VARRONE e
da Festo, anche da un testo di Siculo Flacco, citato dallo stesso DE RUGGERO,
vº Ager pub. priv. – Antiqui agrum ex hoste captum victori populo per bina
iugera partiti sunt. Centenis hominibus ducentena iugera dederunt. Cfr.
NIEBHUR, Histoire romaine] fortezza dell'urbs si trasportino in un sito, a cui
possano avere facile accesso gl’abitanti delle varie comunanze, quale e il
sito, che è fra il Palatino ed il Capitolino, il quale verrà così ad essere la
comune fortezza e servirà per la costruzione dei pubblici edifizi e sacri. È
pero a notarsi, che per eseguire un simile accordo, siccomei capidi famiglia
entrano come tali nella comunanza e non quali membri delle genti e delle tribù,
così non e punto il caso, che si mettano in comune gli agri gentilizii e i
pascoli delle varie tribù. Quindi se le genti e le tribù sono prima ricche ed
agiate e possedevano larghi spazii di suolo, sopra cui disperdevano i proprii
servi e clienti, continueranno ad essere tali e a poterlo fare anche dopo. Ciò
che viene ad essere comune fra di esse è soltanto l'urbs, in quanto essa comprende
i pubblici edifizii, i templi consacrati al divino, che la protegge, non che
l'arx o fortezza, che serve per assicurare la comune difesa. Intanto, di fronte
a questa nuova specie di comunanza, teatro ed organo della vita civile,
politica e militare, non esistono che capi di famiglia proprietarii di terre e
quindi le sole istituzioni, che abbiano un'importanza giuridica, politica e
militare negli inizii di Roma, sono la proprietà e la famiglia unificate sotto
il proprio capo. Pongasi ora, procedendo innanzi, che questa mano di uomini
forti raccolta in esercito entri in lotta con altre comunanze e che, in virtù
di un diritto delle genti universalmente riconosciuto, venga soggiogandone le
popolazioni e conquistandone il territorio. Allora e naturale che questa comune
conquista appartenga dapprima al popolo stesso e sia cosi considerata come un
ager publicus, che verrà con trapponendosi a quell'ager privatus, che già prima
apparteneva ai singoli capi di famiglia. Questo infatti è il dualismo, che
domina tutta la storia economica di Roma. Però, a misura che si accrescono le
conquiste, l'ager publicus pud anche crescere permodo da sopravanzare ai
pubblici bisogni e quindi si comprende, che quelli, che cooperarono alla sua
conquista, ne domandino la ripartizione almeno parziale. Dapprima tali assegni
sul l'agro pubblico – adsignationes viritanae -- sono fatti ai più poveri, i
quali sono per tal modo posti in condizione di avere quella pro prietà, che è
riputata necessaria per partecipare alla comunanza; ma poscia, di fronte
all'incremento sempre maggiore dell'ager publicus, si comincia anche a disporne
in guisa diversa. Continua sempre ad esservi una parte dell'ager, che è
distribuita fra i più poveri della città e fra quelli, che partono per fondare
una colonia, e si ha cosi l'ager adsignatus, che serve per somministrare ai
cittadini poveri quella proprietà, quel censo, quell'ager privatus censui
censendo, che è ritenuto necessario per far parte della vera cittadinanza.
Un'altra parte invece e venduta ai pubblici incanti (ager quaestorius), o sarà
data in affitto, mediante il pagamento di un corrispettivo, detto scriptura
(ager vectigalis). Il primo di questi continuerà ad accrescere l'ager privatus,
ma non più quello della classe povera, ma di quella ricca ed agiata, che
possiede già il capitale per acquistarlo; ed il secondo, quello cioè dato in
affitto, finirà col tempo per dare origine a quelle lunghe locazioni, che quasi
si assomigliano a vere compre-vendite, dalle quali uscirà poi una nuova forma
di contratto, che è l'enfiteusi. Infine dell'ager publicus puo ancora
rimanervene una parte, la quale, o per essere sterile o scoscesa (propter
asperitatem ac sterilitatem ), non trovi compratori nè affittavoli, o che il
consiglio dei padri non abbia ritenuto opportuno di mettere in vendita. Questa
parte continua naturalmente ad appartenere all'ager publicus e ancorchè
immensamente ampliata colle conquiste corrisponde in certa guisa ai pascua o
compascua, che esistevano nelle antiche tribù. Quindi si comprende come i padri
delle genti patrizie, memori ancora del diritto che hanno di slargare nei
pascua i proprii greggi ed armenti (compascere), affermino il loro diritto di
occupare questa terra in certo modo abbandonata e di spargere in essa le
tormedei clienti e dei servi ed anche dei liberi, che siano alla loro mercede.
Sorge per tal modo il concetto dell'ager occupatorius, il quale, non essendo
stato acquistato, non può certo essere oggetto di proprietà privata, ma
costituisce le cosi dette possessiones, le quali, dopo essere durate per
qualche tempo, acquistano un carattere pressochè giuridico e danno occasione di
[Tutto questo processo ci è attestato dagli agrimensori romani, dei quali
sappiamo, che avevano grande autorità anche nelle provincie. L'autore, che
primo mise in evidenza l'importanza dei loro scritti, e NIEBHUR, che loro dedica
un saggio che può vedersi nell' Histoire romaine. Ora poi sta preparando un
lavoro di lena sugli agrimensores Brugi. Quanto alle affermazioni, che sono
contenute nel testo, sono esse abbastanza giustificate da quegli estratti degli
agrimensores, che sono raccolti dal Bruns, Fontes. Qui infatti io non mi
proponeva di entrare in particolari discussioni, ma bensì di mettere in
evidenza il processo, che i romani hanno ad applicare costantemente nella
distribuzione di un agro, che veniva crescendo colle loro conquiste.] svolgersi
alla protezione pretoria, la quale fa cosi entrare nelius honorarium l'istituto
giuridico del possesso. Intanto tutta questa parte dell'ager publicus, che è
cosi lasciata alla occupazione, viene ad essere come una sottrazione alle
ripartizioni gratuite fra quelle classi inferiori, che non hanno mezzi e capitali
per tentare una occupazione, e che, anche avendoli, non sarebbero dal senato
autorizzati a farla, e quindi tra il patriziato antico, a cui si aggiunge col
tempo la nuova nobiltà plebea, e la plebe minuta viene ad esservi una
opposizione di interessi. Da una parte si ha interesse a provocare nuovi
riparti per impedire le occupazioni e per limitare le occupazioni stesse, che
col tempo minacciano di trasformarsi in latifondi; e dall'altra parte ogni
ripartizione, se riguarda terreni già occupati, appare in certa guisa come una
usurpazione di possessi lungamente durati, e se riguarda terreni solo
conquistati di recente, appare come una sottrazione a quel diritto di
occupazione, che il patriziato attribuisce a sè stesso. Di qui le lotte intorno
alle leggi agrarie, le trasformazioni del concetto ispiratore delle medesime, e
infine la insufficienza di esse per risolvere la grande questione sociale
dell'epoca, allorchè l'antico patriziato e la nuova nobiltà plebea si strinsero
insieme contro una plebe minuta, che già comincia a cambiarsi in una turba
forensis, e che incapace di durare in lunghi e persistenti sforzi già si era as
suefatta a preferire alle conquiste legali gli spettacoli del circo e le
distribuzioni di frumento. Con cio non intendo però di ammettere l'opinione di
Niebhur, di SAVIGNY e di altri, che farebbero nascere il concetto della
possessio coll'ager pubblicus. Io credo che la *possession*, come istituzione
di *fatto* più che di diritto, avesse origini ben più antiche, e che la
medesima sia stata anzi il modo, con cui i plebei occuparono le prime terre nei
dintorni della città patrizia, il che però non toglie che la prima tutela
giuridica del possesso abbia anche potuto cominciare colle possessiones
nell'agro pubblico: cosicchè accade del possesso, come di un grandissimo numero
di altre istituzioni, che prima cominciano ad esistere di fatto e solo più
tardi entrano a far parte del diritto civile di Roma. Che anzi, dacchè sono in
quest'ordine di idee, aggiungerà ancora che il concetto dell'ager occupaticius
già erasi formato anche prima delle occupazioni del patriziato sull'ager
publicus. Lo dimostra Festo, vº Occupaticius, ove scrive: < occupaticius
ager dicitur qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur
. (Bruns, Fontes) -- la qual deffinizione dimostra che anche fuori dell'ager
publicus poteva formarsi l'ager occupaticius, il quale perciò differisce
dall'occupatorius. Intanto è sempre da questo ager publicus, che ricavansi
eziandio gli assegni, che si sogliono fare alle colonie, alle città benemerite
del popolo romano, e infine alle stesse provincie. Trattandosi di colonie,
questi esemplari di stabilimenti che Roma crea a somiglianza di sè stessa,
traendone la popolazione dal proprio seno, si applica quel medesimo sistema,
che si applica per la popolazione di Roma, il sistema cioè delle adsignationes
viritanae, fatte ad ogni capo di famiglia, ed hannosi così quegli agri, che gli
agrimensori chiamano divisi et adsignati, i quali sono fuori di Roma una
imitazione di quegli assegni di piccoli heredia, che facevansi un tempo ai
cittadini poveri di Roma. Se trattisi invece di città benemerita, a cui il
senato e il popolo sovrano intendano di dare un segno di soddisfazione ed un
corrispettivo ad un tempo per i servizii prestati, havvi l'ager mensura
comprehensus, il quale, essendo assegnato come proprietà collettiva ad una
città, non è determinato che nella sua generale misura. Infine se trattasi di
delimitare in modo almeno generico i confini del territorio di una popolazione
si ricorre alle indicazioni delle valli, dei fiumi, dei torrenti, delle grandi
strade, dell'acqua pendente, a quelle indicazioni insomma, che in un periodo
ancora molto remoto serviranno poi ad indicare il territorio, che dalla natura
stessa sembra essere segnato ai singoli stati e alle nazioni, e si avrà così
quell'ager, che gli agrimensores chiamano arcifinius. Infine anche nelle
porzioni di agro pubblico, che sono vendute all'incanto o date in affitto (ager
quaestorius, ager vectigalis), possono esservidelle parti, che, per essere
scoscese o sterili, non possono trovare da sole nè compratori, nè affittavoli,
e in allora questi siti si aggregano a quelli, che già furono venduti o a
quelli dati in af fitto in modum
compascuae , il che significa che essi, a somiglianza dei primitivi compascua,
si ritengono appartenere per la proprietà o per il godimento ai più vicini fra
quelli, che hanno comprato od affittato gli altri. Di qui la creazione di una
specie di proprietà o di possessione privata, con pertinenze consistenti in
pascoli accessorii, la cui proprietà e il cui godimento possono dare occasione
a questioni fra i giureconsulti per vedere se, vendendosi od affittandosi il
fondo principale senza parlare del pascolo accessorio, anche questo debba
ritenersi compreso nella vendita o nell'affittamento, sul che [Frontinus, De
agrorum qualitate et condicionibus, BRUNS, Fontes] giureconsulti risponderanno
affermativamente, quando non consti dell'intenzione contraria dei contraenti. Pongasi
infine, e anche quest'ultima supposizione è stata una realtà, che la piccola
tribù del Palatino, mutatasi poi nella Roma dei sette colli, divenga
conquistatrice dell'universo allora conosciuto, e quindi anche legislatrice del
suo suolo. Ma essa continua pur sempre ad applicare, nel piccolo e nel grande,
entro l'Italia e fuori di essa, nella proprietà e nel possesso, nel territorio
italico e nel suolo provinciale, quei concetti, che ebbe ad applicare nelle
proprie origini, e che noi abbiamo dimostrato essersi già preparati in un
periodo anteriore alla formazione stessa di Roma. Certo questi sono svolgimenti
logici, che precorrono la serie dei fatti, ancorchè siano fondati sopra di
essi; ma non sono inopportuni per mettere ordine in una materia, che le minute
indagini hanno tal volta resa intricatissima, e danno anche un esempio
sensibile del processo semplice, ma sempre logico e coerente, che Roma ha ad
applicare non solo nell'estendere il concetto della sua proprietà a tutto il
territorio da essa conquistato, ma anche nell'estendere la sua cittadinanza e
l'impero della sua legislazione al mondo allora conosciuto. Sono i grandi
popoli che con mezzi semplici e pressochè tipici applicati in proporzioni e in
condizioni diverse sanno conseguire i grandi effetti. È questo un esempio di
quella dialettica potente e pressochè celata, che senza apparire negli scritti
dei giureconsulti, i quali sembrano talvolta smarrirsi nei casi singoli e nelle
fattispecie, trovavasi tuttavia nei loro intelletti, ed era certo nella mente
del popolo da essi rappresentato. Ci sono altre applicazioni di questo processo
dialettico, che, mentre non appare allo sguardo, stringe però con una coerenza
meravigliosa le parti più disparate della giurisprudenza romana. [Higinus,
117. In his igitur agris quaedam loca,
propter asperitatem aut sterilitatem, non invenerunt emptores; itaque in formis
locorum talis adscriptio facta est in modum compascuae; quae pertinerent ad
proximos quosque possessores, qui ad ea attingunt finibus suis . Bruns, -- Frontinus
poi, De controversiis agrorum, soggiunge:
Nam et per haereditates aut emptiones eius generis (pascuorum)
controversiae fiunt, de quibus iure ordinario litigatur . Bruns -- È da vedersi
a proposito di tali controversie lo scritto del Brugi, Dei pascoli acces sorii
a più fondi alienate. Bologna. In una organizzazione come quella che ho cercato
di ricostruire, così nelle persone che entravano a costituirla, che nei
territorii che le servivano di sede, sarebbe affatto fuor di luogo il ricercare
delle norme direttive della vita pubblica e privata, che potessero meritarsi il
nome di leggi nella significazione, che noi sogliamo attribuire a questo
vocabolo. Ormai il lavoro di secoli ha strettamente legato il vocabolo di legge
e la significazione sua propria alla convivenza civile e politica. Senza negare
che un tempo l'uomo abbia ricavato l'idea di una legge direttiva delle cose
umane dalla contemplazione dell'ordine, che governa l’universa natura, questo è
certo che il vocabolo di legge, nella sua significazione originariamente
romana, che poi fu adottata da tutti gli altri popoli, significa ormai l'espressione
di una volontà collettiva, che si imponga alle singole volontà individuali. Esso
quindi suppone la distinzione fra l'ente collettivo ed i singoli, fra lo stato
organo ed interprete della volontà comune e I membri che entrano a costituirlo.
È quindi inutile cercare della legge, nel senso proprio della parola, in
un'organizzazione, in cui lo stesso gruppo compie ad un tempo le funzioni
domestiche e le funzioni politiche, e nel quale pertanto non si può rinvenire
la distinzione fra il tutto in sè e le parti, che entrano a costituirlo e
neppure quella fra la vita pubblica e la vita privata. Siccome tuttavia
qualsiasi stadio di organizzazione sociale suppone di necessità delle norme,
che lo governino, cosi noi possiamo indurre, che queste norme non dovettero
mancare nel periodo gentilizio. Anzi si può anche aggiungere, che fra le varie
forme di organizzazione sociale quella, che tende più di qualsiasi altra a
stringere in certe regole precise cosi i rapporti domestici, che quelli della
vita esteriore, è certo la comunanza gentilizia, la quale, essendo
esclusivamente fondata sulla eredità, finisce per trasmettere, di generazione
in generazione, non solo IL SANGUE e degli antenati, non solo il patrimonio e
il territorio da essi conquistato, ma anche il nucleo delle tradizioni dei
maggiori. Si aggiunge, che al modo stesso che le genti, fisse nell'esempio dei
proprii antenati, finiscono per mutarli in oggetto di culto, cosi anche le loro
tradizioni tendono, non per impostura di uomini ma per un naturale processo di
cose umane, ad assumere un carattere sacro e religioso, per cui qualsiasi atto
anche meno importante finisce per acquistare una significazione religiosa. È
questa tendenza, cheha condotto tutte le comunanze gentilizie a diventare
pressoché immobili e stazionarie, e che avrebbe prodotto forse il medesimo
effetto fra le genti italiche, come lo produsse fra le altre genti che
appartengono alla medesima stirpe, quando fra esse non si fosse formato un
nuovo focolare di vita, che fu quello che brucia nel tempio di Vesta,
cambiatasi in patrona della città. Che anzi non dubiterei di affermare, che
quello stesso spirito conservatore, che appare in Roma primitiva, sopratutto
per parte del patriziato, non è che una trasformazione di questa tendenza
naturale delle comunanze gentilizie a diventare immobili e stazionarie, quando
sono pervenute a quel maggiore sviluppo, che può comportare il principio
informatore di esse. Dal momento in fatti, che questa tendenza all'immobilità e
a fare entrare ogni elemento in quadri precisi, determinati dal costume e
consacrati dalla religione, male può accomodarsi ad una città piena di vita, i
cui elementi nuovi più non possono ad un certo punto entrare nei quadri
antichi, è ben naturale, che la tendenza stessa riducasi a trapiantare nel
nuovo terreno quanto più si possa dell'antico ordine di cose ed a lottare per
la conservazione di esso, come chi è pro fondamente convinto di lottare per uno
scopo religioso e santo. È questo culto del passato, che contraddistingue le
genti italiche [È abbastanza noto come in quella guisa che la famiglia aveva
per centro il focolare, che le serviva anche di altare, così la città ha pur
essa un pubblico focolare nel tempio di Vesta, la quale per tal modo di dea del
focolare domestico venne a cambiarsi in custode e patrona del focolare di Roma.
Questo invece è da essere notato, che le recenti scoperte intorno al locus
Vestae hanno dimostrato, come questo focolare si trovasse a piedi del Palatino
presso il foro e fuori della Roma quadrata; il che serve a provare sempre più,
che la vera città, di cui dove essere centro il tempio di Vesta, non era già lo
stabilimento romuleo primitivo, ma bensì la città dei Quiriti, che risultò
dalla confederazione delle varie comunanze. In una casa poi attigua altempio di
Vesta dimora, secondo la tradizione, il Re (domus regia Numæ), il quale, come
custode della città, dove pur trovarsi nel centro di essa. Cfr. LANGE, Histoire
intérieure de Rome, -- dalle elleniche. Mentre queste colla loro intelligenza
acuta e profondamente critica, appena hanno analizzate le proprie tradizioni,
rivestite anch'esse di carattere religioso, le abbellirono e trasformano colla
propria fantasia e finirono per ridurle in frantumi, la credula e religiosa
Italia invece colla sua intelligenza più tarda, ma colla sua volontà più tenace
le conservo a lungo e potè cosi rica varne tutto il succo vitale, che
contenevasi in esse. Questo intanto è certo, che appena noi possiamo arrestare
lo sguardo, non sulle gesta primitive delle genti italiche, che solo più tardi
furono argomento di storia, ma sul linguaggio di esse e sulle traccie della
loro civiltà, che sopratutto ci serbd il culto per i tra passati, noi
riconosciamo immediatamente, che tutte le loro tradizioni, le cui origini sono
celate in un remotissimo e misterioso passato, hanno già assunto un carattere
sacro e religioso. Una religione, per nulla immaginosa ed estetica come la
ellenica, ma eminentemente pratica ed applicata con cura minuta a tutte le
emergenze della vita, ha già consacrato le basi della organizzazione gentilizia,
per modo che le genti italiche, sempre occupate dal divino, che sovraintendono
a ciascun atto della vita, cercano con tutti i mezzi di riconoscere i segni
della benevolenza o malevolenza divina. Per gli atti della vita quotidiana
questa volontà potrà essere indicata anche dai piccoli incidenti della vita; mentre
per i fatti di importanza maggiore per il gruppo, è la volontà del cielo, che
deve essere consul [Osserva giustamente il SUMNER Maine, L'ancien droit, che
mentre l'intelligenza greca colla sua mobilità e la sua elasticità era incapace
di chiudersi nella stretta veste delle formole legali, Roma invece possede una
delle qualità più rare nel carattere delle nazioni, che è l'attitudine ad
applicare e a svolgere il diritto come tale, anche in condizioni non favorevoli
alla giustizia astratta, non scompagnata tale attitudine dal desiderio di conformare
il diritto ad un ideale sempre più elevato. Del resto il primo, che con occhio
veramente acuto abbia scrutato le attitudini mentali diverse dei greci e dei romani,
è il nostro Vico, De uno et universo iuris principio et fine uno. D'allora in
poi il paragone non è più venuto meno. Lo fanno gli storici, come Mommsen,
LANGE ed altri; lo fanno parimenti gli studiosi della giurisprudenza comparata,
come MAINE, op. cit., Freeman, Comparative politics, London, Hearn, Arian
Household, London, IHERING, L'esprit du droit Romain. Per maggiori particolari
in proposito mirimetto al libro: La vita del diritto nei suoi rapporti colla
vita sociale,. ove ho tentato di richiamare alle facoltà psicologiche
prevalenti presso i due popoli il diverso svolgimento, che i medesimi ebbero a
dare alla religione, al diritto, ed alle istituzioni sociali e politiche] tata.
Di qui quella osservazione antichissima del volo degl’uccelli, che è d'origine
latina, e l'altra dell'osservazione delle viscere degli animali da sacrifizio,
che è di origine etrusca, e quel concetto per noi pressochè incomprensibile
degli auspicia, che appartengono al magistrato e che danno al suo potere una
consacrazione religiosa e giuridica ad un tempo. Per attenersi tuttavia a quel
complesso di norme, che riflettono la vita, intesa questa distinzione in un
senso che possa applicarsi al periodo gentilizio, noi troviamo che anche in
questa parte le genti italiche mostrano fin da principio decisa tendenza a
racchiudere le loro tradizioni in forme certe e precise, e a designarle con
vocaboli di significazione determinata, la cui semplicità primitiva sembra
indicarne l'antichità remota. Questi vocaboli per le genti latine sono quelli
di mos, di fas e di jus, i quali tutti nelle origini sembrano presentarsi con
una significazione, che tiene del religioso e del sacro. Del mos infatti noi
abbiamo una definizione conservataci da Festo. Mos est institutum patrium, id
est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum. Qui
è notabile anzitutto la significazione larghissima, attribuita al vocabolo, per
cui tutte le patrie tradizioni sarebbero inchiuse nel medesimo, come pure
l'esplicazione che viene dopo, la quale, restringendo in apparenza il contenuto
del vocabolo, indica in sostanza che la parte. BouchÊ-LECLERCQ, Histoire de la divination dans l'antiquité, e lo stesso
autore, Institutions romaines. Questo ricorrere agli auspizii in ogni
affare pubblico e privato è attestato da Servio, In Aen. Romani nihil nisi
captatis faciebant auguriis et praecipue nuptias e da CICERONE, De divin. Nihil
fere quondam maioris rei nisi auspicato ne privato quidem gerebatur, quod etiam
nunc nuptiarum auspices declarant. Per quello poi, che si riferisce agl’auspicia,
alle varie loro specie, alla procedura solenne, da cui erano accompagnati, ed
alla importantissima distinzione fra auspicia privata e publica, distinzione,
che fu anch'essa un effetto della formazione di Roma, non ho che a riferirmi
alla trattazione magistrale di Mommsen, Le droit pubblic romain. Trad. Girard,
Paris] prevalente nelle istituzioni dei padri era sopratutto quella, che si
rifere alla religione ed alle cerimonie di essa. Questo carattere religioso non
ha poi bisogno di essere provato quanto al vocabolo di fas. Poichè il fas delle
genti italiche è paragonato dagli stessi scrittori latini alla Oeuis dei Greci,
e col tempo fu questo vocabolo di fas, che, distinguendosi sempre più da ogni
altro elemento estraneo, fini per significare quelle norme di carattere
esclusivamente religioso, che si riferiscono agli auspicia, al l'arte augurale
ed alle cerimonie del culto. Infine i più recenti investigatori del significato
primitivo del ius, quali Leist, Bréal,
al quale aderisce anche Muirhead, e diavviso, che il medesimo nelle proprie
origini avesse eziandio una significazione religiosa. Cosi Bréal ritiene, che
il ious antico dei latini, cambiatosi poscia in ius, sia perfettamente conforme
al iaus, che occorre nel più antico vocabolo, la cui significazione è alquanto
vaga ed incerta, ma che egli ritiene essere quella di volontà, potenza, protezione divina . Questa
primitiva signifi [Festo, vo Mos. È poi notabile come lo stesso Festo,
confermando il carattere religioso, comune al mos ed al fas, definisca il
ritus dicendolo un mos comprobatus in administrandis sacrificiis . Bruns, Fontes, -- Festo, v° Themin, scrive. Themin deam putabant esse, quae
praeciperet ho minibus quid fas esset, eamque id esse existimabant, quod et fas
est. Bruns,
Fontes. Lo stesso concetto ha ad esprimere Ausonio, Edyl.: Prima deum Fas Quae
Themis est Graiis. Per altri passi è da vedersi Voigt, Die XII Tafeln. È poi
degno di nota, che nelle formole antiche occorre sovente la frase secundum ius
fasque, la quale indica in certo modo il bisogno di dare al diritto anche
l'appoggio del fas. BRÉAL tratta la questione in Sur
l'origine des mots dési gnant le droit et la loi en latin nella Nouvelle revue
historique de droit Français et étranger -- la cui conclusione è la seguente: Le
droit, qu'on a appelé la création la plus originale du génie latin, et qui a
l'air de sortir tout d'une pièce de la tête des décemvirs a ses origines dans
le passé le plus lointain. Il est inséparable des premières idées religieuses
de la race. Questo
è pure il concetto di LEIST, Graec. Ital. R. G., MUIRHEAD, Hist. Introd., segue
l'opinione del Bréal. Parmi però, che questa etimologia non debba fare
abbandonare intieramente quella dalla radice s < iu, che significa
stringere, legare, unire, la quale indicherebbe la funzione, che il diritto
compie di vinculum societatis humanae. Questo è certo, ad ogni modo, come nota
Bréal, che le parole mos, fas e ius debbono essere considerate come caposti
pite, e quindi, più che derivare da altre, sono esse che diedero dei derivati,
quali. cazione del vocabolo spiega poi come tanto i Latini attribuissero un
carattere religioso e sacro alla lex, sebbene questi due vocaboli siano di più
recente formazione, e ritenessero la legge come un dono del divino; come pure
spiega quel sentimento, le cui traccie occorrono ancora in Roma, per cui si ama
meglio di lasciar cadere in dessuetudine il diritto costituito, che non di
abrogarlo espressamente. Intanto questo carattere comune a questi diversi
vocaboli e ai concetti inchiusi neimedesimi, conduce ad inferire, che dovette
forse esservi tempo, in cui furono contenuti in qualche concetto più vasto e
comprensivo, del quale essidebbono perciò considerarsi come specificazioni ed
aspetti diversi. Questo concetto, secondo Müller ed anche secondo Leist,
sarebbe stato dagli antichi arii significato col vocabolo di rita, il quale
esprime ora l'ordine che regge l'universo, col suo alternarsi del giorno e
della notte, ed ora l'ordine stesso della natura, in quanto governa il
generarsi, il crescere e il disparire degli esseri viventi. A questo vocabolo
di rita corrispon dono perfettamente i concetti del ritus, del ratum e della
ratio dei latini, ed anche quello, che essi indicano coll'espressione di rerum
natura, per guisa che anche il concetto di ius naturale nel senso che ha ad
essergli attribuito da Ulpiano di un ius quod natura omnia animalia docuit puo
rannodarsi a questi primitivi concetti. Lo stesso Leist poi osserva, che al
concetto fondamentale di rita o di ratio la sapienza antichissima degl’arii
associa altri con sarebbero quelli di fari, iubere, iustitia, iudes, iurgium,
iniuria e simili. Una trattazione poi di questo elemento etico e religioso
dell'antico diritto, sussidiata da una larghissima erudizione, occorre in Voigt,
Die XII Tafeln. Leist. Ciò confermerebbe l'asserzione contenuta nelle Institut.
Justin.: palam est autem vetustius esse ius naturale, quod cum ipso genere
humano rerum natura prodidit: civilia enim iura tunc esse caeperunt, quum et
civitates condi, et magistratus creari,et leges scribi caeperunt. Questo è
certo poi, che a questo diritto naturale primitivo anteriore alle leggi
accennano soventi i filosofi latini. Cfr. Henriot, Meurs jur. et judic.
Conviene quindi indurne che il concetto di un diritto della natura comincia in
certo modo ad essere sentito dall'universale coscienza, e solo più tardi
diventò anch'esso argomento di una elaborazione filosofica. In proposito la
classica opera del Voigt, Das ius naturale, bonum et aequum et ius gentium der
Römer, Leipzig] -cetti, che sono espressi coi vocaboli di orata, a cui
corrisponde il fas e il ratum dei latini, due vocaboli che sovente procedono
uniti: di dhāma, che egli dice analogo alla Oeuis greca e infine quello di
svadhā, che corrisponderebbe all'čnog od neos dei Greci e quindi anche al mos
dei latini, mentre infine il concetto di dharma già si accosterebbe, quanto
alla sua significazione, al vocabolo latino di lex, il quale sarebbe però
sopravvenuto più tardi. Parmi tuttavia che la parentela ed analogia fra questi
varii concetti possa essere facilmente spiegata, quando si consideri che fra i
latini il vocabolo di ratum e quello più astratto di ratio, si associano
talvolta al fas, al ius ed anche al mos. Si può quindi inferirne con
fondamento, che il ratum, da cui derivò poi ratio, significava l'ordine, che
governa il corso delle cose divine ed umane, mentre il fas, il mos ed il ius,
che dapprincipio si presentano tutti circondati da un'aureola religiosa,
significano i diversi aspetti, sotto cui si manifesta questa forza o volontà
operosa, che muove e regge l'universo. Il fas quindisarebbe la stessa volontà
divina, in quanto si estrinseca nei fenomeni della natura, ed è interpretata da
coloro che sanno conoscerne il significato riposto. È quindi dal fas, che
derivano i riti e le cerimonie del culto, le quali sono appunto intese a
rendere propizia agli uomini la volontà divina, e che presso le genti italiche
assumono anche esse il carattere contrattuale del do ut des . Il mos significa la stessa
volontà divina, ma non più in [ Leist. Questo scindersi dal concetto primitivo
appare nelle parole di Virgilio Fas et iura sinunt che Servio commenta con dire
– id est divina humanaque iura per mittunt; nam ad religionem fas, ad homines
iura pertinent. In Aen. (Bruns, Fontes).
La parentela poi fra i vocaboli di ratum e di ratio è dimostrata da Leist con
una quantità di passi da lui citati nella Graec. It. R. G. Ciò appare da tutte
le formole primitive, che si indirizzavano agli dei di una città nemica, per
ottenere che i medesimi abbandonassero la città stessa. V. HUSCHKE, Iurisp.
anteiust. quae supersunt, Nota in proposito il Bouche-LECLERCQ, Institutions
romaines, che il culto romano e una procedura del tutto analoga a quella
delle legis actiones > che i
pontefici trasmisero poi più tardi ai giureconsulti. Che anzi per i Romani il
sacrifizio è una offerta fatta in uno scopo interessato e la preghiera, che
necessariamente l'accompagna, è una stipulazione, il cui effetto è infallibile,
se essa sia concepita nei termini sacramentali, fissati dal costume – rite. Ciò
significa che è per tal modo immedesimata coi romani l'idea secondo la quale il
diritto formasi mediante la convenzione e l'accordo, che essi in ogni argomento
scorgono una specie di contratto.] quanto si rivela con segni, la cui
interpretazione è lasciata al sacerdote. Ma bensì in quanto si palesa in quella
tacita hominum conventio, che dà appunto origine al costume ed alla
consuetudine. Infine il ius è sempre questa stessa volontà divina, ma in quanto
viene ad essere interpretata e statuita espressamente dagli uomini, che
appartengono alla comunanza, nell'intento di provvedere alle esigenze della
medesima. Per tal modo da un unico ceppo sonosi staccate propaggini diverse; ma
siccome esse continuano ancora sempre ad essere in comunicazione fra di loro,
così è molto difficile il precisare la significazione di ciascuna, sopratutto
nel periodo gentilizio, allorchè vindice di questi varii aspetti della volontà
divina era l'autorità patriarcale del padre e del consiglio degli anziani. È
poi'degno di nota, che questi varii concetti, negli inizii di Roma, si
presentano come patrimonio esclusivo delle genti patrizie come appare da ciò,
che queste chiamano le usanze plebee non già col vocabolo di mores, ma con
quello di usus. Ed anche da ciò che la cognizione del fas e del ius fu per
lungo tempo un privilegio del patriziato ed una causa della sua superiorità
sopra la plebe. In ciò può con fondamento scorgersi una prova, che queste
nozioni doveno elaborarsi in altro suolo ed essere trapiantate da genti
migranti dall'Oriente sul suolo italico, ove hanno poiservito per l'educazione
di stirpi, che si trovavano in condizioni inferiori di civiltà. Sebbene qui non
possa essere il caso di cercare in quale ordine questi varii concetti siansi
venuti formando, non è tuttavia inopportuno di avvertire, che, nelle origini,
il primo a prodursi, almeno nell'ordine dei fatti, dovette probabilmente essere
il mos, il quale, dopo essersi formato pressochè inconsapevolmente nel seno
delle comunanze patriarcali, viene poi mutandosi in una tradizione, che si
trasmette di genitore in figlio e che col tempo assume un carattere sacro e
religioso. È poi nel seno di questo mos primitivo, che si opera una
distinzione, in virtù della quale una parte di esso riceve una sanzione
religiosa, e l'altra una sanzione giuridica, mentre una parte continua sempre
ad avere un carattere puramen temorale e costituisce ciò che le genti latine
chiamano i boni mores. Intanto egli è certo, che le genti italiche si
presentano con questi varii concetti, già compiutamente formati, e che fra essi
ha già acquistata una incontestabile prevalenza quello del fas. E il fas, che
primo ha a ricevere elaborazione e a concretarsi in certe massime, riti e
pratiche, che tendono a diventare immutabili e ferme, come la volontà divina,
di cui si ritengono essere l'espressione. È poi sotto la protezione del fas,
che si vennero elaborando i concetti del ius e e dei boni mores, al modo stesso
che più tardi sarà sul modello del ius pontificium, che verrà a formarsi il ius
civile. Quasi si direbbe che, mancando ancora un'autorità abbastanza salda per
porsi alle passioni dell'uomo in un periodo di lotta e di violenza, siasi
sentita la necessità di porre sotto la protezione divina anche quelle regole,
che appariscono indispensabili per il mantenimento della convivenza sociale.
Intanto queste considerazioni intorno ai concetti fondamentali, che
costituiscono il substratum della sapienza popolare delle genti italiche, ci
preparano la via a comprendere il processo storico, secondo cui venne
svolgendosi ciascuno di essi. Il vocabolo di fas esprime per le genti italiche,
più fantastici ed immaginosi, giunsero perfino a personificare nei concetti di
Themis, Nemesis, Adrasteia. Esso è l'espressione della volontà divina, in
quanto impone e regge l'ordine delle cose divine ed umane, e vendica in modo
irresistibile le violazioni, che l'uomo rechi al medesimo colle proprie azioni.
Nel fas pertanto non è solo compresa una parte, che si riferisce ai riti e alle
cerimonie del culto, ma una parte eziandio, che contiene delle norme che
riguardano l'umana condotta. Che anzi, siccome la riverenza per il divino non è
propria di questa o di quella gente, ma è comune alle varie genti, cosi è anche
sotto la protezione del fas, che si trovano tutti quei rapporti fra le varie
genti, senza di cui sarebbe stato impossibile, che esse potessero entrare in
comunicazione le une colle altre. È quindi il fas, che determina i modi in cui
debba es sere dichiarata una guerra, e copre della sua protezione coloro, che
sono inviati a trattare le alleanze e le paci. È esso parimenti che dà un
carattere sacro a quell'istituzione dell'ospitalitá (hospitium), che ha un così
largo sviluppo presso le genti primitive, e che poi ricompare, come hospitium
publicum, dopo la formazione [Per una più larga prova di questa analogia, vedi C., La vita del di ritto, cogli autori ivi
citati] della città, come pure è il fas che consacra le obligazioni, che intercedono
fra il patrono ed il cliente. È esso, che condanna le violenze dei figli verso
i genitori, le nozze incestuose, il falso giuramento e il venir meno ai voti
fatti al divino, e alle promesse, che sotto il suggello della fides siansi
fatte anche ad uno straniero. Esso in somma nei primordii sembra abbracciare i
rapporti fra i membri della famiglia, quelli fra le varie genti, e quelli
infine fra le varie tribù; donde la conseguenza, che anche più tardi, allorchè
si tratto di patti fondamentali fra il patriziato e la plebe, questa per
assicurarne l'adempimento non trova altro mezzo, che di porre i medesimi sotto
la protezione di quel fas, che esercita tanto impero fra le genti patrizie,
come lo dimostra il concetto ispiratore delle cosi dette leges sacratae. Chi
poimanchi a questo complesso di norme, sopratutto allorchè lo faccia di
proposito (dolo sciens), mentre offende gli uomini reca pure offesa al divino,
e quindi deve espiare il proprio fallo, mediante certi sacrifizii, le cui
traccie occorrono ad ogni istante nel ius pontificium e negli scritti dei più
antichi giureconsulti, che si erano formati sullo studio di esso; i quali
sacrificii prendevano il nome di piacula, e dovevansi anche fare, allorchè
altri cade in fallo per semplice imprudenza (imprudens). Di qui si raccoglie,
che già dall'epoca più remota, a cui rimontino le tradizioni, trovasi la
distinzione, almeno fra le genti patrizie, fra colui che abbia compiuto un
delitto di proposito (dolo malo, dolo sciens, prudens), e quello invece, che
l'abbia compiuto solo per imprudenza (imprudens), nel che si avrebbe una prova,
che queste genti già erano pervenute a tale da analizzare l'atto umano e
scrutare perfino l'intenzione dell'agente, sebbene più tardi il diritto
quiritario dove fare un passo in dietro, come quello che dove applicarsi a
classi, che non erano tutte giunte allo stesso grado di sviluppo. Che se il
fallo sia tale [Sul carattere delle leges sacratae è da vedersi Lange, De
sacrosanctae tribuniciae potestatis natura, eiusque origine. Lipsiae -- Sono
poi diversissime le guise, mediante cui le promesse, che non avevano ancora
sanzione giuridica, si mettevano sotto la protezione del fas. Sopratutto a ciò
serviva il giuramento, la cui larghissima applicazione, nel periodo storico,
appare dal diligente lavoro di Bertolini, Il giuramento nel diritto privato
romano. Roma. Cio è dimostrato dal fatto, che la distinzione fra l'omicidio
commesso di proposito e quello commesso per imprudenza già occorre nelle leges
regiae attribuite da non potersi espiare in questa guisa, in allora il reo
viene assoggettato ad una specie di espiazione sacrale, la cui forma tipica
consiste nella capitis sacratio. Questa dove essere pena gravissima durante il
periodo gentilizio, poichè il colpevole veniva con essa ad essere sot toposto
ad una specie di scomunica religiosa e domestica, che lo stacca dal gruppo
gentilizio, di cui faceva parte, e lo poneva in certo modo fuori della legge,
per guisa che sebbene il sacrifizio della sua vita non potesse essere accetto al
divino, esso puo pero essere ucciso impunemente da chicchesia. Di qui il
carattere di espiazione sacrale, che informa ancora tutto il diritto penale di
Roma, durante il periodo patrizio, come pure i vocaboli e i concetti di
expiatio, supplicium, di consecratio bonorum, di interdictio aqua et igni, i
quali confermano l'osservazione di Voigt, secondo la quale le genti patrizie
avrebbero ravvisato nei delitti più un'offesa al divino che non agl’uomini, a
differenza delle plebi, che risentivano di preferenza l'offesa e il danno
materiale. Non potrei quindi ammettere l'opinione di coloro, i quali,
supponendo le genti italiche in una condizione del tutto primitiva e come nella
loro infanzia, mentre sotto un certo aspetto sono già nella loro età matura,
vogliono ad ogni costo trovare nel diritto penale le traccie della vendetta. Se
cio intendasi nel senso che erano i singoli capi di famiglia, che dovevano
essere essi i vindici del proprio diritto e proseguire le offese, che loro fos
sero recate, in mancanza di un'altra autorità che lo facesse per essi, ciò può
essere facilmente ammesso. Che se invece si intenda che nella stessa comunanza
gentilizia dovessero spesseggiare una reazione violente e una vendetta, cio più
non può conciliarsi col rattere patriarcale di una comunanza, ove tutto è già
regolato dalla a Numa. V. Bruns, Fontes. Tale distinzione poi incontrasi
frequentemente in ciò, che a noi pervenne degli scritti dei pontefici dei
veteres iurisconsulti. Che anzi pare, che, secondo il Pontefice Quinto Muzio
Scevola, i fatti commessi contro il fas allora soltanto potessero espiarsi
colla piacularis hostia, quando fossero compiuti per imprudenza; mentre non
ammettevano espiazione, quando fossero commessi di proposito. Ciò appare dal
seguente passo tolto da VARRONE, De ling. lat. Praetor, qui diebus fastis tria
verba fatus est, si imprudens fecit, piacu lari hostia piatur; si prudens
dixit, Quintus Mucius ambigebat eum expiari non posse.” Altri esempi occorrono
in Huschke, Iurisp. anteiust. quae sup., Voigt, XII Tafeln] religione e dal
costume. Non potrebbe certo affermarsi che anche le genti italiche non abbiano
attraversato uno stadio, in cui dovette dominare la forza, la vendetta e la
violenza. Ma l'organizzazione patriarcale e i vincoli strettissimi di essa
erano già un mezzo per uscire da tale condizione di cosa. Quindi, se si deve
giudicare dal diritto primitivo di Roma patrizia, sarebbero così poche le
traccie, che rimangono in esso della vendetta, nel senso che suole attribuirsi
a questo vocabolo, da doverne inferire che nel periodo gentilizio la religione,
compenetratasi in ogni atto della vita, ne aveva già cacciata la vendetta ed
aveva esclusa perfino la composizione a danaro, almeno nella cerchia delle
genti patrizie. Che se il padre di famiglia può incrudelire contro la moglie e
la figlia adultera e contro l'adultero (sorpresi in flagrante), o contro il
ladro, egli lo fa più come giudice e come investito di un carattere sacerdotale,
che non come uomo, che si abbandoni all'impeto della collera e della vendetta.
La religione già incatena le passioni dell'uomo, ed è solo più fra la plebe,
che ancora si trovano le traccie della vendetta e della composizione a danaro,
le quali poi ricompariscono in qualche parte nella legislazione decemvirale,
come quella che era comune ad entrambe le classi. Fra gli autori, che cercano
di dare una larga parte alla vendetta nel diritto romano, havvi il MUIRHEAD,
Hist.introd. Egli argomenta da ciò, che colui il quale commetteva un omicidio
per imprudenza dove fare l'offerta di un ariete agli agnati dell'ucciso. Da ciò
che il vendicare la morte di un congiunto ucciso e un dovere per i superstiti
per acquetare i mani di lui. Dal diritto del padre e del marito di uccidere la
figlia o la moglie sorprese in adulterio unitamente all'adultero. Dal taglione,
le cui traccie ancora rimangono nella legislazione decemvirale, e perfino dal
diritto del creditore di chiudere nel carcere il debitore, chemancasse ai
proprii impegni. Parmi tuttavia, che di questi fatti alcuni indichino invece la
preponderanza dell'elemento religioso, e gli altri siano concessioni, che il
diritto decemvirale fece al modo di pensare e di agire proprio della plebe,
presso la quale avevano ancora certamente una più larga parte la privata
vendetta, il taglione e la composizione a danaro. Cfr. Ihering, L'esprit du
droit Romain. Trad. Meulenaere. Paris, -- ove discorre della giustizia privata
e delle forme, con cui essa e esercitata. Finchè quindi si dice, che sono i
singoli capi di famiglia, che, in mancanza di una autorità investita dal
pubblico potere, perseguono essi stessi le ingiurie e le violazioni di diritto,
di cui furono vittima, si afferma una verità indiscutibile. Ma ciò non deve più
confondersi coll'esercizio sregolato di una vendetta, che non prende norma che
dalla violenza della passione, dal momento che la religione e la consuetudine
già hanno determinato la procedura solenne, a cui egli deve attenersi per
ottenere soddisfazione dell'ingiuria o del danno sofferto, e che
l'organizzazione gentilizia ha appunto per iscopo di porre termine alla pri
vata violenza fra coloro che appartenevano alla medesima gente o tribù.Accanto
però a queste regole dell'umana condotta, che già sono munite di sanzione
religiosa, sonvene delle altre che, appoggiate unicamente al costume,
costituiscono, per cosi esprimerci, una morale. Esse vengono indicate col
vocabolo di mos patrius, di mores maiorum, di boni mores, e costituiscono un
complesso di norme direttive della condotta, le cui traccio si trovano più
tardi ancora nel iudicium de moribus, at tribuito al Praetor, e sopratutto nel
regimen morum, affidato alla custodia dei censori. Anche questi mores maiorum
si sono venuti formando durante il periodo gentilizio, nella cerchia sopratutto
delle familia e delle gens, e sono quelli, a cui deve essere attribuito
l'obsequium e la reverentia verso gli ascendenti, la pudicitia delle mogli e il
mantenimento della fides, anche per quelle promesse, che non fossero munite di
sanzione giuridica e che fossero fatte anche ad uno straniero. Sono questi boni
mores, che da una parte conteneno in certi confini il potere delle varie
autorità, le quali, giuridicamente considerate, apparivano senza alcun confine;
e che dal l'altra colpivano colla sanzione efficace della disistima generale
della comunanza coloro, che mancavano a certi doveri, i quali non erano muniti
di sanzione giuridica. Così, ad esempio, furono i boni mores, che ancora molto
più tardi condussero l'opinione pubblica dei cittadini Romani a condannare al
disprezzo quei prigionieri d’Annibale che, lasciati liberi sotto la condizione
del ritorno, credettero di liberarsi dalla promessa mediante lo stratagemma di
ritornare immediatamente nel campo e di sostenere di aver così attenuta la loro
[Questo concetto trovasi espresso da Publio Siro, allorchè scrive – Etiam hosti
est aequus, qui habet in consilio fidem. Del resto sono diversissime le guise,
con cui i filosofi esprimono l'efficacia moralmente obbligatoria delle
promesse. È qui che compariscono i concetti del pudor humani generis, del
foedus, che talvolta significa anche il patto e la convenzione, il concetto
della casta fides, quello della santità inerente alle parole, in quanto che immutabile
sanctis Pondus inest verbis; concetto che trova poi la sua espressione
giuridica nell' uti lingua nuncupassit, ita ius esto. Così pure nell'Andria di
Terenzio trovasi elegantemente espresso il concetto, che l'obbligazione è un
vincolo che la volontà impone a se stessa colle parole – coactus tua voluntate
es -- concetto che trova pur esso forma nell'assioma giuridico, Quae ab initio
sunt voluntatis ex post facto fiunt necessitates. Per altri esempi può vedersi
HENRIOT, Meurs juridiques et judiciaires] promessa. Del resto è sempre questo
concetto del buon costume, che tornerà poi a penetrare, per opera della
classica giurisprudenza, nella compagine soverchiamente rigida del diritto
civile romano, come lo dimostrano le considerazioni di ordine morale, che
talvolta occorrono nei grandi giureconsulti, l'influenza che esercitò mai
sempre l'existimatio anche sulla capacità di diritto, e l'introduzione
dell'infamia, della ignominia, della levis nota, che danno in certo modo una
configurazione giuridica alle varie gradazioni della publica disistima, in cui
sia incorsa una determinata persona. Al qual proposito non e inopportuno di
osservare, che quella separazione fra l'elemento esclusivamente GIURIDICO ed il
meramente morale, che tarda così lungamente ad operarsi nella scienza,
presentasi invece con una meravigliosa nettezza nel diritto di Roma, il quale,
dopo essersi separato dal fas e dai boni mores, continua logicamente la propria
via, e assunse così quel carattere di rigidezza e di logica pressochè inumana
(dura lex, sed lex), che solo più tardi e temperato nella classica
giurisprudenza, la quale di nuovo richiama in esso quell'alito morale, da cui
almeno in apparenza erasi dapprima compiutamente disgiunto. Intanto, per ciò
che si riferisce ai boni mores, non è più la religione, che si incarica di
punirne le violazioni, ma sono i capi stessi dei diversi gruppi, che vegliano
sovra quel retaggio del buon costume, che loro ebbe ad essere trasmesso dagli
antenati. Sono quindi il padre nella famiglia, il consiglio degl’anziani nella
gente ed il magister pagi nella tribù, che sovraintendono almantenimento di
questa morale. Mentre è poi la disistima generale della comunanza, che condanna
al disprezzo e all'isolamento coloro, che abbiano esercitato professioni
ignominiose, o abbiano mancato alla fede promessa, o abusato del potere loro
spettante, o abbiano infine commessa alcuna di quelle azioni, che, senza senza
essere colpite [Cfr. Muirhead, Hist. Introd. Basta leggere le commedie di
Plauto, e fra le altre specialmente il Trinummus, per scorgere la
significazione larghissima, che davasi al vocabolo di boni mores, e come fosse
altamente sentita l'importanza di essi di fronte alle leggi e l'impotenza di
queste, quando quelli cominciavano a venir meno. Ciò verrà ad essere largamente
provato nel ius Quiritium, dovuto ad un ' astrazione potente, mediante cui si
riuscì ad isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini.] dalla
sanzione religiosa o giuridica, incorrono però nella disapprovazione generale.
Se il modo in cui formasi questa generale opinione e l'influenza, che essa
esercita, male possono scorgersi ancora a Roma, in cui già scomparve ogni traccia
della vita patriarcale, possono invece essere anche oggidi facilmente compresi
quando si arresti lo sguardo ad una comunanza di villaggio, ove tutti si
conoscono e debbono necessariamente essere in rapporto fra di loro, ed ove le
colpe dei padri pesano più duramente sulla riputazione dei figli. Se ora si
vogliano cercare le origini del ius nel periodo gentilizio, apparisce fino
all'evidenza, che e soltanto, collocandosi in un posto intermedio, fra il fas
da una parte ed i boni mores dall'altra, che puo riuscire e farsi strada quel
ius, che dove poi ricevere cosi largo sviluppo durante il periodo della
comunanza civile e politica. Sonvi in una comunanza certi modi di operare e di
agire, che, per essere costantemente ripetuti in modo uniforme, fini scono per
acquistare un carattere pressochè obbligatorio per tutti coloro, che trovansi
in una determinata condizione sociale, e danno cosi origine non più al mos
propriamente detto, ma a quella formazione giuridica, che viene poi ad essere
indicata col vocabolo efficacissimo di consuetudo, il quale in certo modo
contiene in sè la propria deffinizione. Colui che manca a queste regole non
offende solo il divino e non viola solamente il buon costume, ma viene meno ad
obbligazioni, che sono imposte dalla convivenza, cui appartiene e si sottrae
cosi alle esigenze della vita sociale. Fra i fatti irreligiosi ed immorali
viene così formandosi una categoria di fatti umani, in cui appare soltanto in
seconda linea l'offesa alla religione ed alla morale, mentre viene ad essere
evidente sopratutto l'offesa [Servius, In Aen. -- VARRO valt morem esse
communem consensum omnium simul habitantium, qui inveteratus *consuetudinem*
facit . Del resto questo passaggio del costume, che ha carattere meramente
MORALE, in *consuetudine*, che ha carattere strittamente GIURIDICO, è indicato
anche da molti passi dei giureconsulti, che possono trovarsi raccolti
nell'Heumann, Handlexicon zu den Quellen des römisches Rechts. Jena, Va Mos e
Consuetudo] alla comunanza, a cui altri appartiene e il danno che vengono a
soffrirne gli altri membri della comunanza. Di qui la conseguenza, che comincia
già ad operarsi, nel seno delle comunanze anche patriarcali, come una specie di
selezione, per cui dal complesso dei precetti religiosi e morali se ne vengono
sceverando alcuni, che assumono il carattere *giuridico* propriamente detto.
Naturalmente questo lavoro di selezione non può ancora spingersi molto oltre,
fino a che trattasi di una comunanza, che adempie a funzioni domestiche,
religiose e civili ad un tempo. Ma intanto già comincia ad avvertirsi il
carattere particolare di certi precetti, che appariscono più rigidi di quelli
puramente morali e religiosi, per ottenere l'adempimento dei quali non può più
bastare una sanzione meramente religiosa, né la disistima generale, ma vuolsi
una specie di sanzione co-attiva da parte della intiera comunanza e
dell'autorità che la governa. Al modo stesso, che già fra le genti e le tribù
si vengono gradatamente svolgendo quelle arces, quegli oppida, quei
conciliabula, quei fora, che sono il primo nucleo, intorno a cui verrà poi a
svolgersi l'urbs e la civitas; cosi, anche frammezzo ad una convivenza, i cui
precetti hanno ancora sopratutto un carattere religioso e morale, già
cominciano a presentarsene alcuni, che assumono un carattere civile e politico.
Che anzi, per continuare nello stesso paragone, al modo stesso che Roma,
limitata dapprima ad essere il rifugio degli abitanti dei villaggi, viene poi
ad essere il luogo, ove si amministra la giustizia e si tengono le riunioni, e
viene infine ad abbracciare nella sua cerchia anche le abitazioni private, e a
sottrarre all'organizzazione domestica e gentilizia tutte quelle funzioni di
carattere civile e politico, a cui essa prima adempiva; così anche [Questo
concetto, per cui chi manca al diritto offende non solo l'individuo, ma reca un
danno alla intiera comunanza, che ora noi diremmo danno sociale, è un concetto
profondamente sentito dai romani, il quale ha ad essere variamente espresso dai
filosfi latini. Basti riportare dall'Henriot questi versi di Pubblio Siro:
Multis minatur, qui uni facit iniuria: Tuti sunt omnes, ubi defenditur unus;
Omne ius supra omnem iniuriam positum est. O quello di Orazio: nam tua res agitur, paries quum proximus
ardet . Come pure le frequenti scene di Plauto e di TERENZIO, in cui una
persona ingiuriata chiama gli altri testi in testimonio e chiede aiuto con
formole, che hanno una precisione giuridica: Obsecro vos, populares, ferte
misero atque innocenti auxilium. Ovvero: Obsecro vestram fidem, subvenite cives
.] questo primo nucleo di precetti giuridici, che negli inizii abbisogna ancora
dell'appoggio della religione e del costume e si modella sul fas, viene col
tempo accrescendosi sempre più, e richiamando a se una quantità di precetti, i
quali nell'organizzazione anteriore non hanno che un carattere religioso o
MORALE. Per tal guisa il ius viene in certo modo accrescendosi a spese degl’elementi,
da cui si è staccato. Quando poi sentesi forte abbastanza per procedere per
proprio conto, afferma senz'altro la propria indipendenza, e assume, per opera
dei romani, un processo tutto speciale nel proprio svolgimento, che chiamasi
appunto iuris ratio, mediante cui finisce per qualche tempo per isolarsi anche
troppo da quegli elementi, da cui ricava il suo primitivo nutrimento. Quel
carattere pertanto di rigidezza, che suole condannarsi nel diritto dei Quiriti,
è la miglior prova della sua potenza ed energia; perchè indica come l'elemento
giuridico ormai fosse giunto a tale da potersi svolgere senza più tener conto
della considerazione MORALE o religiose -- al modo stesso che Roma, teatro del
suo svolgimento, ormai e pervenuta a tale da cercare ancor essa di spogliarsi
di ogni traccia della influenza gentilizia e patriarcale. Questo è poi degno di
nota, che anche quando il ius viene ad affermare la propria esistenza separata
continua pur sempre a svolgersi sotto due forme, che corrispondono alle due
sorgenti da cui esso ebbe a derivarsi. Havvi infatti la parte, in cui il
diritto cerca in certo modo di imitare la solennità del fas, ed è quella in cui
esso viene ad essere rivestito della forma di lex. Quando cioè il popolo, interrogato
dal magistrato, dà una forma solenne ed espressa alla propria volontà – iubet
atque constituit -- creando cosi il ius legibus introductum. Intanto si
mantiene sempre un altro aspetto del ius, in cui la volontà collettiva del
popolo si manifesta nella formazione lenta delle proprie consuetudini, che i romani
considerano come il frutto di una tacita civium conventio – ius moribus
constitutum. Ad ognimodo però il ius, prenda esso il carattere di una *regola*,
che il popolo pone a sè stesso, o di una norma, che formisi tacitamente nel
costume, è pur sempre il frutto di un accordo espresso e tacito dei cittadini,
e deve essere considerato come l'espressione di una volontà comune, che si
sovrappone alla volontà dei singoli individui. Finchè esso è in via di
formazione può essere argomento di discussioni, le quali hanno luogo nelle
riunioni meno solenni del popolo, che chiamansi contiones; ma allorchè la legge
viene ad essere posta e costituita con quei riti solenni, che accompagnano i
comizii, la vox populi viene ad essere considerata come vox dei, e debbono
ubbidirvi tutti coloro, che cooperarono a formarla, non eccettuati quelli che
erano di avviso contrario. Vi ha di più, ed è che accanto a questo dualismo se
ne delinea ben presto un altro, per cui distinguesi una parte del diritto, che
si riferisce all'interesse generale della comunanza, e chiamasi ius publicum; e
una parte invece, che si riferisce all'interesse parti colare delle famiglie e
delli individui, che entrano a costituirla, e chiamasi ius privatum. Il primo
si forma sulla piazza e nel foro, fra gli urti ed i conflitti delle varie
classi, lascia le sue traccie nella storia politica di Roma, e si esplica
mediante gli accordi e le transazioni, cheavvengono fra patriziato e plebe. L’altro
viene elaborandosi pressochè tacitamente nella coscienza generale del popolo, e
trova i suoi interpreti nei pontefici e nei giureconsulti. Intanto però l'uno e
l'altro sono in certa guisa atteggiamenti diversi di un medesimo diritto, in
quanto che il di ritto pubblico è in certo modo il palladio, sotto la cui
protezione può nascere e svolgersi il diritto private. Insomma al modo stesso,
che l'urbs e il frutto di una lenta formazione, mediante cui si vennero
sceverando dalle abitazioni pri vate gl’edifizii aventi pubblica destinazione,
e che il formarsi della civitas e del populus si dovette al raccogliersi e al
riunirsi di tutti gli uomini (viri) che col braccio o col consiglio potevano
provve dere alla difesa ed all'interesse comune; cosi anche la formazione del
diritto e attribuita ad una specie di elaborazione, che venne operandosi nella
coscienza generale di un popolo, e all'attrito dei varii elementi, che
entravano a costituirlo, [È da vedersi, quanto alla distinzione fra diritto
pubblico e privato, Savigny, Sistema del diritto privato romano, trad. Scialoia.
Sopratutto importa il notare, che il diritto pubblico e il privato, nel
concetto romano, sono due atteggiamenti diversi del medesimo diritto – duae positions
-- e non deve essere dimenticato il detto, che Bacone certo ricava dallo
spirito del diritto romano, secondo cui ius privatum sub tutela iuris publici
latet, De augm. scient., de iust. univ. Quanto alle altre suddistinzioni, che
presentansi nel campo del diritto, è da consultarsi Voigt, Die XII Tafeln, come
pure lo stesso autore, Das ius naturale, gentium etc. Leipzig] mediante cui da
tutti gli elementi morali e religiosi, che già si erano formati durante il
periodo gentilizio, si vennero sceverando tutti quelli, che potevano ritenersi
indispensabili per il mantenimento della convivenza civile e politica. Roma insomma
che, piccola dapprima e limitata a pochi edifizii, si venne però sempre
ingrandendo a spese delle comunanze di villaggio, che erano entrate a
costituirla, deve essere considerata come il crogiuolo, in cui si gettarono
indistintamente tutti gl’elementi della vita patriarcale, per sceverarne ed
isolarne quella parte, che ha un carattere essenzialmente giuridico, politico e
militare. E questa una specie di chimica scomposizione, che un popolo
mirabilmente atto a sceverare nel fatto umano tutto ciò, che in esso si
presenti di giuridico, e a concretarlo in forme tipiche e precise, venne in
certo modo compiendo a benefizio del genere umano. Espresse quindi una grande
verità il filosofo coll'esclamare: Fuit sapientia quondam Publica privatis
secernere sacra profanes. Poichè tale veramente e il compito delle città
primitive e quello sopratutto di Roma. Il nucleo di questi precetti, di
carattere esclusivamente giuri dico, e dapprima assai scarso, e si ridusse a
quel poco che Roma, ancora nei proprii esordii, poteva sottrarre ad
un'organizzazione come la gentilizia, che ancora aveva tutta la sua vitalità ed
energia. Poscia però col crescere di Roma, coll'estendersi delle sue mura, col
fondersi insieme degli elemeuti, che entrano a costituirla, coll'in corporarsi
di nuovi elementi nel populus, quel ius, che prima ha solo una posizione
subordinata, si cambiò invece in tutore e custode della vita pubblica e privata,
ed e riconosciuto come sovrano nel seno della comunanza civile e politica. E
allora che, consapevole della propria forza e dell'ufficio, che gli e affidato,
si riaccosta di nuovo a quell'elemento religioso e sopratutto etico, da cui
aveva dovuto disgiungersi, allorchè nel periodo della propria formazione non
riconosce più altra guida, che una logica esclusivamente giu ridica – iuris
ratio. Di qui intanto deriva la conseguenza, che Roma, pur ricevendo [Orazio,
Ars poetica] le proprie istituzioni dal passato, ci fa però assistere alla
formazione lenta e graduata di un diritto, che venne adattandosi alle esigenze
della convivenza civile e politica, e differenziandosi sotto molteplici
aspetti. Questo diritto tuttavia può essere logicamente spiegato in tutto il
suo processo, ed anche nelle distinzioni che comparvero in esso, in quanto che
è stato veramente una costruzione logica e coe rente in tutte le sue parti, che
venne svolgendosi rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente. Che questo
sia stato veramente il processo, con cui si esplica il diritto in Roma, risulta
poi con tanta evidenza dallo svolgersi della comunanza romana, che per ora non
occorre altra dimostrazione. Bensi importa, ed è assai più difficile
determinare, quali siano i rapporti, che primi hanno ad assumere un carattere
giuridico, e quali siano stati gli aspetti essenziali, sotto cui si presenta questo
primitivo diritto presso le antiche genti italiche. Finchè noi siamo nelle mura
domestiche e nel seno della famiglia la religione comune, la riverenza verso il
proprio capo, il suo carattere patriarcale, il suo potere pressochè senza
confini, non che l'autorità moderatrice di quel consiglio o consesso di
parenti, da cui egli è circondato, creano un'organizzazione di tale natura, che
può bastare a qualsiasi emergenza, senza che occorra perciò di ricorrere al
diritto propriamente detto. Che anzi, se il diritto cerca di penetrare nelle
mura domestiche, la fiera indipendenza dei padri riguarderebbe ciò come una
violazione del proprio domicilio ed una usurpazione della propria autorità,
come lo dimostra ancora il padre di Orazio, uccisore della sorella, allorchè
osserva che, se il proprio figlio non ha a ragione uccisa la sorella – iure
caesam -- e toccato a lui di provvedere. Se quindi la moglie, i figli, gli
schiavi manchino a quei doveri, che sono fissati dal costume e consacrati dalla
religione, e il padre stesso, che e vindice dei loro [Liv., Hist., I, 24. Di
qui si può' raccogliere, come non possa ammettersi l'opinione di coloro, i
quali vorrebbero senz'altro attribuire al re, come primo magistrato di Roma, la
giurisdizione per giudicare di qualsiasi misfatto. CLARK, Early roman law. Deve
invece ritenersi a questo riguardo col MuiruEAD, Histor. che la giurisdizione
criminale del re o magistrato venne gradatamente svolgendosi frammezzo alla
giurisdizione dei capi di famiglia, e a quella che apparteneva alle singole
genti, quanto ai delitti, che erano commessi da membri, che entravano a
costituirle.] falli, salvo che in certi casi di maggior gravità, come quando
trattisi della moglie adultera, non stata sorpresa in flagrante, egli dove circondarsi
del tribunale domestico e pronunziare la condanna, dopo averne sentito l'avviso.
Allorchè poi l'azione, che reca danno altrui, sia stata compiuta da un altro
capo di famiglia, o da persona soggetta al potere del medesimo, e fra i due
capi di famiglia, che la questione e risolta, e se quest'ultimo non intenda di
riparare il danno arrecato dal suo dipendente, non ha nulla di ripugnante al
modo di pensare dell'epoca, che egli consegni la persona, che ha recato il
danno, al capo di famiglia, che ha a soffrirlo, mediante l'antichissimo
istituto delle noxae deditio. Cosi pure [È noto a questo proposito come nel diritto,
distinguasi fra noxia e noxa, per cui mentre il vocabolo noxia significa il
danno, veniva anche dai filosofi adoperato per significare la colpa, mentre il
vocabolo noxa si adopera per significare il peccato, il delitto, ed anche la
pena di esso -- donde la espres sione di noxae deditio, la quale trova poi una
larga applicazione, tanto nei rapporti fra i capi di famiglia, quanto eziandio
nei rapporti fra le varie genti e tribù nel ius pacis ac belli nel periodo
gentilizio. V. Festo, vº Noxia (Bruns, Fontes). Intanto dalla estesa
comprensività del vocabolo di noxa o di nocia, nella sua significazione
primitiva, parmi di poter inferire con fondamento, che nelle origini uno stesso
vocabolo significa ad un tempo la colpa, che cagionava il danno, e il danno,
che deriva da essa, e che non dove esservi distinzione fra colpa e danno di
carattere civile e colpa e danno di carattere penale, come neppure dove
distinguersi fra colpa contrattuale ed extra-contrattuale od aquiliana. I
concetti e i vocaboli sono sinteticamente potenti nel diritto romano, ed è solo
col tempo, che in essi si osservano quegli atteggiamenti diversi, che
costituiscono poi altrettante configurazioni giuridiche di un unico concetto
fondamentale. Un altro carattere del diritto si è anche questo, che esso prende
di regola le mosse da un vocabolo di significazione materiale, e poi gli
attribuisce una significazione sempre più estesa e perfino traslata o figurate.
Abbiamo un esempio di ciò nel vocabolo rupere, che significa il rompere
materialmente un membro, od altra cosa; ma fu poscia recato ad una
significazione traslata, attestataci da Festo, per cui rupere significa damnum
dare, al modo stesso che rupitias e ruptiones finiscono per significare ogni
maniera di danno. È uno dei processi più consueti nel diritto di Roma, quello
per cui una volta formato un concetto od un vocabolo giuridico non si teme di
estenderlo a tutte le configurazioni affini. Come si estese il parricidium ad
ogni uccisione di un uomo libero. Così il membrum rupere o la rupitias, essendo
stato il danno, che prima ebbe ad essere configurato giuridicamente, passa poi
ad indicare qualsiasi danno. Rimando in proposito al dottissimo lavoro del
collega G. P. Cuironi, La colpa nel diritto civile” (Torino). Di quest'opera
credo di poter dire, senza offendere la modestia dell'amico, che servirà a
rimettere in onore fra noi quel mirabile magistero, che ha fatto la] gli è
tenendo conto della posizione rispettiva, in cui in questo periodo si trovano
due capi di famiglia, che si può comprendere il nascere e lo svolgersi di certe
procedure, che più tardi appariscono strane e pressochè incomprensibili. Tale
è, per dare un esempio, quella del furtum lance lincioque conceptum, in cui
abbiamo un capo di famiglia, che ricercando una cosa statagli derubata può
ottenere di entrare nella casa del vicino, in cui teme sia stata nascosta; ma
cio a condizione di fare anzitutto una libazione propiziatoria ai lari della
casa, in cui egli si inoltra, il che è dimostrato dal piatto, che egli tiene
fra mano (lance), e intanto deve stringersi la persona con un cingolo (lincio),
che gli impedisca di nascondere qualsiasi oggetto. Sembra però, che questa
perquisizione domiciliare dove per un senso di pudicizia arrestarsi dinanzi al
cubiculum della moglie, con che però il capo di casa giurasse che nulla di
derubato vi era stato nascosto. Del resto in questa condi grandezza della
giurisprudenza romana, secondo cui, una volta che si è formata una
configurazione giuridica, la medesima non deve più essere perduta di vista
nelle in definite trasformazioni e distinzioni, che pud subire nelle
vicissitudini delle legislazioni e della giurisprudenza, ma deve sempre essere
richiamata alle proprie origini e seguita nella sua dialettica fondamentale.
L'autore tratta dei concetti di rupere, di rupitias, di culpa della lex Aquilia.]
Esmein in La poursuite du vol et le serment purgatoire, trova le traccie di una
procedura analoga a quella, che seguivasi per il furtum lance lincioque
conceptum, anche presso il popolo di Israele nel fatto di Rachele, che avendo
sottratti gli idoli di Labano, li aveva poi nascosti sotto le coperte del
cammello, sovra cui essa si era seduta; come pure nel fatto narrato da MACROBIO,
Saturnalia, ove si narra di un Tremellio, a cui sarebbesi imposto il soprannome
di Scrofa, perchè avendo rubata una scrofa uccisa, aveva poi fatto sedere sopra
di essa la propria moglie, e aveva giurato, in via di purgazione, che colà non
eravi altra scrofa, fuori di quella. Ciò dimostra come questa procedura siasi
naturalmente formata presso popoli diversi. Ma non posso convenire
nell'apprezzamento dell'autore, per cui nelle epoche primitive non si
guarderebbe che all'adempimento delle forme esteriori della procedura. Poichè
nel fatto stesso citato da MACROBIO, noi abbiamo l'opinione generale, che segna
a dito colui, che ricorse a quell'ignobile stratagemma, imponendogli il
soprannome di Scrofa (Esmein, Mélanges d'histoire de droit, Paris). L'autore
poi, il quale avvertì che il piatto, tenuto fra mani da colui, che ricerca la
cosa derubata nel furtum lance lincioque conceptum, ricorda in certo modo la
libazione propiziatoria ai lari e ai penati, che dovevasi fare prima di metter
piede nella casa altrui, è Leist, Graec. Ital. R. G. Sul furtum lancie
lincioque conceptum è da vedersi il saggio di Gulli, Del furtum conceptum
secondo la legge delle XII Tavole. Bologna] zione di cose, mancando ancora
un'autorità, che siasi fatta ella stessa investigatrice e punitrice dei
misfatti, si comprendeche sia il derubato che prosegue il ladro, il marito
offeso che tenga dietro all'adultero e sorpreso l'uccida, e si richiederà
ancora lungo tempo prima che, in Roma, l'autorità pubblica si incarichi
direttamente della punizione di questi e di altri misfatti. Che se la
riparazione non venga ad essere accordata all'offeso, e anche naturale, che
impegnisi una lotta fra le due famiglie, e che associandosi alle medesime le
genti, a cui esse appartengono, il DUELLO mutisi talvolta in un conflitto fra
le due genti, ed anche in una guerra fra le tribù, di cui esse entrano a far
parte. Cosi è pure dei rapporti interni fra i diversi membri, che entrano a
costituire la gente, quali sono i rapporti fra il patrono ed il cliente, ed
anche i doveri della ospitalità, poichè essi cadono sotto la protezione
religiosa, e le violazioni di essi sono punite mediante la pubblica disistima,
e coll'intervento dell'autorità patriarcale e del consiglio degl’anziani,
custodi e vindici delle tradizioni dei maggiori. Siccome però nella gente già
vengono ad esservi diversi capi di famiglia, che hanno una propria familia, un
proprio heredium, un proprio peculium. Cosi comprendesi come nel vicus già puo
sorgere delle controversie di carattere GIURIDICO fra i diversi padri. Controversie
che talvolta possono anche essere rese più accanite dal vincolo stesso di
parentela, che intercede fra le famiglie che appartengono alla medesima gente.
È tuttavia ancora sempre verosimile, che l'interporsi di qualche anziano, che
goda la fiducia comune dei contendenti, possa indurli ad un amichevole
componimento. Il che spiega come nei vici siavi sempre un luogo per il mercato,
in quanto che la distinzione del mio e del tuo già rende possibile il
commercium, manon vi si rinvenga sempre il luogo per amministrare giustizia. Infatti,
il carattere esclusivamente patriarcale dei rapporti, che intercedono fra i
membri di essa, rendono [Ciò accade sopratutto, quanto all'adulterio, che
comincia a formare oggetto di un iudicium publicum solo colla legge Iulia, De
adulteriis, che e una di quelle con cui Ottaviano cerca, ancorchè con poco
frutto, di far rivivere il buon costume. [In proposito
l'interessante articolo dell'Esmein, Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia,
De adulteriis – Mélanges d'histoire de droit. Quanto al vicus e
al difetto, che talora trovasi in esso di un magistrato per amministrarvi
giustizia] ripugnante l'idea di una vera e propria lite, non solo fra patrono e
cliente, ma anche fra i padri o capi di famiglia, che discendono dal medesimo
antenato e hanno per mettersi d'accordo fra di loro l'autorità dei proprii
anziani. Nella tribù invece, già si trovano di fronte capi di famiglia, che
appartengono a genti diverse e che più non discendono dal medesimo antenato, nè
partecipano allo stesso culto gentilizio. Quindi già viene ad imporsi il
bisogno di provvedere in qualche modo all'amministrazione della giustizia, più
non essendovi un'autorità di carattere esclusivamente patriarcale, che possa
imporsi ai capi di famiglia, che sono di discendenza e d'origine diversa.
Dovette quindi probabilmente essere questa necessità di provve dere
all'amministrazione della giustizia, che suggere l'idea di una autorità
chiamata a dirigere e ad amministrare il pagus – magister pagi --, la cui
primitiva destinazione è ancora indicata dai nomi di iudex e di praetor, ed
anche da quello di tribunal (derivato certamente da tribus), che significa
dapprima il seggio, più elevato sovra cui collocavasi quegli che e chiamato ad
amministrare giustizia, e indica così anche esteriormente la posizione cospicua,
in cui egli trovavasi di fronte agli altri membri della comunanza. Queste
controversie intanto non puo naturalmente sorgere che fra i varii capi di
famiglia, i quali, memori delle loro tradizioni, sono dapprima troppo altamente
compresi del proprio diritto, perchè sia necessario che intervenga una legge a
dichiarare quello che loro appartenga. Ma hanno piuttosto bisogno di essere
contenuti nell'esercizio violento delle proprie ragioni e di conoscere il
processo, che deve seguire per ottenere giustizia, senza dover ricorrere alla
privata violenza. È questo il motivo, per cui presso tutti i popoli la prima
forma che giunse ad assumere il diritto e quella dell' actio, che è il
complesso degli atti e dei riti solenni, che si debbono compiere per far valere
il proprio diritto davanti al magistrate. Atti e riti solenni, che presso genti
come le latine, le quali imitano coi gesti e coi riti. La posizione elevata del
tribunal, sovra cui trovasi assiso il magistrato, perchè – sedendo quiescit
animus, et sedendo ac quiescendo fit animus prudens -- trovasi soventi
accennata dai filosofi latini, come indizio della dignità, a cui era assunto
colui, che e chiamato ad amministrare giustizia. V. Henriot, Mæurs juridiques
et judi ciaires de l'ancienne Rome).] giudiziarii, ciò che un tempo dovette
seguire nei fatti, finiranno per contenere una storia simbolica dei varii
stadii, per cui dovette passare l'amministrazione della giustizia, prima di
giungere ad essere accettata e riconosciuta dallo spirito fiero ed indipendente
dei primi capi di famiglia. Che se si volesse spingere anche più oltre questa
ri-costruzione logica e concettuale del diritto romano, che ha a svolgersi nel
seno della tribù, potrebbe affermarsi con certezza, che le due prime figure di
rei, contro cui la giustizia umana associa i proprii sforzi colla giustizia
divina e colla esecrazione della generale opinione, dove essere quella del
parricidas e del perduellis. Ivi infatti è sopratutto l'uccisione del padre di
famiglia, che per il carattere patriarcale della comunanza viene ad essere
considerato come padre rimpetto a tutti i membri di essa, i quali talvolta
continuano ancora a chiamarsi col nome di fratelli, che è il grande misfatto
contro la legge umana e divina, il quale puo mettere in lotta le famiglie fra
di loro, ed anche rimanere impunito, quando l'autorità comune non si mette in
movimento contro di esso. Nè ripugna al carattere della comunanza patriarcale,
che la punizione del parricida acquistasse in certo modo un carattere
tradizionale e fosse accompagnata da certe pratiche, che possono anche avere un
significato simbolico, e che potrebbero anche essere state portate
dall'Oriente. Tali sono quelle, che più tardi ancora accompagnano la punizione
del parricida; pratiche tradizionali, che anche oggi in parte sopravvivono e
non possono dirsi compiutamente abbandonate anche presso le nazioni civili. Così
pure dovette essere un processo del tutto natu [Questa circostanza, che tutti i
membri della comunanza patriarcale si chiamano fratelli, è attestata dal Sumner
MAINE, The early history of institutions, e qualche cosa di analogo dovette
accadere ancora nella tribù italica, ove non vi ha dubbio, che i capi di
famiglia sono generalmente indicati col vocabolo di patres; poichè di questo
stato di cose rimasero ancora le traccie in Roma. È nota la punizione
tradizionale contro il parricida, ricordata ancora nel Digesto: Poena
parricidii more maiorum haec instituta est, ut parricida, virgis sanguineis
verberatus, deinde culleo insuatur cum cane, gallo gallinaceo et vipera et
simia; deinde in mare profundum culleus iactatur . Qui il giure-consulto lascia
travedere, che la pena del parricidio e conservata nel costume e trasmessa per
via tradizionale – mos maiorum. Essa pertanto dopo essersi mantenuta nel
costume più che nella legge, contro i parricidi in senso stretto, ha poi ad
essere sanzionata dalla lex POMPEIA, De parricidiis] rale, che condusse
l'opinione generale di una comunanza patriarcale a ravvisare un nemico in colui,
che getta la perturbazione nella comunanza stessa e si disponeva a tradirla coi
nemici di essa. Cosicchè non dubitarono di applicargli il nome stesso, che
davano al nemico, con cui erano in guerra, il qual nome era quello appunto di
perduellis. Cio intanto darebbe una spiegazione molto probabile e naturale del
fatto, che fa meravigliare gli stessi romani, per cui Romolo, prima e Numa, dopo
chiamare col nome di parricidas anche l'uccisore di un uomo libero, non che di
quello per cui le prime e sole autorità incaricate di perseguire e punire i mi
sfatti in Roma avrebbero assunto il nome di quaestores parricidii e di duumviri
perduellionis. Anche qui la legislazione di Roma comincia dal riconoscere come
pubblici reati quelli, che già hanno cominciato ad assumere questo carattere
nello stesso periodo gentilizio, e a questi sarebbe poi venuta aggiungendo man
mano quelli la cui repressione appare necessaria. Vi ha di più, ed è che nella
tribù già si incomincia la formazione di due ordini diversi di persone, che
sono i patrizi e i plebei, i quali ultimi più non entrano nei quadri
dell'organizzazione gentilizia, ma già cominciano ad es sere indipendenti dal
patriziato, sebbene ancora si trovino in condizione assai inferiore e non
abbiano potuto ancora dimenticare la loro antica origine servile. Di fronte a
questa condizione parmi non sia temeraria la congettura, che mi permetto di
avventurare, secondo cui, nel periodo della tribù e nel seno del pagus, non
dovette soltanto cominciarsi lo svolgimento dell'elemento giuridico, ma questo
diritto primitivo dovette assumere due forme essenziali; in quanto che altro
dovette essere il diritto, che governava i rapporti fra i padri, che
appartenevano alla stessa comunanza gentilizia, ispirato all'idea della loro
parità ed uguaglianza di condizione; ed altro invece il diritto, che venne a
svolgersi nei rapporti, che necessariamente dovettero stabilirsi fra l'ordine
superiore dei padri e quello INFERIORE della plebe, il quale non potè a meno di
ritenere qualche traccia della superiorità che [La questione del parricidium e
della perduellio scorreno delle leges regiae.] si attribuivano i primi e
dell'inferiorità di condizione, in cui sanno di trovarsi i secondi. È solo col
dare la debita parte a queste due forme del diritto, le quali del resto trovano
la loro base nelle condizioni di fatto dei due ordini, che si possono spiegare
certe istituzioni del diritto romano, quali sarebbero quelle del mancipium, del
nexum, della manus iniectio e simili; le quali sono tutte forme giuridiche, che
non trovarono applicazione nei rapporti fra i padri e i loro discendenti
patrizii, ma soltanto nei rapporti fra i patrizii ed i plebei. Se si comprende
infatti che un plebeo, il quale non ha altra garanzia da dare che quella della
propria persona, e costretto a dare a mancipio sè stesso o la propria
figliuolanza, o ad obbligarsi con quella severità, che era propria del nexum, e
che il patrizio insoddisfatto puo mettere la mano sopra di lui e trascinarlo
nel suo carcere, mediante la procedura della manus iniectio. Questi modi di
procedere non si possono invece comprendere fra due capi di famiglia
appartenenti alle genti patrizie. Nè serve il dire, che queste istituzioni
passarono poi effettivamente nel diritto quiritario; poichè anche questo e
l'opera dei patrizii, i quali, dettandolo, hanno sopratutto per iscopo di
governare e di reggere le plebi. Di più è un processo del tutto romano quello
per cui, quando si è creato un vocabolo o un concetto, non si dubita di
trapiantarlo in condizioni anche diverse da quella in cui ebbe a formarsi. E quindi
opportuno tentare la ricostruzione dell'una e dell'altra forma di questo
diritto per trovare in esso la spiegazione alcune singolarità del tutto
peculiari al diritto quiritario. Lo svolgimento di questa teorica tratta
appunto di alcuni primitivi concetti del diritto quiritario. I giureconsulti
col dire che il ius hominum causa constitutum est, enunciarono una verità che
trova una piena conferma nei fatti, quando seguasi il processo, con cui il
diritto vennesi formando fra le genti del Lazio. Finchè trattasi di persone che
appartenno al medesimo gruppo, il fas, il mos e l'autorità patriarcale,
stabiliti in seno delle varie aggregazioni, possono bastare a qualsiasi
emergenza. Così invece non era, allorchè i capi di fa miglie, appartenenti ai
diversi gruppi, venivano a mettersi in rapporto fra di loro; poichè in allora,
mancando la comune discendenza e l'autorità patriarcale di un capo, convenne di
necessità porre le reciproche obligazioni sotto l'impero di un comune diritto.
Di qui provennero alcuni caratteri importantissimidel diritto, che possono
spargere molta luce sulla formazione del diritto quiritario, e dileguare una
quantità di sottigliezze, che furono immaginate per spiegare quel diritto,
senza cercarne la causa nelle condizioni sociali che ne determinano la
formazione. Il primo di tali caratteri sta in questo, che i rapporti giuridici,
sorgeno dapprima fra i capi di gruppo, anzi che fra i singoli individui, che sono
assorbiti ed unificati nel medesimo. Di qui le solennità, che dove
necessariamente accompagnarne gl’atti, come quelli che non riguardavano gli
interessi particolari di questo o di quell'individuo; ma si rifereno
all'interesse dell'intiero gruppo da lui rappresentato, e così hanno, per usare
il linguaggio moderno, un'importanza pressochè internazionale. Non fu pertanto
amore di formalismo, che guida un popolo così eminentemente pratico come il
romano nella formazione del proprio diritto; ma questo, nei suoi esordii
apparve ingombro di formalità e difinzioni, solo perchè, dopo essere stato
preparato in un periodo di organizzazione sociale, e trapiantato in un altro
dallo spirito conservatore del popolo romano. Anzichè archittettare formalità
artificiose, i romani si valgono invece di quelle, che si sono formate nella
realtà dei fatti in un periodo anteriore, e con piccole modificazioni, che sono
rese necessarie dalle nuove esigenze, fanno entrare in esse i rapporti, che si
vengono svolgendo più tardi nella comunanza civile e politica. Nel che seguono
un processo, che non abbandonno neppure più tardi; quello cioè di non creare
giammai una forma novella, finchè quella già prima [Il formalismo è certo uno
dei caratteri più salienti del diritto di Roma. Si comprende quindi, che I
filosofi se ne siano largamente occupati e fra gli altri il SUMNER Maine,
L'ancien droit, in cui si occupa delle finzioni legali, e sopratutto poi
JHERING, che ha a dedicarvi buona parte del L'esprit du droit Romain. La
conclusione, a cui sarebbero venuti questi filosofi, e, che questo formalismo
del diritto di Roma dove essere attribuito alla predilezione del popolo romano
per l'elemento esteriore; carattere, che Roma avrebbe comune con tutti i
popoli, e proveniente da ciò, che i medesimi riguardano più alla forma che alla
sostanza. Senza voler qui entrare in una discussione, che mitrarrebbe troppo in
lungo, mi limito unicamente ad osservare, che il formalismo non è un fenomeno,
che comparisca presso tutti i popoli. Esso compare soltanto, al lorchè
istituzioni formatesi in un'epoca si trasportano in un'altra, in cui più non si
comprenda la significazione delle medesime. Dei popoli non si può dire, che
essi siano amici della formalità; perchè essi cercano di esprimere ciò che
sentono col gesto, cogli atti e colle parole ad un tempo, e quindi hanno una
mimica, la quale, anzichè essere artificiosa ed architettata, tende ad essere
l'espressione effettiva e reale delle loro sensazioni ed emozioni. Quindi, il
formalismo, anzichè essere l'indizio di un popolo, è invece l'effetto dello
spirito conservatore, che trasporta una forma creata in un periodo ad un altro,
in cui esse hanno perduto qualsiasi significazione. Tutte le forme che si
conservano come tali sono sopravvivenze di un'epoca trascorsa, che sono
trapiantate in un'altra, la quale più non le capisce, e quindi si limita ad
osservarle pressochè materialmente. Ciò accade nella religione, nella morale,
nel di ritto, e accadde certamente nel diritto di Roma, il quale, se divenne
formalista, e perchè il patriziato romano vuole conservare le vestigia del
passato e fare entrare nella forma preparata nel periodo gentilizio un nuovo rapporto
che e creato dalla convivenza civile e politica colla plebe. Non è quindi da
ammettersi, che la forma esteriore del diritto si elabori prima della sostanza
di esso; nè che i popoli primitivi diano maggior importanza alla forma, che
alla sostanza. Forma e sostanza invece si presentano dapprima indissolubilmente
congiunte, ed è solo più tardi, allorchè si vorrebbero conservare la forma
antica, e fare entrare nelle medesime una sostanza nuova, che si viene alla
conseguenza, per cui a forma dat esse rei. Ciò che accade nel diritto, avverasi
eziandio nel linguaggio, il quale nella sua formazione adatta la parola al
concetto; il che non impedisce pero, che più tardi, trasportandosi la stessa
parola ad un altro concetto, si venga alle significazioni traslate, la cui
origine può talvolta essere poi difficilmente compresa.] esistente possa ancora
bastare al bisogno. Del resto non può neppure dirsi, che negli inizii di Roma
questo diritto e veramente disacconcio, dal momento che allora soltanto si usce
da una condizione di cose, in cui il padre rappresenta effettivamente quel
complesso di persone e di cose, che dipendeno da esso. Quindi e naturale che
per qualche tempo il diritto conserva quel medesimo carattere, che aveva
acquistato durante il periodo gentilizio. Solo comincia a diventare artificioso
e disadatto alle nuove condizioni sociali il diritto di Roma, quando al PADRE
si venne sostituendo il CITTADINO, e più ancora quando al cittadino si sostitui
L’UOMO LIBERO e L’UOMO NUOVO. Del resto non è poi difficile il ricostruirsi nel
pensiero un'organizzazione, in cui sia veramente il PADRE, che compia tutto
ciò, che si riferisce al gruppo da lui rappresentato, per guisa, che esso sia PADRE
(quanto ai figlio), PADRONE (quanto al servo), PATRONO (quanto al cliente), e
rappresenti il gruppo da lui governato, ogni qualvolta trattasi di entrare in
rapporto con altri gruppi. Di questo padre antico ci hanno conservato la
imponente figura non tanto gli scrittori di cose giuridiche, che lo
irrigidiscono di troppo perchè lo riguardano sotto l'aspetto esclusivamente
giuridico; ma i filosofi latini, allorchè ci dipingono, ad esempio, APPIO
Claudio, capo di una grande famiglia, custode geloso dell'antico costume, il
quale continua, ancorchè vecchio e CIECO, ad esercitare, venerato e temuto ad
un tempo, la propria autorità sui figli, sui servi, e sopra un numero
grandissimo di client. Del resto anche il diritto lascia di quando in quando
travedere quest'aureola patriarcale, che circonda il capo di famiglia, come lo
dimostrano le seguenti parole attribuite ad Ascanio. Moris fuit, unumquemque
domesticam rationem sibi totius vitae suae per dies singulos scribere, quod
appareret quid quisque de reditibus suis, quid de arte, de foenore lucrove sepo
suisset, et quo die, et quid idem sumptus damnive fecisset. Tuttavia anche
questa descrizione tende già a dare all'autorità del padre un carattere
essenzialmente giuridico. Mentre invece, riportandoci al periodo gentilizio,
questa figura primitiva presentasi anche [Cic., Cato maior -- È poi sopratutto
nei filosofi latini, e specialmente nei comici, come Plauto, che si può
facilmente scorgere la differenza fra la patria podestà, quale era
giuridicamente concepita é quale invece esisteva nel fatto. È da vedersi in proposito Henriot, Moeurs juridiques et judiciaires de
l'ancienne Rome. Bruns,
Fontes juris romani antiqui. Edit. V, Friburgi] più imponente col suo carattere
patriarcale e religioso ad un tempo; e quindi si può comprendere come
l'acceptum, l'expensum, lo sponsum, lo stipulatum, l'actum, il iussum del capo
di famiglia si cambiano in altrettanti atti solenni, che diventarono poi il
substratum di altrettante configurazioni giuridiche in un periodo posteriore. Un
secondo carattere poi sta in questo, che il diritto presentasi fra questi capi
di famiglia appartenenti a genti e a tribù diverse, come il solo mezzo per
stabilire e mantenere la pace fra i medesimi. Se infatti il suo impero non
fosse riconosciuto non ha altro espediente, che quello di ricorrere alla manuum
consertio, la quale, allargandosi dalla famiglia alle genti, e da queste alle
tribu, mantenne le medesime in uno stato di guerra permanente, i cui rancori si
verrebbero poi perpetuando di generazione in generazione. Accenno qui ad un
concetto, che sarà svolto più largamente altrove. Diregola si suol cercare nel
diritto quiritario il complesso di tutti gli atti e dei negozi giu ridici, che
potevano essere richiesti dalle condizioni sociali del popolo, fra cui esso vige.
Esso invece non comprese dapprima tutti i rapporti giuridici, che già esi
stevano nel costume e nella consuetudine; ma comincia dal comprendere quelli,
che erano resi più urgenti dalle esigenze della vita civile e politica. E in
questo modo, che esso comincia dall'essere un ius quiritium, che si aggira su
pochissimi concetti fondamentali, i quali si adattano a tutte le possibili
evenienze; poi trasformasi nel ius proprium civium romanorum; quindi assorbisce
anche nella propria cerchia le istituzioni del ius gentium; e da ultimo giunge
ad informarsi persino al ius naturale; concetti questi che, se non avevano
ancora una configurazione scientifica, viveno però già nella coscienza generale
del popolo romano, fin dal proprio esordire nella storia. Ciò mi conferma in
una antica convinzione, che ho già avuto occasione di esporre nell'opera: La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, la quale consiste in
ritenere, che anche nelle epoche primitive il diritto non confondesi colla
forza; ma compare invece qual mezzo per reprimere la forza e la violenza. So
che questa opinione ha ad essere combattuta da egregi che si occuparono dell'argomento,
e fra gli altri da Zocco-Rosa, Preistoria del diritto. Milano, e da Puglia,
L'evoluzione storica e scientifica del diritto e della procedura penale, nota;
ma i fatti mi inducono a persistere nella medesima. Non è già che io nego, che
siavi stato un periodo, in cui abbia predominata la forza e la privata violenza:
ma quando presentasi il diritto, esso non solo non confondesi colla forza, ma
si propone senz'altro di reprimerla, obbligandola a seguire certi processi, che
ne impediscono l’esagerazioni e gl’eccessi. In questo senso aveva ragione il filosofo
di scrivere – Nam genus humanum. Ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum
Sponte sua cecidit sub leges arctaque iura. Lucretius, De rerum natura. Cio è
anche dimostrato dal carattere del tutto particolare, che assumono le guerre in
questo periodo, e che si mantiene ancora per qualche tempo nella storia di Roma.
Tali guerre infatti il più spesso prendono le mosse da qualche controversia, di
carattere pressochè famigliare, che viene poi estendendosi mediante le aderenze
e le parentele, e riduconsi in sostanza a scambievoli scorrerie, che le varie
tribù e genti vengono facendo nei rispettivi loro territorii; scorrerie, che si
sospendono mediante le induciae nella cattiva stagione, e vengono poi ad essere
riprese nell' anno seguente. Ciò fa quasi credere, che queste genti primitive sono
in uno stato perpetuo di guerra; il che non può essere ammesso, perchè è
contraddetto dalle solennità stesse, che accompagnano così le dichiarazioni di
guerra, come la formazione delle tregue, delle alleanze e delle paci. Un ultimo
carattere infine, sta in ciò, che la formazione del diritto non si ha dapprima
nei rapporti interni dei singoli gruppi; ma piuttosto nei rapporti fra le
famiglie, fra le genti, fra le tribù, o almeno fra i loro capi, per guisa che i
primi vocaboli di significazione eminentemente giuridica contrappongono sempre
l'uomo all'uomo, ed indicano dei rapporti amichevoli od ostili, che vengono a
svolgersi fra i diversi capi di gruppo. Di qui la conseguenza in apparenza
strana, ma certamente fondata sui fatti, che la formazione di un diritto, che
governava i rapporti fra le varie genti, precede la formazione del diritto
privato propriamente detto: il che è dimostrato anche dalla considerazione, che
nei filosofi si discorre dei iura gentium, prima ancora che si discorra del ius
quiritium e del ius civium romanorum. Infatti, i iura gentiun, i foedera, le
sponsiones fra i capi delle varie genti sono già rapporti, che si sono svolti
anteriormente alla formazione della comunanza romana, mentre il ius quiritium
dapprima e il ius civile più tardi nacquero e si svolsero colla stessa Roma; il
che appare eziandio dal processo delle cose sociali ed umane, che ci è
descritto dai filosofi latini. Intanto e sopratutto sui mercati, ove compareno
i varii capi di famiglia, ed ove, oltre gli scambi, si puo anche trattare le
alleanze e le paci, che comincia la formazione del diritto; il quale,
esplicandosi fra capi di famiglia, che appartenano a genti diverse, e che non
erano ancora soggetti al medesimo diritto, dove necessariamente essere dapprima
piuttosto un ius gentium, che non un diritto, che potesse chiamarsi ius civile.
Questo anzi non potè formarsi altri menti, che col trasportare fra i cittadini della
medesima città quelle forme, che si sono prima elaborate nei rapporti
contrattuali fra i capi delle varie genti e famiglie. Si può quindi affermare,
che anche quel diritto pdi Roma, che appare nella storia con caratteri di
maggior rozzezza e violenza, non trova sempre la propria origine nella forza,
come molti sostengono; ma che in parte ha invece un'origine essenzialmente *contrattuale*,
come la città, in cui esso era chiamato a ricevere il suo svolgimento. Il
diritto, anziché doversi confondere colla forza, compare invece, allorchè si
comincia ad uscire da uno stato di violenza, e se la forza continua ancora nei
rapporti fra le varie tribù, gli è perchè esse non riuscirono ancora a
sottoporsi, mediante accordo, all'impero di un medesimo diritto. E solamente
più tardi, allorchè la città comincia ad essere abbastanza forte e potente, per
imporsi ai singoli gruppi, che l'autorità civile potè penetrare eziandio nelle
mura do [Non mi dissimulo l'arditezza di una idea, che conduce in sostanza a
dire, che si forma dapprima il ius gentium, che non lo stesso ius civile, e che
il ius quiritium e un diritto, formatosi dapprima fra le genti e i loro capi, e
poscia trapiantato fra i quiriti: ma questo processo è per tal modo confermato
dai fatti e ne appariranno man mano prove così evidenti, che mi sembra
impossibile il poterlo negare. Del resto la ragione di esso trovasi in questo,
che mentre la famiglia poo fare a meno del diritto nei suoi rapporti interni;
questo invece e indispensabile nei rapporti fra le varie famiglie e fra le
varie genti. Che anzi, dacchè sono nel dominio delle induzioni, aggiungerò
ancora, che ai iura gentium dovette precedere il senso di quei iura naturalia,
quae natura omnia animalia docuit; per guisa che il diritto nel suo svolgimento
di fatto sarebbe prima uscito dalle tendenze spontanee dell'umana natura. Poi
sarebbe stato elaborato nei rapporti fra le varie genti. Solo più tardi e comparso
nell'interno di Roma. Esso insomma nei fatti seguì un processo del tutto
opposto a quello che segue la scienza del diritto in Roma; la quale comincia
invece dalle cautele del *ius civile*. Poi venne ad abbracciare anche l'equità
del *ius gentium*. Più tardi soltanto giunse ad innalzarsi all'umanità del *ius
naturale*. Vi ha però questa differenza, che i iura naturalia primitivi sono
l'opera in consapevole degli istinti dell'umana natura, e i primitivi iura
gentium consistono in un complesso di pratiche fra le varie genti, imposte
dalle necessità di fatto; mentre il ius gentium accolto dal praetor e il ius
naturale dei giureconsulti sono già nozioni astratte, a cui essi pervennero,
mediante la riflessione ed il ragionamento, e forse neppure da soli, quanto al
ius naturale, ma col sussidio della filosofia, atta a svolgere questi concetti
speculativi ed astratti. Mi rimetto, quanto allo svolgimento del concetto di
ius gentium e di ius naturale, a ciò che ho scritto nella Vita del diritto nei
suoi rapporti colla vita sociale, lasciando a chi legge di notare le
modificazioni, che qui sonovi arrecate.] mestiche, e sostituirsi a poco a poco
alle norme di carattere esclusivamente morale o religioso, imponendo un diritto,
a cui tutti devono inchinarsi, perchè è l'espressione della volontà collettiva
e comune. I caratteri del diritto che ho fin qui cercato di ricavare dall'esame
dei fatti, appariscono eziandio dai vocaboli più antichi, che presso le genti
latine abbiano avuta una portata veramente giuridica, quali sono quelli di
connubium, di commercium e di actio, e dalla significazione, che questi
vocaboli hanno anteriormente alla formazione stessa di Roma. Infatti non può
esservi dubbio, che questi tre concetti già avevano un contenuto preciso,
allorchè comparve la comunanza romana. Ma essi non indicano ancora un complesso
di diritti, che appartenga a questa od a quella persona, ma piuttosto dei
rapporti, di carattere pressochè *contrattuale*, che esistono fra le famiglie,
le genti e le tribù e i capi rispettivi delle medesime. L’ action, nel suo
significato giuridico, ha un'origine pressochè contrattuale, come lo dimostra
il fatto, che essa suppone il rimettersi di due persone ad un'autorità
accettata da entrambi, ed una reciproca scommessa fra i contendenti, con cui
entrambi affermano di essere nel buon diritto. E solo più tardi, che questi
vocaboli, i quali significavano primitivamente dei rapporti, che intercedevano
fra le varie genti e i loro capi, trapiantati fra i cittadini vennero a
costituire altrettanti capi saldi, da cui si staccarono le forme essenziali,
sotto cui ebbe poi a svolgersi il diritto quiritario. È poi degno di nota, come
questi vocaboli, che primi acquistarono una significazione giuridica, abbiano
questo di particolare, che contrappongono l'uomo all'uomo, indicando per tal
modo come il diritto sia veramente nato colla società umana, e sia chiamato ad
essere il vinculum societatis humanae. Nel connubium infatti abbiamo una
persona, che esce da una famiglia per entrare in un'altra. Nel commercium
abbiamo una persona, che, obligando se stessa od alienando la sua proprietà,
addiviene a quelle molteplici relazioni di affari e di negozii giuridici, di
cui si intesse la vita sociale sotto l'aspetto economico. Nell' actio, infine,
abbiamo parimente una persona che, ritenendosi lesa in questo o in quel diritto
da un'altra persona, lo afferma e lo fa valere di fronte alla medesima,
appigliandosi a quei mezzi, che possono conciliarsi colle esigenze della vita
sociale. Per tal modo il ius pone l'uomo di fronte all'altro uomo, e si può
affermare con ragione che hominum causa constitutum est. Intanto ciascuno di
questi concetti è eminentemente sintetico e comprensivo per modo che ognuno può
servire come punto di partenza a tutto un complesso di diritti; il che apparirà
ancora, allorchè Gaio, riassumendo l'elaborazione scientifica di molti secoli,
finisce per con chiudere: omne ius vel ad personas, vel ad res, vel ad actiones
pertinet. Non ignoro come questa classificazione sia stata di recente
combattuta sopra tutto in Germania, e fra gli altri. dallo stesso SAVIGNY, il
grande iniziatore del movimento contemporaneo negli studii storici intorno al
diritto, il quale giunse fino a sostenere, che la distinzione di Gaio non ha nè
valore storico, nè valore intrinseco. Traité de droit Romain. Trad. Guexoux,
Paris. Parmi tuttavia, che chi consideri la correlazione perfetta, che vi ha
fra la classificazione teorica di Gaio, e i concetti da cui il diritto
quiritario prende le mosse, e tenga conto di quella dialettica potente, che
stringe insieme le varie parti della giurisprudenza romana, malgrado il tempo per
cui durò l'elaborazione di essa, possa difficilmente ammettere, che qui
trattisi, come il SAVIGNY dice dell'opinione individuale di un giureconsulto, e
che come tale sia priva di qualsiasi valore storico ed intrinseco. Essa invece
ha valore storico ed intrinseco ad un tempo, perchè compenetra tutta la
giurisprudenza romana, in quanto che e facile il dimostrare a suo tempo, che
nel diritto civile romano tutta la parte relativa ai diritti di famiglia e
quindi alle persone non e che uno svolgimento del concetto primitivo del
connubium. Tutta quella relativa alle cose non fa che una deduzione dal
concetto di commercium. Infine, quella che si riferisce alle azioni, non fu che
il frutto di un'elaborazione lenta e non mai interrotta del concetto primitivo
di actio. Cfr. al riguardo C., De
exceptionibus in iure romano (Torino). L'autore che pose meglio in evidenza la
correlazione fra connubium, commercium ed actio, e LANGE, Histoire intérieure
de Rome. Che anzi i giureconsulti proseguirono lo svolgimento di queste forme
essenziali del diritto, senza mai confondere lo svolgimento dialettico dell'una
con quello dell'altra; per modo che certe singolarità del diritto romano solo
si puo spiegare, in quanto che la dialettica giuridica non consente di
confondere due ordini diversi di idee. Di più se fosse qui lecito di porre
innanzi una considerazione, che puo parere TROPPO filosofica, non dubito di
affermare, che nel concetto romano la distinzione seguita da Gaio esprime tre
atteggiamenti diversi del diritto compreso in tutta la sua larghezza, il quale
appartiene alla persona, si spiega sulle cose, e infine, violato, affermasi
mediante l'azione. È da questa concezione sintetica e potente del diritto in
Roma, che procede la primitiva indistinzione fra il diritto *personale*, il
diritto reale, e l'azione, che serve a difenderli. Fra questi concetti
presentasi anzitutto quello di connubium, che nella sua significazione
primitiva indica la facoltà, che appartiene ad individui, i quali appartengono
a genti diverse, di imparentarsi fra di loro, mediante quelle nozze, che dalle
genti sono riconosciute come giuste e legittime. Esso ha per effetto di
mescolare le stirpi, e quindi si comprende, che nell'alto concetto, che hanno
le genti patrizie dei proprii antenati e del SANGUE, che corre nelle loro vene,
questo dove essere un rapporto, in cui tendevano piuttosto a restringersi, che
non ad estendersi. Solo le genti, che appartenevano al medesimo nomen -- e
questo il latino, il sabino o l'etrusco – hanno fra di loro comunanza di
connubii, il che è anche provato dalla tradizione, secondo cui, se i Ramnenses vuoleno
il connubium coi Titienses, doveno ricorrere alla violenza ed alla forza; il
che pero non tolse, che il MESCOLARSI DEL SANGUE delle due tribù sia stata la
causa del loro successivo affratellarsi per formare una medesima Roma. Furono
infatti le DONNE di origine SABINE che secondo una tradizione, la quale è certo
ben trovata -- si interposero fra i mariti ed i fratelli e riuscirono così ad
affratellarli, dando perfino il loro nome alle curie, in cui essa è ripartita. Cosi
pure si comprende, che anche fra le genti, che appartenevano allo stesso nomen
e facevano anche parte della STESSA tribù, il connubium non potesse esistere
fra i due elementi, di cui [È questa la significazione primitiva, che si
attribuisce al vocabolo, allorchè parlasi di connubium fra le varie genti, o
fra il patriziato e la plebe. E solo nel diritto quiritario, che il ius
connubië passa a significare il diritto di addivenire alle iustae nuptiae, e
venne così a dare origine a tutti quei rapporti giuridici, che si riferiscono
alla famiglia. È da esso infatti, che deriva la manus, che fonda la famiglia;
la patria potestas, che spiegasi, allorchè nascono dei figli; e infine la
stessa successione legittima, la quale si avvera, allorchè, morendo il capo di
famiglia, si discioglie quel gruppo, e si riparte quel patrimonio, che in lui
trovavansi unificati. Questa tradizione è riferita da Livio e da Dionisio: ma
non sembra essere confermata dai fatti, perchè alcuni dei nomi delle curie
primitive, che giunsero fino a noi, sembrano essere tolti più dai luoghi che
dalle persone. V. LANGE, Hist. intér. de Rome. Ad ogni modo questa è una
tradizione, che è certo ben trovata, in quanto che dimostra l'importanza, che
dove avere un avvenimento che la rompe col passato, e rende possibile il
connubium fra persone che non appartenevano al medesimo nomen, preso nel senso
di stirpe e di schiatta. E questa prima MESCOLANZA DEL SANGUE latino col
sabino, che rese possibile la potente attrazione esercitata da Roma su tutte le
stirpi italiche, il che è riconosciuto da CICERONE, De Rep.] l'uno in origine
rappresenta la classe dei vincitori e l'altro quella dei vinti. Non poteva
quindi esservi connubio, nè fra i liberi ed i servi, nè nè fra i patroni ed i
clienti, e neppure fra i patrizii ed i plebei. Queste varie gradazioni
costituivano pressochè due caste diverse, il cui sangue non dove confondersi,
come lo dimostrano le lunghe lotte, che si dovettero sostenere anche più tardi
per accomunare i matrimonii fra il patriziato e la plebe. Intanto pero questo
connubium, frammezzo a genti, che costitui vano per così dire altrettante
piccole potenze, riducesi in realtà a staccare una donna da un gruppo, di cui
prima fa parte, per trasportarla in un altro; il che importa eziandio un
cambiamento nel culto gentilizio, perchè la donna abbandona il culto dei suo
padre per diventare partecipe di quello del marito. Di qui la necessità per le
giuste nozze di una cerimonia religiosa, come quella della confarreation, a cui
assisteno i capi di famiglia della gente e delle tribù, a cui appartene lo
sposo e la moglie, e che importa la comunione delle cose divine ed umane. Di
qui la conseguenza eziandio, che quanto era dalla moglie recato con sè dovesse
diventare [A chi chiedesse col linguaggio ora adottato, se le genti italiche
praticassero l'endogamia o l'exogamia (V. SPENCER, Principes de sociologie), si
dove rispondere, che esse sotto un certo aspetto erano exogame, perchè
ritenevano nefarie le nozze fra persone strette da un certo vincolo di
parentela, fra quelle persone cioè, fra cui esiste, secondo l'antico linguaggio,
il ius osculi, ossia fino al sesto grado; mentre poi erano endogame nel senso,
che il Patrizio, per scegliere la propria compagna, non puo uscire dalle genti che
appartenevano allo stesso nomen. Pare però, che questa consuetndine
tradizionale siasi modificata dagli stessi romani, i quali, misti fin dalla
origine, furono anche in seguito i più facili a mescolare il proprio sangue con
altre stirpi. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Torino. Parmi
allo stato attuale degli studii incontrastabile l'opinione, che considera la confarreatio
come esclusivamente propria delle genti patrizie. Tra gli autori seguono tale
opinione EsMein (La manus, la paternité et le divorce – Mélanges d'histoire de
droit, Paris); Glasson (Le mariage civil et le divorce, Paris), e pare anche il
nostro Brininel suo bel lavoro sul Matrimonio e divorzio nel diritto romano (Bologna).
Del resto varii indizii di questa origine patrizia della confarreatio si hanno
nel carattere religioso della cerimonia, nei X testimonii che ricordano le X curie
delle tribù, e in ciò che le leggi regie da Dionisio attribuite a Romolo ed a
Numa, non ricordano che le nozze confarreate. V. Bruns, Fontes. Per ciò che si
riferisce alla famiglia romana è fondamentale l'opera dello SCHUPFER, La
famiglia nel diritto romano. Padova] proprietà del marito, o di colui, sotto la
cui potestà trovavasi ancora il marito; e che la medesima, per entrare nei
quadri del gruppo, a cui venne ad aggregarsi, cadesse sotto la manus del capo
di famiglia, ed acquistasse la posizione migliore, che puo esservi nella
medesima, che era quella di figlia – filiae loco. Viene in seguito il
commercium, il quale in questo periodo non significa ancora quel complesso di
diritti, che scaturiscono dal dominio, ma ha il suo vero e proprio significato
di rapporti commerciali, che possono intervenire fra i capi di famiglia,
appartenenti a genti diverse. Qui il rapporto è assai più superficiale, ed è
per sua natura tale, che può essere di reciproco vantaggio per i contraenti. Il
commercium pertanto prende un più largo sviluppo; ed esiste non solo fra il
patriziato e la plebe, fra cui era reso indispensabile dalla coesistenza sul
medesimo suolo, ma anche fra coloro, che appartengono a stirpi diverse. Che
anzi fra queste sonvi anche le stirpi, che, per avere attitudine maggiore ai
commerci, fannosi in certo modo intermediarie dei medesimi fra le varie genti e
tribù; il quale ufficio fra le genti italiche sembra essersi compiuto
sopratutto per opera dell'elemento etrusco. Sono questi commerci, che vengono
ravvicinando le varie genti, e conducono gradatamente a cambiare certi siti
neutrali in luoghi di riunione ad epoche de terminate e fisse – conciliabula, for
a --. È poi un grande vantaggio [Anche qui la significazione primitiva del
vocabolo commercium appare da ciò, che Roma fin dagli inizii trovasi circondata
da popolazioni, con cui pratica il commercium. È solo per opera del diritto
quiritario, che il concetto di commercium, applicato fra i cittadinidi una
medesima città, dà origine al ius commercii, il quale poi, sviscerato negli
elementi, che entrano a costituirlo, viene a scindersi; nel ius emendi ac
vendendi, che operasi colla mancipatio; nel nexum, da cui deriva la teoria
delle obbligazioni; e infine nella testamenti factio, che comprende la facoltà
di fare e di ricevere per testamento, e quella perfino di essere testimonio nel
medesimo. Cfr. Lange, Histoire intérieure de Rome. Per tal modo, nello
svolgimento dialettico del diritto quiritario la successione legittima e la
testamentaria vengono a spiegarsi in un diverso ordine di idee in quanto che la
prima dipende dal connubium, e l'altra deriva dal commercium. Questa forse è la
vera ragione della massima. Ius nostrum non patitur eumdem in paganis testato
et intestato decessisse, earumque rerum naturaliter inter se pugna est. Pomp.,
I, Dig. È proprio infatti dei giureconsulti, che essi una volta, che hanno
separato due ordini di idee, non li confondano più insieme. Secondo il SUMNER
Maine, qualche cosa di analogo sarebbe anche accaduto fra 128 per una comunanza
incipiente, se la medesima sia posta in tal sito da richiamare alle proprie
fiere ed ai proprii mercati le popolazioni vicine; vantaggio, che e una delle
cause, per cui Roma, diventata ben presto un emporio per il commercio delle
popolazioni latine, potè esercitare sovra di esse un'attrazione ed
assimilazione potente] le antiche comunanze di villaggio dell'Oriente; fra le
quali esistevano degli spazii di terreno neutrali, che serveno per trattare le
paci e per il mercato (Village Communities). Secondo Maine, si ha un indizio
dell’associazione del commercio e della neutralità negli attributi di MERC-V-RIO,
dio comune alle stirpi di origine aria, che da una parte sarebbe il dio dei
termini, il primo dei messaggeri ed ambasciatori, e per ultimo anche il patrono
del commercio, dei confini, e un poco anche dei furti e dei ladronecci. Intanto
da questa circostanza in apparenza di poco rilievo, per cui nel medesimo sito
si fanno gli scambii e si trattavano le alleanze e le paci fra le varie genti,
deriva questa importantissima conseguenza, che come in quest'epoca non si
distingueva il diritto privato dal pubblico, così non distinguesi il diritto
commerciale, da quel diritto, che ora si chiama internazionale. L'uno e l'altro
erano compresi nel ius gentium, il che spiega come questo vocabolo talvolta
indichi soltanto dei rapporti fra cittadini e stranieri, e talvolta comprenda
anche i rapporti di carattere pubblico fra varii popoli. Non puo però esservi
dubbio, che il ius gentium, allorchè viene a penetrare nel diritto romano, per
opera del praetor, appare circoscritto ai rapporti privati fra cittadini e
stranieri, ed ha quindi un carattere essenzialmente commerciale. Ciò è molto
bene dimostrato da Fusinato nel suo accurato lavoro Dei Feziali e del diritto
feziale, Accademia dei Lincei. Memorie della Classe di scienze mor. stor.
filol.; del quale credo di poter dire, senza offendere la modestia di un
collega ed amico, che ha cominciato ad introdurre qualche concetto direttivo in
una materia, che certo ne ha grande bisogno. È poi noto, che la grande autorità
sull'argomento è Voigt, Das ius naturale, bonum et equum, gentium, etc. Leipzig,
dei quali il 2° si occupa pressochè esclusivamente del ius gentium. Fra il modo
di vedere di questi autori e quello qui esposto corre però questa differenza,
che essi ritenne il concetto ed anche la denominazione del ius gentium, come
opera riflessa dei giureconsulti; mentre per me il ius gentium esiste nel fatto
e nella parola anche anteriormente e solo più tardi riuscì a trovar posto anche
nel diritto civile di Roma. Sembra tuttavia che prima fossero adoperate le
espressioni di iura gentium, e di iura naturalia, mentre dopo i vocaboli
adottati sono quelli di ius gentium e di ius naturale, i quali indicano
l'unificazione, che vi si è operata. MOMMSEN, Histoire Romaine, da tale
importanza alla posizione eminentemente commerciale di Roma, da ritenere la
popolazione primitiva di essa comededita al commercio e Roma come una città
commerciale. PADELLETTI ha combattuta tale opinione (Storia del diritto romano)
e parmi in verità che il fatto, per cui Roma divenne l'emporio delle genti del
Lazio, possa essere spiegato senza dire, che essa fosse una città sopratutto
commerciale; poichè anche per una città agricola e militare ad un tempo, come
era Roma nei propri inizii, puo essere grandemente utile di essere in tal sito,
da richiamare il commercio [E sui mercati, dove convenivano persone
appartenenti a comunanze diverse, che dovettero formarsi quelle convenzioni più
semplici, fondate unicamente sul consenso dei contraenti, e fra le altre anche
la compra e vendita, che alcuni vorrebbero far nascere solo, quando Roma era
già divenuta una grande città. Solo deve avvertirsi, che questa compra e
vendita primitiva, avverandosi talvolta fra capi di famiglia, che appartenevano
a comunanze diverse, fra cui non esiste forse comunione di diritto, non dove
naturalmente ritenersi perfetta, se non era accompagnata dalla tradizione della
cosa e dal pagamento del prezzo, come ha a stabilire anche più tardi la
legislazione decemvirale. E qui parimenti, che dove nascere e svolgersi quella
sponsio o stipulatio, la quale, allorchè poi ottenne di essere riconosciuta dal
diritto quiritario, venne ad essere il mezzo più semplice e più acconcio per
dar forma giuridica ad ogni maniera di convenzioni. Sono eziandio queste fiere,
che die delle popolazioni latine. Può darsi anzi, che anche questa posizione
eminentemente commerciale l'ha resa meno esclusiva nell'accogliere nuovi
elementi. Del resto anche i romani senteno l'eccellenza della posizione della
loro città, e ce ne parla CICERONE, De Rep. Non può quindi, a parer mio, essere
giustificata l'opinione di coloro i quali ritengono, che solo più tardi si
fosse introdotta in Roma l’emptio venditio, e che la sponsio e la stipulatio,
che certo già esisteno nei rapporti fra le varie genti, sonno state invece
importate di Grecia, per ciò che si riferisce alle convenzioni private.
L'opinione erronea proviene dal credere, che il diritto quiritario comprende
dapprima tutto il diritto in uso presso i romani; mentre invece esso fu una
codificazione e un adattamento progressivo del diritto già esistente nelle
consuetudini. Esso quindi comincia dal comprendere solo quella parte di esso,
che era confermata da una lex publica, come lo dimostrano le antiche
espressioni di agere per aes et libram, di facere testamentum, nexum, mancipium
secundum legem publicam. Quindi, accanto al ius quiritium, visse sempre in Roma
un ius gentium, che, senza aver ricevate le forme quiritarie, e però sempre
adoperato e forse anche applicato nelle controversie dai recuperatores, anche
anteriormente all'istituzione del praetor peregrinus. Ciò è provato dai
filosofi latini e sopratutto da Plauto, che ne danno come usuali e frequenti
certe forme di negozii e di atti, che non risultano ancor sempre penetrati nel
diritto quiritario. Ciò poi è indubitabile per la sponsio o stipulatio, atto
romano per eccellenza, dai romani applicato nei trattati pubblici e nelle
convenzioni private. Può darsi quindi, che le genti italiche l'avessero comune
colle elleniche, e che la espressione spondeo fosse anche comune ai due popoli.
Ma i romani non ebbero certo bisogno di apprenderlo d’altri, nè aspettarono ad
adoperarlo solo piu tarde verso come sostengono fra gli altri MurueAD, Histor.
Introd. e Leist, Graeco- Italische Rechts geschichte. Solo può ammettersi, che,
dopo aver vissuto lungamente nell'uso e davanti ai recuperatores, la sponsio o
stipulatio penetra anche nello stretto diritto civile ed e adottata come forma
propria del medesimo] dero più tardi occasione al giureconsulto Manilio di
concretare in poche parole delle formole acconcie per concepire quelle vendite,
che sono più frequenti per una popolazione agreste; delle quali formole alcune
pervennero a noi e potrebbero trovare riscontro in formole, ancora oggi usate
nelle stesse occasioni, salvo che queste non hanno più la sobrietà e precisione
antica. È qui infine, che dove prepararsi la formazione di un ius gentium, che
ha dapprima un carattere commerciale, come il commercium da cui esso deriva, e
che, accanto al diritto proprio di ogni singola gente o tribù, era
indispensabile per le transazioni commerciali fra i capi di famiglia,
appartenenti a genti ed a tribù diverse. Sia pure, che solo più tardi questo
modesto ius gentium, formatosi sulle fiere e sui mercati, richiami l'attenzione
del pretore, e gli dia animo per scostarsi dalle formalità ormai divenute
soverchie del ius proprium civium romanorum: cio però non toglie, che le
origini di quelle lente formazioni, che si verificano nella coscienza generale
di un popolo, si debbano talvolta anche cercare in un'epoca di gran lunga
anteriore, come accade delle piccole sorgenti, che solo appariscono degne di
osservazione e di ricerca, quando si scorge il corso maestoso del fiume, che
ebbe a derivarsi da esse. Da ultimo non può esservi dubbio che, già nel periodo
gentilizio, dovette essersi formato il concetto dell' actio, ma questa non
significa un mezzo accordato dalla legge o dal pretore, per far valere in
giudizio un proprio diritto, ma e, per dir cosi, il diritto stesso, che
mettevasi in azione, estrinsecandosi in quel complesso di atti, che erano
indispensabili per ottenere il proprio riconoscimento. Il poco che pervenne a
noi delle formole Maniliane, trovasi riportato dall'HuSCHKE, Iurispr. anteiust.
quae supersunt, ed è una prova dell'attitudine dei veteres iurisconsulti a
sceverare da un fatto tutto ciò, che in esso eravi di giuridico, modellandolo
in una formola tipica, che puo poi servire per tutti i casi dello stesso
genere. Accostasi a questo concetto dell' actio, nella sua significazione
primitiva, l'ORTOLAN, Histoire de la legislation romaine, Paris, parla
dell'azione nel periodo decemvirale. Action est une dénomination Générale. C’est
une forme de procéder, une procédure considérée] È a questo punto, che si può
trovare la ragione, per cui il diritto di tutti i popoli e quindi anche il
romano si è sviluppato dapprima sotto forma di azione e di procedura, che non
come legge, che determini i diritti rispettivi dei cittadini. Finché il capo di
famiglia è esso il sovrano nella propria casa, egli NON HA BISOGNO CHE LA LEGGE
VENGA A RICORDARGLI QUALI SIANO I SUOI DIRITTI. Questo diritto egli porta con
sè e ha profondamente impresso nella sua coscienza. Quindi, se il medesimo diritto
venne ad essere violato, egli non può aspettare che lo Stato, che quasi ancora
non esiste, si metta in moto per ottenere la riparazione dal torto, che ha ad
essergli arrecato. Come quindi è il capo di famiglia che vendica l'adulterio, o
che corre sui passi del ladro che lo ha derubato, e ne perquisisce la casa,
mediante certi riti, che sono determinati dal costume e a cuiniuno osa
ribellarsi, perchè sono sotto la protezione del fas: così è pur egli che,
quando si vede occupato un fondo, od usurpato uno schiavo, o sottratto un
figlio, si mette in movimento ed in azione e afferma in presenza ed a scienza
della intiera comunanza, che è suo quel fondo, quello schiavo, quel figlio.
Quindi è, che l'azione viene ad essere naturalmente la prima manifestazione del
diritto. Prima il diritto esiste allo stato latente, ed ora si produce, si
afferma, perchè incontro una persona, che ebbe a violarlo. Quest'azione
tuttavia, non è ancora la legis actio; perchè in compierla l'uomo offeso non
ispirasi ad una *legge*, che forse non esiste ancora, ma ispirasi al senso
intimo e profondo del proprio diritto. Tuttavia è in questo momento sopratutto,
sotto la sferza dell'offesa e sotto l'impeto dell'indignazione, che il capo di
famiglia può anche trascendere nel far valere il proprio diritto, e ricorrere
anche alla violenza ed alla vendetta. Quindi è, che se per avventura verrà a
formarsi nel seno della comunanza qualche forma di procedura, la quale, mentre
da una parte rispetta la fiera indipendenza dell'uomo, consapevole del proprio
diritto, dall'altra contenga il prorompere violento di colui, che ha ad essere
dans son ensemble, dans la série des actes et des paroles, qui doivent la
constituer. Qui però l'autore parla già della legis actio. Ma se noi andiamo
più oltre nei tempi, allorchè essa non è ancora legis actio, ma semplicemente actio,
questa non è ancora un modo di procedere, ma è soltanto un modo di *agire*, ed
è anzi il diritto stesso in azione. Cfr. C., La vita del diritto. È poi notabile, come
per i latini il vocabolo agere indichi un'azione continuata, che può scindersi
in parti diverse; mentre facere si adopera di preferenza invece per indicare
un'azione, la quale compiesi, per così dire, in un unico contesto.] offeso nel
proprio diritto, l'occasione non dove certamente essere trascurata. E quindi
prima il mos, che comincia coll'additare la via consuetudinaria, a cui debbe
appigliarsi colui, che vuol far valere il proprio diritto. Poi e il fas, che
intervenne anch'esso e dichiara empio chi non segue quel determinato rito. Ed
infine sarà anche il ius, che venne notando in certo modo i varii stadii, per
cui passa quella procedura, e obbliga i contendenti a passare, almeno per forma
– dicis gratia --, per ciascuno di questi stadii. E in tal modo, che all'actio
violenta, rozza, avida, appassionata dell'individuo sottenne la legis actio,
consacrata dalla legge, compassata e lenta, quasi per attutire le passioni
irrompenti dei contendenti; ma che intanto ricorda ancora gli stadii
dell'anteriore violenza, quasi per ricordare che a quella dovrebbe farsi
ritorno, quando la legge non e rispettata. Non è quindi da approvarsi, a mio
avviso, l'opinione di coloro, i quali ritengono che il prevalere delle norme
procedurali nel diritto, e quindi anche nel romano, sia prevenuto da ciò, che
sarebbesi prima badato alla forma, che alla sostanza. La ragione di questo
fatto è molto più profonda e deve essere cercata nelle origini stesse della
convivenza civile e politica. La causa del fatto sta in ciò, che l'opera della
legge negl’inizii e sopratutto necessaria non tanto per assicurare il diritto,
quanto per reprimere le reazioni violente, a cui abbandonavasi colui, il cui
diritto e violato. In questa parte diritto privato e diritto penale segueno
analoghe vicende. Al modo stesso, che la legge penale non mira tanto a punire i
misfatti, quanto piuttosto a porre dei confini alla vendetta, e rende cosi
obligatoria quella composizione a danaro, che dipende dall'accordo delle parti:
cosi anche le norme procedurali comparvero le prime, non tanto perchè i popoli
comprendeno più la forma che la sostanza; ma perchè il primo e più urgente
bisogno di una società, in via di formazione, e quello di impedire fra i
consocii la manuum consertio, ossia l'esercizio violento delle proprie ragioni.
Per lo svolgimento parallelo della vendetta e della pignorazione privata, è da
vedersi: Del GIUDICE, La vendetta nel diritto longobardo (Milano). Sembra poi
attribuire la precedenza delle norme di procedura, presso i popoli alla
prevalenza, che presso di essi ha la forma sulla sostanza, lo stesso Sumner
Maine, The early history of institutions, ove, discorrendo della forma
primitiva dei rimedii legali, scrive che in uno stadio delle cose romane i [Intanto
non vi ha forse nel vocabolario giuridico parola, che presenti al giureconsulto
filosofo e storico una più lunga storia di cose sociali ed umane, dei vocaboli
di agere e di actio, e che lo fa rimontare più oltre nelle tenebre e nella
oscurità del passato. Nella loro significazione primitiva di stimolare
e di spingere , questi due
vocaboli sembrano ancor richiamare gl’antichi abitatori del Lazio, che, pastori
di greggi, prima di diventare reggitori di popoli, spingevano al largo le
proprie mandre e i proprii armenti. Memori e quasi alteri della propria
origine, non dubitarono di applicare il medesimo vocabolo a significare
l'attività del magistrato, che si spiega in rapporto col popolo – ius agendi
cum populo --, ed anchequella di colui, che forte della convinzione nel proprio
diritto intraprende quella specie di conflitto e di lotta, che dove essere
necessaria per ottenere il riconoscimento delle proprie ragioni. Questo è
certo, che fra capi di famiglia dal carattere fiero ed indipendente non dove
esser così facile il conseguire che essi si sottoponessero ad un'autorità per
la decisione delle loro controversie, e non è quindi meraviglia se
l'avvenimento dove loro apparire così importante, che ritennero opportuno di
conservare la memoria dei diversi stadii, che hanno dovuto attraversare per
giungervi. Allorchè sorgeva una controversia fra capi di famiglia, appartenenti
alla medesima tribù, il modo più naturale di risolverla dovette certamente
essere quello di rimettersi ad uno o più arbitri ed amichevoli compositori, che
doveno essere concordati fra le parti, come lo dimostra un antico costume, che
gli filosofi latini attribuiscono ai proprii maggiori. Era poi naturale, che
queste persone, chiamate a risolvere la controversia, dovessero essere scelte
fra i padri ed anziani del villaggio; del che rimasero le traccie anche in
Roma, ove i iudices furono per secoli tratti dall'ordine dei padri diritti ed I
doveri sono piuttosto un'aggiunta della procedura, che non la procedura una
mera appendice aidiritti ed ai doveri.
BRÉAL, Dict. étym. latin., v° Agere. Cic., Pro Cluentio. Neminem
voluerunt maiores nostri, non modo de existimatione cuiusquam, sed ne
pecuniaria quidem de re minima esse iudicem, nisi qui inter adversarios
convenisset. Del resto, anche secondo la legislazione decemvirale, sembra che
alla discussione della causa precedesse un tentativo di componimenti, come lo
dimostra il fram., Rem, ubi pacant, orato, tavola II, legge 14, secondo la
ricostruzione del Voigt, Die XII Tafeln, o senatori, e solo dopo una lunga
lotta, che si avvero già sul finire della Repubblica fra il partito deg’ottimati
e quello popolare, poterono anche essere scelti fra gl’equites. La cosa però
venne a farsi più grave, allorchè i contendenti non si mettevano d'accordo per
un amichevole componimento. Non vi ha nulla di ripugnante, che essi, compresi
vivamente del proprio diritto, trovandosi sul fondo stesso o davanti allo
schiavo, oggetto della controversia, cominciassero dall'affermare altamente il
proprio diritto sul fondo o sullo schiavo. Che se niuno di essi cede, lo studio
della natura umana ci insegna anche ora, che non è punto improbabile, che essi
potessero addivenire a quella vis realis, a cui secondo Gellio e poi sostituita
la vis festucaria, e che si effettua cosi fra di essi una vera e propria lotta,
che prese il nome dimanuum consertio. È però consentaneo eziandio al costume
patriarcale che, quando due persone sono cosi in lotta fra di loro, puo anche
interporsi fra di esse una persona autorevole, la quale goda la comune fiducia,
e che loro imponga di separarsi colle parole, che più tardi sonno pronunziate
dal praetor nella procedura quiritaria – mittite ambo hominem. Tace allora la
lotta: i contendenti, fatti umili dall'autorità stessa di chi intervenne fra di
loro e dallo stato stesso di violenza, in cui furono sorpresi, chiamano
entrambi a testimoni il divino, che la ragione è dalla parte loro, e per dare
energia maggiore alla propria affermazione aggiungono alla medesima una
scommessa, la quale, per essere accompagnata dall'affermazione giurata di
rimettersi al giudizio della persona intervenuta fra di essi, può prendere il
nome di sacramentum:. Si ha cosi una successione di fatti, che conducono
naturalmente la persona autorevole, che si è in [La legge che trasporta
dall'ordine dei senatori a quello degli equites la capacità ad essere giudici
fu la lex SEMPRONIA iudiciaria del 632 di Roma, proposta da C. Gracco, la quale
dove però dar luogo a gravi lotte ed agitazioni, che sono fatte manifeste dalle
leggi giudiziarie degli anni, che vengono dopo. È da vedersi in proposito
ORTOLAN, Histoire de la législation Romaine. Aulo Gellio, Noct. attic. -- Questo
sentimento veramente sociale ed umano del pudore, che guadagna colui che si
appiglia alla violenza, trovasi maravigliosamente espresso da OVIDIO, Fastorum.
Et cum cive pudet conseruisse manus. È però a notarsi, che Ovidio limita quel
senso di pudore alle violenze fra i cittadini. Con quelli che non sono tali
sarebbe tutt'altra cosa.] terposta, ad essere giudice non tanto della ragione o
del torto dei contendenti, quanto piuttosto della scommessa intervenuta fra i
me desimi; sebbene però venne ad essere naturale conseguenza del suo giudizio,
che debba ritenersi aver ragione chi vince la scommessa e torto colui, che
perde la medesima. Fin qui pertanto, non si ha che un processo di cose sociali
ed umane, di cui si potrebbero trovare le traccie anche ai nostri giorni, e che
dove certo essere frequente, allorchè le contese sono sostenute dai capi di gruppo,
che non conosceno altra autorità superiore, salvo quella, che sono accettata di
comune accordo. Pongasi ora, che questo processo di cose si ripeta più e più
volte frammezzo a genti, che, come le italiche, siano use a modellare in
formole ed in gesti solenni tutti gli atti tipici della loro vita giuridica, e
allora si puo facilmente comprendere, come siasi venuta formando quel l’ actio
sacramento, che costitui poi l'azione fondamentale di tutto il diritto
quiritario, e e dai quiriti conservata con cura così gelosa, che, già abolite
le altre azioni delle leggi, l' actio sacramento continua ancora a celebrarsi
davanti al tribunale quiritario per eccellenza, che è il tribunale dei
centumviri. Non è quindi il caso di ridurre questa primitiva azione ad una
pantomina incomprensibile, nè di cambiare il popolo maestro al mondo nel
diritto in un architetto di formalità e di sottigliezze senza scopo; ma è il
caso piuttosto di leggervi la storia delle vicende, che ha a percorrere
l'amministrazione della giustizia, riportandola in quell'ambiente patriarcale,
nel quale soltanto si può riuscire a ricostruirla nelle sue primitive fattezze.
Qui tuttavia non posso passare sotto silenzio l'opinione messa innanzi da una
grande autorità, quale è il Bekker, e che e poi anche divisa da molti altri
autori, secondo cui dovrebbero ritenersi più an [È già da qualche tempo, che
rivelasi nei filosofi la tendenza a dare una spiegazione naturale della
formazione dell'actio sacramento. Se ne possono vedere degli accenni nel Maynz,
Cours de droit Romain, Bruxelles; nel SUMNER MAINE, Early history of
institutions, nel MUIRIEAD, Historical Introduction, nel BUONAMICI, Storia
della procedura romana. Pisa. Non credo tuttavia che essa sia stata studiata
nell'ambiente stesso, in cui ha dovuto formarsi, nè che siasi dimostrato che
essa debba riguardarsi come una sopravvivenza di un'epoca anteriore. È però
noto, che Omero nell'Iliade descrive, sopra uno dei compartimenti dello scudo
di Achille, una procedura del tutto analoga a quella dell'actio sacramento.] tiche
della stessa actio sacramento, quelle altre forme di azioni, che sono indicate
col vocabolo di manus iniectio e di pignoris capio, in quanto che le medesime
ricorderebbero più direttamente l'uso della forza per far valere il proprio
diritto. Lasciando per ora in disparte la pignoris capio, che ha solo una
importanza secondaria, per i pochi casi in cui fu ammessa, importa anzitutto
notare, che il vocabolo di manus iniectio può essere tolto in due
significazioni diverse, anche secondo la legislazione decemvirale. Havvi
anzitutto la manus iniectio, a cui ricorre colui che, dopo aver invitato
inutilmente il debitore a seguirlo avanti al magistrato, gli pone addosso la
propria mano e lo trascina in ius, somministrandogli però quei mezzi di
trasporto, che possano esser necessari per lo stato di malattia, in cui egli si
trovi. In questo senso però non havvi ancora una vera legis actio, ma solo un
mezzo per ottenere la comparizione del convenuto davanti al magistrato. Invece
la manus iniectio, in quanto costituisce una legis actio, consiste nel potere,
che appartiene al creditore di porre la sua mano sopra il nexus, l'aeris
confessus, ed il iudicatus per trascinarlo nel suo carcere, e costringerlo così
al pagamento del proprio debito od a lavorare per lui finchè sia soddisfatto. BEKKER,
Die Actionen der römisches Privatrechts, Berlin. Del resto un tale concetto è
stato in parte enunziato anche dal JHERING, L'esprit du droit romain, Trad.
Maulenaere, Paris, salvo che egli dà poi alla manus iniectio, come legis action,
una significazione del tutto speciale. A questa manus iniectio accennasi nella
prima legge delle XII Tavole. Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino: igitur
em capito. Si calvitur pedemve struit, manum endo iacito. -- Sonvi persino
degli autori, i quali dubitano che la manus iniectio puo essere considerata
come una vera legis actio, in quanto che essa non richiede l'intervento del
magistrato e ha solo luogo quando trattasi di esecuzione. E questo il motivo,
che induce il JHERING a dare una significazione speciale alla manus iniectio.
Quanto alla letteratura sull'argomento e alle discussioni, che di recente sorgeno
intorno alla questione, se la manus iniectio dove ritenersi come una legis actio,
è da vedersi il MUIRHEAD, Histor. Introd. Parmi tuttavia, che il dubbio non
possa esistere, quando si tenga conto della significazione larghissima, che ha
il vocabolo di legis actio nel diritto; nel quale esso indica in sostanza i
diversi genera agendi in conformità di una lex publica, per modo da comprendere
la stessa in iure cessio, allorchè serve per effettuare una adozione, una
emancipazione, una manomissione, od un trasferimento di proprietà.] Quanto alla
manus iniectio Voigt, Die XII Tafeln. Or bene la manus iniectio, cosi intesa,
non può certamente essere considerata, come di formazione anteriore all' actio
sacramento. Per verità mentre questa contiene la storia delle varie peripezie,
per cui passa lo stabilimento dell'umana giustizia, e quindi richiama ancora
un'epoca, in cui non eravi amministrazione di giustizia; la manus iniectio
invece, quale appare nelle XII Tavole, suppone già stabilita una
amministrazione della giustizia, in quanto che essa è un modo di procedere
all'esecuzione contro colui, che o siasi obbligato colla solennità del nexum, o
abbia confessato il proprio debito davanti al magistrato, o sia stato
condannato al pagamento. Nè serve il dire, che la manus iniectio, essendo un
mezzo per l’esercizio delle proprie ragioni, dove essere applicata anche in
altri casi; mentre la legislazione decemvirale la circoscrive ai casi da essa
determinati, nell'intento di impedirne gli abusi. A ciò infatti si può
facilmente rispondere, che se fra i capi di famiglia delle genti patrizie si
può comprendere una procedura solenne, come quella dell' actio sacramento, in
cui le due parti sono eguali fra di loro e finiscono per accordarsi
nell'accettazione di un giudice della loro scommessa, è invece affatto
ripugnante una procedura, come e quella della manus iniectio. Non è un'eguale
che può sottomettersi ad una procedura di questa specie, per quanto egli puo
essere profondamente convinto del proprio torto. Fra due eguali, che siano in
contesa, può comprendersi la manuum consertio, e in seguito l'accettazione di
un arbitro; ma non mai che uno obbedisca pecorilmente al cenno dell'altro, e si
lasci cosi stringere nei ferri e nelle catene del suo carcere. Con ciò tuttavia
non voglio dire, che la manus iniectio e direttamente introdotta dalla
legislazione decemvirale, e che non esiste anteriormente alla medesima. Ritengo
anzi, che essa dove già esistere da lungo tempo: ma intanto a questo proposito
mi fo lecito di avventurare la congettura, che la manus iniectio dove essere
una speciale forma di procedura, che non si adopera già nei rapporti fra i capi
di genti patrizie, ma bensì unicamente nei rapporti, che intercedeno fra il
creditore patrizio ed il debitore plebeo. Si comprende infatti, come un'aristocrazia
territoriale, come quella delle genti patrizie, puo anche adoperare modi simili
di procedura verso una classe, che nei primi tempi non aveva ancora dimenticato
l'origine servile. Quindi è, che la manus iniectio deve essere considerata come
una delle istituzioni, che non appartiene al diritto, che dovette formarsi nei
rapporti fra i capi delle genti patrizie, ma bensi a quello, che dove formarsi
nei rapporti fra la classe dominante e la classe inferiore: il che spiega
eziandio come la legislazione decemvirale l'ha solo ammessa contro i nexi, gli
aeris confessi e i iudicati, e come la plebe lotta cosi lungamente per
l'abolizione del nexum, il quale forse era ancora un segno dell'antica sua
soggezione servile. Per quello poi, che si riferisce all'esercizio privato
delle proprie ragioni, mi limito ad osservare, che esso nel dominio del diritto
corrisponde alla vendetta nel campo dei delitti e delle pene. Quindi, come è
esistita la vendetta anche fra le genti italiche, così dove anche esservi un
tempo, in cui fra queste esiste l'esercizio privato delle proprie ragioni.
Questo tuttavia può affermarsi con certezza, che l'intento supremo dell'organizzazione
gentilizia e quello di impedire fra i membri di esse cosi la vendetta, che
l'esercizio privato e senza confini delle proprie ragioni. E a questo scopo,
che il fas, il ius e il mos riunirono i proprii sforzi, e solo a forze riunite
riuscirono a cacciare dalla comunanza la violenza, che continuo a dominare fra
le persone, che non appartenevano alla medesima e quindi non avevano fra di
loro comunanza di diritto. Quindi non è più nell'organizzazione gentilizia, che
deve cercarsi l'esercizio privato delle proprie ragioni, dal momento che in
essa tutto è regolato dal mos e dal fas, e che il suo intento supremo e quello
dimettere termine allo stato anteriore di violenza. Fin qui si considerano
soltanto le norme direttive dai rapporti giuridici, che intercedono fra i capi
dei diversi gruppi, norme le quali finiranno per dare in parte origine a quel
diritto, che e poi chiamato ius quiritium dapprima e ius civium romanorum più
tardi. Ora importa cercare invece, quali rapporti corressero fra i varii gruppi
collettivamente considerati, e quale sia stata l'origine del primitivo ius
pacis ac belli. Anche i rapporti fra le varie genti, collettivamente
considerate, hanno nel periodo gentilizio un carattere esclusivamente
patriarcale, e appariscono modellati sui rapporti, che possono intercedere fra
i varii capi di famiglia. E a questo proposito parmi anzitutto opportuno di
rettificare un concetto, che ormai suole essere ripetuto come un dogma, mentre
in verità non merita di essere considerato come tale. Di regola suol dirsi, che
lo stato naturale delle antiche genti fosse lo stato di guerra. Esse invece non
erano nè in uno stato di pace, nè in uno stato di guerra; ma si consideravano
come indipendenti le une dalle altre e non avevano fra di loro comunanza di
diritto. Era quindi facile, che fra loro scoppiasse la guerra, ma questa non e
però lo stato naturale di esse. Ciò e come dire, che due persone che non si
conosceno e non hanno fra di loro alcun rapporto giuridico sonno fra di loro in
lotta. Puo darsi che esse siano in reciproca diffidenza, e che stiano in
guardia: ma non percio puo dirsi che siano in guerra effettiva fra di loro. Ci
vorrà pur sempre qualche causa, od anche semplicemente un pretesto, perchè
l'una si arresti minacciosa contro dell'altra. Sarebbe qui inutile citare tutti
gli autori, che professano questa opinione; mi basta ricordare LAURENT,
Histoire du droit des gens a Roma; il JHERING, L'esprit du droit romain, il
quale attribuirebbe a questo stato di guerra il concentrarsi delle genti
antiche nella città, a cui esse appartengono; il che è certamente vero, ma non
proviene unicamente dalle guerre esteriori, ma anche da ciò, che, creandosi una
nuova forma di connivenza sociale, e naturale, che tutte le forze ed energie
vitali si concentrassero in essa. Anche Fusinato sembra dividere la stessa
opinione nel suo lavoro: Dei Feziali e del di ritto feziale, Roma, Atti della
R. Accademia dei Lincei, Memorie, Classe scienze mor. stor. filologiche, -- al
quale io mi rimetto quanto alla bibliografia completissima sul tema. Egli
tuttavia già trova, che il popolo romano e stato, fra le altre genti, il meno
esclusivo su questo punto, a differenza di PADELLETTI, Storia del diritto
romano. Che questi e lo stato dei rapporti fra le genti primitive è provato
dalla distinzione, che nell'antico linguaggio già viene fatta fra hostis e
perduellis. Hostis chiamasi quello straniero, con cui non sonno rapporto di
diritto, e contro il quale il popolo romano si riserva piena ed intera la
propria autorità giuridica e la propria libertà di azione. Perduellis, nella
sua significazione, e colui con cui era scoppiato il dissidio, e col quale, per
mancanza di un comune diritto, venne ad essere necessità di appigliarsi alla
guerra. E solo più tardi, che il vocabolo di hostis assunse una significazione
più dura e significa il nemico. In allora le significazioni accettate furono le
seguenti. Peregrinus chiamasi colui, col quale non havvi nè amicizia, nè
ospitalità, nè alleanza; hostis quegli, con cui Roma trovasi in guerra aperta;
perduellis infine colui, che nell'interno dello stato cerchi di recare
perturbazione e conflitto, mettendosi in lotta coll'interesse della patria sua.
Questa trasformazione si opera però lenta e note relative, il quale
attribuirebbe al popolo romano una esclusività maggiore degli altri popoli, per
trattarsi di un popolo agricoltore, conservatore e guerresco ad un tempo. Per
parte mia ritengo, che i romani in questa parte si governano colle norme stesse
delle altre genti italiche, come lo dimostra il fatto che il primitivo ius
foeciale è loro comune cogli altri popoli, da cui sono circondati. Non posso
però ammettere che essi, sopratutto nei primi tempi, si ritenne in stato
naturale di guerra cogli altri popoli; perchè in tal caso tutte le formalità
dell'antico ius foeciale si converte in una commedia inesplicabile e in
contraddizione col prin cipio direttivo dei rapporti fra le varie genti. Quanto
agli argomenti, che sono messi in campo, essi consistono in sostanza nella
significazione di hostis e nel passo di Pomponio, Leg. Dig. Quanto a questo
passo di PomPONIO, egli, anzichè affermare che gli stranieri sono nemici, dice
anzi espressamente che – si cum gente aliqua neque amicitiam, neque hospitium,
neque foedus amicitiae causa factum habemus, hi hostes quidem non sunt. Tuttavia
siccome con questa gente non vi ha comunione di diritto, così contro di aeterna
auctoritas esto -- donde la conseguenza, che se le cose nostre cadono in loro
mano, diventano loro proprie, e così pure se le cose loro vadano in mano dei
romani: certo la conseguenza è grave, ma essa non è una conseguenza dello stato
di guerra, ma bensì di ciò che fra i due popoli non esiste comunanza di diritto.
Nè vorrei si dicesse, che la questione sia soltanto di parole, poichè se la
guerra e lo stato naturale, non si sa come CICERONE scrive: Nullum bellum esse
iustum, nisi quod aut rebus repetitis geratur, aut de nuntiatum ante sit, et
indictum. De off, e De Rep. Del resto anche questa opinione è una conseguenza
del ritenere, che le cerimonie del diritto feziale e semplici formalità
esteriori, il che certamente non dove essere, allorchè questa procedura fra le
genti venne ad essere introdotta. essa [mente, e nella stessa legislazione
decemvirale, che, come tutta legge, tende a conservare i vocaboli nella loro
significazione arcaica, il vocabolo di
hostis , continua ancora sempre a significare colui, col quale non
esiste comunione di diritto, come lo dimostrano le espressioni ricordate da
Cicerone di status dies cum hoste e l'altra adversus hostem aeterna auctoritas
esto. Del resto, che il vocabolo hostis negli esordii non suonasse nemico,
nella significazione, che noi siamo soliti attribuire a questo vocabolo, viene
anche ad essere dimostrato dall'analogia evidente, che corre fra i vocaboli di
hostis e di hospes, il quale ultimo sarebbe una sincope di hosti-pes, che
significa o protettore dello straniero o straniero ricevuto in protezione -- donde
anche i vocaboli di hospitium e di hospitari. Fermo questo concetto dei
rapporti, che intercedeno fra le genti, che non entrano a far parte della
medesima tribù e non hanno perciò comunione di diritto fra di loro, viene ad
essere facile il comprendere come qualsiasi rapporto giuridico fra di esse
dovesse derivare dalla convenzione e dal patto; per modo che anche il ius pacis
ac belli dove avere un'origine contrattuale, analoga a quella, che abbiamo
riscontrato nei rapporti privati fra i diversi capi di famiglia. Infatti al
rapporto di carattere negativo, che intercede fra le varie genti, per cui sono
estranee le une alle altre, pud poi sottentrare il rapporto positivo di pace o
di guerra. Tanto l'uno come l'altro indicano, che le genti sono già uscite da
quello stato di indifferenza reciproca, in cui si trovavano fra di loro. Quindi
perchè siavi lo stato di pace, già occorre che fra le genti sia intervenuta una
conven [BRÉAL, Dict. étym. lat., Paris, vº Hospes e Hostis. Del resto questo
trasformarsi dalla significazione di hostis viene ad essere indicato con una
mirabile chiarezza da CICERONE, allorchè scrive. Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum
dicimus. Quamquam
id nomen durius iam effecit vetustas; a peregrino enim recessit, et proprie in
eo, qui contra arma ferret, re mansit. De off., I, 12. Ciò è poi confermato da
VARRONE, De ling. lat., V, I (Bruns, Fontes). Intanto l'analogia, che vi ha fra
hostis straniero, ed hospes, che significa e lo straniero ricevuto in
protezione, come pure il fatto, che nelle origini per-duellis significa il
nemico esterno ed interno ad un tempo, costituiscono una nuova prova, che in
quei primordii non distinguevasi la guerra pubblica dalla privata, nè i
dissidii interni delle guerre esterne. E solo più tardi, nel seno della città e
nei rapporti delle città fra di loro, che potè operarsi questa distinzione, e
in allora talvolta i reggitori della città si appigliarono alle guerre esterne
per sopire le lotte interne.] zione od un patto (come lo dimostra l'analogia
fra il vocabolo di pax e quello di pactum). Al modo stesso che, accio siano in
istato di guerra, occorre, che siavi una dichiarazione della medesima, tanto
più se trattisi di genti che, senza essere in rapporto giuridico fra di loro,
riconoscano pero l'impero del fas. Si può quindi affermare con certezza, che
anche il ius pacis ac belli già erasi formato anteriormente alla formazione
della comunanza romana, e che la medesima in questa parte non fa che attenersi
a pratiche e a riti, i quali, preparatisi in un periodo anteriore ed affidati
alla custodia di un collegio sacerdotale, furono poi applicati con qualche modificazione
ai rapporti, che vennero a svolgersi più tardi fra i popoli e le città. Di qui
in tanto, deriva la conseguenza, che il diritto, che suol essere chiamato
foeciale, essendo stato trapiantato da uno in altro periodo di organizzazione
sociale, acquisce un carattere artificioso, che lo fa talvolta apparire come un
ostentazione puramente esteriore, diretta non a provare che le guerre si fa per
una giusta causa, ma piuttosto a dissimulare l'ingiustizia intrinseca della
guerra. Non può tuttavia esservi dubbio, che essó, trasportato nell'ambiente,
in cui ebbe a formarsi, ha dovuto essere una procedura viva e reale, la quale
ebbe ad essere determinata dalle condizioni, in cui si trovano le genti.
Siccome nel periodo gentilizio i rapporti di pace, che si vengono a stabilire
pressochè contrattualmente fra le varie genti, si riducono in sostanza a
rapporti fra i capi delle medesime. Cosi essi finiscono per modellarsi e per
ricavare la propria denominazione dai rapporti stessi, che possono intercedere
fra i loro capi. In altri termini quei vocaboli stessi, che indicano le
gradazioni diverse, in cui possono trovarsi i capi delle varie genti, sono pur
quelli, che desi gnano il vincolo più o meno stretto, in cui possono essere le
varie genti o i varii popoli, fra cui intervenne una convenzione di pace. Cosicchè
i vocaboli anche qui vengono a dimostrare, come in quei primi tempi non esiste
la distinzione fra i rapporti pubblici dei varii gruppi ed i rapporti privati
fra i capi, da cui essi sono rappresentati. I vocaboli, intanto, che indicano
questi rapporti pubblici e privati ad un tempo, sono quelli di amicitia, di
hospitium societas. Prima presentasi l' amicitial, che indica quel rapporto
contrattuale, che intercede fra due genti diverse o meglio ancora fra i capi di
esse, senza che il medesimo imponga obbligo reciproco di difesa e di aiuto in
tempo di guerra. La gente amica è quella, a cui si puo, in caso di bisogno,
ricorrere per un favore e con cui si intenda di intrattenere amichevole
commercio. L'amicizia quindi conduce già ad un riconoscimento del diritto della
gente amica, e quindi se una persona, od una cosa venga a cadere in mano di una
gente amica, questa non puo appropriarsela; il che e potuto fare, allorchè non e
esistita fra di loro alcuna comunanza di diritto. Possono tuttavia esservi dei
casi, in cui i reciproci commerci, fra individui, che appartengono a tribù
diverse, porgano occasione al sorgere di controversie. Quindi fra i patti, che
accompagnano i trattati di amicizia, dovette essere frequente quello, che più
tardi noi troviamo indicato col vocabolo di actio e specialmente con quello di
reciperatio; il quale è certamente bene appropriato per significare il rapporto,
a cui intendeva di accennare, malgrado le difficoltà di in terpretazione a cui
esso da luogo. È nota in proposito la definizione di Gallo. Reciperatio est,
cum inter populum, reges, natio nesque et civitates peregrinas lex convenit,
quomodo per recipe ratores reddantur res reciperenturque, resque privatas inter
se persequantur. La sua interpretazione non può dar luogo a dubbio, quando
diasi al vocabolo di lex la sua significazione primitiva di convenzione e di
patto; interpretazione, che del resto è anche imposta dall'espressione di lex
convenit. È evidente infatti, che qui trattasi di un patto intervenuto prima
fra le tribù e più tardi fra i popoli, le nazioni e le città, nell'intento di
permettere ai membri delle genti, delle tribù e delle città di far valere
rispettivamente le proprie ragioni presso la gente, tribù o città, con cui
trovansi in rapporto di amicizia; come pure è evidente la correlazione, che
intercede fra questo vocabolo e quello di rerum repetitio, che costitue uno dei
preliminari, che precedevano la vera dichiarazione di guerra. Questo vocabolo è
poi meglio spiegato da quello di reciprocare, il quale, secondo Festo,
significa ultro citroque poscere cioè far valere rispettivamente le proprie
ragioni: vocabolo, che anche oggidi conserva l'antica sua significazione in
quei trattati fra gli stati e le nazioni, che chiamansi di reciprocità e di reciprocanza.
Ciò infine spiega eziandio, come si chiamano recuperatores quei giudici od
arbitri, che sono chiamati a risolvere le controversie degli stranieri fra di
loro e dei cittadini cogli stranieri. Infine si viene anche a darsi ragione,
come in una città come Roma, che e sempre un emporio di tutte le genti, i
recuperatores abbiano finito per essere una autorità giudiziaria, pressochè
permanente, la quale, mentre decide le questioni con stranieri, puo anche
essere chiamata a risolvere delle controversie fra i cittadini, in quei casi
sopratutto, in cui non si trattasse di applicare il ius quiritium, ma piuttosto
quei iura gentium, che fin dai primi tempi dovettero almeno di fatto esistere
accanto al medesimo. A proposito dei re-cuperatores, si è poi lungamente
disputato se i medesimi fossero chiamati soltanto a risolvere controversie di
diritto privato, o se potessero essere chiamati eziandio a risolvere
controversie di carattere pubblico fra i popoli e le genti. La definizione di
Elio Gallo sembra comprendere le une e le altre, in quanto che essa accenna
alla ricupera delle cose tolte da un popolo ad un altro, e alla prosecuzione
delle cose private. Se quindi e lecito avventurare una congettura,
misembrerebbe essere probabile, che in quell'epoca, in cui ancora mal si
distingue la ragion pubblica dalla privata, i recuperatores, che sono persone
scelte fra le due genti amiche, possono essere arbitri dell'uno ed un altro
genere di controversie, perchè queste tenevano del pubblico e del privato ad un
tempo. Allorchè invece, al disopra delle genti, venne a formarsi la città, e
per tal modo comincia a distinguersi la cosa pubblica dalla privata, i
recuperatores hanno circoscritta la propria competenza alle controversie di
carattere privato. Fu in allora che i recuperatores si manteneno per le
controversie di indole privata, e che i fetiales sono creati invece per le
controversie, che insorgevano fra i varii popoli. E allora parimenti che la
recuperatio e il modo, con cui gli individui res privatas inter se persequuntur,
mentre la rerum repetitio divenne un preliminare della guerra. E allora infine
che i iura gentium si vennero biforcando, e mentre da una parte il vocabolo di
ius gen tium rimane ad indicare un complesso di norme, che governa i rapporti
di indole privata, quello invece di ius foeciale o di ius belli ac pacis e
adoperato per indicare i rapporti di carattere pubblico fra i popoli e le città.
Anche qui insomma non si fa che applicare un processo, le cui traccie sono
evidenti in ogni argomento, il quale consiste nel publica privatis secernere,
sacra profanes -- Di qui deriva quell'incertezza di significazione, che questi
vocaboli sembrano avere nelle proprie origini; incertezza, che non dovette
recare imbarazzo a coloro, che avevano operate queste distinzioni; ma che
complica invece grandemente l'opera di coloro che tentano fondarsi sovra
pochissime vestigia di ricostrurre l'opera compiuta. Al modo stesso poi, che
nei rapporti fra i privati dopo l'amico viene l'ospite, il quale già viene
accolto nella casa e per qualche tempo entra in certo modo a far parte della
famiglia; cosi nei rapporti fra le varie genti, al disopra dell'amicitia, viene
a comparire l'hospitium. L'ospitalità, che diventa un ufficio di cortesia
presso le nazioni civili, è invece una vera necessità presso tutti i popoli
primitivi, i quali senza di essa si troverebbero isolati gli uni dagli altri.
Non è quindi meraviglia, se i doveri dell'ospitalità, oltre al fondarsi sul
costume, entrino eziandio sotto la protezione del fas, e se la medesima, presso
le genti primitive, tenda ad acquistare un carattere ereditario. L'ospite entra
in un certo senso a far parte della stessa famiglia, come lo dimostra il fatto
che gli antichi giureconsulti disputano perfino, se gl’ufficii verso l'ospite
dovessero precedere o susseguire quelli verso il cliente: nella quale
questione, [Quanto alla definizione della recuperatio, HUSCHKE, Jurisp.
ante-iust. quae sup. Questa congettura, che d'altronde è molto semplice, ha il
vantaggio di risolvere parecchie controversie, che sono largamente trattate da
Voigt, Das ius naturale, gentium, etc., e dal Fusinato, Dei Feziali e del
diritto feziale. Essa spiega anzitutto come una sola frase, quello di ius
gentium, possa presentarsi con un duplice significato (V. FusInATO, dove egli
combatte in parte l'opinione del Voigt). Essa spiega in secondo luogo, come la
recuperatio, che più tardi trovasi solo applicata alle controversie private,
nell'antica sua definizione comprenda invece anche quelle di carattere
pubblico. Di qui una divergenza fra Fusinato da una parte, che vorrebbe negare
ai recuperatores ogni competenza giudiziaria in interessi di pubblica natura e
il SelL ed il Rein da lui citati, che sostengono invece un'opinione diversa.
Credo poi che non possa essere posta in dubbio l'analogia strettissima fra
recuperatio e rerum repetitio, sebbene i due vocaboli abbiano ciascuno una
propria significazione, poichè recuperatio significa reciproca actio, mentre
rerum repetitio significa il tentativo, che un popolo fa per riavere ciò che
gli fu tolto, prima di appigliarsi alla guerra. Del resto questa stessa
analogia compare fra le noxae datio del diritto privato e le noxae deditio dei
cittadini colpevoli contro il diritto delle genti, di cui discorre lo stesso
Fusinato. Ciò significa pertanto, che noi ci troviamo di fronte ad un processo
logicamente applicato in tutte le distinzioni, che si vennero introducendo fra
i rapporti pubblici e privati, e quindi la coerenza stessa dei risultati, in
varii argomenti ad un tempo, dimostra come sia fondata la congettura di cui si
tratta. Come poi i recuperatores sono in Roma an’autorità giudiziaria,
pressochè permanente, appare da ciò, che essi non sono ignoti alla stessa
legislazione decemvirale, il cui impero era ristretto ai soli cittadini.] -- mentre
vi era chi colloca prima le persone affidate alla tutela del capo di famiglia,
poi il cliente, quindi l'ospite. Masurio Sabino invece preponeva l'ospite al
cliente. Tutti però sono concordi nel ritenere, che l'ospite dove avere la
precedenza sui cognati e sugli affini. Non puo quindi essere temeraria la
congettura, che l'ospitalità e la clientela sono nell'organizzazione gentilizia
due istituzioni, che hanno una correlazione fra di loro; colla differenza, che
la ospitalità importa solo una difesa e protezione provvisoria, mentre la
clientela importa un rapporto di protezione permanente. Sotto quest'aspetto
pertanto, si puo dire che il cliente venne prima del l'ospite. Ma, quando, invece
si consideri che la clientela importa subordinazione e dipendenza, mentre
l'ospitalità può alternarsi in guisa che l'ospitato di un giorno sia l'ospite
in un altro, ben si puo comprendere il motivo, per cui Masurio Sabino concede
sotto questo aspetto la precedenza all'ospite sopra il cliente, in quanto che
l'ospite e l'ospitato sono in rapporto di UGUAGLIANZA fra di loro, il che non
accade del patrono e del cliente. Così il concetto dell'amicitia, che quello
dell'hospitium, dove nel periodo gentilizio avere un carattere pubblico e
privato ad un tempo. E solo posteriormente, quando dalle genti e dalle tribù
usceno le città, che cosi l'amicitia come l'hospitium subirono quella
distinzione, che si opera in qualsiasi altro argomento, per cui si ebbero
l'amicitia e l'hospitium pubblico e privato. Che anzi nella transizione fuvvi
un periodo, in cui la casa stessa del re dapprima e del magistrato dappoi servì
per accogliere gl’ospiti del popolo romano; ma, a misura che si venne
distinguendo l'ente collettivo dello stato dalla persona dei singoli cittadini,
si dove anche distinguere l'amicizia e l'ospitalità in pubblica e in privata.
Cosi e un effetto della pubblica amicizia, che il cittadino romano, quando e
fatto prigioniero di guerra, gode senz'altro del diritto di postliminio, appena
ponesse il piede nel territorio di un re alleato od anche solo amico, poichè da
quel momento comincia ad essere pubblico nomine tutus. Parimenti l'hospitium
pubblicum, allorchè e accordato non solo ad un individuo, ma alla intiera
popolazione di una città, venne a cambiarsi in certo modo nella [V. sopra il
passo di Masurio Sabino -- Dig.] concessione della civitas sine suffragio: il
che rende non destituita di fondamento l'opinione di coloro, i quali, dietro
l'autorità del Niebhur, vogliono trovare nel concetto dell'hospitium pubblicum
la primitiva significazione, che, secondo Festo, e stata attribuita al vocabolo
di municipium. Infine al disopra dell'amicizia e dell'ospitalità, presentasi la
societas. Qui non trattasi più di semplici officii di cortesia, ma di
obbligazioni che già assumono un carattere giuridico; poichè la societas fra le
genti, al pari della societas fra i privati, è un accomunare le proprie forze
per il conseguimento di un intento comune, e per ripartire i vantaggi, che si
possono ricavare dall'opera insieme associate. I patti e le condizioni di
questa societas possono essere molto diversi; ma di regola essa importa
alleanza difensiva ed offensiva delle genti, fra cui interviene, e una
conseguente ripartizione del bottino. Di qui la conseguenza, che mentre
l'amicizia e l'ospitalità possono anche trovare origine nel fatto e nella
consuetudine; la societas invece suppone una convenzione espressa fra le genti
ed i popoli, fra cui interviene: quindi con essa viene a sorgere il concetto
del foedus, il quale ha larghissimo svolgimento e da luogo ad importantissime
conseguenze nel periodo gentilizio. Per quanto sia dubbià l'origine della
parola, questo è certo, che l'essenza del foedus sta nella fides, che stringe
quelli che entrano in confederazione fra di loro, e che il medesimo, nei
rapporti fra le varie genti, compie quello stesso ufficio, a cui adempie il
contratto fra i singoli capi di famiglia. Infatti, sebbene di regola sogliano
ado perarsi come sinonimi i due vocaboli di societas e di foedus, è [NIEBhur,
Histoire romaine. Questa opinione e sostenuta dal TADDEI, Roma e i suoi
municipii, Firenze] Senza negare che possa esservi esistito un qualche rapporto
fra l'hospitium pubblicum e il municipium, nella prima delle significazioni che
è attribuita a quest'ultimo vocabolo da Festo, vº Municipium, vuolsi però avere
presente che l'hospitium è istituzione di origine gentilizia, mentre il
municipium suppone già esistente e svolta la convivenza civile e politica.] però
facile l'avvertire, che i medesimi, sopratutto negli inizii, dove avere
significazione diversa. Mentre infatti la societas indica il rapporto, in cui
entrano le genti ed i popoli, il vocabolo di foedus invece significa di
preferenza l'accordo, la convenzione, con cui questo rapporto viene ad essere
stipulato. Che anzi, siccome fra le genti non si distinguono i rapporti di
carattere pubblico da quelli di carattere privato: cosi il vocabolo foedus: si
presenta dapprima con una larghissima significazione, instesse convenzioni e
stipulazioni private e, sopratutto nei filosofi, significa persino quelle
convenzioni tacite, che sembrano stringere tutti i popoli, che si trovino in
analoghe condizioni di civiltà: convenzioni e rapporti, che sono appunto
indicati col vocabolo di foedera generis humani, poichè il popolo che vi
venisse meno sembra in certo modo uscire dal novero dalle umane genti. Tali so
fra i romani l'inviolabilità e l'immunità dei legati, senza la quale e stata
impossibile qualsiasi trattativa fra genti, che non hanno fra di loro comunione
di diritto; tale e eziandio quel costume veramente umano per cui, terminata la
battaglia, ad divenivasi ad una breve tregua, accio i due eserciti potessero
addi venire alla sepoltura dei morti. Di più, anche nei rapporti fra le genti,
il foedus non significa soltanto la confederazione o l'alleanza; ma puo
significare qualsiasi accordo, che venisse a seguire fra due popoli, sia per
conchiudere la pace, sia per rimettere la decisione della guerra ad un duello
fra individui scelti negli eserciti che si trovavano di fronte, ed anche
quell'accordo, in base a cui si addivenne alla deditio di un popolo ad un altro
e se ne fissano le condizioni. Il foedus insomma indica il momento, in cui
l'elemento contrattuale comincia a penetrare nei rapporti fra le varie genti;
ed è perciò, che, malgrado tutti i dubbii che possano avere gl’etimologi, non
sotrattenermi dall'esprimere la persuasione profonda, che il vocabolo di ius
foeciale, con cui si indicava il complesso delle pratiche e delle trattative,
che poterono seguire fra i varii popoli così in pace, come in guerra, non può
essere che una corruzione ed una sincope di ius foederale. Gl’etimologi non
possono accertare che foedus origina da fides, nè che foeciale derivi da foedus.
Ma questo è certo, che le parole di fides, foedus, e foeciale, come sembrano
avere una parentela materiale, così hanno una strettissima attinenza, quanto al
concetto dalle medesime espresso, ed è questo il motivo, per cui continuo a
scrivere ius foeciale a vece di ius fetiale. Quanto alla larghissima
significazione pri [Intanto il foedus è il rapporto fra le genti e le tribù,
che suppone un maggiore progresso nell'organizzazione sociale. Qui infatti non
è più il caso di un semplice ufficio di amicizia e di ospitalità; ma trattasi
già di un rapporto che assume il carattere GIURIDICO, in quanto che il foedus
impone alle genti e alle tribù, che vi addivengono, delle vere e proprie
obbligazioni giuridiche, sebbene queste continuino ancora sempre ad essere
sotto la protezione del fas. Gli è perciò, che col foedus già comincia a
comparire quell'istituto della stipulazione giuridica, che le genti latine
recarono non solo nelle convenzioni private, ma eziandio nelle convenzioni di
pubblica natura; stipulazione che, a mio avviso, dovette probabilmente essere
prima adoperata per i rapporti di carattere pubblico, che non per quelli di
carattere privato. Quanto alle formalità solenni, che accompagnavano il foedus,
ritengo, che se più tardi potè essere attribuita importanza sopratutto
all'elemento esteriore, che serve per dargli il carattere di iustum, come lo
dava al testamento, alle nozze e a qualsiasi altro atto; questo è però certo,
che le cerimonie, che accompagnavano la conclusione del foedus nel periodo, in
cui si vennero formando, dovettero avere una reale ed effettiva significazione.
Non dove quindi nel periodo gentilizio esservi un pater patratus, che
addivenisse alla formazione dell'alleanza: ma erano i padri o capi effettivi
delle genti, che da essi erano rappresentati, quelli che conchiudevano il
patto. Così pure dovette anche avere una efficace significazione l'obtestatio
deorum, per cui chiedevasi il divino in testimonio del patto, che interveniva
fra di essi, e si poneva il trattato sotto la protezione del fas, chiamando la
collera del cielo contro colui, che venisse meno al patto intervenuto, e
simboleggiando, col ferire con un coltello di selce la vittima, il modo, con
cui il divino avrebbe colpito il violatore del patto. [mitiva di foedus, essa appare sopratutto
dall'uso che ne fanno I filosofi latini, pei quali indica dapprima qualsiasi
patto fra gli individui e fra le genti; quindi anche qui abbiamo una parola,
che si rifere dapprima ai rapporti pubblici e privati ad un tempo; argomento
questo che gli uni non si distinguevano dagli altri. Questo significato di
foeduse presentito dal nostro Vico, allorchè chiama le religioni, le sepolture
ed i matrimonii i foedera generis humani. Il duplice significato pubblico e
privato di foedus occorre poi nel seguente passo di LIVIO (si veda) – Ænean
apud Latinum fuisse in hospitio: ibi Latinum, apud penates deos, dome sticum
pubblico adiunxisse foedus, filia Aeneae in matrimonium data. Questo è provato
anche da ciò, che nel primo caso narratoci di un patto se [Questo ad ogni modo
è fuori di ogni dubbio, che il concetto del foedus, vincolo religioso e
giuridico ad un tempo fra le varie genti e le tribù, ha certamente a precedere
la formazione della comunanza romana, e dove anche prima ricevere applicazioni
molteplici e diverse, durante il period gentilizio. Il foedus può essere anzitutto
il mezzo, con cui si pone termine allo stato di guerra fra diverse tribù, e
siccome al momento, in cui si addiviene al medesimo, le sorti delle armi
possono essere diverse per i contendenti, cosi è probabile, che già,
anteriormente a Roma, dovesse esservi quella distinzione, di cui essa poi fa
così larga applicazione fra il foedus aequum ed il foedus non aequum. Eranvi
infatti dei casi, in cui il foedus, nella significazione di convenzione e di
trattato, serve, come ricorda Gellio, per dettare la legge ai vinti; altri in
cui, senza opprimere affatto quello dei contendenti, per cui volgessero
sfavorevoli le sorti della guerra, il medesimo in una posizione di ossequio e
di subordinazione verso quello che sta per vincere, il che costituie appunto il
foedus non aequum e da origine ad una specie di clientela di un popolo verso
un'altro, che nell'epoca romana e poi indicata coll'espressione at maiestatem populi romani coleret ; altri
infine, in cui, essendo incerte le sorti della guerra, si pone termine alla medesima
con un aequum foedus e si veniva, secondo i patti, alla reciproca restituzione
dei prigionieri di guerra e all'abbandono del territorio occupato.] si pone. Per
quanto poi si riferisce a quella distinzione fra foedus e sponsio, stata
invocata qualche volta dai romani, sembra che la medesima costituisca già
un'applicazione, eminentemente giuridica, trovata dallo stesso popolo romano e
posteriore alla formazione della città. È noto in proposito, che i romani
ritenevano per foedus il trattato guìto secondo il ius foeciale, che è quello
relativo al combattimento degl’orazii e dei curiazii, DIONISIO ci narra, che il
medesimo e solennemente stipulato, e che due cittadini eletti a ciò, facendo le
veci di padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno d'essi. Dion. Cfr.
Bonghi, Storia di Roma. Ritengo poi verosimile l'opinione di Pantaleoni,
ricordata da Fusinato, Le droit international de la république romaine (Bruxelles)
– Revue de droit international, secondo cui il coltello di selce rimonterebbe
all'età della pietra, poichè questo studio di conservare anche materialmente
l'antico è veramente nel carattere romano. Quanto alle varie specie di foedera
fra le città ed i re è da vedersi Livio. Esempii poi di foedera non aequa
possono vedersi in Gellio, Noc. att., e nello stesso Livio] stipulato
coll'intervento del pater patratus e colle cerimonie tutte del ius foeciale,
mentre sponsio e la pace giurata soltanto dal generale. Mentre il primo obbliga
direttamente il popolo pomano, l'altra invece, quando non fosse ratificata dal
senato, obbliga solo a fare la consegna del generale, che ha giurato la pace.
Ora è evidente, che questa distinzione cosi ingegnosa e sottile presuppone già
il passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta.
Finchè trattasi di tribù o di genti, è il pater o capo effettivo della tribù,
che la guida nelle sue imprese militari, e quindi è egli stesso, che tratta la
pace circondato da altri capi, ed adempie alle cerimonie tutte di carattere
religioso, che devono accompagnare la stipulazione del foedus. Non occorre
quindi ancora l'artificio del pater patratus, nè l'intervento dei feziali,
perchè esso possa obbligare direttamente il proprio popolo. Quando invece
trattasi di una città, tanto più se retta a repubblica, il generale non può più
dirsi che rappresenti il popolo e il senato, e quindi egli non può addivenire
che ad una semplice sponsio, la quale, per essere cambiata in un vero trattato,
abbisogna della ratifica del senato e dell'adempimento delle cerimonie del
diritto feziale. Intanto pero, siccome il generale è colpevole per aver giurata
una promessa, che non mantiene o per aver obligato il popolo oltre i limiti del
suo mandato; cosi il senato, che non ratifica il suo operato, si appiglia alla
noxae deditio del generale stesso. Intanto si comprende, che altri popoli, come
i Sanniti, al tempo della pace delle forche caudine, i quali non erano ancora
pervenuti ad un eguale sviluppo della loro organizzazione civile e politica,
stentassero a comprendere questa sottigliezza giuridica dei romani: poichè per
essi il loro generale era anche il loro capo effettivo, e quindi puo obbligare
direttamente il popolo da lui rappresentato. Non parmi quindi, che possa essere
il caso di introdurre qui la triplice distinzione, a cui accenna Mommsen nel Le
droit public romain fra la semplice sponsio del capitano, il foedus foeciale e
il foedus del solo capitano; poichè è dichiarato abbastanza chiaramente da
Livio, che tanto il foedus che la sponsio, se siano fatte in iussu populi, non
possono obbligare il popolo romano. Quindi la distinzione viene ad essere
questa: o la convenzione è opera del solo capitano, in iussu populi ac senatus,
che sono quelli che inviano i feziali, e in allora abbiamo una semplice sponsio;
o invece vi ha il iussus populi ac senatus, che inviano i feziali e abbiamo il
vero foedus: donde la prova che la distinzione dove essere un effetto del
passaggio dall'organizzazione gentilizia all'organizzazione politica. Cfr.
Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale. Non credo poi si possa ammettere
con Mommsen, che sulla forma del foedus ha esercitata una visibile influenza la
teoria del contratto, in quanto che nel foedus sarebbesi adoperata per analogia
la forma della stipulazione, come quella che era considerata come il modo
generale e di diritto comune per contrarre le obbligazioni. Ciò è del tutto
impossibile: perchè è certo che esisteno già il foedus e la sponsio nei
rapporti fra i varii popoli e che l'uno e l'altra già si stipulano con quella
forma determinata, assai prima che i giureconsulti costruissero la teoria della
stipulazione e ne fanno applicazione alle convenzioni private. Del resto la
forma della stipulazione, adoperata dai romani nei rapporti col divino, nella
formazione della legge, nella conclusione dei trattati di pace, solo più tardi
sembra essere stata accolta nel diritto civile romano ed applicata alle
convenzioni private; per guisa che vi sono autori, che ritengono la
stipulazione nelle convenzioni private come di impor tazione greca. Il vero si
è, che nel diritto primitivo trovasi sempre un'analogia fra i rapporti di
diritto pubblico e quelli di diritto privato; la quale deriva da ciò, che nel
periodo gentilizio tanto gli uni come gli altri sono rapporti tra capi di
gruppo, e quindi le stesse forme, che servono nei rapporti fra le varie genti,
possono poi anche servire nei rapporti contrattuali e privati. Sonvi però molte
pratiche comuni agli uni e agli altri e fra le altre havvi quella della sponsio,
che sembrano aver acquistato forma ed efficacia giuridica prima nei rapporti
fra le genti, che nei rapporti dicarattere privato. Del resto cio è anche
attestato da Gaio, che chiama sottigliezza il voler applicare la teoria della
stipulazione privata alla sponsio del generale romano; poichè, se si venga meno
al patto, non ex stipulata agitur, sed iure belli res vindicatur. V. Mommsen,
Le droit public romain, il quale, secondo la traduzione Gérard, di cui mi
valgo, scrive. En ce qui concerne la forme, le principe du droit civil a
fait employer ici par analogie les formes de la stipulation, parce qu'elle
était considérée comme le mode général et de droit commun de contracter des
obligations. Parmi,
con tutta la riverenza al dottissimo autore, che questa proposizione non possa
essere accolta, e che sarebbe vera piuttosto la proposizione inversa. Infatti
secondo MUIRHEAD, Hist. Introd., e molti altri, la sponsio o stipulatio nelle
convenzioni private non sarebbe penetrate in Roma, che verso l’epoca, in cui la
teoria della sponsio e del foedus, nei rapporti fra le città ed i popoli, aveva
già ricevuto tutto il suo sviluppo. Quindi è che pur non ainmettendo l'opinione
del MUIRHEAD, in quanto che ritengo che la sponsio e romana fino dalle origini
e vivesse nel costume, anche [Un'altra applicazione del foedus era anche quella,
per cui tribù e genti, che potevano anche non essere in guerra fra di loro,
stringevano fra di loro un'alleanza, i cui patti potevano essere molto diversi,
ma che il più spesso costituiva una lega difensiva ed offensiva ad un tempo; la
cui idea tipica pud essere ricavata dal foedus latinum, detto anche foedus
Cassianum, il cui tenore ha ad esserci conservato da Dionisio. È poi notabile,
che queste specie di alleanze fra tribù e popoli vicini, siccome per lo più
dipendevano da relazioni ed aderenze fra i capi di gruppo, cosi si venivano for
mando e disfacendo con grande facilità, per cui bene spesso l'alleato di oggi
poteva essere il nemico di domani. Il che tuttavia non toglie, che la forza e
l'efficacia del patto d'alleanza sia cosi profondamente sentita, che stipulavasi
talvolta che essa dovesse durare eterna ed im mortale, come lo erano i popoli,
fra cui interveniva. Ciò è dimostrato dall'energica espressione adoperata nel
foedus latinum, secondo la quale la pace e l'alleanza fra romani e latini
doveva durare: dum coelum et terra
eandem stationem obtinuerint. Infine un'altra importantissima applicazione del
foedus nelle epoche primitive, è quella, in virtù della quale più tribù, che
possono anche essere di origine diversa, societatem ineunt fra di loro, nel
l'intento di formare una stessa civitas e di partecipare così ad una vita
pubblica comune. È stato questo il foedus, che ha servito per la formazione
dell'urbs e della civitas dei latini, e che fu anche il tipo, sovra cui ebbe ad
essere foggiata Roma primitiva; il qual ca rattere è importantissimo, in quanto
che induce ad affermare che Roma nei suoi inizii ebbe un carattere federale e
pressochè con trattuale. Dal momento infatti, che fra le varie tribù mancava il
vincolo della comune discendenza, non poteva esservi che quello della fides, e
quindi è nel foedus, che deve essere cercata l'origine prima dientrare nel
diritto, conviene pur sempre riconoscere che la teoria della sponsio si svolse
prima nei rapporti fra le genti, che non nel diritto civile di Roma. Giu
stamente quindi Gaio voleva tener distinte le due cose: poichè, dalmomento che
la sponsio nei trattati fra i popoli erasi distinta da quella nelle convenzioni
private, non era più il caso di confonderle insieme. Da questa nasceva l'actio
ex stipulatu, mentre dalla violazione di quella nasceva la guerra. I due isti
tuti, che nella origine potevano essere uniti, ora seguono invece ciascuno la
propria via, come la recuperatio e la repetitio rerum, il ius gentium e il ius
belli ac pacis e simili, e più non debbono essere insieme confusi. Dion.] 154
della città. Se la tribù può ancora essere una formazione del tutto naturale,
perchè è l'effetto del primato, che una gente acquista sopra le altre che la
circondano; la città invece suppone di necessità l'accordo delle varie tribù,
che entrano a costituirla, accordo, che riveste appunto la forma di un foedus. Intanto
egli è evidente, che allorquando le cose sono per venute a tale, che
nell'organizzazione gentilizia, in cui prima do minava esclusivamente il
vincolo di discendenza, già comincia a pe netrare l'elemento federale e
contrattuale, questo non può a meno di attribuire all'organizzazione stessa una
elasticità e pieghevolezza, che essa prima non poteva avere. Infatti egli è
sopratutto da questo punto, che nel seno della tribù e della città, costituita
mediante la federazione di varie tribù, cominciano a comparire dei mezzi, i
quali o servono ad aggregare alla comunanza un nuovo elemento, o ser vono
invece a staccarne un elemento, che prima ne faceva parte per trasportarlo
altrove. Fu in questa guisa, che, già anterior mente alla formazione della
comunanza romana, si erano venuti svolgendo gli istituti della cooptatio, della
concessio civitatis sine suffragio, della secessio e della colonia; la cui
nozione è indispen sabile per comprendere la storia primitiva di Roma. In virtù
della cooptatio le genti, che già entrarono a far parte di una medesima
comunanza civile e politica, possono accoglierne delle altre a far parte della
medesima. Essa fu applicata più volte in Roma primitiva; come lo dimostra la
cooptazione delle genti Al bane, dopochè Alba fu, secondo la tradizione,
distrutta da Tullo Ostilio, e fu applicata eziandio alla gente sabina,
capitanata da Atto Clauso.Questa origine federale delle città costituite sul
tipo latino pud servire a spiegare il fatto, per cui i Latini nella loro
qualità di socii coi Romani abbiano messa innanzi la pretesa, che Roma e il
Lazio dovessero dare origine ad una comu nione ed unità di governo; per cui dei
consoli uno dovesse essere nominato dal Lazio e l'altro da Roma, e il senato
dovesse comporsi in parti eguali dai due popoli. Vedi Liv. VIII, 3, 4, 5. Cfr.
WALTER, Storia del diritto di Roma, Trad. Bollati, Torino. È poi questa
istituzione, che ci dà la ragione per cui, durante il periodo di Roma patrizia,
la cittadinanza non era conceduta ad in dividui, ma a genti collettivamente
considerate, in quanto che la cooptatio era per sua natura applicabile
all'intiero gruppo gentilizio e non ai singoli individui. Non pud poi esservi
dubbio, che questa cooptatio, per essere una istituzione eminentemente patrizia,
doveva certainente essere accom pagnata da cerimonie religiose; perchè la gente,
che era ammessa nella tribù o alla città, diventava eziandio partecipe della
religione di esse, ne aveva comuni gli auspicia, ed il suo capo poteva anche
conseguire un seggio nel senato. Quasi si direbbe, che la cooptatio di una
gente nella tribù o città corrispondeva alla adrogatio per la famiglia. Quindi
si comprende, come al modo stesso che l'adrogatus, per essere disgiunto dalla
gens, di cui faceva parte, doveva prima addivenire alla detestatio sacrorum;
così anche il gentile, per uscire dall'ordine delle genti patrizie e passare,
ad esempio, nella plebe, il che chiamavasi transitio ad plebem, doveva pure
appigliarsi ad una specie di abdicatio o detestatio sacrorum; alla quale
dovette appunto assoggettarsi Clodio, allorchè abbandono l'ordine patrizio e
passò alla plebe per poter essere nominato tribuno [È poi degno di nota, che
questa cooptatio ebbe pure ad essere applicata ai collegi sacerdotali, finchè i
medesimi furono esclusiva mente tratti dall'ordine patrizio, e fu solo più
tardi, allorchè anche la plebe fu ammessa ai sacerdozii pubblici del popolo
romano, che ad alcuni fra essi fu applicata l'elezione popolare, la quale anzi
fini per essere affidata ai comizi tributi. Quando poi la città cesso di essere
esclusivamente patrizia, in allora noi vediamo svolgersi, qualmodo di
accrescere la popola zione, la concessione della civitas sine suffragio, in
virtù della quale gli abitanti di una città vicina, che venivano a prendere il [Dion.,
III, 29; Liv., 1, 30. Cfr. Willems, Le droit public romain; CARLOWA, Römische
Rechtsgeschichte. La necessità di una specie diabdicatio, anche per uscire da
una gens, è provata dal seguente passo di Servio, In Aen. 2, 156: Consuetudo apud maiores fuit, ut qui in
familiam vel gentem transiret, prius se abdicaret ab ea, in qua fuerat, et sic
ab alia reciperetur . Quanto alla transitio ad plebem, è da vedersi Cic.,
Brut., 16, e Aulo Gellio] nome di municipes (a munere capiendo), recandosi a
Roma, erano ammessi a partecipare ai diritti e alle obbligazioni del cittadino,
esclusa però la partecipazione al godimento dei diritti pubblici, che
consistevano nel ius suffragii e nel ius honorum. Fu con questo mezzo, che Roma
incominciò a mettere le basi di quel sistema mu nicipale, per mezzo del quale
tutti gli abitanti prima delle città del Lazio e poi quelli delle città
italiche, finirono per essere considerati come cittadini di Roma, che era la
patria communis; il che però non impediva, che ogni città avesse una propria
amministrazione municipale. Questo carattere dei municipia, i quali in sostanza
erano città per sè esistenti, che venivano ad essere associate alle sorti di
Roma, fu espresso da Gellio con dire, che imunicipia, a differenza delle
colonie, veniunt extrinsecus in civitatem et radicibus suis nituntur. Ciò però
non tolse, che il concetto del municipium abbia subito poi delle trasformazioni
profonde, le quali sono indicate dalle significazioni diverse, che Festo
attribuisce a questo vocabolo (). i 125. A questi duemezzi, con cui veniva
accrescendosi il numero di coloro, che partecipavano alla stessa civitas, se ne
contrapponevano invece degli altri, che servivano piuttosto a trasportare
altrove una parte della popolazione, sia che ciò occorresse per il vantaggio
della stessa città, come accadeva nella colonia, sia che una parte di essa si
trovasse in condizioni incompatibili col rimanente, nel qual caso si ricorreva
alla secessio e all'expulsio. Non può esservi dubbio, che il sistema delle
colonie, che prese poi cosi largo sviluppo in Roma, esisteva già prima nel
costume delle genti italiche, ed era anzi loro comune colle genti elleniche,
sebbene il suo scopo potesse essere diverso. Ciò è dimostrato dal fatto, che,
secondo la tradizione, la tribù dei Ramnenses non dovette essere dapprima, che
una colonia di Alba Longa. Le colonie poi sono gruppi di famiglie, le quali,
collettivamente considerate, si staccano dalla madre patria, colla approvazione
di quelli che rimangono, la quale si manifesta nella lex coloniae deducendae, e
colla buona volontà di coloro che partono, i quali debbono perciò farsi
iscrivere nel numero dei coloni. Ciò ebbe ad essere espresso da Servio con
dire, che le [I principali passi degli autori, relativi almunicipium e alla
colonia, possono trovarsi raccolti nella eruditissima opera del Rivier,
Introdution historique au droit romain, Bruxelles, la quale contieneun numero
grandissimodi passi di autori e questi raccolti con molta sagacia.] colonie ex consensu pubblico, non ex secessione
conditae sunt . Di qui la conseguenza, che la colonia porta con sé la
religione, la lingua, le tradizioni della tribù o della città, dalla quale si
stacca e si organizza a somiglianza di essa, per guisa che, secondo la efficace
espressione di Gellio, le colonie sono quasi effigies parvae, simula craque
della madre patria, e sono quasi propaggini della città, da cui sonosi staccate,
comequelle, che continuano ancor sempre a mantenersi in rapporti con essa (ex
civitate quasi propagatae sunt). Punto non ripugna, che le colonie nelle loro
origini siansi cosi chiamate a colendo; in quanto che può darsi benissimo, che
esse fossero in certo modo delle spedizioni agricole, che partivano da una
tribù, sta bilita sopra un territorio, per trasportarsi sopra un altro suolo,
quando quello prima occupato più non potesse bastare ai bisogni della intiera
popolazione. Però anche in questa parte, allorchè riuscì a delinearsi
l'istituto della colonia, nulla impedi che esso potesse essere rivolto ad
intenti di diversissima natura, marittimi, militari, commerciali, e che
servisse anche a diminuire il numero soverchio della plebe, quando essa,
raccolta nella sola città, già cominciava a cambiarsi in una factio forensis e
a diventare pericolosa. 126. La secessio invece sembra contrapporsi alla
cooptatio, colla differenza che questo vocabolo, in cui non havvi accenno ad
alcun rito religioso, sembra aver trovato origine piuttosto nei rapporti fra
patriziato e plebe, che non in seno all'ordine patrizio. Ad ogni modo la
secessio, intesa in largo senso, ha luogo allorchè un ele mento già ammesso
nella comunanza, trovandosi incompatibile colla medesima, se ne stacca
volontariamente e recasi altrove a porre la propria sede. Lasciando anche a
parte i tentativi di secessio per parte della plebe, i quali non ebbero mai un
esito definitivo, può forse scorgersi un esempio di secessio, ancorchè
dissimulato dalle tradizioni, nel fatto della gens Fabia, che abbandonava Roma
coi suoi numerosi clienti per stabilirsi alla Cremera, ove poi fini per essere
distrutta dai Sanniti, lasciando un solo superstite, che entrò di nuovo a far
parte della cittadinanza romana. Servio, In Aen., I, 12; Gellio. L'importanza
delle colonie nel periodo gentilizio fu già messa in evidenza dal Vico, Scienza
nuova. Intorno alle colonie ed alle varie loro specie, è accurata la
trattazione del WALTER, Storia del Dir. Rom., Trad. Bollati.Quanto alla
tradizione circa la gens Fabia, vedi Bonghi, Storia di Roma. Alla secessio, che
è volontaria, si contrappone invece l'expulsio, quale fu quella, che ebbe ad
avverarsi per la gens Tarquinia; espul sione, che per la intimità del vincolo,
che stringe insieme i membri di una medesima gente, dovette poi essere estesa a
tutti coloro che portavano quel nome, non escluso quel Tarquinio Collatino,
marito a LUCREZIA, il cui oltraggio, secondo la tradizione, e stata occasione
allo scoppio di quella rivoluzione patrizia e plebea ad un tempo, che condusse
alla trasformazione del governo regio in repubblicano. Intanto questi varii
istituti, unitamente all'amicitia, all'hospitium, alla societas e al foedus,
che serviva a dar forma giuridica e so lenne a tutti i rapporti amichevoli fra
le varie genti e tribù, avendo in gran parte avuto origine nel periodo
gentilizio, dimostrano abba stanza come la città, la quale era uscita dalla
federazione e dall'accordo, potesse anche subire dei mutamenti, che si
operavano nella stessa guisa. Essa aveva mezzi diversi per accrescere o scemare
il numero di coloro, che partecipavano alla stessa comunanza. Finchè infatti la
città fu esclusivamente patrizia, potevano bastare la cuoptatio o la expulsio,
mediante cui una gente poteva essere ac colta o respinta dall'ordine patrizio,
e cosi entrare od uscire dalla partecipazione alla stessa comunanza. Quando poi
patriziato e plebe si fusero insieme ed entrarono così a far parte dello stesso
esercito e dei medesimicomizii, in allora si svolgono la secessio da una parte
e la concessio civitatis dall'altra, e quest'ultima potè essere consen tita cum
suffragio o sine suffragio. Infine havvi la colonia che, adoperata prima dalla
tribù e poscia dalla città, serve a questa per trapiantare le sue propaggini
altrove; mentre il municipium viene a convertirsi in un mezzo,me diante cui
popolazioni,che avevano altrove la propria sede ed avevano anzi una propria
amministrazione ed una propria vita, vengono ad es sere ammesse a partecipare
alla vita pubblica della città, senza però essere ammesse agli onori ed al
suffragio. Sarà solo più tardi, allorchè il sistema municipale sarà svolto in
tutte le sue conseguenze, che le città latine prima e le città italiche dappoi,
pur serbando il diritto di partecipare alla amministrazione della loro patria
originaria, otter ranno tuttavia la partecipazione alla piena cittadinanza di
Roma, che comincierà cosi ad essere considerata come la communis patria. Così
viene preparandosi l'organismo della città per guisa, che essa possa essere
capo e centro di qualsiasi vasto impero, e mentre le popolazioni, ammesse alla
cittadinanza romana, avranno ancor esse interesse al mantenimento della
grandezza romana, sarà però sempre in Roma, dove si decideranno le sorti del
mondo e si eleggeranno i magistrati chiamati a governarlo. Solo più ci resta a
vedere, se anche le varie forme, sotto cui ebbe a svolgersi il ius belli, già
aves sero avuto origine nello stesso periodo e come siansi venute formando. In
proposito già si è dimostrato, come non possa ammettersi il concetto, pressoché
universalmente accolto, che la guerra debba essere considerata come lo stato
naturale delle genti italiche. Esse invece si considerano come straniere le une
alle altre e non hanno fra di loro comunione di diritto. Quindi al modo stesso
che occorrono degli accordi, perché si trovino in condizione di amicizia e di
pace; cosi è necessario che intervenga qualche fatto speciale, che le faccia uscire
da questo stato di reciproca indifferenza, accið esse possano essere
considerate come in stato di guerra. Quanto alle cause, che possono far
scoppiare una guerra, esse sono determinate dalle condi zioni sociali, in cui
si trovano le tribù ed i popoli diversi. Appena uscite da uno stato nomade, in
cui dovette dominare la privata vio lenza, le genti si fissarono in territorii,
i cui confini non erano an cora ben determinati, e quindi dovettero essere
frequenti le questioni di confine e le reciproche usurpazioni di territorio. Di
più pud ac cadere, che una comunanza nella sua totalità (populus da populari) o
gli uomini singoli,che appartengono alla medesima (homines Her munduli) abbiano
commesso devastazioni e saccheggi nel territorio della comunanza vicina. Così
pure può avvenire, che una contro versia insorta fra due famiglie, appartenenti
a tribù diverse, ingros sandosi mediante le parentele e le aderenze dell'una e
dell'altra, come avvenne appunto in occasione della cacciata da Roma di
Tarquinio e della sua gente, prenda le proporzioni di una vera e propria guerra.
Siccome poi le varie genti e tribù sono in questo pe [A questo proposito però
fu giustamente notato, che una delle cause della de. cadenza di Roma fu
l'impossibilità, in cui erano le popolazioni delle città italiche di prendere
parte effettiva alla vita politica di Roma,.in cui finiva perciò per pre valere
la turba forensis. Vedi a questo proposito GENTILE, Le elezioni e il broglio
nella Repubblica Romana.] riodo rappresentate dai proprii capi; cosi punto non
ripugna che le sorti della guerra siano anche rimesse ad un combattimento
singolare fra individui, col patto che l'esito della guerra dipenda dalle sorti
di un privato duello. Così pure, è nel carattere del tempo che, quando si
incontrano i due capi, essi vengano fra loro ad un combattimento non dissimile
da quello, che la tradizione attribuisce a Giunio Bruto e ad Arunte, il più
forte fra i figli di Tarquinio, e che la moltitudine dei combattenti si arresti
a contemplare la lotta fra i proprii capi. Niuna maggior gloria potrà
ottenersi, che quando uno dei capi potrà avere le spoglie dell'altro, ed è a
questo concetto certamente che rannodasi il culto, che ancora trovasi così
radicato in Roma, per cui le spoglie opime, che erano quelle appunto che dal
capo di una tribù erano state tolte a quello dell'altra, erano appese nel
tempio di Giove Capitolino, ed i fasti e gli annali ricordavano le volte in cui
rinnovavasi il memorabile fatto. Per quanto questimodi di pensare e diagire
possano riuscire singolari per noi, che siamo giunti a scorgere nella guerra un
rap porto fra due Stati; questo è però certo, che i medesimi trovano una
naturale spiegazione nel fatto, che durante il periodo gentilizio i rap porti
fra le stesse tribù non riescono ancora a distinguersi da quelli fra i capi,
che le rappresentano. Diqui conseguita, che il concetto della guerra fra i
popoli ancora si confonde col duello fra i capi che lo rappresentano; il che è
dimostrato fino all'evidenza dall'origine co mune dei vocaboli duellum e bellum,
come appare dal vocabolo perduellis, che mentre ancora accenna al duellante
significa già il pubblico nemico. Ciò spiega eziandio le traccie, che occor
rono anche in Roma di duello giudiziario, poichè in esso noi abbiamo quel mezzo,
che serve per risolvere le controversie fra i popoli appli [È ovvio osservare
l'analogia,che presentano le primitive guerre di Roma con quelle, che Omero ci
descrive nell'Iliade, ove soventi gli eserciti si arrestano spetta tori delle
gesta dei proprii capi. Quanto alla spiegazione del culto per le spoglie opime
parmi così naturale, che mi meraviglio di non averla trovata negli autori, che
da me furono letti. A questo proposito
osserva il BRÉAL, Dict. étym. lat., vº Duo, che il cambia mento di duellum in bellum
è analogo a quello di duonus in bonus, di Duilius in Bilius, di duis in bis,
per guisa che come da duo derivd duellum, così da bis potè derivare bellum. Del
resto il vocabolo di duellum per bellum occorre ancora sovente nei poeti latini
e fra gli altri Plauto chiama i Romani
duellatores optimi ] cato a risolvere una controversia privata fra
individui; il che in so stanza costituisce il processo inverso di quello, in
cui il duello fra due individui viene ad essere adoperato qual mezzo per
risolvere la guerra fra due popoli, e dipende perciò dal medesimo ordine di
idee, cioè dal sostituirsi dei rapporti pubblici ai privati e viceversa. È
nello stesso modo, che possiamo riuscire a darsi ragione di quella analogia
costante, che non può a meno di essere notata fra le formalità, che
accompagnano la dichiarazione di guerra, e quelle, che accompagnano l'azione
che il capo ili famiglia propone in giudizio. 130. È solo infatti questo modo
di riguardare le cose, fondato sulla realtà dei fatti ed ispirato al modo di
pensare degli uomini e dei tempi, che può condurre a dare una spiegazione del
tutto naturale di quella procedura grandiosa e solenne, che accompagna appunto
la dichiarazione di guerra. Per quanto tale procedura, tras portata dallo
spirito conservatore dei Romani in un'epoca diversa da quella in cui erasi
formata, possa apparire artificiosa e siasi talvolta considerata come un
complesso di formalità esteriori, archi tettato per celare l'ingiustizia e la
prepotenza di un grande popolo; questo è però certo, che essa, ricondotta col
pensiero all'ambiente in cui ebbe a formarsi, viene ad essere l'immagine di
modi di pen sare e di agire veri e reali, che intanto poterono essere espressi
in modo così vigoroso ed efficace, in quanto furono a quell'epoca profondamente
sentiti. Questo intanto è fuori di ogni dubbio, che i varii stadii del dramma
corrispondono mirabilmente alla realtà dei fatti, quali dovet tero svolgersi in
un'epoca patriarcale. Una popolazione vicina o uomini appartenenti alla
medesima in vasero il territorio della comunanza, saccheggiandone i raccolti
ed Le formole grandiose del ius fociale
ci furono conservate sopratutto da Livio, nel libro primo delle sue storie, ove
descrive il processo per la dichiarazione di guerra al cap. 32; quello per la
conclusione di un'alleanza al cap. 24; e quello per la deditio al cap. 38. Come
è notabile la solennità di esse, così è degna di attenzione la coerenza che
esiste fra queste varie procedure, le quali perciò appari scono come lo
svolgimento di un medesimo concetto. Quanto alle divergenze circa la loro
interpretazione e ai tentativi di ricostruzione di formole, che a parer mio
appariscono del tutto complete, mi rimetto all'opera del FusinaTO, I Feziali ed
il diritto feziale. G. C., Le origini
del diritto di Roma. [esportandone mandre ed armenti. La comunanza ne è
profonda mente commossa, e il capo di essa, che è pur sempre il padre co mune
di tutti, accompagnato da altri capi di famiglia, recasi in persona sul confine
del territorio, che appartiene al popolo unde res repetuntur; quivi, chiamando
in testimonio le divinità patrone della sua comunanza, quella che protegge il
confine e il fas, protettore comune ditutte le genti, espone l'ingiuria e il
danno sofferto, e questo ripete a chiunque incontri per la via, e da ultimo
sulla piazza del villaggio, spergiurandosi di dire il vero. Questa parte
preliminare chiamasi clarigatio, da questo dichiarare ad alta voce e ripetuta
mente il torto sofferto, e repetitio rerum, dal chiedere la restituzione delmal
tolto. Se le cose, che eglidomanda, sono restituite, egli ritorna con esse, e
cogli uomini, che hanno compiuto il saccheggio, che gli sono consegnati,
mediante la noxae deditio; ma se egli non ottiene soddisfazione, ha luogo
l'obtestatio deorum, con cui chiede in testi monio le divinità del suo popolo e
tutti gli altri Dei, che il popolo, di cui si tratta, è ingiusto e vienemeno al
diritto (populum illum iniustum esse, neque ius persolvere). Viene infine
l'ultima parte della dichiarazione di guerra, in cui il capo del popolo offeso,
dopo essersi consultato coi suoi, dichiara al popolo offensore la guerra, get
tando entro i confini del suo territorio un dardo intriso di sangue
accompagnato dalle parole: bellum indico
facioque , e si ha così in un solo atto l'indictio belli e l'initium pugnae. È
fuori di ogni dubbio, che questa procedura, eminentemente patriarcale, dovette
assumere alcun che di artificioso per essere adat tata ad un popolo, come il
romano: poichè il medesimo aveva una co stituzione politica molto complicata,
in base alla quale i feziali, che si erano recati per la rerum repetitio,
dovevano poi tornare per avere l'avviso dei padri, e forse anche la
deliberazione del popolo intorno alla guerra, che trattavasi di fare; ma questo
è certo, che anche così trasformata essa non perde le sue primitive fattezze.
Tolgasi il pater patratus, che, anche essendo una finzione, richiama pur sempre
l'im poneute figura del patriarca primitivo; tolgansi i feziali, che erano
sacerdoti, i quali, al pari di ogni altro collegio sacerdotale del popolo
románo, avevano solo per compito di custodire le tradizioni, relative al
diritto di guerra e di pace, senza avere alcuna competenza intorno alla
giustizia intrinseca della causa, per cui si addiveniva alla guerra o
all'alleanza; e non si potrà a meno di riconoscere, che tanto la repetitio
rerum, accompagnata dalla clarigatio, quanto l'obtestatio deorum, quanto infine
l'indictio belli, sono altrettante procedure, che serbano il colore e il
carattere di un età patriarcale e richiamano scene vive e reali, che dovettero
seguire in quella primitiva condi zione di cose. Ciò però non toglie, che le
procedure del diritto fe ziale, al pari delle antiche procedure dell'actio
sacramento e simili, allorchè furono trapiantate nel seno di un organizzazione
sociale di altra indole e natura, affidate alla custodia di un collegio
sacerdotale, rese complicate dei varii congegni di una costituzione politica,
che più non consentiva un perfetto adattamento delle medesime, assun sero di
necessità un carattere alquanto artificioso, e apparvero come forme, vuote di
contenuto e conservate solo per imitazione dell'an tico, da un popolo, che in
sostanza si era già spogliato di ogni ca rattere patriarcale, ed era venuto nel
proposito tenace di conquistare e di sottomettere le altre genti. Il diritto
feziale tuttavia rimane an cora sempre ad attestare, che in un'epoca
remotissima dovette già essere conosciuto un tentativo di amichevole
accomodamento nelle controversie, non solo fra i privati, ma anche fra le varie
genti. Era pero naturale, che questa sopravvivenza dell'epoca patriarcale fosse
destinata a scomparire, a misura che diventava più difficile di pene trarne
l'intima significazione. Tuttavia, anche in questa parte, appare sempre lo
spirito conservatore del popolo romano, che continuò a conservare e a tenere in
onore l'istituto dei feziali, anche allorchè il diritto, di cui essi erano i
depositarii ed i custodi, era andato compiutamente in disuso. Intanto non pud
essere negata eziandio una certa analogia fra questa procedura e quella, che
abbiamo visto svolgersi nell'actio sacramento. Siccome però queste procedure
non sono invenzioni di pontefici e di giureconsulti, come alcuni le avrebbero
ritenute, ma sono forme tipiche di fatti, che un tempo dovettero seguire nella
realtà: cosi, per essere il processo effettivo veramente diverso nel venire al
duello od alla guerra fra due popoli, e nel sorgere di una controversia fra due
privati, ne derivò, che le due procedure non poterono essere perfettamente
conformi, comevorrebbe sostenere il Danz, ma dovettero di necessità riuscire
diverse. Nell'actio sa cramento noi abbiamo la storia di una controversia fra
due capi di famiglia, i quali, stando già per venire alle mani, piuttosto che
ab bandonarsi alla forza ed alla violenza, accettano l'interposizione di una
persona autorevole, scommettendo di essere dalla parte della ragione e
chiamando lui a giudice della scommessa. Fra due genti 164 invece non può
esservi altro giudice che la divinità, e quindi, dopo aver reclamato il mal
tolto, è questa, che chiamasi in testimonianza del l'ingiustizia, che quel
popolo ha commessa, e a nomedella medesima divinità gli si dichiara la
guerra extremum remedium expedien darum
litium . Quello è il processo, che si è seguito per strappare i contendenti
alla privata violenza e per indurli ad accettare l'au torità di un arbitro o di
un giudice: questo è il processo, che deve seguirsi prima di cedere alla triste
necessità della guerra. Che poi vi fossero buone ragioni, perchè una procedura
solenne precedesse una dichiarazione di guerra, appare dalle dure conseguenze,
che il consenso delle genti aveva attribuito al diritto di guerra. Questa nel
periodo gentilizio era un vero duello fra due popoli, che non doveva cessare,
finchè uno non avesse portato nel proprio tempio le spoglie opime dell'altro.
Era guerra di uomini e guerra anche fra gli Dei dei due popoli, come lo provano
le for mole che ci furono conservate, con cui quel popolo, che faceva delle
stipulazioni e dei contratti do
utdes anche cogli Dei, cercava di
attirare a se il favore delle divinità del popolo, con cui era in guerra. Una
volta poi, che questa era intrapresa ben potevasi dire, che la guerra diventava
lo stato naturale dei due popoli; perchè se si tol gono le tregue (induciae), o
per seppellire imorti o a causa della cattiva stagione, la guerra si continuava
finché non si veniva ad un trattato di pace, o non si avverasse la dedizione di
uno dei popoli in guerra. La deditio era per un popolo ciò, che per un privato
il darsi a [È mirabile lo sforzo di sottigliezza fatto dal dotto e compianto
Danz, prof. a Iena, per trovare una identità, che non esiste. I suoi
ragionamenti sono riportati dal Fusinato nell'opera più volte citata. Intanto
tutto questo sforzo di acutezza è ancor esso una conseguenza dell'aver ritenuto
il diritto primitivo di Roma, e quindi anche il diritto feziale, come una
costruzione essenzialmente formale e non basata sulla realtà dei fatti. Se
invece si ritenga, che tutto il diritto primitivo di Roma dovette in altri
tempi essere up complesso di reali ed effettive procedure, non si potrà certo
pretendere che l'actio sacramento e l'indictio belli, avendo com piuto un
ufficio diverso, potessero essere pienamente identiche fra di loro. Quanto alle
loro analogie esse sono facilmente spiegate, stante l'indistinzione fra il
diritto pubblico e privato,durante il periodo gentilizio. Queste formole ci
furono conservate da MACROBIO, Saturn., il quale dice di averle ricavate da un
libro antichissimo di un certo Furio (cuius dam Furii), che l'HUScake ritiene
possa essere un A. Furio Anziate, scrittore di diritto sacro e di annali in
versi. Esse sono riportate dall' HUSCHKE, Iurisp. an teiust. quae sup.,
mancipio, cioè un perdere famiglia, patria, territorio, religione, libertà e
non avere altra speranza, che quella della clemenza del vincitore. Erano le sue
divinità, che l'avevano abbandonato, e a lui non rimaneva, che di accettare
rassegnato la propria sorte, entrando in quella classe dei vinti, che formava
un eterno dualismo con quella dei vincitori. Che anzi i Romani applicavano
anche a se stessi quel medesimo diritto di guerra, e fu soltanto colla fin
zione del diritto di postliminio, che riuscirono ad attribuire effi cacia ad
atti, che il cittadino romano aveva compiuto, mentre era prigioniero di guerra,
e a fare astrazione dal tempo, che egli aveva trascorso in tale qualità presso
il nemico. Sono queste dure conseguenze del diritto di guerra, che spiegano
quanto dovesse essere profondo il solco, che erasi venuto scavando fra la
classe dei vincitori e quella dei vinti, e come fra essi non potesse esservi,
nè comunione di matrimonii, nè di reli gione, salvo dopo una lunga convivenza
nei quadri dell'organizza zione gentilizia, in cui i vinti formarono la classe
dei servi, dei clienti e per ultimo quella dei plebei, mentre i vincitori
costituirono quella dei padri, dei patroni e dei patrizi. Intanto di tutto
questo periodo, in cui le genti italiche vennero elaborando la religione, il
diritto, la famiglia, le istituzioni, il co stume, non un solo nome proprio è
sopravvissuto: dei veri grandi uomini, dei veri fondatori di una convivenza
sociale non si conosce nè la patria, nè il nome, nè l'epoca precisa, in cui
siano vissuti; ma se la memoria degli uomini è perita, sopravvissero perd le
isti tuzioni e tutti i concetti fondamentali, che costituirono poi la base
della futura grandezza di questi popoli. Fin qui del patriziato e delle sue
istituzioni, di cui dovette essere lungo il discorso, perchè era lungo il suo
passato; ora importa stu diare le condizioni della plebe, la quale se non ha
per sè il passato, dovrà perd avere una gran parte nell'avvenire della
città. La formola della deditio ci fa conservata da Livio, I, 38. È notabile:
che in essa intervengono anche i Feziali; che si domanda se il popolo che fa la
deditio è in sua potestate (il che prova che un popolo, al pari di una persona,
poteva essere sotto la potestà di un altro); e che è serbata affatto la forma
contrattuale della stipu lazione:
Deditisne vos populum Conlatinum, urbem, agros, aquam, terminos, de lubra, utensilia, divinaque humanaque omnia,
in meam populique romani ditio nem? –
Dedimus. At ego recipio . Le cose premesse intorno all'organizzazione ed alle
istituzioni proprie delle genti patrizie ci pongono finalmente in condizione di
prendere in esame la questione della origine della plebe e della sua posizione
giuridica di fronte al patriziato negli inizii della comu nanza romana. La
genesi di questo elemento, che, poco importante dapprima, fini per esercitare
tanta influenza sull'avvenire della città, è certo il più importante problema
della storia primitiva di Roma, e quindi si comprende che gli autori tutti
siansi travagliati intorno al medesimo ed abbiano anche proposto opinioni
compiutamente di verse. Sonovi alcuni, fra i quali il Lange, che vorrebbero
rannodare l'origine della plebe alla caduta di Alba e alla conquista di altre
città latine, la cui popolazione sotto Anco Marzio sarebbe stata tras portata a
Roma. Certo un tale avvenimento non potè a meno di avere grande importanza per
accrescere il numero ed assicurare l'avvenire della plebe romana; ma egli è
impossibile riconoscere in questo fatto l'origine primitiva della plebe,
dappoichè, secondo la tradizione, la medesima sarebbe già esistita all'epoca
della prima fondazione di Roma; cosicchèRomolo prima e Numa dappoi già avreb
bero preso dei provvedimenti per l'ordinamento di essa.L'enumerazione delle
varie opinioni circa l'origine della plebe colla indicazione degli autori, che
le professano, può vedersi nel Willems, Le droit public romain, 31, e nel
Bouchè-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, 11, né 3; come pure
nell'opera, ancora in corso di pubblicazione, del prof. LANDO LANDUCCI, col
titolo: Storia del diritto romano dalle origini fino a Giustiniano. Corso scola
stico. Padova, 1886, 274; opera che,mentre nel testo offre riassunti i
risultati, a cui son pervenuti gli studii sulla storia del diritto romano,
nelle note porge no tizia agli studiosi della ricchissima letteratura
sull'argomento. Il Lange, Histoire
intérieure de Rome, I, 56 e segg., tratta largamente la questione e considera
la plebe primitiva di Roma, come una moltitudine di pe regrini dediticii, il
cui nucleo più importante sarebbe uscito dalle città latine. A suo avviso, essa
è dapprima affatto estranea al popolo delle curie, la quale opinione è pure
seguita dal KarlowA, Römisches Rechtsgeschichte] Non può parimenti ammettersi
col Vico, che la plebe fosse origina riamente costituita da clienti ammutinati
contro l'ordine dei padri, in quanto che, durante il periodo regio, la plebe
non trovasi an cora in condizioni tali da impegnare la lotta col patriziato;
lotta che, sebbene siasi forse iniziata al tempo dei re, cominciò solo ad
essere argomento di racconto e di storia col periodo repubblicano. A ciò si
aggiunge, che anche durante la lotta i clienti ed i plebei appariscono in
opposizione fra di loro, comeappare dai richiamidella plebe contro la clientela,
che costituiva la forza maggiore dell'or dine patrizio. Tuttavia questo fatto,
che condusse taluni a con siderare la plebe e la clientela, come due termini
inconciliabili ed opposti fra di loro, non ha impedito, che più tardi sianvi
state delle famiglie, che originariamente erano in condizione di clienti, e che
poi il quale considera anzi la plebe comeuna popolazione residente fuori della
cerchia della Roma primitiva, e nota che il Celio, l’Appio e il Cispio, secondo
una osservazione stata fatta di recente, hanno un nome identico a quello
proprio di genti plebee. Anche il Voigt, Die XII Tafeln, I, 258, viene alla
conclusione che i plebei non solo non partecipassero alle curie; ma che essi
costituissero una corporazione distinta, la quale, dopo l'istituzione del
tribunato della plebe, si sarebbe organizzata nei comitia tributa. La
corporazione esercitava sui suoi membri un potere di coerci zione, ne quid ex
publica lege corrumpent. Il suo magistrato era il tribunus plebis; al modo
stesso che i suoi giudici non sarebbero stati dapprima i centumviri, ma i
decemviri, che sarebbero stati tratti dalla plebe. È quindi questa l'opinione,
che contrappone più apertamente il populus e la plebes, e ci fa assistere alla
lenta fu sione dei due elementi, anche dopo che entrarono a formare parte della
stessa comu. nanza. Questo è certo, e cid apparirà meglio a suo tempo, che
quella singolare isti tuzione del tribunato della plebe, che non riesce mai ad
inquadrarsi perfettamente nella costituzione politica di Roma, dimostra
abbastanza, che se colla legislazione decemvirale i due ordini cominciarono ad
essere governati da un comune diritto; essi continuarono però ancora per lungo
tempo a costituire due classi sociali com piutamente distinte, e recarono un
contributo molto diverso sia nello svolgimento della costituzione politica, che
in quello del diritto privato di Roma. Cfr. al riguardo PADELLETTI, Storia del
diritto romano, 19, e la nota del prof. Cogliolo, in cui pare che l'annotatore
si scosti dall' opinione certamente troppo recisa del Padel LETTI, il quale
sostiene che patriziato e plebe siano stati, fin dalle origini, ammessi a far
parte della assemblea delle curie. Il luogo, in cui il V100 svolge più
chiaramente questo suo concetto, è nella prima Scienza nuova, lib. II, Cap.
XXXII, dove scrive: che le prime
repubbliche sorsero dagli ammutinamenti dei clienti, attediati sempre di
coltivare i campi per li signori, dai quali essendo fino all'anima malmenati,
gli si rivoltarono contro; e dai clienti così uniti sorsero le prime plebi;
onde, per resister loro, furono i nobili dalla natura portati a stringersi in
ordini : Di qui appare, che anche il Vico fa rimontare l'origine della plebe ad
epoca anteriore alla formazione della città. 168 recarono un contributo potente
alla plebe nella sua lotta col patri ziato; donde si può argomentare, che anche
nella plebe primitiva possono essere entrati degli antichi clienti, che per
circostanze di varia natura erano stati prosciolti dal vincolo della clientela.
Cosi stando le cose, ha molto del verosimile l'opinione del Mommsen, che in
qualche parte si accosta a quella del Vico, secondo cui il nucleo primitivo
della comunanza plebea si sarebbe venuto formando per mezzo di clienti, che di
fatto si trovavano svincolati dal loro patrono per l'estinzione della gente, da
cui essi dipendevano. Se non che si presenta ovvia l'osservazione, che quando
questo fosse stato il solo mezzo per costituire la plebe, la medesima diffi
cilmente avrebbe potuto, fin dal periodo regio, prendere così grandi
proporzioni da imporsi al patriziato e farsi accogliere nella città. Quindi è,
che l'opinione del Mommsen trova forse un opportuno compimento nella teoria del
Niebhur, il quale, tenuto conto del modo, in cui le comunanze plebee si erano
formate in condizioni sto riche analoghe a quelle in cui trovavansi i primitivi
stabilimenti delle genti patrizie, venne a considerare come una legge storica
costante, quella per cui accanto ad uno stabilimento di casate pa trizie,
chiuso e fortificato in sè stesso, formasi naturalmente una specie di comunanza
plebea; la quale, senza partecipare dapprima agli onori, ai suffragi, e ai
matrimonii della città patrizia, pud tut tavia giungere ad una certa
indipendenza dalla medesima, mediante il possesso e la coltura delle terre, e
mediante l'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse . Tuttavia anche
l'opinione del Niebhur MOMMSEN, Histoire
romaine, I, Chap. V, 103.Questa opinione fu poiadottata dal WILLEMS, Le Sénat
de la République Romaine,Paris, 1878, 15.
Ritengo che anche oggi il Niebhur sia l'autore, che è pervenuto a
studiare con vedute più larghe l'origine della plebe. Di regola esso è
annoverato fra coloro, i quali ritengono che la plebe sia stata composta delle
popolazioni vicine a Roma, state dalle medesima sottomessa. Tale è, ad esempio,
l'opinione, che gli è attribuita dal WILLEMS dal Bouchè-LECLERCQ, op. e loc.
cit. La lettura invece del capitolo intitolato:
La commune et les tribus plébéiennes
della Histoire romaine, mi ha convinto che il NIEBHUR si è fatta una
idea più larga della questione. Le conquiste, secondo lui, hanno bensì
contribuito ad accrescere e a trasformare la plebe romana, sopratutto
coll'incorporazione delle popolazioni latine; ma intanto essa già preesisteva
nelle stesse tribù primitive, costituiva una specie di vera comunanza separata
e distinta dal patriziato, composta mediante l'ammessione di cives sine
suffragio, e di clienti rimasti senza patrono (op. e loc. cit., 149). Tuttavia
misia pur lecito di constatare, che l'autore, il quale ha meglio compreso quel
carattere 169 lascia ancor sempre senza spiegazione quello stato di inferiorità
e di abbiezione, pressochè servile, in cui una parte almeno della plebe trovasi
di fronte al patriziato negli inizii di Roma; cose tutte, che non si
comprenderebbero quando si trattasse di possessori e di cul tori di terre, che
fossero stati sempre indipendenti dal patriziato. 137. Tutte queste
considerazioni mi confermano nell'opinione già altrove manifestata, che il
fenomeno della formazione primitiva della plebe debba cercarsi nella
sovrapposizione delle genti italiche di origine aria sovra altre razze già
preesistenti. In quel periodo di privata violenza, che non dovette essere
dissimile da quello, che ebbe poi ad avverarsi, allorchè le razze germaniche
invasero l'Impero, gli elementi in urto ed in lotta fra di loro dovettero
dividersi in due classi, cioè, in quella dei vincitori e in quella dei vinti;
in quella di coloro, che erano tenuti compatti dalla potente organizzazione
genti lizia, e in quella di coloro, che non erano ancora cosi progrediti nella
loro organizzazione domestica e sociale. Quelli costituirono la classe
dominante dei padri, dei patroni, dei patrizii e si vennero sempre più
fortificando nella loro ferrea organizzazione gentilizia, e tentarono di fare
entrare nei quadri della medesima anche la classe dei vinti, ponendola nella
condizione subordinata di servi e di clienti. È in quest'epoca di lotta e di
conflitto, che è mestieri di cercare l'o rigine prima di quella distinzione di
classi, che si trova agli inizii della comunanza romana; al modo stesso, che è
nell'epoca feudale, che deve essere cercata l'origine di quelle distinzioni di
classi, le cui traccie simantennero a lungo dappoi, e la cui lotta diede
eziandio origine al movimento democratico odierno. Per trovare quindi la prima
origine della distinzione converrebbe poter scomporre le po polazioni italiche
primitive, conoscere le stirpi diverse da cui esse provennero, e determinare la
posizione, in cui i vinti ebbero a tro varsi di fronte alla potente
organizzazione dei vincitori; problemi tutti, per la cui risoluzione ci mancano
per ora gli elementi necessarii. particolare della città antica, per cui essa
suppone il concorso di due elementi, di cui l'ano superiore e l'altro
inferiore, le cui lotte danno vita e movimento alla città, è certamente il
nostro Vico. La città patrizia non è ancora che un ordine e una cor porazione
di padri; mentre è la città patrizio-plebea, che ci porge lo spettacolo della
lotta tra quelli, che intendono sopratutto a conservare l'antico ordine di cose,
e quelli che abbisognano di innovare per migliorare la condizione presente. Forse
tali indagini potrebbero anche condurre al risultato, che fra le varie
comunanze di villaggio ve ne erano di quelle dedite alle armi ed organizzate
per genti e che come tali appartenevano al patriziato e costituivano una specie
di aristocrazia territoriale;mentre poi ve ne erano delle altre, prive di tradizioni,
dedite soltanto al lavoro dei campi e all'esercizio delle professioni e dei
mestieri di versi (quale sembra essere stato ad esempio il vicus Tuscus), che
costituivano delle comunanze plebee. Quest' ultime naturalmente dovevano
trovarsi in una specie di dipendenza e pressochè di vas sallaggio, rimpetto
alle prime; il che potrebbe spiegare in certi con fini quei forcti ac sanates,
di cui ci parla Festo, che comprende vano le popolazioni superiori ed inferiori
a Roma e trovavansi in dipendenza rimpetto alla medesima, la quale tuttavia già
accomunava ad essi una parte del proprio diritto, cioè il ius nexi manci piique.
Tuttavia, se ciò può esser vero delle plebi rurali, questo si può affermare con
certezza, che certamente un buon dato della plebe primitiva e sopratutto della
plebe urbana di Roma ebbe ad uscire dalla classe, che trovavasi in condizione
inferiore nell'orga nizzazione gentilizia. Cid soltanto può spiegare la
superiorità incon trastata del patriziato e l'abbiezione pressochè servile di
una parte della plebe, che tradisce ancora quel sentimento di rispetto e di
paura, che ha il servo affrancato per il suo antico padrone . La questione intorno alla condizione dei
forcti ac sanates è una delle più difficili, che presenti la storia primitiva
di Roma, per la povertà ed anche la muti lazione dei passi degli autori, che vi
si riferiscono (V. Festo, vº Sanates, quale è riportato nel Bruns, Fontes, 364,
nella Va edizione, pubblicatasi in quest'anno dal Mommsen). Io credo tuttavia,
che la medesima, dandoci un concetto del tratta mento giuridico, che i Romani
usavano colle popolazioni circostanti a Roma, possa porgerci dei dati preziosi
per argomentare quale fosse la condizione della plebe, du rante il periodo
esclusivamente patrizio. Rimetto quindi l'esame della questione al Capitolo I
di questo stesso libro. Ecco quindi la
conclusione, a cui parmi di poter venire. Nella plebe primitiva di Roma
voglionsi distinguere due correnti: una uscita dalla stessa organizzazione
gentilizia forma il primo nucleo di una popolazione, che ha sede contigua allo
stabili mento patrizio, ma non è più compresa nei quadri del medesimo; l'altra
invece, per conquiste o per immigrazione, viene ad incorporarsi in questo
nucleo primitivo, e l'accresce per modo da richiamare l'attenzione sopra di
esso. Questi due elementi appariscono accennati dalla tradizione stessa intorno
alla plebe primitiva, poichè altra è la plebe, che già appartiene alle varie
tribù, e che viene ancora ad essere col locata sotto la clientela dei padri, ed
altra è la plebe, che la tradizione dice rac --. La formazione poi di questa
plebe dovette cominciare, allorchè i vincoli dell'organizzazione gentilizia già
cominciavano a rallentarsi. Ciò accadde quando alla gente, che era ancora
stretta insieme dal vincolo della discendenza, cominciò a sovrapporsi la tribù;
la quale comprendendo elementi, che potevano essere di origine diversa, fini
per non riuscire sempre a chiudere nei suoi quadri, consacrati dalla religione,
tutti gli elementi, che si venivano affollando intorno alla medesima. Cominciò
cosi a formarsi al di fuori dell'organizza zione gentilizia, che era l'unica
riconosciuta dalle genti patrizie, una moltitudine ed una folla, il cui primo
nucleo può essere uscito dal seno stesso della medesima, ed essere anche
costituito da clienti rimasti senza patrono; al modo stesso, che le comunanze
popolari del medio Evo erano in parte costituite da famiglie, che un tempo
erano vassalle del feudatario. Siccome però nell'epoche primitive ciò che è più
difficile è il creare l'elemento novello, mentre il mede simo, una volta
formato, può poi accrescersi in varie guise ed acco. gliere tutti coloro, che,
per questa o quella considerazione, si trovano spostati nell'anteriore
organizzazione: cosi questo primo nucleo, dopo essersi staccato dalla stessa
organizzazione gentilizia, venne richia mando e quasi attraendo a sè rifugiati
di altre comunanze; servi fuggitivi; immigranti, che non amavano di porsi sotto
la protezione del patriziato, o che, per motivi religiosi o di altra natura,
non erano ammessi alla medesima; popolazioni di vinti, che perdevano territorio,
religione e famiglia; abitatori di vici, che si erano dati all'esercizio dei
mestieri e delle professioni diverse; cultori di terre, che di fatto si erano
stabiliti sul territorio situato nelle circostanze dello stabilimento patrizio;
popolazioni stabilite superiormente od inferiormente a Roma, a cui per
necessità di commercio si dovette dapprima accordare quel ius nexi mancipiique,
di cui parlano le dodici Tavole, quanto ai forcti ac sanates. Ciò spiegherebbe
anche come queste popolazioni, il cui nome era diventato inesplicabile per gli
stessi antiquarii romani, abbiano col tempo perduta la loro an tica
denominazione, in quanto che, a misura che estendevasi la do minazione romana,
tutte queste popolazioni vennero ad essere com prese nella plebe, e non fu cosi
più il caso di attribuire ad esse una colta mediante l'asilo offerto da Romolo.
È parlando di questo asilo, che Livio, I, 8, ebbe a scrivere: E. (asylo) ex finitimis populis, turba omnis,
sine discrimine liber seu servus esset, avida novarum rerum, perfugit; idque ad
caeptam magnitu dinem roboris fuit . 172 speciale posizione giuridica. Per tal
guisa il nucleo primitivo si venne ingrossando, e quando le genti patrizie
volgero lo sguardo at torno a sè videro in esso una plebs, che nel significato
primitivo suona moltitudine o folla. Il nome pertanto, che le fu dato,
corrisponde alla impressione, che questa folla deve aver fatto sopra una classe
di uomini, che non conosceva altra organizzazione fuorchè la gentilizia. Le
genti infatti non potevano scorgere in essa dapprima, che ceti di uomini
riuniti in una guisa, che per esse non aveva quel carattere religioso e sacro,
che avevano tutte le loro istituzioni. Non potevano infatti chiamarla un
populus, perchè non era nè divisa in curie, nè aveva consiglio di anziani, nè
aveva un magistrato, che la diri gesse, nè era insomma un coetus hominum iuris consensu et uti. litatis
comunione sociatus , e quindi la chiamarono plebes. Di qui il dualismo fra
populus et plebes, che trovasi in alcune formule arcaiche; dualismo, che per
essere l'effetto di cause naturali viene a presentarsi non solo in Roma, ma in
tutte le comunanze delle genti italiche. Di queste tuttavia, se ne hanno di
quelle, in cui quest'elemento è tenuto in umile stato, come sarebbero le città
etrusche, ed altre invece, in cui esso già ottiene qualche concessione, quali
sarebbero appunto le città latine. Il primo senso del patriziato per
quest'elemento novello, che prendeva ad esistere fuori dei quadri della propria
gerarchia, dovette essere di un disprezzo non dissimile da quello, che più
tardi i patrizii manifestarono per quei concilia plebis, che pur dovevano
trasformarsi nei comizii tributi; ma al lorchè il numero di questa plebe venne
facendosi sempre più grande, si comprende come questo elemento dovesse di
necessità essere te nuto in conto, sopratutto in una comunanza di carattere
belligero, quale era la romana. 140. Narra infatti la tradizione, per bocca
almeno di Dionisio e di Cicerone, che il fondatore della città avrebbe
collocata la plebe nella clientela del patriziato, e incaricato i padri di
farle assegnidi terre, a titolo di precario, non dissimili da quelli, che essi
facevano ai clienti. In verità per una città eminentemente patrizia, come era
Roma primitiva, il miglior modo per organizzare la folla, che aveva seguito
l'esercito del fondatore o che erasi accalcata intorno allo stabilimento da
essa fondato, era quello di farla entrare nella ge rarchia dell'organizzazione
gentilizia. Fin qui pertanto la plebe non è ancora veramente tale, ma è
costretta ancora nei quadri della clientela. Pero a misura che la fortuna
nascente di Roma od 173 anche l'apertura stessa di un asilo ai rifugiati e agli
esuli dalle altre città (questo vetus urbis condentium consilium, che non è poi
cosi improbabile, come ebbe a farlo la critica storica ) cominciarono a richia
mare nei dintorni della città una quantità di individui e di capi di famiglia
di provenienza diversa; anche la clientela venne ad essere insufficiente per
comprendere nei proprii ranghi questa folla di uo mini, di cui una parte potè
forse essere di origine ellenica ed etrusca, ed avere tradizioni e credenze
diverse da quelle dai fondatori della città. Era stata la lunga coabitazione
come servi e famuli nella famiglia, che nell'anteriore organizzazione
gentilizia aveva servito a preparare la clientela delle genti patrizie. Questa
preparazione invece mancava nel nuovo elemento, che accorreva nei dintorni di
Roma; per tal modo l'antica istituzione religiosa ed ereditaria della clientela
venne ad essere inadeguata e disacconcia al bisogno ed inetta a dare
un'organizzazione al nuovo elemento. Quasi si direbbe che, collo svolgersi
della città, l'antica forma, sovra cui si era modellata l'anteriore
organizzazione sociale, che colla tribù già erasi alquanto sgretolata, venne a
rompersi affatto. Quindi mentre tutto prima era compreso nella gerarchia
gentilizia, colla città in vece comincia a farsi palese e a colpire lo sguardo
questo ele mento novello, che guadagna e richiama a sè tutto ciò, che sfugge
all'antica organizzazione. Dapprima il fatto dovette colpire l'ordine stesso
dei padri, e loro parve strano di dover riconoscere, che l'or ganizzazione
gentilizia più non potesse bastare ad ogni emergenza. Ma col tempo fu necessità
arrendersi all' evidenza, e l'elemento nuovo non poteva essere trascurato per
una comunanza come la Romana di carattere eminentemente belligero, e che
abbisognava perciò di un contingente sempre nuovo per riempire le file del
proprio esercito. Sopratutto il nuovo elemento doveva apparire im portante per
il re, il quale da una parte poteva trovare in esso un sussidio potente per la
formazione dell'esercito, e dall'altra, as sumendo la qualità di patrono non
dei singoli plebei, ma dell'in tiera classe, poteva anche trovare in essa un
appoggio per bilanciare la soverchia influenza dei padri. Questi infatti,
memori, che il re era il loro eletto ed il rappresentante, a cui avevano affidato
i proprii auspicia, lo volevano naturalmente ligio ai proprii interessi e mira
vano a valersi di esso per trasportare anche nella città l'organiz zazione per
genti e per tribù, per quanto la medesima male si accon ciasse alla nuova
condizione. Gli è questo il motivo, per
cui noi vediamo, secondo la tra dizione, prendersi dai re, che vengono dopo,
una serie di provve dimenti nell'intento di organizzare la plebe. Mentre Romolo,
dopo avere, secondo Dionisio, affidato alla plebe la coltura delle terre e
l'esercizio delle arti manuali, si limita a porla sotto la clientela dei padri,
e si vale cosi di un istituto vecchio per comprendere un ele mento nuovo , Numa
invece già prende quanto alla plebe due importantissimi provvedimenti. Il primo
è quello di distribuire direttamente ai più poveri, che sono appunto quei
tenuiores, di cui parla Festo, e che appartengono alla plebe, l'ager
conquistato da Romolo, e che era venuto ad ac crescere l'ager publicus; il
quale provvedimento produsse l'effetto, che la plebe da questo momento, almeno
in parte, cesso di essere sotto il patronato dei patres. Però siccome i
cambiamenti sono e devono essere lenti; cosi al patronato dei patres sembra
sottentrare una specie di patronato del re, il quale fa alla plebe quegli assegni
di terre, che dapprima erano affidati ai patres. Forse può darsi che dapprima
questi assegni di terre, fatti dal re alla plebe sull'ager publicus, fossero
soltanto a titolo di semplice precario, come quelli che erano fatti dai patres
ai clienti sull'ager gentilicius; ma in tanto è già un passo importante per la
plebe quello di non dipen dere più direttamente dai capi delle genti, ma di
essere sotto il patronato o almeno sotto la protezione diretta del re, custode
e ma gistrato della città. L'altro provvedimento, ricordato da Plutarco, e che
egli dice essere stato altamente lodato, fu quello per cui Numa avrebbe di Dion., 2, 9:
Romulus postquam potiores ab inferioribus secrevit;mox legem tulit et
quid utrisque faciendum esset disposuit: patricii sacerdotiis et magistra tibus
fungerentur et iudicarent, plebeiï vero agros colerent et pecus alerent etmer.
cenarias artes exercerent (Bruns,
Fontes, 3 ). Quanto a questa
ripartizione fatta da Numa, vi ha divergenza fra CICERONE, De rep., II, 14,
secondo cui la ripartizione si sarebbe fatta viritim ai cittadini in genere,
mentre DIONISIO vuole che siasi fatta ai più poveri, II, 62. Cfr. Bongur,
Storia di Roma, I, 85. - Per quello che si riferisce al patronato del re sopra
la plebe, ritengo col KARLowa, che ilmedesimo non possa essere preso nella
signifi cazione giuridica attribuita al vocabolo (Röm. R. G., I, 63 ). Ciò
tuttavia pon toglie, che la plebe, dopo essersi resa indipendente dal
patriziato, abbia trovato nel re il suo protettore naturale, e siccome tale
protezione non si comprendeva al lora che sotto la figura di clientela, così
gli autori considerarono il re come patrono o la plebe come sua cliente. -
stribuito quella parte della plebe, che era dedita alle arti manuali e
all'esercizio delle professioni diverse, in corporazioni di arti e mestieri
(collegia ), che furono nove: quella cioè dei suonatori di flauto, degli
orefici, dei muratori, dei tintori, dei calzolai, dei cuoiai, dei fabbri, dei
vasai e l'ultima di tutte le altre professioni, dando alle medesime proprie
riunioni e i proprii riti. Vero è, che questo provve dimento ebbe ad essere
posto in dubbio dalla critica e fra gli altri dal Mommsen, e che probabilmente
i collegi, la cui formazione si attribuisce a Numa, potevano già esistere
precedentemente, sopra tutto nel vicus Tuscus, la cui popolazione fu una delle
prime ad essere compresa nella plebe romana: ma non è punto improbabile che,
come erasi cercato di provvedere alla plebe dedita alla coltura delle terre,
cosi si cercasse di dare un'organizzazione alla plebe dedita agli esercizi
delle arti e professioni diverse, o di consacrare almeno l'organizzazione, che
già esisteva precedentemente o che tro vavasi in via di formazione. Non è
quindi il caso di respingere la tradizione, dal momento che non vi ha nulla di
meglio da sosti tuirvi; almodo stesso che è meglio accettare anche le figure
alquanto leggendarie dei re, piuttosto che sostituirvi qualche cosa, che non ha
neppur più della leggenda, la quale è pur sempre intessuta sopra un fondo di
vero. Intanto questo si può affermare con certezza, che fin dagli inizii di
Roma cominciò ad apparire un dualismo nella plebe ro mana, che, accennato fin
dall'epoca di Romolo con affidare alla plebe la coltura delle terre e
l'esercizio delle arti manuali, già comincia a delinearsi con Numa, il quale ad
una parte della plebe fa assegni di terre e l'altra distribuisce per arti e
mestieri, e che più tardi finisce per accentuarsi molto più recisamente. Havvi
infatti in Roma, fin dai proprii esordii, una plebe rurale, composta di piccoli
possidenti, ed PLUTARCO, Numa, 17: De ceteris eius institutis maximam
admirationem habet plebis per artificia
distributio; haec vero fuit: tibicinum, aurificum, fabrorum tignuariorum, tinctorum, sutorum, coriariorum,
fabrorum aerariorum, figulorum; reliquas
artes in unum cöegit, unumque ex iis omnibus fecit corpus; consortia et <
concilia et sacra cuique generi tribuens convenientia (V. BRUNS, Fontes). L'autore, che sembrava
porre in dubbio questa distribuzione della plebe in arti e mestieri, sarebbe lo
stesso MOMMSEN, De collegiis ac sodaliciis; Liliae, 1843, citato dal MUIRHEAD,
Histor. Introd., 11; ma pare che nella Storia Romana accetti la ripartizione
stessa come una verità di fatto. - - una plebe, composta di artieri,
commercianti, esercenti le arti e le professioni diverse. L'ideale della prima
è quello sopratutto di mu tare le sue possessioni di terre in una proprietà
indipendente, che la ponga in condizione di provvedere al sostentamento di sè e
della propria famiglia; quello insomma di avere quell'heredium o man cipium,
che pur appartiene al capo della famiglia patrizia. A questa plebe, che non
abita nelle mura di Roma, ma nelle circostanze di essa, dovette probabilmente
dalla città patrizia essere riconosciuto quel diritto, che più tardi da Roma fu
pure riconosciuto alle popo lazioni vicine, che sono indicate col nome di
forcti ac sanates, cioè il ius nexi mancipiique. Cid pud essere argomentato da
cid, che Roma di regola suole seguire gli stessi processi in condizioni anaa
loghe e quindi è probabile, che questa plebe, che risiedeva fuori della città,
e costituiva in certo modo una popolazione circostante alla medesima, fosse
trattata nel modo stesso, in cui da essa furono poi trattate le altre
popolazioni vicine. L'altra parte della plebe invece, mancando di altra
organizzazione, cerca di rafforzarsi, come farà più tardi anche la popolazione
commerciante dei comuni del Medio Evo, mediante le corporazioni di arti e di
mestieri. Quelli, che apparten gono alla plebe rurale, convengono in Roma i
giorni di mercato per vendervi i loro prodotti, e per conoscere anche i
provvedimenti, che siano presi nell'interesse comune; mentre gli altri, che
apparten gono alla classe dei piccoli commercianti ed artieri, formano fin
d'allora il primo nucleo di quella plebe urbana, nel seno della quale si
formerà più tardi quella forensis factio, che già comincia ad apparire sotto la
censura di Appio Claudio, e getta il discredito sulle tribù urbane. 143. Già
erasi così delineata la distinzione fra plebe rurale ed urbana, quando
sopraggiunse un avvenimento, il quale diede una grande compattezza
all'organizzazione della plebe romana, e mentre ne accrebbe il numero e la
potenza, le diede anche un nuovo indi rizzo e ne assicurò l'avvenire. Questo
avvenimento fu l'aggregarsi alla plebe romana della parte più povera della
popolazione di Alba, la cui distruzione è attribuita a Tullo Ostilio, e quella
del trasporto od anche, come pare più probabile, della riunione alla plebe di
Roma per opera di Anco Marzio, della popolazione di varie città latine da lui
conquistate. Questo nuovo contributo venne ad accrescere la forte plebe rurale,
vivamente affezionata al fondo da essa coltivato, e disposta a porre la vita
per la difesa di esso, e fece entrare nella - 177 plebe un elemento, la cui
origine era analoga a quella del patriziato, e che aveva già un'organizzazione
domestica, non dissimile da quella del medesimo. Fu il rifiuto del corpo chiuso
del patriziato primitivo di Roma di ricevere nel proprio seno queste famiglie
delle città la tine, che assicurò l'avvenire della plebe romana, incorporando
in essa un elemento, che portò nella lotta per il pareggiamento giuri dico e
politico una tenacità e perseveranza, non dissimili da quelle, che
contraddistinguono il patriziato romano. Di qui la conseguenza, che come era
stata latina l'organizzazione del patriziato romano, poichè gli elementi
sopraggiunti erano entrati nei quadri della città latina; così fu sopratutto
latina la massa più forte della plebe ro mana, quella massa, di cui una buona
parte entro più tardi a costi tuire la nuova nobiltà. Senza questo elemento la
plebe primitiva, di origine diversa e che in parte era forse di origine servile,
avrebbe molto probabilmente continuato lungamente a mantenersi tale;mentre
questo innesto di famiglie latine, che nel loro paese nativo tenevano già un
certo grado, per cui loro dovette riuscire grave di vedersi respinte dai quadri
dell'ordine patrizio, portò forza, organizzazione, tenacità nella plebe e ne
assicurò l'avvenire, fino a che questo ele mento vigoroso e vitale non fini per
uscire dalla plebe stessa, che aveva resa potente, e aggregandosi alla nobiltà
abbandonò la plebe minuta agli spettacoli del circo e alle distribuzioni di
frumento. 144. Per comprendere però un avvenimento di questa natura, importa
farsi un'idea chiara della lotta, che vi era fra Alba da una parte e Roma
dall'altra. Erano entrambe due città latine, cioè due centri di vita pubblica
fra varie comunanze di villaggio, ed erano troppo vicine per poter coesistere.
L'una o l'altra doveva cedere, e la conseguenza era per la soccombente di dover
scompa rire come città e come urbs, per modo che le comunanze, che mettevano
capo ad essa, dovessero invece fare capo a quella, che riusciva vittoriosa. Il
patto quindi che, secondo la tradizione, ebbe ad essere suggellato fra i capi
dei due popoli, con tutte le cerimonie del diritto feziale, era che,
trattandosi di popoli fratelli, si dovessero rimettere al combattimento di tre
per parte le sorti della guerra. Questo intento della guerra Albana è messo in
evidenza dalle parole, che Livio, I, 27, attribuisce a Tullo Ostilio nella
concione tenuta avanti ai due popoli prima di condannare allo squartamento
Metto Fuffezio: Quod bonum, faustum G. C., Le origini del diritto di Roma. 12 178 La
lotta quindi leggendaria fra Orazii e Curiazii era lotta di pre dominio fra le
due città, la cui parentela era ricordata e riconosciuta, ed era una specie di
giudizio di Dio per sapere quale dovesse preva lere: senza che occorra di
sforzarsi col Lange a volere che il numero dei tre corrisponda alle tre tribù,
e che il nome di Curiazi provenga dalle curie. Conseguenza dell'esito del
duello fu, che la città soccombente perdette la propria esistenza separata e fu
distrutta come urbs, e quindi le genti patrizie albane furono aggregate al
patriziato romano, a cui si aggiunsero cosi i Tullii, i Servilii, i Quinzii,
iGe ganei, i Curiazii, i Clelii, le cui genti pero, per essere sopraggiunte più
tardi, furono poi collocate dallo stesso Tullo Ostilio o da Tar quinio Prisco
nel novero delle gentes minores. Tutta la popolazione invece, che, nelle
condizioni, in cui allora si trovava, non poteva entrare nel patriziato entro
in massa nei ranghi della plebe, e una parte di essa, cioè la più povera, ebbe
anche degli assegni di terre. Cid pure accadde, quando Anco Marzio vinse altre
comunanze latine, e ne aggregò la popolazione alla plebe romana; il che fu
dalla tradi zione espresso con dire, che Anco Marzio aveva trasportata a Roma
la popolazione di quattro città latine . 145. È a questo punto pertanto, che la
plebe acquista in Roma una vera importanza, e che viene ad essere
indispensabile di trovare un modo per farla entrare, ancorchè a condizioni
disuguali, nella cittadi nanza romana; tentativo cominciato con Tarquinio
Prisco, e condotto a compimento da Servio Tullio. Mentre Tarquinio Prisco non
riesce felixque sit populo romano ac mihi,vobisque, Albani; populum omnem
Albanum Romam traducere in animo est; civitatem dare plebi; primores in patres
legere: unam urbem, unam rempublicam facere .
Lange, Histoire intérieure de Rome, I, 35. Questi fatti attestati dalla tradizione e da
tutti gli storici rendono a parer mio non accoglibile l'opinione sostenuta con
molta erudizione dal PANTALEONI nella sua Storia civile e costituzionale di
Roma, lib. I, cap. 6, 97 a 113, Torino, 1881, secondo cui il partiziato romano
sarebbe stato Sabellico, mentre la plebe sarebbe stata Latina. Questi fatti
invece dimostrano, che la popolazione delle città latine era essa pure divisa
in patriziato ed in plebe, cosicchè quel dualismo che presentasi in Roma già
preesisteva nel Lazio. Del resto l'ipotesi del dotto au tore sarà poi presa in
esame quando si tratterà della legislazione regia, Lib. II, cap. IV,
discorrendo del contributo recato dalle varie stirpi italiche alle istituzioni
giuridiche di Roma. L'importanza
grandissima per l'avvenire della plebe romana di quest' innesto 179 che a
conglobare i rappresentanti di queste varie genti nei sacer dozii, nel senato e
nell'ordine dei cavalieri, raddoppiandone il numero, e continua a lasciare la
plebe nella condizione, in cui prima si trovava; Servio Tullio invece inizia
una organizzazione novella, che può comprendere così nelle file dell'esercito,
che nelle riunioni dei comizii quella plebe, che è già pervenuta a tale po
sizione economica e sociale, da interessarla alla cosa pubblica. È da questo
punto parimenti, che la plebe rustica di Roma comincia ad essere più apprezzata
che la plebe urbana, e che principia ad avverarsi fra i due ordini la
possibilità della formazione di un diritto comune ai medesimi. Il motivo di
questo ravvicinamento deve anche essere riposto nel fatto, che le istituzioni
del patriziato e quelle del nuovo elemento, aggiuntosi alla plebe, non erano a
grande distanza fra di loro; poichè l'uno e l'altro avevano la medesima
organizza zione domestica, ed oltre a ciò fra queste famiglie latine ve ne
erano di quelle che un patriziato, meno esclusivo e geloso dei suoi privilegi,
avrebbe potuto accogliere nel proprio seno. Ferma quest'origine della plebe e
questa primitiva organizzazione della medesima, veniamo a ricercare quali
fossero le istituzioni giu ridiche, che essa poteva possedere all'epoca, in cui
entrò a far parte della comunanza romana. di forti popolazioni latine sulla
plebe primitiva, in parte di origine servile, è un fatto riconosciuto da tutti
gli storici. Cominciò a notarlo il NIEBHUR, e dopo di lui il Mommsen, il Lange
e molti altri. Nota molto accortamente a
questo proposito il Gentile, Le elezioni e il bro glio, 142, che quella nobiltà, che poscia fu chiamata nuova
e che in gran parte esce di ceppo latino, non era tanto nuova, quanto sembra
alla prima; perchè discendeva dalle vecchie aristocrazie di comunità italiche,
venute ad aggregarsi allo stato romano, e che avevano aspirato agli onori in
quella cittadinanza, a cui più o meno recentemente erano ascritte . Di qui la
conseguenza, a cui egli allude a 150, che
la costituzione romana, eminentemente democratica nei principii, colla
piena sovranità popolare nel nome, lasciava il reggimento della cosa pubblica,
immobile nella mano di pochi . La posizione giuridica della plebe di fronte al
patriziato. 146. Se posta questa origine della plebe e questa primitiva or
ganizzazione della medesima, si domandasse ora in che consistesse la plebe
all'epoca, in cui essa appare nella storia di Roma, sarebbe necessità di
rispondere con una deffinizione di carattere negativo. La plebe infatti è negli
esordii di Roma tutto quel nucleo di indi. vidui e di famiglie di origine
diversa, che di fatto trovasi stabilita nel territorio romano, nei dintorni
della città patrizia; ma che intanto è priva ancora di qualsiasi posizione
giuridica, perchè non entra a far parte dell'organizzazione gentilizia. Essa è,
come dice Gellio, quella parte di popolazione, che è stabilita di fatto sul
suolo romano, ma in cui gentes patriciae
non insunt ; o meglio an cora quella
parte di tale popolazione, che, non essendo compresa nei quadri della
organizzazione gentilizia, non può dapprima entrare nelle curie e negli ordini
della città patrizia. Al modo stesso, che più tardi si chiamerà peregrinus
chiunque non sia cittadino di Roma, o non sia in guerra con essa, e per passare
anche ad un altro ordine di idee si chiameranno con Gaio nec mancipii tutte
quelle cose, che non appartengono alla cerchia prima formatasi della res
mancipii, e anche più tardi si diranno in bonis tutte quelle cose, che appar
tengono ad una persona senza appartenerle ex iure quiritium; cosi alla domanda
in che consista la primitiva plebe di Roma si pud solo rispondere, che essa è
quell'elemento, che esiste accanto al po pulus, ma che non entra nei quadri di
esso, consacrati dalla reli gione; quell'elemento, che esiste di fatto sul
territorio della città patrizia, ma che non è compreso nell'organizzazione
giuridica e politica di essa. Ora e sempre sarà questo il punto di vista, a cui
si colloca il popolo romano, il quale ferma il suo sguardo sopra di sè, sopra
il suo culto, sopra la sua religione, sopra la sua urbs, la sua civitas, sopra
il suo diritto, e in base al medesimo classifica e dispone tutto il rimanente
dell'universo, secondo la posizione, che esso tiene riguardo a sè e alle
proprie istituzioni. Questo modo di
GELL., Noct. att., X, 21, 5. - 181 - procedere del resto non sembra
esser proprio soltanto dei Romani, che chiamano tutti gli altri popoli hostes o
peregrini; ma anche dei Greci, che hanno una sola qualificazione per tutti gli
altri, che è quella di Barbari; anche dei cristiani del Medio Evo, che chia
mano tutti gli altri col nome di infedeli; ed in genere sembra es sere proprio
di tutte le stirpi Ariane, anche nell'Oriente, le quali cre. dono di avere il
diritto di sovrapporsi a tutte le altre. Che anzi questo modo di procedere può
anche ritenersi comune a tutto il genere umano, sopratutto nelle epoche
primitive, in cui ogni popolo, chiuso in sè stesso, mal conoscendo il
rimanente, giudica ed ap prezza ogni cosa, facendo sè il centro dell'universo.
È sempre applicando questa logica superba, ma ad un tempo ingenua e del tutto
conforme alla natura dell'uomo, che il popolo formato dalle genti patrizie,
chiamò plebe tutto ciò, che non era compreso nei suoi ordini, cioè nelle sue
genti e nelle sue curie, e che poscia il populus romanus quiritium, dopo che
già comprende va la plebe, vide una folla e moltitudine di peregrini e di
hostes in tutti quelli, che non erano compresi nei quadri della città romana.
Di qui con seguita, che la definizione di quell'elemento, che è il solo ad
essere tenuto in conto, implica eziandio la deffinizione negativa di quello,
che ne costituisce il contrapposto. 147. Se quindi è solo il populus delle
gentes, che possiede un diritto, ne verrà comeconseguenza, che la plebe non può
negli inizii avere rimpetto ad esso che una posizione di fatto, e continuerà ad
esser sempre in questa condizione, finchè il populus non le verrà facendo
qualche concessione, o la plebe stessa troverà modo di ac costarsi all'organizzazione
del populus, e di penetrare, sotto questo o quell'aspetto, nei suoi ordini e
nei suoi quadri, consacrati dalla religione e tutelati dal diritto. La plebe
insomma è un elemento, che ha una posizione di fatto, e che si viene avviando
alla conquista di una posizione di diritto. Essa è nella stessa posizione, in
cui saranno poi i Latini e gli Italici, allorchè formeranno già il grosso
dell'e sercito romano, e intanto non saranno ancora ammessi alla cittadi. Fo qui applicazione di un concetto del Vico,
il quale certo vide molto addentro alla natura dell'uomo primitivo. Tale
concetto costituisce anzi la prima degnità della sua Seconda scienza nuova,
secondo cui: L'uomo per l'indefinita
natura della mente umana, ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sè
regola dell'universo . Solo è a notarsi, che i Romani ciò non facevano per
ignoranza,ma perchè veramente attri buivano a se stessi una superiorità sugli
altri. 182 nanza romana: mentre questi ricorreranno in tale intento alla guerra
sociale, la plebe ricorrerà invece alle lotte civili, finchè non avrà ottenuto
il pareggiamento civile e politico. Qui, comenel resto, il processo della
logica romana è sempre il medesimo; incomincia da tanti cerchi, che si vengono
formando nell'interno della città, e che poi si vengono sempre più allargando,
finchè non giungono a comprendere tutto l'universo conquistato dalla eterna
città. 148. Ciò premesso si può comprendere, quale potesse essere lo stato
delle istituzioni giuridiche presso la plebe primitiva di Roma. Esse erano
istituzioni, che avevano un'esistenza di fatto: ma a cui il patriziato non
annetteva effetti e conseguenze giuridiche. Tuttavia, anche considerate sotto
questo aspetto, le istituzioni plebee non po tevano certo avere fra di loro un
' analogia, che possa paragonarsi con quella, che esisteva fra le istituzioni
delle genti patrizie, la quale erasi fatta più intima, stante la loro
partecipazione alla stessa co munanza civile e politica. Anzitutto si
cercherebbero indarno presso la plebe quei concetti fondamentali, che abbiamo
trovato cosi nettamente delineati presso le genti patrizie coi vocaboli di fas,
di mos e di ius. Alla plebe invece non si applica dal patriziato che il
vocabolo di usus, che riceve però presso di essa una larghissima applicazione.
Per verità è coll'usus, che si vengono a rivelare esteriormente le unioni ma
trimoniali della plebe, le quali non importano comunione delle cose divine ed
umane. Parimenti è col mezzo dell'usus, che nelle consuetudini plebee potè
avverarsi l'appropriazionedelle cose esterne. Non essendovi presso di essa
quelle forme, che a giudizio del patriziato sono indispensabili per l'acquisto
ed il trasferimento dei beni; così è solo, mediante l'usus, che appartenga ad
una persona, a scienza e pazienza di tutti gli altri, che viene a manifestarsi
non tanto la pro prietà, quanto la possessio, che dapprima tiene luogo di essa.
In fine sarà eziandio, mediante l'usus, che, allorquando verrà a morire un capo
di famiglia plebea, i suoi figli prima, e in sua mancanza i suoi congiunti ed
anche i suoi vicini verranno a mettersi a possesso dei beni da esso lasciati; e
avrà così origine quella singolare istitu zione dell'usucapio pro herede, che
il buon Gaio trovava disonesta ed immorale, perchè non era coerente al
principio dell'agnazione posto a fondamento della successione quiritaria. Tutto
ciò insomma, GAIO, Comm., II, 53, 54.
183 in cui predomina l'usus auctoritas (per usare l'efficacissimo voca bolo
adoperato dalla legislazione decemvirale), piuttosto che il ius propriamente
detto, tutto ciò che si fonda di preferenza sul fatto che sul diritto, è da
ritenersi di origine plebea, e solo più tardi entrò a far parte del diritto
quiritario sotto il nome di usucapio, di usureceptio, di possessio e simili.
Cid spiega anche il motivo, per cui, allorchè la legislazione decemvirale
attribuì carattere giuridico a queste istituzioni, essa abbia dovuto imporvi
delle limi tazioni e prescrivere delle condizioni, alle quali poi si aggiunsero
quelle richieste più tardi dalla giurisprudenza, perchè siavi usu capione, e
perchè il possesso possa ottenere protezione giuridica. Ciò del resto era una
conseguenza delle condizioni reali, in cui trovavasi la comunanza plebea;
poichè se in un patriziato, dalle an tiche tradizioni, tutto era preveduto e
regolato con norme e regole fisse, le quali se non avevano sempre un carattere
giuridico, avevano almeno un carattere religioso e morale; in una comunanza
invece, composta di individui e di famiglie di origine diversa, priva di tra
dizioni e di recente formazione, i rapporti fra i singoli individui non
potevano essere governati, che dall'usus. Credo non occorra qui di richiamare
l'attenzione sulla grandissima importanza, che ha questa induzione per spiegare
l'origine dimolte istituzioni primitive di Roma, e sopratutto quell'usucapione,
che appare introdotta dalla legislazione decemvirale. Colla medesima viene ad
apparire l'unità di concetto, a cui si informarono idecem viri, allorchè
introdussero contemporaneamente l'usus auctoritas per l'acquisto della manus,
per l'acquisto della proprietà immobile e mobile, e per l'acquisto anche del
l'eredità. L'usucapio infatti era l'unico mezzo per mutare al più presto la
posizione di fatto, in cui trovavasi la plebe, in una posizione di diritto. Ciò
spiega eziandio come la primitiva possessio non dovesse richiedere nè giusto
titolo, nè buona fede, e come sia stata necessaria una lunga elaborazione,
perchè potesse uscirne la teorica del possesso e quella a un tempo
dell'usucapione, le quali hanno fra di loro strettissima attinenza. Così pure
si spiegano le definizioni di Ulpiano e di Modestino, secondo cui: <
Usucapio est dominii adeptio per continuationem possessionis anni vel biennii ,
senza che richiedasi altra condizione. Lo stesso è a dirsi degli sforzi dei
decemviri per trattenere l'istituzione da essi accolta in limiti tali, che non
la rendessero pe ricolosa per la convivenza sociale, escludendola per le cose
rubate, e consentendo alla moglie, che coabitava colmarito, di interrompere
l'usucapione della manus, mediante il singolare istituto del trinoctium.
Intendo però di riconoscere, che un avviamento a questa spiegazione già può
ravvisarsi nel MUIRHEAD, Histor. Introd., 48 e 179, nella sua ingegnosa
congettura intorno all'origine della usucapio pro haerede, e nell' Esmein nel
suo recente articolo sull' Histoire de
l'usucapion che si trova nei suoi
Mélanges d'Histoire de droit, Paris. Solo credo di 184 149. Parimenti, è sempre
sotto l'influenza di queste speciali con dizioni, in cui trovasi la plebe, che
i suoi commercii non possono essere governati da forme solenni, simili a quelle
che si erano for mate fra i padri delle famiglie patrizie; ma dovettero
svolgersi con forme semplici, quali erano suggerite dai bisogni di una
comunanza, in seno a cui non era ancora organizzata una vera propria pro
tezione giuridica. Fu quindi certamente nei rapporti della comune plebea, che
dovette anche svolgersi l'emptio-venditio, accompagnata dalla tradizione della
cosa e dal pagamento del prezzo, e questo fu forse anche il motivo, per cui
presso gli antichi, secondo Festo, emere pro accipere ponebatur, in quanto che
emere era vera mente prendere la cosa comperata. Fu in essa parimenti, che
dovette aver origine quel singolare istituto della fiducia, il quale serve qual
mezzo per accordare una efficace garanzia al proprio creditore, lasciando a sua
mano la cosa, che deve servirgli di malle veria . Fu parimenti in essa, che
dovette svolgersi quel modo aver allargato il concetto riunendo istituzioni,
che potevano apparire disparate, e dimostrando, che l'opera dei decemviri fu in
questa parte indirizzata a dare carat tere giuridico ad istituzioni, che
avevano solo un'esistenza di fatto presso la comu nanza plebea. Sarebbe infatti pressochè incomprensibile,
che un popolo nelle condizioni eco nomiche, in cui trovavasi allora il Romano,
e del quale una parte aveva già attra versato, e non inutilmente, tutto un
periodo di organizzazione sociale, potesse igno rare contratti, come l'emptio
venditio, la locatio conductio, e simili. Essi dovevano certamente esistere,
quand'anche non fossero per avventura penetrati nel diritto qui ritario. Cfr.
MUIRHEAD, Histor. Introd., COGLIOLO, Prefazione, XI, alla traduzione del
GOODWIN, Le XII Tavole, eseguita dal Gaddi, Città di Ca stello, 1887. È poi
noto, che la disposizione della legge decemvirale, per cui la ven dita non è
perfetta, che col pagamento del prezzo, è anche coinune alla Grecia; il che
dimostra, che dovette essere determinata da comuni necessità, in quanto che la
vendita seguiva talora fra persone, che appartenevano a genti e a comunanze
diverse, e non sarebbe stato facile riavere la cosa, quando non ne fosse stato
pagato il prezzo. Anche l'istituto della
fiducia è uno dei più antichi e dovette nascere nella comunanza plebea, perchè
fuorusciti ed immigranti senza posizione giuridica non potevano ricorrere che a
quella. Si spiega pertanto il largo uso, che se ne fece nel diritto primitivo
di Roma, in quanto che vi si ricorre nel testamento, per la nomina di un
tutore, per la concessione di un pegno e forse in molti altri casi ancora, che
dovettero verificarsi pel costume e non penetrarono nel diritto quiritario
propria mente detto. Ciò è dimostrato dalla frequenza, con cui nei poeti latini
e sopratutto nei comici occorre il caso, in cui una persona, allontanandosi,
affida il patrimonio e la figliuolanza (mandat familiam pecuniamque suam ) ad
una persona di sua confi denza. Questo costume è anzi il perno, intorno a cui
si aggira il Trinummus di PLAUTO. 185 - semplicissimo di fare testamento, che
ci venne più tardi ancora de scritto da Gaio nelle sue forme primitive ed
arcaiche, e che dovea servire più tardi come base al testamento quiritario per
aes et li bram, per cui il plebeo, che muore senza figliuolanza, affida ad un
amico il suo patrimonio e le sue sostanze, indicandogli la maniera in cui dovrà
poi distribuirli, quando egli sarà morto. Del resto è questo il modo che ancora
oggidi torna opportuno all'emigrante, che, trovandosi in pericolo di vita ed
essendo lontano dalla patria e dalla famiglia, affida ad un amico, che avrà la
fortuna di tornare in patria, tutto ciò, che egli ha potuto risparmiare, perchè
lo riporti a coloro, che gli sono cari. Che anzi, dacchè siamo nella
ricostruzione di quest'ordine di idee, parmi che a questo modo pri mitivo di
fare testamento si rannodi senz'alcun dubbio quella istitu zione del
fedecommesso, che, mantenutasi per certo nel costume, senza poter penetrare
nella cerchia rigida del diritto civile romano, fini tuttavia per trionfare
negli inizii dell'Impero e trionfo, perchè popu lare erat. Quel testamento
quindi, che per un capo di famiglia patrizia doveva essere fatto
coll'approvazione dell'assemblea della tribù dapprima, e poi davanti ai comizii
della città e serviva sopra tutto a perpetuare l'heredium nelle famiglie, e ad
impedire che il patrimonio uscisse dalla gente; per i membri invece della
comunanza plebea non poteva essere che un atto di fiducia, un rimettersi, Il testamento primitivo, a cui accennanoGaio,
Comm. II, 102, ed anche Gellio, XV, 27, 3, è una specie di mancipatio cum
fiducia, in virtù della quale una persona
si subita morte arguebatur, amico familiam suam, id est patrimonium suum,mancipio
dabat, eumque rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet . Ciò indica
che la prima forma, sotto cui comparve il vero testamento, quello che poi si
svolse nel testa mento per aes et libram, fu il fedecommesso,malgrado tutte le
difficoltà che il mede simo incontrò poi per passare dal costume nel diritto
civile romano. È poi degno di nota, che i Romani più tardiritennero di aver
ricevuto dai peregrini questa istituzione del fedecommesso, che certo già
esisteva nella primitiva comunanza plebea. Gaio in fatti, Comm. II, 285, scrive: ut ecce peregrini poterant fidem commissam
facere et ferre: haec fuit origo fideicommissorum ; il che mi conferma
nell'induzione, che il primitivo diritto plebeo, di fronte al diritto già
elaborato delle genti patrizie, dovette compiere quello stesso ufficio, che più
tardi il diritto delle genti verrà a compiere di fronte al diritto civile di
Roma. Che il fedecommesso poi, ancorchè non accolto nel diritto quiritario,
abbia sempre continuato a mantenersi nel costume, è provato ad evidenza dai
comici latini. Fra gli altri esempi basti il seguente tolto dall'Andria di
TERENZIO, I, 5: Bona nostra tibi
permitto et tuae mando fidei . È da vedersi in proposito l’Henriot, Mours jurid.
et judic., I, 411.186 che altri faceva ad un amico o ad congiunto, acciò egli
distribuisse le sue cose per il tempo, in cui avrebbe cessato di vivere. 150.
Lo stesso infine è a dirsi dei modi di procedere contro il debitore in questo
primitivo diritto plebeo. Sarebbe inutile cercarvi la forma solenne dell'actio
sacramento, che era nata e si era svolta fra capi di famiglia, che sentivano la
loro superiorità ed indipen denza; ma è più facile che trovisi fra la plebe
l'uso della manus iniectio, ed anche quello della pignoris capio, istituzioni
che sa rebbero incomprensibili fra capi di famiglie patrizie, ove sono già
penetrati il fas ed il ius, ed hanno escluso, almeno nei rapporti fra i capi
famiglia, l'uso di farsi ragione colla forza e l'esercizio della pignorazione
privata. Così pure è naturale, perchè conforme alle condizioni della plebe, che
in essa ancora si rinvengano le traccie della privata vendetta, del taglione,
come pena di colui che ha recato un danno, della composizione a danaro per un
furto sofferto, e perfino anche per un adulterio;perchè queste sono tutte
istituzioni, che sono consentanee col modo di agire e di pensare di una
comunanza plebea, mentre ri pugnerebbero all'organizzazione gerarchica e di
carattere religioso, che era così fermamente stabilita presso il patriziato. La
plebe L'origine plebea dell'actio
sacramento è esclusa dal carattere religioso inerente alla medesima ed anche
dalla circostanza, che noi la troviamo comune alle genti italiche ed elleniche,
come lo dimostra la descrizione, che ne troviamo in OMERO, Iliade, Canto XVIII,
ove descrive lo scudo di Achille, il che può indurre a credere, che essa fosse
già importata dall'Oriente. Quanto alla manus iniectio, essa poteva esistere
fra la plebe, come esercizio privato delle proprie ragioni; ma non poteva avere
la significazione giuridica, che vi attribuì il patriziato. In questo senso
ritengo, che la manus iniectio fosse una procedura usata dai padri contro i
debitori plebei, il che cercherò di provare nel capitolo seguente. Questa varia concezione del delitto presso
ceti di persone, che erano in con dizioni sociali compiutamente diverse, può
essere facilmente compresa. Il patrizio sente di far parte di una corporazione
religiosa e civile ad un tempo, e quindi può scorgere nel delitto un'offesa al
costume dei maggiori, una violazione del fas, ed un danno alla comunanza: non
così il plebeo, che è ancora soltanto un individuo, o un capo di famiglia,
pressochè isolato in una comunanza in via di formazione. È quindi naturale, che
egli nel delitto senta sopratutto il danno materiale che gliene deriva, che
consideri la noxa (colpa ) come una noxia (danno): che quindi reagisca contro
quel danno; ricorra al taglione; venga alla composizione a danaro; e così
riverberi in modo più schietto l'impressione, che dovette fare il delitto nelle
epoche primitive. Quegli vede già ogni cosa attraverso al gruppo di cui fa
parte, e quindi comincia 187 primitiva nel delitto sente sopratutto il danno e
reagisce contro di esso; mentre il patriziato già vi scorge un peccato contro
la divinità e già comincia a ravvisarvi un danno, che colpisce l'intiera comu
nanza. Tutte le istituzioni insomma, che non presuppongono una lunga
preparazione anteriore, che non hanno una storia nel passato, ma che trovano
direttamente la propria radice nelle tendenze naturali dell'uomo e nei bisogni
immediati di una comunanza, che è soltanto in via di formazione, e in cui entra
ad ogni istante un nuovo ele mento, che si viene aggregando, debbono essere
ritenute di origine plebea. Non chiedansi alla plebe nè i iura gentium colle
cerimonie solenni, da cui sono circondati, né le procedure, che contengono una
storia del passato, nè gli auspicia, che ad ogni atto pubblico e pri vato
imprimono un carattere religioso;ma solo chiedasi ad essa il senso di quel ius
naturale, quod natura omnia animalia docuit. Sarà anzi questo connubio di un
elemento onusto di tradizioni con un altro vergine di esse, che potrà rendere
possibile la formazione di un di ritto, che finirà per dar forma giuridica a
tutta l'immensa suppel lettile dei rapporti derivanti dalla civil convivenza.
Come quindi esistevano, fin dagli inizii di Roma le traccie del ius gentium;
cosi vi erano anche quelle del ius naturale, non come idea filosofica, pre
sente alla mente di un giureconsulto, ma come un complesso di forze e di
energie inerenti all'umana natura, che spingevano una comu nanza in via di
formazione a provvedere a tutti i bisogni e a tutte le esigenze, che si
venivano presentando. Per talmodo ciò che più tardi verrà ad essere nozione
astratta, negli inizii è forza ed energia, che spinge, come direbbe il Vico,
l'uomo ad celebrandam suam so cialem naturam. Basta questo per dimostrare, come
anche negli usi della plebe potesse esistere un materiale greggio, che potè a
poco a poco ricevere forma giuridica nel diritto quiritario. Per tal modo certe
istituzioni, che compariscono solo più tardi, poterono già esi stere, come usi,
da un'epoca ben più antica. Cid serve intanto a spiegare come nel diritto
quiritario non trovisi dapprima una quan tità di atti e di negozii, senza cui
sarebbe stato impossibile ogni com già a scorgere nel delitto un'offesa
collettiva; mentre questi non sente ancora che il danno privato, che possa
derivargliene. È questa la ragione, per cui i delitti nel diritto quiritario si
presentano dapprima col carattere di offese private, e solo a poco a poco si
convertono in delitti pubblici. Cfr. Voigt, Die XII Tafeln, I, 434. 188 mercio
per un popolo, le cui istituzioni giuridiche e politiche già dimostrano assai
progredito. Qui intanto, per non spingere questa ricostruzione a particolari
troppo minuti, arresterò l'attenzione alle due istituzioni fondamentali del
diritto privato, che sono la famiglia e la proprietà. Se noi consideriamo la
plebe riguardo all'organizzazione della famiglia, quale è giudicata dai
patrizii, noi troviamo che essa non ha le iustae nuptiae,madei semplici
matrimonia, quasi ad in dicare che i plebei potevano bensi indicare le loro
madri, ma non potevano indicare con certezza i loro padri. Al qual proposito si
deve ammettere col Muirhead, che, trattandosi di persone, alcune delle quali
erano di origine servile, potesse anche esistere una certa qual rilassatezza
nelle unioni matrimoniali dell'infima plebe. Non sembra tuttavia, che la
congettura possa spingersi fino al punto, a cui la spinge il Bachofen, secondo
il quale, fra gli elementi che entra vano a costituire la plebe, avrebbero
dovuto esservene di quelli (e sarebbero quelli di origine etrusca, abitanti nel
vicus Tuscus) i quali avrebbero solo conosciuta la parentela dal lato delle
femmine, e si sarebbero cosi trovati nella condizione del matriarcato. Senza
affermare, nè negare il fatto, perchè mancano gli elementi per decidere, credo
pero didovere osservare che, quando questo fosse stato, ne sarebbero rimaste
maggiori traccie ed indizii. Il vocabolo dima trimonia per sè significa
soltanto, che la plebe riconosceva la pa rentela dal lato di madre, ossia la
cognazione, mentre l'organizza zione della famiglia patrizia fondavasi
esclusivamente sul vincolo dell'agnazione. Quindi quello solo, che noi possiamo
affermare con certezza, si è che nella plebe primitiva quanto che serve talora
ad indicare leesisteva una famiglia, costi tuita sulle sue basi naturali, cioè
fondata sulla cognazione e sulla affinità. Ed è anche facile trovare la ragione
di questo fatto, la quale consiste in questo, che la famiglia plebea, appunto
perchè non era ancora entrata a far parte dell'organizzazione gentilizia, cosi
non aveva ancora potuto subire quell'artificiale ordinamento, che veniva ad essere
necessario per una famiglia, che doveva servire di convivenza domestica e
politica ad un tempo. Era quindi naturale, che la plebe, non avendo
l'organizzazione gentilizia fondata sull'a [Cfr. Muirhead, Histor. Introd., e
il Bachofen, Das Mutterrecht Stuttgart] gnazione, cercasse modo di rafforzarsi
mediante vincoli più natu rali e più facili a comprendersi, quali sono appunto
quelli della co gnazione e dell'affinità. Non è quindi il caso di contrapporre
alla famiglia patriarcale una famiglia matriarcale; ma solo di dire, che la
plebe, non avendo la famiglia fondata sull'agnazione, aveva in vece quella
fondata sulla cognazione, in quanto che quella potrà aver valore per le genti
dalle antiche tradizioni, mentre questa pud essere capita e sentita da chicchessia.
Qui però si potrebbe opporre che, così essendo, male si com prende come nel
diritto quiritario a vece della famiglia, fondata sul vincolo del sangue, che
certo dal nostro punto di vista avrebbe do vuto essere preferita, abbia invece
avuta prevalenza la famiglia, fon data sull’agnazione, e come solo più tardi la
cognazione sia riuscita a correggere almeno in parte la famiglia primitiva
romana. Cid tuttavia può essere facilmente compreso, quando si consideri, che
la città, in cui trattavasi di entrare, era stata fondata dai patrizii; che
questi erano i forti ed i ricchi, mentre i plebei erano, almeno negli esordii,
i deboli ed i poveri; che quelli avevano una posizione di diritto, e che questi
erano solo tollerati per la loro posizione di fatto. Era quindi naturale,
necessario, che la plebe, sopratutto quando fu for temente compenetrata
dall'elemento latino, la cui organizzazione domestica era analoga a quella
delle genti patrizie, si sforzasse di imitare anche in questa parte il
patriziato, e che anzi col tempo le famiglie plebee, che erano pervenute al ius
imaginum, si sforzassero di imi tare perfino l'organizzazione per gentes in
un'epoca, in cui essa åveva già certamente perduto della propria importanza.
Del resto è incontrastabile, che di questo fondamento cognatizio della famiglia
plebea rimasero delle traccie nella legislazione pri mitiva di Roma, sopratutto
in quelle istituzioni domestiche, che dovettero probabilmente essere di origine
plebea. Così, ad esempio, è notabile che la legislazione decemvirale, mentre
assegna la suc cessione legittima e la tutela legittima agli agnati, lascia
invece al gruppo dei cognati e degli affini (cognati et adfines ) il diritto ed
il dovere di proseguire e porre in accusa l'uccisore di un parente, quello di
appellare da una sentenza capitale pronunziata contro un congiunto:
disposizioni, che possono considerarsi come sopravvivenze e quasi accenni di
vendetta privata, la quale, come si è visto sopra, sussisteva sopratutto in
seno alla plebe. Insomma la conclusione ultima sarebbe questa, che Roma, fin
dai suoi esordii, non ignorò la famiglia fondata sulla cognazione e la
possedette anzi sotto la umile apparenza di un'istituzione plebea; che tuttavia
questa famiglia naturale, nel periodo di formazione del di ritto civile di
Roma, fu in certo modo soverchiata dalla famiglia agnatizia, propria del
patriziato; e solo riusci di nuovo più tardi, comemolte altre istituzioni, a
rientrare in modo indiretto nella cer chia del diritto romano, sotto la
protezione del pretore e del diritto delle genti. Nè questa è conseguenza di
poca importanza, perchè colla famiglia si connette tutto il sistema della
successione e della tutela legittima, le quali perciò penetrarono eziandio
coll'organizza zione gentilizia della famiglia nel diritto quiritario. Cid
intanto spiega eziandio, come in via di reazione nello stesso diritto
quiritario abbia preso così largo svolgimento l'istituzione del testamento,
perchè questo era il solo mezzo per sottrarsi alle conseguenze di un sistema di
successione legittima, ispirato ancora al concetto di serbare in tegro il
patrimonio nelle gentes; sistema, che una piccola minoranza di genti patrizie
era riuscita ad imporre ad un numero assai mag giore di famiglie, e che col
tempo, col dissolversi della organizza zione gentilizia, fini per divenire
grave allo stesso patriziato. 154. Per quello poi, che si riferisce alle
condizioni economiche della plebe, è assai probabile che la medesima, prima di
giungere ad una vera proprietà di diritto, abbia cominciato dall'occupare di
fatto quella parte di suolo, sovra cui i plebei venivano a stabilirsi nelle
vicinanze di Roma insieme colla propria famiglia. Dapprima queste possessioni
figuravano, od erano in effetto assegni loro fatti o dai padri o dal re come
loro patroni, od erano anche terreni incolti, sovra cui si arrestava la
famiglia plebea, per fondarvi il proprio tugurium e dissodarvi attorno un
piccolo ager. Questo stato primitivo di cose può essere indotto da alcuni passi
di Festo, che si riferiscono a questi primitivi possessi ed all'occu pazione di
agri, che, per mancanza di coltivatori, fossero stati ab bandonati. Egli
infatti scrive: Possessiones appellantur agri late patentes, publici privatique,
quia non mancipatione sed usu Cfr.
MUIRHEAD, Histor. Introd., tenebantur, et ut quisque occupaverat, colebat. Qui
infatti è evidente, che non si parla solo di possessioni nell'agro pubblico, ma
anche di possessioni di carattere privato, e furono queste, che do vettero
appunto essere le prime possessioni della plebe. Ciò è pure confermato dallo
stesso Festo, ove scrive: occupaticius ager di citur, qui desertus a cultoribus
frequentari propriis, ab aliis occupatur , indicando cosi l'esistenza di una
consuetudine, per cui, se l'agro era abbandonato dai suoi cultori, ne
sottentravano degli altri. Del resto che le possessioni dovessero acquistarsi
in questo modo, in seno alle comunanze plebee, lo dimostra l'importanza, che
presso di esse acquistò l'usus auctoritas. Tale importanza appare dal fatto,
che secondo le leggi decemvirali bastava il possesso di un anno per l'acquisto
delle cose mobili e quello di due anni per quello delle immobili; disposizione
questa, che dovette uscire dagli usi proprii della plebe. Mentre infatti,
presso le genti patrizie, tutto era governato dal mos e dal fas; in una
comunanza plebea, che era soltanto nella propria formazione, non poteva esservi
altra autorità, che quella dell'usus, e doveva apparire proprietario quegli,
che in effetto usucapiva la cosa od il fondo, del quale si trattava. La pro
prietà non poteva ancora in questa condizione di cose distinguersi affatto dal
possesso, e quindi si comprende che il giureconsulto più tardi ancora dicesse:
dominium rerum ex naturali possessione cae pisse, Nerva filius ait; eiusque rei
vestigium remanere de his, quae terra, mari, coeloque capiuntur; nam haec
protinus eorum fiunt, qui primi possessionem eorum apprehenderint. Si com
prende parimenti, comein una comunanza di questa natura, che dap principio era
costituita da una massa mobile ed eterogenea, dovesse ri. tenersi sufficiente
il breve termine di un anno per l'usucapione delle cose mobili, e di due anni
per l'usucapione di quelle immobili; e cið nell'intento di poter trasformare
con celerità lo stato di fatto in stato di diritto, il possesso in proprietà.
Se in una comunanza già formata importa di allungare il termine
dell'usucapione, acciò essa non serva come mezzo per usurpare il diritto
esistente; in una co V. Festo, v°
Possessiones (Bruns, Fontes, 354): la qual definizione è ri portata tal quale
anche da Isidoro (BRUNs). Festo, Occupaticius. Di qui già il RUDDORF ebbe ad
indurre che l'ager occupatorius non doveva confondersi coll'ager occupaticius
(Bruns, Fontes, 348, nota 6). Vedi per l'opinione contraria Karlowa, Röm. R. G.;
Paulus, L. 1, 1, Dig.] munanza invece,
la quale sia in via di formazione e attragga in sé nuovi elementi, importa di
abbreviare il termine di tale usuca pione, acciò lo stato di fatto mutisi al
più presto in uno stato di diritto. Con tale sistema una famiglia plebea,
quando fermava il piede sopra un suolo incolto od abbandonato (possessio, da
pedum quasi positio) aveva appena tempo a metterlo in coltivazione, che già ne
diventava proprietaria ex iure quiritium, e intanto, appena un posto rimaneva
vacante, veniva ad esservi quello, che lo occu pava, e dopo breve tempo era
considerato ancor esso come legittimo proprietario. Certo non poteva esservi un
migliore sistema per po polare immediatamente il territorio circostante a Roma,
e per popo larlo di famiglie che, affezionandosi al suolo, finissero per
prendere interesse alla grandezza e all'avvenire di quella città patrizia,
sotto la cui protezione e tutela la plebe aveva potuto diventare anch'essa
proprietaria del suolo . Ciò però non dovette accadere di un tratto; ma solo a
misura che i commerci fra Roma patrizia e la popola zione circostante
conducevano alla formazione di un comune diritto. 155. Fu quindi solo col
tempo, che queste possessioni, tollerate dai padri, od anche dai medesimi o dal
re assegnate ai plebei a titolo di precario, poterono cambiarsi in una specie
di proprietà di fatto più che di diritto, sovra cui essi vivevano colla propria
famiglia. Intanto questo piccolo podere coi frutti, che se ne potevano ricavare
e che portavansi al mercato, porgeva anche alla plebe occasione di entrare in
commercio col patriziato. Si comprende quindi, che quando le cose furono a tal
punto, che i re sentirono la conve nienza di aggregare la plebe alla
cittadinanza romana, anche per afforzare l'esercito della città patrizia,
dovesse sorgere naturalmente l'idea, attuata poi da Servio Tullio, di
ammetterli alla comunanza, in quanto erano capi di famiglia, e avevano uno
spazio di terra, sovra cui potevano vivere colla propria famiglia. Siccome poi
la plebe non conosceva altra proprietà, che la privata, o meglio quella, che
ap Trovo in Gellio, Noc. Att., XVI, 11
un passo, che dimostra come i Romani comprendessero l'importanza, che aveva la
proprietà per interessare la plebe alle sorti della Repubblica: Sed quoniam res pecuniaque familiaris obsidis
vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque in patriam, fides
quaedam in ea, firmamentumque erat . Fu questo, aggiunge Gellio, il motivo, per
cui i prole tarii, e i capite censi, solo tardi e quando non se ne potè fare a
meno, furono chia inati a far parte dell'esercito. 193 partiene al capo di
famiglia, non aveva agro gentilizio, e non doveva neppure dapprima essere
ammessa ad immettere i proprii greggi nell'ager compascuus della tribù, al modo
stesso che più tardi non fu ammessa all'occupazione dell'ager publicus, la
quale occupazione dapprima ritenevasi come un privilegio dell'ordine pa trizio;
cosi ne derivò la conseguenza, che l'unica proprietà, che poteva essere
riguardata come posta a base della comunanza patrizio-plebea, perchè era la
sola, che fosse comune ai due or dini, era la proprietà privata. Cid può
servire a spiegare il fatto, che da Servio Tullio in poi quasi più non si
discorre degli agri gentilicii, che pur continuavano sempre ad appartenere alle
genti: ma solo più dell'ager privatus, delmancipium, dei praedia censui
censendo, e dell'ager publicus. Questi sono l'unica proprietà della plebe;
mentre l'occupazione dell'agro pubblico è una gran sor gente della ricchezza
del patriziato. Quindi si comprende l'affetto tenace, con cui la plebe si
attacca alla propria terra, il suo sotto porsi al duro vincolo del nexum,
piuttosto che alienarla, e la lotta, che essa sostiene per ottenere quelle
ripartizioni dell'ager publicus, che le porgevano mezzo di entrare nella vera
cittadinanza di Roma. Intanto siccome questa proprietà e il commercio, che
derivava da essa, erano gli unici diritti, che la plebe avesse comuni col patri
ziato: così viene eziandio a spiegarsi, come gli atti tutti del primitivo
diritto quiritario assumano un carattere essenzialmente mercantile, e siano
tutti fatti entrare forzatamente sotto le figure del nexum e del mancipium,
come meglio apparirà più tardi. Dalle cose premesse si può raccogliere la
conclusione se guente, quanto ai rapporti, che intercedono fra il patriziato e
la plebe negli esordii della comunanza romana. Per quanto debba ri tenersi, che
il primo nucleo della plebe siasi costituito mediante ele menti,che si vennero
staccando dalla stessa organizzazione gentilizia, perchè più non potevano
essere compresi nei quadri della medesima; tuttavia la plebe, avendo richiamati
a sè tutti coloro, che si trovarono spostati nell'anteriore organizzazione,
crebbe per modo in numero ed importanza da costituire di fronte alla città
patrizia una vera e propria comunanza plebea, che doveva di necessità essere
presa in considerazione. Siccome tuttavia la plebe è fuori di quella organiz
zazione, che è l'unica riconosciuta dal patriziato; così essa viene dapprima ad
essere lasciata a se stessa ed è considerata come una moltitudine ed una folla,
la quale ha bensì una esistenza, C. Le origini del diritto di Roma.] di fatto,
ma che è priva di qualsiasi posizione giuridica di fronte al patriziato. Di qui
il dualismo fra i due ordini, che, nato già nella tribù, viene a costituire il
gran dramma della comunanza civile e politica. In questa infatti son chiamati a
convivere due elementi: di cui uno ha una posizione di diritto, ha la città, ha
gli auspicii, le magistrature, gli onori; mentre l'altro non ha che una
posizione di fatto, più tollerata che riconosciuta, e non può fare as
segnamento, che su quello spazio di terra, sovra cui si è stabilito colle
proprie famiglie, ed è solo poggiandosisopra di esso, che potrà entrare a fare
parte della comunanza. Per quello poi, che si riferisce alle loro istituzioni
religiose, giu ridiche e politiche, non corre una minore differenza fra i due
or dini. Mentre il patriziato è nei vincoli delle tradizioni e del culto dei
suoi antenati, dei concetti, che forse ha recati dallo stesso Oriente, e
trovasi fra le strette dell'organizzazione gentilizia, che dopo aver fatta la
sua forza, comincia ora ad impedirne il naturale sviluppo e a cambiarlo in
un'aristocrazia chiusa in se stessa; la plebe invece ha l'inconveniente, ma al
tempo stesso il vantaggio di en trare nella vita politica, senza la memoria dei
maggiori ed il culto di essi, senza essere vincolata dalle proprie tradizioni,
e trovasi cosi in condizione di ubbidire al proprio interesse, alle proprie esi
genze, ai bisogni e alle necessità della nuova organizzazione so ciale. A ciò
si aggiunge, secondo la profonda osservazione del Kar lowa, che nell'uomo della
plebe per la prima volta compare la nozione per cui l'uomo libero, sciolto da
ogni vincolo sociale e gen tilizio, deve essere riguardato come persona, ossia
come capace di diritto e di obbligazioni; per guisa che anche il maggior
concetto, a cui abbia saputo elevarsi il diritto romano, che è quello di rico
noscere l'uomo libero come capace di diritto, ebbe in parte a svol gersi sotto
l'influenza dell'elemento plebeo. 157. Per tal modo Roma si trovò di fronte al
problema di far convivere nelle stesse mura, e di sottoporre all'impero
delmedesimo KARLOWA, Römische
Rechtsgeschichte, I, 64. L'autore, che ebbe giusta mente a notare che il più
alto concetto, a cui giunse il diritto privato di Roma, è quello che l'uomo
libero, come tale, sia capace di diritto, è il compianto Bruns, Geschichte und
Quellen des römisches Recht's, $ 3, in HoltZENDORFF's, Encyclo pädie, I, 105,
4.ed. — È da vedersi in proposito il Brugi, Le cause intrinseche della
universalità del dir. rom., Prol., Palermo, 1886. 195 diritto due ordini, di
cui uno era ricco di tradizioni e stretto nei vincoli del passato, mentre
l'altro, per le speciali sue condizioni di fatto, non aveva per sè che il
presente e sopratutto l'avvenire. Il problema per la plebe era quello di mutare
la sua posizione di fatto in una posizione di diritto, e per il patriziato
quello di dare alla plebe un diritto e di farla entrare nei quadri della sua
città, senza comunicarle che gradatamente quel fascio di tradizioni reli giose,
giuridiche e morali, di cui esso era gelosissimo conservatore. Certo il
problema era di difficile risoluzione, ma la logica giuri dica di Roma seppe
risolverlo in un modo, che può veramente dirsi meraviglioso. La conseguenza
venne ad essere questa, che il di ritto, che venne formandosi in Roma, si
presenta antico sotto un aspetto e nuovo sotto un altro. È antico nei concetti,
nelle forme, nei vocaboli stessi, che già tutti esistevano precedentemente ed
erano stati elaborati dal patriziato nel periodo dell'organizzazione genti
lizia; ma è nuovo in quanto che nelle forme antiche penetra uno spirito nuovo e
si fa entrare tutta una nuova vita civile e poli tica, che più non poteva
essere contenuta nei quadri dell'organiz zazione gentilizia. Nella formazione
di questo diritto tutto ciò che è di forme solenni, di concetti già elaborati,
di istituzioni aventi carat tere religioso e morale, viene ad essere di origine
patrizia; mentre tutto ciò, che trova origine nel semplice usus, nella semplice
pos sessio, nel fatto più che nel diritto, e non è avvolto ancora in forme
solenni e tradizionali, deve ritenersi piuttosto di origine plebea. La distanza
stessa poi, a cui trovavansi i due elementi, che dovevano entrare a far parte
della medesima città, obbliga il diritto quiritario a prendere le mosse nella
propria formazione dai concetti elemen tari della proprietà e della famiglia,
che erano i soli, che fossero comuni ai due ordini, per venire poi
all'elaborazione lenta e graduata di tutti gli altri istituti giuridici. Per
tal modo nella formazione del diritto pubblico e privato di Roma noi abbiamo un
nucleo co piosissimo di tradizioni, di concetti e di vocaboli, già preparati in
un periodo anteriore, che viene in certo modo a fondersi nel cro giuolo della
comunanza civile e politica, per guisa che, precipitando e cristallizzando
lentamente e gradatamente, finisce per dare origine ad un diritto, del quale si
può dire con ragione, che si è formato rebus ipsis dictantibus et necessitate
exigente. Solo resta a spiegare, come in questa condizione di cose siasi de.
terminata la prima formazione del diritto quiritario nello stretto senso, che
suol essere attribuito a questo vocabolo. Non può certamente negarsi, anche da
uno schietto ammi ratore della logica, che ha governata la formazione e lo
svolgimento del diritto privato di Roma, che esso nei proprii esordii
presentasi con un carattere di rozzezza e di violenza, che desta un'impressione
sfavorevole e pressochè di ripugnanza, e spiega anche l'affermazione di coloro,
che ebbero a considerarlo, come l'opera esclusiva della forza. Tale impressione
è prodotta specialmente da certi vocaboli e concetti, che occorrono nel
primitivo jus quiritium: vocaboli, che portano con sè l'impronta della forza e
della violenza. Fra questi vocaboli non deve essere annoverato quello di manus,
che nel di ritto quiritario significò il potere spettante al capo di famiglia
sulle persone e sulle cose, che da esso dipendono, in quanto che questo
vocabolo se da una parte indica la forza e la potenza, che si impone;
dall'altra può anche significare la protezione e la difesa, che la manus
accorda a tutti coloro, che da essa dipendono. Si aggiunge, che questo vocabolo
di manus o qualche altro, che corrisponda al me desimo, sembra essere stato
adoperato nella stessa significazione dalle altre stirpi di origine ariana.
Sonvi invece nel primitivo ius quiritium altri vocaboli, come quelli di
mancipium, di nexum, di manus iniectio, che non solo si ispirano al concetto
della forza, [ È abbastanza noto in proposito che alla manus del capo di
famiglia romano corrisponde anche nella sua significazione materiale il mund ed
il mundium del capo di famiglia germanico; il che però non toglie che i due
istituti abbiano rice vuto un diverso svolgimento presso i due popoli,
sopratutto per ciò che si riferisce al potere del padre sui figli. V. in proposito: VIOLLET, Histoire du droit français, Paris, cogli autori
citati a 447. Del
resto fra il primitivo diritto romano e il primitivo diritto germanico vi hanno
ben altre istituzioni, che si corrispondono, e fra le altre potrebbesi forse
fare un interessante raffronto fra il ius applicationis dei Romani, e il
comitatus e la commendatio presso i popoli Germanici. 197 ma, applicandosi
anche alle persone, sembrano recare con sè l'idea di soggezione e di dipendenza
di una persona da un'altra. È quindi assai difficile a spiegarsi, come mai dal
mos e dal fas delle genti patrizie, e dall'usus, che veniva formandosi nel seno
della plebe, abbiano potuto scaturire concetti di questa natura, a cui manca
non solo quell’aureola religiosa, da cui sono circondate le istituzioni
gentilizie, ma perfino quel carattere di fiera indipendenza, che con
traddistingue le istituzioni primitive dei popoli italici. 159. Ritengo
tuttavia, che questa apparente contraddizione fra questi concetti del primitivo
ius quiritium e gli elementi, che avreb bero contribuito alla sua formazione,
possa essere spiegata, quando si ammetta la congettura, a cui ho accennato più
sopra parlando dell'actio sacramento e della manus iniectio, e sulla quale
importa qui di insistere più lungamente. La congettura sta in questo, che nelle
istituzioni del diritto quiritario vene hanno alcune, che si erano formate nei
rapporti fra i capi delle famiglie patrizie, e perciò nel seno stesso delle
genti e delle tribù; ma ve ne hanno eziandio delle altre, le quali dovettero
invece formarsi ed assumere un contenuto preciso nelle lotte e nei conflitti
fra la classe dei vincitori e quella dei vinti. Il ius quiritium primitivo non
governo solo rapporti fra capi di famiglia uguali fra di loro e appartenenti
alla stessa tribù; ma dovette eziandio reggere i rapporti fra le genti
organizzate nella tribù e la moltitudine e la folla, per la maggior parte di
origine servile, che ancora circondava i primitivi stabilimenti patrizii.
Quindi se era naturale, che la prima parte del ius quiritium portasse le
traccie della fiera indipendenza di quei capi di famiglia, dei quali nemo
servitutem servivit; la seconda invece doveva portare quelle della soggezione,
a cui era ridotta la classe inferiore. Non può cer. tamente presumersi, che
questi due ordini di persone potessero en trare in rapporti giuridici fra di
loro, sopra un piede di assoluta eguaglianza. Quindi mi sembra naturale, che il
primitivo ius qui ritium, a somiglianza del diritto feudale, che ebbe poi a
formarsi in una condizione di cose non dissimile da questa, debba in qualche
parte portare le traccie della superiorità, che si attribuivano i vincitori, i
conquistatori, i primi organizzatori di una convivenza sociale, e
dell'abbiezione invece, a cui erano ridotti i vinti, i con quistati e quelli,
che, non essendo ancora pervenuti ad una organize zazione sociale,
abbisognavano perciò di protezione e di difesa. Questo è certo che anche più
tardi noi troviamo una disu guaglianza di condizione giuridica fra Roma e le
popolazioni, da cui essa è circondata; come lo dimostra ancora l'accenno, che
più tardi è fatto dalla legislazione decemvirale dei forcti ac sanates, ai
quali, secondo Festo, sarebbe stato accordato unicamente il ius nesi man
cipiique. Da questo peculiare rapporto giuridico, che intercede fra Roma e le
popolazioni circostanti, mi sembra di poter dedurre con fondamento, che quel
nexum e quel mancipium, che poscia vennero a significare dei rapporti privati
fra i cittadini, abbiano potuto un tempo indicare dei rapporti, che correvano
fra le genti patrizie e le popolazioni di diritto inferiore e pressochè
vassalle, che abitavano nel territorio circostante a Roma. Che anzi qui mi pare
opportuno di dare svolgimento ad un concetto, che fino ad ora potè solo essere
accennato, ma non svolto. Il medesimo consiste in ritenere, che la condizione
primitiva della plebe, di fronte alla città patrizia, dovette essere analoga a
quella, in cui ci vengono descritti posteriormente i forcti ac sanates, in base
alla legislazione decem virale. È un magistero eminentemente romano quello di
seguire sempre il medesimo processo, allorchè si avverano le stesse condizioni
di fatto. Ora non è dubbio, che la plebe in Roma primitiva era costituita da
popolazioni circostanti, superiori ed inferiori a Roma, in condi zioni quasi
del tutto simili a quelle, in cui Festo ci descrive essersi poscia trovati i
forcti ac sanates. È quindi naturale e del tutto pro babile, che Roma abbia
fatto dapprincipio alle popolazioni, che lo erano più vicine, e che
costituivano così la prima plebe, la posizione stessa, che fece poi ai forcti
ac sanates; che cioè abbia loro rico nosciuto dapprima il ius nexi mancipiique,
il diritto cioè di obbli garsi, di acquistare e di trasferire la proprietà nei
modi riconosciuti dal suo stesso diritto. Ciò era necessità, perchè fossero
possibili i commercii fra patriziato e plebe; e intanto spiega eziandio, come i
primi concetti, che compariscano nel diritto quiritario, comune ai due ordini,
siano appunto quelli del nexum e delmancipium, i quali perciò, al pari di
quello del commercium, al quale corrispondono, si svolsero dapprima fra
popolazioni diverse, e poi furono portati nei rap porti interni fra i membri di
una stessa città. Roma patrizia insomma avrebbe in questa parte usato il più
semplice dei processi. Dapprima avrebbe considerata la plebe come una
popolazione circostante alla città, con cui non poteva a meno di essere in
commercio, e perciò avrebbe accordato alla medesima quel ius nexi mancipiique,
che anche più tardi continuò ad accordare ai forcti ac sanates. Quando 199 -
poi la plebe fu anch'essa incorporata nella città, e coll'ampliamento delle
mura serviane una parte delle abitazioni dei plebei si trovò entro il recinto
dell'urbs, quel diritto, che prima governava i rap porti, che intercedevano fra
due popolazioni distinte, continud natu ralmente a governare i rapporti dei due
ordini, in quanto essi fa cevano parte della stessa comunanza; quello, che era
dapprima un diritto esterno, divento diritto interno, e fu il punto di partenza
dello svolgimento del ius quiritium. Certo questa non è che una congettura
fondata sul processo solitamente seguito dai Romani; ma fornisce una
spiegazione così naturale delle cose, e così conforme al metodo romano, che non
mi sembra temerità di aggiungerla alle altre, che già si escogitarono al
riguardo. Intanto, come ho già altrove avvertito , viene eziandio a
comprendersi il motivo, per cui questa speciale posizione giuridica dei forcti
ac sanates, poscia sia scomparsa per guisa da non sapersi più comprendere il
signifi cato della medesima, poichè col tempo anch'essi entrarono a far parte
della plebe romana, e quindi mancò ogni ragione per serbare loro questa
peculiare condizione giuridica. et neaco (Il solo passo, che a noi pervenne
intorno ai forcti ac sanates, è di Festo, ed il medesimo è ancora in tale
stato, che fu assaidifficile la ricostruzione di esso. L'OFFMANN, Das Gesetz d. XII Tafeln von den Forcten und Sanaten. Vienna,
1866, ritiene che il passo delle XII Tavole, a cui Festo accenna, vº Sanates
(Bruns, Fontes, 664), fosse così concepito: mancipatoque ac forcti sanatique
idem iuris esto . Questa lezione stata adottata dal LANGE, Hist. intér. de
Rome, I, 171, fu respinta dal MOMMSEN, sulla conside razione che qui trattavasi
di determinare la condizione dei forcti ac sanates in sè considerati, e non di
metterli a comparazione coi nexi ac mancipati, dei quali non si saprebbe poi
dire, quale potesse essere la speciale posizione giuridica. Il Voigt, Die XII
Tafeln, I,pag. 273 e 733, Tab. XI,6, ricostruirebbe invece la legge in questa
guisa: e nexum mancipiumque, idem quod Quiritium, forcti sanatisque supra infra
que urbem esto ; ma non pare che sia nell' indole della legge decemvirale di en
trare in particolari così minuti. Parmi quindi di adottare piuttosto il testo
della legge, quale sarebbe accettato dal MOMMSEN; ~ Nexi mancipiique forcti
sanatesque idem iuris esto ; il che significherebbe in sostanza ciò, che pure
dice il Voigt, che cioè i forcti ac sanates possono obbligarsi e trasferire il
proprio mancipium nel modo riconosciuto dal diritto quiritario, cosicchè
verrebbe ad essere probabile, che la loro posizione fosse precisamente quella
della plebs, allorchè era già ammessa in questi confini al commercium,ma non
aveva ancora il connubium. Quanto alle varie lezioni proposte è da vedersi il
Mommsen nella nota al Bruns, Fontes; ed anche il MUIRHEAD, Histor. Introd., 111,
nota 12, ove proporrebbe la se guente ricostruzione: nexum mancipiumque forcti sanatisque idem
esto ; pure avrebbe la medesima significazione. Non conosco però che altri
abbia cercato di. la quale 200 161. Del resto, checchè si possa dire di questa
induzione, questo deve certo essere ammesso, che il ius quiritium, il quale,
sebbene comparisca con Roma, pud tuttavia avere le sue radici, in epoca di gran
lunga anteriore, almeno in parte si formò in un periodo di lotta e di violenza
fra gruppi e ceti di persone, che si trovavano in condi zione affatto diversa,
in quanto che alcuni di tali gruppi e ceti già erano pervenuti alla formazione
di consorzii civili ed umani: mentre gli altri ancora vivevano in uno stato di
promiscuità e confusione, che le genti patrizie riputavano nefario. Non può
quindi essere mera viglia, se alcuni dei resti, che giunsero fino a noi,
portino ancora i segnidelle lotte e dei conflitti, che vi furono fra vincitori
e vinti, non che della soggezione e della dipendenza, in cui erano le classi
inferiori. Al modo stesso, che i ruderi delle costruzioni primitive di
mostrano, colla rozzezza e coll'enormità delle loro proporzioni, quali edifizii
in quell'epoca fossero necessarii per ripararsi contro i cataclismi del suolo:
così i resti, che ancora ci rimangono del primitivo ius qui ritium, in questi
vocaboli, che sono sopravvissuti ai tempi, in cui si sono formati, dimostrano
quali specie di vincoli si potessero richiedere per richiamare da una
condizione pressochè nefaria, per usare l’es pressione del Vico, le moltitudini
e le folle ad celebrandam suam socialem naturam. Gli uomini in questa epoca
dovettero sentire l'impotenza loro di fronte ai terrori della sconvolta natura,
ai pe ricoli delle fiere, e agli scontri continui con genti di origine stra
niera, e quindi non poterono preoccuparsi tanto della loro libertà, quanto
sentire il bisogno di ripararsi sotto la protezione di quelle genti, che prime
erano riuscite ad organizzarsi e a fortificarsi sotto il potere dei loro capi.
Cid spiega come l'antico vocabolo di
iobi lare abbia potuto
significare il gridare salvezza per l'aperta campagna e come i deboli fossero
nella necessità di fare appello alla fede ed alla protezione dei forti, e
disposti ad accettare la posizione portata dal mancipium e dal nexum, pur di
averne la protezione e la difesa. Non era perciò un diritto mite ed umano e
pieno di grada zioni delicate e sottili, che poteva nascere in questi inizii
dell'organiz zazione sociale, sopratutto nei rapporti fra classi, di cui una
era su periore e l'altra inferiore; ma bensi un diritto rozzo e violento, che
risentisse in certo modo della lotta, da cui esso usciva, e che da una inferire
da questa disposizione la condizione giuridica primitiva, in cui si trovò la
plebe di fronte alla città patrizia. - 201 parte avesse l'impronta della
superiorità dei vincitori e dei forti e dall'altra dell'abbiezione, a cui erano
ridotti i vinti ed i deboli. 162. Si comprende quindi come in questo periodo,
la manus, armata di lancia, pronta da una parte ad atterrare il nemico, a
seguirlo fuggi tivo e a farlo prigioniero di guerra, e dall'altra disposta a
difendere tutti i proprii dipendenti, potesse presentarsi come l'espressione
più, naturale e più energica ad un tempo per significare il potere giu. ridico,
che spetta al capo di una famiglia sopra tutte le persone, che da lui
dipendono, e per significare eziandio l'unità della famiglia nei rapporti
esteriori. Genti come le italiche, le quali, secondo l'at testazione di Servio,
avevano nella loro ingenua personificazione di tutte le energie proprie
dell'uomo dedicato ad un nume le varie parti del corpo, cioè l'orecchia alla
memoria, la fronte all'ingegno, la destra alla fede, le ginocchia alla pietà e
alla misericordia, perchè abbracciano le ginocchia coloro che implorano, non
avevano che ad applicare il medesimo processo per dedicare la manus ad espri
mere il potere unificatore della famiglia. Non era forse la manus che atterrava
il nemico e lo faceva prigioniero di guerra e che intanto proteggeva moglie,
figli, clienti e servi? Non era essa, che riuniva e stringeva la famiglia nella
sua compagine interna, e che serviva a renderla forte e compatta contro le
aggressioni esterne? Intanto però è evidente, che la manus, intesa in questo
significato, poteva solo spettare a quei capi di famiglia, che avevano serbata
intatta la loro autorità di diritto, perchè non erano mai stati sotto Buona parte di questi concetti trovasi
accennata qua e là dal Vico; na è avvolta in una forma fantastica, proveniente
dall'idea preconcetta di voler conside rare i Romani come i rappresentanti di
quell' epoca eroica, che, secondo le sue teorie, avrebbe susseguito quei
tempi,che egli chiama divini, e preceduto quelli, che egli chiama umani; idea,
che finì per condurlo a considerare come una leggenda tutta la storia primitiva
di Roma, fino alla prima guerra Cartaginese. Ciò però non impedisce che le sue
divinazioni, anche non essendo vere, se applicate a Roma sto rica, possano
contenere del vero, se riportate all'epoca veramente patriarcale ed eroica, che
avrebbe preceduta la fondazione di Roma. In proposito è da vedersi il MORIANI,
La filosofia del diritto nel pensiero dei Giureconsulti romani, Firenze, 1856, 14
e segg., ove parla dell'origine del diritto e dell'etimologia del vocabolo
ius. Servius, In Aen., 3, 607: Phisici dicunt esse consecratas singulis
numinibus singulas corporis partes: ut aurem Memoriae, frontem Genio, dexteram
Fidei, genda Misericordiae, unde haec tangunt rogantes. Iure pontificali, si
quis flamini genua fuisset amplexus, eum verberari non licebat.] posti a
servitù, e primi erano pervenuti a fondare una vera organiz zazione sociale. Il
concetto quindi di manus, in quanto è l'unificatore della famiglia e dà alla
medesima la compattezza necessaria per re spingere ogni aggressione, dovette
prima formarsi nei rapporti fra le famiglie, le genti e le classi diverse, che
non nei rapporti interni della famiglia; perchè la causa, che determino questo
irrigidirsi della famiglia, non fu interiore alla medesima, ma bensì esterna,
ossia la necessità di provvedere alla lotta per l'esistenza. Dal momento per
tanto, che il concetto di manus ha un'origine, che potrebbe chia marsi
pressochè esteriore ed internazionale, ne consegue eziandio, che nel conflitto
delle genti il concetto della manus, in quanto indica un potere, che non ebbe
giammai a soccombere sotto la schiavitù, non potè essere applicato che ai capi
delle famiglie patrizie, e non già alla folla e alla moltitudine, di cui erano
circondati gli stabili menti dei padri. Si comprende pertanto, come nel diritto
quiritario primitivo continuamente comparisca la manus, la quale è quella, che
lotta nella manuum consertio; che rivendica nella vindicatio; che trascina il
debitore nella manus iniectio; che distendendosi lascia in libertà lo schiavo
(manu emittit); che obbliga la propria fede nella dextrarum iunctio; e da
ultimo è anche quella, che afferrando il vinto, lo trasmuta in mancipium. Essa
quindi non ha soltanto una significazione relativa alla costituzione interna
della famiglia, ma dap prima ha sopratutto una significazione, quanto ai
rapporti esteriori in cui la famiglia può trovarsi, essendo la manus, che la
rende unita e compatta nel respingere ogni aggressione. Sarà solo più tardi, che
essa verrà a significare il complesso dei poteri giuridici, che ap partengono
ai quiriti, in quanto essi costituiscono una specie di ari stocrazia fra la
moltitudine e la folla, da cui sono circondati. Però almodo stesso, che la
manus in questa significazione è già il frutto di una specie di astrazione,
cosi deve pur dirsi del concetto del qui rite. Senza entrare nell'etimologia
della parola e senza discutere se la medesima venga da quiris lancia, o da
curia, come vorrebbe il Lange; questo è certo che in ogni caso il vocabolo di
quiriti non significa i membri delle genti patrizie individualmente
considerati; ma li indica in quanto appartengono ad uno stesso populus, che ora
ra dunasi nelle curie, ed ora costituisce un esercito. Come tali i qui riti
trovansi in una posizione privilegiata e quindi sono essi sol tanto, a cui
appartiene la manus, come simbolo del diritto quiritario; sono essi soli, che
abbiano le iustae nuptiae; che sappiano consultare gli Dei cogli auspizii; e
che partecipino direttamente al bene fizio delle istituzioni proprie della
città. Malgrado di ciò è improbabile, che nel periodo anteriore alla fondazione
della città, e in quello della città esclusivamente patrizia non intercedano
dei rapporti fra la classe dominante e quelle inferiori, da cui essa è
circondata. Sarebbe tuttavia a meravigliarsi, se in questi rapporti essi si
trattassero alla pari, e se le istituzioni, che dovettero nascere in questa
condizione di cose, non portassero le traccie della disuguaglianza di
condizione, in cui si trovavano le due classi. Il plebeo, che non ha una
posizione giuridica, e che quindi non può offrire garanzia di sorta al patrizio,
quando voglia entrare in rapporto con esso, non può avere altro mezzo che
quello di darsi a mancipio o divincolarsi col nexum, per guisa che, se esso non
paghi, possa essere ridotto alla condizione di mancipio, assoggettandosi cosi
alla manus iniectio. Di qui la conseguenza, che i durissimi concetti del
mancipium, del nexum, della manus iniectio, prima di diventare istituti proprii
del diritto quiritario, in cui presero poi una significazione speciale,
dovettero significare dei rapporti, che si stabilirono fra patriziato e plebe,
prima che entrassero a far parte della stessa comunanza; il che spiega appunto
quel carat tere di soggezione e di dipendenza di una persona ad un'altra, che è
loro inerente. Che anzi, siccome le origini di certi concetti primitivi debbono
talora cercarsi in un periodo anteriore a quello, in cui essi appari scono e
cominciano a prendere una forma determinata e precisa, cosi anche questa
significazione dei vocaboli di mancipium, di nexum, di manus iniectio non è
ancora quella assolutamente pri mitiva; ma conviene cercarne le origini nelle
lotte, che dovettero esistere in epoca più remota fra i vincitori ed i vinti,
fra i con quistatori ed i conquistati. In questa indagine non può esservi altra
luce fuori di quella, che viene dalla significazione diversa, che as sunsero i
vocaboli, di cui si tratta. NELLA POVERTÀ DEL LINGUAGGIO giuridico primitivo il
vocabolo mancipium assume significazioni molto diverse, che però riduconsi a
due essenziali; a quelle cioè per cui significa: - o ciò LANGE, Hist. inter. de Rome, I, 29. 204 che è
soggetto al potere del capo di famiglia – o il modo per trasfe rirlo di una ad
altra persona. Nel primo significato mancipium in dica anzitutto il prigioniero
di guerra, stato ridotto in schiavitù; poi indica eziandio tutto cid, che può
essere preso e assogettato colla manus: quidquid manu capi subdique
potest,uthomo, equus, ovis; infine indica eziandio, allorchè il diritto
quiritario è già formato, il complesso delle persone e delle cose, che
dipendono dalla manus del capo di famiglia. Questa serie di significazioni, che
si vengono sempre più estendendo, contengono in compendio la storia
dell'istituzione. Non può esservi dubbio, che il primo mancipium dovette essere
lo schiavo ed il vocabolo era anche acconcio ad esprimerlo, in quanto che
questo era stato veramente manu captum e poi ridotto in schia vitù; poscia
l'analogia lo fece estendere eziandio alle cose e persone, che erano
assoggettate in modo analogo al potere della persona, quali erano i cavalli e i
buoi, allorchè domati cominciavano a dipendere dalla mano dell'uomo; infine,
quando la manus prese la significazione traslata, per cui essa designa il
potere del capo di famiglia, tanto le persone, che le cose soggette al
medesimo, poterono essere indi cate col vocabolo di mancipium. Giunge però
tempo, in cui questo vocabolo sembra per la sua stessa origine essere disadatto
a signi ficare tanto le persone, che le cose soggette al capo di famiglia, ed
in allora esso scompare in questa significazione, ma continua ancora sempre a
mantenersi nella sua significazione primitiva, che era la vera; come lo
dimostrano le disposizionidell'editto degli edili curuli col titolo de
mancipiis vendundis, ove il vocabolo continua sempre a significare lo schiavo. Quanto
al tenore dell'Editto curule vedi Bruns, Fontes, 214. Non potrei ciò stante
ammettere la significazione, che il MUIRHEAD ebbe di recente a proporre per i vocaboli
di mancipium e di mancipatio, colla quale egli direbbe, che mancipium significa
eziandio il potere, ossia la padronanza del manceps, e che perciò debba
ritenersi come sinonimo di manus; donde egli deriva, che mancipare non
deriverebbe da manu capere, ma piuttosto da manum capere (Histor. Introd.).
Oltrecchè questa etimologia non servirebbe veramente a spiegar meglio la
significazione primitiva del vocabolo; parmi eziandio che contraddica all'uso,
che i giureconsulti fecero di questo vocabolo, attribuendo costantemente al
medesimo una significazione passiva, la quale indica piuttosto la soggezione di
una persona o di una cosa, che non il potere che appartiene sulla persona o
cosa soggetta. Noi ve diamo infatti, che mentre occorrono talvolta le
espressioni di habere manum, habere potestatem, habere dominium, i
giureconsulti invece non direbbero mai habere man cipium nel senso di
significare un potere, che spetti ad una persona,al modo stesso - 205 Se non
che il vocabolo mancipium non significa soltanto ciò, che è soggetto al capo di
famiglia, ma indica eziandio il trasferimento, di cui possono essere oggetto le
cose, che entrano a costituirlo. Ciò è dimostrato dall'espressione vigorosa
della legislazione decemvirale, nella quale si dice facere mancipium, facere
nexum, al modo stesso, che direbbesi facere testamentum. Or bene non vi ha
dubbio, che anche il facere mancipium deve avere subito delle trasforma zioni
profonde nel proprio significato. Facere mancipium infatti dovette negli inizii
indicare il darsi o il prendere a mancipio, la dedizione del vinto o la presa
del vincitore, per cui quello viene in tutto ad essere a disposizione di
questo. Ciò è dimostrato da questo che i servi, che erano chiamati mancipia ex
eo, quod ab hostibus manu capiuntur, sono anche chiamati servi dediticii, in
quanto che essi provenivano da una specie di resa o di dedizione del vinto al
vin citore. Cio però non tolse, che il concetto del facere mancipium si
applicasse eziandio a persone libere, che potevano dare se stesse a mancipio,
od anche a persone, che dipendevano da esse, come accadeva nella noxae deditio.
Che anzi è molto probabile, che nel periodo, in cui i plebei non erano ammessi
a far parte della citta dinanza, il solo mezzo, che essi avessero per trovare
protezione e difesa, fosse quello di darsi a mancipio. Infine, allorchè il
mancipium prese quella significazione, eminentemente giuridica, per cui
significa il complesso delle persone e delle cose, soggette al capo di famiglia,
anche il facere mancipium ricevette una larghissima applicazione, per modo che
la mancipatio verrà ad essere come il perno, sovra cui si modellano tutti gli
atti, che modificano in qualche modo il potere del capo di famiglia . che non
adoperano mai il vocabolo di nexus per indicare il creditore, ma sempre per
designare il debitore. Convien quindi dire, che mancipium significò sempre la
cosa soggetta o la trasmissione della medesima, ed è anche questo il
significato, che ha sempre conservato dipoi, allorquando accade ancora di usare
il vocabolo di mancipio. A ciò si può anche aggiungere, che il vocabolo di
capio nella sua significazione giuridica suole sempre essere accompagnato
dall'ablativo, come accade nell'usucapio, nell'usureceptio e simili. A questo proposito è notabile il seguente
passo di Festo, Vº Quot.: Quot servi tot hostes in proverbio est, de quo
Sinnius Capito existimat esse dictum initio quot hostes tot servi quod tot
captivi fere ad servitutem adducebantur , BRUNS, Fontes, 359. Per la larghissima esplicazione della
mancipatio nel diritto quiritario è da vedersi il Longo, La mancipatio, parte
14, Firenze, 1886. 206 165. Passando ora alla manus iniectio, noi riscontriamo
nella medesima un processo del tutto analogo. Non può esservi dubbio che essa
dovette essere dapprima il modo effettivo, con cui il vinci tore afferrava il vinto,
in base al diritto di guerra e lo riduceva in schiavitù. Il suo concetto quindi
nacque anch'esso nella lotta e nella violenza; ma poscia dai rapporti fra
vincitori e vinti fu tra sportato anche fra le persone, che appartenevano alla
stessa co munanza e significò l'esercizio privato delle proprie ragioni, come
lo dimostra la seguente deffinizione di Servio: manus iniectio di citur,
quotiens, nulla iudicis auctoritate expectata, rem nobis de bitam vindicamus.
Pare però, che quest'esercizio privato delle proprie ragioni, che non si può
conciliare coll'esistenza della pubblica autorità, non fosse riconosciuto dal
diritto quiritario, che in alcuni casi soltanto. Infatti nel diritto quiritario
noi troviamo la manus iniectio in due significazioni. Essa è il modo per
trascinare avanti al magistrato colui che invitato a venirvi siasi rifiutato;
ma in ciò non havvi ancora un esercizio privato delle proprie ragioni, bensì un
mezzo per ottenere la presenza del convenuto avanti al magistrato. La manus
iniectio poi, nella legislazione decemvirale, è anche un mezzo di esecuzione
contro il proprio debitore; ma in questo senso è solo ammessa in alcuni casi,
cioè: contro coloro che o abbiano confes sato il proprio debito (aeris
confessi); contro coloro che siano stati condannati (iudicati); o infine contro
coloro, che si siano ob bligati mediante il nexum (nexi). Ora di queste varie
applicazioni del diritto di esecuzione privata contro il debitore, quella, che
ri guarda gli aeris confessi ed i iudicati, suppone già un intervento
dell'autorità giudiziaria; mentre quella, che riguarda il nexum, ri monta
certamente ad epoca anteriore alla formazione della comu nanza, il che fa
credere che la manus iniectio nelle proprie origini abbia avuto una stretta
attinenza col nexum. Cio miporge quindi occasione di discorrere brevemente di
esso e di dimostrare, che anche l'istituto del nexum è una di quelle
istituzioni primitive, che trovo solo applicazione nei rapporti fra il
patriziato e la plebe, e che poi entró a far parte del diritto quiritario. 166.
Il nexum è certo uno degli istituti, che diffonde una triste aureola sul
diritto primitivo di Roma. La sua origine è ignota; ma si può affermare con
certezza, che essa rimonta ad epoca anteriore alla formazione della comunanza
romana: poichè la tradizione già attribuisce a Servio Tullio dei provvedimenti
diretti a limitare gli effetti, che derivavano da esso. Lo stesso è a dirsi
della legislazione decemvirale, che lo suppone già esistente e si limita a
trattenere in certi confini i maltrattamenti contro il debitore. Fu poi notato
a ragione dal Niebhur, che il nexum con tutti i tristi suoi effetti apparisce soltanto
nei rapporti fra il patriziato e la plebe; per guisa che la sua abolizione si
riduce ad una specie di questione sociale fra le due classi; come è anche
dimostrato da ciò, che Livio consi derd l'abolizione di esso come una vittoria
della plebe sopra il pa triziato. Vero è, che questo fatto può anche essere
spiegato con dire che solo il patriziato era in condizione di fare degli
imprestiti alla plebe, e che perciò esso solo aveva interesse al mantenimento
di questo ingens vinculum fidei ; ma
parmiche il carattere vero di questa istituzione possa essere più facilmente
spiegato, quando si cer chino le cause, che vi hanno dato origine. Il nexum
dovette essere un modo di obbligarsi di colui, che, non avendo altre garanzie
da offrire al proprio creditore, obbligava direttamente la propria persona. Ora
è questa appunto la condizione, in cui si trovò il plebeo di fronte al patrizio,
anteriormente alla formazionedella comunanza romana, allorchè, sprovvisto di
qualsiasi diritto, non aveva altro mezzo, per trovare protezione o credito, che
o di dare a mancipio se o la fa miglia, o di vincolarsi col nexum. Quello era
una specie di dedizione di se stesso e questa era una specie di ipoteca, che
egli consentiva sulla propria persona. Siccome poi, come si vedrà a suo tempo e
come del resto fu già ritenuto dal Niebuhr, il nexum non obbligava che la
persona, e non attribuiva qualsiasi diritto sui beni di esso; cosi in parte si
comprende che il diritto del creditore sul debitore, sia stato spinto a quelle
estreme esagerazioni, che a noi riescono pressochè inesplicabili. 167. Quanto
al vocabolo poi non può esservi dubbio, che esso ebbe ad assumere
significazioni molto diverse. (Liv. VIII, 28, in princ.: Eo anno plebi romanae velut aliud initium
liber tatis factum est, quod necti desierunt ; e più sotto: victum eo die ingens vin culum fidei. Cfr.
Niebhur, Hist. Rom. Della portata e degli effetti del nexum, come pure del
mancipium, si discorrerà più sotto; poichè qui importava solo di cercare
l'origine dei vocaboli e dei concetti coi medesimi significati. 208 Anche qui è
probabile, che il nexum nella sua primitiva signifi cazione indicasse veramente
i vincoli, a cui sottoponevasi lo schiavo fuggitivo; ma che poscia dalla
significazione letterale siasi fatto pas saggio alla significazione giuridica.
Tuttavia rimangono ancor sempre le traccie delle due significazioni, in quanto
che gli storici chiamano col vocabolo di nexi, ora quelli che si trovano già
condotti nel car cere privato del debitore, ed ora invece i debitori, che si
sono ob bligati colle forme solenni del nexum. Del resto anche questo vo
cabolo, al pari di quello dimancipium, significa non solo il vincolo fisico o
giuridico, a cui altri si sottopone, ma eziandio l'atto con cui egli contrae il
vincolo stesso (nexum facere). La conclusione intanto viene ad essere cotesta,
che tutti questi istituti più rozzi, che appariscono nel primitivo ius
quiritium, dovet tero aver avuto origine nei rapporti fra i vincitori e i
vinti, i quali trasformati in varia guisa furono poi estesi anche ai rapporti
fra il patriziato e la plebe. Sarebbe insomma anche qui accaduto cið, che pure
accadde delle altre istituzioni del diritto quiritario, che esse si svolsero
dapprima fra le varie genti o almeno fra i diversi capi di gruppo e furono
poiapplicate nei rapporti dei quiriti fra di loro. Al modo istesso, che i
concetti di connubium, di commercium e dell'actio sacramento si spiegarono
dapprima fra le varie genti ed i loro capi, e solo più tardi si svilupparono
nel diritto quiritario; così i concetti del mancipium, del nexum, e della manus
iniectio, dopo essersi formati fra la classe dei vincitori e quella dei vinti,
ed essersi poi applicati ai rapporti fra il patriziato e la plebe, si tra
sformarono in istituzioni proprie del diritto quiritario. Di qui il carattere
di rozzezza, di violenza, inerente ai medesimi, che rese necessaria la loro
trasformazione ed anche il cambiamento dei vo caboli, con cui furono indicati,
a misura, che vennero sempre più pareggiandosi le due classi, dopo che entrarono
a far parte della stessa comunanza civile e politica. 168. Che se, riassumendo,
si volesse ora dare uno sguardo sinte tico a quelle istituzioni esistenti fra
le genti italiche, anteriormente alla fondazione della città, che si vennero
ricostruendo a poco a poco, noi possiamo scorgere fin d'ora, che già si erano
poste le basi fondamentali del diritto pubblico, privato ed internazionale, che
ebbe poi a svolgersi in Roma. Quanto al diritto pubblico infatti, già erasi
elaborato il concetto del potere monarchico, di cui avevasi il modello nel capo
di famiglia; - 209 quello di un elemento aristocratico, che era rappresentato
dal con siglio degli anziani, proprio della gente; e quello infine di un ele
mento popolare e democratico, il quale già aveva cominciato a svolgersi nelle
tribù e a presentare quel dualismo fra patriziato e plebe, che doveva poi
ricevere nella città tutto lo svolgimento, di cui poteva essere capace. Furono
questi elementi che, accomodati alle esigenze della vita civile e politica,
servirono di base alla co stituzione primitiva di Roma e condussero
naturalmente allo svolgi mento dei poteri, che furono attribuiti al re, al
senato ed al popolo. 169. Così pure quanto al diritto privato, già erano in
pronto gli elementi diversi, i quali,amalgamandosi insieme, dovevano porre le
basi del diritto civile di Roma. Eravi infatti un diritto proprio delle genti
patrizie, che, appoggiandosi da una parte sull'elemento religioso del fas e
dall'altra sopra l'elemento morale del mos, già aveva dato origine ai concetti
fondamentali del connubium, del commercium e dell'actio sacramento, ed aveva
elaborato tutte quelle forme tradizionali e solenni, in cui si fecero entrare a
poco a poco i nuovi rapporti giu ridici, ai quali diede occasione il formarsi e
lo svolgersi della convi venza civile e politica. Esisteva parimenti, ancorchè
solo in via di formazione, un diritto proprio della comunanza plebea, fondato
so pratutto sull'usus auctoritas, il quale, per essere più semplice nella sua
forma, più alieno dalle solennità, più libero da ogni influenza del passato
poteva meglio adattarsi alle esigenze della vita civile e po litica. Da ultimo
già cominciava ad elaborarsi un diritto, che non poteva dirsi proprio, nè del
patriziato, nè della plebe, mache ten deva a racchiudere in forme rozze e
primitive i rapporti, che inter cedevano fra di essi. Questo diritto era tutto
uscito dal concetto fondamentale della manus, in quanto esprime il potere del
capo di famiglia patrizio, ed aveva dato origine ai concetti del mancipium, del
nexum e della manus iniectio, i quali, debitamente trasformati, si dovranno poi
convertire in altrettanti concetti fondamentali del diritto quiritario. È quest'ultimo
elemento, che attribuisce al ius qui ritium quel carattere di rozzezza e di
forza, che lo contraddistingue. Tuttavia fu esso che, isolando l'elemento
giuridico dall'elemento re ligioso e dal morale, con cui prima trovavasi
confuso, viene a for mare il primo nucleo di quel ius quiritium il quale,
assimilando col tempo istituzioni patrizie e costumanze plebee, finirà per
conver tirsi in un ius civile, che poteva convenire alle due classi, che erano
chiamate a far parte della stessa comunanza civile e politica. C., Le origini
del diritto di Roma. De ultimo, anche per quello che si riferisce a quei
rapporti, che con vocabolo moderno si potrebbero chiamare internazionali, già
erausi poste le basi di un ius belli ac pacis, e si erano elabo rati i concetti
dell'amicitia, dell'hospitium,della societas, e del più importante fra tutti,
che era quello del foedus, il quale poi doveva somministrare il mezzo per far
partecipare più tribù alla stessa vita politica, militare e giuridica, e per
dare cosi origine alla città. Questa parimenti, traendo profitto dagli istituti
della cooptatio, della co lonia, della concessio civitatis sine suffragio, del
municipium, pos sedeva anche i mezzi per accrescere la sua popolazione e per
esten dere il proprio impero. I materiali quindi erano in pronto: solo rimane a
vedersi il pro cesso, col quale Roma, gittandoli tutti nello stesso crogiuolo,
abbia saputo scegliere ciò, che in essi eravi di vigoroso e di vitale, e sia
così riuscita a ricavarne lentamente e gradatamente la propria co stituzione
politica, e quel diritto privato, il quale svolgendosi sempre sul medesimo
modello e sempre arricchendosi di nuovi elementi, finirà per diventare tale da
poter essere accettato da tutte le genti. Intanto una delle cause, che condurrà
a questo risultato, sarà la distanza stessa, a cui trovansi i due ordini, che
debbono insieme con tribuire alla formazione della città. Sarà tale distanza
infatti, che forzerá la costituzione di Roma a percorrere tutte le gradazioni,
di cui possa essere capace, e che obbligherà il diritto privato di Roma a
riconoscere la capacità di diritto ad ogni uomo, purchè libero. Per tal guisa
tutte le gradazioni del senso giuridico, dalle più semplici e naturali alle più
sottili e raffinate, cadranno sotto l'elabo razione dei giureconsulti, e
l'universalità del diritto romano dovrà sopratutto essere attribuita a ciò, che
esso è la più completa e pre cisa espressione di un complesso di sentimenti
eminentemente sociali ed umani, che nacquero e si svolsero insieme colla
convivenza ci vile e politica. - 1 LIBRO II. Roma e le sue istituzioni nel
periodo esclusivamente patrizio ("). CAPITOLO I. Genesi e carattere della
città primitiva. 171. Nella storia non vi ha forse avvenimento, il quale abbia
eser citata maggiore influenza sulle sorti dell'umanità che il passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica. Sotto
quest'aspetto non sarà mai abbastanza approfondita la storia pri mitiva di
Roma, perchè non vi ha certamente altro popolo, che abbia più vivamente
sentito, e quindi più profondamente scolpito nelle proprie istituzioni questa
importantissima trasformazione, che (* ) Pervenuto a questo punto della
trattazione, trovomidi fronte ad una lettera tura così copiosa, che mi sarebbe
impossibile di poter indicare la bibliografia, che può riferirsi ad ogni
singolo argomento. Siccome quindi l'intento del libro è quello unicamente di
tentare una ricostruzione delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma
primitiva; così mi limitero ad indicare in nota gli autori, di cui prendo in
esame le opinioni, e i passi di antichi scrittori, sui quali si fonda
l'opinione da me sostenuta, e non mi fard anche scrupolo di citare una
traduzione, quando non tenga l'originale, sopratutto di autori tedeschi. Quanto
alla bibliografia, essa potrà essere facilmente trovata nei recenti trattati di
storia del diritto romano, o di introduzione storica allo studio del diritto
romano, quali sono in Francia quelli dell' ORTOLAN, del Bouché -LECLERCQ, del
Maynz, del MISPOULET, del Roblou et Delaunay, del MORLot, ecc.; nel Belgio
quelli del Maynz, del Rivier, del WILLEMS, ecc.; in Ger mania quelli del Bruns,
del BARON, del KARLOWA, del Voigt, dell'HERZOG, ecc.; in Inghilterra quelli del
MUIR EAD e del Roby; e nella nostra Italia quelli del PA DELLETTI-Cogliolo, e
del LANDUCCI, ecc.; trattati, che ho citato già, o che mi occor rerà di citare
in seguito. Mi perdoni il lettore: ma la sola bibliografia, fatta un po ' a
dovere, mi avrebbe assorbito il volume. 212 accadde nell'organizzazione sociale.
A ciò si aggiunge, che lo spirito conservatore del popolo Romano ha fatto si,
che esso, modellando e svolgendo la città primitiva, abbia sempre conservato le
traccie delle istituzioni preesistenti, e dei periodi diversi, per cui passò la
nuova formazione. Di qui la conseguenza, che quando si riesca a penetrare il
processo logico, stato seguito dai Romani nella fondazione della loro città, si
potranno determinare con rigore geometrico non solo l'orientamento materiale di
essa, e il modo, con cui furono costrutte le sue mura; ma eziandio la serie di
quei concetti fondamentali, che, preparati in un periodo anteriore, ricevettero
poi nella città tutto lo sviluppo, di cui potevano essere capaci. Già si è
veduto, come nella organizzazione gentilizia siasi svolta la famiglia colla sua
distinzione fra i padroni ed i servi, la gente con quella fra patroni e
clienti, e infine la tribù con quella fra patrizii e plebei. È da questo punto
dell'evoluzione sociale e da questo dualismo costante, che incomincia la
formazione della città. Trattasi pertanto di vedere in qual modo, con questi
elementi, che si erano naturalmente formati e sovrapposti gli uni agli altri,
abbia potuto essere iniziata la convivenza civile e politica. Fu questa una
continuazione del medesimo processo formativo dell'organizzazione gentilizia, o
fu invece il risultato di qualche nuova energia o forza operosa, che si
introdusse nell'organizzazione sociale? 172. Le teorie, che furono escogitate
in proposito dagli studiosi della storia primitiva di Roma, sono molte in
numero e diverse nei risultati a cui giunsero; quindi per noi sarà necessità di
arrestarsi alle principali. Per il Mommsen, il Sumner Maine, e per la maggior
parte degli autori moderni, la città primitiva avrebbe nei proprii esordii un
ca rattere eminentemente patriarcale, e non sarebbe in certo modo, che un
ulteriore svolgimento della stessa organizzazione gentilizia; essa sarebbe un
edifizio, le cui proporzioni si sono fatte più grandi, ma che è foggiato sempre
sul medesimo modello. A quel modo, che la famiglia ingrandita, dando origine a
diramazioni diverse, avrebbe costituita la gente, e che le genti, riunendosi
insieme, avrebbero dato origine alle tribù; cosi l'aggregazione delle tribù in
un numero determinato, che sembra essere diverso secondo i varii popoli,
avrebbe dato origine alla civitas. Afferma pertanto il Mommsen, che la famiglia
e la gente non solo avrebbero somministrati gli elementi, da cui fu costituita,
ma anche il modello, sovra cui sarebbesi fog 213 giata la comunanza civile e politica. Il
re della città sarebbesi mo dellato sul capo di famiglia, e avrebbe i poteri
patriarcali al mede simo spettanti; il senato non sarebbe che un consiglio di
anziani, come lo prova il nome di patres, dato per tanto tempo ancora ai
senatori, e compierebbe nella città quella medesima funzione, che il tribunale
domestico compieva nella famiglia, e il consiglio degli anziani nella gente e
nella tribù; il populus non sarebbe che la riu nione delle gentes, per guisa
che sarebbe cittadino ogni individuo, che appartenga ad una di tali gentes; e
da ultimo il territorio ro mano comprenderebbe i territorii riuniti, che
appartenevano alle varie gentes, le quali pertanto sarebbero incorporate nello
Stato nella condizione stessa, in cui prima si trovavano, e con tutte le fa
miglie, che entravano a costituirle. Tale a un dipresso sarebbe eziandio la
teoria del Sumner Maine, il quale si limita a dire, che come la tribù era stata
una riunione di gentes, cosi la città era dovuta all'incorporazione di varie
tribù. Il Lange invece, mentre si studia in tutti i modi per dimostrare, che lo
Stato e il suo ordi namento è fondato sulla famiglia, e che il diritto pubblico
di Roma sarebbe in certo modo uscito dal seno del diritto privato, e sareb besi
modellato sul medesimo, viene poi a riconoscere, che la città primitiva è già
fondata sopra una specie di contratto, il quale avrebbe modificato i poteri
patriarcali del re, e al principio dell'e redità avrebbe fatto sottentrare
quello dell'elezione (3 ). Il Jhering invece scorge nella costituzione
primitiva di Roma un carattere essenzialmente militare. Per lui il re sarebbe
un condottiero, un capitano, e il suo potere sarebbe, in sostanza, un militare
im perium, destinato sopratutto a mantenere la disciplina nell'esercito, e
percid accompagnato dal ius gladii; la curia da conviria sa rebbe una riunione
di uomini armati, che si chiamano quiriti da quiris, asta, che è il
contrassegno del potere aimedesimi spettante; il populus romanus quiritium
sarebbe l'assemblea complessiva dei guerrieri, portatori di lancia; e infine le
gentes stesse, in cui egli ritiene ancora che si dividano le curiae, sarebbero
gruppi naturali, basati bensì sulla discendenza, ma già raffazzonati secondo le
esi Mommsen, Histoire Romaine. Trad. DeGuerle. Paris, 1882, I, 77 et suiv.
SUMNER MAINE, L'ancien droit. Trad. Courcelle Seneuil. Paris, 1874, 121. Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot
et Didier, Paris, 1885, 37. 214 - genze di un esercito; donde quel numero fisso
di trenta curiae, in cui sarebbe ripartito il popolo primitivo di Roma, le
quali poi sareb bero suddivise in trecento gentes. A queste vuolsi eziandio
aggiungere la teoria, così splendidamente esposta dal Fustel de Coulanges,
secondo la quale quella religione, che avrebbe fondata la famiglia e la
proprietà, la gente e la tribù, sarebbe pur quella, che avrebbe fondata e
cementata la primitiva città. La civitas pertanto sarebbe per lui
l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù; mentre l'urbs
sarebbe il luogo di riunione, il domicilio, e sopratutto il santuario di questa
associa zione, nella quale ogni istituzione assumerebbe un carattere essen
zialmente religioso. Non è a dubitarsi, che queste varie opinioni contengano
tutte alcun che di vero, e che ognuna possa invocare delle analogie e degli
argomenti, che le servano di appoggio; ma intanto ciascuna di esse,
collocandosi ad un punto di vista esclusivo, mal pud riuscire a spie gare in
modo coerente la natura cosi varia e complessa della costi tuzione primitiva di
Roma: il cui concetto sembra sbocciare da una sintesi potente, la quale non può
altrimenti essere ricostruita, che riportandoci nell'ambiente stesso, in cui
essa ebbe a formarsi. È questo il motivo, per cui è impossibile spiegare quel
carattere di unità e di varietà ad un tempo, con cui Roma compare nella storia,
senza seguire la lenta e progressiva formazione della città, e tener conto
delle necessità reali ed effettive, a cui le genti primitive cer carono di
soddisfare, creando la comunanza civile e politica. Or bene io non dubito di
affermare che, collocandosi a questo punto di vista, apparisce fino
all'evidenza, che la città per le po polazioni latine non può essere
considerata come una continuazione del processo formativo dell'organizzazione
gentilizia prima esistente; ma inizia un nuovo ordine di cose sociali, e segue
un indirizzo V. IHERING, L'esprit du
droit romain. Trad. Maulenaere. Paris, 1880, I, $ 20, 246 e segg.; dove mette
molto bene in evidenza il carattere militare della primitiva costituzione
romana, e l'influenza che esso esercitò anche sullo svolgersi del suo diritto;
alla quale opinione in parte anche si accosta lo SchweGLER, Rö mische
Geschichte, I, 523. FUSTEL DE COULANGES, La cité antique. Paris, 1876. Liv. III, Chap. IV, p. 155.
È però a notarsi, che l'autore è a un tempo fra quelli, che a ragione insistono
sul carattere confederativo della città primitiva. Cfr. 147. 215. compiutamente
diverso, il quale doveva logicamente condurre alla dissoluzione
dell'organizzazione sociale preesistente. Per verità si è veduto più sopra,
come le popolazioni latine, che avevano preceduta la fondazione di Roma, già
fossero pervenute ai concetti dell'urbs, del populus, della civitas. Che anzi
tali concetti, per le popolazioni del Lazio, erano già stati il frutto di una
lunga evoluzione. Esse avevano cominciato dal costruire dei siti fortificati
(arces, oppida ), in cui le comunanze rurali potessero cercare rifugio nei
momenti di pericolo, e in cui potessero ricoverarsi coi proprii greggi e coi
proprii armenti in un'epoca, in cui erano quotidiane le scorrerie e le
depredazioni nei rispettivi territorii delle varie co munanze. Il primo bisogno
pertanto, a cui le genti del Lazio ave vano cercato di soddisfare, era stato
quello di provvedere alla co mune difesa. Poscia, siccome la sicurezza è
condizione, che favorisce gli scambi ed i commerci, così fu naturale, che,
accanto a questi luoghi fortificati, si siano formati dei siti (fora ), a cui
le genti convenivano per scopo di commercio, e dove, occorrendo, si tratta vano
anche le alleanze e le paci. Col tempo infine questa mede sima località apparve
anche sede opportuna così per l'amministra zione della giustizia, che per la
trattazione di quegli affari, che riguardassero l'interesse delle varie
comunanze (conciliabula ). Per genti poi, in cui era vivo il sentimento della
religione, era naturale, che questa comune fortezza e questo luogo di convegno
(comitium ) fossero posti sotto la protezione di una divinità, non propria di
questa o di quella gente, ma comune alle varie genti; e fu anche in questa
guisa, che le menti giunsero a concepire una reli gione collettiva al di sopra
di quella propria delle singole famiglie e genti. 174. Per tal modo il concetto
della città non sboccið di un tratto, ma ebbe ad essere provato e riprovato in
varie guise sotto forma di arces, di oppida, di fora, di conciliabula, di
comitia, e infine di urbes; e fu soltanto, allorchè questa lenta costruzione
ebbe ad essere compiuta, che i riti, secondo cui le città dovevano essere fon
date e la loro popolazione doveva essere ripartita, assunsero un Questa idea,
che è fondamentale nella presente trattazione, ebbe ad essere accennata e
dimostrata più sopra, nei suoi varii aspetti, nel lib. I, ai numeri 5, 14, 66,
99. - 216 - carattere sacro e religioso, per modo che ogni fondazione di città
ebbe ad essere accompagnata da cerimonie religiose. L'urbs venne così ad essere
il frutto di una lunga evoluzione, che già erasi inco minciata in seno alla
stessa organizzazione gentilizia. Essa per tanto, fin dai suoi primordii, non
si presenta sotto l'aspetto di una aggregazione di gruppi gentilizii, come
vorrebbero il Mommsen e gli autori sopra citati; ma piuttosto come il frutto di
una specie di selezione, per cui dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia,
si viene sceverando ed isolando tutto ciò, che si riferisce alla vita pub blica.
Quindi la città primitiva viene ad apparire come un centro e un focolare di
vita pubblica, fra varie comunanze di villaggio, la cui vita domestica e
patriarcale continua a svolgersi nei vici e nei pagi. Di qui la conseguenza,
che se essa sia materialmente consi derata, cioè come urbs, non si presenta,
nelle proprie origini, come la riunione delle abitazioni private; mapiuttosto
come la riunione in una orbita sacra degli edifizi, aventi pubblica
destinazione, come la fortezza, il santuario comune, la dimora del re (custos urbis
) e dei sacerdoti (sacerdotes populi), il luogo (forum ) ove si tiene il
mercato e si am ministra la giustizia, il sito ove si tengono le riunioni
(comitia ) per deliberazioni di pubblico interesse; donde la curia, il qual
vocabolo designa tanto il luogo di riunione, quanto il complesso delle persone
che vi si riuniscono. Che se poi la città primitiva sia riguardata negli ele
menti, che entrano a costituirla, essa non è più l'organizzazione delle gentes
o delle tribù, nelle quali si comprendevano anche le donne, i vecchi ed i
fanciulli; ma è solo il complesso di quegli uomini, ricavati dalle gentes e
dalle tribù, che possano aver partecipazione attiva alla vita pubblica; di
quegli uomini cioè, che possano difendere la cosa pubblica come soldati
(iuniores), o che col proprio consiglio possano giovare alla medesima nelle
deliberazioni, che la riguardano (se niores). L'urbs insomma è il risultato di
una selezione, in virtù della quale si raccolgono in uno stesso sito tutti gli
edifizi, che hanno pubblica destinazione; il populus è una selezione, per cui
fra i membri delle gentes si organizzano, in esercito ed in comizii ad un tempo,
coloro, che siano in età e in condizione di provvedere alla difesa ed
all'interesse comune; la civitas infine, è quel rapporto speciale, che
intercede fra le persone, che compongono il populus, in quanto esse
appartengono alla medesima cittadinanza, e parteci pano alla stessa vita
politica e militare. La città latina pertanto, e quindi anche Roma, che è un esemplare
tipico della medesima, anzichè essere un'aggregazione di gentes e di tribus,
corrisponde invece a un nuovo aspetto di vita sociale: cioè al nascere ed allo
svolgersi di una comune vita poli tica, frammezzo a popolazioni rurali, che
continuano ancora a svol gere la loro vita domestica nelle comunanze
patriarcali. Allorchè essa compare, quella organizzazione gentilizia, che aveva
prima com piuto le funzioni di associazione domestica e politica ad un tempo,
si viene biforcando: mentre la vita privata continua a spiegarsi nelle pareti
domestiche, ed in gruppi concentrati sotto l'autorità del capo di famiglia, la
vita politica invece prende a svolgersi nella piazza e nel foro, e dà cosi
origine a quelle discussioni e a quelle lotte, che costituiscono la vita e il
movimento della città. Di qui la conseguenza, che la città, dopo aver ricavato
gli elementi, che entrano a costituirla, dalle comunanze che la circondano,
finisce per preparare la via alla estinzione dell'organizzazione gentilizia, e
sopratutto di quelle gradazioni di essa, che prima compievano eziandio una
funzione politica, quali sarebbero la gente, la tribù e la clientela. Le
istituzioni invece, che colla sua formazione vengono ad affermarsi e a
costituire le due basi dell'organizzazione sociale, sono i due elementi
estremi, cioè: la famiglia da una parte, la quale finisce per richiamare a sè
medesima tutto quello, che si riferisce alla vita domestica; e la città
dall'altra, poichè essa, essendo la meta e l'aspirazione comune, tende ad
attirare nella propria cerchia tutte le energie naturali e sociali, che possono
conferire a darle forza e con sistenza. Di qui la conseguenza, che le due
figure preponderanti, negli inizii della città, vengono ad essere il pater
familias, il quale è il solo, che abbia piena capacità di diritto, ed il
populus, il quale richiama a sè tutti gli elementi vigorosi e vitali, che
esistono nelle comunanze, che colla propria federazione hanno dato origine alla
città. Siccome perd l'opera si viene compiendo gradatamente; cosi sarà
necessario un lungo svolgimento, prima che la città si possa affatto spogliare
di quelle forme, che essa ricava ancora dall'orga nizzazione gentilizia, e
prima che la famiglia possa perdere quel carattere pressochè civile e politico,
che essa aveva assunto durante il periodo gentilizio. 176. Si può quindi
conchiudere, che il processo formativo della organizzazione gentilizia e quello
della città si avverano in guisa com piutamente diversa, e sono avviati in
senso pressochè contrario ed opposto. - 218 Mentre il processo formativo
dell'organizzazione gentilizia, in tutte le sue gradazioni, consiste in una
stratificazione di gruppi natu rali, che si sovrappongono gli uni agli altri, e
intanto continuano sempre ad essere foggiati sul medesimo modello, che è quello
della famiglia patriarcale; la città invece non deve più la sua esistenza ad un
processo di aggregazione, ma ad un processo, che potrebbe chiamarsi
diselezione. Essa non comprende più tutta la vita sociale, come la tribù; ma
tende invece ad isolare l'elemento giuridico, po litico e militare dagli altri
aspetti di vita sociale, che si spiegavano strettamente uniti, e pressochè
confusi gli uni cogli altri nell'orga nizzazione patriarcale. Di qui derivano
alcune importantissime conseguenze. Mentre l'organizzazione gentilizia, per
quanto abbia già in sè qualche cosa di artificiale, in quanto che in essa la
famiglia deve anche compiere funzioni politiche, può tuttavia ancora
considerarsi come una pro duzione naturale, come quella che è composta di
gruppi uniformi, che si sovrappongono gli uni agli altri, e il cui vincolo,
vero o supposto, è pur sempre quello della discendenza da un antenato comune;
la città invece viene già ad essere il frutto dell'accordo, del contratto,
della federazione insomma di varii elementi, che si associano per costituirsi
un centro comune di vita politica, e per provvedere così alla comune utilità ed
alla comune difesa. Mentre l'organizzazione gentilizia, comprendendo persone,
che si suppongono derivare da un medesimo antenato, tende a mantenere una
proprietà comune e collettiva; la città invece, uscendo dalla federazione e
dall'accordo, tende ad assicurare ai singoli capi di famiglia le possessioni e
le terre, che loro appartengono, solo se parandone quel complesso di beni e di
interessi, che riguarda l'uni versalità dei cittadini, il quale costituisce
così un patrimonio co mune, che col tempo sarà indicato col vocabolo di res
publica. Mentre infine il principio informatore dell'organizzazione gentilizia
consiste nell'eredità e nella discendenza, per guisa che in essa tutto tende ad
acquistare un carattere ereditario; il principio in vece informatore della
comunanza civile e politica, appena essa compare, viene ad essere quello della
capacità e dell'elezione. Tutto questo svolgimento della città primitiva, che
solo erasi iniziato presso le popolazioni latine, potè spingersi con Roma a
tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Allorchè essa compare, il
periodo di incubazione della città può 219. già ritenersi compiuto, e quindi le
cerimonie, che ne accompagnano la fondazione, già hanno assunto un carattere
sacro e religioso. È cogli auspizii, che incomincia la fondazione di Roma, per
conoscere a quale dei due fratelli debba essere affidata la fondazione e il reg
gimento della città. Tuttavia la Roma Palatina, finchè è contenuta. nei limiti
dello stabilimento romuleo, non pud ancora chiamarsi una vera e propria città;
ma è piuttosto lo stabilimento fortificato di una aggregazione di genti, dedita
di preferenza alle armi, che è la tribù dei Ramnenses. Tutto è ancora
patriarcale nella medesima; il suo re, che è il sacerdote, il capitano, e che
non è ancora eletto, ma è designato dalla propria nascita e dagli auspizii; i
suoi anziani, i quali non sono che i padri delle genti, che entrano a
costituire la tribù; e infine anche il suo populus, che è composto ancora di
persone, che si ritengono unite dal vincolo della comune discendenza, come lo
dimostra la loro stessa denominazione di Ramnenses, derivata dal nome del
proprio capo. Non è quindi appena stabilitosi sul Palatino, che Romolo, secondo
la tradizione, procede alla costituzione politica della città. Secondo Livio,
ciò accade soltanto dopo la guerra coi Sabini, e secondo Ci cerone aspettasi
perfino la morte di Tito Tazio, capo dei medesimi. È da questo momento, che la
città assume un carattere federale e pressochè contrattuale. Le singole tribù
infatti continuano a risie dere ciascuna sopra il proprio colle, e ad avere
delle proprie forti ficazioni; ma è il Capitolium, che mutasi nella fortezza
delle varie comunanze, come pure gli edifizii pubblici si vengono raccogliendo
nel sito, che trovasi fra il Palatino ed il Capitolino. È quivi che è collocato
il locus Vestae, la domus regia Numae, le novae cu riae, da non confondersi
colle curiae veteres , il cui sito era sul Palatino, edifizii tutti, che,
secondo il rito, dovevano trovarsi nel cuore stesso della città. Non consta
quindi che le tribù confederate abbiano abbandonate le proprie possessioni e le
proprie terre; ma ciò, che esse ebbero comune fu soltanto la città ed il
governo di essa, come lo dimostra il fatto, che secondo la tradizione vi
sarebbe stato un breve periodo di tempo, in cui Romolo e Tazio avrebbero
(Livio, I, 13; Cic., de Rep. II, 8. Cfr. più sopra, i numeri 85, 86. Novae curiae (scrive Festo) proxime compitum
Fabricium aedificatae sunt, quod parum amplae erant veteres a Romulo factae .
Tuttavia vi restarono an cora sette curie, che continuarono a compiere i loro
sacra nel sito antico (Bruns, Fontes, 346 ). 220 regnato contemporaneamente: il
che significa, che ciascuno di essi avrebbe conservato la qualità di capo della
propria tribù. Non è quindi meraviglia, se la città primitiva presenti ancora
per qualche tempo le traccie dell'organizzazione gentilizia, perchè il trapasso
dalla semplice tribù ad una vera e propria città si operò solo gra datamente.
Intanto però la trasformazione viene ad essere iniziata e proseguita
senz'interruzione fin da quel momento, in cui al vin. colo della discendenza si
sostituisce quello della federazione e del l'accordo, e alla trasmessione
ereditaria sottentra il principio del l'elezione. 178. A ciò si aggiunge, che
Roma, fin dai proprii esordii, si trovo in una condizione diversa da quella
delle altre città latine, da cui trovavasi circondata. Essa infatti non
costitui soltanto un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze
rurali; ma diventò ben presto un centro di vita urbana, contrapposta alla vita
rustica dei campi. I suoi primi fondatori, pur conservando i proprii agri genti
lizii, avevano ottenuto nel recinto stesso della città uno spazio di terra, ove
avevano potuto costruirsi una casa, circondata da un orto. Per tal guisa in
Roma non eravi soltanto l'elemento, che conveniva nei giorni di festa, o di
pubbliche riunioni, o per causa di fiera e di mercato; ma eravi una parte
eziandio, e questa era quella dell'antico patriziato, che, pur conservando la
propria dimora gentilizia, aveva posta sede permanente dentro la città, o in
prossimità di essa. Fu in questa guisa, che Roma diventò ben presto, secondo
l'espressione del Mommsen, l'emporio del Lazio, e che, dopo aver cominciato, al
pari delle altre città latine, dall'essere un centro di vita pub blica fra
diverse comunanze, cambiossi ben presto eziandio in un centro urbano, la cui
vita si contrappose a quella dei campi, e venne cosi accrescendosi
costantemente, mediante quell'attrazione, che i centri urbani esercitano anche
oggi sulle popolazioni, da cui tro vansi circondati. È questo che spiega come,
durante lo stesso periodo regio, Roma da sola già potesse conchiudere un foedus
aequum con tutta la confederazione latina, e come l'intento costante dei re sia
stato quello di estenderne la cerchia per guisa da comprendere in essa anche le
abitazioni private dei cittadini. Intanto agli altri dua lismi, che presenta
Roma fin dai proprii inizii, debbe anche aggiun gersi quello, per
cuidistinguesi la vita urbana dalla vita rustica; come lo dimostra il fatto che
il patriziato romano ha serbata sempre la consuetudine di passare un periodo di
tempo fra le mura della città, 221 e un altro invece alla campagna (ruri),
frammezzo alle proprie pos sessioni gentilizie: consuetudine, che anche oggi
può dirsi mantenuta dal patriziato romano. Di qui la conseguenza, che Roma, in
una lunga e lenta evoluzione, poté compiere in ogni sua parte quello
svolgimento, che solo erasi iniziato presso le altre popolazioni latine. Essa
riusci a sceverare la vita pubblica dalla privata, l'elemento sacro dal pro
fano, la vita urbana dalla vita rustica, la vita militare dalla vita civile; ed
effigid questi atteggiamenti diversi della vita sociale ed umana con un
linguaggio così efficace e scultorio, che nessun'altra città può in questa
parte competere con essa. Di queste varie distin zioni, quella, che cominciò ad
effettuarsi fin dal periodo di Roma esclusivamente patrizia, fu la distinzione
fra la vita pubblica e la vita privata; mentre la distinzione fra l'elemento
sacro ed il profano cominciò solo ad operarsi, allorchè la plebe, che non era
partecipe del culto gentilizio, fu anche ammessa a far parte della cittadinanza
romana; e da ultimo la distinzione fra la popolazione rustica ed urbana, solo
prese a farsi evidente, allorchè la città si accorse di essere in parte
dominata dalla turba forense. Infine il dualismo fra la vita militare e la vita
civile è anche uno di quelli, che appariscono costantemente nella storia di
Roma, e che rimontano fino agli inizii di essa. Il suo populus è un'assem blea
ed un esercito ad un tempo; il suo magistrato ha l'imperium domi, militiaeque;
i suoi cittadini hanno un periodo di età, in cui partecipano al servizio
attivo, e un altro, in cui entrano a formare l'esercito di riserva; gli atti
stessi più importanti della vita, quale sarebbe, ad esempio, il testamento,
possono farsi in guisa diversa, secondo che trattisi di cittadini in tempo di
pace, o di soldati in procinto di venire a battaglia; la quale distinzione poi
mantiensi co stante per modo, che anche con Giustiniano il testamento pud
distin guersi in comune ed in militare. Per tal modo il cittadino di Roma è
uomo di toga e di spada ad un tempo, e si acconcia alle esigenze della pace e a
quelle della guerra (rerum dominos, gentemque togatam ). 180. Sopratutto qui
importa di mettere in evidenza quel dua lismo, che colla formazione della città
venne ad introdursi fra la vita pubblica e la privata; in quanto che fu questo
il grande intento, a cui si ispirò Roma primitiva, e a cui accennano
costantemente i 222 poeti latini, i quali non trovano espressione più efficace
per indicare la corruzione del costume, e il perdersi delle buone tradizioni,
che l'accennare alla confusione della cosa pubblica colla privata. È questo il
dualismo veramente fondamentale, che, una volta in trodotto, finisce per
riverberarsi, con un processo logico non mai in terrotto, in una quantità di
altri dualismi, che compariscono costan temente nelle stesse circortanze
sociali, e che potrebbero essere paragonati ad una voce, che con gradazioni
diverse viene ad es sere ripercossa e ripetuta dall'eco. 181. Per verità è
ovvio il considerare, come in seguito alla forma zione della città, accanto
alla gentilitas, che era il rapporto, che stringeva i varii membri
dell'organizzazione gentilizia, si svolga la civitas, la quale è il rapporto,
che unisce coloro, che appartengono alla stessa comunanza militare e politica.
Quindi è, che alla distin zione fra liberi e servi, fra gentiles e gentilicii,
viene ad aggiun gersi e ad acquistare un'importanza sempre maggiore quella fra
cives e peregrini. Cosi pure, accanto ai genera hominum, che sono sparsi nei
pagi e nei vici, e che comprendono senza distinzione tutti coloro, che si
suppongono discendere da un medesimo antenato, si svolge il concetto del
populus, che dapprima non comprende ogni ordine di persone, ma solo il
complesso degli uomini validi ed ar mati, che col braccio e col consiglio
possono partecipare alla difesa ed al governo della cosa pubblica. Procedendo
ancora innanzi, accanto al concetto della res fami liaris, che comprende il
complesso degli interessi privati di una de terminata persona, si esplica il
concetto della res publica, il quale, per essere più astratto, compare più
tardi, che non quello del popu lus; ma finisce anch'esso per esprimere con
potenza ed efficacia il complesso degli interessi comuni alla intiera città, ed
a tutto il popolo (res populi). Intanto così la res familiaris, come la res pu
blica debbono avere un'autorità che le governi, e mentre questa per la famiglia
sarà indicata col vocabolo di manus, nella sua signi ficazione più larga, per
la repubblica invece sarà indicata col vo cabolo di publica potestas. Che anzi
i due poteri sono cosi distinti Per
dimostrare l'importanza, che nel concetto romano ha la distinzione fra il
pubblico e il privato, basti citare il Trinummus di Plauto, questa commedia,
così profondamente morale, in cui, ogni qualvolta occorre una censura contro i
corrotti costumi, si lamenta sempre questo mescersi del pubblico col privato.
223 fra di loro, che la subordinazione più estesa nel seno della famiglia non
toglie, che altri possa esercitare tutti i suoi diritti come cit tadino, e
partecipare come tale agli onori ed alle magistrature. La distinzione poi, che
è nella natura dei rapporti, viene natu ralmente a riflettersi eziandio nel
diritto, che è chiamato a gover narli. Di qui la distinzione che, iniziata fin
dalla formazione della città, viene col tempo facendosi sempre più netta e
precisa fra il diritto pubblico ed il diritto privato; il quale ultimo, secondo
il con cetto romano, non deve già essere soffocato ed assorbito dal diritto
pubblico, ma trovasi invece collocato sotto la tutela e la protezione di esso.
Non può quindi essere ammesso il concetto del Lange, che in parte è anche
quello del Mommsen, secondo cui il diritto pubblico verrebbe in certo modo a
modellarsi sul diritto privato: poichè il processo che si segui in Roma si
avverd invece in senso contrario ed opposto. Non fu il diritto pubblico, che si
modello sopra il pri vato; ma fu il diritto privato, che venne svolgendosi in
quella guisa e in quei confini, che erano consentiti dalla costituzione
politica della città. Quindi è che il diritto privato di Roma non si formo di
un tratto, ma venne svolgendosi gradatamente, a misura che le esigenze della
vita civile fecero sentire il bisogno del suo ricono scimento. Ciò ci è
dimostrato dal fatto, che fin dalle origini di Roma noi possiamo trovare poste
le basi di tutto il diritto pubblico di Roma, mentre la vera elaborazione del
diritto civile romano, co mune alle due classi del patriziato e della plebe,
incomincia solo più tardi. Prima si fondò la città, e poi si pensò alla
formazione del suo diritto, ed è anche questo uno dei motivi, per cui il
diritto di Roma potè riuscire tipico ed esemplare per tutti i popoli. Intanto,
in prosecuzione del medesimo processo, anche la legge, che è l'espressione
delle volontà riunite e concordi, viene a distin guersi in les privata ed in
lex publica, di cui quella esprime l'accordo di due o più contraenti, mentre la
lex publica invece è l'espressione della volontà collettiva del popolo, che si
impone alla volontà dei singoli individui. Anche i sacra vengono a subire la
medesima distinzione; la quale pure si verifica per cid, che si rife [ La
distinzione fra la lex publica e la lex privata è accennata più volte da Garo
in formole, che da lai ci furono conservate. Comm. I, 3; II, 104; III, 174. Una
delle modificazioni state introdotte dal MOMMSEN nell'ultima edizione,
Friburgi, da lui curata del Bruns, Fontes iuris romani antiqui, fu quella di
intito larne il capo terzo: Leges publicae populi romani post XII Tabulas
latae. 224 - risce agli auspicia. Lo stesso infine deve dirsi dei crimina, i
quali, a misura che si vengono delineando, sono pure richiamati alla
distinzione fondamentale di publica e di privata, secondo che il danno, che ne
deriva, e quindi la prosecuzione di essi appar tenga ai singoli individui,
oppure colpisca ed interessi l'intiera co munanza; distinzione, che riflettesi
eziandio nei iudicia, i quali fin da Servio Tullio cominciano a dividersi in
iudicia publica e pri vata. A queste si potrebbero aggiungere ancora molte
altre distin zioni, che son tutte il riverbero di un medesimo concetto, che una
volta accettato percorre l'intiera vita sociale e lascia dapertutto le traccie
del suo passaggio. È in questo senso, che le proprietà si distinguono in due
categorie, indicate coi vocaboli di ager pri vatus e di ager publicus; che i
rapporti stessi, che possono correre fra cittadini e stranieri, subiscono la
stessa distinzione, cosicchè la societas, l'amicitia, l'hospitium, il foedus si
distinguono anche essi in pubblici e in privati. Non è quindi meraviglia, se
parlisi eziandio di costume pubblico e privato, di virtù pubbliche e private, e
se la distinzione si inoltri nei particolari più minuti della vita, co sicchè
anche i servi stessi si distinguono in publici e privati, e chiamasi publicus
l'equus, che è somministrato dallo Stato agli equites, che vengono così ad
essere denominati equo publico. 182. Conviene quindi ammettere, che la
distinzione dovesse es sere profondamente sentita, se essa lasciò le proprie
traccie in qual siasi argomento. Non occorre poi di notare, che l'esplicazione
dia lettica dei due concetti, che qui si compendia in pochi tratti, dovette
naturalmente essere il frutto di una lunga evoluzione; ma se questa potè
accadere colla fondazione della città, mentre prima non erasi avverata, la
causa di un tal fatto deve trovarsi in ciò, che la città non si propose di
agglomerare genti e famiglie, ma intese fin dapprincipio a sceverare la vita
pubblica dalla privata. Che se si volesse spingere più oltre lo sguardo sarebbe
anche facile il dimostrare, che la formazione della città cooperò eziandio allo
svol gersi di sentimenti e di affetti, che prima non riuscivano a
sceverarsi Quanto alla distinzione dei
sacra publica ac privata, è da vedersi Festo, vu Publica sacra (Bruns, Fontes 358),
stato già citato a 43, nota nº 3. Quanto alla distinzione poi fra gli auspicia
publica e gli auspicia privata, è da vedersi Mommsen, Le droit pubblic romain.
Trad. Girard. Paris, 1887, I, 101, cogli autori ivi citati in nota. 225 dagli
affetti domestici e patriarcali. Fu infatti la città, che, accanto agli affetti
di famiglia ed al culto per gli antenati, suscitò l'affetto per la propria
terra, e il culto per coloro, che si sacrificavano per essa, e quell'illimitato
amore di patria, che informa tutta la storia e tutta la letteratura di Roma, e
che fece esclamare al cittadino ro mano: dulce et decorum est pro patria mori.
Fu essa parimenti, che accanto al culto per i mores maiorum riusci a svolgere
il concetto di una legge, espressione della volontà comune, che doveva a tutti
essere nota, e costituire in certo modo la base e il fonda mento della
comunanza civile. Fu essa ancora, che, accanto alle tradizioni, che si
serbavano gelosamente nelle famiglie e nelle genti e si trasmettevano di
generazione in generazione, diede origine a quella narrazione dei fasti e degli
avvenimenti notevoli per la città, da cui doveva poi uscire la storia; al modo
stesso che, accanto al comando del padre ed alla persuasione degli anziani,
fece svolgere l'arte oratoria e l'eloquenza, le quali più non si impongono per
l'au reola religiosa, da cui sono circondate, ma commuovono e trasci nano la
moltitudine e la folla, a cui si indirizzano. Fu essa infine, che, accanto alla
narrazione delle gesta degli eroi e dei principi, cantate nelle epopee
primitive, rese possibile la storia militare e po litica della città e del
popolo, e pose anche in evidenza l'impor tanza politica di quell'elemento, che
chiamavasi plebe . Dopo cið parmi di poter conchiudere, che non può essere
accolta l'opinione di coloro, che considerano Roma primitiva come uno Stato
patriarcale. Lo Stato romano, noi diremo
con un re. cente autore, che è il Pelham, appartiene, quanto alla sua
struttura, ad uno stadio già molto più inoltrato dello sviluppo della
convivenza sociale e suppone innanzi a sè una lunga preparazione storica. Certo
esso conserva ancora le traccie di un più antico e più pri mitivo ordine di
cose; ma queste sono traccie di un periodo ormai trascorso, le quali tendono
sempre più a scomparire . La supre Per
una più larga trattazione dei mutamenti, che recò nella vita sociale il
surrogarsi della città all'organizzazione patriarcale, mi rimetto all'opera: La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, nº. 34, 94
e segg., e alla dissertazione: Genesi e sviluppo delle varie forme di
convivenza civile e po litica. Torino, 1878.
Pelham, vº Rome (ancient), nell'Encyclopedia Britannica, ninth edition.
Edinburgh, 1886, vol. XX, 731. C. Le origini del diritto di Roma.] mazia dello
Stato è ormai stabilita sopra ciascuno dei gruppi, dalla cui confederazione
esso è uscito, e ciascuno di questi gruppi più non si mantiene, che come una
corporazione di carattere esclusivamente privato. In questa parte pertanto lo Stato Romano, come ben nota il Gentile,
lascia a grande distanza la monarchia delle popolazioni Orientali, ed anche
quella delle primitive società greche, la quale è ancora stretta da intimo
vincolo colla divinità, da cui ritiensi pro cedere, e che trasmettesi per
eredità nei discendenti per sangue, e signoreggia con assoluta potestà il
populus od il demos, il quale è solo convocato ad udire le decisioni sovrane e
non mai a deliberare. Il principio invece della sovranità popolare ed il
diritto a partecipare all'amministrazione della cosa pubblica con un voto
direttamente esercitato, e il diritto anche di voto nell'elezione dei reggitori
dello Stato è fin dalle prime origini inerente alla cittadinanza romana . Il
Re, fin dagli esordii della città, è la suprema magistratura dello Stato, e
questo è l'opera del volontario accordo dei cittadini e dei capi di famiglia,
che concorsero alla sua formazione, i quali, nella propria elezione, più non
badano esclusivamente alla nascita ed alla stirpe, ma cominciano a riguardare
al valore ed alla sapienza dei proprii reggitori. Sarà collocandosi a questo
punto di vista, che non segue questo o quell'elemento esclusivo, ma cerca di
riguardarli tutti ad un tempo nel loro progressivo sviluppo, che potrà riuscire
più facile di com prendere i primitivi elementi dello Stato romano, ed il
carattere dei poteri, che lo governano.
GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, Milano, 1879,
2 e 3. 227. Le cose premesse hanno abbastanza dimostrato, come nella formazione
primitiva dell'organizzazione sociale domini una legge di evoluzione, non
dissimile da quella, che governa le formazioni naturali. Le traccie di essa
apparirono evidenti, allorchè fra i gruppi gentilizii si veniva lentamente
preparando e quasi sperimentando in varie guise la convivenza civile e politica.
Tuttavia questo concetto deve essere completato con osservare, che nella storia
delle cose sociali ed umane, ogni qualvolta sono preparati gli elementi di una
formazione novella, e questa trovi un terreno acconcio al proprio sviluppo, gli
elementi, di cui si tratta, sembrano richiamarsi l'un l'altro, attirarsi
scambievolmente, riunirsi per guisa, che la nuova formazione sboccia tanto più
rigogliosa e potente, quanto è più matura la preparazione di essa. Per tal modo
ad una lenta incuba zione può anche succedere una pronta e rapida formazione:
il che talvolta accade ancora a ' nostri tempi, e accadde senz'alcun dubbio
nella storia primitiva di Roma, allorchè la nuova città, dopo essere stata
lungamente preparata, presentasi nella storia pressochè con sapevole della
propria destinazione. Tutte le incertezze sembrano essere scomparse, e quasi si
potrebbe dire con ragione, che la co stituzione primitiva di Roma, al pari di
Minerva, sembra uscire compiutamente armata dal cervello di Giove. Se infatti
si possono ancora scorgere delle incertezze, in quanto riguarda la formazione
di una religione, comune alle varie tribù, perchè questo non è lo scopo
essenziale, a cui Roma intende; la costituzione politica di Roma invece sembra
in certo modo essere il frutto di una intuizione po tente, tanta è l'armonia
dell'edifizio, tanta l'efficacia e l'acconcezza dei vocaboli, con cui si
esprimono le singole istituzioni, tanto è il sentimento, che ciascun organo del
nuovo Stato ha di sè medesimo. e del contributo, che deve recare all'opera
comune. Noi ci troviamo 228 di fronte ad un popolo, che con uno sforzo
collettivo giunge a mo dellare ne' fatti un edificio, al quale a stento
potrebbe riuscire un pensatore, che raccolto nelle proprie meditazioni cercasse
di isolare da una quantità di materiali, posti a sua disposizione, tutto ciò,
che si riferisce alla vita politica, giuridica e militare. Tutte le energie
naturali e sociali sembrano concentrarsi in un'opera sola, e ben può dirsi con
Ennio e con Cicerone, che fin dai propri esordii: Moribus antiquis res stat
romana virisque. Secondo la tradizione, bastó un solo regno per porre le basi
di una costituzione, che richiese poi parecchi secoli per svolgersi in tutte le
sue parti : nè la tradizione pud essere così facilmente respinta, come vorrebbe
la critica moderna, in quanto che noi difficilmente possiamo comprendere
l'entusiasmo potente, da cui poterono essere stimolati re, senato, sacerdozii e
popolo, allorchè erano intesi tutti all'attuazione di un grande concetto. 185.
L'urbs, dopo la federazione delle varie tribù, viene ad essere collocata in un
sito, a cui hanno facile accesso le diverse comunanze e trovasi così in tale
posizione da potersi cambiare nel l'emporio del Lazio. Essa per la prima, fra
le comunanze italiche, da cui trovasi circondata, l'ha rotta colle tradizioni,
e si è formata mediante il connubio di genti, che appartengono a stirpi e a
nomi diversi. I padri, che si riunirono per costituirla, hanno parentele ed
aderenze nei territori contigui, e probabilmente continuano a tenervi delle
possessioni, e possono così esercitare un'attrazione potente sulle popolazioni
vicine, a qualunque stirpe esse appartengono. Se a tutto ciò si aggiunge la
fortuna della nascente città, la fortezza della sua posizione e delle sue mura,
il carattere tenace e perseverante de' suoi cittadini, che tutto aspettano
dall'avvenire di essa, potrà lasciarci ammirati, ma non increduli il suo rapido
incremento. Anche lasciando in disparte il provvedimento, che viene attribuito
a Ro molo, di aver aperto un asilo ai rifugiati delle altre città, era na
turale, che essa dovesse cambiarsi in un asilo per tutti coloro, che Vi.
Cic., de Rep., V, 1. È lo stesso CICERONE, che insiste più volte sul
rapido svolgimento di Roma all'epoca romulea, e fa dire fra le altre cose a
Scipione: detisque igitur, unius viri consilio non solum ortum novum populum,
neque ut in cunabulis vagientem relictum, sed adultum iam pene et puberem? (De rep.). Lo stesso pure appare dal racconto
di Livio e di Dionisio. 229 si trovassero spostati nella propria terra o nella
propria organiz zazione gentilizia. Il grande scopo dei fondatori era quello di
fon dere insieme questi elementi diversi e di unificare così la città, tanto
nelle mura, che la circondano, quanto nei concetti giuridici politici e
militari, che servono a stringerne insieme le parti diverse. 186. La cerchia
delle mura e la sua compagine interna sembrano cosi procedere di pari passo. I
suoi fondatori già hanno una lunga esperienza di cose civili e non ignorano
anche i riti religiosi, da cui deve essere accompagnata la fondazione di una
città. Cominciasi pertanto dagli auspizi, per conoscere quod bonum, felix, faustum, fortunatumque
siet populo Romano, e per tal modo anche la re ligione viene ad essere posta a
base della nuova formazione. Quanto alla sua costituzione interna, tutto sembra
essere preparato ed ac concio. I concetti politici di Roma primitiva, nella
loro sintesi po tente, possono essere paragonati a quei massi rozzamente
modellati, che sovrapposti gli uniagli altri formano la cerchia delle sue mura,
e che per il proprio peso e la propria quadratura non abbisognano di essere
cementati gli uni con gli altri. Essi non escono da una costituzione scritta:
ma erompono dalla stessa realtà dei fatti, e sono altrettante costruzioni
logiche e coerenti in tutte le loro parti, le quali, una volta accolte nella
costituzione, potranno essere svolte con rigore dialettico, fino a che non
abbiano ricevuto tutto lo svi luppo, di cui possono essere capaci. Le forme
esteriori delle istituzioni politiche di Roma sono bensì ricavate da
istituzioni analoghe, esi stenti nell'organizzazione anteriore, ma il contenuto
di esse viene ad essere determinato dalle esigenze della nuova città. Quanto
all'in tento, che la città si propone, esso è universalmente sentito, e quindi
non è meraviglia, se la nuova città proceda verso il proprio scopo con
l'ordine, con cui si dispiegherebbe un esercito, e se dei suoi fondatori possa
dirsi col poeta: cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc, nec
lucidus ordo. Per tal modo il concetto della città presentasi determinato in
tutte le sue parti, e si esplica con un rigore geometrico, che rende pos sibile
di rifare i diversi stadii, che ha dovuto percorrere. ORAZIO, Ars poetica. 230 187. La città è un
edifizio nuovo, costruito con elementi tolti dall'organizzazione gentilizia
preesistente, i quali però, mirando ad un intento novello, ricevono uno
svolgimento compiutamente diverso. L'urbs è una selezione dalle comunanze di
villaggio circostanti, per cui tutti gli edifizii, che hanno pubblica
destinazione, sono con centrati in un medesimo sito; il populus non è tutta la
popolazione delle comunanze, ma il complesso dei viri, che col braccio e col
consiglio possono cooperare all'interesse comune; la civitas non è più un
vincolo di sangue, ma è determinata dalla partecipazione alla medesima vita
pubblica sotto l'aspetto politico e militare ad un tempo; il munus non è il
complesso delle obbligazioni, che incom bono all'uomo come tale, ma il
complesso dei diritti e delle obbli gazioni, che derivano dall'ubbidire al
medesimo diritto e dal par tecipare alla stessa comunanza civile e politica ;
la res publica non è la somma degli interessi de' singoli cittadini,ma il
complesso degli interessi, che riguarda l'universalità dei cittadini,
considerata come un tutto organico e coerente; infine la lex publica è il com
plesso dei patti ed accordi votati nei comisii, in base ai quali si conviene di
partecipare alla stessa vita pubblica, e quindi per la formazione di essa
debbono concorrere tutti gli elementi costitutivi della città. 188. Intanto
perd nella formazione della città non può aversi altro punto di partenza, che
quello delle istituzioni preesistenti, per guisa che il nuovo edificio richiama
pur sempre l'antico, ma intanto la sua base è mutata; poichè mentre quello si
reggeva sull'eredità e sulla discendenza, questo invece si fonda sulla capacità
e sull'ele zione; mentre quello si fondava sul vincolo del sangue, questo
invece pone la sua base salda sopra un determinato territorio, nel quale si
fortifica e si chiude; mentre in quello ogni cosa veniva ad essere determinata
dall'età e dalla posizione naturale, che altri tiene nella famiglia e nella
gente, in questo invece le funzioni degli
Munus (scrive Festo, quale è restituito dal Mommsen nell'ultima ediz.
del Bruns, Fontes, 344 e 3-15 ) dicitur administratio reipublicae, magistratus
alicuius, aut curae, imperiive, quae multitudinis universae consensu, atque
legitimis in unum convenientis populi comitiis, alicui mandatur per suffragia,
ut capere eum eamque oporteat, et statim, certove ex tempore, certum usque ad
tempus administrare , Qui però il vocabolo munus è preso in una significazione
più ristretta, che non quella che lo stesso autore vi attribuisce, quando
discorre del municipium.] individui vengono ad essere determinate dalla
cooperazione, che possono recare alla città. Giovani debbono esserne i soldati;
anziani debbono esserne i consiglieri. — Solo potrebbe trarre in inganno quel
l'aureola religiosa, che sembra ancora circondare la formazione della città;
maanche questa religione non deve più confondersi con quella preesistente; essa
non è nè il fondamento, nè l'intento supremo, a cui la città intende, come
sembra sostenere il Fustel de Coulanges ; ma è soltanto una consacrazione dello
scopo, che viene a proporsi la nuova comunanza, politica e militare ad un
tempo, e quindi anche la sua religione, i suoi sacerdozii, i suoi auspizii
hanno un carattere pubblico, e come tali si contrappongono alla religione, ai
sacerdozii, e agli auspicii delle singole genti. $ 2. Il populus e le sue
ripartizioni (tribus, curiae, decuriae). 189. Anche le divisioni, che
compariscono nella città, a prima giunta appariscono come un riverbero di
quelle, che esistevano nel periodo precedente e quanto alla loro conformazione
esteriore, sono veramente tali; ma se si riguardano più da vicino, si
presentano con un contenuto, che già comincia ad essere diverso e che tende a
diventarlo sempre più. Così è certamente vero, che la città viene ad essere
divisa in tribu; ma è evidente, che questa divisione in tribů, trasportata
nell'interno di una stessa comunanza, non può più considerarsi come una
distinzione del populus, ma tende di necessità a cam biarsi in una ripartizione
del suo territorio. Le tre tribù primitive, ancorchè serbino per qualche tempo
la denominazione antica, ten dono necessariamente a trasformarsi in altrettante
divisioni territo riali; poichè col mescolarsi degli elementi riuniti in una
stessa co munanza, la distinzione delle stirpi primitive finisce per non più
corrispondere alla realtà dei fatti. Come si potrà ancora parlare di una tribù
di Ramnenses, di Titienses e di Luceres, quando, per la comunanza di connubio e
di diritto, le varie genti si vengono me scolando insieme e nulla pud impedire,
che le persone di una stirpe possano anche trasportare la propria sede nel
territorio dell'altra? Si FUSTEL DE COUlanges, La cité antique, liv.
III, chap. 5, 6, 7. 232 comprende pertanto, che fin dapprincipio i re
tentassero di togliere di mezzo questa distinzione, che solo ebbe a mantenersi
ancora per qualche tempo in conseguenza di quello spirito conservatore, che
dimostrasi tenace sopratutto fra le genti di stirpe Sabina, alle quali appunto
apparteneva l'augure Atto Nevio. La sua opposizione tut tavia non mutasi che in
una dilazione, e la soppressione delle an tiche tribù, se non di diritto, verrà
ad essere operata di fatto da Servio Tullio, che alla tribù fondata sulla
discendenza sostituirà la tribù di carattere territoriale, e sarà cosi
conservato il nome antico per indicare una istituzione compiutamente nuova. In
questo modo infatti si sostituisce il vincolo territoriale, a quello della
discendenza, che prima era il solo ad essere riconosciuto. 190. La distinzione
invece, che è veramente fondamentale per il populus, è quella per cui il
medesimo viene ad essere ripartito in curiae. Un tempo si è dubitato circa il
carattere originario delle curiae, e sull'autorità del Niebhur si è soventi
sostenuto, che esse non fossero, che aggregazioni di gentes, e che si
ripartissero anzi in gentes . Ora però comincia ad essere universalmente
ammesso, che la curia può essere una istituzione, la cui origine è forse an
teriore alla comunanza romana, e che poteva già essere conosciuta alle genti
latine ed etrusche; ma che essa deve ad ognimodo essere considerata come la
base di tutte le divisioni politiche e militari della città, finchè questa si
mantenne esclusivamente patrizia. Essa, al pari del populus, di cui è una
suddivisione, costituisce una cor porazione religiosa, politica e militare ad
un tempo; ha un proprio capo (curio); un proprio sacerdote (flamen curialis );
un proprio culto, che fa parte dei sacra publica; un proprio santuario (sacel
um ); e tutte insieme riunite hanno proprie assemblee, che pren dono il nome di
comitia curiata. L'esattezza stessa del loro nu mero già dimostra come questa
divisione abbia un carattere del tutto artificiale, e miri a uno scopo
preordinato, che è quello di dare Del
resto anche VARRONE, De ling. lat., IX, 9, parla della divisione primitiva in
tribù, come di una divisione piuttosto dell'ager che del populus. Cfr. Karlowa,
Röm. R. G., I, 31, il quale anzi nota che la distinzione in tribus, secondo
Livio I, 13, si applicherebbe di preferenza agli equites. Niebhur, Histoire Romaine. Trad. Golbery.
Paris, 1830, II, 19. Vedi in proposito ciò, che si è detto parlando delle
gentes nel lib. I, cap. III, al nº. 28. e nelle note relative. 233 - ai
quiriti, posti sotto la protezione della religione, un ordinamento politico e
militare ad un tempo, per modo che essi sotto un aspetto possano costituire
un'assemblea di quiriti, e sotto un altro un eser cito di Romani. Quello viene
ad essere il loro nome nei rapporti interni (domi), e questo è quello, con cui
sono designati nei rapporti esterni (foris, militiae). Nulla vieta, che imembri
di una medesima curia siano anche stretti da vincoli gentilizi fra di loro, e
che essi, come attesta Aulo Gellio, siano anche tratti ex generibus homi num ;
ma le curie sono già composte di uomini scelti, di viri, diguerrieri armati di
lancia (quiris), di persone comprese in certi limiti di età, e quindi non
possono più avere colle gentes altro rapporto, salvo quello che da esse
ricavasi il contingente, che entra a costituirle. È quindi incomprensibile, che
le curiae possano ripartirsi in gentes, le quali comprendono indistintamente
tutti coloro, che derivano dal medesimo antenato, senza riguardo nè all'età, né
al sesso. Solo può dirsi, che i membri della curia possono essere considerati
sotto un doppio aspetto: o in rapporto colle famiglie, colle genti, colle tribù,
da cui ebbero a staccarsi, e sotto quest'aspetto essi continuano ad essere dei
gentiles; o rimpetto al populus ed alla civitas, di cui entrano a far parte, e
sotto questo aspetto sono dei viri, dei quirites, degli uomini di arme e di
consiglio, che non debbono avere altro pensiero, che quello della res publica.
191. Quanto alla suddivisione in decuriae, che è solo accennata da Dionisio,
essa non può certamente essere confusa colla riparti zione in gentes, come
avrebbe voluto il Niebhur; ma può essere facilmente compresa, quando si
ritenga, che dalle curie usciva poi quel contingente, scelto e nominato dal re,
che doveva poi entrare a costituire le centurie dei cavalieri e le decurie dei
senatori. I [Aulo Gellio, Noctes Atticae, lib. XV, 27, ci conservò in succinto
tutta una teoria intorno ai comizii, che egli dice di aver ricavata dal libro
di Laelius Foelix, ad Quintum Mucium, e sarebbero parole testuali di
quest'ultimo le seguenti: cum ex
generibus hominum suffragium feratur, curiata comitia; cum ex censu et aetate,
centuriata; cum ex regionibus et locis, tributa . Fu anche fondandosi su questo
passo, che si è sostenuto per lungo tempo, che le curiae si dividessero in
gentes; ma parmi evidente, che, anche ammettendo che genus in questo caso suoni
gens, il medesimo non potrà mai condurre ad altro risultato salvo a quello, che
il contingente delle curie era ricavato dalle genti e in base alla discendenza,
mentre quello delle cen turie era ripartito in base al censo, e quello dei
comizii tributi in base alle località o alle tribù, a cui erano ascritti i
cittadini. 234 senatori (patres) ed i cavalieri (celeres, equites) nella città
primi tiva appariscono come due corpi scelti nel seno stesso delle curie, e
corrispondono in certo modo alla divisione dei iuniores e dei se niores. I
primi sono l'elemento giovine, splendido nell'armi, che costituisce il
corteggio del re e l'ornamento della città (civitatis or namentum ), sotto il
comando di un tribunus celerum, o di un magister equitum; mentre il senato,
nella concezione estetica ed armonica della città primitiva, rappresenta
l'elemento più maturo negli anni, più saggio nel consiglio, e costituisce
veramente il con siglio, da cui il re è circondato (regium consilium ). Non vi
ha poi dubbio, che l'uno o l'altro elemento viene ad essere ricavato dal seno
delle curie, e quindi è assai probabile, che, nell'ordinamento simmetrico della
città primitiva, ogni curia potesse anche sommini strare un numero eguale di
cavalieri e di senatori, numero che dovette appunto essere quello di dieci per
ogni curia; donde il con cetto, che anche le curiae si dividessero in decuriae.
Del resto non avrebbe nulla di ripugnante, che questa suddivisione esistesse
vera mente nel seno delle curie: mentre sarebbe in ogni caso incom prensibile,
che le curie si potessero suddividere in gentes . 192. Conchiudendo si può
dire: che la ripartizione in tribù, qualunque potesse esserne la significazione
primitiva, tende a cam biarsi in una divisione territoriale, ossia in una
ripartizione del l'ager; che il populus, ricavato per selezione dalle genti e
dalle tribù, dividesi in curiae, che sono corporazioni religiose, politiche e
militari ad un tempo, i cui quadri sono regolari, come quelli diun esercito,
cosicchè riunite possono costituire sotto un certo aspetto un esercito e sotto
un altro aspetto un'assemblea politica, e sotto altro assumono eziandio un
carattere sacerdotale, che fu quello Che
le decuriae non debbano confondersi colle gentes, ma debbano invece ri cercarsi
piuttosto negli equites e senz'alcun dubbio anche fra i patres del senato, è
provato anzitutto da ciò, che il senato fin dai primi tempi si divideva
senz'alcun dubbio in decuriae, il che dovette pure essere degli equites, il cui
corpo, secondo OVIDIO, Fast., III, 130 dividevasi appunto in dieci squadroni o
turme, così chia mate quasi turimae,
quod ter deni equites, ex tribus tribubus Titiensium, Ramnium, Lucerum
fiebant (V. Festo, vº Turmam ). Del
resto la divisione del senato in de curiae fu ancora mantenuta nelle coloniae e
nei municipia, dei quali si sa, che erano organizzati sul modello stesso della
metropoli. Cfr. in proposito Belot, His toire des chevaliers
romains, I, 151, 152; e il Bloy, Les origines du Sénat romain. Paris,
1883, 102-105. 235 - che serbarono più a lungo, allorchè già avevano perduto le
altre funzioni politiche e militari; che da ultimo il corpo scelto degli
equites e dei patres dividesi in decuriae. Questo è certo ad ogni modo, che nel
populus non deve più essere cercata la riparti zione in gentes, delle quali
solo si può dire ciò, che Cicerone disse più tardi della famiglia, che esse
cioè erano il seminarium reipublicae, perchè da esse ricavavasi il contingente,
che entrava a costituire le curie. Il pubblico potere e gli aspetti essenziali
del medesimo (regis imperium, patrum auctoritas, populipotestas). 193. Intanto
questo esame del populus e della sua composizione può facilmente condurci a
spiegare in qual modo abbia potuto sboc ciare nel seno del medesimo il concetto
del pubblico potere, ed in quali forme esso siasi venuto manifestando. I
vocaboli sono qui una guida incerta, poichè il potere in genere viene ad essere
indicato, ora col vocabolo di potestas, ed ora con quello di imperium; ma l'in
certezza, che è nei vocaboli, può essere tolta di mezzo, se si riesca a
ricostruire il processo logico, che in questa parte seguirono i Romani. Anche a
questo riguardo esistevano degli elementi, che già erano preparati
nell'organizzazione preesistente. Per unificare la città, presentavasi acconcia
la figura del padre; per consultarsi nei momenti più difficili, eravi il
consiglio degli anziani; e in fine per deliberare intorno alle cose, che
riguardavano il comune interesse, già si conosceva l'assemblea della tribù.
Erano così in pronto l'elemento monarchico, l'aristocratico e il democratico;
nė ai fondatori della città patrizia poteva ripugnare, che queste con
figurazioni dell'organizzazione gentilizia fossero trasportate nella nuova
comunanza. L'imitazione dell'antico avrebbe conciliato rive renze alle
istituzioni novelle, e quindi tutte queste estrinsecazioni del potere,
preesistenti nell'organizzazione anteriore, ricompariscono nella città; ma
intanto il concetto ispiratore viene ad essere com piutamente diverso. Il re
infatti non è più tale per nascita, ma è creato dall'elezione; il che deve pur
dirsi del senato, e fino anche dei comizii del popolo, i quali non sono una
moltitudine, ne una folla, in qualsiasi modo congregata, ma costituiscono un
esercito di uomini di arme, ed un'assemblea, debitamente organizzata, di uomini
di senno e di consiglio. Il re, il senato ed il popolo, adunato nei comizii,
vengono così ad essere i tre organi essenziali, in cui si estrinseca il
pubblico potere nella costituzione primitiva di Roma. 194. Quanto al vocabolo
adoperato per significare questo supremo potere, la cosa è dubbia, poichè
occorrono in significazione generica ora quello di potestas, ed ora quello di
imperium. Dei due vocaboli tuttavia quello, che a mio avviso appare più largo e
comprensivo, è certamente il vocabolo di potestas, il quale, per la propria ge
neralità, può facilmente adattarsi ad indicare qualsiasi gradazione del
pubblico potere. Esso quindi si applica talora per significare il potere del
magistrato (potestas regia, consularis, censoria ); quello del popolo (populi
potestas) e talvolta eziandio quello del senato, al modo stesso che può anche
adoperarsi per significare il potere domestico e privato. Potestas insomma,
nella sua significa zione più larga, indica il potere, riguardato in tutte le
sue mol teplici manifestazioni; il che però non toglie, che, contrapponen dosi
talvolta lo stesso vocabolo a quello di imperium, possa anche assumere una
significazione più circoscritta. L'espressione quindi Questa incertezza di significazione fra
potestas ed imperium è notata, fra gli altri, dal KARLOWA, Röm. R. G., il quale
trova eziandio, che il voca bolo di potestas ha una significazione più
generica. Così pure la pensa il MOMMSEN, secondo il quale il vocabolo di
potestas esprime l'idea più larga, e quello di impe rium la più ristretta;
sebbene ciò non tolga, che nel linguaggio corrente il vocabolo di imperium
siasi poscia riservato alle magistrature maggiori,mentre si adoperò quello di
potestas per i magistrati, che non avevano imperium. Ciò risulta dal passo di
Festo ivi citato: Cum imperio dicebatur
apud antiquos, cui nominatim a populo dabatur imperium; cum potestate est,
dicebatur de eo, qui negotio alicui praeficiebatur . Le droit public romain, I,
24. Lo stesso autore poi osserva, che quel vocabolo di imperium, che in un
senso tecnico indicava in genere il potere del magistrato, in un senso
ugualmente tecnico e più frequente indicava il comando militare. Op. cit., I, 135.
Parmi tuttavia, che queste apparenti incoerenze nella significazione di questi
vocaboli vengano a dileguarsi, quando si ritenga, che il vocabolo di potestas
indicava il potere pubblico in genere, mentre quello di imperium usavasi di
prefe renza per il potere del magistrato, e più specialmente ancora per
l'imperium militiae. Anche nell'indicazione del potere privato del capo di
famiglia accadde alcun che di analogo. Questo potere infatti in origine era
indicato col vocabolo generico dimanus o di potestas; ma ciò non tolse, che
questi vocaboli abbiano poi designato i singoli aspetti di questo potere, cioè
la manus il potere del marito sulla moglie, e la po testas quello del padre sui
figli. Ciò significa, che i vocaboli presentansi dapprima con una
significazione più larga, che corrisponde al vigore sintetico di quei concetti
primitivi, di cui sono l'espressione; ma quando poi questi concetti si vengono
diffe renziando nei varii loro aspetti, il vocabolo primitivo suol sempre
essere mantenuto per significare in modo più specifico uno di tali aspetti. 237
- più generale del potere viene ad essere quella di publica potestas; ma
siccome poi esso può atteggiarsi sotto aspetti diversi, così ben presto nella
indeterminazione primitiva, compariscono i vocaboli, che esprimono gli
atteggiamenti diversi, che il medesimo viene ad assumere. Tali sono i vocaboli
di imperium, che applicasi di prefe renza al potere del magistrato; quello di
auctoritas, che sopratutto si accomoda al senato; e quello infine di potestas,
che, applicato al popolo, indica il potere di esso, in quanto iubet atque
constituit , Tutti questi concetti sono ancora vaghi ed indeterminati: ma
intanto sono concepiti in una sintesi potente, che renderà possibile a cia
scuno di ricevere uno svolgimento pressochè indefinito. 195. Ciò può scorgersi
anzitutto quanto al concetto di imperium, che indica di preferenza il potere
del magistrato. Il medesimo, nel concetto romano, non esce dalla nascita, nè
dalla investitura divina; ma esce dall'accordo delle volontà, che concentrano
ed unificano in esso il potere, che prima era disperso fra i singoli capi di fa
miglia, alla cui potestà trovasi talvolta applicato il vocabolo stesso di
imperium. Per esprimere un tal concetto non poteva esservi im magine più
efficace, che quella di raccogliere e di riunire quelle aste, che sono
l'emblema del potere spettante ai singoli quiriti . Che il potere del re e degli altri magistrati
maggiori, che a lui sottentrarono più tardi, sia di regola indicato col
vocabolo di imperium, è cosa che appare da tutti gli antichi scrittori. È poi
sopratutto CICERONE, che accenna a queste varie distin zioni, allorchè afferma
che potestas in populo, auctoritas in
senatu est . De le gibus III, 12, 28;
distinzioni, che egli fa rimontare fino agli inizii di Roma, in quanto che,
parlando di Romolo, scrive: vidit
singulari imperio et potestate regia tum melius gubernari et regi civitates,
esset optimi cuiusque ad illam vim do minationis adiuncta auctoritas , nel qual
passo il potere regio viene efficacemente chiamato vim dominationis, mentre
quello del senato è indicato con quello di au ctoritas. De rep., JI, 8. [Magistratus,
scrive a questo proposito il Mommsen, è l'individuo investito di una
magistratura politica regolare, in quanto essa emana dall'elezione del popolo (Le
droit public romain, I, 8 ); e aggiunge poi a 10, che il magistrato, quanto
alle forme esteriori, è appunto colui, che ha diritto di portare i fasci dentro
la città. Ora se il magistrato è l'eletto del popolo, e se i fasci, che
simboleggiano i poteri riuniti dei quiriti, sono l'emblema del suo potere, non
so veramente com prendere, come siasi potuto sostenere, in parte dallo stesso
Mommsen, che il re non riceva il proprio potere dal popolo: tanto più, che gli
scrittori antichi parlando del popolo usano le espressioni di imperium dare,
magistratum creare, iubere, sibi ad scire e simili. 238 Per tal guisa, dal
fascio delle armi usci il fascio dei littori, e si frapposero in esso anche le
scuri, che simboleggiano quel ius vitae et necis, il quale apparteneva al capo
di famiglia, e non poteva perciò essere negato al capo della città. È tuttavia
degno di nota, che questo imperium, formatosi mediante la riunione dei poteri
spettanti a ciascuno, appena costituito apparisce pauroso per coloro stessi,
che ebbero a conferirlo, in quanto che le sue stesse insegne esteriori (fasces)
indicano, come al disopra del potere dei singoli siasi formato un potere
collettivo, a cui tutti debbono inchinarsi. È questa la causa, per cui, davanti
ai fasci dei littori, si apre la molti tudine e la folla per lasciare il passo
a quel magistrato, il quale, mentre è il frutto dell'elezione di tutti, viene
ad essere imponente e pauroso per ciascuno; e che se il magistrato ordini al
littore col liga manus , il cittadino
non osa sottrarsi al comando. 196. Intanto in questa prima concezione del
potere del magi strato, non si potrebbe certamente aspettare, che siano
determinati i confini, in cui il medesimo debba essere contenuto. La necessità
di un elemento unificatore è universalmente sentita, trattandosi di una città,
che fin dalle proprie origini era il frutto della con federazione di elementi
eterogenei e diversi; né si può aspettare, che un popolo, il quale non pose
dapprima alcun limite al potere giuridico del capo di famiglia, possa cercare
di mettere dei confini alpubblico potere del magistrato. Il medesimo percid
compare senza limitazione di sorta; è potere religioso, militare, politico e
civile ad un tempo; ed è concepito in una sintesi cosi potente, che, secondo il
Mommsen, per ricostruire il potere primitivo del re, con viene in certo modo
ricomporre quei poteri, che si vennero poi di stribuendo fra tutte le
magistrature più elevate di Roma, quali sono il console, il pretore, il
dittatore ed il censore. Fu solo l'esperienza, che venne dopo, che fece
conoscere come del potere possa abusare anche un eletto dal popolo, e in allora
si assiste ad una singolare scomposizione del potere primitivo del re, per cui
ogni sua particolare funzione finisce per dare origine ad una ma gistratura
speciale. Tuttavia, anche allora, cercherebbesi indarno una circoscrizione
netta di qualsiasi potere, cosicchè il magistrato ro mano, che può talvolta
essere reso impotente per un atto di minima
Mommsen, Op. cit., 5 e 6. 239 importanza, viene ad avere un potere
pressochè senza confini, al lorchè trovasi appoggiato e sorretto dalla pubblica
opinione. Lo stesso è a dirsi della patrum auctoritas. Anche qui occorre un
vocabolo, che come quello di potestas, presentasi con significazione alquanto
vaga ed indeterminata, e che trovasi applicato eziandio, cosi in tema di
diritto pubblico che di diritto privato. Chi ben riguardi tuttavia non potrà a
meno di notare, che il vocabolo auctoritas, nella varietà delle significazioni,
che sogliono essergli attribuite, significa costantemente l'appoggio,
l'approvazione, la ga ranzia, che si arreca o si assume per un determinato atto.
Tale è la significazione fondamentale di questo vocabolo, sia quando parlasi di
iuris auctoritas, di usus auctoritas, sia anche quando è questione di tutoris
auctoritas, o del venditore, il quale, dovendo garentire l'evizione al
compratore, auctor fit dirimpetto al medesimo. Or bene anche questa è la
significazione del vocabolo di patrum auctoritas. Da una parte havvi il re, che
agisce ed esercita l'imperium, dal. l'altra il popolo, il quale iubet atque
constituit; mentre il senato trovasi nel mezzo, e cosi da una parte dà i suoi
consilia almagi strato, dall'altra auctor fit, cioè accorda la propria
approvazione alle deliberazioni del popolo. Esso componesi di persone, alle
quali, per la loro età e per il loro grado, si appartiene non tanto l'agere,
quanto il consulere, e quindi, senza avere propria iniziativa, completa in
certo modo l'opera dell'uno e dell'altro; poichè per mezzo del senato le misure
prese dal re vengono ad avere l'autorità e l'appoggio del suo consiglio, e le
delibera zioni del popolo ricevono consistenza ed autorità, mediante la sua
approvazione. Finchè dura il periodo regio, il concetto si man tiene ancora
vago ed indeterminato; ma durante il periodo repub blicano quest'autorità,
essenzialmente consultiva, riceverà una lar ghissima esplicazione, e finirà per
penetrare in qualsiasi argomento; e quindi può affermarsi a ragione, che la
grandezza di Roma non fu L'ufficio consultivo, che il senato compie rispetto al
re, è bellamente espresso da CICERONE, allorchè dice di Romolo: Itaque hoc consilio et quasi senatu fultus .
De rep., II, 8. Quanto poi all'auctoritas, che il senato esercita rimpetto al
populus, essa non può certamente pareggiarsi coll' auctoritas tutoris
dirimpetto al pupillo, perchè non trattasi qui di integrare una personalità
incompleta; ma bensì di recare il sussidio e l'autorità, che viene dall'età e
dall'esperienza, ai provvedimenti, che ri guardano il pubblico interesse. Cfr.
Karlowa, Röm. R. G., I, 47. 240 solo opera della fortezza del suo popolo, nè
dell'energia del suo ma gistrato, ma benanco della sapienza del suo senato. Per
i Romani ebbe importanza l'agere e il iubere; ma l'uno e l'altro dovettero
essere temperati dal consulere. 198. Intanto, dacchè sono in quest'argomento,
importa qui di accen nare alla questione tanto controversa, fra gli autori,
circa la signifi cazione da attribuirsi al vocabolo di patrum auctoritas: col
qual vocabolo alcuni intendono l'approvazione del senato; altri invece
l'approvazione, che, durante i primi secoli della repubblica, i pa trizii delle
curie dovevano dare alle deliberazioni prese negli altri comizi; mentre altri
infine ritengono, che con esso intendasi l'ap provazione dei senatori
esclusivamente patrizii . Sembra a me, che la questione possa essere risolta in
modo assai più naturale e più verosimile, quando si abbia presente che, in una
lunga evoluzione storica, quale è quella della costituzione politica di Roma,
una stessa espressione può in varii periodi di tempo anche assumere
significazioni compiutamente diverse. Durante il periodo regio, il vocabolo di
patrum auctoritas significò senz'alcun dubbio l'approvazione del senato; perchè
nella città esclusivamente patrizia erano chiamati col nome di patres i
senatori, mentre gli altri capi di famiglia costituivano il populus e
l'assemblea delle curie. Più tardi invece, allorchè, accanto ai comizii
curiati, si vennero for mando anche i comizii centuriati, ed anche i comizii
tributi, il vo cabolo di patres o patricii potè naturalmente comprendere tutto
l'ordine patrizio, il quale costituiva veramente l'ordine dei patres e dei
patricii di fronte al rimanente del popolo, ed aveva ancora una propria
assemblea, che era quella appunto delle curie. Di qui Questa è una delle questioni più controverse,
che presenti la storia politica di Roma, e credo veramente, che la causa del
dissenso provenga dalla supposizione, che un medesimo vocabolo in una lunga
evoluzione storica debba sempre avere una medesima significazione. Le opinioni
diverse sostenute dagli autori possono vedersi riassunte dal WILLEMS, Le droit
public romain, 5me éd., Paris 1883, 208 e dal Bouché-LECLERCQ, Manuel des
institutions romaines, Paris 1886, 16, nota 1. Di recente la questione ebbe ad
essere trattata con grande chiarezza ed eradizione dal PANTALEONI, L'auctoritas
patrum nell'antica Roma nelle sue diverse forme (Rivista di filologia, Così
pure ebbe nuovamente a trattarla il KARLOWA, op. cit., 42 a 48; il quale
finisce per associarsi all'opinione già soste nuta dal Rubino, che l'auctoritas
patrum debba ritenersi per l'approvazione dei se natori patrizii. 241 la
conseguenza, che d'allora in poi, per indicare l'approvazione del senato si usd
di preferenza il vocabolo di senatus auctoritas, in quanto, che il senato aveva
già cessato di essere composto esclusi vamente di veri patres, e cominciava a raccogliersi
fra gli equites e più tardi fra i magistrati uscenti di uffizio (patres et
conscripti); mentre il vocabolo di patrum auctoritas potè servire acconciamente
per indicare la ratifica, che i comizii curiati, composti ancora dell'ele mento
patrizio, dovevano dare alle leggi ed alle altre deliberazioni, che fossero
state votate nelle altre riunioni comiziali; il che è dimo strato da ciò, che
si usano promiscuamente le espressioni
patres o patricii auctores fiunt . Siccome però in questo periodo, il senato
è ancora essenzialmente l'organo del patriziato, così si comprende come
posteriormente, allorchè la necessità della patrum auctoritas era stata abolita,
l'espressione siasi talvolta adoperata per significare l'una o l'altra
approvazione. Nella gravissima
questione, che è tuttora aperta, gli unici argomenti, vera mente saldi, di cui
possiamo valerci, sono i seguenti: 1° Che l' auctoritas patrum, durante il
periodo regio esclusivamente patrizio, non potè significare che l'approva zione
del senato, come risulta dal racconto di Livio, relativo all'elezione di Numa,
ove i patres, qui auctores fiunt, non possono essere che i senatori. Hist. I,
17, ed anche da Cicerone, il quale, comesopra si è visto, attribuisce
l'auctoritas al senatus; 2° Che colla Repubblica il senato continuò senz'alcun
dubbio ad approvare le deli berazioni curiate e centuriate, ed anche tribute,
in quanto che parlasi più volte di senatus auctoritas, come risulta da Livio,
XXXII, 6; IV, 46, ove i colleghi di Sestio di chiarano: nullum plebiscitum nisi
ex auctoritate senatus passuros se perferri; 3º Che oltre a questa approvazione
del senato si parla sovente di patres o di patricii auctores sopratutto da
Livio, ogni qualvolta trattasi di proposta di un interrex, o di qualche
provvedimento voluto dalla plebe. Hist. III, 40, 55, 59; IV, 7, 17, 42, 43 ecc.
Ora quest'ultime parole non possono più riferirsi al senato, e quindi l'unica
conclusione probabile viene ad essere, che, siccome l'assemblea delle curie,
composta di patricii, era in certo modo stata esclusa dalla formazione delle
leggi, la quale era passata invece ai comizii centuriati, che erano la vera
riunione del populus, così essa, accid ritenesse sempre una parte nella
formazione delle leggi, è stata chiamata a dare la patrum o patriciorum
auctoritas, che venne così ad essere distinta dalla senatus au ctoritas. Cid fu
una conseguenza della modificazione introdottasi nella costituzione colla
introduzione dei comizii centuriati, e del principio ispiratore della
costituzione primitiva, secondo cui, per la formazionedella legge, richiedevasi
il concorso di tutti gli organi politici dello stato. Ciò che è accaduto
dell'auctoritas patrum, si è pure verificato della lex curiata de imperio, ed
anche della proposta dell' interrex, che pure appartengono all'assemblea
esclusivamente patrizia, quale fu per qualche tempo ancora quella delle curie;
mentre il Senato, avendo anch'esso accolto in parte l'ele mento plebeo, aveva
seguito lo svolgersi della costituzione, e aveva così cessato di C., Le origini
del diritto di Roma. 16 - 212 199. Viene infine la potestas populi, e a questo
riguardo io non dubito di affermare, che essa nel concetto della costituzione
pri mitiva di Roma, debbe essere considerata come la sorgente di ogni altro
potere. Alcuni autori trovano ripugnante, che Roma sia sen z'altro pervenuta al
concetto della sovranità popolare, e quindi cercano di dare, come fondamento
all'imperium del magistrato, il concetto degli auspicia, che essi considerano
come una specie di investitura divina. Parmi invece, che la genesi dello Stato
romano essere esclusivamente patrizio. Insomma, coll'accoglimento della plebe
nel populus quiritium, il vero potere legislativo viene a portarsi nei comizii
centuriati; ma in tanto l'assemblea delle curie conserva l'auctoritas patrum,
la lex curiata de imperio, e la proposta dell'interrex. Certo è una congettura
anche questa, ma mentre essa non contraddice ai passi degli antichi autori,
corrisponde allo spirito della costitu zione primitiva, in cui ogni organo
politico deve aver parte nella formazione delle leggi e nell'elezione del
magistrato, ed al sistema romano, che, pur introducendo un nuovo organo
politico, suole ancora mantenere per riverenza e per culto quelli, che
esistevano precedentemente. Il vero intanto si è, che queste varie funzioni
dell'as semblea delle curie non avevano più una vera ed effettiva influenza,
poichè la lex curiata de imperio divenne una semplice formalità, la proposta
dell'interrex era una reliquia del principio, che auspicia ad patres redeunt, e
la patrum auctoritas soleva solo essere negata, quando trattavasi di
opposizione d'interessi fra patriziato e plebe. Dovrò ritornare sull'argomento
nel Capitolo III, al 1° e 2°,
discorrendo dello svol gimento storico del concetto di lex, e di quello
dell'interregnum. Del resto delle opinioni poste innanzi dagli autori quella,
che parmi la meno probabile, è quella adottata dal KARLOWA, che intende per
patrum auctoritas l'approvazione dei soli senatori patrizii, perchè essa non si
concilia coll'espressione dei patricii auctores fiunt, patricü coeunt,
interregem produnt e simili, e perchè crea una divisione nel senato, che è
incompatibile col carattere di unità coerente, che ebbe sempre questo corpo.
Mentre l'assemblea delle curie diventava una soprav vivenza dell'antica'
costituzione, il senato invece si mantenne sempre vigoroso e vi tale, e subì
modificazioni analoghe a quelle del populus, senza mai portare le traccie di
dissidii che fossero nel suo seno, poichè la nobiltà plebea, che entrava in
esso, aveva già le stesse tendenze dell'antico patriziato. Che poi il vocabolo
di patres, in questo periodo, fosse venuto a significare in genere l'ordine
patrizio, è dimostrato in modo incontrastabile da quella disposizione della
legge decemvirale: connubium patribus
cum plebe ne esto , dove il vocabolo patres non comprende certo soltanto i
senatori, ma tutti i patrizü; come pure dal fatto, che gli storici parlano
soventi dei iuniores patrum, la cui intransigenza è condannata dal senato. Parmi, che questa proposizione sia abbastanza
provata dalle espressioni ado. perate dagli autori per significare il potere
del popolo. CICERONE, ad esempio, parla di questo potere, dicendo che il
populus regem sibi adscivit, creavit, iussit, constituit; espressioni, che
indicano abbastanza, che la potestà suprema, a suo avviso, risiedeva presso il
popolo. Lo stesso è da lui confermato, allorchè nel discorso de lege agraria 2,
7, 17 dice: omnes potestates, imperia,
curationes ab universo populo romano 243 dovesse logicamente condurre al
risultato di riporre la sorgente del pubblico potere nella sovranità popolare,
circondandola però di quel l'aureola religiosa, che occorre in tutte le
primitive istituzioni di Roma. Lo Stato romano esce dalla confederazione e dal
contratto, e quindi al modo stesso, che la patria riceve la sua denominazione
dai patres; così il potere pubblico si forma mediante la riunione del potere,
che appartiene ai singoli quiriti, e che è rappresentato dalla lancia, di cui
essi sono armati. Quanto agli auspicia, che appar tengono al magistrato, essi
non mirano, che a dare una consacra zione religiosa al potere stesso, e a
metterlo in condizione di sapere giudicare, se questo o quel provvedimento, da
prendersi nel pubblico interesse, possa essere o non accetto agli dei. Che anzi
gli auspicia publica del magistrato debbono considerarsi essi stessi come una
trasmessione, che i padri fanno al magistrato di quegli auspicia, che
appartengono a ciascuno di essi. Cid è dimostrato dal fatto che, du rante
l'interregno, gli auspicia ritornano ai padri (ad patres re deunt auspicia );
il che significa, che in origine dovevano appartenere ai padri stessi, i quali,
nell'interesse delle loro genti e famiglie, as sumevano quegli auspicii, che il
magistrato romano doveva invece consultare, quando si trattasse di qualche
deliberazione importante per il popolo stesso. Tuttavia se ai patres tornano
gli auspicia, è però sempre al populus, che spetta di creare il magistrato, che
debba succedere nell'imperium, come lo dimostra la tradizione, per venuta fino
a noi, della elezione diNuma. Si aggiunge, che è solo dopo il conferimento
dell'imperium, fatto mediante la lex curiata de imperio, che il re dapprima e
le magistrature, che gli sottentrarono più tardi, possono entrare
nell'adempimento del proprio uffizio. Ri tengo pertanto, che a questo proposito
non possa essere accolta l'opi nione del Mommsen, la quale riesce pure
inammessibile per il Kar proficisci convenit . Lo stesso è indicato da Festo,
allorchè parlando del magi stratus cum imperio, dice, che esso è quello al
quale a populo dabatur imperium .
Malgrado di ciò convien dire, che l'opinione contraria, come si vedrà in
seguito, ha la prevalenza presso gli autori anche recenti, che si occuparono
dell'argomento. Si accostano però al concetto da me sostenuto il Mainz, Introd.
au cours de droit romain. Bruxelles, ed il GENTILE, Le elezioni e il broglio
nella repubblica romana, il quale fino dapprincipio afferma molto chiaramente e
giusta mente, a parer mio, che i pastori
della leggenda riconoscono Romolo per capo supremo; ma, pur conferendogli la
somma autorità, riguardano ancor sempre se stessi quali depositarii, e quasi
natural sorgente della sovranità . 244 - lowa, secondo la quale la lex curiata
de imperio non conferirebbe l'impero, ma soltanto vincolerebbe il popolo verso
il re. Se cosi fosse infatti, il magistrato dovrebbe poter esercitare il
proprio ufficio, anche prima di aver ricevuto questa specie di giuramento di
fedeltà, che servirebbe ad obbligare il popolo, ma nulla aggiungerebbe al suo
potere. Il vero invece si è, che anche in questa appare il carattere
eminentemente contrattuale della costituzione primitiva di Roma, per cui anche
il conferimento del potere supremo si opera colla forma propria della
stipulazione, in quanto che havvi il magistrato, che prima di entrare in
ufficio rogat imperium, ed havvi il popolo, che con una legge glie lo
conferisce: e intanto l'uno e l'altro co noscono i diritti e le obbligazioni,
che una legge di questa natura può loro conferire. Una prova poi di questo
riconoscimento della sovranità popolare l'abbiamo per parte del patriziato, in
quel fatto di Valerio Pubblicola, che in tempo di pace e dentro la città
ordinava ai littori di abbassare i fasci, e di togliere daimedesimi le scuri,
come pure nel fatto, che gli imperatori, quando già si erano fatti onnipotenti,
sentirono il bisogno, per rispettare un tradizionale concetto, di essere
investiti dell'imperium dal popolo. Intanto però il concetto, che il potere
supremo risiedesse nel popolo, non poteva in nessun modo affievolire l'imperium:
poichè al modo stesso che il popolo doveva ubbidire alle leggi, che si
erano Che il magistrato non possa
entrare in ufficio, e tanto meno esercitare l'im perium, prima della lex
curiata de imperio, è provato da due passi di CICERONE, nei quali si dice: consuli, si legem curiatam non habet, rem
militarem attingere non licet (De lege
agraria, II, 12, 30 ) e più genericamente ancora: sine lege cu riata nihil agi per decemviros
posse (Ibidem, II, 11, 28). Dal momento
quindi, che il concetto dell'imperium dei consoli è in tutto identico a quello
del regis im perium, non si comprende come il Mommsen, Staatsrecht, I, 588 s.
possa ridurre la lex curiata ad un semplice giuramento di fedeltà, che vincola
i soli sudditi, e meno an cora, che il Karlowa, op. cit., I, 52 e 82 possa
sostenere, che la lex curiata de imperio non sarebbe entrata in azione, che
colla costituzione Serviana, ossia colla in troduzione dei comizii centuriati,
i quali avrebbero conferita la potestas, mentre i comizii curiati avrebbero poi
conferito l'imperium. Ciò è contraddetto ripetutamente da CICERONE, de Rep. II,
10, 17, 18, 20, che parla appunto della lex curiata de imperio a proposito dei
primi re. Non solo deve negarsi, che questa lex entrò in azione solo colla
costituzione Serviana; ma deve dirsi piuttosto, che essa da quel momento perde
della propria importanza e riducesi ad una semplice sopravvi venza dell'antico
ordine di cose, in cui erano i patres, che investivano il re del. l'imperium, e
a cui ritornavano gli auspicia. - 245 da lui votate nei comizi, così esso
doveva eziandio inchinarsi al potere, che aveva conferito al magistrato per
mezzo di una pro pria legge. Che anzi questo potere riusciva tanto più efficace
ed imponente, in quanto si fondava sopra una volontà collettiva, che ve niva a
sovrapporsi alla volontà dei singoli. Ed è anche questo il mo tivo, per cui il
potere del magistrato romano veniva in certo modo ad essere senza confini,
finchè aveva l'appoggio della pubblica opinione. Fermo cosi il concetto della
costituzione primitiva di Roma, quale esce dalla logica delle istituzioni
(logica, che nel fatto dovette anche essere più rigorosa e coerente di quella,
che a noi possa esser riu scito di ricostruire ), riescirà più facile di
ricomporre insieme i cenni, che gli autori ci conservarono di questa primitiva
costituzione e di comprendere il vero ed intimo significato della
medesima. 4. Il re ed il regis imperium. 201. Dei concetti politici del
periodo regio, quello che presentasi modellato in modo più vigoroso e potente è
certamente il potere del rex. Tutti i poteri infatti, che nel periodo
anteriore, presso le genti latine, erano indicati coi vocaboli di magister
populi, di magister pagi, di dictator, di praetor, di iudex appariscono fusi e
concentrati nella concezione sintetica del regis imperium. Per tal modo il con
cetto del rex da una parte inchiude la sintesi di tutte le manifestazioni del
potere, che eransi avverate nel periodo gentilizio, e dall'altra è il punto di
partenza,da cui prendono le mosse tutti i poteri, che, durante il periodo
repubblicano, saranno poi affidati alle diverse magistrature maggiori. Il rex
nel concetto romano è l'unificazione potente del populus; accoglie in sè la
somma dei poteri, che possono essere necessarii nell'interesse della cosa
pubblica; nė vi ha costituzione scritta, che gli prescriva alcun limite
nell'esercizio dei medesimi. Cid però non toglie, che questi limiti esistano di
fatto nel costume pubblico e privato; nel bisogno incessante, che il re ha
dell'appoggio della pubblica opinione; ed anche negli imbarazzi, che gli
possono creare i padri, ogni qualvolta egli volesse spingere troppo oltre la
propria azione. Capo del populus, egli è custode eziandio della città spiega la
vita pubblica (custos urbis), e deve avere la propria casa nel cuore stesso
della città, accanto al sito, ove deve bru 246 ciare perenne il focolare della
vita pubblica, che si conserva nel tempio di Vesta. Che se, per provvedere al
pubblico interesse, debba abbandonare la città, dovrà lasciare nella medesima
un proprio delegato, che prenderà il nome di praefectus urbis. È quindi anche
il re, che provvede al lustro esteriore della città, che progetta e costruisce
quelle opere grandiose, che già rimon tano all'epoca regia, e che non furono le
meno durature fra quelle costruite nell'eterna città. È nella successione dei
re parimenti, che può scorgersi una continuità nel grandioso intento di
ampliarne le mura e le fortificazioni; lavori tutti, le cui reliquie dimostrano
abbastanza, come trattisi di un concepimento, che già presentatosi ai primi re,
ebbe poi ad essere continuato da quelli, che vi suc cedettero, non eccettuato
quello, che aspird alla tirannide. 202. Cid quanto alla custodia materiale
dell'urbs. Che se si con sidera dirimpetto al populus, il re, condottiero di un
popolo, che è ripartito in curie, le quali hanno un carattere religioso,
militare e politico ad un tempo, riunisce in sè tutti questi caratteri. Finché
dura il periodo regio, il magistrato non è solo il capo dell'esercito (impe
rator) od il magister populi, o il giudice cosi in tempo di pace che in tempo
di guerra, ma è anche il sommo sacerdote del popolo romano. Esso è augure
sommo, e tale appare Romolo stesso; è pontefice massimo, come lo dimostra il
fatto, che questa ' magistratura sacer dotale del popolo romano compare
soltanto colla repubblica, allorchè sentivasi già il bisogno di limitare in
qualche modo il sovrano po tere, disgiungendone la parte che si riferiva alla
religione, la quale ebbe ad essere ripartita fra il pontifex maximus ed il rex
sa crorum; e fino a un certo punto esso è ancora il pater patratus del popolo
romano, come lo dimostra il fatto, che nelle descrizioni dei più antichi
trattati sono i capi dei due popoli, che vengono alla stipu lazione del foedus
e al compimento solenne delle cerimonie del ius foederale o foeciale, mentre
gli eserciti si limitano a salutarsi re ciprocamente, e così approvano
tacimente l'opera dei proprii capi. Verò è, che già fin dal periodo regio noi
troviamo l'istituzione dei collegii sacerdotali, ma questa creazione è opera
del re stesso, nè essi hanno, anche nella città patrizia, alcuna partecipazione
diretta all'e Ciò appare dal seguente
passo di Livio, I, 1, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri: inde foedus ictum inter duces, inter
exercitus salutationem factam.] sercizio del pubblico potere; ma sono soltanto,
come si dimostrerà a suo tempo, depositarii e custodi delle tradizioni
giuridiche, politiche, internazionali delle genti e delle tribù, da cui essi
sono tolti, e aiu tano così il re nella opera di unificazione legislativa, che
dovette essere urgente cosa e difficile negli inizii di Roma, per trattarsi di
città, che risultava dalle confederazioni di genti, che appartenevano a stirpi
diverse. Vero è parimenti, che durante il periodo regio già appariscono altre
cariche, quali sono quelle del tribunus celerum, dei quaestores parricidii, e
deiduumviri perduellionis; ma anche questi non sono che ufficiali dipendenti
dal re, e da lui nominati. Di qui la conseguenza, che è solo il re o qualche
suo delegato, che può essere preceduto dai fasci dei littori e dalle scuri,
simbolo del pubblico potere. È esso parimenti, che solo può convocare il popolo
e il senato, salvo che egli deleghi questo potere al tribunus celerum o al
praefectus urbis. È quindi vero, che colla creazione del regis imperium si rias
sumono in una sintesi potente tutte le manifestazioni del magi stratus nel
periodo gentilizio, e si inizia lo svolgimento di tutti i poteri, che possono
convenire ad una comunanza civile e politica. Nel rex insomma, per usare una
espressione dello Spencer, termina l'integrazione del potere preparatasi nel
periodo gentilizio, e da esso incomincia quella differenziazione del potere
pubblico, che dovrà poi operarsi nella città. 203. Per quello poi, che si
riferisce ai poteri che sono inchiusi nell'imperium regis, indarno si
cercherebbero quelle decise ripar tizioni, che compariranno più tardi.
L'imperium regis è una con cezione logica, più che l'opera di una costituzione
scritta, e quindi egli può compiere tutto ciò, che può essere indicato coi
vocaboli di agere, di ius dicere, di rogare, di imperare. Egli deve pren dere
norma più dalla funzione, che è chiamato a compiere nella città, che non da una
precisa e particolareggiata determinazione del
Quanto al compito dei collegi sacerdotali in Roma primitiva, mi rimetto
a quanto avrò a dirne in questo stesso libro, capitolo IV, 2º. Secondo il LANGE, Histoire intérieure de Rome,
115, sarebbe, valendosi di questo potere, che Giunio Bruto, come tribunus
celerum o Spurio Lucrezio Trici pitino, quale praefectus urbis, avrebbero
convocato il popolo, dopo la cacciata dei Tarquinii: quantunque sia probabile,
che in circostanze del tutto eccezionali non siasi forse pensato
all'adempimento di tutte le formalità. 248 proprio uffizio. Tuttavia già fin da
quest'epoca nel potere regio si possono distinguere atteggiamenti diversi, che
cominciano a diffe renziarsi mediante i vocaboli di auspicia, di imperium domi,
e di imperium militiae. A lui quindi si appartiene di assumere gli au spicii,
allorchè trattasi di qualche deliberazione, che si riferisca al pubblico
interesse, cosicchè, già fin da questo periodo, gli auspicia publica si vengono
a distinguere dagli auspicia privata. Nell' as sumere tali auspicii potrà
valersi dell'opera degli auguri, ma a questi solo si appartiene la custodia dei
riti e il compimento delle cerimonie tradizionali; mentre è al re stesso, che
si appartiene di giudicare se essi siano favorevoli o non lo siano. Così pure
ha l'imperium domimilitiaeque, col quale incomincia una distinzione, le cui
traccie si perpetuano per tutta la storia politica e militare di Roma. Per
verità, se i Romani credettero di porre dei confini al l'imperium nei confini
della città, e vollero che i consoli, entrando nella medesima, facessero
togliere le scuri dai fasci, e facessero abbassare anche questi, allorchè
concionavano il popolo, compresero però la necessità, che le scuri fossero
rimesse nei fasci, e che la provocatio ad populum fosse tolta di mezzo,
allorchè si trattava di mantenere la disciplina dell'esercito; quasi si
potrebbe dire, che a Roma il re o il magistrato rogat in tempo di pace, e
imperat in tempo di guerra. In virtù dell'imperium militiae, egli fa la leva
(delectus) ed è capitano supremo in tempo di guerra : nè può ammettersi l'opi
nione, secondo cui il re sarebbe il duce della fanteria, mentre il tribunus
celerum sarebbe quello della cavalleria, in quanto che quest'ultimo non è che
un ufficiale da lui stesso nominato, e quindi, sebbene guidi il proprio
drappello, che forma il corteggio militare del re, deve però sempre dipendere
dagli ordini del capo supremo. In virtù poi dell'imperium domi, il re convoca i
comizi: ra duna il senato; amministra giustizia, non nella propria casa, ma
all'aperto, in cospetto della cittadinanza; propone le leggi; e Cfr. Mommsen, Le droit public romain, I 119,
ove discorre della proce dura seguìta nel prendere gli auspicia, e del compito
affidato agli auguri. Sulla distinzione fra l'imperium domi e l'imperium
militiae è da vedersi la trattazione magistrale del Mommsen, op. cit., I, 68 e
69 e sui poteri compresi nell'imperium militiae, ivi, 135 e 157. Non occorre
però di notare, che tutti questi poteri nell' epoca regia sono, per dir così,
allo stato embrionale, e solo più tardi ricevono tutto lo sviluppo, di cui
possono essere capaci. 249 infine nomina i cavalieri e i senatori. Al qual proposito
mi fo lecita la congettura, già accennata più sopra, che nella costituzione
primitiva di Roma i senatori ed i cavalieri, i quali finirono poi per mutarsi
in due classi o ordini sociali, indicati coi vocaboli di ordo senatorius e di
ordo equestris, furono due corpi scelti, in base a un numero determinato,
dall'assemblea delle curie. I primi scelti fra i giovani, splendidi nella
propria armatura, formano la corte militare del re; mentre i secondi, scelti
fra gli anziani, ne costitui scono il consiglio; donde la naturale distinzione,
in cui vennero ad essere posti l'uno e l'altro ordine, e le lotte perfino di
prevalenza, che poterono esservi fra i medesimi, allorchè l'uno e l'altro già
eransi profondamente trasformati. Un indizio di cið l'abbiamo in questo, che
negli inizii di Roma sembra esservi una correlazione fra il numero degli equites
e quello dei patres, col numero delle curie; correlazione, che non tardd a
scomparire, in quanto che il numero degli equites si accrebbe coll'aumentare
delle legioni, mentre il numero dei patres si arrestò a trecento, fino agli
ultimi anni della Repubblica. Di più il senato costituisce un organo politico
dello Stato, il che non può dirsi degli equites, i quali hanno solo il pri
vilegio di essere i primi chiamati a dare il proprio voto (sex suf fragia ) nei
comizii centuriati, al modo stesso, che anche più tardi hanno, al pari dei
senatori, un posto distinto nel circo per assi stere ai pubblici spettacoli.
204. Questo è certo ad ognimodo, che nella costituzione primitiva di Roma il re
appare come l'elemento più operoso ed intraprendente, per modo che la
tradizione finisce per attribuire tutto all'opera personale del re. Egli impone
tasse, distribuisce terre, costruisce
Parmi di scorgere un accenno all'idea qui svolta nel PANTALEONI, Storia
ci vile e costituzionale di Roma, I, nel IV ed ultimo appendice, ove discorre
dell'isti tuzione dei cavalieri a Roma e dell'ordine equestre. È poi Livio, I,
35, che parla dei loca divisa patribus
equitibusque nel circo; altra prova
questa, che essi formavano fin dagli inizii due ordini distinti dal resto del
popolo delle curie. È poi degna di considerazione l'idea dello stesso
Pantaleoni, secondo cui gli equites costituiscono non solo un militaris ordo,
ma anche un ordo civilis, in quanto che ciò serve a spiegare, come essi abbiano
poi potuto trasformarsi nel l'ordo equestris. Del resto questo carattere
militare e civile ad un tempo è inerente a tutto il popolo delle curie, e a
tutte le istituzioni primitive di Roma, eccettuato il senato; sebbene siavi chi
attribuisce anche al senato un'origine militare. LATTES, Della composizione del
senato (Mem. Istituto Lombardo, 1870 ). 250 - edifizii. Può darsi, che la
tradizione colla sua tendenza a semplifi care e a sintetizzare i processi
seguiti, e a concentrare in un solo l'opera dei molti, abbia in questa parte
esagerata l'opera personale del re; ma ad ogni modo, quando si consideri che il
primo periodo di Roma fu essenzialmente un periodo di unificazione dei varii
ele menti, che concorrevano alla formazione della città, si dovrà sempre
riconoscere, che la parte più operosa nel compito comune doveva appartenere a
quell'elemento, che era chiamata ad unificarle. Allorchè trattasi della
formazione di una città (e si potrebbe anche dire di uno Stato e di una
nazione), importa sopratutto l'agere; soltanto si potrà fare una parte maggiore
al consulere, allorchè si tratterà di provvedere all'amministrazione interna, o
a quella delle provincie; sarà infine soltanto, allorchè saranno ferme le basi
della grandezza dello Stato, che potranno svolgersi largamente il iubere e il
constituere. Cid intanto prova ad evidenza che il potere del re in Roma pri
mitiva aveva già assunto un carattere essenzialmente politico e mi litare, come
quello, che conteneva in germe tutti quei poteri essen zialmente politici, che
furono poscia affidati a magistrature diverse. Nelle forme esteriori può ancora
assomigliarsi ad un padre: ma nella sostanza è già un principe, ossia il primo
del popolo (prin ceps), è il duce dell'esercito, e il magistrato della città. Un
carattere analogo può riscontrarsi eziandio nel senato, quale appare nella
costituzione primitiva di Roma. Può darsi benis simo, che il nome stesso di
senatus sia una sopravvivenza dell'or ganizzazione gentilizia, come lo è
certamente quello di patres, che fu dato ai senatori, e che essi conservarono
anche più tardi, allorchè certamente avevano cessato di esser tali. Può darsi
eziandio, che il primo concetto del senatus potesse essere suggerito da quel
consi glio domestico, che temperava talvolta il potere del primitivo capo di
famiglia, od anche dal consiglio degli anziani, che provvedeva all'interesse
comune della gente. Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il senato
romano assume fin dai proprii inizii un ca rattere eminentemente politico, e
che presentasi come l'applicazione di un concetto, che i Romani avevano
profondamente radicato, il quale consisteva in ciò, che tanto il regis imperium,
quanto il iussus populi abbisognassero di un ritegno in quell'autorità, che
viene ad essere attribuita dall'esperienza e dall’età. Di qui conseguita, che
la patrum auctoritas, allorchè comparenella costituzione primitiva di Roma, non
è un'autorità, i cui limiti siano stabiliti e determinati; ma è anch'essa una
costruzione logica, che potrà col tempo rice vere tutto quello svolgimento, di
cui può essere capace il concetto ispiratore della medesima. Di essa, come
dell'imperium regis, non potrebbe dirsi quale sia l'influenza, che verrà ad
esercitare sulle sorti di Roma; solo si conosce la funzione che, in base al
proprio concetto informatore, è chiamata ad esercitare nella costituzione
politica della città. Saranno poi gli eventi, che additeranno al senatus la via
che dovrà seguire, i limiti in cui dovrà contenersi, e i casi eziandio, in cui
dovrà forzare il proprio ufficio e spingerlo perfino oltre i confini, in cui la
logica dell'istituzione dovrebbe contenerlo. 206. Siccome perd la funzione del
consulere, per essere una fun zione intermedia, ha per sua natura una
indeterminatezza molto maggiore, che non quella dell'agere e del iubere; così
ne viene, che i poteri del senato presentano negli inizii ed anche nello svolgi
mento posteriore un carattere vago ed indeterminato, che dipenderà
dall'influenza effettiva e reale, che i membri, che lo compongono, saranno in
condizione di esercitare sull'andamento della cosa pubblica. Possono esservi
dei consigli che, per le persone da cui vengono, si cambiano in ordini ed in
comandi, per quanto siano accompagnati dalla formola si eis videbitur ; al modo stesso, che
possono esservi dei responsi e degli avvisi, che, per l'autorità della persona,
da cui partono, possono anche valere come sentenza, contro cui non sia
consentito di appellare. Queste esplicazioni sono frequenti nella lo gica
romana, e sono esse, che possono spiegare in qual modo il se nato, pressochè
lasciato in disparte dallo spirito intraprendente dei re, che dovevano
preferire l'appoggio dell'elemento popolare e quello anche della plebe, abbia
potuto, senza romperla affatto col concetto ispiratore della propria
istituzione, cambiarsi colla Repubblica nel l'organo più potente della
costituzione politica di Roma, per guisa da attribuire ai proprii avvisi
(consulta ) l'autorità di vere leggi;
Parmi di trovar espresso questo concetto, a proposito di Romolo, in
CICERONE, de Rep. II, 8. 252 mentre invece coll'Impero viene ad essere ridotto
a concedere la propria autorità ai decreti di un principe, al cui arbitrio non
era più in caso di poter resistere. 207. Del resto questo carattere non è
proprio solo del senato, ma di tutti gli organi della costituzione politica di
Roma, nella quale, ad esempio, occorre un magistrato, come quello del censore,
che in caricato dapprima di una funzione, che sembrava non adatta alla di gnità
di un console, quale si era quella della compilazione del censo, cambiasi poi
in censore del pubblico e del privato costume, in elet tore supremo del senato,
e per la dignità finisce in certo modo per essere considerato come superiore
allo stesso console. Nè altrimenti accade anche delle magistrature plebee, e
sopratutto dei tribuni della plebe, i quali negli inizii non hanno che il ius
auxilii, e non mirano che a difendere i debitori dai maltrattamenti dei
creditori, e i plebei dai maltrattamenti del console; ma poi da ausiliatori si
mutano in organizzatori della plebe, in accusatori del patriziato, e
nell'organo certamente più efficace del pareggiamento giuridico e politico
della plebe; finchè da ultimo il potere tribunizio, che continua pur sempre ad
essere circondato dal favor popolare, mutasi ancor esso nella base più salda,
sovra cui poggi ildispotismo imperiale. È quindi sopratutto in Roma, che
qualsiasi aspetto del potere sovrano tanto vale quanta è la tempra della
persona, che trovasi investito di esso, e quanto è l'appoggio, che esso trova
nella pubblica opinione, con quest'unica limitazione, che esso deve trattenersi
nei limiti del concetto, a cui si informa dai proprii inizii. Questo concetto
da una significazione materiale potrà passare ad una significazione morale e
politica, sic come accadde del censore, che da compilatore del cengo si cambiò
in censore del costume, dalla difesa potrà anche passare all'accusa, in uno
scopo di difesa, siccome fecero i tribuni della plebe;ma intanto nel proprio
sviluppo sarà costantemente percorso da una logica interna, a cui i Romani
seppero mantenersi fedeli, non solo nelle istituzioni giuridiche, ma anche in
quelle politiche. Questo carattere perd so pratutto si appalesa
nell'istituzione del senato. Potere consultivo nelle proprie origini trovò
opposizione nel partito popolare, allorchè cerco di cambiare i proprii
senatusconsulti in leggi; ma anche in quei senatusconsulti, che ebbero autorità
di vere leggi, esso si propose costantemente di esercitare sulla comunanza un '
autorità di carat tere consultivo e pressochè di protezione e di tutela: come
lo pro 253 vano il senatusconsulto intorno ai Baccanali, ed i senatusconsulti
Macedoniano e Velleiano. Intanto per tornare all'argomento, questo è certo che
tutti gli autori sono concordi nel descrivere il senato come elettivo fin dagli
inizii di Roma. Festo anzi ci attesta, che la nomina attribuita al re era più
libera di quella, che più tardi appartenne al censore, in quanto che l'essere
lasciati in disparte dal re (praeteriti sena tores) non era riputato ignominia;
il che fu invece di quei ma gistrati, uscenti d'uffizio, che, avendo le
condizioni per entrare nel senato, non vi fossero chiamati dal censore, o
fossero rimossi dal medesimo, se già ne facevano parte. 208. L'incertezza
invece è grande, quanto alle funzioni, che da esso furono effettivamente
esercitate; il che provenne probabilmente da ciò, che, trattandosi di un potere
di carattere vago ed indeterminato, gli autori, e fra gli altri Dionisio, non
potendo attribuirgli dei poteri determinati da una costituzione scritta,
dovettero sforzarsi ad asse gnargli quei poteri, che sembravano convenire alla
funzione, che esso era chiamato ad esercitare. Questo è certo ad ogni modo, che
le sue funzioni, anche durante il periodo regio, furono essenzialmente con
sultive. Esse anzi sembrano ancora tenere del patriarcale, come quando i
senatori son chiamati a fare ripartizioni di terre fra le popolazioni di classe
inferiore, e quando ad essi viene affidata, almeno secondo Dionisio, la
punizione dei delitti meno importanti, mentre il re sarebbesi riservata la
giurisdizione sui più gravi. Non può invece ammettersi, perchè ripugna al
carattere dell'istituzione, che il re, dopo aver chiesto l'avviso del senato,
fosse obbligato ad attenervisi: inquantochè, se questo fosse stato il carattere
degli avvisi dati al re, che da solo aveva per tutta la vita quei poteri, che
poscia furono non solo suddivisi fra magistrati diversi, ma anche attenuati e
limitati quanto alla propria durata, per maggior ragione i senatusconsulti
avrebbero conservato e spinto anche più oltre questo carattere, allor chè,
durante il periodo repubblicano, il senato venne ad essere pres sochè
onnipotente. Sembra invece, per quello che risulta dagli avveni menti,cheil
senato, durante il periodo regio, non abbia potuto esercitare tutta quella
influenza, che spiego più tardi; cosicchè, quando volle Festo, V ° Praeteriti senatores (Bruns,
Fontes, 355). Dion. 2, 12, 14, il cui
testo è riportato in greco ed in latino dal Bruns, Fontes, 4 e 5. 254 -
contrastare alla intraprendente operosità del re ed alle innovazioni dal
medesimo tentate, dovette ricorrere all'intermezzo degli auguri e dei
sacerdoti, come lo dimostra la tradizione relativa all'augure sabino Atto
Nevio, all'epoca di Tarquinio Prisco. Il suo potere con sultivo trovavasi
inefficace di fronte ad un re a vita, che aveva per sè l'appoggio del popolo
non solo,ma anche della plebe, la quale già cominciava ad esercitare
un'influenza, se non di diritto, almeno di fatto. Quindi fu solo colla cacciata
dei re, che il senato, consesso permanente fra magistrati, che mutavano ogni
anno, e che usciti dalla magistratura entravano a farne parte, divenuto così
custode della politica tradizionale diRoma, sopratutto nei rapporti esteriori,
potè dare al concetto ispiratore dell'istituzione tutta la portata logica, di
cui poteva essere capace, e forse spingerla anche oltre i confini, che dalla
logica erano consentiti. 209. Sopratutto sono gravi i dubbii e le incertezze
intorno alla composizione ed al numero dei senatori, durante il periodo esclusi
vamente patrizio; al qual riguardo parmi impossibile di ricomporre e coordinare
i pochi e non concordanti accenni, che pervennero fino a noi, senza ricostrurre
il processo logico, che segui la politica dei re nel formare e nell'accrescere
il senato primitivo di Roma. In proposito tutti gli autori sembrano essere
concordi nell'atte stare, che Roma, nella sua primitiva formazione, non fece
che imi tare, quanto al senato, l'organizzazione delle altre città latine;
quindi il suo senato appare dapprima limitato al numero di cento, che sembra
appunto essere il numero adottato per le altre città latine, e per gli stessi
municipii, che ebbero poi ad essere organizzati sul modello ro mano. Tuttavia
la politica di Roma, che nel periodo regio non pensa ancora a chiudersi in sè
stessa,mapiuttosto ad aggregarsi nuovi ele menti, condusse in questa parte a
modificare il modello latino. Al lorchè trattavasi di associare nuove
popolazioni alle sorti di Roma, il processo a seguirsi non poteva offrire
difficoltà, finchè trattavasi soltanto di famiglie o di individui, che
appartenessero alla plebe. Questa non era ancora organizzata o almeno lo era in
guisa tale, che poteva accogliere, senza difficoltà, qualsiasi nuovo elemento.
Di più Liv. I, 8; Dion., II, 12; Cic.,
De Rep., II, 12. Che il senato o meglio l'ordo decurionum delle colonie e dei
municipii si componesse solitamente di cento, appare da ciò, che essi talvolta
erano perfino chiamati centumviri. Cfr. Willems, Le droit public romain, 535.
255 l'Aventino, che sembra essere il colle, sovra cui accentrasi di prefo renza
la comunanza plebea, è ancora spopolato, e fu anche più tardi lasciato fuori
della cinta Serviana, in modo da poter offrire territorio e spazio, ove le
nuove famiglie si possano stabilire. Tutto al più oc correrà di far loro
concessioni di terre, che sotto la tutela del ius mancipii porgano loro un
mezzo sicuro di provvedere al proprio sostentamento. Cosi invece non accade,
allorchè trattasi di famiglie, che già abbiano ottenuta posizione elevata nella
comunanza, a cui esse appartengono, e tanto più se trattasi di quelle,
che,mediante l'orga nizzazione gentilizia e le numerose clientele, siano in
condizione tale da offrire un contingente poderoso alla crescente popolazione
romana. Allora anche Roma deve venire a patti, in quanto che genti nume rose e
potenti difficilmente si disporrebbero ad abbandonare la pro pria sede
gentilizia, quando non fossero accolte nell'ordine patrizio, mediante la
cooptatio, e quando non potessero ottenere, che i loro capi entrassero nel
senato, e i gentili, che entrano a costituirle, non fossero ammessi a far parte
delle curie. Quanto a quest'ul time, non occorre dimutare l'ordinamento
primitivo della costituzione romana, nè di aumentarne il numero, poichè, non
essendo determinato il numero dei componenti ciascuna curia, le curie
costituiscono dei quadri, che possono anche accogliere gli elementi, che si
vengono aggiungendo. Cosi non è invece del senato; la consuetudine latina
vorrebbe che il medesimo fosse limitato al numero di cento, e tale esso fu
veramente nelle origini, secondo la tradizione, e lo fu anche più tardi nei
municipii e nelle colonie: ma, una volta completato questo numero, sarebbe
stato necessario arrestarsi, salvo di appigliarsi al partito di aggiungere un
determinato numero disenatori, ogniqual volta si avverasse in una sola volta
una considerevole aggregazione di genti patrizie. Tuttavia non è nel costume
dei romani di abbandonare senz'altro il numero prefisso, poichè tutto ciò, che
viene daimaggiori, è sacro per essi. Quindi, siccome Roma risulta in certo modo
dalla confederazione di un triplice elemento: così il senato potè essere
portato fino a trecento, il qual numero aveva anche il vantaggio di essere in
esatta correlazione con quello delle curie, e di non contrastare cosi colla
composizione simmetrica della città. Come e quando siasi fatta quest'aggiunta,
non è bene atte stato. Alcuni, ritenendo che Roma avesse successivamente
incorpo rato nelle sue curie le tre tribù primitive, direbbero, che i primi
cento senatori furono tolti dalle tribù dei Ramnenses, gli altri, che 256
vengono dopo, dai Titienses, e gli altri infine dai Luceres: la cui
aggregazione sarebbe accaduta sotto Tarquinio Prisco, al quale ap punto si
attribuisce di aver portato a trecento il numero dei sena tori. Questa
spiegazione sarebbe abbastanza verosimile, allorchè non fosse contraddetta
dalla tradizione, che fa rimontare fino al regno di Romolo la federazione delle
tre primitive tribù. Di più se veramente quest'aumento si fosse fatto, allorchè
una nuova tribù veniva aggregata, non si comprenderebbe come potesse parlarsi
di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi; la quale distin zione
appare essere stata introdotta nelle centurie dei cavalieri, il cui aumento
sembra, quanto alle epoche, in cui è seguito, corrispondere all'aumento nel numero
dei senatori. Di qui deriva la conseguenza, che la spiegazione più verosimile
del processo, che è stato seguito in questo argomento, sia quella stessa, che
ci viene additata dalla tradi zione. Le tre piccole tribù, che costituirono
Roma primitiva, non potevano essere tali da offrire il numero di trecento
senatori, e Livio ci dice appunto, che il numero del senato primitivo fu di
cento, per chè Romolo non ne trovò un numero maggiore che fosse degno di sedere
nel senato. Ma intanto, dopo la primitiva costituzione romulea, che sarebbesi
avverata in seguito alla federazione delle tribù dei Titienses, sono due
sopratutto gli avvenimenti, che, du rante il periodo della città esclusivamente
patrizia, contribuirono ad un forte aumento del patriziato romano. 211. Il
primo di questi avvenimenti consiste nella sconfitta di Alba, in seguito al
combattimento degli Orazii e dei Curiazii, il quale, come ho già notato
altrove, più che una vera e propria scon fitta, deve piuttosto essere
considerato comeuna specie diduello giu diziario, a cui si rimisero i due
popoli fratelli per sapere quale delle due città dovesse essere centro della
vita pubblica per le po polazioni, che ne dipendevano. In quella circostanza
infatti la Tale è l'opinione sostenuta
dal WILLEMS, Le Sénat de la république romaine, Paris, 1878, I, 21 e segg.; dal
Bloch, Les origines du Sénat romain, Paris, 1883, 43 e 55; i quali pure
accennano alle diverse opinioni professate in proposito. Liv., I, 8. È però a notarsi, che Livio
farebbe rimontare la composizione del senato per opera di Romolo, ad un'epoca
anteriore all'aggregazione coi Sabini, mentre parla invece della formazione
delle trenta curie, come avvenuta posteriormente. In ciò è però contraddetto da
CICERONE, che accenna alla formazione del senato, dopo la federazione coi
Sabini. De Rep., II, 8. (3 ) V. sopra, lib. I, Cap. VIII, nº 144. 257
tradizione narra, che la parte povera della popolazione latina entrò a far
parte della plebe, ed ottenne delle concessioni di terre. Quanto alle genti
patrizie, noi sappiamo, che uno dei patti era quello, che esse dovessero venir
accolte nel patriziato romano, e noi sappiamo in effetto, che così accadde. Ora
l'effetto naturale di questa coo ptatio era, che i capi di queste genti
dovessero essere ammessi nel senato, il che non avrebbe potuto essere fatto,
senza aumentare il numero dei senatori. Se quindi ci mancassero anche le
testimo nianze di un tale aumento in questa occasione, non sarebbe invero
simile il supporlo; sonvi invece degli storici, i quali, senza accennare
espressamente alle proporzioni di tale aumento, attestano però che esso dovette
aver luogo. Così, ad esempio, Livio attribuisce a Tullo Ostilio di aver
duplicato il numero dei cittadini; di aver accolto nei patres i principali
cittadini d'Alba; di aver costrutto in quell'occa sione la curia Ostilia; e di
aver aggiunto dieci torme di cavalieri, acciò a ciascun ordine si recasse un
contributo dal nuovo popolo. Così pure Dionisio parla di un aumento fatto nel
patriziato e nel senato all'epoca di Tullo, in occasione della distruzione di
Alba, seb bene poi non accenni le proporzioni dell'aumento. Il numero tut tavia
si può argomentare da ciò, che entrambi affermano più tardi, che Tarquinio
Prisco elesse altri cento senatori, e ne portò così il numero a trecento, il
qual numero non avrebbe potuto essere raggiunto, se nel frattempo e
precisamente all'epoca di Tullo Ostilio non si fossero aggiunti gli altri cento.
Alcuni, e fra gli altri il Pantaleoni, vor rebbero, che il secondo centinaio si
fosse aggiunto coll'aggregarsi della tribù Tiziense; ma ciò non può essere
ammesso, in quanto che l'ordinamento politico della città, per opera di Romolo,
era già se guito dopo l'aggregazione di questa tribù, come lo dimostra la tra
dizione, che le trenta curie avrebbero perfino ricevuto il loro nome dalle
donne sabine; inoltre, cid ammettendo, rimarrebbe inesplicato quell'aumento,
che certo ebbe a verificarsi sotto Tullo Ostilio (3 ). 212. Quanto all'ultimo
aumento, la tradizione e concorde nell'attri
LIV., I, 30; Dion., III, 29.
Liv., I, 35 dice di Tarquinio Prisco
centum in patres legit ; e Dion., III, 62: Et tunc primum populus tercentos senatores
habuit, qui ducentos tantum ad eam usque diem fuerant . PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di
Roma. Appendice III, 645 a 672. G. C.,
Le origini dil diritto di Roma. 17 258 buirlo a Tarquinio Prisco; ma vi ha
divergenza nel modo, in cui sa rebbesi operato. Cicerone dice, che egli avrebbe
duplicato il numero dei senatori, e portatolo cosi a trecento, il che farebbe
supporre, che anteriormente fossero soli cento cinquanta, il qual numero non
può essere ammesso, perchè non risponde ai numeri comunemente seguiti dai
Romani, e dai quali non solevano scostarsi. Resta quindi la testi monianza
concorde di Dionisio e di Livio, che l'aumento da lui fatto sia stato di cento
senatori. Questi nuovi senatori, alcuni vogliono che fos sero delle genti
Albane: ma è ovvio l'osservare, che non può essere probabile, che genti,
entrate nella comunanza fin dall'epoca di Tullo Ostilio, siano rimaste tutto
questo tempo senza rappresentanti nel se nato. Altri invece, come il
Pantaleoni, sostengono che i nuovi senatori aggiunti fossero tratti dalla tribù
dei Luceres, i quali, a suo avviso, deriverebbero il proprio nome da Lucer, che
in Etrusco corrisponde rebbe a Lucius ; ma contro quest'opinione vi ha sempre
la consi derazione, che se questi entravano per la prima volta nella comunanza
romana, non poteva esservi motivo, perchè le nuove centurie di equi tes,
ricarate da essi, si chiamassero Luceres posteriores o secundi. Ciò indica, che
dovevano esservi i Luceres primi, i quali erano en trati prima nella comunanza;
il qual fatto potrebbe forse essere spie gato colla tradizione, serbataci da
Varrone, secondo cui Romolo in guerra coi Sabini avrebbe avuto soccorso dai
Lucumoni Etruschi, uno dei quali (forse Celes Vibenna, che dette nome al Celio,
già compreso nell'antico Septimontium ) avrebbe anche preso parte alla confede
razione, che segui allora fra i due popoli, sebbene le sue genti siano state
forse collocate in condizione inferiore. Bensi è probabile, che le genti, da
cui si trassero i nuovi senatori, potessero essere altre genti, pure di origine
Etrusca, come i Luceres primi, le quali fossero venute a Roma al seguito di
Tarquinio e della sua gente: il che spiega molto meglio, che non la leggenda di
Tanaquilla, comemaiTarquinio, appena giunto a Roma, abbia potuto avere un
seguito e un appoggio così forte nella popolazione romana, da aspirare e da
ottenere colle PANTALEONI, op. cit., 660. L'opinione di VARRONE a questo proposito è
ricordata da SERvio, in Aen., V, ove scrive:
nam constat tres fuisse partes populi Romani. Varro tamen dicit, Romulum
dimicantem contra Titum Tatium, a Lucumonibus, id est Tuscis, auxilia
postulasse; unde quidam venit cum exercitu; cui, recepto iam Tatio, pars urbis
data est . Del resto anche Livio, I, 13, fa rimontare a Romolo l'aggregazione
dei Lu ceres primi, solo mettendo in dubbio la loro origine. 259 forme
tradizionali la dignità regia. Egli tuttavia non potè passar sopra almetodo
essenzialmente romano, che è quello di porre come primi quelli, che veramente
sono tali, e quindi dovette collocare i nuovi senatori nel novero dei patres
minorum gentium; quest'appellazione tuttavia non sembra tanto indicare la minor
dignità delle medesime, quanto il loro essere entrati più tardi a far parte
della comunanza. È questo il motivo, per cui dovevano essere chiamati gli
ultimi a dare il proprio avviso; al modo stesso, che anche più tardi nei co
mizii centuriati erano chiamati primi a dare il loro suffragio i se niores,
ossia i maiores natu, e soltanto dopo venivano i iuniores, che erano i minores
natu. Cid dimostra, che, trattandosi di un processo costantemente seguito, non
può ricavarsene indizio di minor dignità di questi senatori, ma solo della
costanza romana in appli care il principio:
prior in tempore, potior in iure . 213. Le genti insomma, che, a nostro
avviso, si vennero ag giungendo, escono da quelle stirpi, a cui appartenevano
le tribù, la cui confederazione primitiva aveva dato origine alla città dei
quiriti, e per tal modo si spiega come esse abbiano potuto esservi attirate
dalle aderenze e parentele, che già potevano avere in Roma, e come, offrendosi
ad entrare nella nuova città, abbiano po tuto esservi accolte. A misura però,
che esse erano conglobate, do vevano pure avere una rappresentanza nel senato,
e così il numero di questo venne ad essere portato a trecento; il quale,
essendo in correlazione con quello delle curie, non ebbe ad essere più superato
fino all'epoca dei dittatori, che prepararono l'Impero. D'altronde le occasioni
di aumento vennero mancando dappoi: perché quando la città patrizia ha
riempiuto il vuoto dei suoi quadri, essa comincia a rinchiudersi in sè stessa,
e a vece di farsi grande, mediante le federazioni e le cooptazioni, si propone
invece di affermare la pro pria superiorità sugli altri popoli, e di associare
la comunanza ple bea, di cui trovasi circondata, all'avvenire della sua città.
Bene è vero, che si verifica ancora più tardi la cooptazione della gente
Claudia: ma essa avverasi, quando erano troppi i vuoti nel senato, perchè
bisognasse aumentarne il numero, e poi trattavasi di una gente soltanto, la
quale, per quanto numerosa, non poteva occupare tanti seggi nel senato, da
richiedere un aumento nel numero. La spiegazione, che mi son fatto lecito di
proporre, quanto ai suc cessivi incrementi nel numero dei senatori, parmi, fra
le moltissime che si posero innanzi, che si concilii più facilmente colla tradi
260 zione e col processo eminentemente romano di far procedere di pari passo
gli aumenti, chesi introducono nel senato, con quelli dell'or dine dei
cavalieri e di tutti gli ordini della popolazione; non poten dosi negare, che
nel concetto primitivo della città tutte le parti di essa debbono essere
simmetriche, proporzionate e coerenti fra di loro. La medesima intanto ci
prepara anche la via a risolvere la questione, intorno alla composizione del
senato nel periodo regio. 214. Gli storici, al modo stesso che parlano talvolta
dei comizii curiati, come se essi abbracciassero l'intiero popolo, il quale
all'e poca, in cui essi scrivevano, comprendeva anche la plebe, così sem brano
talvolta accennare a nomine, che i re avrebbero fatte di se natori, che non
sarebbero stati tolti dalle genti patrizie; e cid fra gli altri attribuiscono
allo stesso Tarquinio Prisco. Un tale fatto sembra anzitutto essere smentito
dalla circostanza, che anche questi nuovi senatori sono chiamati patres minorum
gentium, denomina zione, che poteva solo accomodarsi all'ordine patrizio, il
quale consi derava come un suo privilegio la gentilità. A ciò si aggiunge, che
in quest'epoca la distanza era ancora troppo grande fra i due ordini, perchè
deimembridella plebe potessero essere ammessi nell'ordine più elevato della
cittadinanza romana, tanto più se i plebei, come dimo strerò a suo tempo, non
erano ancora ammessi a far parte delle curie. Ritengo quindi in proposito, che
l'opinione più probabile e più conforme al processo solitamente seguito nello
svolgimento politico di Roma, ove i cambiamenti, più che da arbitrio di uomini,
sogliono derivare dal processo naturale delle cose, sia quella, che
l'ammessione della plebe al senato dovette essere una naturale conseguenza del
l'ammessione di essa a far parte del populus delle classi e delle centurie;
poichè, modificandosi la composizione di uno degli organi essenziali della
costituzione, che erano i comizii, anche il senato dovette subire un'analoga
trasformazione . Più tardi poi, allorchè
Il WILLEMS, nella sua opera: Le Sénat de la République romaine, I, 19,
28 e poi anche nel Droit public romain, 46, sostiene invece che i plebei non
sareb bero stati ammessi nel senato, che a misura che furono ammessi alle
magistrature ed agli onori. Tale opinione trovasi in contraddizione col fatto,
che gli storici attri buiscono a Giunio Bruto od a P. Valerio di aver colmato i
vuoti lasciati nel senato da Tarquinio il Superbo, mediante persone tolte dalla
plebe più ricca ed agiata (ex primoribus equestris gradus); la qual tradizione
ha nulla di ripugnante, perchè il cambiamento nella composizione del popolo
richiedeva una modificazione correlativa - - 261 - i senatori cessarono in
realtà di essere nominati esclusivamente fra i patres delle antiche gentes, ma
furono scelti fra i magistrati, uscenti di ufficio: ne consegui per una
naturale evoluzione di cose, che anche i plebei, che un tempo non avrebbero
potuto esservi am messi per nascita, poterono esservi ammessi per la dignità,
che avevano coperto. Probabilmente fu poi in questo secondo periodo, e in conse
guenza di questa trasformazione, per cui la dignità e gli onori con seguiti
cominciano a tener luogo della nascita, che i capi delle grandi famiglie
plebee, che erano già pervenute al ius imaginum, e ave vano così imitata
l'organizzazione gentilizia, poterono perfino entrare a far parte delle curie;
le quali, se avevano perduta ogni loro im portanza politica, continuavano però
sempre ad avere una impor tanza grande sotto l'aspetto religioso e sacerdotale,
sopratutto per coloro, che già eguali in influenza e in ricchezza al patriziato
pri mitivo, potevano desiderare di apparire loro eguali, anche nella no biltà
di origine. 6. – I comizii curiati e la
populi potestas. 215. Anche i comizii curiati, che furono l'unica assemblea del
popolo romano, finchè durò la città esclusivamente patrizia, appa riscono
vigorosamente tratteggiati nella costituzione primitiva di Roma. Per quanto i
medesimi abbiano poscia perduto della propria importanza e siansi ridotti ad
un'assemblea di carattere gentilizio e sacerdotale, che può quasi considerarsi
come una sopravvivenza dell'antico ordine di cose; ciò però non toglie, che
essi siano stati il modello, sovra cui più tardi si vennero foggiando tutte le
altre assemblee del popolo romano. Fu quindi solo più tardi, allorchè si videro
privati di ogni importanza politica e militare, che essi si circo scrissero a
funzioni meramente gentilizie e sacerdotali: manel loro comparire essi hanno un
carattere religioso, militare e politico ad anche nel senato; ed anche perchè
in tal modo il patriziato sottraeva alla plebe i capi delle più potenti ed
agiate famiglie. La questione della composizione del senato all'epoca regia fu
dottamente trattata dal Lattes nelle Memorie dell'Istituto Lom bardo di scienze
e lettere, vol. XI, Milano, 1870, il quale inclina a credere che il numero
primitivo fosse quello di 300, come quello, che corrispondeva già al numero
delle 30 curie. È poi degno di nota, che egli attribuirebbe anche al senato
primitivo un carattere militare. 262 un tempo. Essi, nella costituzione
politica della città, corrispondono all'assemblea patriarcale della tribù, che
accorre al cenno del proprio capo, per accordarsi con esso intorno alle cose,
che possono interes sare la comunanza. In questo però le curie già differiscono
da quella, che non comprendono tutta la popolazione delle varie tribù, ma solo
la parte eletta della medesima, ossia coloro, che col braccio o col consiglio
possono giovare alla cosa pubblica. Esse quindi hanno per iscopo di far
partecipare, sopra un piede di uguaglianza, alla vita pubblica le varie tribù,
la cui confederazione è concorsa a formare le città . 216. I membri delle
curie, come tali, chiamansi quirites, e sono noti i dubbii intorno all'origine
di questa denominazione. Sonvi coloro, che fanno discendere il vocabolo da
quiris, asta, che sa rebbe stata l'arma del quirite, il simbolo del potere al
medesimo spettante; nè l'etimologia può dirsi inverosimile, quando si
consideri, che nei carmi saliari il popolo ramnense è chiamato populus pi
lumnus, ossia il popolo del pilo, e viene così ad essere qualificato anch'esso
dall'arma, che lo contraddistingue. Altri invece, fra i Il carattere non solo politico, ma anche
essenzialmente militare dei comitia curiata, è stato posto in evidenza
sopratutto dal IHERING, L'esprit du droit romain, $ 20. Esso è poi provato dal
seguente passo di Livo, V, 32: comitia
curiata, qui rem militarem continent , e da un altro di Cicerone, De lege
agraria, II, 12, 30, ove è detto, che il console, finchè non abbia ottenuta la
legge curiata, non può as sumere il comando militare (rem militarem attingere
non licet). È però notabile, che il carattere militare di quest'assemblea, che
dapprima fu il più accentuato, come lo indica il nome stesso di quirites, e
l'asta di cui erano armati, fu anche il primo ad essere perduto coll' introduzione
dei comizii centuriati, che assunsero di preferenza questo carattere militare:
poscia i comizii curiati vennero perdendo anche il carattere politico, allorchè
la lex curiata de imperio fu ridotta ad una semplice formalità e la patrum
auctoritas fu tolta di mezzo dalla lex Hortensia o dalla lex Moenia. Il carat
tere invece, che sopravvisse più a lungo nelle curie, fu il carattere religioso
e sacer dotale, in quanto che fu in esse, che si mantennero gli auspicia, come
lo dimostra la nomina dell'interrex, la quale viene ad essere loro affidata, in
quanto i patres o pa tricii delle curie sono i soli depositarii dei primitivi
auspicia, e sono le curie, che presiedute dal pontefice, continuano ad avere la
custodia dei culti gentilizii e fa migliari. Ciò spiega, come anche nell'età
moderna, il vocabolo curia sia sopravissuto con una significazione pressochè
sacerdotale. Cfr. il Bouché-LECLERCQ, Manueldes institutions romaines,
Paris, 1886, 6 e 7, e il BourgeaUD, Le plébiscite en Grèce et en Rome, Paris,
1887, 39. Cfr. PANTALEONI,
Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice II, 617. 263 quali, il
Niebhur, vogliono che fossero così chiamati da Curium o da Quirium, città
sabina, e che avessero ricevuto un tal nome, allorchè ai Ramnenses si unirono
per confederazione i Titienses (populus romanus et quiritium ) ; la quale
opinione non pare si possa ac cogliere per il modo diverso, con cui sarebbero
indicati idue popoli insieme uniti, ed anche perchè il vocabolo di quirites,
più che l'origine, sembra indicare l'ufficio, il compito, a cui essi sono chia
mati di fronte alla città, poichè il nome loro nei rapporti esteriori continua
sempre ad essere quello di Romani. Altri infine, come il Lange, fanno provenire
il vocabolo da ciò, che essi facevano parte delle curiae, cosicchè quiriti
significherebbe per essi gli uomini delle curie. È perd facile il vedere, che
il vocabolo quirite, derivi da quiris o da curia, esprime pur sempre il
medesimo concetto, poichè è la lancia, che è il simbolo del potere di chi
appartiene alle curie, e sono i portatori di lancia, che sono i membri delle
curie. I quiriti quindi in ogni caso son chiamati tali, in quanto hanno
partecipazione effettiva al governo della cosa pubblica, mentre nei rapporti
esterni continuano ad essere Romani; cosicchè anche questa distinzione sembra
corrispondere, sotto un certo aspetto, a quella indicata coi vocaboli domi,
militiaeque. 217. I comisii poi sono la riunione solenne dei quiriti, allorchè
sono chiamati ad esercitare il loro sovrano potere. Finchè trattasi di semplici
notificazioni, che il re o i suoi delegati debbono fare al popolo, o di
discussioni intorno a qualche proposta di legge ba stano le semplici contiones.
In queste possono anche sentirsi gli oratori in pro e in contro; intervenire i
patres, quali moderatori del populus; e tenersi anche orazioni (conciones), le
quali, senza essere precisamente quelle da Dionisio e Livio attribuite ai
personaggi della loro storia, dovettero però essere ispirate alle circostanze,
in NIEBAUR, Histoire romaine, I, 407.
Questa opinione fu poi seguita dal WALTER e da molti altri autori. Nella
inedesima però vi ha questo di vero, che il vocabolo di Quirites fu assunto
dopo la confederazione coi Sabini, il che ci è attestato espres samente da
Festo. Vº Quirites:
Quirites autem, dicti post foedus a Romulo et Tatio percussum,
comunionem et societatem populi factam indicant . LANGE, Histoire intérieure de Rome, 29.
Inering, L'esprit du droit ro main, 1, $ 20, 20. Secondo il Lange,
il vocabolo quirites non è però da con fondersi con quello di curialis; poichè
quelli sono gli uoniini delle curie in genere, mentre questo è colui, che
appartiene ad una determinata curia. 264 cui venivano pronunziate. Allorchè
invece sono convocati i comizii, tutti questi preliminari già sono compiuti, e
il popolo, ordinato a guisa di un esercito, si avvia unito al luogo della
riunione, donde il vocabolo di comitium . Quasi si direbbe, che nelle pubbliche
de liberazioni il popolo romano primitivo osservi un processo analogo a quello
da lui seguito nelle sue transazioni private. Finché trattasi di mettersi di
accordo, è lecito discutere e può anche adoperarsi quel dolus bonus, che mira a
porre sotto l'aspetto più favorevole la transazione proposta; ma allorchè il
periodo delle trattative è finito, più non occorre che una interrogazione ed
una risposta, so lenni, ed allora: quod
lingua nuncupassit, ita ius esto . È in questo senso soltanto, che deve essere
inteso, ciò che attestano gli storici, che nei comizii, il popolo non poteva nè
discutere, nè di videre o modificare le proposte fattegli, ma solo accettare o
respin gere il candidato propostogli o la legge, oppure condannare od as solvere.
Già nelle adunanze anteriori erano seguite le discussioni, e queste ripetute
nei comizii avrebbero impedito quella solennità e quel silenzio, che
ritenevansi indispensabili nelle deliberazioni, che ri guardavano l'interesse
pubblico, e che avevano per i Romani primitivi alcunché di religioso e di sacro
. 218. I comizii pertanto erano preceduti dagli auspizii, per cono scere se la
volontà divina si palesasse favorevole, o non alla delibera zione, che si stava
per prendere; si radunavano in un luogo con sacrato, che chiamavasi templum; e
si tenevano in certi giorni, che i riti ritenevano adatti alle pubbliche
deliberazioni, i quali perciò chiamavansi dies comitiales. Quanto alla distinzione fra comitium e contio,
vedi il KARLOWA, Röm. R. G. I, 49. È però a notarsi, che anche la contio non è
una riunione qualsiasi del popolo, ma suppone anch'essa una convocazione del
magistrato, il che appare dal seguente passo di Paolo Diacono: Contio significat conventum; non tamen alium,
quam eum, qui a magistratu vel a sacerdote publico per praeconem convocatur .
Ciò pur conferma Liv., 39, 15. Combatto
qui l'opinione universalmente seguìta dagli autori, specialmente ger manici (v.
fra i recenti Karlowa, Röm. R.G.), che riduce i c omizii ad una funzione
puramente passiva nella formazione delle leggi, in quanto che la medesima, a
mio avviso, altera il carattere del populus primitivo; il quale, composto di
capi di famiglia e di persone esperte negli auspicii e ricchedi tradizioni,
poteva benissimo anche prender parte viva alla discussione delle leggi, come
dimostrerò più larga mente nel capitolo III,
2º, discorrendo della lex, e nel capitolo IV, 1º, parlando delle leges regiae. - 265 Il
modo poi, in cui doveva essere proposta la deliberazione, di mostra fino
all'evidenza, come il magistrato fosse consapevole del potere, che apparteneva
al popolo, e come questo conoscesse l'impor tanza del proprio uffizio. Da una
parte eravi il re o magistrato, che, dopo aver premessa la formola: quod bonum
felis, etc., invitava il popolo (rogabat) ad esprimere il proprio volere
(iussus populi ) sulla proposta fattagli colla formola: velitis, iubeatis,
quirites; e dall'altra vi erano i membri delle curie, che rispondevano
affermando (uti rogas), o negando (antiquo). Quanto al processo, che seguivasi
nella votazione, già appare nelle assemblee curiate quel sistema, che ebbe poi
ad essere mantenuto negli altri comizii. I singoli quiriti votano viritim nella
propria curia, e in questa prevale il voto della maggioranza, ma intanto la
decisione definitiva dipende dal voto complessivo delle curie; nel che abbiamo
un indizio del vincolo potente, che stringeva l'indi viduo alla corporazione,
di cui faceva parte, in quanto che non era il voto degli individui, che
prevaleva, ma quello dei gruppi, a cui appartenevano. Cid da una parte è un
concetto trapiantato dalla stessa organizzazione gentilizia, in cui non si può
comprendere l'in dividuo, che aggregandolo ad un gruppo; ma dall'altra dovette
anche condurre alla disciplina del voto. I membri delle curie non atomi
vaganti, ma parti vive di un organismo, senza del quale sa rebbero ridotti
all'impotenza; disciplina questa, che ebbe pure ad essere mantenuta più
tardinei comizii centuriati, ed anche nei tri buti, salvo che alla curia si
sostituirono la centuria, e la tribů. Intanto anche nella votazione appare il
carattere religioso e per fino superstizioso del romano primitivo, che da
qualsiasi avvenimento suole trarre un pronostico, in quanto che il voto della
prima curia si ritiene come un augurio (omen ); donde la denominazione di curia
principium, che viene ad essere imitata anche negli altri comizii, e che è
conservata nell'intitolazione stessa delle delibera zioni comiziali. sono 219.
Sopratutto poi importa determinare, quali fossero le funzioni affidate ai
comizii curiati; il che riesce assai difficile, in quanto che anche il potere
dell'assemblea popolare presentasi dapprima piuttosto abbozzato, che non
compiutamente formato. Secondo Dio nisio, il quale talora si sforza a precisare
i contornidelle istituzioni primitive di Roma, sarebbe già l'assemblea delle
curie, che, me diante una lex de bello indicendo, avrebbe deciso della pace o
della 266 guerra; sarebbe essa, che conferirebbe la cittadinanza non ad indi
vidui, ma ad intiere popolazioni o gentes, mediante la cooptatio; sarebbe essa
parimenti, che voterebbe le leggi, e nominerebbe il magistrato supremo. Che se
invece si tiene conto dei fatti, dei quali ci pervenne notizia, ben poche
sarebbero state le occasioni, in cui l'assemblea delle curie avrebbe esercitato
queste funzioni. Cid vuol dire, che anche il potere dei comizii curiati non
dovette dap prima essere determinato da una costituzione scritta; ma deve ri
guardarsi come un potere in via di formazione, che poi si svolgerà, a seconda
delle occasioni e degli avvenimenti, mantenendosi perd sempre fedele al proprio
concetto informatore. Esso tuttavia, come si vedrà più sotto , già contiene in
germe tutti quei poteri, che l'assemblea del popolo acquisterà colle altre
forme di comizii. È esso infatti, che nomina il Re e si ha così il germe del
potere elettorale; è esso che, secondo la tradizione, sanziona le leges re
giae, e si ha così l'inizio del suo potere legislativo; è esso infine, che già
avrebbe avuto l'occasione di esercitare una specie di giu risdizione criminale,
come lo dimostra la provocatio ad populum, che si fa rimontare all'epoca dei
primi re, e si sarebbe dispiegata, secondo la tradizione, nel fatto dell'Orazio,
uccisore della propria sorella. 220. Sopratutto poi è notabile nei comizii
coriati uno speciale ca rattere, che, a parer mio, è la prova più evidente del
passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica, e
che non parmi siasi tenuto in conto sufficiente dagli autori. Questo ca rattere
consiste nella doppia competenza della assemblea delle curie; la quale, sotto
un certo aspetto, è ancora sempre una riunione di ca rattere gentilizio, e
coll'intervento dei pontefici provvede alla con servazione delle genti e delle
famiglie, e del loro culto, e sotto un altro aspetto è una riunione di
carattere eminentemente politico. Quasi si direbbe, che il quirite, al pari di
Giano, protettore della città, deve avere lo sguardo rivolto in due opposte
direzioni: da una parte egli è ancora un rappresentante della gente e della
tribù, DION., 2, 14, scrive in proposito: populo vero haec tria concessit,magistratus
creare, leges sancire, et de bello decernere, quando rex rogationem ad eum
tulisset . Rimando la prova di ciò al
capitolo seguente, ove si considera la costituzione primitiva di Roma nelle sue
principali funzioni. 267 da cui discende, e come tale è ancora strettamente
vincolato al l'organizzazione gentilizia, e deve curare che il culto di essa
non venga ad interrompersi, e che il suo patrimonio non sia disperso;
dall'altra invece è membro del populus, e come tale deve obbe dire ai cenni del
magistrato, e deve aver presente sopratutto il pubblico interesse, in quanto
che salus populi suprema lex esto .
Questa doppia qualità del quirite si appalesa nell'indole diversa delle
riunioni, di cui esso è chiamato a far parte. Accanto ai veri comizii,
convocati dal magistrato, per mezzo dei littori, e in cui si votano le cose
attinenti al pubblico interesse, sonvi i comitia ca lata, convocati dal
pontifex maximus, per mezzo dei suoi calatores, nei quali si compiono quegli
atti, che possono toccare in qualche modo l'organizzazione gentilizia. Nei
primi si votano le leggi; si deliberano le guerre e le paci; si nomina il
magistrato; si assolvono o condannano coloro, che appellarono al popolo. Nei
secondi invece, che rivestono di preferenza un carattere religioso, i quiriti
si ra dunano, in quanto hanno un culto, a cui debbono provvedere. È quindi in
essi, che compiesi l'inauguratio regis, ed anche quella dei flamines; come pure
è in essi, che si compiono quegli atti, che possono alterare in qualche modo
l'organizzazione gentilizia, e com promettere l'avvenire del culto. È perciò in
questa specie di co mizii, che deve essere approvata l'adrogatio di una persona
sui iuris, come quella che ha per effetto di fare entrare un capo di famiglia
sotto la podestà di un altro; il che significa sopprimere una famiglia e il suo
culto, per continuare invece un'altra famiglia e il culto della medesima. È in
essi parimenti, che ha luogo la detestatio sacrorum, che è la rinuncia al
proprio culto gentilizio, per causa di adrogatio o di transitio ad plebem; come
pure è ivi, che segue la cooptatio di una gens nell'ordine patrizio: cooptativ,
che si opera per l'intiero gruppo, e non per i singoli individui, che entrano a
costituirla. È in essi infine, che deve seguire quel testamen tum, che vien
detto appunto in calatis comitiis; il quale, secondo il concetto delle genti
patrizie, costituiva materia di diritto pubblico, come quello, che alterava le
norme relative alla successione genti lizia, e quelle riferentisi alla
trasmessione dei sacra. Cid è provato dal fatto, attestatoci da Cicerone, che
il ius pontificium, nell'intento d'impedire l'interruzione dei sacra, fini per
porre i medesimi a ca rico di coloro, che avevano gli utili dell'eredità; donde
l'espressione popolare, che occorre soventi nei comici latini, di haereditas
sine - 268 sacris, per significare un vantaggio conseguito senza i pesi
inerenti al medesimo. 221. Intanto questo speciale punto di vista, sotto cui
debbono, a parer mio, essere considerati i comitia calata, ci spiega quel
carattere singolare e pressochè contraddittorio del diritto primitivo di Roma,
il quale, mentre da una parte dà al quirite il più illi mitato arbitrio di
disporre delle proprie cose per testamento; dal l'altra vuole, che i
testamenti, le adrogationes e simili atti, che pur riguardano interessi
privati, siano compiuti in cospetto dell'intiero popolo, e li ritiene come
relativi ad argomenti di diritto pubblico. Gli autori vollero spiegare la cosa
con dire, che in Roma primitiva tutti questi atti costituivano altrettante
leges publicae, e che, come tali, dovevano essere fatti in cospetto e
coll'approvazione del po polo. Riterrei invece, che in questa istituzione dei
comitia calata si debba ravvisare, se mi si consenta l'espressione, il rudere
meglio conservato, che dall'organizzazione gentilizia sia stato trasportato
nella costituzione primitiva di Roma. Si è veduto a suo tempo, che il grande
intento dell'organizzazione gentilizia era quello di perpe tuare le famiglie e
il loro culto, e di impedire la dispersione dei patrimoni; donde la conseguenza,
che il testamentum e l'adrogatio dovevano farsi coll'approvazione
dell'assemblea della gente o della tribù . Or bene così continuò ancora ad
essere, finchè la città fu esclusivamente patrizia: quindi questi atti
continuarono ad essere fatti coll'approvazione delle curie, e di quei collegi
sacerdotali, che erano incaricati di serbare integri non solo i sacra publica,
ma ancora i sacra privata. Quindi conviene ammettere, che le curie non
prestassero soltanto la loro testimonianza a questi atti, ma fossero chiamate a
darvi la loro approvazione, dopo aver sentito l'avviso dei pontefici; il che
viene ad essere provato dalla formola, conserva taci da Aulo Gellio,
relativamente all'adrogatio (3 ). Una volta poi, La teoria dei comitia calata ci fu conservata
sopratutto da Aulo Gellio, Noc. Att.. XV, 28 e 3, il quale dice di averla
ricavata da un'opera di Laelius Felix. Quanto alla ripartizione dei sacra, in
proporzione della sostanza ricevuta dagli eredi, è attestata da CICERONE, De
legibus, II, 19, SS 47, 49. Vedi libro
I, cap. IV, $ 4, nº. 61 a 65. (3 ) Aulo Gellio, Noc. Att., V, 19. Ivi si dice
che a adrogatio per rogationem populi fit , ed è riportata la formola, che è
quella della vera e propria legge, in quanto che comincia colle parole velitis,
iubeatis, quirites e termina
coll'espres. sione Haec ita, uti dixi,
ita vos, quirites, rogo . 269 che una istituzione di questa natura sia
penetrata nella primitiva costituzione romana, noi oramai conosciamo abbastanza
il tempera mento del popolo romano per poter affermare, che esso non l'abban
donerà così presto. Si comprende pertanto, che quando si introdussero i comizii
centuriati, anche questi, secondo la testimonianza di Gellio, abbiano avuti i
proprii comizii calati, salvo che nei medesimiil po polo, radunato due volte
all'anno, più non dovette approvare il te stamento, ma solo prestare la propria
testimonianza. Ciò è dimostrato dal fatto, che il testamento in calatis
comitiis potè poi essere surro gato da quello per aes et libram, in cui i
quiriti sono chiamati non per approvare, ma solo per testimoniare (testimonium
mihi perhi bitote). Intanto però, anche quando l'adrogatio e il testamentum
furono atti di carattere intieramente privato, rimane però sempre la traccia
dell'antico stato di cose nel concetto, ricordatoci da Papiniano, secondo cui
la testamenti factio pubblici iuris est. A questo riguardo poi, è ancora degno
di nota, che quando l'as semblea delle curie fini per perdere ogni importanza
politica e mi litare, e si ridusse ad essere una riunione di trenta littori,
presie duta dai pontefici, serbò però ancora sempre e forse esagero perfino
questa competenza, per ciò che si riferisce agli atti, che riguardano
l'organizzazione gentilizia, e sopratutto, quanto all'adrogatio. Questa fu
praticata ancora, davanti alle curie, dagli imperatori Augusto e Claudio, i
quali, non avendo dimenticata la loro antica origine dalle genti patrizie,
seguirono le forme tradizionali nella arrogazione di Tiberio e di Nerone. Cosi
le primitive istituzioni vengono anche esse perdendosi a poco a poco in Roma,ma
ne rimane ancora sempre un'eco lontana. Resterebbe qui ad esaminarsi la
questione fondamentale se la plebe sia stata ammessa a far parte della
assemblea delle curie; ma Papin., L. 4,
Dig. (28, 1). La conclusione sarebbe questa, che il carattere di lex del
testamento primitivo è una reliquia dell'antica organizzazione gentilizia. Tale
carattere poi in parte avrebbe cominciato a dileguarsi, allorchè accanto ai
comizië curiati calati, si introdussero anche i comiziï centuriati calati, la
cui esistenza ci.è attestata da Aulo Gellio, XV, 27, 2, e che probabilmente
dovettero essere quelli, i quali, secondo Gaio, Comm., II, 101, si radunavano
due volte l'anno,acciò in essi po tessero farsi i testamenti. Il fatto stesso
della loro riunione periodica dimostra, che molti testamenti si potevano
presentare ad un tempo, e che perciò in essi il popolo doveva limitarsi a
prestare la propria testimonianza. Fu questo il motivo, per cui il testamento
in calatis comitiis potè poi essere sostituito dal testamento per aes et libram,
ove i quiriti si riducono ad essere dei classici testes. Gaio, Comm., II, 103.
270 credo opportuno rimandarne l'esame ad un capitolo speciale, in cui cercherò
di determinare la posizione dei clienti e della plebe, cosi sotto l'aspetto del
diritto pubblico, che sotto quello del diritto pri vato; premettendo però fin
d'ora, che seguo l'opinione, secondo cui la plebe non potè, durante il periodo
regio e nei primisecoli della Repubblica, essere ammessa all'assemblea delle
curie . $ 7. Sguardo sintetico allo svolgimento storico dei comizi in Roma.
222. Le cose premesse sarebbero sufficienti per formarsi un con cetto del
carattere speciale della primitiva assemblea curiata: ma intanto per scoprire
certe relazioni, che difficilmente potrebbero es sere afferrate, quando non
fossero sorprese alle origini, ed anche per rendere intelligibili gli svolgimenti,
che verranno dopo, e dimo strarne la continuità, ritengo opportuno, a costo
anche di precor rere gli avvenimenti, di dare uno sguardo sintetico allo
svolgimento che ebbero i comizii in Roma. Roma antica, simile in cið alla
moderna Inghilterra, ci presenta bene spesso l'esempio di congegni della costituzione
politica ed am ministrativa, la cui creazione rimonta ad epoche compiutamente
di verse, ma che intanto funzionano contemporaneamente. Ciò è vero sopratutto
per quello, che si riferisce ai comizii. Roma patrizia, e forse anche Roma,
durante tutto il periodo regio, non conosce altra assemblea del popolo, che
quella delle curie. Essa è un'assemblea, di carattere religioso e sacerdotale,
politico e militare ad un tempo: è la riunione del primo populus romanus
quiritium, di quello cioè, che era ristretto al populus, che usciva
esclusivamente dalle genti patrizie. In base alla costituzione Serviana, che
ammette la plebe a far parte delle classi e centurie, sulla base del censo,
intro ducesi un' altra assemblea del populus romanus quiritium, già inteso in
senso più largo, che è la centuriata. Anch'essa è mo dellata sulla prima, e
secondo Gellio, imita perfino i comizii calati, come pure è anche preceduta
dagli auspicii;ma intanto, accogliendo già un elemento, che non partecipava al
culto gentilizio, che era quello della plebe, perde ogni carattere religioso e
sacerdotale, e La questione qui
accennata sarà presa in esame in questo stesso libro, cap. V. 271 assume un
carattere essenzialmente militare, e poscia anche poli tico. Da questo momento
l'assemblea per curie più non può rap presentare l'intiero populus, perchè una
parte di questo, cioè la plebe, non entra a farne parte. L'assemblea curiata
quindi diventa, dirimpetto alla centuriata, un' assemblea di patres, perchè com
prende coloro, che discendono sempre dalle antiche genti patrizie. La vera
rappresentanza dell'intiero populus (comitiatus maximus) viene quindi ad essere
l'assemblea per centurie; perchè essa soltanto comprende tutto il popolo,
organizzato sulla base del censo. Siccome però i patres o patricii, cioè i
discendenti delle antiche genti pa trizie, continuano ancora sempre a formare
un nucleo separato del populus, cosi essi sono ancora chiamati a dare alle
deliberazioni dei comizii centuriati la patrum auctoritas, la quale viene, come
sopra si è veduto, a distinguersi dalla senatus auctoritas. Così pure l'antico
populus, composto appunto dai patres, continua ancora sempre a con ferire
l'imperium colla lex curiata de imperio, sebbene l'una e l'altra funzione
tendano naturalmente a perdere della loro im portanza, e l'assemblea curiata si
limiti sempre più a funzioni di carattere puramente gentilizio e sacerdotale.
223. Fin qui lo svolgimento della costituzione primitiva procede ancora
regolarmente: ma la cosa si fa più malagevole, quando, fra i congegni della
costituzione politica di Roma, compare un nuovo elemento, che è quello delle
assemblee proprie della plebe (concilia plebis). La plebs forma già parte del
populus e partecipa alla civitas; ma la sua civitas è ancora minuto iure, in
quanto che essa non ha ancora nè il ius connubii col patriziato, nè il ius
honorum. È quindi naturale in essa l'aspirazione al pareggiamento, e sorge una
opposizione di interessi fra il patriziato e la plebe. Quest'ultima, che,
uguale sotto un aspetto, aspira a diventarlo anche sotto gli altri, viene
naturalmente a costituire sotto un certo riguardo una fazione nello Stato,
poichè i suoi interessi si contrappongono a quelli del patriziato, il quale
continua ad essere il vero reggitore dello Stato, essendo il solo ammesso alle
magistrature e agli onori. La plebe però ha già un proprio magistrato, sotto
cui si organizza, che è il tribuno della plebe, il quale, in base alla
costituzione, può È da vedersi, quanto
all'auctoritas patrum, questo stesso capitolo,
3º, n° 198, 240. colle note relative. 272 convocarla per prendere
deliberazioni nel proprio interesse. Sorge cosi spontaneamente l'istituto dei
concilia plebis, i quali dapprima hanno più un'esistenza di fatto, che non di
diritto: ma che intanto, fatti forti dal numero e dalla intraprendenza dei
tribuni, tendono naturalmente a prendere dei provvedimenti, che mirano a prepa
rare l'uguaglianza giuridica e politica fra la plebe e il patriziato. Essi
perciò mettono in accusa patrizii avversi alla plebe e gli stessi consoli,
allorchè escono di ufficio. Proibirli è impossibile, perchè è principio
riconosciuto dalle XII Tavole, che ogni sodalizio, che abbia un capo (magister
), possa dettarsi una propria legge, e perchè in ogni caso sarebbe impossibile
vietare le riunioni di un elemento, che ha per sè il numero e la forza, e che,
ricorrendo ad una secessio, potrebbe mettere a repentaglio l'avvenire della
città. L'unico partito pertanto, che rimanga al patriziato ed al senato, che lo
rap presenta, è quello di riconoscere queste riunioni e di farle entrare, per
quanto sia possibile, nei quadri legali della costituzione politica di Roma,
trasformando a poco a poco i concilia plebis in comitia tributa: in comizii,
cioè, che comprendano eziandio tutto il popolo, ma non più in base al censo,
come l'assemblea delle centurie, ma in base alle tribù locali, in cui è
raccolta tutta la cittadinanza ro mana. È questa la trasformazione, che
incomincia col tribuno Pu blilio Volerone, il quale, nel 283 U. C., dopo lunghe
lotte, ottiene che la plebe possa nominarsi i suoi tribuni nei proprii comizii;
ma con ciò questi non possono ancora prendere che provvedimenti riguar danti la
sola plebe, e che possono soltanto essere obbligatorii per essa. Quindi
incomincia da parte di questa uno sforzo inteso a pareggiare i comizi tributi
agli altri comizii, e a fare si che i plebisciti obbli ghino anche il
patriziato, il che si opera per mezzo delle leggi Va leria -Orazia, Publilia e
Ortensia; le quali, sebbene, per il poco che a noi ne pervenne, mirino tutte
allo scopo di rendere obbligatorii i plebisciti per tutto il popolo, segnano
però, come si vedrà più sotto, 728, La
proibizione dei concilia plebis sarebbe stata contraria a quelle disposizioni
della legge decemvirale, secondo cui
Sodalibus potestas esto, pacionem, quam volent, sibi ferre, dum ne quid
ex publica lege corrumpant. V. Voigt, die Tafeln, I, che attribuisce tal legge
alla Tavola VIII, n. 12. Qualcosa di analogo ci è pure accennato da Livio, 39,
15: ubicumque multitudo esset, ibi et
legitimum rectorem multitudinis, censebant maiores debere esse ; ed è questo
forse il motivo, per cui i concilia plebis cominciano a diventare potenti,
quando la plebs ha trovato un proprio rector o magister nel tribunus plebis. -
273 discorrendo del concetto romano di lex, i varii stadii, per cui passò la
risoluzione del gravissimo problema. 224. Giungesi cosi ad un periodo della
costituzione politica di Roma, in cui nei quadri di essa trovansi tre specie di
comizii. I primi e i più antichi sono i comizii curiati,ma essi vengono ad
essere sempre più ridotti a funzioni puramente gentilizie e sacerdotali, e
anzichè essere in effetto ancora le riunioni delle curie, si riducono ad essere
la riunione dei trenta littori, che le rappresentano, e diven tano così una
sopravvivenza dell'antico ordine di cose. Accanto ad essi sonvi i comizii
centuriati, che sono sempre la vera assemblea del popolo romano, e continuano a
conservare in qualche parte il pri mitivo carattere militare: ma anch'essi si
fanno più democratici, come lo dimostrano le riforme, che sappiamo essere state
introdotte, senza saperne precisare il come ed il quando, e debbono dividere in
parte le proprie funzioni colla nuova assemblea tributa, più fa cile a
convocarsi e più intraprendente nella propria iniziativa. Certo si richiedeva
il genio pratico dei Romani per far procedere di pari passo assemblee, che
rappresentavano un principio diverso, cioè la nascita, il censo, ed il numero.
Dapprima ciascuna di queste istituzioni potè serbare intatto il proprio
carattere primitivo; ma poscia la fusione sempre maggiore dei due ordini
condusse al ri sultato, che poterono esservi plebei di grandi famiglie, che
furono accolti nelle curie, e che vi ottennero anche la dignità sacerdotale di
curio maximus; al modo stesso, che i pochi discendenti delle an tiche genti
patrizie poterono anche intervenire ai comizi tributi, i quali ricevettero cosi
anche la consacrazione religiosa, e poterono essere presieduti da magistrati,
che un tempo erano esclusivamente patrizii. Quando le cose pervennero a questo
punto, il vero populus trovasi raccolto nei comizii centuriati, e nei comizii
tributi. Quelli sono organizzati in base al censo, e questi in base alle tribù
lo cali, a cui i cittadini trovansi ascritti; quelli serbano ancora un
carattere specialmente militare e radunansi al campo Marzio, fuori delle mura
Serviane, e questi invece hanno un carattere civile e Rimetto la discussione gravissima relativa a
queste tre leggi al capitolo se guente
2º, n ° 232dove si discorre del concetto romano di lex. Quanto alla
proposta di Publilio Volerone e alla portata della medesima è da vedersi il
Bonghi, Storia di Roma, 439 a 451, come pure a 593, ove parla dell'elezione dei
tribuni nei comizii tributi. G. C., Le
origini del diritto di Roma. 18 274 radunansi nel fôro, cosicchè il vero
movimento della costituzione politica di Roma ondeggia fra l'una e l'altra
assemblea. Tuttavia, a ricordare l'antico dualismo, sopravvivono ancora sempre
i comizii curiati ridotti ad essere la riunione di trenta littori, presieduti
dal pontefice, e circoscritti a funzioni di carattere essenzialmente reli gioso,
e i concilia plebis, che ricordano ancora quel tempo, in cui la plebe
costituiva un dualismo col patriziato, e nei quali continuano a nominarsi le
magistrature esclusivamente plebee. Intanto è ancora degno di nota, che la
trasformazione, che si opera nei comisii tri buti, accade anche nei tribuni
della plebe, i quali, sebbene debbano sempre essere trattidalla plebe,
diventano però a poco a poco magi strati urbanidel popolo romano; comepure
accade nei plebisciti, i quali a poco a poco vengono ad essere pareggiati alle
leggi propriamente dette, il che sarà meglio dimostrato nel capitolo seguente.
Questo è il solito processo, seguito dai Romani, nello svolgimento delle
proprie istituzioni, ed è la logica che lo governa, che per mette di poterlo
ricostruire, malgrado le lacune, che possono esservi nel racconto storico, che
a noi pervenne. Questa logica è, per così esprimersi, intensiva ed estensiva ad
un tempo, e quindi si può es sere certi, che se un concetto entri nella
compagine romana non scomparirà, se prima non siasi ricavato da esso in
profondità ed estensione tutto ciò, che contenga di vigoroso e di vitale.
Studiata cosi la costituzione primitiva di Roma negli organi, che entrano a
costituirla, importa ora di considerarla nell'esercizio delle sue principali
funzioni. È questo, a parer mio, il solo
modo per risolvere la questione così contro versa relativa alle analogie ed
alle differenze, che possono intercedere fra i comitia tributa ed i concilia
plebis. È noto in proposito, come il Niebhur non ammettesse che un'unica
assemblea tributa (Histoire romaine, III, 283), la quale, esclusivamente plebea
dapprima (concilium plebis), avrebbe più tardi compreso anche il patriziato, e
sarebbesi così cambiata in comitium tributum. Il Mommsen invece (Römische For
schungen, Berlin, 1864, I, 151 a 155) sostenne, dai decemviri in poi,
l'esistenza di due assemblee tribute: l’una patrizio-plebea (comitia tributa );
l'altra esclusivamente plebea (concilium plebis). Ritengo che quest'ultima
opinione possa essere accolta, ma limitando le funzioni dei concilia plebis a
cose di interesse esclusivamente plebeo, quali erano la nomina dei tribuni e
degli edili plebei, mentre il vero potere legisla tivo, elettorale e
giudiziario appartiene ai comitia tributa, i quali soli possono con siderarsi
come un vero organo della costituzione romana. Cfr. BOURGEAUD, Le plébi scite dans l'antiquité, Paris, 1887, 57 a 76;
Karlowa, Röm. R. G.; MORLot, Précis des instit. polit. de Rome. Paris. La
primitiva costituzione di Roma nelle sue principali funzioni. $ Carattere generale della medesima. e 225. La
costituzione primitiva di Roma, finchè si mantenne esclusivamente patrizia, si
presenta con un carattere di unità e di coerenza, che indarno si cercherebbe
più tardi nelle istituzioni po litiche di Roma. Vero è che la plebe, entrando a
far parte della comunanza politica, recò nella medesima il movimento e la vita,
rese possibile per Roma un avvenire, che non avrebbe mai conse guito la città
esclusivamente patrizia, la quale da sola tendeva più a chiudersi in se stessa,
che ad estendersi; ma è vero eziandio, che colla plebe penetrò il dualismo in
ogni aspetto della costituzione primitiva di Roma. Dirimpetto ai comizii
disciplinati del popolo rac colto nelle curie, si svolsero i concilii talvolta
tumultuosi della plebe; ai magistrati del popolo si contrapposero quelli della
plebe; ed alle leggi votate nella solennità e nel silenzio dalle curie si so
vrapposero i plebisciti. Fu in tal guisa, che la costituzione primitiva di Roma
venne in certo modo ad essere forzata a spingersi oltre il concetto ispiratore
della medesima, e fini per assumere un ca rattere del tutto peculiare, in
quanto che dovette stringere insieme due popoli, che politicamente erano
associati, ma che non erano intimamente uniti fra di loro, di cui uno
pretendeva di avere per sè la priorità ed il diritto, mentre l'altro aveva per
sè il numero e la forza. Nè conseguita che, per comprendere lo spirito della
primitiva costituzione di Roma, conviene in certo modo isolarla dagli elementi,
che sopravvennero coll' ammessione della plebe alla cittadinanza, e quando ciò
si faccia non si può a meno di rima nere ammirati di fronte all'unità ed alla
coerenza, che presenta la costituzione esclusivamente patrizia. Essa è un vero
organismo, che componesi di varie parti, delle quali ciascunaè chiamata ad
adempiere la propria funzione: ma che tutte intanto si suppongono e si
completano a vicenda. La potestas in largo senso si ritiene bensi appartenere
al popolo, ma questo non potrebbe esercitarla, se 276 non fosse posto in azione
dall'imperium del magistrato; e intanto fra di loro si interpone l'auctoritas
del senato, il quale da una parte modera col suo consiglio il regis imperium, e
dall'altra da la consistenza e l'appoggio della propria autorità ai iussa
populi. 226. Questa coerenza poi appare anche più evidente, allorchè i congegni
della costituzione siano considerati nel loro movimento; poichè mentre ciascun
aspetto del pubblico potere non ha altra norma e altro confine, che il proprio
concetto ispiratore, niuno di essi però può compromettere l'interesse comune,
senza che vi concorrano tutti gli altri. Questo carattere della costituzione
politica di Roma ha fatto dire a Polibio, che essa appariva mo narchica,
aristocratica e democratica ad un tempo, secondo che altri la considerava
rimpetto a questo o a quell'aspetto del pubblico potere ; ma se altri poi la
consideri in movimento ed in azione, essa si presenta con tutti questi
caratteri ad un tempo. L'imperium regis, la senatus auctoritas, la populi
potestas sono altrettante concezioni logiche, destinate col tempo a ricevere
tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci; ma intanto son disposte per
modo, che si contengono e si limitano a vicenda, non già perchè esista fra di
essi una ripartizione o circoscrizione di poteri, ma perchè nessuno di questi
elementi puo compromettere la pubblica salute senza la cooperazione di tutti
gli altri. Onnipotente ciascuno coll'appoggio degli altri, viene ad essere
impotente, quando trovi opposizione o contrasto in alcuno fra essi; donde
l'importanza, che ebbe nella costituzione romana l'istituto dell'intercessio,
la quale viene atteg giandosi in guise molteplici e diverse, in quanto che tale
intercessio, o può esercitarsi a nome della religione, o frapponendo la par ma
iorve potestas, o contrapponendo anche quelli, che esercitano la medesima
magistratura . Questo è, a parer mio, il carattere fon Polibio, Histor., lib. VI. È mirabile il partito, che Roma seppe trarre
dal concetto dell'intercessio nello svolgimento storico della sua costituzione,
come appare dalla magistrale trattazione dell'argomento nel Mommsen, Le droit
public romain, 230 a 329. Non potrei tuttavia accettare la sua affermazione
recisa, che l'intercessio non esistesse nel periodo regio. Certo essa non ebbe
occasione di svolgersi, perchè i tre elementi od organi della costituzione
erano potentemente unificati; ma intanto la cost ituzione primitiva
inchiudeva già allo stato latente il germe di tutta la teoria dell'intercessio,
in quanto che in essa niun provvedimento, che possa compromettere il pubblico
interesse, pud damentale della
costituzione primitiva di Roma, per cui essa ora apparisce conservatrice fino
allo scrupolo, ed ora invece diventa operosa ed intraprendente fino all'audacia,
secondo che essa abbia o non l'appoggio dell'opinione generale. Intanto quando
trattasi della res publica, ossia di cosa, che possa interessare l'intiera
comunanza, tutti questi elementi sono chia mati ad arrecare il proprio
contributo. È infatti almagistrato (rex, interrex, tribunus celerum, praefectus
urbis) che si appartiene l'agere, quando trattasi di convocare il popolo o il
senato; il ro gare, quando importa di ottenere l'approvazione di qualche
proposta; l'imperare, allorchè nei pericoli di una guerra il suo imperium si
spinge fino alla maggiore estensione, di cui possa essere capace. E invece al
senato, che si appartiene il consulere, quando trattasi di dare il proprio
avviso al magistrato, o di richiamare l'attenzione di lui su qualche imminente
pericolo, ne res publica detrimenti
capiat ; e l'auctor fieri, se è questione invece di appoggiare le de
liberazioni del popolo. È infine al popolo, che spetta il iubere e lo statuere,
quando trattasi di una lex, sotto la qual forma si manifesta di regola la
volontà collettiva del quando trattasi della elezione dei magistrati.
Intanto però, siccome queste gradazioni dell'azione collettiva debbono tutte
concorrere in sieme per costituire un atto compiuto, cosi niun elemento pud da
solo prendere un provvedimento, che possa compromettere l'interesse comune .
Ciò sopratutto appare nel compimento di quegli atti, che, per propria natura,
interessano l'intiera comunanza, quali sarebbero: la formazione di una legge,
l'elezione del magistrato, e l'amministra zione della giustizia; dai quali poi
discendono le tre manifestazioni essere preso senza il concorso di tutti.
L'intercessio nel periodo repubblicano non fu che uno svolgimento di questo
concetto, e toccò il suo massimo sviluppo per opera dei tribuni, stante il
carattere negativo del potere spettante aimedesimi. È poi notabile, come essa
si applichi al decretum, alla rogatio, ed al senatus consultum, il quale, se
colpito dall'intercessio, non può più essere posto in esecuzione: ma tuttavia
deve essere perscriptum, perchè è sempre una espressione dell'auctoritas
senatus, col quale vocabolo viene appunto ad essere indicato. Cfr. MOMMSEN, op.
cit., Ho già insistito su questo
concetto, che può essere considerato comela chiave di volta della primitiva
costituzione di Roma, in una prolusione al corso di Storia del diritto romanu
col titolo: L'evoluzione storica del diritto pubblico e privato di Roma, Torino,
1886, 13. 317. 278 del potere sovrano nella città antica, che sono il potere
legislativo, il potere elettorale, ed il potere giudiziario. È quindi
sopratutto a proposito di questi atti, che vuolsi cercare in qual modo entri in
movimento ed in azione la primitiva costituzione di Roma, dando al tempo stesso
un popolo, o ilo sguardo allo svolgimento storico, che dovrà poi ricevere
ciascuno di questi poteri. $ 2. Il concetto romano di lex nei suoi rapporti
colla patrum auctoritas e col plebiscitum. 228. Nel considerare il concetto
primitivo della lex in Roma si riman magistratum creare,e anzitutto colpiti
dalla larghissima significazione, colla quale si presenta questo vocabolo. Esso
significa dapprima qualsiasi ac cordo di più individui in una stessa volontà, e
viene così, fin dagli esordii, a distinguersi in lex privata, che significa una
convenzione od una norma, che altri si impone relativamente ad interessi
privati (lex contractus, lex mancipii, lex testamenti), ed in les publica, che
significa la volontà collettiva e comune, che si sovrappone alla volontà dei
singoli individui. Quando poi il concetto di lex privata viene ad essere
assorbito da quello di convenzione o di contratto, quello di lex publica
continua ancora ad avere una estesissima si gnificazione; poichè esso comprende
in certo modo qualsiasi delibera zione solenne del popolo. Parlasi infatti di
una lex belli indicendi, foederis ineundi, coloniae deducendae, agri adsignandi
e simili; e fino a un certo punto la nomina stessa del magistrato, o almeno il
conferimento dell'imperium, spettante al medesimo, viene ad essere argomento di
una legge. Gli è solo più tardi, che il vocabolo di legge viene a significare
un generale iussum populi, che si rife risce alla generalità dei cittadini, e
si distingue così da qualsiasi de liberazione, relativa ad una persona o ad un
fatto particolare. Ciò Insomma il
concetto dominante è sempre quello, che la lex è il risultato di un accordo.
Quindi la lex publica, essendo il risultato dell'accordo di tutti gli organi
dello Stato, viene ad essere una communis reipublicae sponsio, e deve da tutti
essere rispettata; donde la conseguenza, che il ius publicum privatorum pactis
mutari non potest. La lex privata invece è l'accordo di due o più individui in
tema di loro interessi privati: non è quindi la legge pubblica, che deve
occuparsene, secondo il principio della stessa legge decemvirale, privilegia ne
inroganto: donde conseguita, che la legge cambiasi a poco a poco in un generale
iussum. È in questa guisa, che vuol dire, che anche la nozione di lex subisce
in Roma una lunga evoluzione: ma intanto il concetto, che la pervade in ogni
tempo, è quello di un accordo di più volontà in un medesimo intento. Tale
significazione sembra pure essere indicata dall'etimologia del vocabolo di lex
a legendo od a colligendo, la quale perciò non indica tanto la forma scritta,
assunta dalla legge, come vorrebbe il Bréal, quanto piuttosto il collegarsi
delle volontà in un medesimo intento . 229. Un altro carattere della lex,
secondo il primitivo concetto romano, si è quello di un'aureola religiosa, che
la circonda, come lo dimostrano le cerimonie solenni, da cui son precedute le
deliberazioni comiziali, e la reverenza e il culto, di cui la legge viene ad
essere l'oggetto in Roma primitiva, dopo che essa fu solennemente votata dal
popolo. Di qui alcuni autori ebbero a ricavare la conseguenza, che la forza
obbligatoria della legge, anche per Roma, non deri vasse tanto dal suffragio
del popolo, quanto piuttosto da questo carat tere religioso, da cui essa appare
circondata. Se con ciò si vuol dire, che la legge solennemente votata dal
popolo, dopo aver assunto gli auspicii, doveva in certo modo considerarsi come
una interpreta zione della stessa volontà divina, questo concetto pud essere
facil mente ammesso, essendo il medesimo una conseguenza di ciò, che il ius, come
si è dimostrato a suo tempo, aveva nei suoi primordii un carattere religioso, e
impotente a sostenersi da solo cercava di mettersi sotto la protezione del fas.
Ma se con ciò si intende in la legge e il contratto, uniti nell'origine, più
tardi si vennero separando, e quasi si contrapposero fra di loro, lasciando
perd sempre una traccia nel concetto, che
il contratto costituisce legge per i contraenti . L'etimologia di lex a legendo nel senso
di leggere, suole appoggiarsi al testo
di Varrone, De ling. lat., VI, 66: leges, quae lectae et ad populum latae, quas
ob servet; ma egli è evidente, che qui Varrone, non sempre felice nelle sue
etimologie, non ha punto l'intenzione di proporne una. Se quindi è vero, come
del resto insegna lo stesso BRÉAL, Dict. étym. latin, vº lego, che il vocabolo
di legere ebbe anche la antica significazione di raccogliere, di scegliere, di
riunire, parmi sia molto più acconcio di dare questa etimologia al vocabolo di
lex. Così si potrà anche compren dere la lex privata, la quale certo non pud
essere derivata da ciò, che i contratti fossero scritti; ma da cid, che le
volontà si accordavano e si riunivano. Cfr. BRÉAL et BAILLY, Dict. étym., vº
lex. Un passo, in cui il vocabolo
legere prende questa an tica e
larga significazione, è il seguente di Virgilio: Iura, magistratusque legunt,
sanctumque senatum. (Aen., I, v. 431). - 280 vece, che la sua efficacia
obbligatoria provenga direttamente dalla volontà divina, se questo può forse
ancora ammettersi per il vóuos de' Greci, più non può ritenersi vero per la lex
romana. Questa non potrà essere votata senza che prima si assumano gli auspicii;
ma intanto, fin dal periodo esclusivamente patrizio, essa è già l'espres sione
della volontà collettiva del popolo, come lo dimostra il fatto, che assume la
forma di una vera e propria stipulazione fra il ma gistrato che propone
(rogat), e il popolo che vota (iubet atque con stituit); come pure il concorso
nella formazione di essa di tutti gli organi della costituzione politica di
Roma, per cui essa, fin dagli esordii della città, deve essere considerata come
una communis rei publicae sponsio . Essa
sarà ancora riguardata come una volontà divina; ma il popolo già si attribuisce
facoltà d'interpretare questa volontà, ogni qualvolta trattisi, non di cosa
relativa al culto, ma di provvedimenti, che riguardano l'interesse generale
della comu nanza. Anche la definizione dei Giureconsulti classici: lex est, quod populus, senatorio magistratu
rogante, iubet atque con stituit , può già essere applicata alla legge, durante
il periodo regio; salvo che in questa definizione più non compare l'elemento
della patrum auctoritas, che nella città patrizia era ancor ritenuto
indispensabile, e che era poi stato tolto di mezzo dalla legge Ortensia. Vero è,
che più tardi il patriziato cercò di dare sopratutto prevalenza all'elemento
religioso, che accompagnava la legge; ma ciò accade unicamente, allorchè
l'assemblea patrizia delle curie perdette ogni importanza politica; poichè in
allora la religione e gli auspicii diven tano pressochè il solo titolo di
superiorità del patriziato sopra la plebe, e fu naturale che si cercasse di
accrescerne la importanza. 230. Intanto questo carattere, eminentemente
contrattuale della legge, che corrisponde all'origine federale della città, ed
anche la necessità, secondo il concetto primitivo delle genti patrizie, che, a
formare la legge, dovessero concorrere tutti gli organi dello Stato, servono a
spiegare naturalmente certe singolarità del diritto primitivo V. in senso contrario il FUSTEL DE COULANGES,
La cité antique, liv. III, chap. XI, 221 e segg., e fra i recentiilBourgeaud,
Leplébiscite dans l'antiquité, Paris, 1887, 91.Quest'ultimo nega il carattere
contrattuale alla legge, anche per la considerazione, che essa non potrebbe
obbligare quelli, che non vi hanno consentito; ma egli è evidente, che
l'accordo in una pubblica votazione non può aversi, che dando prevalenza al
maggior numero. 281 di Roma, che ebbero a verificarsi, allorchè la plebe entrò
a far parte della comunanza politica. Allora infatti venne ad essere necessità,
che il potere legislativo si portasse ai comizii centuriati, in quanto che
questi soltanto erano l'assemblea plenaria del populus romanus (comitiatus
maximus). Siccome però, accanto ai comizii centuriati, si manteneva pur sempre
l'assemblea curiata dei patres o dei patricii: così, per ubbidire al principio
che tutti gli organi politici dello Stato dovevano concorrere alla formazione
della legge, fu necessario che vi contribuisse eziandio l'assemblea dei patres;
donde la conseguenza, che la legge centuriata dovette dapprima essere proposta
dal magistrato, votata dal popolo, e poscia ancora approvata non solo dal
senato, ma anche dall'assemblea delle curie. Di qui dovette provenire la
distinzione della patrum o patriciorum auctoritas dalla senatus auctoritas,
ancorchè le due approvazioni si riducessero in sostanza ad una medesima cosa,
perchè in questo periodo il senato può riguardarsi sopratutto come l'organo del
patriziato; il che spiega appunto la confusione, che gli storici vengono
facendo fra l'una e l'altra auctoritas, in un'epoca, in cui erano già scomparse
e l'una e l'altra. 231. Se non che il mantenersi fedeli a questo principio
diventò assai più difficile, allorchè alle altre fonti legislative venne ad ag
giungersi eziandio il plebiscitum, che costituiva in certo modo una lex
inauspicata. Questo dapprima non può obbligare tutto il popolo, perchè è
l'opera soltanto di una parte di esso; e quindi, al pari dei concilia plebis,
in cui viene ad essere votato, ha più un'esistenza di fatto, che non di
diritto. Intanto però la plebe ha per sè il nu mero e la forza, e valendosi di
essi cerca talora di forzare la mano al senato. In questa condizione di cose
viene ad essere nell'interesse stesso del patriziato di fare rientrare
nell'ordine legale tanto i concilia plebis, trasformandoli in comitia tributa,
allorchè trattisi di provvedimenti, che possano interessare tutto il populus,
quanto eziandio di riconoscere l'autorità dei plebisciti, con che essi subi
scano le condizioni richieste per obbligare tutto il popolo. È in questa
occasione, che nella storia politica di Roma compa riscono successivamente tre
leggi ad epoca diversa, il cui contenuto, conservatoci dagli scrittori, sembra
essere identico (ut plebiscita V. sopra
capitolo II, 3, n ° 198, 240.e le note
relative. 282 omnem populum tenerent); ma che intanto sembrano indicare tre
successivi stadii di una importantissima trasformazione. La difficoltà di
conciliarle, che formò oggetto di lunghe discussioni e che anche oggi suole
essere considerata come una delle più gravi questioni, che presenti la storia
politica di Roma , pud, a parer mio, essere supe rata, quando abbiasi presente
il concetto della primitiva costituzione di Roma, secondo cui qualsiasi vera
legge suppone il concorso di tutti gli organi politici dello Stato. 232.
Occorre anzitutto la legge Valeria Orazia, dell'anno 304 di Roma; la quale è la
prima a dichiarare, che i plebisciti obblighino tutto il popolo (ut quod
tributim plebs iussisset omnem populum te neret) ; ma ancorchè la legge nol
dica, questo è certo che, secondo il concetto informatore della costituzione
politica di Roma, ciò poteva solo accadere, allorchè i provvedimenti, che erano
di iniziativa della plebe, avessero subite tutte le prove, a cui erano
sottoposte le stesse Così si esprime il
Soltau, die Gültigkeit der Plebiscite, Berlin. La bibliografia sulla questione
pud vedersi nel BOURGEAUD, Le plébiscite dans l'anti quité, Paris, 1887, 121,
il quale sosterrebbe, che il plebiscito sia stato in ogni tempo una
deliberazione presa dalla sola plebe, esclusi i patrizii. Non potrei divi dere
tale opinione, poichè vi fu un tempo, in cui la differenza fra plebiscito e
legge si ridusse unicamente alla persona diversa, che ne prendeva l'iniziativa,
secondo che essa fosse un tribuno, od un altro magistrato. Vero è che il
vocabolo di plebs signi fica il populus, esclusi i senatori ed i patrizii;ma il
motivo, per cui i patrizii non si tenevano legati dai plebisciti non consisteva
già in ciò, che essi non potessero inter venire ai comizii tributi, essendo
anch'essi iscritti alle tribù, ma in ciò, che essi soste nevano plebiscitis se non teneri, quia sine
auctoritate eorum facta essent ,Gaio, Comm. I, 3. Tolta poi la necessità della
patrum vel patriciorum auctoritas, i plebisciti divennero obbligatorii per
tutto il popolo, e anche i patrizii poterono certo intervenire ai comizii
tributi. Difatti dopo la legge Ortensia le due espressioni di leo e di plebi
scitum diventano fra di loro equipollenti, e occorrono perfino le espressioni
populum plebemve iussisse, come nella lex tabulae Bantinae (Bruns, Fontes, 51). Secondo il Mommsen, è da questa legge, che
parte l'istituzione dei comizii curiati, e quindi egli riterrebbe, che nei
termini conservatici da Livio, III, 55, come proprii della legge Valeria
Orazia, si dovrebbe sostituire il vocabolo di populus a quello ivi adoperato di
plebs, e leggere quindi: quod tributim populus iussisset, omnem populum teneret
(Römische Forschungen, I, 164-5 ). Non parmi, che questa opinione possa essere
accolta, sia perchè tutti i giuristi fanno partire il pareggiamento del
plebiscitum colla lex dalla legge Ortensia, e non dalla legge Valeria Orazia,
ed anche perchè poste riormente la denominazione di lex o di plebiscitum non
sembra più dipendere dalla composizione dei comizii, ma piuttosto dal
magistrato, da cui sono convocati, il quale come dava il suo nome alla legge,
così poteva anche attribuirvi il carattere di lex o di plebiscitum: tanto più
che la sua efficacia veniva ad essere uguale. 283 - leggicenturiate. Questa
legge pertanto significo solamente, che anche i tribuni della plebe potevano
prendere l'iniziativa di un provvedi mento, che potesse obbligare tutto il
popolo; ma che il medesimo, per avere un tale effetto, doveva poi essere
approvato dal Senato, ed ottenere anche la patrum auctoritas, come lo dimostrano
gli sforzi, che in questo periodo si fanno dai tribuni per ottenere l'ap
provazione del senato a plebisciti, come quelli di Canuleio, di Icilio e altri
ancora. Quasi si direbbe, che questo è il periodo delle seces sioni, a cui
ricorre appunto la plebe, quando non può ottenere dal senato l'approvazione di
un provvedimento da essa desiderato. Suc cede quindi una seconda legge, che è
la legge Publilia del 415 di Roma, la quale, mentre in un capo statuisce, che
la patrum auctoritas doveva precedere le leggi centuriate, ripete in un altro
l'ingiunzione già fatta che plebiscita
omnes quirites tene rent. È però evidente, che la portata di questa legge verrà
ad essere diversa, perchè in virtù di essa i plebisciti, al pari delle leggi
centuriate, non dovevano più essere susseguiti, ma preceduti dalla patrum
auctoritas, che comprende probabilmente anche la senatus auctoritas. Noi
abbiamo quindi un secondo periodo, in cui tutte le proposte di provvedimenti,
per parte dei tribuni della plebe, sogliono esser precedute da trattative ed
accordi fra il senato e i tribuni della plebe, per guisa che il senato si vale
talvolta di questi per ottenere, che essi prendano la iniziativa di una
determinata proposta 233. Da ultimo
infine apparve, che anche questa previa approva
È lo stesso Livio, che ci conservò i termini di questa legge. Secondo il WILLEMS, Le Sénat, II, chap. I,
l'espressione di patrum auctoritas sarebbe equipollente a quella di senatus
auctoritas. Tale opinione è divisa dal Bour GEAUD, op. cit., 135, ed è
combattuta invece dal Soltau, die Gültigkeit der Ple. biscite, 135, come pure
dal Pantaleoni nella 3a parte della sua dissertazione: Dell'auctoritas patrum
nell'antica Roma (< Rivista di Filologia , Torino, 1884, 350 a 395). Di
fronte ad una quantità di passi di scrittori antichi, citati da quest'ultimo,
in cui si usano le espressioni di patricii auctores, mentre altre volte si
parla invece della senatus auctoritas, fra cui è notabile il passo di Livio,
III, 63, parmiche l'opinione del WILLEMS non possa essere accolta. Ritengo
tuttavia, che gli storici, mossi forse dall'identico interesse, che potevano
spingere le curie dei patrizii e il senato a fare opposizione ad un provvedimento
di iniziativa della plebe, possano talvolta aver comprese le due cose col
vocabolo alquanto incerto di patrum aucto ritas. V. in proposito ciò, che si è
detto nel capitolo precedente 83, n ° 198, 240 e note relative. 284 zione dei
padri, senza sempre riuscire nell'intento, finiva per essere causa di dissidii
e di secessioni. Fu quindi, in seguito ad una di queste secessioni, che sulla
proposta del dittatore Ortensio, uscito dalla no biltà di origine plebea,
sopravviene una legge Ortensia, nel 467 della città, che ripete pur sempre la
stessa formola; ma intanto toglie di mezzo la necessità della previa
approvazione dei padri e produce, se condo Pomponio, l'effetto, che inter plebiscita et legem species con
stituendi interessent, potestas autem eadem esset . Fu neces saria una secessione e ci volle un
dittatore per vincere questa legge; ma ve ne era ben donde, poichè, a mio
avviso, non vi ha forse nella storia della costituzione primitiva di Roma una
rivoluzione più ra dicale di questa. Con essa infatti l'antico concetto di lex,
quale era stato concepito da Roma patrizia, viene ad essere sovvertito; in
quanto che potrà esservi una legge, alla cui formazione non coope rino tutti
gli organi politici dello Stato; poichè d'allora in poi anche un solo elemento,
la plebe, può dettare leggi, che sono obbligatorie per tutto il popolo. Strappo
più grave non poteva essere arrecato alla costituzione patrizia: ma tentasi
ancora di rimarginarlo nel senso, che fu da questo tempo probabilmente, che la
nobiltà plebea co minciò a penetrare nelle curie, e che il patriziato antico si
valse * della sua iscrizione alle tribù per intervenire anche ai comizii tri
buti, i quali poterono anche esser presieduti da magistrati patrizii, e furono
anche essi preceduti dagli auspizii. Per tal modo i concilii un tempo della
plebe diventarono anch'essi comizii del popolo, e solo cambiò il criterio, che
doveva essere di base alla riunione, in quanto che i comisii centuriati si
adunavano in base al censo, e i comisii tributi in base alle tribù. Da questo
momento il senato trovossi Che il
pareggiamento fra la lex e il plebiscitum parta veramente dalla legge Ortensia,
la quale deve aver tolta dimezzo la patrum auctoritas, risulta dai seguenti
passi di scrittori e giureconsulti, che erano meglio in caso di apprezzare il
valore tecnico delle parole. Pomponio L. 2, 8, Dig. (1, 2 ), oltre
l'espressione già riportata nel testo, scrive:
pro legibus placuit et ea plebiscita observari , e aggiunge al $ 12: plebiscitum, quod sine auctoritate patrum est
constitutum , con che accen nerebbe all'abolizione della patrum auctoritas per
i plebisciti. Così pure Gaio, Comm., I, 3:
lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita omnem populum tene
rent, itaque eo modo legibus exaequata sunt; Giustin., Instit., I, 2: sed et plebi scita, lege Hortensia lata, non
minus valere, quam leges, coeperunt . Lo stesso confermano Aulo Gellio, Noc.
Att., X, 20 e XV, 27; come pure Plinio, Hist. nat., XVI, 15, 10. — Cfr. ORTOLAN,
Histoire de la législation romaine, 161, n. 178 et suiv. e il Madvig, L'État
romain, trad. Morel, Paris, 1882, I, 260. 285 costretto ad invitare
frequentemente i tribuni a presentare dei pro getti di riforme o di misure
amministrative alla plebe (agebat cum tribunis, ut ferrent ad plebem ), e
quindi il tribunato viene a for mare l'elemento riformatore, ed attivo
nell'organizzazione dello Stato. Che anzi i comizii tributi possono anche
essere presieduti da magi strati patrizii, trattandosi di leges praetoriae, o
di elezioni dimagi strati minori. Accanto ai medesimi, si mantengono perd ancora
i concilia plebis: ma si limitano a provvedimenti, che riguardano la sola
plebe, e alla nomina di magistrati esclusivamente plebei. 234. Intanto però
eravi sempre l'organo politico più potente in questo periodo, che era il
senato, il quale veniva ad essere lasciato in disparte nella formazione della
legge, in quanto che non era più richiesta la sua approvazione. È in allora che
il senato, non avendo più in questo argomento una parte proporzionata alla
effettiva sua influenza, non potendo sempre bastargli di far dichiarare gli au
spicia vitiata e di rifiutare l'esecuzione dichiarando ea lege non videri populum teneri viene ad essere condotto a forzare la propria
funzione consultiva. È quindi da quell'epoca, che cominciano a compa rire dei
senatusconsulti con autorità di leggi . Indarno i seguaci del partito popolare
protestano contro questa violazione della logica inerente all'istituzione del
senato, poichè questo ha influenza suffi ciente per far valere la propria
pretesa. Si capisce quindi come più tardi i giureconsulti finiscano per
esclamare non ambigitur senatum ius
facere posse ; indicando così colla stessa loro affermazione, che il dubbio era
veramente esistito . Siccome però le trasgressioni alla logica di una
costituzione non si fanno impunemente: cosi in questa stessa epoca, anche gli
editti dei magistrati e sopratutto quelli del pretore,avendo l'appoggio dalla
pubblica opinione, finiscono ancor essi per costituire un ius non scriptum, che
viene poi a conver tirsi in un ius scriptum e in una copiosa fonte legislativa.
A questo punto lo Stato romano è ormai un organismo troppo Cfr. Madvig, L'État romain, I, 260; WILLEMS,
Le Sénat, II, chap. III. Però è sopratutto il PUCATA, che hamesso in evidenza
l'importante rivoluzione introdotta della legge Ortensia (Cursus der
Institutionen). Solo mi pare di dover ag giungere, che la rivoluzione stessa
sta nell'aver cambiato il primitivo concetto di lex, e di aver così iniziato
l'esercizio di una specie di potere legislativo per parte dei singoli organi
politici dello Stato. ULP., L. 8, Dig.
(1, 3 ). 286 grande, perché possa mantenersi ancora il rigoroso principio del
l'antica costituzione patrizia, che a formare le leggi debbono con correre
tutti gli elementi costitutivi dello Stato; conviene di ne cessità lasciare,
che ciascuno di questi elementi possa dal suo canto prendere l'iniziativa. È
per questo motivo, che i comizii tributi di ventano la sorgente legislativa più
copiosa, durante gli ultimi secoli della repubblica, e che i pretori, di
magistrati preposti all'ammini strazione della giustizia, si mutano in certo
modo in legislatori (ius honorarium ): al modo stesso che più tardi anche i
giureconsulti sa ranno autorizzati a dare dei responsi, che avranno autorità di
leggi (responsa prudentum ). Tuttavia siccome tụtti questi fattori con tinuano
pur sempre a procedere sulle traccie antiche; così l'edificio non solo potrà
mantenersi saldo, ma per qualche tempo si innal zerà tanto più rapido e
grandioso, quanti più sono gli artefici, che cooperano alla costruzione. Sarà
invece quando mancherà il senso del pubblico bene, e quando scomparirà la
distinzione antica fra l'interesse pubblico e il privato, che, per salvare un
edifizio, il quale tende a scompaginarsi, sarà necessario di rimettere ogni
cosa nelle mani di un solo, la cui volontà, in base ad una apparente investi
tura del popolo, legis habet vigorem. Questo sguardo allo svolgimento storico
del concetto di legge, pro lungato oltre i confini, che misarebbero prefissi,
deve essermi per donato; perchè era soltanto sorprendendo il concetto alle
origini, che poteva comprendersene l'incerto ed irregolare sviluppo, come lo
dimostrano le divergenze di opinioni, che ancora oggi dominano l'ar gomento. Ulp., L. 1, Dig. Quod principi placuit, legis
habet vigorem; utpote quum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus
ei et in eum omne suum imperium ac potestatem conferat . Per tal modo la lex,
che era un tempo il frutto dell'accordo di tutti gli organi politici, diventa
ormai l'opera di un solo; ma intanto si mantiene sempre il concetto, che la
sorgente di ogni potere sia il popolo; altra conferma dell'opinione, fin qui
sostenuta, relativamente alla populi potestas. Questo svolgimento storico della
legge in Roma sembra essere compendiato da POMPONIO, allorchè, dopo aver
discorso delle lotte fra la plebe, il patriziato ed il senato, con chiude
dicendo: Ita in civitate nostra aut
iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod sine scripto
in sola prudentum interpretatione consistit; aut sunt legis actiones, quae
continent formam agendi; aut plebiscitum, quod sine auctoritate patrum est
constitutum; aut est magistratuum edictum, unde ius hono rarium nascitur; aut
senatus consultum, quod solum senatu constituente inducitur sine lege; aut est
principalis constitutio, id est, ut quod ipse princeps constituit, pro lege
servetur , L. 2, 12, Dig.- L'elezione del rex, l'interregnum, e la lex curiata
de imperio. 235. Per quello che si riferisce al magistrato supremo del popolo
romano, il concetto, a cui si informa la primitiva costituzione pa trizia,
consiste nel ritenere che, come è immortale il popolo, cosi non debbano mai
essere interrotti nè gli auspicia, nè l'imperium, indispensabili entrambi per
la prosperità della repubblica. È questo concetto, che spiega, come, morto il
re, auspicia ad patres re deant; è questo parimenti, che condurrà più tardi a
fissare il co stume per cui i magistrati annui succeduti al re, debbono, prima
di uscire di ufficio e finchè ritengono ancora gli auspicia, proporre il
proprio successore; è questo infine, che può somministrare il mezzo per
comprendere quella singolare istituzione dell'interregnum, non che la procedura
solenne per l'elezione del re, che, introdotte fin dagli inizii di Roma, si
perpetuano ancora col medesimo nome e colle stesse formalità sotto la
repubblica, allorchè i re sono aboliti, e che in questi ultimitempi ebbero ad
essere argomento di tante e cosi erudite elucubrazioni. 236. Un recente autore,
il Bouchè Leclercq, ebbe a scorgere nel l'interregnum e nella procedura per
l'elezione del re, un capo lavoro di
casuistica, in cui appare lo spirito sottile e formalista degli antichi romani .
Ciò darebbe a credere, che le due pro cedure siano una creazione architettata
dai pontefici, i quali in que st'argomento avrebbero dato prova del loro acume
teologico e giuridico. Parmi invece assai più semplice e più verosimile il ri
tenere, che i romani, in questo, come in altri casi, non si compiac ciano nella
creazione di formalità, come tali, ma intendano piuttosto a conservare le
tradizioni del passato. Le formalità infatti, che accompagnano l'interregno e
la elezione del re, non dimostrano l'investitura divina del re, come alcuni
vorrebbero: ma provano sol tanto, che i romani avevano altissimo il concetto
della continuità ideale dello Stato, alla guisa stessa, che prima avevano avuto
quello della perennità della famiglia e della gente. Esse provano parimenti,
Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris, 1886, 15. 288 che,
secondo il concetto primitivo della costituzione romana, al l'elezione del
magistrato, per trattarsi dell'atto forse più importante per la comunanza,
dovevano prendere parte tutti gli elementi costi tutivi dello Stato. Ciò stante,
anche in quest'elezione riscontrasi quel carattere contrattuale, che abbiamo
trovato nella legge, in quanto che il re, già nominato e consacrato, deve
ancora sottoporre all'assemblea della curia la lex curiata de imperio, e solo
dopo la medesima può compiere gli uffici a lui affidati, come capo civile e
militare della comunanza. Infine queste formalità possono anche considerarsi
come un indizio, che in un anteriore periodo di orga nizzazione sociale gli
auspicia risiedevano nei patres, ai quali perciò dovevano ritornare, allorchè
il re veniva a mancare. 237. Per conchiudere, questa istituzione dell'
interregnum, ar gomento di tante discussioni, deve essere considerata anche
essa come un naturale processo, che dovette spontaneamente formarsi in una
comunanza primitiva, uscita allora dal seno dell'organizzazione gentilizia:
processo, che è perd rivestito di quel carattere religioso e solenne, che i
romani attribuivano ad ogni loro atto, e sopratutto a quelli, che riguardavano
il pubblico interesse. In una comunanza infatti di carattere gentilizio,
formatasi mediante una confederazione, riverente verso l'età e memore delle
tradizioni del passato, era na turale, che, mancando il capo comune, il suo
potere religioso, civile e militare dovesse passare al padre più anziano della
più antica decuria del senato, e da questa trasmettersi successivamente ai
principes delle altre decurie, che venivano dopo, in base all'an zianità, accið
non venisse ad essere offeso il senso geloso, che i capi di famiglia avevano
della propria uguaglianza, e non potesse neppur nascere il timore, che uno di
essi regni occupandi consilium iniret .
Era naturale parimenti, che la proposta del successore dovesse partire da uno
dei padri, ed anzi dal più anziano fra essi, sebbene sia pur consentaneo
all'indole di questa comunanza, che la sua proposta potesse essere anche
comunicata agli altri padri, e che fosse anche sentito in famigliari concioni
l'avviso del popolo, ancora composto esclusivamente di membri delle genti
patrizie. Maturata così la proposta, è l'interrè, che deve farla; le curie, che
debbono approvarla; la presa degli auspicii, che deve inaugurarla; e infine fra
l'eletto e la comunanza deve intervenire quella specie di con venzione e di
accordo, che avverasi mediante la lex curiata de imperio; la quale, sotto un
aspetto, costituisce l'investitura del ma 289 gistrato per parte del popolo, e
dall'altro vincola quest'ultimo alla obbedienza verso di quello. Infine questo
processo naturale di cose viene come al solito gittato e fuso in certe forme
solenni, che si trasmettono ad epoche, le quali mal sanno apprezzare i motivi,
che le fecero adottare; cosicchè viene ad apparire artificiosa ed architettata
in modo casuistico e sottile quella procedura, che dovette un tempo essere la
naturale conseguenza del modo di pensare e di agire di coloro, che concorrevano
alla formazione di essa. 238. Ad ogni modo il caso, di cui ci fu serbata
memoria parti colareggiata, e in cui appare in tut a la sua solennità
questa pro cedura solenne, è la elezione di Numa, il quale fra i re primitivi
si presenta ancora con un carattere pressochè patriarcale. Sparito Romolo e collocato
fra gli dei col nome di Quirino, gli auspicia e l'imperium erano passati ai
capi delle decurie del senato, che se ne trasmettevano di cinque in cinque
giorni le insegne (decem imperitabant, unus cum insignibus imperii et
lictoribus erat). I padri, che non parevano troppo soddisfatti del regis
imperium, agitano il partito se non fosse il caso di non più nominare il re: ma
di lasciare, che il potere si venga cosi avvicendando, senza che alcuno possa
essere re per tutta la vita. Il partito non prevale fra il popolo, il quale non
ama di avere cento capi, a vece di un solo, e quindi a re si sceglie Numa di
stirpe sabina. È l'interrè, che è chiamato a proporlo (rogat), ed è il popolo
che è chiamato a crearlo, mentre sono i padri, che approvano l'elezione
(quirites, regem create: deinde, si dignum crearitis, patres auctores fient).
Segue poscia l'inauguratio, che è descritta in modo particolare da Livio; e
viene ultima la proposta della lex curiata de imperio, la quale, non ri cordata
da Livio, è invece ricordata e ripetuta da Cicerone ad ogni elezione di re,
quasi ad indicare l'importanza, che la medesima doveva avere. Ci attesta poi
Livio, che questta procedura, che egli descrive come introdotta per quel caso
determinato, ma che Dionisio farebbe già rimontare allo stesso Romolo, non è
stata abbandonata più tardi: hodieque in
legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta , cioè esclusa
la violenza, a cui dovette dal popolo ricorrersi in quel caso, accid i patres
procedessero alla proposta del nuovo re
Livio, I, XVII; Cic. De Rep., II, 13, 17, 18, 20; Dion., II, 57;
PLUTARCO, Numa, 2. Di fronte a queste testimonianze concordi, non può esservi
dubbio, che du G. C., Le origini del
diritto di Roma. 19 290 239. Il concetto informatore dell'elezione del
magistrato non po trebbe qui essere più chiaro; essa deve essere l'opera di
tutti gli organi dello Stato, ed assume un carattere pressochè contrattuale fra
magistrato e popolo, al pari di qualsiasi altra legge. Cacciati i re, il
concetto si mantiene, poichè anche con magistrati annui la con tinuità degli
auspicia e dell'imperium non deve essere interrotta; quindi è l'antecessore,
che è chiamato a proporre il successore, e se egli per qualche motivo non possa
farlo, si ricorre alla nomina di un interré, anche quando i re già sono
aboliti. Tuttavia, anche in questa parte, l'accoglimento della plebe nel
populus delle classi e delle centurie produce una modificazione nella primitiva
costituzione; modificazione, che in questi tempi diede argomento a gravissime
discussioni, e che, in coerenza alle cose sovra esposte, pud a mio avviso
essere spiegata nel modo seguente. Non può esservi dubbio che, durante il
periodo regio, l'interres era uno dei patres del senato, ai quali redibant
auspicia. Colla repubblica invece, al modo stesso che nel populus delle classi
e delle centurie fu compresa anche la plebe, così anche il senato venne ad
essere non più composto esclusivamente di patrizii, ma anche di nobili plebei;
del che alcuni scorgono un indizio nella de nominazione data ai senatori di
patres et conscripti. Comunque stia la cosa, questo è certo, che il senato,
divenuto patrizio -plebeo, non poteva più rappresentare gli antichi patres o
patricii, che erano stati i fondatori della città, e ai quali redibant auspicia.
Erano le curiae invece, le quali continuarono ancora per lungo tempo ad essere
esclusivamente patrizie, e di cui potevano fare parte anche i senatori di
origine patrizia, che di fronte al rimanente del popolo rappresentavano
l'antico ordine dei patres o dei patricii, e alle quali perciò dovevano
ritornare gli auspicia. Di qui la conseguenza, che furono i patricii, o in
altri termini le curiae, a cui venne a devolversi la proposta dell'interrex,
come lo dimostrano le espres sioni
patricii coeunt ad interregem prodendum , patricii rante il periodo regio l'interrea era
tolto, secondo certe regole tradizionali, dal se nato, e che dallo stesso
senato partiva la patrum auctoritas. Anche quanto alla lex curiata de imperio,
ancorchè solo ricordata da CICERONE, di fronte alla sua atte stazione ripetuta,
manca ogni motivo di ragionevole dabbio. Non potrei quindi, come sopra già si è
accennato, nº 199, 244, in nota, consentire col Karlowa, Röm. R.G., 52 e 82 e
segg., il quale ritiene che la lex curiata de imperio sia entrata in azione
soltanto colla costituzione di Servio Tullio. 291 interregem produnt e simili,
e ciò perchè l'interrex, facendo in certa guisa ancora rivivere la figura del
rex primitivo, ed essendo depositario e custode degli auspicia, durante il
periodo della va canza del magistrato, non poteva esser nominato che da
patrizii e fra i patrizii, come espressamente ci attesta Cicerone allorchè af
ferma: cum interrex nullus sit, quod et
ipsum patricium et a patriciis prodi necesse est . Come sia accaduto questo
cambiamento, se cioè per legge o per il logico sviluppo delle isti tuzioni, il
che è più probabile, non si può affermare con certezza; ma certo dovette essere
questo il processo logico, che governo tale modificazione. In questo modo
infatti si vengono a rannodare insieme tre istituzioni, che furono argomento di
lunghe discussioni, e di cui tutti riconoscono la strettissima attinenza, che
sono la patru patriciorum auctoritas per le leggi, la lex curiata de imperio
per la elezione dei magistrati, e la proposta dell'interrex, accið l'im perium
e gli auspicia non siano interrotti, durante la vacanza del magistrato. Tutte
queste istituzioni non sono che conseguenze ed ap plicazioni dell'antico
principio, che auspicia penes patres
sunt; dal qual concetto conseguiva, che nè una legge, nè un magistrato, nè un
interrex potevano ritenersi bene auspicati per lo Stato, senza l'intervento
dell'ordine patrizio, il quale, di fronte al nuovo popolo, corrispondeva ai
patres del periodo regio. In questo senso viene ad essere spiegato quanto ci
afferma Cicerone che curiata comitia,
tantum auspiciorum causa, remanserunt , come pure si com prende, che col tempo
i medesimi si siano ridotti ad una imitazione od adombramento dell'antico per
mezzo dei trenta littori, che rap presentavano le trenta curie (ad speciem
atque ad usurpationem vetustatis per XXX lictores) . Intanto però, anche coll'
introduzione dei comizii centuriati, la nomina dei veri magistrati cum imperio
continua ancora sempre ad essere l'opera di tutti gli organi politici dello
Stato, in quanto che vi ha sempre il magistrato o interrè, che lo propone
(rogat); il popolo delle classi o centurie, che lo elegge (creat); il senato,
che continua a dare la propria auctoritas alla elezione (auctor fit); e da
ultimo l'assemblea delle curie, che lo investe degli auspicia e dell'imperium
mediante la lex curiata de imperio, per modo
CICERO, Pro domo sua, 14. CICERO,
De lege agraria, II, 11, 27 e 28. 292 che il magistrato non può entrare in
ufficio, e compiere sopratutto atti di carattere militare, prima di aver
ottenuta la legge stessa. 240. Se non che anchequi lo svolgimento armonico e
coerente della primitiva costituzione romana comincia a dar luogo ad un
dualismo, allorehè compariscono i magistrati plebei, e sopratutto il tribunato
della plebe, il quale, pur essendo la magistratura urbana più operosa del
periodo repubblicano, non riesce però mai ad inquadrarsi per fettamente nella
costituzione politica di Roma. Dapprima infatti i tribuni della plebe non sono
ancora veri magistrati, ma piuttosto ausiliatori della plebe, e non si pud neppure
affermare con certezza dove fossero nominati, in quanto che gli storici parlano
di una no mina fatta dalla plebe per curie, di cui non si comprende il
signifi Ho cercato qui di riunire e di
risolvere, mediante i concetti informatori della primitiva costituzione di
Roma, e dei cambiamenti, che in essa si vennero operando, alcune questioni, che
furono oggetto di gravi e lunghe discussioni. La patrum au ctoritas, la lex
curiata de imperio, la proposta dell'interrex furono spiegate in varia guisa.
Havvi l'opinione del Niebhur, seguìta anche dal Becker, Röm. Alterth., vol. II,
314-332, che pareggia fra di loro la patrum auctoritas e la lex curiata de
imperio, e quindiattribuisce l'una e l'altra alle curie fin dal periodo regio;
vi ha quella del WILLEMS, Le droit public romain, 208 a 212, che invece
attribuisce al vocabolo di patrum auctoritas la significazione costante di
senatus auctoritas, affi dando al senato anche la proposta dell' interrex;
sonvi il Rubino, e fra i recenti il Karlowa, Röm. R.G., I, p. 44 e seg., i
quali sotto le espressioni di patrum aucto ritas e di patricii interregem
produnt scorgono i senatori patrizii, e quindi affidano ad essi così la patrum
auctoritas, come la proposta dell'interrex. Vi banno infine quelli, i quali
sostengono, che la primitiva costituzione dovette certo subire qualche modi
ficazione, allorchè la formazione delle leggi e la elezione dei magistrati dal
popolodelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il
senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora tutte le funzioni, che si
rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità passare alle curie, che erano
il solo corpo esclusivamedelle curie passò al popolo delle classi e delle
centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora tutte le
funzioni, che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità passare alle
curie, che erano il solo corpo esclusivamente pa trizio. Tale è l'opinione
sostenuta con molta dottrina dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica
Romu (Rivista di Filologia, Torino, 1884, 297 a 395). Se guendo un processo
diverso, sono riuscito ad una conclusione analoga a quella soste nuta dal
Pantaleoni, e intanto ho cercato di richiamare ad un unico concetto i varii
aspetti, sotto cui presentasi la questione. Ritengo poi, che tanto il pareggiamento
della patrum auctoritas e della lex curiata de imperio (BECKER), quanto quello
della patrum auctoritas e della senatus auctoritas (WILLEMS), quanto infine il
con cetto di un senato patrizio, diviso dal plebeo, che darebbe l'auctoritas e
proporrebbe l'interrex (KARLOWA), per quanto sostenute con ingegno e con
erudizione, siano in contrasto coi passi degli antichiautori, e collo
svolgimento storico della costituzione romana. 293 cato . Più tardi nel 283
U. C. da Publilio Volerone si ottiene, che la plebe possa nominare i suoi
tribuni nei proprii concilii, i quali cosi vengono ad essere legalmente
riconosciuti. Come quindi con tinua ad esservi sempre un magistrato esclusivamente
patrio, il qualedeve essere nominato dai patrizii delle curie, che è l'interrex;
così vengono ad esservi deimagistrati, esclusivamente plebei, quali sono
appunto i tribuni e gli edili della plebe, che debbono esser sempre nominati
nei concilia plebis. Per quello poi, che si rife risce ai magistrati veri del
popolo romano, e comuni ai due ordini, si viene ad operare una specie di
divisione del potere elettorale fra i comizii centuriati, che continuano sempre
a nominare i magi strati maggiori, ei comizii tributi, che finiscono per
attirare a sè la nomina dei magistrati minori; di quei magistrati cioè, che un
tempo erano nominati direttamente dal magistrato maggiore. Per talmodo anche
qui sonvi i poteri, in cui i due ordini si confondono e si ripartono gli
uffizii, ma rimangono ancor sempre le traccie del l'opposizione, che un tempo
esisteva fra patriziato e plebe . Infine è ancora degno di nota in
quest'argomento il processo, che i romani seguirono nella creazione dei
pro-magistrati nelle pro vincie, secondo cui i magistrati di Roma, allorchè
avevano terminato il proprio ufficio nella città, diventavano pro-magistrati
nelle pro vincie. Per noi la cosa può sembrare singolare: ma pei romani era un
processo regolare e costante, in quanto che essi, al modo stesso che avevano
prese le istituzioni gentilizie e le avevano tra piantate nella città, così
presero i magistrati di Roma, e li tras portarono nelle provincie, prorogandone
l'imperio e chiamandoli pro-magistrati, poichè i veri magistrati dovevano
essere quelli di È Dionisio, IX, 41, il
quale dice, che i tribuni furono dapprima eletti nelle curie, ma in verità non
si riesce a comprendere come i difensori della plebe potes sero essere eletti
coll'intervento del patriziato; salvo che con ciò si voglia dire, che la plebe,
per la nomina dei suoi primi tribuni, siasi raccolta nel luogo stesso, ove si
riunivano le curiae. La proposta di Volerone ebbe poi grandissima importanza in
quanto che è con essa, che incomincia il riconoscimento legale dei concilia
plebis. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, 593.Non parmi tuttavia, che si possa far
rimontare a quest'epoca l'esistenza dei comitia tributa, poichè i tribuni della
plebe, anche più tardi, furono sempre nominati nei concilia plebis. Questa è una prova, che in questo periodo
della costituzione politica di Roma i veri comizii del popolo romano erano i
comiziï centuriati e i comizii tributi; mentre i comizii curiati erano solo più
conservati auspiciorum causa, ed i concilia plebis per provvedimenti di
interesse esclusivo alla plebe. 294 Roma . Veniamo ora all'esercizio del potere
giudiziario nel periodo regio. 4. –
L'amministrazione della giustizia, la distinzione fra ius e iudicium, e la
provocatio ad populum nel periodo regio. 241. Per quello che si attiene
all'amministrazione della giustizia durante il periodo regio, la questione
fondamentale, intorno a cui vi ha grande divergenza fra gli autori, è quella
che sta in vedere se l'esercizio della giurisdizione, cosi civile come penale,
apparte nesse esclusivamente al re, oppure vi avessero anche partecipazione il
senato ed il popolo. Questo è però fuori di ogni dubbio, che in questo periodo
si cercherebbe indarno una delimitazione precisa fra la giurisdizione civile e
la criminale, sebbeue già sianvi dei reati, che sono pubblicamente proseguiti,
come si vedrà più tardi, discor. rendo del parricidium e della perduellio, e
delle autorità incari cate della prosecuzione e punizione di essi (quaestores
parricidii e duumviri perduellionis ). Senza pretendere di volere risolvere le
gravissime questioni, che si agitano in proposito, mi limito unicamente ad
osservare, che anche in questa parte la costituzione primitiva di Roma contiene
il germe di tutte quelle istituzioni, che son chiamate a determinare lo
svolgimento ulteriore del potere giudiziario in Roma. Queste isti tuzioni
primordiali, che gli antichi fanno già rimontare al periodo regio, sono: la
potestà di giudicare, che appartiene al re; la distin zione fra il ius e il
iudicium, per cui, accanto al magistrato qui ius dicit, già compariscono i
iudices, gli arbitri, i recuperatores in materia civile, ed i duumviri, ed i
quaestores in materia crimi nale; e da ultimo l'istituto della provocatio, che
col tempo sarà quello, che finirà per trasportare la giurisdizione penale dal
magi strato ai comizii. Questi istituti sono in certo modo altrettanti abbozzi,
che svolgendosi a poco a poco finiranno per determinare l'evoluzione del potere
giudiziario, durante il periodo repubblicano. 242. Che la potestà del ius
dicere sia compresa nella concezione Non
occorre di notare, che qui si parla dei pro-magistrati, che dopo essere stati
consoli o pretori in Roma, diventavano proconsoli o propretori nelle provincie.
Cfr. in proposito MOMMSEN, Le droit public romain. Cfr. Muirhead, Histor. introd., Sect. 15, 59.
295 - sintetica del regis imperium, sebbene non esista ancora la sepa razione
recisa fra la iurisdictio e l'imperium, è cosa a parer mio chenon può essere
posta in dubbio. Non può quindi essere accolta l'opinione del Maynz, che quasi
vorrebbe fin dal periodo regio attribuire la giurisdizione criminale al popolo
. Tuttavia in pro posito occorre di rettificare un concetto, che sembra essere
general mente adottato, secondo cui si vorrebbe in certo modo riconoscere nel
re il potere di giudicare di qualsiasi controversia e di qualsiasi misfatto. Questo
concetto ripugna col processo seguito nella forma zione della città, e
dell'imperium regis. Almodo stesso, che la ci vitas non assorbi tutta la vita
delle genti e delle famiglie, ma è dovuta ad una specie di selezione, che si
viene operando di quelle funzioni civili, politiche e militari, che prima erano
esercitate dalle singole comunanze patriarcali; così anche il potere regio
venne for mandosi, mediante lente e graduate sottrazioni, che si vennero ope
rando da quei poteri, che prima appartenevano ai capi di famiglia e delle
genti. Di qui la conseguenza, che negli esordii dovette per lungo tempo
mantenersi vigorosa, accanto al potere del re, la giu risdizione propria dei
capi di famiglia e delle genti, e che per lungo tempo ancora i capi di famiglia
curarono essi la prosecuzione delle proprie offese e continuarono ad essere i
vindici della disciplina, che doveva essere mantenuta nelle famiglie; come lo
dimostra il fatto stesso dell'Orazio, quale ci viene narrato da Livio. Tut
tavia in questa progressiva formazione del potere del magistrato fu la stessa
realtà dei fatti e l'intento della comunanza civile e po litica, che
somministrò il concetto direttivo, che ebbe a determi narla. Questo concetto
consiste in cid, che il re primitivo non si impone ai membri delle genti e
delle famiglie come tali, ma bensi ai medesimi, in quanto sono quiriti, cioè in
quanto partecipano alla stessa convivenza civile e politica. Quindi il re
dapprima non è il custode dell'ordine delle famiglie, nè il vindice delle
offese tutte, che possono patire i membri di esse; ma è il custos urbis, ed è
incaricato sopratutto di provvedere al mantenimento di quelle leges publicae,
che sono in certo modo la base della confederazione ci vile e politica, a cui
addivennero le varie comunanze. Nel resto continuano ad essere competenti i
singoli padri e capi di famiglia, V. Maynz, Introd. au cours de droit romain,
n. 20, 60, ove sostiene, che anche in tema di giurisdizione criminale la
sovranità appartenesse alla nazione. 296 ed anche i capi di tutti gli altri
sodalizii di carattere religioso o civile (magistri): i quali, secondo il
concetto primitivo, hanno giuris dizione sui membri tutti del sodalizio, come
lo dimostra, fra le altre, la giurisdizione del pontefice sui sacerdozii, che
da esso dipendono . Sarà quindi solo più tardi, ed a misura che nella cerchia
delle mura cittadine saranno anche comprese le abitazioni private, che la giu
risdizione del magistrato perderà questo suo carattere, e si potrà esten dere
anche a fatti, che, quantunque compiuti fra le pareti domestiche e da persone
dipendenti dall'autorità del capo di famiglia, potranno tuttavia produrre una
pubblica perturbazione. 243. Di questo carattere speciale della giurisdizione,
spettante al magistrato primitivo di Roma, abbiamo una prova eloquente in
quella distinzione fondamentale per l'antica amministrazione della giustizia,
così civile come penale, fra il ius ed il iudicium. Sono note le discussioni,
che seguirono in proposito, e non mancarono anche coloro, che attribuirono la
divisione stessa alla separazione, che l'ingegno sottile dei romani avrebbe
tentato di fare, fin d'allora, fra il diritto ed il fatto: cosicchè il
magistrato avrebbe decisa la que stione di diritto, mentre il giudice avrebbe
poi applicato il diritto al fatto. Una simile distinzione non si cercò mai dai
Romani, perché essi professarono sempre, che ex facto oritur ius;ma furono
invece i fatti stessi e le condizioni reali, fra cui vennesi formando la città,
che condussero naturalmente a questa distinzione. Pongasi infatti un centro di
vita pubblica, che stia formandosi fra varie comunanze patriarcali. L'effetto,
che dovrà risultare da questo stato di cose, sarà quello di produrre, fra le
giurisdizioni, che con tinuano ad appartenere ai capi delle famiglie e delle
genti, una giurisdizione di carattere pubblico, che appartenga al capo ed
al Cfr. Maynz, op. cit., n. 20, 60, e
MOMMSEN, Le droit public romain, I, 187:
Magistri (scrive Festo, po magisterare), non solum doctores artium, sed
etiam pagoram, societatum, vicorum, collegiorum, equitum dicuntur, unde et magi
stratus (Bruns, Fontes, 341). È da vedersi a questo proposito quanto ebbi ad
esporre nel lib. I, Capo V, n ° 88, 109 e nota relativa. Fra gli autori, che in questa distinzione
videro in certo modo una separazione fra il diritto ed il fatto havvi il
Bonjean, Traité des actions chez les Romains, Paris, 1845, vol. I, 29. Cfr. C., De exceptionibus in iure romano, 1873, 11.
Di tale distinzione tratta il BuonAMICI, Storia della procedura civile romana,
Pisa, 1866, I, $ 5. 297 custode della città. Di qui la conseguenza, che la
questione pre liminare, che questo magistrato sarà chiamato a risolvere, ogni
qual volta gli sia sottoposta un'accusa od una controversia, consisterà nel
decidere, se il fatto, del quale si tratta, sia uno di quelli, che debbono
essere lasciati alla giurisdizione domestica, od invece attribuiti alla
giurisdizione di carattere pubblico, che a lui appartiene; come pure dovrà
cercare, se al fatto, del quale si tratta, siavi qualche lex pu blica, che
debba essere applicata. Se quindi, ad esempio, l'Ora zio avrà uccisa la sorella,
e sarà trascinato innanzi al re in ius, la questione, che questi è chiamato a
decidere, sta in vedere, se il fatto in questione debba essere lasciato alla
giurisdizione del padre, che afferma che la sua figlia è stata iure caesam, o
se trattisi invece di tal fatto, alla cui repressione provveda una lex publica.
Ed è questa appunto la questione, che risolve Tullo Ostilio, il quale, secondo
Livio: concilio populi advocato:
duumviros, inquit, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem fació .
Che se in vece di un misfatto si fosse trattato di una controversia di
carattere civile, la questione a risolversi sarà pur sempre quella di vedere,
se trattisi di un caso contemplato da una legge pubblica, e se perciò si dovrà
accordare diritto di agire secondo la legge. Solo allora il magistrato gli dirà
di agire secundum legem publicam: oppure più tardi, allorchè vi sarà una
speciale magistratura per l'amministrazione della giustizia, questa pubblicherà
nel proprio editto quali siano i casi particolari, in cui actionem dabit. Non è
perciò da ammettersi il concetto per tanto tempo ricevuto, che, secondo il
diritto civile romano, vi fossero dei diritti, che erano senz'azione; ma
soltanto si deve dire, che il diritto in Roma si venne lentamente e
gradatamente formando, e che toccava al ma gistrato di esaminare e di risolvere
la questione, se in quel caso determinato dovesse, o non, essere accordata
l'azione. Spettava quindi al magistrato (in iure) di decidere in ogni caso
particolare, se il caso stesso fosse stato tale da richiedere, in base alle
leggi, l'intervento e l'appoggio del pubblico potere: ma, una volta decisa
affermativamente una tale questione, il magistrato aveva compiuto Liv., I, 26. Dalle espressioni, che Livio
attribuisce a Tullo Ostilio, si ricava, che la questione, che egli si propose
di risolvere, consisteva nel decidere, se vi era una legge, e quale fosse la
legge, che colpiva il delitto del quale si trattava. Cfr. PANTALEONI, Storia
civile e costituzionale di Roma, I, 317. 298 il proprio ufficio, e quindi
poteva rimettere il giudizio o ai quae stores parricidii, o ai duumviri
perduellionis, se trattavasi di ac cusa penale, od anche ad un iudex e perfino
ai recuperatores, se trattavasi di una controversia civile, intorno a cui le
parti non si fossero poste d'accordo innanzi al magistrato. Questo è certo, che
già nel periodo regio vi furono queste varie maniere di giudici; ed è anzi
probabile, che già esistessero i iudices selecti, il cui albo do veva
probabilmente ricavarsi dal novero dei padri o senatori; come lo dimostra la
testimonianza di Dionisio, ed anche il fatto, che fu così anche dopo, e che in
una comunanza, che aveva ancora del patriarcale, era ovvio, che i padri fossero
i naturali giudici delle controversie. È certo parimenti, che quando trattavasi
di delitti ca pitali, il re doveva essere circondato da un consilium; come ap
pare dal fatto, che, secondo Livio, a Tarquinio il Superbo fu mossa l'accusa
che cognitiones capitalium rerum sine
consiliis per se ipsum exercebat . Era poi naturale, che anche questo consilium
fosse tratto dall'albo dei patres o senatori, e per tal modo abbiamo anche qui
un ricordo del re patriarcale, che, circondato dagli an ziani, amministra la
rozza patriarcale giustizia. Per quello poi, che si riferisce all'intervento
dell'elemento popo lare nell'amministrazione della giustizia civile, sembra che
il mede simo debb a attribuirsi soltanto all'epoca serviana, alla quale
puo con molta verisimiglianza farsi rimontare l'istituzione del Tribunale dei
centumuiri, come si vedrà a suo tempo. 244. Intanto è sempre dal modo, in cui
la città si venne formando, e dall'essere essa l'organo e il centroella vita
pubblica, che ven gono ad essere determinati i caratteri della procedura, che
dovette essere seguita negli esordiidella città, così nei giudizii civili come
nei giudizii penali. È infatti nel foro, ossia nella piazza, che deve essere
amministrata giustizia, come lo dimostra il fatto, che una delle ac cuse, mossa
contro Tarquinio il Superbo, fu quella appunto di essere venuto meno al
tradizionale costume, amministrando giustizia nell'in terno della propria casa
. Così pure si comprende come questa Il
testo è citato da Livio, I, 49. Abbiamo poi Dionisio, II, 14, che dice parlando
del re: de gravioribus delictis ipse
cognosceret; leviora senatoribus committeret; donde si può inferire, che anche
il consilium regis dovesse, trattandosi di delitti ca pitali, ricavarsi dal
senato. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., 54.
Liv., I, 49. 299 procedura dovesse essere orale, ed ispirarsi al
concetto di una assoluta parità di condizione fra i contendenti, come quella
che doveva imi tare, cosi nei giudizii civili come nei penali, quella specie di
lotta e di certame, che un tempo dovette seguire fra i contendenti. Se si trat
terà di un misfatto, sarà il cittadino che accuserà il cittadino e cer cherà
egli stesso le prove, sovra cui si appoggia la propria accusa, e se si tratterà
invece diazione civile, sarà seguita la procedura solenne dell'actio
sacramento, od anche quella della iudicis postulatio. Di queste si è veduto
come la prima già si era formata nella stessa tribù patriarcale: mentre un
tempo essa era il modo di pro cedere del capo di famiglia contro il capo di
famiglia nel seno della tribù, venne poi ad essere trapiantata nella città,
unitamente alle formalità, che ricordano l'antica procedura patriarcale, e
cominciò cosi ad usarsi dal quirite contro ' il quirite . La seconda poi, ossia
la iudicis postulatio, fu l'effetto necessario di quella separazione del ius
dal iudicium, che, come si è dimostrato più sopra, era una con seguenza del
formarsi di una giurisdizione pubblica, accanto alle giurisdizioni di carattere
domestico e patriarcale, in quanto che, toc cando al magistrato di risolvere la
questione se in quel caso dovesse o non ammettersi un cittadino ad agire
secundum legem publicam, conveniva di necessità ricorrere a lui, accid
delegasse un iudex o un arbiter per la risoluzione della controversia; donde
l'antica de nominazione della iudicis arbitrive postulatio . Questa conget tura
ha la sua base in ciò, che all'epoca decemvirale già si trovano stabilite
queste due maniere di procedura, senza che si possa deter minare, quando le
medesime siano state introdotte. Cotali procedure tuttavia, passando dai
rapporti fra capi di famiglia, pressochè indi pendenti e sovrani, ai rapporti
fra i cittadini di una medesima città, hanno già cessato di essere semplici
actiones, e sono diventate legis actiones, in quanto che sono altrettanti modi
riconosciuti dalla legge pubblica per far valere in giudizio le proprie
ragioni. 245. Soltanto più ci resta a discorrere di una istituzione, che
era Quanto all'origine gentilizia e alla
naturale formazione dell'actio sacramento vedasi sopra lib. I, n. 104. La iudicis arbitrive postulatio è ricordata
da Gaio, come una delle più antiche legis actiones, Comm. IV, 12, sebbene poi il manoscritto di Verona sia
stato il. leggibile nella parte, che vi si riferisce. V. quanto alla medesima
il Murhead, Hist. introd., Sect. 35, 197, e il BuonamiCI, Storia della
procedura civile romana. I, Cap. VII, 43 a 57. 300 poi chiamata a ricevere una
larga applicazione, durante il periodo repubblicano, e che è indicata colla
denominazione di provocatio ad populum. Si dubita dagli scrittori, se questa
istituzione già potesse esistere fin dal periodo regio, ed alcuni lo negano,
perchè ritengono, che in questo periodo le funzioni del popolo si riducessero
esclusivamente a quelle, che il re credeva di dovergli affidare. Per parte nostra,
di fronte alla testimonianza di Cicerone, che, augure egli stesso, ebbe a dire,
che della provocatio ad populum parlavano i libri pontificii e gli augurali, il
dubbio non dovrebbe più presentarsi . Quanto alle considerazioni desunte dagli
stretti confini della populi potestas, durante il periodo regio, ed anche dalla
narrazione di Livio, che nel caso dell'Orazio parla di una provocatio ad
populum, accordata da Tullo clemente
legis interprete , parmi che esse non possano condurre ad escludere un diritto
di provocatio ad populum, che in effetto sarebbe stato invocato e fu fatto
valere dallo stesso Orazio. Pud darsi, che in quel caso particolare potessero
esservi dei motivi per dubitare, se dovesse o non essere ammessa. Ma se
l'Orazio vi ricorre, egli lo fa in base ad una consuetudine, le cui origini
dovevano rimon tare ad un'epoca anteriore. Si aggiunge, come appare dalle cose
premesse, che la costituzione primitiva di Roma dovette essere più liberale
negli inizii, quando vi era un populus, tutto composto di padri uguali fra di
loro e consapevoli del proprio diritto, che non posteriormente, allorchè il
populus cominciò ad essere composto di due classi disuguali fra di loro, cioè
del patriziato, che era il populus primitivo, e della plebe; di una classe dirigente
e di una classe, che trovavasi in posizione inferiore. In base ad una tale
costituzione primitiva, secondo cui la populi potestas era la sorgente di tutti
i pubblici poteri ed anche del regis imperium, veniva ad essere naturale e
logico, che se il ius dicere apparteneva al re, il con dannato dovesse poter
ricorrere in appello al potere supremo che era il popolo, mediante la
provocatio. Per verità di questo diritto alla provocatio fa cenno la stessa lex
horrendi criminis, i cui termini ci furono conservati da Livio duumviri perduellionem iudicent: si a
duumviris provocarit, provocatione certato . Era poi naturale, che questa
provocatio, al pari dell'azione e del giudizio, venisse a canıbiarsi in quella
specie di certame o di combattimento Cic.,
De Rep., II, 35: Provocationem etiam a
regibus fuisse, declarant pon tificii libri, significant nostri etiam augurales
, 301 legale, che viene appunto ad essere descritto da Livio, a proposito del
giudizio dell'Orazio, in quanto che ogni procedura patriarcale prende
naturalmente questo carattere. I duumviri, che avevano pronunziata la condanna,
dovevano essi sostenere l'accusa davanti all'assemblea del populus. Eravi cosi
una specie di certamen fra essi e l'accusato, che simboleggiava quel
combattimento vivo e reale, che un tempo aveva dovuto effettivamente seguire.
Che anzi, già fin d'al lora, il populus, trattandosi di reato di carattere
politico, quale era la perduellio, poteva anche passare sopra alla questione
puramente giuridica, per giudicare invece ex animi sententia, e assolvere, come
avrebbe fatto nel caso speciale dell'Orazio, admirationemagis virtutis, quam
iure causae . Vero è, che posteriormente nel primo anno della repubblica tro
viamo una legge Valeria Orazia de provocatione, che riconobbe solennemente al
popolo questo suo diritto, il quale fu anzi conside rato come il palladio della
libertà del cittadino romano (unicum praesidium libertatis); ma allora le
circostanze erano cambiate, perchè il populus non comprendeva solo più i patres
e i patricii, ma anche la plebs, e quindi volevasi una legge, che accomunasse e
consacrasse una istituzione, forse solo consuetudinaria, a tutto il nuovo
populus quiritium, comprendendo in esso anche la plebe. 246. Intanto è evidente
la influenza, che questa istituzione della provocatio ad populum, solennemente
consacrata, doveva esercitare sul futuro svolgimento della giurisdizione
criminale, in quanto che essa doveva condurre al risultato di trattenere il
magistrato dal pronunziare una condanna, da cui poteva esservi appello al
popolo, e trasportare cosi in definitiva la giurisdizione criminale dal
magistrato al popolo. Tuttavia anche qui lo svolgimento regolare e graduato
ebbe ad essere per qualche tempo interrotto, allorchè i tribuni della plebe
presero a portare accuse contro i patrizii avversi alla plebe, e contro i
consoli uscenti di ufficio davanti ai concilia plebis. Fu Liv., I, 26.
Non potrei quindi ammettere l'opinione del KarlowA, Röm. R. G., 53 e
segg., il quale, argomentando da ciò, che le leggi Valeriae Horatiae avrebbero
introdotta la provocatio ad populum, vorrebbe inferirne, che questa sotto i re
non esistesse che per la perduellio. CICERONE parla di provocatio in genere, e
quindi non vi ha motivo di restringerla, ma vuolsi ammetterla in genere per i
reati a quella epoca puniti di pena capitale, cioè tanto per la perduellio,
quanto per il parricidium. 302 allora, che la legislazione decemvirale ebbe a
stabilire il principio che soltanto i comizii centuriati potessero pronunziare
una condanna capitale. Ciò però non impedisce, che i tribuni della plebe conti nuino
ancora ad eserc itare il proprio diritto di accusa, sopratutto per i
delitti di carattere politico, e per quelli che sono puniti di sole pene
pecuniarie. Di qui deriva la conseguenza, che anche quanto alla giurisdizione
criminale viene a ripartirsi il compito fra i comizii centuriati, che giudicano
dei delitti capitali, e dd i comizii tributi, che giudicano dei delitti, che
debbono essere puniti con pene pecuniarie, finchè l'incremento della città ed
anche dei delitti perseguiti per legge non renderà necessario di ricorrere alla
istituzione delle quaestiones perpetuae, ossia di tribunali speciali per
giudicare delle diverse categorie di delitti . Parmi con ciò di aver abbastanza
dimostrato non solo l'unità e la coerenza della primitiva costituzione patrizia;
ma di aver provato eziandio, come essa debba essere considerata come il modello
e l'esem plare, sovra cui si foggiò tuttoil posteriore svolgimento delle
istituzioni politiche diRoma. Essa fu tale dameritarsi il grande elogio
diCicerone, allorchè scriveva, che la costituzione politica di Roma
formatasi non unius ingenio, sed
multorum, nec una hominis vita, sed aliquot saeculis et aetatibus , era
tuttavia riuscita superiore in eccellenza alle costituzioni greche, che erano
l'opera meditata dei filosofi e dei sapienti. L'opera collettiva di un popolo,
proseguita con logica tenace e coerente, e accomodata ai tempi, riusciva per
talmodo superiore all'opera individuale dei più grandi ingegni del l'umanità:
nam, dice lo stesso Cicerone, facendo intervenire Sci pione, neque ullum
ingenium tantum exstitisse dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam
aliquando fuisset; neque cuncta in genia, conlata in unum, tantum posse uno
tempore providere, ut omnia complecterentur, sine rerum usu ac vetustate.
Veniamo ora alle leges regiae. Cic., De
leg. 3, 4: De capite civis nisi per
maximum comitiatum ne fe runto , disposizione questa, attribuita alla
legislazionedecemvirale, la quale mirava con ciò ad impedire, che le cause
capitali contro i patrizii e contro i consoli fossero dai tribuni della plebe
recate innanzi ai concilia plebis. Cfr. Esmein, Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia, de adulteriis, nei
Mélanges d'histoire du droit, Paris, 1886, 71 et suiv. Cic., De Rep., II, 1. La
legislazione regia durante il periodo esclusivamente patrizio. $ Del contributo delle varie stirpi italiche
alla primitiva legislazione di Roma. 247. Dal momento che a costituire la città
patrizia concorsero comunanze, le quali erano di origine diversa, era naturale,
che, anche esistendo una certa analogia fra le loro istituzioni, non potesse
perd esservi una identità perfetta fra le medesime. È quindi evidente, che col
partecipare di diverse stirpi alla medesima città dovette ope rarsi fra di loro
una assimilazione lenta e graduata delle loro isti tuzioni giuridiche. Che
anzi, a questo proposito, un recente autore, a cui deve assai la ricostruzione
del diritto primitivo di Roma, il Muirhead, andrebbe fino a dire, che le varie
stirpi, come recarono un diverso contributo alla costituzione politica di Roma,
cosi deb bono pure aver portato un contributo diverso alla formazione del
diritto privato di Roma; contributo, che egli cercherebbe di riassu mere nei
seguenti termini: La patria potestas
spinta fino al ius vitae et necis sulla figliuolanza; la manus ed il potere del
marito sulla moglie; il concetto per cui maxime sua esse credebant,
quae ex hostibus caepissent (Gaio, IV,
16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di
imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma,
che deriva dal concetto, che la forza generi maxime sua esse credebant,
quae ex hostibus caepissent (Gaio, IV,
16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di
imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma,
che deriva dal concetto, che la forza generi maxime sua esse credebant,
quae ex hostibus caepissent (Gaio, IV,
16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di
imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma,
che deriva dal concetto, che la forza generi maxime sua esse credebant,
quae ex hostibus caepissent (Gaio, IV,
16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di
imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma,
che deriva dal concetto, che la forza generi il diritto, sarebbe dovuto
all'influenza latina: Le cerimonie
religiose invece, che accom pagnano il matrimonio, il riconoscimento della
moglie, quale padrona della casa e partecipe delle cure religiose e domestiche;
il consiglio di famiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda
il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del
l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non
privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni,
che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la
pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e
di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni,
che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la
pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e
di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii necessarii per
il riposo delle loro anime, sarebbero evidentemente uscite da un diverso ordine
di idee, e sarebbero perciò a ritenersi di provenienza sabina. - Quanto all'influenza etrusca non si sarebbe
sentita che ad una data più recente;ma dovrebbe probabilmente essere attri 304
buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza
delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della
vita pubblica e privata . Non può certam ma dovrebbe probabilmente essere
attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os
servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti
transazioni della vita pubblica e privata . Non può certamma dovrebbe
probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che
deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più
impor tanti transazioni della vita pubblica e privata . Non può certamente
negarsi, che la ricostruzione dell'in signe giureconsulto appare come una
verosimile congettura, quale del resto è annunciata dallo stesso autore. Alla
sua mente acutanon poteva sfuggire la stretta attinenza, che dovette esservi
fra il diritto pubblico e il privato nello svolgimento delle primitive istitu
zioni: e ciò lo condusse a questa ripartizione di parti, che pure si appoggia
al carattere e alle opere, che la tradizione attribuisce ai re, che provengono
dalle varie stirpi. Tuttavia, con tutta la reverenza all'opinione di un insigne,
crederei che questa ricostruzione del diritto primitivo di Roma non possa
essere accettata, neppure come ipotesi e congettura, perchè è in contraddizione
col modo, in cui Roma e il suo diritto si vennero formando, e colle tradizioni,
che a noi pervennero. 248. Non credo anzitutto, che la costituzione, anche
politica di Roma, possa considerarsi in certo modo come una composizione di
elementi diversi recati da questa o da quella stirpe. In proposito ho cercato
di dimostrare che l'ossatura della città primitiva fu essen zialmente latina, e
che, al pari delle altre città latine, Roma usci da un foedus, ossia
dall'accordo di varie tribù per partecipare ad una stessa comunanza civile e
politica. Quindi è che gli elementi, che sopravvennero, entrarono tutti nei
quadri della città latina, la quale fu anzi concepita sopra un'unità cosi
organica e coerente, che non può essere riguardata, come il frutto del
contemperamento di ele menti diversi . Re, senato e popolo esistono fin dagli
esordii di Roma, e a misura che nuovi elementi si aggiungono, il re potrà
sce MUIRHEAD, Historical introduction to
the private law of Rome, Edinburgh. 1886, 4.
In questa parte divido perfettamente l'idea del MOMMSEN, che condanna
l'opi nione di coloro che han voluto
trasformare il popolo, che ha dimostrato nella sua lingua, nella sua politica e
nella sua religione uno sviluppo così semplice e naturale, in uno amalgamarsi
confuso di orde etrusche, sabine, elleniche e perfino pelasgiche . A suo avviso
sono i Ramnenses, di origine latina, che non solo fondarono e diedero il
proprio nome alle città, ma che posero eziandio quelle linee primitive, in cui
entra rono poi tutte le istituzioni, che furono assimilate più tardi Histoire Romaine, I, liv. I, Chap. 4, 54.
Questa opinione, fra gli autori recenti, è pur sostenuta dal Pelham,
Encyclopedia Britannica, XX, vº Rome (ancient), ove rinviene in Roma tutti i
caratteri di una città latina. 305 gliersi da un'altra stirpe, il numero dei
senatori e dei cavalieri potrà essere aumentato, e potranno anche accrescersi i
coll egi sacerdotali, ma l'ossatura primitiva sarà sempre conservata. Vero
è che un re sabino, cioè Numa, secondo la tradizione, fu organizzatore del
culto e del collegio dei pontefici, ma auspicii e cerimonie religiose ed au
gurali sono già attribuite allo stesso Romolo; nè tutto ciò, che si riferisce
all'organizzazione domestica, può ritenersi di origine sabina, dal momento che
già una legge, attribuita a Romolo, riguarda il matrimonio per confarreationem.
Lo stesso è a dirsi del tribunale domestico e della tendenza delle famiglie a
perpetuarsi, che il Mui rhead vorrebbe pur ritenere di origine sabina, mentre
ne troviamo le traccie in tutti i popoli di origine Aria, e in tutti quelli
parimenti, che hanno attraversato lo stadio dell'organizzazione patriarcale.
Cid pure deve dirsi del cerimoniale esteriore e dell'uso di parole so lenni nei
contratti e negli atti, che il Muirhead attribuirebbe alla in fluenza etrusca,
poichè, se stiamo alla tradizione, questo cerimoniale esteriore rimonta alla
fondazione stessa della città, e quindi sarebbe anteriore all'epoca, in cui,
secondo il Muirhead, si sarebbe comin ciata a sentire l'influenza etrusca. Si
aggiunge, che le solennità di parole, di atti e di gesti non sono anch'esse un
privilegio di questa o di quella stirpe; ma sono comuni a tutti i popoli, che
attraver sarono l'organizzazione gentilizia, e trovano anzi, come si è dimo
strato, una causa naturale in ciò, che in questa condizione di cose, gli atti
ed i contratti, seguendo in certo modo, non fra individui, ma fra capi di
gruppo, acquistano una solennità, che ora direbbesi internazionale, la quale si
conserva poi eziandio negli inizii della co munanza civile e politica. Infine
non pud neppure affermarsi, che quella serie di istituzioni, che mette capo al
concetto, che il diritto scaturisce dalla forza, debba considerarsi come di
provenienza latina, in quanto che questo concetto deriva piuttosto
dall'attitudine emi nentemente guerriera, che prende il populus romanus
quiritium Dion. II, 25 (BRUNS, Fontes, 6
). Che questo sia un carattere comune a
tutti i popoli, che trovansi nell'orga nizzazione patriarcale, o che escono
dalla medesima, è stato dimostrato dal SUMNER MAINe, nelle varie opere sue, e
di recente dal Leist, Graeco-italische Rechtsge schichte. Jena, 1885. Io stesso
credo di averne data la prova nell'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti
colla vita sociale, lib. I e II, seguendo le migrazioni delle genti Arie, e
dimostrando come esse abbiano trapiantato nell'Occidente quelle istituzioni,
che avevano preparato nell'Oriente) nelle sue origini, attitudine che è comune
a tutte le stirpi, che lo costituiscono; come lo dimostra il fatto, che vi
hanno genti di origine sabina (come, ad es., la Claudia ), ed altre di origine
etrusca (come la Tarquinia), le quali appariscono non meno amiche della
forza, e fino anche della prepotenza, di quelle di origine veramente latina,
alle quali appartengono di regola le genti, che come la Valeria, appariscono
nelle tradizioni più favorevoli alla plebe, e più disposte ad equi e a miti
consigli. 249. Del resto non è un esame delle singole affermazioni del Muirhead,
che io qui intendo di fare; ma piuttosto dalle cose pre messe intendo inferire,
che, trattandosi di genti, che probabilmente erano tutte di origine Aria, e si
trovavano pressochè nel medesimo stadio di organizzazione sociale, le
istituzioni fondamentali del di ritto privato, salvo le divergenze nei
particolari minuti, dovevano essere essenzialmente comuni alle varie stirpi.
Tutte avevano isti tuzioni, in cui prevaleva il carattere religioso; tutte
compievano i loro atti con solennità e cerimonie esteriori, che richiamavano un
precedente periodo di organizzazione sociale; e tutte possedevano
l'organizzazione patriarcale della famiglia, e gli istituti della gente, della
clientela e della tribù. Cið tutto si può affermare con certezza, dal momento,
che questi caratteri sono comuni al diritto primitivo, quale ebbe a modellarsi
nell'Oriente, durante il periodo, chepotrebbe chiamarsi della comunanza del
villaggio. La stirpe tuttavia, che diede il primo modello, in cui furono poi
fuse le istituzioni analoghe, che erano già possedute dalle varie genti, fu
anche, quanto al diritto privato, la stirpe latina, la quale appare come
fondatrice della città; il che punto non tolse, che, stante il comporsi dei
varii elementi, si allargasse poi il concetto della divinità, patrona comune
della città, e si ammettessero man mano anche istituzioniproprie di altre
stirpi, ma sempre foggiandole, come Roma fece anche più tardi, sul l'impronta
latina. Che anzi credo perfino di dover affermare, che quella potenza di
assimilazione, che contraddistingue Roma, appena compare, deve sopratutto
ritenersi propria alla stirpe latina, da cui Roma ebbe la sua prima origine.
Per verità, anche prima della fondazione di Roma, le popolazioni latine erano
quelle, che avevano già mag giormente svolto il concetto di federazione, e che
perciò si di mostravano anche meno esclusive, e perfino anche più favorevoli
alle plebi, e più disposte a ricevere altri elementi nel proprio seno, - 307 e
ad apprendere in conseguenza anche dalle istituzioni degli altri popoli. Ciò è
tanto vero, che nella storia primitiva di Roma l'ele mento etrusco fu dapprima
tenuto in più basso stato, e più tardi, quando diventò potente ed aspird alla
tirannide, ne fu cacciato ed espulso; l'elemento sabino fu quello, che, essendo
ancora più tena cemente vincolato nell'organizzazione gentilizia, si dimostrò
il più esclusivo e il meno favorevole alle plebi; mentre invece l'elemento
latino fu quello che, dopo essere stato il primo a modellare la città, entrò
anche dopo in copia maggiore a riempire tanto i quadri della città patrizia,
quanto le file di quella plebe operosa e battagliera, che ebbe tanta parte
nella grandezza di Roma. Una prova di ciò pud ravvisarsi nel fatto, che Roma,
elevandosi gigante fra le altre co munanze italiche, combattè ad oltranza cogli
Etruschi, coi Sabellici e coi Sanniti, e non si arrestd finchè ebbe quasi
cancellata ogni traccia di loro civiltà; mentre quanto ad Alba, la considerò
come sua madre patria, e anzichè estinguerla e soffocarla, dopo averla vinta,
pre feri di accoglierne il patriziato e la plebe, e di essere erede della
medesima, continuando quel processo nell'organizzazione sociale, che da essa
erasi iniziato. Fra Roma da una parte e l'Etruria e la Sabina dall'altra, vi fu
pressochè una guerra di sterminio, sopratutto fra le due prime, mentre fra Roma
e il Lazio vi fu soltanto una lotta di precedenza; perchè due città foggiate
sullo stesso modello, come Roma ed Alba, non potevano coesistere l'una in
prossimità dell'altra. La questione
dell'origine di Roma e dell'organizzazione, da cui essa prese le mosse, forma
tuttora argomento di discussioni fra gli eruditi. Fra gli altri il PAN TALEONI,
Storia civ. e costituz. di Roma, I, nei primiquattro capitoli, e nella 1a appen
dice aggiunta in fondo del volume, avrebbe sostenuta l'origine sabellica di
Roma e di quella organizzazione patriarcale, di cui essa ritiene ancora le
traccie, cosicchè per esso anche i Ramnenses sarebbero Sabellici, mentre la
plebe sarebbe da lui ritenuta di ori gine latina, poichè, a suo avviso, le
popolazioni latine già erano maggiormente use alla vita della città. Credo di
aver abbastanza dimostrato, che Roma primitiva si formò sul modello latino, e
che nelle stesse città latine già eravi la distinzione fra patriziato e plebe,
e quindi non sembrami che la dottrina certo grande dell'autore possa far preva
lere un'opinione,che contraddice a tutte le testimonianze degli storici e alle
tradizioni stesse del popolo romano circa le proprie origini. Di recente poi il
Casati in una nota letta alla Académie des inscriptions et de belles lettres di
Parigi, nell'ottobre del 1886, sostenne che la gens fosse di origine Etrusca.
Anche questi nuovi studii mi confermano nella conclusione: che l'organizzazione
gentilizia sia stata un tempo comune a queste varie stirpi, e che, all'epoca
della formazione di Roma, la stirpe - 308 250. Del resto la causa di questa
divergenza col Muirhead ed il motivo, per cui ritenni di dover qui combattere
la sua teoria, devono essere cercati in un'altra divergenza ben più grave, che
sta nel modo diverso di comprendere e di spiegare la primitiva formazione di
Roma. Per il Muirhead (ancorchè, a mio avviso, egli sia fra gli autori re centi
uno di quelli, che ha posto meglio in vista il contributo diverso recato alla
formazione del diritto Romano, dal patriziato e dalla plebe), la città di Roma
continua ancor sempre ad essere il frutto dell'unione di genti appartenenti
alle stirpi latina, sabina ed etrusca, ed è ancora questo il concetto, che egli
pone a fondamento della sua ricostruzione del diritto primitivo di Roma. Era
naturale quindi che, fondendosi ed incorporandosi le varie stirpi, ciascuna
dovesse recare il proprio contributo, anche alla formazione di un comune
diritto, e che egli cercasse di discernere in questa composizione la parte, che
a ciascuna stirpe dovesse essere attribuita. Ben è vero, che alcune volte egli
si trova imbarazzato del fatto, che il diritto quiritario primitivo si presenta
del tutto insufficiente a governare tutti i rapporti di una comunanza anche
primitiva, e lascia senza norma una quantità di relazioni, che dovevano già
certamente esi stere: ma intanto il punto suo di partenza gli impedisce pur
sempre di spiegare come ciò abbia potutoaccadere. Che se invece si ammetta,
come ho cercato di dimostrare, che Roma è una città formata sul modello della
città latina, e che essa, uscita dalla federazione e dall'accordo, costituisce
dapprima un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze di villaggio,
in allora Sabellica non avesse ancora superata tale organizzazione, ma le
avesse dato il mag. giore svolgimento, di cui era capace, come lo dimostrano le
genti Claudia e Fabia: che la stirpe Latina fosse invece già p ervenuta al
concetto della città federale; e che da ultimo l'Etrusca fosse già pervenuta
alla città, che potrebbe chiamarsi corpora tiva. Roma partì dal tipo latino e
quindisi costitui fin dapprincipio in un centro di federazione: poi sotto
l'influenza etrusca diventò anche una città unificata; ma serbò tuttavia anche
in seguito il carattere latino, per guisa che cambiossi in certo modo in un
centro di vita pnbblica del mondo allora conosciuto. Tale difficoltà occorre al
MUIRHEAD, per esempio, allorchè a 50 parla del. l'opinione di coloro, che
sostengono che Roma non conoscesse dapprima che la pro prietà degli immobili,
ed anche a 54, ove, parlando dei delitti e delle pene, trova non parlarsi di
delitti, che non potevanomancare anche in una città primitiva. Questi fatti invece
sono facilmente spiegati, se si ammette la formazione progressiva e gra duata,
così della città, come del suo diritto civile e criminale, non che della giuri
sdizione spettante ai suoi magistrati. sarà facile il comprendere come, nella
formazione del suo diritto pub blico e privato, Roma, dopo aver preso lemosse
da quelle istituzioni di origine latina, che potevano già confarsi colla
comunanza civile e politica, sia poi venuta lentamente assimilando tutte le
istituzioni, che già si erano formate nel periodo gentilizio, anche presso le
altre stirpi, quando le medesime potessero conciliarsi coll'impronta primi.
tiva, che essa aveva data al suo diritto. Questo è stato certo il me todo, che
Roma seguì anche più tardi nella trasformazione del suo diritto privato; nè,
conoscendo ormai per prova la sua costanza nei processi seguiti, possiamo
averemotivo di dubitare, che essa abbia dovuto esordire nella stessa guisa. 2. Della esistenza di vere e proprie leggi
(leges rogatae) durante il periodo regio.Intanto questo modo di considerare la
formazione di Roma e del suo diritto mi conduce ad apprezzare la legislazione
primitiva di Roma in guisa diversa da quella, che suole essere generalmente
adot tata dalla critica, e ad accostarsi invece a quella, che, ci verrebbe ad
essere indicata dalla tradizione. Mentre la critica infatti, dopo aver resi
leggendari i re, nega pressochè ogni fede alla legislazione, che suol essere
indicata col nome di regia, e la riduce esclusiva mente ad essere opera dei
collegi sacerdotali, o a semplice raccolta di consuetudini e di tradizioni
anteriori, la tradizione invece ci dipinge il periodo regio, anteriore anche a
Servio Tullio, come un periodo di grande attività legislatrice. Or bene, a mio
avviso, si deve andare a rilento nel respingere in questa parte il racconto
della tradizione. Se la città latina in genere, e Roma sopra tutte le altre, fu
dapprima un organo di vita pubblica fra comunanze, in cui continuavasi la vita
domestica e patriarcale, viene ad essere evidente, che come la città fu il
frutto di una specie di selezione, cosi dovette pur essere del diritto, che
governo i primi rapporti fra i membri della mede sima. Le esigenze della vita civile
e politica sono diverse da quelle di una vita di carattere patriarcale: quindi
se questa poteva som ministrare i concetti religiosi, morali ed anche
giuridici, già prima elaborati, questi però non potevano essere trasportati
tali e quali, ma dovevano subire un lavoro di scelta e di coordinamento, ed è
questo appunto, che dovette compiersi durante il periodo regio. Ne ripugna il
credere, che ciò siasi potuto fare, dal momento, che si è 310 abbastanza
dimostrato, come le genti, che fondavano la città, erano lungi dall'essere del
tutto primitive, ma avevano una suppellettile copiosa di concetti e di
tradizioni, che già si erano prima formati. Esse non erano più nello stadio
della primitiva formazione del di ritto: ma erano già in quello della
elaborazione e dell'adattamento di un diritto già formato alle esigenze della
vita cittadina. Ammet tasi, che in parte siano leggendarie le figure dei primi
re; ma questo è certo che, leggendarii o no, essi dovettero sottostare alla
neces sità di quella convivenza, di cui erano i capi, e quindi dare opera
vigorosa a quella selezione ed unificazione legislativa, che era il più urgente
bisogno per una città, che risultava di elementi diversi. Conviene aver
presente, che la città in genere e sopratutto Roma, (che fra le genti italiche
fu forse la prima ad iniziare il processo di accogliere persone di discendenza
diversa a partecipare alla stessa vita pubblica ), si presentava come una
istituzione novella, destinata ad un grande avvenire. Era mediante la città,
che l'uomo o meglio il capo di famiglia cominciava ad essere qualche cosa,
anche fuori della propria famiglia o gente, e quindi non è punto a
maravigliare, se un senso pubblico energico e potente abbia potuto penetrare re,
senato, sacerdoti e popolo. Quelsenso di devozione e di abnegazione, di cui
diedero prova più tardi le grandi famiglie plebee, allorchè giunsero finalmente
ad essere ammesse come eguali nella città, do vette dapprima essere provato
dagli uomini, usciti dalle genti patrizie, allorchè sentirono di costituire un
populus, malgrado la loro ori gine diversa: e quindi non è punto probabile, che
essi abbiano dovuto mantenersi del tutto estranei alla elaborazione di quel
diritto, che doveva governarli, e che tutto lasciassero ai collegi sacerdotali
ed al re loro capo. Se essi eleggevano il re e per tale elezione si ra dunavano
nei comizii, non si comprende veramente come essi abbiano potuto essere affatto
esclusi dall'opera legislativa, che era una con seguenza inevitabile della
formazione della città. L'opinione, qui
combattuta, posta innanzi dal DIRKSEN, Die Quellen des röm misches Rechts,
Leipzig, 1823, 234 e segg., in un'epoca, in cui tutta la storia primitiva di
Roma erasi convertita in una specie di leggenda, trova ancora oggidi molti
seguaci. Basti annoverare, tra i recenti, il PANTALEONI, op. cit., 309; il
KARLOWA, Röm. R. G., 52,ed anche il Murrhead, Hist. Introd., 20. L'ar gomento
da questi due ultimi invocato consiste sopratutto nella nota espressione di
Livio: vocata ad concilium multitudine,
quae coalescere in populi unius corpus, nulla re, praeterquam legibus, poterat,
iura dedit . Essi argomentano dal iura 311 252. A ciò si aggiunge che in una
piccola comunanza, formata da persone, che poco prima ancora vivevano
patriarcalmente, do vette essere frequente e quotidiano il contatto fra
elementi, che ora a noi appariscono grandiosi per l'età remota e per il grande
avve nire, che ebbero di poi. È quindi assai probabile, che i rapporti fra re,
padri, pontefici, auguri e popolo fossero continui, e che perciò potesse anche
formarsi una specie di pubblica opinione in torno a ciò, che potesse esservi di
comune interesse per una città, che era uscita dalla volontà comune, e che era
la creazione di tutti. Senza voler sostenere che le concioni, da Livio e
Dionisio attribuite ai personaggi della loro storia, siano state veramente
quelle, non è però inverosimile, che concioni siansi veramente fatte, e che in
tutti i casi, in cui trattavasi di qualche pubblico interesse, potesse vera
mente accadere, che i padri intervenissero fra il popolo ed anche fra la plebe,
e interponessero nei rapporti quotidiani un'autorità di persuasione, non
dissimile da quella, che entrò a far parte sostan ziale della costituzione
primitiva di Roma, sotto il nome appunto di patrum auctoritas. Se il rispetto,
che quegli uomini avevano per l'età, e la loro disciplina domestica spiegano la
solennità, con cui essi votavano nei comizii, e il loro limitarsi a rispondere,
appro vando o negando; non possono però escludere, che quelle discussioni, che
erano inopportune al momento della votazione, potessero anche essere
indispensabili e frequenti in seno ad un popolo, che senti con tanta energia la
vita pubblica, e l'influenza della medesima. Il popolo romano, fin dalle
proprie origini, non fu un popolo nè di asceti, nè di anacoreti, che seguissero
una regola conventuale: ma fu un popolo, i cui membri appresero ben presto a
dire la verità nella vita pub blica, quantunque i suoi membri continuassero ad
essere ligii ed ossequenti all'autorità del padre nella vita domestica. dedit,
adoperato invece di iura tulit; ma è facile il notare, che le espressioni di
iura dare et accipere sono talvolta sinonime di quelle di iura ferre, come lo
dimostra fra gli altri Aulo GELLIO, XV, 28, 4, che deffinisce i plebiscita quae, tribunis plebis ferentibus, accepta
sunt. Si aggiunge che Livio in quello stesso passo insiste sulla necessità di
vere leggi per incorporare elementi eterogenei e diversi, e usa quel vo cabolo
di legge, che pei Romani significò sempre un provvedimento proposto dal
magistrato e accettato dal popolo. Ad ogni modo questa proposizione si
riferisce an cora all'epoca anteriore alla confederazione coi Sabini, e quindi,
trattandosi ancora del capo patriarcale di una tribu militare, si comprende che
egli potesse iura dare; mentre si dovettero richiedere vere leges rogatae,
allorchè le varie tribù entrarono a partecipare alla medesima città. La loro
caratteristica prevalente non è nè la religiosità, né l'indole guerriera, ma
piuttosto quell'equilibrio e contemperamento di facoltà umane, in cui consiste
il senso giuridico e politico. La qualità, che prepondera in essi fra le
facoltà affettive, è la volontà pertinace, costante, e fra le facoltà
intellettuali è una logica, che analizza con un acume senza pari i varii
elementi dell'atto umano, e che quando ha afferrato un concetto non lo
abbandona, finchè non abbia dato tutto cid, che da esso può ricavarsi; due
qualità queste, l'una pratica e l'altra teorica, che si corrispondono
perfettamente fra di loro, e che spiegano come la storia giuridica e politica
di Roma si riduca all'applicazione costante delmedesimo processo, che inizia
tosi con essa, non fu più abbandonato fino alla completa formazione del diritto
pubblico e privato di Roma. Di qui la conseguenza, che tanto nella politica,
quanto nel diritto,Romanon procedette maiper semplice agglomerazione ed
incorporazione, ma per selezione, cosicchè apprese da tutte le genti, ma
accettò solo queimateriali, che potevano entrare nei quadri del proprio
edificio. Roma nella storia dell'umanità rap presenta, per cosi esprimersi, un
crogiuolo, in cui sono gettate tutte le istituzioni anteriori del periodo
gentilizio, e quelle che fu rono poi da essa rinvenute presso gli altri popoli
conquistati, nel l'intento di isolare dagli altri elementi della vita sociale
l'elemento giuridico e politico, e questa selezione e questo isolamento essa
cominciò ad operare fin dai proprii esordii. Credo quindi che per comprendere
Roma primitiva convenga guardarsi dall'esagerare quella, che suole essere
chiamata, la reli giosità del popolo romano. Non è già che possa negarsi ai
Romani un sentimento profondamente religioso; ma essi non si trovano punto
sotto il dominio di quel terrore superstizioso della divinità, che soffoca
l'operosità umana; ma scorgono in essa una potenza, la quale invocata e resa
benevola con determinati riti, doveva condurre il popolo romano ad insperata
grandezza. Si aggiunge, che questa carattere religioso, finchè Roma fu
esclusivamente patrizia, era co mune a tutti i membri del populus, i quali
tuttiavevano un culto da perpetuare e tradizioni da conservare. Non era quindi
possibile fra essi la formazione di una classe esclusivamente sacerdotale, che
con ducesse al risultato, a cui si giunse in Oriente, di fare preponderare per
modo l'elemento religioso da soffocare affatto l'elemento politico e il
giuridico. Quanto alla differenza, sotto il punto di vista religioso, fra le
razze Arie del 313 A questo proposito pertanto è opportuno di tener distinti
eziandio due periodi in Roma primitiva: quello cioè di Roma esclusivamente
patrizia, in cui ci troviamo di fronte ad un popolo, i cui membri, uscendo
dalle genti patrizie, conoscono tutti i riti, gli auspizii e le cerimonie
religiose, e se ne servono nell'interesse comune; e quello invece, in cui fu
ammessa anche la plebe alla cittadinanza. In questo secondo periodo infatti il
populus viene a comprendere due classi: l'una, poco numerosa, ricca di
tradizioni, dotta nelle cose reli giose, esperta nelle civili e politiche; e
l'altra, che ha per sè il nu mero e la forza, ma che è nuova alla vita civile,
priva di tradizioni, e si trova nella necessità di ricevere modellato e formato
il proprio diritto dall'ordine patrizio. È solo in questo secondo periodo, che
la conoscenza degli auspicia e delius viene a cambiarsi in un ti tolo e in un
mezzo di superiorità per il patriziato, il quale se ne vale per tenere in
rispetto e in riverenza le masse. È solo allora che il diritto, le cui origini
erano già celate nell'oscurità dei tempi, e le cui formalità erano già divenute
inesplicabili per la generalità dei cittadini, viene ad essere chiuso negli
archivii dei pontefici, che sono in certo modo incaricati della custodia e
della elaborazione di esso; mentre quest'arcano e questa segretezza non
poterono certo esi stere negli esordii della città, allorchè la conoscenza del
diritto e degli auspizii era ancora comune a tutti i capi di famiglia. Cid mi
induce a credere, che la parte da attribuirsi al populus, nella formazione del
diritto primitivo di Roma, sia maggiore di quella, che suole generalmente
essergli assegnata; ma per riuscire in qualche modo a determinarla, importa
ricercare anzitutto la funzione, a cui furono chiamati i collegii sacerdotali
in Roma primitiva, quanto alla formazione del diritto. l'India e quelle
trasportatesi nell'Occidente, mirimetto ai concetti svolti nell'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla
vita sociale , 92, n ° 33, e agli autori, che ivi sono citati. Vedasi a questo proposito il MACHIAVELLI,
Discorsi sulle deche di Tito Livio, Libro I, Cap. XI, XII, XIII e XIV, e il MONTESQUIEU, Dissertation sur la politique des
Romains dans la religion. 314 $ 3. – I collegii sacerdotali in Roma
e la loro influenza sulla formazione del diritto primitivo. La caratteristica di Roma è una mirabile
coerenza nel pro cesso, che essa ebbe a seguire nei diversi aspetti della
propria for mazione. Si può quindi essere certi che come la città fu il frutto
di una selezione della cosa pubblica dalla privata, cosi anche la re ligione
pubblica di Roma non potè essere il frutto dell'agglomera zione dei culti e
delle credenze proprie delle varie genti; ma fu an ch'essa il risultato di una
selezione, per cui, mentre le singole genti e tribù continuarono nel proprio
culto gentilizio, vennesi formando nella città un culto pubblico, il quale alla
sua volta assunse poi una doppia forma, quella cioè di culto pubblico ed
ufficiale (sacra pu blica ), e di culto popolare (sacra popularia ). Ciò è
dimostrato dal fatto, che fra la quantità degli Dei riconosciuti dai Romani,
quelli al cui culto intendono i flamini maggiori sono Marte, Quirino e Giove,
di cui il primo, secondo la tradizione, è il padre del fondatore, l'altro il
fondatore stesso della città, e l'ultimo infine sembra talvolta con fondersi
coll'antica divinità italica di Giano, rivestita alla Greca. Intanto una
pubblica religione richiedeva pure un pubblico sacerdozio. Questo concentrasi
dapprima nello stesso re, il quale è augure sommo e pontefice massimo; ma
poscia il re stesso, pur conservando gli auspicia del magistrato supremo,
costituisce intorno a sè dei collegii sacerdotali, i quali hanno un carattere
del tutto peculiare, in quanto che essi non hanno un compito esclusivamente
religioso,ma anche una vera importanza civile e politica. Cotali sono
sopratutto gli auguri, i feziali e i pontefici, i quali,mentre hanno un
carattere sacerdotale, che dà un'aureola religiosa al loro ufficio, compiono ad
un tempo una funzione importantissima per le genti patrizie, che è quella di
essere i custodi e gli interpreti delle tra
La triade di Giove, Marte e Quirino si fa dalla tradizione rimontare a
Numa, il quale avrebbe già istituiti i tre flamini maggiori, dando però la
prevalenza al fila mine di Giove (Liv., I, 20). Fu più tardi però, che la
religione si rivestà alla Greca e ciò sopratutto sotto l'influenza etrusca,
ossia sotto gli ultimi tre re, in quanto che fu allora che venne costituendosi
la triade Capitolina di Giove, Minerva e Giunone. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Manuel
des instit. romaines, 456 a 562. 315 dizioni,non solo religiose, ma anche
giuridiche e politiche, e sopra tutto di quella parte di esse, che era indicata
col vocabolo di fas, ed era considerata come l'espressione della volontà
divina. Quelle tradizioni, che in Grecia furono lasciate ai poeti, i quali in
antico avevano ancor essi un carattere sacerdotale, in Roma invece sono
affidate a collegi sacerdotali, i cui membri sono scelti nel novero stesso dei
padri, memori dei riti e degli auspicii religiosi, i quali, malgrado il loro
carattere sacerdotale, continuano pur sempre a prendere parte alla vita civile
e politica, e sono i custodi fedeli del patrimonio tradizionale delle genti
patrizie. Cid spiega come le varie tribù primitive, a quella guisa che erano
concorse in parti eguali sotto l'aspetto politico e militare, così sembrano
pure avere na propria rappresentanza nei varii collegii sacerdotali, come lo
dimostrano il numero di tre, poscia di sei, e quindi di nove auguri e
pontefici, ed anche il numero di venti, che sembra essere stato quello dei
feziali. Intanto se un posto facevasi vacante, il vuoto veniva a riempirsi con
quella stessa cooptatio, mediante cui una nuova gente doveva essere accolta
nell'ordine patrizio. Cosi es sendo composti i collegii sacerdotali, essi erano
in condizione di contemperare e coordinare le tradizioni proprie delle varie
tribù, che erano concorse alla formazione della città; e potevano col re, che
era il loro capo, contribuire potentemente all'unificazione e al coordinamento
legislativo. Quindi è che il culto, di cui essi sono i sacerdoti, non è un
culto speciale di questa o di quella tribù, ma un culto ufficiale del popolo
romano, come lo dimostrano le appel lazioni di augures publici populi romani
quiritium, di fetiales populi romani, non che la qualificazione data ai
pontifices di sacerdotes publici populi romani. Per quello poi, che si
riferisce alle tradizioni, della cui custodia essi sono incaricati, senza voler
pretendere, che in cið potesse esservi uno scopo preordinato, questo è però
certo, che si effettud fra essi una ripartizione, la quale corri sponde ai
varii aspetti, sotto cui il diritto può essere considerato. Non ho creduto qui di dovermi occapare
specialmente dei quindecim viri sa cris faciundis, poichè questo collegio,
iniziato da Tarquinio Prisco colla nomina di due sacerdoti per la custodia dei
libri sibillini, si cambid col tempo nel custode dei culti, che erano di
provenienza straniera. Esso quindi non esercitò alcuna diretta influenza sul
diritto specialmente privato; sebbene sia una prova evidente del con tinuo
studio dei Romani per assimilarsi le istituzioni anche religiose degli altri po
poli. È a vedersi, quanto al medesimo, il Bouché- LECLERCQ, op. cit.,pag. 555 a
560, e il Villems, Le droit public romain, 323-24. 316 257. Vengono primi gli
auguri, i quali, secondo la tradizione, sem brano costituire il più antico di
questi collegii, in quanto che Roma stessa sarebbe stata fondata
coll'osservanza delle cerimonie prescritte dall'arte augurale. Essi sono i
custodi dei riti, che debbono prece dere e accompagnare tutte le deliberazioni,
che possono riferirsi al pubblico interesse, e costituiscono cosi nella
religione pubblica della città una imitazione degli stessi augurii privati:
come lo dimostra l'at testazione di Cicerone, che l'abitudine di consultare la
volontà divina era universale, e che i capi delle famiglie e delle genti non
tenevano meno dello Stato ai loro auspizii privati. È indubitabile, che essi
ebbero dei libri augurales, in cui serbavano le proprie tradizioni e la propria
giurisprudenza, e senza voler penetrare nei concetti, a cui poteva ispirarsi
l'arte loro, egli è certo, che essa fu una crea zione originale, propria
sopratutto alle stirpi latina e sabellica, che dimostra lo spirito religioso e
giuridico ad un tempo del primitivo popolo romano. È al collegio degli auguri,
che devesi la teoria sot. tile e complicata degli auspicii, che dovevano essere
osservati, la distinzione fra quelli, che potevano essere favorevoli o
sfavorevoli, e la precedenza che certi segni dovevano avere sopra altri. È ad
essi parimenti, che devesi l'orientamento del templum, ossia la delimi tazione
di un sito senza ostacoli e in cui potesse spaziare la vista, per modo che gli
auspizii potessero essere osservati; delimitazione, che do vette probabilmente
anche esercitare influenza sulla scelta e sull'o rientamento dei luoghi, in cui
le città dovevano essere edificate . 258. È però notabile, che se gli auguri sono
incaricati dell'osser vanza dei riti e della custodia delle tradizioni e
decisioni augurali, è pur sempre il magistrato, che è investito dei publica
auspicia, il quale deve giudicare se i medesimi siano o non favorevoli, e può
così eser citare una influenza decisiva sulle deliberazioni relative al
pubblico interesse.Era poinaturale, che gliauguri, i quali, nella città
esclu Ciò è attestato da Cicer., De
div., I, 16, 28. Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, 100 e 101. Il vocabolo di arte augurale prendesi
talvolta in senso così largo, da com. prendere non solo l'avium inspectio
(donde l'auspicium ),ma eziandio l'ispezione delle viscere degli animali, donde
l'aruspicium. Questo però è da avere presente, che l'ar spicium era di origine
latina, mentre l'aruspicium era di origine etrusca. È da ve dersi in proposito
il PANTALEONI, Storia civ. e cost., appendice III, relativa ai Luceres. Cfr.
MOMMSEN, Op. cit., I, 119. 317 sivamente patrizia, erano i custodi di riti e di
tradizioni, che erano noti a tutto il populus, posteriormente, allorchè nel
populus entro anche la plebe, finissero per acquistare una grande autorità
nelle lotte fra patriziato e plebe, e per recare al primo un potentissimo
sussidio mediante riti, la cui significazione era ormai divenuta inesplicabile,
anche per persone che uscivano dalle stesse genti patrizie. La loro po tenza ed
autorità ci è sopratutto attestata da Cicerone, il quale scrive: maximum autem et praestantissimum in re
publica ius est au gurum cum auctoritate coniunctum , e lo prova dicendo, che
essi potevano disciogliere i comizii, rimandarli ad altro giorno, dichiararli
viziati, anche dopo che eransi tenuti, mentre intanto niuna delibera zione di
pubblico carattere poteva essere presa senza il loro inter vento. Però questa loro
apparente onnipotenza, di fronte allo Stato, scompare, quando si consideri, che
il giudizio relativo agli auspizii favorevoli o non appartiene al magistrato, e
che gli auguri emettono il loro avviso sulla osservanza del rito, con cui
siansi tenuti i co mizi, solamente quando siano interrogati dal senato o
richiesti dal magistrato stesso. 259. Quanto al collegio dei feziali, esso è il
custode e il deposi tario del ius foeciale; ma non è certo il creatore del
medesimo, come lo dimostra il fatto, che questo erasi già formato durante il
periodo gentilizio, ed era comune ad altri popoli, pure di origine la tina e
sabellica . L'istituzione del collegio è dagli antichi attribuita ora a Tullo
Ostilio, ed ora ad Anco Marzio, ma tutti fanno rimon tare il ius foeciale ad
epoca anteriore, poiché Tullo Ostilio vi sa rebbe ricorso, anche prima che il
collegio fosse da lui istituito. Narra. infatti la tradizione, che il fatto di
rimettere le sorti della guerra fra Roma ed Alba ad un singolare combattimento
fu solennemente sti pulato coi riti proprii del ius foeciale. I due cittadini eletti a cid, cosi riferisce
il Bonghi la tradizione, facendo le veci dei padri dei due popoli, lo sancirono
a nome di ciascuno di essi. L'uno e l'altro giurarono, invocando Giove, che
l'uno e l'altro popolo l'a vrebbe osservato. Quello dei due popoli, che primo
vi fosse ve Cic., De legibus, II,
12. Il processo di naturale formazione,
durante il periodo gentilizio, di quel ius belli ac pacis, che costituì poi il
ius foeciale dei Romani, fu esposto nel Lib. I, Cap. VII, 139 a 166. 318 nuto
meno, Giove lo ferisse, come l'uno e l'altro ferivano il porco, che
sacrificavano; anzi con tanta più forza, quanto era la forza di lui . Ciò
significa che il collegio dei feziali non è stato mai il giudice della
giustizia intrinseca della guerra o della opportunità della pace; l'una e
l'altra son trattate dal senato e sono deliberate dal popolo; mentre i feziali
sono incaricati dell'osservanza dei riti o custodiscono le tradizioni relative
al ius pacis ac belli. Anche essi sono messi in azione dagli organi del potere
civile e politico, e potranno talora essere chiamati a decidere delle
questioni, ma queste non si riferiscono alla giustizia intrinseca, nè almerito
delle cause di guerra, ma sono di preferenzaquestioni di rito e di procedura. I
feziali sono in numero di venti; riempiono i posti vacanti, mediante la
cooptatio; non hanno un capo permanente, ma scelgono caso per un pater patratus
nel proprio seno; il che è un altro indizio come veramente il pater patratus
fosse un cittadino eletto a fare le veci del popolo, e che ricordasse così
l'antico patriarca della gente e della tribù. Il ius foeciale pertanto è in
ogni sua parte una sopravvivenza del periodo gentilizio; indica lo stadio più
pro gredito, a cui erano pervenuti i rapporti anteriori fra le genti e le tribù;
dimostra come già allora vi fossero degli esperimenti di amichevole
componimento, prima di addivenire alla guerra; ed è una prova di più, che i
fondatori della città non erano popolazioni primitive nello stretto senso della
parola, ma avevano anche in questa parte un tesoro di antiche tradizioni, le
quali, serbate dallo spi rito conservatore dei Romani, furono mantenute fino a
che non di ventarono pienamente disadatte e incompatibili colla convivenza
civile e politica (3 ). 260. È poi probabile, e l'ho dimostrato a suo tempo,
che la distinzione fra foedus e sponsio fu una conseguenza del passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla costituzione politica della città, il Bonghi, Storia di Roma, I, 79. Tale è pure l'opinione sostenuta dal FusiNATO,
Dei Feziali e del diritto fe. ziale, Cap. III. (3 ) Il numero dei venti
feziali, che non corrisponde a quello degli auguri e dei pontefici, può forse
essere un indizio, che il diritto feziale, comune ancora ai Latini e ai Sabini,
che erano più vicini ancora all'organizzazione gentilizia, non apparteneva
invece agli Etruschi, che, più avanzati nella vita cittadina, già si erano
maggior mente discostati da pratiche di carattere eminentemente patriarcale. -
- 319 – che rendeva tale distinzione incomprensibile per popoli, che non erano
ancora pervenuti a questo punto di svolgimento. Così pure è un effetto di tale
passaggio la distinzione netta, che viene operandosi fra l'amicitia,
l'hospitium,i quali si dividono in pubblici e in privati; ancorchè sia facile
di scorgere, che nel primo periodo le amicizie sono ancora curate specialmente
dallo stesso re; il qual sistema fu seguito sopratutto dalla politica dei
Tarquinii, che intrattenevano relazioni coi capi delle comunanze vicine, e
macchinavano proba bilmente un cambiamento nella forma di governo, che doveva
es sere generale . Era poi una conseguenza logica della politica seguita da
Roma nella propria formazione, che essa in questo primo periodo non si
chiudesse ancora in se medesima, ma venisse in certo modo at traendo a sè le
popolazioni vicine. Roma continua in questa parte la politica dell'asilo, dalla
tradizione attribuita a Romolo, e in ciò presenta un carattere del tutto
opposto alla formazione delle città greche, e a quella della stessa Atene.
Giovano a questo intento l'isti tuto dell'hospitium publicum, la concessione
della civitas sine suf fragio, l'istituzione del municipium, singolare
istituzione, per cui altri, pur restando nella propria terra, e partecipando
alle cose amministrative di essa, pud tuttavia prendere parte viva alla gran
dezza della patria communis, e recarsi a darvi il prorio voto, allorchè
trattisi di quelle deliberazioni, che possono interessare direttamente anche
gli abitanti dei municipia. È poi notabile il profitto, che Roma seppe ricavare
dall'istituzione, graduando e differenziando le con cessionida essa fatte ai
municipii, e svolgendone il concetto in guisa da cominciare colla concessione
di una civitas sine suffragio per giungere sino alla concessione di una
cittadinanza compiuta, il che pure a dirsi dell'istituto della colonia (3 ).
Intanto però anche qui è V., quanto al
foedus e alla sponsio, il Lib. I, Cap. VII, nº 118. Cid è attestato da Livio, I, 49, allorchè
scrive di Tarquinio il Superbo: La
tinorum maxime sibi gentem conciliabat, ui peregrinis quoque opibus tutior
inter cives esset; neque hospitia modo cum primoribus eorum, sed adfinitates
quoque iungebat . Inteso in questa
guisa, il sistema municipale per Roma non è che l'applica zione del sistema
stesso, che essa aveva seguito nella propria formazione, quello cioè di
interessare alle sorti della patria comune tutti i popoli, che da essa dipendevano,
facendo sempre più larghe concessioni a quelli, che le erano più vicini, e di
cui quindi poteva avere maggiore bisogno. V. sopra, Lib. I, Cap. VII, nº 127.
320 appare, che la politica estera di Roma non appartiene punto ad un collegio
di sacerdoti,ma che nel periodo regio appartenne al re, e nel repubblicano al
senato, il quale, essendo un consesso permanente ed accogliendo nel proprio se
noi magistrati uscenti di ufficio, poteva mantenere quella continuità
tradizionale non interrotta, di cui porge un mirabile esempio la storia
politica di Roma. Infine si comprende eziandio, come il collegio dei feziali,
custode di tradizioni, che si riferivano ai rapporti colle altre genti, non
abbia avuta l'influenza effettiva, che appartenne agli auguri e ai pontefici,
perchè il nucleo delle tradizionida esso serbate non poteva trovare
applicazione nelle lotte fra patriziato e plebe. Tuttavia allorchè i due ordini
erano ancora distinti, vi furono patti fra essi, stipulati coi riti del diritto
feziale, e accompagnati, a richiesta della plebe, dalla capitis sacratio di
colui, che li avesse violati (leges sacratae). Non vi ha poi dubbio, che il
collegio sacerdotale più importante nell'organizzazionedella città patrizia è,
senza alcun contrasto, quello dei pontefici. È questo collegio che riverbera
nel proprio seno le istituzioni primitive di Roma. Esso infatti, a differenza
degli altri collegi, ha una costituzione monarchica, ed ancorchè composto di
più membri, è presieduto nel periodo regio dal re, e poscia dal pontifex
maximus, il quale raffigura il capo religioso del popolo romano, in quanto
costituisce una famiglia religiosa. Cid appare da questo, che il pontefice
massimo, durante la repubblica, e quindi anche il re,nel periodo anteriore, ha
una vera patria potestà sui sa cerdoti e sulle vestali, che da esso dipendono,
le quali ultime sono da lui captae in quella stessa guisa, in cui lo sarebbe
una figlia dal proprio padre o marito. Il collegio dei pontefici poi, al pari
del popolo dei quiriti, di cui esso ha la direzione religiosa, ha un potere,
che spiegasi in doppia direzione. Da una parte esso costituisce il vero
sacerdozio del po polo romano, e quindi prima il re e poscia il pontifex
maximus, da cui dipende lo stesso rex sacrorum, compiono i sacrifizii proprii
della religione pubblica ed ufficiale del popolo romano. Da un altro Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, 134,
e la sua dissertazione: De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura. Lipsiae,
1883. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome. Paris, 1871; Ma nuel
des Instit. romaines, 510 a 533. 321 - canto invece il collegio dei
ponteficideve eziandio curare, che i culti delle genti e delle famiglie non
siano interrotti (sacra privata ): e sotto quest'aspetto raduna le curie in
quanto costituiscono una religiosa famiglia nei comitia calata, per mezzo dei
proprii cala tores. Quindi è pure col suo intervento, che compiesi la cerimonia
solenne della confarreatio, la quale dà origine alle iustae nuptiae delle genti
patrizie, e consiste in una cerimonia religiosa, che si compie avanti ai
pontefici coll'intervento di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie
delle tribù, a cui appartiene quegli, che addiviene alle medesime. È esso
parimenti, che presiede a quei co mitia calata delle curie, in cui i membri del
popolo primitivo addiven gono all'adrogatio e al testamentum, i quali, durante
il periodo della città patrizia, dovettero ottenere un ' approvazione analoga a
quella, a cui erano sottoposte le leggi, come lo dimostra la formola
conservataci da Aulo Gellio, relativa all'adrogatio, la quale senza dubbio
doveva essere analoga a quella del testamentum. Per verità ho già cercato di
dimostrare a suo tempo come per le genti patrizie tanto l'uno che l'altro atto
dovevano subire la pubblica approvazione, in quanto che i medesimi potevano
alterare quell'organizzazione gentilizia, che aveva costituita la forza e la
superiorità del patriziato, e che in Roma primitiva volevasi conservare ad ogni
costo. Intanto ne veniva, che i Pontefici sotto quest'aspetto potevano anche
eser citare un'influenza sulla successione per quella parte, che si rife risce
alla trasmissione dell'obbligazione relativa ai sacra. 262. Tuttavia
l'importanza maggiore del collegio dei pontefici provenne sopratutto da che
questo collegio ebbe l'altissimo ufficio di serbare le tradizioni relative al
mos, al fas ed al ius, e proba bilmente dovette anche compiere quella prima
elaborazione, me diante cui il diritto, che, erasi formato fra le genti e i
loro capi, potè poi essere applicato fra i quiriti, ossia fra i membri che par
tecipavano alla medesima comunanza civile e politica. Essi dovet Questa funzione, essenzialmente conservatrice
degli antichi riti e tradizioni, che sarebbe stata affidata ai pontefici, parmi
provata dal seguente passo di Livio, I, 20:
Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit:
ne quid divini iuris, negligendo patrios ritus, peregrinosque adsciscendo,
turbaretur . Per quello poi, che si riferisce all'adrogatio ed al testamentum,
è da vedersi ciò, che si disse per l'epoca gentilizia nel Lib. I, Cap. IV, n °
65, e per il periodo dei primi re in questo stesso libro, Cap. II, nº. 220. G.
Caeli, Le origini del diritto di Roma. 21 322 tero essere in questo periodo i
trasformatori dei iura gentium nel pri mitivo ius quiritium, e furono in
condizione di poterlo fare, come quelli, che erano probabilmente ricavati dalle
varie tribù, ed erano cosi in condizione di coordinare e di richiamare ad unità
le istitu zioni, che in qualche particolare potevano essere diverse. Durante il
periodo regio non può quindi essere dubbio, che il collegio dei pontefici,
presieduto appunto dal re, dovette essere un cooperatore potente di
quell'unificazione legislativa, di cui sentivasi urgente bi. sogno, e dovette
anche essere il custode e depositario della primitiva legislazione, come lo
dimostra la tradizione con attribuire a un pon tefice Papirio la prima
collezione della medesima (ius Papirianum ). Ad ogni modo era naturale,
trattandosi della legislazione di un popolo, i cui componenti prima quasi non
conoscevano altra autorità, che quella del fas, che anche questo primitivo
diritto dovesse essere ri vestito di quell'aureola religiosa, che è propria di
tutte le istituzioni, durante il periodo gentilizio. Intanto però in questo
periodo i pontefici, uscendo ancor essi dal novero delle genti, non avrebbero potuto
attri buire al diritto quel carattere di segretezza e di arcano, che potè as
sumere più tardi, in quanto che le tradizioni, di cui essi erano i custodi,
vivevano ancora fra i capi di famiglia, da cui era costituito il populus
primitivo, distribuito per curiae, corporazioni religiose e politiche ad un
tempo. 263. Era invece naturale, che col passare dal periodo regio ad una
repubblica, il cui populus non era più composto di uomini, ri cavati
esclusivamente dalle genti di origine patrizia, le funzioni del collegio dei
pontefici dovessero subire una trasformazione profonda. Essi sono sempre i
sacerdoti del popolo Romano: ma intanto non escono che da una parte di questo
populus, e sono anzi i depositari e i custodi delle tradizioni proprie di
questa parte eletta del populus, la quale continua da sola ad avere gli
auspicia e ad essere la reggi trice della città. Si aggiunge, che il potere
religioso del pontifex ma ximus, che prima apparteneva al re, viene poscia
attribuito ad una specie di magistratura sacerdotale, la quale finisce per dar
sempre più al diritto un'aureola religiosa; sebbene sia vero che questa se
parazione del potere civile dal religioso cooperò a preparare la distin zione
del ius sacrum dal ius civile. Intanto però, cosi l'uno come l'altro sono
conservati dapprima negli archivii dei pontefici (in pene tralibus pontificum
), sopratutto in quel periodo, che corre fra la cac ciata dei re e la
legislazione decemvirale, durante il quale sono i pontefici, che compiono
quell'elaborazione giuridica, che sarebbe stata impossibile permagistrati
annui, i quali ad un tempo erano chiamati a cure compiutamente diverse. Sipud
quindi affermare con certezza, che i primi elaboratori di un ius, comune al
patriziato ed alla plebe, fu rono i pontefici; cosa del resto, che è
concordemente attestata da Pomponio, da Valerio Massimo, da Cicerone e da
altri, e che era una naturale conseguenza dello stato delle cose e dei
rapporti, che in tercedevano fra i due ordini, allora in lotta fra di loro. Di
qui la conseguenza, che la divulgazione del diritto venne in certa guisa a
procedere di pari passo col pareggiamento politico delle due classi; ma intanto
la prima scuola dei giureconsulti fu certamente il ius pontificium; nè è a
credersi, che tutta l'opera loro potesse solo ri ferirsi al diritto sacro;
poichè i pontefici di Roma, come si è ve duto, essendo una magistratura
sacerdotale, erano i veri rappresen tanti delle genti patrizie, la cui
religiosità non escludeva il senso giuridico e politico, e neppure lo spirito
militare. Intanto ne de rivava eziandio, che, per essere resi partecipi di
questa scienza del diritto, conveniva anche ottenere l'ammessione nel collegio
dei pontefici, i cui libri e commentarii contenevano un tesoro di con cetti,
molti dei quali passarono certamente nei primi giureconsulti, che furono essi
stessi pontefici massimi. Vero è, che i frammenti, che a noi pervennero del
diritto pontificale, sembrano riferirsi esclu sivamente a prescrizioni di
diritto sacro; ma ciò proviene da che la parte relativa al ius civile passò nei
giureconsulti, ed entrò nel l'organismo vivo della giurisprudenza, mentre
quella, che aveva un carattere sacro, fini per ridursi a concetti, che poscia
più non furono compresi, e venne cosi ad essere argomento di curiosità per gli
ar cheologi e per i grammatici. Un'altra causa di questo fatto deve pur Questa influenza dei Pontefici sul diritto,
sopratutto nei primi periodi della Repubblica, è attestata da VALERIO Massimo,
II, 5; Livio, IX, 46; Cic., pro Mu rena, 11; De legibus, II, 8, 9; De oratore,
III, 33. I passi relativi sono raccolti dal Rivier, Introd. histor., 121. Basta
perciò il considerare, che i primi giureconsulti, di cui sia a noi perve nuto
il nome, come Papirio (donde il ius Papirianum ), Appio Claudio (il cui
segretario Gneo Flavio avrebbe propalato il ius Flavianum ) e Tiberio
Coruncanio, che appare come il primo giureconsulto di origine plebea, furono
pontefici massimi, o quanto meno aggregati al collegio dei pontefici. Quelli
poi, che più non erano tali, presero pur sempre le mosse dal ius pontificium,
come appare ad evidenza dalle reliquie degli antichi giureconsulti raccolte
dall ' HUSCHKE, Jurisp. anteiustin. quae supersunt. Lipsiae, 1879. 324 -
riporsi in questo, che a misura che la scienza del diritto venne a concentrarsi
nelle mani dei giureconsulti e del pretore, il diritto pon tificale venne
naturalmente restringendosi al ius sacrum, e fu in questa guisa che alla
separazione, che già erasi operata nella città patrizia fra il pubblico ed il
privato, venne poscia aggiungendosi la distinzione fra il diritto sacro e il
diritto civile strettamente inteso. Intanto perd vuolsi avere per fermo, che
questo ritirarsi del diritto negli archivi dei pontefici, durante il primo
periodo della repubblica, venne ad essere l'effetto dell'ammessione nel populus
di un nuovo ele mento, che non possedeva queste tradizioni giuridiche, e che
sotto questo aspetto doveva dipendere da un'altra classe: il qual concetto ci
conduce a combattere l'opinione, pressochè universalmente accolta, circa quella
legislazione, che suol essere compresa col vocabolo di leges regiae . 4. Delle leges regiae e della fede da
attribuirsi alle medesime. 264. È abbastanza noto come qualsiasi demolizione ne
provochi un'altra; tanto più se trattisi di un edifizio armonico e coerente.
Ciò videsi sopratutto della storia primitiva di Roma. Dopo aver resi leg
gendarii i re, per guisa che si riuscì a fare la storia, senza pur nominarli;
anche la legislazione, che era aimedesimi attribuita dalla tradizione, dovette
essere considerata come una invenzione di tempi posteriori. Parve che un popolo,
il quale era solo chiamato ad ap provare o a respingere le proposte fattegli,
non potesse avere una parte effettiva nella formazione di leggi, di cui alcune
avevano un carattere essenzialmente religioso, e che la collezione di leggi
regie, accennate dagli scrittori, e attribuite ad un pontefice Papirio, dell'e
poca regia, dovesse ritenersi come opera di tempi posteriori. Questa opinione, che prevalse col DIRKSEN:
Die Quellen des römisches Rechts, Leipzig, 1823, trovò uno strenuo
oppositorenel Voigt: Über die leges regiae. Leipzig, 1876, la cui opera è
divisa in due parti, nella prima delle quali egli investiga la sostanza e il
contenuto delle leges regiae, mentre nella seconda si occupa dell'au tenticità
e delle fonti delle medesime. Secondo il FERRINI, Storia delle fonti del
diritto romano. Milano, 1885, 3, nota 2, l'opinione del Voigt, se in qualche
parte deve temperare le esagerazioni della scuola del NIEBHUR, dall'altra per
ade rire troppo alla tradizione, non potrà forse piacere a molti. Cid si
capisce, trattan. dosi di persone educate a tutt'altra scuola; ma intanto
abbiamo un altro contri buto allo studio veramente positivo della storia
primitiva di Roma. 325 Sembrami che in questa parte la critica siasi spinta
troppo oltre, in quanto che il processo seguito da Romanella propria formazione
ac cadde invece in guisa tale, che se una legislazione regia non fosse ram
mentata dagli scrittori, dovrebbe essere pur supposta, perchè era una necessità
dei tempi. Il populus primitivo di Roma era composto di persone appartenenti a
genti patrizie, memori delle antiche tradi. zioni, e quindi non è punto
ripugnante, che il medesimo, alla guisa stessa che eleggeva il re e conferiva
l' imperium con una lex cu riata de imperio, cosi fosse pur chiamato a dare
approvazione alle leggi, che rappresentavano i patti e gli accordi, in base a
cui le varie tribù entravano a formar parte della stessa comunanza civile e
politica. Ciò non potè accadere, come narra Pomponio, finchè Romolo fu solo
capo della tribù Ramnense, stabilita nella Roma pa latina; ma dovette divenire
indispensabile, allorchè la città, la no mina del suo re, la sua religione, il
suo diritto cominciarono ad essere il frutto della confederazione e
degl'accordi seguiti fra diverse comunanze. La stessa varietà degli elementi,
che concorrevano a costituirle, rendeva opportuno, quanto ai provvedimenti, che
riguar. davano il comune interesse, di adottare la forma della legge, la quale,
elaborata e coordinata dal collegio dei pontefici, proposta dal re, appoggiata
dai padri del senato, approvata dalle curie, poteva veramente ritenersi come
l'espressione della volontà comune. In questa parte ha tutte le ragioni Livio,
allorchè ci dice, che il popolo romano era cosi composto, che nulla re, nisi legibus, in unius populi
corpus coalescere potuisset . Era solo a questa condizione, che capi di tribù e
di genti, fino allora indipendenti e sovrani, potevano sottoporsi all'impero di
uno stesso magistrato e di un medesimo diritto. Lo stesso carattere religioso
della le gislazione regia non può costituire un argomento in contrario; perchè
il primitivo populus diRoma era composto di persone esperte anche nei riti e
nelle cerimonie religiose, che ciascun capo di fa miglia compieva nel seno
della propria famiglia. Del resto a voler anche ammettere, che quella parte
della legislazione regia, la quale ha un carattere esclusivamente sacro,
potesse, fin da quella prima epoca, essere lasciata intieramente alla
elaborazione del collegio dei pontefici; egli è però certo, che l'altra parte
invece, la quale ha un carattere civile, giuridico e politico ad un tempo,
dovette essere il frutto del concorso dei varii organi della costituzione
primitiva di Roma, e deve perciò aver presa la forma di vere e proprie leges
rogatae. Certo possono darsi dei casi, in cui questa procedura regolare 326 non
sarà stata effettivamente adempiuta in tutte le sue parti, al modo stesso, che,
secondo gli storici, non fu sempre osservata in ogni sua parte la procedura
relativa alla nomina dei re: ma in man canza di prove in contrario, di fronte
all'attestazione concorde degli autori, che non avevano alcun motivo di
alterare le cose, e cono scendo il carattere del popolo, osservatore costante
della legalità e facile a commuoversi, quando questa non fosse osservata, non
si può essere in diritto di negare l'esistenza di vere e proprie leggi, anche
in questo periodo, in quella parte, che si riferisce a cose di pubblico e di
privato interesse. 265. Pur ammettendo che in questa primitiva condizione di
cose, la maggior parte dei rapporti giuridici abbia continuato ad essere
lasciata all'impero della consuetudine e del costume, dovevano perd anche
esservi quelle parti, in cui le divergenze, esistenti fra le varie comunanze,
presupponevano una unificazione ed un coordina mento, che doveva di necessità
operarsi, mediante quelle leges, che a ragione si chiamavano publicae, perchè
erano la base della comune convivenza civile e politica. Che anzi dovettero
esser queste leges, che costituirono il nueleo primitivo di quel ius quiritium,
che cominciava a sceverarsi dal fas e dai bonimores. Siccome perd questo ius
venne formandosi rebus ipsis dictan
tibus et necessitate exigente ; cosi esso non potè formarsi di un tratto, nè
essere fin dapprincipio un organismo coerente, che provvedesse a tutti i
rapporti; ma dovette lasciare la maggior parte di questi rap porti alla
consuetudine, limitando l'opera sua a concretare quei prov vedimenti, la cui
necessità facevasi urgente e palese, a misura che la convivenza civile venivasi
svolgendo. Niun dubbio parimenti, che anche i concetti e sopratutto le forme di
questa primitiva legislazione dovessero essere tolti dal periodo anteriore: ma
il fatto stesso, per cui essi erano trapiantati in terreno diverso, dovette far
sì, che essi mutassero carattere. 266. Se intanto potesse essere
lecito anche solo tentare di rico struire il processo, con cui dovette formarsi
il primo nucleo delle istituzioni e dei concetti quiritarii, in base alla
formazione progres siva della città, crederei di poter rich iamarlo alle
seguenti leggi fondamentali: Liv., I, 8.
- 327 l• Un primo effetto di questa grande trasformazione, per cui i capi e
membri delle varie genti venivano ad essere cittadini della medesima città,
dovette esser quello di far trasportare nella città e nei rapporti fra i
quiriti quelle istituzioni e quei concetti giuridici, che si erano formati nei
rapporti fra le varie genti e specialmente fra i capi delle medesime. Tutti i
concetti pertanto, che apparte nevano ai iura gentium, diventarono proprii del
ius quiritium; cosicchè il commercium, il connubium, l'actio, da rapporti fra
le varie genti e i loro capi, diventarono rapporti fra i quiriti; donde la
spiegazione di quelle solennità di carattere gentilizio, che ancora si
mantengono nel diritto primitivo di Roma. Processo più naturale di questo non
sarebbesi potuto seguire, poichè colla formazione della città i capi di
famiglia e delle genti, che prima erano indi pendenti, vennero a cambiarsi in
quiriti, e quindi il loro diritto di internazionale ed esterno, quale era
prima, doveva cambiarsi in di ritto quiritario ed interno. 2º Una seconda
conseguenza poi dovette essere eziandio che questi concetti, così trapiantati
dai rapporti fra le genti, nei rapporti fra i quiriti o membri della stessa
civitas, i quali prima avevano solo avuto uno svolgimento estensivo, poterono
ricevere uno svolgimento inten sido, e cambiarsi in altrettante propaggini, da
cui scaturirono le varie forme del ius quiritium. Dal connubium potè uscire il
ius connubii con tutte le conseguenze delle iustae nuptiae, che consistono
nella manus, nella potestas, nel mancipium, nella successione e nella tutela
legittima: le quali naturalmente non poterono in questo periodo ispi rarsi, che
ai concetti dell'organizzazione gentilizia. Il commercium parimenti si esplico
nel ius commercii, con tutte le sue varie gra dazioni del comprare e del
vendere (mancipium ), dell'obbligarsi (nexum ) e del poter ricevere o disporre
per testamento (testamenti factio). Così pure l'actio sacramento, che era una
procedura fra i capi di famiglia indipendenti, nel seno delle tribù, potè
conver tirsi in una procedura fra quiriti, e siccome eravi un magistrato, a cui
si apparteneva di pronunziare circa il ius, che si manteneva distinto
dall'iudicium, così fu naturale, che accanto all'actio sacra mento si svolgesse
eziandio la iudicis postulatio. 3º Infine una terza conseguenza di questa
trasformazione dovette È da vedersi in
proposito quanto si disse nel capitolo precedente nº. 244, 298.328 consistere
in ciò, che le istituzioni, cosi trapiantate nella città, es sendo staccate
dall'ambiente, in cui si erano formate, si trovarono libere dai vincoli, in cui
prima erano trattenute, e poterono cosi ricevere tutto lo svolgimento, a cui le
portava il proprio concetto informatore. Ciascuna di esse si ridusse in certo
modo ad essere una concezione astratta; e potè così essere sottoposta a quegli
speciali processi e a quelle analisi, che sono proprii della logica giuridica
(iuris ratio ). Per tal guisa venne ad essere un'astrazione il quirite, perchè
esso non è più tutto l'uomo, ma è l'uomo considerato sotto l'aspetto speciale
dei diritti e delle obbligazioni, che gli incombono come cit tadino; fu un '
astrazione il potere giuridico (manus) attribuito al medesimo, in quanto che
esso è concepito senza le limitazioni esi stenti nel costume. Di qui la
conseguenza, che egli come capo di famiglia (pater familias) giuridicamente la
riassume in sè stesso, e ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui figli,
sugli schiavi; come proprietario può disporre in qualsiasi guisa delle proprie
cose; come creditore può appropriarsi e perfino dividere il corpo del debitore.
Per tal guisa tutto il diritto primitivo di Roma è già il frutto di
un'astrazione, cioè di una specie di isolamento dell'elemento giuridico dagli
altri elementi della vita sociale, per cui ogni istituzione può ricevere quello
svolgimento logico e dialettico, che costituisce la ca ratteristica del diritto
romano, e ne costituisce la superiorità sopra tutte le altre legislazioni. Il
diritto romano infatti, fin dai proprii esordii, è uscito bensi dalla realtà dei
fatti, ma fece ben presto astrazione da essi e diede uno svolgimento logico
alle proprie istitu zioni, le quali perciò diventarono istituzioni tipiche, e
poterono essere portate dapertutto, perchè la logica è di tutti i popoli e di
tutti i tempi. Fu mediante questo processo; che i Romani poterono essere per il
diritto ciò, che i Greci furono per l'arte, e questo segreto essi già lo
possedevano fin dalla prima formazione della propria città, e continuarono
sempre ad applicarlo, senza curarsi di darne nelle opere loro una spiegazione,
che sarebbe stata inutile, perchè trattasi di un genio originario e nativo, che
può essere intuito, ma non insegnato. Tutte queste conseguenze del nuovo stato
di cose poterono rica - varsi senza bisogno di apposita legislazione, per opera
di una logica istintiva e naturale, sentita universalmente da un popolo, che mi
rava diritto al proprio scopo, e che, poste le premesse, sapeva deri varne le
conseguenze. 329 267. Intanto però eranvi altri argomenti, intorno a cui
potevano esistervi divergenze nelle istituzioni particolari delle varie tribù,
ed in questi argomenti appunto, secondo la tradizione, verrebbero ad ap parire
le traccie di una legislazione regia, la quale potrà forse non esserci
pervenuta nelle sue fattezze genuine: ma che intanto non merita punto di essere
senz'altro respinta, come una creazione di tempi posteriori. Essa porta in sè
un'impronta efficace di verità, in quanto che si presenta con un carattere del
tutto consentaneo ad un populus, che esce dall'organizzazione gentilizia, e le
cui isti tuzioni sono ancora tutte circondate di un ' aureola religiosa; del
che sarà assai facile persuadersi, ricostruendo e componendo insieme i rottami,
che ci pervennero di questa legislazione, per la parte, che si riferisce al
diritto privato e al diritto penale primitivo di Roma. 5. – La famiglia e la proprietà secondo la
leges regiae. 268. Quanto al diritto privato l'istituzione, che presentasi più
ri gorosamente delineata nelle reliquie delle leges regiae, è l'orga nizzazione
della famiglia. È evidente, che essa riducesi in sostanza ad un rudere della
stessa organizzazione gentilizia, che viene ad essere portato nel seno della
città. Ma intanto separata dall'orga nizzazione gentilizia, in cui erasi
formata, e dalla quale era tempe rata in qualche parte, presentasi con linee
così rigide e precise, da riuscire a noi pressochè incomprensibile, se non
riportisi nell'ambiente, in cui dovette formarsi. Dei varii modi, in cui questa
famiglia potrà essere fondata, le leggi regie non ne ricordano che un solo, e
questo è la cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale già conosciuta
probabilmente alle genti delle varie tribù può benissimo essere stata adottatta
come la forma solenne e riconosciuta per il matrimonio quiritario. Dio nisio
infatti dice, che Romolo avrebbe condotto all'onestà le donne con un'unica
legge, con cui avrebbe stabilito: uxorem,
quae nuptiis La vera causa di questa
critica, che tutto nega, relativamente alla storia pri mitiva di Roma, sta nel
presupposto, che il popolo fondatore della città fosse un popolo del tutto
primitivo. Ho cercato di dimostrare il contrario, e quindi non trovo nulla di
improbabile, che un popolo, che si presenta con una quantità di tradizioni e di
concetti già elaborati, fosse in condizione tale da prendere una parte
effettiva, anche nella formazione delle leggi. 330 sacratis (confarreatione )
in manum mariti convenisset, commu nionem cum eo habere omnium bonorum ac sacrorum
. Noi ab biamo qui il matrimonio primitivo, esclusivamente patrizio, accom
pagnato da una cerimonia religiosa; esso compiesi coll'intervento dei pontefici
e colla testimonianza di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie, in
cui è ripartita ciascuna tribù primitiva; produce la comunione delle cose
divine ed umane; e intanto riduce in certo modo la moglie in posizione di
figlia, rimpetto al marito; il che però non toglie, che essa gli sia compagna
nel culto domestico. È al marito, che appartiene la giurisdizione sulla moglie
pei delitti, che essa compie; anzi due fra essi, l'adulterio ed il bere vino
(per causa che proba bilmente può riferirsi a qualche rito religioso ) possono
essere puniti di morte: ma egli deve perciò essere circondato dal tribunale
dome stico, il quale è ancora una istituzione eminentemente gentilizia. Il
vincolo matrimoniale, stretto coll'intervento della religione, è per per sua
natura indissolubile, in quanto che non potrebbe compren dersi, che una moglie,
che è figlia al marito, possa far divorzio da esso. Di qui una legge, che
Dionisio chiama dura, la quale nega alla moglie difar divorzio dal marito;ma
intanto questi può ripudiarla,ma solo per cause determinate, quali sarebbero il
venefizio commesso a danno della prole, la sottrazione delle chiavi e
l'adulterio. Che se il marito abbandoni la moglie per altre cause, dei suoi
beni si faranno due parti, di cui una andrà alla moglie, l'altra sarà sacra a
Cerere: che se egli la venda, dovrà essere immolato agli dei infernali . Qui
pertanto il potere del marito sulla moglie ha ancora tutti i caratteri del
periodo gentilizio; ma le cerimonie religiose, che forse potevano essere
diverse presso le varie tribù, già vengono ad essere unificate e son tutte
ridotte alla confarreatio; son fissati i casi per il ripudio; e sono anche
posti certi confini ai poteri del marito sulla
Le disposizioni attribuite alle leges regiae, che sono qui riprodotte,
ci furono conservate da Dionisio, II, 25; il loro testo può vedersi nel Bruns,
Fontes, 6. Questa legge, attribuita a
Romolo relativamente al ripudium, è ricordata da PLUTARCO, Romulus, 22. Gli
autori, che studiarono di recente l'argomento, già co minciano ad ammettere la
probabilità, che nell'antico matrimonio per confarreatio nem non potesse essere
consentito il divortium, nel senso vero della parola; il quale dovette avere
origine dal divertere della moglie dalla casa del marito nel matri monio sine
manu, e poi si concretò in una istituzione giuridica, che si estese allo stesso
matrimonio cum manu. Cfr. Esmein, La manus, la
paternité et le divorce, nei Mélanges d'histoire du droit, 3 a 37. 331 moglie.
A queste leggi se ne aggiunge una di Numa, che assume un carattere più sacro,
la quale è cosi concepita: paelex aram
Iunonis ne tangito; si tanget, Iunoni, crinibus demissis, agnum foeminam
caedito : la qual legge (se si accetta la significazione attribuita al vocabolo
di paelex da Festo, secondo cui suonerebbe la donna quae uxorem habenti nubebat ), significherebbe, che il matrimonio doveva
essere monogamo, e che altra donna non poteva entrare nella casa, ed accostarsi
all'altare di Giunone, protettrice appunto delle giuste nozze; in caso
contrario doveva sacrificarsi una piacularis hostia (agnum foeminam caedito).
269. Lo stesso è a dirsi della patria potestas, la quale, secondo una legge
attribuita a Romolo, duráva tutta la vita e importava il potere di vita e di
morte sul figlio, e la facoltà di venderlo fino a tre volte per trarne profitto;
alla qual legge se ne aggiunge un'altra di Numa, secondo cui il padre, che
abbia consentito alle nozze confar reate del figlio, le quali importano la comunione
delle cose divine ed umane, più non è in facoltà di venderlo. Devono poi i
padri educare tutta la prole maschile e le figlie primogenite, e non possono
mettere a morte niun feto minore di tre anni, se non sia mostruoso o mutilato,
nel qual caso deve prima essere mostrato ai vicini, e questi deb bono approvare
il suo operato; disposizione questa, che richiama ancora le consuetudini
proprie della vita patriarcale del vicus e del pagus, ove i vicini mutansi
talvolta in giudici ed in consi glieri. Alle leggi relative a quest'ordine di
idee può eziandio ri chiamarsi quella, attribuita a Numa, secondo cui se una
donna fosse morta in istato di gravidanza, non doveva essere seppellita, se
prima non se fosse estratto il feto: alla quale disposizione il Voigt rannode
rebbe, con molta verisomiglianza, quel passo di lex regia, conserva toci da
Paolo Diacono, secondo cui: Si quisquam aliuta (aliter ) faxit, lovi sacer esto. Festo, v ° Paelices (Bruns, Fontes, 350).
Tutti i passi relativi possono vedersi raccolti dal Voigt, über die leges
regiae. Leipzig, 1876, 2º, 8. Tutte queste leggi regie, relative alla
patria potestà, sono ricordate da Dio NISIO, II, 26, 27: II, 15; II, 27. Quella
attribuita a Numa è pur ricordata da Plu TARCO, Numa, 17. Il testo delle
medesime trovasi nel Bruns, Fontes, 7 e 9.
A questa legge accenna il giureconsulto MARCELLO, L. 2, Dig. (11, 8):
mentre l'altra parte sarebbe ricavata da Festo, pº aliuta. Il Voigt ritiene
doversi combinare i due frammenti in una sola legge, Über die leges regiae, 8
13, 75. 332 Iatanto però tutto quest'ordinamento religioso e politico della fa
miglia primitiva è ancora sempre sotto la protezione del fas, in quanto che i
figli, i quali maltrattino i genitori, e la nuora, che venga a cattivi
trattamenti verso la suocera, mettendo cosi in non cale il rispetto dovuto
all'età, incorrono nella capitis sacratio; la quale è pure la pena, in cui
incorre il patrono, che faccia frode al proprio cliente, e ogni altro, che
venga meno alle disposizioni re lative all'ordinamento della famiglia. 270. Per
quello poi, che si riferisce alla proprietà, nulla ci fu con servato circa il
carattere intimo della medesima; ma dalle disposi zioni, che Dionisio
attribuisce a Romolo relativamente alla clientela, e dall'incarico, che secondo
Festo sarebbesi da Romolo affidato ai patres o senatori, di fare assegni di
terre agli uomini di bassa condizione (tenuioribus), è lecito di inferire, che
la proprietà con tinua in parte ad avere un carattere gentilizio, e che in
questo periodo ancora si mantengono quelle proprietà o possessioni collet tive,
sulle quali si possono fare degli assegni ai clienti. Tuttavia nell'interno
della città vediamo già comparire netta e decisa l' isti tuzione della
proprietà privata. In virtù di una legge attribuita a Numa, quel dio Termine,
che un tempo separava i confini fra i ter ritori delle varie genti e delle
varie tribù, viene a ripartire e a consacrare la proprietà fra i quiriti, i
quali hanno già una proprietà individuale e privata, rappresentata dal proprio
heredium. Per tal modo la terminazione, che prima esisteva fra i territorii
gentilizii, come lo dimostra l'accenno, che si fa nel ius foeciale alle
divinità patrone dei confin., viene a cambiarsi anch'essa in una istituzione
quiritaria, e si introduce così la terminazione fra le proprietà private. Tutti
quindi son tenuti a porre dei termini al proprio campo, e questi sono
consacrati a Giove Termine; colui, pertanto che li ri. muova o li trasporti da
un sito all'altro, sarà soggetto alla capitis sacratio. Così, ad esempio,
secondo il Mommsen in Bruns, Fontes, 7, nota 6, una legge, attribuita a Tullo
Ostilio, sarebbe così concepita < si parentem puer verberit, ast olle (ille)
plorasset, puer divis parentum, sacer estod; si nurus, sacra divis pa rentum
estod. Per i divi parentum si intendono
poi i diï manes, Cfr. Voigt, Op. cit., 7,
41. Dion., II, 9; Cic., De rep., II, 9; Festo, vº Patres (Bruns, 372). Dion., II, 74; Festo, pº Termino. Cfr.
Voiat, Op. cit., $ 9, 48. 333 Certo queste son tutte disposizioni di legge, che
consacrano isti tuzioni, che vivevano nella consuetudine e nelle tradizioni; ma
punto non ripugna, che, trattandosi di genti, le cui istituzioni nei partico
lari potevano essere diverse, le medesime abbiano anche potuto fare argomento
di disposizioni legislative, elaborate dai pontefici, pro poste dal re,
appoggiate dal senato, ed approvate dalle curie. Quanto alla sanzione
religiosa, che accompagna ciascuna legge, essa si spiega facilmente, se si
tiene conto del carattere religioso del popolo delle curiae, il quale esce
allora allora dall'organizzazione gentilizia, in cui tutte le istituzioni erano
rivestite di un ' aureola religiosa e sacra. Solo ci resta a vedere quali siano
le traccie, che ci pervennero della legislazione penale primitiva di Roma
patrizia, alla quale occorre una trattazione speciale per il peculiare
svolgimento, che ebbe a ri cevere, e per le molte discussioni, a cui diede
occasione. 6. – Le origini della
legislazione criminale in Roma e specialmente del parricidium e della
perduellio. 271. Per quanto la legislazione criminale primitiva di Roma sia
quella parte del suo diritto, dicui giunsero a noi più scarse reliquie,
tuttavia anche queste poche sono tali, che ricomposte possono ad ditarci, come
anche in essa siasi effettuato un lento e graduato pas saggio
dall'organizzazione gentilizia alla convivenza civile e politica. Anche il
delitto nel periodo regio ritiene ancora quel carattere, che aveva assunto
presso le genti patrizie; esso è un'offesa contro gli uomini e contro
l'aggregazione gentilizia, a cui essi appartengono, ma è poi sopratutto
un'offesa contro la divinità. Chi l'abbia com messo di proposito (dolo sciens),
di regola è punito colla capitis sacratio ed anche colla consecratio bonorum;
mentre se altri l'abbia compiuto per imprudenza (imprudens) egli e la famiglia
di lui sono tenuti ad offerire una piacularis hostia alla famiglia dell'of feso.
Ciò vuol dire, che il concetto gentilizio del delitto e della La più notabile distinzione fra il reato
doloso e colposo, che occorra nella legislazione regia, è quella che si desume
dalle due leggi attribuite a Numa, rela tive all'omicidio volontario
(parricidium ), e quella relativa all'omicidio involontario, che è ricordata da
Servio nei seguenti termini: In Numae
legibus cautum est, 334 pena viene ad essere trapiantato di peso nel seno della
città. Sono tuttavia ancora in piccol numero i misfatti, a cui accennano le
leges regiae; in quanto che non parlasi nè del furto,nè dell'ingiuria, nè di
quegli altri misfatti, che sono più tardi minutamente preveduti dalle XII
Tavole. Ciò non significa certamente, che questi misfatti fossero ignoti, nè
che i medesimi fossero impuniti: ma soltanto, che le leges publicae (quelle
almeno che giunsero fino a noi) non avevano ancora richiamato alla pubblica giurisdizione
la repressione di essi; ma avevano continuato a lasciarli alla prosecuzione
dell'offeso, che doveva perciò seguire le pratiche tradizionali, formatesi
nelle tribù, le quali già avevano ricevuta una consacrazione religiosa. 272.
Tuttavia fra i fatti criminosi, accennati nelle leges regiae, già può
introdursi una distinzione; sonovi dei delitti, che possono essere ritenuti
contro l'ordine delle famiglie, comprendendo anche fra questi quello contro la
proprietà, consistente nella rimozione dei termini; altri, che sono contro la
religione, quale sarebbe l'incesto della Vestale e l'abbandono dei sacra '; e
altri infine, che già possono ricevere il nomedi crimina publica, in quanto
che, fin dagli inizii della città, sonovi autorità incaricate dalla pubblica
pro secuzione di essi. Quanto ai primi mantiensi ancora nella propria integrità
l'auto rità e la giurisdizione del capo di famiglia, il quale in certi casi è
tenuto a circondarsi del tribunale domestico; come pure sono san cite contro di
essi pene di carattere sacro e religioso, comela capitis sacratio e la
consecratio bonorum. Quanto ai reati contro la religione, appare invece la
giurisdizione dei pontefici; giurisdizione, che alcuni autori, fondandosi sul
carattere sa crale del delitto e della pena in questo periodo, avrebbero
creduto, che dovesse essere prima estesa in più larghi confini. Il carattere,
che ab biamo trovato nella istituzione del collegio dei pontefici, per cui esso
appare come depositario e custode delle tradizioni gentilizie, ci impe disce di
seguire una tale opinione, in quanto che il carattere sacrale del delitto e
della pena in questo periodo non è creazione dei pon ut si quis imprudens
occidisset hominem, pro capite occisi, agnatis eius in contione offerret
arietem . Bruns, Fontes, 10. Cfr., per ciò che si riferisce all'omicidio
involontario, il Voigt, Op. cit., 11, 64
a 72. Cfr. MUIRIEAD, Histor. Introd., 54
a 55. 335 - tefici, ma è un carattere proprio di tutte le istituzioni
gentilizie, che si mantiene ancora nel la città esclusivamente patrizia.
Del resto la sola giurisdizione criminale, che gli antichi scrittori
attribuiscono ai pontefici, è quella relativa alle Vestali, la quale per giunta
sembra essere una conseguenza della patria potestà, di cui essi sono rive stiti
riguardo alle medesime. Sono quindi i pontefici, che secondo una legge, che la
tradizione attribuisce a Tullo Ostilio, giudicano dell'in costo delle Vestali,
il quale è considerato come un delitto, che da una parte contamina i sacra
publica, e dall'altra provoca la ven detta di Vesta sopra il popolo. Quindi da
una parte sacrificavansi alla dea la Vestale, nei tempi più antichi col
gettarla nel fiume e più tardi seppellendola viva, e l'amante, flagellandolo
fino alla morte, e dall'altra si facevano sacrifizii di purificazione per la
città. Da questo caso in fuori non trovasi traccia di giurisdizione criminale
più ampia, che sia mai spettata ai pontefici; nè vi ha motivo di credere, che
po tesse essere più estesa, dal momento che presso i romani pareva già enorme
questo potere accordato a una magistratura sacerdotale. 273. A noi però importa
sopratutto di cercare come siasi venuto svolgendo il concetto del pubblico
delitto; perchè è con esso, che incomincia l'esercizio del magistero punitivo,
per parte dell'autorità sociale. Già ho accennato altrove, che la giurisdizione
del magistrato in Roma quanto ai misfatti non presentasi svolta fin dai propri
inizii; ma viene invece estendendosi, a misura che la potestà pubblica si viene
rafforzando di fronte alla giurisdizione domestica del capo di famiglia.
Qualche cosa di analogo accade eziandio nello svolgersi della nozione del
pubblico delitto. I due primi misfatti, perseguiti dalla pubblica autorità,
compariscono coi nomi di parricidium e di perduellio; e per perseguirli fin dal
periodo regio sarebbero istituiti due speciali magistrati, coi nomi di
questores parricidii e di duum viri perduellionis; fra i quali intercede perd
questa differenza, che mentre i primiappariscono quali magistrati permanenti, i
secondi invece sembrano essere nominati, caso per caso. Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, 187. Ciò è dimostrato dal racconto di Livio, I, 26,
relativo al fatto dell'Orazio, in cui i duumviri perduellionis son nominati per
quel caso dal re, mentre dei quae stores parricidii abbiamo una definizione di
Festo, pº Quaestores, che parla di essi, come di autorità permanenti,
create ut de delictis capitalibus
quaererent . 336 Son pochi i passi, che si riferiscono all'uno e all'altro
misfatto, donde la conseguenza, che non solo gli autori moderni, ma anche gli
storici antichi attribuiscono significazione diversa ai due vocaboli. È noto
infatti, che mentre Dionisio e Festo ritengono colpevole di parricidium
l'Orazio, uccisore della propria sorella, Tito Livio parla invece di perduellio.
In questa condizione di cose occorre ripren dere in esami e passi di antichi
autori, che sono a noi pervenuti; esa minare le opinioni principali emesse
dagli autori in una questione, che ha una copiosissima letteratura; e poi
cercare di ricomporre i testi che si riferiscono all'argomento per ricavarne il
processo logico e storico, che dovette essere seguito nella configurazione di
questi primitivi misfatti. 274. Quanto al parricidium, i pochi passi a noi
pervenuti indicano in sostanza una certa quale meraviglia, per parte degli au
tori, che Romolo, mentre aveva lasciato senza pena e neppur rite nuto possibile
il parricidium, nello stretto senso della parola, avesse poi chiamato ogni
omicidio col vocabolo di parricidium, il che sa rebbesi pur fatto da Numa, al
quale si attribuisce una legge, secondo cui:
si quis hominem liberum,dolo sciens,morti duit, parricidas esto . Quanto
poi alla perduellio si sa con certezza, che questo vocabolo deriva certamente
da perduellis, che in antico significava il nemico, con cui erasi in guerra, e
che il medesimo comprendeva, tanto il tradimento verso la patria, mediante
pratiche tenute col ne mico esterno di essa, tradimento, che suole essere
indicato special mente col vocabolo di proditio; quanto eziandio le
perturbazioni ed i sovvertimenti contro la cosa pubblica, tentati all'interno,
per i quali era specialmente adoperato il vocabolo di perduellio. Circa
quest'ultima però abbiamo una descrizione abbastanza completa di un primitivo
processo per causa di perduellio in Tito Livio, il quale in questa parte, come
ben nota il Bonghi, sembra dare al
proprio racconto un colorito particolare e diverso dal rimanente, in quanto che
cerca di mostrarsi espositore preciso delle forme antiche e solenni, con cui
sarebbe seguito questo primitivo giu dizio
. Furono questa scarsità di passi e questa incertezza negli antichi au
tori, che provocarono molte indagini per spiegare il fatto, per cui negli Dion., III, 22; Festo, vº Sororium tigillum;
Livio, I, 26. Liv., 1, 26; Bongai,
Storia di Roma, I, 102 e 129.337 inizii col vocabolo ili parricidium sarebbesi
indicato ogni omicidio, ed anche le cause, per cui gli antichi autori in un
medesimo fatto poterono ora ravvisare il carattere di parricidium, ed ora
quello di perduellio. Fra le molte congetture fattesi in proposito sono degne
di nota sopratutto le seguenti: quella messa prima innanzi del Gebauer, ed ora
anche seguita dal Voigt, e pressochè dalla universalità degli au tori tedeschi,
secondo la quale a vece di leggere parricidium si dovrebbe leggere paricidium,
cosicchè il vocabolo verrebbe a signi ficare l'uccisione di un pari o di un
eguale ; quella messa in nanzi dal Rubino e dal Rein, secondo cui il vocabolo
parricidium significherebbe fin dagli inizii l'uccisione di un congiunto, ossia
un parentis excidium (3 ); quella sostenuta con molta dottrina dal Brüner e poi
seguita damolti altri, in base a cui parricidium avrebbe dapprima da molti
altri significato soltanto l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e
sarebbe poi stato esteso a designare l'uccisione di qualsiasi uomo libero (4 );
e da ultimo quella sostenuta, fra gli altri,dalWalter e dal Maynz, secondo cui
idue termini di parricidium La questione
non è recente, ma fu già trattata dagli antichi criminalisti, e fra gli altri
dal Sigoxio, De iudiciis, Cap. XXX, dal Mattei, dall'UBERO e da altri, che
possono vedersi citati dal CARRARA, Programma di diritto criminale, Parte
speciale, vol. I, 137, $ 1138. Il primo,
che sostenne paricidam esse, qui parem
occidit fu il GEBAUER, Dissertationes academicae, vol. I, 64, XI, il quale si fondava sul detto di Ulpiano,
che giunse veramente molto più tardi,
omnes homines esse aequales.
L'opinione era nuova, e fu accolta come osserva il CARRARA, op. e loc.
cit., pressochè universalmente in Germania. Di recente poi il Voigt aggiunse a
questa opinione anche il peso della sua autorità: Über die leges regiae, 11 a
64, e sopratutto a pag.57, nota 130. L'opinione stessa fu seguita fra noi anche
dall'ARABIA, Princ. di diritto penale, III, 258. Quanto al CARRARA, egli
sostiene, che in questo caso l'espressione
paricidas esto significasse capital esto , cioè condannabile a morte; ma
tale opinione non trovò seguito (Op. cit.,
1139). Tale fu l'opinione messa
innanzi dal Rubino: Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte.
Casellae, 1839, 433-466; e dal Rein, Das Crimi nalrecht der Römer. Lipsiae,
1844, 401.(4 ) L'autore, che a mio avviso sostenne con grande erudizione, e con
un senso vero di romanità, quest'opinione è il BRÜNER in una dissertazione col
titolo De parricidii crimine et
quaestoribux parricidii , letta il 2 marzo 1857 e riportata negli Acta
societatis scientiarum Fennicae, Helsingforsiae, 1858, 519 a 569. Quest'o
pinione è anche seguìta dal GORRIUS, in una dissertazione di laurea: De parricidii notione apud antiquissimos
romanos , Bonnae, 1869, notevole per la rassegna, che fa delle opinioni
professate daglialtri autori. G. C., Le
origini del diritto di Roma. 22 338 e di perduellio sarebbero fra loro
pareggiati, e significherebbero qualsiasi delitto, che per sua natura sia tale
da chiamare la pub blica vendetta, e da eccitare una ripulsione universale.
275. Or bene con tutta la riverenza, che deve certo aversi per un autore cosi
benemerito degli studii sul diritto primitivo, quale è il Voigt, non ritengo,
che possa adottarsi l'opinione da lui seguita, secondo cui parricidium
significherebbe il paris excidium. Anzi. tutto è malagevole di trovare negli
esordii di Roma l'idea di questa parità e di questa uguaglianza giuridica, in
quanto che, se si tol gano i capi di famiglia, non vi sono altre persone, che
abbiano un'assoluta parità di diritto. Vi ha di più, ed è che, mettendo il
concetto della parità a fondamento della figura criminosa del pa ricidium, ne
verrebbe come conseguenza, che allora soltanto vi sa rebbe paricidium, quando
un pari uccidesse un altro pari, cioè quando cosi l'uccisore che l'ucciso
fossero in condizioni uguali fra di loro; il che certo non può richiedersi.
Infine male si comprende, come questa figura primitiva di reato si venga
foggiando sopra un con cetto puramente astratto, come è quello della
uguaglianza, mentre vediamo, che tutte le altre distinzioni di reati, ed anche
le confi gurazioni giuridiche di altra natura, che compariscono nell'antico
diritto, vengono piuttosto ad essere determinate da circostanze este riori di
fatto, come accade dal furtum manifestum, nec manife stum, conceptum, ed
oblatum, ed anche della distinzione della res mancipii e nec mancipii, come
pure delle mancipationes, vindi cationes, e simili. Cið anche per il motivo,
che nel linguaggio pri mitivo si passa di preferenza da una significazione
fisica ad una mo rale, o da una concreta ad un astratta, di quello che non
accada il contrario. Quanto al fatto, che il vocabolo parricidium e parricidas
in certi antichi codici trovisi scritto paricidium e paricidas, non può avere
importanza, quando si consideri, che nelle leggi arcaiche trovansi soventi le
lettere semplici, a vece delle doppie, come lo di mostra l'antico
Senatusconsulto de bacchanalibus in cui
occor rono le parole esent, velent, bacanal per essent, vellent, baccanal;
quest'argomento del resto è anche distrutto da ciò, che son vi pure Questa opinione enunziata prima dal WALTER,
Storia del diritto romano. Trad. BOLLATI, 8 766, vol. II, 450, fu di recente
anche sostenuta dal Maynz, Introd., $ 18, 1, 55. Essa però fu vigorosamente
confutata dal Koestlin: Die perduellio unter der römischen Königen. Tubing,
1841, 10-14. 339 dei codici, in cui occorrono le parole patricidium e
patricidas, le quali attestano cosi anche la materiale derivazione dei due
vocaboli da patris excidium. Vero è, che anche, fra gli antichi autori, se ne
trovano di quelli, che sembrano accennare a questa origine del vocabolo; ma non
è punto improbabile, che, allorquando la figura del parricidium aveva già presa
altra significazione nella lex Pom peia de parricidiis, siasi anche allora
cercato di spiegare nello stesso modo, cioè col ricorrere all'analogia delle
parole, il vocabolo primitivo, con cui erasi indicato l'homicidium. 276. Non
può del pari ammettersi, che il vocabolo parricidium abbia significato dapprima
un parentis excidium, ossia l'uccisione di un congiunto in certi limiti di
parentela, e che poscia siasi esteso a significare l'uccisione di qualsiasi
concittadino, anche per quella specie di parentela, che viene ad esservi fra i
cittadini di una me desima città. Per verità, quando così fosse, il vocabolo di
parrici dium avrebbe avuto fin dapprincipio una significazione, che non cor
risponde alla parola, in quanto che, come nota il Voigt stesso, nella
precisione primitiva del linguaggio, per indicare l'uccisione di un congiunto,
si sarebbe adoperata piuttosto l'espressione di parentici dium, che non quella
di parricidium, in cui compare evidente l'idea dell'uccisione di un padre . Lo
stesso è a dirsi dell'opinione, secondo cui parricidium avrebbe, nelle origini
della città, significato l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e solo
più tardi sarebbesi estesa all'uccisione di ogni uomo libero. Questa opinione,
sostenuta con logica ed erudizione dal Brüner, sarebbe di tutte la più
probabile, e quella che meglio spiega i passi a noi pervenuti, quando non
contrastasse colla testi monianza di Plutarco: singulare est, quod Romulus, cum
nullam in parricidas statuerit poenam, omne homicidium appellavit parricidium.
Qui infatti si direbbe, che Romolo fin dagli inizii Lo scrittore latino, che sembra far derivare
l'antico parricidium dalla parità fra uccisore ed ucciso, sarebbe ISIDORO, De
orig., X, 225, il quale scrisse: parri
cidium et homicidium, quocumque modo intelligi possunt, cum sint homines homi.
nibus pares ; ma qui è evidente, che l'autore non cerca di dare la vera origine
del vocabolo, ma solo di dare una spiegazione, che poteva apparire probabile
all'epoca sua. Del resto quest'opinione fu già combattuta dall'OSENBRUEGGEN,
Das altrömische parricidium. Kiel, 1841, 59.
Cfr. Voigt. Op. cit., 10, 57,
nota 130, in fine. 340 - della città avrebbe chiamato parricidium ogni omicidio,
e che quindi non vi sarebbe stato periodo di tempo, in cui, dopo la for mazione
della città, la parola fosse stata ristretta a significare l'uccisione di un
padre delle genti patrizie. Resta ancora l'opinione sostenuta fra gli altri dal
Walter e dal Maynz, secondo cui parricidium e perduellio sarebbero due espres
sioni, usate promiscuamente, ad indicare i più gravi misfatti, che si potessero
commettere nella comunanza. Vero è, che soventi nel lin guaggio primitivo
presentansi di questi vocaboli sintetici, e comprensivi, che più tardi vengono
in certo modo suddividendosi in guisa da espri mere solo più uno degli
atteggiamenti, sotto cui presentasi il concetto primitivo; ma qui la cosa non
ha potuto accadere, poichè i due concetti si svolgono in certo modo paralleli
l'uno all'altro, ei due crimini sono perseguiti da ufficiali diversi. Se si
guarda poi all'ori gine dei due vocaboli, anche questa viene ad essere
completamente diversa; poichè, per formare la figura del parricidium, si
riguarda alla persona dell'offeso, mentre, per formare invece quella della per
duellio, si parte invece da quella dell'offensore, ossia dal vocabolo di
perduellis, che nelle origini significava nemico. Nel parricidium si ha
un'offesa contro un privato, che è sottratta alla privata per secuzione, ed
attribuita alla pubblica autorità; mentre nella per duellio compare già
personificata la stessa comunanza collettiva, la quale, trovando nel proprio
seno chi cerca di comprometterne la sicu. rezza, scorge in esso una somiglianza
coi nemici esterni della città, e perciò lo qualifica col nome stesso, che
darebbe al nemico, con cui trovisi in aperta ostilità. 278. Ritengo invece, che
anche queste due figure di crimini, che compariscono in Roma primitiva, possano
essere spiegate in modo assai più verosimile, quando si tenga conto, che la
città risulto dalla confederazione delle tribù, e che percid, colla sua
formazione, i con cetti, che già esistevano nelle tribù, vennero a trapiantarsi
nella città, colla differenza, che quei concetti, che prima erano intergen
tilizii, per cosi esprimersi, diventarono invece concetti interqui ritarii, e
ricevettero cosi una significazione diversa, per il diverso punto di vista,
sotto cui vennero ad essere considerati. Cid è provato PLUTARCO, Romulus da questo che, appena Roma
è fondata, già presentansi formati così il concetto del parricidium, che quello
della perduellio; poichè il primo è già attribuito a Romolo, e l'altro a Tullo
Ostilio, ma durante il regno di questo già esiste formata la lex horrendi
criminis, rela tiva alla perduellio. Ciò significa, che queste due figure di
reati eransi già delineate nella stessa organizzazione gentilizia, e che il
parricidium significava l'uccisione di un padre, ossia del capo di una famiglia
o di una gente: la quale uccisione costituiva l'unico misfatto, che non
dipendesse dalla giurisdizione domestica, e che dovette per il primo essere
punito, perchè era origine diguerre private nelseno stesso della tribù e di
guerra fra le genti; e che la perduellio significava la nemicizia e l'ostilità
fra gente e gente. Fu quindi naturale dal momento, che i capi di famiglia
entrarono per confederazione nella medesima città, che il vocabolo parricidium
si trovasse natural mente portato a significare l'uccisione di chiunque
partecipasso alla comunanza, tanto più che i partecipi di essa dapprima erano
veri padri, e che la perduellio, mentre prima significava le ostilità fra le
genti, venisse ad indicare l'ostilità, che sorgeva nel seno stesso della città,
poichè i capi delle varie genti e famiglie ne erano di ventati i cittadini.
Allorchè poi fra i cittadininon furonvi solo più i capi di famiglia, ma anche
altri uomini liberi fu naturale e lo gico, che l'uccisione volontaria di
qualsiasi uomo libero rientrasse nella figura primitiva del parricidas. Viene
cosi ad essere natural mente spiegato ciò, che ci attesta Plutarco: che Romolo,
senza indurre pene contro i parricidiin senso stretto, abbia tuttavia chia mato
ogni omicidio parricidium: in quanto che quello, che era parri cidio nei
rapporti fra le varie famiglie e genti, venne ad essere uccisione di un
quirite, allorchè questi padri furono cittadini della medesima città; al modo
stesso, che il perduellis fra le varie genti venne ad essere il nemico
dell'intiera comunanza, nel seno della città. Solo potrebbe notarsi, che non si
deve ammettere una siffatta trasposizione di vocabolo da una significazione ad
un'altra: ma è facile il rispondere, che la trasposizione dapprima fu pressochè
in sensibile, perchè i primi quiriti erano veramente padri, e che simili
trasposizioni sono frequentissime presso i Romani, i quali, ogni qual volta
hanno formata una figura giuridica, non temono di traspor tarla da un caso ad
un altro; come lo dimostra il ius Latii, che
V. Festo, vº Hostis (Bruns, Fontes). trovato pei latini fu poi dai
Romani applicato a popoli ed a genti, che non avevano più nulla a fare con
essi. Era poi naturale, che quell'estendersi, che aveva luogo nella
significazione del parricidium, a misura che la figura del cittadino e quella
dell'uomo libero si ve nivano sostituendo a quella del padre, dovesse pure
avverarsi quanto ai quaestores parricidii, il cui compito si viene così
allargando, finchè più tardi il vocabolo apparisce disadatto, ed in allora
sembra siansi sostituiti ai medesimi i tres viri capitales. 279. Intanto però
nulla potè impedire, che, accanto alparricidium pubblicamente perseguito e che
mutasi a poco a poco in homicidium, potesse ancora sussistere la configurazione
tradizionale del massimo dei misfatti, che consiste nell'uccisione di un
genitore, operata per mano di un figlio o di una figlia. La sua stessa enormità
ed infre quenza spiega come negli esordii Romolo, al pari di Solone, non
l'abbia contemplato: ma intanto, se per avventura accadeva, veniva ad essere
punito con pene tradizionali, che cogli accessorii stessi, da cui erano
accompagnate, cercavano di simboleggiare l'enormezza del delitto. Fu soltanto
allorchè questo triste misfatto diventò ab bastanza frequente per la corruzione
dei costumi, che la punizione di esso, prima conservata nella tradizione e
nel costume, penetro anche nella legge, che dovette anche punire il parricidium
in senso stretto, dandogli tuttavia una significazione più larga, comprenden
dovi cioè qualsiasi uccisione di un parente o di un congiunto in certi confini
di parentela, e a tal uopo far rivivere l'antica pena tradizionale. Fu allora,
che il vocabolo di parricidium abban donò il semplice omicidio per venire ad
indicare l'uccisione di un parente e di un congiunto, il che appunto si fece
colla legge Pom Questa trasformazione
non è ammessa dal BRÜNER, Dissert. cit., 8 7. Parmi tuttavia, che essa fosse
una naturale conseguenza dell'estendersi della competenza dei quaestores
parricidië, e del processo seguito dai Romani nello svolgimento delle proprie
istituzioni. Essa poi sembrami anche una conseguenza della diffinizione da taci
da Festo: quaestores parricidii,
appellantur, qui solebant creari causa rerum capitalium quaerendarum . Non
sarebbe poi qui il caso di entrare nella questione, se i quaestores parricidii
del periodo regio, ed i questores aerarii della Repubblica possano avere la
medesima origine: ma ritengo, che questa identità di origine non abbia nulla di
improbabile, allorchè si tenga conto della primitiva indistinzione delle
funzioni, che erano talora affidate allo stesso magistrato. Cfr. al riguardo il
Villems, Le droit public romain, 303, nota 3. - 343 peia de parricidiis.
Tuttavia, per il vocabolo di parricidium, alla significazione più ristretta,
che esso viene ad assumere, sopravvive ancora un'altra significazione, non
compiutamente giuridica, ma piut tosto oratoria, per cui parricidas viene ad
essere chiamato il tradi tore della patria, l'oltraggiatore dei templi, quegli
insomma, che col proprio delitto abbia violato uno di quei doveri, che hanno un
ca rattere sacro per l'umanità. 280. Solo più resta a spiegare il fatto, per
cui un medesimo de litto, quello cioè dell'Orazio, uccisore della propria
sorella, abbia po tuto essere qualificato come perduellio da Livio, e invece
sia riguar dato qual parricidium da Festo e da Dionisio. A questo propo sito è
certo, che il fatto dell'Orazio, quale ci è narrato dalla tradi zione,
presentava un carattere molto dubbioso. Da una parte eravi per certo
l'uccisione di una persona libera, e quindi occorrevano gli estremi della legge
attribuita a Numa; ma dall'altra l'uccisione era stata commessa, allorchè il
popolo seguiva in massa l'Orazio vinci tore, e l'uccisione, sempre secondo la
tradizione, sarebbe stata da lui inflitta, come pena contro coloro, che
piangevano la morte di un nemico della patria. L'Orazio in certo modo, fra gli
applausi della vittoria, aveva usurpato un ufficio, che al re, ed al popolo
sarebbe spettato, e in quel momento aveva operato, come un perduellis, come una
persona, che si era posta al disopra delle patrie leggi. È questo il motivo,
per cui il popolo, che plaude il vincitore, trascina tuttavia il ribelle
davanti al re, ed è questi, che, in base a quella distin zione fondamentale
della primitiva procedura nel ius e nel iudicium, viene ad essere chiamato a
giudicare di qual misfatto si tratti. In darno il padre dell'Orazio cerca di
richiamare a sè la giurisdizione per trattarsi di un misfatto, che erasi
compiuto da un suo figlio contro una sua figlia; qui il re ravvisa prevalere il
carattere pubblico del misfatto, e quindi ritiene trattarsi di perduellio e
conchiude: duum viros, qui Horatio
perduellionem iudicent, secundum legem facio . Dura era la legge relativa al
perduelle, in quanto che, se condo i termini di essa, il condannato doveva
avere avvolto il capo, essere sospeso arbori infelici, e poi essere ucciso a
colpi di verghe, Cfr. BRÜNER, Dissert.
cit., $ 526. È poi CICERONE, che parla di parricidium patriae, civium, e scrive: sacrum, sacrove commendatum, qui clepserit
rapsitve parricida esto . Cfr. CARRARA,Op. cit., 1139. 344
intra pomoerium vel extra pomoerium . Il tenore della legge era quindi
tale, che i duumviri dovettero condannarlo, e uno di essi già ordinava al
littore colliga manus quando l'Orazio
propone appello al popolo, il quale l'assolve in memoria del fatto compiuto, e
sotto l'e sortazione del padre stesso, che viene esclamando fra la folla, che
la propria figlia era stata iure caesam. Tuttavia l'Orazio, anche assolto, fu
costretto a passare sotto il giogo, donde l'erezione del tigillum sororium, e
la sua gente, secondo Dionisio, dovette anche offrire una piacularis hostia in
base alla legge di Numa, che prevedeva il caso di un omicidio commesso per
imprudenza. Anche in ciò abbiamo un indizio del dubbio, che si era presentato
intorno al carattere del misfatto, poichè il passare sotto il giogo era certo
la pena, a cui era sottoposto il nemico vinto, e il sacrifizio dell'ariete era
imposto alla gente per causa dell'omicidio involontario. 281. Tuttavia, a mio
avviso, la ragione che rende più verosimile la spiegazione premessa intorno
alle origini del diritto criminale in Roma, sta sopratutto in ciò, che in
questa parte sarebbesi seguito quel medesimo processo, che abbiamo potuto
constatare in tutto il rimanente. I concetti già elaborati nella tribù sono
trapiantati dalla città, al modo stesso che più tardi dalla città saranno
portati ed estesi a tutto il mondo conquistato, e per tal modo di concetti
intergentilizii, diventano concetti quiritarii, al modo stesso che più tardi i
concetti quiritarii, ricevendo un nuovo contenuto, di venteranno poi di nuovo
universali e comuni a tutte le genti. A
questo proposito tolgo dal Bongai, Storia di Roma. I, 132, nota 1, una
citazione dello SCHOEMANN, che sembra confermare l'opinione qui sostenuta: Horatium, quum supplicium de sorore indemnata
sumpsisset, eaque caede et ius regis ac populi imminuisset, visum esse adversus
ipsam rempublicam adeo deliquisse, ut perduellionis, non modo parricidii,
teneretur . Osserverò poi per mio conto la singolarità del fatto, per cui il
perduelle, considerato come nemico interno, viene ad essere assoggettato alla
pena stessa del nemico esterno, cioè fatto passare sotto il giogo, quasi in
segno di sottomissione forzata alle leggidella patria; altra prova, che non
solo si tolse dall'ostilità esterna la figura della perduellio, ma in parte
anche la pena, con cui essa era punita. Insomma perduellis significava il
nemico nei rap porti fra le varie genti; ma quando i membri delle genti
diventarono cittadini della stessa comunanza, diventò il nemico interno della
medesima, e il nemico esterno si chiamò hostis. 345 Intanto anche in questa
parte il parricidium e la perduellio sono due nozioni, il cui contenuto non è
ancora ben determinato, ma al pari di tutti i primitivi concetti quiritarii
appariscono come due co struzioni logiche, che si verranno svolgendo col tempo.
Di qui con seguita, che il parricidium finirà per allargarsi per modo da com
prendere tutte le offese contro il libero cittadino, che giungono a produrre la
morte di lui: mentre la perduellio finirà per compren dere tutti i reati contro
lo Stato, e quando questo si concentrerà nella persona dell'imperatore si
cambierà nel crimen lesae maie statis. È quindi fino da quest'epoca, che
comincia ad apparire la di stinzione fra il reato comune e il reato politico;
ed è fin d'allora, che si sente l'opportunità di lasciare una parte al popolo
nel giu dizio dei reati politici propriamente detti. L'uno e l'altro nel loro
comparire sono come la sintesi dei reati pubblici, dopo i quali verranno poi
anche ad essere repressi i delitti privati: la qual distin zione, iniziata da
Servio Tullio, diventerà poi fondamentale nella legislazione decemvirale.
Intanto le cose premesse bastano per dimostrare in qual modo siasi effettuata
la formazione di una giurisdizione e di un diritto criminale in Roma primitiva.
La giurisdizione criminale fu il risul tato di una sottrazione lenta e graduata,
che l'autorità pubblica venne facendo alla giurisdizione domestica e
patriarcale; e i primi pubblici delitti furono due figure di misfatti, che già
preesistevano nell'organizzazione gentilizia, le quali, sebbene continuino ad
essere indicate cogli stessi vocaboli, assumono però una significazione di
versa. Di più anche nella primitiva concezione del delitto in Roma occorre
quella potenza sintetica, che già abbiamo riscontrata nei concetti fondamentali
della costituzione politica, e che apparirà anche più evidente nei concetti
primitivi del diritto quiritario. Ciò indica che tanto il diritto pubblico e
privato che il diritto penale, allorchè appariscono in Roma, sono già il frutto
di una potente selezione ed elaborazione, fatta sui materiali somministrati
dall'anteriore orga uizzazione gentilizia. I concetti del diritto primitivo di
Roma sono altrettante sintesi potenti, in cui i fondatori della città cercano
di scegliere e di con densare ciò, che hanno appreso nel periodo precedente.
Ora più non ci resta che ad esaminare le condizioni della plebe cosi in tema di
diritto pubblico, che di diritto privato. La condizione dei clienti e della
plebe in Roma prima della costituzione Serviana. 282. Le cose premesse
dimostrano ad evidenza, che tutta la primitiva costituzione politica di Roma, e
quella legislazione, che dalla tradizione è attribuita ai primi cinque re, debbono
ritenersi di origine esclusivamente patrizia, in quanto che si riducono in so
stanza a concetti già elaborati nel periodo gentilizio, i quali, trapian tati
nella città, vengono a ricevere un nuovo atteggiamento, ed a prendere una nuova
significazione nella medesima. Solo più rimane a determinarsi quale potesse
essere in questo periodo la condizione giuridica delle classi inferiori, al
qual pro posito importa di tenere assolutamente distinti i clienti dalla plebe
propriamente detta. 283. Per quello, che si riferisce ai clienti, la loro
posizione giu ridica, in questo primitivo stadio della città, non viene ancora
ad essere modificata, in quanto che essi continuano sempre ad apparte nere più
alla gente, che alla città: perciò essi, per quanto si può ricavare da quella
enumerazione dei diritti e degli obblighi fra patrono e cliente, che ci fu
trasmessa da Dionisio, continuano ad avere gli stessi diritti e le medesime
obbligazioni, che loro appar tenevano, durante il periodo gentilizio. Essi
quindi non hanno ancora una vera proprietà, ma continuano a ricevere dalle
genti degli assegni a titolo di precario sugli agri gentilizii; ne pos sono
parimenti far valere direttamente le proprie ragioni davanti al magistrato
della città, ma perciò debbono valersi della protezione e degli uffici del
patrono. Per maggior ragione non può ammettersi, che in questo primo stadio
essi possano intervenire nell'assemblea delle curie, comesostiene un gran
numero di autori . Le curie sono Dion.,
II, 10. Cfr. quanto si espose intorno alla clientela, nel Lib. I, Cap. III, 3º, 46 a 52.
Tale è l'opinione del Willems, Le droit public romain, 46e del
PADELLETTI, Storia del diritto romano, 48 e seg., nota 2. Il prof. COGLIOLO
nella sua nota nº d, 50, non approva intieramente l'opinione del Padelletti.
347 il sito di riunione pei quirites, per i gentiles, per i viri, il cui potere
è simboleggiato dalla lancia, e non possono in nessun modo essere state aperte
a quelli, che nell'organizzazione gentilizia trovinsi in condizione subordinata,
anche per il semplice motivo, che, quando così fosse stato, il numero dei
clienti, i quali avrebbero pur essi avuta parità di voto, avrebbe di gran lunga
soverchiato quello dei patroni. Pud darsi che in occasione di guerra anche i
gentilicii seguano il loro patrono, ma i medesimi dipendono ancora più dal
cenno di esso, di quello che dipendano direttamente dallo Stato. Sarebbe in
fatti strano ed incomprensibile, che quelli, che non possono ancora stare in
giudizio, potessero concorrere direttamente alla elezione del re ed alla
votazione delle leggi, e giudicare di coloro, che abbiano interposto appello al
popolo. Sarà soltanto la costituzione Serviana, che, ponendo il censo a base
della partecipazione ai ca richi civili e militari, obbligherà i padri delle
genti a fare conces sioni di terre in proprietà ai propri clienti, per avere
cosi un ap poggio nelle votazioni dei comizii centuriati, ed è da quest'epoca
che cominciano a sentirsi le lagnanze dei plebei, perchè i padri appoggiati dai
loro clienti riescono a dominare le votazioni nei co mizii centuriati. In
questo senso la costituzione Serviana fu quella, che diede il gran colpo alla
clientela, e con essa alla organizzazione gentilizia, perchè da quel momento
anche i padri furono tenuti a fare concessioni di terre in proprietà ai proprii
clienti, i quali acqui starono così una indipendenza economica dai patroni, che
fu anche il principio della loro indipendenza politica; donde la conseguenza
chemolti fra essi sono poi venuti ad allargare anche le file della plebe e ad
appoggiare le pretensioni di essa. 284. Intanto peró la questione, la cui
risoluzione è assolutamente indispensabile per comprendere la storia politica e
giuridica di Roma primitiva, è quella relativa alla condizione giuridica della
plebe sotto i primi re, così sotto l'aspetto del diritto pubblico, che sotto
quello del diritto privato. Il grande avvenire della plebe romana rese per gli
storici di Roma assai difficile il comprendere, come quell'elemento, che ai
tempi Che le lagnanze dei plebei contro
i clienti, per la preponderanza, che essi re cavano al patriziato, si
riferiscano ai comizii centuriati, appare dal seguente passo di LIVIO (si
veda). Irata plebs inesse consularibus comitiis noluit; per
patres, clien tesque patrum consules creati sunt Titus Quintius et P. Servilius
. 348
- loro era ormai divenuto il dominatore della piazza e del foro, po tesse,
nelle origini, essere affatto escluso dal suffragio. Ond'è che essi,
trovando ai loro tempi la plebe ammessa in parte agli stessi comizii curiati, e
compresa nel populus, e una parte di essa anche pervenuta alla nobiltà potevano
difficilmente riuscire colla mente loro a ricostruire quella primitiva
distinzione fra populus e plebes, che ormai era scomparsa. Essi quindi
parlarono nel loro racconto deglian tichi comizii curiati, come se essi
avessero compreso tutto il populus, quale allora era costituito, cioè
inchiudendovi anche la plebs. Tuttavia, malgrado quest'attestazione concorde,
dubitarono i critici moderni, e quelli sopratutto, che al pari del Vico e del
Niebhur, ave vano penetrato più profondamente l'indole e il carattere primitivo
della città patrizia. La loro opinione trovò favorevole accoglimento; ma in
questi ultimi tempi, essendosi dal Mommsen trovato, che vi fu un tempo, in cui
dei plebei furono elevati alla dignità di curiones maximi, sorse nuovamente il
dubbio, che la plebe abbia potuto essere am messa anche alle curie. Che anzi,
siccome mancava notizia di una legge, che avesse proclamata quest'ammessione,
vi furono anche degli autori, i quali, come il Paddelletti, giunsero a
sostenere, che questa ammessione dovesse risalire fino agli inizii della città.
Conviene però aggiungere, che gli autori, i quali direcente investigarono sulle
fonti le origini della città, come il Voigt, il Karlowa, il Bernöft, il
Pantaleoni, il Muirhead, il Gentile, ritornarono di nuovo al concetto di una
città esclusivamente patrizia, ed alla esclusione della plebe primitiva dal far
parte dell'assemblea delle curie. 285. Non è qui il caso di entrare in
discussioni erudite sull'argo L'opinione
sostenuta dal PADELLETTI è anche seguita dal WILLEMS, Op. cit., 47 e segg.; dal
LANDUCCI, Storia del diritto romano, 357, nota nº 2; dal Peluam, Encyclop.
Britann., vol. XX, pº Rome (ancient), i quali però non entrano nella
discussione degli argomenti in pro e in contro. Quanto al PADELLETTI debbo far
notare, che se la sua autorità è grande quanto al periodo storico, non può
dirsi altrettanto quanto al periodo delle origini, e ciò perchè l'autore, fin
dagli inizii dell'opera, col suo solito fare reciso ed alieno dalle dubbiezze,
afferma e che lo studio delle origini può essere interessantissimo ed utile al
mitologo ed allo storico, ma è molto sterile per il giurisprudente (pag. 4 ). Ciò spiega come l'autore,
essendosi accinto all'opera sua con un tale concetto dello studio delle origini,
sia caduto in gravi equivoci, ogniqualvolta toccò quell'argomento, come può
scorgersi quanto alle origini della famiglia, della proprietà, dei delitti e
delle pene, ed al sistema delle azioni. Nell'o pera sua il diritto romano
compare bello e formato, senza che si sappia, donde pro ceda. Ciò comprese il
suo annotatore Cogliolo, che intese a supplirvi colle proprie note. 349 mento;
mibasterà il dire, che se si tenga conto del processo, che do minò la
formazione della comunanza romana, è del tutto improbabile, che la plebs abbia
potuto essere ammessa, fin dagli inizii, alla civitas e quindi anche alle
curiae, le quali erano una ripartizione della me desima. I cambiamenti sono
troppo lenti nelle organizzazioni primitive, perchè un elemento, che trovavasi
in una condizione del tutto infe riore, potesse di un tratto, e fin dal tempo,
in cui era ancora debole e privo di qualsiasi organizzazione, essere ammesso a
far parte di una nuova consociazione, sovra un piede di uguaglianza, in guisa
da entrare a far parte della civitas e della curiae, le quali, oltre al
l'essere corporazioni politiche, erano anche corporazioni strette dal vincolo
di una religione, chenon era ancora accomunata alla plebe. È affatto
improbabile, che quel gentile o patrizio, che è sopratutto altero di poter
indicare i suoi antenati, senza che alcuno fra essi fosse mai stato servo nè
cliente, potesse diun tratto accettare un voto del tutto eguale con un plebeo,
che poteva forse essere stato prima suo cliente o suo servo, e che ad ognimodo
era di un'origine diversa dalla sua, e non poteva indicare i propri antenati.
Ciò ripugna al modo di pen sare delle genti primitive, che non conoscendo altro
vincolo, che quello del sangue, dånno sopratutto importanza alle discendenza ed
alla nascita. Sarebbe strano, che quei patrizii, i quali, allorchè più tardi
accoglievano nuove genti, le collocavano fra le gentes mi nores, potessero
concepire un pareggiamento completo del loro ordine colla moltitudine o folla,
da cui si trovavano circondati. Questa pa rità, secondo il modo di pensare
dell'epoca, nè poteva essere am messa dal patriziato, nè poteva essere chiesta
dalla plebe, la quale trovavasi ancora in condizione troppo umile per potervi
aspirare; nè è a credersi, che il patriziato primitivo, fondatore della città,
volesse per generosità accordare spontaneamente cid, che era ancora in
condizione di negare, e che non concesse, che quando vi fu compiutamente
forzato. Ciò è tanto più improbabile, in quanto che la curia, come abbiamo
dimostrato a suo tempo, era chiamata eziandio a deliberare sopra una quantità
di affari, che si riferivano direttamente all'organizzazione domestica e
gentilizia loro esclusivamente propria; poichè il quirite in questo periodo da
una parte guarda ancora alla gente, da cui esce, e dall'altra alla città,
di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno
in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie, esso può essere facilmente
spie gato. La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito
ravvicinò i due elementi; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del
patriziato; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine
plebea, poterono, per importanza politica, eco nomica e per servigii resi alla
repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie.
Quindi al modo stesso, che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far
parte dei comisii tributi; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai
ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potcui esce, e
dall'altra alla città, di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più
tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie, esso
può essere facilmente spie gato. La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello
stesso esercito ravvicinò i due elementi; anche i plebei vennero imitando l'or
ganizzazione del patriziato; e non mancarono anche le famiglie, che, pur
essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica, eco nomica e per
servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie,
originariamente patrizie. Quindi al modo stesso, che più tardi anche i patrizii
poterono entrare a far parte dei comisii tributi; cosi non è meraviglia, se
anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia
potuto essere am messa anche alle curie, la cui importanza non era più che
religiosa. Un tal fatto venne certo ad essere possibile più tardi; ma l'ammet
terlo fin dagli inizii, è uno sconvolgere ed invertire ilmodo di pensare
dell'epoca e l'ordine degli avvenimenti. Sarebbe infatti un fare co
minciare l'unione del patriziato e della plebe dal partecipare ad una stessa
corporazione religiosa; mentre i fatti dimostrano, che questa fu l'ultima parte
delle loro tradizioni, che si decisero ad accomunare alla plebe. Se quindi la
plebe riuscì a penetrare nella civitas ciò non dovette essere mediante le
curiae, che avevano ancora un ca rattere religioso, ed erano formate ex hominum
generibus; ma bensi per mezzo delle classi e delle centurie, che avevano
piuttosto un carattere militare, e si fondavano sulla proprietà e sul censo. Le
cause, che cooperarono più tardi a ravvicinare i due ordini, furono sopratutto
i comuni pericoli, che obbligarono la città patrizia ad arruolare nell'esercito
i plebei, al modo stesso che dovette arruolare più tardi anche i liberti; come
pure vi cooperarono la proprietà, che fu pure acquistata dalla plebe ed i
conseguenti commerci, che ne deri varono fra essa e il patriziato; ed è forse
questo il motivo, per cui la costituzione Serviana assunse dapprima un
carattere militare ed eco nomico ad un tempo. Quanto al fatto allegato dai
sostenitori del l'opinione contraria, che il vocabolo populus romanus quiritium
abbia più tardi compresa eziandio la plebe, esso può essere facilmente spiegato,
in quanto non è questo il solo caso, in cui i Romani, man tenendo la parola, ne
mutassero il significato. Del resto il vocabolo populus per Roma era una
concezione e forma logica, al pari di tutte le altre concezioni giuridiche e
politiche; esso comprendeva l'uni versalità dei cittadini, e quindi, come era
naturale, che non com prendesse la plebe, finchè questa non faceva parte della
città, cosi doveva comprenderla, allorchè essa, in base al censo, entrò a far
parte delle classi e delle centurie Serviane. 351 287. Ferma così la
risoluzione delmaggior problema della storia primitiva di Roma, solo resta a
ricercare brevemente, quale potesse in questo periodo essere la posizione della
plebe in tema di diritto privato; il qual compito ci è reso facile da ciò, che
si venne fin qui ragionando. È noto, come il ius quiritium, allorchè giunse al
suo completo sviluppo, mentre in tema di diritto pubblico comprendeva il ius
suf fragii e il ius honorum, che entrambi, a nostro avviso, furono dapprima
negati alla plebe, in tema invece di diritto privato si rias sumeva nel ius
connubii e nel ius commercii. Quanto al primo di questi diritti, abbiamo troppi
argomenti nella storia per affermare con certezza, che solo più tardi i plebei
furono ammessi al ius connubii col patriziato; il che però non significa, che
essi non potessero contrarre fra loro delle unionimatrimoniali, ma soltanto che
queste unioni non potevano, di fronte al patriziato, produrre gli effetti della
iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta, è
quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius
commercii. Così avrei ritenuto ancioni non potevano, di fronte al patriziato,
produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere
comunemente accolta, è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo
stata ammessa al solo ius commercii. Così avrei ritenuto anch'io nell'inizio di
questo studio, e può darsi che nel corso del libro cid apparisca in qualche
parte; ma ora il processo logico, che domind la formazione del diritto romano,
in mancanza di ogni informazione diretta, mi conduce ad affermare, che non
dovette essere il ius commercii, che la città patrizia riconobbe alla plebe
circostante, ma bensì il ius neximancipiique, il quale, come si è veduto più
sopra, è quello stesso diritto, che Roma, dopo es sersi incorporata la
primitiva plebe, ebbe ad accordare alle altre popolazioni circostanti, che
vengono sotto il nome di forcti ac sa crates. Anche il concetto di commercium,
nella larga significazione che ebbe pei Romani, in guisa da comprendere il
diritto di comprare e di vendere, di obbligarsi e di fare testamento ex iure
quiritium, suppone una certa parità di condizione fra le persone, fra cui in
tercede. Siccome quindi le genti patrizie erano per modo organizzate da
provedere compiutamente ai loro bisogni: così non poteva dap prima essere il
caso, che riconoscessero ad una classe inferiore un ius commercii, sopra un
piede di eguaglianza, ma loro dovettero riconoscere soltanto il diritto del
mancipium, ossia quello di avere una proprietà, che poteva essere alienata, e
il ius nexi, ossia il di Tale è, ad
esempio, l'opinione del LANGE, Histoir. intér. de Rome, I, 61. 352 ritto di
potersi obbligare, mediante il nexum. Le conseguenze pra: tiche nella sostanza
potevano essere le stesse; ma intanto la supe riorità delle genti e il
vassallaggio della plebe venivano ad essere riconosciute. Ed è questo il
motivo, che allorquando la plebe fu ammessa nella città, il nexum ed il
mancipium, come accadde anche in tutto il resto, cessarono di significare dei
rapporti fra le genti patrizie e la plebe, che le circondava, per diventare
rapporti interni, e costituirono cosi i primi concetti quiritarii, comuni alle
due classi. Più tardi però, anche questi vocaboli, che ricordavano una disugua
glianza di condizione fra le due classi, apparvero disadatti, e nella
successiva elaborazione del diritto quiritario furono sostituiti da altri. Non
può dirsi pertanto, che in questo periodo siasi già cominciata l'elaborazione
di un vero ius civile, ispirato ad un concetto di ugua glianza fra patriziato e
plebe, ma continua sempre ad esistere un diritto proprio delle genti patrizie,
che parteciparono alla formazione della città, e che costituisce il primitivo
ius quiritium; ed un di ritto che governa i rapporti fra la città patrizia e la
plebe, che la circonda, il quale si risente ancora delle condizioni disuguali,
in cui essi si trovano. È questo il motivo, per cui la plebe nelle proprie
tradizioni fece sempre rimontare la sua esistenza giuridica alla costi tuzione
Serviana; colla quale lo sviluppo del diritto pubblico e privato di Roma prende
un indirizzo del tutto peculiare, che influi potente mente su tutto lo
svolgimento, che ebbe ad avverarsi più tardi, e merita perciò di essere
particolarmente e profondamente studiato. Non mi trattengo più a lungo su
questo punto, perchè ho già dovuto accen narvi nel Lib. I, Cap. X, nº 160, 193
e seg., e perchè la prova delle cose qui enunziate apparirà anche più evidente,
quando si tratterà della costituzione Ser viana e della sua influenza sul
diritto privato di Roma. Colla venuta dei Tarquinii a Roma, si inizia nella
medesima una trasformazione profonda, la quale potè in parte essere travisata
dalle tradizioni e dalle leggende, ed anche dissimulata dall'amor patrio degli
storici latini, ma i cui principali tratti si possono di scernere nelle serie
degli avvenimenti e dei fatti, di cui ci fu con servata memoria. Fino a
quell'epoca, delle varie stirpi, che erano concorse a co stituire la città,
avevano sempre avuta una incontrastabile prevalenza le latine e le sabine, fra
le quali erasi venuto alternando il ma gistrato supremo; mentre i Luceres non
avevano somministrato alcun re, nè forse avevano avuto nella formazione dei
primitivi sacerdozii. Or bene, regnando Anco Marzio, di origine latina, la
gente Tarquinia, di origine etrusca, ricca di capitali e numerosa per
clientele, viene a porre la propria sede in Roma, per conseguirvi quello stato,
che le era conteso nel luogo nativo (Tarquinia ). Il capo di essa è uomo abile
ed intraprendente, e dopo aver consi gliato in vita Anco Marzio, ne guadagna
per modo la fiducia, da diventare dopo la sua morte tutore dei figli di lui, o
ottiene in breve colle sue ricchezze e collo splendore della propria vita tale
un seguito, da essere assunto al trono, mediante il suffragio del G. C., Le origini del diritto di Roma. 23 354
popolo e coll'autorità dei padri: eum,
scrive Livio, ingenti con sensu populus romanus regnare iussit . Nè sembra
essere il caso di supporre col dottissimo OldofredoMüller, che questa
immigrazione di genti etrusche corrisponda alla supre mazia, che la città di
Tarquinia avrebbe conquistata su Roma, su premazia, che gli storici latini
avrebbero cercato di dissimulare : poichè le nuove genti appariscono in
concordia con tutti gli ordini della città, e il capo di esse, chiamato con
tutte le formalità al trono, raccoglie in effetto tutte le sue cure sulla
patria novella, e l'arricchisce di pubblici edifizii, che allo splendore delle
costruzioni greche ed etrusche sembrano associare quel carattere di grandiosità
e di forza, che è proprio delle costruzioni latine. Sembra quindi più
verosimile, che alcune fra le città etrusche in quell'epoca fossero pervenute a
quel periodo di crisi, che occorre eziandio nelle città greche, durante il
quale, sorgendo lotta di superiorità e di predo minio fra i capi delle grandi
famiglie, vengono ad esservene di quelle, che sono forzate a cercare altrove
miglior sorte e fortuna. Per un tale intento offerivasi opportuna la città di
Roma, la quale in quel periodo di tempo era ancora disposta ad accogliere nuove
genti nei proprii quadri, e mentre da una parte, per la fortezza già
sperimentata dei proprii abitanti, poteva aspirare ad un grande avvenire,
dall'altra aveva ancora molto ad apprendere, sia quanto allo splendore dei
pubblici edifizii, sia quanto all'ordinamento mi litare e civile. Di più essa
già conteneva nel proprio seno delle genti di origine etrusca, cosicchè la
nuova immigrazione poteva avervi parentele ed aderenze, che spiegano l'appoggio
e il seguito, che vi trovarono in breve la gente Tarquinia e il proprio capo.
289. Questo è certo ad ogni modo, che in Roma si manifestano ben tosto i segni
di una trasformazione potente. - Infatti, secondo la tradizione, la sua
popolazione viene ad essere come raddoppiata, ed il nuovo elemento sembra dare
alla città un indirizzo mercantile, come lo dimostra il fatto, che dopo la
dominazione dei Tarquinii Liv., 1, 34;
Dion., IV, 2. Müller O., Die Etrusker.
Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituz.di Roma, 134, ove si impugna appunto
l'opinione del Müller. L'opinione qui
accettata è conforme a quella, che ho cercato didimostrare più sopra,
relativamente agli aumenti nel numero dei senatori. Lib. II, cap. II, 5, nn. 212 e 213, 258.355 Roma è già in
condizione di conchiudere, anche come rappresen tante del Lazio, un trattato di
navigazione con Cartagine. Mentre poi fino a quell'epoca Roma aveva ancor
sempre conser vato il suo carattere primitivo di federazione fra diverse
comunanze, con Tarquinio invece sembra iniziarsi il periodo, che potrebbe chia
marsi di incorporazione. Narra infatti Livio, che Tarquinio avrebbe distribuito
spazi intorno al foro, accið i privati vi potessero costruire le proprie
abitazioni, e che in lui era già sorto il pensiero di cin gere la città di
mura, adottando così il tipo delle città etrusche, le quali, essendo dedite ai
commerci, solevano chiudersi e fortificarsi nelle proprie mura . A compir
l'opera sarebbesi richiesto, che i quadri della città pri mitiva fossero
modificati, e che alle divisioni di carattere gentilizio se ne sostituissero
altre di carattere territoriale e locale. Cid secondo la tradizione avrebbe pur
tentato Tarquinio, quando non si fosse op posto il patriziato per mezzo
dell'augure sabino Atto Nevio, osser vando che la primitiva città erasi fondata
mediante gli auspicii, e che perciò i quadri di essa consacrati dalla religione
dovevano essere mantenuti. Non vi fu quindi altro mezzo che di fare entrare il
nuovo elemento nei quadri antichi, il che Tarquinio avrebbe cercato di
conseguire: lº aggiungendo alle centurie dei cavalieri, altre centurie, che
serbarono il nome antico, ma presero la deno minazione di Ramnenses, Titienses,
e Luceres secundi; 2º ac crescendo il senato di cento nuovi senatori, che si
chiamarono patres minorum gentium; 3º raddoppiando il numero dei pontefici e
degli auguri, e destinando anche alla custodia ed alla interpretazione dei
libri sibillini i duoviri sacris faciundis, i quali, portati poscia a dieci e
più tardi a quindici, finirono per cambiarsi in un collegio sacerdotale, che
sovraintendeva și culti di provenienza straniera (4 ). La memoria di questo trattato di navigazione,
conchiuso nel primo anno della Repubblica, ci fu serbata da POLIBIO, III, 22,
24, il quale l'avrebbe tradotto da un latino arcaico, che ai suoi tempi era già
diventato difficile a comprendersi. Liv.,
I, 35, 36, 38. Egli anzi attribuisce a Tarquinio di aver già intrapresa la
cinta, che prese poi il nome di Serviana. (3 ) Liv., I, 36; Dion., III, 70, 72.
(4 ) Dron., III, 67; IV, 62. L'istituzione dei duoviri sacris faciundis ora è
attri buita a Tarquinio Prisco ed ora a Tarquinio il Superbo. Quanto allo
svolgimento storico di questo collegio sacerdotale è da vedersi il
Bouché-LECLERCQ, Histoire de la divination, Paris, 1882, IV, pagg. 286-317,
come pure il Manuel des institu tions romaines, Paris, 1886, 545.356 Intanto
anche la religione subì l'influenza del nuovo elemento, ma in proposito fu
giustamente osservato, che la religione, importata da questa immigrazione
etrusca, non ha quel carattere misterioso ed arcano, che vuole essere
attribuito ai riti etruschi, ma si risente invece dell'influenza greca, come lo
prova la triade capitolina di Giove, Minerva e Giunone ; il che sembrerebbe
confermare, che i Tarquinii, pur venendo da una città etrusca, potessero
remotamente provenire da una città greca, che secondo la tradizione sarebbe
stata Corinto . Della plebe quasi non si occupa la tradizione; ma si può affer
mare con certezza che come le immigrazioni latine avevano ac cresciuta la plebe
rurale, dedita alla coltura delle terre, così quella etrusca dovette trascinare
con sè un grande numero di artieri, di commercianti, di uomini esperti
nell'arte della costruzione, che con corse ad accrescere la plebe urbana.
Intanto si accrebbero i mo tivi di ravvicinamento fra patriziato e plebe,
poichè la plebe del con tado era divenuta un elemento indispensabile per
rafforzare l'esercito, e la cooperazione della plebe urbana era anch'essa
necessaria per compiere quelle opere pubbliche grandiose, che sono la caratteri
stica di questo periodo della storia di Roma, e che erano natural mente
richieste dall'ingrandirsi della città e dal nuovo indirizzo preso dalla
medesima. 290. Le cose quindi erano venute a tale, che coll'ampliarsi della
città, anche i quadri del populus dovevano essere allargati in guisa da potervi
comprendere quella parte della plebe, che ormai per venuta a qualche agiatezza,
ed affezionata al suolo da esso col tivato, poteva avere interesse
all'incremento e alla difesa della città. Fu questa l'opera, che la tradizione
ha attribuito a Servio Tullio; altro re, che appare come trasfigurato dalla
leggenda, la quale probabilmente ha finito anche qui per attribuire all'opera
di un solo ciò che ha dovuto essere l'effetto del concorso di varii elementi, e
delle nuove energie e forze operose, che vennero a Questa osservazione è del PANTALEONI, op.
cit., p. 149. È noto che, secondo Livio
I, 34, Tarquinio Prisco, pur provenendo diretta mente da Tarquinia, sarebbe
tuttavia figlio di un Demarato Corinzio. (3 ) Quanto all'incremento della plebe
sotto il regno del primo Tarquinio, è da ve dersi Herzog, Geschichte und System
der römischen Staatsverfassung. Leipzig, 1884, I, 32.357 scaturire dal nuovo
stato di cose e dal nuovo indirizzo, che veniva prendendo la città di Roma. È
dubbia la origine di Servio Tullio: mentre la tradizione latina, unitamente al
carattere della sua riforma, che appare più una evoluzione che una rivoluzione,
lo la scierebbero credere di origine latina, una tradizione invece, che vigeva
presso gli Etruschi, e che ci fu conservata dall'imperatore Claudio nel
preambolo ad un senatusconsulto, lo direbbe di origine etrusca, e gli
attribuirebbe il nome di Mastarna. Tutta l'antichità ad ognimodo è concorde nel
riconoscere l'impor tanza della sua costituzione, poichè è certo che, debbasi
ciò attribuire alla sapienza del principe autore di essa, o alla tenacità del
popolo che ebbe a svolgerla, essa corrisponde a un graduato sviluppo e segna
comeun nuovo stadio nella formazione della città. Essa chiude il pe riodo
esclusivamente patrizio, in cui domina ancora la discendenza e la nascita, ed
inizia quello patrizio -plebeo, in cui i due ordini, dopo essere entrati a far
parte del medesimo popolo, sulla base del censo, finiscono per avviarsi fra le
lotte ed i dissidii al pareggia mento giuridico e politico. Può darsi, che
anche altre città abbiano avuta una costituzione analoga, come, ad esempio,
Atene per opera di Solone ; ma non ve ne ha certamente un'altra, che per la
tenacità e la perseveranza degli ordini, che si trovarono di fronte, abbia
saputo ricavarne un più sicuro e graduato sviluppo. Ben è vero, che anche per
Roma vi fu un periodo, in cui l'evo luzione è stata interrotta da un tentativo
di tirannide; ma nel resi stervi tutti gli ordini furono concordi, e il rimedio
fu estremo, quello cioè di cacciare dalla città l'elemento, che ne aveva poste
a repen L'oratio, che precede il
senatusconsulto Claudiano dell'anno 48 dell'êra vol gare de iure honorum Gallis
dando può vedersi nel Bkuns, Fontes, ed. V, p. 177. Ivi l'erudito imperatore,
volendo accogliere nel senato anche dei Galli, fa la storia degli elementi, che
Roma avrebbe assorbito nei suoi varii stadii, e trova così occa sione di
accennare alle due tradizioni relative a Servio Tullio, di cui una lo farebbe
nascere da una prigioniera di nome Ocresia, mentre l'altra lo direbbe di
origine etrusca. Le diverse opinioni degli eruditi sulla fede, che merita il
racconto di Claudio, e la conferma indiretta, che esso avrebbe ricevuto da
alcune recenti scoperte archeologiche, sono riportate dal Bonghs, Storia di
Roma, I, 201, nota 14. Quanto alle
analogie fra la costituzione di Solone e quella Serviana e fra le condizioni
storiche, che poterono determinare l'una e l'altra, è sempre a consultarsi il
GROTE, Histoire de la Grèce. Trad. De Sadous, Paris, 1865, tome IV, chap. 4me, 137
a 216, come pure l'appendice allo stesso capitolo, in cui discorre della con
dizione dei nexi e degli addicti in Roma antica. - 358 al taglio le libere
istituzioni, malgrado le difficoltà gravissime, in cui venne allora a trovarsi
la città. L'interruzione però non impedì che, superata la crisi, lo svolgimento
storico fosse ripreso punto stesso, a cui erasi arrestato, cosicchè lo spirito
della costituzione serviana pervade non solo l'elaborazione del diritto
pubblico, ma ancora quella del privato. Fu il non averne tenuto conto
sufficiente che, a mio avviso, ha impedito di dare una spiegazione plausibile
dei più singolari caratteri del diritto primitivo di Roma. 2. – Il concetto ispiratore della riforma
Serviana eimezzi che servirono ad attuarla. 291. Fu abbastanza dimostrato, che
la formazione della città pri mitiva non è un'opera di semplice agglomerazione,
che piglia i ma teriali quali si presentano e li amalgama confusamente insieme;
ma un'opera di selezione, che solo li accetta in quanto entrano nel suo
ordinamento simmetrico e coerente; donde la conseguenza, che se un mutamento si
introduce in una parte essenziale di essa, questo deve pur riflettersi e
riverberarsi nelle altre parti. Ciò apparve nella città patrizia, e appare
ugualmente nella costituzione serviana. Il problema era quello di unire due
popolazioni, che si trovavano, come si è veduto, in condizioni sociali
compiutamente diverse, e di farle entrare a far parte della stessa comunanza
civile, politica e militare. Il fonderle insieme era per il momento
impossibile, perchè la distanza fra di loro. era ancora troppo grande, e certi
istituti, come la religione e i connubii, erano ancora troppo gelosamente
custoditi per poter essere accomunati. Le sole istituzioni, comuni ai due
ordini, erano la proprietà e la famiglia, e il solo inte resse, che li aveva
condotti ad avvicinarsi, era quello di prov vedere insieme alla difesa di sè e
delle proprie terre. Queste sol tanto potevano essere le basi della loro
partecipazione alla medesima città: quindi è che la costituzione serviana,
sebbene allarghi le file del populus, comprendendovi un elemento, che era
escluso dalla città patrizia, finisce però per dare una base più ristretta alla
par tecipazione dei due ordini alla stessa comunanza civile e politica. Mentre
il popolo delle curie aveva comune l'elemento religioso, l'organizzazione
gentilizia, e il culto per le antiche tradizioni; il popolo invece, che esce
dalla costituzione di Servio, viene ad essere composto di capi di famiglia e di
proprietari di terre, che entrano 359 a far parte del medesimo esercito, e più
tardi anche della medesima assemblea, in base alla sola considerazione del
censo, e nell'intento esclusivo di provvedere alla difesa di quegli interessi,
che loro potevano essere comuni. La nuova comunanza pud in certo modo essere
paragonata ad una società, in cui ciascuno viene ad aver diritti ed
obbligazioni proporzionate al proprio censo, il quale viene così ad essere
considerato come una garanzia dell'interesse, che altri può avere all'avvenire
e alla grandezza della città. Il nuovo popolo pertanto non ha nulla a fare
colle curie dei patrizii, ai quali continuano ad essere riservati gli auspizii,
i sacerdozii, le magistrature e gli onori; ma viene ad assumere negli inizii
una organizzazione di carattere essenzialmente militare, in cui la parte
cipazione ai diritti e alle obbligazioni della cittadinanza sotto l'aspetto
militare, politico e tributario viene ad essere determinata esclusiva mente dal
censo. In apparenza quindi l'organizzazione per curie delle genti patrizie è
lasciata integra ed intatta; ma intanto a lato della medesima sorge un nucleo
novello, che per essere più numeroso e più forte finirà per richiamare in sè
ogni energia civile, politica e militare, lasciando col tempo alle curie la
sola custodia delle tradi zioni e dei culti gentilizii. 292. È questo il motivo,
per cui la costituzione serviana potè essere apprezzata in guisa compiutamente
diversa, anche dagli an tichi scrittori, i quali la descrivono, ora come
favorevole al patri ziato o almeno alle classi più elevate, ed ora invece come
favorevole alla plebe. Essa era tale, che da una parte doveva essere accetta al
patriziato, il quale, mentre riteneva ciò, che era esclusivamente suo proprio,
trovava poi più forte il proprio esercito, più ricco il proprio erario, più
ampia la città, di cui continuava ad avere le magistrature e gli onori;
dall'altra doveva anche essere gradita alla plebe, perchè essa, ancorchè sulla
base esclusiva del censo, veniva Che
questo fosse il concetto informatore della costituzione serviana appare da Aulo
Gellio, XVI, cap. 10, n ° 11, il quale dice espressamente che res pecuniaque familiaris obsidis vicem pignorisque esse
apud rempublicam videbatur, amorisque in
patriam fides quaedam in ea, firmamentumque erat . Il paragone poi della
comunanza quiritaria, in base alla costituzione serviana, ad una società di
azionisti già occorre nel NIEBHUR, Histoire romaine, II, p. 193. Il diverso apprezzamento,che gli antichi
fecero della riforma serviana, apparisce da Cic., De rep., II, 22; Liv., 1, 42,
43; Dion., IV, 20. Cfr. in proposito il Bonghi, op. cit., I, 548.360 ad
acquistare una posizione giuridica, che prima non aveva, ed è abbastanza noto,
che quando trattasi di un'aggregazione sociale, il passo più difficile è quello
di potervi penetrare, poichè dopo la forza stessa delle cose condurrà ad avervi
una posizione adeguata al pro prio valore. Questo è certo, per quanto appare dalla
tradizione, che i due ordini sembrano essere concordi nell'accettare la
costituzione di Servio Tullio, per guisa che ad opera compiuta gli riconoscono
re golarmente quel potere, che prima aveva esercitato più di fatto, che non di
diritto; tantoque consensu, quanto haud quisquam alius ante, rex est declaratus.
Intanto la nuova costituzione appare informata anche essa ad un unico concetto,
che è quello di dare a ciascuno nella città una parte proporzionata
all'interesse, che egli può avere per l'incremento della medesima: interesse,
che si ritiene dover essere misurato dal censo. Quest' unico concetto poi viene
incarnandosi nel fatto con mezzi e con istituzioni diverse, fra i quali sono
sopratutto importanti e degni di nota l'ampliamento delle mura, la ripartizione
del territorio in tribù o regioni locali, l'istituzione del censo e
l'organizzazione del nuovo popolo in classi ed in centurie; istituti questi,
che abbozzati negli inizii da mano maestra, dovranno poi ricevere dalla logica
tenace del popolo romano tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci.
Coll’ampliamento delle mura la città, che prima riducevasi ad un complesso di
edifizii, aventi pubblica destinazione e riuniti in un piccolo spazio, a cui
mettevano capo le varie comunanze, viene a comprendere nella propria cerchia
buona parte di tali comunanze, le loro rispettive fortezze, ed una quantità
grande di abitazioni pri vate. Cresce così il nucleo della popolazione urbana
di fronte a quella del contado; il contatto fra il patriziato e la plebe
diviene più intimo e frequente, e la vita della città concorre così a dissol
vere quell'ordinamento per genti e per clientele, che forse sarebbesi mantenuto
stazionario o almeno più duraturo in seno alle comunanze di villaggio. La città
intanto, chiusa e fortificata nelle proprie mura, difesa da un esercito, il cui
contingente viene ad essere più volte moltiplicato, abitata da un popolo
pressochè militarmente organizzato, assume anch'essa un carattere più
decisamente militare e apparisce Liv.,
I, 46. 361 paurosa ed imponente alle popolazioni vicine. Così pure è da questo
momento, che la vita fra le stesse mura conduce a mescolare e a confondere il
sangue delle varie stirpi, fino a che per mezzo di re ciproci adattamenti
finiranno tutte per concorrere a formare un or ganismo unico e coerente. Quasi
poi si direbbe, che i fondatori della nuova città abbiano una certa
consapevolezza dell'avvenire di essa; poichè il nuovo circuito comprende non
solo il Palatino, il Capitolino, il Quirinale, il Celio, il Gianicolo, ma anche
l'Esquilino e il Viminale, alcuni fra i quali sono ancora spopolati (3 );
cosicchè il pomoerium della città non dovette più essere ampliato, durante il
periodo repubblicano, malgrado gli incrementi, che si verificarono nella
popolazione. A questo riguardo vuolsi però osservare, che sebbene la città dal tipo
latino sembri far passaggio al tipo etrusco, tuttavia essa au menta bensi il
suo nucleo centrale, ma serba ancor sempre i ca ratteri primitivi della città
latina. Infatti non tutta la sua popola zione viene ad essere accolta nelle sue
mura, ma buona parte di essa continua ad essere dispersa per le campagne e
fuori delle mura; cosicchè la città continua sempre ad essere un centro di vita
pub blica per popolazioni, che possono avere altrove la propria resi denza.
Cosi pure in tutta questa trasformazione punto non parlasi di nuove
ripartizioni di terre, se si eccettuano i soliti assegni, che per consuetudine
invalsa i re sogliono fare alla plebe; il che si gnifica che le famiglie, le
genti e le tribù dovettero continuare a ritenere le proprie terre (4 ). 294.
Intanto è evidente, che in una città cosi concepita diveniva necessario, che
all'antica distinzione fondata sull'origine e sulla discen L'intento eminentemente militare della cinta
serviana è dimostrato anche dal fatto, che gli intelligenti delle cose militari
ritengono che dall'orientamento di essa si possa perfino argomentare alla
situazione delle porte in essa esistenti. V. BARAT TIERI, Sulle fortificazioni
di Roma antica, Nuova Antologia , 1887,
fascic. 10. Questo concetto trovasi
efficacemente espresso da Floro nel passo citato al lib. I, cap. I, nº 10, 10,
nota 1. MIDDLETON, Ancient Rome, 59.
L'ampliamento delle mura, scrive NIEBIUR, fu il pensiero di un genio, che
confidava nella eternità e negli alti destini della città, e che aperse la via
ai suoi futuri progressi o. Op. cit., II, 123. (4 ) Questi assegni fatti da
Servio Tullio alla plebe sono attestati da Livio, I, 46, più chiaramente ancora
da Dionisio, IV, 9, allorchè scrive:
agrum publicum di visit civibus
romanis, qui ob rei domesticae difficultates aliis, mercedis causa, ser viebant
. e 362 denza si aggiungesse una nuova ripartizione di carattere locale e ter
ritoriale, la quale potesse anche essere di base per constatare la po
polazione, che vi avesse la propria residenza, e per fissare il tributo, a cui
dovesse essere soggetta (tributum ex censu ). Cid si ottenne col ri partire il
territorio in tribù o regioni locali, le quali si suddivisero poi in rustiche
ed urbane. Le urbane sono quattro e prendono senz'altro il nome dalle località,
e chiamansi così Suburana, Esquilina, Collina e Palatina: mentre le rustiche
continuano per la maggior parte a prendere il nome dalle genti patrizie, quali
sarebbero l'Emilia, la Cornelia, la Fabia, la Galeria, l'Orazia, la Menenia,
Papiria, Pollia, Sergia, Romilia, Voturia, Voltinia, ed altre; solo eccettuata
la tribù Crustumina, che sarebbe stata la prima ad essere denominata dalla
località. Cid indica che nel contado continud la prevalenza delle genti, che vi
tenevano le loro possessioni. Il numero origi nario delle tribù rustiche non è
ben noto, ed anzi, secondo alcuni storici, fra i quali Livio, le tribù rustiche
comparirebbero solo più tardi. Questo è certo pero, che la ripartizione, anche
del ter ritorio rustico, era una conseguenza del concetto informatore della
costituzione serviana, e che il numero delle tribù, dopo le guerre a cui diede
occasione la cacciata dei Tarquinii, e forse per la diminuzione del territorio,
che ne fu la conseguenza, appare ri dotto a quello di venti. La
cooptazione della gente Claudia porto le tribù a vent'una, e da quel punto la
storia ricorda tutte le date, in cui la conquista di un nuovo territorio
conduce alla for mazione di nuove tribù, fino al numero di trentacinque, che
poi si mantenne immutabile. Non è già con ciò, che Roma non abbia fatte nuove
concessioni di cittadinanza, ma i nuovi cittadini si fecero rientrare nelle
antiche tribù, le quali, dopo aver avuto una base locale, si mutarono cosi in
altrettanti quadri, a cui poterono essere
Mentre Livio, I, 43 attribuisce a Servio Tullio soltanto la ripartizione
della città nelle quattro tribù urbane, Dionisio, IV, 15, invocando la
testimonianza di Fabio, gli attribuisce eziandio la divisione dell'agro in 26
tribù, cosicchè il numero complessivo delle tribù sarebbe stato di 30. Di qui
la difficoltà di spiegare comemai queste tribù negli inizii della Repubblica
fossero ridotte al numero di 20 soltanto. Anche oggidi la spiegazione più
probabile sembra essere quella data dal Niebhur, secondo cui l'ager romanus
avrebbe sofferto la diminuzione di varii pagi o tribus, in seguito alla guerra
cogli Etruschi guidati da Porsena. Op. cit., II, 154. Quanto all'epoca, in cui
si vennero aggiungendo le altre tribù fino al numero, che poi si mantenne, di
35, sono a vedersi il Willems, Le droit public romain, 34.e il Morlot,
Institutions politiques de Rome, Paris, 1886, p. 71.363 ascritti tutti i
cittadini romani, senza tener conto della effettiva residenza dei medesimi.
295. Sopratutto poi il concetto informatore di tutta la costitu zione serviana
fu l'istituzione del censo; poichè è in proporzione del censo, che vengono ad
essere determinati i diritti e gli obblighi dei cittadini. Vuolsi però aver
presente, che nel censo di Servio Tullio non intervengono tutti gli individui,
ma solo i capi di fa miglia, quelli cioè, che per non essere soggetti a potestà
altrui possono giuridicamente essere considerati come padri di famiglia,
ancorchè in realtà non siano tali. La dichiarazione poi del capo di famiglia
deve essere duplice, cioè comprendere tanto le persone quanto le cose, che da
lui dipendono; donde provenne la conse guenza, che in questo periodo le persone
e le cose, dipendenti dalla stessa potestà, si presentarono come un tutto
indistinto, che suol essere indicato coi vocaboli di familia o di mancipium. Il
padre di famiglia pertanto, o meglio colui, il quale, per non essere sog getto
a potestà altrui, ha diritto di contare per uno nel censo, deve dichiarare
anzitutto, ex animi sententia, il suo stato civile, cioè il suo nome, il
prenome, il nome del padre o del patrono, la tribù a cui trovasi ascritto,
l'età, il nome della moglie, il nome e l'età dei figli. Esso deve dichiarare
eziandio il patrimonio, che a lui ap partiene in proprio; non quello cioè, che
appartenga alla sua gente, ma quello che è collocato in suo capo, che gli
appartiene ex iure quiritium, che fa parte del suo mancipium, il quale in
significa zione più ristretta comprende appunto il complesso dei beni, che
deb È solo in questo modo, che a parer
mio si può risolvere la questione tanto agitata fra gli autori se le tribù
di Servio fossero divisioni di territorio, oppure di visioni di persone. Non
parmi poi che possa ammettersi l'opinione del NIEBHUR, secondo cui le tribù
dapprima non avrebbero compreso che i plebei, e solo dopo il decemvirato
avrebbero compreso anche i patrizii (Op. cit., IV, 16 ); poichè il loro stesso
nome derivato da quello di genti patrizie ed anche lo scopo della ripartizione
del territorio in tribù o sezioni dimostrano ad evidenza il contrario. Che
anzi, in base alla narrazione di Dionisio, IV, 15, il re Servio non solo
avrebbe diviso il ter ritorio in tribù, ma nei siti montani avrebbe costrutto
dei pagi, che dovevano ser vire come luogo di rifugio, e avrebbe obbligato
tutti quanti gli abitatori (omnes romanos) a consegnarsi nel censo addito et urbis tribu et agri pago, ubi
singuli habitarent ; il che fa credere, che le tribù rustiche serviane fossero
un rimaneggia mento dei pagi, che già prima esistevano nel territorio
circostante a Roma. Cfr. il Morlot, op. cit., 57 e seg., ove espone le varie
opinioni degli autori intorno al carattere locale o personale delle tribù. 364
bono essere valutati nel censo. Sarà poi in base a questo censo, che sarà
designata la classe del popolo, a cui deve appartenere, tanto per sè che per i
figli, che abbiano raggiunta l'età di diciasette anni, e verranno cosi ad
essere determinati i suoi diritti e le sue obbliga zioni sotto l'aspetto
politico, militare e tributario ad un tempo . 296. Basta questa semplice
indicazione per comprendere l'im mensa importanza, che dovette, sopratutto
negli esordii, esercitare una istituzione di questa natura sopra il popolo
forse più tenace che presenti la storia in quella che il Jhering chiamerebbe la
lotta per il diritto. Per la città serviana la formazione del censo ha quella
stessa importanza, che ha per una società di carattere mercantile la
determinazione del contributo, che altri deve arrecare alla for mazione del
capitale sociale, il quale contributo dovrà poi servire di base per la
ripartizione dei profitti e delle perdite. Essa costrinse a considerare ogni
individuo come un caput, il quale tanto vale quanto è il numero dei figli e
l'ammontare delle sostanze, in base a cui egli contribuisce alla comunanza. In
essa l'uomo non è solo contato, ma in certo modo è anche pesato, e viene ad
essere isolato da ogni altro suo rapporto, per essere considerato
esclusivamente sotto il punto di vista delle persone e delle sostanze, che in
lui vengono ad unificarsi. Vi ha di più, ed è che la proprietà, che conta nel
censo serviano, non è la proprietà gentilizia, che apparteneva al solo pa
triziato, ma è la proprietà famigliare e privata, che era la sola, che fosse
comune al patriziato ed alla plebe. Di qui la conseguenza, che tutte le altre
forme di proprietà vengono di un tratto ad essere lasciate in disparte,
cosicchè se le genti patrizie vorranno 284 ' e seg Quanto alle operazioni relative al censo cfr.
WILLEMS, op. cit., Per me è sopratutto notabile la circostanza, che il capo
di famiglia doveva denun ziare persone e cose, che da lui dipendevano,
poichè essa serve a spiegare come i due vocaboli di familia e di mancipium
potessero talvolta scambiarsi fra di loro, e as sumessero una significazione
così larga da comprendere le persone le cose ad un tempo. Cid non accadeva già,
perchè si confondessero persone e cose, ma perchè le une e le altre apparivano
nel censo come dipendenti dalla stessa persona. Tale doppia consegna è attestata
espressamente da Dion.,. IV, 15, verso il fine. Parmi che in questo modo si
possano conciliare le due opinioni contrarie del MARQUARDT, Das privat leben
der Römer, 2 e quella del Voigt, Die XII Tafeln, II, pagg. 6 e 83-84, quanto
alla significazione primitiva dei vocaboli manus, di mancipium e di familia.
Cfr. in proposito il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, 5, nota 8, ed il
BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, 100, nota 1. 365 avere nelle
classi l'appoggio dei proprii clienti, dovranno dividere fra essi i proprii
agri gentilizii, e fare a ciascuno un'assegno di terra in proprietà quiritaria,
che valga a farli ammettere in una delle classi. Da questo momento viene solo
più ad essere questione di mancipium o di nec mancipium, perchè è solo il
primo, che conta nel censo di Servio Tullio, e se il medesimo non giunga ad una
certa misura, altri non potrà essere censito, che per il proprio capo (capite
census ), o verrà ad essere confinato nei proletarii, senza poter far parte
delle classi e delle centurie, in cui si raccoglie l'eletta del popolo romano,
ossia coloro (adsidui, locupletes) i quali avendo una terra di loro proprietà
esclusiva, si possono ritenere aver interesse alla difesa della patria comune.
Si comprende quindi l'affezione tenace, con cui il plebeo, ammesso a questa
condizione nella città, si attacca al proprio tugurio e al campicello, che lo
circonda, perchè è questo, che gli assicura una posizione giuridica, militare,
economica per sè e per i proprii figli, quando siano perve nuti ai diciasette
anni; il che spiega eziandio come il plebeo ami meglio di vincolare se stesso e
la propria figliuolanza col nexum, che di privarsi della sua piccola terra.
297. Noi stentiamo naturalmente a ricostruire col pensiero tutte le
conseguenze, che una istituzione di questa natura può avere pro dotto sovra un
popolo, come il romano, in un momento storico, in cui la grande opera, a cui si
intendeva, era la formazione della ' città. Quando si pensi tuttavia, che
trattavasi di un popolo, il quale una volta ammesso un principio sapeva trarne
tutte le conseguenze di cui poteva essere capace, che possedeva una mirabile
potenza, che chiamerei di astrazione giuridica, la quale consiste nell'isolare
l'ele mento giuridico da tutti gli altri con cui trovasi intrecciato, e che
questo popolo fu costretto per secoli a misurare la propria posizione politica,
militare e tributaria attraverso il crogiuolo del censo, si pud in qualche modo
giungere a comprendere il punto di vista rigido ed esclusivo, a cui esso fu
costretto di collocarsi e le con seguenze, che possono esserne derivate nella
elaborazione del suo diritto. Ciò spiega intanto l'importanza immensa, che si
diede per tutto il periodo dalla repubblica alla istituzione del censo; le
cerimonie religiose, da cui esso era preceduto ed accompagnato; le cure, che
pose nel medesimo lo stesso Servio, il quale, secondo la tradizione, ebbe a
farlo per ben quattro volte; le pene gravissime, cioè la vendita al di là del
Tevere, da lui stabilite contro coloro, 366 che non si fossero fatti iscrivere
nel censo (incensi); l'opportunità, che si senti più tardi di creare talvolta
un dittatore per la sola for mazione del censo, e di affidare poscia la
formazione del censo ad una speciale magistratura (censura), a cui potevano
esservene delle altre superiori in imperio, manessuna che fosse superiore in
dignità. Ciò spiega infine la singolare evoluzione, che venne ad avere in Roma
il concetto del censo, il quale negli inizii comincia dall'essere una
valutazione, che potrebbe chiamarsi puramente economica dei singoli capi di
famiglia, e poi finisce per cambiarsi in una specie di valutazione politica e
morale di tutti i cittadini. Cid infatti è comprovato dalla trasformazione, che
accade nel censore, che isti tuito dapprima per la materiale formazione del
censo, reputata in degna delle cure dei consoli, finisce per acquistare tale un
potere, da eleggere senatori, fare la ricognizione dei cavalieri, imprimere
note di ignominia su chi venga meno al pubblico o al privato co stume, prendere
le persone da una classe per confinarle in un altra, e trasportare a suo
beneplacito tutta una classe di popola zione dalle tribù rustiche alle urbane o
viceversa, e ad essere cosi l'arbitro sovrano della cooperazione effettiva, che
i varii individui e le varie classi recano al benessere delle città. 298.
Infine è anche il censo, che serve di base alla classificazione del populus
nelle classi e nelle centurie. Non è già, come alcuni credettero, che coloro, i
quali non avevano un certo censo, non fossero contati ed iscritti a questa o a
quella tribù; ina essi vi erano iscritti solo nel capo (capite censi), oppure
nella classe dei proletarii, la quale secondo Aulo Gellio, honestior aliquanto et re et nomine quam
capite censorum fuit . Gli uni e gli altri non facevano di regola parte
dell'esercito, perché né la repubblica avrebbe avuto garanzia dell'interesse,
che essi avevano a combattere per essa, nè essi avrebbero avuti i mezzi per far
fronte alle spese per il proprio equipaggio. Quelli invece, che giungevano ad
un certo censo appartenevano agli adsidui, per l'assiduità appunto a compiere
il loro ufficio civile e politico (munus), sia pagando le imposte (ab asse
dando), sia ubbidendo alla leva, sia per la sede fissa, ove po tevano essere
cercati e dove avevano i loro possessi (locupletes). Il criterio, che servì a distinguere i varii
ordini di persone indicati coi voca boli di capite censi, proletarii, adsilui e
locupletes, si può ricavare sopratutto da Aulo GELLIO, XVI, 10. È pure lo
stesso Gellio, il quale ci attesta che la proprietà 367 I vocaboli di classi e
di centurie, ed anche il luogo, ove si riu nirono i comizii centuriati (Campo
Marzio ), il modo di convocazione di essi (per cornicinem ), e il vessillo
rosso inalberato sul Gianicolo o in arce durante le riunioni di questi comizii,
rendono verosimile il concetto stato svolto sopratutto dal Mommsen, che questa
riparti zione siasi presentata dapprima con un carattere principalmente
militare. Cið poteva anche essere opportuno per ovviare a quella opposizione
del patriziato e degli auguri, che aveva incontrato l'an tecessore di Servio; e
sembra anche corrispondere all'intento, che si propone la comunanza serviana,
che è quella di provvedere so pratutto alla comune difesa. Egli è però certo,
che se la costituzione per classi e per centurie è negli inizii organizzata per
guisa da presentare l'aspetto di un esercito, essa è però in condizioni tali da
cambiarsi facilmente nell'assemblea di un popolo; perchè i suoi quadri possono
essere allargati in guisa da non comprendere solo un esercito, ma tutta la
popolazione di una città. 299. Ad ogni modo nel loro primo presentarsi le
classi e le centurie di Servio costituiscono un vero esercito, di cui venne ad
allargarsi la base, in quanto che nella sua composizione più non si ha riguardo
all'origine ed alla discendenza, ma unicamente al censo. Nelle sue file possono
essere compresi tutti i liberi abitanti del ter ritorio di Roma, distribuito
per quartieri o regioni, senza riguar tenuta in conto nel censo era quella
famigliare e privata, poichè egli parla di res, pecuniaque familiaris, e dice che
i proletarii si arrolavano nell'esercito solo in caso di necessità, e che i
capite censi vi furono solo arrolati da Mario nella guerra contro i Cimbri o in
quella contro 'Giugurta. Tutte queste distinzioni poi fondate sul censo
spiegano le espressioni di Livio, I, 42, che dice il censo rem saluberrimam tanto futuro imperio, e
chiama Servio a conditorem omnis in civitatem discriminis ordinumque, quibus
inter gradus dignitatis fortunaeque aliquid interlacet. Pur ammettendo col
Mommsen, Hist. rom., I, cap. VI, e col Peluam, v° Rome, Encych. Britann.., XX, 731 che lo ha seguito,
che l'ordinamento per classi e centurie, tanto più se posto a raffronto con
quello delle curie, avesse un carattere eminentemente militare, non parmituttavia,
che anche nei suoi inizii si possa escludere affatto la sua attitudine alle
funzioni civili. Ciò ripugna al carattere delle istitu zioni primitive, le
quali di regola hanno del civile e del militare ad un tempo, ed alla
circostanza, che mal si saprebbe comprendere comemaiuna base, come quella del
censo, non dovesse servire ad altro, che ad indicare il modo con cui le varie
classi aves sero ad equipaggiarsi. Del resto questo carattere esclusivamente
militare mal potrebbe conciliarsi con ciò che scrive Livio, I, 42: tum classes
centuriasque, et hunc ordinem ex censu descripsit, vel paci decorum, vel bello .
368 dare se essi entrino o non nelle antiche divisioni, e senza più tenere
conto delle formalità e delle cerimonie religiose proprie delle riunioni
esclusivamente patrizie. La sua unità è la centuria, che nominalmente dovrebbe
comprendere cento uomini; le centurie poi vengono ad essere aggruppate in
classi, che sono in numero di cinque, e che alcuni vorrebbero collocate
nell'ordine stesso della falange. Le centurie, che vengono prime, sono composte
dei più ricchi cittadini, che possono procacciarsi un completo equipaggio
indispen sabile per coloro, che primi debbono sostenere l'urto del nemico. Esse
in numero di 80 costituiscono la prima classe. Dopo vengono le centurie della
seconda e terza classe, in numero di 20 per ogni classe, le quali sono già meno
completamente armate, ma costituiscono con quelle della prima classe la
fanteria pesante. Ultime vengono le centurie della quarta e della quinta classe,
di cui quella composta di 30 e questa di 20 centurie, reclutate fra i cittadini
meno ab bienti, e che serviranno come fanteria leggiera. L'intiero corpo degli
uomini liberi è poi diviso in due parti eguali, cioè in un numero eguale di
centurie di seniores (da 47 ai 60 anni), che costituivano l'esercito di riserva,
ed un uguale numero di centurie di iuniores (dai 17 ai 46 anni) per il servizio
attivo. Ciascuno di questi corpi viene cosi ad essere composto di 85
centurie (8500 uomini) ossia di due legioni di circa 4200 per ciascuna, che
costituiva appunto la forza normale della legione consolare durante la
repubblica. In sieme colle legioni, ma non inchiuse con esse, vi erano 2
centurie di fabbri e di legnaiuoli (fabri, tignuarii) e 2 di suonatori di tromba
e di corno (tibicines et cornicines ), circa le quali non vi è accordo quanto
alle classi a cui erano assegnate. Per quello poi che si riferisce al censo
richiesto per ciascuna classe, il medesimo ci pervenne calcolato in assi, ma è
probabile che nelle origini dovesse essere valutato in iugeri. È abbastanza noto, che il censo per la prima
classe era di 100 mila assi, per la seconda di 75 mila, per la terza di 50
mila, e per la quinta classe di 11,000 secondo Livio e di 12,500 secondo
Dionisio; ma il difficile sta in determinare, se negli inizii la fortuna dei
cittadini non fosse piuttosto valutata in iugera, e in de terminare qual fosse
il valore dell'asse. Il MOMMSEN afferma come fuori di ogni dubbio, che
l'iscrizione alle varie classi era dapprima determinata dal possesso delle
terre, argomentando anche dalle denominazioni di adsidui e locupletes. Hist.
rom., chap. VI. Di recente poi il Karlowa ha pur seguìta la stessa opinione e
ha rite nuto che il iugerum debba ritenersi rispondere a cinque mila assi,
cosicchè il patri monio della prima classe corrisponderebbe a 20 iugeri, quello
della seconda a 15, 369 Intanto però in questa organizzazione militare del
populus con tinuano a tenere un posto distinto le centurie degli equites. Di
queste 6 ritengono ancora i vecchi nomi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi
et secundi, e sono ancora composte esclusivamente di patrizii. Esse quindi
stanno a parte, son determinate dalla na scita, e costituiscono i sex suffragia;
poichè è da esse che si trae a sorte la centuria principium, quella cioè, che
sarà chiamata a votare per la prima nei comizii centuriati. Ad esse poi furono
ag giunte da Servio altre 12 centurie, le quali sono reclutate dai più ricchi
ordini di cittadini, sia patrizii che plebei . Da questi brevi cenni appare che,
pur ammettendo il carattere essenzialmente militare di questa organizzazione,
basterà però sop primere nella centuria il limite di 100, per togliere alla
medesima tutta la sua rigidezza militare, e per fare entrare nei suoi quadri
tutta la popolazione della città; trapasso, che non offrirà gravi diffi coltà
quando si consideri la facilità, che è propria delle organizzazioni primitive
di passare dalle funzioni militari alle civili, e il nessun scrupolo, che si
fecero i Romani di mantenere costantemente il vo cabolo antico, facendo anche
entrare in esso un contenuto diverso da quello, che sarebbe indicato dal
medesimo. Queste sono le istituzioni fondamentali di Servio; ora importa di
vedere lo svolgimento storico, che esse ebbero a ricevere e la con seguente
influenza che esercitarono sul diritto pubblico e privato di Roma. quello della
terza a 10, della quarta a 5 iugeri, e quello della quinta a 2 iugeri incirca,
ritenendo con Livio, che il censo della medesima ammontasse a soli 11,000 assi.
Röm. R.G., I, 69-70. Sono a vedersi, quanto al valore dell'asse, il WILLEMS, op.
cit., 58 e segg., dove son riassunte le diverse opinioni al riguardo, e il
Voigt, Die XII Tafeln, I, 16 a 23.
Quanto agli equites e ai loro rapporti coi primitivi celeres, richiamo
volentieri i due recenti lavori del BERTOLINI, I celeres e i7 tribunus celerum,
Roma, 1888, e del TAMAssia, I Celeres, Bologna, 1888. - Par ammettendo col
primo che gli equites non siano che uno svolgimento dei primitiviceleres (p.
31) e col secondo che i celeres possano anche essere un ricordo di qualche
istituzione, che occorre presso tutti i popoli di origine Aria (p. 19), continuo
però a ritenere, che nell'ordinamento simmetrico della primitiva città patrizia
vi fosse una rispondenza fra i celeres, che costituivano la corte militare del
Re primitivo e il senato, che ne costituiva il consiglio, donde quella
correlazione, che per qualche tempo si mantenne fra gli aumenti nel senato e
quello degli equites, e la distinzione così del senato come degli equites in
decuriae. V. sopra, nº 191, 233 e 234. G. C., Le origini del diritto di Roma. 24 - 370 -
CAPITOLO II. Influenza della costituzione Serviana sul diritto pubblico di
Roma. 300. L'influenza della costituzione Serviana sullo svolgimento, che
ebbero le istituzioni politiche di Roma, durante l'epoca repubbli cana, non può
essere posta in dubbio, e non mancano i lavori ché la posero in evidenza. Ne
ebbero consapevolezza anche i Romani, come lo provano le tradizioni, che
attribuirono a Servio Tullio di aver voluto abdicare per istituire due consoli
annui, e che fanno ricorrere i due primi consoli della repubblica ai
commentarii di Servio Tullio, per ricavarne le norme secondo cui dovevano adu
narsi i comizii per centurie. Le due tradizioni possono anche essere non vere:
ma dimostrano ad ogni modo in coloro, che le trovarono e le custodirono, la
persuasione, che la costituzione repubblicana metteva capo alle istituzioni
serviane, e che, appena superato il peri colo della tirannide, si dovette
riprenderne lo svolgimento al punto stesso, a cui era stato interrotto. Ad ogni
modo se si tenga dietro alla evoluzione storica, quale si rivela negli
avvenimenti, si può affermare con certezza, che le istituzioni politiche di
Roma per tutto il periodo repubblicano implicano uno svolgimento continuo e non
mai interrotto dei concetti informatori della costituzione patrizia, combinati
perd e modificati dalle istituzioni fondamentali della co stituzione serviana.
301. Fra queste modificazioni è fondamentale e determina tutte le altre
trasformazioni, che derivarono dalla costituzione serviana, quella, in virtù
della quale venne a mutarsi nella sua stessa base il concetto del populus
romanus quiritium. Questa espressione
NIEBHUR, Histoire romaine, II, 91 a 255; Huscke, Die Verfassung der
Königs Servius Tullius, Heidelberg, 1838; Maury, Des événements qui portèrent
Servius Tullius au trône. Mém. de
l'Acad. des Inscript. et belles lettres , année 1866, vol. 25, 107 a 223:
Herzog, Geschichte und System der römischen Staats verfassung, Leipzig;
KarlowA, Röm. Rechtsgeschichte, I, SS 11, 12, 13, 64 a 85. Liv., Hist., I, 48; I, 60. È però a notarsi,
che queste tradizioni non sono con fermate da Dionisio. Cfr. Bonghi, Storia di
Roma, I, 242. - 371 infatti, che un tempo aveva indicato esclusivamente il
popolo delle curie, venne secondo il metodo romano ad essere trasportata al
popolo delle classi e delle centurie, come lo dimostrano la denomi nazione di
quirites, che d'allora in poi è applicata appunto a tutti i membri del popolo
delle centurie, non che ai testimonii ricavati dal medesimo per gli atti di
carattere quiritario (classici testes ), ed è anche adoperata nelle formole di
convocazione dei comizii centuriati, stateci conservate da Varrone. Quanto ai
membri delle curie pri mitive essi, in quanto entrano nelle classi e nelle
centurie, sono anche compresinel vocabolo generico di quirites, ma in quanto
hanno delle proprie assemblee, in quanto ritengono per sè le magistrature, gli
onori, gli auspizii, i sacerdozii, in quanto insomma formano ancora un nucleo
separato del populus romanus quiritium, prendono il nome di patres o di
patricii, come già si è veduto discorrendo della patrum au ctoritas, della lex
curiata de imperio e dell'interrex . Mentre quindi prima i termini non erano
che due, quelli cioè di populus e di plebes; dopo Servio i termini vengono ad
essere tre, cioè quello di patres o patricii, che indicano i primitivi
fondatori della città, i ritentori degli auspicia e dell'imperium; quello di
plebes, che designa l'elemento, stato di recente ammesso nella medesima; e
quello infine di populus, che comprende l'uno e l'altro elemento, sopratutto in
quanto entra a far parte delle classi e delle cen turie (3 ). In questo senso
vuolsi ammettere col Mommsen, che uno dei significati di populus sia stato
quello di leva plebeo-patrizia; ma certo non può dirsi, che questa sia stata la
significazione primi tiva del vocabolo; poichè nulla vi è di ripugnante al
processo ro mano, che la stessa parola abbia indicato prima la riunione
degli Le formole di convocazione delle
classi, conservateci da VARRONE, De ling. lat., VI, 86 a 95, sono riportate dal
Bruns, Fontes, 383.I classici testes sono poi ricordati da Festo, pº classici,
come testimoni adoperati nei testa menti; ma è probabile che questo nome si
estendesse a tutti i testimonii dell'atto per aes et libram, di cui il
testamento non era che un'applicazione, come si vedrà a suo tempo al cap. IV, 4 di questo libro. V. sopra, lib. II, nº 198, 240e le note
relative. È questo appunto il concetto
di populus, quale appare più tardi anche nei grammatici e nei giureconsulti.
Aulo Gellio infatti, Noct. Att., X, 20, attribuisce al giureconsulto Ateio
Capitone di aver distinto il popolo dalla plebe, quoniam
in populo omnis pars civitatis, omnesque eius ordines contineantur:
plebes vera, ea < dicitur, in qua gentes civium patriciae non insunt , il
qual concetto poi ricompare in GaJo, Comm., I, 3 e ancora nelle stesse
Institut. di GIUSTINIANO, I, 2. 372 uomini validi ed armati della tribù
gentilizia, poi il populus confe derato della città patrizia, e da ultimo il
popolo patrizio - plebeo della città serviana. Questo populus intanto perde in
gran parte quel carattere reli gioso e patriarcale del popolo delle curie, e
assume invece il ca rattere, che è proprio di coloro, che entrano a costituirlo;
viene cioè ad essere un popolo di capi di famiglia e di proprietarii di terre,
che da una parte sono uomini di arme e dall'altra sono de diti alla coltura
delle terre, e i quali si considerano come isolati da tutti quei rapporti
gentilizii, in cui possono trovarsi vincolati. I quiriti dell'epoca serviana
vengono ad essere considerati come indivi dualità indipendenti e sovrane; hanno
l'asta come simbolo del pro prio diritto; ritengono come proprie le cose
sopratutto che riescono a togliere al nemico, ed il loro potere appare senza
confine cosi rispetto alle persone, che alle cose, che da essi dipendono; donde
le caratteristiche peculiari del ius quiritium, che viene formandosi in questo
periodo, come cercherò di dimostrare a suo tempo. 302. Modificato così il
concetto del populus, cioè l'elemento es senziale della costituzione primitiva,
da cui escono tutti gli altri, era naturale, che anche questi dovessero
lentamente e gradatamente trasformarsi in correlazione col medesimo. E così
accade appunto del senato, il quale accompagnando lo svolgimento lento e
graduato della costituzione romana, comincia ad accogliere fin dagli inizii
della repubblica i principali dell'ordine equestre, i quali per tal modo
vengono ad essere conscripti coi patres, donde la formola patres et conscripti,
finchè più tardi esso viene a ricevere tutto l'elemento, che siasi reso
benemerito della repubblica, sostenendone degnamente le magistrature e gli
uffizii, o che abbia così quell'età e quell'esperienza, che valgono ad
assicurare la repubblica della au torità del suo consiglio (3 ). Cosi invece
non accadde del magistrato, poichè questo continud MOMMSEN, Rötnische Forschungen. V. il cap. seg. in cui si discorre
dell'influenza della costituzione serviana sul diritto privato. (3 ) Le
trasformazioni introdotte nella composizione del Senato in base alla les Ovinia
che deferì ai censori la senatus lectio sono brevemente riassunte dal Lan
DUCCI, nel suo scritto sui Senatori Pedarië, Padova 1888, pagg. 7-8, colle note
re lative. - 373 ancora per qualche tempo ad essere ricavato esclusivamente
dalla classe dei patrizii; donde la conseguenza, che è sopratutto contro
l'imperio dei consoli, che spiegansi le prime sedizioni della plebe, le quali
più non si arrestano fino a che la plebe non abbia ottenuta, anche nelle
magistrature e nei sacerdozii, quella parte, che già aveva conseguita negli
altri aspetti della costituzione politica. Cið era na turale, perchè non vi
sarebbe stata coerenza in un organismo, in cui il popolo e il senato già
potevano essere tolti dai due ordini, che concorrevano a formarlo; mentre il
magistrato poteva essere scelto in un ordine soltanto e quindi veniva ad
apparire piuttosto come un custode dei privilegii del patriziato, che come un
rappresentante imparziale del popolo. Di qui la conseguenza, che anche le
lotte, che vennero ad esservi fra patriziato e plebe, possono in gran parte
ritenersi determinate dalla costituzione serviana, come meglio sarà dimostrato
a suo tempo . 303. Mentre si avverano queste modificazioni negli organi essen
ziali della costituzione politica, e quindi si trasformano a poco a poco le
loro principali funzioni, che, come si è veduto, consistono nella formazione
delle leggi, nella elezione del magistrato e nella amministrazione della
giustizia, tutte le istituzioni serviane, che negli inizii erano soltanto
abbozzate, vengono prendendo tutto quello svol gimento, di cui potevano essere
capaci. Cid appare quanto al censo, il quale, come già si è accennato,
incomincia dal presentarsi come una valutazione economica dei cit tadini, e poi
cambiasi a poco a poco in una valutazione politica e morale dei medesimi. Il
punto di partenza viene ad essere quello di dare a ciascun cittadino una parte
di diritti e di obblighi, che sia proporzionata al suo censo, mentre lo
svolgimento posteriore conduce a dare ai singoli individui e ai varii elementi
del popolo una parte, che vorrebbe essere proporzionata alla cooperazione, che
essi recano al pubblico bene. Abbiamo quindi i magistrati uscenti di ufficio,
che somministrano il contingente per la formazione del senato e poscia
dell'ordo senatorius; abbiamo gli equites, che perdono il carat tere
essenzialmente militare, che avevano nelle proprie origini, e finiscono per
formare un ordine distinto di cittadini, che chiamasi ordo equestris, e
costituiscono una specie di aristocrazia del censo, V. il cap. IV del presente libro, in cui si
tratta appunto delle lotte fra il patriziato e la plebe. 374 da cui esce poi la
nuova nobiltà, la quale, dopo aver lottato coll'an tica, finisce per
confondersi con essa. Di qui la conseguenza, che col tempo quel populus, che
erasi formato, mediante la riunione del patriziato e della plebe, finirà
un'altra volta per subire un nuovo dualismo, che è quello del partito popolare
e del partito degli otti mati. Queste però sono conseguenze remote
dell'ordinamento ser viaño, fondato sul censo, mentre è assai più facile tener
dietro alle trasformazioni, che subirono le centurie e le tribù introdotte col
medesimo. 304. Le centurie infatti, allorchè perdettero il loro carattere es
senzialmente militare, finirono per cambiarsi in altrettanti quadri, in cui
potè essere compreso tutto il popolo romano, che avesse rag. giunto certi
limiti nel censo, il quale, fissato dapprima in iugeri di terra, sembra essersi
più tardi calcolato in una somma di denaro. Si formarono così quei comisii
centuriati, che ebbero tanta impor tanza sopratutto nei primi secoli della
repubblica, e che furono per certo una delle assemblee meglio organizzate, che
offra la storia politica dei popoli civili. È tuttavia notabile, che anche in
questa parte si conserva sempre mai l'antico modello, per guisa che i con cetti
informatori dell'assemblea delle centurie sembrano essere tolti e trasportati
da quella più antica delle curie. Anch'essi quindideb bono essere preceduti da
cerimonie religiose, ed il magistrato, che li convoca in giorni prestabiliti
(dies comitiales), essendo investito degli auspicia, debbe prima investigare se
gli dei si dimostrino fa vorevoli alle deliberazioni, che debbono essere prese
dai comizii. Anche la precedenza nella votazione deve seguire l'antico costume,
e quindi precedono le sei centurie di cavalieri, le uniche cioè che
rappresentino ancora il patriziato primitivo, fondatore della città; quindi è
fra esse, che chiamansi i sex suffragia, che viene tratta a sorte quella che
dovrà essere la centuria principium, il cui voto continua ad essere considerato
come un augurio (omen). Dopo aver così attribuita la debita parte alla nascita
e ai primi fondatori della città, viene il riguardo all'età, in quanto che i
seniores (dai 47 ai 60 anni) hanno in ogni classe un numero di centurie eguale
a quello dei iuniores (dai 17 ai 46 ), malgrado il numero certo maggiore di
questi ultimi, e le loro centurie negli inizii erano probabilmente le Queste trasformazioni sono accuratamente
seguìte dal Madvig, L'État romain, trad. Morel, Paris 1882, tome 1er, 135.375
prime chiamate a dare il proprio voto. Viene poscia la considera zione del
censo, in quanto che le centurie, che votano per le prime sono, dopo le
diciotto centurie degli equites, quelle della prima classe e queste sono in
numero tale, che se siano concordi, possono da sole avere la maggioranza, senza
che più occorra di passare alla chia mata delle altre classi. Intanto perd nel
seno di ogni centuria ogni individuo ha il proprio voto, e tutti contano
egualmente; ma, come già accadeva nelle assemblee curiate, l'esito definitivo
dipende dalla maggioranza delle centurie. Qui parimenti si presentano le
distinzioni fra comitia e contiones; come pure dovette introdursi eziandio la
distinzione fra comizii propriamente detti e i comizii calati, in cui si
compievano pei quiriti i testamenti e le arroga sioni, ma questi non sembrano
essere durati lungamente, perchè erano una semplice imitazione dell'antico,
senza che avessero lo scopo dei comizii calati delle curie, che era quello di
mantenere salda ed integra anche nella città la primitiva organizzazione delle
genti patrizie. Così pure sopra i nuovi comizii, i padri, antichi fondatori
della città, continuano ad esercitare una specie di prote zione e di tutela,
sotto il nome di patrum auctoritas, dalla quale i comizii centuriati riescono
ad emanciparsi soltanto molto più tardi (3 ). 305. Nella realtà però questa
imitazione dell'antico non impe disce che tutte le principali funzioni vengano
a concentrarsi nei co mizii centuriati. Sono essi infatti che votano le leggi
fondamentali dello stato, come le leggi Valerie-Orazie, la legislazione
decemvirale, le leggi Licinie Sestie, e da ultimo la legge Ortensia; sono essi
parimenti, che nominano i magistrati maggiori, come i consoli, i pretori, i
censori, quei magistrati insomma, il cui potere può essere considerato come una
suddivisione di quell'imperium, che trovavasi un tempo con centrato nel re. Da
ultimo fu davanti alle centurie, che dovette essere interposta quella
provocatio ad populum, che un tempo pro ponevasi dinanzi al popolo delle curie;
il che spiega comeun ma Sono queste
gradazioni e distinzioni che fecero dire a CICERONE, De leg., III, 19, 44: <
descriptus enim populus censu, ordinibus, aetatibus plus adhibet ad suf fragium consilii, quam populus fuse in tribus
convocatus ; concetto che ripete con altre parole nel De rep., II, 22. L'esistenza di comizii calati, proprii delle
centurie, è attestata espressamente da Aulo Gellio, XV, 27, 1. V. quanto alla patrum auctoritas ciò che si è
detto al nº 198, 240.376 gistrato annuo, come il console, abbia finito per
rinunziare a poco a poco a pronunziare condanne, da cui poteva esservi
appellazione al popolo, il quale venne cosi ad essere direttamente investito
della giurisdizione criminale. Intanto si comprende eziandio come la lotta fra
i due ordini, finchè non furono ancora del tutto pareggiati, abbia dovuto
concentrarsi so pratutto nei comizii centuriati, e come quindi il patriziato
per assi curarsi una prevalenza nel seno delle centurie, abbia dovuto dividere
i proprii agri gentilizii fra i clienti, acciò i medesimi potessero essere
collocati nelle classi e possibilmente nella prima di esse, la quale aveva una
prevalenza sopra tutte le altre. Per talmodo la disorganizzazione delle genti,
che erasi già iniziata colla costituzione di Servio, con tinud necessariamente
collo svolgersi delle istituzioni da lui intro dotte; poichè quei clienti, che
sotto l'impressione immediata del benefizio ricevuto stavano ancora agli ordini
dell'antico patrono, se ne emanciparono ben presto, allorchè il censo loro
assicurò una indipendenza, mediante cui poterono talvolta aggregarsi alla
stessa plebe. Conviene tuttavia riconoscere, che la plebe negli inizii del
l'organizzazione per centurie male poteva riuscire nella lotta contro un
patriziato reso forte e numeroso mediante l'appoggio dei proprii clienti. Di
qui la conseguenza, che la plebe resa impotente alla lotta nei comizii per
centurie, dovette appigliarsi a riunioni che non avessero più la loro base nel
censo, ma bensì nel luogo di residenza e nel numero. A tal uopo la plebe,
guidata ed organizzata dai proprii tribuni, seppe trarre profitto di un'altra
istituzione ser viana, che è quella della tribù locale, ricavando da essa uno
svolgi mento, che probabilmente non doveva essere nella intenzione di quegli,
che l'aveva istituita. 306. La tribù nella costituzione serviana non era che
una ripar tizione locale, fatta in uno scopo essenzialmente amministrativo,
cioè per fare il censo, per fare la leva militare e per ripartire i tributi.
Essa però aveva il vantaggio su tutte le altre ripartizioni, che mentre le
curie non comprendevano dapprima che i patrizii, e le centurie e le classi non
accoglievano che i locupletes od adsidui, le tribù invece comprendevano anche i
proletari, i capite censi, gli aerarii; quindi in essa esisteva un
germeessenzialmente democratico, Cfr.
ciò che si è detto più sopra intorno alla provocatio ad populum nel pe riodo
regio, n ° 245 e 246, 299.377 che non poteva mancare di svolgersi col tempo.
Era infatti naturale, che i tribuni della plebe, per radunare la medesima, non
potessero indirizzarle il proprio appello, che per tribù (tributim ), e che
quindi si facessero già in questa guisa quelle prime riunioni, che appellavansi
concilia plebis. Intanto le tribù, che avevano dapprima un carattere
essenzialmente locale e comprendevano realmente le persone, che dimoravano in
quel determinato quartiere, si cambiarono in effetto in altrettanti quadri, in
cui poterono essere compresi tutti i cittadini romani, senza tener conto del
sito effettivo, in cuiavessero la propria residenza. Si avverò anche in questo,
ciò che è accaduto in molte altre istituzioni di Roma, che cominciano
dall'avere una base reale nei fatti, ma col tempo si cambiano in concezioni
teoriche ed astratte, e in forme tipiche, in cui può farsi entrare un
contenuto, che nella realtà loro non potrebbe appartenere. Per tal guisa la
ripartizione delle tribù diventò la più comprensiva di tutte; cesso quasi di
essere locale per diventare personale; la indicazione della tribù entrò a far
parte della denominazione stessa del cittadino romano, e fu in tal modo, che
essa potè riuscire di base alla più democratica delle riunioni, che siasi
conosciuta in Roma, che fu quella appunto dei comizii tributi. Questi non hanno
più il carattere militare dei co mizii centuriati, ma hanno un'impronta
essenzialmente cittadinesca; si tengono perciò nel foro e nei primitempi si
riuniscono nei giorni di mercato, in cui la plebe del contado ha occasione di
convenire nella città . 307. Tuttavia anche i comizii per tribù, allorchè
entrarono nei quadri regolari della costituzione politica, finirono per
modellarsi sulle assemblee precedenti. Essi infatti, quando sono giunti al
pieno loro sviluppo, sono anche preceduti dagli auspizii, quando siano
convocati da un magistrato, a cui questi appartengano, e sono convocati
solennemente dal medesimo, per mezzo degli araldi, in giorni, che non saranno
più chiamati comitiales, ma che debbono però essere nel novero dei dies fasti.
È analoga parimenti la pro cedura per la votazione, salvo che il voto si dà per
tribù, la prima delle quali viene ad essere tratta a sorte, e prende anche
il È degno di nota a questo proposito il
{passo diMACROBIO, Saturnales, I, 16, $ 34, in cui, riferendosi ad uno scritto
del giureconsulto P. Rutilio Rufo, parla dei giorni dimercato, in cui rustici, intermisso rure, ad mercatum
legesque accipiendas Romam venirent . Husche, Jurisp. antijustin., 11. 378 nome
di tribus principium. Nel seno poi di ogni tribù il voto è dato viritim, e
l'esito definitivo viene ad essere determinato dalla maggioranza delle tribù.
Questi comizii hanno però il vantaggio della più facile convocazione, in quanto
che possono essere convocati da magistrati patrizii e da magistrati plebei,
come i tribuni, al modo stesso che i provvedimenti, che essi prendono, possono
essere o vere leggi o semplici plebisciti, secondo l'autorità che li propone ;
il che spiega come i comizii tributi si siano gradatamente cambiati nell'organo
legislativo più operoso nell'ultimo periodo della repub blica. Mentre essi
infatti richiamano a sè la sola elezione dei magi strati minori, e la
giurisdizione per i reati punibili con sole pene Per lo svolgimento pressochè parallelo dei
comizii centuriati e dei comizii tri buti mi rimetto a ciò che ho scritto più
sopra al n ° 224, 273.e per il pareggiamento che venne facendosi fra le leggi
ed i plebisciti ai numeri 231, 232 e 233, 281Solo mi limito ad aggiungere che
negli ultimi tempi dagli stessi comizii tributi potevano emanare vere leggi,
allorchè erano convocati da veri magistrati, come consoli e pretori, oppure
plebisciti, allorchè erano convocati da tri buni della plebe. Trovo una prova
di ciò paragonando le intestazioni di due leggi riportate dal Bruns. L'una è la
lex agraria del 643 dalla fondazione di Roma, la cui intestazione è così
concepita: tribuni plebei plebem ioure
rogarunt, plebesque ioure scivit , sebbene in tale occasione abbiano preso
parte alla votazione anche i patrizii come lo dimostra il fatto, che ivi si
aggiunge: Tribus principium fuit, pro
tribu Q. Fabius, Q. filius, primus scivit , il quale Fabio dovette
probabilmente essere un patrizio della gens Fabia (Bruns, Fontes, pag., 72).
L'altra legge invece è la les Quinctia, de aqueductibus, dell'anno 745 di Roma,
che è così intestata: T. Quinctius
Crispinus populum iure rogavit, populusque iure scivit, in foro pro rostris
Aedis divi Iulii pridie K. Iulias. Tribus Sergia principium fuit; pro tribut
Sex... L. F. Virro primus scivit . Bruns, Fontes, 112. — Diqui infatti appare
ad evidenza, che quando la convocazione parte dal tribuno della plebe parlasi
di plebes e di plebiscitum, ancorchè la riunione comprenda anche i patrizii:
mentre quando trat tasi di convocazione fatta dal console esso chiama ai
comizii tributi il populus e il provvedimento emanato viene così ad essere un
populiscitum, ossia una lex nel senso primitivo dato a questo vocabolo. La cosa
è pur confermata da quella parte, che ci pervenne della intestazione alla lex
Antonia, de Tarmessibus, dell'anno 683 di Roma, in cui la riunione dei comizii
tributi, essendo provocata dai tribuni della plebe, ancorchè in base ad un
parere dato dal senato (de senatus sententia) parlasi perciò di convocazione
della plebes e quindi di plebiscitum (Bruns, Fontes, p. 91). In questo periodo
quindi tanto le leges quanto i plebiscita emanano da comizii tributi e la loro
differenza deriva dall'essere l'iniziativa presa da un vero magistrato
(console, pretore) che convoca il popolo, o da un tribuno della plebe, che
convoca invece la plebe, sebbene anche in queste ultime riunioni intervengano
anche i patrizii. Viene così ad essere vero ciò che dice Pomponio, che inter plebiscita et leges species
constituendi interesset, potestas autem eadem esset . L. 2, 8, Dig. 1, 21.
pecuniarie, finiscono invece per assorbire tutto il potere legislativo. È a
notarsi tuttavia, che mentre la legislazione dei comizii centu riati aveva
avuto un carattere specialmente politico e costituzionale, perchè è con essa
che si vennero pareggiando gli ordini, quella in vece, che usci dai comizii
tributi, ha un carattere eminentemente sociale, e in parte già si riferisce ad
argomenti di diritto privato. 308. Si può quindi conchiudere, che la
costituzione serviana per vade le istituzioni politiche di Roma per tutto il
periodo repubblicano. I concetti della medesima cominciano dall'avere una base
nella realtà, ma finiscono per cambiarsi in altrettante costruzioni logiche, a
cui si dà tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. In questa guisa il
censo di economico divien morale, le centurie di militari si con vertono in
politiche, le tribù di ripartizioni locali mutansi in quadri, in cui tutta la
cittadinanza può essere compresa, per quanto la me desima dimori eziandio fuori
della città. Per tal modo la costitu zione di Servio Tullio, al pari delle mura
che ne portano il nome, poté bastare a tutti gli incrementi e a tutte le
trasformazioni, che Roma ebbe a subire per parecchi secoli, e per tutto quel
tempo, in cui essa tenne ancora in pregio le antiche virtù ed istituzioni. Vero
è, che le forme esteriori sembrano sempre essere foggiate su quelle, che erano
prima adoperate; ma conviene dire che
spiritus intus alit , e che questo nuovo alito spira per modo entro le
forme an tiche, da far loro capire un contenuto ben diverso dal primitivo, e da
spezzarle anche, quando siano diventate disadatte, nel qual caso però se ne
foggiano delle nuove, ma sempre sul modello delle an tiche. Questo è il
magistero, che Roma seguì costantemente nello svol gimento delle proprie
istituzioni politiche. Un analogo processo ap pare anche più evidente nella
elaborazione più lenta e graduata, che ebbe a ricevere il diritto privato di
Roma, sovra il quale la costituzione serviana ha certamente esercitata una
influenza di gran lunga maggiore di quella che soglia essergli attribuita, come
spero di poter dimostrare nel seguente capitolo. Quanto alla legislazione
comiziale e ai caratteridella medesima, cfr. FERRINI, Storia delle fonti del
diritto romano, Milano. La costituzione serviana e la sua influenza
sull'elaborazione del ius Quiritium. 309. Se fu agevole il mettere in rilievo
gli effetti della costitu zione serviana sul diritto pubblico di Roma, non può
dirsi altrettanto della influenza tacita, ma non meno importante, che essa
esercito sulla elaborazione del diritto privato. A questo proposito poco o
nulla ci dicono gli storici, come quelli che naturalmente si arrestarono alle
mutazioni più appariscenti, che si erano avverate nelle istituzioni politiche.
Solo Dionisio si limita a dire di Servio, che egli pubblico ben cinquanta leggi
sui delitti e sui contratti; che egli distinse i giudizii pubblici dai privati;
e che prese anche dei provvedimenti a favore dei debitori, senza però ricordare
il contenuto preciso dei medesimi. La probabilità ed anche la necessità di una
legislazione all'epoca serviana non può certo essere negata, non potendo
essersi avverata una trasformazione cosi profonda nell'organizzazione civile e
politica, senza che si riflettesse eziandio nel diritto privato. Tut tavia è
certo, che le mutazioni nel diritto privato non dovettero tanto operarsi per
mezzo di leggi, quanto piuttosto mediante quella tacita elaborazione di un
diritto comune alle due classi, che era la naturale conseguenza dei nuovi
rapporti, in cui esse venivano a trovarsi. È quindi negli scritti dei
giureconsulti, che si devono cer care le reliquie delle istituzioni scomparse,
e in essi sono sopratutto a cercarsi quelle distinzioni, quei concetti, quegli
atti simbolici, che sopravvissero ancora in epoche, in cui più non se ne
comprendeva il significato, e che possono in qualche modo rannodarsi al
concetto informatore della costituzione serviana. Sono le hastae, le vindictae,
i procedimenti simbolici, gli atti per aes et libram, i concetti primi tivi del
caput, della manus, del mancipium, la distinzione fra le res mancipii e le res
nec mancipii, tutti quei concetti insomma,
Dron., IV, 10, 13, 25. Quanto ai debitori Dionisio, IV, 9, 11,
attribuisce a Servio di aver perfino pagato del proprio i creditori, e di aver
voluto che i beni e non la persona del debitore fossero vincolati al creditore;
ma ciò forse non è che un effetto di quella tendenza, che fa riportare a Servio
tutti i provvedimenti, che potevano apparire favorevoli alla classe servile ed
alla plebe. 381 di cui ignorasi la vera origine e che sono sopravvivenze di
un'e poca anteriore, che possono servire come materiali per la ricostru zione
del primitivo diritto. Gli è soltanto col ricomporre insieme tutti questi
rottami, che spargono talvolta dei vivi sprazzi di luce, quando siansi
collocati nel sito, ove debbono trovarsi, e coll'avere presente il carattere
del popolo, le sue istituzioni politiche, il suo metodo di serbare i vocaboli,
cambiandone anche il contenuto, ed il criterio informatore della riforma
serviana, che si pud riuscire a ricostituire il diritto privato, che dovette
iniziarsi in questo periodo, se non nei particolari minuti, almeno nelle sue
linee generali e nella logica fondamentale, da cui dovette essere percorso.
310. Fu questo paziente lavoro di ricomposizione, che mi mette in condizione di
porre innanzi a questo proposito una congettura, la quale a prima giunta potrà
apparire ardita, ma che risulterà sempre meglio comprovata, a misura che,
procedendo innanzi, tutte le reli quie, che ci pervennero, dell'antico diritto,
finiranno per prendere senza sforzo quel posto, che loro compete, e ci
porgeranno cosi una spiegazione naturale, logica e verosimile dei caratteri
primitivi del medesimo. La congettura sta nell'affermare, che almodo stesso che
con Servio Tullio si posero le basi della Roma storica, e si formd quel populus
romanus quiritium, che riempi poi la storia del racconto delle proprie gesta,
così fu eziandio da quel punto, che dovette iniziarsi la vera e propria
elaborazione di quel ius quiritium, che fu ilnucleo primitivo di tutto il
diritto privato di Roma, e che quest'ultimo, malgrado il posteriore suo
svolgimento, non perdette più mai quella speciale impronta, che ebbe ad
assumere sotto l'influenza della costi tuzione serviana. Non si vuole già dire
con ciò, che prima non vi fossero i quirites ed un ius quiritium; ma quelli non
comprendevano che i membri delle curie, e questo indicava il complesso delle
istituzioni di carattere gen tilizio, che erano proprie del popolo delle curie,
e che perciò avevano ancora un carattere pressochè feudale e patriarcale. Con
Servio Cid parmi abbastanza dimostrato
dall'analisi, che ho fatta della legislazione attribuita ai Re nel periodo
della città esclusivamente patrizia, dalla quale risulta che la famiglia, la
proprietà, il delitto e le pede continuavano ancora in parte a conservare quei
caratteri, che avevano nel periodo gentilizio. V. sopra lib. II, cap. IV, 88 5
e 6, 329.382 Tullio invece incomincia l'elaborazione di un diritto comune ai
due ordini, e siccome i medesimi, riuniti nelle classi e nelle centurie,
prendono il nome di quirites, così incomincia la formazione di un vero e
proprio ius quiritium, in cui i vocaboli e le forme proprie del diritto
formatosi nei rapporti fra le genti patrizie e la popo lazione di condizione
inferiore, da cui esse erano circondate, ven gono a ricevere una nuova
significazione, e ad essere applicati ai rapporti, che erano l'effetto della
nuova condizione di cose. Si conservano pertanto ancora i vocaboli di manus per
indicare nel loro complesso i poteri, che appartengono al quirite, quale capo
di famiglia e come proprietario di terre; quello di nexum per indicare
l'obbligazione di carattere quiritario; quello di mancipium per in dicare il
complesso delle cose e delle persone, che dipendono dal quirite: ma intanto
questi vocaboli, che dapprima designavano il diritto proprio della classe
superiore di fronte alle popolazioni vas salle, da cui era circondata, vengono
a significare i concetti pri mordiali del vero ius quiritium, comune alle due
classi, e si mutano in altrettante concezioni logiche ed astratte, in cui può
farsi entrare un nuovo contenuto. A quel modo insomma che colla formazione
della città patrizia quei concetti di connubium, di commercium e di actio, che
prima si erano spiegati nei rapporti fra le varie genti, vennero invece a
governare dei rapporti fra quiriti, e cambiandosi così in concetti quiritarii
furono il punto di partenza di altret tante istituzioni proprie dei quiriti (ex
iure quiritium ) ; così quel ius nexi mancipiique, che prima governava i
rapporti fra i padri della gente patrizia e la plebe circostante, per
l'accoglimento di quest'ultima nel populus romanus quiritium, venne a cam
biarsi eziandio in una istituzione di carattere quiritario. Fu in questa guisa,
che accanto a quella parte del diritto quiritario, che si ispira ad un'assoluta
uguaglianza fra i capi di famiglia, fra i quali intercede, se ne presenta
un'altra, che tradisce l'inferiorità di con dizione di una delle classi, che
entró a costituire il populus, alla qual parte appartengono appunto i concetti
del nexum, del manci pium, della manus iniectio. 311. Si aggiunge che il
contenuto di questi concetti viene anche
Questo è ciò che ho cercato di dimostrare più sopra al nº 266, p. 326.
Cfr. a questo proposito ciò, che si è detto intorno alla condizione giuridica
della plebe, anteriormente alla sua ammessione nella città, al n ° 287, 351383
a risentirsi delle circostanze sociali, in cui essi vennero a consolidarsi.
Siccome quindi il concetto ispiratore di tutta la riforma ser viana consisteva
nel censo, quale misura e stregua dei diritti, che appartengono ai quiriti,
cosi il censo venne in certo modo ad essere un crogiuolo, che servi ad isolare
l'elemento giuridico e politico di questi varii istituti dagli elementi di
carattere diverso con cui trovasi confuso. Il diritto perdette cosi alquanto
del suo carat tere religioso e venne invece ad esseremodellato in modo rozzo o
sintetico sul concetto del mio e del tuo; esso inoltre assunse un'im pronta di
rigidezza pressochè militare, quale poteva convenire ad un popolo, che
presentavasi nell'atteggiamento di un esercito, i cui membri riguardavano
l'asta come simbolo del proprio diritto, e
ma xime sua esse credebant, quae ab hostibus caepissent . Il censo viene
in certo modo a misurare il contributo, che ciascuno reca in questa specie di
società, e quindi, mentre esso è la stregua per giudicare dell'interesse, che
ciascuno ha nella medesima, serve anche per determinare la parte, per cui
ciascuno deve contribuire alla co mune difesa. Il popolo romano venne così a
compiere collettivamente quel lavoro, che dovrebbe fare anche oggi il
giureconsulto per con siderare le persone sotto il punto di vista
esclusivamente giuridico, facendo astrazione da tutti gli altri aspetti, sotto
cui esse potreb bero essere considerate. Per tal modo il quirite, come tale,
non è più nè patrizio nè plebeo, ma viene ad essere isolato da tutti i suoi
rapporti gentilizii; si considera come un caput; conta come uno nel censo, e
compare nel medesimo, in quanto unifica in sè le per sone e le cose, che da
esso dipendono. Di qui l'immedesimarsi dei diritti di famiglia e di proprietà,
che è il carattere più saliente del primitivo ius quiritium, e la
significazione comprensiva e sintetica dei vocaboli in esso adoperati, che lo
indicano ad un tempo come capo di famiglia e quale proprietario di terre, ed
hanno in certo modo l'apparenza di altrettante rubriche, che esprimono
disgiuntamente i varii atteggiamenti sotto cui il quirite può essere
considerato. Ritengo che questo sia il
solo modo per spiegare in modo plausibile quel ca rattere peculiare al diritto
primitivo di Roma, per cui persone e cose, proprietà e famiglia sembrano
confondersi ed immedesimarsi insieme. Non è sostenibile infatti, che i Romani a
quest'epoca confondessero il diritto del marito sulla moglie e del padre sui
figli con quello del proprietario sopra una cosa; ma siccome persone e cose
figuravano nel censo, come dipendenti dal medesimo caput, così esse al punto di
vista giuridico comparvero dapprima come se entrassero a far parte del medesimo
mancipium o della stessa familia. 384 - 312. Sarebbe naturalmente difficile
trovare un autore, che accenni a questa tacita elaborazione, ma la medesima
risulta da diverse circostanze, le quali insieme riunite provano che tale ha
dovuto essere il processo logico, che domino la formazione del ius quiri tium
all'epoca serviana. Così, ad esempio, noi sappiamo dal Momm sen, che una delle
significazioni più certe dell'espressione
populus romanus quiritium è stata
quella di indicare la leva patrizio
plebea , leva che ha cominciato appunto ad effettuarsi in quest'e poca. Noi
sappiamo parimenti, che da quest'epoca cominciarono ad essere lasciate in
disparte le espressioni di iura gentium, di iura gentilitatis, di ius
gentilicium, che dovevano essere ancora frequenti durante l'epoca patrizia, e
che presero invece il sopravvento le espressioni di ius quiritium, e di potestà
spettante al cittadino ro mano ex iure quiritium. Cosi pure non vi ha dubbio,
che le altre forme di proprietà non vengono più tenute in calcolo, ma si tien
conto invece del solo mancipium, che vedremo a suo tempo essere stata il primo
nucleo della proprietà ex iure quiritium, quello cioè che doveva essere
valutata nel censo per commisurarvi la posizione del cittadino. Intanto la
espressione di quirites entra nell'uso co mune: come serve per le formole di
convocazione delle classi e delle centurie, così serve per indicare i
testimonii, che si adoperano negli atti di carattere quiritario (classici
testes). È da questo punto pa rimenti, che l'asta viene ad essere l'emblema del
diritto quiritario, che il populus assunse un carattere essenzialmente
militare, nè può ritenersi inverosimile la congettura, che a quest'epoca
rimonti il centumvirale iudicium, tribunale essenzialmente quiritario, la cui
competenza era appunto indicata dall'asta, che si infiggeva davanti al medesimo.
Infine fu certamente una conseguenza di questo
MOMMSEN, Röm. Forschungen, I, 168.
Quanto allo svolgimento del concetto di mancipium, e alla conseguente
distin zione delle res mancipii e nec mancipii mi rimetto al seguente lib. IV,
cap. II, S $ 1°, 4º, 5º. L'origine del
centumvirale iudicium è una delle questioni più controverse nella storia del
diritto primitivo di Roma, nè io pretendo qui di risolverla. Per ora mi limito
a notare, che per me ha molta significazione quel passo di Gajo: festuca
autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii, quod
maxime sua esse credebant, quae ab
hostibus caepissent; unde in centumviralibus iudiciüs hasta praeponitur . Parmi infatti di scorgervi un
nesso, se non storico, almeno logico, fra l'epoca in cui il quirite appare come
un uomo di guerra, armato di asta,disposto a chiamar suo ciò, che conquisterà
sul nemico, e l'istituzione del centumvirale iudi 385 speciale punto di vista,
sotto cui i quiriti vennero ad essere con siderati, che fra i diversi negozii
giuridici, che potevano essere in uso, venne facendosi la scelta di quelli, che
si riferissero direttamente al diritto quiritario. Di qui le espressioni di
legis actiones, di actus legitimi, di iudicia imperio continentia, di negozii,
che si com pievano secundum legem publicam, espressioni tutte, che noi tro viamo
anche più tardi, ma la cui origine dovette rimontare a quel momento storico, in
cui il diritto quiritario cominciò a consolidarsi, come diritto comune al
patriziato ed alla plebe. Che anzi fu anche in quest'occasione, che dovette
modellarsi quell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram,
il quale serve in certo modo per attribuire autenticità a tutti gli atti, che
possono modifi care in qualche modo la posizione giuridica del cittadino nella
comunanza quiritaria. 313. Per verità basta porre l'istituzione del censo, come
base di partecipazione alla vita giuridica, e politica e militare di una comu
nanza, per comprendere come per l'attuazione di un tale concetto fosse
indispensabile: lº di determinare quali fossero le persone, che dovevano
contare nel censo (caput); 2° di isolare la parte del pa trimonio, che è tenuta
in calcolo nel censo (mancipium ) da tutte le altre (nec mancipium ); 3º di
determinare le forme pubbliche cium. Ora se vi ha epoca in cui il quirite
assuma decisamente questo carattere di uomo di guerra, questa è certamente
l'epoca serviana; e quindi è a quest'epoca che deve rimontare il concetto
informatore dell'hasta, della festuca, dell'actio sacra mento, in cui questa si
adopera, e del centumvirale iudicium, che deve essere appunto preceduto
dall'actio sacramento, e avanti cui trovasi infissa l'asta simbolo del giusto
dominio. La grave questione fu di recente presa in esame dal MUIRHEAD, Histor.
Introd., 74, il quale sembra rannodarsi all'opinione del Niebhur, II, 168,
seguita poi dal KELLER e da molti altri, che riporta all'epoca serviana
l'istituzione dei centumviri. Questa opinione invece è ora vigorosamente
combattuta dal WLASSAK, Römische Processgessetze, Leipzig, 1888, 131 a 139, il
quale verrebbe alla conclusione, che l'istituzione dei centumviri non abbia
preceduto di molto la lex Ae butia, la quale secondo lui deve essere assegnata
al principio del sesto secolo di Roma. Se con ciò egli intende di sostenere,
che non abbiamo una prova diretta, che l'esistenza dei centumviri rimonti ad
epoca anteriore, egli è certamente nel vero; ma ciò non basta per escludere,
che l'istituzione potesse già esistere prima, senza che a noi ne sia pervenuta
notizia. È poi incontrastabile, che essa porta in sè un carattere di antichità
remota, e che i simboli, da cui è circondata e la procedura da cui è proceduta,
ci riportano a quella concezione essenzialmente militare del popolo romano, che
rimonta appunto all'epoca serviana. G. C., Le origini del diritto di Roma. 25 386 - e
solenni, mediante cui questa proprietà potesse essere trasmessa, e che
servissero ad attestare qualsiasi modificazione potesse soprav venire nella
condizione giuridica del caput (atto per aes et libram ); 4º di richiedere, che
questi atti, i quali influissero sulla posizione del quirite, fossero compiuti
coll'intervento di un pubblico ufficiale (libri pens) e colla testimonianza di
persone, che appartengano alla stessa comunanza (classici testes); 5 ° E infine
di introdurre eziandio una procedura, che debba essere di preferenza seguita
nelle controversie di diritto quiritario (actio sacramento ), ed anche un
tribunale per manente, composto esso pure di persone tolte dalle classi e dalle
centurie, per risolvere le questioni relative al diritto stesso (cen tumvirale
iudicium ). Non può certamente sostenersi, che tutte queste istituzioni, che
poi si incontrano effettivamente nell'antico diritto romano, possano tutte
rimontare alla stessa costituzione serviana; ma si può almeno affermare con
certezza, che esse erano una conseguenza logica del concetto informatore della
medesima. Spiegasi in questo modo come mainel diritto di Roma trovinsi sen
z'altro costituita e formata una quantità di istituzioni, in cui si ac centua
il carattere quiritario, e come queste acquistino un carattere prevalente e
preponderante, mentre le istituzioni di carattere genti lizio sembrano per il
momento essere lasciate in disparte. Spiegasi parimenti come il mancipium siasi
distinto dal nec mancipium; come l'espressione pressochè militare di mancipium
sia sottentrata a quella gentilizia di heredium; come diversi siano i modi per
la trasmissione delle res mancipii, e di quelle che non sono tali; come i
diritti del quirite compariscano in certo modo come illimitati e senza confine,
poichè egli, essendo isolato dall'ambiente, in cui prima si trovava, viene ad
essere riguardato come un'individualità sovrana ed indipendente. Intanto si
comprende eziandio come pochi siano i concetti e le istituzioni del diritto
quiritario, e come esso non governi dapprima tutti i rapporti giuridici, anche
fra i cittadini ro mani; poichè intorno ad esso perdurano sempre le istituzioni
gentilizie del patriziato ed anche le consuetudini della plebe. Questo ius
quiri tium insomma rappresenta quella parte di quel ricco materiale giu ridico,
che era posseduto dalle genti patrizie, fluttuante sotto forma consuetudinaria,
che primo riusci a precipitarsi ed a cristallizzarsi, e a diventare comune al
patriziato ed alla plebe, in quanto facevano parte del populus romanus
quiritium. Siccome poi esso venne a consolidarsi fra due classi, che prima
erano in condizioni compiuta 387 > mente diverse, così in questo periodo
della sua formazione dovette maggiormente irrigidirsi e prendere le mosse da
certi concetti, come quelli del nexum, del mancipium, della manus iniectio, che
eransi prima formati nei rapporti della classe superiore con quella inferiore.
Le cause intanto, che a parer mio possono aver determinata questa singolare
formazione del ius quiritium, che doveva poi eser citare tanta influenza
sull'avvenire della giurisprudenza romana, debbono essere cercate nel carattere
peculiare della costituzione serviana, e nello svolgimento che seppe dare alla
medesima il genio eminentemente giuridico del popolo romano. Prima fra esse è
la costituzione serviana, in virtù della quale all'organizzazione
essenzialmente patrizia di Roma primitiva sottentra un'organizzazione novella,
in cui entrano cosi i patrizii come i plebei nella doppia qualità di capi di
famiglia e di proprietarii di terre. Siccome infatti la famiglia e la proprietà
privata erano l'uniche istituzioni, che erano comuni alle due classi, così esse
solo potevano essere di base alla partecipazione nella stessa comunanza. Quindi
un primo effetto logico ed inevitabile di questa speciale condi zione, in cui
si trovò collocato il popolo dei quiriti, venne ad es sere questo, che al punto
di vista giuridico si fece astrazione da quelle istituzioni intermedie, che si
frapponevano fra la famiglia ed il popolo, quali erano le genti e le tribù
primitive. Sia pure che queste istituzioni continuino ad esistere nel
patriziato; ma in tanto l'elemento gentilizio viene ad essere escluso dal ius
quiritium nello stretto senso della parola, in quanto che di fronte al censo
più non vi sono che capi di famiglia, riguardati come liberi disposi tori delle
proprie cose. Quasi si direbbe, che la vita giuridica si ri tira dalle
istituzioni intermedie, e viene invece a riunirsi più potente e concentrata
nelle due istituzioni estreme, le quali vengono cosi ad irrigidirsi, come il
diritto da esse rappresentato, per guisa che la famiglia e il suo patrimonio si
cambia nel mancipium del proprio capo, ed il populus assume un carattere
essenzialmente militare. Quella distinzione pertanto fra res publica e res
familiaris, che già aveva cominciato a delinearsi fin dapprincipio, ora viene
ad accentuarsi in modo più vigoroso e potente; poichè tutti i gruppi intermedii
vengono in certa guisa ad essere soppressi al punto di vista della costituzione
serviana. Parimenti siccome l'intento di questo associarsi di elementi, fra cui
intercedevano così gravi differenze, era quello della comune difesa, e forse
anche quello dell'offesa e della conquista dei terri 388 torii vicini, così il
nuovo popolo non poteva a meno di assumere un carattere essenzialmente
militare, che doveva riflettersi eziandio nel suo diritto privato. Infine tutto
ciò che riferivasi al connu bium, al culto gentilizio, agli auspizii,
continuava anche dopo la costituzione serviana ad essere esclusivamente proprio
del patriziato: quindi i soli atti, che potessero essere comuni ai due ordini,
dove vano essere atti di carattere mercantile, quale era appunto l'atto per aes
et libram, il quale viene così a ricevere molteplici e sva riate applicazioni,
e ad essere la forma fondamentale, intorno a cui si aggirano tutti i negozii di
carattere quiritario. A queste considerazioni deve aggiungersi quella del genio
emi nentemente giuridico del popolo romano, il quale nella elaborazione del
proprio diritto seppe spingere fino alle sue ultime conseguenze lo speciale
punto di vista, a cui si era collocata la costituzione serviana. Questo è certo,
che per l'elaborazione giuridica presen tavasi mirabilmente atto questo
considerare i capi di famiglia come altrettanti capita, ed il complesso dei
loro diritti come un manci pium, ossia come una questione di mio e di tuo. Era
soltanto in questa guisa, che ai rapporti fra i diversi membri della comunanza
poteva essere applicata quella iuris ratio, elaborazione propria del genio
romano, mediante cui l'elemento giuridico viene ad isolarsi da tutti gli
elementi affini. Fu questo il processo, mediante cui il diritto potè essere
sottoposto a quella logica astratta, per cui le per sone perdono in certa guisa
ogni personalità concreta e diventano dei capita; le fattispecie si riducono ad
una selezione di tutto cid che possa esservi di strettamente giuridico nei
fatti umani; e le isti tuzioni giuridiche appariscono come altrettante
costruzioni geome triche, i cui elementi possono essere scomposti, e ricevere
cosi un proprio svolgimento. Il momento appunto, in cui questa logica si
presenta più rigida, più esclusiva, fu certamente l'epoca serviana, perchè in
essa i membri della comunanza non potevano considerarsi, che sotto l'aspetto
del mio e del tuo, e quindi dovevasi in ogni argomento procedere numero,
pondere acmensura e attribuire ad ogni diritto le forme accentuate e prominenti
del diritto di proprietà. 315. Si potrà forse osservare, che questa specie di
astrazione giu ridica mal si può comprendere in un popolo primitivo, quale sa
rebbe il Romano. È però facile il rispondere, che una parte di esso non poteva
chiamarsi del tutto primitiva, dal momento che aveva attraversato tutto un
lungo periodo di organizzazione sociale, ed aveva 389 fatto tesoro delle
tradizioni del medesimo. Ma vi ha di più, ed è che senza un'astrazione di
questo genere era impossibile la formazione di una comunanza, come quella dei
quiriti. Questi sono certamente uomini reali, ma in quanto entrano nella
comunanza sono riguardati soltanto come capi di famiglia e come proprietarii di
terre. Il quirite pertanto è esso stesso un'astrazione, come sono astrazioni e
costruzioni logiche tutti i diritti, che al medesimo appartengono. Ciò fa sì,
che ad esso può applicarsi quella logica geometrica e precisa, che nel suo
genere non è meno meravigliosa di quella, che i Greci applica rono ai concetti
del vero, del bello e del buono. I Romani procedono bensì in base alla realtà,
ma hanno anch'essi una potenza specula tiva e di astrazione, per cui isolano
l'elemento giuridico dagli elementi affini, e per tal modo riescono a costruire
un edifizio logico e dia lettico in tutte le sue parti, le cui linee son
dissimulate nelle parti colari fattispecie, ma che certo esiste nella mente dei
giureconsulti. È l'ignorare questa dialettica latente, che ci rende così
difficile il ricom porre le dottrine dei giureconsulti classici, e a questo
proposito sono altamente persuaso, che questa dialettica non può essere
sorpresa che alle origini del diritto quiritario. Posteriormente infatti il
numero infinito dei particolari colla sua stessa varietà e ricchezza rende im
possibile di comprendere l'ossatura primitiva dell'edifizio, mentre la sintesi
primitiva del diritto quiritario, le cause che ne determina rono la formazione,
e la logica, che ebbe a governarla, possono facil mente somministrarci la
chiave per comprenderne il successivo svi luppo. Lo studio di questa struttura
primitiva del diritto quiritario, sarà argomento del seguente libro, e
conclusione del presente lavoro. Per ora intanto, onde non essere costretto ad
interrompere la esposizione della struttura organica del jus quiritium col
racconto degli avvenimenti storici, che contribuirono alla formazione di esso,
credo opportuno di porre termine al presente libro con un capitolo, in cui
cercherò di riassumere quella lotta per il diritto fra il pa triziato e la
plebe, che segui nel periodo, che intercede fra la co stituzione serviana e la
legislazione decemvirale. Le divergenze fra gli autori nell'apprezzare gli
effetti della costituzione serviana, non impediscono, che tutti siano concordi
nel riconoscere, che essa costitui il primo passo al pareggiamento dei due
ordini. Con essa infatti la plebe venne ad avere un terreno giuridico e legale,
sovra cui potè misurarsi col patriziato, ed una assemblea, in cui potè
impegnare la lotta. Da quel momento perciò potè manifestarsi quella legge, che
secondo Aristotele determina tutte le rivoluzioni politiche e sociali, secondo
cui gli eguali sotto un aspetto, tendono anche a diventarlo sotto tutti gli
altri aspetti. Come potevano gli eguali nell'esercito, nei comizii centuriati,
nei tributi, continuare ad essere disuguali nei connubii, nelle magistra ture,
nei sacerdozii, e nel diritto ? Finchè durd il regno di Servio Tullo, la lotta
non ebbe occasione di spiegarsi, perchè, secondo la tradizione, lo stesso
Servio si appiglid a tutti i mezzi per favorire quel pareggiamento, che era
nello spi rito della costituzione da lui introdotta. Egli quindi rinnovo a più
riprese il censo; introdusse nuove leggi relative ai contratti ed ai debiti;
concesse la cittadinanza ai servi manomessi, comprenden doli anche nel censo;
distinse i giudizii pubblici e privati; institui giudici privati per la
decisione delle controversie di minore impor tanza, e probabilmente eziandio la
Corte dei centumviri per stioni di diritto quiritario nello stretto senso della
parola, e cerco eziandio di migliorare la condizione dei creditori. Fu in tal
le que ARISTOTELES, Politica, ed.
Bekker. Questo con cetto trovasi mirabilmente espresso da CICERONE, De rep., I,
49, allorchè scrive: quo iure societas
civium teneri potest, cum par non sit conditio civium? Iura paria esse debent eorum inter se, qui sunt
cives in eadem republica . Di qui egli sembra dedurre, che se fosse continuata
la dominazione esclusiva dei padri, la città non avrebbe mai potuto avere uno
stabile assetto; itaque cum patres rerum
poti rentur, nunquam constitisse civitatis statum putant . Questi sono i provvedimenti attribuiti a
Servio Tullio sopratutto da Dionisio, il cui racconto in questa parte ebbe ad
essere accettato dal Niebhur, dal Lange e da altri nella loro ricostruzione
della storia primitiva di Roma. È tuttavia da notarsi che Dionisio non parla
punto dei centumviri, ma solo dei iudices privati. V. Dion., IV, 22, 4, 10, 13.
391 modo che mentre egli si cattivo l'affetto e la riconoscenza delle plebi,
che continuarono sempre a venerarne la memoria e a con siderarlo come
l'iniziatore di tutte le riforme ad esse favorevoli, si procurò invece una
sorda opposizione nel patriziato, come lo dimostra il fatto, che egli avrebbe
dovuto confinarlo ad abitare nel vicus patricius. Dopo Servio così il
patriziato che la plebe si trovarono di fronte ad un pericolo comune, che fu il
tentativo di tirannide di Tar quinio il Superbo, il quale avrebbe tolto di
mezzo le leggi ser viane, e mentre da una parte cercò di occupare la plebe con
la vori edilizii, si studið dall'altra di comprimere il patriziato, non
curandosi di convocare il senato, nè di riempirne i seggi, che re stavano
vacanti. – Ne consegui una sosta nello svolgimento dei concetti ispiratori
della costituzione serviana: sosta forse più appa rente, che reale, poichè se
il governo di un tiranno comprime la libertà di tutti, può sotto un certo
aspetto esser favorevole allo svolgersi dell'uguaglianza fra le varie classi,
rendendo tutti eguali di fronte al dispotismo di un solo. Il tentativo ad ogni
modo non potè riuscire, e quando i due or dini dimenticarono le loro gare di
fronte al nemico comune, venne ad essere naturale, che l'evoluzione si
ripigliasse, ritornando a quelle istituzioni serviane, che per il momento erano
ancora le sole, che potessero essere di base ad un accordo del patriziato e
della plebe. 317. Narra infatti Livio, che i primi consoli furono nominati in
base ai commentarii di Servio Tullo, e Dionisio aggiunge, che essi avrebbero
richiamate in vigore le leggi di Servio sui contratti, abrogate da Tarquinio ed
accette alla plebe, riattivata l'istituzione del censo, e ristaurati i comizii
per l'elezione dei magistrati e per le deliberazioni popolari. Tutti gli autori
poi, che ricordano il passaggio dal governo regio al repubblicano, sono
concordi in rico noscere, che il cambiamento essenziale si ridusse a sostituire
al re, magistrato unico ed a vita, il consolato, magistrato duplice ed Patricius vicus, scrive Festo, dictus eo,
quod ibi patricii habitaverunt, iu a bente Servio Tullio, ut, si quid
molirentur adversus ipsum, ex locis superioribus opprimerentur . Bruns, Fontes,
ed. V, 351. Dion., IV, 25; Liv., I, 49.
Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, 209, ove riassume le tradizioni diverse a noi
pervenute intorno a Tarquinio il Superbo. LIVIO (si veda); Dion., V, 2. 392
annuo. Il potere pertanto dei consoli fu una continuazione del potere regio,
colla sola differenza che il potere religioso si venne già in parte separando
dal civile, in quanto che i poteri, che appar tenevano al re qual sommo
sacerdote del popolo romano, furono per imitazione dell'antico affidati a un
rex sacrorum, o rex sa crificulus, ma in realtà si vennero concentrando nel
pontifex maximus, chiamato a presiedere il collegio dei fpontefici . Da cid in
fuori il potere sovrano non è dapprima ripartito fra i due consoli, ma persiste
intero in ciascuno di essi, salvo la reciproca intercessione, che l'uno può
opporre agli atti compiuti dall'altro. Che anzi, ad impedire che la continuità
dell'imperium possa essere interrotta col passare da un console ad un altro,
tocca al magi strato che esce di proporre ai comizii il proprio successore, e
nel caso in cui egli non lo faccia, si continua sempre a provvedere
coll'istituzione dell'interregnum, conservando il concetto ed il vo cabolo, che
erano già in vigore durante il periodo regio (3 ). È poi solo in seguito alle
lotte fra patriziato e plebe, e in causa anche dell'accrescersi della
dominazione romana, che quell'unico potere (imperium ) che accentravasi
dapprima nel re e poscia nei consoli, si viene lentamente e gradatamente
suddividendo fra le mol. teplici magistrature del periodo repubblicano; per
guisa che le ma gistrature maggiori (consoli, pretori, censori) si dividono in
certo modo le funzioni, che un tempo erano comprese nell'imperium regis, Questo concetto, che nel passaggio alla
repubblica non siasi sostanzialmente mutato il carattere del potere spettante
al magistrato, occorre in Dion., IV, 72-75; in CiceR., De rep., II, 30 e in
Livio, II, 1, 17. V. il raffronto che ne fa il Bongai, op. cit., pagg.
562-69. Che la dignità del pontifex
maximus dati soltanto dalla repubblica, mentre prima era il re stesso, che era
il sommo sacerdote del popolo romano, è cosa da tutti ammessa. V. fra gli
altri, Bouché-LECLERQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, p. 8 e 9; e il Willems,
Le droit public romain, 51 e 318. A parer mio la causa storica del fatto sta in
questo, che colla costituzione serviana il populus ro manus quiritium,
comprendendo anche la plebe, perdette in parte quel carattere re ligioso, che
aveva finchè era ristretto alle genti patrizie, e quindi il magistrato del
popolo romano assume un carattere essenzialmente civile e militare, mentre i
pon tefici, pur rappresentando il popolo come famiglia religiosa, continuarono
ad essere i custodi delle tradizioni religiose e giuridiche di quel patriziato,
da cui erano tolti. (3 ) V. quanto all' interrex e alla nomina di esso per
parte dei patres o patricii ciò che si è detto ai numeri 237-39, 288 e segg.,
ove ho cercato di dimostrare che la nomina dell'interrex, la patrum auctoritas
e la lex curiata debbono riguar darsi come sopravvivenze della costituzione
esclusivamente patrizia. 393 mentre le magistrature minori (questori, edili)
sono uno svolgimento di quegli ufficiali subalterni, che dapprima erano
nominati dal re e dal console, e che finiscono col tempo per essere anche essi
nomi nati direttamente dal popolo. È in questo modo che si spiega come mai
siasi potuto avverare una trasformazione cosi grande nella forma di governo,
senza che si alterassero le basi fondamentali della costi tuzione primitiva di
Roma. 318. Intanto finchè durarono i pericoli esterni delle guerre susci tate
dagli esuli Tarquinii, si mantenne fra i due ordini un' appa rente concordia ,
come lo dimostra il fatto, che i consoli sogliono essere tolti da famiglie
ritenute di tendenze favorevoli alla plebe, e che sono i consoli stessi, che
propongono di togliere le scuri dai fasci, allorchè rientrano nelle città, e
consacrano con leggi spe ciali il ius provocationis ad populum. Ma appena colla
morte di Tarquinio si attutiscono i pericoli esterni, si accentuano invece i
dissidii interni, ed è allora che si inizia una lotta, che direbbesi un modello
nel suo genere, tanta è la tenacità del patriziato nel conservare i suoi
privilegii e la perseveranza della plebe nell'ap profittarsi di tutte le
opportunità per ottenere concessioni novelle. Egli è durante questa lotta, che
già si pud scorgere come nella massa plebea venga distinguendosi la plebe ricca
ed agiata, la quale essendo pari in ricchezze aspira alla comunanza dei
connubii e degli La specializzazione
dell'imperium del magistrato è uno dei processi più degni di nota, che presenti
lo svolgimento delle istituzioni repubblicane, poichè l'imperium regis, al pari
del potere giuridico del capo di famiglia, parte da un'unità e sintesi potente,
a cui succede durante la repubblica una differenzazione, la quale,mentre è
determinata dall'incremento della città e dalle lotte fra patriziato e plebe,
obbe. disce però sempre alla logica fondamentale del concetto primitivo di
imperium. Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, 5; Herzog, Op. cit., I, 32, 580 e segg., e ciò che si disse in
proposito al nn. 201-204, 245. La diversità di trattamento, usata dal
patriziato alla plebe, nell'epoca che seguì immediatamente la cacciata dei re e
in quella posteriore alla morte di Tarquinio il Superbo è accennata da Liv., II,
21, 6 e da Sallustio, Hist. fragm., I, 9. Nota però giustamente il Bonghi, che
i dissidii esistevano già prima, e che quindi venne soltanto meno l'indulgenza,
che prima era adoperata. Op. cit., 302.
La provocatio ad populum, che Livio chiama unicum libertatis praesidium ebbe ad essere
consacrata negli inizii della repubblica colla lex Valeria, proposta dal
console Valerio Pubblicola. La provocatio doveva già preesistere nel periodo
regio, ma fu necessaria una espressa consacrazione di essa per il nuovo
elemento, che era entrato a far parte del populus. Cfr. ciò che si disse al n °
245, 300 e 301. >> 394 onori, e la plebe povera e minuta, che sopratutto
teme il carcere privato dei creditori patrizii, e aspira a quella ripartizione
dell'ager pubblicus, mediante cui può entrare a fare parte della vera ed ef
fettiva cittadinanza, accolta nelle classi e nelle centurie. Di qui i caratteri
peculiari di questa lotta, che ha del pubblico e del pri vato ad un tempo,
cosicchè una sommossa provocata dalla legge inumana sulla condizione dei
debitori, può condurre alla istituzione del tribunato della plebe, al modo
stesso che una mozione per restringere l'arbitrio del magistrato, finisce per
riuscire ad una proposta di generale codificazione. Cosi pure è un carattere di
questo conflitto, che le proposte dei tribuni sogliono comprendere più
provvedimenti ad un tempo, anche di natura diversa, e cid perchè essi mirano a
tenere unite la plebe ricca ed agiata e quella povera e minuta . Di più anche
in questa lotta si mantiene quel carattere pressochè contrattuale, che ha
governato la formazione della città; poichè i due ceti vengono fra di loro a
transazioni e ad accordi, stipulano dei foedera, e cercano persino di dare aime
desimi quella consacrazione religiosa, che è propria dei trattati fra i
popolidiversi (leges sacratae). Così pure la plebe, quando trova incomportabile
la propria coesistenza nella città, minaccia di abban donare la comunanza e di
fermare altrove la propria sede, o quanto meno si ricusa alla leva, che è il
primo obbligo e diritto del citta dino. Dappertutto infine si palesa il
carattere essenzialmente pra tico del popolo romano, in quanto che il conflitto
non appare do minato da questo o da quel concetto teorico, ma sembra essere
determinato dalle opportunità ed occasioni, che si presentano nella realtà dei
fatti. La questione infatti che si agita viene nella so stanza ad essere una
sola, cioè quella del pareggiamento giuridico e politico dei due ordini; ma
essa prende occasione ora dai mal trattamenti inflitti ai debitori, ora
dall'arbitrio del magistrato, ora Questa
distinzione della plebe in due parti è acutamente notata da leinio GENTILE, Le
elezioni e il broglio nella Rep. Rom., 24.
Di qui l'espressione di lex satura o per saturam, la quale secondo Festo
si gnificherebbe a lex multis aliis legibus confecta . Siccome però essa
cambiavasi in un mezzo per ottenere favore a provvedimenti, che altrimenti non
sarebbero stati approvati, accoppiandoli con altri che erano popolari, così si
cercd diporvi riparo colla lex Cecilia Didia del 655 di Roma. Cic., De domo,
20, 53. Festo, vº Satura. Cfr. WILLEMS, op. cit., 184. (3 ) V. quanto alle
leges sacratae la dissertazione del LANGE, De sacrosancta tri buniciæ
potestatis natura eiusque origine. Leipzig, 1883. 395 dalla ripartizione
dell'agro pubblico, ora dall'incertezza del diritto, ed ora infine dal divieto
dei connubii fra il patriziato e la plebe, e dall' esclusione di quest'ultima
dalle magistrature e dai sacer dozii. Per tal modo quella plebe, che memore
dapprima della condizione pressochè servile da cui era uscita, si contenta di
chie. dere l'istituzione di un magistrato, il quale non abbia altra potestá che
quella di venirle di aiuto, finisce col tempo, guidata ed orga nizzata da
questo istesso magistrato, per ottenere non solo il pareg giamento giuridico e
politico, ma per far entrare nei quadri della costituzione politica di Roma i
suoi magistrati (tribuni della plebe), i suoi plebisciti, ed i suoi comizii
tributi . 319. Qui però non può essere il caso di tener dietro alle vicis.
situdini diverse dei varii aspetti della questione politica e sociale, che si
agito fra il patriziato e la plebe, ma piuttosto di cercare quali fossero le
condizioni rispettive dei due ordini per ciò che si riferisce al diritto
privato. È questo certamente il maggior problema che presenti questo pe riodo
di transizione, poichè se la storia ha serbato qualche traccia delle lotte
politiche fra il patriziato e la plebe, noi sappiamo quasi nulla di quello che
accadde fra di loro nell'attrito dei quotidiani in teressi. Si aggiunge che le
testimonianze, che ci pervennero in proposito, sono del tutto contradditorie.
Mentre infatti Dionisio attesta che si rimisero in vigore le leggi intorno ai
contratti attri buite a Servio Tullio, Pomponio invece dice senz'altro, che
tutte le leggi promulgate dai re furono abolite con una legge tribunizia, e che
tutto fu lasciato alla consuetudine come era prima. Non vi è quindi altro modo
di uscire dalla difficoltà, che di argomentare lo stato del diritto privato
dalle condizioni rispettive, in cui si tro vavano le due classi. Un riassunto chiaro ed ordinato degli aspetti
essenziali, sotto cui ebbe a svol gersi la lotta, fra patriziato e plebe, nelle
parti attinenti al diritto, occorre nel Mui RHEAD, Histor. Introd., part. II,
sect. 17, 83-88. Per un racconto più partico lareggiato cfr. il Lange, Histoire
intérieure de Rome, livre II, 111 a 217.
Già ebbi occasione di riassumere questo singolare svolgimento della
costitu zione politica di Roma a proposito dei comizië tributi ai numeri
233-34, p. 271 e segg.; dei plebisciti ai numeri 231-32-33, 281 e seg.; e dei
tribuni della plebe n ° 249, 292(3 ) Dion., V, 2; Pomp., Leg. 2, 3 (Dig. I, 2). Secondo quest'ultimo
l'incertezza del diritto sarebbe durata circa vent'anni; ma è facile il notare,
che se essa perdurò fino alle XII Tavole, l'intervallo dovette essere di circa
sessant'anni. 396 Ora è certo anzitutto, che in questo periodo quell'attrito
delle classi, che appare nel campo politico, dovette avverarsi eziandio nel
dominio strettamente giuridico. Anche qui dovettero trovarsi di fronte le
tradizioni patrizie e le consuetudini plebee, coll' avver tenza perd che la
magistratura esclusivamente patrizia fini per dare una prevalenza alle prime
sulle seconde; cosicchè è probabile, che sopratutto la plebe ricca ed agiata,
malgrado il divieto dei connubii, cercasse già in qualche modo di imitare
l'organizzazione della fa miglia patrizia. Di più siccome eravi fra il
patriziato e la plebe co munanza di commercio, ma non ancora quella di
connubio, cosi si dovette continuare quell'elaborazione di un jus quiritium,
comune alle due classi, che già erasi iniziata colla costituzione serviana, ed
il medesimo dovette continuare a modellarsi sotto quelle forme di carattere
mercantile, che allora si erano introdotte, ricorrendo sopratutto
all'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, ossia dell'atto per aes
et libram. Che anzi, quando si voglia ammettere con alcuni autori, che il
tribunale de' centumviri, composto dap prima di quiriti tolti dalle varie
classi e poscia dalle varie tribù, rimonti all'epoca di Servio Tullio,
converrebbe, inferirne che questo Tribunale, in quell'epoca probabilmente
presieduto da un ponte fice, dovette cooperare efficacemente alla formazione
del jus qui ritium, come quello che anche più tardi appare chiamato a ri
solvere questioni di diritto strettamente quiritario. Nella sua opera tuttavia
la corte dei centumviri dovette più tardi anche es sere aiutata dai decemviri
stlitibus iudicandis, i quali pur sareb bero stati istituiti a poca distanza
dalla legislazione decemvirale, e dichiarati inviolabili, al pari dei tribuni e
degli edili della plebe, sarebbero stati chiamati a decidere le questioni di
stato . Infine è Quanto all'istituzione
dei centumviri e alle varie opinioni intorno all'epoca, a cui rimonta vedi il
capitolo precedente, nº 312, 384, nota 3.
È del tutto incerta anche l'origine dei decemviri stlitibus iudicandis,
in quanto che l'unico accenno ai medesimi sarebbe quello, che occorre in Livio,
III, 55, il quale parla di iudices decemviri, stati dichiarati inviolabili al
pari dei tribuni e degli edili della plebe colla legge Valeria Horatia del 305
di Roma. Di recente poi il WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig, 1888, 139
a 151, sostiene che i decemviri stlitibus iudicandis non debbono confondersi
coi iudices decemviri di Livio ma sono di istituzione posteriore. Noi però
sappiamo di essi, che giudicavano delle questioni di libertà e distato. Cic.,
pro Caec., 33. V. per l'opinione comunemente ricevuta Keller, Il processo
civile romano (Traduz. Filomusi, Napoli 1872, 17), il quale anzi li farebbe
rimontare sino a Servio Tullio, come giudici per le cause 397 pur probabile,
che gli edili della plebe, come ufficiali dipendenti dai tribuni, fossero fin
d'allora chiamati a risolvere quelle quistioni fra i plebei, che sorgevano sui
mercati e sulle fiere, e che comin ciassero cosi a dare forma e carattere
giuridico alle costumanze della plebe. In ogni caso è incontrastabile, che in
questo periodo il console, pressochè assorbito dalle cure militari, dovette,
per quello che si riferisce alla elaborazione del diritto e all'amministrazione
della giustizia, lasciare una larga parte alla influenza del collegio dei
pontefici. Questo collegio infatti, che abbiamo visto, fin dal l'epoca di Numa,
essere chiamato alla custodia delle tradizioni re ligiose e giuridiche, aveva
serbato il proprio ufficio anche dopo la cacciata dei re, e aveva anzi
acquistata una indipendenza maggiore, in quanto che era presieduto non più dal
re, ma da un pontifex maximus, in cui si unificavano i poteri al medesimo
spettanti. Si comprende pertanto la testimonianza pressochè unanime degli
scrittori, che ci descrivono il diritto primitivo di Roma, sopratutto negli
inizii della Repubblica, come riposto negli archivii de' ponte fici, e parlano
di questi ultimi come dei primimaestri in giurispru denza, e del ius
pontificium, come di una scuola a cui venne poi formandosi il ius civile.
Intanto è naturale, che i pontefici, come depositarii delle antiche tradizioni,
avessero sopratutto per iscopo di applicare le forme antiche ai rapporti
giuridici, che venivano sor gendo collo svolgersi della convivenza civile, e
che in questo senso venissero continuando quella elaborazione di un ius
quiritium, che erasi iniziata dal tempo, in cui la plebe era entrata a far
parte della cittadinanza romana. 320. Insomma la conclusione ultima viene ad
essere questa, che in questo periodo dovette avverarsi un continuo attrito fra
le isti tuzioni patrizie e le costumanze plebee, e che perciò dovette essere
grandissima l'incertezza intorno a quel diritto, che doveva essere applicato
nei rapporti fra il patriziato e la plebe. Ne conseguiva che private, il che
non sembra da ammettersi, perchè il giudice di queste cause dovette essere
piuttosto il iudex unus tratto dai iudices selecti. Per l'influenza dei pontefici sul diritto
civile vedi sopra i numeri 262 e 263, 321colle note relative. Si occupò molto
largamente di questo argomento il KARLOWA, Röm. R. G., 1, $ 43, 219Trovasi
poi un esattissimo elenco dei libri, annali e commentarii dei pontefici nel
TEUFFELS, Geschichte der röm. Literatur, Leipzig, 1882, SS 70-76, 114 a 119.
398 il console, chiamato ad amministrare la giustizia, finiva per non avere
alcun confine al proprio arbitrio, il che doveva essere grave alla plebe, anche
per trattarsi di magistrato, il quale per essere tratto esclusivamente
dall'ordine patrizio, poteva ritenersi favorevole a quest'ultimo. Si comprende
cid stante come Terentillo Arsa, nel 292, cominciasse dal chiedere che fosse
eletta una commissione, che determinasse per iscritto quale fosse la
giurisdizione dei consoli, acciò fosse posto un confine all' arbitraria ed
oppressiva ammini strazione di ciò, che essi chiamavano col nome di diritto e
di legge. Fu solo nell'anno dopo, che d'accordo coi colleghi, per togliere alla
sua proposta il carattere di odiosità contro il potere dei consoli, egli chiese
che la legge, così pubblica come privata, dovesse essere codificata, e che cosi
ogni incertezza venisse per quanto si poteva ad essere rimossa. L'importanza
della questione viene ad essere provata dalla lotta di dieci anni, che ebbe ad
essere sostenuta in torno alla medesima; poichè solo nel 303 di Roma si ebbe
completa la legislazione decemvirale. Qui non può essere il caso di entrare
nell'esame minuto della medesima, nè di parlare dei tentativi di rico
struzione, che se ne vennero facendo anche in questi ultimi tempi : mi basterà
invece dir qualche cosa intorno al carattere generale di questo codice, da cui
doveva prendere le mosse tutto lo svolgimento posteriore del diritto civile di
Roma. A mio avviso la legge decemvirale e la legge Canuleia, che la segui a
poca distanza (309 di Roma) ed aboli il divieto de' con nubii fra il patriziato
e la plebe, debbono essere considerate, quanto al diritto privato di Roma, come
l'avvenimento che chiude il periodo delle origini ed apre quello dello svolgimento
storico della giuris prudenza romana. Colle leggi delle XII tavole si chiude in
certo modo il periodo del ius non scriptum, di quel diritto cioè, che viveva
più nelle consuetudini che nelle leggi, ed incomincia il pe riodo del ius
scriptum, poichè da quel momento anche l'interpre tazione cominciò ad avere la
sua base nella codificazione (3 ). Con
Liv., III, 9. Cfr. MuirŅEAD, op. cit., 87 e 88. V. Ferrini, Storia delle fonti del diritto
romano, 5 a 9. È poi noto, che i grandi tentativi di ricostruzione delle XII
Tavole si riducono a quelli di Jacopo Gottofredo, del Dirksen e a quello
recentissimo del Voigt, già più volte citato. Non voglio dire con ciò, che
prima non esistessero delle leggi scritte: ho anzi dimostrato che dovettero
esservene fin dal periodo regio. Tuttavia è solo colle XII Tavole, che si
introdusse tutto un sistema di legislazione scritta, il quale potè servire 399
esso parimenti termina il periodo del ius non aequum, ossia di un diritto
disuguale fra patriziato e plebe, e comincia il periodo del ius aequum, ossia
la formazione di un diritto eguale per l'uno e per l'altro ceto, il che gli
autori esprimono con dire, che le leggi delle XII Tavole erano intese ad
aequandum ius e ad aequandam libertatem. Con esso infine termina il periodo
della indistinzione del fas e del ius, al modo stesso che già si possono
scorgere i principii del diverso indirizzo, in cui si pongono il diritto
pubblico e il diritto privato; dei quali il primo continua a svolgersi nelle
lotte della piazza e del foro, mentre il secondo comincia ad apparire come il
frutto della tacita elaborazione prima dei pontefici e poscia dei
giureconsulti. 321. Non vi ha poi dubbio che anche la legislazione decemvirale
deve essere considerata come un compromesso fra i due ordini e in certo modo
come una specie di patto fondamentale della loro coe sistenza nella medesima
città . Di qui la conseguenza, che le XII Tavole nè comprendono un sistema
compiuto di legislazione pubblica e privata, nè rinnovano tutte le disposizioni
che già erano contenute nelle leggi regie: ma sembrano il più spesso limitarsi
ad introdurre sotto forma imperativa quei provvedimenti, che potevano essere
stati oggetto di discussione e di lotta, il che è sopratutto evidente quanto
alle disposizioni, che si riferiscono al diritto pub come punto di partenza
alla iuris interpretatio ed alla disputatio fori, di cui parla Pomponio, L.
2, 5, dig. 1-2. Quanto ai caratteri
particolari di questa interpre tatio dei veteres iures conditores, vedi JHERING,
Esprit du droit romain, III, 142. LIVIO (III, 24 ) fa dire ai decemviri se quantum decem hominum ingeniis provideri
potuerit, omnibus, summis infimisque iura aequasse . Di quianche l'espres
sione, che occorre in Livio ed in Tacito, che le leggi delle XII Tavole fossero
il fons omnis aequi iuris, ed anche il finis aequi iuris, perchè esse, a
differenza di altre leggi, non furono il frutto di una sorpresa, ma di una vera
transazione ed accordo fra i due ordini. Vedi i passi relativi nel RIVIER,
Introd. Histor., Bruxelles, 1881, 163 a 167, come pure nel Voigt, Die XII
Tafeln, I, 7 e note relative. Questa
specie di compromesso appare dalle parole che Livio, III, 31 attribuisce ai
tribuni della plebe: finem tamen
certaminum facerent. Si plebeiae leges displi cerent, at illi communiter legum latores et
ex plebe et ex patriciis, qui utrisque
utilia forent, quaeque aequandae libertatis essent, sinerent creari . Di qui rica
vasi anche un argomento per inferire, che la legislazione decemvirale suppone
già una specie di fusione del diritto delle genti patrizie con quello della
plebe, il che sarà meglio dimostrato più oltre. 400 blico, e per quelle che
riguardano l'usura e il trattamento che il creditore può usare contro il
debitore. Cid spiega anche in parte la sobrietà e la concisione della
legislazione decemvirale, la quale, senz'entrare nella descrizione degli
istituti ed in disposizioniminute, si limita a porre dei concetti sintetici e
comprensivi, pressochè enunziati in forma assiomatica, lasciando poi alla
interpretazione di ricavare da essi tutte le conseguenze, di cui potevano
essere ca paci. Di qui derivano eziandio la venerazione e la riverenza, in cui
fu tenuto sempre questo codice primitivo del popolo romano; la differenza che i
Romani ravvisarono sempre fra queste leggi fonda mentali, e quelle che si
vennero gradatamente aggiungendo alle medesime; ed il fatto incontrastabile,
che la legislazione decemvirale, malgrado la pochezza dei proprii dettati, ha
finito per essere il punto di partenza di un sistema intiero di legislazione.
Tuttavia il carattere più saliente e più importante per la storia del diritto
primitivo di Roma, che a mio giudizio vuolsi ravvisare nella legislazione
decemvirale, consiste in questo, che siccome le XII Tavole furono il primo
codice comune ai due ordini, cosi fra tutti i documenti dell'antico diritto,
esse portano le traccie più evi denti dell'origine diversa delle istituzioni,
che entrarono a costituire il sistema del primitivo diritto romano. In esse
infatti noi troviamo da una parte trasportate di peso certe istituzionidelle
genti patrizie, il che si avverò sopratutto quanto all'organizzazione della
famiglia e alla successione e tutela legittima degli eredi suoi, degli agnati e
dei gentili, istituzioni che i giureconsulti ci dicono appunto essere state
introdotte dalla legislazione decemvirale (3 ). In esse parimente Così, ad esempio, la legge secondo cui a de
capite civis nisi maximo comi tiatu ne ferunto
mira certamente ad impedire, che le accuse capitali potessero re carsi
innanzi ai concilia plebis, come i tribuni della plebe avevano più volte
tentato di fare, come lo dimostra, fra gli altri, il processo contro C. Marcio
Coriolano. Uno scopo analogo dovette pure avere la legge: privilegia ne
inroganto. Cic., de leg., 19, 44. Nota a
ragione il Bruns, che nelle XII Tavole già si appalesa il genio giu ridico di
Roma, sia perchè esse già comprendono ogni parte del diritto, e sia anche per
il carattere obbiettivo e pratico delle singole disposizioni. Vedi
HOLTZENDORF's, Rechts Encyclopedie, I, 117. A parer mio esse dimostrano
eziandio, che l'elabora zione giuridica era già pervenuta molto innanzi, in
quanto che già si dànno come formati i concetti del nexum, del mancipium, del
testamentum, senza che occorra di indicarne il contenuto. Se prestiamo fede ai giureconsulti sarebbero
state introdotte direttamente dalla legislazione decemvirale le successioni e
le tutele legittime e le legis actiones, le quali sarebbero state composte dai
pontefici sui termini stessi delle XII Tavole. 401 è evidente lo sforzo dei
decemviri di porgere alla plebe un mezzo per uscire dalla posizione di fatto in
cui si trovava, e procurarsi invece una posizione di diritto; come lo dimostra
fra le altre cose la parte assai larga fatta all'usus auctoritas, che compare
qual mezzo per contrarre le giuste nozze, per acquistare le cose mobili ed
immobili, e qual modo di acquisto della stessa eredità. Infine nella
legislazione decemvirale si rinviene eziandio una parte dovuta all'elaborazione
di quel rigido ius quiritium, che ebbe a formarsi sotto l'influenza del censo e
delle altre istituzioni serviane, i cui concetti fondamentali sono quelli del
nexum, del mancipium, del testamentum, dell'atto per aes et libram, nei quali
tutti il quirite appare con un potere senza confini, cosicchè la sua parola
viene in certo modo a convertirsi in legge:
uti lingua nuncupassit ita ius esto
. 322. Questi varii elementi di origine diversa, che insieme ad alcune
disposizioni particolari imitate dalle legislazioni greche Lo stesso è pure a dirsi del riconoscimento
della fiducia, la quale non avendo forma giuridica dovette probabilmente
nascere nelle consuetudini della plebe. Vedi in proposito ciò che si disse
quanto al contributo della plebe nella formazione del di ritto romano ai numeri
148 a 157, 182 e segg., e sopratutto a 184. Si ritornerà poi sull'argomento nel
libro seg., cap. IV, 3, trattando della
mancipatio cum fiducia. V. cap.
precedente, relativo all'influenza della costituzione serviana sulla for
mazione del ius quiritium. V. Lattes,
L'ambasciata dei Romani per le XII Tavole. Milano, 1884. Non può qui essere il
caso di trattare a fondo la questione della ambasciata in viata in Grecia e ne
quella dell'influenza greca sulle XII Tavole, questione che pud aver bisogno di
un nuovo stadio dopo la scoperta delle leggi di Gortyna: ma credo che il
seguente libro proverà fino all'evidenza, che le basi fondamentali del primitivo
ius quiritium sono desunte dalle istituzioni già esistenti fra le genti
italiche, e che furono eminentemente ed esclusivamente romani così il modo in
cui furono foggiati gli istituti giuridici, come il processo logico e storico
ad un tempo, con cui furono svolti. L'analogia pertanto di certi istituti può
anche essere prove nuta o dalla comune origine ariana, o dalle condizioni
analoghe, in cui si trova rono le genti italiche e le elleniche nel passaggio
dall'organizzazione per genti alla vita cittadina; mentre l'imitazione diretta
si limita a disposizioni di poca impor tanza, la cui origine ellenica è sempre
di buon animo accennata dagli autori la tini, che non disconobbero mai la
sapienza dei Greci, pur affermando la propria superiorità in tema di diritto.
Cfr. Voigt, XII Tafeln, I, 10 a 16, dove pare si trovano raccolti i passi degli
antichi autori, che si riferiscono all'argomento. Quanto all'influenza greca
sulla giurisprudenza romana in genere mi rimetto a ciò che ho scritto nella
Vita del diritto, 179 a 194. 1. C., Le
origini del diritto di Roma, 26 402 formarono il substratum della legislazione
decemvirale, finiscono dopo di essa per svolgersi contemporaneamente e quindi
con essa può dirsi aver termine il ius quiritium propriamente detto, e
cominciare. invece l'elaborazione di un ius proprium civium romanorum, in cui
continuarono però a perdurare le primitive istituzioni del ius quiritium. Ciò
ci è dimostrato dall'attestazione di Pomponio, se condo cui tutto quel diritto,
che venne a formarsi sulla legislazione decemvirale, mediante la iuris
interpretatio, la disputatio fori, e la formazione delle legis actiones, venne
appunto ad essere indi cato col vocabolo di ius civile. Anche qui pertanto si
fa ma nifesto quel singolare magistero, che si rivela poi in tutta la forma
zione della giurisprudenza romana, per cui, accanto al diritto già formato e
consolidato, havvene una parte, che continua sempre ad essere in via di
formazione. Per talmodo accanto al ius quiritium, iniziatosi sopratutto colla
costituzione serviana, venne formandosi il ius civile, i cui esordii partono
dalla legislazione decemvirale; poi accanto a questo si esplicò il ius
honorarium, elaboratosi sopratutto sull'editto del Pretore; infine molto più
tardi ancora, secondo qualche autore, accanto al ius ordinarium viene
formandosi il cosi detto ius extraordinarium . Parmi quindi giusto il ritenere,
che colla legislazione decemvirale si chiude il periodo delle origini
propriamente dette, in cui le varie istituzioni trovansi ancora allo stato
embrionale, e comincia il vero svolgimento storico del diritto romano, in cui
le varie parti del di ritto pubblico e privato, già procedendo separate le une
dalle altre, debbono anche essere studiate separatamente nel proprio sviluppo.
È a questo punto pertanto, che può essere opportuno un tentativo di
ricostruzione di quel primitivo ius quiritium, che a mio giudizio costituisce
l'ossatura primitiva di tutta la giurisprudenza romana, e può darci il segreto
di quella dialettica potente, che strinse insieme le varie parti della
medesima. Spero che la bellezza e l'im portanza grandissima del tema, e la
luce, che può derivarne per la spiegazione del diritto primitivo di Roma, il
quale, quanto alle proprie origini, non ha cessato ancora di essere un
grandemistero, valgano a farmi perdonare l'audacia del tentativo. KUNTZE, Ius
extraordinarium der römischen Kaiserzeit. Leipzig, 1886. POMP., Leg. 2, SS 5 e 6, Dig. (1-2).
LIBRO IV. Ricostruzione del primitivo ius quiritium (*). CAPITOLO I. La
struttura organica del ius quiritium ed il concetto del quirite. 323. E
opinione pressochè universalmente adottata, che il primitivo diritto di Roma
porti in sè le traccie della violenza e della forza, e debba essere considerato
in ogni sua parte come il frutto di una evo luzione lenta e graduata,
determinata esclusivamente dalle condizioni economiche e sociali, in cui
trovossi il primitivo popolo romano. Lo studio invece della genesi e della
formazione del ius quiritium, nel momento in cui per opera della costituzione
serviana comincio ad essere comune alle due classi, mi conduce a conclusioni
alquanto diverse. Questo ius quiritium, se nei vocaboli può ancora portare le
traccie di un periodo anteriore di violenza, nella sostanza invece è già il
risultato di una selezione e di un'astrazione potente, intesa da una parte a
trascegliere dal periodo gentilizio quelle istituzioni, (*) Ancorchè l'intento
di questo libro IV sia di isolare in certo modo quella parte del diritto
privato di Roma, che prima riuscì a consolidarsi sotto il nome di ius quiritium,
e a costituire così il nucleo centrale di quella elaborazione giuri dica, che
doveva poi durare per 14 secoli, mi riservo tuttavia anche qui la libertà di
seguire talvolta lo svolgimento logico e storico dei varii istituti giuridici,
anche oltre gli stretti confini del ius quiritium. Il motivo è questo, che
anche nella clas sica giurisprudenza occorrono certe singolarità, le quali, a
parer mio, non potranno mai essere spiegate, quando non siano sorprese alle
origini. Siccome infatti la carat teristica del tutto peculiare del diritto
romano consiste nell'essere il frutto di una elaborazione, che malgrado la sua
lunga durata non abbandono mai intieramente quei metodi e processi, con cui era
stata iniziata; così in esso accade ben soventi, che negli ultimi sviluppi
occorrano certe apparenti singolarità ed anomalie, le quali non sono che una
conseguenza logica di fatti, che si avverarono nel principio della formazione,
e dell'indirizzo con cui questa ebbe ad essere iniziata. 404 - che potevano
accomodarsi alla vita della città, e dall'altra a sce verare l'elemento
giuridico da tutti gli altri punti di vista, sotto cui i fatti sociali ed umani
possono essere considerati. Il suo linguaggio rozzo ma efficace; i suoi
concetti sintetici e comprensivi; le solennità tipiche, in cui esso si
manifesta; la disinvoltura con cui si maneg giano tali solennità e si
trasportano da uno ad un altro negozio giuridico; la coerenza organica delle
sue varie parti sono già la ma nifestazione di una potente logica giuridica, di
cui appare investito il popolo romano fin dai proprii esordii, mediante cui
esso riesce a sceverare dalle proprie tradizioni del passato e dalle condizioni
so ciali, in cui si trova, tutto ciò che in esse havvi di strettamente e di
esclusivamente giuridico, modellandolo in altrettante costruzioni tipiche, che
concentrano in sè l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani. Lo stesso
nostro linguaggio sembra essere inadeguato ad esprimere una selezione di questo
genere, cosicchè ad ogni istante viene ad essere necessario di ricorrere a vocaboli
tolti dalle scienze fisiche, chimiche e naturali, perché è soltanto nelle
naturali forma zioni che possono essere sorprese delle sintesi e delle analisi,
ana loghe a quelle, che occorrono nel primitivo diritto di Roma. In esso
dispiegasi una logica giuridica cosi rigida, cosi geometrica, precisa e
coerente, che anche un giureconsulto, preparato da una lunga edu cazione
giuridica, stenterebbe a giungervi, e la quale può soltanto essere spiegata con
dire che ci troviamo di fronte a un popolo, giu rista per eccellenza, il quale,
guidato dalle proprie attitudini natu rali, esordisce con un capolavoro di arte
giuridica, che può essere considerato come un pegno della perfezione, a cui
esso giungerà più tardi nel suo lavoro legislativo. 324. Il diritto quiritario
infatti toglie dalla realtà il linguaggio ed i concetti primitivi, di cui esso
si vale; ma intanto li isola e li scevera per modo da ogni elemento affine, che
i primitivi concetti giuridici del popolo romano, al pari dei suoi concetti
politici, si pre sentano come altrettante concezioni logiche, e
costruzionigeometriche, che possono poi essere sottoposte a quella logica
astratta, che fu del tutto propria dei giureconsulti romani. Che anzi la logica
giuridica dei giureconsulti romani non si ma nifestò forse mai in modo più
vigoroso e potente, che nel modellare il concetto stesso del quirite e i varii
atteggiamenti, sotto cui il medesimo può essere considerato. Io non dubito
infatti di affermare, che il concetto stesso del quirite, in quanto si considera
come il 405 caput, da cui erompono le varie manifestazioni giuridiche, deve per
sè essere considerato come una concezione giuridica nel senso vero della parola.
Il quirite infatti non è l'uomo quale in effetto esiste, ma è l'uomo isolato da
tutti gli altri suoi rapporti, per essere consi derato sotto l'aspetto
esclusivo di capo di famiglia e di proprietario di terre. È come tale soltanto,
che egli conta nel censo serviano, ed è come tale eziandio, che esso si
presenta nel primitivo ius quiritium. Esso inoltre è anche un'astrazione sotto
un altro aspetto, in quanto che la logica giuridica lo isola da tutti i vincoli
religiosi e morali, a cui nel fatto possa essere sottoposto, e lo concepisce
come fornito di un potere illimitato e senza confini. Essa lo considera come un
pater familias, ancorchè in effetto non abbia figliuolanza, e in quanto è tale,
gli attribuisce i poteri più illimitati. Egli infatti quale capofa miglia ha il
ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sui servi; come proprietario pud
usare ed abusare delle proprie cose; come credi tore può anche appropriarsi il
proprio debitore, venderlo al di là del Tevere e dividerne il corpo, se
concorra con altri creditori; come testatore pud disporre in qualsiasi guisa
delle proprie cose per il tempo per cui avrà cessato di vivere. Col tempo
questa potestà giuridica illimitata potrà apparire eccessiva, in quanto che si
verrà a riconoscere che il quirite potrà anche abusare di essa, come il
magistrato del proprio imperium, ed in allora si cercherà di porre dei limiti
al suo potere come padre, come proprietario, come credi tore, come testatore,
come padrone; ma nel suo erompere primitivo l'uomo, a cui appartiene l'optimum
ius quiritium, è una indivi dualità completa, che sotto l'aspetto giuridico non
subisce limitazione di sorta. Il quirite poi, in base al censo serviano,
riunisce due carat teri: quello cioè di capo di famiglia e di proprietario di
terre, e i medesimi si compenetrano per modo, che i due concetti si vengono
immedesimando l'uno nell'altro, cosicchè, quale padre di famiglia, esso
apparisce come un proprietario, e per essere proprietario deve essere un capo
famiglia; donde consegue, che anche i due vocaboli di familia e di mancipium
possono sostituirsi l'uno all'altro. V.
in proposito il Voigt, Die XII Tafeln, II, 10 e 11, note 5 e 6, ove son citati
varii passi da cui risulta, che la familia in personas et in res deducitur.
Leg. 195, Dig. (50, 15 ). Cid pure accade del mancipium, il quale talvolta è
preso in significazione così larga da comprendere non solo le cose, ma anche le
persone 406 Nel censo infatti non comparisce che il caput, in quanto unifica in
sè medesimo persone e cose, e in quanto egli è libero, cittadino, in dipendente
nel seno della famiglia. Esso conta per uno, ma intanto rappresenta molte
persone ad un tempo: cosicchè anche la proprietà, che trovasi posta in suo
capo, mentre nel costume appartiene alla famiglia, sotto il punto di vista
giuridico viene invece ad essere considerata come una proprietà esclusivamente
propria del capo di famiglia. Quasi si direbbe che l'imperium del quirite nella
propria casa viene ad essere foggiato sulmodello stesso del regis imperium per
quello che si riferisce alla città. Esso ha impero sulle cose e sulle persone,
al modo stesso che il magistrato ha l'imperium domimi litiaeque, e l'una ed
anche l'altra podestà, sotto il punto di vista giuridico e politico, non hanno
confine, sebbene nella realtà siano contenute in stretti vincoli dal costume
pubblico o privato. Di qui la conseguenza, che mentre questo è il momento
storico, in cui ap parisce più senza confini il potere del padrone sugli
schiavi, quello del marito sulla moglie, quello del padre sui figli, noi
intanto ab biamo tutti gli argomenti per credere, che fu appunto questo il
tempo, in cui fu migliore la condizione degli schiavi, volontariamente
accettata la subordinazione dei figli e della moglie, e quello in cuiil potere
del padre, cosi esorbitante nella sua configurazione giuridica, nella realtà
non ebbe a dar luogo a gravi abusi. Fu sopratutto in questo primo periodo, che
i figli dei servi erano allevati con quelli del padrone; che le mogli, mentre
giuridicamente potevano essere ripudiate, nel fatto non conoscevano il divorzio;
che i figli prova vano la severità del padre, non tanto nelle pareti
domestiche, quanto piuttosto, allorchè egli investito del pubblico potere
giungeva a soffo care gli affetti del sangue per far rispettare l'imperium, di
cuitro vavasi insignito. dipendentidal capo di famiglia, come lo dimostra
l'espressione conservataci da Gellio, secondo cui la mater familias è in manu
mancipioque mariti. Ciò però non toglie, che il vocabolo familia significasse
di preferenza il complesso delle per sone, e quello di mancipium il complesso
delle cose, che erano soggette al potere del capo di famiglia. Cid apparirà
meglio in questo stesso capitolo, $ 4, in cui si discorrerà appunto del
mancipium, e delle sue varie significazioni.
La causa di questo contrasto tra l'ordinamento giuridico della famiglia
e le condizioni reali della medesima sarà meglio posta in evidenza al cap.
1, 1°, ove si discorre del ius connubii.
Quanto alla figura del padre di famiglia patriarcale durante il periodo
gentilizio, vedi sopra il nº 94, 119. 407 326. Se non che è ovvio il chiedersi,
in qual modo siasi potuto modellare in modo così vigoroso ed efficace la figura
del quirite. Io non dubito di rispondere che questa concezione dell'uomo sotto
l'aspetto esclusivamente giuridico, se per una parte fu determinata dalle
condizioni economiche e sociali, dall'altra fu anche l'effetto di una potente
astrazione giuridica, compiuta da un popolo con un pro cesso mentale non
diverso da quello, che seguirebbe un giureconsulto moderno. Gli elementi
preesistevano nella organizzazione gentilizia e consistevano nella figura del
capo di famiglia, e nel concetto della proprietà, che a lui apparteneva.
Mediante un lavoro di astrazione, che è famigliare al giureconsulto, i due
concetti di capofamiglia e di proprietario furono staccati dall'ambiente, in
cui si erano for mati, furono isolati da tutti gli altri rapporti di carattere
gentilizio, riguardati attraverso il crogiuolo del censo, in cui persone e cose
dipendevano da un solo caput, e ne eruppe cosi questa figura tipica del quirite,
che è soldato ed agricoltore, capo di famiglia e proprietario, individuo e capo
gruppo, il quale sotto un aspetto è una realtà e sotto un altro è già una
astrazione o concezione giuridica. Lo stesso è a dirsi delle due istituzioni
fondamentali della famiglia e delle proprietà, quali vengono a presentarsi nel
ius quiritium la cui formazione fu determinata dalla costituzione serviana, An
ch'esse sono tratte dalla realtà, e sono due ruderi dell'organizzazione
gentilizia, nel senso vero e proprio della parola, salvo che, traspor tate nel
seno delle città e cosi isolate dall'ambiente, che le circon dava, fanno su chi
le considera un effetto analogo a quello di quei ruderi delle mura serviane,
che circondate da un' aiuola si incon trano nella Via Nazionale di Roma
moderna. Di qui la conseguenza, che anche la proprietà e la famiglia debbono
essere considerate come due costruzioni giuridiche, in quanto che esse non sono
la pro prietà e la famiglia, quali effettivamente esistevano, ma sono il frutto
di un'elaborazione giuridica, per cui l'una e l'altra sono iso late da quegli
elementi, sopratutto religiosi e morali, che nella realtà ne moderavano la
rigidezza. Siccome infatti il quirite, come tale, non è più nè il gentile, nè
il cliente, né il patrizio, nè il plebeo, ma è un capo famiglia, considerato
come padrone assoluto delle cose e delle persone, che da lui dipendono; cosi
l'aureola del buon co stume, del consiglio domestico, del consiglio degli
anziani, delle tradizioni del villaggio, della religione, di cui il padre
antico era il sacerdote, viene a scomparire pressochè intieramente nel diritto
408 quiritario. In questo più non scorgesi, giuridicamente parlando, che un
caput, che è proprietario e padre ad un tempo, e il cui potere (manus) sulle
persone e sulle cose, che ne dipendono (mancipium o familia ), apparisce senza
confini, rendendo cosi possibile l'applicazione di una logica, il cui processo
sarebbe stato ad ogni istante interrotto, se si fosse dovuto tener conto degli
altri vincoli e rapporti, in cui il quirite effettivamente si trovava. 327. Lo
stesso deve pur dirsi di quel carattere, cosi saliente nel di ritto primitivo
di Roma, per cui i poteri sulle persone e sulle cose vengono ad immedesimarsi
l'uno nell'altro, e possono quindi essere in dicati coimedesimivocaboli,
rivendicati nella stessa guisa, e trasmessi col medesimo atto. Anche ciò non
deve ritenersi come indizio, che per i Romani la potestà del padre si
confondesse colla proprietà: ma è unicamente il frutto di una elaborazione
giuridica, in quanto che questi due poteri, dovendo passare per il crogiuolo
del censo, venivano in sostanza a ridursi tutti al concetto del mio e del tuo.
Ed a questo riguardo credo di non esagerare dicendo, che fu una grande ventura
per il diritto romano, che il medesimo fosse cosi costretto a modellare ogni
diritto sopra quello di proprietà, in quanto che non eravi certamente altro
concetto, che potesse meglio acco modarsi a tutte le applicazioni della logica
giuridica. Se questa infatti avesse dovuto applicarsi alle persone, si sarebbe
ad ogni istante inceppata in considerazioni di umanità, mentre spiegandosi in
certa guisa di fronte alle cose potė spingersi a tutte le deduzioni, di cui
poteva essere capace, e per tal modo il diritto potè appa rire in certi casi
inumano e crudele, ma la costruzione giuridica venne ad essere più logica e più
coerente. Cosi deve pure attribuirsi ad una elaborazione giuridica, resa ne
cessaria dalle condizioni, sotto cui patriziato e plebe entravano a far parte
della comunanza, quel concetto, per cui quella proprietà, che nel costume
ritenevasi appartenere alla famiglia, giuridicamente in vece venne ad essere
considerata come spettante ad un individuo, che poteva disporne in qualsiasi
guisa. Questo infatti era il solo modo di combinare il concetto della proprietà
famigliare, che era proprio del patriziato, con quello della proprietà privata
ed individuale, che era la sola, che fosse conosciuta dalla plebe. Fondendosi
insieme, le due formedi proprietà diedero origine a quella singolare
istituzione della proprietà quiritaria, che nel costume si ritiene della
famiglia, e in diritto si considera come esclusivamente propria del padre, per
409 cui tutto ciò, che acquistano gli altri membri della famiglia, a lui solo
appartiene. 328. Fermo cosi nelle sue linee generali il concetto fondamentale
del quirite, quale ebbe ad uscire dal crogiuolo del censo istituito da Servio
Tullio, viene ad essere facile il comprendere come i varii atteggiamenti, sotto
cui esso può essere considerato, abbiano potuto essere scomposti ed analizzati,
e abbiano così data origine ad al trettante concezioni giuridiche foggiate
sullo stesso modello. Il quirite infatti costituisce in certo modo la
configurazione giu ridica dell'umana persona, quale allora poteva essere
concepita, e come tale può essere considerato: – o in quanto sta, ossia nella
posizione giuridica (status), che egli tiene nella comunanza quiri tiana: - o
in quanto egli si muove ed agisce, ossia in quanto egli entra in rapporti con
altri quiriti. In quanto sta, ossia in quanto egli tiene uno status, questo può
essere scomposto nei suoi varii elementi, e quindi il quirite viene ad avere un
caput, che comprende tutta la sua capacità giuridica come quirite; una manus,
che inchiude il complesso dei poteri, che gli appartengono ex iure quiritium;
un mancipium, il quale implica parimenti nella sua significazione primitiva
così le persone, che le cose, che da lui dipendono per diritto quiritario. È
poi degno di nota, che tutti questi vocaboli, in cui viene ad essere racchiusa
l'individualità giuridica del quirite, hanno una significazione mate riale e
giuridica, concreta ed astratta ad un tempo. Cosi, ad esempio, il vocabolo
caput, mentre da una parte indica la parte più nobile ed importante del corpo,
dall'altra designa la capacità giuridica poten ziale del quirite che è come la
sorgente di tutti i diritti spettanti al medesimo; quello dimanus,mentre
esprime l'organo mediante cui si esplica la forza e l'energia fisica dell'uomo,
è ad un tempo il sim bolo efficacissimo dell'attività giuridica che si viene
estrinsecando in certi determinati poteri; e quello infine di mancipium da ma
nucaptum, mentre da una parte significa una cosa, che per essere materialmente
afferrata dalla manus, non può sfuggire alla mede sima, dall'altra indica
eziandio lo stato di sottomissione giuridica, in cui vengono a trovarsi le
persone e le cose che da essa dipendono.
Questo carattere speciale della proprietà quiritaria e il modo in cui
essa potè formarsi saranno meglio spiegati nel cap. seg., $ 6, ove si discorre
dell'origine del dominium ex iure quiritium. 410 Questi varii elementi poi,
intrecciandosi fra di loro, costituiscono un tutto organico e coerente; poichè,
tanto nel significato mate riale quanto nel giuridico, la manus viene in certo
modo ad esser e il termine di mezzo fra il caput che la dirige e il mancipium
che dipende dalla medesima. In quanto invece si muove ed agisce, il quirite
viene a contatto coi proprii simili, e quindi le sue estrinsecazioni giuridiche
possono essere richiamate: al connubium, da cuideriva, si può dire, tutto il
diritto, che si riferisce alle persone; al commercium, in cui si com pendiano
tutte le manifestazioni giuridiche, che si riferiscono alle cose; all'actio, da
cui scaturisce tutto quel complesso di proce dure, con cui egli pud far valere
qualsiasi suo diritto: vocaboli anche questi, che hanno pure una significazione
materiale e giuridica ad un tempo. Tutti questi elementi poi, mentre concorrono
a costituire l'organismo del tutto, sono percorsi da un proprio concetto
informa tore, che si viene logicamente svolgendo, e che dà cosi origine a
quella dialettica latente della giurisprudenza romana, colla quale sol tanto si
possono spiegare certe peculiarità del diritto romano. Intanto è da notarsi,
che tutto questo bagaglio del diritto quiri tario è tolto in sostanza dal
periodo gentilizio, perchè già in esso eransi formati i concetti del caput per
indicare il capo del gruppo famigliare o gentilizio, della manus per indicare
il complesso dei suoi poteri, e del mancipium per indicare le cose e le persone
che gli erano soggette; come pure in esso, già si erano preparati i concetti di
connubium, di commercium e di actio. Vi ha però questa differenza, che mentre
questi un tempo indicavano dei rap porti, che intercedevano fra i membri delle
varie genti, ora indi cano invece la posizione speciale, che il quirite prende
nella co munanza quiritaria, ed i varii aspetti sotto cui dispiegasi l'attività
giuridica del quirite nei suoi rapporti cogli altri quiriti. Quindi è, che
mentre questi concetti un tempo avevano una significazione, che era determinata
dall'ambiente, in cui si erano formati; ora invece, essendo staccati
dall'ambiente stesso, si cambiano in altrettante forme e concezioni logiche, e
come tali diventano capaci di uno svolgi mento logico e storico compiutamente
diverso, la cui ricostruzione formerà oggetto dei capitoli seguenti. Il naturale processo, in base a cui venne
formandosi un diritto fra le varie genti, fu spiegato più sopra ai nn. 94 e seg.,
117, e quello per cui i concetti intergentilizii così formati si cambiarono in
concetti quiritarii trovasi descritto al n ° 266. Il quirite nel suo
status. 1. – Il censo serviano e la
genesi dei concetti di caput, manus, mancipium. 329. Anche oggidi il più arduo
problema, che presentino le ori gini del ius quiritium, consiste nello spiegare
come mai il mede simo si trovasse di un tratto isolato da quell'ambiente
religioso e gentilizio, in cui erasi formato, e come esso abbia potuto prendere
le mosse da concetti così sintetici e comprensivi, quali sono quelli di caput,
manus, mancipium. Come mai potè accadere, che quel ius, che presso le genti
patrizie era ancora soverchiato dal fas ed ed avviluppato nel mos, sia
pervenuto pressochè di un tratto ad affermare la propria esistenza e a ricevere
uno svolgimento lo gico e storico del tutto distinto da quello della religione
e della mo rale? In qual modo parimenti potè accadere, che un diritto, il
quale, secondo l'attestazione dei giureconsulti, ebbe a formarsi necessi tate exigente et rebus ipsis
dictantibus , siasi iniziato con sintesi potenti, che inchiudono in germe tutti
i suoi ulteriori svolgimenti? Son note in proposito le divergenze degli autori
e le congetture innumerabili, che furono poste innanzi, ed è certo assai
difficile di giungere ad una risoluzione, che possa rispondere a tutte le ob
biezioni. Persuaso tuttavia, che per comprendere le istituzioni di un popolo,
sia sopratutto indispensabile di spogliarsi delle idee del tempo, per
trasportarsi nell'ambiente e nel pensiero del popolo, fra cui quelle
istituzioni giunsero a formarsi, io ritengo che il solo modo per giungere a
comprendere questa singolare formazione del ius quiritium e la significazione
dei concetti da cui esso parte, sia quello di ricostrurre in base alle
condizioni economiche e sociali, in cui si trovavano il patriziato e la plebe,
quella comunanza quiritaria, Il
carattere eminentemente religioso del diritto primitivo delle genti patrizie fu
dimostrato più sopra, lib. I, cap. V, 90 a 104, discorrendo dei rapporti fra il
mos, il fas e il ius. Il medesimo poi si mantenne ancora durante il periodo
della città esclusivamente patrizia, come lo dimostra l'analisi delle leges
regiae fatta ai nn. 268 a 270, 329.412 la cui formazione ebbe ad essere
determinata dalla costituzione e dal censo di Servio Tullio. 330. Credo di
avere dimostrato a suo tempo come il patriziato e la plebe, anteriormente
all'epoca serviana, non avessero comuni nè la religione, né i costumi, nè
l'organizzazione gentilizia, nè i connubii, che sono il fondamento
dell'organizzazione domestica. I soli diritti, che la città patrizia avesse
accordati alle plebi circo stanti, non devono neppure essere indicati col nome
di ius com mercii, ma bensi con quello di ius nesi mancipiique; il quale
consisteva nel diritto dei plebei di potersi obbligare vincolando la propria
persona, e di poter disporre di quelle possessioni, che essi tenevano nel
territorio romano. È quindi evidente che, se era possibile una comunanza fra i
due ordini, questa nelle origini non poteva avere nè un carattere religioso e
neppure un carattere mo rale, ma poteva solo avere un carattere esclusivamente
economico, giuridico e militare. Ne consegui pertanto, che per formare questa
comunanza venne ad essere necessario di sceverare affatto il ius, nel senso
stretto e rigido della parola, dal fas e dal mos, con cui prima trovavasi
implicato nelle istituzioni delle genti patrizie. Questa selezione erasi già in
parte iniziata col formarsi della città esclusivamente patrizia, poichè già fin
d'allora erasi venuta distin guendo la vita pubblica dalla privata ed erasi già
in parte affie volita l'organizzazione gentilizia ; ma la medesima dovette spin
gersi ben più oltre coll'accoglimento nel populus di un elemento, a cui non erasi
riconosciuto che il ius neximancipiique. Di qui la rigidezza singolare, che
ebbe ad assumere il ius quiritium, allorchè cominciò ad essere comune al
patriziato ed alla plebe; poichè da quel momento esso venne ad essere sottratto
a quell'au reola religiosa e patriarcale, che dominava il periodo gentilizio, e
fu sottoposto all'impero di una logica del tutto sua propria. Se non che, anche
in tema di diritto, nel senso stretto della pa rola, non tutte le istituzioni
potevano servire di base alla comu V.,
quanto alla condizione della plebe, il lib. I, cap. IX, 180 a 196, e quanto al
ius nexi mancipiique, spettante alla medesima, il nº 160, 198 e 199, come pure
il nº 287, 351 e 352. Che anche il
diritto della città patrizia supponesse una specie di selezione fra le
istituzioni delle varie genti, operatasi per opera dei collegi sacerdotali e
sotto forma di legislazione regia, fu dimostrato nel libro II, cap. IV, SS 1º,
2º e 3º, 303 a 333. - 413 nanza quiritaria, ma soltanto quelle che in effetto
erano comuni ai due ordini, o che erano tali da rendere possibile un ravvicina
mento fra di loro. Quindi anche in fatto di diritto convenne fare astrazione da
tutti quei rapporti, che per il momento non potevano essere comuni, per fissare
lo sguardo su quei rapporti e su quegli interessi, in base a cui essi potevano
partecipare alla stessa comu nanza. Siccome quindi l'interesse, che avevano il
patriziato e la plebe ad entrare in una stessa comunanza, era sopratutto
l'interesse della comune difesa, così la comunanza quiritaria assunse in que
st'epoca un carattere più esclusivamente militare, che prima non avesse.
Siccome parimenti gli unici rapporti, per cui poteva avve. rarsi un
ravvicinamento fra di loro, erano quelli relativi alla fa miglia unificata
sotto il proprio capo, e alla proprietà spettante alla famiglia stessa, così il
ius quiritium comune ai due ordini cominciò a consolidarsi nella parte relativa
alle due istituzioni fondamentali della proprietà e della famiglia. 331. Di cid
è facile persuadersi quando si considerino le condi zioni rispettive dei due
ordini, che dovevano partecipare alla stessa comunanza. Da una parte eran vi i
membri delle gentes patriciae, i quali ancorchè fossero i fondatori della città,
continuavano però sempre ad essere organizzati per gruppi, sovrapponentisi gli
uni agli altri (famiglie, genti, e tribù gentilizie), come lo dimostra il
fatto, che il popolo primitivo era diviso per curiae, le quali erano appunto
for mate ex hominum generibus. Il patriziato pertanto non aveva in certo modo
il concetto della individualità nello stretto senso della parola, ma solo il
concetto dei diversi gruppi e dei capi che rap presentavano imedesimi. Di
questi gruppi poi ilmeno esteso e il più strettamente unificato era quello
della famiglia, fondata sulla agna zione, e riunita sotto la potestà del padre.
- Dall'altra parte in vece eravi la plebe, la quale, essendo una moltitudine di
individui rimasti liberi dalla clientela, o immigrati da altre città, o traspor
tati da popolazioni conquistate, componevasi invece di individui anche isolati
o tutto al più di famiglie, le quali non erano più strette insieme dal vincolo
di agnazione, ma piuttosto da quello più naturale dell'affinità e della
cognazione . V.,quanto
all'organizzazione gentilizia del patriziato, il lib. I, cap. IV, e quanto alle
condizioni della plebe, il lib. I, cap. IX. 414 Queste differenze poi, che
esistevano fra di loro quanto alla loro organizzazione, si riflettevano
eziandio nelle loro condizioni econo miche. Da una parte infatti continuava a
prevalere presso le gentes patriciae la proprietà collettiva dell'ager
gentilicius o dell'ager compascuus, il che però non impediva che esse già
conoscessero una specie di proprietà famigliare e privata, la quale era
designata col vocabolo di heredium. Questo consisteva nell'assegno, che le
varie gentes facevano sull'ager gentilicius ad ogni gentile, che passando a
matrimonio veniva a fondare una nuova famiglia, ed era a somi glianza di esso,
che secondo la tradizione anche Romolo aveva fatto a ciascuno dei suoi seguaci
un assegno, il quale pur riteneva il nome di heredium. Il medesimo quindi
costituiva in certo modo il patrimonio famigliare, e come tale non poteva
essere alienato senza il consenso degli altri capi di famiglia, ma doveva
invece trasmettersi dai genitori ai figli, e mantenersi per quanto si poteva
indiviso (ercto non cito ); ma intanto, essendo già intestato al capo di
famiglia, cominciava ad avvicinarsi alla proprietà individuale e privata.
Dall'altra invece la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia, non poteva
neppure avere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius e dell'ager
compascuus. Di qui conseguiva, che i plebei nel fatto si trovavano stabiliti
sopra certi spazi di suolo, che essi avevano occupato sul territorio romano, o
di cui avevano ottenuto il godimento da qualche gens patricia, o che loro erano
stati as segnati dal re sullo stesso ager publicus. È quindi evidente, che
questi stanziamenti della plebe, essendo una applicazione del ius mancipii alla
medesima accordato, più non potevano essere chia mati col vocabolo di heredia,
poichè questo conteneva ancora l'idea di un patrimonio avito da trasmettersi
agli eredi, ma potevano in vece più acconciamente indicarsi col vocabolo
dimancipia, poichè essi erano state effettivamente manucapti, e perchè fino a
quel punto costituivano piuttosto semplici possessi, che non vere proprietà al
punto di vista gentilizio. 332. In questa diversità di condizioni egli è
evidente, che il Quanto al concetto
dell'heredium, come forma della proprietà famigliare nel periodo gentilizio,
vedi il nº 56, 70; ma devo aggiungere, che dettando quelle pagine non aveva
ancora ravvisata la differenza esistente fra l'heredium ed il man cipium, nè
aveva cercato di spiegare come perchè all'heredium del periodo genti lizio
fosse sottentrato nel ius quiritium il concetto di mancipium. - 415 censo,
dovendo comprendere i due ordini, non poteva tener conto che degli elementi,
che erano loro comuni. Se il censo quindi avesse dovuto farsi di soli patrizii,
si sarebbe dovuto indicare la famiglia, la gente e la tribù gentilizia a cui ap
partenevano, e avrebbesi così avuto un censo fondato sulla discen denza, come
quello sovra cui dovevano probabilmente essersi for mate le curiae. Se esso
invece avesse dovuto comprendere i soli plebei, si sarebbe dovuto procedere per
capita; poichè fra essi ve ne erano anche di quelli, che solo avevano il loro
caput, e che non avrebbero potuto indicare la loro vera discendenza. Siccome
invece il censo, come base della nuova comunanza quiritaria, do veva
comprendere gli uni e gli altri; cosi la soluzione fu la più naturale di tutte,
quella cioè di dare al censo non più una base genealogica (ex hominum
generibus), che avrebbe potuto compren dere solo i patrizii ed alcune famiglie
plebee, ma bensì una base territoriale e locale (ex regionibus et locis) , che
poteva com prendere gli uni e gli altri, e di censire gli abitanti, non per
genti e neppure per famiglie, ma per capita, attribuendo perd al voca bolo di
caput la doppia significazione di individuo e di capo di quel gruppo famigliare,
che era appunto il solo, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Così
pure se si fosse trattato di censire le proprietà patrizie, si sarebbe dovuto
prendere come base la proprietà collettiva della gens (ager gentilicius), nella
quale sarebbero anche rientrati gli heredia delle singole famiglie; ma
volendosi anche censire i possessi e gli stanziamenti della plebe, convenne di
necessità prendere a base del censimento quella sola forma di proprietà e di
possesso, che apparteneva ai patrizii sotto il nome di heredium, e ai plebei
sotto quello di mancipium. Tuttavia questa proprietà individuale e famigliare
ad un tempo, che era comune ad entrambi gli ordini, non potè più essere
indicata acconciamente col vocabolo di here dium, il quale era pur sempre una
istituzione di origine gentilizia, ma potè esserlo più acconciamente con quello
di mancipium, il quale, oltre al rispondere perfettamente ai concetti di caput
e di inanus, aveva anche il vantaggio di significare al tempo stesso la
proprietà e il possesso, e di esprimere con potente efficacia quel carattere di
proprietà esclusiva ed individuale, che veniva ad assu Gellio, XV, 28, 4. 416 mere quel patrimonio,
che nel censo era intestato ad una deter minata persona. La conseguenza intanto
fu questa, che nella comunanza quiritaria, formatasi in base alla costituzione
ed al censo serviano, mentre il patrizio fu isolato in certo modo dall'ambiente
gentilizio, in cui esso prima si trovava, il plebeo ottenne invece il
riconoscimento ufficiale del possesso, sovra cui esso era stabilito. L'uno e
l'altro comparvero nel censo come quiriti, ossia come capi di famiglia e come
proprietarii di terra; ebbero un complesso di diritti comuni, che prese appunto
il nome di ius quiritium. Così pure la comunanza quiritaria, avendo una base
economica, venne a considerare ogni cosa sotto l'aspetto del mio e del tuo, e
assunse eziandio una impronta emi nentemente militare, che spiega quel
carattere di forza e di vio lenza che è inerente al ius quiritium e si rivela
nei vocaboli e nei simboli da esso adoperati. 333. Pongasi ora, che trattisi di
comprendere in certe rubriche, che si adattino per la formazione del censo,
l'individualità giuridica di questo quirite, e anche oggidi sarebbe forse
difficile di sovrap porre a queste varie rubriche vocaboli più sintetici e
compren sivi e al tempo stesso più esatti e precisi di quelli di caput, manus,
mancipium. Nella categoria del caput verrà il nome del cittadino, libero e sui
iuris, come individuo e come capo di famiglia, e vi saranno le indicazioni del
suo nome, della sua età, della tribù locale a cui appartiene, la cui
indicazione finirà anzi per formar parte delle denominazioni ufficiali del
cittadino romano. Nella seconda rubrica invece saranno indicati i poteri, che a
lui ap partengono sulle persone, che entrano a costituire il gruppo, di cui
egli è capo, sulle persone cioè, che siano in manu, in potestate, in mancipio,
e siccome questa enumerazione dovrà naturalmente par tire dalla moglie, che
trovasi sotto la manus, così può spiegarsi come tutti questi poteri vengano
sotto la intitolazione generica di manus. Nella terza categoria infine comparirà
il mancipium, ossia il complesso delle persone e delle cose, che costituivano
il vero patri monio del quirite, in quanto egli era un capo di famiglia indipen
dente e sovrano. Che il nome della
tribù, a cui il cittadino apparteneva, entrasse nelle deno minazioni ufficiali
del medesimo, appare da una quantità grandissima di iscrizioni. V. in proposito il MICHEL, Du droit de cité romaine, Paris, 1885. 417 Questo
mancipium pertanto non potrà più comprendere nè l'ager gentilicius, come quello
che non appartiene al capo di famiglia, ma alla gente; né le mandrie e gli armenti,
che pascolano in questo ager gentilicius; né eziandio le possessiones, che si
possano avere nell'ager publicus; nè la pecunia circolante, il cui ammontare
pud essere variabile e non si presta ad una constatazione esatta e pre cisa,
quale è quella richiesta per un censo; ma dovrà invece com prendere soltanto
quella proprietà, che costituisse in certo modo il patrimonio normale,
costante, e pressochè tipico di un capo di fa miglia agricola, nelle condizioni
economiche e sociali in cui trova vasi allora il popolo romano. Egli è
probabile infatti, per chi tenga conto della tendenza delle genti italiche a
modellare i loro istituti sul medesimo tipo, che quel mancipium, che doveva
figurare nel censo, quale patrimonio asso luto ed esclusivo del quirite,
tendesse nella generalità dei casi ad essere configurato nella istessa guisa.
Per verità se trattavasi dell'heredium ossia dell'assegno fatto ad un capo di
famiglia di gente patrizia, il medesimo probabilmente doveva consistere in uno
spazio dell'ager gentilicius, che potesse bastare all'abitazione e al
sostentamento di lui e della sua famiglia; ed è certo a somiglianza di questi
primitivi assegni, che, salve le proporzioni, dovettero es sere configurati gli
assegni, che le genti facevano ai clienti, e quelli parimenti che i re facevano
alla plebe. Di qui consegui na turalmente che, facendo astrazione dalla
quantità maggiore o mi nore di iugera, o dall'ampiezza maggiore o minore della
domus in città o del tugurium nel contado, dovette formarsi una configura zione
tipica del podere del quirite. Che anzi non è punto impro babile, che nella
formazione del censo, dovendosi ridurre a categorie generali le cose
essenziali, che entravano a costituire questo man cipium, anche queste fossero
raccolte sotto certe denominazioni ti piche, quali sarebbero quelle di praedia,
di praediorum instru menta (servi, quadrupedes quae dorso collove domantur), di
praediorum servitutes (iter, via, actus, aquaeductus); le quali po terono assai
naturalmente essere indicate col vocabolo complessivo di res mancipii, come
quelle che effettivamente entravano a costi tuire il mancipium. Mi limito qui ad accennare in genere come
possa esser nato e siasi svolto l'importantissimo concetto del mancipium,
perchè le molteplici questioni al riguardo saranno prese più opportunamente in
esame in questo stesso capitolo, 4º, ove
si G. C., Le origini del diritto di Roma.
27 - 418 334. Intanto una conseguenza necessaria di questa specie di se lezione
del patrimonio, che apparteneva ad ogni singolo capo di fa miglia, veniva ad
essere questa, che le res mancipii, come quelle che servivano a determinare la
posizione di esso nella comunanza quiritaria, costituissero come una specie di
proprietà privilegiata, che doveva ritenersi appartenere in modo assoluto ed
esclusivo al quirite, a cui trovavasi intestata. Si vengono così a comprendere
le espressioni più antiche di mancipium facere, mancipio dare, mancipio
accipere, le quali dapprima dovettero significare la costi tuzione di una cosa
nel mancipium, e poi anche l'acquistare e il trasmettere una cosa, che fa parte
del mancipium; finchè la fre quenza di questi atti non condusse a creare un
vocabolo apposito, che è quello di mancipare, da cui derivò appunto quello
della mancipatio, la quale venne cosi ad essere il modo proprio ed esclu sivo
per l'alienazione delle res mancipii . Non conseguiva tuttavia da cid, che non
esistessero altri beni, di cui il cittadino avesse l'effettivo godimento: ma
questi non con tavano nel determinare la sua posizione di quirite, non
entravano a costituire il suo contributo alla comunanza quiritaria, e come tali
non erano dapprima oggetto di proprietà assoluta ed esclusiva, nelvero senso
della parola: essi formavano piuttosto oggetto di uso e di godimento, ed erano
compresi genericamente in una categoria ne gativa, che più tardi fu denominata
delle res nec mancipii, le quali perciò potevano essere alienate collasemplice
traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo la prima pro
prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della quale poteva
esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al
p semplice traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo
la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della
quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della
parola e al punto di vista quiritario. È poi questa se parazione, che a causa
del censo si venne operando fra l'intesta zione ufficiale della proprietà di
una cosa, e l'effettivo godimento di essa, che ci spiega come negli antichi
autori si contrappongano tratterà ex professo del mancipium e della distinzione
delle res mancipii e nec mancipii. L'idea che la distinzione delle res mancipië
e nec mancipii dovesse avere qualche attinenza col censo Serviano ebbe già ad
essere enunciata dal PUTTENDORF, dal LANGE, dalWANGERON, dal Kuntze, ed è anche
seguìta presso di noi dal SERAFINI, Istituz., Firenze, 1881, 21. Vedi lo Squitti, Resmancipi e nec
mancipi, Napoli, 1885, 51, gli autori ivi citati, e gli argomenti che egli
adduce contro questa opinione, quale ebbe ad essere fino ad ora formulata. Cfr. BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi,
Roma 1888, 90. 9 419 talvolta i concetti dimancipium e quelli di usus fructus ,
e come più tardi abbia potuto accadere, che una persona avesse sopra una cosa
il nudum ius quiritium, mentre un'altra invece ne aveva l'ef fettivo godimento
(in bonis ). È poi facile a comprendere come questa posizione privilegiata, in
cui venne ad essere collocato il mancipium, abbia anche cooperato efficacemente
a dissolvere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius, e con essa a
dissolvere eziandio l'organizzazione gentilizia, la quale venne in certo modo
ad essere senza base, allorchè manco del suo fondamento economico. Ogni gens
patricia infatti, se volle avere una quantità di suffragii anche nelle
centurie, ove fini per concentrarsi la somma del pubblico potere, dovette
affrettarsi a fare degli assegni di terra ai proprii membri non solo, ma anche
ai proprii clienti e per tal modo gli agri gentilicii vennero spartendosi, ed
all ' ercto non cito , che indicava l'indivisione del patrimonio famigliare nel
periodo gentilizio, sottentrò il principio già riconosciuto dalle XII Tavole,
secondo cui altri non può essere costretto a rimanere in comunione suo
malgrado: si erctum ciet, arbitros tres
dato. 335. Così spiegato il censo serviano, viene a conseguirne che se vogliasi
conoscere la vera posizione del quirite, non come uomo, ma come membro della
comunanza quiritaria, sarà nelle tabulae censoriae, che a lui si riferiscono,
che dovrà essere cercato il suo vero status. Quindi se trattisi di un
cittadino, libero e sui iuris, ma senza potestà famigliare e senza patrimonio,
egli sarà bensi un caput, ma, non avendo che quello, sarà un capite census, e
sarà Questo contrapposto occorre più
volte nelle epistole di CICERONE, e fra le altre volte in una lettera ad Curium,
VII, 30, 2 ove scrive: Cuius (Attici)
quando proprium te esse scribis mancipio
et nexo, meum autem usu et fructu, contentus
isto sum. Id enim est cuiusque proprium, quo quisque fruitur atque
utitur ; il che significava in sostanza, che egli preferiva al dominio
ufficiale su Curio (man. cipium et nexum ), che spettava ad Attico, il
godimento effettivo (usus et fructus ) della sua conversazione. Altre volte
però questo contrapposto ha una significazione diversa, come nel bel verso di
LUCR., III, 969: vita mancipio nulli
datur, omnibus usu , ove mancipium si contrappone ad usus, in quanto significa
una cosa, che ci appartiene a discrezione, in guisa da poterne usare ed
abusare, ed indica così il potere illimitato ed esclusivo, che competeva
sulmancipium. Cfr. BONFANTE, op. cit., 92, nota 2, e 96, nº 2, e gli altri
passi ivi citati. Secondo la
ricostruzione del Voigt, op. cit., I, 712, tale sarebbe stato il tenore della
legge 16, della tavola V. 420 solo molto tardi, che la repubblica si contenterà
di accettarlo nella formazione del proprio esercito. Che se egli, pur non
avendo il patrimonio richiesto per entrare nelle classi e centurie, abbia tut
tavia qualche sostanza (1500 assi) ed una prole, che può crescere a benefizio
della repubblica e che può interessarlo per essa, egli figu rerà nel censo
colla prole stessa e colla manus, che gli appartiene sulla medesima, e sarà
cosi nella classe dei proletarii, la quale è già in condizione meno umile,
poichè in condizioni difficili potrà far parte, se non del vero esercito,
almeno di una specie di milizia raccogli ticcia (militia tumultuaria ), che
sarà armata a spese della repub blica. Infine se anche per ciò, che si
riferisce al mancipium, egli giunga a quella misura, che è necessaria per
essere ammesso nelle classi e nelle centurie, egli verrà ad essere adsiduus o
locuples, e secondo il valore maggiore o minore del suo mancipium potrà essere
collocato in una delle cinque classi, che formano il vero po pulus romanus
quiritium. Queste diverse categorie verranno poi ad essere così distinte fra di
loro, che ancora nelle XII Tavole per un adsiduus convenuto in giudizio per un
debito, dovrà rispon dere un altro adsiduus, mentre per il proletario potrà
rispondere chicchessia: adsiduo vindex
adsiduus esto; proletario, iam civi, quis volet vindex esto ; ed è solo più
tardi che, secondo l'atte stazione di Gellio,
proletarii et adsidui evanuerunt, omnisque illa XII Tabularum antiquitas
consopita est . Tutto ciò intanto spiega come dalle stesse tavole censuarie si
po tesse desumere lo status generalis del quirite sia come individuo, che come
capo di famiglia e proprietario. Siccome tuttavia, accanto alle qualificazioni
generali del capo gruppo, trovavansi pure nel censo le qualificazioni speciali
di pater familias, mater familias, di liberi, di servi, di sui iuris, di alieni
iuris, così anche queste varie gradazioni dello stato giuridico, senza essere
create dal censo, furono tuttavia nel medesimo delineate, e per tal modo esso
cooperd eziandio a svolgere e a precisare, accanto al concetto generale del
quirite come tale, anche il concetto degli stati speciali, che una persona
rappresentava nel gruppo a cui apparteneva.
Questa condizione dei capite censi e dei proletarii, riguardo al
servizio mili tare, ci è attestata espressamente da GELLIO, XVI, 10, $$ 10 a
15. Egli poi, citando un passo di Sallustio, direbbe che i capite censi non
furono arruolati, che da C. Mario nella guerra contro i Cimbri, o in quella
contro Giugurta. Gellio, XI, 6, 10, 8.
Che se alle cose premesse si aggiunga, che il censo all'epoca serviana fu il
documento ufficiale dello stato del cittadino, il quale serviva a determinare
la sua posizione come contribuente, come cit tadino e come soldato ad un tempo,
per guisa che la sola iscrizione nel censo poteva valere per la manomissione di
un servo, sarà fa cile il comprendere come esso abbia potuto in parte conferire
a determinare il linguaggio sintetico ed astratto, da cui prese le mosse il ius
quiritium, ed il processo con cui esso vennesi elaborando. Esso infatti fu uno
dei mezzi più potenti, mediante cui l'individualità giuridica del cittadino fu
isolata da tutti gli elementi estranei al diritto, ed il quirite fu sottratto
all'ambiente gentilizio in cui prima si trovava, ed obbligato a fermare il suo
sguardo sovra quei rapporti che comparivano nel censo. Esso parimenti fu una
delle cause per cui il ius. quiritium, che venne elaborandosi su questa trama
pri mitiva, perdette di un tratto quell'aureola religiosa, che circondava le istituzioni
delle genti patrizie, e potè essere svolto con una rigi dezza e con una logica
astratta, che sarebbero certo incomprensi bili, quando non si conoscesse la
causa, da cui poterono essere de terminate. Con ciò non intendo già affermare,
che i concetti, da cui prese le mosse il ius quiritium, siano stati creati dal
censo, poichè ho dimostrato invece che essi già preesistevano; ma solo di
provare, che il censo servi a dare loro una configurazione esatta e precisa; a
separarli nettamente gli uni dagli altri; a fare in guisa che ciascuno avesse
un'esistenza propria e distinta, an corchè fra tutti concorressero a costituire
una sola individualità giuridica. Fu in questo modo, che al punto di vista
quiritario ogni gruppo apparve in certo modo unificato sotto il proprio capo;
che tanto il diritto sulle persone che quello sulle cose nel l'elaborazione
giuridica si ridusse ad una questione di mio e di tuo; che ciascun gruppo,
essendo per dir cosi racchiuso in una cate goria determinata, ebbe un'esistenza
cosi distinta da tutti gli altri gruppi, che i membri dell'uno non potevano
promettere nè stipu lare per quelli dell'altro; che infine anche le varie
membra del quirite si vennero come dislogando le une dalle altre, e poterono
ricevere ciascuno un proprio sviluppo, dando così occasione a quel
l'automatismo di concetti e di istituti, che è uno dei caratteri più salienti
del diritto romano. Intanto questo sguardo generale ai caratteri peculiari
della co munanza quiritaria, quale si formò nell'epoca serviana, e al censo che
servi di base alla medesima, ci preparerà la via per ricostruire 422 la storia
primitiva dei concetti fondamentali di questa, che può a ragione chiamarsi la
parte statica del ius quiritium, in quanto fu in parte determinata da una delle
prime applicazioni della sta tistica per la constatazione del numero, della
forza e della ricchezza di un popolo. 2.
– Il concetto del caput e la teoria della capitis diminutio. 337. Chi volesse
cercare le prime origini del concetto di caput, dovrebbe forse riportarsi col
pensiero a quell'epoca, in cui i fonda tori della città contavano dai capi i
proprii greggi ed armenti; nè sarebbe a farne le meraviglie dalmomento, che
essi non dubitavano di chiamare ovilia quei recinti, in cui raccoglievansi le
centurie e le classi per dare il proprio voto nei comizii. Parmi tuttavia più
verosimile, che il vocabolo di caput dovesse, nel periodo gentilizio anteriore
alla formazione della città, avere quella significazione, che tuttora conserva
presso le popolazioni, che si trovano nelle stesse condizioni sociali, per cui
esso indica un capo di gruppo, quella per sona cioè, che avendo preminenza su
tutti quelli, che da essa di pendono e che la circondano, pud essere
considerata come il rap presentante, in cui si unifica il gruppo stesso. Questo
vocabolo poi, trapiantato nel censo serviano, viene ad indicare colui, che
conta per uno nel censo, e conserva cosi un'analogia colla significazione
anteriore, in quanto che il medesimo, pur essendo un individuo, unifica però in
sè stesso le persone e le cose che ne dipendono. Se per tanto altri non abbia
che il proprio caput e manchidi una sostanza valutabile nel censo stesso, verrà
ad essere un capite census; se invece abbia solo una sostanza, che giunga ai
1500 assi e conti so. pratutto per la prole, che potrà produrre per la
repubblica, sarà un proletarius; se infine abbia una sede fissa, e sostanze
sufficienti per A scanso di ogni
malinteso, devo qui dichiarare che il concetto, che qui ap pare come direttivo
nella ricostruzione della parte statica del ius quiritium, non fu un
presupposto, dal quale io sia partito, ma fu il risultato ultimo, a cui mi con
dussero pazienti e minute elucubrazioni intorno ai singolari caratteri con cui
esso si presenta. Questo paragrafo pertanto fu l'ultimo ad essere scritto, ma
ho creduto di premetterlo; perchè esso, a mio avviso, agevola al lettore la
comprensione di ciò che verrà dopo. Ciò valga anche a farmi perdonare, se per
avventura occorra qualche ine vitabile ripetizione. 423 collocarlo nelle classi
e per assicurare la città della assiduità di lui a compiere le proprie
obbligazioni di cittadino e di soldato ad un tempo, verrà ad essere chiamato
adsiduus o locuples. In ogni caso, per avere integro il proprio caput e per
poter contare per uno nel censo, conviene essere libero, cittadino, e sui iuris
nel seno della famiglia; come lo dimostra il fatto, che se altri abbia un
figlio, che per aver raggiunta l'età di 17 anni debba già entrare nelle classi
e nelle centurie, non sarà esso che conterà per uno, ma sarà invece il padre,
che verrà ad essere un duicensus, in quanto che egli viene ad essere censito
con un'altra persona, cioè col proprio figlio:
duicensus dicebatur cum altero id est cum filio, census . 338. È quindi facile il comprendere
comefosse facile il passaggio dalla significazione materiale del caput alla
significazione giuridica di esso, chiamando col vocabolo di caput il complesso
delle condi zioni richieste per figurare nel censo, ossia lo stato generale
della persona. In tal modo il vocabolo di caput cessa di indicare questo o
quell'individuo in particolare, per trasformarsi in una concezione logica ed
astratta (persona ), la quale, ancorchè ricavata dalla realtà, può servire ad
indicare il complesso delle condizioni richieste, accid altri possa avere la
capacità giuridica quiritaria. Una volta poi, che il caput venne cosi ad essere
cambiato in una concezione astratta, il medesimo potè essere assoggettato ad
una specie di analisi o di scomposizione dei varii elementi, che entravano a
costituirlo. Tali elementi erano la libertas, la civitas e la qualità di sui
iuris nel seno della famiglia. Di qui la teoria della capitis diminutio, che
non si ricavò esclusivamente dai fatti, ma si svolse sulla concezione logica
del caput; come lo dimostra il fatto, che anche l'emancipato, anche l'arrogato,
sebbene in sostanza vengano talvolta a migliorare Quanto all'etimologia di questi vocaboli vedi
il $ prec., nº 335. V. Festo, vº
duicensus; Bruns, Fontes, 337. V. quanto
al concetto di caput, Herzog, Gesch. und Syst., I, 997; il KRÜGER, Geschichte
der capitis diminutio, Breslau, 1887, $ 5 , 49 a 67, ove prende in esame il
concetto di caput nei diversi autori moderni, sopratutto germa nici. Egli poi
sembra ritenere, che il concetto di caput siasi venuto formando gra datamente.
Ritengo invece, che il diritto romano anche in questo prorompa da una sintesi
potente, a cui solo più tardi sottentrò quell'analisi, che diede poi origine
alla teoria della capitis diminutio. Il caput quindi dapprima appartenne solo
all'uomo libero, cittadino, e sui iuris; e fu solo più tardi, che anche il
figlio di famiglia si considerò avere un caput. 424 la propria posizione,
finiscono tuttavia per subire una capitis dimi nutio . Che anzi questa logica
giuridica dovrà anche applicarsi al cittadino, che sia fatto prigioniero di
guerra, e piuttosto che venir meno alla medesima si cercherà di supplirvi colla
finzione di postliminio Intanto sono tre
gli elementi del caput, e questi vengono l'uno dopo l'altro in base alla loro
importanza. Quindi la perdita della libertas costituisce la maxima capitis diminutio,
la perdita della civitas la media, e la mutazione di stato nel seno della
famiglia la minima. Ciascuno poi di questi elementi dà origine ad una di
stinzione che vi corrisponde; donde le distinzioni fra liberi e servi, fra
cives e peregrini, fra persone sui iuris e le persone alieni Gaio, Comm., I, 160-64. Secondo il Krüger,
op. cit., 5 a 21, ed altri autori germanici da lui citati, la teoria della
capitis diminutio avrebbe avuto uno svolgimento storico, nel senso che la prima
a delinearsi sarebbe stata la mi nima capitis diminutio, sul cui modello si
sarebbe poi foggiata la magna capitis diminutio, che fu poi divisa in maxima e
media capitis diminutio. Ritengo anch'io, che questa istituzione dovette avere
uno svolgimento storico,ma nel senso che come fu sintetico il concetto
primitivo di caput, così la primitiva capitis diminutio dovette comprendere
qualsiasi avvenimento, per cui altri cessasse di tare come un caput. Quindi la
perdita della libertà, quella della cittadinanza e l'adrogatio per cui altri
cessava di essere sui iuris, dovettero costituire la capitis diminutio, che
venne poi distinguendosi nelle sue varie specie. Sarà poi sempre un problema il
determinare come mai l'emancipatio potesse costituire una capitis diminutio, e
si comprende come il Savigny, Traité de droit romain, trad. Guenoux, II, 66,
quasi voglia esclu derla dalla vera capitis diminutio; ma questa singolarità
potrà essere capita quando si ritenga, che nel censo primitivo ogni famiglia
sotto il suo capo costituiva un gruppo, e quindi anche l'emancipazione, facendo
uscire quell' individuo dal gruppo, costituiva, come dice Gajo, una prioris status permutatio , la quale era
anche compresa nella significazione larga di capitis diminutio. Del resto
l'emancipatio sotto un certo aspetto produceva anche un deterioramento nello
status dell' emancipato, poichè nel diritto primitivo questi perdeva ogni
diritto di successione di fronte al gruppo, da cui esso era uscito. Intanto ciò
serve eziandio a spiegare quella singolarità del diritto romano, in virtù di
cui la capitis diminutio fa perdere soltanto i diritti fondati sull'agnazione,
e non quelli provenienti dalla cognazione, poichè quella teoria fu una
creazione del ius quiritium e del ius civile, e come tale non poteva produrre
effetti, che al punto di vista del diritto civile, per la ragione appunto detta
da Gajo, Comm., I, 158: civilis ratio
civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest ; distinzione
questa, che nell'epoche primitive non poteva esservi, ma cominciò a formarsi
quando comparve il dualismo fra il ius civile ed il ius gentium, a cui
sottentrò più tardi il ius naturale. È
nota in proposito la finzione della legge Cornelia de iure postliminii. Cfr.
Voigt, XII Tafeln, I, 299 e 300. 425 - iuris, le quali vengono ad essere
fondamentali e servono di punto di partenza anche ai giureconsulti classici,
come lo dimostrano le Isti tuzioni di Gaio. Che anzi, una volta adottato questo
metodo, si po terono anche attuare delle posizioni giuridiche intermedie, come
quella che è rappresentata dal ius latii, e queste si poterono applicare tanto
ai popoli, ai quali non si voleva accordare il completo ius quiritium, quanto
eziandio ai servi affrancati, i quali, invece di es sere posti senz'altro nella
condizione degli altri cives, erano invece collocati nella condizione di latini
iuniani. Certo tutta questa teoria non potè svilupparsi di un tratto; ma
intanto è con Servio, che si pose il vocabolo ed il concetto infor matore della
medesima, e si iniziò così quel processo logico, che de terminò poi
l'elaborazione progressiva. Questa poi si spinse fino tale da distinguere fra
lo stato generale della persona e le condizioni speciali, in cui essa può
trovarsi; donde ne provennero le determina zioni giuridiche speciali del pater
familias, del filius familias, della mater familias, che distinguesi dall'uxor.
Che anzi ciascuno di questi stati speciali venne eziandio a convertirsi in una
conce zione astratta, per modo che una persona poteva essere padre senza aver
figli, essere tenuto come figlio, ancorchè effettivamente fosse padre, essere
riguardata come figlia, ancorchè in effetto fosse moglie, poichè tutto
dipendeva dal punto di vista giuridico, sotto cui la per sona veniva ad essere
considerata . Per tal modo mentre prima
non eravi che una specie di libertas se ne ven nero creando varie gradazioni,
cioè quella dei libertini, che erano cives romani, quella dei latini, e quella
infine dei dediticii; altra prova questa, che il concetto pri mitivo è sempre
sintetico, mentre le suddistinzioni compariscono più tardi. V. GAJO, Comm., I,
10. Ciò è detto espressamente da
ULPIANO, Leg., 195, 2, dig. (50, 16) ove
dice del pater familias: recteque hoc
nomine appellatur, quamvis filium non habeat; non enim solam personam eius, sed
et ius demonstramus ; il che vuol dire, che nel qualificarlo come tale, il
giureconsulto si poneva al punto di vista giuridico. Era poi nello stesso modo,
che la moglie in manu si riteneva figlia del marito, e simili. Ciò mi
indurrebbe alquanto a modificare la teoria accettata intorno alla fictiones
nell'antico diritto. Tali fictiones dal SUMNER-MAINE, Ancien droit, 25 e dal
Juering, Ésprit de droit romain, sono in certo modo ritenute come alterazioni
della realtà dei fatti, a cui si ricorre per modificare il diritto già esi
stente. Se ciò è vero delle finzioni, che poifurono introdotte dal diritto
pretorio, non può dirsi delle fictiones del primitivo ius quiritium. Queste,
come lo dice la stessa etimologia da fingere nel senso di foggiare, modellare,
fanno parte dell' ars iura condendi, e sono un mezzo per completare una
costruzione giuridica. 426 339. Quando poi venne ad essere cosi svolta la
concezione giu ridica del caput, era naturale che la medesima potesse essere
con siderata indipendentemente da colui, al quale essa si riferiva, e che fosse
così riguardata come una specie di persona e quasi ma schera giuridica, che
poteva essere anche sovrapposta non solo ad uomini realmente esistenti, ma
eziandio a quegli enti giuridici, i quali
etiam sine ullo corpore iuris intellectum habent : donde la co struzione
delle persone giuridiche. Che anzi si va anche più oltre e per
quell'immedesimarsi che è proprio di quest'epoca fra i diritti delle persone e
quelli sulle cose, anche la proprietà quiritaria può essere considerata, o in
quanto è perfetta e senza limitazione (er optimo iure quiritium ), o in quanto
può subire delle diminuzioni, le quali verranno ad essere designate col
vocabolo di servitutes, perchè anch'esse, al pari della servitù riguardo alle
persone, scemano e di minuiscono quella perfetta posizione giuridica, in cui
trovasi la proprietà del fondo, allorchè non abbia subito limitazione di sorta
. Si comprende infine come spinta fino a questo punto l'elabora zione del
concetto del caput, la medesima sia una costruzione giu ridica, che può anche
stare da sè e svolgersi per conto proprio, secondo che esige la logica
informatrice dei varii elementi, che en trano a costituirla. Che anzi questo
caput e lo stato giuridico, che ne dipende, potrà anche essere trasportato da
una ad un'altra per sona. Quindi è facile a spiegarsi come il caput dapprima
non ap partenesse che al capo di famiglia, e poi fosse attribuito ad ogni
cittadino, e per ultimo all'uomo libero; nel qual trapasso la logica giuridica
non fa che rinunziare successivamente ad uno dei tre ele menti, che
costituivano il primitivo stato generale della persona. Essa comincia quindi a
rinunziare alla qualità di sui iuris, e viene
Tale essendo il processo seguito dalla giurisprudenza romana nella
formazione del concetto di persona, la famosa questione intorno all'esistenza
della persona giu ridica in diritto romano può essere risolta nel senso che
essa deve ritenersi come una fictio iuris, attribuendo però a questo vocabolo
la significazione sopra accennata di una costruzione giuridica modellata su
quella della persona fisica, ma limitata solo a quella categoria dei diritti
della persona fisica, che poteva avere una base nella realtà; donde la
conseguenza, che queste persone hanno il diritto ai beni, ma non possono avere
i diritti di famiglia. Cfr. Savigny, Traité de droit romain, II, 234. Questo
svolgimento pressochè parallelo del concetto della persona e della pro prietà
libera da qualsiasi vincolo sarà posto in maggior luce in questo stesso capi
tolo, 5, discorrendo del dominium ec
iure quiritium. 427 ad essere capace di diritto ogni cittadino, ancorchè non
sia capo di famiglia; poi rinunzia indirettamente a quella di civis, in quanto
che la civitas finisce per essere estesa a tutti i sudditi dell'impero, e viene
ad essere persona ogni uomo libero; ma la logica romana non potè ancora fare a
meno della libertas per accordare il caput, e quindi solo l'uomo libero fu
dalla medesima considerato come capace di diritti e di obbligazioni. Nè è il
caso di fargliene colpa, perchè la logica romana si basava sui fatti, e la
schiavitù, finchè durò il Romano Impero, fu una istituzione comune a tutte le
genti. Cid perd non tolse, che il concetto del caput o della persona, quale era
stato elaborato dai Romani, potesse più tardi essere trasportato anche all'uomo
come tale, perchè esso era una costruzione logica, la quale, foggiata dapprima
sulla realtà dei fatti, erasi poi staccata da essi, e poteva così ricevere
delle nuove applicazioni. S 3. Il concetto di manus e le sue principali
distinzioni. 340. Può darsi benissimo, che l'antichissimo vocabolo dimanus
significasse un tempo la forza effettiva dell'uomo, in quanto sottopone a sè
stesso uomini e cose, ossia la forza del vincitore, che si impone al vinto, o
il potere dell'uomo, che doma e addomestica gli animali. È tuttavia più
probabile, che questo vocabolo nel periodo gentilizio significasse già il
potere effettivo, di cui ciascun capo poteva disporre, nei conflitti e nelle
lotte coi capi delle altre famiglie e genti, della qual primitiva
significazione potrebbero ancora trovarsi le traccie nel nostro vocabolo di
masnada. La manus invece nelius qui ritium viene già a cambiarsi anch'essa in
una concezione giuridica ed astratta, che comprende il complesso dei poteri,
che appartengono ad una persona nella sua qualità di quirite. Come il vocabolo
di caput indica per cosi esprimersi la capacità potenziale del quirite: cosi
l'estrinsecazione effettiva di questa potenza sulle persone e cose Il Bruns, Geschichte und Quellen des röm.
Rechts (in HOLTZEND., Encyclop., I, 105 ), ebbe a dire con ragione, che il più
alto concepimento del diritto ro mano consiste nell'avere riconosciuto in ogni
uomo libero la capacità astratta didiritto. Cid è vero; ma vuolsi aggiungere,
che il diritto romano vi pervenne a gradi, e ri conobbe questa piena capacità
prima al capo famiglia, poi al civis, e da ultimo all'uomo libero. Cfr. BRUGI,
Le cause intrinseche della universalità del diritto ro mano, Prolus., Palermo,
1886, 8. 428 che ne dipendono viene ad essere designata col vocabolo di manus.
È questo il motivo, per cui la manus viene a comparire in tutte le
manifestazioni, che si riferiscono al diritto quiritario. Se essa afferra
qualche cosa nell'intento di acquistarvi sopra la proprietà ex iure quiritium
viene ad aversi la manu capio; se essa riven dica qualche cosa che spetta al
quirite da altri che lo possegga, abbiamo la vindicatio e la manuum consertio:
se essa lascia uscire qualche cosa dal proprio potere quiritario, abbiamo la
manumissio e la emancipatio; se essa infine afferra il debitore condannato per
trascinarlo nel carcere privato abbiamo la manus iniectio. Questa manus
simbolica non è però sempre inerme, ma talvolta compare munita della lancia od
asta quiritaria, che trovasi simboleggiata nella vindicta, la quale serve come
modo tipico per la manomis sione dei servi; nella festuca, il cui uso si
mantiene nell’actio sa cramento; nell'hasta, sotto cui si mette all'incanto il
bottino fatto in guerra, e che si infigge dinanzi al centumvirale iudicium.
Questo potere giuridico, sintetico e comprensivo, subisce poi anche l'influenza
del censo serviano, e quindi viene negli inizii ad essere modellato sul
concetto del mio e del tuo, per modo che così il potere sulla moglie, che
quello sui figli, che quello sui servi e sulle persone quae sunt in causa
mancipii appariscono foggiati sul modello della proprietà, sebbene non sia
lecito dubitare, che essi nel costume pre
La generalità degli scrittori è oggi concorde nell'ammettere, che dei
varii vo caboli per significare il potere giuridico spettante al quirite il più
antico sia quello di manus. Tale è l'opinione del Sumner Maine, del Voigt, del
PADELLETTI, ed essa trova anche un fondamento nell'analogia fra la manus dei
Romani e il mundium dei Germani. La questione sta piuttosto in vedere se il
vocabolo dimanus comprenda solo i poteri sulle persone, compresi anche i servi,
oppure anche il potere sulle cose. Egli è certo a questo riguardo, che i
giureconsulti classici dànno al vocabolo di manus il significato di potere
sulle persone e considerano questo vocabolo come un sinonimo di potestas.
Tuttavia io riterrei probabile, che il vocabolo dimanus in una signifi cazione
del tutto primitiva potesse anche comprendere il potere sulle cose, e ciò per
il semplice motivo, che altrimenti nel diritto antico non vi sarebbe stato
vocabolo per significare la proprietà e il dominio. È vero che alcuni dicono,
che questo voca bolo primitivo sarebbe quello dimancipium: ma miriservo di
dimostrare a suo tempo, che questo vocabolo significò piuttosto le cose
soggette al potere, che non il potere una spettante sulle medesime. In ogni
caso, se al vocabolo di mancipium si vuol dare etimologia è necessità di darvi
quella di manu-captum, e in tal caso la manus comparirebbe ugualmente per
significare l'assoggettamento di una cosa al potere della persona. Cfr. Voigt,
XII Tafeln, II, $ 79; BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, 100, nota 1; Longo,
La mancipatio, Firenze, 1887, 3, nota 4. 429 sentavano delle differenze e dei
temperamenti. Così pure, sotto il punto di vista giuridico, nulla hanno di
proprio nè la moglie, nè i figli, né i servi, e tutto ciò che essi acquistano
va al marito, al padre, al padrone, perchè è lui il vero quirite e quegli che
conta nel censo. Sarà poi una conseguenza di questa logica giuridica, che se il
dipendente rechi un danno, il capo di famiglia potrà addive nire alla noxae
datio; che se alcuno si ribellerà al suo potere, gli spetterà un ius coercendi,
che potrà giungere fino al ius vitae ac necis; e se alcuna delle persone, che
da esso dipendono, verrà ad essergli sottratta, egli potrà proporre percid
quella stessa actio furti od actio exhibendi, che potrebbe da lui essere
proposta per una cosa, di cui sia stato derubato. 341. Dalmomento poi che la
manus costituisce così una concezione giuridica, si comprende che anche ad essa
siasi applicata quella scom posizione, che ebbe già a dispiegarsi quanto al
caput. Si spiegano così le iniziali conservateci da Valerio Probo, secondo cui
il potere giuridico del quirite verrebbe a suddividersi nella manus, che resta
a significare il potere del marito sulla moglie, nella potestas, che significa
il potere del padre sui figli, e nel mancipium, che qui sembra indicare il
potere sulle persone quae sunt in mancipii causa. Quest'ultimo vocabolo
tuttavia, più che un aspetto del potere quiri tario, sembra indicare piuttosto
il complesso delle persone e delle cose, che dipendono dal potere spettante al
quirite; come lo dimostra la circostanza, che il medesimo dai giureconsulti non
è mai adoperato con significazione attiva, ma sempre con significazione passiva. Basta per ciò osservare, chementre nei
giureconsulti si incontrano le espressioni habere manum, potestatem, dominium,
non occorre però mai l'espressione habere mancipium, ma sempre quella habere in
mancipio: poichè quest'espressione di man cipium, derivando da manu-captum,
significa bensì la cosa soggetta, ma non può si gnificare il potere sulla
medesima. Io ritengo, che questa inesatta significazione data al vocabolo
mancipium sia stata una causa dei gravi dubbii ed incertezze nell' ar gomento.
Così, ad esempio, non potrei accettare l'opinione, che mancipium sia stato il
primo vocabolo con cui si indicò il dominium ex iure quiritium; ciò sarebbe
come dire che i vocaboli di praedium, fundus significassero il diritto di
proprietà, mentre invece indicano la cosa, che ne forma l'oggetto. L'unico
passo, che suol essere citato per far significare a mancipium un potere, è
quello di GELLIO, XVIII, 6, 9, ove si parla della mater familias in manu,
mancipioque mariti, ma anche questo dimostra, che anche la moglie era talora
considerata come in mancipio, e conferma così la significazione passiva del
vocabolo. Se dovette quindi esservi un vocabolo primitivo, che potè indicare il
potere del proprietario, esso fu quello di manus, che ha in 430 Una volta poi,
che i poteri, un tempo inchiusi nel vocabolo generico di manus, sono cosi
separati l'uno dall'altro, essi possono essere ca paci di una propria
elaborazione e venirsi cosi differenziando fra di loro secondo il diverso
concetto a cui si ispirano, per modo che cia scuno di essi finirà per ricevere
un diverso svolgimento logico e storico ad un tempo, e per essere sottoposto a
quelle limitazioni, che verranno ad apparire necessarie nella realtà dei fatti.
Negli esordii invece della formazione del ius quiritium non presentasi ancora
il dubbio, che il quirite possa in qualche modo abusare della propria manus, e
quindi tutti i poteri, che a lui appartengono, giuridicamente considerati,
vengono ad apparire senza alcun limite e confine. Che anzi le persone a lai
soggette, sotto il punto di vista giuridico acquistano ed operano non per sè,ma
per le per sone, di cui trovansi in manu, in potestate, in mancipio. Di qui la
conseguenza, che mentre le persone sottoposte al potere del capo di famiglia
possono rappresentarlo, questa rappresentazione invece non può essere cosi
facilmente ammessa, allorchè trattasi di altre persone, come lo dimostra il
principio prevalente nell'antico di ritto, secondo cui una persona non può
promettere nè stipulare per un'altra. Il concetto del mancipium e la
distinzione delle res mancipii e necmancipii. 342. Che se la manus viene poi ad
essere considerata, in quanto abbia assoggettate al suo potere le persone e le
cose che da essa dipen dono, formasi il concetto del mancipium. Mentre i
concetti di caput e di manus indicano un'energia che si esplica, il vocabolo
invece di mancipium indica piuttosto lo stato di soggezione, in cui si trovano
sè l'idea della forza e dell'energia, ma non mai quello di mancipium, che
allora e sempre significò soltanto la soggezione. Del resto gli stessi
giureconsulti ci attestano, che in antico non eravi un vocabolo speciale per
significare il dominio, ma dicevasi soltanto meum, tuum. Di qui credo di poter
indurre, che anche quel principio del diritto primitivo, secondo cui altri non
può essere rappresentato, che dalle persone che da lui dipen dono e niuno può
promettere e stipulare per altri, sia una conseguenza del modo, in cui si
iniziò la formazione del ius quiritium; in quanto che nell'esercito e nei
comizii ciascuno doveva rispondere per sè e non poteva farsi rappresentare da
altri. r 431 le persone e le cose che dipendono da essa, e presentasi con una
signi ficazione eminentemente passiva. Non vi ha quindi nulla di ripu gnante,
che esso nelle origini significasse il manu -captum; e designasse specialmente
il vinto che, fatto prigioniero di guerra, veniva ad es sere soggetto alla
potestà del vincitore. Questo è certo ad ogni modo, che nel ius quiritium il
vocabolo dimancipium, al pari di quello di caput e di manus, ha già assunta una
significazione eminentemente giuridica, per cui comprende quel complesso di
persone e di cose, che dipendono esclusivamente dal capo di famiglia, e che a
lui apparten gono ex iure quiritium, e che nel censo compariscono in certo modo
comeposte in suo capo. È quindi sopratutto coll'entrare a far parte
delmancipium, che i diritti spettanti al capo di famiglia ed al pro prietario
ex iure quiritium assumono quel carattere così esclusivo ed individuale, che è
del tutto proprio del diritto primitivo di Roma. Con esso infatti il quirite
viene ad essere staccato dall'ambiente gen tilizio, di cui fa parte, a compare
nel censo con un complesso di persone e di cose, che dipendono da lui in modo
assoluto. È quindi in virtù di quest'astrazione, che viene a formarsi il
concetto di una potestà senza confini e di una proprietà assoluta ed esclusiva
spet tante al capo di famiglia . Anche nel mancipium, come negli altri Quasi tutti gli autori son concordi in
ritenere, che il mancipium abbia avuta una significazione così larga da
comprendere così le persone, quanto le cose, in quanto son soggette al potere
del capo di famiglia. Solo combatte quest'opinione il MARQUARDT, Das
Privatleben der Römer, 2. Ritengo che debba essere seguita la prima opinione, la
quale per me ha un appoggio incontrastabile in ciò, che le formole serbateci da
Aulo Gellio e VALERIO Probo accennano a persone, che sono in manu, potestate,
mancipio; la qual formola troviamo poi adoperata nelle leggi più antiche che a
noi pervennero, come nella lex Cincia de donationibus, del 550 di Roma (Bruns,
Fontes, 45) e nella lex Acilia repetundarum, del 631 di Roma (pag. 57). Ciò
vuol dire, che anche le persone sotto un certo aspetto si considera vano come
comprese nel mancipium del capo famiglia, il che poi spiega come ad esse
potesse anche applicarsi la mancipatio, l'emancipatio e simili. Ciò però non
toglie, che le significazioni tecniche del vocabolo mancipium fossero quelle
specialmente di significare il servo, come lo prova l'editto curule de
mancipiis vendundis (Bruns, 214 ), o quel complesso di beni, che doveva essere
consegnato nel censo. Quanto alle altre significazioni dimancipium, è da
vedersi il BONFANTE, op. cit., 79 a 105, col quale tuttavia non concordo in
questo, che egli attribuisce al mancipium anche la significazione di una
potestà sulla cosa (pag. 100 ), e sembra ritenere, che il mancipium non
comprenda mai le persone (pag. 101, in nota).
Come il mancipium, fondendosi in certo modo coll'heredium, sia venuto a
de signare le cose comprese nel dominio assoluto ed esclusivo del cittadino
romano è stato dimostrato più sopra al nº 331, 414. 432 concetti fin qui presi
in esame, trovansi dapprima confuse le persone e le cose, che dipendono dalla
stessa persona; ma poi anche qui viene operandosi una specie di
differenziazione, per cui il vocabolo mancipium finisce per indicare il
complesso dei beni, e quello di familia il complesso delle persone, che
dipendono dal medesimo capo. Siccome però nel mancipium non si comprende tutto
il pa trimonio del quirite, ma solo quella parte di esso, che è portata nel
censo e che serve come stregua per determinare la classe, di cui entra a far
parte; così ne deriva che il censo serviano deve eziandio essere considerato
come il momento storico, in cui cominciò ad accen tuarsi quella distinzione fra
il mancipium e il nec mancipium, che diede poi origine a quella importantissima
distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, che deve formare oggetto
di par ticolare esame per le molte discussioni, a cui diede argomento. 343. La
distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, è a mio giudizio, un
rottame del diritto primitivo, che indecifrabile da solo, può cambiarsi in un
documento prezioso, quando si riesca a ricomporlo nell'ambiente in cui ebbe a
formarsi. L'antichità del concetto, a cui si ispira la distinzione, è
dimostrata dal fatto, che i giureconsulti ebbero ad accettare la medesima come
già esi stente nel fatto, senza pur cercare di darsi la vera ragione di essa .
La circostanza poi, che questa distinzione ebbe a perdurare per se coli,
dimostra che essa non può considerarsi come una semplice biz zarria giuridica,
ma deve invece rannodarsi a qualche concetto fon damentale dell'antico diritto,
che i giureconsulti classici credettero di dovere accettare e rispettare. Ció
del resto può in certi confini anche argomentarsi dal modo singolare, in cui è
concepita questa distinzione; in quanto che essa è evidentemente fatta
nell'intento L'importanza della
questione per lo studio del diritto primitivo di Roma fu in questi ultimi tempi
assai sentita in Italia, come lo dimostrano i lavori già ci tati dello Squitti
e del BONFANTE sulle res mancipi e nec mancipi e quello del Longo sulla
mancipatio. Ritengo tutta via, che questa sia una di quelle questioni, che
prima debbono essere studiate nei particolari, ma difficilmente possono poi es
sere comprese e spiegate, se non siano coordinate colle altre istituzioni del
diritto primitivo, con cui concorrevano a costituire un tutto organico e
coerente. Non può certamente ritenersi
definitiva la ragione data da Gavo, Comm., II, 22, che le res mancipii siano
così dette perchè suscettive di mancipatio; poichè si potrebbe sempre chiedere
la ragione, per cui le sole res mancipii furono ritenute suscettive della
mancipatio. 433 di mettere in una posizione speciale e privilegiata le res
mancipii, che costituiscono la parte positiva della distinzione, mentre l'altra
parte della distinzione ha un carattere puramente negativo, cioè comprende tutte
quelle cose, che non appartengono alla prima ca tegoria. Da questo carattere
infatti è lecito indurre, che nello svol gimento storico dovette precedere la
formazione delle res mancipii, ossia di un complesso di cose, che erano
comprese nel mancipium, e che solo più tardi quelle, che non erano comprese
nelmedesimo, vennero ad essere chiamate res nec mancipii, quasi per contrap
porle alla categoria già formata dalle res mancipii. Queste considerazioni
aggiunte a quella pur importante, che dopo l'ultima lettura del manoscritto di
Gaio da lui fatta, lo Studemund avrebbe adottata la lezione di res mancipii e
res nec mancipii a vece di quella di res mancipi e nec mancipi, che prima era
ge neralmente adottata, mi inducono a ritenere che il caposaldo, a cui deve
rannodarsi questa antica distinzione, sia l'antichissimo concetto del mancipium,
le cui origini rimontano quanto meno alla costitu zione ed al censo di Servio
Tullo. 344. Per poter poi spiegare come nell'antico diritto possa essersi
cominciato a distinguere il mancipium dal nec mancipium, non sarà inopportuno
il notare, che fin dai tempi più antichi noi troviamo degli accenni ad una
specie di distinzione, che erasi fatta nel pa trimonio spettante al capo di
famiglia. Noi troviamo infatti una specie di dualismo nei vocaboli di heredium
e di peculium, e in quelli eziandio di familia pecuniaque, i quali appariscono
in certo modo contrapposti fra di loro. Per verità mentre i vocaboli di he Del resto la questione della i doppia o
semplice nel vocabolo mancipi o man cipii non ba grande importanza dal momento,
che nel latino primitivo solevasi usare l'i semplice a vece della doppia ii.
Che anzi sonvi autori, i quali continuano a seguire l'antica scritturazione,
appunto perchè veggono in essa un indizio ed una prova dell'antichità della
distinzione, sebbene ammettano la parentela delle res man cipiä сol primitivo
mancipium. Così il BONFANTE, op. cit., 21. Per parte mia, siccome mi propongo
di fare la storia del concetto, anzichè della parola, così trovo più
conveniente di adottare quella scritturazione, la quale, esprimendo materialmente
l'attinenza fra il mancipium e le res mancipii, impedisce di dare a questa
distin zione una significazione diversa da quella, che veramente ha. La grafia
mancipi sarà forse la più genuina e la più antica; ma essa condusse alla
distinzione fra cose man cipabili e non mancipabili, e a cercare l'origine
della distinzione in cose, che non avevano a fare con essa, il che appunto deve
essere evitato. G. CARLw, Le origini del diritto di Roma. 28 434 redium e di
familia indicano di preferenza quella parte del patri monio, che nel proprio
concetto informatore è destinata a passare negli eredi, i concetti invece di
peculium e di pecunia sembrano designare di preferenza quella parte di
patrimonio, che per sua na tura è destinata allo scambio, alla circolazione ed
al soddisfacimento dei quotidiani bisogni. Di quisi può inferire, che una
distinzione come questa, che compare indicata con vocaboli diversi, e che si
mantiene con una certa costanza, dovette trovare la propria ragione d'essere
nelle condizioni economiche e sociali, in cui allora trovavasi il popolo
romano, e che perciò la spiegazione di essa debba ricercarsi nell'e poca, in
cui vennesi formando il primitivo ius quiritium. Parmipoi a questo proposito,
che anche oggi, fermando lo sguardo sopra una comunanza di carattere rurale, si
possa trovare qualche vestigio di condizioni sociali ed economiche analoghe a
quelle, che determinarono questa distinzione nell'antico diritto di Roma. Anche
oggi nelle comunanze agricole la famiglia rurale appare in certo modo unificata
nella persona del suo capo, e sotto l'aspetto econo mico costituisce come un
gruppo di persone e di cose, in cui si comprende il capofamiglia, la moglie, i
figli, il bestiame, la terra coltivata, e la cui importanza può essere maggiore
o minore, secondo la quantità di terra da esso posseduta, e il numero di
braccia, di cui può disporre per la coltura della medesima. È poi facile
l'osser vare come in questo patrimonio, che si intitola al padre, ma che nel
costume si considera come proprietà comune del gruppo, for misi naturalmente
una distinzione congenere a quelle, le cui traccie pur compariscono fra gli
antichi romani. Nel patrimonio infatti di una famiglia agricola havvi anzitutto
una parte fissa, sostanziale, che comprende tutti quei beni, senza di cui
l'azienda agricola non potrebbe percorrere il suo corso regolare. Essa
costituisce, per cosi esprimersi, il capitale fisso della famiglia agricola;
quella parte cioè della sua sostanza, che sebbene di diritto appartenga al
padre, nel costume si ritiene invece come proprietà comune; quella che è dal
padre custodita con speciale affetto, e di cui si spoglia a malincuore,
ritenendosi come obbligato a trasmetterla intatta alla propria figliuo lanza.
Se egli quindi alieni una parte della medesima, la comunanza rurale non può a
meno di esserne informata e il suo credito vacilla. Quindi piuttosto di
alienare questa parte fissa e trasmessibile dal
Già si accenno a questa correlazione, senza tuttavia cercare di
spiegarla, al nº 56, 70. 435 proprio patrimonio, il capo di famiglia suole
anche oggidi, come già un tempo la plebe romana, appigliarsi al partito di
contrarre dei debiti, o di ricorrere a quella vendita con patto di riscatto,
che nei nostri villaggi si cambiò nella forma più perfida ed ingannatrice sotto
cui si nasconde quell'usura, che chiamasi palliata. Accanto poi a questa parte
fissa del patrimonio havvi eziandio la parte, che costituisce in certo modo il
capitale circolante della fa miglia rurale. In essa si comprendono i raccolti
dell'annata, le somme di danaro che si tengono alla mano, il bestiame minuto,
che ogni anno si compra e si vende, e gli altri beni e valori, coi quali il
capo famiglia può fare maggiormente a fidanza, perchè la copia o la scarsità di
essi potrà rendere più o meno agiata la famiglia, senza però mettere a
repentaglio l'esistenza della medesima. È naturale che una distinzione di
questa natura abbia dapprima alcunché di vago e di indeterminato, in quanto che
possono esservi delle cose, di cui può dubitarsi se debbano essere collocate in
questa od in quella parte del patrimonio. Se tuttavia in determinate con
dizioni economiche avvenga un avvenimento di carattere ammini strativo, che
costringa in certo modo a distinguere le due parti del patrimonio, quale,
sarebbe ad esempio, la formazione di un censo o di un catasto per fissarvi
sopra una imposta, la conseguenza im mediata di questo fatto sarà, che quella
distinzione, che stava for mandosi, perderà il suo carattere vago ed
indeterminato e finirà per assumere un significato preciso, il quale, mentre
corrisponde allo stato reale delle cose in quel determinato momento, potrà in
vece riuscire inesplicabile più tardi, allorchè siansi trasformate le
condizioni economiche del popolo, di cui si tratta. 345. Or bene un avvenimento
di questa natura ebbe appunto ad avverarsi nella primitiva vita economica e
giuridica di Roma. Esso fu il censo di Servio Tullio, il quale, essendo stato
posto a base di una nuova composizione del populus romanus quiritium, non potè
a meno di lasciare anche delle traccie nello svolgimento posteriore del diritto
romano. Si sa infatti, che questo censo comprese non solo le persone, ma anche
le sostanze, e che esso sopravvenne dopo che Servio e i re suoi antecessori
avevano fatto alla plebe degli assegni di terre, che per essere tutti della
stessa natura dovevano aver rice vuta una analoga configurazione. Questi
assegni erano stati senza alcun dubbio fatti a somiglianza di quegli heredia,
che la gens an tica faceva ai suoi membri, allorché i medesimi fondavano una fa
436 miglia, colla differenza che mentre gli heredia del patriziato erano
ricavati dall'ager gentilicius, quelli invece, che si facevano alla plebe,
erano fatti direttamente dallo Stato sul suo ager publicus, mediante le così
dette adsignationes viritanae. Senza cercare qui se tali assegni fossero di
due, di cinque od anche di sette iugeri, questo è certo che essi costituivano
una specie di piccolo podere, che com ponevasi di una abitazione rurale
(tugurium ), di un orto e di un campo attiguo, naturalmente fornito di quelle
servitù rurali di pas saggio e di acquedotto, che erano del tutto
indispensabili per la sua coltivazione. Esso quindi veniva in certo modo a
costituire la pro prietà tipica del quirite, la quale, dipendendo direttamente
dalla sua manus, poteva opportunamente ricevere il nome dimancipium. Che anzi è
anche probabile, che questo podere prendesse il nome dal suo primitivo
proprietario, come lo dimostra il fatto, che i poderi romani ancora più tardi
conservano il nome derivato da quello del primitivo proprietario, che si
considera in certo modo come il fon datore del podere, e lo trasmettono
successivamente ai proprietarii che vengono dopo. Era quindi questo mancipium,
che doveva essere consegnato e valutato nel censo, e che costituiva la base,
sovra cui si determinavano i diritti e le obbligazioni del quirite; le altre
cose invece non gli erano tenute in conto, o perchè non appartenevano al
quirite come tale, ma piuttosto alla gente, di cui esso faceva parte, o perchè
costituivano una specie di capitale cir colante, di cui non potevasi fissare
l'ammontare in questo od in quel determinato momento. Di qui conseguiva, che
questo mancipium Questa induzione mi fu
suggerita da due notevoli articoli del FUSTEL DE COULANGES, pubblicati
sulla Revue des deux mondes del 1886 col titolo Le domaine rural chez les
Romains, tomo 3º dell'annata. II FUSTEL DE COULANGES non si occupa veramente
delle origini del podere ru rale in Roma, stante le incertezze che ancor durano
sull'argomento, ma parla piut tosto dei poderi rurali sul finire della
Repubblica e durante l'Impero, allorchè i medesimi per le loro proporzioni
certo non avevano più che fare col primitivo man cipium. Egli nota tuttavia,
che i poderi anche in quest'epoca avevano una denomi nazione ricavata dal nome
non del proprietario attuale ma del proprietario primitivo del podere, e
chiamavansi così fundus Manlianus, Terentianus, Gallianus, Sempro nianus e
simili, il che finiva per dare una personalità al fondo, determinata da colui,
che prima l'aveva occupato e posto in coltivazione. Ora non è certo impro
babile, che questa singolarità nel podere romano sia stata determinata dal
fatto, che nella tabula censoria del quirite, al disotto del nome del caput,
era anche descritto il podere a lui spettante, il quale veniva così ad assumere
un nome, che i Romani trasmisero poi con quella costanza, che abbiamo
riscontrato in molti altri esempi. 437 veniva in certo modo a costituire il
vero e proprio patrimonio del quirite, cometale: quello cioè che era posto
direttamente in suo capo, che in certo modo ne prendeva il nome, e di cui egli
poteva disporre senza limitazione di sorta, purchè lo facesse nei modi solenni,
che erano riconosciuti dalla comunanza quiritaria. Anche gli altri beni
potevano essere buoni e desiderabili per il quirite; ma quelli, che entravano
nel mancipium, avevano per esso una importanza del tutto peculiare, la quale
spiega come i plebei preferissero alla loro alienazione l'imprigionamento nelle
carceri del creditore, con tutti i mali trattamenti, che potevano conseguirne.
346. Questa spiegazione del modo, in cui si formò ilmancipium, trova poi la sua
conferma nella enumerazione, che i giureconsulti Gaio ed Ulpiano ebbero a
conservarci delle res mancipii. Questa enumerazione infatti serba evidentemente
il carattere di una antichità remota, e richiama il pensiero agli assegni
rurali aventi una configurazione tipica e determinata, che dovevano essere
fatti sull'ager gentilicius ai gentili e ai clienti che entravano a co stituire
la gens, e dai re ai plebei sull’ager publicus. Per verità le res mancipii,
sebbene siano annoverate come cose singole, co stituiscono però ad evidenza un
tutto, che corrisponde alle condi zioni economiche del tempo, ed ai bisogni di
una famiglia agricola, la quale debba, per dir cosi, bastare a se stessa. Ciò è
dimostrato anche dalla circostanza, che il podere, che forma il nucleo centrale
del mancipium, non è già un campo nudo di qualsiasi attrezzo, ma è un praedium
instructum considerato cioè cogli istrumenti e colle servitù, che sono
necessarie per la sua coltivazione. Una casa in città, un tugurio in campagna,
circondato da un piccolo podere, coi servi, cogli animali, e colle servitù
indispensabili per la coltura del medesimo, dovettero in quell'epoca costituire
come la proprietà tipica del quirite; quella proprietà cioè, che lo rendeva
adsiduus, perchè ne accertava la residenza, e locuples, perchè assicurava il
sostentamento suo e della famiglia. Essa era la prima porzione di Gajo, I, 120; II, 14-17; Ulp., Fragm., XIX,
1. Anche questo concetto del fundus instructus sopravvive a lungo presso i Ro
mani, come appare dal Fustel De Coulanges, op. cit., 340, che lo trova in pieno
vigore durante l'impero. Che anzi i giureconsulti al solito formano una con
cezione giuridica dello stesso e instrumentum fundi , ossia di quel complesso
di ar nesi, di bestiame e di servi, che può essere necessario per la coltura
del fondo. 438 terra, che sottraevasi in certo modo dalla proprietà collettiva
della gente (ager gentilicius), o da quella dello stato (ager publicus), per
costituire la vera proprietà esclusiva ed individuale. Or bene è appunto un
gruppo analogo di cose, che può raccogliersi. dall'enumerazione conservataci da
Gaio e da Ulpiano delle res man cipii. L'uno e l'altro infatti son concordi
nell'attestare, che queste comprendevano; lº i praedia, così rustici
comeurbani, purchè situati nell'ager romanus od anche nel suolo italico, il
quale mediante la concessione del ius italicum, poteva anche essere oggetto del
do minium ex iure quiritium; 2° le servitù rustiche, che sono il naturale
compimento di un podere rurale, quali le servitutes viae, itineris, actus,
aquaeductus; 3° i servi, in quell'epoca strumento indispensabile per la coltura;
4º e infine i quadrupedes, quae dorso collove domantur, veluti boves, equi,
muli et asini. Invece le altre cose tutte, che esorbitano da questa cerchia,
comprendendovi la stessa pecunia, le pecore, i buoi ed i cavalli non domati,
sono indicate senz'altro colla espressione di res nec mancipii. 347. Di fronte
a questa enumerazione dei giureconsulti si osservo, che riesce difficile a
comprendersi come nelmancipium, quale pro prietà tipica del cittadino, non si
comprendessero nè le pecore, nè le mandre dei cavalli e dei buoi non domati, né
i greggi ed ar menti, cose tutte, che certamente costituirono la parte più
notevole della ricchezza dei primitivi romani. È perd anche ovvio il
rispondere, che il criterio della riforma serviana non fondavasi sulla
ricchezza, quale che essa fosse, ma piuttosto sulla proprietà stabile, esente
da qualsiasi vincolo. Era solo questa forma di proprietà, che poteva ren dere i
quiriti adsidui e locupletes, e servire così di garanzia alla co munanza
dell'interesse, che essi avevano alla comune difesa. Non fu quindi la pecunia,
che ebbe ad essere tenuta in conto, perchè questa, anche consistendo in greggi
ed in armenti, poteva sempre essere trasportata altrove. Si aggiunga che le
mandre, i greggi, e gli ar menti dovevano dapprima non appartenere ai singoli
capi di famiglia, macostituire invece la ricchezza delle genti collettivamente
conside rate; poichè per il loro pascolo non poteva certo bastare, nè sarebbe
stato atto il piccolo podere quiritario, ma occorrevano dei grandi e vasti
spazi, che solo potevano trovarsi negli agri gentilicii, o nell'ager compascuus
della tribus primitiva, o nell'ager publicus, proprietà dello Stato. Quanto ai
capi di piccolo bestiame, che po tevano anche appartenere al proprietario di un
piccolo podere, 439 tenuto ex iure quiritium, essi costituivano quel capitale
circolante, che formava argomento degli scambii e delle negoziazioni quoti
diane, e che perciò non offriva una base salda per essere valutato nel censo.
348. Parmi cið stante di poter conchiudere, che il primitivo man cipium
consistette in quel complesso di cose, che costituiva in certo modo la
proprietà tipica del quirite, come capo di una famiglia agricola, all'epoca in
cui ebbe ad essere introdotta l'istituzione del censo. La selezione di questo
mancipium dal resto delle cose, il cui godimento apparteneva ai primitivi
romani, erasi preparata len tamente nelle condizioni economiche e sociali ed
ebbe poi ad essere determinata in modo esatto e preciso dal censo serviano, il
quale per tal modo potè perfino influire nel determinare le varie categorie
delle res mancipii. È infatti questo mancipium, che nel censo appare intestato
ad ogni singolo quirite, e che costituisce il primo nucleo di quella proprietà
ex iure quiritium, che ebbe poi a svol gersi coi caratteri di assoluta, di
esclusiva e di irrevocabile. Sia Infatti
non è punto improbabile, che la distinzione stessa delle res mancipii abbia
potuto essere determinata dalle rubriche diverse, in cuidividevasi il mancipium,
come già ebbi ad accennare al n ° 332 (in fine). Intanto colla soluzione
indicata nel testo credo di aver fatto procedere di pari passo i due aspetti,
sotto cui fu discussa l'origine delle res mancipië e nec mancipii. Nota
giustamente il Bon FANTE, op. cit., 35, che le teorie diverse, da lui esposte,
si possono dividere in razionali e storiche, secondo che cercano di spiegare
razionalmente quella distinzione, oppure di rannodarla ad un fatto storico. I
due punti di vista, a parer mio, deb bono esser fatti procedere di pari passo;
poichè la distinzione non sarebbesi intro dotta presso un popolo pratico e
logico come il romano, se non avesse avuto una ragione di essere nelle
condizioni economiche e sociali del tempo, ed essa non sareb besi poi
perpetuata con tanta tenacità, se non vi fosse stato un avvenimento storico
importantissimo, come il censo, il quale, per essersi in certo modo
immedesimato colla vita e col modo di pensare del popolo, mantenne allo stato
fossile la distinzione, di cui si trattava, anche allorchè non aveva più
ragione d'essere. Che anzi in questo modo vengono perfino ad offrire
alcunchè di vero anche le opinioni, che vogliono rannodare il concetto di mancipium
alla bellica occupatio; poichè questo carattere militare, inerente anche
almancipium, è una conseguenza di quell'impronta militare, che sopratutto in
quell'epoca assume il populus romanus quiritium; impronta, che rimane inerente
a tutti i concetti e alle istituzioni che ebbero origine in quell'occa sione.
Tuttavia, siccome trattasi qui di ricostrurre e non di far l'esame critico
delle varie opinioni, mi rimetto per l'analisi di queste opinioni, delle quali
alcune hanno perfino del singolare, allo Squirti, 38 a 68, al BONFANTE, 35 e 75
e agli altri autori, che di recente esaminarono la vecchia controversia. 440
pure, che più tardi, per l'accrescersi della fortuna dei cittadini ro mani,
siansi aggiunte molte cose, che avrebbero pur dovuto essere tenute in conto per
valutare il patrimonio del quirite; ma in questa parte, come nel resto, i
giureconsulti, allorchè trovarono foggiata questa configurazione giuridica, si
guardarono dall'alterarne in qual siasi modo le primitive fattezze. Di qui ne
venne, che il concetto del mancipium, come molti altri concetti del primitivo
diritto, dopo avere un tempo corrisposto alla realtà dei fatti e aver così com
preso quelle cose, che effettivamente costituirono la prima proprietà esclusiva
del quirite, fini in certo modo per fossilizzarsi e cambiarsi in una categoria
giuridica, in cui si compresero tutte quelle cose, che un tempo dovevan essere
consegnate nel censo. Il mancipium si mantenne cosi come un rudere
dell'antichità primitiva di Roma, che malgrado l'incremento delle cose romane
rimase ad attestare le condizioni economiche dei quiriti, nel tempo in cui
Servio Tullio pose il censo come base di partecipazione alla comunanza
quiritaria. Ciò tuttavia non impedi, che il potere rurale presso i Romani,
salvo le più grandi proporzioni, abbia ancora sempre conservati i tratti del
primitivo mancipium, in quanto che esso continud pur sempre a costituire un
tutto organico, ad avere un proprio nome, che è quello del primitivo
proprietario, e ad essere considerato come fornito delle servitù e del bestiame
necessario per la coltivazione di esso (instru mentum fundi). Le cose romane di
piccole si fanno grandi, ma continuano sempre ad essere foggiate sul primitivo
modello. 349. Nè può essere difficile lo spiegarsi come il concetto del man
cipium siasi cosi conservato allo stato fossile, malgrado l'ingrandirsi delle
cose romane, quando si tenga conto dello spirito conservatore della giurisprudenza
romana, e della circostanza, che i giureconsulti La miglior prova di ciò può aversi dagli
articoli citati del FUSTEL DE COULANGES, sur le domaine rural chez les Romains.
Da questi infatti si scorge che i Romani portarono il loro concetto del podere
anche nelle provincie conquistate, e che le varie parti di esso ingrandendosi
vennero ad avere talora una esistenza propria e distinta: cosicchè si ebbe il
podere coltivato per mezzo di schiavi, quello fatto valere per mezzo di
affittavoli, quello lasciato alla coltura dei servi e dei liberti, e quello più
tardi coltivato da coloni; ma intanto le fattezze primitive non scomparvero più.
Per tal modo anche il podere romano, come tutte le altre istituzioni di quel
popolo, è un organismo, che si svolge e si differenzia nelle sue varie parti,
ma conserva sempre quei caratteri, che già si potevano ravvisare nell'embrione,
da cui è partito; em brione, che, secondo il mio avviso, consisterebbe appunto
nel primitivo mancipium. 441 in questa parte trovarono già chiusa e formata la
cerchia delle res mancipii, nè ebbero motivo di estenderla o modificarla in
un'epoca, in cui già cominciavano a ritenersi gravi e inopportune le forma lità
dell'antico diritto. Di qui la conseguenza, che i giureconsulti in tutti i
responsi, che si riferiscono alle res mancipii, mantennero inviolata l'antica
misura, e solo ammisero qualche allargamento, che corrispondeva al concetto
informatore del primitivo mancipium, e che era necessario per rendere
applicabile il concetto stesso. Così noi troviamo, ad esempio, che i
giureconsulti interrogati, se i camelli ed elefanti potessero essere compresi
nelle res man cipii, risposero negativamente, sia perchè questi animali non
erano conosciuti, quando si fissd il concetto del mancipium, o meglio ancora,
perchè essi non si sarebbero potuti riguardare come una pertinenza di quel
podere tipico, che costituiva il mancipium . Indarno parimenti si fece notare,
che le servitù urbane avevano la medesima natura delle rustiche; esse malgrado
di ciò furono sempre ritenute come res nec mancipii, non tanto perchè non
fossero co nosciute a quell'epoca, quanto piuttosto perchè non formavano parte
integrante del podere stesso. Quando poi si chiese, se i cavalli e i buoi non
domati potessero essere ritenuti come res mancipii, l'opinione prevalente fu
che non fossero tali, probabilmente perchè essi, finchè non erano domati, non
potevano essere strumento indi Parmi
perciò da seguirsi,ma con una certa discrezione, l'opinione che l'enumera zione
delle res mancipii debba ritenersi tassativa, come quella che in parte fu
determi nata da un avvenimento che doveva dargli un carattere esatto e preciso.
Ciò però non toglie, che nel concetto comune anche altre cose potessero essere
considerate come res mancipii, quali erano, ad esempio, le pietre preziose di
Lollia Paolina, di cui ci parla Plinio il Vecchio (Hist. nat. 9, 35, 124 ). Ciò
tanto più perchè posteriormente il concetto di mancipium, che erasi sovrapposto
a quello di heredium, tornò a riacco starsi almedesimo, e nell'uso non giuridico
significò talora i bona paterna avitaque, e specialmente quelli, che nel
costume solevano trasmettersi digenerazione in genera zione, quali erano
appunto le pietre preziose, che costituivano in certo modo un avitum mancipium.
In ciò seguo l'opinione, che il Bonghi ebbe a manifestare nella recensione del
lavoro dello SQuitti nella Cultura, anno 1886, 1-15 agosto. Cfr. BONFANTE, op.
cit., p. 93. GAJO, Comm., II, 16; ULP.,
Fragm., XIX, 1. (3 ) GAJO, II, 17; ULPIANO, loc. cit. Che anzi fra le servitù
rustiche sono res mancipii quelle soltanto, che hanno una maggior importanza
per un podere ru stico, e che formano parte integrante del medesimo, cioè
l'iter, actus, via, aquae ductus, e non le altre, come quelle del ius pascendi,
calcis coquendae e simili, le quali, essendo particolarità di certi speciali
poderi, non potevano dapprima essere tenute in conto. -.442 spensabile per la
coltura del fondo, che costituiva il primitivo man cipium. Cid intanto può
eziandio servire a spiegare come Varrone parli di formole relative alla vendita
di animali da tiro, e da soma ed anche di servi, accennando alla semplice
traditio e non alla mancipatio; poichè questa doveva solo ritenersi necessaria,
allorchè gli animali e i servi, di cui si trattava, dovessero considerarsi come
instrumenta fundi. Siccome invece le res mancipii, ancorchè singolarmente
enumerate, costituiscono però un tutto (cioè il man cipium ), così i
giureconsulti rispondono, che alle medesime conside rate come un tutto può essere
applicato quello stesso mezzo di alienazione, che è proprio delle singole res
mancipii; donde la pos sibilità della mancipatio familiae e del testamentum per
aes et libram, di cui si parlerà a suo tempo (3 ). La controversia in proposito fra i
Proculeiani, che escludevano dalle res man cipii questi animali finchè non
fossero giunti a tale età da essere domati, e i Sabi niani, che invece li
ammettevano fra le res mancipii, appena fossero nati, è accen nata da GAJO, II,
15, comemolto dubbiosa anche per lui, che era Sabiniano. In ogni caso la stessa
esistenza di una simile controversia, ed anche il fatto, che erano res man
cipii solo i quadrupedes, quae dorso collove domantur, dimostra abbastanza che
la determinazione delle res mancipii aveva stretta attinenza colla coltivazione
del fondo. Le formole conservateci da
VARRONE intorno all'emptio venditio dei cavalli e dei buoi anche domati (V.
Bruns, Fontes, p. 388) condussero il Voigt a ritenere che i cavalli ed i buoi
fossero introdotti solo dopo Varrone nel novero delle res man cipië (Ius nat.,
Leipzig). Veramente non si saprebbe ilmotivo di questa nuova introduzione in
una distinzione, che oramai appariva antiquata; ma ad ogni modo la cosa a mio
avviso è facile a spiegarsi, quando si ritenga che la qualità di res mancipiä
era dapprima attribuita dall'essere questa cosa un instru mentumt fundi. Quindi non sempre era
necessaria la mancipatio per questi animali, come non sempre era necessaria per
i servi, come lo attesta lo stesso Varrone. Non credo poi che possa essere il
caso di supporre degli errori nella esposizione di Var rone, come vorrebbe il
Bonfante, op. cit., 111, non potendosi supporre un er rore di questo genere
sopra formole, che vivevano nelle consuetudini ed erano ela. borate dagli
stessi giureconsulti. È tuttavia degno
di nota, che mentre il mancipium o la familia, intesi nel senso di patrimonio,
sono per sè suscettivi di mancipatio, l'hereditas invece è consi derata come
una res nec mancipië, e come tale è suscettiva di in iure cessio, ma non di
mancipatio (Gajo, Comm., II, 14, 17, 34). La ragione, a parer mio, è questa,
che la familia o il mancipium, finchè dipendono dal pater familias,
costituiscono un'entità concreta: mentre l'eredità, riguardo a colui che vi ha
diritto, costituisce già una cosa incorporale, una res, quae etiam sine ullo
corpore iuris intellectum habet, e quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto
però non parmiaccettabile l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit.,
12, che la distinzione delle res man cipië e nec mancipii sia solo applicabile
alle res singulares, poichè non è certamente una res singularis nè il mancipium,
nè la familia. Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle cose con
dusse in qualche parte ad allargare i confini del primitivo manci pium. Così,
ad esempio, non può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium dovevano solo
essere compresi i praedia, che fossero si tuati nel primitivo ager romanus,
mentre più tardi furono compresi eziandio quelli situati nel restante suolo
italico, quando anche questo venne ad essere suscettivo di proprietà
quiritaria. Così pure è pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima
compresi solo i servi addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i
servi della città potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in
genere furono compresi fra le res mancipii. Non potrei invece ammettere col
Puctha, che fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere, che
fossero in potestate, in manu, o in causa mancipii; poichè, come sopra si è
notato, qui il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più
ristretta e si ri ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal
capo di famiglia, le quali persone si dicono
alieni iuris, quae in manu, potestate,mancipio sunt , ma non sono mai
chiamate res mancipii. Vero è, che anche alle persone si applica la mancipatio,
ma cid provenne, come si vedrà più tardi, da cid che la mancipatio è una
applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et
libram, e quindi compare ogniqualvolta trattisi di acquistare o trasmettere la
manus, intesa nel senso di potestà giuridica quiritaria. 351. Intanto questa
storia primitiva del mancipium ci pone eziandio in caso di risolvere la
questione tanto agitata fra gli autori relativa alla precedenza fra la
mancipatio e la distinzione fra la res mancipii e nec mancipii. hi seguisse
alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece denza alla mancipatio, in
quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si chiamerebbero tali appunto,
perchè si trasferiscono me diante la mancipatio; ma rimarrebbe ancor sempre a
cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne ad essere il mezzo proprio per
l'alienazione di questa speciale categoria di cose. La cosa invece viene ad
essere facilmente spiegata quando si ri
Ho già notato più sopra come le formole di VARRONE dimostrino che un
servo, allorchè non era un instrumentum fundi, poteva anche essere alienato
colla sem plice traditio. Puchta,
Inst., 238. Cfr. SQUITTI, op. cit., 15.
444 tenga, che primo a formarsi dovette essere il concetto delmancipium, il
concetto cioè di una proprietà tipica del quirite, che compren deva uno spazio
di terra e quelle pertinenze di esso, che riputa vansi il patrimonio
indispensabile del capo di una famiglia agricola. La formazione di questo
mancipium, che già aveva una base nelle condizioni economiche e sociali dei
primitivi romani, venne in certo modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto
l'influenza della costitu zione serviana. Da quel momento l'importanza non solo
economica, ma anche politica del mancipium, pose le cose, che erano comprese
nel medesimo, in una posizione privilegiata di fronte a tutte le altre cose,
che potevano spettare al cittadino romano, e trasformò così il mancipium in una
proprietà essenzialmente quiritaria, perchè apparteneva al quirite come tale.
Era quindi naturale, che all’alie nazione del mancipium e delle cose comprese
nel medesimo si estendesse l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per
aes et libram, mentre per l'alienazione delle altre cose potè bastaré anche la
semplice traditio accompagnata dal pagamento del prezzo. Per quello poi, che si
riferisce alla distinzione fra le res mancipii e quelle nec mancipii, parmi
evidente che essa fu l'ultima ad es. sere introdotta, e non ho difficoltà di
ritenere, che essa possa anche essere stata formolata più tardi dai
giureconsulti, quando i mede simi già sentivano il bisogno di ridurre ad ordine
sistematico le distinzioni molteplici, che eransi introdotte nel diritto. Il
censo in fatti per sè poteva condurre alla determinazione delle res mancipii,
ed anche alla divisione delle medesime in varie categorie; ma esso non poteva
determinare che indirettamente la formazione delle res nec mancipii. È quindi
probabile, che i giureconsulti trovando più tardi questo nucleo di cose
(mancipium ), per la cui alienazione era richiesta la mancipatio, abbiano
formato di queste cose una cate goria speciale (res mancipii), la cui
caratteristica consisteva ap punto nel modo di alienazione (mancipatio), mentre
tutte le altre furono lasciate nella categoria negativa dalle res nec mancipii. Non parmi tuttavia accoglibile l'opinione del
Voigt, secondo cui la distinzione sarebbe nata fra il 585 e il 650 di Roma.
Essa invece dovette già essere formata all'epoca delle XII Tavole, in cui
accanto alla mancipatio, riservata alle res man cipii, era già comparsa l'in
iure cessio, che era applicabile eziandio alle res nec man cipii: il che
sarebbe anche provato da ciò, che le stesse XII Tavole già ponevano le res
mancipii nella condizione speciale di non potere essere usucapite, allorchè fos
sero state vendute da una donna senza approvazione del tutore. È evidente
infatti 445 Essi insomma fecero qui una distinzione analoga a quella, che si
introdurrà più tardi, fra le cose, che appartengono ad una persona ex iure
quiritium, e quelle invece che le appartengono solo in bonis; poichè le prime
costituiscono una cerchia chiusa e circo scritta, quanto alle cose, che possono
essere l'oggetto, quanto ai modi di acquisto, e alle persone cui appartengono,
mentre quelle in bonis comprendono tutte le altre. $ 6. La storia primitiva
della proprietà ex iure quiritium. 352. L'analogia, che ho sopra notata fra la
distinzione delman cipium e del nec mancipium e quella presentatasi più tardi
fra il dominium ex iure quiritium e quello in bonis, mi fa tornare un'altra
volta sul grave problema dell'origine e dello svolgimento storico della proprietà
ex iure quiritium. Fino ad ora si è sola mente dimostrato, come già nel periodo
gentilizio vi fosse una forma di proprietà, che intestavasi al capo di
famiglia, e che pren deva il nome di heredium. Questa tuttavia non costituiva
ancora una proprietà assolutamente individuale ed esclusiva, perchè il capo di
famiglia trovavasi in proposito ancora sotto la dipendenza della gens, a cui
apparteneva. Accanto a questi heredia dei patricii si erano poi venuti formando
gli stanziamenti e i possessi dei plebei, che probabilmente chiamavansi
mancipia. Quando poi patriziato e plebe entrarono a far parte dello stesso
populus romanus qui ritium, in base alla considerazione del censo, la sola
proprietà, che era loro comune era quella che spettava al capo di famiglia, e
perciò fu questa, che comparve nel censo intestata ad ogni quirite sui iuris,
sotto il vocabolo di mancipium e coi caratteri di una proprietà assolutamente
individuale. Il vocabolo mancipium tuttavia non significd per sè il dominium ex
iure quiritium, ma piuttosto quel complesso organico di cose, che per il primo
formo oggetto del medesimo; come lo dimostra la circostanza, che in questo
periodo, secondo l'attestazione dei giureconsulti, si ricorse per indicare il
che questa condizione speciale delle res mancipii, accennata da Gajo, I, 192, e
da Ul PIANO, Fragm., XI, 27, doveva fin d'allora condurre alla distinzione di
cui si tratta. Per un più lungo esame dell'opinione del Voigt, vedi Squitti, op.
cit., 73 e seg., e BONFANTE, op. cit., 115146 dominio quiritario
all'espressione meam esse: aio hanc rem
iure quiritium . Ferma cosi la spiegazione del modo in cui sarebbesi formato il
primo nucleo del dominium ex iure quiritium, resta ora a ve dere come il suo
concetto siasi venuto allargando, e quali siano i varii stadii, che attraverso
questa proprietà ex iure quiritium, la quale doveva poi divenire il modello di
ogni proprietà esclusiva mente privata ed individuale. 353. A questo riguardo i
ricercatori dell'antico diritto si arrestano sorpresi di fronte a questo fatto
singolare, che il solo mancipium nei primi tempi sembra aver formato oggetto
della proprietà ex iure qui ritium. L'Ortolan, ad esempio, trova assurdo che il
quirite non avesse la proprietà delle cose incorporali, se si eccettuano certe
servitù rustiche, nè la proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i servi e
le bestie da tiro e da soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in
qualmodo quei quiriti, che avevano divisi i loro fondi, fossero poi
indifferenti alla distinzione del mio e del tuo per molte altre cose; il che lo
induce a combattere la proposizione di Gaio, secondo cui il popolo Romano non
conosceva un tempo, che la sola proprietà ex iure quiritium: aut enim ex iure quiritium unusquisque do
minus erat, aut non intellegebatur dominus . È certo che la cosa riesce assai
strana, quando si voglia ritenere che, al difuori della proprietà ex iure
quiritium, non vi fosse pei romani primitivi altra forma di proprietà o di
possesso; ma la cosa pud invece essere spiegata quando si abbia presente il
modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e le istituzioni, che
entrarono a costituirlo. Già ho cercato di dimostrare comeil ius quiritium non
comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso,
che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e che di vento cosi comune ai
due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far parte della stessa comunanza
quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono ancor sempre a seguire le
proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che quella parte di diritto,
che essendo stata accettata come base della comunanza quiritaria prese il nome
spe ciale di ius quiritium. Questo pertanto non governd dapprima tutti i
rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano fra loro nelle Ortolan, Histoire de la législation romaine,
Paris, 1880, p. 606. MUIRHEAD, Histor. Introd., 40.. 447 loro qualità di
quiriti, e fu solo col tempo e a misura che facevasi più intima la convivenza
dei quiriti, che esso venne arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi
istituti, modellando nuovi negozii richiesti dalle esigenze della vita civile
in una grande e popolosa città, e si cambiò così nel ius proprium civium
romanorum. 354. Or bene ciò che accadde nella formazione del ius quiritium si
avverò eziandio nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a
costituirlo, e quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium. Questa non
comprende dapprima tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma
comprende solo quella parte di essa, che loro appartiene nella loro qualità di
quiriti. Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il
mancipium, che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a
cui si determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la
primitiva proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il
mancipium, e fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per eccellenza,
cioè l'atto per aes et libram, e quella pro cedura quiritaria dell'actio
sacramento, in cui i contendenti affer mavano:
hanc rem suam esse ex iure quiritium . Questa infatti era l'unica
proprietà, che poteva essere tenuta in conto al punto di vista quiritario e che
doveva perciò avere la tutela del diritto qui ritario. Quindi era giusto il
dire, che altri aut erat dominus ex iure
quiritium, aut non intellegebatur dominus : il che non vuol già dire, che non
si potesse avere il possesso od il godimento di altri beni, ma soltanto che le
altre forme di proprietà non potevano es sere tenute in calcolo al punto di
vista quiritario. Quindi al modo stesso, che il ius quiritium fu il frutto
della selezione di certi con cetti e forme solenni, che furono adottate dalla
comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure quiritium fu anche essa
determinata da una specie di selezione. Il suo primo nucleo consistette nel man
cipium, il quale costitui in certo modo la proprietà tipica del qui rite, ma
più tardi i suoi limiti apparvero troppo circoscritti, e perciò alla cerchia
troppo ristretta del mancipium si venne sostituendo un concetto più esteso del
dominium ex iure quiritium. Questo infatti
Questo carattere particolare del ius quiritium, per cui esso non è tutto
il di ritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso, che vennesi
consolidando al lorchè patriziato e plebe entrarono a formar parte della stessa
comunanza quiritaria. fu dimostrato sopratutto nel lib. III, cap. 3º. 448 viene
già ad essere più esteso: lº quanto alle persone a cui compete, che non sono
più i soli capi di famiglia, ma tutti i cittadini ro mani ed anche i latini cui
sia accordato il ius quiritium; 2° quanto ai modi, con cui si acquista, che non
si riducono più alla sola man cipatio, ma comprendono anche la in iure cessio e
la usucapio ; e quanto alle cose, che possono essere l'oggetto, che non sono
più le sole res mancipii, ma tutte le cose in commercio, eccetto il solum
provinciale. Tuttavia egli è evidente, che anche in questo secondo stadio la
proprietà ex iure quiritium costituisce ancora sempre una proprietà
privilegiata, quanto alle persone, alle cose, ai modi di acquisto; cosicchè
ogni qualvolta manchi una di queste condizioni la cosa ap partiene solo in
bonis, ed è solo col tempo e per effetto della pro tezione pretoria, che viene
a poco a poco delineandosi una proprietà in bonis, accanto alla proprietà per
eccellenza, che era quella ex iure quiritium. Qui pertanto appare evidente
quella legge di for mazione del diritto romano, per cui accanto alla parte di
esso già formata ne compare un'altra, che trovasi in via di formazione e che
cercasi a poco a poco di fare entrare nelle forme di quella, che prima riuscì a
consolidarsi. Mentre questo dualismo nel primitivo ius quiritium è
rappresentato dal mancipium e dal nec mancipium, il medesimo invece nel ius
proprium civium romanorum viene ad essere rappresentato dalla proprietà ex iure
quiritium e da quella in bonis; ma intanto la seconda distinzione, pur
abbracciando una cerchia più vasta, continua ancora sempre ad essere foggiata
sulla prima. 355. Queste considerazioni mi conducono a ritenere, che anche il
dominium ex iure quiritium, dopo esser stato modellato sulla realtà dei fatti,
abbia finito per convertirsi in una costruzione giuridica non dissimile da
quella, che abbiamo ravvisata nei concetti di caput, di manus e di mancipium.
Esso è una forma di proprietà, che cor risponde al concetto del quirite, e
quindi al modo stesso, che questi nella sua configurazione giuridica era una
individualità integra e perfetta, concepita sotto l'aspetto esclusivamente
giuridico, ed Non è qui il caso di
parlare nè dell'adiudicatio, nè della lex, e dell'adsignatio viritana, che
potevano anche attribuire il dominium ex iure quiritium; poichè lo stesso Gajo,
Comm., II, 65, parla soltanto della mancipatio, della in iure cessio e
dell'usucapio, come costituenti un ius proprium civium romanorum. 449 isolata
da tutti gli altri suoi rapporti, cosi anche la sua proprietà ebbe ad essere
concepita come assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo modo ad imagine
della persona, a cui doveva appartenere. Una prova di ciò l'abbiamo in questo,
che allo svolgimento del dominium ex iure quiritium si applicò una logica del
tutto ana loga a quella, che erasi applicata allo svolgimento del concetto di
caput; cosicchè, per determinare i varii atteggiamenti del dominio, furono
adoperati dei criteri analoghi a quelli, che servirono a de terminare lo stato
del quirite. Così, ad esempio, al modo istesso, che si ha l'optimum ius
quiritium allorchè la capacità del quirite non soffre alcuna limitazione; cosi
havvi il dominium optimum maximum, quando il dominium non è soggetto ad alcuna
limita zione. Al modo stesso parimenti, che vi ha una diminutio capitis, cosi
havvi eziandio una diminutio dominii, la quale è perfino in dicata collo stesso
vocabolo di servitus, con cui pure si indica la maxima capitis diminutio. Che
anzi a quella guisa, che l'intiero caput non appartiene a tutti gli uomini,
cosi non tutte le cose sono suscettive del dominium.ex iure quiritium; il qual
concetto spin gesi a tal punto, che può ravvisarsi una specie di correlazione
fra la concessione della civitas agli abitanti, e la concessione al suolo da
essi abitato di quel ius privilegiato, che lo rende suscettivo di dominio
quiritario. Cosi mentre il solum italicum ottenne questa speciale condizione,
sotto il nome di ius italicum, il solum provin ciale invece non potè mai essere
oggetto di vera proprietà, se non quando scomparve con Giustiniano la
distinzione fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis. Vi ha
di più ancora, ed è che le trasformazioni storiche, che ac cadono nel concetto
di caput, camminano di pari passo con quelle del dominium ex iure quiritium.
Così, ad esempio, finchè il vero caput non appartenne che al capo di famiglia,
anche questi fu il solo capace di proprietà ex iure quiritium. Quando poi la
capacità di diritto dal capo di famiglia passò ad ogni cittadino romano ) In questa guisa si spiega, come i Romani
procedessero nell'accordare ad un determinato territorio l'attitudine ad essere
oggetto di proprietà quiritaria nel modo stesso, in cui procedevano
nell'estendere la cittadinanza romana ai popoli conquistati. Di qui l'analogia
fra la formazione del ius latiï e quella del ius italicum: di cui quello si
riferisce alle persone, questo invece si riferisce al suolo (Cfr. Baudouin,
Étude sur le ius italicum, nella
Nouvelle revue historique de droit français et étranger ). C., Le
origini del diritto di Roma. 29 450 bastò essere tale, per essere capace di
proprietà ex iure quiritium. Quando infine la capacità giuridica appartenne ad
ogni uomo li bero, perchè tutti gli abitanti dell'impero ottennero la
cittadinanza, bastò essere uomo libero per essere capace di quella proprietà,
che un tempo era stata privilegio dei soli quiriti. La qual trasforma zione
avverasi anche, quanto alle cose che ne formano l'oggetto, le quali
cominciarono dall'essere quelle soltanto, che figuravanonel censo intestate al
capo di famiglia (res mancipii), e finirono per compren dere tutte quelle, che
potevano essere in commercio. Il che deve pur dirsideimodi diacquisto, i quali
dapprima furono probabilmente circo scritti alla sola mancipatio, mentre dopo
compresero l'in iure cessio e l'usucapio, e finirono col tempo per comprendere
anche quei modi di acquisto, che dapprima erano proprii soltanto del diritto
delle genti; donde la distinzione della classica giurisprudenza fra i modi di
acquisto del dominio, civili e naturali, originarii e derivativi . 356. Era poi
naturale, che alla proprietà cosi intesa i giurecon sulti abbiano finito per
applicare quella stessa analisi, che già ab biamo riscontrato nel caput. Essi
contrapposero il quirite alla cosa che gli apparteneva: gli fecero afferrare
materialmente la cosa ed affermare la sua proprietà sulla medesima dicendo, che
la cosa era sua ex iure quiritium: immedesimarono in certo modo la persona
colla cosa alla medesima spettante, e le attribuirono così un di ritto
illimitato di usarne, goderne, e di disporne, anche abusando di essa. In questo
diritto del proprietario, che non ha confine, deve quindi ravvisarsi una
costruzione giuridica, non dissimile da tante altre, che occorrono nel diritto
romano: poichè in effetto l'abuso della proprietà era poi frenato dal costume,
e sopratutto dal iudicium de moribus, il quale, dopo essere stato una
istituzione gentilizia, fu di nuovo ristabilito dalle XII Tavole, e fu affidato
al pretore . Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi nella proprietà Non può ammettersi, come vorrebbero taluni,
che nelle origini del diritto ro mano non esistessero modi naturali di
acquisto, il che sarebbe contraddetto dall'an tichità della traditio, quanto
alle res nec mancipii: ma soltanto che i modi naturali, pur esistendo da epoca
forse più antica, furono solo più tardi incorporati nella com pagine del
diritto romano, il quale assimilava solamente ciò, che in qualche modo poteva
entrare nelle forme prestabilite.
L'origine gentilizia del iudicium de moribus fu dimostrata al n° 59, p.
74. Del resto tale origine gentilizia è comprovata dalla intitolazione stessa
di questo iw dicium demoribus, la quale sembra richiamare qualche antica norma
consuetudi fini per ricevere una propria denominazione, e staccato dal ceppo,
sovra cui aveva radice, fini per dare origine alle varie configura zioni dei
diritti reali, comprendendovi anche il ius possessionis, ciascuno dei quali
potė ricevere un vero e proprio sviluppo, pur sempre ritenendo l'impronta
reale, che eragli provenuta dalla pro prietà, di cui costituiva un
frazionamento. Fu anzi in questa occa sione, che sembra essere venuto in uso il
vocabolo di proprietas, il quale in origine appare adoperato, quando si tratta
di contrapporre la proprietà ai diritti reali, che erano inchiusi nella
medesima. Questa ricostruzione intanto del dominium ex iure quiri. tium mi
porge occasione di fare un brevissimo cenno dei rapporti, che nel diritto
romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A questo proposito il
diritto romano presenta questa singolarità, chementre il giureconsulto Paolo,
fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come fuori di ogni dubbio,
che il dominio dovette cominciare dalla materiale appropriazione delle cose
(dominium rerum ex naturali possessione coepisse) ; noi troviamo invece, che
nello svolgimento storico presentasi dapprima integro e com piuto il concetto
del dominium ex iure quiritium, ed è solo molto più tardi, che il possesso
viene ad essere considerato come una isti tuzione giuridica, protetta cogli
interdetti possessori. Di fronte a questo stato di cose sarebbe fuor di luogo
il sostenere, che i Romani non distinguessero dapprima fra la materiale
detenzione di una cosa, e la padronanza giuridica sovra di essa; ciò sarebbe
smentito dal fatto, che essi fin dai primi tempi ebbero il concetto dell'usus e
dell'usus auctoritas, ed anche dalla circostanza, che ai plebei, stanziati sul
territorio romano, non si riconobbe dapprima una vera naria, ed anche dalla
circostanza, che le XII Tavole, affidando al pretore questo po tere, che un
tempo apparteneva alla gens, richiamarono di nuovo in vita il primitivo
concetto dell'heredium, che era venuto meno nello stretto ius quiritium, e
ristabili rono contro il prodigo interdetto la cura degli agnati e dei geniili,
la quale è certo una reliquia dell'organizzazione gentilizia. Il testo infatti,
secondo la ricostruzione del Voigt, Tav. VI, 10, sarebbe il seguente: Qui sibi heredium nequitia sua disperdit,
liberosque suos ad egestatem perducit, ea re commercioque praetor interdicito.
In adgnatum gentiliumque curatione esto .
Che il vocabolo di proprietas abbia cominciato ad adoperarsi, allorchè
si trat tava di contrapporre la proprietà in sè ai diritti frazionarii inchiusi
nella medesima, può argomentarsi, fra gli altri passi, da quello di GAJO, II,
30, ove la proprietas si contrappone appunto all'ususfructus. L. 1,
1, Dig. proprietà, ma una specie di possesso a titolo di precario, che
non aveva ancora carattere giuridico. La causa invece del fatto deve riporsi in
ciò, che anche in questa parte il ius quiritium, essendo già stato il frutto di
una vera elaborazione giuridica, prese senz'altro le mosse dal concetto più
vasto e comprensivo, a cui si potesse giungere in tema di proprietà. Il
concetto infatti del do minium ex iure quiritium ebbe dapprima ad essere
modellato sul mancipium, il quale, implicando la sottomissione illimitata di
una cosa ad una persona, inchiudeva in una sintesi potente tutti i po teri, che
ad una persona possono appartenere sopra una cosa. Il diritto infatti, che al
quirite spetta sul proprio mancipium, nella sua sintesi vigorosa, implica la
detenzione materiale e la proprietà della cosa: è un fatto ed è un diritto; è
una proprietà originaria, ma intanto comprende eziandio la proprietà derivata;
esso anzi de signa perfino una proprietà, che ha dell'individuale e del
famigliare ad un tempo. Fu soltanto più tardi, che anche in questo concetto
venne penetrando l'analisi, la quale cominciò dal distinguere la materiale
detenzione di una cosa (naturalis possessio), la quale è un puro e semplice
fatto (res facti), dalla padronanza giuridica sovra di essa (dominium ex iure
quiritium ), la quale costituisce invece un vero e proprio diritto (res iuris).
Col tempo però, siccome fra questi due termini estremiverranno ad esservi delle
possessiones, che per speciali considerazioni potranno anche apparire
meritevoli diprotezione giuridica, cosi si verrà a poco a poco modellando dal
pretore il concetto di una civilis possessio. Questa tuttavia non apparirà più
unicamente come una res facti, ma in parte eziandio come una res iuris; non
supporrà unicamente la materiale deten zione della cosa (corpus), ma anche
l'intenzione di tenere la cosa per sè (animus rem sibi habendi). Questo
possesso verrà cosi a pren dere un posto di mezzo fra la semplice detenzione
materiale di una cosa, e la proprietà della medesima ; quindi, per la
protezione di esso, il pretore, non trovandosi di fronte ad un diritto
compiutamente formato, non potrà ius dicere nel vero senso della parola, ma sol
tanto interdicere, cioè proibire che venga turbato lo stato di fatto, del quale
si tratta (vim fieri veto ), donde la denominazione degli inter. Vedi, quanto alle primitive possessioni della
plebe nel territorio romano, il nº 154, 190. V. in proposito Savigny, Dela possession,
Trad. Staedtler, sulla 74 ed. tedesca, Bruxelles 1879, 5º, 20 a 25. 453 dicta, con cui si protegge
il possesso. Siccome poi questo possesso, du rando un determinato spazio di
tempo, già poteva, in base all'usuca pione,trasformarsi in un vero diritto;
cosi il possesso, oltre al costituire per se stesso una istituzione giuridica,
protetta mediante gli inter detti, costituisce pure un mezzo, mediante cui il
fatto della deten zione e del godimento di una cosa (usus) può trasformarsi nel
di ritto di proprietà (auctoritas). È tuttavia a notarsi, che siccome tanto il
dominium ex iure quiritium, quanto la semplice possessio debbono ritenersi come
una scomposizione del diritto, che al quirite spettava sul primitivo mancipium,
il quale aveva del materiale e del giuridico ad un tempo; così tanto il
dominium, che la pos sessio, presso i romani, non poterono mai intieramente
spogliarsi di un certo carattere di materialità. Cid è dimostrato dalla
circostanza, che da una parte il dominium fini per essere circoscritto alle
cose corporali e dovette sempre essere trasferito col mezzo della tra dizione, e
dall'altra il possesso non potè parimenti estendersi, che alle cose corporali e
ad alcuni dei diritti reali competenti sulle me desime (quasi possessio ). In
questo modo possono facilmente spiegarsi le incertezze dei giureconsulti, i
quali ora considerano il possesso come una res facti, ed ora come una res
iuris, ora scorgono in esso l'estrinsecazione del diritto di proprietà, ed ora
dicono invece, che il possesso ha nulla di comune con essa; poichè il medesimo,
essendo una istitu zione intermedia fra il fatto ed il diritto, fra la
detenzione e la proprietà, poteva presentarsi or sotto l'uno or sotto l'altro
aspetto, secondo lo speciale punto di vista, sotto cui era considerato. Si
comprende parimenti, che sebbene ogni dominio abbia dovuto A parer mio è importante nello svolgimento
storico del diritto romano di tener distinti i due istituti del possesso ad
usucapionem, e del possesso ad inter dicta. Il primo prese le mosse del
concetto dell'usus e perciò potò essere applicato così alle res mancipië che
alle nec mancipii, così alle cose corporali, che alle incor porali; mentre il
secondo fu il frutto dell'analisi del mancipium, e ritenne quindi sempre
qualche cosa della materialità inerente a quest'ultimo. L'uno mette capo alla
legislazione decemvirale, mentre l'altro ricevette la propria configurazione
giu ridica dal diritto pretorio. Cfr.
Savigny, V. i passi in proposito citati dal Savigny, op. cit., 5, 21 e segg., nelle note. Sono poi noti i
passi di Ulp., 12, 1, Dig.nihil commune
habet proprietas cum possessione, ed altri analoghi, L. 1, $ 2, Dig. Cfr.
JHERING, Fondement des interdits possessoires, Trad. Maulenaere, Paris 1882, 42.
- 151 prendere le mosse dalla materiale appropriazione di una cosa, il concetto
del possesso sia tuttavia di formazione posteriore, e non abbia ricevuto una
propria configurazione giuridica, che per opera del pretore, allorchè il
medesimo cominciò ad accordare la prote zione giuridica a quelle possessiones
nell'ager publicus, che per la propria durata già cominciavano ad assumere il
carattere di un vero A proprio diritto. Per quello poi, che si riferisce alla
questione tanto agitata del fon damento razionale della protezione giuridica
accordata al possesso, essa, come al solito, non ebbe ad essere trattata di
proposito dai giu reconsulti; ma si può indurre dallo svolgimento storico di
esso, che tale fondamento deve riporsi sul principio, sovra cui poggia tutto il
diritto romano, secondo cui ex facto
oritur ius , in quanto che ogni fatto, che riunisca in sè certe condizioni di
durata e di buona fede, contiene in sé i germi di un diritto e come tale può
già meri tare la protezione giuridica e servire ad un tempo di base all'usu
capione . Tale sarebbe l'opinione del
Niebaur, Histoire romaine, III, 191 e segg.; e del Savigny, op. cit., 12 a, 177-185. Essa parmi in ogni caso più
verosimile di quella sostenuta dal Pochta, Istit., 225, secondo cui l'idea del possesso sarebbe
provenuta dalla concessione del possesso interinale, che si accordava ad uno
dei contendenti nella procedura di vindicazione coll' actio sacramento; poichè
questo possesso interinale non ha punto che fare col possesso, in quanto ha una
protezione giuridica tutta sua propria, che consiste negli interdetti. Comunque
stia la cosa, sembra che l'interdetto più antico sia quello uti possidetis,
destinato appunto ad impedire il turbamento di uno stato di fatto. Intanto
viene ad essere evidente, che in base all'opinione qui sostenuta, se si voglia
collocare il possesso nella solita di stinzione dei diritti in personali e
reali, esso dovrà certo esser collocato tra i diritti reali. Cfr. il SavIGNY,
op. cit., $ 6, p. 42, il quale sostiene un'opinione in parte diversa. Senza voler qui prendere in esame le molte
teorie, che furono escogitate in proposito, solo mi limiterò ad osservare, che
la questione ebbe ad essere profonda mente discussa in due opere, che vennero
ad un risultato compiutamente diverso; di cui una è quella del JHERING, Ueber
den Grund des Besitzschutzes, Jena 1869, di cui abbiamo la trad. franc. del
Maulenaere, sopra citata, e l'altra è quella del Bruns, Die Besitzklagen des
röm. und heutigen Rechts, Weimar 1874, il cui con cetto fu adottato e
largamente esposto dal PADELLETTI, Archivio giuridico. Secondo il primo, la
protezione accordata al possesso fondasi su ciò, che il possesso è una
estrinsecazione della stessa proprietà, e quindi senza tale pro tezioneanche la
proprietà non sarebbe sufficientemente difesa. Secondo l'altro invece, il
posseso è tutelato unicamente per se stesso, in base al concetto, enunciato
nella L. 2, Dig.: qualiscumque possessor, hoc ipso quod possessor est, plus
iuris habet, quam qui non possidet . Parmi che, assegnando a questa protezione
il fondamento razionale indicato nel testo, cioè il principio: ex facto oritur ius , si 455 358. Di fronte a
questo svolgimento storico e logico ad un tempo, parminon possa essere
difficile la risposta a coloro, i quali chiedono comemai una istituzione, come
quella della proprietà ex iure quiri. tium, dopo essere stata esclusivamente
propria dei romani, abbia finito per diventare istituzione universale, e per
essere adottata anche da quei popoli, i quali non subirono l'influenza diretta
della dominazione romana. La causa vera del fatto sta in questo, che la
proprietà quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e aver prese le mosse da
quel nucleo di cose, che anche nell'organizzazione gentilizia era assegnato ai
singoli capi di famiglia, fini per essere isolata dall'ambiente, in cui si era
formata, e si cambiò così in una costruzione logica e coerente. Fu in questa
guisa, che la medesima, essendo ridotta, per dir cosi, ad un capolavoro di
costruzione giuridica, potè cessare di essere l'istitu zione di un popolo, per
diventare quella del mondo. Vero è, che tutti i popoli ebbero i loro istituti
giuridici, e quindi anche questa o quella forma di proprietà, ma non tutti
riescirono ad isolare tali istituti e sopratutto la proprietà dall'ambiente
storico, in cui si erano for mati; solo i romani ebbero la potenza di
sceverarli da ogni elemento affine, di sottoporli ad un'elaborazione non
interrotta, che duro pa recchi secoli, e riuscirono cosi a ridurre allo stato
di purezza quella, che potrebbe chiamarsi l'obbiettività giuridica dei singoli
istituti. Le loro analisi, le loro fattispecie, le loro costruzioni giuridiche
non potranno sempre essere applicabili, ma saranno sempre elaborazioni tipiche
nel loro genere, come lo sono in un genere diverso i capo lavori dell'arte
greca; ed è questo il motivo dell'eternità e dell'uni versalità del diritto
romano. Questa elaborazione poi fu dai romani compiuta sopratutto quanto al
concetto della privata proprietà. In questo senso si pud dire col Sumner
Maine che essi furono i crea tori della
proprietà privata ed individuale;ma è sopratutto notabile abbia il vantaggio di
far contribuire alla giustificazione della protezione giuridica accordata al
possesso e l'una e l'altra teorica, e quello di dare contemporaneamente una
base, così al possesso ad interdicta, come al possesso ad usucapionem. Secondo
il Puglia, Studii di storia del diritto romano, Messina 1886, 72: l'interdetto pos sessorio sarebbe comparso
come un mezzo particolare per risolvere una controversia, per la quale non
potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio ; ma è ovvio il notare che in
questa guisa si potrà forse spiegare l'introduzione degli interdetti, ma non
maiil fondamento della protezione giuridica accordata al possesso. Cfr.
PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom., 529 e segg., ove trovasi citata in
nota la bi bliografia più recente sull'argomento. SUMNER-MAINE, L'ancien droit,
trad. Courcelles Seneuil, Paris, il modo e il perchè essi ed non altri
riuscirono in tale creazione. Essi infatti vi pervennero svolgendo prima il
concetto della pro prietà individuale, assoluta ed esclusiva, riguardo a quel
nucleo di cose, che era compreso nel primitivo mancipium, con cui ogni sin golo
quirite compariva nel censo, e poi trasportarono successiva mente il concetto
logico, che essi si erano formati di questa pro prietà ex iure quiritium, a
tutte le cose corporali, che potevano essere oggetto di commercio. Per tal modo
la proprietà quiritaria si staccò da una organizzazione gentilizia e
patriarcale, non dissi mile da quella, da cui usci la proprietà privata dei
Germani e degli Inglesi nell'evo moderno; ma a differenza di questa, quella fu
ben presto isolata dall'ambiente, in cui erasi formata, e si cambid cosi in una
proprietà tipica, strettamente individuale, che potè con certi temperamenti
essere adottata da tutti i popoli. Appendice. Senza voler qui fare
comparazioni, che miporterebbero fuori del tema, non so tuttavia trattenermi
dall'accennare ad alcune singolari analogie fra lo svolgi mento della proprietà
privata in Roma e presso i popoli Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a
62, nota 2, la discussione seguita nell'Accademia Francese, a pro posito della
proprietà presso gli antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa
discussione porse argomento ad una nota del prof. Del Giudice, stata letta
all'Isti tuto Lombardo, nelle adunanze del 4 e 18 marzo 1886, in cui egli fa un
accura tissimo raffronto fra la descrizione di Cesare e quella di Tacito circa
le condizioni dei primitivi Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini
le mutazioni, che si erano avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150 anni,
che separano i due autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a ciò,
che i possessi erano diventati più stabili, e che dalla proprietà collettiva
del villaggio già erasi venuta distin guendo la proprietà della famiglia.
Pervenuti così a questo punto della evoluzione della proprietà presso i
Germani, analogo a quello, a cui erano pervenute le genti italiche, allorchè
fondarono la città di Roma, noi troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER
sull'Allodio nei secoli Barbarici, Torino, 1886, la descrizione degli ulteriori
stadii, per cui passò l'evoluzione stessa. Noi cominciamo anzitutto dal
trovarci di fronte a certi vocaboli e concetti, che ci richiamano le condizioni
primi tive delle genti italiche. Cotali sono i communalia, i vicinalia, i
vicanalia (SCHUPFER, 26 ) i quali, senz'aver più la configurazione tipica
dell'ager compascuus delle tribù italiche, richiamano però il medesimo. Così
anche tra i Germani trovasi una forma di proprietà, che, senza essere del tutto
individuale, già si accosta alla medesima, ed è notevole, che essa, così fra le
genti italiche, come fra i Germani, è indicata con un vocabolo, che richiama
l'eredità, il passaggio cioè di un patrimonio dai genitori nei figli. Questo
vocabolo presso i Romani, era quello di heredium, e presso i Germani è quello
di alodium; il quale eziandio, secondo il Waitz e lo Schupfer, cominciò
dapprima dall'indicare l'eredità, e passò poscia ad indicare il patrimonio
avito. SCHUPFER, Op. cit., 11 e 12. Or bene, presso l'uno e l'altro popolo, è
questo heredium o alodium, che finisce per costituire il primo nucleo della
proprietà esclusivamente privata. — È notabile anzi, che, nel periodo della
tras 457 formazione, nè i Romani, nè i Germani hanno un vocabolo specifico per
indicare la proprietà: poichè mentre i primi esprimono la proprietà coi
concetti di meum e di tuum, di heredium, di praedium, di mancipium, i Germani
invece la indicano coi vocaboli di Land, Erbe, Eigen, Allod, Sundern. Così pure
anche presso i Germani occorrono quei consortia, che presso le genti italiche
erano indicati coi vocaboli di ercto non
cito . Questi consortia parimenti esistono sopratutto fra fra telli, e talora
anche fra zii e nipoti, che continuano spontaneamente nella comunione (SCHUPFER,
52), e richiamano così la familia omnium agnatorum. — Infine la vera proprietà
privata formasi presso i due popoli nella stessa guisa. Al modo stesso, che la
prima proprietà privata in Roma fu un assegno sull'ager gentilicius o sull'ager
publicus, così anche la proprietà privata, presso i popoli germanici, seguendo
sempre la guida sicura del prof. Schupfer, fu anche essa una sors, un lotto, un
assegno (pag. 63); accanto al quale però si svolge eziandio il concetto
dell'adquisitum la bore suo (pag. 60), il quale, salvo il linguaggio, non
presenta poi grande differenza dal manucaptum dei latini. È poi anche degno di
nota, che questo nucleo cen trale della proprietà privata presso i Germani, al
pari che presso gli antichi Ro mani, è costituito da un podere o da una
abitazione rustica, a cui trovasi annessa una certa quantità di terra, che in
massima avrebbe dovuto essere invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è
indicato coi nomi dimansus, di hoba, di sedimen, i quali proba bilmente portano
eziandio con sè quella idea di residenza, che era indicata anche dai vocaboli
di mancipium e di dominium. Che anzi, come già notava lo Schupfer, p. 78, anche
l'uomo libero longobardo, che si chiama arimanno, indica la sua libera pro
prietà col vocabolo di arimanna, al modo stesso che il quirite addimandava la
sua proprietà esclusiva dominium ex iure
quiritium . Infine questa proprietà si acquista, si trasmette e si rivendica
con modi, che ricordano l'usucapio, la manci. patio e l'actio sacramento dei
Romani (SCHUPFER, Op. cit., 122, 138 e 160 ). Intanto però, accanto alle analogie,
che dimostrano la costanza delle leggi che go vernano l'evoluzione della
proprietà, sonvi anche le differenze, che sono determinate dal diverso
temperamento dei popoli. Mentre infatti il popolo romano, giunto una volta al
concetto della proprietà individuale, ne fa una costruzione tipica, che estende
a poco a poco a tutte le cose, che sono in commercio, e che svolge in tutte le
sue conseguenze logiche, i popoli germanici invece non giungono a questa
concezione tipica; quindi mentre la proprietà romana è una sola, la proprietà
germanica, come ben nota lo ScuuPFER, non potrà mai richiamarsi a un solo tipo
(pag. 75). Di più mentre i Romani, una volta raggiunta la proprietà quiritaria,
la disgiunsero affatto dall'ambiente gentilizio, e si concentrarono
esclusivamente nello svolgimento di essa, pressochè lasciando in disparte la
proprietà collettiva prima esistente, i popoli ger manici invece, compresi
anche gli Anglo-Sassoni, non giunsero mai a districare com piutamente la
proprietà privata dall' involucro feudale da cui era uscita, o se lo fecero vi
giunsero solo per imitazione della proprietà, quale era stata modellata dai
Romani, nè spinsero mai la logica della istituzione a conseguenze così estreme,
come i Romani. Ciò è vero sopratutto della proprietà inglese, la quale, uscita
dall'organizzazione feudale, continua sempre a serbarne le traccie in quella
serie di gradazioni e di distinzioni, che ancor oggi la contraddistinguono.
Vedi, quanto alla proprietà inglese, il Williams, Principii del diritto di proprietà
reale, trad. Ca negallo, Firenze, 1873 e il POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh. Il
ius quiritium ed i concetti di commercium, connubium, actio. 359. Fin qui ho
cercato di ricomporre il quirite negli elementi essenziali del suo status, e di
seguire le trasformazioni, che si vennero introducendo man mano in ciascuno di
questi elementi. Ricostruendo cosi il primitivo diritto, fummo condotti ad una
con figurazione giuridica del quirite, la quale, ancorchè rigida e com passata,
si presenta però organica e coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte
più difficile di questa ricostruzione, quella cioè di cercare, come mai una
figura cosi automatica potesse entrare in rapporti con altre individualità
foggiate sullo stesso modello, e dare cosi origine a quella infinita varietà di
negozii, in cui il quirite pud essere chiamato a svolgere la propria attività
giuridica. Non è quindi meraviglia, se qui sopratutto apparisca sorprendente il
magi stero dei veteres iuris conditores, in quanto che non trattavasi solo più
di notomizzare e di scomporre lo status del quirite, ma di mettere il medesimo
in movimento ed in azione, valendosi di pochissimi mezzi per dar forma
giuridica alla varietà grandissima dei negozii, che si venivano moltiplicando
col formarsi e collo svol gersi della convivenza cittadina. Anche qui la supposizione
più ovvia intorno al magistero seguito dai modellatori del primitivo diritto,
sarebbe che essi, da uomini pratici quali erano, fossero venuti introducendo le
istituzioni, a mi sura che se ne presentava il bisogno, e che perciò il diritto
privato di Roma, almeno in questa parte, debba essere considerato come il
frutto di una evoluzione lenta e graduata, determinata sopratutto dalle
condizioni economiche e sociali del popolo romano. Lo studio invece delle
vestigia, che a noi pervennero dell'antico ius quiritium, mi hanno
profondamente convinto, che il medesimo, anche in questa parte, che potrebbe
chiamarsi la dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di una specie
di elaborazione e selezione potente,
Tale sarebbe l'idea, forse alquanto preconcetta, a cui sembra ispirarsi
l'opera del Puglia col titolo: Studii di storia di diritto romano, secondo i
risultati della filosofia scientifica, Messina, 1886. 459 che venne operandosi
su materiali giuridici preesistenti, la quale ebbe ad essere guidata da una
logica e da una tecnica giuridica, non dissimile da quella, che abbiamo
riscontrata nella parte statica del diritto quiritario. Vi ha tuttavia questa
differenza, che mentre le basi fondamentali dello status del quirite furono
fissate, pressochè contemporaneamente, dall'avvenimento importantissimo del
censo ser viano; lo svolgimento invece della parte del diritto quiritario, che
si riferisce al negozio giuridico, fu l'effetto di una elaborazione più lenta e
graduata, la quale si operd man mano, che veniva accomu nandosi il diritto fra
il patriziato e la plebe, e che le loro rispettive istituzioni si fondevano
insieme nell'attrito della vita cittadina. 360. Che questo sia stato il
processo, con cui si formò eziandio la parte dinamica del ius quiritium,
risulta da una quantità gran dissima di indizii, fra cui basterà qui di
ricordare i più importanti. È indubitabile anzitutto che, anche nella parte
relativa al negozio giuridico, il ius quiritium non prende le mosse da questo o
da quel fatto particolare, ma parte invece senz'altro da concetti sin tetici e
comprensivi, quali sarebbero quelli del commercium, del connubium e dell'actio,
i quali tutti hanno una larghissima signi ficazione, e sembrano già preesistere
nel periodo gentilizio, anteriore alla fondazione della città. Cosi pure è
certo, che il primitivo ius quiritium non viene già creando le forme
giuridiche, a misura che si vengono svolgendo i nuovi rapporti giuridici, ma
compare invece con certe forme tipiche, efficacemente modellate, nelle quali
cerca poi di fare entrare, anche forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici,
a cui dà argomento la convivenza civile e politica. È in questa guisa, che un
solo atto, quale sarà, ad esempio, l'atto per aes et libram, finirà per servire
alle applicazioni più disparate. Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il
ius quiritium, nelle diverse serie di rapporti giuridici da esso governati,
presentasi dapprima con istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il
nucleo centrale, intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che
hanno qualche affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha
dubbio, che il ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio, che è il
matrimonio cum manu; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et
libram; come pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio
sacramento. Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto
quiritario non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano; - 460
- ma si viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si
adottano quelli, che possano convenire al concetto fondamentale, che è quello
del quirite. È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di questa
parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi della sua
naturale formazione, cominciando dal cercare: lº quali siano i concetti
fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del ius
quiritium; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che essi
subiscono en trando nel diritto quiritario; 3º l'ordine progressivo, con cui
questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora zione
del ius quiritium. 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende le mosse
la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli del
connubium, del commercium, dell'actio. Cid pud inferirsi anzitutto dalla
circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo
gentilizio, nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era
naturale, che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria, li
applicassero eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite,
pur essendo un individuo, continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò si
aggiunge, che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione tipica
del quirite, quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla
costituzione serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di
capo di famiglia e di proprietario di terra, i quali due caratteri, nella
sintesi primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo
dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium. Era quindi
naturale, che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si
riducevano alla famiglia ed alla proprietà, così le varie manifestazioni
dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del
connubium, da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a quella
del com mercium, in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge occasione la
circolazione e lo scambio della proprietà. — Le une e le altre ma nifestazioni
poi trovavano la propria difesa nell'actio, che serviva a tutelare il quirite
sotto l'uno e sotto l'altro aspetto, non essendovi ancora la distinzione fra i
diritti reali e personali. Questi concetti pertanto, trasportati nel ius
quiritium, si cambiarono, per così dire, in altrettanti capisaldi, da cui si
vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud esplicarsi l'attività
giuridica del quirite; co 461 sicchè anche più tardi, per mettere ordine nello
svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio dovette di necessità
ricorrere ad una distinzione, che richiama quella antichissima del connubium,
del commercium e dell'actio. Tutto il diritto infatti, che si ri ferisce alle
persone, considerate sotto il punto di vista esclusiva mente privato, sembra
metter capo al concetto del connubium; quello invece, che si riferisce alle
cose, non è che uno svolgimento del commercium; e quello infine, che riguarda
le azioni, non è che una derivazione da quella legis actio, che costituì la
procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del resto sono gli stessi
giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti pubblici dai privati,
finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti fondamentali del con
nubium e del commercium, somministrandoci così, almeno questa volta, una chiave
di quella dialettica fondamentale, che stringe ed unifica il molteplice
svolgimento della giurisprudenza romana. 362. Per quello poi, che si riferisce
alla provenienza di questi concetti direttivi di questa parte del ius quiritium,
non può esservi dubbio, che essa deve essere cercata nel periodo gentilizio, il
che credo di avere largamente dimostrato a suo tempo. Vuolsi perd aggiungere,
che questi concetti, i quali prima avevano governato dei rapporti fra i capi di
famiglia e delle genti, allorchè furono tras portati nei rapporti fra quiriti,
si trasformarono in altrettante basi del diritto spettante ai quiriti, cosicchè
dal connubium derivd il ius connubii ex iure quiritium; dal commercium il ius
commercii pure ex iure quiritium; e infine dall’actio il sistema delle legis
actiones, che è parimenti proprio della comunanza quiritaria. Questi concetti
pertanto cessarono di avere uno svolgimento pura mente estensivo, come era
accaduto nei rapporti fra le famiglie e le genti, ma ricevettero eziandio uno
svolgimento intensivo; cosicchè Intendo
qui parlare della nota distinzione di Gaio, Comm., I, 8: Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas
pertinet, vel ad res, vel ad actiones . Quanto alle obbiezioni che si fecero,
sopratutto dal Savigny, al valore di questa distinzione, vedi quanto si è detto
al n ° 97, 124, nota 1. È sopratutto
Ulpiano, checerca di abbracciare nei due larghissimi concetti di connubium e di
commercium tutto l'esplicarsi dell'attività giuridica del qui rite. V. Ulp.,
Fragm., V, 3, quanto al connubium, e XIX, 5 quanto al commercium. Quanto
all'uno e all'altro concetto cfr. il Voigt, XII Tafeln, I, 244 e. 274, coi
passi ivi citati, ed il MUIRHEAD, Histor. Introd., 108 e 109. (3 ) V. sopra lib.
I, cap. VI, SS 2 e 3, 123 a 138. 402 ciascuno di essi venne ad essere una
propaggine di quel diritto pri vilegiato, cui i Romani diedero dapprima il
nomedi ius quiritium, e che più tardi chiamarono ius proprium civium romanorum.
Cosi, ad esempio, il connubium nel periodo gentilicio, era il di ritto di
imparentarsi fra di loro, che esisteva fra i membri delle genti, che
appartenevano al medesimo nomen. Trasportato invece nella comunanza quiritaria,
esso venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium. Secondo Ulpiano
infatti connubium est uxoris iure
ducendae facultas , ossia il diritto di addive nire alle giuste nozze
riconosciute dal ius quiritium, e di godere cosi di tutti i diritti, che in
base al medesimo derivavano da queste giuste nozze, cioè: della manus sulla
moglie, fino a che il matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico del
cittadino romano; della patria potestas sui figli, che anche più tardi i
giureconsulti consideravano come istituzione peculiare al popolo romano. Che
anzi, siccome anche l'istituto dell'arrogazione e dell'adozione, come pure
quello della successione e della tutela le gittima nel diritto romano avevano
stretta attinenza coll'organiz zazione domestica e col principio
dell'agnazione, che stava a fonda mento della medesima, cosi anche queste
istituzioni apparvero nel primitivo ius quiritium, come una dipendenza del
connubium, considerato come un ius proprium civium romanorum. 363. Lo stesso è
pure a dirsi del commercium. Il medesimo, nei rapporti fra le genti, era il
diritto di addivenire ai reciproci scambii
emendi vendendique invicem potestas ; ma allorchè invece venne ad essere
trapiantato fra i quiriti, i quali come tali avevano una proprietà speciale e
privilegiata, che era la proprietà ex iure quiritium, esso venne a cambiarsi
nel ius commercii ex iure qui ritium, ossia nel diritto di addivenire a tutti
quei negozii giuridici, di carattere mercantile, che erano stati adottati come
proprii dalla comunanza dei quiriti. Questi negozii poi nel primitivo ius qui
ritium e ancora nella legislazione decemvirale, si presentano sotto tre forme
fondamentali, che sono: lº il facere nexum, che è il diritto di potersi
obbligare nella forma e cogli effetti riconosciuti dal diritto quiritario; 2°
il facere mancipium, che è il diritto di acquistare e trasmettere la prima
proprietà quiritaria, consistente appunto nel mancipium, colle forme
riconosciute dal diritto quiritario; 3º e in fine il facere testamentum, che è
il diritto di acquistare o di tras mettere un'eredità, mediante il testamento
riconosciuto dal diritto 463 quiritario, donde il vocabolo di testamenti
factio. Che anzi l'unità primordiale di questi varii negozii, in cui si
estrinseca il ius commercii ex iure quiritium, viene ad essere messa in evi
denza anche da ciò, che tutti questi negozii finiscono per compiersi con una
sola forma tipica, che è quella dell'atto per aes et libram, e tutti
appariscono foggiati sullo stesso modello. Basta perciò considerare, che il
nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del giuridico ad un tempo, il
mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e la proprietà, e infine il
testamentum, sotto un aspetto ha tutte le apparenze di un negozio tra vivi, e
sotto un altro è già un atto per causa di morte, e non produce i suoi effetti,
che per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere. Così pure l'unità
di origine di questi varii negozii e il loro diramarsi dal concetto, che il
proprietario ex iure quiritium deve poter liberamente disporre delle proprie
cose, viene anche ad essere dimostrata dalla circostanza, che di fronte a tutti
questi atti la legislazione decemvirale proclama il principio: uti lingua nuncupassit , o quello analogo: uti legassit, ita ius esto . 364. Da ultimo
accade eziandio una trasformazione analoga nel concetto dell'actio. Questa nel
periodo gentilizio era la procedura solenne, consacrata dal costume, a cui
doveva attenersi il capo di famiglia, il cui diritto fosse disconosciuto e
violato, e la medesima poteva anche dar luogo ad una effettiva violenza fra i
contendenti, quando essi non avessero potuto venire ad un amichevole compo
nimento . Allorchè invece l'actio compare nel ius quiritium, essa imita bensì
ancora la procedura anteriore allo stabilimento della ci vile giustizia, ma
intanto già si compie in iure, cioè davanti al magistrato riconosciuto come
capo e custode della città. Di più questa actio non può più seguire
arbitrariamente questa o quella pratica, introdottasi nel costume, ma deve
invece essere accomodata alla legge, ed ai termini di essa. Essa cessa perciò
di essere,un'actio qualsiasi, ma diventa una legis actio, e viene così a
cam Fra gli autori, che dànno questa
larga significazione così al connubium, che al commercium, accennerò il LANGE,
Histoire intérieure de Rome, 13, in nota, il quale pur riconosce, che questi
concetti dovettero prima aver origine nei rapporti fra le varie genti. Quanto alle origini dell'actio nel periodo
gentilizio e ai caratteri della mede sima, vedi sopra lib. I, cap. VI, 3, 130 a 138. 464 biarsi nel diritto di far
valere le proprie ragioni davanti al ma gistrato, nella forma che è
riconosciuta dal diritto quiritario. Quindi è, che anche la procedura
quiritaria sembra prendere le mosse da un'azione tipica, che è l'actio
sacramento, la quale può anche essa essere considerata come il nucleo centrale,
da cui si verrà poi derivando non solo tutto il sistema delle legis actiones,
ma in parte eziandio il sistema delle formulae. È poi quest'origine gentilizia
dei concetti fondamentali del diritto quiritario, che spiega eziandio, senza
bisogno di ricorrere a quello spirito formalista del popolo romano, che fu
ormai abbastanza sfrut tato, le cerimonie solenni, che accompagnano gli atti di
carattere quiritario: poichè anche queste solennità dovevano un tempo accom pagnare
gli atti, che intervenivano fra i capi delle famiglie e delle genti, in quanto
rappresentavano il proprio gruppo, e avevano cosi una importanza, che spiega le
formalità, da cui erano circondati. 365. Resta ora a determinarsi l'ordine
progressivo, con cui si vennero consolidando questi varii aspetti del primitivo
ius quiritium. Anche qui ci mancano le testimonianze dirette, perchè i veteres
iuris conditores, secondo la testimonianza di Cicerone, non amavano divulgare
il segreto dell'arte loro ; ma abbiamo tuttavia una quantità di fatti, che
possono servirci di guida. Così noi sappiamo anzitutto, che la prima parte del
diritto, che ebbe ad essere comune al patriziato ed alla plebe, fu certamente
quella relativa al commercium, e quindi viene ad esser naturale, che
l'elaborazione di un ius quiritium, comune ai due ordini, inco minciasse da
quegli atti, che si riferiscono al commercium. Questa circostanza verrebbe poi
ad essere eziandio confermata dal fatto, che la parte di antichissima
legislazione civile, che sarebbe da Dionisio attribuita a Servio Tullio, si
riferirebbe appunto ai con tratti, la cui azione dispiegasi appunto nella parte
relativa al com Tralascio qui ogni
maggior spiegazione intorno alle origini del formalismo romano, perchè ebbi già
ad occuparmene al n ° 94, 117. e sopratutto nella nota 1a a 118, ove si presero
in esame le opinioni, in proposito emesse, dal Sumner-Maine e dal Jhering. CICERONE (vedasi)., De Orat., lagnandosi
delle difficoltà, che ai suoi tempi ancora accompagnavano lo studio del
diritto, dice espressamente, che una delle cause di queste difficoltà deve
essere riposta nella circostanza che
veteres illi, qui buic scientiae praefuerunt, obtinendae atque augendae
potentiae suae caussa, pervulgari artem suam noluerunt . 465 mercium. Cosi pure
abbiamo un'altra conferma di questo fatto nella circostanza, che, all'epoca
della legislazione decemvirale, già si presentano come compiutamente formati i
tre negozii giuridici attinenti al ius commercii, cioè il nexum, il mancipium
ed il testa mentum; cosicchè in questa parte viene ad essere evidente, che le
leggi delle XII Tavole non fecero che confermare uno stato di cose già
preesistente, e si limitarono a dire, che in questa specie di negozii, la
volontà del quirite doveva essere sovrana, per modo che la sua parola
costituisse legge. Infine un argomento indiretto di questa precedenza l'abbiamo
anche in questo, che la forma dell'atto commerciale per eccellenza, che è
l'atto per aes et libram, ebbe più tardi ad essere applicata eziandio in atti
relativi al ius con nubii, come nella coemptio, nell'adoptio e simili: il che
significa, che l'atto per aes et libram già doveva essersi formato prima, che
si addivenisse alla concessione dei connubii fra patriziato e plebe, la quale
segui solo più tardi. Mi pare ciò stante di poter conchiudere, che la parte del
ius quiritium, relativa al commercium, fu la prima ad elaborarsi ed a
consolidarsi, e che deve attribuirsi a questo motivo, se lo svolgi mento posteriore
del diritto romano appare costantemente modellato sul concetto del mio e del
tuo. È questo il concetto espresso da Ulpiano, allorchè scrive: omne ius
consistit aut in acquirendo, aut in conservando, aut in minuendo; aut enim hoc
agitur, quem admodum quis rem vel ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut
quomodo amittat ; ma la causa storica, che determinò questo carattere peculiare
del diritto romano, deve essere riposta nel fatto, che la parte del ius
quiritium, relativa al commercium, fu la prima a consolidarsi, e costitui in
certo modo il nucleo centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che
si aggiunsero più tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta.
Quando si tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al connubium,
si trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà, e quindi anche il
diritto del marito, del padre, del padrone furono model Cid non può lasciar dubbio quanto al nexum ed
al mancipium, che già si presentano nelle XII Tavole come istituzioni
compiutamente svolte, ed è confermato eziandio, quanto al testamentum, da
ULPIANO, il quale dice espressamente, che le suc cessioni testamentarie e i
tutori nominati per testamento furono confermati dalle XII Tavole. Fragm., XI,
14. Ulp., L. 41, Dig. C., Le origini del
diritto di Roma. 30 - 466 lati su quello di proprietà. Cosi pure quando si
tratto di model lare le azioni, tutto si ridusse ad una questione di mio o di
tuo, si trattasse di rivendicare una cosa qualsiasi, oppure la moglie od un
figlio. Quindi è che la rigidezza, che a questo riguardo presenta il primitivo
ius quiritium, non proviene già da una confusione, che si facesse fra i diritti
di famiglia ed i diritti di proprietà, ma bensi da ciò, che essendosi nel ius
quiritium modellato prima il diritto di proprietà, anche le elaborazioni
posteriori ne conservarono l'im pronta. Ciò è anche provato dal fatto, che
nelle fonti l'espressione di ius quiritium è sopratutto adoperata relativamente
alla proprietà ed al commercio; cosa del resto, che è facile a comprendersi,
quando si consideri, che la comunanza quiritaria all'epoca serviana si formo
appunto in base alla proprietà ed al censo. 366. Noi possiamo invece affermare
con certezza, che fu solo assai più tardi, che il ius connubii entrò a formar
parte di quella singolare costruzione giuridica, che porta il nome prima di ius
qui ritium e poscia quello di ius proprium civium romanorum; poichè fu soltanto
colla legge Canuleia, che si riusci ad abolire il divieto del connubio dei
patrizii colla plebe. Malgrado di ciò, si può essere certi, che, anche prima di
quest'epoca, la parte più ricca ed agiata della plebe già aveva cercato di
accostarsi alla organizzazione della famiglia patrizia. Ciò è abbastanza
dimostrato dal fatto, che i de cemviri considerarono la famiglia fondata
sull'agnazione, come la famiglia propria dei quiriti, e cercarono anzi di
fornire alla plebe un mezzo semplicissimo per addivenire al matrimonio cum
manu, mezzo che consiste nella coabitazione di un anno, non interrotta per tre
notti di seguito. Allorchè poi colla legge Canuleia furono leciti i connubii
fra il patriziato e la plebe, era naturale, che l'atto quiritario per
eccellenza venisse ad essere applicato anche in que st'argomento. Probabilmente
dovette essere allora, che fra le forme del matrimonio cum manu, di cui una era
la confarreatio, propria del patriziato, e l'altra l'usus, propria della plebe,
venne svolgendosi. la forma del matrimonio, che può ritenersi come quiritaria
per ec cellenza, cioè quella per coemptionem. Intanto questo trapianto del
l'organizzazione domestica, propria del patriziato, nel ius quiritium, comune
ai due ordini, fece si che la famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente
sulla patria potestà e sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la
tutela legittima fossero deferite, in base alla legislazione decemvirale, agli
eredi suoi, agli agnati e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in
questa parte, che l'organiz zazione gentilizia del patriziato riusci a
penetrare nel diritto quiri tario; donde la conseguenza, che il ius connubii e
la conseguente organizzazione della famiglia finiscono per essere la parte
dell'an tico diritto, in cui rivelasi più tenace e persistente lo spirito
conser vatore dell'antico patriziato romano . 367. La parte infine del diritto
primitivo, che ultima sarebbe entrata nella compagine del ius quiritium, deve
ritenersi essere quella, che si riferisce alle legis actiones. Non è già, che
anche in questa parte non vi fossero dei materiali preesistenti: ma, secondo
l'attestazione concorde degli stessi giureconsulti, fu soltanto poste riormente
alla legislazione decemvirale è in base alle parole stesse della medesima, che
sarebbe stato modellato il sistema delle legis actiones. Che anzi si può
affermare con certezza, che questa parte del primitivo diritto di Roma fu
certamente dovuta alla elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi delle
tradizioni patrizie, spie garono sopratutto in questa parte la loro tecnica
giuridica, e cer tamente seguirono quel processo di costruzione logica, che
erasi già adottato nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi
essi, che introdussero, quale azione tipica del diritto quiritario, l'actio
sacramento, la quale può essere considerata come il germe di tutto lo
svolgimento posteriore della procedura quiritaria: come pure furono essi, che
si fecero gli iniziatori di quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla
varietà infinita delle fattispecie, che si potevano presentare, la quale giunse
poi a tanta eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non
ignoro che l'opinione qui professata, secondo cui le legis actiones sarebbero
state le ultime a penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius
proprium civium romanorum, sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi
giureconsulti, sembra Le affermazioni,
che qui sono semplicemente enunciate, verranno poi ad essere meglio comprovate
nel capo V, ove trattasi diproposito del ius connubii. È notabile, quanto al
connubium, che l'espressione ad perata nelle fonti non è più quella di ius
quiritium, la quale sopratutto si adopera in tema di proprietà, ma è già quella
di ius proprium civium romanorum. La causa di questo cambiamento sta in ciò che
il connubium venne ad essere comune dopo le XII Tavole, cioè quando al concetto
più circoscritto del ius quiritium già cominciava a sovrapporsi il concetto più
largo di un ius civile, ossia di un ius proprium civium romanorum. 168
contraddire alla opinione oggidi molto seguita, secondo cui le actiones
avrebbero avuta la precedenza su tutte le altre parti del diritto quiritario.
Credo quindi opportuno di avvertire, che io pure ammetto, che in quella
evoluzione lenta dei concetti giuridici, che ebbe ad avverarsi nel periodo
gentilizio, il concetto che prima venne a svolgersi, fu certamente quello di
actio : ma così invece più non accadde nell'elaborazione del ius quiritium.
Questo infatti è già una costruzione organica e coerente, che prese le mosse
dal concetto del quirite, come individualità giuridica integra e perfetta, e
che in base al medesimo cominciò dapprima dal modellare la pro prietà, a lui
spettante; poscia gli attribui il connubio; da ultimo provvide anche alle
azioni, che potevano tutelarlo nei suoi diritti di proprietà e famiglia: donde
la conseguenza, che il ius quiritium, essendo già un'opera riflessa, accolse
talvolta più tardi istituzioni, che nella realtà dovettero svolgersi per le
prime. Intanto questo sguardo complessivo alla progressiva formazione del ius
quiritium ha ' per noi una grandissima importanza, in quanto che mantenendo
nella ricostruzione l'ordine stesso, che ebbe ad essere seguito nella naturale
formazione del ius quiritium, si potrà giungere a spiegare certi caratteri
peculiari del diritto pri mitivo di Roma, che altrimenti riuscirebbero
incomprensibili. La materia intanto verrà ad essere naturalmente ripartita in
tre capi toli, di cui il primo si occuperà del ius commercii, l'altro del ius
connubii, e l'ultimo delle legis actiones.
Fra gli altri sembra attribuire questa precedenza all'actio sulle altre
parti del diritto civile romano il Cogliolo, Saggi sopra l'evoluzione del
diritto privato, Torino, 1885, 105. Ho
cercato altrove di spiegare questo carattere delle società primitive, che al
punto di vista attuale pud apparire alquanto singolare nella Vita del diritto
nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, 40. (3 ) Per una più larga
discussione intorno al modo, in cui si formarono le legis actiones, mi rimetto
al cap. VI ed ultimo, 1º, ove trattasi
appunto di quest'argomento. Il ius commercii nel diritto quiritario. Il
commercium e l'atto per aes et libram. 368. Se havvi parte del ius quiritium,
che sia modellata in per fetta correlazione con quella individualità giuridica,
integra e com piuta, che era il quirite, è quella certamente, che si riferisce
al ius commercii. In questa parte la volontà del quirite apparisce indi
pendente e sovrana; la sua parola costituisce una vera legge;" e non
trovasi imposto altro limite e confine al suo potere, salvo quello, che deriva
dalla osservanza delle forme solenni, che sono ricono sciute ed adottate dal
diritto quiritario. Il quirite infatti, quale pro prietario, può disporre delle
sue cose fino ad abusarne, e può alienarle nel modo solenne proprio dei quiriti
(facere mancipium ); quale debitore può obbligare se stesso fino a vincolare la
libertà della propria persona (facere nexum ) per il caso in cui non soddisfi
il suo debito, e come creditore può appropriarsi perfino la persona ed il corpo
del debitore; come testatore infine può disporre in qual siasi modo del suo
patrimonio, dimenticando anche di avere de' figli. Si può quindi affermare, che
i tre atti fondamentali, in cui si esplica il ius commercii ex iure quiritium,
sono tutti governati dal con cetto, che la volontà del quirite non deve aver
limite o confine: concetto, che, quanto al nexum ed al mancipium, viene enun
ciato con dire uti lingua nuncupassit,
ita ius esto , e quanto al testamento, colle parole: uti pater familias super familia tute lave
suae rei, legassit, ita ius esto . E
questa la parte, in cui uti Mentre nella ricostruzione del Dirksen,
seguita dal Bruns, Fontes, 22 e 2.3, la disposizione: Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua
nuncupassit, ita ius esto sarebbe la
legge 1º della Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt invece, essa viene
ad essere la 1° della Tavola V. Così pure la disposizione legassit super
pecunia tutelave suae rei, ita ius esto , che nella ricostruzione del Dirksen è
la terza della Tavola V, in quella del Voigt viene ad essere la prima della
Tavola IV. Ciò dimostra quanto sia grande, anche oggi, l'incertezza intorno
all'ordine dei frammenti delle XII Tavole. domina sovrana la nuncupatio, e
quindi si comprende come tanto nelle obbligazioni, quanto nei trasferimenti del
dominio, quanto nei testamenti abbia avuto cosi larga parte lo studio delle
espressioni adoperate. Queste espressioni infatti nel concetto primitivo
costitui vano delle vere leggi, come lo dimostrano ancora le espressioni ado
perate di lex mancipii, di lex testamenti, di lex fiduciae e simili, colle
quali si comprendevano le varie clausole, che potevano essere apposte ad un
trasferimento del dominio, o ad un testamento . L'unità poi, che domina tutta
questa parte del primitivo ius qui ritium, viene anche ad essere provata dal
fatto, che un medesimo atto tipico, che può chiamarsi l'atto quiritario per
eccellenza, fini per servire quale mezzo per compiere tutti questi negozii
giuridici. 369. L'opinione, ora generalmente seguita, intorno all'atto tipico
del diritto quiritario, sembra ritenere, che tale atto debba essere riposto
nella mancipatio, argomentando dalla larga applicazione, che questa ebbe a
ricevere, ogni qualvolta trattavasi di trasferire la manus, intesa nel senso di
potestà giuridica sopra una cosa o sopra una persona . Parmi invece, che le
poche vestigia, che a noi pervennero dall'antico diritto, conducano a ritenere,
che la forma Il vocabolo di lex, come
significò la clausola di un contratto o di un testa mento, così indicò eziandio
le condizioni pubblicamente prescritte per i luoghidesti nati ad uso pubblico o
comune. Vedi Bruns, Fontes, Pars II, Negotia, Caput I, 240. Quanto agli altri
significati del vocabolo di lex, nel primitivo diritto ro mano, vedi sopra nº
228, 278. Tra gli autori recenti, che
cercarono di ricostruire il primitivo diritto romano, poggiandosi sul concetto
di manus, in quanto comprende i poteri sulle cose e sulle persone, e sulla
mancipatio, quale mezzo generale per il trasferimento delle manus, deve essere
ricordato il Voigt, XII Tafeln, II, 83 a 345. Anche il lavoro del dott. Longo,
La mancipatio, Firenze, 1887, è un tentativo in questo senso. Questi verrebbe
alla conclusione, che la mancipatio, quale a noi pervenne, sarebbe una reliquia
di un atto più antico e più solenne, il quale in origine avrebbe dovuto
compiersi in calatis comitiis, e che sarebbesi applicato ad ogni acquisto e
trasferi mento della inanus. Di quest'atto primitivo egli troverebbe le traccie
nel testamen tum e nell'adrogatio in calatis comitiis. Quest'opinione, a parer
mio, non può am mettersi; perchè la mancipatio comparve relativamente tardi, e
si riduce in sostanza ad una semplice applicazione dell'atto per aes at libram.
Quanto agli atti di diritto privato, in cui abbiamo ancora l'intervento del
populus, essi non indicano già, che tutti gli atti relativi alla manus
richiedessero un tempo l'assistenza del popolo; ma debbono considerarsi come
una sopravvivenza dell'organizzazione gentilizia nel pe riodo della città; come
ho cercato appunto didimostrare ai nn. 220 e 221, 256 e segg., discorrendo dei
calata comitia, e degli atti che compievansi in essi. 471 tipica del negozio
quiritario, debba essere riposto nell'atto per aes et libram; cosicché la nexi
datio, la nexi liberatio, la man cipatio, la testamenti factio debbono essere
riguardate come altret tante applicazioni di quest'atto primordiale. Cid può
essere dedotto anzitutto dal concetto fondamentale del primitivo ius quiritium,
in cui tutto si riduceva ad una questione di mio e di tuo; donde la
conseguenza, che ogni atto relativo al commercium si riduceva in sostanza a
fare in modo, che una cosa di nostra diventasse altrui (quod de meo tuum fit)
mediante un corrispettivo, che può consistere o nel prezzo, o nell'obbligazione
solenne assunta dal de bitore, o nel corrispettivo di quella finta mancipatio
familiae, in cui facevasi consistere lo stesso testamento: trapasso, che trova
vasi mirabilmente espresso, mediante l'atto per aes et libram. Ed è questo
concetto appunto, che risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi
giureconsulti. Questi passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era
un'applicazione dell'atto per aes et libram, e dapprima quasi confondevasi con
esso, poichè era definito: omne quod
geritur per aes et libram . Lo stesso è a dirsi del facere mancipium, in quanto
che una parte essenziale della mancipatio, quale è descritta da Gaio, consiste
senz'alcun dubbio eziandio nel l'atto per aes et libram; il che è pur
dimostrato dalla denomina zione stessa del testamento per aes et libram, il
quale si introdusse più tardi, e non fu che una nuova applicazione dell'atto
per aes et libram. Si aggiunga, che questi passi degli antichi giureconsulti
indicano una incertezza intorno alla significazione primitiva del nexum e del
mancipium. Vi sono infatti dei giureconsulti, che nel nexum comprendono anche
il mancipium, mentre altri già distinguono fra l'uno e l'altro, osservando che
dal nexum deriva un obbligazione, mentre col mancipium si opera la traslazione
della proprietà. Questa incertezza appare eziandio quanto al testamento per aes
et libram, il quale sotto un aspetto appare come una vera vendita o mancipatio
familiae, come lo dimostra l'intervento del familiae venditor e del familiae
emptor; mentre sotto un altro aspetto non è più una vendita nel vero senso
della parola, ma è già un vero atto per causa di morte, poichè il familiae
emtor riceve solo in deposito e in custodia il patrimonio del te statore, accið
egli possa liberamente disporne secundum
legem publicam per il tempo in cui avrà
cessato di vivere. Non sarà inutile
riportare qui alcuni dei passi di antichi giureconsulti, che 472 Di qui
pertanto si può ricavare, che nella sintesi primitiva del diritto quiritario
tutto ciò, che riferivasi al commercium, compievasi per aes et libram, col
quale atto esprimevasi lo scambio ed il tra passo, e che solo col tempo in
questa sintesi primitiva si vennero differenziando il nexum, il mancipium, il
testamentum; i quali col tempo procedettero ciascuno per la propria via, ed
informati ad un proprio concetto finirono per dare origine a tre istituzioni
fonda mentali. Col tempo infatti dal nexum scaturi la teoria delle obbli
gazioni, dal mancipium derivò quella dell'alienazione e trasmissione del
dominio e dei diritti reali inchiusi nel medesimo, e dal testa mentum si derivò
tutta la teoria della libera disposizione delle proprie cose per causa di morte,
la quale non potè mai confondersi ed imparentarsi colla successione legittima,
poichè questa nel ius quiritium ebbe un'origine compiutamente diversa, come
sarà di mostrato a suo tempo . È poi notabile, che il primitivo ius quiri tium,
nella sua sintesi potente, ebbe a ravvisare uno scambio, ed una trasmissione
con corrispettivo, tanto nel contratto, in quanto è fonte di obbligazioni,
quanto nel trasferimento delle proprietà, quanto eziandio nel testamento,
mediante cui l'erede viene in certo modo a dimostrano come il nexum, il
mancipium e il testamentum facere non fossero, che altrettante applicazioni
dell'atto per aes et libram. Nexum
Manilius scribit omne, quod per aes et libram geritur, in quo sint mancipia .
Varro, De ling. lat., 7, 5, 105
(AUSCHKE, Iurispr. antiiustin., 6 );
Nexum, est ut ait Aelius Gallus, quodcumque per aes et libram geritur,
idque necti dicitur; quo in genere sunt haec: testamenti factio, nexi datio,
nexi liberatio (Hoschke, Op. cit., 96 ).
Accanto a questa significazione larghissima, in cui il vocabolo di nexum
comprende ancora omne quod geritur per
aes et libram , sonvi poi altri passi, che già attribuiscono al nexum una
significazione più circoscritta. Così, ad esempio: Nexum, Mucius scribit, quae per aes et libram
fiunt, ut obligentur, praeter quae mancipio dentur , la quale opinione sarebbe
prevalsa secondo VARRONE, De ling. lat., VII, 105, il quale aggiunge: hoc verius esse ipsum verbum ostendit,de quo
quaerit, nam id est quod obligatur per libram, neque suum fit, inde nexum
dictum (Bruns, Fontes, 386).
Quest'ultima definizione sarebbe pur confermata da Festo, vº Nexum: Nexum aes apud antiquos dicebatur pecunia,
quae per nexum obligatur (Bruns, Fontes,
346). Sonvi poi eziandio dei passi, in cui la mancipatio sarebbe indi cata
perfino colla espressione di traditio alteri nexu, quale sarebbe il seguente di
Cic., Top., 5, 28: Abalienatio est eius
rei, quae mancipii est, aut traditio alteri nexu, aut in iure cessio . Per
altri passi vedi il Voigt, XII Tafeln, I, 197, nota 7, e II, 482. La successione legittima non prende le mosse
dal commercium, ma dal con nubium, come sarà dimostrato nel seguente cap. V, $
5. - continuare la personalità giuridica
del proprio autore, e viene perciò ad essere obbligato alla continuazione dei
sacra. Di qui la conseguenza, che, per ricostruire in questa parte il ius
quiritium, vuolsi ricomporre anzitutto il primitivo atto per aes et libram,
cercare l'epoca in cui esso penetrò nel ius quiritium, e se guire da ultimo le
progressive applicazioni, che se ne vennero facendo. . Più volte ebbe ad essere
notato, che nel diritto romano oc corrono le traccie di un processo, che ha del
matematico, e che taluni vollero attribuire alla influenza di Pitagora, la cui
filosofia, teorica e pratica ad un tempo, poggiava appunto sul numero, come
espres sione dell'ordine e dell'armonia. Senza entrare in una simile di
scussione, questo è certo, che non si può a meno di ravvisare questo carattere
di matematica precisione ed esattezza in quel negozio, es senzialmente proprio
dei quiriti, che compare sotto la forma del l'atto per aes et libram; poichè in
esso noi vediamo comparire la persona di un pubblico pesatore, che tiene la
bilancia quasi per de terminare ciò che altri då, e ciò che deve essere
ricevuto in con traccambio. Può darsi benissimo, che quest'atto per aes et
libram abbia avuto origine dalla necessità, in cui i contraenti erano di pesare
l'aes rude, allorchè non erasi ancora introdotto l'aes signa tum: ma intanto si
stenta a credere, che i veteres iuris conditores, allorchè introdussero come
tipico quest'atto nel ius quiritium, e ne prolungarono la vita ben oltre
l'epoca, in cui era veramente neces saria la bilancia, non abbiano ravvisato
nel medesimo come una espressione ed un simbolo della esattezza e della
precisione, che deveaccompagnare il negozio giuridico, e della uguaglianza, che
deve mantenersi fra la cosa ed il prezzo, fra quello che si dà e ciò che si
riceve in contraccambio. Questo è certo, che difficilmente sareb besi potuto
rinvenire un atto, che potesse meglio simboleggiare quella giustizia, che
Aristotele chiamò poi commutativa, e che era quella appunto, che doveva
sovraintendere a quegli scambii, che i Romani inchiudevano col vocabolo di
commercium . Ad ogni modo l'esistenza presso i Romani di un atto
quiritario quod geritur per aes et
libram da applicarsi in tutti gli
scambii, in tutti i trapassi, in tutte le contrattazioni, che potessero
interve V. ZELLER, La philosophie des
Grecs, trad. Boutroux, I, Paris, 1877, p. 486 e sopratutto la nota 8, 401. Cfr. C., La vita del diritto, 132. - 474 nire fra i
quiriti, tanto negli atti tra vivi, quanto eziandio negli atti per causa di
morte, non pud essere posta in dubbio. Vero è, che il medesimo non ci pervenne
nelle sue fattezze genuine, ma soltanto nelle applicazioni diverse, che se ne
fecero; ma il fatto stesso che l'atto per aes et libram compare nelle
obbligazioni, nei trasferimenti e nei testamenti dimostra, che esso in certo
modo fra i quiriti compieva quella funzione, che presso di noi ha compiuto,
sopratutto in altri tempi, quello che chiamasi l'atto pubblico ed autentico, il
quale, al pari dell'antico atto per aes et libram, con tinua in certi confini
ancora oggi ad avere la forza e l'efficacia del titolo esecutivo, salvo che
esso sia impugnato di falso. Dal momento, che erasi venuto formando per la
comunanza dei quiriti una forma particolare di diritto, che prese il nome di
ius quiritium, era naturale che si modellasse eziandio un atto tipico, che
potesse ser vire nei negozii essenzialmente quiritarii. Esso doveva essere pub
blico, come tutti gli atti, che si compievano fra i quiriti; doveva es sere
fatto colla testimonianza dei quiriti stessi, in quanto che poteva mutare in
qualche modo la posizione rispettiva degli uni verso degli altri nella
comunanza quiritaria, donde l'intervento nel medesimo dei classici testes,
corrispondano o non i medesimi alle cinque classi serviane; doveva esser fatto
coll'intervento di un pubblico ufficiale, che era il libripens, il quale poteva
anche essere inca ricato di denunziare agli uffizii del censo le mutazioni, che
ne derivavano alla condizione dei quiriti; alle quali solennità negli antichi
tempi aggiungevasi eziandio la presenza di un antestator, incaricato in certo
modo di richiamare l'attenzione delle parti e dei testimoni sulla importanza
dell'atto. Il medesimo poi, per quanto si può inferire dalle applicazioni Tra gli autori, che sembrano accostarsi
all'idea, che l'atto per aes et libram costituisca nell'antico diritto la forma
solenne per tutti i negozi relativi al com mercium, parmi di poter annoverare
l'HÖLDER, Istituzioni di diritto romano, $ 28, trad. Caporali. Torino, 1887, 82. Cod. civ. it.Questi varii caratteri del
primitivo atto per aes et libram si possono facil mente ricostruire,
ricomponendo insieme la descrizione, che sopratutto Gajo ed Ul PIANO ci
serbarono, dei varii negozii, che compievansi per aes et libram, quali la nexi
datio, la nexi liberatio, la mancipatio, ed il testamentum per aes et libram,
dei quali avremo poi a discorrere partitamente. Quanto all' antestator o
antestatus vedi il Longo, La mancipatio, 74. 475 diverse, che ne furono fatte,
ebbe ad essere costituito di due parti, cioè: lº dell'atto per aes et libram,
il quale, mentre dava al negozio il carattere di pubblicità e di autenticità,
poteva eziandio essere un ricordo effettivo di un'epoca, in cui l'aes rude
serviva di istrumento per gli scambii e doveva perciò essere pesato colla
bilancia; 2º della nuncupatio, che era un complesso di parole solenni,
accomodate alla natura dell'atto, le quali esprimevano con preci sione ed
esattezza il negozio giuridico, che veniva operandosi fra i contraenti. Mentre
la prima parte era un ricordo del passato e conservavasi dicis gratia, propter veteris iuris
imitationem ; la seconda parte invece serviva a dargli duttilità e
pieghevolezza, e a rendere possibili le applicazioni diverse, che si fecero
dell'atto per aes et libram, non solo ai negozii giuridici propriamente detti,
ma anche agli atti relativi all'ordinamento della famiglia. 371. Quanto al
tempo, in cui l'atto per aes et libram può essere stato introdotto nel ius
quiritium, esso non può e non potrà forse mai essere determinato con certezza,
anche per il motivo che il medesimo può essere stato il frutto di una
formazione lenta e gra duata. Egli è probabile tuttavia, che l'epoca, in cui
esso cominciò a formarsi, dovette essere quella stessa, in cui prese ad
elaborarsi un ius quiritium, comune al patriziato ed alla plebe, e quindi le
sue origini possono con probabilità essere riportate all'epoca della costi
tuzione serviana. Fu allora, che mediante l'istituzione del censo co minciò a
delinearsi una proprietà ex iure quiritium, la quale con sisteva nel mancipium;
quindi è probabile, che anche allora siasi sentito il bisogno di una forma
tipica per compiere i negozii quiri tarii. Questo è certo, che alcuni tratti
dell'atto per aes et libram richiamano l' epoca serviana. Cosi, ad esempio, noi
sappiamo, che probabilmente in quell'epoca dovette avverarsi una trasformazione
nel sistema monetario, poichè presso i primitivi romani il più an tico
strumento di scambio non consistette nel rame, ma nei capi di L'esistenza di questo duplice elemento nel
primitivo atto per aes et libram è già accennato dalla disposizione delle XII
Tavole: qui nexum faciet, mancipium que,
uti lingua nuncupassit, ita ius esto , e appare poi dall'analisi di tutti i ne
gozii, che si compiono per aes et libram, descrittici sopratutto da Gajo, Comm.,
II, 104-5 e da Ulp., Fragm., XX, 9. - 476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e
nei buoi, come lo dimostra la designazione delle multe, che anche più tardi si
continuò a fare in questa guisa. Che se per avventura si volesse ritenere, come
fino a un certo punto è probabile, che l'atto per aes et libram fosse stato
anche adottato per simboleggiare lo scambio, il trapasso, anche questo
linguaggio simbolico corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che
ricorre ai simboli dell'hasta, della vindicta, e simili. Cosi pure noi
sappiamo, chei testimonii dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed
è anzi probabile, che fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra
la denominazione di classici testes: la quale, sebbene sia solo menzionata per
i testimonii nel testamento, può ra gionevolmente essere estesa alle altre
applicazioni dell'atto per aes et libram. Infine anche l'intervento di un
pubblico ufficiale in quest'atto sembra essere stato determinato dalla
necessità, in cui si era di conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella
posizione ri spettiva dei quiriti. Comunque sia, è però sempre probabile, che
anche nella formazione di quest'atto siasi seguito il processo, che suole es
sere adoperato dai Romani, quello cioè di servirsi di qualche forma già
preesistente, attribuendovi il carattere quiritario, e cambiandola cosi in una
forma tipica, che potrà poi essere capace di applicazioni diverse. Nulla
ripugna pertanto, che l'atto per aes et libram sia stato veramente una realtà
nell'epoca, in cui l'aes rude, non potendo essere numerato, doveva invece
essere pesato; ma questo è certo, che quando quest'atto compare nel ius
quiritium, esso viene già Festo, vº Classici testes dicebantur, qui signandis
testamentis adhibebantur . La questione se questi classici testes dovessero
ritenersi come rappresentanti delle cinque classi, in quanto che essi non
potevano essere meno di cinque, fu trattata di recente dal Longo, La mancipatio,
83 e segg., il quale sosterrebbe che i clas sici testes non hanno che fare
colla rappresentanza delle classi. Se con cið egli in tende di dire, che i
testimoni non avevano nessun incarico di rappresentare le cinque classi
serviane, ciò può facilmente essere consentito, poichè, secondo la
testimonianza di GaJo, Comm., II, 25, questi testi solevano essere amici dei
contraenti e potevano perciò essere presi anche dalla stessa classe: ma intanto
non vi ha motivo per ne gare, che essi fossero chiamati classici, appunto
perchè dapprima dovevano essere presi dalle classi, ossia dagli adsidui e locupletes.
Era infatti nello spirito della costituzione serviana, che nell'atto per aes et
libram, con cui si attuavano le muta zioni di proprietà quiritaria, dovessero
intervenire dei testimonii tolti dalle classi al modo stesso, che ancora in
base alle XII Tavole era stabilito:
adsiduo adsiduus vindex esto . Tale sembra pur essere l'opinione del
MUIRHEAD, Histor. introd., pag.59, il quale trova anzi non improbabile, che i
non minus quam quinque testes rappresentassero le cinque classi. 477 ad essere
cambiato in un atto tipico, che poteva essere suscettivo di molteplici
applicazioni. Si comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della mancipatio,
come di una imaginaria venditio, senza neppur far cenno di un'epoca, in cui
essa poteva costituire una vendita effettiva e reale. 372. Per quello poi che
si riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per aes et libram sarebbe
stato applicato ai principali negozii giuridici deldiritto quiritario, è
opinione generalmente ammessa, che esso siasi prima applicato alla mancipatio,
poscia al nexum, e più tardi al testamentum per aes et libram. Mentre non pud
esservi alcun dubbio circa l'applicazione più tarda dell'atto per aes et li
bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed Ulpiano attestano, che questa
forma di testamento ebbe ad essere introdotta posterior mente a quella in
calatis comitiis , ritengo invece, che sianvi dei forti indizii per credere,
che l'applicazione dell'atto per aes et libram al nexum debba essere
considerata come la più antica. Un argomento di ciò l'abbiamo anzitutto nel
fatto, che nell'antico ius quiritium il diritto sembra spiegarsi prima contro
la persona del debitore, che non contro i beni del medesimo, ed è solo assai
tardi e sotto l'influenza del diritto pretorio, che si giunge a rite nere
vincolati i beni, anzichè il corpo e la persona del debitore. Di più il facere
mancipium suppone già un'epoca, in cui anche la plebe era pervenuta alla
proprietà, mentre il facere nexum ci ri porta ad un'epoca più antica, in cui la
plebe, nei suoi rapporti col patriziato, non potendo offrire alcuna garanzia
reale, non poteva ob bligarsi altrimenti, che vincolando la propria persona. A
ciò si ag giunge, che l'atto per aes et libram pud essere stata una realtà
relativamente al nexum, poichè in un'epoca, in cui l'aes rude serviva come
strumento di scambio, era una necessità il pesare la somma, che era data ad
imprestito; mentre invece l'applicazione
Egli è evidente che i giureconsulti considerarono sempre l'atto per aes
et libram come una forma riconosciuta dalla legge (secundum legem publicam )
per compiere i negozii di carattere quiritario; di qui le loro espressioni di
imaginaria venditio, e di imaginaria mancipatio, e la disinvoltura con cuinon
hanno difficoltà di applicarle a negozii, che più non hanno carattere
mercantile, come sarebbe, ad esempio, il matrimonio per coemptionem. Tale sembra, ad esempio, essere l'opinione
del Voigt, XII Tafeln; del MUIRHEAD, Op. cit., (3 ) GAJO, Comm., II, 102; ULP.,
Fragm., XX, 2. 58. 478 dell'atto per aes et libram, non solo per eseguire il
pagamento del prezzo, ma anche per operare il trasferimento della proprietà di
una cosa, è già ad evidenza un espediente giuridico, e merita il nome da tole
da Gaio di imaginaria venditio . Si
comprende pertanto, come gli antichi giureconsulti comprendano talvolta il
facere mancipium nel concetto più antico del nexum chiamando con questo
nome omne quod geritur per aes et libram
, mentre non consta che essi facciano mai rientrare il nexum nel concetto del
facere mancipium. Infine si può anche aggiungere, che nei passi antichi parlasi
di un ius nexi mancipiique, e che le stesse XII Tavole fanno precedere il nexum
nel famoso testo: cum nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto : argomento questo,
chemalgrado la sua tenuità apparente non deve trascurarsi del tutto, quando si
consideri l'esattezza e la precisione, anche cronologica, che i ro mani,
sopratutto nei tempi più antichi, recavano nel proprio lin guaggio legislativo,
facendo di solito precedere il concetto, che prima erasi formato a quello, la
cui formazione era posteriore. Che se po steriormente la mancipatio fini per
prendere un posto più impor tante, ciò proviene da una causa storica, dal fatto
cioè, che la parte del diritto primitivo relativa al nexum fu la prima ad
essere abolita, il che accadde per mezzo della lex Paetelia, nel 428 dalla
fondazione di Roma; donde la conseguenza, che il nexum cadde pressochè in
dimenticanza, mentre la mancipatio apparve come l'atto quiritario per
eccellenza presso i classici giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che
presso i giureconsulti più antichi dovette essere as solutamente il contrario;
perchè noi sappiamo che Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il
mancipium, e che Elio Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio;
cosicchè tutto ciò, che compievasi per aes et libram, necti dicebatur, e quindi
nel nexum veniva ad essere compreso omne
quod geritur per aes et libram . La distinzione invece fra il nexum ed il
mancipium compare in Quinto Muzio Scevola, il quale dice bensi che il nexum è
ancor sempre quod per aes et libram fit ,
ma non più nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì in quello di
obbli garla soltanto; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad essere seguita,
e fu allora che si chiamò nexum, quod
obligatur per libram, neque suum fit. Si pud quindi conchiudere, che il
vocabolo di nexum ebbe dapprimauna significazione più larga, per cui tutto V. in proposito i passi di antichi
giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota - 479 ciò che compievasi per aes et libram, necti dicebatur , mentre
più tardi fini per significare l'obbligazione assunta per aes et libram;
trasformazioni di significato, che occorrono frequenti nel diritto ro mano,
come lo dimostrano i vocaboli di imperium, di manus e di mancipium, i quali
tutti, mentre hanno una significazione più larga, finiscono per assumere un
significato specifico più circoscritto. A queste considerazioni, fondate sui
testi, se ne aggiunge un'altra, per me più importante di tutte, ed è che nella
formazione del diritto quiritario, che poggia tutto sul concetto fondamentale
del quirite, il diritto, quale vinculum societatis humanae, dovette presentarsi
dap prima come un nexum, ossia, come un vincolo, che intercede fra due quiriti.
Ciò è dimostrato dal fatto, che la procedura primitiva è azione di una persona
contro di un'altra, e che la esecuzione pri mitiva va direttamente contro la
persona del debitore, e si mani festa quale manus iniectio contro il medesimo .
Quest'indagine intanto è per noi importante anche nel senso, che ci induce a
discorrere prima del nexum, poscia della mancipatio, e da ultimo del
testamentum per aes et libram. $ 2. Il nexum e la storia primitiva della
obbligazione quiritaria. 373. L'origine diquell'obbligazione quiritaria di
strettissimo diritto, che contraevasi mediante il nexum, deve essere cercata in
quel Non parmi pertanto, che possa
essere accettata la teoria ingegnosa, ma non fondata sui fatti, del
SumnER-MAINE, L'ancien droit, p. 305 e seg., secondo la quale il nexum avrebbe
prima significato il trasferimento della proprietà, e sarebbe poscia venuto a
significare l'obbligazione del venditore, che non avesse pagato il prezzo. Cid
è assolutamente contrario al concetto romano, secondo cui la consegna della
cosa e il pagamento del prezzo seguivano contemporaneamente nella mancipatio.
Si può anzi dire che il processo seguito dal diritto romano fu compiutamente
inverso. Il primo rapporto, che potè esservi fra il patriziato e la plebe, fu
quello del nexum, ossia quella rigida obbligazione, per cui il mancato
pagamento dava luogo alla manus iniectio contro la persona; mentre solo più
tardi l'atto per aes et libram potè servire per il trasferimento della
proprietà. Queste considerazioni mi impedi scono eziandio di aderire allo
svolgimento storico, che sarebbe proposto dal CoglioLO nelle note al
PadELLETTI, Storia del dir. rom., 250, dove, premesso che il con cetto del
diritto reale dovette precedere quello del diritto personale, farebbe anche
precedere la formazione della mancipatio a quella del nexum. Cfr. Puglia,
Studii di storia del dir. priv., l'epoca, in cui la plebe, priva ancora di una
vera posizione di diritto di fronte al patriziato, non poteva trovar credito
presso ilmedesimo che vincolando la propria persona. In virtù del nexum il
debitore plebeo, che non pagava a scadenza, poteva essere sottoposto alla manus
iniectio, ed essere tradotto nel carcere privato del creditore patrizio.
Coll'ammessione dei plebei alla comunanza quiritaria, il nexum, questa
obbligazione rozza è primitiva, che era surta nei rapporti fra la classe
superiore e la classe inferiore, venne ancor essa a con vertirsi nella forma
tipica della obbligazione quiritaria, ma dovette perciò sottomettersi a tutte
le solennità dell'atto quiritario. Essa quindi dovette essere contratta colle
formalità dell'atto per aes et libram, colla assistenza cioè di non meno di
cinque testes cives romani, e coll'intervento del libripens e dell'antestator.
La formola precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci giunse invece,
conservataci da Gaio, quella della nexi liberatio, la quale, essendone
naturalmente il contrapposto, pud servirci per determinare, se non la formola
precisa, almeno gli elementi essenziali, che dove vano concorrere nella nezi
datio, per usare una espressione, che occorre nel giureconsulto Elio Gallo (3
). Da questa formola si può in durre che a costituire il nexum dovettero
concorrere due parti, cioè: Senza
pretendere qui di citare la ricchissima letteratura sul nexum, ricorderò
soltanto l'Huschke, Ueber das nexum, Leipzig, 1846; GIRAUD, Des nexi, ou de la
condition des débiteurs chez les Romains, Paris 1847; Voigt, XII Tafeln, I, $$
63-65; MUIRHEAD, Histor. Introd., 152 a 163. Le opinioni degli autori tuttavia
sugli effetti del nexum primitivo sono ancora molto discordi. Secondo la
dottrina più seguita, il nexum dava origine ad un'obbligazione di strettissimo diritto,
la quale, non soddisfatta, autorizzava senz'altro alla manus iniectio. Di
recente invece il Voigt sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum non
avrebbe alcun effetto speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal
Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, Storia del diritto romano, 329. Per mio
conto seguo la prima opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum, che
ho cercato di spiegare più sopra ai nu meri 166-67, 206 a 208, e sulla
considerazione, che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla
plebe per ottenere l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il
medesimo avesse prodotto i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo
della stipulatio. Questa necessità
dell'atto per aes et libram, per contrarre il nexum, probabil mente fu quel
provvedimento favorevole ai debitori, che da Dionisio è attribuito a Servio
Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op. cit., 67. (3 ) La formola della nexi liberatio
conservataci da Gajo, Comm., III, 174, sa rebbe la seguente: Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum, me
eo nomine a te solvo liberoque hoc aere
aeneaque libra. Hanc tibi libram primam postremamque 481 1° l'atto per aes et
libram, non minus quam quinque testes, cives romani, il libripens e forse
eziandio l'antestator; 2° e la nuncu patio, che non si sa bene se dovesse
essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi i contraenti. Essa però
probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una pronunziata dal nexum
accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una specie di damnatio. Il
primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro rispondeva damnas sum, il che
implicava una specie di condanna, che il debitore pronunziava contro se stesso,
al pagamento della somma . Di qui la conseguenza, che se il medesimo non pagava
si poteva proce dere contro di lui, come se il medesimo fosse damnatus al paga
mento, e perciò poteva essere soggetto alla manus iniectio, senza che fosse
richiesta una speciale condanna del magistrato. I dubbii più gravi, che si riferiscono
al nexum, sono quelli re lativi alla natura dell'obbligazione contratta col
nexum, ed agli effetti, che derivavano da essa in base al diritto primitivo, le
cui vestigia appariscono ancora nella legislazione decemvirale. 374. Per quello
che riguarda la natura della obbligazione con tratta col nexum, alcuni antichi
scrittori, non giuristi, descrivendo la trista condizione dei debitori,
tradotti nel carcere privato del loro et expendo secundum legem publicam . Essa
è per noi molto preziosa: 1° perchè ci dice anzitutto, che il nexum per aes et
libram importava una damnatio per parte del debitore, il che fa credere che
rendesse contro di lui applicabile senz'altro la manus iniectio, che Gaio ci
dice appunto essere ammessa contro i damnati, e contro i iudicati; 2° perchè
essa è un argomento per ritenere, che le obbligazioni contratte per aes
etlibram dovevano essere risolte con un atto della medesima natura; 3. perchè
infine ci attesta, che l'atto per aes et libram era una forma di liberatio secundum
legem publicam, e come tale non si applicava soltanto nei casi di obbligazioni
con tratte col nexum, ma anche quando trattavasi del pagamento di una somma ex
causa iudicati, o del pagamento di un legato per damnationem. Ciò conferma
sempre più la congettura posta innanzi, che l'atto per aes et libram era in
certo modo la forma quiritaria del negozio giuridico, donde le sue molteplici
applicazioni, allorchè si tratta di negozii ex iure quiritium. La nuncupatio del nexum secondo il Voigt, XII
Tafeln, 483, si com porrebbe bensì di due parti; ma egli, ricostruendone la
formola, respingerebbe l'e spressione damnas esto e damnas sum, in conformità
appunto della sua teoria, se condo cui il nexum non avrebbe dato origine ad
un'obbligazione di carattere spe ciale. Parmi che quest'ultima parte della sua
ricostruzione non possa accettarsi; poichè, così essendo, la formola della nesi
datio non corrisponderebbe a quella della nexi liberatio, conservataci da Gaio,
la quale è certo ciò, che noi abbiamo di più testuale in proposito. C., Le
origini del diritto di Roma. 31 482 creditore, ebbero a dire, che essi, dopo
essere stati spogliati dei beni, avevano poi dovuto rinunziare alla propria
libertà. Ciò fece ri tenere talvolta, che il nexum attribuisse il diritto di
procedere non solo contro la persona, ma anche contro i beni del debitore.
Questo concetto sembra ripugnare a quel carattere del primitivo ius qui ritium,
secondo cui il medesimo, allorchè giungeva a separare due istituti, quali
sarebbero quelli del nexum e del mancipium, lasciava poi che ciascuno
procedesse per la propria via, informato ad una propria logica, senza che l'uno
più non si confondesse coll'altro. Ora pur riconoscendo che il vocabolo di
nexum, nella sua significazione primitiva, designasse in genere il vincolo
giuridico, che intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse anche
estendersi ai beni del debitore, questo è certo che non dovette più essere
cosi, allorchè si operò la distinzione fra il nexum ed il mancipium, e i due
con cetti cominciarono ad avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi
sappiamo, che questa distinzione del nexum dal mancipium già erasi operata
anteriormente all'epoca decemvirale, e che da quel momento il quirite come tale
ebbe due mezzi per provvedere alle proprie necessità; quello cioè di alienare
il proprio mancipium, o quello di vincolarsi col nexum. Con quello egli poteva
trasferire i beni e con questo vincolare la sua persona; ma gli effetti
dell'uno non potevano più confondersi coll'altro. Fu in seguito a questa di
stinzione, che anche più tardi la giurisprudenza romana ebbe a ri tenere, che
le obbligazioni ed i contratti, che derivarono dal nexum, non possono mai
riuscire al trasferimento della proprietà, il quale con tinuò sempre ad
operarsi per mezzo della usucapione e della tradi zione, che erano sottentrate
all'anticamancipatio. Parmi pertanto in questa parte di dovere seguire
l'opinione, adottata, fra gli altri, anche dall'Hölder, secondo cui il nexum
costituisce in certo modo il con trapposto della mancipatio nel senso, che
quello è la sottomissione della persona del debitore alla potestà del creditore
per il caso di non seguito pagamento, mentre la mancipatio costituisce invece Così, ad esempio Livio, II, 23, attribuisce
queste parole a quel nexus, che avrebbe provocata la prima rivolta della plebe
per causa della legge sui debiti: e se
aes alienum fecisse; id cumulatum usuris primo se agro paterno avitoque
exuisse, a deinde fortunis aliis; postremo, velut tabes, pervenisse ad corpus .
È tuttavia evidente, che quinon si dice punto, che il creditore, in base al
nexum, potesse pro cedere sai beni del debitore, ma solo che quest'ultimo aveva
dovuto prima spogliarsi del suo patrimonio avito, e poi anche vincolare la sua
persona al proprio creditore. 483 il trasferimento di una cosa in potestà
altrui. Questa è pure l'opi nione, che fu seguita recentemente dall'Esmein e
dal Cuq, i quali ritengono, che la primitiva obbligazione quiritaria, la cui
forma tipica fu il nexum, costituisse dapprima un legame del tutto personale e
fosse perfino intrasmessibile da una persona ad un'altra. Ho insistito sopra
questo carattere esclusivamente personale del nexum primitivo; perchè il
medesimo, se nori a giustificare, può condurci in qualche modo a spiegare le
conseguenze estreme, a cui nel diritto primitivo di Roma potè giungere il
diritto del creditore contro il proprio debitore. Parmi tuttavia, che sarà più
opportuno discorrere di tali conseguenze, allorchè si tratterà della manus
iniectio, ossia della procedura di esecuzione contro il debitore; poichè
l'inumanità di questa primitiva procedura non spiegasi soltanto contro i nexi,
ma anche contro i iudicati ed i damnati . 375. È certo ad ogni modo, che il
nexum, fra le istituzioni qui ritarie, era quella, che ripugnava maggiormente a
quell'uguaglianza, che avrebbe dovuto esistere fra i membri di una stessa
comunanza. Esso portava ancora le traccie della soggezione, pressochè servile,
a cui un tempo era ridotta la plebe; poichè anche nel periodo sto rico sono
sempre i plebei, che appariscono sottoposti al rigore del nexum, mentre il
patrizio, anche oberato di debiti, poteva trovar sussidio presso la propria
gente. Ne derivò che, durante le lotte fra i due ordini, il nexum si cambið
talora in un'arma del patri ziato per assicurare la sua superiorità sopra la
plebe, e fu in tal modo che una istituzione di diritto privato si cambiò in un
fomite di dissensioni civili. La questione della condizione dei debitori sembra
già rimontare all'epoca di Sergio Tullio, il quale, se non pagd del proprio i
creditori, come vorrebbe la tradizione, certo impose la solennità dell'atto per
aes et libram per potersi obligare col nexum. Sotto la Repubblica poi, è a
causa della legge sui debiti, che i plebei si rifiutano prima alla leva, poi
abbandonano la città e si ritirano
HÖLDER, Istituz., trad. Caporali, 225. Cfr. eziandio l' Esmein,
L'intrasmissibilité première des créances et des dettes, nella Nouvelle Revue historique , , nel quale
scritto egli cerca di corroborare la stessa tesi già enunciata dal CuQ,
Recherches historiques sur le testament per aes et libram pubblicato nella
stessa Nouvelle Revue. La questione qui
accennata del trattamento contro i debitori sarà trattata nel capitolo VI, 3º, parlando della procedura esecutiva,
mediante la manus iniectio. 484 sul monte Sacro, da cui non ritornano, che dopo
aver ottenuto la istituzione del tribunato della plebe. Anche la stessa
legislazione decemvirale porta le traccie di questa contesa; come lo dimostrano
le disposizioni minute, a cui essa discende nella parte, che si rife risce al
trattamento del debitore, ridotto in potestà del creditore. Malgrado di ciò, le
dissensioni continuano fino alla legge Petelia del 428 di Roma, la quale non
abolisce il nexum, e neppure dà diritto al creditore di procedere contro i beni
del debitore, anzichè contro la sua persona, come vorrebbe Livio, ma toglie al
creditore il diritto di poter procedere immediatamente alla manus iniectio
contro il debitore, senza che neppure occorresse l'intervento del magistrato ().
Continuò quindi ancora a sussistere l'atto per aes et libram, qual mezzo di
sottomettersi al nexum, come lo dimostra la sopravvivenza delle nesi liberatio,
che è ancora ricordata da Gaio; ma intanto il nexum, sprovvisto di quegli
effetti immediati contro la persona, che costituivano l'odiosità e la forza di
questo ingens vinculum fidei, non ebbe più ragione di sussistere, e venne ad
essere sosti tuito da altri modi di obbligarsi, che forse preesistevano nel
costume, ma non erano ancora stati accolti nella cerchia circoscritta del
primitivo ius quiritium. 376. Accade qui, in tema di obbligazioni, una
trasformazione analoga a quella, che abbiamo veduto essersi avverata in tema di
proprietà, quanto al concetto del mancipium. Al modo stesso che Le espressioni di Livio, VIII, 28, sono le
seguenti: iussique consules ferre
ad populum, ne quis, nisi qui noxam
meruisset, donec poenam lueret, in compedibus < aut in nervo teneretur;
poecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium esset. Ita nexi soluti, cautumque in posterum,
ne necterentur . Di qui alcuni autori avrebbero argomentato, che da quel
momento fosse stata abolita la procedura contro la persona dei debitori, e
introdotta invece quella contro i beni. Cid sarebbe smentito espressamente
dalla storia giuridica di Roma, dove la vera procedura fu sempre contro la
persona, mentre quella contro i beni fu solo introdotta dal pretore Rutilio nel
647 di Roma, e la stessa cessio bonorum, introdotta dalla legge Giulia, fu
ancora considerata come un beneficio fatto al debitore. Le parole quindi di
Livio debbono essere intese nel senso, che d'allora in poi il nexum non bastò
più per sè ad autorizzare il creditore a tradurre il debitore nel suo carcere
privato, e che in tal modo l'obbligazione, contratta con questo mezzo, non ebbe
più lo speciale effetto di autorizzare senz'altro la manus iniectio; ma
produsse solo gli effetti, che sareb bero derivati da un 'obbligazione assunta
mediante la semplice stipulatio. Questa fu probabilmente la causa, per cui il
nexum andò gradatamente in disuso, e sottentra rono al medesimo la mutui datio
e la stipulatio, come sarà dimostrato più sotto. 485 al mancipium, quale unica
forma della primitiva proprietà quiri taria, sottentrò il concetto più largo
del dominium ex iure qui ritium; così al nexum, forma primitiva
dell'obbligazione quiritaria, sottentrò il concetto più esteso dell'obligatio
propria civium roma norum, al vincolo materiale, che stringeva il debitore al
creditore sottentrò il vincolo giuridico (vinculum iuris); ma intanto i voca
boli di obligatio, di solutio, di liberatio e simili rimasero ancor sempre a
ricordare la rozzezza dell'antico concetto, che scorgeva nell' obbligazione un
vincolo pressochè materiale, e nel pagamento ravvisava lo scioglimento di
questo vincolo (solutio ). Così pure al modo stesso, che col sostituirsi al
mancipium un concetto più largo del dominium ex iure quiritium, si vennero
accogliendo nuovi modi di acquistare e trasmettere questo dominio; cosi,
allorchè al concetto del nexum sottentrò quello dell'obligatio, si vennero
accogliendo nel ius proprium civium romanorum nuovi modi di obbligarsi. Il
nexum, mentre costituiva ed esprimeva efficacemente un vincolo materiale e
giuridico ad un tempo, aveva eziandio questo carattere speciale, che esso
teneva in certo modo del reale e del verbale, in quanto che componevasidi
dueparti, cioè: dell'atto per aes et libram, mediante cui avveravasi il
trapasso dal mio al tuo e si operava la consegna immediata della cosa (tuum de
meo fit ): e della nuncupatio, mediante cui fra creditore e debitore si
conveniva la condanna ed il pagamento. Queste due parti, collo scomporsi del
nexum vennero in certo modo ad acquistare libertà di movimento, e si operò la
distinzione fra l'obligatio quae re contrahitur, e quella che con trahitur
verbis, a cui venne più tardi ad aggiungersi eziandio l'obligatio quae
contrahitur litteris, ossia l'expensilatio. Per tal modo alla sintesi potente
del nexum, che era il modo primitivo di obbligarsi ex iure quiritium,
sottentrarono varii modi di obbli garsi, che costituirono un ius proprium
civium romanorum, quali sono la mutui datio, la sponsio o stipulatio, e la
acceptilatio: ciascuno dei quali viene ad essere il germe di quei varii
contratti formali, che si vengono poi svolgendo nel diritto civile romano,
sotto il nome di contratti reali, verbali e letterali. 377. È evidente
anzitutto l'analogia col nexum della mutui datio. Questa infatti continua a
produrre un'obligatio stricti iuris; si ap plica dapprima alla credita pecunia,
e poi si estende a tutte le cose quae numero, pondere ac mensura constant: e la
sua effi 486 cacia obbligatoria consiste nella numeratio pecuniae, oppure con
segna della cosa (datio rei ). Non può poi esservi dubbio, che il mutuo fu il
modello, sopra cui si foggiarono poi gli altri contratti reali del comodato,
del deposito, del pegno. Tuttavia il modo di obbligarsi, che prende un più
largo sviluppo collo scomparire del nexum, è sopratutto la sponsio o stipulatio.
Questa, sotto un certo aspetto, corrisponde a quella nuncupatio, che già
preesisteva nel nexum, salvo che essa, liberata di quella forma rigida della
damnatio, che era propria del nexum, venne a trasfor marsi in una semplice
sponsio o stipulatio, in cui l'obbligazione viene ad essere assunta per mezzo
di una interrogazione e di una risposta, congrue e solenni, le quali, per la propria
elasticità e pieghevolezza, possono essere veste acconcia per esprimere la
varietà infinita delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il cittadino romano.
Qualunque possa essere stata l'origine della stipulatio, è sopratutto nello
svol gimento di essa, che si palesa il genio giuridico dei giureconsulti
romani, i quali non credettero indegno del loro ufficio l'attendere a
concretare le formole, con cui doveva essere concepita la stipula zione nei
varii negozii giuridici . Anche la stipulatio divenne Per ciò che si riferisce alla mutui datio, è
nota la censura, che di regola suol farsi alla etimologia di mutuum data dai
giureconsulti, secondo cui questo vocabolo deriverebbe da quod de meo tuum fit . Per conto mio, non
come etimologo, ma come giurista, ritengo invece assai probabile questa
etimologia, tenuto conto di ciò, che nelle formole primitive occorrono ad ogni
istante le parole di meum e di tuum, e che l'essenza del mutuum consiste
veramente nel far sì, che un oggetto ex meo tuum fit. Queste etimologie, che
direi ragionate, diventano tanto più probabili, quando si ri tenga, che il
diritto romano fin dai primi tempi fu il frutto di una vera elaborazione, la
quale può benissimo avere adattata la parola al concetto, che intendeva di
signi ficare. Lo stesso direi delle etimologie di testamentum da mentis
testatio, di manci pium da manucaptum, e di altre analoghe; sebbene ve ne siano
di molte, le quali, per essere composte post factum, sono evidentemente
foggiate per far dire alla parola cid, che è nella mente del giureconsulto
nell'epoca, in cui egli analizza il significato della parola. Intanto il fatto
stesso, che i giureconsulti cercano sempre di dare alla parola un senso, che
corrisponda alla cosa significata, dimostra, che essi dovevano procedere in tal
guisa, allorchè il comparire di qualche nuovo negozio li costringeva a foggiare
qualche nuovo vocabolo. In cid abbiamo anche una delle ragioni, per cui il
linguaggio giuridico di Roma potè diventare pressochè universale, come le sue
leggi. Sono molte le opinioni intorno
all'origine della sponsio o stipulatio nel di ritto romano. Alcuni la ritengono
come la parte verbale del nexum, allorchè andò in disuso l'atto per aes et
libram nel contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal vocabolo sponsio,
la ritengono come una specie di promessa giurata, che facevasi davanti
all'antichissima ara di Ercole; altri infine la ritengono di origine greca,
donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe, ad es.,
l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi; ma il suo carattere non è più
artificioso, come quello dell'atto per aes et libram, nè così rigido come
quello della damnatio, propria del nexum, ma sembra essere desunto dalla natura
stessa delle cose. La parola infatti è riguardata come il vero mezzo di
obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso, viene colla
stipulatio ad essere conchiuso, in guisa da escludere qualsiasi dubbiezza sulla
volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un beneficio a suo
favore, di interrogare il promettente:
centum dare spondes? , e tocca a colui che promette di rispondergli
congruamente: spondeo per modo che non possa esservi dubbio circa
l'incontrarsi delle due volontà . Viene poscia nel costume una dextrarum
iunctio, poichè, fra le genti primitive, la destra è l'emblema della fede, in
base a cui si conclude il negozio. Forse in antico potè eziandio aggiungersi la
solennità del giuramento, come lo indicherebbe la significazione in parte
religiosa, del vocabolo di sponsio; ma questa, quando è accolta nel diritto
civile romano, sembra già aver perduto questo carattere primitivo. Anche qui
pertanto vi ha una forma tipica di obbligazione, ma essa non è più quella del
nexum, propria del ius quiritium, e modellata probabilmente dal ius pontificium,
nell'intento di serbare le tradizioni del passato; bensì è già quella del ius
proprium civium romanorum, come lo dimostra il fatto, che anche quando i romani
consentirono la stipulatio ai peregrini, riservarono sempre per sè la
espressione primitiva: spondes? spon deo
, la quale sembra ancora richiamare quel carattere religioso, che doveva
accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio. Questo è certo ad ogni
modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist, Graeco-ital.
Rechtsgeschichte, 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op. cit., 228. Per me
trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi stere un modo di
obbligarsi così naturale e semplice, come è quello rappresentato dalla
stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di correlativo, anche fra i
popoli germanici (SCHUPPER, L'allodio, 47); ma non posso in verità persuadermi,
che i Romani dovessero apprenderlo dalla Grecia, dal momento, che senz'alcun
dubbio già lo conoscevano nei rapporti fra le varie genti. Essa quindi deve
essere ritenuta come una di quelle istituzioni, che vivevano nelle costumanze,
e che solo più tardi riuscirono ad entrare nella cerchia rigida del ius
quiritium, il che probabilmente dovette accadere, quando cominciò ad andare in
disuso il nexum. Questo carattere
speciale della stipulatio, per cui essa costituisce il modo più semplice ed
acconcio per conchiudere le trattative di un negozio, in quanto che l'in
terrogante viene ad essere colui che stipula, e il rispondente colui che
promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE, L'ancien droit, 311. 488
contrastati sul nexum. Essa è duttile, pieghevole, come la parola umana, e può
cosi accomodarsi a qualsiasi uso; è un materiale, che si adatta ad ogni specie
di costruzione; è il modo più spiccio e più logico per conchiudere qualsiasi
trattativa; può servire per un'obbligazione principale ed anche per
un'obbligazione accessoria; sebbene unilaterale per propria natura, si può,
raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una convenzione bilaterale.
Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio è sopratutto atta ad
esprimere i negozii stricti iuris. Ma essa, coll'aggiunta di una clau sola
semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi ai negozii di
buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i giureconsulti
romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei contratti, in cui
la giurisprudenza romana spiego una duttilità e pieghevolezza, tanto più mirabili,
in quanto che non scompagnansi giammai dall'esattezza e dalla precisione. 378.
Sembra invece essere alquanto più tardi, che vennero ad essere accolti nella
compagine del diritto civile di Roma, quegli altri modi di obbligarsi, che
diedero poi origine ai contratti letterali. Anche a questo riguardo non può
esservi dubbio, che il diritto civile di Roma non creò di pianta le proprie
istituzioni; ma si contento, per dir cosi, di accogliere sotto la sua tutela e
di modellare, in base alla propria logica giuridica, le istituzioni, che già
esistevano nel l'uso e nel costume. Così dovette accadere senz'alcun dubbio
dell'expensilatio, la quale, ancorchè entrata tardi nel diritto civile di Roma,
ci richiama in certo modo la figura del primitivo capo di famiglia, il quale
dir: gendo una vasta azienda e avendo sotto la sua dipendenza un nu mero grande
di persone, deve tenere il conto quotidiano del dare e dell'avere. Ciò che egli
scrive nel proprio libro doveva certo far fede dirimpetto ai suoi dipendenti.
Questo sistema pero, che era il più ovvio nelle consuetudini patriarcali,
presentava invece dei pe ricoli nel diritto, come quello, che fondavasi
esclusivamente sulla buona fede. Fu questo il motivo, per cui esso penetrò più
tardi nel diritto civile di Roma, il quale cerco poi di ovviare al pericolo
inerente al medesimo, aggiungendo al nomen transcripticium una ricognizione
scritta del debito, che doveva restare a mani del cre ditore (cautio,
chirographum ); al qual proposito viene ad essere probabile, che l'istituzione
originariamente italica della expensilatio siasi imparentata con
un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di origine probabilmente
g: eca, donde la cautio chirographaria, che pervenne fino a noi. 379. Queste
tre categorie di contratti, che sogliono talvolta es sere indicati col vocabolo
di formali, dovettero certamente essere i primi ad entrare nella compagine del
diritto civile romano. Esso invece, che stentava a comprendere il consenso
senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo, sembra che solo più tardi e
pro babilmente già sotto l'influenza del ius honorarium, sia pervenuto ad
adottare e ad attribuire efficacia giuridica all'emptio venditio, e agli altri
contratti, che a somiglianza di essa si perfezionano col solo consenso. Ormai
non può esservi dubbio, che anche l'emptio venditio già esisteva nel primitivo diritto,
poichè la legislazione decemvirale disponeva, che la medesima, per essere
perfetta, doveva essere accompagnata dalla tradizione della cosa e dal
pagamento del prezzo. Cosi stando le cose, è però evidente, che l'emptio
venditio come mezzo per trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma
doveva essere accompagnata dalla mancipatio o dalla traditio. Di qui ne venne,
che essa, come contratto stante per sè, comparve solo più tardi nel diritto
civile di Roma, il quale non ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che
valgono a trasferire il dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano
a dare, facere, praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti
consensuali, cioè della locatio conductio, del mandatum e della societas, che
furono fog giati sul modello della compra e vendita . Intanto si comprende, che
la giurisprudenza romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le
mosse da una unica forma di obbligazione quiritaria, che era quella assunta col
nexum, allorchè pervenne a così grande ricchezza di sviluppo, abbia cominciato
a sentire il bisogno di richiamare a certe classi i genera obligationum, quae
ex contractu nascuntur; ma intanto essa si trovò già di fronte ad una
suppellettile così copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai contratti fu
costretta a creare la figura dei quasi- con
Cfr. per ciò che si riferisce all'expensilatio ed all'abitudine del capo
di fami glia romano di tenere il Codex accepti et expensi, vedi il PADELLETTI,
Storia del diritto romano. Quanto all'acceptilatio vedi SCHUPFER, nella Enciclopedia giuridica italiana , vol. I, 175
a 180, vº acceptilatio. Quanto alle
origini di uno di questi contratti consensuali, cioè della societas, vedi
l'articolo del Ferrini nell'a Archivio giuridico diretto dal Serafini, anno 1887. 490 tratti;
accanto ai contratti nominati dovette porre quelli non no minati; accanto ai
veri e proprii contratti, i patti, che non pro ducono azione, ma una semplice
eccezione; e da ultimo accanto ai contratti, che avevano avuto origine nel
diritto civile, quelli che avevano avuto origine nel diritto delle genti. Anche
qui pertanto è facile lo scorgere come, prima nel ius quiritium e poscia nel
ius civile, presentisi costantemente una parte già formata e consoli data, e
un'altra, che si viene foggiando e consolidando sựl modello somministrato dalle
formazioni anteriori, senza che mai si abbandoni il concetto fondamentale della
primitiva obbligazione, da cui il ius quiritium aveva preso le mosse. Ciò tanto
è vero, che, anche nel conchiudersi dello svolgimento storico del diritto delle
obbligazioni, si riscontra ancora quel con cetto, a cui si informava
l'istituzione primitiva del nexum, con cetto, che viene ad essere enunziato da
Paolo con dire obligationum substantia non in eo consistit, ut aliquod
corpus, nostrum, aut servitutem, nostram
faciat, sed ut alium nobis obstringat ad
dandum aliquid, vel faciendum, vel praestandum . Si viene cosi a
mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni e quella del
trasferimento della proprietà, non meno radicale e pro fonda, di quella, che
negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere nexum e
quello del facere mancipium. È questo il motivo, per cui la genesi dei modi,
coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la proprietà e i
diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro istituto del
diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio. $ 3. – La mancipatio
e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire ildominio
quiritario. 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio la forma
primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece, che prese
più tardi il nome di mancipatio, deve considerarsi come la forma primordiale,
che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della proprietà ex iure
quiritium. Tanto la nexi datio, Paolo,
Leg. 3, Dig. (44, 7). Anche sulla
mancipatio abbiamo una ricchissima letteratura. Tra i recenti mi limiterò a
ricordare il Leist, Mancipatio und Eigenthums Tradition, Iena; il MuirHead,
Hist. Introd., sect. 30, 131 a 149; il Voigt, XIl Tafeln, II, SS 84 491 quanto
la mancipatio, debbono poi essere considerate come due ap plicazioni dell'atto
quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, come lo dimostra
il fatto, che i più antichi giureconsulti comprendono l'una e l'altra nella
categoria di quegli atti, che si compiono per aes et libram. Esse vengono
soltanto a differire fra di loro nella nuncupatio, ossia in quelle parole
solenni, che dovevano accompagnare l'atto per aes et libram, e che potevano
attribuire al medesimo una significazione diversa. Mentre la nun cupatio nel
nexum doveva consistere in una specie di condanna convenzionale del debitore al
pagamento della somma da lui tolta in imprestito; la nuncupatio invece nella
mancipatio, quale ebbe ad esserci conservata da Gaio, consiste nella
affermazione solenne del mancipio accipiens, che la cosa gli appartiene ex iure
qui ritium, per averla egli acquistata con tutte le solennità richieste dal
diritto quiritario (hunc ego hominem ex iure quiritium meum esse aio, isque
mihi emptus est hoc aere aeneaque libra ). Gaio poi non ci dice, se a questa
affermazione solenne del mancipio ac cipiens corrispondesse una congrua
risposta del mancipio dans; ma ad ogni modo egli è certo, che questi, essendo
presente all'atto, e ricevendo quell'aes rude, con cui si percuoteva la
bilancia, a titolo di prezzo, riconosceva con cið la verità dell'affermazione
dell'acqui rente. È poi anche degno di nota nella mancipatio, che sebbene a 88;
il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887. Sembra essere opinione comune a questi
autori, che nell'antico linguaggio in luogo di mancipatio si dicesse mancipium;
donde la conseguenza, che la espressione facere mancipium sarebbe pressochè un
sinonimo di facere mancipationem. Noi abbiamo veduto invece, che il vocabolo
man cipium ebbe, fra le altre significazioni, anche quella di indicare il
primitivo patri. monio del quirite; quello cioè, che doveva da lui essere
consegnato nel censo. Quindi per noi le antiche espressioni di facere mancipium,
mancipio dare, mancipio acci pere dovettero significare il ricevere una cosa
nel proprio mancipium, o il trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai
vocaboli di mancipare e di mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso
frequente di queste espressioni costrinse a foggiare una parola, che esprimesse
più brevemente il concetto. Di qui la conseguenza, che il vocabolo di
mancipatio non deriva direttamente da manu capere, ma piuttosto da mancipium
facere, mancipio dare e simili. Cfr. BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma,
1888, 90 e 91. Nexum Manilius scribit
omne quod geritur per aes et libram, in quo sine mancipia . VARRO, De ling.
lat., VII, 105. Vedi gli altri passi citati nel
1° di questo capitolo, nº 369, 471, nota 1. Gaio descrive la mancipatio e le formalità,
da cui era accompagnata, nei Comm., I, SS 119 a 123. 492 la medesima in effetto
servisse per il trasferimento della proprietà quiritaria, aveva perd eziandio
tutti i caratteri di un acquisto ori ginario, come lo dimostra il fatto, che
era l'acquirente, il quale doveva per il primo affermare la sua proprietà sulla
cosa ed affer rare materialmente la cosa stessa; donde anche la conseguenza,
che la mancipatio richiedeva la presenza delle cose mobili, e per gli immobili
era stata la sola necessità, che aveva condotto all'uso, accen nato da Gaio,
secondo cui immobilia in absentia solent
manci. pari . 382. La circostanza intanto, che la mancipatio ebbe dapprima ad
essere indicata coll'espressione di facere mancipium, costituisce un forte
indizio, che la mancipatio sia comparsa nel diritto quiri tario, in quell'epoca
stessa, in cui si formd il concetto del manci pium, e che essa sia stata
introdotta quale mezzo peculiare per la formazione e per il trasferimento del
mancipium, in quanto il me desimo costituiva il primo nucleo della proprietà
quiritaria, quella parte cioè del patrimonio, che doveva essere consegnata e
valutata nel censo. Fu l'importanza economica e politica, dal censo attribuita
al mancipium, che rese necessario un atto solenne per la trasmis sione delle
res mancipii contenute nel medesimo. Quindi l'origine della mancipatio deve
rimontare probabilmente alla costituzione serviana, e l'introduzione di essa
avere una stretta attinenza col concetto del mancipium; il che è comprovato dal
fatto, che anche i classici giureconsulti, memori dell'origine di essa,
continuarono sempre a considerare la mancipatio, come un modo di alienazione
del tutto proprio delle res mancipii, e sostennero perfino, che queste fossero
cosi chiamate, perchè erano suscettive della mancipatio. Gaio, Comm., I, 119. Sono da vedersi, quanto
alla necessità di adprehendere manu la cosa acquistata, se mobile, i passi
citati dal Voigt, op. cit., II, 133, nota 10. Intanto nella necessità di questa
materiale apprensione della cosa parmidi scorgere un'altra prova, che il
concetto del primitivo mancipium implicava in certo modo la detenzione
materiale e la proprietà delle cose, che ne formavano oggetto, al modo stesso
che il nexum indicava ad un tempo il vincolo fisico e il vincolo giuri dico, a
cui era sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende probabile l'etimologia di
mancipium da manucaptum, come lo provano i passi citati dallo stesso Voigt, op.
e loc. cit., 134, nota 12. Cfr., quanto
alle origini della mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., Sono poi Gaio, I, 120 e
Ulpiano, Fragm., XIX, 3, i quali attestano che la manci patio era
esclusivamente propria delle res mancipii.
Mancipatio, scrive quest'ultimo, propria species alienationis est rerum
mancipü . Ciò però non impedì, che, trattan - Siccome però fin da quest'epoca, accanto
alle cose, che costituivano il nucleo del mancipium, vi erano quelle, che non
erano comprese nel medesimo, e a cui perciò non potevasi applicare il facere
man cipium, così ne venne che accanto alla mancipatio dovette già essere in
vigore la semplice traditio, la quale, accompagnata dal pagamento del prezzo,
poté servire per il trasferimento delle cose, che non erano comprese nel
mancipium. Mentre quindi la man cipatio veniva ad essere una costruzione
giuridica, la cui forma zione fu determinata dal formarsi del mancipium, la
traditio in vece era il mezzo naturale ed ovvio per il trasferimento di quelle
cose, che erano nec mancipii, e che perciò in questo primo periodo non
formavano oggetto di vera proprietà ex iure quiritium. 383. Questo stato di
cose venne poi a subire una modificazione profonda, sotto l'influenza della
legislazione decemvirale. Infatti è colla medesima, che al concetto del
mancipium, il quale restringeva di troppo il novero delle cose, che potevano
essere oggetto di pro prietà quiritaria, cominciò già a sovrapporsi un concetto
più esteso del dominium ex iure quiritium. Da questo momento infatti le res
mancipii continuano ancor sempre a costituire il nucleo più importante delle
cose, che possono essere oggetto di proprietà qui ritaria, ma questa già può
estendersi ad altre cose, che non erano comprese nel primitivo mancipium. Di
qui ne derivo, che mentre le XII Tavole serbarono la mancipatio, quale mezzo
esclusivamente proprio per la trasmissione delle res mancipii, esse perd
introdus sero o confermarono due altri mezzi, per l'acquisto e la trasmis sione
del dominium ex iure quiritium, di cui uno è l'in iure cessio, la quale,
essendo compiuta davanti almagistrato, potè anche dosi di cose, le quali si
ritenevano di grande prezzo e perciò si trasmettevano in fami glia, quali erano
ad esempio le pietre preziose, si potesse nella consuetudine appli carvi anche
la mancipatio. V. quanto si è detto a 441, nota 1. Ciò è dimostrato da ULP.,
Fragm., XIX, 3, e 7; il quale, dopo aver premesso che la mancipatio era propria
delle res mancipii, soggiunge poi:
traditio aeque propria est alienatio rerum nec mancipii ; nei quali
passi è evidente, che la man cipatio e la traditio si contrappongono fra di
loro, come il mancipium ed il nec mancipium. Quello cade sotto il diritto
civile, e perciò deve essere alienato colle forme del diritto civile, il che
pure si accenna da Festo, tº censui, allorchè scrive: censui censendo agri proprie appellantur, qui
et emi et venire iure civili pos sunt
(Bruns, Fontes, 334). Che il contrapposto fra mancipatio e traditio sia
stato poi la prima origine della distinzione fra i modi civili e naturali di
acqui stare e di trasmettere il dominio appare ad evidenza da Gaio, Comm., II,
65. 494 essere estesa alle res mancipii, e l'altro è l'usus auctoritas, più
tardi denominata usucapio, mediante cui l'uso ed il possesso di una cosa,
durato per un certo tempo, potė attribuire la proprietà quiritaria della
medesima. Colla legislazione decemvirale pertanto vengono ad essere tre i
principali mezzi, con cui può essere acqui stata e trasmessa la proprietà
quiritaria, e che costituiscono perciò un diritto esclusivamente proprio dei
cittadini romani. 384. Di questi mezzi il più importante è sempre la mancipatio,
la quale è il vero modo ex iure quiritium per l'acquisto ed il tras ferimento
del dominio, ma la medesima, essendo nata col mancipium, continua sempre ad
essere un mezzo di alienazione proprio delle res mancipii. Vero è, che in
questi ultimi tempi si è dubitato, se la mancipatio non siasi più tardi
applicata anche a quelle res nec mancipii, che potevano essere oggetto di
proprietà quiritaria: ma questa opinione non sembra potersi accogliere, di
fronte alle afferma zioni precise di Gaio e di Ulpiano, i quali parlano sempre
della manci. patio, come propria delle res mancipii. Ciò tuttavia non impedi,
che colla legislazione decemvirale la mancipatio abbia acquistata una
elasticità e pieghevolezza, che prima non aveva, il che spiega come essa sia
durata così lungo tempo, quale mezzo di trasferimento della proprietà, ed abbia
in questa parte esercitata una influenza analoga a quella esercitata dalla
stipulatio in materia di obbligazioni. Sembra infatti, che il facere mancipium,
negli inizii, fosse uno di quei ne gozii di strettissimo diritto, che
producevano l'immediata traslazione della proprietà, e non ammettevano perciò
nè termine, nè condi zioni. Le XII Tavole invece introdussero il principio: qui manci pium faciet, uti lingua
nuncupassit, ita ius esto , e diedero così libertà ai contraenti di aggiungere
al primitivo mancipium, sotto la forma di una nuncupatio, che faceva parte
integrante del negozio, tutte le clausole e condizioni, che potessero convenire
ai contraenti. Fu in questo modo, che l'antica mancipatio potè accomodarsi alla
varietà dei casi e delle esigenze, e che si vennero così formolando, per opera
degli stessi pontefici e giureconsulti, quelle clausole diverse, che sogliono
essere indicate col vocabolo di leges mancipii. Colle medesime infatti il
mancipio dans, pur alienando la cosa, potè riservarsi l'usufrutto della
medesima, potè alienarla con patto di
GA10, I, 120, Ulp., Fragm., XIX, 3. Vedi tuttavia ciò che in proposito
si disse a 441, nota 1. 495 - riscatto, poté restringere la propria garanzia
per l'evizione, ed anche limitare l'uso della cosa venduta per parte
dell'acquirente. Era pero naturale, che, per aggiungere alla mancipatio tutte
queste clausole, più non poteva bastare la semplice affermazione del man cipio
accipiens, che la cosa era sua ex iure quiritium; maoccor reva eziandio, che il
mancipio dans, con una congrua risposta, apponesse quelle clausole e
condizioni, che potessero essere del caso, le quali, entrando a far parte
integrante della stessa mancipatio, dovevano fra i contraenti avere la forza di
vere leggi. 385. Sopratutto, fra queste leges mancipii, viene ad essere impor
tantissima quella, che suol essere indicata col vocabolo di lex fidu ciae, od
anche semplicemente con quello di fiducia. Questa pro babilmente doveva essere
nata nelle consuetudini della plebe, la quale, non possedendo le vere forme
giuridiche, doveva di necessità nelle proprie convenzioni lasciare una larga
parte alla scambievole fiducia (3 ). Anche questa fiducia colla legislazione
decemvirale pe netrò nel ius quiritium, dove, combinandosi col rigoroso atto
della mancipatio, diede origine a quella singolare istituzione della man
cipatio cum fiducia, che doveva poi acquistare un così largo Si può veder raccolta nel Voigt, op. cit.,
II, $ 85, 146 a 166, una varietà grandissima di queste clausole o leges
mancipii, raccolte da passi di antichi autori. Nel Bruns parimenti, Fontes, 251
a 256, sono riportati parecchi moduli di mancipationes, che pervennero fino a
noi. Quanto alla mancipatio cum fiducia
è a vedersi il Voigt, $ 86, 166 a 187, ove sono raccolte le formole, che vi si
riferiscono. È poi degno di nota quel modulo di mancipatio fiduciae causa, che
si fa risalire al primo o secondo secolo dell' êra cristiana, riportato dal
Bruns, Fontes, 251. Le ragioni, per cui
le origini della fiducia devono cercarsi nelle costumanze della plebe, furono
già esposte al n ° 149, 184. Di recente un giovine e dotto autore, l’Ascoli,
ebbe in proposito a scrivere, che la fiducia, come forma di pegno, non dovette
essere il prodotto spontaneo delle pratiche necessità del commercio, ma una creazione
artificiale, e che l'ipoteca nel suo concetto astratto è più semplice della
fiducia (Le origini dell'ipoteca e l'interdetto Salviano, Livorno, 1887, 1). Io
credo, che se l'autore si riporti col pensiero ad una plebe ragunaticcia, in
parte immigrata e priva ancora di una vera posizione di diritto, di fronte ai
patrizii, fon datori della città, comprenderà facilmente come i membri di essa,
per trovar cre dito presso coloro, che già vi si trovavano stabiliti, non
avessero mezzo più acconcio, che quello di alienare a questi cum fiducia le
cose, che loro dovevano servire di pegno. L'ipoteca invece avrebbe già supposto
una comunanza di diritto, che ancora non esisteva, e un'analisi del diritto di
proprietà, che mal si poteva conciliare colle condizioni di un popolo
primitivo. 496 svolgimento nel diritto civile di Roma. Con essa, accanto
all'ele mento strettamente giuridico, cominciò a penetrare anche la consi
derazione della buona fede, in quanto che non si bado più in modo esclusivo
alla osservanza delle forme esteriori del negozio giuridico, ma cominciò anche
a tenersi qualche conto dell' intenzione vera ed effettiva dei contraenti. Che
anzi questo elemento fiduciario fu introdotto nella formola stessa della
mancipatio, cosicchè il man cipio accipiens non affermò più, la sua proprietà
assoluta sulla cosa a lui alienata, ma disse invece: hunc ego hominem fidei fi duciae causa ex
iure quiritium meum esse aio ; colla qual formola già si lasciava intendere,
che, sebbene egli avesse acquistata la proprietà quiritaria, questa perd era
stata affidata al suo onore per l'adempimento di qualche incarico di fiducia.
Questa fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi o con un amico o con un
creditore. Essa accadeva, ad esempio, con un amico nella manci patio familiae
cum fiducia, che fu una delle forme più antiche di testamento, mediante cui si
mancipava il proprio patrimonio ad un amico (familiae emptor), coll'incarico di
disporne nella guisa statagli indicata per il tempo, in cui altri avesse
cessato di vivere. La fiducia seguiva invece con un creditore, allorchè a lui
si mancipava la cosa, che si voleva lasciargli a titolo di pegno . È probabile
che dap prima questa clausola fiduciaria non avesse efficacia giuridica, ma col
tempo essa venne acquistandola. Per tal modo la mancipatio cum fiducia venne
cambiandosi in un espediente giuridico, mediante cui la mancipatio non serviva
più unicamente al trasferimento della proprietà; ma serviva eziandio per
costituire comodati, donazioni mortis causa, doti, e riceveva cosi applicazioni
diverse, anche nei rapporti famigliari, nei quali essa si svolse, come vedremo
a suo tempo, sotto la forma di coemptio fiduciaria. 386. Fu questo il
magistero, mediante cui la mancipatio fu dal diritto civile di Roma adattata
alle varie contingenze di fatto; ma Cfr.
il MUIRHEAD, op. cit., 140e il Voigt, op. cit., II, 172. È notevole in proposito il passo di ISIDORO,
Orig., 5, 22, 23, 24, riportato dal Bruns, Fontes, 406, in cui egli istituisce,
sulle vestigia di qualche antico au tore, una specie di raffronto fra il
pignus, la fiducia e l'hypotheca. Della fiducia egli scrive: fiducia est, cum res aliqua, sumendae mutuae
pecuniae gratia, vel man cipatur vel in iure ceditur . Quanto alle svariate applicazioni della
fiducia V. Ascoli, op. cit., 3497 siccome la sua applicazione era pur sempre
circoscritta alle res mancipii, cosi, accanto alla medesima, si introdussero o
si confer marono dalla legislazione decemvirale due altri modi di acquistare e
di trasmettere la proprietà, di indole e di origine compiutamente diversa,
ancorchè entrambi costituiscano un ius proprium civium romanorum. Essi sono
l'in iure cessio e l'usucapio. È ovvio scorgere l'opposizione, che esiste fra
questi due mezzi di acquisto della proprietà ' quiritaria. Mentre l'in iure
cessio viene talvolta nelle fonti ad essere indicata col vocabolo di legis
actio, perchè essa, al pari delle legis actiones, si compie in iure, cioè da
vanti al magistrato, ed è in certo modo una rei vindicatio non con traddetta. ;
l'usucapio invece nelle dodici tavole viene ad essere indicata col vocabolo di
usus auctoritas. Mentre la prima consiste in una finta rivendicazione, fatta
dal compratore o dal cessionario, non contrastata dal venditore o dal cedente
della cosa, che forma oggetto di negozio, la quale si compie davanti
almagistrato, e a cui sussegue l'aggiudicazione del medesimo; la seconda invece
fondasi esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per
due anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi
altra cosa, finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a
possederla. Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere,
eminentemente legale e giuridico, in quanto che essa compiesi coll'intervento
del magistrato;, nella usucapio in vece abbiamo un fatto, che trasformasi in
diritto, ossia l'uso od il possesso, che trasformansi nella proprietà ex iure
quiritium, quando abbiano durato per un certo spazio di tempo. Queste
considerazioni mi inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo
di acquisto, ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie, presso le quali
tutto già facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato,
l'usus auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale,
avendo dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto,
dovette cono scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella
significa zione, che vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di
questi due modi di acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa È lo stesso Gaio, Comm., II, 24, che, dopo
aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis actio vocatur . A questa
descrizione di Gaio poi corrisponde quella brevissima di Ulp., Fragm. In iure cedit dominus; vindicat is, cui
ceditur; addicit Praetor . C., Le origini del diritto di Roma. 32 498 taria fu
in certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due ordini; poichè
da una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al magistrato, il quale
era ricavato dall'ordine patrizio, e dall'altra il patriziato cominciava a
riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus auctoritas, sulla quale
'soltanto fondavansi i di ritti della plebe.
Qui cade in acconcio di arrestarci alquanto alla significazione da
attribuirsi alla espressione usus
auctoritas , che occorre nelle XII Tavole. La legge relativa dal DIRKSEN
collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu riportata colle parole stesse di
CICERONE, Top., 4: usus auctoritas fundi
biennium est; ceterarum rerum omnium annuus est usus . Essa invece dal Voigt,
op. cit., I, 110, sarebbe collocata al n. 6, della Tavola V, e sarebbe così
concepita: usus, auctoritas biennium,
cetera rum rerum annuus esto . Di qui molte discussioni fra gli studiosi
relativamente ai rapporti fra i due termini usus ed auctoritas, al qual
proposito l'opinione pre valente sembra essere, che il vocabolo di usus si
riferisca all'usucapione e quello di auctoritas alla garanzia del titolo, che
incombe al venditore in una mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire,
che tanto l'usus quanto l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno,
secondo le cose di cui si tratta. Tale opinione sarebbe stata prima enunciata
dal SALMASIO, De usuris, cap. 8, 215; Lugd., Bat. 1638, e troverebbe seguito
ancora oggidì, presso il Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus
dall'auctoritas con una virgola. A mio avviso invece sembra alquanto fuor di
luogo, che si venga a discorrere di garanzia dall'evizione colà, ove tutti gli
antichi autori non ci parlano che dell'usucapione. Parmi poi evidente, che
l'espressione effi cacissima di usus
auctoritas non possa essere che il
contrapposto dell'altra espres sione
iuris auctoritas , e che quindi la significazione naturale della
medesima consista in dire, che l'uso varrà come titolo, e il possesso equivarrà
a proprietà, allorchè essi siano durati un biennio pei fondi, e un anno per
tutte le altre cose. Il solo vocabolo di usus, analogo a quello di possessio,
non avrebbe potuto da solo indicare l'usucapione, e fu perciò, che dovette
dirsi usus auctoritas, la quale espressione appunto occorre in Cic., Top., 4.
Sia pure che lo stesso Co., pro Caec., 19, sembri separare le due cose,
allorchè scrive: lex usum et
auctoritatem fundi iubet esse biennium ; ma è facile il vedere, che la dizione
qui è già alterata dall'uso dell'infinito, e che le due parole indicano pur
sempre una cosa sola, cioè l'autorità od il diritto sul fondo provenienti
dall'uso. Ogni dubbio poi viene ad essere tolto dal passo di Boezio, in Cic.,
Top., loc. cit., nel quale trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la
iuris auctoritas. Egli infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive: Plurima
rum autem rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit
usus, id firma iuris auctoritate
possideat, velut rem mobilem; fundi vero usucapio biennii temporis spatio continetur. Ait
Cicero: ut, quoniam ususauctoritas fundi
biennium est, sit etiam aedium. Hic igitur
aedium usus auctoritatem biennio fieri
sentit (Bruns, Fontes, 400). Che se
altrove la legge dice a adversus hostes aeterna auctoritas esto , gli è perchè
ivi parlasi tanto della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non
occorreva specificare il concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da
solo significa la iuris auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due
istituti tuttavia esercito certamente una maggiore influenza sullo svolgimento
del diritto romano l'usucapio, che non l'in iure cessio. Di questa infatti dice
Gaio, che la medesima, quanto alle res man cipii, non poteva competere colla
mancipatio, poichè era naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi
contraenti, coll'inter vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori
presso il magistrato. Di qui ne venne che, sebbene l'in iure cessio po tesse
anche applicarsi alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al
trasferimento di quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive
di mancipatio. Così, ad esempio, Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio si
poteva fare la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec
mancipii, la cessione della eredità, che consideravasi come una cosa
incorporale, come pure la costituzione dell'usufrutto. Quanto a quest'ultimo
tuttavia, egli os serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la
mancipatio, al lorchè altri, mancipando la cosa, riservava per sè l'usufrutto
della medesima, apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva
conservare la proprietà, non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che mediante
la in iure cessio. L'usucapio invece deve essere considerata come una delle
istitu zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del diritto. Essa
in certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare da una posizione
di fatto ad una posizione di diritto, per cambiare cioè la semplice usus
auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa, che determinò la formazione
della teoria del possesso, accanto a quella della proprietà, e che condusse la
giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il possesso può
trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto all'usucapio del diritto
qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero più volte ad accennare a
questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre solo avuto occasione di
parlare della durata dell'usucapio, e non mai della durata dell'obbligo di
garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la ricostruzione più
probabile sia la seguente: usus
auctoritas fundi biennium, ceterarum rerum annus esto ; la quale concorda anche
di più colle regole grammaticali. Scrive
infatti Garo, Comm., II, 25, discorrendo della iure cessio per le res mancipii: Plerumque tamen et fere semper
mancipationibus utimur; quod enim ipsi per nos, praesentibus amicis, agere
possumus, hoc non est necesse cum maiore difficultate apud Praetorem aut
Praesidem provinciae agere . GAIO, II,
33; Ulp., Fragm., XIX, 11 e 12. 500 ritario, che essa, a differenza della
prescrizione, che ebbe ad essere introdotta molto più tardi, non presentasi
ancora come un mezzo di estinzione dei diritti, ma ha sopratutto il carattere
di un mezzo di acquisto, come lo indica il vocabolo stesso di usucapio. Cid
pure è confermato dal motivo, che si assegna come fondamento all'usucapio, il
quale non consiste nell'intento di punire coloro, che trascurassero di
esercitare il proprio diritto, ma bensi in quello di evitare l'in certezza dei
dominii: ne rerum dominia diutius in
incerto essent . 388. Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio fu
effettivamente adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni
della plebe potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il carattere
quiritario, cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in breve in
veri proprietarii ex iure quiritium. Quest'effetto era già stato ottenuto in
grande col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto tutti i
mancipia, proprii della plebe, in altrettante proprietà ex iure quiritium,
facendoli consegnare nel censo; ed il medesimo processo venne ad essere reso
continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas, la quale in breve
spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di un vero e
proprio diritto. Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto diverse di
questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per acquistare la
pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche qual mezzo per
far acquistare al marito la manus sulla propria moglie, e quale mezzo infine
per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria di
un'eredità, come accade nell'usucapio pro herede . Così pure dapprima non si
richiedono condizioni di sorta, perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma basta
il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente, che i
giurisprudenti fis Il concetto qui
accennato fu già più largamente svolto al nº 154, p. 190 e seg., ove ho
dimostrato che l'attribuire carattere giuridico ai possessi della plebe nel ter.
ritorio romano era il miglior mezzo per interessarla all'avvenire e alla
grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD, op. cit., 48, e
l'Es sin, Histoire de l' usucapion nei
Mélanges d'histoire du droit , Paris, 1886, 171 a 217. Dal momento
poi, che l'usus auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare una
posizione di fatto in una posizione di diritto, si comprende come essi non
abbiano avuto diffi coltà di applicarla all'acquisto della proprietà,
all'acquisto della manus, ed anche all'acquisto dell'eredità (usucapio pro
herede). 501 sano le condizioni, che debbono concorrere in tale possesso,
perchè possa dar luogo all'usucapione. Tuttavia fin da principio la legge
decemvirale già comincia ad escludere certe cose dall'usucapione, come le cose
furtive, le res mancipii appartenenti alla donna, quando siano state vendute e
consegnate senza il consenso del tutore (sine tutoris auctoritate) , mentre è
solo più tardi, che la giurisprudenza venne a richiedere la buona fede
nell'acquirente. Per tal modo un mezzo, che dapprima servi per mutare una
posizione di fatto in una posizione di diritto, fini col tempo per convertirsi
eziandio in un rimedio contro il difetto inerente al titolo di acquisto,
proveniente o da irregolarità dell'atto di trasferimento o da incapacità
dell'ac quirente. L'usucapione poi, per sua natura, può già applicarsi cosi
alle res mancipii, che alle res nec mancipii, ma non pud tuttavia applicarsi al
suolo provinciale, come quello, che non poteva essere oggetto di proprietà
quiritaria. Tuttavia anche qui co mincia a svolgersi una istituzione del
diritto delle genti, che è quella della prescrizione, la quale, salvo la durata
maggiore, ha un carattere analogo a quello della usucapio nel diritto civile:
come lo dimostra il fatto, che le due istituzioni finiscono col tempo per
fondersi insieme, e dar cosi origine alla praescriptio longi temporis
giustinianea. Questo carattere
dell'usucapio primitiva è già accennato dall'Esmein, e può inferirsi dalla
definizione di Ulpiano, Fragm. Usucapio
est dominii adeptio per continuationem possessionis anni, vel biennii ;
nella quale non occorre ancora quel carattere della iusta possessio, che
compare invece nelle altre definizioni, e fra le altre in quella di Boezio
riportata dal Bruns, Fontes, 400. Quanto ai rapporti fra il possesso, di cui
qui si parla, che sarebbe il pos sesso ad usucapionem, ed il possesso ad
interdicta, che costituisce un istituto, avente un proprio scopo, e distinto da
quello della proprietà, vedi ciò che si disse più sopra al n. 357, 452, nota 1.
A parer mio dovette forınarsi prima il concetto del pos sesso ad usucapionem, e
più tardi soltanto quello del possesso ad interdicta. Questa condizione speciale delle res
mancipii, spettanti alle femmine ed ai pupilli, la quale ha evidentemente lo
scopo di impedire l'alienazione delmancipium per conservarlo nella linea
agnatizia, è attestata in modo concorde da Gaio, Comm., I, 47, 192 e II, 80, e
da ULP., Fragm., XI, 27. È naturale
infatti, che l'usucapione in una società, che si forma, sia un modo di acquisto,
e che in una società invece, che si è formatn, si converta in un mezzo di
difesa; e richieda così un tempo maggiore per servire quale mezzo di acquisto.
Le società giovani pensano sopratutto all'acquisto; mentre le società adulte e
già for mate pensano sopratutto a conservare l'acquistato. (4 ) GAIO, Comm.,
II, 46: item provincialia praedia
usucapionem non recipiunt . (5 ) Mainz, Cours de droit romain, I, SS 111 e 112,
745. 502 389. Intanto,mentre accade questo svolgimento nei modi di trasfe
rimento della proprietà ex iure quiritium, accanto alla medesima viene
lentamente consolidandosi un'altra forma di proprietà, che prende il nome di
proprietà in bonis. Questa dapprima non è che una proprietà di fatto, ma col
tempo ottiene anch'essa in via indi retta e per opera del pretore una
protezione di diritto, e viene così a costituire un vero dualismo nel concetto
di proprietà, il che ebbe ad esprimere Gaio con dire: postea divisionem accepit dominium, ut alius
possit esse ex iure quiritium dominus, alius in bonis habere . Il primo nucleo di questa nuova forma di
proprietà ebbe ad essere costituito dalle res mancipii, allorchè le medesime
erano trasmesse colla semplice traditio; ma poscia essa fini per comprendere
tutte le altre cose, che per qualsiasi causa non fossero oggetto della
proprietà ex iure quiritium. Che anzi il dualismo andò fino a tale per
l'esistenza contemporanea del ius civile e del ius honorarium, che di una
stessa cosa potè accadere, che altri fosse il proprietario ex iure quiritium,
mentre un altro la teneva in bonis; il che voleva dire in sostanza, che l'uno
ne aveva la pro prietà ufficiale, mentre l'altro ne aveva l'effettivo godimento.
È tut tavia notabile, che prima della fusione delle due proprietà, quella in
bonis già cominciava in certe cose ad avere la prevalenza; come lo dimostra il
fatto, che se un servo appartenesse ad una persona ex iure quiritium, e fosse
stato in bonis di un altro, gli acquisti, che egli faceva, andavano a profitto
di colui, del quale era in bonis . Diqui una lotta fra le due forme di
proprietà, che diede occasione allo svolgersi dei modi naturali di acquisto,
accanto a quelli ricono sciuti dal diritto civile; lotta, che Gaio ebbe a
riassumere scrivendo: Ergo ex his, quae
dicimus, apparet, quaedam naturali iure alie nari, qualia sunt ea, quae
traditione alienantur; quaedam civili, nam mancipationis et in iure cessionis
et usucapionis ius pro prium est civium romanorum . Così è pure questa lotta,
che porge occasione allo svolgersi della publiciana in rem actio (4 ), ac canto
alla rei vindicatio, della prescrizione accanto all'usucapione, Gaio, Comm., II, 40. Gaio, II, 88 e UlP., Fragm., XIX, 20. Id., II, 65. Di qui infatti Gaio prende
occasione di discorrere deimodi natu rali di acquisto. Quanto all'actio in rem pubbliciana è da
vedersi APPLETON, De l'action pub blicienne nella Nouvelle Revue historique fino a che le due
proprietà finiscono per essere pareggiate fra di loro, ed allora si consegue
l'effetto, che quelle caratteristiche della pro prietà quiritaria, che si erano
prima applicate a quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese nel
mancipium, poi si erano estese a tutte le cose, che erano oggetto delle
proprietà ex iure quiritium, finiscono per essere estese a tutte le cose, che,
per essere in com mercio, possono essere oggetto di proprietà privata. È solo
allora che Giustiniano, forse non troppo consapevole dell'ufficio, che un tempo
avevano compiuto le distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la
proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab
irato queste distinzioni, le quali a suo giu dizio nihil ab eniymate discrepant e dànno solo più
origine ad inutili ambiguità ed incertezze. 390. Infine anche qui deve essere
notato, che tutta questa teoria del trasferimento della proprietà non potè mai
trovare applicazione in tema di obbligazioni. Almodo stesso, che più tardi la
giurisprudenza romana continua ad affermare che
traditionibus et usucapionibus dominia rerum, non nudis pactis,
transferuntur ; così essa pur continua a
professare, che i modi, i quali servono a trasferire la pro prietà, non possono
invece servire per trasferire un'obbligazione da una persona ad un'altra.
Scrive infatti Gaio, dopo aver discorso della mancipatio e della in iure
cessio, quali modi di trasferimento della proprietà: obligationes, quoquo modo contractae, nihil
eorum recipiunt; nam quod mihi ab aliquo debetur, id si velim tibi de beri,
nullo eorum modo, quibus res corporales ad alium transfe runtur, id efficere
possum; sed opus est, ut, iubente me, tu ab eo stipuleris (3 ). Quindi le obbligazioni, che si
contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla
stipulatio, e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio,
che sono circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per
tal modo quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius
quiritium, fra il facere mancipium ed il facere nexum, si mantenne per tutto lo
svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra
prova della dialettica co Giustin., Cod.,
VII, 25: de nudo iure quiritium tollendo; e VII, 31, $ 4: de usucapione
transformanda et de sublata differentia rerum mancipii et nec mancipii L.20, Cod., II, 3 (Dioclet. et Maxim.). (3 )
Gaio, Comm., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti romani tengono dietro
ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella prima elaborazione del
ius quiritium. Ciascun concetto di questo è come un nucleo, che viene attraendo
tutto ciò, che può esservi di affine, ma il medesimo non si confonde mai coi
concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud at trarre materie, che siano
partite da un concetto primordiale diverso. Chi poi volesse trovare la ragione
intima, per cui nel diritto civile romano il semplice contratto può soltanto
essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai bastare da solo al
trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente ricercarla nel concetto
in parte materiale, che il primitivo diritto erasi formato prima del manci pium
e poscia anche del dominium ex iure quiritium; avrebbe infatti ripugnato alla
logica giuridica, che un dominio, il quale aveva in se qualche cosa di
corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato da qualche fatto
esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione dell'acquirente.
Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai anche un atto di
questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto per aes et libram.
$ 4. La testamenti factio e la storia primitiva del testamento quiritario. 391.
Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium, il testa mento è certamente
quello, di cui ci pervennero in maggior quantità i dati per ricostruirne la
storia primitiva, e per seguire le trasfor mazioni, che ebbe a subire nel
passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non può dubitarsi
anzitutto, che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca anteriore alla
fondazione della città, perchè noi sappiamo con certezza, che esso fin dagli
inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti, che, al pari dell'adrogatio,
della detestatio sacrorum e simili, dovevano essere compiuti coll'inter vento
dei pontefici, davanti al popolo delle curie, riunito nei comizii calati. Ciò
dimostra, che esso già preesisteva presso le genti patrizie, che concorsero
alla fondazione delle città, le quali dovettero ser virsene, comedi un mezzo
per perpetuare la famiglia ed il suo culto. Si è veduto infatti, che nella
organizzazione delle genti italiche la famiglia, ancorchè entrasse a far parte
di un organismo maggiore, cioè della gente e della tribù, aveva però già una
propria esistenza, 505 un proprio culto, e un proprio patrimonio (heredium ).
Era quindi naturale, che essa tendesse a perpetuarsi, e che perciò il capo di
famiglia riguardasse. come una grande sventura la mancanza di un erede, che
continuasse in certo modo la sua personalità, e che adem piesse all'obligo del
sacrifizio domestico. Fu quindi per supplire alla mancanza di un erede
naturale, che noi troviamo essere in uso presso le genti italiche l'adrogatio
ed il testamentum: due istitu zioni, le quali, ancorchè in guisa diversa,
mirano in sostanza al medesimo intento, cioè alla perpetuazione della famiglia
e del suo culto. Intanto però, siccome l'una e l'altra istituzione toccavano da
vicino l'organizzazione gentilizia, cosi egli è certo, che nel periodo
gentilizio l'adrogatio e il testamentum non poterono compiersi dal capo di
famiglia, di sua privata autorità, ma dovettero invece essere compiuti colla
approvazione degli altri capi di famiglia, che appar tenevano alla medesima
gente o tribù. 392. Allorchè poi le due istituzioni vennero ad essere
trapiantate nella città patrizia, esse conservarono dapprima il medesimo carat
tere, e perciò apparirono come due negozi, i quali, avendo un carat tere
pubblico, non potevano operarsi di privata autorità, ma dovevano essere
compiuti nei comizii calati delle curie, convocati dai ponte fici. Che anzi, se
abbiamo da argomentare dalla formola dell'adro gatio, che ci fu conservata da
Gellio, conviene inferirne, che anche il testamento, in questo periodo, dovette
assumnere il carattere di una vera e propria legge . Intanto però egli è
evidente, che questo testamento nei comizii calati delle curie dovette essere
esclusivamente proprio delle genti patrizie, e che il medesimo non ebbe
certamente lo scopo di porgere al testatore un mezzo di disporre a capriccio
delle proprie sostanze; Ho già toccato
dell'attinenza strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il testamentum
nel periodo gentilizio al nº 63-65, 77. Cfr. in
proposito il SUMNER -MAINE, Ancien droit, 184 e il CoQ, Recherches sur le
testament per aes et libram nella
Nouvelle Revue historique. Qui solo ag. giungerò, che questa
attinenza appare anche meglio nel diritto greco, e sopratutto nell'ateniese,
nel quale il primitivo testamento compare sotto la forma dell'adozione. Cfr. il
Jannet, Les institutions sociales a Sparta. Paris, 1880, 96 e segg.; e il
Cocotti, La famiglia nel diritto attico. Torino. Questo carattere pressochè pubblico
dell'adrogatio e del testamentum in Roma non è mai intieramente scomparso, come
lo prova il detto di PAPINIANO, L. 4, Dig.: testamenti factio iuris publici
est. Cfr. quanto ho scritto a n ° 221, 268506 - ma lo scopo invece di
perpetuare la famiglia ed il suo culto, e di impedire la divisione immediata
del patrimonio, come lo dimostra l'antica espressione romana ercto non cito ; la quale ha tutti i
caratteri di una primitiva clausola testamentaria. Quanto alla plebe, non
avendo essa la organizzazione gentilizia, non poteva certamente possedere un
simile testamento; quindi è probabile, che il capo di famiglia plebeo, quando
rimaneva senza figliuolanza diretta, non avesse altro mezzo di disporre delle
proprie cose, che quello di ri correre all'istituto della fiducia, affidando il
suo patrimonio ad un amico, che ne disponesse nel modo da lui indicato; modo
questo di far testamento, che era una conseguenza naturale delle condizioni
economiche e giuridiche, in cui trovavasi la plebe, e che Gaio ci indicherebbe
come affatto primitivo, ed anteriore ancora a quella forma di testamento, che a
noi pervenne sotto la denominazione di testamento per aes et libram . Di qui la
conseguenza, che fin dagli esordii di Roma dovettero tro varsi di fronte due
forme di testamento; un testamento cioè, di origine patrizia, fatto colla
formalità di una vera e propria legge, nei comizii calati delle curie,
coll'intervento dei pontefici, diretto a perpetuare la famiglia ed il suo culto
e ad impedire la disper sione dei patrimonii; e l'altro, di origine plebea, che
compievasi colle forme stesse di quel fedecommesso, che penetrò solo più tardi
nel diritto civile romano, il quale non era che una applicazione della fiducia,
e aveva l'unico scopo di porgere un mezzo al capo di famiglia per disporre delle
proprie cose per il tempo, in cui egli avrebbe cessato di vivere. 393. Fu
soltanto allorchè la plebe entro eziandio a far parte del populus, che potè
svolgersi una forma di testamento, comune ai due ordini, ed è sopratutto a
questo punto, che l'esposizione di Gaio ci può venire in sussidio per
ricostruire la storia primitiva del testa mento civile romano . Gaio ci parla
di due forme primitive di testamento, cioè: di un testamento, che compievasi in
calatis comitiis, i quali si sarebbero radunati due volte all'anno per la
confezione dei testamenti; e del Gaio,
Comm., II, 107. Vedi a proposito di questo primitivo testamento della plebe,
che era una applicazione della fiducia e corrispondeva in certo modo a quel
fedecommesso, che fu accolto più tardi nel diritto romano, cid che ho scritto a
n ° 149, 184Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd.
GAIO, II, 101 a 108. 507 testamento in procinctu, che facevasi invece
davanti all'esercito già preparato alla battaglia. Egli anzi sembra compiacersi
nel notare, che queste due forme di testamento corrispondevano a quel carat
tere civile e militare ad un tempo, che era proprio del popolo ro mano: alterum itaque in pace et in otio faciebant,
alterum in praelium exituri ; ma intanto
non dice, se i comizii calati, a cui egli accenna, fossero i comizii delle
curie o quelli delle centurie. Sembra tuttavia ovvio l'osservare, che Gaio qui
discorre già delle due forme di testamento, comuni cosi al patriziato che alla
plebe, allorché i medesimi già erano entrati a far parte dello stesso populus,
e che perciò la sua distinzione non si deve riferire al popolo primitivo delle
curie, ma bensì al popolo plebeo-patrizio delle centurie; del quale sopratutto
si poteva dire a ragione, che mentre in pace co stituiva i comizii, in guerra
invece costituiva un esercito. Di qui la conseguenza, che il testamento in
calatis comitiis, di cui discorre Gaio, non è più il testamento proprio delle
genti patrizie, che fa cevasi nei comizii calati delle curie, coll'intervento
dei pontefici: ma bensi un testamento, già comune al patriziato ed alla plebe,
che fa cevasi in quei comizii calati, che noi sappiamo da Aulo Gellio essere
stati eziandio proprii delle centurie. Furono probabilmente questi comizii
calati delle centurie, che dovevano radunarsi due volte l'anno per la
confezione dei testamenti: mentre i comizii calati delle curie potevano
convocarsi dai pontefici, ogni qualvolta ne occorresse il bi sogno. Siccome poi
in questo tempo il quirite, come tale, appare già prosciolto dai vincoli
dell'organizzazione gentilizia, ed è già libero dispositore delle proprie cose,
anche per atto di morte, come ebbe a dichiararlo espressamente la legge
decemvirale; così si può in durne, che il popolo delle centurie, in questa fase
del testamento quiritario, più non intervenisse per approvare il medesimo con
una legge, ma soltanto per prestare la propria testimonianza, secondo la GAIO, II, 101. Gellio, XV, 27, 1 e 2, parlando dei co:nitia
calata, scrive: eorum alia esse curiata, alia centuriata. Curiata per
lictorem curiatim calari, id est convocari;
centuriata per cornicinem . Egli dice poi, che in questi comizii si
facevano i testa menti, il che fa supporre che si facessero tanto nei comizii
calati curiati, che nei centuriati. Lo stesso autore V, 19, 6, parla un'altra '
volta dei comizii calati, a pro posito dell'adrogatio, ma qui sembra alludere
soltanto ai comizii calati curiati. Sembra infatti che l'adrogatio, a
differenza del testamento, abbia continuato sempre a farsi davanti alle curie,
salvo che la medesima finì per compiersi davanti ai trenta littori, che la
rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12. Cfr. Cuq. formola, che poi ricompare
più tardi nel testamento per aes et libram:
et vos, quirites, testimonium mihi perhibitote . Cid è confermato
eziandio dalla considerazione, che questi comizii calati non si sarebbero
radunati che due volte l'anno per la confezione dei testamenti, il che avrebbe
reso pressochè impossibile, che ognuno dei testamenti presentati nei medesimi
avesse potuto essere approvato con tutte quelle formalità di una vera e propria
legge, che erano richieste nei comizii calati delle curie primitive. 394. Di
qui deriva, che se questo testamento nei comizii calati delle centurie imitava
ancora nella forma esteriore il testamento pa trizio, che facevasi nei comizii
calati delle curie, nella sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè
nel medesimo questo intervento di tutto il popolo convertivasi in una semplice
formalità, in quanto che il popolo non era più chiamato ad approvare il
testamento,ma sol tanto ad assistere al medesimo cometestimonio. Si comprende
pertanto, che la consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo
più semplice di fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio
familiae cum fiducia, che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci descrive
essersi introdotta posteriormente al testamento in calatis comitiis. Questo
testamento non era in sostanza, che il testamento primitivo di origine plebea,
salvo che esso era già sottoposto alla forma quiritaria dell'atto per aes et
libram, e ac compagnato dalla fiducia. Era quindi un testamento, che era facile
a celebrarsi, ma che, al pari della fiducia iure pignoris, aveva dapprima
l'inconveniente di rimettere ogni cosa alla buona fede del familiae emptor, il
quale poteva anche abusare della fiducia, che il testatore aveva in lui riposta.
Fu allora, che i veteres iuris conditores sentirono la necessità, come dice
Gaio, di ordinare altrimenti il testamento per aes et libram, e modellarono
così quella forma di testamento, che penetrd con questa denominazione nel ius
quiritium o meglio nel ius pro prium civium romanorum, e che fu poi argomento
di uno svolgi mento storico non interrotto fino a Giustiniano. Questo
testamento Fra gli autori, che
distinguono la primitiva mancipatio familiae cum fiducia, che ha quasi del
fedecommesso, dal posteriore testamento per aes et libram, quale è descritto da
Gaio, II, 102, è da vedersi il MuIRHEAD e sopratutto Cuq, il quale, dopo aver
discorso prima della familiae mancipatio, passa a trattare separatamente del
testamento per aes et libram. 509 pertanto compare nel ius quiritium molto più
tardi, che non il nerum ed il mancipium, e viene ad essere una artificiosa
applica zione dell'atto per aes et libram, nell'intento di porgere al quirite
un mezzo per disporre del suo patrimonio per il tempo, in cui avrà cessato di
vivere. 395. Questo testamento, secondo la definizione di Gaio e di Ul. piano,
componevasi di due parti, cioè della mancipatio familiae e della nuncupatio. La
prima consiste in un atto per aes et libram, compiuto, come al solito, davanti
a non meno di cinque testimoni, cittadini romani, ed al libripens, in cui si
addiviene ad una ima. ginaria
venditio delle sostanze del testatore (familiae).
È però a notarsi, che,mentre nella primitiva mancipatio familiae il negozio
seguiva effettivamente fra il testatore e l'erede, di cui quello era il
familiae venditor e questo il familiae emptor; nel testamento invece per aes et
libram, quale appare modellato in questo secondo stadio, il familiae emptor non
è più il vero erede, ma è piuttosto un depositario e custode del patrimonio,
accid il testatore possa disporne
secundum legem publicam . Cið
appare dalla circostanza, che il familiae emptor, dopo aver finto di comprare
il patrimonio e di pagarne il prezzo, se ne dichiara perd semplice depositario,
ricorrendo alla formola seguente:
familia pecuniaque tua endo mandatelam, custodelamque meam, quo tu iure
testamentum facere possis secundum legem publicam, hoc aere esto mihi empta . Trovo alquanto singolare la interpretazione
che il Cuq, art. cit., 565, verrebbe a dare a queste parole: secundum legem publicam . Egli ritiene, che
tutte le parole del testamento dovessero aversi come confermate da quella lex
publica, che era andata in disuso; mentre invece è evidente, che le parole
della formola: quo tu iure testamentum
facere possis secundum legem publicam , mirano evidentemente a porre il
familiae venditor in condizione di poter fare il testamento approvato e
riconosciuto dalla legge pubblica. Una prova di cið l'abbiamo nella circo
stanza, che questa stessa espressione
secundum legem publicam , compare eziandio nella formola della nexi
liberatio, in cui si dice: hanc tibi
libram primam postre mamque tibi expendo secundum legem publicam (Gaio), ove la medesima non può certo avere
la significazione, che vorrebbe attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea
interpretazione sta in ciò, che il Cuq considera il testamento per aes et
libram, come una modificazione di quello in calatis comitiis, mentre esso ha
un'origine affatto diversa, come ho cercato di dimostrare nel testo. GAIO, Comm., II, 104. Ho ricavato questa
formola dall'ultima edizione curata dal MOMMSEN, sull'Apographum Studemundianum,
novis curis auctum, Berolini, 1884; la quale presenta qualche notevole
differenza dalle anteriori edizioni fatte dal Dubois, dall'HUSCHKE e dal
MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che una imaginaria venditio, della
quale Gaio dice espressamente, che viene compiuta soltanto dicis gratia, propter veteris iuris
imitationem . La sostanza invece di questa forma di testamento consiste nella
nuncupatio solenne, nella quale il testatore, in presenza dei testimoni,
istituisce il proprio erede, il quale viene cosi già a distinguersi dal
familiae emptor, ed indica eziandio i legati, che saranno poi a carico
dell'erede. Questa nuncupatio dapprima dovette essere compiutamente orale; ma
poscia potè essere fatta in doppia guisa, in quanto che il testa tore – o
dichiarava espressamente la sua volontà davanti ai testi moni, - o presentava
invece ai medesimi le sue tavole testamen tarie, dichiarando solennemente, che
queste contenevano la sua ultima volontà:
haec ita, ut in his tabulis cerisve scripta sunt, ita do, ita lego, ita
testor: itaque, vos, quirites, testimo nium mihiperhibitote . Di qui prorenne,
che già collo stesso testamento per aes et libram comincid a delinearsi la
distinzione, che acquistò più tardi grandissima importanza fra il testamento
nun cupativo e il testamento scritto. 396. Basta questa semplice descrizione
per dimostrare, che il testa mento per aes et libram è già informato ad un
concetto ben diverso da quello, a cui si ispirava il primitivo testamento delle
genti patrizie. Mentre infatti il testamento primitivo in calatis comitiis
mirava a perpetuare il culto domestico e ad impedire la dispersione dei patri
monii: quello invece per aes et libram tendeva senz'altro a sommi nistrare al
quirite un mezzo per disporre liberamente delle proprie cose. Ciò è dimostrato
dalla circostanza indicataci da CICERONE (vedasi), che questo testamento deve
considerarsi come un'applicazione della di. sposizione delle XII Tavole: qui
nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto; ed è pur
confermato dagli antichi giureconsulti, i quali parlano di questo testamento,
come di una va rietà ed applicazione del nexum, o meglio dell'atto per aes et
libram . Così pure, mentre nel testamento primitivo si richiedeva Gaio, loc. cit. e Ulp., Fragm., XX, 2 a 10.
Quest'ultimo sopratutto distingue nettamente le due parti, di cui componesi il
testamento per aes et libram, allorchè scrive al $ 9: In testamento, quod per aes et libram fit,
duae res aguntur, fa miliae mancipatio et nuncupatio testamenti ; e dopo viene
senz'altro a parlare della nuncupatio, come di quella, che veramente importa. CICERONE (vedasi)., De Orat.. La stessa
esposizione di Gaio, II, 102 e 103, dimostra, che il testamento per aes et
libram ebbe origine diversa da quello in - 511. l'intervento dei pontefici,
perchè in esso trattavasi di provvedere al mantenimento del culto; il
testamento invece per aes et libram viene ad essere considerato come una
esplicazione del ius commercii, ossia della facoltà del quirite di disporre
liberamente delle proprie cose, e quindi si attua mediante un atto di carattere
esclusivamente mercantile, quale era l'atto per aes et libram, lasciando poi al
ius pontificium di provvedere, quanto all'adempimento dei sacra. Mentre infine
nel testamento primitivo la volontà del testatore era sottoposta
all'approvazione del popolo; nel testamento invece per aes et libram, la
volontà del quirite appare indipendente e sovrana, e non è soggetta a qualsiasi
limitazione. Dopo ciò credo di poter conchiudere con fondamento, che anche il
testamento per aes et libram, quale compare nel ius quiritium, deve già essere
considerato come il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica, e
comeuna conseguenza logica di quel potere illimitato e senza confine, che
appartiene al quirite di disporre delle proprie cose, non solo per atto tra
vivi, ma anche per causa di morte. Non potrei quindi ammettere col Sumner
Maine, che questa forma di testamento importasse dapprima uno spoglio immediato
ed irrevocabile del testatore a favore del proprio erede: tanto più, che questa
congettura è in diretta opposizione con tutte le notizie, che a noi pervennero
del testamento romano, il quale appare essere stato fin dapprincipio una
attestazione solenne de eo quod quis
post mortem tuam fieri vult . calatis
comitiis, poichè egli non dice già, che il medesimo sia stato surrogato a
quello in calatis comitiis, ma dice invece:
accessit deinde tertium genus testamenti . CICERONE (vedasi), De leg., II, 19, 47. In
proposito Cuq pure osserva, che la mancipatio familiae, e quindi anche il
testamento per aes et libram più non aveva carattere religioso, 553, nota 2. È noto come il SUMNER Maine, Ancien droit, 191,
abbia coll'autorità del suo nome resa accetta a molti l'opinione, che il
testamento per aes et libram fosse di origine plebea, e che esso importasse
negli inizii una spogliazione immediata ed irre vocabile del testatore a favore
dei proprii eredi. Tale opinione non può essere ac colta; poichè il testamento
per aes et libram, anzichè essere proprio della plebe, fu invece una creazione
del ius quiritium, e quindi, al pari di ogni altro negozio qui ritario, rivestà
la forma dell'atto per aes et libram. Il motivo poi, per cui esso ri vestì la
forma di una mancipatio non sta in ciò, che esso siasi veramente riguar dato
come una vendita immediata, ma bensì nella circostanza, che esso imponeva
all'erede una quantità di obbligazioni, e fra le altre anche quella di
provvedere alla continuazione dei sacra e al pagamento dei legati. A questo
motivo si aggiunge una causa storica, ed è che il testamento per aes et libram
era un rimaneggia mento della primitiva mancipatio familiae cum fiducia, la
quale, essendo un atto di carattere puramente fiduciario, figurava come un vero
atto fra vivi. 512 397. Una volta poi che questo testamento entrò a far parte
del diritto quiritario, esso ebbe a ricevere uno svolgimento storico e Ingico
ad un tempo, non dissimile da quello delle altre istituzioni quiritarie, senza
che mai si perdessero i caratteri essenziali, con cui era penetrato nel diritto
civile di Roma. Così, ad esempio, il testamento era stato accolto nel diritto
quiri tario sotto l'apparenza di un negozio, che seguiva fra il testatore, qual
familiae venditor, e l'erede, quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca
di Giustiniano esso conserva questo carattere, come lo provano l'unità di
contesto, che è richiesta nel testamento, e la disposizione per cui quelli, che
dipendono dall'erede, non possono servire di testimoni nel medesimo. Cosi pure
il testamento, nel suo concetto primitivo, aveva per iscopo di perpetuare
nell'erede la personalità del testatore, donde la conseguenza, che
l'istituzione dell'erede venne ad essere considerata quale caput et fundamen tum testamenti; il qual
concetto continua pure a mantenersi fino alla più tarda giurisprudenza.
Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era stato un negozio di
carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la parola del testatore
costituiva legge, e noi troviamo, che in tutto il suo svolgimento posteriore
esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui giunge fino agli ultimi
confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso; come lo provano le
espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi l'istituzione di erede, la
diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione, e simili. Sopratutto poi
questo carattere nuncupativo del testamento si fece palese nel tema dei legati,
in quanto che nel diritto civile di Roma le varie specie di legato vennero ad
essere determinate dalle diverse espressioni, adoperate dal testatore . Infine
anche quel principio, secondo cui la volontà del testatore costituiva legge,
continud a mantenersi anche più tardi; dapprima infatti si cercò con mezzi in
diretti, quali sarebbero l'obbligo della diseredazione e la querela di Questo carattere del primitivo testamento per
aes et libram, per cui esso si presenta come un negozio fra il familiae emptor
ed il familiae venditor, è chiara. mente attestato da Gaio, Comm., e da Ulp.,
Fragm., XX, 3 a 6. Questo carattere poi non si perdette mai completamente, ed è
ancora ricordato da GIUSTINIANO, Instit., II, 10, $ 10. È nota la distinzione
fra i legati per vindicationem, per damnationem, sinendi modo, e per
praeceptionem: in essi la volontà del testatore appare come una vera legge, e
viene ad essere analizzata e studiata come la parola stessa del legislatore. V.
Gaio, II, 192 e 222; Ulp., Fragm., XXIV. 513 inofficioso testamento, di
impedire che il testatore potesse abusare della libertà, a lui consentita dal
primitivo diritto, e fu solo con Giustiniano che si introdusse una limitazione
diretta all'arbitrio del testatore, attribuendo a certe persone il diritto ad
una porzione legittima. 398. Intanto, anche nella materia testamentaria, è
facile scorgere come accanto al diritto già formato siavi sempre una parte, che
continua ad essere in via di formazione. Quindi anche qui, accanto al
testamento civile, si esplica un te stamento pretorio; ma anche questo appare
modellato a somiglianza del primo. Per verità nel testamento pretorio più non
comparisce l'atto per aes et libram, ma debbono però intervenire due nuovi
testimoni, i quali si ritengono corrispondere al libripens ed al fa miliae
emptor: donde la necessità di sette testimoni, che dånno au tenticità al
testamento, apponendovi col testatore il proprio sigillo. Allorchè poi il
testamento pretorio è riuscito anch'esso ad avere una efficacia giuridica,
sopravvengono anche in questa parte le co stituzioni imperiali, le quali
tendono a fondere insieme le due forme di testamento, finchè si giunge al
testamento giustinianeo, il quale è ancor esso un coordinamento delle forme
anteriori. Esso infatti, secondo l'attestazione di Giustiniano, viene ad essere
costituito da un triplice elemento, cioè: dall'unità di contesto e dalla
presenza dei testimoni, che proviene dal diritto civile: dal numero di sette
testimoni e dall'apposizione del loro sigillo, che è di origine pre toria: e
infine dalla sottoscrizione del testatore e dei testimonii, che deriva dalle
costituzioni imperiali. Ciò però non toglie, che anche Giustiniano, per
imitazione dell'antico, continui a ritenere il testa mento come un negozio che
interviene fra il testatore e l'erede, nel che abbiamo una prova della logica
tenace, che è propria della giu risprudenza romana, e del metodo da essa
costantemente seguito di venire coordinando nel medesimo istituto gli elementi,
che si ven nero successivamente formando .
L'istituzione della legittima ebbe presso i Romani una lunga
preparazione prima nello stesso diritto civile, poi nel diritto onorario, la
quale non terminò che collo stesso Giustiniano. A mio avviso, il motivo degli
espedienti, a cui si appiglid il diritto, prima di venire alla fissazione di
una legittima, deve appunto essere riposto in cid, che non volevasi porre una
limitazione diretta alla volontà del testatore. Quanto alla storia della
legittima, è a consultarsi il Boissonade, De la réserve héréditaire. Chap. IV,
Paris, 1888, 61–160. Justin., Instit.,
II, 10, $ S 3 e 10. G. C., Le origini
del diritto di Roma. 33 - 514 399. A compimento di questa materia non saranno
inopportune le seguenti osservazioni intorno allo svolgimento storico del
testamento: Il testamento in Roma è un atto, in cui il quirite si presenta col
suo doppio carattere di uomo di pace e di guerra ad un tempo, come lo dimostra
il dualismo fra il testamento civile ed il testamento militare, il quale, dopo
essere cominciato colla distinzione fra il te stamento in calatis comitiis ed
in procinctu, non solo si mantiene, ma si viene accentuando sempre più fino
all'epoca diGiustiniano; 2 ° Nella storia del testamento romano si presenta
questo fatto singolare, che si vede ricomparire più tardi sotto nome di fidecom
messo, una forma di testamento analoga a quel testamento fiduciario, che era
stato il testamento primitivo in uso presso la plebe. Cid significa, che,
accanto al testamento quiritario, dovette mantenersi nelle consuetudini la
primitiva forma di testamento, la quale non riesci ad ottenere il proprio
riconoscimento, che all'epoca di Au gusto. Questi poi, accordando efficacia al
fidecommesso, fini per ce dere alla forza della pubblica opinione, e alla
nécessità di ovviare agli abusi, a cui dava luogo l'inefficacia giuridica di un
testamento, in cui tutto dipendeva dalla buona fede di colui, a cui erasi affi
dato il testatore. Noi abbiamo così una prova, che alcune delle istituzioni,
che penetrarono più tardi nel diritto quiritario, come proprie del diritto
delle genti, già preesistevano nella comunanza plebea, salvo che non erano
riuscite a penetrare in quella rigida selezione, mediante cui erasi formato il
primitivo ius quiritium. Un altro carattere di questo svolgimento storico
consisterebbe in cid, che nel diritto civile romano non riescirono mai a
mescolarsi insieme la successione testamentaria e la successione legittima; ma
questa singolarità potrà essere più facilmente spiegata nel capitolo seguente,
dopo aver discorso di quel ius connubii, di cui era una conseguenza la
successione legittima, stata accolta dal diritto civile romano . Che il fedecommesso sia sempre vissuto, se
non nel diritto, almeno nelle con suetudini del popolo romano, lo dimostra il
fatto, che Augusto si indusse a dargli efficacia giuridica per l'abuso, che
taluni avevano fatto della fiducia in essi riposta. Appena accolto poi il
fedecommesso apparve così popolare e trovò così favorevole ac coglienza, che si
dovette ben presto istituire un pretore apposito (praetor fideicom missarius).
V. Justin., Instit., II, 23, ss 1 e 2.
Rimando l'indagine intorno alle cagioni storiche della massima nemo pro parte testatus pro parte intestatus
decedere potest, al seguente capitolo V, $ 5; perchè la questione non potrebbe
essere risolta senza aver prima cercato i rapporti, in cui stavano presso i
romani la successione testamentaria e la legittima. Il ius connubii nel
primitivo ius quiritium e l'ordinamento giuridico della famiglia romana.
Sguardo generale all'argomento. 400. Più volte fu osservato dagli autori, che
la famiglia romana nella realtà dei fatti si presenta con caratteri molto
diversi da quelli, che si potrebbero argomentare dall'ordinamento giuridico di
essa. Mentre, sotto il punto di vista giuridico, la famiglia costituisce come
un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio capo, nel quale si vengono ad
unificare le persone e le cose, che entrano a costituirla; nella realtà invece
essa då origine ad una comunione di tutte le utilità domestiche, in cui trovano
campo a svolgersi la pietà, l'os sequio e la reciproca confidenza. Mentre,
giuridicamente parlando, havvi un unico padrone nella casa: pater familias in domu do minium habet ;
nella realtà invece anche la moglie e i figli ap pariscono comproprietarii del
patrimonio paterno: vivo quoque parente,
quodammodo condomini existimantur . Mentre infine, in base al diritto, il padre
ha perfino il ius vitae ac necis sulle persone tutte, che da lui dipendono, nel
costume invece la famiglia è sopratutto governata dal sentimento profondo dei
doveri famigliari, dalla religione, dalla morale e dal civile costume . Di
fronte ad una opposizione di questa natura fra la famiglia quale appare nel diritto,
e quale si presenta nel fatto, non è certo
Ho già accennato a questo contrasto, fra la configurazione giuridica
della fa miglia e la realtà dei fatti, al nº 94, 119. Del resto gli autori
sembrano essere concordi in rilevare questa speciale caratteristica della
famiglia romana. Basterà citare fra gli altri il Savigny, Sistema del diritto
romano attuale, I, &$ 54 e 55; il JHERING, L'esprit du droit romain, trad.
Meulenaere, tomo II, SS 36 e 37, e specialmente da 190 a 214; il Gide, Étude
sur la condition privée de la femme, 2a ed., par Esmein, Paris 1885, cap. IV e
V; il Voigt, XII Tafeln, II, $ 92, 241 a 256; il MUIRHEAD, Histor, introd., 24
a 34; il Brixi, Matrimonio e di vorzio, Bologna, 1886, parte 1, passim, e
specialmente ai SS 21 e 22, 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano della
famiglia romana in genere, ricorderò lo SCHUPPER, La famiglia secondo il
diritto romano, vol. 1°, Padova 1876; e il CENERI, Lezioni su temi del ius
familiae, Bologna.; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano trasmesso
nel proprio diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti; ma piut
tosto deve credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di ritto,
abbiano cercato di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini,
con cui trovavasi intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione
giuridica, che fini per attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben
maggiore di quella, che esisteva real mente nel costume. Quindi il vero
problema, che presentasi al ri guardo, sta nel ricostruire il processo storico
e logico ad un tempo, che può aver condotto i romani ad accogliere un
ordinamento giu ridico della famiglia, il quale, a giudizio degli stessi
giureconsulti, si differenziava grandemente da quello di tutti gli altri
popoli. 401. A questo proposito vuolsi anzitutto premettere, che l'ordi namento
famigliare dovette certamente essere la parte del diritto primitivo, in cui
trovavansi a maggior distanza le istituzioni già elaborate, proprie delle genti
patrizie, e le istituzioni appena ab bozzate, proprie della plebe. Ciò è
provato da quel divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, che si
protrasse fin dopo la legislazione decemvirale; dalle lotte accanite, a cui
diede origine l'abolizione di questo divieto per opera della legge Canuleia; ed
anche dal disprezzo ostentato dai patrizii per le unioni della plebe, come pure
dal culto di una pudicizia propria delle matrone patrizie, a cui si contrappose
più tardi una pudicizia plebea. Così stando le cose, era anche naturale, che in
questa parte le istituzioni dei due ordini dovessero riuscire più difficilmente
a fondersi e a mescolarsi fra di loro. Da una parte eravi la famiglia
patriarcale delle genti patrizie, la quale, unificata sotto la patria potestà
del padre, e stretta insieme dal vincolo dell'agnazione, era sopratutto intesa
a perpetuare la stirpe ed il suo culto, costituiva una vera corporazione
religiosa, e conduceva alla comunione delle cose divine ed umane; mentre
dall'altra eravi la famiglia della plebe, la quale, costituita dall'unione
consensuale di un uomo e di una donna, fatta palese dalla loro coabitazione,
unita dai vincoli della affinità e della cognazione, aveva piuttosto per iscopo
la procreazione della prole, e di soppor tare insieme i pesi del matrimonio. Quanto all'organizzazione domestica delle
genti patrizie; quanto a quella della plebe, lo stesso lib. I, cap. 9, pagina
188. - 517 Dei due ordinamenti però, il più forte, il più elaborato, il più
coerente in tutte le sue parti, era certamente quello delle genti patrizie;
quindi non è meraviglia, se essé in questa parte siansi ri fiutate a qualsiasi
transazione ed accordo, e siano così riuscite a dare un'assoluta prevalenza
alle proprie istituzioni domestiche. La plebe quindi, quanto all'ordinamento
della famiglia, dovette cercare in qualche modo di imitare l'organizzazione
delle famiglie patrizie; il che dovette riuscire più agevole, allorchè la plebe
primitiva venne ad essere accresciuta da un largo contingente di famiglie di
origine latina, la cui organizzazione doveva già essere analoga a quella
propria delle genti patrizie. 402. Ne consegui pertanto, che l'ordinamento
domestico, adottato dalla comunanza quiritaria, fu quello della famiglia
patriarcale propria delle genti patrizie, e che anche in questa parte i veteres
iuris conditores seguirono quel medesimo processo, a cui si erano attenuti
nelle altre parti del diritto quiritario. Essi cioè trapianta rono nella città
quell'organizzazione domestica, che già preesisteva nel periodo gentilizio; la
isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale, in cui erasi formata, il quale
serviva a temperarne la rigi dezza; la riguardarono come organizzazione tipica
della famiglia quiritaria e presero a svolgerla logicamente in tutte le sue
parti. Siccome pertanto i concetti informatori della famiglia, nel periodo
gentilizio, si riducevano essenzialmente all'unificazione potente della
famiglia nella persona del proprio capo, ed alla tendenza della me desima a
perpetuarsi e a conservare il proprio patrimonio; cosi questi concetti vennero
in certo modo a costituire il capo saldo, da cui prese le mosse l'elaborazione
del diritto quiritario, e spinti a tutte le conseguenze, di cui potevano essere
capaci, condussero logi camente a quell'ordinamento della famiglia, che ci fu
trasmesso dal diritto civile romano. Fu in questa guisa, che ogni famiglia, nel
diritto primitivo di Roma, fini per costituire un gruppo di persone e di cose,
ordinato sotto il potere del proprio capo, e disgiunto per modo da ogni altro
gruppo, che una persona, uscendo da una famiglia, per entrare in un'altra,
cessava di avere qualsiasi rapporto giuridico colla prima. Così pure la forma
tipica del matrimonio quiritario dovette essere dapprima il solo matrimonio cum
manu; perchè solo la conventio in manu, collocando la moglie in posizione di
figlia, poteva con durre alla unificazione della famiglia nella persona del
proprio capo. 518 Accolta poi questa unificazione giuridica della famiglia
nella per sona del padre, ne derivava eziandio che il vincolo, il quale univa
imembri della famiglia, non poteva più essere quello della cogna zione,ma
doveva essere quello dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel
potere spettante al capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della
preponderanza dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia. Se poi
tutti i membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico,
appariscono unificati nel proprio capo, viene pure a conseguirne logicamente,
che tutto quello, che essi facciano od acquistino, debba in diritto ritenersi
fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio, come, nel
diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il padre, ed i
servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece ammessa,
quando trattasi di persone, che appartengano ad un gruppo diverso. Così pure
sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della famiglia,
che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio, venga ad uscire da un
gruppo per entrare in un altro, sotto il punto di vista giuri dico, cessi di
esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia, in cui entra,
quel posto, che le sarebbe spettato, quando fosse nata nel medesimo . 403. È
poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica della famiglia quiritaria,
la cui elaborazione già erasi cominciata nella città esclusivamente patrizia,
ebbe occasione di svolgersi, anche più rigidamente, mediante l'istituzione del
censo serviano. Con questo infatti la famiglia venne ad essere staccata affatto
da quel l'ambiente patriarcale, che in parte aveva ancora potuto mantenersi nel
periodo della città patrizia, in quanto che ogni cittadino venne ad essere
censito, come capo di famiglia, e dovette come tale denun ziare le persone e le
cose, che da lui dipendevano, e ne costituivano in certo modo il mancipium. Fu
quindi sopratutto sotto l'influenza del censo serviano, che i diritti del padre
sulla moglie, sui figli, sui servi vennero in certo modo ad essere modellati
sul concetto rozzo, ma preciso del mio e del tuo, il quale aveva anche il
vantaggio di essere, più di qualsiasi altro, suscettivo di una vera e propria
ela Il concetto di quest'unità potente
della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei primitivi romani. Si
può averne una prova nei passi di antichi autori, citati dal Voigt, Op. cit.,
II, $ 72, 6 e segg., a proposito della domus fami liaque, considerata come
un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. berazione giuridica. L'epoca serviana
pertanto dovette essere il mo mento storico, in cui la famiglia quiritaria
cominciò ad essere mo dellata esclusivamente sul concetto di proprietà,
cosicchè le forme dei negozii, proprie del commercium, poterono essere
applicate eziandio per acquistare i diritti derivanti dal connubium. Per tal
modo la logica del diritto quiritario potè essere applicata in tutto il suo
rigore anche all'ordinamento giuridico della famiglia, e venne così ad uscirne
quella struttura giuridica della medesima, in cui tutto sembra ridursi ad una
questione di mio e di tuo . Quando poi si promulgò la legislazione decemvirale,
questa con tinud l'opera già iniziata di estendere anche alla plebe l'ordina
mento giuridico della famiglia patriarcale. Essa infatti riconobbe la
coabitazione, non interrotta per un anno, come un mezzo, che poteva servire
alla plebe per attribuire alle proprie unioni il carattere qui ritario, e rese
comune eziandio alla plebe quel sistema di succes sione legittima, che era
proprio dell'organizzazione gentilizia. Infine allorchè la legge Canuleia tolse
il divieto del connubio fra i due or dini, tutto l'ordinamento giuridico della
famiglia patriarcale venne ad essere accolto nel ius proprium civium romanorum,
salve al cune poche modificazioni, che erano imposte dalle condizioni, in cui
si trovavano le infime classi della plebe. Fu da questo momento, che la
famiglia quiritaria venne a costi tuire una costruzione giuridica, organica e
coerente in tutte le sue parti, i cui caratteri non potrebbero essere compresi,
quando si di menticasse, che la medesima è un rudere dell'organizzazione genti
lizia, trapiantato nella città, e svolto logicamente in tutte le con seguenze,
di cui poteva essere capace. È certo che un processo di questa natura doveva
finire per at tribuire alla famiglia quiritaria un carattere rigido e pressochè
inumano, perchè escludeva dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di
sentimento e di affetto; ma il medesimo ebbe anche il Come il censo serviano abbia contribuito ad
isolare la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a far considerare ciascuna
famiglia, come un gruppo separato e distinto da tutte le altre, è dimostrato, e
in questo stesso libro, cap. 1 ° e 2°,
1º. Così, ad esempio, la legge decemvirale, pur cercando di estendere
anche alla plebe il matrimonio cum manu, fu tuttavia nella necessità di aprire
l'adito fin d'allora al matrimonio sine manu, accordando alla donna di
sottrarsi al vincolo della manus, mediante l'usurpatio trinoctii, ossia
l'interruzione della coabitazione per tre notti di seguito. vantaggio di isolare ciò, che havvi di
giuridico nella famiglia, da ogni elemento estraneo, e di sottoporre così
all'elaborazione giari dica una istituzione, in cui le considerazioni religiose
e morali avrebbero ad ogni istante impedito l'applicazionedella logica propria
del diritto (iuris ratio ). Si aggiunga, che questa apparenza, pressochè
inumana, non produsse in realtà alcun inconveniente, poichè essa punto non
impedi, che il costume temperasse il rigore della costru zione giuridica; che
il iudicium de moribus, dalle XII Tavole affi dato al pretore, impedisse al
padre la dilapidazione del patrimonio famigliare; che il censore, vindice della
morale, punisse in effetto il padre, che abusasse de' proprii poteri; e che
infine il diritto stesso intervenisse a moderare i poteri spettanti al capo di
famiglia, al lorchè, per il corrompersi dei costumi, cominciò a sentirsi il
pericolo, che egli potesse abusare dei medesimi. 404. Intanto una importante
conseguenza di questo svolgimento storico fu anche questa, che, siccome
nell'organizzazione gentilizia tutto l'ordinamento famigliare metteva capo al
concetto del con nubium, cosi anche tutto l'ordinamento giuridico della
famiglia qui ritaria sembra essere derivato da quest'unico concetto. Quel
connubium infatti, che nei rapporti fra le varie genti aveva significato quella
facoltà di imparentarsi, che di regola era circo scritta ai membri delle genti,
che appartenevano allo stesso nomen, trasportato nel diritto quiritario, venne
a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium, ossia nel diritto di
addivenire alle iustae nuptiae, riconosciute dai quiriti, e di dare così
origine ad una fa miglia, organizzata ex iure quiritium, con tutte le
conseguenze, che potevano derivarne. Quindi è, che anche la famiglia ex
iure Io parlo ancora qui di una famiglia
ex iure quiritium: ma, a scanso di equi voci, devo far notare, che siccome
l'organizzazione della famiglia romana non venne ad essere comune ai due ordini
del patriziato e della plebe, che dopo la legislazione decemvirale e la legge
Canaleia, così l'espressione, solitamente adoperata da Gaio e da Ulpiano
relativamente al ius familiae, non è più quella di ius quiritium,ma bensì
quella di ius proprium civium romanorum; poichè in quell'epoca il concetto del
quirite già si era allargato in quello del civis romanus, e per conseguenza il
ius quiritium si era in certo modo travasato nel ius proprium civium romanorum.
Di qui consegue che mentre, per quello che si riferisce al ius commercü, i
giurecon sulti parlano, ancora sempre del ius quiritium (Gaio, II, 40),
trattandosi invece della manus (Id., I, 108 ) e della patria potestas (ID., I,
55 ), parlano invece di un ius proprium civium romanorum. – quiritium, al pari
del dominium ex iure quiritium, venne a costituire una famiglia privilegiata,
che può giustamente chiamarsi propria civium romanorum, in quanto essa ha certi
caratteri, che la contraddistinguono da ogni altra: quali sono la manus
delmarito sulla moglie, la patria potestas del padre sui figli, l'agnazione,
che stringe i varii membri di essa e che viene a costituire il fonda mento
della tutela e della successione legittima. Del resto il concetto, che tutti i
diritti di famiglia discendono in sostanza dal connubium, ha eziandio un
fondamento nella realtà; perchè è col connubio che viene a costituirsi una
nuova famiglia, la quale poi si esplica nella figliuolanza: il qual concetto,
trovasi mi rabilmente espresso da Cicerone, allorchè scrive: prima societas in coniugio, proxima in
liberis; deinde una domus, communia omnia . Diqui derivò la conseguenza, che la
famiglia quiritaria, pur essendo il frutto di una lunga e lenta elaborazione
giuridica, fini in sostanza per modellarsi sulla realtà dei fatti, e per
cogliere, per cosi esprimerci, l'essenza giuridica di essi. Essa quindi costi
tuisce un tutto organico e coerente in tutte le sue parti, il cui svol. gimento
può appunto essere studiato, nei tre momenti essenziali, per cui passa
l'organismo famigliare, cioè: lº nella sua origine, ossia nella iustae nuptiae
e negli effetti giuridici che derivano da esse; 2 ° nel suo svolgimento, ossia
nei rapporti fra il capo di fami glia e le persone che ne dipendono; 3º e da
ultimo nel suo disciogliersi per la morte del proprio capo, scioglimento che dà
occasione alla successione ed alla tutela legittima, fondate sul vincolo
dell’agnazione. 405. Siccome poi in questa parte il diritto delle genti
patrizie riuscì a penetrare, pressochè intatto nel diritto civile romano, e ad
imporre a tutti i cittadini una organizzazione domestica, che era propria
soltanto di una minoranza, e che per giunta era una so pravvivenza di un
periodo anteriore di convivenza sociale; cosi, in tema di diritto famigliare,
venne a farsi manifesto,meglio che altrove, il conflitto fra le istituzioni,
che riuscirono a penetrare nel diritto quiritario, e quelle invece, che
continuarono a vivere nel costume. Questo conflitto, che può scorgersi in ogni
parte del diritto fami gliare, è sopratutto evidente nella lotta fra il
matrimonio cum manu Cic., De officiis,
I, 17, 54. 522 e quello sine manu; in quella fra l'agnazione e la cognazione; e
in quella fra la successione e tutela legittima e la successione e tutela
testamentaria; e più tardi anche nella lotta fra l'hereditas e la bonorum
possessio. Sono queste lotte, che danno interesse allo svolgimento storico
delle istituzioni famigliari, spiegano le modifica zioni lente e graduate che
si introdussero nelle medesime, e dimo strano come anche in questa parte, alla
parte del diritto già formato e consolidato, se ne contrapponga costantemente
un'altra, che tro vasi in via di formazione, e che tenta di temperare il rigore
delle primitive istituzioni quiritarie. Le iustae nuptiae e la storia primitiva
del matrimonio quiritario. 406. Anche nella parte, che si riferisce al
matrimonio romano, gli ultimi studii conducono al risultato, che il medesimo,
al pari della proprietà e del negozio giuridico, dovette incominciare da un
concetto tipico, che è quello del matrimonio cum manu. Non è già che in Roma
primitiva non potessero esistere altre forme più umili di matrimonio,
sopratutto nelle costumanze della plebe; ma il ius quiritium non si curò
dapprima delle medesime, e non riconobbe gli effetti quiritarii, che al
matrimonio cum manu. Che anzi vi sono forti indizii per supporre, che l'unica
forma solenne, per contrarre il matrimonio quiritario, stata riconosciuta
finchè duro la città esclusivamente patrizia, fu quella accompagnata dalla
cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale importava fra i coniugi la
comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in parte Questa è la conseguenza, a cui giunse fra gli
altri l'Esmein, nel suo scritto: La manus, la paternité et le divorce dans
l'ancien droit romain, nei Mélanges
d'histoire du droit , Paris. Una prova poi di quest'antico diritto l'abbiamo in
questo, che la moglie, in questo primo periodo, chiamavasi materfami lias, e
tale nell'antico diritto era soltanto la moglie, quae in manu 'convenerat. Sono
testuali in proposito le affermazioni di CICERONE, Top., il quale scrive: genus est enim wor; eius duae formae: una
matrumfamilias, earum quae in manum convenerunt, altera earum, quae tantummodo
uxores habentur . La cosa poi è confermata da Gellio, XVIII, 6, 9, ove dice: matremfamilias appellatam eam solam, quae in
maritimanu mancipioque erat , e da Nonio MARCELLO nel passo riportato dal
BRUNS, Fontes, 390. Sopratutto è degno di nota, che l'espres sione di
materfamilias è pur quella adoperata nella formola dell'adrogatio, conser vataci
dallo stesso Gellio, V, 19, 9. Cfr. in proposito KARLOWA, Formen den rö mischen
Ehe und manus, 71, e il Brini, Op. cit., 37. 523 comprovato dalla circostanza,
che le leggi regie, ogniqualvolta ac cennano al matrimonio, si riferiscono in
modo espresso al matri monio per confarreationem. Così, per esempio, Dionisio
attribuisce a Romolo di aver richiamato alla pudicizia le donne romane, rico
noscendo questa sola forma di matrimonio, e parla anche di una legge attribuita
a Numa, con cui sarebbesi stabilito, che il figlio, il quale fosse addivenuto
alle nozze confarreate col consenso del ge nitore, non potesse più essere
venduto dal medesimo. Tutto ciò significa, che le genti patrizie, fondatrici
della città, presero senz'altro le mosse da una forma di matrimonio, che pree •
sisteva nel periodo gentilizio, e che il loro matrimonio continud nella città a
celebrarsi con una certa solennità religiosa e patriarcale; come lo dimostrano
l'intervento del pontefice e del flamine di Giove, la cerimonia simbolica per
cui i coniugi gustano insieme il pane di farro, ed anche la presenza dei dieci
testimonii, in cui si vollero ravvisare i rappresentanti delle curie, in cui
dividevasi la tribù, a cui appartenevano gli sposi. Non pud poi esservi dubbio
intorno al l'altissimo concetto, che queste genti patrizie avevano del
matrimonio, il quale, oltre all'essere strettamente monogamo, importava
l'unione perpetua de' coniugi, e la comunione fra essi delle cose divine ed
umane (divini et humani iuris comunicatio). Che anzi, a questo proposito,
sembra pure essere probabile, che questa forma primitiva di matrimonio non
potesse dapprima dar luogo al divortium, ma soltanto al repudium, il quale
doveva essere accompagnato dalla cerimonia religiosa della diffarreatio, e
poteva solo aver luogo nei casi, che erano determinati dal costume e dalla
legge. Cosi pure è a questo primitivo concetto del matrimonio presso le genti
pa trizie, che deve rannodarsi quel disprezzo per la donna che passi a seconde
nozze, di cui trovansi ancora le traccie nel diritto poste riore di Roma (3 ).
Ad ogni modo egli è certo, che questa forma di matrimonio, in Dion., II, 25 e 27. V. sopra lib. II, nº 268,
329 Cid sarebbe attestato da PLUTARCO, nella Vita di Romolo, 22, in un passo,
che è riportato dal Bruns, Fontes, 6. Una prova poi, che il matrimonio per
confar reationem doveva durare tutta la vita, si rinvien lle attestazioni di
Gellio, X, 15, 23, e di Festo, vº Flammeo, dalle quali risulta, che alla moglie
del flamine di Giove, le cui nuptiae farreatae erano un ricordo del matrimonio
primitivo, non era consentito il divorzio. Cfr. Esmein. È a consultarsi in proposito il dotto lavoro
del DELVECCHIO, Le seconde noeze del coniuge superstite, Firenze 1885, 12 a 15.
524 cui apparisce quel carattere eminentemente religioso, che è proprio delle
genti patrizie, non poteva appartenere alla plebe. Per questa il matrimonio
dovette avere più un'esistenza di fatto, che una con. sacrazione di diritto, e
consistere in una unione fondata sul reci proco consenso, fatta manifesta
mediante la coabitazione dei coniugi, piuttosto che con cerimonie di carattere
giuridico e religioso ad un tempo. 407. Era frammezzo a queste due istituzioni,
di carattere compiu tamente diverso, di cui una era forse importata dall'antico
Oriente, mentre l'altra si ispirava alle tendenze spontanee dell'umana natura,
che dovette formarsi un diritto comune alle due classi. Questo fu il problema,
che dovette risolvere la legislazione decemvirale, e la cui difficoltà era
tanto più grande, in quanto è probabile, che le classi più infime della plebe
stentassero a comprendere un matri monio, come quello cum manu, che costituiva
la moglie in condi zione di figlia del proprio marito. Questo potere del
marito, il quale, corretto dal patriarcale costume, conduceva all'unificazione
della fa miglia patrizia, poteva invece cambiarsi in un dispotismo pericoloso,
allorchè fosse esteso a classi sociali, che non vi fossero preparate da una
lunga educazione civile. È questa speciale condizione di cose, che spiega i
singolari tem peramenti, che a questo proposito furono adottati dalla legislazione
decemvirale. In questa infatti i decemviri, mentre da una parte si studiano di
fornire alla plebe un facile mezzo per addivenire allo acquisto della manus, e
di dar cosi carattere giuridico al proprio matrimonio, collo stabilire che
basti perciò la coabitazione di un anno (usus), dall'altra si trovano nella
necessità di aprire l'adito ad un matrimonio sine manu, accordando alla donna
il mezzo di sottrarsi alla manus, coll'interrompere la coabitazione per tre
notti di seguito (trinoctium ). 408. Colla legislazione decemvirale non sembra
essersi andato più oltre nella elaborazione di un diritto comune ai due ordini;
poiché In base all'attestazione di Gaio,
l'usus, qual mezzo di acquisto della manus, non fu che un'applicazione della
teoria dell'usucapione: la donna poi, che avesse voluto sottrarvisi, doveva
ogni anno interrompere la coabitazione per tre notti di seguito. Questa parte
della legge sarebbe dal Voigt, XII Tafeln, I, 708, assegnata al n° 1', tav. IV,
e ricostrutta nei seguenti termini: si
qua nollet in manu mariti convenire, quotannis trinoctio usum interficito . sussisteva ancora il divieto dei connubii fra
il patriziato e la plebe. Quando invece il divieto fu tolto dalla legge
Canuleia, si dovette sentire la necessità di introdurre un modo essenzialmente
quiritario per l'acquisto della manus, che poteva essere comune al patriziato
ed alla plebe. Fu allora, che si ebbe ricorso a quell'atto per aes et libram,
che era la forma solenne propria del negozio quiritario, e si diede cosi
origine alla coemptio, quale modo di acquistare la manus. Non potrei quindi
ammettere l'opinione, che considera la coemptio, come la forma essenzialmente
plebea del matrimonio cum manu, e neppur quella, che ravvisa nella medesima una
compra della moglie per parte del marito. La coemptio in Roma non fu che
un'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et
libram, e venne cosi ad essere un espediente giuridico per esprimere l'acquisto
di quel potere del marito sulla moglie, che nel ius quiritium era indicato col
vocabolo generico di manus . La
questione della precedenza dei varii modi riconosciuti dal diritto romano per
l'acquisto della manus fu assai discussa in questi ultimi tempi. Secondo il Mac
LENNAN, Primitive marriage, 2me édit., 1876, 71,avrebbe preceduto l'usus,
poscia sarebbesi introdotta la coemptio, e da ultimo sarebbe venuta la
confarreatio. Anche secondo il BERNHÖFT, Staat und Recht der römischen
Konigszeit, 1882, 187, l'usus sarebbe più antico della coemptio: mentre invece
quest'ultima, secondo il Karlowa, Formen der römischen Ehe und manus, avrebbe
avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la questione conviene bene
intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di contrarre il matrimonio presso
le primitive genti italiche, e in allora non ripugna, che anche presso le
medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia comprata; o si vuol invece
determinare l'ordine, in cui queste varie forme penetrarono nel diritto romano,
e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del primitivo diritto romano
possano ancora richiamare uno stato ante riore di cose, si può però affermare
con certezza, che le varie forme di matrimonio, adottate dal diritto romano,
sono già il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica. Quanto
all'ordine cronologico, con cui queste varie forme furono accolte, esso non
potè essere che il seguente, cioè dapprima fa accolta nel ius proprium civium
romanorum la confarreatio dei patres o patricii; poscia fu riconosciuto l'usus
di un anno per dar carattere giuridico alle unioni della plebe; da ultimo,
quando si comunicarono i connubii, comparve anche la coemptio, la quale fu
comune ai due ordini, e come tale finì per avere la prevalenza su tutti gli
altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN.
Non posso quindi accogliere l'opinione sostenuta da molti autori, che la
coemptio fosse di origine plebea, e che essa implicasse la compra della moglie
per parte del marito. Cfr. SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano; Voigt,
XII, Tafeln, II, $ 159; BRINI, Matrimonio e divorzio, 50. La coemptio non fu
invece, che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram, e perciò deve
ritenersi come una creazione del diritto quiritario, nell'intento di attri 526
Essa quindi, al pari di ogni atto quiritario, componevasi di due parti, cioè:
lº dell'atto per aes et libram, compiuto colle solite formalità ed inteso ad
esprimere l'acquisto della manus per parte del marito; 20 e della nuncupatio
solenne, le cui parole non ci sono perve nute, ma la cui sostanza, secondo
Servio e Boezio, consisteva in una reciproca interrogazione, con cui lo sposo
interrogava la sposa se volesse assumere a suo riguardo la qualità di madre di
famiglia, e questa interrogava lo sposo se volesse assumere quella di padre di
famiglia. Ciò intanto ci spiega, come la coemptio, sotto un aspetto, abbia
potuto essere descritta da Gaio come una compra fittizia della moglie per parte
del marito, e sotto un altro invece colla sua stessa denominazione sembri
indicare il reciproco consenso degli sposi nel riconoscersi rispettivamente la
qualità di padre e di madre di famiglia (invicem se coemebant). È poi
probabile, che, come il vocabolo di coemptio è certamente modellato su quello
di confarreatio, cosi anche le parole solenni, che accompagnavano la coemptio,
fossero una imitazione di quelle, che erano adoperate nella confarreatio,
esclusi però i riti religiosi, che accompagnavano quest'ultima. 409. Questo
svolgimento storico deimodi, riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre
il matrimonio cum manu, lascia abbastanza buire la manus al marito, e di
attribuire carattere giuridico al matrimonio romano. In esso quindi è già
scomparsa qualsiasi idea di vendita della figlia, sebbene non sia improbabile,
che il vocabolo possa ancora ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie
fosse effettivamente comprata. Cfr. MUIRHEAD,l'appendice sulla coemptio in fine
al volume, nota B, 441. Che l'essenza della coemptio fosse per dir così
simboleggiata in un reciproco acquisto, che facevano i due sposi, non è solo
comprovato dal vocabolo, ma è atte stato da Servio, in Aen., IV, 103 (Bruns,
pag.402), allorchè dice: Mulier atque
vir inter se quasi coemptionem faciunt; da Nonio MARCELLO, vº nubentes (Bruns);
da Isidoro, Orig., $ 24, 26 (Bruns, 407); e sopratutto da Boazio nei commenti
alla Top. di Cic., dove, appoggiandosi all'autorità di Ulpiano, dice che il
marito e la moglie sese in coemendo
invicem interrogabant (BRUNS, 399). Solo
farebbe eccezione Gaio, I, 113, il quale dice, che nell'atto per aes et
libram is emit mulierem, cuius in manum
convenit ; ma la cosa si comprende, quando si tenga conto che la coemptio
componevasi di due parti, e quindi se nel l'atto per aes et libram doveva certo
figurare come compratore il marito, che acqui stava la manus, nulla impedisce,
che nella nuncupatio gli sposi apparissero uguali, e reciprocamente si
interrogassero se volessero assumere rispettivamente fra di loro la qualità di
pater e di materfamilias, V. in senso contrario BRINI, Op. cit., 51. 527
scorgere il contributo diverso, che vi arrecarono il patriziato e la plebe. Non
vi ha dubbio anzitutto, che la confarreatio dovette essere di origine patrizia,
come lo dimostrano il suo carattere eminente mente religioso, e l'origine di
essa, che rimonta ad un'epoca ante riore all'ammessione della plebe alla
cittadinanza romana. Che anzi, egli è probabile, che, anche dopo, la
confarreatio abbia continuato ad essere usata di preferenza dalle genti
originariamente patrizie, come lo dimostra il fatto, che essa continud a
sussistere anche sotto gli imperatori, sopratutto per considerazioni di
carattere religioso. Noi sappiamo infatti, che i figli nati da tale matrimonio
conserva rono più tardi certi privilegii religiosi, che convengono assai bene
ai discendenti dell'antico patriziato. Essi soli infatti erano ammessi a certi
sacerdozii; soli potevano figurare in certe cerimonie reli giose, ed erano
anche indicati coi nomi speciali di patrimi e di matrimi. Così pure il
matrimonio per confarreationem era il solo, a cui potessero addivenire i flamini
di Giove, di Marte e di Qui rino, i quali negli inizii dovevano appartenere
all'ordine patrizio. Per contro può affermarsi con una certa probabilità, che
l'usus, ossia la coabitazione non interrotta per un anno, qual mezzo per fare
acquistare la manus, non potè essere che un mezzo per tras formare i matrimonii
di fatto, proprii della plebe, in matrimonii di diritto, che come tali erano
produttivi della manus. Ciò spiega come l'usus, quanto aimatrimonii, abbia
potuto produrre lo stesso effetto dell'usucapio, quanto all'acquisto della
proprietà ex iure quiritium, e come i decemviri abbiano applicato la stessa
regola in argomenti, che pur erano cosi compiutamente diversi . Da ultimo la
coemptio vuol essere considerata come il modo di contrarre il matrimonio cum
manu, essenzialmente proprio dei quiriti, e come tale dovette essere introdotto,
quando già erano permessi i connubii fra patrizii e plebei, cosicchè essa, fin
dalle sue origini, dovette essere comune agli uni ed agli altri. Noi
troviamo Gaio. Nel passo già citato di
Boezio, in cui egli parla delle varie forme di matrimonio, fondandosi
sull'autorità di Ulpiano (Bruns), si dice espressamente che confarreatio solis pontificibus conveniebat .
Cfr. Esmein, Op. cit., 7, nota 1. La
ragione fu questa, che tanto l'usucapio, applicata alle cose, quanto l'usus,
qual mezzo per acquistare la manus, si proposero il medesimo'intento, quello
cioè di cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto. 528
infatti, che la coemptio viene ad essere la forma dimatrimonio, che incontra
maggior favore presso le varie classi dei cittadini; cosicchè, nei rapporti di
famiglia, essa sembra compiere quella funzione stessa, che compie la mancipatio
nel trasferimento della proprietà quiritaria. Quindi al modo stesso, che
accanto alla mancipatio effettiva abbiamo visto svolgersi la mancipatio cum
fiducia, così accanto alla coemptio effettiva, che sottoponeva la moglie alla
manus del marito, vediamo pure svolgersi quel singolare istituto della coemptio
fiduciaria, la quale serve come espediente per sottrarre la donna alla tutela
degli agnati, e per metterla in condizione di poter fare testamento. Intanto
perd la coemptio dovette avere per effetto di attribuire un carattere
essenzialmente civile almatrimonio, che nella confar reatio aveva un carattere
eminentemente religioso. Quindi viene ad essere probabile, che colla
introduzione di essa anche il matrimonio cum manu abbia cominciato ad essere
suscettivo del divorzio, il che non sarebbe consentaneo col carattere religioso
della confarreatio. Nella coemptio infatti la manus viene ad essere l'effetto
di un con tratto, e perciò può essere risolta nel modo stesso, in cui ebbe ad
essere acquistata, cioè mediante la remancipatio . 410. Intanto il carattere e
l'origine diversa dei varii modi per contrarre il matrimonio cum manu, pud
anche spiegare le sorti GAIO. GAIO. Se siammette che il matrimonio
primitivo per confarreatio nem non consentisse il divorzio, è un grave problema
quello di spiegare, come il mede simo abbia potuto essere introdotto anche nel
matrimonio cum manu, e persino essere esteso al matrimonio per confarreationem,
il quale doveva però ancor sempre essere accompagnato dalla diffarreatio. V.
Festus, pº diffarreatio; Bruns. Alcuni ritengono, che il divortium abbia
cominciato a svolgersi nel matrimonio sine manu, e poi da questo siasi anche
esteso a quello cum manu (Cfr. Esmein, Op. cit., 23 e segg.); ma non parmi
probabile un'imitazione di questa natura. Piuttosto il cambiamento venne a
farsi, allorchè, accanto al matrimonio religioso per confar reationem, venne a
svolgersi il matrimonio civile per coemptionem. Fa in quella occasione, che al
rito religioso sottentrò l'idea del contratto, la quale rese applica bile il
divortium, anche al matrimonio cum manu. L'applicabilità poi di questo
divortium anche al matrimonio cum manu, e precisamente a quello contratto per
coemptionem, parmi che non possa essere posta in dubbio di fronte al passo di
Gaio,. I, 137, ove, paragonando la moglie ad una figlia di famiglia, dopo aver
detto che la figlia non può costringere il padre ad emanciparla, aggiunge
quanto alla moglie: haec autem (virum ),
repudio misso, proinde compellere potest, atque si ei nun quam nupta fuisset .
529 diyerse, che ciascuno di essi ebbe nell'ulteriore svolgimento del diritto
civile romano. Noi sappiamo infatti, che l'usus, fra i modi di acquistare la
manus, fu il primo a scomparire, poichè secondo Gaio hoc ius partim legibus sublatum est, partim
ipsa desuetudine obliteratum est. Esso infatti era stato un espediente per dar
carattere quiritario ai matrimonii della plebe, che prima non l'avevano, e
quindi si com prende che le leggi e il costume tendessero ad abolirlo,
allorchè, mediante la coemptio, anche la plebe venne ad avere un mezzo di retto
per acquistare la manus. La confarreatio invece, colla introduzione della coemptio,
venne ad essere più circoscritta nel proprio uso, ma intanto fu quella, che
ebbe a perdurare più lungamente; provenisse ciò dalla tenacità con servatrice,
che era propria delle genti patrizie, o da considerazioni di carattere
religioso. Questo è certo, che Gaio parla della confar reatio, come di
cerimonia che era in uso ancora ai suoi tempi; poichè i flamini maggiori e il
rex sacrorum dovevano esser nati da nozze confarreate, e non potevano contrarre
altrimenti il proprio matrimonio. Noi sappiamo tuttavia da Tacito, che il
mantenere questa antica tradizione ebbe talvolta a dar luogo a difficoltà, per
trovare le persone, che potessero essere elevate alla dignità di fla mini, il
che sarebbe appunto accaduto al tempo di Tiberio, e che le matrone ottennero in
quell'occasione dal senato, che il matri monio per confarreationem non dovesse
più produrre gli effetti di un tempo, sopratutto quanto ai diritti del marito
sui beni della moglie Infine la coemptio
diventò senz'alcun dubbio il modo più frequente per contrarre il matrimonio cum
manu, e non scomparve che cessare di questa forma di matrimonio; cessazione,
che venne ope randosi verso il finire dell'epoca repubblicana, più nel costume
che per opera di legge, stante la prevalenza sempre maggiore, che venne
acquistando il matrimonio sine manu (3 ).
Gaio, I, 111. GAIO, I, 36;
Tacito, Ann. IV, 6. (3 ) La laudatio Thuriae scritta dal marito, Q. Lucrezio
Vespillone, console nel 735 di Roma, riportata dal BRUNS, dimostra che verso il
finire della Repubblica il matrimonio sine manu già cominciava a praticarsi
anche nelle grandi famiglie. Tuttavia il fare un elogio speciale di Turia per
aver fatto a meno della conventio in manu, a differenza della sua sorella, e
per avere, malgrado di ciò, lasciato il suo patrimonio all'amministrazione del
marito, dimostra che un fatto (Un autore recente, il Bernhöft, ebbe a
considerare l'esten dersi e il prevalere del matrimonio sine manu, come un
segno di decadenza del primitivo costume di Roma . A me parrebbe invece, che
questa importantissima trasformazione dell'ordinamento giuridico della famiglia
romana, debba essere considerata come una conse guenza necessaria dello
svolgimento della vita cittadina, che veniva a poco a poco cancellando le
vestigia dell'anteriore organizzazione patriarcale. È ovvio infatti lo
scorgere, che la manus, mentre era una istituzione confacente
all'organizzazione gentilizia, perchè da una parte serviva ad unificare la
famiglia, e dall'altra era temperata dal patriarcale costume, trapiantata
invece nella città, ove le famiglie vivevano isolate le une dalle altre, poteva
essere sorgente di gravi pericoli, sopratutto nelle infime classi della plebe,
poichè lasciava la moglie priva di qualsiasi difesa, contro il potere dispotico
del proprio marito. Fu questo il motivo, per cui i decemviri, i quali pur
miravano, come si è veduto, ad estendere a tutte le classi dei cittadini l'or.
ganizzazione patriarcale della famiglia patrizia, si trovarono tuttavia nella
necessità di lasciar l'adito aperto ad un matrimonio sine manu, dando alle
donne il singolare diritto di interrompere l'usus, collo assentarsi dalla casa
maritale per tre notti di seguito. Fu poi una conseguenza di questo
provvedimento, che in ogni tempo in Roma, accanto al vero matrimonio ex iure
quiritium, venne ad esistere di fatto un matrimonio sine manu, che non
producera le conse guenze rigide del matrimonio cum manu. Il diritto civile non
si preoccupo dapprima di questa forma più umile di matrimonio, e quindi esso si
limitò a svolgersi come un matrimonio di fatto, di fronte al vero matrimonio ex
iure quiritium, che era il matri monio cum manu. Giunse però un tempo, in cui
lo svolgersi della vita cittadina finì per rendere grave il vincolo della
manus, anche per le donne, che appartenevano alle classi sociali più elevate, e
fu in allora che il matrimonio sine manu cominciò ad entrare nella pratica
comune, e dovette essere preso in considerazione anche dal diritto proprio dei
quiriti. Tutto ciò però accadde lentamente e gra datamente, per modo che lo
svolgimento del matrimonio sinemanu, simile costituiva ancora a quei tempi una
eccezione degna di nota nelle famiglie di condizione elevata. Cfr. De-Rossi,
L'elogio funebre di Turia, negli Studii
e do cumenti di storia e diritto . Roma, BERNHöft, Voigt, XII Tafeln, di fronte
a quello cum manu, presenta una singolare analogia collo svolgersi della
proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex iure quiritium. Quindi al modo
stesso, che la proprietà in bonis:i venne a poco a poco modellando su quella ex
iure quiritium, così anche il matrimonio sine manu venne delineandosi
lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo che esso fini per
assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico, che ispirava il
primitivo matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio cum manu.
Quindi è, che nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80 lennità
dirette all'acquisto della manus, ma si mantiene la neces sità della deductio
della sposa in domum mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la casa del
padre per entrare in quella del marito, la quale continua sempre a considerarsi
come il domicilium matrimonii. Così pure anche nel matrimonio sinemanu si
trasfonde il concetto altissimo del matrimonio cum manu, come lo dimostrano la
maritalis affectio, e la perpetua vitae consuetudo, di cui parlano i
giureconsulti classici nella definizione del matrimonio, al lorchè era già
scomparsa la manus. 412. Cid pero non impedisce, che dalla sostituzione
delmatrimonio sine manu a quello cum manu, siano derivati degli importantissimi
effetti nell'ordinamento giuridico della famiglia romana, che possono essere
cosi riassunti: lº Accanto al concetto della materfamilias, che era in certo
modo assorbita nella personalità del capo di famiglia, viene a deli nearsi la
figura dell'uxor, la quale, senza essere uguale al marito (vir ), comincia però
già ad avere una propria personalità giuridica, distinta da quella del marito; La
pratica del divorzio viene ad essere più facile, poichè, più non essendovi
l'acquisto della manus, più non si dovette richie Credo che questa analogia fra il processo
seguito dai Romani nello svolgere il diritto di famiglia e quello di proprietà
non apparirà come puramente fantastica, quando si tenga conto della
correlazione evidente fra il concetto dei matrimonii cum manu e sine manu coi
concetti del mancipium e del nec mancipium, e più tardi con quelli del dominium
ex iure quiritium e di quello in bonis; fra la fun zione, che compie la
mancipatio, in tema di proprietà, e quella che compie la coemptio, in tema
dimatrimonio; tra la mancipatio cum fiducia e la coemptio fidu ciae causa; e
infine la correlazione anche più singolare fra l'usus auctoritas, appli cato
all'acquisto dei fondi, e l'usus, applicato all'acquisto della manus sulla
moglie. 532 - dere per il divorzio, nè la diffarreatio, nè la remancipatio, ma
poté bastare il reciproco consenso del marito e della moglie; Sopratutto poi
ebbe ad avverarsi un grave cambiamento nella posizione economica della moglie
di fronte al marito. Senza affermare infatti, che l'istituto della dote sia
veramente sorto col matrimonio sine manu, questo è certo, che la dote, qual
concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio, non potè svolgersi che
col matrimonio sine manu; poichè un simile concorso non avrebbe potuto
avverarsi di fronte a quell'unificazione potente, che veniva ad essere
l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la dote, anche col
matrimonio sine manu, abbia cominciato dal di ventare proprietà del marito, e
siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o i suoi eredi fossero
tenuti a restituirla. Non potrei invece ammettere, che il matrimonio sine manu
debba considerarsi come una causa della decadenza della corruzione del costume
romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine manu, quale ebbe ad
esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale più elevato dello
stesso matrimonio cum manu. In questo infatti l'unità della famiglia veniva ad
essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la comunione delle
cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero accordo e della con
fidenza reciproca. Non fu quindi il matrimonio sine manu, che O per Sonovi autori, che vorrebbero rannodare
l'origine dell'istituto della dote al matrimonio sine manu, V. fra gli altri
PADELLETT, e Cogliolo, Saggi di evoluzione, 33. A questo proposito conviene
intenderci. O per dote si intende cid che la moglie o il padre di lei consegna
al marito in occa sione del matrimonio, e la dote in questo senso dovette
rimontare anche all'epoca del matrimonio cum manu, come lo dimostra l'esistenza
di un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae dotis. Voigt, XII Tafeln,
II, 486. dote si intende invece l'istituto già svolto, per modo che essa venga
ad apparire come il concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio ed
attribuisca alla moglie una personalità distinta da quella del marito, e questa
non potè svolgersi col ma trimonio sine manu, perchè in quello cum manu lo
svolgimento dell'istituto era impedito dall'unificazione potente della famiglia
e del suo patrimonio nella persona del proprio capo. Intanto ciò spiega la
necessità di apposite stipulazioni, per la resti tuzione della dote, intorno
alle quali è da vedersi GELLIO, il quale dice, che la opportunità di esse
avrebbe cominciato a sentirsi dopo il divorzio di Spurio Carvilio Ruga, seguito
nel 523 dalla fondazione di Roma. Cfr.
in proposito quanto scrive il Labbé nell'articolo intitolato: Du mariage romain
et de la manus, nella Nouvelle Revue
historique corruppe il costume, ma fu
piuttosto il costume che abbassò l'altis. simo concetto del matrimonio. Il
pater familias e i poteri al medesimo spettanti. 413. Fermo il concetto, che in
Roma primitiva la famiglia, sotto il punto di vista giuridico, costituisce un
tutto organico, separato da ogni altro ed ordinato sotto il potere del proprio
capo, sarà facile il comprendere come la logica quiritaria non scorgesse nella
mede sima che un capo, il quale comanda, ed un complesso di persone, le quali
debbono obbedire. Da una parte havvi il pater familias, che è l'unica
personalità giuridica riconosciuta dal primitivo ius qui ritium: dall'altra
sonvi le persone, che dipendono da esso, cioè la moglie, i figli ed i servi,
che in antico dovettero tutte essere sot toposte alla medesima manus, e furono
perfino indicate col vocabolo generico e comprensivo di familia od anche
dimancipium. Il padre è quegli, che è padrone nella casa, che figura nel censo
colle persone e cose che da lui dipendono, che risponde di tutti i suoi
dipendenti di fronte alla comunanza quiritaria; perciò i diritti, che a lui
spet tano sulle persone componenti la famiglia, sono modellati in tutto e per
tutto su quelli, che a lui appartengono sul patrimonio della medesima. Ciò
tuttavia non deve essere considerato come un indizio, che i romani
confondessero il potere sulle persone col potere sulle cose; ma soltanto che
essi, nel modellare la costruzione giuridica della famiglia, si collocarono al
punto di vista del mio e del tuo, e una volta accolto il medesimo lo spinsero a
tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Intanto se nella concezione
primitiva era unico il potere spettante al capo di famiglia sulla moglie, sui
figli e sui servi, viene pure ad essere probabile, che questo potere sia stato
indicato con un unico vocabolo, il quale con tutta verosimiglianza dovette
essere quello di manus, la quale designava in genere la potestà giuridica spet
tante al quirite. Fu poi nell'elaborazione ulteriore, che in questo L'autore, che ha recato incontestabilmente il
maggior numero di prove per dimostrare, che il vocabolo di manus indicò in
genere la potestà giuridica, spettante al capo di famiglia, è certamente il
Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80. Cid però non toglie che il vocabolo di manus,
pur indicando in senso largo la potestà spettante anche sulle cose, designasse
in modo più specifico il potere sulle persone, e fosse così pres sochè un
sinonimo di potestas. 534 concetto sintetico e comprensivo cominciò ad apparire
una prima distinzione, per cui mentre il vocabolo di manus, pur conservando in
qualche caso la sua significazione generica, fini per indicare più specialmente
il potere del marito sulla moglie, quello invece di po testas indico di
preferenza il potere del padre sui figli e sui servi, e venne cosi a
distinguersi in patria ed in dominica potestas. Quanto al vocabolo mancipium,
esso non scomparve, ma fini per restringersi ad indicare il complesso delle
cose spettanti al capo di famiglia, e qualche volta servi ad indicare il
complesso dei servi. Infine, siccome anche le persone libere potevano essere
date a mancipio, ed essere poste così transitoriamente in condizione di servitù;
cosi dovette pure aggiungersi la categoria giuridica delle persone quae in mancipii causa sunt e che come tali servo rum loco habentur. Allorchè poi questi
aspetti diversi di un unico potere si furono differenziati gli uni dagli altri,
ciascuno potè obbedire al proprio concetto ispiratore, e ricevere cosi uno
svolgimento storico compiutamente diverso. Di questi poteri, quello, che per il
primo ebbe a sostenere un rude conflitto colle esigenze della vita cittadina,
fu la manus, ossia il potere del marito sulla moglie. Sopravvivenza
dell'organizzazione patriarcale, la manus appariva disadatta nella città, ove
non era più temperata dal patriarcale costume, e convertivasi in un potere
dispotico del marito sulla moglie. Se a ciò si aggiunga, che le donne, le quali
avevano da sottomettersi alla manus, dovevano prima consentirvi, e avevano per
giunta la protezione dei proprii genitori, sarà facile il comprendere come la
conventio in manu, dopo essere stata la regola, sia divenuta l'eccezione,
finchè fini per cadere com piutamente in disuso. Con ciò non deve già
intendersi, che il marito perdesse ogni autorità sulla propria moglie, ma solo
che la moglie non fu più assorbita nella personalità del capo di famiglia,
ma Secondo Gaio, I, 52 e 55, il vocabolo
di potestas comprenderebbe tanto il potere sui servi, quanto quello sui figli;
quello di manus, invece il potere del ma rito sulla moglie (I, 109). Quando
esso viene poi a parlare delle personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e segg.,
comincia dal premettere, che anche i figli e la moglie mancipari possunt nel
modo stesso, in cui lo possono i servi: il che dimostre rebbe, che il vocabolo
di mancipium,nella sua significazione più larga, comprendeva eziandio tutte le
persone soggette alla potestà del padre. Quanto alle persone, quae in causa
mancipii sunt, vedi lo stesso Gaio,
acquistò una certa indipendenza dal proprio marito, sopratutto sotto
l'aspetto economico. 415. Così invece non accadde della patria potestas. Questa
non ha più bisogno di essere volontariamente accettata, come la manus, ma deve
invece essere necessariamente subita, e sotto un certo aspetto può anche
apparire come una conseguenza del fatto della nascita. Mancò quindi il
principale motivo, che contribuì alla abo lizione della manus del marito sulla
moglie: donde la conseguenza, che la patria potestà potè più a lungo conservare
nel diritto romano le sue fattezze primitive, e fu quindi un'istituzione, in
cui la logica quiritaria ebbe campo a spiegarsi in tutto il suo rigore. Il
padre dal punto di vista giuridico si appropria tutti gli acquisti, che siano
fatti dai figli; pud vendere ed anche uccidere i proprii figli; può
rivendicarli, se gli siano sottratti; può dargli a mancipio, se abbiano recato
un danno, che egli non voglia risarcire. È però a notarsi, che anche in questa
parte la costruzione giuridica non risponde sempre alla realtà dei fatti;
poichè in sostanza i figli si ritengono compro prietarii del padre, nè mostrano
di lagnarsi di un potere, a cui il costume reca gli opportuni temperamenti, e
che loro non impedisce di aspirare e di giungere agli onori e alle magistrature
della città. Anche qui fu il corrompersi dei costumi, che fece sentire il peri
colo di un potere illimitato e senza confine, e fu allora, che il di ritto
civile romano, pur serbando integro il concetto della patria potestà, venne
attribuendo forma e carattere giuridico a quei tem peramenti della medesima,
che prima esistevano soltanto nel costume. Fu in questa guisa, che il diritto
romano, senza derogare alla supe riorità del padre, fini per riconoscere una
certa personalità giuridica anche al figlio, il quale venne così ad avere un
proprio caput, e un proprio status nel seno della famiglia, ed introdusse
eziandio dei temperamenti, sia quanto alla durata, che quanto agli effetti
della patria potestà. 418. Noi troviamo infatti, che, mentre la patria potestà
continud a durare per tutta la vita, venne formandosi l'istituto dell'emancipa
zione, in cui si assiste ad una singolare trasformazione, per cui il potere,
che al padre appartiene, di vendere il proprio figlio, viene a V. in proposito il precedente $ nella parte
relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di quello sine manu, nn. .
Voigt convertirsi in un espediente per liberarlo dalla patria potestà. Anche
qui abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia dell'atto per aes et
libram, salvo che, in base alla letterale interpretazione delle XII Tavole, per
l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man cipazioni, mentre,
trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice mancipatio. Ed è notabile
eziandio, che questa emancipazione, pur attribuendo al figlio una libertà ed
indipendenza, che prima non aveva, continua pur sempre ad essere considerata
come una capitis diminutio; poichè sotto il punto di vista giuridico,
l'emancipato cessa di appartenere a quel gruppo famigliare, da cui esce
mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere quello status, che a lui ap
parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il rigore del diritto primitivo si spinge
fino al punto da escludere l'emancipato dalla successione per legge alla morte
del padre, e toccherà poi al diritto pretorio il cercare con mezzi indiretti di
ovviare a queste conse guenze, le quali, pur essendo conformi alla logica
giuridica, ripu gnano però ai naturali sentimenti ed affetti . Cosi pure,
mentre si mantiene sempre il concetto primitivo, che tutti gli acquisti del
figlio debbono sotto l'aspetto giuridico essere at tribuiti al padre, si viene
a poco a poco attribuendo carattere giu ridico all'istituzione dei peculii. Non
può infatti esservi dubbio, che i peculii già dovevano preesistere nel costume,
almeno sotto la forma di peculium profecticium, che era quel piccolo
patrimonio, di cui il Gaio. Si è molto
disputato circa la ragione probabile delle tre man cipazioni, che sono
richieste per l'emancipazione del figlio. Alcuni vogliono scorgere in ciò un
indizio del più forte vincolo, con cui il figlio intendevasi congiunto al
proprio padre. A parer mio, sembra invece molto più probabile, che questa
triplice mancipazione richiesta per i figli sia stata, come dice Gaio, I, 132,
una conseguenza della letterale interpretazione data alla legge delle XII
Tavole, secondo cui si pater ter filium
venum duit, filius a patre liber esto . Per tal modo una disposizione, che era
evidentemente introdotta per impedire al padre di abusare della persona del suo
figlio,dandolo a mancipio più di tre volte, si cambiò in un mezzo per
emanciparlo. Negli altri casi invece, a cui non estendevasi la lettera di questa
disposizione, per trattarsi o di una figlia o di un nipote, potè bastare una
semplice mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le singolarità di questo
genere si possono facilmente spiegare, quando si tenga conto della lette rale
osservanza della legge, che era un carattere della primitiva iuris
interpretatio. Questa interpretazione del resto trova un appoggio in
Dionisio. Vedi quanto all'emancipatio,
in quanto costituisce una capitis diminutio, ciò che si disse al nº 338, 424,
nota 4. Aggiungerò tuttavia agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit., II, $
73, presso il quale occorre una raccolta completa dei passi relativi
all'argomento, 27 e 28, note 12, 13, 14. 537 padre concedeva una separata
amministrazione al figlio;ma ciò punto non impedi, che essi, solo assai tardi e
gradatamente,abbiano ottenuto il loro riconoscimento giuridico. Ed è notabile
eziandio l'ordine e il processo, con cui vennesi operando tale riconoscimento,
poichè si comincið dall' attribuire al figlio i guadagni, che egli avesse fatti
servendo nella milizia (peculium castrense ); poi si assomigliarono ai lucri,
da lui fatti in guerra, quelli fatti nell'esercizio delle pro fessioni liberali
(peculium quasi castrense); da ultimo si presero in considerazione tutti quegli
acquisti, che a lui fossero provenuti dagli ascendenti materni o in qualsiasi
altra guisa (bona adventicia ). Intanto, mentre si modellavano così le varie
specie di peculii, si introduceva ad un tempo una sapiente ed acconcia
graduazione per determinare a queste proposito i diritti, che appartenevano al
padre ed al figlio . Questi temperamenti tuttavia non tolgono, che la patria
potestà continuasse sempre ad essere il rudere meglio conservato dell'an tica
organizzazione della famiglia patriarcale, e quindi non è me raviglia se ad
operá compiuta gli stessi giureconsulti fossero colpiti dal carattere
particolare della patria potestà del cittadino romano, di fronte alle
istituzioni degli altri popoli. L'importanza di questa unificazione della
famiglia sotto la patria potestà del padre viene a farsi anche più evidente,
quando trattasi di quelle istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in
qualche modo al difetto di figliuolanza. Esse sono l'adrogatio, con cui si
viene a sottoporre alla patria potestà una persona sui iuris, e la semplice
adoptio, con cui un figlio ancora sottoposto alla patria potestà di una
persona, viene ad essere costituito sotto la patria potestà di un altra. Le
origini dell'una e dell'altra rimontano senza alcun dubbio all'organizzazione
della famiglia patriarcale, nella quale
L'antichità del peculium è dimostrata dalla stessa etimologia della
parola (a pecudibus). Del resto è facile a comprendersi, che lo stesso
accentramento della famiglia nel proprio capo rendeva indispensabile la concessione
di un certo peculio, così ai figli che ai servi. Anche qui pertanto il ius
civile non creò già l'istituzione; ma la raccolse dalle costumanze, e diede
alla medesima configurazione giuridica. Quanto all'ordine, con cui furono
accolte le diverse forme di peculia, cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pagg. 344 e 347;
il PADELLETTI, Storia del dir. rom., ediz. Cogliolo, nota 4; SERAFINI,
Istituzioni di diritto romano. Sono poi degne di nota, quanto all'istituzione
dei peculii, le osservazioni del SumnER MAINE, L'ancien droit, 134. 538 si
proponevano l'intento importantissimo di perpetuare la famiglia ed il suo culto.
Quella perd fra esse, che produceva più gravi ef fetti, al punto di vista
gentilizio, era certamente l'adrogatio, come quella che sopprimeva in certo
modo una famiglia ed il suo culto, per rendere possibile la perpetuazione di
un'altra. Essa quindi, nella comunanza gentilizia, dovette probabilmente essere
compiuta coll'approvazione dei capi di famiglia, o degli anziani del villaggio;
donde la conseguenza, che quando fu poi trasportata nella città, essa fu uno di
quegli atti solenni, che, al pari del testamento, dovevano es sere compiuti in
calatis comitiis, coll'intervento dei pontefici, i quali dovevano vegliare al
mantenimento dei culti pubblici e privati, e colle forme di una vera e propria
legge. L'adoptio invece, riferen dosi a persona, che era ancora soggetta alla
patria potestà, suppo neva da una parte la rinunzia del padre al proprio
potere, il che facevasi col mezzo della mancipatio, applicando al solito l'atto
per aes et libram, e dall'altra la sottomissione del figlio alla patria po
testà dell'adottante, il che compievasi davanti al magistrato, me diante quella
finta rivendicazione ed aggiudicazione, che costituiva l'in iure cessio. 418.
Intanto qui viene ad essere evidente, che, siccome trattavasi di istituzioni di
origine esclusivamente patrizia, perchè era sopratutto nella famiglia patrizia,
che era viva ed efficace l'aspirazione a per petuare se stessa ed il proprio
culto, cosi lo svolgimento storico di queste istituzioninon ritiene le traccie
di un contributo diretto, che possa avervi recato la plebe. Le forme infatti,
che le accompagnano, o sono di origine patrizia, come quella relativa
all'adrogatio, o sono invece una elaborazione giuridica del diritto quiritario,
comequelle che circondano l'adoptio, senza che trovinsi le traccie di un modo
di adozione, che possa essere di origine plebea. Ciò però non tolse, che anche
l'arrogazione e l'adozione abbiano finito per diventare una istituzione comune
a tutti gli ordini sociali; ma intanto a misura che ciò accade, esse perdono
sempre più il loro carattere gentilizio, finchè finiscono per informarsi ad un
con cetto ispiratore compiutamente diverso. Esse infatti col tempo ces Questo effetto dell'adrogatio è efficacemente
espresso da PAPIN., Leg. 11, 2, Dig.: dando se in arrogando testator cum capite
fortunas quoque suas in familiam et domum alienam transfert . Quanto alle
origini dell'adrogatio nel pe riodo gentilizio, vedi lib. I, n° 25, 31. Le
differenze poi fra l'adrogatio e l'a doptio sono sopratutto poste in evidenza
da Gellio, V, 19. 539 sano dall'essere un mezzo per perpetuare la famiglia ed
il suo culto; ma si limitano allo scopo di procurare le gioie della
figliuolanza a coloro che siano privi della medesima, per guisa che in contrad
dizione col diritto primitivo, anche le donne poterono adottare ed essere
adottate. Così pure queste istituzioni, che negli inizii stacca vano affatto
una persona dalla sua famiglia, per trasportarla in un'altra, finirono per
modificarsi in guisa da contemperare i diritti della famiglia naturale con
quelli della famiglia adottiva. 419. Rimane ora a dire brevemente del potere
del padre di fa miglia sui servi. Anche qui non pud esservi dubbio, che la
servitù rimonta al periodo gentilizio, e che essa non dovette essere propria
delle genti italiche, ma comune a tutte le genti; come lo dimostra il fatto,
che i Romani non riguardarono mai la servitù come istitu zione loro propria, ma
comeuna istituzione del diritto delle genti . La medesima sotto un certo
aspetto era un compimento necessario della famiglia patriarcale: perchè senza
di essa questa non avrebbe potuto costituire un gruppo, che potesse bastare a
se stesso. È quindi naturale, che quando il capo di famiglia entrò a parte
cipare alla comunanza quiritaria, esso comparisse nella medesima non solo colla
moglie e colla figliuolanza, ma anche coi servi, i quali vennero ad essere
compresi nel suo mancipium, e costituirono così una parte integrante della
famiglia romana (3 ). Per tal modo i servi diventarono in Roma gli strumenti
intelligenti del cittadino romano, il quale potè valersi di essi per esercitare
qualsiasi ne gozio o commercio, senza derogare alla sua dignità, ed anche per
evitare ai proprii figli l'ignominia di una eredità passiva, chia mandoli anche
loro malgrado a succedergli, in qualità di heredes necessarii. Si comprende
quindi, che al punto di vista giuri dico i servi fossero considerati come cose,
anzichè come persone, e che il potere del padrone sopra di essi apparisse
illimitato e senza confine. Tuttavia, anche qui la famigliarità dei rapporti
fra il pa drone ed i servi, l'intimità di vita, che eravi talora tra i
figliuoli Quanto all'ultimo stadio del
diritto civile romano nello svolgimento dell'ado zione, vedi Justin., Instit.
II, XI. Fra gli altri Gaio, I, 52,
dichiara espressamente, che la potestas sui servi iuris gentium est. (3 ) Come
i servi costituissero una parte integrante della famiglia risulta ad evi. denza
dai passi raccolti dal Voigt, XII Tafeln, II, 12 e segg., e note relative. (4 )
GAIO, II, 152; ULP., Fragm. XXII, 11 e 24. 540 - dell'uno e quelli degli altri,
l'abnegazione frequente dei servi per il loro padrone, e la necessità stessa,
in cui fu la legge di porre dei limiti alla facoltà di manomettere i proprii
servi, sono circo stanze che dimostrano, come anche la condizione effettiva dei
servi, sopratutto nei primi tempi di Roma, non corrisponda in ogni parte alla
severità, con cui essa ebbe ad essere governata sotto l'aspetto giuridico. 420.
In ogni caso è cosa fuori di ogni dubbio, che la condizione dei servi ebbe a
subire ancor essa una trasformazione profonda nel pas saggio
dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Giuridicamente
parlando, il potere del padrone appare forse più rigido nella città, che non
nel periodo gentilizio; ma in essa il servo ha il vantaggio di poter essere
fatto libero, e di essere così elevato alla dignità di cittadino. Mentre
dapprima il servo manomesso do veva, per la stessa necessità delle cose,
cercare protezione e tutela nel gruppo, a cui apparteneva, e quindi col cessare
di esser servo doveva trasformarsi in cliente: nella città invece, sopratutto
dopo Servio Tullio, a cui si attribuisce di aver attribuita la cittadinanza ai
servi affrancati, il servo manomesso venne ad essere sotto la protezione della
pubblica autorità, e potè colla libertà acquistare anche la cittadinanza. Colla
manomissione pertanto viene a verifi carsi la più profonda trasformazione nello
stato giuridico, di cui ci porga esempio il diritto civile romano. Con essa il
servo, che era considerato come una cosa, viene a trasformarsi in una persona,
e colui, che non aveva nė libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella famiglia,
viene ad acquistare tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le traccie
dell'antico stato di cose nella istituzione del patronato, la quale deve perciò
essere considerata come una soprav vivenza dell'organizzazione gentilizia.
Malgrado di ciò, questa impor tantissima trasformazione nello stato di una
persona viene dapprima ad essere rimessa intieramente all'arbitrio del quirite,
il quale può manomettere i proprii servi vindicta, censu, testamento, ed ha
cosi potestà di accrescere indefinitamente il numero dei cittadini romani. Nota giustamente l'HÖLDER, Istituz., $ 42, 117,
che il servo, ancorchè sia considerato come una cosa, non perde però la sua
qualità d'uomo, poichè gli si ri conoscono le facoltà, che lo distinguevano
come uomo, prima dell'altrui dominio. È questo il motivo, per cui il potere
sullo schiavo chiamavasi potestas, e gli atti acqui. sitivi da lui compiuti
erano stati validi, come se fossero stati compiuti dal suo padrone. 541 Anche
qui fu solo più tardi, che l'esercizio illimitato di questa po testà privata
sembrò essere in conflitto colle esigenze del pubblico interesse, e allora,
mentre da una parte si cercd di assicurare i di ritti del patrono sull'eredità
dei liberti, dall'altra si cerco di met tere dei confini alla manomissione dei
servi, il che si ottenne in parte coll'introdurre gradazioni diverse nella
libertà, che era accor data ai servi. Fu in questa guisa, che al concetto di
un'unica libertà i giureconsulti, interpretando le leggi Aelia Sentia e Junia
Norbana, sostituirono le categorie diverse dei latini, dei latini iu niani, e
dei dediticii, la cui libertà può essere migliore o peggiore, secondo che essa
lasci più facile l'adito alla cittadinanza romana: pessima itaque, conchiude Gaio, eorum
libertas est, qui dediti ciorum numero sunt, nam ulla lege, aut senatus
consulto, aut con stitutione principali aditus illis ad civitatem romanam
datur . 421. Da ultimo anche le persone
libere, quae in causa mancipii erant,dovettero pur esse avere un posto in
questa costruzione giuridica della famiglia romana, il che si ottenne
collocandole nella posizione di servi (servorum loco habentur), per tutto quel
tempo per cui erano date a mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi hanno cura
di notare, che la concezione giuridica non deve in questa parte essere confusa
colla realtà, come lo prova questa notevole proposizione di Gaio: admonendi sumus, adversus eos, quos in
mancipio ha bemus, nihil nobis contumeliose facere licere; alioquin iniuria rum
actione tenebimur: ac ne diu quidem in eo iure detinentur homines, sed
plerumque hoc fit dicis gratia, uno mo mento, nisi scilicet ex noxali causa
mancipentur. Con ciò parmi di aver abbastanza dimostrato, che la rigidezza, con
cui fu modellata nel diritto civile di Roma la potestà spettante al capo di
famiglia, trova la sua causa in ciò, che i Romani, anche in È notabile a questo riguardo, che il più
antico diritto di Roma, come lasciava al cittadino piena libertà dimanomettere
i propri servi, così, in omaggio sempre alla libertà del testatore,non aveva
tutelato in nessun modo le ragioni del patrono contro il testamento del liberto.
Ciò viene attestato da Gaio, il quale, dopo aver detto, che olim licebat liberto patronum suum impune in
testamento prae terire aggiunge poi che
il diritto pretorio e poscia la legge Papia Poppea avevano cercato di riparare
a questa iuris iniquitas. Gaio, 1, 26;
Ulp., Fragm., I, 5. (3 ) Gaio questa parte, trasportarono nella città il potere
del capo di famiglia patriarcale; lo isolarono dall'ambiente, in cui erasi
formato e da ogni elemento estraneo al diritto; e riuscirono così a dare una
configu razione prettamente giuridica, ad un potere, che in realtà conti nuava
poi a trovare molti temperamenti nel costume e nella morale. Questi caratteri
della famiglia romana trovano poi una conferma nel modo, in cui era governata
la successione legittima, nel primi tivo diritto di Roma. La successione e la
tutela legittima nel primitivo ius quiritium. L'ordinamento giuridico della
famiglia primitiva in Roma presenta eziandio questa singolarità, che mentre,
vivo il padre, tutto sembra unificarsi in lui, mancando invece il medesimo,
senza aver disposto delle proprie cose per testamento (si intestato moritur),
ricompare una specie di comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono
dalla sua patria potestà. Queste persone infatti son chia mate a succedergli
come heredes sui; non possono respingerne la eredità (heredes sui et
necessarii); che anzi, senza bisogno di una vera e propria accettazione,
sembrano essere direttamente investite dalla legge stessa di quel patrimonio
famigliare, di cui già prima apparivano comproprietarie: sui quidem heredes, dice Gaio, ideo
appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo
domini existimantur . Molti autori combatterono il concetto di questa
comproprietà fa migliare, dicendola in contraddizione colla unificazione
potente della famiglia romana nella persona del proprio capo. A nostro avviso
invece questa specie di comproprietà, che i giureconsulti pongono a fondamento
della successione degli heredes sui, può essere facil mente spiegata e
conciliata coll'unità potente della famiglia romana, GAIO.
Fra gli autori, che combattono questa comproprietà famigliare, mi
limiterò a citare il PADELLETTI, Op. cit., 201, e il Cogliolo, Saggi di
evoluzione nel di ritto privato, 108 e segg.; il quale, a 111, in nota, fa pure
un elenco degli autori, che tengono per l'una o per l'altra opinione. Fra
quelli, che ammettono questa comproprietà famigliare, vuolsi aggiungere il
DUBOIS, La saisine héréditaire en droit romain, Paris, 1880, 63, e il
CARPENTIER, Essai sur l'origine et l'étendue de la règle: nemo pro parte
testatus, pro parte intestatus decedere potest, nella Nouvelle Revue historique quando si ritenga che la famiglia quiritaria
non è in sostanza, che la stessa famiglia patriarcale, trasportata nella città,
ed isolata dal l'ambiente gentilizio, in cui erasi formata. La famiglia
patriarcale infatti riuniva appunto due caratteri, pressochè opposti fra di
loro; quello cioè di apparire da una parte unificata nella persona del padre,
il che la rendeva unita e compatta per la lotta, che doveva sostenere cogli
altri gruppi, da cui era circondata; e quello di sup porre dall'altra
un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche, il che produceva
un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a costituirla. In questo
senso potevasi dire di essa con Cicerone:
una domus, communia omnia . Questa solidarietà e compro prietà fra i
membri del medesimo gruppo famigliare viene ad essere dimostrata dai seguenti
indizii: che il primitivo heredium era di sua natura trasmessibile di padre in
figlio; che il padre trovava un ostacolo alla dilapidazione del patrimonio
famigliare, nel iudicium de moribus per parte del consiglio degli anziani della
gens; che il padre infine non poteva disporre delle proprie cose per testamento,
nè scegliersi un figlio adottivo senza l'approvazione degli altri capi di
famiglia, che appartenevano alla sua gente o tribù. Vero è, che tutti questi
temperamenti del potere patriarcale del capo di famiglia sembrano scomparire,
quando, col formarsi della città, la famiglia venne ad essere staccata dal
gruppo patriarcale, di cui entrava a far parte, e il capo di essa apparve così
investito di un potere illimitato e senza confini; ma ciò deve essere
considerato come un effetto di quella elaborazione giuridica, che tendeva ad
uni ficare la famiglia nella persona del proprio capo. Era quindinatu rale,
che, quando questa unificazione non era più possibile per la mancanza del capo,
risorgesse la primitiva comproprietà famigliare fra le persone libere, che
appartenevano allo stesso gruppo. Che anzi la stessa unificazione potente del
gruppo nel proprio capo do veva determinare una specie di comunione fra i
membri del gruppo, e condurre così alla conseguenza giuridica, che in questo
caso non si avverasse una vera successione, ma il dominio del padre conti
nuasse in certo modo nella persona dei figli; conseguenza, che ebbe ad essere
mirabilmente espressa dal giureconsulto Paolo: in suis heredibus evidentius
apparet continuationem dominii eo rem per ducere, ut nulla videatur hereditas
fuisse, quasi olim hi domini Ho cercato
di dimostrare questi caratteri della proprietà famigliare nel periodo
gentilizio. essent, qui, vivo etiam
patre, quodammodo domini existimantur. Itaque post mortem patris non
hereditatem percipere videntur, sed magis liberam bonorum administrationem
consequuntur. Fu in questa guisa, che la famiglia primitiva potè perpetuarsi
nelle generazioni, e cambiarsi in un organismo immortale e perpetuo, poichè i
figli apparivano come i continuatori della personalità del padre, e al modo
stesso, che dovevano perpetuare il culto domestico, così dovevano raccoglierne,
anche loro malgrado, l'eredità. 423. Nè si può ammettere, che questa specie di
comproprietà, a cui accennano i giureconsulti, sia un concetto penetrato più
tardi nella classica giurisprudenza, per spiegare il passaggio del patrimonio
famigliare dal padre nei figli : poichè questo intimo rapporto fra l'hereditas
ed i sacra, è certo un concetto, che rimonta all'an tichissimo diritto, come
pure è a questo, che deve farsi risalire quella posizione del tutto speciale,
che gli heredes sui assumono di fronte agli altri ordini di eredi. Questa
distinzione infatti già doveva esistere nella universale coscienza, all'epoca
della legislazione decem virale. In questa infatti non si fa menzione espressa
della succes sione dell'heres suus, ma solo vi si accenna come a cosa, che na
turalmente accade, e che quasi non abbisogna di speciale menzione; mentre è
solo per il caso, in cui non siavi un heres suus, che le XII Tavole determinano
l'ordine della successione per legge, chia mando alla medesima prima l’agnatus
proximus, e in mancanza del medesimo i gentiles: si intestato moritur, cui suus heres nec
escit, adgnatus proximus familiam habeto; si adgnatus nec escit, gentiles
familiam habento . Che anzi a questo proposito parmi di poter con fondamento
inol trare la congettura, che in occasione della legislazione decemvirale le
genti patrizie cercarono di trasportare nel ius proprium civium PAOLO, Leg., Dig. V. nel CARPENTIER, una
raccolta di testi che confermano questa comproprietà famigliare. Tale sarebbe l'opinione del PADELLETTI, Op.
cit., 201. (3 ) Queste due disposizioni delle XII Tavole, secondo il Voigt, Op.
cit., I, 704, sarebbero la 2a e la 3a legge della Tav. IV. A questo proposito
poi il Voigt, Op. cit., II, 387, sembra ritenere, che esistesse una
comproprietà di fatto, ma non di diritto. Convien però ammettere, che tale
comproprietà producesse, dopo la morte del padre, delle vere conseguenze di
diritto, dal momento che faceva considerare gli heredes sui, come continuatori
della personalità del padre, e li metteva anzi nella impossibilità di
rinunziarvi. Vedi Gaio, I, 157. - 545 romanorum, e di rendere così comune a
tutte le classi quel sistema di successione ab intestato, che doveva già
esistere nel loro costume durante il periodo gentilizio. Noi sappiamo infatti
dagli stessi giu reconsulti, che colle XII Tavole soltanto ebbe ad essere
introdotto il sistema di successione legittima, e ne abbiamo anche una prova
nella circostanza, che fu perfino introdotto un ordine di eredi le gittimi, che
era quello dei gentiles, il quale non poteva certo appar tenere alla plebe, dal
momento che questa non possedeva le gentes. Per tal modo il patriziato, che già
aveva trasportata nella comu nanza quiritaria la propria organizzazione
domestica, riusci eziandio a farvi penetrare il proprio sistema di successione.
Di qui la con seguenza, che anche il sistema successorio dei romani deve essere
considerato come una sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale della
famiglia patrizia; come lo dimostra la circostanza, che esso fondasi
esclusivamente sull'agnazione, non tiene alcun conto della cognazione, e si
propone come scopo esclusivo di perpetuare il pa trimonio nella famiglia
agnatizia, e di farlo ritornare alla gente, al lorchè siasi estinta la famiglia.
Per tal modo, in base alla legislazione decemvirale, noi veniamo a trovarci di
fronte a tre ordini di eredi, che sono: lº gli heredes sui, nei quali si
comprendono la moglie, i figli cosi maschi come femmine e gli altri discendenti
nella linea maschile, tutte le per sone insomma, che erano soggette alla patria
potestà del capo di famiglia; 2 ° gli agnati, cioè tutti coloro, che discendono
per la linea maschile da un comune autore, alla cui potestà sarebbero stati sog
getti, quando non fosse premorto; 3º e da ultimo i gentiles, ossia tutti coloro,
i quali, più non essendo compresi nella familia omnium agnatorum, hanno però
comune la discendenza da un medesimo Che
la successione e la tutela legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole,
mentre queste non avrebbero fatto altro, che confermare le successioni testa
mentarie, è cosa a più riprese affermata da ULPIANO, Fragm. XI, 3, e XXVII, 5.
Di qui ilMuirhead avrebbe perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di
pianta l'ordine degli agnati, come tutori e successori legittimi. Ho già
dimostrato più sopra, 39, nota 1", che questa opinione non può essere
accettata, perchè l'ordine degli agnati già esisteva nell'organizzazione
gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a fondamento della medesima; ma
intanto questa sua opinione può essere accolta, quando sia intesa nel senso,
che i decemviri colle XII Tavole estesero anche alla plebe quel sistema di
successione legittima, che le consuetudini avevano già svolta presso le genti
patrizie. C., Le origini del diritto di Roma. antenato, e come tali hanno
ancora ilmedesimo nome e appartengono alla stessa gente. 424. È poi degno di
nota il modo diverso, con cui questi varii ordini di eredi sono chiamati a
succedere. Finchè trattavasi di heredes sui, essi, essendo soggetti alla patria
potestà della stessa persona, e come tali appartenendo almedesimo gruppo,
venivano in certo modo ad essere eredi di se stessi; esclu devano gli
emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi entrate in un'altra famiglia,
tutti coloro insomma, che erano già usciti dal gruppo; non abbisognavano di
vera accettazione dell'eredità, ma suc cedevano anche loro malgrado (heredes
sui et necessarii): non potevano essere spogliati dell'eredità mediante
l'usucapio pro he rede; infine succedevano per stirpe, ossia per
rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva i figli
rappresen tano il padre. Quando trattavasi invece di agnati, il patrimonio
doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro: quindi la legge, per
impedirne la suddivisione soverchia, si limitava a devolverlo allo agnatus
proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere considerato
come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non appartiene al
gruppo famigliare nello stretto senso della parola. Egli quindi ha già facoltà
di accettare o di respingere l'eredità, e può vedersi usucapita l'eredità da
altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse poi
l'opinione, che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla
successione per stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano
è solo nei limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i
rappresentanti dei loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti
gli altri agnati, e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità,
questa viene ad essere devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles . Gaio, 1 a 8; Ulp., Fragm., XXIV, 1 a 3. GAIB, III, 9 a 15, Ulp., Fragm., XXIV, 1.
L'enumerazione, che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati, confermano il concetto,
che ho svolto nel lib. I, 38 e 39, secondo cui la cerchia degli agnati sarebbe
stata determinata da quella in divisione di patrimonio, che, morto il padre,
mantenevasi fra i fratelli e i loro di scendenti per la linea maschile. Questo
gruppo continuava in certo modo l'unità indivisa della famiglia, e costituiva
quella famiglia più grande, che fu chiamata 547 Qui però l'espressione della
legge cambia, in quanto che essa dice senz'altro: si agnatus proximus nec escit, gentiles
familiam habento ; il che fa ritenere, che i gentili non fossero chiamati a
succedere come individui, ma in quanto costituivano l'ente collet tivo della
gens, cosicchè l'eredità sarebbe in certo modo ritornata alla gente considerata
nella propria universalità, e sarebbe così ve nuta a ricadere in quell'ager
gentilicius, da cui si erano staccati i primitivi heredia delle singole
famiglie. Era sopratutto in questa parte, che erasi cercato di mantenere viva
nella città l'antica orga nizzazione gentilizia: ma l'istituzione non potè
mantenersi a lungo come lo dimostra Gaio, il quale parla di questo ius
gentilicium, come di cosa andata da lungo tempo in disuso. Non ha poi bisogno
di essere dimostrato, che questo sistema di successione per legge, desunto
dall'antica organizzazione gentilizia, trovava il proprio compimento nella
disposizione, per cui la succes sione del cliente o del liberto, che fosse
morto senza testamento o senza eredi suoi, veniva dalla legge ad essere
devoluta al patrono, od ai figli di lui, od infine alla gente del patrono: si cliens in testato moritur, cui suus heres
nec escit, pecunia ex eius fa milia in patroni familiam redito . omnium
agnatorum. Quando poi venne meno quest' indivisione del patrimonio, si
chiamarono agnati tutti coloro, che sarebbero stati soggetti alla patria
potestà, quando il padre non fosse premorto. Fra essi ULPIANO, loc. cit.,
comprende anzitutto quelli, che egli chiama i consanguinei, id est fratres et sorores ex eodem patre ;
poscia, quando questi manchino, gli altri agnati prossimi id est cognatos virilis sexus, per mares
discendentes, eiusdem familiae, Gaio,
III, 17; UlP., Fragm., XXIV, 1. Noi abbiamo tuttavia CICERONE, De orat., I, il
quale accenna ad una causa di eredità, dibattutasi davanti ai Centum viri fra i
Claudii patrizii ed i Marcelli discendenti da un loro liberto, in cui dice che
gli oratori delle parti dovettero occuparsi
de toto stirpis ac gentilitatis iure . Sembra tuttavia, che anche
all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le cause di questo genere. Ulp., L. 195,
1, Dig. Nella ricostruzione del Voigt, questa legge sarebbe la 4a della
Tavola IV. Vedi ciò che dice lo stesso Voigt, II, 392 e 393, quanto alla
successione del patrono al liberto. Anche quanto alla successione del liberto
si manifesta una specie di antagonismo fra la successione testamentaria e la
legittima; poichè,mentre nella prima il liberto poteva nei primi tempi (V.
Gaio, III, 40-41) dimenticare impunemente il suo patrono, la seconda invece,
introdotta eziandio dalle XII Tavole, tendeva a richiamare il patrimonio del
liberto alla famiglia del patrono, quando il primo fosse morto senza eredi
suoi. 548 425. Per contro è assai degno di nota, che, unitamente al sistema
della successione legittima, dalla legislazione decemvirale fu eziandio
introdotto il sistema della tutela legittima. Di cid abbiamo l'espressa
attestazione dei giureconsulti : ma la prova più convincente vuolsi riporre
nella circostanza, che il sistema della tutela legittima, quale ebbe ad essere
regolato dalle XII Tavole, é coordinato con quello della successione legittima,
ed obbedisce al medesimo concetto ispi ratore. Per giustificare la cosa i
giureconsulti più tardi misero in nanzi la considerazione, che l'onere della
tutela doveva cadere su coloro, che avevano il vantaggio della successione: ubi emolu mentum successionis, ibi onus
tutelae ; ma la causa storica deveessere cercata nel fatto, che tanto la tutela,
che la successione le gittima si informano ancora ai concetti
dell'organizzazione genti lizia, da cui furono desunte, e come tali mirano a
conservare il patrimonio prima alla famiglia agnatizia e pos cia alla
gente. Viene così a comprendersi, come nel sistema primitivo la tutela degli im
puberi ed anche la cura dei prodighi e dei furiosi, fosse affidata agli agnati
ed ai gentili; come le donne, anche perfectae aetatis, cadessero sotto la
tutela degli agnati; come infine le res mancipii, spettanti alle medesime e ai
pupilli, non potessero essere usucapite, quando non si fossero alienate col
consenso del tutore. Così pure viene a spiegarsi quel singolare carattere della
tutela primitiva del l'impubere, la quale mira piuttosto alla conservazione del
patrimonio, che non alla educazione della persona, la cui cura soleva essere
lasciata alla madre ed agli altri congiunti, i quali si ispiravano di
preferenza all'affetto del sangue, che all'interesse gentilizio di ser bare
integro il patrimonio famigliare. Chi tuttavia riguardi al posteriore
svolgimento del diritto civile romano, può facilmente inferirne, che tanto il
sistema della successione, quanto quello della tutela legittima, non trovarono
mai favorevole svolgimento nella opinione comune della cittadinanza ro mana.
Conformi al modo di pensare di quella minoranza patrizia, che si atteneva
strettamente alle tradizioni gentilizie, esse invece ripugnavano al modo di
sentire delle altre classi, i cui rapporti di
Ulp., Fragm. È da vedersi, quanto alla tutela legittima e ai suoi
caratteri peculiari, il Pa DELLETTI, Op. cit., 188 e le note relative. 549
famiglia si ispiravano di preferenza al vincolo naturale del sangue e della
cognazione. A misura poi, che le traccie dell'organizzazione gentilizia si
venivano dissolvendo sotto l'influenza della vita citta dina, questo sistema di
successione e di tutela apparve disadatto a quei magistrati stessi, che
dovevano applicarlo. È questo il motivo, per cui Gaio a questo proposito non
parla solo di sottigliezze del l'antico diritto, ma di vere iuris iniquitates;
alle quali cercò poi di riparare il diritto pretorio, introducendo, accanto
alla successione legittima, una successione pretoria, e creando, accanto ai
tutores legitimi, i tutores Atiliani o dativi. Fu pur questo il motivo, per cui
i giureconsulti mal potevano spiegarsi la tutela perpetua, a cui le donne erano
sottoposte nell'antico diritto, e vennero creando essi stessi degli espedienti
giuridici, quale fu quello veramente ca ratteristico della coemptio cum fiducia,
per liberarle da una tutela, le cui ragioni dovevano forse essere cercate in un
periodo anteriore di organizzazione sociale. In ogni caso poi una prova di
questa generale condanna del si stema di successione e di tutela legittima può
scorgersi eziandio nel largo sviluppo che presero in Roma la successione e la
tutela testamentaria, e nell'antagonismo che sembra esistervi fra le due
maniere di successione. $ 5. – Rapporti fra la successione legittima e la
testamentaria nel diritto primitivo di Roma. 427. È noto che in Roma la
successione legittima e la testamen taria non poterono mai fondersi insieme, e
si mantennero anzi in una specie di antagonismo fra di loro. Ciò è dichiarato
espressa mente dal giureconsulto, che scorge nelle due istituzioni un natu Fra i giureconsulti, che non sanno darsi
ragione della tutela perpetua, a cui le donne erano sottoposte, abbiamo Gaio,
I, 190. È tuttavia a notarsi, che egli, più sotto, I, 192, finisce per indicare
la vera ragione, per cui anche le donne erano sot toposte alla tutela dei loro
agnati; la quale consiste in ciò, che siccome gli agnati erano chiamati a
succedere alle donne, che morissero ab intestato, così essi avevano interesse a
che esse, senza il loro consenso, non potessero fare testamento, nè alienare le
cose più preziose, che entravano a costituire il patrimonio. Per tal modo la
tutela degli agnati ebbe lo scopo stesso della loro successione legittima,
quello cioè di conservare il patrimonio nella famiglia agnatizia; il qual
concetto è per certo uno di quelli, le cui origini debbono essere cercate nel
periodo gentilizio. 550 rale conflitto; è confermato dalla massima: nemo
paganus partim testatus, partim intestatus decedere potest; ed è provato
eziandio da quella specie di ripugnanza, che avevano i Romani a morire senza
testamento: ripugnanza, che si spinse fino a tale da ritenere pressochè
disonorato chi morisse senza testamento. Il fatto può quindi essere affermato
con certezza; ma è tanto più ardua la spie gazione di esso, come lo dimostra la
varietà grandissima di opinioni e di congetture, che furono emesse in proposito
. Credo tuttavia, che anche in questa parte possa condurci a qualche
conclusione, forse nuova, lo studio delle origini del ius quiritium. Questo
studio infatti ci pone in grado di affermare, che la succes sione legittima ed
il testamento hanno avuto una origine e uno svolgimento compiutamente diversi
nel primitivo ius quiritium. Mentre la successione e la tutela legittima, le
quali soltanto colle XII Tavole entrarono a far parte del diritto comune, sono
istitu zioni di origine prettamente gentilizia, ispirate al concetto di
ser L'origine storica della massima nemo paganus, ecc. è una questione, che è lungi dall'essere
risolta, malgrado la ricchissima letteratura, di cui fu argomento. Fra autori,
che la esaminarono di recente, citero soltanto il RUGGERI, nei Documenti di
storia e di diritto; il CARPENTIER, nella Nouvelle Revue historique, 1886, 449
a 474; il Padel LETTI, La istituzione di erede ex re certa ( Archivio
giuridico). Anche l'ESMEIN, La manus, la paternité, ecc., 4, nota 10. accenno
di passaggio ad una spiegazione di questa massima, dicendo che la medesima
proveniva da che il patrimonio si trasmetteva come l'accessorio di un culto, e
che siccome di un culto non si poteva disporre per una parte soltanto, così non
si poteva neppure lasciare un'eredità parte per testamento e parte per legge.
Parmi che questa non possa an cora essere la risoluzione definitiva: poichè se
un culto poteva dividersi fra più eredi legittimi, non vi può essere ragione,
per cui non si potesse anche dividere fra eredi legittimi e testamentarii. Il
CARPENTIER poi, nel suo dotto lavoro sopra citato, verrebbe alla conseguenza,
che questa massima fosse una conseguenza logica del concetto romano, per cui
tanto la successione legittima, quanto la testamentaria, do vevano comprendere
l'intiero patrimonio; ma anche qui si potrebbe sempre dire, che quest'universum
ius, come poteva dividersi fra gli eredi per legge e testamentarii; così
avrebbe potuto dividersi eziandio fra gli uni e gli altri. Secondo il RUGGIERI,
Op. cit., il motivo della massima starebbe in ciò, che anche il testamento
dapprima era una vera lex, e quindi doveva prevalere o la lex publica o la lex
testamenti,ma non potevano concorrere insieme; ma egli è evidente, che questa
ragione, se po trebbe valere per il testamentum in calatis comitiis, non può
certo applicarsi al testamentum per aes et libram, che non ha più il carattere
di una legge. Fu questo il motivo, per cui ho creduto didover cercare la causa
prima di questa mas sima nella stessa dialettica fondamentale, a cui si informa
il diritto primitivo di Roma. - bare il patrimonio alla famiglia agnatizia ed
alla gente; il testamento invece, che prevalse nel ius quiritium, non è più il
testamento delle genti patrizie, ma è già un'applicazione dell'atto quiritario
per ec cellenza, ossia dell'atto per aes et libram, che si ispira al prin cipo:
uti legassit, ita ius esto. In quella prevale ancora lo spirito conservatore
dell'antico gruppo patriarcale: mentre in questo già campeggia la fiera
individualità del quirite, la cui volontà solenne mente manifestata deve essere
legge, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere. A cið si aggiunge, che
la successione legittima e la testamentaria, nella struttura organica del ius
quiritium, muovono da un con cetto fondamentale compiutamente diverso. Mentre
infatti la suc cessione legittima prende le mosse dal ius connubii, ed è quindi
una conseguenza dell'organizzazione giuridica della famiglia romana, il
testamento invece, che prevalse nel diritto quiritario, fu un'ap plicazione del
principio: qui nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto ; come tale, esso prese le
mosse dal ius commercii, e fu considerato come un mezzo di disporre libe
ramente delle proprie cose . Fu sopratutto questa circostanza del l'essere le
due istituzioni partite nella loro elaborazione giuridica da un concetto
fondamentale diverso, che impedì alle medesime di con fondersi e di
compenetrarsi insieme; poichè è un carattere della dialet tica quiritaria, che
gli istituti giuridici, una volta separati, obbediscano ciascuno al proprio
concetto ispiratore, nè sogliano mai confondersi con un altro, che si informi
ad un concetto compiutamente diverso. Tale sembra appunto essere la
significazione della celebre regola del giureconsulto Paolo: ius nostrum non patitur eundem in paganis et
testato et intestato decessisse, earumque rerum natu raliter inter se pugna
est, testatus et intestatus. Per verità
Quanto al carattere diverso di queste due successioni vedi il cap. III, 4, in cui si discorre della successione
testamentaria, ed il $ precedente relativo alla successione legittima. Questo carattere speciale del testamento per
aes et libram è attestato, ancorchè solo di passaggio, da Cic., De orat.; ma è
poi dimostrato all'evidenza da ciò, che questo testamento ebbe ad essere
ritenuto come un negozio, che compie vasi fra testatore ed erede, e in cui la
volontà del testatore dominava sovrana.
Paolo, Leg. 7, Dig. Secondo il PadELLETTI, Storia del dir. rom., 201,
questa massima sarebbe invece una conseguenza della superiorità esclusiva della
successione testamentaria sulla legittima; ma questo non è ancora un motivo
adeguato per impedire che le due eredità si confondessero fra di loro. 552
sarebbe stato illogico, che quel diritto, il quale in tutto il suo svi luppo
tenne sempre mai distinte fra di loro le obbligazioni e i trasferimenti di
proprietà, di cui quelle erano partite dal concetto primitivo del nexum e
questi da quello del mancipium, avesse pui consentito, che concorressero
insieme due istituzioni, le quali muove vano da concetti fondamentali anche più
distanti fra di loro. Questo quindi fu uno dei casi in cui la logica quiritaria
non volle piegarsi alle nuove esigenze, e si limitò ad introdurre una eccezione
a fa vore del testamento dei soldati. 428. Qui intanto cade in acconcio di
esaminare brevemente un'altra gravissima questione, quella cioè della
precedenza, che nel diritto primitivo di Roma abbia avuto la successione
legittima o la successione testamentaria. Sull'autorità del Sumner Maine, suole
essere generalmente seguita l'opinione, che nella evoluzione storica del
diritto romano dovette precedere la successione ab intestato, poichè la
possibilità del testa mento, anche nel diritto romano, avrebbe cominciato
dall'essere am messa soltanto in quei casi, in cui non vi fosse figliuolanza, e
poi sarebbe stata estesa anche agli altri casi. Mentre ritengo, che questa
opinione possa essere conforme al vero, per quanto si rife risce al periodo
gentilizio, nel quale il testamento non dovette essere, che un mezzo per
perpetuare la famiglia ed il suo culto, per il caso in cui non vi fossero dei
figli, crederei invece, che essa non sia con forme all'evoluzione storica, che
ebbe ad avverarsi nel ius quiritium. Sonvi infatti degli indizii, che ci
inducono ad affermare, che nel ius quiritium penetrd dapprima il testamento,
mentre la successione legittima vi fu solo introdotta più tardi, e che il
testamento ebbe fin dal principio una prevalenza incontrastata sulla
successione le gittima. È noto infatti, che Ulpiano dice espressamente, che la
suc cessione legittima fu introdotta dalle XII Tavole, mentre queste invece
avrebbero confermata la successione testamentaria; il che indica appunto, che
il testamento era già comune ai due ordini, e aveva già subito l'elaborazione
del ius quiritium, mentre la suc cessione legittima non sarebbe penetrata nel
diritto comune, che colla legislazione decemvirale. Anteriormente a quest'epoca
la suc cessione legittima, per ciò che si riferisce agli agnati ed ai
gentili, SUMNER MAINE, L'ancien droit, 186.
553 doveva probabilmente essere esclusivamente propria delle genti pa trizie,
le cui consuetudini in quest'argomento erano certo diverse dalle semplici
costumanze della plebe. Appare poi fino all'evidenza dalle espressioni stesse
delle XII Tavole, che la successione testamentaria ha una prevalenza
indiscutibile sulla successione legittima, in quanto che quest'ultima non può
verificarsi, che quando manchi il testa mento (si intestato moritur); il qual
concetto perdurò poi per tutto lo svolgimento storico del diritto civile romano
. In cid abbiamo un'altra prova, che il ius quiritium non deve essere
considerato unicamente, come il frutto di un'evoluzione lenta e graduata delle
istituzioni giuridiche, a misura che ne occorra il bisogno, ma piuttosto come
il frutto di una selezione su materiali giuridici preesistenti. In esso infatti
istituzioni più antiche penetra rono talvolta più tardi di altre, la cui
formazione nella realtà dei fatti doveva essere più recente. Così, ad esempio,
la successione le gittima, che fu certo la prima a svolgersi nell'ordine dei
fatti, fu l'ul tima a penetrare nel ius quiritium, mentre il testamento, che
era stato ultimo a comparire, fu il primo ad esservi accolto, come quello che
meglio rispondeva a quella potente individualità giuridica, che era il
quirite. Cid apparirà anche più evidente
trattando del si stema delle actiones, le quali, mentre furono le prime a
formarsi nell'ordine dei fatti, furono invece le ultime ad essere elaborate nel
primitivo ius quiritium. ULP., Fragm.,
XI, 3; XXVII, 5; L. 130, Dig. La
prevalenza della successione testamentaria sulla legittima nel diritto civile
romano è provata da una quantità grande di passi di giureconsulti, fra i quali
mi limito a citaro i seguenti: quamdiu
possit valere testamentum, tamdiu legitimus non admittitur (Paolo, L., dig.); quamdiu potest ex testamento adiri hereditas,
ab intestato non defertur (Ulp., L. 39,
dig.). Le legis actiones e la storia primitiva della procedura civile romana.
$ Le origini della procedura ex iure
quiritium. Quella tecnica giuridica, di cui già si riscontrarono le traccie
nelle varie parti del ius quiritium, appare anche più rigida e se vera nella
parte, che si riferisce alla procedura delle legis actiones. È qui sopratutto,
ove l'elemento giuridico del fatto umano compare del tutto isolato e disgiunto
da ogni elemento estraneo, e ove l'ela borazione giuridica dell'antico diritto
ebbe a spingersi a tal punto di tecnicismo da rendere difficile alle nostre
menti il comprenderne i concetti direttivi, e la logica inesorabile, a cui
obbedi nella pro pria formazione. Alla difficoltà intrinseca dell'argomento si
aggiun sero poi altre cause, che contribuirono a mantenere in questa parte una
quantità di dubbii e di incertezze, la quale non potè del tutto essere
dileguata dalla scoperta delle istituzioni di Gaio, dalla ricchissima letteratura,
che in seguito alla medesima ebbe a svolgersi sull'argomento. È noto infatti,
in base alle attestazioni concordi degli antichi au tori, che la parte
dell'antico diritto, relativa alla procedura delle legis actiones, ebbe ad
essere custodita ed elaborata dal collegio dei pontefici, anche dopo le XII
Tavole, e continuò cosi ancora a co e
Anche qui non mi propongo di dare una bibliografia completa: ma
piuttosto di indicare le opere, di cui ho potuto giovarmi per il punto speciale
di vista, a cui mi collocai in questo lavoro. Fra esse citerò lo ZIMMERN, Traité des actions, trail. Etienne, Paris 1843;
BONJEAN, Traité des actions chez les Romains, Paris ; KELLER, Il processo
civile romano e le azioni, trad. Filomusi-Guelfi, Napoli 1872;
BETHMANN-HOLLWEGG, Der röm. Civilprocess in seiner geschichtl. Entwichelung,
Bonn, e sopratutto il primo, che tratta delle legis actiones; BEKKER, Die
Aktionen d. röm. Privatrechts,
2 vol., e sopratutto il vol. I, 18-74; KAR LOWA, Der röm. Civilprocess zur Zeit
d. Legisactionen, Berlin ; BUONAMICI, La storia della procedura civile romana,
Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da 15 a 86; JHERING, L'esprit du droit romain;
MuiraEAD, Histor. Introd., 181 a 235; Zocco-Rosa, Le palingenesi della
procedura civile romana, Roma 1887; WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig
1888. 555 stituire per qualche tempo un segreto di professione e di casta.
Pomponio infatti attribuisce ai pontefici di aver modellate le legis actiones,
in base alla legislazione decemvirale; egli anzi dice con Gaio, che di qui
sarebbe provenuta la denominazione di legis actio nes, le quali poi per la
prima volta sarebbero state rese di pubblica ragione da Gneo Flavio, segretario
di Appio Claudio. La notizia poi, che ci pervenne di queste legis actiones, è
molto imperfetta; poichè lo stesso Gaio, che è forse il solo che ebbe a
discorrerne di proposito, ci descrive il sistema delle legis actiones
nell'ultimo stadio del suo svolgimento, e quindi si limita alla enu merazione
ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al lorchè questi furono
definitivamente formati, senza farci assistere alla progressiva formazione di
essi, salvo quel poco, che egli ci dice, circa la introduzione della legis
actio per condictionem. A ciò si aggiunge, che Gaio, discorrendo di un sistema
di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si limita a cenni assai
generali, i quali per giunta ci pervennero anche con gravissime lacune, quali
quelle relative alla iudicis postulatio, ed alla condictio . 430. Da questa
notizia, per quanto imperfetta, si possono tuttavia ricavare alcune illazioni,
che, per quanto generali, sono perd impor tantissime per la ricostruzione della
prima procedura quiritaria, che fu senz'alcun dubbio quella delle legis
actiones. È certo anzitutto, che anche in questa parte il primitivo ius qui
ritium non venne creando speciali procedure, per i varii casi, che si
presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche di proce dura, che i
pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai casi particolari, per
guisa che le primitive legis actiones costitui scono, secondo l'esatta
espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui ciascuno poteva
comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi sappiamo in secondo
luogo, che il sistema delle legis actiones è decisamente informato al concetto,
secondo cui la procedura per ogni controversia, che percorresse tutti i suoi
stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali, di cui una compievasi in
iure, cioè Pomp., Leg. 2, 6, Dig.; Gaio, IV, 11. V. Gaio, IV, 17, ove manca il foglio, in cui
egli doveva trattare dell'actio per iudicis postulationem, e passare poi a
discorrere della legis actio per condictionem.
Gaio, IV, 12, scrive:, lege agebatur modis quinque etc. 556 davanti al
magistrato, e l'altra invece seguiva davanti al giudice singolo od al corpo
collegiale dei giudici, al quale le parti potevano essere rimesse dal
magistrato. Mentre in iure si decideva, se in quel determinato caso si potesse
far luogo all'applicazione della legis actio, e si dava alla fattispecie la
configurazione giuridica delle me desima; in iudicio invece giudicavasi della
ragione e del torto fra le parti contendenti, in base alla configurazione
giuridica, che la controversia aveva assunto davanti al magistrato. Ci consta
infine, che le legis actiones si dividevano in due ca tegorie, ispirate ad un
concetto compiutamente diverso, in quanto che vi erano quelle, che miravano a
fissare il punto in questione e ad ottenere la decisione del medesimo, e
costituivano così la pro cedura, che potrebbe chiamarsi processuale o
contenziosa; e quelle invece, che miravano all'esecuzione del giudicato, e
costituivano così la procedura esecutiva. Nella prima categoria noi troviamo la
legis actio sacramento e la iudicis postulatio, alle quali venne ad ag
giungersi più tardi la legis actio per condictionem; mentre nella seconda la
vera procedura di esecuzione è costituita dalla manus iniectio, che è diretta
contro la persona del debitore condannato o confesso, poichè solo in pochi
casi, determinati dalla legge o dal costume, è accordata la pignoris capio. Ho già accennato altrove n ° 243, 296 e seg.,
come la distinzione fra il ius ed il iudicium debba considerarsi come una
conseguenza necessaria di ciò, che la pubblica giurisdizione del magistrato non
estendevasi dapprima a tutte le con troversie civili e penali, ma comprendeva
soltanto quelle, che eransi sottratte alla giurisdizione domestica e gentilizia,
per essere deferite alla giurisdizione del magi strato. Di qui la conseguenza,
che ogni controversia civile ed ogni accusa penale davano anzitutto luogo ad
una questione preliminare, da decidersi in iure, in cui trattavasi di vedere,
se la controversia, o se il delitto, di cui si trattava, potessero dare
argomento ad un iudicium. Di qui le espressioni di actionem dare, iudicium
dare. Questa distinzione pertanto, fra il ius ed il iudicium, non ha nulla che
fare colla separazione tra il fatto ed il diritto: ma mira in certo modo a
sceverare le questioni, che debbono essere lasciate alla giurisdizione
domestica ed agli arbitra menti privati, da quelle, che debbono essere
giudicate a secundum legem publicam . Questa
distinzione fra la procedura contenziosa e la procedura di esecuzione non è
espressamente indicata in Gaio, il quale si limita a dare come caratteristica
delle legis actiones, che esse, ad eccezione della pignoris capio, si
compievano in iure, cioè davanti al magistrato; ma tale distinzione è
comunemente accettata e può dedursi dalla circostanza, che Gaio comincia in
effetto a discorrere delle azioni, che si potrebbero chiamare processuali, e
poi viene a parlare delle procedure esecu. tive, ancorchè queste fossero certo
più antiche della legis actio per condictionem. In questo stato di cose, la
questione fondamentale, che pre sentasi all'investigatore delle origini della
procedura quiritaria, sta in cercare, se il sistema delle legis actiones debba
ritenersi creato di pianta dopo la legislazione decemvirale ed in base alla
medesima, o se invece debba ritenersi costruito e modellato con materiali giu
ridici già preesistenti. A questo proposito ho cercato di dimostrare a suo
tempo, che già fin dal periodo regio, cosi nei giudizii penali come nei civili,
si possono trovare le traccie di quella separazione fra il ius ed il iudicium,
che venne poi ad essere fondamentale nel sistema delle legis actiones, e che
dovettero fin d'allora già esistervi delle pro cedure consuetudinarie,
certamente analoghe a quelle, che compa riscono più tardi col nome di legis
actiones. Che anzi abbiam visto eziandio essere probabile, che sopratutto
all'epoca serviana, in cui si cominciò ad elaborare un ius quiritium, comune al
patriziato ed alla plebe, e si modello l'atto quiritario per eccellenza, che
era l'atto per aes et libram, siasi pure iniziata la formazione di una
procedura propria per le questioni di carattere quiritario. Le prime origini di
tale procedura sembrano accennate dalla tradizione, che at tribuisce appunto a
Servio Tullio, di aver distinto i giudizii pubblici dai privati, e di aver
ritenuto per sè la cognizione delle contro versie di maggior importanza, mentre
avrebbe affidato a giudici scelti nell'ordine dei senatori, la risoluzione
delle controversie di minor importanza. È infatti questa tradizione, che unita
alla considerazione del grande movimento legislativo, che dovette ve rificarsi
in quell'epoca, rende assai verosimile l'opinione di co loro, che farebbero
rimontare a Servio Tullo l'origine del tribu che egli ci dice essere stata
introdotta per l'ultima. Cfr. BUONAMICI, Op. cit., 19 e 20. È questa la questione, che fu di recente
presa in esame dallo Zocco-Rosa, Palingenesi della procedura civile romanı,
Roma 1887. Egli ridurrebbe le teorie in proposito enunciate a tre, cioè: 1) a
quella che vuol fare uscire la primitiva procedura dal seno stesso della
religione e del ius sacrum; 2) alla teoria, che egli chiama della preesistenza
delle legis actiones alle XII Tavole; 3 ) e alla teoria della discendenza delle
medesime dalle XII Tavole. Egli viene alla conclusione ammessa dalla generalità
degli autori, che prima delle XII Tavole moribus agebatur, mentre
posteriormente lege agebatur. Passa poi a cercare le origini della primitiva
proce dura consuetudinaria presso i popoli di origine Aria, e questa sarebbe
ricerca di grande interesse; ma forse per ora non si hanno ancora materiali
sufficienti per giungere ad una conclusione definitiva) nale quiritario dei centumviri, quella dei
iudices selecti, ed anche la prima distinzione fra l'actio sacramento e la
iudicis postulatio; di cui quella avrebbe aperto l’adito al centumvirale
iudicium, e questa invece alla nomina di arbitri o di giudici, scelti dal
novero dei iudices selecti. Questi indizii tuttavia, che accennano alla for
mazione di una procedura quiritaria, anteriore alle XII Tavole, non impediscono
punto, che la medesima abbia dovuto subire un rima neggiamento in tutte le sue
parti, di fronte ad un avvenimento cosi importante per il diritto privato di
Roma, quale fu quello della le gislazione decemvirale. Non parmi quindi, che
possano essere respinte le attestazioni con cordi degli antichi autori, secondo
cui la procedura civile, se non creata, dovette almeno essere rimaneggiata, in
base alla legislazione decemvirale, per opera del collegio dei pontefici, e che
in quell'oc casione appunto le actiones, essendo state accomodate alla legge,
abbiano assunta la denominazione caratteristica di legis actiones. Che anzi da
questo fatto parmi si possa indurre con fondamento, che la parte del ius
quiritium, relativa alle legis actiones, dovette essere l'ultima ad essere
elaborata dai veteres iuris conditores, al lorchè già erasi formato un vero ius
quiritium, e che, ciò stante, questa parte, per essere sopraggiunta più tardi,
quando le altre già erano formate, non potè ridursi ad una semplice
incorporazione di consuetudini processuali già preesistenti, ma dovette già
essere il frutto di una selezione e di una elaborazione, a cui le medesime
furono sottoposte. Nė può ritenersi improbabile, che questa elabo razione abbia
potuto essere l'opera degli stessi pontefici, quando si ritenga, che essi da
una parte erano i custodi delle tradizioni delle genti patrizie e
personificavano in certo modo lo spirito conserva tore delle medesime, e
dall'altra furono senz'alcun dubbio i creatori della tecnica giuridica, e i
primi maestri alla cui scuola si forma rono i grandi giureconsulti della
Repubblica e dei primi secoli del l'Impero. Parmi anzi, che questa elaborazione
dei pontefici, giure consulti e patrizii ad un tempo, valga a spiegare quel
doppio carattere dell'antica procedura romana, la quale nelle proprie forme e
nei proprii vocaboli richiama ancora l'organizzazione patriarcale, mentre sotto
un altro aspetto è già un capolavoro di tecnica giuridica, che corrisponde
mirabilmente alle altre parti del diritto privato romano e al concetto del
quirite, ispiratore del medesimo. A quel modo in somma, che i veteres iuris
conditores, trascegliendo fra le forme di matrimonio e di negozii già
preesistenti nelle consuetudini delle - 559 genti italiche, riuscirono a
sceverarne un connubium ed un com mercium ex iure quiritium, e a richiamare
l'uno e l'altro a certe forme tipiche e solenni, che costituirono il diritto
esclusivamente proprio della comunanza quiritaria: cosi essi, operando una
scelta fra i modi di procedere, che già potevano essersi formati nei rap porti
fra i capi di famiglia, e in quelli fra essi ed i loro dipendenti, riuscirono a
ricavarne una procedura tipica, che potè essere consi derata come propria della
comunanza quiritaria. Anche qui pertanto i materiali certo erano preesistenti;
ma il primitivo diritto romano non li accetto senz'altro, quali esistevano, il
che avrebbe dato ori gine ad una varietà di procedure, analoga a quella che
occorre presso gli altri popoli primitivi; ma li sottopose invece ad una se
lezione, riducendoli a quelle forme tipiche, in cui tanto si compia ceva il
genio giuridico romano, come lo dimostra il modo, in cui fu rono modellate
tutte le loro istituzioni giuridiche. Fu in questa guisa, che si riuscì ad una
procedura, la quale, mentre è adatta ad un popolo agricolo e militare ad un
tempo, quale era il popolo romano, porta perd le traccie evidenti
dell'organizzazione patriarcale, da cui usciva, e contiene cosi un ricordo
prezioso delle varie fasi, per cui passo lo stabilimento della civile giustizia.
432. Noi abbiamo infatti veduto a suo tempo, come già nella stessa
organizzazione gentilizia, e sopratutto, allorchè al disopra della gens venne a
svolgersi la tribus, e colla riunione dei vici si formò il pagus, già potessero
sorgere controversie di carattere giu ridico fra i varii capi di famiglia, ed
anche fra essi ed i loro di pendenti, e come il bisogno di venire alla
risoluzione di tali con Questa
spiegazione intorno all'origine delle legis actiones ha il vantaggio di mettere
d'accordo fra di loro i passi di antichi autori, relativi a quest'argomento,
che pervennero fino a noi. Con essa infatti può conciliarsi la vetustissimi
iuris ob servantia, a cui accenna Pomponio, coll'attestazione concorde dello
stesso Pomponio e di Gaio, secondo cui le legis actiones furono composte ed
accomodate sulle parole stesse delle XII Tavole. Questi due caratteri,
pressochè in opposizione fra di loro, possono conciliarsi fra di loro, quando
si accetti la teoria, svolta più sotto, di distin guere nella legis actio, come
già nell'atto per aes et libram due parti, cioè la parte mimica, e la verborum
conceptio. È la prima, che costituisce una vetustissimi iuris observantia, ed è
un ricordo delle varie fasi attraversate nello stabilimento della civile
giustizia; ed è la seconda, che potè invece essere accomodata e composta sulle
parole stesse della legge. GAIO, IV, 11; POMP., Leg., Dig.. troversie, abbia potuto dare origine a
certimodi di procedura, che col tempo dovettero acquistare una vera autorità
consuetudinaria. Da una parte si dovette formare una procedura fra i capi di fa
miglia, uguali fra di loro, che nella loro fiera indipendenza non accettavano
altro giudice, che quello che erasi fra loro concordato, il quale, anzichè
giudice diretto della controversia, lo era invece della scommessa, con cui
cercavano di rafforzare l'affermazione so lenne della propria ragione. Questa è
quella procedura, che presso i romani fu ridotta ad una forma tipica, e
denominata actio sacra mento, le cui traccie trovansi non solo fra le genti
italiche, ma anche fra le elleniche, e presso i popoli Arii dell'India. L'altra
invece fu una procedura, la quale ricorda ancora uno stato di privata violenza,
e che probabilmente dovette svolgersi nei rapporti fra i vincitori ed i vinti,
e più tardi nei rapporti fra la classe superiore dei padri, dei patroni, dei
patrizii, e quella infe riore dei servi, dei clienti e dei plebei. Essa nelle
proprie origini dovette essere una effettiva manus iniectio, ma poscia fu
richiamata ad una significazione giuridica, e significò l'esercizio anche
violento della potestà giuridica spettante a una persona, come lo dimostra il
fatto, che essa continuò anche più tardi ad essere adoperata dal padrone sul
servo, dal padre sul figlio, ed anche dal patrono sul liberto (3 ). Or bene
entrambe queste forme di procedere, che certo ricordano un periodo anteriore di
organizzazione sociale, entrarono nella com pagine del ius quiritium, e vi
furono modellate per modo da cor rispondere alle altre parti di esso. La prima
fu adottata come azione tipica, allorchè trattasi di istituire un giudizio fra
quiriti: come tale essa mira a serbare la più scrupolosa imparzialità ed ugua
glianza fra i contendenti, non sapendosi ancora chi possa essere il vincitore e
chi il soccombente. La seconda invece fu adottata come azione tipica, allorchè
trattasi di procedere all'esecuzione contro chi abbia subita una condanna, o
confessato il proprio debito. Quanto
alla primitiva formazione delle actiones, nei rapporti fra i capi di fa miglia
della stessa tribù e in quelli fra i capi famiglia e i loro dipendenti. V. in proposito
lib. I, nº 104, 135, nota 14. Cfr. il SUMNER MAINE, Early history of
institutions, Lect. IX; e lo Zocco- Rosa, Op. cit., 209(3 ) V., quanto
alle prime origini della manus iniectio. Cfr. CAPUANO, Storia del diritto
romano, Napoli 1878; Cugino, Trattato storico della procedura civile romana, 116;
BuonamiCI. Di qui provennero i caratteri compiutamente diversi del l'actio
sacramento e della manus iniectio. Nella prima abbiamo una procedura fra eguali;
quindi i con tendenti sono in certo modo attori e convenuti ad un tempo: sono
le persone, fra cui si discute, che recansi dinanzi al magistrato. Esse fingono
un combattimento fra di loro; affermano con identiche parole il proprio
diritto; fanno le medesime scommesse di 50 o di 500 assi, secondo il valore
della controversia; sono ugualmente obbligati a dare garanzia (vindicias dare)
se siano ammessi al possesso della cosa, che forma oggetto della controversia.
Lo scru polo nel mantenere l'uguaglianza non potrebbe spingersi più oltre, ed è
uguale anche il pericolo per l'uno e per l'altro dei contendenti; poichè la
somma scommessa si perde dal soccombente, e mentre nell'epoca gentilizia era
forse consacrata ad usi religiosi, nel periodo storico deve andare invece a
benefizio del pubblico erario. L'altra procedura invece, rozza, violenta
suppone una assoluta disuguaglianza fra i contendenti. Quella stessa legge, che
procedeva titubante e quasi diffidente per il timore dioffendere l'indipendenza
dei contendenti, non teme invece di accordare diritti illimitati e pres sochè
senza confine al creditore contro il iudicatus ed il confessus. Essa non si
preoccupa dei beni di quest'ultimo, ma dà diritto al creditore di procedere
contro la persona del debitore, di imporre sopra di lui la sua manus, e di
trascinarlo avanti al magistrato per farsi aggiudicare la persona del debitore
stesso. Questi invece non ha diritto di reagire contro la violenza del
creditore (a se de pellere manum ) né di agere pro se lege; ma solo di nominare
un altro, che faccia valere le sue ragioni (vindicem dare) . Mentre l'actio
sacramento è come una rappresentazione simbolica (vis festucaria) di quel
combattimento effettivo (vis realis), a cui poteva dar luogo una privata
controversia fra capi di famiglia indipendenti e sovrani, dell'interporsi fra
essi di un vir pietate gravis, dell'affermazione scambievole della propria
ragione, fatta dai contendenti e rafforzata da una scommessa, della quale deve
esser giudice quegli a cui le parti si sono rimesse; la manus in Tutti questi caratteri della legis actio
sacramento si possono ricavare dalla descrizione di quest'azione fatta da Gaio,
per quanto la medesima presenti molte lacune, sia quanto all' actio sacramento
in personam, che quanto all'actio sacramento relativa agli immobili. Gaio, Comm., C., Le origini del diritto di
Roma. 36 562 iectio invece è la procedura del vincitore contro il vinto, di
colui, che ha il diritto, contro colui, il quale ne è privo, di quegli, che può
dettare la legge, contro colui, che deve subirla. Anche la controversia è una
lotta: quindi se durante la me desima deve essere serbata l'uguaglianza,
allorchè invece essa è finita, il vincitore può stendere la propria mano sul
vinto e questi è forzato ad arrendersi. Era poi naturale, che la procedura di
un popolo agricolo e militare ad un tempo, per cui l'asta era il sim bolo del
giusto dominio, venisse eziandio ad essere simboleggiata in una specie di lotta
e di conflitto. È tuttavia degno di nota, che i pontefici, nell'accogliere e
nel modellare queste forme di procedura, si attennero ad un processo del tutto
analogo a quello, che abbiam visto essersi seguito nel fog giare le forme dei
negozii giuridici del diritto quiritario. Al modo stesso, che nell'atto
quiritario per aes et libram può ravvisarsi una parte, che compievasi dicis gratia, propter veteris iuris
imitationem e che costituiva cosi un
ricordo del passato, ed una parte veramente viva, che era la nuncupatio,
mediante cui un medesimo atto poteva accomodarsi ad una varietà grandissima di
negozii, anche di carattere compiutamente diverso; cosi anche nella procedura
primitiva, miri essa ad istituire un giudizio od alla esecuzione di un
giudicato, possono facilmente distinguersi due parti, che compiono una funzione
compiutamente diversa. Havvi anzitutto una parte, che potrebbe chiamarsi
mimica, che si presenta sempre uniforme ed uguale, la quale è mantenuta
evidentemente più come un ricordo del passato, che per l'utilità effettiva, che
si possa ricavarne; come lo dimostra la disinvoltura, con cui si accettano gli
espedienti, che mirano a semplificarla. Questa parte nell'actio sacramento è
rappresentata dal recarsi sul luogo, ove trovasi l'oggetto in contestazione, se
trattisi di immobile; dal portare davanti al magistrato la cosa mobile o una
particella di essa; dal simbolo della festuca, che adoperavasi hastae loco;
dalla finta manuum consertio, dalla mutua provocatio, e dal sacra mentum. Nella
manus iniectio invece essa è rappresentata dal fatto di adprehendere manu
qualche parte del corpo del proprio debitore. È questa parte mimica, la quale,
costituendo in certomodo una soprav vivenza, col tempo divento pressochè
incomprensibile, e potè talvolta essere posta in derisione, anche da autori
antichi e fra gli altri da Cicerone. E tuttavia a notarsi, che lo stesso
Cicerone, allorchè scrisse 563 nell'interesse del vero e non in quello del
cliente, non dubito di dichiarare, che era di grande diletto questa impronta di
vetusta, inerente alle legis actiones, e di affermare che: actionum ge nera quaedam maiorum
consuetudinem vitamque declarant. Queste formalità infatti, conservateci da un
popolo, che, più di qualsiasi altro, seppe sceverare l'essenzialità del fatto
umano dalle circostanze accidentali del medesimo, sono anche oggidi un impor
tantissimo documento del modo di pensare e di agire. che era proprio delle
primitive genti italiche. Intanto perd, accanto a questa parte, il cui
mantenimento era l'effetto dello spirito conservatore del popolo romano, eravi
eziandio la parte veramente viva ed attuosa, e questa consisteva in quelle
concezioni verbali, solenni e precise (conceptiones verborum, verba concepta,
certa verba ), che servivano a dare una configurazione giuridica alle varie
fattispecie e a farle entrare nella veste rigida delle legis actiones. Era in
questo modo, che, malgrado la va rietà infinita delle fattispecie, si riusciva
ad isolare l'obbiettività giuridica delle medesime e a richiamarle tutte a
pochissimi genera agendi. Questo era l'ufficio, a cui attesero dapprima i
pontefici, poi il pretore, e da ultimo i giureconsulti, e fu con questo
magistero che la sola actio sacramento fini per essere accomodata a tutte le
controversie di carattere quiritario, e la sola manus iniectio poté bastare a
qualsiasi procedura esecutiva. Vuolsi quindi conchiudere, che queste due legis
actiones costi tuiscono in certo modo il nucleo centrale della procedura
quiritaria. Esse sono quelle, in cui si può leggere il modo di pensare e di
agire del primitivo quirite, fiero, indipendente, geloso del proprio CICERONE (vedasi), Pro Murena, scherza
spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla proprietà di un fondo,
dimostrando come le forme primitive avessero complicata una procedura, che
avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De orat., I, riconosce
eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in questo studio
dell'antico, allorchè scrive: Nam si
quem aliena studia delectant, plurima est in omni iure civili, et in pontificum
libris, et in XII Tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum prisca
vetustas cognoscitur, et actionum genera quaedam maiorum con suetudinem
vitamque declarant. A mio avviso, la
conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della nuncupatio
nell'atto per aes et libram. Ciò sarà meglio dimostrato più sotto, nº 449, ed
apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole atte nersi il
primitivo diritto romano. 564 diritto, finchè la sentenza non sia pronunziata;
umile, sottomesso, pronto ad abbandonare se stesso al proprio creditore,
allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria. Intanto però, accanto a
queste due procedure fondamentali, se ne vennero svolgendo delle altre, che
sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di ri cercare lo svolgimento
storico, così della procedura contenziosa, che della procedura esecutiva. Lo svolgimento storico della procedura
contenziosa nel primitivo diritto. 485. Se l'actio sacramento costituisce il
nucleo centrale della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones,
noi sappiamo però, che attorno ad essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo
la iudicis postulatio fra i cittadini, e la recuperatio fra cittadini e
stranieri, e che alle medesime più tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis
actio per condictionem. Importa quindi di determinare la funzione, che questi
vari genera agendi esercitarono sulla pri mitiva procedura, e di ricercare
eziandio l'ordine progressivo della loro formazione. Delle antiche legis
actiones, quella, intorno a cui ci pervennero maggiori notizie, è certo l'actio
sacramento. Noi sappiamo della medesima, che generalis erat, in quanto che
poteva essere adoperata per tutte le controversie, per cui non fosse stata
introdotta altra speciale procedura, si trattasse di agere in rem, od anche di
agere in personam. Essa quindi sembra riportarci ad un'epoca, in cui non doveva
esistere ancora la distin zione fra l'azione in rem e l'azione in personam; il
che però non impedisce, che essa presentasse delle differenze nelle solennità e
nelle espressioni adoperate, secondo che trattavasi di agere in rem o di agere
in personam. Cosi pure in essa non vi è ancora la distin zione netta e precisa
fra l'attore ed il convenuto, ma i contendenti sono attori e convenuti ad un
tempo, come lo dimostra l'identità delle espressioni da essi adoperate. Infine
essa non conduce alla ri soluzione diretta della controversia, ma piuttosto a
giudicare quale dei due contendenti abbia affermato il vero e quale il falso, e
quale perciò debba essere soccombente nella scommessa fra i medesimi intervenuta
(utrius sacramentuin iustum, utrius sacramentum in iustum sit); cosicchè in
essa il soccombente, oltre al perdere in - direttamente la lite, corre anche il
rischio di perdere la scom messa. Noi sappiamo poi, quanto alle controversie
che dovevano rivestire la forma di questa legis actio, che essa costituiva un
preliminare indispensabile per tutte le cause di carattere veramente quiritario,
le quali erano sottoposte al centumvirale iudicium, ed anche per quelle
relative alla verità ed allo stato delle persone (caussae liberales), quanto
alle quali noi sappiamo, che il sacramentum era solo di cinquanta assi
(quinquagenarium ), e che esse erano devolute ai decemviri stlitibus iudicandis
. Tutti questi caratteri imprimono un suggello di vetustà all'actio sacramento,
e ci richiamano a quella potente sintesi, che è carat teristica del primitivo
ius quiritium, in cui non distinguesi ancora fra diritto personale e reale, fra
attore e convenuto, fra la provo. catio e la litis contestatio. Si comprende
quindi, che la mimica, che la precede, sia come un ricordo dei varii stadii,
per cui passò lo stabilimento della civile giustizia, fra i capi di famiglia, e
che essa, trapiantata dall'organizzazione gentilizia nella città, sia stata
rico nosciuta come l'azione tipica del diritto quiritario. Ciò spiega eziandio
come essa, mentre è certamente la più antica, sia stata anche la più duratura
delle legis actiones; poichè, quando le altre furono abolite, continud pur
sempre ad essere mantenuta qual preliminare al centumuirale iudicium, cioè
davanti a quel tribunale dei cen tumviri, che può essere considerato come il
tribunale essenzial mente quiritario, sia per il modo, in cui era composto, sia
per le controversie, che gli erano sottoposte, che erano appunto quelle, che
riguardavano la posizione di ciascun cittadino nel censo, e quindi anche nello
Stato. GAIO: CICERONE (vedasi)., Pro Caecina, 33, ove dice, che in una causa da
lui trattata per la libertà di una certa Aretina fu deciso, che il suo
sacramentum era iustum. Di qui le espressioni: iusto sacramento contendere,
iniustis sacramentis petere. La
necessità della legis actio sacramento, per una causa da istituirsi davanti al
centumvirale iudicium, è dimostrata dal fatto che, secondo Gaio, anche dopo
l'abolizione delle legis actiones, fu ancora permesso di agire in questa guisa:
a domini infecti nomine, et si centumvirale iudicium futurum sit . È poi lo
stesso Gaio, il quale ci attesta, che le cause di stato erano precedute
dall'actio sacramento, in quanto che egli afferma, che in base alle XII Tavole
il sacramentum per una questione di libertà era solo di cinquanta assi. L'uso
del sacramentum nelle caussae liberales è poi anche confermato da Cic., Pro
Caec. 33. La competenza del centumvirale
iudicium, per le cause di carattere eminente.. È invece ben poca cosa quello,
che ci pervenne intorno alla legis actio per iudicis postulationem. Dal
palimpsesto di Verona non si potè ritrarne, che il titolo, mentre da Valerio
Probo si ricavo la formola, che dovette adoperarsi per ottenere la nomina di un
giudice o di un arbitro: iudicem arbitrumve postulo uti des. Nelle XII tavole
poi sono indicati varii casi, in cui trattandosi di controversie di carattere
indeterminato, che suppongono una certa libertà di apprezzamento, e che
talvolta sono anche designate col vocabolo di iurgia, piuttosto che con quello
di lites, si propone la nomina di uno o più arbitri. Bastano tuttavia questi
pochiindizii per dimostrare le molte e gravi differenze, che la
contraddistinguono dall'actio sacramento. Essa in fatti già suppone la persona
dell'attore distinta da quella del conve nuto; suppone una amministrazione
della giustizia già organizzata, in cuiil magistrato procede alla designazione
del giudice; conduce alla risoluzione diretta della controversia; non trae più
con sè, per quanto almeno noi possiamo saperne, il pericolo di perdere una
scommessa. Essa parimenti, come lo indica la sua denominazione, non conduce più
alla rimessione dei contendenti avanti ad un tribunale collegiale, come quello
dei centumviri e dei decemviri; ma dà origine ad un iudicium privatum, nel vero
senso della parola, in cui il giudice o l'arbitro, secondo un antichissimo
costume ro mano, dovevano essere concordati fra le parti . Essa infine
differisce eziandio dall'actio sacramento per il ca rattere di indeterminatezza
delle controversie, che ne formavano oggetto, le quali supponevano una certa
libertà di apprezzamento 1 mente quiritario, è attestata dall'enumerazione
fatta di tali cause da CICERONE (vedasi)., De orat. I casi, in cui la legge decemvirale parla di
nomine di arbitri, sono quelli relativi al regolamento di confini: si iurgant de finibus, tres arbitros dato ;
alla divisione dell'eredità fra i coeredi (actio familiae erciscundae);
all'apprezzamento del danno dato dall'acqua piovana (arbiter aquae pluviae
arcendae) e qualche altro caso analogo. Vedi KELLER, Il processo civile romano;
ORTOLAN, Expli cation historique des Institutes de Iustinien, Paris. Sebbene non si possa dire, che il
centumvirale iudicium si contrapponga in senso stretto al iudicium privatum,
tuttavia occorrono passi di autori, in cui i centumviri sono contrapposti al
privatus iudex, come in Cic., De or.; in Quint., Instit. or., 10, n ° 115, ove
scrive: alia apud centumviros, alia apud
iudicem privatum in iisdem quaestionibus ratio . Cfr. ZIMMERN, Traité des
actions, 36, nota 3 e 4. 567 - — nel giudice o nell'arbitro chiamato a
risolverlo; cosicchè, di fronte al iudicium directum, asperum, simplex, che era
istituito col l'actio sacramento, essa iniziava di preferenza un iudicium od un
arbitrium moderatum, mite, in cui cominciava ad essere lasciata qualche parte a
quell'equità e buona fede, che erano escluse dalle forme rigide e precise del
primitivo ius quiritium. Al qual pro posito vuolsi eziandio notare, che quando
si confronti la denomi nazione attribuita da Gaio a questa legis actio, che è
quella di iudicis postulatio, colla formola serbataci da Valerio Probo, secondo
la quale si domanda un giudice od un arbitro, è lecito di inferirne, che in
essa dovette avverarsi uno svolgimento storico. Essa dapprima infatti dovette
implicare soltanto la nomina di un iudex, sotto il quale vocabolo si
comprendeva anche l'arbiter. Più tardi invece, e probabilmente in seguito alla
legislazione decemvirale, la quale am metteva per certe questioni anche la
nomina di arbitri, essa dovette porgere occasione a quella distinzione fra
iudicium ed arbitrium, la quale presentava ancora tante incertezze all'epoca di
Cicerone. Questi caratteri presi insieme mi condurrebbero alla conclusione, che
la iudicis postulatio non presenti più quell'impronta di vetustà, che è propria
dell'actio sacramento, e non possa perciò considerarsi come una procedura di
carattere patriarcale, trasportata a Roma. Essa invece dove già formarsi sotto
l'influenza della vita cittadina, e dove probabilmente essere una conseguenza
della stessa formazione del ius quiritium. Siccome infatti, secondo appare
dalle leggi, che ne governarono la formazione, il ius quiritium non costitui
mai tutto il diritto di Roma, ma solo quella parte di esso che corrisponde al
concetto del quirite, e che primo era riuscito a consolidarsi mediante il
riconoscimento di una lex publica. Cosi ne consegui necessariamente, che anche
le controversie, che potevano sorgere fra i cittadini, si divi [Cic., Pro
Mur.,osserva, scherzando, che i giuristi non si sono ancora potuti accordare
circa l'uso delle parole di iudex o di arbiter. La difficoltà di allora non è
ancora scomparsa oggidì; poichè la distinzione fra iudicium e arbitrium, fra il
ius strictum e l'aequitas, fra la lis e il iurgium, è una di quelle questioni
di limiti, che non saranno mai definitivamente risolte. Cfr. KELLER. Quanto
alla differenza fra iudicium strictum e arbitrium, mi rimetto al De
exceptionibus in iure romano (Torino)] dessero naturalmente in due categorie.
Vi erano da una parte le controversie di carattere eminentemente quiritario,
relative al caput, alla manus, al mancipium, all'atto per aes et libram, ai
negozii rivestiti della forma del medesimo (nexum, mancipium, testamentum ),
all'eredità e alla tutela legittima; le quali, per poggiare sopra una legge o
sopra un atto od un negozio di carattere quiritario, potevano ridursi in certo
modo ad una affermazione o ad una negazione, ed accomodarsi così alle forme
rigide dell'actio sacramento. Vi erano invece dall'altra parte quelle
controversie, le quali, o per l'indeterminatezza del loro oggetto, o per
supporre una certa latitudine di apprezzamento in chi era chiamato a
giudicarle, o per dipendere più dalla consuetudine, che da una vera legge,
abbisogna vano in certo modo più di un arbitro, che non di un giudice, nel
significato ristretto, che ebbe ad assumere più tardi questo vocabolo.
Quest'ultime pertanto richiedevano una procedura più semplice, non accompagnata
dai pericoli dell’actio sacramento, in quanto che le parti contendenti possono
anche in parte essere nella ragione ed in parte essere nel torto. Quindi è
probabile, che siano state appunto queste controversie, le quali, al punto di
vista quiritario, hanno minor importanza, che Servio Tullio comincia a deferire
al iudex privatus, introducendo appunto per esse la iudicis postulatio. Così
pure non è punto improbabile, che nella precisione ed esattezza del linguaggio
le prime controversie di carattere quiritario si indicassero col vocabolo di
vere lites, mentre le altre fossero designate piuttosto col vocabolo di iurgia.
Siccome poi col tempo, una parte di quel diritto, che in certo modo esiste allo
stato fluttuante intorno al nucleo centrale del ius quiritium, fini per essere
attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle forme rigide e precise del
diritto quiritario. Cosi si può comprendere, come col tempo la iudicis
postulatio, che dapprima ha un carattere sussidiario, puo entrare anch'essa a
far parte del sistema delle legis actiones. Ciò anzi dovette avvenire
naturalmente, allorchè la legislazione decemvirale accolge la iudicis arbitrive
postulatio, come lo dimostrano le controversie, [L'opinione qui svolta, circa i
rapporti fra l'actio sacramento e le iudicis postulatio, si avvicina a quella
enunziata da KARLOWA (Der röm. Civilprozess) per cui essa prescrisse al
magistrato di addivenire alla nomina di un giudice, o di uno o più arbitri. Da
quel punto la iudicis postulatio entra a far parte del sistema della procedura
civile romana. Costitui ancor essa una legis actio; che anzi, per il minor
pericolo che offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento,
come lo dimostra Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di azioni alla
iudicis postulatio, che alla stessa actio sacramento. Questo svolgimento poi fu
sopratutto favorito dalla distinzione, che si opera nella stessa iudicis
postulatio, fra il iudicium e l'arbitrium, il quale ultimo, accompagnato dalla
clausola ex fide bona, fini, secondo l'attestazione di Cicerone, per essere
applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in tutti quei negozii, in
cui domina la buona fede, quali sarebbero la società, la fiducia, il mandato,
la vendita, la locazione, e simili. Questi negozii infatti, negli inizii, sono
ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium, e come tali non potevano formar
tema dell'actio sacramento, ma solo della iudicis postulatio, alla quale
probabilmente dovette appartenere la clausola conservataci dallo stesso
Cicerone – uti ne propter te fi demve tuam captus fraudatusve siem. Pervenuto a
questo punto nella storia della primitiva procedura romana, parmi opportuno di
arrestarmi alquanto all'esame di un istituto, il quale, malgrado le sue modeste
apparenze, dovette tuttavia esercitare una potente influenza sullo svolgimento
della medesima. Esso è quell'antichissimo istituto, che è indicato col vocabolo
di reciperatio, ed al quale si rannoda senz'alcun dubbio quella categoria di
giudici, o di arbitri, che vengono sotto il nome di recuperatores. Si è veduto
in proposito, che nelle consuetudini delle genti italiche era indicata col
vocabolo di reciperatio quella clausola, che soleva aggiungersi aitrattati di
amicitia e di hospitium fra le varie genti o tribù, con cui stipulavasi fra
esse un diritto di reciproca actio, cosicchè i cittadini di un popolo potevano
chiedere ed ottenere ragione nel territorio e presso il magistrato di un altro.
Era con [Voigt (XII Tafeln) assegna alla iudicis arbitrive postulatio ben XXXV
azioni, di cui IX apparterrebbero agl’arbitria, e il rimanente ai iudicia
propriamente detti. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., -- CICERONE (vedasi), De
offic.] questa clausola, che la protezione giuridica, in base ad un trattato (foedus),
comincia ad oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio per
estendersi a quelli di un altro, con cui si fosse in amichevoli rapporti. Essa
poi aveva questo di particolare, che pone in certo modo di riscontro i diritti
dei due popoli, e rendeva anche necessario il ministero di più recuperatores,
tolti anche da popoli diversi, in quanto che i medesimi doveno rappresentare
l'elemento cittadino e lo straniero ad un tempo. Quando poi si ritenga, che
Roma usci essa stessa dalla confederazione di genti di origine diversa, e fin
dalle proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle amicizie e
colle alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come in essa la
reciperatio sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente, e ha col
tempo assunto il carattere di una procedura regolare, da applicarsi nei
rapporti fra i cives ed i peregrini. Cio è dimostrato dal fatto, che gl’antichi
autori indicano talvolta la recuperatio col vocabolo caratteristico di actio, e
che in Roma i recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed i
peregrini, si cambiarono in una categoria di giudici, che potevano essere
nominati anche per le controversie inter cives, e sopratutto dal bisogno
sentito più tardi di creare un praetor peregrinus qui inter peregrinos ius
diceret. La reciperatio s’applica anche al ius pacis, nei rapporti fra le varie
genti. Se fosse lecito di paragonare istituti, che si svolsero a distanza di
migliaia di anni,direi che la reciperatio, nel passaggio dall'organizzazione
gentilizia alla città nel mondo an tico, corrispose a quella istituzione, che
pure ebbe a svolgersi nel periodo di forma zione degli Stati moderni, e che si
esplicò col nome analogo di reciprocanza di diritto, la quale consisteva
nell'accordare agli stranieri quella stessa protezione di diritto, che fosse
accordata ai nostri concittadini nello stato, a cui gli stranieri ap
partenevano. In quei tempi antichissimi la reciperatio, come nei tempi moderni
la reciprocanza, concorsero alla formazione dell'idea di una comunanza di
diritto fra i diversi popoli, che presso i romani prenderà il nome di ius
gentium, e che nell'età moderna e dal Savigny indicata col nome di comunanza di
diritto, la quale, secondo il grande fondatore della scuola storica, dove
essere posta a fondamento del diritto internazionale. V. Savigny, Traité de
droit romain, trad. Guenoux. Quanto ai rapporti poi, che intercedono fra il
concetto dell'antico ius gentium, e questa comunanza di diritto fra gli stati
moderni, mi rimetto ad altro mio lavoro col titolo, La dottrina giuridica del fallimento
nel diritto internazionale private (Napoli) come pure all'opera, La vita del
diritto nei suoi rapporti colla vita sociale (Torino). Quanto all'influenza,
che esercitarono in Roma la recuperatio ed i recupera [Queste circostanze
intanto rendono probabile la congettura, che in Roma, fin dai più antichi
tempi, dovettero trovarsi di fronte due forme di procedura. L'una, propria dei
quiriti, e perciò adatta al rigore del diritto quiritario; l'altra invece,
applicabile ai rapporti fra cittadini e stranieri, e percid più semplice e
spedita. Siccome pero uno stesso magistrato sovraintendeva dapprima all'una e
all'altra, cosi esso veniva ad essere posto nella posizione singolare di
proseguire da una parte l'elaborazione del ius quiritium e di sentire
dall'altra l'influenza del diritto degli altri popoli, e di potere cosi
giudicare dell'opportunità e del bisogno di trasportare nella procedura romana
certe semplificazioni, che sono invece proprie della reciperatio. Di qui una
scambievole influenza di queste due forme di procedura, la quale continua
ancora, allorchè l'accrescersi delle controversie condusse a dividere la
iurisdictio fra due pretori, che nella loro stessa denominazione di praetor
urbanus e di praetor peregrinus portano le traccie del dualismo, che essi
rappresentano. E questo il motivo per cui, a quelmodo stesso, che i
recuperatores finirono per essere accolti nelle categorie dei giudici fra i
cittadini, così certe procedure, che prima dovettero essere seguite nei
rapporti fra i cives e i peregrini, finirono, come più semplici e spedite, per
essere accolte eziandio nel diritto civile di Roma. Che anzi la coesistenza di
queste due procedure dovette, a mio tores, i quali diventarono col tempo una
istituzione romana e sono i modesti preparatori della maggior opera, che doveva
poi compiere il praetor peregrinus, istituito probabilimente nell'anno 512
dalla fondazione di Roma (KELLER, Il processo civile romano, ZIMMERN, Traité
des actions, JHERING, L'esprit du droit romain, KarLOWA, Röm. Civil prozess, Bouché-LECLERQ,
Instit. rom., MUIRHEAD, Histor. introd., quanto all'applicazione della
recuperatio inter cives. Keller nota a ragione che il riguardare la legis actio
come propria soltanto dei cittadini romani, è una asserzione più volte
prodotta, ma non pienamente giustificata. Noi sappiamo anzi da Gaio, che
coll'actio sacramento poteva procedersi, anche davanti al praetor peregrinus,
al modo stesso che il praetor urbanus nomina dei recuperatores, anche per cause
inter cives; ma ciò venne appunto ad essere l'effetto di questa esistenza
contemporanea delle due procedure, la quale condusse ad uno scambio fra di
esse. Intanto qui non può esservi dubbio, che negli inizii le cause relative
allo stretto diritto quiritario, quali erano quelle, che si recano davanti al
centumvirale iudicium, non potevano essere che assolutamente proprie dei cives
romani o dei latini, o dei peregrini, a cui fosse stato esteso il ius quiritium.]
avviso, servire a preparare lentamente certi effetti, chenegli avvenimenti
posteriori appariscono pressochè repentini. Cosi, ad esempio, essa dovette
essere una delle principali cause, per cui, accanto al concetto rigido del ius
civile, si dovette venir gradatamente delineando nella mente del pretore e dei
giureconsulti, che lo circondavano, il concetto più largo di un ius gentium, il
quale, una volta formato, doveva poi recare cosi profonde trasformazioni nel
primo. Cosi pure egli è probabile, che il pretore in questa procedura, non
essendo vincolato ai terminidi una legge, dovette avere una maggior libertà nel
formolare giuridicamente la controversia, il che lo pose in condizione di poter
lentamente preparare, fin da quel tempo, in cui fra i cittadini duravano ancora
le legis actiones, quel sistema delle formulae, il quale col tempo dove poi
essere accolto dal ius civile. Infine, per non spingere troppo oltre le
induzioni, parmi eziandio probabile, che quella egis actio per condictionem, che
ultima comparve nel sistema delle legis actiones, siasi modellata sulla
condictio, che certo già esisteva nella procedura della recuperatio. Noi
sappiamo infatti, che questa era appunto iniziata, mediante una condictio, in
quanto che i contendenti condicebant diem, ossia fis savano di comparire fra XXX
giorni, avanti il magistrato, per ot tenere la nomina dei recuperatores; come
lo dimostrano le espres sioni, che occorrono nelle XII Tavole, di status, condictus dies cum hoste , il quale
doveva essere sacro per modo da essere un legittimo impedimento a comparire in
un giudizio fra cittadini. Sembra tuttavia, che vi fosse una differenza fra la
condictio nella procedura inter peregrinos, e la condictio come legis actio
inter cives; poichè, mentre nella prima era in certo modo concordato il giorno
di comparire avanti al magistrato, nella seconda invece, secondo la descri
zione di Gaio, era l'attore, che intimava al convenuto (actor adver sario
denuntiabat) di comparire fra trenta giorni avanti almagistrato ad iudicem
capiendum . Quanto all' influenza del
praetor peregrinus nel preparare il sistema delle formole e dell'editto
provinciale nell'estendere il concetto del ius gentium è da ve dersi il Glasson
(Étude sur Gajus, Paris). Cfr. C.,
L'evoluzione storica del diritto romano (Torino). Secondo Voigt, XII Tafeln, la
legge II, Tav. II, fra le altre cause di legittimo impedimento a comparire
avanti il magistrato, accenna appunto lo status, condictus dies cum hoste. Cfr.
quanto alla condictio cum hoste, il MuruEAD]. Anche intorno alla legis actio
per condictionem ci per vennero notizie molto scarse, in quanto che il
manoscritto di Gaio si presenta manchevole in quella parte, in cui egli,
accingendosi a parlare della legis actio per condictionem, sembrava accennare
alle origini di essa. Da quel poco tuttavia, che egli ne dice, si può ricavare:
lº che la sostanza di questa legis actio consisteva nella condictio, o meglio
nella denuntiatio, che l'attore faceva al conve nuto di comparire fra XXX
giorni ad iudicem capiendum; 2º che nella medesima quella scommessa, che
occorreva nel sacramentum, appare surrogata dalla sponsio et restipulatio
tertiae partis, per cui il soccombente, oltre l'importo della controversia,
deve corrispondere al vincitore il terzo della medesima a titolo di pena; 3º
che infine essa fu introdotta prima da una lex Silia per le obbligazioni di una
certa pecunia e poi estesa dalla lex Calpurnia alle obbligazioni di una certa
res: leggi, che sogliono essere assegnate approssima tivamente al principio del
sesto secolo di Roma. Quanto alla causa, per cui la condictio ha ad essere
intro dotta, essa forma oggetto di discussione fra i giureconsulti, i quali ha
ad osservare, che per le controversie di questa natura possono servire le
anteriori legis actiones. Ricomponendo tuttavia questi pochi indizii col resto,
che sappiamo delle legis actiones, si possono ricavare alcune importanti
illazioni. È certo anzitutto, che la condictio non e del tutto nuova, nè quanto
al nome, nè quanto alla sostanza, e non è punto improbabile, che fosse una
imitazione della condictio, propria della procedura inter cives et peregrinos.
Essa poi e accolta nel sistema delle legis actiones per le controversie, che
volgevano o intorno ad una certa pecunia o intorno ad una certa res. Quindi,
riguardando obbligazioni relative ad un certum, essa dovette restringere il
dominio della [Gaio. Quanto alla
stipulatio et restipulatio tertiae partis essa non è accennata nel testo
mutilato di Gaio, relativo alla legis actio per condictionem. Ma noi possiamo
indurne la esistenza da ciò, che egli dice altrove, che questa stipulatio et
restipulatio tertiae partis fa parte dell’actio certae creditae pecuniae
propter sponsionem. Ora l' actio certae creditae pecuniae, nel sistema
formolario, succedette alla legis actio per condictionem. Quindi se essa
ritiene questo carattere, che certamente sa di antico, e richiama sott'altra
forma la scommessa del sacramentum, dove certo ereditarlo dalla medesima. È poi
lo stesso Gaio accenna ai dubbi fra i giureconsulti circa il motivo, per cui fu
introdotta questa nuova legis action] actio sacramento, anzichè quello della
iudicis postulatio, la quale e propria delle controversie di carattere
indeterminato. Per tal modo, la condictio si presenta come una semplificazione
dell'actio sacramentu. Abolisce tutta la parte mimica del sacramentum. Sostituisce,
quanto alle obbligazioni aventi per oggetto un certum, il giudice singolo al
tribunale popolare dei centumuiri. Infine surroga alla scommessa, che anda a
beneficio dell'erario, la sponsio et restipulatio tertiae partis, che va invece
a benefizio del vincitore delle lite. Quanto alla causa storica, che può aver
determinata questa semplificazione nella procedura relativa alle obbligazioni
di un certum, essa deve certamente essere cercata in qualche importantissima
tra sformazione, che dovette avverarsi nell'epoca della Lex Silia e Calpurnia,
quanto alle obbligazioni di carattere quiritario. Qui per tanto viene ad aprirsi
un largo campo alle congetture. Ma è possibile di giungere a qualche risultato
probabile, se si tenga dietro al processo storico del ius quiritium nella parte
relativa alle obbligazioni. A questo proposito si è dimostrato a suo tempo, che
la forma primitiva dell'obbligazione ex iure quiritium e quella del l'atto per
aes et libram, che piglia il nome di nexum. Colla medesima il debitore
sottoponeva senz'altro la sua persona a tutti i rigori della manus iniectio,
per il caso che non avesse soddisfatto il suo debito a scadenza. In questa
parte però il ius quiritium subi una trasformazione profonda, allorchè la Lex
Poetelia tolse di mezzo gl’effetti speciali del nexum, negando al medesimo
l'efficacia di un'esecuzione immediata contro la persona del debitore. Da quel
momento il nexum cessa di costituire quell'ingens vinculum fidei che prima e, e
comincia a cadere in disuse. Ma sottentrarono in suo luogo e vece altri modi,
esclusivamente proprii dei cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una
certa pecunia, o di una certa res, quali furono ad esempio la sponsio o stipulatio,
la expensi latio o litteris obligatio, o infine la mutui datio, di cui formano
oggetto quelle cose quae numero, pondere acmensura constant. Per tutte queste
obbligazioni di un certum, non essendo più consentita la immediata manus
iniectio, che un tempo era con- [Cfr. in Keller e il Buonamici, Proc. civ. rom.]
-sentita per il nexum, non puo più esservi altra procedura, che quella
dell'actio sacramento, la quale, per il pericolo, che vi e inerente, non puo a
meno di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa, il cui
credito risulta in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile. Si
comprende pertanto, che prima la lex Silia, per una certa pecunia, e poi la lex
Calpurnia, per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento la legis
actio per condictionem, in cui evvi ancora un vestigio dell'antica scommessa
nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non va più a
benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il vincitore
ed una pena per il soccombente. Siccome poi nel diritto romano ogni istituto,
che riesce a pene trare nella compagine di esso, ben presto si rivendica il
posto, che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può essere capace;
così la condictio, appena fu ammessa come legis actio, essendo più semplice,
più spedita, meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per richiamare a sè
stessa tutte le controversie relative all'obbligazione di un certum, mentre
l'actio sacramento si circoscrive a tutte quelle controversie, che hanno il
carattere di una vindicatio, intesa in largo senso. Di qui consegui col tempo,
che il vocabolo di condictio, nel linguaggio giuridico, divenne pressochè
sinonimo di actio in personam, mentre l'actio sacramento finì per significare
di preferenza l'actio in rem o la vindicatio. Ha quindi tutte le ragioni Gaio
di accusare di improprietà l'uso, che facevasi ai suoi tempi, del vocabolo di
condictio per indicare l' actio in personam, poiché l'essenza della primitiva
condictio non consiste tanto nel dari oportere, quanto piuttosto nella
denuntiatio diei. Ma ciò punto non toglie, che di fatto, in virtù di un lungo
processo storico, verificatosi nel sistema delle legis actiones, l'actio
sacramento si riduce alle sole vindicationes, mentre la condictio e in sostanza
divenuta la forma, sotto cui facevansi valere tutte le actiones in [ Cf. il nexum
-- ove trattasi appunto del comparire della mutui datio e della stipulatio, in
surrogazione del nexum primitivo, che anda in disuso. Anche il MUIRHEAD stiene
un'opinione analoga a quella proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che
egli tratta contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della
legis actio per condictionem. Ho però già notato, come quest'autore ritenga col
Leist la stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da
ammettersi.] personam, e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo
dell'actio in personam. Intanto dalle cose premesse può esser ricavato il
seguente svolgimento storico della procedura contenziosa nel sistema delle
legis actiones. Le due procedure più antiche, le quali rimontano probabilmente
ad epoca anteriore alla fondazione stessa di Roma, sono l'actio sacramento e la
reciperatio. Quella è la procedura, che e accolta come esclusivamente propria
dei quiriti, per le questioni di carattere quiritario, e quindi negli inizii
dove essere la legis actio fondamentale del ius quiritium, nello stretto senso
della parola. Questa invece si applica nei rapporti inter peregrinos ed anche
in quelli inter cives et peregrinos. Siccome però a Roma e continuo l'attrito
fra i cives ed i peregrini, e l'una e l'altra procedura segue davanti allo
stesso magistrato, così ne venne, che le due procedure finirono per esercitare
scambievole influenza l'una sull'altra. Cosicchè col tempo le forme più
semplici e spedite della procedura inter cives et peregrinos finirono talvolta
per essere trasportate ed accomodate alle esigenze del diritto civile romano.
Così, ad esempio, allorchè fra i cittadini, accanto alle vere lites di
carattere quiritario, che per la precisione ed esattezza di questo diritto,
potevano risolversi affermando o negando, si svolsero delle questioni di
carattere più indeterminato, che chiamavansi piuttosto iurgia, accanto
all’actio sacramento, che continua ad essere l'a zione tipica del ius quiritium,
comincia a svolgersi la iudicis postulatio, la quale fini colla legislazione
decemvirale per entrare eziandio nel novero delle legis actiones. Per tal guise,
le controversie, che hanno per oggetto un certum, si trattano coll'actio
sacramento. Quelle invece, che riguardano un incertum, danno argomento alla
iudicis postulatio. Ognuna poi di queste due legis actiones fini- [Gaio, dopo
aver detto, che l'essenza dell'antica legis actio per condictionem consiste
nella denuntiatio diei, aggiunge: nunc
vero non proprie condictionem dicimus actionem in personam, qua intendimus dari
oportere; nulla enim hoc tempore eo nomine denuntiatio fit. Gaio ha ragione dal
suo punto di vista, perchè l'essenza dell'actio in personam ai suoi tempi sta non
più nella denuntiatio diei, ma nel dari oportere. Ma storicamente lo scambio
della parola si era operato, perchè nel sistema delle legis actiones la
condictio era divenuta la forma, sotto cui si proponevano tutte le actiones in
personam aventi per oggetto un certum.] per subire una suddistinzione. Quando
infatti, accanto all'actio sacramento, penetra la condictio, la prima fini per
restringersi alle vindicationes, e questa invece attire a sè tutte le actiones
in personam, che avessero per oggetto un certum, e divenne quasi si nonimo di
actio in personam. Cosi pure, allorchè nel diritto civile romano penetra in
parte la considerazione dell'aequitas e della bona fides, nel seno della
iudicis postulatio si opera pure una distinzione; poichè essa puo dar luogo o
alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un arbitro, secondo la
larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro affidata
nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni di equità.
Intanto però, mentre si ha questo svolgimento storico, è probabile, che tanto
la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in parte, imitano delle
procedure, che già si applicano nei rapporti inter cives et peregrinos. Fu in
questa guisa, che, già sotto la veste ferrea delle legis actiones, si vennero
preparando tutte quelle distinzioni di actiones, che poterono poi acquistare un
libero svolgimento col sistema delle formulae. Tali sono le distinzioni fra la
vindicatio e la condictio; fra l'actio in rem e l'actio in personam; fra le
actiones stricti iuris e bonae fidei; fra le actiones certae e le incertae; fra
l'actio nesin ius conceptae e le actiones in factum. Si può quindi conchiudere che,
anche in tema di procedura, tutte le varietà e distinzioni delle azioni
sembrano procedere da un'unica forma tipica, che è quella dell’ actio
sacramento, la quale fu il nucleo centrale, intorno a cui si svolge la
procedura contenziosa del diritto; ma che accanto alla medesima fin dai primi
tempi fuvvi la reciperatio per le controversie inter cives et peregrinos, dalla
quale dovettero essere mutuate certe procedure più semplici, come quella della
condictio. E poi eziandio in questa procedura, che dove essere applicata dal
praetor peregrinus, che comincia a prepararsi quel concetto del ius gentium, e
quel sistema delle formulae, che esercitarono poi tanta influenza sul diritto
civile romano. Mentre nella procedura contenziosa il diritto cerca di mantenere
la più rigorosa IMPARZIALITA fra i contendenti, esso invece apre l'adito ad una
procedura ben più decisiva, allorchè la lotta fra i contendenti giunse al suo
termine, e trattisi di procedere all'esecuzione contro il soccombente. Anche il
linguaggio giuridico sembra allora richiamare un'epoca di violenza. Ciascuno e vindice
del proprio diritto. Noi veniamo cosi a trovarci di fronte alla manus iniectio
e alla pignoris capio, di cui quella sembra avere il carattere di una
esecuzione contro la persona del debitore, e questa invece il carattere di una
pignorazione contro i beni del medesimo. È tuttavia facile lo scorgere, che
nella procedura quiritaria si preferisce nell'esecuzione di procedere contro la
persona del debitore, anzichè contro i beni del medesimo. Infatti nel diritto
il modo generale di esecuzione per le obbligazioni viene ad essere la manus iniectio,
che è diretta appunto contro la persona. Mentre la pignoris capio riveste in
certo modo il carattere di un privilegium, e viene così ad essere ristretta a
pochissimi casi, che furono specificamente introdotti o dalla legge o dal
costume, e determinati dalla natura del credito. Intanto nell'una e nell'altra
procedura già apparisce evidente, che se i vocaboli richiamano ancora l'uso
della forza, questa pero viene già ad essere regolata dall'impero della legge;
poichè è questa che determina i varii casi, in cui può ricorrersi all'uno od
all'altro modo di esecuzione. Incominciando dalla manus iniectio, noi troviamo
che la medesima, nel ius quiritium, compare sotto forme diverse, che vogliono
essere tenute ben distinte fra di loro. Una prima forma di essa era la manus
iniectio, a cui puo appigliarsi il padrone col servo, che avesse cercato di
sottrarsi al suo potere, e questa era una conseguenza della podestà del padrone
sul servo, di cui rimasero le traccie nella vindicatio in servitutem. Un'altra
forma era quella invece, a cui dava origine l'obbligazione solenne del nexum,
in base a cui il debitore, che non paga a scadenza, poteva, anche senza
l'intervento del magistrato, essere trascinato nella casa del debitore, e quivi
essere ridotto a condizione pressochè servile, fino a che non avesse
soddisfatto il proprio debito. Vuolsi qui aggiungere, che Gaio accenna perfino
al dubbio surto fra i giureconsulti, relativamente alla natura della pignoris
capio, che alcuni ritenevano non essere una legis actio, in quanto che la
medesima, sebbene si compiesse certis verbis, a differenza tuttavia delle altre
legis actiones, extra ius peragebatur, e poteva perfino compiersi *in giorno
nefasto*. Questa manus iniectio rimonta certamente ad epoca anteriore alla
legislazione decemvirale, ed era una conseguenza del rigore dell’obbligazione
quiritaria, contratta colle formedell'atto per aes et libram. Questa e quella
manus iniectio, la quale, applicata sopratutto nei rapporti coi debitori
plebei, da origine a quelle dissensioni civili, a proposito dei nexi, a cui
cercò di porre termine la Lex Poetelia nel 428 di Roma. La Lex Poetelia però
non e ancora una vera legis actio, in quanto che non fondavasi sulla legge, ma
derivava direttamente dal rigore dell'obbligazione quiritaria, assunta colle
forme del nexum, nella quale la volontà manifestata dalle parti costituiva
legge, ed implica la condanna del debitore. Havvi infine quella manus iniectio,
che occorre nella legislazione decemvirale e che costituisce un modo generale
di esecuzione contro coloro, che avessero confessato il proprio debito (aeris
confessi), o che avessero subita una condanna giudiziale per il pagamento di
una determinata somma (iudicati vel damnati). A mio avviso, è solo a
quest'ultima, che Gaio attribuisce il carattere di una vera legis actio, e che
egli indica col nome di manus iniectio iudicati, sive damnati. La severità
inumana, a cui poteva giungere la procedura della [Gaio. L'opinione espressa
nel testo fondasi sulla considerazione, che Gaio restringe evidentemente la
legis actio per manus iniectionem ai casi
de quibus, ut ita ageretur, lege aliqua cautum est , e si limita a fare
una rassegna storica delle varie leggi, le quali, incominciando da Le XII
Tavole, avrebbero consentito questo mezzo di esecuzione. Nella sua esposizione
pertanto non si accenna più a quella rigorosa procedura, di origine pressochè
contrattuale, a cui dava origine il primitivo nexum; tanto più che la medesima
era andata in disuso fin dal tempo, in cui la Lex Poetelia ha tolte di mezzo le
conseguenze speciali del nexum. Non mi sembra quindi il caso di voler forzare
le espressioni di Gaio per far entrare i nexi nella espressione dei iudicati o
dei damnati, adoperata da Gaio. Piuttosto i nexi dell'antico diritto possono
ritenersi compresi negli aeris confessi di Le XII Tavole, dei quali non era più
il caso che Gaio si occupasse. Poichè, se con quel vocabolo si intendevano gli
obbligati col nexum, le disposizioni di Le XII Tavole sono state abrogate, e se
si intendevano gli in iure confessi, non era il caso di farne una categoria
speciale di fronte al principio – in iure confessus pro iudicato habetur. Questa
opinione intanto si differenzia da quella di coloro, che vorrebbero comprendere
i nexi nei damnati, di cui parla Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, e da quella
eziandio di coloro, che appoggiati al testo di Gajo, il quale non parla dei
nexi, vorrebbero escludere gli obbligati col nexum dalla procedura della manus
iniectio, e porre imedesimi nella condizione di tutti gli altri debitori, come
Voigt e Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, Storia del dir. rom., il quale pure
ha adottato l'opinione del Voigt.] manus iniectio, e probabilmente una delle
cause, per cui la medesima col tempo diventa oggetto di investigazione curiosa
per gli stessi autori latini, i quali hanno cosi occasione di tramandarci le
espressioni testuali di Le XII Tavole a questo riguardo. Allorchè altri aveva
subito condanna per un proprio debito, gli era prima consentita una specie di
tregua (velut quoddam iustitium ), che durava XXX giorni, in cui doveva
avvisare almodo di pagare il debito (conquirendae pecuniae causa ). Trascorsi i
medesimi senza che egli pagasse, il creditore puo porre sopra di lui la sua
manus, condurlo davanti al magistrato, e quivi pronunziare la formola solenne
della manus iniectio. Né al debitore era lecito di depellere manum a se, né di
agere lege pro se, ma solo poteva nominare un vindex, che fa valere le sue
ragioni, dando sicurtà per il processo e per l'eventuale pagamento del doppio
nel caso in cui vincesse l'attore. Intanto il creditore puo condurre il
debitore nel suo carcere, e quivi metterlo in catene, con scelta al debitore di
alimentarsi del suo o di lasciarsi alimentare dal creditore. Questo arresto durava
LX giorni, e negli ultimi III giorni di mercato, compresi in questo spazio di
tempo, il creditore dove condurlo di nuovo davanti al magistrato, e far
pubblica la somma da lui dovuta accid qualcuno potesse pagare per lui. Che se
anche allora non si fosse fatto il pagamento, il creditore poteva *ucciderlo* o
venderlo al di là del Tevere (capite poenas dabat, aut trans Tiberim venum
ibat). Ed anzi, se più fossero i creditori, venivano le famose espressioni
conservateci da Gellio – partis se canto: si plus minusve secuerunt, se fraude
esto. L'autore, che ci ha serbata più particolare notizia della procedura
esecutiva nel diritto, conservandoci perfino le parole testuali della legge, è
Gellio, Noc. Att., -- dove introduce il giureconsulto Sesto Cecilio Africano e
il filosofo Favorino, a discutere intorno ad alcune singolari disposizioni del
diritto. Interessante discussione, poichè da una parte abbiamo il
giureconsulto, che, riportandosi alle opportunità dei tempi, cerca di scusare
il vigore del diritto. Dall'altra abbiamo il filosofo, il quale, a nome della
ragione, viene combattendone quelle disposizioni, che il tempo aveva fatto
apparire o irragionevoli od inumane. Intanto, a questa discussione poi dobbiamo
la maggior parte di quelle testuali disposizioni di Le XII Tavole, che a noi
siano pervenute, le quali composte insieme colle informazioni dateci da Gaio,
ci porgono le fattezze primitive della manus iniectio. Si comprende come
l'enormezza del potere, che la legge qui accorda al creditore, lascia increduli gli antichi ed anche i
moderni. Di qui il tentativo recente di Voigt di interpretare la legge nel
senso, che il capite poenas dabat significasse la riduzione in schiavitù del
debitore, e che il partis secanto si riferisse alla ripartizione del prezzo
ricavato dalla vendita, per il caso in cui fossero più i coeredi del creditore.
Certo è, che se noi avessimo soltanto il testo della legge, questo potrebbe
forse consentire questa interpretazione, punto non ripugnando che la legge
attribuisse a quei vocaboli una significazione giuridica, anzichè letterale. Ma
noi, oltre al testo della legge, abbiamo anche il commento, che vi diedero gli
antichi. E questo è tale da escludere qualsiasi interpretazione più benigna.
Noi troviamo infatti presso Gellio, che il giureconsulto Sesto Cecilio, pur
tentando di spiegare il rigore della legge, punto non accenna alla possibilità
di tale interpretazione. Sesto Cecilio dice invece, che il legislatore,
nell'intento di tutelare la fede nei negozii,
introduce una pena, che, per la propria immanità, non puo essere
applicata, come in effetto non lo era mai stata. Voigt, XII Tafeln. Egli, ciò
stante, nella ricostruzione della legge VIII della Tav. III, aggiungerebbe alle
parole serbateci da Gellio. Tertiis nundinis, partis secant -- le parole si
coheredes sunt -- il che vorrebbe dire, che se il debitore era domum ductus da
uno dei suoi creditori, egli non poteva più essere soggetto alla manus iniectio
degli altri; ma intanto se fossero stati più i co-eredi del creditore, che
l'aveva domum ductus, i medesimi potevano, in base alle XII Tavole, procedere
contro di lui soltanto per la quota loro spettante di credito, e perciò
dovevano chiedere il riparto della somma loro dovuta. Questa supposizione è
ingegnosa. Ma è difficile di persuadersi, che una espressione larghissima,
quale e quella di Gellio, puo restringersi ad un caso abbastanza speciale, qual
e quello posto innanzi dal Voigt. Questa interpretazione letterale della legge,
di cui si tratta, non e solo attribuita
alla medesima da Gellio ma eziandio da Quintiliano e da TERTULLIANO -- ma con
parole alquanto vaghe, e coll'ag giunta,pur fatta da Gellio, che la storia non ricorda alcun caso di
sectio corporis. Dissectum esse antiquitus neminem equidem neque legi, neque
audiri. Parmi poi, che un argomento per questa letterale interpretazione siavi
eziandio in quell'altra disposizione delle XII Tavole. Si membrum rupit, ni cum
eo pacit, talio esto -- ove compare in certo modo la stessa tendenza di
accordare a colui che ha subìto un danno per colpa di un altro, una potestà
corrispondente sul corpo di lui. Questa letterale interpretazione ha pure ad
essere sostenuta, col sussidio della giurisprudenza comparata, dal Kohler (Das
Recht als Culturerscheinung, Vürzburg) il cui brano relativo è riportato dal
MUIRHEAD. Non può quindi essere il caso di dare alla legge una significazione
diversa da quella, che vi attribuirono gl’antichi, ma piuttosto di cercare,
come mai i decemviri possono giungere ad una disposizione di questa natura.
Tale spiegazione non deve essere cercata tanto nella rozzezza dei costumi
romani, quanto piut tosto in quella logica inesorabile, di cui già sonosi
trovate le traccie nelle varie parti del ius quiritium, e sopratutto nel
rigoroso concetto, che questo diritto ha a formarsi dell'obbligazione
personale. Al modo stesso che il diritto quiritario, nella sua logica rude,
trattandosi del dominio, immedesimò in certo modo la cosa, oggetto della
proprietà, colla persona a cui essa appartiene. Così pure esso, nel concepire
il diritto di obbligazione, vide nel medesimo un vincolo strettamente
personale, che stringe pressochè materialmente il debitore al suo creditore
(nexum), senza punto preoccuparsi dei beni, che appartenessero a quest'ultimo.
Se quindi il debitore condannato non soddisfi il debito, la logica del diritto
non si appiglie all'espediente di ripiegarsi sovra i beni del debitore. Procede
diritta per la sua via, e verrà così aggravando i mezzi di co-azione contro il
debitore che non paga, nell'intento di forzarlo ad eseguire il pagamento. Che
se le co-azioni di carattere giudiziale od estra-giudiziale non bastano, questa
logica, fissa nel carattere esclusivamente personale dell'obbligazione, puo
anche giungere fino al l'estremo di accordare al creditore il diritto di
vendere o di *uccidere* il debitore, al modo stesso, che attribuisce al
proprietario la facoltà di distruggere la cosa, che gl’appartiene (ius
abutendi). È tuttavia evidente, che il diritto, accordando simili diritti al
creditore contro il debitore condannato, non intende tanto di accordargli un
diritto reale ed effettivo, quanto piuttosto di attribuirgli efficaci e potenti
mezzi di co-azione. Ciò è dimostrato da tutta la procedura. Lo stesso Kohler
già erasi occupato della questione nel Shakespeare vor dem Forum der
Jurisprudenz (Vürzburg), di cui può vedersi un largo resoconto del GIRARD nella
Nouvelle revue historique. A compimento di questa notizia ricordo anche l’interessante
saggio di ESMEIN, Débiteur privé de sépulture, nei Mélanges d'histoire de droit -- ove il
diritto del creditore prende un altro singolare svolgimento, quello cioè di
porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di rifiutare al medesimo il
riposo della tomba, finchè i congiunti o gl’amici non ne abbiano pagato il
debito. Qui la co-azione adoperata s'appoggia sull'opinione popolare che l’ANIMA
del debitore non trova riposo, finchè il suo CORPO non riposa nella tomba.] della
manus iniectio, dalla necessità nei varii stadii della medesima della presenza
del magistrato, dall'obbligo imposto al creditore di far pubblico il suo
credito e di esporre sul mercato la persona del debitore. Ed è questo il
concetto, che ebbe ad esprimere, presso Gellio, il giureconsulto Sesto Cecilio
dicendo che i decemviri. eam capitis poenam, sanciendae fidei gratia,
horrificam atrocitatis ostentu, novisque terroribus metuendam reddiderunt. Che
anzi, prendendo alla lettera l'espressione di Le XII Tavole, nella parte, che
si riferisce alla spartizione del corpo del debitore, appare perfino di
impossibile attuazione, poichè vien dichiarato in frode il creditore, che tolga
dal corpo del debitore una parte maggiore o minore diquella che gli sia dovuta,
il che conferma eziandio l'altra espressione dello stesso giureconsulto,
secondo cui – eo consilio tanta immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam
perveniretur. Del resto non è questo il solo esempio di questa logica astratta,
propria del diritto, che talora si spinge fino a tale da non essere quasi più
applicabile nel fatto. Il diritto infatti del creditore sul corpo del debitore
trova un riscontro nel diritto al talione, spettante a colui, di cui fosse
stato rotto un membro -- talione che, secondo l'osservazione da Gellio
attrituita al filosofo Favorino, non puo
essere più facilmente eseguito che la spartizione del corpo del creditore in
proporzione dei crediti. Cosi pure esso ha un altro riscontro nel ius vitae et
necis, che giuridicamente parlando spetta al padre sui figli, al marito sulla
moglie, al padrone sullo schiavo, ancorchè in questa parte sia certo, che il
rigore del diritto trova dei temperamenti nel pubblico costume. Non è quindi il
caso di inferire da queste disposizioni l'esistenza di costumi antropofagi
presso i romani. Ma soltanto di scorgere in ciò una nuova prova, che il loro
ius quiritium, essendo il frutto di una elaborazione giuridica, la quale mira
ad isolare l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo, fini per essere
governato da una logica inesorabile, che tal volta appare non solo inumana, ma
perfino inapplicabile nel fatto. Dice infatti Favorino presso Gellio: Praeter
enim ulciscendi acerbitatem ne procedere quoque executio iustae talionis
potest; nam, cui membrum ab alio ruptum est, si ipsi itidem rumpere per
talionem velit, quaero, an efficere possit rampendi pariter membri aequilibrium?
in qua re primum ea difficultas est inexplicabilis. KOHLER dice
scherzevolmente, che alla lista delle ipotesi escogitate per spiegare questa disposizione,
ne manca una sola, quella cioè che i romani sono degli antropofagi. Dal momento
poi che il primitivo ius quiritium, nella sua procedura di esecuzione, ha preso
di mira piuttosto la persona del debitore, che non i beni, che ne costituivano
il patrimonio, si comprende, che esso, nella sua perseveranza tenace, stenta
più tardi ad abbandonare la via, che prima segue. Noi troviamo infatti, che nel
posteriore svolgimento della procedura esecutiva in Roma, mentre il diritto
civile nello stretto senso della parola continua sempre a dirigersi contro la
persona, anzichè contro i beni del debitore, e invece il ius honorarium, il
quale soltanto molto più tardi riusci ad organizzare una procedura esecutiva
contro i beni, che costituivano il patrimonio del debitore. L'una e l'altra
circostanza è abbastanza comprovata dalle atte stazioni di Gaio. Questi
infatti, parlando delle legis actiones, ci fa assistere allo svolgimento
storico della manus iniectio nel diritto civile di Roma, dimostrando, come, sul
modello della manus iniectio iudicati, altre leggi abbiano introdotto una manus
iniectio pro iu dicato, ed altre abbiano poi dato occasione ad una manus
iniectio pura, la quale, a differenza delle altre due, non impede che il
debitore potesse manum a se depellere et lege agere pro se, senza ricorrere
all'opera di un vindex. Posteriormente poi, la legge Vallia ristrenge di nuovo
i casi, in cui non potevasi manum de pellere e pro se lege agere, a quei due,
che primierano stati introdotti, in cui si agiva o in base a un giudicato, o
contro una persona per cui altri aveva dovuto pagare qual sicurtà. Di questo, secondo
Gaio, rimane una traccia anche dopo l'abolizione delle legis actiones in ciò,
che anche ai suoi tempi colui, col quale si agisce in base a un giudicato o per
aver pagato per esso, iudicatum solvi satisdare cogitur. Lo stesso Gaio poi,
sebbene alla sfuggita, dice altrove, che l'introduzione della bonorum venditio
sole essere attribuita a Publio Rutilio, il quale dovette essere praetor nel
647 di Roma, e noi sappiamo, che è appunto con questa bonorum venditio, che si
introdusse in Roma un concorso fra i creditori, non dissimile da quello, che
ora ha luogo nella procedura per fallimento. E solo più tardi, che anche il
diritto civile, per mezzo della lex Iulia de [Gaio. È notabile infatti come
Gaio in tutta la sua esposizione della procedura esecutiva non accenni mai alla
esecuzione sui beni del debitore. Gaio, IV, 35. Quanto a questa procedura
contro i beni, vedi KELLER, Il processo civ. rom. e quanto alle analogie, che
questo con corso dei creditori presenta col fallimento, cfr. Montluc, La
faillite chez les Romains – ] -cessione bonorum, accordo al debitore il mezzo
di evitare l'esecuzione personale, ricorrendo alla cessio bonorum. Ma anche
allora questa cessio bonorum dove essere consentita dallo stesso debitore, e
costitui in certo modo un benefizio, che gli venne accordato per cansare la
esecuzione personale e per evitare anche l'infamia, da cui questa era
accompagnata. Quindi neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione contro
la persona, ma piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso, essendosi
introdotto un mezzo per liberarsi da essa. Parmi poi, che questa preferenza
indiscutibile del ius quiritium per la esecuzione contro la persona del
debitore, anzichè contro i beni spettanti al medesimo, sia stata eziandio la
ragione, per cui si mantenne in così ristretti confini l'applicazione della
pignoris capio. Essa infatti si ridusse ad essere un privilegio per crediti di
origine militare (aes militare, hordearium, equestre), e per crediti di origine
religiosa (il prezzo di un hostia e il nolo di giumento allo scopo di un
sacrificio, in dapem). Un solo caso di pignoris capio lascia traccie durature
nella storia delle istituzioni giuridiche, e fu quello introdotto da una lex
praediatoria o censoria, a favore degl’appaltatori delle imposte, sui fondi che
sono gravati dalle medesime: privilegio di carattere fiscale, che ha
un'analogia incontrastabile col privilegio generale sugl’immobili, che ancora
oggidi spetta al fisco per le imposte dirette. Intanto però sta sempre il
concetto, che nel diritto di Roma è la persona, che risponde direttamente delle
proprie obligazioni, e che la missio in bona deve ritenersi soltanto introdotta
dal pretore. Che anzi è degno di nota, che anche questa procedura sembra negl’inizii
essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo dimostra il fatto, che noi la
troviamo descritta dapprima nella Lex Rubria de Gallia Cisalpina. Una ragione
di questa preferenza [Quanto all'origine pretoria dell'esecuzione contro i
beni, vedi eziandio LENEL, Das Edictum perpetuum, La lex Rubria, Bruns, Fontes,
attribuisce la facoltà di accordare questa missio in bona al solo pretore della
città di Roma, come lo dimostrano le seguenti parole della legge Praetor – isve
qui de eis rebus Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius de eius rebus omnibus ius deiicito, decernito,
eosque dari bona eorum, possideri,
proscribique venire iubeto, etc. WLASSAK, Röm. Processegesetze] dell'antico
diritto per la persona, anzichè per i beni del debitore, non potrebbe essa
trovarsi nella considerazione, che tutto il primitivo ius quiritium ha ad
essere modellato sul concetto fondamentale del quirites, in quanto era
considerato come una individualità integra e completa sotto l'aspetto giuridico,
la cui parola dava origine al nexum, e la cui volontà costituiva una legge,
cosi nei negozii tra vivi come nel testamento? Non abbiamo anche in questo una
conseguenza dal punto speciale di vista, a cui eransi collocati i modellatori
del diritto? Basta ora ricomporre insieme queste varie parti della procedura
romana e metterle in movimento ed in azione, per comprendere come il sistema
della legis actio, anzichè essere, come vorrebbero taluni, un complesso di
solennità, escogitate dallo spirito sottile e formalista dei romani, sia stato
invece il mezzo più potente ed efficace,mediante cui venne preparandosi
l'elaborazione del diritto civile romano. La legis actio e per cosi esprimerci,
il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica del fatto umano puo essere
isolata da tutti gl’elementi estranei, ed essere ridotta cosi a quello stato di
purezza, che solo si rinviene negli scritti dei giureconsulti romani. Siccome
infatti ogni diritto, per poter affermarsi in giudizio, dove passare per lo
strettoio della legis actio: cosi ne venne, che con questo sistema prima il pontefice,
nel modellare la legis actio, poscia le parti nell'adattare alle medesime la
loro controversia. Quindi il magistrato nel determinare i termini, in cui tale
controversia dove essere giuridicamente concepita. Infine i giudici, che doveno
di necessità restringere la loro decisione al punto di questione che e loro
sottoposto, attendeno tutti ad un medesimo lavoro, che e quello di spogliare
una fattispecie da ogni elemento etico (morale) o religioso, con cui si
trovasse implicata, per ridurla ad una configurazione e ad una formola ESCLUSIVAMENTE
LEGALE O GIURIDICA. Siccome poi, il giudice della controversia, o e tolto dalle
varie classi o tribù, come i centumviri e forse anche i decemviri, o scelto nel
l'ordine dei senatori, come i iudices selecti, o convenuto fra le parti, come
gl’arbitri, od anche scelto in parte fra i peregrini, come i recuperatores. Cosi
ne veniva, che l'elaborazione del diritto in Roma e un'opera collettiva, a cui
concorrevano tutti gl’ordini e le V classi, e che puo perfino sentire
l'influenza del diritto e della procedura, che applicasi dei rapporti fra i
cittadini e gli stranieri. Siccome parimenti tutto questo lavoro e unificato e
coordinato per opera del magistrato, che sovraintende all'amministrazione della
giustizia, ed e poi assecondato dall'opera dei giureconsulti, che venivano
racchiudendo in formole la varietà grandissima dei negozii giuridici. Cosi ne
venne, che in Roma fin dai suoi inizii si trova sapientemente organizzato un
sistema di mezzi, il quale mira ad isolare l'elemento giuridico del fatto umano
dagl’elementi estranei, a consolidare le consuetudini fluttuanti in una forma determinata
e precisa, a richiamare le varietà dei fatti umani a certe forme tipiche e
generali. E in questo modo, che puossono scomparire i contendenti e si
sostituirono ai medesimi dei nomi convenzionali -- Aulus Agerius e Numerius
Negidius nella formola processuale, Titius, Caius, Sempronius, etc. in quella
contrattuale --; che una controversia PARTICOLARE e richiamata a certa forma GENERALE;
e che intanto i concetti primordiali, da cui ha preso le mosse il diritto di
Roma, poterono con una logica perseverante e tenace essere spinti a tutte le
conseguenze, di cui erano capaci. E quindi sopratutto in Roma, che il diritto
potè essere l'espressione della coscienza giuridica di tutto un popolo, un
elemento organico della vita sociale, il frutto di un'elaborazione unica e
varia ad un tempo, la quale obbedisce costantemente a quei processi, i quali,
applicati prima dal pontifice, passarono poscia al praetor ed al giureconsulto,
e non furono neppure abbandonati sotto gli stessi principi. Per tal modo, quel
lavoro di selezione, che erasi in Roma iniziato mediante la legge, le quali,
trascegliendo fra le istituzioni delle varie genti, ne hanno ricavato un
diritto tipico, esclusivamente proprio del quirites, e perciò chiamato ius
quiritium, venne ad essere eziandio proseguito nella interpretazione della
legge e nell'amministrazione della giustizia, le quali si sforzarono dapprima
di fare entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente
dei rap porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e
vennero poi gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse, allorchè
esse cominciavano ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di
provvedere. Per tal modo il ius quiritium si allarga ed amplia nel ius proprium
civium romanorum; poscia accanto a questo venne svolgendosi il ius honorarium,
il quale pur derogando al ius civile ed assimilando nuovi elementi, li forza
tuttavia ad entrare in forme analoghe a quelle già preparate dal ius civile. È
in questa guisa, che il diritto romano, dopo essere stato la selezione più
rigida dell'ELEMENTO ESCLUSIVAMENTE GIURDIICO E NON ETICO, che presenti la
storia, ed essere stato una produzione esclusivamente propria del popolo
romano, viene a poco a poco attirando nella propria cerchia le considerazioni
di equità e di buona fede, assimilando quelle istituzioni delle altre genti,
che potevano ricevere l'impronta del genio giuridico di Roma, finchè non diventa
tale da poter essere comune a tutte le genti, che avevano somministrato i
materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Può darsi ed è anzi probabile,
che i principii di questa grande opera di selezione sono dapprima
inconsapevoli, come gl’inizii di tutte le opere umane, e fossero determinati
dal modo di formazione di Roma, e dal genio eminentemente giuridico dei
fondatori di essa. Ma egli è certo eziandio, che essa non tarda a cambiarsi ben
presto in un'opera consapevolmente voluta e proseguita con una perseveranza
tenace, di cui non potrebbesi trovare paragone. Così, ad esempio,
dell'importanza della legis actio già dovette aver consapevolezza il patriziato
romano, allorchè, dopo avere in parte reso comune alla plebe il proprio diritto,
continua tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici la formazione della
legis actio, e la cambia in un segreto di professione e di casta; come pure
dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana, come lo dimostra la sua
riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la tradizione, ha resa di
pubblica ragione la piu primitiva legis actio. Questa influenza poi del sistema
delle azioni venne ad essere anche maggiore, allorchè l'abolizione della legis actio
e l'intro duzione del sistema delle formole attribui da una parte al magistrato
libertà maggiore nella concezione giuridica delle varie fattispecie, e
dall'altra gli porse eziandio il modo di introdurre nuove azioni, accanto a
quelle, che si fondano direttamente sui termini della legge. Fu in quest'epoca,
che il medesimo, oltre al ius dicere, si [(Pomp., Leg., Dig.; Liv. Secondo la
tradizione, Gneo Flavio e dalla riconoscenza della plebe elevato alla dignità
di *tribune* della plebe, di senatore e di edile curule.] trova eziandio nella
necessità di edicere, ossia di pubblicare, entrando in ufficio, la norma, che
avrebbe applicate nell'amministrazione della giustizia; che accanto ai iudicia
legitima si svolgeno quelli imperio continentia; che, accanto alle actiones
legitimae, quae ipso iure competunt, se ne formarono eziandio di quelle, actiones
quae a praetore dantur.Da quel momento il praetor puo essere considerato come
una lex loquens, e venne in certo modo ad essere arbitro sovrano
nell'amministrazione della giustizia. Tuttavia l'abolizione della legis action
e la sostituzione del sistema delle formulae devono essere intese alla romana,
il che vuol dire, che l'abolizione è soltanto parziale e non impedisce la
sopravvivenza dell' actio sacramento, come preliminare del centum. virale
iudicium e di quello damni infecti nominee, al modo stesso che l'introduzione
delle formulae, anzichè una rivoluzione, è piut tosto il riconoscimento e
l'adozione fatta per legge di una pratica, che dove già essersi prima
introdotta nel fatto. È infatti probabile che il sistema delle formulae già puo
esser applicato nella procedura inter cives et peregrinos, nella quale non
potevano essere applicate la legis actio, e che in tal guisa una procedura
propria della recuperatio sia penetrata nel ius proprium civium romanorum,
almodo stesso, che più tardi l'actio sacramento puo eziandio essere proposta
davanti al praetor peregrinus. Il sistema delle formole e in certa guisa già
contenuto in germe nel sistema della legis actio. A quel modo, che la stipulatio
riducesi in sostanza alla parte nuncupativa del nexum, la quale, liberata dalla
solennità del l'atto per aes et libram, puo essere adattata alla varietà dei
negozii [Gaio dice espressamente, che, negl’esordii di questo sistema di
procedura, edicta praetorum nondum in usu habebantur. Era quindi naturale, che
quando questi sono introdotti, accanto a quella parte di diritto, che fondasi
direttamente sulla legge, e che perciò da origine alle denominazioni di actus
legitimus, actio legitima, iudicium legitimum, si svolgesse un diritto, che
fondasi in certo modo sull'autorità del magistrato, e che, come tale, imperio
continebatur, il quale finì poi per essere compreso sotto il concetto di ius
honorarium. È poi Cic., pro Cluentio, il quale ha a dire, che siccome la legge e
al disopra del magistrato, e questo è al disopra del popolo, vere dici potest
magistratum legem esse loquentem -- legem mutum magistratum. Quanto ai concetti
di actio legitima e di iudicium legitimum, vedi WLASSAK. Sull'influenza del
praetor peregrinus e dell'edictum provinciale sul sistema delle formulae, v. Glasson,
Étude sur Gajus] giuridici. Così, la formola consiste essenzialmente in quei
concepta verba, che già occorrevano nella legis actio, salvo che questa
verborum conceptio, liberata dalla parte mimica, da cui era accompagnata, e da
quel rigore di termini (certis verbis), che era propria della legis actio, puo
acquistare una duttilità e pieghevolezza, che la prima non ha. Noi trovammo
infatti, che già sotto la veste ferrea della legis actio, ogni modus agendi
finisce per abbracciare diverse azioni particolari. Queste azioni già cominciano
a distinguersi nelle actiones in rem in actiones in personam, in quelle, che
hanno per oggetto un certum od un incertum, e in quelle, che dano origine ad un
iudicium o ad un arbitrium. Or bene tutti questi materiali, che ancora erano
riuniti nella sintesi potente della legis actio, si trovano in certo modo
abbandonati a se stessi, e si cambiarono in altrettante azioni, autonome ed
indipendenti, aventi un nome specifico, una propria formola ed un proprio
contenuto, e diedero cosi origine a quello splendido ed opulento sviluppo, che
ebbe ad avverarsi col sistema delle formole. Quella libertà della formola, che
sarebbe stata pericolosa negl’inizii della elaborazione giuridica, venne invece
ad es sere opportuna, quando questa era già iniziata ed abbastanza progredita.
Le prime formole, essendo state preparate sotto la rigida disciplina della legis
actio e del ius pontificium, indicano abbastanza la via, in cui dove mettersi
il magistrato per continuare l'opera già incominciata. È questa la ragione, per
cui il praetor, malgrado la libertà apparente, che lo appartiene, sia di
introdurre nuove azioni, sia di modificare le formole già ricevute, procede in
cio molto a rilento, ed ama piuttosto di ricorrere a finzioni e di forzare cosi
fatti ad entrare nelle forme riconosciute dal diritto, che non di alterare la
forma che già e accolta. Per tal modo, il nuovo trova sempre un addentellato
nell'antico, anche allorchè mira ad introdurre una modificazione al medesimo, e
intanto ciò non impedisce, che una parte del diritto, che vive fluttuante pelle
consuetudini, accanto al vero ius civile, si venisse ancor esso consolidando
sotto forma di un ius honorarium, che è pur sempre modellato sul primo. Così
pure, nella opera progressiva del praetor succedentisi l’uno all’altro, puo
manifestarsi uno spirito di continuità, per cui le azioni ed eccezioni
introdotte opportunamente da alcuno di essi finirono per costituire un ius
translaticium, che passa al praetor successore, e serve cosi a preparare i
materiali, che raccolti e coordinati costituirono poi l'editto perpetuo di
Salvio Giuliano. In questa condizione di cose appare ad evidenza l'importanza
del sistema delle azioni, poichè ogni progresso pratico della giurisprudenza
romana viene ad esser introdotto, o per mezzo di una nuova azione, che tuteli
un diritto prima non riconosciuto, o per mezzo di una eccezione, che
neutralizzi l'effetto di un'azione già riconosciuta dal diritto civile.
Allorchè poi un'azione è accolta od un'eccezione è ammessa, essa viene ad
essere come un centro, intorno a cui si moltiplicano le formole per abbracciare
l'infinita varietà delle fattispecie, finchè si giunge a quella ricchezza di
formole, a cui accenna Cicerone, allorchè dice: -- sunt formulae de omnibus
rebus constitutae, ne quis aut in genere iniuriae aut in ratione actionis
errare possit: expressae sunt enim, ex uniuscuiusque damno, dolore, incommodo,
calamitate, iniuria, publicae a praetore formulae, ad quas privata lis
accomodatur. Le formole pertanto servirono anch'esse ad ampliare e a compiere
quel lavoro di selezione, iniziato sotto l'impero della legis actio. Esse si
accomodano alle varie fattispecie. Isolano l'elemento giuridico da ogni
elemento estraneo, gl’elementi essenziali del fatto umano dalle circostanze
accidentali: accolgeno quelle aggiunte, che sono rese necessarie dalla maggiore
varietà dei negozii; riassunggeno le varie fasi della controversia in guisa da
presentare come uno specchio ed un compendio dell'intiero giudizio. Queste
formole poi non furono qualche cosa di esclusivo alla procedura. All'epoca
stessa, in cui penetrarono in questa, si vennero eziandio esplicando nel contratto,
nei testamento, nei legato, e in ogni altra parte del diritto civile romano, e
vi portarono cosi dappertutto l’ESATTEZZA E LA PRECISIONE DELLA LOGICA DEI
CONCETTI GIURIDICHI, non disgiunta da elasticità e pieghevolezza alla varietà
infinita dei negozii. È quindi facile il comprendere come il pontefice, il pretore
e il giureconsulto, non credeno indegno del loro ufficio l'attendere alla
composizione delle formole, e come bene spesso l'invenzione di una formola ha reso
celebre e tramandato fino a noi il nome di un pretore o di un giureconsulto.
Basta perciò aver presente l'importanza grandissima e la larghissima
applicazione, che [Cic, Pro Roscio -- WLASSAK. Occorrono delle notevoli
osservazioni sulla importanza delle formole nel diritto civile romano presso
LABBÉ-ORTOLAN, Explication historique des Institutes de Justinien (Paris)] ricevettero
le clausole ex fide bona quando aequiusmelius e propter te fidemve tuam
fraudatus siem -- le formole aquiliane de dolo malo ed altre, che sarebbe lungo
ricordare; le quali serveno a far penetrare nel diritto la considerazione
dell'equità e della buona fede, e a dare forma concreta e pratica applicazione
alle lente mutazioni, che si venivano operando nella coscienza giuridica del
popolo romano. E infatti per mezzo di una piccola aggiunta in una formola
contrattuale e giudiziaria, che le aspirazioni latenti della coscienza
giuridica popolare ricevevano applicazione pratica, e che il diritto fluttuante
nelle consuetudini venne ad ottenere la tutela e la sanzione dell'autorità
giudiziaria. Questa considerazione mi
porge opportunità di conchiudere questo saggio, spiegando un carattere del
tutto peculiare della giurisprudenza romana. Nostro tentativo di ri-costruzione
del primitivo ius quiritium quanto meno dimostra che il diritto civile romano,
anzichè essere il frutto di una incorporazione qualsiasi di consuetudini
preesistenti, operatasi a caso e lasciata in balia delle cir costanze, fu
invece governato, fin dai proprii inizii, da una logica fondamentale, che non
venne mai meno a se stessa. Esso può es sere paragonato ad un lavoro lento di
cristallizzazione, in virtù di cui gli elementi affini, fluttuanti in un
liquido, cominciano dal precipitarsi a poco a poco, e poi si compongono
insieme, atteggiandosi costantemente a quelle forme tipiche, che sono imposte
dalla legge, che ne governa la formazione. Se ciò è fuori di ogni dubbio,
vuolsi però anche ammettere, che questa dialettica fondamentale, la quale regge
tutta la formazione del diritto civile romano, sembra in certo modo essere
dissimulata nelle opere anche dei grandi giureconsulti. In tali opere, per quel
poco che a noi ne pervenne, i singoli istituti appariscono come autonomi ed
indipendenti gli uni dagli altri, go [Questa importanza delle formole appare
sopratutto nelle formole processuali, poichè ogni progresso nell'amministrazione
della giustizia lascia in certo modo le traccie nella composizione della
formola giudiziaria. Questo concetto ha ad esprimere, molti anni or sono, in De
exceptionibus in iure romano (Torino) -- colle seguenti parole. Neque vereor
dicere, omnia quae in iudiciorum ordine,
progressione temporum et seculorum elaboratione, invecta fuerunt ad corrigendam,
producendam, emendandam et adiuvandam antiquissimi iuris formulam quodammodo adhibita fuisse.] --vernati
ciascuno da una propria logica, senza che più si scorgano le commettiture, che
possono stringere un istituto cogli altri. Vero è, che considerando
attentamente il formarsi di ogni singolo istituto, facilmente si riconosce la
mano di artefici, educati tutti alla medesima scuola, cosicchè i varii istituti
si possono paragonare ad altrettanti cristalli foggiati sulla stessa forma. Ma
intanto più non si scorgono le traccie della legge, che ne governa la
formazione. Era questo disordine apparente dei giureconsulti, che torna grave
alla mente FILOSOFICA ed ordinata di Cicerone, il quale perciò giunse fino a
dire, che i primi grandi maestri cercano di dissimulare la propria arte. Ma se
questo potè forse esser vero, finchè la scienza del diritto – come la
filosofia, dopo -- e un monopolio della gente patrizia, o meglio del pontefice
massimo, custode delle loro tradizioni, non può più ammettersi per il tempo, in
cui la casa del giureconsulto e aperta a tutti coloro, che volevano consultarlo.
Anche i plebei furono ammessi a questo collegio dei pontefici e a professare
giurisprudenza. Non è quindi in una causa alquanto puerile e di carattere
transitorio, che vuolsi cercare il motivo di questa specie di contraddizione,
che presenta l'elaborazione della giurisprudenza romana. Ma questo e piuttosto il
modo, in cui venne in Roma operandosi l'elaborazione stessa. A questo riguardo
vuolsi aver presente, che i modellatori del primitivo diritto di Roma – veteres
iuris conditores – non hanno mai in animo di insegnare una scienza, ma
piuttosto di professare un'arte (iuris prudentia), che forma solo più tardi
argomento di scienza. Essi quindi non intesero punto di soddisfare alle
esigenze didattiche, nè di introdurre quell'ordine sistematico, che è proprio
della scienza. Si proposero sopratutto di soddisfare alle esigenze pratiche.
Sono i casi, che si venneno presentando, che loro offrivano occasione di
applicare l'arte loro. Siccome per tanto nella pratica era l' actio, che
predomina, poichè era con l’ actio, che il diritto sperimenta se stesso. Così
ne venne, che dapprima sono la legis actio che costitue il punto di richiamo
dell'elaborazione giuridica, e determina l'ordine, a cui la medesima venne
obbedendo. Quando poi la sintesi potente della legis actio venne ad essere
disciolta, e pullularono così azioni e formole, molteplici e svariate, aventi
ciascuna una propria vita ed una propria funzione nella formazione dei negozii
e nell'amministrazione della giustizia, sono eziandio le actiones, l’interdictum.
-- Cic., De orat., I. la exceptio e simili, che costituirono il punto centrale,
intorno a cui dovette appuntarsi l'arte dei giureconsulti. Quindi è, che essi,
per quanto ubbidissero ad una dialettica fondamentale, trascurarono
naturalmente di far scorgere i fili, che componevano la trama. Cosicchè la
girusprudenza apparisce come a frammenti, e ravvicinano istituti, che non hanno
attinenza, disgiungendone altri, che sono in vece strettamente affini fra di
loro. Di qui la conseguenza, che la costruzione giuridica romana non segue il
processo dei concetti fondamentali, da cui parte, ma venne seguendo invece
l'ordine, prima, di Le XII Tavole, e, poscia, dell'Editto. Nè questo disordine
apparente puo recare imbarazzo agl’esperti, perchè l'arte in essi era viva e
feconda. Puo invece riuscire grave agl’altri, i quali, come Cicerone, cercano
di inoltrarsi in questo campo con un indirizzo mentale concettuale e filosofico
– di ‘re-costruzione logica.’. Fu soltanto, allorchè la ricchezza dei materiali
comincia ad ingombrare il campo, che si senti il bisogno di introdurre questa o
quella distinzione sistematica, al modo del Liceo per genere e specie, ma anche
queste distinzioni non compariscono nelle opere di costruzione giuridica
propriamente detta, quali sono quelle dei classici giureconsulti, ma soltanto
nell’opere di carattere didattico o tutoriale -- donde la spiegazione
dell'ordine diverso, che occorre nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano e
nelle Pandette. Siccome poi anche l'ordine sistematico, introdotto nelle
Istituzioni, ha naturalmente lo scopo pratico di coordinare la giurisprudenza
romana nello stato in cui si trova, anzichè di fare assistere alla formazione
progressiva di essa; cosi ne viene, che anche le distinzioni, che occorrono in
Gaio ed in Giustiniano, danno talvolta come contemporanei degl’istituti, che
possono avere avuto origine in epoca compiutamente diversa. Ne consegue, che la
giurisprudenza romana, quale a noi pervenne, colle sue proporzioni armoniche e
colla coerenza delle sue varie parti, cela in certo modo la trasformazione
lenta e graduata, che venne operandosi in essa, e la dialettica, che ne governa
la for [Ciò appare sopratutto nelle Receptae sententiae di Paolo Diacono.
Questo apparente disordine invece è alquanto minore nei cosidetti Fragmenta di
Ulpiano, in quanto che questo lavoro di Ulpiano segue già passo passo l'ordine
dei Commentarii di Gajo, abbreviandoli in qualche parte, e facendovi altrove
qualche aggiunta, che altera talvolta le armoniche proporzioni dei Commentarii
di Gajo. Questi ultimi poi, a parte l'originalità maggiore o minore del
giureconsulto, sono il nostro modello di ordinamento sistematico, fatto in un
intento didattico o tutorial per l’elite diriggente. Huschke, Jurisp.
antijustin., ed i proemii da lui preposti alle opere sopra citate dei
giureconsulti] –mazione. Ma ciò punto non impedisce, che, penetrando sotto la
scorza di essa, tosto si incontrino le traccie di materiali e di ruderi, che
appartengono a sorgenti e ad epoche diverse, e rivelano cosi al l'investigatore
i diversi periodi e momenti, per cui passa la lenta e graduata formazione della
legislazione romana. Giunto al termine di questo faticoso lavoro di
ricostruzione, ritengo opportuno di riassumere a grandi linee quelli fra i
risultati a cui sono pervenuto, che possono cambiare in qualche parte il modo
comunemente seguito di spiegare la storia primitiva di Roma, nel l'intento sopratutto
di porre in evidenza quella mirabile coerenza organica, che sempre si mantenne
nello svolgimento storico delle istituzioni di Roma. Allorchè le genti italiche
si sovrapposero alle popolazioni già prima stanziate sopra quel suolo, che più
tardi e denominato italic, dove avverarsi un periodo di forza e di violenza,
non dissimile da quello, che si avvero più tardi all'epoca delle invasioni
barbariche, ed il maggior bisogno, che dove sentirsi allora dai vincitori e dai
vinti, e quello di uscire da quello stato di privata violenza. E allora, che le
genti sopravvenute, memori forse delle tradizioni, che portavano dall'antico oriente,
irrigidirono la propria organizzazione gentilizia, cercando di attirare nella
medesima anche le popolazioni dei vinti, e costituirono così l'aristocrazia
territoriale dei patres, dei patroni, dei patricii, mentre i vinti sono
organizzati nella classe inferiore dei servi, dei clienti, e infine dei plebei.
Questa organizzazione, malgrado le differenze nei particolari, assunge
pressochè dapertutto un carattere uniforme, non dissimile da quello
dell'organizzazione feudale nel Medio Evo. Essa organizzazione venne cosi ad
essere composta di familiae, di gentes e di tribus, strette in sieme dal
vincolo di discendenza reale o fittizia da un medesimo antenato, le quali
risiedevano rispettivamente nella domus, nel vicus e nel pagus, mentre il
territorio da esse occupato era ripartito in heredia, in agri gentilicii, e in
compascua. Fu a questo stadio del proprio svolgimento, che le genti italiche
presero tutte a travagliarsi intorno alla grande opera del passaggio
dall'organizzazione gentilizia a Roma. Questa organizzazione ha sopratutto lo
scopo di assicurare la comune difesa e di fortificarsi nelle lotte pres sochè
quotidiane fra i varii gruppi. Roma comincia dall'essere un sito fortificato
(arx, oppidum, capitolium ) per servire di rifugio in caso di pericolo. Poi
diventa un sito per il mercato (forum) e un luogo di riunione dei capi di
famiglia delle varie comunanze confederate per la trattazione degli affari
comuni (conciliabulum, comitium). E posta sotto la protezione di un divino –
dius, dius-piter --, comune patrono. Finchè da ultimo sotto la protezione della
comune fortezza cominciano eziandio a costruirsi le abitazioni private. Non
tutte le stirpi però sono pervenute al medesimo stadio di svolgimento, nè tutte
hanno seguito il medesimo indirizzo nella formazione di Roma. Mentre gl’umbro-sabelli
adereno ancora strettamente alla organizzazione gentilizia, e gl’etruschi sono
già pervenuti alla città chiusa e fortificata, i Latini invece si trovano in
uno stato intermedio. I latini sono pervenuti a Roma di carattere federale,
considerata come un centro della vita pubblica per varie comunanze di villagio.
È al buon seme latino, che s’attribuie l'origine del nome di Roma. Roma comincia
dall'essere lo stabilimento fortificato di un nucleo di uomini forti ed armati –
vir, quirites), staccatisi d’Alba per cercare altrove sorti migliori, secondo
una consuetudine comune delle genti primitive, fidenti sopratutto nella forza
del proprio braccio, ma non immemori delle tradizioni proprie della stirpe, a
cui appartenno. Le lotte di questo nucleo di uomini di arme, stabilitosi sul
Palatino, i quali, senza essere ancora veri capi di famiglia, tendeno a
diventarlo, colle comunanze di villagio stabilite sulle alture circostanti
dell'antico septimontium, lo conducenno prima alla comunanza dei connubii e in
seguito alla confederazione colle medesime. Percorse due periodi compiutamente
distinti -- cioè: il periodo della città federale, in cui Roma è una città
esclusivamente patrizia, ed è un centro di vita pubblica fra varie comunanze
gentilizie. Il secondo, quello in cui Roma, esclusivamente patrizia associasi
anche la plebe circostante delle periferii, già pervenuta ad una certa
agiatezza, nell'intento sopra tutto di provvedere alla comune difesa, e chiude
nelle proprie mura le primitive comunanze di villagio, che entrano a
costituirla. Nel primo periodo, i
cittadini di Roma sono i capi famiglia delle genti patrizie, confederati in uno
scopo di comune difesa, e la loro città, posta nel centro delle varie comunanze
di villaggio, rispecchia in se medesima le istituzioni dell'organizzazione
gentilizia, a quella guisa che un lago limpido rispecchia le abitazioni e i
villaggi, collocati sulle alture, che lo circondano. Essi infatti trapiantano a
Roma, centro della loro vita pubblica, le proprie istituzioni gentilizie, salvo
che le medesime, assumendo un intento essenzialmente civile, politico e
militare, cominciano a perdere alquanto il proprio carattere patriarcale, e
ricevono cosi uno svolgimento compiutamente diverso. Roma esce cosi dalla
confederazione e dal l'accordo dei capi di famiglia (patres) e dei loro
discendenti (patricii). Ma intanto assume un carattere religioso, politico e
militare ad un tempo, come le genti che concorsero alla sua formazione. Sono i
pontefici, che ne serbano le tradizioni giuridiche e religiose ad un tempo. Gli
auguri modellano gli auspicia publica sugli auspicia, a cui già ricorrevano i
capi di famiglia o delle genti. I feziali serbano le tradizioni relative ai
rapporti fra le varie genti. In questo periodo la città serve ad operare la
selezione della vita pubblica, che comincia a spiegarsi nella città, dalla vita
domestica e patriarcale, che continua a svolgersi nelle varie comunanze di
villaggio. L'urbs infatti designa l'orbita sacra, in cui trovansi riuniti gli
edifizii aventi pubblica destinazione, ed ha nel proprio contro il tempio di
Vesta e la domus regia. La civitas non comprende ancora quelli rapporti soltanto
che si riferiscono alla vita civile, politica e militare. Il populus non
comprende tutta la popolazione, ma quella parte eletta della medesima che puo
giovare alla res publica col braccio (iunior) o col consiglio (senior). Per tal
modo il grande intento della città in questo periodo e quello di sceverare la
vita pubblica dalla privata – publica privatis secernere --, di modellare il
concetto della res publica, in quanto essa ha un'esistenza distinta dalla res
familiaris, e di architettarne la costituzione politica, la quale venne cosi ad
uscire dal concorso di tutti gli elementi, che entravano a costituirla. La
sorgente della pubblica potestà risiede quindi nel populus. Ma in tanto la
parte dovuta all'età e all'esperienza nel provvedere all'interesse comune viene
ad essere rappresentata dal senatus, che è già elettivo ed è nominato dal rex;
il quale alla sua volta è l'eletto del populus e unifica in se medesimo
l'imperium, che il medesimo gli conferisce. Tutto cio, che riguarda l'interesse
comune, si delibera col concorso di tutti questi elementi, cioè essere proposto
dal re, appoggiato dal senato, votato dal popolo. Cosicchè, la legge assume la
forma di una pubblica stipulazione – communis reipublicae sponsion. Per quello
invece, che si riferisce alla vita domestica e privata – res familiaris --,
essa continua a svolgersi nel seno della domus, del vicus, del pagus, sotto la
potestà dei capi di famiglia o delle genti. Queste continuano a possedere le
proprie terre sotto la forma collettiva di agri gentilicii e di compascua, soli
eccettuati gli heredia, assegnati dalla gens od anche dal re, i quali
appariscono intestati ai singoli capi di famiglia. Anche la repressione dei
delitti continua ad essere lasciata al potere domestico e patriarcale, e le
pene conservano quel carattere religioso, che hanno nel periodo gentilizio. Solo
assumono carattere di delitti *pubblici*, e sono sotto posti alla giurisdizione
del re, temperata dalla provocatio ad populum, il parricidium e la perduellio,
di cui quello è come il germe del reato comune e questa il germe del reato
politico. Ma il diritto private continua in gran parte ad essere governato dal
costume (mos), il quale appare ancora circondato da un ' aureola religiosa (fas).
Cio tuttavia non impedisce, che fra le consuetudini e le tradizioni
preesistenti già ve ne sono di quelle, che sono sanzionate dala lex publica, la
quale è preparata dal pontefice, proposta dal re, e votata dal popolo; donde la
formazione della lex regia, nelle quali tuttavia le istituzioni giuridiche
serbano ancora quel carattere religioso, che era proprio delle istituzioni
delle genti patrizie. Nel frattempo quell'elemento plebeo, la cui formazione
già erasi iniziata nelle stesse comunanze di villaggio, prende un grandissimo
incremento collo svolgersi della città. Poichè, esso trovasi accresciuto dalle
popolazioni conquistate e da coloro che, spostati nell'organizzazione
gentilizia, vengono a stanziarsi nel territorio circostante alla città. Questa
moltitudine, che per essere composta di elementi di provenienza diversa e per
difetto di organizzazione chiamasi plebes, non entra ancora a formare il
populus, nè è ammessa alle curiae della città patrizia, ma abita nelle
circostanze di essa, e tiene cosi una posizione più di *fatto* che di diritto.
Ai plebei, che la compongono, solo dovette essere accordato, negli ultimi tempi
della città esclusivamente patrizia, il ius nexi, ossia il diritto di contrarre
dei prestiti, vincolando direttamente la propria persona, e il ius mancipii,
ossia il diritto di ritenere quello spazio di terra, sovra cui essi erano
stanziati colle proprie famiglie. È sotto l'influenza etrusca, che Roma comincia
a prepararsi ad un secondo stadio, a quello cioè di città chiusa e fortificata
nelle proprie mura, il che però non toglie, che essa continui ancor sempre ad
essere un centro di vita pubblica per le comunanze e le famiglie, che trovansi
stanziate nell'ager romanus, ma fuori del pomoerium della città. La
trasformazione, iniziata da Tarquinio Prisco, si compie, allorchè con Servio
Tullio Roma viene a comprendere nella propria cerchia non solo gli edifizii
pubblici, ma anche le abitazioni private, e in base alla sua costituzione viene
a formarsi accanto ai patres o patricii, un nuovo populus, composto di patrizii
e di plebei, ripartito in V classi ed in centurie, di carattere essenzialmente
militare, i cui membri hanno i loro diritti ed obblighi civili, politici e
militari determinati sulla base del CENSO. Da questo momento quel dualismo, che
esiste negl’elementi, che entra vano a partecipare alla medesima Roma, penetra
eziandio nelle istituzioni politiche. Per tal modo accanto ai veri magistrati
del popolo, comparvero il tribune della plebe. Accanto ai comizii delle curie e
delle centurie si formar il concilium plebis, il quale col tempo si trasforma
in comizio tribute. Da ultimo, accanto alla lex si svolge il plebiscitum. Di
qui lotte, che condussero a svolgere e in parte anche a modificare i concetti
fondamentali, che servivano di base alla costituzione primitiva di Roma.
Intanto Roma si è ingrandita. Nelle suemura non si esplica più soltanto la vita
pubblica, ma anche la vita domestica e private. Quindi la grande opera, che si
inizia in questo periodo, viene ad essere la formazione di un diritto privato,
comune ai due ordini, e la creazione di quell'arte, in cui i romani dovevano
essere maestri al mondo, cioè dell'”ars iura condendi.” Gl’elementi, che
dovevano convivere sotto la protezione di un comune diritto, sono due, cioè: il
patriziato, onusto di tradizioni religiose, giuridiche e politiche, e la plebe
la quale e un agglomeramento di elementi diversi, nuovo ancora alla vita civile
e politica. Quello ha l'organizzazione gentilizia fondata sul vincolo civile
dell'agnazione, e questa non conosce che la famiglia, stretta insieme dal
vincolo naturale della cognazione. Quella ha tante forme di proprietà, quante sono
le gradazioni dell'organizzazione gentilizia. Questa non ha in certo modo che
il possesso delle terre, sovra cui era stanziata (mancipium”). Qello ha il fas”,
il ius”, l' imperium”, l’ auspicium”, il mos veterum”. Questa non conosce che
l'usus auctoritas. È la distanza stessa, a cui trovavansi collocati i due
elementi, e il loro modo di sentire e di pensare compiutamente diverso, in
fatto di religione e di morale, che resero necessaria la elaborazione di un DIRITTO,
comune ai due ordini, il quale FA COMPIUTAMANTE ASTRAZIONE DALLA MORALE E DALL
RELIGIONE. Cosi pure è questa distanza, che spiega la lentezza di questa
elaborazione e la ricchezza dei risultati a cui essa pervenne. Questa dove
prendere le mosse dalle istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi
estendersi a poco a poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche
tempo ciascun elemento continua ad attenersi alle proprie consuetudini e
costumanze. La convivenza dei due ordini, pero, nelle stesse mura e l'attrito
dei quotidiani interessi finirono per determinare una specie di precipitazione
del materiale giuridico, fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (mos
veterum”), o di costumanze della plebe (usus). Si inizia così la più mirabile
selezione dell'elemento giuridico dagl’elementi affini, con cui trovasi
implicato, che siasi mai avverata nella storia dell'umanità; selezione, che da
una parte obbedisce alla legge naturali di formazione, e dall'altra è già
l'opera di una elaborazione, per parte sopratutto del pontefice, i quali,
essendo i custodi delle tradizioni delle genti patrizie, già sono in possesso
di una vera tecnica giuridica. Il nucleo centrale di questa formazione venne ad
essere il concetto del quirites”, ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri
suoi rapporti, per essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e
proprietario di terre, quale appunto compariva nel censo. Il quirites” viene
cosi ad essere una realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un
soldato ed un agricoltore ad un tempo. Ed il punto di vista, sotto cui si
riguardano il quirites” nel reciproco rapporto, essendo determinato dal censo,
viene ad essere quello del mio e del tuo – il nostro” --. Di qui consegue, che
per essi ogni negozio riducesi ad un trapasso dal MIO al TUO – il nostro --,
simboleggiato nell'atto per æs et libram”, e ogni procedura viene ad essere
simboleggiata in una specie di combattimento e di reciproca scommessa. Questo
diritto, costituendo un privilegio dei quiriti”, viene ad essere denominato ius
quiritium”. I suoi concetti fondamentali sono quelli vasti e comprensivi di
caput, manus, mancipium, commercium, connubium ed actio. Esso costituisce in
certo modo l'ossatura rigida di tutta la giurisprudenza romana. Siccome pero,
attorno a questo primo nucleo, che si vien precipitando e consolidando, si
mantengono ancora sempre, allo stato fluttuante, tanto le consuetudini e le
tradizioni dei patres, quanto gli usi della plebe; così il primitivo ius
quiritium” viene in certo modo attraendo ed assimilando quelle istituzioni
preesistenti, che potevano avere qualche analogia col diritto già formato. Per
tal guisa il medesimo, arricchendosi di nuove forme, si viene gradatamente
allargando nel ius pro prium civium Romanorum”, il quale può essere considerato
come un proseguimento di quella selezione, che erasi già incominciata col ius
quiritium”. Sono Le XII Tavole, che danno forma scritta alle basi fondamentali
di questo ius civile. Quindi nelle medesime si possono scorgere le commettiture
dei varii elementi, che entrano a costituirlo. Infatti in qualsiasi istituzione
di quel ius, che i giureconsulti chiamano proprium civium Romanorum”, può
scorgersi una formazione centrale, che è dovuta al ius quiritium”, e due
laterali, di cui una suole essere di origine patrizia, e l'altra di origine
plebea. Così, ad esempio, fra le forme del matrimonio havvi da una parte la confarreatio,”
di origine patrizia e dall'altra l'”usus” di origine plebea. La coemption” sta
nel mezzo, ed è la forma essenzialmente quiritaria. Fra le forme del testamento,
le più antiche sono il testamento in calatis comitiis”, propria del patriziato,
e la mancipatio familiae cum fiducia”, propria della plebe, le quali poi,
pressochè componendosi insieme, dànno origine al vero testamento quiritario,
che è quello per aes et libram.” Infine, fra i modi di acquistare e trasmettere
il dominio, il primo a formarsi è quello essenzialmente quiritario della “mancipatio”,
attorno a cui si vengono poi accogliendo l'”in iure cessio” e l'”usucapion”.
Intanto pero questa selezione non si arresta ancora colla formazione di un “ius
civile”, e quindi, accanto al medesimo, si esplica il “ius honorarium”, il
quale, pur derogando al primo, assimila nuovi elementi, facendoli pero entrare
in forme modellate a somiglianza di quelle già adottate dal “ius civile”. È con
questo meraviglioso processo che il diritto di Roma, dopo aver cominciato
dall'essere la *selezione* più rigida dell'elemento giuridico, che ricordi la
storia, ed una produzione esclusivamente romana, venne a poco a poco attraendo
nella propria orbita anche le considerazioni di equità e di buona fede, ed
assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che si acconciavano alla
logica fondamentale, da cui era governato, finchè divenne poi tale da essere
considerato come un diritto universale, e da poter essere accomunato a tutte le
genti, da cui aveva tolti i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Il
diritto romano riusci cosi ad essere una costruzione eminentemente dialettica,
la quale riunisce da sè gli opposti ed i contrarii. Il diritto romano è antico
nei materiali, che lo compongono, nuovo per le applicazioni che se ne ricavano.
Sotto un aspetto il diritto romano è sempre fisso e fermo nei proprii concetti,
sotto un altro è sempre in via di formazione. Il diritto romano obbedisce ad
una logica fondamentale, e intanto lascia che ogni istituto proceda per proprio
conto e segna un proprio concetto ispiratore. Mentre il diritto romano è una
produzione del tutto propria del genio romano, assimila in se stesso le
istituzioni di tutte le genti; è un'arte ed una scienza ad un tempo. Esso
infine, mentre obbedisce e si piega alle esigenze pratiche, appare informato,
come ben dice il giureconsulto, ad una vera e propria FILOSOFIA, la quale non
si abbandona alle speculazioni ideali, mamedita sui fatti sociali ed umani, ne
scevera l'essenza giuridica, la modella in concezioni tipiche, e svolge le
medesime in tutte le conseguenze, di cui possono essere capaci. È questo il
motivo, per cui le costruzioni giuridiche dei giureconsulti romani sono sempre
dei modelli, che difficilmente potranno essere superati, poichè nella divisione
di lavoro, che si opera fra i popoli moderni, non ve ne ha certamente alcuno,
che possegga in questa parte le attitudini veramente meravigliose dell'ingegno
romano per l'elaborazione dell'elemento giuridico, e nessuno parimenti, che
possa aver l'occasione, il modo e il campo, che esso ebbe, per applicare la sua
giurisprudenza alla immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare
destino quello di Roma. Come le sue mura furono costrutte coi massi più solidi
dell'epoca gentilizia; così i concetti, che le servirono di base, furono la
sintesi potente di tutto un periodo di umanità, le cui vestigia si vengono ora
discoprendo nelle necropoli delle più antiche città italiche e nelle civiltà
fossili dell'antico oriente. Da questi ruderi di un periodo che può chiamarsi
pre-istorico, essa seppe ricavare uno svolgimento storico e logico ad un tempo,
che basta ad organizzare il mondo per tutto un grande periodo di civiltà. Senza
essere ricca di concetti proprii, essa ebbe però tanta forza ed energia
assimilatrice da fare entrare nei medesimi il lavoro di tutte le genti, con cui
denne a trovarsi a con tatto. Senza abbandonarsi a speculazioni ideali, essa
riusci ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, e a svolgerla
in tutte le sue conseguenze con una logica inesorabile e tenace. Quando poi i
concetti, che stano a base della sua grandezza, sono anch'essi esauriti, dalle
loro macerie usce ancora la grande idea della umanità civile, e la sua legge puo
servire come punto di partenza ad un nuovo periodo di cose sociali ed umane,
Soltanto Roma, fra le città dell'universo, puo personificare in se stessa
quella legge di continuità, che unifica la storia del genere umano. Le sue
radici si perdono nella preistoria, e le nazionalità moderne sono preparate da essa. Essa e l'erede e la
raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio, e intanto pose
le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne. Inchiniamoci
a Roma. Quando si pretende di cambiarla in sede esclusiva del potere
spirituale, essa sa di nuovo rivivere alla vita civile. Quando si crede di
riguardarla come una specie di museo del mondo civile, colle sole sue memorie
essa coopera a ridestare a vita una giovine nazione. I dualismi, che ora
esistono in Roma, non ci debbono impaurire. Roma e sempre la città dei
dualismi. Punto non ripugna, che Roma e la sede del governo civile. Già altra
volta essa apprese l'arte di separare il potere religioso dal civile – “sacra
profanis secernere.” Non ripugna parimenti, che Roma continua ad essere la
città dei dotti e degl’eruditi, e che intanto sia la capitale di un giovine
stato. Roma ha tal copia di monumenti del passato da ricavarne la più splendida
passeggiata archeologica, e ha spazio che basta per fondare nuovi quartieri,
che possano corrispondere alle nuove esigenze ed ai nuovi bisogni. Ormai er tempo,
che essa un'altra volta arricchisse il nucleo ristretto della sua popolazione,
accordando nuovamente la sua cittadinanza alle popolazioni, che vi
concorsero da ogni parte dell'Italia. Lo stato federale non cerca di far
rivivere la tradizione civile e politica di Roma. Lasciamo ad altri di
combattere l'influenza della romanità. Noi, studiando fra i ruderi di Roma
antica, abbiamo nella grandezza del suo passato uno stimolo ed un incitamento
per l'avvenire; nè e inutile, che il giovine regno cerchi di educare il suo
senso politico e legislativo, studiando l'opera dei più grandi politici e
legislatori del mondo. La storia civile e politica di Roma e quella del suo
diritto non deve in Italia essere privilegio di dotti e di eruditi. Deve essere
parte dell'istruzione e dell'educazione civile e politica del popolo italiano.
È solo in questo modo, che si spiega la falange di giovani studiosi, che si
precipito sopra questo patrimonio, che deve essere nostro, allorchè lo studio
della storia del diritto romano e opportunamente chiamato a far parte
dell'insegnamento giuridico nell’università italiane. Credo infatti di poter
affermare, senza timore di essere contraddetto, che nessun nuovo insegnamento
provoca nel nostro paese cosi largo movimento di studii, come lo dimostrano le
pubblicazioni fattesi sull'argomento, gli istituti per lo studio del diritto
romano, che ora vengono sorgendo, e l'entusiasmo stesso, con cui non solo
l'Italia, ma tutta l’Europa partecipa alla commemorazione solenne di
quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli studi sul diritto ro mano pone le
fondamenta dell'illustre ateneo di Bologna. L'importanza dogmatica del diritto
romano potrà forse diminuire colla pubblicazione del codice civile germanico,
il quale fa si che il diritto romano cessi di essere il diritto comune di un
grande Popolo. Ma la sua importanza storica venne per cio stesso ad essere
accresciuta, perchè si tratta pur sempre di determinare la parte, che nelle
moderne legislazioni deve essere attribuita alla grande in fluenza del diritto
romano. Ne è da farsi illusione, che questo gepere di studii possa ugualmente
mantenersi fuori della cerchia dell’università. Poichè, tanto in Italia che in
Germania, la scienza è nata e si è svolta nell’università, ed è in esse, che
deve essere tenuto vivo il focolare della medesima. È soltanto nell’università,
che la storia del diritto antico può cessare di occuparsi esclusivamente di
minute ricerche archeologiche, per cambiarsi in un sistema di concetti, che
possa essere succo e sangue per la giovine generazione. Giuseppe Carle. Diritto romano. Keywords: implicatura, diritto romano,
legge romana, concetto di legge romana, natura romana Roman law often invoked
nature to justify a legal ius – the principle of individual ownership: JOINT
position of a single object is said to
be contra naturam. CONTRA NATVRAM QVIPPE EST VT CVM ALIQVID TENEAM TV QVOQVE ID
TENERE VIDARIS. SERVITVS EST CONSTITVTIO IVRIS GENTIVM QVA QVIS DOMINIO ALIENO
CONTRA NATVRAM SVBICITVR. Orazio. Sat, Roma – filosofia antica –
Luigi Speranza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carle” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi
Speranza -- Grice e Carli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. A cura di alberto schiavo Gy giovanni volpe
editore FUTURISMO E FASCISMO. Una fotografia inedita di Marinetti mentre
si esercita al poligona di tiro di Gorizia. Marinetti e Russolo si
erano arruolati volontari nel Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti
il 3 agosto 1914 per poi combattere da alpini sul Monte Altissimo.
In seguito Marinetti verrà assegnato ad un reparto di autoblindate e
poi servirà nei bombardieri. Sarà tre volte ferito e tre volte
decorato al valore. Tutti i
diritti riservati. Giovanni Volpe Editore in Roma, Via Michele Mercati.
FUTURISMO E FASCISMO a cure di ALBERTO SCHIAVO GIOVANNI VOLPE
EDITORE FUTURISMO CON E SENZA FASCISMO A Giacinto Menotti Serrati allora
direitore del- l’Avanti, che si era recato in Russia per respirare
aria comunista. Lenin affermò: “Voi socialisti non siete dei
rivoluzionari. In Italia ci sono soltanto tre uomini che possono fare la
rivoluzione: Mussolini, Annunzio, Marinetti”. Il povero Menotti,
inotridito, ritornò a Milano precipitosamente. E. quando, paco dapo, un capo
scarico con un magistrale colpo di forbice gli tagliò di netto, per
beffario, Ia veneranda barba, reagì in questo modo: facendo proclamare
nella grande città lombarda lo sciopero generale. I milanesi
orripilarono, è il caso di dirlo, perché si sentirono da quel giorno
appesi ai peli del direttore dell'Avarti
EmiLio SErTIMELLI, Mille giudizi di statisti, scrittori, giornalisti,
scienziati, industriali di Cinquanta Stati sulla personalità e misstone
di Mussolini, Erre, Milano). Quale futurismo? Il futurismo è ormai un
fatto d’esportazione: italiano d'origine pur se si è cercato di farlo
passare per francese e russo poi di acquisizione e di affermazione, è
ormai alla ribalta dell’esperimentazione artistica americana. Segno
questo che il fenomeno è vitale e ancora carico di prospettive,
nonostante la storicizzazione di un avvenimento che fu d'avanguardia. Ma quale
avvenimento? Il manitesto del futurismo fu pubblicato sul parigino Le
Figaro. Si tratta di un manifesto letterario di rinnovamento e di rivoluzione,
se vogliamo, della tradizione classicista e passatista {secondo un termine caro
ai futuristi) dominante. Gli aspetti politici non furono tuttavia
estranei alla sua volontà di rivolgimento letterario ed artistico.
Ci sembra quindi giusto prenderli in considerazione, eftet tuarne un
esame. Anzi, è proprio di questi che ci vogliamo occupare, del loro svolgersi,
articolarsi 0, comunque, manifestarsi nel corso del tempo e della vita del
futurismo. Che, in fondo, ancora oggi è accettato o respinta, condiviso o
negletto, approvato o denigrato a seconda delle posizioni o degli
intendimenti politici del momento. Ma anche è ticonsiderato, tivisto e
rivisitato nel suo complesso, da tutte le parti, vicine e lontane, amiche
ed avverse, per la carica vitale e rinnovatrice che lo anima,
suscitatrice di nuovi spiriti e ancòra, in fondo, moderna. La
letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno ,
scriveva Marinetti in quel Mani festo di settanta e più anni fa. Noi
vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo
di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. E non è già
atteggiamento letterario aggressivo , ma anche di rinnovamento, questo?
Non è, come si suol dire ancora, fare politica ? Al settimo punto del
Manifesto, Marinetti così continuava: Non c'è più bellezza, se non nella
lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un
capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto
contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo . Per
concludere poi con l'undicesimo: Noi canteremo le grandi folle agitate dal
lavoro, dal piacere o dalla sommossa; canteremo le maree multicolori e
polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante
fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente
lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le
officine appese alle nuvole. E tutto questo cantava e diffondeva da Parigi, da
uno dei più gloriosi quotidiani della capitale francese; ma ciononostante...è
dall'Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di
violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”,
perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di
professori, d’archeologi, di ciceroni e di antiquari. Un grido così
coinvolgente e totale non può, in fondo, non trascinare ancora gli osservatori
della cultura, A non invitarli almeno a prendere posizione,
poco importa se favorevole o contraria. Non si può rimanere indifferenti
ancora negli Anni Ottanta, non sentirlo tutt'ora presente nei suoi contenuti
prospettici e attuali. Ecco perché tutti lo hanno ripreso, riconsiderato
o riabilitato alla loro dimensione storica: liberali e comunisti,
socialisti e conservatori, cattolici e radicali, fino alla nuova destra. Anche
noi, vorremmo quindi riesaminarlo a distanza non però per
riappropriarcene, ma solo per vedere la sua origine, il muoversi storico e la
collocazione politica nel corso della sua esistenza, che in fondo, è
ancora incerta e anche, in parte, controversa. Si è parlato d’irrazionalismo
filosofico, di decadentismo o di romanticismo letterario, di surrealismo con
evidente errore di collocazione, di nietschianesimo natural mente, o di
bergsonismo ecc. ecc. Ma non sta a noi questo compito, perché siamo convinti
che rutto si potrebbe dite, o comunque tutto si potrebbe adattare in
buona combinazione di purpurie filosofica, o di pensiero. E invece è il
futurismo che vorremmo considerare nella sua realtà storica, nella sua
entità e valenza politica , di fianco o a distanza di quel fascismo con
cui bene o male si è accompagnato. Anche se ciò non basta
certamente per avere un'idea chiara e precisa della sua effettiva portata
e del suo valore storico . Perché il futurismo va visto sì nel suo tempo,
che non è poi tanto passato, pur se non è più momento dell’oggi; ma va
visto anche nella sua prosecuzione e nella sua proiezione al tempo
presente, sia pure per quel che riguarda la dimensione d’arte ». Il
futurismo oggi non è più un fatto politico, ma è tuttora fatto culturale,
e diverse manifestazioni e pubbli cazioni lo dimostrano ancora. Quando
nacque, fu espressione rivoluzionaria di un paese giovane e nuovo mosso dalla
felice conclusione dei fermenti unitari, i quali è ovviocomportano sempre
semi di sconvolgimento e di rinnovazione. L’Italia di Vittorio Veneto sancità
definitivamente ed epicamente il ciclo dell’unità e segnerà così anche,
nel l'immediato dopoguetra, il momento di temperatura massima del
futurismo politico , che vedremo poi ricadere in seguito completamente a
zero. Oggi, in tempi di riflusso dopo una guerra perduta
anche se ormai lontana, il futurismo risulta meno comprensibile e meno attuale
alla nostra capacità d'intendimento storico. Ma a ben osservare possiamo
ancora intravvederlo, per intendere poi anche meglio il futurismo
artistico e letterario, che del tutto estraneo a quello politico proprio non
è. La cultura è un fatto del presente, ma anche dell’avvenire. Come
tale è o dovrebbe essere giovane, perché vissuta, voluta, creduta e
quindi guardata in prospettiva nella visione dell’oltre, nell'ottica di uno
sguardo lontano. Il futurismo si pone in questo taglio di visuale
sull'inizio del secolo, e si focalizza in tale dimensione. Vuole aprire
una nuova strada e vuole porgere un'indicazione, una proposta.
Erano i tempi del progresso, dello sviluppo della scienza e
dell'industria, del nascere della velocità dei nuovi suoni e dei nuovi
rumori, quelli delle scoperte e delle invenzioni, del cinema e
dell'aviazione. Marinetti percepì tutto questo e lo espresse. E fondò il
futurismo, pose le sue basi e cantò la sua prima voce. Nessuno
forse s’aspettava o s'immaginava che potesse riuscire a trovare
ascolto. Marinetti però viveva a Parigi a quel tempo, e seppe
approfittare dei contatti che aveva con la cultura rancese per lanciare
il Manifesto: fu un'occasione, e fu anche un lancio
sicuro. Futurismo e passatismo
Esiste ancora oggi il passatismo , quello di marinettiana
memoria. E se è pet questo c'è ancora il futurismo. Proprio per tale suo
aspetto, dunque, il futurismo è ancora attuale: la decadenza della
cultura o il suo invecchiamento, e la sua inadeguatezza ai tempi; il prevalere
per contro dell'accademia, della pedanteria, del vecchiume cattedratico sono
sempre all'ordine del giorno. Il futurismo, quindi, non ha esaurito il suo
compito, ovvero non è riuscito nel suo intento. E allora dovremo dire che
non è morto ed è tuttora attuale. Ma prima di aprire un'ipotesi di nuovo
futurismo , dovremmo esaminare quello passato, fattosi movimento
d'avanguardia, e ormai da ridefinirsi vera e propria avanguardia storica,
solo ed esclusivamente. Il passatismo può essere oggi solo un
fatto di ritorno , o esser rientrato ad occupare il suo campo d'’origine,
ma il futurismo settanta anni fa aveva già conosciuto quello di allora, tanto
da indicarlo e da definirlo, con una sua caratteristica espressione:
passatismo, appunto. E non si trattava anche allora di una cultura
ripetitiva e monocorde, puntualizzatrice e pedante, noiosa e inattuale?
Allora come oggi: una cultura fuori dal tempo, sterile e ferma. E il
futurismo aveva voluto muoversi a rinnovarla, a darle nuova spinta
vitale. Ecco allora le sue invettive contro l’accademismo o il
professorume, i suoi appelli alla distruzione di musei, archivi,
biblioteche. Si trattava di appelli squisitamente letterari, ma
sono stati presi il più delle volte alla lettera o in senso letterale,
per farne atto d'accusa al futurismo e alla sua anticultura. Leggendo al di là
delle righe, invece, dovremmo capire la portata o la dimensione del
messaggio, rivolto agli uomini più che ai musei e alle accademie, o
almeno a certi uomini capaci di rappresentare solo ed esclusivamente
cultura da museo. Sulla spinta di questo stimolo ideologico , era
fatale che il movimento trovasse più facili accoglienze 0 accostamenti
con le parti politiche d’azione, quelle dell'inter vento prima della
Grande Guerra, e dell’arditismo prima durante e dopo il conflitto. La
guerra veniva ormai intesa sola ed unica igiene del mondo , ed era logico
che i futuristi si accostassero a lei, come ad una forza capace di
debellare ed estirpare il tanto inviso passatismo . I futuristi quindi
furono interventisti accanto ai nazionalisti (D'Annunzio) ed ai socialisti di Corridoni
e di Mussolini. La ineluttabilità della storia accosta spesso e volentieri i
differenti . Furono vicini nei comizi, nelle manifestazioni, nella
propaganda per l’intervento. E poi partirono, praticamente tutti 1
futuristi, volontari per il fronte di una guerta che avevano inteso e
visto aggressiva, purificatrice e moderna. Una guerra al passo coi
tempi, si direbbe oggi, una guerra insomma futurista . Partì Martinetti e partì
Boccioni, partirono Funi e Sitoni, partì Sant'Elia, che lasciò i suoi 23
anni in trincea sulle colline del Carso. Erano entrati tutti e cinque
compatti in quel glorioso battaglione ciclisti, che tanto fece patlare di sé, e
che Funi rittasse in un famoso quadro. Anche Boccioni morirà in ospedale
a Verona. La vita fu forse la massima offerta all’igiene di una
guetra tanto desiderata. Il futurismo in quanto fermento
rinnovatore di una lotta nazionale che concluse il Risorgimento, potrebbe
essere inteso come un epigono del Romanticismo. Fu invece di più e di meglio,
visto in altra dimensione o in altro significato. Perché fu avanguardia,
anzi il primo veto e proprio movimento d’avanguardia culturale del nuovo
secolo. E l'avvento del fascismo in senso politico, dimostra in fondo che lo
sbocco di tutto quel rivolgimento innovativo 0 avanguardistico che tutti
sentivano e avevano nel sangue , era diventato una ineluttabile necessità
del momento. L’irreggimentazione del fascismo è un fatto
successiva, indipendente dal futurismo. Il fascismo-regime, per
dirla con De Felice, è un'esito autonomo e solitario di Mussolini e del
potere. Il fascismo-movimento invece, sempre per dirla alla De Felice,
no. I) fascismo-movimento è una realtà più complessa, articolata e
multiforme, più sentita e partecipata. Ed in essa entra il futurismo, che
vive il fascismo ma anche lo anima, che Jo vuole in parte, ma anche lo
informa. Il passatismo doveva essere stroncato: e in un
primo momento, con l'avvento di Mussolini, languì. La cultura subì uno
svecchiamento non indifferente ed il fermento del nuovo portò sulla scena
uomini giovani accantonando | vecchioni dell'accademia libera!socialista.
Balla, Carrà, Soffici, Funi, Sironi, Prampolini si affermarono col vento
futurista che stava soffiando. Ed ebbero spazio nelle mostre, almeno in un
primo momento, apertura nei musei, apprezzamento all’estero, dove vennero
accolti, ammirati, imitati. Il futurismo ebbe una grande forza vitale
sua, autonoma e individuale. Senza per questo imporsi e schiacciare la
concorrenza , anzi. I futuristi accettatono nuove esperienze ed accolsero
scambi con avanguardie straniere (come l'astrattismo), che vol.
lero mutuare in reciprocità l’influenze. Il fascismo fu l’avanguatdia
collaterale politica del futurismo, che tuttavia quest'ultimo cronologicamente
precedette e ideologicamente , almeno in parte, ispirò. La lotta al
passatismo divenne così quasi simbolo del fascismo, che si fece portabandiera
del rinnovamento e della nuova rivoluzione nazionale. I professori
, non avendo messaggi originali da contrapporre, rimasero in disparte.
Marinetti divenne accademico d’Italia a fascismo avanzato e, forse, suo
malgrado. Tuttavia usò l'Accademia per promuovere ed appoggiare i suoi
futuristi, per dar loro spazio nelle diverse manifestazioni d’arte e di
cultura. Il filosofo Croce, professore ad honorem , era stato proposto
alla presidenza dell’Accademia, ed era stato proposto da parte fascista, quando
ancora da Napoli applaudiva a Mussolini: ebbe invece più consensi la
presidenza Marconi, lo scienziato, e Croce si ritirò nell’antifascismo, forse
mi litante, della sua incensurata e liberissima Critica. Croce fu
passatista , 0 tortò ad essere tale dopo una parentesi {od un tentativo
di rivolgimento innovativo), che non lo sottrasse tuttavia dalle carte della
sua più o meno immobile filosofia. 3. Futurismo e politica
La comparsa politica del futurismo fu praticamente contemporanea
alla sua nascita artistica: infatti avvenne in occasione delle elezioni
del 1909, quando Marinetti lanciò il suo Primo Manifesto Politico, che
così si rivolge agli Elettori Futuristi : Noi Futuristi invochiamo da
tutti i giovani ingegni d’Italia una lotta ad oltranza contro i candidati
che patteggiano coi vecchi e coi preti . Posizione confermata nel marzo
dello stesso anno in un famoso Discorso ai Triestini tenuto al Politeama
Rossetti, della città giuliana, dove così sottolinea: In politica, stamo
tanto lontani da] socialismo internazionalista e antipatriottico ignobile
esaltazione dei diritti del ventre quanto dal conservatorismo pauroso e clericale,
simboleggiato dalle pantofole e dallo scaldaletto . Sono le premesse del
famoso anticlericalismo marinettiano, che sfocerà poco dopo nello
svaticanamento tanto predicato per la salvezza nazionale. Dopo la nascita
del futurismo politico, viene fondato il Partito Nazionalista Italiano,
antidemocratico ed antiborghese. Nel 1913 nasce Lacerba, cui diedero vita a
Firenze Soffici e Papini, la rivista che in pratica divenne ben presto organo
ufficiale del futurismo /ato sensu. Sempre nel 1913 sorgeva a Napoli
un’altra rivista futurista, diretta da Ferdinando Russo e intitolata
Vele Latina, che si ergeva in un primo tempo a voce di pasizioni
morigerate e tranquille, e poi dal 1915 più spinte nella mischia
dell'intervento. Ancora del ’13, e dell'11 ottobre per l'esattezza,
è la pubblicazione del Programma politico futurista a firma di
Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo, per le elezioni dello stesso anno.
Questo programma vincerà , s'indica al margine inferiore del foglio, il
programma clerico-moderato-liberale e il programma
democratico-repubblicana-socialista . Cosa che poi in realtà non avvenne.
Il 12 dicembre dello stesso anno Marinetti pronunciava un discorso al
Teatro Verdi di Firenze, dove saostiene la volontà di appoggiare l'impresa
libica ed il suo felice compimento. Il discorso viene immediatamente
ripreso e pubblicato da Lacerba, nel numero del 15 dicembre (n. 24, anno I): Si
convincano i socialisti che noi rappresentanti della nuova gioventù
artistica italiana combatteremo con tutti i mezzi e senza tregua i loto
vigliacchissimi tentativi... iniziava il discorso; e così concludeva, a
rafforzamento delle sue inconciliabili posizioni: Noi siamo dei
nazionalisti futuristi e perciò ferocemente avversi all’altro grande pericolo
imminente: il clericalismo con tutte le sue propaggini di moralismo
reazionasio, di repressione poliziesca, di professoralismo archeologico e di
quetismo rammollito o affatismo di partito . Ormai la collocazione del
movimento è quanto mai chiara e inequivocabile. 4. Futuristi e
fiorentini. Che i futuristi fossero milanesi è problema tutto da vedere,
anche se è vero che Marinetti abitava a Milano e che dopo la fondazione del
movimento a Parigi fu a Milano il suo centro di spinta e di irradiazione.
Ma i legami con Firenze furono ben presto agganciati, e determinanti.
Scrive Luciano De Matia: Fsiste un futurismo milanese (con Marinetti e Boccioni
in simbiosi); esiste un primo futurismo fiorentino lacerbiano, che
assimila, elabora in modo nuovo, creativo, le istanze milanesi; esiste un
secondo futurismo fiorentino (la pattuglia azzurra ; i giovani de L'Italia
futurista) psicologico, occultista, predadaista e presurrealista. E
potremmo continuate nelle differenziazioni ”. Ma non è tanto per
questo tipo di differenziazioni che ci interessa il futurismo fiorentino,
quanto per la dimensione politica dei personaggi che vi aderirono,
diversa da quella di Marinetti e degli altri futuristi milanesi o
degli altri politici che a Milano operavano e si muovevano (Boccioni,
Sant'Elia, Balla; più tardi poi, Vecchi e Mussolini). Milano era già
città d'avanguardia e alla guida dell’industrializzazione settentrionale:
questo non va dimenticato. Firenze era ancora passatista ,
accademica e salottiera; legata comunque ad una cultura d’indagine e di
! Tuciano De Maria, Palazzeschi e l'avanguardia, Mondadori,
Milano, 1968, 31. riesumazione di un passato ricco e glorioso, ma ormai
ripetitivo e sclerotizzato. Firenze tuttavia era anche la terra feconda
del primo Novecento, delle nuove riviste, dei tentativi di rivisitazione
di una cultura pur sempre nazionale, e di lancio dell'avanguardia sullo scorcio
del nuovo secolo, che andava creato e costituito, Il Leonardo apre le sue
tirature il 4 gennaio 1903, per chiuderle poi nell'agosto del 1907. Era stato
Papini a fondarlo, ma c’era già anche presente Prezzolini (Giuliano il
Sofista). Che poi mise in piedi La voce nel 1908: uno dei migliori
tentativi di collegamento delle forze intellettuali e di fondazione di un minimo
denominatore comune, letterario e politica {idealismo e sindacalismo
socialistico di tipo soreliano). Papini continuò la collaborazione . Ma vi
furono anche, sulle pagine de La Voce, Amendola e Sal vemini, Soffici e
De Robertis, oltre che il futuro fondatore de Il Popolo d’Italia e del
Fascismo. La Voce chiudeva però i battenti nel 1912 senza eccessiva eco
politica immediata. Papini non aveva condiviso certe alleanze del suo amico
Giuliano il Sofista, come non condivideva l'intento didascalico e divulgativo
della Voce su qualsiasi argomento artistico e sociale, come anche
idealistico . Si unì a Soffici di cui condivideva gli atteggiamenti, ed
insieme fondarono Lacerba (il 1° gennaio del 1913, sempre a Firenze). Non si
volge chi a stella è fisso! , portava come motto il Leonardo sotto
la testata. Volendo dare tono battagliero a Lacerbae, Papini forse ancora
seguiva le prospettive d’arte e di cultura del Leonardo. Anche se in una
dimensione attiva che già i leonardiani
avevano inteso fondare nell’utilizzazione del pragmatismo come strumento di
potenza . (In quegli anni tutti vollero sapere che cosa fosse il
pragmatismo ). Lacerba riprende l’impostazione di battaglia, tipica
di Papini, e ritotna all’orientamento specifico dell’arte. Vedi anche
Giovanni Papini, Pragmatismo, Firenze, Vallecchi. In questo contesto è evidente
che non poteva mancare l’incontro col futurismo. La scazzottatura
dei futuristi con Soffici e i vociani nel 1911° non poteva aver
contribuito all'incontro? Potrebbe darsi, anche se Papini non vi aveva partecipato,
come Marinetti stesso asserisce in una sua lettera a Pratella. Sta di fatto che
col 15 marzo del 1913, cioè col suo sesto numero, Lacerba diventa
futurista. Con un articolo proprio di Papini dal titolo Contro il futurismo
che dal famosa attacco iniziava così: Il futurismo italiano ha
fatto ridere, urlare e sputare. Vediamo se potesse far pensare. Segue un passo
di Boccioni sul fondamento plastico della scultura e pittura futurista.
Proprio Boccioni che aveva investito Soffici col suo celebre pugno, poco più
di un anno prima a Firenze. E che continuerà a pubblicare articoli
sul numero del 1° di aprile e su quello del 1° di agosto e poi sul primo
numero del 1914, ecc. Per non parlare di Carrà, Marinetti, Russolo,
Sant'Elia, Auro d'Alba, ecc., che porteranno continuamente i loro
contributi. Il 15 ottobre del ’13 Lacerba pubblicherà
addirittura il citato Programma politico futurista in occasione
delle elezioni generali. Il manifesto politico compare in prima
pagina con tutti i crismi d'appoggio o di affiancamento della rivista.
Papini ne dà un commento più che soddisfacente . E lo stesso Papini il 1°
dicembre dello stesso anno uscirà poi con un lungo articolo intitolato
Perché son futurista. Sarà l’atto di accettazione definitiva del
futurismo, od il suo accoglimento più completo, e globale. Su La Voce
Soffici pubblica la sua Ricetta di Ribi Buffone. Vi si elencano gli ingredienti
del neonato futurismo: Un chilo di Verhaeren, 200 gr. di Alfred Jarry,
cento di Laforgue, trenta di Laurent Tailhade, cinque di Viélé Griffin,
un pugno di Morasso..., una presa di Pascoli , aggiungendovi poi
una pila di undici automobili, sette aetoplani, quattro treni, due
carghi, due biciclette, diverse batterie elettriche e qualche candela ardente.
Sempre su La Voce Soffici pubblicherà poi nel ‘10 e nell’11 dei
rendiconti negativi sulle opere futuriste esposte a Venezia e a Milano,
per cui sarà decisa la spedizione punitiva a Firenze da parte dei
fuiuristi, Non molti giorni dopo, il 12 dicembre (lo abbiamo già
visto), si tenne al Teatro Verdi a Firenze una grande serata futurista ,
di cui riporta il resoconto sintetico il numero 24 della rivista (del 15
dicembre 1913). Non molto tempo dopo, però, il 15 febbraio del
’14, appare sul quarto numeto del nuovo anno I! cerchio si chiude,
che avvia inesorabilmente al declino della collaborazione. Autore ne è ancora
una volta Giovanni Papini, che chiuderà definitivamente il colloquio
sull'ultimo numero dell’anno insieme a Soffici, cofirmatario de Il
Futurismo e Lacerba. È l'atto di chiusura di un periodo : quello, appunto, del
futurismo lacerbiano. Risponderà Boccioni il 1° di marzo sul numero 5 con Il
cerchio non si chiude; ma sono solo sussulti, e anche sugli ultimi
numeri dell'anno della rivista compariranno solamente i cosidetti canti
del cigno . Il cerchio era ormai già chiuso. E non molto dopo
chiudeva anche Lacerba, nonostante i suoi ultimi tentativi interventisti di
rivivificazione (1915) e le sue discriminazioni tta futurismo c marinettismo,
che ne sarebbe stata la versione deteriore‘. 1l marinettismo sarebbe
pra ticamente già morto secondo i fiorentini , mentre il futurismo
avrebbe potuto tendere a mete migliori. Dopo pochi mesi in realtà morirà
definitivamente anche Lacerba. 5. Il futurismo e la guerra
Nel 1929 Marinetti ricordava così l’inizio della sua carriera
interventista : Nel settembre 1914 dutante la battaglia della Marna e in
piena neutralità italiana, noi futuristi organizzammo le due prime
dimostrazioni contro l’Austria e per l'intervento. Bruciammo il 15
settembre nel Teatro Dal Verme e il 16 settembre in Piazza
del Palazzeschi, Papini, Soffici, Futurismo e Marmnettismo, in
Lacerba, anno III, n. 7, 14 febbraio 1915, 49-50. Duomo e in Galleria
undici bandiere austriache . Poco prima di quegli avvenimenti, Mussolini
aveva fondato il suo nuovo quotidiano, I{ Popolo d’Italia.
Contemporaneamente, sotto l'auspicio e il favore di Corridoni, i gruppi
rivoluzionari di sinistra, già pronunciatisi a favore della guerra, si
stavano organizzando per sostenere anch’essi l'intervento. Come ricorda
De Felice, il 5 ottobre il Fascio Rivoluzionario d'Azione
Internazionalista avrebbe lanciato il suo primo appello ai lavoratori italiani
in questo senso * L'incontro tra futuristi e rivoluzionari di
estrema sinistra si stava verificando e stringendo , anche se già
confortato da reciproche simpatie per le uni. voche posizioni
anticlericali ed antiborghesi. Mussolini scriveva dalla direzione de Il Fopolo
d'Italia una lettera a Buzzi, che riportiamo interamente: Caro Buzzi,
Boccioni vi avrà detto se mai vi avrà parlato di me che tutte le
mie simpatie sono anche nel dominio dell’arte per i novatori e i
demolitori: per i “futuristi”. Inattesa, e perciò gradita, mi giunge la
vostra lettera riboccante di simpatia. È questo uno dei momenti più amari
della mia vita. Ma vincerò. Vincerò. Lo sento. F' necessario. Ho
messo nel gioco tutta me stesso. Credetemi. Vostro Mussolini. L’amarezza
gli è data probabilmente dall’espulsione dal Partito socialista proprio
per la posizione da lui assunta a favore dell'intervento. La conoscenza da
parte di Mussolini, di Boccioni e del movimento d’arte d’avanguardia di
Marinetti, risultava sino a poco tempo fa inesistente. La lettera, unica
del genere, conferma la precedenza del futurismo politico rispetto al
fascismo ancora da sorgere, che poi mutuerà da esso idee, elementi e
programmi. Le simpatie si manifestano per il dominio
dell'arte, al dire di Mussolini, ma non solo; c'è un anche , che
indica chiaramente dell'altro e un'apertura, forse politi ca, possibile
nei confronti degli innovatori e dei demo Renzo De Felice, Mussolini il
Rivoluzionario, Einaudi, Tori. litori , vale a dire per i futuristi. Che
ancora il 9 dicembre di quell’anno organizzano le prime manifestazioni
interventiste all’Università di Roma, sotto la guida di Marinetti, Balla,
Cangiullo e Depero. Qualche mese dopo, nel ’15, le autorità di governo
fermano Marinetti, Cangiullo, Balla e Depero che avevano indetto una
manifestazione interventista un’altra volta a Roma, in Piazza Venezia. È
il primo fermo politico di Marinetti. Siamo quasi alla vigilia della
guerra. Si mette in piedi la terza grande dimostrazione
interventista davanti alla Camera dei Deputati. È presente anche Mussolini e si
verifica uno dei maggiori momenti d’incontro tra futuristi e
Mussolini sul terreno dell’intervento. Balla, Corra, Settimelli,
Marinetti e lo stesso Mussolini vengono attestati. Tutti gli sforzi
ormai, tutte le volontà e tutte le energie sono concentrate verso un'unica e
suprema meta: quella della guerra. A Messina esce il nuovo periodico La Balze,
e Marinetti pubblica il manifesto Guerra sole igiene del mondo, mentre il poeta
futurista Auro d'Alba lancia a Milano per le Edizioni Futuriste di Poesia
(sostenute da Marinetti) il volume
Baionette. Con l’entrata in guerra nel maggio, a Fitenze
Lacerba interrompe come si è visto le pubblicazioni. Una guerra che
avevano tutti quanti, in un certo senso, preparato con interventi, discorsi,
giornali, manifestazioni e pubblicazioni. Fra questi non va dimenticato
il manifesto del Teatro futurista sintetico, firmato da Martinetti,
Corra e Settimelli, nel quale, fra l’altro, così si legge: Aspettando la
nostra grande guerra tanto invocata noi Futuristi alterniamo la nostra
violentissima azione artistica sulla sensibilità italiana, che vogliamo
preparate alla grande ora del massimo pericolo . E più avanti: Perché
I’Italia impari a decidersi fulmineamente a slanciarsi, a sostenere
ogni sforzo e ogni possibile sventura non occorrono libri e riviste... La
guerta, futurismo intensificato, ci impone di marciare e di non marcire
nelle biblioteche e nelle sale di lettura. No: crediamo dunque che non si
possa oggi influenzare guerrescamente l'anima italiana, se non mediante
il teatro . E in effetti, a partire dal gennaio del '15, i futuristi
avevano iniziato una serie di Tournées di teatro futurista interventista per
sostenere la necessità dell’intervento con un mezzo di comunicazione ben più
popolare e circolante della letteratura. Anche la serata futurista , per
esempio, è un al tro canale o strumento di incoraggiamento
dell'intervento. Si tratta di una sorta di riunione o ritrovo di artisti
futuristi, uno dei quali sollecita gli intervenuti (pubblico) danda uno spunto,
e proponendo un tema, o aggredendo qualche aspetto dell'arte del passato, da
cui nasce lo stimolo alla creazione e alla lotta del nuovo 0 del
futuro, e anche lo stimolo alla guerra che lo conduce sino alle ultime
conseguenze. Ma sentiamo Marinetti come la definisce quando si rivolge agli
studenti in un altro manifesto, di poco precedente a quello teatrale ,
intitolato Im quest'anno futurista, rivelto agli studenti italiani e
datato 29 novembre 1914. Laddove si esortano i giovani alla guerra
così si afferma: ... il futurismo segnò appunto l’irrompere della guerra
nell’arte, col creare quel fenomeno che è la Serata futurista (efficacissima
propaganda di coraggio). Il futurismo fu la militarizzazione degli
artisti novatori. E la guerra arrivò, come A biamo visto, e per
molti versi fu vera e propria guerra futurista . In luglio partiva il
gruppo più consistente di volontari : Marinetti, Boccioni, Russolo,
Sant'Elia, Bucci, Carlo Erba e Funi. Ma ci saranno al fronte anche Carrà
e Sironi, fattosi futurista nello stesso anno, e Piatti e Fortunato
Depero. Alla fine dello stesso anno Boccioni, Russolo, Sant’Elia, Sironi e
Piatti, sempre sotto l'egida di Marinetti, firmano un altro manifesto
futurista, quello dell’Orgoglio italiano, con cui si promettono pugni,
schiaffi e fucilate a quelli degli italiani che avessero manifestato in
sé la più piccola traccia del vecchio pessimismo imbecille, denigratore e
straccione che ha caratterizzato la vecchia Italia di mediocristi
antimilitaristi (tipo Giolitti), di professori pacifisti (tipo Benedetto
Croce, Claudio Treves, Enrico Ferri, Filippo Turati), di archeologi, di
eruditi, di poeti nostalgici. Sant'Elia muore al fronte, e Boccioni, una
settimana dopo, per una caduta da cavallo durante un'esercitazione militare a
Orte. Nasce a Firenze la nuova rivista L'Italia futurista. Prampolini
fonda con Folgore il foglio d'avanguardia Awvenscoperta. Nel ’17 nasce il
periodico Deda, che tanto dovrà nell’ispirazione al nostro futurismo. I) 18 è
ormai l'anno della vittoria. Depero realizza i suoi nuovi balli plastici .
Bruno Corra pubblica a Milano con i tipi dello Studio Editoriale Lombardo
Per l'arte della nuova Italia. Siamo infatti nell’Italia della vittoria.
6. Il Partito politico futurista Nella nuova realtà del
dopoguerra il futurismo cerca una sua nuova collocazione politica più
pacifista , se il termine non è nella fattispecie una contraddizione.
Ai fasti dell'intervento e della militarizzazione, succede un nuovo
intento programmatico di realizzazione. La prima espressione di questa
volontà è ancora una volta dovuta a Marinetti che pubblica nel febbraio
del ’18 un Manifesto del Partito politico futurista, l'adesione al quale
era libera ed aperta a tutti coloro che avessero accettato i
principî del suo programma, indipendentemente dalle concezioni
dell’arte o dal consenso all’estetica futurista . E questo indica una
presa di posizione più ponderata e meno di rottura , almeno in senso
sociale. Il documento esprime, negli intenti, il desiderio di
rinnovamento di quelle fasce del combattentismo inter. ventista, comprese
fra i mussoliniani, i sindacalisti tivoluzionari, i socialisti e i repubblicani
di sinistra, che avrebbero poi dato vita alla formazione dei Fasci di
Combattimento, quelli cui futuristi ed arditi avrebbero infuso la prima
linfa vitale. Si possono considerare punti essenziali del nuovo programma
l'estensione del suffragio universale, comprendente anche le donne, la socializzazione
della terra con assegnazione ai reduci, la tassazione progressiva,
l'abolizione dell'esercito e la sua
professionalizzazione (volontariato), la giustizia gratuita, la
libertà di sciopero e stampa, le otto ore lavorative e Î contratti
collettivi di lavoro, l'assistenza e la previdenza sociale, la
tecnicizzazione clel parlamento e l’introduzione del divorzio. A
diffondere le idee del nuovo partito era destinato il periodico Roma futurista,
fondato a Roma da Marinetti, Mario Carli ed Emilio Settimelli, che vedeva
la luce il 20 settembre 1918 e portava come sottotitolo Giornale del
Partito politico futurista. Roma futurista , racconta Marinetti nel suo
libro Futurismo e Fascismo (1924) nacque un mese e mezzo prima
dell’armistizio, cioè il 20 settembre 1918, e portava nel suo primo numero tre
scritti importantissimi dei suoi tre direttori: Mario Carli, Marinetti,
Settimelli. Scriveva Settimelli: “Il Futurismo che fino ad oggi esplicò
un programma specialmente artistico, si propone una integrale azione politica
per collaborare a risolvere gli urgenti problemi nazionali. Coloro che ci
accusarono di squilibrio dovranno ricredersi. I] preconcetto di serietà
pedantesca e quietista imposto alla vecchia Italia dai professori rammolliti,
dai preti anti-italiani e dagli affaristi giolittiani, cercò di svalutare la
nostra genialità di giovani audaci e novatori. Ma la vera Italia non può
rimanere e non rimarrà neppure parzialmente nelle loro mani incapaci. La
guerra ha rivelato le vere forze italiane. Sono forze giovani, violente,
antitradizionali e ultra-italiane” . Il primo numero di Roma
futurista (decadario, poi settimanale) pubblicava il programma del
giornale medesimo ed anche il manifesto di quel Partito Politico Futurista che
si doveva ancora fondare. Partito che, nell’intendimento di Settimelli, doveva
essere più che altro una tendenza psicologica , una fusione di realtà e
di scon(inamento, di praticità e di lirismo , che avrebbe contribuito a creare
un nuovo tipo d'italiano. Ma ecco ancora come si esprime la volontà di
fondazione del movimento: Il Partito politico futurista che noi fondiamo
e che orxanizzeremo dopo la guerra, sarà nettamente distinto dal
movimento artistico futurista. Questo continuerà nella sua opera di
svecchiamento e rafforzamento del genio creatore italiano... Potranno aderire
al partito politico futurista tutti gli Italiani, uomini e donne d’ogni classe
e di ogni età... Questo programma politico segna la nascita del
partito politico futurista invocato da tutti gli italiani, che si battono
oggi per una più giovane Italia, liberata dal peso del passato... . La
firma è di Roma futurista, cioè, come si presume, del direttore, o anzi
di tutti i tre direttori. Ecco alcuni punti del
manifesto-programma del partito: 4) Trasformazione del Parlamento mediante
un'equa partecipazione di industriali, di agricoltori, di ingegneri
e di commetcianti al Governo del Paese. Il limite minimo di età per
la deputazione sarà ridotfò a 22 anni. Un minimo di deputati avvocati {sempre
opportunisti) e un minimo di deputati professori (sempre retrogradi)...
Abolizione del Senato... Unica religione, l'Italia di domani... 10)...Svalutazione
della pericolosa e aleatoria industria del forestiero... Difesa dei
consumatori... Svalutazione dei diplomi accademici e incoraggiamento con
premi della iniziativa commerciale e industriale. Le adesioni
all'iniziativa si fecero subito sentire da diverse parti: ci furono
vecchi futuristi come Auro d'Alba, Rosai e Rocca, reduci dalla guerra
come Bolzon e Bottai (che avrebbe poi rivestito un ruolo di primo piano
nell'ambito del nuovo regime fascista) e Massimo Bontempelli, secondo il quale
il programma fondamentale del futurismo politico sarebbe stato quello di
sostituire la giovinezza alla vecchiaia nelle funzioni direttive . E non
sarebbe stato poco. Sarebbe stato uno dei tentativi, anche se non del
tutto riuscito, dell’insorgente fascismo. Nel dicembre dello
stesso anno 1918, quasi ad esito naturale della formazione del nuovo
partito, poco organizzato e poco costituito , s'istituirono invece i
Fasci politici futuristi , più attivi e vitali particolarmente in
diverse città dell'Italia centrale e settentrionale, la prima ossatura su
cui si sarebbero appoggiati e sarebbero cresciuti i muovi Fasci di combattimento
, voluti e promossi da Mussolini quattro mesi dopo. Nel febbraio del '19
i Fasci futuristi erano già una ventina, tra quelli di Roma (Balla, Carli,
Bottai, d'Alba e Chiti), Milano (Marinetti, Buzzi, Somenzi e Bontempelli),
Firenze (Settimelli, Rosai, Marasco), Perugia (Dottori), Genova (Depero),
Torino (Azari), e poi ancora Bologna, Palermo, Napoli, Fiume, Messina,
Ferrara, Piacenza, Venezia, Taranto, Modena, Stradella, ecc. I futuristi
avevano quindi accolto con entusiasmo l'iniziativa e vi si erano immersi
fino a determinare una prima ossatura: l’organizzazione. E Mussolini a
sua volta aveva visto di buon occhio e seguìto la formazione dei Fasci
politici futuristi, sino a scopri re in essi un punto d'appoggio per la
sua campagna combattentistica ed antisocialista che si concretizzerà
nei suoi Fasci di combattimento (quelli di Piazza San Sepolcro).
Carli, come condirettore di Rowza futurista e dietro spinta di Marinetti
stesso, caldeggiava da tempo, anche dalle colonne del suo nuovo
periodico, l’avvicendamento e l'annessione degli arditi al partito politico,
di cui sul primo numero del giornale si pubblicava il rivoluzionario
programma: era il 20 settembre 1918. Dieci giorni dopo, il 30
settembre 1918, le proposte politiche si fanno più tecniche, più
specializzate , più particolari. Volt firmerà un testo dinamico per
dichiarare: Sostituiremo il Parlamento con le tappresentanze dei sindacati
agricolo-industriali ed operai. La rappresentenza sindacale sarà la base dello
“Stato tecnico” futurista . Ma allora di quale rappresentanza sindacale si
ttatrerà e quale sarà riconosciuta dallo Stato nella sua veste di
personalità giuridica? Sono tutti problemi che già Volt si pone e così, a
suo modo, risolve , e continua: To credo non si debba tener conto del
numero degli iscritti al sindacato, ma della importanza della funzione
economica che esso esercita nel Paese . Ed ancora, prosegue ad
interrogatsi: Quali saranno i limiti posti all'esercizio del potere
dell'assemblea eletta mediante la rappresentanza sindacale? La competenza
dell'assemblea dovrà essere limitata alle questioni prevalentemente economiche,
che sono del resto le più importanti in politica. Le questioni di
famiglia, di politica estera, ecc. dovranno esser risolte II! 'EUE
vu SS it: _gLZffkfkzstllEaAaz:F:=+”sxx:®( '81‘daoiaaiA'.°’°à0‘@e ra in parte mediante il referendum popolare
diretto ed in parte attribuito alla competenza del potere esecutivo
. Gli arditi venivano poi sciolti nel gennaio del ’19 dai
loro reparti di ufficiali, sottufficiali e truppa, perché considerati
provocatori di disordini e di incidenti nella vita civile. L'iniziativa
era stata ovviamente criticata dai diretti interessati come manovta
socialista-giolittiana atta a disconoscere i loro meriti di guerra. Ed
anche Marinetti aveva appoggiato dalle colonne di Roma futurista
1’unificazione (ira futuristi ed arditi), Alla fine di novembre del
’18 Mario Carli fondava, a conclusione di questa campagna ,
l’Associazione fra gli Arditi d’Italia , che fu un po’ l’altra faccia del
Partito politico futurista. In breve, l'associazione atrivò a raccogliere
circa diecimila iscritti, la maggior parte, forse, degli ex reparti
militarizzati . Futurismo e arditismo Ormai anche gli arditi,
nonostante lo scioglimento della loro organizzazione paramilitare, hanno una
consistenza civile ed in certo modo un loro peso politico. Tanto da
poter fondare un loro organo di stampa che prende a uscire a Milano
dall’11 di maggio 1919: il settimanale L’Ardito, edito dall’Associazione
nazionale, e condiretto da Ferruccio Vecchi e, non a caso, da Mario
Carli. Nello stesso periodo altre furono le voci di stampa allineate
su analoghe posizioni: Armando Mazza, per esempio, fondò a Milano I
remici d'Italia, settimanale antibolscevico ; il più importante di questi
giornali minori fu però L’Assalto, pubblicato a Bologna come voce
dell’arditismo, e diretto da Nanni Leone Castelli. Marinetti ed i
futuristi non potevano a questo punto non vedere negli arditi dei nuovi
futuristi politici, così come Mussolini non poteva non vedere in loro dei
potenziali simpatizzanti e alleati. La pronta adesione di molti di essi ai
Fasci di combattimento lo dimostrerà definitivamente. Arditismo e
futurismo furono dunque componenti es dd senziali del nuovo
insorgente fascismo. Almeno dal punto di vista ideologico, o formativo
del suo nascere. Mussolini aveva, per così dire, abiuraro il suo vecchio
socialismo e aveva bisogno di una forza nuova, una forza ideale o di pensiero
che gli permettesse il suo slancio in avanti . Il futurismo gliela
porgeva già bell'e pronta, o quasi, mentre il precedente socialismo gli
alimentava certi spunti sociali, in parte, almeno, già presenti nel
futurismo. L'arditismo, ancora, gli comunicava una spinta, una
forza di aggressività e di assalto , che forse gli sarebbe mancata, o non
sarebbe stata, senza di esso, tanto irruente. Il futuro duce partecipava a
Milano ad una serata futurista contro Bissolati, alla Scala, contribuendo
in parte al suo siluramento . C'era anche Marinetti e, forse, non fu un
caso, e si trattò di un incontro importante. II 23 marzo dello
stesso anno in una riunione milanese a Piazza San Sepolcro, presieduta da
Ferruccio Vecchi, Marinetti tenne un discorso alla presenza di Dessy e di
altri arditi e futuristi, per la fondazione dei Fasci di combattimento,
decisa da Mussolini. Questi propose come programma ai nuovi raggruppamenti
l'abolizione del Senato, il suffragio universale, il sindacalismo
nazionale, riconascendo le rivendicazioni d'ordine materiale e morale agli ex-combattenti e rimproverando al
partito socialista di essere stato nettamente reazionario,
assolutamente conservatore , col negargli così qualsiasi possibilità di
mettersi alla testa di un'azione di rinnovamento e di ricostruzione . La
conclusione del discorso, antimassimalista ed antitotalitaria, era in fondo
quanto mai futurista . Così terminava il Mussolini: Noi conosciamo
soltanto la dittatura della volontà e dell’intelligenza. Al termine della
riunione si nominava un comitato centrale dei Fasci di combattimento di
cui facevano parte anche Vecchi e Marinetti. Il 1° di aprile
Marinetti venne nominato insieme a Mussolini membro della commissione di
lavoro nazionale per Ia propaganda e la stampa. Ancora in aprile a
Milano nuclei di futuristi, arditi e principianti fascisti assali
tu rono la sede del quotidiano socialista Avanti! Il giorno
dopo i fattacci del 15 aprile, visto il mancato inter vento delle forze
dell’ordine nel prender provvedimenti contro i promotori dell'azione,
Vecchi e Marinetti emisero un proclama agli italiani a nome dei futuristi,
degli arditi e dei fasci: Nella giornata del 15 aprile avevamo
assolutamente deciso, con Mussolini, di non fare alcuna
controdimostrazione perché prevedevamo il conflitto e abbiamo orrore di versare
sangue italiano. La nostra controdimostrazione si formò, spontanea, per
invincibile volontà popolare. Fummo costretti a reagire contro la provocazione
premeditata degli imboscati. Col nostro intervento intendiamo di affermare il
diritto assoluto dei quattro milioni di combattenti vittoriosi, che soli devono
dirigere e dirigeranno ad ogni costo la nuova Italia . La
controdimostrazione si riferisce ad una manifestazione socialista
all'Arena, cui seguì la battaglia di Via Mercanti , dove furono chiari, secondo
i reduci, alcuni momenti di provocazione nei confronti del combattentismo
{da qui, l'assalto all’Avanti!). Sempre nell'aprile del *19 esce a
Milano per i tipi dell’Editore Facchi un volume politico di Marinetti, forse
il suo più importante: si tratta di Democrazia futurista, che porta
come sottotitolo dinamismo politico . È una raccolta di articoli apparsi su
Roma futurista e che appari ranno sul nuovo giornale di Vecchi, L’Ardito,
generoso sempre di spazio per Marinetti. Questi definisce il suo
concetto democratico in un altro articolo edito in aprile sempre dall’Ardito:
Vogliamo dunque creare una vera democrazia cosciente e audace che sia la
valutazione e l'esaltazione del numero poiché avrà il maggior
numero di individui geniali. L'Italia rappresenta nel mondo una
specie di minoranza genialissima tutta costituita di individui superiori alla
media umana per forza creatrice, innovatrice, improvvisatrice. Questa
democrazia entrerà naturalmente in competizione con la maggioranza formata
dalle altre Nazioni, per le quali il numero significa invece massa più o
meno cieca, cioè democrazia incosciente . Certo, si tratta di una nuova
cancezione di democrazia, che con quella tradizionale, anche attuale, non
ha niente a che vedere. È una lotta di democtazie, o una democrazia di
lotta, il che alla fin fine non è poi molto diverso. E’ una vera e
propria concezione dinamica. Che, tanto per tener conto del suo opposto
si mette a confronto, a dire di Marinetti, così: Arturo Labriola
definisce la democrazia "come sentimento dei diritti concreti della massa
sullo Stato e sulla Economia“... Noi intendiamo la democrazia italiana come
massa di individui geniali, divenuta petciò facilmente cosciente del suo diritto
e natural mente plasmatrice del suo divenire statale. La sua forza
è fatta di questo diritto acquisito, moltiplicata dalla sua quantità
valore, meno il peso delle cellule morte (tradi. zione), meno il peso
delle cellule malate (incoscienti, analfabeti). La democtazia italiana è per
noi un corpo umano che bisogna liberare, scatenare, alleggerire per
accelerarne la velocità e centuplicarne il rendimento... . Come potrebbe
essere più futurista e avanzata questa nuova concezione democratica progressiva
? Che così, giustamente, si conclude e si definisce: La democrazia
futurista è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte le
sue cellule vive . E’ il punto d'arrivo, logico e
conseguenziale, di una concezione d’assalto . E per la definizione ulteriore
delle posizioni e dei concetti, il 27 aprile 1919 ancora, sulle pagine di
Roma futurista, un testo di Mario Carli (Non chiamatela reazione)
afferma: Non è per l’ordine, non è in difesa dell’autorità costituita o
della borghesia vile, non è in appoggio alla così detta “benemerita” che
noi ci siamo battuti a Milano, e ci batteremo altrove, se se ne
presenterà l’occasione. Ma è per un'idea, per un principio: è per l’idea di
patria, è per il principio di progresso, che noi crediamo realizzabile
con mezzi e con metodi opposti a muelli dei rivoluzionari russi .
Ciò nonostante Gramsci e Lunaciarsky, al TI Congresso dell'Internazionale
comunista, difendono i futuristi italiani e li considerano veri e propri
rivoluzionari . E Lenin medesimo dità a Giacinto Menotti Serrati, che,
come direttore dell’Avanti!, si era recato a Mosca a respirare il nuovo
comunismo: In Italia ci sono soltanto tre uomini che possono fare la
rivoluzione: Mussolini, D'Annunzio e Marinetti . Mentre a proposito di
questo ultimo, cioè di Marinetti e del suo movimento futurista,
Gramsci così annotava in un suo articolo pubblicato su Ordine nuovo nel
1921: Distruggere, in questo campo, non ha lo stesso significato che nel
campo economico... significa non avere paura della vanità e delle
audacie, non avere paura dei mostri, non credere che il mondo
caschi se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia
zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone... I futuristi hanno svolto
questo compito nel campo della cultura borghese... hanno avuto cioè una
concezione nettamente rivoluzionaria . E continuava a migliore
definizione del concetto:...Quando i socialisti si sarebbero
spaventati al pensiero che bisognava spezzare la macchina del
potere borghese nello Stato e nella fabbrica, i futuristi, nel loro
campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari: in questo campo, come opera
creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo
a far di più di quanto hanno fatto i futuristi!
L'11 luglio del '19 Marinetti otteneva un biglietto d'’invito
alla Tribuna di Montecitorio. Andò con Ferruccio Vecchi, gran capitano,
ad aspettare un momento opportuno per l’intervento . L'occasione fu data alla
fine del discorso di un deputato socialista (Lucci). Martinetti si
sporse e, rivolto a Nitti, gridò: A nome dei Fasci di Combattimento, dei
futuristi, e degli intellettuali, protesto per la vostra politica e vi urlo:
Abbasso Nitti! Morte al Giolittismo! Dichiaro che non può sussistere il
Ministero dei sabotatori della Vittoria, degli schiaffeggiatori degli
ufficiali, un ministero che si difende coi carabinieri e coi
poliziotti!.. Vergognatevi! La gioventù italiana, per bocca mia, vi urla:
Fate schifo! Fate schifo! . Vecchi ancora inveisce a voce alta contro Nitti,
mentre Marinetti lotta con usceri e carabinieri, come descrive egli
stesso nel suo Futurismo e Fascismo di cinque anni dopo. L’indomani
avrebbe ricevuto da D'Annunzio la presente missiva: 2R Mio caro
Marinetti, bravo per il grido di ieri, coraggioso come ogni vostro atto.
Vorrei vedervi. Se potete, venite. Il vostro Gabriele D'Annunzio. In
settembre Carli, con Mino Somenzi ed altri futuristi, partecipano con
D'Annunzio alla presa di Fiume (11 del mese): vi si recheranno anche
Vecchi e Marinetti a tenere discorsi ai legionari. Anzi, i due personaggi
sembra fossero considerati, a dire di De Felice facinorosi sovversivi o
addirittura in qualche caso bolscevici , per il loro atteggiamento
intransigente ed estremistico.° Tanto che si era detto fossero stati
espulsi da Fiume, mentre erano stati solo richiamati da Paselia,
segretario politico dei Fasci, che aveva bisogno di loro per
l'organizzazione, forse, del primo congresso fascista. All'inizio di
ottobre, infatti, Marinetti partecipa a Firenze al I Congresso dei
Fasci di Combattimento dove, dopo l'intervento di Mussoltni, parla a futuristi,
arditi e fascisti sostenendo la necessità dello svaticanamento : Noi dobbiamo
domandare. volere, imporre , dice fra l’altro il capo del futurismo,
l’espulsione del papato, o meglio ancora, per usare un'espressione più precisa,
lo “svaticanamento” . Le elezioni generali vengono condotte a
Milano all'insegna del blocco fascista con lista autonoma di Mussolini,
Marinetti (secondo), Toscanini, Podrecca e Bolzon. Comizi elettorali si tennero
a Milano in Piazza Belgioioso (10 novembre) e in Piazza S. Alessandro e a
Monza, dove parlarono sempre accoppiati Marinetti e Mussolini. Dopo il 16
novembre, giorno delle votazioni, in seguito ad incidenti coi socialisti,
Marinetti, Vecchi e Mussolini furono atrestati sotto l'accusa di
attentato alla sicurezza dello Stato ed organizzazione di bande
armate, come afferma ancora il De Felice. Breton e Aragon,
direttori della rivista Littersture, organizzano a Parisi una manifestazione di
solidarietà a Matinetti: sono i momenti di affermazione del dadaismo e
del muoversi, lento, verso il surrealismo. Renzo De Felice,
Mussolini i! Rivoluzionario, Gli incontri e gli scontri, oltre che gli
incidenti, tra socialisti e futuristi non etano cosa nuova. E la
battaglia di Via Mercanti del 15 aprile fu solamente il punto di
arrivo di una vecchia e lunga polemica. Già negli anni prebellici
il futurismo si era scontrato col socialismo neutralista (Turati), che
non poteva andar d’accordo con un movimento intrinsecamente
interventista. Lacerba, per esempio, entrava nella polemica
affiancandosi al futurismo e pubblicando, il 15 ottobre del ’13,
quel famoso Programma politico futurista, esaminato in precedenza. La
postilla di Giovanni Papini non fa altro che convalidare, sia pure con
riserva, la sostanza del programma. A proposito di socialismo
interviene poi nel '14 sempre sv Lacerba, Ardengo Soffici, affermando nel
suo articolo Per la guerra che l’idea che i socialisti si fanno del mondo
è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle prese con un magro
popolano sfruttato. La cultura, le scienze, le arti, la bellezza, i
sentimenti, gli amori, le passioni tutto
ciò insomma che fa la vita così terribilmente complessa, così colorita, così
varia, multiforme, incoetcibile non è
nulla per loro. Tutto è grigio, e l'universo intero una specie di
ragnatela squallida senza confini né orizzonti, eterna, in mezzo alla
quale un ragno cetca di succhiare una mosca alla quale Karl Marx ha
insegnato che non deve lasciarsi succhiare . Sicché, conclude Soffici, i
socialisti nemmeno capiscono che si combatte una guerra per difendere
anche, magari, le loro stesse idee, o il mondo dove l’idea socialista è
nata e cresciuta, contro i nemici medesimi del socialismo e dei
socialisti: i tedeschi. Ma questo non ha nessuna importanza, giacché, ed
eccoci alla mentalità di codesto partito, ogni buon socialista non
vede nella guerra, qualunque essa sia, se non una lotta di capitalisti e
banchieri contro capitalisti e banchieri i quali si servono del
proletariato per liquidare le loro partite . La polemica continua
com'è logico, dopo la guerra. Il primo ad accenderla è Mario Carli su
Roma futurista con un articolo del 13 luglio 1919, che ha un titolo
significativo: Partiti d'avanguardia: se tentassimo di collaborare? Laddove si
considera partito d'avanguardia , ovviamente, anche quello socialista, che
tanta parte ha esercitato nella storia d'Italia. Ho esaminato seriamente
l'ipotesi , esordisce Carli, di una collaborazione fra noi {futuristi, arditi,
fascisti, combattenti, ecc.) e i Partiti cosiddetti d'avanguardia:
socialisti ufficiali, riformisti, sindacalisti, repubblicani... Il terreno
comune c’è... E' la lotta contro le attuali classi dirigenti, grette,
incapaci e disoneste, si chia. mino borghesia e plutoctazia o
pescecanismo o parlamen.tarismo... sono una casta che deve cadere e cadrà , E
cadde infatti, come sappiamo, però non certo per merito di quei
socialisti con cui Carli stava cercando di trovate un punto di contatto,
sia pur rendendosi conto che la collaborazione sarebbe stata difficile per non
dire impossibile o, peggio, inutile. Ciò nonostante Giuseppe
Bottai farà eco alla sua tesi con un paio di lunghi articoli: uno del 9
novembre e l'al. tro del 21 dicembre 1919 entrambi col titolo
Futurismo contro socialismo, il cui succo riesce già evidente. Noi
siamo contro il socialismo , afferma Bottai, perché astrazione filosofica senza
possibilità di contatti vitali. Simbolo che si agifa nel mondo da secoli,
e di cui mai si è trovato, e mai si troverà la formula di traduzione in
positivi sviluppi di masse sociali... Noi siamo contro l’idea socialista
perché sosteniamo la necessità della diseguaglianza... Siamo contro il
socialismo perché idea generatrice di vigliaccheria . Ii 14
dicembre sempre del 1919, tuttavia, certo Mannarese, avversario, pubblica un
articolo per espotre l’impossibile intesa fra le due avanguardie, o
l'impossibilità di accordo in unione d’intenti e di lavoro. Il Mannarese
sottolinea l'identità di socialismo e masse proletarie con loro relative
e legittime aspirazioni. Romza futurista non gli ne. sa spazio,
ospitandolo apertamente e liberamente. Ci pensa Bottai a rispondere
e confutare Mannarese col suo secondo articolo preciso ed aggressivo. Il
titolo: Insisto: futurismo contro socialismo; la data, 21 dicembre
dello stesso anno. La posizione polemica si specifica e si
SAI puntualizza: Prima caratteristica del futurismo è questa,
libera, sciolta sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci crede oggi
difensore dei suoi salami, delle sue salsicce, poco male! ciò potrà darci
la prova della sua minchioneria, non già infirmare l'esattezza del grido
“futurismo contro socialismo. L’intonazione antibotghese è evidente e
forse si sposa, per così dire, con quella antisocialista, essendo l'una
complementare all'altra, e viceversa. Non si può essere antisocialisti
senza essere antiborghesi, e viceversa non si può essere antiborghesi
senza essere antisocialisti, sembra quasi che dica Giuseppe Bottai, e
l’invettiva contro il salumaio non ha nient'altro che questo sapote.
L'equazione socialismo-proletariato , sostenuta dal Mannarese, è vacua e
falsa, dice Bottai, e bisogna distinguere, perché va da sé, afferma, che il
socialismo è uno dei tanti sistemi, i quali, da che il mondo è mondo,
si accaniscono sulla disparità di condizioni delle classi . Lo
esempio dato poi, del fenomeno dell’arditismo, è quanto meno sufficiente
e significativo a smentire una tesi tanto inutile. Infatti, in parecchi
mesi di convivenza con le fiamme nere mi son trovato attorno solo
contadini, operai, lavoratori-proletari! ; e gli arditi non erano certo
socialisti, anzi. Tuttavia l’autore è ben consapevole della portata
economica del socialismo e nello stesso tempo delle esigenze dei ceti
umili o dei proletari, e degli scompensi derivanti da queste esigenze anche per
la loro cattura da parte di un
socialismo ignorante e incapace. L'individuazione dell'errore di
dimensione del sociali smo è evidente, nonostante i successi già
conseguiti. Tanto che, concludeva il Botrai, nel cogliere le possibilità
della formazione di un letale assolutismo, con la postulazione della
differenziazione futuristica da esso, intesa nella diffusione di
programmi e di rimedi economici: Noi siamo per la elevazione del popolo,
e non per l'assolutismo di esso . Dove il nai , è evidente, si riferisce
ai futuristi ed al loro movimento. Tirando le somme , alla
fine, si postula petsino un programma, quasi, nei rapporti col
socialismo, di cui i punti più interessanti sono il secondo ed il quarto,
cioè l'ultimo. Il secondo postilla una possibile comunanza di
vedute economiche: il che non implica nessuna fusione ; l'ultimo sostiene
e ribadisce, sottolineandolo tutto in maiuscolo: CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOLE
DIRE CONTRO IL PROLETARIATO. La miopia del socialismo nella
considerazione dei futuristi appare evidente e inequivocabile. E si parla del
socialismo dei primi del secolo, quello storicamente più capace di quanto non
lo sia l'attuale, e consono ad una realtà epocale ad esso, tutto sommato,
più favorevole. L’esito del socialismo italiano, confluito in massima
parte nel fascismo, non fa che confermare l'opinione o l’ipotesi
dei futuristi, che avevano saputo vedere la sua minima portata da
inserire, eventualmente, nel panorama di una prospettiva ben più vasta e
diversificata. A Fiume Gabriele D'Annunzio dà alla luce la sua Carta
del Carnaro . Siamo agli inizi del ’20 e la nuova proclamazione
statutaria sarà base fondamentale per la successiva politica sindacale fascista
(si veda la Carta del Lavoro ad esempio). Sempre a Fiume Mario Carli dirige
il nuovo foglio di vita istriama La Testa di Ferro, sulle cui
colonne (la seconda, per l'esattezza, della prima pagina) ;l 12 settembre
esce un riquadro firmato da Marinetti. Che così commenta la Prima
vittoria della quindicesima battaglia, come dice il titolo della pagina:
Nell’applaudite oggi D'Annunzio, liberatore di Fiume, penso che questo
meraviglioso genio riassuntivo della nostra razza, uscito dalle alcove
del Pizcere... dopo aver esplorato le profondità del la lussuria... ha
logicamente... strappato Fiume all’imperialismo europeo e americano, ed ora
deve, seguendo la linea della sua fortuna inesauribile, logicamente, con
genio sempre più rivoluzionario e futurista, liberare Roma dal Papato e dalla
Monarchia, e creare la grande Repubblica Italiana . Siamo di fronte
aul'ittedentismo integrale che i futnristi sostenevano contro
l’irredentismo mutilato di Bissolati, favorevole al Patto di Londra. Di
cui il movimento per contro chiedeva un’estensione , oltre che una
modificazione del Patto di Roma in modo che si potesse favorire l’inserimento
italiano sulla costa dalmata e garantire all'Italia l'egemonia
sull’Adriatico. Il Trattato di Rapallo, poco dopo, dichiarerà Fiume città
libera ed assegnerà Zara all'Italia. 11 24 e 25 maggio dello stesso
anno si tiene a Milano il IX Congresso dei Fasci di Combattimento, che
segna una svolta del movimento o anche si potrebbe dire una sua
conversione in senso conservatore . Si assiste ad un parziale ma
consistente ricambio del nucleo dirigente fascista. Solo 10 membri su 19 del
comitato centrale eletto a Fitenze vengono riconfermati: tra essi
Marinetti e Ferruccio Vecchi. Mussolini sostiene un nuovo
indirizzo: l'accordo fra proletariato e borghesia produttiva, tipico di
quel fascismo provinciale che stava prendendo il sopravvento. Marinetti
reagisce confermando la sua intransigenza antimonarchica ed antipontificia. I
Fasci di Combattimento, come riporta ancora il De Felice, avrebbero
dovuto, secondo Marinetti, iniziare una politica decisa in difesa delle
rivendicazioni proletarie, appoggiando e scioperi e agitazioni che siano
fondati o formulati su un principio di giustizia . Mussolini aveva cercato di
replicare che i Fasci hanno anzi aiutato gli scioperi che avevano un
chiaro contenuto economico , ma aveva sottolineato di non poter accettare
la pregiudiziale antimonarchica e: Quanto al Papato, bisogna intendersi:
il Vaticano rappresenta 400 milioni di uomini sparsi. Io sono, oggi,
completamente al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici
sono problemi politici. Racconta lo stesso capo del futurismo nel
suo volume Futurismo e Fascismo pubbli cato quattro anni dopo, Marinetti
e alcuni capi futuristi escono dai Fasci di Combattimento, non avendo potuto
imporre alla maggioranza fascista la loro tendenza antimonarchica e
anticlericale . Gli altri capi futuristi sono Mario Carli e Neri Nannetti,
appena eletto a Milano come membro del comitato centrale per
Firenze. Ferruccio Vecchi si allontanò dai Fasci poco dopo, anche
per la crisi interna che stava attanagliando l’Associazione fra gli Arditi
d’Italia. La spaccatura risulta evidente all'uscita
dell’opuscalo Al di là del comunismo, pubblicato in agosto da
Marinetti, per giustificazione alle sue dimissioni ed in risposta
allo svuotamento della portata rivoluzionaria, o futurista, dei
Fasci di Combattimento. Al di lè del Comunismo sarà la sua seconda opeta
politica (dopo Democrazia futurista, del ’19), quella più ricca di spunti
e di idee: quella, insomma, sua fondamentale. L'opera è dedicata
sul colophox Ai futuristi francesi, inglesi, spagnoli, russi, ungheresi,
rumeni, giapponesi : it che esprime già tutto un programma. Fra le sue
tesi, dd esempio queste: Noi futuristi abbiamo stroncato tutte le
ideologie imponendo dovunque la nostra nuova concezione della vita, le nostre
formule d’igiene spirituale, il nostto dinamismo estetico, sociale,
espressione sincera dei nostri temperamenti d’italiani creatori e
rivoluzionari. L'umanità cammina verso l'individualismo anarchico, meta e sogno
di ogni spirito forte. Il Comunismo invece è una vecchia formula
mediocrista, che la stanchezza e la paura della guerra riverniciano oggi
e trasformano in moda spirituale... La storia, la vita e la terra
appartengono agli improvvisatori. Odiamo la caserma militarista
quanto la caserma comunista. Il genio anarchico deride e spacca il
catcere comunista. Fu questo passo a provocare la reazione
dell’Ardito? Che ben presto si fece sentire, a più riprese, per denigrare
il volumetto marinettiano, mentre al contrario La Testa di Ferro ad opera
di un gruppo di futuristi fiumani (e di Mario Carli, ardito a sua volta)
elogiava pubblicamente ed ardentemente il nuovo testo. Bottai, già fututista,
interverrà ben presto (sul n. 35 dell’Ardito) con una lettera aperta a
F.T. Marinetti per mettere in risalto la sua posizione critica all’atteggiamento
anarchichegpiante dello scritto, inconciliabile con qualunque espressione di
potere, sia pur di tipo tecnico , come quello a suo tempo proposto dallo
stesso padre del futuri smo. L'attacco di Bottai è senz'altro il più
autorevole e i] più significativo. L'ideologia del
fascismo-regime (da parte di un mini stro in pectore come Bottai)
cominciava già a farsi sentire. E si chiudeva, ovviamente, almeno sul terreno
storico della prassi politica, l'ideologia del fascismo-movimento, quello
dell’intransigenza e del fervore mistico, del libertarismo e
dell'avanguardia, dell'anarchismo e dell’antiautoritarismo verso la monarchia
ed il papato. Il possibilismo politico e il realismo tattico per la
conquista del potere subentrano e il fascismo-regime si muove ormai,
anche se lentamente, sotto la guida del suo abile e compromesso
condottiero. A Marinetti non restano che le dimissioni, e dopo il
suo canto del cigno politico (Al di là del comunismo), il ritorno alla
letteratura. 10. La dimensione futurista Nel 1921
esce a Piacenza per i tipi dell'Editore Porta il volume di Francesco
Flora Dal Romanticismo al Futurismo. Il giudizio più interessante è senz’altro
quello di Luigi Russo, che così si esprime al proposito: Il Flora,
mentre vi grida il superamento sillogistico dell’arte decadente, la guarigione
del suo spirito dal generale futurismo, passa poi egli stesso a fare
troppo rumorosa e compiaciuta mescolanza con quell'arte e con quel
futurismo . Pirandello pubblica nello stesso anno I sei personaggi in cerca
d'autore. Marinetti sostiene che sono ispirati al futurismo e al suo
spirito creatore. Il congresso socialista di Livorno si spacca, e dalla
scissione si forma il neonato partito comunista. A Catania vede la
luce la nuova rivista futurista Heschisch. Nel 1922 il fascismo
salirà definitivamente al potete. Marinetti fonda una nuova rivista, I{
Futurismo, che dirige in prima persona. A Berlino sarà poi tradotta
in edizione tedesca (Der Futurismus), a cura di Ruggero Vasari. Bragaglia
fonda a Roma il Teatro Sperimentale degli Indipendenti, primo teatro stabile
italiano, da Ivi di retto fino al ’36: metterà in scena duecento opere
d'’avanguardia fra quelle di autori italiani e stranieri. A_ Monza si
crea l’Istituto Superiore delle Arti decorative, trasformato poi in Biennale e
dal ’30 definitivamente in Triennale, con sede nel palazzo di Milano (al parco,
arch. Muzio). Mussolini, dopo la marcia su Roma del 28 ottobre, forma il
governo con radicali e liberali, e istituisce il Gran Consiglio del
Fascismo. Prezzolini, come sempre lucidamente, poco prima del grande
ritorno del futurismo al fascismo, metteva ancora una volta in risalto
come possa l'arte futurista andare d'accordo con il Fascismo italiano,
non si vede. C'è un equivoco, nato da una vicinanza di per. sone,
da un’accidentalità d’incontri, da un ribollire di forze, che ha portato
Marinetti accanto a Mussolini. Ciò andava bene durante il periodo della
rivoluzione. Ciò stona in un periodo di governo. Il Fascismo
italiano non può accettare il programma distruttivo del Futuri smo,
anzi, deve, per la sua logica italiana, restaurare | valori che
contrastano al Futurismo. La disciplina e la gerarchia politica sono
gerarchia e disciplina anche letteraria. Le parole vanno all’aria quando vanno
all'aria le gerarchie politiche. Il Fascismo, se vuole veramente vincere
la sua battaglia, deve ormai considerare come assotbito il Futurismo in quello
che il Futurismo poteva avere di eccitante, e di reprimerlo in tutto
quello che esso consetva ancora di rivoluzionario, di anticlassico,
di indisciplinato dal punto di vista dell’arte (da I/ Secolo, 3
luglio 1923). Nel marzo dello stesso 1923 s'inaugura alla
Galleria Pesaro di Milano una mostra dell'Arte del Novecento . Si
trattava di un gruppo formatosi alla fine del ’22 intorno alla medesima
galleria milanese, che affiancava la nuova tendenza del regime in senso
conservatote, già sancita dal 2° Congresso Fascista (Milano, maggio
1920). L'animatrice del nuovo movimento Arte del Novecento era Margherita
Sarfatti. Il gruppo fu accolto, neanche due anni dopo dalla sua costituzione,
alla Biennale veneziana del ’24, e si affermò definitivamente
attraverso due ulteriori mostre: una del '26 al Palazzo della Permanente
a Milano, e l'altra del ’29 alla Galleria Pesaro, sempre a Milano. I
futuristi invece, rimasti esterni al regime e aderenti ancora, in fondo,
all'avanguardia, furono ammessi alla Biennale solo nel ’26, e fuori dal
padiglione italiano additittura. All'inaugurazione della Biennale,
Marinetti si rivolge al Re, a Venezia in visita ufficiale, e gli denuncia
gridando l’incapacità senile e antitaliana della Direzione, che massacra
i giovani artisti italiani . L’intervento di Marinetti suscita scandalo. Tuttavia
nello stesso anno 1924 si verifica anche un cetto riavvicinamento tra futurismo
e fascismo, e forse anche tra Marinetti e Mussolini. L’occasione viene
data dall’edizione della terza ed ultima opera politica del capo
futurista, che, come già detto, s'intitola Futurismo e Fascismo, ed esce
a Foligno per i tipi dell'Editore Campitelli. Ancora nello stesso anno
escono diverse altre significative testate, futuriste ma anche fasciste. Mino
Maccari fonda I! Selvaggio (organo del fascismo strapaesano) ed
Enzo Benedetto a Reggio Calabria pubblica il foglio futurista Originalità, da
lui stesso direrto: compaiono fra i suoi collaboratori Marinetti,
Jannelli, Nicastro e Sanzin, Quest'ultimo scrive un saggio su Marinetti e
il futurismo. Gerardo Dottori, altra collaboratore di Originalità,
crea le prime aeropitture, che si affermeranno in seguito come
espressioni del secondo futurismo. A Milano si tiene il Primo congresso
futurista e Somenzi vi organizza le onoranze nazionali a Marinetti. Siamo
al 23 di novembre 1924, ore 10, al Teatro Dal Verme di Milano. Mino
Somenzi legge il telegramma di Mussolini: Considerami presente adunata
futurista che sintetizza 20 anni di grandi battaglie artistiche
politiche spesso consacrate col sangue. Congresso deve essere punto
di partenza, non punto di arrivo. Credi mia cordiale amicizia e ammirazione .
Alle 16 parla Marinetti, che conclude i lavori del congresso, così rivolgendosi
all’indirizzo del duce : I futuristi italiani, primi fra i primi
interventisti nelle piazze e sui campi di battaglia, e primi fra i primi
diciannovisti più che mai devoti alle idee ed all'arte, lontani dal
politicantismo, dicono al loro vecchio compagno Benito Mussolini: Con un
gesto di forza ormai indispensabile liberati dal parlamento. Restituisci
al Fascismo ed all'Italia Ia meravigliosa anima diciannovista,
disinteressata, ardita, antisocialista, anticlericale, antimo. narchica.
Concedi alla Monarchia soltanto la sua provvisotia funzione unitaria, rifiutale
quella di soffcare o mor. finizzare la più grande, la più geniale e la
più giusta Italia di domani. Non imitare l’inimitabile Giolitti, imita
il Grande Mussolini del diciannove. Pensa sempre all’Italia
immortale ed al Carso divino. Schiaccia l'opposizione cle. ricale
antitaliana di Don Sturzo, l'opposizione socialista antitaliana di Turati
e l'opposizione mediocrista di A’ bertini con una ferrea dinamica
aristocrazia di pensiero armato che soppianti l’attuale demagogia d’armi
senza pensiero. Tu puoi e devi fare ciò, noi dobbiamo volerlo e lo
vogliamo . Lo vollero, ma non lo realizzarono. La volontà può essere
bella, ardita, ispira ai più alti sensi di giustizia, anche se non sempre
la realizzazione le tiene dietro. Come in questo caso. Mussolini
telegrafa ancora il 1° marzo del ’25 ad un banchetto romano offerto da
Carli e Settimelli a Ma: rinetti: Sono dolente di non poter intervenire
al ban: chetto ofterto a F.T. Marinetti. Ma desidero che vi giunga la mia
fervida adesione che non è espressione formale ma vivo segno di
grandissima simpatia per l’infaticabile e geniale assertore di
Italianità, per il poeta innovatore che mi ha dato la sensazione
dell'oceano e della macchina, per il mio caro vecchio amico delle prime
battaglie fasciste, per il saldato intrepido che ha offerto alla Pa
tria una passione indomita consacrata dal sangue . Ma. rinetti si era già
trasferito a Roma con Benedetta. La capitale diveniva così anche centro
del futurismo. In que. sta stessa occasione Marinetti dichiarava,
un'altra volta inascoltato: Vi sono in Italia forze che osteggiano
la nostra idea imperiale, combattiamole, non dimenticando però fra
queste la più segreta e la più antitaliana: il Vaticano! Un discorso di
Mussolini alla Camera (3 gennaio 1925) dà inizio al vero fascismo-regime.
A Tortino si tiene a Palazzo Madama un'esposizione nazionale futurista.
La tendenza al riavvicinamento ira i due movimenti è già indicata
nella dedica di Futurismo e Fascismo: Al mio caro e grande amico Benito
Mussolini . Il che dimostra, in fondo, una certa volontà di non troncare
i contatti: ma anche gli scritti raccolti, gli articoli e le tesi
sostenute sono di tipo più che altro conciliativo. Mussolini vi è
definito meraviglioso temperamento futurista : e non risuoni però ad
adulazione, perché il tentativo di recupero del futurismo in senso artistico e
letterario (o cul turale in senso lato) è evidente, nonostante
l'occasionale dimensione del movimento nell'attività e nell'impegno
politico. Non senza motivo, il volume prende inizio con queste parole: Il
Futurismo è un grande movimento antiflosofico e anticulturale di idee,
intuiti, istinti, pugni... . E subito dopo: Fra le tante definizioni io
prediligo quella data dai teosofi: “I futuristi sono i mistici
dell’azione”. Infatti i futuristi hanno combattuto e combattono il passatismo.
Il nuovo regime e la portata storica di realizzazione di quello che si
considera il patrimonio del futurismo è così giudicato: Vittorio Veneto e
l'avvento del Fascismo al potere costituirono la realizzazione del
programma minimo futurista . Dove si dimostra in fondo la connessione
inscindibile tra futuri. smo e fascismo, ma nello stesso tempo il
distacco, in questa realizzazione minimale ; comunque la mancanza
di coincidenza totale delle entità ideali dei due blocchi. Questo
programma minimo , specifica ancora Marinetti, propugnava l'orgoglio
italiano... la distruzione dell'impero austro-ungarico, l’eroismo
quotidiano, l'amore del pericolo... . Ma, alla fine, quello che più conta
è che il Futurismo italiano, tipicamente patriottico, che ha
generato innumerevoli futurismi esteri, non ha nulla a che fare coi loro
atteggiamenti politici, come quello bolscevico del Futurismo russo,
divenuto arte di Stato. Il futurismo italiano fu sempre italiano, non mai
italiano di Stato. Il futurismo , afferma ancora il nostro, è un
movimento artistico e ideologico. Interviene nelle lotte politiche soltanto
nelle ore di grave pericolo per la Nazione , E un'altra volta a migliore
definizione della posizione concettuale o della sua immagine: Il Fascismo
nato dall'interventismo e dal Futurismo si nutrì di principî futuristi... Il
Fascismo opera politicamente... Il Futurismo opera invece nei domini infiniti
della pura fantasia, può dunque e deve osare osare osare sempre più temerariamente.
Avanguardia della sensibilità artistica italiana, è necessariamente sempre in
anticipo sulla lenta sensibilità delle masse. La consapevolezza
della difficoltà del consenso è più che sentita, ed è convinzione al
tempo stesso che il fascismo sia più capace di farsi accogliere o di
comunicare certe necessità, e certi principî. E la convinzione
implica la coscienza che sia il fascismo ad aver raccolto © mutuato
idee e posizioni dal futurismo, solo ed esclusivamente. Senza che mai sia
avvenuto il contrario. Ed appare evidente, perché non viene mai fatto cenno a
questa seconda ipotesi: che cioè sia stato il futurismo ad attingere al
fascismo. Anche se affiora l’autocritica , l’interrogazione, il domandarsi
sotterraneo della coscienza. Il lettore domanderà: “Ci sono idee
futuriste superate o da scartarsi, oggi?” Nulla da scartare. Le idee
vittoriose tengano fermamente le posizioni conquistate. Per esempio
questo principio: “Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del
mondo... le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”, fu
una pietrata feroce ma necessaria nel pantano letterario di sentimentalismo
dannunziano sulle cui rive singhiozzavano i giovani malati di luna e di donne
fatali. La condanna della decadenza di un romanticismo fiacco e sdolcinato
che ha irretito la realtà della Penisola è quanto mai chiara ed evidente.
E la volontà di scuoterla per una necessità di spirito, per una volontà
di resurrezione, per una coscienza ancora viva di grandezza e di capacità
creativa e rinnovatrice, porta inevitabilmente allo scontro e alla
conflagrazione, quella della guerra, che è guerra di sentimento e di
volontà, prima ancora che di occasione politica. Oggi , continua
Marinetti, l'Italia è piena di giovani forti e sportivi. Ma molti purtroppo
sacrificano ad una donna la loro volontà di conquista e l'avventura. Dopo
Vittorio Veneto io predicai la necessità per ogni combattente di
diventare un cittadino eroico. Oggi esiste uno Stato fascista che tutela il
diritto individuale. Ma bisogna alimentare ancora lo spirito del
cittadino eroico, amico del pericolo e capace di lotta, poiché occorretà
improvvisare domani gli indispensabili volontari della nuova guerra. Questa, lo
ripeto, è certa, forse vicina. Perciò è sempre vivo il grido futurista:
glorifichiamo la guerra sola igiene del mondo! Il Futurismo interprete
delle forze telluriche, il Futurismo, manometro della nostra penisola (caldaia
bollente!), odia i macchinisti incapaci. Si palesano tali i culturali
d’Italia che verniciati di patriottismo parlano oggi d’Impero, con un'anima
pacifista pronti ad imboscarsi al minimo pericolo. Essi ignorano che
Impero significa guerra. Votrebbeto conquistarlo con una lezione sulla
Roma Imperiale! . Ecco, ancora, la coscienza di cui parlavamo prima: quella
della curiosità antiquaria di una cultura d’accatto non più in grado di tenere
il passo della storia e di muovere lo spirito della giovinezza
vittoriosa. Marinetti lo coglie e lo esptime in una testimonianza, ancora
una volta, di vita e di speranza, che è vita perché è speranza del
futuro. Noi futuristi parliamo d’Impero convinti e lieti di
batterci domani... Parliamo d’Impero perché è venuto per l’Italia il
momento di prendere le tetre indispensabili. IÎ programma politico futurista
lanciato l’11 ottobre 1913 che propugnava una politica estera cinica
astuta e aggressiva è più che mai di attualità. Le idee vittoriose
tengano fermamente le posizioni conquistate. Le nuove idee si
slancino all'assalto. Marciare non matcite! . Firmato: Marinetti. Il futurismo ha dimostrato di
voler procedere sulla strada del nuovo: il fascismo lo ha accolto ed ha
accondisceso, almeno fino a un certo punto, al suo messaggio. Oltre è
stato frenato, forse, non solo dal borghesismo , ma anche da quel
socialismo, che avanti non è mai stato capace di andare e che di nuovo ha
portato solamente vuote formule e fantasmi. Non così il futurismo, ben
aderente al reale, e capace di ritirarvisi anche, nel caso di
inadempienza (o di mancanza di corrispondenza) della realtà ai suoi
messaggi. Marinetti docet, proprio con quel fascino che aveva
voluto, o con cui aveva marciato, e in cui aveva creduto senza marcire
mai, nemmeno nell’auge del regime, quando avrebbe potuto sedersi sulle comode
poltrone di un otmai arrivato futurismo di destra . Ma il futurismo per
Marinetti era e rimaneva comunque movimento d'avanguardia artistica e
culturale, nonostante gli agganci più 0 meno politici, più o meno di
regime, e nonostante l'amicizia con Mussolini, che poteva anche essere un
futurista , ma era e doveva essere prima di tutto il capo dello Stato e
il duce del Fascismo . E il fascismo aveva preso e doveva tenete ormai una
certa linea, molte volte non gradita, o valida, per il futurismo, ed anzi
proprio al contrario. La gloria di Roma rievocata nel
monumentalismo classicheggiante, il novecentismo ricalcante vuoti
modelli di un fasullo rinnovamento filotradizionale, la riesumazione del
mito della storia come copia di grandezza e novella misura di falsa gloria,
erano tutti temi aborriti da Marinetti proprio perché segni ed indici di
passatismo , messaggi sterili di una mentalità ferma e statica,
incapace di dare alcunché di vitale all'Italia in movimento. Marinetti
era invece, e rimaneva, anche nel fascismo e nonostante il fascismo, futurista
, come lui amava definirsi, e come lo rimanevano anche altri, non tutti
però, anzi forse troppo pochi. Marinetti, quindi, futurista, e
futurista nonostante tutto, fu forse fascista solo ed esclusivamente per quel
che il futurismo poteva consentirgli di essere. Ma fu anche grande
oratore Marinetti, e fu oratore d’arte, oratore di genio letterario e
improvvisatore della parola, più 0 meno libera o in libertà che fosse.
Mussolini fu oratore politico e parlava, anche, nella ricerca del
consenso. Marinetti invece fu poeta, e parlava per stimolare la
curiosità, per muovere l'incanto dell'espressione. La sua oratoria fu
essenzialmente artistica, il suo discorso fu culturale e poetico.
Mussolini forse in parte la imitò, sempre attenendosi all’oratoria
politica e trasformando il messaggio letterario in presenza ideologica e
in colloquio popolare . Forse qui sta inoltre la differenza fra i due
movimenti: il futurismo avanguardia di rottura e il fascismo sistema di potere.
Anche se il primo l’aveva spinto e sorretto nella sua azione di
conquista. Il fascismo è allora per un suo aspetto futurista, e non
invece il contrario. E' la realizzazione di quel piogramma minimo futurista che
abbiamo già esaminato. E Mussolini si può dire fosse stato anche
futurista, o comunque molto vicino al movimento di Marinetti. E gli
era stato anche amico, o c’era stata una reciproca comunanza di
sentimenti, che non esula dall’amicizia. Ma Mussolini era stato anche
socialista, anzi lo era stato davvero e fino in fondo . Che fosse anche per
questo che i futuristi non potevano essere completamente fascisti? O non
si potevano identificare completamente nel regime? Almeno i futuristi
autentici, quelli più idealisti . Il futurismo era stato sempre e
comunque antisocialista, in modo integrale, totale come si è visto. E lo
era stato dall’inizio antisocialista, per la sua posizione culturale, per
il suo intendimento antimilitaristico ed antiegualitario, per il suo slancio
antipassatista di svecchiamento. Lo schiaffo ed il pugno, la
velocità e l’aggressione, la lotta e la vittoria erano tutti temi o
motivi antisocialisti. Il fascismo, nonostante tutto, era meno antisocialista.
In primo luogo per le origini del suo capo, per la sua formazione-estrazione,
per i suoi intendimenti di visuale che non si erano spenti del tutto, ma
si erano solo attenuati e modificati: e si erano travasati, anche,
nella novità del futurismo. Comunque, e malgrado questo, il fascismo
rimase e resta agli atti della storia un movimento di massa , una
realtà sociale , un fenomeno popolare, un sistema del numero in scala
comunitaria e nazionale: questo è acquisito, ed è incontestabile. E non
può essere confutato dagli storici seri. Mussolini lo volle e lo promosse
que. sto popolarismo e, se vogliamo anche, riuscì lenta. mente e
gradatamente ad imporlo . Ma non volle mai l'uguaglianza o il
livellamento, e cercò sempre di favo. rire la distinzione
dell’individualismo. Lo stimolo stesso alla competizione nel campo
dell’arte e l’amicizia con l’amico-nemico Marinetti ne sono garanti.
L’amicizia fra i due personaggi non fu esclusivamente un fatto episodico
o della prima ora; fu un fatto profondo e vitale, forse inalienabile ed
assoluto . E durò, a controprova del vero, fino alla morte. Quando
Marinetti, reduce dalla guerra di Russia per cui si era arruolato
volontario (malgrado i suoi 64 anni), aderiva alla Repubblica Sociale
Italiana dopo i tragici fatti dell’armistizio, dimostrava sino all'ultimo
fede ad un’amicizia e ad un'idea, comunque e nonostante tutto. Marinetti era
partito per la Russia all’insegna della coerenza, non potendo contraddire
il suo messaggio della guerra sola igiene del mondo . Messaggio che anche
il duce aveva sentito, forse
tragicamente e forse fuori tempo. Ma lo aveva comunque sentito, e
l’amicizia con Marinetti e la sua nomina ad Accademico d'Italia lo
dimostra. Quando avrebbe benissimo potuto bruciarlo . E aveva anche sentito che
il nuovo secolo richiedeva un cambiamento, che si doveva in qualche modo
maturare. Volle promuoverlo e accelerarlo (da futurista ?),
intervenite e spingere l'avanzata fino all'assurdo. Ne rimase coinvolto e
definitivamente inghiottito . Marinetti si era salvato, e con se stesso
aveva salvato la poesia. La guerra (leggi: politica) non poteva
averla distrutta. In età avanzata era rientrato a vivere brevemente, a
lottare fino all’ultimo per consegnare a Venezia un messaggio, quello vitale e
ineliminabile verso il futuro . I suoi discepoli lo accolsero come un testamento
e qualcuno lo trasmette ancora per testimonianza. Nonostante la
trasmutazione dei tempi e le difficoltà del presente. Lo documenta ancora per
la verità storica e per la risonanza dell'oggi. E, forse, per un nuovo futuro
di domani. 12. Sindacalismo futurista II fascismo
aveva creato la Carta del Lavoro , che ricalcava a sua volta quella ptima
espressione originale di emissione statutaria d’impronta sociale, che era
stata la dannunziana Carta del Carnaro . Ma già prima i futuristi
avevano inteso una loro sindacalizzazione in senso artistico, ed avevano
ancora una volta concepito un manifesto. Si tratta del manifesto al
governo fascista del 1° maggio 1923 intitolato I diritti ertistici
propugnati dat futuristi italiani. I diritti rimasero in gran
parte sulla carta, ma l’intenzione era evidente: quella di creare una specie di
carta sindacale per la costituzione dei sindacati artistici futuristi ,
atti alla difesa ed all'assistenza degli artisti eventualmente bisognosi.
Oggi quel poco che offre il sindacalismo dell’arte è dovuto per lo più al
sindacalismo futurista e, in parte, a quello fascista. Ma l'idea del
mutuo soccorso e della solidarietà del lavoro era già presente nella mentalità
futurista, orientata sempre verso giustizia (in questo caso, giustizia
dell’arte). Il proletariato delle rappresentanze artistiche è fatto ben noto,
e non da oggi: non ne furono esenti i futuristi, che anche in
questo senso furono rivoluzionari veri e propri, e cercatono comunque il
rinnovamento. E vollero un’istituzione che li garantisse dalla loro precarietà,
dalle loro difficoltà e dalla loro miseria. La Banca di Credito per
artisti fu iniziativa di Marinetti, in seguito approvata e patrocinata
dal duce . Che così rispose per l’occasione all'amico futurista:
Mio caro Marinetti, approvo cordialmente la tua iniziativa per la
costituzione di una Banca di Credito specialmente per gli Artisti. Credo
che saprai sormontare gli eventuali ostacoli dei soliti misoneisti. Ad ogni
modo questa lettera può servirti di viatico. Ciao, con amicizia.
Mussolini . Si trattava di una vera € propria forma di
assicurazione del denaro che doveva favorire gli artisti, o soddisfare le loro
necessità. Ma non solo Îa costituzione della Banca di Credito chiedeva il
manifesto del ’23, firmato da Martinetti per la direzione del
movimento-futurista e per tutti i gruppi futuristi italiani . Si volevano
anche realizzare: 1) Difesa dei giovani artisti italiani novatori
in tutte le manifestazioni artistiche promosse dallo Stato, dai Comuni e
private... 2) Istituti di credito artistico ad esclusivo beneficio degli
artisti creatori italiani [dove si propone l’apertura d’istituti di
credito per la sovvenzione di artisti, manifestazioni artistiche ed Istituti
d'arte. Tali istituti si manterrebbero con la buona volontà degli
aderenti, se privati, o con imposte sui redditi di guerra, pet esempio,
se statali. Le opere d'arte depositate costituirebbero valorizzazione
fruttifera per l’artista medesimo, ecc., n.d.r.] Agevolazioni agli artisti
[tramite il riconoscimento legale dei diritti d’autore, la
riduzione del 75% della tariffa per i viaggi degli artisti e il trasporto
delle loto opere, l'abolizione delle tasse doganali nell’importazione ed
esportazione delle opere d’atte, il catico sull’assicuratore delle spese
per lettere di cambio o assicurazioni delle opere d’arte, ecc...,
n.d.r.]. Come si vede i futuristi guardavano sì al futuro, ma
stavano ben calati nel presente e cercavano di opetare e di agire
di; presente pet migliorare e per rendete più giusto il uturo. Col
ritorno all’ordine , come si definisce dagli storici l'affermazione del
fascismo e la sua lenta istituzionalizzazione in regime, si parla anche di
modifica del futurismo 0 di suo adeguamento ad una nuova realtà sistematica e
organizzativa, conseguita al periodo rivoluzionario; e si chiacchiera ancora di
secondo futurismo. Anche se il futurismo, primo o secondo che fosse,
non ha mai avuto a che fare con l'istituzionalizzazione del l'arte
nell’ordine fascista . Dice il critico Enrico Crispolti in un suo saggio, e lo
asserisce in modo categorico e definitivo: In questo senso è politicamente
inammissibile e culturalmente scorretta una liquidazione del Secondo
Futurismo in quanto collusivo out court con il fascismo. Ma
come si atriva a questa seconda definizione del movimento? E poi
eventualmente alla sua demonizzazione 0 fascistizzazione in senso
politico? Avevamo già visto nel ’24 Gerardo Dottori provare le sue
prime aeropitture. Nel frattempo i futuristi continuano a scambiarsi
esperienze ed a lavorare intensamente. È ad esporre spesso e volentieri, anzi
velocemente e freneticamente, alla futurista . Nel 1926 vengono invitati
diversi futuristi italiani alla International Exhibition of Modern Art di New
York. Nello stesso anno alla IX Biennale d'Arte di Reggio Calabria
espongono Depero, Tato, Benedetto, Rizzo, Fillia e Dottori. A_Milano
intanto al Palazzo della Permanente si allestisce la seconda mostra, che
abbiamo già visto, del Novecento, ormai in auge e prossimo ad assurgere
ai fasti della glo. ria del potere. C'è anche la dichiarazione ufficiale
del neocostituito Gruppo 7 di architettura, composto da Terragni, Libera,
Frette, Figini, Pollini, Rava e Larco. I futuristi partecipano alla Biennale
di Venezia. A Torino, all'Esposizione Nazionale, ? Enrico Crispolti, Appunti
riguardanti i rapporti fra futurismo e fascismo, in Arte e Fascismo in
Italia e Gertania, Feltrinelli, Milano 1974, 54. si allestisce un
padiglione di architettura futurista, con opere di Sant'Elia, Sartoris,
Balla, Fillia, Prampolini e Chiattone. Nel 1929, 33 futuristi
espongono ancora alla Pesa: ro di Milano (Balla, Farfa, Benedetto,
Lepore, Dottori, Marasco, Tato e Prampolini). Azari pubblica il suo
Primo dizionario aereo; Balla, Fillia, Depero, Marinetti, Tato,
Somenzi, Benedetto, Rosso, Prampolini e Dottori lanciano il famoso Manifesto
dell’Aeropittura. Terragni termi. na 2 Como la costruzione di Novocomum,
nuovo edificio residenziale periferico. Marinetti è ‘accolto il 18
matzo nell'Accademia d’Italia, insieme a Fermi e Pirandello, su
istanza personale di Mussolini. Esce per le Edizioni di Augustea,
Roma-Milano, il volume Marinetti e il Futurismo, quarta ed ultima
espressione di letteratura politica del capo futurista. L’opera ricalea
in termini ancor più encomiastici e di supporto il già conciliante Futuriszzo e
fascismo. Il volume esce ancora dedicato Al grande e caro Benito
Mussolini , definito questa volta già nella prima pagina temperamento
esuberante, strapotente, veloce. Non è un ideologo. Se fosse un ideologo,
sarebbe incatenato dalle idee che sono spesso lente, e dai libri che
sono sempre morti. Egli è invece libero, scatenatissimo. Fu
socialista e internazionalista, ma soltanto in teoria. Rivoluzionario sì, ma
pacifista mai . Il che equivale a dire futurista . Del
socialismo di Mussolini abbiamo già parlato, e della sua portata teorica,
a questo punto effettivamente e praticamente confermata. Del futurismo
fascista di Marinetti si sono scritti
fiumi d’inchiostro e sproloqui di parole. La dimostrazione più lampante
della sua partecipazione estetna al fascismo e della sua continua difesa
del futurismo e delle avanguardie è data dal rifiuto di onorari e
prebende: unica accettazione per contto, quella dell'Accademia
d’Italia, che gli servì poi per difendere il fututismo e per lanciarlo meglio
in Italia ed all’estero. Terragni realizza un monumento a
Como su un disegno di Sant'Elia (che era stato totalmente rielaborato da
Prampolini) in occasione delle Onoranze Nazionali all'architetto
futurista Sant'Elia , che viene commentato anche alla Pesaro di Milano.
Marinetti pubblica Futurismo e Novecentismo. Molti futuristi partecipano
alla IV Mostra delle Arti Decorative di Monza ed alla XVII Biennale di
Venezia. Nello stesso anno Ma. rinetti pubblica a Torino sulla Gazzetta
del Popolo i) Manifesto dell’Aeropoesia, che fa eco a quello dell'Aeropittura
del *29. E’ il momento dello sviluppo aereo e dell’aeronautica: è giusto
che il futurismo si muova nella direzione del progresso e senta, ritragga
e proietti la nuova dimensione aerea dello spazio verso il futuro. Esce a
Roma il nuovo quotidiano L’'Impeto. Nel 1932 la Galleria Pesaro allestisce una
mostra vera e proptia, ed esclusiva, di aeropittura . Fortunato
Depero ottiene che gli venga concessa una sala personale alla XVII Biennale
veneziana. Prampolini erige un plastico a ricordo di Marconi a Roma per
la Mostra della Rivoluzione Fascista. La partecipazione futurista è
segno della nuova collaborazione politica. Ciò non toglie che le
realizzazioni esprimano intenti d'avanguardia. L’Istituio Editoriale Italiano
pubblica per la prima volta i Manifesti del Futurismo, in quattro volumi.
Fillia fa uscire il periodico Le Città Nuova e Sartoris il volume
sugli Elementi dell’Architettura funzionale; Terragni comincia la
costruzione della Casa del Fascio di Como. Mino Somenzi fonda il nuovo
periodico Futurismo, definito settimanale dell’artecrazia italiana .
Cambierà poi titolo in Atfecrazia. Hitler sale al potere e sconfessa
l’arte moderna (l'espressionismo, nella fattispecie). Vasari organizza con
Marinetti una mostra futurista a Berlino nel tentativo di promuovere, e di far
recepire le avanguardie al nuovo regime. Nel settembre dello stesso anno
il Congresso nazista di Norimberga condannerà al rogo l’arte degenerata .
Esce la rivista Diamo futurista, diretta da Depero; il periodico di
architettura Casebella è invece diretto da Pagano, mentre Bardi e Bontempelli pubblicano
Quadrante. Prampolini progetta una stazione per aeroporto civile al padiglione
futurista della V Triennale di Milano, mentre al Castello Sforzesco si
organizzano le onoranze nazionali a Boccioni, con la presenza di
Paul Klee, Piet Mondrian, Pablo Picasso, Vassily Kandinsky ed Ezra
Pound. Nel 1934 Depero lancia un nuovo manifesto
dell’Aeroplastica, sempre sulla falsariga di quello dell’Aeropittura. Fillia e
Prampolini pubblicano a Torino la nuova rivista Stile futurista, dalle cui
colonne Prampolini attacca Hitler per le posizioni naziste sull’arte
espresse a Norimberga. I futuristi partecipano ancora alla XIX Biennale
di Venezia. Ad Amburgo Ruggero Vasari e Marinetti difendono l'avanguardia in
occasione della mostra Aeropittura futurista italiana , organizzata
appositamente in polemica alle censure naziste. A Lipsia ancora Vasari
pubblica Aeropittura, arte moderna e reazione, che dimostra la voce della
nuova avanguatdia italiama improntata ai progressi aeronautici ed in
polemica contro i soliti passatisti censoti . Marinetti parte volontario
per la guerra di Etiopia. A Parigi viene organizzata una mostra
futurista. A Roma i futuristi partecipano alla II Quadriennale. Marinetti
pubblica l’Aeropoema del Golfo della Spezia, che ispirerà poi ancora
molti aeropittori. Nel 1936 Prampalini realizza un salone da riunioni per
municipio alla VI Triennale di Milano. I futuristi partecipano alla
XX Biennale di Venezia. Muore Fillia esponente del primo futurismo
. Mussolini proclama l’Impero. La mostra di Monaco attacca e denuncia
l’arte degenerata con esemplificazioni e dimostrazioni . Viene messa in luce
per contro, o in risalto, l'arte sana nazista. Cominciano le polemiche e
le divisioni di fronti. Il fascismo ufficiale e d'ordine attacca, e nuove
violente polemiche scuotono l'avanguardia. Il Popolo d'Italia e IL
Perseo, diretto da A.F. Della Porta, muovono guerra al futurismo.
Quest'ultima rivista aveva già polemizzato, insieme a Il regime fascista
di Farinacci, con l’architettura razionalista di Bardi e Terragni:
Noi siamo dell’opinione , si legge su Il Perseo del 15 giugno 1937,
che il Fascismo ha tutto da perdere da un’alleanza col Futurismo e sia pure da
una semplice connivenza. Risponde il periodico Artecrazia di Somenzi che
contrattacca in prima persona a sostenere l'avanguardia e il futurismo. Difendo
il Futurismo è la raccolta dei testi di Somenzi pubblicati sulla rivista. Editi
nel '37, sono l’opera più coraggiosa e significativa della polemica per
la lotta dell’avanguardia. Futurismo di destra e futurismo di
sinistra L’avanguardia, del resto, è sempre eterogenea e sfaccettata.
Ecco perché si parla di destra e di sinistra
all'interno del futurismo nella fase della maturità (il cosiddetto
secondo futurismo). Destra e sinistra sono termini abusati e inflazionati
, buoni per tutto. Se ne fa spesso uso eccessivo ed improprio,
semplicistico e gratuito. D'altra parte, poiché avviene ancora e
soprattutto oggi, non si vede perché non dovesse avvenire allora,
quando anche si parlava, al tempo, di fascismo di destra e di fascismo di
sinistra. Il centro, almeno nelle avanguardie, non ha tendenze, o
ne ha molto pache e solo per qualche momento. Il centro ha poche
tensioni, pochi impulsi vitali, di rinnovamento. Il centro , quindi, risulterebbe
amorfo, inutile, privo di idee 0 spirito di catatterizzazione.
L’avanguardia allora sta a destra 0 a sinistra : non è mai al centro, o
almeno è difficile che lo sia. Il futurismo fu forse un’avanguardia di
destra se intendiamo per destra una certa qual spinta ideale d'impronta
bergsoniana o nietzschiana: poteva però essere anche di sinistra per le sue
istanze sociali. O poteva essere al di là della destra e della sinistra ,
per ricalcare una espressione del pensatore tedesco. Sta di fatto
che il futurismo non fu mai di centro . Ma se si vuole dar credito a
quello che comunemente si intende otmai per destra , si deve anche
accogliere un futurismo di destra , o rivolto verso destra : se è
vero che a destra sta la conservazione, lo spirito borghese, il richiamo all’ordine
ecc. ecc. E se è vero per contro che a sinistra sta la spontaneità o lo
spontaneismo, la sincerità, la schiettezza, l'onestà e quindi anche la
miseria e la rivoluzione : ecco, allora, esiste anche il futurismo di
sinistra . Com'è possibile? La polemica, anche se non sembra vero,
fu proprio di quegli anni. Comincia Bruno Corra con un fondo di prima pagina su Futurismo, diretto dal
Somenzi, n. 27 del 12 marzo del 1932, anno I e X dell’Era Fascista
. Il titolo è già sintomatico: No: futuristi di destra. Anche se
Corra aveva usato il termine destra con le attenuazioni del caso, affermava che
l'essenza del Futurismo è e non può non essere rivoluzionaria . E ancora,
a specificare meglio il concetto: ... Bisogna dire che nel nostro movimento i
termini di sinistra e destra non si oppongono, perdono cioè il loto significato
convenzionale. La mentalità futurista supera il contrasto fra il
sovvettimento e la conservazione, in quanto si libera di continuo in uno
slancio creativo , tanto per la precisione dei termini e la puntualizzazione
del linguaggio. E siccome il linguaggio ci investe di una sua moralità,
ecco che è bene tenerne conto quando ancora il Corra così sottoli
nea: Mi pare che qui si tratti, prima di tutto, di una questione di
moralità. Dare al Fututismo quel che al Fututismo appartiene: e non truccare il
proprio ingegno con un'etichetta di convenienza. Chi si dichiara
avanguardista ma non futurista, sputa nel piatto dove ha mangiato . E fin qui è
tutto chiaro e conseguenziale. Ma vediamo come ancora il Corra continua: Poi,
lo stabilirci questo principio; che il privilegio di poter restare
nella sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nella propria opera
un temperamento realizzatore di destra, debba accordarsi soltanto a
coloro che han dimostrato di sapere essere integralmente futuristi. E
reclamerei il diritto di sedermi a destra, per mio conto, in nome della
mia effettiva collaborazione al Futurismo più rivoluzionario... .
Insomma, essere stati di sinistra per poter essere poi di destra , o aver
fatto i rivoluzionari in gioventù, per poter pai sedere tranquillamente
sugli scanni del concreto o nella comodità del reale (di quando,
cioè, x si è arrivati ). Può darsi sia vero, pur
se non proprio giusto 0 corretto il ragionamento, ma concreto sì ed anche, che
ci piaccia o meno, realistico. La polemica inizia ed. è un
susseguirsi di botte e risposte. Fra tutte vediamo come replica Paolo
Buzzi su un altro fondo di prima pagina dello stesso Futuriswo n. 30,
anno II, del 2 aprile 1933. Il titolo è anche questa volta
emblematico, Estrema sinistra, puntualizzato poi meglio nell’occhiello
: Non c'è che un futurismo: quello di estrema sinistra. Dove si
sancisce la necessità dell'avanguardia a sinistra , e la sinistra del
futurismo, l’unica possibile. Questo, e non altro, è il vero futurismo.
Perché dovrei sedermi a destra, proprio io? Mi sembrerebbe di tradire la
causa di Aeroplani, di Ellisse e la Spirale, di Cavalcata delle
vertigini... . E ancora: Questo è futurismo: e di ultra estrema sinistra. Le
mie autonomie sintetiche di anime e di sensi, le mie aeropitture di tipi
e di paesaggi, i miei cosmopolitismi spaziali e i miei intimismi votticosi,
stanno per una intransigenza etico-estetica che costituisce, ormai, la
gioia (ed, un pochino, anche la gloria) della mia lunga carriera di vomo
che ha sempre fatto dell'Arte come il sacerdote celebra messa. Aviatore
sempre, adunque: fante o stradino, non mai . E conclude poi, con patole un
po’ altisonanti e troppo, forse, di effetto: I giovani, quelli veramente
degni di questo nome primaverile, sanno che al di fuori e al di sopra
d'ogni inevitabile chiasso letterario, la parola “futurismo” risponde
alla sola unica vera “idea forza” che oggi esista nella sfera ideale
del mondo: e che è in grazia di essa, unicamente di essa, se oggi
la Poesia della miracolosa Italia fascista vive e vivrà . Dove si dimostta
ancota una volta, come se non bastasse, il collegamento tra futurismo e fascismo,
almeno nella loro spinta spontaneistica e rivoluzionaria.
Dobbiamo comunque tenere conto del tempo della pubblicazione di questi
articoli, nel °32 e '33, in pieno ed affermato regime. Ecco, quindi,
anche, il senso di una destra e di una sinistra , di un futurismo
ancora giovane ed esuberante, e di un altro futurismo per contro
già assiso sugli allori della gloria o sul comodo giaciglio della meta
raggiunta e della calma del riposo. Quando cioè il fascismo, movimento
politico rivoluzionario, eta diventato regime , ed aveva, per così dire,
assunto le sue caratteristiche sembianze (almeno fino a un certo
punto). Perché il futurismo, così come era sotto, in fondo si era
voluto mantenere. AI di là dei tentativi di conglobamento o di cattura
della sua entità esercitati dal regime o da singole personalità fasciste,
alcune delle quali, magari, erano state futuriste o vicine al futurismo.
Tuttavia era e restava, il futurismo, in fondo, quello di sempre:
solo ed esclusivamente un movimento d'avanguardia. Futurismo ed
ebraismo Innumerevoli differenze separano il popolo russo dal popolo
italiano, oltre a quella tipica che distingue un popolo vinto e un popolo
vincitore. I loro bisogni sono divetsi e opposti. Un popolo vinto sente morire
in sé il suo patriottismo, si rovescia rivoluzionariamente e plagia
la rivoluzione del popolo vicino. Un popolo vincitore come il nostro vuol fare
la sua rivoluzione, come un aeranauta getta la zavorra per salire più in
alto... Non esiste in Italia antisemitismo. Non abbiamo dunque ebrei da
redimere, valutare o seguire , sosteneva Marinetti: e lo diceva nella sua
opera già esaminata A! di là del Comunismo. Lo riportiamo non tanto per
rilevare le diffe renze fra rivoluzione futurista e rivoluzione
bolscevica 0 spirito comunista, quanto per far rilevare quale era
la posizione di Marinetti nei confronti degli ebrei già nel 1920.
Gli ebrei da redimere, valutare o seguire sono evidenti: Marx ed Engels.
Il problema invece si affaccia, come tutti sappiamo, sul volgere del '38
e all'alba del °39. Il Manifesto del Razzismo italiano, quello degli
scienziati del 14 luglio ’38, e la Carta della Razza, cui fanno seguito le
leggi razziali sulla falsariga dell’antisemitismo tedesco, danno
buon gioco alla cultura dell’ordine , quella più direttamente
sostenitrice o affiancatrice del regime. Secondo Crispolti il
tentativo della cultura legata alla destra reazionaria fascista di
profittare della campagna antisemita per promuovere un'edizione italiana
della operazione nazista dell’“arte degenerata” è un aspetto notevole
dell’azione pubblicistica che precedette e accompagnò quei provvedimenti.
L'azione pubblicistica era condotta da Telesio Interlandi in prima persona, che
attacca spesso e volentieri Marinetti, il futurismo e le avanguardie attraverso
il suo periodico: dal Quadrivio, settimanale romano ad impronta razzista, al
quotidiano romano Il Tevere, a La difesa della razza. Oltre a Interlandi
si distinguevano Preziosi con il mensile La wite italiana, e Farinacci
con Il regimze fascista, quotidiano di Cremona. L'arte moderna è un tumore
che deve essere tagliato non che si debba esibire come una gloria
nazionale sol perché piace a Marinetti , aveva affermato I/ Tevere
del 24-25 novembre 1938, pubblicando un’antologia di esempi d’arte
degenerata italiana. Quadrivio aveva a sua volta proposto un referendum
contro l'arte moderna considerata in blocco bolscevizzante e giudaica ,
ma senza alcun successo. Marinetti rispondeva con una
manifestazione indetta il 3 dicembre 1938 da lui e Somenzi al Teatro
delle Atti di Roma. E Somenzi stesso lo accompagnava con un fondo
polemico su Arfecrazia, n. 117 del 3 dicembre, dal titolo Razzismo. Ad
esso facevano seguito sul n. 118 dell'11 gennaio 1939 due articoli (Arte e...
razzia, e Italianità dell’arte moderna), ancora in posizione di attacco,
aspro e violento. Quest'ultimo, firmato Artecrazia pottò a determinare la chiusura stessa
del giornale. Non è escluso Crispolti, Appunti riguardanti 1 rapporti fra
futurismo e fascismo che lo avesse scritto proprio lo stesso Marinetti
(con Somenzi). Il pretesto di voler colpire con l’antigiudaismo l’arte
moderna era messo all'indice dell'accusa. Si dimostra così ancora una
volta lo spirito d'avanguardia con cui il futurismo e i futuristi operavano, sia
pur sotto le bandiere del regime, ma in fondo in opposizione a una
cultura d’ordine e di conservazione, priva di spunti nuovi e originali, o
addirittura chiusa ai contatti e alle avanguardie europei sotto il
pretesto dell'antigiudaismo, che non poteva certo essere aperto a nuove
esperienze. Nel 1940 entta in guerra l’Italia. Marinetti parla
Per l’italianità dell’arte e tiene un discorso al Teatro delle Arti
a Roma sulla bellezza aeropoetica della guerra meccanizzata . Intervengono
Radice e Terragni a difendere l’arte moderna. Declatmano Marinetti,
Farfa, Scrivo, Monachesi e Berardi. La rivista Autori e Scrittori
pubblica il manifesto Nuova estetica della guerra. A Genova Mari.
netti parla su La poesia e la guerra nel Salone dei Professionisti e
degli Artisti, dove si declamano poesie di Mazzotti e
Balestreri. Bosso lancia il nuovo Manifesto dell’Aerosilografia. Nel
1942 Marinetti pubblica Carto eroi e macchine della guerra
mussoliniana. Poi parte volontario a raggiungere le truppe italiane in Russia.
Rientrerà nel ’43 malato, e già intaccato nella salute. Mussolini cade il
25 luglio e Marinetti si trasferisce a Venezia, dopo l'8 settembre. Il
fascismo è finito, ma il futurismo ancora continua. 16. Il futurismo
tra ieri e oggi Dopo la morte di Terragni a Como per malattia
contratta sul fronte russo, Marinetti aderisce nel 44 alla neo-costituita
Repubblica Sociale Italiana. A_Venezia riceverà gli ultimi futuristi,
rimastigli fedeli nonostante il declino : Crali (ancora vivente) e Andreoni
(recentemente scomparso). A loro vorrà consegnare il futurismo perché non muoia
con lui. Si trasferisce poi a Cadenabbia sul lago di Como e muore a
Bellagio nella notte fra il 2 e il 3 di dicembre, per crisi cardiaca (i
funerali di Stato porteranno le spoglie a Milano, al Cimitero
Monumentale). Postuma a lui e alla fine del fascismo (repubblicano) si
pubblicherà la sua ultima opera, che così inizia: Salite in autocarro
aeropoeti... Si tratta del Quarto d'ora di poesia della X Mas, in cui
l’invocazione all'avanguardia alita uno strano ed inevitabile senso di morte,
violento ed inesorabile. Ma l'avanguardia è, pare, ineliminabile,
tant'è che il futurismo continua come espressione artistica almeno, anche
se ormai non più politica. I suoi epigoni lo sostengono ancora, con le parole e
con le opere. Crali Primo Conti a Milano e a Firenze, Sartoris a Losanna,
Di Bosso ed Anselmi a Verona, Enzo Benedetto a Roma portano ancora
avanti il suo programma d'avanguardia. Con parole e con scritti, con
opere e con progetti, col messaggio dell’arte sempre e comunque. I seguaci di
Marinetti si rifanno a lui e sostengono con vivacità e con brio la
vitalità di una prospettiva che si vuole sempre rinnovare. Questo
è ancora, malgrado tutto, il valore attuale del futurismo. Quello di
un'avanguardia italiana aperta alle avanguardie europee, ma avanguardia
comunque e valorizzatrice in ogni caso dell'arte. Che dev'essere libera
e moderna, nuova ed attuale, viva e presente ai suoi tempi. Per
questo deve ancora schiacciare le pastoie dei vecchiumi passatisti , deve
smuovere il conservativo e assalire i fantasmi di prolungamento di polverosi e
sclerotici retaggi. Deve insomma comunque essere avanguardia. Il
messaggio futurista, in questo senso, è ancora attuale. Ce lo dicono
Crali e Benedetto, fra gli altri, con le loto testimonianze. Che ci
aiutano a tivedere la dimensione del futurismo: una dimensione presente in
tanta odierna penuria di originalità nel moderno, presente almeno come
forza dinamica nella prospettiva di migliori, più aperti, e più geniali
futuri. SCHIAVO SOFFICI, MARINETTI, BOCCIONI, RUSSOLO
SANT'ELIA, SIRONI, PIATTI FUTURISMO E GUERRA SOLA IGIENE DEL MONDO.
Ben presto si manifesta l'interesse dei futuristi per la politica. Nel
1911 Marinetti pubblica giò un mani festo politica , che sarà la sua
prima espressione di intervento nelle cose pubbliche. Tyripoli
Italiana vuol dire presenza dell’Italia
e primato dell’Italia; vuol dire guerra ed espansione, allargamento del
vitalismo italiano, e vittoria. Il panitalianismo si esprime e si dichiara
apertamente, per la prima volta. L'avanguardia politica deve
accompagnare l'avanguardia artistica. E il primato italiano in arte st
deve manifestare anche in politica, nella forza dell'espansione del genio
(al tempo, di arbizione coloniale). Poco dopo la Libia, è la volta
dell'Austria. L’amore della guerra non può che portare a voler V'intervento. Ci
sembra significativa la penna di Soffici su Lacerba del ‘14, dove si osa
dire la verità e mettere in luce la finzione del moderatismo neutralista
(cattolico o socialista che sia). Il manifesto, dedicato
all'orgoglio italiano , è già un manifesto di guerra. Per questo lo
riportiamo interamente, a dimostrazione della fiducia e dell’ottimismo degli
artisti combattenti, la loro convinzione della forza attiva e dello
funzione battagliera dell’arte PER LA
GUERRA Valvola Essere italiano (mi piace ripeter qui che
adoro il popolo italiano) non è in generale gran fatto entusiasmante, in
questa nostra epoca. Ìn questi ultimissimi tempi, confesserò che per conto mio
mi vergogno un poco di portar questo nome. E’ un sentimento che si è
andato sviluppando leggendo i giornali, e posso anche ammettere che
una tale causa non meriterebbe di produrre un tale effetto; ma i giornali son
tutta la nostra vita ormai e purtroppo. E. dai giornali italiani si alza e si
propaga un tal lezzo d'abbiezione e d’imbecillità che chi ha un po'
di cuore e di spirito non può fare a meno di sentirsene sof.
focato. E' una gara in cui corrispondenti, redattori ordinanati e straordinari,
politicanti e governo fanno del loro meglio per sorpassarsi a vicenda.
Non che siano espliciti nei loro articoli e nei loro comunicati, ma la
bassezza tra spare e offende. Sono reticenze abbiette, raccomandazioni
infami, voltafaccia vergognosi, silenzi più vergognosi anco: ra. Si sente
che il calcolo idiota comanda e regola tutti questi spiriti subalterni.
La guerra? Le mani in mano? Questo enimma terribile non è affrontato a viso
aperto, ma una battaglia vinta o persa lontano detta il tono ed il
catattere (anche tipografico) della notizia, del commento o della nota
ufficiosa. Dà il là all’elucubrazione insulsa del machiavello
rimbastardito. La stampa italiana è opgi come oggi l’indizio della più
ripugnante psicologia e mentalità che possa avere una nazione. Davanti al
mondo che com Tralasciamo i paragrafi: Toccami il naso, Grandezzate, e
Sublimità, che ci sembrano poco significativi dal punto di vista
politico, per riprendere con Socialismo, molta più denso e
pregnante. batte e soffre, accanto a una civiltà che difende le sue
le nostre ricchezze dal sacrilegio di un'orda senza stotia, noi siamo il
leguleio diseredato di viscere, sollecito della sua trippa mediocre che
occhieggia le fortune dei popoli, e risponde di sbieco o tace aspettando
dietro lo schermo della sua neutralità. Non hanno il coraggio
questi figuri di dirla una buona volta ta verità. Ditelo che siete i più
ignobili rappresentanti di un paese che è miserabile perché non vi calpesta
come cimici. Ditelo che vi mancano il cuore e i testicoli. Ditelo che
avete paura. O confessate almeno che dietro la vostta prudenza c'è
la vostra impotenza, la verità che ci buttano in faccia i nostri
alleati quando fra una batosta e l'altra voglion levarsi il gusto di
pigliarci per il bavero. Che cioè l’Italia non ha quattrini, non ha armi,
non ha munizioni e che i suci magazzini son vuoti come la badia di
Spazzavento. E ci sono infine i socialisti. Io non ho un'esagerata
antipatia pet i socialisti. Trovo che la loro cravatta rossa, il loro sol
dell’avvenir, i loro discorsi in piazza, e generalmente tutto ciò che li
caratterizza, così a occhio e croce, sono un tantino ridicoli; ma le case
popolari, l'aumento delle mercedi operaie e tutto ciò che il proletariato deve
loro di miglioramenti per la vita di tutti i giorni sono cose ottime e
sante. Ciò non toglie che una cosa mi stupisce straordinariamente ogni
volta l'intravedo e mi stupirà in eterno: la loro mentalità. Si rivela
spessissimo in questi giorni, e sempre a proposito della neutralità italiana. I
socialisti l'’ammettono, non solo, ma la vogliono perpetua. Io sono e resto un
fautore ogni giorno più convinto della neutralità per la pace ha
dichiarato in un referendum uno di loro. E voleva forse dire (giacché è
difficile immaginare una neutralità per la guerra) che lui e il suo
partito sono per la pace a ogni costo. Giacché, ed eccoci alla mentalità
di codesto partito, ogni buon socialista non vede nella guerra, qualunque
essa sia, se non una lotta di capitalisti e banchieri contro capitalisti e
banchieri i quali si servono del proletariato per liquidare le loro partite.
Ammettiamo che in ogni guerra ci sia un sostrato d'interessi; ma non c'è
altro? Per i socialisti non c'è altro. L'idea che i socialisti si fanno
del mondo è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle
prese con un magro popolano sfruttato. La cultura, le scienze, le arti,
le delicatezze, l’eleganze, i raffinamenti, le filosofie, la bellezza, i
sentimenti, gli amori, le passioni -— tutto ciò insomma che fa la vita
così terribilmente complessa, così colorita, così varia, multiforme,
incoercibile non è nulla per loro. Tutto è grigio, e l’universo intero
una specie di ragnatela squallida senza confini né orizzonti,
eterna, in mezzo alla quale un ragno cerca di succhiare una mosca alla
quale Marx ha insegnato che non deve lasciarsi succhiare.
Così, nella guerra presente, che cosa importa se intere nazioni
difendono una civiltà che è la nostra, le libertà conquistate le idee
stesse dei socialisti contro i nemici che sono gli stessi nemici dei
socialisti? Per i compagni di Filippo Turati non si tratta che della
solita altalena dei capitali sulle povere spalle del popolano e bisogna
astenersi. E parlo espressamente degli ufficiali ex cattedra, giacché
agli altri, a quelli del colloquio coll’emissario tedesco, dobbiamo l’atto
forse più nobile e generoso che si sia compiuto in Italia in quest'ora di
straordinaria bassezza. Il trionfo della merda La cieca incoscienza dei
socialisti ufficiali e l’untuosa malafede dei cattolici alla Meda (ecco
un uomo cui manca indicibilmente l’erre!) si possono anche capire in un
momento come questo, chi consideri la speciale mentalità di codesti
gruppi e la messa in giuoco violenta dei principî e degli interessi di
tutti. I primi, i socialisti, non d'altro solleciti che di
vuote teoriche malamente idealistiche, non possono vedere nella
guerra se non un fatto inquietante, uno di quei fatti che afferrando tutto
l’uomo ne mettono in mato ogni energia vitale il che è sempre a scapito
certo delle ideologie unilaterali, e credono l’'opporvisi con tutte le loro
energie una coerente difesa dell’idea mentre non si tratta in fondo
che di un semplice istinto di conservazione. I secondi, i cattolici, sanno
benissimo che un nostro intervento nel conflitto attuale favorendo il trionfo
di popoli tutt'altro che asserviti alla secolare imbecillaggine papale,
significherebbe un indebolimento considerevole della loro compagine, e
maschetano di prudenza pattiottica il loro desiderio di vedere ancora
l’Italia ribadir con la sua neutralità incondizionata i vincoli che la fanno
setva e complice del bigottismo e dell’inciviltà eutopea. Contro gli uni e
gli altri, se si può usar del disprezzo, non sarebbe dunque logico
indignarsi. Ma c’è una massa dei nostri connazionali che nessuna collera,
nessuna abominazione potrà mai bollate con l’infamia che merita la sua
straordinaria abbiezione. E' Ja massa oscura, anemica informe degli
irresponsabili, dei disamorati, degli abulici: dei parassiti della
società e della vita. Non vedendo nulla più di là della lora piccola
tranquillità presente, del loro affare meschino, del loro affetto senza
energia; rincantucciati nel loro buco momentaneo al sicuro dalla burrasca
che gli sgomenta soltanto a intravederla nelle corrispondenze del loro mediocre
giornale, essi credono che nulla possa essere più profittevole del
prolungare, sia pure a costo di ogni mortificazione, questo stato d’incolumità
ruminativa nell'ombra e in margine alla storia. Chè se domani la
preponderanza in Europa di una razza di pachidermi violenti, chiusi a
ogni luce di vera intelligenza, conculcherà ogni espressione geniale di
vita; se i popoli cui si lega una comunanza di cultura, di ricordi e di
tradizioni, saranno mortificati e asserviti a un’etica da ingegnere
belligero e spia; se le nostre stesse fortune intellettuali, morali e
materiali saranno manomesse e asservite, che cosa importa a questi miopi
sdraiati nella loro flaccidezza quietovivente? A costoro importa che l’oggi sia
senza strepiti e senza pericoli, che il tran tran dell’esistenza seguiti:
felici se l'Italia potrà uscire dal rotto della cuffia e sia magari
verso l'abisso. Così nessuno si affida con più sicurezza di loro
alle decisioni del nostro governo. Il govetno italiano che fino ad oggi
s'è dimostrato come la quintessenza di questa materia fiscale, perché non
d -*ebbe divenirne anche la stella fatale? L’ospizio degl lidi della Consulta
è il faro naturale di questa marea .ercoraria che monta. Poi ché
essa monta, trionfando. Ogni giorno che passa nella passività, ogni
occasione perduta, ogni ambizione abdicata, ogni nuova difficoltà creata
servono ottimamente al suo incremento e alla sua propagazione. Siamo già
a buon punto. Dopo aver impedito con tutto il suo peso ripugnante ogni
movimento, questa massa pestifera ha già una voce per dire che muoversi
ora è troppo tardi. Ancora poche settimane e sarà forse vero, e tutti
saremo sommersi per sempre. Amici! Noi abbiamo parlato e scritto: abbiamo
propugnato tutto il calore delle nostre anime per oppotci alla
vigliaccheria inaudita di una bella parte dei nostri concittadini. Credo che il
momento di una lotta più diretta e dura stia per giungere. Le armi della
mente e del cuore stanno per esaurirsi. Bisognerà ricorrere alle altre,
se non vogliamo che l’Italia piombi al livello della più vergognosa
fra le nazioni. Un paese che abbia per scrittori dei Paolieri e la Nazione come
giornale ufficiale. Arvenco SOFFICI [da: Lacerba, n. 18, 15,
settembre 1914; e n. 19, 1° ottobre 1914] L'ORGOGLIO
ITALIANO Il 13 Ottobre, nella prima perlustrazione fatta da me agli
ordini del capitano Monticelli e del sergente Visconti in terreno nemico,
a 6 Km. dalle nostre trincee, fra le alte roccie a picco, nelle boscaglie
e nelle pietraie dell'A] tissimo, dopo esserci incontrati con una
pattuglia austriaca che ci voltò le spalle e fuggì, constatammo con gioia
la superiorità enorme della nostra artiglieria, i cui tiri meravigliosi,
passando su di noi e sul lago, sostenevano la nostra avanzata in Val di
Ledro. Nella seconda perlustrazione fatta da me, dai miei amici
futuristi Boccioni e Sant'Elia e dal pittot Recci, esplorando e
occupando la trincea delle Tre Piante, constatammo con quale gioconda
disinvoltura dei giovani pittori e poeti italiani possano trasformarsi
in audaci, rudi, instacabili alpini. Durante l'avanzata,
l'assalto e la presa di Dosso Casina, compiuta dai Volontari ciclisti lombardi
e da un battaglione di alpini, vedemmo le truppe austriache sgominate
dalla baldanza di pochi italiani diciassettenni e cinquantenni, non
allenati alla guerra in montagna. Dopo aver matciato per 7 giorni in un
foltissimo nebbione, con vestiti quasi estivi malgrado la temperatura di
15 gradi sotto zero, i Volontari ciclisti pernacchiavano allegramente
alle migliaia di sbrapne!s prodigati loro da 5 forti austriaci. I nuovi
raccoglitori di bossoli e di schegge micidiali facevano finalmente
dimenticare gli stupidissimi e sentimentali raccoglitori di
edelweiss. Constatammo che degl'italiani, già operai, impiegati o
borghesi sedentarii, sapevano vincere in astuzia qualsiasi pattuglia di
Kazserjigers. Constatammo che un corpo di 300 valontati ciclisti
improvvisati alpini sapeva strategicamente manovrare su per montagne ignote,
con tale abi lità che il nemico si credette accerchiato da migliaia
d’uomini. Constatammo che uno studente italiano, trasformato in ufficiale, può
comandare tutta l'artiglieria d'una zona e sfondare coi suoi tiri 6 o 7
forti austriaci, scientificamente preparati alla difesa in 20 o 30 anni.
Constatammo come il popolo italiano, sotto la direzione geniale di
Cadorna, abbia saputo improvvisare in pochi mesi la prima artiglieria dei
mondo e vincere di continuo nella più spaventosa e difficile guerra che sia mai
stata combattuta. Singhiozzammo di gioia all’udire dalla viva voce di 20
o 30 giornalisti esteri, quali Jean Carrère e Serge Basset,
che l'esercito capace di vincere e di avanzare sul Carso è sicuramente il
primo esercito del mondo. Dopo aver visto il popolo italiano, il più
mobile di tutti i popoli , liberarsi futuristicamente, con una scrollata
di spalle, dalla lurida vecchia camicia di forza giolittiana, vediamo ora nelle
vie milanesi fervide di lavoro, come il popolo italiano, che sembrava
avvelenato di pacifismo, sa guardare con fierezza questa nobile, utile e
igienica profusione di sangue italiano. Tutto questo ci conferma una volta
di più che nessun popolo può uguagliare: il genio creatore del popolo
italiano; l'elasticità improvvisatrice di cui sempre danno prova
gl’italiani; la forza, l’agilità e la resistenza fisica
degl'’italiani; l'impeto, la violenza e l’accanimento con cui gli
italiani sanno combattere: la pazienza, il metodo e il calcolo degl'italiani
nel fare una guetra; il firismo e la nobiltà morale della nazione
italiana nel nutrirla di sangue o denaro. ITALIANI! Voi dovete
costruire l'Orgoglio italiano sulla indiscutibile superiorità del popolo
italiano în tutto. Questo orgoglio fu uno dei principii essenziali dei
nostri manifesti futuristi dall’origine del nostto Movimento, cioè
da 6 anni fa, quando primi e soli (mentre l’irredentismo agonizzava e il
partito Nazionalista non era ancora nato) invocammo violentemente, nei
teatri e sulle piazze, la guerra come unica igiene, unica morale educatrice,
unico veloce motore di progresso. Eravamo allora sicuri di vincere
l’Austria e di centuplicare il nostro valote e il nostro prestigio
vincendola. Eravamo soli convinti della prossima conflagrazione generale,
che tutti giudicavano impossibile in nome di due pseudo-fatalità: lo
sciopero delle Banche e lo sciopero dei proletariati. Eravamo convinti
che coll’Inghilterra, la Francia, la Russia, noi dovevamo utilizzare le nostre
inesauribili forze di razza e il nostro genio improvvisatare,
collaborando allo strangolamento del teutonismo, fatto di balordaggine
medioevale, di preparazione meticolosa e d’ogni pedanteria
professorale. Apparve allora il mio Monoplan du Pape, visione
profetica della nostra vittoriosa guerra contro l’Austria. Infatti noi soli
fummo profetici ed ispirati, perché, più giovani di tutti, più poeti, più
imprudenti, più lontani dalla politica opporttunistica e quietista, traemmo la
visione del futuro dal nostro temperamento formidabile, e pur constatando
intorno a noi la vecchia mediocrità italiana, credemmo fermamente nell’avvenite
grande dell’Italia, semplicemente perché noi futuristi eravamo
Italiani. ITALIANI! Voi dovete manifestare dovunque questo orgoglio
italiano e imporlo in Italia e all'estero colla parola e colla violenza, come
facemmo noi in Francia, nel Belgio, in Russia, nelle nostre numerose
conferenze battagliere. Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena
l'italiano che non si manifesta spavaldamente orgoglioso d’essere
italiano e convinto che l'Italia è destinata a dominare il mondo col
genio creatore della sua arte e la potenza del suo esercito
impareggiabile. Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena
l'italiano che manifesta in sé la più piccola traccia del vecchio
pessimismo imbecille, denigratore e straccione che bha caratterizzata la
vecchia Italia ormai sepolta, la vecchia Italia di mediocristi
antimilitari (tipo Giolitti), di professori pacifisti (tipa Croce, Treves,
Ferti, Turati), di archeologhi, di eruditi, di poeti nostalgici, di
conservatori di musei, di albergatori, di topi di biblioteche e di città
morte, tutti neutralisti e vigliacchi, che noi, primi e soli in Italia,
abbiamo denunciati, vilipesi come nemici della patria, e veramente
frustati con abbondanti e continue doccie di sputi. Merita
schiaffi, calci e fucilate nella schiena l’artista o il pensatore
italiano che si nasconde sotto il suo ingegno come fa lo struzzo sotto le sue
penne di lusso e non sa identificare il proprio cotgoglio coll’orgoglio
militare della sua razza. Merita schiaffi, calci e fucilate nella schiena
l’artista o il pensatore italiano che vernicia di scuse la sua viltà,
dimenticando che creazione artistica è sinonimo di eroismo morale e
fisico. Merita schiaffi, calci e fucilare nella schiena l'artista o il
pensatore italiano che, fisicamente valido, dimostrando la più assoluta assenza
di valore umano, si chiude nell’arte come in un sanatorio o in un
lazzaretto di colerosi e non offre la sua vita per ingigantire l’Orgoglio
italiano. Mentre altri futuristi fanno il loro dovere
nell’esercito regolate, noi futuristi volontari del Battaglione
lombardo, dopo essere stati semplici soldati in 6 mesi di guerra,
ed aver preso cogli alpini la posizione austriaca di Dosso Casina,
aspettiamo ansiosamente il piacere di ritornare al fuoco in altri corpi,
poiché siamo più che mai convinti che alle brevi parole devono subito
seguire i pronti, fulminei e decisivi fatti. La sensibilità e l'acume
politico d'avanguardia dei futuristi non
potevano rimanere indifferenti di fronte ai loro avversari 0 alla controparte
dell'avanguardia, quella socialista. La reciprocità dell'opposizione al potere
liberalborghese, a passatista per dirla alla Marinetti, era motivo di
accostamento, forse, 0 per lo meno di attenzione da ambo le parti. E
sappiamo dal De Felice che molti proletari o esponenti dei ceti
umili osservavano con attenzione e seguivano il movi mento di Martinetti
con calore di simpatia. C., fra i più sensibili esponenti certo del
futurismo d'assalto , si accorge della presenza di elementi comuni nelle
avanguardie, e lancia un appello da Roma futurista # 13 /uglio del ’19
nel tentativo forse di un avvicinamento. L'avvertimento della necessità
di rovesciare la classe dirigente corrotta e impreparata offre una base
comune all'intento di collaborazione per il sostegno del proletariato,
operaio od ex combattente che sia. La polemica continua sulla stessa testata,
nel numero del 92 novembre dello stesso anno con un arti colo di
Giuseppe Bottai dal titolo Futurismo contro Socialismo. L'immpossibilità
di collaborazione è già vista dal Bottai con tutta la sua evidenza, ed è
vista per ragioni squisitamente ideologiche, rifacentesi gi presupposti
filosofici del socialismo e del socialismo italiano, in particolare. Il
14 dicembre ancora del ’19, entra nella polemica un socialista, certo
Moannarese, cui vengono aperte le colonne di Roma futurista @ fargli sostenere
più o meno la stessa tesi di Bottai, anche se vista da angolazione
marxista, dogmatica e inequivoca bile. L’impossibilità della
collaborazione è data dalla ostrattezza del futurismo secondo Manmarese,
e dal suo scarso od insufficientemente risaltante contenuto
sociale, che esula dall'unico e imprescindibile metodo possibile:
quello della lotta di classe. L'ultima battuta è ancora del Bottai ed
esce la settimana dopo, sul numero del 21 dicembre ‘19 dello stesso
periodico. La puntualizza zione degli argomenti e la precisazione dei
temi e delle tesi di pensiero son lutte protese a dimostrare lo sincerità
filo-popolare del futurismo e la falsità democratica del socialismo per cui è
quasi necessario essere contro il socialismo, ed indispensabile, se si ama
il popolo italiano, quello dei proletari arditi con cui anche Bottai
aveva combattuto nelle trincee al fronte della prima guerra. Noi siamo
per l'elevazione del popolo, e non per l'assolutismo demagogico di esto,
sottoli neava l'autore, concludendo a grandi caratteri Contro il
socialismo non vuol dire contro il proletariato . Ho esaminato seriamente
l'ipotesi di una collaborazione fra noi (futuristi, arditi, fascisti,
combattenti, ecc.) e i Partiti cosiddetti d'avanguardia: socialisti ufficiali,
riformisti, sindacalisti, repubblicani. A parte il fatto che, in
realtà, essi siano assai meno precursori ed audaci di quanto a parale
vogliano far credere, io mi sono preoccupato esclusivamente di cercare il
terreno comune nel quale si possa, noi e loro, associare gli sforzi e marciare
d'intesa verso lo stesso obiettivo. Il terreno comune c'è. Ed è
quanto di più nobile e attraente possa offrirsi a degli spiriti
sinceramente amanti del progresso e della libertà. E' la lotta contro le
attuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chiamino borghesia o
plutocrazia o pescecanismo o parlamentarismo. Non è possibile lasciar loro più
oltre la potenza del denaro e il potere governativo e amministrativo;
sono una casta che deve cadere e cadrà. E’ questa caduta che noi
dobbiamo affrettare, con tutti i mezzi e con tutte le fotze
disponibili. Or ora, l'esperimento del caro-viveri in tante
città d’Italia, ci ammonisce che di fronte a problemi gravi e
pressanti, non c’è odio di parte né antipatia sentimentale che tenga. Noi
possiamo ben dare (e l'abbiamo data) una valida mano ai pussisti per
impedire che il popolo sia affamato. Non pottebbero i socialisti vedere
nel nostro gesto disinteressato e leale una prova della nostra simpatia
per il popolo, si chiami combattente o si chiami operaio, e riconoscere
che la nostra azione tende, quanto e più forse della loro, ad equiparare
le classi sociali? Esiste un Marifesto del Partito Futurista, ed un
libro di Marinetti dal titolo Democrazia futurista , dove è
condensato quanto di più moderno, di più progredito, di più
spregiudicato, di più audace e rivoluzionario si può oggi pensare nel
campo politico. Ma i partiti pseudo-avanguardisti e pseudo-rivoluzionari
ostentano di ignora. re e manifesto e libro, né mai hanno fatto il più
timido gesto di simpatia o d'interesse verso idee o remperamenti ai
quali dovrebbero sentirsi attratti per istinto! Perché? Eppure noi siamo
libertari quanto gli anarchici, democratici quanto i socialisti, repubblicani
quanto i repubblicani più accesi. Si tratta dunque di mala fede?
Pare di sì, perché, se non fossero in mala fede, costoro dovrebbero
inginocchiarsi davanti a noi e chiamarci come loro capi. Se la loro lotta
politica fosse sincera e convinta (parlo special mente dei pussisti),
dovrebbero ammirate senza riserve il nostro spirito rivoluzionario che,
dopo aver schiantato quella fetida cancrena del passatismo europeo che si
chiamava Impero d’Asburgo e contribuito a umiliare il tracotante militarismo
tedesco, vuole oggi demolire a colpi di bomba i vecchi sistemi, i regimi
decrepiti, i focolai di putredine che costituiscono la grande cloaca
politica italiana. Se fossero in buona fede, dovrebbero riconoscere
che noi soli, uomini di guerra che non ignoriamo il piombo e
l’acciaio laceratore di carni, sapremo, a tempo debito, scatenare e
condurre una rivoluzione, non già dal Quartier Generale di una qualsiasi
Camera del Lavoro, ma alla testa delle moltitudini in marcia.
Se fossero in buona fede, sapete che cosa dovrebbero dire questi
organizzatori di masse a scopi elettorali? Ci direbbero Venite qua,
futuristi, arditi, fascisti, combattenti tutti: voi che siete più rivoluzionati
di noi, più audaci di noi, più liberi di noi, voi che amate il
popolo più sinceramente di noi! Venite qua, uomini d'azione e di
comando: a voi il guidare le masse verso la libertà e la ricchezza! a voi
il rovesciare i vecchi sistemi, i vecchi dogmi e le vecchie tirannidi!
noi ci ritiriamo nei ranghi. Perché non lo fanno?
Perché questi falsi socialisti che scrivono in giornali luridamente
borghesi come Il! Tempo e La Stampa, per ché pagano bene, si sfiatano a
chiamarci reazionari della borghesia, carabinieri più dei carabinieri, a
diffamarci imbecillescamente? Perché hanno respirato di soddisfazione
all'avvento del reazionarissimo gabinetto Nitti e complici? Perché
hanno lanciato dalle colonne dell’Avanti pochi giorni fa, un grido
d'amote alla censura che se n’andava, promettendole di richiamarla con
tutti gli onori non appena il socialismo ufficiale fosse salito al
potere? Perché tentano di far credere ai soldati che gli ufficiali
combattenti costituiscono una casta borghese, quando i soldati ricordano
ancora il loro tenentino che in trincea si adagiava nello stessa fango,
mangiava nella stessa gavetta, correva gli stessi rischi, buscava le
stesse ferite, come ciascuno di loto? Perché non si decidono
a riconoscere che la guerra ha liberato il mondo dall'incubo
dell'imperialismo germanico e ha impresso alle conquiste ideali e materiali
dei popoli un ritmo di fantastica velocità, che, senza di essa, non
si sarebbe neppure sognato? Perché seguitano a confondere guerra
rivoluzionaria con militarismo, socialismo con bolscevismo, popolo
con pagliacci tesserati? Perché combattono gli Arditi, che
pure sono usciti dal popolo, e del popolo rappresentano la parte più
vigorosa e combattiva? Perché si ostinano a ripetere con tediosa
monotonia che la guerra è stata voluta dalla borghesia, attribuendo
dunque a questa classe un vanto che certo non le spetta? Ho
lanciato l’invito. Ho mostrato ai nostti avversari il terreno sul
quale potremmo intenderci, e le pregiudiziali antipatiche che
c’'impediscono un avvicinamento. Sapranno essi spogliarsi di queste
pregiudiziali che sono altrettanti errori gravissimi?
Sapranno a loro volta dirci una patola onesta e schietta di simpatia
disinteressata? Se capiranno che è assurdo e bestiale continuare una
campagna diffamatoria contro una guerra che si è chiusa vittoriosamente e
che, malgrado tutto, ha giovato enormemente al proletariato, se capiranno
che noi pur amando fieramente l'Italia, non abbiamo nulla a che fare con i
nazionalisti reazionari, codini Fb) e clericali, essi ci
tenderanno la mano e ci aiuteranno a spezzare tutte le schiavitù che
ancora ci sovrastano. Dopo, potremo tornare a divorarci, se sarà
necessario. Marro CARLI {da: Roma futurista) Bisogno, ad ogni
sosta, di guardare attorno. Vedere un po' come va la vita, la cui visione
precisa, a volte, si perde nel martellamento sanguigno della lotta.
Misurare i compagni e gli avversari. Riprendere le distanze. Ci teniamo molto,
via via che più si ingarbuglia il fascio di forze e di tendenze del mondo
politico italiano, a rittovare i nostri contorni. Pulirli. Indurirli sì
che si rimbalzi sopra qualunque tentativo di penetrazione impura.
La lotta di partiti, nel suo svolgimento poco netto, si traduce
rispetto a noi futuristi, assertori del predomi. nio della genialità
italiana, in un lavoro di isolamento. Le scorie cadono. La marcia viene
schizzata via dalle contrazioni atletiche della nostra carne
sana. Solitudine splendida. Nella costituzione organica dei vari
aggregati di parte noi siamo il cetvello possente che domina, e
comanda alle tre membra funzioni del tutto subordinate. In questa
immagine somatica, il partito socialista ufficiale rappresenta, rispetto a noi,
l'intestino retto, maceratore e scaricatore d'ogni feccia. Un
compito troppo importante, come bene ha detto l’amico Settimelli, per
poterlo disprezzare. Ci vuole. Solamente è bene che non si
dimentichi mai la sua posizione assolutamente accessoria. La
nostra antipatia per il socialismo in genere, pet il socialismo italiano
in particolare, ha delle ragioni profonde balzanti dall'istinto della nostra
razza di cui noi siamo i rappresentanti più interiori, con tutti i suoi
difetti se si vuole, ma anche con tutte, t44te, le sue doti di energia,
di intelligenza, di ardimento. E distinguiamo ciò che sempre si può giustificare
nel quadro infinito della vita, l'idea, da ciò che, appunto perché nella
vita, si ha il dovere di discutere e di espellere, quando ne
arresti il libero svolgimento. Idee e uomini.
Socialismo e socialisti italiani. Noi siamo contro il
socialismo perché astrazione filosofica senza possibilità di contatti vitali.
Simbolo che si agita nel mondo da secoli, e di cui mai si è
trovata, e mai si troverà la formula di traduzione in positivi sviluppi
di masse sociali. Meditazioni di uomini respinti dalla vita calda e
vibrante, per un ingranaggio disgraziato della loro mente incapace di
aderire alla bellezza appas sionante del mondo. La riforma che l'idee
socialiste propugnano, non nasce da noi, dalla nostra maniera di essere, dalla
nostra natura di uomini, dal nostro modo di riunirci e dividerci.
Cala dall'alto, da cieli metafisici. Ha l’impotenza caratteristica di tutte le
religioni meditate, ragionate, logiche, e non create dallo slancio lirico
di un'anima d'uomo. Marx ed Engels hanno costituito delle sopra
realtà gigantesche che tutti hanno dichiarato magnifiche, ma che
nessuno ha avuto il coraggio di criticare, appunto perché la critica
umana non si può esercitare su delle concezioni prive di umanità.
Boris d’Ysckull, uno di quei mistici slavi capaci di bere ogni
miscela più insipida, ha confessato di non aver mai compreso quasi niente
di simili esposizioni dommatiche, e di essere stato attirato solo per la loro
oscurità affascinante. Chi, italiano, può così rinunziare alla vulcanica e
solate natura da itrigidirsi in questi mondi senz'aria, non può che trovarsi
nell’identica posizione dell’illustre imbecille surricordato. Le prime
utopie della Città, mantenentesi allo studio di immaginose e
dilettose; invenzioni nei primitivi Platone, Tommaso Moro CAMPANELLA
(vedasi) passando a peggior vita nelle scatole craniche dei tedeschi, si sono
meccanizzate in modo da di venire delle cose perfettamente anti-geniali,
anti-latine e, soprattutto anti-italiane. Noi fututisti, che abbiamo
violentato il vuoto e sognante torpore italiano riempiendolo di idealità fatte
di vita, intessute di nervi sensibili, calde di sangue rossissimo,
vogliamo una penetrazione a fondo nel blocco psicologico della nazione: ivi è
la direttiva unica delle trasformazioni che il nostro destino esige. Noi
siamo contro l’idea socialista perché sosteniamo la necessità della
diseduguaglianza. Diseduguaglianza di valori, che bisogna esaltate,
lievitare, mantenere ad ogni costo. Un piano uguale di esistenza, una
distribuzione armonica dei beni, una soppressione assoluta di privilegi
ma su questo livellamento di condizioni materiali l’esplicarsi diverso,
individualissimo delle singole capacità. II socialismo, pretendendo
distruggere la molteplicità innata di un popolo non può, in via logica,
che discendere dalla nazione alla città alla famiglia, dalla famiglia
all'individuo, e quindi alla creazione di tanti individui identici, a
stampo, senza differenze di tipi. Il comunismo, ch'è la forma più in
voga, non può tradursi, a meno di negatsi, che in un monismo esasperante,
monotono e inerte. La Russia ce ne dà la prova: la massa oppone al
tentativo di numerazione, che offre appena una pallida idea, per il
carattere più pacato e passivo di quel popolo, di ciò che avverrebbe da
noi. L'Italia è tutta un magnifico inno di incoerenza, dal
l'Alpi alla Sicilia. Follemente varia. Ogni provincia un mondo.
Popolazioni dolci come le sue pianure, laboriose come i suoi fiumi,
divampanti come i suoi vulcani. Noi non possiamo pensare che tutto
ciò si riduca a un uniforme impasto. Noi futuristi opponiamo la necessità
assoluta di un decentramento che mantenga, esalti, vivifichi fino al
culmine ogni caratteristica, ogni genialità, ogni attitudine delle singole
regioni: l’unità italiana sarà allora una valorizzazione completa di
sufta i'Ttalia.Siamo contto il socialismo perché idea generatrice di
vigliaccheria. Della gente che riuscisse davvero ad attuare la
distribuzione economica dello Stato socialista, dovrebbe basarsi su un concetto
di mutualità cooperativistica. Cooperativa a mutuo soccorso vuol
dire la sicurezza matematica di non rimaner mai al verde quindi
abolita ogni situazione di Jotta, reso campletamente inutile lo
sviluppo e il gusto del rischio. Spatizione di coraggio. Se ciò è
immaginabile su piccola scala, perché gli effetti malefici sarebbero ridotti
così al minimo da essere cancellati dai vantaggi, non si può pensare cosa
sarebbe mai una nazione sottoposta a tale regime, soppressa ogni
difficoltà di cartiera, butocratizzata Ja conquista della vita, scomparso
ogni pericolo, ogni ansia, ogni tensione. Non trovando nulla di vario nei
suoi sirzili, non trovando nulla di divertente nella sua esistenza logica, a
ore, a mansioni fisse, l'uomo socialista finirebbe col rientrare in
sé stesso. Cercare in sé l'interesse che il mondo non gli offre. Alla
forza di diffusione dei popoli geniali, si sostituirebbe quella di
egoismo egocentrico dei popoli cal colatori. Da simili mondi la
generosità fugge taccapricciata, non può distribuire i suoi insegnamenti
di grandezza: è come andare a vendere ombrelli in un paese dove non
piove mai a che serve esser generosi con della gente che è tutto
misurato, tutto il necessario? La morale che tali ambienti possono produtre è
marale di egoismo e di vigliaccheria. Noi opponiamo la morale della
generosità, lucidamente affermata da Balilla Pratella, quotidianamente da
noi vissuta in una dedizione senza calcolo, in una aderenza
spontanea e intellipente alle tramutanti necessità della
Patria. Queste le tre ragioni fondamentali che ci dividono dal
socialismo idea: la astrazione filosofica e inumana della formula, la sua
azione di parificazione monistica, la derivazione logica di antigenerosità =
vigliaccheria, egoismo. Altre ragioni particolari ci sono, che ci
porterebbero ad una disanima troppo lunga ragioni, del resto, che
non sono specifiche della nostra differenza dal socialismo, ma che
possono essere anche di altri partiti. Esempi: l'assurdità della
soppressione dello Stato come potere centrale, la sciocca concezione di una
pace eterna, ecc. ecc. I socialisti italiani. Sono,
indubbiamente, dei buoni socialisti perché hanno già, in pieno regime borghese
lo stadio mentale senza calore e senza colore del socialista di domani.
Non sentiamo il bisogno di spenderci molte parole, né di passarli in rivista
uno ad uno. Dirigenti: dittatura di vomini che hanno la mira precisa di
diventare qualche cosa, un'autorità, una persona importante. Non c'è tra
loro neppure un mistico esaltato che interessi. Calcolatori.
Cinici. Seguaci: massa la cuì concezione più alta è questa:
bisogna distruggere il caroviveri. Gente che cerca di mettersi a posto. Invidia
il horghese, quindi ha desiderio di divenire il borghese. Le loto
qualità principali sono: inintelligenza: non hanno ancora capito
che il sociali smo è diverso da popolo a popolo: commerciale
nell'America del Nord, conservatore in Inghilterra, filosofico in
Germania, mistico in Russia. Non hanno capito che il socialismo in Italia
può, caso mai, balzare dalle nostre istituzioni rurali;
inattualità: sano coerenti in una maniera fantastica, tant'è vero
che le idee invecchiano e loto seguitano ad usarle. Credono d’essere
all'avanguardia, e lo sono come il gambero, il cui traguardo è sempre
alle spalle, dietro: vigliaccheria: oltre la vigliaccheria propria
della idea hanno una viltà tutta propria, personalissima,
originale: inutile parlarne: chi interviene ai comizi elettorali ne
sa qualcosa. Il futurismo è il mondo più lontano dal
socialismo. Il futurismo è veramente il senso di una religione
nuova, che si dirige alle anime, agli spiriti, ai cervelli, e non si
interessa del corpo che per fortificarne i muscoli, farne strumento di
agilità audacissime e di voluttà sane. Generato dal cervello di un
attista ha tutta l'umanità di una idea italiana, sempre profumata di
buona terra fertile anche quando si esalti fino ai più puri
orizzonti. Attività poliedrica, il futurismo è lo sfruttamento completo di
tutte le penialità italiane, manuali e cerebrali. Ridarà all'Italia i
suoi magnifici artieri, maestri d'ogni sotta di lavoro, come lo à dato e
lo darà ai suoi artisti più grandi. I suoi vomini non hanno deficienza:
danno la loro vita in una proteiforme attività prodigiosa. Poeti e
soldati, sogno e vigilanza, idea e azione. Non c’è possibilità di
contatto tra la nostra morale e quella socialista, tra i nostri uomini e
i loro. È assurdo ogni pensiero di collaborazione. FUTURISMO CONTRO
SOCIALISMO. SEMPRE A QUALUNQUE COSTO! GiusePPE BOTTAI
{[da: Roma futurista.Noi e i borghesi Non una polemica, ma una
discussione calma e pacata. Polemica no, per non arrivare fino a quella
animazione un po’ acre e impetuosa, che annebbia le idee e deforma la
realtà. Ci tengo, a questa dichiarazione preliminare, perché
l'amico Mannarese, nel suo lucido articolo, pur mantenendosi in una linea di
cortese serenità, devia in puntatine ironiche, che non èànno ragione di essere,
se veramente egli ci vuole aiutare, nella demarcazione esatta della
nostra individualità politica. Trovo ad esempio molto strano, per
un futurista, l'osservarsi che la mia formula (adopto la parola formula,
per attenermi alla dizione dell'amico, per quanto essa abbia un senso storico,
che mi ripugna) abbia potuto ringalluzzir di saverchio, con la sua violenza:
“futurismo contro sociglismo, sempre, a qualungue costo” qualche buon
borghesetto. Questo non mi preoccupa, e direi, anzi non ci preoccupa. Noi
esprimiamo liberamente le nostre idee, le gettiamo nel mondo, tta la
gente; e i casi sono due, come sempre: o la gente non le capisce e allora
non c’è nulla da fare: o le capisce, le approva, ci si interessa, c
le apprezza nel giusto valore, e allora poco ci importa che tale gente
sia proletaria o borghese, destra o sinistra, e, anche, ambidestra.
Noi non sosterremo mai, com'un certo avvocatino di nostra
conoscenza fece in una recente seduta del Fascio di Combattimento romano,
che la guerra ha distrutto agni distinzione tra destra e sinistra; ma non
vogliamo di tali logiche e necessarie e salutari differenziazioni (?)
fare il nostro spaventacchio. Chè, pet questa via, si giunge alla
grossolana affermazione di Adriano Tilgher (Tempo, Piccoli borghesi al bivio):
essere il furore antisocialista degli atditi originato dall’appartenere
costoro, quasi tutti alle classi medie; e pensare che in parecchi mesi di
convivenza con le fiamme nere mi son trovati attorno solo contadini,
operai, lavoratori-proletari! Prima caratteristica del futurismo, è
questa, libera, sciolta sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci
crede oggi difensori dei suoi salami, delle sue salsicce, poco male! ciò
potrà darci la prova della sua minchioneria, non già infirmate
l’esattezza del grido futurismo contro socialismo. Socialismo non è
proletariato L’amico Mannarese fa un’identificazione
pericolosissima, e non rispondente alla realtà positiva dei fatti.
Egli pone sullo stesso piano socialismo e proletariato, stabilisce
senz'altro questa identità matematica: socialismo = proletariato.
Ciò spiega perché tanto si accanisca contto la finale del mio
articolo. Alle parole contro socialismo, sempre a qualunque costo è dato
il valore di un'affermazione di questo genere: contro le aspirazioni del
popolo, contro i diritti dei poveri, ecc., ecc... . Orta, mi
ribello assolutamente. Non in nome mio sol tanto, ma di tutti i
futnristi, e anche, di tutti i nostri amici fascisti.
Distinguere bisogna. Una cosa è quello che l'amico chiama: /o
sforzo violento, l’oscura irresistibile aspirazione della massa verso un
regime di maggior giustizia economica e un'altra cosa è il socialismo. Le
aspirazioni proletatie sono fatto immanente, istintivo, fatale, non pensato ma
sorto da sé, il socialismo è uno dei tanti sistemi, i quali, da che il
mondo è mondo, si accaniscono sulla disparità di condizioni delle
classi. Se io mi pongo contro il socialismo o contro i socialisti,
mi dichiaro contrario ad un sistema filosofico, giuridico, economico, morale ed
ai suoi sostenitori (filosofi, demagoghi e procaccianti che siano), ma
non è detto ch’io voglia attaccare l’oggetto di tale sistema che è il
proletariato. Non debbo, quindi, rettificare in nulla la mia incriminata frase,
ch'era un grido, un appello conclusivo del mio articolo, limitatosi ad
una valutazione di idee, e non aveva la pretesa d’essere un caposaldo, un
domma, un punto cardinale, ed altri simili paroloni che noi
lasciamo agli oratori da comizio. L'affermazione: Noi non
siamo contro il socialismo, ma contro gli uomini, i metodi e la filosofia
socialista del Mannarese è un non-senso,
perché appunto: socialismo è flosofia sostenuta da wormini con
determinati metodi. Quella che il Mannarese chiama sostanza (eh!
queste parole che otribili titi giuocavano, a volte) ossia: la
guerra per l'indipendenza economica dei poveri contro i ricchi non è
privativa assoluta del socialismo, è solo l'obiettivo dei suoi studi, dei
suoi tentativi, come essa fu obbietto della favola di Menenio Agrippa, e
delle teorie di Fenelon, e della scuola di Saint Simon, e del
sistema di Grace Baboeuf e Roberto Qwen, e così pure della filosofia di
Marx ed Engels. Anche il nazionalismo, anche il partito popolare, tutti
anno affermazioni solenni: qui è l'unico infallibile specifico per il
dolore del popalo e io posso essere contro questi modi da cerratani senza
mai essere né contro il popolo né contro le sue sacre e legittime
aspirazioni economiche I programmi economici All'amico Mannarese è
forse sfuggito nel mio articolo questo periodo: Un piano eguale di
esistenza, una distribuzione armonica di beni, una soppressione assoluta
di privilegi ma su questo livellamento di condizioni mateviali
l’esplicarsi diverso, individualissimo delle singole capacità. Qui,
evidentemente, si dice: noi passiamo essere d'accordo nelle
finalità economiche del socialismo . Quelle tre proposizioni del
programma politico futurista di Matinetti, Carli e Sertimelli, che il Mannarese
dice troppo generiche, anno il merito di poter domani assorbire in
sé, senza contrasto, qualunque ardimento consono allo spirito dei
tempi. Hanno un’intenzione pragmatista, che non deve sfuggite.
Il programma di riforme economiche, lanciato ai popoli come panacèa, è
cosa vecchia di tutti i tempi e di tutte le genti. Ogni scuola politica è
per prima cosa inalberata questa insegna molto attraente. Tutti i
programmi ben definiti, schematizzati, rigidi, anno sempre atteso,
con grande pazienza, che le cose del mando si incanalassero ne’ fossati, canali
e zenelle da loro tracciati, ma le cose del mondo anno dimostrato, a lume
di storia, di procedere per via di approssimazioni successive, le
quali avvengono non già pet magnetizzazione esetcitata cai suddetti
programmi, ma per madificazioni addotte, nel blocco fisiopsicologico di
una collettività, dal sistema di educazione, dalle idee di morale circolanti,
dalla rinnovatasi coscienza giuridico-sociale. Se oggi, per
ragioni ovvie, il problema economico è venuto in primo piano, non bisogna
dimenticare che la parte veramente essenziale di un sistema politico non
è già il disegno di un futura assestamento economico, ma è il
metodo con cui saprà, attraverso uno studio positivo dello stato presente
e dei caratteri permanenti della società in genere (meglio ancora di una data
parte di società) creare tutt'un’atmosfera spirituale intellettuale
psicologica, che renda possibile l’attuazione di quel dato ordinamento
economico, che nel momento è bene limitarsi a definire
desiderabile. I socialisti italiani sanno che il popolo italiano
non à neppure iniziata l'evoluzione sociale che permetta l’avvento, ad
esempio, del comunismo. Ora essi, scavalcando completamente ogni lavoro
di educazione, sventagliano i loro proclami di rivendicazioni economiche.
Il popolo risponde, è naturale: è Bengodi con i suoi meravigliosi
panorami. Ma ciò non significa aver creata una società comunista, come
non è fare un signore aristocratico d'un villanzone qualsiasi il
riempirgli le tasche di denaro. Sotto il punto di vista della potenzialità vera
di un partito il valore di tali programmi è nullo. Hanno un valore
pratico di specchietto per gli allocchi, e se l'amico Mannarese ci avesse
detto che, abbondando gli allocchi, è bene ch’anche noi abbiamo il nostro
specchietto, gli avremmo dato piena ragione. Il nuovo
imperialismo Non ci deve, quindi, affligere di soverchio, la mancanza di
formulazioni teoriche, di programmi economici. Noi futuristi non siamo
mai stati assenti quando questioni positive siano in tal senso nate. Né il
trionfo socialista deve farci perder la resta così da correr subito ai
ripari. No. La nostra posizione è netta, e possiamo
guardarci tranquillamente intorno: il germe della morte del socialismo è
appunto localizzato nel suo sistema di rivendicazioni economiche, aggravato dal
fatto di essete così isolato da ogni altra considerazione d'ordine superiore
da divenire il segno folle di un nuovo imperialismo. Non è
possibile nessun contatto tra due sistemi così opposti come sono quello
socialista e quello futurista. È l’anima differente. È il cervello
diverso. Se anche noi potessimo conglobare per intero nel nostro
ordine di idee ogni aspirazione economica del socialismo, rimarrebbe la
differenza profonda, incancellabile di indole, di origine e di finalità.
Noi siamo per l'elevazione del popolo, e non pet l’assolutismo demagogico di
essa. Tirando le somme E riassumiamo, perché la discussione
non rimanga uno sterile battibecco. L'amico Mannarese m’à offerto il
modo di delineare meglio la nostra situazione innanzi al socialismo: posizione
di ostilità per indole spirituale diversa; possibile comunanza di vedute
economiche: il che non implica nessuna fusione; condivisione di
alcune idee (come ad esempio il divorzio ecc. ecc.) che non sono
prerogativa socialista, € che non possono, quindi, render omogenee due
sostanze diverse. CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOL DIRE CONTRO IL
PROLETARIATO. BOTTAI [da: Roma futurista] La lentezza
delle democrazie, le pastoie burocrati che dei procedimenti parlamentari.
il vecchiume parolaio dei barbuti senatori non possono essere ben visti
dai futuristi. La velocità, il dinamismo, la lotta, la competizione,
l’azione mal si addicono agli organismi pingui e sclerotici delle
democrazie, quella italiana in particolare. Già nel 1910 Marinetti lo
mette in rilievo ed indica nel suo manifesto Contro l'amore e 3
parlamentarismo , sintomo ed espressione di questa sua antipatia e di
guesta sua avversione Persino l'amore e le donne in senso romantico sono indici
e stru menti di rallentamento , e come tali da evitare tranne che per una
loro ben precisa ed organica funzione vitale. Le donne andrebbero invece
bene pei parlamen ti, dove dovrebbero entrare con le loro chiacchiere
e la loro prodigiosa e altisonante facoltà di falsificazione. Ma
non è solo Marinetti a inveire contro il parla mentarismo: c'è Tavolato
che uddirittura bestemmia contro la democrazia in un suo articolo apparso
con questo titolo su Lacerba del 1° febbraio 1914, ricco di
espressione e carico di colore linguistico e letterario. I 30 dicembre
dello stesso anno un altro futurista, Volt, tuona dalle colonne di Roma
fututista: Aboliamo il parlamento! In sua sostituzione si propongonna le
rappresentanze dei sindacati per la formazione dello Stato tecnico futurista.
E si entra nel merito della personalità giuridica dei sindacati e della
loro forza rappresentativa in base all'importanza della loro funzione
economica. Non in base numerica, per cui si rientrerebbe nella concezione
democratico-parlamentare. Non più onorevoli quindi sulle assise delle due
camere, ma lavoratori. E sono tutti concetti che ritroveremo nella
concezione corporativa fascista e nella suu Carta del Lavoro
Dopo la guerra Marinetti intervtene su Roma futurista mel maggio del '19
per ribadire la sua.concezione futurista della democrazia , come
s'intitola il suo scritto, che era già apparso um mese prima, più 0 mena
analogo, su L'Ardito. Vi si sostiene la democrazia tipi camente italiana
dei geni: una sorta di minoranze di individui superiori alla media,
destinati a entrare. in competizione con le altre, definite democrazie
incoscienli, come prodotta numerico d’inetti e di sconclusionati. La forza
della nuova democrazia dovrà essere naturdimente violentissima data
l'accelerazione e il ren dimento degli individui geniali. La sua conclusione sarà logica e conseguenziale: La democrazia
futurista è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte le
sue cellule vive . L'azione sarà condotta da Mussolini, ma il presupposto
è già comunque e totalmente presente. BESTEMMIA CONTRO LA DEMOCRAZIA Tre
spanne sotto il cervello io nutto un odio, un odio contro la presunzione
del lavoro, un odio contro il puzzo cosciente, un odio contro
l’imbecillita evoluta. Tre spanne sotto il cervello si spenge ogni
polemica. I democretini rinunzino alla discussione. I democretini s’adagino
sopra i loro luoghi comuni, perché il mio piede possa calpestarli. Via,
batbe comiziesche che mi nascondete il sole. Via, mani a ventola e
cravatte a bandiera. Fermati, passo democratico sotto cui trema la terra
offesa. Arrestatevi, lamentele filamentose, voci incristianare, zuccherose
o pepate. Via, spade di legno, trombe sfiatate, via, inesistenti
barricate. Smontate, uomini di paglia, uomini di stoppa uomini di
cartastraccia. Nascondetevi, ceffi di cera, mascheratevi, faccie rinfisecchite,
sparite, ghigne insolenti. Sgonfiate, protobischeri pastori di popolo.
Aria ci vuole, e luce e calore e solidità, o anima mia. Abbasso la
democrazia! Fumano d'orgoglio, le gran fave. Fumano, questi straccioni e stronzoni,
questi mangiasputi e fiutarutti, questi tinconi, questi turabuchi, questi
scotticapidocchi, questi merdaioli, questi caconi, questi galoppini,
questi pagnottisti, questi biasciconi, questi lumaconi, questi minchioni,
questi balordi gonzi e gralli, questi coglioni appuzzoni e cittulli,
questi sussurroni caccoloni, questi satraponi virtuosoni. Già tutto il paese
fuma, smerdata com'è da queste pecore matte. Pulizia, pulizia, pulizia! Abbasso
la democrazia! Bischeri sollevatissimi, bischeri smargiassi,
bischeri ventosi, bischeri girandoloni, bischeri soppiattoni, bischeri
politicanti, bischeri economicizzanti, bischeri vani, bischeri solenni,
bischeri tronfi, bischeri crespi, bischeri cal. losi, bischeri pensosi,
bischeti pacifisti, bischeri leghisti, bischeri classisti, bischeri
marxisti, bischeti riformisti, bischeri collettivisti, bischeri revisionisti,
bischeti comunisti, bischeri credenti, bischeri fetenti, bischeri
ufficiali, bischeri legali, bischeri di cartapecora, bischeri del braccio,
bischeri del cervello, bischeri antilibici, bischeri internazionalisti,
bischeri democratici BISCHERI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI! La vostra
individualità non ha importanza. Unitevi! Amalgamatevi! Confondetevi in
melma! Anche la melma dei bischeri, come ogni melma, s'incrosterà. E sotto le
croste ci sarà il gelo della morte. Così sia. Abbasso la
democrazia! Accidenti alla democrazia, impero delle bestie da soma, regno
degli schiavi, padronanza dei servi, supremazia degli impiegati!
Democrazia, sostegno degli sfiaccolati, trionfo dei cimiciosi, glotia dei
piattolosi, arma dei brodolosi; democrazia, orchestra di miasmi, concerto di
sputi, convegno di sudori, sistema di muffe; democrazia, vittoria dei
muscoli e disfatta dei nervi, esautorazione dell’arte e imposizione del
mestiere, vita del debole e agonia del forte; lurida, sudicia, tetra
democrazia, cloaca dove affogano fantasia, ingegno, energia, e tutte le
soavità; proterva asineria, fessa stivaletia: abbasso la democrazia!
E rovini Ia mediocrità! Fuoco al tugurio dei
democretini! I democretini è la lanterne! La libertà soltanto a chi
sa cosa farsene, a chi sa viverla. Agli altri il giogo, la sferza
e la schiavitù. EVVIVA LA FORCA, o amici, per la libertà vostra e
per la libertà mia! ABBASSO LA DEMOCRAZIA. TAVOLATO [da:
Lacerba,Firenze] Aboliamo pure il Parlamento si domandano molîi ma
cosa metteremo al suo posto? La risposta è pronta. Soszituiremo til
Parlamento con le rappresentanze dei sindacati agricoli industriali ed
ope rai. La rappresentanza sindacale sarà la base dello Stato
tecnico futurista. AI collegio elettorale, circoscrizione fittizia ed
arbitraria, entità che sembra creata apposta per l'esercizio del broglio,
sostituiremo il sindacato, espressione organica delle forze economiche
che danno effettivamente forma alla società. AI posto dell’onorevole
deputato, demagogo costretto all’accattonaggio sistematico del voto e
feudatario di una nuova feudalità peggiore dell'antica, manderemo a governare
il paese ingegneri, commercianti ed operai, gente che sa il suo mestiere
e conosce i bisogni reali della propria classe. Invece di un’Assemblea di
inttiganti, di chiacchieroni e di incompetenti, avremo un corpo tecnico
adatto allo scopo di dirigere, con conoscenza di causa, la grande azienda dello
Stato. In pratica l'idea della rappresentanza sindacale si trova di fronte
a difficoltà serie ma non insopportabili. Vati problemi ci si
presentano. A quali sindacati concederà lo Stato la personalità
politica? Si tratterà di determinare le categorie di ptoduttori che avranno
diritto a una rappresentanza nel corpo legislativo. L'iscrizione ai
sindacati sarà obbligatoria per tutti i cittadini? A me sembta che sia
più logico lasciare che esercitino i diritti politici coloro che ne hanno
la volontà e coscienza. Coloro che resteranno volontariamente fuori
dei sin. dacati cortisponderanno in parte alle masse degli astenuti
nelle odierne elezioni a suffragio universale. In base a quale criterio si
misurerà il numero di voti da attribuirsi a ciascuna categoria di
sindacati? E’ la questione più scottante. Il criterio più semplice è
quello numerico. Ma così si ricade nell'atomismo individualistico
del suffragio universale. Io credo che non si debba tener conto del
numero degli iscritti al sindacato, ma della importanza della funzione
economica che esso esercita nel Paese. Quindi un sindacato di industriali
metallurgici avrà una rappresentanza eguale a quella di un sindacato di
lavoratori del ferro benché questi ultimi siano molto più numerosi. E
ciò perché l’importanza delle due funzioni si controbilancerà nell'economia
nazionale. L'amico Settimelli dirà che questo è un criterio poco
democratico. Me ne infischio. Quali saranno i limiti posti all'esercizio
del potere dell'assemblea eletta mediante la rappresentanza
sindacale? La competenza dell'assemblea dovrà essere limitata alle
questioni prevalentemente economiche, che sono del resto le più
importanti in politica. Le questioni di famiglia, di politica estera ecc.
dovranno esser risolte in parte mediante il referendum popolare diretto ed in parte attribuite alla
competenza del porere esecutivo. Non ho fatro che accennare le principali
questioni. Invito tutti i giovani futuristi ad inviarmi le loro soluzioni
ai quattro problemi che ho posta, senza avere la pretesa di risolverli
definitivamente. Ma mi sembra che la questione sia matura per lo studio. E poi
per noi futuristi studio deve significare già un principio di
esecuzione.È l’ora di finirla col Parlamento. Abbiamo fatto la guerra
senza bisogno del Parlamento. Senza il Parlamento sapremo fare la pace. E' ora
di sbarazzare l’Italia dalle 508 incompetenze che spadroneggiano a
Montecitorio. VOLT [da: Roma futurista, DEMOCRAZIA
FUTURISTA L’orgoglio italiano non deve essere, non è imperialismo
che spera imporre industrie, accaparrare commerci, inondare di prodotti
agricoli. Nai difettiamo di materie prime, e siamo una potenza di
ricchezza agricola mediocre. Il nostro orgoglio italiano è basato sulla
superiorità nostta come quantità enorme di individui geniali. Vogliamo
dunque creare una vera democrazia cosciente e audace che sia la
valutazione e Ja esaltazione del numero poiché avrà il maggior numero di
individui geniali. L’Italia rappresenta nel mondo una specie di minoranza
genialissima tutta costruita di individui superioti alla media umana per
forza creatrice innovatrice improvvisatrice. Questa democrazia entrerà
naturalmente in competizione con la maggioranza formata dalle altre nazioni,
per le quali il numero significa invece massa più o meno cieca,
cioè democrazia incosciente. Su 1000 slavi vi sono due o tre
individui. L'ultima fulminea nostra vittoria ha dimostrato che non
vi è gruppo di italiani (20, 30 o 40) che non contenga almeno 10 o 15 individui
capaci di iniziativa e di direttiva personale Abbiamo ancora da
sgombrare e da bonificare le zone morte dell’analfabetismo. Questo
compito molto arduo con un nemico minaccioso alle porte è oggi compito facile e
senza pericoli per la unità e indipendenza nazionale.
Nazione ricca di individui geniali, democrazia intelligentissima. Quantità di
personalità tipiche, massa di tipi unici, democrazia che non vuole
imporsi bancariamente, industrialmente, colonialmente, ma può e deve
dominare il mondo e dirigerlo con la sua maggiore potenzialità ed
altezza di luce. Noi crediamo che l'ora è venuta di tentare tutte le
rivoluzioni per liberare il popolo italiano da tutti i pesi morti e da
tutti i ceppi (matrimonio e famiglia Cattolica soffocatrice, pedantismo
professorale, elettoralismo, mentalità pessimistica, provinciale mediocrista e
quietista). Liberata dal giogo della vecchia famiglia tradizionale,
dal dogma dell'anzianità, l'Italia manifesterà finalmente la sua potenza
di 40 milioni d’individui italiani tutti intelligenti e capaci di autonomia. Concezione
assolutamente apposta alla cretinissima concezione germanofila che voleva
svalutare i 40 milioni di individui italiani per organizzarli
meccanicamente. Su] palcoscenico della razza italiana dobbiamo mettere in
luce 40 milioni di ruoli diversi perché in questa luce possa
perfettamente svolgersi il valore tipico d'ognuno.(Censura) Noi non
abbiamo la nevrastenica pigrizia, la neghittosità, il misticismo, il boiantismo
ideologico, l’ossessione teorificatrice della Russia. Siamo pieni di senso
pratico, di tenacia costruttrice, di ingeniosità inesauribile, di
eroismo bene impiegato. Possiamo dunque dare tutti i diritti di
fare c disfare al numero, alla quantità, alla massa poiché da noi
numero quantità e massa non saranno mai come in Germania e in Russia numero
quantità o massa d’inetti e di sconclusionati, LABRIOLA (vedasi) definisce
la democrazia come sentimento dei diritti concreti della massa sullo Stato e
sulla Economia. Noi futuristi consideriamo la democrazia non in
astratto ma bensì la democrazia italiana . Parlare di democrazia in
astratto è fare della retorica. Vi sono numerose democrazie, ogni razza
ha la sua democrazia, come ogni razza ba il suo femminismo. Noi
intendiamo la democrazia italiana come massa di individui geniali,
divenuta perciò facilmente cosciente del suo diritto e naturalmente
plasmatrice del suo divenire statale.La sua forza è fatta di questo
diritto acquisito, moltiplicata dalla sua quantità valore, meno il peso delle
cellule malate (incoscienti, analfabeti). La democrazia italiana è
per noi un corpo umano che bisognerà liberare, scatenare, alleggerire,
per accelerarne la velocità e centuplicarne il rendimento.
La democrazia italiana si trova oggi nell'ambiente più favorevole al suo
sviluppo. Ambiente di rivoluzione-guerra nel quale è costretta a
risolvere tutti i suoi casi-problemi insoluti, le cui soluzioni possono
esercitare una influenza sul suo avvenire. Necessità igienica di continua
ginnastica trasformattice, improvvisatrice. Il governo si allarma
oggi nel vedere formarsi innumerevoli associazioni di combattenti. Se non fosse
un governo di miopi reazionari tremanti di paura accaglierebbe
favo. revolmente questo nuovo ritorno di vitalità italiana.
La guerra ha semplicemente svegliate le coscienze di 4 o 5 milioni di
italiani che tornano oggi dalla guerra, atricchiti di una personalità
politica. E’ la prima volta nella storia che più di quattro mi.
ltoni di cittadini di una nazione hanno Ja fortuna di subire in soli 4
anni un'educazione intensiva e completa con lezioni di fuoco, di eroismo e di
morte. Spettacolo meraviglioso di tutto un esercito partito
per la guetra quasi incosciente e ritornato politico e degno
di governare. La democrazia futurista è ormai pronta ad agire,
poiché sente vibrare tutte le sue cellule vive. Naturalmente
ha un bisogno urgente di spalancare le porte e di uscire all’aperto. I)
governo si allarma, reprime e trema, come la nonna leggendaria teme che
il nipotino pigli un raffreddore. Fuori l’aria è frizzante e
salubre. Il sole, spalancato, beve il mare di liquido quasi solido saporito
azzurro, tutto spumante di raggi, tutto da bere fino all'ultimo
sotso. MARINETTI fda: Roma futurista, un SETTIMELLI
MARINETTI FUTURISMO E PRIMO FASCISMO Settimelli commenta il
Congresso di Firenze su 1 nemici d'Italia (settimanale antibolscevico
diret to da Armando Mazza ) del 10 ottobre del 1919. I discorso di
Meorinetti al congresso apparirà su L'Ardito del 26 ottobre dello stesso
anno, ma era già apparso tre giorni prima su I nemici d’Italia (23
ottobre). Del discorso e della necessità dello svaticanamento abbiamo già parlato. Ma si postula anche
l'ipotesi di un eccilatorio di giovanissimi capaci di sostituire il
semato dei vecchi, ormai da abolire. Al suo posto un consi glio
tecnico andrebbe sollecitato e stimolato da gio vani sotto i trent'anni,
a moto continuo Si parla poi di un proletariato dei geniali,
quello degli artisti d’Italia, più o meno a nascosti od esclusi ,
che andrebbero favoriti o promossi da iniziative pub. bliche atte
all'aiuto della loro espressione. L'origine della proposta da parte di
una mente d'artista ri. sulta evidente. Marinetti è definito, al caso,
ardito della poesia. La definizione è sempre di Settimeth, che
sostiene inoltre Marinetti sia uscito dal Con gresso in trinonmio con
Mussolini e D'Annunzio. quello del dopo Fiume : un'alleanza politica mei
fino ad allora verificatasi. Ed è ancora Settimelli, a questo proposito,
a inneggiare ai due personaggi (Marinetti e Mussolini) in un suo scritto,
già pubblicato su I nemici d'Italia # 4 set tembre 1919. Lo riportiamo
perché ci sembra significa tivo di un legame e di un rapporto. Non è vero
che l'arte debba essere estranea alla politica, vi si sostiene.
Anzi, è proprio l'artista a darle una sua interpretazione od un suo
connotato, un suo travestimento , od usa sua immagine fanto più nuova,
quanto più ardimentose ed ardita. Mussolini è stato capace di recepirlo,
e il fascismo è un fenomeno nuovo praprin per questo, e
d'avanguardia. La tesi di Settimelli è tipica del futurismo delle
origini o classica di un momento rivoluzionario, 0 di rinnovamento. Ma
anche Armando Mazza pubblica un fondo il 30 Ottobre dello stesso anno
sulla medesima testata (I nemici d'Italia). L'articolo non è firmato, ma è
inserito sotto il titolo a quattro colonne: Fascisti, a noi!, con un
commento alle prospettive elettorali, un trafiletto in commemorazione della
vittoria nella’ ricorrenza annuale, e una colonna intestata: Ciò
che ci divide. Vi si spiegano 1 motivi di disaccordo e distacco da tutte
le altre forze politiche, quelle ew-neu traliste e quelle del
passatisma MUSSOLINI E IL FASCISMO Pensare col proprio cervello
originale, liberare completamente il proprio temperamento, essere gli
annunciatori e i fondatori di una nuova mentalità: sofferenza di tutti
i momenti. Mantenere la provria posizione di avanguardia, è
cosa da giganti. Parteciparvi per qualche tempo è da tutti. À
un certo momento rimani quasi solo: la gran parte degli amici si arrende,
brutta e spregevole nella sua viltà mascherata di scetticismo, oppure non
crede più, sopraffatta dalla vecchia e comoda mentalità. Disertano,
perdono ogni ritegno, ti attaccano. Si vendicano di averli resi sia pure per un anno intelligenti, credono di
poter menomare la saldezza del tuo accizio, ti fanno recedere con i loro
atteggiamenti di commendatoria superiorità: cafoni addomesticati, provinciali
inguaribili. Vivi in un ambiente pericoloso e stancante perché
senti che è creato per l’altra gente 1 mediocre, podagrosa. Ti urti
della continua ostilità. Ti trovi dinanzi ad un avversario senza
spirito, monotono, insistente. Un avversario indegno che ha la
bruttezza goffa del rinoceronte e il rompiscatolismo della zanzara.
Hai delle donne. Tentano di tutto per convincerle a rinsavire e ti
denigrano in mille modi cercando di portarle a qualche mediocre ronzino o
a qualche nobilissimo eunuco lucroso 0 decorativo. Lavori. Il
tuo lavoro ba sempre qualche parte che esorbita. Mai delle amicizie, ti
seguono fino ad nn certo punto. Non possono capirti a fondo.
Sei fatto per un mondo di eroismo, di forza, di bellezza, di temerità. Le
tue grandi ali t’impediscono di camminare come il gabbiano di Baudelaire. (eTe) Tutto
questo è atroce, ma di colpo una vittoria ti ripaga di tutto. Aver
avuto ragione, aver visto lontano, aver costruito un nuovo pezzo della
vita, sia pure un piccolo pezzo, avere anche per un attimo e per un millimetro
contribuito allo allargamento del mondo ti fa vibrare per la gioia dei
vertici. Oggi ho questa gioia e la divido con quei pochi che da
dieci anni lavorano con me alla formazione di un ambiente intellettuale
italiano libero dai professori, dai tradi. zionali, dai gottosi (non
alludo ai seguaci del romanziere Salvator!). E Ia nostra
gioia diviene frenetica quando constatiamo che da un'altra parte, dalla
politica ci veniva incontro un uomo formidabile, nuovo come noi, libero
come noi. E' la gioia dei minatori che s'incontrano finalmente dopo
aver forata la montagna. Un evviva , una manata di terra sulle
facce ebbre, sopra i sudori riganti e una stretia di mano che è una prova
del cuore e dei garretti. Mentre con Marinetti e con gli altri
amici lavoravamo il campo artistico, dall'altro si muoveva Mussolini
lavorando il campo politico. Ci dovevamo incontrare. Un gigante questo
magnifico Mussolini! Con la forza ma anche col peso di un grande ingegno,
di un'anima vasta, di un temperamento spaccafore, figlio di un fabbro
ferraio si tira su a suon di muscoli, di ingegno e di fegato. Supera
la più massacrante battaglia: quella contro la miseria, quella che
non potrà mai esser capita da chi non l’ha provata. Chi è nato ricco non
potrà mai essere completamente dentro la realtà e non avrà mai il collaudo
delle sue energie. Domina le folle, organizza, sbaraglia Turati, Treves,
Raimondo. Galvanizza il partito socialista. Scoppia la guerra, capisce
che la neutralità sarebbe contro il socialismo € per il medioevo
autocratico. Tenta di persuadere. I mediocri ne approfittano per
liberarsi della sua grandezza. Si forma la imbecillocrazia dell’Avanzi!
Mussolini lascia il partito che rimane acefalo e si divincola in
movimenti balordi e vili. Intanto i piedi ridono soddisfatti per essersi
liberati della testa. Nasce così il Popolo d'Italia. Il primo
quotidiano veramente moderno e veramente italiano. Un ritrovo di
energie vive, spregiudicate, temerarie. Il lievito di questo buon pane
italiano nato dalla guerra. In esso tutti i vivi si incontrano:
Futurismo, Arditismo, D'Annunzio. E' una punta sensibile e perforante, è
l'effervescenza della grande coppia italica, è il primo nucleo per una
Italia nuova. Ma il quotidiano non basta a Mussolini. Uomo d'azione ha
bisogno di concretare, vuol raccogliere ciò che semina giornalmente. Nasce il
fascismo. Fenomeno degno della più grande ammirazione e del più
appassionante esame. Più che un partito è una mentalità. Non si basa
sulla promessa di un certo paradiso futuro, si muove
problematicamente passo per passo alternando transigenza a
intransigenza, idealismo a realtà, arte a pratica concreta. Gli avversari
del Fascismo sono le vecchie anime che marciano solo dietro
promesse iperboliche e utopistiche, che scambiano incoerenza con duttilità, che
non vivono dentro la vita vera e vibrante, ma fra gli schemi arrugginiti
di una mentalità libera. Il Fascismo raccoglie gli italiani più
intelligenti e più moderni con la sua ferrea ossatura di concretamento
fasciato da una atmosfera di sensibilità, di cordialità idealistica, di
eleganza e di colore. Rende possibile la politica anche per i
temperamenti più contrari ad essa. Per esempio gli artisti e gli ironici.
L'Italia abbonda di artisti e di ironici, anzi essi formano la sua parte
migliore, intellettual. mente. Mussolini ha avuto il grande
pregio di creare un’atmosfera politica che non ripugna a questi scelti, a
questi migliori. L'intelligenza disinteressata si allontana dalla
politica quando essa s'imperna sulla falsa promessa di un paradiso
certo, sul settarismo, sulla gretteria animale. Si sta preparando
in Italia quella rinascita totale, basata sull’arte che tra le più feroci
ironie e gli scetticismi più assoluti amnnunciai nella Inchiesta sulla
vita italiana. SETTIMELLI (da: 1 nemici d'Italia, Milano, SOGNO UN
GOVERNO DI TECNICI, ECCITATO DA UN'ASSEMBLEA Cari Fascisti! Cari Arditi!
V'invito ad acclamare un valoroso fascista assente, che sarebbe qui con
noi se il Governo anti-italiano di Nitti non l’avesse condannato a tre
mesi di fortezza C., (Grida unanimi di: Viva Mario Carli! e
applausi). Il futurista Mario Carli è sfuggito alla polizia di Albricci e
gode l'atmosfera igienica di Fiume italiana. Ha brillato così una volta
di più l'elasticità veramente futurista di questo poeta che sa tutti i viaggi
più pericolosi dello spirito, le esplorazioni più sottili della
psicologia, i razzi più colorati ed anche la strategia delle strade
in tumulto e il governo delle assemblee popolari. A Mario Carli,
poeta delle Notti filtrate, si deve la fondazione del Fascio di
combattimento romano, e, insieme con Settimelli, del Partito politico
futurista, e del giornale Rome futurista. Egli capeggiò tutte le
dimostrazioni violente per Fiume italiana, per la Dalmazia italiana e per
la difesa della vittoria, contro il bolscevismo rosso e nero,
rinunciatario e nittiano. V'invito a gridare ancora: Viva il futurista Mario
Carli! (Quazione, applausi). Lo svaticanamento. Io approvo
incondizionatamente, in nome del futuri smo e dei futuristi italiani,
tutto il programma dei Fasci di combattimento, che vi è stato esposto dal
mio amico Fabbri. Trovo però in questo programma delle lacune
gravi, sulle quali richiamo tutta la vostra attenzione. Fascisti!
Non c'è maggior pericolo, per l’Italia, del pericolo nero. Il popolo italiano,
che ha saputo osare, volere e compiere l’immane sforzo eroico e vittorioso
della grande guerra, decidendo, con la sua vittoria, la vittoria del
futurismo elastico, geniale, sul passatismo teutonico, cubico e
professorale, fallirebbe alla sua missione se non sapesse energicamente
liberare la bella penisola, agile e palpitante di vita, dalla lue mortale
del papato. Noi dobbiamo domandare, volere, imporre, l'espulsione del
papato, o meglio ancora, per usare una espressione più precisa, lo
svaticanamento . (Applausi, ovazione)
L'Eccitatorio. Continuando nell'analisi del Programma dei Fasci di
combattimento, trovo l'abolizione del Senato, al quale si sostituirebbe
un Consiglio nazionale tecnico. Ebbene: io vi dichiaro che il concetto di
tecnicità è importantissimo, ma non basta. Il Senato rappresenta nella
storia dei popoli un costante ossequio alla saggezza dei vecchi, chiamati
intorno al potere per frenarlo, maturarne i propositi, dirigerne le
decisioni. La concezione del Senato, simile a quella del coro nella
tragedia greca, ha singolarmente appesantito, imbrogliato, buroctatizzato
e ritardato il progresso spirituale e materiale delle razze. I legislatori
hanno sempre sognato di frenare il potere del Governo. Essi ignoravano dunque
che potere significa frenare. Essi ignaravano che un Governo è sempre più o
meno un carabiniere. Nulla di più assurdo che il porre un carabiniere a
sorvegliarne un altro. Mettiamo: gli al fianco, piuttosto, un sovversivo,
un rivoltoso, un eccitante. Ed ecco nata la concezione dell’Eccitatorio,
organo animatore, semplificatore e acceleratore, che in una razza come la
nostta, piena di precoci geniali, sarà Ja miglior difesa della gioventù e la
migliore garanzia del progresso e di alta spiritualità. Io sogno in Italia un
Governo di tecnici eccitato da un’assemblea di giovanissimi, al posto
dell’attuale Parlamento di oratori incompetenti € di dotti invalidi, che
si fa moderare da un Senato di moribondi. Il Consiglio tecnico che
rimpiazzerà il Senato dovrà dunque essere composto di giovanissimi, non
ancora trentenni. Insisto su ciò, poiché in Italia si usa invitare i giovani al
potere e si considera poi virile e giovanissimo un uomo di 55 anni.
Salandra grida: Avanti i giovani! Ma tutti con lui temono i giovani,
mettono in quarantena un quarantenne come un coleroso, un cinquantenne
come un dinamitardo, e considerano un sessantenne come un audace quasi
maturo per il governo d’Italia! Occorre un Eccitatorio di giovanissimi, per
evitare un Consiglio tecnico di vecchi, che dopo aver tenuto inutilizzato
per molto rempo il loro ingegno tecnico non sanno più che tecnicamente
morire. La vita italiana si riduce ancora ad una convivenza
cretina di quadri d'antenati senza autorità e senza prestigio, che spandono
intorno, in una penombra tediosa, pessimisino, pedantismo, austerità
professorale, verbalismo patriottico e polvere di Roma antica, e in mezzo ai
quali si aggira sporca, taccagna, provinciale, brindellona, la servaccia
che fa tutto male, tiene malissimo la casa, non vuo! migliorare nulla,
perde la giornata a verificare i conti di cucina, ha sempre paura di spendere e
di rovinarsi, ed è tronfia perché sa fare una minestra non troppo salata
che costa poco. T quadri d’antenati si chiamano Boselli e Salandra:
la servaccia si chiama Giolitti o Nitti. (Quazione) Contro i
quadri d'antenati e la servaccia, poi propo siamo un eccitatorio di
studenti e di Arditi futuristi. Arditismo. Scuole di coraggio
fisico e patriottismo. Una terza lacuna io trovo nel programma dei
Fasci di combattimento, e riguarda la scuola. L'amico futuri sta
Fabbri ha precisato genialmente la grande e necessa ria riforma completa
della scuola. To credo petò che tutto si potrebbe ottenere, e forse
anche un al di là meraviglioso che superi il tutto sogna. ta, mediante
un'imposizione assolutamente ferrea, dirò meglio feroce, della ginnastica
nelle scuole. Si deve giungere anche presto, oltre che a tutte le
forme d'insegnamento pratico e tecnico, nelle officine e nei campi, alle
scuole viaggianti, 0, per meglio dire, viaggi d'istruzione, e a dei veri
corsi o scuole di coraggio fisico e di patriottismo. Bisogna ogni
giorno, nella giocondità di una vita all'aria aperta, con un predominio
assoluto del giuoco sulla lettura, parlare dell'Italia divina ai ragazzi
italiani, insegnare loro, accanitamente, il coraggio fisico e il disprezzo del
pericolo, e premiare dovunque l'audacia temeraria e l'eroismo.
Le scuole di coraggio fisico e di patriottismo devono rimpiazzare
nelle scuole gli oramai preistorici e troglodi. tici corsi di greco e di
latino. Noi futuristi siamo convinti di preparare così quel
tipo di cittadino eroico che saprà difendersi da sè, veramente capace di libero
pensiero e di libero cazzotto, e che renderà assolutamente inutile
l'esistenza delle polizie, delle questure. dei carabinieri e dei
preti. Ferruccio Vecchi. Il mio amico futurista Mario Carli, capitano
degli Arditi, e il capitano Vecchi, capi dell'Associazione degli Arditi, hanno
sentito come me, nascere dal futurismo e dalla guerra, l'Arditiswo, nuova
sensibilità di patriottismo eroico e rivoluzionario. ]l giornale L'Ardito,
diretto dal capitano Vecchi, il celebre sfasciatore dell’Avanti! è
un forte giornale che si deve consigliare ai giovani italiani.
{Qvazioni) Verrà forse un giorno in cui avremo in Italia
quelle scuole di pericoli che io proponevo dieci anni fa nei primi
manifesti futuristi e che furopo realizzate durante la guerra nelle
esercitazioni quotidiane degli Arditi (avanzata carponi sotto un tiro radente
di mitragliatrici; aspettare senza chiudere gli occhi il passaggio radente di
una trave sospesa sulla testa, ecc.). Il proletariato der geniali
Ed ora voglio colmare un'altra lacuna dei programma, parlandovi del solo
proletariato veramente dimenticato ed oppresso: l'importantissimo proletariato
dei geniali. È indiscutibile che Ia nostra razza supera tutte Je razze per
il numero stragrande di geniali che produce. Nel più piccolo nucleo
italiano, nel più piccolo villaggio, vi sono sempre sette, otto giovani
ventenni che, fremono d’ansia creatrice, pieni di un orgoglio ambizioso
che si manifesta in volumi inediti di versi e in scoppi di eloquenza
sulle piazze, nei comizi politici. Alcuni sono dei veri illusi, ma sono
pochi. Non potrebbero giungere al vero ingegno. Sono però sempre dei
temperamenti a fondo geniale, cioè suscettibili di sviluppo e utilizzabili
per accrescere l’intellettualità geniale di un paese. Il movimento
artistico futurista, da noi iniziato 11 anni fa, aveva precisamente per
scopo di svecchiare brutalmente l'ambiente artistico-letterario, esautorarne e
distruggerne la gerontocrazia, svalutare i criteri e i professori pedanti,
incoraggiare tutti gli slanci temerari dell’ingegno giovanile, per preparare una
atmosfera veramente ossigenata di salute, incoraggiamento ed aiuto a
tutti i giovani geniali d'Italia. Incoraggiarli tutti,
centuplicarne l'orgoglio, aprire davanti a loro tutti i varchi,
diminuire al più presto, così, il numero dei geniali italiani
falliti e stroncati. Il futurismo radunò molti di questi giovani
geniali. Fra di loro, nella vampa futurista, ingigantirono e brilla
rono: Boccioni, Russolo, Buzzi, Balla, Mazza, Sant'Elia, Pratella, Folgore,
Cangiullo, Mario Carli, Funi, Sironi, Chiti, Jannelli, Nannetti,
Cantarelli, Rosai, Baldassari, Galli, Depero, Dudreville, Primo Conti, i
geniali creatori del Teatro Sintetico: Bruno Corra e Settimelli, e i
valorosi scrittori futuristi di Roma futurista, Rocca, Bottai, Federico
Pinna, Volt e Rolzon, altissima bandiera d'’italianità in America.
Con meravigliosa elasticità passando dall'arte all’azione politica,
questi giovani furono con me dovunque nelle nostre primissime dimostrazioni
contro l’Austria durante la battaglia della Marna, in prigione per
interventismo e sui campi di battaglia. Propongo che in ogni città
siano costtuiti dei palazzi che avranno una denominazione sul genere di
questa: Mostra libera dell'ingegno creatore. Tn tali palazzi: Verrà
esposta per un mese un’opera di pittura, scultura, plastica in genere,
disegni di architettura, disegni di macchine, progetti di
invenzioni. Verrà eseguita un’opera musicale, piccola o grande,
orchestrale o pianistica di qualsiasi genere, di qual: siasi forma, di
qualsiasi dimensione. Verranno letti, esposti, declamati poemi,
prose, scritti di scienza di ogni genere, d'ogni forma, d'ogni
dimensione. Tutti i cittadini avranno diritto di esporre gratuitamente.
Le opere di qualsiasi genere o valore apparente anche se apparentemente
giudicate assurde, cretine, pazze, immorali, saranno esposte o lette
senza giuria. Con queste mostre libere e gratuite del genio
creatore, noi futuristi ci opponiamo a un pericolo gravissimo: quel
lo di vedere nella marea delle ideologie che rissano intorne alle formole del
comunismo e della dittatura del prolerariato, il naufragio dello
spirito. Difendiamo il cervello! Vi sono fenomeni dovuti alla
stanchezza prodotta dal la guerra, alla manîa plagiaria, alla miopia
provinciale, alla verbosità giornalistica e alla vigliaccheria
conservatrice. Si tenta dovunque di divinizzare il lavoratore manuale
e d'innalzarlo al di sopra del lavoratore intellettuale, No,
italiani: il futurismo politico si opporrà accanita. mente ad ogni
volontà di livellamento. Tutto, tutto sia concesso al proletariato
manuale, salvo il sacrificio dello spirito, del genio, della gran luce
che guida. Alle classi oppresse, ai lavoratori che stentano, sia
sacrificata tutta la plutocrazia parassitaria del mondo. Voi
fascisti interventisti sapete che la nostra grande guerra rivoluzionaria
è stata osata, voluta, imposta e tenacemente portata alla vittoria finale da
una minoranza di intellettuali. Erano i migliori, i meno tradizionali,
i più futuristi. Mentre tutto il popolo era ancora immerso nella
quiete pacifista, essi videro la necessità di guerra, si separarono
brutalmente da altri intellettuali, da quelli che dello spirito altro non
hanno che le qualità negative, pedantesche, culturali, reazionatie,
quietiste. Contro e so: pra il piombo del vecchio intelletrualismo
professorale e vigliacco dei Benedetto Croce e dei Barzellotti, contro
l’intellettualismo cavilloso e avvocatesco dei Treves e dei Turati, si
scagliarono gli spiriti veramente puri, lirici e creatori, per segnare la via da
seguire. Fra questi, Gabriele D'Annunzio, che volò su Vienna
e regalò Fiume all'Italia. Fra questi Benito Mussolini, il grande
Fututista italiano, che impavido nel campo trincerato del suo Popolo d’Italia
ha difeso alle spalle noi combattenti al fronte contro le ondate dei nemici
interni, portando le città italiane dal lurido episodio di Caporetto alla
storia ideale di Vittorio Veneto (Applausi). Gli artisti faranno
finalmente del governo un’arie disinteressata, al posto di quello che è ora,
cioè una pedantesca scienza del furto e della vigliaccheria. eri Io
credo che le istituzioni parlamentari siano fatalmenre destinate a perire.
Credo anche che la politica italiana sia destinata a un inevitabile
fallimento, se non si nutrirà di questa forza viva: gl’ingegneri creatori
d’Italia, sbarazzandosi di queste due malattie italiane: l'avvocato e il
professore. Genio creatore, elasticità artistica, praticità
sintetica, velocità improvvisatrice ed entusiasmo fulmineo: ecco le
belle forze che spiegano la vittoria del 15 giugno sul Piave e quella di
Vittorio Veneto (Applausi). Artisticamente improvvisando tutto, e
con genio creatore, la mia bella autoblindata dell'ottava Squadriglia al
comando del capitano Raby guadava come una torpediniera i torrenti gontiati.
Poi si slanciava giù dalle monta. gne carniche col tuffo frenetico
fulmineo di un pugnale d'Ardito nella smisurata pancia idropica
dell'esercito austriaco disfatto, e schizzava fuori dalla schiera contro
Vienna. Artisticamente, il genio creatore di D'Annunzio conquistò
Fiume italiana. In Fiume italiana, io provai recentemente il più
acuto spasimo di guida della mia vita, nel gualcire un pacco di corone
austriache deprezzate a pochi centesimi dalla nostra vittoria. Gioia
forsennata di stritolare così finalmente il cuore finanziario, militare,
passatista del nemico ereditario, fra le mie mani ancora frementi della
vibrazione della mia mitragliatrice di Vittorio Veneto!
(Ovazione). MARINETTI [da: L’Ardito, MARINETTI MARIO
CARLI MINO SOMENZI SECONDO FUTURISMO E FASCISMO-REGIME ll 1923 è un po'
l'anno di apertura del futurismo dopo la ritirata e il distacco dal fascismo
del II Congresso di Milano al nascente fascismo-regime (secondo la
definizione di De Felice), quello dell’assestamento o dell'e ordine (che si
consoliderà il 3 gen naio 1925). Marinetti si accosta in un certo senso
al nuovo governo con una richiesta in forma di mani festo al
Governo Fascista del 1° maggio 1923. Col manifesto e con
l'affermazione di un certo qual futurismo mussoliniano , 0 nel
sottolineare la realizzazione di un programma minimo futurista da par te
del fascismo, Marinetti cerca di porsi in buona luce e di far accettare
le sue proposte al governo fascista. ll programma fu in linea di massima
approvato da Mussolini. Quel Mussolini che comincerà a venir illustrato e
celebrato anche dai futuristi, forse molte volte in buona fede per
l'effettiva sua vicinanza alle tesi ed al dinamismo tipico di Marinetti e
delle sue teorie. Tuttavia Mario Carli nel '26 pubblica nel suo li
bro Fascisma intransigente wn articolo a suo tempo se questrato e che
risuona echi di sinistri miraggi . S'intitola Natale senza luce e si riferisce
probabilmente al Natale del ‘21, dopo l'impresa di Fiume cui Carli
aveva ben ardentemente partecipato: si augurava inutilmente C. che
l'impresa di Mussolini (la marcia su Roma) continuasse quella breve
esplosione innovatrice della nuova Italia della Vittoria (la marcia su
Ronchi). Ma le vecchie pance e le vecchie barbe tengono invece il
canzpo della vita nazionale e la manovra parla mentare domina ancora
tutto il congegno di governo . Marinetti sul numero 9 del 2-11-1932 del
nuovo Futurismo, esprime aminirazione ed esalta lo spirito rivoluzionario
della Mostra nel decennale della Rivoluzione (svoltasi a Roma). Intitola
Varticolo Stile futurista e vuole commemorare in certo senso uno stile
degli anni d'oro dello spirito interventista e rivaluzionario da
cui è nato il fascismo, quello così detta antemarcia. Sul terzo numero di
SunWElia, che è secondo titolo di Futurismo, generoso tuttavia di
perticolare spazio cd attenzione at problemi dell'architettura, Mino
Somenzi intitola un suo pezzo a IT Duce e il futurismo, e vi sostiene la
necessità di Mussolini, come capo del governo, di non essere né
futurista né passatista. Per il superiore equilibrio sulle parti che la
sua posizione richiede. Tuttavia le simpatie di Mussolini non possono non
andare ai futuristi, dice Somenzi, quali novatori e sostenitori dell'arte
d'avanguardia italiana. In questo sensa i futuristi non possono non
guardure a lui come ad un appoggio e ad un sostegno, come del resto egli
medesima più volte si è dimostrato. E qui forse, in questa tesi, vediamo tutta
la posizione ed il carattere del secondo futurismo . Ancora sulla
stessa testata del 4 aprile ’34, n. 64. un grande intervento centrale di
prima pagina su Ventitre marzo futurfascista, mette in rilievo i caratteri
comuni di futurismo e fascismo, anche quelli per cui molti fascisti non
st identificano con i futuristi ed anzi simmedesimano nel loro contrario
essendo dei rimorchiati che non hanno assorbito lo spirito diciannovi sta
e rivoluzionario delle origini . I DIRITTI ARTISTICI PROPUGNATI DAI
FUTURISTI ITALIANI Manifesto al governo fascista Mio caro
Marinetti, approvo cordialmente la tuu iniziativa per la costituzione di
una Banca di Credito specialmente per gli Artisti. Credo che saprai
sormontare gli eventuali ostacoli dei soliti misoneisti. Ad ogni modo
questa lettera può servirti di viatico. Ciao, con
amicizia, MUSSOLINI Vittorio Veneto e l’avvento del Fascismo al
potere costituiscono la realizzazione del programma minimo futurista lanciato
(con un programma massimo non ancora raggiunto) 14 anni or sono da un gruppo di
giovani audaci che si opposero con argomenti persuasivi all'intera
Nazione avvilita da un senilismo e da un mediocrismo paurosi dello
straniero. Questo programma minimo propugnava l’orgoglio italiano,
la fiducia illimitata nell’avvenire degli italiani, la distruzione dell'impero
austroungarico, l’eroismo quotidiano, l’amore del pericolo, la violenza
riabilitata come argomento decisivo, la glorificazione della guerra sola
igiene del mondo, la religione della velocità, della novità, dell’ottimismo e
dell’originalità, l'avvento dei giovani al potere contro lo spirito
parlamentare, burocratico, accademico e pessimista. La nostra influenza in
Italia e nel mondo è stata ed è enorme. Il Futurismo italiano,
tipicamente patriottico, che ha generato innumerevoli futurismi esteri,
non ha nulla a che fare coi loro atteggiamenti politici, come quello
bolscevico del Futurismo russo divenuto arte di Stato. Il Futurismo
è un movimento schiettamente artistico e ideologico. Interviene nelle
lotte politiche soltanto nelle ore di grave pericolo per la
Nazione. Fummo primi fra i primi interventisti; in carcere
per interventismo a Milano durante la Battaglia della Marna; in
carcere con Mussolini nel 1919 a Milano per attentato fascista alla
sicurezza dello Stato e organizzazione di bande armate.Abbiamo creato le
prime associazioni degli Arditi e molti tra i primi Fasci di
combattimento. Divinatori e lontani preparatori della grande Italia
di oggi. Noi futuristi siamo lieti di salutare nel non ancora
quarantenne Presidente del Consiglio un meraviglioso remperamento
futurista. Da futurista, Mussolini ha parlato così ai giornalisti
esteri: Noi siamo un popolo giovane che vuole e deve crea re e
rifiuta d'essere un Sindacato di albergatori e di quardiani di museo. Il nostro
passato artistico è ammirevole. Ma, quanto a me, sarò entrato tutt'al più
due volte in un MIUSCO. Recentemente Mussolini ha pronunciato questo
discorso tipicamente futurista: Il Governo che ho l'onore di
presiedere è Governo di velocità, nel senso che noi abbreviamo tutto ciò
che significa ristagno nella vita nazionale. Una volta la burocrazia si
addormentava sulle pratiche emarginate. Oggi tutto deve procedere con la
massima rapidità. Se tutti procederemo con questo ritmo di forza e di volontà e
di allegrezza, supereremo la crisi, la quale, del resto, è già in parte
superata. lo sono lieto di vedere il risveglio anche di questa Roma che
offre lo spettacolo di officine come questa. lo atfermo che Roma può
diventare centro industriale. 1 romani devono essere i primi a disdegnare
di vivere soltanto sulle loro memorie. Il Colosseo, il Foro romano
sono glorie del passato: ma noi dobbiamo costruire le glorie del presente e del
domani Noi siamo la generazione dei costruttori che col lavoro e con la disciplina
del braccio e intellettuale vogliono raggiungere il punto estremo, la
meta agognata della grandezza della Nazione di domani, la quale sarà la
Nazione di tutti i produttori e non dei parassiti . Con Mussolini il
Fascismo ha ringiovanito l'Italia. Spetta a Lui l'aiutarci nel
rinnovamento dell’ambiente artistico ove permangono uomini e cose
nefaste. La rivoluzione politica deve sostenere la
rivoluzione artistica, cioè il futurismo e tutte le
avanguardie. DOMANDIAMO: DIFESA DEI GIOVANI ARTISTI ITALIANI
NOVATORI in tutte le manifestazioni artistiche promosse dallo Stato, dai Comuni
e private. Esempi: Alla Biennale di Venezia furono invitati avanguardisti e
futuristi stranieri {Archipenko, Kokoschka, Campendonk), mentre non furono mai
invitati i futuristi italiani (creatori di tutti i futurismi). Bisogna
sradicare questa ignobile antitalianità sistematica! c) Al Teatro
della Scala {che ha la funzione di rivelare, glorificandoli, i nuovi musicisti
italiani) si danno ogni anno due opere di Wagner e nessuna (o quasi
nessuna) di giovani italiani. Si preferiscono cantanti stranieri
inferiori ai nostri, Bisogna sradicare questa ignobile antitalianità
sistematica! Il Teatro di Siracusa non può essere riservato alla
gloria dei classici greci! Domandiamo che, alternativamente alle
rappresentazioni delle opere classiche, si svolga un concorso per un dramma
moderno pittoresco adatto all'aria aperta di un giovane siciliano da
premiarsi e incoronarsi solennemente nel teatro stesso. (Proposte Marinetti,
Prampolini, Jannelli, Nicastro, Carrozza, Russolo, Mario Carli, Depero,
Cangiullo, Giuseppe Steiner, Volt, Somenzi, Azari, Matasco, Dottori,
Pannaggi, Tato, Caviglioni, Paladini Raciti, Mario Shrapnel, Raimondi, G. Etna,
Sportino-Bona, Cimino, Soggetti, Rognoni, Masnata, Mortari, Piero
Illari, Rizzo, Soldi, Leskovic, Buzzi, Casavola, Clerici, Caprile,
Scirocco), ISTITUTI DI CREDITO ARTISTICO ad esclusivo beneficio degli
artisti creatori italiani. Come si aprono delle Banche di credito a
favore delia industria e del commercio, similmente si dovranno
creare appositi Istituti che sovvenzionino manifestazioni artistiche
o Istituti d'arte industriale o anticipino denaro agli artisti per il
loro lavoro (manoscritti, quadri, statue, ecc.) i loto viaggi di
isttuzione o di propaganda. Tali Istituti di credito potranno avere
carattere privato (Società anonime per azioni) o governativo (enti e
fondazioni). Nel primo caso la nascita di tale Istituto è legata alla
maggiore o minore buona volontà e mumero degli aderenti. Nel secondo caso
il capitale necessario satebbe sicuramente e prontamente realizzabile solo che
lo Stato decretasse un'imposta od una ritenuta anche minima, ma
estesissima, sui redditi di guerra, sui patrimoni, ecc., o mediante una
sottoscrizione nazionale ad iniziativa statale. L'Istituto agirebbe
poi come una Banca per gli artisti, accetterebbe depositi di opere
d'arte, e in base alla valutazione reale darebbe sovvenzioni od aprirebbe
crediti. L’opera d’arte giacente costituirebbe un deposito
fruttifero per il depositante e per l’Istituto stesso che promuoverebbe
iniziative artistiche, vendite, ecc. Così l'artista e l'opera d’arte
sarebbero valorizzati. Questi Istituti potrebbero intraprendere
concessioni di mutui a favore d’'industrie artistiche e ottenere l’uso
di palazzi per adibirli ad abitazioni di artisti, d’istituzioni
artistiche od aprirvi periodiche mostre. (Proposta Prampolini, Marinetti,
Russolo, Cangiullo, Depero, Settimelli, Mario Carli, Buzzi,
Matasco). DIFESA DELL’ITALIANITÀ. Italianizzazione obbligatoria
immediata degli alberghi (tutte le diciture, insegne, liste delle vivande,
conti, ecc., in lingua italiana), dei negozi e della corrispondenza
commerciale. Mezzi automatici per propagare la lingua italiana senza
spese. (Proposta Marinetti, Russolo, Buzzi, Folgore, Mario Carli,
Settimelli, Depero, Cangiullo, Somenzi, Marasco, Rognoni. Italianizzazione
della nuova architettura contro l'uso sistematico di plagiare le
architetture straniere. Cominciare questa italianizzazione in tutti gli
edifici statali, specialmente nei paesi redenti. (Proposte Virgilio Marchi,
Depeto, Russolo, Buzzi, Somenzi, Azari, Marasco, Prampolini, Folgore,
Volt. Italianizzazione obbligatoria delle edizioni e dei caratteri tipografici.
Proposta Frassinelli, Rampa-Rossi. ABOLIZIONE DELLE ACCADEMIE, Istituti
di Atte e Scuole professionali. Gl’attuali sistemi d'insegnamento nan
corrispondono alle esigenze estetiche dell'evoluzione dell’arte attraverso
i tempi. L'arte non si insegna. Gli attuali diplomati non sono né
tecnici competenti né artisti. Abolizione delle Accademie di Belle
Arti e Professionali senz’altre sostituzioni. (Proposta Marasco).
PROPAGANDA ARTISTICA ITALIANA ALL'ESTERO mediante un Istituto Nazionale di
propaganda artistica all’estero che tuteli glì interessi artistici ed economici
degli artisti italiani. Questo Istituto dovrà essere diretto da
giovani artisti stimati all’estero e che propugnino con italianità il
genio novatore italiano Avrà commissioni permanenti riguarda ti le
varie arti e uffici di corrispondenza nei principali centri artistici
esteri. Agirà mediante conferenze, concerti, esposizioni e pubblicazioni
periodiche di propaganda. (Proposta Prampolini, Russolo, Buzzi, Volt, Marasco). CONCORSI
LIBERI D'ARTE. Utilizzare una parte del denaro che lo Stato
spende attualmente per l'arte in concorsi di poesia, plastica,
architettura, musica, riservati ai giovani non ancora venticinquenni, da
premiarsi mediante un referendum popolare. (Proposta Balla, Marinetti,
Marasco). AFFIDARE L'ORGANIZZAZIONE DELLE FE. STE NAZIONALI E
COMUNALI (cortei, gare sportive, ecc.) ai gruppi d’artisti d'avanguardia
italiani, i quali hanno ormai provato in modo incontestabile la loro
genialità innovatrice, fonte di quell’ottimismo che è indispensabile alla
salute della Patria. (Proposta Depero, Azari, Marinetti, Marasco).
AGEVOLAZIONI AGLI ARTISTI. Riconoscimento legale da parte del Governo
dei diritti d'autore per gli artisti delle arti plastiche, sul maggior
prezzo raggiunto dalle opere loro, attraverso le vendite successive, mediante
una istituzione simile alla Società degli Autori . Abolizione delle
tariffe doganali internazionali sia riguardo le importazioni che le
esportazioni delle opere d’arte moderna. (Proposta Prampolini, Depero,
Azari, Marasco, Marinetti, Volt). CONSIGLI TECNICI CONSULTIVI formati
da artisti ed eletti fra artisti con una rappresentanza proporzionale
delle tendenze d'avanguardia. Questi Consigli Tecnici consultivi avranno lo
scopo di tutelare gl’interessi degli artisti nei rapporti con le istituzioni
statali, comunali, private e gli artisti stessi. {Proposta Prampolini,
Marasco, Marinetti, Volt) RAPPRESENTANZA PROPORZIONALE. Le
avanguardie artistiche italiane dovranno essere invitate a partecipare con una
rappresentanza proporzionale a tutte le manifestazioni e cariche
artistiche statali, comunali e private. (Proposta Prampolini, Marasco,
Marinetti, Volt). CONSORZIO INTERNAZIONALE per la tute. la degli
interessi artistici ed economici degli artisti d'avanguardia. Questo Consorzio
dovrebbe proporsi l’accentramento delle migliori istituzioni artistiche di
avanguardia, per la solidarietà, la difesa e la propaganda artistica
ed economica. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinetti, Volt). Per
la Direzione del Movimento Futurista e per tutti i Gruppi Futuristi
ltaliani MARINETTI NATALE SENZA LUCE
sequestrato). Chi fu legionario di Fiume non potrà mai dimenticare le
rosse giornate natalizie di quattro anni fa, con le quali si conchiudeva
tragicamente e desolatamente una breve ma non ingloriosa epopea. Il
ricordo ha poi un valore particolare per chi lo avvicini al pensiero
della situazione politica odierna, che ha qualche vaga analogia con
quella che segnò la fine di un generoso sforzo della nuova Italia.
Il sangue fraterno di quelle Cinque Giornate non è stato ben
vendicato. Pareva a molti di noi che la Marcia su Roma dovesse continuare
quella di Ronchi per dare alla nostra grande Patria una nuova fisionomia
di potenza e per vivificarla di un nuovo afflusso di giovinezza. Ma la spinta
rinnovatrice della generazione di Vittorio Veneto si è, ahimé, fiaccata nel
labirinto delle vecchie pance e vecchie barbe che tengono tuttora il
campo della vita nazionale. E sul tempo d’arresto che oggi fa
segnare il passo alle orgogliose avanguardie d'impero, la sagoma
immortale del cavalier Giolitti si profila
come quattro anni fa a rassicurare il mondo che l’Italia è ancora quella
mediocre, umile nazioncella di molte chiacchiere innacue ma di pochi fatti
pericolosi, e che agni tentativo di virilizzarsi e impennarsi in alati
eroismi, è destinato al più pietaso insuccesso. Sembra a ben
considerare i più recenti avvenimenti che il sogno di una politica più alta,
più rettilinea, più forte, sia una morbosa fantasia di cervelli malati;
e che una sola specie di politica sia possibile: quella che ha nome
Giolitti. Vale a dire: quella basata sull’intrigo, sul compromesso, sulla
pattuizione, sull’arte di farsi ricattare. La manovra parlamentare domina
ancora tutto il congegno di governo. E’ pacifico che non si governa coi
parlamenti, poiché essi sono l’antigoverno per eccellenza: ma è
altrettanto pacifico che questo popolo italiano rabbiosamente
ingovernabile non vuol rinunciare al suo bravo Parlamento, fonte di ogni
male, serbatoio di ogni decadenza. Contro questa massima cloaca
nazionale (parlo, s’intende, dell'Istituto, non degli uomini) il Fascismo è
andato a impantanarsi pazzescamente. Il Fascismo ha commesso questo gravissimo
errote iniziale: di non saltare a pié pari il Parlamento. Viceversa vi si
è sentito attratto, ha voluto saggiarne le delizie, ha voluto conquistare
questa quota a colpi di scheda mortificando la sua anima guerriera quando
avrebbe dovuto farla saltare a colpi di bomba. E certi errori sono troppo
gravi perché non si debbano scontare. Tuttavia, non si potrà
negare a noi irriducibili antiparlamentari, a noi rimasti fuori dell'aula per
volontà premeditata, e quindi immuni da interessi e da schiavitù
elettorali, it diritto di tener fede ai principi per quali s'iniziò la
battaglia, e soprattutto alla nostra accesa spiritualità di italiani #4ovi:
nuovi nella mente, nel temperamento, nell’educazione, nella passione. Anche se
tutto crollasse attorno a noi, e il nostro sogno trilustre, perseguita
con appassionata tensione di nervi e di cervello, dovesse ridursi in polvere di
macerie, noi non rinunzieremmo ad essere quelli che fummo e che siamo:
cittadini di una Patria più grande, più eroica, più possente, più
dominatrice. Mai non rinunceremo lo sappiano bene i nostri
nemici alla nostra sete d’impero, alla nostra fiamma di grandezza, che
odia la vita democratica, l’egualitarismo ipocrita, il pietismo
umanitario, l’eunuco calamento di brache. A noi conviene la formula maschia di
Silla, che per disciplinare la repubblica in dissoluzione e
prepararla all'impero, chiedeva tutti i poteri, il controllo sui
tribunali civili e militari, la giurisdizione eccezionale, la legisiazione di
gabinetto da sovrapporre a tutte le leggi anteriori, il diritto di battere
moneta, di convocare il popolo, di sospendere e punire i funzionari dello
Stato, e infine, di mettere fuori della legge i cattivi cittadini. A noi
piace infinitamente Ja salutare ferocia di questo Dittatore-modello, che,
mentre il Senato discute se conferirgli o no la potestà dittatoria, fa
giungere nell'aula il fiero ululato dei seimila prigionieri di Porta
Collina, sgozzati al suo segnale, e che incide sulla tabella i nomi dei
Senatori vetanti contro di lui, per ricordarsene a tempo e luogo.
Il Fascismo è venuto al potere più attraverso la spa da di Silla
che l’oratoria di Cicerone. Perché dimenticarsene? II Fascismo non ha nulla da
sperare da una sua politica di debolezza conciliatrice. I suoi nemici
lo vogliono polverizzato e disperso, e tale lo avranno se si
continuerà a ceder loro in ogni occasione. Dal 10 giugno in poi, si può
dire che l’Italia è stata governata dall'ombra dell’Aventino. Tutto questo è
contro natura, contro storia, contro giustizia. Non sono le ombre che
possano aver diritto al comando, bensì le energie luminose. Quando ci
scrolleremo di dosso tutte le ombre importune che ci soffocano come ali
di corvacci e di vampiri? Mario CARLI [da: Fascismo
intransigente, Bemporad, Firenze] Con la Mostra della Rivoluzione
si risolve finalmente, e in modo favorevole, il grave problema della
militarizzazione della fantasia creatrice mediante temi fissi da imporre agli
artisti. Molti fra i pittori, scultori e architetti, invitati a
realizzare questa Mostra grandiosa, furono indubbiamente turbati dal
prestigio di queste gloriose parole che dominano ormai nella nuova storia
d’Italia: interventismo, Vittorio Veneto, Mussolini, e Popolo d'Italia,
Diciannove, battaglia di via Mercanti e incendio dell’Avanti!, covo
di via Paolo da Cannobio, Casa Rossa, Lodi, Palazzo Accursio, Marcia su
Roma. Legati tradizionalmente ai noti motivi idilliaci cittadinì o rurali,
tramonti melanconici e ritratti statici, questi artisti sentirono subito la necessità
di capovolgere il loro spirito per disegnare nell'aria un tuffo perfetto
nel mare della novità. Da tempo il Futurismo italiano, con il
suo seguito di avanguardie estere più o meno originali, gridava per
insegnare l'invenzione a ogni costo. Quattro mesi fa il Duce, con la sua bella
parola imperiosa e veloce, ordinò che si evitasse il passatismo della
palandrana di Giolitti. Suggestionati poi dal dinamismo aggressivo
colorato e tragico della Rivoluzione, essi abbandonarono la loro
staticità e la classicità placida. Gli architetti incaricati di dare una
faccia nuova al vecchio e brutto Palazzo dell’Esposizione, sentirono
l’assurdità di qualsiasi decorativismo simbolico, floreale, mitologico o
grazioso. Le loro prime linee gettate sulla carta, rizzandosi ascensionalmente,
presero lo slancio aggressivo, guerriero e minaccioso di altissime torri di
acciaio o ciminiere naviganti. A me ricordano simpaticamente i geniali
fasci di ascensori dell'architettura di Antonio Sant'Elia, il grande e
compianto padre futurista dell’architettura moderna. Logicamente andò
determinandosi lo stile della Mostra per virtù della Rivoluzione e del
suo ritmo mobile aggressivo. Si ricorda l’intero profilo d’uno squadrista.
Un dettaglio basta. Di quell’autocarro schiacciato dal peso dei
fascisti come un tino stracarico di giganteschi grappoli neri io ricordo
soltanto il mosto rosso a terra e l’acutissimo odore di benzina. Quindi
sintesi, dinamismo e intersecazioni di piani. Visibilità aggressività
giocondità. Questa Mostra della Rivoluzione, che tutti gli
squadristi augurano non effimera ma duratura, stabilisce la gloria
del Fascismo con uno stile rivoluzionario italiano che ha avuto pet primi
maestri Sant'Elia e Boccioni. E’, secondo le parole di Rossoni dettemi
questa mattina, il trionfo dell’arte futurista. MARINETTI [du:
Fuiuriszo, Nel fervore della polemica pro e contro il Futurismo molti si
chiedono: come la pensa il Duce? A questo in terrogativo i nostri
avversari rispondono arbitrariamente come saremmo ugualmente arbitrari
noi volendo asserire l'opposto di ciò che loro affermano. Per la verità
il Duce non può essere dall’una o dall’altra parte (passatismo ©
futurismo) ma nella sua specifica qualità di Capo della Nazione non può
essere passatista e futurista nello stesso tempo. Che Egli prediliga come
certuni pretendono correnti intermedie lo esclude il suo temperamento
nemico di tutti gli oscillamenti e di ogni mezzo termine. Preferisce le
posizioni diritte anche le più azzardate e non è detto quindi che si
compiaccia trattenersi ad ammirare le varie denominazioni che si dànno
alla strada nel corso di così lungo e complicato cammino com'è quello
dell'arte. Egli tende alla meta: L’arte fine a se stessa.
Passatismo e Futurismo: due colossi che se non esistessero Mussolini li
avrebbe creati apposta non fosse altro, per }a gioia patriottica di
vedere scaturire dal cozzo di queste mentalità opposte, nuove faville di
luminosa genialità italiana. I piccoli mondi che rotolano ai margini di questa
battaglia sono frammenti o scorie staccatesi, nell’urto, dal corpo
dei titani: hanno una vita effimera e quelli che precipitando come valanghe
trascinano nella loro scia deboli detriti superficiali, se sopravvivono,
sono sempre alimentati dall'atmosfera incandescente generosa che emana il corpo
che li ha creati. Passatismo e Futurismo rimangono inamovibili l'uno di
fronte all'altro: impossibile conciliare il concetto conservatore
tradizionale del primo col principio rivoluzionario rinnovatore del
secondo. Chi sia il più forte non è facile stabilite: dipende da
determinate condizioni intellettuali e spirituali di tempo. Oggi però in
questo secolo fascista più che le biblioteche e i musei si moltiplicano
scuole avanguardiste, impressioniste, razionaliste, novecentisie, moderniste in
genere, tutte volenti o nolenti generate dal futurismo. Volenti o
nolenti: non ha valore il fatto che molti sconfessano la loto origine.
E' fatale; anzi vorremmo dire storico. Probabilmente tra cinquant’anni il
mondo fascistizzato considererà Mussolini un utopista e ogni nazione
vanterà il merito di avere instaurato per prima il nuovo regime politico. Di
queste infamie la storia è... maestra; solo dopo qualche secolo si rende
giustizia alla verità. Tornando al nostro argomento, è fuori dubbio che
Mussolini, valotizzatore delle gloriose conquiste del passato, sprona i
capaci a superarle sul traguardo del più fulgido domani. Quindi il futurismo
rappresenta infatti quell’eroica generosa pattuglia d’assalto che
trascina l’esercito degli artisti alla conquista del nuovo. Questo fatto in sé
eloquente e inconfondibile, unico nella storia dell’arte, ha rapporti
precisi in campo politico con la gloriosa epopea mussoliniana.
L'inesauribile ottimismo futurista si identifica così con il concetto generoso
originale ardito del fascismo vittorioso. Senza citare fatti e
particolari di cui sono ricchi i nostri ricordi personali, in tema Mussolini e
il futurismo basterà ricordare giacché l'occasione è opportuna queste tre
date significative: Boccioni vi avrà detto che tutte le mie
simpatie sono, anche nel dominio dell’arte, per i novatori e i
distruttori e per i futuristi... Mussolini: presente adunata futurista
che sintetizza vent'anni di grandi battaglie artistiche politiche spesso
consacrate col sangue. Congresso deve essere punto di partenza non punto
d'artivo Mussolini Dopo di avere concesso il suo alto patronato per le onoranze
nazionali al futurista Boccioni,
Mussolini offre il PRIMO generoso contributo materiale per il trionfo della
grande rassegna dell’arte futurista italiana. A questo punto, dopo
quanto abbiamo detto, ulteriori considerazioni sono superflue come
sarebbe superfluo ricordare ancora una volta l'influenza patriottica
esercitata dal futurismo sulla gioventù italiana prima durante e
dopo la guerra e il fattivo isolato contributo dei futuristi al
fascismo. SOMENZ2I (da: Sant'Elia] Allorché quindici anni or sono,
nel palazzo di Piazza San Sepolcro, Mussolini gettò le fondamenta di
quello edificio colossale che doveva essere il Fascismo, se nel
manipolo degli intervenuti individuò degli artisti, questi erano soltanto
ed esclusivamente artisti futuristi. Appena creati i Fasci di
combattimento, i primi gruppi che cotseto ad ingrossare le schiere che
cominciavano a formarsi furono i gruppi politici futuristi, prima, e
gli arditi di guerra e i legionari fiumani, poi, sempre per merito
esclusivo dei futuristi. Il nostro Movimento diede quindi al Fascismo un
apporto qualitativo e un apporto quantitativo: inoltre diede alla creazione
mussoliniana un conttibuto gigantesco di fede cieca, di entusiasmo
eroico. Vogliamo indagare il perché di questa spontanea simpatia, di
questo irresistibile trasporto del Futurismo verso il Fascismo; il perché
della meravigliosa, totalitaria corrispondenza fra una cemcezione eminentemente
politica ed una concezione eminentemente artistica? Prima di tutto,
troviamo che il Fascismo e il Futurismo hanno alla loro origine dei germi
comuni: l’amore disperato alla propria terra, la necessità di moto e
di azione. Dell’intervento nella grande guerra uno fece il punto di
partenza per la sognata rivalorizzazione della patria; l’altro, lo sbocco
conclusivo di quei fatti e di quelle idee che possono riassumersi nei tre
principii futuristi: Tutti 1 diritti, meno quello di esser vigliacchi .
La parola Italia deve prevalere sulla parola libertà . La puerta,
sola igiene del mondo , Dalle piazze affollate d'Italia si passò
alle trincee insanguinate d'Italia: interventisti intervenuti: identico
entusiasmo: identici sacrifici: identica volontà di far germogliare il bene
della Patria dal martirio e dalla morte dei suoi figli. E questa è
già molto per dimostrare la straordinaria affinità sentimentale, di
origine e di scopi esistente tra Fascismo e Futurismo. Ma v'è
di più. Infatti, passando dal campo delle concezioni teoretiche a quello delle
espressioni pratiche, noi vediamo il Fascismo disdegnoso di adagiarsi nei
ricordi del passato, ansioso di sciogliersi dai vincoli del presente,
protesa con gli spuardi e con tutte le energie alla conquista del domani.
Avanti, avanti sempre, incita il Duce; raggiunta una mèta, mille altre se
ne profilano: occorre raggiungere anche queste: ogni sosta è un
tradimento: ogni indugio è un delitto. Non sona questi i
principii stessi cui s’informa il Futurismo? E il Futurismo è
tutto azione e vita: nelle sue schiere accoglie la più bella e sana gioventù
d'Italia: gioventù d'anni, ma anche di spiriti. I suoi artisti creano con la
stessa generosità, con lo stesso dispregio di ogni premio e di ogni
riconoscimento, con i quali ! nostri soldati scattavano all’assalto: loro
unico orgoglio, lora unica aspirazione è di poter contribuire a che il
nome d’Italia sempre più alto e sonoro e sempre niù in estensione squilli
nel mondo. E non è Fascismo, questa? Ma non è soltanto
ciò quello che ci spiega come, fatto mai verificatosi nella storia
dell'umanità, una concezione esclusivamente morale ed artistica abbia
potuto così bene assorbire ed assorbirsi in una concezione
esclusivamente politica e sociale Il fatto straordinario che
oggi non può non riempirci di legittima se pur meravigliata
soddisfazione, è questo: un colosso della politica che pensa, agisce,
crea, con la ispirazione e la chiaroveggenza luminosa di un poeta:
un poeta che vive la sua arte come una battaglia politica per la
gloria della Patria sua. Né le due espressioni, fino ad oggi antitetiche,
politica e arte, s'urtano o si contrastano: anzi si può ben dire che esse
hanno così informato di sé medesime le due personalità che concepirle in
diversi atteggiamenti spirituali ci sarebbe impossibile. Come spiegare
questo fatto così nuovo e così fuori del comune, se non riferendoci ad una
forza incoercibile, misteriosa, ma che tuttavia sussiste, a quella forza cioè
che crea in alcuni privilegiati quegli speciali stati d'animo per cui il
Genio, attraverso l'adamantina luminosità di un pensiero superiore, giganteggia
e s’infutura? È indubbiamente questa forza contro la quale noi nulla
possiamo che fa di Mussolini un futurista della stessa tempra di
Marinetti e di Marinetti un fascista, degno seguace di Mussolini. È sempre
questa forza che avvicinando i due crea- tori, avvicina conseguentemente
le loro due creature: è perciò che come non potrebbe comprendersi un
futurismo non fascista così non si potrebbe concepire un fascismo
conservatore e passatista. È perciò ancora che i futuristi e i fascisti,
se veri ambedue, s’intende, non possono distinguersi: l’italiano
nuovo è un miscuglio nel valore che la chimica dì a questa parola di
fascismo e di futurismo: essi costituiscono i due elementi inscindibili e
insostituibili di un tutto organico. Chi ha detto ai nostri
giovani di chiamarsi /uturfascisti? Nessuno: eppure essi, generalmente, così
amano definirsi. Inconscio, spontaneo riconoscimento di una grande verità che
non può discutersi e non si distrugge. Come altrettanto vero è che
i fascisti autentici sono ottimi futuristi. e non potrebbe essere
diversamente data l'essenza dinamica, generosa, novatrice, ottimista
nella quale il Duce vuole plasmati i nuovi italiani. Ma come
avviene, allora, che anche tra i fascisti sono molti i contrati al
Futurismo? Perché molti sono i rimrorchiati che pur vestendo
in camicia nera e ostentando il distintivo, parlando (e purtroppo
parlando solo) fascisticamente e mettendosi sempre in prima fila nei cortei,
han tuttavia conservato l’anima italiana di anteguerra, pavida, gretta,
piccina. Molti altri poi, pur sentendo nel loro intimo tutto
ciò che di bello e di buono ha il Futurismo, per un senso invincibile di
borghesisma, per timore di essere ridicolizzati e per desiderio di essere
tenuti e rispettati quali persone serie, dicono e non dicono, ammettono e
smentiscono, concedono e negano, opportunisti rammolliti, borghesi,
vigliacchi. Ma ciò che prima o poi capiterà a costoro, che
noi sentiamo di odiare profondamente, molta ma molto di più dei
nemici nostri aperti e leali, che almeno rispettiamo, lo ha detto chiaramente
il Duce nel suo recente magnifico discorso all'Assemblea quinquennale.
Per essi non si tratta né di Fascismo né di Futurismo: si tratta di
vigliaccheria, e basta. Non han diritto neppure a chiamarsi
italiani. Né escludiamo da questa ignominiosa schiera quei giovani
d'anni che han conservato intatta l’anima dei bisavoli: che gridano doversi
l’arte rinnovare e si impuntano come muli riottosi dinanzi al futurismo:
che accettano e sì prosternano ad ogni novità che ci proviene
d'oltre confine, anche se figlia di genitori futuristi italiani, e
fanno i disdegnosi, gl’incontentabili, i superuomini verso il nostro
movimento che gli stranieri stessi ammirano come un’altra delle tante glorie
italiane. Anche questi così detti giovani non possono e non
potranno mai essere fascisti sul serio, giacché essi non hanno del
Fascismo né compreso né assimilato quelle caratteristiche di spiccato futurismo
che sono il rinnovamento, la velocità, il dinamismo, il continuo superarsi, la
mat cia ininterrotta verso la perenne conquista. E lo stesso
diciamo di quei critici che si fermano a vivisezionare un'opera d’arte,
isolandola dal vasto ambiente donde essa ttae la sua ragione di vita; che
fanno l'anatomia di un nostro artista senza riflettere che esso è
soltanto un membro di un corpo gigantesco. Essi dimostrano di aver perduto o di
non aver mai posseduto quella somma virtù latina, fascista e futurista
insieme, che è la virtù della sintesi soffocata in loro dalla fredda
pesantezza anglo-sassone dell’analisi. Ma costoro sono i comprimatii, le
comparse della nostra vita e abbiamo di già concesso loro troppo onore di
discussione. Su tutto e su tutti restano le idee: nel campo
politico-sociale, l'idea fascista; nel campo artistico-spirituale. l’idea
futurista. Ambedue han detto al loro mondo una parola non ancorta
udita; ambedue hanno tracciato, ognuna nei propri confini, la via nuova
da seguire per giungere alla salvezza: tanto l’una che l’altra si sono
dimostrate possenti dinamo, generatrici di forza, di fiducia in noi stessi, dì
ottimismo. di passione, di entusiasmo. L'una, nel campo politico,
ha raccolto infiniti proseliti ovunque, e ciò in relazione ai numerosi
problemi d’indole contingente di cui ha trovato o propone le soluzioni;
l'altra, nel campo più ristretto dell'arte, ha egualmente suscitato energie,
ridestato gli addormentati, incitato i pigri, rincuorato i pavidi,
persuaso i dubbiosi. Se qui dovesse attestarsi l’opera vitale sia
dell'una che dell'altra idea, già tutti i diritti esse avrebbero
acquistati per l'imperitura riconoscenza della civiltà. Ma ambedue
continuano nella loro marcia ascensionale: e i critici che affermano essere il
Futurismo superato ci fan lo stesso effetto di quei pochi e sparuti anti.
fascisti che affermano aver il Fascismo esaurito il suo compito. Idee
come queste nostre non possono né sostare, né esaurirsi, né esser
superate: la loro essenza stessa di continua marcia, di continua ascesa, di
continua conquista non lo permette. Un uomo, a idea, una
opera potranno esser superati: ma non l'Uomo, non l’idea, non l’opera.
Ed ora che conclusione trarremo dalla dimostrata identica struttura
spirituale del Fascismo e del Futurismo, dalla dimostrata perfetta
corresponsione fra loro di scopi e d’intenti? La conclusione
è la solita: ripetiamo ancora una volta e confermiamo che il solo artista
capace di riprodurre in tutta la sua ampiezza, in tutta la sua luce e in
tutta la sua gloria la vita nuova dell’Italia di Mussolini è
l'artista futurista e che il Futurismo è la sola espressione d'arte
degna e capace di tramandare ai posteti la vitalità, la potenza, la dinamicità
dell’éra fascista. Questo diritto che noi accampiamo ci proviene da
quell'identità di spirito, di tendenze, di sensibilità che fa del
Fascismo e del Futurismo un unico, perfetto blocco e che nessuna scuola,
nessuna tendenza, nessun'altra forma di arte può vantare E
noi teniama al riconoscimento di questo nostro diritto: non perché ci spingano
meschini interessi o poco nobili ambizioni ma perché, forti di un infinito
amore per la patria nostra e di una dedizione cosciente e completa
di tutta la nostra spiritualità alla sovrumana potenza di un'idea, al
fascino gigantesco di un Genio universale, vo. gliamo che non abbia soste
il cammino trionfale che l’Italia rinnovata sta compiendo verso le sue più alte
mète, sotto il comando romano di Benito Mussolini. FuTURISMO
[da Sant'Elia] La polemica accesasi negli Anni Trenta tra futuristi
rivoluzionari e futuristi sostanziali o di destra, è già espressione di
quel secondo futurismo, che abbia mo visto e detto essere momento
collaterale del fascismo-regime. O tentativo piuttosto di conservare la
avanguardia nell'ambito di un sistema che come tale era più propenso ad
un suo ordine intrinseco e imprescindibile da mantenere 0 da continuare. In questo
senso il futurismo di destra, come lo definisce il sansepolcrista Bruno
Corra nel marzo del ‘32 su Futurismo, vorrebbe un po’ essere quello degli
arri. vati , di chi si asside sulle comode poltrone della fine
della carriera, pur cercando di mantenere uno Spirito 4 precedente ,
giovanile e innovatore, che non può essere venuto meno in chi ha giù
combattuto e si è esposto per una causa di rinnovamento. Gli fa eco
Corrado Gawvoni riprendendo il discorso e puntualizzando il concetto stesso di
futurismo, senza che gli si debba o gli si voglia nulla rubare, come è
staio fatto da tutte le parti, e a riconoscergli invece la sua
portata e i suoi risultati. Solo una settimana dopo ribatte Paolo
Buzzi sul numero del 26 marzo sempre di Futurismo con un violento
attacco ai futuristi di destra e il sostegno 4 un ritorno alle estrema
sinistra , come già dice nel titolo. L'’avanguardia, in quanto
avanguardia e se vuol rimanere avanguardia, non può che esercitare
una funzione di vottura per il rinnovamento ed il rivolgimeuto del
vecchio e del passato. Come tale l'aver guardia non può che essere e
rimanere di estrema sinistra , sC il futurisito si ritiene ancora
uvangaar dia 0 vuole mantenersi e vivere. Resta però forse una voce
isolata quella del Buzzi, rincalzato ancora il 2 aprile, sul numero della
settimana dopo, da Remo Chiti che postula un futurismo sostanziale in cui
tutto si annulla, destra e sinistra, nel momento stesso in cuni tt
futurismo diviene ercativo e vu libera dvi conformismi e delle
convenzioni. Ancora all'Avanguardia dedicava un quinto ed
ultimo articolo Luciano Folgore, sempre su Futurismo dello stesso anno.
Il futurismo di destra e quello di sinistra st superano oramai
nell'avanguardia che ancora continua e sì muove nell'avanzata dell'entusiasnio.
E l'ottintismo continua in effetti fino al’ultimo, anche con la fine del
fascismo, anche con la morte di Marinetti, anche con la sconfitta nella
guerra sola igiene del mondo , continua ancora nelle ulti me
gencrazioni e nel messaggio dell'ultimo manifesto, quello del
futurismo-oggi , che vive e crea nel presente. NOI FUTURISTI DI
DESTRA Quando si riunirà in Roma il primo grande congresso dei
futuristi di tutto il mondo, io andrò a sedermi
vicino a Buzzi, a Notari, a Folgore, a Govoni ad un banco
dell’estrema destra. Ma esiste dunque, può esistete un Futurismo di destra? I
due termini non fanno a pugni? Un movimento rivoluzionario può contenere
in sé tendenze conservative? E, infine, l’espressione futurista di destra
non val quanto futurista annacquato e prudente non s'identifica con
l’ambigua parola novecentista ? Mi pare che qui si tratti, prima di
tutto, di una questione di moralità. Dare al Futurismo quel che al Futuri
smo appartiene: e non truccare il proprio ingegno con una etichetta di
convenienza. Chi si dichiara avanguardista ma non futurista, sputa nel
piatto dove ha mangiato. Poi, io stabilirei questo principio: che il
privilegio di poter restare nella sfera magnetica del Futurismo pure
affermando, nella propria opera matura un remperamento realizzatore di
destra debba accordarsi soltanto a coloro che han dimostrato di saper essere
integralmente futuristi. E reclamerei il diritto di sedermi a destra, per mio
conto, in nome della mia effettiva collaborazione al Futurismo più
rivoluzionario: Teatro Sintetico; Cinema futurista; e due opete di
audacissima narrazione fututista (La donna ce duta dal cieln Sam Dunn è
morto). In realtà, fermo restando che l’essenza del Futurismo
è e non può non essere rivoluzionaria, bisogna dire che nel nostro
movimento i termini sinistra e destra non si oppongono, perdono ciaè il
loro significato convenzionale. La mentalità futurista supera il
contrasto fra il sovvertimento e la conservazione, in quanto si libera di
continuo in uno slancio creativa. Perciò un eventuale Congresso futurista
dovrebbe assumere una configurazione non orizzontale ma verticale: fututisti di
cima e futuristi di base, aviazione e fanteria. E soltanto per ragioni di
comodo, io qui mi son servito della parola destra. Ma diciamo
pure i fanti, i pontieri, i costruttori di strade del Futurismo, e avremo
indicato il carattere e spiegato la necessità di questo settore nel nostro
movimento: l'aderenza al terreno pratico. Come l'architettura, come
la decorazione, l’arte narrativa adempie a una funzione in gran
parte pratica: da ciò l'obbligo per essa di equilibrarsi tra il dovere del
rinnovamento artistico e l’imperativo degli scopi vitali ai quali la sua natura
la destina. Un romanzo illeggibile equivale a una casa senza
finestre per vederci o a una stazione dove i treni non possono circolare.
Ora il Futurismo vanta la proptia aderenza al tempo attuale anche nel senso
della praticità. Le case futuriste vogliono essere le più comode: la struttura
delle città futuriste mira ad assicurare i massimi vantaggi alle moltitudini
che devono abitarle. Allo stesso modo il narratore futurista ambisce di garbare
alle folle dei giovani, traendone e in esse trasfondendo gli ideali
tipici del nostro tempo, per via di una tecnica intonata alla sensibilità
moderna, tutta nitidezza brevità sintetismo. Va da sé che il buon
narratore futurista dovrà ogni tanto lasciare la sua bisogna terrestre,
per collaudare ed eccitare nell’ebbrezza di un volo lirico la propria
tempra di novatore. Questa nota veloce non intende di risolvere l'importante
problema al quale si riferisce: ma soltanto di proporre lo studio ai camerati
futuristi. Bruno CorRrA Sansepolcrista [da: Futurismo
-- Con il suo articolo Noi futuristi di destra uscito nell'ultimo numero
di Futurismo, Bruno Corra ha opportunamente aperto una tempestiva discussione
intorno al movimento futurista che, secondo me, va allargata e
approfondita da una serie di perentorie domande argomenti che, investendone in
pieno la vita e la vitalità, richiedono altrettante risposte urgenti e
risolutive, Quali sono le origini e le funzioni del movimento
futurista in Italia. Quanti e quali sono i movimenti artistici e
letterari succedntisi in questi ultimi venti anni in Europa, che
accusano sinceramente una netta derivazione dal Futurismo.
Individuazione dei movimenti artistici e letterari che
rappresentano una deviazione e una contraffazione del Futurismo e dei
movimenti che, o fingendo d’ignorarlo, o ammettendolo furbescamente solo
attraverso la propria attenuazione, continuano a pompargli generoso
sangue e a servirsene di veicolo sull’allegro esempio della comoda
simbiosi di Bernardo l’Eremita. Quali sono Je vere umane ragioni
per cui elementi di primissimo ordine si dispersero e si distaccarono
dal movimento futurista dopo averne fatto parte, o. dopo averne
attraversata l’esperienza (cito alcuni nomi: Palazzeschi e Carrà; Soffici
e Papini). In che cosa consista e came vada intesa il
cosidetto contenuto polemico che, seconda certa critica nostrana,
costituirebbe il peso morto e il punto d'arresto del Fututismo.
Quale fondamento abbia l'accusa spesso rivolta al Fututismo di essere un
movimento difettoso e caduco perché nato senza una dottrina estetica che lo
giustifichi. Espansione influenza e fortune del Futurismo in tutto il mondo e
suo riconoscimento in Italia. Sono tutte domande che hanno bisogno
per una conveniente risposta, di lunghe e minuziose trattazioni. Ed
è più che naturale e logica la irresistibile tendenza dei nostri
connazionali a sbarazzarsene con una sola parola. Questa parola la
conosciamo troppo bene: Marinetti! Ma conosciamo troppo bene anche
il grossolano trucco, Si accarezza Marinetti (fino ad un certo punto,
e il più nascostamente che sia possibile: è bene non compromettersi
troppo!), per negare poi il Futurismo e massacrare i futuristi. Da troppo
tempo si pratica ormai l'iniquo inganno per non sperare che abbia
finalmente a fruttare un risultato vittorioso e definitivo! È il trucco
indegno tentato dagli antifascisti contro il fascismo quando si cercava
di mettere in mora il fascismo proclamando il Mussolinisma, nell’assurda
canagliesca mira di dividerli, per batterli poi con più comada
separatamente. Mussolini anche a quei tempi era trappo Duce
per non avvertire la subdola insidia e sventarla. Marinetti!
Chi più di noi l’ha più fedelmente amato ed ammirato? Per
conoscere quali prodigiosi tesori di amore e di energia egli possieda,
bisogna vederlo all'estero. Bisogna sentire allora con che fuoco egli è
capace di affrontare i pubblici più paurosi per numero e distinzione, più
ostili ad ogni cosa che abbia la nostra impronta di quanto non st
creda, e per mentalità, per gelosia e furore d'inferiorità; bisogna
sentirlo dominare a poco a poco col suo impeto irresistibile gli spiriti
o avversi o diffidenti, e, mentre fa giganteggiare nelle assemblee
stipate l’ombra magnanima del Duce, vederlo a trascinarle all’'entusiasmo e
costringerle a riconoscere la poesia italiana come una cosa caduta dal
cielo: bisogna, dico, vedere quest'Uomo straordinario all’estero, per capire
che instancabile affascinante ambasciatore d'italianità nel mondo noi
abbiamo in lui. Se l’attività di Marinetti presenta una debolezza,
questo avviene proprio in casa nostra. E' una debolezza che è forse il
suo più alto titolo di gloria. E ritorneremo sull'argomento. Ma
approfitrarsene come troppi fanno, è un mostruoso delitto. Che cosa
volete allora?, ci domanderà qualche imprudente con un sorriso allusivo.
No, no, non invidiamo il puzzo di benzina, state tranquilli: a questo
volevate alludere. Ma troppe volte ricevia 136 mo in faccia
la cenciata dell'insolente puzzo di benzina per non sentirci offesi e
disgustati nella nostra rassegnata povertà. La ragione del
nostro malcontento è che da troppo tempo noi andiamo seminando e
falciando per quelli che ci seguono e allegramente raccolgono senza
nemmeno rivolgerci un pensiero di ringraziamento. Amici cari, se ci
fermassimo un po’, se ci voltassimo un pochino indietro anche noi? Se
pensassimo anche noi di raccogliere un pugno di quelle spighe, da
portarcele a casa se non altro per ricordo e testimonianza della
lunga fatica compiuta? Ma se lasciamo ancora correre un poco,
ho paura che ci negheranno anche questo piccolo premio di consolazione; e
se ci destineranno un posto {bontà loro!), questo non sarà che per il
museo, tra le mummie di coloro che st prodigarono e sactificarono per una
fede e un ideale e che Alfredo Panzini già propose di raggruppate in
una sola classifica con la denominazione di collezione di fessi.
GovonI [da: Futwrismo, ESTREMA
SINISTRA E non vorrei altro aggiungere. Le distinzioni, i punti fermi, Îe
categorie anagrafiche non contano. Si sa che, per taluni, l'età del
destino futurista è passata da un pezzo. Pure, quando la febbre della
creazione non è discesa e, soprattutto, quando il traguardo
tremendamente astrale della proptia Opera non è raggiunto, ci si
sente, ogni mattina, l'età magari di Vittoria, di Ala e di Luce
Marinetti...! Questo, e non altro, è il vero futurismo. Perché dovrei
sedermi a destra, proprio io? Mi sembrerebbe di tradire la causa di Aeroplani ,
di Ellisse € la Spirale , di Cavalcata delle vertigini , di Popolo
canta così! di Dannazioni e di tutto il mio Teatro inedito, ma ultra
violetto, che ha forse, a suo tempo, spaventato anche i genii scenici
sovversivi di Petrolini e di Bragaglia. Soprattutto, mi
sembrerebbe di tradite le mie Opere fantasticamente audaci di domani:
Beatitudini (affrettati mio caro
Campitelli: perché l'aeroplano-razzo deve partire per le stelle!). Canto
quotidiano , dove vedrete il Poema attimistico del 1932 (la Prora , lo
sta stampando); e Nostra Signora degli Abissi : dove, fina] mente, la
Motte sarà vinta e le onde cosmiche impasteranno da pari loro la nuova genesi
delle radiazioni interplanetari. Questo è futurismo: e di ultra
estrema sinistra. Le mie anatomie sintetiche di anime e di sensi,
le mie aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei cosmapolitismi spaziali
e i miei intimismi vorticosi stanno per una intransigenza etico estetica che
costituisce, ormai, la gioia (ed, un pochino, anche la gloria) della mia
lunga carriera di uomo che ha sempre fatto dell'Arte come il sacerdote
celebra messa. Aviatore sempre, adunque: fante e stradino, non mai.
Lo so che i miei romanzi (appunto perché sempre ed esclusivamente poemi)
non hanno trovato che editori santi, martiri ed eroi. Ma anche questo è un
segno nobile delle cose e degli uomini e degli eventi. In quanto alle mie
opere di Poesia pura, ho avuto la soddisfazione recente di trovarmele
analizzate e comprese e discusse ed evidentemente quindi amate da una Rivista
di giovanissime menti e di ardentissimi cuori: dico, la Penna dei Ragazzi
diretta da Vittorio Mussolini, edita in Roma. I giovani, quelli
veramente degni di questo nome primaverile, sanno che, al di fuori e al di
sopra d’ogni inevitabile chiasso letterario, la parola futurismo risponde
alla solo unica vera idea forza che oggi esista nella sfera ideale del
Mondo: e che è in grazia di essa, unicamente di essa, se oggi la Poesia della
miracolosa Italia fascista vive e vivrà. Naturalmente io dico
ai giovani, anche e specie se coronati dal casco d'alluminio in pieno
cielo: lavorate non accontentatevi di
quattro parole intonate all’onomatopea del motore: la Poesia italiana ha ben
altri diritti ed impone ben altri doveri! guardate dalle finestre di
Palazzo Venezia, la Via dell'Impero! e cantate i nuovi Carmi degli
Augusti e dei Consolari , se ne siete capaci! Il Duce vi
premierà. BUZZI [da: Futurismo,
FUTURISMO SOSTANZIALE Non c’è che un futurismo: quello di estrema
sinistra , ha affermato Paolo Buzzi. Ma questa generosa intransigenza che
parrebbe volere ammettere un unico modo di manifestarsi contro la
premessa di Bruno Corra circa il riconoscimento o meno d'un futurismo di
destra aderente al terreno pratico rimane una questione poetica e
individuale di fronte agli argomenti che le terranno dappresso: Il
futurismo non è formalista; non si crea né si lascia creare barriere
dalle definizioni; pago della propria influenza, lontano da ripulse
d’ortodossia vendicativa, riconosce per suo anche quello che è tale
sull’altro name. Del resto Corra aveva scritto: fermo restando che
l’essenza del futurismo è e non può non essere rivoluzionaria, bisogna dire che
nel nostro Movimento i termini sinistra e destra non sì oppongono, perdono cioè
il loro significato convenzionale. La mentalità futurista supera il
contrasto fra il sovvertimento e la conservazione, in quanto si libera di
continuo in uno slancio creativo . Le centinaia di migliaia di aderenti al
Movimento non si compongono di un solo tipo di futurista. La convinzione
può essere unica; ma l'ispirazione e i temperamenti saranno naturalmente
diversi. Così uno stesso tema, di sentimento futurista, verrà espresso in
stili diversi. Si dovrebbe scartare i meno intensi? Fino a quel
punto? E come negarne la sostanza futurista? 3) La varietà di
tipi, che documenta l’importanza sociale del fenomeno futurista, è
assoluta; e va dai poeti ai militari, dai pittori agli industriali,
ecc. Bisogna presupporne quindi una gradazione di realiz.
zatori; gradazione intimamente connessa alle diverse si. tuazioni
ambientali o tecniche in cui i tipi si trovano. Non si tratta qui di
temperamento o di mentalità più o meno ardenti. Si tratta di concezione e
di azione che devono spesso basarsi sul comune campo pratico dove
s'incontrano il numero o la psicologia, cioè i mezzi materiali negli
scambi del pensiero e del lavoro (p. e, i giornalisti,
gl'ingegneri). Io penso che Marinetti, quando parla nei convegni
e alle inaugurazioni, faccia con istintiva attenuazione della sua anima
inquieta del futurismo di destra. Perché allora è sul terreno
pratico. E buon testimone potrebbe esserci Mino Somenzi stesso, uomo
ardito, pittore d'incendi, cervello intransigente, che pure fu
l'organizzatore, modesto e alacre del I. Congresso futurista a Milano, 1924,
riuscendo con l'intelligente accoglienza a dare alla manifestazione una
luce di concordia, rara nelle ancor più rare grandi adunate di
artisti e di caratteri spiccatissimi; Somenzi stesso che fondò questo giornale
indispensabile alle rivendicazioni di conquiste artistiche e ideali
misconosciute ed alla continuazione della tenace opera di ringiovanimento, ed
accolse dopo, con larghezza d'intenti, l'ingegno d'ogni età e
d'ogni fama purché attratto da poli positivi. Dunque, se si dovesse
affermare l'essenza d’un solo futurismo bisognerebbe dire: futurismo
sostanziale , che è poi quello del 1909, di oggi e dell'avvenire: umano,
illimitato, ascendente. Le idee vitali sono al disopra degli stessi uomini
che le divinano e le dettano. Esse formano il tempo , mi.
racolosamente, quasi contro tutte le volontà. Govoni, a seguito della
discussione aperta da Corra, proponeva di riesaminare la posizione
del tuturismo fra le correnti nostrane ed estere. Dei sette quesiti
presentati, una richiamava l’attenzione su l'accusa mossa dal culturalismo
circa una pretesa assenza di dottrina giustificante l'estetica
futurista. Anche il Fascismo fu accusato di assenza di dottrina: e non dai
soli avversari. Quale dottrina, quando la critica ufficiale vede attraverso la
cultura, divenuta una seconda natura? Remo CHITI (da:
Faturismo, n. 30, anno II, 2 aprile 1933] Mi ricordo che Umberto Boccioni
propendeva per un movimento chiuso e voleva che i giovani artisti, i
quali si dichiatavano futuristi e aspitavano ad entrare nel nostro
gruppo, subissero un lungo periodo di quarantena. Secondo Boccioni
non bastava proclamarsi novatore per esserlo, in realtà; non era
sufficiente una adesione più o meno entusiastica per avere ingresso
libero in un movimento che si proponeva di attuare nell'arte e nella vita
un nuovo ordine di cose. Dal suo punto di vista, puramente artistico, il
creatore del dinamismo plastico non aveva torto. Il dono della
originalità non è largito che a pochi. Per superare il già fatto,
mettersi in armonia coi propri tempi e prevedere i lineamenti estetici del
futuro occorre un’intelligenza ardita, geniale e di largo respiro. Ma contro
l’esclusivismo boccioniano insorgeva la vibrante liberalità di Marinetti, che
più futurista di ogni altro intuiva la necessità di creare un clima, di
generalizzare una tendenza, di suscitare una vasta atmosfera spirituale in cui
si dovessero respirare continuamente il senso e il desiderio della
novità. Ecco la ragione profonda del suo proselitismo, della
sua accettazione, quasi incondizionata nel movimento, di tutti quei
giovani e giovanissimi che avessero fede nel futurismo. Tale
generosità non fu e non sarà mai faciloneria. Nel fervore del
diciottenne c'è sempre qualcosa di vivo e di sacro che è impossibile
trascurare. Ognuno di noi sa per esperienza che è la primavera, anche con
le sue intemperanze, la stagione che prepara i germi e i frutti di
domani. E non bisogna aver paura che gli entusiasmi sbolliscano presto. Basta
che la fiaccola timanga accesa e che trascorra di mano in mano agitata e
sollevata continuamente da qualcuno che ha fiducia nell’eterna giovinezza
della nostra arte e della nostra vita. Futurismo di destra?
Futurismo di sinistra? Non credo che sia il caso di parlarne. In quanto alle
benemerenze e al sacrifici, talvolta eroici, dei primi banditori del
fututismo essi appartengono ormai alla storia. L'amico Govoni
vorrebbe che i futuristi della vigilia fossero promossi al grado di
santoni e avessero quel tributo di applausi e di ricompense che essi
giustamente meritano. Ma ciò equivarrebbe a una giubilazione e noi rischieremmo
di diventare dei sopravvissuti. Il piedistallo e l’altare non sono
il nostro posto di combattimento. In prima linea sempre e
all'avanguardia ad ogni costo! Anche a costo di essere eternamente in contrasto
con il gusto del pubblico che è per sua natura ritardatario e
accetta soltanto il futurismo di seconda mano, addomesticato dagli abili
profittatori del nostro movimento. Questo disprezzo del rendiconto e del
caso personale, questa ferma volontà di essere più giovani dei giovani
è un segno di vitalità e quindi di ottimismo. Di quell’ottimismo che
molti pseudo-avanguardisti aborrono perché sono nati con la barba nel cervello,
non hanno avuto mai vent'anni e non arrivano a comprendere che soltanto
nell'entusiasmo assoluto e nella fede cosciente ma senza mezzi termini c'è il
lievito di ogni grandezza futura e d’ogni poesia nuova. Chi ha il
torcicollo nostalgico non può guardare dititto innanzi a sé e andare oltre
speditamente. Chi nega l'ottimismo nega lo slancio vitale che si
perpetua nel tempo e nello spazio perché ricco di speranze istintive e
fornito da madre natura del vero e genvino senso dell'immortalità.
Avanti dunque coi giovani e giovanissimi. Il clima futurista dev’essere
sopratttuto un clima primaverile e acerbo. Luciano
FOLGORE [da: Futurismo, Abbiamo raccolto quattro testimonianze futuriste,
è sul futurismo. Una è di Alberto Sartoris, architetto, una di
Tullio Crali, pittore, una di Curto Belloli, eritico d'arte, e una di Enzo
Benedetto, pittore e giornalista. Tre furono e sono futuristi: il quarto (Carlo
Bel. loli) è un esperto, studioso ed interprete del futurismo. Ci
sono sembrati interventi significativi e ittdispensabili alla puntualizzazione
dell'argomento, visto che si tratta di personaggi viventi, che hanno
partecipato al futurismo e che ancora oggi lo sostengono e cercano
di dargli alito o di vivere futuristicamente a tutt'oggi in un mondo,
forse, ricaduto nel passatismo . Crali con l'aeropittura e la sassintesi
ha continuato l'avanguardia, cui aveva aderito col futurismo che sempre
l'aveva sostenuta, al di qua e al di là del fascismo. Benedetto con un
manifesto {Futurismo oggi) e poi con un foglio periodico operativo
, capace di pro porci il futurismo di ieri e anche quello di oggi.
Sar toris con un'ottività artistica professionale volta 4 contimuare,
anche se in oltre direzioni n con altri strumenti di vicerca, la prima
avanguardia cui aveva aderito entusiasta. Belloli puntualizza e sancisce
criticamente con la profondità dell’evperto certi. rapporti e certe
colleganze , troppo spesso volutamente dimenticate 0 accantonate. La
critica deve essere seria e intellettual. mente, n ideologicamente ,
corretta. E° quello che abbiamo cercato di fare. Anche con la pubblicazione
di questo testimonianze Carlo Belloli, critico, poeza visuale di
sperimen tazione futurista, e docente nelle università svizzere di
estetica {Basilca) e storia della critica d'arte (Strasburgo). Vive a Milano e
Basilea. È collaboratore de La Martinella di Milano, già del Roma di
Napoli, e della rivista Les Arts di Parigi Organizza come consulente le
mostre di numerose gallerie d'arte di Milano. Benedetto, pittore e
scrittore, futurista da sempre. È nato a Reggio Calabria nel 1905,
vive a Roma, dove ha lo studio e pubblica Futurismo aggi, che esce dal
‘69, bimestralmente, con saggi e ri produzioni di opere futuriste. Fu
anche autore del l'omonimo manifesto nel dopoguerra. ‘Tullio Crali,
pittore futurista e aeropittore. E' nato nel 1910 a Igalo, in Dalmazia.
Vive a Milano dove ha lo studio e il più importante archivio del
futurismo attualmente esistente. Futurista dal '29 e creatore della
camicia anticravatta e della giacca antibavero (nel '33), é firmatario
nel ‘58 del manifesto futurista sulla Sassintesi . Sarà uno degli ultimi a
vedere Marinetti nel ‘4d, prima della morte, a Venezia e e concordare
can lui la continuità del futurismo dapo la guerra Alberto
Sartoris, architeito e professore dll'Univer sità di Losanna. Futurista e
amico di Terragm e di Le Corbusier, E' nato a Torino nel 1901. Vive a
Cossonay Ville, vicino a Losanna, Aderì al futurismo nel 1920 e nel
‘28 sarà con Prampolini e Fillia nel gruppo torinese. Nel ’36 fonda il
gruppo degli astrattisti a Como, dove collabora con Terragni nel progetto
della città operaia di Rebbio. Sua opera fondamentale è il li bro
Gli elementi dell’architettura funzionale (1932), pilastro teorico del
razionalismo architettonico italiano (introdotto da Le
Corbusier) FUTURISMO-FASCISMO: OSMOSI DI DUE MOVIMENTI
DELL'ITALIA CONTEMPORANEA Dal futurismo confluirono al fascismo, o
viceversa, alcuni letterati e pittori, qualche pensatore, di singolare
autonomia espressiva. È il caso di Mario Carli, Emilio Settimelli ed
Armando Mazza letterati e giornalisti di non trascurabile incidenza che dalla
originaria militanza futurista estrassero dialettica, argomentazioni
autonome e maturazione spirituale, per assumere nel giornalismo fascista più
avanzato ruoli protagonisti. Mario Carli, ufficiale degli
Arditi nella prima guerra mondiale e poi legionario fiumano, fondò con
F.T. Marinetti l'Associazione degli Arditi d’Italia e il periodico Roma
Futurista dalle cui colonne trovarono sistematica divulgazione il teatro
sintetico, le pratiche parolibere dei poeti futuristi e le prime prove
versoliberiste di Giuseppe Bottai che ne fu redattore. In
quel 1919 anche il generale Luigi Capello si avvicinerà ai futuristi per
esporre alcune tavole parolibere di accertata ingegnosità, alla Grande
Esposizione Nazionale Futurista nella galleria centrale d'arte di Palazzo Cova
a Milano, mostra successivamente presentata a Firenze e a Genova.
Mario Carli con la raccolta di versi liberi e parole in libertà
Caproni, pubblicata a Milano nel 1925, precorse l’aeropoesia futurista
degli Anni Trenta. Alla prosa poetica, C., aveva dedicato Le notti
filtrate, singolare repertorio lirico pubblicato nel 1918 e ristampato a Roma,
nel 1923 per i tipi di Giorgio Berlutti che dirigerà quella Libreria del
Littorio, editrice di mo: numenti e documenti dell'era fascista. Il suo
debutto di prosatore era avvenuto nel 1909 con un seguito di novelle,
Seduzioni, cui seguirà, nel 1915, il suo primo romanzo, Retroscena.
All’attività letteraria e giornalistica Mario Carli alternerà quella
politica e diplomatica. Pubblica a Firenze Fascismo Intransigente, con
prefazione di Roberto Farinacci, che inaugurerà la tendenza più oltranzista del
fascismo. Nel 1925 Carli era stato nominato Console d’Italia
in Brasile, per essere in seguito trasferito a Porto Alegre nel 1927,
anno in cui Bernardo Attolico assumerà la reggenza dell'Ambasciata d’Italia a
Rio de Janeiro. La tournée brasiliana del fondatore del futurismo a
Rio de Janeiro, Porto Alegre, San Paolo e Santos, nel maggio del 1926,
troverà Mario Carli a fianco di Marinetti per arginare le polemiche causate in
Brasile dalla aperta posizione fascista dell’inventore delle parole in
li bertà. Dalla ribalta dei teatri brasiliani Carli prenderà
la parola con Marinetti ricordando che il fascismo dei-futuristi non
aveva impedito di condurre ricerche nuove nelle arti e nell'estetica alle
quali la poetica futurista aveva aperto liberi orizzonti precisamente
influenzando il modernismo sudamericano.Settimelli, poeta, scrittore di teatro
e giornalista, aveva debuttato nel gruppo futurista toscano nel 1915 e
con F.T. Marinetti e Bruno Corra aveva curato la prima antologia del
Teatro Sintetico Futurista, edita da Umberto Notati, a Milano in quel
medesimo anno, nella collezione dei Breviari Intellettuali del suo
Istituto Editoriale Italiano. Settimelli pubblicherà a Firenze
Mascherate e I capricci della Duchessa Pallore, edito a Milano dalle
Messaggerie Italiane. Settimelli risulta precursote di un periodare scarno e
telegrafico, serrato e dialettico, inttoducendo la pratica di neologismi
sociopolitici che avranno fortuna nel linguaggio governativo e
giornalistico italiano degli Anni Venti e Trenta. Il teatro sintetico di
Settimelli si differenzia da quello degli altri autori futuristi per lucida
imprevedibilità di azioni-stati d’animo simultanei. Nel fascismo anche
Settimelli appartenne alla corrente più revisionista e le sue Sassate,
pubblicate a Roma-Firenze nel 1926 dalla Casa Editrice Italiana, col:
piranno più di un gerarca in posizione moderata e conformista.
Filippo Tommaso Marinetti redigerà con Settimelli e C. il manifesto Che
cos'è il Futurismo | Nozioni elementari, dove vengono considerati futuristi
nella politica coloro che amano il progresso dell'Italia più di loro stessi, quelli
che vorranno liberare l'Italia dal papato, dalla monarchia, dal senato,
dal parlamento, dal matrimonio, precorrendo molti, successivi, propositi del
fascismo. Così la volontà di perseguire un governo tecnico di
giovani, senza parlamento, vivificato da un consiglio eccitatorio di
giovanissimi , la determinazione di espropriare gradualmente tutte le terre
incolte e malcoltivate, preparando la distribuzione della terra ai suoi
lavoratori e l'abolizione di ogni forma
di parassitisma burocratico, industriale e capitalistico, diventeranno
tipicamente nazionalfasciste e fasciorepubblicane. Il manifesto
considera, poi, futurista nella vita chi sa dare a tempo un cazzotto e
uno schiaffo decisivo , chi agisce con energia pronta e non esita per
vigliaccheria , come chi fra due decisioni da prendere preferisce la più
generosa e la più audace, sempre che sia legata al maggiore
perfezionamento e sviluppo dell'individuo e della razza... : medesima l'etica
fascista di alcuni anni dopo. Settimelli aveva dedicato un saggio critico
all'opera di Marinetti, edito a Milano con | tipi di Gaetano Facchi, che
può essere considerato il primo tentativo di analizzare la letteratura
marinettiana al di sopra del clamore scandalistico e della propaganda
futurista. Settimelli pubblicherà a Roma, nelle Edizioni d'Arte e di
Critica, Come combatto che raccoglie i suoi più polemici scritti apparsi
sul quotidiano romano L’Irmpero, diretto con Mario Carli. Verso la
fine degli Anni Trenta, Settimelli, subirà al. cuni anni di confino di
polizia causati dalla sua intransigenza critica verso alcuni personaggi-chiave
del regime. Di Armando Mazza, che ci fu dato di
personalmente conoscere e frequentare, il futurismo si avvaleva per
presentare le prime, contestate, serate propagandistiche nei teatri della
Penisola. Eccellente declamatore di versi, tonante dicitore
di manifesti tecnici futuristi, Mazza possedeva un fisico atletico di
lottatore greco-romano. Marinetti affidava, quindi, a Mazza la protezione
della ribalta dagli attacchi passatisti, mentre Îa sua voce tonante
sovrastava i fischi e il vociare degli oppositori. Singolare
poeta parolibero, Mazza, sarà il primo ad organizzate un movimento
anticomunista, fondando nel 1919 a Milano, il settimanale politico I
wmemzici d'Italia, organo antimarxista, nazionalista e prefascista. Mazza
pubblica dall'editore Gaetano Facchi di Milano 10 Liriche d'Amore,
seguito di altrettanti poemi in versi liberi stampati come cartoline
postali raccolte in contenitore di carta crespata. Queste cartoline
poetiche sono il primo esempio rilevabile e significativo di quella che
negli Anni Settanta verrà definita Ma:l Art, Arte postale , assegnando alla
comunicazione poetica il canale inabituale della spedizione a domicilio del
messaggio estetico. Già nel 1917, Armando Mazza, aveva introdotto l’uso
delle Cartoline Postali di Guerra , edite dallo Stabilimento Tipografico
Taveggia di Milano, di cui Vedetta (cm. 13,7 x 19) resta la più curiosa
ed esteticamente determinante. Ai poemi postali faranno seguito Due
morti. liriche pubblicate nel 1919. Nel 1920 Mazza pubblica
Firmamento / con una spie gazione di F.T. Marinetti sulle Parole in
Libertà, edito a Milana dalle Edizioni Futuriste di Poesia. Si tratta
di una pregevole sequenza di parole in libertà dove la componente
tipovisuale dialettizza le scelte semantiche, talvolta enfatiche ed irruenti
con frequenti ricorsi ad analogie non sempre depurate. Poi Mazza verrà
totalmente assorbito dal giornalismo e dall’attività politica
Sarà direttore di importanti periodici come La grande Italia e di
quotidiani: L'Arena di Verona, I! Giornale di Genova, Il Resto del
Carlino di Bologna. Ricordiamo i grandi occhi azzurri di Armando
Mazza farsi ancora più liquidi e trasparenti quando ci parlava del
Manifesto dell’Antitradizione Futurista dalle righe del quale Apollinaire gli
inviava, nel 1913, fiori, rose , riservando merde ai conservatori e ai
romantici. Mazza aveva frequentato Guglielmo Apollinaire a Parigi e
Grasa Aranba a Rio de Janeiro, Croce a Napoli, ai tempi de La Diana
e Giovanni Gentile a Milano, proprio mentre il filosofo stava
orientandosi verso il fascismo. Amicissimo di Umberto Boccioni, che aveva
aiutato nei primi anni del soggiorno milanese, Mazza, era stato dipinto
dal maestro futurista in un esemplare pastello di rara fattura e di
deflagrante cromaticità, che pubblicammo nel 1977 fra le opere inedite di
Boccioni. Sarà Mazza a favorire l'attitudine di Boccioni per
la critica d'arte, presentandolo ad Umberto Notari, editore del
quotidiano, poi settimanale, Gli Avvenimenti dove il pittore reggerà per
qualche tempo la rubrica d'arte. Il fascismo di Armando Mazza restò
sempre moderato e la sua coerenza politica gli causerà nel dopoguerra
1940-1945 il più completo ostracismo, impedendogli di continuare la
attività giornalistica di cui ebbe profonda nostalgia sino agli ultimi
giorni di vita. Il forzoso silenzio pubblicistico ricondusse Mazza
alla poesia alla quale apporterà non trascurabili contributi in
versi liberi pubblicati, fra il 1948 e il 1959, presso editori
inadeguati. Fra i più importanti poeti del futurismo confluiranno al fascismo,
assumendovi incarichi di alta responsabilità, anche Auro d'Alba (Umberto
Bottone) che, a Roma, diventerà capo dell'ufficio stampa della
M.V.S.N. (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) e Paolo
Buzzi che, a Milano, assumerà la carica di Segretario Generale della
Deputazione Provinciale. Altri futuristi di minore rilievo, come il poeta
Federico Pinna-Berchet, autore delle Liriche d’Assalto, pubblicate a Roma nel
1930, il poeta parolibero giuliano Bruno Sambo e Ferruccio Vecchi,
prosatore e capitano degli Arditi, aderiranno al fascismo svolgendovi
ruoli anche decisivi. Sambo diventerà federale di Addis Abeba, mentre
Pinna-Berchet e Vecchi ricopriranno alte cariche corporative. Così il
genovese Bolzon, poeta-pittore futurista dal 1919 e battagliero
giornalista, sarà Sottosegretario alle Colonie nel 1928, poi Consigliere
di Stato e autore, fra il 1920 e il 1930, di saggi di critica sociale e
di teoria fascista pubblicati dalle edizioni Alpes di Milano. Anche
il grande invalido di guerra Giuseppe Steiner, piacentino, poeta
parolibero e autore di quei fondamentali Stati d'Animo disegnati, editi
nel 1923, che precorsero la poesia grafica di Pino Masnata e la poesia
visiva dei giovani fiorentini negli Anni
Sessanta, sarà nominato Consigliere Nazionale fascista. Dal futurismo si
orienteranno verso il fascismo anche il poeta-aviatore Guido Keller, legionario
fiumano e autore del lancio aereo di un pitale su Montecitorio a monito
di Francesco Saverio Nitti, il cagoia del Natale di sangue fiumano; e la
Medaglia d'Oro ferrarese Olao Gaggioli, poeta parolibero futurista e
pluridecorato ufficiale del XXIII Battaglione di Assalto dei Bersaglieri
sul Podgora. Nan va, infine, dimenticato il giornalista Ernesto Daquanno,
poeta parolibero e cofondatore a Milano del periodico I Principe, organo
fascista difensore della Monarchia integrale . Daquanno, che nel 1925 aveva
pubblicato Now c'è poesia, saggi sul risveglio dell’artigianato italiano,
diventerà nel 1927 capo ufficio stampa della Federazione Fascista delle
Comunità Artigiane. Un riferimento, poi, al poeta parolibero e autore
di teatro sintetico Guglielmo Jannelli, messinese, che dai Fasci
Futuristi , di cui era stato promotore nel 1918 con Marinetti, passerà ai
Fasci di Combattimento Siciliani
assumendovi compiti determinanti. Nel 1924 Jannelli pubblichetà a
Messina, per i tipi delle Edizioni della Balza Futurista un polemico
saggio dedicato a La crisi del Fascismo in Sicilia, dedicato in frontespizio A
Emilio Settimelli e Mario Carli, miei fratelli nella avanguardia artistica e
politica della nuova Italia e anime capaci di rendere pienamente la sincerità
che mi ha mosso a compiere queste franche pagine obbiettive. Questo
scritto di Jannelli conferma l’esistenza di una autocritica nell’ambito
del fascismo, di una volontà revt con 1acusaro adagio. .., oDbDedienza pronta,
cieca, aSS0luta. Così Jannelli vede il fascismo nel 1924: ... il fascismo
si è rotto in due pezzi: molta della parte più buona è rimasta bloccata,
impedita di agire; e l’altra parte trionfa esteriormente unita ma intimamente
diversa, poco moderna, niente affatto veloce e qualche volta insi
gnificante. Anche Pavolini, poeta, autore teatrale, regista, critico
d’arte e letterario, che si era avvicinato al movimento di Marinetti attraverso
l’opera del pittore futurista fiorentino Primo Conti e aveva dedicato nel 1924
un saggio monografico al fondatore del futurismo pet, infine,
pubblicare nel 1927, a Bologna per i tipi dello Zanichelli, quel
fondamentale Cubismo Futurismo Impressionisnio, aderirà al fascismo assumendo
importanti incarichi nel diret. torio del partito e al Ministero della
Cultura Popolare. Dal fascismo perverrà, invece, al futurismo il filosofo
Francesco Orestano, Accademico d’Italia, che negli Anni Trenta dedica al
movimento di Marinetti saggi di teoria estetica e di critica letteraria.
Orestano aveva pubblicato nel 1907 quegli importanti Valori Umani la cui
struttura teoretica aveva particolarmente influenzato il giovane Marinetti.
Anche ORANO (vedasi), scrittore, STORICO DELLA FILOSOFIA e sindacalista
sorelliano, che fu Deputato fascista per la Sardegna alla XXVI
legislatura e per la Toscana alla XXVII e al quale venne affidata nel
1926 la prima cattedra di storia del giornalismo nella facoltà di Scienze
Politiche dell’Università di Perugia, si orienterà verso il
futurismo. Nella raccolta di saggi critici I Contemporanei, pubblicata
a Milano da Mondadori nel 1928, Orano riserverà a Marinetti una esegesi
determinante, del tutta favorevole al futurismo considerato estetica
nuova di apertura internazionale. Dalla pittura futurista si muove, invece,
verso il fascismo Antonio Marasco, senz'altro il più impegnato e
coerente politico fra tutti gli operatori plastici del futurismo. Calabrese di
nascita, Marasco, ebbe parte rilevante nelle squadre d'azione fasciste di
Firenze dove si era trasferito prima ancora di arruolarsi volontario per la
guerra 1915-1918, in cui verrà gravemente colpito da gas di iprite sul
Piave e dopo essere stato promotore con Marinetti dei Fasci Futuristi.
Marasco aveva accompagnato Marinetti nel suo secondo viaggio in Russia, a
Mosca e a Pietroburgo, dove avrà modo di conoscere Velimir Klebnikow e
Wladimir Mavakowsky e di dedicare fisiosintesi di estrema inventività
grafica al medico-pittore Nicolaj Kulbin, al pittore Nikolaj
Burliuk, alla poetessa Elena Guro, al poeta-aviatore Kamensky, al poeta-scrittore
B. Livshits, al musicista A. V. Lurié e al regista Tairow. La pittura di
Ma. rasco presenterà sempre componenti sperimentali, non condizionata da
temi fascisti o da enfasi dell'aviazione militare e civile che, purtroppo,
sviliranno molta parte della neropittura futurista degli Anni Trenta.
Antonia Matasco precorre il cosiddetto astrattismo delineatosi
nell’ambito della milanese Galleria del Milione dei fratelli Ghiringhelli e può
essere considerato uno dei pionieri del costruttivismo e del concretismo
internazionali. Particolarmente affezionati a Marasco avevamo
avuto modo, negli Anni Sessanta, di presentare la sua prima mostra
personale a Milano, di carattere antologico, attraverso la quale il più vasto
pubblico riuscì a scoprire le sue ricerche preastratte e protoconcretiste
realizzate a Firenze fra il 1923 e il 1930 Marasco restò sempre legato al
futurismo e il suo fascismo ebbe coerenza di adesione alla Repubblica
Sociale Italiana dove ricoprì importanti incarichi nella rinnovata
Direzione Generale delle Belle Arti e dei Beni Culturali del Ministero
della Cultura Popolare. Questo magistrale pittore svolse anche attività
di scrittore e di critico d’arte e un suo libro, pubblicato a Firenze,
Parrorami allo Zenit, risulta anticipatore dell’attuale
science-fiction. Nell'ambito del movimento futurista, Marasco,
promosse i Gruppi Futuristi Indipendenti, attivi a Firenze, che rivelarono
personaggi della importanza di Cesare Augusto Poggi, architetto razionalista,
tecnologo del cemento armato e ideatore di singolari costruzioni civili
per la difesa bellica. Quando, nella seconda metà degli Anni Trenta,
s'inasprirà la campagna fascista contro il futurismo, accusato di difendere
l'arte astratta considerata giudea e massonica , Matasco sarà a
fianco di Marinetti per chiarire i termini di indipendenza dell’astrattismo
plastico da ogni motivazione di razza, da qualsivoglia matrice israelitica o
muratoria. Se disponessimo di maggiore spazio per analizzare
compiutamente questo pericoloso momento dei rapporti futurismo-fascismo ne
risulterebbe la conferma di una precisa interdipendenza di propositi e di
azione fra i due movimenti. Il futurismo non condizionò mai le
proprie libertà espressive, i propositi di rinnovamento, di costante evoluzione
spirituale, alle esigenze agiografiche del fascismo che, del resto, non
considerò il futurismo come arte di Stato, riservando questo pericoloso
privilegio al movimento del Novecento, celebrarore di miti
romanistici e imperiali, istigarore del ritorno al neoclassicismo,
pur mascherato da un malcompreso funzionalismo. Antonio
Marasco morirà a Firenze, nel 1975, alla soglia degli ottant'anni.
Dopo un Jungo soggiorno romano aveva dipinto, sino all'ultimo,
cromostrutture dinamiche e inoggettive di autonoma soluzione cinevisuale.
Puntualmente ci inviava lettere di accorata italianità, preziosi appunti di
teoria plastica che, un giorno, dovremo pur raccogliere e pubblicare come
contributi fondamentali alla storia del costruttivismo e del concretismo
internazionali. Noi giovanissimi non eravamo disposti ad anteporre la dogmatica
della mistica fascista alle libertà espressive promosse e favorite dal
futurismo, né ci si potrà accusare di aver posto le nostre prime ricerche
futuriste al servizio dell'apologia di regime. Così le nostre
Parole per la Guerra, pubblicate nel marzo del 1944 dalle edizioni dî Futuristi
in Armi, sovvenzionate e dirette da F.T. Marinetti, non rinviano ai
canoni conformisti dell'aeropoesia futurista di guerra di quegli anni ma
anticipano, piuttosto, modalità di poesia concreta e visuale, come è stato
ampiamente rilevato dalla critica internazionale più obiettiva e
attenta. Il nostro poema Bimba / bomba, del 1943, può
essere, infatti, considerato il primo esempio esistente di poesia
concreta a struttura semantica reversibile e a susseguenza ottica
alternata, dove l'uso della parola-chiave è già serialistico. Il
nostro fascismo eta quindi disarticolato dalle pratiche dell’estetica futurista,
proprio come si era verificato per gli iniziatori del futurismo: F.T.
Marinetti, Paolo Buzzi, Armando Mazza, Auro d’Alba, Luciano Folgore. Infatti
anche i nostri Testi-Poemzi Murali, pubblicati nel 1944 dalle Edizioni
Etre (Repubblica) con un collaudo di Martinetti, piuttosto di risolversi
nell'abituale apologia guetresca di quel periodo, introducono un modo
nuovo di poetare inaugurando le problematiche di quella poesia
visuale che, solo negli Anni Cinquanta, troverà consensi internazionali
sino a farsi scuola di poesia avanzata. L’ideologia politica di Marinetti, le
teorie del suo particolare nazionalismo prefascista sono raccolte in due volumi
pubblicati in tempi diversi. Democrazia Futurista, edita a Milano da Facchi, è
la sintesi delle posizioni politiche assunte da Marinetti nell'immediato
dopo-guerra. Vi si ripercorre l'atmosfera in cui nel 1918, dopo Caporetto,
Marinetti fonda i Fasci Politici Fututisti con Bottai, Settimelli,
Carli, Jannelli, Marasco, i pittori
Galli, Balla, Rosai, Depero, il poeta-pittore cremonese Mainardi, lo scrittore
Chiti, il poeta Nicastro, Bontempelli, il chirurgo Masnata, poi Senatore
del Regno, padre del poeta parolibero stradellino Pino Masnata, ai quali
aderiSta settanta intellettuali e uomini di varia estrazione culturale.
I Fasci Politici Futuristi si trasformeranno, poi, gradualmente in
Fasci di Combattimento confluendo nel. lo squadrismo fascista. Così,
quando i fascisti parteciperanno per Ja prima volta alle elezioni politiche del
1919, rinetti, Piero Bolzon, il poeta-aviatore Giacomo Macchi,
Baseggio e Podrecca. Futurismo e Fascismo, pubblicato da Franco
Campi. telli, editore in Foligno, nel 1924, indica, invece, la personale
interpretazione della dottrina fascista praticata da Marinetti e da molti
artisti futuristi, come dai numerosi affiancatori e propagandisti del
movimento futurista. Con il manifesto L'Impero Italiano / A Mussolini
Capo della Nuova Italia redatto da Marinetti, Carli e Settimelli, il
futurismo, già in quegli anni, istigherà il fascismo alla fondazione
dell'Impero, precorrendo una realtà che, negli Anni Trenta si
concluderà con la conquista dell'Etiopia. Marinetti scriverà
nel 1924: il Fascismo, naro dall’interventismo e dal futurismo si nutrì
di principi futuristi. Una storia parallela dei due movimenti, ancora da
scrivere, dovrà tener conto della mai rinunciata indipendenza futurista
che non condizionò le esigenze di libera ricerca espressiva alla
necessità della politica dominante. Innanzi tutto confesso che sono nato
alla vita sociale prima come fascista e dopo come futurista.
Avevo sedici anni quando, proprio in corti. spondenza del mio
compleanno, sottoscrissi una domanda di ammissione ai Fasci di
Combattimento . La domanda fu avvallata da due miei amici di maggiore età,
come soci presentatori, i quali compirono coscientemente un piccolo falso
alterando di due anni la mia data di nascita al fine di consentire la mia
ammissione come socio ad ogni effetto. Così diventai a pieno titolo uno
dei pochi iscritti della Sezione di Reggio Calabria dei Fasci di Combattimento
, che aveva allora sede in una baracchetta per i bagni di mare, in
disuso. Perché questo sedicenne studente del Liceo aveva
ascoltato e risposto ad un richiamo politico certamente pericoloso? A mio
avviso, furono determinanti, l’amore per la Patria, nato dentro durante
fa guerra sull’esempio di un avo materno che ne aveva avuto, forse, di
troppo; l'entusiasmo per la vittoria e la conseguente indignazione
per quanto accadde subito dopo con l’attività dei cosiddetti progressisti del
momento, ostili ai reduci, in contrasto con la spavalderia ed intraprendenza di
questi ultimi. Il mio apptoccio con il Futurismo avvenne,
invece, due anni dopo, con la scoperta di Zang iumb tuumm e
l’incontro con F.T. Marinetti Questo essere prima fascista e poi
futurista, mi sembrò una particolarità personale e la confessai un giotno dopo tantissimi anni a Dessy, e lui mi disse che gli era
accaduto lo stesso benché avesse cinque anni più di me. Comunque è chiaro
che vi fu un rapporto di identità ideale fra queste due forze, anche se
vi furono dissensi spesso di carattere costruttivo, E’ difficile infatti
che possano andare in tandem per lungo tempo movimenti di carattere
politico e movimenti di carattere intellettuale o culturale. Le ragioni
mi sembrano evidenti: un movimento culturale, anche se basa la propria
forza nelle realtà della vita (come il futurismo), ha il suo fulcro nella
idea-base che difende con ortodossia e non è disponibile per transazioni
ideologiche. Il movimento politico, invece, pet propria natura, specie
quando atrivi alla gestione del potere, diviene duttile e transigente al fine
di mantenere è consolidare la proptia forza concreta, allargando la base
dei consensi. Il Futurismo prima della guerra mondiale si caratterizza
artisticamente con l'invenzione dei grandi temi di rinnovamento nei settori di
tutte le arti e, in veste politico-sociale, nell’esaltazione dell’Italia,
fantasticando per questa, una nuova organizzazione anti-demo-liberale ed
anticlericale. Un nuovo mado di vivere. Uno Stato industriale ed agricolo
tecnicamente progredito, che si progettava astrattamente, certamente
irrealizzabile. Qui i tentativi di un’azione politica che non aveva,
però, un valido autonoma sviluppo organizzativo. Come pretenderlo da
poeti ed artisti? Nel tempo in cui Marinetti iniziò il
Movimento, le forze che affermavano di voler realizzare un nuovo sviluppo
sociale al fine di un miglioramento della situazione economica delle
classi più disagiate e trascurate, trovavano una sede formalmente appropriata
nelle spinte del sacialismo deamicisiano; ma tale situazione ebbe durata breve
perché questo socialismo si sviluppò in senso internazionalista apatriottico
collettivista antindividualista e fu sconfitto dagli eventi della prima guetra
mondiale. Tanto è vero che dal suo seno, a guerra conclusa,
prosperarono il comunismo ed altre scissioni e nacque il
fascismo. Sono noti e possono essere facilmente consultati i documenti
delle manifestazioni spiccatamente politiche del movimento futurista che
precedettero la Fondazione dei Fasci di Combattimento . Intendo rifetirmi
al Programma Politico Futurista, firmato da Marinetti Boccioni Carrà Russolo,
all'azione politica svolta da La Balza Futurista fondata da Di Giacomo
Jannelli e Nicastro del 1915, e dei Fasci Interventisti Siciliani , di
Roma Futurista e dei relativi gruppi del Partito Politico Futurista che
concretizzava un suo programma nel libro Democrazia Futurista di
Marinetti, eccetera eccetera. Tutte queste forze si concentrarono nel movimento
fascista, sia aderendo direttamente all'assemblea di fondazione di Piazza
San Sepolcro in Milano, sia successivamente anche per forza
d'inerzia. Il fatto è che di solito quando si parla di partecipazione
politica dei futuristi, ci si richiama soltanto al ricordo dell’attività
degli artisti che militarono con la qualificazione di futuristi . Vale a
dire dei poeti, scrittori, pittori, limitandosi ovviamente ad esaminare il
contributo di coloro che hanno raggiunto maggiore notorietà, trascurando
i minori . Ma questi ultimi erano in numero stragrande e molto attivi. Senza
tenere inoltre conto che i maggiori spesso presi del tutto da altre
attività, non erano altrettanto validi e disponibili in campo politico.
In verità, il Futurismo di quel tempo è stato un movimento a larga
partecipazione di giovani, di tantissimi giovani. Non tutti poterono ovviamente
militare nel campo dell'Arte e maturare tanta notorietà da essere
ricordati anche oggi. Ma tutti furono politicamente attivi e furono a
migliaia i militanti di futurismo che parteciparono ad episodi fascisti negli
anni precedenti, o appena successivi, alla marcia su Roma. Non
credo di sbagliare se affermo che nelle cosiddette schiere dello squadrismo
molte furono le partecipazioni futuriste. Azione lotta e coraggio erano
proposizioni futuriste. Basta ricordare la prima azione di Marinetti
e Ferruccio Vecchi (16 aprile: Piazza Mercanti Milano) e ricordare i
tanti nomi dei militanti futuristi che ebbero più spicco in campo
politico che in quello dell’arte. Alla fondazione dei Fasci, confluirono
nel fiume che diventò principale, molteplici rivoli di pensiero (come
ho già accennato) movimenti di ogni genere che avevano un minimo
comune denominatore nella volontà di rinnovare in qualche modo l’Italia
che, pur vittoriosa nella guerra, si dimenava in serie difficoltà ed era
incapace ad affrontare la svolta storica che la vittoria aveva aperto.
Anche i Fasci Interventisti Futuristi Siciliani, che avevano preso
forza dalla volontà di Jannelli e Nicastro (il prima con capacità ed
intendimenti politici ed il secondo come letterato e poeta), ma dei quali non
si è ancora scritta la storia, né accertato la reale efficienza, vi
aderirono. Come aderì Marinetti con tanti altri futuristi che risultano
elencati nella schiera dei cosiddetti sansepolcristi . In seguito,
quando il fascismo andò al potere, ai futuristi sembrò che finalmente sarebbero
stati realizzati nell’arte gran parte dei propositi del futurismo. In questa
illusione fummo cullati da alcuni elementi: la impostazione altamente
patriottica dei propositi, la valorizzazione del combattentismo e del
volontarismo, l'amore per il nuovo ed il rischio, il pragmatismo attivo
dimostrato immediatamente con i primi atti di governo, eccetera. Va anche
rammentato ai giovani di oggi, frastornati da affermazioni non
rispondenti alla realtà di allora, che la personalità di Mussolini era
molto al di sopra non solo di quella dei suoi collaboratori politici, ma
sovrastava la media dei cervelli politici di quel periodo. Tanto è vero che
furono appunto gli avversari a votargli subito i pieni poteri che gli
consentirono l'avvio della prima gestione governativa. Questo fatto
rilevante, gli consentì di attrarre dapprima le simpatie collettive ed in
seguito a conquistare una enorme fiducia, non solo da parte dei suoi
sostenitori di un tempo, ma anche da parte di ex avversari e simpa.
tizzanti e nei periodi più floridi perfino dai nemici del sistema
politico che egli cercava di sviluppare. Quando il fascismo
s’insediò al governo per realizzare la rivoluzione {a dire dei fascisti),
o perché chiamato dalla debole monarchia (come dicono gli altri), subì
dapprima una sosta di aggiornamento dovuta alla urgenza de) problemi
immediati dalla cui soluzione dipendeva il recupero dell'ordine econamico e
politico. Per questo, Mussolini non si sbarazzò immediatamente degli
avversari che erano troppi e in gran parte si erano dichiarati
disponibili a collaborare per il meglio, pur costituendo nello
stessa tempo zone di resistenza alle innovazioni Così anche
nei fatti dell’Arte ovviamente meno pressanti, ove non comparvero personalità
nuove che avessero seri propositi di rinnovamento e disponibili a rivoluzionare
tutto, come i futuristi. I quali con a capo Mari. netti e nella quasi
totalità si convinsero che la rivoluzione potesse realizzarsi per pradi anche
in Arte. Che la forza del nuovo potesse penetrare per gradi nelle
istituzioni d’Arte e trasfarmarle. Pura illusione. Illusione giustificata sul
momento non solo dal fascino personale di Mussolini al quale ho già
accennato, ma anche da certe sue caratteristiche gestuali (come la
particolare sintetica e precisa oratotia che andava direttamente allo
scopo in modo esplicito) che lo presentavano come un congeniale capo
futurista. Se si aggiunge inoltre l'amicizia personale fra Mussolini e
Marinetti, vicini anche in altre precedenti azioni politiche, si
comprende come il movimento rivoluzionario rappresentato in arte dal Futurismo,
rimase a fianco del Fascismo (esso stesso ancora tivoluzionario alla basel,
anche se in via di adattamento, questo, alle esigenze immediate
dell'esercizio del potere su una nazione che di rivoluzionari di
qualsiasi tipo ne ha avuto per la verità sempre pochi, anche se gonfiati ad
oltranza quando occorre, in tutti i testi di storia antica e
recente. I futuristi costituirono una avanguardia nelle fila del
fascismo e vi rimasero nella quasi totalità. Basta citare i] messaggio
che concluse il Congresso futurista di Milano (L'Impero, 27 novembre
1924): L'ultima riunione del congresso futurista è stata dedicata
all'esame dell'attuale momento politico. Marinetti espose alla numerosa
assemblea una dichiarazione precedentemente elaborata in accordo con i maggiori
futuristi politici, la lettura della dichiarazione fu
entusiasticamente approvata ed acclamata in ogni suo punto. Ecco la
dichiarazione: I futuristi italiani, primi fra i primi interventisti
nella piazza e sui campi di battaglia e primi fra i primi diciannovisti
più che mai devoti alle idee ed all'arte lontani dal politicantismo,
dicono al loro vecchio compagno Benito Mussolini: Primo: con un gesto di
forza ormai indispensabile liberati del parlamento. Secondo: restituisci al
fascismo ed all'Italia la meravigliosa anima diciannovista disinteressata
ardita antisocialista anticlericale antimonarchica. Tetzo: Concedi alla
monarchia soltanto la sua provvisoria funzione unitaria, rifiutale quella di
soffocare e morfinizzare la più grande, più geniale, più giusta
Italia di domani. Quarto:- non imitare l’inimitabile Giolitti, imita il
grande Mussolini. Quinto: Pensa sempre all'Italia immortale ed al Carso divino.
Sesto: Schiaccia la opposizione socialista antitaliana di Turati e
l'opposizione mediocrista di Albertini con una ferrea dinamica
aristocrazia di pensiero. Tu puoi e devi far ciò. Noi dobbiamo volerlo e lo
vogliamo. Marinetti - Capo del Movimento Futurista Italiano. Sono
inoltre innumerevoli le manifestazioni dei futuristi in tanie occasioni, con
opere scritti ed anche con la partecipazione concreta alle guerre di quel
periodo.Voglio ricordare, però, un solo scritto di Fillia (morto nel 1930
e che adesso cercano di passare per antifascista) il quale in occasione
della Quadriennale di Torino, così scriveva sulla sua rivista Vetrina
Futurista: Bisogna, però, giungere a “convincere” il grosso
pubblico, ingannato a nostro riguardo dalle false inter pretazioni.
Perché il favore organizzativo che oggi ci circonda, non basta: è assurdo riconoscere
il futurismo come manifestazione d'Arte ed ammettere
contemporaneamente le antiche manifestazioni. La vita può avere
individual mente, diverse interpretazioni, ma tutte devono essere
inquadrate in una sola atmsofera sensibile, corrispondente alla vita
stessa. Non voglio con questo negare il diritto di esistenza a intere
categorie di pittori rimasti spititualmente arretrati: ma è necessario
preparare il pubblico alla loro graduale eliminazione dalla vita
artistica ufficiale, fino al riconoscimento del Futurismo “arte di Stato”
massimo riconascimento che lo caratterizzerà nella sua importanza. Purtroppo
però le autorità artistiche avevano il sopravvento favorendo a vele spiegate
l’architettura di Piacentini e gli enormi pupazzi della scultura e pittura
novecentista, effettivamente arte del regime. E noi futuristi
interpretavamo le isianze di rinnovamento dell’arte senza alcun
riconoscimento dal Regime che ritrovava sé stesso nelle manifestazioni
novecentiste. Questo, non mi stanco di ripeterlo, negli Anni
Venti. E poi? Poi nulla. Le vicende, le difficoltà personali,
gli entusiasmi e le depressioni, gli alti e i bassi, il lavoro e la maggiore
maturità. Ma non creda di sbagliare se affermo che noi futuristi vivemmo
quel tempo con spirito indipendente e piena libertà fiduciosi che in
fondo avremmo avuto ragione. Anche se spesso sopportati e negletti dalle
autorità artistiche e subiti obiorto collo quando necessario.
Poi andammo all'ultima guerra, che fu sconvolgente per tutti. To ne
vissi scrupolosamente la mia parte con coerenza. Fui costretto fuori a lungo.
Pet un anno di guerra, ne subii sei di prigionia e non conosco nei
particolari ciò che è avvenuto qui mentre ho già scritto delle mie
esperienze. AI ritorno mi sembrò di sbarcare in un altro mondo al
quale non mi sono ancora completamente assuefatto. Ma ripresi a vivere da zero
e nell’aprile del ‘47 cominciai la mia nuova personale battaglia per
il futurismo con la mostra alla Galleria di Roma inaugurata da Benedetta
c dedicata a Marinetti. Continuai ancora e vado avanti con i
futuristi sopravvissuti e con l'appoggio dei giovani che comprendono e
non disdegnano l’idea del futurismo che continua e si rinnova
attraverso le spiccate personalità dei suoi artisti. Crali, lei è pittore
ed è futurista Uno dei pochis. simi, oggi. Crede che il futurismo sia
ancora attuale? SÌ, ma non per merito dei futuristi. Ma ha una sua
attualità perché si è espresso, si è mosso, e ci parla ancora. Ma non
certo per chi ci ha mangiato sopra, per chi non è mai stato futurista, ed
ha espresso solamente necrofilia, vera e propria necrofilia. Il futurismo
di prima, quello per cui lei aderì al movimento, o vi st convertì, come
la investì per così dire, o come la ispirò? Non mi sono affatto
convertito , perché non c'era niente da convertite. Mi sono trovato di
fronte al futurismo come un’anima candida, che non sa e non è consapevole
di nulla. Mi sono ritrovato una simpatia inconscia per alcuni quadri riprodotti
su Il Mazzino illustrato di Napoli. Mi sono piaciuti, mentre ad un amico
mio, che la pensava diversamente da me, non piacevano. Cominciammo a
litigare, e per litigare ad approfondite l’argomenta ecc. ecc. Così ho
cominciato ad essere interessata al futurismo. E sono partito senza avere una
preparazione di mestiere. Ho fatto rutto da solo, senza imparare a
dipingere o disegnare, anche se poi una specie di grillo della
coscienza mi ha suggerito che dovevo imparare a dipingere, sia pure
da solo (anatomia, prospettive, ecc ). L’astratto e il figurativo erano | temi
o le prospettive dominanti. Ho cercato una terza via , che fosse tutta
mia, tutta personale: una ia di mezzo fra il figurativo e l'astratto. Poi
ho lasciato il figurativo per la mia pittura futurista. Credevo di
dover dire ciò che altri non avevano detto. Così mi sono accostata
a Marinetti nel '29, quando gli scrissi per aderire al movi. mento.
L'aeroplano era una macchina nuova, un congegno del futuro, o, per
allora, del futuribile . E fu una delle realtà che mi diedero più spunti,
più ispirazione (l'Idrovolante italiano, D’ANNUNZIO (vedasi) e il volo su
Vienna, e il campo di atterraggio vicino a Zara, dove io sono nato,
ecc.). Così sono diventato acropittore. E lo sono rimasto, ancora
oggi. Marinetti, invece, per quello che lo frequentò o poté
essergli vicino, come lo considera? Forse l’unico vero futurista, © forse
solo un grande maestro ? No, non lo considero un maestra, perché non
ha mai voluto essere un maestro . Ci ha sempre stimolato e spinto a
lare, senza mai dire però come dovevamo fare Era contrario ad ogni
gerarchia nel movimento del futuri. smo. E si opponeva sempre a Boccioni
e Prampolini, che volevano imporre la loro pittura. Voleva che ognuno
di noi fosse libero e indipendente. Prampolini invece voleva fare
il caposcuola. Marinetti voleva solo che ognuno fosse se stesso e non ha
creato nessuna scuola. Amava la sua libertà e la sua indipendenza a tal
punto che non poteva imporre insegnamenti. Forse D'Annunzio lo aveva
influenzato in questo senso, nella vita mandana libera, giovane e spregiudicata.
Io lo ricordo e lo ricorderò sempre con riconoscenza. Quasi come un padre. O
come un fratello mapgiore. E come l’unico vero futurista, come ho sempre
de! resto pensato. Gli altri hanno tutti mollato . Lui è andato avanti
fino all'ultimo. L'unico che può personificare il futurismo è fui,
l’unico che non ha rivestito patine di cul: turame intellettvalistico,
come hanno fatto invece molti altri (Soffici, Conti, Palazzeschi, Papini,
ecc.). Amava essere futurista sempre e comunque, anche nel gusto del
contrasto. Amava la luna, e scrisse un manifesto contro il chiaro di Juna .
Uccidiamo il chiaro di luna , vi si diceva, forse contro i poeti. Ma non
era poeta? Predicava la guerra, anche se non avrebbe fatto male a nessuno.
Amava la madre e la donna in assoluto, e ciecamente. Ma combatté la
donna sul piano ideologico. In questo è veramente futurista. E lo è solo lui.
Gli altri non lo sono mai stati. Il futurismo di Marinetti che accento o
che angolazione aveva particolarmente: letteraria, artistica, filosofica o
piuttosto politica? Politica no, assolutamente e mai. Filosofica neanche,
se non forse in senso attivo, ma allora senza pensiero . Il futurismo entra in
politica soltanto quando la patria entra in pericolo , aveva detto Marinetti
in un momento cruciale della nostra storia nazionale. Il manifesto
politico del fuuttismo è conseguenza del fatto che esso sta movimento
d'arte e di vita, e come tale anche di vita politica, tout court. Il manifesto
politico è del ’13. Dopo la fine della guerra l'accostamento agli arditi o
al fenomeno dell’arditismo era inevitabile, e Marinetti si unisce
in vincolo d'amicizia, anche politica, con Mario Carli per esempio
(ardito) e con Mussolini. All’avvento del fascismo e allo accostamento di
Mussolini alla monarchia e alla chiesa Marinetti si stacca. Abbandona il
partito e si ritrova pressoché in miseria, con moglie e figli. Aveva
grande ammirazione ed amicizia per Mussolini, che non credo fosse
ricambiata per una certa forma di invidia-gelosia mussoliniana nei
confronti di Marinetti. Il regime gli offriva incarichi 0 prebende, che
continuò a rifiutare. Mussolini arrivò ad offrirgli la presidenza
dell’Associazione dei grandi alberghi italiani, proprio a lui che disprezzava
l’industria del forestiero. Accerta solamente, e sollecitato, la segreteria
dell'Associazione Italiana Autori ed Editori, altrimenti forse destinata
al solito arraffone di turno. Tuttavia si tenne sempre in disparte
e non fece mai politica attiva, non partecipò mai direttamente al regime,
che anzi forse osservava contrariato, a parte solo qualche onesta e
sincera manifestazione di simpatia per Mussolini. Si oppose alla presa di
posizione politica di Hitler contro l’arte moderna e d'avanguardia, che si
manifestò e sfociò nella censura e nella repressione dell'arte. E
nella stesso momento organizzò a Berlino una mostra di aeropittura
futurista che creò non pochi problemi e suscitò non poche difficoltà
anche diplomatiche fra i due governi ira liano e tedesco. Oltre che
produrre una situazione difficile e imbarazzante per le posizioni o i
movimenti artistici e intellettuali della Germania dell’epoca. In Italia fu
l’unico in questa occasione a prendere posizione ed esprimersi contra
l’ingerenza politica e l'intervento del regime di Hitler nella cultura e
nell'arte. Ero da Marinetti a Roma: arrivava Marinotui (presidente
della Snia Viscosa) che era stato da Mussolini insieme ad altri
consiglieri regionali del regime. Marinotti si era accinto a raccontate a
Marinetti che tutti i consiglieri avevano relazionato Mussolini e che
nessuno aveva avuto il coraggio di dirgli che le cose andavano male,
tranne uno, il consigliere sardo, che aveva sostenuto la stanchezza della
gente, la maldicenza, il tradimento. Marinetti osservava che non era possibile
che non si sapesse... È Marinotti ribatté che lo si sapeva, ma che non
era possibile dirlo a Mussolini... Il giorno dopo ritornai da lui e mi
comunicò che il consigliere sardo era stato nominato da Mussolini ispettore
generale per tutta l'Italia. Poi si mosse da Venezia e risalì verso la
Lombardia, perché non se la sentiva di starsene in disparte a far
l’antifascista ... L'ultimo suo poemetto in versi, l'ultima sua espressione
letteraria s'intitola appunto: Musica di sentimenti per la X Mas. E vi si
dice: Io sono fato di aeropoesia fuori tempo e spazio . E' già
definizione sintomatica e totale dell'opera. Ailora, Marinetti fu
fascista? E se lo fu, lo fu fino a che punto? O non lo fu, e fino a che
punto non lo fu per essere futurista? Marinetti è stato sempre e
comunque e saprattutto futurista. Questa è la mia impressione. Perché ha
seguito la sua natura e la sua volontà. E nel suo essere futurista non è mai
entrata la faziosità di un genere che entra in politica . Non fu mai fazioso.
Una volta eravamo a casa sua, in un gruppo di amici, a parlar di
Majakowski e di futurismo russo. Qualcuno obiettò: Ma Majakowski è
un comunista . Ed egli allora ribatté immediatamente: Non ha nessuna
importanza. Perché Majakowski è prima di tutto un grande poeta . Nei suoi
rapporti cal fascismo si può considerare forse il fatto che fosse nato al
l’estero, che fosse educato in Egitto alla cultura francese, spesso
pesantemente sprezzante verso l'Italia. Sentì quindi una specie di aspirazione
all’Italia 0, più ancora, di nostalgia della patria. Poi, volle rivendicare il
futurismo come fatto classicamente e squisitamente italiano. Così
s'inimicò tutta la cricca culturale parigina, ma volle
sprovincializzare e dare un certo orgoglio e una certa autonomia alla
cultura italiana. E pensò o vide che Mussolini potesse essere l'uomo
adatto per rifarla, l’Italia, e per darle una sua nuova base, culturale ed
artistica. Senza sapere, alle origini o senza conoscere, quando era
all’estero, ed anche a Parigi, la furbizia, anche culturale degli
Italiani. Lui fu in buona fede. Dal fascismo ebbe l’Accademia d’Italia
(con appannaggio onorario in un momento in cui era anche in disagi
economici), ed ebbe la Biennale di Venezia {come una riserva indiana ).
Il suo è un fascismo di speranza o di desiderio, nella speranza di poter
vedere realizzato il suo futurismo. E' contrario al Novecento e al
classicismo romano alla Piacentini, che Mussolini invece appoggiava.
Forse tutti i regimi, quando si affermano, cercano di eliminare le
avanguardie. Il fascismo non le appoggiò, mentre il nazismo e il comunismo le
stroncarono. Sta di fatto che Marinetti appoggiava Terragni a Como, e non
appoggiò mai Piacentini. Alla Biennale, a Venezia, il futurismo è stato
accettato sì, ma mon con la considerazione che Marinetti si sarebbe
aspettato, e che sarebbe davuta spettare all'unico movimento d'avanguardia
esistente allora in Italia. E invece è stato accolto sì il futurismo, ma
quasi messo in disparte. All'inaugurazione della mostra, durante il
discorso di presentazione, Marinetti si alzò ed intervenne ad alta voce,
presente il Ministro dell'Educazione Nazionale, lamentando l'ingiustizia
per l'esclusione dell'unico movimento d'avanguardia dell'arte italiana.
L'anno dopo Mussolini stesso gli concesse un padiglione di riserva, che doveva
rimanere, ogni anno, a disposizione dei futuristi (la riserva indiana ,
già summenzionata). Mussolini invece, secondo lei, fu futurista?È stato
un politico ed ha appoggiato Marinetti per avere il futurismo dalla sua
parte. Anche se il futurismo aveva contribuito, pure, alla sua formazione.
Che avesse jspirato un regime al ritorno verso l'antica Roma nei
suoi simboli e nei suoi modelli, vuol dire tuttavia che era rimasto fuori
dal futurismo. E allora il fascismo di Mussolini ed il futurismo di
Marinetti non hanno nessun punto in comune? O si possono, secondo lei,
mettere in relazione o in collegamento, e fino a che punto ciò è
possibile? Per Mussolini il fascismo è politica, per Marinetti il
futurismo è poesia. Sono due posizioni completamente diverse. Non si può
quindi parlare di futurismo fascista, nemmeno del primo, quello delle
origini? Finché un movimento politico è in fase rivoluzionaria, le
posizioni della rivoluzione culturale con quelle politiche coincidono;
poi però quando il movimento politico diventa regime si burocratizza, e
allora non può non scontrarsi con la cultura che rimane sempre
rivoluzionaria e che non può assimilare come tale le esigenze politiche di un
partito. Ecco perché esistono punti di contatro o momenti di simbiosi tra
affermazioni marinettiane e fascismo politico dei primi anni, poi rallentati o
rilasciati quando si afferma l’ordine romano , utile al regime, ma
speculare di un passatismo senza mezzi termini, e totale. Marinetti
tollera questa esigenza politica di Mussolini, ma non la condivide od
ammette in campo artistico e culturale. Tuttavia Marinetti era uomo che non
confondeva amicizia ed ideologia: poteva combattere con un amico per principi
ideologici, anche violentemente, senza però intaccare l'amicizia, che rimaneva
sempre e comunque. Resta oggi il futurismo? E resta come realtà
artistica solamente, o anche politica, nella sua dimensione d’espressione
artistica? Senza fascismo, che è finito ovviamente, e da tempo. Forse resta il
futurismo, come tensione di rinnovamento? Sì, il futurismo resta, credo,
nella sua posizione di rinnovamento, o di indicazione nella creazione di
nuove forme, e di nuove idee, o di valori nuovi. Oggi si contesta
per distruggere senza dire quello che si vuole proporre in sostituzione.
Il futurismo aveva invece dato i suoi manifesti. Volle distruggere, ma propose
ciò che voleva ricostruire. Anche oggi, per quel che resta, il futurismo cerca
un suo rinnovamento che si superi continuamente. Oggi c'è molta
saggistica, ma si vede poca poesia. Forse manca l’entusiasmo, nonostante
la grinta. Penso che esista ancora futurismo oggi, perché esiste ancora
temperamento di novità, e di rinnovamento. Perché esiste ancora una
spinta vitale di ossigeno . E l'opera deve avere un suo sangue, se
si tratta d’opera d’arte. Un sangue di cui deve vivere, o un sangue per
cui possa vivere. É l’ossigeno è un valore assoluto che resta, non si
toglie, perché è ineliminabile. Anche in bottiglia, nella plastica,
rarefatto o alla luce del sole. Il futurismo è un po’ come l'ossigeno, o
l'anima o lo spirito del lavoro e dell’opera, o della vita: è un po’il
suo entusiasmo. [Intervista u cura di Schiavo] Per quanto riguarda lo
svisceramento dei collegamenti fra Je correnti del futurismo indipendente
come movimenro artistico e culturale ed il fascismo come movimento politico e
sociale, particolarmente per quel che si riferisce al carattere autonomo
del futurismo torinese e al fascismo delle origini, è ovvio che i
tapporti intercotsi fra di loro furono lungi dall’essere quelli di un
matrimonio d'amore. Consistettero specificamente in taciti e necessari
accordi immaginati per pater dare vita a creazioni autentiche che
abbisognavano di un ambiente rispettoso dei motivi di una vera
rivoluzione (quella artistica e spirituale scatenata dal futurismo), in
un clima fascista che di rivoluzionario non ebbe in seguito che la sola
etichetta. Il futurismo torinese, nel tentativo di operare in piena italianità,
condivise nelia sua giusta misura taluni prin cipî che il primo fascismo
stabili quando provò a integrarsi nel campo difficile della moderna civiltà
europea. Alla stessa stregua e per raggiungere gli stessi fini il
futurismo piemontese trattò anche con l’anarchismo e il comunismo idealitario
di GRAMSCI (vedasi), sui quali ebbe una considerevole influenza negli sviluppi
dell’architettura. Il senso altamente novatore di Fillia e la sua
molte. plice attività (stupefacente in una esistenza così breve) per:
sonificano le forme coerenti e concrete dei concetti più originali e più
saldi delle imprese del futurismo torinese. Figura rappresentativa
dell’essere istantaneo, Fillia non temporeggiava mai, viveva come una
ruota, partiva come una freccia. Propugnatore di quel futurismo mistico
che per ordinarie ragioni razionali ed estetiche militava in
margine della Chiesa cattolica apostolica e romana di quel l'epoca, egli
affermava con rigare di logica e con argomentazioni arditissime che la
religione ha relazione di somiglianza con la geometria interna dell’arte.
Misteri dottri. nali da ricrearsi plastiicamente per dare forma concreta
ai nuovi concetti della pittura sacra erano per lui la Trinità, la
Redenzione e la Vergine. L’apostolato di Fillia s'immedesimava con quello del
futurismo in cui si cercava una forza di liberazione, e la trovava in
quel movimento, ciecamente. Originati da una geometria astratta superiore,
i suoi dipinti possiedono quella qualità rara di non essere visà, e
perciò non ricavati dal vero, ma di sorgere senza shavatura alcuna dal proprio
io, e come se l'artista non vi fosse per nulla, per cui aspettavamo ogni
sua scoperta con un senso di impazienza, di ansietà, perché Fillia non
cessava di inventare e di portare sempre più avanti i perfezionamenti pittorici
del futurismo. Tuttavia, una continuità è discernibile nella sua arte che è,
innanzitutto, di una grande purezza, di una grande acconcezza, di una
grande serenità. I colori si oppongono l'uno all'altro e si
sovrappongono con curve e frangie di corallo, macchie di cielo, fantasticherie
metafisiche, sogni astrusi. Opera di contemplativo che accomuna sempre iutto e
sempre con estrema dolcezza, e dalla quale si spande una pace angelica
che sembra invalidare, apparentemente, taluni assiomi violenti della
dottrina futurista. Ma è invece la prova Iampante che il dinamismo di
questa scuola italiana non esclude quello stato di grazia dove i
conflitti diventano preghiere. Si tratta di fermare il nemico per
ritrovare Ja quiete, di combattere ferocemente per amare di un più grande
amore. Tale atteggiamento è proprio l’antitesi del sentimentalismo romantico,
dell’ebetismo della debolezza: esso convoglia l’arte verso quell'alta sfera
mitica e visionaria che invade la mistica futurista. Gl’errori di
pensiero che possono insinuarsi nella mente di un poeta come Fillia, che non
può sempre ridurre tutto al controllo della logica, non vanno
interpretati nel lo stretto senso letterale. Il movimento è
irrefrenabile, talvolta irresistibile, porta oltre la matura e si perde
in un mondo di realtà fantasmagoriche. Nessuna amarezza, nessuna amarezza
siatene cetti si nascondeva in questa libertà concettuale e della
riflessione: vi era troppa gentilezza in questo cuore di pittore e
di poeta, troppa felicità per i suoi amici, perché si possa attribuire un
significato ironico alle sue composizioni sacre come non hanno mancato di
fare borghesi indirozzabili e bolsi dalle maniche troppo lunghe, dalla
mente inceppata. Ho buona speranza per Fillia, per questo artista
pensatore che fu anche un provetto artigiano; non mi rattrista la sua morte
prematura. Un suo misterioso paesaggio dell'ex raccolta Ferrari di Ginevra mi
scopre un cimitero e la scala rossa che lo vincolò in eterno con gli
eroi: quello stesso cimitero e quella stessa scala di Sant'Elia. Distinguo la
luna bianca della sua grande dolcezza, e le cose della terra non reggono,
sono rovesciate su loro stesse. Le pitture religiose di Fillia sono un
richiamo allo spirituale puro, degli abbozzi di Paradiso. S’intende
che un tentativo di tal fatta non deve giungere al disprezzo della
cosa creata, dell’Incarmazione: ma non è il caso di Fillia le cui forme
della sua arte si disegnano, si creano e si distaccano dalla loro causa
prima. Tutto il lavoro dell’opera si riporta ad una giornata ben definita
della creazione dove gli uomini non sono ancora che allo stato di
abbozzo, ma dove la macchina respira già, dove i fantasmi girano secondo
una traiettoria circolare, dove l'arcobaleno annuncia la riconciliazione. Una
siffatta pittura è infinitamente rispettosa, il suo pudore è un perpetuo
tremita davanti alla bellezza; essa sprigiona cdelicatezze insospettate,
scrupoli inauditi e nondimeno una audacia che le viene soffiata dallo spirito.
Nonostante il suo atto di fede nella macchina, Fillia è certamente un
pittore spirituale. La bellezza intrinseca del. le macchine corrispande
ad un suo bisogno di esattezza sovrumana, di perfezione nelle linee e
negli spazi. È una dimostrazione pratica che consente all'uomo di
disincagliare la vera vita, di ricercare quegli elementi universali
dell’arte che scaturiscono nei momenti fecondi ed imperiali delle Nazioni
e ne rendono lo spirito eierno. Per non spappolarsi nella struttura, per
non sgretolarsi alla radice, il futurismo è lui stesso alla ricerca
dell'eterno. E’ ben vero che questa eternità non è sotto i nostri passi,
non è dietro di noi, ma davanti a noi, In questo senso tutti i cristiani
dovrebbero essere futuristi, diceva Fillia, perché meno legati degli
altri uomini al passato e al presente, e più ferventi dell'avvenire.
Questo richiamo ad una tradizione spirituale, questo allenamento
{secondo la felice definizione di Marinetti) non ha nulla di necroforo,
non intralcia lo sviluppo dell'arte ma stimola, spinge in avanti, crea. Non si
dimentichi perciò il contributo molto importante di quella autentica tradizione
che serve a ristabilire l'equilibrio normale. Infatti, all’inizio
Je forze novattici distruggono talvolta, svelano uno sprezzo irragionevole
del passato e di ciò che la vera tradizione conserva pertanto di
eternamente vivo. Un rifiuto non controllato potrebbe anche andare a
scapito del progresso stesso e insabbiare per sempre l'incitamento che
motiva nuove conquiste. Non si negano gli elementi universali
dell’arte passata perché non si possono negare quelli dell’arte
nuova. L’opera di Fillia rivela una tendenza perpetua verso il
progresso nel senso più alto della definizione. Trasformandosi da una pitiura
all’altra svolge senza contraddizioni la sua sincerità primitiva. Un futurista
non può dunque negare la storia della sua opeta e tanto meno quel
la del suo movimento: egli porta il peso di un passato inventato che non
può rinnegare senza distruggersi. Questo passato inventato risale
certamente al di là del futurismo che costituisce una specie di
dialettica dello spirito e affre
l’unica possibilità capace di abbattere gli ostacoli. Il fiume precipita giù dalla
cascata come se vi prendesse nascita; in realtà la sorgente è al ghiacciaio.
Il futurismo ha radici italiane ed europee: il tempo aiuta a farle
scoprire senza remissione. Fillia è l'uomo intuitivo di una nuova era.
Dalla sua opera e dai suoi tentativi, come da quelli di Balla, di
Boccioni, di Prampolini, di Diulgheroff e di Benedetto, si stacca un’arte
pubblica universale che l'architettura funzionale rivela, contribuendo
efficacemente alla diffusione delle idee futuriste di Antonio Sant'Elia e
degli slanci del purismo di Le Corbusier. Nell’intento di realizzare
ad ogni costo, Fillia si appoggiò al Regime attraverso gli interventi efficaci
di Marinetti. Però, non ho mai visto Fillia in camicia nera, ne lo sentii
mai parlare di politica nostrana. Parlava solranto dell’Italia che amava. Le
due idee rispecchiano gli scopi e i metodi creativi di quel movimento
indipendente di buona lega che fu il futurismo torinese.
SARTORIS per conto dell'Editore Volpe dalle Arti Grafiche
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Luigi Speranza -- Grice e Carlini: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia
fascista – scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo
campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I love Carlini, and
Speranza loves him even more, but then
he is Italian! My favourite is his “A brief history of philosophy,” especially
the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto, con una postfazione di
Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che
cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri.
Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per
sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di
filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere
assumendo la direzione di una collana edita da Laterza che inizialmente venne
lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo
nella Laterza è GENTILE, conosciuto qualche anno prima, e CROCE, all'epoca
ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso
dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto
livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre
al C., anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e
coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due saggi su
Aristotele (in realtà raccolte aristoteliche da lui curate, commentate e
tradotte) cui fa seguito uno studio su BOVIO che desta l'interesse di non pochi
studiosi e l'approvazione di GENTILE, considerato da C. suo tutore
indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di
assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e
l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.
In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio
pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero
immanentista gentiliano (GENTILE è, fino alla propria scomparsa, suo amico,
oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di
dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un
percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli
strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della
conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello
spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile
appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si
espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni
trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di
Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia.
Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla
anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani,
raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a
ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato
al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed
esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la
metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist.
Naz. di Cultura); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo spirito” (Roma,
Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura); Il problema di Cartesio, Bari,
Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni); “La Fondazione Giovanni
Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le ragioni della fede,
Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” (Bologna, Nicola Zanichelli).
Dizionario biografico degli italiani. l'architrave 4 ala I ai Mi L.
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ELE VIRZIONI BARI GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-L]BRA A GENTILE AMICO E
MAESTRO AMATISSIMO. Dubbi su l’autenticità di alcuni libri della
Metafisica aristotelica, e su la sua composizione, furono sollevati sin
dai tempi antichi. Il testo, quale noi oggi abbiamo, corrispondente,
salvo lievi differenze, a quello del commento che va sotto il nome di
Alessandro d’Afrodisia, mostra sconnessioni tali da far nascere sùbito i
sospetti. L'occasione è offerta già dal piccolo libro II (I minore,
nell’enumerazione greca). Asclepio (4, 9) notò che l’opera lascia molto a
desiderare per l'ordine della trattazione, e che vi sono passi ripetuti e
parti prese da altri scritti aristotelici; e aggiunse che, secondo
alcuni, Aristotele aveva affidato ad Eudemo il manoscritto per la
pubblicazione, ma Eudemo non reputò opportuno pubblicarlo così come si trovava:
il manoscritto subì molti danni col tempo, onde, quando più tardi alcuni
della Scuola ne impresero la pubblicazione, non osando colmar le lacune
di loro testa, attinsero ad altre opere aristoteliche e armonizzarono il
tutto meglio che poterono. L’autorità di Asclepio non conta molto, ma
quel che dice basta a provare che dubbi si sollevarono ben presto. Questi
non mancano del tutto negli Scolastici, e risorgono più che mai con gli
studi aristotelici nel Rinascimento. Nell’età moderna, dopo un
tentativo, riuscito vano, di dimostrare che la Metafisica è un complesso
risultante da libri aristotelici ricordati nell’indice di Diogene Laerzio
(nel quale non si trova menzione della Metafisica), la questione è
stata ripresa, da un secolo in qua, più criticamente; ma, come
VUuI MBTAFISICA spesso avviene, a un indirizzo
rivoluzionario, che ha rifiutati come spuri alcuni libri o parti di libri
e tentato di dar al resto un ordinamento del tutto arbitrario, si è
opposto l’altro, più cauto, di mantenere e giustificare, per quanto era
possìbile, il testo nell’ordinamento attuale. A dar conto di tutto ciò,
ci vorrebbe un volume a parte, con dubbio vantaggio per quel ch’è lo
scopo principale della presente traduzione: l'intelligenza dell’opera: la
quale è senza dubbio di Aristotele, anche se redatta in qualche parte su suoi
appunti e ordinata nell’insieme da suoi scolari. Ma non possiamo
prescindere da un critico recente, dallo Jaeger, il quale, dopo di avere,
negli Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des A. (Berlin, 1912),
tentato di sciogliere il testo nelle parti originarie, liberandole da
quelle via via aggiunte in sèguito, ha voluto, nel volume Aristoteles:
Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung (Berlin), collegare la storia
della costituzione del testo a quella più generale dello sviluppo del
pensiero aristotelico in tutte le sue opere. A noi conviene, tuttavia,
non allontanarci dal nostro scopo, e però vagliare i risultati, a cui
giunge lo Jaeger per la Metafisica in particolare, soltanto dopo di avere
fissata la linea di pensiero che si svolge in ciascun libro o
gruppo di libri. Cominciamo dal libro primo. Questo primo libro
della Metafisica ha une linea di svolgimento interno e un'unità di
concetto benwisibile. Pone dapprima il concetto del sapere come fondato
su l'esperienza e ascendente per gradi dalla conoscenza sensibile a
quella logico-scientifica; poi, distingue in seno a questa la forma più
elevate del sapere, quella filosofica, ch'è conoscenza dei principii e cause
prime. ° Si presenta, allora, il problema della causalità come dottrina
dei principii di ogni realtà nel mondo. Dai primi pensamenti della
causalità come ricerca dell'elemento o degli elementi primordiali, si
passa, Un'esposizione del
contenuto (per questo come per gli altri libri) è data nel Sommario. Qui
si dà rilievo alle critica delle Idee, ch'è la parte più importante.
rx sebbene
vagamente, al concetto della causalità come principio efficiente e
finale, e alla scoperta della causa logico-formale, posta, quest'ultima,
chiaramente da Platone. L'interesse della trattazione si concentra
naturalmente, ora, su questo punto, ch'è decisivo, non soltanto per il
problema particolare delle varie specie di causa, ma, ben più, per tutta
le concezione aristotelica della realtà. Della filosofia platonica A.
espone prima (nel cap. 6) le origini storiche, la concezione centrale delle
idee, la dottrina ultima delle ideenumeri: e accenna già al punto fondamentale
di divergenza dal suo maestro nel concetto del rapporto tra materia e
forma. La critica si svolge con certa ampiezza nel cap. 9, seguendo
nell'insieme quest'ordine: a) contro la dottrina generale delle idee; è) contro
le idee-numeri in generale; c) contro la derivazione del geometrico
dell’ari tmetico;
d) contro il concetto innatistico dei principii della conoscenza. a) Per
combattere la dottrina delle idee in generale, si parte dal concetto
rimasto nel platonismo delle idee come realtà trascendenti il mondo
sensibile. Le idee, infatti, non sono ancora l’intelligibile aristotelico, e
per quanto la dialettica platonica abbia sempre più accennato a considerarle
dentro il processo del pensiero pensante il reale, esse non perdettero
mai il carattere di reali posti accanto, e però fuori, del sensibile.
Questa trascendenza restò in seno all'idea stessa, quando Platone
distinse in essa il principio puramente formale (e però veramente ideale) da
quello del molteplice, ch'è suo contenuto. Quindi A. può dire che
Platone, per spiegare il mondo sensibile, lo raddoppia e moltiplica; e
che quella spiegazione, in ogni modo, è puramente formale (detinitoria),
non reale, perchè l’idea non è causalità, attività, principio interno
alle cose (reale della stessa realtà di queste). E anche nella sua
formalità non può riuscire a dar ragione delle cose, perché così il
principio dell'unità come quello della molteplicità, presi nella loro
assoluta indeterminazione, non possono produrre concetti di nulla che
valga a intendere il reale nella sua costituzione effettiva. Col criterio
dell'unità del molteplice, ad es., si dovrebbero ammettere idee di
proprietà, di relazioni, ecc., laddove l’idea vuol essere ragione di ciò
che nelle cose è fondamentale, ossia della sostanza. Ma come pervenirvi senza
la distinzione dell'essere reale in ciò che ha di costitutivo ed essenziale da
ciò ch'è suo modo di essere secondario o accidentale? b) Contro le idee-numeri
A. fa valere il suo concetto dell'astrattezza del numero, e la sua ripugnanza a
identificare il pensare col numerare. Le idee non si possono trattare
aritmeticamente, nè possono esprimere la sostanza delle cose. Questa è data,
invece, nel processo logico-reale dei generi e delle specie, con le
determinazioni peculiari che l’esperienza ci scopre nel mondo della
natura. c) Dal grande-piccolo, poi, cercano invano, i Platonici, di
dedurre le determinazioni delle figure geometriche. Non soltanto passano
indebitamente da ciò ch'è inesteso (il numero) all’esteso (figura), ma
anche, in questo, tentano invano di spiegare il passaggio dal concetto di
punto a quello di linea, da questo a quello di superficie, da questo a
quello di solido. Considerandoli come divisioni del concetto (con metodo
definitorio), dovrebbero ridursi l'uno all’altro, predicarsi l'uno
dell’altro: la geometria verrebbe annullata. Invece, le figure geometriche si
costituiscono nel processo di determinazione del concetto di spazio, come
svolgimento logico di esso ch'è insieme la sua generazione reale. d)
Tutte queste idee e idee-numeri, poi, in quanto son altra cosa dalle
sensazioni, l'anima le dovrebbe portar in sè, come una scienze innata, e
dimenticata. Ma come, allora, distinguerle e applicarle nei casi*
particolari? E se, avendole dimenticate, non ne possediamo in principio
attualmente nessuna, come dar origine al sapere? Ci vuole, invece, un
principio attuale in noi, l'intelligenza, dal quale scaturiscano i principii,
immediatamente, di ogni sapere; e ci vuole la sensazione come punto di
partenza di ogni conoscenza fondata su l’esperienza. Così si ritorna al
concetto posto nella prima parte del libro, e si chiude il cerchio del
pensiero intorno al fondamento del sapere. Nello stesso tempo vien
conchiusa l'illustrazione, proposta con la seconda parte, della
definizione della filosofia come scienza dei principii e delle cause
prime. L’indagine storica, che ha servito a quella illustrazione, ha dato
questo risultato: i Fisiologi trascurano l’incorporeo, non vedon chiaro
il processo causale efficiente-teleologico, ignorano la forma; i
Pitagorici confondono il fisico col matematico, ignorano la causa del
movimento, identificando le cose con la loro definizione si lasciano
sfuggire il concetto della forma; Platone mette in rilievo la forma, ma
cerca invano di assorbire in essa le altre specie di causalità. Conchiusione
ultime è che nessuno dei filosofi precedenti vide chiaro nel concetto
della causalità; e tuttavia, pur attraverso le deficienze e i barlumi, tutti
mirarono a esso e nessuno accennò ad altre specie di cause da quelle
poste. Si che si può dire che il concetto posto della causalità, nella
sua distinzione e precisa formulazione, risulta storicamente
confermato. Su la data probabile (') della composizione di questo
libro, v. nota al cap. 9, $ 2; e per il suo rapporto al lib. XIII, dove è
ripetuta quasi letteralmente la parte riguardante la Poco dopo la morte di Platone, secondo lo
Jaeger (Arist., p. 178), a poco distante dalla composizione del dialogo
regi priogoqplas, nel quale erano tre parti: una storica, una contenente
già la critica delle idee, una terza teologica, corrispondenti al contenuto dei
libri I e XII della Metafisica. I primi due capitoli, invece, di questo
libro riproducono un motivo del giovanile Protreptico. La critica delle
idee in questo libro forse presuppone anche il magl l8e6v (v. nota a 9,
2). critica delle idee, v. nota, ivi, al cap. 4, $ 4. Anche l’aggiunta del
$ 11 a questo capitolo del lib. XIII prova che quella parte fu
trasportata dal lib. I nel XIII, e non viceversa, come pensa il Christ (v. nota
al testo greco, nella sua edizione, in fine al cap. 7). Più
difficile da risolvere è la questione per il cap. 10: v. nota, ivi, al $
1. L’ipotesi dello Jaeger è ravvalorata dal fatto che la fine di questo
capitolo distingue due ordini di aporie: le prime, intorno allo stesso
argomento del lib. I, debbono spianare la via alle seconde, e queste
ultime sembrano dover essere quelle del lib. III. Sì che parrebbe che la
clausola finale del cap. 10 stesse più a posto alla fine del cap. 7. È
vero che il Ross obietta potersi riferire anche le prime aporie al lib.
III, adducendo le parole iniziali del $ 3° del III. 1; ma, da un lato, resterebbero
indeterminati «i problemi ulteriori , a cui A. accenna; dall’altro, par poco
verosimile che un libro così rieco e ben ordinato, come questo I, dovesse
conchiudersi con l’attuale cap. 10. Ma c’è un’ipotesi ulteriore dello
Jaeger: che, trasportata la critica delle idee al lib. XIII, A. stesso
pensasse più tardi di far terminare il lib. I col cap. 7. Togliendo,
infatti, la clausola finale ($ 8), si avrebbe un risultato della
trattazione che par definitivo ($ 7: questo potrebbe esser stato aggiunto
dopo, proprio a questo scopo). Qui sorge una questione che involge quella
dell’origine storica e dell’ordinamento delle parti di tutto il libro. I lavori
dello Jaeger, a mio avviso, mettono fuori discussione un punto di
capitale importanza: che la Metatisica non segue il piano di svolgimento
di un’opera propriamente detta: essa non è un «libro , come siam soliti
d'intendere, ma una « serie di libri, o di parti, delle quali ognuna ha
originariamente una sua propria significazione. Certo, non è una
serie « episodica : c’è un ordine generale tra le varie parti, anzi
un nesso interiore che fa della Metafisica un’opera organica. Ma
quest’organismo risulta dal movimento complessivo del pensiero,
indipendentemente dall'ordine che vi hanno le varie parti, e quest'ordine, in
quanto mira a un disegno o piano costitutivo dell’opera intera, è dubbio
che si possa attribuire (come pur lo Jaeger sostiene, non ostante la
sua tesi accennata) ad A. stesso. Prendiamo questo libro I: ci sarebbe di
questo la prima redazione, ch’ è l’attuale con l’esclusione dell’ultimo
capitolo; una seconda redazione, rielaborando il cap. 7 come dianzi s’è detto,
avrebbe mirato a unire il lib. I al III; in una terza redazione A.
avrebbe pensato di far terminare il libro al cap. 7. Ora, a me pare che
la prima ipotesi abbia molta probabilità, minore la seconda, presso
che nessuna la terza. Perchè sopprimere tutto il cap. 8 e la parte
del 9 non compresa nel XIII? E, soprattutto, perchè guastare un libro
che, integrando l’esposizione storica con la parte polemica, si presenta di
così unitaria fattura come poche altre parti della Metafisica? E con la
terza redazione non si sarebbe perduto il vantaggio della seconda ?
Quanto a questa seconda, poi, non va trascurato che, in ogni modo, il
nesso tra il libro I e il III resta più esterno che interno: non si può
dire che questo rappresenti uno sviluppo di quello stesso, o, insomma,
che l’uno presupponga l’altro necessariamente. Lasciando, dunque,
in disparte le questioni d’incerta soluzione, possiamo tener fermo questo: che
il libro I raccoglie un corso a sè (A6yoc, péd0osoc) di lezioni (conversazioni
e discussioni), tenuto da A. intorno al concetto della causalità
nella formulazione già data in precedenti scritti di Fisica (cfr. 3, 6),
allo scopo di dimostrare ch’essa va concepita secondo la quadruplice
distinzione immanente a quel concetto, di cui il valore è insieme
ontologico e gnoseologico (epistemologico). Quest’immanenza, che tuttavia non
accenna ancora a risolvere le distinzioni in un principio unitario, è ciò
che dà il tono più aristotelico alla trattazione: chè la distinzione, per sè,
delle quattro specie di causa egli la derivava dalla scuola di Platone.
: 3. Lo sviluppo del
pensiero nel libro II è il seguente. Il capitolo primo pone il
concetto della filosofia come scienza della verità, ed illustra poi la
definizione a parte subiecti e a parte obiecti. La difficoltà di vedere
con chiarezza la verità dipende dalla debolezza del nostro occhio mentale:
di qui }a necessità di esercitare ed educare la nostra facoltà intellettiva. A
questo può giovare molto il contributo de’ pensieri altrui intorno alle verità.
(In questo modo, vien disperso il germe di misticismo, o di scetticismo,
e di aguosticismo, ch’era nel pensiero precedente: la difficoltà non è
insuperabile, come, invece, è quella dei pipistrelli di fissare la luce
del giorno). . La verità, oggettivamente, è l'essere stesso delle cose.
Per cui l'essere ch'è più essere, è anche il più vero: è causa prima
dell’essere e della verità di tutto il resto. Tale è l’essere eterno, e i
suoi principii Son principii di tutto. Dopo ciò, si attenderebbe di
passare alla ricerca dei principii dell'essere eterno, di ciò che non
appartiene al mondo corruttibile. Invece, il pensiero si abbassa nel capitolo
secondo al mon do
del divenire in generale per affermare la necessità di porre un
principio, ansi dei principii o cause prime del suo essere e del nostro
conoscerlo. Non ostante la oscurità e incertezza di singoli punti, la
tesi svolta in questo secondo capitolo, dell'’impossibilità di un
processo all’ infinito, risulta abbastanza chiara. Ci ha de essere, anzitutto,
un punto di partenza e un punto di arrivo: un processo chiuso, in somma,
da entrambi i lati. Chi pone, infatti, una questione di causa-effetto,
comincia di necessità de un punto, de un fatto, ch'è il primo, poniamo
l'attuale, dal quale procederà, rimontando indietro, alle cause che
l'hanno prodotto. Se, poi, vien concesso un punto di partenza, l'acqua o
l'aria, ad es., per spiegar l'origine causale delle cose, ci vorrà
necessariamente un punto d’arrivo: bisognerà pur arrivare al mondo
attuale delle cose. L'oggetto (il mondo, la cosa, la realtà attuale) è,
così, determinato ne' suoi limiti estremi. Qui, allora, si pone un
problema più interno a esso: il concetto del suo divenire in quanto
processo immanente. A. presenta il suo concetto del divenire come
svolgimento graduale, irriversibile. E passa, quindi, alla considerazione
della necessità di un principio finale e di un principio formale. (La
dimostrazione precedente dava rilievo specialmente alle causa materiale e a
quella efficiente, in riguardo alle quali si esercita in primo luogo
l’aporia del processo all'infinito). In fine: son queste tutte le
possibili specie di cause? Le domanda in A. suona così: possono esser
infinite le specie di causalità? Egli non affronta veramente il problema,
e si limita a constatare che, se fossero infinite, noi non arriveremmo
mai a conoscer veramente una cose. Il concetto di tempo, qui introdotto,
non aveva che vedere. Se mei, un altro: che le molte cause debbeno
formare una causalità totale, affinchè possiamo affermere di conoscere una
cosa. L'ultimo capitolo comprove l'indole proemiale del libro. In
esso si chiarisce il metodo di trattazione ed esposizione proprio delle
scienze in riguardo al modo di pensare comune, e la differenza tra il
procedere matematico e quello delle scienze fisiche. Di quello filosofico non
X1V MBTAFISICA si parla. Ma, mentre nel cap. 1 la
metafisica par aver in comune con la fisica lo studio della realtà delle
cose, qui il suo oggetto (e però anche il suo metodo) par più vicino a
quello della matematica. Per l’autenticità, v. nota al libro: ne sarebbe redattore Pasicle, di
Rodi; per la sua tardiva inserzione in questo punto, v. nota a IlI. 1, 3. Ma
anche il tono generale è ancora quello del libro precedente: cfr. il cap.
1 col 2 del], e la susseguente trattazione della causalità in entrambi.
La sconnessione tra il cap. 1 e il 2 (cfr. nota a 2, 1) si può
spiegare con l'interruzione degli appunti presi da Pasicle.
4. La serie di questioni, di cui risulta
composto il libro III, comunque si vogliano dividere e numerare, ha un
ordine interno di pensiero, e comprende veramente i problemi capitali della
metafisica aristotelica ? Poichè la filosofia è la scienza delle
cause prime, è giusto cominciare dall’aporia prima: se, infatti, le cause
son di più specie, l’esistenza di quella scienza par compromessa. Quando
A. avrà definito come oggetto della metafisica l’essere in quanto essere
(IV. 1 e VI. 1), serà chiaro che quelle cause debbono esser studiate da
essa in quanto causelità dell'essere stesso. Questo concetto porta a una
superiorità della metafisic a su le altre scienze: a una scienza dei
principii di tutte le scienze. Questi son di tre specie: principii
logici, o assiomi; il genere delle sostanze o cose prese in
considerazione; e le proprietà, accidenti o attributi che vengon
dimostrati di esse. Bisognerà che la metafisica sia scienza di questi
principii. Di qui le aporie 2-4, nelle quali A. tace: a) che c’è un altro
tipo di scienza oltre quello apodittico; è) che dei principii logici, o
assiomi, la metafisica deve considerare il principio primo, quello ch’ è
il fondamento degli altri di ciascuna scienza; c) che la sostanza
studiata dalla metafisica è, diciam così, l'a priori o trascendentale delle
sostanze particolari, sì che una scienza di essa non è, per questo, una
scienza (unica) delle sostanze (tutte); d) e che gli accidenti, di cui
tratta la metafisica, son quelli soltanto che appertengono al concetto
dell'essere in quanto tale. Il predetto modo di considerare la scienza e
i suoi principii riceve in concreto il suo significato, per A.,
dall'opposizione in cui si pone al concetto platonico del sapere. Per
Platone e per i Platonici la scienza non è della realtà sensibile, ma
delle sdee e degli intermedi: essi, staccando l’oggetto del sapere dal
sapere stesso, lo ipostatizzano e moltiplicano in entità ideali o
matematiche. Non vedono che la realtà studiata dalle scienze è la stessa,
la realtà naturale: solo che è con NOTA INTRODUTTIVA xv
siderata da punti di vista diversi. Soltanto su la base di questa diversità di
punti di vista è lecito porre una diversità anche dei loro oggetti:
dell'oggetto della fisica da quello della matematica, e di quello proprio
della metafisica. La forma aporematica
in questa questione (ò3) è più tenue: prevale l'opinione contraria
all’esistenza delle idee e degl’intermedi. Ma è pur vero che
l'oggetto della scienza fisica solo in generale si può dire ch'è la
medesima realtà naturale: in concreto ci sono tante scienze quanti sono i
generi di essa. Sì che, pare, i suoi principii (che la metafisica deve
studiare) debbono essere questi generi resli, non quelli dell'essere
nella generalità del concetto. La tesi vien ribadita nella questione 6a con la
considerazione delle superiorità del principio definitorio su quello
meramente materiale delle cose. Ma il vero sviluppo della tesi è nelle
questioni che seguono. In primo luogo, nélla 7a: se si prendono come
principii i generi, come determinarne il numero? Si ricorrerà all'’Uno e
all'Essere come principio di tutti? Ma l'Uno e l'Essere non son genere, e
per la loro indeterminatezza non possono in concreto spiegarne nessuno.
Senza dire che entro l’imbito dello sviluppo di ciascun genere, questo
genere stesso si moltiplica indefinitamente passando attraverso le sue varie
specie, sì che, da una parte, non si tratta, in realtà, di un genere
unico nel senso dell'identità, anzi di molti generi; dall'altra, esso non
esiste fuori delle specie in cui si realizza: sì che principii, se mai,
sono le specie o concetti specifici piuttosto che quelli generici,
Qui sorge, allora, une difficoltà: noi, anche ponendo come principii le
specie, riconosciamo che i principii son tali in quanto universali. Ln
specie, anche quella più vicina alla concretezza dell'individuo, è pur
sempre un'universelità. Questo pensiero, mentre chiude la questione 7* con
un’argomentazione in favore dei generi che hanno un’universalità maggiore delle
specie, apre la via alla questione 8*. La quale ha una parte poco o nulla
aporematica: quella in cui A. si pone lui stesso il problema d'intendere
come un principio possa essere universale, e tuttavia non esistere fuori
dell'individuo. Egli lo risolve facendo della specie la forma che si
realizza nell’individuo, nel sinolo, e tuttavia non si esaurisce nella particolarità
di questo. Ma c'è una parte, anche, veramente aporematice: la forma in
niun caso è separata? (Dio è separato). E anche dove non è separata (nella
natura), ma immanente agl'individui, diremo ch'essa è unica (identica) in
tutti, o differente in ognuno? Nè l'una nè l’altra affermazione è
sostenibile: nel primo caso si ha una identità materiale, numerica, una
sostanza uguale in tutti gl'individui, che sarebbero, così, tutti, una
cosa sola; nel secondo, la differenze sarebbero tante de sopprimere ogni
realtà, unità e identità, della specie entro la quale soltanto, poi, si
realizzano quelle differenze. La questione ®, infatti, fa vedere
che nè il primo punto di vista, XVI METAFISICA nè il
secondo, sono soddisfacenti. A. qui tace
la sua soluzione: dell’unità che si realizza attraverso le differenze, onde il
punto di vista ch'egli chiama numerico non è guardato fuori di quello
specifico, e viceversa. .+ Questa soluzione, sottintesa, presenta,
tuttavia, una difficoltà al pensiero di A.:il concetto di svolgimento, in
cui l'identità si concilia con le differenze, vale, propriamente, per il
mondo della generazionecorruzione. Come estenderlo al mondo di ciò ch'è
eternamente lo stesso? La soluzione di questa difficoltà (questione 10*)
parrebbe data nel pensiero aristotelico dalla considerazione della realtà
naturale nel complesso del sistema, dove i cieli rappresentano anch'essi
un grado di svolgimento in perfezione. Ma, qui, allora, torna più
incalzante la questione (11°) già accennata a proposito dei generi: se, cioè,
considerando la realtà nella sua totalità, e non nelle divisioni in cui
si offre dei generi diversi, si debba dire che essa è quell’Essere e Uno
che Parmenide, Pitagorici e Platonici, per diverse vie, ponevano come
principio primo e assoluto. Il pensiero prevalente in questa aporia è che porre
l’Essere e Uno come reale porta necessariamente a negare il molteplice e
il numero. A questo punto s'insinuerebbe una difficoltà, quale un oppositore
potrebbe addurre: se non è reale l'Essere-uno, come è reale il
molteplice-numero? Come, senza quello, spiegar questo? A., che alla
difficoltà ha tacitamente risposto dianzi per quanto riguarda la realtà
della forma e della natura nel loro svolgimento, attenua la questione
riducendola alla parte riguardante l'uno-molteplice matematico, cioè alla
realtà del numero e degli enti matematici in generale. E passa, così,
‘alla questione 12*. Spezza una lancia in loro favore, me per dovere
dialettico più che per convinzione: questa si vede bene nella parte opposta,
la quale conferma definitivamente l’astrattezza del punto di vista
matematico, impotente a spiegare la realtà sostanziale e il processo di
generazione delle cose. ° Quella realtà sostanziale i numeri, mera
determinazione quantitativa, non possono darla. Ci vuole una determinazione
qualitativa, un'unità formale, non materiale. A questo, infine, mirò
Platone quando, prima di complicare la sua dottrina con quella
pitagorica, pose per, principio l’Idea. Nella questione 13*, infatti, A.
par così pensare. Il passaggio alla 14° questione è oscuro: l'occasione
può esser offerta del pensiero che l'Idea platonica, pur in certo modo lodata
dianzi, é mera possibilità, non attività. Le questione 15* non
sembra introdurre un problema nuovo ed è, come la precedente, appena
accennata. ‘Integrando, dunque, il pensiero espresso con quello
sottinteso, si vede svolgersi, attraverso l’apparente molteplicità, una
questione unica: qual"è la natura del principio o dei principii, di
cui la metafisica è scienza. Le prime quattro questioni sono
introduttive, e son quelle che hanno una più immediata soluzione nei
primi tre capitoli del libro IV e nel 1 del VI. Questi tre libri (ITI,
IV, VI) vengono perciò considerati come formanti un gruppo idealmente e
storicamente Compatto, e la prova maggiore di ciò è attinta dal fatto che
il loro contenuto si presenta unito anche nell’abbozzo del lib. XI. 1-3. Ma la
forma in cui queste prime quattro questioni vengon riprese, discusse e risolte,
mostra, con la diversità d’impostazione nel IV e nel VI, con gli
sviluppi ed i pensieri ivi aggiunti, che il III ha, anche, una
propria autonomia. Tanto più questo diventa evidente per il resto
della trattazione: le undici questioni, che vengon dopo quelle, trovano
una risposta nei libri VII, IX, X, XII-XIV, ma in forma generalmente
indipendente da quella che hanno nel lib. III ('). Sì che soltanto
approssimativamente, e badando più ai germi speculativi racchiusi in esso
che alla loro posteriore trasformazione, si può riguardare questo libro
come un programma svolto nei libri seguenti. Per se stesso, esso è
una ripresa del motivo dominante già nel I: i principii del reale non si
possono più concepire platonicamente, come idee e intermedi, e tuttavia
essi debbono, come Platone pur vide, trascendere la realtà considerata al
modo dei Presoeratici. Per questo rispetto la questione 13° è da
considerare come conchiusiva (*). Il « noi , ch’è in principio (6, 1:
cfr. anche 2, 17), mostra che A. si considera ancora dell’Accademia come
nel lib. I. : 5. Anche il
lib. IV ha un’unità di pensiero, che ne fa una trattazione indipendente,
non ostante la connessione col III. Vegga, chi desidera, i raffronti fatti dal
Ross, nell’Introduzione (vol. I della sua ediz. della Met. con comm.:
Oxford, 1934), pp. XxIM-xxIv, © pp. 298-233; e i richiami da noi posti
nelle note al libro, (9) Lo Jaeger (Arist., p. 322) ha avanzata
l’ipotesi, abbastanza persuasiva, che la questione 14° sia stata aggiunta
più tardi, dopo l’inserzione dei libri VII-IX: e888 MANCA, infatti, nei
capitoli corrispondenti dell'XI. Si può pensare che anche la questione 16
sia stata rielaborata e posta in fine a questo scopo. La Parte prima
espone concetti generali su l’oggetto della filosofia e sul suo rapporto
alle altre scienze; e, propriamente, nel cap. 1 si accenna
all’universalità e necessità dell'oggetto della metafisica in opposizione
alla particolarità e contingenza di quello delle altre scienze in
generale; nel 2, la metafisica (non ostante alcune riprese dell'argomento
del cap. prec.) si presenta piuttosto come «filosofia nel senso
platonico più generale, e la questione del rapporto non è più ‘alle
scienze, ma alla dialettica. Meglio: alle specificazioni o applicazioni della
dialettica, nella Sofistica (eristica), nella Dialettica propriamente
detta-(esercitazione logica), nell’Apodittica. Questa tripartizione
corrisponde a quella da noi notata (a 2, 1) dei tre aspetti del pensiero
per A.: soggettivo-verbalistico, logico-discorsivo, logico-oggettivo: tre
aspetti che abbiamo trovato espressi anche nella formulazione del principio di
non-contraddizione, e nella conseguente difesa che ne fa A. nella Parte
seconda. In conchiusione, quanta è la distanza tra la Sofistica e la
Dialettica, tanta e più è tra la Dialettica e l'Apodittica: la distanza, qui, è
misurata dall'amore della verità, e qui la Filosofia sta vicino
all’Apodittica. Se ne allontana, invece, per l'oggetto e per il metodo:
l’oggetto dell'Apodittica è quello della scienza propriamente detta,
sempre empirica in fine; mentre la filosofia studia la realtà in sé e per
sè, nel suo significato e valore assoluto. Il metodo scientifico è,
perciò, dogmatico, quello della filosofia critico: essa soltanto esamina
e discute i principii primi nel senso dei fondamenti stessi di ogni
conoscere e sapere. E si rifà, quindi, al principio primo di quei principii,
che è il pensiero in sè e per sè. È da
notare, tuttavia, che A. mantiene questo concetto dentro l'ambito della
dialettice platonica, per cui i principii dell’apodittica vengon limitati
a certe verità logiche o nozioni comuni del pensiero discorsivo, chiamate
assiomi, e conseguentemente anche il principio primo resta limitato nell’ambito
di essi, come un assioma, per quanto supremo e più saldo. La
difesa di questo principio logico si svolge in tre parti: la prime (cap.
4) mire prevalentemente all'eristica; la seconda (capp. 6-6), ai
dialettici seguaci di Protagora; la terza (capp. 7-8), a confermare,
contro i precedenti avversari, il principio di non-contraddizione mediante
l’altro, implicito in esso, del terzo o mezzo escluso. A quali avversari
A. abbia l'occhio, nella loro precisa determinazione storica, non è sempre
facile stabilire. Oltre gli Eraclitei e i Protagorei, è molto probabile
ch'egli abbia in viste i Megarici ei seguaci di Antistene (v. lib. V. 29, 2): è
il gruppo stesso contro il quale è diretto il Teeteto di Platone, ma
allargato e fatto più petulante per pretese di ragioni logiche. La
prima parte della difese ha carattere negativo (la seconda, carattere
positivo), e, trattando con gente che fa questione meramente discorsiva,
non rifugge dall'uso del metodo sofistico (così come negli Elenchi
Sofistici). Quel che più importa è di costringere l'avversario & der
un significato preciso alle parole ch'egli adopera (cfr. Sommario, a).
L'essere e il non-essere (0, uomo e non-uomo) sono presi come casi
estremi: se non si riesce a fargli distinguere questi, non c'è da sperar
più nulla. Un secondo ordine di considerazioni riguarda le conseguenze in
rispetto al reale (chè, in fine, non si vuol far questione di parole,
dice A., ma di fatto): non c'è più modo di distinguere la sostanza
dall’accidente, un accidente de un altro, una cosa da un'altra cosa (è,
c). Vien fuori il caos! (A., con la maggiore serietà, dà all’avversario un
fondamento scientifico e avvicina questo caos alla dottrina anassagorea,
o alla propria della potenza indeterminata). Un terzo ordine di
considerazioni riguarda le conseguenze in rispetto al giudizio (d, e): non c’è
più opposizione tra l'affermare e il negare, e costoro o non dicon nulla o
contraddicono se stessi. Ma, poichè neanche questa considerazione può
spaventer l'avversario, che fe proprio di questa contraddizione il suo
principio inespugnabile, A., stanco dell'assedio ($ 32), invoca contro di Jui
il buon senso e la testimonianza del giudizio pratico, onde nella vita
nessuno è scettico, perchè della verità noi abbiamo bisogno per
inoppugnabile necessità. La difesa è ripresa da ccapo determinatamente
ai Protagorei (distinti in seri e non seri, ma questi sono ancora quelli
della parte precedente, e non si aggiunge per essi nulla di nuovo). Anche
questa è divisa in tre ordini di considerazioni, le quali, per maggiore
chiarezza, chiameremo oggettive, soggettive, oggettivo-soggettive. Quelle
oggettive si rifanno alla dottrina eraclitea e le sostituiscono le
concezione che A. he del rapporto dei contrari nel divenire reale (a). In
conchiusione, il divenire presuppone l'essere: l'essere del sostrato e
delle sue forme (non solo intelligibili, me anche sensibili!); e oltre
quest'essere che passa da una forma all'altra, c'è l'essere che non
passa, ma è eternamente lo stesso. Le
considerazioni soggettive prendono in esame il criterio della verità
posto da Protagora nella sensazione (d, c). L'errore dei Protagorei è di
ridurre l'intelligenza alle sensazione, questa o all'immaginazione o
all'impressione corporea (si scopre la tendenza materialistica,
l'affinità alla dottrina democritea, di questa dottrina). Con felice
ardire A. prende l’avversario nel suo stesso principio: l’atto del sentire è
vero, di una verità non contradittoria, se guardato nella sua piena
attualità. Le differenze di quell'atto si spiegeno dal di dentro di esso
stesso, come capacità dell'anima di sentire l'un contrario e l'altro. Ma
A. non ve più in là di quanto gli basta contro i suoi avversari:
quest'atto si determina nell’attualità come la potenza dei contrari nelle
cose, e il suo determinarsi in un modo o nel modo opposto dipende da
circostanze esteriori. Per questo, il pensiero arietotelico trova aperta lo via
a ripassare dalla legge di noncontraddizione a quelle dei contrari (6, 12),
come s'è notato a suo luogo (nota alla fine del. cap. 3). Il terzo ordine di considerazioni
riguerda, più propriamente, il concetto protagoreo della
correlatività, dell’esistenza del soggetto e dell'oggetto nell'atto o
incontro istantaneo che produce il conoscere. In quell’atto soltanto
esiste per Protagora il soggetto e l'oggetto, almeno per noi. Ad A.
sembra che questo sia un vanificare la realtà (5, 26-28; 6, 8-10), la
realtà dell'oggetto e quella del soggetto, le quali esistono come potenze
per se stesse, e sono il sostrato nelle cose e l’anima in noi. Egli ha,
bene, il suo principio dell’atto, ma questo, a differenza di quello
protagoreo, è realtà ch'è insieme esistenza e verità positiva
dell'oggetto e del soggetto, perchè ripete il suo principio primo da
quell’atto puro ch'è la ragion prima di tutto il reale. La parte
terza illustra il principio del terzo escluso mostrando come la negazione
di esso porta alle conseguenze esaminate precedentemente: si confonde tutto, e
non si dà più un significato alle parole; si sopprime il giudizio, il
quale non può non essere o affermativo o negativo; non s'intende più la realtà
nel suo divenire determinato dalla legge (aristotelica)dei contrari. Sono
ancora i tre aspetti della questione, come noi l'abbiamo distinta. E
questi si avvicendano paragrafo per paragrafo nel cap. 7. La dottrina
eraclitea sembra favorire il mezzo nel senso positivo (e-e), e negare più
immediatamente il giudizio nella sua disgiuntività e la stericità del
negativo nel divenire reale; la dottrina anassagorea sembra favorire il terzo
nel senso negativo (né-nè), e l’eristica. Ma poichè la forma positiva e
la negativa si equivalgono in fine, le due dottrine vengon ridotte l’une
all'altra (7, 10; 8, 2). L'ultimo
capitolo ha carattere conchiusivo: il principio di non-contraddizione
esige per ogni giudizio l'affermazione del vero come opposto al falso, sì
che l’uno non s'intenda senza l’altro: nasce nell'opposizione all’altro. Posti
uno fuori dell’altro (come due che si contraddicono), il vero si converte
in falso, il falso in vero, immediatamente, Il giudizio presuppone questa
disgiuntività, ch'è opposizione assoluta del vero al falso, e mediazione
dell'uno per mezzo dell'altro. Ma, come per l'atto del sentire, così qui
per quello del pensare logico A. non dialettizza, poi, in sè l’atto del
giudizio ne’ suoi momenti delle negazione e dell’affermazione: queste,
così come il vero e il falso, pur opposti e uniti nella sintesi che li
media, gli divengono due giudizi corrispondenti a quelli che nella realtà
delle cose sono i contrari. Il capitolo, infatti, termina passando
bruscamente ell’esempio di coloro che o affermano esistere soltanto il
movimento (eraclitismo), o soltanto la quiete (eleatismo): i quali sono
due stati contrari, ognuno in fine esistente positivamente in atto senza
l’altro, anche se idealmente l'uno nasca dall’opposizione all’altro: onde
sono insieme in potenza. Anche realmente, in quafito si guardi ell’essere
nella sua universalità: nell'universo, infatti, il movimento, ch'è anche
cangiamento, digrada sempre più verso la quiete e l'’immutabilità
assoluta. L’e-e di Eraclito, così come il nè-nè anassegoreo risorge, ma
in altro senso, dentro la dottrine aristotelica dei contrari, come un
divenire ch'è intermedio tra i due stati opposti dell'essere, attraverso i
quali passa l’essere svolgendosi nella fenomenia della natura:
quell’essere che, in quanto è, spiega il divenire (Eraclito), mea è anche
al di là del divenire (Parmenide). E come l'essere, così il pensiero nello
svolgimento umano dall’errore alla verità, de una verità a una verità
superiore. La scienza di questo essere ch'è pensiero, perchè il pensiero
è l'essere stesso delle cose, è la filosofia, nel senso ancora della
dialettica platonica, diversa dalla Sofistica per l’amore della verità,
dalla dialettica delle opinioni per la verità, dall’apodittica per la
consapevolezza della verità che possiede e cerca (i). 6. Il lib. V, citato più volte nella Metafisica
e altrove con la frase tà megi toù smocayic, o altra simile, e
ricordato con proprio titolo nel catalogo di Diogene Laerzio, è sembrato
a molti una mescolanza di pensieri troppo disordinati e di vario genere
per poterne ricavare, come pure altri tentarono, un disegno o una qualsiasi
linea di trattazione. Qualcuno lo riguarda quasi un piccolo dizionario dei
termini più usati in filosotla; ma questa non può esser stata, di Sicuro,
l'intenzione dell’autore: chè troppi sono i termini mancanti, e de’ più
importanti; nè l'indole della trattazione è quella di un’esposizione in
tal senso. Pare piuttosto che si tratti di un primo tentativo (questo
libro è probabile che sia stato composto prima degli altri della
Metafisica) di chiarimento di alcuni concetti, dai quali moverà la
riflessione aristotelica per l'ulteriore elaborazione. Gran parte di
essi, infatti, vengon ripresi, chiariti e sistemati in altri libri
e scritti. Guardando bene, si scorge facilmente che un ordine, o
meglio una serie di problemi organizzati intorno a, un nucleo di carattere
strettamente conforme al resto della Metafisica, c'è; ma è un ordine piuttosto
interiore che esterno,
Un’esposizione di questo libro sì trova nel volume di Guino
CaLoczro, I fondamenti della logica aristotelica (Firenze, Le Monnier,
1927), di cui un saggio fu citato in nota al 8 20 del cap. 4. La tesi del
C. è che la logica dianoetica di A., che concepiace l'attività del
pensiero come sdoppiamento predicativo (e quindi come giudizio,
sillogismo ed apodissi) sl riduce interamente alla posizione noetica,
laquale fonda ogni determinazione del contenuto logico su l'atto unitarlo
dell’appercezione intellettuale (noetico). La dimostrazione è condotta
con vigore e penetrazione. La mia esposizione, qui come altrove, vuol
essere più aderente ai termini in cui si presentava ad A. storicamente il
problema. risultante piuttosto dal complesso che dalle parti così
come son disposte in questo libro. I primi capitoli su
principio, causa ed elemento mostrano subito l’interesse predominante per
l'oggetto della scienza prima, e preludiano alla ricerca propria del lib.
I; il cap. su la natura è strettamente legato allo stesso argomento: la
distinzione di materia e forma, e i principii aristotelici intorno al
divenire naturale ci sono già tutti chiaramente. Aggiungerei a questi,
come complementari, i capitoli su ctò per cui e per se stesso, da
qualcosa, genere, perfetto e limite o termine. Un altro gruppo ben
definito di pensieri è intorno.alla sostanza e alle sue determinazioni:
quantità, qualità, disposizione, abito, affezione, privazione, avere, e intorno
al relativo. L'essere già si pone nelle
distinzioni dell’accidentale e dell’essenziale, del vero e del falso, e (per
il processo reale) della potenza e dell’atto. Le indagini su la potenza,
sul necessario e su l’accîdente, sul falso, approfondiscono l’uno o
l’altro aspetto di quelle distinzioni. Meglio ancora si profilano le
distinzioni dialettiche dell'unità, dell’identico, dell’opposto, che
verranno elaborate nel lib. X. Con il concetto di unità stanno quelli di
parte, intero e tutto, e anche il capitolo su mutilato ha relazione con
questi; mentre il capitolo su anteriore e posteriore si lega variamente alle
riflessioni su la natura in sè o in rapporto alla nostra conoscenza. Sono, come si vede, i problemi dei
primi libri della Metafisica, sebbene non ancora distinti e ordinati
come, poniamo, nel lib. III. Onde il raggruppamento da noi fatto non è
rigoroso: nel capitolo, ad es., su ciò per cui e per se stesso ci sono
considerazioni che toccano di più la questione della sostanza e
dell'essenza; e il capitolo su relativo ha pensieri che stanno bene con
quelli delle distinzioni dialettiche. Si può notare, inoltre, in questo
libro, una più rilevante mescolanza del punto di vista naturale e oggettivo con
quello umano e soggettivo: già nel cap. 1 si vedono, per es., al paragrafo
conchiusivo, messi insieme la natura e gli elementi col pensiero e la
deliberazione; così nel cap. 5 per il necessario, nel 28 per i) genere, e
nel capitolo seguente per il falso ($ 3: un «uomo falso ). E spesso anche
altrove. La mescolanza su detta deriva in parte dell'altra, molto
lamentata dai commentatori, del modo comune di parlare messo insieme con
quello filosofico, e, in generale, dal minor rigore (ch’ è spesso anche
minore chiarezza), o nel pensiero o nell'esposizione, predominante in
questo libro in confronto con gli altri della Metafisica.
Niun dubbio che questo libro è stato aggiunto in epoca posteriore: messo
qui forse perchè citato in VI. 2, 1 e in VII. 1, 1. Ma, evidentemente,
esso interrompe la continuità del gruppo che dopo il IV vuole il
VI. Il lib. VI è breve, quasi quanto il II, ma supera questo di
assai per importanza, in sè e in rapporto agli altri libri.
Anch'esso si compone di tre parti, tra le quali non è visibile immediatamente
il legame, se si bada, non al-risultato comune dichiarato, ma alla sostanza di
ognuna di esse. Il risultato comune è che l’oggetto della metafisica è
l'essere in quanto essere, non l’accidentale, o ciò che ha una realtà
soltanto soggettiva: è il vero essere, di cui la realtà è eternamente,
universalmente e necessariamente, tale. Ma, poi, la prima parte svolge,
con punti di mirabile chiarezza, il rapporto tra la metafisica e le altre
scienze, come un problema a s'; la seconda tratta la questione dell’accidente
senza coordinarla a quanto precede o segue; e così la terza, per il vero
e falso. Nè si può dire che A. nelle parte prima non faccia un posto
conveniente anche alle altre scienze; e nella seconda oltre « ciò ch'è
sempre si pone come oggetto di scienza
anche «il per lo più; e nella terza è un accenno che oltre al vero nel
senso soggettivo c'è pure una verità che serve di fondamento a quello, e
non è perciò da relegare fuori della metafisica, insieme all’accidente e quasi
al non-essere. Tuttavia, nel complesso, il movimento principale del pensiero in
questo libro si può dire lineare, e in senso inverso a quello del lib.
IV. Là dal concetto dell’essere in quanto essere si passa ai presupposti
della pensabilità e conoscibilità del reale in generale; qui dal rapporto
tra l'oggetto della « filosofia prima e quello delle altre scienze si
procede eliminando ciò che non ha vera e stabile realtà; e per assicurarne
questi attributi, si arriva persino a identificare il pensiero con
l’accidentale. Cfr. note a IV. 1, 1 e 2, 1 su questo doppio movimento del
pensiero in A. Lo Jaeger (Arist., pp. 209-212) pensa che, mentre
il capitolo 1 rappresenta una ripresa del cap. 1 del IV rielaborato sin da
principio nella forma attuale, come prova il corrispondente cap. 7 del
lib. XI, il cap. 2 e il 4 abbiano, invece, subìto un ritocco che alterò
la fisonomia generale del libro. Confrontando, infatti, i capitoli 2-4
con il corrispondente cap. 8 dell’ XI si trova che in questo mancano i $$
2 e 3 del cap. 2, e che il contenuto del cap. 4 è ivi ridotto alla pura e
semplice esclusione del pensiero soggettivo dall'essere in sè e per sè, ch’è
l'oggetto della metafisica. Si può aggiungere che anche la trattazione
dell’accidente nel cap. 3 mostra l’influsso di pensieri posteriori (cfr.
$ 1 e le citazioni in fine della mia nota al $ 4). Secondo lo Jaeger il
pensiero originario di questo libro (e del gruppo III, IV, VI,
tutt’intero) era schiettamente platonico: la vera realtà è quella
dell’essere divino, immoto e separato, trascendente. A questi libri, i quali, a
cominciare dal I, costituiscono, con le loro ricche indagini intorno
all’oggetto della metafisica, una parte di carattere essenzialmente
introduttivo, doveva seguire oramai la parte costruttiva di carattere
eminentemente teologico. Invece, segue il gruppo VII-IX che ha un
carattere del tutto opposto! Questi libri, infatti, come ora vedremo,
appartengono con ogni probabilità a un periodo posteriore dell’attività
filosofica di A., e si possono considerare come espressione della piena
maturità della sua riflessione critica. In essi non è quasi più nessuna
traccia del precedente suo platonismo. Ora, secondo lo Jaeger,
quando A. decise di introdurre questi libri nel corpus metaphysicum, rielaborò
i capp. 2-4 del VI in modo che si stabilisse un passaggio dai libri
introduttivi I, III, IV, VI (cap. 1) ai libri VII-IX. Al cap. 2 aggiunse
i $3 2-3, affinchè, oltre i modi dell’essere come accidente e come vero,
venissero anticipati quelli delle categorie e della potenzaatto (‘). Il cap. 4,
poi, fu rielaborato in modo da costituire un precedente al cap. 10 del
lib. IX: accanto al principio dianoetico fu accolto quello noetico (*),
non senza un visi Il lib. VII,
infatti, prende per punto di partenza la categoria della sostanza e in questa
approfondisce l'indagine logico-ontologica sino alla fine del lib. VIII.
Ed è notevole che al principio del cap. 1 (del VII) si richiama per i
vari sensi dell'essere nelle categorie al megl toù a0cay®g, anzichè al 8 2 del
cap. 3 del VI: non c’era, dunque, ancora in A. il proposito di unire
questa trattazione a quella dei libri precedenti della Metafisica.
Anche il cap, 10 del lib. IX è
un'aggiunta posteriore, che mal s'intona ai capitoli precedenti del lib.
IX: cfr. nota, ivi. Il principio noetico, dice lo Jaeger, ò l'ultimo
avanzo della platonica intuizione delle idee (in A., le essenze semplict)
rimasto nella metafisica aristotelica. L'osservazione è esatta, se
s'intende quel principio nel senso del cap. 10 del IX. Ma nei libri
VII-I1X c'è anche uno sforzo potente di calare quel principio dentro il
pensiero dianoetico stesso e farne motivo dell’unità del molteplice
nell'oggetto e nella nostra conoscenza di esso. In questo senso, esso è
un principio ben lontano dall’intuizione platonica, puramente intellettuale,
del trascendente. bile turbamento della chiarezza del ragionamento e della
regolarità della costruzione sintattica di questa parte del capitolo (‘).
Le congetture dello Jaeger sono a primo aspetto del tutto
persuasive, e soltanto in un secondo tempo, scoprendosi il loro
fondamento meramente ipotetico, perdono alquanto della loro persuasione.
Intanto, le aggiunte o modificazioni apportate ai capitoli 2 e 4 non
introducono pensieri nuovi per A.: cfr. V. 6, 9-10 e 7, 4-7 (qui l’essere
nel senso delle categorie e quello nel senso della potenza-atto è
parimenti unito a quello nel senso del vero-falso). Sì che aggiunte e
modificazioni si potrebbero spiegare anche fuori dello scopo attribuito
ad A. dallo Jaeger. Poi, quel deciso atteggiamento platonico ch’egli vede
nei libri introduttivi va, a mio avviso, attenuato nel senso dato dianzi
nell'esame sintetico di essi. C'è un concetto fondamentale nel IV e nel
VI, e che, essendo presente già nell’ XI anteriore a questi secondo lo stesso
Jaeger, si può ben sottintendere nel III e anche nel I(*): quello
dell’oggetto della metafisica come l’essere in quanto essere, il quale
basta a bilanciare la tendenza platonica della concezione teologizzante con una
tendenza opposta, in cui vien sorpassato il criterio della distinzione
della « filosofia prima dalle altre scienze su la base della diversità e
dignità del genere de’ loro oggetti. Come, poi, avvenga che A.
passi d’un tratto da un concetto all’altro, sebbene non inconsapevole
della differenza (la quale non era per lui tanto grande da costituire,
come per noi, un’irriducibile opposizione) (?), sì cercò di chiarire
nella nota in fine al cap. 1 del lib. VI. In fine: che A. stesso
adattasse con un mero accomodamento V. JaEGER, Fntst., pp. 29 88. L’essere in quanto essere è ancora il
concetto della causalità come immanenza a uno stesso principio della
quadruplice distinzione colà posta. (9) L'essera in quanto essere è
l'essere che il pensiero scopre nel fondo di tutto ciò ch'esiste (nel
mondo seneibile e in quello intelligibile), in quanto ragione della
realtà e conoscibilità di esso: p. d. v. critico e immanentistico,
dunque, che A. non poteva scambiare con quello dogmatico e trascendente
dello schietto platonismo (dell’essere eterno e immobile). esteriore
una sua precedente trattazione a un intendimento addirittura opposto a
quello ch’essa realmente aveva, è, per lo meno, una congettura che lascia
molto perplessi. 8. Il lib.
VII è de’ più ampi, e prosegue nell'VIII. Il IX, invece, è una
trattazione ben distinta, e tuttavia forma con i due precedenti un sol
gruppo, che qui si esaminerà insieme. Nel VII specialmente, ch'è il più
aspro a interpretare, le singole parti paiono talora seguirsi come serie
d’in@agini che mirano, sì, a uno stesso scopo, ma per vie diverse. Il
Natorp lo ha scisso in due parti, e in ciascuna ha riordinati a modo suo i
capitoli del libro. Il Ross pensa che i capp. 7-9 formassero
originariamente una trattazione separata. Lo Jaeger divide i libri VII-VIII in
tre parti originarie, delle quali le prime due son costituite dai capp.
1-11 e 13-17 del VII, la terza dai capp. 1-5 dell’ VIII; e poichè l’11
par conchiudere la prima parte, e il 13 cominciarne un’altra, il 12
si trova isolato. L’annuncio, infatti, verso la fine dell’11 (cfr. ivi,
nota al $ 11), non può riferirsi al 12 che segue subito dopo, e questo
(pensa lo Jaeger) è una rielaborazione, rimasta incompiuta, del cap. 6
del lib. VIII: i due capitoli sono stati aggiunti dopo, questo come
un’ulteriore illustrazione del precedente cap. 3, quello perchè c’era forse
spazio disponibile nel rotolo (cfr. Entst., pp. 53 ss.). Ma a noi
preme di più individuare il problema intorno al quale gira il pensiero di
questi libri. L'essere in quanto essere è qui la pura essenza, il
ti fiv slva: che vuol essere il principio trascendentale del x65 11° (IV) a fs (XIV) = 18 (Vv) = 4* (XV) >
i4s (VI) cx (manca) (XVI) = (manca) (VII) = Questione Ga
(XVII) = Questione 12% (VIII) >
7 136 (IX 6e.X)= gs Quest'ultima (13%) non è
enunciata a parte nel presente capitolo, ma è pur compresa nella IV (5) e
T1X-X (8). Nella (III) c'è una parte non trattata nella 8*: 86, cioè,
qualora delle sostanzo siano più le scienze, queste sian tutte « filosofie
. Ma essa è risolta insieme alla parte precedente nel lib. IV, capp. :-2,
e nel VI, cap. 1. Anche la (VI) è ripresa in connessione con In (V) nel
lib. IV, cap. 2. E Siriano, infatti, la riduce alla (V), perchè, secondo
lui, le contrarietà dialetticho Appartengono agli «accidenti
essenziali delle sostanze (p. 59, 17
88.) Per lu (XVI), similmente, si
può diro ch'è inclusa, in certo modo, nolla 14* (fin dove la questione
della potenza coincide con quella del movimento: per la differenza v.
lib, IX, cap. 6). Per il rapporto tra i problemi posti in questo libro
quasi come un programma da eseguire in seguito, o gli altri libri della
Metafisica, v. Introduzione. Il
riferimento è al lib. I, come notò già Alessandro, uon al II, che fu
interpolato forse per il suo carattere proemiale. eneri, ovvero alcune si
debbano chiamare filosofie, altre generi, ovVero alcune
altrimenti (‘). E anche questo è necessario investigare: se soltanto
le sostanze sensibili si deve concedere che esistono, ovvero,
oltre esse, anche altre; e se delle sostanze c'è un genere
soltanto, o più, come vogliono quei che pongono le specie Ro. intermedie
tra queste e i sensibili, le entità matematiche. “Questi problemi,
dunque, a nostro avviso, sono necessari a considerare. Poi, se la
speculazione versi intorno alle sostanze soltanto, o anche intorno agli
accidenti essenziali (*) delle sostanze. Anche, il medesimo e il
diverso, il simile e il dissimile, l'identità e la contrarietà, il prima
e il poi, e tutte le altre determinazioni di questa specie, in cui i
dialettici si esercitano con un’indagine che non sorpassa il modo comune
di vedere, di quale scienza formano tutte l’oggetto di studio? E
anche le proprietà di queste stesse determinazioni. E non solo ciò che
sia ciascuna di loro, ma anche se a ogni contrario si opponga un solo contrario
(*). Inoltre, se principii elementari siano i generi, ovvero le
10 parti costitutive in cui ciascun essere si divide ('). Qualora
11 poi siano i generi, è a vedere quali di quelli che si
predi"cano ‘degl’ individui: se i più prossimi, o i generi sommi;
‘voglio dire, se sia principio ed abbia maggiore realtà, dopo quella del
singolare, uomo o essere vivente. Di somma importanza sarà la ricerca,
con adeguata trattazione, se oltre la materia esiste, o no, una causa per
sè; e questa, se sia separata. C) no, una di numero ‘o più.
tr nni Nel lib. VI, cap. 1,
si distinguono le scienze pratiche o poietiche da quelle puramente
teoretiche. ‘2) Che la somma degli angoli di un triangolo sia uguale a
due retti è un accidente essenziale (ovpfefaxòds xad’avté) del triangolo;
che questo ala grande LI piccolo, mM un colore o di un altro, è
uu_accidonte secondario, ‘ (8) Le coppie qui enunciate di contrari
vengon ridotte a quella dell'uno e del molteplice nel lib. IV, a 2; è
riprese in esame nel lib, X.
L'uno è un punto di vista «logico, l’altro « reale; ma, poi, iu
quanto _i generi sono reali, l'uno è un punto di vista, come appunto si
dice, « generale . l’altro ‘semplicemente «materiale , Asi
IG a E se c’è qualcosa oltre il « sinolo (‘) (dico sinolo quando la materia è in
qualche modo determinata), o nulla; ovvero, Se per certe cose sì, per
altre no, e quali sono esse. Di più: se i principii sono determinati di
numero o di specie, sia quelli riguardanti i concetti delle cose, e sia
quelli riguardanti il sostrato (”). E se delle cose corruttibili e
delle incorruttibili i principii sono gli stessi o diversi; e se son
tutti incorruttibili, o corruttibili quelli delle cose corruttibili.
Ancora (e qui è il problema più difficile e più degli altri pieno di
dubbi): se l’uno e l’ente, come i Pitagorici e Platone dicevano, non è
altra cosa dalla sostanza degli enti; o se è diversa (*), e però il
sostrato sia qualcosa di diverso, per es. l’amicizia , come dice
Empedocle, o il fuoco, o l’acqua, o l’aria, come dicono altri.
Poi, se i principii sono universali o al modo delle cose singolari; e se
in potenza o in atto. E se si debbano congsiderare anche da un altro punto di
vista che per rispetto al movimento. ; Tutte questioni, queste,
che possono offrire grandì difficoltà. E oltre queste, se i numeri e le
lunghezze e le figure e i punti sono sostanze, o no; e qualora fossero
sostanze, se separate dai sensibili, o in essi esistenti. In tutti
questi problemi, non soltanto è difficile procedere speditamente alla verità,
ma neppure è facile discorrerne i dubbi acconciamente. «Tutto-insieme , il reale nella «totalità e
unità delle sue determinazioni. Ho preferito conservare il termine molto
espressivo di A. Si potrebbe, sì, tradurre «concreto , ma questo ha un
significato troppo ristretto alla sua opposizione all’« astratto . (8)
Principii logico-formali e principii materiali. L'enunciazione è
generica. ma è ovvio che A. ha in vista, qui e altrove, le concezioni più
determinate che di questi principii avevano avuto i filosofi di cui ha
parlato nel lib. I. (9) Cfr. lib. I, cap. 5, 8 22. Cfr. qui 4, 93: chè, altrimenti, è un po'
difficile interidere l’Amicizia empedoclea come sostrato. Cominciamo di
dove si prese le mosse: se appartenga a una sola scienza, o a più,
studiare tutti i generi delle cause. Ora, come mai apparterrebbe ad una
sola scienza di conoscere principii che non sono contrari? E poi, tra gli
enti ce ne sono molti, ai quali non tutti i principii convengono
('). Infatti, come potrebbero il principio del movimento e la natura del
bene riguardare gli esseri immobili, se tutto quel che è buono per sè e
per propria natura, è fine, e però causa, sì che per cagion sua le altre
cose e si generano ed esistono? Il fine e lo scopo sono termine di
qualche azione, c le azioni sono tutte con movimento; laonde negli esseri
immobili non può darsi questo principio del movimento; nè quello di
un bene per sè. Appunto per ciò nelle matematiche non si dimostra nulla
mediante questa causa, nè c’è nessuna dimostrazione finchè s’adduce che così è
meglio o peggio: anzi addirittura nessuno fa menzione di simili cose. Tanto che
alcuni Sofisti, per es. Aristippo , le coprivano di disprezzo,
perchè, dicevano, mentre nelle altre arti, anche volgari, come
quella del falegname e del calzolaio, di ogni cosa si discorre in ragione
del meglio o del peggio, nelle matematiche invece nessuno fa parola del bene e
del male. D'altra parte, se sono parecchie le scienze delle cause
e diverse quelle di principii diversi: quale di esse si
dovrà (Questione 18) Ossia: a) ogni
scienza è di contrari (vero-falso, bene-. male, sano-malato, ecc.); ma le
quattro specie di causalità non costituiscono con-' trarietà (i
contrari, propriamente, per A., son quelli che implicano un sostfato che
li comprende entranbi), La materia, ad es., non è un contrario della
forma (efr. XII, 10, 6). ) I generi delle cose sono, per A., diversi, e
però di essi non e’ è un’unica scienza (il genere della fisica è diverso
da quello della matematica). E tuttavia in tutti si può considerare, come fa la
metafisica, l'essere semplicemente, in quanto essere. Questo solo è un
oggetto universale assolutamente. Ma, non essendo ancora stata spiegata questa
universalità, vien sottinteso un conc etto affine: che i
generi di causalità studiati da quell’unica scienza dovrebbero valere per ogni
essere. Aristippo seguì Protagora
nella dottrina della conoscenza. Molti dei socratici minori proseguono ancora
il movimento dei Sofisti. dire che è quella di cui noi andiamo in cerca? e
chi, tra coloro che le posseggono, si dovrà dire che conosce meglio
l'oggetto delle nostre ricerche? Poichè può ben avvenire che nella
considerazione di una stessa cosa trovino luogo tutti i modi della
causalità: per una casa, ad es., l’arte e l’architetto sono principio del
movimento, l’utilità è lo scopo, la terra e le pietre sono la materia, la
nozione è la forma ('). Ora, stando a quanto fu da noi precedentemente
determinato (?) intorno a quale tra le scienze si dovesse chiamare
sapienza, si avrebbe ragione di chiamar tale ciascuna di quelle (*).
Infatti, in quanto è principalissima e la più alta signora delle
altre scienze, le quali, quasi serve sue, non hanno diritto neppure di far
obiezioni, tale è quella del fine e del bene (chè per questo si fa tutto
il resto). Invece, in quanto fu stabilito che fosse la scienza delle
cause prime e di ciò che è massimamente conoscibile, tale sarà quella
della sostanza (*). Poichè, quando una stessa cosa è nota in molteplici
modi, noi diciamo che ne sa più chi la conosce per quello che è,
piuttosto che per quello che non è; e di quelli stessi che ne conoscono
l’essere, diciamo che uno ne sa più di un altro, e più di tutti chi sa
l’essenza, non chi ne sa la quantità o la qualità (*), o quel che naturalmente
può fare o patire. E come nelle altre cose, così anche in quelle di cui c’è
dimostrazione, allora noi reputiamo di sapere, quando conosciamo l’essenza. Per
es.: che cosa è ridurre a quadrato? La scoperta d’una media (°). E
similmente negli altri casi.
Traduco elBos con « forma quando la specie è contrapposta alla materia.
Nel lib. I. 2. Ciascuna di quelle scienze che riguardano una
delle quattro cause. Sostanza è
la categoria principale dell'essere, l'essenza concreta (non fuori della
materia). Paiono, così, ricordate qui soltanto tre delle quattro specie
di cause, perché la materia, osservano giustamente i commentatori, non è
oggetto di conoscenza: salvo, si può aggiungere, in quanto è compresa nel
concetto della sostanza. (5) A. dice qui, o spesso, «il quanto ,
«Il quale (nel senso del nostro pluale: «le qualità di una cosa). (6) La media
proporzionale ai lati di un’altra figura. Pare che con «le cose di cui
c'è dimostrazione si vogliano
distinguere i due tipi di conoscenza: l’uno, immediato, l’altro mediato.
Nel qual caso sarebbe meglio tradurre: « E nelle Invece, le generazioni e
le azioni, ed ogni mutazione, ci pare di conoscerle quando ne sappiamo il
principio del movimento. Ma questo è diverso dal fine, anzi opposto. Di
maniecra che parrebbe appartenere ad una scienza diversa lo studio di
ciascuna di queste cause ('). Anche per i principii delle dimostrazioni
c’è da star in dubbio se appartengono a una scienza sola o a più. E
chiamo principii delle dimostrazioni quelle comuni sentenze (°), da
cui tutti muovono a dimostrare, per es., che ogni cosa è necessità
affermarla o negarla, e che è impossibile insieme essere e non essere, e
quante altre proposizioni sono simili a queste. Si chiede se la scienza
di essi e quella dell'essenza è una stessa, o se son diverse; e se
diverse, quale bisugna riconoscere per quella che si cerca qui.
Intanto, che appartengano a una scienza soltanto, non pare ragionevole.
Perchè mai sarebbe proprio, poniamo, della geometria piuttosto che di
qualunque altra scienza intendersi di essi? Se, dunque, spetta del pari a
ciascuna, e d'altronde a tutte quante non può spettare (*), non è più
proprio della scienza che conosce le sostanze, che di qualunque
altra, averne cognizione. altre cose, in quelle di cui c'è
dimostrazione , c considerare, così, come cpesogetico il secondo «at della 1,
19. Ma forse la distinzione non è voluta, e il senso è che l’ossenza ci
fn conoscer le cose meglio dello loro qualità accidentali, così come si
vele anche nella conoscenza propriamente sclentifica di esse. Alesa. inserisce un otx innanzi a &XXmg,
€ il ragionamento, allora, sarebbe: «Ne si pongono scienze diverse per
ognuna delle apecie di causalità, non s! saprà più qualo chiamare
Rapionza; quindi di ciascuna di esso non c’è una scienza diversa . Ma non pare
necessario alterare il testo: A. non pretende In questo libro a una
trattazione rigorosa delle questioni, por tesi e antitesi ben definite;
ma pone innanzi dubbi e pensieri discordanti. Qui,ad es., dice che se la
causa efficiente e la finale sono diverse, anzi opposte (cfr. I. 3, 6), auche
le scienze di esse dovrebbero esser diverse, La questione è ripresa,
sebbene non in questa forma, e risolta in lib, IV. 1-2. (Quertione 2*) xotval Béear, ma «opinioni
comuni ben fondate, generalmente ammesse (cfr. tò EvBofov, il probabile da cui
muovo la dialettica delle opinioni). A. le chiama anche « principii
comuni , « principii apodittici (&gxal Uroberntixal), «assioni
comuni, o semplicemente « assiomi (&Ebpara) o «comuni (tà xotvd), « Quia sic sequeretur quod idem tractaretur
in diversis scientiis, quod esset superfluum. E insieme, come s'avrà mai
una scienza di essi? Quel che sia ciascuno, lo sappiamo sin d’ora: tanto
è vero, che anche le scienze pratiche (') se ne servono come di
principii noti. Ma se ci fosse una scienza che li dimostrasse, hisognerebbe
che avesse per soggetto un qualche genere; e che di quelli alcuni fossero
sue affezioni; altri, assiomi (poichè è impossibile che ci sia
dimostrazione di tutto): infatti, la dimostrazione, di necessità, è da
qualcosa, intorno a qualcosa, e di qualcosa (?); sì che accadrebbe che,
servendosi di assiomi ogni scienza dimostrativa, tutte le cose che si d
imostrano apparterrebbero a un unico genere. Dall’altra parte, se
la scienza dell’essenza è diversa da quella di codesti principii, quale
delle due deve precedere Il
testo dico le altre arti: intendo le scienze non apodittiche, quelle che
nel lib. I. 1, son considerate anche come téyvat. In ogni dimostrazione o scienza apodittica
sono tre cose: seo 5 te Belxvuor sal & Seixvuor xaì E &v (Anal.
Post., I. 10. 76b, 21). Ossia: l'oggetto, il genere di enti, «intorno a
cui versa (per es. il numero, per l’aritmetica); l’assioma, o gli assiomi
« da cui trae forza l’argomentazione (per es., che tutti i numeri derivano
dall'unità; ovvero, che le unità non cambiano comunque si
raggruppino;ecc.); le affezioni o proprietà « di cuì si dimostra o sì mostra che l’osgetto è
investito, e qui propriamente consiste il lavoro scientifico (per es., cho ogni
numero è o dispari o pari; che cambiando posto agli addendi, il totale
non muta; ecc.). Per l’argomentazione complessiva, più chiaro di tutti
il Ross. Se gli assiomi sono dimostrabili, di questi alcuni debbono esser
provati, altri accettati come assiomi non provati (per cul la supposizione
che gli assiomi siano dimostrabili, va corretta in questa: che alcuni di
essi sono dimostrabili per mezzo di altri îndimostrabili). Ora, tutte le
scienze dimostrative usano gli assiomi come loro premesse, e le loro
conchiusioni appartengono allo stesso genore delle premesse (questo non è
detto, ma evidentemente sottinteso). Quindi, se gli assiomi sono
dimostrabili, tutto ciò che si può dimostrare appartiene a un unico genere, e
tutte le scienze diventano un’unica scienza: ch'è per A. una reductio ad
absurdum. Si noti che A. trascura qui due punti: 1. Che c'è una terza
via in cui può esserci una scienza degli assiomi: quella iudicata nel
lib. IV, per cui essi non vengono nè definiti nè dimostrati, ma
raccomandati al senso comune col mostrare le conseguenze assurde a cui
conduce la loro negazione; 2. A. qui non distingue tra i principii propri
e quelli comuni: ogni scienze deve avere principii riguardanti lo stesso genere
di cui trattano le sue conchiusioni, ma essa ha unche principii comuni a tutte
le sclenze, (Questi stanno a quelli come l’essere in generale ai generi
reali delle cose, i quali non possono esser, per A., assorbiti in quello
senza disperdere la distinzione necessaria alle scienze: ne verrebbe fuori
un'unica scienza, quella dell'essere nella sua indistinzione, ch'è un
concutto contro il quale A. combatte ripetutamente). ed è superiore
per natura? Gli assiomi, di certo, sono gli universali supremi e i
principii di tutto. E se non spetta al filosofo, a chi mai altro spetterà
di studiarne il vero e il falso? Poi, per le sostanze, c’è una sola
scienza di tutte in generale, o più? E se non è una sola, di quale sostanza
si deve stabilire che è scienza, questa nostra? Che ce ne sia una
sola di tutte, non pare ragionevole, perchè, allora, ci sarebbe anche una
sola scienza dimostrativa di tutti gli accidenti, una volta che ogni scienza
dimostrativa, versando intorno a un sostrato, ne studia gli accidenti
essenziali movendo dalle opinioni comuni. In quanto, dunque, spetta a una
stessa scienza studiare gli accidenti per sè di uno stesso genere e dalle
stesse opinioni, e poichè sarebbe una
sola la scienza del sostrato, e una sola quella degli assiomi
(siano poi la stessa o diverse),
anche gli accidenti li studieranno o quelle due scienze, o una che
le comprenda entrambe (‘). Ancora, lo studio verserà soltanto intorno
alle sostanze, o anche intorno ai loro accidenti? Voglio dire: se il
solido e le linee e le superfici sono sostanze (*), spetterà a una
stessa scienza conoscere queste cose e insieme gli accidenti di ciascun
genere di cui trattano le dimostrazioni matematiche, ovvero a un’altra? Se a una stessa, ci
sarebbe una scienza dimostrativa anche della sostanza: ma non pare
che (Questione 3*) Nella
questione presente, e in quella che segue, vengon prospettnte tre ipotesi: che
ci sia una scienza unica degli assiomi, una scienza unica delle sostanze,
e una sclenza unica degli accidenti (i tre termini intorno al quali versa
‘ogni scienza apodittica). Viene, naturalmente, lasciato in sospeso non
soltanto l’esistonza di queste tre presunte scienze, ma anche Il loro
rapporto: sé sarebbero, In realtà, tre scienze distinte, due, o una
soltanto. Le ultime parole, èx tovtwy
pla, è dubbio come si debbano tradurre. Il Bonitz (a q. 1.) interpreta: «sive
haoc sclentia suspensa nb illis eademque ab illis diversa, at una tamen
est. Il Ross: «one compounded out of these . Il pensiero sottinteso è
che, per tali ipotesi, tra gli accidenti non sì può far distinzione, quanto
alla scienza che li deve studiare: onde si distruggerebbe, da capo, ogni
criterio di distinzione delle scienze particolari. Per le questioni 3* e
42, v. lib. IV. 2 (per la 9, anche VI. 1). (Questione 4*) Quelle della matematica sono
«sostanze intelligibili . Ma qui (come spesso) « sostanze vale semplicemente « esseri reali , 0 «
realmente esistenti. dell'essenza ci sia dimostrazione('). Se a una
scienza diversa, quale sarà quella che studia gli accidenti che riguardano la
sostanza? Dar conto di ciò è ben difficile. Un’altra questione è questa:
si deve dire che esistono le sole sostanze sensibili, o anche altre oltre
di esse?.e di generi di sostanze ce n’è uno solo; o più, come dicono
quei che pongono le specie e gl’intermedi, di cui, secondo essi,
trattano le matematiche? In qual senso noi diciamo (*) che le specie
sono causa e sostanze per sè, s'è discorso precedentemente, Tra le
difficoltà e gl’inconvenienti molteplici, non è minore degli altri quello
di affermare, da un lato, che ci sono certe nature al di là di questo
mondo; e dall’altro, che esse sono le stesse delle sensibili, tranne che
quelle sono eterne, e queste corruttibili. Essi dicono che esiste l’uomo in sè,
il cavallo in sè, la salute in sè, sì che par non ci sia altra differenza
(*). Essi fanno press’a poco come quelli che van dicendo che ci
sono, sì, gli dei, ma simili agli uomini : come costoro non riescono ad
altro che a far degli uomini eterni, così quelli non fanno delle specie
altro che sensibili eterni. Parimenti, se alcuno oltre la specie e oltre
i sensibili vorrà porre degl’intermedi, si avranno molte difficoltà.
Poichè è chiaro che, come ci saranno delle linee oltre le linee in sè e
le linee sensibili, così per ciascuna cosa degli altri generi: di maniera
che, essendo l’astronomia una scienza pure matematica, ci sarà un cielo
oltre quello sensibile, con un sole e una luna, e così di tutto il resto
che al cielo ap L'essenza del
triangolo non si dimostra. Si dofinisce. SI dimostra, invece, che la
somma degli angoli suoi è di due retti.
(Questione 5%) Noi della scuola di Platone. Cfr. lib. LT. 9, 2.
Non che le Idee fossero
sensibili, ma la natura loro, per quanto univerralizzata e sottratta al flusso
del diveniro, era quella stessa delle cose sensibili : donde quel raddoppiamento
della realtà, di cui si parlò in I. 9, 1. (In A. la forma non riproduce,
immediatamento, il contenuto, ma Jo media in un processo, sì che esso
diventa un momento, quello potenziale, della forma stessa). Nella seconda parte del lib. XII A. espone il
suo concetto della divinità ‘come puro pensiero (Dio e le
Intelligenze motrici: queste sono «sostanze non sensibili od
esistenti separatamente). partiene. Eppure, come crederci? Poichè esso non
si dovrebbe dire che è immobile; d’altronde, non è affatto possibile che si
muova ('). Parimenti per le cose di cui. tratta l'ottica e l’armonica
matematica: è impossibile che di esse ce ne siano altre oltre quelle
sensibili, per gli stessi motivi. Che se gl’intermedi fossero sensibili,
e di essi ci fosse sensazione, è evidente che dovrebbero esserci anche degli
animali intermedi tra quelli in sè e quelli che periscono (?). Ci
sarebbe anche imbarazzo a stabilire di quali enti si danno questi
intermedi intorno (*) ai quali converrebbe cercare queste scienze. Poichè, se
la geometria differisse dalla geodesia soltanto perchè questa è di cose
sensibili e quella no, è evidente che dovrà esserci una scienza
intermedia tra la medicina in sè e la medicina attuale; e come per la
medicina, così per ogni altra scienza. Ma, come questo è possibile? Ci
dovrebbero essere anche delle cose salubri oltre quelle sensibili e ciò
che è salubre in sè. E bada che nonè neppur vero che la geodesia sia
scienza di grandezze sensibili e corruttibili: chè, perendo queste,
anch’essa perirebbe. Come
«cielo, parimenti a quello che si vede, dovrebbe muoversi; ma, essendo
matematico, dovrebbe, così come gli oggetti della geometria, esser immobile.
l'Armonica come scienza di rapporti quantitativi dei suoni, non come
musica, era considerata come matematica anch'essa. Ricorda le speculazioni
pitagoriche, che «nei numeri vedevano le proprietà e ragioni dell'armonia e dell'ordinamento dei cieli: I. 5, 3-5.
«Si (ista) sensibilia sint
intermedia, sc. soni et visibilia, sequetur etiam quod sensus sunt
intermedii. Et cum sensus non sint nisì in animali, sequetur quod etiam
animalia sint intermedia inter species et corruptibilia, quod est omnino
absurdumn : S. Tom. ($ 419). Così anche Aless, (198, -28). Leggo xegt, non ragd: v. giusta osservazione
del BonuHI [Metafisica di A., l'orino, 1854}, p. 139 F. Per il senso,
tieni presente che per A. anche le matematiche, come le scienze fisiche,
riguardano il mondo sensibile; e la differenza è che quelle nstraggono
dalla materia e dallo qualità, per considerare la sola quantità e i
rapporti quantitativi delle cose; le scienze fisiche, invece, pur
astraendo dalle particolarità delle cose singole, considerano la forma o le
forme in quanto sono unite alla materia. I Platonici non partivano da
questo doppio modo di considerare la stessa realtà, matematicamente o
fisicamente; e però A. dice che, come per spiegare il carattere
scientifico delle matematiche ricorrevano a questi enti intermedi tra le idee e
i sensibili, così essi avrebbero dovuto, coerentemente, porre tali
intermedi anche per le altre scienze. D'altra parte, l'astronomia non può
essere scienza di grandezze sensibili e del cielo che si vede: poichè, nè le
linee sensibili sono tali, quali dice il geometra (') (non c’è
nessuna cosa sensibile retta o rotonda a quella maniera: chè, come
già Protagora obiettava ai geometri, il cerchio non tocca la riga in un
punto solo), nè i movimenti e le spirali sono simili a quelli del cielo,
dei quali discorre l’astronomia, nè i punti hanno la stessa natura degli
astri. Ci sono, infine, alcuni (?), i quali dicono che ci sono,
sì, questi intermedi tra le specie e i sensibili, ma pon separati
da questi, anzi ad essi immanenti. A scorrere tutte le conchiusioni assurde che
vengon fuori a costoro, ci vorrebbe un lungo discorso. Contentiamoci di
queste considerazioni: le cose non è ragionevole che stiano così per
quegl’intermedi soltanto, ma anche le specie, evidentemente, dovrebbero
esser immanenti ai sensibili: chè le stesse ragioni sono qui e là.
Aggiungi che ci sarebbero in questo modo, di necessità, due solidi nello
stesso luogo; e che gl’intermedi non potrebbero esser immobili, essendo
dentro ai sensibili che sono in moto. E insomma, a che scopo si
dovrebbero porre queste entità, quando poi si debbono porre dentro ai
sensibili? Si cadrà negli stessi assurdi di cui già si discorse: ci sarà
un cielo oltre al cielo, salvo che non separato, bensì nello stesso
luogo: la qual cosa, se così si può dire, è ancora più impossibile.
t Alessandro (200,
11): « A. disso il geometra invece dell’astronomo : intende, cioè, della
geometria di cui fa uso l'astronomia. Protagora moveva, nella obiezione
che segue, dalla sua dottrina sensistica. Pare ch’egli scrivesse un libro
segì tov pa&nuicov (Diog. Laert., IX, 55). Platonici anch'essi: v. XIII. 1, 7 e 2, 1 ss.
(MA in XIV. 3, 3-4 quest’opinione par attribuita ai Pitagorici). Cfr. Zeller,
II4, 1009-4. Lo Schwegler suppone che si tratti di E1dosso, e cita il
lib. I. 9, 11: ma ivi si dice che Eudosso poneva le Idee immanenti alle
cose. La presente questione è discussa ampiamente nei due ultimi
libri. Intorno a queste cose, dunque, ci sono molti dubbi, come
dobbiamo giudicarne per cogliere la verità. Così pure intorno ai
principii: dobbiamo ritenere che i principii elementari siano i generi, o
piuttosto i componenti primi da cui risulta costituita ciascuna cosa?
Elementi, per es., e principii della voce sembrano essere quelli da cui
tutte le voci son composte per natura: non quel ch'è comune a tutte, l’esser
voce. Anche delle proposizioni geometriche diciamo elementari
quelle le cui dimostrazioni entrano nelle dimostrazioni o di tutte le
proposizioni o della maggior parte ('). E nei corpi, tanto coloro che
dicono che gli elementi di essi sono più, quanto coloro che ne pongono
uno solo, chiamano principii ciò di cui essi si compongono e da cui son
costituiti: Empedocle, per citarne uno, dice che il fuoco l’acqua e i
loro intermedi (*) sono gli elementi da cui risultano le cose
intrinsecamente, e non ne parla già come di generi degli enti. Oltre di
che, se qualcuno vuole indagare la natura di una cosa qualsiasi, di un
letto, per esempio, allora è pago di conoscere, quando sa di che
parti consti e come composte. Per queste ragioni, dunque, non
dovrebbero esser i generi i principii degli enti. Eppure, in
quanto noi conosciamo ciascuna cosa per mezzo delle definizioni, e poichè
principii delle definizioni sono i generi, di necessità anche dei
definiti saranno principii i ge (Questione 6*) Cfr. gli
Elementi di geometria di Euclide (fiorito circa 300); 6 anche prima, al
tempo di A., si chiamavano così . Il termine, tuttavia, è usato da A. per «
proposizioni elementari anche fuori della geometria: v. Index Arist., 702
b, 59 88. Proposizioni: &eyoGppara,
prop. « figure , ma, come notano Asclepio (174, 9) e Bonitz, vale qui
«proposizioni , « teoremi . tà
usetatò tovtov; leggendo, invece, t. petà t.: «e seguenti, Il Ross
osserva in proposito: « Empedocle non sembra aver trattato l’aria e la
terra come intermedi tra il fuoco e l’acqua: anzi egli oppose il fuoco a
tutti gli altri elementi (cfr. lib. I. 4, 9). Ma A., per il quale il
fuoco è caldo e asciutto, l’acqua fredda e umida, può naturalmente aver
trattato l’aria (calda e umida) e la terra (fredda e asciutta) come
fornite di differenze intermedie (sebbene si possa dire altrettanto del
fuoco e dell’acqua in rispetto all'aria e alla terra), neri. E se
acquistare la scienza degli enti è acquistare quella delle specie alle
quali ci riferiamo quando parliamo degli enti, i generi, di certo, sono i
principii delle specie. Sembra che anche alcuni (‘') di coloro che
pongono quali elementi Uno e l’Ente, o il grande e il piccolo, se ne
servano come di generi. D'altronde, dire che i principii sono in
entrambi i modi, non è possibile: perchè il concetto della sostanza è
unico: invece, la definizione per mezzo dei generi sarebbe diversa
da quella che ne dicesse gli elementi costitutivi. Inoltre, se anche
spetta soprattutto ai generi di esser principii, bisogna poi ritenere per
principii i generi sommi, o quelli infimi che si predicano degl’individui
(*)? Anche questo è da discutere. Se, difatti, gli universali sono
sempre a maggior diritto principii, è evidente che tali saranno i generi
che stanno più in su: chè questi si dicono di tutti. Tanti, allora,
saranno i principii degli esseri, quanti i primi generi. Vien di
conseguenza che principii sostanziali sarebbero l’Ente e l’Uno, perchè
essi, più che alcun altro genere, si dicono di tutti gli esseri. Invece,
non è possibile che l’Uno e l’Ente siano generi degli esseri: poichè è
necessario che le differenze di ciascun genere e siano e siano una
ciascuna; ora non può
Pitagorici e Platonici. Le questioni 6° e 72 vengon riprese vel lib.
VII. 10-13, da un altro punto di vista (del rapporto concreto di materia
e forma): se, cioò, gli elementi materiali entrino nella detinizione di
una cosa, e se gli universali (generic! o specifici) costituiscano la sostanza.
(Questione 7%)Si bndi che con tà
Aropa A, designa tanto « gl'individui , le cose singolari; quanto «le specie
indivisibili , le specie propr. dette, in quanto « generi prossimi
all'individuo . Un terzo significato è quello puramente
fisico-matematico, riguardante ad es. l'atomo propr. detto o il punto. V.
Znder Arist. Prescindendo da questo terzo, puramente materiale, si
potrebbe dire che il primo è piuttosto logico-reale; il secondo
reale-logico: nel senso del determinarsi tlel pensiero, nel giudizio,
come pensamento dell'individuo concreto, ovvero come sua
universalizzazione. Per A., infatti, il processo del pensiero deve
corrispondere a quello del reale. Vi corrisponde, in effetto? Si sa che
A. non riesco nd assorbire interamente la materia nel processo accennato,
sì ch’essa resta come un « caput mortuum , che fa ostacolo alla piena
intelligibilità delle cose. Di qui la verata quasestio del « principium
individuationis , e le controversie medievali su la realtà dell'universale,
dei generi e delle specie. c. L}BRO TERZO 79
concedersi che delle proprie differenze si predichino o le specie
‘del genere o il genere senza le sue specie: così che, se l’Uno e l'Ente
fossero generi, nessuna differenza dovrebbe essere nè ente nè una. E se
d’altra parte non sono generi, non saranno neppur principii, una volta
che principii sono i generi (*). Di più, anche ciò che tramezza
fra i sommi e gl’infimi generi, preso insieme con le differenze,
formerebbe una serie di generi, fino al punto che è possibile dividere
(*): ora, per Più breve e chiara In nota del RoLFES
(A.' Metaphysil, 2 ediz. 1931, presso il Meiner di Lipsia) a q. l.: «
Prendinmo un esempio, Il genere nnimale sl divide in duo specie: uomo e
bruto. La differenza specifica è ragionevole e irragionevole. Ora, io non
posso dire: il ragionevole è uomo: perchè ragionevole ha un’'estensione
maggiore di uomo. Ma neppure: il ragionevolo è animale: perchò il
concetto di ragionevole non ha che vedere con quello di animale. Invece,
io posso e debbo dire: Il ragionevole è ente, è uno. Quindi ente e uno
non possono esser un genere, al quale ragionevole è irragionevole si
riferiscano come difl'erenze specifiche . Una dimostrazione dal punto di
vista logico-ustratto sl può avere dai Topic/. VI. 6. 144 a, 36-Db, 11.
Ma più interessante a notare è che qui si considernuo le difforenze specifiche
come forme o concetti che, mentre rendono intelligibile la realtà al
pensiero, la «determinano, ingieme, come un processo di generi-specie, Sì
che non questi generi-specie renli si predicano (si pensano come
predicati determinanti) delle difforenze, ma queste di quelli (nel processo dol
peuslero, onde la razionalità si predica dell'animale come niteriore
determinazione di questo nell’uomo). Le differenze, qui, sono come i concetti
puri che noi moderni distinguiamo da quelli empirici. O, meglio, come le
idee platoniche, fatte tuttavia immanenti nl reale e organizzate nel suo
svolgimento. S' intende, orn, che l’essere e l’unità indifferenziata, non
facendo pensar nulla di determinato, non possano esser principiî, nè nol senso
delle ditforenzo, nè in quello dei goneri-spocie reali. IL tuttavia, se si va
cal criteria «dell’universalità, esst dovrebbero esser principi più che
mai. héxet TtOv dtépov: alcuni
intendono «sino nile specie ultime , altri « sino agli individui : in
entrambi i casi non senza inconvenienti, perchè nel primo caso
l'individuo vien escluso dal processo del reale; nel secondo, vien trattato
come punto finale di una serie di generi. Meglio, in ogni modo, la prima
interprotazione in questo Inogo, e però ad essa ho intonato la traduzione,
nllargando un po’ il testo. Il quale, letteralmente, dice: « Inoltre
nnche gl’intermedi, presi con le differenze, saranno generi sino
agl'indivisibili: ora, alcuni par di sì, altri no . Cfr. la buona nota
del Bonghi a q. I., conforme del rosto nd Alessandro (207, 17) e n
Siriano (33, 8), i quali fauno osservare che, seguendo il metodo platonico
dotla divisione contradittorin, i concetti negativi (auimali-senza piedi) e
quelli indicanti qualità accidentali (animali con i piedi) non fondano
generi reali. lL’argomentazione, in questo modo, sembrerebbe «diretta contro il
metodo platonico della divisione. Ma, in realtà, il pensiero prevalente è che,
piuttosto che porre l’Uno è l'Ente come principio, si dovrebbero porre
infiniti principii, se priucipii sono i generi, e generi son tutti quelli
superiori all'individuo. Questo pensiero, a sua 80 METAFISICA
alcune divisioni partebbe doversi concedere, per altre no.
Aggiurigi che le differenze sarebbero principii ancora più che non i
generi: ma, se anch’esse sono principii, i principii diventano, per così dire,
infiniti, soprattutto se uno ponga per principio il primo genere (').
D’altra parte, si ponga pure che l’Uno ha maggiormente carattere
di principio. Ma l’Uno è indivisibile, e ogni indivisibile è tale 0 secondo la
quantità o secondo la specie: quello secondo specie è anteriore; ora i
generi sono divisibili in specie; dunque maggiormente uno dovrebbe essere
l’ultimo predicato: di fatto l’ «uomo non è genere degli uomini singoli
(?). Di più, nelle cose in cui c’è priorità e posteriorità, non è
possibile che quel che han di comune sia qualcosa fuori di esse. Per es.,
se tra i numeri vien prima la dualità, non può esserci un numero oltre la
specie dei numeri. E similmente, non si dà figura oltre le specie delle figure.
E se per queste cose, di cui par ci siano generi più che mai, non
ci son generi fuori delle specie, tanto meno per le altre: nelle
volta, non sembra diretto immediatamente alla questione se
principii son piuttosto i generi sommi o gl’infimi. Il pensiero nascosto
sembra, invece, che i generi non sono affatto principii. Il primo genere è l’essere (o l’ Uno), che,
per A., non è genero (in «rerum natura ci 6ono i generi, in cui si divide
l'unità astratta dell’essere, come di un mero xovw6v). Per il senso,
meglio di tutti, mi pare, S. Tom. (8 485): «Si prima genera sunt
principia, quia sunt principia cognitionis epecierum, multo magis
differentiae sunt principia formalia specierum. Forma autem et actus est
maxime priocipium cognoscendi. Sed differentias esse principia rerum est
inconveniens: quia, secundum hoc, erunt quasi infinita principia. Sunt,
enim, ut ita dicatur, infinitae rerum differentiae, non quidem infinitae
secundum rerum naturam, sed quoad nos. Et quod sint infinitae patet
dupliciter, uno modo si quis consideret multitudinem ipsarum differentiarum
secundum se, alio modo si quis accipiat primum genus quasi primum
principium. Manifestum, enim, est quod sub eo continentur innumerabiles
differentiae . i (3: L'uomo, specie ultima, non è ulteriormente
divisibile, perchè i singoli momini (criterio quantitativo) non
rappresentano una divisione de! concetto. L'anteriorità del criterio
qualitativo, qui, è superiorità dal punto di vista concettuale. Il che
non toglie che altrove A., contro l’unità meramente generica del
concetto, non faccia valere come superiore all’Ev tò elber l'Ev td
dortuò, in quanto sintesi del qualitativo e del quantitativo,
nell'individuo che realizza la specie. Cfr. lib. V. 6, 15; e VII. 6. (In
Dio, ch'è puro atto di pensiero, la coincidenza dei due punti di vista,
dell'essenza e dell’esistenza, è perfetta). V. note segg. a 4, 16, ed a 6,
1-5. indivisibili specie, poi, non c’è «questo vien prima e «questo vien dopo . Anche: dovunque c'è un
«questo è meglio e «questo è peggio , il meglio ha sempre la priorità:
così che neanche di queste cose ci sarà un genere (‘). Per queste
ragioni, dunque, pare che le specie che si predicano degli individui
siano principii a maggior diritto che non i generi. Eppure, da capo, non
è facile dire come si debbano ammettere queste per principii. Il principio
e la causa bisogna che siano al di là delle cose di cui son principii, e
ne possano star separati (*). Ora, una simil cosa al di là del singolare,
perchè mai uno la penserebbe, se non perchè si predica in universale e di
tutti? Ma, se per questo, i più universali più si debbono reputare
principii: di maniera che sarebbero principii i primi generi. Passo controverso: cfr. Zeller, pp. 568 ss.
del vol. cit. (Platone) e commentatori posteriori che in parte concordano, in
parte discordano da lui. Rifacendomi alla concezione intera di A., intendo
così: dove c'è un processo di svolgimento, il principio appare in tutta
la sua evidenza nell’ultimo termine, o in ogni punto del processo dove
esso mette capo a una realtà «determinata. Il genere, che è un comune
astratto o un indeterminato, non può valere, quindi, come principio. Si
prenda, ad es., la serie dei numeri o delle figure geometriche,
pensandola come sviluppo concettuale: numero e figura che non siano un
determinato numero o figura sono astratti. E il numero e In figura che vengon
dopo, in quanto implicano il numoro o la figura precedente, rivelano
ancor meglio il concetto (îl tre meglio del due, il quadrato meglio del
triangolo). E nei numeri e nelle figure il processo dei generi è
infinito? Che se consideriamo le altre cose, dove pare lo svolgimento non
aver luogo (le specie indivisibili), perchè di generi diversi (uomo,
albero, ecc.), o coordinati in uno stesso genere (uomo, bruto, ecc.),
tanto più per esse è chiaro che il genere non esiste fuori delle specie
concrete. Che se anche in queste si vuo! guardare al processo
teleologico, come svolgimento in perfezione dell’essere (il bene), e si
dirà che il bruto vale più dell’albero, l’uomo più del bruto (il meglio o
il peggio), varrà anche per esse ‘la considerazione precedente. Cfr. Eth. Eud.,
I. 8. 1318 a, 2: «In tutte quelle cose in cui ha luogo il prima e il
dopo, non esiste qualcosa di comune oltre di esse, e che sia da esse
separabile. Infatti, se esistesse, sarebbe qualcosa di anteriore al primo
termine: e sarebbe anteriore, il comune e separabile, per questo, che, tolto
esso, verrebbe tolto il primo termine. Per es.: se l'esser doppio è il
primo termine dei molteplici, non può darsi che esista separatamente
l'essere molteplice, che è ciò che di essi si predica in comune: poichè
sarebbe, allora, prima del doppio. E così dovrebbe accadere, se il comune
gi vuol porre come idea, ovvero se del comune si vuol far qualcosa di
separato , Con la interpretazione proposta circa le «specie
indivisibili si evita la contraddizione
che il Ross rimprovera ad A. di ammettere un universale ragù calura.
Come il Motore Immoto e le
Intelligenze motrici di A. Una questione affine a queste ('), la più difficile
di tutte e pure la più necessaria a meditare, è quella di cui è
venuto il momento ora di ragionare. Se non c’è niente fuori dei
singoli esseri, e questi sono infiniti, come mai di esseri infiniti si
può acquistare scienza? Di fatto, intanto conosciamo ogni cosa, in quanto
c’è qualcosa di unico e identico, in quanto c’è qualcosa d’universale.
Ma, allora, se ciò è necessario, e se bisogna che ci sia qualcosa oltre gli
esseri singoli, bisognerà che i generi, o gli ultimi o i primi, siano
fuori dei singoli: il che s’è questionato dianzi che è impossibile. Di
più, dato che esista qualcosa oltre il sinolo, quando qualcosa vien
predicato della materia (*°), si domanda
se, dato che esista, esso debba esser fuori di tutte le cose, o di
alcune sì e di alcune no, o di nessuna. Che se non ci fosse niente fuori
dei singolari, niente sarebbe intelligibile, ma sarebbe meramente sensibile
ogni cosa e non ci sarebbe scienza di nulla: a meno che uno non
dica che scienza è la sensazione (*). E neanche ci sarà nulla di
eterno e immobile: poichè le cose sensibili tutte s! corrompono e sono in
movimento (‘). Ma, allora, se niente c’è di eterno, neppure è possibile
che ciì sia il divenire, perchè quel che diviene ha da essere qualcosa, e
così anche quel da cui viene, e l’ultimo di questi termini più non deve
essere generato: chè una fermata ci vuole, ed è impossibile che il
divenire venga dal non-essere. Così, essendoci generazione e (Questione 8*) Ripresa, infatti, in lib, VII.
93. 7-9. 17; VIIL A. 6. La forma
sostanziale, l’anima, ad es., la quale, appunto, è principio determinante, o
categorico, del corpo vivente.
Così Protagora nel Teeteto. Qui la questione s'incontra con la 5*, la
quale, tuttavia, fu trattata piuttosto storicamente e criticgmente, che
in via teoretica e . costruttiva. I cieli sono sensibili, ma ‘eterni, sebbene
in movimento. A., tuttavia, qui parla degl'individui soggetti al processo
di generazione-corruzione, (da | e. movimento,
c'è di necessità anche’ un limite; poichè nè c’è movimento che non abbia
fine, ma ognuno ha un termine ('); nè è possibile che divenga quel che
non perviene mai ad essere: di necessità, tosto che il suo divenire si
compie, ogni cosa, divenuta, è. E se la materia deve esistere, appunto
perchè non soggetta al divenire, sarà molto più ancora ragionevole che ci debba
essere la sostanza, che è ciò che la materia diviene. Altrimenti, se nè
quella nè questa ci fossero, non ci sarebbe proprio niente del tutto.
Questo non è ammissibile; deve, dunque, esistere qualcosa oltre il sinolo:
la forma e la specie. Ma, di nuovo, se si ammetterà. questo,
sorgerà il dubbio per quali cose si debba ammettere, e per quali no. Di
tutte è evidente che non si può: di certo, non ammetteremo che ci
sia una qualche casa (*) fuori delle cose particolari. Inoltre, la
sostanza sarà unica per tutti: ad es. per tutti gli uomini? È assurdo:
chè gli esseri di cui la sostanza è unica per tutti, sono una cosa sola.
Diremo, invece, che sono molti e differenti? Ma anche questo è assurdo
(*). E intanto, come la materia diviene ciascuna delle cose particolari,
e come il sinolo è materia e forma insieme? Si potrebbe su i
principii sollevare anche questo dubbio. Se la loro unità è specifica,
niente sarà uno numericamente, neppure lo stesso Uno e l'Ente (‘).
In conchiusione, come ha
dimostrato nel lib, II. 3, ci ha da essere per il divenire, nella serie
delle cause, un principio materiale, da cui vengono le cose; un termine
finale (ch'è anche principio motore), e una causa formale (per cui ciò
che diviene diviene qualcosa). La
casa è un prodotto artificiale, non naturale, onde la sua forma non è
organizzata nel sistema delle specie dell'essere. Non c’è, quindi, la
casa-specie, come forma pura che si svolga attraverso le case
particolari. Nè un'unica forma
sostanziale, nè una molteplicità di forme sostanziali, ma un'unica forma
che, diversamente sostanziandosi con la materia, produce la molteplicità
degl’individui. In questo senso soltanto par doversi concedere l’esistenza di
un principio puramente formale oltre la materia e il sinolo, per la
realtà e intelligibilità delle cose della natura. (Questione 9£) Principii della stessa specie
possono esser meramente simili. non esser forme di un unico
principio. E come potrà esserci il sapere, se non ci sarà qualcosa
15 di unico che si predica di tutti? Invece, se la loro unità è
numerica, ciascuno dei principii 16 sarà uno e identico; e non, come
nelle cose sensibili, sempre diverso, secondo la diversità delle cose
('). Ad es.: se questa sillaba è tale perchè ha una determinata qualità,
anche i suoi principii, o elemen ti, sono da considerare
specificamente gli stessi: ma, se li ripeto, non son più gli stessi
quanto al numero. Se, dunque, non è così, ma l’unità dei principii dei
reali è soltanto numerica, non esisterà nient'altro fuori degli elementi:
infatti, dire «uno di numero e dir «singolare
1000 a è lo stesso. Noi diciamo, appunto, singolo quel che è
uno numericamente, universale quel che riguarda tutti. Sarebbe come
se gli elementi fonici delle parole fossero determinati quanto al numero:
necessariamente, l’alfabeto non potrebbe contenere un numero di lettere
maggiore di quegli elementi: e non ce ne sarebbero due, nè più, della
stessa specie. Di non minore importanza delle altre è una questione
17 trascurata dai moderni non meno che dagli antichi: se i
principii delle cose corruttibili (*) e delle incorruttibili siano gli
stessi, o diversi. Se sono g li stessi, come accade che le 18 Un principio unico senza differenze non può
spiegare la diversità delle cose. Separando, per la discussione, nel
concetto dell’unità, il lato fomnale dal materiale, questo assume un
significato aritmetico, semplicemente quantitativo, con esclusione del
qualitativo 0 specifico; quello, a sua volta, acquista il senso di
un'universalità astratta, indifferente al contenuto. (Il rapporto dei due punti
di vista nel giudizio concreto è dato da quello del soggetto individuale
al predicato universale: sì che s'intende come ognuno dei due può giustamente
aver pretesa di superiorità su l’altro). Le lettere dell’alfabeto,
le sillabe, ecc. (noì diremmo le parole) son sempre diverse nelle parole
(e queste nel discorso), pur essendo numericamente e specificamente le stesse
(è pur sempre quel certo significato che si svolge nella diversità della
parola). Se dovessero esser le stesse soltanto numericamente, sarebbero
come tessere che, per quanto diversamente configurabili, resterebbero
identiche: così erano gli elementi (terra, acqua, ecc.) immaginati come
dati, una volta per sempre, per la costruzione del mondo. Questo, non
ostante le apparenze, sarebbe immobile, senza generazione nè svolgimento.
Così il linguaggio sì ridurrebbe a parole, la parola a lettere
alfabetiche corrispondenti al numero degli elementi fonici di essa. La
questione è ripresa, ma in polemica contro le Idee, nel lib. XIII. 10.
(Questione 104) Corruttibili e
incorruttibili: noi diremmo transitorie ed eterne. une siano
corruttibili e le altre incorruttibili, e per quale motivo? Quei
del tempo di Esiodo, e tutti quanti teologizzarono, pensarono soltanto a
dir cose conformi alle loro credenze, e delle difficoltà che travagliano
noi non si curarono. Essi dei principii facevano Dei e dagli Dei facevano
venir tutto, e dicevano che gli esseri i quali non hanno gustato il
nettare e l'ambrosia nascono mortali. Certamente, parlavano così
sapendo, essi, quel che dicevano. Ma le ragioni che apportano, sorpassano la
nostra intelligenza. Poichè, se è per cagion del piacere che quegli
esseri l’assaggiano, non è il nettare o l'ambrosia la causa del loro
essere; e se fosse la causa del loro essere, come sarebbero eterni avendo
bisogno di nutrimento? Ma non vale la pena di fermarsi a indagare
intorno a queste escogitazioni mitologiche. Bisogna apprendere da quelli che
parlano dimostrando, e chieder loro come mai degli enti che vengon dagli
stessi principii, alcuni sono eterni per natura, e altri periscono. Non
dicendo costoro la ragione di questo fatto, e non sembrando neppur ragionevole
che stia così, si potrebbe conchiudere che non sono gli stessi i
principii degli enti, nè le loro cause. A Empedocle, del quale si
potrebbe pensare che più degli altri sia d’accordo con se stesso, anche a
lui è accaduto lo stesso. Egli pone, è vero, un principio causa della
corruzione, la discordia; ma parrebbe che questa fosse causa non più
della corruzione che della generazione d’ogni cosa, ad eccezione dell’
Uno ('), perchè le altre cose tutte vengono da essa, tranne Dio. Dice,
infatti: Dei quali sono tutti gli esseri, quanti ce ne furono,
e quanti ce ne saranno di nuovo; {quanti ce ne sono, e le piante
germogliarono, e gli uomini e le donne, e le belve e gli uccelli e i
pesci che nutre l'onda, e i numi longevi. E anche senza
questi versi, è evidente: chè, se non ci fosse la discordia nelle cose,
queste sarebbero tutte una sola, L' Uno, Dio, è lo
Sfero (quando questo era governato dall’Amore soltanto). 1000
b 86 METAFISICA come egli stesso dice: infatti,
quando si trovavano riunite, allora «la Contesa se ne stava all’estremo
confine . D’onde gli avviene anche di fare il felicissimo Dio meno
intelligente degli altri: di fatto, non possedendo la discordia, non
ha cognizione di tutti gli elementi, chè la cognizione è del simile
col simile. Egli dice: terra con terra, acqua con acqua
scorgiamo, con l’etere l’etere divino, e il fuoco distruttore col
fuoco, con l’Amore l'Amore, con la Discordia funesta la Discordia.
Ma, per tornare al nostro discorso, è manifesto che per lui la
discordia bisogna che sia non meno cagione dell’essere che della
corruzione. E neppure l’amicizia è causa soltanto dell'essere: rimenando
tutto all’unità, fa perire ogni altra cosa. Intanto non ci dice niente su
la causa di questa mutazione, ma solo che così è per natura: ma
quando la Discordia fu cresciuta grande nelle membra e sali al comando,
compiendosi il tempo che ad entrambe è prefisso, in alterna
vicenda, da un inviolabile giuramento ('), come se la mutazione fosse
necessaria; ma non ci palesa nessuna cagione di questa necessità. Pur tuttavia
egli è il solo che parli coerentemente, in quanto non fa già degli enti
gli uni corruttibili, e gli altri no; ma tutti corruttibili,
eccetto gli elementi. Invece la questione, di cui qui trattiamo, è
perchè aleuni sono corruttibili ed altri incorruttibili, una volta
che vengono da gli stessi principii. Che, dunque, i principii non
possano esser gli stessi, basti quanto s’è detto. Ma se i
principii son diversi, uno dei dubbi sarà se quelli delle cose
corruttibili siano ineorruttibili, o corruttibili anch’essi (*). Se
corruttibili, è chiaro che anch’essi debbono Per
frammenti Empedoclei, cfr. Diels, op. cit., I, 180 88. (nn. 21, 30, 96,
109). V. anche E. BicnonE, E., pp. 417 88. (9) Così anche il
Lasson (trad. della Met. di A., Jena, 1* ediz. 1907, p. 51).
Letteralmente sarebbe: «uno dei dubbi sarà se essi stessi sono incorruttibili
o necessariamente venire da altri principii, perchè ogni cosa si
corrompe in ciò da cui deriva: onde risulterebbe che ci sono altri
principii anteriori ai principii. Ma questo non è accettabile, sia che ci
si voglia fermare, sia che si proceda all’ infinito (‘). E poi, quando i
principii loro saranno stati distrutti, come possono esserci più i
corruttibili? Se, invece, sono
incorruttibili: perchè mai da alcuni di essi verran fuori gli enti
incorruttibili, mentre da altri, incorruttibili anche essi, verran fuori
enti corruttibili? Non par davvero ragionevole: anzi, o è impossibile, o
c’è bisogno di molte spiegazioni. In fine, nessuno mai ha preso a
dire che i principii degli enti fossero diversi, anzi dicono che son gli
Stessi per tutti. Nella questione, tuttavia, che agitammo dianzi, non
s’addentrano, quasi reputandola di poco conto. La questione più di tutte
difficile a meditare e la più necessaria alla conoscenza della verità, è se
l’Ente e l’Uno sono sostanze degli enti, sì che ciascuno di essi, quello
in quanto ente, questo in quanto uno, non siano predicato di altro;
ovvero se bisogni cercare che cosa sia l’Ente, e che cosa sia l’ Uno, in
quanto un’altra natura sta loro a sostrato. Alcuni la pensano nella prima
maniera, altri nella seconda. Platone e i Pitagorici ritennero che l’
Ente e 1’ Uno non siano null’altro se non quello che è la loro natura, di
essere cioè la sostanza loro l’essenza dell’ Ente, appunto, e dell’ Uno
(?). I corruttibili . Ma mì par chiaro, da quel che
segue, che la questione riguarda 801tanto i principii dello cose corruttibili.
Delle incorruttibili come può sorgere il dubbio? Nò ia questione è
diversa dalla precedente: l’incorruttibilità dì quei privcipii, infatti,
è dimostrata per la medesimezza, laddove la corruttibilità de’ loro
effetti è adotta in prova della loro diversità, Se ci sì ferma, ci son principii anteriori, e
son essi principii, non gli altri. Se si volesse procedere (o regredire)
all'infinito, non ci sarebbero principii addirittura, In entrambi i casi quei
principii supposti corruttibili verrebbero distrutti come principii,
logicamente e, in quanto abbassati a cose corruttibili, anche realmente. La
presente questione si può considerare risolta nel lib. XII (spec. nei
primi capitoli). (Questione 11)
L'essere in sò e per Sè, e così l'Uno, sono sostanza «lelle cose, come
vogliono Pitagorici e Platonici; ovvero la sostanza delle cose consiste
nel sostrato determinato (materia e forma nell’unità del BIinolo), del
quale si possono predicare l’essere e l'uno? I Fisiologi la
pensarono altrimenti. Empedocle, ad es., per dire che cosa è l’Uno
cerca di ridurlo a qualcosa di più facile a sapersi, e parrebbe
che questo fosse per lui l’amicizia: per lo meno, essa è la causa dell’unità di
tutte le cose. Altri dicono il fuoco, altri l’aria: questa è, per essi,
la natura dell’ Uno e dell'Ente, da cui sono e si generano le cose. E del
pari, coloro che pongono più elementi: anch'essi son costretti a dire che
l’Uno e l’Ente è tante cose quanti per l'appunto sono i principii (‘).
Se non si volesse concedere che l’Uno e l’Ente sia una sostanza,
neppure quindi può esser tale nessuno degli altri universali: chè quelli
sono universali a maggior titolo degli altri. Se per ciò non è qualcosa
(?) l’Uno per sè e l’Ente per sè, molto meno si può dire degli altri che
siano qualcosa oltre le cose singolari. In secondo luogo, se l’Uno
non fosse sostanza, è chiaro che neppur il numero sarebbe una natura
separata (*) dalle altre: poichè il numero è fatto di unità, e l’unità è
l’essenza, per l'appunto, d’ogni cosa ch'è una. Ma se l’Uno e
l’Ente sono qualcosa che è in sè e per sè, necessariamente la loro
sostanza è l’Uno e l'Ente, perchè non c’è in essi qualche altro sostrato
di cui essi si predichino universalmente, ma sono essi questo sostrato.
Ma, allora, se l’Ente e l’Uno sono qualcosa in sè e per sè, la
difficoltà grande è come ci potrà essere qualche altra cosa oltre di
essi: in altri termini come gli enti potranno essere più di uno. Poichè
l’altro dall’ente non è: per cui si è costretti a ragionare come
Parmenide (‘), che tutte le cose
I Fisiologi posero per principio, non l' Uno in sò e per sè, ma una
materia primordlale, unica o molteplice, come sostrato del divenire,
Qualcosa di esistente in sè e per
sè: i. e. una sostanza. I. e.,
come prima, una sostanza: ciò che ha un'esistenza indipendente (in sè e
per sò), I Platonici intendono
l'essere come essenza (l'essere intelligibile) dolle cose, e in questo il
loro principio è ben altro da quello parmenideo. Ma essi, dice A.,
debbono pure, come Parmenide, escludere ogni molteplicità dal principio posto
come assolutamente Uno. (Ricorda che, pur riconoscendo l'esistenza del
molteplice, Platone, come si vide nel lib. I. 6, 9, pose questo come
contenuto sono Uno, e questo è l’Ente. Non c’è da star contenti nè in 1001
b un caso nè nell’altro: o che l’Uno non sia sostanza, o che l’Uno
sia qualcosa in sè e per sè, il numero non può essere sostanza. Se l’Uno
non è sostanza, quest’impossibilità s'è dimostrata prima. Se invece è
sostanza, vale per esso la stessa difficoltà che intorno all’Ente: donde
verrà un altro uno oltre l’Uno in sè e per sè? Necessariamente, esso
non potrà esser uno. Ora, tutto ciò che è, o è uno, o molti, dei
quali ciascuno è uno. 39 In secondo luogo, se l’Uno è in sè
indivisibile, stando alla sentenza di Zenone esso sarebbe nulla; poichè,
ciò che o aggiunto o sottratto non fa esser perciò una cosa nè più
grande nè più piccola, non è secondo lui da annoverare tra gli enti; come
se fosse evidente che l’essere sia una grandezza, e, se grandezza, sia perciò
corporeo: chè questo sarebbe ente da ogni lato. Le altre grandezze ('), invece,
aggiunte in un certo modo (*), dice, fanno più grande ciò a cui si
aggiungono, e in un altro, no: per es. una superficie, 40 una linea. Il
punto e l’unità, in nessun caso, mai. Costui è rozzo nelle sue
speculazioni; e poichè qualcosa indivisibile esiste, se ne potrebbe far
la difesa contro di lui anche così: esso è di tal natura che, aggiunto,
non farà più grande ciò 41 a cui si aggiunge, ma, con esso, farà più nel
numero. Rimarrebbe, ciò non ostante, la questione (*): come da un tale
uno, soltanto: laddove il principio formale dell'idea
era l’unità pura). In termini filosofico-religlos!, la dottrina platonica
conduceva ad un misticismo pantelstico (salvo il motivo, teistico, della
trascendenza formale, svolto da A.).
L'Uno, contro il quale Zenone combatte, non è (come giustamente fa
osservare il Ross) il principio parmenideo, ma quello pitagorico, o l'uno
come prinelpio di spiegazione del molteplice fisico (sensibile,
corporeo). Esso era pensato, infatti, come una grandezza indivisibile (cfr.
l'atomo democriteo). E però Zenone accetta questo modo di vedere, e
considera il corpo (il solido, la grandezza a tre dlmensloni) come ente a
maggior ragione delle altre grandezze. Egli può, così, dimostrare che il
mondo e ogni cosa, in quanto risultante da quelle unità elementari,
sarebbero insieme infinitamente grandi e infinitamente piccoli, ossia
contradittorli. Secondo che si
agglungono l’una di seguito all'altra, oppure vengon so0vrapposte; A. non condivide il modo dl vedere
pitagorico-platonico che identifica l'arltmetico col geometrico, e però
trova rozza l’argomentazione di Zenone. o da molti come esso, si avrà la
grandezza? Poichè è come dire che la linea risulti di punti. E se anche
si vuol ammettere quel che dicono alcuni, che il numero provenga dall’Uno in sè
e da qualcos’altro non uno ('), resta sempre a sapersi perchè e
come l’effetto è talora un numero, talora’ una grandezza, una
volta che il non-uno è la disuguaglianza e la sua natura è sempre la
stessa (?). Non si vede nè come da l’Uno più questa, nè come da un numero
più questa, potrebbero venir fuori le grandezze. A queste fa seguito la
questione, se i numeri e i corpi (*) e le superfici e i punti siano da
porre tra le sostanze, o no. Se non sono sostanze, ci sfugge che cosa
sia l’essere, e quali cose siano sostanze. Le affezioni, i movimenti, le
relazioni, gli ordinamenti e rapporti diversi delle cose, non pare
davvero che esprimano la sostanza di nulla: essi vengono tutti riferiti a
un sostrato, e nessuno è un essere concreto. Si prendano pure, come
esprimenti la sostanza meglio di ogni altra cosa, l’acqua e la terra e il
fuoco e l’aria, di cui constano i corpi composti; ma il loro riscaldarsi
o raffreddarsi, e simili altre affezioni, non sono sostanze: solo il
corpo che li riceve, rimane come qualcosa di concreto e come una
sostanza reale. E tuttavia, il corpo è ancor meno sostanza della
superficie, e la superficie della linea, e la linea del ‘Tuttavia dà
ragione a costui quanto all’impossibilità di dedurre l’esteso dall’ inesteso.
Ricorda, infatti, l'imbarazzo di Platone per il concetto di punto: lib,
I. 9, 25. La diade indefinita (il
grande-piccolo). Onde, o è ineste sa, e
dall'unione con l'Uno verranno i numeri, non le grandezze; o è estesa, e
dall'unione con l’Uno verranno le grandezze, non i numeri. Nè, se uno
dicesse che, prima, dall’Uno e dalla diade si genera il numero, poi da questo
con la diade le grandezze, neanche così
resterebbe spiegato il passaggio dall'inesteso all’esteso. La questione
11° è ripresa in VII. 16, 3-4 e X. 2 (oltre gli accenni sparsi nei libri
XIII-XIV). (8) (Questione 12*)I solidi (corpi matematici). unità e
del punto. Infatti, da questi vien determinato il corpo: e se questi
parrebbe che possano esistere senza il 5 corpo, il corpo senza di essi
non può('). Avvenne per ciò che i più antichi filosofi, pur reputando,
conforme all’opinione dei più, che il corporeo fosse la sostanza reale
delle cose, considerarono il resto sue affezioni, così che i
principii dei corpi erano, anche per essi, i principii delle cose.
Ma i filosofi posteriori (*) e più raffinati di quelli reputarono
che principii siano i numeri. 6 Dunque, come s’è detto, se questi
non Sono sostanza, non c’è punto nessuna sostanza, nè alcun essere reale:
chè i loro accidenti non meritano davvero di esser chiamati enti. 7
D’altra parte, se si concede questo, che le linee e i punti sono sostanza
più dei corpi, non vedendo noi di quali corpi possano esser sostanza (di
quelli sensibili non è possibile), 8 non ci sarebbe sostanza nessuna (*).
Inoltre, pare che tutte queste cose siano divisioni del corpo, l’una in
larghezza, 9 l’altra in profondità, e l’altra in lunghezza (*). Aggiungi
che nel solido o c’è del pari ogni sorta di figure, o non ce n'è
nessuna: per cui, se, poniamo, non c’è un Ermete nella pietra, neppure c’è la
metà del cubo nel cubo(°): s’intende Tanto poco si deve ritenere per sostanza ciò
che a unu veduta grossolana pare più corporeo, che anzi gli elementi
primi e i principii generatori del reale si trovano per ultimo con
l’anallsl della riflessione: la superficie come principio generatore del
solido, lu linea della superficie, il punto della linea. Parrebbe che il semplice possa esistere
prima e indipendentemente dal più complesso (v. lib. I. 8, 9 88.), 6 però
esser sostanza n maggior diritto.
I più antichi filosofi: i Fisiologi. I filosofi posteriori: Pitagorici e
Platonici. Cfr. VII. 10, 19: «La
materia intelligibile, quale quella delle matematiche, è nei sensibili,
ma non in quanto sensibili . E già in I. 8, 1 aveva detto che con i
principii matematici non si può dar conto delle proprietà e qualità delle
cose oggetto della Fisica.
Non sostanze, ma divisioni che noi operiamo nei corpi. (5) Come
nota S. Tom. (8 509): «haec in continuo non sunt in actu, nisi solum
quantum ad illa quae terminant continuum, quae manifestum est non esse substantiam
corporis. Aliae vero superficies vel lineae non possunt esse corporis
substantiae, quia non sunt actu in ipso: substantia autem actu est in eo
cuius est substantie . In potenza ci son tutte: così come la figura di
Mercurio è nel blocco di marmo, e la superficie che divide 11 cubo a metà
è nel cubo. In atto ci sono soltanto se le realizziamo: se no, rimangono,
come idee soltanto, nel come figura determinata. E così per le superfici:
se, infatti, ci fosse ogni sorta di superfici, ci sarebbe anche quella
che determina la metà del cubo. Lo stesso ragionamento vale anche
per la linea, per il punto e l’unità. Sì che, se il corpo principalmente
è sostanza, ma queste cose, che pur han diritto di esser sostanza più di esso,
non sono poi per nulla determinate sostanze, ci sfuggirà quel che è il reale, e
quale sia la sostanza degli enti. Altri assurdi vengon fuori
considerando la generazione e la corruzione. Sembra, infatti, che la
sostanza, se prima non era ed ora è, oppure prima era ed ora non è, subisca
queste vicende perchè si genera e si corrompe. Ma i punti e le
linee e le superfici, pur talora essendo e talora no, non possono
nè generarsi nè corrompersi, per la ragione che è nell’atto in cui
i corpi si toccano e si dividono che, in un caso, di quel che viene in
contatto (') si fa unità, nell’altro, quel che vien diviso diventa due: quei
che si compongono, c’erano, ma, essendo stati distrutti nella composizione, non
sono più; quando invece vengono divisi, ci sono, mentre prima non
c’erano. Di sicuro, non si è già diviso in due l’indivisibile punto
(?). Eppure, se si generano e corrompono, ciò avviene da qualcosa.
Press’a poco lo stesso vale, in riguardo al tempo, per l'istante: neppur
di esso si dà generazione e corruzione, e tuttavia sembra che sia sempre
diverso pur non essendo una sostanza. È chiaro che lo stesso vale anche
per i punti, per le linee e per le superfici: perchè il discorso è lo
stesso: tutti sono similmente o limiti o divisioni (*).
pensiero e virtualmente (ricorda Leibniz!) nelle cose. L'« argumentationis
fraus (Bonitz, p. 167), per cui A. estenderebbe la conchiusione «ad eam
figuram quae actu corpus circumsceribit , non mi par che ci sia.
I. e. punti, linee, superfici
(propriamente, superfici, so si compongono 0 dividono due corpi; linee,
se due superfici; punti, se due linee). «Neque enim illud quisque statuitur, ita in
dirimendis corporibus fieri planum vel lineam, ut ipsum punctum
dissecetur: Bonitz (p. 168). A ciò, infatti, ci vorrebbe un passaggio,
dalla potenza all'atto. Laddove l’atto è istantaneo, e nell'istante non
c'è generazione (che implica un processo temporale). V. il passo di S. Ton. cit. dianzi. Degli
enti matematici trattano ampiamente i libri XIII-XIV; ivi è ripresa anche la
questione delle idee, alla quale si ritorna nella 13% (efr. la questione
5* e 9°). Si potrebbe anche in generale far questione, perchè mai
bisogna cercare altre entità oltre le sensibili e le intermedie, 2 e
quali siano: per es., le specie, che noi poniamo. Si può rispondere che
gli enti matematici differiscono bensì per un verso dalle cose di
quaggiù, ma non ne differiscono punto in quanto ce ne sono molti della
stessa specie ('): per cui i principii delle cose non si possono determinare
con il numero; così come l'alfabeto non è determinato dal numero delle
lettere, ma dalla loro specie (a meno che uno non prenda le lettere di
una sillaba o parola attualmente determinata: chè 3 lì anche il loro
numero è determinato). Ma lo stesso vale per gli intermedi: anche-là,
infiniti sono quelli della stessa specie. Così che, se oltre le cose
sensibili e gli enti matematici non ci fossero altri enti, quali sono le
specie secondo alcuni, nè ci
sarebbe una sostanza unica per numero, oltre che per specie (°), nè i principii
degli enti sarebbero tanti, e non più, di numero, ma di specie soltanto.
Che se questo è necessariamente conchiuso, bisogna conchiudere anche che le
specie 4 esistono. E se pure non si spiegano bene i loro
sostenitori, bene è questo quel che vogliono, ed è necessario che
questo essi intendano dire: che delle specie ciascuna è una
sostanza (Questione
18%) Molti (infiniti) triangoli
sensibili, e molti (infiniti) triangoli geometrici (sebbene questi siano
eterni e immobili). Questa molteplicità ha bisogno di un principio di
unificazione, che non può esser altro che ideale (in questo caso, il
concetto stesso dij triangolo). Così, come l'alfabeto è tale per In
«specificità delle lettere in cui i suoni fonici ri determinano, non per
il numero dei suoni che fan capo a esso. Oppure, secondo la variante difesa dlal
Bonitz e dallo Schwegler (e già in Aless.): «ma soltanto di specie . Il
senso, tuttavia, è giusto anche tenendo il testo com'è. Nota che
nell'argomentazione i termini s'inerociano: il molteplice sensibile e
matematico è veduto deutro la specie, ed è perciò « della stessa specie ;
esigere, poi, che anche per questo molteplice ci sia una specie unica,
che ne dia la ragione logica e insieme reale, è esigere un’unità numerica, oltre
che specifica: laddove, se quel molteplice è veduto fuori della specie, questa
rappresenta di esso un’unità specifica, non numerica. determinata, sì che
non si tratta .di determinazioni accidentali dell’essere. D'altra parte,
se noi porremo che le specie esistono ('), e che i principii abbiano
unità per il numero, non per la specie,
s'è detto innanzi (*) a quali conchiusioni inaccettabili si arrivi.
Affine a questa è la questione se gli elementi sono in potenza o in
qualche altro modo (*). Se fossero in qualche altro modo, ci sarebbe
qualcos’altro, anteriore ai principii, poichè la potenza sarebbe
anteriore a una tal causa, non essendo necessario che tutto ciò che è
possibile sia a quel modo (*). Se, invece, gli elementi sono in potenza,
potrebbe non esister nulla attualmente, poichè è possibile anche ciò
che ancora non è. Diviene, infatti, ciò che non è ancora. Invece,
nulla diviene di quel che è impossibile che sia. Queste, dunque, sono le
questioni da discutere intorno ai principii; e anche se siano universali,
o al modo che diciamo dei singolari. Se universali, non saranno sostanze,
perchè nessun termine comune esprime un essere concretamente determinato,
bensì una certa natura dell’essere; invece, la sostanza è un essere
concretamente determinato. Se ciò che si predica in comune (*) fosse un
essere concretamente deter A sè,
come sostanze, enti separati o indipendenti. V. nel Sommario quest. 54, a); quest. 9, b).
L'unità per il numero, soltanto, fa dei principii elementi materiali,
incapaci di dar ragione delle cose. Cfr. S. Tom. (8 518): « Principia
rerum efficientia et moventia sunt quidem determinata nuniero; sed
principia rerum formalia, quorum sunt multa individua unius speciei, non
sunt determinata numero, sed solum specie . (Questione 148) In atto. La questione è a/fne alla
procedente, perchò l’unità numerica, oltre che specifica, è Atto e
individualità; quella soltanto specifica corrisponde alla mera
possibilità, L'attuale
(empiricamente inteso) presuppone il possibile (come sua propria
pensabilità, diremmo noi), non viceversa. Nota che altro è il « possibile ,
altro ciò ch’ è «in potenza
(sebbene di solito indicati con lo stesso termine: tò Buvaréy): in
questo è già il principio del processo determinato del divenire, che si
svolge da una forma già realizzata in una materia; il possibile, invece,
non ha altra determinazione che di non esser contradittorio. La questione
è ripresa e trattata in lib. IX. 1-9. (5) (Questione 15%) xatnyogovpeva, universali astratti. La
questione è implicata già nella minato, e si potesse staccare dai
particolari, Socrate sarebbe molti esseri viventi: cioè, lui stesso,
l'uomo, l’animale: dato che ognuno di questi sia un essere concreto e
qualcosa che sta da solo. Questo, dunque, accade se i principii sono
universali. Se, poi, non sono universali, ma al- modo dei
singolari, non saranno più oggetto di scienza, perchè la scienza in
ogni cosa è dell'universale. Sicchè, se la scienza deve esserci, ci
saranno altri principii anteriori ai principii: quelli che si predicano in
universale. C'è una scienza che studia l'essere in quanto essere
(') e le sue proprietà essenziali. Essa è diversa da ognuna delle
scienze particolari: poichè nessuna delle altre scienze studia in
universale l'essere in quanto essere, re, ma, dopo averne recisa qualche parte,
di questa considera gl: gli accidenti. Così, le matematiche.
Td Bv fi Bv: l’essere, il reale,
in Sè e per sò. Questa è "la definizione fondamentale della
Metafisica, alla quale si riducono le altre due vedute finora: quella del
lib. I, di scienza dei principii e cause prime, e quella del lib. II, di
scienza della verità. Salvo che l’una determina il senso della definizione
fondamentale piuttosto in riguardo alla realtà delle cose, l’altra piuttosto in
riguardo al pensiero che le pensa. Ma, sì può chiedere, i principil e le
cause prime delle cose non le studinno anche le altre scienze, e in primo
logo le fisiche? Qual'è, allora, la differenza tra la Metafisica e le altre
scienze? La questione è trattata più ampiamente nel cap. 1 del lib. VI,
Qui si.ascenna soltanto-che-le-Matafisica considera 1’ essere nella sua
universalità e necessità. Le altre scienze, il infatti, si restringono t)
“considerare un genere di enti (gli unimalt, Te piante, ece.; i ‘’auoni,
i colori, ecc.; i numeri, lo figure reometriche, ecc.), € però son tutte
particolari. Non solo: ma nel genere particolare di cose, che studiano,
non riguardano no alla loro pura essenza, a ciò che sono per una necessità
intima dell'essere stesso, ma considerano le loro qualità e proprietà,
astraendole (quasi recidendole) dalla sostanza ed essenza loro, data nel
concetto e nella definizione. Ne cgnsiderano gli accidenti: le fisiche,
gli accidenti sensibili; le matematiche (che astraggono dal resto per
considerare le sole proprietà quantitative), gli accidenti che possiam
chiamare intelligibili. Invece, l’essere vien studiato dalla Metafisica come
principio da cui necessariamente dipendono gli altri principi, in quanto questi
non son altro che parti o elementi dell’intelligibilità e realtà
dell'essere per se stesso. Ora, volendo noi conoscere i principii e le
cause supreme, è chiaro che li dobbiamo cercare come proprietà di una
natura considerata per se stessa. Se, dunque, coloro che cercavano
gli elementi degli enti ('), cercavano anch'essi questi principii, di necessità
anche gli elementi erano dell’essere non accidentalmente considerato, ma
in quanto essere. Per ciò anche a noi convien prendere le prime cause
dell’essere in quanto essere. CaPiToLO II.
Dell’ente si parla in molti modi (*), ma sempre per un solo rispetto e
determinatamente alla natura di una cosa, non per omonimia semplicemente,
ma nello stesso modo che di I
Fisiologi, i quali facevano anch'essi, inconsapevolmente, della metafisica.
L'essere in quanto oggetto del
pensiero è l'essere che viene affermata nel conoscere e nel sapere:
l'essere delle cose di cui il metafisico indaga le categorie supremo. Le
altre scienze adoperano queste categorie; il metafisico le studia come
puri concetti in cuì si distingue o determina il concetto in sè e per sè
dell'essere. Dell'essere reale, s'intende: di quello ch'è predicato delle
cose. Questo viene quindi distinto in sostanza e accidenti, gli accidenti
in essenziali e non essenziali, e vla dicendo. E di ognuno di questi
aspetti, che il pensiero coglie nelle cose, si chiarisce il significato e
il rapporto che hauno tra loro. Il conoscore e il sapere, inoltre,
procedono ponendo rapporti tra le cose dentro ciascuna delle categorie
sostanziali o accidentali: rapporti, cioè, di identità, di uguaglianza,
di somiglianza, ecc., e de’ loro contrari, Il metafisico studia il significato
e il rapporto anche di queste categorie che potremo chiamare dialettiche,
pur che sai badi che qui A. intende del pensiero che si muove nella realtà
delle cose: non per mera esercitazione. Non basta. Questo pensiero
che peusa le cose e i loro rapporti, già nel conoscere comune; ma molto più
visibilmente in quello scientifico, procede affermando o negando, con
giudizi, ragionamenti, dimostrazioni. Ma affermare o negare, giudicare,
ragionare e dimostrare, è impossibile se non si pongono a fondamento
principii di pensabilità delle cose: ci sono certe verità evidenti, sopprimendo
le quali diventa impossibile pur cominciare, non che a pensare, n
parlare. Parlare non è lo stesso che pensare e ragionare: uno può
parlare per esprimere un sentimento o per comunicarlo ad altri. Ma anche il pensare
discorsivamente può essere riguardato e studiato in sè e per sè, come mero
movimento 0 processo dialettico del pensiero attraverso i concetti e i
loro rapporti. Di questo trattano specialmente i Primi Analitici. Data
questa indipendenza del pensiero in quanto discorso, è possibile abusarne
come fanno i Sofisti. La Metafisica lo sottrae a questo pericolo
soggettivo, perchè essa considera il pensiero in quanto pensa l'essere
reale delle cose; e però spetta ad essa lo studio di quelle verltà ciamo
salubre tutto ciò che riguarda la salute: o perchè la conserva, o perchè
la produce, o perchè indizio di salute, o perchè ci rende capaci di essa.
Così, dicesi «medico ciò 1008 b
che riguarda la medicina: chiamiamo medico chi possiede l’arte della
medicina, e anche ciò che ha natura buona a medicare, oppure quel che è
effetto di essa. E nella stessa maniera di queste si avranno da intendere
altre espressioni. L'ente si dice per l'appunto così, in molti sensi, ma
tutti in riguardo a un solo principio: enti noi diciamo le sostanze,
e anche le affezioni della sostanza, e tutto ciò che alla sostanza
conduce : corruzioni, privazioni, qualità, quel che produce o
genera una sostanza, cose che si riferiscono. alla. sostanza, ovvero sono
o negazioni ( di i qualcuna di ‘queste v della sostanza stessa: per cui
del non-ente diciamo pure che «è non-ente(!). supreme o assiomi, o
principii di pensabilità, che scaturiscono immediatamente dall’intelletto
nell'atto del conoscere e di costruire il sapere. Di questi principii il
fondamentale è quello di non-contraddizione. La Metafisica di
Aristotele, veduta da questo lato, è una scienza della scienza, fin dove,
alineno, questo concetto moderno può essere, senza anacronismo, attribuito a
lui. Manca, naturalmente, il senso dì soggettività in cui si pone questo
concetto dopo Kant, C'è soltanto quel senso di essa che poteva esserci dopo
la Sofistica e in opposizione all’idealismo oggettivo di Platone. Di qui
un primo spunto di criticismo. La Metafisica di A. è più critica che costruttiva.
E poichè la critica è fondamentalmente concettuale, si può definire una
scienza che mira a chiarire, nella molteplicità del reale, il concetto
puro di esso. La dipendenza, in cui il pensiero è ancora dalle cose, dà,
tuttavia, anche a questa definizione un significato lontano da quello che
oggi ci sì potrebbe aspettare: molte volte, più che elaborare i concetti,
A. si limnita ad esporne il significato, o a distinguerne i vari
significati. Dono, più che risolva, spesso, i problemi: mostrandosi,
anche in questo, scolaro di Platone. In questo capitolo il peusiero procede un po'
a sbalzi, e sembra infatti che il testo vada in qualche punto riordinato.
Esso si compone di tre parti: due pongono il concetto che c' è un'unica
scienza dell'essere in quanto essere, sia in riguardo alla sostanza e ai
suoi attributi, sia in riguardo alle opposizioni dialetticheia terza
differenzia questa forma di scienza dalle altre. Riassumiaino brevemente,
per mostrare l’ordine delle idee: I) Ogni scienza ha un suo oggetto (un
certo genere di cose), del quale considera i vari aspetti. Ma questi si posson
ridurre tutti a quello fondamentale della sostanza e de’ suoi attributi.
Questa distinzione riguarda l'essere di ogni cosa: sarà, dunque, oggetto
della scienza che studia l'essere in sè e per sè. La quale sarà unica,
così come resta unica ogni scienza non ostante la varietà delle specie
del genere che studia: il che non impedisce che abbia parti, e saranno,
queste, organizzate in essa, così come lo sono in ogni altra scienza. In quel
modo, dunque, che di tutte le cose salubri c’è 2 una scienza sola, così
anche delle altre. Compito, infatti, di un’unica scienza è lo studio, non
soltanto di quel che si dice per uno stesso rispetto (‘), ma anche di
quel che si dice considerando una stessa natura: chè anche questo, in certo
modo, si dice per uno Stesso rispetto. È dunque chiaro altresì che
3 unica è la scienza che dovrà studiare gli enti tutti in quanto
enti. Ma, dappertutto, scienza è principalmente quella dell'essere che è primo,
e da cui tutto il resto dipende, e per cui di tutte le cose sì parla. Se
dunque questo primo è la sostanza, dovrà il filosofo possedere i
principii e le cause delle sostanze (?). In ogni genere di cose, come
uno è il senso (*), se i sen- 4 sibili appartengono a uno stesso genere,
così è della scienza: la grammatica, ad es., sola, basta alla
considerazione di tutte le voci. Per ciò ad una scienza unica di genere
spetta di studiare quante ci sono specie dell’ente come ente: alle
specie di quella, poi, le specie di questo. Parlar dell'Uno e parlar
dell’ Essere è lo stesso. Le opposizioni dialet‘tiche sono opposizioni
dell'essere, perchè il non-essere in realtà è, non mera negazione, ma
privazione, contrarietà. Ora, l'opposizione unità-molteplicità è opposizione di
contrari, e questi, a lor volta, si riducono sempre all'opposizione
upo-molteplice. E poichè ognuno concede che dei contrari la scienza è
unica, unica sarà la scienza della contrarietà in generale. Questa avrà
significati diversi. che tale scienza dovrà studiare, chiarire e
organizzare logicamente [5-6, 8-11, 15-16). III) E per il primo e per il
secondo rispetto si conchiude che unica è la scienza dell'essere în
quanto essere, la quale studierà l’essere in quanto sostanza e attributi,
e in quanto alle contrarietà o opposizioni dialettiche [12]; vien nggiunto il
concetto di svolgimento e di definizione (19; così mi par si possano
intendere le ultime parole « genere e specie, «tutto e parte: questi
concetti non si riducono, infatti, immediatamente salle opposizioni
precedenti). Questa scienza è diversa da quella sofistica, che guarda
gli accidenti e le «opposizioni, e non li coglie come determinazioni
essenziali dell’essere in se ‘stesso [13-14]. Ma è diversa anche da
quella degli scienziati, perchè, sebbene l'essere nella sua universalità
astratta non sia nulla di reale, pure, considerato come dianzi s'è detto,
è quella realtà che fa roali tutto le cose: intorno a queste versano le
scienze, intorno a quella la Metafisica [17-18]. / xa@” Ev, distinto da reds plav qpuow, l'uno
come poni di vista logico, l’altro reale (e logico insieme), Enti, sostanze: questi plurali vanno intesi
nel senso del singolare. (8) Uno è il senso per i colori, ad es., per i
suoni, ecc. L’organizzazione del
sapere coincide, così, in ogni scienza, con quella dell’essere nelle cose.
L’ente. poi, e l’uno sonola stessa cosa, ed esprimono una medesima
natura,.in quanto s’implicano l’up l'altro così. come principio e causa,
sebbene i loro. concetti, a volerli illustrare, non siano identici (') (e
non fa nulla se noi ora Ii consideriamo tali, che anzi, ci gioverà meglio allo
scopo). Non è, infatti, la stessa cosa « uno-uomo e «un uomo, «ente-uomo e «l’uomo (?)? E che altro è se non una ripetizione
verbale il dire: «l’uomo è, «l’uomo è uno? E se l’uomo nasce e
muore, è chiaro che non per questo esso si separa dal suo essere; e
similmente dicasi anche per la sua unità (*). Per cui è evidente che
l’aggiunta nelle frasi su dette non muta il senso, e che l’uno non è
nulia di diverso dall’ente. La sostanza di ciascun essere è
un’unità,-enon--per-aeeidente, ma pro 6 prio come ogni cosa che sia un essere
determinato. Così che tante saranno le specie dell’uno(‘*), e tante
saranno anche quelle dell’essere; e la scienza che studia l'essenza delle
une é Ia stessa, in fondo,. di. quella che studia }essenza . delle
altre. Voglio dire, ad es., lo studio dell’identità, dell’uguaglianza e delle
altre simili, e delle loro opposte: chè, si può dire, tutti i contrari si
riducono-a questo principio dell’uno 1004 a L'Uno si adopera in sensi più particolari,
esposti in V.6 e X. 1: esprime, soprattutto, l’indivisibilità, la misura,
il principio del numero. Per principio e causa, v, llb, V.162.
Ho accettata nel testo la giusta
modificazione proposta dal Ross. Il greco non ba l'articolo
indeterminato, nò quello determinativo, ch’io ho aggiunti innanzi all'«
uomo del secondo membro dei due incisi.
Questi mirano a porre le due uguaglianze, poi l'uguaglianza loro, in fine
quella dei due termini uno e ente.
Questo periodetto (che il Christ mette tutto tra parentesi, e io ho
così interpretato, perchè mi par giusto intendere la seconda parte, «e
similmente dicasi, ecc., in rapporto a quel che precede, anzichè a quel
che segue, come intendono invece il Bonitz e il Ross) vuole semplicemente
dire che il divenire non muta la questione. Cfr. S. Tom, (552): « Et sicut elictum est quod ens et homo non
separantur in generatione et corruptione, similiter apparet de uno. Nam
cum generatur homo, generatur unus homo; et cum corrumpitur, similiter
corrumpitur. Unde manifestum est quod appositio in Istis ostendit idem;
et per hoc quod additur vel unum vel ens, non intelligitur addi alique
natura supra hominem. Ex quo manifeste apparet quod unum non est
praeter ens: quia quaecumque uni et eidem sunt eademi, sibi invicem sunt
eadem . , Qui specie vale,
evidentemente, nozioni, concetti: chè 1’ Uno e l'Ente non sono generi e
del molteplice (‘). Si vegga in proposito la nostra trattazione: La scelta dei
contrari (?). Ci sono, in conchiusione, tante parti della filosofia,
quante appunto sono le sostanze delle cose, onde, di necessità, ci
deve essere tra esse quella che vien prima e quella che vien dopo. Poichè
l’essere e l’uno si trovano sin da principio divisi in generi (*), e anche le
scienze si partiscono in conseguenza. Il filosofo è come colui che diciamo
matematico: la matematica anch'essa ha parti, e delle scienze matematiche
ce n’è una che vien prima, un’altra viene in secondo luogo, e
ordinatamente le altre. E poichè a una sola scienza appartiene lo studio
degli opposti, e all'uno si oppone il molteplice, apparterrà a una
sola scienza lo studio della negazione e della privazione, perchè in ambedue i
rispetti si considera pur sempre quell’uuo a cui la negazione e Ja
privazione si riferiscono. O infatti noi diciamo semplicemente che esso
non ha luogo, ovvero che non ha luogo in un certo genere di cose: quivi,
dunque, Non è, questa
specificazione, nel testo. Cfr. S. Tom. (561-562): « Et ad hoc
principium, sc. unum, reducuntur omnia contraria fere [si può dire]. Et hoo
addit quia in quibusdam non est ita manifestum. Et tamen hoc esse necesse
est: quia cum in omnibus contrariis alterum habeat privationem inclusam,
oportet fieri reductionem nd privativa prima, inter quae praecipue est
unwn. Et iterum multitudo, quae ex uno cansatur, causa est diversitatis
differentiae et contrarietatis, ut infra dicetur. L'uno è il sostrato in
cui il molteplice è allo stato potenziale, di privazione (positiva), non
di mera negazione (astratta),
‘’ExAZoyd t6v èvavilov sembra il titolo di un'opera di A. perduta
(intorno a essa, v. Fragmenta, ed. Rose, 118-124), L'essere è un xovvév, astratto; iu realtà si
presenta eù@vs, immediatamente, diviso neì generi del reale, oggetti
delle particolari scienze. Qui si tornerebbe alla prima definizione della
Metafisica, anzi al primo significato di essa: ci sono i generi della
sostanza materiale e immateriale, mobile e immobile, sensibile e
intelligibile, ecc. (cfr. XII. 1). Ma generi può esser inteso anche come
equivalente n specie, di dianzi, cloè a concetti sostanziali, 1 quali
possono esser organizzati logicamente, così come le parti della
matematica, nell'esempio che segue, col criterio della semplicità o
complessità maggiore (noi diremmo: astrattezza è concretezza graduale):
aritmetica (11 numero), geometria (la figura), astronomin (il movimento
celeste), armonica (rapporti matematici di suoni), ecc. In questa seconda
veduta viene implicato il concetto di una gradualità logica dell'essere,
che nella prima (molto più frequente in A.) può mancare. Per A. tra i
generi non c'è passaggio. oltre a ciò che è nella negazione, viene
aggiunta all’uno la differenza ('): poichè la negazione di esso indica
soltanto l’assenza, mentre nella privazione viene in chiaro anche una
determinata natura come sostrato di cui si predica la privazione.
All’unità si oppone la molteplicità, così che anche gli opposti dei concetti
citati dianzi, il diverso e il dissimile e il disuguale, e quanti altri
si dicono o secondo quelli, o in generale secondo il molteplice e l’uno, vanno
imparati a conoscere dalla scienza in discorso. Tra essi è anche la
contrarietà, poichè la contrarietà è una differenza, e la differenza è
diversità (?). Di modo che, dicendosi l’uno in molti modi, anche quelli
si diranno in molti modi; tuttavia appartiene a una sola scienza di
conoscerli tutti. Questa molteplicità di modi non richicde scienze
diverse, le quali ci vogliono quando questa molteplicità non sì lascia
ridurre logicamente nè sotto un unico rispetto nè sotto un’unica
relazione. Ma, poichè tutto sì può ridurre a un principio supremo, ad
es., tutto ciò di cui si predica l’unità a un’unità suprema, lo stesso
si deve ripetere anche dell’identico e del diverso e dei contrari.
Cosicchè, dopo di aver distinto in quanti modi ciascuno di essi si dice,
bisogna render ragione, per ciascuna categoria (*), in qual rapporto esso
stia con il modo principale e come a esso venga attribuito: di alcuni, ad
es., si troverà che esso
Alessandro, Schwegler, Bonitz intendono che si parli non dello
privazione, mn della negazione, e non riescono a dar un senso alla frase.
Vedo che anche il Ross propone di riferliria alla privazione;
l'esitazione, che ancora lo trattiene, ò per l’inciso «nll’uno , ch'egli
vorrebbe soppresso: i mo pare che il passo citato dianzi di S. Tom, lo
chiarisca a sufficienza, In ogni modo, è nota In dottrina aristotelica
cho non-bianco è negazione soltanto (astratta), nero è privazione
(concreta, positiva): nell'una non sì deterinina altro, e potrebbe predicarsi,
ad es., anche di un suono; nell'altra viene aggiunta «la differenza di
colore, in riferimento nl sostrato ra cui nppartiene (diremmo, l'inchiostro).
Così, non-veggente e cieco, non-dotto e ignorante, ecc. La diversità è, propriamente, una cifferenza
di genere; la differenza (propr. detta) è una diversità nello stesso
genere (le specie), la quale, quando è massima, è contrarietà: X. 8, 8;
ivi, 4, 1-2. (8) Categoria, qui, vale (come avverte il Bonit2, p. 180)
predicato, nozione, ecc.: ossia, per la nozione d'identità, diversità,
ecc., si deve far lo stesso lavoro d'analisi che per l’essero in
generale: distinguere i diversi significati e determinare la relazione
tra i significati secondari o derivati e quello fondamentale originario. li
comprende, di altri che li produce, di altri esso sarà predicato in altri modi
siffatti. È dunque palese quel che già si accennò nella
esposizione dei problemi: che spetta a un’unica scienza ragionare di
tutte queste determinazioni e della sostanza. Questa era una delle
questioni colà agitate. Ed è dovere del filosofo di esser in 1004 grado di speculare intorno 4 tutte queste
cose. Che se tale non è il compito del filosofo, chi sarà allora che
indagherà se Socrate e Socrate seduto sono lo stesso (*); ovvero,
se ogni contrario ha un solo contrario, e che cosa è il contrario, e in
quanti modi si dice? E così di altre tali questioni. Orbene, essendo
queste per se stesse affezioni dell’uno in quanto uno e dell’ente in
quanto ente, e non in quanto numeri o linee o fuoco, è chiaro che quella
scienza dovrà conoscere e che cosa sono e le loro proprietà. E coloro che
intorno a esse indagano, non sbagliano già perchè non sia da
filosofi l’indagarne, ma perchè par che non s’accorgano neppure
della sostanza; e sì che questa è prima di tutto il resto! Che se il
numero in quanto numero ha le sue proprie affezioni, come parità e
disparità, commensurabilità e uguaglianza, eccesso e difetto (qualità che
appartengono ai numeri o per se stessi considerati o in relazione gli uni
con gli altri); e se altre ne ha di proprie parimenti il solido, quel che
è immobile e quel che è mobile, quel che ha peso e quello che ne manca;
bene ne avrà di sue proprie anche l’ente in quanto ente, e queste
costituiranno appunto ciò di cui sarà compito del filosofo l’indagare il
vero. Ne è un indizio questo: dialettici e sofisti, volendo fare
la stessa figura del filosofo, sebbene la loro sapienza sia solo
apparente, ragionano di tutte le cose e dell’essere che è comune a tutte,
evidentemente perchè questo è l’oggetto proprio della filosofia. Infatti,
la dialettica e la sofistica s’aggirano intorno alla stessa sfera di oggetti
della filosofia, ma La
sostanza per sè o congiunta con alcun accidente (ricorda discussioni
sofistiche, soprattutto dei Megarici, in proposito). Ovvero, se riascun contrario, ece.: per
queste questioni questa differisce dall’una per il modo d’impiegare la
facoltà conoscitiva, dall’altra per il tenore di vita (‘) da quella
prescelto. La dialettica si esercita saggiando intorno a quelle cose di
cui la filosofia si sforza di aver conoscenza; la s0fistica si contenta di un
sapere apparente, non reale. Si noti anche che una delle due serie di
contrari indica la privazione, e che entrambe si riducono all’essere e al
non essere, all’uno e al molteplice: ad es., la quiete all’uno, il
movimento al molteplice. Ora quasi tutti i filosofi son d’accordo che gli
esseri e la loro sostanza risultano da contrari; per lo meno, affermano
che i principii loro sono contrari: essi sono per alcuni il dispari e il
pari, per altri il caldo e il freddo, per altri il limite e l’illimitato,
per altri l'amicizia e la discordia (*). Queste e tutte le altre
contrarietà si riducono, manifestamente, a quella dell'uno e del molteplice
(ci si conceda dimostrata questa riduzione), sì che sotto essi,
come sotto due generi, cadono tutti i principii: quelli dei filosofi su
detti vi si riducono completamente. Non c’è dubbio, dunque, anche per
queste ragioni, che còmpito di una sola scienza è lo studio dell’essere
in quanto essere. Chè tutti gli esseri o son contrari o vengono da
contrari, e principii dei contrari sono l’uno e il molteplice, e questi
appartengono a un’unica scienza, sia poi che si debbano prendere in un
senso solo, o in più sensi, come forse (*) la realtà e la verità esige.
Ciò non ostante, pur dicendosi l’uno in molti sensi, questi verranno
riferiti tutti a quello che è prima di tutti; e per i contrari sì dica
similmente. E però, seppure l’essere o l’uno non è qualcosa d’universale
e d’identico in tutte le cose, nè da esse separato Non ispirata dall'amore della verità, ma
dall'ambizione o dal guadagno, Per la differenza tra rpodittica, dialettica ed
eristica, cfr. Anal. Pr., IL 1. 24 a, 22, 6 Top., I. 1. 1004, 27: l’apodittica
pone una sola delle due parti della contraddizione, invece la dialettica
pone l'una e l'altra parte; ma l’una parte da ciò ch'è primo e vero,
l'altra si aggira tra opinioni soltanto, più o meno ben fondate;
l’eristica non cura la fondatezza di queste opinioni. Pitagorici, Parmenide (?), Platonici,
Empedocle. forse, e poco dopo
certo («come certo non è in realtà ): lowg (in entrambi i casì),
na: come certo non è in realtà,
tuttavia esse tutte si riguardano o in rapporto a ciò che hanno
d’identico o per i signignificati derivati dall’essere. Non può dunque esser còmpito,
ad es., del geometra lo speculare che cosa è il contrario o il perfetto o
l’essere o l’uno o l’identico o il diverso, tranne che in quanto se ne
serve come d’ipotesi ('). Resta così chiarito che a un’unica scienza
spetta la considerazione dell’ente in quanto ente, e di ciò che a esso
appartiene in quanto ente, e che essa è la stessa che deve studiare non
soltanto le sostanze, ma anche tutto ciò che appartiene a loro; e, oltre
i concetti accennati dianzi, anche, che è quel che precede e quel che
segue, e il genere e la specie, e il tutto e la parte, e tutto ciò che
altre tali questioni riguarda. CapirtoLo III. Si deve ora
accennare se la scienza di quelli che i matematici chiamano « assiomi sia tutt’una con quella che tratta
della sostanza, oppure diversa. Evidentemente, anche l’indagine intorno ad essi
appartiene a una scienza che è la stessa di quella del filosofo, poichè
essi valgono per tutti gli esseri, e non sono una proprietà di qualche
loro genere, ad esclusione degli altri. Tutti gli scienziati se ne servono,
infatti, perchè appartengono all’essere in quanto essere, e ciascun
genere di cose è essere; e se ne servono fin dove fà al loro proposito,
cioè fin dove si ends il genere di cose, intorno alate .
studio di essi sarà di pertinenza di chi fa o -del suo sapere l'essere in
quanto essere. Perciò, appunto, nessuno di 2°
Se Ipotesi: non in
senso moderno (8° intende !), ima come assunzione di concetti non
dimostrati, che il geometra (e ogni scienziato, in fine) adopera senza
discutere: «Il geometra fa uso (yefjta) di essi, non mostra (oò Bdeltac) che
cosa sia ciascuno di essi (Alesa, 264, 9). Il termine ritorna. coloro
che-attendono-allo studio delle cose nella loro particolarità, s’azzarda di dir
nulla di essi, se_gono. Veri o. Do. Non ne dice “nulla il geometra nè
l’aritmetico, e se alcuni fisici (') si permisero di parlarne, essi
fecero ciò con qualche ragione, perchè credevano di esser i soli che
facessero oggetto d’investigazione la natura nella sua totalità e
l’essere. Ma c’è uno che sta ancora più su del fisico (chè la natura è
uno soltanto dei generi dell’essere), sì che anche lo studio di
tali assiomi spetta a chi medita in universale e intorno alla’ s0stanza
prima. Certo, anche la Fisica è una sorta di sapienza, ma non è la
prima(?). E tutto ciò che alcuni(?) si sono affaticati a dire della
verità degli assiomi e in qual senso bisogna ammetterli, prova appunto
che non hanno studiato gli Analitici. Chi si applica allo studio delle
scienze deve conoscerli già questi assiomi, e non chiederne la
dimostrazione nel corso dello studio (‘). Non e’ è dubbio, dunque, che
anche la considerazione dei principii sillogistici spetta al filosofo e a
chi specula intorno alla natura delle sostanze tutte. In ogni genere di
cose, convien dire che possiede principii più saldi del suo oggetto colui
che ne ha maggior conoscenza: vien di conseguenza che colui che ha la
conoscenza degli enti in quanto enti, deve possedere i principii più
saldi di tutti. Questi è il filosofo.° E il principio più saldo di tutti è
quello intorno al quale è impossibile trovarsi in errore, poichè è
necessario che tale principio sia il più: noto di tutti (tutti errano,
infatti, intorno a quelle cose che non conoscono); e non deve aver
«Forse pensatori che svolsero elementi scettici di
Eraclito, Empedocle, Anassagora, Democrito (Ro88). Così anche in VI. 1. 1026 a, 24 e 30 ($ 7):
la Metafisica è qriccogpia xq@rn, la Fisica deutéga. Sono i fisici ric. dianzi ? O, come sembra
più probabile, Antistene? Cfr. qui Cap. 4, 2; 5-2, ecc.; il nome è fatto
in V. 29. 1024 b, 32 (S$ 2), e in VIII. 3. 1049b, 24 ($ 6). Ma mi par che
non debba neppur escludersi un’interpolazione del passo. La dimostrazione differisce dal sillogismo in
quanto muove da principii immediatamente certi e veri (dul punto di vista
della scienza particolare): « Vero © primo è quel che non per altro, ma
per se stesso ha certezza: invero, dei principii scientifici non bisogna
richieder la ragione, ma ognuno di essi deve esser certo per Be stesso :
Top., nulla d’ipotetico (‘): chè non può essere ipotetico quel principio senza
del quale è impossibile che uno possa comprendere una qual si voglia delle cose
che sono. La conoscenza di esso è indispensabile a chiunque vuol
conoscere una cosa qualsiasi, ed è necessario che ne sia provvisto già
chi viene per imparare. Che dunque un principio tale'sia il più
saldo di tutti, non è chi non vegga. Quale poi esso sia, passiamo a
dirlo. i È impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non
convenga a una stessa cosa e per il medesimo rispetto (e quante altre
determinazioni potremmo aggiungere, si tengano fatte a scanso delle
difficoltà discorsive) (?). Questo è di tutti i principii il più saldo:
esso, infatti, ha i caratteri che dianzi determinammo, poichè è
impossibile che uno stesso pensi la stessa cosa essere e non essere,
secondo che alcuni credono dicesse Eraclito (*). Vero è che non è
necessario che tutto quello che uno dice, lo pensi anche (‘). Ma non
potendo i Qui la parola ha
un valore diverso dal precedente (per quanto resti in comune il concetto
di assunzione dogmatica, caratterizzata qui dalla particolarità dell'oggetto,
piuttosto che dall'uso pratico), e agli effetti del pensiero può esser
inteso nel senso moderno che l’'oppone al «categorico (a ciò che non presuppone nulla, perchè è
incondizionatamente vero). A
scanso delle difficoltà discorsive, così come le consuete riserve più
giù, accennano ad argomentazioni che tendessero a metter in dubbio o ad
impugnare il principio così com'è formulato: per es., per il concetto del
divenire, che avviene tra contrari, ecc. Più in là A. chiarisce, ad es., che i
contrari sono insieme in potenza, non in atto. i A. attribuisce, dunque, l'opinione agli
interpreti di E. più che ad I. stesso: cfr. XI. 5, 7. Qui il discorso è considerato
verbalisticamente, non come pensiero. Del celebre « principio di non
contraddizione , chi ben consideri, s'avvedrà che son date qui tre
formule corrispondenti ai tre punti di vista dianzi accennati: 1) «non è
possibile a uno di avere, o pensare, a un tempo, opinioni contrarie :
ch'è questione soggettiva; 2) «una stessa cosa non si può insieme affermare
o negare : ch'è questione logico-dialettica, della realtà veduta
nell’atto del giudizio, che o pone il rapporto di convenienza del predicato al
soggetto, o esclude quel rapporto; 3) «i contrari non possono trovarsi
insieme nella stessa cosa (in
atto): ch'è questione dell'essere, i. e. dei principii reali, delle cose.
La giustificazione della prima formula è data dalla terza (non potendo
è contrari trovarsi insieme) e dalla seconda (e dacché un'opinione è
contraria all'opinione contradittoria); quella della seconda, dalla terza
(un'opinione è contraria all'opinione contradittoria) e dalla prima (poiché è
impossibile che uno contrari trovarsi insieme nella stessa cosa
(aggiungiamo anche a questa proposizione le consuete riserve), e dacchè
una opinione è contraria all'opinione contradittoria, è chiaro non esser
possibile che lo stesso uomo pensi che la stessa cosa sia e insieme non
sia: chi fosse in questo errore, avrebbe a un tempo le opinioni
contrarie. E però tutti i dimostranti a questa riducono l’ultima
opinione: essa, per la natura stessa delle cose, è il principio anche di
tutti gli altri assiomi. CapitoLo IV ('). Pure, ci
sono alcuni, come s’è accennato, i quali affermano potersi dare che la
stessa cosa sia e non sia, e poterla appunto pensare così. Fanno uso di questo
modo di ragionare molti anche dei fisici (°). Ma noi abbiamo stabilito
che è im stesso pensi la stessa cosa essere e non essere); quella della
terza, al cap. 6 (8 12), dalla seconda,la quale riacquista rispetto a
essa l'indipendenza posta qui preliminarmente al s 6. Questa ha in A. il
significato semplicemente di una condizione necessaria per il conoscere e
il sapere, ossia per il pensiero che pensa la realtà itelle cose, perchà
per l'intelligibilità, reale e logica, di queste è un presupposto
indispensabile la distinzione fra un concetto e l’altro, e in primo luogo fra
concetti opposti, e, prima ancora, tra l'affermare e il negare. Il principio
del mezzo, o terzo, escluso integra, qui, il principio di non
contraddizione, e lo sottrae, anche per questa via, alla dipendenza
immediata da quello di contrarietà, dove, invece, quel mezzo esiste.
Quando, in seguito, fu aggiunto il principio d’identità, non soltanto si
guadaguò in compiutezza formale, ma si vide meglio e il rapporto fra i tre
principii e il carattere puramente logico che ha questa parte della
Metafisica aristotelica. Naturalmente, nel formulismo scolastico si
perdette, poi, gran parte dell'interesse cho aveva la questione in A. per
le conseguenze, a cui la negazione del principio di non contraddizione
portava rispetto al conoscere e al sapere, anzi rispetto alla concezione
e realtà dell'universo intero. Comincia
di qui la difesa del principio di non contraddizione contro coloro che lo
negano. Questi, sebbene la trattazione li mescoli di frequente, son tuttavia
abbastanza distinti in tre gruppi corrispondenti alla triplice formulazione
del principio: a) di coloro che l'impugnano per mera esercitazione
eristica; bd) di coloro che, come i Protagorei più seri, si fondano su la
natura propria della dora; e) di coloro che, eraclitizzando, pongono
l’unione degli opposti nella realtà stessa delle cose. Son nominati, nel capitolo seguente, Eraclito
e i suoi seguaci, Empedocle, Anassagora, Democrito. possibile essere
e non essere insieme, e però dichiarammo che quello è il più saldo di
tutti i principii. Ed è effetto d’ignoranza (‘) se alcuni reputano che
anche quel principio si debba dimostrare: chè no n altro che ignoranza è
non sapere di quali cose bisogna chiedere la dimostrazione, e di quali
no. Che di tutto, assolutamente, ci sia dimostrazione, è impossibile: si
andrebbe all’infinito, sì che per tal modo non ci sarebbe dimostrazione
di nulla. Che se di alcune cose non si deve esigere la dimostrazione, non
riuscirà loro di dire quale altro principio meglio di quello, a loro
avviso, è tale. Certo, anche di esso si può dimostrare, in via di
confutazione (*), che è impossibile negarlo, solo che, chi lo mette in
dubbio, dica qualcosa. Che se non dicesse nulla, sarebbe ridicolo andare
in cerca di ragioni contro chi, in quanto non ragiona (*), non ha ragioni
di nulla. Un tale, in quanto tale, sarebbe già simile a un tronco. Il
dimostrare poi in via di confutazione, io dico che differisce dal
dimostrare vero e proprio, perchè chi si accingesse a dimostrare lui quel
principio mostrerebbe di presupporre ciò che deve dimostrare; ma, qualora
la colpa (‘) fosse di un altro, si tratterebbe di una confutazione, e non
di una dimostrazione. In tutti i casi simili, la norma è di non pretendere
che l'avversario dica che una cosa è o non è (perchè egli obicetterebbe
subito che si presuppone ciò che è da dimostrare); ma che dia un
significato a quel che dice, per sè e per gli altri: e questo è pur
necessario, se egli vuol dir qualcosa. Altrimenti, costui non direbbe
nulla, nè per suo proprio conto, nè per gli altri. Che se, invece, lo
concede, la dimostrazione allora è possibile. Già, infatti, s'è per tal
modo determinato qualcosa. La colpa non è del dimostrante, sì di chi è
costretto ad accettare la dimostrazione, perchè, mentre vuol Cfr. dianzi (3, 3) per quelli che non hanno
studiato gli Analitici. La
confutazione (é EXeyyxog) è una dimostrazione negativa o indiretta, che
si limita a portare all’assurdo la sentenza dell'avversario, o a purificarla
dai fraintendimenti e sofismi ch'egli vi ha intrusi. (9) Ho tentato di
giustificare così le parole che il Christ vorrebbe espunte. La colpa del circolo vizioso, che alcuno gli
volesse addebitare. distruggere il ragionamento, è costretto a ragionare.
Oltre di che, chi ha fatta quella concessione, ha già concesso che
ci sia qualcosa che è vera senza dimostrazione, e che perciò non ogni
cosa è possibile che sia così e non così ('). Anzitutto è chiaro che
questo alieno è vero: che le parole « essere e non-essere hanno un significato ben determinato, per cui
non ogni cosa è possibile che sia e non sia così. Parimenti, se la parola
« uomo ha un significato solo: sia
esso quello di « animale bipede . Dicendo che ha un solo significato,
intendo che, se uomo vuol dir questo, ove ci sia un essere che è uomo,
esso sarà ciò che per uomo 8’è definito. E non importa nulla se si
obietta che di significati ne ha parecchi, pur che vengano
definiti; chè si può a ciascun 1006 b concetto assegnare un nome
diverso. Facciamo il caso che si obiettasse che uomo non ha un solo, ma
parecchi significati, e che la definizione animale-bipede vale per uno
soltanto di essi, laddove ce ne sono parecchi altri, ma in numero
determinato : ebbene, si dia un nome appropriato a ciascuno di essi. Che
se, per non far questo, si adducesse che i significati di quel nome sono
infiniti, è manifesto che esso non avrebbe più nessun senso, perchè, se
non significa una cosa determinata, è come se non significhi nulla; e quando
le parole non hanno senso, è tolta la possibilità di discorrere con
altri, anzi, propriamente, anche seco stesso: giacchè non può neanche
pensare chi non pensa una cosa determinata: e se egli è in grado di
pensare, dovrà anche dare un nome unico alla cosa cui pensa.
Stabiliamo, quindi, che, come s'è detto da principio, ogni parola
significa qualcosa, anzi qualcosa di unico. Ora, esser-uomo non potrà
significare lo stesso che non-esser-uomo, se la parola uomo ha un
significato non soltanto come predicato di un unico oggetto, ma in quanto
significa essa stessa un oggetto unico. Per noi, infatti, una parola ha
un unico significato, non in quanto si predica di un unico
oggetto: C'è sospetto d’interpolazione nel testo: le ultime parole del
periodetto, ad es., son ripetute poche linee dopo. chè, a tal patto,
musico e bianco e uomo significherebbero la stessa cosa, e in
conchiusione, designando con nomi diversi la stessa cosa, sarebbero tutti una
cosa sola. Una stessa cosa potrebbe essere e non essere soltanto nel caso
di un equivoco, qualora, ad es., quel che noi chiamiamo uomo, altri
lo chiamassero non-uomo. Quel che è in questione non è già se lo stesso
possa insieme essere e non essere uomo di nome, ma di fatto. Se poi uomo
significa lo stesso che non-uomo ('), è chiaro che anche esser-uomo sarà
lo stesso che non-esser-uomo, per cui tra essere e non esser uomo,
essendo l’identica cosa, non ci sarebbe nessuna differenza. Questo
appunto vuol dire esser l’identica cosa; come chi dicesse abito e vestito
: chè il concetto è unico. Se fosse unico, esser-uomo e non-esser-uomo
significherebbero lo stesso. Ma 8’era mostrato che il loro significato è
diverso. Se, dunque, si deve poter dire qualcosa di vero, bisogna
necessariamente che, chi dice di uno che è uomo, intenda dire che è un
animale bipede: questo era, infatti, ciò che la parola uomo significava. E se
questo è necessario, non è possibile che quello stesso non sia un animale
bipede: chè questo appunto vuol dire che una cosa è di necessi tà: esser
impossibile che non sia. Non si può dare, quindi, il caso che sia vero
insieme dire che uno stesso è uomo e non è uomo. Il discorso vale
anche per il non-esser-uomo. L’esser-uomo esprime un’altra cosa dal
non-esser-uomo, come del resto anche l’esser-bianco è diverso dall’esser-uomo:
anzi, la opposizione tra i primi termini è anche maggiore, esprimendo
essi una cosa del tutto diversa. E se qualcuno ci volesse sostenere che
bianco e uomo significano una stessa e mede Chiarisce il par. precedente, dove aminette
che una cosa può essere e non essere la stessa soltanto per un equivoco
(il testo ha omonimia, usato qui, come la sinonimia della 1. precedente,
in senso alquanto diverso da quello stabilito in nota a lib. I. 6, 5: qui
si bada se uno intende con la stessa parola indicare concetti opposti, oppure
lo stesso concetto con parole diverse). Se l'avversario vuol dare alla
parola «uomo lo stesso senso di «
non-uomo , deve anche identificare il fatto e il concetto di «esser
uomo con quello opposto di «
non-esser-uomo : e venir meno, quindi, al patto (cfr. 11) di non dare a
una stessa parola significati diversi in confronto alle cose, sima
‘cosa, noi ripeteremo quel che abbiam detto prima: che allora tutte le
cose, e non soltanto gli opposti, fanno una cosa sola ('). E se questo
non può essere, pur che l’avversario risponda alle nostre domande, dovrà
convenire in quel che s’è detto. Ma, se egli a una semplice
interrogazione rispondesse aggiungendo anche delle negazioni, non risponderebbe
propriamente a quel che si chiede (*). Niente impedisce che uno stesso
sia, oltre che uomo, bianco e innumerevoli altre cose; ma, interrogato se si
può con verità dire che quello è un uomo o no, egli deve rispondere
soltanto ciò che la parola significa, e non aggiungere che è anche bianco
e grande; poichè, essendo infiniti gli accidenti, è impossibile
percorrerli tutti, si che o li citi tutti o non ne citi nessuno. Se anche
lo stesso è uomo e diecimil’altre cose diverse da uomo, egli non deve rispondere,
a chi gli domanda se uno è uomo, che è uomo, sì, ma insieme anche
non-uomo: a meno che non intenda di aggiungerli tutti gli accidenti: quante
altre cose, cioè, l’uomo è o non è. Che se si mettesse per questa via,
non c’è più modo di discutere, In somma, quei che si mettono per
questa via, vengono a sopprimere la sostanza e la pura essenza di ogni
cosa, perchè son costretti ad affermare tutto esser accidentale, e
che non esiste un concetto tale, quale quello di uomo o di animale. Se ci
fosse, infatti, un concetto tale, quale quello di uomo, esso non potrebbe
essere quello di non-uomo, 0 quello di non esser uomo: e questi sono pure
negazione di PI
Se non si concede che nomo= bianco, tanto meno si può concedere
che momo = non-uomo. Se si concede, non soltanto gli opposti, ma tutto è
la stessa cosa, e non c'è modo di parlar più di nulla, «Sarebbe assurdo che. interrogato sè Socrate
è uomo, rispondesse che è anche .non-cavallo e non-cane : Alessandro
(284, 32). Ovvero, riferisse la negazione agli accidenti: « est enìm v.
g. albus, musicus, etc.; quae omnia in ambitu notionis non-homo continentur:
Bonitz, p, 199. Ma anche le prime negazioni si possono riguardare come
accidentali, se sì bada, non alla sostanza propriamente, ma alla
definizione di uomo. L’avversario deve
rispondere con un sì, o con un no (ovvero ripetendo semplicemente il
nome, o premettendogli la negazione: uomo, non-uomo). quello (').
Non s’era d’intesa che esso aveva un solo significato, e che questo era la sostanza
della cosa? Ma esprimere la sostanza di una cosa vuol dire che questa, e
non altra, è la sua essenza. E se c’è qualcosa che ha l’essenza di
uomo, essa non potrà coincidere con quella che non ha tale essenza,
o con quella che ha l’essenza di non-uomo. Costoro son costretti a dire
che tale concetto non è concetto di nulla, ma che tutto è accidentale (*).
Poichè in questo si distingue la sostanza dall’accidente: l’esser
bianco è accidentale per l’uomo, perchè egli è, sì, bianco, ma non
è bianco per l’essenza. Ma se tutto si affermasse in via accidentale, non ci
sarebbe più niente di primo a far da soggetto: eppure l’accidente esprime
sempre la categoria di un qualche sostrato. Si andrebbe, necessariamente,
all'infinito: il che è impossibile. Anche perchè ogni connessione è
soltanto tra due termini (*). L’accidente, infatti, non può essere
accidente di un accidente, salvo in quanto entrambi sono accidenti
di uno stesso soggetto. Voglio dire, per es.: il bianco è musico, e
il musico è bianco, in quanto entrambi sono accidenti di uomo. Ma Socrate
non è musico a questa maniera, come entrambi i termini fossero accidenti
di un terzo. Questi accidenti, dunque, sono predicati in due maniere diverse.
Quelli che si predicano così, come il bianco di Socrate, non
possono formare una serie che proceda all’infinito: ad es., di
Socrate, che è bianco, predicare un qualche altro accidente, e così
via via: chè, dall'unione di questi accidenti, non verrebbe fuori
un’unità ('). E neppure del bianco si può dire che ci Il che non avverrebbe se, come l’avversario
sostiene, la negazione fosse vera quanto l’affermazione. Sul valore della negazione, talvolta riguardata
nella c. d. copula, tal’altra nel predicato del giudizio, e sul rapporto
tra la forma affermativa e quella negativa in A., v. G. Catocero. în
Giorn. critico della fil. ital., VII (1926), fasc. 5. Se non è concetto (esseuza) di nulla, ma si
può attribuire, insieme al contrario, a qualcosa (x è uomo € non-uomo,
nello stesso modo che l’uomo può esser bianco e non bianco), sarà,
dunque, non sostanza, ma accidente.
Il soggetto e il predicato.
Dall’unione degli accidenti non vien fuori l'unità del reale, se questa
non è raggiunta già con la posizione del primo accidente, col quale la
sostanza forma sia un‘altro accidente da predicare, per es., musico,
perchè questo non è un accidente di quello più che quello di questo.
Resti con ciò determinato che di accidentalità si può parlare in due maniere: o
come in quest’ultimo esempio, o come musico si predica di Socrate, nel
qual caso l’accidente non è predicato accidentalmente di un altro
accidente, come era l’altro caso. In conchiusione, non tutto potrà essere
affermato come accidente, e deve quindi esserci anche qualcosa che
si riguardi come sostanza. Se così è, riman chiarito che è impossibile
predicarne insieme concetti contradittorii. Inoltre, se i contradittorii
si potessero predicare sempre insieme, con verità, dello stesso, chi non vede che tutte le cose
diventerebbero una sola? Sarebbe, infatti, lo stesso e una trireme e un
muro e un uomo, una volta che una cosa si può tanto affermare che negare
di ogni cosa. Che è una conseguenza inevitabile per coloro che ripetono
il ragionamento di Protagora: poichè, se ad alcuno pare che l’uomo non
sia una trireme, è chiaro che non è una trireme; ma, se la contradittoria
è vera, ne consegue che egli è anche una trireme. Si va alla sentenza di
Anassagora: tutte le cose sono tutto insieme. Per cui, niente si può
predicare con verità di nulla. Si ha l'impressione che essi parlino
dell’indeterminato; e pur credendo di parlare dell’essere, parlano,
invece, del non essere: chè l’indeterminato è l’essere in potenza ('),
non quello in atto. E in vero, costoro si trovano nella necessità
di dire che di ogni cosa si può affermare o negare ogni altra. Sarebbe
infatti assurdo che, mentre a ogni cosa deve convenire la sua negazione,
non le dovesse poi convenire quella di un’altra che già non conviene a
essa. Voglio dire che, se è vero dir dell’uomo che è anche non-uomo, è
chiaro che deve «un che determinato . In altri termini: non
dall’enumerazione degli accidenti, a volta a volta incorporati al
soggetto, si ha da attendere l'unità di esso. L'altro modo di predicazione
è quello in cui la serie non gira attorno al soggetto, ma fa une catena da
accidente ad accidente.
L'indeterminato è l’essere in potenza, nel quale i contrari sono
insieme; non quello in atto, nel quale la potenza (ch’è un
non-essere-ancora) vien determinata. esser vero anche dire tanto che è
trireme, quanto che è nontrireme. Intanto, se l’affermativa (che è trireme)
fosse concessa, di necessità sarebbe concessa anche la negativa. Ma
poniamo che l’affermativa non sia concessa; tuttavia Ja negativa di questa gli
dovrebbe convenire meglio di quella sua. Ora, dacchè quest’ultima gli
conviene, gli converrà anche quella di trireme; e convenendogli questa,
gli conviene anche l’affermativa di essa ('). A queste conseguenze
arrivano coloro che sostengono tale dottrina. E a quest’altra, anche: che
nulla è necessario o affermare o negare. Infatti, se è vero che l’uomo è
uomo e non-uomo, è chiaro che sarà vero anche che egli non è nè
uomo nè non-uomo: poichè alla doppia affermativa corrisponde la doppia
negativa, e se là delle due affermazioni se ne fa una sola, una sola sarà
anche questa opposta. Proseguiamo: o, quel ch’essi dicono, vale per
tutte le cose, o no: nel primo caso, ogni cosa bianca è anche non bianca,
quel che è anche non è, e similmente per le altre affermazioni e
negazioni; nel secondo caso, se esso non vale per tutte, ma per alcune sì
e per altre no, per queste ultime anch'essi son d’accordo che il loro
principio non vale. Se, invece, vale per tutte, da capo: o di tutte
quelle di cui si afferma qualcosa, questo si può anche negare, e
viceversa; ovvero, di quelle di cui si afferma qualcosa, questo si può
unche negare, ma non di tutte quelle di cui si nega qualcosa, questo si
può anche affermare. In quest’ultimo caso, si avrebbe un punto fermo, un
non-essere, e questa sarebbe già una Accogliendo (1007 b, 33) la lezione del cod.
fiorentino Ab (come il Ross propone), e riordinando un po'il testo, il
ragionamento risulta così: A. sostiene che se, poniamo, di Socrate si può
predicare insieme uomo e non-uomo, allora di lui si può affermare o
negare ogni altra cosa indifferentemente: per es., ch'è trireme e
non-trireme, Se, dunque, l'avversario concedesse ch'è trireme, dovrebbe
concedere (secondo il suo principio onde si può affermare anche la
contradittoria) ch’è anche non-trireme. Ma poniamo, dice A., che
«l'affermativa non sia concessa. Egli dovrà, almeno, concedere la negativa,
perchè «sarebbe assurdo che, mentre a uomo conviene la negazione di uomo,
non gli convenisse quella di trireme: anzi, gli deve convenire anche
meglio, perchò è la negazione di qualcosa che già si pone non convenire a esso
. Ma, concessa questa, deve poi concedere anche l’affermativa: che è
trireme. salda opinione; ma, se il non-essere è qualcosa di saldo e
conosciuto, tanto più sarà tale l’affermazione (‘) opposta. Ma poniamo,
invece, che di tutte quelle di cui si nega qualcosa, questo si possa
anche affermare: allora, di necessità, o è nel vero chi tiene separate le
due parti, e dice, ad es., che una cosa è bianca, e poi che non è bianca;
ovveroè nel falso. Se per essere nel vero le deve tener unite, costui
disdice ciò che dice, ed è come non esistesse niente. O come poi
parlerebbe e camminerebbe ciò che neppure esiste? (?). E tutte le cose
sarebbero una sola, come anche prima s’è detto, e sarebbe lo stesso e
uomo e Dio e trireme e i loro contradittorii. Chè, se di ciascuna cosa si può
ripeter questo, l’una non differirà dall’altra: se differisse, essa
avrebbe già qualcosa di proprio, e questa sarebbe la sua verità. Alla
stessa conchiusione si perviene dicendo che è nel vero chi tiene
separate le parti contradittorie (9). Ne deriva, anzi, anche questo: che
tutti dicono vero e tutti dicono falso, e però concede che dice falso anche
lui. Evidentemente, con costui non si può discuter di nulla,
perchè non dice nulla: non dice mai che è così, o non così, ma sempre che
è così e non così (‘); e poi, negando ambedue queste cose, che non è nè
così nè non così. Se parlasse altrimenti, ci sarebbe già qualcosa di
determinato. Che se, poi, ci si facesse concedere che, quando
l’affermativa è vera, la negazione è falsa, e che, quando è vera questa,
l’altra è falsa, non sarebbe più vero che si può nello stesso tempo
affermare e negare la stessa cosa. Ma, senza dubbio, tutti
direbbero che questa è una petizione di principio. In fine, diremo
che sono in errore quelli che pensano che una cosa sta, oppure non sta,
in un certo modo, e che invece è nel vero chi le pensa tutte due quelle
opinioni? Che se costui non dice neppure di esser nel vero, o che cosa
vor «Per mezzo dell’atfermazione
la negazione è più conoscibile; chè l'affermazione è prima, come l’essere è
prima del non essere : Anal. Post., I. 25. 86 b, 34. Qui, l’uomo di cui si parla (e colui stesso
che parla). (9) Come se fossero due persone diverse a sostenerle.
Similmente in Teeteto. rebbe dire
la sua asserzione che la natura delle cose è proprio così fatta? ('). E se non
pretende di dir giusto, ma di dire più giusto di chi la pensa in
quell’altro modo, ecco che le cose starebbero già in un certo modo, e
questa sarebbe la verità, e non già vero e falso insieme. E se ribatte
che tutti sono nel falso e nel vero ugualmente, a costui non è più
lecito aprir bocca a parlare: perchè dice nello stesso tempo Sì e
no. E se non ha nessuna opinione, ma crede e non crede del pari,
quale differenza c’è tra lui e le piante? Da ciò si vede benissimo che
nessuno, non solo gli altri, ma neppure chi fa questi discorsi, è
persuaso che così stiano le cose. O perchè mai va egli a Megara, e non se
ne sta tranquillo a casa pensando di camminare? (?). E perchè un bel
mattino non va diritto a gettarsi in un pozzo o, se gli càpita, giù da un
precipizio, anzi si vede bene che se ne guarda, proprio come se pensasse
che non sia tanto buono quanto non buono il caderci? È dunque chiaro che
crede l’una cosa migliore e l’altra peggiore. Ma se è così, deve
convenire anche che una cosa è uomo e un’altra non-uomo, una cosa è il
dolce e un’altra il non-dolce. Egli non mette tutto alla pari quando
pensa ad avere qualcosa che cerca; ma, avendo pensato che per lui è
meglio ber dell’acqua o vedere qualcuno, va in cerca proprio di quello. Eppure
doveva mettere tutto alla pari, se uomo e non-uomo fosse la stessa cosa.
Invece, come abbiamo detto, non c’è nessuno che non si vegga guardarsi da
alcune cose e da altre no. Non pare, dunque, Intendo: Chi dice che la verità è nella
contraddizione, riconosca almeno che c'è questo che diciamo la verità. O
non vorrà neppur riconoscer questo? Ma, allora, che cosa intende quando
asserisce che la natura delle cose è così fatta, che in essa (secondo la
sentenza di Eraclito) i contrari son sempre uniti? ecc. Tralasciando il
pi della 1. 9, come consiglia il Ross, il senso verrebbe trasformato così: Se
egli ritiene di esser nel vero, che vuol dire che la natura è così fatta?
In essa non si dovrebbe parlare di «essere, nè di esser essa l’una cosa
piuttosto che l’altra (chè tutto è e non è, ed ogni cosa è ogni altra). Non è lo stesso per lut camminare e non
camminare. Ovvero, se col Ross si aggiunge il deiv (da Ab e Aless.): non
è lo stesso per lui dover, 0 no, andar a Megara. Quest'argomentazione,
presa dal meglio e dal peggio, è già in Teeteto. che ci possa esser
dubbio: tutti credono che le cose stanno assolutamente in un modo, se non
tutte, almeno quelle che riguardano il meglio e il peggio. E se lo
credono(‘), non per scienza, ma per opinione, tanto più dovrebbero
esser solleciti della verità, così come deve curar la salute più
chi è malato del sano: e infatti, chi opina, al paragone di chi sa,
è in una disposizione non sana in rispetto alla verità. Finalmente, sia
pure che tutte le cose stiano così e anche non così. Ma in natura c’è il
più e il meno in ogni cosa: noi non diremmo che il tre è pari nella
stessa misura del due, e credere che il quattro valga cinque non è un
errore uguale a quello di chi crede che valga mille. Ora, se
l’errore non è uguale, manifestamente uno dei due erra di meno, e
però è nel vero più dell’altro. Ma se è più nel vero, al vero è più
vicino, e ci sarà quindi una verità a cui è più vicino chi è più nel
vero. E anche se tale verità non c’è,
ma, insomma, c'è almeno qualcosa che ha maggiore o minore
fondamento e certezza, e questo basta a liberarci (?) da un discorso che
non si lascia ridurre in termini di pensiero e impedisce di determinar
nulla. Il ragionamento di Protagora deriva anch’esso da questa
opinione, e però la sorte dell'uno è necessariamente legata a quella
dell’altra. Poichè, se tutto quello che si crede e appare, è vero, ogni cosa di
necessità è vera e falsa insieme. Di fatto, gli uomini hanno, per lo più,
opinioni contrarie le une alle altre, e tuttavia stimano che sia in errore
chi non la pensa come loro: per cui è necessario che la stessa cosa
sia e non sia. Viceversa, se si concede questo, vien di con Se lo credono, il meglio e il peggio.
Come nella precedente invocazione
della testimonianza dell'azione, così nelle ultime parole si può notare
un senso della verità come di un bisogno che il soggetto ha di essa per
se stesso. seguenza che tutte le opinioni sono vere. Poichè le
opinioni di chi è in errore e quelle di chi è nel vero, sono tra
loro opposte; ma se tale è l'essere delle cose, tutti saranno nel
vero. È chiaro, dunque, che i due ragionamenti svolgono. lo stesso
pensiero (‘). Tuttavia, a combatterli, non si ha da prendere la
stessa strada per tutti: con alcuni ci vuole la; persuasione, con
altri la sopraffazione (*). Non è difficile curare l’ignoranza di coloro
che s’indussero a credere così in sèguito a dubbi e difficoltà, giacchè per
essi si ha che fare, non con parole, ma col pensiero. Invece, a curar
quelli che giuocano di parole non c’è altra via che confutarne il
discorso letteralmente, in quanto è di parole espresse con suoni.
Coloro che in sèguito a dubbi e difficoltà vennero nell’opinione che le
asserzioni contradittorie e i contrari possono stare insieme, mossero
dalla osservazione delle cose sensibili, dove una stessa causa produce
effetti contrari. Ora, se quello che non è non può generarsi, il fatto
preesistente era già ambedue i contrari insieme. Anche Anassagora dice
similmente che tutto si trova mescolato in tutto, e Democrito, anche
lui, insegna che il vuoto e il pieno si trovano in ogni particella alla pari,
sebbene l’uno di essi sia un ente, e l’altro un non-ente. A
coloro, dunque, che fondano su queste ragioni la loro sentenza, noi
diremo che in un senso parlano giusto, ma in un altro ignorano come
stanno le cose. In realtà, dicendosi l'essere in due sensi, in uno di
questi qualcosa può generarsi dal non-ente, ma rell’altro non può (*); ed
è possibile che Partendo,
l'uno, dall'oggetto; l'altro, dal soggetto (dall’opinione). Sopraffazione: col ragionamento, Cfr. Top.,
I. 12. 105 a, 16: « L’induzione è più persuasiva... ma il sillogismo stringe di più, ed ha
maggior forza contro quei che contraddicono , Poichè l'essere si dice o in atto o in
potenza, così c'è un modo di essere (in potenza) ch'è anche un modo di
non essere (in atto). (Il puro non-essere non ha realtà: il non essere è
un momento di sviluppo dell'essere, che, come pura essenza, è già, nel
concetto, almeno, se non nella realtà temporale). E come per la sostanza,
così per le sue determinazioni secondarie: «sic, enim, tepidum est in
potentia calidum et frigidum, neutrum tamen actu: S. Tom. ($ 667).
(Qui, una stessa cosa si trovi ad essere e a non essere insieme, ma
non per lo stesso rispetto: poichè in potenza i contrari possono essere
insieme, ma non in atto. Inoltre, li inviteremo a persuadersi che c’è
anche un’altra sostanza degli esseri, la quale non è per nulla affatto s0ggetta
a movimento, nè a nascita o corruzione. Dalle sensazioni muove parimenti
l’opinione di alcuni che la verità sia di ciò che appare ('). Essi
stimano che a giudicare del vero non convenga rimettersene alla
maggioranza o alla minoranza. La stessa cosa, essi dicono, al gusto
di aleuni pare dolce, ad altri amara: sì che, se tutti ammalassero o
impazzissero, e soltanto due o tre rimanessero sani e in cervello,
costoro sembrerebbero malati e pazzi, e non gli altri. Inoltre, a molti
altri animali le stesse cose appaiono al contrario che a noi; anzi a
ciascuno di noi singolarmente, stando alla sensazione, le cose non
sembrano sempre le stesse. Quali, quindi, di esse siano vere o false, ci
è nascosto: queste non hanno maggior diritto di quelle alla verità, ma
uguale. Perciò, appunto, Democrito afferma che o non c’è nulla di
vero, o, almeno, ci è nascosto. In somma, se essi insegnano che quel che
appare al senso è necessariamente vero, ciò avviene perchè ritengono per
ammesso che l’intelligenza si riduca alla sensazione, e questa a
un’alterazione (?). Se ed Empedocle e Democrito e, in breve, ciascuno
degli altri si trovarono prigionieri di tali dottrine, ciò non avvenne
per altro motivo. Dice, infatti, Empedocle che chi cambia abito,
cambia intelligenza: Quali le sue condizioni, tale cresce l’uomo
per senno; veramente, si tratta non di un non-essere-ancora, in
opposizione a un essere-giù; ma di un modo dell’essere che è già, del
sostrato, che può ricevere ambedue le determinazioni contrarie, ed è,
quindi, per se stesso potenza di contrari), tà parvépeva: non si dia un senso troppo
soggettivo all'espressione (non esatto il Bonitz, p. 201: «quidquid
cuique videatur ). Alterazione
(mutamento qualitativo), che subisce l'organo del senso da parte
dell'oggetto. 1009 b 1010 a 122
METAFISICA e altrove: Tanto essi si mutano, e tanto
si rinnovano sempre anche i loro pensieri. E Parmenide si
esprime nello stesso modo, Quale in ciascun uomo è la temperie
delle membra flessibili, tale è la sua mente. Essa è appunto quel
che pensa negli uomini, in tutti e in ognuno: la natura de’ loro organi:
quel che in essa prevale è il pensiero . E si suole ricordare
anche un detto di Anassagora ad alcuni suoi scolari: che le cose sarebbero per
essi tali, quali piacesse loro di crederle (?). Dicono che anche Omero sembra
di questa opinione, perchè imaginò che Ettore, quando per la ferita uscì
di sè, giacesse «altro pensando: quasi che anche coloro che sono fuori di
senno pensassero, sebbene non alle stesse cose: è chiaro, dunque, dicono,
che se pensiero c’è in un caso e nell’altro, anche le cose sono insieme
così e non così. Il pericolo maggiore è nelle conseguenze: se
coloro che hanno guardato più a fondo quel che può essere il vero
(e tali sono quelli che più di tutti lo cercano e lo amano), proprio
essi, hanno opinioni di questo genere, e in questo modo si esprimono su
la verità, con quale animo i
principianti sì metteranno a filosofare? Il cercare la verità sarebbe un correr
dietro alle nuvole! A tale opinione essi arrivarono perchè cercavano
bensì la verità nella realtà, ma reali reputavano soltanto le cose
sensibili: ora, in queste ha gran parte l’indeterminato, e anche l’essere, ma
nel significato che dicemmo (*). Perciò il loro Cfr. Diela. Sembra ad alcuni che A.
forzi troppo il pensiero di costoro col farne dei sensisti. Ma è anche
vero ch'essi non distinguono il sensibile dall’intelligibile, 0, se
distinguono, fanno del pensiero quasi un senso superiore: come dimostrano
i versi citati. Buone o cattive,
a seconda della disposizione d'animo. Cioè, potenziale. Per Epicarmo, non si
conosce a quale giudizio di lui contro Senofane, A. qui
alluda. discorso ha somiglianza col vero, ma non è vero. E c’è maggior
proprietà a parlar di loro così, che non come Epicarmo contro Senofane.
Un altro motivo della loro opinione era questo: vedendo che tutto
in questo mondo si muove, e ritenendo che del mutevole non ci sia nulla da dire
di vero, conchiusero che neppure è possibile parlare con verità di un
mondo che sempre e in tutti i modi si muta. Da questa constatazione
germogliò l’opinione più estrema in questo argomento, quella di coloro
che professano di « eraclitizzare , quale aveva anche Cratilo:
questi finì col credere che non si debba parlare, e moveva il dito
solamente, e biasimava Eraclito per aver detto che non è possibile
immergersi due volte nello stesso fiume: £ suo avviso, neppure una volta
è possibile. Ma noi anche contro questo ragionamento risponderemo che
certamente quel che muta, mentre muta, dà loro qualche ragionevole
motivo di credere al suo non essere. Eppure c’è da discuterne; poichè,
l’oggetto che perde una proprietà, conserva ancora qualcosa di ciò che perde,
ed è già necessariamente qualcosa di ciò che diviene. E in generale: se
qualcosa si corrompe, deve continuare a essere qualcosa; e se qualcosa si
genera, di necessità dev’esserci ciò da cui si genera, e che lo
genera; e questo processo non può andare all’infinito. E anche lasciando
questo da parte, noi diciamo che non è la stessa cosa il mutare nella
quantità e il mutare nella qualità: per la quantità, sia pure che non ci
sia al mondo nulla di permanente; ma noi conosciamo tutte le cose per la forma.
À quelli che la pensano a quel modo, noi non possiamo fare a meno di
rimproverare che, limitandosi a un piccolo numero di osservazioni, pur
nella cerchia stessa delle cose sensibili, i lor pronunziati estesero
all'universo intero. Se la Cratilo, ricordato già in I. 6, 1 come maestro
di Platone. Il passaggio è, dunque, sempre dall’essere all'essere: poichè per
A. è l'essere che spiega il divenire, non viceversa. La pura essenza non
diviene, e questa è forma che spiega il mutare delle cose
(qualitativamente: qualità, qui, è il punto di viste formale, della
sostanza e delle sue determinazioni conoscitive, opposto a quello
meramente materiale della quantità). regione del sensibile, che ci
circonda, è in perpetuo nascere e perire, tale, tuttavia, è essa
soltanto, e rispetto al tutto è una piccola parte, che conta, si può
dire, niente: sì che sarebbe molto più giusto in grazia del tutto assolvere
questa parte dalle sue mancanze, piuttosto che a cagion di questa
condannare il tutto. Inoltre, potremo evidentemente indirizzare anche a costoro
le stesse considerazioni fatte addietro. Bisogna mostrare anche a costoro,
€ persuaderli, che esiste una natura immobile. In fine, costoro che
dicono ogni cosa essere e non essere insieme, se fossero conseguenti,
dovrebbero affermare che tutto è quieto, piuttosto che in movimento: chè, se
tutto è in tutto, non c’è più niente in cui qualcosa possa
mutarsi. I cieli sono incorruttibili, e al di sopra di essi Dio e le
Intelligenze motrici son fuori di ogni specie di movimento. His igitur
rationibus A. removisse sibi videtur eas causas, quae quosdam ad recusandum
principium contradietionis impellerent: quae quam non sufficiant in prompt u
est intelligere. Ac primo quidem argumento quod mutationem ad essentiam
redigere studet, facile est videre eum, dissecta in partes quasdam
mutatione, ea spectare, in quibus vel coepta nondum sit vel iam absoluta
inutatio, nec vero ipsum illud, quod mutatur, quatenus mutatur. Altero
argumento, quod speciem ac formam rerum ac per eam certum cognitionis
fundamentum manere contendit, confidendum quidem est in nullo mutationis
genere ex Aristotelis decretis ipsam formam vel fieri vel mutari; sed ita,
non sublata est, verum translata in alium locum dubitatio de mutatione.
Reliquie argumentis quod in angustiores fines ‘mutationis ambitum studet
includere, nihil videtur ad refutandos adversarios efficere: sive, enim, latius
patet mutatio sive minus late, quatenus invenitur, eatenus principium
contradictionis tamquam universale principium tollit: propositio enim
universalis unius propositionis singularis instantia tollitur. His scopulis hoc
loco, ubi mutationis mentio necessaria non erat, propterea illidit A.,
quiaprinelpium contradictionis non de notionibus, sed de rebus valere
posuit : Bonlitz, pp. 204-5. Ma lo spirito dell’argomentazione
aristotelica non è colto, così. Qui A. difende il suo principio contro l’indebita
ipostatizzazione della negazione assoluta, propria del pensiero discorsivo,
insieme e al pari dell'affermazione, nella realtà e intelligibilità delle
cose, le quali verrebbero, così, negate non soltanto nel loro essere
determinato, ma anche nel loro divenire: come il par. seguente (18)
mostra chiaramente. (Di vero, tuttavia, della critica, resta questo: che
quella realtà e intelligibilità è affermata, nel suo essere e divenire,
con procedimento analitico, prima o dopo del suo attuarsi, non nel suo
attuarsi, in cui l’opposizione passa dalla forma astratta a quella
concreta dell'essere che diviene in quanto assorbe in sè la propria
negazione. Quel procedimento, quindi, porta A. a vedere lo sviluppo dell'essere
come già attuato e irrigidito nelle forme dell'essere universale, dal
mondo sensibile soggetto a corruzione a quello pur sensibile ma
incorruttibile, e da questo a quello sottratto a ogni forma del
divenire). In quanto, poi, alla verità di ciò che appare, che, cioè, 1010
b non tutto ciò che appare è vero, noi osserviamo anzitutto che
l’atto del sentire non è per nulla falso quando è dell’oggetto suo proprio, ma
la fantasia non è la stessa cosa della 20 sensazione ('). C'è, quindi,
proprio da stupire al sentirli discutere se le grandezze e i colori siano
realmente quali appaiono da lontano o quali appaiono da vicino, e se le
cose siano quali appaiono ai malati o quali appaiono ai sani, e se
siano più o meno pesanti secondo che uno è robusto o è fiacco, e se la
verità sia di quelli che dormono o di quei che son desti. Che in realtà
non abbiano questi dubbi, è palese: nessuno, per lo meno, se, di notte,
imagina di essere in Atene, mentre è in Libia, s'incammina verso
l’Odeone. Ag 21 giungi, quel che già Platone osservava, che intorno
all’avvenire, se, ad es., un malato guarirà o no, non è davvero
ugualmente autorevole l'opinione di un medico e quella di un «Quod Protagorei contendunt verum esse quod
cuique de qualibet re videatur, hoc placitum in fines longe artiores est
restringendum: illud, enim, vere contendi licet sensum quemlibet non
falli in percipiendis rebus ipsi proprie subiectis; at phantasia, quam
Protagorei, quum tò parvépevov dicunt verum esse, veritatia faciunt
indicem ac testem, differt a sensu : Bonitz, p. 205. Il Ross suggerisce
un’altra interpretazione, onde il passo verrebbe trasformato così: Quanto alla
verità di ciò che appare, noi osserviamo che non tutto ciò che appare è
vero: anzitutto, se anche, come essi dicono, la sensazione non è falsa,
quando però sia di un oggetto appropriato a un senso, ecc. Migliore, sembra, l’interpretazione del
B., che non rischia dl prestare all'avversario la tlottrina di A. intorno
aî sensibili propri. Per questa, cfr. De An., II. 6. 418 a, 8: « Sì dice
sensibile in tre sensi: in due dei quali si parla del sentire per sè,
nell’altro per accidente. Dei due primi modi di sentire, uno è proprio di
ciascun senso, l’altro è comune a tutti. Dico proprio ciò che non può
esser sentito per altro senso, è intorno al quale non è possibile cadere
in errore: così il colore rispetto alla vista, e il suono rispetto
all’udito, il sapore rispetto al gusto. Ciascun senso discerne intorno a essi,
e non può ingannarsi in quanto colori 0 suoni, ma solo intorno alla cosa
colorata o al luogo, ecc. . In questo, ch’ è piuttosto un inferire che un
percepire (e così se un senso pretende di giudicare dell'oggetto di un
altro senso), il senso può ingannare. La
fantasia era stata da Platone trattata come la stessa cosa della
sensazione (Teeteto, 152 c). A. la distingue dal senso e dal pensiero
discorsivo, benchè non sorga senza la sensazione, e senza di essa non ci
sia l’opinione. Essa tramezza, dunque, tra l’una e l’altra: appartiene alla
parte sensibile dell'anima, ma è attiva e indipendente dall'oggetto
attuale come il pensiero. Cfr. De An., ignorante ('). E anche per le
sensazioni, non è ugualmente autorevole la sensazione di un oggetto che è
proprio di un senso e quella di un oggetto estraneo, la sensazione
dell’oggetto attuale e quella di un oggetto vicino (*). Invece: del
colore giudica la vista, non il gusto; del sapore, il gusto, non la
vista. E ogni sensazione, nel tempo stesso e intorno allo stesso oggetto,
non dice mai che una cosa sta così e non così ; e anche in tempi diversi,
la questione non cade propriamente su la qualità, ma su l’oggetto a cui
essa conviene: dico, ad es., che lo stesso vino può bene parere una volta
dolce e un’altra no, o perchè s’è mutato esso, o perchè s’è mutato il
nostro organo; ma la qualità del dolce, quale essa è, quando è, non muta
mai: il senso ne dice sempre il vero, e quel che dovrà esser dolce, sarà
sempre dolce in questo modo (‘). A dir vero, proprio questo vogliono
distruggere i sostenitori di tutte queste dottrine, e in quel modo che
negano la realtà di ogni sostanza, così per essi non c’è nulla al mondo
di necessario: poichè necessario è ciò che non può essere ora in un modo,
ora in un altro, sì che se qualcosa esiste di necessità, non potrà essere
così e non così (°). E in somma, se solo ciò ch’è sensibile può
esistere, qualora non ci fossero animali, non esisterebbe nulla: chè non
ci sarebbe sensazione. Ebbene, dire che nè le qualità sensibili,
Per questi due paragrafi, cfr.
Teeteto, 157 e 8.; 1710, 178c s, Ma giusto, per queste e altre
concordanze, lo Schwegler (p. 180): A. attinge direttamente dalla
protagorea ’AAntea, indipendentemente dai giudizi di Platone. Intenderei così le parole invano, mi sembra,
tormentate anche da altri: toù rimolov xal toù ati; (Aless.: la
sensazione di un oggetto vicino è più sicura che quella di un oggetto
distante; Bullinger e Goebel, cit. in Ross: la sensazione dell'oggetto
proprio è più sicura che quella di un oggetto di un senso affine; ecc.). La sensazione (l’atto del percepire) è già
conoscenza per A., come si notò a I, 1, 4, e però soggetta alla stessa
legge di non-contraddizione del pensiero. L'attributo o qualità, per sè, non muta e non
passa nel suo contrario: il dolce (la dolcezza) non diventa amaro: quel
che muta è il sostrato, che può passare da un contrario all’altro (o agli
intermedi). Nota, anche qui, l’irrigidimento del reale in forme
definitorie (come in Platone). (5) La ragione del predetto irrigidimento
è nella preoccupazione, che A. hu qui in comune col suo maestro, di
combattere le dottrine protagoree portanti alla negazione di ogni realtà
su cui il pensiero possa posare con la certezza della propria
validità. nè le sensazioni (‘') esistono, forse è anche giusto, in quanto
queste altro non sono che affezioni del senziente; ma è impossibile che, anche
senza la sensazione, non esistano tuttavia i sostrati che la producono.
Infatti, Ja sensazione non è sensazione di se stessa (*), ma c’è, oltre
di essa, anche qualcos'altro, che, necessariamente, è prima di essa: ciò
che muove è per natura anteriore a ciò ch’è mosso. E se anche si obietta
che essi sono in relazione di reciprocità, la cosa non è men vera. Ci
sono alcuni e tra quelli che son
persuasi di ciò che dicono, e tra gli altri che fan questione di parole
soltanto i quali muovono una difficoltà: essi voglion sapere chi
sarà poi a decidere se uno sia sano e, in generale, se uno intorno
Mi par giusto tornare alla
volgata: uite và aloîntà (le qualità sensibili, qui: non le cose stesse)
pinTe tà alcèf pate. Poichè non è conforme alla dottrina più chiara di A.
porre come esistente il sensibile fuori della sensazione (in atto o in
potenza): cfr. De An., III. 2. 425 Db, 26: « L’atto del sensibile e della
sensazione è identico, ma l’esser loro non è il medesimo: dico, per es., del
suono in atto e dell'udito in atto. Poichè è possibile posseder l'udito e
non udire, e ciò ch'è sonoro non sempre rende suono. Ma quando ciò che ha
potenza di udire, è in atto, e ciò che ha potenza sonora rende suono,
allora ha ÎInogo insieme l'atto dell'udire e l’atto del suono . Ciò non
toglie, naturalmente, l’esistenza di un mondo sensibile esteriore
all'anima: poichò il sentire, diversamente dall’intendere, non passa all’atto
senza un oggetto esteriore materiale: « Perciò dipende da noi
l’intendere, quando lo vogliamo, ma non così il sentire : De An., II. 5.
417 Db, 24. ° La sensazione non è
sensazione di se stessa, nel senso che l’occhio, ad. es., non vede se
stesso. Ma A. accenna anche a una alognows ch'è aùti avtis (De An., III.
2. 425 b, 15, 0 Cfr. De sensu, 7. 448 a, 26): autocoscienza sensibile, noi
diremmo, corrispondente a quella intellettiva (del tutto spiegata in Dio,
com'è noto). Per cui anche la sensazione, così come il pensiero per
l’intelligibile, non ha fuori di sè il sentito (in quanto tale).
Posta anche la correlatività
protagoree, onde il sentire risulti dall'incontro dell’agente col paziente
(della cosa visibile, ad es., con la vista: cfr. Teeteto, 156 d), vale
quanto si è detto: debbono esistere, indipendentemente dalla sensazione, i due
sostrati, la cosa che ha la potenza di esser vista e l’anima che ha la
.\otenza di vedere. (4\ Questo capitolo prosegue il precedente, e
s'aggira ancora intorno alla verità, di ciò che appare. Vien ripetuta la
distinzione tra coloro che seguono o meno, la dottrina
protagorea in buona fede e con qualche ragione degna di esser presa a ogni
cosa giudichi rettamente. Dubbi di questo genere sono simili a quello di
sapere se in questo momento dormiamo o siamo desti. Simili difficoltà
valgono tutte lo stesso. Costoro pretendono che si dia ragione di tutto:
cercano un principio, e lo vogliono ottenere per via dimostrativa:
sebbene dalle loro azioni si veda chiaro che di tale necessità, di
dimostrar tutto, non sono persuasi. L’errore in cui cadono, come si
disse, è questo: cercano un ragionamento per cose in cui il ragionamento
non esiste, perchè il principio de lla dimostrazione non è una dimostrazione.
Essi stessi possono facilmente persuadersi di ciò: chè non è difficile a
comprendere. Coloro, invece, che esigono che uno li confauti per forza di
ragionamento soltanto, esigono l’impossibile: poichè pretendono che si
dica il contrario di loro, e cominciano intanto col dirlo essi (').
Se le cose non tutte sono relative, ma alcune soltanto, e altre
sono in sè e per sè, allora non potrà tutto ciò che appare, esser vero. Poichè,
ciò che appare, appare a qualcuno: di modo che, chi dice che tutto ciò
che appare è vero, fa tutte le cose relative. Perciò quelli che chiedono
di essere confutati per forza discorsiva
se tuttavia acconsentono di discutere ragionevolmente , bisogna
che facciano bene attenzione che non c’è ciò che appare semplicemente, ma
c’è ciò che appare a chi appare, e quando appare, e in quanto e
come appare. Se vogliono discutere, ma non in questi termini, accadrà loro ben
presto di dire cose tra loro contrarie (*). Può, infatti, alla stessa persona
una cosa parer miele alla vista, e al gusto no; e non parer identica una
stessa in considerazione, e coloro che ne cavan :notivo per nera
esercitazione discorsiva. I trapassi, tuttavia, dalla considerazione di un
gruppo o dell'altro, o di ciò che essi hanno in comune, non sono
abbastanza netti. Può darsi che il testo sia atato in qualche parte
disordinato. Intendo: pretendono
che altrî dimostri il contrario di ciò che dicono: ma, com’ è possibile
ciò, se già essi lo affermano? V. nel Ross gli altri tentativi: d'interpretazione.
Cose tra loro contrarie essi
possono dirle soltanto se escono «indll’atto. omnimode determinatus del
conoscere. Ma, se accettano la determinazjfone, non: riuscirà a ]Joro
più. 2 (uh) | 6 de)
10 cosa alla vista di ciascuno dei due occhi, se sono
disuguali. Coloro che, per le ragioni già dette, van dicendo esser
vero ciò che appare, e però tutto ugualmente vero e falso, perchè non a
tutti le cose appaiono le stesse, e neppure a uno stesso sempre, e spesso
appaiono contrarie anche nello stesso tempo (il tatto, per es., se
s'intrecciano le dita, dice che son due gli oggetti, la dove la vista ne
dà un solo), quei tali, dunque,
badino che in realtà, qui, le sensazioni non riguardano lo stesso senso,
e per lo stesso rispetto, e nella stessa maniera, e nello stesso tempo:
per cui vero’ sarà ciò che appare solo se è così determinato (‘).
Ma, appunto per ciò, quei che parlano non perchè dubitino, ma per parlare, si
troveranno forse costretti a dire, non «questo è vero >, ma «è vero a
questo ; e quindi, anche, come si disse dianzi, dovranno far tutto
relativo, all'opinione e al senso, sì che se non si presupponesse
l’opinione di qualcuno, in realtà non ci sarebbe stato e non ci sarà mai niente
(*). Che se, invece, qualcosa fu o sarà, è chiaro che non tutto è
questione di opinione. Inoltre, se l’oggetto è uno solo, bisogna che sia
in relazione a uno solo o ad altri in numero determinato: che se una
stessa cosa si trova insieme ad essere metà e uguale, non è relativamente
al suo doppio ch’essa è uguale (?). E quanto a colui che opina, se la
realtà dell’uomo è anch’essa oggetto di opinione, non sarà uomo chi opina,
ma Così determinato l'atto,
esso spiega le differenze, non solo tra individui diversi, ma anche nello
stesso individuo, dipendendo queste o dalla cosa che ha potenza di
produrre sensazioni diverse o contrarie, ovvero dalle condizioni e dall’uso
degli organi, ovvero dal giudizio (talvolta errato) che l’anima trae dal
confronto delle sensazioni o di queste con precedenti immagini (v. dianzi la
possibilità «dlell'errore nei sensibili per accidente, e la distinzione
tra sensazione e fantasia; e cfr. anche De An.,, III. 3, 428a, 11: «Le
sensazioni sogo' sempre vere, invece le fantasie nascono il più delle
volte false : di qui, gt possibilità del vero e del falso nella
déta). Come dianzi per la
sensazione, così qui per l'opinione: il soggettivismo è assurdo per
A. (9) Si riannoda al pensiero precedente al $ 8: anche fatto tutto
relativo, se la relazione vien determinata ne’ suoì termini
esattamente, essa non è mai con tradittoria. l'oggetto opinato. Ma,
siccome ogni cosa è quale è chi l’opina, costui sarà infinite specie di
cose (‘). Che, dunque, l’opinione più salda di tutte è questa, che
le affermazioni opposte non possono esser vere insieme; e a quali
conseguenze vadan incontro coloro che la impugnano, e quali ragioni li
muovano a ciò, si è detto quanto basta.
Ora, posto che è impossibile che si verifichi la contradizione nello
stesso tempo e per il medesimo rispetto, è manifesto altresì che neppure i
contrari possono trovarsi insieme nello stesso soggetto. Poichè uno dei
contrari non esprime altro che la privazione: la privazione della
sostanza. Ma la privazione è la negazione d’un certo genere determinato.
Se, dunque, è i mpossibile che l’affermazione e la negazione siano
vere nello stesso tempo, dovrà anche essere impossibile che i contrari si
trovino insieme (?), a meno che entrambi non si trovino in una certa
maniera soltanto, ovvero }’uno in una certa maniera soltanto, e l’altro
semplicemente. CapitoLo VII. Delle due parti della
contradizione non si dà mezzo, ma è necessario che o si affermi o si
neghi, e che, quel che si afferma o nega, sia una sola cosa di una sola.
Questo diventa chiaro appena ci si faccia a definire che cosa è il vero e
il falso. Falso è dire che l’essere non è, o che il non-essere
è; Ripiglia il pensiero del $ 8: se tutto è relativo all’uomo
(Protagora), l’uomo stesso che cos'è? Da una parte, non esistendo altro
che l'oggetto di opinione, l’uomo non è più il soggetto pensante, ma quello
ch'è pensato; dall'altra, anche in quanto soggetto pensante, per la
reciprocità protagorea (di cui alla fine del capitolo precedente), egli
esisterà come è nella relazione a ciò che pensa, e sarà un opinante
d'infinite specie: tante, quante sono le specie degli oggetti opinati, in
rispetto ai quali egli è un opinante sempre diverso (data la varietà
continua delle cose opinate). In conchiusione, neppur l’uomo esiste.
Ho tradotto come se il xgòds della 1. 12 non ci fosse (così il cod. E).
Mantenendolo: «costui sarà (tale) in relazione a un numero infinito di specie
di cose (e quindi sempre diverso).
Salvo che in potenza, o l’uno in atto e l’altro in potenza; o l’uno
sotto un aspetto, e l’altro sotto un altro, ecc. 11
12 ro (ce i vero è dire che l’essere è, e
il non-essere non è. Per cui, anche, chi dice che una cosa è, o non è(‘),
o dice il vero o dice il falso; invece, se si desse il mezzo, nè
dell’essere sì direbbe che è o non è, nè del non-essere. In
secondo luogo, quel mezzo della contradizione dovrebbe essere o a quel modo che
il grigio è in mezzo tra il nero e il bianco, ovvero tra uomo e cavallo
un terzo ente che non sia nessuno dei due. Se fosse in quest’ultimo
modo; non ci sarebbe mutamento (perchè mutamento si ha quando dal
non-buono si passi al buono, o da questo a quello): invece lo si vede
ognora, ed è tra contrari e intermedi, e non altrimenti. Se poi il mezzo fosse
come un intermedio, si avrebbe anche così una generazione del
bianco che non verrebbe dal non-bianco: ora, nessuno l’ha mai vista
(*). In terzo luogo, tutto ciò che pensa e intende (°), il pensiero o lo
afferma o lo nega: questo è chiaro dalla definizione stessa del vero e del falso
(‘). Vero è il pensiero quando, affermando o negando, unisce le nozioni
in un certo modo; quando, invece, in un certo altro, è falso. In
quarto luogo, quel mezzo, se uno non fa questione di parole, dovrebbe
essere al di lA di tutte le contradizioni, per cui uno neanche direbbe nè
il vero nè il non vero. E sa Non
«chi dice che questo (toùto 0 èxgsivo, che altri aggiungono intendendo del
mezzo) è 0 non è: perchè del mezzo non si dice che è o non è. Per quel
che segue: «Ille quì ponit medium inter contradictionem, non dicit quod necesse
sit dicere de ente esse vel non esse, neque quod necesse sit de non ente:
S. Tom. ($ 720). O quel terzo (il
mezzo) è negativo (né uomo né cavallo),
e il divenire non ha luogo perchè ci vuole un termine positivo e una
realtà comune ai due termini tra cui avviene (il «non buono , ad es., se
diviene, passa in un termine positivo, e questo, d'altronde, non può
essere, poniamo, il « bello ); ovvero è positivo (e bianco e nero), e il
divenire non avviene neppure in questo caso, perchè il termine negativo è
indispensabile e la realtà da realizzare non può esser quella già
realizzata (nell'esempio, considera il grigio come già, insieme, bianco e
nero, attualmente). L'attività
logica (della Su&vora) porta all'intuizione della verità (propria del
vote). Posta al $ 2.I1 giudizio è
sintesi di nozioni, rapporto (affermativo o negativo) tra soggetto e
predicato. rebbe al di là (') dell'essere e del non-essere, per cui
dovrebbe esserci anche un mutamento diverso
da quello che consiste nel nascere e perire. In quinto
luogo, quel medio dovrebbe esserci anche per quei generi di cose, in cui
la negazione importa immediatamente il contrario (*): nei numeri, ad es.,
dovrebbe esserci un numero che non fosse nè dispari nè non-dispari. È
impossibile: basta la definizione a vederlo (‘). In sesto luogo, si
andrebbe, in tal modo, all’ infinito: le cose sarebbero non soltanto
accresciute di metà, ma più ancora, perchè si potrà sempre daccapo negare quel
terzo, e costituire tra l’affermazione e la negazione sempre
qualcosa di nuovo, di natura diversa (°). In fine, quando uno,
richiesto se una cosa è bianca, risponde di no, che altro ha egli negato se non
l’essere? E la negazione di esso è il non-essere (°). Questa
opinione è sorta in alcuni per la stessa via di altre non meno strane:
non riuscendo a cavarsi fuori da argomentazioni eristiche, si arrendono e
acconsentono che sia vero quel che se n’è conchiuso. Questi, dunque,
parlano per mao. Gli altri interpretano come un
«per. Tenterei di differenziare un po’ di più questo argomento dai
precedenti. Nota, per la 2 parte del paragrafo (che passa dalla
considerazione logica a quella reale), che il discorso è pur sempre
intorno al mondo del divenire, dove soltanto ha luogo l’antitesi di essere e
nonessere e dei contradittorii.
Intendi: un mutamento sosta:ziale diverso. Chè è in quello che ha
luogo più propriamente l’antitesi essere-non essere. In questi contrari mancano intermedi, e come
non c’è processo di generazione, così l'affermazione di uno importa
immediatamente l’esclusione dell’altro. È un caso di contrarietà in rerum
natura equivalente alla contraddizione logica (l’unica differenza è che
alla negazione non-dispari corrisponde la realtà positiva del pari). La definizione divisoria del pumero in pari e
dispari. (5) Più semplice l’interpretazione di Alessandro, così
schematizzata dal Ross: Se tra A e non-A c'è B [che sarebbe un terzo modo
di essere di A, nè affermato nè negato soltanto, e però accresciuto di
una metà), ci sarà anche C tra B e non-B, e D tra Ce non-C, e così di
seguito. (6) « Argomento cavato dalla natura del discorso. Il sì e il no
esprimono il primo un'affermazione e non insieme una negazione, e il
secondo una negazione e non insieme un’affermazione. E l’affernazione e
la negazione non indicano se non che o sia © non sia quella tal cosa di
cui si parla: Bonghi (p. 201). motivi di questo genere; altri, perchè
vogliono che si dia ragione di tutto. Con tutti costoro bisogna cominciar
dalla definizione, e la definizione vien fuori obbligandoli a dar
un significato a quel che dicono: il concetto, di cui la parola è
segno, diventa definizione ('). La sentenza di Eraclito, che tutto è e
non è, par che autorizzi a far vera ogni cosa; quella di Anassagora, invece,
a porre un mezzo della contradizione, sì che ogni cosa sarebbe
falsa; chè, quando tutto è mescolato, il miscuglio non è nè buono nè
non-buono, onde non se ne può dir nulla di vero. CapiTtoLO VIII.
Ciò determinato, è facile vedere che ciò che si dice delle cose in
generale non si può ridurre ad affermazioni di una sola specie, così come
fanno alcuni, i quali o van dicendo che niente è vero (niente impedisce,
secondo essi, che tutto stia come il rapporto della diagonale al lato)
(?); ovvero van dicendo che tutto è vero. Son discorsi, questi, in
fondo, uguali a quello di Eraclito: poichè, chi asserisce che tutto
è vero e tutto è falso(*), asserisce anche ciascuna di queste (Per questo paragrafo e s.). Non riuscendo a
vedere l’errore dei ragionamenti eristici, aleuni ne accettano le
conchiusioni, e tolgon valore, così, al principio di non contraddizione,
e a quello connesso «del terzo escluso. Altri muovono da ragionamenti non
eristici. In entrambi i casì, si cominci con esigere un significato
determinato di ciascun termine, Questo fu raccomandato già (4, 5 ss.) per
la difesa del principio di non-contraddizione, e ora vien raccomandato
anche per la difesa del principio del terzo escluso, perchè, in effetto,
chi, come il supposto seguace di Anassagora, pone quel terzo (che non è
nè l’una nè l’altra parte della contradittoria), fa che delle cose non si
possa mai dir nulla di determinato: cfr. 4, 25. Lett.: «l’essere il diametro commensurabile.
Ossia: ogni cosa è in sè contradittoria (come chi dicesse: « diametro
commensurabile ). Intendo: chi
asserisce che si può dire che tutto è vero e tutto falso îndifferentemente (se,
secondo Eraclito, tutto è e non è), costui vien a dire che son giuste
anche le due enunciazioni separatamente prese: che tutto è vero (tanto
l’essere quanto il non-essere), o tutto falso. Comunemente vien inteso, invece,
che «chi dice che tutto è vero e tutto falso insieme, dice anche le due
cose separa- cose separatamente, sì che, se la prima asserzione è
insostenibile, insostenibili sono anche queste separate. Ed è evidente 3
anche che sono contradittorie quelle che non possono esser vere insieme.
E neppure possono entrambe esser false: quantunque questo secondo caso, per le ragioni
dette, possa sembrare meno improbabile (‘). Con tutti coloro che fan
discorsi di questa specie bisogna 4 comportarsi come s’è consigliato
anche addietro (?): non esigere che dicano se una cosa è, o non è, ma che diano
un significato a quel che dicono: di modo che dalla definizione si
possa passare alla discussione, quando siasi stabilito quel che
significhi il falso o il vero. Se enunciar il vero non è 5 altro che
negare ciò ch’è falso(?), è impossibile che tutto sia falso, poichè è
necessario che una delle due parti della contradizione sia vera. Poi, se
ogni cosa si deve o affermare 6 o negare, non si può essere nel falso in
entrambi i casi, perchè una sola delle due parti della contradizione è
falsa. A questi e simili ragionamenti succede, poi, quel che 7
tutti sanno: essi si distruggono da se stessi. Chi dice, infatti, che
tutto è vero, ta vero anche il ragionamento contrario al suo, e però
dichiara non vero il suo (tale, infatti, lo dichiara l’avversario). E chi dice
che tutto è falso, si dichiara nel falso da sè (‘). Che se si ammettono
eccezioni, e il primo 8 tamente , Il che, evidentemente, è falso.
Così, per quel che segue, che sarebbe da tradurre: «se sono impossibili
prese separatamente, anche la loro unione è impossibile. Alessandro (397)
dà entrambe le interpretazioni.
Se le contradittorie sono semplicemente contratie (ossia, se si
considera la negazione positivamente). Le «ragioni dette potrebber'essere, in questo caso,
quelle del 8 3 del capitolo precedente, in cui si accenna alla possibilità che
uno intenda la contraddizione nel senso della contrarietà. Alessandro,
invece, ricorre alle dottrine di Eraclito e di Anassagora, le quali
favoriscono piuttosto l'opinione che non si possa affermar nulla di vero,
come anche A. dice alla fine del capitolo precedente (la dottrina
eraclitea è stata, nel paragrafo precedente, avvicinata a quella
anassagorea). Cfr. 4, 5. Quel che
significhi il falso o il vero: nel Singolo caso. Cfr. cap. prec., 9.
(8) Il testo è guasto: ho seguito la correzione proposta dal Ross (el 8è
unttèv diio tò &Ainttès pévat fi (5) drogpdvar yeidée totv).
Così anche in Teeteto. dice che
soltanto quello dell'avversario non è vero, e il secondo che soltanto il suo
non è falso, allora, essi si troveranno
a postulare sempre altri ragionamenti, veri e falsi, a sostegno di quanto
affermano: poichè vero sarà riconoscere per vero il ragionamento che è
vero, e così si andrà all'infinito (‘). Evidentemente, il vero non lo
dicono nè quei che affermano che tutto sta fermo, nè quei che affermano che
tutto si muove (?). Se tutto stesse fermo, vero e falso sarebbero
eternamente gli stessi, invece si vede bene come tutto muta quaggiù.
Colui che parla, lui stesso un tempo non era, e un tempo non sarà. Ma se
tutto si muove, non ci sarà nulla di vero, e però tutto sarà falso: noi
abbiamo mostrato che questo non è ammissibile. Inoltre, il mutare
presuppone l'essere, poichè il mutamento è da qualcosa a qualcosa.
E neppure si può dire di ogni cosa che talora soltanto, non
x Nel 1° caso: È falso che
tutte le affermazioni sono vere. È falso
ch'è falso che tutte le affermazioni sono vere, ecc.; nel 2° caso: È vero
che tutte le affermazioni sono false.
È vero che ò vero che tutte le affermazioni sono false, ecc. Nel
1° caso son tutte affermazioni false che, chi sostiene che tutto è vero,
deve attribuire al contradittore; nel 2° tutte affermazioni vere che, chi
sostiene la tesi che tutte le affermazioni sono fulse, deve riconoscere
come proprie. Così vero e falso, presi uno fuori dell’altro, trapassano
immediatamente l’uno nell’altro: chi dice cho tutte le affermazioni sono
vere, è costretto a riconoscerne infinite false; chi dice che tutte sono
false, deve riconoscerne infinite vere. Vero e falso, invece, sono uniti,
per A., nella sintesi contradittoria, dove, soltanto, l'uno dà senso
all’altro. Si può notare in questa concezione la tendenza già a
dialettizzare il pensiero in sè e per sè. L’astrattismo platonizzante e
le asigenze discorsive prendono, tuttavia, il sopravvento: vero e falso
si escludono senza mediarsì, in fine; e il principio di non
contraddizione resta un presupposto (l'assioma supremo), una
pregiudiziale, puramente negativa, della pensabilità del reale in generale
(la prima condizione logica del pensiero empirico). Anche il principio
del mezzo escluso, anzichè fondare il valore assoluto della sintesi
contradittoria per l'attività pensante (ch'è îl medio concreto in cul
l’antitesi si risolve senza residuo), vien aggiunto semplicemente come
corollario: chi lo nega, nega il principio di non contraddizione, e cade,
infine, così come chi nega questo, nell'inileterminato. Il pensiero
empirico, infatti, per la determinatezza del reale vuole l’immediatezza della
distinzione e opposizione del vero al falso. Ricorda che quiete e moto già al $ 15 del
cap. 2 furono citati come una contrarietà riducibile a quella dell’uno 6
del molteplice, dell’essere e del non-essere. eternamente, sia in quiete o
in movimento. C’è qualcosa che sempre muove ciò ch’è mosso, e il primo
motore, esso, è immobile ('). «Posset aliquis credere quod, quia non omnia
moventur nec omnia quiescunt, quod ideo omnia quandoque moventur et quandoque
quiescunt: S. Tom. (748). Invece, il cielo (delle stelle fisse) muove
sempre, mosso esso stesso, e Dio muove questo sempre, immobile in se
stesso. Un pensiero analogo trovammo nel cap. 5, 5 è 16-17. La questione
qui accennata è discussa in Plys. Dicesi principio (') di una cosa quello da
cui si può cominciare il movimento: della linea, per es., e della via c’è
un principio da questa parte, e un altro dalla parte opposta. Ovvero,
quello da cui una cosa riesce meglio: per es., nello studio si deve
cominciare talvolta, non dal principio primo di una cosa, ma da quello
che s'impara più facilmente. Ovvero, la parte di una cosa da cui questa ha
origine: per es., la chiglia di una nave, le fondamenta di una casa;
negli animali, alcuni credono che tale parte sia il cuore (?),
altri il cervello, altri qualcos'altro. Ovvero, ciò che dà origine
a una cosa senza farne parte, e da cui primieramente potò aver
’Aexî: se ne dànno i significati
principali (1-6), nel comune modo di parlare. È difficile metter un ordine
rigoroso in questi qui enumerati, e far corrispondere n essi esattamente quanto
riassumendo enumera e distingue nel $ 8. Nè c’è rapporto qui con la
discussione fatta nel lib. I intorno all’àgyf in senso metafisico e con
la distinzione delle quattro specie di esso: benchè di queste sia facile
trovar l'equivalente anche nell’enumerazione presente (2, causa finale;
3, c. materiale-formalo; 4, c. efficiente; 5, c. efficiente-finale; 6, c.
formale). C'è, in più, la distinzione tra l’esser il principio intrinseco
o estrinseco alla cosa (così nel $ 8: natura ed elementi son principii
intrinseci; pensiero e deliberazione, estrinseci). Qui, dunque, è. si
potrebbe tradurre con «cominciamento , « inizio o «punto di partenza , «
fondamento , «causa od «occasione
; principii sono anche i «primati» della città (5); anche oggi si parla
di principii nel senso di «rudimenti » , o di «principii logici
»(6); e via dicendo. Il cuore è
la parte principale per A., come per Empedocle e Democrito; il cervello,
per Alemeone, Ippone, Platone. nizio il movimento o mutamento: per es., il
figlio dal padre e dalla madre, la contesa da un’ingiuria ('). Ovvero ciò
dalla cui deliberazione dipende se qualcosa si muove o si muta: per
es., i magistrati nelle città, gli oligarchi, i re, i tiranni; e
principii diconsi in questo senso anche le arti, specialmente quelle che
sovrastano alle altre (*). Inoltre, ciò da cui primieramente una cosa è fatta
conoscibile, anch’esso dicesi suo principio: per es., ciò che vien
premesso nelle dimostrazioni (*). In altrettanti modi si parla di cause,
poichè tutte le cause son principii (*). Ciò ch’è, dunque, comune
a tutti i principii è di esser ciò da cui primieramente una cosa è, o
diviene, o è conosciuta; e di essi alcuni sono insiti nella cosa, altri
esterni. Son principii, quindi, la natura, gli elementi, il pensiero,
la deliberazione, la sostanza e il fine (*): poichè per molte cose
ciò ch’è buono e bello è principio insieme di conoscenza e di
movimento. Causa dicesi, in un senso, ciò di cui una cosa è fatta:
per es., il bronzo di una statua, l’argento di una coppa, e La contesa da un'ingiuria: son parole prese
da un verso di Epicarmo, come risulta da De Gen. An., I. 18. 7242, 29.
Le arti qui chiamate «
architettoniche » sono soprattutto quelle che mirano alla pratica: così
in Ethica Nic., I. 1. 1094 a, 14, Ma anche la filosofia è considerata
così, in rispetto alle altre scienze, in Afet., I. 2, 5 e 12. al irmodéoev sono certamente anche «le
premesse » (Bonitz, Waitz, ece.), come appare dal passo che vien poco
dopo in b, 20 (2, 8). Ma non mi sembrano da escludere qui i principii
(propri e comuni) delle dimostrazioni.
Cfr. IV. 2, 5 (come per erte e uno). Principio e causa sono spesso
sinonimi in A., che unisce anche î due concetti (specialmente per la scienza
dei « principii e cause prime »). Qui principio nel senso del $ 1 non si
potrebbe considerare come cause; ma neppure tutte le cause son principii in
senso metafîsico. Causa accenna meramente a un rapporto tra due fatti,
laddove «principium ordinem quemdam importat » (S. Tom., 761), e accenna
piuttosto alla ragion d'essere di tutta la serie delle cause. (5)
La sostanza e il fine: la frase raccoglie oscuramente le quattro specie
di causalità. (6) Questo capitolo ripete quasi letteralmente il 8°
del libro II della Phys., 2 i loro generi (‘); in un
altro, la specie o esemplare (?), cioè il concetto della pura essenza, ed
i suoi generi (nell’ottava, per es., il rapporto di due a uno, e in
generale il numero), 3 così come le parti di esso concetto. Inoltre, ciò
da cui ha principio immediatamente il mutamento o il suo contrario:
per es., il deliberare è causa dell’agire; il padre, del figlio; e in
generale, chi fa è causa del fatto, ciò che produce un mutamento, di ciò
che muta. d Causa dicesi anche rispetto al fine, ossia ciò per cui si
fa qualcosa: per es., si passeggia per la salute. Diciamo: perchè
passeggia? per acquistar salute; e riteniamo, così rispondendo, di aver
enunciato la causa. Ma così anche per le cose intermedie tra ciò che
muove e il fine: per es., per la salute il dimagrare, il purgarsi, le
medicine o i ferri del medico: le quali cose sono tutte per il fine, e
differiscono tra loro in quanto alcune sono strumenti, altre sono azioni.
5 Si può dire che questi son tutti i sensi in cui si parla di
cause; e poichè i sensi son diversi, ne segue che di una stessa cosa ci
son cause molteplici, non accidentalmente (?): per es., di una statua lo
scultore e il bronzo son cause non per altro rispetto che in quanto è
statua: sebbene non nello stesso modo, ma l’uno come materia, l’altro
come principio del movimento. 6 E ci sono cause reciproche: così,
il lavorare è causa di buona salute, la buona salute del lavorare: ma non
nello dal quale sembra esser stato preso (o posto qui da A. stesso
?). È degno di nota che l’ordine, col quale vengono enumerate le quattro
specie di causalità, non è sempre lo stesso in A., ma varia con la natura
della ricerca. Nel lib. I, cap. 3° della Met. vedemmo enumerata per prima
ìa causa formale, poi la materiale, poi quella motrice e finale. Quì,
ossia nella Fisica, è invertito l'ordine delle prime due. In De Gen. An.
(I. 1. 715 a, 4) precedono la finale e la formale. Negli Ana/. Post. (II.
11. 94 a, 20) comincia dalla formale, e per causa materiale, subito dopo, dà
quel che nella logica ne tiene il luogo, le premesse di un sillogismo
(queste, infatti, son citate qui, al $ 8, tra gli esempi di causa
materiale). In De Somm., (2. 465 b, 16) son prima la finale e la motrice.
I loro generi: v.$ 9 88.
Esemplare: termine platonico,
adoperato qui, con allusione all’arte, per der rilievo a quello di
specie, 0 forma, nel senso della pura essenza. Bon cause proprie: cfr. S 10.
1018 db 140° METAFISICA y stesso modo, perchè l’una è come
fine, l’altra come principio del movimento. Inoltre, una stessa
cosa è causa, talvolta, dei contrari: ciò che, presente, è causa di certa
cosa, talvolta l’accagioniamo, assente, del contrario: per es., del
capovolgimento della nave incolpiamo l’assenza del nocchiero, la cui
presenza era causa di sicurezza: entrambe, la presenza e la privazione,
sono cause rispetto al movimento. Tutte le cause ora menzionate
riguardano i quattro significati più evidenti. Le lettere dell’alfabeto, la
materia delle cose artificiali, il fuoco, la terra e gli altri elementi
dei corpi, le parti del tutto, le premesse della conchiusione, son
cause in quanto sono ciò da cui risulta costituita una cosa; ma
alcune come sostrato (per es., le parti), altre come pura essenza (l’intero
(‘'), la sintesi e la specie). Il seme, il medico, il consigliere, in
generale ciò che produce qualche effetto, son tutte cause nel senso che
da esse ha principio il mutamento o la quiete. Altre sono cause in quanto sono
il bene e il fine delle altre cose, poichè, ciò per cui queste
sono, vuol esser l’ottimo e il loro fine. E non si faccia
differenza qui tra il bene reale e quello apparente (?). Tali e
tante, dunque, son le specie delle cause; e anche i loro modi(*), per
quanto numerosi, si riducono a pochi capi. Parlandosi, infatti, delle
cause in molti modi, anche di quelle d’una stessa specie, alcune son tali
in grado primario, altre secondariamente: causa della salute, ad es., è
«Non la somma delle parti, ma ciò
che s'aggiunge a queste: l’interezza e perfezione » (Aless. 351, 27).
Così, per la sintesî. E però ciò da cui risulta costituita una cosa è da
intendere, non semplicemente come «ciò di cui una cosa è fatta » ($ 1),
ma nel senso del sinolo. Materia e forma son due principiì immanenti in ogni
caso alla natura di una cosa (diversamente dalla causa efficiente e
finale). Il bene reale e quello
apparente muovono ugualmente: «non è necessario che una cosa sia
realmente buona e piacevole perchò si desideri, ma basta che paia »
(Top., VI. 8. 146b, 36). ui Per
ciascuna specie di causalità A. distingue vari modi, dei quali alcuni
sono cause più immediatamente, altri meno. il medico, e anche il pratico
(‘); e dell’ottava è causa il rapporto di due a uno, e anche il numero; e così
sempre ciò che comprende ciascun particolare. Ci sono, inoltre,
cause accidentali (?), e generi di. esse: per es., lo scultore è causa
della statua in un senso; in un altro, la causa è Policleto, perchè lo
scultore, per avventura, è Policleto; e così dicasi dei generi
comprendenti l’accidente: per es., causa della statua è l’uomo, o, più in
generale, l’animale, perchè Policleto è uomo, e l’uomo è animale.
Inoltre, degli accidenti, alcuni son cause più remote, altre più
vicine: come se uno dicesse che causa dellu statua è, non soltanto
Policleto o l’uomo, ma l’esser bianco o musico. E tutte, poi, o che tali
siano propriamente, o per accidente, si dicono cause o perchè hanno la
potenza di agire, o perchè agiscono: per es., della casa che si
costruisce la causa è chi sa costruire, ovvero colui che la costruisce.
Similmente per gli effetti delle cause: ad es., si dirà che una
cosa è causa di questa statua qui, o di una statua, o di un’immagine in
generale, e di questo bronzo qui, o del bronzo o materia in generale (*);
e nello stesso modo per le cause accidentali. E queste si potranno anche
unire a quelle proprie, dicendo, adesempio, non Policleto, nè lo
scultore, ma Policleto lo scultore. E tuttavia tutti questi modi si
riducono a sei di numero, e di ognuno si parla in due sensi. Cause sono o
quanto al Il pratico: 6
teyviuns (termine più generale). Ciascun
particolare (xaî'éxaota): qui «individuo» e «particolare» (e così i
concetti opposti corrispondenti di universale e generico) non sono distinti:
cfr. I. 1, 9, nota. Le precedenti
son cause proprie. Della statua la causa propria è lo scultore, non Policleto
in quanto è semplicemente un individuo umano: tanto meno l’uomo, e tanto
meno ancora l'esser bianco (ch'è un attributo di Pol. in quanto meramente
uomo). Per quest’« accidentalità » generica di uomo rispetto all’ individuo,
cfr. $ 8 del I. 1, ora cit., e nota, Noto qui che ho tradotto
letteralmente sempre povorxés con musico, per comodità di espressione: è
noto che il termine greco vuol indicare anche «chi è educato nelle arti e
nelle scienze», l'uomo «colto », «istruito », ecc. Il bronzo è causa (materiale), « ma qui può
esser preso, non come causa, ma come effetto: ci può essere una causa
metallica che produce il bronzo » (Aless. 353, 17). O, come suggerisce il
Ross, chi lo prepara per lo scultore. 1014 a 142
METAFISICA particolare, o al genere di esso; ovvero quanto
all’accidente, o al genere dell’accidente; ed entrambi i modi o vengono
congiunti insieme, o si considerano separatamente. E tutte, poi, o son
riguardate in atto, o in potenza('). Con questa differenza: che le cause
in atto e quelle particolari sono e vengon meno insieme alle cose di cui
son cause: per es., questo medico curante insieme a costui che sta risanando,
questo costruttore (?) insieme alla casa che si sta costruendo; invece,
non è sempre così per le cause in potenza, perchè insieme con la casa non
perisce il costruttore. CaPITOLO III. Elemento dicesi
quel primo (*) di cui risulta composta una cosa, e la cui specie non è
riducibile ad altra: come, ad es., gli elementi della voce, dei quali
risulta composta la voce, e in cui questa si risolve alla fine; sì che
essi a lor volta Parrebbe che le sei classi
dovessero essere: proprie 0 accidentali, particolari o generali, attuali 0
potenziali. Ma, poichè A, considera le particolari equivalenti alle proprie, si
ha in 9-11: proprie e i loro generi, accidentali e i loro generi, attuali
e potenziali. Qui ha luogo un altro spostamento: 1) particolari (==
proprie), e 2) generalità di esse; 3) accidentali, e 4) generalità di esse; 5)
particolari prese insieme con gli accidenti (lo scultore Policleto), e 6)
generali prese insieme (l’uomo pratico). Aggiungendo il criterio dell'attualità
o potenzialità a tutte sei, diventerebbero 12. Ma: a) l'unione dei primi
quattro modi non è data come necessaria; b) l'attualità non può spettare
alle generalità, e in effetto A. parla qui di cause particolari. Si che,
in conchiusione, il criterio più chiaro della classificazione è quel
primo. Sott. «che sta
costruendo». Nell’esempio bisognerebbe, propriamente, considerare
l’effetto nel processo del diyenire: se no, non c'è bisogno che l’individuo
risanato muoia o la casa costruita rovini, per che îl medico e il costruttore
restino come potenze (di altri effetti). (Ric., a proposito di
‘quest'ultimo, l'istanza del tessitore e dell'abito nel Fedone).
Nel greco è aggiunto «insito»
(8vurdgyovtosìi, che indica il carattere distintivo di elemento
(principii e cause possono non esser insiti). Perciò in XII. 4. 1070b, 22
si chiamano elementi la specie, la privazione e la materia. Cfr. nota a
lib. I. 8, 10. Un altro carattere è dato dall'essere specificamente
indivisibile, sì che la materia si trova negli elementi già in parte
attuata e determinata: così nei c. d. corpi semplici (divisibili
quantitativamente, non qualitativamente: una sillaba, invece, si divide
in lettere qualitativamente diverse). non possono più risolversi in altri di
specie diversa dalla loro, ma, quand’anche vengano divisi, danno luogo a
parti della stessa specie, così come dividendo l’acqua si ha acqua
(non così per la sillaba). Similmente, coloro che parlano degli elementi
dei corpi, intendono ciò in cui si risolvono i corpi alla fine, e che non
è riducibile più ad altro di specie differente: e, o ne ammettano uno solo o
più, questi essi chiamano elementi. Parimenti dicasi degli elementi delle
figure geometriche (') e delle dimostrazioni in generale: le
dimostrazioni prime ed implicite in molte altre, quelle appunto si
chiamano elementi delle dimostrazioni: di tal futta sono i primi
sillogismi (*) risultanti di tre termini, di cui uno è il medio. °
Di qui viene che per metafora si chiami elemento ciò che, essendo uno e
piccolo, può servire a molte cose, sì che anche ciò ch’è piccolo,
semplice e indivisibile si chiama elemento. E di qui viene che si
considerano come elementi le cose più universali, perchè ciascuna di
esse, essendo una e semplice, si trova in molte cose, o in tutte o nel
maggior numero (*): donde, anche, l’unità e il punto sembrano ad alcuni
che sian principii. Ora, poichè i così detti generi sono universali
e indivisibili (chè di essi non si dà definizione), alcuni chiamano
elementi i generi, e più questi che le differenze, perchè il genere è più
universale: infatti, dove c’è la differenza, il genere non manca mai, ma
non sempre dove c’è il genere, c’è anche la differenza. Tutti
questi significati hanno questo in comune: che elemento di ogni cosa è quel
primo che la costituisce. O
«proposizioni », « teoremi », « dimostrazioni », ecc,: efr. III. 3, 2.
Forse «sillogismo» qui vale
ragionamento in generale, e «primi sillogismi» son le figure del sillogismo
propriamente detto. Per il Ross sono «i sillogiemi primari (opposti ai soriti),
aventi soltanto tre termini e un unico medio ». Questi sono universali che hanno ancora
qualche contenuto; quelli son generi sommi, indefinibili (mediante il
genere e la differenza specifica): tali volevan essere l'Uno e l'Ente dei
Pitagorici e dei Platonici (cfr. III. 3). Natura (') si dice, in un
senso, la genesi delle cose che hanno un lor crescimento (come se uno
pronunziasse lungo l’u di quos). In up altro, ciò ch’è primitivo
in una cosa, e da cui questa si svolge (?). In un altro, ciò che
dà il primo movimento a ognuna delle cose naturali, ed è immanente ad
esse in quanto sono quel che sono (°). E diconsi avere un lor
crescimento quante cose aumentano di qualcos’altro per un contatto sì che
le parti siano unite, o aderenti, come negli embrioni, organicamente (*).
Tale unione differisce dal contatto, perchè in questo basta che le
parti si tocchino, mentre in quella c’ è qualcosa d’uno e identico tra l’una e l’altra
parte, che le fa crescere insieme, invece che toccarsi semplicemente, e ne fa
una cosa sola in rispetto alla continuità e quantità, ancorchè non
qualitativamente (5).
L'argomento è trattato, similmente in Phkys., II, 1. A. vuol cavare
l’etimologia di quo da puo, che nella maggior parte dei tempi ha lv lungo.
È dubbio che quos avesse in origine questo significato di yévsau, oltre
quello che anche noi intendiamo per « natura» di una cosa. Forse, come pensa il Bonitz, il seme.
Non estrinseco, dunque, nè
appartenente alla cosa per altra considerazione che l’esser suo proprio (non
così, per es., se uno cade),
(Difficile a tradursi il cuprepuxévar e il mooorepuxévar = aver una
natura in comune, 0 una natura in rapporto con altra, intendendo di
esseri viventi). Il contatto non basta: chò questo può essere, come in un
mucchio «di pietre, un aumento materiale, non un queota: (un crescere nel
senso di svolgimento). Le parti debbono formare un'unità organica; o, se
si tratta di due cose diverse il feto, per es., nel seno della madre),
esser unite vitalmente tra loro. (5) Sembra riferirsi alla diversità
delle parti di un organismo (se non anche all’altro caso accennato, della
simbiosi vera e propria). Un altro punto
un po’ oscuro è quel «qualcos'altro » in principio del paragrafo, che par
accennare al nutrimento: per questo non basta il contatto, certamente;
ina il discorso che segue non sembra più a proposito, perchè, più che la
trasformazione e l’'assorbimento del ‘cibo, riguarda, evidentemente, le parti
di uno stesso organismo o l'unione di due organismi (dove, poi, il
processo di nutrizione, in quanto differisce dal semplice contatto, è lo
stesso). Inoltre, natura dicesi ciò da cui originariamente son costituite
o generate alcune cose naturali, quand’esso sia informe e immutabile
nella potenza che gli è propria: così il bronzo dicesi natura di una
statua o degli utensili di bronzo, il legno di quelli di legno, e via
dicendo: chè da essi vien prodotto ciascuno di questi oggetti, in cui
resta intatta la materia prima ('). E nello stesso modo alcuni chiamano
natura gli elementi delle cose naturali, chi dicendola fuoco, chi
terra, chi aria, chi acqua, chi qualcos'altro simile, chi più d’una
di queste cose, chi tutte insieme. Inoltre, natura vien chiamata, in
altro senso, la sostanza (*) degli esseri naturali, per es., da coloro
che dicono la natura esser la composizione originaria delle cose, ovvero
come Empedocle dice: Niente, di ciò che è, ha una
natura, ma soltanto la mescolanza e separazione delle cose mescolate,
e natura è il nome dato a esse dagli uomini. Perciò, anche, delle
cose che sono o si generano per natura, quand’anche sia presente ciò da
cui naturalmente deriva il loro essere o generarsi, diciamo che non anc ora hanno
la loro natura, finchè non posseggono la specie e la forma.
(AMa 1. 27, con la volgata, ho
omesso il pù: «alcune cose [non] naturali»). Resta intatta la materia prima,
nel senso che il bronzo resta bronzo, anche se con una forma che prima
non aveva (onde, in certo modo, era informe). A. con l’esempio di cose
artificiali vuol dar un’idea della materia in quanto volgarmente è
considerata reale indipendentemente dalla forma: ch’è l’idea da cui
mossero i Fisiologi, studiati nel lib, I. « Dispositiones formae non
salvantur in generatione; una, enim, forma introducitur altera abiecta. Et propter hoc formae videbantur esse quibusdam accidentia, et sola
materia substantia et natura, ut dicitur in 2° Physicorum » (S. Tom., 817). A.
distinguerà, poi, tra materia prima (qui non è in questo senso) e materia
seconda. Sostanza, qui, è
l'essere sostanziale, intimo, delle cose, riguardato dapprima come un cornposto
originario, non quello attuale e immediato: già accennante, così, secondo A.,
al concetto di essenza. Cfr. per Anassagora il lib. I. 8, 10-14. Per
Empedocle, cfr. Diels, fr. 8, dove il passo è riferito integralmente. A.
interpreta la puoars di questi versi empedoclei come « natura permanente ».
Altri, più comunemente, pensano che E. voglia dire che non c'è, in senso
assoluto, generazione o morte di nulla, ma solo mescolarsi e separarsi dei
quattro elementi. Per natura, dunque, ogni cosa risulta di queste due,
materia e forma: per es., gli esseri viventi e le loro parti. E natura è tanto
la materia originaria (e questa di due maniere: o quella ch’è tale in
rispetto a una cosa particolare, o in generale: per es., delle opere in
bronzo è materia originaria (') rispetto a esse il bronzo, ma in generale
è forse l’acqua, se tutto quel che si può liquefare è acqua), quanto la
specie e la sostanza, che è il fine della generazione. E di qui,
per estensione di significato, si dà il nome di natura ad ogni
sostanza in generale, perchè anche la natura è una specie di sostanza
(?). Segue dalle cose dette (*) che natura, nel suo senso primario e
proprio, è la sostanza di quegli esseri che hanno in Se stessi, in quanto
tali, il principio del movimento: poichè la materia si dice natura per la
capacità di ricevere questo principio, e così il generarsi e il crescere
perchè son movimenti che partono di lì. E natura è in questo senso il principio
del movimento degli esseri naturali immanente a essi’ in qualche modo; o
in potenza, o attualmente. CapiToLO V. Necessario
dicesi quello senza del quale, come concausa (‘), non si può vivere: ad
es., il respirare e il cibo sono una cosa necessaria per l’animale: non
se ne può far senza.
Materia originaria (se@tn), in senso generale, qui, è quella del
genere ultimo (primo) di più cose.
Tutto quel che si può fondere o Hanerare è acqua, si dice anche
nel Timeo, 58 d, Quella ch'è
unita alla materia, nel processo del divenire: di qui l’estensione del termine
natura alla sostanza in generale (anche a quelle che son fuori di quel
processo e, come le sostanze puramente intelligibili, prive di materia).
Riassume e conchiude con
l’approfondimento del 3° significato, ch'è il fondamentale. Alessandro (960, 11): « In potenza, come
l’anima nel seme; in atto, quando sia divenuto già un animale: la forma
immanente nella materia (tè Evudoy elbos) è per tutti gli esseri naturali
il principio di quel movimento ch'è la generazione ». cuvattuov: noi diremmo «condizione »
(necessaria, non sufficiente). È una necessità designata altrove come «
ipotetica » (Phys., II. 9. 199 b, 34): tale è anche, per A., la realtà
della materia rispetto alla forma. E quello senza del quale non può
esserci o prodursi il bene, nè si può respingere o evitare il male: il
bere la medicina, ad es., per risanare, e il navigare ad Egina per
esigere il danaro ('). 3 Inoltre, ciò ch'è effetto di violenza e
la violenza (?): cioè, quello che impedisce o contrasta l'inclinazione e
il proposito. Di fatto, ciò ch’è per violenza si dice necessario, e
perciò anche doloroso, come anche Eveno dice: « Poichè ogni cosa
necessaria è molesta di sua natura». E la violenza è una specie di
necessità, come anche Sofocle dice: « Ma la violenza mi fa
necessariamente far ciò ». E la necessità sembra cosa contro cui non val
la persuasione, e giustamente, chè essa è contraria al movimento che si
fa secondo un proposito ragionato. 4 Inoltre, ciò che non può
essere altrimenti diciamo neces ‘ sario che sia così. Anzi, da questo
significato del « necessario» derivano in certo modo tutti gli altri: poichè
allora si dice che uno è forzato a fare o patire di necessità, quando
1016 b non può seguire la sua inclinazione perchè gli è fatta violenza:
chè quella è una necessità per la quale non si può altro. E dicasi lo
stesso per le concause del vivere e del bene: quando non sia possibile nè
il bene, nè il vivere ed esistere senza alcune di. esse, queste sono
necessarie, e la ragione di ciò è, appunto, una specie di necessità.
5 Aggiungi, tra le cose necessarie, la dimostrazione, perchè, se
qualcosa è stato dimostrato assolutamente, non può esser altrimenti; e
causa di ciò son le premesse, dalle quali si fa il sillogismo, se son
tali che non possano esser altrimenti. 6 Delle cose alcune hanno del lor
esser necessarie una causa altra da esse; altre, no: anzi, esse son causa
per cui altre Può darsi che
accenni, come il Christ suppone, a un fatto ricordato in una lettera di
Platone (13*). V. Ross. Per la
fila v. Età. Nic., lib. III. 1, dove il concetto è approfondito: «
forzato (Plavov: l’effetto della violenza) è ciò il cui principio è di
fuori, e tale che, chi opera o chi sopporta, in nulla vi conferisca »
(Cfr. DANTE, Par., IV, 73). E per la xgoalgeo, cap. 26 8: l'impulso,
nell'azione, dev’esser guidato dalla ragione che delibera sul da farsi: donde
il proponimento. Eveno: sofista e poeta,
di Paro, ric. più volte da Piatone.
Sofocle: v. Elettra. sono necessarie. Laonde necessario, nel senso primo
e proprio, è il semplice, perchè questo non può essere in più modi, sì
che non può esser ora in un modo ora in un altro: chè sarebbe, allora,
già in molti modi ('). Se ci sono, dunque, esseri eterni e immobili (?),
nulla c’è per essi di forzato e contro natura. Uno si dice sia per
accidente, sia per se stesso (*). Per accidente, come « Corisco e
musico», e « Corisco musico » : poichè è lo stesso dire « Corisco e musico » e
« Corisco musico». Ovvero: « musico e giusto »; 0: « Corisco musico
e Corisco giusto ». Di tutte queste cose, infatti, l’uno si dice
per accidente: «giusto e musico » perchè accidenti d’una sola sostanza, «
musico e Corisco» perchè il primo è un accidente del secondo. Similmente, in
certo modo, anche « Corisco musico » unito a « Corisco » fa una cosa
sola, perchè in questo discorso c’è una parte ch'è accidente dell’altra:
ossia « musico» di « Corisco ». E così dicasi di « Corisco musico » unito
a «Corisco giusto », perchè entrambi hanno una parte ch’ è accidente
d’una stessa altra (*).
Nota qui (come altrove, 6pesso) l'improvviso passaggio dal pensiero {dove
solo ha un senso la necessità) alle cose. L'impossibilità (la negazione) del
contrario diventa semplicità dell'essere (l’essere in un modo solo), propria di
ciò ch'è eterno (non ora in un modo, ora in un altro). Ma, poi, tra
queste cose rientrano, come qui,tà gta, i principii delle dimostrazioni,
e le pure essenze indivisibili.
Se a immobili si sostituisce immutabili, tra questi esseri (o cose)
eterni ci sono anche i cieli, oltre Dio e le Intelligenze motrici. Anche
in VI. 2. 1026 b, 28 la fila vien messa da parte (riguarda, infatti, l’
Etica) e la necessità posta in opposizione all'accidente. L'uno è qui considerato nelle cose, e insieme
come predicato delle cose ossia riguarda la questione: quando è che le
cose (in sè e nel discorso) hanno unità, o accidentale (1-3), o
essenziale (4-12). La distinzione deriva dal considerarle unite o dalla parte
degli accidenti, o dell'essenza. Poi, si
farà questione dlel concetto in sè e per sè (19-15). Il giudizio qui è coneiderato analiticamente,
anzi verbalisticamente, come accoppiamento di due termini: a) di una
sostanza con un accidente; b) di due accidenti d’una stessa sostanza,
sottintesa; c) di questa sostanza con i due accidenti separatamente
considerati; d) di questa sostanza unita all’accidente con la sostanza
senz'altro. Il caso fondamentale è il primo. Ugualmente se l’accidente si
predichi del genere o di qualche nome universale (‘): si dica, poniamo,
che «uomo > e «uomo musico » è lo stesso: infatti, o si dice così
perchè «musico » è accidente dell’« uomo », ch’è un’unica sostanza;
ovvero, perchè entrambi sono accidenti di qualche individuo, poniamo, di
Corisco (salvo che non gli appartengono entrambi allo stesso modo, ma
l'uno, senza dubbio, come genere e nella sostanza; l’altro, come
proprietà o affezione della sostanza). Questi sono, dunque, i modi in cui
l’uno si dice delle cose per accidente. Invece, di quelle di cui
si dice per se stesse, alcune si dicon così perchè sono continue:
poniamo, a un fascio dà continuità la corda, ai pezzi di legno la colla;
e una linea, se, ancorchè spezzata, sia continua, si dice ch’è una; e
così, anche, ciascuna parte dell’organismo, una gamba o un braccio.
A queste stesse, tuttavia, l’uno si applica meglio se sono continue
naturalmente che se son tali artificialmente. Continuo, poi, si dice ciò
di cui per se stesso il movimento è unico (?), e non può esser diverso;
ed è unico il movimento di ciò in cui esso è indivisibile, e indivisibile
nel tempo. E continuo per sè è ciò che non è uno per contatto
soltanto: che se tu ponessi dei legni l’uno accosto all’altro, non
diresti che facciano nè un legno solo, nè un sol corpo, nè un solo
continuo di altra specie. Ciò che, comunque, è continuo, si dice uno
anche se abbia una piegatura: meglio, tuttavia, se non l’ha: la tibia o
il femore, per es.; più della gamba, perchè il movimento della
Il termine che fa da soggetto nel
giudizio può essere, non un individuo (come nel par. prec.), ma un
genere, o un universale (questo può anche non essere un genere reale, ma
un mero xowvév, come l'uno e l'essere, o un termine negativo, o di
rapporto: cfr. nota a I. 9, 30; VII. 2, 1)
Salvo che, ecc.: dei due accidenti uno è essenziale: cfr. nota a I. 1,
8. Proprietà e affezione (Eku e
xhdog): cfr. nota a I. 5,8.
Cfr. Phys.,V.3-4,in cui si parla più ampiamente del continuo e
dell’unità del movimento. Il passaggio tra i due concetti (che alcuni a
torto rimproverano ad A, di unire insieme) è dato dalla concezione della
natura, dianzi definita come «la sostanza degli esseri che hanno in sè il
principio del movimento », anzîi come «il principio del movimento
immanente a essi. gamba può non esser uno. E la retta è più una di quella
piegata: anzi quella piegata e che fa angolo, la diciamo e non la diciamo
una, perchè il movimento delle sue parti può essere, ma anche non essere,
simultaneo; laddove quello della retta è sempre simultaneo, e nessuna
parte di essa, che abbia grandezza (‘), sta ferma mentre un’altra si
muove, come avviene in' quella piegata. Inoltre, si dice uno, in altro
senso, ciò di cui il sostrato non ha differenze specifiche. E non l’ha in
quelle cose la cui specie sia indivisibile alla sensazione. Tale sostrato
è o quello che si presenta per primo, o l’ultimo rispetto allo stato
finale: poichè e si dice uno il vino e una l’acqua in quanto indivisibili
nella specie; e si dice uno di tutti i liquidi, come dell’olio, del vino, e di
ogni cosa che possa liquefarsi, perchè il sostrato ultimo di essi è lo
stesso, essendo essi tutti acqua o aria. E l’unità si dice anche
per quelle cose di cui unico è il genere pur differenziato dalle opposte
differenze: e tutte queste si dice che sono una cosa sola, perchè unico è
il genere che fa da sostrato alle differenze (per es., cavallo, uomo,
cane hanno qualcosa d’uno, perchè tutti sono animali), e quasi allo
stesso modo come una è la materia (*). Talora, dunque, l’uno si dice così
di queste cose; tal’altra, quando sono le specie infime del loro genere,
si dice che sono una stessa cosa rispetto al genere superiore: al genere,
cioè, ch’è più su del loro: così l’isoscele e l’equilatero sono la stessa
e La linea retta può
roteare soltanto intorno a un punto, che resti immo bile; della spezzata,
uscendo dal piano, anche una parte vera e propria (estesa) può restar
ferma. V. par. prec. Le linee 29-30 hanno un testo incerto, molto
tormentato. E da escludere che A. non conoscesse le regole elementari
della logica ch'egli ha insegnata alla scuola (alcuni commentatori
moderni perdono, talora, questo criterio elementare). Un senso corretto,
dato il testo com'è, sembra questo: quando si tratta delle specie infime
(o generi prossimi all’individuo: cfr. III, 3, 5), la loro unità
(identità) vien riposta, nel comune modo di parlare, talora nel genere
immediatamente superiore (uomo e cavallo hanno in comune l’animalità), talora
in quello ch'è più su (uomo, cavallo, cane, ecc. son tutti ugualmente
esseri viventi): così, dell'isoscele e dello scaleno diciamo che sono
ugualmente figure, anzichò triangoli. unica figura, perchè
triangoli ambedue, ma non gli stessi in quanto triangoli. Inoltre,
uno si dice tutto ciò di cui il concetto che n’esprime la pura essenza
sia indivisibile rispetto (') a un altro esprimente del pari la pura essenza
d’una cosa (chè per se stesso ogni concetto è divisibile). Così, appunto,
una cosa che aumenta o decresce è una, perchè uno è il suo concetto: come
uno è il concetto della specie per le superfici. In generale, uno è
soprattutto ciò la cui intellezione è indivisibile, e la cui pura essenza
si apprende con un atto che non può esser separato nè quanto al tempo, nè
quanto al luogo, nè quanto al discorso (°): tali, soprattutto, sono
le sostanze. Ma, universalmente parlando, diconsi esser una sola le cose
che non ammettono divisione, in quanto non l’ammettono: poniamo, uno è
l’uomo, per le cose che non ammettono divisione in quanto a uomo; uno
l’animale, se non l’ammettono in quanto ad animale; una la grandezza, se
in quanto a grandezza. Dunque, la maggior parte delle cose si
dicono une perchè producono o hanno o patiscono o riguardano
qualcos'altro ch’è uno (*). Ma tali in senso primario diconsi quelle di
cui Il reds della |. 33 è generalmente inteso come «
da »: si tratta, allora, di due nozioni che o sono identiche perchè si
riferiscono alla stessa cosa, o sono specie dello stesso genere
(quest’ultimo caso ripeterebbe quello «del par. prec.). Credo giusta
anche la mia interpretazione: diciamo uno un concetto (sebbene in sè
divisibile) per distinguerlo da un altro: e però, sia che la cosa aumenti o
diminuisca, sia che il concetto ammetta diversità intrinseche (come le varie
specie di superfici), diciamo sempre ch'è lo stesso, L'atto del voùg unifica il molteplice
nell'unità della sostanza, la quale è, così, indivisibile per il luogo
(individui diversi), per il tempo (in cui differisce uno stesso
individuo); indefinibile, nel senso dell’analisi logico-discorsiva. Se alla I. 4 si conserva il ydg (ch’io
ho sostituito col 8é del cod. E), allora il pensiero vien unito più
strettamente al precedente, dove, infatti, io ho usato il singolare
invece del plurale per non indebolire il germe speculativo profondo ch'è in
esso. Ma qui si vede bene che A. guarda, oltre che alla cosa in sè, alle
cose nella loro molteplicità: due o più cose, per quanto diverse per
altri rispetti, possono coincidere in un concetto specifico o generico, o per
la figura. Se anche la 2» parte del par. si volesse intendere nel senso
della 1°, della cosa in sè, allora grandezza potrebbe accennare, anzichè
alla figura, al continuo: conforme alla distinzione nel par. seg. « Plurima sunt, quae dicuntur unum, ex eo
quod faciunt unum: sicut plures homines dicuntur unum, ex hoc quod
trahunt navem. Et etiam dicuntur aliquaà 1016 b 152
MBTAFISIOA ‘una è la sostanza: e questa è una o per continuità, o
per specie, o per il concetto. Infatti, noi contiamo come più di
una le cose che o non sono continue, o di cui non è unica la specie, o
non è unico il concetto. Inoltre, per un rispetto diciamo una ogni cosa
che sia continua per quantità, ma per un altro rispetto non la
di ciamo tale se non formi qualcosa d’intero: non abbia, cioè,
un’unica specie. Così, vedendo le parti di una calzatura, comunque
accozzate insieme, noi non diremmo che sono una cosa sola, in ogni caso
(se non sia per la continuità); sì bene quando siano così disposte da
essere una calzatura ed avere giàuna qualche forma ('). Per ciò, anche,
di tutte le linee la più una è quella circolare, poichè intera e
perfetta. L'essenza dell’uno(*) è quella d’esser un principio del
numero. Poichè la prima misura è un principio: e ciò per cui noi
cominciamo a conoscere ciascun genere di cose, quello è la misura prima
di esso. L’uno è, dunque, principio del conoscibile per ogni genere di cose. Ma
esso non è lo stesso per tutti i generi: qui è il diesis(*), ll la
vocale o la consonante; e altra è l’unità per il peso, altra per il
movimento. unum, ex eo quod unum patiuntur: sicut multi homines
sunt unus populus, ex e0 quod ab uno rege reguntur. Quaedam vero dicuntur
unum ex eo quod habent aliquid unum, sicut multi possessores unius agri
sunt unum in dominio eius. Quaedam etiam dicuntur unum ex hoc quod sunt
aliquid unum: sicut multi homines albi dicuntur unum, quia quilibet eorum
albus est» (S. Tom., 868). Queste cose
si dicon une riferendosi 24 altro ch'è uno. Invece, la distinzione, che
segue, riguarda direttamente le cose per la continuità (4-6), per la
specie (8), per il concetto logicamente considerato 0 nell'atto del vovs
(9-10). Manca l'unità per la materia (7). E il concetto è staccato dalla
specie, con cui pure altre volte coincide (ma specie, qui, equivale a
genere reale, è però il concetto si avvicina più all’universale). Nel concreto è, così, l’unità reale dei due
punti di vista dell'unità: materiale (il continuo) e formale (il concetto).
Si passa alla pura essenza dell'uno:
alla definizione del concetto puro (diremmo noi). Cfr. lib. X. 1, 8 8 8., dove
quanto segue, e gran parte di questo capitolo, è rielaborato con maggiore
chiarezza. (9) Il diesis è l'intervallo minimo in musica: cfr. X. 1,
11-12. Non si scordi che, sebbene qui con qualche inconveniente, ho
tradotto povés con unità, ch'è per noi il termine aritmetico corrente. Il
punto ha una @&éaw, si può localizzare. Ma in ogni caso l’uno è
indivisibile o per la quantità o per la specie. Ora, l’indivisibile nella
quantità (e come quantità) si chiama unità, se è indivisibile in ogni verso e
non ha posto; ma se è indivisibile per ogni verso, e tuttavia
ha. un posto, si chiama punto; se divisibile in una sola
dimensione, linea; se in due, superficie; se in tutte e tre, corpo
(quantitativamerite considerato). E all’inverso, ciò ch’è divisibile in due
dimensioni, è superficie; in una sola, linea; ciò che quantitativamente
non è divisibile per nessun verso, punto e unità: questa non ha posto,
quello sì. Inoltre, l’unità delle cose può essere o per il numero,
o per la specie, o per il genere, o per analogia: c’è unità numerica dove
la materia è unica, specifica quando unico è il concetto, generica quando
lo schema categorico è lo stesso, analogica quando due cose stanno tra
loro come una cosa a un’altra. E i modi precedenti implicano sempre
quelli che vengon dopo: così, dove l’unità è numerica, è anche specifica,
ma dov’è specifica non sempre è numerica; e se è specifica, è anche
generica, ma, se è generica, non però è anche specifica, sì analogica; ma
se analogica, non è generica sempre ('). È poi evidente che le
cose si diranno molte in sensi Opposti a quelli dell’uno: o perchè non hanno
continuità; o perchè hanno una materia (sia la prima o l’ultima) che
si può dividere in varie specie; o perchè sono parecchi i concetti che ne
esprimono la pura essenza (?).
Come bene osserva il Ross, questo paragrafo corrisponde ai $$ 7-10, così
come i precedenti 13-14 a 4-6. Prima, infatti, A. ha distinti quelli che
si possono chiamare i vari gradi di concretezza dell'unità dal punto di vista
quantitativo; qui egli distingue i vari gradi di concretezza dell'unità
dal punto di vista qualitativo. L'unità numerica, infatti, è qui quella
dell’ individuo del tutto determinato, il quale implica in sè tutte le
altre specie di unità. La più astratta di queste è l’analogica, la quale
non è sempre generica, perchè può essere tra generi diversi. Lo schema categorico: nota qui il
termine categoria usato come equivalente a genere (le categorle, infatti, sono
come i generi sommi dei predicati).
La distinzione è in corrispondenza è quella dell’unità essenziale
delle cose. Essere (') si dice di una cosa o per accidente, o in
sè. 1 Per accidente (*): se diciamo, per es., che «il
giusto è 2 musico », 0 che « l’uomo è musico», oche « îl musico è
uomo »; in senso simile a quello in cui si direbbe che il musico
costruisce una casa, perchè a chi la costruisce accade d’esser musico, o
al musico di esser un costruttore. Dire, infatti, », «l’intera acqua»,
salvo che per traslato. E per il plurale di tutto (*), quando delle cose
con- 6 siderate come unità si dice tutto, di esse si dice tutte
considerandole come divise: « tutto questo numero », «tutte queste unità
». LI CapitoLo XXVII. Mutilato (*) non
si dice in tutti i casi d’una cosa fornita 1 di quantità: dev'essere e
divisibile e un intero. Infatti, non diciamo d’aver mutilato il due, se
gli togliamo una delle due unità (la parte mutilata nom può esser mai
uguale alla rimanente), nè diciamo così in generale per nessun numero.
Bisogna che la sostanza rimanga: se si tratta di una coppa, dev’essere
ancora coppa. Invece, il numero non è più lo Stesso. E non hasta neppure
che una cosa sia composta di parti dissimili, poichè il numero può avere
anch’esso parti dissimili: il due e il tre, per es. (‘). Anzi, in
generale, delle cose per le quali la situazione delle parti è
indifferente, come per l’acqua o il fuoco, nessuna può esser mutilata:
per esser tali, bisogna che le parti abbiano una situazione sostanziale.
Inoltre, che sian continue: chè l’armonia consta, bensì, di parti
dissimili, le quali hanno una ior situazione, ma non perciò può venir
mutilata. E neppur tutte le cose intere di- 2 La figura in cera.
aévra. Qui l'unità è totalità
come somma. (9) xo4ofiév: il concetto, qui, è quello che noi opponiamo
all’#Xov inteso come «integrità », specialmente di un organismo.
Il due e il tre, nel cinque (==
2-|--3, oppure 3-+-2). LS) VI LIBRO
QUINTO 183 ventan mutilate col privarle di una qualunque parte.
Bisogna che questa parte non sia la principale per la sostanza (');
nè è indifferente chesi prenda di qua o di Jà: per es., se la coppa ha un
buco, non perciò si dice mutilata, ma se si asporta il manico o un
pezzetto dell’orlo. Nè si dice mutilato un uomo se gli si levi un po’ di
carne o la milza, ma un’estremità; e neppure una qualunque, bensì una che
asportata per intero non cresce più: perciò i calvi non si chiamano
mutilati. Genere si dice, in un senso, se sia continua la generazione
di esseri aventi la stessa specie: diciamo, ad es., « finchè duri il
genere umano », per dire «finchè continui la generazione degli uomini». In un
altro, è quello di una gente venuta all'essere da un lor primo genitore:
e così si parla del genere degli Elleni e degli Ioni, perchè quelli
vengono dal progenitore Elleno, questi da Ione. E i discendenti prendon
nome piuttosto dal genitore, che dalla materia (?): benchè prendan nome
anche dalla femmina, per es. quei di Pirra. Genere, inoltre, è come il
piano per le figure piane, il solido per le solide: poichè ogni figura è
un piano di questa specie, un solido di questa specie. Genere è qui il
sostrato delle differenze. Inoltre, genere è il primo elemento costitutivo
del concetto, che si enuncia nell’essenza (*), di cui chiamansi
differenze le qualità. Genere, dunque, è usato in tutti questi sensi: per
la generazione continua di esseri della stessa specie; per il principio
generatore di esseri somiglianti; in un senso affine alla materia (‘):
poichè ciò di cui son proprie la dif Come la testa per un
animale. Dalla materia (cfr.
VIII. 4, 4), la quale è fornita, nella generazione, dalla femmina.
Nella definizione. In un senso affine alla materia è il genere
inteso come sostrato delle qualità specifiche differenziali (reale e
concettuale: solito passaggio dall'oggetto al pensiero, e viceversa: di
qui l’unificazione dei sensi dati in 3 e 4: ferenza e la qualità, è appunto
quel sostrato che chiamiamo materia. Diverse di genere sidicono
quelle cose di cui diverso è il sostrato primo ('), e l'una non si
risolve nell’altra, nè tutte due nello stesso (la forma, ad es., e la
materia sono diverse per il genere); e quelle di cui si parla secondo
una diversa figura delle categorie dell’essere (le une significano
l'essenza delle cose, altre una qualità, altre come s’è distinto dianzi): chè
neanche queste si risolvono le une nelle altre, nè in qualcosa di
unico. Il «falso » dicesi, in un modo, come cosa che è falsa (*); e
questo o perchè la cosa non risulta così composta, o perchè è impossibile
che si componga così: per es., se si dica che Sostrato primo è quello immediato, se si
pensa, ad cs., a ciò che può liquefarsi (acqua), e a ciò che ha un
sostrato solido (terra). Ma l’interpretazione non è sicura. Nello stesso: può esser inteso come «cosa» o
come «concetto »: nel 1° senso riguarda i! sostrato, e chiarisce quel che
precede; nel 2° chiarisce la parentesi, e quel che segue ‘i diversi
significati, o concetti, dell'essere nelle categorie). S'è distinto dianzi: cap. 7, 4. ; Per A., altrove, vero e falso son nel
pensiero, non nelle cose; e il pensiero è che unisce e divide (distingue)
i concetti giudicando (affermando o negando la convenienza del predicato
al soggetto): cfr. VI. 4, 3-4: IX. 10, 1 s8.
L'ordine de' pensieri in proposito sembra dover esser questo. A.
parte da un realismo ingenuo, ch'è anche un ingenuo idealismo: realtà e
pensiero si condizionano reciprocamente, identificandosi e distinguendosi
insieme, come segue: ca) Si comincia col porre il pensiero nelle cose, e
si parla di cose vere e di cose false. Una prima riflessione avverte che
il vero e falso è nel pensiero, non nelle cose, e distingue perciò il
pensiero dalle cose. Queste, allora, al sicuro da quel pensiero che può esser
falso oltre che vero, restano con una loro realtà ch'è insieme la loro
verità (eterna e immutabile nella pura essenza, contingente per quel che
di questa si traduce nella realtà in movimento). b) Il pensiero è vero 0
falso secondo che riflette in sè la realtà, o meno, delle cose. Ma nna prima
riflessione avverte che non sono le cose a determinare la verità o falsità del
pensiero: poichè tanto dell’essere quanto del non-essere si può pensare
il vero e il falso (IV. 7, 2). Vero e falso sono, allora, caratteri del
pensiero in sè e per sè: vero è il pensiero ch'è coerente con se stesso,
falso il pensiero incoerente. Un cerchio è cerchio, nel mio pensiero che
lo definisce, in quanto lo distinguo dal triangolo: confonder questo con
quello è contraddire a quanto e’è definito.Ma, poichè il \i
LIBRO QUINTO 185 la diagonale è commensurabile, o che tu
stai seduto: di queste due, l’una è sempre falsa, l’altra talvolta. Dette
così, queste cose non esistono. In altri casi, esistono bensi le
cose, ma di tal natura da apparire o quali non sono, o quali non
esistono: la prospettiva dipinta, ad es., e i sogni: cose, queste, che
hanno bensì una loro realtà, ma non quella di cui producono in noi l’immagine.
Le cose, dunque, si dicono false, in questo modo: o perchè non esistono,
o perchè l’immagine che producono è di cosa che non esiste. ‘ Un
concetto falso è quello che, in quanto falso, è di cose che non sono.
Perchè ogni concetto è falso se riferito a cosa diversa da quella di cui
è vero: per es., il concetto del cerchio è falso del triangolo. In un senso,
c’è un concetto unico di ogni cosa, quello della pura essenza; in un
altro i concetti sono molti, poichè la cosa da sè e la cosa con
un’affezione è in certo modo la stessa cosa: per es., Socrate e
Socrate musico ('). Il concetto falso, assolutamente parlando, è concetto
di nulla. Perciò era abbastanza sciocca l’opinione di Antistene che di
nulla si possa parlare salvo che col suo proprio concetto, unico per
un’unica cosa: donde seguiva che non è possibile contraddire, e quasi
neppure dir il falso. pensiero è per se stesso coerenza e
logicità, esso, in Sè e per sè, è sempre vero: d’una verità eterna,
immutabile, come quella della pura essenza (indivisibile), e insieme
discorsiva, per quel che di essa si traduce nel processo del conoscere e
del sapere (nella logica dei concetti). Questo è il rapporto tra il n0vs
(sempre vero) e la dianoia (vera o falsa): tra il concetto nella sun pura
unità e intrinseca intelligibilità, e il concetto che si esplica nella
molteplicità dei concetti e delle opinioni. c) Il pensiero falso è un
non-pensiero in rapporto a quel pensiero ch'è sempre vero. E tuttavia esso ha,
e deve avere, una sua realtà, in quel pensiero che in tanto può affermare
il vero in quanto c'è il falso da negare. Donde, allora, la realtà di
questo pensiero-falso ? Donde questa decadenza del pensiero nel falso?
Pare che la soluzione debba trovarsi in qualcosa di estraneo e tuttavia
legato al pensiero: nella volontà dell’:como. Il Sofista rappresenta
questo difetto del pensiero ch'è anche un difetto morale (l'ambizione, il
guadagno, ece.: efr. «il tenore di vita» in IV. 2, 14). La vicinanza al pensiero platonico è
evidente: specialmente con le indagini del Teeteto e del Sofista. La cosa nell’unità colta dal nous, e la cosa
nella molteplicità delle sue categorie (dianoia). L'opinione di Antistene, con
quell’unità-identità del concetto-nome, era ben lontana dalla dottrine su
esposta di A.: essa rendeva impos‘ sibile la logica dianoetica, e riduceva
quella noetica a mero nominalismo. 1025 a 186
METAFISICA Invece, di ciascuna cosa si può parlare non soltanto
col conceito di essa, ma anche con quello di altra: anche del tutto
falsamente, senza dubbio, ma anche in modo conforme a verità: l’otto,
poniamo, dico ch’è doppio perchè ho il concetto del due. Queste
cose, dunque, si dicono false così. Falso, poi, si dice un uomo che abbia
abilità e predilezione per simili discorsi per nessun'altra ragione che per
discorrere così; e chi è capace di produrli in altri, a quel modo che
diciamo false anche le cose che producono in noi immagini false.
Perciò nell’ Ippia (') quel ragionamento, che vuol] provare come
uno stesso uomo è falso e vero, conduce fuori di strada: perchè dà
come falso chi ha la capacità di dir il falso, ch’è, poi, colui che sa ed
è sapiente; e aggiunge ch’è migliore chi è cattivo volontariamente.
Questa è la conseguenza di una falsa induzione: chi zoppica
volontariamente è migliore di chi zoppica per forza: intendendo per
zoppicare l’imitare lo zoppo; ma se uno fosse zoppo volontariamente, egli
sarebbe forse peggiore, qui, come in cose riguardanti il costume.
CapitoLo XXX. Accidente (?) significa ciò che appartiene a
qualcosa e può esser detto con verità, ma non necessariamente, nè per
lo più: come se uno scavando un fosso per una pianta trovasse un
tesoro. Questo, di trovare un tesoro, è davvero un accidente per chi scava un
fosso: non è una cosa che consegua necessariamente dall’altra o dopo l’altra,
nè chi pianta un albero trova per lo più un tesoro. E chi ha l’abilità di
suonare può esser bianco, ma poichè ciò non avviene di necessità, nè per lo
più, diciamo ch’è un accidente. Di maniera Ippia minore, 365 ss. Platone erra, dunque:
@) non distinguendo la potenza dall'atto di mentire; è) reputando migliore chi
erra volontariamente. Per quest'ultimo punto, cfr. Eth. Nic. che, poichè
si danno tali appartenenze, e appartengono a qualcosa, e alcune di esse
solo in certi luoghi e tempi, sarà un accidente ciò che appartiene,
bensì, a qualcosa, ma non perchè è questa tal cosa, ed è qui e ora(').
Dell’accidente non c’è nessuna causa determinata, ma è a caso, e
questo è indeterminato. È accaduto a qualcuno di arrivare ad Egina,
il quale non era partito per arrivare colà, ma cacciato dalla tempesta o
preso dai corsari. L’accidente avvenne, di certo, e realmente, ma non per
causa di se stesso, bensì in causa di altro: perchè la tempesta fu causa
che quegli arrivasse dove non era diretto, cioè ad Egina.
Accidente, poi, dicesi anche in altro modo: di tutte quelle proprietà, ad
es., che sono di una cosa per se stessa considerata, ma non appartengono alla
sua sostanza (*): per esempio, appartiene al triangolo di avere gli angoli
uguali a due retti. Questi accidenti posson essere eterni; di
quegli altri, invece, nessuno: abbiam parlato di ciò altrove.
Ed è qui e ora: come
l’appartenere a qualcosa non individua la sostanza di questa tal cosa,
così l’appartenere in certi luoghi e tempi non dà ragione dell'attualità di
essa. Alla sua sostanza, o
definizione: per es., del triangolo: sebbene ne derivino. È compito della
scienza, infatti, dimostrare, poi, le proprietà (accidentali, ma in entrambi i
sensi: tà aédn xal tà xa” autà cvpfefinxéta) del proprio oggetto di
studio: cfr. Anal. Post., I. 1. 75b, 1.
Abbiam parlato di ciò altrove: pare riferirsi ad Anal. Post. Quel
che qui si cerca sono i principii e le cause degli esseri: s'intende, in
quanto sono. Poichè c’è pure una causa della salute e del benessere, e
anche le entità matematiche hanno principii, elementi e cause: in
generale, anzi, ogni scienza di ragionamento, o che del ragionamento si
serva almeno in parte('), versa intorno alle cause e ai principii,
pur con più o meno di esattezza e semplicità (?). Ma tutte queste scienze
son circoscritte a un ente e genere particolare, e di esso soltanto trattano,
nè fan nessuna parola di ciò che è l’essere semplicemente: nè di ciò che
è l’ente in quanto tale, nè dell'essenza. Invece, le une dichiarando
il loro oggetto per mezzo del senso, e le altre (*) stabilendone
per mezzo di ipotesi la definizione, dimostrano, più o meno debolmente,
più o meno rigorosamente, le proprietà del genere preso in considerazione. È
dunque evidente che da un «
Videtur A. ambitum scientiae latius extendere voluisse, ut ne eae quidem
doctrinae excludantur, quae ab usu et experientia magis quam a cognitione
et notione suspensae sint»: Bonitz (p. 280). Esattezza e semplicità corrispondono al
«rigorosamente » e « debolmente » del paragrafo seguente. «Semplicità»,
qui, vale « mancanza di approfondimento e di distinzione » (le cose così
come si presentano immediatamente): cfr. I. 5, 22. Poco dopo, «
semplicemente » vale, invece, « assolutamente ». (9) Le une... le altre:
le fisiche e le matematiche.tal metodo induttivo (') non si può aver
dimostrazione nè della sostanza nè dell’essenza, ma per esse ha da
esserci un’altra specie di conoscenza che le chiarisca. Per la
stessa ragione non dicon nulla se il genere preso a trattare esiste
o non esiste: poichè appartiene alla stessa facoltà del pensiero il mettere in
chiaro tanto l’essenza quanto l’esistenza (°). Ma in quanto anche la
scienza fisica (°) versa intorno a un genere dell’essere (la sostanza
ch’essa studia è quella che ha in sè il principio del movimento e
dell’inerzia), è chiaro ch’essa non riguarda nè l’agire nè il produrre
(‘). La frase pare
interpolata al Christ. Il riferimento par che sia Alle scienze fisiche,
come quelle che trattano della sostanza ed essenza reale, assumendola
nella materia sensibile. Di essa non posson dare dimostrazione, appunto
perchè agegunta per principio (dàuno dimostrazione delle qualità e proprietà
dell’oggetto). Il Metafisico, neanche lui, dimostra nel senso della dimostrazione,
che parte da principii per arrivare a certe conchiusioni. Essa, infatti,
è la scienza dei principii stessi, 6 però anapodittica: non nel senso
dogmatico, ma in quanto si serve «di un'altra specie di conoscenza », che
« chiarisce » speculativamente quei principii riconducendoli ai principii
primi, anzi al principio primo, ch’è l’essere în quanto essere.
Principii primi sono le quattro cause, discusse nel lib. I; ovvero, materia
e forma, potenza e atto, che verranno studiati nei libri VII-IX, e
ricondotti a quello della forma, o dell’atto (in sè e per sè: all’atto
puro, come principio trascendente, nel lib. XII). Ovvero, le categorie e
gli altri concetti fondamentali întorno all’essere, esposti nel lib. V.,
Principii primi sono anche, per il pensiero discorsivo, gli assiomi, di
cui il primo è quello di non-contraddizione, come si vide nel lib, IV.
Dal punto di vista gnoseologico, principii primi sono il singolare e gli
universali, e la loro fonte è il voùs (come principio anche dell’ato&mors:
cfr. note al. 1,409, 34)
Nell'’ordine della scienza empirica A. distingue la conoscenza
dell'&, da quella del &uéti, facendo poi coincidere con
quest’ultima quella del tL èotw: efr. Anal. Post., II. 1. 89Db, 24; 2. 90
a, 14 (e qui stesso al lib. I. 1, 11). Non si dia, tuttavia, un senso
troppo moderno alla distinzione (di un contrasto tra pensiero ed
esistenza reale delle cose): l’esistenza implica già l'essenza, come il
singolare l’universale, nell'atto della percezione (immediata); e l’essenza,
se non vuol esser un xowév, si traduce nell'esistenza (immediatamente):
la pura 6ssenzea è sempre un tébde tr. Nell’8v fi 6v, poi, essenza ed
esistenza s’identificano (perchè la sua universalità è anche necessità).
Anche di qui si vede l'interesse
maggiore che A. ha per la fisica, più che per la matematica: il confine,
in fatti, tra alcune sue trattazioni di fisica e altre di metafisica non
è sempre chiaro. L'agire... il
produrre: v. la differenza in Eth. Nic., VI. 4; e nota a I.1,16. In entrambi,
tuttavia, il principio è in noi (per la produzione: o l'intelligenza, il
pensiero razionale, o questo unito a un certo abito o potenza naturale;
per l’azione è l’Seskw, che congiunta con la ragione si fa agoalpsois:
cfr. Eth. Nic., LIBRO SESTO 191 Poichè il principio
della produzione è in chi produce: o l’intelligenza, o l’arte, o altra potenza;
il principio dell’azione è in chi agisce, ed è il proponimento (potendosi
tradurre in azione soltanto ciò che ci si può proporre). Per cui, se ogni
ragionamento è fatto o per l’agire o per il produrre, ovvero riguarda la
pura speculazione, la Fisica sarà una scienza speculativa, ma speculativa
di un essere tale che ha la potenza di muoversi, e della sostanza tratta
soltanto secondo nozioni che valgono per lo più, non separata dalla
materia (')., Si badi di non ignorare il modo di essere della pura
essenza e del concetto, perchè, senza di ciò, è tempo perso ogni ricerca.
Delle definizioni e delle essenze alcune sono come quella di « camuso »
(?), altre come quella di « curvo », i quali differiscono in questo, che
in camuso è compresa sempre la materia (camuso diciamo un naso che ha una
certa curva), la curvità, invece, è compresa senza materia sensibile.
Se, quindi, tutti gli oggetti della fisica s'intendono similmente a
camuso (ad es., naso occhio fisionomia carne osso, animale in somma;
ovvero, foglia radice scorza, pianta in somma: tutte cose in cui non si
può prescindere dal movimento, anzi neppure sono mai senza materia) è già con ciò chiarito il modo in cui
il fisico deve ricercare e definire l’essenza delle cose; e perchè sia
ufficio suo lo speculare anche intorno a un genere di anima, a quello che non
esiste senza la materia (*). Che dunque la fisica sia una scienza
speculativa, è evidente. Ma scienza speculativa è anche la matematica: se
i III. 3); laddove il principio del movimento
studiato dalla fisica è nella sostanza naturale delle cose. Alle Il. 22 e 23 è opportuna la correzione
proposta dal Bonitz, attuata dal Ross, di rountov e rgaxtov invece di
romtimov e reaxtiNbv. Il «per lo
più» è proprio delle cose fornite di materia, come si dirà fra poco; e
«ogni scienza è o di ciò ch'è sempre o di ciò ch'è per lo più» (2, 12).
Mapotengo, dunque, la mia interpretazione (Bonitz, seguendo Aless.: « tratta
della sostanza per lo più come forma piuttosto che come materia, solo che
non come forma che possa esistere separata dalla materia»; Ross: «tratta
della sostanza nel senso della forma per lo più unicamente come inseparabile
dalla materia»). Camuso: v. VII.
5. Senza materia sensibile: i. e. con
materia soltanto intelligibile (6. vonti: qui, l'estensione pura). Non esiste senza materia l’anima, salvo il
vovs, che non ha nessun organo corporeo (De An., suoi oggetti siano
immobili ed abbiano esistenza separata, non abbiamo tuttavia ancora
chiarito ('). Per ora si può ammettere come chiaro questo, che alcune delle
scienze matematiche considerano i loro oggetti in quanto immobili e separabili.
Ma se qualcosa esiste di eterno immobile e separato, non è dubbio che la
conoscenza di esso appartiene a una scienza speculativa, la quale non
sarà certamente la fisica (che riguarda soltanto alcune cose mobili), e
neppure la matematica, ma una scienza superiore ad entrambe. Infatti la
fisica studia ciò che esiste separatamente , ma non è immobile; delle
matematiche alcune studiano, invece, ciò che è immobile, ma non separato
in fine perchè esiste nella materia. Soltanto la scienza che è prima studia ciò
che è separato e immobile. E se tutte le cause sono necessariamente
eterne (*), queste lo saranno soprattutto, perchè esse sono causa di
quelli tra gli enti divini che risplendono nel cielo. Le scienze
filosofico-speculative son dunque tre: la matematica, la fisica, la teologia
(‘). Non è dubbio che, se il divino esiste, esso si trova in una natura
quale s’è detta dianzi, e la scienza onorevolissima deve esser questa che
ha V.libri XIII e XIV, e
per quel che segue, quanto alla matematica, XIII. 2-4. Le matematiche
pure studiano oggetti immobili: ricorda in III. 2, 18, dove tra le
scienze matematiche vengon citate l'astronomia, l'ottica e l’armonica (che
son più vicine alla fisica); e per la distinzione e gerarchia delle varie
scienze matematiche, v. IV. 2, 7 (la metafisica sta alla fisica come la
matematica pura a quella applicata). La fisica studia ciò che esiste
separatamente, odolar, delle quali mostra (dimostra) le qualità e
proprietà (queste, invece, non esistono separatamente: i. @., non hanno
una propria esistenza). Alla |. 14 i codici dànno aybguota (e allora: la
fisica studia «ciò che non esiste separato », i. e. la forma nella materia,
ece.); la correzione, in ywguotd, proposta dallo Schwegler e accettata
dal Christ, dù maggior simmetria al rapporto tra fisica matematica e
teologia. Non si scordi che
yxwguotév è una forma comune a due concetti per noi molto diversi: il
separabile e il separato.
Intendi, le cause prime, i principii in generale, reali o ideali: queste
(Dio e le Intelligenze motrici) sono cause reali, e però eterne a muggior
diritto ancora dei cieli (che son cause seconde) pur eterni. Su le ragioni del nome (già in Platone, Rep.,
II, 379 a) e su la superiorità della filosofia, cfr. anche I. 2. Se il
divino esiste: il tono è, ovviamente, tutt'altro che dubitativo.
LIBRO SESTO 193 l’oggetto più onorevole. E come le scienze
speculative son da preferire alle altre scienze, così questa tra le speculative.
Qualcuno potrebbe domandare se la « filosofia prima» è universale,
ovvero se versa intorno a un genere determinato e a un’unica natura di
esseri (‘). Dicemmo (in nota a IV. 1, 1) che
dell’essere in quanto essere, oggetto della metafisica, si danno in A.
due significati principali: l’uno in riguardo piuttosto alla realtà delle coso
che sono oggetto del pensiéro, l’altro in riguardo piuttosto al pensiero
che le pensa. Per il primo rispetto, studiare l'essere in quanto essere,
è studiare i principii e cause prime ci tutto ciò ch’esiste, e in primo
luogo quell’ Essere primo ch'è indipendente dalla natura e sottratto a
ogni forma del divenire. Onde la metafisica vien qui definita @e0%40yuxf) (6 6,
e nel passo corrispondente del lib. XI. 7, 7); e già nel lib, I. 2, 20
vedemmo dare a questa scienza il titolo di «divina», nel duplice senso,
ch'è iù degna di Dio, e ch’è del divino nel mondo. Di qui, anche, veniva
accennata la superiorità di essa alle altre scienze e conobcenze in
generale, le quali non arrivano a porsi in quella purezza, dignità e
autonomia, ch’ è propria del sapere filosofico. In questo capitolo
viene introdotta per la prima volta una distinzione netta tra le scienze
poietiche come le arti, quelle pratiche come l'etica, e quelle che sono
puramente teoretiche. La distinzione, mentre eleva le matematiche e fisiche
al novero delle scienze teoretiche, determina la differenza tra esse e la
metafisica più chiaramente in riguardo al genero de' loro oggetti. Dio è
separato, esiste indipendentemente dalla quos; e così anche le
Intelligenze motrici: il divino (si vedrà nel lib, XII) forma come
un'altra « natura» o « usia ». La fisica studia esseri che hanno
un'esistenza propria, ma non sottratti al movimento; la matematica studia
esseri immobili, considerati separatamente, ma per astrazione, in realtà
non esistenti separatamente. Soltanto la teologia studia esseri separati
e immobili: e la perfezione di questi è ciò che dà la superiorità della
metafisica su le altre scienze teoretiche. Una riflessione, non
più teologica e oggettiva nel senso or detto, sul principio primo di
tutti i principii, ma conforme al secondo modo di considerare l'oggetto
della metafisica, mira piuttosto al lato formale delle cose. Dio è pura
forma; ma anche le cose sono in se stesse quel che sono per la forma
pura, indipendentemente dalla materia a cui questa è unita nel sinolo. Questa
non è «separata », ma è bene «separabile», nel senso che, pur non
esistendo separatamente (contro' il platonismo, a cui la precedente
affermazione può condurre), tuttavia il suo essere, in sè e per sè, non
dipende dalla materia (è la pura essenza, o intelligi-. bilità pura,
delle cose). Qui, la differenza tra la metafisica e le altre scienze gi
presenta in altro aspetto. La fisica studia, bensì, anch'essa, ciò ch'è
separabile (la forma), ma non fuori della materia, onde le sue nozioni
non hanno vera universalità, perchè la materia, com'è causa della divisione dei
generi nelle cose, così impedisce che l’universale si realizzi nella sua
assolutezza. La matematica, poi, studia bensì le cose da un punto di
vista formale; ma questo è il risultato di un'astrazione posteriore alla
realtà delle cose (XIII. 3), mentre l'astrazione del metafisico vuol
cogliere il medtegov concreto di esse (XIII. 2, 12), il loro a priori
puro (VII. 1, 4; 3, 10; 17, 8-10; VIII. 3, 3-4). Di qui, anche: soltanto
la metafisica studia l’essere &xA@g ($$ 1-2). Le fisiche Anche nelle
scienze matematiche, infatti, c’ è diversità: la geometria e l’astronomia
studiano oggetti di una particolare natura, e c’ è una scienza matematica
universale comune a tutte. Se, dunque, non ci fosse nessun’altra sostanza
fuori di quelle formate dalla natura, la fisica sarebbe la prima di
tutte le scienze. Ma se c’è una sostanza immobile, essa sarà superiore alle
altre, e la scienza di essa sarà la prima filosofia, la quale, essendo la
prima, è universale, in questo senso. Essa avrà il compito di speculare
intorno all'essere in quanto essere: la sua essenza, cioè, e le
determinazioni che, in quanto essere, gli appartengono. matematiche
non hanno quest'assolutezza, perchò non considerano le cose per la pura
ossenza, ma quel che sono per la conoscenza sensibile (le fisiche), o per
In quantità soltanto (le matematiche), della quale formano concetti e
definizioni che hanno soltanto tale esistenza ipotetica: in entrambi i
casi non trattano di quel ch’ò il principio primo dell'esistenza di tutto
ciò che dè. In conchiusione, s01tanto l'oggetto della metafisica ha veramente i
caratteri dell’universalità e necessità: chò le altre scienze son circoscritte
a un genere particolare di cose (IV. 1), e di esso studiano gli
accitlenti qualitativi o quantitativi, con quell'esattezza e profondità,
maggiore o minore, ch'è possibile secondo i vari genori di cose e de’
loro accidenti: assoluta, non mai. Il teologismo della prima concezione
è d'ispirazione schiettamente platonica: la seconda è orientata verso un
concetto dell'essere analogo a quello del trascendentale moderno, e, comunque,
criticamente definito. Una terza concezione risulta dall’ interferenza
delle prime due: il principio formale della seconda si abbassa al
realismo della prima, e nello stesso tempo il realismo «i questa scopre
nel fondo stesso delle cose un principio ideale come in quella (ch'è
ancora uno sviluppo dell’ultimo Platone). La realtà più vera e profonda
delle cose non è quella corporea, di cui trattano le scienze fisiche e
matematiche (0 come i Presocratici considerarono la natura); ma è la forma che
si realizza nell'universo in una molteplicità e gradualità di forme, o
pure essenze. E sarà dell'oggetto della metafisica come di quello delle
altre scienze, per es. delle matematiche: esso avrà parti, ordinate
gerarchicamente in ragione della purezza, maggiore o minore, che ha la
forma ne’ vari gradi del suo svolgimento attraverso le cose (efr. anche
IV. 2, 4 e 7). Così è anche delle parti dell'anima, il cui sviluppo va da
quella più legata al corpo sino a quel Nous, ch'è principio e fine
dell'essere nella sua pura immaterialità e perfetta intelligibilità.
In quest'ultimo paragrafo A. sembra avvertire le difficoltà di tale
interferenza: l'oggetto della metafisica differisce da quello delle altre
scienze perchò di un genere diverso? Come, allora, la metafisica è una
scienza universale? E il principio formate è unico 0 molteplice? Glì esseri non
hanno un'unica natura. Ma, Be è molteplice, non rischia, l'essere in
quanto essere, di ridursi a un xowévy, 2 una mera astrazione? Per la
soluzione di queste difficoltà, v. nota a VII. 11, 11. ro
DI Dell’essere semplicemente detto si parla in molti sensi.
Di questi uno si disse (') che era quello di accidente, un altro quello
di vero (e di falso, per il non-essere). Oltre di questi, ci sono le
forme o figure dell’essere come categoria: ciò che è una cosa, quale,
quanto, dove, quando, e se altri significati ci sono, dell’essere in.
questo modo. Non basta: l'essere si dice anche o in potenza o in atto.
Dicendosi, dunque, in molti sensi, cominciamo da quello di
accidente, per mostrare che di esso non ci può essere scienza. Già un
indizio di ciò si ha nel fatto che nessuna scienza, nè pratica nè
poietica nè teoretica, si cura di esso. Chi fabbrica una casa, non fa
insieme nulla di ciò che alla casa può accadere poi: gli accidenti sono
infiniti: nulla vieta che la casa fatta sia piacevole agli uni, incomoda
per altri, ad altri invece sia utile, ed abbia, insomma, quelle
differenze che ha ogni cosa nel mondo: ma niente di tutto ciò
riguarda l’arte di fabbricare. Parimenti, neanche il geometra
studia simili accidenti delle figure, nè se un triangolo è diverso
dall'altro, pur che la somma degli angoli sia di due retti (?). Ed è
giusto che così avvenga, perchè l’accidente è poco più che un nome
soltanto. Per ciò Platone (*) in certo modo non a torto assegnò alla
Sofistica per oggetto il non-essere: chè i discorsi dei Sofisti quasi
sempre, si può dire, versano intorno all’accidente. Ad es.: se sia la stessa
cosa o diversa Cfr. V. 7. Due interpretazioni sono state date: 1)
quella di Alessandro (alla quale si avvicina la mia): il geometra non
cura se il triangolo da lui definito, come quella tal figura geometrica
che ha gli angoli uguali a due retti, è lo stesso di un triangolo di
legno, di pietra, ecc.; 2) quella avanzata dallo Schwegler e difesa dal
Ross: il geometra non cura questioni, come quelle che fanno i Sofisti,
per es., se dir triangolo e dir triangolo di cui la somma degli angoli è uguale
a due retti sia lo stesso, o no (il Sofista, infatti, se si risponde di
sì, sostituisce alla prima parola la dicitura seguente, e così sempre,
all'infinito). Questa seconda è più fedele alla lettera del testo, la
prima è più conforme al pensiero svolto nel paragrafo. Sofista, l'esser musico e grammatico; se
Corisco e Corisco musico siano lo stesso o no; ovvero sostengono che,
dato che tutto ciò che è, ma non è eterno, divenne, se uno essendo
musico divenne grammatico, si può dir anche che essendo grammatico divenne
musico ('); e tutti gli altri discorsi di questo genere, dai quali si vede
bene che l’accidente è qualcosa di molto vicino al non-essere. E
anche da considerazioni di questo generè: che delle cose che sono in
altro senso c’è il processo del nascere e ‘ perire (7), ma di quelle che
sono per accidente non c’è. Tuttavia convien parlarne ancora, fin dove si può,
per mostrare qual*è la natura sua, e quale la sua causa. Forse
chiariremo con questo anche perchè di esso non c’è scienza. Degli
esseri ce ne sono di quelli che sono sempre a un modo e di necessità (non
intendo della necessità per violenza (*), ma di quella che consiste nel non
poter essere altrimenti), «altri non sono di necessità, nè sempre a un
modo, ma soltanto per lo più. Di qui il principio, di qui la causa
dell’esistenza dell’accidente (*). Noi, infatti, chiamiamo accidente ciò che
non è nè sempre nè per lo più: per es., se al tempo della canicola faccia
un freddo invernale, noi di Il
primo sofisma vuol porre l'identità insieme alla diversità dei due termini (in
quanto uno è, o no, l’una e l’altra cosa insieme). Col secondo si tenta
il processo all’infinito (come per il triangolo, in nota prec.). Col terzo,
facendo prima sostantivo l’uno dei due termini e l’altro aggettivo, e
viceversa; poi, confrontando, si trova che uno era già primayciò che doveva
diventare (il musico è grammatico, perchè lo divenne: il grammatico ora è
musico, e lo è perchè divenne tale. ecc.). La generazione, come processo del nascere e
perire, riguarda la sostanza propriamente, e l’accidente solo in quanto
sia considerato tutt'uno con la sostanza (non per sè soltanto: considerato per
sè, esso è come ciò ch’è casuale, e A. infatti, unisce qui i due
sigpificati come già in V. 30, 1-3). Ricorda Eth. Nic,, II. 1: suonando
si diventa suonatori, esercitandosi nel leggere e scrivere si diventa
«grammatici ». Cfr. V. 5.
Quel che manca al per lo più per
esser sempre a un modo è quel SuAetppa, come dice Alessandro (451, 13),
ch'è il casuale. Ovvero si dica che il fortuito sparisce a misura che si
scoprono tracce di ragione nelle cose, onde all'uguaglianza (logica, in
astratto) di tutti i casi possibili si sostituisce, nel mondo
dell’esperienza, la probabilità, maggiore o minore, del per lo più. ciamo
sì che questo può accadere, ma non lo diciamo già se fa un caldo
soffocante: chè, questo, avviene sempre o per lo più, quello no. E che un
uomo sia bianco può ben accadere (chè tale non è sempre, nè per lo più),
ma non intendiamo che sia animale per accidente. E può anche accadere
che un architetto guarisca qualcuno, per accidente: chè questo non
è affare di architetto, ma di medico; eppure una volta accadde che
l’architetto fosse medico. Così, un cuoco, sebbene il fine dell’arte sua
sia il piacere, potrebbe scoprire qualcosa che giovasse alla salute, ma
non in virtù della culinaria. Noi diciamo allora: accadde; per indicare
che, in quanto ci fu chi la fece, la cosa è possibile, ma non che
dipendesse assolutamente da lui ('). Di tutte le altre cose si riesce
a trovare, di quando in quando, la potenza di produrle, ma dell’accidente
non c’è arte o potenza determinata, perchè di ciò che è o avviene
accidentalmente, anche la causa è accidentale. Poichè, dunque,non tutte le cose
sono o divengono di necessità e sempre allo stesso modo, ma la maggior
parte avviene per lo più, ecco la necessità dell’accidente: ad es.,
nè sempre, nè per lo più, chi è bianco è anche musico, ma, siccome talora
accade, sarà per accidente. Se l’accidente non ci fosse (?), tutto al
mondo avverrebbe necessariamente. Sarà dunque causa dell’accidente la
materia, la quale è quella che può essere altrimenti da come è per lo più
. E di qua bisogna cominciare:
non c’è forse qualcosa che non è nè sempre, nè per lo più? Ovvero,
ciò è impossibile? C'è, quindi, qualcosa oltre quel che è sempre o per lo
più, ed è ciò che capita purchessia e per accidente. Si potrebbe anche
chiedere: forse, ciò che è per lo più esiste, ma non l’eterno? Ovvero,
esistono anche alcuni esseri eterni? Di ciò si vedrà in sèguito; ma sin
d’ora è chiaro che del In quanto
cuoco. Se l'accidente non ci
fosse, il «per lo più» diventerebbe un «sempre», e tutto sarebbe
necessario. Ma, poichè ciò non è, ecco la necessità (di ammettere
l’esistenza) dell'accidente: come vuol provare, contro chi lo neghi, con
l’interrogazione al $ 10. La
materia è principio e causa di tutto ciò ch’è indeterminato. 1027
a 198 METAFISICA l’accidente non c’è scienza (‘').
Ogni scienza è o di ciò che è sempre, o di ciò che è per lo più (°). Se
no, come si potrebbe impararla o insegnarla? Bisogna bene, per definire
qualcosa, poter dire ciò che è o sempre o per lo più: poniamo, che l’ idromele
giova, per lo più, a chi è febbricitante. Ciò che è contro questa regola,
neppure si avrà bisogno di dirlo: se una volta poniamo, al tempo della luna nuova
quel medicamento non ha giovato: poichè, per dirla (*), anche quella eccezione
dovrebbe valere o sempre o per lo più. L’accidente, invece, è contro
tutte le regole. S'è detto, dunque, che cosa è l’accidente, e per
qual causa, e che di esso non può esserci scienza. »
CapiToLO III. Che ci siano fatti, di cui i principii e le cause
appaiono e scompaiono, sebbene non si possa dire che nascono e periscono
(‘), è evidente. Se così non fosse, dovendo esserci una causa non
accidentale del nascere e del perire, tutto avverrebbe di necessità. Se si
chiedesse, infatti: Avverrà o non
Il pensiero procede in questi paragrafi un po’ a sbalzi. Posto che non
tutto è sempre o per lo più, si dimostra cho c’è l'accidente (10).
D'altronde, se si conceda che c’è l’accidente ce il per lo più, come negare
l’esistenza di ciò ch'è eterno, ch'è il vero oggetto della scienza? Si vedrà in. séguito: efr. XII, 6-8.
Che ci sia scienza del per lo
più, conferma anche in And/. Pr., I. 13. 32 D, 18, e in Anal, Post., I.
30. 87 b, 20; benchè la vera e propria scienza sia dell’universale e necessario
(Anal, Post., I. 1. 71b, 15, e spesso altrove).
Idromele: bevanda di miele e latte. L'eccezione, dicendola, acquista la stessa
regola di ciò ch'è sempre 0 per lo più. Così ho tentato di sciogliere la
difficoltà del passo, che letteralmente suona: « poichè o sempre o per lo
più anche #/ [il dire? o il fatto che avviene?) al tempo della luna nuova
», Altra interpretazione: Se una volta non giovò, poco conta: sta il
fatto che in generale conta, anche al tempo della luna nuova (così
Bonitz, che sopprime il té). Il Ross dà un senso affine al mio: l’accidente
anch'esso, veduto più profondamente, ha la sua legge (in fondo esso è un
difetto della nostra conoscenza, ma nella realtà, veramente, nulla è
accidentale). Il Ross unisce all'articolo l’idea del fatto, io quella del
dire (questa mi par più semplice, data la modestia dell'esempio).
Non si può dire che nascono o
periscono, nel senso, veduto dianzi, di un processo, di un passare
graduale (dalla potenza all’atto, o dall’attività all’abito). avverrà un
tal fatto? si risponderebbe: Sì, se ne
avviene un altro; se no, no. E quest’altro, poi, avverrà, se altro
ancora avviene. E così è chiaro che, sottraendo sempre del tempo da
un tempo limitato, si arriverà al momento attuale. Ad esempio, costui, se
esce di casa, morrà di malattia, o di morte violenta; ed uscirà di casa,
se avrà sete; e avra sete, se altro gli avviene; e così si arriverà a ciò
che avviene attualmente, ovvero a qualcosa che è avvenuto in passato. Poniamo:
egli uscirà, se avrà sete; e avrà sete, se mangia di salato: questo, o
avviene o non avviene; e costui, quindi, morrà, o non morrà,
necessariamente. Il discorso è lo stesso se, con un salto nel passato, si
comincia da un fatto avvenuto, perchè questo esiste già in un fatto presente.
Per cui tutte le cose future avverranno di necessità. Ad esempio:
chi vive, dovrà morire, perchè è già avvenuto questo, che 3
elementi contrari si trovano nello stesso corpo ('). Ma se Bonghi (p. 367): «Il ragionamento di A. è
molto semplice. Ogni processo di atti, legati in qualità di causa ed
effetto gli uni con gli altri, è necessario: perciò, se non ci fossero
atti tali che compariscono 0 scompariscono, senza che la ragione del loro
comparire e scomparire sia in un atto precedente, non ci sarebbero
ettetti casuali, o altrimenti, non ci sarebbero effetti se non necessari.
Adunque, perchè ci siano effetti casuali, bisogna che le cause che gli
producono, siano, operino, vengano meno senza processo «i sorta: non si
generino però nè si corrompano
cose le quali richiedono una serie di atti legati fra loro e indirizzati
alla generazione o alla corruzione, ma
sorgavo e cessino in un attimo ed indipendentemente dagli atti
precedenti, successivi e contemporanei, tra’ quali s’intramette l'opera
loro. Tutti gli esempi che cita, servono a mostrare appunto ‘ che,
finchè si sta in un processo, un atto ha ragione nell'altro, e non s'esce dal
giro del necessario. Bisogna spezzarlo, per avere un principio d’un atto
non necessario: ora, questo è appunto il principio del casuale. Il primo
esempio è d’un fatto avvenire rispetto al presente: col quale dimostra
che, se dal fatto avvenire si potesse di mano in mano e via via passare
agli atti che lo precedono fino 4 un atto o fatto attuale, quel fatto
avvenire non sarà nò men certo nè men necessario dell’attuale. Col secondo
esempio applica il primo al passato, mostrando che, come s'è ammesso che
dall’avvenire si arriva al presente, così da questo si risalirebbe al
passato con altrettanta certezza e necessità: di maniera che in un primo
fatto già stato ci sarebbe il principio d'un’intera catena necessaria di
fatti avvenire. Ora, come per esperienza si vede che questo non è vero,
codesta catena non esiste: e la è interrotta di tratto in tratto da atti,
i quali determinano quello che ci ha «li ancora indeterminato in un fatto, e
fanno che se ne origini piuttosto una tale che una tal’altra serie di
fatti successivi». Questo è, infatti, il senso più giusto di questo e
del paragrafo seguente. Elementi contrari: caldo-freddo,
secco-umido. 1027 b 200 METAFISICA egli
morrà di malattia o di morte violenta, questo ancora non è prestabilito,
finchè non avvenga quel fatto determinato ('). È dunque chiaro che qui si va
sino a un certo principio, e da questo non si può rimontare ad altro.
Ora, questo appunto sarà il principio che spiega come un fatto
avvenne in un modo piuttosto che in un altro, e della causa del suo
accadere non c’è altra causa. Quel che più importante resterebbe a indagare è
di quale specie sia la causa iniziale, a cui l’analisi del contingente ci ha
ricondotto: se, cioè, essa sia del tipo della causa materiale, o di
quella finale, o di quella efficiente (?). Finchò non avvenga quel fatto determinato,
ch'è un cominciamento assoluto, non riducibile a una serie di atti precedenti.
La materia, ha detto dianzi, è
causa dell'accidente. Qui sì aggiunge che la causa dell’accidente può
esser considerata anche come attività motrice (causa efficiente), e però
in qualche modo anche finale (non formale: la forma è principio di determinazione).
Non decide altro (Alessandro e Asclepio notano giustamente che la decisione
dovrebb'essere in favore della causa efficiente). Da vedere F. ‘Tocco,
Il concetto del caso în A. (in Giorn. napoletano di filos. e lett., 1877,
vol. V). Pare al T. che la materia non basti a spiegare l’accidente. © in
vero, nelle rivoluzioni celesti, ad es., l’accidente non ha luogo. Intesa
come principio assolutamente indeterminato, la forma dovrebbe dominarla.
Ma A. passa, în questo concetto, dal punto di vista meramente logico a
quello empirico, in cui la materia è soltanto relativamente
indeterminata, anzi essa è causa del determinarsi della forma: per es., ne’
vari generi del reale. Di qui la dottrina degli attributi propri di ogni
genere diyose, essenziali se riguardano la sostanza nella sua formalità,
veramente accidentali se la riguardano per la materia. A. tratta, poi,
l’accidente anche come il caso (cfr. nota a 2, 6). Dontle, per lui, il
caso? In lui predomina il concetto della causalità di tipo logico. Cfr. L. Ropin, Sur la conception aristotélicienne de la causalité (in
Archiv f. Gesch. d. Philos., XXIII, 1910, pp. 1 8gg.). Meglio:
come un determinismo logico-teleologico (platonicumente): èv yào ti) GAy tò
dvayzatov, vò d’od Evexa tv tO X6y0 (Phys., II 9, in princ.; e v, per
l'argomento i capitoli molto importanti 4-6 di questo libro), Qui, tò
avayxatov è il contrario di quel determinismo. Il Greco tende alla perfetta
razionalità della natura, ma è costretto a riconoscere un fondo
irrazionale dappertutto in essa, analogo al fato per lo vicende umane.
Anche in queste ha luogo il caso, e si chiama fortuna (von): « La fortuna
è la causa per accidente di fatti suscettibili d'esser fini, quando
questi riguardano la volontà » (Phys., II. 5. 197 a 5). Prescindendo
dall’u)ltima clansola, la definizione vale per ogni avvenimento accidentale:
casuale è un fatto che può rientrare nel determinismo logico-teleologico,
ma non vien prodotto secondo questo. Cfr. VII. 7, 5; XI. 8, 8-9, D'altra
parte, il suo empirismo lo porta a un concetto della causalità di tipo
materiale-efficiente, che esige la contingenza dei fatti, l'accadere come
originalità del particolare. Perciò, dopo aver detto che l’accidente è poco più
di un Si lasci ora da parte l’essere per accidente: ne abbiamo
discorso abbastanza. Quanto all’essere nel senso del vero e al non-essere
nel senso del falso, essi riguardano la connessione e la divisione delle
nozioni, e l'unione di entrambi consiste nel rapporto delle parti della
contradizione ('). Vero è l’affermare ciò che è realmente unito, e negare
ciò ch’ è realmente diviso; falso, invece, è affermare o negare la parte
contradittoria. Come poi avvenga che s’intenda unito o diviso, è un’altra
questione: voglio dire, come avvenga che nell’ intendere le nozioni non
si seguono, unite o separate, come in serie, ma formano un’unità. Vero e
falso, infatti, non esistono nelle cose (come se il bene fosse vero, il
male fosse senz’altro falso), ma nel pensiero: anzi, neppure in
questo, per quel che riguarda le unità semplici e le essenze (?).
nome, quasi un non-essere, si aftretta a difendere la necessità di
ammetterlo. (Non è nel carattere di questa filosofia addebitare il caso
alla nostra ignoranza). La natura, infatti, ha per A. una sua spontaneità
(tò adtéparov), analoga all'6petwy nelle azioni umanc. Di qui il
cominciamento assoluto di certe serie di avvenimenti. Credo meglio rifarsi di
qui, che dall’interferire di processi causali diversi, como fa il Bonghi
nel passo cit. (v. anche a p. 371). Come, infatti, A. accenna anche al
principio del 'cap. 3, ci sono in natura cause che appaiono e scompaiono senza
processo, (Ricorda che neanche dei punti, piani, ecc., nò degli istanti
nel tempo, c'è generazione: III 5, 10-11; nè delle sensazioni, secondo il De
sensu, 446 b, 4; o che ancbe le anime degli animali possono esistere o
non esistere senza processo di nascita-corruzione, come si dice in Phys.,
VIII. 6. 258 Db, 17; ma così anche per l’esistenza delle forme o pure
essenze in generale: v. VII. 8, 3 nota; VIII. 5, 1). Cfr. IV. 7, 1-2 e 4. Vero e falso riguardano
entrambi l’essere e il nonessere; ma qui l’essere e il non-essere si prendono
nel senso del vero e del falso (dell'esser-vero e del non-esser-vero). A
lor volta, vero e falso son presi come affermazione e negazione
nell’unità del giudizio disgiuntivo che pone la contraddizione, sì che, se una
parte di essa è vera, l’altra è falsa, e viceversa (non si di mezzo).
De interpr., 1. 16a. 12: « Nella
composizione e nella divisione consiste il falso e il vero. Invece, i
nomi per se stessi e i verbi valgono la nozione senza composizione e
divisione: come dicendo l’uomo o il bianco, quando non vi si aggiunga altro:
chè non è vero o falso in nessun modo. E prova ne è questo: che Tutto ciò,
dunque, che intorno all'essere e al non-essere, 4 intesi come vero e
falso, si può considerare, sarà da vedere più innanzi ('). Poichè,
consistendo la connessione o la divisione nel pensiero e non nelle cose, v’ha
differenza tra l'essere così pensato e l’essere fondamentale delle cose
(?). (Il pensiero infatti annoda o divide l’essenza, la qualità, la
quantità, o altro modo dell’essere). Mettiamo, dunque, da parte l’essere
nel senso di accidente e l’essere nel senso del vero: la causa di quello
è indeterminabile, e la causa di que 1028 a Sto è nella costituzione peculiare
del pensiero, ed entrambi riguardano l’essere nell’altro senso da quello
che più importa, i anche l'ircocervo significa pur
qualcosa, ma non punto nò vera nò falsa, se non vi sì uggiunge che esiste
o non esiste, o semplicemente o in un tempo ». Le nozioni (vofpata), 0
concetti considerati soltanto nel pensiero, riguardano una o l’altra
catezoria dell'essere. Nel giudizio, il soggetto è il nome (il sostantivo),
l'attributo affermato o negato è il predicato (il verbo). Anche
l’esistenza è una nozione che fa da prodicato (esiste). Ma, poi, A.
considera l'è ancho come copula semplicemente, che sta a indicare
soltanto la composizione delle nozioni fatta dal pensiero: «l'essere, per
sè, non è niente: significa una qualche sintesi, la quale non si può
intendere souza i componenti» (De interpr., 3. 16 Db, 24). La
composizione (ouvdeois, 0 cvuurdioxi, connessione) può, infatti, aver luogo
senza che il discorso affermi o neghi, propriamente: « Tutti i discorsi
sono significativi, ma assertivi non tutti, sì quelli in cui ha luogo
l’esser nel vero o nel falso. Non in tutti ha luogo: la preghiera, ad
es., è un discorso sì, ma non dice nè vero uè falso. La loro
considerazione è più propria della retorica e della poetica» (De iaterpr.,4.17
a, 1). L'asserzione (&népavors) si distingue, poi, in xetdpaas e
àrdpaars, affermazione e negazione. Essa riguarda l’attività del pansiero
discorsivo (dfvora), che può esser vero o falso; laddove l’atto del vovg
(l’intendere, il voeîv pr. d.) coglie (intuisce) sempre la verità, la
pura essenza delle cose, la quale è anche l'unità del loro essere, che il
pensiero (discorsivo) distinguo e separa nelle varie forine categoriche:
« L’intelleziono degl’indivisibili è di cose riguardo alle quali non c'è
errore, Dove, invece, ha luogo il vero e il falso, c'è già una certa
conposizione di nozioni. La falsità, infatti, nasca sempre nella composizione.
Ma ciò che fa l’unità di ciascuna cosa è l’intelletto » (De An., III. 6.
430 a, 26). E l'atto del percepire è come quello dell’intendere: «Come il
vedere è vero rispetto al suo oggetto proprio (mentre il vedere se il
bianco sia un uomo, o meno, non è sempre vero), così pure accade per le
cose senza materia [come le pure essenze)» (ivi, 430 b, 28). Cfr. quanto
citammo per l'atto del percepire a IV. 5, 19 68. Cfr. IX. 10, dove la questione è ripresa più
ampiamente. [td] 6v tOv xvolog:
l'essere in quanto essere, in sè e per sè, ch'è l’oggetto proprio della inetafisica.
L’esser-vero e l’esser-falso riguarda, invece, la logica (a questa,
quindi, nou appartiene, propriamente, l’atto del voùsg, l’intellezione «dei
principii, della pura essenza e dell’esistenza: cfr. dianzi 1, 2; 6 però
neanche «dei principii logici, come si disse in IV. 3). Cfr. su la questione
della verità nelle cose e nel pensiero quanto osservammo in nota. e però
non mettono in chiaro quale sia la natura sua propria (‘). E però si lascino da
parte. Vogliamo ora considerare le cause e i principii dell’
essere stesso in quanto essere. Ma già, quando trattammo di quanti
significati può avere ogni cosa che si dice, si notò che l’essere ha molti
sensi (?). =
Mi permetto di tradur così questo passo: Gupétega megl tò Aounòv
yévos TOoÙ Bvtos, xal oùx Em Bniovarv oloav (va [invece di otokv tiva)
puo où bvtos. Gli altri intendono: «Entrambi riguardano (o presuppongono,
si fondano gu] l’altro genere dell'essere [detto in proprio senso, i. e.
secondo le categorie), e non mettono in mostra nessuna natura che sia
fuori dell'essere [propriamente detto] ». MFxori: accanto, come un altro
genere dell'essere, coordinato a quello della sostanza. Manterrei all’
&&® il significato di «oggettivamente» voluto dal Ross, ma come
epesegetico qui, L’accenno è al lib.
V (cap. 7). Le ultime parole paiono aggiunte per collegare questo libro al seguente.
1 Lo Dell’essere, come accennammo dianzi (!) dove
distinguemmo i vari significati di questo e di altri termini, si parla in
molti sensi: da una parte, significa l’essenza e un «che determinato »;
dall’altra, quale è, o quanto, e ciascuna delle altre cose che così si
predicano. Ma, sebbene se ne parli in tanti modi, è chiaro che l’essere
principale è l’essenza, come quella che significa la sostanza. Quando,
infatti, Lib. V. 7. Per la
terminologia che segue, si ricordi che traduco generalmente il x gotiv con
essenza, e così anche tòd-elvar col dativo interno (alcuni traducono con
concetto: ch'è anche giusto; ma preferisco mantenere il tono oggettivo: rendo,
invece, con concetto il A6yos, quando questo non esiga altro termine più opportuno,
come discorso, ragionamento, ecc.). E con pura essenza rendo il ti fiv
elvar (cfr. nota a I. 3,2). La distinzione dei due concetti non è sempre
facile: ma, per principio, la pura essenza indica, come vuole la frase
aristotelica, un punto di vista del tutto universale, e puro, noi diremmo, da
ogni riferimento empirico (sebbene, per A., esso esista, poi, soltanto in
quanto è un téde t., un «che determinato »). E per rispetto alla
tradizione, ma anche per lasciar al testo la sua precisa formulazione,
seguitiamo a tradurre l’otola con sostanza: realtà è termine troppo
moderno e accenna a quella contrapposizione a «pensiero» che in A, c’è e non
c’è; essenza, come altri traduce, è pur giusta, in quanto l'oùcia è
l'essenza reale, concreta, la forma realizzata nella materia (nel
sinolo): ma, appunto per dar rilievo a questa concretezza, preferiamo tener
distinti i due termini. Intanto non
sfugga che, avendo A. determinato come oggetto della metafisica l'essere
în quanto essere (VI. 1, 1), la realtà in quanto tale, il problema
dell’odota veniva a porsi come fondamentale: chòù in essa si accentrano
tutti i principii d’intelligibilità del reale. Ed A. comincia col distinguere
in essa ciò ch'è essenziale per la sua comprensione da ciò ch'è accidentale,
mutevole e transitorio, ovvero è una determinazione meramente negativa.
206 METAFISICA parliamo della qualità di una certa cosa,
diciamo, ad esempio, non ch’è di tre cubiti o un uomo, ma ch’è buona o
cattiva; quando, invece, parliamo dell’essenza, non diciamo ch'è
bianca o calda o di tre cubiti, ma che è uomo o dio. Tutti gli altri
esseri si dice che sono, solo in quanto, di ciò ch’è in quel senso,
alcuni sono quantità, altri qualità, altri affezioni, altri qualche altra
cosa simile. Poniamo che uno faccia questione se il camminare, l’esser
sano, lo star seduto, e similmente qualunque altra cosa di tal fatta,
sia ciascuno un essere o un non-essere. Nessuno di essi esiste per
natura da solo, nè può esser separato dalla sostanza. Se, dunque, quelli
diciamo che sono, a maggior ragione sarà un essere ciò che cammina, ciò
che sta seduto, ciò ch’è sano. Questi, infatti, ci si mostrano tanto più
reali perchè c’è un essere determinato che fa loro da sostrato: questo è
la sostanza, e l’individuo, il quale per l’appunto si presenta in tale
categoria. Se così non fosse, nessuno direbbe: è buono, è seduto. Ora è
chiaro che soltanto in grazia di questa categoria (') esiste ciascuno degli
altri esseri. Così che l’essere primo, non questo o quel modo di essere,
ma ciò che è semplicemente, sarà la sostanza. Si dice in molti sensi che
una cosa è prima, ma la sostanza è prima in tutti i sensi: pel concetto, per la
conoscenza, per il tempo (*). Nessuna categoria, infatti, tranne la
sola sostanza, ha senso separatamente dalle altre. Ed essa è prima
quanto al concetto, perchè non c’è concetto di cosa alcuna, che non
comprenda in sè necessariamente il concetto di tavenv: si potrebbe riferire alla «sostanza»
che vien prima di «categoria»; ma che A. consideri qui }a oùdia come categoria
è chiaro anche da quel che segue. È vero che più spesso A. parla di
categorie in riferimento ai predicati della sostanza (la quale, perciò, ne è il
soggetto). Ma in opposizione alla cosa nella sua materialità anche la
«sostanza» è categoria, come si dirà tra poco (3, 7), ce il suo concetto
coincide con quello di « essenza ».
Facendo corrispondere questa distinzione a quella di pura essenza,
essenza, sostanza concreta, si può accogliere l'opinione di Alessandro (461, 1)
che le parole seguenti (Nessuna categoria... altre) riguardino la
priorità nel tempo (la sostanza non è mai senza attributi, ma esiste e e’
intende prima, indipendentemente da quelli che ha oggi o
domani). sostanza. E quanto alla conoscenza, noi allora reputiamo di
sapere benissimo ciascuna cosa, quando conosciamo quel che è: ad es.,
quel che è l’uomo, o il fuoco; molto meglio, per lo meno, di
quando sappiamo soltanto o quale è o quanta 0 dove: anzi, ognuna
di queste stesse determinazioni noi la veniamo a sapere allorquando impariamo a
conoscere che cosa è che ha quella qualità o quantità ('). In
fine, quel che si è cercato fino ad ora, e che ora e sempre si cerca, e
di cui si fa questione sempre, cioè che cos’è l’essere, vale appunto
questo: che cos’è la sostanza? Qui, alcuni rispondono ch’essa è unica,
altri che ce n’è più d’una: ‘e di questi, alcuni vogliono che le sostanze
siano in numero finito, altri in numero intinito (?). Poniamoci
dunque anche noi a questo problema, ch’è il più importante, il
primo, l’unico si può dire: vediamo quel ch’è l’essere così inteso.
CapiroLo II Pare (*) che il modo più evidente di esistere
della sostanza sia quello dei corpi. E però si suol dire che sostanze
sono gli animali e le piante, e le loro parti; nonchè i corpi fisici,
quali il fuoco, l’acqua, la terra, e gli altri corpi di tal fatta; e
quelli che o sono parti di essi, ovvero da essi (presi complessivamente o
parzialmente) risultano, come l’universo e le sue parti, gli astri, la
luna, il sole. Lett.: «che
cos'è il quanto o il quale »; ossia, anche per queste determinazioni, la
conoscenza è data dall'essenza. Ma per chiarezza ho preferito tradurre tò mooév
e tò motév come equivalente a mooév e smorsv: così auche Aless. (461, 23)
li intende due linee prima (dove il testo ha le stesse forme, con
l’articolo). La differenza è, al solito, nello scambio de’ diue concetti,
affini per A., di 80stanza ed essenza.
Nella questione della sostanza una o molteplice A. trova impegnate
tutte le scuole precedenti, da quella ionica all’eleate (una), dai
Pitagorici ed Empedocle (molteplice finita) ad Anassagora ed atomisti
(molteplice infinita). Volgarmente.
Qui si fa questione, dunque, non soltanto del numero, ma anche della
natura della sostanza, o delle sostanze. Da quella prima intuizione
volgare prende lc mosse la scuola ionica. Ma bisogna esaminare se queste
sono le sole sostanze che ci siano, 0 se ce ne sono anche altre (o sian
tali soltanto alcune di queste, o alcune, anche, delle altre) ('), ovvero
se di esse nessuna è sostanza, ma sostanze siano certe altre
d’altra natura. Ad alcuni (?), per es., pare che sostanze siano i limiti
determinanti ogni cosa corporea, come superficie, linea, punto, unità: a
maggior titolo, per lo meno, di ciò ch'è corporeo e solido. Inoltre, c’è
chi reputa che di sostanze non ce ne sia nessuna fuori delle cose
sensibili; e altri, invece, che ce ne siano parecchie , e a maggior titolo,
come quelle che sono eterne. Platone, ad es., fa delle specie e
degli enti matematici due sostanze, e pone come terza la sostanza
dei corpi sensibili. Speusippo, pur cominciando dall’unità, pone un
numero maggiore di sostanze, perchè ad ognuna di esseassegna principii
diversi: uno per i numeri, ad es., e uno per le grandezze; inoltre, un
principio per la sostanza dell'anima: ed è così che viene ad aumentarne
il numero. Alcuni, a lor volta, dicono che le specie e i numeri
hanno la stessa natura, e che da essi dipendono le altre cose:
linee e superfici, sino alla sostanza del cielo e alle cose sensibili
(*). Con l'h prima del xaî
(E e Ascl.) alla 1. 15, i casi son, dunque, questi: a) le sostanze son
quelle dette; d) quelle e altre; c) alcune di quelle: d) alcune di quelle
e anche alcune delle altre; e) altre.
I Pitagorici. Cfr. III. 5, 4. Seguono i Fisiologi in generale, poi
Platone e i Platonici. Di
genere. Altri intendono aàgiw per il numero: cfr. I. 9, 1; e XIII. 4, 4. Per Platone, non si dimentichi ch’ egli, pur
avvicinando le idee alla natura del numero, non le identificò mai con i numeri
nel senso dei Pitagorici (senza distinzione di sensibile e
intelligibile), nè le trattò meramente come i matematici trattano i loro
oggetti. Dei Platonici si parla
lungamente nei libri XIII-XIV, ma non si fauno i nomi: sì che
l'attribuzione delle particolari dottrine è mal sicura. Sembra che Speusippo
tendesse con ulteriori distinzioni a disperdere l'unità iniziale e il rapporto
sistematico dei principii (per il primo rispetto. cfr. XII. 7, 11, e XIV. 4.3 e
5, 1: per l'altro, la fine dello stesso XII: « costoro della sostanza
dell'universo fanno un complesso di episodi e riescono a una molteplicità
di principii»). Secondo il Frank (cit. nel Ross), egli avrebbe distinto
dieci principii: l’unità assoluta , l'assoluta pluralità , il numero , la
grandezza spaziale , i corpi sensibili (5), l'anima (6), la ragione (7), il
desiderio (8), il movimento (9), il bene (10). Speusippo è ricordato
anche in Etk. .Vic., 4. 1096 b, 5. Altri accentuarono, sembra, la tendenza
opposta, dell’unificazione dei principii, non soltanto contro Speusippo,
ma più in là dello stesso Platone. Asclepio (379, 17) fa IL
(bai 6 ni Dobbiamo, dunque, trattenerci
su queste opinioni per vedere se sono giuste, o no, e quali sostanze esistono:
se ce ne siano, o no, altre (') fuori di quelle sensibili; e, se ce
ne sono, come sono; e se esiste qualche sostanza separata, perchè e
come esiste, ovvero, se fuori di quelle sensibili non ce ne sia nessuna.
Ma, prima, diciamo in abbozzo della sostanza quel che è. La sostanza vien
intesa, se non in più, per lo meno in quattro modi principali, che paiono
costituire l’essere di ogni cosa: come pura essenza, come universale,
come genere, e in fine come sostrato (?). qui il nome di
Senocrate, successore di Speusippo; e Teofrasto (fr. XII, 12) dice che
egli «abbraccia in certo modo tutte le cose dell'universo: così le sensibili
come le intelligibili, e quelle matematiche, e persino le divine ». Ad A.
questa identificazione sembra la soluzione peggiore del problema lasciato in
eredità dal maestro: XIII. 8, 10.
Altre ce ne sono, per A., ma non separate in quanto forme delle
sostanze sensibili stesse.
L'universale, anzi, meglio, gli univ ersali,
astrattamente considerati, sono le idee platoniche, le quali A. nega che
siano sostanza (capp. 13-14): non così, naturalmente, quando l'universalità è
carattere o valore dell’essenza. Del genere non si parla più, e al
principio del cap. 13 è del tutto dimenticato. In quanto è un xotvév,
esso equivale al xaté6Xiov, quando questo sia inteso come una generalità, e il
genere, a sua volta, sia preso fuori del processo che lo realizza nelle
differenze. Così i quattro termini si riducono a tre, anzi, per la trattazione
negativa dell’universale, a due: la pura essenza e il sostrato. Del sostrato si
parla .nel capitolo presente, e si dice ch'esso è materia (CAm),
forma (puoogf, qui, poco dopo esemplificato con tò oxMpua 175
ldéas, e però con significato più vicino alla forma sensibile; ma
equivalente, in fine, a eldoc, a Adyos fivev GAng, a ff xatà tòv A6yov
odola, e però anche a tò 1 Kv elvari, sinolo (tò 84 tobtov 0 BE èippolv,
tò ocvverinupévov, tò otvterov 25 elbous xal GAns). Molto frequenta è Uroxzipevov
nel primo e terzo significato, raro nel secondo (cfr. VIII. 1, 6) e da
intendere come equivalente, qui, al terzo, ch'è il significato più comune
dell'oùota. Questa è, infatti, la sostanza concreta, piena realtà del
x6de , (in Cat., 5 distinta come prima dalla sostanza seconda, ch'è la
forma o specie). Di contro a essa sta la pura essenza nella sua
universalità, che vuol essere il suo principio intelligibile e insieme reale.
Per l’intelligibilità, è chiaro; la difficoltà sorge per la realtà,
essendo necessaria la materia per la sua realizzazione come individuo. Di
qui l’aporia del materialismo in questo capitolo, risolta da A., per ora,
soltanto negativamente, risolvendo la materia nel concetto dell’indeterminato,
© però inferiore al sinolo in realtà, e tanto più alla forma ch'è, per
l’intelligibilità, il principio del sinolo stesso. Il sostrato è ciò di
cui si predica ogni altra cosa, ma 2 1029 1 esso non è predicato più di
alcun’altra. Noi dobbiamo, quindi, cominciare la nostra trattazione da
esso, perchè la sostanza par che sia, in primo luogo, il primo sostrato
di ogni cosa. E però per un lato esso è la materia, per un altro è la
forma, 3 per ultimo il loro insieme. La materia è, per es., il
bronzo; la forma, la figura ideata; il loro insieme, l’intero, la statua.
Per conseguenza, se la forma è prima della materia e reale 4 a maggior
titolo, anche l’insieme d’entrambe (') sarà prima della materia per la
stessa ragione. Noi abbiamo dato, ora, un’idea di quel ch’è la sostanza,
5 dicendo ch’essa è ciò che non viene riferito ad altro come a
sostrato, anzi ad essa vien riferito tutto. Ma non bisogna fermarsi qui:
chè non basta. Non soltanto, questo, manca ancora di chiarezza; ma la
sostanza diventa, in questo modo, la materia. Se, infatti, non è essa la
sostanza di ogni cosa, non è facile dire che altro questa sia: togliendo
tutte le determinazioni (*), pare che non rimanga altro. Quelle determinazioni
sono soltanto affezioni dei corpi, produzioni e potenze loro; e neppure
lunghezza, larghezza e profondità sono altro che certe determinazioni
quantitative, e non sostanze. Sostanza non è la quantità, ma, piuttosto,
ciò a cui originariamente le determinazioni quantitative appartengono. Se
non che, tolta la lunghezza, la larghezza, e la profondità, non si vede
che resti nulla, tranne che si ammetta ch’è pur qualcosa ciò che da
quelle vien determinato. Sì che, a chi consideri le cose in questo modo,
deve necessariamente apparire la materia come la sola sostanza. Se si legge voò (invece di 16), allora va
tradotto: «anche dell’insieme d' entrambe sarà prima la forma per la
stessa ragione ». Ho preferito il vé perchò la questione, in questo
punto, mi pare sia quella della materia (l’usia nella sua realtà),
piuttosto che quella della forma (l’usia nella sua intelligibilità),
benchè anche questa sia giusta: come si vede dal $ 10. Ricorda il procedimento cartesiano: togliendo
tutte le determinazioni empiriche (prima le qualitative, poi le
quantitative) si dovrebbe arrivare al concetto puro di materia. Qui,
naturalmente, si tratta della materia, non del suo concetto, e A. non può
far valere contro il materialismo altro che il suo principio dell'esistenza
determinata. Chiamo materia quella che in sè non è una cosa determinata,
nè una quantità, nè niun’altra delle determinazioni dell'essere. Ci ha da
essere, infatti, un qualcosa di cui ciascuna di esse si predica. E la sua guisa
di essere sarà diversa da quella di ciascuna delle categorie: queste si
predicano della sostanza; la sostanza, poi, della materia ('). Per cui il
termine ultimo, per sè stante, in ogni cosa, non è qualcosa di
determinato, nè una quantità, nè altro; e neppure la negazione di queste
determinazioni, poichè anche la negazione non esprime dell'essere altro
che l’accidente. Così, quelli che ragionano da questo punto di vista, si
trovano a conchiudere che sostanza è la materia. Eppure, ciò è
impossibile: perchè ognuno vede che sostanza convien che sia, anzitutto,
ciò che può esistere separatamente, ed è qualcosa di determinato. Parrebbe
quindi che, a maggior diritto della materia, debbano dirsi sostanza la
specie, e quel che dall’unione di materia e forma deriva. Ma
lasciamo da parte, per ora, quest’ultima, cioè la sostanza in quanto risulta di
materia e forma insieme: che è cosa posteriore e manifesta a tutti. Anche
la materia, in certo modo, non offre incertezze. Dobbiamo trattenerci su
la terza, su la specie (*°), perchè è essa che presenta le maggiori
difficoltà. Le altre categorie son determinazioni (secondarie o
accidentali) della s0stanza, la sostanza esprime la determinazione (essenziale)
della materia; invece, a materia non si predica di nulla. Tutto il passo mescola le ragioni dei
materialisti con quelle di A., il quale non nega l'esistenza della materia, ma
che essa sia la sostanza. L’indeterminazione di essa non è mera negazione
o privazione (l'una non ha realtà affatto; l'altra non per sè, ma in quanto è
in altro: e d’altra parte, se fosse privazione, la materia avrebbe già una
determinazione, o un'indeterminazione soltanto relativa al momento
ulteriore del processo formale: cfr. VIII. 1, 6 e 6, 11; XL. 9, 2). Come avvertimmo in nota a III 2,5 traduciamo
eldog con specie quando non è in opposizione diretta al termine
materiale. Il Rolfes, seguendo S. Tom,, insiste molto (nel suo commento alla
trad. cit.) nel distinguere in A. la forma in quanto indissolubile dalla
materia, a cui è unita, dalla forma sostanziale, che può avere
un'esistenza indipendente da essa. Negli Scolastici, infatti, è viva la
preoccupazione per le conseguenze dogmatiche. Questa preoccupazione manca
in A., assorto, qui, a polemizzare contro l'idealismo astratto del maestro, da
una parte, e contro il rozzo materialismo dall'altra. (Un’ esistenza in
sè e per sè della E poichè tutti concordano in questo, che alcune di
quelle 11 sensibili sono sostanze, noi dobbiamo cominciare la
ricerca 1029 v in questo campo: chè è sempre utile passare per gradi a
ciò ch’è più conoscibile ('). La cultura, infatti, si acquista così:
12 attraverso le cose che sono meno conoscibili per natura si
procede verso quelle che sono per natura più conoscibili. E la fatica è
proprio in questo: come nel campo delle azioni si deve far in modo che,
partendo dal bene dell’ individuo,. il bene generale (°) divenga il bene
dell’individuo stesso; così, qui, dalle cose che a ciascuno sono più
facili a conoscere, si deve andare a quelle che, conoscibili per natura,
divengano tali per lui stesso. Certo, quel che l'individuo conosce in
principio è spesso proprio ciò che meno è conoscibile, e che ha poco o
nulla della realtà dell’essere. Pure, conviene prender le mosse da quelle
deboli conoscenze, le quali tuttavia costituiscono ciò ch’egli conosce; e
sforzarsi, passando, come si è detto, attraverso di esse, di fargli conoscere
ciò ch’è conoscibile assolutamente. pura forma è affermata,
senz'altro, di Dio nel lib. XII; ma per l’individualità di essa come
anima umana è nota l'oscurità di A. e del pensiero greco in generale).
Qui si dice che la difficoltà maggiore non è intorno alla materia e al
sinolo: questo è chiaro che è prime, come si disse dianzi, della materia,
e ha esistenza per sè e individualità (è qualcosa di determinato); la
difficoltà grande è intorno al principio ideale-reale del sinolo. La
specie ha esistenza e individualità in sè e per sè? In termini moderni si
direbbe che la questione passa dal punto di vista empirico a quello
trascendentale. Ma il senso di questo passaggio è limitato in A. dai
termini già accennati del suo pensiero.
Il testo (le prime due linee di 1029b appaiono al principio del cap.
s0g.) è stato riordinato dal Bonitz. Lo Jaeger (Arîst., pp. 204 e :s8.)
per primo ha avanzata l'importante ipotesi che questi libri VII-IX siano
stati scritti dopo il XII; e che perciò questo passo, sino alla fine del
capitolo, sia un'aggiunta poSteriore per collegare questa trattazione, intorno
alla sostanza sensibile, a quella puramente intelligibile. Ma cfr. note a
11, 11; 16, 7. tà &40g dyodd:
il bene in sè, ciò ch'è bene assolutamente (così, invece, ho tradotto, in
fine al capitolo, l'84ws), sarebbe espressione molto platonica: il
plurale dissuade. Così anche in Eth. Nic., V. 2. 1129D, 5. Quando noi da
principio distinguemmo in quanti modi Si definisce la sostanza, vedemmo
che uno di essi era quello della pura essenza: di esso vogliamo ora
trattare. E comiuciamo a dirne qualcosa dal punto di vista discorsivo: la
pura essenza è ciò che di una cosa si dice in se stessa considerata. Mi
spiego: l’esser musico non è l’esser tuo, perchè non per te stesso sei tu
musico: quel che sei per te stesso, dunque, quella è la tua essenza. Ma
con questo non 8°è detto tutto. Anche una superficie noi diciamo che per
se stessa considerata (') ha un colore, poniamo, bianco: ma non
così è l’in sè della pura essenza: poichè l’essere della superficie non è
l’essere del color bianco. E neppur l’ essere suo vien fuori dall'unione
dei due termini, dicendo ch’è una superficie bianca. Perchè? perchè c’ è
già compreso. Bisogna, perchè si abbia la definizione della pura essenza
di una cosa, che, chi la definisce, non ne includa la nozione nella
defi-{ nizione. Ne verrebbe questo: che, se all’essenza della superficie
appartenesse d’esser bianca, ed essa è la stessa ch’è levigata, l’esser
bianco e l’esser levigato sarebbero una sola e medesima cosa (?).
Distinguendo l’«in se stesso» dal
«per se stesso», dove il greco usa la medesima espressione (xad’ aùrté:
v. V. 18, 4-6, in cui pure si accenna a questa distinzione), si dà un po'
più di luce all’argomentazione. Non tutto ciò che una cosa è per sè, ne
costituisce per questo l’essenza. Noi sappiamo, infatti, che ci sono
accidenti essenziali, per es. l'uguaglianza degli angoli di nn triangolo a
due retti; ma l'essenza del triangolo, poi, è data puramente dalla sua
definizione. La cosa in sò è il presupposto d'ogni predicazione o
qualificazione (la superficie è bianca
superficie bianca). Passo
oscuro: ho seguito l’interpretazione di 8. Tom. (1314), perchè mi eembra
più intonata alla presente argomentazione (sebbene riconosca che il
testo» vien così un po’ forzato): A. direbbe che, se bianchezza e
levigatezza, e così gli altri attributi, siano pure essenziali,
costituissero la pura essenza della superficie, essi dovrebbero tutti
identificarsi tra loro. Il passo va forse, come nota il Christ, due rigbe
prima (dopo «già compreso »). Altri (e
già Aless.) intendono: « Per cui, Be poi si aggiungesse che l’esser
proprio della superficie bianca consiste nell’esser essa levigata, non si
verrebbe ad altro che ad identificare l’essere del 214
METAFISICA E poichè c’è pure una composizione (') della sostanza
6 con le altre categorie (un qualche sostrato ci vuole sempre per
ognuna: per la qualità, per la quantità, per il tempo, per il luogo, per
il movimento), è bene s’indaghi se per ognuno di tali composti si possa
far questione della pura essenza: cioè, se anche di essi si dia una pura
essenza: per es., dell’uomo bianco, la pura essenza di uomo-bianco. A
designare il com- 7 posto, diamogli un nome: per’ es., vestimento (°). In
che consisterà, dunque, l’essenza del vestimento? Certamente, essa non
potrà esser nessuna di quelle cose che si dicono considerandole in se stesse
(*). bianco con l’essere del levigato»: si darebbe, cioè,
l'essenza del bianco come consistente nella levigatezza. Così, infatti,
pare che la pensasse Democrito (De Sensu, 4. 442 b, 11; De Gen. et Cor.,
I. 2. 316, 1). La sostanza, in
quanto sìnolo di materia e forma, è già un cuvdetov da so stessa. La
questione, ora, è: si può parlare di pura essenza quando il ovv@etov è
della sostanza con le altre categorie? La prima risposta è negativa: si
può parlare della pura essenza dell’« uomo », non dell’«uomo-bianco ».
Ma, poi, si concede (14 s8.) che in largo senso (logico-discorsivo) si
può dire che c’è una definizione, e però una pura essenza, anche di
questi composti (quando se ne spiega il significato). Oggi diremmo: indichiamo con «x il composto.
L'opportunità di ciò è chiarita bene da S. Tom. (1317): «Et quia forte
aliquis posset dicere quod albus homo sunt duae res et non una, ideo
subjungit quod hoc ipsum quod dico albus homo, habeat unum nomen, quod
causa exempli sit vestis. Tune enim, sicut
hoc nomen homo significat aliquid compositum, scilicet animal rationale,
ita et vestis significat aliquid compositum, scilicet hominem album ».
Intendo che la
sintesi designata con «vestimeuto » non può esser scambiata con quella in cui
consiste Ja sostanza, o pura essenza, in sò (nell'esempio, l’uomo in
quanto animale ragionevole, non in quanto uomo bianco). Segue (8)
l'obbiezione, la quale, badando più all'espressione discorsiva, porterebbe a
conchiudere che definendo « vestimento » come «uomo-bianco » non si cade in
nessuno dei due errori (ivi notati) peri quali una definizione si può dire
mancante, sì che in questo senso si deve ammettere che la cosa è
considerata per se stessa (benchè secondaria, qui, la distinzione tra
l'in sé e il per sé, non si scordi che nel testo c'è anche
quest'ambiguità). All'obbiezione A. risponde (9), che, anche ammessa
buona la predetta definizione in quel senso (discorsivo), non per questo
si tratta di una pura essenza, propriamente, la quale dà sempre l’&ree di
un téde ti (Ja determinazione della natura costitutiva di
un’individualità: di qui la s04 stituzione frequente, nel pensiero
aristotelico, della «sostanza seconda », 0 specie, alla sostanza prima, o téde
tr). Altri intendono che l’obbiezione venga fatta qui (alla fine del $
7), e che A. risponda a essa nel 6 8. Il testo permette, sembra, tutte
due le interpretazioni (per il senso generale la differenza, in fine, è
di poco conto). Si può obiettare che una cosa non è considerata per
se stessa in due casi: o per via di apposizione, o al contrario.
Nel primo caso, ciò che si vuol definire lo si aggiunge ad altra cosa:
per es., volendo definire che cos'è la bianchezza, si dice che è un uomo
bianco. Nell’altro caso, c'è un’altra cosa aggiunta a ciò che si vuol
definire: per es., se vestimento vuol dire uomo bianco, vestimento si definisce
color bianco. Certamente, chi è uomo bianco è un che di bianco,
1030 a ma la bianchezza non è davvero la sua essenza. Ma
con questo si è detto che l’essere del vestimento sia la determinazione
di una pura essenza veramente? (') Non pare. Solo ciò ch'è un «che determinato
» è una pura essenza, Quando, invece, una cosa si predica di un’altra
(*), non abbiamo più un «che determinato »: l’uomo bianco, ad es., non è
la determinazione di un «alcunchè», una volta che tale determinazione
riguarda soltanto le sostanze. In conchiusione, la pura essenza ha luogo
soltanto in quelle cose di cu} il concetto è una definizione. E
definizione non c’è finchè si adoperano parole a signi!! ficare una cosa
invece del concetto: poichè, in tal caso, tutti i discorsi sarebbero
detinizioni, e si potrebbe adoperare una parola sola invece di un
qualsiasi discorso, sì che anche l’Iliade sarebbe una definizione (*).
Invece la definizione c’è soltanto qualora sia di ciò ch’è primo: e
questo ha luogo soltanto dove non c’è bisogno, per ragionarne, di
riferire una cosa a un’altra. Alla 1. 3: 8206; f) où. « Uomo » e « bianco » son due concetti, che
restan due anche se uniti nella sintesi «uomo bianco »; « animale » e
«ragionevole », invece, esplicano il concetto unico di uomo (equivalente
per A. al t6de tu). Aless. (467, 7 88.)
nota acutamente che il tne mira all'essenza nella sun unità, laddove la
definizione esplica le parti in cui quella è organizzata. Di qui la
coincidenza e insieme la differenza tra i concetti di essenza (che, in
quanto sintesi empirica, o concreta, è sostanza; © in quanto concetto può
limitarsi a una designazione generica: altrimenti, equivale al tne), pura
essenza, definizione. Ctr. TRENDELENBURG, Gesch. der Hategorienlehre, pp. 34
s8; BoxiTz, pp. 311 88. I. e.,
della parola «Iliade ». Non si scordi che a concetto e discorso corrisponde lo
stesso termine X6yos. Non potrà, quindi, la pura essenza trovarsi nelle
specie che non appartengano a un genere, anzi si troverà soltanto
in quelle che v’appartengono, perchè di quelle soltanto, evidentemente, si può
parlare senza riferirle ad altro come partecipazione o affezione di esso, o
come suo accidente (‘). Delle altre, così come di ogni cosa, ben si può
ragionare, o con un semplice discorso o in modo più esatto, per dirne,
poniamo, se ha un nome, che cosa questo significa, e che questo conviene
a quello. Ma non è questione, con ciò, della definizione e della pura essenza
(°). Ma forse anche per la definizione, come per l’essenza, è bene
osservare che si dice in molti modi. L’essenza, in un primo modo,
significa la sostanza e la determinazione di qualcosa; e in altro modo,
significa quale è, quanto è, e ognuna delle altre cose che si predicano
così. E in quella guisa che l’«è» si trova in tutte le categorie, ma non
ugualmente, perchè in una di esse ci sta in senso proprio, e nelle altre
per derivazione; così anche l’essenza, assolutamente, appartiene alla
sostanza, e al resto delle categorie soltanto in certo modo. Noi
potremmo, infatti, chiederci che cos’è la qualità, facendo, così, anche
della qualità un’essenza: non tuttavia assolutamente, ma in quel modo
come alcuni del non-essere affermano, discorsivamente, che il
non-essere è: non assolutamente, ma in quanto è non-essere. Si dica
similmente della qualità. Senza dubbio, è giusto che si badi anche come
convien parlare in ogni cosa, ma quel che più importa è come essa è
realmente. Oramai, dopo quel che s’è detto, dev’esser chiaro che la pura
essenza apparterrà primieramente e assolutamente alla sostanza; e poi anche
alle altre categorie,
Genere-specie (yévovs elbn) dev’ essere un processo unitario di
realizzazione della pura essenza: la qual cosa non avviene se le specie
son considerate platonpicamente come idee di cuî il genere dovrebbe partecipare
(cfr. III 3, 7); ovvero, secondo la dialettica sofistica, si unisca la sostanza
(ciò ch'è primo: tè xQ6tov 6v) con una qualità o un accidente di essa.
Così il X6yos passa dal suo
officio meramente semantico a quello apofantico (De interpr., 4. 17 a, 1), e da
questo a quello più logico-metafisico. nello stesso modo dell’ essenza, non
assolutamente, in quanto è la pura essenza, ma in quanto è pura essenza
della qualità, o della quantità, ecc. Poichè bisogna bene che uno ci dica
se in queste categorie l’essere ci sta soltanto per omonimia; ovvero se si
tratta soltanto di aggiungere e togliere (come quando si dice che anche
l’ignoto fa parte del noto) ('). In verità, la risposta giusta è di
negare sia la diversità, sia l'identità del significato; e dire che la
cosa sta come per quel che diciamo « medicale », tiferendoci, sì, a
qualcosa ch’ è pur sempre una e medesima, ma non ha un unico e
sempre 1030 b lo stesso significato, senza che perciò si tratti di
mera omonimia: diciamo «medicale» un corpo, un’operazione, uno stramento,
non per omonimia, nè per lo stesso rispetto, eppure ci riferiamo a una cosa
stessa (*). (Qui non importa nulla se uno preferisce un modo o l’altro di
vedere). Quel ch'è evidente, è che la definizione e la pura essenza riguardano
primieramente e assolutamente soltanto le sostanze, e che, s’ esse
valgono parimenti anche per le altre categorie, ciò non è in vero e
proprio senso. Posto questo, non è detto però che’ si abbia definizione
di un oggetto tutte le volte che c’è un discorso intorno a esso, ma
soltanto se ci si esprime in certo modo, cioè se si riguarda l'oggetto
come uno: non per mera continuità discorsiva (come sarebbe ]l’ Iliade)
(*), o perchè si Passo
molto oscuro. Omonime son le cose che hanno lo stesso nome, ma natura
diversa (Callia, per es., e il suo ritratto); sinonime, quando la realtà
o il concetto è lo stesso (abito, per es., e vestito). Per A., qui, non
si tratta nè di mera omonimia, nò di sinonimia: poichè l'essere nella
prima categoria e nelle altre nè è identico, nè è del tutto diverso. Si
tratta, invece, di aggiungere e togliere: i. e. (così parrebbe che voglia dire)
qualificare con un « primieramente » e un «secondariamente » l'essere nei
due casi, si che di esso si dia un più e un meno di realtà. Così anche il
non-essere delle categorie secondarie diventa un essere: come l'ignoto è,
in quanto lo ei sa tale, anch’esso noto (questo sembra dire ciò ch’è in
parentesi). V. per lo stesso
concetto ed esempio, IV. 2, 1-2. Le parole che seguono (messe da me in
parentesi) paiono riferirsi alla distinzione tra il xaè° Ev e il rodc Ev
(Ross). L'esempio (giù veduto
dianzi) dell'Iliade, come di ciò ch'è soltanto ouvdeop® Ev, torna in VIII. 6,
2. Così in Anal. Post., II. 10. 93 b, 96: « Un discorso può essere uno in
due modi: o per collegamento, come l’Iliade; o perchè chiarisce un'unica cosa
da un unico punto di vista, non per accidente », E così anche in Poet.,
20. 1457 a, 29. 218 METAFISICA adoperano
congiunzioni, ma in tutto il vero e proprio senso del termine « unità ».
Questa si dice come l’essere; e l’essere significa un che determinato, o
quanta, o quale è una cosa. Per cui, anche, ben si può parlare e dare una
definizione di assume altrettanti significati diversi: la soglia è
tale perchè situata così, e l’esser suo significa l’esser situata così;
così come l’esser ghiaccio vuol dire aver una certa densità. Ci sono cose
di cui l’essere potrà venir determinato anche con tutte queste
differenze, in quanto possono esser o mescolate, o combinate, o insieme
collegate, o condensate; ovvero esigono, per esser definite, anche le
altre differenze, come, ad es., una mano o un piede. È bene, dunque,
comprendere i generi delle differenze, una volta che queste debbon essere
i principii dell’esser delle cose: queste, infatti, si distinguono per il
più o per il meno, per il denso e per il raro, e per altre qualità sì
fatte: le quali tutte, poi, sono o in eccesso o in difetto. Quando
una cosa differisce per figura, o per levigatezza o ruvidezza,
tutte queste differenze si riducono a quella del dritto e curvo. E
quando l’esser loro consiste nella mescolanza, il non essere consisterà
nella condizione opposta. Risulta chiaro, dunque, che, se la sostanza è
la causa dell’essere di ciascuna cosa, bisognerà cercare in queste
differenze la cagione per cui ciascuna è quella che è. La sostanza, a dir
vero, non consiste in nessuna di queste differenze, neppure se accoppiate alla
materia; tuttavia esse costituiscono in ogni oggetto quel ch’è analogo
alla sostanza ('). E come nelle sostanze quel che si predica della
Queste differenze riguardano la
materia e l’accidentale più che la natura intima delle cose, e però non
ne dànno l’usia nel vero senso. Ciò che
tien le materia è l’atto stesso, così’ anche nelle definizioni delle
altre cose è ciò che meglio ne tien le veci. Per es., se si debba
definire la soglia, diremo ch’è legno o pietra situata in -certo modo: e la
casa è mattoni e legni situati così e così (se pure in certi casi non si
accenna anche allo scopo); e se si tratta del ghiaccio, diremo ch’è acqua
solidificata o condensata in tal modo; e la melodia è una mescolanza così fatta
di suoni acuti e gravi. E nello stesso modo per gli altri casi. Di
qui si vede che l’atto è diverso e diverso il concetto, quando la materia
è diversa: chè in alcune cose ha luogo composizione, in altre mescolanza,
in altre qualche altra delle differenze ricordate. Per cui, se uno, per
definire quel che sia una casa, dicesse che è pietre mattoni legname,
direbbe quel che la casa è in potenza, perchè pietre mattoni legname sono
la materia; se invece dicesse ch’è uno spazio chiuso per riparo delle
cose e delle persone, o aggiungesse altra cosa simigliante, direbbe quel
ch’è l’atto della casa. E se uno riunisse entrambe queste determinazioni,
direbbe la sostanza nel terzo significato, quella che risulta
dall’atto e dalla materia. Par chiaro, infatti, che il concetto che
si ottiene per mezzo delle differenze, è quello della forma e
dell’atto, quello invece degl’ingredienti della cosa riguarda piuttosto
la materia. Tali erano anche le definizioni che Archita (‘) approvava, poichè
esse si riferivano al composto. Per es.: che cos’è il tempo buono? La
quiete in grande estensione di aria: qui l’aria è materia, l’atto e la
sostanza è la quiete. Che cos'è la bonaccia? È l'uguaglianza della
superficie del mare: qui il sostrato, in quanto materia, è il mare, e
l’uguaglianza della superficie è l’atto e la forma. Con le cose discorse
resta così spiegato quel ch’è la __& veci
dell'atto (della vera © propria forma), in queste cose considerate
sensibilmente, sono le su dette differenze. Qui non si possono avere
definizioni (delle sostanze sensibili particolari non c'è dimostrazione,
nò definizione: VII. 15, 2), altro che in largo senso (VII. 4, 12-13).
Di Taranto, famoso pitagorico,
coutemporaneo di Platone. (Alla 1. 18: èvegysiav). sostanza
sensibile e in qual modo sia: essa è tale come materia, come forma e
atto: in un terzo senso, come il loro insieme. CapiToLo
III. Ma si badi che talora non è chiaro se il nome della
cosa esprime la sostanza come composto, o l’atto e la forma sua:
per es., se casa significhi l'insieme, un riparo fatto di mattoni e pietre
situate in un certo modo, ovvero semplicemente un riparo, cioè l’atto e
la forma della casa; e se linea significhi dualità in lunghezza, o
semplicemente dualità ('); e animale, anima in un corpo, o semplicemente
anima. L'anima è la sostanza e l’atto di un certo corpo, e chi dice
animale può riferirsi all’uno e all’altro significato, non perchè
coincidano nel copcetto, ma in quanto entrambi riguardano la stessa
realtà. Ciò per qualche rispetto non è senza importanza, ma per la nostra
questione su la sostanza sensibile non ne ha alcuna, poichè la pura
essenza consiste nella forma e nell’atto. Anima, infatti, ed essenza
dell'anima son la stessa cosa, ma non così uomo ed essenza dell’uomo,
salvo che per anima non s’intenda l’uomo: chè, allora, in un senso,
l’uomo e la sua essenza coincidono; in un altro, no. La sillaba non si
mostra nell’esser suo se uno la cerca nelle lettere e nella loro somma; e
così la casa, se uno guarda ai mattoni e alla loro somma. Ed è giusto che
sia così, perchè la somma o la mescolanza non deriva soltanto dalle
cose sommate o mescolate (°). Similmente, in tutti gli Cfr. VII. 11, 5; e per l'identità (nel par.
seg.) dell'anima e della sua essenza, VII. 10, 16, e 6, 14. Ciò, si aggiunge, può avere qualche
importanza, Der es. per il fisico; non per noi (per il rispetto metafisico),
ora: chò la forma è il priocipio del sinolo ed equivalente a esso (in
quanto, tuttavia, esso venga considerato nell'unità attuale del téde n).
Cfr. VII. 17, $ s8s,: qui
l’apriorità della: forma (ch’è, dunque, magà tà Gtoyela, non in senso
trascendente, ma affine al nostro trascendentale) viene estesa alle forme
sensibili. « Compositio et mixtio, quae sunt formalia principia, non
constituuntur ex his quae componuntur aut miscentur, sicut nec aliquod
aliud formale constituitur ex sua materia, sed e converso »: S. Tom:
(1713). altri casi. Ad es., se qualcosa è una soglia per la
posizione, non la posizione si spiega con la soglia, ma piuttosto
questa con quella. E l’uomo non è semplicemente l’essere vivente
più bipede, ma deve esserci qualcosa oltre di ciò, se ciò è preso
soltanto come materia: qualcosa che non è elemento nè un derivato da un
elemento, ma è sostanza, prescindendo dalla quale non rimane se non la
materia. Se, dunque, questo «qualcosa » è la causa dell’esser suo e della
sostanza, Si dovrà indicare in esso la sostanza stessa ('). Ora,
questa o è eterna, ovvero è corruttibile senza perciò perire, e diviene
senza che perciò si possa dir prodotta. Noi abbiamo altrove mostrato e
spiegato come la specie nessuno la produce o genera, ma quel che si fa è un
qualcosa di determinato, e quel che si genera è l’insieme. Se poi
le sostanze delle cose corruttibili siano separabili, non abbiamo
ancora chiarito, salvo che nei casi in cui è evidente ch’è impossibile, e son
tutti quelli in cui non può esistere la sostanza fuori dei particolari,
ad es., una casa o una suppellettile (*). Ma forse queste non sono da
riguardare come sostanze, e insieme a esse nessuna di quante altre cose
non sono prodotte dalla natura: chè la natura, essa sola, si può chiamare
sostanza nelle cose corruttibili. Perciò non è fuor di proposito la
questione agitata dai seguaci di Antistene e da altri rozzi come loro; i
quali Seguendo la volgata e
l’interpretazione di Alessandro (553, 7) l'accento polemico sarebbe, non
contro il materialismo, ma contro l’idealismo astratto dei Platonici, e
si tradurrebbe così: «.,... ma è sostanza: quella sostanza, a cui si
riferiscono quanti prescindono dalla materia, Se, dunque, questo qualcosa è la
causa dell'essere, e questa è la sua sostanza, essi si riferiranno (col loro
prescindere dalla materia) per l’appunto alla sostanza». Ma par evidente che
non è questo il senso del discorso qui. Meglio, piuttosto, mantenere, con
la volgata, anche l’oò dato da E (1. 14): « Se, dunque, questo qualcosa è
la causa dell’esser Suo, e questa è la sua sostanza, essi [prescindendo
da essa) si troveranno a non dire quel che è la sostanza stessa dell’uomo
[la sua vera realtà)». Così anche il Ross. Cfr. VII. 8, e nota a 7,3. Per A., non
ostante il suo frequente esemplificare con immagini prese dalla produzione
dell’arte, vere e proprie sostanze sono quelle naturali. L'uomo, infatti,
può indurre forme accidentali soltanto, non essenziali in ciò che già esiste ed
ha, quindi, una propria natura già. dicevano ch’è impossibile definire
quel che una cosa è('), perchè definire, per essi, è un tirare il
discorso in lungo, ma si può dire e insegnare soltanto qualche qualità
della cosa: dell’argento, ad es., non ciò che è, ma che è simigliante al
piombo. C'è, allora, una sostanza; e di essa si dà una definizione e un
concetto: di quella cioè composta, sia essa sensibile o intelligibile; ma
non degli elementi da cui essa risulta composta, una volta che il
discorso definitorio ‘significa che qualcosa conviene a qualche
altra, delle quali l'una dev’esser presa nel senso di materia,
l’altra di forma. Questo ci fa vedere anche che, se si vuol sostenere
da un certo punto di vista che le sostanze sono numeri, si dovrà
intendere come s’è detto, e non, come alcuni pretendono (?), che sian
collezioni di unità. Si dica pure che la definizione è un numero, poichè
infatti è divisibile e si risolve in elementi indivisibili (chè i concetti non
sono infiniti): proprio come il numero. E come il numero, se tu vi
sottrai o aggiungi qualcuno degli elementi suoi
e sia pure il più piccolo , non è più lo stesso numero, ma un
altro; così, Se la sua essenza è semplice (v. VII. 10, 17), anche per A. è
oggetto di vénows, non di 6propdc. Ma qui il discorso va ripreso dal $ 4,
come una prova ‘che il principio di una cosa non è dato da una sonma di
elementi. Benchè gli Antistenici (per i quali, v. Teeteto, 201 e; e lib.
V. 29, 2) intendessero ben altro (la definizione è, per essi, una
évopétov cvurioxi, che allunga in un A6y0g paxeés quella parola unica che
sola è propria della cosa: nota, per un confronto, il caso aristotelico
di una definizione meramente verbale, come di «Iliade »). Anzi, A. ne
trae argomento (nel par. seg.) per confermare la validità della definizione,
la quale non è somma (animale + bipede), ma rapporto formale di genere
(materia) a specie (forma). Ovvero, s’intenda la definizione nel senso di
VII, 4, 13. Platone e Platonici
pitagorizzanti, identificando le idee con i numeri, e considerandole
insieme come usie e universali, davano anche del processo dofinitorio una
ragione matematica. A. oppone alla concezione di un molteplice come
aggregato (e tale è l'idea in quanto usia composta di usie: cfr. n. a VII. 15,
6) la sua concezione di un molteplice organico, e a quella dell’unità
astratta (0 tale è l’idea in quanto universale) la sua concezione
dell'unità concreta. Questi paragrafi, duuque, sono strettamente legati a
quanto precede e il capitolo non è, come sembra (v. Ross, p. 231), una
collezione di pensieri sconnessi (lo stesso $ 5, che sembra interrompere
la continuità del ragionamento, è suggerito da quanto precede circa
l'apriorità della forma, che per A. è legata alla questione della sua
eternità, o meno; e introduce il concetto dell’unità viva, naturale,
della sostanza). neppure la definizione e la pura essenza è più la
stessa, se vi togli o aggiungi qualcosa. E anche pel numero ci ha da
esser qualcosa che gli dà unità; ma quel ch’esso sia, per cui il
numero, se possiede unità, è uno, non trovano modo di dire. Poichè o il
numero non ha unità, ed è come un mucchio; ovvero, se è uno, debbono
dirci che cos’ è quel che del molteplice fa un’unità. E poichè la definizione
similmente possiede unità, neppure di es sa sanno rendersi conto. Ed è naturale
che avvenga così, perchè la ragione è la stessa: la sostanza è una nello
stesso senso, non, come intendono alcuni, quasi fosse una specie di unità
o di punto, ma perchè ciascuna è atto in atto compiuto e una natura
determinata. E come il numero non ammette un più e un meno
nell’esser suo, così neppure la sostanza in quanto forma; ma, se
mai, in quanto è unita alla materia (*). Bastino queste
considerazioni intorno alla generazione e corruzione delle sostanze
suddette, in qual senso è possibile e in quale no, e intorno alla
riduzione di esse al numero. CariToLO IV. Per quanto
riguarda la sostanza materialmente considerata, non si deve trascurare che, se
anche tutto viene da uno stesso elemento primitivo o dagli stessi
elementi primitivi, e una medesima materia serve da principio alla generazione
delle cose; pure, c’è una materia propria di ciascuna di esse. Per es.,
materia, immediatamente, della flemma sono elementi dolci e grassi, della
bile elementi amari o altri che siano: anche se hanno la stessa origine.
Per uno stesso oggetto ci possono esser più materie, quando una sia
materia dell’altra: poniamo, la filemma si può dire che vien tanto
La sostanza è esattamente
(puntualmente, quasi matematicamente) quel che è. Ci può esser un più o
un meno nel suo essere, se mai, considerandola dal lato materiale (in
quanto, poniamo, non ha ancora realizzata pienamente ia sua
forma). dal grasso quanto dal dolce, se il grasso deriva dal dolce;
e si può anche dire che vien dalla bile, se si risolve questa sino alla
sua materia prima. Poichè una cosa si dice che viene da un’altra in due
sensi: o nel senso che l’una è uno svolgimento dell'altra, o perchè segue
all’altra risolta ne’ suoi elementi ('). Può darsi poi, che la materia
sia la stessa, eppure, mercè la causa motrice, divenga cose diverse,
per es., il legno può diventare tanto un armadio che un letto. Per
alcune cose affatto diverse ci vuole di necessità una materia diversa: ad
es., un’ascia non si potrebbe fare di legno, e non è questione qui della
causa motrice, perchè nessuno potrebbe fare un’ascia con lana o legno.
Se, quindi, c’è modo di fare uno stesso oggetto di materia diversa,
è chiaro che l’arte e il principio motore è lo stesso. Che se così
la materia come il motore son diversi, anche il prodotto è diverso.
Quando si domandi quale è la causa di una cosa, potendo di causa
parlarsi in molti sensi, bisogna enumerare tutte quelle che possono far
al caso. Per es.: qual’è la causa dell’uomo in quanto materia?
Certamente, il menstruo. Che cosa fa da motore? Lo sperma, per l’appunto.
Quale, da forma? La pura essenza. Quale, da scopo? Il fine
dell’uomo. Si può dire che queste due ultime cause coincidano.
Bisogna, poi, delle cause addurre quelle più vicine, e se si chiede
la materia, non rimontare al fuoco e alla terra, ma a quella ch’è
propria. Per le sostanze naturali, dunque, e soggette a
generazione è necessario procedere così, se si vuole procedere dirittamente,
dato che tali e tante sono le cause, e che noi dobbiamo conoscere le cose per
le loro cause. Ma per le sostanze che, sebbene naturali, sono eterne, la
questione è diversa. Alcune probabilmente, non hanno materia, o almeno non
l’hanno come quella ricordata, ma una materia mutabile soltanto
spazialmente. E neppure per quante cose avvengano naturalmente, ma non sono
sostanze, non si può far questione di materia: in esse è la sostanza
soggetta al fenomeno che fa da sostrato. Poniamo che si cerchi la causa
dell’eclissi. Qual’è la materia? Non c’è la materia, ma c’è la luna
che subisce l’eclissi. Quale la causa motrice dell’eclissi, e che sottrae
la luce? La terra. Quanto allo scopo, non pare che sia da parlarne('). La
causa formale è il concetto, ma esso resta oscuro, se non è accompagnato
dalla causa. Per es., che cos’è l’eclissi? Privazione di luce. Se si
aggiunge che ciò avviene perchè la terra s’interpone nel mezzo tra il
sole e la luna, allora questo è un concetto accompa- gnato dalla causa
(?). Quanto al sonno, non è chiaro quale sia il suo primo sostrato. Che
altro si può dire se non l’animale? Certo, ma da qual
punto di vista considerato? e qual è l’organo ch’è propriamente affetto?
Il cuore, o un altr’organo. Poi: da che cosa è prodotto? Anche: qual’è
l’affezione propria, non dell'organismo intero, ma di quell'organo? Si dirà
ch’è una specie d’immobilità? Sì, ma per quale affezione propria e
primitiva di un organo ha luogo quell’ immobilità?
CapPiTtoLO V. Poichè alcune cose esistono senz’esser generate, o
non esistono senza che perciò siano perite, ad es., il punto (*)
(dato che si possa parlare della sua esistenza) e, in generale, le specie e le
forme; e poichè non la bianchezza diviene, ma il legno bianco se ogni cosa che si genera, si genera
da qualcosa e diviene qualcosa ; non basta, dunque, che ci siano due
contrari perchè si generino l’uno dall’altro: un uomo nero diventa
bianco, ma non si può dir nello stesso Il movimento del sole è, senza
dubbio, Evexé tov, e così quello della luna; ma i due, agendo insieme,
possono produrre un risultato che non è Évexé tou» (Ross, a q. l.):
l'eclissi è, dunque, un esempio di quel taùrépatov, di cui si parlò in
VI. 2-4 e VII. 7. Efficiente:
che, in questi casi, si accompagna alla formale in sostituzione della
finale (Ilnddove, nelle cose che si generano secondo natura, la causa formale è
insieme finale, $ 4, anzi efficiente-finale). modo che il nero diventi bianco.
Aggiungi che non in ogni cosa c’è materia, ma in quelle soltanto che si
generano e passano le une nelle altre: tutte quelle che ci sono o
non ci sono, senza quel passaggio, non hanno materia. Sorge qui la
questione: come si comporta la materia di ogni cosa rispetto ai contrari?
Per es., se il corpo ha in potenza la salute, e alla salute è contraria
la malattia, ha, dunque, in potenza tutte due? E l’acqua è in potenza
vino e aceto? Ovvero essa è materia del primo secondo la sua natura
e per rispetto alla forma, e del secondo per privazione e per una
degenerazione contro natura? Si può domandare anche perchè, sebbene
l’aceto venga dal vino, il vino non è materia dell’aceto e aceto in potenza. E
l’essere vivente, similmente, è forse un cadavere in potenza? Non pare: la
degenerazione non è mai sostanziale; ma è la materia dell’essere vivente
quella che nella degenerazione è materia e potenza del cadavere, così
come l’acqua dell’aceto. L'una cosa, qui, vien dall’altra nello stesso
modo, che la notte dal giorno (!). Quando il passaggio tra gli opposti è
in questo modo, bisogna rimontare sino alla materia d’entrambi: per es.,
affinchè dal morto si generi il vivo, bisogna che quello ritorni prima alla
materia, e da questa poi si avrà il vivo; e l’aceto ridivenga acqua, per
poi diventar così vino. Ripigliamo la questione sollevata intorno alla
definizione e al numero: qual’è la causa della loro unità? Poichè
tutte le volte che le cose hanno parti molteplici e il tutto non è
Cfr. XII. 4, 5: l'aria è la loro
materia comune. Questa, dunque, può avere un processo di evo!zimento
(l’acqua diventa vino), o di degenerazione (aceto); onde soltanto per
accidens si può dire che il vino diventa aceto. Così il vivo non è il
morto in potenza (quasi che questo fosse l’atto di quella potenza: l'atto
è sempre una realtà superiore): scomparendo la forma, con la morte, resta
la materia, e questa è che si corrompe (e ridotta alla materia originaria
può riprendere di qui il processo ascensivo verso la vita). Ricorda, per
la generazione dei contrari, il Fedone come un mucchio, ma è qualcosa di
totale oltre le sue parti, dev’esserci qualcosa che sia la causa della
loro unità (‘). Lo vediamo anche nei corpi: talora è un’esterna adesione
la causa della loro unità, talora una coesione interna, o altra
condizione del genere. La definizione è una serie di parole che ha unità,
non per un collegamento di parti similmente all’ Iliade, ma perchè di un’unica
cosa. Che cos'è, per es., che fa l’unità dell’uomo, e perchè è uno e non
molti, animale e bipede? Alcuni dicono, per l'appunto, che esiste un
animale in sè e un bipede in sè. E perchè, allora, l’uomo non
potrebb’essere quelle due cose, ed esser uomo per partecipazione, non del
concetto di uomo e di un’unica essenza, ma di due, animale e bipede? In
breve: l’uomo non sarebbe, così, una cosa sola, ma più: animale e bipede.
È chiaro che per questa via, abituale a quei che in tal modo
definiscono e parlano, non si riesce a dar conto e a sciogliere la
questione. Se, invece, come noi dieemmo, l’una cosa è materia e l’altra è
forma, l’una è in potenza e l’altra in atto, quel che si cercava non
apparirà più dubbio (’). La difficoltà sarebbe la stessa come se la
definizione di « vestimento » (5) fosse « bronzo sferico »: poichè quel
nome sarebbe il segno del concetto, e rimarrebbe quindi a sapere la causa
per cui la sfericità e il bronzo fanno una cosa sola. Ma la
difficoltà scompare, se si fa osservare che l’uno è materia e Nota in questo concetto il deciso superamento
dell’empirismo, come già in VII. 17, 8 88. Cfr. VII. 12. Ma in questo capitolo il
pensiero è portato a un punto più chiaro e decisivo per il concetto
dell’atto che in questo libro accompagna o sostituisce quello della
forma. Qui il dualismo è superato: materia e forma non 8’ intendono, e
non esistono, l'uno fuori del rapporto all’altro (e così essenza ed
esistenza, individuo e universale): è la forma stessa che dà ragione del
sinolo nel processo di determinazione di questo dalla potenzialità
all’attualità. Per il $ 1 osserva lo Schwegler (che ha spesso acute
considerazioni per il lato filosofico): « Ci sono due specie di unità:
quella dell'aggregato e quella organica. Nelle produzioni organiche della
natura, ad es., il tutto non è un prodotto, ma, invece, il prius e la
ragione del prodursi delle parti. Soltanto ciò che ha unità formale, ha
una ragione del suo esser uno; tuttavia anche i corpi inorganici, 6e
fanno un insieme, hanno un principio, esteriore, per la loro unità » {p.
151). Cfr. VII. 4, 7: per
accentuare, con l’unità del nome, l’unità della definizione.
ARISTOTELE, Metafisica, 18 Q74 METAFISICA l’altra è
forma. E qual’è la causa per cui l’essere potenziale 5 diviene attuale?
Non ce ne può esser altra, nelle cose soggette al divenire, fuori di quella
efficiente. Nè può esserci causa diversa, per cui l’essere ch’era sfera
in potenza è ora sfera in atto, se non la pura essenza, ch'è la ragion
d’essere di ciascuno dei due. ' La materia poi può essere o
sensibile o intelligibile (*). 6 E il concetto si compone sempre di una
parte ch’è la materia e di una ch’è l’attualità sua: per es., cerchio è
una certa figura piana. Le cose, invece, che come individua- 7 lità, qualità,
quantità non hanno materia nè sensibile
nè 1046 b intelligibile, sono immediatamente ciascuna qualcosa che
ha unità e realtà per se stessa (?). Questa è anche la ragione 8
per cui nelle detinizioni non han luogo nè l’essere nè l’uno: chè la pura
essenza è immediatamente, per se stessa, qualcosa che ha essere e unità, onde
nella definizione e nella pura essenza non c’è bisogno di chiedere altra
causa, fuori di loro stesse, della loro unità e realtà: poichè ciascuna
quel certo essere e quell’unità determinata, che le competono, li
La distinzione, qui, ha altro
senso che in VII. 10, 18 (dove riguarda le cose). Nella definizione il
genere è materia intelligibile. (Anche materia sensibile, se la definizione è,
in più largo senso, del composto e della cosa sensibile: cfr. VII. 7, 12; VIII.
2, 6-7). Tali sono le categorie.
« Ch'esse non abbiano materia intelligibile, è chiaro: materia
intelligibile noi diciamo i generi, e delle categorie non c'è un genere,
chè sono esse i generi somml e non è possibile che ci sia una natura che li
sorpassi in generalità. Ma neppure hanno materia sensibile, perchè questa è
delle cose composte e sensibili, non già delle cose semplici e
intelligibili: ora, l’individualità e la quantità e le altre categorie sono
realtà semplici e intelligibili »: Alessandro (562, 32). Noi le diremmo
concetti puri: efr. VII. 9, 8-9. Per
l'ente” e l'uno, cfr. III. 4,31 ss. Il tne può esser inteso per le pure
essenze in generale (cfr. IX. 10,7; X. 1,4), 0 per quella delle categorie
(così il Ross). Nel primo caso l’immediatezza e molteplicità dovrebbero
esser risolte ($ 5) nell'unità mediata del pensiero definitorio, quando
questo fosse considerato, non più in una logica discorsivo-soggettiva, ma
nell'attività del nous che in essa si esplica. Questo punto è molto
oscuro in A., per il quale il nous è il primo principio logico-gnoeeologico, e
però principio e fine anche della verità del pensiero dianoetico; ma
l’atto della vénaws non perciò si risolve nel processo di esso: chè nell'uomo,
come fn Dio, esso è, por se stesso, immobile (e il suo proprio oggetto è
semplice, senza composizione). Cfr. IX. 10, 6-9; XII. 9,8. Nel secondo
caso si dovrebbe intendere la definizione (delle categorie) in senso molto
largo. ha immediatamente, per se stessa, e non come se li ricavasse
dall’ Ente e dall’Uno considerati come suoi generi, ovvero come se questi
esistessero separatamente oltre ciascuna di esse. Intanto, questa
difficoltà ha dato occasione ad alcuni di parlare di partecipazione,
senza che poi abbiano saputo dire quale sia la causa della
partecipazione, e in che consista questo partecipare. Altri parlano di
associazione psichica, e, per es., Licofrone (') dice che la scienza è
un’associazione del sapere con l’anima; e c’è chi dice che la vita è una
composizione o collegamento di anima e corpo. Ma, così, si può
ripeter sempre lo stesso discorso: e l’esser sano sarà
un’associazione o composizione o collegamento, che dir si voglia,
dell'anima con la salute; e il triangolo di bronzo sarà una
composizione di bronzo con triangolo, e il bianco una composizione di
una superficie con la bianchezza. La ragione per cui parlano così è
ch’essi cercano un concetto unificatore e insieme la differenza della potenza e
dell’attualità. Ma, come noi abbiamo esposto, la materia ultima e la
forma sono una e medesima cosa (°), l’una in potenza, l’altra in atto.
Sarebbe come se uno cercasse la causa dell’unità e dell’esser uno un
oggetto: chè uno è qualsiasi oggetto, e l’essere in potenza e
l’essere in atto sono in certo modo una cosa sola. Sicchè non c’è
qui altra causa dell’unità tranne quella motrice, che fa passare l’essere dalla
potenza all’atto. Ciò, invece, ch'è immateriale, è sempre e assolutamente
un’unità per se stesso (?).
Sofista seguace di Gorgia: cfr. Zeller, IS, 1323 (n. 3). f toyxktn Gin xal # poegà taòrò xal Év (come
gradi di un processo unico, ma cfr. nota a IX. 8, 1). Questo non hanno
inteso coloro (Platonici e altri) che, dopo aver separate le due cose,
cercano «un concetto unificatore ».
Qui par chiaro che (in contrasto con le cose soggette al divenire) si
parla del tne in generale, e delle specie esistenti come puro atto (di
cui alla nota a VII. 8, 3). Così vien conchiusa la polemica contro l’ Uno
e l'Ente dei Platonici, risolvendo l’astrattezza di questi principii
nella determinatezza del tne (che ha unità e realtà immediatamente per se
stessa: $ 7), o del xéde x (in cui l'unità e realtà del tne si media nel
processo della potenza-atto: per quanto ricompaia quì l'immediatezza del
tne nell’identità dei due termini materia-forma, o si rimandi il principio
unificatore della loro dualità a una causa motrice o efficiente, $ 5, la
quale può essere esteriore all’attualità del c68e t.: l’uomo che genera
l'uomo. o lo scultore che produce la statua). LIBRO NONO
CapPiTOLO I. 1 Noi abbiam parlato dell'essere fondamentale,
cioè della sostanza, ch’è ciò a cui tutte le altre categorie dell’
essere si riferiscono: chè in grazia del concetto di sostanza
consideriamo come reale tutto il resto: la quantità, la qualità, e quant'altro
si predica di essa in questo modo: tutte implicano il concetto della sostanza,
come dicemmo nei ragio 2 namenti precedenti. Ma, poichè dell’essere si parla,
per un rispetto, come qualcosa di determinato, o come quantità o
qualità; per un altro, come potenza e come atto finale, e come il
realizzarsi di questo , dobbiamo adesso
passare 3 a dir della potenza e dell’atto finale. E cominceremo
dalla potenza nella sua principale e più propria significazione,
ancorchè non sia quella che più c’interessa qui (*): poichè 1046 a
Eoyov è tanto l’azione o funzione
che realizza il fine (tò téAi0g), quanto la cosa in cui questo si è
realizzato. Più difficile ancora è tradurre èvreAéyera [forse, da vò
tvredèg Egov, 0 Evreiws Exov: Ross]: atto finale, sia nel senso che ha il
fine in 8è, e sia nel senso che esso è il fine a cui tutto il resto tende
come alla propria perfezione. In questo secondo significato easo vuol essere
atto puro, atto in atto, onde ogni potenzialità sia risolta
nell’attualità piena e perfetta del t6be tu (che ha realizzato, così, il
tne). Nel primo significato èvr. è, più generalmente, l’attività
(#véoyea) o principio efficiente del processo che porta la potenza a
risolversi nell’attualità, la materia nella forma o pura essenza del
reale. Cfr. nota a VII. 13, 1.
In Metafisica (chè il movimento è oggetto, più propriamente, della
Fisica). Alla l. 36: yenarpotamn (Ab, Aless.). 278
METAFISICA potenza ed atto si estendono molto al di là delle cose
considerate meramente in rapporto al movimento. Dopo di aver accennato
alla potenza in quella significazione, illustreremo, nella
determinazione: dei concetti riguardanti l'attualità, anche gli altri
suoi significati. Altrove (‘') abbiamo spiegato già come le parole
Potenza e Potere si possono adoperare in molti sensi. Lasceremo qui
da parte tutti quelli in cui si parla di potenza per semplice omonimia:
chè alcune si chiamano potenze soltanto per una certa somiglianza: ad
es., in geometria possibile o impossibile dicesi quel che è o non è in certo
modo. Ma quelle che appartengono alla stessa specie, tutte hanno
carattere di principii, e vengono riferite ad un unico concetto
originario della potenza, ch’è quello di esser principio di mutamento in
altro o in sè in quanto altro. C'è, infatti, la potenza di patire, che
nel paziente stesso è il principio di mutamento passivo per opera di
altro o di sè in quanto altro; così come c’è l’abito per cui una cosa non
può patire peggioramento o distruzione da un principio di mutamento che
sia in altro o in sè in quanto altro. Tutte queste definizioni contengono
il concetto di potenza nel suo senso originario. E potenze poi chiamansi
medesimamente sia quelle del fare o patire in generale, sia quelle del
fare o patire in maniera conveniente: sì che anche nel concetto di esse è
immanente in certo modo il concetto delle potenze dette dianzi. È
dunque evidente che la potenza del fare e quella del patire
esistono, per un rispetto, come una sola e medesima potenza, e
per Vedi V.12 (e note per la traduzione dei termini). In generale, potenza
è iu primo luogo la facoltà o capacità di dar principio a un processo di
mutamento in altro, o in 8è in quanto altro (come se un medico curi se
stesso: egli cura sè, paziente, in quanto altro da sè, agente); o di
ricevere questo processo. La potenza è, quindi, o attiva o passiva:
quest'ultima è o di patire in generale, o di ricevere un mutamento in
meglio (o in peggio): potenza attiva e potenza passiva, quindi, possono esser
ristrette al senso dell’agiro o patire bene (in modo conveniente rispetto
a un fine). Come nota il Bonitz (p. 379), questa distinzione si complica
con l'altro significato del Buvarév e dduivarov, di ciò ch'è « possibile
» o «impossibile ». Nè A. tiene abbastanza distinti questi due punti di
vista: l'uno reale; l’altro logico-reale, in assoluto, o in senso
empirico (di ciò che può accadere, o no): ch'è un senso affine a quello dell’
èvSeyxbpevov. altro rispetto come cose diverse: poichè fornito di potenza
è un oggetto tanto se ha la capacità di patire esso stesso per
opera di altro, quanto se ha quella di far patire un altro per opera sua.
Per un rispetto, infatti, la potenza è in quel che patisce, perchè esso
patisce ciò che patisce, ed è altro dall’agente, in quanto ha in sè un
certo principio a essere [e a non-essere], ed è là materia un tal
principio: così, il grasso è infiammabile, e ciò ch’è fragile si può far
in pezzi, e via dicendo similmente per gli altri casi. Per altro
rispetto, la potenza è nell’agente, per es. il caldo o l’arte di
costruire è l’uno nel calorifero, l’altra nel costruttore. Per cui, se
in un essere i due aspetti non sono distinti, non può patir nulla
da sè: esso è uno e identico con sè, e non diverso da sè. La mancanza di
potenza, poi, o impotenza, è la privazione ch'è il contrario di tale potenza:
onde ogni potenza si oppone a un’impotenza, dello stesso oggetto e per lo
stesso rapporto. Ma di privazione si parla in molti sensi ('): privazione
c’è se l'oggetto non ha certe qualità, semplicemente; o non le ha mentre
naturalmente dovrebbe averle, o sempre, o quando dovrebbe averle: e in
quest’ultimo caso se ne manca in un modo determinato, per es.
perfettamente, o ne manca in ogni modo. E in certi casi parliamo di
privazione anche per quelle cose a cui la violenza ha tolto ciò che
avrebbe naturalmente. Poichè principii siffatti trovansi e negli esseri
inanimati e in quelli animati, nell'anima e in quella parte di essa
provvista della ragione, è chiaro che anche delle potenze alcune sono
irrazionali, altre s'accompagnano alla ragione. Tutte le arti e scienze
poietiche sono potenze: principii, cioè, di mutamento in altro o
nell’agente in quanto altro. Tutte quelle dotate di ragione sono, ognuna,
potenza insieme di contrari; di quelle irrazionali ognuna è potenza di Così
anche in un solo contrario: ad es., il caldo ha la potenza di scaldare
soltanto, mentre la scienza medica riguarda tanto la malattia quanto la
salute. E la ragione è che la scienza è concetto, e 3 uno stesso concetto
fa vedere insieme il fatto e la sua privazione, ma non nella stessa misura,
perchè, pur essendo il concetto di entrambi, fa vedere piuttosto il lato
positivo. Sì che anche ognuna di dette scienze sarà, insieme, dei
contrari: dell’uno, tuttavia, per se stessa, dell'altro non per se stessa:
poichè il concetto riguarda l’uno per se stesso, l’altro in certo modo
per accidente (‘). Esso fa vedere, infatti, il contrario negativamente e
per rimozione: chè il contrario del fatto consiste nella privazione
originaria, e questa si ottiene con la rimozione del contrario positivo. E
poichè i con- 4 trari non possono esser insieme nello stesso oggetto, e
la scienza invece per la sua razionalità è una potenza quale 8’è
detta; e poichè l’anima ha in sè il principio del movimento, avviene che, mentre ciò ch’è salubre produce
soltanto la salute, e il calorifero soltanto calore, e il frigorifero
soltanto freddo, l’uomo che sa produce amendue i contrari. Poichè il
concetto abbraccia ambedue, sebbene non nella 5 stessa maniera, e ha sede
nell’anima, la quale, possedendo in sè il principio del movimento, e
unendo col pensiero i contrari nello stesso oggetto, li può muovere (?)
entrambi in virtù del medesimo principio. Ecco perchè le potenze
agenti razionalmente, abbracciando i contrari con un unico principio, la
ragione, operano contrariamente a quelle che della ragione sono
sfornite. Così come il non-essere è un essere per accidente, non in sè e
per sè. Nel pensiero, tuttavia, il rapporto è più profondo: i due
concetti sono uniti; anzi uno è la negazione (&rmégpaars), la
rimozione (&ropopd) 0 privazione originaria (reotm, radicale),
dell'altro (del positivo): dal quale soltanto ricava il proprio
significato. C'è un accenno, rilevato dallo Schwegler (p. 160), al
concetto della mediazione. Infatti, il principio di entrambi è il
medesimo ($ 5). Produrre (i
concetti contrari dell'oggetto, i. e. l’oggetto stesso della contrarietà). If
principio del movimento è l’appetito, comune agli animali. Ma l'uomo
soltanto è potenza attiva capace di produrre effetti contrari, perchè presenti
insieme nel guo pensiero, e questo solo fa dell'appetito una volontà
consapevole (Si può trovare, così, un accenno al libero arbitrio).
L'animale non sa, ed è, per ciò, come le cose, che non hanno possibilità
di scelta. È evidente anche che alla potenza di operare o patire in
modo conveniente si accompagna sempre la potenza difoperare o patire
semplicemente, laddove a questa non si accompagna sempre quella: per la ragione
che, se si opera bene, . necessariamente, anzitutto, si opera; ma non
per il fatto di operare, semplicemente, segue di necessità che anche
si operi bene. Ci sono alcuni, ad es. i Megarici, i quali dicono che
il potere c’è soltanto quando c’è l’azione, e che quando l’azione
non c’è, neppure c’è il potere: per cui, poniamo, se uno non costruisce,
non ha il potere di costruire, ma l’ha chi è costruttore quando
costruisce; e negli altri casi, similmente. Non è difficile vedere in
quali assurdità vanno a conchiu 2 dere. Poichè è chiaro che nessnno sarebbe più
costruttore se non costruisce, laddove esser costruttore è esser in
grado di costruire; e così dicasi per le altre arti. Se, dunque, è
impossibile che possegga tali arti chi non le ha una volta imparate e
apprese, ed è impossibile che uno non le possegga più se non le perde (o per
dimenticanza, o per qualche 1047 a malattia, o perchè è passato molto
tempo: non certamente perchè intanto sia andata distrutta l’arte: chè
essa c'è sempre): come il costruttore perderebbe l’arte quando
cessa di costruire, e come poi di nuovo l’acquisterebbe appena si
3 mette di nuovo a costruire? E dicasi lo stesso per le cose inanimate:
nè il freddo, nè il caldo, nè il dolce, nè in generale nessuna cosa sensibile
esisterà più se noi non la sentiamo: sì che ad essi accadrà di ripetere
il ragionamento di Protagora. E neppure possederà la sensibilità chi noh si
trovi Lett.: l'oggetto
(me&iypa) dell’arte, il concetto. Questo capitolo e il seguente si attaccano
meglio al cap. I. Cfr. IV. 5-6.
Costoro, dunque, accentuano della dottrina protagorea il momento attualistico
(nel senso puntualistico, dell'istante temporale). Per quanto riguarda il
concetto della possibilità, che costoro fan coincidere con quello della
realtà (dell'essere, riannodandosi, così, all'affermazione parmenidea, che
esclude a sentire effettivamente, in atto. Se, quindi, cieco è chi,
pur fornito da natura della vista, non vede quando sarebbe in
condizione di vedere, accadrà che uno stesso, perdurando ad essere,
diventerà molte volte al giorno cieco e sordo. Inoltre, se impotente (')
si-deve dire ciò ch’è privato della potenza, ciò che non è già in
divenire sarà impotente a divenire, e mentisce quindi chi afferma che ciò
ch’è impotente a divenire è o sarà: poichè questo appunto si vuol dire
con «impotente ». Ma, allora, con questi ragionamenti si sopprimono il
movimento e il divenire: ciò che si trova in uno stato, sempre starà in
quello, e chi è seduto starà seduto sempre, e chi si siede non potrà
alzarsi più: poichè, chi non ha la potenza di alzarsi, è impotente ad alzarsi.
Se, dunque, questi son discorsi che non reggono, è manifesto che potenza
e atto non sono la stessa cosa, e poichè, invece, quei discorsi
fanno della potenza e dell’atto una sola cosa, bisogna dire ch’ essi
cercano di sopprimere una differenza che non è trascurabile. Invece, noi
diciamo che ben può darsi che qualcosa abbia la potenza di essere, e
intanto non sia, e abbia la potenza di non essere, e intanto sia; e che
la cosa sta similmente per tutte le categorie, onde, ad es., chi ha la
potenza di camminare può anche non camminare, e chi ha ia potenza
di non camminare può anche camminare (?). Un essere ba una certa potenza
se non c’è nessuna impossibilità ch'egli il nou-essere e il
divenire), e intorno al significato della testimonianza di Diodoro Crono in
proposito (sul quale v. Zeller, II4, 1, 269), v. MEIER, in Archiv f.
Gesch. da. Philos., XIII. 31, e le considerazioni del Ross (a q. l.). O
«impossibile » (&8yvatov): qui sono conglobati i due significati,
della potenza reale e della possibilità logica; e la tesi vien presentata
da A., così: Se impotente (impossibile) è ciò che non può (non ha la
potenza di) essere, di questo non si può dire nè che è, nè che sarà: può
essere soltanto ciò che attualmente è anche quello che sarà o non sarà. Ciù che già non è in divenire, ciò che
non sta accadendo, attuandosi (yiyvépevov, meglio di yevépevov). LI. 23-24: fadlterv e 6v, invece di fadltov e
eivar (così anche il Ross). Per accentuare di più il concetto di possibilità
bisognerebbe tradur quel che segue, così: « Possibile è una cosa se non
c'è nessuna impossibilità (nessun assurdo) che abbia luogo l'atto di ciò di cui
quella dicesi aver la potenza». Una contaminazione dei due concetti è
necessaria ad evitare l'apparenza, almeno verbale, di un circolo vizioso.
traduca in atto ciò di cui dicesi aver la potenza. Voglio dire, ad es.,
che se uno ha la potenza di sedere e si trovi a dover sedere, non c’è
nessuna impossibilità, per lui, di passar all’atto. E similmente se si tratta
d’esser mosso o di muovere, di situarsi o di situare, di essere o
divenire, di non essere o non divenire. La parola «attività»,
implicante un rapporto all’ entele‘chia o atto perfetto, sebbene estesa ad
altri significati, trae origine principalmente dalla considerazione dei
movimenti, poichè sembra che il movimento soprattutto sia attività.
Ecco perchè alle cose che non esistono nessuno attribuisce movimento,
bensì alcuni altri predicati: si dice, per es., che sono pensabili o
desiderabili cose che non esistono; ma non che siano in movimento: e
questo perchè, altrimenti, cose che attualmente non esistono dovrebbero
già esser in atto. 1047 b Ben è vero che, delle cose che non esistono,
aleune hanno la possibilità di esistere; ma non esistono, in quanto
non ancora è cominciato il processo finale che le realizza. Ora, se
« fornito di potenza» è quel che s'è detto (in quanto ne è una
conseguenza) (*), è manifesto che non si può esser nel vero dicendo:
questo è possibile, ma non si realizzerà mai: giacchè, in questo modo, ci
sfuggirebbe che ci son cose che non posson essere. Prendiamo un esempio:
se uno dicesse che la diagonale è possibile misurarla, ma
non L'èvéeyera sembra, qui (6-9), distinta dalla xivnois, in quanto questa
riguarda il principio di mutamento in altro (I, 5), quella, equivalendo
all’evreréyera (nel primo significato, di cui alla nota 1, 2), è attività
che realizza se stessa (come Sè o come altra? cfr. XII. 9, 5-6). Il
pensabile non esiste fisicamente, e però non gli si attribuisce
movimento; pure può esistere nel processo di realizzazione dell'attività del
pensiero, se questo si pone a pensarlo.
dvvatév è quando non c'è nessuna impossibilità ecc., come al $ 7 del capitolo
precedente. Costoro, attualizzando
l’eusere parmenideo, sopprimono la distinzione tra ciò che ha e ciò che
non ha la potenza di realizzarsi (tra « possibile » e «impossibile »: tutto è
possibile, anche se non avverrà mai). sarà misurata mai, perchè niente
vieta che una cosa che può essere o divenire, non sia ora nè in
seguito, costui
ragionerebbe come se non ci fossero casi d’impossibilità. Invece, da quel
che s’è stabilito dianzi deriva di necessità che, affinchè sia lecito anche
solo supporre l’essere o il divenire di una cosa che non esiste ancora, ma è
possibile, bisogna ch’essa non racchiuda nulla d’impossibile. Ma
nel caso accennato si avrebbe qualcosa d’impossibile: chè la
diagonale e il lato non sonò commisurabili. Si badi che il falso e
l'impossibile non sono la stessa cosa: che tu stia in piedi ora, è falso,
ma non è impossibile ('). E chiaro è, insieme, che se, A essendo, è
necessariamente 8, allora, se A è possibile, dev’ essere possibile anche
B: poichè, se questa possibilità non seguisse di necessità, niente
impedirebbe la possibilità ch’esso non sia neppure. Poniamo, ora, che A
sia possibile. Allora, una volta che 4 è possibile, se si pone che 4 sia
realmente, nulla d’ impossibile dovrà risultarne. Allora, anche B dev’essere
reale. Invece, si voleva sostenere ch’è impossibile. Poniamo,
allora, Vero e falso possono riguardare soltanto la logica
discorsiva, ma anche la verità o falsità reale: nel qual ultimo caso,
l'impossibile, coincidendo col contradditorio, è anche il falso (cfr. V. 12,
8-9 e 29, 1). L'impossibile, invece, qui, non è il contradditorio,
semplicemente, ma «ciò che non ha la potenza di realizzarsi ». Il
ragionamento mira dunque ad affermare la necessità che la potenza, 6e è
reale, passi (o abbia l’effettiva capacità di passare) all’atto: si realizzi,
cioè, quandochessia, poichè non presenta nessuna difficoltà, reale e
logica, interna. Così mi par da intendere anche quel che segue, in cui il
rapporto tra A e 8 non dovrebb'esser pensato come rapporto tra due
realtà, ma come rapporto tra due concetti e momenti del processo (potenza e
atto) della stessa realtà. (In Anal. Pr., dove è lo stesso ragionamento,
il rapporto è tra premessa e conseguenza nel sillogismo ipotetico). Non si
scordi, infatti, che A. qui polemizza contro l’affermazione megarica Buvatrdv
pèv toòl, oùx Eorar dé: ch'è inaccettabile, dice A., perchè, dato che A e
B sian due concetti di cui l’uno richiama l’altro, non si può affermare la
possibilità o realtà dell'uno senza affermare la possibilità o realtà
dell'altro. Il passaggio dalla potenza all'atto è, quindi, logicamente
necessario, e ancho realmente, data la concezione deterministica universale di
A., per il quale ogni processo, essendo in qualche modo sempre già
iniziato, deve pervenire al suo compimento; ma, poichò la questione è qui
realistica anche in senso empirico, il passaggio o compimento può non
esser determinato nel quando e nel come. Cfr. nota a VI. 3, 4 per il
concetto dell’accidente e del caso. che B sia impossibile. Se B è
impossibile, impossibile necessariamente è anche A. Ma s'era posto che A fosse
possibile: allora, anche B è possibile. Se, dunque, A, è possibile, anche B
sarà possibile, dato che A e B siano in tale relazione che la realtà
dell’uno porti di necessità la realtà dell'altro. Se, trovandosi A B in
quella relazione, la possibilità di B non stesse a questo modo, allora neppure
4 B avranno tra loro la relazione che s'era posta. Se, invece,
quando A è possibile, di necessità anche 2 è possibile, dato che A sia
reale, sarà necessariamente reale anche B: poichè, che l’esser possibile
di B consegua di necessità se l’essere di A è possibile, vuol dire
appunto questo: che, dato che A sia possibile, quando e come è possibile,
anche la possibilità di B e il quando e il come di essa son dati. Di tutte
le potenze che possediamo, parte sono congenite, come quelle dei sensi;
parte si acquistano con l’abitudine, come quella di suonar il flauto;
ovvero con l’insegnamento, come quella delle arti ('). Quelle che si
acquistano con l’abitudine e col ragionamento, esigono di necessità un
precedente esercizio dell’attività. Quelle invece che non s’acquistano così, e
le potenze passive, di quel precedente esercizio non han bisogno.
Una potenza è sempre una potenza determinata a qualcosa, e in certo tempo, e in
certo modo, e con tutte le altre condizioni che debbono far parte della
definizione. E ci sono esseri che han potenza di muovere secondo ragione,
e di cui le potenze s’accompagnano perciò alla ragione; altri sono
sprovvisti di ragione, e le loro potenze sono irrazionali. Le prime
necessariamente esistono in esseri animati, le se Per es., l’arte del medico. Questo capitolo
prosegue l’argomento del cap. 2. E si richiama alla nota dottrina
aristotelica dell'atto che precede l’'Egts tin cui consiste la virtù:
etica e dianoetica): v. Eth, Nic. conde possono esistere negli animati e in
quelli inanimati. Queste ultime potenze son sì fatte che, quando l’agente
e il paziente s’incontrano in modo conforme alla loro potenza, di
necessità l’uno agisce e l’altro patisce; per le potenze razionali, invece,
tale necessità non c’è. Quelle, infatti, son tutte tali che una di esse
può produrre uno solo dei contrari; queste, invece, entrambi; sì che, se
tale necessità valesse anche per loro, produrrebbero insieme i contrari:
il che è impossibile. Bisogna, allora, che sia qualch’altra cosa
quel che decide (‘). Voglio dire il desiderio o la scelta razionale:
quello dei due contrari che l’animale ragionevole appetisce definitivamente,
quello farà, quand’ egli si trovi conformemente alla sua potenza e in contatto
con ciò che può ricevere la sua azione. Per cui, necessariamente,
l’essere che ha potenza conforme a ragione, fa, quando lo desidera,
tutto ciò di cui ha la potenza, e nel modo che l’ha. Egli ha, tuttavia,
tale potenza se il paziente è presente e nelle condizioni determinate:
altrimenti, non potrà operare. Nò c’è bisogno di aggiungere nella
determinazione che niente di fuori faccia impedimento: perchè ognuno ha
la potenza nel modo in cui questa è potenza effettivamente, e
questa non è potenza di operare in qualsiasi modo, ma in condizioni
determinate; e in ciò è implicita anche l'esclusione degl’ impedimenti
esteriori, in quanto questi sopprimono alcune delle condizioni essenziali alla
determinazione. E così pure, se uno volesse o desiderasse far nello
stesso tempo due cose diverse o anche opposte, non potrà furle: poichè
non è così ch’egli ha la potenza di fare quelle cose, e non esiste
potenza di farle insieme; egli farà soltanto ciò di cui ha, e come ha, la
potenza. Un principio interno, non esterno: la volontà, ossia l'appetito
illuminato dalla ragione (principio delle virtù etiche), ovvero la
ragione mossa dall'appetito (principio delle virtà dianoetiche): per
l’5peew e la xooalgeow v. Eth. Nic.Nota il riflesso della legge dei contrari
nella potenza dell'agire umano, e la determinazione storico-empirica
dell'atto volontario, in cui l'antitesi libertà-necessità è risolta nel
senso del secondo termine. un Dopo aver parlato della potenza
considerata in rapporto al movimento, passiamo a trattare dell’atto per
determinare quel ch’esso è, e i suoi caratteri. Con questo anche la
potenza verrà chiarita, pur che si ponga mente alla distinzione per cui
noi diciamo dotato di potenza non soltanto ciò che muove naturalmente
altro o da altro è mosso, senplicemente o in modo più determinato, ma
anche in un significato diverso: che è quello pel quale abbiam condotta anche
la ricerca su i precedenti significati. L’atto è l’esistenza stessa
dell’oggetto, non nel senso in cui diciamo ch’è in potenza (noi diciamo
ch’è in potenza, ad es., un Ermete nel legno, o la metà di una linea
nella linea intera, in quanto si può cavarla da questa; e diciamo
che uno è un pensatore anche se non sta speculando, perchè è in grado di
speculare): intendiamo, invece, che sia in atto. Ciò che vogliam dire
diventa chiaro ricorrendo a casi particolari, induttivamente: non bisogna
esigere definizione di tutto, ma bisogna talora contentarsi d’intuire il
significato dei termini nel loro rapporto (‘). L’atto, dunque, sta alla
potenza come il costruire al saper costruire, l’esser desto al dormire,
il guardare al tener chiusi gli occhi pur avendo la vista, come l’oggetto
cavato dalla materia ed elaborato compiutamente sta alla materia grezza e
all'oggetto non ancora finito. Con il primo dei membri di questa
differenza intendiamo che venga determinato l'atto, con il secondo la
po tò dv&hoyov ovvogiv (ho
svolto il concetto di proporzione; ma qui è compreso anche quello di analogia
nel senso più comune). Per il pensiero, cfr. 8. Tom. (1826): «Nam prima
simplicia definiti non possunt, cum non sit in definitionibus abire in
infinitum: actus autem est de primis simplicibus, unde definiri non potest».
Vedemmo già (VIII. 6, 7 n.) un equivalente in A. del moderno «concetto
puro ». In questo senso, anche, è anapodittica la filosofia prima (ma, poi, per
lui gi tratta di principi primi nel senso di ciò ch'è dato immediatamente
all'origine del conoseere: cfr. i passi di Anal. Post. cit. in nota a I.
9, 91). Pure, per la parte di verità ch'è in tale intuizione, non è
giustificata l'accusa ch'egli, per definire certi concetti, ne adoperi
altri che già li presuppongono.tenza. Ma non tutte le cose si dicono in atto
nel medesimo 6 significato, salvo che non s’intenda analogicamente,
come quando si dice: questo sta in questo o a questo nello stesso
modo che quello sta in quello o a quello. Esse, invece, sono in atto,
parte, come il movimento in rapporto alia potenza; parte, come la
sostanza in rapporto a una certa materia ('). Per l’ infinito (*),
tuttavia, e pel vuoto, e per tutte le cose 7 di questa specie, si parla
di potenza e atto in significato diverso da quello, più usuale, di quando diciamo,
ad es., che uno guarda, o cammina, o che un oggetto è veduto.
Queste affermazioni possono talora corrispondere a una realtà vera
e propria: noi diciamo che una cosa si vede, o perchè è veduta
effettivamente, o perchè è in condizione d’esser veduta. L’infinito, invece,
non è mai in potenza nel senso che possa poi diventare in atto una realtà
esistente per se stessa: esso è infinito in potenza per il pensiero.
Poichè dal fatto Nel primo
caso l'atto (attività) è definito dal rapporto tra due momenti del
procosso che realizza la forma (questo a questo: per es. il materiale
grezzo in rapporto alla costruzione della casa, o chi è seduto
all'alzarsìî e camminare); nel secondo, come attualità della forma
determinata (questo in questo: la casa esistente, Socrate che cammina).
L’eévéoyera è qui distinta dalla x(vnaws, non nel primo significato
dell’EvreAéyewa (v. nota a 3, 9), ma nel secondo. Il Ross (II, 252) riassume brevemente, dalla
Phys. (III. 4-8), la dottrina di A. su l’infinito. L’estensione è
infinita, per A., soltanto nel senso della divisibilità: xatà dualgeswy, non
xatà nedodeav (delle sue parti). Il numero, invece, infinito
(&irergov, indefinito) xatà snodateaw, nel senso della possibilità di
pensarne sempre uno maggiore; non xetà Bdialgearv (chè dividendo si
perviene all'ultimo limite, all'unità). E la sua infinità non è reale
fuori del suo processo. Il tempo soltanto è infinito xatà Sualpeaw e x.
rododeorv : infinitamente divisibile e realmente infinito; ma la sua
infinità è, come quella del numero, in continuo divenire. Quanto al
vuoto, similmente (P/ys., IV. 6-9): per quanto una materia si pensi più
rarefatta di un’altra, non esiste spazio senza qualche materia. Si può
aggiungere che, proprio per questo rapporto tra spazio e materia,. A. concepisce
l'estensione come finita; e che il tempo è per lui infinito nel senso in
cui è eterno il movimento (cfr. XII. 6, 2), ossia il divenire stesso. E che
l'infinità del numero, così come quella dello spazio, è veduta nell’attività
del peneiero che si esercita su l'oggetto, per sè, sempre finito. Così pel
vuoto: solo col pensiero si può vuotare lo spazio di ogni contenuto.
Probabilmente A. polemizza qui contro la dottrina democritea, oltre che
contro i presupposti delle argomentazioni zenoniane e le conseguenti
applicazioni della scuola megarica.
Un’esposizione della dottrina, tratta spec. dai libri di fisica, è in A.
CovotTiI, Le teorie dello spazio e del tempo nella filosofia greca fin aà
A. (Pisa che non si trova mai la fine a dividere, si deduce che questo è
un atto che ha una realtà puramente potenziale, non che l'infinito abbia
una propria attuale esistenza ('). Delle azioni che hanno termine (*),
nessuna ha valore di fine, ma soltanto di mezzi al fine: per es., il
termine del dimagrare è la magrezza, e se quel che d imagra si
riguarda così, quando è in questo movimento che non ha raggiunto
ancora lo scopo per cui il movimento avviene, non si può dire che ciò
costituisca un’azione, o, per lo meno, un’azione perfetta: perchè non è
questo il fine. Ma quando nel movimento si trova il fine, allora esso è anche
azione. Per es., l’atto del vedere è quello stesso di aver veduto, quello
di pensare e intendere è quello stesso dell’aver pensato e inteso;
invece, quello di chi impara non è lo stesso di chi ha imparato, nè
quello di chi guarisce è lo stesso di chi è guarito. L’atto del ben vivere è
quello stesso dell’aver vissuto bene, e quello dell’esser felice è lo
stesso in chi fu felice. Altrimenti, bisognerebbe una volta arrivare al
termine del movimento, come quando si fa la cura di dimagrare. Qui,
invece, no: chè si seguita a vivere, sebbene si sia vissuto f1) Non
ostante l’incertezza (l’infinito, in quanto indefinito, ha pure una sua
esistenza), è chiaro ad A. che il concetto d'un infinito attuato è
contraddittorio (onde sì fa strada il sospetto che la vera infinità è
soltanto del pensiero). Cfr. XI. 10. Il Bonitz accusa A. perchè, mentre
prima aveva definita la potenza, contro i Megarici, come capacità di
attuarsi, l'attribuisce qui, mira levitate, a un oggetto che tale
capacità non ha. Ma l’infinito non è un oggetto nel senso delle cose,
intorno alle quali verte la disputa precedente. E in ogni modo era da
notare con meraviglia anche il lato profondo, messo allo scoperto da A., in
tale contraddizione. Il
brano seguente, sebbene il pensiero dominante sia abbastanza trasparente, è nel
testo tra i più guasti di tutta la Metafisica. Esso manca nel codice
parigino E (sec. X), nel commento di Alessandro e in quello di 8. Tommaso,
e nella traduzione del Bessarione. C'è nel codice laurenziano Ab (sec.
XII). AccoGliendo alcune congetture del Bonitz (p. 397) sul testo, si può
intendere cosi: il dimagrare ha per fine la salute, non il fatto della
magrezza a cui pon capo il movimento del dimagrare; e se azione o
attività è aver il fine ultimo in sè, 80ltanto l’atto che non si esaurisce in
un termine o fine particolare, ma rimane essenzialmente identico a sè
attraverso i momenti del procéèsso, è perfetto, ed è vera e propria attività
formale: tale è l’atto del vedere, del pensare, del vivere, della
felicità. Così la perfezione dell’ &vreAéyera (nel secondo significato)
abbassa a x{wnow ogni altra forma di attività (anche quella
dell’apprendere). già. Di questi processi, dunque, gli uni son da dire
movi- 11 menti, gli altri attività; poichè ogni movimento è imperfetto:
il dimagrare, l’apprendere, il camminare, il costruire: i quali
sono, appunto, movimenti, e però incompiuti. Infatti non è 12 possibile
che coincida il passeggiare con l’aver passeggiato, il costruire con
l’aver costruito, il divenire con l’esser divenuto, o il muoversi e l’essersi
mosso, e il muovere e l’aver mosso: chè son cose diverse. Invece, l’atto
del vedere e quello d’aver visto, del pensare e dell’aver pensato,
coincidono. Ora, un processo di quest’ultima specie io lo chiamo
attività; l’altro, movimento. CapiTtoLO VII. Da
queste e altre simili considerazioni crediamo chiarito 1 quel ch’è
l’essere in atto e i suoi caratteri. Ora vogliamo determinare quando
ciascuna cosa è in potenza, e quando non è: poichè non in qualsivoglia
tempo è tale. Per es., 1049 a la terra è in potenza già un uomo, o non
ancora, ma piuttosto quando già è divenuta sperma? E forse neppur allora.
Avviene qui come per la salute: non ogni cosa può esser guarita o dalla
medicina o da sè spontaneamente, ma ci vuol qualcosa che abbia tale
potenza, e cioè abbia già la salute in potenza. Per le cose che dipendono
dal pensiero si può 2 definir la questione così: esse passano dall’essere
in potenza all’atto, quando siano volute e niente faccia
impedimento dal di fuori; e dall'altra parte, in chi ha da guarire,
niente faccia impedimento di quel ch’è in lui ('). Dicasi similmente
3 di ciò che deve diventare una casa: esso è una casa in po Alessandro (583, 12): « Per es., il medico
conduce il malato dalla potenza alla salute, quando se lo sia proposto e
non ci siano impedimenti esteriori: il luogo, il tempo, ece.: così dunque
si dovrà definire l’atto dell'agenterazionale; quello del paziente,
invece, dal non esserci impedimenti interiori: perchè un malato guarisca,
si richiede, infatti, che tutte le sue membra siano in condizione idonea a
ricevere la salute ». tenza se niente faccia impedimento di quel ch'è in
esso, sl che alla materia che deve diventar casa, non ci sia nulla
da aggiungere, nè da togliere o mutare. E altrettanto dicasi per tutte le
altre cose di cui il principio generatore è fuori. Per quelle, invece, di
cui il principio generatore è in loro, esse hanno tale potenza allorquando,
nessun ostacolo intervenendo di fuori, si realizzeranno da sè. Lo sperma, ad
es., non ancora ha tale potenza, abbisognando di passare in altro e
trasformarsi. Solo quando una cosa sia in grado di realizzarsi per un principio
suo proprio, si può dire ch’è già in potenza: lo sperma, invece, ha
bisogno d’un altro principio ('): così come la terra non ancora è statua in
potenza, ma deve trasformarsi e divenir bronzo. Come ognuno può
notare, dell’oggetto non diciamo ch'è questo (in cui è in potenza), ma
ch’è fatto di questo: l’armadio, poniamo, non è legno, ma di legno; e il legno
non è terra, ma di terra; e la terra, a sua volta, se deriva da
altro, non è quest’altro, ma è fatta di quest'altro. E quest’altro è sempre,
propriamente, la potenza di quel che vien subito dopo: per cui, ad es.,
l'armadio non è terra, nè di terra, ma di legno: chè questo è armadio in
potenza, e questa è propriamente la materia dell’armadio (dell’armadio in
generale, il legno in generale; di questo armadio particolare, questo
legno particolare). Che se s'incontra qualcosa di primitivo, che non venga più
denominato da altro come fatto di esso, allora quello è la materia prima:
se, per es., la terra è di aria, e l’aria è di fuoco, e il fuoco non
venisse denominato da altro, allora il fuoco sarebbe la materia prima
(?). Questa, poi, soltanto se diviene qualcosa di determinato, è
sostanza. Infatti, in questo differisce il sostrato o soggetto:
Il risultato dell'unione è, poi,
propriamente, la materia come potenza concreta dell'essere umano (come
principio già del processo generatore).
La quale ha, quindi, sempre qualche determinazione: soltanto in
rapporto a ciò che diventerà (poniamo, l’aria), è materia priva di forma.
Ho seguito nel testo l'emendamento proposto dal Christ (conforme
ad Aless., 589, 24). Per secondo ch'è, o no, un «che determinato » (‘). Il
sostrato 8 delle affezioni è, ad es., un uomo, un corpo, un’anima;
e affezioni sono l’ esser musico o bianco. E quando la musica diviene
nell’uomo, noi non diciamo che egli è la musica, ma musico, così come non
diciamo ch'egli è la bianchezza, ma bianco, non è la passeggiata o il
movimento, ma passeggia o si muove: così come dianzi dicevamo di un
oggetto ch’esso è fatto di questo o quello. In tutti i casi di questo
genere il sostrato ultimo è la sostanza. In quelli, invece, in cui
non sì tratta di un’affezione, ma quel che vien predicato è una
forma e alcunchè determinato, allora l’ultimo sostrato è la materia o
sostanza materialmente considerata. In ogni caso, si conchiude che
drittamente l’oggetto, che diciamo fatto così o così, prende questa
denominazione dalla materia e dalle affezioni: perchè quella e queste
sono indeterminate. Quando, dunque, si deve dire che un oggetto è in potenza, e
quando no, s’è detto.
CapirtoLo VIII. Dopo quanto fu determinato dei vari significati in
cui si parla di priorità (*), risulta chiaro che l’atto è prima
della, potenza. È intendo non soltanto della potenza che fu da noi
definita come principio di mutamento in altro o in sè in quanto altro;
ma, in generale, di ogni principio di movimento Alla 1. 28: xa@'ob (invece di xa#6Aov):
proposto dall’Apelt, accolto dal Ross. Il sostrato, o soggetto, o è un
téde ti, sostanza ch'è il soggetto delle determinazioni secondarie; ovvero è la
materia, di cuî si predica la determinazione essenziale, la forma. Cfr.
VII. 3, 7 e 13, 1. Il bianco, o la bianchezza, è un indeterminato, se non venga
aggiunto {(aggettivamente, come per la materia) a «uomo», o a «Socrate ».
Per quel che segue, cfr. De Caelo. La natura è principio del
movimento immanente alla cosa stessa; potenza, invece, è principio di movimentò
in altro in quanto altro» (o in sè in quanto altro). Sarà, dunque,
immanente alla cosa in quanto sè? Ma, da un lato, l’alterità è necessaria
al movimento; dall’altro, come parlare di un sé della cosa? A. si limita a
porre, qui come altrove, entrambe le esigenze: la dualità dei termini, e
l’unità del processo (equivalente, per A., all'identità dei termini: cfr.
anche 1, 7-10). o d’inerzia. La natura, infatti, appartiene allo stesso
genere della potenza, come quella ch'è principio di movimento, sebbene
non in altro, ma nella cosa in quanto è essa stessa. Di ogni potenza,
dunque, così intesa, l’atto è prima, e pel concetto e per la sostanza;
per il tempo, in un senso sì, in un senso no. Che sia prima quanto
al concetto, è evidente, poichè fornito di potenza, nel senso originario del
termine, è ciò che ha la possibilità di passare all’atto: per es.,
chiamiamo costruttore chi ha la potenza di costruire, veggente chi è in
grado di vedere, e visibile ciò che si può vedere: così dicasi per gli
altri casi. Sì che necessariamente il concetto di atto precede quello di
potenza, e la conoscenza dell’uno quella dell’altro. Esso, poi, è
prima quanto al tempo in questo senso: l’individuo attivo è prima di quello in
potenza in quanto è lo stesso per la specie; invece, considerato nella
sua identità numerica, è prima in potenza, e poi in atto. Mi spiego:
di quest'uomo qui ch’è già in atto, o di questo frumento o di
quest’occhio che vede, c’è prima, in tempo, la materia, il seme, la
facoltà visiva, i quali sono uomo, frumento, occhio che vede, in potenza,
non ancora in atto. Tuttavia li precedettero altri esseri in atto, dai quali
essi furono generati. Poichè sempre dall’ente in potenza si passa
all’ente in atto in virtù di un ente in atto: ad es., l’uomo vien
dall'uomo, il musico vien dal musico, Sempre deve precedere un motore, e
questo è già in atto. Abbiamo già visto ne’ ragionamenti intorno alla
sostanza che ogni cosa che
diviene, diviene qualcosa, da qualcosa, e per opera di qualcosa
ch'è della stessa specie di essa. Per cui si vede anche l’impossibilità
che uno divenga costruttore se non ha mai costruito nulla, o citaredo
senza aver mai suonato la cetra: poichè chi vuol imparare a suonar
la cetra, suonandola, impara a suonarla. E similmente per ogni arte. Di
qui prese nascimento l’argomentazione sofistica che non c’è bisogno di
possedere la scienza per fare ciò di cui questa tratta ('), perchè,
finchè uno impara la scienza, non la possiede. Se non che, come di ciò
che diviene qualcosa già dev’essere divenuta, e in generale di ciò che si
muove qualcosa deve già essersi mossa (questo punto fu illu 1950 a strato
nei libri intorno al movimento) (*); così, chi “apprende una cosa,
deve necessariamente conoscerla già in parte. Anche per questa via,
dunque, risulta chiaro che l’atto, pur da questo lato, del processo
generativo e del tempo, è prima della potenza. Ma anche in
riguardo alla sostanza l’atto è prima della potenza: prima di tutto,
perchè quel che pel divenire è ultimo, per la forma sostanziale è prima: per
es., l’adulto è anteriore al fanciullo, e l’uomo allo sperma: l’uno ha
già realizzata la specie che l’altro non ha ancora. In secondo
luogo, ogni cosa che diviene muove verso un principio e un fine: lo scopo
di una cosa ha valore di principio, e il divenire è per il fine: questo
fine è l’atto, ed è in grazia di esso che si pone la potenza: chè
l’animale non vede a fin d’aver la vista, ma ha la vista per vedere.
Similmente, anche l’arte del costruire c’è per il costruire, e l’abito
speculativo per lo speculare: e non è già che gli uomini speculino per aver
l’abito speculativo: salvo il caso di coloro Lett.: «cho chi non possiede la scienza può
far ciò di cui questa tratta »: per es., sonare la cetra. Cfr. EthA.
Nic., II. 1 e 3. La scienza è in atto nel maestro (col quale, in certo
modo, fa tutt'uno lo scolaro). Nota il solito avvicinamento della
produzione naturale a quella umana (consapevole). Phys., VI. 6. Anche nell’individuo, dunque,
se si guarda al processo in sò dell’attività (superando il dualismo tra
l'esterno e l’interno), l’atto precede la potenza (questa è già
attività). Chè, come il sapere vien dal sapere (cfr. I. 9, 94; Anal.
Post., I. 1. 71 a, 1), così l’attività non può venir che dall’attività
stessa. Inavvertitamente A. sorpassa la distinzione posta al $ 4 tra
l'individuo e la spocie empiricamente intesi (termini da lui stesso
riconosciuti astratti altrove) e il Ssignificato meramente cronologico del
tempo (in cui l’argomentazione, come ognun sa, non può esser
conchiudente): questo gli si fa equivalente al divenire sostanziale
dell'individuo come suo svolgimento interno (conforme al concetto di quo
al 6 1). Cfr. note a 6, 7 e VII. 1, 4.
Le considerazioni che seguono, riguardano l'atto come principio finale e
formale del processo stesso di svolgimento, secondo il canone
fondamentale di A., onde ciò che in esso è posteriore spiega quel che
vien prima. che lo fanno per esercitarsi, dei quali si può dire ch’
essi non speculino veramente, tranne che in certo senso, 0 che di
speculare non sentono ancora veramente il bisogno . Inoltre, la materia è
in potenza perchè può pervenire alla forma; ma quando sia in atto, allora
è già formata. E così dicasi delle altre cose, anche di quelle di cui il fine è
il movimento (?): onde, in quel modo che gl’ insegnanti pensano d’aver
raggiunto lo scopo quando han potuto mostrare lo scolaro in azione, così
fa anche la natura. Se così non avvenisse, sarebbe il caso dell’ Ermete di
Pausone: anche la scienza, come quella statua, non si saprebbe se è fuori
o dentro (*). Poichè l’azione è fine, e l’atto è azione: per cui il nome
stesso di atto si dice in rapporto
all’azione, ed esprime la tendenza alla realizzazione finale. In alcuni casi,
poi, il fine ultimo è nell’uso stesso della potenza, per es., della vista
è il vedere, e niun’altra opera si attende dalla vista fuori di
questa. In altri casi, si realizza qualcos’altro oltre l’atto: per es.,
per l’arte del costruire c’è la casa oltre l'atto del costruire. Tuttavia
non si può dire che l’atto sia meno il fine della potenza in questo caso,
e più in quello (*): poichè l’atto del costruire si esercita nell’oggetto
che vien costruito, e il suo processo si realizza insieme con la casa. In
quelle Queste parole
«quomodo sint interpretanda, equidem me non intelligere confiteor ».
Bonitz (p. 403); anche per il Ross (II, 262) sono « excessively difficult
». Mi sono avvicinato al Lasson. Stesso: com'è il caso dell’apprendere
(in coi non c’è una materia che attende di passare nella forma, come per
la casa); o del vedere (in cui il fine ultimo è l’uso stesso della
potenza). « Questo Pausone,
statuario, fece un'immagine di Ermete in una certa pietra, e chi guardava
vedeva nella pietra Ermete; ma non era chiaro se fosso fuori della pietra
o dentro di essa»: Aless. Ma Pausone era un pittore (avrà Aless. pensato
a III. 6, 9; V. 7, 7, ecc?). Secondo il Ross, si trattava di un'illusione
pittorica, Se è (soltanto) fuori (il
sapere: come un’abilità verbale); oppure: se è (soltanto) dentro (come
mera potenza). azione: Eeyov;
atto: evéoyera; realizzazione finale: èvtedéyera. Nel secondo caso pare che i!
fine della potenza non sia l’atto (il costruire), ma il fatto (la casa). Ma non
è così, dico A.: «quia ipsa actio est in facto, ut aedificatio in eo quod
aedificatur. Et aedificatio simul fit et habet esse cum domo »:
$. Tom. (1863). Gli
altri (meno bene) intendono: Nel primo caso (del vedere) l’atto è fine;
nel secondo (del costruire) è fine più della mera potenza. cose, quindi,
in cui vien prodotto qualcos'altro oltre l’uso della potenza, in esse
l’atto si mostra in ciò che vien fatto: per es., il costruire nel
costruito, il tessere nel tessuto, e similmente per altre cose; e, in
generale, l’atto del movimento è in ciò che vien mosso. Quando, invece, non
c’è qualche altra opera oltre l’atto, questo è tutto nel soggetto
stesso dell’attività: per es., il vedere nel veggente, il pen 1650 b sare
nel pensante, la vita nell'anima, e però anche la feli cità: la quale,
infatti, è una vita d’una certa specie. Conchiudendo, è evidente che la
sostanza e la specie sono atto. E, secondo lo stesso discorso, è evidente
che, per la sostanza, l’atto è anteriore alla potenza; per il tempo poi,
come abbiam detto, si concepisce sempre un atto avanti l’altro, fino a
quello del Motore primo ed eterno. Ma l’atto è primo anche in un più
alto senso: perchè l'eterno è, per la sostanza, prima di ciò ch'è
corrattibile, e nulla di ciò ch’è eterno è in potenza soltanto. La
ragione è questa: ogni potenza è potenza di entrambi insieme i
contradittorii, in quanto mentre il non
poter essere non può esistere come proprietà di nulla ogni potenza reale, invece, può anche
non esser in atto. Quindi, ciò che ha la potenza di essere può essere e
anche non essere. Ma ciò che può non essere può darsi che non sia, e ciò
che può darsi che non sia è corruttibile, o in senso assoluto, o per quel
che di esso dicesi che può non essere: relativamente al luogo, ad
es., o alla quantità, o alle qualità. Corruttibile, in senso a ssoluto, è
una cosa, se corruttibile è la sua sostanza. Ora, niuna delle cose
assolutamente incorruttibili è, in quel senso, un essere in potenza,
sebbene nulla impedisca che tale sia per qualche rispetto ('): per una
qualità, ad cs., o per il luogo. Le cose incorruttibili, dunque, sono
attuali. E neppure le cose necessarie posson esser in potenza, e
nondimeno esse sono originariamente (*) esistenti: chè, se queste non
esistes Gris pBPagrév = p#. xatà
ovolav (nascere e perire); in senso relativo (xatà 0), ciò che muta di
quantità, di qualità o di luogo. Ofr. VIII. 1, 8 (e nota). ne@bta: è probabile che queste cose
necessarie siano i principii primi in senso logico e insieme
réale. sero, nulla esisterebbe. E se c’è un movimento che sia
eterno, neppur esso è in potenza; e se esiste un essere eternamente
* mosso, non è possibile che sia mosso in potenza, salvo che non ci
si riferisca a un punto di partenza o di arrivo ('): chè per questa
specie di movimento può bene ammettersi che sia provvisto d’una materia.
Per questa ragione è sempre in attività il Sole, e gli Astri, e il Cielo
tutto quanto, e non c’è da temere che mai si fermino, come han paura i
Fisici (*): chè il loro operare non li stanca. E non li stanca perchè il
loro movimento non riguarda, come quello delle cose corruttibili, la possibilità
dell’una o dell’altra parte della contradizione (*), che renderebbe
faticosa la continuità del movimento. Causa di tal fatica negli esseri
corruttibili è l'essere materiale, e potenziale, non attuale, della
sostanza. Pure, anche le cose mutevoli, come la terra e il fuoco,
si sforzano d’imitare quelle incorruttibili: anch’esse, infatti,
hanno in sè e per sè il movimento (‘), onde sono in continua attività. Ma
le altre potenze, di cui s’è ragionato, son capaci di contradizione in quanto,
quel che ha potenza di muover così, può muovere anche non così: quelle,
s'intende che agiscono secondo ragione. Le potenze irrazionali, invece,
son capaci di contradizione solo in quanto possono esser presenti o
assenti (°). « Quia licet
non sit in potentia ad moveri simpliciter, est tamen in potentia ad hoc vel ad
illud ubi»: S. Tom. Per la materia meramente tori, v. n. cit. dianzi a
VIII. 1, 8. Sembra alluda
specialmente ad Empedocle: cfr. De Caelo. L'essere e il non-essere, tra i quali
ha luogo il nascere-perire (mutamento i sostanziale).
«Il movimento è una specie di
vita in tutti gli esseri costituiti naturalmente » (Plys., VIII. 1.250 b, 14).
Ein De Gen. et Corr., II. 10. 337 a, 2: « Anche le altre cose, quante si
mutano le une nelle altre, per es. i corpi semplici, imitano il movimento
di traslazione ;circolare ». Ovvero, si accenna alla continuità del movimento
(spaziale) degli elementi in generale (Aless., 593, 12); 0 a quello in
giù della texra, in su del fuoco (v. Ross, a q. l.). (5) Ciò ch'è
salubre produce sempre e soltanto la salute, ma può esserci, e anche non
esserci (e in questo caso non produrla). Cfr. cap. 2,4 e 5, 4-5. La possibilità
logica (contraddizione) e quella reale (contrarietà) si alternano in questo
paragrafo, come nel 21. Per entrambi i p. d. v. si distinguono queste altre
po«onze dalle precedenti (eterne). Sia pure, dunque, che esistano certe
nature o sostanze 28 del genere di quelle che sostengono coloro che dei
concetti fanno altrettante Idee; ma chi fa della scienza esisterà con
1061 » maggior ragione della scienza in sè, e ciò che si muove
molto più che l’idea del movimento: poichè questi esseri sono a maggior
titolo attività, e quelle idee, invece, sono meramente loro potenze.
Che, dunque, l’atto è prima della potenza e di ogni prin- 29 cipio
di mutamento, è manifesto.Che poi, in confronto alla potenza del bene l’atto
sia mi- 1 gliore e più degno di onore, si vedrà da quanto segue.
Tutto ciò che noi diciamo esser in potenza, ha il potere di realizzare
l’uno e l’altro contrario ugualmente: quel che diciamo, ad es., poter
esser sano, è lo stesso che può anche esser malato, ed ha la potenza delle due
cose insieme: poichè la potenza di esser sano è la stessa di quella di esser
malato, così come quella di esser in riposo o in movimento, di costruire
o di abbattere, di esser costruito o abbattuto. Ma se il potere dei
contrari si trova ad esser insieme, è impossibile, poi, che questi esistano
insieme, ed è impossibile che sì trovi insieme la loro attualità, per
es., che uno sia sano e malato insieme. Di qui vien la necessità che
soltanto uno dei contrari realizzi il bene, laddove la potenza è di
entrambi similmente, o di nessuno dei due. L’atto è, dunque, migliore.
Che se si tratta del male, la compiutezza dell’atto 2 dovrà,
necessariamente, esser peggiore della potenza: chè questa è tanto al bene
quanto al male, medesimamente (*).
L'atto, per sè, è perfezione, sempre, anche se di cose cattive: cfr.
V. 16. 2. Qui, del resto, si parla di perfezione naturale, non morale.
Cfr. l’&getà quow in Eth. Nic., II. 6. 1106 a, 15: «Ogni virtù
perfeziona il ben condursi di ciò di cul è virtù e rende pregevole la sua
operazione: per es., la virtù dell’occhio fa l'occhio valente e valente
l'operazione sua; parimenti la virtù del È evidente, quindi, che il male
non esiste fuori delle cose quaggiù, poichè esso esiste, per natura,
posteriormente alla potenza. Ed anche questo è evidente: che ne’
principii primi e negli esseri eterni non han luogo nè il male, nè
mancamento, nè corruzione (anche la corruzione è una specie di male).
Anche i teoremi geometrici si trovano per mezzo dell’attività, poichè si
trovano facendo delle divisioni (‘). Se queste fossero già eseguite,
quelli sarebbero evidenti. Così, sono soltanto in potenza. Ad es.: perchè
gli angoli del triangolo fan due retti? Si sa che gli angoli in ogni
punto d’una linea sono uguali a due retti: se, dunque, fosse già tirata
la parallela a un lato (?), la cosa sarebbe chiara al primo colpo d’occhio. Perchè
l’angolo nel semicerchio è sempre retto? Per questo che, quando dei tre
segmenti uguali, di cui due formano la base, si è elevato il terzo
perpendicolare dal centro al vertice, chi già sa che la somma degli
angoli è di due retti, vede subito chiaro (5). cavallo fa il
cavallo valente e buono al corso e a portare il cavaliere e a sostenere
l’impeto dei nemici ». Non opportuno, quindi, il rilievo del Bonitz (p.
407): «iudicium morale de bono et mali immisceri falso iis rebus, a
quibus illud est alienum ». Nò è erroneo il ragionamento che segue, come
pensano il B. e il Ross (II, 268), se si tien presente il passaggio,
abituale in A., alla posizione 0ggettivistica, onde gli atti risultan graduati
in corrispondenza delle cose stesse e delle loro potenze (assolutamente
buone, come quelle incorruttibili; capaci di esser buone o cattive, o
sempre cattive, come quelle corruttibili). E tà redypata (ch'io ho
tradotto: «le cose di quaggiù ») non oppongono le cose cattive in generale
all'Idea del male (come Aless. e i moderni intendono): chè il discorso
varrebbe anche per l’Idea del Bene; ma le cose corruttibili alle
incorruttibili. Srargovvteg: ch'è
operazione affine all'&varterv (benchè qui prevalga il senso
costruttivo), in cui consiste l’attività della è.&vora. V. passo di Erk.
Nie., citata in nota a VII. 7, 7. E ric. il metodo dieretico di Platone.
Dall'estremo della base, e
prolungando questa (come nella nota dimostrazione di Euclide). Vede subito chiaro che i due triangoli
uguali, in cui è stato scomposto quello inscritto nel semicerchio, sono
rettangoli isosceli, sì che l’angolo intero alla circonferenza risulta di
due metà di un retto. A. sceglie il caso più evidente (perchè gl’isosceli
son qui rettangoli); ma, com'è noto, il metodo di dimostrazione è lo stesso
anche per gli altri casi (congiungendo il centro del cerchio col vertice
del triangolo si ottengono pur sempre due isosceli, con due retti al
centro, e due coppie di angoli uguali).
Dei tre segmenti uguali due formano il diametro, il terzo è il
raggio perpendicolare alzato dal centro. 300 3 MBTAFISICA
In conchiusione, è manifesto, che ciò ch’è in potenza noi 6
veniamo a scoprirlo riportandolo (') all’atto. E la ragione di ciò è che
intendere è attualizzare. Onde dall’atto vien la potenza. E perciò,
anche, le cose le conosce chi le fa. L’atto è posteriore alla potenza nel
divenire soltanto dell’ individuo numericamente considerato.
CapitoLO X (?). Dell’ essere e non-essere si parla o riferendosi
alle figure 1 1051 b delle categorie, ovvero alla distinzione di potenza
e atto per ogni cosa che in esse si predica, e pel suo contrario (*);
0, anche, in quanto vero e falso nel lor più proprio significato.
In quest’ultimo senso l’essere è considerato nelle cose in 2 quanto può
essere composto o diviso. Per la qual cosa è nel vero colui che pensa
esser diviso ciò ch’è diviso, e composto ciò ch’è composto; è nel falso,
invece, chi pensa altrimenti di come le cose stanno. Ora, si chiede:
Esiste o non esiste, 3 O portandolo? Il Ross preferisce ky6peva ad
àvaysueva. Ma, comunque si preferisca, il problema è lo stesso, e involge
tutto il pensiero aristotelico in un nodo che può, giustamente, sembrare
insolubile. La verità del teorema, come ogni verità, vien da noi
«scoperta » in quanto già c’è. Ed è in atto, in sè, sebbene soltanto in potenza
per noi in quanto la dobbiamo ancora scoprire; e la scopriamo
riconducendola 8a quell’atto in cui il nostro intenderla coincide con
l'esser suo stesso: si che la dualità, in questo punto, cessa, e noi possiamo
anche dire che l’abbiamo conosciuta perchò l'abbiamo prodotta (sa chi
fa). Intendere è attualizzare:
vénow tveoyera (meglio, col Ross: Î vénars èvée.: altrimenti,
bisognerebbe forse intendere che l’atto dell'oggetto è un atto del vos
stesso: il che è troppo vero per esser asserito, così semplicemente, da
A. qui). Per l'individuo
numericamente considerato, v. capitolo precedente, 4. È dubbio che questo capitolo sia stato
scritto originariamente per esser posto a questo punto. I richiami a V.
7, 4-7e a VI. 2, 1-3 e 4,4 non sono decisivi su ciò. Cfr. JAEGER (Entst.,
49; Arist.). Invero, il rapporto tra il pensiero discorsivo e la verità
reale, tra l'unità del ne e l'atto di apprenderlo, non è questione
estranea all'argomento dei libri VII (cfr. Sommario per capp. 4 e 10),
VIII (capp. 3 e 6), IX (4, 3 e capp. 8 e 9). Dianzi s'è pur trattato di
quelle sostanze semplici ed eterne delle quali si ripiglia qui a parlare.
Ma è il tono che, soprattutto, non si accorda con quello. complessivo della
ricerca precedente. Il non-essere di ogni cosa in ogni categoria. Nel lor più proprio significato: il testo
vuole forse « nel suo più proprio 8. », riferito all'essere. Ma cfr. VI.
4, 4; nè sarebbe conforme al modo di pensare di A., sembra. LIBRO
NONO 301 quel che noi intendiamo per vero o per falso? Bisogna
bene che sappiamo quel che diciamo. Considera, infatti, che, non
perchè noi ti reputiamo bianco, tu sei bianco davvero; ma, all'incontro,
perchè tu sei bianco, pensiamo il vero noi che ti diciamo bianco. Orbene,
l'essere di alcune cose è sempre unito e non può mai venir diviso,
in altre invece è sempre diviso e non può mai congiungersi, in altre
infine può trovarsi ne’ due modi opposti (‘). Se, dunque, l’essere di una cosa
consiste nella composizione sì da formare un’unità, e il suo non-essere
nella divisione sì da formare una molteplicità, nelle cose che possono
trovarsi in entrambi i modi la medesima affermazione può esser vera
e falsa, potendo ben avvenire che una volta si sia nel vero, e un’altra
nel falso. Invece, nelle cose che non possono esser altrimenti di quel
che sono, non avviene che una volta si sia nel vero e un’altra nel falso,
ma si è sempre o nel vero o nel falso. Ma quando l’essere di una
cosa è semplice (?), in che consiste il suo essere o non essere, e come
di essa si può ‘dire il vero o il falso? Chè non è già componibile o
scomponibile, sì che esista quando c’è la composizione e non esista
quando c’è la divisione (come è il caso del legno di color bianco, o
della diagonale che non è commepnsurabile). Qui il vero e il falso non
può aver luogo nello stesso modo che nelle cose dette prima (*), e, come
il vero, così anche Es: il
triangolo e l’uguaglianza della somma degli angoli a due retti; la
diagonale e la sua commensurabilità al lato del quadrato; Socrate e il
suo camminare. V. per quel che segue, note a V. 29 e VI. 4: in questo
secondo venne accentuata sul primo la soggettività della sintesi-dieresi,
in cui consiste il giudizio affermativo o negativo, e il vero o falso; qui si
ricerca, invece, con un passo ulteriore sul secondo, la corrispondenza
oggettiva a quel principio logicosoggettivo. Si potrebbe intendere delle pure essenze in
generale, in sè e per sè, 6 delle categorie (cfr. VIII. 6, 7-8), e dei
principii primi nel senso gnoseologico; ma anche, e forse meglio, in senso
esietenziale, degli esseri immateriali. Comprese (come l'esempio della
diagonale dimostra) quelle che sono sempre vere o false nel
giudizio. Qui vero == intendere (e il suo oggetto); falso = non
intendere, ignorare. 1052 a 302 METAFISICA
l'essere non può avere qui lo stesso significato che là. In queste cose è
possibile la verità e l'errore soltanto nel senso che coglierle (') è già
enunciarne la verità (enunciare non è lo stesso che affermare), non
coglierle vuol dire ignorarle. Sbagliarsi sull'essenza di una cosa non è
possibile tranne che per accidente, e così pure non ci si può sbagliare
per quelle sostanze che non sono composte, perchè sono tutte in
atto, e non in potenza: chè, altrimenti, si genererebbero e perirebbero,
laddove l’essere che è in sè e per sè, non ricevendo il suo essere da altro,
non nasce e non muore. In conchiusione, quando l’essere delle cose è ciò
che è, in atto, su esso non è possibile ingannarsi: si può soltanto
intendere o non intendere. Tuttavia, si può chiedere ciò che esse
sono, se l’essenza loro è tale, o no. Per l’essere nel senso del
vero e il non essere in quello del falso, si ha, dunque, nell’un caso, il
vero se c’è una composizione, il falso se questa non c’è; nell’altro
caso, se il suo essere è il suo stesso esser vero, e se non è così,
neppure è (*). Chè la verità sua consiste nell’intenderla, e il falso o
l’inganno non ha luogo. Ci può essere ignoranza, ma non come una cecità,
chè, allora, vorrebbe dire che uno non ha addirittura la facoltà
d’intendere. &yeîv,
toccare. Cfr. XII. 7. 1072 b, 21 ($ 7). È l’apprensione immediata del
vero e reale: così anche l'atto dell’alo&nors (cfr. IV. 5, 19). E cfr.
anche De An., ITI. 6. 430 b, 26-30: dove pure si accenna alla pdow come
distinta dalla xatapagws; cfr. De interpr., 6. 17a, 25: « Affermare è
enunciare qualcosa di qualcosa ». Infatti, nel paragrafo seguente, si concede
di chiedere ciò che esse sono. La distinzione dei termini (del discorso
in generale e di quello che ha valore propriamente logico) non è mantenuta
altrove. Chi chiede, non sa nel senso
che non gi rende conto ancora, e però può sbagliare per accidente.
Passo molto tormentato
dagl'interpreti. Mi sono ispirato a S. Tom. (1915): «Alio vero modo in
rebus simplicibus verum est, si id quod est vere eng, i. e. quod est
ipsum quod quid est, i. e. substantia rei simplex, sic est sicut intelligitur;
si vero non est ita sicut intelligitur, non est verum (in intellectu)». Toglierei
queste ultime parole. In A., inoltre, l'equivalenza della verità del pensiero
all'essere dell’oggetto è posta più immediatamente, anzi sottintesa più
che espressa (di qui una causa dell'oscurità del passo, il quale, in
sostanza, sembra voler affermare che per gli esseri semplici, così come
per la véno, esiste la verità, non l’errore: vero e falso, riguardo a
essi, equivale ad esistere o non esistere). Anche in riguardo agli
enti immobili, finchè uno li considera tali, non è possibile, evidentemente,
cadere in errore quanto al tempo. Mi spiego: a meno che uno non
pensi che la natura del triangolo possa mutare, non potrà pensare che una
volta la somma de’ suoi angoli è uguale a due retti, e un’altra no
(altrimenti, la sua natura mauterebbe). Invece, può darsi che nello
stesso genere reputi che un oggetto sia in un modo e un altro in un altro: ad
es., che dei numeri pari nessuno sia primo, ovvero qualcuno sì e altri
no (‘). Ma quando si tratta di un unico oggetto, questo non è mai
possibile, perchè non si potrà già credere che sia ora in un modo e ora
in un altro; ma, riguardo a esso, si sarà nella verità o nell’errore nel
senso che esso rimane eternamente uguale. Ovvero, che il due sia primo, gli altri no
(giustamente, se dei pari; non cosi, se dei numeri in generale). Se
l’oggetto è unico, per es. un tal numero, non il numero in generale,
neppure tale errore è possibile: il giudizio nostro (vero o falso)
implica ch'esso è sempre così. Dell’errore intorno al numero parla anche
il Teeteto Che dell’Uno si parla in molti modi, si disse già (') discorrendo
dei molteplici significati di alcuni termini. Ma, pur dicendosi in vari
modi, questi si riducono per le cose
che si dicono une, non per accidente, ma primariamente e per Se
stesse a quattro capitali. Uno
dicesi, infatti, il continuo, o in generale, o score tutto quel ch’è tale
per natura, e non per contatto o per legame esteriore; e questo tanto più
e più propriamente è uno, se sia di cose il cui movimento è meno
divisibile e più semplice (?). Inoltre, uno, e a maggior diritto,
è l’intiero (?), e ciò che ha qualche figura e forma: specialmente se
qualcosa sia tale V. lib.
V. 6: qui si tralasciano i modi accidentali; e quelli essenziali vengon
divisi in quattro corrispondenti, nell’ insieme, a quelli del lib. V
d’individuo e l’universale sono una distinzione dell'unità dell'atto anche colà
affermata, nel $ 10, ma qui posta a fondamento, oltre che per il
pensiero, anche per le cose). Invece, prende il priino posto qui la
trattazione colà brevemente accennata (13-15) del concetto dell’unità in
sè e per sò. Per il rapporto tra
i due concetti, di continuità sostanziale e unità del movimento, cfr.
nota a V. 6, 5. All'interezza si
accennò anche in V. 6, 12: qui ha maggior rilievo, e determina l'unità del
movimento non soltanto in rapporto al tempo, ma anche allo spazio (tale
è, si direbbe, l’atto vitale: f 82 toù èveoyera xs toriv: Eth. Niec., X.
4. 1175 a, 12, e cfr. ivi, cap. 4, per il piacere, che nell’atto è sempre
intero e perfetto, e in questo senso non è della specie di movimento che
si produce attraverso le varie parti dello spazio e del tempo). per
natura, e non per forza (come quel ch'è unito con la colla, con chiodi o
corda), ma abbia in se stessa la causa della sua continuità. E tale è in
quanto il suo movimento è unico e indivisibile nello spazio e nel tempo:
così che è evidente che, se una cosa ha per natura il principio più
eccellente di quel movimento ch’è primo (voglio dire, dei movimenti spaziali,
quello circolare) ('), essa è, tra le cose estese, una per eccellenza.
Queste cose, dunque, sono une così, o per continuità o per
interezza. Altre, quando uno sia il concetto. Tali sono quelle di cui
unica è l’intellezione; e tali, quelle che s’intendono con un atto
indivisibile. E questo è indivisibile se sia di ciò ch’è indivisibile per
la specie o pel numero. Indivisibile numericamente è l’individuu; per la
specie, ciò ch’è tale per la conoscenza e per il sapere: sì che
primariamente uno sarà quel ch’è causa dell'unità delle sostanze (?). Si
dice, dunque, l’uno in tutti questi sensi: ciò ch’è continuo per natura,
l’intero, l'individuo e l’universale. E l’uno vale per tutte queste cose,
in quanto nelle une è indivisibile 1058 b il movimento, nelle altre
l’intellezinne o il concetto. Ma si ponga mente di non prendere come la
stessa questione questa: quali sono le cose alle quali si attribuisce
unità; e l’altra: qual’è l'essenza propria dell’uno e il suo concetto.
L’uno, infatti, si dice in tutti i modi accennati, e ogni cosa, a cui
convenga qualcuno di questi modi, è una. Dei movimenti spaziali quello circolare è
perfetto, per la semplicità (indivisibilità) e continuità: tale, quello eterno
del cielo: come si dimostra nel cap. 8 del lib. VIII della Fisica (nel
cap. 7 si era dimostrata la superiorità del puro movimento spaziale, in
generale, alle altre forme di movimento proprie delle cose che si
generano e mutano di quantità e qualità: cfr. qui VIII. 1,8; IX. 8, 25;
XII. 6,2 7,4). Cose estese: lett.
grandezza (peyedog: ciò che è o ha grandezza). El principio dell'unità nel sinolo (sostanza)
è la forma, la pura essenza nel pensiero discorsivo, l'atto in sè nella
realtà in generate, e la sua attualità nell'individualità concreta. Nota lo scindersi dell’atto della vénows, nel
brusco passaggio alle cose, nelle due categorie supreme del pensiero
discorsivo: l’ individuo e l’universale (anzi, in quelle della conoscenza in
generale: il dato della percezione e quello, il concetto, della divora...
L'oscillazione tra questi punti di vieta spiega anche il passaggio tra i
termini di concetto, specie, universale, che ora coincidono e ora non
coincidono nel pensiero aristotelico. Ma l'essenza dell’uno si dirà, talora,
secondo qualcuno di essi; tal’alra, secondo altro che è anche più vicino
al nome, e contiene quelli in potenza ('). La cosa sta come per
elemento o causa: altro è se uno debba determinare a quali cose si
attribuisce, altro se debba dare la detinizione del nome. Poichè come
elemento si può addurre il fuoco (e certamente l’indefinito per se
stesso, 0 altro di questa specie, può essere un elemento) , ma
anche non addurlo: chè non è la stessa cosa esser fuoco ed esser
elemento: il fuoco è elemento in quanto è una cosa particolare, esistente in
natura; mentre il nome elemento significa che questo appartiene al fuoco perchè
c’è qualcosa di cui esso è la parte costitutiva e originaria. Così dicasi
anche della causa e dell’uno, e di tutti gli altri termini somiglianti.
Per ciò, anche, l’essenza dell’uno è di esser indivisibile, come
quello che è un determinato ed ha una propria esistenza separata per lo spazio
o per la specie o per il pensiero; o, anche, di esser un intero indivisibile
(*); ma, soprattutto, di essere la prima misura di ogni genere, e in
primo luogo del genere della quantità: chè di qui si estese agli altri
generi. Passo un po' oscuro. Meglio di tutti, mi sembra, S. Tom.: « Hoc
ipsum quod est unum, quandoque quidem accipitur secundum quod inest
alicui dietorum modorum, puta ut dicam quod unum secundum quod est
continuum, unum est. Et similiter de aliis. Quandoque autem hoc ipeum
quod est unum, attribuitur ei quod est magis propinquum naturae unius,
sicut indivisibili, quod tamen secundum se potestate continet praedictos
modos: quia indivisibile secundum motum, et continuum et totum; indivisibile
autem secundum rationem, est singulare et universale »., Qui si
parla, infatti, del concetto puro dell’uno, in sè e per sè, non in rapporto
alle cose, sebbene si dica che possa esser concepito anche secondo i modi
in cui l’uno si predica delle cose (ossia come essenza di questi: così intendo
il dativo della 1. 6, non, come il Bonitz o il Ross, quale termine di
appartenenza predicativa). Prù
vicino al nome, ossia al concetto puro (nota l'oscillazione tra il punto
di vista logico puro e quello verbale), è il concetto di misura. L'indefinito: l'&xergov di Anassimandro
(non il fuoco, s'intende). Un
intero indivisibile: par raccogliere l’unità formale e materiale, distinta
prima in indivisibilità per lo spazio, per la specie o per il pensiero,
analogamente al $ 11 di lib. V. 6. Il concetto di misura, dunque, vuol essere
un principio conoscitivo per ogni genere di cose, sebbene si applichi più
comunemente al genere della quantità. Poichè misura è quella per cui si
conosce la quantità; e la quantità, in quanto tale, si conosce o per
mezzo del numero o dell'uno: ma ogni numero si conosce per mezzo
dell’uno. Per cui ogni quantità, in quanto tale, si conosce con
l’uno; e ciò per cui primieramente le quantità son conosciute è
l’uno in sè e per sè. L'uno, dunque, è il principio del numero in
quanto numero. Di qui anche per gli altri casi dicesi mi. sura ciò per
cui primieramente conosciamo ciascuna cosa, e misura di ogni cosa è l’uno
per la lunghezza, per la larghezza, per la profondità, per il peso, per la
velocità. (Peso e velocità, potendo ciascuno avere due significati, si
usano in comune per i contrari: pesante dicesi ciò che ha un qualsiasi
grado di gravità e ciò che ne ha in eccesso, e veloce ciò che ba un
qualsiasi grado di movimento e ciò che ne ha in eccesso: poichè anche ciò
ch’è lento ha una certa velocità, e ciò ch’è leggero una certa pesantezza).
In tutti questi, dunque, la misura principale è qualcosa d’uno e
senza parti: anche nelle linee si usa come indivisibile quella d’un
piede. In ogni caso, infatti, si cerca per misura qualcosa d’uno e
indivisibile, e questo è ciò ch’è semplice o per qualità o per quantità.
Ora, dove sembra non esserci nulla da togliere o aggiungere, ivi la
misura è esatta: perciò 1053 a quella del numero è la più esatta,
perchè l’unità si pone come indivisibile per ogni rispetto, e
negli altri casi non si fa che imitare questa specie di misura. Di uno
stadio, infatti, e di un talento, e di ciò che in generale è più grande,
ci sfugge se qualcosa vien aggiunta o tolta, più facilmente che per
una quantità minore. Laonde quella prima, a cui niente di percepibile può
esser aggiunto o tolto, quella tutti prendono per misura: per i liquidi come
per i solidi, per il peso come per la grandezza. E allora pensano di
conoscere la quantità di una cosa, quando la conoscono per mezzo di
quella misura. E anche il movimento si misura con quello semplice
e ch'è più veloce: chè questo occupa un tempo minimo. Ond’è che in
astronomia questa è l’unità che serve di principio e misura (poichè si
suppone che il movimento del cielo sia uniforme e il più veloce, e in
rapporto a questo si giudicano gli altri). E in musica, il diesis, perchè
è l'intervallo minimo; e nella parola, la lettera. E in tutti questi casi
c’è, così, un qualcosa di uno: non come se l’uno sia qualcosa di
comune (‘), ma come s'è spiegato. Ma non in ogni caso la misura è una
numericamente; talora è più di una: i diesis, ad es., son due (non per
l’orecchio, ma per il computo) (?); e i suoni articolati, con cui misuriamo le
parole, son più di uno; e due misure hanno la ‘diagonale e il
lato, e tutte le grandezze. Così, dunque, l’uno è la misura di
tutte le cose, perchè noi conosciamo ciò di cui si compone la sostanza
dividendola o secondo la quantità o secondo la specie. L’uno è perciò
indivisibile, perchè in ogni cosa ciò ch’è primo è indivisibile. Ma non
nello stesso modo ogni uno è indivisibile: per es., il piede e l’unità,
questa è indivisibile per ogni rispetto, quello vuol esser tale rispetto
alla sensazione, come 8’è detto: chè ogni continuo è, senza dubbio,
divisibile. Sempre, poi, la misura è dello stesso genere: delle
grandezze, una grandezza; e in particolare: della lunghezza una
lunghezza, della larghezza una larghezza, dei suoni articolati un suono
articolato, del peso un peso, delle unità una unità (così bisogna intendere
qui: non che dei numeri la misura sia un numero: si dovrebbe dir così, se
il caso fosse simile; ma che non sia simile si vede da questo, che si
farebbe misura delle unità, non l’unità, ma le unità: chè il numero è
molte unità). Anche la scienza e la sensazione diciamo che sono misura
delle cose, per questo, che con esse conosciamo qualcosa: sebbene siano esse
misurate, piuttosto che esse misu
Punta polemica contro l’Uno platonico. Il Ross riferisce la distinzione di
Aristosseno, scolaro di A., del diesis come un quarto e come un terzo di
tono. I suoni articolati: vocali e
consonanti. Due misure hanno, ecc. Oscuro. Si può pensare alla
incommensurabilità della diagonale al lato, sì che esigano unità di
misura diverse; ed alla necessità di almeno due dati per la misura
delle superfici, dei solidi, ecc. Ma il testo, questo, non lo
dice, rare. Accade a noi come se un altro ci misurasse e noi conoscessimo
quanto siam grandi per aver egli applicato il cubito su noi per tutta la
nostra altezza. Protagora dice che 1023 b l’uomo è misura di tutte le
cose, intendendo di chi sa e di chi sente: e questi, perchè hanno l’uno
la sensazione, l’altro il sapere, che noi pur diciamo esser misure de’
loro oggetti. Sembra voglia dire qualcosa di profondo: invece, non
ne dice nulla ('). Che, dunque, l’essenza dell’uno, se si deve
definire il si- 16 gnificato del termine, consiste soprattutto nell’esser
una de* terminata misura, e in primo luogo della quantità, in secondo
della qualità, è manifesto. E tale sarà
se sia indivisibile, in un caso, per la quantità, nell’altro per la
qualità; sì che l’uno è indivisibile, o assolutamente, o in quauto
uno. Già nella trattazione dei Problemi incontrammo la que- 1
stione, che qui convien riprendere, della natura sostanziale (?)
dell’uno: che cosa esso è, e come si deve di esso giudicare. E cioè, come
se l’unità stessa sia una determinata sostanza (al modo dei Pitagorici
prima, e di Platone poi); o se non piuttosto abbia qualche natura a
sostrato, e però si debba parlare di esso più intelligibilmente, e
piuttosto come i Fisiolugi, dei quali chi dice che l’uno è l’amicizia, chi
Varia, chi l’indefinito.
V. nel lib. IV la polemica contro il Protagorismo: là come qui, A.
respiage decisamente il soggettivismo della conoscenza (chi 8a, chi
sente: per il significato preciso di questo soggettivismo, v. nota al
passo simibe in V. 15, 8). Sensazione e sapere sono misure per quanto
contengono di realtà e verità oggettiva. È realismo? (Cfr. Rolfes, a q. 1.: «
A. è realista, non idealista. Egli si oppone a JIegel, che fa il concetto
misura e principio delle cose, ecc. »). Sì, ma in senso affine
all’idealismo del suo maestro. (9) Lett. «la natura e la sostanza». Ma
quos vale talvolla la sostanza in generale (V. 4, 9), e odola è l'essere
nella categoria principale. Trattazione
det Problemi: lib. III, 4, 31-42. Per i Pitagorici e Platone: lib. I. 6,
9-10. I Fisiologi ricordati sono Empedocle, Anassimene, Anassimandro.
Se nessuno degli universali può essere sostanza, come 8’è detto dove
parlammo (!) della sostanza e dell’essere; € se l’essere stesso non può
essere sostanza nel senso di qualcosa che sia uno fuor del molteplice (chè esso
è un termine comune), ma è soltanto un predicato; è chiaro che
neppure l’unità è sostanza: l’essere e l’uno, infatti, sono di tutti
i predicati i più universali. Sì che neppure i generi sono determinate
nature e sostanze separabili dalle altre cose; nè l’unità può esser
genere (?), per le stesse ragioni per le quali non sono genere nè
l’essere nè la sostanza. Inoltre, bisogna che si applichi a tutte le
categorie ugualmente. L’essere e l’uno hanno gli stessi vari significati:
sì che, come per le qualità l’uno è qualcosa di determinato e d’una
certa uatura, e così pure per le quantità,
è chiaro che bisogna anche domandarsi per tutti i casi che cosa
è l’uno (così come che cosa è l’essere), e che non basta dire che
questa è la sua natura, di esser uno. Non è dubbio: nei colori l’unità è
un colore, poniamo il bianco, e però da questo e dal nero si veggono
generarsi gli altri (*): il nero è privazione del bianco, così come della
luce l’oscurità (questa è la privazione della luce). Talchè, se le cose
fossero colori, esse formerebbero, sì, un molteplice , ma determinato,
e appunto, evidentemente, di colori; e l’unità sarebbe un uno
determinato: poniamo, il bianco. E similmente, se le cose fossero note,
ci sarebbe un numero, ma di diesis, e non sarebbe già numero la loro sostanza;
e l’unità sarebbe qualcosa, di cui Ja sostanza sarebbe non di esser unità, ma
diesis. E similmente dei suoni articolati: le cose sarebbero tante
lettere, e l’uno sarebbe una lettera, una vocale. Se fossero figure
rettilinee, ci sarebbe una molteplicità di figure, e Lib. VII. 13. | Cfr. lib. IIT. 3, 7: qui, genere è g. reale;
invece, nella frase precedente, î generi sono universali. Alla 1. 30 ho accettato l’elca (invece di el)
proposto dal Ross. Lett. «un
numero », come dopo. Ma ho tradotto cosi per chiarire l’equi valenza dei
termini qui. (Così come ho usato talora unità invece di uno, quando
questo equivale all'astratto). l'uno sarebbe il triangolo. E il discorso è
lo stesso per gli altri generi. In conchiusione, come, allorchè si tratta
di affezioni (di qualità, di quantità, o di movimento) delle cose, c’è un
molteplice e un uno che è, in tutti i casi, un molteplice determinato e
un determinato uno, di cui la sostanza non è quella di esser uno; nello stesso modo, necessariamente,
dev’essere per le sostanze: perchè la questione è la stessa per tutti i
casi. Che, dunque, l’unità sia in ogni genere una natura determinata, e
che in niun caso la natura di una cosa sia l’uno per se stesso, è
manifesto: ma, come nei colori l’unità da cercare è quella che è un
colore, così anche nella sostanza l’unità è quella ch’è sostanza.
Che, poi, l’uno significhi in certo modo (') la stessa cosa che l’essere,
è chiaro, in primo luogo, dal fatto che s’accompagna a esso per altrettante
categorie, e non è compreso in nessuna (non, poniamo, in quella
dell’essenza, nè in quella della qualità), ma ci sta così come l’essere;
in secondo luogo, perchè con « uno-uomo » non vien predicato nulla di
diverso che con « uomo », nello stesso modo che l’essere non è nulla
fuori dell'essenza, della qualità o della quantità; in fine, perchè esser
uno vale esser individuo. CapitoLo III L’uno e il
molteplice si oppongono in molti modi, dei quali uno è come quello
dell’indivisibile al divisibile: molteplice si dice qualcosa s’è divisa o
divisibile, una s’è indivisibile o non divisa. Ora, poichè l'opposizione è di
quattro specie, una delle quali si dice secondo privazione, qui
avremo quella di contrarietà, non quella di contraddizione nè di termini
relativi (*). E l’uno si denomina e si chiarisce Chè l’unità può indicare, più propriamente,
la misura, come s’è visto dianzi.
« Uno-uomo »: cfr. IV. 2, bd.
Cfr. V. 10, 1. Intendi: una specie di opposizione è quella in cui si
guarda alla privazione: non a quella opposta all'EE, ma a quella propria
della contra-dal suo contrario: dal divisibile, l’indivisibile; e la
ragione è che il molteplice e divisibile si percepisce meglio dell’
indivisibile: per cui il molteplice è prima dell’indivisibile nel
concetto, a cagione della percezione. All’uno appartiene, come
descrivemmo anche nella Distinzione dei contrari ("), lo stesso, il
simile, l’uguale; al molteplice, il diverso, il dissimile, il disuguale. Lo
stesso (?) si dice in molti modi: in un modo si dice talora badando
al numero; in un altro, se la cosa è una e per il concetto e per il
numero: poniamo, tu sei una cosa sola con te stesso e per la specie e per
la materia; in fine, se il concetto che riguarda la sostanza prima (?)
sia unico: per es., le linee rette uguali sono le stesse, e così i quadrilateri
equivalenti e con angoli uguali, benchè sian molti: chè in essi
l’uguaglianza vale identità. Simili son
le cose se, non essendo assolutamente le stesse, nè senza differenze per
la sostanza che fa loro da sostrato, siano pur le stesse per la
specie: per es., il quadrato maggiore è simile al minore, e le
linee rette disuguali sono simili: esse sono simili, non assolutamente le
stesse. Altre cose sono simili, se, avendo la stessa specie, ed essendo
cose in cui si dà il più e il meno, non abbiano in questo differenza.
Altre cose, se hanno la stessa affezione, che sia la medesima per la
specie, per es. la bianchezza, ma in grado maggiore o minore, si dicono
simili perchè identica è la loro specie. Altre si dicon tali, se di
qualità che son le stesse ne hanno in numero maggiore che di diverse, o
assolutamente, o quelle più in vista: per es. lo rietà (ch’è
privazione totale). Par come manchi qualcosa nel testo. Il termine negativo, qui, è l’uno
(nell’esperienza ci è dato il molteplice, non il meramente uno). Vedi IV. 2, 6. All'uno appartiene lo stesso
per la sostanza, il simile per la qualità, l'uguale per la quantità.
Cfr. V. 9. L'identità per il
numero Aless. (615, 23) l’intende come l’unità accidentale; ma nota che
poco dopo essa è fatta equivalente a quella per la materia (i due
concetti del sinolo): elBog dè Abyo tò ti fiv elva: éxdatov xal Thv
aQOInY odolav. Nota, tuttavia, che l'illustrazione del concetto è
presa da realtà matematiche. stagno è simile all’argento per il bianco (‘),
l’oro al fuoco per il colore giallo-ardente. Per ciò è chiaro che anche
il diverso e il dissimile si dicono in molti modi; e la diversità si oppone
così all’ identità, che ogni cosa rispetto a ogni altra o è la stessa o è
diversa. Ma diverso è anche ciò di cui la materia e il concetto non è identico:
tu, per es., e il tuo vicino siete diversi. E la diversità, in terzo
luogo, è come negli oggetti matematici (*). Diversità, dunque, e identità si
dicono di ogni cosa rispetto a ogni altra, purchè siano cose che hanno
unità e realtà: poichè il diverso non è il contradittorio dell’
identico, onde non si dice delle cose non esistenti (delle quali la
nonidentità pur si predica), ma delle cose esistenti tutte quante: chè
queste, avendo per natura unità ed esistenza, o sono identiche o non
identiche (*). Il diverso, dunque, e l’identico si oppongono in questo
modo. Ma differenza e diversità non son lo stesso. Ciò ch'è diverso e
ciò da cui è diverso non son di necessità diversi per un rispetto determinato.
Tutto, pur che sia reale, o è diverso o identico. Ma quel ch’è differente
da qualcosa, ne differisce per qualche rispetto : quindi c’è
necessaria Alla 1. 23: fl Aeuxév,
inv. di 7 xQvo@ (Ross). Per la somiglianza, cfr. V. 9, 6. La somiglianza,
dunque, è o per la specie , o per il grado di questa , 0 perchè una
qualità delle cose è la stessa, sebbene in grado diverso , o perchè di
qualità ne hanno un buon numero, o le più evidenti, in comune . Nel 1°
caso, la specie ha significato formale, ma non sostanziale (concreto),
onde ]a differenza resta puramente quantitativa (la specie qui fa
anche da qualità); nel 2°, è forma sengibile, chiarita dal 3° caso: in
questi © nel 4° si unisce un criterio quantitativo. Forse per questo A. non
tratta, dopo, dell'uguale (di questo egli si è valso anche per
l’identico: cfr. $ 4‘. Gli opposti (dissimile e disuguale) vengono,
quindi, assorbiti dalla trattazione seguente intorno alla diversità,
differenza e contrarietà. Vedi $
4. Qui la diversità, forse, è nella forma o concetto; nel caso precedente,
nella materia: entrambi fan capo alla prima definizione (la quale vien
determinata nel paragrafo seguente per le cose esistenti sostanzialmente).
Ho tradotto con diverso o diversità sia l’Étegov, che l'&XX0; con lo
stesso o identico (o identità), tadté, e qualche volta anche l’Év (1. 22,
dove l’altro Ev è, propriamente, l’unità). Per la diversità e la differenza (1
Biapoodi, cfr. V. 9, 4-5. Ev e
oòy Ev: ma questo bisogna pensarlo come privazione, 0 equivalente
all’Evegov: se, invece, si fa equivalente.al pù taòré della parentesi, si torna
alla negazione che vale per l'esistente e per il non-esistente.
vivi: prima tradotto «per qualche
rispetto determinato ». La differenza di mente qualcosa d’identico per cui
differiscono. Questo ch'è identico, è o il genere o la specie. Noi
vediamo, infatti, che tutte le cose differiscono o per il genere o per la
specie: per il genere, quelle che non hanno una materia comune, nè
si generano le une dalle altre (*): così, quelle che figurano in una categoria
diversa; per la specie, invece, quelle che hanno il medesimo genere. E si
chiama genere ciò che di entrambe le cose differenti si dice, secondo la
sostanza, identicamente. E i contrari son differenti: chè la
contrarietà è una differenza determinata. Che questo, come ora s8’è esposto,
stia bene, è manifesto per induzione: poichè essi si mostrano,
tutti, differenti e identici, non soltanto diversi : ma alcuni diversi
per il genere; altri, essendo nella stessa serie della categoria, son
nello stesso genere e identici per questo. Abbiamo altrove determinato
quali cose sono per il genere identiche o diverse. genere
può ammettere un’unità soltanto analogica: efr. V. 6, 15 (dove il genere
vien già identificato con la categoria: come nel paragrafo seguente). Prima,
per le forme dell’uno, è presupposto il molteplice; qui, il molteplice
implica un p. d. v. unitario (ma A. mette ciò poco o nulla in rilievo).
Nota la mescolanza del p. d. v. realistico con quello logico. Di qui le
difficoltà del passo, onde il Christ vorrebbe espunta la frase seguente,
ch’egli, d’accordo col Bonitz, trova in contraddizione con l’altro accenno alle
categorie nel S 10. Il colore e il suono, ad es., son generi diversi,
entrambi nella categoria delia qualità, Il testo, tuttavia, dà ragione al
Ross di sostenere che la serie categorica del $ 10 non accenna a una
distinzione interna a ciascuna categoria, ma coincide con l’accenno qui
alle figure categoriche. « A. senza dubbio chiama generi molte classi che
non sono categorie, ma in senso stretto le categorie sono i soli generi,
perchè sono le sole classi che non sono specie» (Ross a q. l.). Si può
aggiungere che A., quando ha in vista l'essere concreto, lo pensa, insieme, come
sinolo di materia e forma (dove il genere primo è la materia nella sua
maggiore indeterminazione), e come usia ch'è sostrato delle altre
determinazioni (donde le categorie come summa genera, reali e logici insieme).
Il testo è alquanto incerto: così, com'è nel Christ, meglio sottintendere
come soggetto tà èvavila (Ross), e fare del passo un preludio al capitolo
seguente. Certo, il discorso si complica, qui, di entrambi i concetti, della
diversità e della differenza: il diversi in questo punto non ha lo stesso
valore di quello che segue (che comprende i contrari per coppie,
non l’uno in rapporto all’altro). Abbiamo altrove determinato: V. 28,
6. Poichè può darsi che le cose tra loro differenti differiscano 1
più o meno, ci ha da essere anche una differenza massima. Questa io
chiamo contrarietà: e che sia la massima differenza, si vede per
esperienza. Invero, tra le cose di genere differente non c’è passaggio, anzi si
tengono lontane, sì che non vengon mai a confronto. Ma quelle che differiscono
per la specie si generano da estremi che sono i contrari. Ora, la
differenza degli estremi è la maggiore che ci sia. E tale è anche quella
dei contrari. Ma ciò che in ciascun genere vi 2 è di maggiore, è
perfetto: poichè maggiore di tutto è ciò di cui niente è superiore, e
perfetto è ciò fuori del quale non è possibile trovar altro. La
differenza perfetta possiede il fine (‘), così come anche le altre cose
si dicono perfette perchè posseggono il fine: e fuori del fine non c’è
nulla, poichè esso in ogni cosa è l’ultimo termine e abbraccia tutto.
Perciò non c’è nulla fuori del termine finale, e ciò ch’è perfetto
non ha bisogno di nulla. Da questo è, dunque, chiaro che la contrarietà è
una differenza perfetta. Ma, poichè i contrari si dicono in molti sensi,
la perfezione che a loro compete si dirà, di conseguenza, negli stessi
modi. Così stando le cose, è manifesto che un contrario non può 3
avere più di un contrario: poichè del termine estremo non se ne può dar
uno più estremo, nè possono esserci più di due estremi di una sola e
unica distanza. E in generale, se la contrarietà è una differenza, e la
differenza è fra due termini, così, dunque, sarà anche di quella ch’è
differenza perfetta. E di necessità anche le altre definizioni dei
contrari trar- 4 ranno di qui la loro verità. Poichè la differenza
perfetta è quella onde le cose differiscono di più: onde non è
possi Si tengano presenti i
termini greci téievov e térog, e cfr. V. 16. Vedi anche ivi, cap. 10, per
l'opposizione in generale e per la contrarietà.
La fine di questo paragrafo è chiarita dal 8 5. bile trovar
nulla fuori di essa, sia che le cose differiscano di genere, o di specie.
Si è mostrato, infatti, che non è possibile una differenza in rapporto a cose
che sian fuori del genere, ma è tra quelle dello stesso genere che la
differenza può esser massima, ed i termini che qui più differiscono sono
contrari: chè differenza massima, in questi, è quella perfetta. E dove
ciò che può ricevere quei termini è lo stesso, son contrari quelli che
più differiscono: poichè la materia per i contrari è la stessa, e così
dicasi per le cose che, cadendo sotto la stessa facoltà, differiscono
di più: poichè la scienza, se unica, è intorno a un unico genere,
dove la differenza perfetta è quella maggiore. La principale
contrarietà, poi, è tra abito e privazione: non, tuttavia, ogni
privazione (chè questa si dice in molti modi), ma quella che sia
perfetta. E le altre contrarietà si diranno secondo questa: alcune perchè
la posseggono, altre perchè la producono o sono in grado di produrla,
altre perchè rappresentano un acquisto o una perdita di questi o di altri contrari. Che se opposizione
è la contraddizione, la pri La differenza tra i generi o tra cose di
genere diverso non è considerata da A.come vera differenza, perchè manca
il rapporto, identificato, da un p. d. v. realistico-empirico, col
passaggio, di cui al $ 1. Quando quel rapporto c'è, si ha un p. d. v.
logico (che vuole identità e ditterenza insieme). Ma, poi, questo 0 è
riguardato in una logica astratta (che sta tra quella del pensiero in sè e
per sè, e quella meramente discorsiva: i due terinini son racchiusi nella
sintesi del giudizio, ma il pensiero non si media ne'suoi termini, sì che
questi restano uno di fronte all'altro immediatamente), e si ha la
contraddizione; ovvero il p. d. v. logico vien concepito come coincidente
con quel passaggio, e si ha la contrarietà. I contrari banno sempre una
materia, si dice in XII. 10, 12: ossia, una materia comune, ch'è il genere
reale e logico, dentro il quale si muove il reale e il pensiero che lo
pensa. D'altra parte, poichè i limiti estremi, entro i quali si vuol
pensare ogni possibile mutazione, tendono a idealizzarsi sino al rapporto
assolutamente esclusivo (la privazione dev'essere totale, affinchè si abbia la
differenza massima), la vera contrarietà diventa la contraddizione, pur che in
questa si concepisca il termine negativo non nell'espressione
astratta, ma nell’opposizione concreta (ch'è del pensiero a se stesso, non
delle cose come pensa A.). La &ivauw qui è tanto potenza empirica
(oggettiva), che razionale (s0gGettiva), come l’esempio della scienza chiarisce
(salute e malattia, ad es., in quanto dipendono dalla scienza medica).
Una stoffa possiede il bianco o
il nero; l’arte medica o una medicina produce, o può produrre, la
salute o la malattia; il corpo puo perdere la salute e riacquistarla;
ecc. vazione, la contrarietà e la relazione, e di queste la principale è
la contraddizione, della quale non si dà. mezzo, mentre si dà dei
contrari, è chiaro che contraddizione
e contrarietà non son la stessa cosa. La privazione è una contraddizione
(') di certa natura: poichè ciò che soffre privazione, o in generale o in un
certo modo, vien così determinato, secondo che o non abbia punto la capacità di
una cosa, o non abbia questa cosa pur essendo fatto da natura per
averla. Qui abbiamo già molti significati: secondo che altrove
distinguemmo. Per cui la privazione è una contraddizione di certa natura,
o un’incapacità ch’è del tutto determinata, ovvero è presa insieme a ciò
che può riceverla. Perciò, mentre della contraddizione non si dà mezzo,
della privazione in qualche caso si dà: tutto, infatti, è o uguale o non
uguale; non tutto invece è uguale o disuguale, ma, se mai, ciò vale
soltanto per quel ch’è suscettibile dell’uguale. Che se il divenire, dove
c’è la materia, è tra i contrari, e avviene o dalla forma e dal possesso
della forma, o dalla privazione determinata della forma o figura, è chiaro che ogni contrarietà è una certa
privazione; ma, invero, non ogni priva
Partendo dalla contraddizione, e realizzando il termine negativo
nella privazione in generale, questa si presenta come un caso della
contraddizione, e la contrarietà, a sua volta, come un caso della
privazione (dove l'opposizione steretica è la massima). Se partiamo,
invece, dal mutamento reale, la contrarietà è una generalizzazione
dell'opposizione steretica (atégeors ed Esc), e sta tra questa e la
contraddizione. Si risolve così la questione tra lo Zeller ‘che voleva
ridurre la privazione o alla contrarietà o alla contraddizione) e il Ross
(a q. 1.), che sostiene la subordinazione della privazione alla contraddizione,
e della contrarietà alla privazione. Ma A., preso nel testo, in verità, dà
ragione a tutti due; e come riconosce molti significati alla privazione,
sì che c'è da pensare che uno sia fondamentale (quello di contrarietà),
così nel $ 5 ne riconosce molti per la contrarietà, sì che fa pensare che
fondamentale sia l’opposizione steretica pura e semplice (senz’altra
determinazione). L'incertezza nel pensiero di A. si nota anche nella
frase che segue, in cui la privazione vien attribuita anche a ciò che
«non ha affatto la capacità di qualcosa »: ch'è contro il concetto
fondamentale della steresi in quel che si distingue dalla negazione
astratta; e poco dopo è definita con analoga oscillazione, o per sò («
determinata incapacità »), «o insieme a ciò che può riceverla». Per
l'opposizione di relazione, o correlazione (tà med x: ma A., in realtà,
distingue i due concetti), v. 6, 5. Secondo che altrove distinguemmo: V.
22. zione è una contrarietà: la ragione è che ciò ch'è passibile di
privazione può averla in molti modi, e soltanto quando i termini del
mutamento sono quelli estremi si ha la contrarietà. Lo si vede anche per
esperienza. Ogni contrarietà implica una privazione di uno dei due
contrari, ma non allo stesso modo sempre: la disuguaglianza è privazione
dell'uguaglianza, la dissomiglianza della somiglianza, così come il vizio
della virtù. I casi sono differenti, secondo si è detto: in uno, si bada
semplicemente alla privazione, in un altro al tempo o ad una parte, per
es., a una certa età o alla parte principale, oppure si tratta di una
privazione totale. Sì che in certi casi si da un mezzo (è possibile che
un uomo non sia nè buono nè cattivo), in altri non si dà (un numero
è necessariamente pari o dispari). Inoltre, alcuni contrari hanno un
sostrato determinato, altri no. È perciò manifesto che sempre uno dei due
si dice secondo privazione: basta che questo sia manifesto per i generi
fondamentali dei contrari, come l’uno e il molteplice: chè gli altri si
riducono a questi. Poichè a un contrario si oppone un solo
contrario, si potrebbe far questione come l’uno si opponga al
molteplice, e l’uguale al grande e al piccolo. La disgiuntiva noi
l’adoperiamo sempre per esprimere un’antitesi: chiediamo, ad es.: È
bianco o nero? È bianco o non bianco? Non diciamo: È uomo o bianco? Salvo
che per un presupposto: come se si chiedesse se venne Cleone o Socrate.
Qui si ha un caso che non ha carattere di necessità per nessun genere di
cose. Pure, anch'esso ha la stessa origine: poichè, non essendoci
che gli opposti che non possono trovarsi insieme, di tale incompatibilità
fa uso chi domanda quale dei due venne: chè, se poteva darsi che
venissero insieme, la domanda non avrebbe avuto senso. Pure, anche in tal
caso, si può similmente cadere nell’antitesi, in quella dell’uno e del
molteplice, chiedendo, ad es., se son venuti entrambi o uno solo. Se,
dunque, negli opposti la domanda è sempre disgiun- 2 tiva; e poichè si
può chiedere: È maggiore, minore, o uguale?: di che natura è l’antitesi
dell’uguale, a questi? Chè non è contrario a uno solo, nè ad entrambi.
Perchè, infatti, sarebbe contrario al maggiore più che al minore?
Aggiungi che l’uguale è contrario al disuguale: per cui dei contrari
esso ne avrà più di uno. Che se il disuguale significa la stessa
cosa di quei due presi insieme, l’uguale si dovrebbe opporre ad entrambi,
e si finirà col dar ragione a quei che van dicendo che il disuguale è la diade
('). Ma, allora, uno solo avrebbe due contrari: la qual cosa è
impossibile. Poi, l’uguale appare intermedio tra il grande e il piccolo;
ma non si vede come un contrario possa esser intermedio, nè, stando
alla definizione, è possibile: chè non sarebbe perfettamente contrario se
fosse intermedio, anzi, se mai, c’è sempre un intermedio tra esso e l’altro
termine. Resta, allora, che l’opposizione sia o come negazione o 4
come privazione. Di uno solo dei due termini, non può essere. Perchè, infatti,
si opporrebbe al grande piuttosto che al piccolo? Sarà, dunque, una
negazione privativa di entrambi (°). E per questo la disgiuniiva riguarda entrambi,
e non un termine solo, come farebbe chi chiedesse: È maggiore o uguale? oppure:
È uguale o minore? Invece, i termini son sempre tre. Ma questa
privazione non ha carattere di necessità: chè 5 non tutto è uguale ciò
che non è nè maggiore nè minore; YI Così i Platonici
ricordati in XIV. 1, 3. Soltanto il nome sarebbe uno solo (disuguale): in
realtà i termini son due. Negazione (contradittoria), ch'è, come viene
spiegato, doppia; ed esprimendo la possibilità reale di entrambe le
contrarietà, è chiamata privativa, e intermedia fra esse. Il termine
doppiamente negativo è, qui, l’uguale; le due contrarietà corrispondono
alle due disgiuntive, nelle quali si determina la negazione, la quale è
trattata come una realtà oggettiva, una potenza di contrari 0 un intermedio
tra essi, La soluzione permette ad A. di mantenere cho a un cor» trario
si oppone un solo contrario ; di risolvere la diade dei Platonici nella
dualità espressa dalla parola « disuguale » ; trasferendo l’intermedietà nell'«
uguale » non più come contrario, ma come negazione, di unificare, in
certo modo, in questa (quasi come un'attività di pensiero) le due
disgiuntive . Cfr. con quest'ultimo punto la discussione in IV. 7-8
intorno al terzo escluso. ma le cose soltanto che hanno natura di esser
tali. L’uguale è, appunto, ciò che non è nè grande nè piccolo, ma ha
unatura di essere o grande o piccolo; e si oppone ad entrambi come una
negazione privativa: per cui è anche intermedia. Anche ciò che non è nè
buono nè cattivo si oppone a entrambi, ma non ha un nome, perchè ciascuno dei
due si dice in molti sensi (!), e non c’è una sola cosa che di essi
sia suscettibile. Non così, piuttosto, si può pensare di ciò che non è nè
bianco nè nero: pure, neanche qui si può dire qualcosa di unico, sebbene
i colori dei quali si enuncia privativamente tale negazione siano, in certo
modo, limitati: chè, necessariamente, o è grigio o è giallo, o altro di
tal natura. Per cui non dirittamente obiettano coloro che stimano il caso
esser lo stesso per tutte le cose, sì che, come ciò che non è nè buono nè
cattivo sta in mezzo tra il buono e il cattivo, della scarpa e della mano
ci dovrebb’essere un intermedio che non è nè scarpa nè mano, e così ce ne
dovrebb’essere uno per tutte le cose. Questa non è una conseguenza
necessaria: poichè in un caso è possibile una simultanea negazione degli
opposti in quanto è di cose di cui esiste un intermedio e un intervallo
naturalmente determinato; nell'altro caso, invece, non esiste questa
differenza, perchè le 1086 b cose delle quali si fa la negazione
simultaneamente, son di genere diverso, sì che non è identico il loro
sostrato. Si può far questione, similmente, intorno all'uno e ai
molti: chè, se molti si oppone all’uno semplicemente, si hanno alcune
conseguenze assurde. L’uno sarebbe poco, 0 pochi: molti, infatti, si
oppone a pochi. Poi, due sarebbe In ogni categoria: cfr. Eth. Nic., I. 4.
1096 a, 19. Non c'è un termine unico che esprima (come l’« uguale ») le
due negazioni. Neanche per il bianco-nero, che pure son nella stessa categoria.
Tanto meno quell’unico termine può esistere in cose di genere diverso,
tra le quali, mancando l’identità che accompagni la differenza, non
esiste passaggio. molti, una volta che doppio è multiplo e doppio dicesi
considerando il due; per cui l’uno sarebbe poco. Infatti, in rapporto a
che il due è molti, se non all’uno, e però al poco? Chè non c’è nulla che
sia più poco. Inoltre: come 2 nella lunghezza il lungo e il corto, così
nel molteplice è il molto e il poco, e ciò ch’è molto è anche molti, e
ciò ch'è molti molto: sì che (se ne togli il caso di un continuo
che sia facile a limitare) il poco sarà una specie di molteplice, e tale quindi
l’uno, se esso è anche poco: e che questo sia, è necessario, se il due è
molti. Pure, se il molti dicesi anche in certo modo molto, una 3
differenza c’è: l’acqua, ad es., dicesi molta, non molti. Molti, invece,
dicesi per quante cose sono divisibili: in un senso, se queste formino un
molteplice che ecceda, o assolutamente o relativamente (e dicesi, similmente,
poco se quel molteplice sia in difetto); in un altro, vuol dir numero,
e in questo senso soltanto si oppone all’uno. Noi, infatti, diciamo «uno
o molti», proprio come se si dicesse «uno e uni», 0 «cosa bianca e cose
bianche », e mettiamo in rapporto le cose misurate con la misura, e
parliamo del misurabile così come del
multiplo: poichè ogni numero è molti in quanto risulta di uni ed è
misurabile con l’uno, e ne parliamo come di opposto all’uno(*), non al
poco. E così, quindi, anche il due è molti, non già nel senso che 4
sia un molteplice eccedente o relativamente o assolutamente, ma nel senso
ch’esso è il primo molti. Assolutamente inteso, il due è pochi: chè esso
è il primo molteplice che può
Il molto è, dunque, equivalente al molti: è, cioè, un molteplice. Se
ne tolga il caso di ciò ch'è «facile a limitare» (etoglotw), come i
liquidi e tutto ciò che prende dal limite (per es. del recipiente) la
forma delia continuità: l'acqua, ad es., non uvendo parti discrete, può
esser un molto, non un molti. Soppresso il punto (Ross). Le
conseguenze assurde derivavano, dunque, dall’opporre il molteplice all’uno
senza distinzione di significato (semplicemente). V. Sommario, e conchiusione
del capitolo, Il due parrebbe,
quindi, il principio del molteplice (come la dualità platonica), D'altronde, il
principio di esso, nel senso di misura, è l’uno. La soluzione sembra
questa: in quanto l'uno e il molteplice sono contrari, come
l’indivislbile esser in difetto (perciò, anche, andò fuori strada
Anassagora quando disse che « tutte le cose erano insieme, infinite
e per molteplicità e per piccolezza »: invece di ): il quale stabiliva
quale fosse il numero di qualcosa (questo qui, ad es., dell’uomo; questo qui,
del cavallo), imitando con sassolini le forme degli esseri viventi,
al modo stesso di coloro che riducono i numeri alle figure, al
triangolo e al quadrato. Ovvero è perchè l’armonia è un rapporto di numeri, e così è anche l’uomo e ognuna
delle altre cose? Ma come, poi, le qualità, il bianco e il dolce e
9 il caldo, son numeri? Che, poi, i numeri non siano sostanze, nè
cause della forma, è evidente: è il rapporto ch’è la sostanza, il numero è
materia (°). Per es., la sostanza della carne o dell'osso è un numero in
questo senso: che ci vogliono tre parti di fuoco e due di terra. E sempre il
numero, assorbito nel prodotto, sì che fuori non ne sia restato
nulla a insidiare la vita dell'altro; cfr. VI. 3, 2: «chi vive dovrà
morire, perchè è già avvenuto questo, che elementi contrari si trovano
nello stesso corpo »): il numero, dunque, non è eterno. Le
considerazioni che seguono, sino alla fine del libro, come nota il
Bonitz, « Pythagoreorum doctrinam praecipue tangunt et fortasse
Platonicos quosdam qui ad Pythagoreos proxime accedebant». Scolaro di
Filolao, al principio del sec. IV: porta, come si vede, al comico la dottrina
dei numeri come sostanza delle cose e la loro figurazione geometrica. putàv, delle piante; ma è probabile,
suggerisce il Ross, che qui sia usato nel senso più antico e ampio di «
essere vivente ». È sostanza o
rapporto? Se sostanza (essenza), come, allora, la qualità? Se è rapporto,
invece, non è sostanza (sostrato). Numero equivale qui a molteplicità di cose
(soltanto il numero monadico, 1. e. aritmetico, è di unità astratte).
Cfr., per gli esempi, I. 9, 18 e 10, 2. sia quale si voglia, è numero di
certe cose: di particelle di fuoco o di terra, ò è un numero di unità
astratte. La s0stanza, invece, implica che c’è tanto di questo unito per
la mescolanza a tanto di quello: e questo non è già un numero, ma
rapporto numerico della mescolanza di cose corporee, o 10 d’altra
specie. Il numero, dunque, sia quello in generale e sia quello ch’è di
unità astratte, non è causa delle cose nè per il fare, nè come materia,
nè come concetto e specie. Nè, certamente, come causa finale ('). Si
potrebbe anche far questione in che consiste la perfezione che alle cose
deriverebbe dal numero, quando la loro mescolanza è fatta secondo un
rapporto numerico perfetto 0 secondo un numero dispari. Sta di fatto che
non per questo l’idromele è più salubre se acqua e miele siano mescolati
in modo da fare tre volte tre (*); anzi, se è acquoso senza nessun
determinato rapporto può giovare di più che se, per farlo. in 2 rapporto
numerico, sia troppo forte. E si noti che i rapporti delle parti di ciò
che vien mescolato si esprimono con l’addizione del loro numero, non con i
numeri soltanto: per es., «tre parti a due», non «tre volte due ». Poichè
le cose che vengono moltiplicate debbon essere dello stesso genere:
per cui, data una serie di fattori, 1. 2.3, essa dev’esser misurata dal
primo termine: se è 4.5. 7, dal 4. Insomma, in tutti i casì, dal termine
ch’esprime lo stesso genere. Non può essere, quindi, che il numero del
fuoco sia 2. 5. 3. 7, e quello 3 dell’acqua 2.3(*). Che se il numero
fosse una natura co- 1009 a
Nessuna, dunque, delle quattro specie di causa, Nota concetto e
specie: la causa formale come pensiero e insieme come forma reale.
(2) tels tela: si deve dire, invece, ammonisce A. dopo, «tre a tre », poichè
si tratta di un iniscuglio. In « tre volte tre », e nella moltiplicazione
in generale, ch'è un'addizione ripetuta dello stesso numero, questo dev'
esser sempre dello stesso genere.
Chè anche il fuoco sarebbe acqua. Penso che questo patagrafo prosegua
ancora l'argomentazione ch'è alla fine del 8 9 del cap. prec. mune di
tutte le cose, ne verrebbe, di necessità, che molte cose sarebbero le
stesse, e lo stesso numero sarebbe proprio di questa cosa e di una cosa
diversa. Ma è questa, allora, la causa delle cose, ed è per questo che
una cosa è quello che è? O non è ciò molto oscuro? Poniamo: esiste un
certo numero per le traslazioni del sole, e così per quelle della
luna, e anche per la vita e l’età di ciascuno degli esseri viventi. Che
impedisce, allora, che alcuni di questi numeri siano quadrati, altri
cubici, alcuni uguali e altri doppi? Nulla; anzi, di necessità, tutti (')
si aggirano in questi rapporti, una volta che la natura del numero è
comune a tutte le cose, e quelle che sono differenti possono cadere sotto
lo stesso numero. Per cui, se ad alcune convenisse lo stesso numero,
quelle sarebbero identiche tra loro che avessero la stessa forma del
numero: il sole e la luna, ad es., sarebbero identici (?). E perchè son
cause questi numeri? Ci sono sette vocali, sette corde o note musicali,
sette son le Pleiadi; al settimo anno, almeno alcuni animali (altri, no),
perdono i denti; sette, quei che pugnarono a Tebe. È, dunque, perchè
quel numero ha quella natura lì, che quelli si trovarono in sette,
o che le Pleiadi hanno sette stelle? O non piuttosto, per quelli, perchè
sette erano le porte della città, o per qualche altra causa? E per le
Pleiadi siam noi che così le contiamo, come ne contiamo dodici per l’Orsa
(altri ne contano di più). Essi dicono anche che E Y Z sono consonanze, e
poichè tre sono in musica le consonanze, tre, dicono, sono queste
doppie consonanti. Non si dànno nessun pensiero che di questa
specie ce ne potrebbero esser mille: basta, poniamo, porre un segno
unico per I° P. Che se opponessero che ognuna di quelle è doppia delle
altre, e che nessun’altra consonante è così, la Non è chiaro se voglia dire: a)
che tutti è numeri sono risolubili in rapporti o figure geometriche (8v
tovtotce); b) che tutte le cose, per i Pitagorici, sono risolubili in
numeri. Ma, forse, son conglobati entrambi i pensieri (nota infatti, alla
fine del paragrafo, «la stessa forma del numero »: t. aùrà elbos do.)
(2) Alcunì citano XII. 8, dove il sole e la luna hanno lo stesso numero
di sfere o movimenti di traslazioni. O si riferisce qui alla
figura? ragione, poi; è che tre sono i luoghi della bocca (‘) in cui
si producono le consonanti e a ciascuna vien congiunto medesimamente il
sigma: per questo sono tre sole, e non perchè tre siano le consonanze
musicali: in realtà, queste sono più di tre, di quelle non ce ne possono
esser di più. Costoro somiglian proprio ai vecchi interpreti d’Omero, i
quali vedono le somiglianze piccole, e sfuggono a loro le grandi.
Ci sono alcuni che dicono ancora molte cose di questo genere: per es., che
avendo le due corde di mezzo l’una nove l’altra otto toni, il verso epico
ha diciassette sillabe, uguale al numero di quelle, e ch’esso si
scandisce a destra (*) con nove sillabe, a sinistra con otto. E dicono
che l'intervallo tra l’alfa e l’omega nelle lettere è uguale a quello tra
la nota più bassa e la più alta del flauto, e che il numero di
quest'ultima è uguale alla totalità dell’armonia celeste (*). Si deve
notare che nessuno troverebbe difficoltà a spiegare in questo modo le
cose eterne e a scoprirne le concordanze: chè non è difficile neanche per
le cose corruttibili. Le nature tanto lodate che sarebbero nei numeri, e
quelle a loro contrarie, e in generale le proprietà degli oggetti
matematici nel senso in cui ne parlano alcuni per farne cause della
natura, sembrano svanire agli occhi di coloro che considerano le cose così come
noi facciamo (°): chè nessuna di esse si può dir causa, in nessuno dei
modi da noi determinati trattando dei principii. Certamente, come essi fan
vedere, la perfezione appartiene a tali oggetti, manifestamente; e alla serie
delle cose dov’ è la bellezza appartengono il dispari, il retto,
l’uguale, le potenze di certi numeri. Chè (1) Donde la distinzione
di gutturali, dentali, labiali. (3) La prima parte; a sinistra, la
seconda (Aless.). (3) Secondo Aless., il 24 (12 segni dello zodiaco; 8
sfere, quella delle stelle fisso e le sette dei pianeti; 4 elementi).
Le une benefiche, le altre malefiche. La mentalità critica allontana
molto A. da’ suoi contemporanei. (6) Lo Schwegler intende che questo sia
detto ironicamente. Pensando alla fine del $ 5 e al passo già citato di
XIII. 3, 8, ho dato, invece, alla traduzione il tono come se A. faccia
qualche concessione alla dottrina combattuta così vivacemente. In ogni modo,
egli afferma, in fine, che si tratta di mere analogie. le stagioni e un
numero di certa specie vanno insieme; e tutte le altre proprietà ch’essi
raccolgono dai teoremi matematici, hanno questo valore. Perciò anche si rendono
appa- riscenti le coincidenze: poichè sono, sì, meramente proprietà
di ciascuno di essi, ma tutte si corrispondono tra loro, e fanno una cosa
sola dal punto di vista dell’analogia. Poichè in ogni categoria
dell’essere c’è l'analogia: come la linea retta nella lunghezza, così è
il piano nella superficie, e senza dubbio il dispari nel numero, e il
bianco nel colore. Quanto ai numeri, in fine, che consistono nelle
specie, essi non sono la causa delle armonie e delle cose di questa
natura: poichè essi differiscono tra di loro, anche se uguali, per ia
specie, una volta che anche le unità son differenti ('). Sì che, almeno
per queste ragioni, non c’è bisogno di porre tali specie. Queste,
dunque, le conseguenze che si posson trarre, e più ancora se ne
potrebbero addurre. Il fatto stesso del loro grande travaglio a spiegarne
la genesi, e il non riuscire in niun modo a dar coerenza all'insieme, è
un indizio che gli oggetti matematici non hanno esistenza separata,
come alcuni dicono, dalle cose sensibili, e che i primi principii
non son questi. (1) I numeri ideali, essendo di unità di specie
differente (e però &ovufàintay, come si dice nel libro precedente),
sono anch’ essi differenti di specie, anche se uguali (se son triadi, ad
es., comprese nello stesso numero nove). Non con essi, dunque, ma con i
numeri matematici, se mai, ci si può render ragione di cose, le quali,
come nell’armonia le unità e i rapporti di uno stesso tono, sono della
stessa specie. Armando Carlini. Carlini. Keywords: filosofia
fascista, Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito del realismo, la categoria
dello spirito, animus e spiritus, filosofia italiana, storia della filosofia
romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la antichissima sapienza degl’italici,
la scuola di pitagora, sicilia e la magna grecia, geist, ghost, spirito, animo,
spirito oggetivo, Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei, aristotele,
il principio logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed esperienza,
storia della filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi filosofi –
mondatori – the great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carlini”
– The Swimming-Pool Library. Carlini.
Luigi
Speranza -- Grice e Carmando – Roma – filosofia italiana (Roma). Charmander -- According to Seneca, Carmando wrote a book on comets.
Luigi Speranza -- Grice e Caro: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’interpretare -- interpretante,
interpretato – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “Caro likes
‘interpretant,’ I spent various tutorials going through Aquino’s Commentarium’
on the ‘peri hermeneias’ – my tutees were fascinated by the fact that while the
Grecian hermeneias is figurative – after Hermes, some say – ‘inter-pretatio’ is
not!” -- “I love Caro – he has philosophised on Davidson’s philosophising,
notably Davidson’s idea of the interpretant, an idea Davidson borrowed – but
never returned – from Peirce!” Insegna a Roma. Si occupa di filosofia morale, di libero
arbitrio, teoria dell'azione e storia della scienza. Ha difeso la teoria detta
" naturalismo liberale", già oggetto di discussione nelle letteratura
specialistica sull’argomento. È membro dei comitati scientifici delle riviste Rivista
di Estetica e Filosofia e questioni
pubbliche. Collabora con Il Sole 24 Ore, e ha scritto per The Times, La
Repubblica, La Stampa e il manifesto. Presidente della Società Italiana di
Filosofia Analitica (SIFA) dal al. È
vicepresidente della Consulta Nazionale di Filosofia. Ha condotto
ZettelFilosofia in movimento, programma televisivo RAI dedicato alla
filosofia. L'asteroide 5329 Decaro è
chiamato così in suo onore; “Dal punto di vista dell'interprete. La filosofia
di Davidson, Roma, Carocci); Il libero arbitrio, Roma-Bari, Laterza); Azione,
Bologna, Il Mulino); La logica della libertà, Roma, Meltemi); Normatività,
Fatti, Valori” (Macerata, Quodlibet); Scetticismo. Storia di una vicenda filosofica”
(Roma, Carocci). Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero
arbitrio (Torino, Codice). La filosofia analitica e le altre tradizioni (Roma,
Carocci). Bentornata Realtà: Il nuovo
realismo (Torino, Einaudi,. Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze
e società” (Torino, Codice,. Biografie convergenti: venti ircocervi filosofici,
disegni di Guido Scarabottolo, Milano-Udine, Mimesis). Cos’è il nuovo
realismo [What is the new realism”], Mimesis, Milano) Azione [Action”],
Il Mulino, Bologna, Il libero arbitrio.
Un ’ introduzione [ Free Will. An
Introduction ” ], Laterza, Roma-Bari); Dal punto di vista de ll’int
erprete. Il pensiero di Donald Davidson [ From theInterpreter’s Point of View. Donald
Davidson s Thoug ht], Carocci, Roma
Interpretazioni e cause [Interpretations and Causes], Doctoral
dissertation, Università diRoma. Editor (with M. Mori - E. Spinelli)
of La libertà umana: storia di un’id ea, Carocci,Roma,
forthcoming.2) Editor (with Lavazza Sartori) of Quanto
siamo responsabili? Filosofia,neuroscienze e società, Codice, Torino Marraffa)
of La filosofia di Martino, special issue of Paradigmi, Editor
(with L. Illetterati) of a special issue of Verifiche on Classical German Philosophy. New Research Perspectives between Analytic Philosophy and the Pragmatist
Tradition) Editor (with S. Gozzano) of a special issue of
Rivista di filosofia on The philosophy ofconsciousness,
Editor (with M. Ferraris) of Bentornata realtà. Il nuovo
realismo in discussione, Einaudi,Torino) Editor (with Poggi),
La filosofia analitica e le altre tradizioni, Carocci, Roma) Naturalismo,
special issu Rivista di Estetica, (with Barbero and Voltolini) Editor of
The Architecture of Reason. Epistemology, Agency, and Science, Carocci,Roma
(with Egidi) Editor of Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il
mistero del libero arbitrio,Codice, Torino) (with Lavazza and Sartori). Guest
editor ofÈ naturale essere naturalisti?, special issue of Etica e
politica, (with Barbero - Voltolini). Editor of Scetticismo. Storia di una
vicenda filosofia, Carocci, Roma
(Spinelli) Editor of La mente e la natura, Fazi, Roma (Italian version of Naturalismin
Question ) (with Macarthur) Editor of the Italian version of H.
Putnam, The Fact/Value Dicothomy, Fazi, Roma) Normatività, fatti, valori,
Quodlibet, Macerata (essays by Wright, Hornsby, Fogelin, et alii ) (with
Rosaria Egidi and Massimo De ll‟ Utri) Editor of Logica della
libertà [ The Logic of Free dom],
Meltemi, Roma) -- contains the Italian translation of essays by A. Ayer, R.
Chisholm, P.F. Strawson, P. vanInwagen, H. Frankfurt) Guest editor
of Libertà e Deter minismo Freedom
and Determinism ], specialissue of
Paradigmi, Presentazione del numero speciale di Paradigmi dedicato
a La filosofia di Martino, Machiavelli e Lucrezio , postface
to Brown, Machiavelli e Lucrezio. Fortuna elibertà nella Firenze del
Rinascimento, Carocci, Roma, Metafisica e naturalism o: una entente cordiale?,
Sistemi intelligenti, Galileo e il platonismo fisico - matematico, in
Chiaradonna, Il platonismo e le scienze, Carocci, Roma Introduzione (with
R. Chiaradonna) to R. Chiaradonna, Il platonismo e le scienze,Carocci,
Roma Naturalismo nel mirino: ma quale intendiamo? , Vita e pensiero, Autonomia
della filosofia e neuroscienze, Rivista di Filosofia, Libero arbitrio e
neuroscienze, in Lavazza, G. Sartori (a
cura di), Neuroetica,Il Mulino, Bologna
Filosofia della mente, in Dizionario della mente Treccani,
Istituto dell’EnciclopediaItaliana Italiana, Roma Ne uro-mania e natura
lismo (commento, su invito, a ll articolo target di Castelfranchi e Paglieri) (con Lavazza), Giornale italiano di psicologia, Il migliore dei naturalismi possibili
Etica et Politica / Ethics et Politics, (with
Voltolini). Psicologia, intenzionalità, scopi: un punto di vista
filosofic o, (invited commentary to atarget article by C. Castelfranchi
and F. Paglieri), Giornale italiano di psicologia, Libertà e responsabilità mora le,
in Enciclopedia del Terzo Millenio, Istitutode ll Enciclopedia Italiana,
Roma Le neuroscienze cognitive e
l'enigma del libero a rbitrio, in M. Di Francesco M.Marraffa (a
cura di), Il soggetto. Scienze della mente e natura dell’io, Mondadori,
Milano Neuroetica e libero a rbitrio, in Bacin (a cura di),
Etiche antiche e moderne, Il Mulino,Bologna Introduction to the Italian tr. of
Dupré, Human Nature and the Limits ofScience, Laterza, Roma-Bari (with
Telmo Pievani). Temi scotistici nella discussione contemporanea sul libero a
rbitrio, Quaestio Gazzaniga,
Hauser e la fallacia dei cromosomi mora li, Micromega (Almanacco di
scienze) Filosofia, musica e asc olto, Rivista di storia della filosofia, Il ritorno dello scientismo, in M.
Failla (cur.) B ene navigavi . Studi in onore di Franco Bianco, Quodlibet,
Macerata Il naturalismo scientifico
contemporaneo: caratteri e pr oblemi, in Costa - F.
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(with MassimoMarraffa).Due concetti di libero arbitr io, in R.
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di Rosaria Egidi, Franco Angeli, Milano
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filosofica di Gallarate, Bompiani, Milano Nozick, Strawson e l’illusione
della libertà,Pellegrino e Salvatore, Nozick . Identità personale,
libertà e realismo morale, LUISS University Press, Roma Questioni metafisiche:
Dio e la libertà, in Coliva, Filosofia analitica. Temi e problemi,
Carocci, Roma with G. De Anna). Davidson sulla libertà umana, Iride, L'inscindibilità di fatti e valori in etica,
in economia e nelle scienze natura li, in troductionto Fatto valore. Fine
di una dicotomia (Italian translation of
Putnam, The Fact/Value Dicothomy ), Fazi, Roma Naturalismo e
scetticismo: il caso del libero a rbitrio, in R. Lanfredini (ed.),
Il problemamente-corpo, Guerini, Milano,
Responsabilità e sce tticismo in Egidi - De ll Utri – C., Normatività,
fatti, valori, Quodlibet, Macerata
Olismo e interpretazione radica le, in M. De ll Utri (a cura di),
Olismo, Quodlibet,Macerata Il naturalismo fisicalistico: un dogma filosofico?, in
P. Parrini (ed.), Conoscenzae cognizione, Guerini, Milano Teorie de l’int erpretazione e criteri di
correttezza, in Montaleone (ed.), Parole fuorilegge.
L’idiotismo linguistico tra filosofia e letteratura, Cortina, Milano Libertà, Paradigmi, Forme dello
scetticismo e interpre tazione, Fenomenologia e società, Contro la centralità delle regole: l’esternalismo
di Davidson, in Atti della
Società Italiana di Filosofia del Linguaggio, Novecento, Palermo, Sui
presupposti sociali della responsabilità, «Filosofia e questioni pubbliche, Per un connessionismo non
eliminazionista Sistemi Intelligenti,
Varianti dell’olismo. Aspetti della teoria analitica della traduz
ione, Colloquium Philosophicum,
Libertà metafisica e responsabilità mora le, Paradigmi, Prese ntazione, Paradigmi, Determinismo e filosofia della mente
contemporanea, in M. Cini (ed.), Caso, necessità, libertà, Cuen,
Napoli Monismo anomalo ed epife
nomenismo, Il Cannocchiale,
Il lungo viaggio di Putnam, Lingua e Stile, XXXI, Epistemologia e interpretazione: l
esternalismo di Davidson, Rivista di
filosofia, Il platonismo di Ga
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discriminazione tra la scienza e l'arte: un problema per il relativismo
epistemico, Paradigmi, Review of S. Nannini, Naturalismo cognitivo.
Per una teoria materialistica della mente,in Iride, Review of L. Fonnesu,
Storia dell'etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica,in
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in Bollettino della Società filosofica italiana, Review of Ricciardi - Corrado Del B o (a cura
di), Pluralismo e libertà fondamentali, in Iride, Review of
Giacomo Marramao, Minima temporalia, Iride, in Iride Review
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in Hilary Putnam, in Physis, Review of
Il naturalismo filosofico di Quine [review of Quine, La
scienza e i dati di senso, Roma Tempo
presente, Review of Scienza e
relativismo: un ossimoro? [review of: R. Egidi, La svoltarelativistica
nell'epistemologia contemporanea, Milano Tempo presente, Review of E' ancora possibile una storiografia
dell'arte? [review of: H. Belting, La fine della storia dell'arte
o la libertà dell'arte, Torino Tempo presente,: Università della Calabria,
Conference of Italian Association of Philosophy ofMind. Commentator of the main speaker, Crane: participant in the debate
on Semiotics and Phenomenology of the Se
lf, Roma, Società Italiana di Filosofia: University of L’Aquila. Lecture
on Free Will and Causal Determinism .
Ravenna Scienza, Neurobiology of Free Will: Is Our Will Free? .Invited
speaker. Paper: The Philosophical
Mystery of Free Will. Roma, Auditorium
Parco della Musica, Festival of Science. Lecture on: Gödel Theorems and Free will (with
Rebecca Goldstein).: Reggio Emilia, Istituto Banfi. Conference Nature
and Free dom; invited spekaer for the section
The naturalization of free dom (commentators Benini eS.F. Magni). Nature and Free
dom. : University Ca’Foscari,
Venice. International Conference, Davidson: Language - Meaning - Mind - Action ;
invited speaker. Paper: F reedom andInference to the Best Explanation .Sassari,
Sassari Association of Philosophy and Science. Lecture on Freedom and Scien ce. Vita Salute San Raffae le University, Cesano
Maderno (Milano), First Meeting of the Italian Association of Philosophy
of Mind ; organizer and chairperson. Genoa, conference, Mental Processes ;relatore invitato per la
sezione Action and Rationality
Hornsby). SISSA, Trieste.
Conference Neurophysiology and Free W ill; invited speaker.
Paper: Etica e libero arbitrio .
University of Trento, International Conference,
Agency and Causation in theHuman Sciences . F reedom and the Social
Sciences ). Vita e Salute - San
Raffaele University, Milano. International Conference, A Day for Freedom? A Conference on Free W
ill. Discussant di Hughes: University of Florence, International
Conference Philosophy, Neurophysiology and
Free will On the compatibility of philosophy and scienc e.Istituto di
studi americani, Roma, International Conference, Pragmatismand Analytic Philosophy:
Differences and Interac tions (invited speaker). Paper: B eyondScientific
Natura lism. University of Piemonte orientale, Department of
HumanisticStudies. Three lectures on Freedom and Nature.
November 26, 2004: University of Florence - Department of Philosophy.
Lecture on TheConcept of Naturalism: University of Pavia Giason del Maino
College. Lecture on TheContemporary Debate on Free Will . University
"Vita e Salute San Raffaele, Milano. Lecture
on Freedomand Nature. University of Piemonte Orientale, Vercelli,
Department ofHumanistic Studies, conference on
Scientists and Philosophers and the Study ofComplex Sy stems: Genova, VI
International Conference of the Italian Society of Analytic Philosophy (member
of the scientific committee). Rome. International Symposium
"Questions on Naturalism"
Rome. Davidson on Human Free
dom. Conference on Davidson, Department of Philosophy, Università Roma
Tre (Rome. Discussant of Akeel Bilgrami. Workshop at LUISS University. Florence.
Paper: Metaphysical Libertarianism .
Conference on Nozick’s philosophy, Department at the University of Florence
(speaker), Sassari. Lecture on Logica e
retorica [Logic and Rhetoric].Department of Foreign Languages and
Literatures, University of Sassari (invited lecturer), Siena. Paper on
Naturalism and Free dom. Workshop on The Free Will problem.
Department of Philosophy, Università di Siena Sassari. Workshop on Skepticism
and the Reemergence and the Self, Department of Philoosophy, Università di
Sassari, (discussant), Messina. Paper on Naturalism and Intentionality .
Annual Meeting of theItalian Society of Philosophy of Language. Cosenza.
Lecture: Memoria e identità [Memory and Identity].Department of
Philosophy, Università di Cosenza, Florence. Freedom and Moral Responsibility:
Mysteries orIllusions? . Florence Rome. Lecture La teoria della
conoscenza nel Novecento [TheTheory of Knowledge in the Twentieth Century].
Italian Society of Philosophy , Rome. Paper on Il fondamento filosofico
dei diritti umani [The Philosophical Foundation of Human Rights]. Conference The Question of HumanRights Università
di Roma La Sapienza Pavia. Lecture
on Responsabilità e causalità: critiche a Strawson e Frankfurt [ Responsability and Causality: Some Criticisms
of Strawson and Frankfur t]. Department of Philosophy, Università di
Pavia (invited speaker). Cosenza. Lecture on Ragioni e cause Reasons and
causes Calabria ( Padua. Lecture on
Freedom and Naturalism, Department of Philosophy,Università di
Padova, Milan. Paper on Interpretations
and Criteria of Correctness .Conference: Interpretation and Correcteness,
Università Statale di Milano (Bologna. Causality and Naturalism. Annual Meeting
of the ItalianSociety of Analytic Philosophy, Università di Bologna (invited
speaker). Rome. Paper on Forms of Causation. Annual Meeting of the
Italian Societyof Philosophy, Università Roma Tre Siena. What Strawson Hasn’ t
Proved . Annual Conference ofthe Italian Society of Analytic Philosophy
(Rome. Paper on Freedom and the
Self . Conference: The Nature of theSelf, between Philosophy and
Psychology, Università Roma Tre Rome. Paper on
Van Inwagen’s Consequence Argument .Workshop: Freedom and
Necessity, Università Roma Tre Florence. Paper on What we should mean with the Word
Person (with Maffettone). Conference Le ragioni del corpo
[The Reasons of the Body]. Istituto Gramsci Rome. Paper on Davidson on the Conceptual Schemes .Workshop:
Talking with Davidson, Università Roma Tre, Rome. Speaker with Davidson at the
presentation of the book M. De C., Interpretations and Causes. New
Perspectives on Donald Dav idson’s Philosophy, Università Roma Tre Rome. Paper
on Against an Alleged Refutation of
Kripke’s Skeptical Argument . Facts and Norms, Conference of the Italian
Society of Analitic Philosophy, Università Roma Tre Palermo. Paper on Davidson on Following a Rule .Conference: The
Linguistic Rule. Conference of the Italian Society of Philosophy ofLanguage
Rome. Paper on Is Libertarianism About Free Will Scientifically
Acceptable?. Conference: Determinism and Freedom, Università Roma
Tre(organizer and speaker), Bologna. The
Roots of Epistemic Skepticism .Conference: Science, Philosophy, and Common
Sense, III National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy,
Bologna (Rome. Lecture on Freedom and Necessity. Seminar of
theInterdipartimental Reasearch Center on Scientific Methodology (invited
speaker). Rome. Paper on G.H. von Wright
on the Mind-Body Proble m. Conference The Study of Mankind in George
Henrik von Wright, Università RomaTre Rome. Paper on Davidson on Holism and SemanticExterna
lism. Conference: Perspectives on Holism, CNR Roma (organizer
andspeaker). Rome. Paper on Galileo’s
method . Conference: Philosophies of Nature from the Renaissance to the
Twentieth Century, Università Roma
LaSapienza Rome. Paper on
Davidson on skepticism. Davidson’s
philosophy, Università di Roma La
Sapienza ” Lucca. Paper on Logic and Philosophy of Science:
Problems and Perspectives. Triennal Meeting of Italian Society of Logic and
Philosophy ofScience (speaker), Rome. Paper on
Perspectives of Rea lism”. Lecture at the Departmentof Philosophy,
Università di Roma La Sapienza ”Rome.
Paper on W ittgenstein and the Philosophy of Mind ”.Conference: Wittgenstein on
Mind and Language, Università Roma Tre (speaker). Grice: “When we taught De
Interpretation with Austin, a tutee would ask ‘hermeneias’? Austin thought that
Heidegger’s attempt to link hermeneia (to interpret) with Hermes was far
fetched, so we left it at that!” Mario De Caro. Caro. Keywords: interpretare, Davidson,
Putnam, “derivative Old-World philosopher focusing on New-World philosophers
like Putnam or Davidson!”, interpretatione, peri hermeneias, Davidson on Grice
– Grice on Putnam on Grice ‘too forma’ – Davidson on Grice – ‘a nice
derangement of epitaphs’ Grice on Davidson on intending: conversational
implicature theory too social to be true: ‘intending’ ENTAILS belief, does not
IMPLICATE it! Pears, D. F. Pears. – P. F. Strawson and H. P. Grice on ‘free’ –
Actions and Events --.- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Caro” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Caronda: all’isola -- Roma – scuola di Catania – filosofia siciliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo
italiano. Catania, Sicilia. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean,
one of those who studied with Pythagoras himself. He achieved a repulation as a
legislator. It is said that when he found out he had accidentally broken one of
his own laws, he committed suicide. Whether he was ever a Pythagorean at all is
now widely questioned. Substantial portions of a work on laws attributed to him
survive.
Luigi
Speranza -- Grice e Carpanis: implicatura conversazionale e arte combinatoria
razionale – scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Napoli,
Campania. Tulius vero perfectissimus orator in cuius libro Rhetoricorum de hac
arte tractavit licet obscuro et subtili modo in tantum quod nemo ipsum
intelligere valuit nisi per divinam gratiam et doctorem qui doceret ipsam artem
qualiter deberet pratichari. Ad una diversa atmosfera culturale e a temi legati
alla “psicologia” e alla “filosofia” più che alla retorica, ci riportano invece
altri saggi nei quali l'influsso delle impostazioni del LIZIO ed AQUINO
(vedasi) è assai più forte di quello esercitato dalla tradizione della retorica
di CICERONE (vedasi). Si tratta, come è ovvio, solo di una differenza di grado
poiché proprio attraverso Alberto ed AQUINO (vedasi), l’arte di CICERONE
(vedasi) della memoria è entrata a far parte del patrimonio della cultura
scolastica e tuttavia, in qualche caso, si assiste, leggendo questi trattati,
all’interessante tentativo di ricavare direttamente dai testi del LIZIO alcune
regole della memoria artificiale. In questo senso è tipico il “De nutrienda
memoria”, pubblicato a Napoli nel quale C. si propone di presentare le dottrine
svolte dal LIZIO nel De memoria et reminiscentia condite col sale d’AQUINO. Il
sensus communis appare a C. simile a una gigantesca selva – “silva maxima”
-- nella quale vengono accumulandosi le
immagini provocate da ciascuno dei cinque sensi. Su questo caos agisce
l’intelletto con una triplice operazione. In primo luogo, l’intelletto dove
prendere coscienza delle immagini. In secondo luogo l’intelletto connette
l’immagini secondo un ordine preciso. Infine, quasi deambulans per pomerium, l’intelletto
lega l’una all’altra le cose simili ri-ponendole in archa memoriæ. Quando di
quelle cose si parli, l'intelletto quasi de armario pomorum cibum sumens, VERBA
per dentes ruminantis intellectus EMITTIT. La MEMORIA, a sua volta, si muove su
un duplice piano: quello del senso – o mera percezione (Grice, “Personal
identity and memrory: “I am hearing a noise” – Someoe, I, is hearing is noise
-- e quello dell’intelletto. La memoria sensitiva (vis quaedam sensitivæ animæ)
appare strettamente congiunta col corpo – Grice: uses of “I” attached with ‘my
body’ -- e capace di ritenere corporalia tantum; quella intellettiva – cf.
Grice, pure ego, ‘soul’ --, al contrario, è armarium specierum sempiternarum.
Alle principali tesi del LIZIO C. accosta, quasi sempre, la citazione di passi
tratti dal De triritate di Agostino. Così la dottrina del LIZIO del carattere
corporeo dei CONTENUTI della memoria – “I was hit by a cricket bat” --
sensitiva viene accostata al passo di Agostino sulla memoria delle pecore che,
dopo il pascolo, tornano all’ovile. Mentre la nota tesi agostiniana della
identità tra memoria intelletto e volontà viene citata a conferma del carattere
intellettivo di una delle due parti nelle quali la memoria si suddivide. Anche
la dottrina degl’aiuti (admincula) della memoria risente da vicino della sua
origine in AQUINO (vedasi). Accanto all’ordine (bonus ordo memoriam facit
habilem) e alla ripetizione (ex frequentibus actis habitus generatur) C.
colloca fra gl’aiuti principali la similitudo e la contrarietas. Senza far
ricorso all’arte della memoria locale [De nutrienda memoria C. regnante
serenissimo et illustrissimo odmino nostro D. Ferdinando dei gratia rege
Sicilie, Hierusalem et Hungarie, contenuto nel cit. Cod. marciano De nutrienda
memoria. De nutrienda memoria. C. giunge in tal modo a fissare alcune regole
ricavate, anziché da CICERONE, dalla psicologia del LIZIO. Contrarietas
secundum dicitur adminiculum ubi notandum est quod quando res diversorum
ordinum et qualitatum essent recitandæ in una oratione vel in una sententia
eloquendac, tunc ordo subsequens debet esse contrarius immediate antecedenti,
ut si videlicet memoranda essent libertas servitus frigus estas divitiæ
paupertas pictas crudelitas iustitia impictas, sic ut sunt hic nominata ordinabis;
non autem dices: libertas, frigus servitus estas divitiæ pietas paupertas
crudelitas. Graveretur enim memoria sic inordinate procedens cuius ratio
videtur quia contraria non se compatiuntur ad invicem immo iuxta se posita
nullo medio, motum habent contrarium et operationem ad invicem contrariam. Sic
itaque, sicut motum nullo medio ad invicem habet contrarium, sic in memorando
nullum aliud habendo vei querendo auxilium, movebunt memoriam. ARS ENIM
IMITATVR NATVRAM. Un tentativo dello stesso genere è presente anche nel De
omnibus ingeniis augendae memoriae di CARRARA (si veda) pubblicato a Bologna.
Anche in questo caso le osservazioni del LIZIO sull’ordine, sul passaggio del
simile al simile, sulla contrarietas vengono interpretate come vere e proprie
“regole” dell’ars memorativa. Ma oltre che per queste derivazioni del LIZIO e
per la proposta di un particolare tipo di De nutrienda memoria. Inc. contenuto,
accanto a quelli delle opere di TOMAI e di C., nel cod. marciano -- Eximio dldodori
domino salvatori de peregrinis de mai da magister Dominicus de C. de Neapoli
ordinis minorum. Vom a nobis poftfauerit dominatio tua ut ea uobis
exeplaremurjqua; ab LIZIO tradit litteris credita de nutrienda memoria disciplina dC fi nobis
in £fentiarum multis fludibus laboratibus onerofujn ee uideat attame il Ia qua: uincit oia cantafid redit fue uirtute
iocudu ipfe igif oia uincens amor^qui ut
eius eft jprefto nos cantati tue red dit
obfequi et parere ab amoris ope et obfequio noftro:oes inuidie et liuoris apes ac detractdionis
aculeos ambigat et expellatjquac du
ueritatis mella diffundere uident corda ta
meaudientiufelleapcrimuntinmdiadu femen difcipline fide ab eorum cordibus mordedo detrudut:His
igitur fur da aure poft terga dimiflis
accipe caritatis noftre dC n5 ali/ cuius
dodrine munufcula qua: Ariftotelis dicut de memo ria dc reminifeentia documenta fandi dodbris
Thome de Aquino (ale codita quoru
uidclicetquom quatuor fint pri
mueitanotadu Capitulum pmiflum fuper documeta Rimo notandu e q> in traditoe cuiuflibet
documeti pmo erit regula documeti
trahes:fecrido poft fe exe pluttertio
aut ueniet ratio* Ita*n*i ubet Ariftoteles in princi/ pio primi de partibus aialiudices eruditi n.e
fecudu jp po/ (itu dC bene pofle
iudicare q> at bene aut no bene redit cam
hazcille qrto uero incides,p fufeipiedo documeto iuuame. Primum documetum^j Ota q> bonus dC clarus intelledus habile
et clara red / dit memoriam* 4 A Exemplum*
Otar ummmide tu r facilior q ignotoru memoria ho/ minum intelligere igitur memoranda
conare Ratio ;i Vonia cu memoria ut idem ariftoteles
teftatur nil aliud fit qua firma
retentio 3t coferuatio reru imagi^ nu
prius ab aia pceptaru qua qde coferuatione eloquentiae tbelauru latinoru oratoru princeps cicero
uocat:N5 T nifi g i telledus manum in
memoria: arch a funt quarqs memora/
turus eft conferuada intelledusmmt cois ethimologia fon^ re uideturqfi intra memoria: Iedu leges
e*i*in reqem das quxfxpeuoluit
intelligere Iuuamen, D qua ratione accipienda fcieau e q? comunis fenfus nofter quii prima capitis parte fitus eft
tanq filua ma xima e in qua omnium rerum
imagines per unu quecj fenfuum percepte relucent ficut in filua oium et arboru
et pia/ tarumherbarumc^faciesjperunum
quodqj femen exorte uirent ex hoc igitur
chaos maximo intelledus:quafi germi na
prima qux dicuntur cimx plantarum cultor luis quxqjs poft eorum cognitioem quae prima intellectus
operatio di citur nedit ordinibus: quae
fecunda eius operatio dicitur:&
tertio quafi deambulans per pomerium incoclufione legit fimilibusfimiliacoaceruans:qua{iin fafciculos
ligna : 6c ca lato poma:quia nihil eft
in intelledu quin prius fuerit in fen
fm&illa in archa memoria reponit:de quibus cum loquif quafi de armario pomorum cibum fumens VERBA
perdentes ruminantis intelledus emittithinc Auguftinusin diaf/ colomficut ingenium inquit
diuidendoinueftigatSC inue/ nit ita
memoria colligedo cuftodit dC quafi fos riuulos emittit memoria uerba f Aliud
adminiculum. Ropter quid notadum eft adhuc g? memoria e mul / tiplex uidelicet memoria fenfitiua et memoria
intelle ctiuateft aut memoria fenfitiua
iiisquarda anime fen
(itiuecorporaliunitaorganocorporalia* tantum apprehen dens et retinens &C eodem pereuntis
periens*ad hoc et nunc ipfa fe
habensmnde Auguftinus in fecundo de tnnitate^pof funtinquitpecorafentirepcorporis fenfus&
ea memorie madare«ad affuetuenim prefepe
reuertituraflenfus qii#q-r dem fenfitiua
memoria deftructo organo corporali perit et ipfa q? patet in mtellectiuo homine qui ab
retentis in {enlitiua memoria fpetiebus demu ad intellectiua memoria refle ctitunfignu autem huius da^Auligehus i libro
de noctibus acticisloquens de democrito
philofophout retentas fpecies fenfitiu as melius mtelligeret fe orbante. Emoria
aute intellectiua eft potentia et uis quarda in
tellectiue anime fpecieru fempi ternarum armariu un de LIZIO in tertio de aia^aia inqt locus
fpecieru e no to ta fed intellectus
ideft itellectiua memoria hinc Auguftin9
imxi.de trinitate memoria inqt intelligentia et uoluntas fut una mens.ha:c nec corpus e nec in corpore
uirtustcorpora lia enim tatummodo
memoraretur ut patet p Ariftotele di
centes multi colore efreoculualioquiiifuo tatumodo colo re colorata uideret:extrah it etia non folum
fpecies a corpo ralibus ut
intelligibilia fiant memoranda ea fibi aftimilado: Sed etiam ab hoc &C nunc quaquam ut
pafliua potentia no femper ipfa
actualiter memoretur:ha?c de memorie diuifio
ne tipice dicta fufficiant. Adminiculumduplexeft,. A ii Rjmu dicitur
attentio Ariftotelcs indude afa addes
adiuoru (ut ipatiete bene difpofito: Ariftotelis at pre ceptor piato intimeo auidi difcipuli et probi
forma deferibes ego iquit ut probu auditore decet fine fermoe fub fcile/ tio metem aurefqj parabo:hinc Hieronimus ad
Paulinum habet inquit nefcioqd latentis
energie uiue uocis adus et in aures
difcipuli de dodoris ore tranffufa fortius fonat fi/ militer 3C deledatio cum admiratoe unde et pueri:&
mob les carne funt boni intellcdus atep memoria
na pueri pri/ mum ifbrme habentes
aiam:& cam oium ignoratestin fcie
tiis delcdant& admirant i cognofeedis ude et magiftroru dcfedut honore dC flatuas afpiciut
admirateffanctoru dC de pidas eoru
hiflorias»Secudi uero tanq impotetes oium ad
miratur dC magnifaciut fcietias:magnain«faciut dodrina et ut iperfedi perfeddem ea acquirere
dcledantunattede igi tur difcedis et memorandis
ut magnifacias ea : Arifloteles enim
dicit quedam femeLfiattente uidentes melius memo ramur qua aha multotiesXno attete et Saluflius
ubi itede/ ris igeniu ualet
Itedeledaretifciedis &mcmoradis 8>C mafgnifica iIIa:Tulli? n bene iquit
memoramur q i pueritia di dicimus et orati?
quo femel e ibuta reces f uabit odore Te
ftadiu: &cudeledari:c6tingat cuqb9cofuetudoine(l ipfe £ git tecum loquere et cum fcientia quafi cum
fponfa iocare multis ornata monilibus.
ACCADEMIA enim in academia uilla fer
pentibuscircuncindautdifcipulorum animus infe reclu/ fus proficeret in dodrina legebat hoc etiam
communis co fuetudo uidetur approbare
fcolarium qui feneflrasauleftu dii tela
uelant ut aer tantummodo pro afpiciendis litteris 8C non pro oculorum uagatione illuminetur Secundum
adminiculum Ecnndu adminiculu
diciturnioderatio apprchenfo^ rum per
intellectu : no enim ualet memoria retinere
qua: intellectus caperc:facilius enim eft ligna lddere&liga re qua fuppofitis humeris fubtecloportare Ite
tectu no eft capax omniu qua: in iilua
funt lignoru noli igitur plura le/
gend.o per intellectufri capere qua qua: ualet memoria reti nere ne forte ceflante intellectus tympano et
pfalterio Jn in tcllectione illoru
ceflet etiam dC illoru poflefiio utilius eni
tiidetur tranfeunti & trafuolantiprouincias&uoluptat'em in nouitate diuerfaruni reru captanti diutius
comorarij \ ali da oculoru tantumodo uolate praefenria delectari:tran(acta eni imagine tranfit oblectatio primo Secundo
uero relicta eft umgofimul et floru
pofTeflio» archa aut pofieffiois (ciS
tie memoria primo vacua fecudo uero remanet plena Secundum documentum Otaq>bonusre&ufq$
ordo memoria faciet bona ha bilemcj et rectam
Exemplum. Aciliusrectiufcjmemoraturus quis conuiuante fa / miliam totam (i afeendendo a feruis icipiet
et grada tim ad patrem familias
cucurrerit reuerhirus ad feruosdon gius
enim erit iter memorie et reminifccntie in reuerfioe et defcefu ad feruos propter quod lafla et fefifa
memoria ipm relinquet unde Hieronymus
ait de euangelifta Matheo cp ufus fuerit
ordine pra:pofteroded neceffario comutato ut
generationis chrifti feries texeretur
jKatio ad memoranda Vom Augiifliniisdecimononode ciuitate dei dicat q? ordo eft parium difpariucj rerum fua cuiqj
loca tribuens A iii dispositioiu fiet motus mcmoric ad illa memor&U
quem admodu dCordinistquapropter Cicero
fenfit q> oratorem oporteret oia
fcire fcilicet lecudii ordinem 'quia ars imitatur fcmper concito gradu naturam j Iuuamen Binotandu eft quod ordo eft
multiplex cuius 'nobis diuifio trina
fufficiat primus ordo dicitur ordo natu
ire duplex exiftens primus dicitur uniuerfalis quod faftum a BOEZIO (vedasi) dicitur in libro de
philofophicaconfolatione q fe cundu
eunde in dicto libro nil aliud cffqua difpofitio mobi liu reru per qua diuina prouidentia fuis
quarqp nectit ordini bus fic pecudis
femen ad pecude generanda et hominis or
dinatur adhoiem et ut Ouidi? primo methamor.ait, Affra tenent cadefle foliu formeqsdeoru ceUerunt
nitidis habitan de pifcibus unde Terra
feras ca:pit uolucres agitabilis aer#
Ecundusaute particularis dicitur (ecundu que natu ta in uno quoqs parpaiki i naturaliter
producedo or dinateprocedit. Nam in
humano uentre ex fufcepto uiri (e
mineprio embrione coagulat de quoSalon feptio capitulo Sapientie fue ait g fum qmde 6C ego mortalis
ho fimilis horni Ilibus et ex genere
terreno illius qui prior fadus elt dC in ue tre matris figuratus fumcaro.dece
mcnfiu tepore cpagula tasfum in
fanguineex i femine hois ex delectamero fomnii
conuenientis &c#tera,Secundoquafiexquadamaflacoa gulataincipitcarneaaia fcilicetfenfitiuaillu
informans pro pter quod dominus per
lerenna cominatur fuperbo ifraefs populo
quafieoru mhileitateoftendendo dicens quali olla in manu figuli ita 5C uos in manu
dominhTertio in noinbf finioaiaii hole
quafi deficiens natura a domino carleflem di
uina^aiam expectatpropter qd‘ didu e quod genus lpius cilicetdei fumus
perfedus tande inefle hois ho quafi libet et fui dommnsifradns feris materni carceris in
luce perdit# &m potentia habens
cuncta ut Bauitoiafubiecifti&csete
ra nnllius tamen perfectus poflefibr lingua habens et inte! lectum: nec fatur nec ratiocinatur propter
quod illius die fui ctas infantia
nominatunfecunda pueritia*tertia adolefce
tia qtaiuuetus qntagrauitas fexta fenecftus feptia decrepi tas ultra q nihil hui^uitae expe&at nifi
refolutio ad morte. Dmemoradum igitur totum hoiem 5C qua; accidut ei fecundum oes aetates fic facilius
monebitur mcmo ria ut eft mota NATVRA
ARS enim praheuntem pfequitur na turam
et eius prora dimiffa ucftigio calcato natura profeq tur puppim et ipfa quafi duce pradieunte
uelocius percurre dam tranfuolatuiam
Ecundusordo dicitur rationis ubi notandum eft q'<£ ratio uas eft omnibus calatu dC floridam
uirtutib? ue lut cadum ftellis interquasuelutdranaftella
refulget puri? Incidiufq3 iuftida ronalis
em puer indignatur bolum accipere apparete a quo no ut decuit uultu ironicu
afpexit* Ite con uiuantibus uel in
ecclefia conuenientibus uiris adultis ipfe
non alta fed humilia elligit fibi loca unde proportio iufticie uidetur lucere in talibus*hinc et enim e qcf
pnm^chori loc? dat pape*fecudus
cardinali terti9archiepo qurt9epo*qntus
Sacerdoti dignitate pradido/extuspriuato facerdoti*fepti musdiacono*o&auusfubdiacono*non9acolito
decim9 fer uieti i ecclefia Ite prio
lgator poft que rex e cui fuccedit dux
que feqtur marchio trahens poft fuos humeros comitem cuius terga refpicies procedit eques cuius
talis fequens gra ditur armiger poft
quem prsefto eft equi agitator illius *lte
primus menfe locus datur patri familias
Quinto ex uno latere secundus primo genito tertiust secundo genito ex
aliola tereprimus matrifamilias
fecudus*prime nataru tert&fecfi
de«nataru*qrtus*£uo &C atfcille feqnti: nofces igitur ordine huc&gradiensper ilifi
ficiufto&redogradufactledinda
memorabit pg qdJ dicif q? gradatim rememoratesoes fci£ tias fm earu ordine uel £m ordinem q ipfas
gcepcrut feu ac quiliuerut facile
memoratur eudaru unde et re khoare ob
litu in recitado peipitur puer unde Ariftoteles poft primi inquit motum
natus eft fubfequi fecundus Ertiusdicit
artis ordo duos habes fontes uidelicet in
tellediuu fpeculatiuu et intellediuu pradicu q oge et inquifitione unus cu fit multiplex nominat
Rimus fons omnes fcietiasbC partes earum ordinat unde prima fcie ntiarum dicitur
gramaticaifundame tihmeft aliam
fcientiarum poftq eft fecunda polimita rhe/
torica dc hacfequif dialetica et ut huic fuccedit pBica Ite prima partes ordinat na primo e fpeculatiua
gramatica et pofitiua lecudo dnogrophia
tertio ethimologia qrto dia/ fintaftica
1 teprimo uol uit recognofcere nome fecudo uer.
bumJte primo philofophia phificoru librum ponit* fecun / do iibrum de generatione et corruptione
Ecundus fons cotinet oes mecanicas artes C pradiV eas ordinationes ut eft medicinatars
militaris dc architeduraJtearchitedOr primu fundametufcdoaula*iii cdclaue
ordinati tedu fuppmu in quolibet igr illoru me/
moradoru fit memorati cognitio ordinis Ariftotelis q bene iqt iuice ordiata ft bfi fut remifcibilia q
uero malegrauiter Primum adminiculum Imilitudo igitur primum dicitur
adminiculum quas erit fecudu ordines et qualitates
ut fi iudicis memora rico tingat Moyfen populi ifraeliticiiudicem praeoculis
ha bebisritem lufci dC caeci
fuiphonizantem et fi ducis homin€ aureo
clipeo uel argenteo capite circucintum ide Auerois comehtator LIZIO aitcp memorari conringit
propter fuum fimile cuius Tignum apparet
in reminifcentibus alicu tus
prateritipropter pnrfens fimile occurrens unde aiunt modo uide cuius re minifcar propter
finnlitudine auditi uer bi uel uife rei
uel modo uide cuius me facias remimfci»
Secundum adminiculum Ontrarietas fecundum dicitur adminiculum ubi
no/ tandum eftq? quando res diuerforum
ordinu et qua litatum effent recitande
in una oratione uel in una fententia
eloqnende tunc ordo fubfequens debet ede cotrarius ime diate antecedenti ut fi uidelicet memoranda
edent libertas feruitus frigus edas
diuitie paupertas pietas crudelitas iufti
cia impietas fic ut funt hic nominata ordinabis non aute di ces libertas frigus feruitus cftas diuitie
pietas paupertas cru delitas:grauaretur
enim memoria fic inordinate procedes
cuius ratio uidetur quia cum Boetius in libro de plpica coii folatione dicat q? contraria non le
copatiuntur adinuicem imo
iuxtafepofitanullomediomotum habet contrarium
8Coperatione ad inuice contrariam ficitaqp ficutmotu nui lo medio ad inuice habet contrariu fic in
memorado nullfi aliud habendo uel querendo
auxiliu mouebunt memoria: ars enim
imitatur naturam Tertium documentum Ota q? bona et ordinata ad unum principium
memo randorum reductio ad percurrendum
illa memoria faciet expeditam Exemptum B
i notandu tn cfl g> eft aliud principium dicit gene ralifllmu dC aliud q dicit umuerfaleu^comune
fed no ita ut primum dc aliud qp dicitur
fub principium dc particula ’ re hic
(eruadus eft ordo ut traditu eft in capFode ordine igr memoraturus totu et exercitu uel regalem
gerarthia uel fa • cerdotaledefcendedo
ab imperatore uel rege uel papa inci
piam dc ad pncipes militia? duces dC cardinales principia co' munia mediata quaprimu deucnia a quibus quafi
reicipies defeendaad particularia
principiamidelicetcenturiones ba rones
dC epos:afcendedo uero ecotra faciedu eftdicuu facili us memorabor oes intermedios inter papa dc
eardinales dC hos dc epos 6C eos q lub
ipfis iuntjcogmtis horum dignitate
ordine 5C numero N oratione aut recitada fit terna qfi imperator dc
pn/ cipiumgeneraliftimu diuifioprima
qfidux SCprinci/
piucoe:fubdiuifiouero’quaGdux dC principiu particulare fi aut ( p fe eet recitada plixior trifaria
di uideda eft SC ad pri/ cipia
diuifionis recurrcdu eft uidelicet fi eet principiu orationis omne hoium genus
&c*mediu at cognito o ciues egre gii
dominiohui? et regno reru exterioru confumatio uero orationis fermonis 8C profie:quom ois fpledor
ornatus non fi t ab h iis qua: terrena
nubila paret fed ab hiis q a \ucx ai& p
deunt:ad lpfam refulgurateuirtute dC ad ipfam aiam inter / noru acie ueftroru extollite oculoru:igitur r
pprincipio me morare omne r p fecudo
uero cognito dC r p tertio:quom ofs dC
cetera unde dC poetice did:um eft:fcire ii uis hanc rem to ta fit fepata minuti :& alibi ut qbufda
placet tria diuifio fiat Ratio Vom aut ut ! teftatur Ariftoteles oe agens in
telledlua le intedat fmem defideratum in
quo adipifcedo fpes coftituitur quo
adepto gaudifi operlti acqritur i uxta illud
fpesq differtur affiigitaiam:Iignu uit^defiderium ueniens luncigit lecius pcedet memoria ad fine
memoradoru quu &ciarius 6i < ppinqus&faciliusfibi
illu uidcrit acquirendu hoc aut fiet in
affecutione primoru principiorum* Gregori
us n inquitq?cognitio futurorum eft exibitio pteritorum apprehenfio*n*finis ultimi uon fiet nifi
meliis finibus comp henfis:ubi nota
q> ad unum fmem ultimum multi interme
dii fines ordinanf ut ad fanitate pocula et medulla et ad ue/ neranda caniciem pueritia atq$
iuuetus:exilaraca igitur memoria percurrit ufcp ad ultimum fine:poft primorum
adep . tionc:& {pes fibi oritur de
ultimo fine adtpifcedo primis ade ptis
8<quafi{blitafuturaetfitde fine ultimo acquirendo fi< bi uidtoria casterisaliistnuphatis.ite
paufadoi finib? fterme diis a quolibet
furges i fequete eudo ualidi? ad curreda uia
fuccincla confurget. Primum adminiculum Rimum igitur adminicula
caufalitasdicir«eftm*ip{a
recitandimfoluendi globi orationis initium et caput fonfq* habens ad oes riuulos uiam quafi
caufain uirtute co/ tiiiens oes effectus
ca ante qua: in fe eft una folet efte pluriu
effectuum et quom fitbreuior numero facilius eft memoy rice retinenda cix aut multae funtpqbus
cognofcedis Ari fto.& j>cli
legeda ft opa et fefti do&orisa argumetatoib? ue" ro ut petit dilatio tua a nob illi fieri
claru ca e medi? termini qi
priaargumedpponefuit uii Aruth^picoruuiidargume
tatoib? iqtroportet ppoes memorabili* (cire:fi at cupit duar tio tua fcire iuetoe medii termini r p
argrmetatoe uide q de ea feripf t fetus
do&or Thomasde aqno,pauca*n*6cbreuia
cu lint faciliter memoria: coni mendabun tur* Secundum adminiculum* f Ecundum
adminiculumdicimrprincipiorum deter'
natioubifciedue q? fi plura nomina eflent recitanda utputa centum uel plura edent illa ad
paricularia principia reducenda quinaria
huius ratio ex tam dictis tradita uidet quom»n»perinteIlec3:us manum reponant
in archa tnemo riacreminifirendaficut
natura qua ars imitatur quinq* digi tos
manui tribuit itaurcp fafciculuqqe Itelledus manus me moria: tradit conuenienter fieri dicamus
quinarium IV documentum Otaq?potiffimumeftquartum& ultimum docume tum quidem dicitnr fepiflfima memoratio unde
Ari/ ftotcles meditationes inquit
memoriam (eruant» Exemplum» Am pueri poftq didicerin t ledionem
recitanda mag ftroadhuc multoties illa
rememorant pp qd Seneca dixit memoria
nihil perdit nifi quod fepe non refpicit»
Ratio Vom fit comunis fententiaphilofophantiumoium ex frequentatis adtibus habitu generari :
habitus aut ut Ariftoteles teftatur
intellectuales &i fcientia: fint dediffi
cili mobiles no gdit memoria q fepe uideritad (e conuerfa Primum
adminiculum Dmimculum primum premium dicitur laboriofus eni aJioru documetorut e quom fit ergo ho
finis ulti / mus horu oiutn maximu
etprimu expe&at fuoru laboru»
oes»n.ita(etiut:q7oislaborpmiuoptet:q>e diuer(u fecudu magnitudine et prauitateaioru
memoratiu:rci»f»pmii ueri tatem:&
uanitatemobferuantiumnam homunculi cxterio
rum bonorum mercedem expedantnfii femetipfos in con temptionem:obiiciut: pluris enim illa
quamuitam fuam hciut 5C tamen illa
futpuitahois et n 5 hofs uita $ itfis: It€
luxuriofi corporalia bona rcfpicunt casci ifti apparet :domi nu*n*uitc mortalium duceqpaium fubdiderut
corporis fer uituti quom p aiam corpus
&nop corp^aia uiua fit, Ifti inp
nofcendis cantilenis et in memoradis gemetis amoris terre ni (ingultibus ut carnalem mente moueat et ad
carnalia de (lderia ftudet quid
ftolidius iftis qnrp futuris lachiymis pre
fentes emittunt 8C,p futuro luctu gemitus nunc dare cogu/ tur hos quidem (equitur acies tertia
magorudentis ifti oes funtafpiciedi
palpebris ut qui ad fe ipfos nunq propriu con
uerterut internu necafpectum alioru ad fe trahere ualeant etiam externum* Agtianimi ucro eternam fuorum laborum
ppofuere mercede inter quos difteminata
eft zinzania ut aliqui ipforu ppria
apparete mercede cupietes gloriam ip(a pdat
alii uero inquarreda gloria ignominia detineat ppetuam iu xta illud fi ego gloria itiea quxro gloria
mea nihil eft. Sed eft pater meus qui
glorificat me:quapropter apoftolus ad/
monet dices omnia in gloria dei faeitc:& iteru regi (eculo rum immortali et inuifibili foli deo honor et
gloria in fecu la feculoruame*ipfe
gloria eft uirtutu*& dominus nec cui
uir tutis gratiam dederit abfcj gloria fcilicet effectu gratia: uagari tandem permittet inglorium in quo cum
fumma confiftat felicitas cu illi
preditus uirtute apparueris te ipm puta
felicem fit igitur beatitudoobiectum tuum quam ap petut^qua omnes Iaborat:& fic lemper et promptus
eris ad memorandu et memorando
felix* Secundum adminiculum* Bftractio a meditatione rerum impertinentiu
fecun dum dicitur adminiculum pluribus
SC enim intetus BfiSofcft ac! fiiiguTa
fenflis S^anrtoteleiJiiquit tp fenfusad
plura intentus ad minima fninimus efthaxigitur uir huma tiiffimede nutrienda atep iuueda memoria ut
uoluimus ex preallegatoru
doctorufcriptis legentes in dilectionis tue ca
lato a dominatione tua intrudenda cotulimus iocunda igi tur oblata manu caritas tua fufeipiat pro
quibus offeredis concito ea atq? letanti
percuretes gradu ad calce dedimus
Annodbmini*Nl»cccclxxvi,indicti6eu'iiuDie uero*xvxY decembris Regnate SeremHlmo 8c liluftriflmio
domino noftro»D*Ferdmado Dei gratia rege
Sicilie Hierufalem et hungarie 6C cetera
Regiorum uero cius Anno«xviii.Foelici
ter amem Valeperitufqg in multis in iftis etiam fufeipe uires ame i V
ARMY MEDICAL LIBRARY Cleveland. De
nutrienda memoria. Carpanis. Keywords: chiave universale. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Carpanis” – Carpanis.
Luigi
Speranza -- Grice e Carrara: implicatura conversazioale e arte combinatoria
razionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bergamo). Filosofo
italiano. De omnibus ingentis augendae memoriæ ad prestantissimum virum
Aloisium Manentem incliti Venetorum Senatus Secretarium. Impressum Bononiæ per
me Platonem de Benedictis civem bononiensem, regnante inclito principe domino
Iohanne Bentivolio, secundo anno incarnationis, dominicc die XXIHI Januarii. Al
testo di C. attinge largamente, senza citare l’autore, GRATAROLI nei suoi
Opuscula dedicati alla memoria, Basilea. Su C. cfr. TIRABOSCHI (vedasi), Storia
della letteratura. De omnibus ingentis. Primum est ordo et reminiscibilium
consequentia. Cum cam didicimus ex ordine cum connectione et dependentia si
aliquo eorum erimus obliti, facile, repetito ordine, reminisci poterimus.
Alterum est ut et uno simili in suum simile pro- memoria locale -- fondato
sulla suddivisione in V parti del corpo degli animali," il saggio di C. è
filosoficamente e storicamente importante perché mostra la stretta connessione
che venne a stabilirsi, all’interno di una certa tradizione aristotelica del
LIZIO, fra arte della memoria e medicina. Richiamandosi a Galeno e ad Avicenna
C. affronta, in primo luogo, il problema di una localizzazione della memoria.
Passa poi a discutere delle principali malattie che ostacolano l’uso della
memoria. Si sofferma ad esporre una serie di regole concernenti l’uso di cibi e
bevande, il sonno e il moto. Giunge finalmente alla formulazione di un vero e
proprio ricettario. All’idea di una terapeutica della memoria, già presente nel
Regimen aphoristicum di Arnaldo da Villanova, e diffusa nella medicina
medievale, si richiama, accanto a C., anche Matteolo da PERUGIA (si veda) che
pubblica un opuscolo di medicina mnemonica. In entrambi i saggi è non a caso
assai frequente il ricorso ad Avicenna. La tesi sostenuta da C. che l’umdità è
di ostacolo alla memoria è per esempio già presente nei testi del medico arabo
-- qui autem habent locum dominatum humiditate non rememorant, quia formæ non
finguntur in humido -- ma il saggio di C. a differenza di quello di Matteolo e
degl’altri già presi in esame, appare fondato su numerosissime letture. Oltre
ai già noti classici della memoria, comparivano qui i nomi di Galeno, BOEZIO
(si veda), Ugo da San Vittore, Giovanni Scoto e Averroè. vehamur: ut si
Herodoti obliviscamur de LIVIO (vedasi) recordati latinæ historiæ patre, in
Grecæ historia patrem Herodotum producemur. Tertium est ut contraria recogitemus ut memores Hectoris, reminiscimur
Achillis. De omnibus ingentis. Il passo può esser letto nella
trascrizione che ne ha dato TOCCA. Si veda per esempio: Tractatus clarissimi
philosophi et medici Matheoli perusini de memoria et reminiscentia ac modo
studendi tractatus feliciter. L'opera insiste sul regime da seguire in vista
della buona memoria. Sull’autore cfr. TiraBoschi, Storta della letteratura.
Averrois Cordubensis, Compendia librorum Aristotelis qui parva naturalia
vocantur, in Corpus Comm. Av. in Arist., Cambridge (Mss.). Alberti carrariensis de
omnibus Jobannis Ingeniis augende memorie: ad prestatissimu virum Alouisium
Manentem Inclyti Venetorum Senatus Segretarium libellus foeliciter incipit. IM
I tibi debeo : respicias Clarissime Alo que uisi ; nullius profecto momenti
erunt possillons manuscula nostra : ei enim : cui cúcta debeam : nulla merces
digna rependi potest : Verum siqualia ea sint inspexeris : si quo animo data sint
libeat intue / ri : hoc negocium tuo patronatu non indignum iudicabis : Scripsi
mus enim de nutrienda memoria breuem tractatulum : necessaria quidem (ni
fallor) continentem : precipuaqs subsidia: que ppagare alii scriptores noluere
conscripsimus: hunc ad te quidem mitto: cui tamen et memoria: et ratio: et
integritas abunde suppetit. Sed tua gratia hec ceteris imptio: Neq3 gg Veneri senatus
secreta tra ctes: hunc secreto tenendum: sed prius corrigendum: mox propa
gandum ceteris. Bene Vale: et tui Michaelis Carrariésis memor esto: qui omnium
memor esse foles. Libri Vnici de memoria Incipit Cap.primum BIBLIOTHECA Emoria
inter diuina humane nature commoda Teste meo seneca: primum sibi locum usurpa
10 REGIA uit: Nam multa legere ftudiofis facile: multa MONAMENTS quoq
itelligere bono: atqs exercitato igenio no difficile eft: Verum ea congerere:
et in fcrinie memorie conferuare ita: ut non effluant neceffa rium: ac
precipuum eft humane uite bonum: ut teftatur PLINIO (vedasi). Quis enim non
admil retur: quod Cicero dicit fecundo ad herenium: quarüqs: aut legeri mus:
aut audiuerimus ipfo ordine reddere: ut propemodum nihil noftra interfit a
mediotan a calce: an ab exordio icipiamus: aut qs non admiretur Carneadem
grecum: bibliotece qui uolumina mel moriter legentis more reprefentauit.at ne
huic noftre etati inuide amus Francifcus fofcari dux Venetiarum inclitus tanta
memol ría fuit: ut quecüqs toto fui regni tempore egerit dixeritq: ca cum effet
opportunum repetat: hominum q3nomina: et tempora quibus ea gerebantur fine
difcrimine comemoraret: eiufdé quoq; fenatus Senator clariffimus Dominicus
Georgio tenaciffima memoria fapientie uberrime copulauit, In porandis enim
caufis: et multos audire aduerfarios: et eis ipfo rerum ordine feruato
refpondere fo let. Cyrus omnes fuos
milites nominatim appellabat. mitridates duarum et uiginti gentium rex totidem
linguis abfqs interprete: et audiebat; et alloquebatur. Cyrum igitur Frácifco:
Mitridatem Dominico comparemus: et inueniemus habere tpa noftra: quo fu Igitur
iis quibus perbiant nibile prifcis fe inferiora putent. non eft tam precipua
memoria laborare opportet ut cá affequatur fine qua uix in uirum excellentem
quifq emergit: fieri enim folet ut qtum quifq; memoria emineat: tantum eniteat
et fapientia: nifi fit fomnolentus atqp ociofus. Poete enim nó abre fapientiam
mel morte filiam finxerunt: et rectiffime Affranius de gignenda comp andap
fapientia fcripfit hiis uerfibus. Vfus me genuit: mater peperit memoria.
Sophiam me uocant greci: Vos Sapientia. Quo igitur Ingenio ca acquiri: augeriq;
poffit hoc noftri opis loco di feramus Placuiffe conftat Ciceroni memoria
habere quidda artificii: et non omnem a natura pficifci: Sicigitur et nos prius
de artificiofa memoria: que locis: imaginibus conftat agamus. poftea doceamus
quo medicamine et acquiri ac folidari poffit: et breuia quidem fed clara: et
expertiffima ponemus. Locale memoriam primus omnium inueniffe traditur Simonides
medi cus: Verum inuentam multo diligentius excoluiffe Metiodorus. Sunt autem:
ut Ariftotili placet duo actus memorationis: memot ria.f. et reminifcentia: qq
reminifcentia refpiciat ea qbus fumus obliti: fitqs extimatiue uirtutis
officium: non principaliter me ! moratiue: ut Auerois: et Albertus in fuis
tractaculis uoluere: bec autem fine prefentia obiecti in homine folo cft. Nam
cum obiecti prefentia etiam reperitur in brutis: ut dicit Arifto.et in ca ne
uenatico fatis patet. Memoria eft retétio ymaginum prius ab anima perceptarum:
que tamen neq3 atilis eft: nifi et omnes re tineat: et co ordine quo eas
concepit reddat.hec uero nec prefent tium neq futurorum eft. fed ut dicit
Ariftotiles preteritorum tátů Igitur fi philofophorum fententias interius
perfcrutemur ad me morandum quattuor motus concurrunt, C Primum eft
motus fpirituum qui a cogitatiua ad memoratiua m figuras tranfportat
Alterum eft pictura fixioq figurarum in ipfa memoratiua. Tertium eft reportatio earum a fpiritibus a memoratiua
ad co gitatiuam. CQuartum illa eft actio qua cas cogitatiua recogno fcit: que
proprie eft memorari.ad cuiuflibet harum quattuor rerú defectum neceffe eft
deficere et memoratióem: Quapp Ifaac Sal lamonis filius bene memoriam
diffiniuit: Quod fit apprehéfio in anima exiftentium rerum cum indagatione et
inquifitione: Veri de ca copiofius bic agemus ubi de medicinalibus auxiliis
fiet mél tio. Nunc: artificio prius memoria inftituentes: que opporteat de fe
preftare uolentem memorari prefcribemus: Sunt enim precepta.xx. Primum eft: ut
quecunq3 fequuturi fumus ftu dia ca preftantiffima pulcherimaq diiudicemus: in
hocq3 nos feli ces iudicemus: fi eam difciplinam abunde fuerimus confequuti:
neq3 omnem audiemus preceptorem: fed excelentem dumtaxat qualem non modo
laudare: sed etiam cogamur admirari: In qua re profundiffime fapientie
confiliun fuit Philippi Macedonis: qui prima etiam rudimenta litterarum uoluit
Alexandrum ab Ariftol tile doceri: fic enim fieri folet: ut cum preceptorem
difcipulus qua fi animiatqs ingenii patrem ueneratur; dum eius graues miratur
fentétias Errigatur in animo appetitus fitisq; difcendi: qui gene rofi inuidia
appellari folet: q plurimum ad perfici édú habet iuua menti.Recte ergo CICERONE
(vedasi) scripsit secundo ad Hereniu que in pue ricia fufcipiuntur recte
reminifci: quia nulla nifi re noua et admil rabilli commouetur animus: quod
fcripfit: et Commentator his uerbis.homo memoratur multoriens quod fecit in
puericia bona rememoratióe: quia illa eras multú amat formas et figuras et mul
tum cis delectatur: figuntur igitur in eis bene et propterea difficile
dimittuntur: hác ob rem omnium fapientum dux optimus LIZIO fcientiam de anima
bonum honorabile in principio fermóis nuncupauit: ut excitaret ingenium: q ea
bona precipue defiderari foleant. Caueant
igitur parentes: ne illis filios dédant ftu diis: que ingrata illis effe
cognouerint. Alterum eft ut eam fcientiam difficilem perpaucis q3 bene cognitam
exiftiment. Sed illituiffe fententias ambiguas: quas extricare per pauci
homines norint cofurgere oportet ingeniu: opportebitqs ut in eas penetret:
hec uerò animi erectio memorie perutilis eft. CTertium eft; ut fiue audiat;
fiue legat tota id faciat attentione: omnes cp animi uires cógreget: nec cas
fparfim errare patiatur: que enim attétius didicerimus ea nó facile dilabétur:
hic enim fit: ut Ariftotiles dicit: ut in loco: que femel atterite audita funt
lógius in memoria permaneant: q que cum negligentia funt multotiens audita.Recte
itaq ACCADEMIA in principio thymei probum auditorem fub filentio fcripfit:
mentem; atqs aures comparare. Ille enim tefte tuo CICERONE eft docilis auditor:
qui attéte paratus eft audire: quafi actus actiuorum in difpofito patiente effe
conueniat. Attentio enim mentem ad
doctrinam bene difponit. Cóferuari
nequeut nifi que preintellecta funt: Nam et a Gorgia fapiéter eft dictum: et a
meo TERENZIO fapientius repetitum: Vbi intenderis ingenium ualet. Quartum eft:
ut que multa collecturi fumus: qtum fieri poteft ad paucitatem: breuitatemqs
reducamus. Nam ut patet fi to pichorum uniuerfales propofitiones in memoria
habuerimus: fal cile erit ex eis ad particulares materias argumenta formare.
Vgo names in didafchalione dixit: aliter adifcentem pcedere: aliter me
moraturum. Ille enim qui difcit: genus feccat in fpecies: et eas rurfus in
alias: ufqp ad fpecialiffima. memorantem auté opportet multitudinem colligere
in unum; aut falté in pauca. Habet.n. ois oratio fuper quam fondetur bafim.eam
decet notare: et conclu fióem quá ex ea deduxit modú aut deductióis facile qs
in memoria reuocabit; fi bafim ipfá: cóclufióemqs tenebit; na et Gallienus
primo tegni Cap.primo: facile inquit omnia memorabilia funt ex termini
diffolutione. Quintum eft; ut rerum ordo ante omnia diligat ut fi tertium uerbi
gratia canonem collecturi fumus: fciamus duas er. xx, fen.cffe: earuq ordinem
ab ipfo corpore heis re ceptum. Primam fen in tractatus fectam
comprehédemus.Primú deinceps tractatú in capitula: capitula in ciclufiones
feccabimus: et fic earú ordiné cóftruemus: ret ipfe doctrine ordo dabit ordiné:
quía prior in alteram ordinatur. Sextum eft: quod a Ciceróe et.M.fabio.
Quintiliano eft traditum; ut fingula fepe repetantur: ucluti: ut in priore
exemplo uerfemur: cum poft primum capitulu alterum didicerimus: et primi: et
fecundum animo repetamus: cú didicerimus tertiu; et primum; et alterú cum
tertio nihilominus repetemus: atq3 ita deinceps: donec totum tractatum teneamus.
CSeptimú eft; ut cum multa complecti uolumus; ea membratim feccemus. Nam
dicit in rethoricis MARZIANO. ne confufa multitudo ebetet memoriam id fieri
decere. Octauú quod BOEZIO (vedasi) docuit in fuo de fcolaftica difciplina:
Erit fréqués ac diuturna de cadem re cogitatio: atqs difputatio. Nam fi
differendo aut capias aduerfarium: aut capiaris ita ut aut laudem affequaris:
aut uitupe rium.infcribetur id ipfum demum ita in animo: ut nequeas etiam fi
uolueris oblitterare.que precipue cum obbrobio: et erubefcen ! tia difcuntur
fixiora funt; eamqs ob caufam mens tenaciffima eft iniuriarum. Mira igitur laus
fuit Cesaris: qui nullarü rerum nifi iniuriarum immemor fuit. proderit igitur
uerfari cum hominibus confimilium ftudiorum: et de eis affidue difputare.
Nihil.n.met moria perdit: nifi ad quod fepe non refpexit; ut ait Seneca quarto
de beneficiis. Et Vgo principium in lectione fcribit effe confidera tionem et
confirmationem in meditatione. Verbum etiam Arifto. eft. meditationes memoriam
faluare.eft aut meditari aliquid mul totiens fpeculari; non ut ipfum eft: fed
ut ymago alicuius: et apud Ptolomeum in principio almagefti.meditatio ueritatis
eft clauis. Nonum eft: quod Beatus Thomas imperat in epiftola ad fratrem
ftudentem: ut per ea: que non intelligimus nó uolitemus; fed ca prius
intelligamus: q curramus i pofteriora: neq3 ita curandu eft: ut multa legamus:
qut multa intelligamus. CDecimü eft: quod Quintilianus auctoritate Platonis
fcripfit libro xi.de inftit tutione oratoris.ut.f.non obfint memorie littere:
ne que fcriptis repofcimus uelut cuftodita definamus: et litterarum fecuritate
di mittamus. Vndecimum quod idemptidem Quintiliani eft: ut ciborum bona
digeftio procuretur: ut que obfunt memorie fugiaf mus: que ei conferunt in ufu
fint: de quibus fuo loco ( qtum fatis eft ) tractabimus. Duodecimum eft: ut
animum ab aliis cogita tionibus: qtum fieri poteft liberemus. folent enim ea
precipue gra tia bene memorari religiofi; ut Gordonio placuit: quia pofiti in
fo litudine minus uariis cogitationibus diftrahútur. C Tertiumdel cimum eft: ut
fi fieri poteft ea non folu audiamus: fed et uideamus que in memoria habenda
funt.dicit enim Ariftotiles: quod femel uidentes magis memorantur: q eafdem
multotiens audiétes. pro pterea confulebat Guido pater meus: ut fimplicia: que
legédo dif fceremus etiam oculis fi fieri poffet afpiceremus: fic enim fieri fo
let ut non facile effluerent. Quartumdecimum eft: ut de rebus fingulis
interrogati non confeftim: et abfq3 meditatione refpódca mus; fed prius
queramus per arculam memorie noftre: qd: quali terep fit refpondédum: quia
damafcenus particula fecunda aphorifmo quarto dicit. Siinterogatus femp
uelociter refpódeas dubi tandus es, in cuius comento dicit Remigius: quia
refponfionem fubitam inconfideratam effe opportet. Nemo auté abfqp confider
ratione poteft effe precipuus. Qiutum decimum eft ut quia
tefte Quintiliano libro primo.non poteft abnegari differentia inge niorum.
Alterüc altero plus poffe nemo dubitat: metiatur unus quifqs uires fuas: et ut
dicit Paulus apoftolus probet fe ipfum: ta tumq ingerat memorie fae: qtum ea
capere: et tenere poteft.ucluti ftomachum inutile eft fupra eius uires onerare:
fed tantum con uenit accipere: qtum poteft concoquere: et propter hoc non impin
guatur corpus gulofi: quia quod comeditur non nutrit: nifi diges ratur. Ita qd
difcitur; nifi retineatur paru prodeft: cum de huis: q legimus: aut uidimus id
folum fcire uideamur: quod memoriter fcimus.adduci poffet illud Oratii carmen.
Summite materiam uc ftris: qui fcribitis equam Viribus; uerfate diu: quid ferre
recufet Quid ualeant humeri.quod fi altero peccádum eft: me cófultore: tutius
eft minus: q nimis accipere, Vert ut in ftomaci fimiliradie uerfemur, fi quis
qtum opportet retinere non ualeat: numerú mul tiplicet: et continuam imminuat
quitatem. Decimumfextum eft: ut høre certe ftudio decernátur. Ille precipue:
qbus et uacuus eft ftomacus: et ingenium uaporibus non obtenebratum; eroia
tenet filentiu. Igit cóticinia: et matutini galli catus eligatur: cure musq: ne
temporum rationem fortunae motus infrigát: quomi nus: quas decreuimus ftudio
horas in co non abfoluamus. Nam fi Cefar Auguftus in bello Mutinenfi legere
quotidie: et feribere folebat.fi Iulius Cefar: que die gefferat.cum orbem
pacauit: ca noctu furtiuis lucubrationibus fcribebat et precipue tanta cu eler
gantia: ut a Quintiliano libro decimo cap.primo Mire laudetur: Quid obfecro
poterit: quid ing poterit urbano ocio internenire: quod nos a ftudio abducat
litterarum. Decimumfeptimumi é: ut lucra quottidiana unufqfqs recenfeat:
quottidieqs cogitet: quid didicerit noui: quid ue lucratus fit: proderit.n.
plurimum ad pfici endum. Sapiens cenfurinus CATONE (vedasi) qcquid die feciffet:
et legiffet: dixiffetqs ucfperi commemorabat. Socrates etiam id rpis
perdidif fe fe putabat: quo fibi: aut aliis nó profuiffet. Recenfceamus
igit et nos diurnos labores noftros: ut nobis demum; et pofteritati pro deffe
ualeamus. Decimumoctauum eft: ut incipiamus adbuc paruuli memoriam exercere:
hec.n.ueluti gladius; nifi exerceatur rubigine confumitur: Erit igitur hec
parentum: et preceptorú dili gétia: ut prima etas exerceatur. Nam quo fuerit
imbuta recens feruabit odorem: Tefta diu: et ueluti de cibo prediximus Ita puu
lis pauca didiciffe fat erit: cüqs adolefcent: et difcédorú copia crefcat: neq
tamé: ut placuit Quintillano: flagellis: aut uerberibus cogantur: fed
preponantur premia: laudes q3 pro meritis: in loco ét fupra merita afferantur.
Decimünonum eft: ut fi laxadus fit animus: quo poftea integrior: fortiores
confurgat.non in ob fcenis rebus uerfet: fed mutato id fiat ftudio.
Remittere.n.animu q amittere melius eft: ut fcribit AUSONIO aut ergo ad
litteralia alia ftudia tranfeundum eft: aut ad muficalia exercitia: que;
utauctor eft Emilius probus grecis in magno honore erant: apd nos quoq3 non
cótemptui habentur. Sed funt: qui ludere malint: quod pati et poffem: fi
honeftas fit lufus.fi fine fraude, fi fine iureiura do.fi breuis.fi premia: aut
nulla: aut exigua proponantur. ad fym bolú magis: q ad ditandum accómodata:
neq3 taxilli interueniat: aut alius buiufcemodi lufus: in quo plus iuris fortua
habeat: q in genium, Exercent.n.et ludi memoriam. SCEVOLA (vedasi) aliquando
ludo xii.fcruporum lufit: cüq3 prior calculum pmouiffet; effetq; uictus dum rus
tendit repetito totius certaminis ordine quo loco erraffet recordatus ad eum
reddiit: qui conluferat. I fqs ita factum effe có feffus eft.faciät idem et
noftri interdum adolefcentes: Verü neq3 diuturna: neq3 frequens fit ea
exercitatio: neq ca hora: que ftudiis debetur: moxq confirmato ingenio reuolét
ad ftudia. Vigeffi mum eft: ut nó anteq deceat a preceptoribus diftrahantur.
Ait.n. Hyeronimus fe credere p multos in uiros claros euadere potuift fe: nifi
prius difcipulos effe puduiffet: q fapere cepiffent. Tam diu igitar preceptorem
audiemus: q diu co preceptore nos pficere in telligemus. Itaqs eum: ut ingenii
patrem uenerabimur: lateri ad i heremus: ut et CICERONE (vedasi) dicit.quoad
fieri poterit: et licebit ab eius latere nunq difcedemus: quippe: ut fiamus
eius prefétia doctiores nullus q fit.tam durus baculus: qui nos ab eo reppellat.
proderit tamen uiciffim: que didicerimus alios docere; proderit et
dictare et declarare: et interrogare et refpódere. Dubitareqs de fingulis:
dum id fine ratione non fiat non erit inutile: et optare: ut quotti 1 die aligd
excudamus: quod fit ppetuo noftrú: neq3 id Plinii in epiftolis nos lateat: q
alia omnia alium atq3 alium patronum poft nos habitura funt. Caftigariq non
modo nó egre ferat: fed amerz etuiciffim caftigare affuefcat: Verum in
caftigatione modus habé dus é.ne.f.cú uituperatióe: aut caftigati infamia fiat:
fed mitius honeftius: clariusq3: qfieri poffit. Intelligat magna te eius pie 1
tate ductum: ut errata caftiges.Hec funt quidem: ni fallor; prece pta difcendi:
que fi diligenter obferuabuntur pdeffe plurimú adol lefcentibus omnibus poterút:
obeffe nullis. Nunc de artificio fa agamus memoria: quod faciemus ubi precepta
reminifcentie ab Ariftotelle collecta prius fcripferim ?. Sunt at quinqs. I est
ordo: et reminifcibilium confequentia.cum eam didicer rimus ex ordine cum
conexione: et dependentia fi aliquo eorum erimus obliti facile repetito ordine
reminifci poterimus. Scito enim atecedéte facile fciemus et cófequs: et depditú
inueníemus: Recte igitur dicit philofophus. Quebene inuicem ordinata func bene
reminifcibilia: que uero male grauiter: Ná quo ordine pri us ref apprehéfe für:
et cófiderate ab aia co ordine fe habét motus hoc é impreffióes facte ab anima.
Motuum autem ordo: et cófequé tia că é reminifcédi ex primo.n.motu reminifcimur
fecúdi:, hoc aut patet in pueris primo adifcétibus alphabetum: qui ipfo littera
ru ordie reddere interdum fciút: ordine uero cómutato nó fciüt: unde ét
precipere folemus: ut repetat principia; et p ea defeédát Alterú eft: ut et uno
fimili in fuú fimile prouehamur.ut fi her rodoti obliuifcamur de Tito liuio
recordati latie hyftorie patre: in grece hyftorie patrem herodotum pducemur.
Tertiú eft: ut con traria recogitemus.pea.n.in loco docemurea: quorú obliti fum
" cótraria: ut memores hectoris reminifcimur achilis. CQuartú é: ut loci
ubi res tractata é: tpis q reminifcamur.fic et pfóe et câe pp qua ea fecimus
reminifci cótigit: Vnde beatus Augu.fua peccata recogitare uoléti hec recéfere
pcipit. locus.n.apd arift.pncipiú é reminifcedi. Quitů pceptú é: uta ppetare
res repetat ut fi fagi nati memoria habere uelimus: d dionifio fyracufão
recogitemus qut auctor é Iuftin'pre fagina uifü pdidit. fi caballi equ recéfea
mus: aut doloris capitis; quo fepe propter ebrietaté affligitur;
aut alicuius rei fimilis: ex qua facile reminifcétia nafcetur. Verum cú de figuris erit oratio: plura: que adhanc rem
pertinent afferemus. Iam de memoria incohemus. Artificiofa memoria; ut Cicero
dicit fecúdo ad hereniu: ex locis: ueluti ex cera; aut tabella: et ima ginibus:
ueluti figuris litterarum conftat: Sic enim fieri poteft: ut que accepimus
quafi legentes reddamus: neq multum interfit an a uertice an a calce incipiamus:
locos ipfos ordinatos effe oportet: Nam fi in eis confufio fit confundatur
omnia neceffe eft, multos etiam eos effe decet: ut multa locari cadem
exercitatione poffint. Cicero cétum cos fatis effe iudicauit. Beatus Thomas
plures habendos confuluit.hos multi uariis artibus quefiere: Metiodorus in
fignis duodecim: p que fol meat: tercenos: et fexagenos inuéit locos. tot
gradibus apud aftrologos obliquus ille circulus fecca ri foleat, Verum auctore
Quintiliano. Vanitas fuit iftius philofol phi: atq3 iactatio in fua memoria
potius arte q natura gloriantis Marcus CICERONE (vedasi) familiarem domum
effinxit: locis difcretam mul ! tis: placuite uiro illuftri; ut inter locorü
fingula quinaria; uel ma num auream: uel aliud quid difcrimen fingeremus: quo
alter ab al tero fecernatur; in eis q3 immobilem ordinem haberi; ut femp dex
tra et ingrediamur et egrediamur: fingi enim figure poterút: neq erit difficile;
ut fuis locis figantur. Guido pater meus ex animal libus cepit locos fuos: et
eorú ordiné ex alphabeto latino deduxit: ut a fingula littera unius animalis
nomen incoharetur: perinde ac finoia hec fint. A asinus. B basiliscus C canis D
draco E Elephas F Faunus G Griph H Hyrcus I Iuuéca L Leo M Mulus N Noctua O Ouis
P Panthera Q Qualea R Rynecheron S Simia T Taurus vel Tigris V Vrsus X xiftus.
Philofophus Y Yena Z Zacheus. hec fingula in quinque locos diuidebat in capur:
in anteriores pedes; in uétrem: in posteriores pe des, et in caudam. Nam hunc
ordinem ipfa natura porrexit: neqs confundi in eis enumerandis ingenium
poteft.fic itaq3 centum et qndecim locos nactus; in eis rerú memorabilium
ymagines ( cul pebat: ac ét in loquentis facie multa ingenio fcribi precipiebat:
in capillis in frote: in oculis: ficq feorfum ad pedes defcendi: mibi uero
facilimum uidetur: non modo centum fed propemodum infi nitos locos effingere:
cu neminé lateat fitus ciuitatis originalis: Igitur cú p portá mens ingreditur:
dum feccans fe ad diuerfas regiones: uias confiderat: due amicorum domos: edes
deorú: pre toria publica repetit miram locorum qtitatem affequetur,
Accedet ad hoc poteftas atria effingendi in quibus qrum libeat numerum
locorum faciet: ut infcribi quecunq; uoluerit poffint.de locis igi ! tur fatis
hec fint. Nunc de figuris differamus Earum quoq3 exercitatio preceptis feptem
abfoluetur. Primum eft: ut aut rifum moueat figura; aut mifericordiam aut
admiratióem.hec.n. facit etiam puellas recordari ut inquit Auicena fexto
naturalium particula quarta. facile enim inuenitur quefita figura que affectu
anime cómouerit: exemplum hoc eft.in ore afini rabidi caput An tonii conftitua
morfibus fere offa cófringi. cruorem effluere illu auxilia petere.et paffis
palmis uociferare.fieri non poterit. ut cum uoluero non uideam bunc oculis
mentis mee: et reddere Antoniu nefcia repetéti. Alterú é.ut aut fimile p fimile
aut p cótrariù fi gurem aut p, pprietaté. pmi exéplú eft: ut fi nomé Auicéne
fim lo caturus. Alicuius illuftris medici nomen fcribá: cuius aut par fit aut
paulo debilior auctoritas. fecüdi exemplum eft. fi idem per in docti medici
nomen cum irrifioe cófcripfero.fi Terfitem p Achillem bonum per malum.informem
per formofu annotauero. Exé plum tertii eft.fi Ouidium per magnum nafum
Platonem per hu merum amplitudinem. Crifpum per anulatos capillos. Cicerone
per Gelafinu fculpfero.quin ipfa nominis origo. ipfa declinatio facere ad
tenendum aliquid poteft. Tertium eft ut a tenellis unguiculis affuefcamus
locare: et cum quotidiana exercitatione crefcamus.qq etiam adultis prodeffe
folet ifta doctrina.efficacior quoq3 fiet habitus fi quecus aut dictari aut
facturi funt: ficlocent quecúqs etiam inter confabulandum audiunt fic pingant.
mores geftus temporaq3 fculpant. fcio enim breui tempore fient exercita fiffimi,
ludere etiam prodeft alterum cum altero: illum uincere qui plura clarius
ordinatius uelociusq; retulerit Quartum eft ut omni quinario rerum fignadarum
repetamus a principio ea qnq fignata: folet enim repetitio ad memoriam ualde
conferre. V eft, ut que non funt fimplicià ea per componentium fimilitudines
ftatuamus uerbi caufa.qui memorari uoluerit hu ius enunciationis. CICERONE
(vedasi) cum ortenfio difputauit. Cicer lel gumen in orto fingam quod de orti
fterilitate coqueratur.fic.n. et Cicer. CICERONE (vedasi) et ortus ortenfium:
et querella difputationé reprefentat: Sic enim feruari folent: et capita legum:
ut fi locanda illa lex fit publicati femel teftaméti fides.effingemus dică
teftame talé patenté: cui quifpia cenum iniecerit: ut eius ftdes aboleretur.
ecce. publicati femel teftamenti fides relegi poterit. Veru hec faci líus fiét
fi affit doctrina et plena rerú memoradaru cognitio.neq defit confumpta.et
inueterata exercitatio.nam et medicus medicil nalibus et iureconfultus
plebefitis facilius recordabitur. CSex tum eft ut Silogifmos reddituri medium
termínum precipue col prehendamus.co cognito modus figuraque sylogismi ipsum
ordinem propriorum uerborum apportabit.neqs quicq facilius capit aut tenetur:
quia quo tempore aduerfarius propofitionem affumptionem et conclufionem facit;
dumq3 cas approbat daturum ad fi gurandum ydeam medii termini longius fpaciu:
quo noto fi mal teriam non ignores: fi quo ferratur argumétum intellexeris: fi
lo ! gicos canones non nefcias: errare nullo modo in reddendo potes CSeptimum
eft ut cum ignota barbaraq nomina fumus ferual turi: ea aut per quid fimile aut
per ipfas fillabas fcribamus. Fiet hic locus clarior exemplo fi feruandus fit
hic fermo. Cimergot aender.primum confiderare cóuenit utrum hii termini in
lingua nobís cognita quid fignificent id fi contingant facilius fcribentur
Ferunt enim Címergot aput germanos deú fignificare fi id non contingat alio
fingemus ingenio lingua uernacula fummitates ar borum cimme nuncupantur. Got
apud illuftres uenetos ciatum reprefentat: fingito igitur, Cimmam unam mergi in
ciato. Ciatú q3 ad undas illidi et fluitare: et ne ultima perdatur terminatio:
et litteram et undarum conflictú audiemus: fic Cimergot aender re legi
facilimum eft: hec funt quidem nó inutilia memorandi: Veru ego profecto
fubdubito: quod et Quintilianus fcripfit: ut. f. hec omnia id ipfum conferant
fi nomina eodem ordine quo funt accel pta reddenda funt: hoc fecit Simonides in
conuiuiis quos cadens atrium atriuerat: conferre etiam in, reddendis fylogifmis.
Nam et nos id fecimus. et alios uidimus factitantes. Verum hec minus prodeffe
poterunt in eis edifcendis que funt perpetue orationis: Nam et fenfus non
eandem ymaginem quam res habent et diffi cile uerboru ordo feruari queat: qs
preterea tot locos: tot ymagies ne dicam habere: fed ne fperare qdem
poteft: ut quings contra no nem fecunde actionis libros notare et reddere
cófidat: qq illuftris orator. Dominicus Georgio fingulis rebus proprias figuras
haberi poffe confirmet: ut coniunctiue: condictionali: rationali: reli quisq3
particulis orationis proprii characteres affingantur. quin accentus etiam poffe
fignare conftantiffime affirmat: Quam effe poffibilem non abnegauerim: apud
Auicena: poffibilitas eft res ampla: et ipfe fortaffis precipuus orator.
Dominicum dico, id fal cit: qui reddere lecta: atq3 audita ipfo ét ordine
fillabaru folet.mibi certe nondum id exercitium contigit: multumq3 ego iam
dubito paucos effe homines: qui emergere in id culmen ualeant: etiam fi omnibns
uiribus enitantur: Alii feccadam effe orationem in par ticulas cenfuere: eas
poftea prefigi. Verum aut fingula locanda funt aerba; aut in eorum ordine
reddendo errandum eft. Quapp fi iudicio bene ualeo oporter excogitare alia
ratióem memorandi: qua poffumus pdeffe pluribus: caqs tua gratia fcribere: et
publice docere: que philofophi antiqui cellare maluerunt.id nos ingenue
faciemus: medicamina confcribentes: neq; tamen negabimus: que funt hactenus
fcripta plurimum ad memoria cóferre: folent enim nonnulli eis artibus multis
notariis fimul dictare: notare in qua claufula fiftant: cum ad alterum itur: ut
reuerti fciant et fine poftul latione fequi. fuit Iulius Cefar in hoc genere
oftentationis dicta re et audire folebat epiftolas rerum tantarum: quaternas
pariter li brarís dictare: et fi nihil ipfe fcriberet: feptenas: quam rem non
fi guris fed naturali ingenii bonitate faciebat.hác igitur arte queri temus:
nam ftultum eft non optima queque fibi ad imitádum pre ponere: ut fi eo
pertingere non ualeamus: at ppius: q fieri poteft accedamus: Ad tam perfectă
memoriam: et difpofitione naturali optima: et arte exquifitiffima opus eft:
neqp poteft ars illam profil cere: quam natura ualde mancham genuiffet:
proderit illi tamé: red detqs meliorem. Iam igitur rem incipiamus. Capitulum
fecundum de medicinalibus auxiliis Emoria Iohanne Scotto auctore fecundo
fentétiarú diftin ctione xxii: Pars eft fecunde portióis anime. due funt enim
eius portiones. ut per alteram deus cognofcatur: per altera p ximus
diligatur.huius ptes tris funt: Memoria; Intelectus et Vo luntas. Fuit
autem inter philofophos non parua controuerfia: in qua parte cerebri locarer.
Na Ariftotiles fecüdo de animalibus co furgere bonam memoriam cenfuit ex bono
totius cerebri tempera mento: Verum Auicéna et ferme doctiffimus quifqs arabs
in ante riori cerebri uentriculo fenfum cómunem: extimatiua in media:
memoratiuam in poftrema cellula pofuere.fic cóuenit: utplurima inter medicos.
Verum tamen Gallienus fecundo tegni: cum figna complexionis cerebri ponit p
operationes fenfuum interiorum. facilitas inquit difcendi fignum eft fluétis:
hoc eft humidi cerebri. et bona memoria fignum eft permanentis: hoc eft
ficci.ipfe igitur figna pofiturus non anterioris tantum: aut medie: aut
pofterioris celle cerebri: fed totius complexionem expreffit: ac fi memoratius
in toto cerebro effet. Sic Ariftotiles facilif difcétes raro boná hal bere
memoria céfet, q fi in poftrema cella memoria; in anteri ! ori cómunem fenfum
ftatuiffet id quidem fepe poffet contingere: ut anterior humidus fit: poftremus
uero ficcus: cum inter utrunqs unus uentriculus intercipiatur.Trufianus et ipfe
communem fé fum non in priori tantum cella: fed in toto pofuit cerebro. I gitur
et de aliis potentiis confimiliter fenferat.non ergo cóuenit: in qua parte fit
cerebri; fed in poftrema exiftere comunes philofophi rati Tunt. Solent et morbi
memoriam interdum auferre.interdum corrumpere. Interdum imminuere. Nam Boetius
in predicamen torum commentariis cap. de qualitate: fertur inquit quidam fuafif
fimus orator egritudine febrili decoctus omnium litterarum amil fiffe doctrinam;
in aliis uero rebus fanus et fibi conftans. Scribit et Plinius libro feptimo
cap.xxiiii.hec uerba: nec aliud eft eque fragile in homine morborum et cafus
iniurias atqs etiam motus fentiens: aliquando particulatim: interdum uniuerfa:
Nam ictus lapide oblitus eft litteras tätum: et ex prealto tecto lapfus matris
et et affinium ppinquorúqs cepit obliuioem. Alius egrotus feruorů fai ét nois Meffalla coruinus
orator oblitus eft. Itaq3 fepe deficit: tétat: meditatur: uel quieto corpore:
et ualido fóno quoq3 ferpente amputatur: ut inanis mens querat ubi fit loci:
Sed et Auicéna pri ma tertii tractatu primo cap.vi. Gallieni auctoritate
commemorats propter cadauera in Ethyopia cepiffe aliquando peftilentiam: que
afes ad Grecorum repferit terras, fi qui ex ea fanaretur: cos cium rerum
obliuionem cepiffe, Conftabit igitur memoriam poffe me dicinali artificio
feruari: et augeri: cum conftet cam morbo: et imminui: et aufferri; ac ueluti
infantem ftolidum reddere: vt ait Auil cena prima tertii: quia fantafmatum
copiam aufert. Sic qp cogital tiae actus; et difcurfus: ratiocinatioqs non
commode fieri poffunt: ficutilét non bene fit in infantibus: in quibus ymagines
pre humi ditate nimia abolétur. Dupliciter.n.cogitatiua uirtus ledi pót.
aut.n.medius uétriculus; in quo cogitatiua exiftit: frigiditate: bu miditateqs
confunditur: aut ei defunt fantafmata: que in memorati ua feruari debeant.
Contra hoc tamen effe uidetur: quod Auicena vi. naturalium particula quarta
fentit dicens.memoratiua eft ma gis immaterialis: fed magis econtra huic
dicitur; uirtutem memot ratíuam duo continere: Nam et quas a cogitatiua
ymagines recit pit conferuat: et hoc fat materiale eft cum materiali iuuetur
inftru mento.f.ficco proportionato et recognofcit feruata: nifi enim re
cognofceret non magis ea redderet: que ab ea repetuntur; et hee uis eft
immaterialis. Veru Gentilis hanc uim idem effe uoluit qd cogitatiua
recognofcens: licet memoria nuncupetur. Eft igitur: ut breui rem abfoluamus
partim magis materialis q cogitatiua: ptim minus materialis. C Accidit aut
memorie: ut imminuat: Accidit ut auferatur: accidit ut corrumpatur: et alterum
pro altero report tet; Verum corruptio melancolie fpecies eft: ca ppter
Truffianus fecundo tegni quando ponuntur figna egritudinis cerebri: duo tantum
nocumenta memorauit imminutionem scilicet; et ablatio nem: Igitur quia
corruptio a calido: et ficco fit: nó crit de ea hoc lo co difputatio: fed de
ablatione tantum: et imminutione: neq puta mus ingratum quid facturi legentibus:
fi huic de fimplicibus opu fculo curam inferam: prefertim cum nulla fit futuro
fapienti necef farior: nullaq cognita minus: Verum ego precipua et experta affe
ram. Due funt caufe precipue que memorie officiunt. Altera frigiditas: Altera
bumiditas eft: Verum Auicenna Gallienuse uoluere plus frigiditatem: q
humiditatem officere: quia omnis na turalis operatio calore naturali fit:
frigiditas aurem confundit na 1 turam: neqs cius opus ingreditur nifi tang
fubdominans inftru mentum ut patet fecundo colliget: et prima et fecunda primi:
et a óciliatore differétia fexagefimapma ido fecúdo cáticorú
cóméte xcv.uocat eum calorem elementorum hoc eft qui eft ficut elementum
nature; et tractatu tertio commento.clv. Eius igitur contrariú quod eft
frigiditas obeft plurimum: Verum obeft mediacius: bumiditas uero immediacius:
quia cum memoria confortetur ficco proportionato: cuius eft retinere: ut tertio
de aia: ergo confundit humido tang difproportionato. frigiditas quoq3 omnibus
opatio nibus uniuerfaliter obeft: humiditas autem magis proprie uider obeffe
retentiue.hec cum ita fint poteft tamen ficcitas fupflua impedire ne forme
infigilentur: ficqs obeffe uidetur retentioni: cum tamen proprie obfit captioni:
fed confequtive retentiói: quia quod captum non eft teneri non potuit. Verum
frigiditas quia motum fpirituú impedit: cum eius fit quietare: ficut calidi
mouere: ut inquit Auicena: inquit et Ariftotiles.xiii. partícula problematu textu
fecundo. I gitur hunc motum neceffarium ad memorãdum im pedit frigiditas: fed
retentionem impedit bumiditas; ficqs ceffare poffunt ambiguitates utrum
frigiditas plus obfit cu cius filia fit obliuio; ut dicit Paulus.an humiditas:
qd apd multos dubitatum eft. CQuia autem apud Gallienum in libello de rigo re,
calor naturalis nó eft purus calor: fed compofitus in quo eft p portio omnis
equalitatis: ideo non omnis caliditas bonam memo ! riam facit: aut non omnis
ficcitas: fed certa et pportionata: ornnis uero difcrafia immoderata deicit
actum proprie uirtutis. Verum fi fupflua frigiditas immoderate iugatur
ficcitati cófurgere opor tet peffimam memoriam; et in capiendo indifpofitam: et
in recogit tando hebetem: Si autem coniungatur caliditas ficcitati uelox qui
dem erit fpirituum motus: fed difficilis fiet infcriptio. Erit igitur captio
difficilis: fed rememoratio fat facilis: Verú hec oia uaria cal liditatis
ficcitatis q3 pportio uariabit gradualiter: fic et in aliis dif crafiarum
lapfibus fentiendum eft. Signa igitur breuibus exi plicemus: fi ficcitas
dominetur: uigilie aderunt: capitis leuitas: et nó abundabunt ille fupfluitates:
que nafo palato atq3 oculis expell lunt: fed multum erit auriu cerumé qd ad
memoriam pertinet: pre fentia difficile infcribuntur. Infcripta difficile
amouétur, hinc fit: ut que dudum gefta funt ea melius teneat, melius q3 reddát:
q que ex proximo gerútur: Videmus hoc in feribus: q cas res pulchre memorant:
quas in adolefcétia gefferüt: cas quas codem gefferint anno non retinent.
C.Vbijuero dominatnr humiditas: adeft fomnus grauis; et profundus.hebetes funt
in ompibus motibus: prefentium bene recordantur; dudum uero geftarum rerum: aut
nequaquam: aut difficile.humiditas enim et facile admittit: et amittit facile
impreffionem.frigiditas ftupidam mentem efficit. in fert uertiginem.tardam
rememorationem: caliditas uelocitaté im portat motuum: et recordationis: et
capur tactu calide.fi itaq due qualitates combinentur: complicari conuenit et
figna carum táta proportione: qta uariabuntur qualitates: aut intendentur: que
net quaq difficile crit ex predictis intelligere.poffunt quoq3 hec difcra fie:
aut effe qualitates tantum; et non habere coniunctam materiam quantitatis
notabilis: aut coniugi humoribus multis qualita tum confimilium. Ineffe autem
materiá ex fuis fignis facile cognofces: que a doctoribus fuis locis ponuntur;
et a me fatis copio le collecta funt in commentariis aphorifmorum Ypocratis
fecundo aphorifmorú cómento.xxii.in digreffóe magna. Eft ét né ignorandum has
caufas loco interdum differre. aut.n. caufa not cés eft in fubftantia cerebri
pofteriore: in qua parte eft memoria iuxta opininionem Auicéne. aut eft in
fenfu ipfo: qui in uentre continetur: aut in uafe hoc eft in fuperficie
uentriculi pofterioris fic.n.exponit Gentilis uerba Auicéne: qq poteft etiam
intelligt aut in paniculis: aut comiffuris fubftantie cerebri: in qbus fpirit
cótinet: aut in uafe hoc é in cranco. Ná quis dicat Gallienus in decimo
interiorum cap.tertio in cranco non poffe effe paffionem que tollat memoriam:
fi tamé hec paffio fit magna ualde; potimminuere: fi non tollere; ut Gentili
placet: ymo materia: et omne no cumentum in temporibus cómunicari poteft
memorie: et obeffe: é qibi locus materie capax: eft et uarius mufculus
fenfibilis: et craneum ibi eft tenue; ut innuit Haliabas nono theorice cap.de
eais obliuionis. Sic poffent et alia multa in aliis membris nocu ! méta et
cómunicare et ledere: que breuibus enumerari nó poffür. Preterea materie ipfe
aut apoftema faciút: ut in litargia cótingit aut non faciunt. Quod autem
attinet ad pronofticum. obliuio a natiuitate reportata difficile tollitur. Causa
calida et ficca fixa non facile quoco remouetur.fi corpus fanum in ceteris
rebus ap f parcat: nifi quod preter confuetudinem fit diminuta memoria;
ei nifi fuccuratur male egritudines timende funt.lytargia.f.epilepfia
appoplefia paralefis expectádeqs reliq huiufmodi: q ex materia flegma tica in
cerebro multiplicata in cerebro poffüt conffari. fic fentit Aui cenna.fic et
Rafis primo continentis: Que ex humiditate aut ex fit giditate facilius
abolerur: quod plerunqs quidé dominis fcolaribus folet euenire: nam facilius
eft efficare et tutus: fic et calefacere: qer contra: prefertim in cerebro:
quod eft principale membrum: et eft fri gidum et humidum: fimilis igitur lapfus
adeo non eft formidandus: ut diffimilis: audentius q3 procedimus calefaciédo: q
infrigidando. membra enim principalia timemus magis infrigidare: q calefacere.
Curationem poftremum inchoaturi fic exordiamur. Si caufa ha bet materiam
apoftemantem; cura apoftematis ei adhibeatur: uelu ti fapientes medici fuis
locis tradidere: Si autem materiam habeat: fed non apoftemantem ea digeratur:
foluaturqs åteq applicare re media quis audeat.nifi. n. expellatur materia,:
hec obeffe fepe possunt: prodeffe autem nuq: neq; uero per digerentia; aut
foluentia di latabor: copiofi enim in hiis funt libri: et mediocribus etiam
medicis cogniti: Verum ubi euacuata fuerit materia; hec que dicturi fumus
obferuentur..bgCIn caufa frigida et humida tres funt intentio nes curandi.
prima eft: ut euacuato corpore: etiam caput particulari ter cuacuetur: et hec
habet modos fex. Primus ut pillule exhibea tur in fero: quales funt apud Mefue
yera Gallient confortata cu ca ftorco: et colloquintida: fortiores erunt fi
yera magna exhibeatur cu nuce mufcata: aut theodoricon: Verum ego in
appropriatis pyllulas meas fcribam: quarü receptio eft. Recipe thuris mafculi
mirre electe: zizibis an.3.i.fe.pulueris capitis apupe.3.ii.accori yere ma
toris.3.ii.caftorci colloquintide an..fe.confice cam terbétina: et fi at pafta:
et dentur pillule pauce fed groffe fupra leuem cenam in lel ctum defcendenti:
poffunt etiam aufferri ca: que foluunt et dari nó fo lutiue. Secundus modus eft
mafticare in mane zinziber; ut fali ua multa expellatur: pdeft et accorus: et
nux mufcata: et piper: et cul bebbe cu maftice: in omnibus.n.eligenda funt que
et intentioni cól ferant: et a proprictate confortant. Tertius modus eft caput
obtar mico alleulare qd poteft taliter cófici. Recipe fucci maiorane. 2.ii.fuc
ci accori.2.i.nucis mufcate.3.i.fe.mufci grana duo: Inde per nafú in mane
tepidu trahatur ante cibu ore pleno aqua frigida: que poftea expellatur: Nafus
quoqs fepiffime emugatur: et fepe expuamus nam generari catarrú ét in co qfatis
canones feruet: hac etate noftra oper tet: quem utilius eft expuere: q
inglutire; ne aut in ftomacú cat: aut in pectus. Quartus eft gargarifma
deponens flegma: et confortans caput: poteftas fieri fic. Recipe
accori.2.fe.origani pullegii an.3.ii. buliát in aqua cómuni: et tadé collétur:
et in. 2.x.collature pone oxit mellis fquilitici.2.i.fe.mellis ro.2.ii.mifce:
et tepidú gargarizet in mane. Quintus eft frictio totius corporis primo: deinde
capitis: hoc.n.cofert capiti: ut Cornelius CELSO libro primo cap.xiit. deber
aut a tibiis incipi frictio: poftea paulatim fuperiora femp fricet: ut de orfü
uertatur materia: quapp id ne cótingat in pleno cachochimog corpore fieri
nequaq debent: eiufdem generis eft et capitis pectinatio fic.n.et Cornelius Celsus:
et LIZIO ad Alexandrum imparunt. Sextus eft cliftere pro materia forte.nó tamé
acutu.hoc, n.ab in ferioribus euacuat a fupiorib ? diuertit: ut dicit Auicéna
quarta pmi. CIntentio fecunda eft diera conueniens: ait.n. Gall.pmo de pno l
ftico et pnofticóe cap.ix.hoc cóe peccatú a medicis fieri: materias q dé
peccates euacuat: quomó aút altera fimilis generer negligut puidere. Nos igitur
nó id negligamus: ymo diligétiffime puideamus: qd ingenue fiet: fi
canones.xii.feruabutur circa cibú et potú.CPri mus eft: ut fugiat rerú
quarúlibet nimia repletio: apd.n.rabi Moyfe concordati funt antiqui: qd plus
nocet nimiú de bonis cibis comedel req parú de malis.Secüdus eft: ut no edant
nifi co tpe quo fames urgeat. Tertius eft; ut oia euaporatia: replétiaq caput dimittatur
ut legumina: fructus: et brafice.funt.n.de maxie cuaporatibus ad ca put:
ut.xiii.tertii. cócedi tamé poft cibú folét píra cocta: aut citonia tofta: et
in calido ét grana dulcis: aut muzzi granati: quorum et nul clei
comafticétur.Quartus eft: ut brodialia iufcula: oiaqs nimis humida effugiatur:
quia addüt in humiditate: cuius cura intendimus. CQuintus eft: ut qa pprietate
nocét memorie dimittatur. Nam cel pe hoc facit: cum habeat humiditaté groffa:
habeat et cóiuctam calidi tatem: que humiditatem fert furfum: et facit
penetrare in loca: in que nó penetraret: oia quoq3 acrumina fuge: ut
cepas.allea: porros. Effet hoc loco futura lógiffima difputatio: Verú fat p hoc
opus fuis capitul lis diximus. In illis igitur requiratur: neq3.n.oia repetere
confilium eft: ois mala mafticatio praua eft. Sextus eft: ut cruda relinquatur
ét fi cum aceto comedantur.Septimus eft: ut leuis femp fit cena. COctauus eft:
ut ois cibus in coriandris finiatur: aut iuniperis: aut crufta panis fupra qua
nó bibát. Nonus ut uinú uinofu effugiar nam nimis uaporofú eft: fertas ad
caput indigefta materia: et ad alia membra: et licet fit calidum frigidos tamen
generat morbos: ut fecú do de accidenti Galenus teftificatur: licet fit caufa
bone digeftionis magis fitim quietans q aqua: ut Ariftotiles fecunda problematu
tex. quarto. fuffocat tamé uirtutem precipue fi immoderate bibatur.mp Decimus
acetum fit accutiffimum et calidum in ufu exiguo cum cinamomo et ponatur in
uafculo accorus: et pullegium: de qbus fuis capitulis diximus in hoc libro.
Vndecimus omnia cibaria: que diu in ftomaco morantur effugiantur: ut cafeus et
omnia fupffue pin guia: et pifces quia chimum flegmaticum generant: et
paftamentalia. Duodecimus oés nucleofi fructus folent obeffe: ut nuces; et auel
lane: et caftance: et amigdale. Aer hét canones quinq3.primus ut clarus fit: et
luminofus.alter ut fit ficcus gtum fieri pot. Tertius ut non fit uentofus fed
proprie fugiat auftrum: et boream: ut difputaui mus.tertia aphorifmorú commento
fexto. Quartus ut aer camere de puret ne ullo modo fetidus fit: apperiantur
feneftre: et redolétiú rerú fafficulli cóburatur: ut iuniperi; lauri: faluie:
origani: et cetera: Quin tus: ut fuffumigetur cum thure: aut cu mirra: et in
magnis uiris cum belzoi. CSónus habet canones fex.primus ut fit equalis uigilie
no in tempore.fed in effectu: ut.f. tantum uigilia refoluat qtú fomnus humectat:
et parum plus. Alter ut meridie non fiat: quia ut dicit Auicéna tertia primi
generat egritudines humectantes: et reumatif mos. Tertius non fiat cito poft
cena: fed faltem medient bore due: fed non fupra renes: quia materiam fluere
facit in pofteriorem cellá cere bri. Quartas ut capite bene eleuato et bene
cohopto fiat.nó tamé fu pflue: quia tefte Bernardo gordonio nimia tectura caput
debilitat re foluendo: fic dicit et Gerardus in glofa uiatici. Quintus
ut non fub radiis lunae: nec in loco uentofo. Sextus ut prius fupra latus
dextru fiat poftea fup finiftrum: poftea iterum fuper dextrü: et pderit in ore
tenere fruftrum nucis mufcate. Motus babet canones fex.primus ut ante cibum
fiat.fecundus: ut fit longus: et pro corporis robore la boriofus: ut bene
refoluat.tertius ut p loca amena et ficca.quartus ut poft cibum nó
laboret.quintus ut omnes corporis pticule fimul exer ceantur: ut Galienus
fcribit ad ephigené, fimul ergo difputet.ambu let.manus moueat.fextus ut motus
fit longus et quottidie fiat. Re pletio habet canones duos. primus ut nung
repleatur.fecundus ut omnem fupfluitatem fuis expellat tpibus; aut per fe ipfum;
aut cum auxilio. I ta qp ab omni corpis pre unde fupfluitates mitti folét
emit tatur. Coitus habet canones noué.primus ut fit rarus: et non nifi cú
natura fponte id pofcit.fecundus ut non fiat tpe plenitudinis ftomaci. tertius
ut non fiat tpe famis. quartus ut fiat in fine digeftióis. quintus: ut tam
expulfe fint fupfluitates.fextus ut fiat cu dilecta: nó cú feda: aut cum
muliere quam non ames.feptimus: ut poft ipfü dor mias paululu.octauus: ut fi
tibi coitu grauior facius uidearis ab co abftineas.nonus: ut nó fit in ultimis
diebus lune ppe cöiunctionem C Accidentia animi tres canones continet.primus:
ut triftitia oio ef fugiatur.alter: ut cura rei familiaris: qtum fieri poteft
amoueatur: ut apud Claudianu. pectora noftra duas nó admittétia curas.tertius:
ut cogitatioe et meditatióe fcientiarum oblectetur. Nam apud Ariftotil
lem.delectatio perficit opus. Intétio tertia eft cófortatio: que fit par tim cu
extra appofitis: ptim cu hiis que intus ponútur. Extra appo nit capitis lotio:
q fuis tpibus fiat; et hét canones.4.pmus ut raro fi at. puta oib ? octo
dieb.fecúd'ut fiat in mane ftomaco uacuo.tertius ut in aere calido et ficco no
uentofo.quartus ut fiat cum hoc lexiuio. Fiat cinis cum lauro et origano et
edera et iuniperis et quercu: cum hoc fiat lixiuiú cú aqua in qua prius bec
bulierit..accori.M.i.fe. foliorum lauri.M.1.poftea fiat lixiuiu: et eo facto
impone florum ca momille.M.1.quia concoctionem nó fabftinet: et lauetur: et cu
hoc fa pone cófricetur: Recipe fapóis gallici feu folidi libr.ii.accori.3.iii.
affodillorú maiorane an.3.i.nucis mufcate.3.iii. pifta oia fubtiliter et
cribella: poftea malaxa cum fapone et fiant magdaleones: melius tamen eft ut
feces aque: quá fcribam in fapone ponantur et bene ma laxentur.in fine poftea
bene exficcetur caput cu panis cófricando: non ut caput opponat igni: quia
trabit uapores in cerebri. Ap ponitur extra et odoratoriu.cóueniet igitur pomú
ambre defcriptioe comuni. qd tamen ex calidionbus fiet in hyeme: ex minus
calidis in eftate: et effugiat omnem fetorem. Apponitur extra: et ueficatorium:
quod fi poft aures fiat cum lacte titimaloru aut cátaridibus: et diu ap tum
teneatur expurgat caput a multa humiditate. Ab extra ét fterna tamenta
applicantur. Ab extra fuffumigia: que fi in camera fiät erüt utilia. Ab itra át
cóferüt hec.fticados.maiorana.nuxmufcata gari ofili.buglofa pulcherime confert
ideo in uafe Vini poni debent cias fafficuli. Zinziber eft nobile fiue códitu
bis in ebdomoda aut ter ie iuno ftomaco accipiat: et horis quatuor ieiunet poft
ipfü: fiueét nó có ditú mafticet: et igluciar.thus mafculú albu deuoratú itegre
pcipuu eft. Ita ut fi zfnziberis thuris an.3.i.deuores: et fupra ipfu dor
! mias plurimum confert. Mirabulani quoc chebuli conditi fi om ! ni ebdomoda
unius pulpá edas ieiuno ftomacho: et horis quattuor poft ipfum iciunes.
Sifimbrium etiam cófert.et eft herba orti fcla rea; et ortina: et filueftris:
que dicitur gallitricum. gami edere: et pulegium: et accorus: qui eft de
precipuis. Turtur auis mire cô fert; et mirius caput upupe. Solent etiá fieri
unguenta ad illi ! niendum multa: Verum hoc eft precipuum. R. radicum buglofe
et fumiterrs an.2.iiii.radicum ruthe 2.ii.in umbra prius ficcata fubtiliffime
terrätur, fucci gallitrici.fucci eufragie, fucci berbene an.2.iiii.medulle
anacardı.2.i.tefticulorú caftrati biénalisz.i.li gue auts.3.it.piguedinis urfi:
et medulle fpatule dextre ei ' aut fal té offis illius fpatule exficcati. mifce
oia in fartagine: et fiat angu entú: quo pofterior pars et capitis pulfus ter
in anno inungant uere.f.byeme: et aurúno.alid pcipuu. Recipe gumi edere.2.i.ter
bentine lote in uino decoctionis accori libras duas: florü anthos et faluie et
betonice.an.2.ii.fe. florú edere.2.ii.falifgéme.3.iili. pinguedinis urfi
antiquate libr.fe.maiorane camomille.an.2.ii. omnia mixta diftilentur: et quod
diftilatum eft in uafe uitrea bene obturer: et cum mufco aromatizetur: et fiat
ut de priore liniméto Guido pater meus fic defcripfit Recipe oleí philosophoru
mel fue libr.iii.olei antiquiffimi oliuarum: aut fi non habetur fit fubli matum:
olei de alchanna an.libr.ii.piuguedinis talpe et muftelle eturfi
an.2.ii.caftorei.3.iii.fucci accori libr.tili. fuccci anthos: fucci betonice
an.libr.fe. fucci gallitrici et ciperi an. 2.iiii.malua tici libr.if.aque uite
libr.mediam.buliant omnia lento igne ufe ad aliquá cófumptióem: poftea impone
hec. Recipe laudani.3.1. fe. nncifmucate. 2.fe.macis gariofilorú: cuforbii:
omnium pipú an.3.ii.et pifta omnia et impone et repóc omnia fimul in uafe be ne
claufo per dies.xxx. poftea at impone in alembico et diftiles: et uidetur: quia
quod ultimo exit eft fortius; et callidius: hoc un guentum profecto eft efficax:
quo tépora: et pofterior pars cerebri perangitur: Verum prefupponit bonam
euacuationem et regimé bonú in hyeme fieri poteft femel in ebdomoda: quádo mane
uis caput lauare.in eftate fufficit femel in menfe. Inueni autem: qp fel
leopardi mirabile eft, Verum experiri non potui; quia nó potui
ha bere. Per os auté conuenit inter phlilofophos cófectio anacar
dina: q confert obliuioni et caniciei ante horam: et morphee et ba ras: Rafis
libro diuifionum duas ponit defcriptiones; Verum Me fue in fumma tertia rubrica
de imminutione memorie defcribit fic Mirabulanorum: chebulorum: indorum:
belliricorum; emblicoru an.2.iii.piperis: macropiperis: ollibani: zinziberis:
ifopi ficces accori: fpice; ciperi: mellis anacardi.an.3.v.mellis apum qtum
fufficit: dofis apud rafim eft ficut iuiuba: et Mefue in antidotario
diftinctione prima multum uariat eam. Addit.n.beduft.3.11.cofti anacardi
zuchari tabarzet.burungi.baccaru lauri an.3.vi.ciperi.3.iiii.et dofar.3.ii.cum
aqua feniculi et apii: et dat poft fex men fes. fed caueat fummens a labore.ira
et ebrietate. fimilem defcril ptionem omnino ponit Auicena. quinto canone fumma
prima tra ctatu tertio capi.xxv.et ferapio ponit aliam tranflatá ut dicit a Sal
lomone: ponit aliam: et Rafis nono almauforis. Verum fcriba rem magis tutam: et
ad memoria maioris efficacie: precedentibus rebus prefcriptis obferuatis
canonibus et eft placida ufui. Recipe nucis mufcate: gariofilorü: zinziberis:
oium piperú an. 3.ii.fc. Juniperorum.2.fe.ipericonts: corticum citri: florum
anthos: bafi liconis maiorane: mente: pullegii: bacharum lauri: calamenti: fpil
ce: xiloaloes: cubebarum cardamomi calami aromatici: fticados: an.3.i.thuris
mafculi.2.i.camedreos: camepitheos: melegete: ma cis.an.3.i.fe,
accori.M.i.fe.origani: ifopi ficce: ruthe gartofilate ariftologie utriufq3:
peonie: cubebarum: caffie lignee: pollipodii t fquinanti: celidonie: agrimonie:
pimpinelle.diptami: tormentilles fcabiofe: maratri: anifi: cimint: fifellcos:
nafturcii: an.. i. tiriace antique.2.i.aque uite glorificate fecundu artem: quá
cap.de aqua fuite fcripfimus; aut faltem fit ex bono uino: et quater diftillata:
Recipe eius libr.viii: et impone omnia predicta bene piftata: et cri brata:
poneq; in uas uitreum claufum: et fine per dies.xl. fermen tari: poftea autem
in alembico uitreo infundatur.nafus qe bene lu tetur cum recipiente ne odor
euaporet: et quater diftilletur: cam femper remittendo fuper feces fuas: nifi
qp in quarta diftillatione addatur omnium mirabolanorum anacardorum an.3.i.fc.
pift V.holidariur hingeol bene; et mifce: et fine: ut per dies fex
quiefcant: poftea diftiletar primo lento igne: poftea paulatim fortiore:
uidebis autem ter colo rem cómutare: primo.n.erit ut aqua: poftea fubcitrina:
poftremo aucto ualde igne fiet citrina: decet poftea: ut ambra: et mufco aro
matizetur: aqua prima crit remiffior fecunda: et erit pro mcipientibus et pro
eftate; fecunda etiam remiffior a tertia: Modus ac cipiédi eft: ut bis in
feptimana accipiatur coclear unu in fero fine cena aut mane ftomacho uacuo: et
ieiunetur poft horis fex: fi etia cu ea illinias tempora et cellam memorie
facit mirabilia: et fi.n. Auicenna prima tertii tractatu primo
cap.xxviiii.dixerit non effe fupra illam partem ponenda epithimata propter
priuationem com anffurarum: fed fupra coronalem: tamé de frigidis loquebat: que
non penetrant; et obfunt nuce: calida autem: et tam fubtilia pene trant: et non
obfunt nuce: qq non fit negandum quin etiam col ronali imponi debeant. Solemnis
quoqs eft canon: ut quando fufficiéter cerebrum erit exficcatum ibi fiftamus:
ne in difcrafiâ ficcam precipitemur: que eft infortunatior: q humida: ymo
melius eft infra fubfiftere q cerebrum exquifitiffime exficcare. Caue atqs qui hiis utitur ab ira labore repletione: et
coitu: ac etiam niff prius facta cuacuatione fufficienti. Nemo fupra ipfam
aquam prefumat. eius proprietaté expertam de memoria nullus dubitet habet et
alias: uirtutem regitiuam totius corporis mirabiliter forti ficat et ea propter
uitam prolongat fic: ut quidam ob eius ufum cl. anos incolumis exegerit: bonum
efficit colorem. frigidos op pugnat morbos: puftulam malam necat: et omnes
morbos ex hu morum putredine caufatos fanat: et precipue quartanam: paralifi et
fpafmo confert: fanat nefreticos. Cum hiis tamen iuuamé ! tis habet et
nocumenta: quia calidum epar: et caput habentibus ex hiberi caute debet.foleo
et res uariis membris appropriatas impo nere: et ad corum morbos propinare et
feliciter: Verum in meme ria nutrienda atq3 augenda mira res eft: fed colericis:
exercitatis: et in eftate et regione calida cum fapientia exhibeatur. Ita ut
epar epithimate cotéper: qd tamé ftate plectoria epithimari no debet: us
xiii.tertii; fed et aqua; ut diximus in plectoria exhiberi no
debes CLaudauit Auicena dyambram: alii uero utrüp dyamufcum: dulcem
uidelicet et amarum. Ego aut foleo fic ordinare. Recipe ra dicum accori
incifarum: ut raffanus.libr.ii.omnium piperú zinl ziberis an.3.iii.fe.thurif
mafculi.2.fe. nucif mufcate: gariofilol rum an.3.i.pifta omnia: et cu melle
apum cófice. Accipiat omni fero rotulas duas anteq in lectu uadar. Si tamen
addiicias fpecies dyambre: fi et mufcum apponas non crút inutilia. Hec hactenus
fufficiant de cura eius: que a frigiditate et humiditate procedunt: Illa autem
quam efficit ficcitas digeftione.euacuatione. conforta tione.humectationeq
perficitur: que omnia quidem copiofius a fa pientibus medicis in fuis libris
tradita funt. Neq3 egent: ut hoc loco fcribantur: prefertim cum fint rariffima
; et uix nifi in fene cé perta. Seruentur igitur modi quos diximus: nifi q cu
rebus fiát proportionatis. I aus fit Xpo Iefu deo noftro cius q3 intemerate
matris Maric Libellus de omnibus ingeniis augede memorie foeliciter explicit
Impreffum Bononiae per me Platonem de benedictis ciué Bono nienfem Regnante
Inclyto Principe.d.d.Iohanne Bentiuolo fel aido áno incarnatois dominice De omnibus ingeniis augendae memoriæ, Bologna. Carrara.
Luigi Speranza -- Grice e Carravetta:
l’implicatura conversazionale – scuola di Lappano – filosofia cosentina –
filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lappano). Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Lappano, Cosenza, Calabria. Moved to the New
World. Note Peter Carravetta, Del
postmoderno., by Alessandro Carrera
iawa-West welcomes Peter Carravetta and Marisa Frasca on Saturday,
February 14, at Sidewalk Cafe NYC IAWA’s Open Reading Series Featuring Peter
Carravetta et Marisa Frasca February 14,
Filosofia Letteratura Letteratura
Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secolo Poeti italiani del XX
secolo Poeti italiani del XXI secoloTraduttori italiani. Grice: “Carravetta has been stealing the Italian voice of Italian
philosophers, or rather silencing it!” -- Pietro Carravetta. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carravetta” – The Swimming-Pool Library. Tractatus
semeiotico-philosophicus – the opus magnum, almost, of Grice – or Speranza. –
The Swimming-Pool Library. Caravetta.
Luigi Speranza -- Grice e Carulli: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di GIANO – scuola di
Bari – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di
Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Bari). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Bari, Puglia. Grice: “I like
Carulli – he philosophises on things we do not philosophy at Oxford, such as
menstruation – or piegaturi, as Speranza prefers, since this is plural – ‘delle
mestruazioni’.” Grice: “But Carulli has also philosophised on some
anti-Griceian themes: my ‘fiducia’ becomes his ‘sfiducia;’ my ‘ragione’ becomes
his ‘sragione’! Delightful!” – Grice: “When I philosophised on “Not,” or “Not
I!” alla Beckett – I wouldn’t realise these are negative implicatures –
‘negative implicatures of ‘not’ – Carulli speaks of ‘negative reflections on
unaffirmation’!” “Genius!” – Grice: “Carulli can play with word: ‘il ‘mito’
della inatualitta ‘ di X’ – is this equivalent or, as I prefer, a mere vehicle
for the cancellable implicature: ‘la attualita’ di X’?!” – Grice: “Carulli
knows how to subtitle: his ‘sfiducia e sragione’ is not just that but a
Spinozian double treatise, like Witters’s abhandlung – cfr. Speranza’s
“Tractatus semeiotico-philosophicus”. Studia a Bari, una città
tradizionalmente soggetta allo storiografismo, all'impegno cattolico e al
marxismo. Produce una filosofia aliena ai grandi inganni e refrattaria alla
celebrazione dei suoi miti -- la democrazia, i diritti, la socialità, il debolismo
-- con un'inconsueta attenzione alla forma, seguendo la scuola della cosiddetta
critica della cultura, da Nietzsche in poi, unendo gli epigoni di quello ai
moralisti. Partito da posizioni di anti-storicismo puro, culminato in un
Benjamin schiacciato sulla im-politicità di ritorno della sua filosofia in
“Oggettività dell'impolitico: riflessioni negative a partire da Benjamin”
(Genova, Il Melangolo). Così come da un'analisi eterodossa dell'ultimo
Schelling, De contemptu, Dello Schelling tardo (Genova, Il Melangelo) è giunto
ad esiti originali con “Metafisica delle mestruazioni” (Genova, Il Melangolo),
dove si sottrae il fenomeno femminile alle analisi socio-antropologiche per
riconsegnarlo alla sua radice metafisica. Il discorso sul cristianesimo ritorna
in “Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico” (Napoli, La Scuola di
Pitagora), dove si riprende inoltre la critica della democrazia. Il
cristianesimo è visto come una forma culturale stanca e abitudinaria, ma in
grado di reggere con la sua apatia allo scontro con l'Islam. Si affaccia la
verità ontologica del “ente” in diminuzione che non giungono mai
all'annullamento definitivo; una verità che lo distanzia dall'eternità dell’
“essente” come pure dai cultori dell'annientamento. La sua filosofia, centrata ossessivamente
sugli stessi temi, può essere idealmente divisa secondo un'altra direttrice,
volta alla ri-costruzione critica pionieristica di su amico Sgalambro. In
quest'ambito pubblica “Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Sgalambro”
(Napoli, La Scuola di Pitagora); Introduzione a Sgalambro” (Genova, Il
Melangolo), e “La piccola verità. Quattro saggi su Sgalambro” (Milano,
Mimesis). Altre opere:“Lettera in La felicità? Prove didattiche di studenti
“tieffini” in formazione, Gemma, Barletta, Cafagna. Veneziani, Storia, verità e
politica. Perché Benjamin non è un marxista, in Libero, De contemptu, su
alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Alighieri, Harry Potter e le
mestruazioni: l'idea bellicosa di editoria di Regazzoni, su il foglio Alessio
Cantarella, Sfiducia e sragione, su alessiocantarella, Alessandro, Ratzinger,
Bergoglio e l'Abitudine al Cristianesimo, su il foglio. Pier Francesco
Corvino, Religio Medici. Andrea
Comincini, Per una interpretazione di Dio e del Contemporaneo, su scena
illustrata.com. alessio cantarella. Sgalambro, un metafisico distruttore, in La Sicilia. Corriere del Mezzogiorno,
Sgalambro, “impiegato di filosofia” contro i luoghi comuni, in Il Mattino,
Sgalambro, filosofo pessimista che sape come godersi la vita, in Libero,
Farruggio, Una preziosa “Introduzione a Sgalambro” Alessandro, Cara “Italian
Theory”, ricordati di Sgalambro, su il foglio, Introduzione a Sgalambro su rai
playradio. Alessio Cantarella, su alessiocantarella. Alessandro, Uno Sgalambro
non isolato, tra Cacciari e Severino, su il foglio,
convenzionali.wordpress.com, Sgalambro e le piccole verità, su lgiornale.
Sgalambro, l’esistenza e il peso di dio, su scena illustrata.com. Sgalambro, il
filosofo che ama la canzone, in La Gazzetta del Mezzogiorno. Giano
(latino: Ianus) è il dio degli inizi, materiali e immateriali, ed è una delle
divinità più antiche e più importanti della religione romana, latina e italica.
Solitamente è raffigurato con due volti (il cosiddetto Giano Bifronte), poiché
il dio può guardare il futuro e il passato. Nel caso del Giano quadrifronte, le
quattro facce sono rivolte ai quattro punti cardinali. Busto di Giano
conservato presso i Musei Vaticani. Caratteristiche della divinità Modifica
Etimologia Modifica Quadrigato romano recante l'effigie di Giano. Già gli
antichi mettevano il nome del dio in relazione al movimento: Macrobio e
Cicerone lo facevano derivare dal verbo ire "andare", perché secondo
Macrobio il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da sé stesso a sé
stesso ritorna. Gli studiosi moderni hanno confermato questa relazione
stabilendo una derivazione dal termine ianua, "porta"[2], ma è con
Dumézil che il senso si precisa: il nome Ianus deriverebbe dalla radice
indoeuropea *ei-, ampliata in *y-aa- con il significato di
"passaggio" che, attraverso una forma *yaa-tu, ha prodotto anche
l'irlandese ath, "guado. In passato non sono mancate tuttavia ipotesi
alternative, come quella che voleva il nome derivato da una più antica forma
*Dianus, da mettere in relazione con la dea Diana e quindi derivato anch'esso
dalla stessa radice del termine latino dies, "giorno". Dumezil nota
anche l'appellativo di 'mattutino' con cui Orazio si rivolge al dio in modo
semiserio (Serm.). Tale appellativo tuttavia deporrebbe indifferentemente a favore
di entrambe le ipotesi etimologiche esposte. Il suo nome in greco è Ιανός
(Ianós). È il primo a portare il naso con profilo romano (il classico
naso a becco d'uccello). La figura del Dio Giano, come appena accennato, è
prettamente romana e la sua origine non si può far risalire alla mitologia
greca. Nella mitologia etrusca la divinità più prossima a Ianus è Culsans[5],
dio delle porte e dei passaggi, anch’esso bifronte, con un nome simile
("ianua" significa porta in latino, come "culs" in etrusco)
e legato al concetto di passato e futuro, ma con caratteristiche non del tutto
sovrapponibili. Essendo pochissime le informazioni in nostro possesso sui culti
dell'Italia preromana non possiamo far risalire con certezza Giano a qualche
divinità italica. Una possibilità da tenere in considerazione è che la
figura di Giano sia stata ispirata da quella di Ušmu, un dio sumero a due
facce, altrimenti chiamato Isimud o, in piena età babilonese, Ansar.
Epiteti Modifica Asse con l'effigie di Giano e la prora di una nave.
Circa 240-225 a.C. Come tutte le divinità romane, Giano era chiamato con
diversi epiteti, che testimoniano la sua particolare rilevanza all'interno del
pantheon: Divum Deus (Dio degli Dei) Divum Claviger (Dio Clavigero) Divum
Pater (Padre degli Dei) Ianus Bifrons (Giano bifronte) Ianus Cerus (Giano
creatore) Ianus Consivius (Giano procreatore) Ianus Pater (Giano padre) Pater
matutinae (Padre del mattino) Ianus Vicilinus (Giano Vigilante) Natura del dio
Modifica Giano è una divinità esclusivamente romano-italica, la più antica tra
gli Dei nazionali, gli Di indigetes, invocata spesso insieme a Iuppiter. Fu,
insieme a Quirino, l'unico dio romano a non essere assimilato a divinità
ellenistiche. Il suo culto è probabilmente antichissimo e risale ad
un'epoca arcaica, in cui i culti dei popoli italici erano in gran parte ancora
legati ai cicli naturali della raccolta e della semina. È stato sottolineato da
più autori, fin dal secolo XIX (Vedi Il ramo d'oro), come Giano fosse
probabilmente la divinità principale del pantheon romano in epoca arcaica ed
anche Sant'Agostino nel suo De Civitate Dei (VII, 9) ricorda che “ad Ianum
pertinent initia factorum” e come perciò al Dio competa “omnium initiorum
potestatem”. In particolare rimarrebbe traccia di questo fatto nell'appellativo
Ianus Pater che permase anche in epoca classica. Giano nell'epoca arcaica
era semplicemente il dio legato ai cicli naturali, poi con il passare del tempo
il suo mito divenne sempre più complesso. Nei frammenti superstiti del
Carmen Saliare Giano è salutato con particolare enfasi come padre e dio degli
dei stessi: «divum +empta+ cante, divum deo supplicate» (IT)
«cantate lui, il padre degli dei, supplicate il dio degli dei»
(fragmentum 1) Tale dato è confermato dal fatto che per i romani Giano non era
figlio di alcun'altra divinità (ad esempio Giove è figlio di Saturno), ma,
proprio per la sua qualità di pater divorum, egli era sempre stato, immanente,
fin dall'origine di ogni cosa. Così è che Giano, come lo stesso ci racconta per
bocca di Ovidione i Fasti (I, 103 e s.s.), era presente allorché i quattro
elementi si separarono tra di loro dando forma ad ogni cosa. A tal
proposito Varrone riporta nel carmen anche l'epiteto di Cerus cioè
"creatore", perché come iniziatore del mondo Giano è il creatore per
eccellenza[8]. Il console e augure Marco Valerio Messalla Rufo scrive nel libro
sugli Auspici che Giano è colui che plasma e governa ogni cosa e unì,
circondandole con il cielo, l'essenza dell'acqua e della terra, pesante e
tendente a scendere in basso, e quella del fuoco e dell'aria, leggera e
tendente a sfuggire verso l'alto, e che fu l'immane forza del cielo a tenere
legate le due forze contrastanti[9]. Settimio Sereno lo chiama "principio
degli dèi e acuto seminatore di cose". Giano presiede infatti a
tutti gli inizi e i passaggi e le soglie, materiali e immateriali, come le
soglie delle case, le porte, i passaggi coperti e quelli sovrastati da un arco,
ma anche l'inizio di una nuova impresa, della vita umana, della vita economica,
del tempo storico e di quello mitico, della religione, degli dèi stessi, del
mondo, dell'umanità (viene infatti chiamato Consivio, cioè propagatore del
genere umano, che viene seminato per opera sua), della civiltà, delle
istituzioni. Nella sua riforma del calendario romano, Numa Pompilio
dedicò a Giano il primo mese successivo al solstizio d'inverno, gennaio, che
con la riforma giulianadel 46 a.C. passò ad essere il primo dell'anno. Una
delle caratteristiche più singolari di Giano sta nella sua rappresentazione
come di un dio bicefalo, da cui l'appellativodi Giano bifronte. Questa
particolarità era connessa all'area di influenza divina che Giano assunse in
maniera specifica in epoca classica, dopo l'ascesa degli dei romani
"canonici": Giano era preposto alle porte (ianuae), ai passaggi
(iani) e ai ponti: ne custodiva l'entrata e l'uscita e portava in mano, come i
portinai, gli ianitores, una chiave e un bastone, mentre le due facce
vegliavano nelle due direzioni, a custodire entrata e uscita. Anche in
quest'epoca, comunque, Giano continuò a rappresentare il custode di ogni forma
di passaggio e mutamento, protettore di tutto ciò che riguardava un inizio ed
una fine. Miti Farinati, Giano
bifronte con una ninfa, 1590 circa, affresco, Villa Nichesola-Conforti, Ponton
di Sant'Ambrogio di Valpolicella (Verona). Nel mito Giano avrebbe regnato come
primo Re del Latium, fondando una città sul monte Gianicolo e donando la
civiltà agli Aborigeni, suoi originari abitanti. Con la ninfa Camese avrebbe
generato inoltre numerosi figli, tra i quali il dio Tiberino, signore del
Tevere. È lui ad accogliere il dio dell'agricolturaSaturno, spodestato dal
figlio Giove, condividendo con lui la regalità e consentendogli di portare
l'età dell'oro. Per l'ospitalità ricevuta, Giano ricevette dal dio Saturno il
dono di vedere sia il passato che il futuro, all'origine della sua
rappresentazione bifronte. Numerose sono le ninfe indicate come mogli o
compagne di Giano: Camese, dalla quale il dio ebbe tre figli: Tiberino,
il dio del Tevere; Camasena, Clistene; Venilia, citata da Ovidio, dalla quale
avrebbe generato: Canente; Carna, dalla quale avrebbe ricevuto il potere sulle
porte; Giuturna, dalla quale sarebbe nato: Fons, dio delle sorgenti, venerato
ai piedi del Gianicolo. Culto Modifica Al culto di Giano, a differenza delle
altre divinità maggiori, non era preposto uno specifico flamen. Le cerimonie a
lui dedicate venivano invece amministrate dallo stesso Rex e, in età
repubblicana dal particolare sacerdote che suppliva alle antiche prerogative
regie, il Rex Sacrorum. Egli apriva dunque per primo le processioni e le
cerimonie religiose, antecedendo anche lo stesso flamen Dialis, sacerdote di
Giove. Nel suo tempio si sacrificava spesso per avere vaticinisulla
riuscita delle imprese militari. Santuari Modifica Arco di Giano o
Ianus Quadrifrons. A Roma i principali luoghi consacrati a Giano erano:
lo Ianus geminus, un passaggio coperto consacrato secondo la tradizione da Numa
Pompilio nel Foro e precisamente nella parte più bassa dell'Argileto secondo
Tito Livio, o ai piedi del Viminale secondo Macrobio, e che veniva aperto in
occasione di guerre e chiuso in tempo di pace; lo Ianus quadrifrons, un arco a
quattro aperture situato nel Foro Boario; il Tempio di Giano situato nel Foro
Olitorio e consacrato da Gaio Duilio dopo la vittoria di Milazzo. Giano come
simbolo di città Modifica Scultura lignea di Giano ad Avezzano Secondo la
leggenda, Giano fondò la città di Gianicola, e fu proprio lui ad accogliere
Saturno nel Lazio. Esisteva una frazione della città di Roma denominata
Gianicolo e secondo alcuni mitologi Giano sarebbe il fondatore di uno dei
villaggi di Roma. Da notare che il Gianicolo affaccia su un lato del Tevere ove
è presente un guado naturale, quindi un passaggio. Giano viene assunto
dal Medioevo a simbolo di Genova, in relazione al suo nome antico di Ianua.
Come tale viene spesso accostato al Grifone, altro simbolo di questa città.
Troviamo effigi di Giano bifronte nel pozzo sacro di piazza Sarzano
(l'ermabifronte sulla cupoletta, proveniente da una fontana cinquecentesca
opera della bottega in Genova di Giacomo e Guglielmo della Porta);
rappresentazioni dei grifoni come ornamento dei pinnacoli delle volte vetrate
di Galleria Mazzini e nei lampadari ottocenteschi della stessa. Una
rappresentazione indubbiamente più moderna ed essenziale la troviamo nel
palazzo azzurro sito in Fiumara. Bisogna considerare Giano come dio adatto a
sostituire i riti celtici dediti alla venerazione del torrente, considerato
come luogo ove convergono le acque da affluenti che stanno a destra e a
sinistra dello stesso corso d'acqua, in quanto Giano aveva due facce ed era il
dio dei passaggi, oltre ad avere rapporti con le divinità delle acque.
Oltre a Genova, Giano è il simbolo di Tiggiano(provincia di Lecce), Subbiano
(provincia di Arezzo), Selvazzano Dentro (provincia di Padova) e Centro Giano
(provincia di Roma), San Giovanni Rotondo(Provincia di Foggia). L'immagine di
Giano è presente nel gonfalone di Tiggiano (provincia di Lecce)[13]perché
secondo un'etimologia popolare il nome del paese potrebbe derivare dal nome del
dio Giano (in realtà il toponimo è un prediale costruito sul gentilizioromano
Tidius.). In Basilicata, presso Muro Lucano (PZ) è presente il toponimo
Capo di Giano e Varaggiano, mentre presso Melfi c'è Foggiano. A Pescopagano, in
una nicchia sotto l'arco di Porta Sibilla vi è una statuetta raffigurante Giano
bifronte. L'immagine di Giano è presente nel gonfalone di Subbiano
(provincia di Arezzo)[16] perché secondo un'etimologia popolare il nome del
paese deriverebbe dal latino Sub Janum condita ("fondata sotto [il segno
di] Giano"), ma in realtà il toponimo è un predialecostruito sul
gentilizio romano Sevius. Il nome della città di Avezzano in Abruzzo
stando ad un'ipotesi giudicata inverosimile da storici ed archeologi
deriverebbe da "Ave Jane", un'invocazione posta sul portale di un
tempio consacrato al dio Giano. Secondo la leggenda attorno al tempio ebbe
origine la borgata formata dai primi agricoltori stanziati nell'area che
originariamente circondava il lago del Fucino. Il monte Giano
nell'Appennino centrale è situato nel comune di Antrodoco, in provincia di
Rieti. Il toponimo di Selvazzano Dentro di origine romana parrebbe
riportare alla presenza di un boschetto sacro al dio Giano (selva di Giano),
l'attuale stemma comunale riporta infatti un altare dedicato al dio.
Secondo delle supposizioni i toponimi di Vezzano, come Vezzano Ligure in
provincia della Spezia, deriverebbero dalla divinità romana. Il nome del
dio è invece all'origine dei due toponimi Giano dell'Umbria e Giano Vetusto,
non direttamente ma attraverso un nome di persona latino Ianus (al quale sarà
originariamente appartenuto il fondo sul quale è sorto il centro
abitato). A Reggio Emilia c'è un Giano su uno spigolo di Palazzo Magnani
in Corso Garibaldi. Nel comune di Maddaloni, in Provincia di Caserta,
esattamente dinanzi l'ospedale cittadino, sono ancora visibili i resti di un
tempio con l'iscrizione "Iano Pacifero". A Trieste vi è una
fontana con il volto bifronte del dio, posta all'inizio del Viale XX Settembre.
In quanto alla scelta del sito, va notato che nei primi anni dell'Ottocento in
quel punto si trovava un recinto con cancello, che segnava l'uscita dalla
città. Il toponimo di Camposano, in provincia di Napoli, tra le tante
interpretazioni, parrebbe derivare da un tempio dedicato al dio Giano
denominato Campus Iani. Nel pesarese, a pochi chilometri dalla città di
Fano, vi è la frazione di Monte Giano. Nei pressi del comune di Montieri,
tra Siena e Volterra, Alta Maremma, si trova una località chiamata Prategiano,
tradizionalmente legata alla divinità. Qui oggi si trova un prato collinare,
circondato da boschi. Vi ha sede un centro ippico di rilievo, dal quale partono
escursioni per numerose località naturali e storiche. La zona è ricca di
vestigia, tra le quali la Rotonda di Montesiepi, con la Spada nella Roccia, ivi
conficcata dal misterioso San Galgano nel XII secolo, oggi ancora visibile
sotto la cupola della rotonda. Note Modifica ^ Macrobio, Saturnalia, I,
9, 11 ^ ad esempio Herbert Jennings Rose in Dizionario di antichità classiche,
s.v. Giano. Milano, Edizioni San Paolo, Dumézil, La religione romana
arcaica, Milano, Rizzoli, Ferrari,
Dizionario di mitologia greca e latina, s.v. Giano. Torino, UTET, Simon "Culsu, Culsans e Ianus" in: Atti congresso Grummond, N.T. et Simon, The
Religion of the Etruscans. University of Texas, Austin.. ^ Daniele
F.Maras, Monografie - La Religione Etrusca, in Archeo Monografie, 27
ottobre/novembre 2018. ^ Marco Terenzio Varrone, Della lingua latina Macrobio,
Saturnalia Macrobio, Saturnalia Livio, Storia di Roma Teofilo Ossian De Negri.
Storia di Genova. Firenze, Giunti, 2Stemma Comune di Tiggiano, su
comuni-italiani.it. Notizie generali sul Comune di Tiggiano, su japigia.com.
URL consultato Marcato. Tiggiano, in AA. VV. Dizionario di toponomastica.
Torino, UTET, Subbiano (Tuscany, Italy), su crwflags Subbiano in breve, su
comune.subbiano.Marcato. Subbiano, Dizionario di toponomastica. ^ Giovanni
Pagani, Il nome Avezzano, su avezzano.terremarsicane.it, Terre Marsicane.
Marcato. Giano dell'Umbria e Giano Vetusto, in AA. VV. Dizionario di
toponomastica. ^ In Viale una fontana con due mascheroni - Cronaca - Il
Piccolo, in Il Piccolo, 19 novembre Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
Inc. Portale Mitologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di
mitologia. Falacer Saturno (divinità) divinità romanaell'agricoltura
Carna Wikipedia Il contenutoAntonio Carulli. Keywords: Giano, critica della
cultura, Nietzsche, De Contemptu, Schelling, impolitico, Benjamin,
menstruazione, Aligheri sulla mestruazione, ente, essente. Giano, e la
religione, paganesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carulli” – The
Swimming-Pool Library. Carulli.


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