Luigi Speranza -- Grice ed Alcimaco: la setta di
Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo
italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), a pupil of
Pythagoras. Exiled from Crotone when the local population rose
against the Pythagoreans. His subsequent fate is unknown. Alcimaco. Refs.: Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Alcimaco,” The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice ed Alcio: i due ortelani -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. One of the two philosophers following what the Italians call the
“Orto” (the Garden) – the other was FILISCO (si veda) – expelled from Rome back
to where they came from – Athens -- *before*
the infamous embassy. Alcio. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, “Grice ed Alcio,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed
Alcmeone: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo
italiano. According to
lamblichus of Chalcis, a pupil of Pythagoras. His main interest is in medicine,
and he regards health as a kind of internal balance. He studies perception and
believes that the eyes are connected with the brain, which is itself the centre
of emotion and thought. According to Diogenes L., he also writes on physics,
arguing that the soul is always in motion and the moon, planets and stars are
eternal (Barnes, Early Philosophy, Harmondsworth, Penguin) Guthrie, A History
Ancient Philosophy, Cambridge; Huffman, 'Alemaeon', The Stanford Encyclopedia
of Philosophy, Zalta. Medaglia. Quasi
tutte le informazioni superstiti circa lui sono state messe in discussione
dagli studiosi. Essi si sono chiesti se fosse un medico o un fisiologo
("impegnato ad indagare la natura"), se fosse un pitagorico o in
relazione con i pitagorici, se il suo atteggiamento fosse da qualificare come
empirico, se ha, primo in Occidente, praticato la dissezione del corpo umano,
se il ruolo centrale da lui attribuito - secondo le fonti dossografiche - al
cervello nel coordinare le sensazioni non è da ridimensionare. La revisione
critica delle testimonianze e dei frammenti di A. ha determinato di fatto il
superamento di tutti quegli entusiasmi, certamente prematuri, che vorrebbero il
crotoniate il padre dell'anatomia, della fisiologia, dell'embriologia, della
psicologia, della medicinastessa. Si è aperta, in tal modo, sul piano
metodologico, la via per una comprensione autenticamente storica della figura
di A., dimensionata nel tempo ed in situazione. Moltissimi frammenti dei testi
scomparsi, ma citati particolarmente da Teofrasto, sono stati raccolti da
Codellas e da questi è possibile evincere la sua filosofia. Si può pertanto
affermare che A. è il primo filosofo naturalista (Strata). Doty ha ripercorso
la storia per quell'epoca straordinaria di A., giungendo a concludere che le
sue scoperte devono essere considerate rivoluzionarie al pari di quelle di
Copernico e di Darwin. Da notare che il grande Aristotele nega i rapporti fra
cervello e fenomeni mentali in quanto toccando il cervello, non si hanno
sensazioni e il cuore è ultimo a morire, localizzando dunque qui le capacità
della mente. Dalla vita di A. non sappiamo molto. Aristotele riferisce che,
quanto all'età, A. è giovane quando Pitagora è vecchio. Tuttavia, il passo non
è contenuto in tutti i manoscritti né concordemente riferito dai commentatori
antichi. Contemporanei e diretti interlocutori di A. sono, secondo
Diogene L., Brontino, Leonte e Batillo; personaggi considerati da Giamblico
pitagorici. La sua patria viene dalle fonti identificata con Crotone. Il padre è,
secondo la tradizione dossografica, Períthos (Diog. Laert.; Clem. Alex.,
Strom.) Diogene Laerzio considera Alcmeone discepolo di Pitagora. Il suo
impegno avrebbe riguardato per lo più la medicina. Tra i fisiologi viene
annoverato da Teofrasto. Secondo il giudizio di Galeno, A., allo stesso modo di
Melisso di Samo, Parmenide di VELIA (si veda), Empedocle di GIRGENTI (si veda),
Gorgia di LEONZIO (si veda), Prodico e degli autori antichi in genere, scrive
un saggio, “Sulla natura”. Per Favorino e Clemente è addirittura il PRIMO a
comporre un discorso intitolato “Sulla natura”. La sola attestazione che fa
diretto riferimento ad A. come medicus è quella di Calcidio. Per il periodo
storico in esame, la distinzione tra fisiologia/filosofia e medicina risulta
essere non ancora strutturata – cfr. Grice: “We had the same problema at Oxford
for ages – which I old Strawson when he was appointed professor of META-physical
(‘trasnaturale’) philosophy!” -- Non solo la linea di demarcazione fra questi
due ambiti è fluida, ma all'interno dell'indagine "sulla natura"
confluivano sia lo studio della natura, che del corpo umano e, più in generale,
per gl’enti tutti, apprezzati e osservati nella loro globalità. Il primo
frammento pervenutoci di A. contrappone l'onniscienza certa e immutabile degli
dei alla scienza mutevole e ipotetica degl’uomini che desumono le proprie tesi
dai segni visibili nei corpi esaminati. Sulle cose invisibili e sulle cose
mortali solo gli dei hanno la certezza. Agl’uomini è dato il congetturare. Non
congetturare a caso delle cose più grandi. Tuttavia, tale sapere non viene
ancora associato alla filosofia. Il dossografo Aezio attribuisce ad A. la
teoria divenuta molto comune della salute come equilibrio – “isonomia” -- tra
elementi o proprietà (dynameis) opposte. A. dice che la salute dura fintantoché
i vari elementi, umido secco, freddo caldo, amaro dolce, hanno uguali diritti
(isonomia), e che le malattie vengono quando uno prevale sugli altri
(monarchia). Il prevalere dell'uno o dell'altro elemento, dice, è causa di
distruzione. La salute è l'armonica mescolanza delle qualità (opposte). Maddalena
in Giannantoni. Simile dottrina ricorre, altresì, nel trattato ippocratico
Sull'antica medicina. V'è infatti nell'uomo il salato, l'amaro, il dolce,
l'astringente, l'insipido e mille altre cose dotate di proprietà diversissime
sia per quantità sia per forza. Ed esse mescolate e contemperate l'un l'altra
né sono evidenti né causano dolori all'uomo; quando però una di esse sia
separata e permanga come sostanza a sé stante, allora diviene evidente e causa
dolori all'uomo. Opere di Ippocrate, Vegetti, Torino, Utet. Nel riportare la
dottrina dei pitagorici, secondo la quale le contrarietà sono per essi principi
delle cose che sono, Aristotele, dubita che all'origine vi fosse stato un
contributo determinante da parte di A.. Questi, ad ogni modo, sostene che
duplici sono per lo più le cose riguardanti l'uomo. A differenza dei pitagorici
– continua Aristotele – A. non define quali sono le contrarietà. Nomina, pero,
quelle che gli capitavano, bianco nero, dolce amaro, buono cattivo, grande
piccolo. Nel suo Commento al Timeo di Platone, Calcidio rifere che A.,
esperto di questioni fisiche, è il primo che seziona animali viventi. In
particolare la sua attenzione si concentra a mostrare come sono fatti gl’occhi.
Secondo la testimonianza di Teofrasto, A. ha modo di identificare determinati
canali – “poroi” -- che conduceno la sensazione dall’organo di senso (I pele II
orecchie III naso IV lingua V occhi) al cervello, descrizione che si riferisce
ai fori dei nervi cranici. Dal punto di vista storico, la critica più
accorta riconosce come i canali, cui fa riferimento Teofrasto, sono, per quel
che concerne III l'udito e IV l'olfatto, grosse strutture, quali i condotti
delle narici e il meato uditivo esterno. Nel caso I dell'occhio, tuttavia, le
osservazioni effettuate da A. non riguardavano esclusivamentestrutture esterne
o di superficie. Molto è infatti frutto di una conoscenza delle strutture
retrostanti l'occhio. Il medico e fisiologo crotoniate si può al riguardo
desumere che ha in forma assai limitata e circoscritta praticato su animali una
recisione dell'occhio per mettere allo scoperto le strutture retrostanti, che
si dipartono alla volta del cervello. Infatti descrive in maniera
inequivocabile le vie ottiche (nervi ottici, chiasma e tratti ottici), come
riportato da Calcidio. Solo dopo Aristotele la dissezione comincia ad imporsi,
per diventare pratica assai diffusa e sistematica. Nel complesso si può
riconoscere che il primo impiego del coltello a vantaggio della ricerca sulla
natura risale ad A.. Questo rese possibile la scoperta del collegamento nervoso
tra l'occhio e il cervello e da avvio a riflessioni sulla reale sede delle
sensazioni in quest'ultimo organo. Di rilievo la testimonianza di Teofrasto (De
sensu). Tra quelli che non credono che LA PERCEZIONE nasca da simiglianza è A..
Il quale prima di tutto definisce la differenza tra uomo ed animali non
razionale. L'uomo, A. dice, si distingue dagli altri animali perché CAPISCE, mentre
gl’altri animali PERCEPISCONO (potch) ma non CAPISCONO (cotch). Per A., infatti,
PERCEPIRE (potching) e CAPIRE (cotching) sono due attività diverse, e non, come
crede Empedocle di GIRGENTI (si veda) una sola e medesima attività. Poi A. parla
delle singole percezioni. Dice che udiamo con le orecchie -- perché in esse è
il vuoto. Questo vuoto, dice A., vibra, e cioè emette un suono con la cavità, e
l'aria ripete la vibrazione. Gli odori li percepiamo col naso, conducendo al
cervello l'aria mediante l'inspirazione. Distinguiamo i sapori con la lingua,
perché essa. essendo calda e molle, col calore disfa, e mediante la rarefazione
dovuta alla sua morbidezza accoglie e distribuisce i sapori. Per gl’occhi
gl’uomini vedono mediante l'umidità che circonda gl’occhi. Gl’occhi, dice A.,
contenneno FUOCO, come è mostrato dal fatto che mandano scintille quando sono colpiti.
Gl’uomini vedeno dunque mediante la parte ignea e la parte trasparente, e tanto
meglio vede quanto più è puro. Ogni percezione, dice A., giunge al cervello e
lì le varie percezioni s'accordano. È appunto per questo che anche s'ottundono
quando il cervello si muove e cambia di posto: perché in tal modo ostruisce i
canali attraverso i quali passano le sensazioni. Del TATTO (V) A. non dice né come né con che cosa si ha. Questo
dunque dice A.. -- Maddalena in
Giannantoni. Secondo Aezio, A. afferma che le anime sono le CAUSE del proprio
movimento e di quello dei CORPI nel quale sono immerse. Poiché il moto proprio
delle anime è continuo e ininterrotto, esse possono essere assimilate ai corpi
celesti divini e da ciò si può derivare la loro immortalità. Ciò che si muove è
vivo e ciò che si muove continuamente è continuamente vivo e quindi immortale.
L'argomento di A. è ripreso da Platone nel “Fedro”. Diogene Laerzio conserva
l'incipit dell'asserito trattato di A. “Sulla natura”. A. di Crotone, figlio di
Pirito, dice questo a Brontino e a Leonte e a Batillo. Delle cose invisibili e
delle cose visibili soltanto i XII dei hanno conoscenza certa – “sapheneian.” Gl’uomini
possono soltanto congetturare – “tekmairesthai.” Maddalena in G. Giannantoni. Il
«metodo tipico della conoscenza umana consiste, per A., nel “tekmairesthai” – ovvero,
nel procedere appunto per indizi, congetture, prove. Egli, in tal modo, non fa
che teorizzare la sua stessa prassi, abituato a interpretare l'esperienza per
ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così
all'unità della malattia e delle sue cause. Sotto questo profilo, con A. si apre
una via verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso
l'osservazione. Vegetti. Perilli, A. tra filosofia e scienza. Per una nuova
edizione delle fonti, in «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»; Lloyd, Metodi
e problemi della scienza, trad. it., Laterza, Roma; Huffman, A. in Zalta, Stanford
Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information; Metafisica’
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi; Vita di Pitagora; Perilli; Lloyd; Arist.,
Metaph.; Hist. anim.; De gen. anim.; Diog. Laert.; Per le testimonianze e i
frammenti di A., vd. H. Diels, W. Kranz, (a cura di), I presocratici. Testo
greco a fronte, a cura di Reale, Bompiani, Milano, Maddalena in G. Giannantoni
(a cura di), I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Bari-Roma, Laterza; De
sensu; De elem. sec. Hippocr.; F.H.G.; Strom.; In Tim.; Krug, La medicina nel
mondo classico, Firenze, Giunti; Ronchi, La scrittura della verità: per una
genealogia della teoria, Di fronte e attraverso; Lo spoglio dell'occidente
(n.3), Jaca; Metaph.; Wrob. de sensu. Lloyd,
Chalcid in Tim; Wrob in Cardini Pitagorici Antichi; Staden, Herophilus.
The Art of Medicine in Early Alexandria, Cambridge; Lloyd, A. Krug; Pitagora e
i pitagorici: l’anima; Codellas, A. of Croton: his life, work and fragments, in
Proceedings of the Royal Society of Medicine; Doty, A.’s discovery that brain
creates mind: a revolution in human knowledge comparable to that of Copernicus
and of Darwin, in Neuroscience; Perilli, A. tra filosofia e scienza, in
Quaderni Urbinati di Cultura Classica; A., su Treccani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana; Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana; A. su Enciclopedia Britannica, Huffman, Alcmaeon, in Zalta, Stanford
Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information; Biografie;
Filosofia; Letteratura; Magna Grecia; Medicina. Eraclito filosofo greco antico
Empedocle filosofo e politico greco antico Scuola pitagorica antico movimento
esoterico e metafisico basato sugli insegnamenti di Pitagora. Grice, The Causal
Theory of Perception. Keywords: perception, causal theory. Refs.: Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Alcmeone,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Alderotti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia
italiana -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Firenze). Abstract.
Grice: “In my ‘Prejudices and predilections,’ I focus on my collaboration on
Austin on Categoriae and De Interpretatione; but less originally, we also gave
a joint seminar along with Hare – who would succeed Austin as White’s professor
of moral philosophy, on Aristotle’s Ethics – I knew the thing by heart, unlike
Austin and Hare, since Hardie, my tutor at Corpus, knew him by heart himself!”
-- Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice:
“I like Alderotti; but then his favourite treatise was Aristotle’s little thing
to his son, Niccomaco – which Hardie instilled on me like a leech!” “Alderotti
was what we would call a Florentine-Bologne-oriented Aristotelian; he thought,
with Aristotle, that the heart trumps the head -- Grice: “What I like most about lderotti is his
archiginnasio – no such thing at Oxford! So, as Speranza says in “Colloquenza
all’archiginnasio,” Alderotti knew what he was doing, even if his pupils did
not!”Scienziato e filosofo erudito, scrisse per l'amico e protettore Donati,
uno dei primi testi di medicina in lingua volgare, il Della conservazione della
salute. Il più conosciuto medico del medio evo, tanto da meritarsi una
citazione nel Paradiso d’ALIGHIERI (si veda), insegna a Bologna, applicando,
durante le sue lezioni di medicina, un innovativo metodo scolastico. Inizia la
lezione con una lectio o expositio di un passo tratto da un testo autorevole (di
Ippocrate, Galeno, ecc.). Procede poi per quaestiones con riferimento alle IV cause
aristoteliche. La causa materiale -- la materia della trattazione --, la causa
formale -- la sua forma espositiva --, la causa efficiente -- l'autore
dell'opera -- e la causa finale -- il
fine o lo scopo dell'argomento prescelto. A questo punto il maestro formula una
serie di dubia, cui fanno seguito i momenti euristici della disputatio ed, infine,
della solutio. ALIGHIERI (si veda) lo cita in modo dispregiativo nel “Convivio.”
Temendo che 'l volgare non fosse stato posto per alcuno che l'avesse laido
fatto parere, come fece quelli che transmuta lo latino de l'etica ciò e A.
ipocratista provide. Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere. Tra i primi volgarizzatori toscani è A.,
il famoso fiorentino, professore a Bologna, uno dei personaggi più notevoli del
suo tempo. A. è pure il primo traduttore italico della morale a Nicomaco, che
volgarizzata entra oramai a far parte della cultura generale. Di traduzioni
della Nicomachea, c'eran le due greco-latine dell'Ethica vetus e dell'Ethica nova,
frammentarie,e quella del liber Ethicorum completa letterale. Ma il volgarizzatore
non puo certamente servirsi di un testo incompleto o di traduzioni letterali
che avrebbero evidentemente lasciato Aristotele oscurissimo nel volgare come lo
è nelle traduzioni latine. Ci sono le traduzioni arabe: quella del commentario
di Averroe. Ma come si puo presentare per la prima volta a'laici, incapaci di comprendere
un vastosi stema filosofico, il Lizio con tutto il bagaglio delle sue dottrine
logiche e metafisiche che servono di base all'Etica? Resta il compendio
alessandrino-arabo, e questo difatti ammesso alla facile diffusione del volgare
divenne il testo morale aristotelico di moda. A. riduce in volgare il compendio
alessandrino-arabo della morale a Nicomaco. Poco più tardi [Ho in un lavoro
precedente trattato dell'Etica volgare e francese; a quel lavoro modesto
richiamo il lettore il quale, trattandosi di una questione già molto
controversa, voglia con sicurezza accogliere le nostre conclusioni. Giacchè ora
alle conclusioni sono costretto dalle necessità e dall'economia dell'argomento.
MARCHESI, Il Compendio volgare dell'Etica Aristotelica e le fonti del VI libro
del Tresor in Giorn. Stor.della lett.it.] LATINI (si veda), nel Tresor accolge
il volgare di A., modificato secondo il testo originale latino ch'ei conosce e
a cui porta contributo di meditazioni. Sicché tra i due compendi è una notevole
differenza: una differenza che va tutta a favore di ser LATINI (si veda) il
quale ha il vantaggio di lavorar dopo in un tempo in cui, per quella energia
naturale della filosofia novella, si progrede assai rapidamente nel gusto e
nella filosofia. La traduzione di A. in gran parte fedele al contenuto, nella
forma è condotta con una notevole indipendenza rispetto alla frase latina, e
non di rado si vede la sicurezza ch'è nell'intendimento del traduttore e la
buona conoscenza che A. ha del linguaggio filosofico. Spesso compendia la materia.
Daltra parte, allarga tante volte la frase o il concetto e diluisce nel volgare
il testo latino per bisogno di ripetizioni e di esempi o di ampliamenti,
servendosi, come fa in principio, di qualche altro rifacimento, e aggiungendo
dichiarazioni proprie. A. non è un traduttore che si preoccupi dalla frase e
voglia mantenersi fedele alla parola o al tenore dell'esposizione. A. è un COMMENTATORE
E INTERPRETE occupato del contenuto FILOSOFICO che pur vuole spesso acconciare
dal lato espositivo nella maniera più rispondente, secondo lui, a'bisogni della
chiarezza e della semplicità. Generalmente palesa una certa libertà nel
compendiare e nel rendere il concetto con espressioni diverse dall'originale, come
quando, per es., A. traduce il latino “vita scientiæ et sapientiæ” come “vita
contemplatiua”. Qualche volta invece il concetto è più largamente definito per
l’aggiunta di qualche breve dichiarazione che serve a chiarirne il contenuto e
a precisarlo di più rispetto alle considerazioni precedenti. Cosi il testo dice
che l'uomo rifugge dai luoghi solitarî o deserti o ermi, ed A. aggiunge.
“Perchè l'uomo naturalmente ama compagnia. Altrove è detto che beatitudine è
cosa completa che non abbisogna. Delle parti più confuse e difficili a
intendersi fa una para-frasi, invertendo anche l'ordine delle idee e
disponendole in maniera più agevole per la intelligenza finale, seguito in
questo naturalmente da LATINI (si veda). Ecco un esempio. RERVM QVEDAM SVNT
COGNITE APVD NOST ET QVEDAM SVNT COGNITE APUD NATVRAM. OPORTET ERGO VT AMATOR SCIENTIE
CIVILIS PROMTUS SIT AD RES EXIMIAS ET SCIAT OPINIONES RECTAS. OPINIONES AVTEM
RECTE SVNT VT IN ARTE CIVILI INCIPIATVR A REBVS APVD NOS COGNITIS ET IN
CONSVETVDINIBVS PULCRIS ET HONESTIS FACTA SI ASSVETUDO PRINCIPIVM ENIM ESTET
INCEPTIO A QVA RES EST. EX MANIFESTO EXISTENTE SVFFICIENTER QVIA REST EST, NON
INDIGETVR PROPTER QVID RES EST. INDIGET AVTEM HOMO AD PROMPTITVDINEM
HABITATIONIS VERITATIS RERVM BONARVM AVT APTITVDINE BONE INSTRUMENTALITATES EX
QVA SCIAT VERVM AVT FORMA PER QVAM ACCIPANTVR PRINCIPIA RERVM HABEO FACILE. QVI
VERO NEVTRAM BABVERIT HARVM APTITVDINVM AVDIAT SERMONEM HOMERI POETE VBI DICIT
QVIDEM BONVS EST HIC AVTEM APTVS VT BONVM FIAT. La rendizione di A.: Sono cose le quali sono
manifeste alla natura, e sono cose le quali sono manifeste A NOI. Onde, in
questa scienza ch’e l’etica, si dee cominciare dalle cose le quali sono
manifeste a noi. L'uomo lo quale si dee studiare in questa scienza ed
apprendere, si dee ausare nelle cose buone e giuste e oneste. Onde gli conviene
avere l'anima sua naturalmente disposta a quella scienza. Ma quello uomo che
non hæ neuna di queste cose, è inutile a questa scienza – “d'altra cosa.” A.
chiarisce “di fuori da sè.” Altre aggiunte, come quelle di aggettivi, tendono
solo ad accrescere l'efficacia del concetto. D’altra parte, A. co-ordina spesso
le frasi sciolte e le considerazioni staccate del LATINO nella continuata
semplicità di un solo periodo. LATINI (si veda) riempie le lacune. Molte
espressioni trascurate d’A. o tralasciate a dirittura per difficoltà
d'intendimento sono supplite nel “Tresor.” Per es., il testo fa una triplice
divisione delle arti. QVEDAM HABENT SE HABITVDINEM GENERVM ET QVEDAM
HABITUDINEM SPECIERVM ET QVEDAM HABITVDINE INDIVIDVORUM. A. omette la terza categoria
degl’arti, notando solo le generali e le particolari. LATINI, traducendo anche
con finezza etimologica, completa. Altrove sono interi brani del tutto omessi
nel volgare che LATINI (si veda) restituisce alla esposizione del compendio
aristotelico. Diamone un esempio. Arsciuilis non pertinet La scienza da La
science de cité go pueronequeprosecuto- reggerelacittade ridesideriiatqueuicto-
non conviene a fantneàhomequivueille rie,eoquodamboigna- garzonenèauo mais A.
non vide nel compendio alessandrino il legame tra le due considerazioni,e omise
l'ultima;difatti il com pendiatore o il traduttore latino butta giù una frase
fuor di senso che non ha rapporto alcuno con l'originale; Aristotele dice:«non
è acconcio l'uditore giovane perchè èinesperto delle azioni che riguardano la
vita, e i discorsi della nostra verner ne afiert pas à en 1 risuntrerum
seculi, mocheseguitile cequeanduisontnonsa neque proficit ipsis. Non son ensuirre sa volonté, por
tem. que ilse torne me, enim intenuit ars ista scientiam sed conuersio. nem
hominis ad bonita- suevolontadi,pe- chant des choses dou sie rò che non cle:
car ceste ars ne qui savi nelle cose del ert pas la science de l'o secolo. à
bonté. scienza da queste si tolgono e intorno a
queste si aggirano – “οι λόγοι δ'εκ τούτων και περί τούτων”. Non pero tutte le lacune
sono supplite da LATINI. La omissione di qualche concetto importante nel
volgare è giustificata dal fatto ch'esso si trova altre volte particolarmente
espresso e dalla facilità di richiamarlo alla mente nei luoghi ov'esso è
ripetuto. Cosi avviene per il principio più volte enunciato della eccellenza
del bene voluto per sé, rispetto al bene voluto per altro. LATINI elimina pure
qualche ridondanza del volgare. Cosi nell’ “ARS DIRECTIVA CIVITATVM”, che A.
traduce “l'arte civile la quale insegna reggere la cittade”, LATINI omitte
‘civile’. Altre volte, invece, la espressione è più estesa in LATINI, come
quando traduce il semplice « princeps » riferito all'arte civile, mentre più
sicuro intendimento dell'espressione. Dice il testo che la beatitudine, come
l'uomo che dorme, non manifesta alcuna virtù quando l'uomo la possiede in abito
e non in atto. LATINI spande. E poco prima alla definizione della potenza
razionale ch'è più degna quando si è in atto, LATINI aggiunge “chè il bene non
è bene se non è fatto.” Talune espressioni proprie del volgarizzatore vanno
oltre i bisogni della chiarezza e la necessità dell'intendimento. Laddove il
testo latino dice del bene dell'anima ch'è il più degno di tutti, LATINI insere
il concetto della divinità mette di suo la ragione evidentemente per il bisogno
di ribadire il principio che pone in dio il sommo bene e di asservire il
trattato aristotelico alle idea il volgare dice solo « principale e
sovrana ». L'aggiunta comunemente è fatta per maggiore precisione e per
un con « colui che sta nel travito ». LATINI riconduce all'esatta
interpretazione. Nello sfrondare le ridondanze del volgare e nel ridurre la
materia alle proporzioni dell'originale latino, LATINI non sempre riesce a
cogliere l'esatto intendimento della parola, e riducendo smarrisce l'idea che
vi èracchiusa; ilt. Ha. QVEM AD MODVM PERITI AGONISTÆ EATQVE ROBVSTI CORONANTVR
QVIDEM ET ACCIPIVNT PALMAM APVD ACTVM AGONISET VICTORIE. A. traduce. A ė somigliante
di quello che sta nel travito a combattere, chè solamente quelli che combatte
et vince, quelli a la corona della vittoria, e fa vera illustrazione e IMPLICATUVRA
della frase finale. “E se alcuno uomo sia più forte di colui che vince, non à
perciò la corona, perch'egli sia più forte, s'egli non combatte, avvegna che
egli abbia la potenzia di vincere.” LATINI si ferma alla prima parte
trascurando il significato particolare dell’apud che qui sta per post. Pure
nell’intelligenza della parola latina il testo di LATINI è generalmente più
fine del volgare, nel quale tal volta si trova sconvolto l'ordine delle frasi e
delle idee [Un esempio: LATINO: difficile: A. impossibile. LATINO: in omnibus
artificibus. A.: nelle cose artificiali. lità contemporanee della fede. Generalmente
LATINI ha maggiori riguardi per il testo, perciò che riguarda i concetti
semplici e le singole espressioni. Cosi LATINI corregge la frase talvolta
malamente resa o ingiustamente compendiata e confusa d’A.. A. si restringe
talora a molto semplice espressione, impropria, che mal si adatta al concetto
latino, come quando traduce “periti agonistæ atque robusti” per deviazione dal
retto intendimento del latino. Riporto un brano. A. traduce la seconda parte
del periodo: ut pote. come se fosse esplicazione del concetto già espresso:
opera decora exerceat. LATINI la riferisce invece al precedente: absque
materia. Nel volgare italico et al volta anche, in maniera al quanto diversa, in
LATINI l'espressione latina è modificata quando apparisca troppo cruda. In fine
del compendio aristotelico si parla di uomini che non si possono correggere con
parole, per cui occorre “assiduatio verberum tam quam in bestia.” A. traduce
vagamente “pena.” LATINI è più civile ancora. Il volgarizzatore di LATINI tende
spesso, più che A., a modificare quelle che a lui sembrano asperità di giudizio
o durezze d'espressione. Così, nello stesso brano, de'delinquenti per natura, di
coloro che non possono correggersi con parole nė per castighi, dice il t. «tollendisunt
de medio», e A. letteralmente “son datorre di mezzo.” L. è meno severo. È un
riscontro casuale; ma sinoti ad ogni modo come l'urbanità dell'espressione del
volgare e la temperanza cortese di giudizio pare si accordi coi principi
positivi di un diritto criminale molto recente! E LATINI si accorda talvolta
con A. nel m o T. difficile est enim A. perciò che non homini ut opera
decora è possibile all'uomo exerceat absque mate ch'egli faccia belle o
riautpotequodha pereech'egliabbia beatpartemcompeten arte la quale si con tem
rerum bone uite pertinentiumetcopiam eabbondanzad'amici familieetparentumet
ediparenti,eprospe prosperitatemfortune. rità di ventura sanza venga a buona
vita, li beni di fuori. ne... 5 1 l'on face b e lesoevres, seiln'ia gran part
des choses avenables à bono vie et habondance d'avoir etd'amisetdeparenz, et
prosperité de fortu dificare le opinioni del testo, come quando fieri
amendue della loro vita comunale, rinnegano il detto d'Aristotele che l'ottimo
governo sia nel principato, affermando migliore il governo delle comunità. LATINI
qualche volta fa dei tagli al testo latino e al volgare, sopprimendone talune
espressioni non per amore di brevità, ma evidentemente perch'ei si rifiuta di
accoglierne il giudizio. Ciò risulta chiaro dalla costanza con cui
l'espressione è soppressa ogni qualvolta si presenti nell'intendimento VOLUTO
DALL’AUTORE. Una prova. Il compendio latino e con esso A. fa una duplice
divisione della virtù: virtù intellettuale, come sapienza, scienza, e prudenza,
e virtù morale come castità, larghezza, umiltà. E poi lo esempio. Quando noi
volemo lodare un uomo di virtude intellettuale diciamo. Questo è un savio uomo
intendevile e sottile. Quando volemo lodare un altro uomo di virtude morale,
diciamo. Questo è un casto uomo umile e largo. Nell'uno e nell'altro caso LATINI
sopprime a dirittura l'espressione che racchiude il concetto della umiltà. La
prima volta quando parla della virtù morale, soggiunge un po'in fastidito e non
curante del testo. Ed è curioso e notevole documento questo d’uno tra i più
illustri rappresentanti del laicato dotto del tempo, uomo di parte e d'azione
tenace e bellicosa e guelfo ardente, che si rifiuta cosi chiaramente di
accogliere l'umiltà tra le virtù morali, ribellandosi al giudizio che uomo
umile ė uomo virtuoso. C'è qui l'alto sentire del laico e lo spi [ex parte
moralium largum uel castum uel humilem. uel modestum eum appellamus. Rito sdegnoso
elaboria cavalleresca del tempo, che si annidava bensi nella fierezza solitaria
e nella severa integrita dell'uom casto, o sorrideva nel magnifico gesto
signorile dell'uom largo e cortese, ma non si acconciava a indossare il saio
dell'umile curvato. Quale dei due volgarizzatori ha merito maggiore e
chiaro. A. ha il merito della priorità. Compendia troppo, abbrevia, toglie
parte di considerazioni e di esempi al testo latino. LATINI che lavorò a
ppresso a lui è più fine e completo, e poi anche il suo volgarizzamento si
presta allora assai meglio del volgare d’A.. A. molte volte amplia o riduce la
materia. LATINI traduce con maggiore fedeltà sia nell'evitare le ripetizioni
inutili del volgare sia nel colmarne le lacune rispetto all'ori ginale latino,
le cui espressioni segue con attenzione e riproduce spesso con esattezza. Siamo
nel periodo dei compendi e dell'enciclopedia. Un compendio fatto è fatica ri
sparmiata al mæstro che deve dire le «chose universali ». LATINI, che ha
intelligenza fine, trasse il compendio italico
e l'incluse nell'opera sua e ne colma le lacune e ne affina i contorni e
lo ripuli di fronte al testo latino da cui egli pompeggiandosi dicea di aver
tratto la parte morale. E non fa cenno d’A.: egli accoglie, corregge, assimila;
d'altra parte è tutta una letteratura e una divulgazione anonima e i diritti di
proprietà non sono ancor sorti. C'è però da osservare che nel ritocco della
materia volgare LATINI non va oltre qualche singola espressione o frase,
trascurata o ridondante. Egli non si attenta mai a rimaneggiare e ad acconciare
la materia nel contenuto ideale, per il modo con cui le idee sono esposte nel
volgare o compendiate o disposte o interpretate. Questo dunque testimonia
onorevolmente che A. è allora ritenuto autorevole INTENDITORE – “come Hardie” –
Grice -- del trattato aristotelico anche da un uomo per cultura famoso come ser
LATINI, sebbene al grande discepolo di costui non appare ugualmente felice
dicitore del volgare. Tuttavia le modificazioni introdotte d’A. e assai più
ancora da LATINI non sono tali da farci notare la presenza di nuovi elementi
etici o l'azione modificatrice diretta del volgarizzatore spinto da una evoluta
coscienza sociale del tempo. I filosofi del medio evo accolgono e credono. Sono
ansiosi di notizie. Si accetta tutto, il vero e il falso, anzi più il falso che
il vero. Ad A. che scrive un sonetto sulla pietra filosofale risponde LATINI che
ragiona sulle virtù delle pietre. È ancora intatto l’edificio secolare che più
tardi la critica riduce nei frantumi donde sorge la nuova coscienza degl’individui
e delle genti. MAGLIABECH. Carmina magistri A. de florentia super scientiam
lapidis philosophorum ex Alberto Magno edita feliciter. Solvete i corpi inaqua
a tuti dico voi che intendete di far sol et luna delle duo aque poi prendete
l'una qual più vi piace e fate quel chio dico datella a ber a quel vostro
inimico senza manzare i dicho cosa alguna morto larete e riverso in bruna dentro
dal cuore del lion anticho poi su li fate la sua sepoltura si e in tal modo che
tuto si sfacia la polpa e lossa o tuta sua giuntura. La pietra aretee da poi questo
si facia de terra aqua et daqua terra fare così la pietra uuol multiplicare e
qual intendera ben sto sonetto sera signor de quel a chi e suzetto. Il
compendio alessandrino-arabo presta dunque la materia etica aristotelica al
volgare d'Italia; e la morale a Nicomaco puo cosi divenire libro di attualità
adoperato e sfruttato, nella valutazione dei principi etici e nella decisione
delle finalità umane, dai nuovi scrittori volgari: tra questi ė ALIGHIERI, a
cui A. da motivo di presentare in più nobil veste il volgar di
Toscana, e LATINI ha ad ora ad ora insegnato come l'uom s'eterna ». Questo saggio fa parte di un altro più esteso e
completo sui rifacimenti aristotelici latini e volgari, il quale spero verrà
presto a portare un contributo, non privo d'interesse, alla storia
ell'aristotelismo e a colmare qualche lacuna la conoscenza del movimento filosofico
che è prima: giacchè ne'volgarizzamenti e ne'rifacimenti sta i cultura;
seguendo il volgarizzarsi e il diffondersi della filosofia “classica”,
specialmente, noi troveremo i sentiero ascoso che va d’ALIGHIERI a PETRARCA Ma
ora ho fatto opera molto modesta; trattando solo le spi. ese questioni critiche
agitate intorno al compendio volgare ell'Etica, ho inteso risolvere taluni
dubbî, lungamente mante nūti, ed eliminare molti errori. Il lettore, che
attende forse uno studio riassuntivo sulla influenza della morale aristotelica,
comprende come questo sia possibile solo alla fine dell'opera, quando le
ricerche già fatte e i risultati ottenuti ci metteranno in grado di poter
volgere uno sguardo sicuro e sereno su quel grande campo dove la tradizione
aristotelica alligno rigogliosa e tenace ramificandosi e abbarbicandosi per una
serie copiosis. sima di rampolli viziosi e invadenti. Il compendio volgare
dell'Elica nicomachea e per la prima volta impresso a Lione a cura dell'editore
Tournes, su di un manoscritto appartenente a Corbinelli. Manni stimo inutile,
per le moltissime mende, la edizione,condotta inoltre su un solo manoscritto,e
ristampò il trattato aristotelico valendosi principalmente di II codici
Laurenziani. L'ultima ediz. è condotta da Berlan in base a un esemplare
dell'ediz. lionese emendato e comple tato da Zenone su un ms. Il compendio
volgare dell'Elica aristotelica è quello stesso che forma un ibro del Tresor
volgarizzato, secondo la comune opinione, da Giamboni. Pero si trova anche in
tutte le edizioni del Tesoro volgare: Treviso, Flandrino (de Lisa), Venezia, Fratelli
da Sabbio, Venezia, Sessa;Venezia, a cura di Carrer il quale nel libro VI seguì
anche le due edizioni, Lionese e del Manni;Bologna, ed.da Gaiter il quale si
valse di tutte le stampe precedenti, de'mss.del Tesoro e di raffronti continui
col testo originale Eppure di questo compendio manca una stampa che ne ripro
duca fedelmente e criticamente la lezione;giacchè a tutti gli editori dell'Etica,che
eseguirono le loro stampe sulle precedenti o solo col sussidio di qualche
ms.,sfuggi quella rigogliosa co munione di codici, che abbiam potuto noi
esaminare, da' quali [L'Etica d'Aristotile ridotta in compendio da Latini et
altre tradutioni et scritti di quei tempi. Con alcuni dotti Avvertimenti
intornoallalingua, Lione,Giov.deTornes. L'Etica d'Aristotile e la Rettorica di
M. Tullio aggiuntovi il libro de' Costumi di Catone, Firenze, Dall'edizione
lionese trasse la parte riguardante le quattro virtù un tal Luigi Ruozi che la
pubblicò modifican dola nell'ortografia e nella lezione: Trattato delle quattro
virtù cardinali compendiate da Latini sopra l'Eticad'Aristotile,Verona. Etica
d'Aristotile compendiata da ser Brunetto Latini e due leggende di autore
anonimo,Venezia, sarà possibile, con un esame complessivo, trarre nella sua
veste primitiva l'antico volgarizzamento toscano; d'altra parte gli editori più
recenti del Tesoro nel curare la lezione del VI libro, ritenendolo, com'era
naturale,volgarizzamento dal francese, come tutti gli altri libri, credettero
opportuno acconciarne la lezione anche inbase al testo francese,alterandone
laveste originaria e originale. Intorno a questo antico e primo compendio
volgare dell'Etica si è agitata una lunga e spinosa questione. Esso fin dalle
prime stampe porta il nome di Latini, e il fatto stesso poi che si trova
inserito nel testo volgare del Tresor, di cui costi tuisce appunto la materia
del VI libro, non ha mai fatto dubitare ai critici e agli editori ch'esso non
si debba considerare come una parte del Tesoro e quindi,come tutti gli altri
libri, volga rizzamento di Bono Giamboni.Solo il Mabillon, ritenendo che
Brunetto stesso avesse volgarizzato il suo Tresor, credeva che ciò fosse pure
avvenuto dell'Etica. Il primo dubbio intorno al traduttore del compendio
francese in toscano fu mosso dal Manni, indotto da una nota del Salviati il
quale « trovò in fronte « a un particolar testo dell'Etica: Qui comenza l'Elica
di Aristolile volgarizzata per mæstro A. medico e philosopho «dignissimo». Ad
ogni modo egli si acqueta volentieri all'au. torità della Crusca che cita il
Tesoro « tutto » stampato per traduzione di Bono Giamboni [Altri che vennero
dopo nota rono che qualcuno dei mss. dell'Etica indicava un mæstro A. come il
volgarizzatore dell'opera; difatti il Lami ritiene che ilvero traduttore sia A.,
e il Mebus,seguito dal Maffei, sostieneche la versione d’A., fatta probabil
mente assai prima,venisse più tardi inserita nel Tesoro volga. rizzato,in
tuttiglialtri libri, da Giamboni. Lo Chabaille, Museum Italicum, Paris. Novelle
letterarie, Firenze, Storia della lett. ital., 3a ediz., Firenze. VitaAmbrosii
Traversarii, che curò la edizione critica francese del Tresor, dalla perfetta
somiglianza ch'è tra l'Elica e il vi libro del Tesoro, deduce che Brunetto
avesse tradotto Aristotile in italiano prima ancora di voltarlo in francese, e
che quindi il compendio volgare del l'Etica dev'essere a lui attribuito
Paitoni, che scrisse sopra tale argomento un lungo articolo, finisce col non
sapere da che parte decidersi Zannoni ha spinto in vece la questione molto
avanti,servendosi di un passo del Conrito di Dante (Tratt.), dove è fatto cenno
di un volgarizzamento dal latino dell'Etica per opera di Mæstro A., ilcui
volgare Dante chiama «laido».Lo Zannoni ri tiene « che Brunetto voltasse in
francese il volgare di A. « e che il Giamboni a questo desse luogo nella sua
versione del Tesoro. Questa congetturaèancheaccoltadalPuc cinotti,ch'è stato il
più accanito difensore di A.. Sundby combatte tutte le opinioni
precedenti:quella delloCha. baille e dello Zannoni,opponendo loro le parole
stesse di Bru netto che,nella sua introduzione, assevera di aver tradotto dal
latino in francese,de latin en romans;quella del Mehus, citando il passo di
Dante il quale parla evidentemente di una traduzione dal latino. Egli reputa
diversa da quella che abbiamo la traduzione di A.,dicui sifacenno nel Convito; afferma
recisamente che Brunetto ha tradotto Aristotile dal latino in francese e che il
testo italiano dell'Etica è opera di Giamboni. Gaiter, ch'è il più recente editore
delTesoro, seguendo, come pare, la congettura di Chabaille, confonde la
Lilivresdou Tresor par Brunetto Latini, Paris, Biblioteca degli autori antichi
greci e latini volgarizzati, Venezia, Il Tesoretto e il Favolello di ser Latini,
Firenze, Prefazione,pp.XXXV sgg. Storia della medicina,Firenze, MARCHESI. Della
vita e delle opere di Brunetto Latini, Firenze,1884,pp.139 sgg. La stessa
opinione del Sundby aveva esposta prima V. Nannucci,Manuale, Firenze,
Nicomachea con ilLibro de'Vizi e delle Virtù e con il VI libro del Tesoro, il
quale « fu prima compilato e poscia dall'autore «annestato nella maggior parte
del Tesoretto»; e altrove ricorda una nota del Sorio che attribuiva a Brunetto
Latini il volgarizzamento dell'Elica d'Aristotile; del resto non fa cenno della
questione. Il Cecioni, perultimo, trattando delSecretum Secretorum, in una
breve digressione sull'Elica volgare, dopo avere riassunto tutte le
opinioni,assicura che A. deve averne fatto una traduzione, poichè altrimenti
sarebbe inesplicabile il motivo per cui parecchi codici di rispettabile
antichità attribui. scono la traduzione aA.;ma del resto afferma che la questione
circa il volgarizzamento dell'Etica, che noi possediamo, rimane indecisa nè si
potrà forse in alcun modo risolvere. Cosi scetticamente si chiude la questione,
irresoluta. Dopo l'esame dei codici dell'Etica volgare e latina e del Tesoro,
non è più lecito dubitare di poter decidere la questione in modo definitivo, e
a definirla concorrono parecchi dati positivi e sicuri; il primo, di capitale
importanza: la tradizione manoscritta. Il compendio volgare della Nicomachea ci
ha una ben larga ed evidente tradizione isolata.Nelle biblioteche di
Firenze,ove il latino del testo aristotelico ebbe per la prima volta veste
volgare e popolare conoscenza, ben ventidue codici ci attestano della larga
diffusione che il volgarizzamento ebbe come opera a sė, indipendente da altre
opere più larghe che la integrassero. A'codici fiorentini si aggiungono altri che
ho potuto esaminare: due Ambrosiani,tre Marciani,uno della Nazionale di Napoli,
uno della Comunale di Nicosia. Pochi altri mss. dell'Etica si trovano sparsi
per le biblioteche d'Italia, ma da ragguagli cortesi che ho potuto avere di
essi, è lecito dedurre come tutti quanti ade riscano per contenuto e per
lezione al nucleo centrale e fonda mentale dei mss.fiorentini.
Ediz.cit.del Tesoro, Prefaz.,p.xv. Propugnatore. Tutti icodici presentano una
redazione unica del volgarizzamento,che è quella stessa della edizione Manni,
con la quale ho fattolacollazione. Le varianti frequenti nella lezione, le
inversioni,le omissioni reciproche, gli scambi, le lacune del testo a stampa
sopra tutto, si debbono, oltre che alla bontà maggiore o minore del modello, a
sbagli de' trascrittori, e non valgono dinanzi alla somiglianza e conformità
dell'assieme.Molte lacune e accorciamenti si possono attribuire soltanto a
sbada taggine de'copisti per le gravi difettosità che ne vengono al senso, e
sono indubbiamente prodotte dalleespressioni consimili cheapocadistanza han
prodotto la facile omissione: giacchè il copista credendo di proseguire saltava
d'un tratto il brano. Accanto alle lacune, che dànno qualche volta luogo a
strane combinazioni d'idee,va notato un buon numero di ampliamenti, di cui
taluni sono ripetizioni di luoghi antecedenti.Qualche volta le parole si
trovano collocate in maniera diversa nel periodo o sostituite con altre e
mutate con lo scopo di abbreviare o modificare il costrutto (2 ); le molte
differenze ortografiche vann ori ferit e al tempo della trascrizione. Fra i
codici che più si accostano al testoastampa vanno notati 6.c.g.h.4.2.m.p.e
specialmente d ed e,iquali hanno pure comuni con il testo Manni molte
particolarità ortografiche.Le maggiori divergenze presentano i codd.7 e 1;in
quest'ultimo è notevole un'aggiunta al libro sesto Nel cod. V la lezione
presenta spiccate differenze, (1) È da osservare come nel secondo libro (cap.IX
del Tesoro) occorrano tre parole greche trascritte con caratteri
latini:19)apeyrocaliaoapeiorocalia(4.y.) edanche apeyrochilia eapherocalia: in
parecchi codici tale parola è mancante perchè manca il brano che la contiene;
eutrapeles (x.y.4.m.p.)o eutrapelos(2.6.7.d.e.f.g.h.)ed anche eutrapelo (6) ed
eutrapeleos (8); 3o recoples orechoples(e.g.) ed anche recupes (6) erecopls (2).Inqualchecodice,
come nel cod.1, il copista salta il passo dove avrebbe dovuto introdurre le
parole greche. Come si nota anche particolarmente nell'Ambr. C. 2 1, i n f.,
ch'è una trascrizione umanistica della seconda metà del '400, Manni, Gaiter,p.115:«in
questo cambio era grande brigæt specialmente nella seconda metà,dalla
lezione comune,e risente dell'influenza dell'opera francese di Brunetto e
dell'azione diretta modificatrice del trascrittore: l'influenza del francese in
questo codice, come nell'Ambros. c. 2 1 i n f., c i è attestata indubbiamente
dal fatto ch'essi vanno oltre il limite solito dell'Elica e proseguono con le
stesse parole, intorno alla differenza tra la retorica e la scienza di fare le
leggi, le quali chiudono il VI. libro del Tresor; ma possiam dire che per
quanto la lezione di V sia in molti punti alterata,non presenta tuttavia una
redazione diversa dalla comune dei mss.e delle stampe del Manni e del Gaiter,
alla quale ultima specialmente aderisce verso la fine.Dall'esame critico della
lezione risulta una somiglianza intima tra icodd.1 e 7; tenendo poi conto delle
particolarità più comuni, possiamo stabilirediversi gruppi di codici:a) 1.a.y.5.6.7.8.x.r.
9. che ci danno la più autorevole lezione;b) g.C.d.e.f.N.r. 2.s.;c) 4.m.p. Come
s'è detto, il compendio volgare dell'Etica si trova pure inserito nel
volgarizzamento del Tresor, di cui forma la prima metà della seconda parte, o
meglio il VI libro, secondo la indicazione comune.Dei venti codici del Tesoro
da me esaminati, dodici solamente contengono il trattato aristotelico: gli
altri sono mutili. La lezione dell'Etica ne' codici del Tesoro, tranne le
solite Jivergenze omai notate come comuni in questa redazione del l'Etica
volgare,è da collegarsi alla stessa famiglia dei codici isolati e de'testi a
stampa. C'è da notare nel complesso un numero maggioredivarianti, omissioni, aggiunte,
frequentissimi sbagli di trascrizione e qualche breve interpolazione del
copista «pero fue trovata una cosa c'aguagliasse et questa cosa si è il danaio.
« percio che l'opera di colui che fa la chasa si aghuaglia ad opere di colui «
che fæ i calzari col danaio; chè per lo danaio puote l'uomo donare et «
prendere le grandi cose e picciole, per cio che 'ldanaio è uno strumento
«perloquale ilgiudicepuotefaregiustizia, pero che el danaio èleggie
«senz'anima. ma il Giudice è leggi ech'à anima et dio glorioso si è leggie «
uniuersale d'ongni cosa », stesso,che sidistingue subito
permancanza di riscontroinaltri codici. Oltrere P, che servirono di base
allastampa fiorentina, uno de'codici più fedeli all'ediz.del Manni è
l'Ambros.G. 75 Sup. e Z,dove pur si trova una grande confusione causata dallo
spostamento di varie parti.Tra icodd.più scorretti dal lato ortografico e P. In
base alle particolarità più comuni icodd.del Tesoro si possonodividere
ne'seguenti gruppi:19) d.v.1. 2°)n. λ.π.φ.3ο)λ.μ.γ.Ρ.Ζ.ε.Ambr. Riassumendo, possiam
dire: la lezione del testo aristotelico volgare appare generalmente,
ne'codd.dell'Etica e del Tesoro, fluttuante,poco sicura.Ma lesolite differenze
nella espressione, nella struttura del periodo, le frequenti omissioni e
aggiunte di parola,gli spostamenti e le lacune,comuni alla maggior parte dei
codici,riguardano più d'ogni cosa la bontà della copia,la correttezza del
modello copiato, la esperienza o la libertà del l'amanuense, ma non
compromettono in alcun modo l'unità del volgarizzamento. La materia dell'Etica
si trova nella maggior parte dei codici ugualmente distribuita.Una grave
inversione presentano 1. d. e.s.; in essi il testo dap.6 Manni [Gaiter 25: compimentoe
forma di uirtu ] va d'un tratto a p. 18 (Gaiter 57: ciascuno huomo che ingiusto
et reo sie] e seguita sino a p.21 (Gait.66: E pero è bestial cosa seguir troppo
la dilettazione del tatto] donde torna indietroap.9 [Gait.34: La potenzia uæ'innanzi
all'acto] e prosegue sino a p. 18 [Gait. 57: dee l'uomo essere punilo];quindi
tornadinuovoap.6 (Gait.25:beatitudoècosa ferma et stabile] seguitando sino alla
fine del primo libro [p.8 M., 31 G.: Questièun casto huomo, humile et largo).È
determi nato cosi uno scambio reciproco, nel principio, de'libri secondo e
terzo. 'T 8 G. MARCHESI Un'altra inversione è nei codd.del Tesoro a.T. X.
u.In essi iltesto dell'Etica dalla fine del cap.XXIX (pp.M.35,G.101: l'uomo si
uiene a fine con grande sottilglianza de li suoi in tendimentine le cose le qualisonbuonema
questasottilglianza e cerlezza e sauere ragion diuina e le dilettationi che
l'uomo elegge per gratia d'altro.son queste ricchezza etc.... Jez.u]
corred'untrattoalcap.XXXVIII (pp.M.41,G.121] e prosegue sino al primo periodo
(pp.M. 43,G. 125:per a u e r e lungamente u i n t i li desideri della carne. Lo
magnanimo serue bene.....u]; quindi ritorna al cap.XXXIV (pp.M. 37, G.110) eva sino
al cap.XXXVIII (pp. M.41, G.120:inman. giare e in bere e in luxuria e tutle
dilectationi corporali ne la misura delle quali l'uomo elegge per se
medesimo.et quando ella e rea si detta callidita. ne le cose ree si come
incanta menti.....u]; dopo itre primi periodi del cap.XXXVIII torna cosi
nuovamente al cap.XXIX (pp.M. 35,G. 101). La stessa inversione nell'ordine della
materia h a il m s. V i s i a n i. I codici dell'Etica, in gran
parte,presentano la solita divisione della materia in dodici libri,che non di
rado è limitata alla semplice indicazione numerica,senza alcun accenno
all'argomento svolto (h. 4. ); in parecchi codici (y. c. e. h. 4. m. r.) l a
materia oltre che in libri è divisa in tanti capitoletti; in altri, soltanto in
rubriche le quali sono qualche volta costituite dalle stesse parole del
testo,come in 5 e 6.Altri co. dici mancano di qualunque divisione sia in libri
che in rubriche (p.8.Amb.). L'Ambr. C.21inf.,delsec.XV,presentala partizione
comune fino al decimo libro;la materia degli ultimi due è divisa in tre
capitoli (c.53':tracta di la beatitudine la quale puo hauere in questo mondo:
Di po la uirtu diciamo di labeatitudine; c.57 "tracta che se l'huomo ha buona
natura la ha da dio: sonno huomini che sonno buoni per pauura; c.57'di Gouernamento
dilacittade:lonobilehuomoetbuono regitore di la citta fa nobili et buoni
cittadini). In d in luogo di libri è detto fioretti, e cosi pure al principio
di v: Fioretti dell'Elicha d Aristotile del primo libro. . Dei codici del
Tesoro, taluni (e,u,n) non danno alcuna in dicazione sul modo con cui la
materia è distribuita; altri (a,a) hanno un elenco delle rubriche posto in
principio alla seconda parte dell'opera, vale a dire il VI libro; in 8 è un
rubricario generale posto in principio del Tesoro; le rubriche di t
fanno! parte del testo,e una divisione in capitoli si trova in r
(De leuile nominale de le tre potenzie del'anima Come lobene si diuide de la
polenzia dell'anima de la uerlude intellectuale di che l'omo desidera tre cose
|de le uerlude che ssono inabito comesitroualauerlude comel'omopuo farebene e
male de le tre isposizioni in operatione de le cose che conuienefareperforzætc.).
In due codici (Z eAmb.) tutta la materia del VI libro è divisa in cinque
capitoli: 1°) « Incipit «libro d'eticha Aristotile; Secondo capitolo d'elicha
Ari «stotile:sonooperationi lequali homo fa; 39)Terzo capilolo d'eticha: due
sono le specie d'amista; Quarto capitolo de « eticha: la dilectatione è nata e
notricata; Quinto capitolo « de etica: Dopo le uirtù diciamo oggimai della
beatitudine ».Altri codici presentano la divisione per libri o per rubriche che
si trova nelle stampe. Riferiamo il titolo originario dei dodici libri
dell’Etica, træn dolo da'codici più antichi ed autorevoli, del sec.XIV: «
Prologo « sopra l'etica d'Aristotile Qui si finisce il prologo di questo «
libro d'Aristotile. Qui appresso si comincia il primo libro e « tracta in
questo primo libro della felicitade: le uite nominate ve famose.IQui comincia
ilsecondo libro dell'Etica d'Aristo « tile e comincia a diterminare delle
uirtudi e primieramente « mostra che ongni uirtu che noi abbiamo è per
costumanza « d'opere:Concio siacosa che siano due uirtudi.|Qui comincia “il
terzo libro dell'etica e tratta dell'operazioni le quali sono “volontarie e che
non sono uolontarie: Sono operazioni le quali « l'uomo fæ sanza sua uolontade uqi
comincia il quarto libro « dell'etica d'Aristotile ove si ditermina di quella
uertude la « quale è detta uertude della liberalitade:Larghezza è mezzo in «
dare e in riceuere pecunia qui comincia il quinto libro dell'etica e determina
della giustizia la quale è uerti che dee « essere nell'operatione delli huomini:
Iustizia si è abilo lau « de u o l e qui comincia il sesto libro dell'Etica e
cominc a a d e « terminare delle uertudi intellettuali per ciò che infino a
quie «ellisiæditerminatodelleuirtudimorali:Due sonolespezie « delle
uirtudi |Qui si comincia il settimo libro dell'etica del « sommo filosofo
Aristotile e ditermina della uertude la quale è detta uertude della contenenza:
Li uizii de costumi molto « reil Qui comincia l'ottavo libro dell'etica
d'Aristotile nel quale «ditermina dell'amistade la quale è cosa necessaria
all'uomo: « Amistade si è una delle uertudi dell'uomo IQui comincia il nono
libro dell'etica d'Aristotile il quale ditermina della pro «prietade
dell'amistade: Lo conueneuole agualliamento si « aguallia le spezie Qui
comincia il decimo libro dell'etica d'Aristotile nel quale tratta della
dilettazione e della felicitade « per ciò che pare che queste due cose si sieno
fine de la dilet. « tazione et dice qui che la dilectazione si è fine
dell'operazione virtuosa:La diletlazionesiènatænotricata|Quicomincia «
l'undecimo libro dell'etica d'Aristotile nel quale ditermina della beatitudine
la quale puote l'uomo auere in questa uita. Et dice « qui che la beatitudine è
cosa perfecta: Dopo le uirtudi di c i a m o oggi mai | Qui comincia il dodecimo
libro dell'Etica. E t determina come l'uomo il quale à buona natura si l'æ
dalla « grazia di dio, et questi cotali sono disposti ad acquistare uer. « tudi:
Sono uomini che sono buoni per natura ». Del rubricario più comune diamo per
saggio quello del primo libro:«Perqualescienziașireggelacittade delleuiteet «
quale è laudabile |di due modi di bene che è beatitudine «delle potentie naturali
dell'anima demeriti delle operationi adi tre spezie del bene Comes'acquistætconserualabeati.
« tudine |Onde uiene la beatitudine e di che à bisognio chi « non puote auere
la beatitudine per che /che cose sono aspre « a sofferire |come æ similitudine
l'uomo felice con dio onde « procede felicitade in che comunica l'uomo colle
piante et colle «bestieetincheno dell'animacom'æcontrarimouimenti « della uertu
intellettuale e della morale ».Nel codice Marciano II,141,la materia è diversamente
distribuita in dodici «parti»; la prima non è indicata,poi «della forteça:
Diciamo omai di « ciascuno habito della liberalità: largheça è meço in dare «
del conuersare: dopo questo dobbiamo dire di quelle cose della giustitia: Justicia
si è habilol audabile dello intellecto dell'anima: Due sono le specie delle
uirtudi |de tre uitii primi: «Vilii e costumi molto rei dell'amistade: Amistade
e una «delle uirtude dell'uomo e d'iddio |dello aguagliamento della «amistade: Lo
conueneuole ad guagliamento della dilectatione: « La dilectatione si è nata e nutricala
della beatitudine:Quando «noiauemodeterminato delcorreggimentodeVitii.depaura.
« della pena: La scienzia delle uirtudi si a questa utilitade ». Il compendio
volgare del Trattato Aristotelico, come si può desumere dall'incipit e
dall'esplicit di ogni codice,veniva più comunemente indicato col titolo di Ethica
del Lizio, ed anche: Etica del sommo phylosofo Aristotile; molto più raramente:
Fioretti dell'Elica d'Aristotile. Occorre anche talvolta la indi cazione latina:
Elhica Aristotilis, e più sovente quella di Liber Ethicorum. Ne' codici del
Tesoro il titolo più comune è pure:
l'Etichad'Aristotile,edanche:l'EtichadelgrandesauioAri slotile;in parecchi si
trova l'indicazione latina:Ethica Ari stolilis. Nei codici dell'Etica manca
ogni notizia intorno alle necessità e a'criteri dell'opera.Fa eccezione
ilcod.Marciano II, 134 il quale contiene, solo fra tutti, l'epistola proemiale
del volgarizzatore ad un amico,che a quella fatica del tradurre avevalo
indotto. « Incipit proemium transductoris huius operis « uulgaris.— Più uolte
essendo amicho mio da la tua gintileza « con grande instanzia infestato
l'Eticha Iconomicha et politicha de « Aristotile de lingua latina in parlar
(moderno] et uulgar ti « transducha. La quale richiesta considerando truouo la
mala «sua axeuolezza uincere ogny mia faculta.Et anche hauendo « udito altri circha
a questa opera auere insudato non m'è pa «ruto douerse seguire per fugire la
riprensione de molti.Ma pure la forza de la tua amicizia è tanta che mi
constringie et fami intraprendere quello che mi cognosco impossibile.Onde la
gratia superna inuocho al principio di tale faticha doue « mi mecto seguendo el
uoler tuo iusta mia possa. Et perche el « dire de Aristotile è scropoloso et
stranio molto dal modo del « nostro parlare, pure quanto potro ad esso mi
acostero.Alcuna « uolta le sue proprie parole et alcun altra el senso
dimostraro «suzinto,seruando la uerità del testo.Ma auanty che questo « cominci
alquanto della persona et essere suo toccharo ad cio « che le sue opere
pergrate siano da te riceuute ». Il prologo non ci porge alcuna notizia
storica,e del resto sulla sua auten ticità ci lascia grandemente perplessi. Il
fatto che,tra tanti manoscritti dell'Etica, noi lo troviamo solo in
questo,abbastanza tardivo,della fine del sec.XV,può destare grave sospetto,ma
non sarebbe ad ogni modo motivo sufficiente per indurci a rin negarlo
senz'altro. Ben altri motivi non ci permettono di prestar fede all'autenticità
del proemio Marciano. In esso il volgarizza tore dice di aver udito « altri
circa a questa opera avere in « sudato »; l'espressione è molto ambigua;
giacchè o si riferisce a precedenti volgarizzatori,e ciò non è possibile perchè
A. fu il primo a volgarizzar l'Etica, o a traduttori latini; ma per quanto
sappiam noi in nessuna delle traduzioni latinedella Ni comachea si leggono
accenni alle difficoltà del traduttore; solo Ermanno ilTedesco,nel
prologodellasuaversione delCommen. tario d'Averroè alla Poetica
d'Aristotele,dice della grande dif ficoltà da lui trovata « propter
disconuenientiam modi metrifi «candiingræco cum modometrificandiinarabo, etpropter
auocabulorumobscuritates»; ma ci sembrer ebbe affatto inopportuno scorgere nel
prologo alla Poetica di Ermanno un rapport col prologo all'Etica diA.. Epoinel1200eneltre.
cento è ben difficile trovare la nota individuale,sopratutto nelle traduzioni;
furon più tardi gli umanisti che alteri del merito proprio rivelarono a quattro
venti le difficoltà del lavoro da essi intrapreso e compiuto; del resto tutta
la parte del pro logo, di cui ora parliamo,si connette con la præmunitio tanto
comune agli scrittori del quattrocento, i quali nell'introduzione alle opere
loro ci ricordano spesso la difficoltà dell'argomento e il timore della critica
e la debolezza dell'ingegno e il riguardo Il prologo è pubblicato dal Jourdain
(Recherches critiques sur l'age et l'origine des traductions,latines d'Aristote,
Paris). amorevole per l'amico che la vince sulle giuste
considerazioni e preoccupazioni dell'autore.È questo,ripeto,un motivo comune
agli umanisti,a'quali l'aveva comunicato lo spirito retorico delle composizioni
proemiali latine. Lo stile poi del proemio è assai diverso dal volgare di A.,
ch'è quale potea rampollare schietto di mezzo all'efflorescenza letteraria
dell'ultimo dugento.Lo stile del prologo marciano ri. sente molto invece di
quel volgare farneticante da scuola e da sacrestia che pretendea ingentilirsi
nel '400 signorilmente, usur pando gli addobbi lessicali delle forme latine.C'è
in fine un ultimo argomento decisivo. Nel titolo dell'epistola proemiale è
adoperata la parola transductoris,e nel volgare stesso del pro logo si trova
adoperato il verbo transducere. Ora nel sec. XIII e XIV la espressione latina
traducere non è ancora passata col significato moderno nel latino e nel volgare;
il primo, come pare, ad usare il vocabolo traducere con il significato di
tradurre, fu il Bruni; d'allora soltanto s'introdusse nel latino e quindi
nell'italiano (1). Sicchè possiamo affermare che il prologo Marciano è di avan.
zata fattura quattrocentina.Come sia comparso non sappiamo, nè torna conto
indagare e congetturare sulle cause e sulle ori gini di tutte
lescritturecheapparveroingrande numero,affac cendate e moleste,in quel tempo di
continue esercitazioni re toriche e di finzioni letterarie. Stabilita la unità
del volgarizzamento contenuto ne'codd.del l'Eticædel Tesoro,passiamooramai
allaindicazionedell'autore. De' ventinove codici dell'Elica, da me esaminati,
ventidue sono anonimi;uno,del sec.XIV (5), attribuisce la traduzione a un mæstro
Giovanni Min.; sei codici (4.y.&.g.m.p.) danno il nome del volgarizzatore
dell'Elica, traslatata in uulgari a magistro A.. Vedi R. SABBADINI,Del tradurre
iclassici antichi in Italia,in Atene e Roma,an.III,no 19-20,col.202. Explicitethica
Aristotilis translate amgio iohemin. vulgare. deo gratias. Dei codici del
Tesoro,tre del sec.XIV,oltre la solita attri. buzione a Brunetto in principio
di tutta l'opera, alla fine del sesto libro ci danno un'indicazione particolare
del volgarizzatore, la quale è sfuggita a tutti gli studiosi del Tesoro ed è di
molta importanza per la questione agitata intorno all'autore del com pendio
volgare. Ecco dunque le soscrizioni.a:Explicit etica Aristotilis a magistro A.
in uulgare traslala; T: Explicit hetica Aristotilis a magistro A. in uolgare
trasleclata; 1:Explicit Elicha Aristotilis a magistro Tadeo in uulghari
traslatlata. Dalla tradizione manoscritta si può dunque ricavare: 1o) che
ilcompendio volgare della Nicomachea ebbe una larghissima diffusione come testo
particolare, indipendente da altra opera; 2°)ch'esso,quando non correva
anonimo,veniva comunemente attribuito a mæstro A.. Ma da'codici del Tesoro
balza fuori un nuovo cumulo d'in dizi gravi e sicuri, che infirmano seriamente
l'unità del vol garizzamento dell'opera di Brunetto,attribuito sempre con
cordemente per intero a Bono Giamboni: 19) Parecchi codici del sec. XIV danno,
come s'è visto, il nome del volgarizzatore del l'Etica: Mæstro A.; la
soscrizione finale, perchè non si possa ritenere aggiunta posteriore,è sempre
di mano del copista che ha trascritto il codice per intero.Questà attribuzione
è l'unicachesitroviintuttoilms.,oltreaquellageneralecon cui va riferito il
complesso dell'opera a Brunetto.Ciò è di spe. ciale importanza per noi:
difatti, giacchè il copista solo per l'Etica sente il bisogno di riferire il
nome del traduttore, vuol dire ch'ei sapeva che solo quella parte del Tesoro
rimaneva estranea al volgarizzamento generale dell'opera, e il volgare di A. vi
si trovava come inserito. In qualche codice anepigr. e mutilo,come
a,l'attribuzione a A. è anzi l'unica indica zione di autore che sitrovi in
tutta l'opera.2 ) Di solitoicodici mutili si fermano prima di giungere
all'Elica; d'altra parte pa recchi mss.del Tesoro si arrestano alla fine del
compendio aristotelico. Ciò dimostra che questo costituiva come un punto
di fermata, era un libro introdotto a parte, si che poteva benis simo
arrestare al libro V l'amanuense che fosse sprovvisto del. l'originale, o
determinare una pausa nella trascrizione,alla fine del libroVI. Nel
cod.r,miscellaneo,l'Elica è preceduta dal VII libro del Tesoro: si può notare
dunque il distacco ch'è tra le due parti, non considerate come legate e
dipendenti nella stessa opera. In qualche ms.,come ri,precede una tavola della
materia che giunge sino a tutto il libro V, escludendo la rimanente, dall'Elica
in poi; e ciò dimostra ancora che l'Elica arrestava quasi il corso regolare
dell'opera volgarizzata ed era estraneaalvolgarizzamento del Tesoro. Un
particolare fon damentale: il cod.d ha questa soscrizione dell'amanuense,al
l'Etica: Ecplicit l'Etica Aristotile in questo tanto che io noe trouata; ciò
significa chiaramente che il copista, per trascrivere la parte dell'opera che
comprendeva il compendio aristotelico, era obbligato a ricorrere ad un altro
testo che non era quello unico del Tesoro. Ci resta finalmente da osservare che
mentre tutti i codici del Tesoro differiscono quasi sempre e in m a niera
notevole nella lezione, mostrano invece una concordanza molto maggiore
nell'Etica; vuol dire che si tratta di un testo particolarmente prefisso
a'trascrittori.Ciò dimostra ancora la maggiore divulgazione del testo dell'Etica
lacui lezione più re golare, rispetto alla lezione caotica del Tesoro, era
fissata da una più grande diffusione delle copie. Concludiamo questa prima
parte. Dall'esame dei codici e della materia manoscritta ci risulta che
esisteva nel secolo XIV un compendio volgare della Nicomachea, attribuito a mæstro
A., che noi troviamo anche inserito integralmente nel Tresor vol garizzato, di
cui costituisce il VI libro. Ma nèicodicidelTesoro,nèquellidell'Eticacidicono
da Il Sorio da questo particolare, ch'egli osserva nel cod. Ambr., trasse
argomento principale diattaccoallaautenticità delVIIlibrodel Tesoro.La opinione
del Sorio fu combattuta dal Gaiter (Propugnatore) con argomenti dubbi ed
indecisi: l'uno e l'altro eran difatti fuor di strada. che volgarizzó A..La
questione è importantissima;data la identità tra l'Elica e il volgare del VI
libro del Tresor non resta che una questione di priorità:0 Brunetto si servi di
A., o A. di Brunetto; vale a dire,o mæstro A. volgarizzo il VI libro del
Tresor, il quale ebbe così tradizione e fortuna isolata da tutto il resto del
volgarizzamento, ch'è opera di Bono; o Brunetto si servi per il suo Compendio
francese del volgare di A.,che fu introdotto però intatto nel Tesoro, in luogo
di un volgarizzamento diretto dal francese. Nel Convito di Dante è unpasso che
spinge molto avanti la questione: Tratt.I,cap.10:«La gelosia dell'amico fa
l'uomo «sollecito a lunga provvedenza: onde pensando che perlo desiderio di
intendere queste Canzoni alcuno inletterato avrebbe «fatto il comento latino
trasmutare in volgare,e temendo che 'l volgare non fosse stato posto per alcuno
che l'avesse laido « fatto parere, come fece quelli che trasmutò il latino del
«l'Etica,ciò fu A. Ippocratista,provvididiponere «lui,fidandomi di me più che
d'un altro».IlSundby,che vuole ad ogni costo ritenere di Bono tutto il
volgarizzamento del Tresor,se ne sbriga assai piacevolmente: « Nel caso adunque
che il passo succitato del Convilo fosse esatto in tutte le sue « parti, la
cosa sarebbe chiarissima: la traduzione di A. dovrebbe essere affatto diversa
di quella di cui noi ci occu « piamo,e questa si dovrebbe attribuire a Bono
Giamboni. E non ci sarebbe niente da dire; resterebbe però fin ora da
spiegare,se non altro,la tradizione manoscritta che,laddove non tace,dà il nome
del volgarizzatore:A.,accordandosi col passo di Dante; e d'altra parte non
sarebbe lecito trascurare quegl'indizi che non danno certamente più come sicura
l'unità delvolgarizzamentodiBono.Nedevefareombra l'appellativo di « laido »
dato da Dante al volgare di A., giacchè per MARCHESI. certo questo non è
il modello migliore di prosa trecentistica, e la opinione del Nannucci,di cui
si fa forte il Sundby,può ri tenersi giustificata da un sistema di ammirazione
proprio della fede e dell'entusiasmo delle generazioni passate per tutti i do
cumenti letterarî del nostro trecento. Tutto dunque ci fa credere che il
volgarizzatore sia mæstro A.: Esiste una sola Etica volgare in tutti i codici;
2 )i codici che portano il nome del volgarizzatore l'attribuiscono a mæstro A.;
la dichiarazione esplicita di Dante, il quale ha l'aria di parlarne come
dell'unico, comunemente noto, volgarizzamento ch'esistesse a suo tempo
dell'Etica latina. kesta anche esclusa la prima congettura,che A. volgarizzasse
il francese di Brunetto; Dante ce lo dice esplicitamente: « colui « che
trasmutó lo latino dell'Etica. Del resto, a prescinder da altriargomenti
principali e decisivi, ch'esporremosubito,ilcom: pendio volgare dell'Etica non
può ritenersi come volgarizzamento del VI libro del Tresor per le frequenti
differenze, non solo di forma ma di sostanza, che presenta rispetto al testo
francese: e sono omissioni o aggiunte di pensieri,di esempi,di considerazioni,
ampliamenti o riduzioni di concetti: e tutto questo non può ammettersi nella
traduzione di un'opera,a meno che il traduttore non abbia voluto rimaneggiare
per conto suo l'originale. Dunque A. volgarizzò e compendio da una delle
redazioni latine del testo aristotelico, la quale e nota allora sotto il nome
di Liber Ethicorum, nome ch'è anche particolarmente proprio di un'altra
redazione latina della Nicomachea, letterale e molto oscura, cui il commento
tomistico a v e a spinto allora alla massim a diffusione. Dal testo tomistico
difatti il Sundby fa derivare il compendio francese e volgare dell'Elica,e pone
iraffronti;ve dremo appresso come il critico danese si sia messo su una falsa
(1)Manuale della lett.italiana,vol.I,p.382. IlN. trova anzi l'Etica «adorna di
molta purezza e semplicità di stile». MARCHESI. strada.Ad ogni modo che A. abbia tradotto
direttamente dal Jatino ci è confermato dal confronto tra l'Etica volgare e il
Liber Ethicorum da cui dipende; se avessimo scarsezza di argomenti o mancanza
di prove sicure potremmo anche valerci delle soscri zioni di taluni codici
dell'Etica e del Tesoro che indicano il nostro volgarizzamento come Elhica
Aristotilis e più spesso Liber Ethi corum,facendoci sospettare lasua
provenienza dal testo latino. Di mæstro A. i codici (4. y.) ci dicono soltanto
che su « florentino » e Dante aggiunge ch'ei fu medico, « Ippocratista ». Di un
A., d'Alderotto, fiorentino, fisico massimo, scrive, con la solita
ingenuità,una breve vita Filippo Villani,il quale ce lo descrive di parenti
oscuri, poverissimo, dedito ai mestieri più vili, e col cerebro oppilato e
tenebroso fino ai trent'anni. Passati gli anni trenta « si consumarono quegli
umori grossi; A. divenne un altro uomo e rivelòilsuo ingegno dedicandosi allo
studio delle arti liberali,della filosofia e per ultimo della medicina,che
insegnò pubblicamente a Bo logna. Dice il Villani: « Fu costui de' primi infra'
moderni che adimostrò le segretissime cose dell'arti nascoste sotto i detti «
degli autori, e la spinosa terra e inculta solcando all'ottimo « futuro seme
apparecchiò. Questi, sprezzati alcun tempo i so pravvegnenti guadagni,cupido di
gloria e d'onore,si dette a « commentare gli autori di medicina. Nella qual
cosa fu di tanta «autorità,che quello ch'egli scrisse è tenuto per ordinarie
achiose,lequali furono postene'principali libridimedicina. E fu in quell'arte
di tanta reputazione, quanto nelle civili « leggi fu Accorso, al quale egli fu contemporaneo.
Il Villani ci riferisce inoltre un aneddoto molto curioso, riportato poi da Le
Vite d'uomini illustri Fiorentini,colle annotazioni del co.G. M a z
zucbelli,Firenze, Biscioni, in una nota sopra A., inserita nelle Prose di Dante
e del Boccaccio, Firenze, 1723, vuol dimostrare che A. era di famiglia
cittadinesca,che possedeva effetti stabilieche prese per moglie una de'Ri
goletti, il cui padre aveva il titolo di dominus, che in quei tempi si con
cedevasoltantoa cavalieri.Cfr. notadelMazzuchelli, MARCHESI Negri e dal
Fabricio, intorno agli eccessivi compensi che A. « tenuto come un altro
Ippocrate da'Signori d'Italia in « fermi » (3), esigeva per le sue visite
giornaliere; e ci narra che chiamato a Roma dal pontefice,Onorio IV,richiese
cento ducati d'oro al giorno; invece,dopo la guarigione del pontefice, n'ebbe
in compenso diecimila. Villani non ci dà alcun cenno cronologico;dice solo che
fu seppellito a Bologna d'anni ottanta.Giovanni Villani (Storie,seguito dal Fa.
bricio, dal Poccianti e dal Cinelli, pone l'anno della morte nel 1303;l'Alidosi
sostiene invece che A. morisse,il Biscioni e il Negri, per approssimazione,
nella fine del sec.XIII.Delle opere di A. ci attesta il Mazzu chelli ch'esiste
una raccolta a stampa col titolo « Expositiones «inarduumAphorismorum Hippocratisvolumen.
Indivinum « Prognosticorum Hippocratis librum. In præclarum regi. a minis
acutorum Hippocratis opus. In subtilissimum Iohan «nitiiIsagogarum
libellumIohan.Bapt.Nicollini Salodiensis a operainluceme missæ.Venetis, apud Luc.Antonium
Iuntam. Scrisse anche in ci. Galeni Artem parvam commen taria, Neapoli,
Mazzuchelli, che attribuisce anch'egli a A. la traduzione in volgare dell'Elica
d'Aristotile, aggiunge che nella libreria dei pp.Minori Osservanti in Cesena si
con serva un ms.intitolato Magistri Taddei Glossæ in Galenum, eiusdem
Aphorismata. Di mæstro A. si conservano in al cuni codici parecchi trattatelli
medicinali e fra questi è par Istoria degli Scrittori Fiorentini, Ferrara,
Biblioth. latina mediæ etinfimæætatis, Patavii, Notissimo anche un distico del
Verino (de illustr.urbis Florent., lib.I)su A.: «Est quoque Thadæi celeberrima
fama,non alter For « sitan in medica reperitur ditior arte ». A proposito di
questo aneddoto vedi la erudita nota del Mazzuchelli, Cfr. Mazzuchelli, Biblioteca
Angelica (Roma),Thaddæi de florentia ticolarmente diffuso un libellus de
seruanda sanitate o libellu's conseruandæ sanitatis, dedicato a Corso Donati. Fra
i m a noscritti che lo comprendono è di speciale importanza l'Ambrosiano J. 108
sup.,del sec.XIII per una nota posta in principio, di mano dello stesso copista
che trascrisse tutto il codice: « Iste « libellus scriptus et compositus per
probissimum et prudentis « simum uirum dominum magistrum Taddeum de Flor.
doctorem « in arte medicine in ciuitate bononie transmissus nobili militi «
domino Curso donati de florentia », È notevole anche il proemio del trattato
medicinale:« Quoniam passibilis et mutabilis a existit humani corporis
conditio, complexionem et consisten « tiam quam a principio sue originis homo
habuit non seruando, « necessarium extitit artem et scientiam inuenire,per quam
in « sanitate et natura et corpus hominis conseruetur, motus igitur « precibus
et amore cuiusdam mei amici,multa mihi dilectionis «teneritate coniuncti nec
non pro utilitate aliorum hominum, « more uiuentium bestiarum ad conseruationem
sanitatis et uite « in humanis corporibus libellum medicinalem inuenire
disposui « de libris et dictis philosophorum breuiter compilatum ». Da queste
ultime parole risulta ancor meglio l'identità ch'è tra l'autore del libellus,
studioso sfruttatore e compendiatore di m a teria filosofica e l'autore del
nostro compendio volgare dell'Etica. Il trattato di A.,molto curioso,contiene
quei precetti igienici che bisognerebbe osservare fin dal principio della
giornata in torno alle abluzioni del capo,all'igiene della bocca,dello stomaco,
libellus medicinalis; Magistri Thaddæi de florentia de r e giminesanitatis; Curacrepotorummagni
Tadeiabeocom posita. Riccardiana, Magliabechiana,cl.21,cod.62;141. Membran.a
due colonne;contiene:19) Vegetii de re militari libri; Isiderus de bellis; a
c.31a segue la notissima epistola de cura et modo rei familiaris di Bernardo,al
gratioso militi et felici domino Raimundo domino CastriAmbrosii;a c.32 asegue
iltrattatodiA..Ilcod.consta d icc. 3 5 n. num., l a c. 3 4 * e 3 5 a v u o t e.
Questo cod. si trova legato assieme con un altro membr. dello stesso formato, di
cc.19 scritte perdisteso,con tenente i Saturnali di Macrobio. MARCHESI
de'cibi,delle bevande, della digestione,del sonno;sulle condi zioni del corpo
umano durante le diverse stagioni e quindi sulla igiene delle stagioni. Segue a
dire della efficacia terapeutica, molto larga,dialcune pillole,da prendersi
avanti o anche dopo ilcibo,compostedaun«frateRobertodeAlamania»conuna quantità
di sostanze vegetali e aromatiche. La parte trascritta nel cod.Ambros. finisce
con la ricetta adatta «ad faciendum «cristerepropassioneyliaca». Questo A. famosissimo
medico del suotempoedanchepoeta(1), autoredicommentari e di trattati,
insegnante l'arte della medicina nell'Accademia di
Bologna,fualtresìquellochetradussedallatinoinvolgare il compendio dell'Etica
aristotelica. E veniamo al VI libro del Tresor. È noto ed è stato detto da
tutti gli editori e gli studiosi del Tresor, ch'esso risulta da m o l teplici e
varie compilazioni fatte in diverso tempo da Brunetto, su scrittori
specialmente latini; poi riassunte e combinate nel compendio enciclopedico
francese del mæstro di Dante. Lo C h a baille anzi afferma che Brunetto avea
preludiato alla compila zione del Tresor con opuscoli separati in prosa e in
verso, fra cui l'Elica d'Aristotile,ch'egli dunque suppone,come parecchi
altri,compendiata e volgarizzata da Brunetto Latini,prima della compilazione
del Tresor (2). Ma su ciò non vale la pena discu tere,giacchè sarebbe
combattere contro imulini a vento. Magliabech. Tadæi magistri de Florentia
Carmina. Op. cit., Introd., p. vi. Riferiamo un passostesso di Brunetto:Liv.I,cap.I:«Il «
(cist livres) est autressi comme une bresche de miel cueillie « de diverses
flors; car cist livres est compilés seulement de « mervilleus diz des autors
qui devant nostre tens ont traitié « de philosophie, chascuns selonc ce qu'il
en savoit partie; car « toute ne la pueent savoir home terrien, porce que
philosophie « est la racine d'où croissent toutes les sciences que home
peut savoir. Egli dunque non dice di essersi limitato
a raccogliere e tradurre scritti latini soltanto; e si deve intendere anche di
volgari. Fra questi è il compendio dell'Etica di mæstro A. che Brunetto,
valendosi anche di raffronti continui con il testo latino originale,trasporto
nel VI libro del suo Tresor. Allo Zannoni, il quale riteneva che A. avesse
tradotto Aristotile di latino in italiano e che Brunetto poscia voltasse il
testo di A., Sundby oppone le parole di Brunetto, che nel Prologo della seconda
parte (il Tesoro volgare) dichiara di tradurre il libro d'Aristotile de latin
en romans. Per venire in aiuto di quanto abbiamo asserito non è necessario
ricorrere alla sottile nota del Paitoni, ilquale sosteneva che il volgare
italiano si chiamava anche « latino »; giacchè essendosi Brunetto servito non
solo del volgare di A., ma anche,come vedremo,della redazione originale latina,anzi
avendo acconciato e rifatto in molti punti il volgare in base al testo latino,
è chiaro come abbia potuto dire d'aver tratto il suo compendio dal latino,che
del resto è anche l'originale dell'Etica diA.. E poniamo le nostre conclusioni.
Il compendio volgare dell'Etica è la traduzione che mæstro A. fece di una delle
redazioni latine del testoaristotelico,laquale ci è rimasta.La traduzione è in
gran parte fedele al contenuto, nella forma è condotta al quanto liberamente:
spesso il traduttore compendia la materia, d'altra parte allarga sempre la
frase o il concetto e diluisce nel volgare il testo latino per bisogno di
ripetizioni o di esempi o di ampliamenti, servendosi, come fa in principio,di
qualche altro rifacimento o aggiungendo delle dichiarazioni proprie.A. non è un
traduttore letterale che si preoccupi della frase e voglia mantenersi fedele
alla parola o al tenore dell'esposizione; egli I codici del Tesoro traducono «
di latino in uolgare », ovvero « di « latino in romanzo » o « di gramaticha in
uolgare ». è solo un interprete occupato del contenuto che pur vuole p a
recchie volte acconciare dal lato espositivo nella maniera più rispondente,
secondo lui, a'bisogni della chiarezza e della s e m plicità.È l'originale una
traduzione latina, di un compendio alessandrino-arabo della Nicomachea, elementarissimo,
semplice e piano, ridotto a una esposizione riassuntiva molto breve, e talvolta
anche efficace, nonostante l'incertezza e la poca fedeltà di talune
espressioni. Molti luoghi fondamentali, anzi diciam pure tutte le parti più
notevoli per gravità e serietà di enunciati, per difficoltà di contenuto
critico, vengono senz'altro omesse interamente, o ri dotte alla loro ultima e
più semplice espressione. Cosi, per dare qualche esempio, nel 1° libro è
saltato il passo importante al principio del cap.3,in cui Aristotile nega la
possibilità diotte. nere una precisione assoluta nei giudizi e pone la
necessità del giudizio per approssimazione; altra omissione considerevole è
quella della prima metà del cap.4, in cui Aristotile passa alla definizione del
supremo de beni, alla critica del concetto di felicità – cf. H. P. Grice, “Some
reflections on ends and happiness” -- , e si accinge a discutere la dottrina
platonica del bene assoluto; è tralasciata pure tutta la confutazione della
dottrina platonica delle idee (cap.VI) e l'astrusa enunciazione fondamen tale
dell'Eudaluovía aristotelica considerata come bene vero ed assoluto che
comprende in sè, unificandoli, tutti gli altri beni necessari all'autarchia
della vita; e della seguente trattazione intorno a'principii non è alcun cenno
nel compendio. Dei brani accolti tuttavia è vero e proprio ampliamento. Ad ogni
modo il testo si prestava benissimo all'intelligenza comune per l'intendimento
più facile e semplice e la forma più piana che non l'oscurissimo Liber
Ethicorum del commento tomistico. Questo compendio fu conosciuto prima dal
Jourdain in un codice della Sorbona; e più tardi dal Luquet (Hermann
l'Allemand, in Revue de l'histoire des Religions, Paris, in due mss. della
Biblioteca Nazionale: il n ° 12954, che pone la data della
versionenel1244,eilno16581 che è forse lo stesso veduto dal Jourdain.
Come compendio poteva anzi dirsi ben riuscito;giacché per ri durre allora in
più brevi proporzioni l'Elica nicomachea, ch'è da per sè una condensazione
poderosa delle norme logiche e de principi esposti nell'Organo, bisognava
appunto sfrondarla di tutti i luoghi più ardui 'a spiegarsi e a comprendersi
senza l'aiuto di richiami e di collegamenti, e semplificarne e chiarirne il
contenuto eliminando la rassegna delle opinioni e la parte critica, sopprimendo
le divisioni minori, togliendo il carico degli argomenti favorevoli o 'contrarî
ad ogni problema e riducendo questo alla sua più semplice ed elementare
espressione.Ilcom pendio arabo latinizzato era dunque il testo etico
aristotelico di moda piùrecente.Essocièrimasto,sottoilnome diLiber Ethico r u m,
i n u n codice Laurenziano, già Gaddiano (Plut.) membr. in fol., a due
colonne,di cc.scr.219,miscell. Enon tuttodiunamano; contiene:una Cronicadianonimo;
laHistoria troiana di Darete frigio,premessa un'epistola:Cor nelius Nepos
Sallustio Crispo suo salutem; Graphia aureæ urbisRomæseuantiquitatesurbisRomæ
dianonimo;Eu tropii historia romanæ Ciuitatis dilatata a Paullo Diacono: Liber
Alexandri regis; un'epistola di Alessandro ad Aristo tile intorno alle regioni
e alle cose notevoli delle Indie; Liber Sibyllæ, di Beda; un'epistola
dell'abate Ioachim; un'ora zione di Seneca a Nerone; i LibrideremilitaridiVegezio;
11) ilLiberEthicorum,d'Aristotile:vadac.131ac.142;la materia è distribuita in
ventidue capitoli indicati dalla iniziale colorata;manca
ognialtradivisione.Com.:Incipitliberprimus Ethicorum. R.;allafine: Incipiamus
ergoetdicamus.Explicit prima pars nichomachie Ar.que se habet per modum theo
rice et restat secunda pars que se habet per modum pratice. Et est expleta eius
translatio ex arabico in latinum. Anno incarnationis uerbi. La soscrizione,
importantissima per la storia di questa reda zione,è di mano dello stesso
copista,scritta con lo stesso in chiostro e coi medesimi caratteri di tutto il
testo aristotelico. Seguono di mano più recente e in carattere minuto alcune
cita zioni dell'andria e dall'Eunuco di Terenzio.La lezione
dell'Etica verso la fine è molto incerta e in taluni punti a dirittura insa
nabile. Dopo il Liber Elhicorum vengono le orazioni catilinarie e iltrattato de
Senectute,l'orazione di Sallustio contro Cicerone, l'invettiva di CICERONE
(vedasi) contro SALLUSTIO (vedasi), le orazioni pro Marcello, pro
Ligario,proDeiotaro,ilibride Officiis,iParadoxa,epoi la Catilinaria e il
Giugurtino di Sallustio; seguono, di mano del sec.XIV, alcune bolle di papa
Bonifacio VIII. La versione dell'Etica, compiuta nel 1243, si deve con molta
probabilità attribuire ad Ermanno ilTedesco (Hermannus Alemannus),il quale
trovandosi in quel tempo nella Spagna, a Toledo, aveva due anni prima (nel
1241) ridotto in latino il commento di Averroè alla Nicomachea,e più tardi nel
1256 compi la versione di altri due testi arabi di Averroè relativi alla
poetica e alla retorica del Lizio. La traduzione di A.,che dovette essere di
poco,meno di un ventennio, posteriore, corse ed ebbe fortuna e divulgazione; ce
lo attesta il buon numero di codici, l'uso che ne fece Brunetto, la
dichiarazione di Dante che ne parla come di cosa comune mente nota,egli che
molte espressioni del volgare di A. ricorda nella sua Commedia. Brunetto Latini
più tardi si accinse a svolgere nella parte morale del suo Tresor la dottrina
etica di Aristotile. Egli si servi del volgare di A., ma prese anche in mano il
testo latino: c e l o dimostrano le aggiunte e le modificazioni introdotte, che
corrispondono in tutto con il Liber Ethicorum; qualche altra volta ridusse il
volgare di A. e quindi con esso anche il latino della redazione araba. Nessuno
vorrà certo ancora dubitare che l'Etica di A. sia tratta dal compendio francese
di Brunetto, rivendicando a questo la priorità; giacche,pur volendo saltare sul
passo di Dante, sulla particolare designazione de'codici,sulla tradizione
isolata dell'Elica volgare,rimane sempre una barriera dinanzi a cui bisogna
fermarsi:la materia de'due Compendî.La dipendenza diretta dell'Elica dal testo
latino ci è fra l'altro attestata dalle numerose espressioni latine trasportate
di peso,quando corrispon dano nel lessico volgare, nel compendio di A.;
mentre Brunetto è costretto tante volte a tradurre dirersamente,m u tando la
dizione, e dall'Elica e dal Liber Ethicorum. D'altra parte poi nell'Etica molte
cose ci sono che mancano nel com pendio franceseeche pur dipendono dal testo
latino.Un'ultima prova: tutti i codici dell'Elica e del Tesoro si chiudono allo
stesso modo, con le stesse parole, e la chiusa non corrisponde al testo
francese. Brunetto va più in là di A.: egli include nel suo compendio tutta la
fine del rifacimento latino. Se si do. vesse considerar l'Etica come un
volgarizzamento del libro VI del Tresor,anzi che come un compendio
indipendente,non si spiegherebbe più quella ostinata lacuna e quella costante
diver genza alla fine. Solo cinque codici dell'Elica, di trascrizione al quanto
tarda, seguono volgarizzando l'opera di Brunetto: i tre codici Marciani e i
coddice Ambros. C 2 1. i n f., i quali rivelano molto chiaramente l'influenza
del testo francese. In essi il brano finale è volgarizzato in modo del tutto
differente; ciò è na turale: giacchè nessun codice dell'Etica e del Tesoro dava
quella parte del testo francese, i trascrittori, che tennero l'occhio al Tresor,
dovettero pensare, ciascuno per conto proprio, a volgarizzarla. Anzi il
Marciano II, 134 contiene tutto quanto ilcompendio di A.,compreso ilbrano
finale rias suntivo,che non si trova invece negli altri codici dell'Etica o del
Tesoro iquali proseguono col testo francese sino alla fine; e questa nel
Marc.II,134 ci appare evidentemente come una sovrapposizione voluta dal
trascrittore. Naturalmente tutti i giudizi e i sospetti di ampliamenti, di
aggiunte, di mutamenti arbitrarî del volgarizzatore, di sbagli continuati degli
amanuensi, agitati dagli editori del Tesoro, ca dono innanzi all'entità e al
valore storico diverso dei due com pendi, volgare e francese. E data la
priorità del volgare, cadono anche meschinamente tutti i tentativi di
emendazione apportati dagli editori alla lezione del VI libro in base al testo
francese. Nel Propugnatore Gaiter, che accude allora Quale dei due
traduttori, in fine,abbia merito maggiore non possiam dire.A. ha ilmerito della
priorità;Brunetto che lavoròappresso a lui è più fineecompleto,e poi anche
ilfran cese si prestava allora molto meglio del volgare italico.A. qualche
volta amplia o riduce la materia, Brunetto si richiama al testo.Siamo nel
periodo de compendi e dell'enciclopedia. U n compendio fatto è fatica
risparmiata al mæstro che deve dire le«chose universali».Brunetto,che aveva
intelligenza fine, trasse il compendio italico alla lingua di Francia e
l'incluse n e l l'opera sua e ne colmo le lacune e ne affino i contorni e lo
ripuli di fronte al testo latino,da cui egli pompeggiandosi dicea di aver
tratto la parte morale del Tresor. E non fa cenno di A.:
egliaccoglie,corregge,assimila;d'altraparteètuttauna let teratura e una
divulgazione anonima quella che dall'ultimo m e dievo va al trecento,e i
diritti di proprietà letteraria non sonoancor sorti. E poi mæstro A. forse non
appariva degno di menzione speciale al mæstro di Dante; echisa, forse, che in
questo non dobbiamo trovare indizio di una lotta accademica, svoltasi di mezzo
al laicato dotto della seconda metà del dugento e nel trecento,negli Studi
pubblici,tra medici inchinevoli alle lettere e letterati avversi a'medici? C'è
però da osservare che nel ritocco della materia volgare,in base al testo
latino, Bru netto non va oltre qualche singola espressione o frase, trascurata
o ridondante. Egli non si attenta mai a rimaneggiare e ad ac conciare la
materia nel contenuto ideale, per il modo con cui le idee furono rese nel
volgare o compendiate o disposte o interpretate riguardo all'originale
latino.Questo dunque testi monia onorevolmente che A. era allora ritenuto
autorevole MARCHESI a preparare,con l'aiuto dei mss.e del testo
francese,la sua edizione del l'operadi Brunetto, inunsaggiodicorrezioni alVI
libro,siscagliasempre, con taluni intendimenti spiritosi,contro l'amanuense che
tanto strazio avea fatto del presunto volgare di Bono; e con l'aiuto del testo
francese si affanna a correggere gli sbagli e a colmare le lacune lasciate dai
trascrittori e da Bono stesso. ed esperto intenditore del trattato
aristotelico anche da un uomo per cultura famoso come ser Brunetto, sebbene al
grande di scepolo di costui non apparisse ugualmente felice dicitore del
volgare. Dunque Brunetto si valse del volgare di A. (1), ch'ei ri. dusse e
acconciò in molti punti in conformità al testo latino, come si vedrà
chiaramente dal confronto che faremo. Più tardi gli amanuensi del Tesoro,al
posto del VI libro,introdussero il volgare già ben noto dell'Elica, essendo ben
chiara e conosciuta la dipendenza del compendio francese dall'altro
volgare.Cosi resta anche spiegato il fatto che parecchi codici del Tesoro si
fermano all'Etica: Il compendio di A. rimaneva, rispetto al VI libro del
Tesoro, originale e fondamentale; in un volgariz zamento italico dell'opera di
Brunetto esso dovea necessariamente e naturalmente tenere il posto del francese
che da esso proveniva. Già anche loChabaille noto come la seconda parte del
Tresor, interamente consacrata alla morale, offre «plus d'ensemble « et plus
d'unitė » (2); ed anche noi durante l'esame critico dei codici abbiamo potuto
osservare come appunto il VI libro non presenti quella lezione così fluttuante,
incerta, caotica degli altri libri;ciò è ben chiaro:icopisti avevano un testo
già da lungo tempo fissato. Con questo se abbiamo voluto rilevare la differenza
che l'Etica offre, nell'incertezza minore della lezione, rispetto a'libri volga
rizzati del Tesoro,non intendiamo affermare che la lezione del compendio di A.
siacostante e sicura.La mancanza diuna lezione rigorosamente affine nella
maggior parte dei codici si deve al fatto ch'essi servivano non ad uso
letterario, nel qual caso la lezione avrebbe dovuto essere molto più
rigorosa,ma ad uso morale;per cui itrascrittori,quando non erano affatto (1)
Così lo studio accurato della questione e la inconfutabile testimonianza del
documento son venuti a confermare in parte la fortunata ipotesi dello Zannoni.
MARCHESI Ho già detto che gli amanuensi introdussero il compendio di A. nel
posto del VI libro del Tresor; ho detto gli amanuensi e non il volgarizzatore,
giacchè non mancarono alcuni (non oso affermare se Bono od altri) i quali
vollero volgarizzare tutta l'opera,compreso il VI libro; ma il nuovo volgare
dell'opera francese,di fronte al comunissimo compendio originale di A., rimase
eclissato e restò soltanto in pochi codici quattrocentini, che ho potuto
rinvenire.I codici sono due,di valore e di con tenuto diverso. Magliabechiano
cartac.del sec.X V, in 4o,di cc.53 scritte ed 8
bianche,anepigrafo.Ilcod.contiene l'Etica tratta evidentemente dal Tresor,
giacchè va oltre il limite del compendio di A., e comprende la chiusa del
libroVI dell'originalefrancese.A c.46'segue,senzaalcuna par ticolare
indicazione, il trattato sulla « doctrina di parlare ad Alessandro; infineac.53':
ExplicitAristotilisEuthica uul garis Amen. La lezione si mantiene per una buona
metà fedele al testo comune dell'Elica; dal cap.47 sino alla fine presenta una
grande ed accentuala differenza e mostra evidentemente la Secondo la edizione
Gaiter. ignoranti,semplificavano dove e come volevano,buttando giù il
periodo anche ridotto, che sembrasse loro di rendere in ogni modo fedelmente
l'idea espressa dall'autore e di significare lo stesso concetto. Nei codici
dell'Etica si trovano molte espressioni qualche volta incerte, fluttuanti dalla
differenza ortografica al periodo ridotto o allargato o smembrato o dissennato,
che ci testimonia da una parte della negligenza o della caparbietà di
trascrittori ignorantelli,in un tempo in cui tutti quanti tenevano un crogiolo
dove manipolare la pasta morale delle dottrine ari. stoteliche o supposte tali,
e dall'altra parte dello stato de' testi donde copiavano,che,data lagrande
diffusionedell'opera,doveano a forza portare le tracce di
cancellazioni,aggiunte,modifica zioni,lasciatevi dai possessori:filone di muffa
questo che ci fa tante volte scivolare il piede lungo il percorso delle
trascrizioni trecentistiche di autori ritenuti catechisti o
morali. L'Etica (ediz.Manni, Li Tresors. Liv. II, Magliabech. 21. 8.
pp.52sgg.).L'uomo part.I, chap.XLI.Li 149. c.33. ch'è buono si diletta in bons
hom se delite en semedesimo abbiendo soimeisme, pensantas allegrezza delle
buone bones choses; autressi operazioni, eseegliè sedeliteilavecsonami, buono molto
allegrasi cuiiltientautressi com conl'amico suo, lo quale mesoimeismes. Maisli
eglitienesiccomeun mauvaishomtozjorsest altrosè; mailreofugge enpaor, ets'esloignedes
dallenobiliebuoneope- bonesoevres;etseilest razioni,os'eglièmolto moltmalvais, ils'esloi
reo si fugge daseme- gnedesoimeisme;car desimo,peròchequando egli sta solo si è
ripreso da ricordamento delle maleopere, ch'egliha fatto, enonamanèse, faites, et
blasmesacon. nèaltrui, perciòchela science, etporcehetil natura del bene è
tutta mortificata inluinel profondo della sua iniquità; nènon si diletta
soiettoz homes; etce avientporcequelara cine de touz biens est
ilnepuetseulsdemorer, sanztristesce, porceque illi remember desmau
vaisesoevresqueila influenza continuata del testo francese, si che c'è da
pensare a una nuova redazione sovrapposta. Riporto un brano che valga a far
notare meglio le differenze e le relazioni dell'Etica di A. col testo francese
e il volgare del cod. Magliabechiano. mortefiéeenlui, eten son mal ne se puet
de. tutto el bene è mortifi. pienamente nel male ch'eglifa,perciòchela liter
plainement, car cata in lui.etnel male natura del male si'l træ toutmaintenant que
il non si può dilettare pie. al contrario dellasuadi- sedelite, enune chose
namente,percioche lettazione,edèdiviso malfaite,lanaturede
quand'eglisidilettadi insemedesimo,eperciò son mal si l'atrait au
èinperpetuafatica ed contraire deceluidelit. quellomalesieltræ angoscia, epieno
d'ama- Etàcequelimauvais al contrario di quella ritudineedisozzuradi
estpartizensoimeisme, dilettatione.percioche perversità. Adunquea
siconvientqueilsoitl'uomoreoèdiversoet L'uomo ch'è buono si diletta in se
medesimo pensando nelle buone cose, et similmente si diletta coll'amico suo, el
quale egli reputa se medesimo. Ma l'uomo ch'è reo sempre sta in paura et fuggie
dall'o pere buone; et s'egli ė molto reo fuggie da se medesimo et non può stare
solo sanza tristizia, impercioch'egli si ricor da delle sue rie opere, ch'egli
à fatte et ripren delo la coscienza sua. Et perciò vuole male a se medesimo et
ad ogni altro huomo.Et questo èperchèlaradicedi uno male, la natura di
quello cotale uomo nes- en continuel travail de in se medesimo è m e
sunopuoteessereamico, penseret plains demolt stierechesiain continua per ciò
che l'amico deve insemedesimo,ecompi. ne se laisse cheoir en a lei. Lo
cominciamento lla possa tornare a bene. doit efforcier chamentodellainiquità
lettazione, laquale l'huo piglia accrescimento gars; mais li fermes mo ba nelle
femmine, per usanza di tempo. liensquitozjorsestavec alqualesiuadinanzi
L'officio del confortare l'amistiéetquipointne unodiletteuolesguarda
MARCHESI sance sensible; et ce confortamento,ma pare cede loconfortamento
poonsnosveoirpar.i. essereetsomigliarsia puoteesseredettaami-
homequiaimeparamors llui;mælcomincia stade per similitudine, une dame,car tout
avant mento dell'amista è di infino atanto ch'ella passe unsdelitablesre
scunouomosidee guar- niuno huomo può essere chose quià amer face. amico aquello
tale,per dare ch'egli non caggia in questo pelago d'ini- sere et en itele male
niuna cosa la quale sia quità,anzi si dee isfor- zare di venire a finedi
mecineparcuiilpuisse seria et tale infelicità bontà, perlaqualeabbia Certes, et
en itele mi- cioch'egli non ha in se aventuren'aurailjà daamare. Ettalemi. ainz
se felicitade. Adunquecia. queiln'ænluinule maliceetdeiniquitéque
ch'eglinonsilascica mentononèamistà, ave- l'on ne puet ræmbre,
dereinquestoistraboc gnachè egli si somigli inordinato! Addunque dilettazione e
allegrezza àbienvenir:donques nonhamairimedioche chascuns se gart que il
chascuns que il viegne et della malicia la quale àlafinde bontépar
èsanzarimedio anzisi dell'amistà si è dilettazione sensibileavutadi-
quoiilsepuissedeliter del'uomo sforzare ac nanzi,si come l'amista mento
d'allegrezza colli tel tresbuchement de suoi amici.Lo conforta. Addunque
ciaschuno huomo si de guardare amertume,etyvresde fatichæt pensieroetsia avere
in se cosa da a- laidesceetdeperversité, pieno di molta amari mare.E questo
cotale etqueilsoitdestortpar tudineetèebbrodisoz hæ in se tanta miseria, misere
neant ordenée. zura di peruersita, et che non è rimedio niuno Donc nus ne puet
estre sia distorto per miseria ch'egli possa venire a amisdetelhome,porce en
soi meisme et avec cioch'elli uengha alla d'unafemina,allaquale sonami. Confors
n'est finedellabontaper la v'hadinanzidilettevoli pasamistié,jàsoitce
qualeeglisipossadi guardamenti,eladiletta- que illesembleàestre:
lettareinsemedesimo, zionesièlegamedell'a- mais li commencemens et hauere
compimento mistà,eseguitalainse- d'amistiéestunsdeliz didilettationecolsuo
parabilemente.Ladispo- rasavorez par conois- amico.L'amistà non è sizione dalla
quale pro Gli huomini rei tardo s'accordano nelle oppi nioni: et
sono sanza parte d'amista, et per se desevre, ce est deliz. si pertiene a
colui ch'à insegravezzadicostumi ed esercizio di vertude, unità d'opinione e
con cordia di mettere amore, perciò che le discordie dell'openione sono da
trarre dalla nobile con. gregazione,acciòch'ella rimanga unita di pace e in
concordia di volon tade. Quelle cose che danno altrui vera digni. tade da
reggere,sisono le uirtudi e le loro opere e l'unità dell'oppinione; e questo si
truova negli uomini buoni, concios sia ch'egli sono fermi e costanti in fra
loro, e nelle cose di fuori, perciocch'egli uogliono bene continuamente.Ma rade
volte addiviene che gli uomini si accordino in una oppinione,eper cagione di
compiere gli loro desideri si soste: gnano molta briga e molta angoscia e molta
fatica, ma non per ca. gionedivertude,ehanno moltesottilitadiinseper ingannare
colui,con cui hanno a fare, e perciò sempre sono in rissa e in tenzone. C. MÆCHESI. Cil habiz dont pre
mierementnaistlicon fors puet estre apelez amistié par semblant jusqu'à tant
que il croist par longuesce de tens. Et li ofices dou confort affiert au
preudome et au ferme que il soit griez en moralité de sa vie et es proesces et
es costumes et toutes ver tuz, et plains de science et de bone opinion et de
concorde, desirrous d'a. mor; por ce devroient estre ostées toutes des cordes
et malvais pen. sers d'entre les nobles compaignies des homes, si que il
puissent vivre en pais et en concorde de propre volonté,cele chose qui plus
aide à maintenir et governer les dignitez des vertus et ses oevres.Et la con
corde des opinions et es bons homes,porcequ'il sont parmenant dedans soi et es
choses dehors; car toutes foiz jugent et vuelent bien. mentoellegamechenon si
parte e sempre con lei et la dilettazione (sic). L'abito dal quale pro ciede confortamento si può dire
amista per si. militudine infino a tanto ch'elli crescie per lungo temporale.
L'ufficio del confortatore s'appartie ne a buono huomo et al fermo, el quale è
graue di costumi et exercitato nelle uirtu,et essere pie toso di scienza et
auere accontamento d'oppinio. ni, et concordia intro ducta d'amore (sic),per.
ciò che le discordie delle oppinioni sono per disfa re le diuisioni dell'opere
le quali sono nella nobile congregazione in con cordia di uolontà.Quella cosa
la quale aiuta reg. giereladignitàelavirtu et l'opere delle uirtu.et
concordiadelleoppinioni si truoua negli huomini buoni et costanti intra se et
nel desiderio delle cose di fuori, percio che perano bene et uogliono
Limauvaishomepo bene. s'acordent à lor opinion; car il n'ont en amistie
nulepart, et poracom plir lor desirriers suef questi cotali sempre ado
frentilmaint espoines chagionedicompierele et mainttra va ilconmie le loro
conchupiscienzie poramistié; etsontes eglisostengonomolte mauvaishommesmain-
faticheetmoltitraua tes mauvaises soutil- gli:. per chagione d'a
lancesporengigniercels mista, et molti scaltri quiàel sont à faire, et
mentietmoltesottilita. porcesontil touzjors Et sonohuominireiper enpaineeten angoisse.
chagione d'ingannare L'altro codice, che ci presenta una redazione affatto
nuova e dipendente in tutto direttamente dal testo francese, è il Maglia
bechiano (vecch. segn.), cartac.delsec.XV, a due colonne,di cc.scr.160; con le
didascalie in rosso e rozzo disegno a colore nella prima iniziale e ne'margini
della prima pagina. Contiene il Tesoro; precede un indice della materia:a c.5*:
Questo libro si chiama il Tesoro il quale è chauato per lo mæstro Burneto
Latino di Firenze di piu libri di filosofia che sono strati per li tempi. Qui
comincia l'eticha di Aristotille; finisce l'Etica a c.76: Qui finisce il libro
dell'eticha d'Aristotille. La soscrizione finale a carta Qui finisce il libro
del Tesoro che fa il mæstro Bruneto Latino di Firenze. dio ne sia lodato. La
lezione offertaci dal ms. Mgl. è infelicissima e costellata di sbagli, di
contorcimenti e travisamenti di parola che pare non si possano attribuire tutti
quanti al copista. (“And that’s why Hardie disliked it!” – Grice). Il
volgarizzatore in molti punti dà a vedere di essere poco felice conoscitore del
volgare come poco esatto intenditore degallico. Molte espressioni gallliche o
sono adattate malamente all'idioma italico o lasciate intatte a dirittura e
trasportate di peso nel volgarizzamento. Ma ciò vede il lettore nel confronto
che Hardie e Grice poneno tra il testo del Liber Elhicorum e l'Etica di
coloro ch'anno a fare con loro per cio sempre sono in brigha ed in
angoscia. A. col compendio di LATINI
(vedasi) e il volgare del Tresor; confronto da cui balza fuori un documento
largo e complesso, vivo e certo della tradizione morale aristotelicadel
“Lizio,” come A. chiama la scuola, nel tempo in cui vive e conosce e compone
ALIGHIERI (vedasi). Dell'Etica di A. Hardie
e Grice danno la lezione critica, quale risulta da’codici più autorevoli
dell'Etica e del Tesoro, diversa quindi da quella offertaci dalle stampe che si
son succedute fin ora. Liber Ethicorum. L'Etica d'Aristotile. Omnis ars et
omnis incessus et Ogni arte e ogni dottrina e ogni omnis sollicitudo vel propositumet
operazione e ognie lezione pareado quelibet actionum et omnis electio mandare alcun
bene. Adunque bene ad bonum aliquod tendere videtur. dissero li filosofi, che
lo bene si è Optime ergo diffinierunt bonum di quello lo quale disiderano tutte
le centes quod ipsum est quod intenditur cose. Secondo diverse arti sono diversi
ex modis omnibus. Sunt autem in- fini; che sono tali fini che sono ope
tentaperartes multas diversa. Que- razionie sono tali finiche non sono da menim
sunt actio ipsa metet que- operazioni, ma seguitansi alle opera dam sunt ipsum actum.
Cum quesint zioni. Conciosiachosache siano molte artes ac ipsarum actiones
multe, arti e molte operazioni, ciascuna hæ erunt intenta per ipsas multa. Ac
losuofine.Verbigrazia. La medicina tamen actum in ipsis existit melius si hæ un
suo fine, cio è fare sanitade, actione. Est igitur intentum per me- el'arte della
cavalleria la qualein dicinam sanitas et per artem regiti- segna combattere, si
ha un suo fine uamuelred actiuam exercituum uic- per lo quale ella è trovata, cio
è vittoria et pernauium structiuam naui- toria, e la scienza di fare le navi, si
gatio et perdomus rectiuam diuitie; hæ un altro fine cio è navicare; e la
etista sunt acta honorabilia. Que- scienza che insegna reggere la casa dam autem
artium habentse habi- suæ la famiglia sua ha e un altro tudine generum et quedam
habitu- fine, cio è ricchezza. Sono al quante dine specierum et quedam habitudine
arti le quali sono generali e sono individuorum. Ideoque quedam ipsa. Al quante
le quali sono speciali e con rum sunt sub aliis, ut sub militari factura
frenorum et cetere artium instrumentorum militarium, et sub tengon si sotto quelle.
Verbigrazia. La scienza della cavalleria si è generale, sotto la quale si
contengono altre arte exercitu alicetere omnes bellice scienze particolari, siccome
è la scienza siue litigatorie. Et simpliciter hono- di fare lifrenieleselleele spadee
rabilissima omnium atrium est con- tuttel'altre, le quali insegnano fare
stitutiuæt instructiva ceterarum. cose, le quali sono mistieri abatta Et quemadmodum
quibusque rebus glia; equeste arti universali sono più a natura productis est perfectio
quam degneepiùonorevilidiquelle, im. Perse naturaintendit, etintellegibi. Perciocchè
le particolari sonfatteper libusest perfectio quamintendit per l'universali.
Esiccome nelle cose In tutto il principio del compendio di A., e quindi anche
del testo francese, si sente l'influenza diretta dell'altra redazione del Liber
Ethicorum, che servì di base al commento d’Aquino. Ecco il latino di
quest'altra redazione: « Omnis ars et omnis doctrina, similiter « autem et
actus et electio, bonum quoddam appetere uidentur. Ideo bene enunciauerunt
bonum, beržalglio per suo
adirizamento,tutto Tutte arti e tutte opere e tutte in. Tous ars et toutes doctrines et
tramesse sono per chiedere alcuno touteseuvresettouztriemenz sont bene. Dunquedissebeneilfilosafo
porquerre aucun bien, donquesdis- chequeglichetuttelecosedeside trentbienli
philosophequeceque rano è ilbene. Secondo le diuerse toutes choses desirrentest
le bien. arti sono le fini diverse. Chetalifini Selon cdiversars, lesfinssont
di. sonoopere, talisonoch'esconodel verses; cartelesfinssonteneuvres,
l'opere.Eperciochemoltesonol'arti et teles sont celes quel'onensuitpar
el'opereciascuna à suo fine.Che medicina æ una fine cioè a fare
lesarsetlesoevres, chascune a sa santade. Ela fine dela batalgli asi fin; carmedicinea une
fin,ceest ènetoria, el'artedifarenauià àfairesanté; etbatailleasafin,
unaltrofine,cioènauichare. Ela les oevres; et porce que maintes sont
porquoielefutrovée, ceest victoire; scienza cheinsengnaagouernarea et les ars
de faire neis ont une autre l'uomo sua magione e sua familglia fin,
ceestnagier; etlasciencequi àun'altrafinecio è ricchezza. Et sono
enseigneàhomeà governersa maison alcune arti che sono gienerali e al et
samaisnieauneautrefin,ceest cunechesonospezialli, cioèpersua richesce.
Etsontaucunesarsquisont diuisione, eperòsonol'unasottol'al generaus,
etaucunesquisontespe- trasi come la scienza di chaualleria ciaus, c'est
particuleres, etaucunes ch'ègienerale,edisottoaquella sontsarzdevision;
etporcesont sono più altre scienze partichullari, lesunessouzlesautres; sicomme
cioè la scienza di fare frenieselle est la science de chevalerie, quiest
espadeetuttel'altre cosecheinse generaus,etdesozlisontautres
gnanoafarecosecheabattalglia sciencesparticuleres, ceestlascience bisongnano.
de faire frains et seles et espées, et E l'arti universalli sono più dengne
toutesautresarsquienseignentà epiùonoreuolichel'altre, percio
fairechosesquiàbataillebesoignent. Chelle particullarisono trouatteper Et cistart universalesont
plus digne le universali. E
così tutte le chose queliautre, porcequelesparticu. che sono fatte per natura è
unadi leressont trovees par les universales. retana cosa per a che la natura in
Ettoutaussicommeenchosesqui tendefinalmente. Altre si tutte le cose sont
faites par nature est une dar- chesonofatteperartièunafinale reinechoseàquoila natureentent
cosaachesonoordinatetuttelecose finelment, autressieschosesquisont
diquellaarte. Esicomecoluiche faites par art est une finel chose à Li Tresors.
Magliabech.quoi sont ordenées trestoutes les træ di sua arte a uno sengnio à
uno « quod omnia appetunt. Differentia uero quædam uidetur finiam. Hi quidem
enim sunt opera «tiones; hiueropræterhasopera quædam. Quorum
autemsuntfinesquidampræteroperationes, « in his meliora existunt operationibus
opera. Multis autem operationibus entibus et artibus et doctrinis,multi sunt et
fines. Medicinalis quidem enim sanitas,nanifactiue uero nauigatio, •yconomicæ
uero diuitiæ.Quæcumque autem sunt talium sub una quadam uirtute, quemad modum
sub equestrifrenifactiuætquæcumque aliæ equestrium instrumentorumsunt:hæc «
autem et omnis bellica operatio sub militari; secundum eundem itaque modum aliæ
sub alteris. In omnibus itaque
architectonicarum fines omnibus sunt desiderabiliores his quæ sunt sub ipsis. «
Horum enim gratia et illa prosequuntur. Quest'esempio, che manca nella nostra
redazione latina, è tratto dal Liber Ethicorum del commentotomistico:
Igituretaduitamcognitioeiusmagnum habetincrementum,etquemad modum sagittatores
signum habentes seintellectus,eodem modorebusef. fattepernaturaèunoultimointen
fectisabarteestperfectioquam per seintenditartificiumhumanum.Hac finalmente, cosìnellecosefatteper
autem perfectioestbonum ad quod arteèunointendimentofinale, al intenditur, et
est optimum eorum que queruntur propter ipsum et di quelle arti; siccome l'uomo
che ipsius causa. Scientia igitur istius est sættahalo
segno per suo dirizza scientia diuina maximi existensiuua. mento,
coşiciascunaartehæ menti in uita et CONVERSAZIONE hu. un suo finale
intendimento, loquale mana. Habentes igitur intentionem dirizzalesue
operazioni.Adunqua acpropositumdignum ualdeestut l'artecivile, laqualeinsegnareggere
inueniamus inquisitione remqueest lacittade, éprincipaleesovranadi
perfectiouoluntatis. Arsigiturdi. tuttealtrearti, perciocchèsottolei
rectiuaciuitatumprincepsestartium, sicontegnonomoltealtrearti, le quali eoquod
sub hac continenturresho. sonoonorevili,siccomelascienzadi
norabilesualideconsistentie;utpote farel'ostee direggere la famiglia,
arsexercitualisetars familiedo- elarettoricaèanchenobile,percio mus
dispensatiua ac rethorica,et ch'ella si ordina e dispone tuttel'altre
eoquodipsautitarartibusactiuisomni- chesicontegnonosottolei, elosuo bus et
componitet ordinatlegesearum compimentoàilfinedituttel'altre. Atqueiuditia etdistinguitinter
Adunquelobenelo qualesiseguita laudabilesetillaudabiles.Huius itaque
artisperfectioacpropositumadpro- l'uomo, percioch'ellalocostringe
priatpropositaomniumartiumreliqua- di fare bene e costringelo di non rum. Bonum
igiturusitatumsecundum fare male. La recta dottrina si è che suum modum est
bonum humanum. L'uomo si proceda in essa, secondo ipsum namque effectiuum estcetero-
chelasuanaturapuotesostenere. rum bonorum omnium artium et
Verbigrazia:l'uomocheinsegnageo saluatartificesnequidaganthorridum metriasidee
procedereperargo dimento lo quale la natura intende quale sono ordinate tutte
l'operazioni di questascienza, sièlobene del
chosesdecelart.Etaussicomme altresiciascunaarteæunafinale
cilquitraitdesonar causeignala cosache'ndirizaquellaopera. Qui celui bersail
por son adrescement, parla del gouernamento della citta tout autressi a
chascune ars Dunque l'arte che insen finelchosequiadrescesesoevres. Gnia la
citta gouernare è principale Donques l'art qui enseigne la cité
àgovernerestprincipausetdame etsoverainedetoutesars, porceque
desouzlisontcontenuesmaintesho- norablesars,sicomme rectoriqueet
lasciencedefaireostetdegoverner e donna di tutte l'arti,
peròchedisottoaleisonotuttii mæstrionoreuoliecontiensisotto luitutte
molteonorabillearti, sicome retoriccha e la scienza di fare oste
edigouernaresuamasnada.E an samaisnie;etencoreestelenoble, coraè nobile peroch'ellamettein
porcequeelemetenordreetadresce toutesarsquisouzlisont,etlisiens compliemensetsafinssiestfinet
compliementdesautres. Donquesest ele li biens de l'ome, porce que ele
constraintdebienfaireetelecons- traint de non mal faire. Lidroizenseignemenzsiestque onailleselonccequesa
naturele ordineeadirizzaartichesonosotto lui, e il suo compimento di sua fine
sièfineecompimento del'altre. Dunque ilbene che diquestascienza uiene si è bene
dell'uomo pero che 'l constringniedinonfarelomale. E il diritto insegniamento
ch'ell'à inleisecondosuanaturalepuote soferire. Cioèadirechecoluiche
puetsofrir; ceestà direquecilqui insengna gouernaredeeandareper
enseignegeometriedoitalerparar- suoi argomenti chesono apellatidi gumens qui sont
apelésdemonstra- mostrazioni. Erittorichadeeandare cions,
etenrectoriquedoitalerpar perargomentieperragioneuedere
argumenzetparraisonvoiresembla- senbiabille, eciò auiene percioche ble. Etceavientporcequechaschuns
ciascunoartieregiudicabeneedicela artiensjugebienetditla veritéde
ueritàdiciòcheapartienealsuome cequiapartientàsonmestier,eten stiere,
ecosiinciòèilsuosenno sottile. ce est ses sens soutis. une e sovrana La scienza di città governare
non La science decitégovernerne sifamichaafanciullonedahuomo
afiertpasàenfantneàhomequi chesegualesueuolontadi,percio vueilleensuirresa volenté,porceque
che amendue sono non sacenti delle anduisontnonsachantdeschosesdou cosse del
seculo, chequestaartenon siecle; carcestearsnequiertpasla chiede la sienza dell'uomo,
mach'egli science del'ome, maisqueilsetorne sitorniabontà.Esapiatechein àbonté.
Etsachiésqueenfesestde. fateèinduemaniere, chel'uomo
ij.manieres;carlihompuetbien puotebeneessereuechiodi tenpo
estrevielsdeaageetenfes demors; euechioperhonestavita. autillaudabile. Et saluatioquidem
mentifortiliqualisichiamanodimo. Uniuslaudabilis existit, quantomagis
strazioni, elorettoricodeeprocedere gentiumacciuitatum. Rectadoctri. Nella sua scienza
per argomentie natioestinquirereinunoquoquege- ragioniverisimili; e questo sè percio
nerumiuxta mensuramquamsustinet checiascunoarteficegiudichibene
naturailliusgeneris; etutexigitur etdicalaveritadediquellocheap. Quidema mathematico
demonstratio partiene alla sua arte. Lascienzada et a rethore sufficientia
persuasiua. reggere la cittade non conviene a Unusquisque enim artificumrecto
garzonenèauomo cheseguitilesue iuditio iudicat de eo quod est infra h a cose
buone e giuste e oneste; onde Rerumquedamsuntcogniteapud gli conviene avere l'anima
sua natu nos, et quedam sunt cogniteapud ralmentedispostaaquellascienza:
naturam. Oportetergoutamator maquellouomo che non hæneuna
scientieciuilispromtussitadres diquestecose,èinutileaquesta
eximiasetsciatopinionesrectas. Opi- scienza Questo ci prova chiaramente che
Brunetto non ebbe tra mani altro testo latino fuor del compendio
alessandrino-arabo; giacché le altre traduzioni greco-latine della Nicomachea
gli avrebbero dato la giusta indicazione del poeta: Esiodo. Ma forse pertutto il
riferimento, che son volontadi, peroche
non > bitum suæ scientiæ, et in hoc est nelle cose del secolo. E nota che
gar perspicax ipsius scientia. ludicans zonesidiceindue modi, quanto al autem deomni
sapiensestomnipe- tempo e quanto alli costumi, che ritiaimbutus. Arsciuilis non
pertinet può taloral'uomo essere vecchio di pueroneque prosecutori desiderii atque
tempo e garzone di costumi, e tal uictorie, eoquodambo ignarisunt fiata garzone
di tempo e vecchio di rerum seculi, neque proficitipsis. Non costumi. Adunqueacoluisi
conviene enim intenditarsista scientiam sed la scienza di reggere la cittade, lo
conuersionem hominis ad bonitatem; quale non è garzone di costumie neque differt
puer et ateautinmo- che non segui tale sue volontadi, se ribus pueris, non enim
aduenit quidem non quando si conviene e quanto si defectus ex parte temporis sed
propter conviene ed ove si conviene. usum uite in moribus puerilis; pueri ergo dissoluti
et desideriorum prose- cutores non proficiunt penitus ex arte civili. Qui autem
utitur desiderio secundum quod oportet et quando sono cose le quali sono
manifeste alla natura, e sono cose le quali sono manifeste a noi. Onde in
questa scienza si dee cominciare dalle cose, oportet, et quantum oportetet ubi
oportet, hic plurimum proficit ex scientia artis civilis. lo quale dee studiare
in questa scienza, ed apprendere, si dee ausare nelle le quali sono manifeste a
noi. L'uomo savi et puet estre enfes
par aage et viel Dunque la sienzia di città ghouer
parbonevie.Donqueslasciencede nare è a fare huomo che non sia governer citez
n'afiert à home qui fanciulo de cuore molle e che non estenfesensesfaizetquiensuie
sesvolentės, selorsnonquantille covient faire et tant comme il co- vient,et là
où il se covient,et si comme est covenable. seguasuauolontadi,senoquelliche
siconuengonoetanto com'ellesi debono e la dove si conuiene e si come
conueneuole. E sono chose che sono chonueneuoli a natura e cose
chesonoconueneuolliannui;che Iliachosesquisontconnuesà nature et sontchosesquisontcon-
chisivuolestudiareasaperequesta neuesànos; porquoinosdevonsen scienza, egli deeussare
cose giustee ceste science commencieras choses buone e oneste, ond'egligliconuiene
quisont conneuesànos,carquise auerel'armi naturallemente aquesta
vuetestudieràsavoircestescience, scienza, macoluichenonanèl'uno
ildoituserdeschosesjustes, droites nèl'altroriguardiaciòchedee. Se et bonnesethonestes,oùillicovient
'lprimoèbuonoel'altroèapere avoirl'ame naturaument ordenée à gliato ad essere
buono. Ma chi da cestescience;maiscilquin'ane ssenonsanienteenonaprende di
l'onnel'autreregardeàcequeHo- ciò chel'uomogl’insenguia,egliè merusdist: Selipremiersestbons,
deltuttomecciante.- Quidicedelle liautres estappareilliezàestrebons; treuie Dacontaresono
mai squidesoinesetneant,etqui.ij.uie. L'unaèuiadichonchupi.
n'aprentdecequehomlienseigne, senziæ diconuotizia.L'altraèuita il estdoutoutmescheanz.
Les cittadina, cioèdisennoediproeza viesnomées quisontàcontersont ed'onore. Laterzaécontenpratiua..ij.L'uneestviedeconcupiscenceet
E più ujuono secondo la uita delle decovoitise; l'autresiestvieciteine, bestie,
ch'èapellatauitadichonchu ceestdesensetdeproesceetd'onor;
pisenzia,peròch'egliseghonolaloro la tierce est contemplative: et li uolontade
e loro diletto. E chatuna plusorviventselonclaviedesbestes,
diqueste.ij.uiteàsuapropriafine quiestapelée vie de concupiscence, diuerse dal'altre,
tuttoaltresìcome porcequeilensuientlorvolentezet [lasienzadiconbatteredi]medi
lordeliz. Etchascunedeces.ij.vies cina à sua finediuersa dalla scienza
asaproprefin,diversedesautres, delconbattere, chèquellabadaafare toutautressi comme
medicineasa santà,equellaadauereuetoria.Qui findiversedelasciencedecombatre;
diuisadelbene Ubene carelebéeàfairesanté, etcele ėinduemaniere,che'unamaniera
autreàvictoire. Libiensesten è ch'èdisideratapersemedesimo[e
ij.manieres;carunemanieredebien l'altra)eun'altramanieradibeneè niones autem
rectæ sunt ut in arte Le vite nominate e famose sono
ciuiliincipiaturarebusapudnos tre; l'unasièvitadiconcupiscenza, cognitis, etinconsuetudinibuspul-
l'altrasièvitacittadina,cioèvita crisethonestisfactasitassuetudo diprodezza ed’onore;
la terza si è principium enim est et inceptio a vita contemplativa: e sono
molti quaresest. Exmanifesto existente uominichevivonosecondolavita
sufficienterquiaresest,nonindigetur dellebestie,laqualesichiamavita
propterquidresest.Indigetautem diconcupiscentia, perciòchesegui. Homo adpromtitudinem
habitationis tano tutte le loro volontadi; ecia
leritatisrerumbonarumautaptitudine scunadiqueste vitesihasuofine
boneinstrumentalitatisexquasciat propriodiversodaglialtri,sicome
uerum,autformaperquamaccipian- l'artedellamedicinahadiversofine
turprincipiarerumabeofacile.Qui dalla scienza dicombattere, chè'l
veroneutramhabueritharumaptitu- fine della medicina si èdi fare sani.
dinumaudiat sermonem Homeripoete tade, e'lfinedellascienzadifare ubidicit: Illequidem
bonusest,hic battagliesièvittoria. Benesièse autem aptus ut bonus fiat. Vite
condo due modi, chè è uno bene lo famosetressunt. Uitaconcupiscen-
qualeuomovuoleperse, eunaltro tieetuoluptatis,uitaprobitatiset benelo quale l'uomo
vuole peraltro. honoris,uitascientieetsapientie; Benepersesìcomelabeatitudine,
pluresuerohominumseruisuntuo- bene peraltruisonodettiglionori luptatis uitam
bestiarum eligentes elevertudi,perciòcheuomovuole
inexecutionedelectationum.Sunt questecoseperaverebeatitudine. autem termini
harum uitarum distan. Natura lcosa è all'uomo ch'eglisia teset bonaipsarumbona diuersificata.
cittadino, etconversicongliuomini Sicutergobonum quodestinarte
artefici,econtralanaturadell'uomo exercitualiestaliudabonoquodest
sièd'abitaresoloneldeserto, elà inartemedicinali, sicabinuicemalia
ovenonsianogente,peròchel'uomo sunt bona trium uitarum. Et bonum naturalmente
ama compagnia. quidem medicine est sanitas, bonum Beatitudo si è cosa
compiuta,la exercitualisestuictoria. Estautem qualenonabbisognaneunacosadi
bonumsecundumduosmodos:bonum fuoridase, perlaqualelavitadel per se et bonum
propter aliud; et l'uomosièlaudabileegloriosa. Adun. quesitum qui demproptersemelius
quelabeatitudinesièlo maggior est quesito propter aliud. Nosuero
beneelapiùsovranacosælapiù manca nel compendio di A., BranettosivalseanchedelLiberminorum
moralium:«.aduertat « intentionem poetæ dicentis: Optimus est hominum qui a
semet ipso intelligit quod expedit.Qui « autem ab altero hoc intelligit, est in
uia directionis. Qui uero nec a semet
ipso intelligit nec « ab altero recipit, hic uir est inutilis, est qui est
desirrez por lui meisme, et une autre maniere de bien est qui est desirrez por
autrui. Biens par lui est beatitude,qui est nostre fin,à quoi nos
entendons;bien par autrui sont les honors et les vertuz; car ce desire li hom
por avoir beatitude. Naturale cosa è a
l'uomo ch'egli sia cittadino e ch'egli conuersi in tra le gienti, cioè intra
gli uomini e intra gli artefici. E contra natura sarebe abitare in diserto oue
non à persona,però che l'uomo naturale. mente si diletta in conpangnia. Bea
tittudine è cosa conpiuta, si che non à niuno bisongnio d'altra cosa fuori di
lui, per chui la uita degli uomini ė pregiabile e groliosa:dunque è beatitudine
il magiore bene di tutti, e la più sourana cosa e la trasmil gliore di tutti i
beni che sieno. Qui diuisa di treposanzie Tutte le opere dell'uomo o sono
malvagie o [buone.om.]. Colui che lle fa buone l'opere,egli è degno d'auere il
compimento della uertu di L'anima
dell'uomoæ. ij.posanze. L'una è uegiettative,e questa è co mune ad alberi ed a
piante, ch'egli anno annima uigettatiua,altresìco m'àno gli uomini; la seconda
è apel latta sensitiua; la terza è apellata r a zionabile,l'èperquestoche
l'uomoè ragioneuole e diuisato da tutte le cose, per ciò che niuna altra cosa æ
anima razionale se no l'uomo;e questa possanza è alcuna uolta in natura e al
cunauoltainpodere.Ma beatittudine è quand'ella è in opera e non miga quand'ella
è in podere solamente; chè s ' egli no 'l f a, egli non è mi c h a buono. Naturel chose est à l'ome que il
soit citeiens,etque ilconverseentre les homes et entre les artiens; car contre
nature seroit de habiter en desers où il n'a nule gent,porce que li hom
naturelmentsedeliteen com paignie. Beatitude est chose complie,si que ele n'a
nul besoing d'autre chose fors de li,par quoie la vie des homes est puissanz et
glorieuse: donques est beatitude li graindres biens de touz et la plus
soveraine chose et la très mieudre de touz biens qui soient. L ' ame del' o m e a j i j. puissances. L'une est vegetative, et ce est
c o m mun asarbresetasplantes,caril ont ame vegetative aussi come li home
ont;lasecondeestapeléesen sitive, et est commune à toutes bestes, car eles ont
ames sensitives; la tierce est apelée rationable,et por ceste est li hom divers
de toutes choses,porce que nule autre chose n'a ame ratio. nableselihom
non.Etcestepuis sance rationable est aucune foiz en oevre et aucune foiz en
pooir; mais beatitude est quant ele est en oevre, et non pas quant ele est en
pooir seulement; car se il ne le fait, il n'est mie bons. ch'è disiderata per
altrui. Bene per lui è beatitudine, ch'è nostra
fine a che noi intendiamo.Bene per altrui sono gli onori e le uertu: chè questo
si disidera per auere beatitudine. Toutes les oevres des homes ou Ogni operazione che l'uomo fæ o
ellaèbuonaoellaèrea;equello uomo lo quale fa buona la sua ope. razione, si è
degno d'avere la perfezione della virtude di quella opera zione.Verbigrazia: lo
buono cetera tore,quando egli cetera bene,si è
degnacosach'egliabbiailcompimento di quella arte,e lo rio tutto il contrario.
Adunque se la vita dell'uomo è secondo l'operazione della ragione, allora si è
laudabile la sua vita, quand'egli la mena secondo la sua propria vertude; ma
quando molte vertudi si raunano insieme nell'animo dell'uomo, allora si è la
vita dell'uo mo molto ottima e molto onorata,e molto degna,sicchè non puote
essere più;perciò che una virtude non puote beatitudinem ultimam propter se uo
lumus,cum sitfinisnosteretintentum à nobis; honores autem et uirtutes propter
beatitudinem, eo quod per ipsas pertingimus ad illam. Homo naturaliter ciuilis
est et con uiuithominibusetsocietatesexercet comel'uomo; lasecondapotenziasi
cumartificibusdecenter, nequeap chiama anima sensibile nella quale
petitsolitudinemneque desertum participal'uomo con tutte le bestie, neque
heremum. Perciò che tutte le bestie hanno anima Beatitudo es tres completa,
nullius sensibile;laterzasichiamapotenza indigens, perquamuitahominislau.
razionale, perlaqualel'uomosiè dabilisexistit. Beatitudoigiturexce
diversodatutte l'altre cose, perciò lentissimum est eligibilium et opti. che
neuna altra cosa hæ anima ra mumbonorum,cumsitperfectiore zionale,
sicomel'uomo.E questa rumoperabilium. Sicutigiturestin
potenziarazionalesiètalorainatto qualibetartiumbonumquodillaars
etalorasièinpotenzia;ondela intendit,etsicutestcuilibetmem.
beatitudinedell'uomosièquandoella brorumcorporis actus propriusin vieneinatto, enonquandoellaèin
quoeialiudnoncomunicat,sicest homini actus proprius in quo aliud ei non
comunicat. Homini autem se cundum animam uegetabilem COMUNICANT terræ
nascentia,et secun dum animam sensibilem comunicant ei animalia; actus uero ei
proprius, inquo nullum aliud ipsi comunicat, est actus secundum rationem et di
scretionem. Ratio uero duplex
est: potenzia: ratio uidelicet actualis et ratio poten tialis;dignior autem ad
intentionem rationis et magis cognita est ratio actualis,ut pote actus hominis
di. scernentis et agentis. Et omnis actio quam agit actor aut est bona aut est
mala. Actor autem bene agens in omni arte meretur intentionem uir tutis, ut
bene citharizans citharedus bonus; citharizans autem male malus. ottima che
l'uomo possa avere. L'a nima
dell'uomo si ha tre potenzie; l'una si chiama potenzia vegetabile, nella quale
comunica l'uomo cogli arbori e colle piante,perciò che tutte le piante hanno
anima vegetabile, si
bonesoumauvaisessont.Etcilqui quell'opera.Chècoluichebeneopera fait
lesbonesoevres,ilestdignes è degnod'auereil compimento di suo d'avoirle complimentdelavertude
mestiere, e queglichemalfanno, il celeoevre; carcilquibiencitoleest contrario.
Dunqueselauita dell'uomo dignes d'avoirlecomplimentdeson è secondo l'opera di ragione,
alora mestier, etciquimallefait, lecon- è da pregiare quand'eglila mena
traire;doncselaviedel'omeest secondolapropriauertu. Maquando
seloncl'oevrederaison,lorsestele mantieneuertusonogliuominisaui,
prisablequantillamaineseloncla esauioebisongniabile, enorevolee propre vertu;
mais quant maintes moltodengniosichepiùnonpotrebe
vertuzsontenl'ome,savieestbesoi. essere; percidcheunasolauertunon
gnableethonoréeetmultdigne, si puotefarel'uomodeltuttobeatone
queplusneparroitestre,porceque perfetto. Chèunasolarondineche
uneseulevertunepuetfairel'ome uengnianèunosologiornotemperato
detoutebeatitudeneparfait; carune nondonaciertanainsengnia del primo
solearondelequivieigneneunsseus tenpo. Eperciòinunopocodiuita
jorsatemprésnedonentcertaineen- d'uomoeinunopocoditenpoch'egli
seignedouprintens;etporceenpo facciabuoneopere, nonpossiamoperò
devied'ome,neenpodetensque direch'eglisiabeato. Qui ilfacebonesoevres, nepoonnosdire
diuisa di tre maniere di bene. Il queilsoitbeates. Libiensest
beneèdiuisatointremaniere, che devisezen.iij.manieres, carliuns
l'unoèilbenedell'anima,el'altro estbiensdel'ame,etliautresest delcorpo.
Mailbene dell'anima è il doucors, etlitiersdehorslecors; piùdengnio chenullodeglialtri,
maislibiens del'ameestplusdignes peròcheglièilbenedidio, e sua
quenusdesautres,carceestlibiens formanonèchonosutaseperl'opere de Dieu, et saformen'espasconneue
separlesoevresvertueusesnon. Et sanzfaillebeatitudeestenquerre
lesvertuzetenelsuser,maisquant beatitudeestenhabitetaupooir
del'ome,etnonensesfaiz,ceest àdirequantilporroitbienfaireet ilnelefaitmie,
lorsestvertuous aussicommecilquisedort, carses oevres ne ses vertuz ne se
mostrent pas. Mais l'omquiestbeatescovient aussi commeparnecessité que il face
uertudiose non.E sanza fallo beati tudineèinchiedereleuertuefarle. Maquando
beatitudine ènell'abitoe inpoteredell'uomononèsenone
fatti:questoèadire,quandoeglipuote benefareeno'lfaaloraèegliuer
tudiosoaltresìcomecoluichedorme; chè sue opere e sueuertunonsimo strano. Ma
l'uomo ch'èinbeatitudine conuiene altresì come per necissetà
ch'eglifacciailbeneinoperæsi comeilsauiochampionee forte che lebiensenoevre. Et
si comme li sichonbatteuuoleportarelacorona Actusigiturhominisunæstuitarum
l'uomo fare beato,nè perfetto,sic famosarum trium prenominatarum, una rondine
quando appare uitascilicetrationisetscientieet sola, eunosolodietemperatonon
sapientie. Etomnis quidemresbona dànno certa dimostranza che siave.
existitetdecora propter uirtutem sibi propriam. Vita ergo hominis actus
estanimeintellectiue per uirtutem sibipropriam; sedcumuirtutesani- memultesint,
eritperoptimam et honoratis simam in fine et dignissimaminfineperfectioniset complementi.
Unanempehyrundononpronosticaturuerneque diesunicatem- peratiæris,sicnecuitapaucæt
lobenedell'animasièpiùdegno tempus modicumsignumcertumsunt benedineuno, elaformadiquesto
beatitudinis. bene si non si conosce se non nell'o Bonum tripliciter diuiditur;
est perazioni, le quali sono con vertudi. bonum anime et bonum corporis et
nutalaprimavera;ondeperciò nè. inpicciolavitadell'uomo,nè in pic
ciolotempochel'uomofacciabuone operazioni, nonpotemodicereche l'uomosiabeato.
Lo bene sidivide in tre parti, chè l'unosièbenedell'anima, l'altrosi è bene del
corpo, el'altro si è bene di fuore dalcorpo. Di questi tre beni, come bonum extra corpus. Bonum ergo delle
vertudi e nell'uso loro; ma quoddignissimebonumdiciturest
quandolabeatitudineènell'uomoin bonum anime, neque apparet forma abito, e non
in atto,allora si è vir istiusboni, nisiinactibusquisunt
tuosacomel'uomochedorme,lacui auirtute. Et beatitude quidemest operazione e virtudenonsimani.
inacquisitioneuirtutumetinusu festa; mal'uomo buono di necessità earumsimul. Cumquefueritbeatitudo
è bisogno che l'aoperisecondol'atto, in homine tamquam in possessioneet et è
somigliante di quello che sta habituet non actu, tuncesttamquam neltravitoa
combattere; chè sola uirtuosus dorniiens cu non apparet mente quelli che combatte
et vince, actionequeuirtus. Beatusautemactu quellià la coronadellavittoria; e
necessarioexercet beatitudinem. Et se alcuno uomosiapiùfortedicolui,
quemadmodumperitiagonisteatque chevince, nonàperciòla corona,
robusticoronanturquidemetacci. perch'eglisiapiùforte,s'eglinon piuntpalmam apud
actumagoniset combatte, avvegnach'egliabbiala uictorie, sicuirtuosielectiboniac
potenziadivincere;ecosìlogui. beati laudantur et premia uirtutum derdone della
virtude non ha l'uomo suscipiunt dum apparent operationes se non in fino a
tanto ch'egliadopera ipsorum secundumueritatem;etisto. lavirtudeattualmente;
equestosiè rumuitæstin se ipsa delectabilis. perciòcheloloroguiderdoneela
Unusquisque enim hominum delecta- lorobeatitudineèladilettazione,che La
beatitudine si è nell'acquistare della
uettoria, tutto altresì l'uomo buono e beato æ il guiderdono e la loda della
sua uertu ch'egli fæ et mostra ueracemente per queste opere, perciò che il
guiderdono delle sue opere e della beatittudine è ildiletto ch'egli n'atantoe
com'egli opera la uertu; chè ciascuno si dileta in cid ch'egli ama; il giusto
si dileta in giustizie e l'asagia e gli piacciono, e 'l uertudioso nelle uertu.
Et tutte l'opere che sono per uertu sono belle e dilettabille in se medesime.
Beatitudeestlachoseau monde Beatitudine èl acosa al mondo che
quiesttrèsdelitable, maislabeati tudequiestenterreabesoingdes
biensdedehors;carilestdurechose quel'onfacebelesoevres,seiln'ia grant part des
choses avenables à bonevieethabondanced'avoiret d'amisetdeporenz,etprosperitéde
fortune, et por ce la sapience abe. soigned'aucunechosequifaceco
perciòlasapienzaàbisongniod'al noistre sa valor et ses honors.Se cuna cosa che
faccia conossere suo aucuns done as homes dou monde, ualore e suo onore.Se
alcuno dona disglorious et soverainsfaiz, l'en ahuomodelmondodonogroliosoe
doitbiencroirequecildonssoitbea. Sourano fattol'uomo debenecredere
titude,porcecequeestlamieudre che quellodonosiabeatitudine, perciò
chosequiestrepuisseaumonde; car ch'eglièlamigliorecosachepossa
eleestmulthonorable chose, etest esserealmondo; ch'ell'èmoltoono.
licompliemensetlaforme devertu; rabilecosa[essere]edèilcompimento
neiln'estpasditdouchevalnes elaformadellauertu;nèeglinonè desautresbestes, nedesenfans,que
micha detto del cavalloe del'altrebe il soient beates, porce qu'il ne font
oevres de vertu. Beatitude est chose ferme et estable, tozjors en une fermeté,
si que ele ne stie,nè degli fanciulli che sieno beati, perciò ch'egli non fanno
opere di uertu. Beatitudo è co sa ferma et stabille. Arrestiamo qui la
trascrizione del cod. Magliabech., sembrando ci la parte trascritta suciente ad
attestare la propria dipendenza dal testo francese. milglioreepiugioiosætradiletta
bille: mallabeatitudinedeeessere interræbenidifuori. Chè gliè dura cosa che l'uomo
faccia belle opere e ch'egli abbia parte di cose aueneuolliahuonauitædabondanza
d'auereedabondanzad'amiciedi parenti e prosperita di fortuna, e F sages champions et fors qui se combat et
vaint emporte la corone de victoire, toutautressilihom bonsetbeatesa le
guerredon et la loange de la vertu que il fait et mostre veraiement par ses
oevres, porce que li guerredons de la beatitude est li deliz que l'om
atentcomme iluevrelavertu,car chascuns se delite en ce que il aime: lijustessedeliteenjustise,etlisages
en sapience,etlivertueusenvertu; et toute oevre qui est par vertu est bele et
delitable en soi meisme. virtude, si è bella e diletteuile in se Beatitudo
autem omnium rerum est medesima. Beatitudo
si è cosa ot optimaiocundissimaatque delectabi- tima, giocundissimæ
dilettabilissima. lissima. Beatitudo tamen quest hic La beatitudine, la quale è
interra, si bonisexterioribusindiget; difficile
abbisognadeglibenidifuori,perciò est enim homini ut opera decora che non è
possibile all'uomo ch'egli exerceatabsquemateriautpotequod
facciabelleopereech'egliabbia habeatpartemcompetentemrerum
artelaqualesiconvengaabuona boneuitepertinentiumet copiam vita, e abbondanza
d'amicie dipa familie et parentum et prosperita- renti, eprosperitàdiventura,sanza
temfortune.Ethacquidemdecausa libenidifuori; eperquestacagione indigetars sapientiearteregnandi,
non abbisogna alcuna cosa che faccia ut apparere faciat honorificentiam
manifestare il suo onore e lo suo va suiatqueualorem. Etsialiquarerum lore.
Sealcundonoèfattodidome donata est hominibus a deo excelsa nedio glorioso e
eccelso agli uomini etgloriosa, dignumestutbeatitudo delmondo, degnacosaè da
credere siue FELICITAS donumsitdiuinum se- che quellodonosiabeatitudine,im
cundumquodipsæstoptimaomnium perciòch'ellasièlapiùottimacosa rerum humanarum;
est igitur de onorevole molto e compimento e rebus prehonorabilibus,cum sit
com. turineoquodestamatumapud eglihanno,
infinoatantoch'egliado ipsum; delectetur ergo iustus in perano la virtude; chè
il giusto si justitiætuirtuosusinuirtuteet dilettanellaiustiziæ'lsavionella
sapiensinsapientia. Etactionesfientes sapienza, elo virtuoso nella virtude;
peruirtuteminseipsissuntdelecta. eognioperazione,laqualesifaper biles uenuste
ac decore. forma di virtude. E neuna genera plementum uirtutis siue forma et
zione d'animali puote avere beatitu fructusipsius Non diciturautem
dine,senonl'uomo,eneunogarzone deequo neque de alio aliquo anima- nonhæ
beatitudine, perciòcheneuno liumhuiusmodi,nequedepueris, quod
animalenèneunogarzonenonado sintbeati,eoquodnequehuiusmodi perasecondovertude.
animalia neque pueri agant opera Beatitudo si è cosa ferma e stabile uirtutis. Etbeatitudoestresfirma
sempresecondounadisposizione, nella stabilis secundum dispositionemunam, quale non
cade varieta denèpermu inquamnoncaditalteratioet permutazione alcuna, e non
v'ha talora tatio, etnoncomitanturipsameuen: beneetaloramale, matuttaviabene,
tusuarii,etnuncbonitasnuncmalitia. E questo siè perciòchelabonitade Etenim bonitas
et maliciæstin opere elareitadesi ènella operazione hominis; et columpnabeatitudinis
dell'uomo. La colonna della beatitu
estoperasecundumuirtutem; co- dinesièl'operazione, chel'uomofæ 1 se remue pas,et si n'est mie une foiz bien
et autre mal, mais toutes foiz bien,porce que li muemenz de bonté ou de malice
n'est pas se es oevres des homes non. Li pilers de beatitude est lesoevres que
l'onfait selonc vertu,et la colone dou con traire est les oevres que l'on fait
selonc vice; et la vertus ferme et estable est en l'ame de l'ome.Li hom
vertueus ne se contorbe ne ne s'es maie por nule temporal chose qui li
avieigne; car il n'auroit jà beatitude se il s'esmaioit,car dolor et paor
abatent l'oevre de vertu et la joie de beatitude. Felicités est une chose qui
vient par vertu de l'ame, non pas dou cors. Aucunes choses sont mult griez à
sostenir;mais quant l'on les a bien sostenues,lors apert et se mostre la
hautesce de son corage; et sont au tres choses qui ne sont griez à sos tenir,
ne li hom qui les sueffre ne mostre pas que en lui soit force.Et jà soit ce que
mort et maladies de filz soient griez à sostenir, ne doivent pas remuer l'ome
de sa felicité; car bienetfelicité,ethome felixet Dex glorious et benois sont
tant digne chose et tant honorable que nulz pris ne nule loenge ne lor sofit
pas; et nos devons reverer et magnifier et glorifier Dieu sor toutes choses et
si devons croire que en lui sont tuit bien et toutes felicitez.,porce que il
est commencemenz et achoisons de touz biens. secondo virtude,e la colonna del
con trario suo si è l'operazione, la quale l'uomo fæsecondolovizio;equesta
operazione si erma e stante nel. l'anima dell'uomo,et l'uomo virtuoso non si
muove,e non si turba per cosa contraria temporale che gli possa a v venire,
perciò che già non arebbe beatitudine, s'egli si conturbasse, perciò che la
tristizia e la paura si toglie altrui l'allegrezza della beati. tudine. Sono cose le quali sono molto forti a sostenere; ma
quando l'uomo l'à sostenute pazientemente, si dimostra la grandezza del suo
cuore; e sono altre cose le quali sono lievi a sostenere,e perché l'uomo le so.
stegna non si mostra grande fortezza in lui, siccome morte di figliuoli e loro
malitia.Queste cose,avegnache ellesiano forti,non permutano l'uomo di sua
felicitade.La felicitade e l'uomo bene avventurato e domenedio bene detto e
glorioso sono tanto degna cosa e tanto da onorare che le loro lodi non si
possono dicere,e spezial mente si conviene a noi di reverire e magnificare
messere domenedio sopra tutte cose, e dee l'uomo pen sare di lui, che nel suo
pensare ha l'uomo tutto bene, e tutta felicitade, perciò ch'egli è
cominciamento e ca gione di tutto bene.
lumpna uero contrarii beatitudinis est opera secundum contrarium
uirtutis; et optima operationum secundum uir tutem est stabilissima earum in
ani ma;et uita beatorum continua est semperperactioneshonorabilesbonas; et
uirtuosus perfectus absque ex tollentia speculatur in rebus virtuali bus et
substinet irruentia mala et tollerat ea tollerantia decenti et non turbatur cor
neque formidat ex ma. gnis calamitatibus ex temporis malitia occurrentibus;
nisi enim eas decenter sustinuerit conturbabitur eius felicitas et inducentur
super ipsum meror et tristitiaque impedient secundum uir tutes operationes.
Quedam autem actionum malitie difficiles sunt ad sufferendum: sed quando
acciderint homini et eas sustinuerit,demonstrant eius magnanimitatem. Alie uero
que. dam facilepossuntsufferrietheecum inciderint homini et eas sustinuerit,
non demonstrant eius magnanimita tem; et mortuis ex bonitate actionum filiorum
et ex malitia ipsarum con tigit [modicum aliquid tante, in.
quam,quantitatis].transmittetfelices a sua felicitate ad infelicitatem; neque
infelices a sua infelicitate ad felicitatem. Bonum etfelicitasatque felices
et deus benedictus et excelsus digniora sunt et honoratiora quam ut lau dentur.
Immo conuenit quidem uene rari deum et ipsum singulariter m a gnificare et eius
intuitu felicitatem etfelicesetbonum,cum sintresdi. uine, et gratia quorum
omnia alia aguntur;et creditur de eo quod est Felicitade si è un atto il quale
procede da perfetta virtude dell'anima et non del corpo. Principium bonorum etipsorum causa, quod sit
res diuina. Felicitas est quidem actus anime procedens a uirtute perfecta,non
cor poris sed anime. Prima di passare
al raffronto della parte finale nelle diverse redazioni, non sarà inopportuno
riprodurre ancora un brano, del principio del secondo libro, che valga a
confermare le diffe renze e le relazioni da noi stabilite tra i due compendi,
volgare e francese, e il testo latino. Liber Ethicorum. Litresor, Virtus ergo
duplex est – Grice: NONSENSE: Virtue, like philosophy, is entire!--.,
Porceapert uidelicetintellectualiset ilque.ij.manieressont
moralis;intellectualis, devertuz: l'uneestde utsapientiætprudentia
l'entendementdel'home, etsimilia.Laudantese- ceestsapience, science nim hominem
ex parte Et uirtutum quidem tuel,nos disons:ce est uirium intellectualium eum appellamus.
intellectualium genera prisierdevertu intellec uns sages hom etsoutis; par
enseignement,et liumestperbonam et porcelicovientexpe honestam conuersatio-
rience et lonc tens. La nem;nequesuntinno- vertudemoraliténaist bispernaturam.Res et
croistparbonuset enimnaturalesnonegre. honeste;car ele n'est diuntur a natura
sua pas en nos par nature; perassuetudinem,utpe- àcequechosenaturele tra,quæsempertendit
ne puetestremuéede et sens; l'autre est de sapientem eum dicimus
autscientemaut(secun- choses semblables. Et dumaliquidhuiusmodi);
cepuetchascunsveoir sed ex parte moralium clerement; car quant
largumuelcastumuel un home humilem uel modestum mais quant nos le volons
tioetincrementumfit prisierdemoralité,nos inhomineperdoctrinam
etdisciplinam;ideoque chastesetlarges.X.La in eius acquisitione ex- vertu de
l'entendement perimentoindigetettem- estengendréeetescreue pore longo.
Generatio autem uirtutum mora en l'ome par doctrine et moralité,ce est chastée
et largesce, et autres disons:ceestunshom nos volons L'Etica.– Due sono le virtudi; l'una si è
dettaintellettuale,sicco me lasapienza e scienza e prudenza; l'altra si chiama
morale,sicome castitade e larghezza ed umiltade; onde quando noi volemo lodare
alcuno uomo divertudeintellet. tuale,diciamo: questi è un saviouomo,intende
vile e sottile; e quando noi volemo lodare un altro uomo di virtude morale,
cioè de costumi, si diciamo:questi è un uomo umile e largo.- Concio
siacosachesiano due vertudi,una intel lettuale e l'altra morale, la
intellettuale si si in genera e cresce per dottrina e insegnamento,e la virtude
morale si si in. genera e cresce per b u o na usanza;e questa ver tude morale
non è in noi per natura,percioc cbè natural cosa non si puote mutare della sua
disposizione per contra
riausanza.Verbigrazia: ad centrum naturaliter, lanaturadellapietrasi
etignisadcircumferen èl'andareingiuso,onde tia, numquam assue non la potrebbe
l'uomo receptionem, et perfi questevirtudinonsono tiunturinnobisexbona in noi
per natura,la po. A. amplio e chiarì meccanicamente l'esempio della pietra e
del faoco, valendosi del latino del Liber Ethicorum del commento tomistico:
puta lapis natura deorsum latus non autiqueassuescitsursumferri,
nequesideciesmilliesassuescat quis,eumsursumiaciens»;e sopratutto del Liber
minorum moralium: Lapis enim qui naturaliter deorsam descendit quamvis « quis
probiciat ipsum sursum uicibus innumerabilibus, quarum non comprehenditur
multitudo, «uolens per hoc assue facere ipsum mouerisursum, numquam
habebitpossibilitateminhoc.Et similiter ignis non est possibile at recipiat per
assuetudinem diuersum motionis suæ ». nos par usage; por quoijediqueces vertuz
ne sont pas dou tout en nos sanz nature ne dou tout selonc nature; mais li
commencemenz et la racine de recoivre ces vertuz sont en nos par nature,et le
lor c o m pliment est en nos par usage. Et toutes choses tanto gittare in suso, situm; neque aliarum
ch'ella imprendesse ad rerumullaassuescetop. Andareinalto ;elana-
positumnaturesue. turadelfuocosièd'an. Attamen cognationem dareinsuso,ondeno'l
aliquamhabetconsue. potrebbe l'uomo tanto tudo cum natura et co trarreingiuso,
ch'egli gnationemaliquamcum imparassedivenirein intellectu. Nonsuntita que in
nobis uirtutes niunacosanaturalepuo- morales naturaliter, ne tenaturalmente
farelo quepreternaturam; sed contrario della sua na- nati sumus ad earum giuso;
eduniversalmente tura. Mà avvenga che scunt huiusmodi oppo consuetudine. Item
omne puissanced'aprendrela tenziadiriceverleèin quodinnobisestnatura.
estennousparnature, noipernatura,elocom- literpreextititinnobis
etlicomplemenzesten pimentoèinnoiper potentialiter,deindeap usanza. Ondequestever.
paretactualiter.Ethoc tudinonsonoinnoi al manifestumestinsen
postuttopernatura;ma sibus. Sensus enim in laradicee'lcomincia.
nobisnonfiunteoquod mentodiriceverequeste uideamusuelaudiamus multociens,sed e
con trariofitinnobis.Ha bemus enim eos prius naturaliteretpostmo. vertudi si è
in noi per natura, e'lcompimento elaperfezionediqueste virtudisièinnoiper
usanza. Ognicosala
dumexercitamurineis. sonordreparusage con traire.Raison comment: la nature de
la pierre est d'aler tozjors aval, ne nus ne la porrait tant giteramont que ele
seust sus aler; et la nature doufeuestd'aleramont, ne nus ne leporroit tant
avaler que il seust en aval metre la flamme. Et generalment nul na tural chose
ne puet par usage aprendre à faire lecontraire de sa nature. Et jà soit ce que
ceste vertuz ne soit en nous par nature, certes la diusinterextremadicta, Et porunemeismechose et d'oïr, et par celui quella potenziao dee
ethocmodoestinom- pooirvoitetoit,etnus vede, enonvedel'uomo nibus
artificibus.Nam nevoitdevantqueilen prima eode, ch'egliab- hedificatores sumus
ex ait le pooir. Donques bialapotenziadelve- usuhedificandietcytha.
savonsnosquelipooir dereedell'udire. Dunque rediexusucytharizandi; est devant
le faire.Mais vedemo già che la po- ex bene quidem facere es choses de moralité
tenziavadinanziall'atto. hocbonisumusinbiis, estli contraires;car E nelle cose
morali è ex male autem mali. l'uevre et li faiz est de. tutto locontrario, chè
vant le pooir. Raison l'operazioneel'attova eadem
fituirtusetcor- comment:aucunshom dinanzi alla potenzia. rumpitur.....autem a
la vertu de justise, Verbigrazia: l'uomosi similiter sanitates. Et cor
mentneleseustlimais. rumpunturexpaucitate tresseiln'eneustovré fatteprimacase,
edal- etmultitudine,uttimi- autrefoiz. Autressi se trimenti non potrebbe ditas
et procacitas. Ti- vent aucun bien citoler peravereeglimoltevolte
averequellaarte, seegli midusenimfugitomnia, Exeisdemergoetper porce que il a
devant hæ la virtude che si actiones laudabiles cor- fait maintes cevres de
chiamagiustiziapera- rumpunturproptersu- jostise; etunsautresa vereegli
fattoinnanzi perfluitatemautdiminu- lavertudechastée, porce
molteoperazionidigiu. tionem, utexercitia su- que il a devant fait stizia, edhæl'uomola
per fluaaut diminutæt maintesoevresdecha virtudechesichiama
nutrimentisusceptiosu-stée.Toutautressiest castita deperavereope-
perfluaautdiminutafor- des choses de mestier rate dinanzi molte ope- m a m
sanitatis corrum- et de art.On scet faire razionidicastitade;e punt, equalitasautem
maisons,porcequeon cosiadivienedellecose ipsorumsanitatemfacit
enamaintesfaitespre artificiali, chè l'uomo et auget et conseruat. Et mierement; car autre
hal'artedifarelecase uirtutes morales porce que il en sont non
l'avessemoltevolte procax autem omnia in- molt usé. Et li hom est adoperata
dinanzi;esi. uadit. Fortitudo autem bons por bien faire,et migliantemente
l'arte qualeèinnoiperna- Virtutesautemacqui- qui sontennosparna tura, sièprimæpoi
rimusexfrequentatione turesontpremierement sivieneinatto,siccome
actuumhabitusinducen- enpooiretpuisen fait, avviene de sensi del- tes. Iusti
etenim sumus aussi comme li sens de l'uomo,chèprimaha exusuactuumiustitie,
l'ome;cartoutavanta l'uomo la potenzia dive. et casti similiter, scilicet li
hom pooir de veoir dere e d'udire, e per ex usu actuum castitatis, del ceterare
ha l'uomo inhisesthabitusme- mauvaispormal faire. et
inest fortitudo ei qui scit fugere a fugiendis et inuadere inuadenda, ethichabitusacquiritur
Per una medesima exconsuetudineuilipen cosasigeneranoinnoi di (sic)
terribilia.Sicca levirtudi,esicorrom ponosequellacosasifa indiversimodi;eadi
viene della virtude si comedellasanitade,che una medesima cosa in diversi modi
fatta fa ella sanitade e corrompela. Verbigrazia: la fatica s'ella è temperata
si in. genera sanitade nel corpo dell'uomo,e s'ella è più che non si con. viene
o meno che non si conviene,si corrompe lasanitade;esìadiviene della virtude che
si cor rompe per poco e per troppo, e conservase per tenere lo mezzo.Verbi.
grazia: paura e ardi mento corrompono la prodezzadell'uomo;per cio che l'uomo
che ha paura si fugge per tutte le cose, e l'uomo ch'è arditoassalisceognicosa
e credelasi menare fine; e nè l'uno nè l'al. tro non èprodezza;ma la prodezza
si è tenere lo mezzo intra l'ardi mentoelapaura;edee stitatishabitusacqui.
ritur ex consuetudine retrahendiseauolupta tibus,etsimiliterseha
betinceterishabitibus laudabilibus. per avere molte volte ceterato; e l'uomo è
buono per far bene,e lo rio per far male. naissent en nos et se cor rumpent les
vertus,se cele chose est menée en diverses manieres;tout autressi c o m m e la
santé; car travailleratempree. ment engendre santé au corsdel'ome;maistra
vailler o plus ou mains que mestiers n'est,cor ront la santé; mais meenneté la
garde et acroist: autressi est de vertu, car ele corront et gaste par po et par
trop,et si se conserve et maintient par la meenneté.Raison com ment: Paors et
harde corrumpent la proesce del' om e; c a r li hom qui a paor s'enfuit por
toutes choses, ne n'ose nule emprendre; et li hardis emprent à faire toutes
choses,et les cuide mener å fin. Et sachiez que l'une ne l'autre n'est pas proesce: mais
proesce est aler entre hardement et paor. Et doit li hom foïr les choses qui
sont à foïr, et envaïr les choses qui sont à envaïr. Et cist habiz est aquis
par usage de desprisier les terri bles choses,et habiz de chastée est aquis par
u a mens l'altre virtudi,siccome tu hai inteso della pro dezza; chè tutte le
virtù s'acquistanoesisalvano per tenere lo mezzo. Col raffronto del devez entendre de toutes vertuz.
brano finale mettiamo termine a questo prospetto comparativo, che porta un
contributo,non privo d'in teresse, alla conoscenza della fortuna aristotelica,
ed è d'impor tanza fondamentale per la storia dei compendî neolatini del
l'Elica nicomachea. che sono da fuggire.
E sage de retenir soi contre l'uomo fuggire le cose cosideiintenderein tutte
ses covoitises. Autressi Liber
Ethicorum. Educatio puerorum secundum no- Dee essere lo notricamento delli
bilem legem necessaria est ad indu- garzoni secondo la nobile legge, e
cendumeispermodumcastitatiset ausarliadoperazionidivirtù, ein non per modum
continentie. Inde- questo dee essere per modo di castità, lectabilisenimest
apud plures homi. enon per modo di continenzia, per. Numususuirtutum per modum con-
ciocchèl'uso della CONTINENZA TEMPERANZA non è tinentie.Nequeabstrahendæsteis
dilettevolea molti uomini, enonsi manus statim post pueritiam, sed dee ritrarre
la mano di gastigare continuanda est eis usque ad con il fanciullo via via dopo
la fan sistentiam et robur virilitatis. In ciullezza; anzi dee durare in fino
al rectificando quosdam sufficit redar- tempo, chel'uomo è compiuto. Sono
gutioetcastigatio sermocinalis, in uomini che si possono correggere aliisautem
quibusdam uixsufficitas. per parole e sono altri che non siduatio uerberum tam
quam in bestia. si possono correggere per parole, Neutrouerohorummodorumrecti-
anziv'èmistieripena. Esonoaltri ficabiles tollendi sunt de medio. No- che non
si correggono in niuno di bilisetstrenuusrectorciuitatisciues questiduemodi,
equesticotali nobilesefficit, etbonioperatoresha- sono datorredimezzo.
Lonobilee'l benteslegemetoperalegisexer- buonoreggitore dellacittafanobili
centesaduersantureisqui contraria cittadiniebuoni, li quali servan ola agunt,
etsibonaagant. Inpluribus leggeefannol'oper achecomanda ciuitatibus iam abiit
regimen uite la legge e sono avversari a coloro hominum ideoque dissolute
uiuunt che non osservano gli comandamenti et propriassectantur uoluptates.Et
dellalegge, avegnach'ellifacciano regimen quidem conuenientius est bene. In
molte citta di èitoviailreg. communis prouisio moderata,cuius gimento della
vita dellihuomini,però usum obseruare possible est et non che si vivono dissolutamente
ese summedificile: etquodcupitquili. guitanolelorovolontadi. Lopiùcon
betseruariinseetamicisetfiliiset venevolereggimentoche porresi familia. Et precipueydoneusadtalis
puotenellacittà, sièquellocheè regiminisconstitutionemestillequi
temperatoprovedimento, intalmodo sciuerit quod dictum est in hoc libro. che si
puoteosservareenonètroppo Scietenimcanonesuniuersalesad grave;
equelloloqualedesidera particulariadistrahere. Communis l'uomo che si osservi
insèenelli I codd. ce questicotalisono
rei perchè sonopartiti in tutto dal mezo, et « debbono essery odiati si come
sono li lupi et cacciati d'ongne buono luogo. Lo nobile etc. L'Etica
d'Aristotile. Li Tresors, Magliabech. Et li norrissemens des enfans doit I
nodrimenti da fanciulli debbono estrenoblesentelmanierequeil esserenobili, sichesiabeneapreso
soientaprisàfaireetàuserlesbones afareedausodibuoneopereper oevresparchastée
non mieparcon- chastitænomicapercontinuanza. tinance, carcontinancen'estmiecon-
Che continuanza nonemicha conue venablechoseasgens;etl'onne neuollecosaagienti;
el'uomo non doitpasostercestusagenecest deemichaleuare questausanzane
chastiement maintenant que il ont questo chastighamentoimmantenente enfance
passée, mais maintenir la ch'egliàla fanciulleza sua, maman jusquesàtant quelidroizaagessoit
tenerla insinoa tanto che il diritto acompliz. Iliahomesquipueent estre governé
par chastiement de paroles, et autresiaquinepueent
mieestrechastiéparparoles,mais par menaces de torment; et autre home
sontquel'onnepuet chastier ne parl'unne parl'autre; ettelhome
doiventestrechastiésiqueilnede- mourentavecautresgens. Li chacciatisi ch'egli nodimorino
con noblesgouverneresdelacitéfaitles l'altrigienti. Quidicedelgouerna
citeiensnoblesetlesfaitbienoyrer mentodellacitta Ino.
etgarderlaloietcontresterasautres biligouernamentidellacitta defanno
quinelagardent, jàsoitcequeil icittadininobilieglifabene operare lefacentbien,
Maintescitez sontoù e guardare la legieecontradirea
ligouvernementdelaviedel'ome quegliche nollaguardano,concio sontdestruit,
etviventdissoluement, siacosach'eglifaccianobene.Molte car chascuns va après sa
volenté. città sono oue il gouernatore della Liplus nobles governemensquisoit ụitadell'uomoè
distrutæuiuono enlaviedel'ome, età moinsde disolutamente, chè chattuno
poineetdetravail,estcilquel'on apressosuauolonta. Il più conuene consirede maintenirsoietsamaisnie
uolle comandamento egouernamento etsesamis,etcilpuetconvenable- chesianellauita
dell'uomo e apena mentmaintenirgensquiaurala dipeneeditraualglioè quellache
science de ce livre; porce que il l'uomo considera di mantenere se e
saurajoindrelesenseignemensuni. suamasnadæsuoiamici; equeuli
verselsaveclesparticulers; carci- puote conueneuollementemantenere
teiennecommuneest diversedela gientecheàconsecolascienzadi
particulere,aussicommeentozmes- questolibro; peròch'eglisapragiun agiosiacompiuto.
Esonohuomini che possono esseregouernatipergha.
stigamentodiparole, ealtrisonoche no possono esseregastigatiperpa role, ma perminacieditormenti;
e altrisonochel'uomononpuotees seregastigati nè per l'unonè per l'altro; etallihuominidebbonoessere uæ A.
riduce molto sensibilmente il testo latino e ne sopprime a dirittura la fine. Forse
A. ritenne compiuto a quel punto trattato aristotelico della morale e credette
opportuno escludere le parole seguenti. Forse a lui medico e mæstro fa ombra
quell'accenno, in fine, all'arte della medicina. Probabilmente A. rappresenta
più da vicino il metodo pratico, e il libellus de servanda sanitate pnò darcene
fede. S'è cosi, A. non puo piacevolmente accogliere l'affermazione
aristotelica. Namque ciuilitas differta
particulari suoi figliuoli e negli amici suoi. E quem ad modum in medicina et ceteris
lo buono ponitore della legge si è potentiis operatiuis; inhacintentione
quegliloqualesale regole universali, nonmodicæstdifferentia. Inomnibus le quali
sono determinate in questo ergo huius necessaria cognitio uni. libro,et salle
coniungere alle cose uersalium simul et particularium. particulari le quali
vegnono altrui Experientia enim sola non est sufficiens in hiis, neque
scientiauniuer- saliuminipsissecuræstetcerta absque experimento. Multi ergo m e
dicorum sola freti experientia in se ipsis,quidem intendunt,bene uidentur
operari et in aliis non proficiunt quicquam,eo quod naturam ignorant. Considerandum est itaque
qualiter et per que erit quis peritus legislator. Erit autem hoc per noticiam
rerum ciuilium, que subiectum sunt huius potentie. Quemadmodum se habet in
ceteris artibus consimilibus huic, posse experientie in inuentione legis non
estmodicum.Quidam putauerunt quod hac ars et rethorica sint unum et idem: in
uno etiam putauerunt intralemani,peròcheabeneordi. esse uiliorem hanc
rethorica: et leue quid reputarunt scientiam condendi le. ges. Non estautem
sic;electionam que in arte qualibet actus nobilis est, et quidem per duo
est,siue per scien tiam et experientiam: et per scientiam quidem est actus
illius inventio et per experientiam est ipsius directio et certificatio. Et universaliter connare le leggi si è mistieri
ragionee sperienza. di uiuere coronpono
ibuoni usi di tiers;
carenchascunechoseconvient gniere lo'nsigniamento uniuersale il conoistreles
particuleresetlesuni. Chol particullare; chèciertauitadi verseleschoses,
porcequeseuleespe. comuneèdiuersadallaparticullare, rience n'estmiesoffisansence;
et savoir les universels choses n'est pas altresicomeintutti mestieri, chèin
ciascuna cosa conuiene conoscere li seure chose sanz l'esperience; ainsi
commenosveonsmaintmirequi par particullari e queste uniuersali cose, peroche
solla SPERANZA non èmica soficiente in cio; e sapere l'uniuersali cosenon è
mica sicuracosasanza seule experience sevent maint bien
faireenlormestieretenseignierne les porroientasautres, porcequeil
n'ontsciencedes universels. Donques l'esperienze; sìcomenoiueggiamo molti
mediciche per sola speranza seracilparfaizmaistresdelaloi
neseguemoltobenefareinsuome. quiseitlesparticulerschosespar stiere,
einsengniareno'lpotrebono experience et qui seit les choses agli altri, però
ch'elgli non áno universels. scienza de l'uniuersali cose. Dunque Home furent
qui cuidierent que sara quegli perfetto mæstro della rectoriqueetla science
demaistrie legie chefæle particullari cose deloifussentunemeismechose,et
persperienzæ che sa le coseuni penserentquecestesciencefustle- uersali. giere;
maislaveritén'estpasainsi, Huomini furono che credottono che porce que li
maistres de la loi doit lla retoriccha e la scienza di m o
estresemblablesàsesciteiens, et strarelegiefossonounacosa, epen
doitsavoircestart, etquilesaura sarono che questa scienza fossele
liseraprofitable, etautrementnon; giere; ma llaueritanonècosi,però
etseilcommencastà faireloisanz cheimastridellalegiedebbonoes cestescience,
ilneporroitdoitrement sere similgli antialoro cittadinie conoistrenejugierlabontéde
sana- ture, deacomplirladefautedesa science, mais porcequenoscuidons
consirertouteshumaineschosespar legiesanzaquestascienzæglinon guise de
philosophie, simetronstout potrebe dirittamentegiudicharenė avant
lesdizdesancienssages; et conosere di bontà di sua naturane
encepenseronsquelesdes ordenées conpieladifaltadisuascienza. Ma manieres de
vivre corrumpentles perochenoi abbiamo d'andarecon bons us des citez,
etliconvenable siderandotutteumanecose perguisa les redrescent,
etquiestl'achoison diphilosophia,simetonotut'auanti demaleviededanzlacitéetdela
i detti deli antichi sauieciòpen bone, et parquoilaloiest semblable
seremonoicheledisordinatemaniere as costumes. Debono saperequestaarte: chilese
guirrasaràprofitabileealtrimenti non.Es'eglicominciasonoafare ditio legum similatur potentiis ciui libus,
nec potest esse conditor legum qui non habuit scientiam istius artis. Qui uero habuit eam proficiet
per experientiam et qui non, non. Et cum inceperintimponere legem absque habitu
scientiali, non recte discernent. Neque bene iudicabit, nisibonitaset
excellentia multa nature suppleat de. fectum scientie. At quantum cumque natura
bene disposita sit, est tamen promtior et expeditior est in uere iudi.
cando,cum secum habuerit certudinem artificialem.Quoniam itaque proponi mus
speculari in rebus humanis modo philosophico, substinemus primitus
dictaantiquoruminhoc; deindeconsi derabimus modos uiuendi,qui extant; qui
ipsorum corruptiui sintconsortii ciuilis in ciuitatibus quibusdam et
rectificatiui in quibusdam, et qui corruptiui in omnibus et qui rectifi. catiui
in omnibus, et que est causa bonæ uite quarundam ciuitatum et que causa
quarundam habentium se e contrario, et quarum leges con suetudinibus
similantur. Incipiamus ergo et dicamus. cittadini,e le conueneuoli la dirizzano, e
chi è chagione di malla uita dentro alla città e della buona, e perché la legie
è sembiante a costumi. Da questo prospetto risulta chiaro quanto abbiamo prima
affermato, ed insieme con la questione dell'etica volgare è risoluta quella non
meno importante del volgarizzamento del Tresor e delle fonti di esso, che
Sundby con molto buona volontà ma con poca fortuna rintraccia nel latino
dell'altro Liber Ethicorum, del commento tomistico e nelle chiose d’AQUINO (si
veda). È naturale che il critico ha qualche volta gridato all'impossibilità di
trovare il passo corrispondente nell'originale, ch’egli rinvenne del resto
molto malconcio e scompigliato nel volgare di LATINI. Nè Sundby è il primo a
esser tratto in inganno circa le fonti del libro del Tresor. Già Mehus parla di
un'etica latina di cui si valse LATINI, compilata per incarico dell'imperatore
Federico I a Napoli, e di una traduzione in latino del Liber magnorum
Ethicorum, fatta sotto gl’auspici di Manfredi da mæstro Bartolomeo di Messina. Mehus
è senza dubbio fuor di strada. Giacchè quest'ultima opera rimane estranea alla
tradizione dell'Etica nostra, nè di quella prima imperiale versione
d'Aristotile pare che non sia lecito dubitare. De'rifacimenti latini dell'Etica
aristotelica dirò compiutamente in un prossimo lavoro; giacchè non è più
possibile star paghi alle vecchie notizie,e d'altra parte le buone ricerche del
Jourdain non sono affatto compiute e i risultati da lui ottenuti non sono più
in buona parte sostenibili. Della Nicomachea si conoscono cinque redazioni
latine nel 1300; delle quali tre derivano direttamente dal greco: l'Ethica
uetus che comprende solo il secondo e il terzo libro,l'Ethica noua che contiene
il primo libro, e il Liber Elhicorum che abbraccia tutti i libri e al posto dei
primi tre inserisce con frequenti ritocchi e modificazioni il testo dell'Ethica
noua e dell'Ethicauetus. Il Liber Ethicorum, che fu commentato d’AQUINO
(vedasi), ebbe larghissima diffusione,come pare anche dal numero e dalla
importanza de'mss. che lo contengono, insieme col commento tomistico servi di
testo fondamentale per l'instituto filosofico etico del tempo. Per il tramite
arabo ci son pervenuti due rifacimenti latini della Nicomachea,d'indole ben
diversa: il Liber Ethicorum, volgarizzato d’A., che SERVE DI FONTE al Tresor, e
il Liber Minorum Moralium o liber Nickomachiæ, tradotto dall'arabo in latino
per opera di Ermanno il Tedesco (Herman nus Alemannus). È questa la parafrasi
dell'Etica fatta da Averroè; il rifacitore non volle solo tradurre l'opera m a
intese altresi chiarirla e spiegarla,accrescendone e sviluppandone idati
dimostrativi che nel testo sono ridotti a'risultati de'processi lo
gici.Aristotile parve un po'contratto;l'arabo ne distese imuscoli Fin ora ho
potuto esaminare ventidue mss.,di cui quattro del sec.XIII
(Laurenzian.89,sup.44;XIII Sin.1;79,13; XIII Sin, diciassettedelse colo
(Ambrosian. F. 141 sup.; A. inf.,di mano di Boccaccio; Laurenz. XII Sin.7; XII
Sin.9; Nazion.Napoli,VIII G. 11;G. 25; G.27: Riccard. III;Marciana (mss.lat.) cl.VI,39,
41,43,44,122;Uni vers.Padova; Antoniana; Capit. Padova G. 54; e uno del sec.XV:Ambros.R.
50. sup.). Laurenz. , sup. Trova si pure
impresso in tutte le edizioni di Aristotele con il commentario di Averroès
(Venezia, Andrea d'Asolo; Giunta). Laurenz. X I I I, Sin. 1 2; V I I I,
Dext. 6. (3) Ashburnham.e ne arrotondo icontorni, stemperandone la fibra.
Aristotile, ada giatosi nella mollezza araba un po' adiposa, si presento all'in
telligenza un po'incerta, bambina alquanto e stentata,delle nuove genti latine
che con più agevolezza poterono,cosi in veste più larga,contemplarlo e
comprenderlo; e l'opera aristotelica, accresciuta di quel po' di cemento della
parafrasi araba che riempiva gl'interstizî apparenti della sua costruzione
ideale,poté intendersi e premere sulle coscienze senza l'aiuto di un com
mentario apposito che dissolvendone l'unità finale ne facesse a p parire gli
elementi semplici di formazione. Cod.Ashburnhamiano955[=
1]membr.sec.XIV,conlaprimapagina miniata.Tit.: L'Etica del sommo phylosofo
Aristotile; la soscrizione finale si legge difficilmente; pare: Explicit liber
Ethicorum Aristotelis phylo. sophj in uulgari idioma scriptus: di cc. scr. 48,
le cui ultime presentano molte abrasioni. Cod.Magliabechiano 12.8.57
[52]membr.sec.XIV;titolieiniziali color.,di cc.scr.26. Com. Prolago sopra
l'etichadel sommo phylosofo Aristotile; in fine: Explicit liber ethicorum
Aristotilis. deo gratias. In fondo è ilnome del trascrittore «Sander me
scrissit». Cod.MagliabechianoA.2.3.2[= 3]membr.sec.XIV;titolieiniziali in
rosso,di cc.scr.22. Com.: Prolago sopra l'etica d'Aristotile; in fine: Qui
finisce il libro dell'Etica del sommo filosafoAristotile il quale tratta delle
uertudi che ssi conuegnono auere a cchostumi ed a buona vita delli huomini. In
fondo « Giouanni di Lapo Arnolfi lo fece scriuere. Compiesi di < scriuere m
»; più sotto è indicato iltrascrittore«Sanderme scrissit»:è
lostessodelcod.precedente. MARCHESI. Cod.Magliabechiano 2.4.274[=
4) membr.sec.XIVexc.dicc.scr.44, miscell., contiene il Trattato sulle avversità
della fortuna (c.1-16'). L'Etica com.: Incipit Ethica Aristotilis translata in
uulgari a magistro A. florentino; infine: Explicitethica Aristotilistraslatatape
rmæstro A. deo grazias. A c.1a « Qui cominciano le robriche di tutto il libro
dell'eticha « d'Aristotile traslatata per lo mæstro A. ». Cod.Marciano
(mss.ital.)II,3 [= M]membr.sec.XIV,225 X 164,di cc.46 non
numerate;anepigr.Precede il trattato «de la doctrina di tacere «etdi
parlare»diAlbertano da Brescia;finisceac.11a:Quifiniscee libro de la doctrina
di tacere et di parlare el quale fece messere Alber tano giudice da brescia
nell'anno domini Millesimo CCXL V del mese di dicembre Deogratias Amen.Dopo un
foglio vuoto,ac.13a seguono alcune « Sententie Tulij et Senece et aliqua dicta
Aristotilis », che vanno sino a c.18a. L'Eticii,anepigrafa,vadac.18'ac.46t;iltestoèmolto
guasto e scorretto,senza alcuna divisione in libri; in fine: Finitus est liber
deo gratiasAmen. Cod.Palatino634[=5] membr.sec.XIV;rubricheeinizialicolorate:
di cc. scr.27, più una bianca. Tit.: Incomincia l'eticha d'Aristotile in uol.
gare; in fine: Explicit ethica Aristotilis translata a mgio iohe min. deo
gratias. Cod.Riccardiano 1538 [= 6;vecch.segn.S.III.47]membr.sec.XIV
inc.,miscell.,con belle iniziali colorate e rabescate e numerose vignette
intercalate nel testo,di cc. scr.231. Tit.: Incipit etthica Aristotalis. Segue
all'Etica il trattato delle quattro Virtù, il Segreto de Segreti e da l t r e
scrittur e sacre e profane;il cod.,come sivede dalla soscrizione
finale,appartenne a un Bertus de Blanchis che ne fu forse anche il
trascrittore. Cod.Riccardiano 1651 [= 7;vecch.segn.N. IV.27]membr.sec.XIV,
coniniziali colorateer abescate, dicc.scr.50.Tit.:Prolagosopra l'ethica
d'Aristotile;infine:explicitliberEthicorum Aristotelis. Contiene in oltre:
Egidio Romano, la esposizione della Canzone di Cavalcanti. Cod. Laurenziano Sup.110[=
a]membr.sec.XV, dicc.42.Nella 66 C. MARCHESI Cod. Riccardiano membr. sec.
XIV, miscell.; presenta t r a c c e di quattro mani diverse;la più antica
riempi ifogli dell'Etica (da c.5a a c. 3 0 ). Com.: Qui comincia l'etica
d'Aristotile. Cod. Ambrosiano C.21.inf. membr.del sec.XV, dicc.58,con la prima
pagina fregiata e miniata, con lo stemma del possessore e il ri tratto del
filosofo; le iniziali di ogni libro colorate e fregiate. Com.: La Prefatione di
'l primo libro di l'Ethica de Aristotele ad Nicomacho suo figliuolo; nessuna
soscrizione finale. prima pagina è lo stemma del possessore con la
indicazione « Jacopo di « piero benciuenni ciptadino florentino spetiale a
pie'del Ponte Vecchio 1488 ». Tit.:Prolago sopral'eticadelsommo phylosofo Aristotile;infondoporta
la data della trascrizione: 1451. Cod. Laurenziano [= r] cartac. sec. X V, di
cc. 118. Precede a p. 1 « Insegnamento delle uirtudi e mortificamento de'uitii
secondo Aristotile e detti e autorità notabili di Santi et di molti saui et
filosafi et poeti » cioè, il VII libro del Tesoro. L'Etica cominciaac. Qui comincia
l'etica d'Aristotile; in fine: Explicit l'etica d'Aristotile. Cod. Magliabechiano2.4.106[=
m]cartac.sec.XV,dicc.77,miscell.; contiene volgarizzamenti di opere sacre.L'Etica(c.54-72t)com.:
Qui co mincia un'opera facta per lo grande sapiente Aristotile detta l'Eticha;
in fine: Finita l'eticha d'Aristotile translatata per mæstro A..deo
gracias.Sottoèl'indicazionedell'anno Scrittadigennaio1459».
Cod.Magliabechiano2.2.72[= p]cartac.sec.XV,miscell.:contiene la dottrina del parlare
(estratta dalla P.I,cap.13del Tesoro), il Segreto de Segreti, il volgarizz. da Vegezio
Flavio,un libro delle Aringherie etc. Si trova unito a questo un codicetto
dello stesso formato, di cc. 18, conte nente una piccola storia o diario della
città di Firenze. L’Etica va da c. 5 4 a c. 3 6 ', a n epigr. In fine: Compiuta
è l'Etica d'Aristotile translatata in uolgare da mæstro A.. Cod. Magliabechiano21.9.90(=
r]cartac.sec.XV exc.miscell.Con tiene una parte del trattato del Governo della
famiglia di ALBERTI (vedasi) e dell'Etica solo il libro ottavo e nono; vede
bene che il trascrittore ha volutoestrarrelaparte riguardantel'Amicizia;ambedue
ilibrisondivisi in capitoletti. A c. 6 1 è l a soscrizione del copista Strozzi
», eladata:. Codice Marciano (mss.ital.) I,134(= N) membr.sec.XV,205X 138,
cc.64 non numerate,con le iniziali dei libri miniate e dorate. Com.: Incipit
proemium transductoris huiusoperisuulgaris; iltestocom.ac.21:Libri Ethicorum
siue Moralium Aristotelis qui sunt X in multa capitula diuisi, quia generaliterdemoribussehabet.
Nam inprimo librodeterminat de felicitate morali et eius partibus. Segue un semplicissimo
ristretto volgare degli Economici,indue libri:Incipiunt libri Ichonomicorum
Ari. stotilis duo diuisi in aliqua capitula pertinentis ad gubernationem
familie. Nam in primo libro determinat de partibus Iconomiceetde coniugatione
mulieris et uiri, quæ dicitur nuptialis,de coniugatione parentum ad filios quæ
dicitur paterna,et dominorum ad seruos quæ dicitur dispotica. « La scientia di
regiere la casa ha nome Iconomicha et è differente da la scientia di
reggiere la cipta la quale ha nome polliticha. Non solamente « perchè una cio e
la Iconomica considera el regimento de la casa et la « politica el regimento de
la cipta,ma etiandio perché in reggiere la casa «nondieesseresenonuno.».A
c.61asegueun Extractum Aristotelis de libro Secreta Secretorum de arte
cognoscendi qualitates hominum ad Alexandrum regem. In ultimo è questa
soscrizione: « Ex Venetiis primo finis». Codice Marciano (mss.ital.) (=
V]cartac.sec.XV inc.,272X200, di cc.48 non numerate,con la iniziale miniata e
il titolo rubricato: Hetica d'Aristotile; finisce a c.38 ': Qui finisce il
libro detto Ethyca d'Aristotile. Composto per lo nobile phylosapho Aristotile
greco Atheniense scritto e compiuto. Nellestinche di firençe nel malleuato di
sotto. Seguono due carte bianche, e a c. 41 il libro di sentenze, che si legge
pure nel Marciano II, 3. Cod. Mediceo-Palatino membr.sec.XV,di cc.scr.54, più
quattro vuote:ititolidei libri e dei capitolicolorati;scrittomolto nitida
mente.Per incuriadichirilegòne'due primi quaderni è un'inversione cui pone
riparo la opportuna numerazione delle pagine.C o m.: Incipit Ethyca Ari. Stotilistranslatainuulgariamagistro
A. florentno; infine:Explicit Ethica Aristotilis traslatata per magistro A..Deo
gratias Amen. Cod.Palatino cartac.sec.XV, dicc.44,miscell.;contiene il libro di
ammæstramenti,sentenze,il libro di Catone,il trattato delle quattro virtù, e
altri volgarizzamenti di carattere morale. L'Etica com.: Questa si è l'etica
d'Aristotile; in fine: Explicit etica Aristotilis translata a magistro A..
Cod.Palatino510[= d]cartac.sec.XV inc.,dicc.111,miscell.;con. tiene
volgarizzamenti da BOEZIO (vedasi), CICERONE (vedasi), etc. L'Etica com.: Qui
chominciano i fioretti dell'etica d'Aristotile; in fine: Finiti i fioretti
dell'etica deo gratias. Cod. Palatino
cart a c. sec. X V, dicc. 4 5: iniziali colorate e fregiate. Inc. Qui
chomincia il proemio sopra l'ettichia di Aristotile Pren. cipe di filosafi; in
fine: Finito e libro chiamato l'eticha d'Aristotile a di X X V d'ottobre mille
quatrociento quarantacinque per le mani di filippo Adimari da firenze a uso e
stanza di se e di suoi amici deo gratias. Cod.Riccardiano1084 [= c]cartac.sec.XV,dicc.49;inizialieru
briche colorate. Inc. Comincia il prolago del libro della hetica d'Aristotile;
in fine « deo gratias amen ». Cod.Riccardiano cartac. sec.XV, dicc.248,miscell.;con
tiene scritture sacre.L'Etica va da c.49a a c.702. Com.: Prolagho
sopra l'eticha del somo filosafo Aristotile; in fine: Finiscie l'eticha
del sommo filosafo Aristotile deo grazias. Cod.Riccardiano 2323 sec. XV,di
cc.51; rubriche e iniziali grandi colorate.Precede la Introduzione al dittare
di «mæstro Giouanni « bonandree da Bologna », con questa ottava al principio «
Di Bologna natio «questoautore|nellacittastudiandodou'ènato conallegrezzæmæstral
«amore di giouani scolar questo trattato brieuementecomposeilcui ti «nore
conciedeachi l'aurabeni studiato sopra quelche la epistola a di. manda et
sofficientemente in lei si spanda ». L'Etica è compresa da c.20 ac.51;infine: Explicit
Eth. Ar.traslatataamagistro A.inuulgare. Scribere qui nescit nullum putat esse
laborem. Cod.Riccardiano1610[= h]cartac. sec.XV, dicc.26, miscell.;contiene il
trattato delle quattro virtù.Com.: Incipit liber Ethicorum Aristotilis;
infine:ExplicitliberEthicorum Aristotilis.Ilcopistafu«lulianusAndree a de
Empoli che lo scrisse « per sè e per i suoi consanguinei ». Cod.Riccardiano cartac.sec.XV,dicc.69:inizialierubriche
colorate,con frequenti macchie d'acqua nel margine.Contiene il Segreto de
Segreti(1"-44a)el'Etica (441-68a); com.: Fioretti dell'eticha d'Aristotile
del primo libro; in finc: Qui finiscie el libro dodecimo ed ultimo delle ticha composto
perlonobile filosofo etsommo Aristotile.Amen. Cod. Ambrosiano J. 166 inf.
Cartac., trascriz. rec. Il codice consta di più parti cucite insieme. L'ultimo
quaderno contiene l’Etica, il Segreto,e il volgarizzamento dell'orazione pro
Marcello. La trascrizione è fatta con molta probabilità su di un codice antico,
fedelmente. L'Etica è anepigrafa; in fine: Explicit Eth. Ar.Manca ogni
divisione della materia. Cod.Erbitense [Biblioteca Comunale di
Nicosia].Cartac.,trascriz.rec. Contiene il volgarizzam. toscano del de Amicitia
e il compendio dell'Etica, che manca del primo libro. Cod.Napolitano
Nasion.XII.E: Copia recente d'un ms. quattrocentino posseduto dalla biblioteca
di casa Bentivoglio. Contiene il trattato della fisimomia (sic), ch'è aggiunto
in fine come tredicesimo libro dell'Etica.Inc.: Dell'Eticha del sommo filosofo
AristotilelibriXIII;in fine: Qui son finiti i dodici libri dell'eticha del
sommo Aristotile. Cod.Ambrosiano G. Sup.(=
Amb.)membr.sec.XIV,aduecolonne, con rubriche fregiate e colorate; di cc. scr. 121.
L'Etica va da c.56a « In « cipit libro d'eticha Aristotile » a c.73a « Expicit
libro d'eticha Aristotile. « Incipit libro costumantie. L'ultimo capitolo con cui
si chiude il codice è: Come ilsignoredeestarearendereragione. Finisce (c.121a) «eprenderai
« commiato dal consellio e dal comune de la citta e te ne anderai a gloria dea
honore. Finiscelo libro di mæstro Brunecto Latini da Fiorenza». Cod. Ashburnhamiano
540 (= a)cartac.sec.XIV;anepigr.e mutilo, dicc. 138. L'Etica finisceac.73t: Explicitelica
Aristotilisa Magistro A. in uulgare traslata. Il resto del Tesoro si arresta a
cc.88 (lib.VII, cap.27]; a c.90 è un capitolo in terza rima di Dante: lo
scrissi già d'amor pii uolte in rime,con una notizia sull'occasione ch'ebbe il
poeta di scriver quella poesia;a c.94 è una legienda chome tre monaci andarono
nel paradiso di lutiano. il qual e in terra... Seguono altri scritti,tra cui un
framm. del Fiore di filosofi. Cod.Gaddiano cartac. sec.XIV,acef.e mut.; ilprimo
foglio è aggiunto di mano diJacopo Gaddi, dicc.147, sciupatodall'acqua. Ilcodice
si chiude con l'Etica,ed ha questa soscrizione: Finito el libro fatto e chon
pulato per Latini. Il cod.come si vede da un'indicazione sulla
guardia,apparteneva a'figliuoli di « Giouanni di ser Andrea di Michele « Benci
lanaiolo cittadino fiorentino ». Cod.Laurenziano42.23(= ) membr.sec.XIV,contitoliinrossoe
le iniziali colorate, e il ritratto del mæstro, in principio, dipinto nell'atto
che insegna; di cc. 142. Il testo è diviso in tre parti: dopo la prima è un
indice della materia precedente; un altro indice di tutta la rimanente m a
teria trovasi alla fine del codice. L'Etica va da c. 59! « Cominciamento del «
segondo libro del Tesoro lo quale e appella l'eticha che compuose Ari « slotile
» a c.774 « Explicit hetica Aristotilis a magistro A. in uol. «gare
traslectata». Infinedelcod.: «Explicitlibroloqualefuecomposto per lo mæstro
Brunetto Latino di fiorenza et poi traslectato di fran ciescho in latino (Bondi
pisano mi scrisse dio lo benedisse. Testario sopra nome, dio lo caui di gienoua
di prigione. et a llui et a li autri che ui sono e da dio abiano
benizione.Amen amen). La soscrizione è di mano dello stesso copista.
Cod.Laurenziano 90 Inf.46 (= d)cartac.sec.XIV exc.,aduecolonne; titoli in rosso
e iniziali colorate; di cc. L'Etica va da c. 74+ (Qui co. mincia l'ectica
d'Aristotile et est la segonda parte del Tesoro) a c. 100a (Explicit l'etica
Aristotile in questo tanto che io noe trouata).In fine del codice: Qui fenisce
lo sourano libro-Explicit lo libro del Tresoro. Cod. Magliabechiano 2. 8. 36
(vecch. segn. 25. 258] secc. XIII-XIV: acefalo e mutilo di cc.91. Comincia al
lib.II, P. I,cap.19 efinisceal lib.III,P.II,cap.21. L'Etica finisceac.19a,senza
alcuna soscrizione. Tra il compimento della prima parte e il principio della
seconda (cc.44-75)sono della stessa mano alcune tavole planetarie e
astrologiche, tavole ad lunam et ad Pascham inveniandas etc. Proven.Strozzi.
Cod.Palatino cartac. sec.XIVexc.,dicc.214; miscell.Con tiene,oltre il
Tesoro,ilLibro di amæstramenti di costumi,le cinque chiari della
sapienza,iltrattatodelle quattro Virtù morali,lo libro di Chato. L'Etica va da
c.87+ Qui chominciano le robriche del secondo libro del Tesoro, cioèd'eticha d'Aristotile-
epoi: Quisi chomincialo secondo libro del Tesoro e primamente dell'ecitta
d'Aristotile) a c.115a [Explicit Etica Aristotilis a Magistro Tadeo in vulgari
traslatta ta deo grazias. Finisce il Tesoro a c.175a.Al recto dell'ultima
carta,dimano di poco po. steriore, si legge « Questo libro è di Giuliano di
Giouanni Quaratesi: chi llo « achatta, piaccagli renderlo per l'amore di dio, e
dalle lucerne e da' fan «ciullilorighuardi».Com.iltestodel Tesoro: «Questo è lo
librochessi «chiama Texoro loqualeèchauato dalla bibbiæde'libridifilosofi a che
ssono stati per li tempi ». Cod.Riccardiano 2221 (= 2)membr.sec.XIV,di cc.127;
iniziali co lorateefregiate. L'Eticavadac. 58'«Incipit libbro elichaAristotile»
a c.75'«Expicit libbrod'etichaAristotile».A c.1224: Qui finiscielo libro di
mastro bruneto Latini da fiorensa. Si nota una grande confusione nella
distribuzione della materia dell'Etica,prodotta dallo spostamento di varie
parti. Cod.Laurenziano 42. 19 (= P) membr.sec.XIV, a due
colonne,con molte miniature e iniziali colorate; di cc.93. L`Etica va da c.40a
« Qui « comincia la seconda parte del Tesoro di Burnetto Latino el quale libro
e si chiama la ethica d'Aristotile » a c. 51a « Qui finisce l'Eticha d'Ari a
stotile ». = u. membr. Cod.Casanatense1911(= )cart.sec.XV,dicc.130;anepigr.mutilo.
L'Etica va da c.33* Qui chomincia il nobile libro che fecie il sauio Ari.
stotilefilosafocioèl'Eticasua)ac.45 (fincieillibrodel'etica). Inun'av.
vertenza apposta al codice stesso è notata la mancanza della parteche ri guarda
la Politica (lib.IX); vi si trova la teologia,divisa in due parti; com.: Voiuoresti
ch'ioviconfortassi l'animeuostremaio dubito fare ilchontrario.;(in questo
trattato si parla di dio,angeli,sacramenti, del l'anima).Nel fl.r.membr.della
guardia è un indice della materia che giunge sino alla natura del delfino (V
libro). Cod.Magliabechiano2.2.82(= n)cartac.sec.XV,dicc.111,mutilo; siarresta
al principio dell'Elica (cap.1): sièinutileinquestascienza. Inc.: Qui comincia
lo libro il quale fece ser Benedecto (sic) Latini di firense e parla della
nascienza di tutte le chose e æ nome il Tesoro. L'Etica ha questo tit.: Qui
comincia il sechondo libro del Tesoro facto per ser Brunetto latini di firenze
il quale parla dell'ethica di Aristotile. Si trovano in questo codice altri
volgarizzamenti da Seneca, Boezio, G e ronimo etc. Cod.Magliabechiano2.2.48(=
v)cartac. sec.XV,dicc.153,mutilo; e x p l. « Q u i d i c i e della Branchacio e
d i c h oncrusione ». I n c.: In comincia il Tesoro di Latini da Firenze
conpilato in francescho. L'Etica va da c.60a [Qui parlla il mæstro della
beatitudine.coe.parlla Aristotile sopra l'eticha] a c.81* [Qui finisce il
secondo libro di questo trattato di ser Brunetto Latini oue brieuemente a
trattato della beatitudine e delle uirttu sopra l’etica d’Arisstotile. Al mar g.
i n f. della prima pagina si legge il nome di un possessore: Concini. I CODICI
MUTILI DEL TESORO. Cod.Leopold.Gaddiano IV (= 0) membr.sec.XIV,a due
colonne,con la iniziale dorata e dentro essa l'effigie dell'autore; di cc.40.
Inc.: Qui in. chomincia el Tesoro di ser burnetto Latino di firenze. E parla
del na. scimento e de la natura di tutte le cose. Si arresta alle parole «
allora «uegnonolichacciatoriefanno»,cioè al penultimo capitolodellaprima parte
(de unicorno).Sul foglio di custodia in fine si legge il nome del possessore «
Liber mei Angeli Zenobii de gaddis de florentia ». Cod.Leopold. Gaddiano 26 (=
T)cartac.sec.XIV,a due colonne,di cc.88. Inc.: Questo libro si chiama il Tesoro
maggiore il quale fece mæstro brunetto Latini di firenze, e tratta della bibia
e di filosofia e delle uecchie istorie ad amæstramento di choloro che
leggierano.Contiene tutta la prima parte e il prologo della seconda (c. 85): «
E poi uerra il prolagho apresso a questo dicha de l'eticha del grande sauio
Aristotole ». Cod.Laurenziano 42. 22 (= E)cartac.sec.XIV,di cc.165;titoli in
rosso e iniziali colorate, con l'effigie dell'autore in principio; mutilo.
Inc.: In nomine Domini Amen. Qui comincia lo libro del Thesoro maggiore, lo
quale libro fece mæstro brunetto Latino di fiorenza. Questo primo libro fauella
del nascimento di tutte le cose di filosophia et di sue parti. Prologue de la
natura di tutte cose. Si arresta alla prima parte: « per « ragunare la secunda
parte di questo thesoro che dia essere da pietre pre «tiosecioecharbonchi
perlle diamanti».La lezione di questocodice in moltissimi punti si allontana da
quella comune delle stampe e dei codici, non solo per diversità di
espressioni,ma anche per copia e qualità di notizie. Cod.Laurenziano 42. 20 (=
B)membr.sec.XIV,a due colonne,col ri. tratto dell'autore in principio; titoli
in rosso e iniziali colorate, di cc. 112. Inc. « Questo libro e chiamato il
tesoro magiore il quale fece ser burnetto. « Latini di firenze il quale tratta
de la bibbia et di filosofia et del cho « minciamento del mondo e de
l'antichita de le uecchie istorie et de le a nature di tutte chose insomma ad
amæstramento e dottrina di molti. «Ed erechato di francescho in uolgare
apertamente».Comprende la prima parte e il prologo della seconda: Qui parla
alquanto d'eticha d'A ristotile.A c.112a è un elenco de're di Francia.
Cod.Laurensinno 42. 21 (= p) cartac.sec.XV,di cc.70. Inc.: Qui comincia il
libro del Tesoro il qual fe ser brunetto da fiorença e parla del nascimento di
tutte le cose.Contiene fino a tutto il libro V. Molte varianti.
Cod.Magliabech.VIII.1375 (= U) membr. sec.XIV. Anepigr.,acef., matilo, dicc.32,aduecolonne,con
le iniziali colorate.Proven.Strozzi.ediz.. Romagn., Bologna)ne «elliuengnano. Etperciononæinloropuntodifermeçça
ketuttecose ve tutte creature si muouono e si mutano in alimento percio dico
ken « questi tre tempi cioe li passati e li presenti e quelli ke sono a uenire
non a sono niente se del pensiero noe a chuelli souiene de le cose passate e in
« guarda la presente ed atente quelle ke deono uenire » etc.... sino a c. 41
(p. 94, ed. cit.) « e la reina non uolse aconsentire al matrimonio anzi la «
uolea donare ». Da questo punto ch'è evidentemente interrotto, per man. canza
di nesso con la pagina seguente,la distribuzione e l'entità della m a teria
sembra in gran parte diversa dalla comune del Tesoro. Riferiamo talune rubriche:
a c. 5a il cod. seguita « dira qui apresso Lamet frate di Comelore
Manfredi prega il ppche li concedess e il ren gno etc. etc. Seguita quindi a
dire di Manfredi e della battaglia di Benevento e di Carlo d'Angiò e di Gianni
da Procida e de'Vespri,lungamente.Vengono appresso altre narrazioni « Come si
lamenta il conte Giordano Cod.Palatino 483 (= Q)cartac.sec.XV,dicc.65. Inc.:Quichomincia
lo libro il quale fecie ser Benedetto Latini di firenze e parlla della n a
scienza di tutte le chose e a'l nome il Tesoro. Comprende la prima parte e il
prologo della seconda. Ne resta esclusa dunque l'Etica e il resto del Tesoro.
Insieme con questo codice si trova legato un altro, di mano diversa, contenente
iframmenti del Buouo d'Antona,in ga rima. Cod.Riccardiano2196(=
w)membr.sec.XV,aduecolonne,dicc.67. Si ferma al punto ove parla del « modo di
trovare l'acqua e delle cisterne » È da notare che ci troviamo di fronte a una
lezione ben diversa dalla più comune. CONCETTO MARCHESI. «Giosepoe figliuolo
diJacobetc.... Come sicominciai agioaltempo «diSaulediJerusalem–
Loquintoagiosicominciaquandoigiudei «eranoinpregione Danielf.gesseediSaul
·delgloriosoreSalomone «profetta de elias deloredugidiTebas– dieliseusprofete.
de « isaie profette de germie profette etc. etc. ». A c. 9 abbiamo un cata logo
di pontefici: segue la storia della chiesa di Roma e di Costantino. Poi « Come
franceschi perdero lo 'perio di lo re imperadore di Roma « primo taliano di
beringhieri come perdeo la sengnoria e uenne amao «dotto di Sasogna Reame della
mangna Arigho della mangna «Comeloredifranciafusconfitto
Comelo'peradorepreseliparlati «difrancia Come la chiesa uacantidi buoni pastoritradivalo'peradore
tinuamente la natura lauora in tutte cose seguono figure astrono miche,della
luna,del mappamondo. Finisce a c.32. « Dell'altra citta di uerso nasce lo fiume
di rodano e uassene dall'altra parte uerso borghon « Francia diuide in « gnia e
per proenza molto correndo e anzi che lli sia a mare si
«duepartiellamaggioreparteentrainmare presoadArlil'altrobraccio.». Qui si
arresta il codice. Come con KLII, A. FLORENTINUS. qua fortuna. Sunt quivelint
ex humili prorsus loco, et infima populi fæce.Sed contra aliisvidetur editus
exAiderotta gente,non patricia illa et primaria;duplex enim fuit;sed
altera,minus quidem nobili,fedhonefta et liberali. A. certe patrem habuit, et ex
gente A. di ctus est a Scriptoribus. Fuere A. fratres Simon et Bonaguida,
homines obfcuri, quorum vix nomen ad nos pervenit. Ac A. quoque ip sum narrant
non minimam ætatis partem non folum inglorie, sed ignominiose etiam
transegisse. Adeo enim ftupidum a natura fuiffe tradunt,ut totis triginta annis
n e c literas didicerit, nec honetto ulli artificio aprus fit visus. Itaque v i
ctitasse ajunt sordido et illiberali quæftu, occupatum præ foribus sacelli S.
Mi. chælis in Horto vendendis minutis candelis, quas ibi religionis causa
accendi mos erat. Sed exactis triginta ætatis annis, quafi ex veteri somno
experre ctum, et dissipata cerebri caligine, incredibili ardore excitatum ad
literas, quarum discendarum ftudio Bononiam, adhuc rudem, et vix in Grammatica
eruditum convolasse ajunt. Sed hæc, quæ de A. memoriæ tradidit Philip pus
Villanius, quamquam et Florentinus, et non indiligens scriptor, et ad m o d u m
antiquus, aliquis in dubium revocat, quod fabulis fimilia videan. tur; qua de
re integrum erit unicuique judicium. IÌ. C u m igitur Bononiam venisset, ut
optimarum artium ftudiis animum excoleret, in quo omnes consentiunt, FILOSOFIA totum,
ac Medicinæ le de dit. Incidit A. adventus ad fcholas noftras in illud tempus,
cum Medica facultas, quæ antea ufu fere et exercitatione peritorum tota
continebatur, a FILOSOFI tractata, nova luce donari cæperat; fi tamen vetus
illa Arabum Philosophia, quæ tunc scholas invaserat,n o n ubique tenebras et caliginem
offundere poterat. Sed ita persuasum erat hominibus, atque hæc potislima A.
laus fuit, quod primus ex noftris Medicinam cum Philofophia arctissi m o fædere
conjunxisse visus sit. Tentaverant id quidem ante A. alii, (h) et erantin
Academia noitra ante illum Phyficæ, five,ut dicere ama bant, Phyficalis
ientiædoctores,& professores, quifacem A. ipfiprætu. lerant; nec dubito,
quin eorum aliquem in scholis noftris audierit. Sed ille unus plus operæ
contulit inftaurandis Medicina ftudiis ad ejus fæculi guftum, q u a m
fuperiores omnes. Extant adhuc ampla ejus commentaria in libros vete rum
Magiftrorum artis Medicæ, partim typis edita, partim manu exarata in
locupletiorum bibliothecarum pluteis, quæ primum inter docendum in scholis
nusprotulitexlibroHH. Excerpt.Scriptur.
Annotaz. del Dot. Ant. M. Biscioni al Conventus S Crucis Flor. Vid.
Ci.Mazuccbel,in Conv. di Dante. In Firenze XVI. "Haddæus Florentiæ
natus eft paulo post initium sæculi XIII.,(a) incertum THE, Nnn 2 Obiit anno
MCCXCV., ut infra dice- teringum et c. Presentibus Mag. Salveto de tur.Cum
igitur,Philippo genarius decesserit, natum oportet Villavio auctore, octo
annoMCCXV. Com.Bonon. Ferraria et M a g. Santo de Cesena. Ex Mem. ab Pbilip.
Villan, in lib. de laut.Florent. in Append. N. XII. Ex tabulisanni MCCLI., quas
Biscio.Ci. Mazuccbel. loc.cit. Jul.Mag. A. professor artis Medicine
Vid.Jo.Antr.Vunjted defair.viror. fil. qnd.d n.Alderotti de Florentia fecit
Joan. illuftr. et c. nem dn. Anglonis fuum procuratorem ad re Petri Hispani,
cipiendam pacem et remifsionem a Loteren. Ro.Pontifexrenunciatus,di&tusif Jeannes
XXI., go qui dicitur Rigutius et a Bonino fuo fi commentaria babemus in librum
Ifaac Medici, quæ lio et ab omnibus et fingulis aliis de consan- Jubtilitatibus
dialecticis abundant. Ilm in hipo guinitate ipsorum... de omni injuria, et pucratem
w Arijtotelem scripufe dicitur; nec du offenfione que dicebatur eise facta per
Mag. bito, quin bæc fcripta aliquanto ante A. A. vel B.naguidam fuum fratrem
commentaria prolierint. Sed quantum bæc illis vel per aliquem de
contanguinitate ipforum præjliterint, doctorum hominum judiciun postea vel quæ
diceretur eise facts per predictos L o vlendit. A., ab eo tradita,
m o x ab auditoribus excepta, incredibilem ei famam concilia runt. Id autem in
eo potissimum mirabantur homines, quod ita Medicinam tractaret, ut ejus
facultatis canones et præcepta ad severioris FILOSOFIA ratio nes exigeret; quod
nemo ante illum magno fuccefsu perfecerat. III. In hunc modum recepta eft in
scholis noftris vetus illa Medicina FILOSOFICA, fi ita appellare licet, quæ
brevi tempore omnes Europæ Acade. mias pervafit, et innumeros Scriptores tulit.
Hinc agmen interpretum in Hip pocratem, et Galenum, atque Avicennæ in primis,
aliosque veterum Medico rum libros, A. duce; cui non satis ad laudem fuit
interpretem dici,sed plufquum interpres a quibufdam dici amavit, et ut alter
Hippocrates apud Italos habitus eft. Ejus autem gloffæ, præcipuis Medicinæ
libris adjectæ, in scholis communi suffragio receptæ sunt, et pro ordinariis,
ut dicere folebant, longo tempore habitæ eodem loco fuerunt apud Medicinx
Itudiofos, atque Ac curtianæ gloffæ legum libris appofitæ apud Juris Civilis
professores. Magister etiam Medicorum jure di&us eft, ob excellentium
Medicorum copiam, qui ex ejus fchola prodierunt. Tanta denique ejus nominis
fama, et inre Medica celebritas fuit, ut perinde esset in usu popularis
fermonis Thaddæum fequi, ac Medicinam
profiteri. IV. Docere cæpit A.., aut non multo fe rius; eodemque tempore
scribendo vacabat, neque operam fuam curandis V.Cum igitur æque felix in curandis
ægrotis, acdoctusinscholareputa retur, non folum in civitate noftra Medicinam
fecit, sed paflim vocabatur ad curandos magnates, et viros principes per alias
Italiæ civitates. Hinc aliquis de illo magnifice potius, quam verescriptum
reliquit, non confuevisse illum aliis, quam principibus, et nobiliflimisviris
curandis operam præftare. Sed il lud tamen indubium eft, non fivisse aliò fe
abduci ad curandum quemquam, nifi pacta ingenti mercede, quæ non tam efiet pro
loci diftantia, aut difficul tate curationis, quam pro fui dignitate, et facultatibus
eorum, ad quos CU randos vocaretur. Neque far erat de mercede pacisci: nam fibi
quoque cau. tum volebat de itu et reditu, accepta ingentis pecuniæ sponsione
pro fecurita: te itineris·Dignæ sunt, quæ legantur, tabulæ an. scriptæ,cum
Thaddæus Mutinam iturus esset ad curandum Gerardum Rangonum. In iisRan goni
procuratores A. promittunt, fe facturos, ut liberum iter et expedi ium ad eam
civitatem habeat, fufcipientes in se omne periculum, et impen sam: quod si
pactis minime ftetiffent, promiserunt, fe eidem reftituturoster mille libras
bononinorum, quas depofiti loco a Thaddæo ipfo accepisse fate bantur. Similes
tabulas habemus cum Mutinam rurfus ment. in Parad. ALIGHIERI, dou a vellutela.
MEDICINE ! Ita appellati:r a Benvenuto ImolenfiCum evo. apud Ercard. Corp.
Histor. med. ævi col 1 1 lo ibid. Sed qui plusquam Commentator a Pbi. qui
revera opus fuum tum inscripsit, is fuit Turrisanus A. auditor;de quo
alibifermo erit. plufquam Commen M a per amor della verace manna Hic homo, cum
penes Italos, ut al. fundature, Paradisi, t e r Hipocras haberetur. Pbilip.
Villan. de Laud. Tbali læus ad calcem Commentar. ix A Florentiæ,five de Cl.
Florentin. Non per lomondo, percuimo's'afo In picciol tempo gran dortorli feo. Dant.Aligber. de S.Dominico
Ord.Prædicator. tis defiderari patiebatur. Docendi tamen, et scribendi laborem
intermifit an no,utopinor,cum civilebellum, a Lambertacciis, et Jere.
miensibusexcitatum, civitatem noftram miserandum in modum conculit.Sed ipfe
quoque fatetur,se aliquando a scribendo ceffasse ob quæstum, quem curan dis
ægrotis faciebat. Atque hinc apparet, quæ fides habenda fit Philippo Villanio,
cum scribit, A., fpreto lucro, fe totum interpretandis vete. rum Magiftrorum
libris dedille. Fallitur etiam Villanius, cum scribit, Thaddæum ftipendio
publice conftituto Bononiæ docuiffe; nondum enim, eo vivente,Medicin æ
profefforibus ftipendia attributa fuerant. lippo Villanio, aliisque
Scriptoribus dictus et, fanna Diretro all'Ostiense et a Taldea (c!Eo anno
Mag.Thaddæus Medicorum magitter moritur. Ricobald. Compilat.Cbronolog.
pborismos Hippocrat. bulm. Pbilip.
Villan. loc. cit. ægro evocaretur ad curandum Guidonem Guidonum.
Utrasque in Appendice dabi mus.Sed quis credat, in his contractibus bona fide
actum? Ego fraude caruisse non arbitror. Facit, ut ita credam, infignis
Odofredi locus, ad fraudes pertinens Advocatorum sui temporis; qui cum
immodicasmercedes præterjus falque pro suis advocationibus et patrociniis
extorquere vellent a clientibus eos adigebant ad ftipendium, quali deberent ex
causa mutui.Eodem artificio usum arbitror A., quem ne obulum quidem verisimile
eft deposuisse apud Rangoni, et Guidoni procuratores. Sed ego tamen existimo,
A., probum hominem et pium, non ita immitem fuiffe, ut tam ingentes pecu-, nias
exigeret ab iis, quos curandos aggrederetur. Potius crediderim, hanc cau tionem
voluiffe, ne jutta mercede fraudaretur, et damna fibi æquo jure præfta rentur,
quæ quacumque ex causa pertulisset. Vocatus
aliquando ad curandum Romanum Pontificem, negasse dici tur se iturum, nisi
centum aurei nummi in dies fingulos penderentur. Quod cum immodicum videretur
iis, quibus negotium datum erat, ut cum Thaddæo transigerent, neque ea de re
conveniret; concessit tamen Pontifex, grandem quantumvis pecuniam vitæ et incolumitati
fuæ pofthabendam ratus. Mox autem, cum arnice Thaddæum argueret, quod tam magno
operam suam locaret, ille admirationem fimulans; ego vero, inquit, multo magis
obftupesco, cum ceteri fere viri nobiles, et minores Principes quinquaginta et amplius
aureos nummos mihi in dies conferre soleant, tibi, qui maximus es Chriftianorum
Principum,grave visum esse,quod centum petierim.Sed Pontifex,ubi A. ftudio
optime convaluit, decem millia aureorum eidem rependi juffit, non tam ut tantum
virum pro dignitate fua, et ejus meritis remuneraretur, quam ut omnem ab se
averteret avaritiæ suspicionem. Itanarrat Philippus Villanius, qui tamen
Pontificis nomen filet• Sed hunc fuisse Honorium IV. alii Scriptores tradunt,
et in primis Joannes Tortellius in libro de Medicina et Medicis ad Simonem
Romanum. Sunt etiam qui hæc tribuant Petro Apono illuftri Medico, de quo alio
loco dice mus. Sed credibilenon videtur,tum quiapotiormihiet auctoritas Philippi
Villanii, et Joannis Tortellii, quam aliorum multo recentiorum, qui hæc de
Petro Apono scripserunt;tum quia Honorii IV.ætate Petrus Aponus nondum ad
tantam famam pervenire potuerat, ut ad curandum Pontificem accerseretur. Sunt
qui immaniter augent pecuniam, quam Pontifex recuperata valetudine Thaddæo
numerari jusserit; nec desunt qui non minus, quam ducenta millia aureorum
accepisse dicant. Sed nimis multa mihi etiam videntur pro iis t e m poribus vel
ea decem millia, quæ Villanius omnium modeftiffimus narrat. A. certe Medicinam faciens ad
ingentes divitias pervenit;nec facile est reperire plures ejus facultatis
professores, qui majores fint consecuti. Ejus autem commodis, et utilitatibus
consuluit etiam non uno modo Populus Bononiensis. Ei nimirum, et ejus hæredibus
concessa eft immunitas a vectiga libus, et remissio ab omni munere publico.
Additum eft, ut libere a quovis intra fines Agri Bononienfis prædia, et fundos
emere posset, quos vellet; modo ne ab exulibus et profcriptis. Itaque eum
voluerunt gaudere omnibus civium commodis,neque iis oneribus obnoxium effe,quæ
cives reipublicæ causa sustine re debebant. Ejus quoque discipulis eadem.
privilegia, et immunitates populi beneficio concessæ sunt,quibus gaudebant
ScholaresJuris Civilis et Canonici. Id autem, nominatim pro auditoribus Mag. A.
ftatutum, aliorum Medicina profefforum
auditoribus communicatum est. Ita honor additus est Scholæ ad Simonem Romanum
Medicum præftantif Dicit advocatus, fi
promittis mihi fimum. Ex Cot. Vatican. aput Apostol. Zenun milleaureos nominefalarii,
nonteneris.Sed in Dissert. Volpian.faciasmihiunum inftrumentum, inquo con Ex Stat.
Pop. Bon.tineatur, quod tu teneris mihi dare mille ex vel potius in quibus eji
Rubri. causamutui. Odofred.inl. Sifubfpecie.C.de cadeprivilegio Mag.A. ductoris
Fixi Polulando. Pbilip, Villan, loc. cit. ce et diicipulorum ejus. Vid.,dow
Jo.Tortellius de Medicina& MedicisMedi. Medicæ,quæ A. potissimum
opera magis aucta, et nobilitata,parigradu deinceps fuit cum scholis Legum, et Canonum.
X. Nescio quid molettiæ illi etiam intulisse credo Clarellum quendam,ut opinor,
Medicum, five quod ejus doctrinam impugnaret, five quod medendi rationem
carperet. Queritur de illo in Commentariis ad Joannicii Ifago gen, X I. Habere
consuevit in familia sua Thaddæus Medicos aliquot, quibus adjutoribus uteretur
five in scholæ muneribus, five in ægrotantium cura. Eo rum aliqua mentio eft in
ejus teftamento, quod in Appendice damus. Dome ftica quoque negotia, ne quid
esset, quo a suis ftudiis interpellaretur, per pro curatoresaliquando agere
consuevit. procuratorem suum conftituit Octavantem Florentinum, affinitati fibi
conjunctum,eum, qui Jus Pontificium exeunte fæculo XIII. in scholis noftris
docuit;de quo fuo loco diximus. Vit. Append. Pertinet hoc ad annum tisnominedñe Adelefuefilieipfi Mag.
A. dum numero, quo luci altitudő indicatur. dieXV.MajiMag. tia. bus dicitur
Regalettus Bunaguide de Floren.Quamdiu vixit priinum dignitatis locum tenuit
interMedicinæ profef fores; ac multum ei quoque tribuerunt professores aliarum
disciplinarum. Sed gravis offenfionis causa ei aliquando fuit cum Bartholomæo
Varignana,qui ex ejus schola, ut verisinile eit,prodierat, et magiftro adhuc
vivente ma gnopere celebraricceperat. Receperat
ille in Medicina erudiendos quofdam, qui ad A. fcholam ante accesserant. Id ei
magno crimini datum eft a A.; ac fortasse erat contra leges scholafticas,vel
Academiæ noftræ mo rem. Neque vero aliter to'li diffidium potuit,& sarciri
injuria,qua affectum fe credebat A., quam ubi Varignana promisisset omnem pænam
pora'em, et fpiritualem ultro subiturum, q u a m in e u m ftatuissent Vicarius
Ar. chidiaconi Bononienfis, et aliquot doctores ex Collegio Magiftrorum,
arbitri ad tam rem delecti. (c) quæ cum scriberet, nondum, ut arbitror, id
auctoritatis consecutus erat, ut hujusmodi obtrectatoris importunitatem
fortasse A. natura suspiciofus, et ad inanes metus comparatus; quod,ni fallor,
oftendunt etiam tot capta de securitate itinerum, et ftipendiorum fuo rum
caurelæ, et iterata fæpius testamenta, de quibus diximus. Id porro ex ejus
corporis habitu, et temperamento quid fuisse, pro certo habeo. Ipfe enim de se
fatetur, fe somnambulum fuil. fe, (e) et interdum ex alio loco dormientem fine
fenfu cecidiile. (f) ipfe (a) Vide tabulassocietatisinterMag.Gen A. doctor
Fixice fecitsuum procurato tilemde Cingulo, Lou Mag GuilielmumdeDeza
reminomnibusfuiscaufis&negotiisdn. ra fcriptas in Append. deo matrimonio
unite trescentas libras Pifa. Finitus
eft tractatus de febribus do norum in forenis de duodecim.Pretereado mino
Clarello, qui facit nos evigilare, et tran firepermentemno ftramquidquidmalipo.
brasejusdemmonete. ErMen.Con. Bonon. test. Tbad. ir Isag. Joannic. Fortale ad
Otavantem, qui putea canonum pro f e f. eundem pertinent, quæ babetad finem
cap.36. Hoc eft, inquit, quod dicit tallidicus, qui fa. tereaque Adelæ fratrem,
intelligimus extabulis cit omnia mala trautire per mentem noftram.scriptis in Mem.
Com. Bon., Dequartoficprocedo:videtur,quod inquibuslegitur: Dn.Octavantedñi Guidalo
homo poflitdormiendo fentire, nam dorinien do movetur, ficut patet in
furgentibus de no. čte,quorumegofuiunus. Guidalottipater Sed locus fortasse
mendojus in pe Bunoniæ degebat, ex Mem. Com.Bonon.,inqui a se avertere poffet.
Sed erat accidere debebat, in quo insolens ali navit eidem propter nuzias
quinquaginta li. for fuit, Guirlalutti Florentini filium fuiffe,propo cti de
Florentia scolaris Bonon... emit dige. ftum. pretio lib.L. bon. Regalettusautem
tem XII. A. fere sexagenarius uxorem duxit Ade lam Guidalotti Regaletti filiam,Octavantis,
quem ante nominavimus, fo rorem, ex eaque filiam suscepit Minam, quæ adhuc
innupta erat, cum Magiftrorum collegium jure tunc dice O &avantem
deFlorentiasuumcognatum.Ex Mem, Com. Bonon. batur, nonautem Melicorum; quianonsolum
Me XV.Jan. Mag. dicinæ, fed alia,um quoque artium liberalium pro fesjures
complectebatur, ut ex ipfis hujus controver A. artis Fixice professor fil. and.
Alde rotti de Florentia fuit confeffus habuiife a dño fæ actisapparet,quæin Appendiceexbibentur.
Guidalottoqnd.dňi Regalettide Florentiado. Teftamentum fæpius, nec uno in
loco A. fecit. Et quoniam perpetuo domicilium Bononiæ habuit, cum aliò
diverteret ad curandos magnates, itinerum pericula reputans, propterea
teftamentum sæpius fecisse videtur. Sed omnium poftremum Bononiæ condidit, quo
cete ra omnia revocavit facta Bononiæ, Florentiæ, Ferrariæ, Romæ, Mediola ni,
Venetiis, et alibi. Pro anima fua, et ad pias causas x. mille libras bonon.
legavit: quæ immanis summa erat pro ætate illa, et privati hominis facultati
bus. Ex his bis mille
quingentas libras impendi voluit emendis prædiis pro pauperibus verecundis,
quorum administrationem esse voluit penes Fratres de Pocnitentia. Viger ad hanc
diem ut cum maxime pium hoc inftitutum,a pru dentissimis civibus adminiftratum
in civitate noftra, quo consulitur egettati h o neftorum civium, quibus
oitiatim mendicare victum vel natalium, vel ætatis, sexusve conditio fine
pudore non finit. Fratribus Minoribus, penes quos sepeliri voluit, ubicumque
ejus obitus contigisset, multa legavit. Atque illud viri prudentiam maxime
demonftrat, quod præftari voluit in perpetuum ali menta uni ex Fratribus ejus
Ordinis qui Parisiis theologiæ studeret, fupra numerum eorum, qui ibidem facris
ftudiis destinati esse solerent. Jisdem Fra. tribus Minoribus Conventum erigi
voluit, in quo tresdecim Fratres ali possent. Viginti ex fuis scholaribus magis
egentes ex albo panno vestiri in die obitus sui mandavit, itemque familiares
suos omnes masculos, qui secum eo tempore futuri essent. Statuit etiam impensam
funeris fibi apud Fratres Minores cele brandi,& certam insuper summam, pro
die feptimo obitus sui, trigesimo, cen tefimo, et anniversario, erogandam in
Fratrum refectionem, ut iis diebus pro anima fua preces ad Deum funderent; qui
mos ab antiquissimis temporibus ad eam ætatem pervenerat. Exliteris NicolaiIV.
In Codicediplom. Quisibisuppetias ferrent, ubieffetopus,tumin docendo, tum in
medendo. Etiam Bononiæ for Hanc Biscionius in adnotat. ad Convi. talle,
antequan iter aliquod susciperet, teflamen vium ALIGHIERI Adolam vocat., sed in
testamento tum fecerat, quod indicatum vidinius in Memor. Autograpbo en Adela.
mff. Biblioth. publ. Bonon. Com. Bonon. ejus anni. (Quia Fratribus Minoribus
quidquam pof Jam inde Uher- fidere non licebat, voluit ut medietas predicte tus
facerdos Sanctæ Catharinæ de Saragotia contingentis ipfi Opizo perveniat ad
Dominas legaverat X. corbes frumenti pauperibus vere cundis, ut ex ejus
tejlamerto apud Fraires Mi- cujus dicte Domine nores: ex quo apparet ejus pii
inflituti anti pendere pro necessitatibus Fratrum Minorum quitas. infirmorum
fenum et forenfium. Vide teftam. Hos duos Medicos in schola fua, uti T. in
Append. credibile efl, eruditos, in sua familia babebat, et Sorores S. Clare
civitatis Florentie fructus et Sorores teneantur ex 1 mo N ipse extremum
obiit diem. Sed ante illud tempus filium genuerat ex illegiti mo complexu.Hic
patrisnomen geflit, & vulgo Thaddæolus dicebatur,cum que Nicolaus jure
legitimorum nataliumdonavit. De bibliotheca sua in hunc modum ftatuit.Avicenna
opera,quatuor voluminibus contenta, et Galeni item, quæ totidem voluminibus
comprehensa erant,Fratribus Minoribus ea conditione legavit,ne ullo umquam
tempore alie nari, diftrahive possent, aut e Conventu ipfo exportari. Fratribus
B. Marize Servis legavit Metaphysicam Avicenna, Ethicam Aristotelis, et Sextum
de N a turalibus Avicenna in majori volumine. Magiftro Nicolao Faventino
Glossas fuas omnes, quas scripserat in veterum Medicorum libros, et Almanforem
suum, et Magiftro Johanni Affifinati Serapionem suum,& Sextum de N a
turalibus Avicennæ in minori volumine, fi quidem uterque in familia sua esset
tempore obitus sui. Adelæ uxori fuæ,præter aliquam pecuniæ summam, cu biculi
sui supellectilem omnem legavit, & veftes, & gemmas,exceptis dumta. xat
valis aureis, et argenteis, et usumfructum domus Florentiæ in via S. Cru
cis,& fundosinagro Florentino. Hæredesautem inftituit Minamfiliamsuam A.
filium naturalem, et Opizum Bonaguidæ fratris sui filium; quibus, fi abfque
filiis masculis legitimis decessissent, Fratres Minores, et pauperes verecundos
fubftituit. Nupfit hæc A. filia Dorgo Pulcio Florentino sum X V. Obiit A. cum
annos octoginta vixisset. Fuit autem ejus mors repentina, ut narrat Benvenutus
Imolenlis, Dantis inter pres. Tumulatus eft apud Fratres Minores, quos vivus
magnopere dilexerat, et apud quos ægrotus etiam aliquando sub extremum vitæfuæ
tempus jacue rat. Sedejus fepulchrimagnifice extructi, & elegantis,quod
eratprope januam Ecclefiæ, propter recentiora ædificia ibidem excitata, nulla
jam vefti. Manni degli antichi Sigilli. Nicolaus V.mandavit utHofpitale S.AntoniiPatavini,
quod FratresTer dieXX.Marzii A. Ordinis, five de Penitentia,ex bonis bæredita
dæus erat in vivis, ut ex charta societatis in riis Mag. A. Bononiæ
erexerant,indomum ter Mag. Gentilem Cingulanum, g Mag. Gui. pro
Sanétimonialibus Franciscanis, ex Monasterio lielmum Dexarensem, quam in
Append. danus. Ferrarienfi Corporis Cbriflitra. lucendis, convertere. Af eodem
annoaddiem XVII. Juliiinvivisef tur.Sed r jijtentibus Fratribus,res ita
compofita eft de defiderat, ut ex bis tabulis, quas indicavit infequentiannoper
Bifurionem Bononiæ Legatum, CI. Montius:, die XVII. Jul. ut iratres Ecclefiam
S. Antonii, cu aljacentes D. Ugolinus de Montezanico Dn. Novellonus ætes cum
molicocenfuad bufpitalitatemexercen Megloris de Florentia Dn. Amadeus Poete
damretinerent; fedbonareliqua,quæadeosex Dn.Frater Raynucciusqund. Deotaiuti
com bereditate Mag.7budlæi pervenerant, novo Par milfarii et executores
testamenti egregii vi tbenoni pro Sanctimonialibus Corporis Christi con ri&
discreti Mag. A. Aruendo attribuerentur:pero qui fuit de Florentia artis Filice
profetforis featumest, Catharina Vigria, quamnuncinSan. Fuerunt confeffihabuiffeadñoBartholomeo
clarum Virginum album relatam veneramur, cum MEDICINE mo genere nato. A.
autem fivequod cælibem vitam duxerit,five quod filios non genuerit, aut
pofteritatis memoria apud nos diu fuperftites non habuerit, certe nulla ejus
superfuit. Sed opulenta Mag. A. hæreditas non ita humanis cafibus subjecta fuit,
ut nobiles ejus reliquis non exiftant. Sanctillimum enim ad hanc diem civitatis
noitræ Monasterium Corporis Chrifti, et Collegium Puellarum S. Crucis ex bonis
hæreditariis Mag. A. initium legata insuper alia, quæ legi poffunt in tefta
quali acceperunt. Mittimus mento ipso, quod in Appendice exhibemus. Unum
addimus, quod maxi me memorandum videtur,aureosnempe florenos xv.in annos
fingulos legatos Zco Scansalti Pisado, quamdiu futurus effer in Januensium
carceribus, ex qui bus ubi eum liberari contigiffet, cc. libras bonon. eidem
perfolvi a suis hæredia bus mandavit. Nota est ex eorum tima Pilanorum cum
Januensibus rum vires miserandum in modum temporum scriptoribus infelix pugna
mari pugnata,qua Pisano pax convenit. Tunc
bello capri, qui supererant, redditi funt, effæti prope enecti. Diligentissimus Mannius jam, et tam
longi carceris incommodis proftratæ funt. Magna corum cædes fuit, abductus
præfertim ex nobilioribus. Ne atque ingens numerus in captivitatem que ullis
conditionibus adduci potuere victores, ut captivos redderent. Ita enim
confilium fuit sobolem invifæ primariis civibus detentis, ne procreandis
liberis dare operam poffent, fuccide. civitatis impedire, totque fortissimis
viris, ac re nervos civitatis, usque in illud tempus potentissimæ. Itaque non
ante annos Sigillum Universitatis Carceratorum Januæ detentorum illustrat. Ex
eorum numero erat Zeus Scanfalti, amicus, ut opinor, Thaddæi; qui quam pronus
effet ad ferendam miseris opem, cum ex hoc, tum ex fingulis fere teftamenti sui
capitibus liquet.Dn.Mina quondam Mag. A. Corporis Cbrisi, W Puellarum S.
Crucis, quæ A. uxor Dorgiquondam Dorgi dePula vidit, lowindicavitCi.Montius.
cis.Ex tabulisan.inarcbiv. publ.Flo vent. Inilicavit Cl. Biscion. Vide Append.
gia pauci supererant, Ecclefiam S. Antonii, d adja centes æles, bonaque omnia
ad eum locum perti deus confeffus eft quod ipse emit quandam pe. tiam terre...
Actum in loco Fratr. Minor, ! Blanchi Cofe for. auri cccc, depofitos ab ipfo
aliquot aliis Monialibus ex Ferrariensi Monaste. Mag. A. et c.Ex Mem.Com.Bonon.
rio in nouum buc noftrum commigrantibus. Anno autem Fratres sertii Ordinis,qui
Pbilippus Villan..die... Mag. A. nentia,erigendoPuellarumpericlitantium domici
in camara Ministri ubi Mag. A. ja lio libere tradiderunt, quod in via S. Mamæ
acebat infirmus prefentibus Mag. Bertolaccio, mæniffimo civitatis locu, non
longe a Monasterio Fratris Venture Mag Nicolao de Faventia Corporis Cbrijli,conjtructumest,a
S.Crucisti. &c. ExMem.Com.Bonon. tulo infignitum. Hæc ex monumentis
Monialium gia supersunt. Minime igitur audiendus eft Joannes
Villanius, qui A. obitum protrahita, aut fi quis est alius, qui in aliud tempus
referat. Paulo poft ejus mortem dillidium ortum est inter Fratres Ter tii
Ordinis, five de Pænitentia, et Priorem fratrum Prædicatorum, ac Guardianum
Fratrum Minorum in eligendis pauperibus ad præfcriptum teftamenti ip fius Mag. A..
Sed litem omnem fuftulit Dinus Mugellanus, clarus legum interpres, qui per
illud tempus Bononiæ docebat, cui utraque pars arbitrium dederat. Possem hic
plura Scriptorum teftimonia de A. admodum ho norifica afferre; possem et Scriptores
multos emendare, multos supplere,qui de illo vel minus diligenter, vel minus
vere scripserunt; in quo numero sunt præsertim scriptores noftri Alidofius, et Ghirardaccius.
Sed hæc curabunt, qui magis otio abundant. Nunc ejus scripta recensenda funt,
quæ et multa fue. runt, et magno in pretio habita. A. SCRIPTA. Expositio in
arduum Ipocratis volumen. Galenus Aphorismos Hippocratis illuftri commentario
exornavit. A. et Hippocratis Aphorismos, et Galeni commentarium diligenter
exposuit.Cum autem in septem libros, fivepar ticulas Hippocratis volumen
Aphorismorum diftributum fit, A. fcripto tradidit expofitionem suam in sex
priora capita, eamque absolvit. Decimadie Septemb., utadejuscalcem adnotatum
efttam in editis exemplaribus, quam in manu exarato, quod vidi in bibliotheca,
Collegii Hispanorum Bononiæ. Eft
autem hoc A. opus valde proli xum, cuiscribendo non uno tempore insudavit. Sic
enim ad ejus finem ait: In his particulis explanandis diversa fuerunt tempora.
N a m cum efjorn in nono anno mei regiminis (qui publice docebant regere tur)
incepi gloffare Aphorismos a principio. Et infpatiofex menfium glossa. v i
primam, secundam, tertiam, a quartam particulas, a quintam usque ad illum
Aphorismum: Mulieri menstrua fine colore. Tunc autem fupersedi, convertens me
ad glosas, quas fuper Tegni feceram, completiores edendas; quas perfeci usque
ad illud capitulum caufarum: Ad inventionem vero salu brium. Ibidem vero
deftiti impeditus a guerra civitatis Bononiæ, au lucrati va operatione
distractus. Poft vero placuit mihi refumere, ut complerem glof fas Aphorismorum,
addendo ad eas, quas primo feceram. Et feci additiones Super primam, Be
fecundam, no quartam particulam. In tertia vero particu la solum glossas
veteres divis: Item in quinta particula super veteribies glosis quas feceram
primo nullam additionem feci. Incepi autem de nova glosam in illo Aphorismo:
Mulieri menftrua fine colore, ut dictum est. Quod hic habetde Bononiensium
bello, pertinerevideturad Lambertacciorum, et Jeremienfium turbas, civitas
noftra pæne desolata eft. Cum autem nono anno poftquam docere cæperat, ad inter
pretandum Hippocratis Aphorismos le contulerit, in eoque opere tempus aliquod
impendere debuerit, et rursum eo dimiffo, librum Tegni interpre tandum
susceperit, et in eo verfatus fit, quoad Bononiæ in otio quietus esse potuit;
subductis rationibus apparet, debuisse illum publice docendi in scholis noftris
munus suscipere, imo ditavit hortulanum fuum. Vixit autem renze, noftro
cittadino, il quale fu sommo Fisiciano sopra tutti. Je. scholas diceban 4.
ооо annis Fuit Thaddæus medicus famosus, apud Murat. Antiq. med. ævi To.
conterraneus auctoris, Dantis qui le In questo tempo morì in Bologna git&
scripsit Bononiæ& vocatuseitplus. M. A. detto da Bologna, ma era di Fi.
quam commentator.Et factus est ditiflimus, et mortuus est morte repen Villan,
tina, et fepultus eft Bononiæ ante portam Extar Dini confilium,five fententia
in Minorum in pulchra et marmorea sepultu- arcbivo Fratr. Prædicat. Bonon. ra.
Benvenut. Imol. comment, in Purgat. ALIGHIERI Ad Ad septimam
particulam Aphorismorum quod attinet, Thaddæus perpetua in eam commentaria non
reliquit, sed monuit auditores suos, fi quis voluif fet ex ore docentis
excerpere, quæ in nenda in schola protulisset, fe deinde emendaturum, et utin
ordinem re digerentur curaturum. Sic enim inquit: immediate Icribere intendo.
Sed fi quis de meis auditoribus notare voluerit eas corrigam, o in petias
redigi faciam. Hæc autem verba fcripfi, ut si alicubi minus completa expositio
reperiatur, non adfcribatur ignorantiæ, fed potius novitati, a pigritiæ
scriptoris. Sed Thaddæi commentaria in septi m a m partem Aphorismorum nufpiam
apparent, et ejus loco circumferri solebat expofitio Zancarii, de quo alio loco
dicemus. Expositio in divinum Hipocratis Pronosticorum volumen, A d cujus finem
ita ada notatum eft in editis exemplaribus. Explicit liber tertius yra ultimus
Pro. nofticorum Hipocratis fecundum antiquam translationem a A. Florentina
explanatus. Sed revera
Thaddäus ipfe non unam translationem præ mani bus habuit, fed faltem duas. Ad
extrema vero capita, seu textus libri tertii nihil adnotavit A., aut certe
nihil adnotatum reperio in edis tis exemplaribus; manu enim scripta explorare
non licuit. A. Florentini in præclarum regiminis acutorum morborum Hipocratis
volu men expositio. Hanc Thaddæus in proæmio fatetur se maxime procudisse ut
rem gratam faceret Bartholomæo Veronenfi, quem fibi dilectiffimum vocat, et pollentis
ingenii; aitque,non minimo fibi adjumento fuisse ad id operis perficiendum. Non
attigit A., nisi tres priores libros hujus operis, ratus fortasse, quartum non
effe legitimum Hippocratis færum,quod aliis visum erat, ut fatetur Galenus ipfe
initio commentariorum in hunc quartum librum de regimine acutorum. Suam porro
diligentiam oftendit A. in his commentariis exarandis, appellans ad verfionem
Græcam, ubi in ea, quæ ex Arabica facta erat, vitium suspicabatur. Atque hinc
apparet, duplicem ejus libri interpretationem per illud tempus in doctorum
manibus verfatam fuisse, quarum altera ex Græca, altera ex Ara. bica lingua
ducta erat. In fubtiliffimum figogarum Johannicii libellum expositio. E a m fic
concludit A.: Scio tamen, quod de his obscure dixi, Jed fellus f u m a deficit
charta: misera excusatio, et vix fapienti homine digna. Quæ hactenus
recensuimus A. opera in unum volumen redacta Venetiis edita sunt per Lucam
Antonium Junctam curante Joan ne Baptista Nicolino Sallodienfi, qui in epiftola
nuncupatoria ad Aliobel. lum Averoldum Polenfium Antiftitem, et Romani
Pontificis Legatum ad Venetos, impense A. laudat, illumque dicit, nonnisi ad
lapsam Extat hic A. liber in Codice Vaticano, ejufque hæc eft æcono. mia.
Initio agit de corpore sano, ejusque, ut ita dicam, essentia, et va. riis
sanitatis gradibus; tum pergit in hunc modum: Nota quod dicit Johan nicius,
quod fi unaquæque res naturalis propriam naturam jervaverit, facit fanitatem,
fi vero ipfam dimiferit, facit ægritudinem, vel neutralitatem, fta tum
fcilicet, quo necfanum eft, necægrum. Sequitur in hunc modum usque ad finem
libri: Nota quod dicit Galenus; nota quod dicit Hipocras, Avicenna.Nota quod
venæ non dicuntur oriri ab epate quod oriantur ex ea dem materia v c. Nota
differentiam arteriarum ad venarum, originem nervorum W c. Nota quod partes
totius capitis funt quatuor B c. Inter has notationes, in quibus totus hic
liber decurrit, aliquas quæftiones interferit, Ad text. X. lib. I. ita inquit:
Alia quod patet per translationem Græcam. Liba translatio non ponit hic nifi
duos colores et c. III. text. X. ea
Aphorismorum particula expo Super feptima vero particula nihil principum
fanitatem recuperandam vocari consuevisse. Auctoritates are definitiones fuper
libro Tegni, quamplures utiles dubitationes. uti Unde dicendum quod litera
Arabica, Cod. Vatic. ex qua fumitur illa auctoritas, elt corrupta, 1 uti
est illa: Quæritur hic an dari poffit membrum, quod nec recipitur, nec tribuit.
Nunquam editus eft
hic A. liber, quem ne ipse quidem au ctor satis elimatum cenfuit. Itaque rurlus Artem parvam Galeni, sive li brum Tegni
interpretandum suscepit. Habemus hoc A. opus typis editum Neapoli cum hoc
titulo: Commentaria in artem parvam Galeni. Neapolianno.Horum initiofatetur, fe
præmaturam aliamexpo fitionem Artis parvæ edidisse,hisverbis:
Atveroquoniamfuper eundem librum expofitionem facere necessitas compulit
præmaturam, in qua non ut expedit Galeni instituta patefeci". Ideo e c.
Magiftri A. conflia. In Codice Vaticano consilia Medica A. sunt centum
quinquaginta sex.Minore numero,imo perpauca,lirecte memi ni, funt in codice
bibliothecæ Cæsenaris Fratrum Minorum. Primum in utroque codice est de
debilitate visus. Ultimum in codice Vaticano eft de virtute Aquæ vitis. Docet
in eo modum præparandi alembicum cu. preum. Incipit: A d faciendam Aquam vitem,
quæ alio nomine dicitur aqua ardens. Eft unum ex his consiliis de minctu urinæ
cum fanguine. Incipit: Conqueftus est dn. Bartoločtus comes. Eft is
Bartholottus comes Ripæ Insulæ Suzariæ et Bardinæ, de quo plura diximus, ubi de
Rolandino Passagerio a r tis Notariæ doctore agebamus. Eft aliud A. confilium
ad midtum f a n guinis pro Duce Venetiarum. Aliud item de impedimento loquelæ
propter mollitiem linguæ. Incipit: Cura comitis Bertholdi. In librum Galeni de
crisi. Eft in codice Vaticano. Magiftri A. de Florentia quæftio de augmento.
Eft in codice Vatica A. artis Medicinæ in civitate Bononiæ doctorem. Eft in
codice bi. bliothecæ Eftenfis, tefte Muratorio. Idem Italice extat, scriptus in
m o d u m epistolæ cuidam ex Neriis Florentinis. Incipit: Imperciocchè la con
dizione del corpo umano. Extat etiam latine typis editus Bononiæ cum libelló
Mag.Benedicti de Nurlia ejusdem argumenti. Num autem Italice scriptus fit
libellus ifte ab auctore suo, an latine, mihi non conftat. Italica tamen lingua,
quæ tum nitefcere, et a Scriptoribus nobilitari cceperat, delectatum constat A.,
qui Ariftotelis Ethicam in eam linguam vertit; quamquam hunc ejus laborem haud
magnopere laudandum exiftimarit Dantes in Convivio, ubi ait, velle se suum illum
librum Italica, five, ut ipfe inquit, vulgari lingua donare, ne ab alio quopiam
interprete vitietur, ut Ethicæ Ariftotelis contigit, quam A. dæus Italicam
fecit. Eum purgare nititur Biscionius,vitio vertens non tam A., qui Italicam ex
Latina non bonam, quam veteri interpre ti,qui nihilo meliorem ex Græca Latinam
fecerat Ariftotelis Ethicam.Sed vix quisquam probabit hanc Biscionii
defensionem. Id unum enim r e prehendit in A. Dantes Aligherius, quod Italicam
interpretationem ejus libri non bonam dederit. Nihil autem impedit, quominus
librum aliquem, licet mendofiffimum, et maxime corruptum, optime, quod ad
nitorem verborum attinet, interpretari, et in aliam linguam elegantissime
quispiam convertere possit. Habuerat A. Aristotelis Ethicam ex Thesauro Latini,
ut observat Laurentius Mehus, qui de his abun de disserit in prolegomenis ad
epiftolas Ambrofii Camaldulenfis, nuper Flo rentiæ editas. no. Libellus
fanitatis conservandæ factus pay adinventus per probiffimum virum Mag. (f)E
temendo,cheilvolgarenonfosse dato posto per alcuno, che l'avelse laido
fat. Epift.Ambrof.Cam. to parere, come
fece quegli, che tramutò il Ooo 2 Cod.
Vatic. 2 Expe latino dell'Etica, ciò fu A. Ipocratita provvidi di ponere lui, fidandomi di me più
(d) Murat.To.IX.Rer.Ital.Script.p.583. che d'un'altro.Convito di Dante.In
Firenze Vid.Biscion.Annot.al Convitodi Dan Experimenta Mag. A. probata ab ipfo.
Hunc titulum habet collectio ex. perimentorum Medicinalium Thaddæi in codice
Vaticano. (a) Incipit: Omnes herbee a radices quæ debent prius coqui, abluantur
mundentur Poit brevem præfationem, fire inftructionem, defcribere incipit
primum Syrupos varii generis. Receptio Syrupi majoris fecundum M. T. Syrupus
Jor. danus M. T. ad correctiones epatis aut fplenis c. Deinde describit electua ria, inter quæ
hæc confectio locum habet: Confectio qua utuntur magna tes in curia Romana,
vagy maxime convenit in æftate fanguinem mundificans, colera fuaviter educitur.
R. pulpæ Caffic fi. Tamarindorum 3. pe. nidii.zuc.violati añş.x.Syrupi violati,
Ġ.Mirrhæ s3 conficianturfive dissolvantur cum tali fucco. X. Prunorum.ios
feminum ordei mundi. lic quir. añ i 2 cum ifta aqua decoquatur usque ad
spissitudinem mellis. Dein pergit ad vina medicata. In his ett Aqua vitis ad
calculum M. B. ideft, M a. giftri Bartholomæi de Varignana, ut opinor, medici
celeberrimi, cujus infra mentionem faciemus. Tum de oleis agitur, ibidemque
describitur Tragea M. T. et Tragea M. B., ideft, Magiftri A., et Magiftri
Bartholomæi. Pulveres fubinde varii, et pilulæ, et unguenta describuntur, tum
remedia quædam ad peculiares morbos. N e c desunt fuperftitiofa quædam, et vanissima.
Tale eft illud: Ut homo poffit ire super
ignem fine læfio. ne. Dicas ifta verba. ter in nomine individuæ
Trinitatis.Abyfon. Dalma. tiu, vel Magata, v e a s nudus. Emplaftra quædam poft
hæc describuntur: fed in hujus libri extremis partibus vix ordo ullus apparet,
ut conjicere liceat, aliena manu aliquid genuinis Thaddæi experimentis additum;
quo ex genere esse arbitror superftitiola illa, quæ dixi. De Interioribus libri
VI.a mag. A. correcti. Ita in codice Vaticano. A. de Bononia de aquis, oleis, a
vinis medicatis. Extat inter codices mo locorecensuitejus Commentariain Ipocratem,
mox Commentariain Avicennam; nam neque in alia Hippocratis opera fcripfit A.,
quam quæ indicavimus, quæque vel iple Biscionius feorfim poftea enumerat; nec
ulla in Avicennam Commentaria scripsisse comperio.Addit tamen idem Biscionius
descriptionem pulveris mirabilis Mag. A., quam re perit ad calcem libri M a g.
Aldobrandini. E g o alterius pulveris descriptio n e m in hunc m o d u m reperi
ad calcem Almansoris, ideft, libri Rasis in codice Vaticano. Recepta quam
mag.Taddeusreliquitpauperibus in te ftamento: Cinamomi eleli s Macis. Croci aš
3 ij. Sene s fiat pul vis poftea R u s Tartari albi fubtilissime pulverizati, a
misce fimul. Dosis ejus eft; 3 ij cum brodio poteftconfici cum zuccaro ut
melius conserve tur. E u m d e m pulverem defcriptum vidi in codice bibliothecæ
Cælepatis Fratrum Minorum inter confilia Medica Mag. A. ad libri marginem in
hunc modum: Pulvis folutivus A. Cinamomi: 5. Macis.Cra ci añ 7. 3. 1. Sene ad
pondus predictorum. Fiat pulvis, cui potes addere de zuccaro albo vel rubeo B
eft delectabilior. DON MEDICINE Thomæ Bodleii. Auxit immaniter Biscionius
paucis verbis catalogum operum Thaddæi, dum pri (c) To. I. mill. Angliæ.
Cod. (d) Cod. Vatic. Nome compiuto: Aderotti.
Taddeo Alderotti. Alderotti. Keywords: le quattro cause. Refs.: Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Alderotti,” The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice ed Alessandro: il lizio a Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “I
was surprised by the number of very patriotic Roman philoosphers who bore
Hellenistic names – a favourite one being ‘Alexandros,’ the defender of men!”
-- Filosofo italiano. A member of the Lizio, the friend and teacher of Marco
Licinio Crasso. According to Plutarco, A. lives a very modest life and shows a
great indifference towards material possessions, behaving more like a member of
the Portico than the Lizio. Alessandro. Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Alessandro,” The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice ed Alessandro: Gl’ortelani --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract.
Grice: “I was surprised when I started the serious study of ancient Roman
philosophy at the Sub-Faculty of Literae Humaniores at Oxford, to find that most
Roman philosophers bore Hellenistic names – a very popular one being ‘Alessandro,’
literally, the defender of men!” -- A philosopher of the Orto, and friend of
Plutarco. He may have been the same person as Tito Flavio Alessandro, a sophist
and father of another sophist, Tito Flavio Phoenix. Nome compiuto: Tito
Flavio Alessandro. Alessandro. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alessandro,”
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice ed Alessandro – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “It
is somewhat ironic for the Roman people, so patriotic, to make the VERY
Hellensitic name ‘Alexandros,’ literally ‘defender of men,’ to popular!” --A public
official honoured as a philosopher. Nome compiuto: Appio Alessandro.
Alessandro. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Alesaandro,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice ed Alessandro: il portico a Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “The
Romans could be an odd lot – very patriotic; but when it came to naming their
offspring, they would not hesitate to give them a Hellenstic name, like Alexandros,
Greek for ‘protector of men’!” All that is known of A. is a funerary
inscription found in Rome identifying him as a philosopher belonging to The
Porch. Nome compiuto: Tiberio Claudio Alessandro. Alessandro. Keywords:
porticus. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed
Alessandro,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice ed Alessandro: gl’animali a Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “Alessandro’s
mother was Hellensitic, hence his nickname, Alessandro. The Ancient Greek first
name Alexandros – from which the name Alexander is derived, has a profound and
powerful etymology. It is composed of two Greek words: alexein, meaning ‘to
ward off, keep off, turn away, defend, or protect. And Andros, the genitive
form of aner, meaning ‘man’ or ‘warrior Therefore. Alexandros literally
translates to ‘defender of men, or ‘protector of mankind. This meaning gained
widespread recognition and significance through Alexander the Great, the king
of Macedon, whose military conquests spread Greek culture and the name throught
the ancient world.” He is discussed by Filone, in connection th problems
concerning providence and the nature of animals. He pursues a career n public
and military life. Nome compiuto: Tiberio Giulio Alessandro. Alessandro. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Gice ed Alessandro,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice ed Alessandro: il tutore di
Nerone -- Roma – filosofia italiana – Luig Speranza (Roma). Di
Egea, he was a member of the Lizio and tutor to NERONE for a time. He writes a
commentary on the Categories of Aristotle, but Nerone wasn’t interested “And
that’s how Seneca comes into the picture” – Grice. Alessandro. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Alessandro,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice ed Alessandro: la filosofia
dello schiavo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Grice:
“When I started the serious study of philosophy at Oxford – at the Faculty of
Literae Humaniores – it was all Epictetus; however, I found that my sensitivity
leaned rather towards the philosophical opinions of Alessandro Polyhistor – another
slave. Unlike Epictetus, Alessandro was not freed, but escaped!” -- He started
life as a slave, but was later freed (or escaped). He goes on to teach
philosophy. Nome compiuto: Alessandro Polyhistor. Alessandro. Refs.: Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Alessandro,” The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed
Alfandari: la ragione conversazionale e le implicature del Deutero-Esperanto – la
scuola di Roma – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Abstract.
Grice: When I directed my attention not to much to pirots, but to their
language – which I called ‘pirotese’ – I realised there were stages. There is
proto-pirotese: a pirot just groans. There’s DEUTERO-PIROTESE, when the pirot
ends up MEANING that he is in pain. There is TRITO-PIROTESE, when we add ‘not’;
there is TETARTO-PIROTESE, when we add ‘and’ --; there is PEMPTO-PIROTESE, when
we add ‘or’ –; there is HECTO-PIROTESE, when we add ‘if’ --; there is
HEBDOMO-PIROTESE, when we add ‘all’ --; there is OGDO -PIROTESE, when we add ‘some
--; there is ENATO-PIROTESE, when we add ‘the’ --; there is DECATO-PIROTESE,
when we add proper names --; there is ENDECATO pirotese – when we add a mode
operator --; and there is DODECATO-PIROTESE, when we are able to implicate!” --
Filosofo romano. Filosofo
lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Diplomatico. Durante la grande guerra opera
come ufficiale di crittografia per il comando supremo militare. Diplomatico
dello stato. S’incarica di alcuni lavori di esportazione. Grande conoscitore di
lingue. Oltre al “neo,” parla fluentemente sette lingue. Suo è un progetto di
inter-lingua di derivazione esperantista, il neo, dato alle stampe solamente
in “Méthode rapide de Neo.” Coinvolto in prima persona negl’ambienti
bellici e personaggio di spicco della diplomazia, A. sente presto la necessità
dell'istituzione di una lingua comune, convinto che essa è la soluzione alle
incomprensioni tra le nazioni, inclusi tra gl’italiani. Come i suoi
predecessori, vuole che la sua lingua è di facile apprendimento, semplice,
libera da ambiguità [H. P. Grice, “Avid ambiguity”], prevedibile. Per questo,
pur approvando la grammatica dell'esperanto e del deutero-esperanto di H. P.
Grice, decide di semplificare ulteriormente la sua morfologia, prediligendo
radici lessicali più brevi - che talvolta però rischiano di produrre nel
lettore il risultato opposto, peccando d’ambiguità. Il lessico è volto alla
lingua che A. chiama GALLICA, ma sono presenti anche delle influenze dalla
lingua latina e dalla lingua italiana (vedi «forse» 'forse' e «sen» 'senza'; ma
cf. «somo» 'qualcosa' come l'inglese some (thing); «kras» 'domani' come
il latino CRAS) e sintattiche anche dal tedesco e dal russo. La pronuncia,
l'accento, l'alfabeto Nella lingua “neo,” l'alfabeto è LATINO. Ogni
lettera corrisponde ad uno e un solo suono preciso, che deve sempre
pronunciarsi. Vi sono cinque vocali – A, E, I, O, U -- che possono variare in
lunghezza, nonostante la quantità vocalica non sia fonologicamente pertinente,
ma ‘implicaturale: NOIOOOOOSO. In presenza di nessi vocalici, le vocali
si pronunciano sempre separatamente. L'accento cade sulla penultima
sillaba nel caso in cui questa sia aperta (es. CV, CCV, come in «libro»
('libro]), sull'ultima nel caso sia chiusa (es. CC, VC, CVC, come in «amik» (a
' mik] da: AMIC-O), e la desinenza del plurale «-s» non modifica l'accento
della parola (es. «libros» ['libros]). In una tabella, rappresenta la
corrispondenza tra grafi e foni nella lingua neo. Gli ultimi due sono nessi di
consonanti. abcdefghiikmn kImnopaIsturweyzshes abtfdefghidkl
mnopkwrsturwksis ts. Gl’articoli sono invariabili e si dividono in
determinato («lo») – l’articolo definito di Grice, “il re di Francia e calvo” –
l’operatore iota di Peano -- e indeterminato («un»): some (at least one) (Ex).
Gli aggettivi e avverbi Come nell'esperanto, gl’aggettivi – “shaggy” -- terminano
necessariamente in «-a» e sono invariabili (ad esempio «un bona soro» e «un
bona frato»). Gl’avverbi, allo stesso modo, sono invariabili e, come in
esperanto,terminano in «-e». sostantivi La derivazione esperantista è
evidente anche nella terminazione dei nomi, ottenuta sempre tramite l'aggiunta
della vocale finale «-o». La vocale finale dei nomi può essere omessa durante
la pronuncia delle parole nel caso in cui questo renda più semplice il
continuum del parlato (per esempio nel caso in cui la prima sillaba della
parola successiva cominci con suono vocalico), ma mai se la parola termina con
nessi consonantici che senza vocale finale risulterebbero di difficile
pronuncia (come ad esempio «libr», «metr»; sono permessi invece «garden(o)»,
«frat(o) »).I pronom. È possibile intravvedere una somiglianza con l'esperanto
anche nella scelta dei pronomi soggetto, in particolare nella prima e terza
persona singolare [maschile] (rispettivamente «mi» e «li» in Esperanto). Tratto
differente è invece la scelta d’A. di mantenere distinte le seconde persone
singolari e plurali, quando invece in Esperanto è presente per entrambe
un solo pronome «vi». Soggetto Oggetto Possessivi 1
sing. mi Me ma II sing. tu Te ta
III sing. maschile i Le III sing. femminile el
le/ley III sing. Neutro 1 le/it I plur. nos
Ne Il plur. Ve BS比zzBÆu即即8 III plur. maschile zi
Ze III plur. femminile zel
ze/zey riflessivo SO Se. È inoltre presente alla terza persona
plurale dei pronomi personali soggetto una forma mista che indica gruppi in cui
sono presenti persone o cose di entrambi i sessi «ziel». Si noti che i
pronomi personali che sono preceduti da PREPOSIZIONE semplice si presentano
alla forma soggetto, e non oggetto, come accade invece in inglese (es. ing. Are
you coming with us? [it. 'venite con noi?'] e Neo «Venar vu con nos?»,
non «Venar vu con ne?»). I verbi conoscono quattro modi (otto tempi),
ciascuno dei quali presenta una specifica desinenza: «-ar» presente, «-ir»
passato, «-or» futuro, «-ur» condizionale, «-iu» (monosillabi) o «-u» (polisillabi)
imperativo e infinito, «-at» participio passato, «-ande» participio presente,
«-inde» participio futuro. SONO QUINDI INESISTENTI IL MODO CONGIUNTIVO E LA
MAGGIOR PARTE DEI TEMPI DELL’INDICATIVO ITALIANO. I loro SIGNIFICATI (Grice:
utterer’s meaning) sono da formarsi tramite PERI-FRASI con l'ausilio di
avverbi di tempo e modo. I numeri della lingua Neo ricordano
foneticamente quelli gallici, sebbene il loro sistema di composizione si
avvicini più a quello ITALIANO. I dieci numeri cardinali sono «un, du, tre,
qar, gin, sit, sep, ot, non, is». I numeri tra dieci e diciannove si formano
posponendo le cifre appena viste a «is-» (es. «istre» 'tredici'). Le
decine successive al dieci si formano aggiungendo «-is» al numero della decina
(es. «duis» 'venti', «treis» 'trenta'). A questi è poi possibile apporre altre
cifre, del tipo «duisdu» 'ventidue', «treisqar» 'trentaquattro'). Le centinaia
si indicano con «ek» e le migliaia con «mil». Esempio: 1234 = «mil
duek treisqar». I numeri ordinali si ottengono tramite un processo di
suffissazione dei numeri ordinali, per cui si ha «dua» 'secondo', «trea»
'terzo', e così via. Fa eccezione solamente il primo numero, che si
scrive «prima» e non «una». Con queste poche e semplici regole è possibile
cominciare a scrivere e parlare nella lingua neo. Essa nasce infatti anche per
essere parlata, aspetto che la caratterizza e la differenzia da molti altri
progetti. Ma si badi bene, che non lo differenzia dal suo modello diretto,
ovvero l'esperanto. La sua peculiarità risiede proprio nella sua adattabilità
anche alla prosa letteraria e alla poesia, come dimostrano le numerose
traduzioni che il suo inventore offre nei suoi scritti, e non solo quindi alla
comunicazione scientifica. Circa una ventina di anni dopo la creazione
della lingua, A. si preoccupa anche di pubblicare un manuale di 1300 pagine
contenente la grammatica completa e un vocabolario di 60000 parole del
Neo. La proposta d’A. riscoge notevole successo, tanto che Dumaine, nel suo compendio
delle lingue internazionali ausiliarie, “Précis d'interlinguistique générale et
spéciale”, Parigi, scrive il saggio «Recherche d'un compromis
Esperanto-Ido-Neo» in “Neo-Bulten,” diretta dallo stesso A., accostando il neo
alle altre lingue più conosciute e utilizzate. Proprio questa sua facilità e
semplicità le assicura infatti un posto fra i cinque progetti interlinguistici
più importanti dalla autorevole International Language Review di Denver. BAUSANI,
Le lingue inventate. Linguaggi artificiali. Linguaggi segreti. Linguaggi
universali, Roma, Ubaldini. A. RAPID
METHOD OF NEO INTER-NATIONAL AUXILIARY LANGUAGE COMPLETE COURSE GRAMMAR,
EXERCISES, CONVERSATION-GUIDE PROSE READINGS AND POEMS
ENGLISH-NEO and NEO-ENGLISH VOCABULARY EDITIONS BREPOLS
S.A. FRIENDS of NEO", A.s.b.l., Avenue de Tervueren, Avenue Duray
BRUXELLES BRUSSELS Belgium TO
HARDIN Pioneer and Promoter Pioner e Promover of the Auxiliary
Language. d' Adlinguo. O H 3 H AA ГОС.
БИБЛИОТЕКА
насстраинай
литературы ©
KOPOREK A., Bruxel. Print at Belgye. A., Brussels. Printed in
Belgium. To all the friends of the English language Request to all
our friends Introduction to the English Edition NEO Grammar The
Alphabet Pronunciation Variability of words Stress The
Article The Adjective shaggy The Adverb – shaggily -- The Noun
Pronouns The Verb Monosyllabic Verbs Neo Numeration Time
Age Table of the Principal Prepositions Correlative Adjectives,
Pronouns and Adverbs The Name Comparaison Degrees Sentence
Building AFFIXES Elision Compound Words Geographical
Names Useful Idioms Some More Colloquialisms and Idiomatic
Phrases Proverbs ENGLISH-NEO CONVERSATION GUIDE: First
Contacts The Restaurant The
Cafeteria Train Travel Customs By Car By Coach An Accident
At the Hotel Air Travel Shopping At the Stationer's At
the Bookseller's. At the Gentlemen's Hair-dresser's At the Ladies'
Hair-dresser's At the Doctor's Theatre, Concerts, Movies
Railway Coach and Ship Excursions THE FIVE MAJOR CONSTRUCTED
LANGUAGES The LORD'S PRAYER READING SELECTIONS PROSE THE
SERMON ON THE MOUNT New York Herald Tribune Requiem of Verdi at Paris St. A. Fradeletto A. Optimism or Pessimism Gosse Whitman
STRACHEY Princess Charlotte of
England The Times Rediscovered Treasures of Prague Castle New York Herald
Tribune Maugham taken to hospital The Times Stewart arrives in America The Observer World's Farewell to
Churchill The Times Fruitful or sterile
politics? The Times Continental
Bourses New York Herald Tribune West
Europe's growth slackening A. Lettre à mes amis POETRY. (Neo version in front
of every poem) APOLLINAIRE Le Pont Mirabeau (French) BAUDELAIRE L'invitation
au voyage (French) BurNS. - Elegy on Captain Matthew Henderson (English)
CARNER. Canço de vell (Catalan) CocTEAU.
Le Cœur éternel (French) DANTE. - Francesca da Rimini (Italian)
DANTE. - Vita Nova (Italian) ELIot. - The rock (English) ELUARD. - Mon
amour (French) FLAISCHLEN. - Lege das Ohr... (German)
ForT. - La Ronde autour du Monde (French) GEZELLE. - Gij badt op enen Berg
(Dutch) GOETHE. Wanderer's Nachtlied (German) GoETHE. Wer nie sein Brot.. (German) GOETHE. -
Mignon (German).. HARDY. - In Time of « The Breaking of Nations »
(English) HEINE. - Im wunderschönen Monat Mai (German) HEINE. -
Lorelei (German) Hugo von HOFMANNSTHAL.
Ballade des äusseren Lebens (German) HORATIUS. - Carpe
Diem (Latin) Victor HuGo. Mes vers
fuiraient... (French) 136 Victor HuGo. - La fête chez Thérèse
(French) Victor Hugo. Extase
(French) KEATS. La belle dame sans merci
(English) LA FONTAINE. - La cigale et la fourmi (French) Manuel
MACHADO. - Cantares (Spanish) Lorenzo DE' MEDICI. Quant'è bella
giovinezza! (Italian) 142 Alfred DE MUSSET. La chanson de Fortunio (French) READ. -
Day's aMrmation (English) RONSARD. - Pour Hélène (French) SoLoMoN. The Song of Songs
(From a French version) SHAKESPEARE. To be or not to be (English)
SHAKESPEARE. Sonnet
71 (English) VALÉrY. Le Vin Perdu
(French) Paul VA L É r y. - Le s y l p h e (French) Paul VERLAINE.
- E n Prison (French) Paul VERLAINE. Il pleure dans mon cœur
(French) Paul VErLAInE, - Green (French) Paul VERLAINE Colloque
sentimental (French) VIRGILIUS Gallus (Latin) Assia
WErFEL-LACHIN. Merci
(French) Walt WHITMAN. Salut au
Monde! (English) A. The old man's song (original Neo) A. Why do you
feel so happy? (original Neo) D.S.B. — The Motto (English) D.S.B. The Task (English) NEO'S OPTIONAL
GENITIVE ENGLISH-NEO DICTIONARY NEO-ENGLISH DICTIONARY. TO ALL
FRIENDS OF THE ENGLISH LANGUAGE. No auxiliary language aspires to be more than
a "second language" -- one that is used for communication when
the two mother languages differ too greatly for mutual comprehension. In
each country the national languages soyeei baving nothing to fear from
the rise of a "second Far from constituting any threat to English,
the auxiliary language is a positive safeguard, since it preserves the
essential integrity by sheltering it from the flood of neologisms that
derive from different languages, and which would reduce English to an
impoverished „business pidgin" such as that spoken in
Melanesia. REQUEST TO ALL OUR FRIENDS. The present work is priced $ 3,00
or sh. 22/- (postage free). Encourage the movement by joining the
„Friends of Neo", non-profit legally incorporated society.
Membership fees are as follows: Active hershipp $ 2. sh. 15/- a
year $ 0. 6 0 s h. 4 / - a year Goodwill Membership
(symbolic) $ 0. 5 0 s h. 3 / 6 a year Life Active Membership
(single payment) $ 12,- $ 4/6/- Cheques and Money-Orders should be sent t
o "Friends of Neo", Brussels 5, Belgium: Postal Money Orders o
r LIST OF ABBREVIATIONS ado. arienture Auxiliary
Language Americanism architecture astronomis Basie,
binical n biology botany chemistry cinema dialect
future Greek SC language literary masculine mathematics measure mechanics medical military motoring music mythology noun nautical negative number,numeral participle pejorative person,
-al philology philosophy phrase physics plural poetry,
-tical politics popular possessive past participle
prefix preposition present present participle printing
pronunciation pronoun Russtense reflexive relative
religion Roman science singular slang. Spanish subject
subjunctive suflix technic(al) theatre transitive United
States usually vulgar zoology INTRODUCTION TO THE ENGLISH
EDITION The English edition of the "Méthode Rapide de Neo"
(Brussels) needed much more preparation and time than we had expected. The
work of translating the dictionary from French-Neo to English-Neo
proved to be particularly arduous. No doubt there are many imperfections,
for there is seldom an exact match between a term in one language and a
term in another. We hope readers will bring to our attention the errors
they happen to notice. The coverage is considerably greater than for the
Méthode Rapide, and we estimate the present size at about 20,000 words
for either part. The delay in publication of the English edition has
provided the opportunity of amending a few NEO words and grammatical
usages without impairing the essential structure of the language. Language has to
adapt itself to the needs of the day and to take account of advances in
technology. Otherwise it runs the risk of being discarded like the Latin
that was left behind by its all too prolific progeny. We would have liked
to express our thanks to Blacklock who gave freely of his time for the
early publication of this Rapid Method. But he too is well aware of the
imperfections that must attend any such compilation and of the great debt which all
linguistic engineers owe to those who have toiled in the same field before
their time. So perhaps it would be invidious to single out Blacklock or
any other individual. All we can say is that without him the book could
not have been published in the year after International Cooperation
Ycar. We wish to express to Divall, Cliveden Road, London, our warmest
thanks for his help in the correction of the printing proofs. NEO GRAMMAR
PRONUNCIATION. Neo, like Spanish, is pronounced exactly as it is spelt. No
letter is silent. Every letter has one sound, always the same. VOWELS.
There are 5 vowels: a, e, i, o, and u.They may vary in length and are
indifferently short or long. They are pronounced as follows: a like palm,
father; e like bet, bay, late, leather; i like bit, beet, in, if, easy; o
like on, oft, go, low; u like foot, rule, moon. CONSONANTS: e and ch are
pronounced like church, China; g like go, get, gun; i like jet, John; r
like red, rag, round, rat; s like sit, sue, son, summer: z like zoo; x
like axe,. box, excited (never z like example). All other letters same as
in English. Definite article: “lo,” ‘the’. Ending o may be dropped
before words beginning with a vowel: l'arbo, l'arbos the tree, the trees.
When preceding an invariable word, ending s may be added: los Smith, los
Nelson the Smiths, the Nelsons. It may be added also when suggested by a
want of clearness or euphony. INDEFINITE ARTICLE un: a, an. The
ADJECTIVE ends with the letter a: bona good; forta strong. The ADVERB
deriving from an adjective ends with the letter e: forte The NOUN ends
with o (plural os): frato, fratos brother, brothers; soro, soros sister,
sisters; gardeno, gardenos garden, gardens; tablo, tablos table, tables;
libro, libros book, books. Ending o is frequently dropped IN THE SINGULAR,
so long as NUMBERS: mil milyon million All other numbers by
compounding these 13 elements: isun isdu i s t r e i s g a r isgin issit
issep isot isnon duis duisun 11 12 15 16 2 0 21 o t i s
80 o t i s u n nonis nonisnon ek un ek sepisot duck t r e c k
g a r e k 300 81 101 2 0 0 400 qinek s i t m i l o t m
i l g a r e k s e p m i l n o n i s g i n 7095 500 6000 8400
OR PoNt; NOERS wima, a ast; dud second; trea third; PRONOUNS SUBJECT
OBJECT POSSESSIVE m i I m e m e m a m y; mine t u t e t a your;
yours il you l e l a h i s e l s h e l e (-y) h e r l a her;
hers i t i t le, it it l a i t s oneself; one s e oneself s a his;
one's n o S w e n e u s n a our; ours v u l v e y o u v
a your; yours Zi they 2.0 them their; theirs zel they
(fem.) ze (-y) them (fem.) After a preposition the pronoun takes
always the "subject" form: mi gar kon il I go with him; Venar v
u k o n nos ? are you coming with us? Example for possessive
adjective: m a dom, m a d o m o s m y house, my houses; possessive
pronouns end with s in the plural: lo m a, l o m a s m i n e. The
VERB. Conjugation of the verb i (lo have) (same form for all persons) P r
e s e n t a r mi, tu, il, nos, vu, zi a r I have, have, he
has you Past tense, Imperfect.. ir
mi, tu, il, nos, vu, zi ir I h a d, you h a d h e h a d we h a d F
u t u r e o r mi, tu, il, nos, vu, zi or I shall h a v e, y o u will h a
v e Conditional (3)... u r mi, tu, il, nos, vu, zi u r should have,
y o u w o u l d h a v e Imperative, Subjunctive iu Iu d u l d o ! have
patience! (pron i-u) Past participle had ( m i a r a t I h
a v e had) Present participle a n d e h a v i n g (adjective: a n d a
) Compound participle.. i n d e having had (adjective i n d a ) The
"conditional" tense may be ignored by beginners and by persons
who don't use this tense in their mother tongue. This verb i is the
pattern and the ending of ALL OTHER VERBS: t o s e e; n o s v i d a r we
s e e; el v i d o r s h e will s e e; v i d i n d e h a v i n g seen; p r
o m e n i to walk; zi p r o m e n i r they walked; el a r p r o m e n a t she
has t h e r e; toye everywhere; k o m p r e n i to understand; p l
i to please; p i to be able: p a r v u ? can you ? po for; somo
something; epe a little; dezi to wish; lente slowly; vit quickly; speri
to hope; k r a s to-morrow: oje to-day; yer yesterday; fas almost; mul
much, many; muy very. Parlar vu Anglal ? No, mi xena. Do you speak
English? No, I am foreigner. Mi k o m p r e n a r epe, mo no p a r
I understand it a little, but I cannot Miarur apreni an Neo. I should
like t o learn Neo too. speak it. Neo un linguo iza e plaza.
Neo is an easy and pleasant language. P a r m i
fi s o m o p o v u ? Can I do something for you ? P l i, p a r l u lente,
m i no k o m p r e - Please, speak slowly, I don't under- n a r. s t a n
d. M i s p e r a r v e vidi k r a s. I hope to see you to-morrow. S
a r vu of ik ? F a s s e m. Are you often here? Almost always. Bonid,
Sir. Bonser, Madam. Good morning, Sir. Good evening, Madam.
Alvid, Damel Janin. Bonnox. Good-bye, Miss Jane. Good night. After
reading these two pages, you know all essential rules of Neo. 11 GRAMMAR The
ALPHABET comprises 26 letters: 5 vowels (a, e, i, o, u) and 21 consonants:
Letter Noun in Neo Pronunciation Letter Noun in Neo Pronunciation a a
that, add n e n n o, none b e (bay) best lot, note e d
ce (chay) church (1) p e (pay) poor, person de (day) day
g k u (koo) queen, cook(2) e ( a y ) bed, day, Neo e r
(air) r e d, r o o m e l father e s sit, sister g
e ( g a y ) h e ( h a y ) geart, home u te (tay) t o o l, t e
a u (00) tool, cook i (ee) is, e a r ve (vay) vain,
void je (jay) we ( way ) well, way ke (kay) X x e
( k s a y ) a x ( n e v e r g z as example 1 e l m e
m mother 没
ye (yay) yes, yet z e (zay) z o o, r o s e 2) Ferte repron
cations like sarisy its wound, just as the sound of x is really ks.
Rather than proper letters, q and x are convenient signs to replace
respectively ku (or kw) and k s; both ku (or kw) and k s a r e a v a i l
a b l e if preferred. Letter q is always followed by a, e, i or o. Letter
combinations sh and kh are pronounced same as in English. PRONUNCIATION
Neo, like Italian, is pronounced exactly as it is spelt. No letter is
mute. Every letter has one sound, always the same. mistakes are
practically excluded. tong and rare thy win simple and patie VARIABILITY
OF WORDS An endings is added to nouns and pronouns in the plural.
Verbs are conjugated according to the list on page 17. All other words
are invariable. STRESS fails on: 1) the last but one syllable of
words ending with a vowel: lIbro book; t a b l e; pAtro father; mAtro mother;
Almo soul; korAgo courage: korAga courageous; kemio chemistry; serio
series; geograrlo geogrAi a geographical; distribo so astribute;
OAtma inanimous; unalmEso unanimity. distribution; d i s t r i b i 2) the
last syllable of words ending with a consonant: a m O r love; a m i k
friend; g a r d E n garden; kanOn gun; a v e n t U r adventure;
experimEnt experiment; m i a m A r I l o v e; vu venAr you come; zi vidOr
they will see; vu venUr you would come. The s of the plural does
not displace the stress: lEbros, tAblos, mAtros, serlos, amikos,
gardEnos, aventUros, experimEntos. 12 mourning, Before
another vowel, i always gets stress, even in words that already have
another stress: tollo madness; mopio shortsightedness; b i o l o g l o
Stress never falls on the vowel u in t h e combination guo: lInguo
language; ambIgu e ambiguously, or after a and e: p l A u d i to applause;
kAuzo cause; klAuzo clause; Auto motor-car; nEutra neutral; rEumo
rheumatism; r E u m a rheumatic. nineteen; department. n O n c k n
O n i s n O n 999; v I r v E s t d e p a r t m E n t I s n O n
men's-clothing- THE ARTICLE Definite article l o: the. Lo patro the
father; lo patros the fathers; lo matro the mother; lo matros the
mothers; lo garden, lo gardenos the garden, the gardens. Ending o
may be dropped before a word beginning with a vowel: l 'arbo, l 'arbos the
tree, the trees; l i d e o, - s the idea, -s; l ' o k, -os t h e eye, -s;
l'uk, -os the corner, -s; l'aventur, -os the adventure, - s; l'olda vir,
-os the old man, men. In t h e plural, when preceding an invariable word,
e n d i n g s may be a d d e d: los Nelson e x i r, los Johnson e n
t r i r the Nelsons went out, the Johnsons came in; los sencesa k u r d'et
infan me lasir this boy's ceaseless "whys" tired me.
Ending s may also be added to give extra weight and when suggested by a
want of clearness or euphony. There are no graphical (written) accents
nor any diacritical signs in Neo. T o m a r k t h e stress of foreign or
universal words ending with a stress-carrying vowel, an accent is put on this vowel:
pasha, papa. This does "foreign" vorthe principle of accents'
absence in Neo, as it only concerns This accent may optionally be
replaced by an apostrophe: pasha', papa'. Indefinite article u n: a, an.
Un v i r e u n f e m a man and a woman; n o u n sol boy not a single
boy. Both definite and indefinite article may optionally be omitted, as
is normal practice in Russian, in Latin – cf. H. P. Grice on ‘the’ and
the iota operator – PEANO -- and in several oriental languages. THE
ADJECTIVE The Adjective ends with the letter a: g r a n a large; leta
small; forta d e b l a w e a k; i z a c a s y; d u i a dificult; komoda
convenient; d e c e n t a decent; b l o n d a b l o n d: b r u n a brown.
When the adjective is used as a n o u n, endings m u s t be a d d e d in the p
l u r a l: lo g r a n a s the large ones; lo l e t a s the small ones; l
o b l o n d a s t h e blond ones; lo b r u n a s t h e brown o n e s; l '
a l b a s t h e white o n e s; l o s k u r a s the dark ones.
Ending a may OPTIONALLY be dropped when the adjective PRECEDES the noun t
o which it relates (NEVER WHEN IT FOLLOWS 11), s o long as this elision
does not create confusion, and so long a s after the elision the
adjective has no more than ONE syllable or at most TWO: 13 e t d o
m (eta d o m ) t h i s h o u s e u x n u s f e l e t ( u n n u s a f e l
e t ) m i r i c i r v a b o n b r i t v a b e a u t i f u l f l o w e r
s a pretty little girl I received your good letter u n gentil
d a m venir (un gentila a nice lady came d a m ) let d o m o s e k
l e z o s grana (leta small houses and big churches d o m o s ) il
un gentil boy (gentila boy) he is a nice boy. The ADVERB deriving from an
adjective ends with the letter e: forta strong, forte strongly; e n e r g
a energetic, e n e r g e energetically, e k o n o m a, - o m e economic,
-ically. THE NOUN The Noun ends with o (plural os): frato, f r a t
o s brother, b r o t h e r s; s o r o, table, tables liters; ibras book,
rachos gurden, gardens; tablo, tablos table, tables; libro, Ending
o is frequently dropped IN THE SINGULAR, so long as the ENDING oS IS
NEVER DROPPED. Ending -in is used to design feminine nouns: doktor,
doktorin doctor, lady doctor; roy, royin (usual contraction: roin) king,
queen; leon, v e n d e r i n s e l l e r m, (m, f ); librer,
librerin bookseller (m; f); biblioteker, bibliotekerin (usual
contraction: b i b l i o t e k i n ) l i b r a r i a n (m, f).
PRONOUNS m i (u (3) i l el it S O N O
S v u (3) z i z e l SUBJECT (1) I y o u; t
h o u n e s h e it o n e w e y o u t
h e y they (fem.) OBJECT (1) m e me t e you le
him le, ley her l e, i t it s e oneself n
e v e us y o u z e t h e m ze, zey t h e
m POSSESSIVE (adj. and pron.)(2) m a l a l a l
a l a s a n a v a 2 8 my; mine your;
yours h i s her; hers. h i s: o n e ' s, h i s o w n
our; ours Your; Yoeirs 14 After a preposition, the pronoun
has always the " s u b j e c t " f o r m: v e n a r t u k o n n
o s ? are you coming with us ? m i e x a r kon il I go out with him;
For the indirect object pronoun, you may also say: a mi, a tu, a il and
so on ( t o me, to you, to him); in the third person, you may also
replace le by lu (fem. luy) and ze by zu (fem. zuy), (only for the
indirect object); When, in t h e same sentence, you have two object
pronouns, the one direct and the o t h e r one indirect, the indirect one
is placed first: m i te it v e n d a r I sell it to you; nos ve l e p r e
z e n t o r we shall introduce him to you; nos le (lu) ve prezentor we
shall introduce you to him. 2) Examples: m a dom, m a d o m o s my house,
my houses; possessive pronouns e n d w i t h s in the p l u r a l: lo m a
m i n e; l o m a s mine (plural): There exists also a "rich"
possessive, more expressive: m i a, t u a, i l a, ela, ita, soa, nosa,
vua, zia, zela: nosas plu shira gam vuas ours are more expensive than
yours. T h i s " r i c h " p o s s e s s i v e u s u a l l y
follows the name to which it refers and a d d s e m p h a s i s: P a t r
i o m i a ! My fatherland (mine) !: P a t r o n o s a ! O u r Father
(ours) ! 3) Several Neists suggest using tu when addressing a single
person and v u when addressing two persons or more, as was normal
practice in Latin. SOME OTHER PRONOUNS: l o w h a t: l o k i
m e p l a r w h a t a p p e a l s t o m e; l o k e m i v a r i w h a t I
w a n t t o h a v e (objeet k e n ) who (whom): Ki v e n a r ? Who is
coming ?; k e n v i d a r v u ? whom do you see?; possessive k i a: k i a
et l a p ? whose is this pencil? (object ke) relative pronoun: who
(whom). L o v i r ki v e n a r the man who is coming; lo v i r k e t u v
i d a r the man ( w h o m you see. Animals can be "he, she or
it", as in English. When, in the same sentence, o r in t h e same
narrative, you have t w o pronouns, the one relating to a h u m a n
being, a n d the o t h e r one to a n animal, it is suggested, in order
to avoid confusion, to use il (or el) for the human being, and it for t h
e a n i m a l. POSSESSIVE ADJECTIVES ma-, t a -, la-, el(a)-, sa-, na-,
va-, za-, zel(a)- are frequently used as PREFIXES: maopine in my
opnion; savole of his (own) free will; vadomye in your house; raggin
agthen conom ele and in decording to his conte after maelte on my part,
from me, on my behalf; navola decidos our free-will decisions. o h
FEnglisa imsonal pronoun "it, this, that" (in Neo to or 1) is e
legala it h a s n o importance it is all the same to me me p a r a
r strana it seems strange to me nesar agi It is necessary t o a c t
s a r peria! that is all right! o x i ! par bela oje this may
happen! it is fine weather to-day 15 But this pronoun may not
be dropped when used as object or interrogat- ively: M i t r a r
eto t o t e b o n a Libar vu i t ? Sar it posibla ? I find
this quite D o Still, y o u m a y s a y: S a r v e c o a l a
e s... ? Do you mind if... ? because such a useful question cannot be
confused for the statement. Hider ai, zel mean also the one one we
the one who is coming e l k e t u a m a r she whom you love zi k i
k a n t i r y e r s e r t h o s e w h o s a n g yesterday evening i t k e
v u b i l d i r the one you built The pronoun zi has one rather special
form ziel to denote a couple (m, /) or a mixed-sex group. EXERCISE
Mi te vidar, tu no me vidar. Va r vu exi kon mi ? Il d i c a r el no v e n o r.
Mi te dor pan, tu me dor vin. Vo ta d o m ? em lo ma. Va kamos plu
grana gam nas. Ma dom plu leta gam ta. Mi no spar pri ko tu parlar.
Il parlar pril yera axident. El sem dicar to a sa matro. I
see you, you don't see me. Will you go o u t w i t h m e ? H e s a
y s s h e w i l l n o t c o m e. I'll give you bread, you'll give
me w i n e. Where is your house ? Here is mine. Your rooms are
larger than ours. My house is smaller than yours. I don't know
what you are speaking about. H e is talking about yesterday's
accident. She always says everything te her m o t h e r. Nos
exor kon zi krasmatin. We'll go out with them to-morrow m o r n i n g.
Lo vir ki venir e ke tu no libar. The man who came and whom you d o n ' t
l i k e. Mi vur spi kia et bel dom. I would like to know t o whom
this b e a u t i f u l h o u s e b e l o n g s. Sar forse lo del
derker. It is perhaps the director's. Mi no spar lo ke t u var fi. I
don't know what you want to do. Ken inkontrir t u etmatin ? Whom did you
meet this morning? Lo dam dey filyo tu konar. The lady whose son you
know. P
ar mi ti m a libros i n ta k a m ? May I put m y b o
o k s in your room ? Ya, mo no tiu lo tas nir lo mas. Yes, but do not put
yours near mine. Ve r m i te vidir k o n t a t r a t. I s a w you
yesterday with your Yer fir bela, mo oje pluvar. Yestethey it was fine,
but to-day it is r a i n i n g. No me vikar resti domye oje. I
don't mind staying home to-day THE VERB THE VERB I, to have, is
conjugated as follows (same form for all persons): Present a r mi,
tu, il, nos, vu, zi a r I have, y o u h a v e, h e h a
s Past tense, Imperfect.. i r F u t u r
e ml, tu, il, nos, vu, zir hehdayou had, O r mi, tu, il, nos, vu, zi or I
shall have, Conditional • u r mi,
tu, il, nos, vu, zi u r should h a v e, y o u w o u l d h a v e
Imperative, Subjunctive i u Iu duldo! have patience! (pron i-u) Past
participle Present participle a t a n d e had ( m i a r at I have had) h
a v i n g ( a d j e c t i v e: a n d a ) Compound participle.. i
n d e having had (adjective in da ) Trustionte in their mother od y
beginners and by people who This verb i is the pattern and ending FOR ALL
OTHER VERBS (every verb consists of a stem, suffixed by one of the eight
forms of the verb i ): Si to be; m i sar l a m; il s i r he was; nos s o
r we shall be; Sat been; fi to do; t u far you do; vu fir you did; el fur
she would do: l a n d e d o i n g; v i d i to s e e; il v i d a r he
sees; v u v i d o r you will s e e: m i have s e e n; p r o m e n i to w
a l k; zi p r o m e n i r they walked; el a r p r o m e n a t she has
walked. The Imperative-Subjunctive of polysyllabie verbs ends with u
instead of iu: Miru et fem! Look at this woman!; Nos promenu um lo
kastel! Let us walk around the castle! ACTIVE COMPOUND VERBS are as
in English: mi ar s a t I have been; vu ar fat you have done; nos a r
vidat we have seen; el i r pro- menat she had walked; v u ur pensat you
would have thought; zi or e n d a t they will have finished. This
"occidental", construction may be replaced by the Esperanto
modified in Neo i n t o i n d a (with a u x i l i a r y verb s i, to be):
will have s e e n; v u finda you have d o n e; n o s v i d i n d a we have
seen; el s i r p r o m e m n d a she had walked; vu s u r p e n s i n d a
you would have thought; zi s o r e n d i n d a t h e y will h a v e
finished. PASSIVE VERBS (auxiliary verb si): mi (sar) b a t a t I am
beaten; zi s i r b a t a t they were beaten; n o s s u r b a t a t we s h
o u l d b e b e a t e n; vu s o r b a t a t you will be beaten; zi s i r
vidat pe mulunos they were seen by many people. This construction
may be replaced by the verbal suffix a t: m i batatar I am beaten; zi b a
t a t i r they were beaten; nos b a t a t u r we should be beaten; vu b a
t a t o r you will be beaten; zi v i d a t i r pe m u l u n o s they were
seen by many people; il shar si batat he ought to be beaten. REFLEXIVE
VERBS as in English: m i m e mirar I look at myself; il se v u n a r he
injures himself; il se kontrediear he contradicts himself. This
construction may be replaced by the verbal suffix is: m i mirisar I look
at myself; il v u n i s a r he injures himself; il k o n t r e d i c i s a r
he contradicts himself. RECIPROCAL VERBS are conjugated with the
verbal suffix ue: nos a m u e a r we love each o t h e r; zi k o n t i n
u e o f e n d u e a r they continuously offend each other; Amueu e vu sor
ixa! Love each other and you will be h a p p y ! you (are) a clever
b o y; m i p a r l a n d a I (am) talking; nos s i r l u d a n d a we
were playing; van il venir, mi s i r lejanda when he came, I was reading;
mi ju fartor I am going to leave; nos ju arivor we are going to arrive; i
l ju a r i v a r h e is just arriving; nos ju udir we have just heard;
nos i r ju udat we had just heard; e t d o m l u k e n d a this
house is t o let; et kont v e r i f k e n d a this account has t o be
verified (checked, audited); y e n m u z e o v i d e n d a that museum is
worth seeing; ye mul rimarkenda kozos there are many remarkable
things. EXERCISE
Dun tu dansar, mi laborar. A s k u, so t e d o r. Mi vendar e tu
kofar. El no bela, mo muy kleva. D e z u r v u t r a v e l i e t s
i z e ? While y o u dance, I work. will be given to
you. handsome, but very intelligent. you like to travel in
this season ? I l l e k t a r entide. He r e a d s all d a y
long. Kan kostar e t cap ? H o w m u c h d o e s this h a t cost ?
Ka lo presyo d'et cap ? What is the price E t o no m u y c i p a.
This is not very cheap. Mi korespondar kon un Angla. I c o r r e s p o n
d with an Englishman. Mi lu s k r i b a r, il me rispar. I
write him, he replies to me. J u pluvor, dete mi no exar. It is going t o
rain, that is why I d o n ' t g o o u t. Il ju venir da London e me
aportir He has just come from London and un bel libro. b r o u g h t m e
a beautiful book. M i s e m pensar a el, mo me I always think of her, but
she has Shendande dal tren, il kadir e Stepping out of the train, he
fel injured himself. Si o no si, em lo gestyon. To be o r not to
be, t h a t is t h e Mi nur plezantar. Mi krar, tu me mokar. I am
on joe puling my lo6: MONOSYLLABIC VERBS The following monosyllabic
verbs are the contractions of the forms in b r a c k e t s: i ( a v
i t o h a v e p i ( p o s i ) to be able bi (bevi) to drink pli ( p l a z
i ) to please di ( d o n i ) t o give s i ( e s i ) to b e f i
(fari) to do, to m a k e s h i ( s h a l i ) to have to fli ( f u g i )
to fly s p i ( s a p i ) t o k n o w g i ( g i ) t o g 0 s t i (esti) to
stay, to be j i ( i j i ) t o b e c o m e ti ( m e t i ) t o p u t
k r i ( k r e d i ) to believe t r i ( t r o v i ) to find li (lati) to
leave, to let vi (voli) to wish, to will Both forms have exactly the same
meaning; one may therefore optionally use one or the other, according to
one's t a s t e or t h e feeling. Thus, you can choose either form:
l'aglo f a r or Paglo flugar (the eagle flies); mi no p a r fl eto, mi no
posar fi eto, mi no par fari eto or m i no p o s a r f a r i eto (I c a n
' t do this). I t is suggested to use the dissyllabic ( t o syllable)
form of these verbs except for the auxiliary verb i) when addressing
people in an international meeting, i n which case it is also necessary
(whichever language used) to speak slowly, in order to make understanding
easier. NEO NUMERATION CARDINAL NUMBERS: 100 mil 1000
All other numbers by compounding these 12 elements: tsun isdu istre isgar
isgin i s issepisgt ison dais disun duise duistre treis garis qinis sitis
sitiolt ogis guis monismon elon 23 30 40 99 ekdu ekis duck treek
qinek siteksitissit otek milun milis milekisun 1001 1010 d u m i l
t r e m i l o t m i l treismil otismil duekmil ginekmil 2000 3 0 0 0 8 0
0 0 30000 80000 200000 500000 s i t e k m i l s i t e k s i t i s s
i t m i l y o n t r e m i l s e p e k g a r i s t r e 6 0 0 6
6 6 m i l l i o n 3743 ginmil noneksitistre noneksitistre g a
r e k s i t m i l 4 0 6 9 6 6 noneksitissit m i l y o n (os) s e p
e k n o n i s t r e m i l s i t e k s i t i s f r a n k o s: 46.793.660 g
a r i s s i t f r a n e s. Tokyo are is mil enos) abiteros: Tokyo hasad,
ten milion inhabitants (ab. = about) S U F F I X E S. Ordinals: -a.
U n a ( p r i m a ) first; u n e ( p r i m e ) firstly); third; g a r a f
o u r t h; tenth; isdua twelfth; duisa twentieth; duisnona 29 th; q i n i
s a 50th; e k a 100th; m i l a 1000th. M u l t i p l e s: g a
r i p l a fourfold; i s i p l a tenfold; isipli to Cold; Piplae don, ls
doubly deciple; -capia centupie; e i p l i to . Fractions: -im. D u
i m, d i m half; t r i m 1/3rd; q a r i m 1/4th; isim 1/10th; qinisim
1/50th; e l i m 1/100th; milim 1/1000th; milyonim o n e m i l l i o n t h.
Order, class: Primala primary; duala secondary; isala ranking tenth.
Collective: -0. Isos tens; isduo dozen; ekos hundreds; milos thous-
Grouping: -ope. Unope one by one; duope two by two; isope in groups of
ten; ekope by hundreds; milope by thousands. Ordinals are needed for:
I s g a r a S e k l o (14a s e k l o ) fourteenth century; D u i s a S e
k l o ( 2 0 a s e k l o ) twentieth century. Ordinals are not needed for:
ARITHMETIC. B a s i c R u l e s: division. Adis addition;
sotrak subtraction; multiplo multiplication; divid 19 2 + 2 3
- 1 X 3 8 : 2 = 4 = 3 = 9 =
4 d u p l u d u far q a r g a r min u n far t r e t r e yes t
r e far n o n ot pe du f a r gar. Big Numbers: m i l y o n
million (1.000.000 or 106) m i l y a r d milliard (U.S.
"billion") 1.000.000.000 or 109) b i l y o n billion (U.S. one
thousand billions) 1.000.000.000.000 or 1012 t r i l y o n trillion (one
million european billions) (1018) g a r i l y o n quadrillion
(1024) q i n i l y o n ' quintillion (1030) Powers: 62: sit d
u p o s a (6/2ps) 8 5: ot t r e p o s a (8/3ps) 1012: is isduposa
(10/12ps) 1024: is duisgarposa (10/24ps). Roots: 2 \
16: duradik de 16 (2rk/16) 1/27: treradik de 27 (38k/27) 1/256:
garradil de 256 (1rk/256). Weights and Measures: g m l i t r
o g r a m m e t r o dag d e k a g r a m d a m d e k a m
e t r o d a l d e k a l i t r o hg h e k t o g r a m hm
h e k t o m e t r o hl h e k t o l i t r o kg k i l o g r a m k m k i l o
m e t r o d e c i l i t r o d g d e c i g r a m d m d e c i m e l r o c
l c e n t i l i t r o cg c e n t i g r a m c m c e n t i m e t r o
Q g i n t a l (100 Kg.) ™ g m i l i g r a m m m m i l l i m e t r o
I n t o n y o (1000 Kg.) i n c o: inch; ped: foot; pundo: pound;
milyo: mile; n o d y o: k n o t; galonyo: gallon; lumanyo:
light-year parsek: parsec (3,26 light-years); m e g a p a r s e k:
megaparsec (one million parsecs). International
signs. Neo has adopted following international signs: (kilo) No has
adopted! ( m i l i ) 10-3 M G T ( m e g a )
106 u ( m i k r o ) 1 0 - 6 ( g i g a ) 109 n ( n a n o )
10-9 ( t e r a ) 1012 ( p i k o ) 10-12 Numbers Sit (6), Is
(10) and Ek (100). We long reflected before adopting these three terms
instead of the more international ones s i x, d e k a n d c e n t, w h i
c h f i r s t n a t u r a l l y c a m e t o our m i n d. O u r o p t i o
n w a s d i c t a t e d b y r e a s o n s o f c l e a r n e s s a n d e u p h o
n y. H e r e are some examples of n u m b e r s c o m p o s e d w i t h
sit, is a n d ek in front of the same numbers composed with six, dek and
cent: s i t i s 60 s i x d e k s i t i s s i t 6 6 s i x d e
k s i x s i t e k s i t i s s i t 6 6 6 s i x c e n t s i d e k s i
x qareksitisqin 4 6 5 g a r c e n t s i d e k g i n q a r e k d u i
s d u 4 2 2 g a r c e n t d u d e k d u s i t m i l s i t e k s i t i s s
i t 6 6 6 6 s i x m i l s i x c e n t s i x d e k s i x s i t i s
a 6 0 t h s i t i s s i t a 6 6 t h otekotisot 8 8 8 s
i x d e k s i x a o t c e n t o t d e k o t 20 These examples
show that six often causes ugly alliterations; is and ek, brief and clear
and beginning with a vowel, compound themselves much more harmoniously
than dek and cent with other numbers them. Nem mbers are those wanted by
our age of radio and telephones An expert's opinion: Here is the
opinion of Mr. F. J. K r ü g e r, Interlinguistics Counsellor of Amsterdam
University's Library, p r o m m e n t p o l y g l o t, w h o knowledge o
f all m a j o r c o n s t r u c t e d languages, a n d a l s o o f a h a s g r
e a t a wide number of natural, living or dead, languages: N e v
e r, in w h i c h e v e r l a n g u a g e, h a v e i m e t numbers that
sound as clearly and as harmoniously as Neo numbers. SHORT VOCABULARY:
num number; numa numeral, numerical; nume numerically; n u r i to number;
numazo numbering; numado, n u m i o n u m e r a t i o n; n u m o z a n u
m e r o u s; n u m o z e n u m e r o u s l y; n u m o z o numerousness;
numon big number, great number; sennuma numberless; n u m b e r l e s s l
y; m u l m a n y; m u l u n o s many people; mulo g a n t o q u a n t i t
y; g a n t a quantitative ( a l s o: " q u a n t a " ); q a n t i
to quantify; q a l q u a l i t y; q a l a qualitative; g a l i, galifi to
qualify; g a l a z o qualification; q a l i a qualifying, qualificative;
galat qualified. zer(o) zero, nought; n i l o nothing; nix nothing at
all, naught; nil.. no...; nili to annihilate; nilazo
annihilation; nula worthless; nule in n o w a y. adisi to add up;
sotraki to substract; multipli to multiply; multiplo m u l t i p l i c a
t i o n; m u l t i p l a l plicand; m u l t i p l e r multiplier; m u l t
i p l e s o multiplicity; m u l t i p l i b l a multipliable; division;
mutaniable disishiti; onidend ditdend, divizon division (mil). matemat, -
a, - e mathematics, a r i t m e t i o, -ical, -metist arithmetic, -ically; -ist
m a t h e m a t i c i a n; --etician; g c o m e t r i o, m m e w a, - m e t r i s t geometry, - i s t
a l g e b r a, - a i c, equation; s e n e n d i m a i n f i n i t e
s i m a l; d i f f e r e n t i a l; k a l k u l calculation; calculate;
kalkulil, k u l i n g o calculating machine; a d i s i l, a d i s i n g o
adding machine; k o n t account: k o n t i to count, to reckon; s t a n d
e l balance (of account). For DATES, t h e day's number
is generally p u t before t h e m o n t h: u n j a n a r January first; i
s g i n n o v e m November 1 5 t h; t r e i s u n decem D e c e m b e r 3
1 s t.; k a d a t o o i e ? what is to-day's date?; k a i d d e l m e s
of July; mi n a s i r je duisnon lebrar I was born on February 29th.
EXERCISE Ke vur tu fi oje ? What would you like to do to-day? M i
shar gi shel librer e kof tre I must go to the bookseller's and buy l i b
r o s. t h r e e books. A r t u s u f d e n g o ? Have you enough money
? Mi
a r d u e k g i n i s f r a n k o s. I have 250 francs. S
h a k libro k o s t a r sepis f r a n k o s. Each book costs seventy
francs. L o s t r e k o s t o r d o n k d u c k i s f r a n k o s. The
three will then cost 210 francs. Ve restor qaris
frankos. Y o u will h a v e 4 0 f r a n c s l e f t. L
o d u i s t r e m a r s or un bel On March 23, we will have a fine
concert. Ka lo presyo del plasos ? What is the price o f the seats?
Mi n o s p a r; l a s t y e s nos pagir ek I don't know; last time we
paid g i n i s f r a n k o s lo p l a s. 150 francs a seat.
21 Ke for tu krasmatin ? What are you going to do to-morrow Mi
sperar gi kinye kon ma frat. I hope to go to the movies with my Kom gar
ta filyo ? Il studar jus universitye e laborar He studies la an
hendersity and Ma m a t r o me dar un libro. he is working very
well. Ta dom me plar mul. My mother gives me a book. Vur vu
veni ne vidi etser ? Mi vur, mo no par; mi no frida. I would like to, but
I cannot; I am Te miru nel spek: ta vizo lura. Look a t yourself in the
mirror; Sar un inka flek. Kom fir tu it ? It Tsan ink biot. Hoy did you
do it ? Mi no spar; forse dun mi skribir et I don't know; perhaps while I
was writing this letter t o my mother. Cu tu vidinda l'iv ki flir
tan vit? Have you seen the was yvins so fist airplane that Vo tir tu
lo lapos ke mi te dir? Where did® you put the pencils I gave you?
Mize tir ik, mo nun mi no par ze I putt her here, but now I cannot Aponu
ta mant, nos Put on your overcoat, we are soon Pardonu, Madam, ve
fir mi mal? I beg your hert yor pardon, Madam, did I No dey, vu me fir
nil mal. Don't mention it, you did not hurt Mi no ir vidat vu sir ik. I
had not seen you were here. I was twice in F r a n c e. Mi ik
primyese. This is the first time I am here. Kanyes gir vu kinye van vu
Lon- How many times did you go t h e movies when you were in
Mi ye sir plulyes. I was there several times. Unyes mi ye inkontrir va
gefratos. Once I met there your brother(s) and sister(s). Dim d ' e t f o r t u n
te Ka ma standel, pli pertenar. Half of this
fortune belongs to you. Mesense vu ritirir t r e e k issit;
qinek treisgar S. had £ 850; you drew out £ 316; now you have £
534. Ekos perar shakmes in rutaxidentos. Hundreds (of persons) perish
every in road-accidents. grek filosof vivir yo This great Greek
philosopher lived t h o u s a n d s of years ago. VOCABULARY:
sekund second; m i n u t minute; oro hour; ordim half a n h o u r; o r g
a r i m quarter of an hour; i d o day; n o x night; m a t i n morning; m
i d noon; ser evening; minox midnight; vek week: vekend m o n t h; b i m
e s t w o months; t r i m e s quarter, three months; sitmes half-year;
anyo year; seklo century; milanyo thousand years, millenary; domid
afternoon alter to morrow; sem always; xi neye late; sa, save e p
sidago; fra within; inye within; fru early; day: min t a Sung; VeRan do
May day, Sad Tuesday; Mirko Wednes- Janar January; Febrar February; Mars
March; April April; Mey May; Junyo June; Jul July; Agost August;
Septembro September Oktobro October; Novembru November Decembro December. Primaver,
Lenso Spring; Zom Summer; Erso, Autumno Autumn; Yem Winter tempo
time; sizo season; period period; d u r i t o l a s t; p a s i to go by,
to pass; pas- l a s t; n a r - coming, to come; d u n while. W h a t time
is it ? Kaore venor vu ? At what time are you going to Mi venor fra
du oros. S a r is m i n g a r i m. S a r is e q a r i m. I'll be
here a t 5 (o'clock). I t i s now three o'clock. I'll come within
two hours. It is late, it is already ten. It is quarter to ten.
It is quarter past ten. It is five minutes to ten. Sar is min
is. Sar non min duis. Sar isun e duisgin. It is ten minutes
to ten. It is twenty minutes to nine. It is 11.25. It i s
almost half past eleven. It will soon be eight. Sar ja ot min
sep. It is already seven minutes to eight. I have been here since
six o'clock. Mi arivir yo sit oros. Mi
ik d e p d u oros. I a r r i v e d six hours ago. I h
a v e b e e n h e r e f o r two hours. At what time is
the departure? Lo ship departar a i s exakte. Th e ship leaves exactly at
ten. We'll be here in a quarter of an hour. Kan
departos ar vu nok inye mes ? How many departures have N o k qar d e p a
r t o s: du departos Four m o r e departures: two de- Mi no par giti pre
un bivek. I cannot leave before a fortnight. Zomoro.
Yemoro. T r e m a t i n e. At any time (of the day). S u m m
e r t i m e. Wi n t e r time. Three o'clock in the morning. Every
hour (adv.). By n o w; b y this time. Il a t e n d a r sa
oro. Il pagat treisqin frankos ore. He bides his
time. thirty-five francs an Suplemtempo pagat sitis frankos Overtime
is paid sixty francs an Il astir e arivir justore. m a d e h a s t e a n
d arrived a t the right time. a treedim domide lo On June fifteen,
at half past three in the afternoon the t r e a t y p e a c e w a s
s i g n e d. Narzome n o s departor Fransye. Next summer we'll leave for
France. Septembre mi sor Italye. I n September I'll b e i n Italy.
M i libar J u n a long idos. I l o v e June's long days. Mi sor Londonye
nartud a is sere. I'll be in London next Tuesday at Mi sir Swisye
pasyeme. I was in Switzerland last winter. (dun jinge T u k a
n a j a ? - Mi isot. Mi sun isot. Mi nonok duis. Ma
patro ja ginis. I l aspar apene qaris. @inanya, sitanya, Qarisanya,
qinisanya. Sitisanya, sepisanya. AGE How old
are you ? - I am eighteen. I'll soon be eighteen. - I am not yet My
father is already fifty. H e h a r d l y looks f o r t y. six, ten
years old. Quadragenarian, (in h i s f o r t i e s, in h i s
fifties). Sexagenarialioies). septuagenarian (in
Octogenarian, nonagenarian (in his Otisanya, nonisanya. Centenary
(anniversary). Jubilee (50th birtday), Nasid; anyid; Birthday;
anniversary; Saint's Day. Pasanye nos celebrir lo garekado Last
year Shexpir-naso, kespeare's birth. Naranye
nos celebror na nodependo Next w e will c e l e b r a t e o u r
independence jubilce. Pasanye na granpatro
samany g o a t dei easy, Last sate m a n ather became the centenary
y e a r of the Lo pov nonisanyin kadir e vunisir T h e poor ninety y e a
r s o l d w o m a n fell and injured herself badly. Sor l'endo de
ta adol, tu sor adulta. It will be the end of your adolescen- ce, you
will be an adult. TABLE OF THE PRINCIPAL PREPOSITIONS a (al) t o
(1) les according to a b from, beginning with l o n g a l e.
along, a t the side of a k o n t r e contrarily to mede
amidst ante antel before space meze by means of apse apsel next
to n i r near da/dal from o b e above, up c i s on this
side o n d e (del) of p e pe) byover d o ( d o l
) a f t e r (time) ( p o l ) f o r dorse rear, back of на
с
п
и
н
я
po p r e ( p r e l ) before (time) d r e ( d r e l ) behind p
r i (pril) about, concerning d u n during, while p r o for, in favor
of, per eske eskel except r e k t e l e overleaf e x e out,
out of r i r behind f a c e facing fra r i s p e in reply
to H e r in spite of v i t r e behind s e n
without i m e inside s h e a t, t o i n l o k e instead
of sub under infolge following sube (subel) under,
below inte (intel) between, among i n t r e ( i n t r e l )
inside i n y e (inyel) within j e ( j e l ) t o, i n, f o r, by,
near ( k a u z e l ) because o f kon kol with konforme
according kontre kontrel to against s u r over, above s u r e
above t r a, trans t r u ( t r u l ) through u (ul) at, in
possession of u m around u n t e ( u n t e l ) down u s u n
t i l ver to, towards CORRELATIVE ADJECTIVES, PRONOUNS AND
ADVERBS ADVERBS PRONOUNS ADJECTIVES locative: -ye
individual: -un thing: -0 mode: -e ka which, what e t t h i s yen
that k a u n which one e t u n this one y e n u n that
one k a o (usu: ko) what (complement: k e ) e t o t h i
s y e n o t h a t kae ( u s u: k o m ) how | k a y e (usu:
vo) where e t e t h u s y e n e in that way etye (usu:
i k ) here y e n y e u s u ye) there o s a other
som some shak each, every tot all sert a certain osun
another one tot unos usu: tos plural all, all people sertun
someone -- H. P. Grice, “PERSONAL IDENTITY” “Someone is hearing a noise”
-- t h i n g something o s e otherwise some some-way o s y e
s h a k o each thing s h a k e in each way to t o (usu: to)
tote quite, wholly s e r t o a certain thing elsewhere somye
somewhere s h a k y e in each place t o t y e ( u s u toye)
everywhere sertein a certain s e r t y e in a certain a n y w h e r
e t a l y e in such a place nowhere somewhe- nilosye
nowhere else k e l a n y t a l such kelun anybody t a l
u n s u c h one a n y t h i n g t a l o s u c h a thing k e l
e a n y h o w thus, k e l v e nil no etosa this other
(2) n i l u n nobody e t o s u n t h i s other n i l o
e t o s o nothing this other a way n i l e no wise n i l
y e s o m o s a other n i l o s a
n o s o m e other one somosun some-one else
nilosun nobody else thing somo s o e l s e niloso
something nothing else somo s e in some other way n i l
o s e in no other s o m o s y e r e else way feminine: kain,
etin, yenin, osin, somin, shakin, totinos, sertin, kelin, talin, nilin, etosin,
ete. the adjectives osa, etosa,
somosa, nilosa can never be elided. CORRELATIVES are often used as
PREFIXES: ka ore? at what time/hour?; ka i n t e n t e e x i r il ? with
what intent did he go out? kaskope v e n i r i l ? for what purpose did he come
?; nilkaze in no case; kelkaze in any case; etoxe in this occasion;
talkondise in such conditions; kelvede whatever the weather. Vo?
Unde Vas Lom Кі ?
212 1010 2 Kur? Neo
very often contracts the preposition with the definite article as given
in brackets above: al to the; a n t e l before the; apsel next to the; d a
l from the; del of the; dol after the; eskel except for the; grel in k o
n t r e l against the; nel in the; ol on, over the; pel by the; prel
before the; p r i l concerning the; subel under the; trul through the; ul
at the in possession of t h e; u n t e l down the: Il dir sa dengo
al pov vir. Prel m a r l o de ma f r a t. Antel fenso un
tablo. M a frat marlir prel guer. Dol g u e r ecos
prosperir. El gir al garden kol filin sener. Zi
parlar pril tertrem. He gave his money to the poor man. Before my
brother's marriage. A t a b l e ( i s ) before the w i n d o w. My
brother married before the w a r. After the war business
flourished. del en- She went to the garden with the teacher's
daughter. They are talking about the earth- The terminal 1 of the
contraction does not shift the stress from the first syllable: Antel,
Apsel, Eskel, kOntrel, kAuzel, etc.
je has all sorts of meanings and is used whenever doubt is felt
regard- ing use of other prepositions. 4) the preposition u
(replaced i n Latin with the dative) corresponds to the Russian u: u mi
libro I have, I possess a book (Latin: est mihi liber; Russian: u menyà
kniga). PREPOSITIONS AND ADVERBS are frequently used as PREFIXES, as well
for adjective as for adverbial use: pre-war; preguer e before the w a r;
p r e n a s a b e f o r e the birth; p r e e x i s t a preexistent;
existence; d o s k o l a after-school; doskol e after school; doguera
after-war ; d o g u e r e after the w a r ; semviva always living; nokviva
n i u d a t never heard ; n i v i n k a t never vanquished ; m a n a m e e n a
m e m a t r a t in my name and in my brother's name. EXERCISE.
Vo lo dom de t a profesor? Lo dom del profesor drel kiezo. The professor
professor's house? professor's house behind the church. Mi j u
v e n a r dal klezo. I have just come from the church. Perdinde
lo klil del pordo, il entrir entered through the kitchen's El
skribir un libro pril guer. She wrote a book about the
war, I'll go o u t e i t h e r with you or w i t h venir etmatin.
Vur tu i somoso ? N o b o d y else c a m e this morning. Wo u
l d else you like to have something Dank, mi nesar niloso. Thank you, I
don't want anything e l s e. Et labor endenda inyel vek. This work
is to be finished within the week. S a r lo libro ol t a b l o ? Is
the book on the table ? U il du filyos e un filin. He has two sons a n d
a daughter. N o fexu kontre destin! Don't struggle against destiny!
Nel mensocar vi par edi kelore. In t h e dining-car you can eat at Vidir
vu somun nel dom del librer? Did you see anybody at the book-seller's
house? Ye sir sa filin kon la spozo. There was his daughter with her
husband. п
о
ч
е
м
у
L'ensener parlar al alevos. Il parlar kon u n alevin. 1l parlar
pril libro de la patro. Il p a r l a r pri sa libro. The
teacher talks to the pupils. He is talking with a girl pupil. He is talking
about He is talking about his own book. The man with the grey
gloves. l o s v e n i r k u n e k o l n u v v e s t o s. All came
together with the new Kelo il dicar, no Whatever he says, don't be
afraid. Mi p r e n a r e t u n ; t o t o s u n o s po vu. I take this
one; all others are Eto me plar, yeno no. This pleases me, that does n o
t. Mi fonir al doktor; somosun rispir. I called the doctor; somebody
else Venu kon mi shel doktor, ose mi Come with me to the doctor's;
otherwise I will not go. Rispe v a brif, nos glada v'informi In reply t o
your letter, we are glad Es vu par atendi us kras, mi vole the book
y o u a r e looking for. wait until tomorrow, I'll willingly go out
with you. THE NAME Ka ta n a m ? Ma nam J a n. Skolye tos me namar
Net. Sar it u n s u r n a m ? E t o n u r lo
minifa de Jan. Somyes zi me surnamar Nux. your name? My
name Al school, everybody call me Net. I s t h i s a nickname:
Jan's diminutive. sometimes nickname Nuts. T e n u g a r e t o
? Does this bother you ? N o, m i n o ize a r g a. No, I do not get angry
easily. Tu r a g a ; tu b o n k a r a k t a. E t e tu sor sem ixa.
natured; thus you will always be Mi m e dicar: ridelu, osunos te I s a y
t o myself: smile, others will smile at you. Ka ta fanam (familnam)
? names, your family name (sur- Pli, Madam, ka va felnam? If you please,
Madam, what is your Have you a nom-de-plume? adoptir lo pseudonim
"Sen- I adopted the pseudonym p i n t e r ? Mi l e konar Do you know
this painter? pel nam; il parar i bon fam. a good repation seems to
have Mi sur glada le koneli. reputation. acquaintance. Mi
inkontrir ye mul ma konelos. I met there many acquaintances of Maname e
name tot membros de In my name and in t h e name of all na Socado, mi
dezar ve feliciti. members o f our Society, t o congratulate you. Il
ju namadat ambaser Parisye. He has just been appointed ambassador in
Paris. Il certe meritir et namado. Н е
certainly deserved this appointment. Il
as grana as vu. Il y u n i r a gam vu. Il
min exijema gam vu. COMPARISON DEGREES He is as big as you. He
is younger than you. He is less exacting than you. Grana, granira,
granega (muy gra- Large, larger, very large; n a ); fen, bro,
genest (doyeran. Bremely lage, the largest one. belega
( m u y bela); Beautiful, beautiful, very beautiful; belisima, lo
belesta (lo plu bela). Leta, letira, letega (muy
leta); Small, extremely beautiful; most beautiful. smaller, very small:
letisima, l o letesta (lo plu leta). extremely small, the smallest (one).
Olda, oldira, oldega (muy olda); Old, older, v e r y o l d; oldisima,
l'oldesta (lo plu olda). extremely old; the oldest one. Un oldun, un
oldin. An old man, a n old woman. SENTENCE BUILDING Sentence
building is very free in Neo. The English student may freely copy
the order that comes naturally to him, according to the rules of his own
language. The adjective may be placed before or after the word to which
it relates, and similarly for the object pronoun and for the adverb. You
may say: M i v e a m a r as well as Mi amarve I love you. COMPLEMENT'S
TRANSPOSITION. Especially in poetry, one before the subject. patron
libir f l y o = filyo libir patro the son loved the father Ion mint patre
t a t e i n t o the tern fooked at the girl femon m i r i r lo fel = lo
iel m i r i r lo fem the girl looked at the woman. This ending n may be
used only in case of transposition. Beginners may totally ignore
it. For Neo's OPTIONAL GENITIVE see above. AFFIXES
PREFIXES: ad-deputy, assistant, under-, sub-
adsekrerunder-secretary;adderkersub-manager; a d r o y v i c e r o y; a d
k o l n e l lieutenant-colonel; a d l i n g u o auxiliary
language. a m b - both a m b e l t a of b o t h s i d e s; a m b e
l l e o n b o t h s i d e s; a m b - d e z o both side's wish; a m b d e
c i d e by both side's decision. 3) ante- before
(place) a n t e k a m antechamber; antegardo vanguard: a n t e c e
n i r o centre-forward; a n t e k o r t e l fore- c o u r t; a n t
e b r a s o fore-arm anti- contrary, anti- antialkola
anti-alcoholic; antiatoma anti-atomic; a n t i k o l o n y i s m o a n t
i - c o l o n i a l i s m; a n t i f e b r a antipyretic; a n t i p r o t
e k i s m o antiprotectionism; a n t i k o n s t i t u a a n t i c o n s
t i t u t i o n a l. a r e i - higher
degree, most, extreme, bi-, du- two-, bi- a r c i d u x a r c
h d u k e; a r c i r i k a e x t r e m e l y rich; areikolma overcrowded;
areivesko archbishop; arciveska archiepiscopal bilingua bilingual;
dalimes nimon languages: bimetala bimetallic; bimesa bimonthly (of ¥
months 8 ) bis twice,
double bo- kinship by marriage bisveka twice-weekly; bismesa
twice-monthly; biside twice a day; bisanye twice a year. bopatro
father-in-law; bomatro mother-in-law; bofrat brother-in-law; bosor sister-in-law: bofilyo
son-in-law; bofilin daughter-in-law; boeltros parents-in-law
di- 1b) do- privative [cf. H. P. Grice, NEGATION AND PRIVATION], dif
to undo; diarmo disarmament; divantagi to disadvantage; dipoezi to
depoetize d o m i d d o m i d e afternoon; in d o m i d a afternoon;
afternoon; doguera postwar; doguera presyos postwar prices; doskola after-schoo
l I1) dui- difficult d u f p l e k i b l a diflicult to
t o d u f l e k t i b l a difficult t o e xplain; d u i v e n d i b l
a sell; d u f k a p i b l a difficult grasp: dificult to
read; d u f u d e r a hard of hearing ex- ex-, former e
x r o y ex-king; expresident ex-president; exspozo
former husband ge- of both sexes in- entering, inter-
between intra- interior ge s i r o s ladies and gentlemen; and
sisters; g e spozo s husband g e i r a t o s brothers and wife
(Gesp. Mr. and Mrs. ) i n m i x i to interfere; inkasi to
encash; inkesi to encase; involvi to envelop i n t e r v e n
intervention; interlini to interline; i n t e r n a s y o n a
international i n t r a v e n y a intravenou s; i n t r a m u s k l a intra
- muscular; intraderma intradermic; intracelula intracellular
ize- easy i z e p l e k i b l a easy to explain; i z e d i c i b l
a easy to s a y; i z e k o m p r e n i b l a easy
understand 18) in- just ¡ u m a r l a t just married: j u p a
r s a t just published; junasat newborn: j u a r i v a t just arrived; j
u r i c a t just received
mal- pejorative m a l l a m a ill-famed, malformation; m a l i x
luck; m a l o n e s t a d i s h o n e s t; m a l a b i o
awkwardness mis- badly m i s
i n i o r m o m i s i n f o r m a t i o n; m i s p o s a l mis- f e a s a
n c e; m i s t r a t i mishandle; mispronunco mispronunciation mul- many, poly, much mulform a
multiform; muldenga having much money; mulsilba polysyllabic; mulsorta
artiklos many s o r t s of articles
nar- next, to come n a r v e k next week; n a r i e s next m o n t
h; n a r m e s a ni- по
- pas- pre- re- n a r s a b a n e x t S a t u r day ' s;
n a r y e s n a r o x e on the next occasion n e v e r n i u
d a t never heard, unheared-of; n i v i d a t never seen; nivinkat
unconquered, never vanquished n o p o s i b l a impossible; n o e n
d a t unfinished; n o v e r a not t r u e; n o v o l e unwillingly; n o k
r i b l a unbelievable; nonegibla undeniable; nonoposibla last,
past not impossible p a s m i r k o last Wednesday; p a s v e k last.
week; p a s v e k a l a s t week's; p a s y e m a last
winter's; p a s a n y a last year's before (time) preistora p
r e d a n k i orchistorie, in trevance; thank preistor
predestination; p r e l a s t a last b u t o n e repetition refi to
do again; renuvi t o renew; relekti to read again; reinstal
reinstallation; r e p r i n t reprint, reimpression; r e m a r l o
remarriage; redici to say again ri- cinship replacement
3 8 r i n ー
rear, back задний
назад rimatro
step-mother; ripatro stepfather; rifrat- by re-marriage; stepbrother,
half-brother: riso r s t e p s i s t e r, half sister; r i p y e s o s
spare p a r t s; r i r o t spare wheel; r i g u m o n spare t y r e; r i
f o l y o s refills (sheets) r i r s h o p back-shop; r i r g a r d o
rearguard; r i r s i z o late season: r i p e n s o hidden motive;
riraktiva retroactive; ririgito go into reverse конец
созона
sam- semi -hall- sen- sul- under
similarity, equality samlandan fellow-countryman; s a m t e m p e
at the same time; s a m k o l o r a o f t h e s a m e color; ideas;
s a m i d e a n, samidein a man, a woman having the same ideas.
semivege half-way ( a d v. ); s e m i t e r p, - e half-lime; s e m i l o
n g o half-length; semimorta h a l f - d e a d; s e m i b a k
lack s e n m o v a i m m o b i l e; senmovo immobility; seno- d o r
a odourless; s e n k o n d i s a unconditional; s e n - p o s o
powerlessness; sendulda impatient; s e n - d u l d o impatience s u
b t e r a underground (adj.); s u b m a r a submarine (adj.); s u b m a r
i o r s u b m a r i n e (ship); sub s u o l subsoil; subdevolva
under-developped; substimi t o u n d e r r a t e When preceding a vowel,
sub- may be replaced by s u - suagent, sub-agent, sub-agency; s u e
v a l u i undervalue; s u o f i c e r n o n - c o m - missioned
Officer over, super s u r o m superman; s u r o m a s u p e r h u m a n; s
u r s t i - m a d i t o overvaluate; s u r k o t i t o 44)
10. s u r a b o n d o s u p e r - a b u n d a n c e all-, any- multi-coloured;
anyhow; tosorta of all sorts; tosorta jensos all s o r t s of p e o p l
e 45) tri, tre- three trimes three months, quarter; tri
mesa, quarterly: trigon t r i a n g l e; t r e b e d a k a m bedroom with
3 beds. t r i p e d tripod; 46) tris- three times, t h r i c
e trismese three times a month; trisanya periodik periodical
published thrice yearly un- one, mono- u n a l m a, - e u n a
n i m o u s, -ly; u n a l m e s o u n a n i m - i t y; unelta, -eso
unilateral, - i t y; unkolora o n e - c o l o r e d; u n d e r k a v e o
one-way street; unsilaba monosyllabic y 0 - a g o yolong long time ago; yopok a
short time ago; y o v e k w e e k a g o; y o v e k o s s o m e w e e k s
ago; yoanya koronazo the coronation of a year ago Neo also uses
Greek and Latin prefixes poli-, p a r a -, m o n o -, qasi-, p e n t a -,
e x a -, e p t a -, SUFFIXES: - a C pejorative viraco bad man,
ruffian; boyaco bad, nasty boy, guttersnipe; libraco bad book; verkaci to
bungle, -ad a c t i o n d u m a d o nonsens e; T a n f a r o
n a d o f a n f a r o n a d e; s h e n a d o staging; s h e n a d e r
stage-manager: movadi to move on function, office blow
-al language botanic family order, class p u n c h ; p
e d a d o k i c k ; p e d a d i to k i c k Carmal Parisian
slang;" spanch; spanisa; lang, Grekaya modern Grek:
Rusal Russian: Nedal Dutch; Polnal Polish; Cimal chinese, Japonal r
o z a l ( - o s ) rosaceac; c i p r e s a l cupressaceae; v e r- b e n a
l - o s tertiary ; primaluna primary-school pupil, a man o f
primary culture; undaliúna secondary-school schoolgirl aldo chief, principal l stasyonaldo
station-master; partedaldo party- leader; o r k e s t r a l d o
orchestra-leader, s t a t a l d o c h i e f of s t a f t
member of c i v a n, c i v i n citizen ( m, 1 ) ; f e l d a n, f e l d i
n peasant, peasant woman ; s a m r i l i g a n, - g i n c o
religionist (m, 1) bovan -os bovidea; r u m i n a n ruminant ; s h
a l a n - o s ovidae ; o van
oviparous - aroedaro refectory; pransaro dining-room; ludaro playing-place;
pregaro chapel - a r y o destinaryo addressee; latadaryo
legatee; bene- t i c a r y o beneficiary - a v a firava
ferriferous; k u p r a v a cupriferous; aurava aurierous ;
nilava having nothing, devoid, -ayo material thing d e s
t i t u t e edayo food, victuals, feed; bevayo drink ; dorayo something
hard, callosity; medikayos medecines, -azo action f o r m a z o
formation; l u s t r a z o polishing; s a p o n a - -eg large, big,
much, very -el vaguely connected w i t h t h e r o o t
very l a rg e ; t o r t e g a particular meaning; only a n indeter-
minate relation b e t w e e n the word finishing corresponding H a m e l
(from f l a m flame) will-o'-the-wisp; fansel (from fanso fancy)
gadget - e I n good-natured; wheedling: sonye m i t o -
e n d a
-ensi -er -eso - est -et -eyo -grat
O -ia -ibl
-ia -le b e m e n d e d: v e r i f i k e n d a t o b e
verifica; l u k e n d a vidend a valensee B; lakena do besent back;
a g e n d a agenda (things to be done) s k u r e n s i to darken; k l a m
e n s i to start screaming; plorensi to start weeping vender seller;
kofer buyer ; oprer workman; workwoman ; tennisman;
tenis(er)in tennisplayer(woman); b o n e s o (contraction of prudenteso)
prudence; whiteness; n e r e s o b e l e s t a most
beautiful; g r a n e s t a the largest; bonesta the best ; malesta the
worst boyet little boy; felet little girl; domet small house ;
to sip o m e y o humanity; y u n e y o young people ; noble y o
nobility (noble people); K r i s t e y o Christendom g e o g r a l geographer
; g e o g r a t a geographic: geogratio geography; biograi biographer;
biografa biographical; -flo -aphy kia whose; nilunia nobody's;
tosia everybody's; l o p o v i a v i v the poor man's life i b l a
available; p o s i b i a possible; vidibla visible; vendibla saleable; l
e k t i b l a readable; noposibla impossible descendant Eraklid
Heraclidan; Israelid Israelite; latinida of latin origin cause
kie for what reason, w h y ; e t i e for this reason; nilie for no reason;
kelie for any reason; somie for some reason determining,
causing d o r m i l a soporific ; e x i t i l a exciting;
benila helpful, beneficial; lezila prejudicial - i g -i¡ -il to go to
become instrument, tool -in feminine - ind having
done -inil small
container -ingo machine - i o
pron. i - o art, trade; a
whole, a set bedigi to go to bed; dormigi to go t e n s i g i
to go to the window; laborigi to go to d o r m i j i t o fall asleep ;
old i g t o grow old ; vidibliji to become visible; beliji to grow
beautiful oril clock, watch; nutcrackers ; apparatus; sukr i l
sugar tong s ; denti l tooth pick; dektorin lady doctor; roin queen;
venderin salesgirl; pinterin seamstress; leonin lioness; tigrin
tigress vidinde having seen ; ricinde having received; oldiginde
having grown old; oldijinda who has sugar bowl; salini l salt-
lavingo washing-machine; plateningo washing-up medicine; panio bakery,
baker's shop; industrio industry; oldio old people; old things;
socio -д
уо
(р
г::
и-уо) container,
small place or book -уе place -yer,
-eyer plant, sigaretuyo cigarette-case; okiluyo spectacle-case: totuyo
hold-all, bin; garduyo sentry-box; orduruyo rectory;
trenuyo time-table; fonuyo call-box, telephone booth: oruyo fonadresuyo
telephone directory klezye at church, to church; kinye at the
movies, to the movies; Londonye in London, to London; Bruxelye
at Brussels, to Brussels; skolye al, to school; domye home, at home;
toye every - nowhere where; somye somewhere; nilye apple-tree;
rozyer rose-tree; trulyer peach-tree; pirseyer pear-tree; fragyer
strawberry plant so any times; duyes twice; ekyes hundred days times;
idyes; one day; pasidyes ago; naridyes one of the se coming some days. to
Paris; Fransye in, lo France; Romye in, to Rome; Italye in, to or when
speaking of places in general: Mi gar klezye I am going to church; mi gar
al San Paul klezo I am going to St. Paul's Church; el gar skolye she goes
to school; el g a r al N o r m a s k o l she goes to the Normal School;
il sun go r a l I n g e n e r s k o l he will soon go to the Engineering
School; m i Universitye the Universily; il gor skolye xenye he will go to
school abroa d; il gor a un xena skol be will go to foreign school; il gor
skol vedorive he will go to school in the village; il gor al dorio skol he
will go to the village school. -ior m e a n s of
fishing-boat; destroyer; ivior transport aircraftcarrier; - i r comparative a l t i r a t a l l e
r, higher; granira larger; •smaller; f o r t i r a stronger; k l e v i r
a more clever; -is reflexive o f i r a more frequent; o f i r e more
often seirist to loke takesh munisi to punish one- -ism, -ist
doctrine, partisan) - i l illness, med. affection - l o g, -a, -io science, art pron.: i
- o - o l young animal - o n d g o i n g t o; to c o m e
komunism o, -ist(a) ciner diphtheria; epit hepatitis; uremit urae-
dermolog, - a, - i o dermatologist, -ogical, -ogy; nel m e s o s v e n o
n d a in the departon d a the ships that are -orio (pron.: i - o )
factory bisgitorio biscuit factory; telorio linen manu- factory; k
o r d o r i o rope-making, rope-manufactory. -oyo pron.: o - y o skriboyo desk, writing-table; klozoyo
cupbora, Turn t t u r e wardrobe; frigoyo refrigerator,
cooler -oz a b u n d a n c e
rikozo great richess; r i k o z a very rich; lumoza luminous; lumozo
effulgence, sheen, glare -ue
reciprocity libuci to love each other: l i b u c u ! love each other!:
mutual aid; bon b o y o s e l p u e a r good -ul tiny boys help one a n o t h e
r o m u l h o m u n c u l e; i n f a n u l t i n y t o t; m a n u l
tiny h a n d; p e d u l tiny foot; k a t u l kitty (cat) i n d i v
i d u a l lo v u n u n t h e wounded m a n; lo v u n i n the
wounded (fem.: -in) woman; m a l u n m a n; m a l i n prizun
prisoner; prizin woman prisoner ELISION One may OPTIONALY (never
obligatorily), and SO LONG AS THIS DOES NOT INTERFERE WITH EUPHONY AND
CLARITY, elide following words: the article lo before a word beginning
with a vowel: P arbo, l 'arbos the tree, the trees l'eldo, l '
e l d i n o s l 'aventuros the hero, the heroines d'Artur Arthur's
adventures the preposition de and the word ke (pronoun or conjunction),
and also the object pronoun, before a word beginning with a
vowel: l'aventur d'el boy this boy's adventure l ' o r e l o s d ' u
n a s n o a n ass's ears l ' o k o s d ' u n f e m k ' i l v i d i r the
eyes of a woman he saw m ' a m a r tu a s m i l ' a m a r ? do you
love me as I love you ? il d i e a r k ' i l V a m a r he says t h a t he
loves you the two-syllable (one
syllable after elision) or at most three-syllable (two syllables after
elision) ADJECTIVE, when PRECEDES the noun to which it relates, NEVER
WHEN IT FOLLOWS IT: e t (a) dom t h i s h o u s e yen (a)
floros those flowers n u s ( a ) let ( a ) k a m o s nice little
rooms un gran(a) bel(a) klezo a big beautiful church mi ricir ta
gentil(a) brif I received your kind letter let(a) domos c klezos g r a n
a Small houses and large churches 4) the ending o of the NOUN, but ONLY
IN THE SINGULAR. plural's designation os MAY NEVER BE ELIDED see NOUN
mele n u r e the ending at of the past participle, when used as a noun suffixed
with in (feminine) : l a k u z a t; l'akuzin ma l i b a t; ma libin
ma benamat; ma benamin the accused ( m; 1) my beloved (m; f) my
much beloved (m; /) the sullix er and other suffixes, to reduce the length
of a few feminine nouns above: biblioteker; bibliotekin librarian ( m;
/) matematist; matematin mathematician ( m; korespondent;
korespondin correspondent m; any word may be elided, when this is
suggested by the r h y t h m or b y T h e poet is of course granted
extra freedom in this matter, as his muse may suggest to bim. Compound
words are very frequent in Neo. They are formed by simple joining, but a
hyphen can always be used to help the reader who is new to Neo, and when
the resulting compound word seems too long : bona good, kor heart; bonkor
good-heartedness; b o n k o r a good-hearted Dona good; vol will; bon vol
good will; bon vola, e goodwilling,
-ly mala bad, ill; malkore illnaturedly; malvol ill-will Skol
school, maestro teacher; skol maestro schoolmaster dorio village,
klezo church; d o r i o k l e z o village church art art; istor history;
arti stor art-history; Art istor - Sko l Art-History ent a whole; kor
heart; enta kore whole-heartedly amor love : pen sorrow; amorpen
love-sorrow menso dining; car c a r; mensoear dining-car When
writing compound words, it is suggested, as soon as the word seems too
long, or as soon as there is a danger of confusion, we separate the
composing words with a hyphen: skol-maestro, art-istor, dorio- menso - car.
its or sund was have t o r are sister, sach, smoisestro. ceping English
compound words as "cigarette-holder", "cross-bearer",
"pen- "pen-wiper", "windscreen-wiper" are
translated in Neo either directly (with e n d i n g -er for a person, ( s
i g a r e t i l ), kruz-porter, plum-tenil, t o o l ) : s i g a r e t - p o r t
i l v i t r e l - s h u g i l, o r by using t h e infinitive: porti
- s i g a r e t, p o r t i k r u z, t e n i p l u m plumil,
Shugiplum, The English idiom "from day to day", from year
to year", and so on, is shrunk in Neo t o single words comprising
the initial syllable and the This useful device can be extended to
adjectival, ending -a, and to verbal ending- 1, etc., usage : l e t l e t
a smaller come smaller and smaller; l a d l a d a u g l i e r a n d and smaller;
l e t l e t i to u glier : old o l d i t o be- grow older and
older. So k o n s t a t a r un idida melazo. E t land far ananya
progres. Viv ye shirshira. Nun il melmelar. Il melar
idide. A d a y to day improvement is ascertained. T h i s c o
u n t r y is m a k i n g a year t o y e a r p r o g r e s s.
L i f e is there more a n d more expensive. He is now doing better and
better. He is getting better from day to day. 34 El n u s n u
s a r idide. She is growing prettier and prettier f r o m day to
day. Nos adsir al orora pizazo del situo. We witnessed the hour to
hour deterioration of the situation. " the man with the gray
glove, word: lo nerkapla fel, lo grizganta vir, lo verdroba d a m. GEOGRAPHICAL
NAMES. Geographical names have been arbitrarily established in Neo. They are
subject to changes, according to local preference or taste, or for
other unaccountable reasons. The changes may be no less arbitrary than
the c a r l i e r forms. H e r e is a list of s o m e of t h e s e
n a m e s : Country name Inhabitant language fashion,
manner and adjective B r i t, b r i t a B r i t a, B r i t i n
Great Britain, B r i t i s h Briton, Britisher, British woma n
Anglo, a n g la Angla, Anglin Angla l England, English Englishman,
English Englishwoman Franso, -a Fransa, -in Fransa l France, French Frenchman,
French French woman Italio, - ala Itala, - in Itaha n, Italal Italian
Italy, Italian Italian woman Belgo, - a Belga, Belgin britana, -e
a, ado a f t e r t h e British manner ( style ) anglana,
- e after the English manner transana, -e after the
French manner italana, -e the Italian manner belgana, -
e after Belgium, Belgian, -woman Decland, deuca Deuca, Deucin
Deuca l deaucana, -e German German, - w. G e r m a n R u s i o, r u
s a R u s a, R u s i n R u s a l r u s a n a, - e R u s s i a
Russian, - w. R u s s i a n Cin, c i n a China, C i n a, C i
n i n C i n a l c i n a n a, -e Chinese Chinaman, - w.
Chinese Ned(o), n e d a Neda, Nedin N e d a l Nedana, -e
Netherlands, Dutchman, Dutch (Holland) Dutch Dutchwoman SURS,
sursa Sursa, - in sursana, -e U. S. S. R. Grekio, greka Greece,
Greek Graka, -in G r e k a l m o d e r n Greek mod creekrekana, -e
G r e k ) E u r o p, -a Europa, - in europana, - e Europe, A
m e r i k, - a Amerika, - i n Amerikal amerikana, -e America, Azyo,
azya Azya, -у і п azyana, - e Asia, -jatic A f r i k, a f r i k a A
f r i k a, -in afrikana, -e USA (USIO), usa Usa, -in Usal, Amerikal
usana, - e U.S.A., American Australyo, - y a Australya, -yin
australyana, - e Australia Austro, austra Austra, - i n austrana,
-e Austria, - i a n 85 Japon, -a Japan, Japona, -in
Japanese A r a b i o, a r a b a Arab, -in Arabia, -lan Turkio,
turka Turk ( a ), - in Turkey, Swis, a Switzer" S w i s a, -in land,
Swiss Oceanyo, -ya Oceanya, -in Oceania, -ian Mexik, a Mexico, Mexixa, -in -an Mexico,
Mexil- Mexikurba, -in u r b o, - a M e x i - Mexikoa, -oin co-City
A l g e r y o, - y a Algerya, -yin A l g e r i a, - i a n A l g e r
a, -a A l g e r a, -in A l g i e r s, o1 - T u n i s y o, -ya
Tunisia, -ian Tunis, -a Tunisya, Tunisa, -in -yin Tunis, of
- London, londona Londona, -in London, Londonian Paris, -a
Parisa, -in Paris, -ian Roma, - a Rome, Roma, - in Roman
Japonal japonana, -e Araba l arabana, - e T u r k a
l turkana, -e swisana, -e o c e a n y a n a, - e m e x
i k a n a, - e mexikurbana, -e algeryana, -e algerana,
-e t u n i s y a n a, -e tunisana, -e Londonal londonana, -
e Parisal parisana, -e Romal romana, - e Germanio means Old Germany (history)
(germana, German, -in; germana na, - e . Belgal
might mean "French as spoken in Belgium"; same, Swisal
Ameraland Osal rand Amerin (inguage) or „English as Amerika l and U s a l
mean spoken i n America in the United States. "australa"
(belter "Suda"), would mean "austral, southern" ocean means
ocean oceana oceanic. Londonal means London slang, Cockney; Parisal: Parisian
argot; Romal Roman dialect. Inhabitants may also be called: Britun,
-tin; Anglun, Anglin; Fransun, Fransin; etc. For the languages, there
are verbal, adjective and adverbial derivations: anglala, - e in English;
anglali to speak, to know English; transala, - e in French; transali to
speak, to know French; rusala, -e in Russian; rusali to speak, to know
Russian. Cuso m u n ik fran sa lar ? Does anybody speak French
here? Et anglala traduk This English translation is not good. M i b
a d u k o r et l i b r o r u s a l e. I'll translate this book into
Russian. Russian teacher who l a r p e r t e. knows English
perfectly. glishman. Zi a r un t r a n s a anglala klavin. They
have a French girl-typist for English correspondence. Old, classic,
or constructed languages don't need the suffix -al: Latin Latin; Grek
ancient Greek (modern Greek: grekal); Sanskrit Sanskrit; Esperanto
Esperanto; Neo Neo. I l l a t i n a r m o no g r e k a r.
El esperantar e near. He knows Latin b u t he does
not k n o w a n c i e n t G r e c k. She knows Esperanto and
Neo. USEFUL IDIOMS There is nothing so difeult as translating idioms
from one language into another. When an English idiom does not
appear clear enough in a word for word translation, try and give
this idiom its real meaning in quite simple l a n g u a g e. Here
are some attempts to translate the true meaning of some English idioms:
So great a m a n. Un t a n gran vir. A certain Mr. Smith. S e
r t S r Smith. To set a n example. Di l'exemplo. What a
surprise you are giving me! K a s u r p r e n vu m e d a r ! I am coming
in a f e w minutes. Mi v e n a r fra p o k m i n u t o s. Three
shillings a head. Tre shilingos pro cet. To go a-hunting. Gi yagi
(yagigi). To a b a n d o n oneself to... Abandonisi Taken aback, Tre
paid for ki acaried, aghast. Disckurati saton a s t o n o c a. W
h a t ' s the m a t t e r ? К а
m a t ? In broken accents. Konvokrompat. To meet with
acceptance. Inkontri aprov. Road accident. Rut-axident.
Aircraft accident. I v - axident. T h e d i s p u t e h as been
settled. Lo kontendo aranjat. his accounts. Les la dicos. To
acknowledge receipt of a letter. Ricaviziun brif. To put in action.
Aktadi. - Movadi. It adds up to ten thousand franes. Montantar ismil
frankos. The lack of adjustment between Za malkun. their
temperament s. Much ado about nothin g, Mul rum po nilo. Without
further ado. Sen plu. - Sen oso. They found it to their advantage. Zi t r i r it vantaga
(po zi). T o take medical advice. Konsulti mediker. - P r e n i m e d i k
a o p i n. Foreign Affairs. Foreign Office.
Xenecos. Xenecado. That's another affair! E t o osa
gestyon! To win a ltection. G a n i a f e k t o. - G a n i s i m p
a t i o. How I would like to be young again! K a n mi d e z u r
resi y u n a ! Now and again. - From time to time. Temtempe.
To be over age. Si s u r a j a; suraji. This cime ed esur propswith
me. Nos grear va propozo. E t klim no me k o n v e n a r. Air-condition
( t o ); - e d; -ing. E r k i; e r k a; erko. (Via)
Air-Mail. - By a i r. I v e. - E r e.
Air-tight. Air-hostess. Ermetika. Er-ospin. Air-bridge. Er-pont.
Er-portat. Air-borne. Alarm signal. Alarm clock. Alarmil.
Velyil. First of all. At all hours. At any time. Toprime. Ke
lore. Not at all. Nile. - N i x e. That's all. Eto to.
Sar to. All included To inse. All of a sudden.
Sodene. All right! O. K. ! O k e ! To allow oneself.
Alms-house Permisi Azil Ospizo Altar-boy Korgoboy. Neo's
OPTION/.L GENITIVE We may optionally use in Neo the sullix ' ('oy),
corresponding to the English 's to mark the genitive: ma patro'y
dom ma librer'oy filin nos no libar et fem'oy modos et
libros-oy print exela my father's house my bookseller's
daughter we don't like this woman's manners the printing of these
books is excellent. Both OPTIONAL GENITIVE's sullix - y (-oy) and
COMPLEMENT TRANSPOSITION'S sullix -n (-on, -an) were suggested
by Mariashm Hungary. Pronunciation of letter "¿".
According to Pilgrim's, Leicester, convincing suggestion, we have decided to
accept for this letter the optional use of both English (John, jolly) and
French (Jean, joli) pronunciations. Compound infinitive verbs. We wish to
p o i n t o u t the equivalence of following verbal forms: = s i v
i d a n d a ( t o b e s e e i n g ): v i d i n d i = s i v i d i n d a =
i vidat (to h a v e seen): vidondi = sividonda (to will have seen):
= si vidat (to be seen). Nome compiuto: Arturo Alfandari. Alfandari.
Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed
Alfandari,” The Swimming-Pool Library, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Alfieri: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale di LVCREZIO, il filosofo repubblicano – la scuola di Parma –
filosofia parmigiana – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Parma). Filosofo
parmegiano. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Parma, Emilia-Romagna. Grice:
“I like Alfieri; the enzo is vital – Vittorio Alfieri has statues at Torino! V.
Enzo Alfieri dedicated his life to prove that Democritus was more of a poet
than a philosopher. ‘Indeed, I will go as far as to argue that he ain’t no
philosopher!’ Unfortunately, Abbagnano ignored him, and Lucrezio stayed in the
canon! Then Alfieri tried to study the idea of the ‘in-divisibile,’ the ‘atom’
and the ‘clinamen,’ and how Lucrezio was a good poet but a bad philosopher!” Allievo di CROCE (si
veda). Vive a Milano ove si laurea in filosofia e insegna filosofia alla
Bocconi e Pavia. Allievo di MARTINETTI
(si veda) e CROCE (si veda), di cui condivide l'ideologia liberale e il approccio
filosofico, ma anche gentiliano non ortodosso secondo la definizione di Spirito,
è un oppositore del regime fascista che lo arresta quando a Milano scoppia una
bomba all'ingresso della fiera che fa sospettare che si tratta di un fallito
attentato al re. A. è incarcerato a San Vittore assieme a tre altri filosofi: Malfa,
Segre e Vinciguerra. È liberato senza processo per l'interessamento di Croce
che tramite Marinetti ha intervenire MUSSOLINI – il filosofo ufficiale. Un
secondo arresto avvenne presto per la scoperta di lettere ritenute
compromettenti dalla censura fascista. È scarcerato per l'intervento di GENTILE
(si veda) ma dove lasciare entro due giorni l'insegnamento a Modena e
trasferirsi a Milano dove riusce a sopravvivere grazie all'aiuto di amici e di
parenti che lo ospitarono. A Milano
ottenne il primo incarico alla Bocconi dove rimane fino al suo trasferimento a
Pavia. Suoi amici, maestri e testimoni di libertà, come lui stesso li definì,
oltre a Croce, sono Prezzolini, Radice, Flora, Albertelli -- ucciso alle Fosse
Ardeatine -- e, tra i più vicini e affezionati, Spadolini. Fortemente critico nei confronti del
movimento di sinestra e impegnato attivamente per le riforme della scuola,
fondatore "Movimento per la libertà e la riforma dell'università
italiana" e il comitato nazionale per la difesa della scuola e divenne presidente
dell'"Associazione amici dell'Gerusalemme. Collabora a “L’'Italia: che
scrive che riusce a mantenere una certa autonomia nei confronti del fascismo.
Monarchico, iscritto al partito liberale Italiano, si avvicina agli ambienti
della destra, aderendo al Sindacato libero scrittori italiani e collaborando
con Volpe e “Intervento” di Gianfranceschi. Collaboratore per la filosofia de “Il
Giornale” diretto da Montanelli. Tra i
suoi saggi vanno annoverati studii sulla filosofia romana, “La tristezza di
Pindaro”; “Lucrezio”; “Gl’atomisti” e opere di estetica, L'estetica dall'Illuminismo
al Romanticismo. Ad A., oltre ad un suo epistolario con Croce, si devono due
memorie autobiografiche -- “Maestri e testimoni di libertà” e “Nel nobile
castello” -- dove sono originalmente ritratti personaggi della vita culturale e
politica italiana da Croce a Scotti, da Jacini a Casati, a Flora. Troiano, Allievo
di Croce, Corriere della Sera. Ferrari, Martinetti e Banfi, in Il Contributo
italiano alla storia del Pensiero Filosofia Treccani. Tarquini, Gli sviluppi di
LA SCUOLA DI GENTILE: da Carlini
Spirito, in Croce e Gentile Treccani; Mariuzzo, La Scuola di Pisa, in Croce e
Gentile Treccani. Veneziani, LXVIII pensieri sul CXVIII: un trentennio di
sessantottite visto da destra, Firenze, Loggia de' Lanzi; Elia, Monarchici e
partito, su Italia Reale. Croce, A.,
Lettere, Milazzo, Spes; Garosci, Nel
nobile castello, in Tempo presente, Forum per A., Rendiconti, parte generale e
atti ufficiali; Cicalese, A. maestro di studi e di vita, in Antologia, A.:
maestro e testimone di libertà: atti del Convegno, Cremona, Circolo Culturale
Croce; Parente, A. e il nobile castello, in Belfagor. Già A. nell’introduzione al breve primo scritto
bembiano incluso in una strenna dell’editore Sellerio, ha colto una possibile
connessione ai dialoghi platonici più letterari, dove a proposito del piacere
ecfrastico dello scrittore per il podere di S. Maria del Non scrive. Bembo si
compiace a descrivere il luogo a lui caro, il fresco riparo dalla calura
estiva, il fiumicello, i pioppi piantati dal padre, il quale si stupisce che
nella piana verso le pendici dell’Etna vi siano platani, che gli fanno forse
risovvenire i platani d’Ilisso. L’intuizione diviene più. Del resto l’opera
stessa prima del Bembo, il “De Aetna”, richiama a quei molteplici interessi –
spesso da e su testi – che ispira le
Castigationes Plinianae. E la stessa felice ambientazione del dialogo già di
per sé dilata i confini dell’oggetto esegetico e rilancia tutte le più vitali
istanze di plenitudo culturale, di renovatio che Barbaro stesso (e Poliziano
per suo conto) indica tra gli scopi della propria lezione (Mazzacurati). Sono
una plenitudo e una renovatio che si muovono anche da quell’indirizzo
filosofico e umanistico insieme che era stato così caratteristicamente
veneziano, da Barbaro a Valla: nella ripresa di un tutto autentico Aristotele
che Aldo consacra con la sua monumentale edizione delle opere aristoteliche
ispirata alla lezione di Ermolao e dedicata a Pio. Proprio sulla base della
retorica e della poetica aristoteliche, ripresentate come esemplari dopo secoli
e secoli sulla laguna, poteva svilupparsi anche la filologia più nuova del
Bembo, tutta fondata sul concetto di creazione artistica, non come furor o
inventio platoniche, ma come imitatio naturae e su una considerazione critica
nuova della lingua», Branca, La sapienza civile, c Bembo Pietro. De Aetna: il
testo di Bembo presentato d’A., note di Carapezza e Sciascia (Palermo: Sellerio)
concreta se posta a confronto con un altro testimone contemporaneo di Bembo,
Giraldi. Questi infatti nella sua lettera introduttiva a Renata di Francia alla
Historia Poetarum Latinorum, su uno sfondo tutto boccacciano -- l’occasione
della peste e la conseguente riunione di una piccola brigada (Pico e Piso) --,
così si esprime nel presentare la cornice diegetica del trattato. A., critico
verso la cecità dell'eruditismo dei filologi che si affannano a congetturare e
spostare, sminuzzare e riattaccare i luoghi del poema di LUCREZIO, sintetizza
ancora. Il canto del sonno e dei sogni si riattacca a quei canti precedenti, ai
canti delle illusioni, e apre la via ai versi contro la più terribile delle
illusioni: contro l'amore. Ecco come viene il sonno: una parte dell'anima è
dispersa fuori, una parte si è raccolta nel profondo della sua sede, e le
membra si sciolgono, e manca il senso, perché il senso è opera dell'anima. Ma
il senso non manca interamente, perché, se no, non si potrebbe riaccendere mai
più e sarebbe la morte. La causa del sonno è la continua perdita di atomi da
parte del corpo, perdita che avviene specialmente per le incessanti percosse
degli atomi aerei; e questi versi sono bellissimi, nella narrazione
dell'inavvertito conflitto, eppoi nella rappresentazione della sonnolenza, con
versi rotti e con un verso finale di grande dolcezza.POPLITESQVE CVBANTI SÆPE
TAMEN SVMMITTVNTVR VIRISQVE RESOLVUNT. E il sonno segue al cibo e alla
stanchezza, perché allora è avvenuto un tanto più grave turbamento di atomi in
noi. Qui passiamo all’illusioni. Ognuno si sogna quello che è la sua
occupazione del giorno. Gl’avvocati sognano di trattar cause, il generale di
guidare eserciti alla guerra, il marinaio di lottare coi venti, LUCREZIO
d'essere sveglio a scrivere il 'De rerum natura'. Ed ecco quelli che si sognano
i pubblici spettacoli, dopo essersene storditi per tanti giorni. I cavalli, che
sognano le corse. Il cane, che sogna la caccia e fiuta in aria ve si agita; i
merli si sognano di sfuggire ai falchi. Così gl’uomini: sanguinosi e paurosi
sogni di re, sogni terrificanti di uomini che si credono alle prese con pantere
e leoni, e gente che parla dormendo e svela tutti i propri segreti, e gente che
immagina di morire o di precipitare da alti monti, e gente che ha sete e si
sogna di essere presso un fiume e di bere infinitamente”. E' come se all'interno di un'argomentazione piana, di
un'espressione variata, di un vocabolo già abusato, di un ritmo additivo
irrompessero sistematicamente una rivendicazione terminologica, un elemento
imprevisto, un segnale indecifrabile, un'interruzione del ritmo, un vestigio ad
investigare. Non cessano infatti di stupire, per vistosità e normatività,
un'accelerazione espressiva e un turbamento linguistico, i quali tuttavia,
anziché disperdersi in una sorta di dadaismo originario o di impazzire nel
gioco retorico, concorrono al prima e al poi della dimostrazione, alla
proporzione del dettato, alla simmetria e regolarità del verso. Essi stessi
riducibili a struttura, più simile ora ad un reticolo cristallino, ora ad una
tavola aritmetica, ora ad un ordinamento geometrico. Questa compresenza
dell'uno e del molteplice, del medesimo e del diverso, del codificato e del
nuovo -- responsabilità morale di annunciare un nuovo mondo. Linguistica, che
porta alla preoccupazione dell'iso-morfismo, al voler far combaciare vocabolo e
oggetto segnato, segnante ordine linguistic, ordine cosmico. La eversibilità e
convertibilità di ordine fisiologico o naturale, e di ordine filologico --
verbale. Anzi, la fisiologia irrelata e caotica sembra comporsi e prendere
forma in un divenire “caosmico” proprio grazie alla filologia, la quale ordina
sintammaticamente il molteplice -- il complesso nel semplice, nel semplicissimo
(atomon, indivisum), domina il caos, resiste alla morte ed all'amore, e,
anziché immaginare o assecondare l'esistente, lo ferma e se ne appropria. A VT
NOSCAS REFERRE EARVM PRIMORDIA RERVM CVM QVIBVS ET QVALI POSITVRA CONTINEANTVR
ET QVOS INTER SE DENT MOTVS ACCIPIANTQVE QVIN ETIAM REFERT NOSTRIS IN VERSIBUS
IPSIS CVM QVIBVS ET QVALI SINT ORDINE QVÆQVE LOCATA NAMQVE EADEM CÆLVM MARE
TERRAS FLVMINA SOLEM SIGNIFICANT EADEM FRVGES ARBVSTA ANIMANTIS SI NON OMNIA
SVNT AT MVLTO MAXIMA PARS EST CONSIMILIS VERVM POSITVRA DISCREPITANT RES SIC
IPSIS IN REBVS ITEM IAM MATERIAI INTERVALLA VIAS CONEXVS PONDERA PLAGAS
CONCVRSVS MOTVS ORDO POSITVRA FIGVRÆ CVM PERMVTANTVR MVTARI RES QVOQVE DEBENT
ATQVE EADEM MAGNI REFERT PRIMORDIA SÆPE CVM QVIBVS ET QVALI POSITVRA
CONTINEANTVR ET QVOS INTER SE DENT MOTVS ACCIPIANTQVE NAMQVE EADEM CÆLVM MARE
TERRAS FLVMINA SOLEM CONSTITVVNT EADEM FRVGES ARBVSTA ANIMANTIS VERVM ALIIS
ALIOQVE MODO COMMIXTA MOVENTVR QVIN ETIAM PASSIM NOSTRIS IN VERSIBVS IPSIS
MVLTA ELEMENTA VIDES MVLTIS COMMVNIA VERBIS CVM TAMEN INTER SE VERSVS AC VERBA
NECESSEST CONFITEARE ET RE ET SONITV DISTARE SONANTI TANTVM ELEMENTA QUEVNT
PERMUTATO ORDINE SOLO AT RERVM QVÆ SVNT PRIMORDIA PLVRA ADHIBERE POSSVNT VNDE
QVEANT VARIÆ RES QVÆQVE CREARI. Analogia tra formazione di "verba" et
versus e formazione res, espressa dagli eadem e dal parallelismo tra
"significant" e “constituunt” resa esplicita nella spiegazione della
paronomasia ignis/lignum iamne videas eadem paulo inter se mutata creare gnis
et lignum? Quo pacto verba quoque ipsa inter se paulo mutatis sunt
elementis, cum ligna atque ignis DISTINCTA VOCE NOTEMUS. Costituenti minimi
semantica (parola, sillaba, articolazione, prima articolazione, seconda
articolazione, terza articolazione), natura (radice, atomo, molecula).
Reversibilità dei co-efficienti dei costituenti minimi -- “positura”, “motus”, “ordo”
-- che già nella metafisica aristotelica -- dell'aristotele perduto -- sono
indicati come le sole e tutte differenze che possono presentare tra loro le
lettere. Circolarità tra realtà fisica e linguistica con successione
intrecciata delle argomentazioni nei due passi elemento -- ELEMENTUM (gr.
stoicheion) è costituente originario sia di alfabeto che natura, secondo
Democrito e Leucippo, fonte Metafisica, Aristotele. IL PORTICO, nella sua lotta
contro GL’ORTELANI, sostiene la legge finalistica del Logos come vera unica
legge che indirizza la scrittura delle opere e la formazione delle cose.
Platone sostene l'esperienza letteraria come micro-cosmo produttori del reale.
Concursus motus ordo positura figurae. Sono documentati come 'produttori' del
'reale' (res, rerum) in Leucippo, Democrito (dalla Metafisica) ed Epicuro e
sono gl’esatti sinonimi latini dei termini greci – “individuum”, atomon; “elementum”,
stoicheion, simple, simplice, simplicissimum. Il verso è straordinario, dal
punto di vista ritmico, tutto spondaico, e semantico, essendo costituito da
soli sostantivi elencati a-sindeticamente, e culminante dal punto di vista
fonico su “ordo”, quasi palindromo, appena bi-sillabo. Un verso icastico, che
riprende i termini già esposti ma in ordine sparso e vi associa “figurae”,
termine con una doppia valenza (ma monosemia) materiale e linguistica. Numerose
testimonianze nei testi grammaticali latini fanno emergere la perfetta
corrispondenza della terminologia atomistica e linguistica, in quanto tutti i
termini "concurcus", "motus", "ordo" et
"positura" sono specificamente grammaticali. motus concursus gramm:
fenomeni fonetici: sinalefe (contrazione in un'unica sillaba di due vocali,
solitamente dittonghi), sineresi (contrazione in un'unica sillaba della vocale
terminante di una parola e di quella iniziale della successiva), iato (incontro
di vocali forti successive). Il “distaccamento”, l'”accostamento”, il
“mutamento” degl’atomi convertono la natura delle cose nello stesso modo in cui
l'”omissione”, l'”aggiunta”, il “mutamento” delle lettere convertono l'identità
delle parole. Il modello grammaticale sembra in ogni caso essere preminente e fungere
da paragonante per scoprire e chiarificare i meccanismi del mondo atomico, “ex
apertis in obscura”, per rendere più semplice il passaggio dall'esperienza
sensibile della littera scritta all'invisibilità degl’infinitesimi atomi,
elementa. Gramm: flessione (verbo) musica: ritmo retor: figura retorica
ut potius multis communia corpora rebus multa putes esse, ut verbis elementa
videmus. L'assimilazione tra “verbum” e “res” fornisce una giustificazione e
funzione della filosofia, nonché annulla il divario tra filosofia e poesia,
aprendo la strada della ben più successiva divulgazione scientifica. È convinzione
epicurea quella dell'iso-morfismo tra parole e cose, e tale risulta nella
costituzione del poema intero, costruito come un cosmo vero e proprio. La
valorizzazione di ogni singola parola, la sua attenta scelta si riflette in un
innalzamento a materia poetabile delle realtà anche più umili, come “minerali,
piante, fiumi, cielo, mare, terra, fiere, uomini”. Si crea così una democrazia
linguistica ante litteram, lontana dal buonismo religioso, spesso degradato in
ipocrisia, o dagl’esperimenti degl'atomismo logico di Russell, che demolendo la
sintassi o creando l'enumerazione caotica volevano demolire la società borghese
e capitalistica e criticare la massificazione elevando ogni singola parola, pur
immersa nella sua massa uniformemente bianca e nera che è il testo. Nome compiuto: Vittorio
Enzo Alfieri. Alfieri. Keywords: Lucrezio, l’implicatura di Lucrezio, la folla
di Lucrezio, Croce, filosofia romana, la terminologia della grammatica
filosofica di radice del portico: elemento, figura, individuo, concorso. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Alfieri,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Alfonso: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – scuola di Santa Severina – filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Santa
Severina). Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Santa Severina, Crotone, Calabria. Grice: “I like
Alfonso – no, he ain’t a Spaniard; the surname was pretty popular in Southern
Italy after the roaming of the Spaniards! And it’s ultimately barbaric, that
is, Goth!” “Typically, for a philosopher, a professional one, I mean, he
started with logic for teenagers (il ginnasio ed il liceo), but with a twist –
he called his lectures (his ancestor may testify) ‘logica reale,’ or
colloquenza reale – and he tried to criticse “il Vera,” who had written “Il
problema dell’assoluto.” “Like me, he has an interest in S is P and S is not P
(questo uomo no est sensibile). His first utterance is actually, NOT ‘the fat
cat sat on the mat, and as he sat on the mat, he saw a rat” – but the rather
naïf ‘il sole e luminoso.’ He gives two other examples, which are easy to
detect, since he does not use quotes but ITALICS!: “questo corpo est rotondo”
and “questa pianta fiorisce.” His
idea, like mine, or Peacocke’s,, or Speranza, is that that is pretty much
enough to deal with the most serious problems in philosophy: the judicatum, and
its component Concetto 1 e Concetto 2 – “Questa pianta fiorisce’” -- Un
temperamento di spirito positivo e di evoluzionismo idealistico, che attesta
l’origine del suo metodo e la serietà dei suoi studi, ma che dimostra pure
quanto egli si sia discostato dall’indirizzo del Vera e dello Spaventa per
accostarsi a quella che fu chiamata la sinistra hegeliana» (Luigi Ferri).
Filosofo. Autore di pubblicazioni scientifiche e di numerosi articoli su
riviste letterarie e quotidiani, alcuni dei quali sulla Calabria e sui
personaggi delle tragedie di Shakespeare, che gli fanno guadagnare l’attenzione
per l’approccio singolare alle opere del grande drammaturgo. Da una
famiglia di proprietari terrieri, si dedica all'approfondimento delle Sacre
Scritture, grazie ai due fratelli del padre, canonici del capitolo
metropolitano della cattedrale. Questi studi -- parte dei quali pubblicati con
il titolo “Le donne dei Vangeli” (Firenze, Successori Le Monnier) -- manifestano
un approccio *positivista* sull'analisi del testo biblico. Terminati gli
studi nel suo paese natale si trasfere a Catanzaro, dove è allievo del
letterato e patriota rocchitano Gallo-Arcuri. Frequenta il liceo ginnasio
Galluppi, conseguendo la licenza ginnasiale. Ottenne in seguito la licenza
liceale con lode al liceo classico del convitto Vittorio Emanuele II di Napoli,
che gli fa valere, su concessione del ministero della pubblica istruzione, la
possibilità di iscriversi alla facoltà di filosofia presso la Regia Napoli.
Alla facoltà di Filosofia, dove, allievo di SANCTIS, VERA, e SPAVENTA, ottenne
vari riconoscimenti. Consegue la lauree in filosofia. I lincei gli
assegono il premio reale per la filosofia per il saggio dal titolo “Kant: i suoi
antecessori e i suoi successori”. Su espressa volontà del padre fa ritorno a
Santa Severina. Ma la passione per l'insegnamento prevalse e partecipa ai
concorsi a cattedra per i licei, iniziando a insegnare Filosofia in Sicilia: Caltanissetta,
Messina e Catania. Da questa esperienza di insegnamento cominciarono ad
evidenziarsi sempre di più le sue qualità didattiche, tant'è che il ministro
della Pubblica Istruzione Boselli lo convoca a Roma per affidargli la cattedra
di filosofia nei licei, prima al liceo ginnasio Umberto I e poi al Liceo Visconti.
Comincia a collaborare con le più importanti riviste, tra cui il Nuovo Convito,
la Rivista d’Italia, la Rivista moderna politica e letteraria, la Rivista
italiana di filosofia, la Nuova Antologia, L’Educazione, la Rivista italiana di
Sociologia, la Rivista di filosofia e scienze affini e con diversi quotidiani,
tra cui L'Osservatore Romano. Chiamato dal ministro della Pubblica
Istruzione Boselli ad insegnare filosofia all'Istituto Superiore, dove, in
seguito a concorso, divenne Professore. Ha come colleghi Pirandello e Capuana.
Durante i trantaquattro anni di insegnamento all’istituto superiore, è relatore
di oltre trecento tesi. Per il Dizionario illustrato di Pedagogia, curato da
Credaro e Martinazzoli, redasse la voce Istituti Superiori femminili di
Magistero. Anche libero docente di filosofia alla Regia Roma.
All'insegnamento affianca sempre una prolifica attività di saggista,
pubblicando saggi che spaziano dai temi dell'educazione e della morale
all'economia politica, dagli studi sull'ambiente e sulle foreste all'analisi
criminologica dei personaggi shakespeariani. Il suo sommario delle lezioni di
pedagogia generale (Loescher) è giudicato dalla Reale Accademia dei Lincei
frutto d'amorosa meditazione e di mente abituata alla ricerca e alla
costruzione filosofica, che esce dai confini degl’ordinari trattati di
pedagogia per elevarsi ad una sintesi mentale superiore. Tenne la prolusione
all'Universal Congress of Races di Londra, che è poi pubblicata col titolo “Speculative
psychology and the unity of races” (Loesche). Membro del Congrès indu progrès
religieux a Parigi. Consulente medico della Real Casa d'Italia durante il regno
di Umberto I e del Palazzo Apostolico Vaticano sotto il pontificato di Benedetto
XV. Mai volle aderire ad alcuna corrente filosofica e politica, ed è
fortemente avversato dal ministro della pubblica istruzione GENTILE (si veda), che
decide di mandarlo anzitempo in pensione con un provvedimento ad personam. Si
tratta del Regio Decreto all'interno della Riforma GENTILE, che anticipa, per i
soli professori del Magistero, il collocamento a riposo al compimento del
settantesimo anno anziché al settantacinquesimo, come per gl’altri docenti
universitari. Il suo posto è immediatamente occupato da RADICE, amico di
Gentile. Anche CROCE intervenne nella vicenda in favore di A., chiedendo a GENTILE
una deroga a tale decreto, ottenendo però risposta negativa. La salma è portata
sulla carrozza della Real Casa e seppellita nel Cimitero del Verano. Santa
Severina, gli ha intitolato una via del centro storico e la Scuola
elementare. Saggi: “Le donne dei Vangeli” (Firenze, Monnier); “Sonno e
sogni” (Milano, Trevisini); “Principii di logica reale” (Roma, Paravia); “Lear”
(Roma, Alighieri); “La dottrina dei temperamenti” (Roma, Alighieri); “Psicologia”
(Torino, Boccai); “Pregiudizi
sull'eredità psicologica (genio, delinquenza, follia)” (Roma, Alighieri); “I
limiti dell'esperimento in psicologia” (Roma, Loescher); “La filosofia come
economia” (Roma, Loescher); “Lo spiritismo secondo Shakespeare” (Loescher); “Psicologia
criminale. Critica delle dottrine criminali positiviste” (Roma, Loescher); “Il
Cattolicismo e la filosofia” (Roma, Loescher); “Otello delinquente” (Loescher);
e “Pedagogia: l'educazione come economia”
(Roma, Loescher); “Note psicologiche, estetiche e criminali ai drammi di
Shakespeare: Macbeth, Amleto, Re Lear, Otello” (Milano, Società Editrice);
“Principii economici dell’etica”; “Naturalismo economico”; “Principi naturali d’economia
politica” (Roma, Athenaeum); “Gl’alberi e la Calabria dall'antichità a noi” (Roma,
Signorelli); “La dis-occupazione: cause e rimedi” (Torino, Bocca). Nicolò
d'Alfonso Il del Sud Furio Pesci, Pedagogia capitolina.
L'insegnamento della pedagogia nel Magistero di Roma, Parma, Ricerche
pedagogiche, Francesco d'Alfonso, Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un
intellettuale indipendente, Bisignano, Apollo edizioni, cit Gallo-Cristiani, In
memoria del filosofo Nicolò d'Alfonso, Roma, A. Signorelli editore, La vicenda
del pensionamento di Nicolò d'Alfonso è ricostruita e ampiamente documentata in
Nicolò A.. Ritratto di un intellettuale indipendente, Francesco A., L'onesto
solitario. Vita e opere del filosofo Nicolò A., Reggio Calabria, Città del Sole
edizioni, Francesco A., Nicolò A..
Ritratto di un intellettuale indipendente, Bisignano, Francesco A., Amleto e Ofelia. La critica
shakespeariana negli scritti di Nicolò A., Reggio Calabria, Città del Sole; Pesci,
Pedagogia capitolina. L'insegnamento della pedagogia nel Magistero di Roma Parma, Ricerche pedagogiche, Gallo Cristiani,
In memoria del filosofo Nicolò A., Roma, A. Signorelli; Mariantonella,
Marchesini e la «Rivista di filosofia e scienze affini», Angeli; Macris, Nicolò
A.: uno studio introduttivo, in Quaderni Siberenensi, Catanzaro, Ursini, Luca,
Santa Severina. L'antica Siberene, Pubblisfera; Testa, La critica letteraria
calabrese, Pellegrini; Bernardo, Santa Severina dai tempi più remoti ai nostri
giorni, Istituto editoriale del Mezzogiorno; Santa Severina Università La
Sapienza di Roma Accademia dei Lincei Liceo classico Albertelli. Il
prof. Nicolò A. presenta Note psicologiche, estetiche e criminali ai grammi di
Shakspeare Macbeth, Amleto, Re Lear, Otello. Una nuova fase dell'economia
politica; Speculative psychology and the unity of races. Il cattolicismo e
l'insegnamento della storia del cristianesimo nell'Università di Roma; La
filosofia della storia nel nostro tempo; Morgagni e la biologia moderna; In
Calabria». A., come già risulta dall'elenco dei sagg presentati, s'è occu pato
di argomenti disparatissimi, senza che però, a giudizio unanime della
Commissione, egli sia riuscito a trattarne alcuno con metodo scientifico. Per
la più parte sono saggi occasionali e informativi, discorsi, prelezioni. Ma
invano si cercherebbe un'indagine compiuta con intento scientifico. Le nole
psicologiche sui drammi dello Shakspeare, che del resto sono una ristampa di
articoli pubblicati già parecchi anni addietro, per molti rispetti sono
pregevoli, contenendo osservazioni giuste, e in ogni modo attestano l'amoroso
studio che l'A. ha fatto dei drammi dello Shakspeare; ma, a giudizio unanime
della Commissione, non sono titolo sufficiente per l'assegno del premio a cui
il A. aspira. E' un insegnante che ha una lunga e onorata carriera, e moltissime
saggi. Ma queste che pur contengono molti pregi, riguardano la psicologia, la logica
e la pedagogia La stessa opera che s'intitola Saggio di filosofia morale è un
saggio di psicologia applicata alla critica dell'antropologia criminale. Il Sommario
delle lezioni di filosofia generale – LA FILOSOFIA COME ECONOMIA -- in cui
espone i concetti cardinali del suo approccio, non tratta propriamente problemi
morali, al cui studio non arreca contributo notevole l'opuscolo Principi
economici dell'Etica. Formulati in questo modo i giudizi riassuntivi intorno ai
quattordici candidati, e vagliati comparativamente i titoli di ciascuno, e
tenuto conto infine dell'esito della prova orale, la commissione procede alla
votazione definitiva, secondo le norme. La terna risulta così concepita in
ordine alfabetico: Calò con III voti favorevoli e due contrari; Ferrari, con III
voti favorevoli e due contrari; Orestano, a voti unanimi. II voti riporta il candidato
Zini. Essendosi quindi proceduto alla graduazione dei III candidati designati
per la terna, in ordine di merito, si ha il seguente risultato: 1°Orestano con
voti IV contro uno; Ferrari con voti III contro due; Calò con voti III contro
due. Il candidato Calò ha un voto come primo nella terna. La Commissione
pertanto propone a V. E. di nominare Orestano professore di filosofia a Palermo.
Roma, Il Consiglio Superiore di Pubblica Istruzione, esaminati gl’atti del
concorso,li riconobbe regolari e nell'adunanza delibera di restituirli al
Ministero senza vazioni. La Commissione Osser. Quando un maggior
numero di uomini si strinsero in rapporti fradi loro e furono animati dal *fine
comune* (mutual goal) di *aiutarsi* (reciprocal helpfulness) nel superare le difficoltà per la vita, onde
si vide il grande vantaggio del lavoro collettivo, questo fatto ha una grande
importanza per quegl’uomini e pei primordi dell'umanità in genere. È allora
necessaria la dimora fissa in un luogo, ciò che dovea LA STORIA DEL
LINGUAGGIO. diminuire loro idisagi e le incertezze del domani. Si
preferi di dimorare presso le rive dei fiumi, dei laghi e del mare, che
offrivano certi vantaggi. Risoluto il problema dell'esistenza nell'oggi, è reso
possibile il tentativo di produrre pel domani, allora si principio ad allevare
il bestiume ed a coltivare la terra, prendendo insegnamento, come potevano, dalla
natura. Allora è reso maggiore il bisogno di *esprimersi* (express ourselves) e
d'*intendersi* (comprehend ourselves) in un più largo ambito e nacque nell'uomo
il desiderio di ben provvedere al suo avvenire, à quello della tribů o della
piccola società ed a ricordare la vita passata per trarne insegnamento per
l'avvenire. È reso ancora necessario il tradurre in segni materiali, e perció
più memorabili, i rumori e le voci di *espressione*: prima origine della
scrittura e della lettura. Ma, anche in questo caso, quando non si tratta di do
vere riprodurre l'immagine sensibile delle cose, ma di usare SEGNI più o meno
facili ad eseguire e da connettere alle parole, ciascuno dove significare da
principio in modo affatto ARBITRARIO ed inintelligibile agli altri le proprie rappresentazioni.
Solo posteriormente, per mezzo d’accordi, alcuni *segni* (segnante/segnato) sono
ricunosciuti da parecchi siccome *esprimenti* alcune date *rappresentazioni*.
Si *stabilisceno* (Grice – established procedure) cosi tanti segni (segnante,
segnato) per quante sono le parole in uso. Però un cosiffatto costituirsi della
società primitiva non avvenne per un aggruppamento solo, in un solo sito, di
uomini e di famiglie. Dato invece il continuo dirimersi e disgregarsi degli
uomini preistorici, bisogna ammettere che è dovuto avvenire, isolatamente, in
vari punti della superficie della terra; e per ciascuna piccola società
dovettero stabilirsi speciali segni di scrittura e di lettura. Questi
movimenti d’emigrazione e d'immigrazione, di conquiste, raggiunte con la
violenza o con la calma e l'astuzia, sono più frequenti nei primordi della
storia, poichè in quei tempi non tutti i bisogni individuali e sociali
dell'uomo potevano essere sollecitamente soddisfatti, quantunque fosse stato
prepotente in lui il desiderio di soddisfarli. E poichè ogni gruppo sociale migrante,
come ha un complesso di parole, cosi puo avere un complesso di *segni* a quelle
corrispondenti, avvenendo lo stesso per la società che subiva l'immigrazione o
il dominio, con la mescolanza degli uomini dove ancora avvenire una mescolanza
di differenti linguaggi. In questo caso il gruppo sociale più potente dove
esercitare il suo dominio sul popolo nuovo arrivato o sul debole. È necessario
perciò che gl'imponesse anche la propria lingua, altrimenti non sarebbe stata
possibile la comunicazione degl’animi, prima condizione al vivere. Queste
società col vivere a lungo in un sito andarono incontro ad alcuni disagi per lo
sfruttamento del terreno non ancora coltivato secondo la legge naturale o per
la distruzione degl’animali boschivi o infine perchè il loro sviluppo sociale
dove far loro avvertire NUOVI BISOGNI o per dar nuove esplicazioni alle loro
energie. Nasce perciò in loro o in parecchi di essi il bisogno di avvicinarsi
ad altre società, sia per offrire a queste i prodotti particolari del loro
suolo e della loro industria e rice verne altri, sia per offrire loro le
proprie energie organiche dalle quali volevano trarre un profitto. L'avvicinamento
e poi la reciproca compenetrazione degl’animi avvenne per via pacifica o per la
violenza e la forza, onde la società sopravvegnente sottomise a sè
l'indigena. sociale. Ma si deve anche ammettere che il popolo vinto o il
nuovo ha in parte contribuito a modificare la lingua dell'altro, non potendosi
ammettere che esso si fosse potuto così facilmente e presto privare della sua
lingua abituale e l'altro non ne ha subita alcuna modificazione. Cosi, come la
parola (del greco parabola), anche altri segni dove subire molteplici
metamorfosi in ragione del vario congregarsi e disgregarsi degl’uomini, in
ragione dei vari influssi che quelle società esercitarono fra di loro. E quando
in mezzo alla vita indeterminata delle società primitive sorge un popolo
energico e forte che acquisto di sè una coscienza superiore a quella degl’altri
popoli che si sforza di soggiogare e di dominare ed impose loro i suoi costumi,
le sue credenze, è quello il primo
popolo veramente storico e allora la lingua di esso è imposta ai vinti ed
ammesso riconosciuto da questi. Ma un popolo che sa esercitare il suo dominio è
destinato a vivere e a perpetuarsi. È necessario allora che esso diventi
qualche cosa di organico, che ha un ordinamento interno, che ha leggi ed
istituzioni. Un popolo cosi costituito è costretto a conservare ed a coltivare
la propria lingua, dando un valore determinato alle proprie parole; perchè solo
cosi è possibile il governo che deve implicare la stabilità delle leggi e della
istituzioni alle quali deve perció connettersi una lingua determinate e fissa,
altrimenti quel popolo ricadrebbe, come, malgradociò, tende sempre a ricadere, allo
stato primitivo di disgregamento. In un popolo che vive e dura la lingua deve
non solo fissarsi ma le parole di cui consta debbono moltiplicarsi. E ciò
non può non ammettersi se si considera che una società che vive non può non
compiere, per mezzo degl’individui che la costituiscono, un'attività
psicologica scrutativa e conoscitiva sulla natura circostante. Questa che da
principio apparisce come qualche cosa di molto semplice, come un tutto a sè, in
ragione che più si esercita l'attività umana sopra di essa,apparisce distinta
in una molteplicità di gradi o di oggetti i quali alla loro volta da prima
appariscono indeterminati nelle molte proprietà di cui risultano e, progressivamente,
appariscono sempre più determinati. Tale è stato il movimento della conoscenza
dai primordi della storia sino ai nostri tempi e non si è peranco arrestato. Di
nessun oggetto si può dire che esso sia stato cosi studiato ed analizzato in
tutte le sue note, in tutti i suoi rapporti, che un ulteriore studio nulla di
nuovo potrebbe darci. Quantunque questo processo di scrutazione e di conoscenza
si sia eseguito sopra ogni cosa, pure non tutti i popoli hanno all'istesso modo
fatte le loro conquiste in ogni ramo della realtà. Giacchè alcuni hanno
scrutato un ramo ed hanno lasciato intatto un altro di essa e,
conseguentemente, la lingua si è più arricchita in quella regione della natura
che non in un'altra. Inoltre è avvenuto nella storia che, come gli uomini hanno
fatto un progresso nel campo della conoscenza, si sono ingegnati di servirsi
delle loro cognizioni per modificare la natura esteriore a loro profitto,
producendo una molteplicità di beni e sovrapponendo cosi all'opera della natura
una nuova creazione che è quella dell'arte. Tutte le istituzioni sociali
sono creazioni dello spirito, Cosi quando un popolo emerge nell'arte della
guerra e delle conquiste, come il popolo romano, deve anche creare una
nomenclatura in cose militari e guerresche. Giacchè, anche in questo caso, ogni
nuova veduta, ogni nuova invenzione, per quanto possa sembrare poco apprezzabile,
pure deve essere contrassegnata dalla sua parola. Tale lingua non puo riscontrarsi
nei popoli che, nel movimento storico, precedettero quelli. Ed allora la nuova
lingua potrà inprosieguo divenire patrimonio di nuovi popoli; perchè le
conquiste di una nazione nel campo della conoscenza e dell'attività pratica
tendono a divenire patrimonio ed eredità delle altre nazioni, Una nazione che
emerga nel mondo pel suo dominio sul mare, ciò che non può avvenire senza la
costruzione di vascelli di meravigliosa complicazione, come il popolo ligure, deve
creare una nomenclatura marinaresca, sia per le varie parti e di vari apparecchi
di cui consta un vascello, come per la loro funzione e per gli uomini che vi si
addicono, nomenclatura che *prima della formazione di quei vascelli non avea
ragion d'essere* e che ora deve essere accettata dalle altre nazioni che
vogliono costruire nelle quali se la natura interviene, essa non vi è
come puramente tale, ma rianimata da un nuovo soffio. La storia ci fa vedere
che ogni società civile ha prodotto qualche cosa di particolare in un ramo
delle istituzioni sociali; o nelle leggi o nell'industria, nel commercio,
nell'arte militare, nelle belle arti, nella religione, nella scienza. Corrispondentemente
a questo progresso nell'attività intellettuale e pratica, nuove forme
particolari debbono sorgere che contribuiscono ad accrescere la somma delle
parole di un popolo. -- navi di quei tipi o forme, onde quelle parole
genovese o ligure debbono in massima parte essere accettate come tali dalle
altre nazioni. Anche una nuova e grande religione, come il culto di Marte, il
dio della guerra dai romani, dovette formarsi una nuova lingua relativamente
alle antiche religioni, quantunque alcune parole di queste siano state
conservate nella nuova religione, all'istesso modo che qualche cosa del
contenuto delle prime religioni si perpetua nel contenuto delle altre. E,
poichè la religione, sopra tutto la religione istituta dal primo principe,
Ottaviano, compe netra ed informa tutti gli aspetti della vita individuale e
sociale, esercita la sua azione modificatrice nella lingua di tutte le
istituzioni sociali. Nel culto romano di Marte troviamo parole che hanno un
contenuto differente da quello che avevano nei popoli precedenti o che non
ancora hanno accettato il Cristianesimo, quantunque le stesse parole possano
prima essere state usate.E, poichè il Cristianesimo è stato il punto di
partenza di un grande e lungo svolgimento artistico, teologico e filosofico,
informato ai suoi principii, si è dovuto ancora produrre una lingua atta a rendere
in tutti i loro elementi le nuove e grandi concezioni. Cosi l'attività pratica
sociale e le istituzioni contribuiscono a fare arricchire la lingua latina dei
romani. Ma infondo a questo progresso linguistico sociale dobbiamo trovare come
principale fattore l'attività individuale di un CICERONE, di un LUCREZIO, di un
VARRONE, di un ROMOLO! Come avviene delle nazioni che non fanno un passo
innanzi nel progresso dell'umanità se non per l'opera dei grandi uomini che
esse nondimeno hanno creato eeducato, avvieneanche pel progredire della lingua
dialettale – o soziale – altre l’idioletto. Giacchè gl'individui in quanto
vedono aspetti nuovi della natura o della vita s o Però da principio essi
hanno ricevuto dalla società in seno alla quale sono nati e cresciuti un
linguaggio che era patrimonio comune a molti; essi l'hanno solamente arricchito
in quel ramo di attività nella quale hanno espli cato la loro energia e,se
questa riguarda immediatamente la vita del popolo,potranno le nuove parole
divenir popolari, altrimenti rimarranno sempre chiuse nella cerchia dei
pensatori e degli studiosi. Così la lingua filosofica di CICERONE non è
popolare o ordinario o volgare come non è popolare o ordinaria o volgare la
filosofia, mentre il linguaggio della religione e dell'arte potrà più
facilmente scendere sino al popolo e divenire suo patrimonio; perchè esse al
popolo sopra tutto s'indirizzano ed in esso debbono trovare alimento. --
Pertanto se la lingua dell'arte, della filosofia, della storia differiscono in
qualche modo fra di loro, differisce anche la lingua di un cultore di quella
data branca di attività umana da quello di un altro. Così il idoletto o idioma
di Platone differisce da quello di Aristotele e di Hegel. La lingua,
l’idioletto, o l’idioma di Omero differisce da quello d’ALIGHIERI, di
Shakespeare e di Goethe. La lingua, l’idioletto o l’idioma di Tucidide e di
Erodoto differisce da quello di LIVIO, di TACITO, di MACHIAVELLI. E ciò perchè
ciascuno scrittore impiega nella realtà che studia e perciò nella lingua che
trova e contribuisce a creare, quella sua attività particolare che ciale contribuiscono a formare la lingua ed
imprimono parole nuove a nuovi fatti reali che si sono scoperti od escogitati.
Ippocrate, che fu il fondatore della scienza medica nell'antichità, fu anche il
creatore della lingua medica che si conserva in fondo alla compless lingua
medica moderna. Cesare dette nuove determinazioni ed una più grande precisione
alla lingua militare. lo spinge ad usare nuove parole o a dare un nuovo
contenuto o segnato a vecchie parole o it nobilitarle o a degradarle. In questo
modo la lingua di un popolo che, come ogni conquista dell'uomo e dell'umanità, tende
a sminuire e a perdersi, è sostenuto dalla vita nazionale ed è migliorato dal
progresso che essa fa in ogni ramo dell'atti vità umana. Il suo progresso va di
pari passo col progresso dell'umanità, all'istesso
modo che il decadere di questa trae seco il decadere della lingua. Una nazione
mantiene integralmente la sua lingua quando una sola vita ed un solo pensiero
circolano in essa quando vi è, cioè, unità nazionale, onde tutti i cittadini
hanno la stessa educazione, la stessa coltura, le stesse aspirazioni, volgono
la loro attività allo stesso fine collettivo, partecipano intimamente agli
avvenimenti nazionali, sono animati dello stesso spirito religioso, artistico.
Quando lo spirito nazionale si affievolisce o cade, tendendo allora la lingua a
degradarsi, la scuola apparisce come una sostituzione alla vita sociale, la quale
può creare il culto della lingua nazionale, facendo interpretare e gustare i
capilavori letterari, storici e politici che quella data nazione possiede. In
questo caso la scuola può creare un movimento per un nuovo risorgimento
nazionale e per mezzo di essa può la lingua durare e vivere anche quando le
istituzioni che la formarono e la sostennero son decadute. Ma se in quei casi la
scuola manca, tutto va in rovina. Nella scuola va incluso anche il culto
per l'arte, quando questa non rappresenti il puntosalientedella vita nazionale,
come avvenne in Grecia la quale dovette la popolarità di quella meravigliosa
lingua primieramente al culto per Omero I cui canti, artistici e
religiosi insieme, venivano imparati a memoria e ripetuti e cantati da tutto il
popolo. La religione ha anche essa una grande potenza a mantenere in vita una
lingua, quando ogni altra istituzione sia perita in una nazione; perchè essa,
tendendo a difondere un complesso organico di principii e di massime a tutto un
popolo, in modo che tutti gl'individui vengano illuminati e spinti all'azione
da essa (e già la religione esercita la sua azione in tutti i fatti della vita,
onde la lingua religiosa penetra in ogni cosa), deve tenere perciò vivo il
culto per la lingua nazionale. Quando queste condizioni mancano la lingua si discioglie,
soprat tutto se quella nazione continua ad essere il centro d'im migrazione di altri
popoli, come avvenne dell' IMPERO ROMANO dopo la sua caduta, in cui, con la
invasione dei barbari, quando la scuola mancava, nuovi linguaggi e nuovi
costumi penetrarono che dovettero affrettare la disorganizzazione di quella
lingua in tanti linguaggi particolari a varie provincie e luoghi, varianti fra
di loro secondo che varie erano le nuove condizioni di ciascuno. Alcuni di
questi particolari dialetti più tardi divennero ancheessi nuove lingue, quando apparvero
i poeti, gl’oratori, gl’istorici, i legislatori, i religiosi, i quali, per
adattarsi al popolo al qualedoveano volgerel'opera loro, dovettero bene conoscere
il nuovo linguaggio ed,usan dolo, gli accrescevano prestigio e destavano il
culto per esso. In questo modo una grande lingua si discioglie e gli altri
linguaggi che vengon fuori da quella dissoluzione possono di nuovo nobilitarsi
e divenire storici. La lingua tedesca non sarebbe divenuta una nobile e
bella lingua se Lutero, col movimento religioso che egli. Risulta da quel che
si è detto che non è stato un solo il popolo storico, ma vari,quantunque però
si debba a m mettere che questi si sieno manifestati in una regione piuttosto
che in un'altra del mondo e che vi sieno stati p o poli storici di cui non sono
rimaste vestigia;perchè la parte che essi hanno rappresentato per la storia
dell'u manità in genere non è stata di grande importanza, onde non sono
divenuti centro di attrazione di altri popoli e non hanno avuto perciò
l'energia di sottometterne e di dominarne altri. All'istesso modo che ogni
popolo ha una storia parti colare e comparisce e sparisce dal teatro del mondo
e ad un popolo si succedono altri popoli ed ognuno ha la ere dità degli altri
ed ha insieme aspirazioni, tendenze ed uno spirito proprio,si foggia ancora in
modo particolare la propria lingua. E come il suono o la voce è l'espres sione
dello stato interiore psichico indeterminato dell'a fondo ed inizio, in
cui dovea avere gran parte la cultura del popolo, non avesse destato un culto
per essa.I grandi poeti tedeschi, gli storici, i filosofi, gli
scienziati,animati dallo spirito della riforma,contribuirono poi a rendere
importante nel mondo e nella storia quella lingua. L'a vere la Grecia
conservata, dopo la sua caduta, la sua antica lingua la quale, tenuto conto dei
mutamenti necessari che in essa son dovuti avvenire pel progresso del pensiero
umano, si è continuata nella lingua greca moderna, si deve all'essere essa, dopo
la sua caduta, stata quasi tagliata fuori dal grande movimento del mondo, il
cui centro divenne ROMA, e al non essere più essa stata fatta segno alle
invasioni e alle immigrazioni di altri popoli. Quando, dopo la rovina
dell'impero romano, il pen animale
o dell'uomo, anche la lingua, nel complesso si stematico delle sue parole, è
l'indice dello stato intellettuale di un popolo, della sua storia, del grado
della sua eticità, della sua energia, delle sue aspirazioni economi che, artistiche,
sociali, religiose, scientifiche. Sicchè, conosciuta la lingua di un popolo, ci
è dato conoscere la sua vita naturale e spirituale; perchè nulla è nella vita
naturale e spirituale degli uomini che non sia in qualche modo nel suo
linguaggio. Diciamo in qualche modo,per «chè la lingua non è l'espressione
perfetta della vita e del movimento della psiche. Le parole di cui il
linguaggio consta sono sempre vi 'brazioni tradizionali,empiriche o
convenzionali per espri mere alcune rappresentazioni o azioni o energie delle
cose; sono perciò involucri naturali ed estrinseci in cui si avvolge la
coscienza e la mente per esprimere la realtà delle cose e degli avvenimenti; la
cui ricchezza di par tivolari, d'intrecci e di energie è profonda ed
inesauribile. Sono perciò una pallida immagine della realtà e della
mente,quantunque siano però qualche cosa di superiore e di più perfetto
relativamente al linguaggio indetermi nato. E quando vi è dissdio tra realtà e lingua,
di modo che quella apparisce alla mente nel suo progresso di complicazione, mentre
la lingua si pietrifica, questa diviene un impaccio alla espressione dellamente
che di continuo si muove e si svolge; ed è solo rompendo questo in volucro
sensibile e dandogli un valore più nuovo e più altochesi possono intendere e manifestare
le più ascose pieghe del pensiero e della mente; giacchè per intendere il
pensiero non vi vuole che il pensiero. Ad ogni modo la mente nella sua
progressiva formazione si sforza di creare il suo linguaggio; perchè il
linguaggio serve pel pensiero; e foggia nuove parole o nuove combinazioni di
parole o dà un nuovo significato alle vecchie parole. E perció la storia ci fa
vedere che quelle nazioni che sono state ricche di pensiero, co inella sfera di
attività pubblica e sociale,come nella s'era artistica, religiosa, scientifica,
hanno avuto una lingua ancora ricca di parole, di locuzioni,diflessioniper
espri mere i più fuggevoli moti della realtà e dello spirito; ed in quella
nazione in cui la vita del pensiero è stata poverit o nascente si è ancora
avuta una lingua povera. di parole e di uso. Ciascuno di questi gradi
dell'evoluzione del linguaggio è l'espressione dello stato psichico e cerebrale
di quei dati popoli, stato in parte ereditato in parte acquisito; dello stato
degli organi vocali e dell'ambiente cosi na turale come etico che gli uomini si
sono creato ed in cui sono vissuti. Queste tre serie di fattori hanno la parte
principale nella storiadel linguaggio e, secondo il grado. -- del loro accordo
dello sviluppo di esso, costitu'scono la lingua peculiare di un dato
popolo. -siero cristiano che porto seco una nuova civiltà, più pro fonda
e più complessa della romana, a poco a poco si sostituiva alle vecchie istituzioni,
LA LINGUA DEL LAZIO non potè essere più adatta ad esprimere il nuovo pensiero,
sopra tutto dopo le invasioni barbariche; e se fu colti vata dalla Chiesa e dai
dotti,questi per entrare in re lazione col popolo e partecipare perciò alla
vita nazionale, dovettero usare il vulgare. Qualche cosa di analogo avviene
nella storia dell'in è psicologicamente molto simile agli animali,
emette an.che esso dei suoni indeterminati. Ma in ragione che ac. quistano
maggior sviluppo i sistemi del suo organismo e gli organi vocali e le
sensazioni acquistano maggior pre cisione funzionale, il bambino si assimila
gli elementi delle voci o delle parole che ode intorno a sè,assimila zione che
è resa facile da predisponenti condizioni ere ditarie, le riferisce alle cose
con cui è in rapporto, le fissa nella memoria, si sforza di
pronunciarle,riuscendovi male da principio;ma dopo unalunga esercitazione,ar
riva a pronunziare bene ed a mano a mano non solo al cuni monosillabi, ma anche
parole più o meno semplici. Nella storia del fanciullo si ha insomma come
riepilogo quello che è avvenuto nella lunga storia dell'umanità; cosi il
bambino da poco nato non ha altro modo per esprimere isuoi stati interni che
ilgrido,ilpianto,che sono poco più che un moto riflesso, una forte sensazione
che si estrinseca per le vie del respiro. - dividuo. Come il grido
indefinibile che l'animale emette •è l'espressione dello stato indeterminato
dei sentimenti che lo agitano e dello stato informe delle rappresenta
zionichelo muovono,come della povertà dei centridelsuo: sistema nervoso, cosi
il bambino che nei suoi primi anni [Abbiamo usato promiscuamente la parola
linguaggio e lingua; ma è bene dichiarare che la lingua implica maggiori
determinazioni che non il linguaggio che è qualche cosa di più generale ed
inderminato relativamente ad essa. La lingua è un linguaggio divenuto classico o
storico, con nesso cioè ad una vita nazionale, per cui ogni parola ha una storia
e le cui origini si possono seguire anche in altri linguaggi che sono
presupposti della lingua che si Dopo che le parole son divenute
storiche, sono state cioè connesse ad un segno materiale,possono continuare,
sopra tutto in tempi in cui le lingue si formano, ad a vere una storia circa
alla loro struttura. Ed anzi tutto pare non si debba ammettere che, quando LA
LINGUA PREISTORICA abbia principiato a divenire STORICA, si fossero tra dotte
in segni materiali tutte le parole parlate. Invece si deve aminettere che
queste dovettero essere moltissime neila loro gradazione di pronunzia da individuo
ad iudividuo, da tribà a tribù, per la ragione detta precedentemente. E quando
si volle tradurre in segni una parola la quale aveva immense gradazion,essi
furono appunto quasi una. somma di una molteplicitii di parole parlate le quali
se: poterono fissarsi in segni non poterono però definitivamente fissarsi in un
tipo di vibrazione fonica ad esse corrispon denti,quantunque pero questo fosse
stato il fine dell'in venzione dei segni materiali e della scrittur a e questo.
fosse anch e il fine dell'inseegnamento della lettura. Da ció segue che le
parole parlate furono moltissime relativamente alle impresse. Stabilitasi la
forma della parola parlata e della i m pressa non si tenne più alcuna
ricordanza della derivazione primitiva di essa nè si pensó più a modellare le:
parole sulle forme delle vibrazioni naturali. Dovette per - studia. Si
può dire ‘lingua’ della natura, ‘lingua’ degli animali, ‘lingua’ dei bambini,
ma non lingua senza quotazioni. L'uomo che per morbi perde la facoltà di
parlare che prima posse deva in modo perfetto, non *parla* più la lingua, *ha*
però una lingua. La condotta dell'uomo si può chiamare una ‘lingua’ in quanto
manifesta per mezzo di una. serie di atti tutto un concetto interiore della
vita.] ció necessariamente ammettersi che i primi popoli storici dovetterò averə
ciascuno una nomenclatura e corrispondenti forme d'impressione e di scrittura
e,nel loro con tinuo movimento di espansione e di concentrazione, tutto dovette
mutare fino a che un popolo non raggiunse la sua stabilità. Ma anche allora la
stabilità della lingua non fu definitiva. Abbiamo detto che la parola è
qualcosa di molto più complesso del semplice suono o della semplice voce o
esclamazione o della semplice imitazione di suoni o rumori naturali, quantunque
derivi da essi -- è già un suono o più suoni e rumori connessi che
complessivamente e sprimono una rappresentazione formata od un'azione od un
concetto.Vi sono perciò parole di pure voci o suoni, altre di puri rumori ed
altre infine risultanti degli uni e degli altri. Studiando l'acquisizione della
loquela nel l'individuo vedremo come egli dall'attività più semplice passa alla
più complessa, cosa che,come avviene ora nel l'individuo, si veritica anche
nella storia dell'umanità in genere. Dovettero perciò iprimi uomini da
principio pronunziare parole risultanti di pure voci o di puri rumori. Anche
allora, o più tardi poterono pronunziarsi monosillabi, che sono l'unità di un
rumore edi una voce. Il mono-sillabo è perció la parola più conforme alla
possibiliti tisiologica e psicologica di esecuzione fonica dei popoli primitivi
e rappresenta la vibrazione primitiva della cosa, trasformata dall'attività
fisiologica e psicologica degl’uomini. Le lingue dei primi popoli sono per cio
monosillabiche. Ed a questo proposito possiamo noi indagare se le lingue
primitive sono più o meno ricche di parole delle lingue moderne o in generale
delle lingue più complesse. E bisogna dire di si se si pensa che, quantunquepei
primi popoli storici il mondo esteriore fosse qualche cosa di molto semplice, pure,
nel ri produrre gli oggetti essi teneano conto solo della vibra zione la quale
era varia d'intensità nelle cose ed era ancora più variamente ripetuta od
imitata dagli uomini di una popolazione e dalle varie popolazioni. Onde varie
parole doveano primitivamente indicare la stessa cosa. Anche perché, potendo una
stessa cosa dare vibrazioni differenti, essa veniva indicata con quella tale
vibrazione della quale più s'interessava il soggetto. Cosi il cavallo poteva
essere indicato pel suo nitrire, per lo scalpitare, pel m ovimento della
criniera, pel rumore che fa nei masticare il cibo, per la velocità nella corsa,
ecc. cosa assumeva. In tal caso la parola monozillabica primitiva si dice
-- Per questa ragione le parole dovettero molto più delle cose esse represe in considerazione.
Ma in tempi più progrediti abbiamo una lingua più complessa, in cui cioè le
parola o la maggior parte di esse sono risultanti di più sillabe; e in questo
caso le parole monosillabiche non spariscono. E questa le lingue poli-sillabiche
o la agglutinante o l’articolata. Perchè in esse la sillaba si collegano o si
articolano con la sillaba. La parola poli-sillabica potè divenir tale o perchè
mono-sillabi di una lingua si vide che corrispondevano alla stessa cosa, di
modo che, pronunziandole insieme due o più esigenze venivano conciliate. O perchè
una sola sillaba assume una voce nuova secondo che la nuovi movimenti; perchè
le cose assumono ancora nuove energie se l'attività scrutatrice del soggetto si
esercita.su di esse. radice la quale non cessa di essere parola,
perchè esprime una rappresentazione, per quanto indeterminata, ma è considerata
come una parola elementare la quale è come il ceppo comune ed originario di
altre parole. Essa, entrando in rapporto con altre parole più o meno semplici o
pure assumendo varie flessioni, si complica in modo da esprimere una
rappresentazione più complessa o un concetto. Se la lingua mono-sillabica,
esprimendo rappresentazioni indeterminate, e la LINGUA PRIMITIVA, la lingua
agglutinante o articolata segnano un *progresso* relativamente alle precedenti.
Perchè in essa, una parola poli-sillabe e un complesso di al meno due parole mono-sillabe
e perció si parlano da quei popoli nei quali è più sviluppata l'attivitàr appresentativa,
onde un solo mono-sillabo non sempre è sufficiente ad esprimere una rappresentazione
molto complessa. La lingua del Lazio, la maggior parte delle cui parole hanno
flessioni, in cui la “radice” e il “tema” assumono varie forme e una lingua
flettente. E quella che han raggiunto il maggior sviluppo possibile e puo costituire
l'espressione di una tela organica di concetti e di un pensiero dalle più
ricche gradazioni e di sfumature appena apprezzabili. In tale lingua, il nome sostantivo
o aggetivo ed il verbo assumono flessioni (declinazione e congiugazione) e
mediante tali forme si esprimono i vari rapporti delle cose e l'avvenimento
dell'azione nei vari gradi di tempo e di condizione in rapporto con l'avvenimento
di altre azioni. Una lingua flettente e perció *posteriore* anche alla lingua agglutinante,
quantunque non bisogna credere che, quando esse appariscano, le parolea gglutinanti
e monosiilabiche non esistano più. Esse sono le ultime apparse nella
storia - Con lo sviluppo della lingua del Lazio va di pari passo lo sviluppo
del mondo logico. Giacchè sono due aspettidiuna stessa cosa.. Il pensiero e la
sua manifestazione sensibile. Non si può ben comprendere l'importanza della
lingua del Lazio senza vedere l'importanza dell'energia logica che è inclusa in
esso, la quale sottratta, l'attività della loquela rimarrebbe un fenomeno
puramente fisico e *fisiologico* ma non umano, o pure sa rebbe l'espressione di
uno stato interno indeterminato. delle lingue, e sono state parlate e
scritte da popoli ricchi di pensiero e di azione. Se dunque le lingue ultime
dei popoli civili, che noi crediamo le più perfette, perchè ricche di flessioni
(onde tra queste bisogna comprendere la latina o lingua del popolo del Lazio)
ha avuto una così lunga e avventurosa istoria ed alla loro formazione hanno, piùo
meno immediatamente, con corso tanti e cosi disparati elementi e lingue di
minore perfezione e lingue anche complesse e ciascuna lingua, per quanto
immediata sia, risulta di elementi molteplicissiini ed accidentalissimi (per
quanto vi sia qualche cosa di costante),comparisce chiaro quanto debba essese
difficile, fare una compiuta anatomia della lingua del Lazio ed assegnare a
ciascuno elenento di essa, a ciascuna parola di cui essa risulta, il suo vero
valore e la sua vera istoria. Bello stesso; Sonno e sogni. E. Trevisini, Milano-Roma
scolastico. E. Trevisini,Milano-Roma. Il parlare, il leggere e lo scrivere nei bambini,
saggio di 00 1 Saggi di pedagogia: (il problema dell'educazionemorale. Le donne
dei Vangeli. Monnier, Firenze. La rappresentazione psicologica è l'immagine che
l'oggetto della percezione lascia di sè nel campo co sciente quando è sottratto
all'azione stimolante che esso può esercitare sugli organi dei serisi del
soggetto. Questa rappresentazione è tanto più indeterminata ed imprecisa per
quanto più l'oggetto che l'à prodotta risulta di un numero grande di qualità e
di note,per quanto più breve è stato il tempo che essa ha agito da stimolo sul
soggetto, per quanto meno sviluppata è l'attività percettiva cosciente del
soggetto e per quanto meno questa si è esercitata su di esso. Non vi è oggetto
del mondo esterioreilquale,dopo l'osservazione volgare e dopo lo studio
scientifico, non risulti di una molteplicità di note e di qualità ed in cui
queste qualità non abbiano un determinato grado d'intensità; ma queste note non
appariscono determi nate e distinte fra di loro innanzi al soggetto
quando l'oggetto gli si presenta d'innanzi per laprima volta o quando per
la prima volta l'anima principia ad es sere attività cosciente;allora l'oggetto
apparisce come un tutto indistinto,anzi apparisce come una nota sola. Cosi
appariscono il mondo esteriore e gli oggetti di esso al bambino nel primo
sbocciare della sua coscienza e cosi devono essere apparsi all'uopo primitivo
che non ha avuto una potente attività scrutatrice; ed in questa stessa
posizione è l'uomo moderno dirimpetto a quelle cose più o meno complicate che
gli si parano d'innanzi per la prima volta e che non ha avuto il tempo di
scrutare. In ragione che l'attività cosciente si esercita sempre più
intensamente sul mondo este riore gli oggetti a mano a mano appariscono come
distinti gli uni dagli altri ed in ciascuno oggetto la nota uniforme e
primitiva che lo designava si pre senta progressivamente moltiplicata in più
note dif ferenti. a mano ad affievolirsi, a divenire sempre più
imprecise, a perdere una parte delle note che le costituiscono e lentanente a
sparire quando non vengano rianimate, mediante nuove percezioni degli stessi
oggetti che le han prodotte, nella coscienza; 10 Se l'attività del soggetto si
esercitasse sulla rap presentazione dell'oggetto già percepito piuttosto che
sull'oggetto ripetutamente percepito, non vi sarebbe progresso nella
scrutazione dell'oggetto, anzi vi sa rebbe regresso; perchè è legge psicologica
infallibile che le rappresentazioni degl’oggetti già percepiti tendono a
mano mentre la ripetuta azione del soggetto sull'oggetto fa sempre
scoprire di questo nuovi aspetti e nuove re lazioni;ed a questa condizione la
rappresentazione dell'oggetto sempre più si arricchisce e si compie e risponde
più precisamente all'oggetto reale. Si può fare a meno dal percepire più oltre
l'og getto e considerare solo la rappresentazione in sè stessa quando esso è
stato cosi studiato ed analizzato e scrutato che un ulteriore studio non
aggiungerebbe nulla di nuovo allarappresentazione diesso,laquale però, perchè
si mantenga integra, deve spesso ripro. dursi nel campo della coscienza.E ciò può
sopra tutto avvenire quando l'oggetto che si studia risulta di poche qualità e
determinazioni; ma quando l'oggetto è ricchissimo di struttura, di organi e di
funzioni, quando presenta un vasto e ricco sistema di fatti e di fenomeni,
riesce quasi impossibile rappresentarlo compintamente, senza che alcuni aspetti
di esso non sfuggano alla coscienza o non spariscano da essa.In questo caso il
soggetto, per quanti sforzi faccia ad apprendere e conservare la
rappresentazione compiuta · dell'oggetto, non può fare a meno dal tornare a per
cepire spesse volte l'oggetto del suo studio per sem pre meglio comprenderlo e
conservarlo. Sicché, parlando qui della rappresentazione psiclogica, non
s'intende dire che quella rappresentazione la quale rimane nel soggetto dopo la
ripetuta azione di esso sull'oggetto: ciò che è la rappresentazione
dell'oggetto percepitu. Ed è questa la condizione pilt importante perchè
la rappresentazione psicologica possa divenire obbietto della logica,
quantunque non sia primitivamente tale. La rappresentazione della sensazione
pura o lo stimolo della sensazione non può mai divenire obbietto della logica;
perchè la sensa zione non consta che di certi stati dell'anima, che sa
distinguere e che anzi attribuisce a sė stessa, senza riferirli allo stimolo: e
ciò per quegli animali che per tutta la loro vita rimangono nella cerchia della
sensazione pura.Ma nell'animale e nel l'uomo che rimane solo temporaneamente
nella cerchia della pura sensazione dove stimolo ed animo si con fondono e che
oltrepassa questa cerchia per divenire percezione e coscienza che è dualità tra
l'anima che ora diviene soggetto e lo stimolo che diviene oggetto, ciò che
prima ha determinato la sensazione (lo stimolo) può divenire
oggettodellapercezioneedellacoscienza e poi della logica; anzi non vi è oggetto
della logica che non sia oggetto della coscienza. Onde segue che la materia
prima del mondo logico è fornita dall'oggetto della percezione che è l'oggetto
della coscienza, senza del quale non potrebbe darsi attività logica di sorta;
perchè l'attività logica del soggetto si deve esercitare sempre sopra un
oggetto, come il soggetto non diviene attività logica senza la sua relazione
coll'oggetto. Il soggetto cosi diviene at tività logica, non nasce tale e la
sua attività dere esercitarsi o sull'oggetto naturale esteriore o sulla
rappresentazione interiore di esso, essa non 12 In una zona logica
cosi ampia non va compreso solamente l'uomo superiore con la sua potente ener
gia logica, nè solamente l'uomo medio con la sua or pura Però il passaggio
nel soggetto dalla pura sensa zione alla logica non è rappresentato da una
linea cosi precisa che si possa dire: Di là dalla linea vi è tutto il mondo
delle sensazioni, di qua vi è tutto il mondo logico compiutamente formato;
giacchè, come avviene in ogni sfera che passa in un'altra sfera, quella che
passa non è completamente esclusa come tale da quella in cui passa. E non
bisogna credere che, superato una volta il confine, questo sia supe rato per
sempre; perchè la vita della o delle rappresentazioni di sensazioni può tornare
come puramente tale anche quando una volta si sia pene trati nel campo logico. Inoltre
è difficile per lo stu dioso tracciare questa linea in cui l'anima cessa di
essere meramente sensitiva e fa il primo ingresso nel campo logico. Come ogni
grado dell'esistenza,la logica occupa una determinata zona, chiusa fra due
determinati limiti, di cui l'uno rappresenta il minimo della logicità,tanto che
dilàda questo limite nonvièattivitàlogicane obbietto logico e l'altro
rappresenta l'entità logica nel suo più alto grado. Dal primo all'ultimo limite
il mondo logico compie un processo che implica una progressiva perfezione,per
cui, partendo dal fatto puramente sensitivo, si allontana sempre più da esso
per divenire entità logica compiuta. sensazione dinaria potenzialità
logica; ma ancora l'uomo volgare, il fanciullo, gli animali superiori ed alcune
specie degli animali inferiori che arrivano a percepire.Però se, come avviene
in ogni sfera dell'esistenza che ha una serie di gradazioni, la sfera logica
presenta un sistema cosi ricco di gradazioni le quali passano l'una nell'altra
in modo appena apprezzabile, tanto che è quasi difficile distinguerle, pure si
può dire che tutte queste gradazioni vanno comprese in tre grandi sot tozone le
quali possono chiamarsi la logica meccanica o estrinseca, la logica chimica o
intima e la logica organica. La prima zona,rappresentandoleformelogichepiù
elementari, se può stare di per sè come pura logica meccanica, si ritrova però
anche nelle due zone sus seguenti; e cosi la sfera chimica si ritrova ancora
nella sfera organica che è la più compiuta. In generale si può dire che
l'oggetto della perce zione ovvero la rappresentazione di esso principia a
mostrare il primo movimento logico allorché cessa di apparire innanzi al
soggetto come risultante di una sola qualità naturale,ma apparisce come
distinto in due o più qualità connesse in qualsiasi modo fra di loro ed allora
si ha la forma primitiva della rappresentazione logica. Una qualità sola ed incomunicabile
ad altre qualità e zon trasformabile non fornisce al cuna materia logica. E se
un fatto naturale,secondo che è più scrutato dal soggetto, comparisce sempre
più ricco di qualità e si vede la ragione intima per cui le varie qualità
convengono all'oggetto,è chiaro che esso diventa progressivamente obbietto di
una entità logica superiore. Ma può avvenire ancora che,dopo uno studio più
profondo e comprensivo fatto sull'oggetto, questo ap paia innanzi al soggetto
come intimamente connesso ad altri fatti esteriori ad esso, tanto che senza di
questi non potrebbe essere quello che è. E, se vi sono oggetti le cui note ed i
cui rapporti sono immobili e fissi, ve ne sono altri in cui le qualità che li
costi tuiscono ed i loro molteplici rapporti con enti fuori di essi si
trasformano e cangiano. È chiaro allora che l'entità logica dell'oggetto si
accresce e si complica. Può avvenire ancora che l'oggetto che ora è studiato
comparisca come l'ultimo risultato di una storia spe ciale propria o di una
storia di altri enti simili o dis simili da esso; onde l'importanza delle note
attuali che lo costituiscono si accresce e mostra cosi una n a tura assai più
elevata.La rappresentazione logica ha cosi una considerevole latitudine; perchè
principia quando il soggetto vede almeno due note nell'oggetto e si conserva
ancora quando si è scoperto in esso un numero grandissimo di qualità. Si è
detto e ripetuto che è il linguaggio che segna nell'uomo il primo apparire
delle attività logiche. Ma non si considera che la parola “LINGUA”, avendo un
largo contenuto e significando qualsiasi manifestazione dei fatti interni
psichici, siano sensitivi che rappresentativi ed emotivi, ha una larga
applicazione cosi NEL CAMPO ANIMALE come nel campo umano; onde non si vede con
determinazione la necessità del co-esistere solamente nell'uomo della LINGUA e
della funzione logica, si deve però ammettere che la LINGUA che è un linguaggio
formato e divenuto classico (onde vi è differenza tra LINGUA e lingua-GGIO), quando
è bene usata dal soggetto uomo, può far vedere in questo le più grandi energie
logiche, all'istesso modo che una LINGUA imperfetta o poveramente usata può
manifestare nell'uomo rudimentali qualità logiche. Però non si può concedere
che deve necessariamente intervenire LA LINGUA per potersi trovare nella sfera
logica e per potere compiere funzioni logiche. Individui nati muti o sordo-muti
possono compiere con grande coerenza logica i loro atti, all'istesso modo che LA
LOQUELA non sempre rivela una perfetta energia logica, come avviene per
disordini nervosi e mentali o per ritardato sviluppo di tutte le attività
psichiche. Al l'incontro ciò che è indispensabile perchè il soggetto compia le
più elementari funzioni logiche è l'oggetto della percezione e la rappresentazione
molteplice del l'immagine di esso, come è manifestato dagl’atti e dalla
condotta che gl’ANIMALI e l'uomo non ancora parlante hanno verso quegli oggetti
sui quali si eser cita la loro attività e dal giovarsi che l'animale fa di alcune
qualità degl’oggetti. E la rappresentazione molteplice dell'immagine degli
oggetti è anzitutto necessaria ancora per l'uomo logico che parla, la
rappresentazione e l'esecuzione della parola udita, parlata e scritta non
essendo che un'altra specie di rappresentazioni speciali degli stessi oggetti
sopraggiunta alla prima; per cui il lavoro psicologico e logico del l'uomo è
assai PIÙ COMPLICATO DI QUELLO DELL’ANIMALE [cf. H. P. Grice, M-intending] anche
perchè, per la sua grande energia psichica, l'uomo moltiplica le rappresentazioni
relativamente semplici che delle cose hanno gl’animali, onde LA LINGUA diventa
nell'uomo assai più intricata e complessa. Segue da ciò che la LINGUA umana è
una NUOVA AGGIUNTA che si fa alla rappresentazione primitiva dell'immagine
delle cose. Ma rimane sempre questa l'obbietto delle ATTIVITÀ LOGICHE COSI
ANIMALI COME UMANE [Grice, “Method in philosophical psychology, on an eagle
doubting whether p or q]. Questo è ancora dimostrato dalla patologia della
LINGUA UMANA; poichè è stato constatato che, quando l'uomo perde la memoria
della immagine percepita delle cose e conserva la ricordanza della PAROLA
(PARABOLA) udita, parlata o scritta, che ad essa corrispondono, la sua LINGUA è
divenuta un caos; perchè, essendo perduto il nesso tra la cosa e la sua PAROLA
PARABOLA udita e parlata, l'attività logica non si può esercitare sulle PAROLE
PARABOLE, perché non si può esercitare sulle cose, come allora è manifestato
dalla sconnessione e dalla incoerenza della lingua. Del giudizio e
dei suoi elementi. Quando il soggetto distingue per la prima volta un dualismo
nell'oggetto, cioè da una parte quello che, prima di questo atto psichico, costituiva
tutto l'oggetto, indistinto nelle sue qualità, e dall'altra quello che scorge
ora in esso mediante l'atto di distinzione e vede che questo è connesso con
quello in modo che senza di esso non sarebbe, si fa quel che si dice un GIUDIZIO
(Grice, JUDICATING that the a is b – the dog is shaggy -vs. VOLITING). Sicché
per avere un giudizio occorrono due fatti distinti fra di loro ed un atto
psicologico che li connetta. Però bisogna considerare questi tre elementi di
cui consta il giudizio come dati tutti e tre insieme nello stesso atto. Dei due
fatti che possono dirsi anche TERMINI (‘l’A, la B’), perchè SIGNIFICATI con
parole PARABOLE, il primo, quello che prima del l'atto psicologico fa una sola
cosa con la qualità che ora si distingue da esso e che meglio osservato e
scrutato può mostrare altre qualità inerenti a sé, onde può divenire obbietto
di altri giudizii, si chiama SOGGETTO – cf. Strawson, Subject and predicate in
logic and grammar. La nota che gli si attribuisce si dice aggettivo od
attributo – ‘SHAGGY”, predicato. L'atto psicologico col quale gli si
attribuisce è il verbo – in sensu stricto, la copula. Bisogna bene intendersi
sul significato della parola ‘soggetto’, che si usa nel giudizio. In generale
soggetto significa ente attivo, ente operoso. Si chiama soggetto l'anima
cosciente e distinguente sè dall'oggetto e nel l'istesso tempo l'anima che
esercita la sua attività sul mondo esteriore che considera come suo oggetto. E
poichè dall'animale inferiore all'uomo e dall'uomo eminente per pensiero e per
azione questa attività conoscitiva ed operativa sempre più si afferma e cresce,
è cosi che la parola “soggetto”, quantunque possa applicarsi indistintamente
alla serie degl’enti animali, pure compete in sommo grado all'uomo ed all'uomo
che abbia la più grande energia nel campo del pensiero e dell'azione – cf.
Hampshire THOUGHT AND ACTION. Intesa cosi la soggettività, scendendo
dall'animale alla pianta, sembra non essere più il caso di dovere applicare la
parola soggetto. Ma, poichè la pianta è un organismo dutato di attività la
quale consiste nel compiere una serie di funzioni interiori per le quali è
continuamente messa in rapporto coll'ambiente esteriore ad esso (aria, luce, terreno)
e manifesta, quantunque in modo assai più imperfetto di quel che si compia
nell'animale, per mezzo di una serie di fenomeni esteriori, i suoi fatti
interiori ed il suo organismo compie una storia, pure SI PUO CONCEDERE IL NOME
DI “SOGGETO” alla pianta (“Someone is hearing a noise”), la quale cosi
manifesta anche essa una certa energia. Ma i grammatici ed i logici hanno
anche dato il nome di soggetto non solo ad ogni opera dell'uomo, che può
considerarsi come un tutto armonico in sé, avente un determinato fine, ma ad ogni
parte di essa, ad ogni ente della natura inferiore ed inorganica o ad un frammento
di essa, ad ogni minerale, ad ogni fatto meccanico o chimico e financo hanno
considerato come soggetto le qualità e gli attributi stessi delle cose. Però
l'uso che in questo caso i grammatici hanno fatto della parola “soggetto” può
essere giustificato, considerando che ciascuno degli enti inferiori agli enti
organici e psichici è sempre un com plesso, anche quando sia semplice parte, di
qualità o proprietà concentrate e connesse insieme; onde, rigorosamente
parlando, non si può negare ad essi una certa energia senza la quale le
proprietà non potreb bero esistere in essi. Possiamo chiamare questa energia,
meccanica, fisica o chimica; ma è sempre una energia E non si può non concedere
che le qualità stesse che si considerano come attributi delle cose possano
essere considerate ancora esse come soggetti,quando si riconosce che ciascuna
qualità,essendo inerente a molti soggetti i quali hanno altre proprietà
differenti, contribuisce in modo differente all'energia di ciascuno di essi.
Cosi quando si parla della gravità che è una proprietà dei corpi, si vede che
essa si manifesta di versamente secondo che si tratta di an corpo gassoso o di
una pietra o di un liquido o di un pendolo o del sistema planetario.
Quando il soggetto del giudizio è considerato o stu diato dal soggetto psichico
allora può anche chiamarsi oggetto; perchè, quantunque attivo in sè, è sempre
qualche cosa di passivo relativamente al soggetto psi chicoilqualeesercitalasua
azionescrutatricesudiesso. Il secondo termine del giudizio, cioè quella
qualità o quella determinazione che, quantunque insita nel soggetto o estranea
ma conveniente ad esso,per mezzo dell'atto psicologico gli si riconosce come
connessa, è stata chiamata dai logici attributo o predicato.Rap presentando il soggetto
un gruppo di proprietà dif ferenti, suscettivo di ulteriori giudizii,e
l'attributo una sola qualità o determinazione, è chiaro che questo può essere
applicabile a più soggetti, non essendo ciascun soggetto costituito di
attributi assolutamente speciali a sé; ma in mezzo ai tanti attributi comuni a
molti soggetti ha solo qualcuno che conviene esclu sivamente a lui. Dei molti
attributi che costituiscono un soggetto una parte sono sensibili o percettibili
per mezzo degli organi dei sensi. Ogni oggetto del mondo esteriore è fornito di
peso,ha una grandezza variabile, una re sistenza, è situato ad una certa
distanza dallo spet tatore, ha una forma fissa o cangiante,un colore,una
composizione mineialogica, chimica o organica, può presentare una struttura
determinata, uno stato ter mico, può vibrare in modo differente nella intimità
clelle sue molecole, può esercitare un'azione più o meno irritante o elettrica
o offensiva sull'organismo del soggetto,può dare speciali odori,può
essere gn. stato per mezzo della lingua. Ma vi sono altri attri buti i quali
non sono percepiti per mezzo degli or gani dei sensi ma vengono compresi
mediante un atto della mente, quantunque le attività percettive possano
contribuire o avere contribuito alla comprensione di queste nuove specie di
attributi. Sono tutte quelle qualità che riguardano la provenienza od il fine
del soggetto,isuoirapporticon altrioggetti,lasuaazione favorevole o nociva su
di essi o viceversa. Inoltre il soggetto acquista attributi non semplicemente
sensi bili quando desta in noi stati interiori piacevoli o do
lorosi,ricordanze,speranze etimori,ma qualche cosa di più che sensibile, poichè
in quel caso viene scossa l'intimità della nostra vita
interiore. Quantunque a primo aspetto sembri che ogni at tributo sia una
qualità semplice e non suddivisibile in altre qualità,benchè una qualità possa
averevari gradi d'intensità, ciò che non la fa considerare come qualche cosa di
fisso, pure può una qualità essere il risultato di un sistema di altre
condizioni o attributi. Quando diciamo che l'animale è sensibile, la nota della
sensibilità pare che sia una qualità sola; ma, se si pensa che per essere
sensibile l'animale deve im plicare una serie di organi e di funzioni e di
condi zioni esteriori all'organismo, si è costretti ad ammet tere che
quest'attributo è come la risultante di fatti molto complessi, non è dunque un
attributo semplice. Se diciamo che Giulio ė ragionevole quest'attributo è
Il soggetto e l'attributo non potrebbero costituire il giudizio senza l'atto psicologico
col quale l'uno ė connesso con l'altro; senza questo atto i due termini non
avrebbero fra di loro altro legame fuori quello accidentale della coesistenza e
della successione, che è un legame psicologico, non logico. Rigorosamente
parlando,è quest'atto che costituisce ilverogiudizio; però senza i ter.nini
esso non potrebbe essere, non sarebbe che una mera possibilità. Questo atto che
è espresso dal verbo è quella scrutazione che l'anima attiva fa tra i due
termini, per la quale si riconosce che l'uno è connesso
indissolubilmente,intimamente e necessariamente con l'altro. Questo nesso
intimo che lega i due termini è un fatto obbiettivo delle cose, non è una pura
produzione dell'atóività psicologica, però non si pno pervenire ad esso senza
l'attività picologica. È questa un'alta attività a cui l'anima umana per
viene;perché per mezzo di essa può internarsi nella natura dell'obbietto,
vederne il movimento, compren derlo ed assimilarselo. Sicché non si arriva al
fatto logico senza l'attività psicologica e senza di questa l'energia logica
rimarrebbe nella inconsapevolezza delle cose naturali, rimarrebbe per sempre
muta ed inco municabile ad alcuno, Per questo ogni atto giudica di una
natura cosi complessa che deve presupporre un ricco sistema di condizioni
perchè possa darsi. L'attributo ragionevole perciò non implica un fatto cosi
semplice come l'attributo pesante. tivo non è un atto meramente
psicologico,ma è anche obbiettivo, il suo contenuto cioè corrisponde al conte
nuto delle cose;ed in quest'atto si uniscono e com penetrano l'energia psichica
e l'energia delle cose. Con l'atto giudicativo, subbiettivo insieme ed ob
biettivo, si entra nel vero campo logico e si può dire che è sul giudizio che
poggia tutto l'organismo logico e che è il giudizio, considerato nel suo
sistematico svolgimento,che costituisce la parte più importante della logica e
che il primo prodursi della più rudi mentale attività giudicativa dell'uomo o
dell'animale segna ilprimo apparire del mondo logico. In generale si può dire che
sempre che ilsozgetto principia a giudicare l'oggetto della percezione o
la 24- Però'seil giudizio come necessaria convenienza dell'attributo al
soggetto è la forma più perfetta alla quale il soggetto pensante non arriva se
non dopo una lunga educazione,vi sono molte forme di giudizio inferiori ad
essa, che possono considerarsi come tanti tentativi che l'anima fa per
penetrare nell'intimità delle cose ed impadronirsene. Ciò conferma il fatto che
non vi è un limite netto tra la psicologia e la logica e che se vi è una parte
della psicologia quella inferiore, in cui non vi è nulla di logico,e che se vi
è un'altra parte della psicologia, quella ultima e più raffinata, in cui ogni
energia o la più parte delle energie sono logiche, vi è una larga zona
psicologica in cui si manifestano le prime tendenze logiche ed in cui il lavoro
logico è eseguito allo stato bruto. rappresentazione di esso,allora
questa cessadiessere rappresentazione psicologica e diviene rappresenta zione
logica; e non vi è alcuna rappresentazione logica la quale non sia insieme,
implicitamente od esplicitamente, giudizio. E, se l'infimo gra lo della
rappresentazione logica deve implicare un solo giudizio almeno nella sua forma
primitiva e bruta,un'alta rap presentazione logica si ha quando essa implica un
gran numero di giudizii. Delle tre parti in cui si può considerare divisa la
logica (la meccanica, la chimica e l'organica), la rappresentazione logica cosi
intesa esaurisce le due prime parti. Se l'anima non può principiare ad eseguire
funzioni logiche dall'infimo al massimo grado se non quando è divenuta
percettiva,perchè allora solamente distingue fra di loro i fatti del mondo
esteriore e distingue al cune proprietà di ciascun fatto,giacchè senza la mol
teplicità dell'obbietto non può eseguirsi funzione lo gica di sorta, nondimeno
non in tutto quello che per cepisce od in tutto quello che si rappresenta nella
coscienza interiore vi è energia logica o, quando vi è, non vi è all'istesso
grado in tutto. L'anima vivente o va incontro ad una varietà di fatti e
steriorioquestilesipresentano a caso ovvero a s siste ad un inovimento di
rappresentazioni o fa l'una cosa e l'altra insieme ed intercorrentemente.
Questi fatti si succedono o coesistono fra di loro e sono per cepiti dal
soggetto nella loro successione o nella loro coesistenza. Ogni fatto deve
perciò connettersi ad un altro fatto; e questa connessione può essere di
due specie,o casuale estrinseca,ovvero intima,vera,con veniente. Bisogna però
distinguere la casualità e la estrin- sechezza,tra ifatti psichici,che rimane
sempre tale pel soggetto, per quanto questo possa elevarsi alla più alta
attività psichica,dalla casualità e dalla estrin sechezza che apparisce tale al
soggetto solo tempo raneamente nel primo periodo della sua storia,quando non
ancora è giunto al grado di potere compiere un lavoro psicologico cosi intenso
da sapere vedere una connessione intima tra due fatti; onde questa gli si
presenta estrinseca senza esser davvero tale e, con un ulteriore sviluppo
dell'attività soggettiva,sparisce la estrinsechezza e comparisce la intimità.
no Non si può non ammettere però che questa estrin sechezza vera è in certo
modo relativa al grado di sviluppo dell'attività del soggetto psichico;perchè,a
vendo ciascun soggetto nel mondo es'errore un campo Nel caso della
estrinsechezza vera, per quanto in oggetto si succeda ad altri od apparisca al
soggetto in concomitanza con altri oggetti, anche con un ac curato studio, non
si saprà mai trovare una ragione del succedersi di un avvenimento ad un altro o
della coesistenza di un fatto con un altro, di una qualità con un
oggetto;giacchè ciascuno oggetto apparisce come assolutamente indipendente
dirimpetto all'altro, perchè non lo modifica in alcun modo nė ne ė
dificato. speciale nel quale si esercita la sua attività, onde é
messo frequentemeate in rapporto di coscienza solo con un determinato
aggruppamento di oggetti, egli può vedere meno di estrinsechezza tra questi
oggetti che non tra quelli estranei alla sua azione.In ragione che il soggetto allarga
sempre più il suo campo og gettivo e lo scruta con maggiore intensità
l'estrinse chezza si allontana sempre.E quando l'obbietto del l'attività
soggettiva è tutto l'universo allora il filo sofo,guardando le cose dal più
alto punto di vista che è quello dell'unità,non vede più estrinsechezza di
sorta tra le cose;perchè ogni cosa vi apparisce come organo di un vasto sistema
ed è necessariamente connessa a tutti i gradi di esso. La intimità, la verità e
la convenienza tra due oggetti (e perciò tra due rappresentazioni) o tra un og
getto ed una sua proprietà si ha allora quando l'uno non può essere in alcun
modo indipendente dall'altro per cui sempre che è dato l'uno è dato l'altro o,
se prima è dato l'uno, dopo verrà necessariamente dato l'altro. Ora questa
intimità ha vari gradi che possiamo riepilogare in tre zone logiche
principali,presentando ciascuna zona immense gradazioni. La prima zona,
quella più elementare in cui si de signano le prime linee del mondo logico, di
là dalla quale vi è il puro mondo degli oggetti delle percezioni e delle loro
rappresentazioni scomposte e sconnesse, ha questo di particolare che in essa
alcuni oggetti o rappresentazioni sono, è vero, legate, da nessi intimi,
ma questa intimità è al suo minimo grado,rasenta quasi la estrinsechezza; perchè
della loro intimità non si vede altro che il semplice succedersi costantemente
diuna rappresentazione adun'altraodilsemplicecoe sistere di una
rappresentazione con un'altra.E questa conquista il soggetto può avere fatto
non solo per pro pria esperienza ma anche per tradizione o per quel che si è
detto consenso degli uomini. Qui non si vede alcuna ragione della convenienza
delle due rappre sentazioni,alla qualeilsoggettorimaneperfettamente estraneo; e
tutta l'attività del soggetto si esaurisce nel vedere questo puro costante
coesistere e succe dersi delle cose e perciò il giudizio che esso compie è
semplicemente meccanico, non fa che constatare quanto avviene nel mondo
naturale. Così l'attività del soggetto qui è meccanica e delle cose non afferra
che il semplice meccanismo,l'energia più elementare della natura, il muoversi
delle cose per la loro pura gravità o per la loro forza od il muoversi per
forze estranee ad esse ma che agiscono su di esse. In questa zona logica va
compresa anche quella elementare attività giudicatrice mediante la quale si
scopre o constata qualche proprietà o qualità che in teressa gli organi
sensibili e percettivi del soggetto, come il sole è luminoso; è un'attività
giudicativa molto elementare.A questa zona logica possono per venire gli
animali superiori e quegli animali inferiori i quali si elevano alla
percezione, quantunque gli a nimal¡ non possono esprimere con
paroletaligiudizii, poichè bastano certi atti o movimenti che l'animale
esegue a dimostrare che esso hacompiutoungiudizio. Ma questa attività meccanica
logica non solamente rappresenta la prima epoca dell'energia logica umana e
l'energia dialcuni animali,ma anche quando l'uomo è atto ad elevarsi ad una
attività logica superiore compie ordinariamente giudizii logici meccanici. È
questa la posizione dell'uomo incolto. Di tutti gli a v venimenti naturali ed
umani ai quali egli assiste non può vedere altra intimità che quella meccanica
ed estrinseca; alla ragione intima dei fatti egli non perviene. La seconda zona
che si dice chimica e che sta più in alto alla precedente ed alla quale non si
perviene se non per mezzo della precedente rappresenta quel campo della logica
in cui il soggetto può compiere un più complesso lavoro di penetrazione tra gli
og getti, onde quei nessi intimi che prima vedeva in modo quasi estrinseco sono
visti davvero nella loro intimità. La parola chimica sembra bene
adoperata;perchè cor risponde a quello stato della energia della materia in cui
gli elementi relativamente semplici si compe netrano ed uniscono insieme per
formare un corpo di una più elevata natura ed in cui corpi di complessa natura
si scindono nei loro elementi sem plici;ondelachimicadelcampo logico
corrisponde a quel grado delle attività psicologiche per le quali il soggetto
afferra la convenienza vera di un oggetto. e delle sue proprietà e vede le
intime ragioni per le 29 nuovo La zona chimica logica si
evolve cosi dalla mec canica non solo, ma questa coesiste nella chimica;
perchè, anche quando vediamo il rapporto chimico di
duerappresentazioni,vièsempreillato meccanico, l'incontro cioè di due oggetti o
di un oggetto ed una qualità, quantunque questo meccanismo sia assorbito e
trasformato dal chimismo. Avviene nel campo lo gico quel che avviene nel campo
naturale in cui il chimismo implica ilmeccanismo,quantunque non sia
semplicemente tale, essendo ilmeccanismotrasformato ed elevato ad un più alto
grado di esistenza nel chi mismo il quale senza di esso non potrebbe darsi.
Però non bisogna credere che, quando l'uomo è ar rivato alla zona chimica della
logica tutti i suoi atti logici siano giudizii chimici;perchè questi,implicando
una grande difficoltà acompiersi, nonpossonofarsida ciascun uomo che in un
campo speciale che ha scelto come materia del suo studio e delle sue ricerche;
il resto della sua attività logica è rappresentato sempre dal meccanismo e
questo può intercorrere nel chimi smo logico od alternarsi ad esso. quali
il soggetto non può fare a meno di quellapro prietà e questa deve sempre
necessariamente andare congiuntaalsoggettoinquellecondizioni.É questo, si può
dire, il campo della conoscenza vera e della scienza dove il soggetto compie le
più elevate forme di giudizio,risultato di una lunga scrutazione psico logica
nei rapporti delle cose. Il giudizio nella sua for.na più elevata,
implicando quell'atto del soggetto cosciente mediante il quale si riconosce che
ad un oggetto del mondo naturale o ad un ente spirituale che qui diviene
soggetto logico con viene intimamente e necessariamente un dato at tributo,
esprime un rapporto tra i due termini che nelle stesse condizioni,deve essere
tale costantemente, sempre vero, oggi e sempre, qui ed ovunque. Per questa
ragione il giudizio non va soggetto a mutazioni per tempo e perciò si esprime
sempre com'è,in tempo presente.Ogni dubbio,'ogni incertezza circa alla
concordanza perfetta dell'attributo col soggetto nondarebbeilverogiudizio;seperòilsoggetto
ri conosce l'incertezza nel suo atto giudicativo e cerca di uscirne per addurre
la verità, sforzandosi di eser. citare tutto il suo potere percettivo nella
scrutazione dei termini e nel loro rapporto, allora l'incertezza è
unbene,perchèciconducealverogiudizio.Per la stessa ragione, quando in un
giudizio interviene il desiderio o la speranza od iltimore,non siavrà ilvero
giudizio. I logici classici si sono molto occupati della nega zione nei
giudizii e li hanno perciò distinti in affer mativi o positivi e negativi:
affermativi sono stati detti quei giudizii in cui si riconosce che l'attributo
conviene al soggetto, negativi quelli in cui questa convenienza non si ha.Ma
evidentemente ilogicinon hanno ammesso che è sull'oggetto della percezione o
della sua rappresentazione che primitivamente deve volgere ogni giudizio e che
bisogna guardarsi bene dal giudicare prima di avere studiato e scrutato bene
l'oggetto.Se questo sifacesse, si vedrebbe la inutilità e la vacuità di una
gran parte di qnesti giudizii ne gativi,come è dimostrato anche dal fatto che
alcuni giudizii negativi possono tradursi in positivi.Quando si ammette che un
dato corpo non è solido, implici tamente si ammette che è liquido o gassoso.Per
que sta ragione i veri giudizii devono essere tutti positivi; perchè,
rigorosamente parlando, lo scienziato deve conoscere quello che una cosa è non
già quello che non è. Quando si tratta che il soggetto può avere uno di due
attributi che sono fra di loro contrari e che se gli convieneuno di essi gli sconviene
neces sariamente l'altro, si dice che allora si possono for mulare due
giudizii, l'uno negativo e l'altro positivo. Ma è facile osservare che, fatto
il giudizio positivo, è perfettamente inutile formulare il negativo ilquale con
parole diverse,per mezzo della negazione,ripete la positività del primo
giudizio. Vi sono però dei casi in cui pare che il giudizio negativo
dovrebbe aver luogo. Cosi noi sappiamo che una data pianta deve fiorire; se la
guardiamo in un'e poca in cui il fiore non è apparso,dobbiamo dire che la
pianta non è fiorita; ma d'altra parte è in es.a la possibilità di dovere
fiorire; poichè in tutti i fatti che implicano uno svolgimento od una storia
non tutte le qualità che devono costituirli possono essere date belle e compiute
dal bel principio; perchè ciò escluderebbe la storia; a ciò pensando, la pura
nega. tività di questo giudizio è spuntato. Che se poi guar diamo la pianta non
fiorita come ci si presenta per cettivamente, allora non si ha alcuna ragione a
par lare di negazione. Sappiamo inoltre che la sensibilità deve essere un
attributo necessario all'uomo; ma permalattiedelsi stema nervoso questa
funzione può perdersi, onde il direalloraquest'uomonon sensibile, potrebbepa
iere un giudizio negativo incontestabile; ma si tra scura di considerare che
quani'o l'uomo è divenuto insensibile non è pixi l'uomo compiuto, ma l'uomo che
è nel declivio della dissoluzione e della morte e che, dicendo che non è
sensibile, si riconosce che la sua Molti, parlando e scrivendo, anche di
cose scienti fiche, fanno grande uso di questi giudizii negativi; ma è questa una
consuetudine di linguaggio chequalche volta fa anche vedere la poca sicurezza e
la povertà delle nostre cognizioni; perchè il difficilc non sta nel dire quel
che una cosa non è,ma qnelche è davvero. attribuzione sarebbe la
sensibilità e che questa si è perduta solo per condizioni morbose. Nondimeno se
il giudizio negativo è possibile esso può solo avere la ragione di essere in questi
casididissoluzione edi sfacelo degli organismi e delleistituzioni,quantunque
anche allora,stando alla semplice percezione, si po trebbe semplicemente giudicare
quel che l'oggetto pre senta di positivo; m a allora il soggetto che pensa non
può fare a meno dal paragonare la primitiva gran dezza o la perfezione tipica
di una data cosa con la dissoluzione e la rovina presente, onde quel che è ora
è la negazione di quel che era prima. Può avvenire lo stesso quando si tratta
di paragonare varioggetti fra di loro. Il giudizio nella sua forma classica è
rappresentato dal soggetto, dal presente del verbo essere e dall'at tributo. Ma
il soggetto per tenere avvinto a sè l'attributo deve esercitare una certa
energia che indica il vero nesso tra il soggetto ed il suo attributo; ora il
giudizio formulato in quel modo non fa vedere tutta questa attività del
soggetto,ne fa vedere,si può dire, la minima parte. All'incontro sono i verbi
attributivi i quali possono risolversi nel verbo essere e nell'at tributo, che
manifestano la vera energia, la vera at tualità del soggetto, che costituisce
il giudizio nella sua realtà vivente; perchè fanno vedere il soggetto che si
manifesta nel suo attributo e fanno vedere l'at tributo vivificato dal
soggetto.Per questa ragione il giudizio espresso nella sua forma classica trova
più ragione di essere applicato nelle sfere inferiori mec. caniche della
natura,quelle che manifestano una energia più povera, relativamente alla
energia animale ed umana erelativamente all'altaenergiadella vita dello
spirito. Qui tutte le attività, tutte le funzioni che si esercitano e che si
esprimono con verbo sono gin dizii viventi. Se diciamo questo corpo é rotondo
l'a' tributo, quantunque inerente al soggetto, pure è con siderato come qualche
cosa d'indifferente ad esso. Qui si tratta del giudizio nella sua primitiva
forma. Ma se diciamo questa pianta fiorisce facciamo un giudizio della seconda
forma, perchè qui vediamo il soggetto che crea il suo attributo e vive in esso
Ammesso il concetto del giudizio qui dato, risulta evidente che ogni giudizio
implica una sintesi ed una analisi insieme e nello stesso atto. L'analisi vi dà
la dualità dei termini, siano nello stesso soggetto che tra due oggetti; e
l'analisi è un morrento necessario al giudizio; poichè senza il dualismo giudizio
non vi sarebbe; m a d'altra parte cesserebbe l'atto stesso del e per
esso. Più elevata e spirituale è la natura del soggetto e più è ricco di
attività speciali e più verbi glisipos sono attribuire e più giudizii compie,
svolgendosi e vivendo.Più ilsoggetto appartiene alle sfere della materia bruta
e meno verbi gli si possono attribuire più le sue qualità possono essere
espresse con la forma classica del giudizio; ma ciò non toglie che anche
giudizii di questa fatta possano eseguirsi sopra alcuni soggetti di elevata
natura. giudizio se questo non fosse insieme sintetico; cés sando
la sintesi cesserebbe anche l'analisi e viceversa. Non vi sono perciò
giudiziipuramente analiticinè pu ramente sintetici;per
conseguenzailsoggettovivente compie continuamente un'analisi ed una sintesi
delle sue qualità e lo scomparire dell'una o dell'altra ap porta la morte di
esso. Quando diciamo giudizio diciamo ancora ragione, pensiero. Però come il
giudizio consiste più nell'atto psicologico,corrispondente al nesso intimo che
vi è tra due rappresentazioni, che nella distinzione dei ter miui, quantunque i
termini siano necessari al giudizio e senza di essi giudizio non vi sarebbe,lo
stesso deve dirsi del pensiero e della ragione. Se non che queste due parole,
considerate come semplice giudizio,dicono molto meno di quel che dicono quando
sono adoperate nel senso assoluto del loro contenuto. Quando diciamo il pensiero,
la ragione si vuole intendere il sistema di tutti i nessi possibili di tutte le
rappresentazioni delle cose della natura e dello spirito insieme, sog
gettivamente ed oggettivamente considerate. Quando poi sono applicate come
semplice giudizio equivalgono ad un pensiero,una ragione. Per alcuni logici la
parola proposizione esprime la stessa cosa chela parola giudizio
eperòsiadoperano promiscuamente queste due parole. Ma se vi sono verbi
attributivi che possono ridursi a giudizio,ve ne sono però altri i quali non vi
si possono ridurre, perchè non corrispondono pienamente a quel che siè detto
dovere essere un giudizio. Quando conosciamo Si comprende però che gli
avvenimenti storici pos sono essere guardati dal punto di vista estrinseco e
quasi accidentale come fanno gli storici che riprodu cono i fatti semplicemente
nel modo come sono successi; ma questi stessi fatti possono anche essere studiati
scientificamente e filosoficamente, considerati cioè in quel che essi hanno di
intimo,di necessario e di co stante; allora, entrando quei fatti nel dominio
della scienza,possono divenire obbietto di giudizii, le proprietà e le
speciali energie dei fatti naturali o psichiciosociali, ecc.allora possiamo
faregiudizii; perchè si hanno avvenimenti e fatti che sono sempre gli stessi
nelle stesse condizioni e si manifestano co stantemente ad un modo; ma se
narriamo le gesta di Annibale o di Alessandro, ciascun verbo che siamo
costretti ad operare non può essere il verbo di un giudizio; perchè esprime un
avvenimento singolo che non è stato prodotto che da quel tale individuo in
quelle sue particolari condizioni ed in quelle condi zioni di tempo,di luogo,in
quello stato speciale di un popolo,avvenimento che non può più riprodursi e
perciò il giudizio non si ha quando si deve espri mere uii fenomeno che non può
ripetersi frequente mente,che è avvenuto una volta e non piùequando non si vede
alcuna necessità del suo ritorno. In questo caso,più cheillinguaggioscientificoelogico,abbiamo
illinguaggio storico,ed allora,più che ilgiudiziosi ha la proposizione:cosi è
spiccata la differenza tra il giudizio e la proposizione:questo esprime gli
avve nimenti storici, quello i nessi logici. Il soggetto che giudica é
determinato dall'atto stesso del giudizio alla vitapratica.Ogni essere vivente,
dal l'animale infimo all'uomo, si sforza, come è noto, una condotta assai
elevata, presupponendo ciascun suo atto una molteplicità di giudizii;onde si
vede l'intimo rapporto che passa tra una grande intellettualità e la vita
pratica. ancora sottomettere ai suoi bisogni la natura esteriore, ed ogni
atto,ogni movimento che l'animale esegue,cer cando di fuggire il malessere e di
addurre a sè il benessere, presuppone una distinzione negli oggetti
concuièinrapporto.La formicachevaincercadel frumento, riconoscendo in questo la
proprietà di n u trire, non solo compie un lavorogiudcativo ma anche un atto
col quale manifesta tale lavoro psichico. In tutti i pericoli che gl’animali
schivano come in tutti i movimenti che fanno per prepararsi il nido o per
andare in cerca del cibo e per conservarsi, si possono riconoscere gl'atti che
presuppongono il giudizio, per quanto questo possa essere classificato tra i
giudizii meccanici. I psicologi in questo caso parlano d'istinto. Ma è sempre
l'istinto nel giudizio. In questo senso gli atti degli animali equivalgono ad
un linguaggio che esprime alcuni nessi logici, quantunque sia il lin guaggioin
una forma bruta e monca. Intuttigliatti che gli uomini fanno per raggiungere i
loro fini e la loro felicità si può riconoscere la conseguenza di un giudizio.E
si comprende come l'uomo eminente che ha una perfetta conoscenza delle cose
possa avere di Il soggetto può compiere sull'oggetto un numero grande di
giudizii secondo che pixi educato e svilup pato è ilsuo potere di scrutazione e
secondo che più complicata è la natura dell'oggetto. Cosi, vivendo e studiando,
la rappresentazione psicologica primitiva che il soggetto ha delle cose si
arricchisce di attributi e di qualità ovvero sirisolvein attributiiquali erano
primitivamente confusi in quel che dicevamo oggetto e che costituivano tutto
l'oggetto. Nondimeno durante e dopo questo processo di scrutazione l'oggetto
rimane sempre come qualche cosa in cui alcune qualità sono distinte ed altre
indistinte, potendo le qualità indi stinte ricomparire subito distinte secondo
che l'attività giudicatrice si rivolge su di esse ed allora le distinte
ritornano indistinte. Si verifica anche qui un'applicazione speciale di quella
legge psicologica secondo la quale in una data unità di tempo il soggetto non
può compiere che un lavoro limitato e,come non può scrutare che succes.
per la prima volta sipresentino allo studio del soggetto; in questi casi è la
legge generale che pre domina. Dopo che si è compiuto sopra un oggetto un n u
mero considerevole di giudizii non si deve credere che allora l'oggetto sia
conosciuto pienamente. Più chela conoscenza del soggetto, si ha allora la
conoscenza di un mucchio di note coesistenti; perchè, se il giu dizio è un'alta
funzione psicologica e lozica, non è però la più alta la quale si ha invece
quando tutte le note di cui l'oggetto risulta appariscono in esso come
organizzate, cioè si ha un organismo di giu sivamente un dato numero di
oggetti e di rappresen tazioni, per la stessa ragione non può compiere in una
unità di tempo e nello stesso atto psichico che un numero limitato di giudizii,
quantunque succes sivamente possano essere compiuti sopra un oggetto tutti i giudizii
di cui può essere suscettivo. Però non si può sconoscere che le abitudini della
mente possono arrivare ad un'altezza cosi meravigliosa:da conside rare come
compiuti una serie di giudizii che non si haavuto il tempo di compiere pacatamente
o di compierli in un breve atto: è il meccanismo che penetra nelle più elevate
regioni psichiche ed in cui si sem plifica, per mezzo della ripetizione, il
processo giu dicativo primario che è più lungo e difficile. Ma in questi casi
si deve trattare di compiere sempre giu dizii già compiuti altre volte o negli
stessi oggetti od in oggetti differenti già percepiti, non in oggetti che
dizii. In generale con la parola conoscenza si vuol dire non solo
l'apprensione e la ritenzione delle pro prietà dell'oggetto e degli oggetti in
connessione fra diloro,ma ancorailoronessiconlealtreproprietà dello stesso
oggetto e con le proprietà delle altre cose, a differenza del pensare e
delragionareincuisitiene pii conto dei nessi delle cose. Quando l'oggetto è un
mucchio di proprietà, queste aderiscono a quel centro comune che primitivamente
costituiva tutto l'oggetto indistinto in sè stesso;e,se si ha qui il grande
vantaggio che ciascuna nota e per mezzo dell'atto giudicativo connessa
all'oggetto, non si vede la ragione del coesistere di tutte queste qualità
nell'oggetto e non sivede alcuna ragione del l'incontro delle note fra di
loro.La parola mescolanin che usano i naturalisti quando vogliono indicare il
coesistereel'essere diparecchi corpi incontattol'uno dell'altro senza perdere
la loro natura corrisponde a questa sfera dell'obbietto logico in cui si
possono c o m piere molti giudizii sullo stesso obbietto, ma senza che l'uno
eserciti una preponderanza sull'altro,senza che l'uno abbia un valore superiore
all'altro,e perciò ciascun giudizio ha un valore per sè; e considerati tutti
fra di loro costituiscono una mescolanza. Quando il soggetto cominciaa
scorgerenella rapresentazione la proprietà più appariscente, quella sopra tutto
per la quale l'oggetto ha costantemente un valore speciale ed un uso,ed intorno
a questa nota costantemente si aggruppano, con nessi pi'i o meno 3. -
+1 intimi, altre note si principia a scorgere nell'oggettu i primi
rudimenti del sistema il quale può darsi non solamente tra le note dello stesso
oggetto, ma anche tra più oggetti, secondo il campo su cui si esercita
l'attività soggettiva. Intendere logicamente il sistema significa fissarlo nel
suo minimum primitivo ed in una forma più com plicata e seguirlo a mano a mano
sinoallaforma piiz completa in cui cessa di essere puro sistema e di venta
sistema funzionante, sistema di sistemi ed ganismo vivo. un si OL
L'intendimento del sistema è stata una delle pii grandi conquiste che ha fatto
il pensiero filosofico in generale ed il pensiero logico in particolare. Questa
parola che primitivamente ha significato la molte plicità scomposta delle cose
è stata ulteriormente usata ad indicare la molteplicità ordinata di esse. È la
filosofia di HEGEL che ha compreso il sis'ema nella sua forma più alta e come
non era mai stato fatto prima. Considerando Hegel l'universo come stema, si è
molto addentrato nella comprensione delle cose. E, come il sistema occupa una
gran parte cosi nel mondo della natura come in quello dello spirito, perchè
interviene in ogni grado di essi e senza il si stema nessuna cosa potrebbe
intendersi, cosi costi tuisce anche una sfera del mondo logico, tanto che senza
di esso non potrebbe intendersi il concetto che rappresenta in sommo grado
l'energia logica. Il sistema nella sua forma primitiva trova il suo
In questa forma primitiva il sistema apparisee, anche al soggetto
superiore, nel regno minerale ed inorganico od anche in tutto ciò che l'uomo,
serven dosi di materiali bruti ed amorfi, foggia pei suoi bi sogni; poichè qui
si hanno sempre forme inferiori di sistema.Qui le qualità connesse al sistema
sono co stanti finchè dura l'oggetto; non hanno una energia superiore a quella
meccanica, fisica o del chimismo inferiore od inorganico. Il sistema solare
presenta una forma più perfetta di sistema;perchè esso presenta una
molteplicità,un centro ed una periferia e gli uni di cui risulta sono di visi
fra di loro e dal centro per mezzo di grandi tratti di spazio e sono uniti al
centro del sistema riscontro nel regno minerale; il sistema della seconda
forma trova il suo riscontro nel regno della vita; ma anche qui si riproduce, quantunque
trasformato, il sistema della prima maniera. La forma più rudi mentale di
sistema si ha quando ilsoggetto aggruppa intimamente intorno alla nota più
importante dell'og getto altre note secondarie od intorno ad un oggetto
principale altri oggetti di secondaria importanza fra i quali passino rapporti
più o meno estrinseci. È questo il sistema quale apparisce alla soggettività
volgare la quale non sa considerare l'oggetto diver samente anche quando ha
dinanzi a sè un sistema nella sua più alta forma quale può apparire allo scien
ziato. per legge di gravitazione. Per quanto si osservi qui in la
alto grado di sistema, perchè ciascuno degli elementi non è autonomo,ma
connesso al centro, pure serva tra le parti di cui il sistema risulta una
grande estrinsechezza. Per trovare una più elevata forma di sistema dob biamo
entrare nel regno della vita e nei tessuti che co stituiscono l'organismo
animale o vegetale;ma anche qui il sistema si presenta in una grande e meravi
gliosa graduazione; perchè se in questa sfera gli ele menti che devono
intervenire non sono, si os non sono, come nelle
formeprecedenti,esseriinorganici,ma entidotatidi vita e di una più o meno
grande energia interiore e non sono divisi fra di loro per mezzo di distanzepiù
o meno grandi,ma sono in qualche modo in contatto fradiloro, ilcentroperò che
deve implicare ilsi stema non è sempre determinato, anzi non vi è nei sistemi
dei tessuti vegetali o nei tessuti di un'impor tanza inferiore degli
animali,comeperesempio iltes sutograssosoedil connetti vale. Per questa ragione
ė più perfetto quel sistema in cui gli elementi istolo gici che sono dotati di
vita sono non solamente con nessi od in contatto fra di loroma anche unitiinuna
comunione funzionale e che vi sia un centro ove con vergano le attività degli
elementi e che l'energia fun zionale dal centro s'irradii anche verso la
periferia. E, come vi è una sola funzione, quantunque assai multiforme, che
circola pel centro e per le parti che, per contrapporle al centro, possiamo
chiamare peri feria, vi deve anche essere la stessa identità di co
stituzione chimica tra gli elementi istologici di cui risulta il sistema.
I biologi distinguono il sistena dall'apparecchio il qnale consiste in un
complesso di organi di varia struttura, ordinatiinmodo fra diloroda
compiere'una: funzione di complessa natura.Cosisidice apparecchio respiratorio,
uditivo, visivo, ecc. Inteso l'apparecchio in questo senso, ha una importanza
logica intermedia tra l'organo ed il sisteina, superiore a quello, infe riore a
questo. Ma un siste.na della vita non ha che una funzione speciale e non
autonoma; perchè è connesso agli altri sisteini e non può compiere questa
funzione senza l'in tervento e l'aiuto di altri sistemi. È qui che l'auto nomia
del sistema principia a venir meno; perchè cia. scun sistema non fa che
compiere una funzione spe ciale in un sisteina che conprende tutti i sistemi
della vita, ciò che s'indica col no.ne di organismo. Anche dicendo sistema di
sistemi si dice sempre meno di quel che dice la parola organismu, la quale
include una grande intimità e reciprocità funzionale tra i singoli sistemi e
tra gli elementi istologici di cui risulta il sistema. Da questo punto di
vistasesideve riconoscere che il sistema circolatorio sanguigno sia un grande
si stema si deve però ammettere che non vi è nell'orga nismo un sistema più
compiuto del nervoso, sia per la elevatezza della funzione che per la
meravigliosa struttura e per la ricchezza e bellezza delle forme che esso
presenta. Nel sistema una parte può venire sottratta senza
cheilrestodies30vadainrovina;maun organo qualunque dell'organismo non può
essere tolto senza che l'organismo non perda una nota fondamentale della vita,
la quale induce una diminuzione generale della perfezione organica e funzionale
e se l'organo ha una importanza grande nell'organismo adduce la caduta o la
morte di esso. La parola fisiologismo adoperata nel senso moderno (non nel
senso antico e greco secondo il quale signi fica semplice attività naturale)
contrassegna la nota più saliente dell'organismo che è la vita animale.Però il
fisiologismo non è una sfera naturale autonoma ed indipendente dalle altre zone
inferiori naturali; in esso -46 Sipuò dire che solamente in questo
secolo,pei grandi progressi che si sono fatti negli studi sulla vita in senso
largo, si è potuta comprendere la grande importanza dell'organismo. Quando si
dice che l'uni verso èun organismosivuole indicare un fattodiuna natura assai
più complessa ed elevata che quando si dice che esso è un sistema. Quegli
elementi che nel sistema diciamo parti nell'organismo diventano organi
iqualisono, è vero, parti, manonconnessialresto più o meno estrinsecamente,
come avviene nel sistema ordinario; e sono elementi attivi e funzionanti pel
resto dell'organismo tanto che contribuiscono grandemente a tutta l'energia
dell'organismo e viceversa, questo dà ad essi un alto significato che, fuori
dell'organismo, non avrebbero. Ilchimismo, quantunquerappresenti una
seriedi fatti inferiori a ciò che costituisceilfisiologismo,pure costituisce
parte integrante di questo, cosi nel senso scientifico come nelsenso
logico,tanto che senzachi mismo non potrebbe darsi fisiologismo; poichè non vi
è funzione fisiologica la quale non implichi una serie di complicazioni e
riduzioni chimiche. E, poichè non vi è fatto chimico che non implichi nello
stesso tempo fatti meccanici e fisici; il fisismo èparte integrale del
chimismo,cosi scientificamente come logicamente,e per conseguenza anche
dell'organismo. Ed il fisismo si trova nel fisiologismo non solo come assorbito
dal chimismo, ma anche come indipendente da questo. Cosi nell'organismo, oltre
ai fatti chimici si trovano fatti anche puramente fisici, quantunque questi si
tro vino in complicazione coi fatti chimici e fisiologici; ma però il soggetto
può fissarlied isolarli dagli aitri fatti e considerarli come puramente fisici.
Avviene cosi nell'organismo logico quel che avviene nella natura in generale in
cui le zone inferiori sono ciascuna autonoma e per sè e nell'istesso tempo in
al troeper altro.La meccanica e la fisica rappresentano invece sono
implicate il chimismo ed il meccanismo ofisismo (adoperando anche questa parola
nel senso moderno non nel senso antico secondo il quale vorrebb e indicare
semplicemente il fatto naturale. Si sa che la fisica moderna studia solamente
alcuni fatti della n a tura, come la gravità, il calorico, la dinamica, l'elet
tricità,la luce,la vibrazione dei corpi,ecc.). alcuni gradi della
natura dove si manifestano in tutto il loro potere.Ed anche la chimica è una
zona per sé della natura,ma frattanto in questa devono ne cessariamente
intervenire le sfere precedenti, mecca nica e fisica, altrimenti non potrebbe
sussistere come chimica.E similmente i fatti più complessi della na tura quali
sono la vita vegetale ed animale non po trebbero sussistere senza le due zone
precedenti; giac chè non vi è fenomeno vegetale ed animale senza che
v'intervengano fatti fisici e chimici. Ifisiologi,inquestiultimitempi,avendo
riscon trato fatti meccanici nell'organismo ed una certa so miglianza
dell'organismo al meccanismo, si sono stu diati a tracciare le differenze che
passano tra l'orga nismo ed il meccanismo ed hanno conchiuso che l'organismo non
è un meccanismo. Per quanto giuste sieno state le osservazioni fatte, pure
avrebbero rag. giunta una più vera conoscenza dell'organismo se avessero detto
che esso implica ilmeccanismo, quan tunque il meccanismo che si trova
nell'organismo non sia come quello che si trova nei congegni meccanici, ma
trasformato e complicato dai fatti della vita;ondeé sempre una sfera
dell'organismo. 18 Nel campo psicologico si raggiunge la sfera della
perfezione quando l'anima èdivenuta organismo degli stati suoi, di sè stessa e
dell'oggetto, ciò che è la mente; e non si raggiunge questo punto senza essere
passati pel meccanismo psichico prima e pel chimismo poi;enondimeno queste due
formediattivitàpsichica esistono sempre nella mente come due sfere
subordi nateefondamentali per essa,tanto che quando l'or ganismo mentale
comincia a decadere, permanentemente o temporaneamente, ricomparisce il
chimismo prima e poi gradatamente il meccanismo come forme autonome
psichiche,e,quandoperunaincompiuta educazione psicologica,l'uomo non raggiunge
la mente, si arre sta al chimismo. Il meccanismo psichico pure contras segna la
vita animale e l'ultimo stadio di decadimento della mente già compiuta. La
parola organismo trova più propriamentelasua applicazione, che non la parola
sistema, quando si vuole significare in modo saliente quel che sia la famiglia,
la società o lo Stato.La molteplicitàdegliin dividui funzionanti di cui una
società risulta,l'essere questi individui animati da un fine comune che è lo
spiritonazionaleecheècomeilcentrodelle individua lità,la varietà di classi,di
funzioni, di aspirazioni, di attività in cui si possono scorgere tanti fini
secon dari o aspetti speciali e necessari del fine comune,onde non tutti
gl'individui partecipano all'istesso modo al raggiungimento di questo fine,
ilpermanere dello spi rito nazionale mentre gl'individui che vivono in esso e
per esso muoiono erinascono, fa diuno stato un or ganismo assai più complesso e
di un'assai più elevata natura che non l'organismo animale. E più lo stato ė
organico in questo senso e più è perfetto. Si può dire anzi che,dal primo
costituirsi dello stato sino allo stato come può essere ai giorni nostri, si
nota una tendenza a raggiungere la forma perfetta della orga nicità.
Quando si parla di organismo, sia che si tratti del l'organismo vegetale od
animale, che dell'organismo etico sihad'innanziunaltro fatto più complesso che ne
rende più difficile la conoscenza ed è che l'organismo non può essere
conosciuto in sè stesso se non è messo in relazione con tutto ciò che lo
circonda. La pianta non può essere conosciuta se non si conoscono le sue
relazioni con l'aria,col terreno,col calorico, ecc.La vita animale non sipuò
conoscere pienamente se non si vedono irapporti che la legano al cibo che
rappre senta il mondo esteriore, all'atmosfera, al clima, al luogo.Sisa che
l'animaleassorbisce qualche cosadal mondo esteriore e lo rende ad esso per
altri modi e per altre vie.Anche gli organismi etici non possono sussistere
senza un ambiente non solo naturale, ma anche etico. Uno stato non può esistere
senza il suo territorio,senza un determinatoclima,senzaiprodotti delsuolo,come
non pno aver una vita spirituale propria senza assimilarsi il pensiero degli
altri stati, senza essere in rapporto con essi e senza esercitare un'azione
sugli altri stati. Il soggetto, passando dall'oggetto in cui questo è una
mescolanza a quello in cui è un sistema ed a quello in cui è un organismo,
compie un lavoro giu dicativo chimico progressivamente intenso.Conseguen
temente larappresentazione dell'oggetto sidetermina sempre più e diventa anche
essa sistematica ed or Perchè si
abbia il concetto logico le note di cui il concetto risulta devono essere
comprese tutte nel loro organismo, di ognuna di esse deve vedersi la neces sità
e l'importanza; poichè se di qualche nota non si sa vedere la necessità, cioè
se non si vede diessa la connessione al tutto e dalle parti o agli altri organi
od alle altre parti dell'oggetto, mediante un giu dizio intimo od una serie di
giudizii, non si ha più ilconcettologico; siha allorala rappresentazione
logica. Sicchè la rappresentazione logica si ha non solamente quando delle
proprietà che costituiscono l'oggetto una o parecchie sono viste nella loro con
nessione intima con esso e le altre sono viste acci dentalmente, ma anche se
l'oggetto è compreso,nella maggioranza delle sue note, nel suo sistema e nel
suo organismo e solamente una nota di esso non è vista nel sistema o
nell'organismo, non si può dire che si abbia allora la conoscenza compiuta
dell'og getto;sihasempre una conoscenza inferiore cheè ganica non solo in
sè stessa, ma anche in connes sione con altre rappresentazioni; cosi anche a
mano à mano la rappresentazione bruta e puramente psico logica diventa
rappresentazione logica. Ma quando l'oggetto o la rappresentazione di esso è un
sistema od un organismo, allora siamo innanzi ad una nuova zona logica che è il
concetto che vuol dire conoscenza sistematica ed organica delle cose. Cosi si
può fare una distinzione precisa tra la rappresentazione logica ed il concetto
logico. Poichè la conoscenza sistematica ed organica del l'oggetto è
l'ultima a raggiungersi dal soggetto,s'in tende che prima di averlo pienamente
raggiunto, un certo numero di note ha dovuto essere considerato come
inesplicato od accidentale e non è stato espli cato se non dopo un ulteriore
studio del soggetto. La perfetta conoscenza di un oggetto o di un fatto può non
essere stata raggiunta dall'individuo che pensa;ma può possedersi dagli
scienziati o conser varsi negli annali della scienza; può ancora non es sere
stata raggiunta dagli scienziati. In tutti e due questi casi si è nella sfera
della rappresentazione lo gica, non del concetto. Finora i logici non han fatto
distinzione tra r'ap presentazione e concetto ed han contrassegnato l'una e
l'altro insieme con la parola idea. Si sa che la pa rola idea è stata
largamente usata dai filosofi greci, dai filosoa del Medio-Evo e del
Rinascimento e dai filosofi moderni e contemporanei. Quantunque dallo studio
delle opere di Platone e di Aristotele appari sca che questi due grandi
filosofi abbiano bene di stinto quel che ora si dice conoscenza rappresenta
tiva dalla conoscenza perfetta delle cose,la opinione dalla verità,pure
essi,usando la parola idea, pare 32 la rappresentazione logica. In questo
caso una o pa recchie note sono considerate come inesplicabili ed accidentali,
mentre le altre sono considerate come ne cessarie ed esplicate (la nota
esplicata è la nota con nessa all'oggetto mediante l'atto giudicativo).
che non abbiano tenuto conto di questa distinzione e l'abbiano invece
adoperata per indicare indistinta mente l'una cosa e l'altra: ciò che,
trattandosi di un fatto di tanta gravità per la scienza, non può non ingenerare
confusione ed equivoci nella mente del lettore. Gli stessi equivoci hanno
sostenuto, adoperando la parola idea i filosofi del Medio-Evo, del Rinascimento,
i filosofi moderni e contemporanei. Non si deve però noverare tra questi HEGEL
il quale frequen:emente nei suoi libri accenna alla differenza che deve pas
sare tra la rappresentazione e la nozione od il col cetto. E se è vero che
anche egli fa moltissimo uso della parola idea, l'adopera però per indicare il
si stema od i vari gradi del sistema dell'universo; ed in questo caso è chiaro
che la parola idea deve corri spondere al concetto. Ma, anche posteriormente
all'Hegel,ilogici, ado perando la parola idea, non han creduto necessario
dichiarare se essa deve corrispondere alla rappresen tazione od al concetto;
però nel fatto l'hanno adope rata per indicare l'una cosa e l'altra
indistintamente come si vede dai trattati di logica che circolano per le scuole
di tutte le nazioni. E vi sono anche alcuni logici che adoperano promiscuamente
le parole idea e concetto;ma non si può dire che la parola concetto che essi
usano corrisponda a quel che si è detto do vere essere il concetto, anzi,
stando a certe divisioni che essi ne fanno, si deve conchiudere che per concetto
essi intendono la rappresentazione. Cosi essi, tra le altre divisioni dei
concetti, ne fanno una in concetti chiari ed oscuri,distinti e confusi, completi
ed incompleti; ma un concetto che sia oscuro o con fuso od incompleto deve
essere una rappresentazione non un concetto. Per l'uso equivoco che della
parola idea si è fatto per tanti secoli e perchè può ancora ingenerare con
fusione nella mente, sembra necessario il non doverla più adoperare,tanto più
che le parole rappresentazione e concetto,che sono anche esse due parole
classiche, corrispondono benissimo a distinguere due gradi dif ferenti di
quello che i logici hanno indicato con la parola idea. La parola concetto
ha nella lingua latina ed ita liana un significato assai profondo e complesso;poiché
esprime l'ultimo e più compiuto risultato di un pro cesso, di una serie di avvenimenti
i quali hanno avuto il loro punto di partenza in un fatto che è il loro
presupposto necessario e la loro possibilità.E questi avvenimenti devono essere
legati fra di loro con legame tale di successione che ciascuno di essi non può
rappresentare che un dato grado del processo, non può prodursi cioè prima che
si sieno dati altri gradiod avvenimenti più o meno elementari che esso pre
suppone e da esso devono prodursi altri gradi più c o m plessi i quali menano
al pieno risultato del processo. Cosi si vede che la parola concetto include w
a storia e che questo processo concettuale si riscontra non solo nella natura, nel
suo insieme, ma anche in ogni grado di essa con questo diparticolare che più ci
eleviamo nelle sfere alte della natura, quali sono la sfera della vita e
dell'umanità,più questo processo. lin si esegue compiutamente e,
relativamente, in breve tratto di tempo ed ogni proprietà di ciascuno entedi
queste importanti zone della natura compie insieme con le altre proprietà una
storia. Quel processo che avviene nella vita dell'animale e della pianta
risponde bene a quel che è un concetto. Si sa che la pianta ha il suo punto di
partenza nel germe che può considerarsi come il grado infimo di essa,di là dal
quale non vi è nulla della pianta. Partendo dal germe la pianta attraversa una serie
di gradi,lo sviluppo delle foglie e la trasformazione di esse nel fusto, nei
rami, nei fiori e nel frutto che racchiude il seme, ciò che segna il grado ed
il limite ultimo dell'esistenza della pianta; onde essa parte dal germe e
ritorna al germe. Si può dire che nel germe sono implicati tutti i gradi della
pianta e che il grado che segue alla trasformazione del germe lo include come
un presupposto necessario e cosi pos siamo dire del grado successivo
relativamente ad es:a. È stato dimostrato che il fiore è una trasformazione
della foglia ed il frutto è una trasformazione del fiore e perciò anche della
foglia e che anche il seme sia una foglia trasformata; onde nel frutto sitrova
come un grado ad un presupposto necessario il fiore e perciò anche la foglia,
all'istesso modo che nel fiore sitrovalapossibilitàdelfrutto.Ora lastoria com
piuta della pianta si ha quando essa attraversa tutti questi gradi e si
considera uno di essi come quello a cui mirano i gradi precedenti, cioè il
frutto ed allora 56 possiamo dire di avere il vero concetto
della pianta. Cosi quando diciamo concetto diciamo anche sviluppo. Da ciò si
vede che il processo del concetto che è il concetto stesso delle cose non deve
essere inteso come una progressione aritmetica.Da un grado non sipassa all'altro
mediante una aggiunzione di qualche cosa a -- Ma gli avvenimenti di cui
risulta il concetto non solo devono essere legati fradi loro pel nesso di suc
cessione ma anche pel nesso di coesistenza; giacchè, quando il concetto è
dato,esso rappresenta un com plesso di avvenimenti o di proprietà le quali ha
con quistato e conservato nel suo processo,di cui ciascuna è necessaria, benchè
non necessaria all'istesso modo chelealtre,perl'attualitàdelconcetto;enon po
trebbe mancare senza che il concetto venisse sconvolto o degradato. Però
bisogna bene intendere questo conservare che il concetto fa delle proprietà che
acquista, nell'at traversare tutti i gradi necessari prima di attuarsi
pienamente; giacchè le proprietà di un grado non sono conservate come precisamente
tali nel grado seguente, ma sono conservate ed insieme trasformate e
complicate. Cosi nel fiore non abbiamo la somma delle qualità della foglia
insieme con quelle del fiore; ma le qualità della foglia si sono trasformateinquelle
del fiore, di modo che vi si conservano ma non come puramente tali,son divenute
cioè proprietà nuove.E questa trasformazione avviene in tutti i gradi che il
concetto attraversa. qualchecosaltro il quale, dopo l'aggiunta,rimanga come
puramente tale insieme con la cosa aggiunta, di modo che l'ultimo grado possa
essere considerato comelasommadeigradiprecedentiedincuiigradi precedenti si
conservino come puramente tali. In vero iprimi filosofi hanno compreso il mondo
come una progressione quantitativa;peressilaveritàdelle cose non era che un
risultato di una moltiplicazione o di una sottrazione dell'istesso principio
naturale; e l'esplicazione dell'universo dal punto di vista m a t e matico e
quantitativo è stato quasi sempre tenuto di mira dai pensatori e dagli
scienziati. Anche aitempi nostri in cui le scienze particolari possono dare
larghi contributi per arrivare ad una concezione organica delle cose e
dell'universo, è sempre il punto di vista quantitativo che esercita le più
grandi attrattive su gli scienziati, anche quando si tratti di argomenti i più
complessi ed ipiù remoti dalla quantità pura,come la vita sociale o nazionale o
la vita organica; si sa che anche ai giorni nostri ilcervello,come organo
supremo dellavitaorganicaementale dell'uomo, sicrede non po tersi altrimenti
intendere che considerandolo dal puuto divistaquantitativo.Ma ènotoche Platone ed
Aristotele avevanointravistochelamatematicaedilnumero sono insufficienti per la
comprensione piena delle cose e che l'Hegel e VERA, apiùriprese,hanno molto
insi stito nel far vedere l'importanza limitata della mate matica nel sistema
dell'Universo e nel far vedere che il sistema delle cose non può essere
compreso che dal punto di vista qualitativo e specifico il quale
però presuppone come un elemento subordinato la mate matica, ciò che è ben
diverso. a numero, quantità a quantità, mentre la chimica va
dall'identico al non identico, che è il vero processo delle cose. Il processo
chimico non esclude il processo matematico;perchè non può esservi processo
chimico senza il processo matematico; si sa che la chimica procede aggiungendo
atomi ad atomi, molecole a molecole, ciò che è processo quantitativo e, mentre
nella sfera della quantità, aggiungendo quantità a quantità, questa è
semplicemente aggiunta o sovrapposta a quella la quale,dopo questa nuova
aggiunzione, nulla acquista enulla perde della sua natura qualitativa
primitiva; aggiungendo all'in contro chimicamente atomi o molecole specifiche
ad atomi ed a molecole specifiche, viene come risultato un corpo avente
proprietà nuove, tutte diverse dalle proprietà che avevano gli elementi di cui
si compone il nuovo corpo. Si sa che l'idrogeno e l'ossigeno di cui sicompone
chimicamente l'acqua hanno proprietà diverse dalle proprietà che ha l'acqua. E
ciò si può dire di tutti i corpi composti relativamente ai corpi semplici di cui
risultano.È questo illato importante e meraviglioso del processo chimico. Noi
crediamo che il principio chimico, la cui importanza è sfuggita agl’antichi e
si è vista solo ai tempi moderni, possa, più del principio matematico,
esprimere bene il vero svolgimento delle cose; giacchè la matematica procede
dall'identico all'identico, aggiungendo numero a numero, Sembra ora
assodato dalla scienza chimica che l'immensa varietà dei corpi composti
inorganici ed organici si possano tutti scomporre in quei pochi e determinati
corpi semplici ora conosciuti. Ebbene, in qual modo con cosi pochi corpi
semplici si possono ottenere corpi innumerevoli con proprietà differentissime
gli uni dagli altri? Semplicemente mutando le disposizioni chimiche o molecolari;
od aggiungendo semplicemente una molecola di un nuovo corpo a molecole
costituenti prima un altro corpo o moltiplicando una molecola specifica di un
corpo composto di determinate molecoleo sottraendone alcune ad alcune. È questo
processo che ci dà corpi di natura tanto differenti e diversi. Ma se la
chimica occupa un largo campo nella natura, dalla materia prima alla materia cher
aggiunge la più alta forma complicativa, alla sostanza nervosa, dappertutto
nella natura essendo vi più o meno lente e continue complicazioni o semplificazioni
chimiche, il principio però chimico, quello secondo il quale di due o più cose
od elementi che si uniscono si forma un nuovo grado il quale ha proprietà nuove
e differenti da quelli dai quali risulta, rimane non solamente nella natura ma
anche nella storia delle cose naturali ed in quelle dello spirito. L'ANIMALE
non s'intende aggiungendo alle note che costituiscono LA PIANTA, la sensibilità
ed il movimento; e se è vero che ALCUNE QUALITÀ DELLA PIANTA SI TROVANO
NELL’ANIMALE, queste hanno assunto una natura tutta nuova nell'ANIMALE, tanto
che, rigorosamente parlando, ciò che costituisce LA VITA DELLA PIANTA non si
rinviene punto COME TALE nell'ANIMALE; perchè quelle note che costituiscono la
pianta sono nell'animale elevate ad una nuova zona e vivificate e complicate e
moltiplicate da una nuova vita. La nutrizione dell'animale è tutta differente
dalla nutrizione della pianta, all'istesso modo che la struttura organica della
pianta differisce dalla struttura animale. Ciò porta necessariamente una differenza
notevole nella storia della pianta ed in quella dell'animale. Sicchè tutto è
nuovo nell'animale relativamente alla pianta e si ha nell'animale una nuova e
complessa serie di proprietà tutte differenti dalle proprietà vegetali. Cosi
una proprietà che si aggiunga modifica tutte le altre proprietà, come fa la
sottrazione di una data proprietà o funzione nell'animale. Nella storia
organica e psicologica del REGNO ANIMALE troviamo dominare lo stesso principio.
Giacche, se vi è una vasta scala di specie animali, in ciascuna specie la
modificazione di una data proprietà organica e psichica, relativamente ad altre
specie, adduce con sė una corrispondente trasformazione di tutte le altre
proprietà organiche, funzionali e psichiche. Cosi la forma esteriore degl’animali
non è indifferente al loro grado di energia funzionale e di energia psichica. La
sensibilità è varia secondo le varie forme organiche, secondo le varie forme di
sistema nervoso. I movimenti sono vari secondo che è varia la sensibilità ed è
vario il sistema schelettico ed il sistema muscolare. Una Inoltre
l'individuo come tale ha attribuzioni che non -varietà organica dunque
non si ha senza avere unà varietà di tutte le altre proprietà e funzioni
dell'animale; cosi di ogni proprietà animale. Si sa inoltre che alla VITA di
uno stato devono con correretante condizioni, tanti fattori. Ma c'inganniamo se
crediamo che ciascuna condizione non eserciti secondo il suo grado alcuna
azione determinante su tutte le altre condizioni e perciò su tutta la vita
nazionale. La ricchezza non è nè il solo fine né il solo fattore di una nazione.
Ma uno stato ricco può avere un gran mezzo per creare condizioni necessarie ad
elevare lo spirito di una nazione in tutti i suoi aspetti, a far felice la fa
miglia e gl'individui; e d'altra parte uno spirito nazionale elevato trova
molte vie aperte all'acquisto della ricchezza. I grandi individui
contribuiscono a far grande una nazione e d'altra parte sono le grandi nazioni
che fanno le grandi individualità. Un'alta vita reli giosa non può intendersi e
compiersi che nelle grandi nazioni e d'altra parte lo spirito religioso dà un
ele vato contenuto all'arte,allaletteratura, spingegliuo mini alle
investigazioni scientifiche e filosofiche, può dare indirizzi nuovi alla vita
politica, commerciale, economica dei popoli, può dare un'impronta speciale a
quel che sidice spirito nazionale. Ciascun fattore della vita sociale dunque,
mentre è modificato dagli altri fattori, dal loro grado di energia o di
decadimento, contribuisce a modificare,svolgendosi,quale che sia il suo grado,
gli altri fattori. ha come faciente parte della famiglia in cui acquista
nuove e più alte qualità,onde,senza il sacrifizio e senza l'abnegazione
dell'individuo,lafamiglianon può vivere una vita rigogliosa. Cosi le
attribuzioni della famiglia sono differenti da quelle dello stato, quan tunque
senza la famiglia lo stato non potrebbe essere, essendo questo costituito di
una moltitudine di fa miglie e perciò d'individui, i quali nello stato acqui
stano nuove e più alte qualità; onde nello stato le famiglie e gl'individui non
sono come sono fuori dello stato, Il principio chimico domina cosi la vita
della n a tura e dello spirito,non ilprincipio matematico, quan tunque la
chimica implichi e presupponga lamatema tica senza la quale né il chimismo, nè
la natura, nè lo spirito stesso potrebbero essere.Onde,sepuò dirsi che il
chimismo è lo schema dell'organismo delle cose, la matematica può dare lo
schema quantitativo del chimismo e per conseguenza dellecose; ma perquesto è
più lontana che non la chimica dalla realtà che non può intendere e che è sopra
tutto qualitativa; ed è la chimica che fa intendere il concetto e che costi
tuisce la seconda zona logica e che è parte integrante della vita del concetto
più che la quantità la quale può corrispondere alla prima zona logica.
S'intende che qui si parla del chimismo logico, non della chi mica come sfera
della natura, la quale ha anche essa il suo concetto, come qui si parla della
matematica come principio logico;non della matematica come sfera
speciale del pensiero e delle cose; poichè come tale ha anche essa il suo
concetto. Sicché non si nega che la matematica possa dare un certo schema della
realtà e che perciò non sia una certa logica; si afferma solamente che essa ci
dà uno schema assai povero della realtà, che non ce la fa intendere. In vero la
logica classica non è stata che la logica matematica e se vi sono oggi dei
logici i quali, coltivando la logica intesa matematicamente, credono di
coltivare una nuova logica, essi s'ingannano, quantunque però diano nuovi
svolgimenti alla vec chialogicalaquale,se nonpuòesserelalogicadella vita e
dello spirito,può essere però la logica delle sfere inferiori della natura, della
meccanica, in tutti i suoi gradi, e della fisica intesa come grado della natura
in generale. Si sa che tutti i fatti meccanici e fisici possono ridursi a
formole matematiche, quan tunque allora non saranno la meccanica e la fisica
che ci guadagneranno, le quali sono sfere molto più con crete e ricche che le
matematiche pure; onde,ridotti i fenomeni meccanici e fisici a schemi
matematici, essi perdono la loro concretezza, perchè sono semplificati (le cose
non potendo essere intesa che dal punto di vista semplificativo
ecomplicativoinsieme;onde,s'in tende la meccanica e la fisica non solamente
quando sono intese matematicamente, ma quando sono intese matematicamente ed
insieme meccanicamente e fisica mente; in quel caso guadagna però la matematica
la quale estende i suoi confini). I fatti però meccanici e fisici
dell'organismo non sono cosi facilmente riducibili a schemi matematici; non
avendosi allora il meccanismo ed il fisismo puro od inferiore, ma ilmeccanismo
ed ilfisismo come gradi dell'organismo,onde quei fatti sono allora determi nati
da cause chimiche ed insieme fisiologiche e per ciò sono di una provenienza
oscurissima e complica tissima; perchè il fatto meccanico o fisico può essere
effetto di moltissime e svariate condizioni organiche e sono nello stesso tempo
effetto e causa di altri fe nomeniorganici.Cosisipuòdiredei fenomeni psi chici
e sociali; onde, per quanti sforzi la matematica faccia per entrare in questo
regno, essa non potrà impadronirsene mai, potrà però calcolare matematica mente
i fenomeni estrinseci di essi.Ciò conferma sem pre più il principio che non può
essere la matema tica lo schema della realtà; ma è il chimismo. Aristotele, il
primo grande logico dell'antichità e quasi il fondatore della logica, le cui
dottrine per secoli hanno doininato e dominano ancora nelle scuole, perché non
si possedeva ai suoi tempi una conoscenza profonda della natura e dello spirito
come si possiede ora, non poteva darci che la logica quantitativa che si può
considerare come il grado primitivo e più ele È lo studio profondo dei
fenomeni biologici come in gran parte è stato compiuto ai nostri tempi, che può
farci vedere la grande importanza del processo logico chimico per raggiungere
il vero concetto delle cose;e ciò non era possibile prima dei nostri
tempi. mentare della logica. Hegel poi può dirsi il fonda tore
della nuova logica più per avere fatto vedere l'insufficienza della logica
classica ad intendere la realtà anzichè per averci dato compiuta la nuova lo
gica;e ciò perchè anche ai suoi tempi gli studi na turali e biologici non
avevano raggiunto quell'alto grado cheraggiunsero posteriormente. Nondimeno
l'ap parire della logica di Hegel segna nella storia un'e poca
grandiosa;poichè,per mezzo di essa sono state poste le basi e si sono fatti i
primi passi della lo. gica reale come può aversi e svolgersi ai nostri tempi.
Inteso il concetto come l'ultimo risultato del pro cesso storico e chimico
delle cose non ha più quel l'importanza che ha nella logica classica il
capitolo della comprensione e della estensione dei concetti, in cui il concetto
è inteso solo quantitativamente. Bisogna distinguere il concetto che sta per
co.n piersi dal concetto compiuto; quello può essere chia mato concezione o
concepimento che indica appunto l'atto del compiersi del concetto. Ora
nell'atto che il concetto si forma attraversa vari gradi di cui cia scuno, se è
considerato come arrestato nel suo c a m mino,può essereconsiderato come
unconcettopersė; e si considera come grado di un altro concetto se as sume
qualità e forme nuove di esistenza tanto che puòcorrispondere adun concettopiù
compiutodiesso; ed in questo caso esso fa parte della concezione o del
concepimento del nuovo concetto; e ciò può dirsi di ogni
concetto. Considerando da questo punto di vista l'universo, si scorge
facilmente che ogni sfera,ogni grado di esso è insieme concepimento e concetto,
cioè è assorbito e complicato chimicamente in un concetto più alto e nello
stesso tempo può essere considerato come un con cetto in sè. Questo duplice
fatto forma dell'universo un vasto sistema e nell'istesso tempo un grandioso
organismo;perchè ciascun concetto è in sè e per sè ed insieme in altro e per
altro. conce Questo principio si osserva con evidenza in tutte le zone
delle mondo della natura. I minerali ed i feno meni fisici sono insieme in sè e
per sè in una deter minata zona della natura (concetti); ma essi sono per la
chimica relativamente alla quale sono pimento.Cosi la chimica rappresenta anche
una de terminata zona del mondo naturale;ma, mentre è in sè, e perciò è un
concetto, è anche concezione;perchè la chimica è per la vita della pianta e
dell'animale e perciò, mediatamente,anche ilminerale è per lavita. Nel regno
della vita questo processo diconcepimento continua; perchè, quando è data la
forma infima della vita vegetale, si passa da forme vegetali semplici a forme
gradatamente e successivamente più complesse sino all'ultima forma vegetale che
potrà dirsi la più compiuta.In questo processo quei gradi che inatura listi dicono
specie rappresentano appunto la conce zione della pianta;per cui ciascuna
specie èinsieme concetto e grado del concetto superiore.Lo stesso può dirsi
della pianta relativamente all'animale e del mondo della vita animale in
generale. Quando si considera l'uomo nell'ordine della natura sembra che in
lui si abbia l'ultimo risultatodellastoria e del processo naturale; ma d'altra
parte l'uomo non è per sè solamente; perchè egli è quel che è per la famiglia e
per lo spirito nazionale che egli contribuisce a formare ed in cui vive e si
muove,all'istesso modo che lo spirito nazionale è per Dio che è il puro per
fetto spirito in cui perciò si ha il vero concetto ed a cui tutta la concezione
dell'universo aspira; perchè Dio non è più per altro ma per sè ovvero ė inaltro
per sè; e tutta la vita ed il movimento della natura e dello spirito terreno
non sono che un processo di ele vazione a lui e fuori di lui non sarebbero e
non po trebbero esplicarsi. Cosi vi è un solo concetto e l'universo è una serie
di concepimenti che sono relativamente concetti.E questi concetti costituiscono
un processo di compli cazione che è chiuso tra due limiti estremi, il massimo
ed il minimo. Il limite minimo si ha nell'elemento primo della naturaeperciò
del pensiero,diqna dal quale vi è il sistema e l'organismo dei concetti, di là
dal quale vi è il nulla della natura e del pen siero. Come tale questo limite
minimo dei concetti può essere concepimento od elemento del concetto che segue
ma non concetto.Il limite massimo ècostituito dal concetto assoluto, di là dal
quale vi ha del pari il nulla e di quà dal quale vi è tutto ilsistema e l'or
ganismo dei concetti. Ciò posto i concetti sono nella natura e nello spi
Le cose sono cosi in se stesse, obbiettivamente, con cezione e concetti; ed il
soggetto, volendo conoscerle, deve seguire lo sviluppo di ciascuna di esse, dal
suo primo ed infimo grado sino alla sua più compiuta realtà;deve seguire il
processo del formarsi e del trasformarsi delle proprietà costituenti l'oggetto
che siconcepiscesinoalsuoultimostato,come avviene degli enti morti o sino al
massimo grado della sua energia, come avviene degli esseri viventi o degli or
ganismi etici.Quandoilsoggettoavràcompiutoquesto lavoro psicologico insieme
elogico di concezione in modo che questo processo corrisponda alprocesso
obbiettivo rito, e perciò nel pensiero,dispostiinmodo seriale; onde
ciascun concetto che è tra i limiti ha un prima ed un dopo ed è concetto del
concepimento 'precedente e concepimento del concetto seguente.Non sipuò dire
però che il concetto che precede sia compreso come tale e nel senso della
logica classica e con tutti i concetti precedenti dal concetto seguente; poichè
il chimismo che domina il processo dei concetti non a m mette la comprensione nel
senso classico, che è conside ratain senso puramente quantitativo. Del pari non
si può dire che ciascun concetto si estenda in altri concetti; perchè esso è
chimicamente assorbito e trasformato dal concetto che segue immediatamente e
non si può tro vare come semplicemente tale in altri concetti'; onde la
estensione secondo la logica dei secoli non risponde al vero; perchè in questa
i concetti sono estrinseci gliuniagli altri, per cui non vi è organismo di concetti.
della cosa, egli allora avrà raggiunto il concetto di essa: ciò che può dirsi
cosi dei singoli concetti o di un si stema di concetti che del concetto
assoluto. L’economia nella vita dell’animale e dell’uomo. L’attività
economica è una nota propria e fondamentale della vita animale ed umana.
Essa è rappresentata prima dalla fisiologia, cioè dalle funzioni
dell’organismo. Ogni funzione organica, studiata analiticamente, dimostra una
dualità, cioè due termini: l’organismo vivente che rappresenta l’unità
degli organi funzionanti; e il mondo a lui esteriore con cui è in continuo
rapporto (alimento, ossigeno dell’aria, acqua, calore, luce, ecc.). L’uno
dei due termini scisso dall’ altro annullerebbe insieme con la vita l’attività
economica; e l’organismo dovrebbe disfarsi. La vita,
sostenuta da organi di elevata struttura e costituzione chimica, implica l’
unità degli elementi istologici, dei tessuti, dei sistemi e degli organi
che la rappresentano. Ma la funzione di ciascun organo e sistema, mentre
ha un fine che si esercita o dentro l’organismo, in aiuto ad altre
funzioni, o fuori dell’organismo, contro il mondo esteriore per dominarlo
e farlo servire ai suoi bisogni, deve implicare una continua
perdita materiale degli organi funzionanti, che si riduce
contemporaneamente in una degradazione chimica di sostanze componenti i
tessuti e gli organi, dallo stato di elevata natura a quello di più
elementare costituzione molecolare. Nello stesso tempo deve associarsi ad
uno sviluppo di forze fisiche (forza meccanica, vibrazioni molecolari,
calorico, elettricità). In tal modo i due termini debbono entrare
in un rapporto molto intimo e continuo fra di loro; giacché il termine
esterno naturale, rappresentato dall’alimento, dall’ossigeno dell’aria,
dall’acqua, deve diventare interno. Infatti l’alimento da sostanza
esterna e morta, quantunque di elevata costituzione chimica. I
giacché è stata vivente, come la carne, le uova, il latte, le erbe,
frutta e semi di varie piante, modificati esternamente e poi ingeriti
dall’animale e dall’uomo, vengono ancora modificati, ridotti in sostanze
relativamente semplici. Passate poi nel circolo sanguigno vengono ancora
modificate dalla presenza dell’ ossigeno che i globuli rossi del sangue hanno
fissato per nutrire i tessuti in contatto dei quali sono messi e dai
quali si compie l’assimilazione. In tal modo il cibo raggiunge la sua
massima elevcizione; da termine esterno e morto diventa interno e
vivo. Ma qui comincia la scissura interiore, onde il termine interno
diventa per mezzo della funzione anche esso morto in alcuni suoi elementi
e le sostanze che lo costituiscono, decadute e semplificate, vengono così
restituite al mondo esterno, per mezzo dei reni, della cute, del polmone
e ancora modificate dalle glandolo di speciale segrezione; all’ istesso modo
che l’energia che costituiva il termine interiore si risolve in forze
meccaniche e fisiche le quali si spengono entro l’organismo stesso e nel
mondo esteriore, anche per mezzo del lavoro. Il termine interiore
che da prima è un organismo vivente di elevata struttura, perchè è e
sussiste, si può chiamare bene, secondo lo scrittore del j)rimo capitolo
della Genesi, per cui è bene tutto ciò che è creato da Dio; ed il
termine esteriore, perchè anche esso è e sussiste, si deve anche
esso chiamare bene; ma, poiché deve essere degradato come tale, e
trasfor % maio e ridotto nei suoi elementi; diviene male. E
male il decadere, lo scomporsi, il menomarsi degli enti. Ma, poiché dai
suoi elementi di nuovo si ricompone, si organizza ed alimenta la
vita, diviene di nuovo bene; ma bene interno, come il bene interno si trasforma
in male interno airorganismo da prima, poi in male esterno; perchè nei
suoi elementi primi si trasforma in male esterno, cioè in elementi
inorganici senza una finalità superiore. Ma di nuovo può divenire bene esterno,
perchè per mezzo di essi si possono ricostituire i beni esterni più
elevati (piante, animali, ecc. Il bene cosi si trasforma in male e questo
in bene. L'antico detto corruptio unius gene ratio alterius esprime un
principio che domina il regno della vita vegetale ed animale, giacché
anche la pianta si trova in una posizione dualistica tra sè e il mondo a lei
esteriore (il terreno, Tarla, la luce) ed è perciò in lotta con esso che
tende a conquistare, come questo è in lotta con la pianta. L'animale è in
una lotta più intensa col suo termine esteriore, la natura, come
questa % è in lotta contro l’animale. E questo lo schema più
semplice della vita vegetale ed animale. Distinta cosi l’attività
economica in due termini e fatta l’analisi di questi, apparisce più chiaro
il concetto generico di economia. Quantunque questa parola sia stata
adoperata la prima volta in Grecia ed intesa come legge, amministrazione
della casa, implica anche il concetto di soddisfazione, di
godimento, che gli animali e noi abbiamo di qualche cosa che
dalTesterno penetri nel nostro organismo. Coinvolge anche il concetto
d'integramento, conservazione, elevazione di qualche cosa di materiale per mezzo
del lavoro delTuomo o per opera della natura stessa, ma che rimane sempre nel
mondo esterno alTuomo e di cui questi può cercare di godere. Importa
notare la differenza tra Teconomia della vita animale e quella delTuomo, che
implica insieme con la vita organica o animale, qualche cosa di superiore o
mentale. Benché una grande differenza vi sia anche nel regno stesso
delTanimalità, nelle sue varie specie, dall’aniraale infimo a quello
della più complessa organizzazione, giacché dalla prima alla seconda
specie il processo della vita si va sempre più complicando e
specificando, alT istesso modo che si complica ed aumenta di volume
Torganisrao nei suoi tessuti e nei suoi organi; onde si ha
un'organizzazione più vasta e complessa, pure in quest'arapia graduazione di
animali lo schema dell* economia della vita è identico in tutti; benché
varia sia la quantità dell' alimento ingerito ed assimilato e poi
consumato e ridotto ad elementi semplici, come corrispondentemente varia
sia la somma delle forze fisiche esplicate. L'animale infatti, a
qualunque genere o specie appartenga, non vive che monotonamente, sempre
nel presente, benché varia sia la sua attività esplicata per vivere, secondo la
natura della specie a cui appartiene, e vario sia l'ambiente naturale
e climatico in cui vive. Esso non ha cura che per conservarsi e per
fuggire i pericoli che lo minacciano; cerca la tana, il cibo, e l’acqua
per dissetarsi; alleva con molta cura i suoi nati e provvede per il loro
alimento; li protegge contro le insidie degli altri animali sino a che
essi non possano vivere da sè. Non provvede pel suo avvenire e, durante
la vita, non è suscettivo, a causa delle limitate sue condizioni
psicologiche, a migliorare la sua posizione economica, come è avvenuto
pel suo passato in cui si è riprodotto sempre identicamente lo stesso
tipo e la forma del suo organismo. Dall’animale all’uomo si fa un
passo gigantesco; giacché questi, a causa della superiorità della
struttura del suo organismo e della sua intelligenza, si volge a studiare
continuamente sè e il mondo esteriore. Avendo il suo organismo molteplici
bisogni, egli si sforza di soddisfarli per mezzo delle sostanze che trova
nel mondo esterno; e, a differenza dell’animale, prevede i suoi bisogni
avvenire e provvede come può affinchè nulla abbia a mancargli pel futuro.
E, se tende da prima a sfruttare la natura, come fa l’ animale, di poi,
apprendendo da essa stessa i suoi metodi, si sforza di produrre ciò di
cui ha bisogno per vivere (piante ed animali speciali). Si apn; cosi all’
uomo il campo della produzione dei beni naturali di cui ha bisogno,
e % che può ottenere per mezzo deir ingegno e del lavoro. E
una lotta che egli deve sostenere contro la natura, che ha avuto
principio col suo primo apparire sulla terra, che è andata sempre crescendo ed
intensificandosi lungo il processo della storia e con lo sviluppo della
civiltà; e che non avrà mai fine, finché dura la vita umana. La
materia economica non può perciò essere intesa fuori della sua storia, anzi
essa fa una sola cosa con la storia delr umanità; giacché questa ha la sua base
nell' economia e senza di questa non potrebbe essere; all' istesso modo
che nessun aspetto 0 grado del mondo naturale ed umano sfugge alla storia
e fuori di questa non potrebbe comprendersi. La scienza economica dunque
deve trattarsi storicamente. È questo un tentativo che può farsi solo oggi, in
tempo di un grande sviluppo dell'esperienza e della rifiessione umana, in
cui il pensatore acquista coscienza di sé, dei propri bisogni fisiologici e
mentali e del mondo esterno naturale, in ciò che può soddisfare i detti
bisogni. Questa materia cosi deve essere studiata nei suoi due termini, il
soggetto e l'oggetto, economici, ciascuno nella sua storia e nel suo
rapporto con l'altro, senza del quale nessuno dei due termini potrebbe
sussistere sotto l'aspetto economico; e questo rapporto é tutto tra i due
termini, per lo quale questi si uniscono e dividono continuamente. È la storia
dell’umanità e della natura insieme nel loro aspetto drammatico. Nel
trattare i principii naturali di economia bisogna trarre insegnamento
prima dello studio della storia del’umanità. Ma nella storia fatta dagli
storici più valorosi e rinomati l'aspetto economico non è messo gran
fatto in evidenza; come se per loro non avesse avuto che un' importanza
trascurabile; non veniva perciò compreso e considerato nella sua
obbiettività e non si sognava che un giorno i posteri sarebbero stati
curiosi di conoscere, nei suoi particolari, il metodo e la materia dell'
attività economica dei popoli di cui si narrava la storia. Si
credeva che il cibo e gli altri beni di cui l'umanità ha bisogno
sarebbero stati sempre abbondanti e perciò non meritava che gli
uomini se ne preoccupassero. Del resto anche gli storici più recenti
si sono cosi condotti verso l’aspetto economico della popolazione. Pure in ogni
scrittore non possiamo non trovare qualche accenno alla vita economica
delle nazioni di cui si narra la storia 0, se non alla economia normale,
aireconomia patologica, come la carestia, la pestilenza, i risultati della
guerra, le emigrazioni e le immigrazioni, i perturbamenti della natura
fatti per opera della mano deiruomo, che, facendo vedere la deviazione
del processo economico normale e naturale nella storia, fanno meglio
vedere le necessità di questo. Avviene così nel campo economico
quel che avviene nel regno della vita, per cui le malattie che sono
la deviazione funzionale degli organi dal processo tipico normale
della vita, che apportano anche una corrispondente alterazione chimica,
istologica ed anatomica degli organi, hanno dato non pochi contributi
alla conoscenza delle funzioni normali della vita. Vi sono poi le grandi crisi
economiche nazionali o universali, come quella che ora si attraversa sull’
incarimento del costo della vita, un fenomeno nuovo e gigantesco che non
ha avuto l’eguale nella storia, la cui origine oscura ci obbliga a
riflettere e a meditare per risolvere l’enigma. Vi sono inoltre gli
errori della storia che il popolo stesso compie per suo proprio istinto o che
compiono gli uomini di governo, errori di cui è piena la storia e che,
con le loro conseguenze patologiche, fanno meglio comprendere il processo
logico e progressivo della storia come avrebbe dovuto essere. Cosi è
stato disastroso per la vita dei popoli il non avere compreso la natura
propria della moneta che si è voluta sempre di metallo prezioso, per
cui alla scarsezza di questa si debbono alcune rivoluzioni ed un
arresto nello sviluppo del lavoro e della produzione dei beni e r
arricchirsi di alcune nazioni che ne hanno molta a danno di altre che ne
hanno poca. Ma il presente stato economico del mondo in cui l’ industrialismo
ha raggiunto un grado di vitalità • esuberante da per tutto ed
attira l’energia e V operosità del maggior numero degli uomini i quali
affluiscono nelle industrie e nelle città disertando i campi e i
villaggi, ci spinge a studiare il presente fenomeno e, mettendolo in relazione
col passato economico, ci apre la via ad intendere la storia economica deir
umanità. Ma la storia economica che fa una sola cosa con la storia
politica, artistica ed intellettuale delle nazioni, nell’ aggregarsi o
disgregarsi continuo di queste, è certo un grande e cospicuo periodo del
processo logico della storia del mondo ed è anche quello più memorabile:
quello cioè che, per essere stato esperimentato primitivamente da alcuni
uomini, riconosciuto e provato da altri, aggruppati da prima in piccole tribù o
società, e poi esteso, ad altri, è trasmesso a mano a mano ai posteri
col contatto degli uomini, attraverso il loro nascere, crescere e
morire. E l’attività economica che è stata sempre viva nella storia, quantunque
abbia operato in modo inconscio agli uomini, negli ultimi due secoli ha
raggiunto uno sviluppo considerevole insieme con lo sviluppo industriale
e con l’estendersi del commercio nel mondo. Questa da prima si è sviluppata
istintivamente ed impulsivamente per mezzo dell' ingegno dell’uomo che ha
saputo trovare ed aprire le vie; poi è venuta la scienza dell' economia
industriale e commerciale, che ha riconosciuto i fatti compiuti e ne ha
formulato e cercato di spiegare le leggi. Sicché non è stata la scienza
economica che ha destato l’attività economica, bensì questa ha dato origine a
quella. Si può rintracciare dunque, attraverso la storia
intellettuale, politica e pratica dell’umanità, una storia economica. Ma
la storia politica rappresenta il processo degli avvenimenti umani di cui
si conserva memoria; si è perciò innanzi ad un’epoca molto avanzata dalla
storia, quella in cui l’uomo ha cominciato ad acquistare consapevolezza
della sua superiorità sulla natura e della possibilità del suo dominio
sugli uomini inferiori per ingegno ed attività pratica. Ma la storia memorabile
e memorata presuppone la preistoria, che è di là dalla memoria degli
uomini e che nondimeno ha dovuto preesistere alla storia. Come nessun
aspetto della civiltà e delle istituzioni umane sfugge alla preistoria,
quale il linguaggio, la politica, l’arte, la religione, ecc., così
avviene dell’economia e della scienza economica. E la storia d’altra parte si
connette alla preistoria di cui è continuazione e complicazione, onde si può
dire che nella preistoria si trovano i principii economici più semplici
ed elementari che nella storia progressivamente si sono andati
complicando; ma che sono sempre vivi ed attivi nella storia ulteriore: ed
appariscono nella loro semplicità nelle grandi crisi di economia sociale,
quando si sente il bisogno di tornare alla vita naturale e primitiva. Non
bisogna però ammettere una barriera tra la preistoria e la storia. Ciò
che fu il principio è la base odierna deir edificio economico.
Quantunque la preistoria pura e primitiva sfugga alla nostra
osservazione, pure, come è avvenuto pel linguaggio, strumento fondamentale
deirintelligenza e deir attività pratica umana e del progresso
scientifico, si può rintracciarla prendendo le mosse daireconomia
naturale che può avere rappresentato essa sola neirepoca preistorica
tutta T umanità, che di poi divenne storica, economia che anche oggi deve
essere considerata come il sostegno deireconomia storica, industriale
odierna, e senza la quale questa è destinata a fallire. In questo senso,
guidati dalla logica della realtà delle cose e dalla psicologia
speculativa, si può rintracciare il processo preistorico dell’ economia.
Il punto di partenza è qui Teconomia fisiologica, comune da prima all’animale
e airuomo, giacché ambidue sono soggetti economici che hanno la natura
come termine a loro opposto. Ma, mentre, come si è detto, la soggettività
animale ha un arresto nel suo sviluppo, la soggettività umana all’
incontro prosegue senza limiti, cercando di conoscere la natura ed adattarla
alla soddistazione dei suoi bisogni, che con la sua intelligenza sa
scoprire in sé, nel suo organismo e nella sua mente, nuove lacune
da colmare. A differenza però deiranimale in cui Torganismo si sviluppa
rapidamente, onde breve è per esso il periodo in cui ha bisogno delle
cure dei genitori, perchè ben presto può fare uso delle sue forze e
rendersi indipendente, onde vive guidato dai suoi istinti, l'uomo all’
incontro ha bisogno di un certo numero di anni per potere da sé
provvedersi del cibo e colmare tutti i suoi bisogni. Ben presto morrebbe
se, appena nato, non avesse le cure materne, ed anche se venisse
abbandonato a sé stesso neH'infanzia e neiradolescenza. Molte altre cure
poi richiede, ed anche un certo numero d’anni, se egli vuole educarsi,
esercitare un facile mestiere od una difficile professione; e volesse
elevarsi nella sfera dell’ alta cultura, dell’arte o della scienza. In
questo lungo periodo della sua vita il giovanetto è allevato e educato
dalla famiglia, o dalle istituzioni di beneficenza, dall’iinsegnamento pubblico
e dalla religione. In tutto questo periodo dell’infanzia e della
fanciullezza il dualismo è rappresentato dal fanciullo, ente passivo
nella sua attività, e dalle istituzioni familiari e sociali, che sono il
termine veramente attivo, il quale, servendosi di elementi c vie
naturali, eleva e conduce il bambino all’attività pratica, affinchè
possa col tempo provvedere ai suoi bisogni. Il giovanetto,
diventato adulto, deve da sè solo risolvere il problema dell’esistenza,
per quanto possa essere agevolato dalle istituzioni; allora egli si
trova d’innanzi alla natura alla quale domanda i mezzi di vita 0 di
conservazione. Questi sono rappresentati dal ricovero e dall’alimento che
è fornito dagli animali e dai frutti e semi di piante; e vegetali di una
elevata costituzione chimica. Qui comincia la lotta tra 1’ uomo e la natura.
Questa è da prima provvida madre per lui, onde gli concede facilmente ciò di
cui ha bisogno, ma non senza che egli taccia qualche sforzo,
qualche fatica, andando in cerca deU’alimento, sottomettendosi anche
a gravi pericoli e spesso rimanendo vittima delle intemperie o
degli animali che egli ha cercato di abbattere e conquistare. E
questa la condizione dell’ uomo primitivo che non ha avuto dal passato
insegnamenti e tradizioni; per cui l’esperienza e l’osservazione debbono
cominciare da lui che è fornito di un organismo che si presta ad una
grande varietà di lavori; e di intelligenza che gli è guida all’ attività
pratica, allo studio ed alla conoscenza della natura della quale cosi può
meglio servirsi; e conserva memoria delle sue conquiste, passate e presenti. Ma
la natura, dà all’ uomo i mezzi di vita, purché li cerchi, non glieli assicura
per sempre. Comincia cosi l’attività per la ricerca del cibo e comincia
ancora un’epoca di disgregamento per la ricerca dei luoghi dove la natura
fosso più ferace di veg'etabili e di animali, atti a far vivere l’uomo. In
quest’ epoca, certamente non breve, si ha un grande disgregamento del
genere umano, in tutta la superficie della terra, per quei luoghi dove la
vita fosse possibile; giacché in quest’epoca in cui il lavoro collettivo non
era ancora principiato, l’uomo voleva essere solo con la sua famiglia a
conquistare e a godersi la preda. D altra parte 1’ uomo in lotta con la natura
primitiva, che si slanciava ad imprese difficili ed audaci, in tempi in
cui l’aria sulla superficie della terra era buona ed in cui
ralimentazione era prevalentemente carnea, dovea dare al suo organismo
uno sviluppo ed una resistenza ammirevole, che lo rendeva atto a
trionfare dei più grandi ostacoli che nel suo cammino potesse incontrare.
Grande era anche la potenza generativa, per cui gli uomini si
moltiplicavano facilmente. Quel genere di vita tutto naturale dava
un’educazione anche naturale all’ uomo, che gli dava la massima
resistenza all’ impresa e lo rendeva refrattario agli stimoli morbosi
sino alla vecchiezza, se fosse riuscito a superare il periodo della fanciullezza,
flrano i tempi di Ercole. In tutto questo lungo periodo egli cerca, con
l’ingegno che la vita nomade e mal sicura dell’ avvenire rendono più
acuto, a modificare minerali e legna per costruire strumenti che
rendessero più facile il conseguimento del fine di vivere; a rendere
alcuni animali adatti ad essere guidati, a viaggiare, a portare
masserizie ed a ottenere la prole di essi, anche per potersene
alimentare. Finché si é in questo stato di vita nomade ed incerta in
cui non si può essere sicuri della vita avvenire ed in cui gli uomini
tendono continuamente a dividersi, le conquiste iiella conoscenza dei
metodi per servirsi della natura vanno perdute e non é necessario il
linguaggio che é possibile quando é data una certa associazione di uomini
i quali, a intendersi scambievolmente, conservino la tradizione delle
precedenti attività limane che agevolano la vita. Tutto questo lungo periodo
della vita umana sulla terra, di una larga estensione sulla medesima,
può essere indicato col nome di 'preistoria dell’ umanità. La quale
bisogna intendere non come ristretta in un solo angolo della superfìcie
della terra, ma come diffusa da per tutto, e dove la vita dell’ uomo fosse
possibile, e rappresenta la famiglia da per tutto disgregata in famiglie, di
cui ciascuna aspirerà più tardi ad entrare nella storia e da nomade
diventare fìssa. In tutta questa lunga epoca i due termini dell’attività
economica sono r uomo e la natura; 1’ uomo il quale é uscito da quello stato
di felicità del periodo della sua fanciullezza in cui vive a spese della
sua famiglia o della carità altrui; ma l’uomo che deve fare uno sforzo
per andare in cerca dei mezzi di sussistenza; deve cioè andare incontro ad una
perdita di forza muscolare e psichica, che, aggiunta alla perdita che apporta
la vita in sé stessa, apporta una perdita maggiore o un male
interiore maggiore. La natura, dando da viv^ere all’uomo, ha una
perdita in sé 0 una degradazione, quantunque parziale e limitata; ma
questa perdita apporta all’uomo un bene interiore. La mancanza di
sicurezza dell’alimento pel domani in questo periodo della preistoria in cui
non ancora si erano conosciuti i metodi e non si possedevano i mezzi per
ottenere gli animali di cui avrebbero potuto servirsi e nutrirsi e né
anco si sapevano conservare le carni degli animali di cui si era andati
in caccia, é la nota preminente di questo cosi largo periodo dell’umanità.
La storia della civiltà ha per fondamento la storia dell alimentazione.
Il passaggio dalla preistoria alla storia, dalla vita naturate allo stato
di civiltà, si ebbe quando si potè provedere ad un alimento che potesse
conservarsi per qualche anno, assicurando così il prolungarsi della vita
umana ed il fissarsi di alcune popolazioni in dati siti della superficie
della terra dove la produzione di date sostanze alimentari potesse
avvenire. Scambio e stimoli economici Si eiiira cosi in un
altra c più elevata sfera deH’attività economica che è quella dello
scambio (e questo avviene cosi nella zona industriale propriamente detta
che in quella naturale ed agricola). Si cominciano così a formare dei
piccoli mercati in cui r uomo vende e compra. Jla s’ intende che, prima
che nella storia si stabilissero dei veri mercati, queste
operazioni di scambio avvenivano egualmente, quantunque in modo
più vago, appetiii ai)parve la libertà e l’ elezione nel lavoro dell’uomo. Nella
sfera dello scambio si ha una maggiore facoltà di acquisto ed un
risparmio di tempo e di forza (ciò che è propriamente r attività economica);
perchè il soggetto economico vende ciò che ha prodotto facilmente e bene
per acquistare ciò che da sè stesso non avrebbe i)otuto produrre che male
e con molta perdita di tempo. E ciò in generale; perchè l’ ingegno umano poti
ebbe in ciò darci una smentita, non essendo molto rari quegli uomini che
hanno saputo tanto bene educare il loro ingegno e 1.1 loio attività
pratica da diventare valenti produttori di una varietà di beni e in modo
perfetto. E questo avviene cosi per la produzione dei beni inferiori e materiali
che dei beni superiori ed artistici. Importa notare che lo scambio può
avvenire tra questi e quelli, come con le attività intellettuali
dell’uomo. Cosi il letterato, r uomo istruito e dotto, l’ insegnante, il
medico, l’ingegniere, l’ avvocato, scambiano il loro sapere, la loro
dottrina e l’arte, con beni materiali. Anche nella sfera dello
scambio, l’acquisto implica una perdita, quantunque la perdita sia
ridotta al minimo; perchè quello che il produttore perde gli è costato relativamente
poco lavoro, mentre quello che acquista è per lui un guadagno, perchè ha
un prodotto che si suppone buono, che egli non avrebbe potuto eseguire,
anche perdendo molto tempo. Per mezzo del lavoro artistico dunque la
produzione dei beni si specializza, mentre questi si possono moltiplicare
senza limiti, perchè ognuno può trovare nell’uomo una sorgente di
bisogni da colmare e nuove comodità che si desiderano, nuovi beni che
riescono a quel fine. E poiché in tutti gli uomini si ha r istesso metodo
e perciò gli stessi bisogni che si tende a soddisfare, i nuovi beni prodotti
sono ambiti da tutti. Ma qui deve intervenire l’opera dell’istruzione che
sveglia e fa riconoscere aU’uomo i propri bisogni e fa sviluppare in lui
il desiderio di soddisfarli. Moltiplicandosi i beni che
l’uomo ambisce, egli può acquistarli tutti col suo prodotto particolare che
alla sua volta viene ambito dai produttori dello merci altrui, con le
quali egli scambia la sua. Il principio economico qui non solo si conserva,
ma si eleva ad una più alta potenza di acquisto. Ma più tardi 1’uomo
ha avuto un istrumento d’acquisto non solo nel suo ingegno e nelle sue
forze muscolari, ma anche nella macchina che egli, aiutato dalla
conoscenza delle leggi meccaniche ha prodotto ed applica ancora alla produzione
di una grande varietà di beni. E necessario qui promettere
che la macchina come invenzione umana è stata preceduta dalla macchina che è
insieme nell’organismo animale ed umano. L’ organismo infatti è
insieme meccanismo; e se come organismo è qualche cosa di più
elevato del meccanismo che implica, come meccanismo non cessa di
essere macchina; macchina organica si, ma sempre macchina. Lo schema della
macchina si ha infatti in tutti gli organi e i sistemi più importanti
deH’organismo; nel cuore col sistema vasaio annesso; neU’apparecchio digestivo
con le sue glandolo, come in ciascuna glandola; nell’apparecchio respiratorio;
nei reni e nella vescica; nel sistema osseo-muscolare-nervoso. L’occhio
è una macchina, come l’orecchio. Anche nel cervello si trovano gli
elementi più complicati della macchina; all’istesso modo che le funzioni
di tali organi sono insieme funzione e meccanismo. È proprio della
macchina costruita dall’ ingegno umano il venir "•uw'mo'' Hìacchina die è ormo Ne oiganismo, anche essa
per mezzo di questo.nuove l.i macchina esteriore, sia
immediatamente che mediatamente per mezzo delle forze
fisiche.uiawmente, L’apparire della macchina è stato accolto con grande
entusiasmo da tutto il mondo, perchè ha portato una fraudo rivo uz.one
nel campo della produzione, poiché l’A accresciuta co.isierc^olmcnte; ma ha
anche contribuito ad una maggiore speCK hzzaz.one d. produzione. E poiché la
macchina è stata applic a anche al trasporto dei beni in tutto il mondo, per
mare e PCI terra, ha anche contribuito ad accrescere in modo come
non era possibile prima, il commercio mondiale. Sicché ol! e solamente
possibile a pochi uomini godere di una grande J-h nomi I che sono
nel mondo. Si ha cioè il grandioso fenomeno de la umversalizzazione del
godimento dei beni. È questo nsuUato di una lunga storia nell'attivirà
degli scambi che pimcipiata in modo limitato, tra individuo e individuo,
per una’ lunpo tra vari aggruppamenti umani, tra varie popolazioni e
mi/ioiii, e tra tutte le parti del mondo. È questa veramente
la pffffcernza.' dell’industrialismo S’intende che se prima lo
scambio comincia cedendo merce per merce, e in certe condizioni questo
può sempre avvenire lo scambio e.1 commercio che rendono accessibili le
merci da |.cr t„„o, h„„ dovuti avvenire con la moneta che é,m mé.t
tei mine, inventato da governi, tra due merci o più merci; per cui «1
lavora, cioè si danno le proprie forze, il proprio ingegno e a
propria produzione, per guadagnare danaro e si ambisce questo per provvedersi
di tutti i beni di cui si ha bisogno. Segue ancora che, in ragione che la
produzione, gli scambi e il cL-moneta ìr^nmiido; È qui necessario far notare
che, se la parola stimolo interlene a ogni passo nella trattazione dei fenomeni
fisiologici e pa ologici, come nei fenomeni psicologici, intendendo la
psicoogia in tutta la sua ampiezza, in tutte le sue forme e in tutti i
suoi gradi, apparisce chiara la necessità dell’ intervento frequente di
questa stessa parola anche nello studio dei fenomeni economici, giacché anche
questi hanno un fondamento fisiologico e psicologico, senza il quale non
potrebbero essere. Così nella produzione si ha uno stimolo interiore a
produrre, il bisogno interiore organico e psicologico, immediato o prossimo,
che deve sparire, facendo col lavoro esistente il bene che si desidera:
l’immagine interiore cioè deve tradursi in atto col lavoro produttivo e
che diventa anche stimolo esteriore, la materia esteriore ottenuta col lavoro,
per mezzo della coltura (sostanze vegetali) o con rallevamento del
bestiame (sostanze organiche). Queste debbono alimentare e far vivere 1’
uomo, trasformando la materia morta e bruta che deve dargli alcune comodità
o godimenti dell’ animo. Si ]Hiò dire che sono gli stimoli e gli stati
interiori a spingere 1 uomo all attivila; e più questi sono numerosi ed
elevati più muovono l’individuo al raggiungimento dei suoi materiali
od alti filli che egli vorrebbe vedere tradotti nel mondo reale. Ma
alla sua volta gli stimoli interiori sono il riflesso di stimoli esteriori, di
oggetti già percepiti o immaginati. È questo ciò che si esprime con la
parola ambizione umana la quale, se è la nota preminente dei grandi
uomini è anche una nota importante degli uomini mediocri e d’ infimo
ordine, giacché ogni uomo, secondo il grado della sua costituzione
mentale e della conoscenza del mondo esteriore, naturale ed umano,
vorrebbe far suoi tutti i beni che conosce, sia di basso che di elevato
ordine. Il cibo è uno stimolo per l’alimentazione e la fame è uno stimolo
per provvedersi del cibo. Cosi il gusto letterario e le conoscenze
scientifiche possono essere uno stimolo interiore per ajiprofondirsi nel
campo dell’arte e delle.scienze. Non solo sono stimoli i due
termini economici, oggetto e soggetto, 1’uno per 1’altro: nia è anche
stimolo il mezzo termine fra le due merci o tra il soggetto e l’oggetto,
cioè la moneta. L come è nota della natura umana l’insaziabilità dei beni
materiali e spirituali, quando questi siano conosciuti; ciò che è difficile,
come 1 illimitatezza nell’acquisto, cosi avv^iene per la moneta. Di questa
anche 1 uomo non è mai sazio di possederne; perchè riconosce in essa una
possibilità ed uno stimolo per acquistare altri beni. Ed il possesso è di
vari gradi. Vi è il possesso limitato della moneta, per quanto questa possa
essere grande, e di essa l’uomo si contenta e che vuole o conservare o
spendeie, 0 di questa egli si serve come stimolo per la produzione di
nuove ricchezze. Proprio quando la vita economica, industriale,
commerciale, è molto complessa ed estesa, e tutto il mondo umano
sembra un grande mercato come è ora, per cui grandi sono i bisogni
c le richieste dei beni da per tutto; e l’ambizione umana si
estende ed intensifica ovunque, allora la ricchezza può essere
adoperata come strumento (stimolo) per acquistare nuove ricchezze.
Cosi viene stimolata la sete deH’uorno per l’acquisto indefinito
della ricchezza; perchè vi è richiesta di tutti i beni che egli
conosce e di cui vuole godere, come da per tutto viene apprezzato e
richiesto il lavoro dell’uomo..Si comprende in tal modo come piu
sovrabbonda il danaro in una società, più gli uomini.sono spinti all
attività pratica e cresce la loro ambizione per guadagnare e godere. Uomini che
hanno quest’aspirazione e non hanno danaro, ma riconoscono di avere
ingegno, forza muscolare e tempo per arricchirsi, ricorrono al prestito
del danaro. Ma cosi si entra in una categoria economica più elevati,
quale è appunto il presfito, il cui polo opposto è il capitale. Il
semplice possesso della ricchezza, sia questa rappresentata dalla moneta
o da altre specie di beni immobili e mobili o da prodotti industriali
od artistici, se è come semplice servizio personale o della
famiglia, non merita il nome di capitale. Si richiede invece che essa
si.a data in prestito. ll capitale-prestito cosi rappresenta un più alto
grado dello scambio; e, come in questo, ciascuno dei due termini o
soggetti economici acquista e perde, cosi avviene nel
capitale-prestito; ma anche qui la categoria di acquisto e perdita implica
una più elevata economicità. Cosi colui che prende in prestito acquista
la ricchezza ma la perdita e rimandata aH’avvenire; si ha cioè il
bene presente; ma la perdita che dovrà aversi nell’ avvenire consisterà
non solo nella restituzione del capitale, ma anche nell’ interesse
convenuto. Frattanto l’uso provvido ed economico del capitale avrà dovuto
fargli acquistare nuove ricchezze. Anche nuove ricchezze acquista il
capitalista, cedendo temporaneamente la sua ricchezza ad altri; ma va incontro
anche ad una perdita temporanea della sua ricchezza durante il
periodo della sua cessione; perchè non se ne può servire. Col
capitale e col prestito l’attività economica da una sfera limitata e
quasi individuale, quale è quella dello scambio, da prima in una
ristretta cerchia, s’ingigantisce ed estende da prima in ciascuna nazione e più
tardi gradatamente in tutto il mondo; con la fondazione o moltiplicazione
delle banche che dànno una grande diffusione al capitale e al credito,
stimolando l’attività economica produttiva e portando la diffusione
delle merci da per tutto. E ciò con l’aiuto della macchina che ha
moltiplicato e specializzato la produzione dei beni industriali e li fa
penetrare, come vi fa penetrare anche i beni naturali, in tutto il mondo
umano. Ma per quest’attività si richiede l’ ingegno; all’istesso modo che
l’esercizio di essa fa sviluppare l’ingegno. La produzione dunque della
ricchezza capitalizzata e capitalizzante, per cui si tende sempre a ridurre al
minimo la perdita, nello stesso tempo che si tende a jiortare al
massimo l’acquisto, deve essere sempre l’obbietto dell’attività del
soggetto economico. Me questa che già fece esistente il capitale si
affievolisce, l’oggetto per mancanza di governo e di direzione tende ad
arrestarsi nel suo processo e, per le mutate condizioni esteriori, tende a
deviare, a perdere la sua potenzialità di acquistare ed a venire cosi scemato
come semplice ricchezza. Sicché, se dalla produzione diretta primitiva
alla produzione capitalistica si ha una progressione per cui pare che la
ricchezza si produca da sé, indipendentemente dal soggetto, pure
l’attività di questo deve intervenire, cercando di farla progredire ed
accrescere. Deve prevedere il cammino che si può e si deve fare e provvedere
alla conservazione della ricchezza ed alla sua diflusione proficua; ciò che è
il lavoro di critica e di speculazione che il soggetto deve tare. Ad ogni
modo questo lavoro, se implica una piccola perdita di tempo e di forza organica
e psichica, pure riduce con l’esercizio al minimo questa perdita; onde
si può dire che se il lavoro di produzione che da prima è grande,
secondo la quantità e la specificità d’impiego del capitale, esso è di
poi menomato e perciò agevolato; anzi deve al meccanismo, guidato dall’
intelligenza, il suo grande sviluppo. All’incontro nella produzione
naturale il soggetto deve sostenere una lotta intensa contro il suo oggetto, la
natura indomita e ribelle, che può essere vinta temporaneamente ma non
definitivamente; giacché essa offre sempre nuove difficoltà al soggetto
produttore, anzi si può dire che dai primi tempi della vita umana sulla
terra, queste difficoltà si sono andate sempre accentuando. E ciò perchè,
se la natura da prima, dopo uscita dal suo stato selvaggio, dava
facilmente all’ uomo i suoi prodotti, col progresso del tempo gliene ha dato
sempre meno, anche essendosi moltiplicato l’ ingegno e il lavoro dell’ uomo
volto contro di essa. E ciò mentre gli uomini si moltiplicavano ed
accrescevano con la loro associazione i loro sforzi per la produzione
agricola. Sembra che d’ oggi innanzi il lavoro dell’ uomo contro la
natura per obbligarla a produrre ciò di cui ha bisogno diverrà sempre più
intenso ed i mezzi più necessari alla vita diverranno sempre più difficili a
conquistare. In altri termini la lotta tra l’uomo e la natura diverrà
sempre più intensa; perchè la finalità di questa è in opposizione alla finalità
di quello; ed una conciliazione solamente è possibile alla condizione che
ciascuno dei due termini conceda all’ altro qualche cosa di sé, senza
annullarsi, anzi sostenendosi l’ uno con l’altro. Questo fa vedere che r
uomo deve essere limitato nelle sue pretese verso la natura e che, se
questa deve dare qualche parte di sé all’ uomo, non può e non deve dare
tutta sé stessa se non a costo di annullarsi; perchè allora anche la
natura, dominata dall’ uomo ed alla quale questi domanda i mozzi di vita,
dovrà venir meno alle sue promesse, producendo in lui le più grandi
delusioni. Frattanto, mentre i prodotti dell’industria si moltiplicano
indefinitamente e progressivamente da per tutto, in quantità e qualità,
richiedendo questa un esiguo lavoro muscolare e meno tempo, ciò che
incoraggia l’ irregimentazione dei lavoratori, tanto più perchè questi vi
hanno la promessa di una vita agiata e comoda, quasi sempre in città,
senza sospettare che un giorno avessero a scarseggiare gli alimenti
necessari alla vita, i lavoratori delta terra, all’ incontro debbono sostenere
una lotta lunga faticosa ed intensa per procacciarsi di che
vivere. Del valore e delle sue forme inferiori Le attività
economiche, come quelle fisiologiche, sono cosi connesse ecl intralciate
fra di loro che l'esposizione logica e sistematica ne riesce oltremodo
difficile, Non si può trattare un aspetto, una categoria economica se in essa
non intervengano, sottintese o manifeste, altre categorie. Sicché da
prima si può avere una conoscenza parziale o sconnessa di alcune
funzioni; e solamente dopo che si è raggiunta la piena conoscenza
di tutte, si può principiare a vederle ordinatamente. È que.sta la
ragione della difficoltà nello spiegarsi i fenomeni economici. E l’ordine
consiste nell’universalizzazione dei vari principii e nel1’ unificazione di
que.sti in tutte le loro gradazioni, in tutti i loro movimenti, nei loro
reciproci rapporti, tanto da apparire come lo svolgimento di un principio
solo. Sotto quest’aspetto molto importante è il principio del valore in
economia politica, cosi in quella naturale come in quella industriale; e
in tutte le istituzioni umane nelle quali questo concetto interviene. Ma solo
una esposizione storica e sistematica, in che consiste la vera
trattazione logica della dottrina, può farcela intendere in tutti i suoi
gradi ed aspetti. Negli ultimi tempi si è parlato di valore in materia di
arte di scienza, di filosofia, di religione; ma poiché in tali rami
di attività umana, cosi come sono stati trattati, la dottrina del valore
non é dedotta da un principio più universale che comprenda e questi e
tutti gli altri rami del mondo naturale ed umano, quella trattazione
riesce incomprensibile e vana. E, benché si possa dire che la filosofia e
la religione implichino la più alta sfera del valore, pure, se esse
vengono considerate come per sé, senza alcuna comunicazione col resto del
mondo, non come il risultato di uno svolgimento e di una storia, il
concetto del valore che da esse si può trarre non deve essere
soddisfacente. E se il valore è una categoria universale che interviene
in tutti i gradi deiressere, nel mondo metafisico, come nel fisico e
nello spirituale, in ciascun grado ha un aspetto particolare, ha qualche
cosa d'identico e di differente con la stessa categoria di valore degli
altri gradi del mondo reale. Far distinguere perciò le differenze dall’
identità del valore in ciascun grado della realtà è il dovere di colui
che tratta questa materia. Da prima potrebbe sembrare che la teoria del
valore si identificasse con quella del bene; ed in vero vi è molta
identità fra le due categorie. Però del bene i filosofi e i moralisti
hanno dato più un concetto comprensivo che analitico e storico; ed
alcuni Tànno identificato con Dio stesso, il sommo bene. Essi hanno anche
fatto notare la varietà dei beni che sono nel mondo e l'ànno anche
sistematizzati; hanno messo il bene e tutti i gradi di esso in
correlazione col male e con tutti i mali possibili. Ma la dottrina del valore
include quella del bene e del male insieme, però le compie, mettendole in
una posizione dualistica ed unitaria insieme, quasi drammatica; scinde cioè la
materia in due termini in lotta fra di loro, rorganismo e il mondo
esterno che ha valore per quello, può cioè tornargli a bene; vede una
dualità tra l'anima, la mente e il mondo esterno. E se nella prima zona l’organismo
vivente deve accettare e subire il mondo esterno quale è, pure reagendo
contro di esso; nella seconda zona r anima e la mente possono modificare per sè
il mondo esterno, elevandolo; o produrre addirittura qualità nuove
neiroggetto. E questo l’aspetto nuovo ed originale della dottrina del
valore, il cui regno in verità é quello della vita organica, vegetale ed
animale, le zone cioè superiori della natura; ed anche quello deH’aniraa
umana, nelle sue attività inferiori e nelle superiori, intellettive,
pratiche ed anche creative, che sono i gradi più eminenti del mondo
umano. L’attività umana perciò diventa essa stessa una forma altissima di
bene, il bene attivo, limitrofo a Dio stesso: non il bene immobile che
può anche menomare se stesso e il suo termine opposto che presuppone e
per cui è; può produrre cioè il male, dal quale può, è vero, di nuovo nascere
il bene che rientra nella sua ricostituzione storica e progressiva.
Ma, se r organismo e la mente rappresentano il regno e la vitalità del
valore, essi non esauriscono tutta la natura; vi è in questa qualche cosa
che essi presuppongono, senza di che non potrebbero essere e muoversi; e
che si può dire il loro presupposto. E se si va a fondo nello studio
della natura questo che noi chiamiamo presupposto si risolve in una serie
di presupposti, una serie di gradi di cui ciascuno è presupposto e
presuppone altri. E questa è pure un’ ampia zona del valore che si può
dire puramente naturale, la quale, studiata, apparisce come l’unità e la
sistematizzazione di altre sottozone. Si ha cosi la zona fisica la quale
comprende e quella della materia e quella delle forze. Sembra a prima
vista che questa sia come chiusa in sè ed isolata dal regno della vita e
perciò fuori il mondo del valore. Forme superiori del valore
Il processo ascensivo e discensivo, chimico, minerale, il quale, non
bisogna dimenticarlo, è sempre un processo di elevazione e di menomazione
insieme del valore, diventa più intenso in quella sfera più elevata della
chimica che è 1’ organica in cui entra in composizione il carbonio. Pure
quest’ attività è relativamente qualche cosa di semplice se si studia in
sostanze singole che sono fuori dell’ organismo vegetale ed animale o
estratte da questi. Ma se si.studia entro di questi, l’ intensità
trasformatrice del movimento chimico e di valore organico diventa
straordinariamente complessa, quantunque questa complessità sia minore
nella pianta e maggiore nell’animale. In quella è considerato il lavorio
complicati vo mentre è vivente; e con la morto si ha il lavorio
analitico. Nella vita interna dell’animale albi contro intensissimo è il
lavorio di scomposizione, come è quello di composizione e di
reintegramento, in tutti gli atti della vita, sia considerata in ciascuna
cellula e in ciascuna fibra che in ciascun organo o sistema e nell’ unità
funzionale di questi. Qui il concetto del valore, cosi in ciascuno
elemento della vita, come in ciascun organo e tessuto e nell’ insieme
dell’organismo vivente, diviene di tanta molteplicità, complessità e
varietà, che la mente umana non può seguirlo in tutti i suoi elementi e
in tutti i suoi intimi processi. Vi è una più alta regione della
natura, rappresentata dalla vita animale e vegetale nel loro insieme,
come si svolge nel mare dove vivono insieme piante ed animali in lotta
fra loro; e sulla superficie della terra che è rappresentata dal bosco
nel cui mezzo gli animali vivono e prosperano, come è avvenuto
nelle epoche primitive della natura vegetale ed animale. Qui ciascun
animale, ciascuna pianta, è un elemento della vita natumle, animale e vegetale,
nel suo insieme e nella sua universalità, nella quale si può riscontrare, in proporzioni
ancora vaste ed universali, il processo di elevazione e di riduzione, che
si ha in ciascuno organismo vivente, onde piante e generazioni di
piante muoiono ed altre nascono, come animali e generazioni di ammali
muoiono ed altri nascono; ed alcuni servono di cibo (hanno un valore) per
altri: la corruzione degli uni è la venerazione degli altri. Ma per la vita
vegetale ed animale hanno un valore ancora il clima, le condizioni
atmosferiche, le condizioni del suolo ed anche le condizioni storiche di
questo; giacche la vita vegetale ed animale nella loro lunga storia, come
elidono a modificare lo stato del terreno, contribuiscono ancora a
modificare la vita vegetale ed animale, onde animali si nutrono m modo più o
meno rigoglioso di piante e di altri animali; e la dissoluzione delle piante e
degli animali rende più energica la vitalità delle piante.
hin qui vi ò un processo puramente inconscio di movimenti naturali
e di elementi, di cui gli uni hanno valore per gli altri, -la, benché
l’animale distingua ciò che può avere un valore Ku- lui (positivo o
negativo), come l’alimento, l’acqua, la tana, .1 c ura pei figli, la
ricerca del clima a lui propizio, la fuga dai leiicoli, alcune di queste
cose sono un prodotto puramente naurale, che l’animale trova d’ innanzi a sé;
solo alcuni animali ivendo il potere limitato di costruirsi il nido e la
tana altre i Olio tenomeni istintivi. Apparso l’uomo con l’intelligenza
di cui è dotato, che egl’esercita e sul mondo circostante e su sé stes.so, il
suo organismo I sua anima, e tutto ciò che ha fiuto suo, nel mondo
esterno Ultra la natura e gli elementi che la costituiscono,
acquistano I 11 pili alto valore. Studiando sé stesso, egli non può non
avvcrtire e scoprire i bisogni, le lacune che si generano conti1 uamento nel
suo organismo e nel campo della sua mente; e con la sua intelligenza
prevede i bisogni avvenire. Nello stesso t ‘inpo, essendo messo in
rapporto col mondo esterno, egli studia questo negli elementi, nelle
qualità e proprietà, che lo costituis-ono, nei suoi movimenti; cerca di
adattarlo a sé; e non solo d colmare i suoi bi.sogni per mezzo di qualche
cosa, di qualche elemento di esso;
ma anche di elevare il proprio benessere, di assicurarlo per sè ed i suoi
per l’avvenire. Tutto questo processo è avvenuto dal principio della
storia dell’ uomo sulla terra e si è andato progressivamente affermando,
intensificando e svolgendo, sino a noi. E non solo non si è arrestato; ma con
lo studio progressivo della natura, nella sua materia e nelle sue
forze, .sembra voglia assumere proporzioni più vaste anche nel
nostro tempo in cui non si lascia nulla di tentare e di studiare
per applicarlo al miglioramento ed al progresso umano. Questo lavoro
l’uomo ha compiuto empiricamente ed inconsapevolmente dai primi tempi; e più
tardi in modo più o meno scientifico, organico e progressivo. Cosi deve
essere inteso il progresso che l’umanità ha fatto nel campo del sapere. A
questo progresso nel regno della conoscenza si è andato sempre associando
un progresso nell’ attività pratica la quale è divenuta anche materia di
studio per l’ uomo; questi due ordini di attività essendo 1’ uno
indivisibile dal’ altro e l’uno stimolando 1 altro nel suo sviluppo. A
questo processo coiioscitivm e pratico, che implica un lavoro distintivo
delle cose si è associato un progresso nel linguaggio. Ad ogni atto
distintivo o cosa distinta applicandosi una nuovni parola, ciò ha
contribuito al lavoro di associazione e di conservazione delle conoscenze
e delle attività umane. Sarebbe un lavoro importante ma lungo
seguire questo fenomeno nella storia, per cui si è riconosciuto un valore
ad un dato minerale, ad una data pianta o animale, che hanno contribuito
alla soddisfazione di un bisogno organico o al mantelli mento della vita
o a dare certe comodità. Si è riconosciuto nelle parti di alcune piante e
nelle sostanze animali un valore nutritivo e conservativo. E il primo valore
che l’uomo ha cercato nelle cose è stato quello che ha potuto contribuire
a mantenerlo in vita, come ha tatto 1 animale. Sono state cioè le cose
necessarie che egli ha cercato. Fatto sicuro del vivere, egli ha cercato
a ben vivere; quindi la ricerca e l’uso delle cose utili. Ma, accanto a questa
attività, si è sviluppata quella inventiva, per cui egli, aiutato sia dal
suo ingegno che dalle scoperte scientifiche, ha cercato di costruire
istrumenti, congegni, apparecchi e più tardi, macchine, che
contribuissero a modificare le inatGrie che dovessero essergli utili. Sicché da
una parte ha impiegato le sue attività intellettive a scoprire, nei regni
delia natura, elementi, sostanze, energie, che potessero giovargli, dall’altra
ha cercato di trovare i mezzi per servirsene. Queste attività dal
loro più primitivo inizio nella storia sino a noi, attraverso i millenni,
si sono andate svolgendo ed estendendo con l’estendersi delle comunicazioni e
delle associazioni umane. Sarebbe una ricerca importante seguire nella
storia il processo per cui 1’ uomo, singolo da prima, ha trovato
un’utilità in un dato animale, in una pianta o in un minerale. Si può
rintracciare questo cammino nelle letterature antiche, medioevali e
moderne di tutte le nazioni; giacché in varie epoche si vedono nominati
speciali metalli, piante ed animali, ai (]uali o alle parti dei quali 1
uomo ha attribuito un valore e di cui si é servito. Così l’uomo mano a
mano ha aggiunto al valore delle cose, latente ed inconscio, un nuovo
valore. E, se da prima questo era qualche cosa di limitato, più tardi al
primitivo valore si sono aggiunti nuovi valori, nuovi usi della cosa;
nuovi congegni si sono inventati, nuovi metodi si sono adoperati per poter
estrarre la cosa, modificarla, farla servire ai vari usi della vita;
metterla in commercio affinché tutti gli uomini ne godano. Tanti
metalli e metalloidi che dalle epoche primitive della natura erano
sepolti nelle viscere della terra, aventi una semplice potenzialità di
valore chimico, vengono disseiipelliti dall’uomo ed ai quali la civiltà
moderna dà alte attribuzioni economiche, come l’oro, 1 argento, il ferro,
il rame, il solfo, il carbonio, ecc. Hi sa che se presentemente ipiesta
sola unica sostanza, il carbonio, venisse a mancare, tutto il ritmo della
vita contemporanea verrebbe arrestato. Giacché é un istrumento di
moltiplicissime attività tisiche, meccaniche, chimiche e perciò, si può
dire, rende possibile la vita economica del nostro tempo. Ma questi bisogni
acciescono l’attività umana la quale si volge a rintracciare le sostanze
di cui ha bisogno, da per tutto, cosi sulla superficie ionie nelle
viscere della terra. Anche le forze fìsiche le quali prima erano in balla
della natura, come le forze meccaniche, il calorico, la elettricità, sono
state non solo conquistate e dominate dall’uomo ma ancora dirette e
specializzate per la produzione di certi dati movimenti, beni o comodità
della vita. La forza meccanica e l’elettricità hanno dato un impulso
straordinario alla civiltà odierna. Più tardi l’uomo crea e dà certe
attribuzioni di valore alle cose, come fa con la moneta, tanto necessaria
al mondo economico. Inoltre il valore acquista un nuovo e più alto
contenuto ed un significato nuovo nel mondo psicologico ed artistico,
come nella sfera religiosa. Ma in queste ultime e così alte sfere
dell’attività umana tale dottrina merita una trattazione a parte. Nome
compiuto: Nicolò
Raffaele Angelo D’Alfonso. N. R. D’Alfonso. Nicolò d'Alfonso. Keywords: principii economici dell’etica,
valore superiore, valore inferiore, economia, principio di economia di sforzo
razionale – scambio, exchange – worth, assiologia, valore economico, l’economia
di Platone, l’economia di Aristotele, linceo, dissertazione su Kant ai lincei –
naturalismo economico – no positivista – critica a la psicologia criminologica
positivista, Amleto, lo spettro di Amleto, Macbeth. Linguaggio e mente, il sole
luminoso, l’oggetto rotondo, la pianta fiorisce – logica reale – psicologia del
linguaggio, la storia del linguaggio, storia e prestoria. Refs.: Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Alfonso,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Algarotti: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Venezia –
filosofia veneziana – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Venezia). Filosofo veneziano. Filosofo veneto. Filosofo italiano.
Venezia,Veneto. Grice: “You’ve got to love ‘il conte Algarotti’; he is the
typical Italian philosopher of language, relishing on ‘la bella lingua,’ by
which they do not mean the Roman! “La Latina, in bocca di un popolo di soldati, e concise e
ardimentosa.’” Grice:
“Algarotti thinks that the Florentines have enriched it – ‘Imagine Aligheri in
Latin!” – Grice: “All that should be lost on Oxonians, but it
ain’t!” – Consider ‘conciseness.’ One of my conversational maxims is indeed,
‘be concise, i. e. or viz., avoid unnecessary prolixity [sic].” – So, if the
Roman tongue was the tongue of soldiers, and a soldier needs to be concise in
communicating with another soldier – The justification of the maxim is in the
practice of ‘soldiering.’ With ‘ardimentosa’ we have moer of a problem!” – Grice:
“In any case, Algarotti’s excellent point is that each conversational maxim has
its root in the practice of the corresponding conversants!” -- Grice: “Nobody
can fail to be enchanted by the drawing by Richardson of Algarotti!” -- essential
Italian philosopher. Grice: “I don’t have a monicker, but Algarotti had two: il
cigno di Padova and il Socrate veneziano. Spirito
illuminista, erudito dotato di conoscenze che spaziavano dal newtonianismo
all'architettura, alla musica, è amico delle personalità più grandi dell'epoca:
Voltaire, Argens, Maupertuis, Mettrie. Tra i suoi corrispondenti vi sono Chesterfield,
Gray, Lyttelton, Hollis, Metastasio, Benedetto XIV, Brühl, e Federico II di
Prussia. Saggi. Nacque da una famiglia di commercianti. Dopo un
primo periodo di studio a Roma continua gli studi a Bologna, dove affronta le
diverse discipline scientifiche nella loro vastità. Si trasfere a Firenze per
completare la propria preparazione letteraria. Inizia a viaggiare, raggiungendo
Parigi. Presentare il proprio newtonianismo, opera di divulgazione scientifica
brillante. Il saggio è prima apprezzato, e poi denigrato da Voltaire, che dal
lavoro del suo caro cigno di Padova — come è solito appellarlo — trasse alcuni
temi dei suoi Elementi della filosofia di Newton. Voltaire e A. si sono
conosciuti personalmente a Cirey nello stesso periodo in cui l'italiano
preparava il saggio. Dopo il periodo trascorso in Francia, A. si reca in
Inghilterra, per soggiornare per qualche tempo a Londra, dove è accolto nella
Societa Reale. Tornato in Italia si dedica alla pubblicazione del Newtonianesimo.
Dopo un breve ritorno a Londra, anda a visitare alcune zone della Russia
(fermandosi in particolare a San Pietroburgo) e della Prussia. Quando il
re Federico si reca a Königsberg a incoronarsi, A. si trova in mezzo gl’applausi
e il giubilo di quella potente e valorosa nazione misto e confuso coi principi
della famiglia reale, e stette nel palco col re, spargendo al popolo sottoposto
le monete con l'immagine di Federico. Fu in tale congiuntura che questi conferì
a lui, quanto al fratello Bonomo e ai discendenti della famiglia Algarotti, il
titolo di conte, meno vano quando è premio del sapere, e lo fa suo ciambellano
e cavaliere dell'ordine del merito, mentr'era alla corte di Dresda col titolo
di consigliere intimo di guerra. Dal momento che conosce Federico né
l'amicizia, né la stima del re, né la gratitudine, la devozione e il sincero
affetto del cortigiano vennero meno, né soffersero mai alcuna alterazione. L’amicizia
fra A. ed il re e estesa anche alla sfera più intima. Il re lo volle non solo a
compagno degli studi e dei viaggi, ma altresì dei suoi più segreti piaceri,
essendoché della corte di Potsdam, ora fa un peripato, ed ora la converte in un
tempio di Gnido, il che significa: in un tempio di Venere. Utilizza la
propria influenza anche a favore degli oppositori filosofici a Venezia,
Bologna, e Pisa. Altre saggi: “Viaggi di Russia”; “Il Congresso di Citera” -- un
romanzo dedicato ai costumi galanti e amorosi rivisitati secondo quanto
osservato nei diversi luoci in cui soggiorna. Altre opere: edizione con indice
analitico – reproduzione anastatica -- Poesie -- Epistole in versi --
Annotazioni alle epistole -- Rime giusta l'ediz. di Bologna -- Elegia ad
Francisci Marive Zanotti Carmina -- Dialoghi sopra l'ottica Neutoniana -- Breve
storia della Fisica ed esposizione dell' ipotesi del Cartesio sopra la natura
della luce e de' colori. I principi generali dell'ottica -- La struttura
dell'occhio e la maniera onde si vede; e si confutano le ipotesi del Cartesio e
del Malebranchio intorno alla natura della luce e de colori -- Esposizione del
sistema d'ottica neutoniano. Il principio universale dell'attrazione --
Applicazione di questo principio all'ottica -- Si confutano alcune ipotesi
intorno la natura de colori, e si riconferma il sistema del Neutono -- Opuscoli
spettanti al neutonianismo. Caritea, ovvero dialogo in cui spiega come da noi
si veggano dritti gli oggetti che nell'occhio si dipingono capovolti e come
solo si vegga *un* oggetto, non ostante che negli occhi se ne dipingano *due*
immagini -- Dissertatio de colorum immutabilitate eorum que diversa
refrangibilitate -- Memoire sur la recherche entreprise par m. Du fay, s'il n'y
a effectivement dans la lumie re que trois couleurs primitives -- Sur les sept
couleurs primitives, pour servir de réponse à ce que m. Dufay a dit à ce sujet
dans la feuille du Pour et contre -- Le belle arti. L'Architettura. La Pittura.
L'Accademia di Francia ch'è in Roma. L'opera in musica. Enea in Troja. Ifigenia
in en Aulide: opera -- Sopra la necessità di scrivere nella propria lingua --
La lingua francese -- La Rima -- La durata de' regni de' re di Roma -- L'impero
degl'incas -- Perchè i grandi ingegni a certi tempi sorgono tutti ad un trat o
e fioriscono insieme -- se le qualità varie de' popoli originate sieno dall'
influsso del clima, ovveramente dalle virtù della legislazione -- Il
gentilesimo. Il Commercio -- Cartesio -- Orazio -- La scienza militare del
segretario fiorentino. Discorso militare -- La ricchezza della lingua italiana
ne' termini militari -- Se sia miglior partito schierarsi con l'ordinanza piena
oppure con intervalli -- La colonna del cav. Folfrd -- Gli studj fatti da
Andrea Palladio nelle cose militari -- L'impresa disegnata da Giulio Cesare
contro a' Parti -- L'ordine di battaglia di Koulicano contro ad Asraffo capo
degli Aguani. L'ordine di battaglia di Koulicano a Leilam contro Topal Osmano.
Gl'esercizi militari de' prussiani in tempo di pace -- Carlo XII re di Svezia
-- La presa di Bergenopzoom. La potenza militare in Asia delle compagnie
mercantili di Europa -- L'ammiraglio Anson -- La scienza militare di Virgilio
-- La guerra insorta tra l'Inghilterra e la Francia -- Il principio della
guerra fatta al re di Prussia dall' Austria, dalla Francia, dalla Russia, etc. --
Gl'effetti della giornata di Lobositz -- La condotta militare e politica del
ministro Pitt -- Il poema dell'arte daila guerra -- Il fatto d'armi di Maxen --
La pace conchiusa l'anno MDCCLXII tra l'Inghilterra e la Francia -- La giornata
di Zamara -- Viaggi di Russia -- Storia metallica della Russia -- Lettere a
milord Hervey sopra la Russia -- Lettere al marchese Scipione Maffei sullo
stesso argomento -- Congresso di Citera -- Giudicio di Amore sopra il Congresso
di Citera -- Vita di Stefano Benedetto Pallavicini -- Sinopsi di una
introduzione alla Nereidologia -- Lettera sopra il prospetto o Sinopsi della
Nereidologia. 387 Risposta dell' Autore -- Gl'effetti dell'invasione dei goti e
de'vandali in Italia -- Le Accademie -- Michelagnolo Buonarroti -- Gl'italiani
-- Il passaggio al sud per il norte -- L'industria. Gl'inglesi -- Bernini --
Metastasio -- Gl'abusi introdottisi nelle scienze e nelle arti -- Le donne
celebri nella letteratura -- La difficoltà delle traduzioni -- Il commercio --
Fontenelle -- La forza della consuetudine -- L'utilità dell' Affrica per il
commercio -- Il secolo del seicento -- Ovidio -- Cicerone -- Plutarco -- I
romani -- L'etimologie -- I principi dotti -- L'eleganza nello scrivere
del Vasari e del Palladio -- Galilei -- La maniera onde si venre a popolar
l'America -- Dante Alighieri -La lingua francese -- Voltaire -- Euclide -- Le
misure itinerarie degli antichi -- La questione della preferenza tra gli
antichi e i moderni -- Il secolo presente -- Omero -- Lettere di Polianzio ad
Ermogene intorno alla traduzione dell'Eneide del Caro -- La Pittura --
Descrizione dei quadri acquistati per la Galleria di Dresda -- La prospettiva
degli antichi -- Pitture ed altre curiosità di Parma -- Pitture di Mauro Tesi
-- Pitture di Cento -- Pitture di Bologna -- Pitture di varie città di Romagna
-- L'Architettura -- Un'antica pianta di Venezia, prete so intaglio di Alberto
Durero -- L'uso dello appajar le colonne -- L'origine delle basi delle colonne
-- Descrizione dei disegni di Palladio ed altri per la facciata di s. Petronio
di Bologna -- Delle antichità ed altri edifizj di Rimini -- Delle cose più
osservabili di Pisa -- Progetto per ridurre a compimento il R. Museo di Dresda
-- Argomenti di quadri dati a dipingere a' più celebri Pittori moderni per
la R. Galleria di Dresda -- Lettere scientifiche -- Lettere erudite -- Il
Cesare tragedia di Voltaire -- EUSTACHIO MANFREDI -- Saggio tritico sulle
facoltà della mente umana dello Swift -- L'opera de natura lucis del Vossio --
Omero -- I poemi del Tasso -- Milton -- La traduzione di Omero fatta dal Salvi
-- Il poema le Api del Rucellai -- Iscrizioni ed epitaffj rimarcabili --
Sandersono -- Iscrizioni per la chiesa cattolica di Berlino -- Le traduzioni
delle sue opere -- Il moto dell'apogeo della luna -- Le comparazioni -- Gli
Scrittori italiani del cinquecento -- L'ANTI- LUCREZIO del card. di Polignac --
Gl'abitanti del Paraguai -- Alcuni plagiati de' francesi -- Le cose che i
irancesi hanno imparato dagl'italiani -- L'invenzione degli specchj ustorj di Buffon
-- L'Edipo di Sofocle -- L'ULISSE del Lazzarini -- L'elettricità -- Il CATONE
dell' Addison -- Elogio di Giovanni Emo -- I fosfori -- La doppia rifrazione
de' prismi di cristallo di rocca. -- La diffrazione della luce. 355 rocca -- Le
Poesie di Gio: Pietro Zanotti -- Pope -- Lo stile di Dante -- L'opinioni del
Rizzetti intorno la luce -- La stranezza di alcuni paralelli -- Il poema di
Milton -- Il libro De orli et progressu morum del p. Stellini -- Elogio del
Caldani -- Gl'influssi della luna -- L'abuso della filosofia nella poesia -- Il
Poema del Trissino -- La maniera di seminare insegnata da Alessandro del Borro
-- L'operetta Il Congresso di Citera -- Pregi degli scrittori toscani -- Le due
tragedie di Mason r Elfrida ed il Carattaco -- L'odi di Tommaso Gray -- La
necessità di arricchire di voci toscane il dizionario della Crusca -- La
deformità di Guglielmo Hay. Il gnomone di Firenze rettificato dal p. Ximenes --
Storia de' Dialoghi dell' Autore sopra la luce e i colori -- L'origine
dell'Accademia della Crusca -- Carteggio con Tesi -- Lettere a Zanotti --
Lettere a Conti -- Carteggio con il p. d. Paolo Frisi. Lettere. Di Eustachio
Manfredi al co. A. -- Di Giampietro Zanotti al co. A. -- Di Francesco Maria
Zanotti al co: Algarotti -- Del co: A. a Zanotti -- Del co: A. a Zanotti --
OPERE INEDITE. Lettere. Di Francesco Maria Zanotti al co: A. -- Di Zanotti al
co: A. -- Del co: Algarotti a Francesco
Maria Zanotti -- Dell' ab. Metastasio al co: Algarotti -- Dell' ab. Frugoni --
Di Fabri -- Di Flaminio Scarselli -- Di Benedetto XIV. Sommo Pontefice. -- Del
co: Paradisi -- Del co: Giammaria Mazzuchelli – Di Giacomelli. Del co: A. a Scarselli
-- Del co: A. a Benedetto XIV -- Del co: A. a Mazzuchelli. Dell ab. Clemente
Sibiliato al co: A.—Di Bettinelli -- Del consigliere Pecis -- Di Beccari – Di Maffei
-- Del co: Aurelio Bernieri – Di Brazolo. Di Bianconi.. Del padre Paolo
Paciaudi. Del marchese Gio: Poleni. Di Antonio Cocchi. 291 Del doge Marco
Foscarini. Dell' ab. Giammaria Ortes. Di Grimaldi. Di Metastasio. Di Belgrado.Di
Bianchi. Di Temanza. Del padre Antonio Golini. 350 Dell'ab. Gaspero Patriarchi.
Di Giuseppe Bartoli. Di Pozzo. Del marchese Bernardo Tanucci. 383 Dell'ab.
Spallanzani. Di Martorelli. Di Lazzarini. Del co: A. all'ab. Sibiliato. 3 Del
co: A. A Bettinelli -- Del co: A. al consigliere Pecis --Del co: Algarotti al
co: Aurelio Bernieri. -- Di Federico II. Re di Prussia al co: A. -- Del
Principe Guglielmo di Prussia -- Del Principe Ferdinando di Prussia -- Del
Principe Enrico di Prussia -- Del Principe Brünswic -- Del cardinale di Bernis
-- Del sig. du Tillot. Del co: A. a Federigo II -- Del co: A. al Principe
Guglielmo -- Del co: A. al Principe Ferdinando -- Dello stesso al Principe
Enrico -- Dello stesso al Principe Ferdinando di Brünswic -- Dello stesso al
cardinale di Bernis -- Della marchesa di Châtelet. Di Voltaire -- Di Maupertuis
-- Di Formey ---- Del.co: A. a Voltaire -- Del co: A. a Formey -- Dello stesso
a madama Du Boccage -- Di mad. Du Boccage al co: Al. -- Del co. A. alla
stessa -- Del triumvirato di CRÀSSO, POMPEO E CESARE. È sepolto nel
camposanto di Pisa in un monumento di stile archeologizzante, tradotto in marmo
di Carrara. L'epitaffio è quello che per lui dettò il re di Prussia: “Algarotto
Ovidii aemulo” -- Neutoni discipulo,
Federicus rex". Algarotti medesimo si era preparato il disegno del
sepolcro e l'epitafio, non già per orgoglio, ma spinto dal sacro amore del
bello che anche in faccia alla morte non poteva intiepidirsi nel suo petto. Aperto
al progresso e alla conoscenza razionale, esperto del bello (si prodiga come
fautore di Palladio), fu rispetto alla filosofia un grande assertore delle
teorie di Newton, sul conto del quale scrisse uno dei suoi più noti saggi, Il
newtonianesimo. Viene considerato una sorta di Socrate veneziano e per
comprendere la sua statura di insigne filosofo con un'infinita sete di sapere e
divulgare è sufficiente porsi davanti al suo innumerevole campo di interessi.
Al di là del suo ruolo di spicco nell'illuminismo filosofico, fu anche un
diplomatico e un procacciatore d'arte. In particolare viaggia cercando
antichita romani per conto di Augusto III di Sassonia. È noto che fu a comprare
a Venezia il capolavoro di Liotard, il pastello de La cioccolataia, che poi
divenne una delle perle a Dresda. Di bell'aspetto, dotato di un aristocratico
naso aquilino (esiste al Rijksmuseum uno suo ritratto a pastello, sempre di
Liotard, nel Saggio sopra Orazio non perde occasione di far notare come questi
fosse ambi-destro, e tanto lodava i vantaggi di questa disposizione, che c'è
chi suppone che egli la condividesse. Ebbe a filosofare praticamente su tutto,
affrontandocon l'acuta attenzione dello scienziato presso ché ogni aspetto
dello scibile umano. Basti ricordare i saggi “Sopra la pittura”; “Sopra
l'architettura”; “Sopra l'opera in musica”; “Sopra il commercio”; “Poesie”. Il
demone ben temperato. tra scienza e letteratura, Italia ed Europa,
Sinestesie, Note Umberto Renda e Piero Operti, Dizionario
storico della letteratura italiana, Torino, Paravia, 195226. Ugo Baldini, BRESSANI, Gregorio, in
Dizionario biografico degli italiani,
14, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Treccani Enciclopedie Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Francesco
Algarotti, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A.,
su Enciclopedia Britannica, A., in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A., su Find a Grave. Opere di A., su Liber Liber. Opere di A. A. (altra versione), su open MLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Francesco Algarotti,. Spartiti o libretti di A.,
su International Music Score Library Project, Project Petrucci LLC. Progetto per ridurre a compimento il Regio
Museo di Dresda su horti-hesperidum.com. Sito A. dell'Treviri, su
algarotti.uni-trier.de. La casa d’A. è aperta da settembre come alloggio turistico. A. e Palladio, su
cisapalladio. Il newtonianismo per le dame, su google.com. Opere del conte A.,
su google.Corrispondenza con Federico II di Prussia V D M Illuministi italiani
-- LGBT
LGBT Letteratura Letteratura
Teatro Teatro Categorie: Scrittori
italiani del XVIII secolo Saggisti italiani del XVIII secolo Collezionisti
d'arte italiani Venezia PisaTeorici del restauro Illuministi Scrittori
trattanti tematiche LGBT Membri della Royal SocietyViaggiatori italiani Mercanti
d'arte italiani. Il conte A. adunque per più ragioni, secondo che egli dice,
entra in pensiero, che della metà a un di presso s'avesse ad accorciar la
durata de’ regni de’ re di Roma. Alcune di queste possono considerarsi come certi
sguardi, che getta ad un traito sopra tutto il corso degli anni, che. E per
trattare ordinatamente la quistione reputo necessario l'accennare prima ditutto
il cammino, che ho avvisato dover battere per giungere al vero. Breve lavoro
sarebbe pertanto i l rispondere alle opposizioni della prima maniera, che fa
contro le epoche dagli antichi fissate alla storia de' re, in ispecie a quelle,
che sono in principio del suo saggio, le quali sono tratte, direi cosi, dalla sola
natura del soggetto. P r ciocchè alcune ch'egli aggiugne in fine del suo
saggio, quantunque risguardino in genere tutto il tempo della durata de' sette
regni, contuttociò tratte sono dagli avvenimenti narrati dagli storici, e sono
come un fidicono passati. Sotto cotesti Re. Altre, e queste sono in
maggior copia, risguardano più particolarmente ciascun regno, e s'in gegna con
tutto questo di dimostrare, com e i fatti, che dagli storici, e principalmente
da Livio ci furono tramandati, facciano guerra alle epoche assegnate da esso
altri scrittori di quelle storie; le quali ragioni io non istimo Livio
medesimo, e dagli essere di tal peso, che s'abbia -perciò ad infringere
l'autorità degli storici, ed abbre viare della metà circa la durata de'mentovati
Regni. un risultato delle osservazioni sue sopra ciascun regno. Ma riesce
poi più lunga faccenda il togliere quelle contraddizioni, e ripugnanze, che dice
ritrovarsi tra i fat tiregistrarinegli annali degli storici, e le epoche da elli assegnate.
Ben è vero, che per questo rispetto chi volesse restringersi unicamente a
mettere la cosa in dubbio, quella stessa facilità, con cui prese per guida
que’.foli Storici, che gli andavano a grado, e fece scelta di que ' foli luoghi
di questi, che gli erano favorevoli, potrebbe appigliarsi ad altro Scrittore,
oppure ammertendo gli stesii sceglier da quelli que'luoghi (che al certo non
gli mancherebbono), i quali favorissero l'antico cronologico sistema. Ma questo
sarebbe porre folianto, c o m e disli, in dubbio la cosa; anzi il far vedere,
che non mancano testimonianze in favore sia dell'una, che dell'altra opinione,
riuscireb be di non poca confusione, e darebbe a credere a' poco avveduti, che
la quistione definir non sipossa. Onde io credo, che far si debba un passo più
oltre, vale a dire non appagarsi di ridur la cosa a tal segno soltanto,che
vengano ad indebolirfi le ra gioni addotte d’A. contro l'antico Cronologico
Sistema, per m o d o che non che per l'altra, o pure anche che
venga non fiavi per una parte ragion più forte, a rendersi più probabile
l'antico Sistema, m a di più innalzarlo al grado delle cose più fi cure, che
affermar si possano di quella pri ma età di Roma:ilche per recare adef fetto si
dovrebbono esaminare le qualità, ed il particolarcaratteredi ciascuno degli
Storici, che scrissero gli avvenimenti di que' secoli, e confrontandone i
luoghi, far ragio ne dal tempo, in cui vissero, dal fine,per cui presero a
dettare le loro Storie, in somma ad operarsi per conciliarli fra di loro, ed
accertarsi per mezzo di una sana Critica della verità de'fatti, onde
chiaramente siscopra, se questi, ove sieno ben accertati, sieno poi tali, che
all'epoche ripugnino. Ora adunque seguendo lo stesso ordine te nuto dall'Autore
nel Saggio suo, allorchè mi sarò ingegnato di rispondere a quelle generali
opposizioni, ch'egli fa, e dopo che avrò delineato non dirò già un ritratto, m
a un lieve abbozzo de'tre principali Scrittoridelle Storie di Roma sottoi Re,
mi farò distin tamente ad esaminare quelle irragionevolez ze; ed anche
ripugnanze, com'ei le chiama, per cui stimò doversi abbreviar ciascun R e gno,
e per conseguente di molto, cioèdella i b metà metà forse,
doversi scemar la durata di tutti fette iRegni. Si risponde ad alcune
obbiezioni, che fa A. coniro l'antico dero no, CAPO Cronologico Sistema.
Per farci a considerar quelle ragioni, che adduce prima di tutto l'Autor nostro
nel suo Saggio, e che tutta la quistione abbraccia fa d' ilpremettere, uopo, e
che gli mette troppo bene a conto, ed è che i fatti fieno staticonservati
illesi dalla semplice tradizione, che tro egli chiama vaga, senza ajuto degli A
n nali,i quali perirono nelle fiamme, cui die 1 noftri ultimi tempi alcuni
Letterati Francesi dell'antica avanti Pirro osservato Storia molti luoghi
avendo Roma farono doverne dubitar della certezza nel qual dubbio se fosse per
avventura 'egli en trato, non opporre che, essendo il tutto dubbioso egualmente
egli un partito Ora è da avvertire prender che a questi di sottilmente, p e n
più ragionevolmente potrebbe i fatti dagli Storici narrati all'epo di mezzo per
al dero in preda i Galli la Città di Roma, e le epoche sieno state
interamente distrutte da quell'incendio, nè per quelte sole tradi zioni veruna
valendo, abbiano dovuto gli Storici posteriori immaginarsele a senno loro. Il
qual partito, soggiugne il noitro Autore, ben volentieri presero essi, trovando
modo di appagar con questo quel natural deside rio,che,nonmeno diciascuna
famiglia, ha ciascun popolo di spingere, come e'fece ro, tant'oltre quanto
poterono nella oscuri rità de'tempi la propria origine. E quello che è più lidà
a credere,che a ciò fare giustificati fossero dalla opinione, la quale ei dice
ch'essi aveano, che tante generazio ni corressero quanti Re; onde circa tre R e
gni largamente in ogni secolo si avessero a porre, essendo ogni generazione di
trentatrè anni: laddove egli pensa, che più brevi di molto sieno di Regni, non
giungendo questi l'uno fagguagliato coll'altro se non ai di. ciotto o vent'anni,
secondo che scrisse il Neurone (a), la qual legge, segue egli a dire, si vede
confermata in quella unga fe rie d'Imperadori, che da Yao infino a ' di b2 (a)
“The Chronology of the ancient kingdoms of Rome, amended by Newton. Veggansi
le due tavole Cronologiche in fine. nostri tennero il vasto Impero della
China, D a tutto questo si raccoglie fupporsi dall'Au tor noftro, che quella
vaga tradizione, la quale conservò gli avvenimenti, comechè facili a ricevere
alterazioni, a cagion delle molte circostanze, che fogliono accompagnarli, anzi
che conservò, c o m e di alcuni dovrem notare le epoche precise, in cui non
abbia potuto conservare le altre epoche più notabili, vale a dire la durata di
ciascun Regno, e per conseguen te la somma dello spazio di tempo,che ab
bracciarono tutti isette Regni insieme,quan tunque cosa non meno importante di
m o l tiffimi fatti, che pur furono da cotesta sua tradizion conservari, e non
capace di pren dere come ifatti diverso alpetto passando per le bocche degli
uomini. Non troppo ra gionevole pertanto mi sembra la sua preten. fione, e per
asserire, che gli Storicidique' primi tempi di R o m a non fossero informati di
queste epoche, farebbe mestieri produrre qualche testimonianza, o almeno
congettura, da cui si potesse chiaramente inferire che di quelle veramente
informati non fossero, la qual cosa non facendo egli, io ftimo, che non maggior
ragion fiavi per credere a' fatti, che alle epoche. Cie seguiti sono 1 Ciò
posto o è l'antica Storia di Roma del pari tutta dubbiofa, e d in questo caso
inutili sono le osservazioni sue, o è del pari certa tanto a' farti, ed
rispetto alle epoche allora non hassi a dire,che le, quanto i che sieno state
supposte ci. Senzachè se gli Storici si fossero i m m a ginato a piacer loro le
durate de'Regni se condo la legge delle generazioni, com'egli pensa, non si
sarebbono tolto la briga di far registro di quanti anni precisamente sia stato
ilRegno diciascun Re, edavrebbonodato qualche cenno d' aver seguita una tal
legge; fe pur non vogliam credere, non che seguit sero una regola da essi
giudicata sicura,ma che avessero concepito di tessere un dolce inganno
a'contemporanei loro, il che, senza che se ne adducano le prove, conceder non
si dee a giudizio mio per modo nessuno. epo da'pofteriori Stori- [il malizioso
disegno 1 Quantunque però sia abbastanza Ito, che, quand'anche tutta l'antica
Storia di Roma fi fosse, non solo ugualmente per semplice tradizione conservata
instrutti della Cronologia, che de'fatti por si debbano gli Storici mentovati;
nulla dimeno, fia per salvar dalle fiamme questa Cronologia, d a cui divorata,ma
anche più manife la presume ľ sup Aus b due (6)Quae
incommentariisPontificumaliisquepublicisprive. tisque erant monumentis incenfa
urbe pleraeque interiere. T.Liy. Dec. I.Lib. VI.inprinc. Plut. in Numa
inprinc. non che vorrà negare. Autor noftro, sia perchè resti maggiormen
te confermata la certezza dell'antica Storia di Roma (la quale a vero dire già
ha a v u to troppo più valorosi difensori di quello ch'io m i sia ) stimo
pregio dell'opera il *mostrare, che non fu poi, qual per alcuni si dipinge,si
funesto l'incendio de'Galli per gli annali di Roma. E per cominciar da Livio,
della testimo nianza di cui si fiancheggia in prima il no ftro Autore, oltrechè
mostreremo fra breve, che a lui non poco premeva di fare passar per dubbiosi
gli antichi avvenimenti seguiti avanti l'incendio de'Galli, se si considera no
attentamente le parole di lui (b), que ste non vengono a dir altro, se buona
parte de'monumenti perì in quelle. fiamme,ilche nè io, nè alcuno, penso,
Plutarco poi non dice altro, se non che, secondo quello, che avea osservato un
certo Clodio,supposte erano alcune m e m o rie appartenenti a Numa, essendo le
vere mancate nella presa di Roma. Se da questi ро . 23 due luoghi
di LIVIO, e di Plutarco si possa inferire, che abbiano gli Archivj di Roma
fofferto un generale incendio, lo lascio al giudicio de'giusti estimatori delle
cose. Se Roma fosse itata inaspettatamente presa di asfalto, non riuscirebbe
forse difficile ilcon cepirlo;ma ad ognuno è noto,che iRo mani, dopo l'infaufta
giornata di Allia, in cui furono da’Barbari sconficci, vedendo di ·non potere
per modo nessuno difendere la Città dal vittorioso esercito de'Galli,ebbero
ancora tale spazio di tempo (tre giorni
dicono DiodoroSiculo, e Plutarco) da po ter fornire di munizioni il
Campidoglio,m e t tervi alla difesa il miglior nerbo della solda tesca, i più
valorosi Senatori, e la più vi gorosa gioventù, ove ancora per teftimo nianza
del medesimo Diodoro posero in fal v o quant' oro, argento, vesti preziose, e
cose rare, che s'avessero (f): ebbero t e m b4 Diodor. Sicul, non le
Vertali di ricoverarsi a Cere, non r é itando nella Città fe non que'venerandi
vecchị, che vollero rimanervi. Ora adunque Liv ) Diodor. Sicul. Bibliot. Stor.
ed. Amft.. Plut. in Camillo. ed incerta, ma poco o nulla men pregevole delle
Storie medesime, di cui abbiamo fatto parola sopra, e per mezzo di cui, secondo
quello che abbiamo osservato, riesce non avranno o i guerrieri rinchiusi
nella roca o quelli, che lisottrassero colla fuga. all' eccidio della Città,
falvati dalle fiamme quegli antichi Annali? I n verità bisognereb be far forza
a noi medesimi per idearci Romani accesi com'erano dell'amor Patria, e
solleciti di ogni cosa, che potesse fervire alla gloria di quella, così Voffius
de Hift. Lat. O p a i della ca, ranti delle proprie poco Storie.M a supponiamo
cu che,che questi an fossero periti; il famoso Vossio Annali osserva tacciar
non per questo tica Storia dubbia credibile l'an avessero di Roma, essendo pur
anche i loro Annali, che le circon fi dovrebbe vicine Città, con tuto ad un
bisogno loro; ed in secondo alle luogo non essereda cre dere, che coloro
fra'Romani, i quali li legge vano, custodiyano duto la memoria, scriveano del
tutto: ed ci riduciamo a quella tradizione vaga,, non però,che di falsa, o cui
i Romani abbiano mancanze supplire, avessero in tal caso po per ed, Amst. CICERONE,
de Orat. de Legib. Nulla enim lex neque pax, neque bellum, nequè res ficnotata:
Corn. Nep. in Attico. Senex Historias fcribereinstituit, quarumsuntlibrisep.
Ma che serve affaticarsi di provare con congetture una cosa, di cui abbiamo
cost chiare, e sicure testimonianze? Non giunse ro gli Annali Maslimi. a'rempi
di CICERONE, e non ne reca egli giudizio in più luoghi. delle opere sue? Onde
Fabio Pirrore, Lucio Pilon FRUGI, Valerio Anziate Scrittori che furono tra
lemani dị Dionigi, e di LIVIO, avranno prese le memorie per dettare le Storie
loro, se non da'monumenti, che avanti l'incendio esistessero? Pomponio A t tico
intrinseco amico di CICERONE, che se condo Cornelio Nipote non tralasciò in certo suo libro di porre
sotto l'epoca pre cisa cosa alcuna riguardevole del popolo Romano, CATONE, il
primo libro delle Storie di cui comprende i fatti de’ Re di Roma come riferisce
lo stesso Cornelio, onde avran tratto i materiali per quest' opere loro? VARRONE
il più dotro de'Romani, uomo al tiesce
non solo ugualmente, m a più credi bile eziandio la Cronologia de'fatti. certo
ili luftris estpopuli Romani, quae non in eo,fuo tempore com,primus continet
res gestasRegum populi Romani Corn. Nep. in Cat. certo di non facile
contentatura,su che avrà fondato l'opinion sua contraria a quella di CATONE circa
al tempo della fondazion di Roma, se non sopra monumenti,che a'suoi tempi
ancora esistessero, in cui fosse accura tamente descritta quella prima età? E,va
gliami per ultimo l'autorità di quel diligen te investigatore delle antichità Romane
Dio. nigi d'Alicarnasso, quante tenebre egli non dilegua coi Commentarj
de’Censori, e con altre memorie, le quali pajono anteriori alla famosa
irruzione de'Galli, o almeno sopra quelle compilate? E non è forse da crede. re,
che a quel Dionigi, il quale dovendo per mezzo di un suo computo fissar la giu
Ata epoca della fondazione di Roma, fi Itu dia di portare tanti monumenti, per
venire in cognizione del numero d'anni, che cor sero dalla deposizion di
Tarquinio insino all' incendiodiRoma,e che circa alla durata de'Regni non muove
la minima que stione, anzi concordando con LIVIO, gli af segna il medesimo
numero di anni;a quel Dionigi,cui è data la lode di esattissimo nel fissar le
epoche, come più sotto vedremo, Dionyf. Halic: Antiq. Rom. ex ed, non
Graeco-Lat. Friderici Sylburgii Lipfiae. Che poi per vantare antichità abbiano
gli Storici allungata la Cronologia, è noto a d ognuno esserregola dell'Arte
Critica, doverfi presumere, che alcuno abbia ingan, nato sulla fola luogo bio non
nato in suo pro l'ingannare, m a doversi a d d'aver egli.veramente ciò fatto;
ed oltre a questo non può cade dur prove manifeste sopra Dionigi., come quello,
ch'essendo straniero re per modo nessuno un talsospetto non era tentato
dall'amor della patria a mentire per adularla, e che fece un particolare ftudio
di chiarire l'antica Storia di Roma. che sarebbetor non mancassero i suoi
fondamenti per accer tartaldurata,come cosa fuord'ognidub congettura, Non
istimo ora del resto dover parlare della diversità, che l'Autor nostro dice cor
Tere tra le generazioni, e le successioni de' Regni;giacchè è manifesto non
aver gli Storici seguito una tal regola, e quand'an. che seguita l'avessero
potendosi far veder di leggieri, che se per alcuni motivi da lui e dal Neutone
addotti sembra, che iRegni debbano riuscir più brevi, che le, per altri
rispetti potrebbe più lunghi restassero tazioni. Tanto più che dovrò accennare
in generazio succedere, che i Regni, che le gene ni luogo più opportuno
quelle regole ch'io stimo doverli osservare, nel fiffar queste g e nerazioni,
potendosi queste sotto diversi a f petti riguardar da ' Cronologi.
(mn)Description de l'Empire de la Chine par le P.Dus Halde.Faites de la
Monarchie Chinoise per dare a divedere, che quella rego Mi basterà per
ora notare, ch' in quella lunga serie degli Imperadori della Cina s'in •
contrano n o n una volta sola, m a diverse fiare sette Regni di seguito, i
quali se non giungono, si avvicinano però assai allo spa zio di tempo, che
tolti insieme durarono i Regni de'Re diRoma:per comprovarla qual cosa giova il
recarne alcuni esempj, che m'è venuto fatto di ritrovare ne'fatti di quella
Monarchia descritti dall'accurato P. Du-Halde (m).Nella prima.Dinastía da Ti
Pou-Kiang insino a Kiè corsero dugento e dodici anni. Nella seconda da
Tching-Tang infino a Tai-Vou passarono dugento e quat tro anni; e nella terza
Dinastía dugento 'e venticinque da Tchao -Vang insino a Li-Vang. Facilmente non
saranno questi foli i casi, in cui,non uscendo dalla serie degli Imperadori
della Cina, fecte Regni di seguito abbiano abbracciato più di due secoli; tanto
però basta la, 2.9 gi la, la quale pure è vera, trattandosi di l u n
ghissimo spazio di tempo, riesce falsa nelle itesse Tavole Cronologiche degli
Imperadori Cinesi, quando si reftringa a fette soli R e gni. Ed ecco come si
vengono a sciogliere tutte quelle diffico'tà inosse dall'Avior no stro per
diminuir la credenza, che prestar fi dee agli Storici, e rendere improbabile in
genere la lunghezza di questi Regni. Ora fa di mestieri farsi a considerare
quelle ragioni, ch'ei deduce dalla ripugnanza dei fatti, di cui fecero gli
antichi Scrittori re gistro,alleepoche,per venireadaccorciar
ciascunRegno:Seiodicesli,che concor dando a un dipresso tutti gli Storici nelle
epoche principali, e circa la durata de'Re-. gni, e discordando ne'fatti,
ilconsenso loro nello afferir la durata dee meritar. troppo maggior fede, e
pertanto doversi come lup-, posti rigettar quegli avvenimenti, e quelle epoche
particolari di alcun fatto, che taluno fra essilasciò ne'suoilibri descritte,
che ripugnano a quello, la di cui certezza è chiaramente,e concordemente da
essi affe rita; se jo ciò dicefli, mi servirei di una ragione più atta a far
forza, che a persua dere. Perciocchè resterebbe sempre una c o tal nebbia, ed
oscurità nella mente de'Lega gitori, non vedendo eglino quali oltre
a que ito fieno i motivi, per cui come falsi s'ab biano'a rigettar questi
fatti, che falli certa mente avrebbono a d essere, quando ad una verità fi
opponeffero. Laonde è convenien te o farne vedere per altre ragioni la fal fità,
o mostrarne la non ripugnanza, quan do, come di alcuni veri dovrò fare meno
avvedutamente ripugnanti, sieno stati dall'Au tor nokro creduti.Per condurre a
fine le quali cose, siccome è d'uopo far uso delle regole, che prescrive l'Arte
Critica, stimo pregio dell'opera il premetter quella, la quale più d'ogni altra
ttimali necessaria, ed è il chiarir bene a quale Scrittore s'ab bia per CAPO. Si unus aut alius (Hiftoricus) adverfus plures teftifi: Centur,
Historicorum conferendae dotes, fecundum cas je dicandum. Genuenfis in Arte
Logico-Crit. COSI. l'antica Storia Latina, i di cui av. venimenti cadono nella
nostra quiltione, a ri correre, ed in caso di disparere, a quale fi debba
prestar maggior fede. Trattasi della credenza, che prestar fi dee a LIVIO,
Dionigi d'Alicarnaso Plutarco, per rispetto ai fatti, che R a gli Scrittori, in
cui troviamo descritti i principi di quella Nazione, al di cui co fpecto dovea
tremar l'Universo, primeggia no Tito Livio, Plutarco per le vite, che stese
de'due primi Re, e Dionigi di Alicarnasso. Penso adunque esser buona cosa l'in.vestigare
prima di tutto il vero carattere di ciascuno di questi, per rispetto al
maggiore o minor caso, che far si vuole della au torità di taluno di effi per
riguardo a tal altro,ne’racconti,che pressodiloro sitrovano. per (a) Come Livio
scrive, che non erra, Dante Inf. cant. che non Fra cądono nella presente
quistione. Se farò poi in questa disamiņa precedere Tito Livio agli altri due,
si è, perchè di lui fi pregia più che d'ogni altro l'Autor nostro, e glid à ad
una voce col creatore della nostraLingua,non meno chedellano Itra Poesia la
lode di Scrittore 2 erra, la qual lode se vera se giusta sia. Livius etiam, et Curtius
artem declamatoriam affe&taffe videntur. Nimiam ftyli.curam in Hiftorico fufpettam
ho beo,Genuens. in Arce Logico-Crit. per rispetto a quel tratto della Storia
Latina', che cade sotto la controversia noftra, verrà brevemente esaminando.
pol L'andar dietro alle quistioni, e dubbie tà, che s'incontrano nella Storia
de primi tempi di Roma, il diradar lenebbie,incui si avvolgeva quell'oscuro
secolo, era cofa, che ripugnava all'indole di Livio, il qual certamente più
compiacevafi nel dipingere con quel luo vivo, e maestoso itile i bei giorni di
R o m a, che in ricercarne sottilmen te le origini traendo alla luce gli avveni
menti, che succeduti erano in quelle rimote età. Pare veramente ch'egli dovesse
te mer forte non i suoi lettorifi disgustassero, se egli si fosse messo in un
tale intricato sen tiero, sentiero, che male egli avrebbe p o tuto spargere di
tutti i fiori della sua E l o quenza; la quale fua Eloquenza però, per dirlo
alla sfuggita, rende sospetta a tal Critico la veritàde'fatti da lui narrati
(b). Principale intendimento era adunque di lui lo stendere la Storia più
luminosa di Roma, vale a dire allor quando falira a gran possanza,
ed a grande onore questa Repubblica cominciò a stender le ali Pontificum
libros annosa volumina Storia in fine, la quale troppo più che l'antica era
confacente algeniodi Livio, ed alcomun desiderio dei Romani de'suoi tempi, per
cui preso avea a dettarla.Che se Tacito parago nando le Storie de'tempi suoi a
quelle di que sto secolo, di cui favelliamo, dice, che m i nute,e poco
memorevoli farebbono sembrate le per cose, 1Uni verso. Quando, domati
finalmente i feroci popoli dell'Italia, qual rinchiuso fuoco, che rovescia ogni
ostacolo più forte, avventò le fiamme in grembo all'emula Cartagine, ed a
Corinto, e loggiogata parte coll'armi, par te coll' accortezza la Grecia tutta,
e corsa l' Asia trionfando, essendo, per servirmi delle parole di Tacito,
l'antica, e natural ansietà ne'mortali della potenza cresciuta e scoppia ta
colla grandezza dell'Impero (c), sidivise in quelle fazioni, che tanti e si
gran casi somministrarono alla Storia. Storia di gran di imprese, di gran
personaggi, e di gran di avvenimenti ripiena; Storia non troppo lontana dal
secolo, in cui egli vivea, e per cui non avea a rivoltare Tacit. Hist. Cte
nimia obfcuras, velut, quae magno ex intervallo'lo ci vix cernuntur; tum quod,
et rarae por cadem tempo ra literae fuere,u n a custodia fidelis memoria rerum
g e ftarum; et quod etiam fiquaein commentariis Pontificum, aliisque publicis,
privatisque erant monumentis incenja urbe pleraeque interiere. Clariora
deinceps certioraque ab secun 'da origine velut ab ftirpibus laetius
feraciusque renatas urbis, gefta domi militiaeque exponentur, mo cose,
ch'egli avea a raccontare, e che non erano da eguagliarsi le Storie sue agli A
n nali antichi di Roma, poichè gli Scrit tori di quelle narravano guerre
grosse, Città sforzate, Re prefi, e sconfitti, e dentro di scordie di Consoli
con Tribuni, leggi a'fru menti, zuffe della plebe co'grandi,larghilli mi campi,
scarso all'incontro e stretto effe re il suo: che ne avrà dovuto pensar Livio
paragonandole a quelle di que'rimoti, ed oscuri secoli? Se non tralasciò
pertanto del tutto di far menzione de'principj de’ Romani, non altra ragione,
penso io, averlo a ciò moffo, fe non per non incorrer la tac cia d'aver
composta una Storia mancante, e per potersi in certo modo fpianar la ftra da a
descrivere le susseguenti famose impre se di quel popolo d'Eroi. Ed in fatti
dalle sue stesse parole fi rac coglie non aver egli troppo dibuon ani TACITO, Annal.
&.. cum vetufla m o lavorato a ftendere quel tratto delle sue Storie.
Cofe le chiama oscure per troppa antichità, e che, per così dire, a cagione
della grande distanza appena più sivedeano. Parla di quelli avvenimenti in modo
che fi scorge, che poco o nessun conto ne fa cea, tanto più dicendo, ch'esporrà
più l u minose, ed accertate gelta della quafi da più fertili, e rigogliole
radici rinata Città dopo l'incendio de'Galli. Poco, ei dice, scriveasi avanti
l'irruzione de' Galli, e se al cune memorie eranvi negli Annali de’ Pontefici,
ed in altri pubblici, e privati m o n u menti,buona parte di queste peri nelle
fiam me. La qualcosa, posto che veramente molte memorie ancora esistessero
a'suoi gior ni di que'tempi, come ben feppe rinvenirle Dionigi, dà non lieve
motivo d i dubitare non il dire, che molti di questi monumenti periti fossero
in quell'incendio sia un mendi cato pretesto di lui per ispacciarsi in poche
parole di quelle antichità. Per raccogliere il tutto in breve non p a re, che
in questo tratto di Storia almeno Livio sia quel Livio, che non erra, e che a
più buona ragione, che non quel verso di ALIGHIERI, adattar fe gli.patrebbe il giudicio
di с2 di Quintiliano, ove dice,che quella dol ce facondia di Livio
non sarà mai per a p pagare colui, che non la venuftà del dire, m a la verità
cerca nella Storia. Perlaqual cosa a giudicio non solo del P .Rapino, ma di
quasi tutti i più valenti Critici, e per l'accuratezza, e per lo discernimento,
e per la verità delle cose narrateanteporre fidee a LIVIO Dionigi d'Alicarnasso.
Questo Storico è appunto il nostro caso. Perito egli era della lingua, e
de'costumi de'Latini,fra cui fece lunga dimora.Con temporaneo di Livio, Critico
eccellente p r e se a trattar quella parte della Storia Latina, ch'era più
oscura per la lontananza de'tem consultò tutti gli antichi Romani Scrit tori
diligentemente; e siccome si scorge, se condo quello, che abbiam notato, che
l'in tenzion di Livio era di trattar principalmen te la Storia di Roma dopo
l'incendio de' Galli, così il fine di Dionigi era d'inftrui re i suoi lettori
nelle antichità soltanto di quella Nazione, per le quali sue doti
ftimò pi? il Neque illa Livii
lattea ubertas fatis docebit eum, qui non speciem expofitionis, fed fidem
quaerit. Quiptil. Rapin. Réflex. sur l'Hift. Sto. Bodino di doverlo in
questa parte pre ferire a tutti gli altri Storici Greci e Latini. E se per
avventura non è, come osservò il Rollin (i), nella lingua lua si eloquente, e
si colto come Livio nella Latina, in quanto all'accuratezza, e diligenza il
vince sicura mente d'affai.Che poi più cose, e più ac intorno antichità presso
di lui, che presso Livio fi curatamente descritte ritrovino, è anche il parere di
quel VARRONE dell'Ollanda Gerardo Vossio (k), ilqual coll' autori tà di Eusebio,
e dello SCALIGERO, l'ultimo fuo sentimento egli fiancheggia de quali lo
commenda appunto per quella dote, di cui noi abbisogniamo, voglio dire per
essere stato egli più d'ogni altro dili gente nel fissar le epoche. M a a che
serve andar raccogliendo le testimonianze de'Cri tici? Niuno v'ha fra'
letterari, che ignori quanto Dionigi sia benemerito delle Romane antichità, e
che non sappia esser egli alla C3 alle Romane Dionyfius Halicarnasseus
antiquitates Romanorum ab ipfius urbis origine tanta diligentia confcripfit, ut
Graecos omnes, ac Latinos fuperaffe videatur. John Bodin.
Meth. a d f acil. Hift. cogn. Rollin Histoire Anciene; Voffiusde Hift. Graecis,&ibi
Euseb. in prep. Evang., et Scaligerin animad. Euseb., il qual dice: Curatius co
niemo tempora obfervavit, E'ben vero esservi taluno fra'moderni,il
quale non fa gran calo dell'autorità di lui per riguardo a ciò, che scrive
intorno alle origini de'popoli d'Italia, avendo a parer suo Dionigi,per gloria
della propria nazio ne, dato luogo troppo leggermente alle con getture, per
derivar dalla Grecia i primi abitatori dell'Italia (l). Lascio ad altri il
giudicare le giusta fia, o no quest'accusa; m a, quanrunque fosse ben fondata,
non so avrebbe per questo a dubitare delle cose n a r rate da lui, le quali
cadono nella nostra qui ftione: perciocchè in quella parte dell'Ope ra sua, di
cui servir ci dobbiamo, n o n trattasi più delle prime origini de' popoli
Italici, m a delle origini soltanto primi tempi di Roma; onde non può più aver
luogo quel sospetto, ch'egli abbia v o luto adulare la nazion sua, non
essendovi piùlagloriadiquellainteressata in modo nessuno. Questo Storico
pertanto, quantun que venga una volta fola in campo nel Saga Storia
Latina de primi tempi quello, che è alla Storia d'Italia de'secoli di mezzo
l'eru dito, e diligente.Muratori. e dei gio Guarnacci Origini Italiche. Veniamo
ora finalmente a Plutarco.M o l to discordanti sono i giudici, che di lui re
cato hanno i Critici:perciocchè, se a molti Letterati di grido siattribuisce
per una par te quel detto, che se in uno universale in cendio di tutti i libri
un solo scampar se ne potesse dalle fiamme, si vorrebbono falvare le vite di
Plutarco; non manca per altra parte chi ne rechi troppo più vantaggioso
giudicio, e fra gli altri un celebre Lettera to Inglese il Signor Midleton
giunse a chiamar l'opera di lui un abbozzo piuttosto, che il compimento di un
gran disegno. A chi fu Saggio sopra la durata de'Regni de’ re di Roma. A. ediz.
di Livorno. Nella edizione fatta di questo Saggio in Firenze non è mai citato
Dionigi, anzi nella lettera a Zanotti dice A. che non avea voluto leggere altri
scrittori, che parlassero de’ re di Roma fuor chè LIVIO e Plutarco. Conyers
Midleton prefaz, álla Vita di CICERONE, per gio del nostro Autore (m ),
sarà però quello, che più d'ogni altro ci additerà la strada, che li vuol
battere per giungere al vero nella presente materia, c o m e quello, il quale
più giustamente di Livio merita il nome di P a dre di Romana Storia. ! altro
pon mente alle belle qualità, per cui fu lodato, ed a'diferti, perliquali
C4 Del resto per giungere a farci una chia ra idea del merito di
questo Autore fa d' uopo prendere d'alquanto più alto i princi p j.Quantunque
pertanto pregio essenziale della Storia sia la verità de'fatti, si voglio no
con tutto ciò offervare e la scelta che fa l'Autore di questi, e le rifleffioni,
e l'ordi ne, con cui dispone ogni cosa, e la dici tura, di cui si serve, del
che tutto nell'al tra nostra Opera abbiamo copiosamente ragionato. Ora per
parlar soltanto delle riflel fioni, queste son quelle, che danno a vede re il
giudicio dell'Autore intorno alle cose narrate, giudicio,che resta più o meno
de gno di stima a misura, che viene ad esser fondato sopra valide ragioni, e
che non esce di quella scienza, a cui ènoto aver con Jode dato opera lo Storico.
Le considera 1 fu ripreso, riuscirà agevole il comporre i lorodispareri.
Vero è, che ilSignorMidle ton ne recò più svantaggioso giudizio di al cun altro,
perchè forle non ritrovò in lui, come bramato egli avrebbe, abbastanza en
comiato l'Eroe, a gloria di cui egli consa crò una sua assai lunga, ed
elaborata o p e ra, nella quale però sembra ad alcuni, che ne tefla egli
piuttosto il Panegirico, che la Storia. zioni, zioni di un Polibio,
o di un Cesare sopra l'arte della guerra, o di un Tacito sul Inoltre
dalla scelta, che fa de'fatti, fi Arte Poetica di Zanotti verno de'popoli
intanto degne sono di c o m tore le manifeste, in quanto hanno essi fama di ef
mendazione fere stati di quelle facoltà ottimi conoscitori M a fupponiamo, che
sitralascino. dallo Scrita riflessioni,non èforsevero, è per così dir forzato
lo Sto che narrando rico a dar segni della approvazione fapprovazion,odi sua?
Cosi pensa quel dotto, e Scrittore, uno de'primi lumi d' leggiadro Italia, cui
il Conte fto fuo Saggio (o). Ora que ognun Algarotti indirizzo ciò posto
professò principalmente sa, che Plutarco fcienza de'costumi; questa cui le
altre tutte qual più direttamente s'hanno a riferire, come raggi d'un meno
cerchio al centro, esercita l'impero suo so pra le azioni tutte degli uomini,
ond'è m a nifesto, che anche supposto, che Plutarco alcuna osservazione do reca
giudicio dell'azione non aggiugnesse fcrivendo, e giudicio, di cui non piccol
caso facoltà,narran ', che va de uscito dalla penna di un Fifar fi dee,come
losofo de'più rinomati dell'antichità. go la poi, a, qual viene Rag.,Bologna
qual dà maggiormente a conosce re il bellicofo genio di quell'Alessandro del
Settentrione Carlo XII., loggiugne, che tal cosa lasciato non avrebbe
d'inserire nella vita di lui un Plutarco. Remmo. Discordimilitari Disc, e nel
formare il carattere de'perso naggi, di cui stende la vita. Egli non sia p paga
delle azioni pubbliche, e ftrepitose, nè si ferma intorno alla sola corteccia,
m a seguendo, per dir così, i suoi Eroi in ogni lu go, e non temendo di
abbassarsi col de. scrivere certe minute particolarità, entra ne? più fecreti
ripostigli dell'animo loro, e pre fentà al lectore ad un tempo medesimo un
fedel ritratto e di esli, e della umana na. tura. E questa singolar dote di
Plutarco fu giàdal nostroAutore osservata; poichènar rando in un suo discorso
un tal fatto parti colare, il qual dà viene in cognizione della perizia di lui
nello scoprire le più nascoste proprietà del cuore umano, e nel formare Questo
è il favorevole aspetto, fotto cui riguardar fi possono le vite da lui
scritte,e gli encomj,di cui gli furono cortefi iCrie tici,vengono a ridurlia
questo.Ma sevo leffimo poi in materie dubbie, ed oscure ri poläre interamente
sulla fede di lui, corre altri. remmo non piccolo pericolo d'ingannarsi.
Plutarco, con ben raro esempio, congiun geva un ingegno straordinario ad una
credu lità somma (difetto, da cui i rari ingegni fogliono per altro andar
esenti, cadendo più sovente nell' eccesso contrario). Forse ritene va in questo
parte degli influfli del Cielo di Beozia. Occupato da'negozji, ch' ebbe a
trattare, e dall'impiego di dare lezioni di Filosofia, poco tempo gli rimaneva
per ac certarsi della verirà delle cose, che s'accin geva adescrivere.Sifa,ed
eglistessolo con feffa, che ignorava la lingua Latina, nè o b bligato era dalla
necessitàa d iftudiarla, ava vegnachè dimorasse in R o m a, servendo la lingua
Greca a que' tempi presso i Latini di lingua,come fuoldirsidiCorte,cioè par
lata dalla più leggiadra, e brillante parte delpopoloRomano,edi linguadotta.La
(ciopensare di quanti sbaglj una tale igno ranza possa essere itato cagione.
Che della fola autorità di lui pertanto non si debba far molco caso, è il
sentimento del dotto Bodino, del Rualdo, del Dacier, e di Bodin. Method.Hist. Interdum
etiam in Romanorum antiquitatelabitur.Ruald.animad.inPlut. Dacier nelle note
alla fua traduzion francese delle Vite di Plutarco. Vero Vero è,
che l'erudito Giureconsulto Ei neccio (r) per salvar dalle accuse de'Critici un
luogo di Plutarco, ove narra questo Sto rico aver Numa concesso certi privilegj
alle Vestali, i quali si sa indubitatamente non essere stati ad effe concessi
senon dopo que sto R e, avvisofli di fare una mutazione nel teito di lui,di
modo che seavantidiceva: aver conceduro grandi onori alle vergini Ve Itali,
veniffe a dire: loro concedettero (i Romani ei sottointende ) molti onori, e
fog giugne, che per sì fatta maniera salvar li possono molti luoghi di questo
Storico.cen Turati dagli eruditi. M a lasciando stare, che molti non saran no
quelli,che con una talcurafanarfipof fano; non so, perchè con tanta facilitànon.
essendo il luogo di Plutarco un frammento di qualche antico Giureconsulto, il
qual abbia necessariamente cogli altri a concordare, si avventuri da lui questa
emendazione, fen za addurne altra ragione, fe non che ilfal varsi con questa
l'autoritàdi Plutarco.Am mesfa una tal Critica si fanno scomparire con poca
fatica tutti gli sbaglj de'libri, che ci restano dell'antichità. Heineccius ad
legem Papiam Poppaeam. Amít, apud Wetftenios, Sia adunque per la ignoranza
della lingua Latina, lia molto più per lo genio credulo, e poco critico, anzi
qualora trattasi di Sto rie lontane da tempi fuoi portato al meraviglioso
Plutarco, non è guida ficura per chi vuol penetrare nelle più rimote istoriche
notizie. Quella Storia favolosa, che dic' egli rinvenirli nelle origini delle
nazioni prende, e li ftende troppo negli scritti di lui sopra i diritti della
vera Storia maggior mente sgombra dalle finzioni presso altri Scrit tori. M a
per riguardo a quella parte della Storia di Roma, i di cui avvenimenti ca d o n
o nella nostra quistione, potea troppo qui cilmente schivar gli errori.
Non avea egli nella sua stessa lingua le accurate fatiche di Dionigi di
Alicarnasso Scrittore, che ben dovea esfergli noto, e noto veramente gli era,
facendone egli menzione? Perchè adunque non si restrinse a lui solo,
tralasciando quelle fue popolari, e favolose tradizioni? Niuno dubiterà
pertanto, che in questa parte della Romana Storia pofpor si debba Plutarco a
Dionigi. E ben riuscirà singolar cosa, fe recherò in mezzo l'autorità dello
stesso A., il quale, fuori di questa fa Plut, in Theseo in princ. quistione
non lasciò di rendere il dovuto omaggio a Dionigi, e di mostrare il poco caso,
che far fi dee della sola autorità di Plutarco ne 'fatti de' Romani, efefarò ve
dere aver egli in cofamolto più recente negato credenza a quel Plutarco, a cui
tan to s'affida per rispetto ad avvenimenti ri motissimi dalla età di lui.
Bafta per chiarirfi di quanto ho detto dar un'occhiata a ciò, che scrisse
l'Autor nostro intorno all'impre fa di Cesare contro a'Parti. Questo è quanto
ho io stimato dover pre mettere circa la fede, che prestar fidee agli Storici,
innanzi di farmi ad esaminare. la verità, o falsità de'fatti, e la ripugnan ża
o non ripugnanza di questi alle epoche il che mi studierò quanto più brevemente
per me sipossa di recare ad effetto. Alicarnasco, Polibio danno una più esatta
contez fa delleragioni dei costumi Romani che non fanno i Romani medefimi. Ma
quei Greci sapeano a fondo la lingna Latina, buona parte della vita erano
viffura co'Romani ec. A. Disc. Milit. Disc. Sopra la impresa disegnata da
Giulio Cesare contro a'Partipo La verità si è, che ognuno si può effere ac
corto quanto nelle cose dei Romani fia poco efatro Plu tarcoec., Egli è certo che
delle cose Romane le migliori informazionisi può dire che le dob biamo a'
Greci. Ed è naturale che così sia. A forestieri ogni cosa giugne nuovo ec, Di
qui èche Dionigi Dis cIsecnedndeenndo ora coll'Autor -noftro al
para ricolare, ci si fa innanzi il Regno del bel licoso Fondatore della Romana
grandezza, e sarà secondo quello, ch'io Atimo Indole guerriera, dic'egli, danno
ad una voce tuttigli Storici al Fondatore di quella Impero, che dovea coll'armi
fare la con. quista del Mondo. Questa indole bellicosa piùnonfipuò celebrare in
Romolo, quando fi mostrasseaver eglipassatola maggior par te del suo Regno in
grembo alla pace:ora le prime guerre di lui contro i Sabini, che ridomandavano
le donne loro, e contro al quni altri popoli per gelosia d'Impero, furo no
tutte breviffime, e della penultima guerra contro a’ Camerj ce ne dà l' tarco,
che non cade più in là dell'anno sedicesimo dalla fondazione di Roma. Ne dopo
questa si ha notizia di alira guerra, falvo Regno di Romolo.? cagio ne di
non piccola maraviglia il farsi a c o n siderar la prima venir ad abbreviare la
durata. ragione,ch'egliadduce per epoca Plu. Plut.in Romulo, salvo di
quellaco'Vejemi, i quali doman davano, che fosse loro restituita Fidene, come
Città di lorragione, dicui Romolos' era impadronito, avanti che egli s'impadro
niffe di Camerio. E questa guerra non si ha da porre più tardi, che sotto
l'anno d i ciassettesimo dalla fondazione di Roma 0 là in quel torno non
essendo verisimile che una nazione potente com'erano iVejenti tardasse gran
tempo a cercare di riavere il suo. Senzachè ognun ben fa, che le guer re tra
que popoli erano subitanee, tra loro la vendetta non tardava molto a seguitar
l'offesa. Posto adunque, ei soggiu gre, che l'ultima guerra fatta da Romolo
cadeffe nell'anno diciassettesimo del suo Regno, se non vogliamo, che i Romani
fie no stati più lungo tempo in pace che in guerra fotto il reggimento
dilui,nonsivuo le farlo regnar trentotto anni, m a della m e tà circa il Regno
di lui accorciar fi dee Questa è la prima ragione, che adduce l'Autor noftro
per abbreviar la durata del Regno di Romolo, a proposito di cui,,co m e già
disli, strana riuscir dee a chi pon mente quella epoca, su cui fonda egli ilsuo
argomento, ed è ľ epoca della e che tro i Camerj somministrata guerra con
da Plutarco. A., che la durata del Regno · di Romolo attestata da tutti gli
Storici vuol distruggere, adopera per mandarla in rovi na un'epoca di un fatto
particolare,dicui niuno fa menzione, fuorchè il solo Plutarco Storico a tutti i
Critici, ed a lui medesimo sospecto. E d in fatti di questa guerra contro i
Camerj LIVIO non ne parla punto nè p o co, prova forse della trascuratezza di
lui nel tessere l'antica Storia. Dionigi
poi, il quale nel collocarla frale guerre co'Fide nati, e co'Vejenti da
Plutarco non discor da,non dice però, che questa precisamen te seguita sia
l'anno sedicesimo di Roma. Vede pertanto ognuno,ch'io potrei, rifiu tando la
testimonianza di Plutarco, togliere ogni fondamento a questa ripugnanza, m a
conveniente mi pare di mostrarmi cortese ful bel principio delle osservazioni
mie. Concediamo adunque, che nell'anno fe dicesimo di Romolo succeduta appunto
sia questa guerra coi Camerj:.con qual ragio ne si prova, che tantosto abbiano
impugna te le armi i Vejenti? Forse perchè avendo i Vejenti mosso contro i
Romani per riaver Fi... Dionyf. Halic.
Dice Plutarco, che i popoli circonvicini vedendo riuscir bene tutte le guerre a
Romolo, da invidia,e da timore agitati, ftimarono non essere la sua crescente
gran dezza da guardar con occhio indifferente, e doversi opprimere una potenza,
era ne' suoi principi formidabile Laon de i Vejenti,i qualitenevano un ampio
paese, ed erano de'più potenti fra' Tosca ni, mosfero contro Romolo, chiedendo
la restituzion di Fidene che dicevano essere di giurisdizion loro; il che,
foggiugne Plutarco, non solamente ingiusto,m a ridicolo era, poichè domandavano
come ad efli sper tante una Città, che non avean difeso, quan che già do
Fidene come Citrà di lor ragione soggioga ta da Romolo innanzi a Camerio, non è
da credere, che un popolo potente come quello abbia tardato molto a farsi
rendere il fuo, essendo le guerre a que'tempi fubitanee,nè tardando molto la
vendetta a seguitar l'of fela? Ora io intendo dimostrare,anchecollo stesso
Plutarco, effer piuttosto da credere, che alla guerra co' Camerj seguita fia
las guerra co'Vejenti dopo qualche notabile spa zio di tempo. Plut. in Romulo.
do da Romolo era stata assalita, e lasciati in quel tempo gli uomini in
balia de'nemi ci, aspettavano allora a pretenderne lemura. LIVIO poi dice, che
presero le armi i V e jenti, non perchè fossero possessori di Fidene loro tolta
da Romolo, ma perchè i Fidenati erano anche Toscani, e quel che è più, perchè
temevano non le armi de' Romani avessero ad esser fatali alle vicine nazioni; e
Dionigi in fine dice, che il pretesto della guerra fu la strage de' Fide nati.
Ora adunque, poichè siamo certi,che per gelosíad'Impero, e non per altro im
pugnarono le armi i Vejenti, li dee piutto Ito credere effere questa gưerra
fucceduta qualche tempo notabile dopo quella coi Ca. meri; perciocchè stava ad
osservare questo popolo, le poteva assicurarsi della sua forte Tenza arrischiar
nulla, e se riusciva a qual che altra nazione di abbattere i Romani: veggendo
poi, che s'erano felicemente sbri gati da quelle, e che anzi salivano ogni
sanguinitate (nam Fidenates quoque Etrufci fuerunt ), et quod ipfa propinquitasloci,
fiRomana armaomnibusin. d 2 gior LIVIO.
Belli Pidenatis contagione irritaii Vejentium animi, et con festafinitimis
effent, fimulabat. Dionyf. Halic. Oltr' a ciò, avvegnachè seguita fosse., come
si dà a credere l'Autor noftro, questa guerra circa all'anno diciassettesimo
dalla fondazione di Roma, chi ci assicura, che altre non ce ne sieno state, le
quali, come di non gran conseguenza, non sieno state dagli Storici giudicate
degne di entrare negli A11 nali loro? Pretende pure egli stesso, che non fisia
tenuto accurato registro de'fatti, anzi confervari fi fieno per mezzo di una
cotal vaga, ed incerta tradizione? Veda adunque non se gli possano ritorcere le
sue stesse ar mi, e ch'egli medesimo ammetter debba p o ter offer fucceduti
cali da cotefta fua vaga tradizione non conservati. giorno a maggior
buona cosa il non lasciarli fortificar nella grandezza stimò esfer pa ce. Se
ruppe adunque per propria sua ial vezza la guerra, è probabile, che ciò non
abbia fatto se non dopo un qualche conside rabil tratto di tempo, nel quale
abbia ve duto, che nessuno s'arrischiava di sfidar Romolo a battaglia. Queste
osservazioni,a me pare,bastar po trebbono per dimostrare, cheleirragionevo
lezze ręcate in mezzo dal nostro Autore non sono di tal peso, che vagliano ad
in fringere la Cronologia, e sminuir la durata del del Regno di
Romolo: nulladimeno stimo pregio dell'opera, acciocchè maggiormen te appaja la
verità, fare una luppolizione, Orsù adunque abbiasi per non detto tutto ciò, di
cui abbiamo ragionato sin ora.Dianli per invincibili le ragioni del nostro
Autore. Concedafi la presa di Camerio esser seguita; com'ei pretende,l'anno
sedicesimo di Ro m a, l'anno seguente la guerra co'Vejenti, e dopo questopace
profonda; che ne segui rà per ciò? Si opporrà questo per avventu ra a quell’indole
bellicosa, che gli Scrittori danno ad una voce al Fondatore del R o m a no
Imperio? Non potrà un Principe dopo essere felicemente riuscito in molte
pericolo se imprese, dopo essersi procacciato stima, e venerazione presso le
vicine nazioni colla fua bravura, goder de'frutti delle sue vit torie, e
riposando all'ombra allori 9. col mantenere il guerriero valore vivo, e
rigoglioso ne'suoi soggetti, fare in modo,che la fama diprode,ed invittoac
quistatası, ed il sapersi esser egli a guerega giare sempre apparecchiato, gli
proccurino una pace non inquieta,turbata, e vergogno fa,ma
ferma,ftabile,sicura,pienadiglo ria, e di virtù. Troppo sarebber funesti all?
uman genere gli Eroi, e troppo infelice vi de'conquistati ta d 3 A.. Epistole
in verfa ep.16. sopra il Commercio pag. Dionyf. Halic. se per guerra fosse
valente, ce ne assicura Dionigi, ove con quanti modi studiato fi di sia ta
avrebbono eglino stessi a menare, acquistarsi tal n o m e, viver dovessero o g
n o ratra le stragi, e tra'l sangue. E non eb be lo stesso Autor nostro a
lodare l'amor delle bell'arti, la profonda Scienza Politica, e le altre civili
virtù di quel bellicoso Prin cipe, il quale tanto, vivo, il processe, ed in
tanto illustre modo, morto,rese celebre la memoria di lui? E non fu la verità
ster fa, che animò la sua tromba, quando ce. lebrò quel paese. Dove un Eroe
audace, e saggio Nestore, e Achille in un fa fede al Mondo, Che l'Italo valor
non è ancor morto. Troppo fiera fu adunque l'idea, ch'egli fi formò in questo
suo Saggio di un Principe guerriero,potendo essere molto bene, e che Romolo
abbia la maggior parte del suo Regno passato in pace, e che ciò non ostan te a
sminuir non si venga la gloria milita re, dicui gode presso gli Storici. E che nell'arti
nonmeno di pace, che 4 fia di ordinare lo stato va divisando. Ne
meno di un Romolo vi avrebbe voluto,per assodare, ed unire con faldi nodi una
sì mal ferma società, e per ispirare la dovuta fom missione, una sola foggia di
vivere, di pen fare in certo modo, l'amordella patriaido. lo de’ Romani., e
fonte di tutte levirtù loro, in uomini di varie nazioni, di non ottimi costumi,
per l'armi, e per le vittorie feroci. Nè quelle parole, che Plutarco mette in
bocca di Numa, quando per sottrarsi dallo accettare il Regno offertogli
insiste, dicendo, che di un uomo di spiriti ardenti, e in sul fior dell'età, che
non di un re ma di un condottier d’esercito hanno di bisogno i Romani per
fronteggiar que'potenti nemici, che Romolo avea lasciato loro sulle braccia;
quelle parole, dico, non sono da tanto, come si cre dell’Autor nostro, che,
anche concedendo non esservi ftata dopo l' anno diciassettesimo del Regno di
Romolo guerra alcuna, perciò ritrar debbasi la morte di lui al diciottesimo, o
ventesimo anno del suo Regno. Temeva Numa, che i po poli circonvicini, i quali
non s'attentavano di moleftar i Romani, poichè ben sapevane qual d4 Plut.
in Numa, Storici, che finsero aver que'personaggi, i quali a favel lare
introducono, ragionato secondo le cir costanze, e giusta l'indole loro. Dalle
mal sime, che nel corso del suo Regno dimostrò Numa, dalla non curanza di
luiper gli ono ri ricavo Plutarco questa parlata da lui fat ta, rifiutandoil
Regno offertogli da'Romani. A proposito del qual nulla trovarsi appreffo Livio,
altra prova. forse della sua trascuratezza, e che Dionigi rifiuto è da notare
qual prode Principe li reggeffe, non pren dessero animo dal genere di vita
tranquillo, e filosofico, che noto era ad ognuno essere da lui professato, e
non volessero lasciarsi sfuggir di mano una occafione sì favorevo le di
abbattere un popolo, il quale già d a to avea tanti non dubbj fegni di voler
fot tomettere le confinanti nazioni, ed in queto modo è da intendere, che
Romolo la sciato avesse potenti nemici sulle braccia a' Romani. Senzachè, per
non ripeter quello, che già disfi, e di nuovo mi converrà dire intorno al poco
credito, che far sidee della autorità di Plutarco, certa cosa è, che quelle
parole, le quali presso di lui si leggono come di Numa,s'hanno
ariguardarealpari delle altre concioni,sia di LIVIO, chedilui, quai lavori
della mente degli Storici 1 fire stringe a dire, che avendoperbuo no
spazio di tempo ricusato ilRegno, s'in duffe poi ad incaricarsene a persuasione
de' fuoi, è inutil cofa riuscirebbe cercar in Lo stesso Plutarco poi è
quello,che fom miniitra il fondamento ad un'altra ragione, con cui ftudiasi il
noitro Autore di abbre viare il Regno di Romolo. Ammette.egli adunque, che nel
cinquantesimoquarto anno dellasua età giunto siaa morte Romolo, ma conceder poi
non vuole,che difolidi ciassette anni abbia cominciato a regnare, la qual cosa
è forza dire, quando foftener si voglia, che di anni trentotto stata sia la
durata del Regno di lui. Le ragioni, che egli adduce per mostrare non poter
Romolo esser cosìper tempo falitolulTrono,non fono altre, se non che ciò
ammesso,non po. terli quelle tante cose, che questo Principe facea secondo
Plutarco con sì tenera età conciliare; ed essere maggiormente impro babile, che
si giovane abbia fondato u n a Città, fiasi fatio Capo di un popolo, ed
pone Plutarco. 1 abbia sto Storico quelle parole, che in bocca gli Dionyf.
Halic. Plut. in Romulo. que A., Disc, milit. Disc. Per via della
conversazione, dice che Plutarco conviene instruirsi delle particolarità, che sonos
fuggite agli Storici abbia guidato difficilissime imprese, c o m e a tutti
è noto. Ma io non so ritrovare in primo luogo ripugnanza veruna tra la età, e
la condot ta di Romolo innanzi a'principi del suo R e ' gno,principalmente se
vogliamo attenersi a ciò che di lui narrano LIVIO, e Dionigi, e non ricorrere a
Plutarco quale pren dendo le notizie dalla bocca di que' Romani, con cui
conversa, come stesso'noftro che dalla venerazione, in cui quelli tenevano
dell' Imperio leggiadro Autore, ben è da credere, ogni cosa, che appartenesse
al Fondatore loro,sia Scrittor erudita, ed elegante, dice che la grandezza sero
i Romani cia, e dell'Alia dopo le conquiste, avea (parfo voluttà non ebbe, e di
gloria fu que'pri lume di chiarezza de’ m i loro antenari posteri, qual rozzo,
e barbaro popolo sem il, i quali senza la fama avverti lo. Un, che in fatto di
stato ingannato Francese pari, a cui giun della G r e per così dire un Non so
sei moderni noftri Criticii le Clerc, é i Muratorigli avessero menato buono tal
fuo Criterio. Euremont Ouvres mélées, pre Montesq. Consid. sur les
causes de la grand. Des Rom. a segnes venando peragrare falous: hinc robore
corporis bus animisque fumo jam, non feras tantum fubfiftere, fed in latrones
praeda onuftos impetum facere, pastorie busque rapta dividere, et cum his
crescente in dies grege juvenum ferias, ac jocos celebrare, pre 1
farebbono stati riguardati dalle colte n a zioni. Io non voglio per
niun modo adot tare il parere di lui, anzi penfo, che lo stesso Montesquieu, il
quale osservò c o n occhio si filosofico tutto il corso della Romana Storia,
abbia avvilito di non Dionyf. Halic. ful
bel principio della sua Opera (n) l'ori gine di quella Città Regina; ma credo
Tuttavia di potere a buona ragione sospetta fondato sopra popolari tradizioni,
e proveniente dalla bocre del racconto di Plutarco ca di coloro,che qual Nume
Romolo ado ravano, quando nè Dionigi, e nè pur LIVIO danno di ciò il minimo
cenno. Ed in fatti Dionigi ci fa sapere soltanto, che i due giovani Principi
furono condotti Città de'Gabj, perchè loro s'insegnassero leLettere,laMusica,ed
ilmaneggiarle armi alla foggia Greca insino a tanto che pervenissero alla
pubertà, e tutti que'p r e gi, i quali attribuisce loro LIVIO. Quum primum
adolevit aetas nec inftabulis, nec ad peco troppo alla disconvengono
punto alla giovanile età, a n zi più diquella, ched'ogni altracomecor porali
esercizj fon convenienti. M a su via concedasi per vero ciò, che dice Plutarco,
sarebbe poi da farne le maraviglie, che un giovane d'ottimo ingegno fornito
cominci a dar segni di quella prudenza, che ha da tilucere un giorno in lui. Educato
Romolo, come fu, non v'ha inverisimiglianza nessu na,cheinlui,avvegnachè
giovanetto,sfa villasse un raggio di qualche cosa maggior del comune Ma dirà
egli, per quanto, e dalla natura di belle doti fornito,e dalla educazione in
strutto suppor si yoglia Romolo, che abbia edificato una nuova Città, che si
sia fatto capo d'un popolo, che abbia guidato diffi cilissime imprese, sempre
con si tenera età mal potrafficoncordare. Non sipuò nega re, che di troppo
maggior forza, che non e cominciassero a svilupparsi que'semi di
generosità, che dalla sua prin cipesca origine avea tratto? Oltre di che quan
te volte il corso dello ingegno è più velo ce di quello degli anni? Una
illustre prova ben ce ne diede lo stesso noftro Conte A., il quale nella sua
prima età in molte, e varie facoltà dimostrò l'acume, e la perfpicacia
dell'ingegno suo. la la precedente sia questa ragione: vediamo con
tutto ciò il modo, con cui Romolo di venne Re, e non parrà più forse tanto dif
ficile il concepire, che si giovane sia giun to a tanta grandezza; e prina
d'ogni cosa prendiamo le più sicure notizie di quello, che è succeduto dalla
nascita di Romolo in Gino al tempo, in cui fu innalzato alTrono. A tutti
que'racconti della infanzia diR o molo io ltimo doversi preferire quello di F a
bio antico Storico seguito da molti, come dice Dionigi, ed acui più propende
egli medesimo, come quello, che favole chia m a le narrazioni degli altri
Scrittori. Egli adunque rigettando quella poetica finzione della Lupa, nega
insino, che fieno stati ef posti i due gemelli; che anzi afferma aver Numitore
per destro modo sottoposti altri fanciulli, i quali furono da Amulio spieta
tamente trucidati. Quindi essere stati i due Principi da Faustulo educati, ed
inviati, perché ricevessero una insticuzione, secondo che richiedeva la origine
loro, alla Città de' Gabj; il qual Fauftulo, per dirlo alla sfuga gita,
quaprunque pastore de'Regj armenti, è da credere fosse poco meno di un
uomo Dionyf. Halic. di di stato de'nostri dì, attesa la semplicità
de costumi di que'tempi. Ritornati poi dalla Città de'Gabi, legue a dir Fabio
presso Dionigi, di consenso dello stesso Numitore, i due giovani Principi fi
azzuffarono co'p a stori di lui, e gli sforzarono di ritirarsi in un co'loro
armenti dà certi pascoli tuttoc chè comuni. Questo aver fatto Numitore per
poterli accufare, e trovar m o d o di far entrare senza dar sopetto tutti que'
pastori nella Città. Ordita una tal trama, esser v e nuto Numitore dal fratello
Amulio a lagnarsi, e chiedere a lui, che gli dovesse consegna Te que'due
Fratelli col Padre loro, i quali l'aveano sì villanamente oltraggiato, e d a n
neggiato nelle cose sue, se pure seguito era ciò senza colpa di esso Amulio.Amulio
per dare a divedere, che avuto non ne avea al cuna parte, manda tosto per esli,
dando,che nella Città venir dovessero non il solo Faustulo co'suoi supporti
figliuoli, m a tutti coloro eziandio, i quali erano di tale delitto accagionati.
E con tal mezzo essen dosi, oltre a 'rei, grandissima moltitudine nella Città
introdotta, Numitore, dopo aver a' giovani l'origine loro, i loro cali, e le
offele da Amulio ricevute, averli scoperto animati alla vendetta, ed averli
persuasi a esli, coman non non lasciarsi sfuggir di mano sì favorevole
occasione di eftirpar quel Tiranno come fe cero. Questo è quanto si raccoglie
da Fabio presso Dionigi; narrazione, lia per la quali tà del testimonio, sia
per la veritimiglianza, da antiporsi sicuramente a quella di Plutarco, che
porta in se stessa scolpito ilca rattere della finzione, e che al primo aspet
to si dà a conoscere per lavoro della fanta sía de'Romani de'suoi tempi, da cui
attin geva questo Storico le sue notizie, i ogni cosa nel loro Fondatore
finsero straordi naria, e maravigliosa. N o n fu adunque solo Romolo in quella
impresa, anzi fu a quella stimolato dall'Avo, e fu diretto da quello il suo
valore, perchè produr potesse non solo discordie, e sangue, ma utilità, e fi
curezza. quali con Non voglio poi ora parlare diquellaopi nione accennata
da Dionigi e se non -abbracciata, nemmeno riprovata da lui, che R o m a stata
sia anteriore a Romolo; onde egli non Fondatore diquellaCittà,ma Capo soltanto
d'una colonia chiamar 'si debba; Plut, in Romulo. Dionys. Halic. concedo, che
ne sia stato ilFondatore,ma è da sapersi, che, ha l'idea di edificare una Città,
lia i mezzi per condurla a fine, fu rono opera di Numitore, e non diRomolo.
Dionigi di questo ci assicura, dicendoci, che due fini il mossero a ciò fare;
primie ramente per dare un ricetto degno di loro a'due giovani Principi, in
secondo luogo per isgravare la troppo grande popolazione della Città di Alba,
allontanando principal. mente coloro, che avean seguito le parti di Amulio,
ond'egli poteffe regnare libero di ogni sospetto. La qual cosa è, avvegnachè
oscuramente accennata da Livio (u): per ciocchè dicendo questo contro
l'autorità però e di Fabio, e di Dionigi, i quali per ianti rispetti degni sono
di maggior fede, che il disegno di fabbricare una nuova Città fu pure Numitore,
opera della mente dei due Fratelli,m a n i felto indizio, che troppo non erasi
studiato di diradar le tenebredi que'primi secoli, soggiugne, ch'eravi allora
una gran molti tudine diAlbani,e di altri,con cui pote vano popolarla. Nè mancó
Lores quoque accefferant, come. Dionyf. Hasic. LIVIO. Supererat multitudo
Albanorum, Latinorumque, ad id per come attesta Dionigi, di somministrar
loro e danari,ed armi,ed ognialtra cosa,che abbisognasse per edificareuna Città.
Ed a quella parte di popolo, che seco condot ta avea Romolo, fra cui eranvi non
po chi de' principali di Alba, iecondo il parer dell'Avo, ragionò sul
cominciare della edi ficazione. Dal tutto il fin.qui detto pertanto ftati
e Dionyf. Halic. Dionys. Halic. Dionyf, Halic. ramente ne risalta non
esserpunto cosa in verisimile, che di soli diciassette anni, o di diciotto
abbia potuto Romolo farquello,che pur fece, se lipon mente, che in quelle sue
prime imprese ebbe sempre a'fianchi l' Avo, ed ogni cota secondo il consiglio
di lui esegui;fu egli l'Achille d'ogni impre fa,Numitore ilChirone. Tanto ho
stimato dovermi stendere su que ho particolare, perchè non è Plutarco il solo,
che ciò scriva; ma lo stesso Dionigi chiaramente attesta aver Romolo incomincia
to il fuo Regno di foli diciotto anni. Vero è, che se si dovessero togliere
dagli anni, che corsero avanti N u m a cinquanta giorni, i quali vogliono molti
Autori essere 1 chia. stari aggiunti da questo Re, oltre ad undi ci
giorni, che pur mancavano all'anno fe condo la riforma, ch'egli ne fece, tre
anni fi vorrebbono togliere dalla età di Romolo, quando ascese al Trono, nè vi
farebbe per venuto di diciassette, o diciotto anni, di quattordici, o quindici.
Anche ciò con cesso nel modo, che divenne Re, non sa rebbe gran meraviglia, che
divenuto lo foffe in età si tenera, non avendo forse altro egli fatto, senon
imprestare ilsuonome alieim presedell'Avo:ma dipiùsivuolnotare che quegli
Autori, da cui raccogliesi esser giunto al Solio Romolo di soli diciassette, •
diciott'anni, non sono di parere, che tanti giorni mancassero all'anno avanti
Numa. za r Dionigi, il qual dice (aa) essere il Fon dator di Roma morto
di cinquantacinque anni dopo averne regnato trentafette, e che aggiugne sulla
testimonianza di tutti gli a n tichi Scrittori, i quali parlarono di lui, che
molto giovane fu innalzato al Solio vale a dire di soli diciott' anni, di
questa rifor ma dell'anno fatta da Numa, per quanto io ne abbia osservato, non
ne dà alcun cen no, silenzio, che congiunto colla accuratez Dionyf. Halic. Plut.
in Roinulo. Plut. in Numa. LIVIO; MACROBIO
Salurnal. Numa quin quaginta dies addidit, ut in trecentos quinquaginta qua.
suor dies za di lui mi mette in dubbio della verità della cosa.Plutarco poi,
che dice esseregli morto di cinquantaquattro anni, onde abbia dovuto
incominciare ilsuo Regno di diciassette, parla di questa riforma, ma vuole, che
Numa altro non abbia fatto,le non aggiugnere gli undici giorni, che m a n
cavano all'anno, e togliere l'irregolarità de' mesi, che erano in uso,
essendovene tale, che non giungeva a venti giorni, e tale, che giungeva a
trentacinque e più. Che al tro egli non abbiafatto, che regolare i mesi, ed
aggiungervi alcuni pochi giorni, è quello pure, c h e intorno a questo
raccogliere fi possa da LIVIO. So, che molti Scrittori, come MACROBIO, OVIDIO,
CENSORINO, ed altri furono di contrario parere. Si dee però distinguere tra
quelli, che asserirono, che l'anno avanti Numa era di soli dieci mesi, e
quelli,che dissero precisamente di quanti giorni fosse composto, perchè
potrebbe essere, trattan e2 dosi annus extenderetur, OVIDIO, Falt.] dosi di
Scrittori molto lontani da'tempi di Numa, che da quelli, i quali lasciarono
scritto essere stato l ' anno avanti Nu ma di soli dieci mesi, abbiano altri,
come forse Macrobio,argomentato, che l'anno foffe di foli trecento e quattro
giorni, la qual congetturą ognun può vedere, quanto sarebbe · fallace, potendo
esser benissimo, che fi fa. cessero avanti N u m a dei mesi più lunghi a l fai
del convenevole, e si venisse a compor re con foli dieci mesi l'anno di
trecento cinquantaquattro giorni, non di foli trecento e quattro. Del resto
il.Signor Dacier afferma, che alla opinione, che di soli trecento e quattro
giorni fosse composto l'anno avanti Numa prevalse quella, che giugnesse ai
trecento cinquantaquattro per l'autorità principalmen te di Fenestella, e di
Licinio Macro. Credo pertanto, che ciò basti per togliere quello 'ombra
d'inverisimiglianza, c h ' altri ritrovar potesse tra l'età di Romclo, e
l'elier egli giunto ad ottener la Corona, dovendosi, le condo la più comune
opinione, togliere fol tanto pochi mesi, che risultano dagli undici giorni, i
quali mancavano all'anno avanti (f) Dacier nelle note alla vita di Nuina di
Plutarco, Numa, Così dice il Signor Dacier nelle mentovate sue annotazioni
doversi leggere Plutarco, e non trecento e sessanta, come molto bene lo dà a di
vedereil contetto, Numa, e non tre anni dalla età di diciotto. Senzachè a
me baita, come già disfi, che da quegli Autori, da cui fi rica-. va questa età
di Romolo quando fali sul Trono, non fi può l'obbiezione dedurre in modo
alcuno, anzi il primo glıtoglieilfon damento, non parlando di questa riforma.
lui di dell' anno, te, il secondo la confuta espressamen dicendo, che l'anno
avantiNuma giun geva ai trecento cinquantaquattro giorni. Onde mi pare a
sufficienza dimostrato, che tuttique'fatti,iqualirecatisono inmezzo dall'Autor
nostro come ripugnanti alla d u rata del Regno del primo Re diRoma,ot timamente
con questa possono conciliarsi, e vengono a perdere.ogni lor forza, e a di.
leguarsi cutte le contrarie ragioni. L'Ami des Hommes Des Pro cui V.
Fondare Regno di Numa. CAPO Ondare un Regno, e dargli le leggi sono due
operazioni cosi fra loro diverse dice un valente Politico, che richiedono per
lo più due distinti Principi per eseguirle. Nascono ordinariamente gl'Imperj
nella fe. rocia de'popoli tra la discordia,e learmi: laddove la Legislazione (intendo
io di quella, che veramente meriti un tal nome ), è uno de'più preziosi frutti della
pace.Ed èben conveniente, che ciò, che rende per quan to si può gli uomini
felici, tra quello for ger mal poffa, che ne fa l'infelicità m a g giore. Ed in
effetto le leggi di Romolo,. di cui abbiam sopra fatto parola, riguarda vano
soltanto lo stato corrente degli affari, erano leggi, che abbisognavano, per
così dire, allagiornata. Numa si che fu poi quello, che concepì una vasta
pianta di L e gislazione, un general Sistema, il quale m i rar dovea alla
eternità; Sistema, che sotto di se comprendeva eziandio la Religione,di
hibitions. Ma l'Autor noftro, quafichè ridur non si possa a credere, che
senza alcuno indirizzo ira popoli feroci, e pressochè barbari, g i u n gere
Per fia potuto Numa a tanto senno da cui egli secondo l'uso de'
Legislatori,iquali furono a' tempi degli Dei bugiardi, utilmen te fi servi per
fiancheggiarne quelle leggi, quegli instituti, que'coitumi, e quelle opi nioni,
che a parer fuo doveano maggiormen te contribuire alla felicità della Nazione:
per se, mette in campo quella tradizione, che correva per bocca de'Romani insin
da'tem pi di Augusto, secondo cui dicevasi essere Itato ilRe Numa uditor di
Pitagora:onde le belle doti, le quali rilussero in lui, frutto fieno stato
degli ammaestramenti di quel Filosofo, la qual tradizione torna molto in a v
vantaggio del suo Sistema. Perciocchè, dic' egli, posto che Numa sia stato
discepolo di Pitagora, siccome sappiamo da CICERONE, LIVIO, e da altri scrittori
esser giunto queIto Filosofo in Italia in età molto lontana dal tempo, in cui
comunemente fi pone. Numa, dee questo far accorciare almeno la durata de'cinque
susseguenti Regni, perchè il Filosofo possa essere contemporaneo del Re
Legislatore. еА 3 da Per rispetto al qual suo ragionamento dei che
se egli si fosse soltanto servito di quella tradi zione, secondo cui dicevasi N
u m a essere Itato uditor di Pitagora, da questo n o n avrebbe potuto inferirne
cosa alcuna in fa vore del suo Sistema, potendosi una tal voce concordar molto
bene coll'antica Cronologia, cioè dicendo, che Pitagora venne in Italia in
que'tempi, in cui secondo questa, fi crede regnasse Numa; facendo ascendere in
una parola Pitagora a'tempi di lui.Ma siccome egli desiderava farlo discendere
a’ tempi pofteriori, non bastavagli questa s e m plice tradizione, bisognava,
che d'altronde in cui coreito raccoglier potesse il tempo, Filosofo venne in
Italia: preselo da Cicero ne, e da Livio, ma non s'avvide, che vo. lendo
servirsi della autoritàloro,erapoi for za rinunciare a quella tradizione base
avea posto alla obbiezion sua. Percioc chè vero è bensì, ch'essi dicono esser
giun to questo Filosofo molto più tardi in Italia di quel tempo, in cui secondo
l'antica C r o nologia regnava N u m a, m a in tanto l'asse riscono in quanto
l'uno lo fa contemporaneo di Servio, di Tarquinio il Superbo, o, del Console BRUTO
(si veda) l'altro. Volendo pertanto at gno è di particolar considerazione. che
per 9 te 266., ed ivi Giamblico, e Diodoro. Diogen. Laert. In Pythagora;
Clem. Alex, il qual venne Pitagora in Italia, poichè ne lia l'epoca, come
bene osservò incerta il dotto Gerdil, non però Scritto gran fatto fra loro i
più accreditati far ri, i quali di tal sua venuta dovertero fessagesimaleconda
te concordano quale asserisce piade 'feffagefima Clemente Alessandri. Diodoro
menzione piade sesfagefimaprima sotto la facilmen no, che lo mette conda, e
finalmente fotto la pone forto, Giamblico l’Olim, le quali epoche (c), il aver
egli fiorito fotro l'Olim con Diogene Laerzio con variano la fessagesimale con
Eusebio dice esfer egli morto nel quarto anno della fettantesima Olimpiade
Diogene mentovato - ottanta o novant'anni. LIVIO poi, CICERONE- in cui
quantunque del in età di, e per attestato Laerzio ne, renerli ad effi, non
v'era ragione per a b bracciare soltanto il tempo, e n o n di qual R e fu
contemporaneo questo Filosofo le non il tornar questo in avvantaggio del suo
Sistema. lo pon parlerò qui del tempo, ntroduz. allo Studio della Relig.; Strom.;
Diogen. Laert. ed altri Scrittori in tanto ci danno 19 epoca inquanto,come ho
accennato,cidi con di qual Re fu Pitagora contemporaneo le quali epoche però da
loro fissate non ef cono dagli anni, che secondo la Cronolo gia comunemente
ricevuta, corsero dal fine del Regno diServio, insinoalprincipiodel Consolato;
del che niente è da maravigliarsi, poichè essendo probabile aver dimorato in
Italia questo Filosofo un notabile spazio di tempo, tale Scrittore avrà tolto
l'epoca, di cui fece registro, dall'anno della sua v e nuta,tal altro da un
fatto accaduto essendo lui in Italia, tal altro dalla sua partenza, o dal tempo
di mezzo della sua dimora, onde possono aver detto tutti ilvero,quando fiasi
fermato in Italia non più di venticinque anni, che tanti ne corsero appunto
dalla morte di Servio infino al principio del Consolaro. Tutto questo adunque
io lafcierò da par te.Concedo, che ammettendo per vera quella popolar voce,
essa dovesse piuttosto far discender N u m a a'tempi di Pitagora, che far
ascender Pitagora a'tempi di Numa. Ma quello, a cui principalmente badar fi dee,
è, che questa tradizione medesima non è fondata sopra alcuna autorevole testimo
nianza, che la renda credibile. Vero è,che ne 2 al. verità
nelsuo gover alcuni rammentati da Livio,
da Dionigi, e da Plutarco furono di parere, che da Pitagora, il quale in quella
parte d'Italia, che Magna Grecia nomavası, gittò ifonda menti della sua
filosofica serta, N u m a ricevu to avesse quelle maflime di Religione, e di
Politica, che pose in opera no. Ma è da considerarsi negar Livio ciò
apertamente, non essendo secondo luivenu to Pitagora in Italia,se non sotto
ilRegno di. Servio Tullio, e dopo alcune ragioni, con cui studiasi di mostrar
l'insusistenza della opinione di costoro, soggiugne, che di sua natura
inclinato fosse alla virtù cotesto Re, nè bisogno avesse di straniera
instituzione bastandogli la dura, e severa disciplina degli antichi Sabini, de'
quali non v'avea una vol ta più incorrotta nazione. E questa se LIVIO. Dionyf.
Plut.in Numa.LIVIO. Auétorem doctrinaeejus, quianonexa taralius,falfo Samium
Pythagoram edunt: quem Servio Tullio regnante Romaecentum amplius poftannos
inul tima Italiae ora.juvenum emulantium ftudia coetus habuiffe conftat..fuopte
igitur ingenio, temperatum animum virtutibusfuisfeopinor magis,
instru&tumquenon tam peregrinis artibus, quam disciplina teirica, ac tristi
veterum Sabinorum, quo genere nullum quondam incorru. prius fuis.
verità origine ebbe per avventura da una Colonia di Spartani venuta in
Italia a't e m pi di Licurgo, come appare dalle memorie antiche nazionali
portate da Dionigi, e di cui anche ne dà un cenno Plutarco, la qual Colonia è
da credere che trasfufo avesse ne’Sabini buona parte de'costumi de' Lacedemoni.
CICERONE poi in più luoghi delle opere sue afferma fuor di alcun dubbio esser
giunto questo Filosofo in Italia sot to ilRegno di Tarquinio ilSuperbo,eche in
Italiapur era a que’tempi,in cui Bruto diedelalibertà a'Romani(h).SottoilCon
solato di Bruto lo mette pure Solino, ed AULO GELLIO in fine dice effer venuto
questo Filosofo in Italia sotto il Regno dello stesso Tarquinio Superbo. Dirà
forse taluno, che l'alterigia de’ Ro Dionyf. Halic. Plut. in Numa in piternum
Hanc opinionem discipulus ejus Pythagoras maxime confirmavit, quicum ·Superbo
regnanteinItalian veniffet tenait magnam illam Graeciam ec. CICERONE Tusc. BRUTO
patriam liberavit. Aulus GELIO Noet. Attic. Poftea Pytagoras Samius in Italiam
venit Tarquinii filio regnum obtinente, cui cognomento Superbus fuit,
mani princ. Ferecides Syrus primum dixit animos hominum ellefema Quaeft.
Pythagoras, qui fuit in Italia temporibus iisdem, quibus L. mani fu
cagione del non darsi credenza a questa tradizione dai dori, quafichè ellite
messero non venir con questo a scemare la gloria di que'primi secoli,,
riconoscendo da un Greco l'Institutore della Religione, ed il più favio de'Re
loro. Quantunque questa non paja ragion bastante per negare ciò, che gli
Scrittori Romani ci dicono: poichè ammessa questa regola, rifiutar fi potrebbe
come supporto tutto ciò, che uno Storico narra di avvantaggioso per la nazion
sua, v e diam tuttavia ciò, che ne dissero i Greci. E' da credere; che questi
sisarebbono recato ad, onore l'aver dato a Romani il Maestro di Numa: che per
Greco passò presso Dionigi e Plutarco Picagora, che che ne sia della opinione
di alcuni moderni, i quali nè Greco.il. vogliono, e nè, pure di quelle Greche
Colonie fondate negli ultimi confini d'Italia. pal Ora ciò non oftante Plutarco nonscio glie la
quistione, e reca foltanto in mezzo le varie opinioni, che a'suoi di correvano,
fra le quali degna è di considerazione quella di coloro, che asserivano essere
venuto in Italia un certo Pitagora Spartano, il quale avea nella Olimpiade
sedicesima riportata la Plus,in Numar bre Dacier nelle annotazioni
alla sua traduzione francese delle vite di Plutarco; alla vita di Nuina.
palma ne'giuochi Olimpici, fotto Numa terzo anno appunto del Regno di lui il
Dacier fi ride di una tale opinione, fembrando a questo Critico ripu gnanza da
non potersi comportare, che u n personaggio atto a dare instruzioni ad un Re, e
ad un Re,qual fu Numa, abbia gareggiato in Olimpia per ootttenere il premio del
corso.Ma a me pare con buona avendo Spartani questi additato parecchj al Re
ftrato fondamento uli degli sommini Legislatore alla favola., abbia ed pace di
'un tanto uomo, che le usanze moderne lo abbiano ingannato nel giudicar delle
antiche. A tutti è noto, che Socrate il più rinoma to Filosofo della Grecia non
isdegnava di suonar la cetra, e che anzi non lasciò di esercitarsi nella lotta;
ed oltre a ciò non era poi mestieri, che fosse un gran scien ziato costui per
instruire N u m a delle leggi degli Spartani. Si sa, che quel popolo nella
rigidezza de' costumi, e privazione di prel so che tutte le cose, le quali
rendono dol ce la vita, godeva per altro dell'avvantag gio d'aver leggi, che
per la semplicità, e con brevità loro, e per la cura del
governo nel farle apprendere a'fanciulli erano note a tutti coloro, che doveano
obbedirvi. N o n farei pertanto lontano dall'ammettere que fta opinione,se
altro non vi fosse in con trario, fuorchè questa ripugnanza ritrovata dal
Signor Dacier; m a rinunciar vi fi dee per troppo più forte motivo, ed è la te
stimonianza di Dionigi, il qual dice non ri levarsi da alcuna memorabile
Istoria, che stato vi sia in Italia altro Pitagora anterio re al famoso
Filosofo. Del resto, che il celebre Filosofo di questo nome nonsia stato
a'tempi di Numa, con molte, ed incontrastabili ragioni Atelio Dionigi si prova,
e di più ac cenna ciò, c h e diede occasione a questa voce sparsası nel volgo,
e sono la venuta di Pitagora in Italia, la sapienza di Numa fuori dell'usato
della nazion sua, a cui sipuò ag. giugnere la conformità della dottrina, ed il
ritrovarsi presso alcuni antichi Scrittori, da cui non dissente Dionigi, che
Numa è chiamato al regno il terzo anno della fedi cesima Olimpiade, il qual
anno designarono dallo Dionyf. Halic.con dire, che fu quello appunto, in cui
quel certo Pitagora Spartano avea riportato il premio de'giuochi Olimpici. E le
pure è fondata quella taccia data a Dionigi di derivare da'Greci assai più di
quello, che ragion voglia delle cose de’ Romani,Greco da lui efsendo Pitagora
stimato, ben è da credere, che nel secolo, in cui eglivivea, fossero i
dotii,uomini sicuri della falsità di questa popolar tradizione. Chiaro è
adunque abbastanza, che nessun caso si volea fare di questa, quando da'più
dotti fra' Romani, e fra' Greci fu non solo rigettata, m 3 confutata eziandio,
e quando fondato sopra l'unanime consenso loro già esitato, non avea l'erudito
Stanlejo di chiamarla fas vola folenne Quello, di cui abbiamo infino ad ora raa
gionato,non risguarda il regno di Numa, m a tendeva ad accorciare i cinque
seguenti Regni,ed inquestoluogo se*o'èdovuto trattare, perchè da cosa
appartenente a lui ricavata era l'obbiezione. Facciamoci ora a considerare
quelle ragioni, per cui accorciar debbasi il Regno di Numa medesimo. Pare
adunque primieramente all'Autor nostro, che non Stanlejus in Hift. Philosoph. Io
non fo rispondere altro a queste ragio ni,se non lasciare al giudicio di chiha
fior di senno,sesianon solo maraviglioso, eri pugnante, ma soltanto fuori
dell'ordinario corso delle cose, che, quando un uomo fia stato di singolare
ingegno dalla natura for nito, e quand'esso abbia posto cura in col tivarlo,
giunga in età di quarant'anni ad acquistarsi il grido di favio: tanto più che
sappiamo aver Numa ha l'arte di conciliarsi venerazione presso gente rozza, e
per conseguente superstiziosa, collo sfuggire il con non potesse esser
fornito nella fresca età,ei dice, di quarant'anni questo Re di tanta fcienza, e
di cosi alto lenno 2 che già ri suonaffe la sua fama non folo pressoi suoi
nazionali, m a ancora presso gli stranieri, e che il suo nome già dovesse far
tacere in un subito ogni particolar riguardo, e le ani mosità delle parti, che
per lo spazio di un anno intero contefo aveano fra loro dello Imperio. Che tale
fosse la riputazione, che si avea della sua scienza, nelle cose divine, ed
umane, che quantunque i Padri vedes sero la grandezza, che tornava togliendo il
Re dalla nazion loro,nondime n o niuno ebbe ardire di preporre ad un tal uomo.
alcuno a'Sabini, 7 f consorzio degli uomini, dimorando ne'sagri
boschi, col disprezzar le pompe, M a questo non è il tutto, segue a dire il
nostro Autore. Tazio, che reggeva Roma insieme con Romolo, preso al grido della
fapienza di N u m a, gli ditde Tazia unica sua figliuola in moglie; ed ancorchè
dalla Storia non abbiasi in qual tempo ciò preci samente avveniffe, si può
affermare senza tema di errore, questo essere avvenuto nei primi anni del Regno
di Romolo dacchè Tazio morì prima della guerra co'Fidenati, e co'Camerį, cioè
prima dell'anno sedice TACITO, Annal. Nobis Romulus ut e le grandezze, e
lasciar che corresse la voce dei suoi pretesi congressi colla Ninfa Egeria.La
fama della sua giustizia non era tale da afa sicurar i Romani, che non
sarebbono stati molestati da 'Sabini, quantunque essi avesse ro tolto il Re
della nazion loro? Doveano finalmente concordare una volta i Padri, e stanchi
forse i Romani, e mal foddisfatti, come quelli, che dato ne aveano non dubbj
segni,del governo di Romolo, il qualpen deva al tirannico, fi contentarono di
eleggere a R e loro un Filosofo. fimo, libitum imperitaverat. fimo,
o diciassettesimo del Regno di Romolo; e Plutarco inoltre atteita, che Tazia
era morta, quando Numa fu chiamato al Regno, e che era vissutacon effo luilo
spazio di ben tredici anni. Quindi ei rac coglie, che gran tempo innanzi
fioriva la fama della fapienza di Numa, e dice,che, volendosi ritenere il
compuro di Plutarco, sarebbe di necessità asserire contro ogni ve.
risimiglianza, che all'età di soli venticinque anni la fama della fapienza di
Numa fosse già tanta da indur Tazio Re ad allogare una fua unica figliuola con
lui u o m o priva Ed ecco altre opposizioni,a cuidàsem pre il fondamento il
folo Plutarco. E che fede fi dee prestar mai a questo Scrittore, to, f2
е onde conchiude non potersi fare a m e
no di non dare un sessant'anni almeno a Numa, quando ad una voce fu eletto Re
di Roma, e ne deduce, che se vogliamo, che, come s'ha dagli Storici, sia
vissuto in fino all'età di ottantatré anni, avendo vent' anni più tardi, che
non è la comune cre denza, incominciato a regnare, è neceffario, che di
altrettanti fi venga ad accorciare il suo Regno. Plut. i n Numa. avanti
lui? Per formarci una chiara idea della falsità del ragionamento del nostro A u
tore, connettiamo alcune delle epoche di Plutarco, che è il suo Achille per
questi due primi Regni col suo Sistema Cronologico. Tredici e più anni avanti
alla morte di Romolo ei raccoglie da questo Storicoesser seguite le nozze di
Numa con Tazia. Que sto Storico medesimo dice esser nato N u m a nello stesso
tempo che Romolo innalzava le mura dell'alta sua Roma: ma vuole il nostro
Autore, che di foli diciannove anni circa stato sia il Regno di Romolo, dunque
ne seguirebbe a ritenere tutte queste e p o che di Plutarco,e congiungerle col
suo S i stema, che nel fefto, o fettimo anno della età e per rispetto
almatrimonio di Numa con Tazia, e per rispetto all'esatto numero di anni, che
vissero insieme, minute particola rità, le quali sfuggono agli stessi contempo
sanei? D'onde ebbe egli si particolarinoti zie,che aver non potè non già
ilsoloLi vio,ma nè pure l'accurato Dionigi,ilqua le tanta maggior diligenza usò
nello stende re le sue Storie, che di maggior criterio è fornito, e che visse
notabile spazio di tempo Plut. in Numa. 1 età fua N u m a avesse menato
moglie, ridi colo affurdo, ed inverisimiglianza troppo maggiore al certo, che
non sia quellad' averla menata nell' anno vigesimoquinto. So che rigetterà egli
quest'epoca, poichè chia ramente scorgesi doversi secondo il suo Si Itema
porre f 3 la nascita di Numa quarant'anni innanzi alla fondazione di Roma;
ma è da riflettere,che se di quelle, direi così, m i nute epoche, di cui
favella Plutarco, non ne danno gli altri Scrittori un minimo cen no,nel mettere
la nascita diNuma alprin cipio del Regno di Romolo, o là in quel torno,
concordano tutti; poichè tanto asse risce Dione, lo stesso si raccoglie a un
dipresso da Livio, ed infine l'accurato Dionigi dice che Numa quando giunsealSo
lio, era vicino al quarantesimo anno, onde non essendovi, come a luo luogo
opportu no abbiam mostrato ragione alcuna di ab breviare il Regno di Romolo, fi
vuol pure secondo lui mettere circa a'prinċipj di Roma la nascita di Numa.
Perlaqualcosa stra no dee riuscire, che l'Autor noftro rifiuti Dion. Cocej. in
fragm. Peiresc. ex ed.Rei. quella mari Hamburg. LIVIO. Dionys, Halic. quella
epoca di Plutarco, la quale è atte Iata dagraviffimi Scrittori,ed ammetta quel
le, nello asserir le quali trovasi solo questo Stórico. E' adunque forza
rigettare le epo che di Plutarco, e queste sue minute noti zie,non solo perchè
incerte,ma perchèfe fi colgono tutte insieme mal congiungerli possono col
Sistema del nostro Autore. Per rispetto poi a quelle parole di questo R e
presso Plutarco, con cui rifiuta il R e gno, le quali pajono a lui disdicevoli
i n bocca M a concediamo, che queste particolarità accertate fieno, e n o
n ripugnino col Sitte m a di lui le epoche stesse di Plutarco, che grande
assurdo ne seguirebbe poi? Che Tazio avrebbe data lasua figliuola in isposa a
Numa, mentre questi era di soli venti cinque anni;a Numa de'principali fra' Sa
bini; a Numa, che già erasi acquistato per avventura riputazion d i fapiente; a
Numa infine, che quantunque giovane, ben si può far ragione dal gran renno, che
poscia di mostrò, che di venticinque anni uguagliasse molti uomini, i quali già
fossero avanti nell' età. Qui mi pare in una parola, che la grandezza moderna
abbia offuscato l'intellet to del nostro Autore nel recar giudizio dell' antica
semplicità. E' ben vero però, che fa d'uopo fer marsi ancora alquanto
intorno ad una sua considerazione, la quale entrambi gli abbrac cia,ma
spero,chemi verrà fatto di dimo, bocca di un uomo di soli quarant'anni,già
ne abbiamo sopra ragionato. .Basta aggiugnere, che quantunque proferite le avel
le questo Re Filosofo in taleesà, male non gli sarebbono state in bocca. Forse
tuttigli uomini hanno da potersi vantare di militar bravura? E quando
vantatosene fosse,non era egli noto, che mai vissuto non avea fra l'armi?
Concedası, che questa dote fosse necessaria ad un Principe in quelle circostan
ed egli appunto mostrò di stimarla tale e per questo accettar non volea
l'offertagli Corona. Non hanno pertanto da parer disdi cevoli, e vergognose in
bocca di un Filosofo di quarant'anni, mentre Numa di tutt' altro pregiavasi,
che di stare in full armi, ed avea preso b e n diverso cammino per giungere
alla gloria. Laonde mi pare, che già li fia fatto chiaramente vedere, che per
quello, che spetta a'due primi Regni, non avea l'Autor noftro per accorciarli.
alcun bastantemotivo Itrare ze, f A (+) Cap ly. Strare non aver questa maggior forza delle
altre sue obbiezioni. Pare adunque all'Autor noftro improbabile, Tullo
Ostiliori accendere petti de'Romani (nervati che abbia la bellica virtù ne® di
sessantacinque anni dice risultare l'antica Crono logia da quarantatré anni del
Regno di Numa, da un anno d'interregno, e da ven tuno pacifici già da una pace
anni, i quali sessantacinque di Romolo. secondo potuto samente potuto Tullo
Ostilio delta re dopo sì gran tempo Romani, e guidarli come ei fece si animo
alla vittoria: fi ponga però soltan to mente alla pace, da cui uscivano i
Romani, e biano interrotto l'ardor guerriero n e ' per qual guerra una e
chiaramente fi verrà a comprendere, come ciò fia poflibile. tal pace ab
Lasciando ora da parte, se quegli ultimi anni di Romolo sieno stati cosi
pacifici come si dà a credere il nostro Autore, o fe almeno, come abbiamo sopra
mostrato, non abbia quel bellicolo Principe mantenuti vivi gli spiriti marziali
ne'suoi Soggetti; venia mo a vedere, fe ammettendo questasilun ga pace,ne
risulti tale inverisimiglianza, per cui abbiasene a negar la possibilità. Tutta
la ripugnanza consiste nel concepi come abbia те, La pace de'Romani non era
nata dall' ozio, è dal timore, ma era una pace, che ben lungi dal paventar
de'nemici era in istato di farsi temer da quelli:onde non dovea pure sembrare
improbabile al nostro A u tore, che le circonvicine nazioni gelose della
grandezza di Roma non ne abbiano turba ta la tranquillità. E che senno sarebbe
stato il loro di romper guerra con un popolo pol sente, e valoroso, che vivea
in pace bensi, m a in una pace lontana dalle morbidezze, dura, rigida,anzi
feroce, che non le of fendeva in cosa alcuna, che dava speranza in fine di
voler depor l'armi, confervar l' acquistato, nè più curarsi di estendere i
confini? Aggiungafi inoltre di quai belle doti a b bia il saggio N u m a
fornito i suoi soggetti pendente il suo pacifico Regno. Numa acconciò il popolo
a Religione, e Divinità, per servirmi delle parole di Tacito, fu, vale a dire,
datore di quel freno, e {pro ne sì necessario, promosse, favorì, e ftudioffi in
ogni modo di farfiorirel’Agricoltura,co me hassi non già dal solo Plutarco, ma
da Dionigi eziandio. Ora ciò posto non iscriffe Plut, in Numa, Dionyf, Halic. TACITO,
Annal. Che A. Saggio sopra il Gentilefiro go lo stesso noftro A.,
seguendo il parere del Segretario Fiorentino, che, se dove sono le armi, e non
Religione, con dif ficoltà fi può quella introdurre, dove è Religione,
facilmente si possono introdurre le armi? E in quanto allo avere un popolo di
agricoltorinon avrà egliavuto probabilmen te sotto gli occhi una riflessione
veramente aurea diPlutarco,laqualequestopiùFilo. fofo, che Storico inserisce
nella vita di Numa, ed è, che, se in villa si perde quella temerità, e malnata
voglia, che ci spinge a rapire le sostanze altrui, fi conserva però ottimamente
tutto il necessario coraggio per difender le proprie? Che più? Non diceegli
stesso, che quel Principe, che ha uomini può farne presto de'soldati, che un
zappatore, un contadino li avvezza agevole mente a marciare, a patir caldo e
gelo, alle fatiche, ed agli ordini della milizia? Ecco in qual maniera da
que'robusti contadini, della Religion loro veneratori, amanti della patria
abbia Tullo Ofilio potuto ben tosto crarre un poderoso esercito. A. Viaggi di
Rusia ra, avere Che se altri poi si volgerà a considerare, per qual guerra
abbia questo R e rotti gli ozj dellapatria, e spintii Romani all'ar mi, come
s'esprime Virgilio, vedrà,che ca de rovinata del tutto la ripugnanza i m m a
ginata dal nostro Autore. Nella prima guer che ebbero i Romani dopo il Regno di
Numa, non trattossi di uscire dal proprio paese,e andarad invaderecon armata ma
no l'altrui, trattosli di difendere i propri confini dagli Albani', che per
gelosía d'ima pero vollero la guerra con esli, e le per avventura non
si-sarebbono questi accinti di buon animo ad una straniera espedizione, è da
credere, che non avendo ne'campi perduto il necessario coraggio per difende re
il suo, con tanto maggior ardore moffi G fieno a rintuzzare la forza degli
ingiusti aggressori. Che tali poi fieno stati gli Alba ni, avvegnachè Livio
secondo l'usanza fua distintamente non ne favelli, non ce ne lasciano dubitare
e Diodoro Siculo, e lo Atesso tante volte lodato Dionigi. Per ciocchè il primo
dice, che finfero gli Alba ni di aver motiyo di lagnarside'Romani per LIVIO Diod.
Sicul. excerp. Legat. Dionys Halic. iRomani sia per gara di primato, sia a
cagione di questo stesso maltalento, che contro esli gli Albani dimostravano,
non mancassero di corrisponder loro in malevolenza, e già in questo modo fparli
fossero que'semi di odio, i quali scoppiarono poi in guerra manifesta. Nè
tralasciarfidee,cheilnuovoReTullo Ostilio già erasi colle sue belle qualità cat
tivato l'affetto de'Romani, e col distribui re a'bisognosi cittadini certe
terre, le quali aveano appartenuto a'due primi Re, come scrive Dionigi, avea
già dato ad effi avere un pretesto di muovere contro esli, come quelli,
che portavano invidia alla p o •tenza loro; e Dionigi attesta, che Cluilio
Dittator di Alba volle la guerra co’Roma ni, e permise a'suoi di dare il sacco
impu nemente alle terre loro.Aggiungafi, che gli Albani, come sopra abbiam
cacciato una parte del popolo loro, la qua le a persuasion di Numitore, che per
rego la dibuon governo volea purgarne laCittà lua,era ita con Romolo probabile,
che vedessero di mal occhio cre sciuta a tanta grandezza una Città formata
de’rifiuti loro, e che d'altra parte riferito, avean a Roma, onde è mo 1 Diony.
Halic. motivo di sperare di dover condurre una vita felice sotto il
governo di lui. In abbiano Regni di Tullo Ostilio, Anco Marzio, Ccoci ora
giunti al Regno di quel Tullo Oftilio, che meritò di nuovo corona per la sua
perizia militare, e guidò alla vittoria. pure il nostro Autore, che d'alcun
poco s'ac VIRGILIO, Aeneid, potuto cor Patria si cara, e che già per le
civili, e militari virtù di Romolo, e per lo senno di Numa salita era ingrande
stima,ed ono re presso le vicine nazioni. difendere una Eccoci e Tarquinio
Prisco. que Ita maniera resta verisimile, che i Romani robusti, e valorofi
com'erano dilornatura, offesi da un popolo ad essi odioso, governati, e retti
da un favio, e prode Principe, che amavano, Agmina J a m desueta triumphis
Questo Regno adunquenon meno diquello del suo fucceffore Anco Marzio
defidera Vero è, che si potrebbe in primo luogo fospettare e
dell'età si avanzata di Anco e della stessa asserzione, che questo R e alla
morte sua non avesse un figliuolo, il quale giunto fosse alla pubertà.
Perciocchè il n o Itro Autore da un'epoca del suo Plutarco raccoglie, che
giunto già foffe Anco all' anno sessantesimoprimo dell' età sua, quan do venne
a morte, prestando intera fede a questo Storico, allorchè dice, che Anco ni
pote di N u m a per parte di una figliuola alla morte dell'Avo già era nel
quintoanno dell' età fua; minuta particolarità, di cui egli folo c'instruisce,
non facendone motto non solo Livio, m a nè pure Dionigi, entrambi corcino,
avvegnachè non possano chiamarfi di lunga durata, non giungendo ilprimo se non
a trentadue anni, ed il secondo a ven tiquattro, secondo la Cronología
comunemente ricevuta; e la ragione, che lo spinge ad abbreviarli, non è altra,
se non l'improba bilità, che, secondo lui, risulta dal doversi ! fupporre
nell'antico Sistema, che il Re Anco Marzio fia morto nella età di anni fel
fantuno senza aver figliuoli, i quali già per venuti fossero alla pubertà.
Plut. in Numa in fine. i fe dati questi per ne nyf. Halic. LIVIO.
Jam filii i quali fi restringono a dire,
che questo R e nipote era per via di una figliuola del Re Numa. Nè
certaèpurequell'altraal serzione del nostro Autore, che alla morte di Anco non
fosse ancora alcun suo figliuo lo giunto alla pubertà: perciocchè, te LIVIO
descrivendo non troppo accuratamente quel primo secolo di R o m a secondo
l'ufan za fua,diceallasfuggita,cheifigliuolidi Anco erano vicini alla pubertà,
Dioni gi, il quale con occhio più diligente scorse que'tempi, attefta, che uno
de'sopraccen nati figliuoli era già pervenuto alla pubertà, e l'altro ancora
fanciullo (e). Dubbiosi sono pertanto,per nondirfalsi,ifondamentidella
difficoltà. Vediamo ora, veri fia almeno questa convincente".
Perdonimi A.; ma io debbo con fessare,
che quando lessi questa parte del suo Saggio,non potei fare a meno di non com
piangere m é costesso la deplorabil sorte della umana ragione, non potendosi
coloro, che LIVIO. NumaePom pilii Regis Nepos filia ortus Ancus Martius
erat.Dio prope puberem aetatem erant. Dionys, Halic. ne fanno la gloria, qual
certamente egli era liberare da'pregiudizi pienamente. Grave presunzioneinvero
contro alla giustiziadella causa si è l'esser forzato un u o m o del suo senno
a ricorrere a tali ragioni per sostenerla. La grande impressione, che avea
fatto in lui il Sistema Cronologico del Neutone, 1'opinione, che aveva della
dottrina di quefto Filosofo fecero sì, che lasciò sfuggir dalla penna certe
ragioni, le quali eglim e desimo, le altri gliele avesse opposte, non avrebbe
né m e n o degnate di risposta se è da credere, che tutti gli uomini facciano,
e d Anco medesimo abbia fatto quello,che pru dentemente far fi dovrebbe. Se
finalmente anche concesso, che ne'giovani suoi anni abbia Lascio pertanto al giudizio de'giusti matori
delle cose, se l'esser morto il Re Anco Marzio in età di anni sessantuno fen za
aver figliuoli, i quali trapassasseroiquac tordici ami, sia tale
inverisimiglianza, che ci sforzi a negar fede a'più gravi Scrittori delle cose
Romane di que'tempi, e lascio per conseguente pure al giudicio loro, fe,
fupposto, cheil partito prudente fosse di tor moglie, essendo egliancor giovane
perpo terlasciare, come l'Autor nostro s'esprime, dopo le figliuoli attial
governo, esti abbia tolto moglie, sia cosa inverisimile, che se non tardi
abbia avuti figliuoli,o pu re morti fieno avanti lui i primi,non rima nendovi
che gli ultimi. Tutte queste cose, come dicea,io le lascio al giudicio de'let
tori, e mi reftringerò soltanto a dimostrare, che la speranza, la quale
prudentemente a y rebbe potuto nodrire, che i suoi figliuoli poteffero
succedergli nel Regno, non era tale da spingerlo a tor moglie affai per tempo,
la qualcosa per recare ad effetto mi con verrà indagare attentamente quelle
leggi, o per dir meglio costumanze,secondo cuicrea vanli i Re di Roma; tanto
più che, oltre all' effere materia per se importante, non ci riuscirà forse
inutile l'averla trattata nel de. corso di queste osservazioni. Chi dunque
prende a considerare la con ftituzione del governo di Roma a que tem
pi,hadapormente innanzi di tutto,che le cose non erano ordinate, come sono
negli Statide'giorninoftri, ma chesenonrego lavansi gli affari del tutto all'
avventura, elea forza, e l'accortezza aveano per l'ordina rio'non poca
parte nelle deliberazioni. Dif ficile pertanto sarebbe trovare le leggi fone
damentali, secondo cui fissata fosse la suc cessione al Trono, ovvero il modo
della la g A due capi ridur si può la base della constituzione di
qualunque Stato: al modo, con cui si e leggono, od intendonsi eletti quel
Principe, o que' Magistrati, che hanno da reggerlo, ed alla autorità, che
questi hanno sopra i loro soggerti. Della autorità, che i Re di Roma avessero
soprailorosog getti, non appartenendo punto alla presente quistione, io non
farò parola. Chi deside raffe per avventura d'esserne informato, potrà
ricorrere a Grozio, ed al Cellario ed a que'luoghi degli antichi Scrittori da
essi accennati. Mi volgerò bensì a mostra che Grotius de Jure Belli et Pacis
Chriftoph. Ceilar. Breviar. Antiq. Roman..feff.1.1 elezione: tuttavia
connettendo alcuni luoghi degli Scrittori, e facendovi sopra alcune ri
flessioni, verremo in chiaro, per quanto comportar lo possa un si rimoto
secolo, di quelle consuetudini, le quali, secondo c h e io stimo, tenevano
luogo presso i Romani di leggi fondamentali. per quanto raccoglier si poffa
dalle scarse notizie di quella età il Regno di Roma piuttosto elettivo, che
altro chiamar li dee. re, 1 E 03.120. ma E prima di tutto, le dalla
qualitàde'Re, i quali fuccedettero l'uno all'altro, si può ricavare alcuno
indizio, certa cosa è, che in que'sette Regni mai figliuolo non succe dette al
padre, che anzi tutti furono di di verle famiglie. Non parlo di Tarquinio il
Superbo, il quale non per giusta strada, m a colla forza, e per mezzo delle
scelleratezze giunse al Trono, a cui mai sarebbe in al tro modo pervenuto.Veda
adunque l'Au tor noftro, se dalla elezione di Anco, che nipote era per via di
una figliuola di N u che non subito dopo il Regno dell' Avo,ma dopo quello
diServioTullioasce se al Trono, inferir se ne possa, che piut tosto pendesse ad
essere successivo il Regno di Roma. Che se Tarquinio Prisco allonta nò da Roma
i figliuoli di Anco nella ele zione del nuovo Re, la qual precauzione egli
s'avvisa dimostrar, che vantassero que sti giovani diritto al Trono,si vuol
notare, che tutto facea per li figliuoli di Anco,per muovere i Romani a
conceder loro il Regno, e tutto era contrario a Tarquinio. Erano i primi
discendenti da N u m a figli uoli di Anco Principe, che congiunto avea le più
belle qualità de'suoi antecessori, o n de è detto da Livio uguale a qualunque
de' pal. g 2 Pa LIVIO. Medium erat
in Anco ingenium,& Numae, et Romuli memor. Id. ibid. Cap. 14. n. 35.
Cuilibet fuperiorum Regum belli ) Dionyf. Halic. Lib. III, pag. 184. 1
Too passati R e nella gloria delle arti
sia di Sequitur jactantior Ancus Nunc quoque jam nimium gaudens popu laribus
auris. Uno di questi poi secondo Dionigi già era alla pubertà pervenuto.Laddove
Tar quinio oltre ad essere straniero essendo stato dal morto Anco fuo fingolar
benefattore d e ftinato per tutore a'suoi figliuoli, la qual cosa fece per
avventura, lusingandosi, che avrebbe egli tentato ogni modo di aprir loro la
strada al Trono,nè per gratitudine questo dovendofi fupporre ignoto a' R o m a
ni, certa cosa è, che eravi ragion di teme re per lui di non poter ottenere il
suo in tento, quantunque il Regno fosse elettivo, se i figliuoli di Anco
avessero potuto chia marlo, esponendo a' Romani i meriti del paces che di
guerra, e quello, che è più grandemente amato dal popolo,secondo che disse
Virgilio in que'suoi versi, ove più da Storico, che da Poeta favella.
pacisque,& artibus, et gloriapar. Virgil. Aeneid. Padre loro, la di cui
memoria era ad effi si cara. Sapea benissimo l'astuto, ed a m bizioso Tarquinio,
qual impressione far p o tea nel popolo l'aspetto de' giovani Princi pi, ed il
rinfacciargli, che avrebbono fatto la sua ingratitudine. Temè pertanto la pre
senza loro giustamente, e trovò m o d o di allontanarli da’ Comizj. Dal fin quì
detto chiaramente risulta, che non ostante i pregj, che vantavano i figliuoli
di Anco, essendo stati esclusi dal Trono, a cui quantunque per molti motivi
gliene dovesse esser chiusa la strada, fu innalzato Tarquinio, ben lungi
dall'inferire da questo allontanamento, che nella elezio. ne del R e i voti
stessero ordinariamente per la ftirpe Reale, 'avendo un tale allontana mento
bastato ad escluderli, se ne dovea a più buona ragione dedurre, che i Romani
niun riguardo avessero al sangue Regio nella elezione del Re loro. min, Alienum
quod exaétum: alienioremquod ortum Corin tho:faftidiendum quod mercatore
genitum: erubefcendum quodetiam exule Demararo narum patre, VALERIO MASSIMO, Ma
veniamo ora con testimonianze degli Storici a dimostrar maggiormente il diritto
de'Romani nell'elezione de’ re loro, eco.. g3 ininciando da Livio: Servio
Tullio, dice questo Storico, avvegnachè foffe coll'uso al possesso del Regno,
tuttavia perchè sa peva, che il giovane Tarquinio andava dif ieminando esso
regnare senza ordine espres so del Popolo, conciliatosi il buon voler della
plebe col distribuir certe terre tolte a’ nemici, fi arrischio di porre in
deliberazio ne a'Romani, fe volevano, ed ordinavano, che regnasse o no, e con
tanto general c o n senso, con quanto per lo innanzi alcun al tro giammai Re fu
dichiarato. Ove è da notare,che Tarquinio il Superbo per farsi strada al Trono
non vanta già i suoi diritti come figliuolo di Re, nè taccia Servio di
usurpatore, perchè coll'occasione di a m m i nistrar la tutela di lui era
giunto al Princi pato, m a dice, che fenza espressa elezione del popolo Servio
Tullio governava il R e gno: e Servio per dileguar que'rumori,non risponde già
non essere un tal consenso n e cessario, ma, assicuratosi prima dell'affetto
quam jam ufu haud dubie Regnum poffederat; tamen quia interdum jactari voces
LIVIO Serviusquam del a juvene Tarquinio audiebat fe injusu populi regnare,
conciliata prius voluntate plebis, agro capto ex hoftibus viritim diviso, aufus
eft ferre ad populum, vellent juberentne fe regnare: santoque consena fui,
quanto haud quisquam alius ante, Rex eft declarcius; # Questo è
quanto dice Livio lo Storico, di cui l'Autor nostro maggiormente si pre gia; m
a per dare a vedere con alcun altro Scrittore la verità medesima, a chi della a
u torità del solo Livio non si volesse appaga consideriamo c o m e parla lo
ítesso S e r vio presso Dionigi per difendersi dalle accu fe di Tarquinio:
mentre io era disposto (ei dice adunque a Tarquinio ) a rinunciare il Regno i Romani
mi trattennero, sulqual Regno essi hanno diritto, e non voi altri, o Tarquinj;
quindi prosegue: siccome al vostro Avo (cioè a Tarquinio Prisco ) fu dato il
Regno, quantunque estero, ed alie nisfimo dalla cognazione diAnco, sprezzati i
figliuoli di Anco non fanciulli e nipoti, m a nel fiore dell'età loro, nello
stesso modo a m e f u concesso, perchè il Popolo Romano non un erede del Padre
metre algo verno della Repubblica, ma un personaggio veramente degno del
Principato. Tutto questo vien confermato dalla con g4 'del popolo, pone
in deliberazione a’Romani, le volevano, che seguitasse a reggerli, cose tutte,
che l'autorità del popolo nella elezione de'Re appieno dimostrano. dotta 1 re,
(in) Dionyf.Halic. dotta di Tarquinio Prisco verso i figliuoli di Anco; chi si
vorrebbe dare a credere, che un uomo cosi accorto avesse commesso tale
inconsideratezza di lasciar dimorare in Roma questi Principi, e non proccurare
di al lontanarli per destro modo da quella Città se avesse loro usurpato il
Regno? Bisogna credere, ch'ei s'avvisasse dinon esser reo d'ingiustizia veruna
contro d'essi, non altro avendo fatto, se non usare una destrezza per ottener
dal Popolo una cosa, di cui questo poteva liberamente disporre. Vero è, che sia
Anco Marzio, fia Tare. quinio Prisco, destinando per tutori de'pro pri
figliuoli personaggi, i quali doveano ef sere per ogni ragione ad elli tenuti
grande mente, si lusingarono, che questi proccurasse roa'lorofigliuoli
quelRegno, cheime desimi procacciarono per fe, servendosi per l'appunto del
credito acquistatofi penden te il governo de'benefattori loro. M a que sta cura
medesima, ed il non aver sortito l'effetto desiderato da que’ due Re, dimo-.
ftra vie più il poco riguardo, ch'avea il Popolo Romano al sangue Reale nelle
ele, zioni de’nuovi Principi. Del resto, se da quel general ritratto de?
costumi de'Romani di que'tempi, che racs Troppo parrà a taluno, che
dilungato mi fia in questa materia, la quale in vero non avrei trattato così
ampiamente, se non mi fosli dato a credere, che anche prescinden Montes Esprit
des Loix LIVIO cogliesi dalla Storia, si può trarre qualche congettura, essendo
propria di popoli rozzi peranco e semibarbari una costituzione in forme di
governo, non è da credere, che la successione al Trono di padre in figliuo lo
stabilita fosse tra esli, essendo questa frut to di secoli più colti, e per
recar finalmen. te la testimonianza di qualche moderno Scrit tore ', che questa
verità abbia riconoíciuto, basterà per tutte quella del Montesquieu, il quale
asserisce chiaramente e fuori di verun dubbio, che il Regno di Roma era
elettivo. Veda adunque l'assennato lettore, se la SPERANZA di lasciar figliuoli
atti al Regno allamorte fua era tanta da muover Anco a tor moglie assai per
tempo, e se anche c o n cedendo tutte le conseguenze, che da que Ro matrimonio
cosi per tempo contratto ne deduce il nostro Autore, le quali altri forse non
avrebbe alcun ribrezzo a negare il fon damento, che a queste ei pose,
siastabile, e fermo fufficientemente. do do dalla nostra quistione, non
sarebbe per avventura riuscito discaro il veder posto in pieno lume untal
punto. Tempo è ora, che veniamo al Regno di Tarquinio Prisco. Se de'Regni di
Tullo Ostilio, ed Anco Marzio toccò per così dire soltanto alla sfug gita il
nostro Autore, di troppo più forti r a gioni fi crede afforzato per accorciar
la d u rata di quest'ultimo. E qui debbo di nuovo avvertire, che l'essersi egli
appagato degli scarsi racconti di Livio, e il non aver rivolto l'occhio a quel
lume, che mena di ritto per l'oscuro calle di que' primi tempi di Roma, voglio
dire a Dionigi, è stato cagione dell'aver egli ritrovate ripugnanze, che non vi
sono. Strana a lui pare, per istringere le sue ragioni in breve,la disfimu
lazione de' figliuoli di Anco, che per tren totto anni aspettarono luogo e
tempo vendetta, e vendetta ei dice eseguita contro un usurpatore del Regno in
pregiudizio loro, avvegnachè fosse itato instituito tor di essi dal Padre
medesimo. E d'altra parte a lui pare, che troppo grande disdet ta sia stata la
loro, che di tanta dissimula zione dopo aver indugiato intino alla età di
cinquant'anni ad operar quel fatto, non ne abbiano colto frutto alcuno alla tu.
tuttociò essendo cona rimasi esclusi dal Trono. per altro grido di
accurato nel raccogliere i fatti descritti dagli Antichi, e il di cui difetto
non è la brevità, cioè, ch'essendo stato ucciso il famoso Augure Accio Nevio colui,
di cui si racconta il prodigio vero o supporto della cote tagliata col rasojo,
i figliuoli di Anco attribuirono questa uccisione a Tarquinio, fia perchè,
essendo il R e entrato in pensiero di far m u tazioni nelle leggi, temeva non
gli dovesse di Ma se avesse egli consultato Dionigi, avrebbe veduto, che
vero è bensì aver in terposto i figliuoli di Anco trent'otto anni tra la
ingiuria, e la vendetta in questo fen fo, che potessero recate ad effetto le
loro crame, ma vero poinon è, che in questo frattempo questa medesima
scelleratezza altre volte macchinato non avessero,laqual cosa non sivenne a
sapere,se non dopochè eb bero eseguita quella tragedia: Chiaramente in farti
asferisce Dionigi, ove narra la morte di Tarquinio, che coteíti figliuoli di
Anco più volte aveano tentato di togliergli la vita, che anzi aggiugne questa
partico larità, omeffa da uno Storico moderno, il quale ha Dionyf. Halic. Rollin
Hift. Rom. di nuovo efier contrario questo Augure,coa m e altre volte
trovato lo avea, sia perchè egli non fece le necessarie ricerche per stato
a 1 conoscere, e punirne gli uccisori. Riconci liolli Servio Tullio con
Tarquinio, ma avendolo ritrovato facile al perdono, dopo tre anni il messero a
morte nel modo, che de scrive Livio. Dirà taluno non esser da cre dere, che
abbia Tarquinio sì facilmente p e r donato un tale attentato a'figliuoli di
Anco; m a forse vero era ciò, di cui l'accagiona vano, e se ne avesse mostrato
risentimento, avrebbe dato peso all' accusa. Del rimanen te è da credere, che
note non fossero a Tarquinio le antecedenti macchinazioni, perchè dicendo
Dionigi unicamente a proposi to di quest' ultima, che lo ritrovarono fa cile al
perdono, dimostra, che le altre giun te non erano a cognizione di lui; onde
cagion di quella accusa, ben avesse egli m o tivo di tenerli per malcontenti,
ma non a segno di volergli toglier la vita. ri che allora pre Anzi di più è da
notare cipitarono l'impresa i figliuoli di
Anco, quando sividero chiusa lastrada dipoteredopo la morte del vecchio R e,
esponendo i m e riti del Padre loro, procacciarsi il Regno; voglio dire quando
giunto Servio inalto stato presso a Tarquinio, ed instituito tutor
re de' figliuolidilui, vedevano, chequesti amato, e ten Tutto questo succeduto
non sarebbe, se fosse stato, come pensa l'Autor noftro, Tar quinio un
usurpatore, poichè non avrebbo no dovuto tentare tante obblique strade, usar
tanta diffimulazione, ed è da credere, che più facilmente, e più presto
sarebbono forse venuti a capo de'loro disegni. M a già so pra abbiam messo in
chiaro, ch'elettivo ef Tendo ilRegno di Roma ingrato bensi, e sconoscente ad
Anco fuo benefattore non usurpatore chiamar fi può Tarquinio Prisco. Strano
pertanto non dee riuscire che abbiano frapposto i figliuoli di Anco
trentore'anni non già tra l' ingiuria, e la e riverito da'Romani poteva
con tro esli servirsi del credito rante ilRegnodi Tarquinio.Fecero per tanto
pensiero di arrischiare il tutto iare, le poteva loro venir fatto con una d i
{perata impresa di far levare il popolo a r u more,presso cui(prestando
fededileggie ri l'uomo a quello, che spera ) stimato a v ranno, potere ancor
molto la memoria del di quel Trono, a cui avvisavano di non poter giugnere in
Padre, e così impadronirsi altro modo. acquistatofi du ma de
deliberazione, che fecero di vendicarsi,m a tra l'ingiuria, ed il vedere
la vendetta loro eseguita non sarebbe questo il solo esempio, che delle
contraddizioni c'instruisca dello spirito umano. Non avete, dice pure egli
stesso A. Disc,milit.Disc.Sopra la Giornata di Maxen. Non fa ora quasi
più mestieri di farmi a dimostrare, che per non aver esli colto al cun frutto
dalla loro lunga dissimulazione, non sidee,come fa l'Autornoftro,negare, che di
trentotto anni stato non zio di tempo, il qual corse dalla morte di Anco a
quella di Tarquinio Prisco. E chi non sa, che moltissime volte non riescono ad
uomini avvedutissimi i loro disegni? Dice pure lo stesso A., che l'efito il
quale importa il tutto innanzi agli occhi del volgo, è nulla innanzi a quelli
del fa vio? E d ancorchè fuppor fi volesse, che i figliuoli di Anco, i quali
aveano per si lungo tempo con tanta cautela l'affare, non avessero poi usate
condotto le dovute della c o n giura, non farebbe questo, per servirmi di
avvertenze nell'ultimo scoppiar nuovo delle parole di lui in altra sua o p e
sia lo spa tan ra tante volte veduto la medesima nazione, il medesimo
uomo prudentissimo ragionevolisii m o in una cosa, imprudente, ed irragione
vole in un'altra, benchè in ammendue gli dovessero pur esser di regola le
stesse m a l fime, gli itefli principi? Del rimanente chi la, se non si farebbo
no gli uccisori impadroniti del Trono, quan do Servio Tullio, e Tanaquilla non
foliero stati così avveduti, come e'furono? A tutti è noto, che Tanaquilla fece
correr voce, che Tarquinio ancor vivea, affinchè niente si tentaffe di nuovo, e
Servio avesse c a m ро di premunirsi. Onde possiam conchiude re, che nè pure in
questoRegno diTar quinio vi è ripugnanza tale tra i farti, e le epoche, che ci
sforzi ad abbreviarlo. Regni di Servio Tullio, e di Tarquinio E il non aver
consultato Dionigi traffe più volte l'Autor noftro in errore, secondo A. Dialoghi
sopra l'OtticaNeuron, quello, SE Superbo. Dialog. Per venire adunque prima
di tutto alle ragioni, per cui giudica l'Autor nostro d o versi abbreviare il
Regno di Servio Tullio: fu Servio, ei dice, ucciso da Lucio Tarquinio, di poi
cognominato il Superbo, che voleva ricuperare il Regno paterno toltogli d a
effo Tullio, uomo intruso, e dischiattaser vile,e fu ucciso dopo un indugio di
qua rantaquattro anni, il che, segue eglia dire, vie maggiormente pare
inverifimile a chi fa considerazione, che questo Tarquinio era già uomo da
menar moglie, allorchè Servia Tullio divenne Re, ch'egliera dispiritiol
tre quello, che abbiam sopra dimostrato, onde ritrovò irragionevolezze, ed
inverisimiglian ze tali, che stimò doversi di sì lungo trat to di tempo
abbreviar la durata de'Regni de'RediRoma,ilnon aver rivolto lo sguardo a questo
Storico assurdi gli fece rinvenire in questi due ulti mi Regni. Perciocchè in
vero gliere le difficoltà mosse de'cinque primi Regni contro la durata non
avrebbe molte volte fairo mestieri d i mente a Dionigi; m a più difficile
riuscireb be il rispondervi per rispetto ultimi,se non si face fleuso della autorità
di lui. troppo maggiori ricorrere necessaria. a questi due, per iscio 1
che abbrancato Servio nel mezzo della persona lo si portò di peso fuor
della Curia,e gittollo giù perli gradini;ora sea quarantaquattro anni del Regno
di Servio si aggiungono venti circa, ch' eidovea ave re alla morte di Tarquinio
Prisco,verrà ad esser vecchio di sessantaquattro anni, allor chè dimostrò tanta
gagliardía. Questi sono i motivi, per cuistima l’Au tor nostro esser più
inverisimile aver Servio regnato quarantaquattro anni, che Tarqui nioPrisco
trentotto.Già abbiamosopradi mostrato non esser punto contraria a'fatti la
durata del Regno di Tarquinio, ora verre mo a far vedere effer non meno
verisimile la durata del Regno di Servio, che quella non tremodo ardenti,
ed ambiziosissimo,.e v e niva tuttodi stimolato ad occupare ilRegno da Tullia
sua moglie femmina trista fopra ogni credere, e malvagia. Dal che ne c o n
chiude esser m e n o probabile, che Servio Tullio abbia potuto regnare
quarantaquattro anni, che Tarquinio Prisco trentotto. Oltre di questo ei
riflette, che Lucio Tarquinio, il quale vivente Servio Tullio è sempre q u a
lificato giovane, fosse tuttavia giovane, e robusto alla fine del Regno di
quello, la qual cosa egli arguisce da ciò, che fi leg ge, LIVIO Tuumeft.....
non sia del suo antecessore. Desidererei per tanto prima di tutto lapere, onde
abbia r a c colto l'Autor noftro quella particolarità,c h e al principio del
Regno di Servio già fosse Lucio Tarquinio in età da menar moglie. Di questo non
m i venne fatto di ritrovarne parola presso gli Storici, e non mi posso
persuadere, che perchè Livio descriven do le azioni di Servio pone prima di tut
to aver egli date in ispose due sue figliuo le a Lucio, ed Arunte, per questo
abbia l' Autor nostro stimato di poter mettere q u e sti due matrimoni al
principio del Regno di Servio: perciocchè in questo caso ognun vedrebbe sopra
quanto fallace congettura egli avrebbe avventuraro questo fatto. M a quando
pure da Livio ciò ricavar fi potesse, vorrei di più, ch'altri mi sciogliel se
questo nodo, cioè se a tale età già per venuto era Tarquinio Superbo alla morte
di Tarquinio Prisco, c o m e riuscir poffa proba bile, che Tanaquilla con
quelle si eloquenti parole eforti presso Livio Servio Tullio a Servi fi vir es
Regnum, non eorum, qui alienis mani. bus peffimum facinus fecere: erige'te
Deosque duces re. quere, qui clarum hoc fore caput divino quondam circum
Desidererei pure, ch'altri insegnar mi sa pesse ilmodo dicomporre insieme
l'aver Tanaquilla un figliuolo giunto alla luccenna ta età, ed il proccurar,
ch'ella fa il R e gno a Servio piuttosto, che a Tarquinio suo figliuolo. E d
ecco che senza rivolgere al tro Storico, che il folo Livio, dando vento anni
circa a Tarquinio Superbo al princi pio del Regno di Servio, ne risultano in
verisimiglianze grandissime, per toglier le quali altro far non si potrebbe,
che suppor re fanciullo Tarquinio Superbo alla morte di Tarquinio Prisco; il
qual partito essendo a prendere le redini del Regno ancor manti del sangue di
Tarquinio Prisco, e a vendicar la morte dell'uccilo fuo marito, A m e sembra,
che ad una tal vendetta ad ogni m o d o piuttosto ella proprio figliuolo, se
questi già pervenuto era al ventesimo anno dell'erà sua, ed è ben da credere,
che u n giovane Principe nel fior de'suoi anni facesse troppo più m e morabil
vendetta della uccisione del Padre di quello, che fosse per fare Servio Tullio.
fufo igni portenderunt: nunc te illa coeleftisexcitesflama ma:nunc expergifcerevere:&
nosperegriniregnavimus: qui fis non unde natus fis, reputa: Si iua, re subita 2
confilia torpent, at tu mea confiliafequere. animar dovesse il fu quello, Posto
ora adunque, che ancor fanciullo fosse TarquinioSuperbo alprincipio delRe. gno
di Servio Tullio, ne segue, che da lui allevato, non avendo vedute. le
grandezze del Regno dell'Avo, del quale lapea. aver Servio vendicata la morte
collo allontanarne dal Trono gli uccisori, e per ultimo stret to seco lui in
vincolo di parentado, e spe rando di succedere ad un uomo già oltre negli anni
per commettere la scelleratezza che commise, dovettero concorrere questi due
impulsi, vale a dired' avere a lato una malvagia, ed ambiziosa femmina, e d'ef
fer fuori di speranza di poter succedere a Servio Tullio, avendo questi, come
ce ne affi e quello, che toglie tutte le ripugnanze, d altra parte non
raccogliendosi dagli Stori ci, di qual' età precisamente ei fosse alla morte di
Tarquinio Prisco, sarebbe quello, che prendere li dovrebbe.M a non abbia m o
bisogno di congetture, poiché, che Tarquinio Superbo fosse per anco fanciullo,
non figliuolo, ma nipote di Tarquinio Pri sco, chiaramente viene attestato da
Dionigi; il che dovremo di nuovo notar più fotto. Dionys. Halic. re frapposto
qualche indugio, affinchè m a • nifeftamente n o n risaltassero agli occhi i d
e suno 5 che ci dicono gli Storici (e), per potere stringere quel
scellerato matrimonio, fra l'una delle quali, e l'altra avranno p u assicurano
Livio, e Dionigi, fatto pen fiero di rinunciare il Regno, e dare la lic bertà a
Romani. Ma è da avvertire, che forse qualche notabil tempo trascorse oltre il
ventefimo anno del Regno di Servio, innanzi che si congiungessero con quelle
infa m i nozze Lucio Tarquinio, e Tullia: per. ciocchè, fupponendo, che avanti
al vente fimo anno del Regno suo non abbia Servio date le sue figliuole in
ispose a' Tarquinj, ad ognuno è noto, che Tullia moglie era di Arunte, e non di
Lucio, e Lucio a m m o gliato era coll'altra figliuola di Servio, o n de ebbero
a passare per tutte quelle scelle ratezze, litti loro. Credo poi veramente, che
dopo ch' ebbero coronate le commesse iniquità colle nozze, non si debbano per
modo nef h3 LIVIO tani mite tam
moderatum imperium deponere eum inani. mo habuisse quidam Auctores funt, ni
fcelus intestinum li. berandae patriae confilia agitanti interveniffet. Dionyfi
Halic. LIVIO. Dionyf. Halic. che la ragione, per cui finalmente val sero preffo
Tarquinio le persuasioni della sua rea moglie, fu l'aver questi inteso c h e
Servio volea dar la libertà a’ Romani, alla qual risoluzione forse fu egli
spinto princi. palmente dalle malvagità della figliuola, e di Tarquinio. Vedeva
egli benislimo che Tarquinio da lui giudicato indegno del T r o no,appunto
perchè tristo,giàdovea forse essersi formato una fazione di ribaldi pari suoi,
e che dopo la morte di lui o avreb be forzato i Romani ad eleggerlo a Re lo ro,
o pure quando avessero avuto tanto co raggio di eleggerne un altro, prevedeva,
che avrebbe tentato ogni mezzo, ed anche accesa una civil guerra per giungere
al Trono. E d'altra parte Tarquinio Superbo, se con questa risoluzione di
Servio non sifosse veduta tagliata ogni strada, non avrebbe avventurata la sua
fortuna e la sua vita LIVIO. Initiumcura suno passar sotto silenzio i
continui stimoli di una donna, quale si era Tullia, onde a buona ragione abbia
detto Livio (F), che il principio di sconvolgere ogni cosa da una donna ebbe
origine: m a contuttociò io sti me mo, bandi omnia a foemina orium ift
Tolti ora diciannove o venti anni dalla età, che aver dovea Tarquinio il Superbo,
onde venga ad essere di soli quarantaquat sro o quarantacinque anni, e non di
sessan taquattro, quando gittò giù per ligradini della Curja Servio Tullio, non
parrà più in nessun m o d o inverisimile tanta gagliardía. Senzachè io lascio
al giudicio degli assen nati, se, anche concedendo, che di sessan taquattro
anni abbia Tarquinio fatta una tal prova, menandosi allora una vita più dura, e
per conseguente più robusta, ed essendo Tarquinio riscaldato dalla collera, sia
poi cosa da farne tanto le meraviglie.Onde mi pare di potere a buona ragion
conchiudere, medesima come fece, ma servito fifareb be della fama dell'Avo suo
dopo la morte di Servio, che già era oramai pieno di anni per farsi elegger Re
da'Romani, cosa, la qual potea giustamente sperare potergli riu sčir più
agevole, che d 'intraprendere, com ' egli fece, di usurpare il Regno vivente
lui medesimo. Ben vedea, che se tentato avel 1 se inutilmente questo passo di
trucidare il suo Suocero, ed impossessarsi coll'armi del Solio, non gli
rimaneva più speranza alcu na. Non arrischiò adunque iltutto, senon quando si
vide in procinto di tutto perdere. chę ) <che siccome non v'ha motivo di
accorcia. re i precedenti Regni, così nè pure ve ne ha alcuno per accorciar
quello di Servio Tullio. Siamo finalmente pervenuti al Regno dello steffo
Tarquinio Superbo ultimo Re di Roma. La principal ragione, che adduceľ Autor
noitro per abbreviare il Regno di lui, e che abbraccia anche i Regni di Tarqui
nio Prisco, e di Servio Tullio, è questa. A c cadde,ei dice, che verso la fine
del Regno di Tarquinio Superbo, Sefto Tarquinio, e Tarquinio Collatino essendo
a campo ad Ardea, vennero a contesa chi di loro avesse moglie più onefta;
d'onde poi nacque, c o m e ognun fa, il Consolato, e la libertà di R o m a. Ora
questo Tarquinio Collatino a quel tempo secondo le parole di LIVIO era giovane,
e secondo lo stesso Autore era figliuolo di Egerio, a cui Tarquinio Prisco suo
Zio commise la guardia di Collazia Città novellamente acquistara nella guerra S
a Regiiquidem juvenes interdum orium conviviis comeslaf. fionibusve inter fe
terrebant; forte potantibus his apud (fratris hic filius erat ) Collasiae in
praefidio relictus bina, Sextum Tarquinium incidit de uxoribus mentio etc.
LIVIO. bina, e ciò fu verso il principio del Regno di Tarquinio Prisco, il
quale viene acade re fe non prima l' anno centocinquanta se condo il computo
comune della edificazione di R o m a. Convien dire, ei soggiugne, che Egerio a
quel tempo avesse almeno i suoi quarant'anni, fe vogliamo crederlo atto a
Costenere un carico di tanta gelosía, come è quello di castodire una Città, di
nuovo a c quisto, e se vogliamo, che fosse nato, come si h a da LIVIO, prima
che Tarquinio Prisco veniffe a Roma.Ma come può fta re, ei conchiude, che un
uomo di quarant' anni l'anno di Roma centocinquanta avesse un figliuolo'ancor
giovane l'anno dugento quarantaquattro? Cioè quasi un secolo dopo, come non fi
voglia dire, ch'egli avesse fi gliuoli passati i novant'anni, il che merita va
aver luogo secondo lui tra le meraviglie della Storiadi Plinio,non
traifattidiquella di Livio. Pensa adunque l'Autor noftro, che s e vogliamo
ritenere questa discendenza de'Tarquinj, fa mestieri prendere ilpartito di
accorciare i Regni di Tarquinio Prisco, di Servio Tullio, e di Tarquinio
Superbo, che occupano il tempo, che è di mezzo tra il figliuolo, ed il Padre.
Molte cose io potrei qui porre sotto )Collariae inpraefidio reli&us.T.
Liv.loc.fupra cita opera ucchio del lettore per isciogliere questa dif
ficoltà, come farebbe il dire, che non sifa precisamente il tempo, in cui sia
stata con quistata Collazia; che Livio Storico non trop po'accurato può esserfi
ingannato nel dire, che già nato era Egerio prima che Tarqui nio Prisco venisse
a R o m a, che la custodia d'una Città non era carica a que'tempi, per
esercitar la quale dovesse u n guerriero effer giunto all'età di quarant'anni:
tanto più trattandosi di un Zio, che una tal c u ftodia commette ad un Nipote:
perciocchè non essendo in quell'età le cose così rego late,come a'dinostri, piùo
sservavasinegli uomini, i quali davano al mestier delle armi,la
bravura,elagagliardia,doti, di cui potea egli molto bene esser fornito alla età
di venti o venticinque anni che non il senno, che a ' n oftr i tempi in un
Governatore fi richiede, per fuppor ilqual sen no ci vorrebbe per avventura più
avanzata età. Potrei dire di più, che se vogliamo Itare alle parole di LIVIO, da
queste nonfi può dedurre, che la custodia della Città sia Itata a lui
principalmente come Capo commesla, ma solamente che fu lasciato di presidio
inquella Città dal Re fuo Zio.Por ter essere finalmente, che questo Collatino
giovane più non fosse, attesochè, per non far parola della poca esattezza di
Livio, questo Storico non dice precisamente, che giovanefosseCollatino,ma
cheiRegjgio vani passavano il tempo in conviti, mentre erano occupati in quella
piuttosto lunga,che viva guerra, 1 gliuolo sotto le quali parole di Regi
giovani può egli aver foltanto intesi i figli uoli del Re, e non Collatino,
quantunque della stessa famiglia, tanto più che dicendo egli dopo,che stando
essibevendo pressoSe sto Tarquinio, ove pur Collatino cenava, cadde ildiscorso
sopra le moglj (k), a me pare, che quelle parole ove pur Collatino cenava,
dimoltrino, che sotto quelle ante riori di Regj giovani non altri abbia volu to
intendere Livio fuor che ifigliuoli di Tarą quinio. M a comunque fiafi di ciò,
s'abbia per nulla il fin quì detto, concedasi essere impossibile, che Egerio
abbia potuto avere un figliuolo giovane al fine del Regno di Tarquinio Superbo.
Sappiasi adunque, che Dionigi crede Collatino nipote,e non fie Forte potansibus
his apud Sextum Tarquinium ubi Collatinus coenabat. LIVIO ) Dionys, Halic.
L'ultima ragione, con cui l'Autor nostro ftudiali di abbreviare il Regn o di
Tarquinio Superbo, e che abbraccia anche quello del fuo predecessore Servio
Tullio, ei la ricava da questo. Tarquinio quando pervenne al Principato, avea
secondo lui sessantaquattro anni, a'quali chi aggiugne i venticinque che si
dice aver egli regnato, troverà, che era questi in età di Ottantanove anni, a l
lorchè fu cacciato dal Regno, la qual par ticolarità posto che vera,n o n
sarebbe stata passata dagli Storici sotto silenzio. Che più, segue egli a dire,
leggeli, che il medesimo Tarquinio parecchj anni dopo che fu c a c ciato di
Roma, combatté a cavallo al L a go Regillo contra il DictatorePostumio, ciò,
che verrebbe a cadere l'anno centefimo circa della età fua, onde ei correrebbe
la giostra c o n un secolo sulle spalle,affurdo, prosegue egli, non punto
diffimile da quello avvertito da Luciano (n), che quella Elena, gliuolo
di "Egerio, ed in questa maniera con un colposolositagliailnodo. 1 i Per
cui l'Europa armolli,e guerra feo, E l alto imperio antico a terra sparse,
LIVIO. Lucian, in Somnio seu Gallo, quando desto quelle si celebri fiamme i n
petto a Paride già fosse coetanea di Ecuba. suo. Lalcio io
qui,d'avvertire, che a Tarqui nio Superbo si vogliono torre que'vent'anni,
iquali,come già sopra abbiam mostrato, gli dà di troppo l'Autor noftro, onde
per dirlo alla sfuggita, non avea egli da mara vigliarsi, che gli Storici
abbiano taciuta quella particolarità, che quando Tarquinio fu cacciato di Roma,
già era pervenuto alla età di oitantanove anni. Quello poi, che tronca ogni
quistione per rispetto alla giornata del L a g o Regillo si è, che Dionigi (o),
ch'egli pure reca in mezzo a questo proposito, e non gli presta fede, riprende
quegli Storici, i quali narrano tal fatto, e dice doversi credere suo figliuolo,
e non lui medesimo esser quello, che fu,ferito com. battendo contro ilDittatore
Poftumio. O v? è da notare che anche facendo il caso, che con sole congetture
si dovesse scioglie re questo nodo, essendovi due mezzi noti al nostro Autore
per togliere l'inverisimi glianza,, cioè o di abbreviare i due.Regni di Servio
Tullio, e di Tarquinio Superbo, o pure di dire non essere stato lui,m a il
Dionyf. Halic. Si dà risposta a
varie opposizioni. Chiaro Hiaro ora resta abbastanza, che le in.
verifimiglianze raccolte dal Conte Algarotti, s'altri le viene minutamente
osservando,non fuo figliuolo quello, che ritrovossi alla giord nata del
Lago Regillo, il nostro Autorem prende piuttosto il primo, cioè quello, che
favorisce l'opinion sua, quantunque a m m e t ter non si possa per modo nessuno,
quando si sa, che Dionigi, il quale avea con tan ta cura studiati gli antichi
Storici Latini, e che se non altro fu tanti secoli più antico del Conte
Algarotti, Dionigi in s o m m a così diligente nel fiffar le epoche, stima più
prudente partito prendere il secondo. La scio ora pertanto decidere da chi
diritto ragiona, se tali fieno i motivi addotti dallo Autor noftro, che si
debba pure accorciare il Regno di Tarquinio Superbo,o se piut tosto,come
ioavviso,non resistanoalla autorità degli antichi Storici, e debbano c a dere a
terra come damento, del tutto privi di fon fon folamente non sono
valevoli a mandare in rovina la Cronologia comunemente ricevuta, m a nè pure
hanno forza per ispargervi fo: pra alcuna ombra di dubbietà,nè efferne cessario
ricorrere a quel suo ripiego di a b breviare pressochè della metà la durata de'
sette Regni per conciliare la giovanile erà di Romolo colle grandi cose,
ch'egli ope To, e l'età di Numa colla sua esalcazione al Trono. Nè secondo
quello, che abbia m o osservato, l' uomo indugia troppo cogli ftimoli della
vendetta, e dell'ambizione a fianco anzi lungo spazio di tempo non ba fta ad
estinguerli; nè quella gagliardía,che trovar non si può nella vecchia età,
avvien che vi si trovi, onde senza negar credenza, com 'egli pretende, a' più
gravi Storici dell' antichità in cosa, in cui tutti convengono, quale si èla
duratade'fette Regni, torna ogni avvenimento (per servirmi delle stesse fue
parole in contrario senso ) nell' ordine naturale delle cose. nolo. 1 Del
resto si dee avvertire, e di fatticre do, che ognuno avrà avvertito quanto d e
boli, e leggiere fieno le inverisimiglianze ed assurdi,dicuiservisli
ilnostro.Autore per distruggere la durata de'mentovati Regni, e venire a
confermare il Sistema Cronologico del suo Filosofo. Quand o altri nes gar vuole
la verità di un fatto attestato da gravi Storici per folo glianze, o
contraddizioni, queste devono ef ler tali, che ammesse per vere il fatto al
trimenti fufliftere non pofsa: perciocchè è legge dellaPoesia,non della
Storia,ilnarra re soltanto cose verifimili. La.Storiaècon tenta di narrar cose
vere; e quante cose, a v vegnachè vere inverisimili ci pajono per una minuta
circostanza o smarrita, o di cui non pensarono gli Scrittori di far menzione,per
un costume, per una legge, per una fog. gia particolare di vivere, di cui come
di cose a'contemporanei loro notiffime, n o n istimarono dover far parola? In s
o m m a molte volte assomigliar potrebbefi la Storia ad una macchina, la qual
produca maravigliosi ef fetti, ei di cui ordigni sieno ignoti. Tali dicono
essere i nostri orologi per rispetto a’cinesi,e noinondirado, inispecieinquan.
to allaStoria, laqual'èo da’tempi,oda? paesi nostri lontana, fiamo nel caso
loro. Ecco adunque,che leguate non fi fossero le inverisimiglianze i m maginate
dall'Autor noftro, sono queste si deboli, che come saette vibrate contro una
motivo d'inverisimi quantunque eziandio di falda armatura, ben lungi di recare
alcuna offesa, offesa, cadono effe medesime infrante a terra, chę E
appunto per iscogliereil nodo, ch'egli benissimo vedea, ch'alori gli avrebbe
potu to mettere innanzi agli occhi, vale a dire per qual ragione egli opponesse
alcuni fatti, in cui discordano gli Storici alla durata di tutti i sette Regni
tolti insieme, ed alla d u rata di ciascheduno in particolare, in cui sono a un
di presso di un medesimo pare re, ei dice, che la memoria de'fattidovet te con
più sicurezza essere conservata dalla tradizione, che non fu da quante volte,
mentre quelli avvennero tornato un Pianeta al medesimo sito del Cie lo; la qual
risposta io non so, se basterà per appagare chi considera alquanto adden tro
nellecose; perciocchè a me pare noti zia non meno importante,e degna di esse re
dalla tradizione, e dagli Scrittori a' p o steri trasmessa il numero degli anni,
che occupòilTrono un Principe,diquello,che fieno molti fatti, a cui presta
l'Autor n o ftro intera credenza. N e aveano i Romani bisogno di troppo fortili
astronomiche culazioni, come pare, ch'egli accennar v o glia, per sapere di
grosso, quando terminal le,eprincipiassel'anno.Ed unaprova, che questa
tradizione del numero degli anni, i essa trasmessa sia {pe ' epoca
di molti de principali fatti, non si sia notato però l'anno preciso, in cui
segui ciascun fatto. Ove è da riflettere che lo stesso noftro Autore dicendo
non ef fere da credere, che gli Storici sapessero quanti anni sieno trascorsi,
mentre andava no fuccedendo i fatti, è forza,che ammet guerra di Romolo
con lo veramente credo poi, che quantunque tenuto fi sia registro non solo del
numero degli anni, che durarono i Regni de'Re di Roma, ma ancora del Regno di
ciascun. R e, e dell ta, che abbia regnato ciascun Re, e per con seguente della
somma di tutti isetteRegni, inratta conservata fi fia, si può dedurre da quella
ammirabile concordia degli Storici nella Cronología, concordia, la qual non si
vede certamente ne'fatti. che non sapesser nè pure l'anno preci fo, in cui
questi avvenimenti seguirono. Ora con questa sua sola concessione viene a ro
vinare buona parte delle ragioni, ch'egli apporta per abbreviare ciascun Regno.
E d in fatti quante volte non fi serve egli di epoche di avvenimenti minuti, e
per lo più; registrati soltanto da un Plutarco, per ritro var ripugnanze
nell'antico Cronologico Sistema, come sarebbe,per recarne alcuno esem pio,
l'epoca della tro e del diverse guerre; tempo Approssimandosi l’Autor
nostro al fine del suo Saggio, reca altra prova contro l'anti co Cronologico
Sistema,e ben sivede,che avendola riserbata in ultimo, ei crede, che dia questa
l'estremo colpo, e il nodo del tutto recida. Questa prova, ei dice, è c a vata
dalle generazioni di uomini, le quali tro i Camerj, che è in Plutarco, l'epoca
del matrimonio di Tazia con N u m a, che trovali presso lo Iteffo Storico, come
anche il precito numero d'anni, che vissero insie m e, il qual pure èri cavato
dallo esatto re giftro, che il medesimo Plutarco ne tenne, per non parlare de
cinque anni nè più nė meno,che avea Anco allamortediNuma e degli anni, in cui
seguirono precisamente della nascita di Egerio, ch'egli raccoglie da Livio. Le
quali epoche tutte oltre all'essere tratte la maggior parte da Plutarco o da
Livio, credulo il primo, Itraniero, e lontanissimo da'tempi,poco accurato
l'altro,non dovea no per nessun modo addursi da lui, come quello, che pretendea
non aver la tradizio ne potuto tramandareepoche di troppom a g gior rilievo,
che queste non fieno, e c h e sono da tutti i più gravi Storici ammesse per
vere. fono i2 sono indicate dagli Autori nella Storia dei R e
diRoma,le qualigenerazionidice,che con vincono di falsa la loro Cronología
quanto alle durate de'Regni. Nella vita di Romolo, ei segueadunque, liha,che OttilioAvo
lo di Tullo Ottilio mori nella guerra contro a'Sabini, la qual fu ne'primi anni
di R o ma,iRegni pertanto,eiconchiude,diRo molo, di Numa, e di Tullo Oftilio
non si stendono più là, che il tempo razioni.Da Numa ad Anco Marzio,ei se gué,
ci è una generazione sola, perchè l' uno era Avolo dell'altro; dal che seguita,
che la generazione tra Numa, ed Anco coincidendo col tempo di Tullo Oftilio, ci
fia l'età di un uomo qualche anno più o meno da Tullo al fine del Regno di
Anco. Onde dal principio del Regno di Romolo allafinediquellodiAncocorrono
datre generazioni. Lucio Tarquinio Prisco, pro legue egli, uno de'Lucumoni
dell'Etruria, viene a Roma uomo maturo sotto ilRegno di Anco, de cui figliuoli
fu instituito tuto re: e però l'età di Tarquinio convenendo con quella di Anco,
non resta che una. e fola generazione tra il Regno di Anco il Regno di
Tarquinio Superbo figliuolo del Prisco. Talchè, ei conchiude, dal
principio di due gene del del Regno di Romolo alla fine di
quello di Tarquinio Superbo fi contano quattro sole generazioni in circa, e non
più. Ora som mando insieme gli anni di quattro genera zioni, che corrono
durante ifetteRe diRo. m a fi hanno cento trentadue anni; poiché una
generazione di uomini trentatré anni. E fommando insieme gli anni di ciascun Re,
secondo il computo di LIVIO, fi hanno d u gento quarantaquattro anni; e vi ha
più di un secolo di differenza tra due risultati, che pur avrebbono ad essere
uguali. D'altra par te facendo, che tocchi a ciascun R e l'uno ragguagliato
coll'altro diciannove anni di Regno, come vuole il Neutone, fi ha cento
trentatré anni, e tra questi due risultatinon corre differenza niuna. di comune
sentimento vengono dati a 9 fSin quì il nostro Autore. Io per rispon dere
a questo lungo ragionamento prima di tutto voglio concedere, che quattro fole g
e nerazioni fieno corse da Romolo insino a Tarquinio Superbo: perciocchè ciò si
riduce finalmente a dire, che durante i Regni dei serte Re, quattro uomini in
tutto il Romano popolo ebbero prole un dopo l'altro di sessanta e un anno. Ora
farebbe poi forse questa impossibilità tale fisica, per cui non i3
fi dovesse più prestar fede agli Storici delle antiche memorie de'Romani?
Ma, suppo sto (quello però, che in nessun modo con cedere fi può che questa
fosse inverisimi glianza tale, per cui sipotesse negar cre denza alla Storia,
s'è forse l' Autor nostro bene assicurato, che, non uscendo da quelle persone,
di cui egli fece scelta per fissare le generazioni, quattro soltanto corse ne
fie no pendente il Regno dei sette Re? Dio nigi (a) attesta pure, che Tarquinio
S u perbo fu nipote, e non figliuolo di Tarqui nio Prisco?Questo accuratissimo
Storico d o po aver fatto parola di molti assurdi, che ne seguirebbono, fe
figliuolo, e non nipote ei fosse di Tarquinio Prisco, fi afforza colla
autorevole testimonianza di Pison Frugi, il qual solo tra gli Storici affermò
questa cosa. Nè mancadiaccennarequello,cheperav ventura fu cagion dello sbaglio:
poichè dice, che dall'essergli nipote per natura, e figli uolo per adozione
fieno stati forse gli altri Storici ingannati. Nè
giovaildire,comefal'Autornoftro, che la contrarią opinione cioè, che figliuo lo
fosse questo Re, e non nipote di Tarqui Dionys, Halic.Hic, L. Tarquinius Prisci
Tarquinii Regisfiliusneposre fuerit parum liquet:pluribus tamen
auctoribusfiliumcreg diderim LIVIO In quanto a Collatino poi, quà di nuovo
addotto dall'Autor nostro p e r confermare il 2 fuo di numerare in quegli
arcaismi come le autorità, contentofli e non si fece a pesarle il diligente
sciando da Dionigi. In secondo luogo, la perder tempo ľ autorità di Dionigi, la
quale, com ' è palese, è molto più da segui re, che non sia quella di Livio,
ben diver sa è la maniera di spiegarsi dei due Scritcori intorno a questo
affare,l'uno ne tocca alla sfuggitą, l'altro vi si ferma, ragiona reca
latestimonianza di uno de'più antichi Storici, e sappiglia a quella opinione,
la quale sia per lo credito, che ha all'Autore fia per, quinio Prifco fu
opinione dei più, ed opi pione abbracciata da Livio medesimo; d o vendosi in
primo luogo riflettere alla manieta, con cui LIVIO s'esprime, vale a dire, che
questo punto era assai all'oscuro, che egli peraltro seguendo i più credevalo
figliuo lo; il che dimostra aver egli benissimo veduta la difficoltà, ma che
non volendo, come sopra abbiam notato lo contesto di tutta la Storia, gli pare
più sicura. is suo Sistema, già sopra abbiamo osservato
raccogliersi dallo stesso Dionigi, che n i pote era, e non figliuolo di Egerio.
Ciò posto ne viene, che senza uscire da quelle persone, di cui egli osservò le
generazioni, non quattro, m a cinque numerar se ne debe bono d a Romolo inlino
a Tarquinio Super bo: onde se aver non si dovea per assurdo tale da negar fede
alla Storia l' essersi ritro vare quattro persone in tutto il popolo Romano le
generazioni, di cui fossero di fef santa e un anno, tanto meno dovrà parer
ripugnante, che cinque susseguite ne sieno, ciascheduna delle quali
uguagliatamente non oltrepassi i quarantanove anni. Dionyf. Halic. que Ma
dirà il nostro Autore, che ad una generazione comunemente si danno soli tren
tatré anni, laonde non si può essere così largo, e concederne a ciascheduna di
queIte quarantanove. Qui mi convien prendere d'alquanto più alto i principi, e
si verrà a conoscere, che quelle generazioni, a cui comunemente fi danno
trentatré anni, o secondo altri tren tacinque,non sono della specie di quelle
osa servate dal nostro Autore. Vediamo adun que quali fieno quelle, a cui
diedero tal nu: mero di anni i Cronologi, e verremo in chiaro, fe tali fieno le
osservate da lui. La Cronologia, come tutte le altre facoltà,dee seguir la
natura, come maestro fa ildiscen te, per dirlo alla Dantesca, e pure è che
collo.Specularvi sopra molte fiate,in luo go diavvicinarsiaquellaaltrilafugge,e
gli ultimi passi sono quelli c h e riconducono a lei nella vero, L e
generazioni pertanto, che fiffarono i Cronologi circa a trentatré anni, sono
quelle, che generalmente si osservano in un lungo spazio di tempo nella maggior
parte famiglie di una nazione; laonde, fe fiof servano in una sola, o poche
famiglie, a n che per lungo tempo questa osservazione, non è più fattasecondo
la regola, che general mentela maggior parte abbraccia:percioc chè, se nella
maggior parte delle famiglie sono uguagliatamente le generazioni di tren tatré
anni,potrebbe succeder benissimo, che fi ritrovasse una famiglia, od anche
diver se, in cui queste foffero o più lunghe, più brevi. Se poi non si
osservassero in un lungo spazio di tempo, riuscirà ancor più agevole il
ritrovarne. M a le generazioni, di cui servifli il nostro Autore, nè corsero
delle - nella maggior parte delle famiglie, nè in lungo tempo, anzi
nè pure in unasola fa miglia, essendo composte di diverse perso ne d i varie
famiglie. Certamente se si fa un Cronologo ad osservare per tal modo le
generazioni, ben tosto fisserà la regola ge nerale di queste a settanta e più
anni, per chè in un notabil tratto di paese popolato iopenso,chenon
passisecolo,senzachèfi veda uno, o forse più uomini, che di tale età hanno
prole. Lo sbaglio in somma d’A. consiste nello aver presa la regola d a quello
che suole generalmente avvenire, gli esempj da ciò, che in pochi succede, ed
aver pensato, che que'casipar ticolari sotto la general regola cadessero, onde
la Cronologia degli Storici delle cose de? Romani sottoi R e s'opponesse a
quella legge, che osservaro aveano nella natura i più periti Cronologi. Nel che
quanto sia a n dato lungi dal vero credo d'aver fatto ba ftantemente palese.
Due ragioni reca ancora finalmente l'Au tore in difesa del Sistema del Neutone,cui
è necessario rispondere innanzi di por fine a quelte nostre osservazioni. La
prima fiè, che tal Sistema discolpa Virgilio esattissimo Poeta, ci dice, da
quello anacronismo i m putatogli
volgarmente per conto de'tempi, in cui vissero Didone, ed Enea. La secon da,
perchè giustifica quella comune tradi zione tenuta in Roma, che N u m a foffe
fta to uditor di Pitagora. Ora per rispondere alla prima, questa. ammetter fi
dovrebbe senza dubbio veruno qualora fosse stato Virgilio tenuto a soddi sfare
alle leggi della verità storica;ma non fa mestieri ricordare, che da tali leggi
sciolti sono i Poeti.Raro è quel vero, che non abbia bisogno del finto per
aggradire ai più, e se non inftillano virtù, col dilet tare mancano i Poeti al
principal fine dell' arte loro; tanto più, che fecondo quello che pensa il
dotto P. dellaRue (d),non per ignoranza delle antiche Storie, m a per dar
ragione de'famosi odj, i quali si lungo tempo fra' Cartaginesi, e la Nazion
suam durarono, e per introdurre quel patetico, che tanto piacque, come ce ne
assicura OVIDIO, a'suoi contemporanei, e tanto è degno di piacere ad ogni età,e
ad ogni popolo, non ebbe difficoltà di commettere (4) Ruaeus in not. ad.
VIRGILIO .Aeneid. quell'OVIDIO Trift. Eleg. Nec legitur pars ulla magis
de corpore toto. Quam non legitimo foedere junétus4 mor,
quell'anacronismo. S'aggiunga, che
que ito anacronismo non era tale che facil mente potesse venire scoperto dalla
comune de'Leggitori, da'quali soltanto balta, che non vengano scoperti gli
errori storici dei Poeti: perciocchè correa fama fecondo A p piano, che
Cartagine fosse stata fonda ta alcuni anni avanti all'eccidio di Troja da una
colonia di Fenici, presso i quali poi ricoverossi dopo lungo tempo Didone, del
che non lascia Virgilio didarne qualche cen nei? Appian. apud Ruaeum cit.
loc. no, > onde trattandosi di tempi assai lontani dalla età di Virgilio,
questo rumore basta va per render tale la finzione, che non fof se la verità ad
un tratto conosciuta,e vinta a terra cader dovesse la invenzione di lui. Ma
abbreviando della metà iltempo,che durarono i Regni de'Re di Roma viene forse a
nulla cotesto anacronismo? E che fa rebbe, se il nostro Autore inutilmente ado
perato fi fosse, e che anche togliendo pref so che la metà degli anni dalla
somma di tutti quelli, che corsero sotto a'Regni dei fette R e, non si venisse
con questo a ren der probabile in alcun modo, che Enea, e Didone potessero
essere stati contempora Tre secoli e più corsero,secondo gli an
tichi Scrittori, dall'incendio di Troja alla fuga di Didone, come osservaron o
il dotto Petavio, e l'erudito Commentator di Vir gilio della Rue: ora da
trecento e le dici anni (che tanti ne corlero fecondo il Petavio dall'eccidio
di Troja alla fondazion di Cartagine ). togliendone cento e undici, come piace
all'Autor noftro,vale adire facendo venire Enea in Italia cento undici anni più
sardi, rimangono nulladimeno d u gento e cinque anni di svario. Laonde é chiaro,
che nè VIRGILIO abbisogna della di fesa del nostro Autore, nè, quand' anche ne
abbisognasse, sarebbe questa bastante per do Petav. Rationar. tempor. Cartagofundata
dicitur anno posttemplum incoatum qui est annus poft Trojanam calamitatem
Ruaeus loc, supracis. te svanire l' anacronismo da lui commesso. fa nei? Sia adunque egli pur certo, che cote fto
fuo ripiego nontoglie, ma soltantosmi nuisce l'anacronismo di Virgilio; che
anzi questo rimane peranco maggiore di due le coli. N è soltanto vuole il Conte
Algarotti, che fia alla più esatta verità conforme ciò,che si legge in un
Poeta, purché in alcun m o anno > che comunemente credefi
centesimo undecimo dalla fondazion di Roma, alprin cipio del Regno, di cui già
dovea effer giunto Numa al quarantesimo primo della età fua (se pur vogliamo
seguire ical coli dell'Autor nostro, il quale dando diciannove anni circa di
Regno a Romolo faprincipiare il suo Regno aNuma giàvec chio di sessant'anni ),
e fissando d'altra p art, come già sopra abbiamo osservato, le condo la mente
di lui, la venuta di Pitas gora anno soli do favorir possa il suo Sistema; ma
preten de eziandio, che maggior credenza prestar fi deggia ad una popolar voce,laqualtor
na in avvantaggio della opinion sua che a'più rinomati Storici dell'antichità.
Già abbiamo sopra veduto il suo parere circa all'essere stato Pitagora
contemporaneo anzi Maestro di Numa, ora adunque a confer mare vie più ilsuo
Sistema, lorecadinuo vo in mezzo quasichè ridondar debba in avvantaggio di
questo il porgere, che fa fa vorevole interpretazione ad un a tale popolar voce.
Avendone però già altrove fuffi cientemente favellato, non mi resta altro da
aggiugnere, se non che, anche fiffando il principio del Regno di Romolo secondo
lo intendimento del nostro Autore, a quello Queste sono le riflessioni, le
quali, fecon do quello, ch'iopenso, chiaramentedimo streranno, che A. cadde
trat to dal suo Filosofo in errore. Se parranno per avventura troppo più lunghe
di quello, che neceffario fosse, gioveràin primo luo go considerare, che
bastano poche parole per mettere una cosa in dubbio, m a effer forza per
iftabilirne la certezza ricorrere a' principi, onde riescono sempre le risposte
più lunghe delle opposizioni; in secondo luogo, c h e ho stimato dovermi
fermare alquanto in torno a certi punti, i quali oltre allo influi re nella
materia, che per me trattar fi do vea, poteano essere forse non del tutto inu
tili per chiarir la Storia di quella prima età di Roma. Che gora in
Italia circa a quello anno, che giu dicasi dagli Storici dugentefimo quarantesi
moquarto diRoma, virimaneciònon ostan te un anacronismo di cento trentatré anni
tra la venuta di questo Filosofo in Italia, ed il tempo, rendere in cui
Numa-già era perve anno della età sua; o n de il Sistema del Neutone non può nè
pure nuto al quarantesimo Pitagora, e Numa contemporanei, come non può
affolvere Virgilio te dall’anacronismo interamen di Didone, e di Enea. Che
se,come fpero,mi è riuscitodifar vedere l'inganno del Conte Algaroiti, sarà
questa una novella prova di quanto sia in tralciato il cammino del vero, quanta
1 sia connesso, ed unito l'errore: collo inge gno umano, poichè gli uomini
fommi non tralasciando desser uomini, in tutto spogliar non se ne possono. La
più bella discolpa del resto che addur si possa in difesa di lui, îi è il dire,
che fe pur s'ingannò, s'ingan nò seguendo un Neurone. L'opinione del Newton fu
sostenuta in Italia dal conte Algarolti in un suo saggio sopra la durata de're
gni de'Re di Roma,scritto nel 1729,cioè due anni dopo la morte di Newton e un
anno dopo la pubblicazione del libro di lui!.Ora,in questo suo saggio
l'Algarotti lascia poche censure intentale contro la cronologia dei primi due
secoli e mezzo di Roma,procurando di provare in particolare come non fosse
succeduto davvero ciò che per una ragione generale il Newton aveva affer malo
che non era potuto succedere. Ilsuo fondamento è soprallulto Livio; e in
secondo luogo Plutarco, non 1Ilsaggio d’A. si trovanelvol.IV dellesueopere
(Cremona), Ma laristampa chequivi n'è fatta non è in tutto conforme
all'edizioni anteriori,delle quali ioho la seconda, Firenze presso Bonducci; e
dico la seconda perchèl'editoreinunaletteradidedica all'illustrissimo sig. Serristori
chiama questaunari stampa,e nonpuò esservistata, se non una sola edizione
prima, perchè una lettera d’A a Zanotti, che precede il saggio, è del 24
dicembre 1745, e da essa appare che il saggio non fosse stato stampato prima.
In questa lettera A. dice appunto di averlo scritto oramai sedici anni
passati,quando dava opera alla Cronologia sotto la scorta di quel lume vero
d'Italia, Eustachio Manfredi, e che non vi avrebbe più riguardato, se voi nonmia
vesteeccitatoain andarlovi come fate»; e se n'era distolto, perchè « distratto
da mille altre cose, e gli pareva,che non fosse da moltiplicare in iscritture e
in istampe intorno a cose già trattate,benchè in modo diverso dal mio.» Que gli
il quale aveva trattat a questa, era un Inglese di cui non dice il nome,ma di
cui gli aveva dato notizia,in un suo viaggio in Inghilterra, Condui t, erudito
gentiluomo inglese ed erede del Newton, quello stesso che ha scritto una
lettera di dedica alla Regina, messa avanti alla Cronologia.Lo scritto
dell'Inglese doveva esser pub blicato in fronte d'una storia Romana. Non so chi
fosse. E. M a n fredi scrisse gli « Elementi della Cronologia con diverse
scritture appartenenti al Calendario Romano. Sono pubblicati in Bologna Egli accetta
la datavarron della fondaz. di Roma, LAMONARCHIA. riferendosi a Dionisio
mai; anzi confessando di non avere lello se non i due primi. Ora,ilsuo assuntoé
che i fatti che LIVIO racconta dei Re,non s'accordano col numero d'anni che
questi, secondo lui stesso, avreb. bero regna lo. Il ce prova, mostrando per
Romolo, quanta parte del suo regno resti vuota di avvenimenti,e quanta
sial'inverisimiglianza, che, a17anni, ch'è l'etàincui si dice cominciasse a
regnare, desse già segno di tanta prudenza civile e virtù di guerriero, quanta
gli se ne attribuisce; per Numa,che dovesse,poiché eletto per la fama sua e per
avere avuto in moglie Tazia, essere asceso sul regno a sessant'anni; per Tullo
Ostilio ed Anco Marcio, che dovessero aver avuto più breve regno, di 32 anni il
primo, di 24 il secondo, se dev'es. sere vero, che i figliuoli di queslo, il
quale aveva, a detta di Plutarco, cinque anni alla morte di Numa, non fossero
ancora maggiorenni alla sua,cioè quando Anco avrebbe avuto sessantun anni; per
Tarquinio Prisco, che non può avere regnato trenlolto anni, se dev'essere stato
ucciso per opera de'figliuoli di Anco, attentato da giovani, ancora freschi del
torto ricevuto, e non da uomini di cinquant'anni quanti ne avreb bero avuto
alla morte di Tarquinio dopo cosi lungo re gno, anche supposto che non ne
contassero se non soli dodici alla morte del padre; per Servio Tullio,che a i
Cosi dice nella lettera allo Zanotti, secondo sta nell'ediz.; ma non è ripetuto
in quella dell'edizione,che è variata anche in altri punti. E di fatti in
questa seconda edi zioneècitato Dionisio,,permostrare come questi, accor
gendosi dell'impossibilità, che Tarquinio Superbo assistesse egli stesso alla
battaglia del Lago Regillo, vi fa invece assistere il figliuolo Tito.Però, anchecosi,
lostudio d’A. resta,come prima, poggiato tutto sopra Livio e Plutarco.
dargli quarantaquattro anni di regno, Tarquinio Superbo, il quale era già ingrado
dimenar moglie al principio diquello, non avrebbe potuto a sessantaquattro anni
opress'apoco ucciderlo nel modo che si racconta; per Tarquinio Superbo
infine,che Tarquinio Collalino non avrebbe potuto essere giovine alla fine del
regno di lui, poichè egli era figliuolo di fratello,se il suo cugino avesse
avulosessantaquattro anni al principio del regno stesso; e che, se questi
n'aveva tanti allora, n'avrebbe avuto ottantanove, quando su sbalzato dal
trono, e cento alla battaglia al Lago Regillo dove avrebbe combattuto a ca
vallo,e sarebbe poi morto, si può aggiungere, di cento trèanni. Sicché
l'Algarotti crede che questi regni si debbono accorciare lulti, se la storia di
ciascun Re si deve accordare colla duratadel regno.E di quanto biso gni
accorciarli, egli lo trae da un'altra considerazione, cioè dal numero di
generazioni, intervenule durante la monarchia. Queste,egli dice, non poter
essere state se nonquattro:poichèiregnidiRomolo, diNuma ediTullo Ostilionon
siestendono più di due generazioni, stante ché Ostilio,avolodi quest'ultimo, è contemporaneo
di Ro molo; un'altra generazione richiede il regno di Anco, che è vissuto la
maggior parte di sua vita durante il regno di ullio; ed un'altra, i regni di
Tarquinio Prisco. di Servio Tullio e di Tarquinio il Superbo, poichè il primo
ha del pari vissuto la maggior parle di sua vita durante il regno di Anco.
Sicché contando ciascuna generazione per trentatré anni,la durata della monar
Chia sarebbe stata di centotrentadue anni,e ne tocche rebbero a ciascun Re,
l'uno ragguagliato con l'altro, diciannove. Sopra la durata de'Regni DE
RE DI ROMA. Gli è una neceffaria conse guenza delSistemacronolon gico del
Neutono abbrevia re considerabilmente i regni de' sette Re di Roma, a ciascun
de' quali agguagliatamentegli Storici danno trentacinque anni di regno, mentre
il comun corso di Natura secondo le offervazionidel Filosofo, non ne concede
loropiù di diciot to o di venti. La qual conseguen za separesse stranaad
alcuno,pur dovrà meno parerlo a chi risguar derà, che gli Archivi di Roma perirono
dalle fiamme nel tempo che Ma noi (chiarati anco in questa parte dalle of (1)
Plut, in Numa in principio p. 59.ed. Grecolat, Francofurti. 16 che i Galli
occuparono quella Cita tà(1),onde gliStoricinonebbę. ro dipoi alrro fondamento
di quel lo scriveano, se non se la tradi zionevaga ed incerta,ch'era ri masa
delle cose passate Talmente che ritenendo esli i nomi de'Re e registrando le
azioni di quelli che tuttavia duravano nella m e moria degli uomini, fecero una
Cronologia a modo loro. E questa Cronologia allungandola più del dovere,
poterono in quella incer tezza fatisfareaquelnaturale ap
petitocosidelleFamigliecome del le Nazioni, di cacciar le origini l o r o il pịù
in dietro che posso none l la caligine del tempo.Come Livioscrivechenonera
ra.DanteInf.29: offervazioni del Neutono,possiamo rimettere le cose al
debito ordine nella serie de'tempi, e ciò fare mo non in altro modo che aflog
gettando i Re di Roma a quelle comunileggi diNatura, alle qua li ubbidiscono
nelle Tavole cro nologiche tutti gli altri Re della Terra.Pur nondimeno questa
par cosa duraa molti che si debba f r a n ger,dicono efli,l'autorità di Sto
ricichenonerrano(1),echevo gliano uomini di jeri giudicar m e glio degli
antichi di cose passate tantisecoliavanti.A questiioin tendo di ragionare;e
perchè ilN e u tono nella fua Cronologia non fa al tro che accennare così in
generale la detta quiftione, io intendo d i fputarla con alcune particolari
ragioni,e quefte derivate appunto da quegliStorici,dell'autoritàde' quali
e'fanno sì gran caso, e maffi-. me daTitoLivioPadre diRoma na Istoria.Nel che
io mostrerò, che avolerritenere ifattida efio lui riferiti, egli è forza
rigettar le epoche da esso affegnate 'a quelli, come non sivogliaammettere(che
niuno ilvorrà) certe irragionevo lezze da non ammettersi,che na scono da'suoi
raccontimedefimi, e da quella sua Cronologia, E prima diognialtracosa io
metterò innanzi una Tavoletta de' regnidiquestiRe distesagiustal'
oppinioncomune la qualeporrà fotto l'occhio in un tratto l'anti co
Sistema,eserviràameglio in tendere ilseguente Ragionamento. Tarquinio Superbo Numa
muore dopo un regno di anni 38 Tullo Oftiliom u o IV.Anco Marziomuo
redopounregnodi anni V. Tarquinio Prifco muore dopo un remgno di anni Tulliomuo
·redopoun regnodi - anni 1 TavolaCronologicade' anni anni RediRomasecondor de'
ab oppiniondiT itoLivio. Regn.Romolo muore Interregnodiun'anno Í è cacciato da
Roma dopounregnodi anni 25 re dopo un regno di anni DOV i. Servio Ba Dove non
sarà fuor di propofi to avvertire quello che avverte lo stelloNeutono comedaltem
poincui la Cronologia cominciò ad ellercertaedesatta,non sitrovain tutta
laStoria pure un'esempio di sette R e, i più de'quali furono a m mazzatied uno
deposto,che ab biano regnato dugenquarantaquat tro anni senza interruzione
veruna. Ma venendoal particolare, e in cominciando da Romolo, i fatti di questo
Principe dopo il ratto del ledonne,primacagione delmet tersi in arme. Nella
Cronol. dellaE furono le guerre contro i?Sabini, che ripeteano le donne
loro, e. leguerrecontroal cuni popoli per gelosia d'imperio. Plutarconedà
l'epoca della pe nul-, diz, Franzese giuri sdizione, laqual Fidene era stata
soggiogata da Romolo innanzi Camerio. Il che ne somministra assai pro α)και την
πόλιν ελών, τοίς. μεν ημίσεις των περιγενομένων εις Ρώμην εξώκισε,τών
δ'υσομερόν- τωνδιπλασίους έκ Ρώμης κατώ κισεν εις την Καμερίαν Σεξτιλίαις
Καλάνδαις.τοσύτοναυτώ περιήν πολιτών εκκαίδεκα έτησχεδον οί κάντι την Ρώμην. nultima
di queste guerre che fu contro i -Camerj, l a quale epoca ca -, de nell'anno
sedicesimo della edificazione di Roma,e del Regno di Romolo. E dopo questa e
gli non imprese altraguerra se non contro iVejenti, chemoslero cono tro i
Romani domandando la resti tuzion diFidere, come di,Città che siapparteneva
alla loro probabile argomento di por questa ultima guerra guerra l'anno
decimofetti mo della edificazion di Roma o là in quel torno, non essendo punto
verisimile che i Vejenti domandaf sero la restituzione di cofa tolta troppo
lungo tempo avanti; tanto più che siccome era rozza.a quei di l'arte della
guerra,rozza altresì era quella de'Manifesti. Stando an Rom. in fine. In Numa
in princip.dunquecosìlacosa,cioè che l'ul tima guerra fatta da Romolo cadel
senel'anno decimosettimo delre gno suo, e facendolo regnare tren totto
anni,comedicePlutarco, ne rimarrebbe uno spazio di ven tun'anno in bianco,
voglio dire tuttopacifico e quieto, e con verria dire che sotto il reggimen
to A queste particolariragionidi abbreviare il regno di Romolo se ne
aggiugne un' altra non meno ftringente tratta da Plutarco, fe condo cui egli
deveaver cominciato diquel Re fosserostatiiRom mani molto più tempu in non in
guerra; il che non accorda punto con quella indole bellicosa che tutti
gliAutori ad una voce danno al fondatore di quello Iinperio. Ne ciò accorderia
pure con quelle pa role che Plutarco mette in bocca á Numa, il quale per
rifiutare il Regno offerto gli dalRomani,dice che si convenia loro un Condot
tierod'esercitoanzicheunRe per cacciare que' potenti nimici che Romolo avea
lasciato loro in sulle braccia. pace che. Plut,in Numa nRom.infine ciatoa regnare in età di anni di cialette,
dacchè egli è morto di anni cinquantaquattro secondoi computi di quello, e ne à
regnata trentotto. Ora come sipuò egli mai conciliare con una età cos sì tenera
quelle tante cose che fa cea costui secondo lo stesso Plutara
co,perlequalisivoleaunaetà più gagliarda, e più ferma?Egli eccellente
ne'consigli e nella civil prudenzá mostrò moltepruovedel suo mirabile ingegno
inoccasiondi trattar co' vicini, attendeva agli ftudidell'artiliberali;fi
esercita vanellefatiche, nellecacce delle fiere,nelperseguitare gliaffaslini,
nel purgar levie da'ladroni,e nel difender dalle ingiurie coloro che
fusleroftati oppressi dall'altrui fu per perchieria:modi tutticheil feceró
crescere in reputazione fra glialtri påstori,e chedebbono fara
locrescerdietàapponoi. Nè lo aver' egli guidato a quel tempo
impresedifficilisfime,lo efferfi fat to capo di un popolo, e lo aver fondato
una Città ne rimoveranno dall'oppinione di farlocominciare a regnar più tardi,
e di accorciare ilsuoregno. tore E da Romolo passando a N u
ma,eglinoncisonomenfortira gioni per abbreviare il regno anco di questo. Io
lascio ftare quella quistione roccata da Livio,e da Plutarco come questo
Legisla Plut.in:Rom. Numap. LIVIO. Ed. Ald..: por Authorem
do&trina ejus quia non extat,alius,falfo SamiumP y thagoram edunt,quem
Servio Tül lo regnante Rom et centum amplius poft annos in ultima Italiæ ora
cir ca Metapontum Heracleamque de Crotonam juvenum æmulantium fta diacatus
habuilleconstat.Liv,Ibid. 26 gnan tore potesse essere stato uditor di
Pitagora, il quale essendo venuto inItaliapiùtardiche Numa non cominciò a
regnare secondo la co mune oppinione, ne farebbe Plut,in Numa Pherecides Syrus primum di xit animos bominum
esse fempiter nos:antiquusfane:fuit enim meo regnante Gentili.Hanc opinionem
discipulus ejus Pythagoras maxime confirmavit, quicum Superbo re fu
CICERONE Tusc. Quæft. il regno suo più sotto, e per conseguente accorciare
almeno le durate degli altri cinque regni, che furonodaesso Numa fino alRegi
fugio;della certezza della qual'e pocanonsi dubitadaniuno lo Jascio, dico,questa
quistione,la qua lenon risguarda tanto la durata del regno diquesto Re, quanto
il prin cipio di quello:e vengo a cið che ne appartienepiù davicino, porre
Plutarco ne dice che Numa aveva quaranta anni, quando gnante in Italiam
menisset, tenuit magnam illam Greciam ac. Pythagoras qui fuit in Italia
temporibusiisdem,quibusL. Bru tus patriam liberavit. InNuma p.62,
28 qua rantatre, la quale ultima cosa ne dice fimilmente Livio..Ma qui io
domando le parrà ragionevole ad altrui,che incosìfrescaetàpo tesseNuma
essergiuntoaquelloe minente grado di fapienza, che fi dice;emoltopiùpoiseparrà
ve risimile, che tenendo egli maslime modi di vivere differenti dagli u fatinel
fuo paese, egli potesse esser salico in così alto grado di re LIVIO fu eletto
in Re di Roma, e che la governò per lospaziodi pu Plut. InNuma Romulus feptem
do triginta regnavit annos. Numa tres a quadraginta - Vedi Plut. in Numa in
princip. Annumque intervallum regni fuit. Id ab re quod nunc quoque
tenet nomen,interregnum appella tum. ld paullo post. Consultissimus vir omnis
di putazione,che lo facesse riverire non solo appo gli stranieri, ma nel
proprio paeseeziandio per così straordinario modo,come narrano; e per recar le
molte parole in u. na, che l'autorità del nome suo. fossetale,ch'ella dovesse
in un subito far ceffare le animosità, e le gare delle parti, che per lo Ipazia
di un'anno aveano conteso in Ro.: m a per lo Imperio Ma egli Patrum interim
animos certamen regni ac.cupido verfa bat etc.
ci LIVIO. Plut.in Numa --- a
y ci è ancora alcuna altra confider1 zione da farsi.Tazio che reggeva
Roma insieme con Romolo,mcf so dalla gloria e dal nome dilui che tantoalto
suonava,selofece genero dandogli per moglie una sua unica figliuola che si
chiama va Tazia. Quando questoavvenif feper appunto nonsilegge;ma
eglièverobensì,che ciðfumol divini atque'bumani juris dito nomine Nume Patres
Romani quamquam inclinari opes ad Sabi nos rege inde fumpto videbantur: t a m
enne que se quisquam, nec fa Etionisfuæalium,nec denique Pa trum aut Civium
quenquam prefer re illo viro auf ud unum omnes. Numa Pompilio regnumdeferendum
decernunt, LIVIO. Plut. In Rom. sua to di buon'ora nel regno di R o molo,dacchè
Tazio muorì prima della guerra co'Fidenati, e co'Cameri,cioè prima dell'anno
see dicesimo del regno di Romolo; e d'altra parte ne racconta Plutarco che
Tazia era morta quando N u ma fu chiamato al regno, e ch'era vissuta con esso
luilo spazio di tredicianni. Dal chetuttofi deeraccogliere,che grantempoa vanti
la morte di Romolo fioriva la fama della fapienza di Numa;e converrià dire,ritenendo
il computo di Plutarco, cheavendo Numa foli venticinque anni,questa fama
fossegiàtanta, che inducefle Tazio Re a dare in matrimonio una Plut .in Numa. sua
unica figliuola a lui uomo privato, il che mostra essere alieno da
verisimiglianza, Diremo per tantoa salvareilvero, cheNuma dovesse avere
sessanta anni almeno quando fu eletto con tanta unani mitàaRediRoma;eciòpofto,
gli staranno molto meglio inbocca quelle parole che periscansarsi da questo
carico gli fa dire Plutarco, qualmente alle condizioni de'Ro mani era bisogno
che laCittà avef seun Re dianimoardente erobu sto, le quali parole più tosto fi
disdirieno che no ad un'uomo di quarantaanni.Postoadunque che Numa, come ragion
vuole,comin ci a regnare vent'anni più tardi che non si crede,> di
altrettanti an ni fi verrà ad accorciare ilsuo re gno in età in
circa di ottantatre anni. gno, dove si voglia ch'egli sia morto come
narrano, sta E per tal modo abbreviando
il regno di Numa, e similmente quello di Romolo, si verrà a render più
probabile la lunghezza del la pace di cui godè Roma a tempo attorniata da
popoli estre mamente gelosidellasua grandezza, come ellaera.Questapace giusta
l'antico computo farebbe dileffan tacinque anni,iqualirisultano dal la somma
de'quarantatre del regno diNuma,daun'anno d'interre gno,e da'ventun'anni
passati da Romolo, dirò così, nell'ozio e nella cessazion dalla guerra; e g i u
C: quel ετελεύτησε δε χρόνον ο σ ο λύντοϊςογδοήκοντα προσβιώσας. Plut,in
Numa. ven di pre 34 itale cose discorse, questapace viene ad
essere di ventiquattro an ni in circa e non più. E da ciò riesce molto più
verisimile, come Tullo Ostilioerededelregno,non dell'arti di Numa, abbia potuto
facilmente rinvigorir ne' Romani la bellica virtù inspirata loro da R o
molo,ecomeabbiapotuto sente combatter con feroci Nazio ni e soggiogarle; il che
di troppo fáriafuordell'uso,e della oppi nion comune se la virtù de' R o
manifossestata(nervatadauna pa c e di fesfantacinque anni. Io non dirò nulla
de' due fuf seguenti regnidiTullo Ottilio,edi Anco Marzio,ilprimo de'qualiè di XXXII
anni, l'altro di Tullus magna gloria bel li regna vitannos duosdotriginta. LIVIO.
Jam.filii prope puberem etatem erant Id. Ib. 35 ventiquattro, se non che
ab breviandogli un tal poco, egli ne parrà piùverisimilequello che di ce Tito
Livio de'figliuoli di Anco Marzio: cioè che alla morte del padre e'non fossero
ancora ag giunti agli anni della pubertà Regnavit Ancus quatuor dig viginti.
Ib.p. 26. a tergo. Anco Marzio aveva cinque anniallamorted iNuma(3):sea cinque
se ne giungano trentadue, e ventiquattro, avremo leffantun’ anno,cioè l'età
d'Anco Marzio allamorte fua;ilqualeavriadova to naturalmente lasciare figliuoli
più adulti, postoche egliavesse regnato ventiquattro anni, e Tul C2 lo annos
Plut. in Numa lo trentadue; e cið perchè seconda ragione,un regio uomo come si
era Anco Marzio e che fu poi Re, dovea menar moglie assaidibuon' ora per
lasciare il regno a'figliuoli nella più ferma età che far fi po tesse. Eniente
farebbe ildire,ch' egliavesle avuto figliuoli maggio ri di età che morisfero
innanzi a lui, e che questa cura del padre di la fciar figliuoli atti al regno
futle del tutto inutile in un regno e lectivo qual sieraquello diRoma, poichè
dall ' una parte egli pare improbabile che dovessero ellere morri in tenera età
tutti i primi suoi figliuoli più tosto, che gli altrs,edall'altrocanto eglisem
bra che si avesse risguardo alla stir pe regia nella elezione del Re. Segno è
di questo, che i Romani chiamarono al regno il medesimo An Ma
Anco Marzio nepote di Numa che Tarquinio Prisco allontand i figliuoli diluida Roma
neltem po de'Comizj C3 do peromnia expertus (L.Tarquinius ) postremo tutore
diam liberis regis testamento insti tueretur Jam filiiprope pube
remætatemerant.EomagisTar quinius instare, utquamprimum comitia regi creando
fierent: qui.. bus indi&tisfub tempus pueros vem natum ablegavit:isque primus
de petisse ambitiofe regnuin et c. LIVIO atergo. Tum Anci filii duo, etfi a n
tea femper pro indignissimo habue rant fepatrio regno tutorisfraude
pulsos:regnare Romæ advenäm non modo civica, fed ne Italica qui demftirpis et c..terg.
e Nel luogo citato. Ma non è già così da passar sotto silenzio il
regno del medesi mo TarquinioPrisco successoredi Anco.Ne viene costui rappresen
tato come usurpatore del regno, secondo che disli, a' figli di quello, de'quali
egli era stato istituito tu tore dalpadre. Egliregna tren totto anni,e vien
finalmente ammazzato per opera degli stessi fi gliuolidi Anco vaghidi ricuperare
il regno paterno tolto loro dalla frande dell'uomo straniero. Nel che Sed
injuria dolor in Tarquininın ipsum magis quam in Servium eosftimulabat Duo de
quadragefimo fer me anno ex quo regnare cæperat Tarquinius bc.Id.Ib. ipse regiinfidi
aparantur.Id. Ib. aullo poft. ob hæc che chi non ammirerà la flemma
incredibile di costoro, che tra la ingiuria e la vendetta polero in mezzo
trent'otto anni, spazio di tempo bastante a sedare e spegner forfe nell'animo
qualunque più violenta passione? Questo fatto a dunque dovette avvenire nella
lo to giovanile età non molti anni d o polamortedel padre; il che quan to è
comprovato dalla vatura del fatto medesimo, lo è altresi dal non ne avere
effiraccolto frutto alcuno, come coloro che dopo la uccisione di Tarquinio
rimasero ne più nè meno esclusidal regno pa terno.La qualcosaben mostraef fere
questa stataopera di età gion vanile e inconsiderata, e non di quella ferma e
matura di cinquan ta anni, in cui LIVIO gli fa con troogni
verisimiglianzaoperarque Ita. C4 Che diremo oltre del suo suc
cessore Servio Tullo, il quale nel fapno regnare quarantaquattro an ni? Se non
che dobbiamo di moltoaccorciarean coquesto regno, per quella medesima ragione
per la quale abbiamo accorciatoquello di Tarquinio Prifco fuo predeceffore. È
Servio Tullo anch' ello mello a morte da chi volea ricuperare il
regnopaternotoltoglida essoTul lo,ch'era di schiatta fervile,e
chefuportosultronodi Roma per artifiziodi Janaquilę moglie diTar sta
Tragedia, E però rimane che fi debbaabbreviareilregnodi Tar quinio Priscocomesiè
fattode' superiori. 1 qui Servius Tullus regnavit, annosquatuor quadraginta.. a
tergo. e preso dalla più violenta ambizione; e ch'egliin quinio
Prisco. È in ciò dovrà pa rere molto strano che Lucio Tarquinio, che fu poi
cognominato il Superbo,abbiaaspettatoa metter lo a morte quarantaquattro anni.E
molto più poi le altri vorrà por menteatrecose,chequestoTar quinioera giovine
fatto allorchè Servio Tullo fu aflunto al Trono, ilqualela prima cosa diede per
moglie due sue figlie a due giova ni Tarquinj Lucio ed Arunte; che questo
Tarquinio era di natu ra 3rdentifima EtnequalisAneiliberum
animusadversusTarquinium fuerat, talisadversusse Tarquinii liberam esset: duas
filias juvenibus, regiis' Lucio atqueAruntiTarquiniisjunio git a tergo
fine era eccitato cotidianamente ad occupare il regno da Tullia fua
moglie la più stimolofa è rea f e m mina che fulle mai. Le quali cose
considerate che fieno,faranno che debba credersi molto più irra gionevole che
Servio Tullo abbia potuto regnare quarantaquattro an ni,che Tarquinio Prisco
trentotto. Et ipfe juvenis ardentis animi do domi #xore Tullia in-,
quietum inimum stimulante Sen Servius quanquam jam fu haud dubie regnum possederat; tamen quia
interdum jactari voces a juvene Tarquinio audiebat büs, àtergo. a tergo, quid
te stregium juvenem confpici jenis Nel fine del regno di Ser. Tullo. Senzache
questoTarquinio,che è sempre chiamato giovine nella vi ta di Servio Tullo,
moftra effére robusto e giovinę tuttavia allafi nedelregnodiquello,come co
luichepiglioServioperlomez zo della perfona, e sollevatolo in alto lo gittò giù
per la scala della Curia. La qual pruova giova nile non avrebbe potuto
altrimenti fareseaquarantaquattro anni del regno diServioneaggiungiamo venti
più o meno,ch'egli ne do yea avere alla morte di Tarquinio Brisco;.che lo
farebbono vecchio di sessantaquattro anni allorchè ei (1)Multo ætateį viribus
va lidior medium arripit Servium,es latumque eCuria in inferiorempar temper
gradusdejecit.Id.Ib.p.34. a tergo. per de uxoribus mentio, Suam
quisquelaudat miris modis, Ora venghiamo finalmente ale lo stesso
Tarquinio Superbo che fu l'ultimoRe diRoma iAvvenne verso la fine di questo
regno,che nell'offidionedi Ardeainforgesle quistione traSesto Tarquinio e
Tarquinio. Collatino marito di quella Lucrezia,chị de'dueavesse più savia
moglie, dal che poi nacque, come Yaognuno), Confolato ela libertàRomana,Ora
quertoTar quinio Collatina secondo le parole di Livio era giovine","e
Yecondo lo ftesto autorem pervenne ad occupare il regno 5. Upitni HI,1, cer era
figlio di un Inde IT: Forte potantikusbisapud Sextun Tarquinium ubii collati
aus cænabat, Tarquinius Egerii fs lius incidit (fratrisbicfilius e rat
Regis) Cyllațiæ in præfidio re lietus.a tery. eerto Egerio,il quale fu
lafciato da Tarquinio Prisco alla guardia di Collazia Città di novella con
quita nella guerra Sabina verso la metà del regno fuo o la in torno, che viene
a cadere nell'an no cencinquantacinqueincircadal Collatio.c quisquid citra
Collariam agri erat Sabinisadema ptum Egerius py,sub Indecertamine
accenfoCollatinusne gatverbisopus effe; paucisid quide12 horis
poffe:frisi,quantum cæteris præftet Lucretia. Quin sivi gor juventa ineft
confcendimus, e qws,invifimulqise præsentesstrarun ingenia? LIVIO Vedi'anco la
Tavoletta Cronologica registrata di topra.la edificazione di Roma,lomi penso
che sarà mestiero darea ques sto Egerioaquel tempo per lo meno XXX anni, sì
perchè l'età sua foffe in alcun modo eguale al cari co commessogli dal Re
Tarquinio Prisco, sìperchèquesto Egerioera nato prima del tempo in cui Tar
quinio venne a Roma sotto il re. gno di Anco, Ora come può egli
starecheun'uomoditrent'anni ļ' anno di Roma cencinquanta cinque avere
unfigliogiovine l'anno du genquarantaquattro,come non sivo glia supporre
ch'egli avesse questo figlio dopo l'età degli ottant' an ni? ilche ben vede
ognuno quan to LIVIO che è di niez zo tra ilpadre,e ilfigliuolo. to siacontrario all'ordinario corfo delle
cose naturali. Per lo che se vorremo ritenere questa discenden za de'Tarquinj,
bisognerà accor ciare ilregiodiTarquinio Prisco di ServioTullo e similmente di
TarquinioSuperbo,che occupano tutti e tre il tempo ot Un'altrapruova
peracccrcia re ilregnodiTarquinio Superbo e quello eziandio di Servio Tullo
fuopredecessore, fipudcavarda questo. Tarquinio Superbo quand? egli occupò il
regno avea festanta quattro anni,come abbiani veduto poco innanzi, a'qualichiaggiunga
i venticinque che fi dice avere ef fo regnato troverà,ch'egli avea L.
Tarquinius Superbus regna ottantanove ánniallorchè fu elpus: fo
dalregno;laqualcosapofto che vera, avšia merit:ito d'esser nota=; ta dagli
Storici. Che più? Si legno gechequestoTarquinio parecchi annido poil e g i fugio combattè a cavallo alLago Regillo
con tro il Dittatore Postumio, il che gnavit annos quinque la viginti !
Regnatum konæ ab condita Urbe ad liberatam. Id. Ib.infinepo. LIVIO in
Pofthumian prima in acie firos adhortantem inftruen temque Tarquinius Superbus
quam quam jam '&tate a viribus erat gravior equum infeftus admifit;
ietusqueab latere,concursufuorini receptus in tutum eft. du che verrebbe
a cadere nell'anno centesimo e più.là ancora dell'età sua, irragionevolezza
troppo mag giore chenon sipuò comportare, e la qual nasce pure anch'essa, co me
ognunvede,da uncalcolofon dato sopra leEpoche Liviane. Come adunquesidebbano le
var molti e dalle du rate de'regnidi inni cotefti R e, egli si provato rimane
abbastanza altrimenti nasco dagliassurdiche insieme i nelvoler comporre no le
altre condizioni che ac fatti,e regni; medesimi cer questi conpiù compagnano
furono i quali fatti dalla tra a'pofteri men tezdatrasmesli quantevolte dizione,che
non un pia tornò. Ed egli abbastanza, come se fi riducano seguirono del Cielo
tre quelli sito neta al medesimo provato è medesimamente le,cred'io, SO
durate di cotesti Re allà ordinaria legge diNatura,che li faregna re presi
insieme diciotto o venti anniperuno,secondocheàdisco perto il Neutono, tutte le
difficol tà siappianano, esvauiscono leir ragionevolezze tutte degli Storịci.
La qual cosa benchè sia oramai fuor d'ogni quistione,mi piace aggiu gnere
un'altra pruova, perchè fi vegga vie meglio qualmente sorga il vero da ogni
lato, come all' in contro da ogni lato si manifefta 1
errore·Questanovellapruova fa rà ricavata dalle generazioni d'uo mini che sono
indicate dagl’autori nella storia di detti re, le quali anch’esse arguiscono di
falla la tecnica loro cronologia in quanto alle durate de’regni. Nella vita di Romolo
fià, che Ottilio Avolo di Tullo Oftilio morì nella guerra mo [Principes
utrinque pugnam ciebant: ab Sabinis Metius Curatius, ab Romanis Hoftius
Hoftilius [τετάρτω δε μηνί μεν την κτίσιν ως φάβιο ςισορά τοπε ρι την αρπαγήν
ετολμήθη των γυ Voixãi. Plut. in Rom. Plut. descrivendo co mele Sabine divisero
la zuffatra i Romani, e Sabini aggiugne: aipšv. muidice κομίζ εσαινήπια προς ταίςαγκάλαις
racontro i Sabini, che viene a cadere ne’ primi anni di quel regno. Il regno pertanto
di Rout Hostius cecidit etc. LIVIO. Indo Tullum Hostilium nepotem
Hostilii,cujus in infima arce clara pugna adver Sus Sabinos fuerat, regem
populus. jussit. Plut. In Rom.] molo di Numa e di Tullo Ottilio, non
occupa a un di presso che il tempo di due generazioni: quella del padre,o della
madre che dir vogliamo di ello Tullo Ostilio, che duvette nascere al principio
del regno di Romolo, e quella di Tullo Ostilio medesimo Da Nuna ad Anco Marzio
suno due generazioni, poichè ello Numa era avolo di Anco Marzio; dat che ne seguita
che la generazione tra Numa ed Anco finendo al tempo di Tullo Ostilio, rimanga·una
generazione sola da Tullo alla fine del regno di Anco. Con che dal principio
del regno di Romolo al [Numa Pompilii regis ne pos filia ortus Ancus
Martiuserat. LIVIO. Plut. In Numa] ne la fine di quello di Anco corrono
in circa tre generazioni. Lucio Tarquinio Prisco prima detto Lucumo ne viene a
Roma uomo maturo nel regno di Anco, onde la generazione di Tarquinio coincidendo
con quella di Anco non resta che una sola generazione di uomini tra il regno di
Anco e il regno di Tarquinio Superbo figlio di Tarquinio il vecchio o Prisco, Adunque
dal principio del regno di Romolo al la fine di quello di Tarquinio Superbo
corrono IV sole generazioni in circa di uomini e non più, Egli è il vero che
LIVIO dice dubitare alcuni, se questo Tarquinio Superbo fosse figliuolo a [LIVIO
eat ergo. Hic L. Tarquinius Prisci Tarquinii filius, ne posve fuerit, parum
liquet: pluribus tamen authoribus filium crediderim devolvere retro ad stirpem
fratrifi milior quam patri. a ter go. Quas
Anco prius, patre deinde Sito regnante, perpelli fint. Tarquinius reges ambos
patrem vie, filium perfecisse a terg. nepote del Prisco. M a senza che i
più erano di oppinione ch'ei gli fusse figliuolo, oppinione abbracciata da esso
LIVIO medesimo, egli si può mostrare, che da Tarquinio Prisco al Superbo corresse
una sola generazioneper esser Col latino ancora giovane in ful fine del regno
di Tarquinio Superbo, mentre il padre suo Egerio è uomo già fatto nel regno di
Tarqui nio Prisco,come abbiamo veduto avatt avanti.Ora fommando
insieme gli anni di IV generazioni, ognu na delle quali ragguagliata è di XXXIII
anni, si hanno cento e trentadue anni, e dando a ciascun Re XIX anni di regno,
si hanno cento trentatre anni, il che derivato dalla legge di natura co sì
maravigliosamente conviene col la regola cronologica del Neutono, che le osservazioni
astronomiche più a capello non convengono colle teorie ec o'calcoli di quel
grand’ uomo. Io non aggiugnerò altroa questo ragionamento, se non che a quel
modo che la cronologia di Neutono assolve VIRGILIO che è il più esatto de’ poeti
da quello acronismo imputatogli comunemente. Vedi la cronologia di Neutono te
in rispetto a’ tempi in cui vissero ENEA e Didone, così ella può giustificare quella
comun tradizione tenuta in Roma che NUMA è uditore di Pitagora, e che non meno
contribuisse a fondar quello imperio, il qual è signor delle cole, la virtù italiana
che la romana sapienza. Nome compiuto: Algorottus. Francesco Algarotti. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, "Grice ed
Algarotti," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice ed Alici: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale reciproca – la
scuola di Grottazzolina – filosofia marchese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Grottazzolina).
Filosofia marchese. Filosofo italiano. Grottazzolina,
Fermo, Marche. Grice: “If an Italian philosopher tells me he believes in God, I
stop calling him ‘philosopher’!” --. Grice: “I like Alici; he has
philosophised on some of the topics *I* did, since it should not surprise
anyone, since we are philosophers (if I’m also a cricketer!) --.Grice: “I will
organize some overlaps in hashtags: compassione. – serious study – il terzo
incluso – I curiazi, i moscheteri -- ”:noi dopo di noi,” ‘we after we’ – the
meta-language – romolo e remo; ossia, il bene condiviso;:romolo e remo; ossia,
condividere la deliberazione; eurialo e isso, ossia, dall’io al noi; colloquenza
romana; amore: l’angelo della gratitudine; eurialo e nisso: amore d legarsi –
la reciprocita; pilade ed oreste -- luigi
Alici Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana. Presidente nazionale
dell'azione cattolica italiana, Allievo di Rigobello, insegnato a Perugia, Roma,
e Macera. Direttore della Scuola di Studi Superiori Leopardi. Studia Agostino.
Saggi dedicati al rapporto tra interiorità e intenzionalità, comunicazione e
azione, libertà e bene, con particolare attenzione alle tematiche dell'identità
personale e della reciprocità a-simmetrica, esaminate anche sotto il profilo
della loro rilevanza morale – anche temi della fragilità e della cura, e il rapporto
tra natura, tecnologia e libertà.
Impegnato fin da giovane nell'azione cattolica, ha ricoperto numerosi
incarichi, responsabile dell'Ufficio studi; direttore della rivista culturale
"Dialoghi"; consigliere dell'associazione dall’assemblea nazionale, e
presidente del consiglio. Membro del consiglio dell'Istituto per lo studio dei
problemi sociali e politici Bachelet di Roma; Comitato Scientifico della
Collana di “Filosofia morale” (Vita e Pensiero, Milano); Comitato di direzione
della rivista “Dialoghi” (Roma); Consiglio Scientifico del “Centro di Etica
Generale e Applicata” (Pavia); Comitato scientifico della rivista “Hermeneutica”
(Urbino). Membro del Comitato Scientifico della Fondazione “Lanza” (Padova).
Dirige inoltre la sezione di Filosofia della Collana “Saggi” (La Scuola
Editrice, Brescia) e della Collana “Percorsi di etica” (Aracne Editrice, Roma).
Altri saggi: “Il linguaggio come segno e come testimonianza. Una rilettura di
Agostino”(Edizioni Studium, Roma); “Tempo e storia. Il "divenire"
nella filosofia” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il pensiero del Novecento Editrice
Queriniana, Brescia); “Il valore della parola. La teoria degli "Speech
Acts" tra scienza del linguaggio e filosofia dell'azione” (Edizioni Porziuncola,
Assisi PG); “Presenza e ulteriorità, Edizioni Porziuncola, Assisi (PG)); “La
dignità degli ultimi giorni” (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “Con
le lanterne accese. Il tempo delle scelte difficili, Ave Edizioni, Roma); “L'altro
nell'io. In dialogo con Agostino” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il terzo
escluso, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “La via della speranza.
Tracce di futuro possibile” (Edizioni
Ave, Roma); “Cielo di plastica. L'eclisse dell'infinito nell'epoca delle
idolatrie” (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo), (Premio "CapriSan
Michele); “Amare e legarsi. Il paradosso della reciprocità, Edizioni Meudon,
Portogruaro); “Filosofia morale” (Editrice La Scuola, Brescia); “I cattolici e
il paese. Provocazioni per la politica” (Editrice La Scuola, Brescia); “L'angelo
della gratitudine, Edizioni Ave, Roma); “Cittadini di Galilea. La vita
spirituale dei laici” (Quaderni di Spello”, Edizioni Ave, Roma, (Premio “CapriSan Michele); “Il fragile e il
prezioso. Bio-etica in punta di piedi, Editrice Morcelliana, Brescia); “InfinitaMente.
Lettera a uno studente sull'università, EUM, Macerata,. Edizioni di opere di
Sant'Agostino La città di Dio, Rusconi, Milano; Bompiani, Milano. La dottrina
cristiana, Edizioni Paoline, Milano; Confessioni, Sei, Torino, Manuale sulla
fede, speranza e carità, Collana La vera religione, Città Nuova Editrice, Roma.
“Il potere divinatorio dei demoni, Collana La vera religione, Città Nuova
Editrice, Roma; La natura del bene, Città Nuova Editrice, Roma; Il libro della
pace. «La città di Dio, XIX», Editrice La Scuola, Brescia); “Agostino nella
filosofia del Novecento (con R. Piccolomini e A. Pieretti), 4Città Nuova
Editrice, Roma (comprende: Esistenza e libertà, Interiorità e persona, Verità e
linguaggio, Storia e politica). Azione e persona: le radici della prassi,
V&P, Milano, Forme della reciprocità. Comunità, istituzioni, ethos, Il
Mulino, Bologna, La filosofia come dialogo. A confronto con Agostino” (Città
Nuova Editrice, Roma, Filosofi per l'Europa. Differenze in dialogo con Totaro,
Eum, Macerata, Agostino. Dizionario enciclopedico, di Allan D. Fitzgerald edizione
italiana curata assieme a Antonio Pieretti, Città Nuova Editrice, Roma); “Forme
del bene condiviso, Il Mulino, Bologna, “La felicità e il dolore. Verso
un'etica della cura” Aracne Editrice, Roma,. Dialogando. Idee, pensieri,
proposte per il nostro tempo, Edizioni Ave, Roma); “Unità e pluralità del vero:
filosofia, religioni, culture, Archivio di filosofia); “Il dolore e la
speranza. Cura della responsabilità, responsabilità della cura, Aracne
Editrice, Roma); “Prossimità difficile. La cura tra compassione e competenza,
Aracne Editrice, Roma); I conflitti religiosi nella scena pubblica. I: Agostino
a confronto con manichei e donatisti, Città Nuova Editrice, Roma); “Noi dopo di
noi. Accogliere, rigenerare, restituire: nella società, nell'educazione, nel lavoro”
(FrancoAngeli, Milano); “I conflitti di valore nello spazio pubblico. Tra
prossimità e distanza, Aracne Editrice, Roma); “I conflitti religiosi nella
scena pubblica. II: Pace nella civitas, Città Nuova Editrice, Roma); “La fede e
il contagio. Nel tempo della pandemia, (con G. De Simone eGrassi), Ave, Roma.
L'umano e le sue potenzialità: tra cura e narrazione (conNicolini), Aracne,
Roma. L’etica nel futuro (con F. Miano), Ortothes, Napoli-Salerno. Pagina di
presentazione nel docenti
dell'Università degli Studi di Macerata, su docenti.unimc. Dialogando. Il blog di Luigi Alici, su luigialici.blogspot.
Predecessore Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana Successore
Paola Bignardi. “Love and duty are the cement of society” (Elster). “Love and duty are *not*
the cement of society. The mechanism is *reciprocity*. Seemingly co-operative,
helpful, altruistic behaviour, based on versions of the ‘I’ll-scratch-your-
back-you-scratch-mine’ principle, require no nobility of spirit. Greed and fear
suffice as motivation: greed for the *fruit* of co-operation, and fear of the
consequence of *not* reciprocating the co-operative helpful overture of the
other.” (Binmore).
Chi tra Elster e Binmore ha ragione? Chi che vede nell’amore il “cemento della
società”, o chi che considera invece la reciprocità dei due soggetti, basata su
egoismo e paura, come il meccanismo sufficiente per tenere assieme la società?
Oppure le cose sono più complicate? Grice propone di penetrare all’interno
delle dinamiche della gratuità, della reciprocità e del tipo di razionalità che
sottostanno ad esperienze conversazionale che potremmo chiamare “sociali”, come
sono quelle dell’Economia di Comunione Conversazionale [cf. Bruni e Pelligra].
In particolare ci domandiamo a quali condizioni un soggetto o un’impresa mossi
da una razionalità diversa da quella standard possano sopravvivere e
svilupparsi in un contesto dove esiste una eterogeneità di soggetti interagenti.
Inizieremo evidenziando le caratteristiche base dell’idea di razionalità che
muove l’homo oeconomicus, cioè l’agente considerato “standard” dalla teoria
economica convenzionale. Quindi introdurremo un tipo di agente non standard,
mosso da una razionalità in cui l’azione donativa ha una ricompensa intrinseca.
Questo fa in modo che la reciprocità possa assestarsi come equilibrio stabile.
Nella sezione 3 vedremo che, quando agenti eterogenei interagiscono tra di
loro, le cose si complicano e gli esiti non sono più scontati. Per far questo
ci serviremo della forma più elementare di giochi evolutivi; saremo, così, in
grado di mostrare i risultati più interessanti del modello, che espliciteremo
nelle conclusioni. Smerilli Bruni
Bellanca, Crivelli, Gori, Gui, Pelligra Zarri. Perché è così difficile
cooperare (per l’economia)? L’idea di razionalità è dove sono maggiormente
concentrate le assunzioni della scienza economica circa il comportamento umano,
che potremmo anche chiamare antropologia filosofica, o psicologia filosofica.
La razionalità economica, non cerca, principalmente, di descrivere il
comportamento “quale è” nella realtà, ma piuttosto di individuare dei criteri
di comportamento ottimo, razionale appunto, che fanno in modo di poter
individuare tra i tanti comportamenti possibili quelli ottimizzanti – anche se
tra analisi descrittiva e normativa esiste poi uno stretto rapporto. Le
caratteristiche base dell’idea standard di razionalità economica, possono
essere sinteticamente enucleate guardando alle assunzioni, che restano spesso
implicite, del “gioco” più famoso utilizzato oggi in economia: il cosiddetto dilemma
del prigioniero. Esso, nell’ambito della teoria dei giochi1, è usato per
mostrare come la ricerca dell’individualistico tornaconto, in molte situazioni
(in particolare in quelle dove non è possibile stipulare un contratto
vincolante per le parti), non solo non porta al bene comune, ma neanche al bene
privato dei singoli individui. La logica che sottende il gioco è usata per
spiegare molti dei dilemmi dovuti all’assenza o al mal funzionamento dei
mercati: dall’inquinamento, alla congestione del traffico, alle difficoltà
della co-operazione. Il gioco rappresenta l’interazione tra due individui, che
chiamiamo Romolo e Remo, identici (hanno le stesse informazioni e la stessa
struttura di preferenze, i due elementi che fanno la diversità tra gli agenti
economici –a cui va aggiunto, nel caso di imprese, il potere di mercato).
Romolo e Remo si trovano a scegliere in una situazione ‘strategica’ di inter-dipendenza,
ciascuno sa di avere di fronte un soggetto identico a sé, con le stesse
preferenze, e *entrambi* conoscono la struttura del gioco (le ricompense, o
pay-off associati agli esiti, che dipendono dalle proprie azioni o muoti
conversazionali e da quelle dell’altro/i). Quali sono le preferenze? Per
restare nel concreto, pensiamo ad una situazione famigliare: la raccolta
differenziata dei rifiuti (ma il ragionamento, come si capirà immediatamente, è
di portata più universale). L’ordine di preferenze dei nostri due giocatori, e
in generale dell’homo oeconomicus standard che di norma l’economista ha in
mente quando descrive il mondo, sono le seguenti. Al primo posto Romolo ed Remo
– o Eurialo e Niso -- mettono: “l’altro fa la raccolta e io no”. A questo esito
del gioco associamo il punteggio massimo, diciamo 4 punti. Al secondo posto
“tutti la facciamo, me compreso” (3 punti). Al terzo “nessuno la fa” (2 punti).
Al quarto “solo io faccio la raccolta differenziata” (1 punti). La tabella e il
grafico sottostanti (che sono due modi diversi di rappresentare questa
situazione, rispettivamente in forma normale ed estesa) rappresentano sinteticamente
la struttura del gioco. La teoria dei giochi è oggi pervasiva nella teoria
economica. Essa è soprattutto un linguaggio che consente di rappresentare in
modo molto efficace interazioni (chiamate “giochi”) di tipo ‘strategico’, cioè
situazioni nelle quali i guadagni, non solo monetari (chiamati pay-off,
ricompense), dipendono dalla scelta dell’ altro soggetto o individuo inter-agente
con lui, e non solo dalla propria (deliberazione condivisa). La teoria dei
giochi ha oggi un campo di applicazione molto vasto, che va dalla collusione
tra imprese all’inquinamento, dalle scelte elettorali al rapporto
paziente-psicologo. Va notato che sebbene, per semplicità e per ragioni di
chiarezza espositiva, abbiamo assegnato pay-off numerici (ipotesi che verrà
eliminata nelle prossime sezioni), in realtà siamo all’interno di un orizzonte
di tipo ordinalistico. Di per sé i valori numerici non possiedono alcun
significato, e quello che conta è l’ordine delle preferenze individuali. Data
una tale struttura di preferenze, si dimostra facilmente che Eurialo e Niso, *se
sono razionali*, sceglieranno entrambi di *non* co-operare (non fare la
raccolta differenziata), ritrovandosi così al terzo livello di preferenza (con
due punti ciascuno: 2 punti per Eurialo, 2 punti per Niso), una situazione
“dominata” dalla co-operazione reciproca (fare tutti la raccolta), in cui
avrebbero ricevuto tre punti ciascuno (3, 3). Eurialo Co-opera Co-opera
3,3 1,4 Non co-opera Non co-opera 4,1 2,2. Nella rappresentazione in forma
estesa, gli esiti del gioco esprimono bene le caratteristiche base dell’idea di
soggetto che l’economia normalmente segue nel costruire i suoi modelli. Il suo
mondo ideale è quello in cui gode dei benefici (ad esempio un mondo non
inquinato) senza sostenerne i costi che preferisce trasferire sull’altro, se
può (separare i rifiuti, depositarli in raccoglitori diversi, ecc. ). Da qui il
dilemma. Si dimostra facilmente che, poiché si trova di fronte uno/a con la
stessa “razionalità” e preferenze, la soluzione del gioco è che entrambi Eurialo
e Niso si ritrovano al terzo livello dell’ordinamento di preferenze, cioè
nessuno fa la raccolta differenziata, quando invece ciascuno avrebbe preferito
che tutti la facessero (che infatti si trova al secondo posto). E la realtà
delle nostra città e del nostro pianeta ci dice quanto questi dilemmi siano
reali e urgenti, e quanto la scelta ‘sociale’ non si discoste poi tanto dal
modello astratto utilizzato dall’economia. Tutto ciò ci dice che la *soluzione*
del gioco, e gli esiti dilemmatici dipendono sostanzialmente da due ipotesi
base circa la razionalità. Primo, l’individualismo: ragionare esclusivamente
nei termini di “cosa è ottimo, o meglio, per me: mittente/recipiente”).
Secondo: lo strumentale (la bontà di una azione si misura sulla base della sua
capacità di essere un *mezzo* condizionale per ottimizzare i pay-off, non per
il suo valore categorico intrinseco. Date queste ipotesi, la non- [Nella
tabella i numeri (i pay-off) esprimono utilità, quindi il più è preferito al
meno. Il primo numero si riferisce a Niso, il secondo ad Eurialo. Nell’appendice
abbandoniamo i numeri e passiamo ad un caso più generale (dove i pay-off è
espresso in lettere, ordinate non in modo cardinale). Va aggiunto che non ogni
inter-azione rappresentabili come dilemma del prigioniero porta a risultati
dilemmatici e sub-ottimale a causa dell’antropologia sottostante. Si pensi, ad
esempio, agli [3 cooperazione (nessuno fa la raccolta) è un *equilibrio*
stabile del gioco (o equilibrio di Nash), dal quale nessuno dei giocatori ha
convenienza a spostarsi uni-lateralmente, a meno che non si sia capaci di
stipulare un *patto* vincolante. Se un patto vincolante non è possibile -- si
pensi alle interazioni quotidiane con numerosi agenti, come nel traffico
stradale -- o troppo costoso, *non* cooperare risulta la ‘strategia’ ottimale
per due ragioni. Prima se Eurialo suppone che Niso è azionale (individualista e
strumentale) allora se co-operassi avvierei Eurialo allo sfruttamento (1
punto).Se invece Eurialo ha buone ragioni per pensare che Niso *non* è razionale
o, come dice Dawkins, “ingenuo”, e che quindi si lasce sfruttare, Eurialo ha
una ragione in più per *non* cooperare. Otterrai infatti 4 punti. Quindi
l’esito dilemmatico è una combinazione di paura alla Hobbes e di opportunism. Se
va male Eurialo cade in piedi e non si lascia sfruttare. Se va bene Eurialo
prende tutto. Una razionalità puo essere con ricompense *non* materiali. In un
mondo fatto di due individui mossi da questa razionalità la co-operazione può
essere raggiunta solo quando siamo capaci di auto-vincolarci a delle regole non
opportunistiche, per un bene individuale maggiore. Io gratto la tua schiena, tu
gratti la mia. Questo principio è, in mille varianti, il tipo di co-operazione
che può emergere tra due soggetti razionali di questa maniere. Grice lo chiama
‘altruismo reciproco’ -- individuando un comportamento pro-sociale in tutte le
specie animali, dove però l’altruismo disinteressato non esiste, ma è solo
maschera di più sottili forme di egoismo (o amore proprio e non benevolenza). In
ogni caso la co-operazione è interamente condizionale e non un imperativo di
tipo kantiano. Eurialo aiuta Niso a condizione che Niso aiuta Eurialo e vice
versa. Viene comunque spontaneo chiedersi se negli esseri umani – o almeno due
filosofi oxoniensi -- ci sia qualcosa di diverso, in termini di socialità,
rispetto alle scimmie o alle formiche. Al di fuori di questi specifici casi nei
quali la co-operazione emerge, un atto che non punti a rendere massimo il
proprio interesse, di breve o di lungo periodo, è considerato *irrazionale* o
ingenuo, poiché si diventa pasto degli altri individui più aggressivi, che
cresceranno e prospereranno a spese degli ingenui. Forse molti degli atti di co-operazione
a cui assistiamo nella vita quotidiana possono trovare la loro spiegazione
sulla base di questo tipo di logica individualistica, strumentale, e condizionale.
Non tutti però. E’ infatti nostra convinzione che la convivenza civile, e le
dinamiche economiche conversazionale, conoscono anche altre forme di co-operazione,
che possono emergere sulla base di un ragionamento mosso da un tipo *diverso*
di razionalità non utilitaria ma assoluta. In quanto segue, cercheremo di
esplorare le implicazioni che scaturiscono dalla seguente domanda. Come cambia
il gioco della vita in comune se complichiamo la visione antropologica
sottostante i modelli economici? L’elemento di diversità (rispetto
all’approccio standard) che qui introduciamo, è la presenza di un valore *intrinseco*
categorico assoluto ingorghi stradali. Questi sono perfettamente
rappresentabili come dilemmi del prigioniero. Ma sarebbe impreciso definire gli
automobilisti che escono per andare a lavoro individualisti e strumentali. Ma
abbiamo a che fare con un problema di mancanza di co-ordinamento in una scelta
collettiva, che se vogliamo rimanda anch’esso a una dimensione ‘sociale’ (come
la capacità di addivenire a patti vincolanti), ma, antropologicamente, è meno
coinvolgente di casi dilemmatici che riguardano l’inquinamento o il rapporto
con il fisco. Questo per dire che la teoria dei giochi è un linguaggio che
trascende l’ambito economico e la sua tipica forma di razionalità; e infatti
essa è utilizzata anche per modelizzare agenti mossi da forme razionalità *non*
strumentali (come in parte fa Grice). (Dal nome del matematico che nei primi
anni cinquanta introdusse questa nozione di equilibrio stabile). Il fatto che
nella realtà concreta riusciamo a non cadere nel dilemma dipende dal fatto che
spesso riusciamo a disegnare patti o contratti vincolanti, con sanzioni. Grice
mostra che anche il richiamo di allarme che certi uccelli emettono per avvisare
il gruppo dell’arrivo di un predatore, a *rischio anche della propria vita*, è
il risultato di un calcolo egoista. L’uccello può più facilmente salvare la sua
vita se tutto lo stormo si sposta e non rimane isolato. -- associato a un
comportamento di gratuità, da cui discende la possibilità di sperimentare una
co-operazione, o reciprocità, non primariamente strumentale e condizionale, ma
assoluta, costitutiva dell’umano, e categorica. Questo agente economico intende
pertanto la reciprocità diversamente da come essa è usata oggi in economia. Rispetta
l’ambiente, paga le tasse o edifica la casa rispettando i vincoli del piano
regolatore (tutte faccende cooperative), ad esempio, perché questi
comportamenti sono per lei dei valori, perché le danno una ricompensa
intrinseca, e non solo strumentale (i vantaggi materiali della cooperazione,
che pure sperimenta). Questo diverso tipo di agente non è quindi puramente
consequenzialista e utilitario come invece è l’agente-individuo. Non valuta
cioè la bontà del muoto conversazionale solo sulla base della conseguenza che
tale muoto produce, ma tiene conto sia di una componente assiologica o
deontologica – non aletica --, legata al valore, sia di una componente
procedurale, più legata ai tipi di relazione all’interno delle quali il suo
muoto si sviluppa. Sa inoltre che il suo muto è pienamente *efficace* se anche
l’altro si comportano allo stesso modo (se reciprocano). Ma non condiziona il suo
comportamento a quello dell’altro (come invece farebbe l’homo
oeconomcus-individuo standard). Al tempo stesso, se l’altro si comportano sulla
base della stessa razionalità assiologica e dello stesso valore intrinseco,
allora egli soddisfa al massimo le sue preferenze, e anche il benessere sociale
aumenta. In base ad una tale struttura di valori, o cultura della reciprocità
gratuita, al primo posto dell’ordine di preferenze questo tipo di agente
economico non mette, diversamente dal tipo standard, “tutti co-operano tranne
me”, ma “tutti, me compreso, cooperiamo”, o doniamo. E questo perché il
comportamento in sé è parte integrante del suo sistema di valori. Al secondo
posto dell’ordine di preferenze pone: l’altro co-opera, io no. Al terzo posto: io
co-opero, l’altro no. Al quarto, nessuno co-opera. Per capire questi valori si
può partire dalla struttura di ricompense (i pay-off, cioè i numeri che
misurano le ricompense) del dilemma del prigioniero. Ma occorre aggiungere, o
sottrarre, ai pay-off materiali una componente intrinseca, sulla base della
teoria classica della felicità o calculo eudaimonico, o beatifico, nella quale
il comportamento buono in sé, o *virtuoso*, ha una ricompensa intrinseca. Così,
se un soggetto ha fatto propria questa cultura della reciprocità gratuita o,
per usare un’espressione più forte ma anche più corretta, della “comunione” (la
communita immune), quando Eurialo co-opera e la controparte, Niso, no (pensiamo
sempre all’esempio ambientale, o, se si vuole, ad un rapporto di amicizia), il
suo pay-off, materialmente uguale a 1 (come nel gioco standard), aumenta a
causa delle ricompensa intrinseca (che poniamo pari ad uno), attestandosi a 2.
Se Eurialo invece *non* coopera ma la controparte, Niso, sì, ecco allora che il
pay-off, pur essendo materialmente pari a 4, diminuisce a 3, perché si
inserisce una *sanzione* intrinseca. 4 – 1 = 3. Si pensi a chi, pur avendo
fatto propria la cultura della reciprocità, in un certo muoto non è coerente
perché non riesce a vincere la tentazione del vantaggio materiale. La sua
soddisfazione è comunque minore a causa della sanzione intrinseca, che potremmo
chiamare anche insoddisfazione o senso di colpa o vizio. Il mondo peggiore
(pay-off = 1) è quello in cui ciascuno è chiuso in se stesso. Qui il pay-off è
1 perché si parte da quello materiale (2) e gli si sottrae il valore intrinseco
(2 – 1 = 1). Il mondo migliore è invece la *reciprocità*, un incontro mutuo di
gratuità: (4), il pay-off materiale della co-operazione (3) più la componente
intrinseca della gratuità. Sui vari usi della categoria di reciprocità nella
teoria economica, cf. Crivelli. Questo ordine di preferenze dipende
dall’ipotesi che la componente intrinseca dei pay-off sia costante e pari ad
uno. Un’analisi più approfondita dovrebbe studiare i casi quando la motivazione
intrinseca è maggiore, minore o uguale alla componente materiale. Non è da
escludere, ad esempio, che all’aumentare di quest’ultimo dovrebbe aumentare la
tentazione di tralasciare gli aspetti intrinseci. Se fare, ad esempio, la
raccolta differenziata diventa estremamente costoso e laborioso, il numero di
quelli, anche bene intenzionati, che la faranno diminuirà. Inoltre, una tale
analisi ammette la possibilità di confronti -- La componente intrinseca
dell’azione è legata alla teoria classica della felicità o calculo
eudemonistico di Bentham. La felicità, essendo il risultato di una vita
virtuosa, è fuori dalla logica strumentale. La virtù è praticata perché ha un
valore intrinseco, non per un calcolo machiavelico strumentale costi/benefici.
La virtù, in particolare quella civica, ha bisogno di reciprocità perché porti
ad una vita sociale pianamente realizzata, ma non può pretenderla, solo
attenderla dalla libertà dell’altro. Ecco perché dagli antichi fino ad oggi
alla felicità è associato un elemento *paradossale*. La feicita ha bisogno di
reciprocità, ma solo la gratuità può suscitarla senza pretenderla. Un “gioco di
reciprocità” (intesa nella maniera appena detta), che rimane sempre del tipo
dilemma del prigioniero, può essere dunque rappresentato come segue: Eurialo Dona
Non-Dona Dona 4,4 2,3 Non-Dona 3,2 1,1 Rappresentiamo anche questo
gioco in forma estesa. Dalla tabella, o dall’albero decisionale, si nota che se
i due giocatori hanno questa stessa struttura di preferenze, l’unico esito
stabile del gioco o equilibrio di Nash, dal quale cioè nessuno è incentivato a
spostarsi, è “dona-dona”. Quindi per interpersonali di utilità, cosa peraltro
non inusuale quando l’utilità attesa si calcola con la funzione di Von Neumann
Morgernstern. Per un’analisi approfondita dei pay-off psicologici cf. Pelligra.
Sul paradosso della felicità cf. Bruni. Il modello che può essere considerato
il capostipite dei giochi del tipo gioco di reciprocità è quello introdotto da
Sen -- questi giocatori-persone donare (o co-operare) è ‘strategia’
strettamente dominante, e l’unico equilibrio stabile del gioco è la reciprocità
o la *comunione*: dona/dona. Cosa ci suggerisce questo gioco, pur nella sua
estrema semplicità? Se sono un soggetto che ha questi valori non ho alternative
a cooperare: gli altri possono rispondere o meno, e quindi il mio
benessere/felicità è incerto (stando al gioco precedente, posso ottenere in termini
materiali 2 o 4 punti): ciononostante per me l’unica possibilità, l’unica
azione razionale, è cooperare, o come abbiamo detto, donare. Così, per fare un
esempio, se sono alle prese con un fornitore difficile, non ho alternative al
donare. Potrò trovare reciprocità o no, ma in ogni caso l’alternativa,
‘non-dona’ – che, nella pratica, significherà ogni volta qualcosa di diverso –
è per me la peggiore (perché è sempre dominata dalla co-operazione) a causa
della ricompensa (sanzione) intrinseca. E’ questo un soggetto che per alcune
scelte non calcola i costi e i benefici. Che senso ha fare la raccolta differenziata
se solo io la faccio. Ma agisce sulla base di un valore, o di una norma etica
interiorizzata. Ciò spiega, tra l’altro, perché in certe società l’ecologia o
il rispetto delle norme civili sono messe in pratica anche in contesti nei
quali sarebbe razionale (nel senso standard) non farlo: iclassico fazzoletto di
carta buttato fuori dal finestrino quando nessuno ci osserva, e quindi nessuna
sanzione può essere applicata. D’altro canto, davanti a queste nostre
considerazioni qualcuno potrebbe obiettare. Ma se ipotizzate che gli individui
traggano soddisfazione dal muoto conversazionale stesso, diventa banale
spiegare l’emergere (dalla perspettiva della psicologia filosofica) della co-operazione.
In effetti l’idea è semplice. Ma ci auguriamo non banale, ma bizarra. In
particolare, gli aspetti più interessanti intervengono quando pensiamo che nel
mondo reale, nel mercato in particolare, non sappiamo normalmente con chi
stiamo giocando, se abbiamo cioè di fronte un soggetto del primo tipo o uno del
secondo. E qui entriamo in quello che possiamo chiamare il “paradosso della
reciprocità” o della comunione, che possiamo sviluppare sinteticamente come
segue, mettendo assieme i vari pezzi fin qui costruiti. Una vita buona ha bisogno
di reciprocità genuine. La reciprocità genuina però non viene suscitata se la
logica che ci muove è primariamente strumentale. La risposta dell’altro, la
reciprocità, non possiamo pretenderla, ma solo *attenderla* dalla libertà
dell’altro. Co-operare porta quindi a due esiti diversi (indicati con 2 o 4) in
base alla risposta o non risposta dell’altro. Per comprendere questi risultati,
si consideri che ognuno sa che l’altro ha di fronte due possibili scelte:
donare e non donare, e, date le loro preferenze, qualunque scelta faccia
l’altro per ciascuno è preferibile donare -- considerando anche il pay-off
intrinseco. Se infatti l’altro giocatore (Eurialo) sceglie “donare” i punti di
Niso sono 4 (mentre la mossa “non-dona” avrebbe portato solo 2 punti); e anche
se Eurialo scegliesse “non donare”, Niso preferisce sempre “donare” che gli dà
2 punti invece di 1 (che è il pay-off di “non-dona/non-dona”). Può valere la
pena specificare che qui con “donare” non si intende l’altruismo o la
filantropia -- che possono restare atti individualisti. Donare è sinonimo di
ciò che la cultura greco-romana chiama “amore”, e cioè un atto gratuito ma che
ha sempre di mira la *reciprocità*, il rapporto personale con l’altro
(amore-amicizia). Qualcuno potrebbe obiettare sostenendo che più che di una
diversa forma di razionalità in questo caso siamo in presenza di un soggetto
che ha solo preferenze diverse, ma la cui razionalità resta quella standard
strumentale, perché in fondo anche lui massimizza la propria utilità. Noi
preferiamo pensare che una persona che agisce mossa da motivazioni intrinseche
sia più efficacemente rappresentabile da una forma di razionalità che Grice chiamava
“rispetto ai valori” o assiologica che non dalla classica razionalità
strumentale, che si caratterizza proprio per il suo essere tutta basata sul
calcolo utilitario.Qui infatti nostri soggetti co-operativi fano la scelta non
sulla base di un calcolo, ma per un valore. È ovvio che esiste una circolarità tra
motivazioni intrinseche e il comportamento dell’altro -- su questo cf. Bruni e
Pelligra. Per questo la vita in comune è fragile, come anche i filosofi – da
Aristotele in poi - ci insegnano, perché essa dipende dalla risposta dell’altro
– l’amore di Eurialo e reciprocato dall’amore di Niso e vice versa. Quale
evoluzione? Facciamo ora un passo avanti, e ci domandiamo cosa succede quando
soggetti standard e soggetti non standard (il secondo tipo che abbiamo appena
descritto) interagiscono tra di loro. Sono situazioni che Grice studia. Sono
ormai numerosi i modelli con un agenti altruistico che interage con un agenti
auto-interessato. Qui ipotizziamo quattro casi, che, con diversi gradi di
astrazione, possono rappresentare alcune situazioni reali che vengono a
verificarsi quando l’interazione avviene tra soggetti diversi, perché mossi da
culture diverse. Utilizzeremo, allo scopo, i rudimenti della teoria dei giochi
evolutivi, nella sua forma più elementare, il cui elemento innovativo è
l’introduzione della componente immateriale del pay-off corrispondente alla
ricompensa intrinseca. Ipotizzeremo cioè i nostri giocatori immersi in un ambiente
abitato da popolazioni diverse, dapprima due, e poi tre. La teoria dei giochi
evolutivi utilizza lo stesso linguaggio, e in buona parte la stessa
metodologia, della *biologia* evolutiva. Tra più popolazioni esistenti in un
dato ambiente, nel tempo sopravvive quella che ha la fitness – capacità di
adattamento – maggiore. Se due popolazioni hanno la stessa fitness sopravvivono
entrambe. Ma se una ha una fitness minore delle altre è destinata
all’estinzione, non nel senso biologico del termine (morte di tutti i soggetti
di quella specie), ma che quel comportamento non verrà riprodotto, e saranno
imitati i comportamenti vincenti. Il dibattito sull’applicazione di una tale
metodologia agli essere umani e alle loro popolazione è aperto, e controverso. In
quanto segue noi non intendiamo abbracciare la filosofia, né la metodologia,
dei giochi evolutivi. Riteniamo soltanto che il linguaggio dei giochi evolutivi
ci aiuti a mettere in luce dinamiche, che riteniamo reali, non facilmente
individuabili con linguaggi diversi. Il nostro è quindi un esperimento, che ci
piacerebbe, in futuro, portare avanti, mettendo a quel punto in questione
alcuni assiomi che nell’attuale teoria dei giochi evolutivi ci appaiono troppo
semplificati, come il concetto di fitness: semplificati, ma non inutili, come
speriamo di mostrare. Primo caso: Tipi 1 e Tipi 2, non riconoscibili Come primo
caso facciamo le seguenti ipotesi. Esistono solo due tipi tra loro non
riconoscibili. Chiameremo tipi 1 quelli standard, e tipi 2 quelli non-standard
o di reciprocità. Le ricompense intrinseche sono determinanti per la scelta
(che, come visto, fanno sì che per il tipo 2 sia sempre razionale, perché
strettamente dominante, “donare”). Ma per la sopravvivenza nel tempo di un tipo
di agente, la cosiddetta fitness (misurata -- La versione più semplice di tali
modelli si può trovare nel Manuale di microeconomia di R. Frank. Un testo classico
è quello di Axelrod, e un recente studio, basato su evidenza sperimentale, è quello
di Bowles. Un modello vicino a quello qui presentato è Sacco e Zamagni. Interessanti
considerazioni metodologiche si trovano in Crivelli. Vale la pena specificare
che mentre nella biologia evolutiva l’unità di selezione è il gene, in economia
l’unità di selezione è il comportamento; inoltre, mente in biologia la
trasmissione è ereditaria in economia essa avviene per imitazione. Sono i vari
comportamenti adottati e imitati che rendono un agente più efficiente di un
altro. Un contributo importante a questo riguardo è l’articolo The evolutionary
turn in game theory diSugden -- dal valore medio dei pay-off materiali),
contano solo i pay-off materiali, non i pay- off dovuti alla ricompensa
intrinseca. c. I pay-off materiali sono i seguenti. Coopera – coopera. Non
coopera – coopera. Coopera – non coopera. Non coopera – non coopera. Con a >
b> c> d. La probabilità di incontrare un tipo 1 è p1, mentre quella di
incontrare un tipo 2 è p2, dove, per la definizione di probabilità, p2 = 1- p1
In questo primo caso lo scenario non è roseo per i tipi 2. Si dimostra,
infatti, che a sopravvivere saranno solo i tipi 1, e questo risultato è
indipendente dalla percentuale di tipi 1 e 2 presente nella popolazione. Infatti,
anche se i tipi 2 fossero la quasi totalità (ex. 99%) dell’universo, sarebbero
destinati ugualmente all’estinzione perché sistematicamente sfruttati dagli
individui. SE VALGONO LE IPOTESI PRECEDENTI, SOPRAVVIVONO SOLO I TIPI 1, PER
OGNI VALORE DI p1 e p2. Se supponiamo un intervento ridistributivo dello stato
che preleva risorse dai tipi 1 per sostenere i tipi 2 (es. ciò che avviene
normalmente nei sistemi di stato sociale con le imprese sociali), il gap di
fitness si riduce, e in certi casi potrebbe essere nullo, consentendo così la
co-esistenza dei due tipi. Situazione diversa se ipotizziamo che i due tipi
siano, per l’esistenza di un qualche segnale, riconoscibili, e che il tipo 2
decida di interagire soltanto con i suoi simili. Aggiungiamo, quindi l’ipotesi. Rispetto ai
giochi delle prime due sessioni, ora ricorriamo esplicitamente a pay-off
ordinali, dove la sola condizione rilevante nella misurazione dei pay-off è il
loro ordine, e cioè che a sia maggiore di b, b di c e c di d. Indichiamo con Fi
la fitness dei tipi 1, e con Fp la fitness dei tipi 2. F1 = p1c + p2a F1 = p1c +
(1-p1)a F2 = p1d + (1-p1)b. La tesi F1>F2 equivale quindi a: p1(b-a) +
p1(c-d) > b-a, per p1 = 0 la disuguaglianza diventa a>b ed è quindi vera
per p1 = 1 la disugualglianza diventa c>d ed è quindi vera osservo che ∀
valore di p1∈ (0, 1), p1(c-d) >0 p1(b-a) >
b-a, perché b-a è minore di zero, quindi: F1>F2 ∀
valore di p1∈ [0, 1]. È possibile inoltre dimostrare
che, per tutti I giochi di questo tipo, quale che sia la posizione iniziale di
partenza, l’unico equilibrio evolutivamente stabile verso cui si converge nel
tempo è quello che prevede l’estinzione di una delle popolazioni, nel nostro
caso dei tipi 2. 9 e. i tipi sono riconoscibili e l’interazione è
selettiva (il tipo 2 gioca solo con i simili). Se la riconoscibilità è perfetta
(cioè la probabilità di simulazione è nulla), si dimostra facilmente che
sarebbero i tipi 2 a sopra-vivere. Infatti, in questo caso vale il Risultato. SE
IPOTIZZIAMO PERFETTA RICONOSCIBILITÀ DEI TIPI, SI ESTINGUONO I TIPI 1. Questo
secondo risultato ci dice già qualcosa d’importante. La riconoscibilità, anche
quando non perfetta (come nella realtà normalmente avviene), aumenta la fitness
dei tipi 2. Ciò spiega, ad esempio, l’emergere del fenomeno della “rete”, una
realtà tipica dell’economia sociale. Le varie componenti ed espressioni
dell’economia sociale tendono infatti a cercarsi e scegliersi l’un l’altra:
reti di imprese, reti di consumatori che insieme preferiscono le imprese
sociali, reti di imprese (si pensi ai consorzi di co-operative, di veri
livelli), risparmiatori e consumatori (il fenomeno delle banche etiche e della
finanza etica). Nella realtà, però, supposto che un agente 2 voglia evitare di
interagire con i tipi 1 (cosa da non dare per scontata), la perfetta riconoscibilità
o la simulazione nulla sono comunque altamente irrealistiche (sono troppi i
soggetti con i quali un’impresa e anche una persone interagisce: lavoratori,
finanziatori, concorrenti, fornitori, consumatori). E’ quindi necessario
ricorrere ad altre ipotesi per giustificare teoricamente lo sviluppo delle
imprese sociali nel tempo. E’ quanto di cerca di fare negli altri due casi. Introduciamo
ora un *terzo* tipo che si aggiunge ai due precedenti. Potremmo chiamarlo ‘civile’
o griceiano. Ipotizziamo che: f. il tipo 3 gioca una strategia “colpo su
colpo”, una strategia intermedia (rispetto alle altre due più “radicali” dei
tipi 1 e 2, che, rispettivamente, co-operano mai e sempre), che lo fa co-operare
con chi coopera, e *non* cooperare con chi *non* coopera. Quest’ultimo co-opera
quindi con chi coopera, e *non* co-opera con chi *non* co-opera. Il tipo civile
o griceiano, non attribuendo un valore intrinseco (o attribuendogliene uno
troppo basso) all’azione donativa, *non* ha “cooperare!” o “cooperiamo!” come ‘strategia’
*dominante*. La strategia dominante e “Siamo razionali”. Ma se ha di fronte un
tipo 2, pur riconoscendolo, non lo sfrutta preferendo reciprocare. E’ un 21 La
correlazione esclusiva tra tipi può avvenire per almeno due ragioni: o perché
l’agente sceglie il tipo preferito che viene riconosciuto attraverso un segnale
(che deve essere affidabile), oppure perché si trova in un cluster, cioè in
un’area nella quale si trovano soltanto soggettio dello stesso tipo – pensiamo,
ad esempio, ad una comunità locale come il gruppo maschile della sub-faculta di
filosofia a Oxford, dove la probabilità che un agente si trovi ad interagire
con uno “like- minded” è altissima, ed è indirettamente proporzionale al numero
di forestieri – non filosofi non oxoniensi -- presenti in quella comunità. In
questa situazione, i casi interessanti si trovano sui confini, dove la
probabilità di interazioni miste aumenta (pensiamo agli effetti
dell’introduzione di pratiche e comportamenti nuovi da parte del gruppo
femminile, di missionari o di emigranti da Cambridge). Il segnale, inoltre, per
essere efficace dovrebbe essere troppo costoso da imitare da parte dei tipi 1,
come l’adesione ad un codice o procedimento di comportamento o ad una struttura
di valori molto forte (come nelle botteghe del commercio equo e *solidale*, o
nelle imprese di Economia di Comunione). Con riconoscibilità perfetta, la
probabilità di incontrare un tipo simile è 1, mentre la probabilità di
incontrare uno diverso è 0. Quindi F1 =(0(a) + 1(c))=c, mentre F2 = (0(d) +
1(b)) = b, quindi: F2 > F1. Rispetto a quella classica, questa versione di
colpo su colpo è modificata, poiché non inizia sempre con un muoto di
cooperazione, e poi il gioco non è ripetuto -- soggetto leale, che per questo chiamiamo
“civile” o griceiano. Si ipotizza quindi l’esistenza di un segnale,
utilizzabile solo dal tipo civile o griceiano, che gli permette di discriminare
perfettamente tra i tre tipi che ha di fronte. Si ipotizza quindi che le altre
due imprese non possono, o non vogliono, utilizzare quel segnale (pensiamo, ad
esempio, a chi pur sapendo di rischiare entrando in un ambiente molto opportunistico,
rifiuti l’idea della nicchia e accetti di scendere in campo, non utilizzando
quindi il segnale di riconoscibilità. Cosa succede in questo caso? Innanzitutto
è possibile vedere come la fitness del terzo tipo è sempre maggiore di quella
del tipo 2. Infatti vale il risultato. SE E SOLO SE VALGONO LE IPOTESI
PRECEDENTI (a. – d., f.) SI HA: F3 > F2 ∀
VALORE DI a, b, c, d, ∀ VALORE DI
p1, p2, p3. Un secondo aspetto che emerge, è che l’evenienza che la fitness dei
tipi 2 possa risultare maggiore di quella degli 1 dipende dalla percentuale di
tipi 3 civili griceiani presente nella popolazione. Più quest’ultima è alta,
maggiore è la fitness dei tipi 2 e minore quella dei tipi 1. Qui per semplicità
supponiamo che gli scarti tra i pay-off siano uguali tr aloro, cio è che sia: (a–b)
= (b–c) = (c–d). Tali scarti possono essere visti, rispettivamente, come
vantaggio dello sfruttamento, premio della cooperazione e costo della coerenza.
Anche nell’esempio numerico precedente tali scarti sono uguali (tutti pari ad
1). Con queste semplificazioni, vale il seguente risultato. SE VALGONO LE IPOTESI
a.–d., f., g., F2>F1 SE E SOLO SE p +p <p. Il risultato ci dice ancora
qualcosa d’importante. La sopra-vivenza dei tipi 2 dipende anche
dall’esistenza, e dal numero, degli agenti del terzo tipo, cioè di soggetti
che, pur *non* attribuendo un valore intrinseco ma derivato dalla razionalita
generale all’azione del co-operare o donare non “sfruttano” il muoto co-operativo
(come fa invece il tipo 1), ma reciprocano. Rispondono alla co-operazione. Per
questo denominare questi tipi “civili”. Questo risultato può essere utilizzato
anche a sostegno del ruolo della cultura civile – la conversazione civile – la
civil conversazione del rinascimento italiano popolarizzato in tutta Europa. La
sopra-vivenza e lo sviluppo di imprese e un soggetto più radicali, come i tipi
2, dipendono anche dalla “cultura civile” presente nell’ambiente dentro il
quale operano. Di qui l’importanza duplice della diffusione della “cultura”,
alla quale le imprese sociali non possono non attribuire grande importanza. Le
imprese dell’EdC, ad esempio, dedicano un terzo dei propri utili alla
formazione alla *cultura del dare*. Da una parte la cultura re-inforza le
motivazioni intrinseche dei tipi 2, e dall’altra contribuisce ad aumentare e
rafforzare il senso civico e la cultura della co-operazione dalla quale,
indirettamente, dipende anche la loro sopra-vivenza e il loro sviluppo. Supponiamo,
per assurdo, che la tesi non sia vera: Dovrà essere: F3 ≤ F2 => p1c + p2b + p3 b ≤ p1d + p2b + p3b = > p1c ≤ p1d,
disuguaglianza che non e’ mai verificata essendo, per ipotesi, c>d. p1d +
p2b + p3b > p1c + p2 a + p3c ⇔ p1 (d − c)
+ p2 (b − a) + p3 (b − c) > 0;<=> p1(c−d) + p2(a−b )< p3(b−c) ⇔
p1+p2 <p3. Altra implicazione del risultato è il prendere coscienza
che affinché i tipi 2 possano svilupparsi, i tipi civili debbono essere
abbastanza numerosi. In particolare, si dimostra che la fitness dei tipi 3 è
maggiore di quella dei tipi 1 se e solo se i tipi 3 sono in numero maggiore dei
tipi 2. Ipotizzando, come nei risultati precedenti, l’uguaglianza tra gli
scarti, abbiamo un altro risultato. SE VALGONO LE IPOTESI DEL LEMMA, F3>F1
SE E SOLO SE P2<P3. Rappresentiamo le due fitness nello spazio delle fitness
e di p2. 0 P2* 1 P2 F1, F3. Da questo emergono due ordini di considerazioni. Il
valore soglia di P2 (P2*) oltre il quale F3 diventa minore di F1 dipende dalle
pendenze delle due rette, rispettivamente a per F1 e b per F3: (a – b) misura
infatti il vantaggio che i tipi 1 hanno rispetto ai 3 per la presenza dei tipi
2 che sfruttano. Quindi minore è questo vantaggio, maggiore è la quota di tipi
2 che i tipi 3 possono tollerare Se a=b le due rette sarebbero parallele. Si nota
che i tipi 3 perdono fitness con l’aumento dei tipi 2, e la differenza di
fitness massima si ottiene in corrispondenza di P2 = 0. E’ il meccanismo che
potremmo chiamare i figli delle rivoluzioni che uccidono i padri, perché li
considerano troppo radicali, come i francescani di seconda generazione che
rimossero Francesco dal governo dell’ordine, perché con il suo radicalismo
impediva – a loro dire – lo sviluppo del francescanesimo più moderato e
minacciava la morte stessa del movimento. Nell’ultimo scenario, ipotizziamo che
la motivazione intrinseca, la componente non materiale dei pay-off, possa avere
un effetto non solo sulla scelta ma anche sulla fitness. Finora non abbiamo
fatto ciò per un senso di realismo. Eurialo puo persuadersi a vivere nella
piena correttezza verso Niso perché attribuisce a tale comportamento un valore
intrinseco. Se però poi non arrivano i risultati economici, se ho -- F3 >F1
<=> p1c +p2b + p3b > p1c + p2a +
p3c <=> p2pb + p3b > p2pa + p3c <=> p2 (b-a) > p3 (c-b)
<=> p2 (a-b) < p3 (b-c) p2 < p3. Il valore soglia P2* è pari a P3,
come sappiamo dal risultato. F1 F3
-- ad esempio costi troppo elevati, la fitness di Eurialo ne risente. Ora però
abbandoniamo questa semplificazione, e ipotizziamo che la fitness sia
influenzata anche dalle motivazioni. Alcuni esperimenti dimostrano come i
comportamenti ispirati da motivazioni intrinseche e da logiche di gratuità,
oltre a non avere buoni sostituti - nel senso che in tali casi altre forme di
incentivi monetari non funzionano - portano anche una maggiore efficienza in
termini di risultati. Perché quindi non ipotizzare una fitness influenzata
anche dalle motivazioni intrinseche? Le fitness del primo e del terzo tipo
restano le stesse (questi due tipi non hanno motivazioni intrinseche), mentre
cambia quella del tipo 2, dove la motivazione intrinseca è rappresentata da un
ε > 0,29 che viene aggiunto ai pay-off materiali. Le fitness dei tre tipi
diventano perciò le seguenti: h. F1 =p1(c) + p2 (a) + p3 (c) F2 =p1 (d) + p2
(b) + p3(b) + ε F3 = p1 (c) + p2 (b )+ p3 (b). Si dimostra che è possibile che
la fitness dei tipi 2 sia maggiore anche di quella dei tipi 3. Vale infatti il:
Risultato. SE VALGONO LE IPOTESI a. – d., f., h.: 1. F 2≥ F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)31E 2. F2 ≥ F1,
SE E SOLO SE ε≥ P1(C–D) + P2(A–B) + P3(C-B). C’è un rapporto diretto tra ε e (c
–d) dove (c – d) misura il costo della coerenza per la fitness dei tipi 2, poiché
è quanto questi perdono per essere coerenti con la loro cultura ottenendo “d” quando
interagiscono con i tipi 1, invece di giocare, come i tipi 3, *non* coopera, ottenendo
così “c”, che è maggiore di “d”. Il valore più piccolo che può assumere ε (cioè
l’effetto materiale delle motivazioni intrinseche) affinché valga la
disuguaglianza F2>F3, è ε* = p1 (c – d). Possiamo quindi osservare che,
maggiore è il costo della coerenza (c – d), maggiore dovrà essere il
valore-soglia ε*. Inoltre, c’è un rapporto diretto anche tra ε* e p1: se i tipi
1 sono, relativamente, molto numerosi, allora ε* dovrà essere più alto (e
viceversa in caso contrario). Pensiamo, per fare un esempio, ad una impresa di
Economia di Comunione che nel campo della legalità si comporta come un tipo 2.
Paga le tasse, rispetta le leggi, per una norma etica alla quale attribuisce un
valore intrinseco, non strumentale. Un tale imprenditore se opera in un mercato
nel quale il costo della coerenza è molto alto o i soggetti opportunistici sono
relativamente molti, per non estinguersi dovrà fare in modo che le proprie
motivazioni etiche si traducano in maggiore fitness in una misura relativamente
maggiore rispetto allo stesso imprenditore operante in un mercato più civile e
dove i soggetti opportunisti sono meno. Come a dire che più un mercato, e una
-- Rustichini e Gneezy -- A rigore potrebbe anche essere minore di 0. -- Ipotizziamo
quindi che solo i tipi 2 e non i 3 “civili” abbiamo motivazioni intrinseche. F2
≥F3 ⇔p1(d) + p2(b) + p3(b) + ε>p1c + p2b
+ p3b⇔ ε ≥ p1(c−d). F ≥ F⇔p(d)
+ p(b) + p(b) + ε≥p(c) + p(a)+p(c)⇔
21123123 ε ≥ p1(c−d)+ p2(a−b)+ p3(c−b) -- società, premia i “furbi” (con
condoni, ecc.) e penalizza i tipi cooperativi (con leggi che non riconoscono
sgravi fiscali per le imprese sociale, ad esempio), più questi ultimi dovranno
far sì che le motivazioni etiche si riflettano in maggiore efficienza,
altrimenti non sopravvivono. Affinché valga invece la seconda disuguaglianza,
F2 ≥ F1, il valore-soglia di ε, che chiameremo “ε ̊”, dovrà essere: ε ̊ = P1(C
– D) + P2(A – B) + P3(C- B). E quale il rapporto tra i tipi 3 e i tipi 1? SE
VALGONO LE IPOTESI DEL RISULTATO 4.1, F3 > F1, SE E SOLO SE P2 < P3 (b −
c). (a − b) Come interpretare questo? (b – c) è il vantaggio dei tipi 3
rispetto ai tipi 1 (solo i tipi 3 co-operano con i tipi 2 ottenendo “b”),
possiamo quindi chiamarlo il premio della cooperazione, mentre (a – b) è il
vantaggio dei tipi 1 rispetto ai 3, perché è il premio dello sfruttamento che
gli standard ottengono nei confronti dei tipi 2, al quale invece i tipi civili
rinunciano. Dal Risultato 4.2. emerge un’affermazione a prima vista
inquietante: affinché si affermino i tipi 3 (sui tipi 1) sarà necessario che i
tipi 2 non siano troppi; in ogni caso questi ultimi potranno essere tanto più
numerosi quanto più il “premio della cooperazione” sovrasta il “premio dello
sfruttamento”. Se infatti i tipi 2 sono numerosi essi diventano pasto per i
tipi 1, che hanno così un vantaggio relativo sui tipi civili. Il risultato
potrebbe, infine, essere ulteriormente rafforzato se che quando un tipo 2 incontra
un altro tipo 2 ottiene un di più dovuto alla reciprocità (il pay-off
diventerebbe in questo caso a). i. F2=P1 (d)+P2(a)+P3(b)+ε La fitness dei tipi
2 potrebbe così essere maggiore di quella dei tipi 3 e 1 con un ε anche minore
rispetto al valore di altro risultato. SE VALGONO LE IPOTESI DEL RISULTATO 4.1
E L’IPOTESI i. 1. F2≥F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)+P2(B–A)
E 2. F2≥F1, SE E SOLO SE ε≥P1(C–D)+P3(C-B). “ε**” e il valore soglia di ε,
affinché valga la disuguaglianza F2≥F3 e, ricordando che la quantità (b – a) è
negativa, possiamo subito notare che ε**≤ ε*. Similmente, ε ̊ ̊ = p1 (c – d) + p3(c –b) è minore di ε ̊. Le
motivazioni intrinseche e il di più della reciprocità si rafforzano a vicenda e
rappresentano una strada molto interessante per esplorazioni. F<F⇔
p(c)+p(a)+p(c)<pc+b+pb⇔p<p(b−c).
1312312323(a−b). F2 ≥F3 ⇔p1(d)+p2(a)+p3(b)+ε≥p1c
+p2b + p3b⇔ ε ≥ p1(c−d)+ p2(b−a). F ≥F⇔p(d)+p(a)+p(b)+ε≥p(c)+p(a)+p(c)⇔
21123123ε ≥ p1(c−d)+ p3(c−b). Riassumiamo
i punti ai quali siamo giunti ragionando, con l’aiuto della teoria dei giochi,
attorno alle prospettive e alle sfide di uno scenario economico nel quale fanno
la loro comparsa soggetti diversi da quello standard. Un primo punto emerso in
diverse parti di questo scritto è che un agire economico improntato alla
gratuità e alla reciprocità, o alla comunione, in un ambiente abitato da agenti
eterogenei non cresce con la politica dell’aumento numerico: escludendo l’ipotesi
di perfetta riconoscibilità dei tipi, l’aumento numerico, di per sé non basta a
far sì che i tipi 2 sopravvivano. Sono invece tre gli aspetti strategicamente
cruciali affinché esperienze rette da una logica come quella delineata possano
svilupparsi. Lavorare sulla cultura media della società (che noi abbiamo
espresso con il “terzo tipo”, quello civile): il messaggio che emerge una volta
che abbiamo esteso la dinamica ai terzi tipi è che i tipi 2 possono
sopravvivere e svilupparsi soltanto all’interno di un’economia civile,
un’economia nella quale sono numerosi gli agenti leali, che pur non attribuendo
un alto valore intrinseco all’azione donativa (e quindi non hanno “donare” come
strategia strettamente dominante in tutti i tipi di gioco), sono comunque
corretti se incontrano un agente co-operativo, non lo sfruttano e co-operano
con esso. Poiché le motivazioni intrinseche dipendono in parte
dall’approvazione sociale, esiste un effetto di complementarietà strategica. Tanto
più tali comportamenti sono diffusi, tanto più saranno premianti36. Infatti,
uno sviluppo interessante del modello potrebbe essere quello di vedere sotto
quali condizioni i tipi 1 possono trasformarsi evolutivamente in tipi civili,
ma in questo scritto non lo abbiamo fatto. Va comunque aggiunto che se è vero
che un impegno culturale che si limita a rafforzare le motivazioni intrinseche
dei soggetti di tipo 2 non può bastare, al tempo stesso, però, questa seconda
direzione ricopre un ruolo fondamentale, per evitare che nel tempo scompaia il
tipo 2 e ci si assesti sul terzo tipo. Un mondo senza soggetti che, *almeno in
certi contesti* -- ceteris paribus --, *donano* *incondizionalmente*, sarebbe
un mondo più povero. La presenza dei due tipi civili e griceiani – Eurialo e
Niso -- ci dice che nel tempo saranno questi ultimi gli unici a sopravvivere, a
meno che le motivazioni intrinseche si riflettano nei pay-off ed il loro
“riflesso” sia relativamente grande. Questo risultato è già di per sé
significativo. Anche se in determinati contesti la motivazione intrinseca non
riesce a migliorare la performance dei tipi 2, la presenza, magari solo
transitoria, dei tipi 2 svolge un importante ruolo civile e culturale: permette
cioè che l’incontro (o equilibrio) si assesti sulla reciprocità e non scivoli
nella mutua diffidenza. Senza l’esistenza dei tipi 2, o, paradossalmente, senza
il loro sacrificio, i tipi civili non avrebbero potuto sperimentare la
reciprocità, perché in un mondo popolato solo da loro e da tipi standard,
l’unica esperienza possibile è la diffidenza reciproca, la *non* cooperazione
(war is war). Ciò serve a gettar luce sul significato culturale e civile che
nella storia hanno esperienze radicali -- Ciò implica la possibilità di
equilibri multipli ordinabili, cioè la stessa popolazione può essere altamente
inefficiente o altamente efficiente a seconda che un numero anche piccolo, al
limite anche un solo soggetto, decida di cooperare. 37 E’ infatti verosimile
che i tipi 3, quelli civili, abbiano nel loro “programma” la possibilità della
cooperazione perché nell’ambiente esiste, o è esistito, il tipo 2: certo si
potrebbe teoricamente ipotizzare che i tipi 3 co-operino tra loro anche in
assenza dei tipi 2. Ma, storicamente, la cultura civile dell’umanità è andata
avanti grazie all’esistenza di esperienze *totalitarie* che hanno creato
categorie nuove che poi hanno contaminato la cultura generale. Pensiamo, ancora
una volta, alla regola d’oro, o, più recentemente, ai movimenti ecologisti -- come
la comunione dei beni totale, certe forme di accademie o monachesimo, e in
generale i primi tempi dei fondatori di nuovi carismi (si pensi, per tutti, ad
un Francesco d’Assisi e alla sua vicenda storica. Simili esperienze non sempre
sono riuscite a sopra-vivere con tutta la loro radicalità, ma senza di quelle
chi è venuto in contatto con loro (nella nostra metafora, i “tipi civili”) non
avrebbero potuto elevare il livello della convivenza Senza coloro che si sono
fatti imprigionare, e hanno dato la vita per i diritti o per la libertà, oggi
l’umanità – il tipo umano personale di Grice -- sarebbe meno libera e meno
diritti sarebbero riconosciuti. Un po’ come avviene con il sale, che si perde
nella massa ma dà quel di più al tutto. La metafora del sale non è però l’unica
presente in quel codice della cultura occidentale che è il Vangelo: vi è anche
quell della città sul monte, una città che illumina la città sotto monte. La
dinamica evolutiva potrà condurre l’economia sociale, e l’economia di
comunione, o sul sentiero sale della terra o in quello città sul monte. Ma, in
entrambi i casi, occorre che la cultura rafforzi le motivazioni intrinseche. E forse
questo il messaggio culturale che il giocco conversazionale griceiano vuole
dare. Araujo, V.“Quale visione dell’uomo e della società?”, in Bruni, L. e V.
Moramarco, L’Economia di comunione: verso un agire economico a misura di
persona, Milano: Vita e Pensiero. Aristotele, Etica
Nicomachea, Milano: Rusconi. Axelrod, R. The evolution of cooperation, New
York: Basic Books. Binmore, K. Game theory and social contract, Cambridge Mass:
MIT Press, Bowles, S. et al. In Search of Homo Economicus: Behavioural
Experiments in 15 Small Scales Societies, American Economic Review, 91, Bruni,
L. La felicità e gli altri, Città Nuova, Roma. Bruni, L. e R. Sugden, Moral
canals: trust and social capital in the work of Hume, Smith and Genovesi,
Economics and Philosophy, Bruni L. ePelligra, Economia come impegno civile,
Roma: Città Nuova. Crivelli, L. Quando l’homo oeconomicus diventa
reciprocans”, in Bruni e Pelligra. Dawkins, R. The
selfish gene, Oxford University Press, Oxford. Frank, R. Microeconomia, Milano:
McGrow-Hill. Elster, J. The cement of society. A study of social order,
Cambridge: CUP. Gneezy, U. e A. Rustichini. A fine is a price, Journal of Legal
studies, January. Gui, B. Economic interactions as encounters, mimeo, Università
di Padova. Hollis, M. Trust within reason, Cambridge: CUP. Nussbaum, M. C. The
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V. Fiducia r(el)azionale, in Sacco P.L. e S. Zamagni. Putnam, R. Bowling Alone, New York: Simon e Schuster. Sacco P.L. e
SZamagni. Un
approccio dinamico evolutivo all’alturismo”, RISS, Sacco P.L. e S. Zamagni. Complessità
relazionale e comportamento economico, Bologna: Il Mulino. Sen, A. Isolation,
assurance and the social rate of discount”, Quarterly Journal of Economics. Sugden, R. The Evolutionary Turn in Game Theory, Journal of Economic
Methodology, Weibull, J. Evolutionary Game Theory, Cambridge MA: MIT Press. Zanghì, G. Dio
che è amore, Roma: Città Nuova. Nome compiuto: Luigi Alici. Keywords: reciproco,
alici, amore proprio ed amore altrui, self-love and other-love – il paradosso
della reciprocita – eurialo e niso – noi – condividere la deliberazione –
eidolon – comunita, immunita, genovesi, il canale morale, la fidanza e il
capitale sociale in Genovesi. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H.
P. Grice, “Grice ed Alici,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice ed Alighieri: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – la scuola di Firenze -- filosofia fiorentina – filosofia
toscana – filosofia italiana -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (Firenze). Grice: “Unlike our Chaucer, who no philosopher at Oxford would call
‘philosophical,’ every philosopher in Italy calls Alighieri ‘philosophical’!”
-- Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. dante.
Grice: “Problem with having Alighieri as a philosopher is that rhyming is not
usually considered a priority – that’s why the old Romans like Lucrezio never
had to rhyme – you might say metre is essential to Parmenide and Lucrezio – and
that there is metre in my prose if not in endecasibili!” -- Grice: “This is
important for an Oxonian; since Sir Peter once told me that he made an effort
to understand Italian – ‘or Tuscan implicature,’ to be more precise – just to
be able to digest Inferno compleat with rhyme.’” Grice: “Must say that my
favourite Dante is ‘lasciate ogni speranza voi ch’entrate.”” Grice: “The
Italians, all being Renaissance men, love to catalogue as ‘philosopher’ those
whom the head of the Sub-Faculty of Philosophy at Oxford would NOT: Alighieri,
one of them!” Grice: “But then, a sport of Italian philosophers is to ramble on
“Pinocchio,” too!” -- “The Commedia and philosophy.” Liste di opere.
Refs.: “Philosophical references in Dante’s Commedia.” Se voleme guardare
in LINGUA d'oco e in LINGUA DI si, ec.e
D’oco, ec. Non giudico superfluo il dire alcuna cosa su questa. Massimamente
quelli di LINGUA denominazione ancor chè ne sia stato già parlato d’altri. È
costume de’ nostri antichi, volendo essi denominare il linguaggio d’una nazione,
prendere il suo distintivo dalla particella affermativa del volgare di quella
gente. Per tanto la lingua italiana si dice la lingua del si, la tedesca dell'
io, la gallica dell’oi, la provenzale dell’hoc. Eco sì si vada discorrendo dell'altre
lingue. Varchi nel Tuo Ercolano facendosi interrogare da Castiglione sul
particolare della lingua italiana, con queste parole: Cbi la cbie mase la lingua
del si? Risponde: seguiterebbe una largbissi modi. visione, che ho fa delle lingue
nominandole da quella particella colla quale affermano – come è la lingua d'hoc,
chiamata da volgari lingua d'OCA; perciocchè hoc in quella lingua significa
quanto væí nella greca, e etiam ita mella lasina, e pelle soffre si; perciò A. dice:
Ab Pisa, vitupero delle gesti del bel paese là, dove’l si suona. Ed avanti a
Varchi Benvenuto da Imola su questo medesimo luogo. Quia generaliter omnis gens
italica ut unturisto vulgari sì. Ubi germani dicunt “io”, do aliqui gallici
dicunt “oi”, do aliqui pedemontani dicunt ol vel dic. Leggo foc credendolo
errore del copista nel MS Laurenziano Derivano tutte queste particelle dal
latino. Il “si” nostro deriva dal “sico”, “sic est”, e forse più interamente da “sic est
bec. “Od” al contrario deriva da “hoc”, “est hoc.” L'altra di queste voci è presa
da’ provenzali, cioè l'hoc. E da questa è non solamente illor parlare
denominato “lingua d'oco”, che vale a dire lingua dell'hoc. Ma il paese ancora “Linguadoca”.
E ne'tempi più balli della latina lingua è detto “Occitania”, il qual paese non
è altro che l'antica Gallia Narbonensis. Lo “io” del tedesco derova dal latino
“illudbocest”, ed in più perfetta pronunzia “ja”, dal latino “iam est”. Il
gallico ai, dall “hec illud est”, che bene si ritrova nell'antico “ouill”, che
adesso è diventato “oui”. Ed, in somma, il piemontese ol, dall'istesso “hoc
illud”. Sicché, a proposito del passo d’A., in lingua d’oco, e in lingua di sì,
vuol dire in lingua provenzale, ed in lingua Italiana. Concioffiacbè conciosracofache. Lingua, dal lat. 'lingua',
voce usata in due significazioni. Principal nel significato proprio, per
quell'organo mobilissimo del corpo anide che è posto nella bocca ove si stende
dall'osso joide fin dietro denti incisivi. La lingua è la sede del senso del
gusto, serve alla funzione del succhiare, alla masticazione, alla deglutizione,
alla pronuncia delle parole, ed allo sputare. Varia molto nella grandezza ha la
forma d'una piramide, appianata dall'alto al basso, rotonda su i suoi angoli, e
terminata da certa punta ottusa che guarda ne davanti. Ma, in uso metaforico,
'lingua' vale pure idioma, linguaggio, favella. A. usa 'lingua' nei due suoi
significati principali spesse volte nelle sue opere, nel secondo significato
metaforico specialmente nel Vulg. El. Nella Div. Com., 'lingua' si trova XXX volte
-- XIX nell'Inferno (II, 25; X1,72; IIV, XV, 87; XVII, 75; XVIII, 60,126; XXI,
137; XXII, 90; xxx,133; IITL 72, 89; XXVII, 18; XXVIII, 4, 101; xxx, 122; XXXI,
1; XXIII, 9, 1146; III volte nel Purgatorio (vii, 17; XI, 98; xix,13) e VIII
volte nel Paradiso. 63; X1, 23; XVII, 87; XXIII, 55; XXVI, 124; XXVII,131;
XXXIII,70,708. Sulle dottrine d'A. concernenti la lingua – cioè, in uso
metaforico, il linguaggio umano, conviene rimandare al Vulg. El., specialmente
al libro I di questo saggio. Si notino i seguenti usi. Lingua, riferito a sete;
Inferno xxx, 122. Trarre la lingua, per Spingerla fuori della bocca; atto di
SPREGIO; Inf. xvii, 75.-3. Mostrare ciò che puote una lingua, per condurre un
idioma all'apice della sua perfezione; Purg. VII, 17.-4. Scernere nella lingua,
le parole dette o scritte; Purg. XV, 87.-5. la gloria della lingua, Il pregio
d'un idioma, e la maestria dell'usarlo; Purg. XI, 98.-6. A. chiama la lingua
italiana “lingua di sì”, la provenzale lingua d'oc, la francese lingua
d'oil;Vulg. El. 1, 8, 30 eseg.; cfr. Vit. N. xxv, 24 e seg.-7. Concernente la
lingua primitiva A. esterna in diversi tempi dee opinioni diverse. Secondo Vulgare
Eloquenza I, 6, 29 e seg. la lingua dei primi parenti è parlata da tutti i loro
discendenti sino alla edificazione della torre di Babele, e dagl’brei anche
dopo, onde la lingua primitiva è semplicemente l'ebraica (dalla quale per A.
deriva l’italiano). Invece secondo Par. XXVI, 124 e seg. la lingua primitiva,
parlata da Adamo, è tutta spenta già prima della confusione babilonica. La
lingua adamica non ha dunque che fare nè coll'ebraica, nè con altre lingue,
come la lingua del si o l’italiana. Anche in merito alla maggiore o minor
nobiltà della lingua dei Romani A. muta
opinione. Secondo il Convito. I, 5, 76 e seg. la lingua dei romani è più bella,
più virtuosa e più nobile dell’italianao. Invece, secondo il Volgare Eloquenza
1, 1, il volgare è più nobile del Latino. La seconda opinione è tutta
propria d'A. e segna un progresso nello svolgimento di quello che Grice chiama
‘la semantica d’A.’. La prima è la corretta e l’opinione dominante del tempo,
accettata anche d'A., finchè i suoi studi e l’altri italiani lo indussero a
lasciarla. La tèrra d’Occitania a gardat fin a
aüra un immense patrimòni gropat simplament a sa lenga, una lenga qu’es istaa
la primiera, comà es ressauput, naissuá dal latin, a èsser escrita, una lenga
que vuèlh soventar, a donat vita a la primiera literatura moderna europencha,
quèla qu’a servit de model per totas las autras lengas, qu’aviá trobat dau
l’acomençament sa forma escrita, fòrça unitaria. Es pas aicí lo luòc
adont percorrer l’istòira de nòstra lenga faça als colonialismes qu’an empachat
la creacion d’una lenga e de istitucions politicas unitarias mas la retrobaa
unitarietat culturala de la tèrra occitana en cèstos darrieri ans a fait
creisser un’ideá, beleu un utopiá, quèla de una Nacion, malaürament sença
estat, de una Nacion culturala. Lo mot Occitaniá, ben conoissut fin a la
Rivolucion, a retrobat sa modernitat geografica, istorica, lingüistica. Malaürosament nòstra lenga ilh es
aüra, apres mila ans, entren de se perdre, de se esvantar al solelh. Un procés
qu’a començat a partir dal segle XVI, quand nòstra tèrra occitana a perdut
definitivament son autonomiá. Quèlos que los expecialistas de la lenga noman
gallicismes, an começat penetrar en Occitaniá sobretot a partir de l’ordonança
de Villers-Cotterêts quand lo francés es devengut lenga uficiala de la lei e de
l’administracion francesa. Eissubliaa la cultura dal Meianatge, quèla,
per se comprener, dals trobaires, la lenga occitana es chaüta dins l’umbla
condicion de, e zo dizo abó una paraula francésa, patois, patés. Cèsta paraula
la vòl dire parlar abó las pautas, abó los pès. Dins las Valadas avem
perdut la valor de la paraula patois e l’anobrem tranquilament per dire que
parlem a nòstra mòda, comà la se ditz dins tantas valadas. Mas lo mot patois
pòl indicar qualsevuèlhe parlar natural dal mond, sença donar una precisa
indicacion sus la lenga parlaa. Per aiquò Occitan es l’unica paraula que pòl servir
per nomar nòstra lenga, l’unica que rend justiça a mila ans d’istòira. Pas mens
de viatge sabem pas de adont arriba nòstre vocabolari, quala istòira an nòstras
paraulas. Comà bien sabon, la plus part dal vocabolari es d’origina
latina, comun a quasi totas las lengas romanzas. Un’autra partiá dal vocabolari
ven dal grec e decò aicí zo partagem abó las autras lengas; un’autra encara nos
ven de las lengas alemandas o germanicas, de quèlos puèples qu’an envaít
l’Imperi roman. Resta una fòrta presença de paraulas que beleu nos venon de las
lengas parlaas dins nòstros territòris quand los romans sion arribats en çò
nòstre: de lengas de sobstrat, que normalment partatgem en lengas anarias, al
es a dire d’ancianas lengas mediterranèa comà lo ligure, l’etrusc o de lenga
arias pre-latinas comà lo gallic o la lenga celta. Comà la se pòl
comprener sien drant a un tresaur lexical en partiá ben conoissut, mas adont
los trabalhs lexicologics abondan pas e adont de ensemb lingüistic comà
l’occitan alpec, nomat a son temps vivarò-alpenc, reston mal conoissut. Comà a escrit Geuljan dins son “Dictionnaire
Etymologique de la Langue d’Oc”,
l’occitan est la seule grande langue romane dépourvue d’un dictionnaire etymologique.
Volem pas de segur far concorrença al trabalh qu’es istat entrenat per lo Prof.
Geuljan, mas prepausar de trabalhs sus l’etimologiá de paraulas pas gaire
conoissuás de nòstra Valadas e de l’encemb occitano-alpenc per arribar, dins lo
temps, a la redaccion d’un Diccionari Etimologic de l’Occitan Alpenc. Pas
mens nòstre Diccionari Etimologic sarè bilengas, es a dire li aurè una partiá
entierament en lenga occitana e una traducion italiana. Escriure un Diccionari
sus nòstra lenga adont per chasca paraula la se dona la traduccion dins una
lenga diferenta de la nòstra me sembla una chausa que vai contra la lenga
meseima. Pensatz a un
vocabolari de l’italian o dal francés o de un’autra lenga adont la descripcion
de la paraula siè dins un’autra lenga. Per l’occitan pareis siè la nòrma.
Lo Tresor dóu Felibrige de Mistral, lo vocabolari de Alibert comà tuts los
autri que sion istats realizats dins cèstos ans donan la paraula en occitan,
mas tota la descripcion, e pas mesquè la traducion, dins un’autra lenga, o lo
francés o l’italian. Per far un autre exemple, plus recent, cito un grand
trabalh de lexicografia comà quel de Jusiana Ubaud, adont tota l’introduccion e
la descripcion de l’òbra es en francés. Perquè un’obra sus la lenga occitana
deu èsser ilustraa en se servent d’un’autra lenga? Cèstos diccionaris rintran
dins la categoriá dals vocabolaris “dialectals”; meseime los pauqui vocabolaris
fait aicí dins las Valadas, normalment de l’occitan local a l’italian, rintran
dins aicèsta categoriá. Los catalans non pas, nos mostran, abó sos
Diccionaris, que se pòion justament redigir de diccionaris completament en
lenga sença la sugecion d’un autra lenga, comà totas las autras lengas
nacionalas. Per aiquò, en cèst espaci, en cèsta rubrica, chercharem de
esclarzir l’origina de certenas paraulas, beleu pas gaire conoissuás, de nòstre
vocabolari. Ritrovando io, che alcuno avanti me abbia della VOLGARE
ELOQUENZA niuna cosa trattato, e vedendo questa cotal eloquenza esesere
veramente necessaria a tutti, conciò sia che ad essa non solamente gl’italianai,
ma ancora le femine, et i piccoli fanciulli, in quanto la natura permette, sisforzino
pervenire. Volendo al quanto lucidare la discrezione di coloro, i quali come
ciechi passeggiano per le piazze, e pensano spesse volte, le cose posteriori
essere anteriori. Con l’aiuto che Dio ci manda dal cielo, ci sforzeremo di dar
giovamento al parlare della gente italiana volgare. Nè solamente l'acqua del
nostro ingegno a si fatta bevanda piglie ma remo, ma ancora
pigliando, ovvero compilando le cose migliori da gl’altri, quelle con le nostre
mescoleremo, acciò che d'indi possiamo dar bere uno dolcissimo idromele. Ora
perciò che ciascuna dottrina semantica deve non provare, aprire il suo
suggetto, acciò si sappia che co sa sia quella, ne la quale essa dimora,dico,
che 'l parlar volgare chiamo quello del VOLGO, nel quale i fanciulli sono
assuefatti da gl’assistenti, quan do primieramente cominciano a distinguere le
voci, o vero, come più brevemente sipuò dire, il Volgar Parlare affermo essere
quello, il quale senza altra regola, imitando la balia, s'apprende da nostro
padre e da nostra madre (‘lingua matrix’).
Ecci ancora un altro secondo parlare il quale I ROMANI chiamano
“letteratura” (greco: grammatica). E questo secondario hanno parimente i greci e
altri, ma non tutti – i anglo-sassoni mancano delle lettere ma hanno delle rune
-- perciò che pochi a l'abito di esso pervengono. Conciò sia che, se non per
spazio di tempo e assiduità di studio, si ponno prendere le regole, e la
dottrina di lui. Di questi dui parlari adunque l’italiano volgare è più nobile
dell’antico romano, si perchè è il primo ch’è da l'umana generazione italiana usato,
si eziandio perchè in esso tut to'l mondo ragiona, avegna che in diversi
vocaboli e diverse prolazioni sia diviso. Si ancora per essere NATURALE a noi,
gl’italiani, essendo quel l'altro – come
la lingua del VIRGILIO – ‘artificiale’. E di questo più nobile è la nostra
intenzione di trattare. Il testo latino dei romani ha: ipsa (locutione) per fruitur.
Ossia: di esso si serve. Nn dico nostro, perchè altro parlar ci sia che
quello dell'uomo. Perciò che fra tutte le cose che sono, solamente all’italiano
è dato il parlare italiano, sendo a lui necessario solo. Certo non a gl’angeli,
non a gli animali inferiori è necessario parlare. Adunque sarebbe stato dato in
vano a costoro -- non avendo bisogno di esso. E la natura certamente abborrisce
di fare cosa alcuna invano. Se volemo poi sottilmente considerare la intenzione
griceiana del parlar nostro, ni un'al trace ne troveremo che il manifestare ad
altri i concetti dell’ANIMA nostra. Avendo adunque gl’angeli prontissima, e ineffabile
sufficienzia d'intelletto da chiarire i loro gloriosi concetti, per la qual
sufficienzia d'intelletto l'uno è totalmente noto all'altro, o per sè, o almeno
per quel fulgentissimo specchio, nel quale tutti sono rappresentati bellissimi,
e in cui avidis simi sispecchiano; pertanto pare, che diniuno SEGNO di parlare
abbiano avuto mestieri. Ma chi oppone a questo, allegando quei spiriti, che
cascarono dal cielo; a tale opposizione doppiamente si può rispondere. Prima,
che quando noi trattiamo di quelle cose, che sono che l'uomo italiano –
“homo sapiens sapiens” -- solo ha il COMERCIO del parlare. Qeesto, l’italiano, è
il nostro vero, naturale, e primo parlare: Qa bene essere, devemo essi lasciar
da parte, conciò sia che questi perversi non vollero aspettare la divina cura.
Seconda risposta,e meglio è, che questi demoni a manifestare fra sè la loro
perfidia, non hanno bisogno di conoscere, se non qualche cosa di ciascuno,
perchè è, e quanto è 1: il che certamente sanno; perciò che si conobbero l'un
l'altro avanti la ruina loro. A gl’animali inferiori poi non è bisogno
provvedere di parlare. Conciò sia che, per solo istinto di natura, siano
guidati. E poi tutti quelli animali che sono di una medesima specie hanno le
medesime azioni e le medesime passioni. Per le quali loro proprietà possono le
altrui conoscere. Ma a quelli che sono di diverse specie non solamente non è
necessario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato, non essendo
alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi è opposto che il serpente che parla
a la prima femina, e l'asina di Balaam parla, a questo rispondo, che l'angelo
ne l'asina, e il diavolo nel serpente hanno talmente operato, che essi animali
mossero gl’organi loro; e così d'indi la voce risultò distinta, come vero
parlare; non che quello de l'asina fosse altro che ragghiare e quello del
serpente altro che fischiare. Il testo ha: non indigent,
nisi ut sciant qui libet de quolibet, quia est, et quantus est. Parrebbe
più proprio il tradurre cosi. Non hanno bisogno di CONOSCERE se non ciascheduno
di ciaschedun altro che è, e quanto è: ossia l'esistenza e il grado. Se
alcuno poi argumentasse da quello, che quel ingenoso romano, OVIDIO, dice nel V
de la Metamorfosi che il pico parla; dico che OVIDIO dice ‘parla’ FIGURATAMENTE,
intendendo altro. Ma se si dice che il pico presente o altro uccello come il papagallo del principe Maurizio ‘parla’,
dico ch'egli è FALSO. Tale atto non è parlare, ma è certa imitazione del suono
de la nostra voce italiana; o vero che si sforzano di imitare noi in quanto
soniamo, ma non in quanto parliamo. Tal che se quello che alcuno espressamente
dice, ancora il pico ridice, questo non è se non rappresentazione, o vero
imitazione del suono di quello, che prima avesse detto. E così appare a l'uomo
italiano solo essere stato dato il parlare l’italiano. Ma per qual cagione esso
gli è necessario, ci sforzeremo brievemente trattare. Che fu necessario a
l'uomo il comercio Ovendosi adunque l'uomo non per istinto di natura,ma per
ragione. Ed essa ragione o circa la separazione, o circa il giudidizio, o circa
la elezione diversificandosi in ciascuno. Tal che quasi ogni uno della sua
propria. La voce del testo “discrezione” sarebbe resa meglio dalla parola “discernimento”
-- del parlare -- specie s'allegra. Giudichiamo che niuno intenda l'altro per
le sue proprie azioni, o passioni, come fanno le bestie; nè anche per speculazione
l'uno può intrar ne l'altro, come l’archangelo Gabriele, sendo per la grossezza,
e opacità del corpo mortale la umana specie da ciò ritenuta. È adunque bisogno che
volendo la generazione umana fra sè COMUNICARE i suoi concetti ha qualche SEGNO
sensuale e razionale per ciò che dovendo prendere una cosa dalla ragione e ne
la ragione portarla, bisognava essere razionale ma non potendosi alcuna cosa di
una ragione in un'altra portare se non per il mezzo del SENSUALE è bisogno
essere sensuale, perciò che se 'l è solamente razionale, non puo trapassare. Se
solo sensuale, non potrebbe prendere da la ragione, nè ne la ragione de porre.
E questo è SEGNO che il subietto, di che parliamo, è nobile. Perciò che in
quanto è suono, el segno è per natura una cosa sensuale. In quanto che, secondo
la volontà di ciascuno, IL SEGNO significa qualche cosa, il segno è, come dice
Grice, razionale. Ilt esto ha. Hoc equidem SEGNO est, ipsum subjectum nobile, dequo
loquimur. Natura sensuale quidem, in quantum sonus est. Esse; RATIONALE VERO IN
QVANTVM ALIQVID SIGNIFICARE VIDETVR AD PLACITVM. A noi pare più giusto l'interpretare
questo passo cosi. Questo SEGNO -- l'aliquod rationale signum et sensuale, di
cui parla poche righe più sopra) è per l'appunto il nobile soggetto di cui
parliamo. Sensuale, per natura, in quanto è suono fisico – la fissi greca la
natura romana. Razionale, inquantoche, se che uomo (zoon logikon) è
prima dato il parlare, e che disse prima, et in che lingua. l'uomo italiano
solo è dato il parlare l’italiano. Ora istimo che appresso debbiamo
investigare, a che uomo è prima dato il parlare, e che cosa prima dice, e a chi
l’umo parla, e dove e quando, et eziandio in che linguaggio il primo suo
parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la prima parte del Genesis, ove la
sacratissima scrittura tratta del principio del mondo, si truova la femina,
prima che niun altro, aver parlato, cio è la presontuosissima Eva, la quale al
diavolo, che la ricercava, dice. Dio ci ha commesso, che non mangiamo del
frutto del legno che è nel mezzo del paradiso, e che non lo tocchiamo, acciò
che per avventura non moriamo. Ma a vegna che in scritto si trovi la donna aver
primieramente parlato, non di meno è ragionevol cosa che crediamo, che l'UOMO è
quello che prima parla. Nè cosa inconveniente mi pare secondo la volontà di
ciascuno, significa qualche cosa. Contro la quale interpretazione stala
punteggiatura, e la voce esse del testo, che sarebbe di troppo; ma, per
compenso, il brano riesce più chiaro, e si collega meglio col senso di tutto il
Capitolo. Manifesto è per le cose già dette, che a pensare, che così eccellente
azione de la il generazione umana prima da L’UOMO, che da la femina
procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso essere stato dato
primieramente il parlare da Dio, subito che l’ha formato. – cf. La teoria
stoica sull’origine naturale del linguaggio e la prima significazione naturale
-- Che voce poi è quella che parla prima, a ciascuno di sana mente può esser in
pronto; e io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o vero per
modo d'interrogazione, o per modo di risposta.Assurda cosa veramente pare,e da
la ragione aliena, che da l'uomo è nominata cosa alcuna prima che Dio; con ciò
sia che da esso, et in esso è fatto l'uomo. E siccome, dopo la prevaricazione dell’umana
generazione, ciascuno esordio di parlare comincia da heu; così è ragionevol
cosa, che quello che è davanti, cominciasse da allegrezza, e conciò sia che
niun gaudio sia fuori di Dio, ma tutto in Dio, & esso Dio tutto sia allegrezza,
conseguente cosa è che 'l primo parlante dicesse primieramente Dio. Quindi
nasce questo dubbio,che avendo di sopra detto, l'uomo aver prima per via di
risposta parlato, se risposta è, devette esser a Dio; e se a Dio, parrebbe, che
Dio prima avesse parlato, il che parrehbe contra quello che avemo detto di
sopra. Al qual dubbio risponderemo, che ben può l'uomo aver risposto a Dio, che
lo interrogava, nè per questo Dio aver parlato di quella LOQUELA DEL LAZIO (la
latina), che dicemo. Qual è colui, che dubiti, che tutte le cose che sono non
si pieghino secondo il voler di Dio, da cuièfatta, governata, e conservata
ciascuna cosa? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per
comandamento della natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di
Dio,di maniera che fa risuonare i tuoni, ful gurare il fuoco, gemere l'acqua, e
sparge le nevi, e slancia la grandine; non si moverà egli per comandamento di
Dio a far risonare al cune parole le quali siano distinte da colui, che maggior
cosa distinse?e perchè no? Laon de et a questa, et ad alcune altre cose credia
mo tale risposta bastare. Dove, et a cui prima l'uomo parla. ta così dalle cose
superiori, come da le inferiori, che il primo uomo drizzasse il suo primo
parlare primieramente a Dio, dico, che ragionevolmente esso primo parlante parla
subito, che è da la virtù animante ispirato: per ciò che ne l'uomo crediamo, che
molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire, pur che egli sia
sentito, e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, PROMETEO, di ogni
perfezione principio et amatore, inspirando il primo uomo con ogni perfezione
compi, ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale non prima
cominciasse a sentire, che 'l fosse sentito. Se alcuno poi dice contra l’obiezioni, iudicando
adunque (non senza ragione trat che non è bisogno che l'uomo parla,
essendo egli solo; e che Dio ogni nostro segreto senza parlare, ed
anco prima di noi discerne; ora (con quella riverenzia, la quale devemo
usare ogni volta, che qualche cosa de l'eterna volontà giudichiamo), dico,che
avegna che Dio sa, anzi antivedesse (che è una medesima cosa quanto a Dio) il
concetto del primo parlante senza parlare, non di meno volse che esso parla;
acciò che ne la esplicazione di tanto dono, colui, che graziosamente glielo
avea do nato, se ne gloriasse. E perciò devemo credere che da Dio proceda, che
ordinato l'atto dei nostri affetti, ce ne allegriamo. Quinci possiamo ritrovare
il loco, nel quale è mandata fuori la prima FAVELLA; perciò che se è animato
l'uomo fuori del paradiso, diremo che fuori. Se dentro, diremo che dentro è il
loco del suo primo parlare. Ra perchè i negozj umani si hanno ad esercitare per
molte e diverse lingue, tal che molti per le parole non intesi da molti, che
se fussero senza esse. Però fia buono investigare di quel parlare, del quale si
crede aver usato l'uomo, che nacque senza sono altrimente Di che idioma prima
l'uomo parla, e donde è l'autore di quest'opera. madre, e senza latte si
nutri, e che nè pupillare età vide, nè adulta. In questa cosa, sì come in altre
molte, Pietra mala è amplissima città, e patria de la maggior parte dei
figliuoli di Adamo. Però qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione,
che creda, che il loco della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi
sotto il sole, a costui parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare,
cioè la sua materna locuzione, a tutti gli altri; e conseguentemente credere
essa essere stata quella di Adamo. Ma noi, acui il mondo è patria, sì come
a'pesci il mare, quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'ARNO avanti che avessimo
denti, e che amiamo tanto FIRENZE, che pe averla amata patiamo ingiusto
esiglio, non dimeno le spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso
appoggiamo. E benchè se condo il piacer nostro, o vero secondo la quiete de la
nostra sensualità, non sia in terra loco più ameno di FIRENZE; pure rivolgendo
i vo lumi de'poeti e de gli altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente
e particularmente si descrive, e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del
mondo, e le abitudini loro tra l'uno e l'altropolo, e'lcircolo equatore, fermamente
comprendo, e credo, molte regioni e città essere più nobili e deliziose che TOSCANA
e FIRENZE, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e molte genti
usare più dilette vole, e più utile SERMONE, che gl’italiani. Ritornando
adunque al proposto, dico che una certa forma di parlare è creata da Dio
insieme con l'anima prima, e dico forma, quanto ai vocaboli delle cose, e
quanto a la construzione de’ vocaboli, e quanto al proferir de le construzioni;
la quale forma veramente ogni parlante lingua userebbe, se per colpa de la
prosunzione umana non è stata dissipata. Di questa forma di parlare parla Adamo,
e tutti i suoi posteri fino a la edificazione de la torre di Babel, la quale si
interpreta la torre de la confusione. Questa forma di locuzione hanno ereditato
i figliuoli di Eber, i quali da lui furono detti ebrei; a cui soli dopo la
confusione rimane, acciò che il nostro Redentore, il quale dove nascere di loro,
usasse, secondo l’umanità, della lingua della grazia, e non di quella de la
confusione degl’ebrei. È adunque l’ebreo idioma quello, che è fabbricato dalle
labbra del primo parlante confuso. ' Il testo ha: qui ex illis oriturus erat
secundum humanitatem, non lingua confusionis, sed gratiæ frueretur. E deve
tradursi: il quale dove vanascere di loro secondo l'umanità, usasse della
lingua della grazia – o di GRICE --, e non di quella della confusione. Hi
come gravemente mi vergogno di rin e per. A en ta generazione umana. Ma
perciò che non possia mo lasciar di passare per essa, se ben la faccia diventa
rossa, e l'animo la fugge, non starò di narrarla. Oh nostra natura sempre prona
ai peccati, oh da principio, e che mai non finisce, piena di nequizia; non era
stato assai per la tua corruttela, che per lo primo fallo fosti cacciata, e
stesti in bando de la p a tria de le delizie? non era assai, che per la
universale lussuria, e crudeltà della tua fami glia, tutto quello che era di
te, fuor che una casa sola, fusse dal diluvio sommerso, il male, che tu avevi
commesso, gli animali del cielo e de la terra fusseno già stati puniti? Certo
assai sarebbe stato; ma come prover bialmente si suol dire, Non andrai a
cavallo anzi terza; e tu misera volesti miseramente andare a cavallo. Ecco,lettore,
che l'uomo, o vero scordato,o vero non curando de le prime battiture, e
rivolgendo gli occhi da le sferze, che erano rimase, venne la terza volta a le
botte, per la sciocca sua e superba prosunzio ne. Presunse adunque nel suo
cuore lo incu rabile uomo, sotto persuasione di gigante, di superare con
l'arte sua non solamente la na tura,ma ancoraessonaturante,ilqualeèDio; e
cominciò ad edificare una torre in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè
confusione, per la quale sperava di ascendere al cielo,avendo intenzione, lo
sciocco,non solamente di aggua gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore.Oh cle menzia
senza misura del celeste imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal
figliuolo? Ora innalzandosi non con inimica sferza, ma con paterna, et a
battiture assueta, il ribel lante figliuolo con pietosa e memorabile corre
zione castigò. Era quasi tutta la generazione umana a questa opera iniqua
concorsa; parte comandava, parte erano architetti,parte face vano muri,parte
impiombavano, parte tiravano le corde ", parte cavavano sassi, parte per
ter ra,partepermareliconducevano.E cosìdi verse parti in diverse altre opere
s’affatica vano, quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi, che
dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera, diversificandosi in
molte loquele, da essa cessavano, nè mai a quel medesimo comercio convenivano;
et a quelli soli, che in una cosa convenivano una Witte osserva che in luogo di
pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro neamente la
volgata nel testo latino, si deve leggere: pars amussibus tegulabant, pars
trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre: parte arrotavano sulle
pietre i mattoni,parte con le mestole intonacavano. istessa loquela
attualmente rimase, come a tutti gli architetti una, a tutti i conduttori di
sassi una,a tuttiipreparatori di quegli una, e così avvenne di tutti gli
operanti; tal che di quanti varj esercizj erano in quell'opera, di tanti varj
linguaggi fu la generazione umana disgiunta. E quanto era più eccellente l'arti
ficio di ciascuno, tanto era più grosso e barbaro il loro parlare. Quelli poscia,
a li quali il sacrato idioma rimase, nè erano presenti nè lodavano lo esercizio
loro; anzi gravemente biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli
operanti.Ma questi furono una minima parte di quelli quanto al numero; e furono,
sì come io comprendo, del seme di Sem, il quale fu il terzo figliuolo di Noè,
da cui nacque il popolo di Israel, il quale usò de la antiquissima locu zione
fino a la sua dispersione. e specialmente in Europa. Er la detta precedente
confusione di lingue non leggieramente giudichiamo, che allora primieramente gl’uomini
furono sparsi per tutti iclimi del mondo e per tutte le regioni e angoli di
esso. E conciò sia che la sottodivisione del parlare per il mondo, principal
radice dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata, e d'indi da
l'u no e l'altro lato per palmiti variamente diffusi, è la propagazione nostra
distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta, là onde primieramente le
gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de i fiumi di tutta Europa. Ma
ofussero forestieri questi, cheallorapri mieramente vennero, o pur nati prima
in E u ropa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre idiomi seco; e
parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa, parte la
settentrionale, et i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci, parte de
l’Asia e parte de la Europa occuparono. Poscia da uno istesso idio
ma,dalaimmonda confusione ricevuto, nac quero diversi volgari, come di sotto
dimostre remo; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o
vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini
d'Inghilterra, ITALIA e Gallia, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo
idioma: avegna che poi per Schiavoni, Ungari, Tedeschi, Sassoni, Inglesi e
altre molte nazioni fosse in diversi volgari derivato; rimanendo questo solo
per segno, che avessero un medesimo prin cipio, che quasi tutti i predetti
volendo affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo
idioma,cioè da iconfini de gl’ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel
tratto occupò. Quel tratto poi, che da questi in qua si chiama Europa, e
più oltra si stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta, tenne un terzo
idioma 1, avegna che al presente tri partito si veggia; perciò che volendo
affermare, altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spa gnuoli, Francesi et
Italiani. Il segno adunque che i tre volgari di costoro procedessero da uno
istesso idioma, è in pronto;perciò che molte cose chiamano per i medesimi
vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama,& altri
molti.Di questi adunque de la meridionale Europa, quelli che proferiscono oc
tengono la parte occidentale, che comincia da i confini de’ GENOVESI; quelli
poi che dicono sì, tengono da i predetti confini la parte orientale, cioè fino
a quel promontorio d'ITALIA, dal quale comincia il seno del mare Adriatico e la
Sicilia. Ma quelli che affermano con oil,quasi sono settentrionali a rispetto
di questi; perciò che da l'oriente e dal settentrione hanno gli Ale manni, dal
ponente sono serrati dal mare in 1 Il testo ha: A b isto incipiens idiomate,
videlicet a finibus Ungarorum versus orientem aliud occupa vittotum quod ab inde
vocatur Europa, nec non ul terius est protractum. Totum autem, quod in Europa
restat ab istis, tertium tenuit idioma. E deve essere tradotto cosi: A
cominciare da questo idioma, cioè dai confini degli Ungari verso oriente, un
altro idioma occupò l'intero tratto che da quei confini in là si chiama Europa,
e che si protrae anche più oltre. Tutto il tratto poi della rimanente Europa
tenne un terzo idioma. glese, e dai monti di Aragona terminati, dal mezzo di
poi sono chiusi da' Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi ora è
bisogno porre a pericolo 1 la Il verbo periclitari del testo latino qui vale
mettere alla prova, cimentare. ragione, che avemo, volendo ricercare di
quelle cose ne le quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de
la variazione, che intervenne al parlare, che da principio era il medesimo. Ma
conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada, però so lamente
per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte, conciò sia
che quello che ne l'uno è ragionevole, pare che eziandio abbia ad esser causa
ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto di sopra) in
tre parti diviso, perciò che alcuni dicono oc, altri si, e altri oil. E che
questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che primieramente
provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come gli
eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col tempo
il medesimo parlare si muta, e de la invenzione de la grammatica. A la
quale convenienzia repugna a la confusione, che fu per il delitto ne la
edificazione di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste lingue in molte
cose convengono, e massimamente in questo vocabolo, Amor. Gerardo di Berneil, Surisentis fez
les aimes Puer encuser Amor. Il re di Navara, De'finamor
sivientsenebenté. M. Guido Guinizelli, Nè fè amor, prima che gentil core, Nè
cor gentil,prima che amor,natura. Investighiamo adunque, perchè egli in tre
parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di queste variazioni in sè
stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha diverso par lare da quello de
la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani, e altramente i Pisani: e
investighiamo perchè quelli,che abitano più vi cini,siano differenti nel
parlare,come è iMila nesi e Veronesi, ROMANI e Fiorentini;e ancora perchè siano
differenti quelli,che si convengono sotto un istesso nome di gente,come Napole
tani e Gaetani, Ravegnani e Faentini; e quel che è più maraviglioso, cerchiamo
perchè non si convengono in parlare quelli che in una medesima città dimorano,
come sono i Bolognesi del borgo di san Felice, e i Bolognesi della strada
maggiore.Tutte queste differenze adunque,e varietàdi sermone,che avvengono, con
una istessa ragione saranno manifeste. Dico adunque, che niuno effetto avanza
la sua ca gione, in quanto effetto, perchè niuna cosa può fare ciò che ella non
è. Essendo adunque ogni nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme
con l'uomo creata) a nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la
quale niente altro fu che una oblivione de la loquela prima, et essendo l'uomo
instabilissimo e va riabilissimo animale, la nostra locuzione ne durabile nè
continua può essere; ma come le altre cose che sono nostre (come sono costumi
et abiti), simutano; cosìquesta, secondo ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è
bisogno di va riarsi.Però non è da dubitare che nel modo che avemo
detto,cioè,che con ladistanziadeltempo il parlare non si varii, anzi è
fermamente da tenere; perciò che se noi vogliamo sottilmente investigare le
altre opere nostre,le troveremo molto più differenti da gli antiquissimi nostri
cittadini, che da gli altri de la nostra età, q u a n tunquecisianomoltolontani1.
Il perchè audacemente affermo, che se gli antiquissimi Pavesi ora
risuscitassero,parlerebbero di diverso parlare di quello, che ora parlano in
Pavia; nè altrimente questo, ch'io dico, ci paja maraviglioso, che I qualicisianomolto
lontani (magis....quam a coetaneis perlonginquis). ciparrebbe a
vedere un giovane cresciuto,il quale non avessimo veduto crescere.Perciò che le
cose, che a poco a poco si movono, il moto loro è da noi poco conosciuto;e
quanto la va riazione de la cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto
essa cosa è da noi più stabile esistimata.Adunque non ci ammiriamo,se i
discorsi di quegli uomini,che sono poco da le bestie differenti, pensano che
una istessa città abbia sempre il medesimo parlare usato, conciò sia che la
variazione del parlare di essa città non senza lunghissima successione di tempo
a poco a poco sia divenuta, e sia la vita de gli uomini di sua natura
brevissima. Se adunque il sermone ne la istessa gente (come è detto)
successivamente col tempo si varia, nè può per alcun modo firmarse, è
necessario che il par lare di coloro, che lontani e separati dimorano, sia
variamente variato; sì come sono ancora variamente variati i costumi et abiti
loro, i quali nè da natura,nè da consorzio umano sono firmati, ma a
beneplacito, e secondo la conve nienzia de i luoghi nasciuti. Quinci si mossero
gl'inventori de l'arte grammatica; la quale grammatica non è altro che una
inalterabile conformità di parlare in diversi tempi e luo ghi. Questa essendo
di comun consenso di molte genti regulata, non par suggetta al singulare
arbitrio di niuno, e consequentemente non può essere variabile.Questa adunque
trovarono,ac ciò che per la variazion del parlare, il quale De la varietà
del parlare in Italia da la destra e sinistra parte de l'Appennino. Ra uscendo
in tre parti diviso (come di, per singulare arbitrio si move,non ci fossero o
in tutto tolte, o imperfettamente date le a u torità, et i fatti de gli antichi,
e di coloro da i quali la diversità dei luoghi ci fa esser divisi. sopra è
detto) il nostro parlare nella comparazione di se stesso, secondo che egli è
tri partito, con tanta timidità lo andiamo ponde rando, che nè questa parte, nè
quella, nè quell'altra abbiamo ardimento di preporre, se non in quello sic, che
i grammatici si trovano aver preso per avverbio di affirmare: la qual cosa
pare, che dia qualche più di autorità a gli Italiani, i quali dicono
si.Veramente ciascuna di queste tre parti con largo testimonio si d i fende. La
lingua di oil allega per sè, che, per lo suo più facile e più dilette vole Volgare,
tutto quello che è stato tradotto, o vero ritrovato in prosa volgare,è suo; cioè
la Bibbia,ifatti de i Trojani e dei ROMANI, le bellissime favole del re Artù, e
molte altre istorie e dottrine 1. ma: 0 · Il Fraticelli avverte, a ragione, che
qui bisognava tradurre non: la Bibbia,ifatti de' Trojani... i libri che
contengono i fatti de' Trojani. L'altra poi argomenta per sè, cioè la
lingua di oc; e dice che i volgari eloquenti scrissero i primi poemi in essa,
sì come in lingua più perfetta e più dolce; come fu Piero di Alver nia et altri
molti antiqui dottori.La terza poi, che è de gli Italiani, afferma per dui
privilegj esser superiore; il primo è, che quelli, che più dolcemente e più
sottilmente hanno scritti poe mi, sono stati i suoi domestici e famigliari,
cioè Cino da Pistoja, e lo amico suo; il secondo è, che pare, che più
s'accostino a la grammatica, la quale è comune.E questo, a coloro, che vogliono
con ragione considerare, par g r a vissimo argomento. Ma noi lasciando da parte
il giudicio di questo, e rivolgendo il trattato nostro al VOLGARE ITALIANO, ci
sforzeremo di dire le variazioni ricevute in esso, e quelle fra sè compareremo.
Dicemo adunque laItalia essere primamente in due parti divisa,cioè ne la de
stra e ne la sinistra; e se alcuno dimandasse qual è la linea che questa
diparte,brievemente rispondoessere il giogo del'Appennino; il quale, come un
colmo di fistula, di qua e di là a diver se gronde piove,e l'acque di qua e di
là per lunghi embricia diversi liti distillan, come Lucano nel secondo descrive;
et il destro lato ha il mar Tirreno per grondatoio, il sinistro v'ha lo
Adriatico. Del destro lato poi sono regioni la Puglia,ma non tutta, Roma, il Ducato
1, + Ducato di Spoleto, Toscana, la Marca di Genova. Del sinistro so no
parte de la Puglia, la Marca d’Ancona, la Romagna, la Lombardia, la Marca
Trivigiana, con Venezia. Il Friuli veramente, e l'Istria non possono essere se
non de la parte sinistra d'Italia; e le isole del mar Tirreno, cioè Sicilia e
Sardigna,non sono se non de la destra, o veramente sono da essere a la destra
parte d'Italia accompagnate.In ciascuno adun que di questi dui lati d'Italia,
et in quelle parti che si accompagnano ad essi, le lingue de gli uomini sono
varie; cioè la lingua de i S i ciliani co iPugliesi, e quella de i Pugliesi coi
ROMANI,e dei ROMANI coi Spoletani,edi que sticoiToscani,edeiToscani
coiGenovesi,e de i Genovesi co i Sardi. E similmente quella de i Calavresi con
gli Anconitani, e di costoro coiRomagnuoli,e dei Romagnuoli coi Lombardi, edeiLombardi
coi Trivigiani e Veneziani, e di questi co i Friulani, e di essi con
gl'Istriani; ne la qual cosa dico, che nessuno de gl’Italiani dissentirà da
noi. Onde L’ITALIA sola appare in X I V Volgari esser variata: cia scuno dei
quali ancora in sè stesso si varia: come in Toscana i Senesi e gli Aretini, in
L o m bardia i Ferraresi e i Piacentini; e parimente in una istessa città
troviamo essere qualche variazione di parlare,come nel Capitolo di so pra
abbiamo detto. Il perchè se vorremo cal culare le prime, le seconde, e le
sottoseconde variazioni del Volgare d'Italia,avverrà che in Si dimostra,
che alcuni in Italia hanno brutto et inornato parlare. Ssendo IL VOLGARE
ITALIANO per molte varietà dissonante, investighiamo la più bella et illustre
loquela d'Italia; et acciò che a la nostra investigazione possiamo avere un
picciolo calle, gettiamo prima fuori de la selva gli a r
boriattraversati,elespine. Sicome adunque i Romani si stimano di dover essere a
tutti preposti, così in questa eradicazione, o vero estirpazione, non
immeritamente a gli altri li preporremo; protestando essi in niuna ragione de
la Volgare Eloquenza esser da toccare. Di cemo adunque il Volgare de'Romani,o
per dir meglio il suo tristo parlare, essere il più brutto di tutti i Volgari
Italiani; e non è maraviglia, sendo ne i costumi e ne le deformità de gli abiti
loro sopra tutti puzzolenti. Essi dicono: M e sure, quinte dici 1. Dopo questi
caviamo quelli de la Marca d’Ancona, i quali dicono Chigna mente sciate siate
2; con i quali mandiamo via questo minimo cantone del mondo si verrà,non
solamente a mille variazioni di loquela, m a ancora a molte più. I Sorella mia,
che cosa dici? Qualmente siate state, i Spoletani. E non è da preterire, che in
vitu perio di queste tre genti sono state molte can zoni composte, tra le quali
ne vidi una drit tamente e perfettamente legata, la quale un certo fiorentino,
nominato il Castra, avea com posto; e cominciava, Una ferina va scopai da Cascoli Cita cita sen
gia grande aina Dopo questi i Milanesi, et i Bergamaschi,& i loro vicini
gettiam via; in vituperio de i quali mi ricordo alcuno aver cantato, Ciò fu del
mes d'ochiover. Dopo questi crivelliamo
gli Aquilejensi, e gli I striani, i quali con crudeli accenti dicono Ces fastù;
e con questi mandiam via tutte lem o n tanine e villanesche loquele, le quali
di brut tezza di accenti sono sempre dissonanti da i cittadini, che stanno in
mezzo le città, come i Casentinesi, et i Pratesi. I Sardi ancora, i quali non
sono d'Italia,ma a la Italiaaccom pagnati, gettiam via: perchè questi soli ci p
a jono essere senza proprio Volgare, et imitano la grammatica,come fanno le
simie gli uomini; perchè dicono, Domus nova,e Dominus meus. Una ferina vosco
poi da Cascoli In te l'ora del
vespero, Il Fontanini propone di leggere: Zita zita sen gia a grande aina. Zita
vale gita; e aina val fretta. Ancor che l'aigua per lo foco lassi. Amor, che longamente m'hai menato. Ma questa
fama de la terra di Sicilia, se dirit tamente risguardiamo, appare, che
solamente per opprobrio de'principi Italiani sia rimasa; i quali non con modo
eroico,ma con plebeo seguono la superbia. Ma quelli illustri eroi Federico
Cesare et il ben nato suo figliuolo Manfredi, dimostrando la nobiltà e
drittezza de la sua forma,mentre che la fortuna gli fu fa vorevole,seguirono le
cose umane,e le bestiali sdegnarono. Il perchè coloro,cheeranodialto De lo
Idioma Siciliano e Pugliese. Ei crivellati (per modo di dire) Volgari d'Italia,
facendo comparazione tra quelli che nel crivello sono rimasi, brievemente sce
gliamo il più onorevole di essi. E primiera mente esaminiamo lo ingegno circa
il Siciliano, perciò che pare che il Volgare Siciliano abbia assunto la fama
sopra gli altri; conciò sia che tutti i poemi, che fanno gl'Italiani, si chia
mino Siciliani,e conciò sia che troviamo molti dottori di costà aver gravemente
cantato,come in quelle canzoni, Et, Se questo poi non vogliamo
pigliare, ma quello che esce de la bocca de i principali Si ciliani, come ne le
preallegate canzoni si può vedere, non è in nulla differente da quello,che è
laudabilissimo, come di sotto dimostreremo. |Traduzione letterale di altripices,
chesignifica in gannatori., cuore e di grazie dotati,si sforzavano di ade rirsi
alla maestà di sì gran principi; talchè in quel tempo tutto quello, che gli
eccellenti Italiani componevano, ne la Corte di sì gran re primamente usciva. E
perchè il loro seggio regale era in Sicilia, è avvenuto,che tutto quello che i
nostri precessori composero in Volgare, si chiama Siciliano; il che ritenemo
ancora noi; et i posteri nostri non lo potranno mutare. Racha, Racha.Che suona
ora la tromba de l'ultimo Federico? che ilsonaglio del secondo Carlo? che i
corni di Giovanni e di Azzo m a r chesi potenti?cheletibiedeglialtrimagnati? se
non, Venite, carnefici; Venite, altripici 1; Venite, settatori di avarizia.M a
meglio è tor nare al proposito, che parlare indarno. Or dicemo,che se vogliamo
pigliare il Volgar Siciliano,cioè quello che vien da imediocri pae sani, da la
bocca de i quali è da cavare il giu dizio, appare, che il non sia degno di
essere preposto a gli altri;perciò che 'l non si profe risce senza qualche
tempo, come è in Traggemi d'este focora
se t'este a bolontate. I Pugliesi poi, o vero per la acerbità loro, o vero per
la propinquità dei suoi vicini, che sono Romaneschi e Marchigiani, fanno brutti
barbarismi. E'dicono, Per fino amore
vo'si lietamente. Il perchè a quelli,
che noteranno ciò che si è detto di sopra, dee essere manifesto, che nè il
Siciliano, nè il Pugliese è quel Volgare che in Italia è bellissimo; conciò sia
che abbiamo m o strato, che gli eloquenti nativi di quel paese sieno da esso partiti.
De lo Idioma de i Toscani e dei
Genovesi. per la loro pazzia insensati, pare che a r rogantemente
s'attribuiscano il titolo del Volgare Illustre; et in questo non solamente
la Volzera che chiangesse lo
quatraro.Ma quantunque comunemente ipaesani pugliesi parlino bruttamente,
alcuni però eccellenti tra loro hanno politamente parlato, e posto ne le loro
canzoni vocaboli molto cortigiani, come manifestamente appare a chi iloro
scritti con sidera,come è, Madonna, dir vi voglio.E, opinione dei plebei
impazzisce, m a ritruovo molti uomini famosi averla avuta: come fu Guittone
d’Arezzo, il quale non si diede mai al Volgare Cortigiano; Bonagiunta da Lucca,
Gallo pisano, Mino Mocato senese,eBrunetto fioren tino, i detti dei quali, se
si avrà tempo di esaminarli,noncortigiani,ma proprjdeleloro cittadi essere si
ritroveranno. Ma conciò sia che i Toscani siano più de gli altri in questa
ebrietà furibondi, ci pare cosa utile e degna torre in qualche cosa la pompa a
ciascuno de i Volgari delle città di Toscana.I Fiorentini par. lano, e
dicono, Non facciamo altro. I Pisani,
Bene andonno li fanti de Fioranza per Pisa. I Lucchesi, Fo voto a Dio,che ingassara eie lo comuno de
Luca. I Senesi, Vo'tu venire ovelle? Di
Perugia, Orbieto, Viterbo e Città Castel lana, per la vicinità che hanno con
Romani e Spoletani, non intendo dir nulla.Ma come che quasi tutti i Toscani
siano nel loro brutto par Onche rinegata avessi io Siena. Gli Aretini, Manuchiamo introcque. lare ottusi,non
di meno ho veduto alcuni aver conosciuto la eccellenzia del Volgare,cioè Guido,
Lapo et un altro, fiorentini, e Cino Pistojese, il quale al presente
indegnamente posponemo, non indegnamente costretti.Adunque se esami neremo le
loquele toscane, e considereremo, come gli uomini molto onorati si siano da
esse loro proprie partiti, non resta in dubbio che il Volgare, che noi
cerchiamo, sia altro che quello che hanno ipopoli di Toscana. Se alcu no poi
pensasse che quello, che noi affermiamo de i Toscani,non sia da affirmare de
iGenovesi, questo solo costui consideri, che se i Genovesi per dimenticanza
perdessero il z lettera, biso gnerebbe loro, o ver essere totalmente muti, o
ver trovare una nuova locuzione; perciò che il z è la maggior parte del loro
parlare; la qual lettera non si può se non con molta aspe rità proferire. nino, et investighiamo tutta la sinistra parte
d'Italia, cominciando, come far solemo, a levante. Intrando adunque ne la
Romagna, dicemo che in Italia abbiamo ritrovati dui Vol gari, l'uno a l'altro
con certi convenevoli con De loIdioma di Romagna, edialcuni
Transpadani,especialmentedelVeneto. P Assiamo ora le frondute spalle de l'Appen
trarj opposto !, de li quali uno tanto femenile ci pare per la mollizia dei
vocaboli e de la p r o nuncia, che un uomo (ancora che virilmente parli) è
tenuto femina. Questo Volgare hanno tutti i Romagnuoli, e specialmente i
Forlivesi, la città de i quali, avegna che novissima sia, non di meno pare
esser posta nel mezzo di tutta la provincia. Questi affermando dicono Deusci, e
facendo carezze sogliono dire oclo meo,e co rada mea.Bene abbiamo inteso,che
alcuni di costoro ne i poemi loro si sono partiti dal suo proprio
parlare,cioèTomaso et Ugolino Buc ciola faentini.L'altro de idue parlari,che
ave mo detto, è talmente di vocaboli et accenti ir suto et ispido, che per la
sua rozza asperità non solamente disconza una donna che parli, ma ancora fa
dubitare, s'ella è uomo. Questo tale hanno tutti quelli che dicono magara, cioè
Bressani, Veronesi, Vicentini, et anco i P a doani, i quali in tutti i
participj in tus,e de nominativi in tas, fanno brutta sincope, come è merco, e
bonté. Con questi ponemo eziandio i Trivigiani, i quali al modo de i Bressani,
e de i suoi vicini proferiscono lo v consonante per f, removendo l'ultima
sillaba, come è nof per nove, vi f per vivo; il che veramente è barbarissimo, e
riproviamlo. I Veneziani ancora non saranno degni de l'onore de l'investigato
Il testo latino ha: duo. vulgaria, quibusdam convenientiis contrariis
alternata. tra i quali abbiamo veduto uno, che si è sfor zato partire dal
suo materno parlare, e ridursi al volgare cortigiano, e questo fu Brandino
padoano. Laonde tutti quelli del presente Ca pitolo comparendo alla sentenzia, determiniamo,
che nè il Romagnuolo nè ilsuo contrario,come si è detto, nè il Veneziano sia
quello Illustre Volgare che cerchiamo. CA Fa gran discussione del parlare nolognese.
quello che della italica selva ci resta. D i cemo adunque,che forse non hanno
avuta mala opinione coloro, che affermano che i Bolognesi con molto bella
loquela ragionano; conciò sia che da gli Imolesi,Ferraresi eModenesi qualche
cosa al loro proprio parlare aggiungano; chè tutti, sì come avemo mostrato,
pigliano dai loro vicini, come Sordello dimostra de la sua Mantova, che con
Cremona, Bressa e Verona confina. Il qual uomo fu tanto in eloquenzia, che non
solamente ne i poemi, m a in ciascun modo che parlasse, il Volgare de la sua
patria abbandond.Pigliano ancora iprefati cittadini Volgare; e se alcun di
loro, spinto da errore, in questo vaneggiasse, ricordisi se mai disse, Per le plage de Dio tu non verás ; Ra ci
sforzeremo, per espedirci,a cercare la leggerezza e la mollizia da
gl'Imolesi, e da i Ferraresi e Modenesi una certa loquacità, la qual è propria
de i Lombardi. Questa, per la mescolanza de i Longobardi forestieri, crediamo
essere rimasa ne gli uomini di quei paesi; e questa è la ragione, per la quale
non ritro viamo che niuno, nè Ferrarese, nè Modenese, nè Reggiano,sia stato
poeta;perciò che assue fatti a la propria loquacità, non possono per alcun
modo,senza qualche acerbità, al Volgare Cortigiano venire. Il che molto
maggiormente de i Parmigiani è da pensare; i quali dicono inonto per molto. Se
adunque i Bolognesi da l'una e da l'altra parte pigliano, come è detto,
ragionevole cosa ci pare che il loro parlare, per la mescolanza de gli oppositi,
rimanya di laudabile suavità temperato: il che per giudi zio nostro senza
dubbio esser crediamo.Vero è che se quelli, che prepongono il Volgare S e r
mone de iBolognesi,nel compararli essi hanno considerazione solamente a i
Volgari de le città d'Italia, volentieri ci concordiamo con loro. M a se
stimano simplicemente il Volgare Bolognese essere da preferire, siamo da essi
differenti e discordi; perciò che egli non è quello che noi
chiamiamoCortigiano& Illustre;ches'elfosse quello,ilmassimo Guido
Guinizelli,Guido Ghis liero, Fabrizio, & Onesto,& altripoetinon sariano
mai partiti da esso; perciò che furono dottori illustri, e di piena
intelligenzia ne le cose volgari. Più non attendo il tuo soccorso, Amore. Le quali parole sono in tutto diverse da le
pro prie bolognesi. Ora perchè noi non crediamo che alcuno dubiti di quelle
città che sono poste ne le estremità d'Italia; e se alcuno pur dubita, non lo
stimiamo degno de la nostra soluzione; però poco ci resta ne la discussione da
dire. Laonde disiando di deporre il crivello, accid che tosto veggiamo quello
che in esso è rimaso, dico che Trento, e Turino,& Alessandria sono città
tanto propinque a i termini d'Italia, che non ponno avere pura loquela; tal che
se così come hanno bruttissimo Volgare,così l'avessono bellissimo, ancora
negherei esso essere vera mente Italiano, per la mescolanza che ha de gli
altri.E però se cerchiamo il Parlare Italiano Illustre, quello che cerchiamo
non si può in esse città ritrovare. Il massimo Guido, Fabrizio, Madonna, ilfermocore. Lo mio lontano gire. Onesto
e pascoli d'Italia, e non avemo quella
pantera, che cerchiamo, trovato; per potere essa meglio trovare, con più
ragione investi ghiamola; acciò che quella, che in ogni loco si sente, et in
ogni parte appare?, con sollecito studio ne le nostre reti totalmente
inviluppia mo. Ripigliando adunque inostri istrumenti da cacciaredicemo, cheinognigenerazionedi
cose è di bisogno che una ve ne sia,con la quale tutte le cose di quel medesimo
genere si abbiano a comparare e ponderare, e quindi la misura di tutte le altre
pigliare.Come nel numero tutte le cose si hanno a misurare con la unità;e di
consi più e meno, secondo che da essa unità sono più lontane, o più ad essa
propinque. E cosi ne i colori tutti si hanno a misurare col bianco; e diconsi
più e meno visibili, secondo che a lui più vicini, e da lui più distanti si
sono.E sicome diquestichemostrano quan tità e qualità diciamo, parimente di
ciascuno I L'edizione del Corbinelli ha: redolentem ubique, etnec apparentem. Witte
propone di leggere: nec usquam apparentem. De lo eccellente Parlar
Volgare, il quale è comune a tutti gli Italiani. A poi che avemo cercato per
tutti i salti D de i predicamenti e de la sustancia pensiamo potersi dire;
cioè che ogni cosa si può misu rare in quel genere con quella cosa, che è in
esso genere simplicissima. Laonde ne le nostre azioni, in quantunque specie sidividano,sibi
sogna ritrovare questo segno,col quale esse si abbiano a misurare; perciò che
in quello che facciamo come simplicemente uomini, avemo la virtù,la quale
generalmente intendemo?; perciò che secondo essa giudichiamo l'uomo buono e
cattivo;in quello poi che facciamo, come uomini cittadini,avemo la
legge,secondo la quale si dice buono e cattivo cittadino;così in quello, che
come uomini italiani facciamo, avemo le cose simplicissime. Adunque se le
azioni italiane si hanno a misurare e ponde rare con i costumi, e con gli
abiti, e col parlare,quelle de leazioni italiane sono simplicissi me, che non
sono proprie di niuna città d'Italia, ma sono comuni in tutte 2; tra le quali
ora si 2 Il testo latino ha: inquantum uthominesLatini agimus,quædam habemus
simplicissima signa,idest morum,et habituum, et locutionis, quibus LATINO actiones
ponderantur et mensurantur. Quce quidem nobilissimasuntearum,quæ LATINORVM
sunt,actio num, hæc nulliuscivitatisItaliæ propria sunt,sed in omnibus communia
sunt: inter que nunc potest di scerni Vulgare. Il Fraticelli raddrizzò la
traduzione del Trissino a questo modo: in quello che, come uomini Il testo latino ha: virtutem habemus, ut
genera literillas (actiones) intelligamus.Edevetradursi:ab biamo per intenderle
(leazioni) generalmente,lavirtù. può discernere il Volgare,che di
sopra cerca vamo, essere quello,che in ciascuna città ap pare, e che in niuna
riposa 1. Può ben più in una,che in un'altra apparere,come fa la sim plicissima
de le sustanzie, che è Dio, il quale più appare ne l'uomo che ne le bestie, e
che ne le piante, e più in queste che ne le miniere, et in esse più che ne gli
elementi,e più nel foco, che ne laterra.E lasimplicissima quantità,che è
uno,più appare nel numero dispari che nel italiani facciamo, abbiamo certi
segni semplicissimi, cioè de'costumi, degli abiti e del parlare, coi quali le
azioni italiane si hanno a misurare e ponderare.Adun que quelle delle azioni
italiane sono nobilissime, che non sono proprie di niuna città d'Italia, ma
sono co muni in tutte: tra le quali ora si può discernere il Volgare. Il
Trissino, in luogo di nobilissime, ha semplicissime;eforselasua
lezioneèlavera.Levoci nobilissima, hæc,propria,communiaedinterquo non possono
riferirsi ad actiones, ma a signa: cosicchè si dovrebbe tradurre segni nobilissimi.
M a il dir segni nobilissimi è, certo, poco conforme al concetto generale del
Capitolo, nel quale l'autore non parla che di semplicis simi segni: e quindi la
traduzione più propria parrebbe dovesse essere la seguente: ora, quelli, che
sono segni semplicissimi delle azioni degli Italiani, quelli non sonpropri di
nessuna città,ma comuni a tutte:trai quali....;epiùbrevemente: iqualisegnidelleazioni
degli Italiani non son propri di nessuna città. 4 Vulgare.... quod in
qualibet civitate apparet, nec cubat in ulla. Il Manzoni, citando questo passo
nella lettera al Bonghi, da noi ristampata, traduce più esatta mente: il
Volgare, che in ogni città dà sentore di sè, e non si annida in nessuna.
pari; et il simplicissimo colore,che è ilbianco, più appare nel citrino
che nel verde. Adunque ritrovato quello che cercavamo, dicemo, che il Volgare
Illustre, Cardinale, Aulico e Corti giano in Italia è quello, il quale è di
tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna, col quale il Volgare di
tutte le città d'Italia si hanno a misurare, ponderare e comparare. Perchè
questo Parlare si chiami Illustre. Erchè adunque a questo ritrovato Parlare
aggiungendo Illustre,Cardinale, Aulico e Cortigiano, cosi lo chiamiamo, al
presente di remo; per il che più chiaramente faremo parere quello, che esso è.
Primamente adunque d i m o striamo quello che intendiamo di fare, quando vi
aggiungiamo Illustre, e perchè Illustre il dimandiamo.Per questonoiildicemo
Illustre, che illuminante et illuminato risplende. Et a questo modo nominiamo
gli uomini illustri, o vero perchè illuminati di potenzia sogliono con
giustizia e carità gli altri illuminare, o vero perchè eccellentemente
ammaestrati, eccellen temente ammaestrano, come fe'Seneca e Numa Pompilio; et il
Volgare di cui parliamo, il quale innalzato di magisterio e di potenzia,
innalza i suoi di onore e di gloria. E ch'el sia da magisterio innalzato, si vede,
essendo egli O n senza ragione esso Volgare Illustre o r
niamodisecondagiunta, cioèche Cardinale il chiamiamo, perciò che si come tutto
l'uscio seguita il cardine, talchè dove il cardine si volta, ancor esso (o
entro, o fuori che 'l si pie Perchè questo Parlare si chiami Cardinale,
di tanti rozzi vocaboli italiani, di tante per plesseconstruzioni,ditante
difettivepronunzie, di tanti contadineschi accenti, cosi egregio, così
districato, così perfetto e così civile ri dotto, come Cino da Pistoja e
l'amico suo ne le loro canzoni dimostrano. Che 'l sia poi esaltato di potenzia,
appare: e qual cosa è di maggior potenzia che quella, che può i cuori de gli u
o mini voltare, in modo che faccia colui che non vole, volere;e colui che vole,
non volere, come ha fatto questo, e fa? Che egli poscia innalzi di onore chi lo
possiede, è in pronto: non sogliono i domestici suoi vincere di fama
ire,imarchesi,iconti,etuttiglialtrigrandi? certo questo non ha bisogno di
pruova.Quanto egli faccia poi i suoi famigliari gloriosi, noi stessi l'abbiamo
conosciuto, i quali per la dol cezza di questa gloria ponemo dopo le spalle il
nostro esilio. Adunque meritamente dovemo esso chiamare Illustre. NA Aulico, e
Cortigiano. Il testo latino ha: Est etiam merito curiale dicen dum, quia
curialitas nil aliud est, etc. Il Fraticelli os serva in questo proposito
quanto segue: La Curia è il foro, illuogo o vesitrattanogliaffaripubblici;ma
es ghi)si volge; cosi tutta la moltitudine de i Volgari de le città si
volge e rivolge, si move e cessa,secondo che fa questo.Il quale veramente
appare esser padre di famiglia; non cava egli ogni giorno gli spinosi arboscelli
della italica selva? non pianta egli ogni giorno semente o inserisce piante?
che fanno altro gli agricoli di lei se non che lievano, e pongono, come si è
detto? Il perchè merita certamente essere di tanto vocabolo ornato. Perchè poi
ilnominiamo Aulico, questa è la cagione: perciò che se noi Italiani avessimo
Aula,questi sarebbe palatino. Se la Aula poi è comune casa di tutto il regno, e
sacra gubernatrice di tutte le parti di esso; convenevole cosa è che ciò che si
truova esser tale,che sia comune a tutti,e proprio di niuno; in essa conversi
et abiti; nè alcuna altra abi tazione è degna di tanto abitatore.Questo ve
ramente ci pare esser quel Volgare, del quale noi parliamo; e quinci avviene,
che quelli che conversano in tutte le Corti regali, parlano sempre con Volgare
Illustre. E quinci ancora è intervenuto che il nostro Volgare, come fore stiero
va peregrinando, et albergando ne gli umili asili, non avendo noi
Aula.Meritamente ancora sidee chiamare Cortigiano,perciò che la cortigiania
niente altro è,che una pesatura de le cose che si hanno a fare; e
conciò sia che la statera di questa pesatura solamente ne le ec cellentissime
Corti esser soglia, quinci avviene, che tutto quello, che ne le azioni nostre è
ben pesato, si chiama cortigiano. Laonde essendo questo ne la eccellentissima
Corte d'Italia p e sato,merita esser detto Cortigiano.Ma a dire che 'l sia ne
la eccellentissima Corte d'Italia pesato, pare fabuloso, essendo noi privi di
Corte; a la qual cosa facilmente si risponde. Perciò che avegna che la Corte
(secondo che ụnica si piglia, come quella del re di Alema gna) in Italia non
sia,le membra sue però non cimancano;ecome lemembra diquelladaun principe si
uniscono,cosi le membra di questa dal grazioso lume de la ragione sono unite; e
però sarebbe falso a dire, noi Italiani mancar di Corte quantunque manchiamo di
principe; perciò che avemo Corte, avegna che la sia cor poralmente dispersa,
sendo dal Trissino tradotto la Corte, viene a prodursi confusione, perchè Corte
è sinonimo di Aula o Reggia, Per l'esattezza del significato converrà rendere
la voce curialitas per curialità: e cosi in appresso per cui curiale le voci curia
e curialis., e Che i Volgari Italici in uno si riducono, Uesto
Volgare adunque,che essere Illustre, Q Cardinale,Aulico e Cortigiano avemo dimo
strato,dicemo esser quello,che si chiama Vol gare Italiano; perciò che sì come
si può tro vare un Volgare che è proprio di Cremona, così se ne può trovar uno
che è proprio di Lombardia, et un altro che è proprio di tutta la sinistra
parte d'Italia; e come tutti questi si ponno trovare, così parimente si può
trovare quello, che è di tutta Italia. E sì come quello si chiama cremonese e
quell'altro lombardo,e quell'altro di mezza Italia, così questo che è di tutta
Italia si chiama Volgare Italiano. Que sto veramente hanno usato gl’illustri
dottori che in Italia hanno fatto poemi in Lingua Vol gare; cioè i Siciliani, i
Pugliesi, i Toscani, i Romagnuoli,iLombardi,e quelli delaMarca Trevigiana e de
la Marca d’Ancona. E conciò sia che la nostra intenzione (come avemo nel
principio dell'opera promesso) sia d'insegnare la dottrina de la Eloquenzia
Volgare; però da esso Volgare Italiano,come da eccellentissimo, cominciando,
tratteremo nei seguenti libri, chi e quello si chiama
Italiano. siano quelli, che pensiamo degni di usare esso, e perchè, e a
che modo, e dove, e quando, et a chi sia esso da dirizzare. Le quali cose chia
rite che siano, avremo cura di chiarire i Vol gari inferiori, di parte in parte
scendendo sino a quello che è d'una famiglia sola. e quali no. del nostro
ingegno,e ritornando al calamo de la utile opera,sopra ogni cosa confessiamo,
che 'l sta bene ad usarsi il Volgare Italiano Illustre così ne la prosa, come
nel verso. M a perciò che quelli che scrivono in prosa,pigliano esso Volgare
Illustre specialmente da i trovatori; e però quello che è stato trovato, rimane
un fermo esempio a le prose,ma non al contrario; per ciò che alcune cose pajono
dare principalità Corbinelli e, dietro lui, tutti gli altri hanno poli
citantes, che non ha senso ol'hamoltooscuro;ma forse si deve leggere
sollicitantes. Quali sono quelli che denno usare il Volgare Illustre, P.
Romettendo 1 un'altra volta la diligenzia La voce inventum qui significa
poetato. al verso; adunque secondo che esso è metrico,
versifichiamolo 1, trattandolo con quell'ordine, che nel fine del primo Libro
avemo promesso. Cerchiamo adunque primamente, se tutti quelli che fanno versi
volgari, lo denno usare, o no. Vero è, che cosi superficialmente appare di sì;
perciò che ciascuno che fa versi,dee ornare i suoi versi in quanto 'l può.
Laonde non sendo niuno di sì grande ornamento, com'è il Volgare Illustre, pare
che ciascun versificatore lo debbia usare. Oltre di questo, se quello, che in
suo genere è ottimo, si mescola con lo inferiore, pare che non solamente non
gli tolga nulla, ma che lo faccia migliore.E però se alcun versificatore,
ancora che faccia rozza mente versi,lo mescolerà con la sua rozzezza, non
solamente a lei farà bene, ma appare che così le sia bisogno di fare; perciò
che molto è più bisogno di ajuto a quelli che ponno poco, che a quelli che
ponno assai;e così appare che a tutti i versificatori sia licito di usarlo. M a
questo è falsissimo; perciò che ancora gli eccellentissimi poeti non se ne
denno sempre vestire,come per le cose di sotto trattate si po trà
comprendere.Adunque questo Illustre Volgare ricerca uomini simili a sé,sì come
ancora fanno gli altri nostri costumi et abiti: la m a gnificenzia grande
ricerca uomini potenti, la · Il testo latino ha ipsum carminemus, che non vale
versifichiamolo, ma pettiniamolo, rimondiamolo. porpora uomini nobili;
così ancor questo vuole uomini di ingegno e di scienze eccellenti; e gli altri
dispregia, come per le cose, che poi si diranno, sarà manifesto.Tutto quello
adunque, che a noi si conviene, o per il genere, o per la sua specie, o per lo
individuo ci si convie ne; come è sentire, ridere, armeggiare; m a questo a noi
non si conviene per il genere; perchè sarebbe convenevole anco a le bestie; ne
per la specie; perchè a tutti gli uomini saria convenevole: di che non c'è
alcun dubbio; chè niun dice,che'lsiconvenga aimontanari.Ma gli ottimi concetti
non possono essere, se non dove è scienzia,& ingegno; adunque la ottima
loquela non si conviene a chi tratti di cose grossolane; conviene sì per
l'individuo; m a nulla a l'individuo conviene se non per le pro prie dignità;
come è mercantare, armeggiare, reggere.E però, selecoseconvenienti risguar dano
le dignità, cioè i degni; et alcuni possono essere degni, altri più degni, et altri
degnissi mi;è manifesto,che le cose buone a i degni,le migliori a i più degni,
le ottime a i degnissimi si convengono. E conciò sia che la loquela non
altrimenti sia necessario istromento a i nostri concetti, di quello che si sia
il cavallo al sol dato; e convenendosi gli ottimi cavalli a gli ottimi soldati,
a gli ottimi concetti (come è detto) la ottima loquela si converrà. Ma gli
ottimi concetti non ponno essere,se non dove è scien zia,& ingegno;adunque
laottimaloquelanon si convien se non a quelli, che hanno scienzia, et ingegno;
e così non à tutti i versificatori si convien ottima loquela, e
consequentemente nè l'ottimo Volgare; conciò sia che molti senza scienzia,e
senza ingegno facciano versi.E però, se a tutti non conviene, tutti non denno
usa re esso; perciò che niuno dee far quello, che non si gli conviene.E dove
dice,che ogni uno dee ornare i suoi versi quanto può, affermiamo esser vero; m
a nè il bove efippito !, nè il porco balteato chiameremo ornato,anzi fatto brutto,
e di loro ci rideremo; perciò che l'ornamento non è altro, che uno aggiungere
qualche con venevole cosa a la cosa che si orna. A quello ove si dice, che la
cosa superiore con la infe riore mescolata adduce perfezione, dico esser
vero,quando laseparazionenonrimane;come è, se l'oro fonderemo insieme con
l'argento; ma se la separazione rimane,la cosa inferiore si fa più vile; come è
mescolare belle donne con brutte. Laonde conciò sia che la senten zia de i
versificatori sempre rimanga separata mente mescolata con le parole, se la non
sarà ottima, ad ottimo Volgare accompagnata, non migliore,ma peggiore
apparerà,a guisa di una brutta donna, che sia di seta o d'oro vestita.
Ephipiatum vale insellato, e balteatum vale cin turato. In qual materia
stia bene usare Apoichè avemo dimostrato, che non tutti il Volgare
Illustre. D tissimi denno usare il Volgare Illustre, conse i versificatori, m a
solamente gli eccellen quente cosa è dimostrare poi, se tutte le m a terie sono
da essere trattate in esso, o no; e se non sono tutte, veder separatamente
quali sono degne di esso. Circa la qual cosa prima è da trovare quello che noi
intendiamo,quando dicemo degna essere quella cosa, che ha di gnità, si come è
nobile quello che ha nobiltà; e così conosciuto lo abituante, si conosce lo
abituato, in quanto abituato di questo; però conosciuta la dignità, conosceremo
ancora il degno. È adunque la dignità un effetto, o vero termino de i
meriti;perciò che quando uno ha meritato bene, dicemo essere pervenuto a la
dignità del bene; e quando ha meritato male, a quella del male; cioè quello che
ha ben c o m battuto, è pervenuto a la dignità de la vittoria, e quello che ha
ben governato, a quella del regno; e così il bugiardo a la dignità de la
vergogna, et il ladrone a quella de la morte. Ma conciò sia che in quelli, che
meritano bene, si facciano comparazioni, e cosi ne gli altri, perchè alcuni
meritano bene,altri meglio, altri ottimamente, et alcuni meritano
male, altri peggio,altripessimamente;e conciò ancora sia, che tali comparazioni
non si facciano, se non avendo rispetto al termine de imeriti, il qual termine
(come è detto) si dimanda dignità, manifesta cosa è,che parimente le dignità
hanno comparazione tra sè,secondoilpiù& ilmeno; cioè che alcune sono grandi,
altre maggiori, altre grandissime; e consequentemente alcuna cosa è degna,
altra più degna, altra degnis sima; e conciò sia che la comparazione de le
dignità non si faccia circa il medesimo objetto, ma circa diversi, perchè
dicemo più degno quello che è degno di una cosa più grande, e degnissimo quello
che è degno d'una altra cosa grandissima; perciò che niuno può essere di una
stessa cosa più degno; manifesto è che le cose ottime (secondo che porta il dovere)
sono de le ottime degne.Laonde essendo questo Volgare (che dicemo Illustre)
ottimo sopra tutti gli altri volgari,consequente cosa è,che solamente le ottime
materie siano degne di essere trat tateinesso;ma qualisisianopoiquellema
terie,che chiamiamo degnissime,è buono al presente investigarle. Per chiarezza
de le quali cose è da sapere, che si come ne l'uomo sono tre anime, cioè la
vegetabile, la animale e la razionale, cosi esso per tre sentieri cammina;
perciò che secondo che ha l'anima vegetabile, cerca,quello che è utile, in che
partecipa con le piante; secondo che ha l'animale, cerca, quello,
che è dilettevole, in che partecipa con le bestie; e secondo che ha la
razionale, cer ca l'onesto, in che è solo, o vero a la natura angelica
s'accompagna; tal che tutto quel che facciamo, par che si faccia per queste tre
cose. E perchè in ciascuna di esse tre sono alcune cose, che sono più grandi,
et altre grandissi me; per la qual ragione quelle cose, che sono grandissime,
sono da essere grandissimamente trattate, e consequentemente col grandissimo
Volgare; ma è da disputare quali si siano que ste cose grandissime. E
primamente in quello, che è utile; nel quale, se accortamente consi deriamo la
intenzione di tutti quelli, che cer cano la utilità, niuna altra troveremo, che
la salute. Secondariamente in quello, che è dilet tevole; nel quale dicemo
quello essere massi mamente dilettevole, che per il preciosissimo objetto de
l'appetito diletta; e questi sono i piaceridiVenere.Nel terzo,cheèl'onesto,
niun dubita essere la virtù. Il perchè appare queste tre cose,cioè la
salute,ipiaceridi Ve nere, e la virtù essere quelle tre grandissime materie,
che si denno grandissimamente trat tare, cioè quelle cose, che a queste
grandissime sono; come è la gagliardezza de l'armi, l'ar denzia de l'amore, e
la regola de la volontà. Circa le quali tre cose sole (se ben risguar diamo)
troveremo gli uomini illustri aver vol garmente cantato; cioè Beltramo di
Bornio le armi; Arnaldo Danielo lo amore; Gerardo de Bornello la
rettitudine; Cino da Pistoia lo a m o re; lo amico suo la rettitudine. Beltramo
adunque dice, Non puesc mudar q'un
chantar non esparja. Arnaldo, Laura amara fa 'ls broils blancutz clarzir.
Gerardo, Non trovo poi, che niun Italiano abbia fin qui cantato de l'armi.
Vedute adunque queste cose (che avemo detto), sarà manifesto quello, che sia
nel Volgare Altissimo da cantare. In qual modo di rime si debba usare Raci
sforzeremo sollicitamente d'investi 0 gareilmodo,colqualedebbiamo stringere
quelle materie, che sono degne di tanto Volgare.Volendo adunque dare ilmodo,
col quale Per solatz revelhar Que s'es trop endormitz. Degno son io,che
mora. Doglia mi reca nelo cuore ardire. il Volgare Altissimo. Cino, Lo amico
suo, queste degne materie si debbiano legare; primo dicemo doversi a la
memoria ridurre,che quelli, che hanno scritto Poemi volgari,hanno essi per
molti modi mandati fuori; cioè alcuni per Canzoni, altri per Ballate, altri per
Sonetti, altri per alcuni altri illegittimi et irregolari modi, Come di sotto
simostrerà. Di questi modi adun que il modo de le Canzoni essere eccellentissi
m o giudichiamo; là onde se lo eccellentissimo è delo eccellentissimo degno,
come di sopra è provato,le materie che sono degne de lo eccel lentissimo
Volgare, sono parimente degne de lo eccellentissimo modo,e consequentemente
sono da trattare ne le Canzoni;e che 'l modo de le Canzoni poi sia tale, come
si è detto, si può per molte ragioni investigare. E prima,essendo Canzone tutto
quello che si scrive in versi, et essendo a le Canzoni sole tal vocabolo attri
buito, certo non senza antiqua prerogativa è processo. Appresso, quello che per
sè stesso adempie tutto quello per che egli è fatto, pare esser più nobile, che
quello che ha bisogno di cose che sieno fuori di sè; m a le Canzoni fanno per
sè stesse tutto quello che denno; il che le Ballate non fanno, perciò che hanno
bisogno di sonatori,aliqualisonofatte;adunque séguita, che le Canzoni siano da
essere stimate più n o bili de le Ballate, e consequentemente il modo loro
essere sopra gli altri nobilissimo, conciò sia che niun dubiti, che il modo de
le Ballate non sia più nobile di quello de i Sonetti. A ppresso pare, che
quelle cose siano più nobili, che arrecano più onore a quelli che le hanno
fatte; e le Canzoni arrecano più onore a quelli che le hanno fatte, che non
fanno le Ballate; adunque sono di esse più nobili, e consequen temente il modo
loro è nobilissimo. Oltre di questo, le cose che sono nobilissime, molto ca
ramente si conservano; m a tra le cose cantate, le Canzoni sono molto caramente
conservate, come appare a coloro che vedeno ilibri; adun que le Canzoni sono nobilissime,
e consequen temente ilmodo loro è nobilissimo.Appresso, ne le cose artificiali
quello è nobilissimo che comprende tutta l'arte; essendo adunque le cose,che si
cantano, artificiali, e ne le Canzoni sole comprendendosi tutta l'arte, le
Canzoni sono nobilissime,ecosìilmodo loroènobi lissimo sopra gli altri.Che
tutta l'arte poi sia ne le Canzoni compresa, in questo simanifesta, che tutto
quello che si truova de l'arte, è in esse,ma non si converte 1. Questo segno
adun que di ciò che dicemo, è nel cospetto di ogni uno pronto; perciò che tutto
quello che da la cima de le teste de gli illustri poeti è disceso a le loro
labbra,solamente ne le Canzoni si ri truova. E però al proposito è manifesto,
che quelle cose che sono degne di Altissimo Volgare, si denno trattare ne le
Canzoni. Sed non convertitur. Più chiaro di non si converte sarebbe però non e
converso,ovvero non al contrario. De la varietà de lo stile secondo la qualità
de la poesia. L'adpotiavimus del LATINO nonvaleavemo approvato, ma abbiamo dato
a bere. Fraticelli propone che si tra duca per traslato: abbiamo dato un
saggio. A poi che avemo districando approvato 1 co, e che materie siano
degne di esso, e parimente il modo, il quale facemo degno di tanto onore, che
solo a lo Altissimo Volgare si con venga; prima che noi andiamo ad altro, di
chiariamo il modo delle ca nzoni, le quali pajono da molti più tosto per caso
che per arte usur parsi. E manifestiamo il magisterio di quel l'arte, il quale
fin qui è stato casualmente preso, lasciando da parte il modo deleBallate e de
i Sonetti; per ciò che esso intendemo dilu cidare nel quarto Libro di
quest'opera nostra, quando del Volgare Mediocre tratteremo. R i veggendo
adunque le cose che avemo detto, ci ricordiamo avere spesse volte quelli, che
fanno versi volgari, per poeti nominati; il che senza dubbio ragionevolmente
avemo avuto ardimento di dire; per ciò che sono certamente poeti, se
drittamente la poesia consideriamo; la quale non è altro che una finzione
rettorica, e po sta in musica.Non di meno sono differenti da i, grandi poeti, cioè
da i regulati; per ciò che quelli 1 hanno usato sermone et arte regulata, e
questi (come si è detto) hanno ogni cosa a caso; il perchè avviene, che quanto
più stret tamente imitiamo quelli 2,tanto più drittamente componiamo; e però
noi, che volemo porre ne le opere nostre qualche dottrina, ci bisogna le loro
poetiche dottrine imitare. Adunque s o pra ogni cosa dicemo, che ciascuno
debbia pi gliare il peso de la materia eguale a le proprie spalle, a ciò che la
virtù di esse dal troppo peso gravata, non lo sforzi a cadere nel fango. Questo
è quello, che il maestro nostro ORAZIO comanda,quando nel principio dela sua
Poe tica dice, Voi, che scrivete versi,
abbiate cura Di tor subjetto al valor vostro eguale. Dapoinelecose,che
cioccorrono + Il testo latino ha isti:quindi non quelli,ma questi; e per
conseguenza nella riga seguente non questi, ma quelli. Sarebbe più chiaro dire
i primi in luogo di quelli. devemo usare divisione, considerando da
cantarsi con modo tragico,o comico, o ele giaco. Per la Tragedia prendemo lo
stile s u periore,per la Commedia lo inferiore, per l'E dei miseri. Se le cose
che ci oc legia quello cantate col correno, pare che siano da essere modo
tragico, allora è da pigliare il Volgare Illustre, e conseguentemente da legare
la Can a dire, se sono 1 Il testo latino ha: tensis fidibus adsumat
secure plectrum; che deve essere tradotto: tese le corde, a s suma francamente
ilplettro. zone; m a se sono da cantarsi con cómico, si piglia alcuna
volta ilVolgare Mediocre, ed al cuna volta l'Umile; la divisione de i quali nel
quarto di quest'opera ci riserviamo a mostra re. Se poi con elegiaco, bisogna
che solamente pigliamo l'Umile.M a lasciamo gli altri da parte, et ora (come è
il dovere) trattiamo de lo stile tragico. Appare certamente, che noi usiamo lo
stile tragico, quando e la gravità de le sen tenzie, e la superbia de i versi,
e la elevazione de le construzioni,e la eccellenzia de ivocaboli si concordano
insieme. M a perchè (se ben ci ricordiamo) già è provato, che le cose somme
sono degne de le somme, e questo stile che chiamiamo tragico, par e essere il
sommo dei stili; però quelle cose che avemo già distinte doversi sommamente
cantare, sono da essere in questo solo stile cantate; cioè la salute, lo amore
e la virtù, e quelle altre cose, che per cagion di esse sono ne la mente nostra
conce pute, pur che per niun accidente non siano fatte vili. Guardişi adunque
ciascuno, e di scerna quello che dicemo; e quando vuole que ste tre cose
puramente cantare, o vero quelle che ad esse tre dirittamente e puramente se
gueno, prima bevendo nel fonte di Elicona, ponga sicuramente a l'accordata lira
il sommo plettro 1,e costumatamente cominci.Ma a fare questa
Canzone e questa divisione come si dee, qui è la difficultà, qui è la fatica;
per ciò che mai senza acume d'ingegno, nè senza assiduità d'arte, nè senza
abito di scienze non si potrà fare. E questi sono quelli che 'l Poeta nel VI de
la Eneide chiama diletti da Dio, e da la ar dente virtù alzati al cielo, e
figliuoli de gli Dei, avegna che figuratamente parli. E pero si confessa la
sciocchezza di coloro, i quali senza arte,e senza scienzia,confidandosi
solamente del loro ingegno, si pongono a cantar som mamente le cose
somme.Adunque cessino que sti tali da tanta loro presunzione; e se per la loro
naturale desidia sono oche, non vogliano l'aquila,che altamente vola, imitare sentenzie
a bastanza, o almeno tutto quello che a l'opera nostra si richiede; il perchè
ci affretteremo di andare a la superbia dei versi. Circa i quali è da sapere,
che i nostri pre cessori hanno ne le loro Canzoni usato varie sorti di versi,
il che fanno parimente imoder ni; m a in fin qui niuno verso ritroviamo, che
abbia oltre la undecima sillaba trapassato, nè sotto la terza disceso. Et avegna
che i Poeti, De la composizione deiversi e de la loro varietà sillabica. Noi
pare di aver detto de la gravità de le A Italiani abbiano usate
tutte le sorti di versi, che sono da tre sillabe fino a undici, non di meno il
verso di cinque sillabe, e quello di sette, e quello di undeci sono in uso più
fre quente; e dopo loro si usa il trisillabo più de gli altri; de gli quali
tutti quello di undeci sillabe pare essere il superiore sì di occupa zione di
tempo, come di capacità di sentenzie, di construzioni e di vocaboli; la
bellezza de le quali cose tutte si moltiplica in esso, come manifestamente
appare, per ciò che ovunque sono moltiplicate le cose che pesano, si molti
plica parimente il peso.E questo pare che tutti i dottori abbiano conosciuto,
avendo le loro illustri Canzoni principiate da esso; come Bornello, Ara auzirez
encabalitz cantars. Il qual verso avegna che paja di dieci silla be,è
però,secondo la verità de la cosa, di undeci; per ciò che le due ultime
consonanti non sono de la sillaba precedente.Et avegna che non abbiano propria
vocale, non perdono però la virtù dela sillaba; & ilsegnoè,che ivi la rima
si fornisce con una vocale; il che essere non può se non per virtù de l'altra
che ivi si sottintende. Il re di Navara, De finamor sivient sen e bonté. Ove se
si considera l'accento e la sua cagione, apparirà essere endecasillabo. Amor,che
longiamente m'hai menato. Per finamore vo silietamente. Amor, che muovi tua
virtù dal cielo. Al cor gentil ripara sempre amore. 11 Giudice di Colonna da
Messina, Guinicelli, Rinaldo d'Aquino, Non spero che giammai per mia salute. Et
avegna che questo verso endecasillalo (co me sièdetto) siasopratuttiperildoverece
leberrimo, non di meno se'l piglierà una cer ta compagnia de lo eptasillabo,
pur che esso però tenga il principato, più chiaramente e più altamente parerà
insuperbirsi, ma questo si rimanga più oltra a dilucidarsi. Così diciamo che
l’eptasillabo segue a presso quello che è massimo ne la celebrità. Dopo questo
quello che chiamiamo pentasillabo,e poi il trisillabo ordiniamo.Ma quel di nove
sillabe, per essere il trisillabo triplicato, o vero mai non fu in onore, o
vero per il fastidio è uscito di uso. Quelli poi di sillabe pari, per la sua
rozzezza non usiamo se non rare volte; per ciò che ri tengono la natura de i
loro numeri,i quali s e m Cino da Pistoja, Lo amico suo: Erchè circa il
Volgare Illustre la nostra nobilissimo; però avendo scelte le cose che sono
degne di cantarsi in esso, le quali sono quelle tre nobilissime che di sopra
avemo pro vate; et avendo ad esse eletto il modo de le Canzoni, si come
superiore a tutti gli altri modi, et a ciò che esso modo di Canzoni pos siamo
più perfettamente insegnare, avendo già alcune cose preparate, cioèlostile,&
iversi; ora de la construzione diremo. È adunque da sapere, che noi chiamiamo
construzione una regulata composizione di parole, come è, Ari stotile diè opera
a la filosofia nel tempo di Alessandro. Qui sono diece parole poste regu
latamente insieme, e fanno una construzione. pre soggiaceno a i numeri
caffi, sì come fa la materia a la forma. E cosi raccogliendo le cose dette,
appare lo endecasillabo essere su perbissimo verso; e questo è quello che noi
cercavamo. Ora ci resta di investigare de le construzioni elevate e de i
vocaboli alti, e fi nalmente, preparate le legne e le funi, inse gneremo a che
modo il predetto fascio, cioè la Canzone, si debba legare. De le construzioni,
che si denno usare ne le Canzoni. P si M a circa questa prima è da
considerare, che de le construzioni altra è congrua, et altra è incongrua.E
perchè(seilprincipiodelano stra divisione bene ciricordiamo)noi cerchiamo
solamente le cose supreme, la incongrua in questa nostra investigazione non ha
loco; per ciò che ella tiene il grado inferiore de la bontà. Avergogninsi
adunque, avergogninsi gli idioti di avere da qui innanzi tanta audacia, che v a
dano ale Canzoni;de iquali non altrimenti so lemo riderci, di quello che si
farebbe d'un cieco, il quale distingues sei colori. È adun que la construzione
congrua quella che cerchia mo.Ma ci accade un'altra divisione 2 di non minore
difficultà, avanti che parliamo di quella construzione,che cerchiamo,cioè di
quella che è pienissima di urbanità; e questa divisione e, che molti sono i
gradi de le construzioni, cioè lo insipido, il quale è de le persone grosse,
come è, Piero ama molto madonna Berta. Ecci il semplicemente saporito, il quale
è de i scolari rigidi, o vero de i maestri, come è, Di
tuttiimiserim'incresce;ma homaggiorpietà di coloro, i quali in esiglio
affliggendosi, r i vedeno solamente in sogno le patrie loro. Ecci ancora il
saporito e venusto, il quale è di alcuni, che così di sopra via pigliano la
Rettorica, come è, La lodevole discrezione del Meglio, forse, ragionasse o
giudicasse di colori. Meglio distinzione (discretio). Nuls hom non pot
complir adreitamen. Amerigo di Peculiano, Si com’l'arbres,que per
sobrecarcar. Præparata qui ha il senso
di preveniente. Si per mon Sobretot no fos. Il re di Navara, T a m m'abelis l'amoros pensamens. Arnaldo Daniello, marchese da Este,e la sua
preparata 1 magni ficenzia fa esso a tutti essere diletto. Ecci a p presso il
saporito e venusto, ed ancora eccelso, il quale è dei dettati illustri, come
è,Avendo Totila mandato fuori del tuo seno grandissima parte de i fiori, o
Fiorenza, tardo in Sicilia, e indarno se n'andd. Questo grado di constru zione
chiamiamo eccellentissimo, e questo è quello che noi cerchiamo, investigando
(come si è detto ) le cose supreme. E di questo sola mente le illustri Canzoni
si trovano conteste, come: Gerardo,
Dreit amor qu'en mon cor repaire. Folchetto di Marsiglia, Sols sui qui sai lo sobrafan, que m sorts. Amerigo
de Belimi, Tegno di folle impresa a lo ver dire. Avegna ch'io non aggia più per tempo. Amor,
che ne la mente mi ragiona. N o n ti maravigliare, lettore, che io abbia tanti
autori a la memoria ridotti; per ciò che non possemo giudicare quella
construzione, che noi chiamiamo suprema, se non per simili esempj. E forse utilissima
cosa sarebbe per abituar quella, aver veduto i regulati poeti, cioè Virgilio,
la Metamorfosi di OVIDIO, STAZIO e LUCANO, e quelli ancora che hanno usato al
tissime prose; come è Tullio, Livio, PLINIO, Frontino, Paolo Orosio, e molti
altri, i quali la nostra amica solitudine ci invita a vedere. Cessino adunque i
seguaci de la ignoranzia, che estolleno Guittone d'Arezzo, et alcuni al tri, i
quali sogliono alcune volte 1 ne i vocaboli e ne le construzioni essere simili
a la plebe. Nunquam invocabulisatqueconstructionedesuetos plebescere. Non
dunque alcune volte,ma sempre. CAVALCANTI,
Poi che di doglia cor convien, ch'io porti. > Guido Guinizelli, Cino
da Pistoja, Lo amico suo, 1 dere ricerca, che siano dichiarati
quelli vocaboli grandi, che sono degni di stare sotto l'altissimo stile.
Cominciando adunque, affir miamo non essere piccola difficultà de lo intel
letto a fare la divisione dei vocaboli; per cið che vedemo, che se ne possono
di molte m a niere trovare.De i vocaboli adunque alcuni sono puerili, altri
feminili, et altri virili, e di questi alcuni silvestri,& alcuni
cittadineschi chiamia m o 1,& alcuni pettinati, e lubrici; alcuni irsuti e
rabuffati conosciamo; tra i quali i pettinati e gl’irsuti sono quelli che
chiamiamo grandi; i lubrici poi e i rabuffati sono quelli la cui riso nel
metro volgare. A successiva provincia del nostro proce. Quali vocaboli si
debbano porre e quali no 1Corbinelli ha: et horum quædam silvestria,quæ dam
urbania:eteorum,quo urbana vocamus,quo dam pesaethirsuta,quædam
lubricaetreburrasenti mus. La traduzione del Trissino va raddrizzatacosi:edi
questi alcuni silvestri,e alcuni cittadineschi;e di quelli che chiamiamo
cittadineschi, alcuni pettinati e irsuti, alcuni lubricierabbuffati. Altrihanno
invece:quædam pexaet lubrica, quædam hirsutaetreburra:cioèal cunipettinati e
lubrici (ossia scorrenti),alcuni irsuti e rabbuffati., nanzia è superflua; per
ciò che si come ne le grandi opere alcune sono opere di magnanimità, altre di
fumo, ne le quali avvenga che così di sopra via paja un certo ascendere,a chi
però con buona ragione esse considera, non ascendere, m a più tosto ruina per
alti precipizj essere g i u dicherà; con ciò sia che la limitata linea de la
virtù si trapassi. Guarda adunque, lettore, quanto per scegliere le egregie
parole ti sia bisogno di crivellare; per ciò che se tu consi deri il Volgare
Illustre, il quale i Poeti Vol gari, che noi vogliamo ammaestrare, denno (come
di sopra si è detto) tragicamente usare, averai cura, che solamente i
nobilissimi vocaboli nel tuo crivello rimangano. Nel numero dei quali ne i
puerili per la loro simplicità, com'è mamma e babbo,mate epate,per niun modo
potrai collocare; nè anco i feminili, per la loro mollezza, come è dolciada e
placevole; nè i contadineschi per la loro austerità, come è gregia e gli altri;
nè i cittadineschi, che siano lubrici e rabuffati, come è femine e corpo, vi si
denno porre. Solamente adunque i citta dineschi pettinati et irsuti vedrai che
ti resti no, i quali sono nobilissimi, e sono membra del Volgare Illustre. E
noi chiamiamo pettinati quelli vocaboli, che sono trisillabi, o vero v i
cinissimi al trisillabo, e che sono senza aspi razione, senza accento acuto, o
vero circum flesso, senza z nè a duplici, senza gemina zione di due liquide, e
senza posizione, in cui Qucecampsarenon possumus, cioèchenonsipos sono
scansare. la muta sia immediatamente posposta, e che fanno colui che parla
quasi con certa soavità rimanere, come è amore, donna, disio, virtute, donare,
letizia, salute, securitate, difesa. Ir sute poi dicemno tutte quelle parole,
che oltra queste sono o necessarie al parlare illustre, ornative di esso. E
necessarie chiamiamo quel le che non possiamo cambiare 1; come sono al cune
monosillabe, cioè si, vo, me, te, se, A, E, I, O, U; e le interjezioni, et altremolte.
Ornative poi dicemo tutte quelle di molte sillabe, le quali mescolate con le
pettinate fanno una bella armonia nella struttura, quantunque abbiano asperità
di aspirazioni, di accento, e di duplici, e di liquide, e di lunghezza, come è:
terra, onore, SPERANZA, gravitate, alleviato, impossibilitate,
benavventuratissimo, avventuratissimamente, disavventuratissimamente, sovramagnificentissimamente,
il quale vocabolo è endecasillabo. Potrebbesi ancora trovare un vocabolo, o
vero parola, di più sillabe, m a perchè egli passerebbe la capacità di tutti i
nostri versi, però a la presente ragione non pare opportuno; come è
onorificabilitudinitate, il quale in volgare per dodeci sillabe si compie; et in
grammatica per tredeci, in dui obliqui però. In che modo poi le pettinate siano
da es sere ne i versi con queste irsute armonizate, lascieremo ad
insegnarsi di sotto.E questo che si è detto de l'altezza dei vocaboli, ad ogni
gentil discrezione 1 sarà bastante. Ra preparate le legne e le funi, è tempo da
legare il fascio; ma perchè la cogni zione di ciascuna opera dee precedere a la
ope razione,laquale ècome segno avanti iltrarre de la sagitta,ovvero del dardo;
però prima,e principalmente veggiamo qual sia questo fascio, che volemo legare.
Questo fascio adunque bene ci ricordiamo tutte le cose trattate) è la Canzone; eperòveggiamochecosasia
Canzone, e che cosa intendemo quando dicemo Canzone. La Canzone dunque,secondo
la vera significa zione del suo nome, è essa azione o vero pas sione del
cantare; sì come la lezione è la pas sione o vero azione del leggere; m a
dichiariamo quello che si è detto, cioè, se questa si chiama Canzone, in quanto
ella sia azione o in quanto passione del cantare. Circa la qual cosa è da
considerare, che la Canzone si può prendere in dui modi, l'uno de li quali modi
è, secondo "Ingenuce discretioni,cioè ad ogni non viziato di scernimento.,
Che cosa è Canzone, e che in più maniere può variarsi. o tuono, o
nota, o melodia. E niuno trombetta, o organista, o citaredo chia m a il canto
suo Canzone, se non in quanto sia accompagnato aqualche Canzone;ma quelli che
compongono parole armonizate, chiamano le opere sue Canzoni.Et ancora che tali
pa role siano scritte in carte e senza niuno che le proferisca, si chiamano
Canzoni; e però non pare che la Canzone sia altro, che una c o m che ella è fabbricata dal suo autore; e così è
azione; e secondo questo modo Virgilio nel primo de l'Eneida dice, lo canto l'arme e l'uomo. L'altro modo è,
secondo il quale ella da poi che è fabbricata si proferisce, o da lo autore, o
da chi che sia,o con suono,osenza,ecosì è passione. E perchè allora da altri è
fatta, et ora in altri fa, e così allora azione, et ora passione essere si
vede.Ma conciò sia che essa è prima fatta,e poi faccia;pero più tosto,anzi al
tutto par che si debbia nominare da quello che ella è fatta, e da quello che
ella è azione di alcuno,che da quello che ella faccia in altri. Et il segno di
questo è, che noi non dicemo mai, questa Canzone è di Pietro perchè esso la
proferisca, m a perchè esso l'abbia fatta. O l tre di questo è da vedere, se si
dice Canzone la fabbricazione de le parole armonizate, o vero essa modulazione,
o canto; a che dicemo, che mai il canto non si chiama Canzone, ma 0
suono, piuta azione di colui, che detta parole a r m o nizate, et atte al
canto. Laonde così le Canzo ni, che ora trattiamo, come le Ballate e Sonetti, e
tutte le parole a qualunque modo armoni zate, o volgarmente, o regulatamente,
dicemo essere Canzoni; m a perciò che solamente trat tiamo le cose volgari,però
lasciando le regulate da parte,dicemo,che dei poemi volgari uno ce n'èsupremo, il
quale persopraeccellenziachia miamo Canzone; Donne, che avete intelletto di
amore. E così è manifesto che cosa sia Canzone,e se condo che generalmente si
prende, e secondo che per sopraeccellenzia la chiamiamo. Et a s sai ancora pare
manifesto che cosa noi inten demo,quandodicemoCanzone;e consequente Meglio
forse, quiealtrove, un collegamento (conjugatio), che la Canzone sia una cosa
suprema, nel terzo Capitolo di questo Libro è provato;ma conciò sia che
questo,che è dif finito, paja generale a molti, però risumendo detto vocabolo
generale,che già è diffinito,di stinguiamo per certe differenzie quello che so
lamente cerchiamo.Dicemo adunque che la Canzone,la quale noi cerchiamo,in
quanto che per sopraeccellenzia è detta Canzone, è una con giugazione 1 tragica
di Stanzie equali senza risponsorio, che tendono ad una sentenzia, come noi
dimostriamo quando dicemmo 2 2Iltestolatinoha:utnosostendimus,cum
diximus. mente qual sia quel fascio,che vogliamo legare. Noi poi
dicemo, che ella è una tragica congiu gazione; perciò che quando tal
congiugazione si fa comicamente, allora la chiamiamo per diminuzione cantilena,
de la quale nel quarto Libro di questo avemo in animo di trattare. Stanzie,e non sapendosi che cosa sia Stan zia,
segue di necessità, che non si sappia a n cora che cosa sia Canzone; perciò che
de la cognizione de le cose, che diffiniscono, resul ta ancora la cognizione de
la cosa diffinita, e però consequentemente è da trattare de la Stanzia, accio
che investighiamo, che cosa essa si sia, e quello che per essa volemo
intendere. Ora circa questo è da sapere, che tale voca bolo è stato per
rispetto de l'arte sola ritro vato; cioè perchè quello si dica Stanzia, nel
quale tutta l'arte de la Canzone è contenuta, e questa è la Stanzia capace,
overo il recettacolo di tutta l'arte; perciò che sì come la Canzone è il grembo
di tutta la sentenzia,così la Stan zia riceve in grembo tutta l'arte; nè è
lecito di arrogere alcuna cosa di arte a le Stanzie s e quenti; m a solamente
si vestono de l'arte de la. Quali siano le principali parti de la Canzone, e
che la Stanzia n'è la parte principalissima. Ssendo la Canzone una
congiugazione di prima: il perchè è manifesto, che essa Stanzia (de
la qual parliamo ) sarà un termine, o vero una compagine di tutte quelle cose,
che la Canzone riceve da l'arte;le quali dichiarite, il descrivere che
cerchiamo,sarà manifesto.Tutta l'arte adunque de la Canzone pare, che circa tre
cose consista, de le quali la prima è circa la divisione del canto, l'altra
circa la abitu dine1deleparti, laterzacircailnumero dei versi e de le sillabe;
de le rime poi non face mo menzione alcuna;perciò che non sono de la propria
arte de la Canzone.È lecito certamente in cadauna Stanzia innovare le rime, e
quelle medesime a suo piacere replicare; il che, se la rima fosse di propria
arte de la Canzone, le cito non sarebbe.E se pur accade qualche cosa de le rime
servare, l'arte di questo ivi si con tiene,quando diremo de la abitudine de le
parti. Il perchè così possiamo raccogliere da le cose predette, e diffinire,
dicendo, la Stanzia è una compagine 2 diversi e di sillabe, sotto un certo
canto, e sotto una certa abitudine limitata. 2 Il testo latino ha: limitatam
compaginem. La voce abitudine, qui e altrove, significa propor zione,
disposizione. S ne la Canzone. Che sia il canto de la Stanzia, e che la Stanzia
si varia in parecchi modi Apendo poi che l'animale razionale è uomo, e che
sensibile è l'anim a, et il corpo è animale; e non sapendo che cosa si sia
quest'a nima, nè questo corpo,non possemo avere per
fettacognizionedel'uomo;perciòchelaperfetta cognizione di ciascuna cosa termina
ne gli ul timi elementi, sì come il maestro di coloro che sanno, nel principio
de la sua Fisica affer ma.Adunque pera vere la cognizione dela Canzone, che
desideriamo, consideriamo al presente sotto brevità quelle cose,che diffiniscano
il dif finiente di lei; e prima del canto,da poi de la abitudine,e poscia de i
versi e de le sillabe in vestighiamo.Dicemo adunque,che ogni Stanzia è
armonizata a ricever una certa oda, o vero canto; ma pajono esser fatte in modo
diverso, che alcune sotto una oda continua fino a l’ul timo procedeno, cioè
senza replicazione di al cuna modulazione, e senza divisione;e dicemo divisione
quella cosa, che fa voltare di un'oda in un'altra;la quale quando parliamo col VULGO,
chiamiamo Volta.E questeStanziediun'oda sola Daniello usò quasi in
tutte le sue Canzoni; e noi avemo esso seguitato quando dicemo, · Il testo ha
syrma, che è quanto dire strascico.
Al poco giorno,& al gran cerchio d'ombra. Alcune Stanzie sono poi,
che patiscono divi sione. E questa divisione non può essere nel modo che la
chiamiamo, se non si fa replica zione di una oda o davanti la divisione, o da
poi, o da tutte due le parti, cioè davanti e da poi. E se la repetizion de
l'oda si fa avanti la divisione, dicemo, che la Stanzia ha piedi; la quale ne
dee aver dui; avegna che qualche volta se ne facciano tre, ma molto di rado.Se
poi essa repetizion di oda si fa dopo la divi sione, dicemo la Stanzia aver
versi. M a se la repetizione non si fa avanti la divisione,di cemo la Stanzia
aver fronte; e se essa non si fa da poi,la dicemo aver sirima?,o vero coda.
Guarda adunque, lettore, quanta licenzia sia data a li poeti che fanno Canzoni;
e considera per che cagione la usanza si abbia assunto si largo arbitrio; e se
la ragione ti guiderà per dritto calle, vederai, per la sola dignità de
l'autorità essergli stato questo,che dicemo con cesso.Di qui adunque può essere
assai mani festo a che modo l'arte de le Canzoni consista circa la divisione
del canto; è però andiamo a la abitudine de le parti.e de la distinzione
de'versi che sono da porsi nel componimento. tudine,sia grandissima parte di
quello,che è de l'arte; perciò che essa circa la divisione del canto, e circa
il contesto dei versi, e circa la relazione de le rime consiste; il perchè a p
pare, che sia da essere diligentissimamente trat tata.Dicemo adunque,che la
fronte coi Versi 1, et i piedi con la sirima, o vero coda, e pari mente i piedi
co i Versi possono diversamente ne la Stanzia ritrovarsi; perciò che alcuna fia
ta la fronte eccede i Versi, o vero può ecce dere di sillabe e di numero di
versi; e dico può, perciò che mai tale abitudine non avemo veduta. Alcune fiate
la fronte può avanzare i Versi nel numero de i versi, et essere da essi Versi
nel numero de le sillabe avanzata; come 1 Trissino traduce con la stessa voce
verso tanto il carmen che da Dante fu usato nel significato proprio e comune di
verso, quanto il versus che fu invece usato da lui per indicare una data parte
della stanza,che consta d'un certo numero di versi. Per togliere ogni equivoco
noi stamperemo in corsivo e con l'iniziale maiuscola la parola Verso quando
corrisponde al latino versus. De la abitudine de la Stanzia, del numero de
ipiedi e de le sillabe, noi pare, che questa che chiamiamo abi, se la fronte
fosse di cinque versi, e ciascuno dei Versi fosse di due versi, et i versi de
la fronte fosseno di sette sillabe,e quelli de i Versi fosseno di undeci
sillabe. Alcuna altra volta i Versi avanzano la fronte di numero di versi e di
sillabe come in quella che noi dicemmo, Ove la fronte di quattro versi fu di
tre ende casillabi e di uno eptasillabo contesta:la quale non si può dividere
in piedi; conciò sia che i piedi vogliano essere fra sè equali di numero di
versi, e di numero di sillabe,come vogliono essere frà sè ancora i Versi. M a
siccome dice mo, che i Versi avanzano di numero di versi e di sillabe la fronte,
così si può dire, che la fronte in tutte due queste cose può avanzare i Versi;
come quando ciascuno de i Versi fosse di due versi eptasillabi, e la fronte
fosse di cinque versi; cioè di due endecasillabi e di tre eptasillabi contesta.
Alcune volte poi i piedi avanzano la sirima di versi e di sillabe, come in
quella che dicemmo, Et alcuna volta i piedi sono in tutto da la si rima
avanzati; come in quella che dicemmo,
Donna pietosa, e di novella etate. E si come dicemmo, che la fronte può
vincere di versi, et essere vinta di sillabe, et al con Traggemi de la
mente amor la stiva. Amor, che movi tua virtù dal cielo.trario; così dicemo la
sirima. I piedi ancora ponno di numero avanzare i Versi, et essere da essi
avanzati; perciò che ne la Stanzia pos sono essere tre piedi e dui Versi, e dui
piedi e tre Versi; nè questo numero è limitato, che non si possano più piedi e
più Versi tessere insieme. E siccome avemo detto ne le altre cose de lo
avanzare de i versi e de le sillabe, così dei piedi e dei Versi dicemo, i quali
nel medesimo modo possono vincere, & essere vinti. Nè è da lasciare da
parte, che noi pigliamo i piedi al contrario di quello che fanno i Poeti
regulati; perciò che essi fanno il verso de i piedi, e noi dicemo farsi i piedi
di versi, come assai chiaramente appare. Nè è da lasciare da parte, che di
nuovo non affermiamo, che i piedi di necessità pigliano l'uno da l'altro la
abitudine et equalità di versi e di sillabe, perciò che altramente non si
potrebbe fare repetizione di canto. E questo medesimo affermiamo doversi servare
nei Versi. De la qualità de i versi, che ne la Stanzia si pongono, e del numero
de le sillabe ne i versi. Cci ancora (come di sopra si è detto) una certa
abitudine, la quale quando tessemo iversi devemo considerare;ma acciò che
di E, quella con ragione trattiamo,repetiamo quello che di sopra avemo
detto de i versi; cioè che ne l'uso nostro par che abbia prerogativa di essere
frequentato lo endecasillabo, lo eptasil labo, et il pentasillabo; e questi
sopra gli altri doversi seguitare affermiamo. Di questi adun que,quando volemo
far poemi tragici, lo endecasillabo, per una certa eccellenzia che ha nel
contessere, merita privilegio di vincere; e però alcune Stanzie sono che di
soli endecasillabi sono conteste, come quella di Guido da Fiorenza, Donna mi
prega, perch'io voglio dire. Donne, che avete
intelletto di amore. Questo ancora li Spagnuoli hanno usato, e dico li
Spagnuoli che hanno fatto poemi nel volgare Oc. Amerigo de Belmi, Nuls h o m non pot complir adreitamen. Altre Stanzie sono, ne le quali uno solo epta
sillabo sitesse;e questo non può essere,se non ove è fronte, o ver sirima,
perciò che (co me sièdetto)neipiedieneiVersisiri cerca equalità di versi e di
sillabe. Il perchè ancora appare, c h e il numero disparo dei versi non può
essere se non fronte o coda; ben chè in esse a suo piacere si può usare paro, o
disparo numero deiversi.E così come al Et ancora noi dicemo:cuna Stanzia
è di uno solo eptasillabo formata, così appare,che con dui,tre,o quattro si
possa formare; pur che nel tragico vinca lo endecasillabo,e da esso
endecasillabo si co minci.Benchè avemo ritrovatialcuni,chenel tragico hanno da
lo eptasillabo cominciato, cioè Guido de iGhislieri,e Fabrizio Bolognesi, Et
alcuni altri.Ma se al senso di queste Can zoni vorremo sottilmente intrare,
apparerà tale tragedia non procedere senza qualche ombra di elegia. Del
pentasillabo poi non concedemo a questo modo; perciò che in un dettato grande
basta in tutta la Stanzia inserirvi un pentasil labo, ovver dui al più ne
i piedi; e dico ne i piedi, per la necessità !, con la quale i piedi et i versi
si cantano; ma b e n non pare che nel tragico si deggia prendere il trisillabo,
che per sè stia;e dico,che per sè stia;perciò che per una certa repercussione
di rime pare, che frequen Propter necessitatem,qua pedibusque versibusque
cantatur; per la necessità che nei piedi e nei Versi si deve cantare.
(Fraticelli.) E, E, 1 Di fermo
sofferire, Donna,lofermocuore, Lo mio
lontano gire. temente si usi; come si può vedere in quella Canzone di Guido
fiorentino, Donna mi prega, perch'io
voglio dire, Poscia che amor del tutto m 'ha lasciato. Nè ivi è per sè in tutto
ilverso,ma è parte de lo endecasillabo, che solamente a la rima del precedente
verso a guisa di Eco risponde. E quinci tu puoi assai sufficientemente
conoscere, o lettore,come tu dei disponere, o vero abituare la Stanzia; perciò
che la abitudine pare che sia da considerare circa i versi. E questo ancora
principalmente è da curare circa la disposizione de i versi: che se uno
eptasillabo si inserisce nel primo piede,che quel medesimo loco,che ivi piglia
per suo, dee ancora pigliare ne l'altro; verbigrazia, se 'l piè di tre versi ha
il primo et ultimo verso endecasillabo,e quel di mezzo, cioè il secondo,
eptasillabo, così il secondo piè dee avere gli estremi endecasillabi, et il
mezzo eptasillabo; perciò che altrimenti stando, non si potrebbe fare la
geminazione del canto,per usodelqualesi fannoi piedi,come sièdetto;e
consequentemente non potrebbono essere piedi. E quello che io dico de i piedi,
dico parimente de i Versi; perciò che in niuna cosa vedemo i piedi essere
differenti da i Versi,se non nel sito; perciò che ipiedi avanti ladivisione
della Stan zia,ma i Versi dopo essa divisione si pongono., Et in quella che noi
dicemmo: De la relazione de le rime, e con qual ordine ne la Stanzia si denno
porre. T dealcuna cosa al presente non trattando però de la essenzia loro;
perciò che il proprio trat tato di esse riserbiamo, quando de i mediocri poemi
diremo.Ma nel principio di questo Ca pitolo ci pare di chiarire alcune cose di
esse; de le quali una è, che sono alcune Stanzie, ne le quali non si guarda a
niuna abitudine di rime, e tali Stanzie ha usato frequentissima mente
Daniello,come ivi, Si m fos amors de joi
donar tan larga? E noi dicemo, L'altra
cosa è che alcune Stanzie hanno tutti i versi di una medesima rima, ne le quali
è superfluo cercare abitudine alcuna; e così resta che circa le rime mescolate
solamente debbia mo insistere;in che e da sapere,che quasi Et ancora sì
come si dee fare ne i piedi di tre versi, così dico doversi fare in tutti gli
altri piedi. E quello che si è detto di uno endeca sillabo, dicemo parimente di
dui e di più, e del pentasillabo, e di ciascun altro verso. Alpocogiorno, &
algrancerchiod'ombra. Il testo LATINO ha: qui suas multaset bonas cantiones
nobis ore tenus intimavit. Fraticelli traduce: ci canto a voce, ossia ci canto
improvvisando. tutti i Poeti si hanno in cið grandissima licen zia
tolta;conciò sia che quinci la dolcezza de l'armonia massimamente risulta.Sono
adun que alcuni, i quali in una istessa Stanzia non accordano tutte le
desinenzie de i versi; m a alcune di esse ne le altre Stanzie repetiscono, o veramente
accordano; come fu Gottoman tuano, il quale fin qui ci ha molte sue buone
Canzoni intimato Costui sempre tesseva ne la Stanzia un verso scompagnato, il
quale essò nomina chiave. E come diuno, così è lecito di dui e forse di più.
Alcuni altri poi sono, e quasi tutti i trovatori di Canzoni, che ne la Stanzia
mai non lasciano alcun verso scompa gnato, al quale la consonanzia di una o di
più rime non risponda. Alcuni poscia fanno le rime de i versi, che sono avanti
la divisione, diverse da quelle dei' versi, che sono dopo essa; et altri non lo
fanno; ma le desinenzie de la pri ma parte de la Stanzia ancor ne la seconda in
seriscono. Non di meno questo spessissime volte si fa, che con l'ultimo verso
de la prima parte, il primo de la seconda parte ne le desinenzie s'accorda; il
che non pare essere altro, che una certa bella concatenazione di essa stanzia.
La abitudine poi de le rime,che sono ne la fronte e ne la sirima,è sì ampla,
che 'l pare che ogni atta licenzia sia da concedere a ciascuno, m a non di
meno le desinenzie de gli ultimi versi sono bellissime, se in rime accordate si
chiudeno; il che però è da schifare ne i piedi, ne i quali ritroviamo essersi
una certa abitudine servata; la quale dividendo dicemo, che il primo piè di
versi pari, o dispari, si fa; e l'uno e l'altro può essere di desinenzie
accompagnate,o scom pagnate; il che nel pie diversi pari non è dubbio; m a se
alcuno dubitasse in quello di dispari, ricordisi di ciò che avemo detto nel
Capitolo di sopra del trisillabo,quando essendo parte de lo endecasillabo, come
Eco risponde. E se la desinenzia de la rima in un de i piedi è sola, bisogna al
tutto accompagnarla ne l'al tro; ma se in un piede ciascuna dele rime è
accompagnata, si può ne l'altro o quelle ripe tere, o farne di nuove,o tutte,o
parte, secondo che a l'uom piace,pur che in tutto si servi l'ordine del
precedente: verbigrazia, se nel primo piè di tre versi le ultime desinenzie
s'accordano con le prime, così bisogna accor darvisi quelle del secondo; e se
quella di mezzo nelprimo piè è accompagnata, oscompagnata; così parimente sia
quella di mezzo nel secondo piè; e questo è da fare parimente in tutte le altre
sorti di piedi. Ne i Versi ancora quasi sempre è a serbare questa legge; e
quasi s e m pre dico, perciò che per la prenominata con catenazione,e per la
predetta geminazione de le ultime desinenzie,ale volte accade il detto or
8 Il testo latino ha: cum in isto libro nil ulterius de r i t h i morum
doctrina tangere intendamus. E si dovrebbe tradurre: che in questo libro non
vogliamo parlar pivo della dottrina delle rime. Nel Corbinelli questo ultimo
capitolo è diviso in due. Il decimoterzo finisce con le parole: tanta
sufficiant. (a bastanza è.); e il decimoquarto comincia con le parole: di ne
mutarsi. Oltre di questo ci pare conve nevol cosa aggiungere a questo capitolo
quelle cose che ne le rime si denno schifare, conciò sia che in questo libro
non vogliamo altro che quello che si dice della dottrina de le rime toccare
Adunque sono III cose, che circa la posizione di rime non si denno frequentare
da chi compone illustri poemi. L’una è la troppa repetizione di una rima, salvo
che qualche cosa nuova ed intentata de l'arte ciò non si assuma, come il giorno
de la nascente milizia, il quale si sdegna lasciare passare la sua giornata
senza alcuna prerogativa. Questo pare che noi abbiamo fatto ivi. Amor, tu vedi
ben, che questa donna. La seconda è la inutile equivocazione la qual sempre
pare che toglia qualche cosa a la sentenza. La terza è l'asperità dele rime,
salvo che le non siano con le molli mescolate, per ciò che per la mescolanza delle
rime aspere e delle molli la tragedia riceve splendore. E questo dell’arte,
quanto a l'abitudine si ricerca, a bastanza è. Avendo quello che è de l'arte [Il
testo latino ha: discretionem facere che qui vale trattare partitamente della
Canzone assai sufficientemente trattato, ora tratteremo del terzo, cioè del
numero di versi e delle sillabe. E prima alcune cose ci bisognano vedere
secondo tutta la stanza, e altre sono da dividere, le quali poi secondo le
parti loro vederemo. A noi adunque prima s’appartiene fare separazione di
quelle cose, che ci occorrono da cantare. Perciò che alcune stanze amano la
lunghezza e altre no. Con ciò sia che tutte le cose che cantiamo, o circa il
destro o circa il sinistro si canta, cioè che alcuna volta accade suadendo,
alcuna volta dissuadendo cantare, e alcuna volta allegrandosi, alcuna volta con
ironia, alcuna volta in laude e altra in vituperio dire. E però le parole, che
sono circa le cose sinistre, vadano sempre con fretta verso la fine, le altre
poi con longhezza condecente vadano passo passo verso l'estremo Ex quo quo sunt
artis. Avendo quello che è de l'arte. Ed ha il titolo seguente: De numero car
minum et syllabarum in Stantia. Del numero dei versi e delle
sillabe nella stanza.). Grice: “Alighieri’s theory of language is a simple one
– hardly as sophisticated as that of the Stoics. We communicate the passions of
our souls – And he concludes that it’s the Toscani who communicate best, even
if ‘tosco’ means ‘rough’ in Toscano!” – Nome compiuto: Alighieri. Keywords:
lingua del si, la divina implicitura, lasciate ogne [sic] speranza voi ch’entrate,
inferno – section on ‘divina commedia’ in philosophical dictionaries. ‘inferno’
catabasis, -- la catabasis d’Enea di Virgilio -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, “Grice ed Alighieri,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Aliotta: all’isola: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’esperienza – la scuola di Palermo -- filosofia siciliana –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Abstract. Grice:
“We don’t have at Oxford anything like Aliotta – he CARES for OTHER Italian
philosophers; the closest we have is Warnock, on whose ENGLISH PHILOSOPHY SINCE
1900 I had my hopes, until I found he dedicates most of it to Witters!” -- Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Palermo, Sicilia. Grice: “I like Aliotta; he has
philosophised on most things I’m interested in: ‘la guerra eterna’ is a bit of
a hyperbole if you go by a principle of helpfulness, but that’s Aliotta! – He
has focused on Lucrezio, which is fine – But he has also studied ‘colloquenza
romana’ systematically – and more into the Italian rather than Roman idiom, he
has explored Galileo (not the father, thouh: “Some like Galileo Galiei, but
Vincenzo Galilei is MY man); he is also like me a ‘philosophical psychologist,’
along the lines of Stout and Wundt, that is – he as given proper due to the
idea of ‘esperienza’ – unlike Oakeshott, who abuses of the notion! – and
indeed, others see his attachment to ‘esperienza’ as an ‘ism’ (lo
sperimentalismo). He has also discussed
the semiotics of Vico, and the idea of life-form, following Witters (‘cricket
come forme di vita’). And he has explored one intriguing idea, that the
so-called ‘meaning’ of life (‘il significato del mondo,’ actually) is that of
‘sacrificio’ which is very fine with me – but then it would, since I like
‘Another country’ – the ‘sacrifice’ Dei Lincei, nonché dell'Accademia
Pontaniana e della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti. Fonda la rivista di
filosofia “Logos”. Allievo di TOCCO (si veda) e SARLO (si veda), è influenzato
molto dalla concezione della conoscenza scientifica del secondo, che si riface
alle teorie di Brentano. Si interessa in
particolar modo alla psicologia e l’epistemologia. Tra i suoi allievi vi sono ABBAGBABI (su
veda), Carcano, Carbonara, Lazzarini, Martano, Marzi, Petruzzellis, Sciacca, e Stefanini,
anche se la sua indole non dogmatica e aperta a diverse culture e suggestioni
non da luogo alla formazione di una vera e propria scuola riferibile al suo
nome, ma incoraggia i suoi allievi a indirizzarsi su percorsi culturali
autonomi, emancipandosi dall'egemonia esercitata dall’idealismo di Croce e di
Gentile. Al suo magistero può essere
associato anche la figura di Musatti, che si indirizza allo studio della
psicologia dopo aver assistito alle lezioni sull'argomento tenute d’A. a Padova,
divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino. A lui è intitolato il dipartimento di
filosofia di Napoli. Nella sua prima fase, prettamente psicologica, A, afferma
che un fatto psichico non puo essere quantificata come avviene con un fatto naturale
fisico esistente e misurabile, in quanto un fatti psichico e un elemento
costitutivi della coscienza. La psicologia, perciò, essendo una scienza
empirica che studia un fatto psichico interno al soggetto, si serve del metodo
dell'INTROSPEZIONE -- riferendosi a una formulazione matematica al solo scopo
simbolico (cf. Grice, “Personal Identity”). La particolare concezione della
conoscenza dell'autore, intesa né come esistente in sé, né come iscritta nel
processo dialettico del pensiero, lo allontana sia dalle posizioni positiviste
che da quelle idealiste. Nella sua filosofia
emerge una visione contraria all'idealismo. Né Hegel, nemmeno Fichte, né tanto
meno Schelling col loro proposito di racchiudere tutta la realtà nel pensiero,
sebbene con sfumature diverse, soddisfano A., che invece paragona il pensiero a
un processo VIVENTE, costruito da tanti centri individuali tesi verso una
armonia, continuatrice dei fenomeni dell'universo. A. si sofferma sulla co-ordinazione
o co-operazione delle conoscenze, sulle intese fra al meno due persone, sulla
sintesi della scienza e soprattutto sulla ricerca filosofica a cui assegna il
compito particolare di supervisione dei campi di conoscenza con il fine di
limitarne i dissidi e di ampliare, il più possibile, il punto di vista delle
scienze particolari. A. afferma che l'unico metodo che consente la ricerca
della verità sia l'esperimento. La verità stessa non è assoluta e unica ma
prevede vari livelli, i superiori dei quali sfruttano e inglobano quelli
inferiori. La ricerca filosofica possiede, secondo l'autore, un formidabile
strumento di indagine e di verifica che si chiama "storia". In alcuni saggi ("Il sacrificio come significato del
mondo”) A. sembra avvicinarsi a un modello di pensiero a metà strada tra il
pragmatismo e lo spiritualismo, nel quale mette in rilievo l'esperienza morale
e il sacrificio – l’eroe di J. O. Urmson -- considerato come l'esempio di re-alizzazione
più elevato, sia per l'individuo sia per la collettività – la diada eroica
d’Eurialo e Niso. L'affermarsi dello sperimentalismo produce in A. una serrata
critica all'astratto intellettualismo nonché apre la strada alla ricezione di
studi avanzati sulla cosiddetta 'filosofia scientifica', in un panorama di
reazione idealistica contro la scienza e di graduale affermazione in Italia di
scienze come la sociologia (Rinzivillo, A.. L'idea scientifica dello
sperimentalismo in Una epistemologia senza storia, Roma, Nuova Cultura. Altri
saggi: “Platone”, “Aristotele”; “LUCREZIO”; “Epitteto”. La reazione idealistica
contro la scienza; La guerra eterna e il dramma dell'esistenza; L'estetica di
Kant e degl’idealisti romantici; Il sacrificio come significato del mondo; Il
relativismo dell'idealismo e la teoria di Einstein”; “Evoluzionismo e
spiritualismo”; “Il problema del divino e il nuovo pluralismo”; “Le origini
dell'irrazionalismo”; “Filosofi tedeschi”; “Critica dell'esistenzialismo”; “L'estetica
di CROCE e la crisi dell'idealismo”; “Il nuovo positivismo e lo
sperimentalismo”; “Relatività” (Sansoni Editore). Belardinelli, in Dizionario
Biografico degl’Italiani, accademia delle scienze Abbagnano, Dizionario di
filosofia, Torino, Pomba, Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, Pomba, Sciacca, Lo sperimentalismo di A., Napoli,
Abbagnano A., in "Rivista di Filosofia", Dentone, Il problema morale
e religioso in A., Napoli, Mecacci, A., in Cimino, Dazzi, La psicologia: i protagonisti e i
filosofici (Milano, LED); Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia italiana Treccani, Roma, Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. A., su open MLOL,
Horizons Unlimited srl. A. consultabili nell'Archivio di Storia della
Psicologia, su archivio di storia psicologia roma Filosofia Filosofo Accademici
italiani Professore Palermo Napoli Accademici dei Lincei Professori Università
degli Studi di Napoli Federico II Membri dell'Accademia delle Scienze di Torino.
LIMENTANI MASNOVO LEVI MARESCA VOLPE LAMANNA LA FILOSOFIA IN ITALIA, PERRELLA, NAPOLI,Città
di Castello, Società Anonima, Vinci. Il saggio, che è l'estratto di Logos, non
vuol essere una visione sintetica della filosofia italiana da un punto di vista
unico, ma solo una guida analitica allo studio di essa con informazioni
bibliografiche. Chi vuole orientarsi nel LABIRINTO DELLA FILOSOFIA ITALIANA può
trovare nel volume del Sommario di Storia della Filosofia ( Napoli, Perrella) IL
FILO D’ARIANNA che lo guida attraverso il cammino della filosofia italiana, che
dal positivismo con una progressiva eliminazione d’ogni realtà trascendente
giunge all'assoluta immanenza dell’idealismo attuale per ritornare poi
insoddisfatto a una nuova affermazione della trascendenza. L’idealismo assoluto
ormai declina verso il tramonto. Una nuova forma di realismo albeggia
all'orizzonte. La crisi della guerra conduce molti spiriti verso
l'irrazionalismo scettico-mistico, quando non li persuade a rifugiarsi nella
tradizione cattolica. Noi siamo fermamente convinti che è sterile ogni
tentativo di ritorno al passato, perchè è negazione della storia. Crediamo che
la speculazione, se vuol essere feconda, deve procedere sulla via tracciata
dallo sviluppo della filosofia moderna. Un realismo che pretendes ritornare
all’immobilità delle essenze platoniche, che togliesse alla coscienza ogni
efficacia reale nella costruzione del mondo della realtà e della verità,
facendone solo una luce che rischiara ciò che è fatto ab aeterno; un realismo
insomma del tipo di quello che è l’ultima moda tedesca, toglie alla vita ogni
significato, facendoci perdere le migliori conquiste della filosofia moderna.
Ci auguriamo che IL GENIO ITALIANO rimane immune da quella brutta moda e si
mantiene sulla linea gloriosa del suo rinascimento, che è affermazione
dell’attività dell'uomo nel mondo concreto della sua esperienza. Contro il dogmatismo
platonico, le sottigliezze scolastiche, le nebbie mistiche, le negazioni
scettiche, contro tutti gl’arbitrii della fantasia e della ragione a priori non
vi è che un solo metodo sicuro, cioè l’esperimento storico delle nostre umane
verità. Napoli, A. Prego di perdonare qualche omissione. Una sopratutto debbo
segnalarne: quella del nome di RENDA (si veda) che per la finezza dei suoi
studii di psico- dissociazione psicologica, Torino; Le passioni, Torino; L
oblio, Torino, è tra i migliori positivisti. Nella seconda fase del suo
pensiero Renda si è accostato all’idealismo assoluto e alla filosofia dell’azione
di Blondel col suo libro La validità della religione, Città di Castello. Dice LIMENTANI (si veda) nel Positivismo
italiano, che le difficoltà che s’incontrano in una rassegna del ‘positivismo’
italiano dipendono, in primo luogo, dall’incerto significato del nome stesso,
onde puo essere ugualmente designate come POSITIVA, filosofia -- della quale
sembra più interessante mettere in luce le caratteristiche differenziali che
non i tratti comuni. I positivisti non si definiscono come tali per la concorde
adesione a una rigida dottrina, o per la collaborazione consapevole alla
costruzione di un sistema ben determinato: si tratta piuttosto di un indirizzo
metodico, di una forma mentale che impronta di sè non solamente la ricerca
filosofica propriamente detta, ma l’intiero mondo della cultura. Il positivismo
ripone e ricerca la verità nel fatto, intende la conoscenza come relativa, la
esperienza come unica fonte del sapere e ultimo criterio della certezza,
ritiene che la cognizione filosofica non sia diversa per natura dalla
scientifica, e anche non possa se non prepararla e integrarla, assume di fronte
ai problemi della metafisica un atteggiamento agnostico o semplicemente
negativo, concepisce la natura come universale meccanismo, escludendone la
teleologia e, pure affermando la irreducibile diversità della materia dallo
spirito, non crede che da ciò rimanga spezzata la unità e interrotta la
continuità del reale, interpetra il mondo dei valori come prodotto della
evoluzione psicologica, e dei valori stessi domanda la spiegazione e la
giustificazione alle leggi della psicologia. Ma l’accordo che può anche essere
parziale sopra questi principii non esclude la possibilità di svolgimenti
molteplici e autonomi, perchè i principii stessi valgon piuttosto a dirigere
nella selezione e nella discussione dei problemi, che non ad anteciparne in
concreto la soluzione: onde, chi voglia essere cronista esatto del vasto e
vario movimento, si trova di necessità a ravvicinare pensatori che si sono
reciprocamente ignorati e che proverebbero senza dubbio grande maraviglia di
trovarsi messi insieme: particolarmente in Italia il positivismo è affermazione
perenne della libertà filosofica, sì che sembra vano ogni tentativo di
esprimerlo con una formula, e si manifesta la necessità di determinarne la
fisionomia, considerando in modo distinto la operosità de’ suoi seguaci. E tale
necessità risulta ancora dal fatto che nella maggior parte dei positivisti
italiani, sopra il gusto delle costruzioni sistematiche, ha prevalso la
tendenza a esplorare determinati campi della indagine: e però limitarsi a
registrare le concezioni generali del mondo e della vita, trascurando i
contributi recati da più modesti studiosi alle scienze filosofiche speciali,
equivarrebbe a dare del movimento una idea affatto inadeguata. Inoltre, appunto
perchè in alcune almeno tra le fondamentali assunzioni del positivismo possono,
senza chiaro intendimento del loro più profondo significato, consentire anche
quegli scienziati che sono affatto estranei agl’interessi speculativi, avvenne
che si decorasse del nome di positivismo anche la loro afilosofia, che fu
qualche volta, per dirla con Bruno, la loro filasofia, cioè una metafisica
grossolana, ingenua sino alla inconsapevolezza, e di gran lunga peggiore di
quella metafisica contro la quale il positivismo era sceso in campo:
positivismo non può infatti essere ignoranza della tradizione metafisica e
incapacità d’intenderne le ragioni, bensì dev’esspre revisione critica dei
postulati assunti e dei metodi tenuti dalla metafisica stessa. Eppure in un
quadro sommario che aspiri a riuscire completo, anche queste manifestazioni di
pensiero più povere di critica hanno il loro significato e debbono trovare il
loro posto. D’altra parte, in Italia, in questi ultimi anni, le fortune della
filosofia idealistica, soprattutto nella sua forma attualistica, indussero i
dissenzienti a costituire una fronte unica contro una dottrina che
romanticamente presentava la filosofia, piuttosto come opera di fantasia e
prodotto di subbiettiva ispirazione, che non come sistemazione di conoscenze
vere: e il comune, se pur tutt’altro che uguale, atteggiamento di opposizione e
di reazione, ebbe come conseguenza che tendessero a obliterarsi i caratteri
differenziali del positivismo da altri indirizzi. A far la rassegna dei
filosofi che pròfessano oggi di essere positivisti, si sarebbe indotti a
conchitidere che i « quadri non sono
stati mai poveri come adesso: eppure mai come in questo momento è apparsa
chiara la influenza del positivismo sopra la educazione mentale e la posizione
dottrinale di quei pensatori che non si sono ralliés alla filosofia di moda.
2.Il periodo storico che qui si considera, coincide con il cinquantennio
dell’attività filosofica di R. Ardigò; questi, nato nel 1828 a Casteldidone,
pubblicò nel 1870 « La psicologia come scienza positiva , segnandovi le linee
fondamentali della sua dottrina, già preannunziata l’anno precedente,
quand’egli era ancora prete, nella commemorazione di P. Pomponazzi e morì a
Mantova nel 1920, avendo atteso fin quasi all’ultimo giorno, all’opera sua di
scrittore. Ma alla costruzione del sistema ardighiano erano precorse in Italia
altre manifestazioni di pensiero positivistico. Il sorgere e vigoreggiare della
filosofia del fatto si lega in Italia come all’estero, a ragioni complesse, fra
le quali prevalgono i mara- vigliosi progressi della scienza, nell’ordine cosi
delle invenzioni come delle scoperte, il fervore degli studi storici, la
reazione contro le intemperanze del pensiero metafisico, il disgusto dei
sistemi dogmatici. Le origini prossime del movimento positivista sono da
ricercare nella scuola di G. D. Romagnosi, dalla quale uscirono Giuseppe
Ferrari e Carlo Cattaneo. Ma il Ferrari, rappresentante di un fenomenismo
estremo che reca le tracce d’influenze discordi e tende a sboccar nello
scetticismo, non orientò il suo pensiero verso il positivismo così decisamente
come il Cattaneo: questi è comunemente riconosciuto come l’iniziatore del
movimento e il più ef. ficace banditore della dottrina, nel ventennio 1850-70.
Nel Cattaneo, patriotta insigne, cittadino intemerato, scrittore magnifico,
mente poliedrica, si manifesta l’interesse per la glottologia, la storia e la
politica, la demografia, la economia e la organizzazione tecnica della
industria e dell’agricoltura: ne’suoi scritti filosofici, non ammette
conoscenza che non sia di fatti, e attribuisce alla filosofia una funzione
sintetica rispetto alle altre scienze: raccogliendo la eredità del Vico, pone
come fondamentale il pro-^ bleina deH’incivilimento: la civiltà è opera
dell’uomo; ma l’Uomo dei metafisici è una finzione mentale, che non può
adeguarsi alla varietà e alla concretezza del mondo umano; la psicologia
individuale deve integrarsi nella psicologia sociale, o psicologia delle menti
associate; mente non si dà, nè funziona e si forma se non in un giuoco di
azioni e reazioni, che, poiché i conviventi operano uno sopra l’altro e ogni
generazione scomparsa sopra le successive. è a un tempo il fondamento della
unità sociale e della continuità storica. La dottrina del Cattaneo s'intona al
positivismo del Comte e all’umanismo del Feuerbach, sebbene si sia costituita
in perfetta indipendenza dall'uno e dall’altro, e contiene germi che dovranno
maturare nella filosofia dell’Ardigò (« Opere edite e inedite di C. C.). Maestro
acclamato e autorevolissimo nelle scienze storiche, Villari, che aveva
mostrato, nel « Saggio sull’origine e sul progresso della Filosofia della
Storia, di risentir la influenza di Comte e Mill, illustrò e favori («La
Filosofia positiva e il metodo storico», 1865) l’indirizzo storico già
prevalente nelle scienze morali, sostenendo che queste non avrebbero potuto
fiorire come le scienze naturali, se non ne avessero fatto proprio il metodo,
positivo o sperimentale. La influenza esercitata dalla divulgazione della
dottrina darwiniana, che apriva nuovi orizzonti agli studi biologici ed ebbe
fra noi il suo apostolo più fervido in Giovanni Canestrini ( « Antropologia » *
1888 « La teoria dell’evoluzione esposta ne’ suoi fondamenti ’ » 1887 « La
teoria di Darwin » 1887 ), è manifesta negli scritti di Tommasi, medico insigne
che promosse il progresso delle scienze biologiche dallo stato metafisico allo
stato positivo, e ammoniva i discepoli a porsi dinanzi ai problemi della
natura, con l’animo sgombro da ogni apriorismo dottrinale e metodico. Il suo
naturalismo è concezione della filosofia come organamento del sapere
scientifico, è realismo rigoroso, che tende a identificarsi con il
materialismo, e non meno rigoroso empirismo: è evoluzionismo che esclude da sè
ogni teleologia («Il naturalismo moderno» 1866 «Il rinnovamento della medicina
in Italia» 1888). Positivista fu pure Cantani, collega del Tommasi e suo
successore nella clinica di Napoli. 3. Il positivismo italiano non è tutto
nella dottrina delI’Ardigò e della sua scuola: ma l’Ardigò ne è, per concorde
giudizio, la figura più rappresentativa. Di lui gli undici volumi delle Opere
Filosofiche rispecchiano il genio speculativo e l’animo candido e generoso, la
fede inconcussa nel Vero e il culto operoso dell’ideale etico, celebrato nella
esemplare austerità della vita. Il positivismo del Comte era stato giudicato
impari, se pur non affatto insensibile, alla esi genza gnoseologica: nè questa
era sodisfatta, in modo positivo, dalITnconoscibiie spenceriano, che rappresenta
ancora una entità ontologica, onde si mantiene l’antitesi di sostanza e di
fenomeno, e il fenomeno è un relativo che postula un Assoluto e trova alla
soglia di questo il proprio limite: il sistema dell'A. si forma fuori da ogni
diretta influenza di queste dottrine, per la rivoluzione che lo studio delle
scienze naturali opera nella sua mente, resa, da lunga consuetudine, familiare
con i classici della teologia e della metafisica: il distacco dalle vecchie
credenze non è definitivo, fin ch’egli non ha trovato la soluzione del problema
gnoseologico, e non ha inteso come si possa spiegare la origine delle idee,
senza ricorrere alla trascendente facoltà dell’intelletto. La posizione
centrale assegnata alla teoria della conoscenza è la caratteristica più significativa
del sistema dell’A. « Non è senza significato che il positivismo assuma in
Italia, quasi al suo apparire coll’A., fisonomia spiccata di naturalismo
sistematico affrontando subito il problema dell’infinito cosmico e traducendone
la visione in una concezione organica dell’universo, e che in questa, come
unicamente esteriore ed obiettiva non si acqueti, ma la integri subito colla
ricostruzione sintetica dell’uiiità della coscienza, e invece che tener
separata la questione gnoseologica dalla cosmologica trasfonda l’una nell’altra
creando un nuovo concetto si della natura, sì dell’esperienza, tale che l’uria
dall’altra non si separano se non per distinzione sopravveniente; questo non è
il positivismo di Comte, nè quello di Spencer, è il positivismo di un popolo
ove è indigeno il naturalismo del Rinascimento» (Tarozzi). Il fatto è divino, i
principii sono umani: ma il fatto primo e assolutamente certo, per la
consapevolezza immediata che ne abbiamo, è il fatto di coscienza, la
sensazione: la esperienza che sta a fondamento di ogni verità e che non si può
tentar di trascendere senza trascorrere dal reale nel chimerico, è esperienza
psicologica. Il monismo dell’A. che elimina ogni residuo di trascendenza,
esclude come fantastica così la contrapposizione dell’oggetto al soggetto, come
l’annichilazione dell’oggetto nel soggetto; e sfugge al pregiudizio del
realismo ingenuo senza incorrere nei sofismi del soggettivismo radicale. La
contrapposizione è fra termini di pensiero, fra gruppi di sensazioni: la sensazione
afferma se stessa assolutamente, il conoscere non si deve che alla sua
virtualità; ma la sensazione, e l’attività psichica in generale, ponendosi, si
sdoppia in due mondi, per il doppio sguardo (diblemma psicologico) onde si
compie da un lato la sintesi delle sensazioni interne (Autosintesi, Me),
dall’altro, la sintesi delle sensazioni esterne (F.terosintesi, Non-Me): le
sensazioni non sono per se stesse nè interne nè esterne, ma il differenziamento
si opera, per la specificazione degli organi di senso e per il contrastare di
attività stabili e costanti, ad altre accidentali e intermittenti. La
sensazione, in quanto tale, è solo quello che è essa stessa in se medesima; ma
la reciproca integrazione delle sensazioni pertinenti a sensi diversi (le quali
son tutte fra loro incommensurabili o reciprocamente trascendenti), converte la
sensazione in percezione, aggiunge alla osservazione l’esperimento («Il fatto
psicologico della percezione» 188?). Ed è un imperativo logico la sensazione,
non soltanto in se stessa, in quanto conoscenza assoluta o posizione di se
medesima, ma anche come percezione, o conoscenza relativa e posizione della
propria causa: si definisce cosi la oggettività del sapere, mentre si evita
l’errore di risolvere il soggetto nell’oggetto. La conoscenza è relativa, ma
non perchè abbia il suo termine antitetico in un Assoluto che trascenda la
esperienza e figuri come possibile oggetto di una Mente sovrumana, bensì per
quel rapporto d’irreducibilità che il pensiero stesso pone fra i propri termini
sensibili, e che, come tale, è noto («L’Inconoscibile di H. Spencer e il
positivismo» 1883). La materia non farà mai conoscere lo spirito, nè lo spirito
la materia: ma la trascendenza così intesa, in senso affatto diverso dal
tradizionale, non esclude la fondamentale unità, che è l ’indistinto
sottostante ai distinti (Me e Non-Me) che vi si costituiscono, collegandosi in
un organismo logico unico. «L’unità dell’indistinto sottostante alla
molteplicità dei distinti, e la continuità del processo della duplice
distinzione ('spaziale e temporale) caratterizzano la concezione naturalistica
del cosmo » (Marchesini). È una formazione naturale la psiche, e la legge della
distinzione, che ne spiega l’essere e ne domina lo sviluppo, è legge di tutte
le formazioni nelle quali si specifica la realtà: la preminenza e la priorità
del problema gnoseologico rispetto a tutti gli altri problemi filosofici si
esprimono nel fatto che appunto dallo studio del fenomeno cogitativo
induttivamente si ricava il concetto della natura come indistinto, matrice
onnigena inesauribile, infinita virtualità di successivi che si realizza nella
infinità dei coesistenti. Il processo dall’indistinto al distinto è governato
dalla legge del ritmo, la quale spiega come ogni formazione naturale debba
sempre essere un ordine, malgrado le accidentalità proprie di ogni ordine dato,
che è sempre l’effettuazione di uno tra infiniti altri possibili. Per la
universale ritmicità si ha infatti nella natura non il caso, ma la cosa e il
fatto, il tipo e la legge, l’impero, dunque, della causalità; ma causalità non
è forma a priori dello spirito, nè semplice successione che generi per
abitudine l’attesa del riprodursi del passato; l’idea di causa è una formazione
naturale endogenetica per l’esperienza subita dal mondo esterno, onde
avvertendo costante- mente una determinata successione, siamo costretti ad
ammettere che il fatto precedente ha in sè una condizione e ragione di causare:
ogni fatto, dunque, emerge in modo necessario dall’indistinto che lo determina.
Ma, d’altra parte, la necessità non esclude il caso, perchè l’ordine si attua
in seno all’universo che è infinito: onde il fatto può a un tempo dirsi, per la
sua intrinseca necessità, equazione del determinato, e, per la imprevedibilità
della sua determinazione necessaria, equazione dell’infinito: poiché
l’indistinto non è un sistema chiuso, il distinguersi di uno o dell’altro
ordine è casuale. Il determinismo non elimina dunque la casualità, nè
semplicemente l’ammette come espressione della nostra ignoranza: ma la
riconduce alla varietà infinita che è un positivo aspetto della realtà, non
meno che la causalità: il caso è l’effetto prodotto per necessità naturale da
una causa imprevedibile, assolutamente parlando, e quindi non assegnabile, o
non fissata nella stessa natura, a motivo dell’infinità del suo principio, non
solo nei momenti del tempo, che è senza limiti, ma anche negli elementi
costitutivi, eccedenti ogni confine di spazio (« La formazione naturale nel
fatto del sistema solare » ; la trilogia: « Il Vero» «La Ragione»
«L’Unità della Coscienza»). E’ una formazione naturale anche la
filosofia, che non soltanto ha funzione coordinatrice e sintetica rispetto alle
scienze, ma è la matrice perennemente feconda del sapere scientifico e dei
problemi che alla scienza appartiene di risolvere. Come l’indistinto si
specifica, per un processo di ascendenza dinamica, nei sistemi ritmici,
corrispondenti a gradi sempre più alti di autonomia, cosi la filosofia si viene
differenziando nelle discipline speciali che in essa si unificano e di essa
risentono l’azione propulsiva (« Lo studio della Storia della filosofia » « Il
compito della filosofia e la sua perennità). Sopra i contributi recati dall’A.
alle distinte scienze filosofiche non posso intrattenermi qui: basti ricordare
come il suo realismo psicofisico e il prevalente interesse gnoseoiogico lo
abbiano portato alla costruzione di un sistema di psicologia, dove la unità
della coscienza figura come idea direttrice, e la critica del vecchio
associazionismo prepara la teoria della confluenza mentale come inoltre sovra
basi fisiopsicologiche si eriga una concezione della vita morale, nella quale
la impulsività della sensazione è assunta a spiegare la imperatività della
idealità sociale antiegoistica (« La Morale dei positivisti ») come, ancora, la
morale s’integri in una sociologia che è piuttosto una filosofia del diritto, o
lo studio della formazione naturale della Giustizia, intesa come forza
specifica della società («Sociologia») come infine le dottrine fondamentali si
coordinino e sbocchino in ima pedagogia, che pone l’esercizio a fondamento cosi
della educazione intellettuale come della educazione morale (La Scienza
dell’educazione). L’A., prof, di storia
della fil. a Padova, fu un caposcuola, e fra i suoi discepoli vogliono essere
ricordati in primo luogo Marchesini, Dandolo, Tarozzi, Ranzoli, Troilo. MARCHESINI
(vedasi), prof, di ped. a Padova, fondatore e direttore della « Rivista di
Filosofia, pedagogia e scienze affini», illustrò la figura del Maestro e ne propagò
la dottrina, elevandosi dalla esposizione acuta e fedele alla originale
ricostruzione e rielaborazione (« La vita e il pensiero di R. A. » «R. A. L’uomo e l’umanista). Il M. ha
definito il positivismo dell’Ardigò come naturalismo umanistico e questa
denominazione designa la duplice direzione nella quale egli stesso ha svolto la
propria attività di scrittore, integrando felicemente il sistema, che rivela
così nella varietà e la novità degli sviluppi la propria feconda vitalità. Il
naturalismo del M. si fonda sopratutto sul principio dell’unità come sintesi
universale: egli concepisce la unità come continuità dinamica dei fatti fisico,
biologico, psichico, postulando il « fatto minimo », come idea-limite, in
armonia con lo stesso concetto della continuità nella eterogeneità, e spiegando
con la impossibilità di depotenziarci la presunta inintelligibilità del
trapasso, alla quale si devono le due estreme concezioni, idealistica e
materialistica. La conoscenza, in quanto è determinata dal reale, in ordine al
principio della continuità stessa ha un valore assoluto ed obbiettivo, non già
puramente simbolico (« La crisi del positivismo e il problema filosofico» «Il SIMBOLISMO [cf. H. P. Grice, SYMBOLO] nella
conoscenza e nella morale»). Umanistico è detto dal Marchesini il naturalismo
dell’Ardigò, principalmente perchè riesce alla celebrazione della persona umana
e dà fondamento razionale e positivo all’idealismo etico e alla dottrina
dell’autonomia; negli ultimi libri del M., e non soltanto in quelli che hanno
più diretta attinenza con la pedagogia (« L’educazione morale» 1914 «I probi,
fond. dell’ed. » «Disegno stor. delle
dottr. ped. 7 » 1922), si manifesta più che mai spiccata la sua eminente
vocazione di educatore. Anche per il M. la continuità non esclude, ma comprova
l’autonomia del soggetto umano, come formazione naturale e pedagogica
superiore, sulla quale si fonda il diritto a un orgoglio umano razionale come
vera e propria virtù etica (« Il dominio dello spirito, ossia il problema della
personalità eildiritto all’orgoglio »). Sulla stessa autonomia si fonda il
principio della tolleranza come rispetto della personalità nella sua
costituzione specifica (« L’intolleranza e i suoi presupposti). L’ideale è
relativo alla personalità, ma pensato come assoluto acquista da ciò uha
particolare potenza utilizzabile pedagogicamente («Le finzioni dell’anima »).
In esso, e nelle sue singole specie, si reintegrano le inclinazioni umane
fondamentali, all’infuori d’ogni trascendenza metafisica, ch’è puramente simbolica
(«La dottrina positiva delle idealità »). Nella teoria del M. si ravvisa ante-
cipata in alcuni de’ suoi elementi più caratteristici e significativi la
filosofia del « come se », che ha avuto in questi ultimi anni singolare fortuna
e grande diffusione. DANDOLO (vedasi), prof, di fil. teor. a Messina, concepì
il problema gnoseologico come problema psicologico, e lo fece oggetto
d’indagine accurata e penetrante, rivelando rare attitudini all’analisi e alla
rappresentazione della vita mentale. Tra fatti psichici e fatti fisiologici
corre un rapporto unitario di correlazione: il fatto psichico non è il
riverbero di un evento fisiologico, ma ha la sua specie caratteristica nella
coscienza, che è autonoma, è un distinto che si pone assolutamente e del quale
è artificioso e vano ricercare il perchè. I limiti dell’esperienza
edelconoscerecoincidono; e continuo è il processo dal senso all’intelletto, se
pur non sia possibile risolvere senza residuo la conoscenza nella sensazione;
ciò che è necessità di origine si conserva come necessità di sviluppo: la pura
sensazione, unità indistinta, s’integra nella percezione, come l’appetito
s’integra mercè la conoscenza nel desiderio, e mercè la ragione nella volontà.
Contro il realismo ingenuo e l’idealismo dogmatico il D. afferma la relatività
reciproca di soggetto e oggetto; il conoscere in generale, mentre si pone come
fatto di coscienza, accenna alla necessità di un eterogeneo, d’un termine
correlativo esteriore, distinto e in pari tempo inseparabile dal pensiero.
Questo incontra nella esperienza un limite alla propria libertà: nella
oggettività della percezione ha fondamento la oggettività della causa, della
legge, della scienza. Contro la dottrina della scienza sostenuta dal Mach, il
D., mentre riconosce la incommensurabilità della spiegazione scientifica con i
fenomeni naturali, sostiene che fra questi e quella intercede un vincolo, che è
un adattamento speciale della intelligenza alle cose: il vero è adattamento
conquistato dal pensiero sulla realtà naturale (« Le integrazioni psichiche e
la percezione esterna» « Le integrazioni
psichiche e la volontà» «La causa e la
legge nell’interpretazione dell’universo»
«Intorno al valore della scienza» 1907 «Studi di psicologia
gnoseologica» 1905-7, oltre a numerosi altri saggi, soprattutto di psic. e di
st. della psic.). TAROZZI (vedasi), prof, di fii. a Bologna, occupa in Italia,
rispetto alla tradizione storica del positivismo sistematico, una posizione
spiccatamente personale: è stato, e si è professato sempre, discepolo delI’Ardigò:
e del positivismo infatti accetta il metodo e alcuni fondamentali postulati: la
filosofia è anche ricerca, perennemente promossa dai risultati della scienza e
dallo sviluppo dei pensiero comune; scienza e filosofia si differenziano non
per il metodo bensì per l’oggetto, e insieme tendono a un fine comune cioè alla
obbiettività, la quale può essere raggiunta dallo spirito umano solo entro
l'ambito della categoria quantitativa, onde ha grande valore filosofico lo
sforzo di esprimere il qualitativo in termini quantitativi; la esperienza non è
di atti ma di fatti; non è concreto se non ciò che è sicuramente determinabile
nel tempo e nello spazio. Ma la originalità del T. si è rivelata anzitutto
nelle critiche alle quali egli sottopose il determinismo, ravvisando in questo
un residuo metafisico e un elemento estraneo allo spirito del positivismo. il
suo indeterminismo, diverso da quelli del Boutroux, del Bergson, del Mach,
congiunge le due concezioni del divenire e della spontaneità del fatto singolo,
senza lasciarsi sedurre dal Xóyo; àgy ò? del finalismo (« Della necessità nel
fatto naturale e umano). Con l’indeterminismo si collega il realismo
gnoseologico, li principio che « la realtà è il fatto della esperienza »
consente una soluzione esauriente della questione relativa alla determinazione
qualitativa e quantitativa della realtà; ma non basta a dar fondamento alla
persuasione della esistenza della realtà: la conoscenza è contingente, e però
presuppone il reale come altro da se stessa, e implica l’idea della esistenza
come incondizionalità dell’essere rispetto alla conoscenza; da ciò s’inferisce
un reale, di cui tutte le determinazioni appartengono alla esperienza, tranne
una, cioè la esistenza, che le si sottrae. Il reale così inteso sfugge a quella
determinazione del finito che è propria della conoscenza razionale: e però è
l’infinita varietà, che come tale non può essere se non II dinamica: infinito
dev’essere dunque il principio dinamico dell’in- finitamente vario in ciascun
essere che l’esperienza ci presenta come determinato e finito. La contingenza
della conoscenza, da un lato, giustifica la distinzione della conoscenza pura
dalla conoscenza empirica e quindi il riconoscimento di leggi proprie del
pensiero, dal¬ l’altro, ha in tale distinzione e nella esistenza di queste
leggi la propria riprova. Nella conoscenza pura, intesa come conoscenza
deH’autonomia dello spirito, consiste il fondamento gnoseologico e logico,
dell’idealismo etico. Caratteri dell’idealismo etico sono la coscienza della
libertà dello spirito, la responsabilità, l’impero effet¬ tivo dell’ideale. La
libertà dello spirito, come rivelazione dell’in¬ finito nella coscienza, e
capacità che ha l’uomo di creare il regno della sua umanità morale, non esclude
ma implica la obbligazione, l’impero dell’universale: l’antitesi che sussiste
fra necessario e infi¬ nito, in quanto quello pone un limite che questo
esclude, vien meno, infatti, nella necessità morale, e in essa soltanto, perchè
in essa l’infinito si limita non negandosi, ma rivelandosi. La responsabilità,
in quanto è correlativa alla obbligazione, è responsabilità non soltanto del
male, ma anche del bene, in quanto è indipendente dalla obbliga¬ zione,
trascende i limiti dell’attività del soggetto, onde questi tende ad assumere
sopra di sè il carico del male della umanità intiera. Effettivo è l’impero
dell’ideale, perchè esso come autonomia dello spirito, è, per natura sua, un
fine: ma non può essere fine a se stesso, bensì presup¬ pone un reale
ateleologico che si offre come oggetto e materia al teleo- logismo in cui esso
ideale si esplica; presuppone dunque, nell’ordine degli oggetti, la natura
indifferente, nell’ordine dei valori, l’utile, il regno dell’interesse
egoistico, in cui l’uomo a questa natura indif¬ ferente obbedisce. Moralità è
spiritualità, e spiritualità è successiva trascendenza di fini gli uni rispetto
agli altri. Con il sentimento dell’infinito ha affinità profonda il sentimento
estetico: l’estetica non determina una distinta regione dello spirito, ma si
afferma sovrana, come espressione sintetica della humanitas. La pedagogia
idealistica che risolve la educazione nell’autoeduca¬ zione, ripugna al senso
comune: la educazione dev’essere spiritua¬ listica, perchè promuovere negli
educandi il loro valore propria¬ mente umano, significa avviarli a pensare come
vera vita la loro vita interiore. Nonostante le ragioni profonde di dissenso,
la dottrina del T. appartiene alla storia del positivismo italiano: il suo
spirito fervido, aperto a interessi molteplici, non si ferma appagato sulle
posizioni raggiunte, bensì è portato a rispondere con sintesi sempre più alte e
più vaste e logicamente meglio coerenti, all’esigenze poste dalla fede generosa
e sincera nei valori umani; ma egli non ha mai dubitato che quella
rivendicazione morale dell’energia dello spirito, che è nello spirito suo il
bisogno fondamentale (Gentile), non sia appunto il programma che il positivismo
propone a se stesso e ha virtù di realizzare (Del T„ che finora non ha
divulgato in modo sistematico tutte le idee qui accennate, vedi: « La coltura
intellettuale contemporanea » « Ricerche
intorno ai fond. della certezza raz. »
«Menti e caratteri » «La virtù contemporanea» « Idee di una scienza del bene » « Il contenuto mor. della libertà del n.
tempo» «L’educazione e la scuola» «Note di estetica sul Par. di Dante»). Anche TROILO
(vedasi), prof, di fil. a Padova, operoso cultore della st. della fil. (« La
dottrina della conoscenza nei mod. precursori di Kant» » Telesio » « La fil. di Bruno » «Figure e studii di st.
della fil.), manifesta, nella esposizione delle sue vedute teoretiche, il
travaglio perenne di uno spirito che si cerca: tutta la sua feconda attività di
scrittore è infusa di pathos profondo. Egli riferisce a un’antitetica che si
rivela fondamentale nell’attività dello spirito, il perenne avvicendarsi dei
due indirizzi, positivistico e idealistico: e tende a uscirne con una dottrina,
che superando la unilateralità delle contrastanti vedute, integri il
positivismo con una sua propria costruzione teoretica (« Idee e ideali del Pos.
» «Il Pos. e i diritti dello spirito»).
Il suo atteggiamento di calda simpatia per il sistema dell’Ardigò non gli vieta
di criticarne il concetto dell’Indistinto psicofisico, nel quale ravvisa una
pericolosa concessione al dualismo; d’altra parte, il fenomenismo puro riesce a
una finale identificazione con il soggettivismo idealistico: a questi indirizzi
egli oppone lo schietto Monismo ontologico, la necessità dell’Essere come Dato
primo assoluto, assolutamente autonomo. Monismo ontologico, ma, d’altra parte,
dualismo gnoseologico: nell'Essere, includente in sè quella forma della Realtà
ch’è lo Spirito, la legge è l’Unità: nel Conoscere, il quale altro non è che
funzione, la legge è la Dualità: cosi organicamente si compongono Immanenza e
Trascendenza, spoglie di ogni residuo metafisico. Ogni filosofia, come
espressione integrale teoretica e pratica dello spirito, è filosofia morale,
pedagogia dello spirito umano: Philosophia sire Vita : la filosofia che non
deve limitarsi a interpetrare il mondo e deve mutarlo, trapassa in storia («
Filosofia, vita, modernità » « La conflagrazione »). Il positivismo del Trailo
si determina come Realismo Assoluto : e un Realismo assoluto è anche la
dottrina di RANZOLI (vedasi), prof, di SI. teor. a Genova. L’oggetto della
conoscenza non è nè una ima- gine dell’oggetto esterno, nè una creazione del
soggetto, bensi lo stesso oggetto che conosce se stesso, e, conoscendosi, .si
pone come identico a sè e come diverso da sè, come conoscente e conosciuto,
come spirito e come natura (« L’idealismo e la fil. »). Porsi come natura
significa rappresentarsi e « distendersi » in quei rapporti spaziali e
temporali che risultando dalla mutua irreducibilità degli elementi della
conoscenza, e quindi del reale, si possono definire come la visione panoramica
che il reale ha di se stesso («Teoria del tempo e dello spazio»). Lo spirito
costituisce il ritmo supremo dell’esistenza, ossia il limite di quel processo
d’individuazione che rappresenta la legge fondamentale della realtà : legge che
non ha nulla in sè di finalistico, ma esprime al contrario la fusione del caso
con la causalità (« Il caso nel pensiero e nella vita»). Queste idee sono
espresse dal R. in una prosa ch’è sovente un modello di stile filosofico: anche
di lui può dirsi, come del Dandolo, che la natura sobria dell'ingegno si
riflette nella composizione nitida e organica delle dottrine, ma non vieta di
avvivarne efficacemente la espressione con imagini colorite e vaghe. Ranzoli,
in un pregevole saggio sopra « La fortuna di E. Spencer in Italia», ha
dimostrato che il positivismo nostro mosse i suoi primi passi sotto la sola
guida del Comte e del Littré, ma se n’è staccato ben presto, attratto dalle
ampie formule della filosofia spenceriana, che meglio si accordavano con la
natura del nostro ingegno e delle nostre tradizioni filosofiche, rappresentate
non soltanto dal naturalismo del Rinascimento, ma anche da quel filone
solitario di filosofia sperimentale che si continua ininterrotto attraverso il
Sette e l’Ottocento: il positivismo dello Spencer, meglio di quello del Comte,
aiutò l’ingegno italiano a ritrovare se stesso: l’Italia di platonica che era,
divenne spenceriana, passando per lo hegelismo: fra questo e il positivismo è
l’abisso, ma la scuola hegeliana, dalla quale uscirono alcuni fra i primi
positivisti (Marselli, Villari, Angiulli) annovera anche pensatori (basti
ricordare il Fiorentino) che, rimanendo sul terreno dello hegelismo,
riconobbero, nei limiti della filosofia della natura, il valore del principio della
evoluzione. E il positivismo italiano fu, per molta parte, evoluzionistico: il
fascino esercitato sopra le menti dalla idea di evoluzione trae il sacerdote
giobertiano TREZZA (vedasi), bene a ciò preparato dagli studi storici
filosofici religiosi, a convertirsi a una intuizione naturalistica, della quale
egli fu il poeta piuttosto che il filosofo: le sue idee si organizzarono («La
critica moderna») intorno ai due concetti, della relatività di tutti i
fenomeni, onde natura e storia gli appaiono come una serie di trasformazioni
perenni e. della immanenza delle leggi cosmiche che sottrae la natura e la
storia all’intervento e all’arbitrio delle volontà trascendenti (Melli). La
sintesi spenceriana trovò largo consenso fra gli scienziati: minor favore incontrò
la dottrina dell’Inconoscibile, combattuta, per opposte ragioni, da hegeliani e
da neo-criticisti, da spiritualisti e da positivisti; ma è manifesta la
influenza dello Spencer sopra quel movimento di pensiero che ebbe per organo la
« Rivista di filosofia scientifica, fondata e diretta da MORSELLI (vedasi),
prof, di psichiatria a Genova. L’opera di lui è soprattutto notevole per lo
sforzo assiduo di richiamare i filosofi alla scienza e gli scienziati alla
filosofia, combattendo la metafisica an- tiintellettualistica, e reagendo
contro io spirito antifilosofico, manifestato o anche ostentato da molti
scienziati puri. Il M. rappresentò autorevolmente una filosofia monistica ed
evoluzionistica, consapevole della propria funzione sintetica e non ignara
delle proprie intime difficoltà, ma da ciò indotta non a cedervi bensì a
superarle - e una psicologia che si rende conto dei limiti, ma anche del valore
del metodo introspettivo («La fil. mon. in Italia» « Id. id.»
« L’evoluz. monistico nella conosc. e nella realtà» «Il darwinismo e l’evoluzionismo» «La psic. scient. o pos. e la reaz.
neo-ideal. » ecc.). Classiche sono le ricerche biopsicoso- ciologiche del M.
sul suicidio. Anche a dire del M. («C. L. e la fil. scient.» ), LOMBROSO
(vedasi), prof, di antrop. crim. a Torino, non fu un filosofo: la sua
Weltanschauung è schiettamente materialistica, la sua psicologia è puro
somatisino; ma se si pensa quanta luce è derivata dalle indagini ch’egli compì
o promosse, alla conoscenza delle manifestazioni psicologiche anormali o
supernormali; se si considera quante idee, accolte, quand'egli le mise in
circolazione, come scandalose o ridicole, sono diventate, quasi
insensibilmente, elementi vitali della comune cultura e hanno agito sopra la
costituzione deila nostra coscienza morale: se infine si pensa alla influenza
che la sua antropologia criminale, ispirata a un rigoroso determinismo bio
sociologico, ha esercitato in tutto il mondo sopra la legislazione penale è
debito di giustizia ricordare l’attinenza dell’opera di lui e de’ suoi
discepoli, con il movimento della filosofia scientifica («L’uomo delinquente»
1878 « L’anthrop. crim.» «L’uomo di
genio» «Nuovi studi sul genio»). Alla
negazione del libero arbitrio e alla fondazione .di una dottrina della
imputabilità penale non costituita sopra la responsabilità morale, diede opera,
con altri, FERRI (vedasi), fondando quella scuola del diritto penale, o
piuttosto della criminologia, che fu detta positiva, e che propugnò lo studio e
la considerazione non del delitto, ma del delinquente. Lombroso diffuse in
Italia « La circolazione della vita » di Moleschott: questo libro, nel quale il
fisiologo olandese, prof, a Torino, sostenne le proprie vedute materialistiche,
ebbe parte notevole nella ispirazione della dottrina lombrosiana. Al
materialismo aderirono o per lo meno inclinarono molti fra i cultori delle
scienze biologiche : e un tale indirizzo è manifesto nelle ricerche
psico-fisiologiche del tedesco J. Maurizio Schiff, prof, di fisiologia a
Firenze («Sulla misura della sensaz. e del movimento» «La fisica nella filosofia»), del suo
discepolo, il russo Herzen (« Fisiol. e psicol. » 1878 « La condizione fisica
della coscienza » « Della nat. dell’attività psich. » «Il moto psich. e la
coscienza ») che nell’« Ana¬ lisi fisiologica del libero arbitrio umano
illustrò il doppio determinismo, organico e sociologico, delle azioni umane; e
dell’antropologo SERGI (vedasi), già prof, a Roma (« Elem. di psic. » «L’origine dei fenomeni psichici»), studioso
anche di problemi pedagogici (« Per l’educazione del carattere » «Educazione e istruzione»). Le vedute del
Sergi furono impugnate dall’antropologo REGALIA (vedasi), sostenitore della
tesi che il dolore è l’antecedente costante e immediato di ogni azione (saggi
vari, cinque raccolti nel voi. « Dolore e azione »). Un altro antropologo, VIGNOLI
(vedasi), coltivò la psicologia comparata (animale e etnografica) e genetica («
Peregri¬ nazioni psicologiche »). L’esclusivismo psicologico nella spiegazione
delle malattie men¬ tali e le ragioni filosofiche che sono poste a suo
fondamento fu¬ rono combattuti dal grande clinico MURRI (vedasi) («Nosologia e
psicologia»). Non si staccò dall’indirizzo materialistico Gabriele Buccola, il
quale a Reggio Emilia dpve sotto la direzione di Augusto Tamburini, e più
recentemente di Giuseppe Guiceiardi, ebbero grande impulso la psicopatologia e
la freniatria avviò ricerche psico¬ metriche che ebbero larga eco anche
all’estero («La legge del tempo nei fenomeni del pensiero »). Ma scarso è il
contributo direttamente recato dai filosofi positivisti alla psicologia con
ricerche sperimentali, alle quali attesero prevalentemente seguaci di altri
indirizzi o studiosi estranei alla milizia filosofica. Allo studio spe¬
rimentale delle emozioni contribuì poderosamente Angelo Mosso, prof, di
fisiologia a Torino: «La paura» «La
fatica»), studioso anche di problemi educativi, il quale aderì alla teoria
Lange-James: a lui e alla sua scuoia (particolarmente al lombrosiano Mariano
Luigi Patrizi, prof, di fisiologia a Modena) è dovuto il primo impulso alle
ricerche di psicologia applicata ai problemi sociali e del lavoro
(psicotecnica). Il nome del Patrizi è legato anche a tentativi
d’interpretazione delle opere d’arte con il sussidio della psicologia positiva
(«Saggio psico antropol. su 0. Leopardi»
«Il Caravaggio e la nuova crit. d’arte ) . TREVES (vedasi), scolaro del
Mosso, contribuì alle stesse ricerche (per es. con studi sopra le relazioni fra
emozioni e lavoro musco¬ lare) e particolarmente coltivò le applicazioni della
psicologia alla pedagogia e alia tecnica scolastica, portando modificazioni
alla scala metrica del Binet. Al problema della valutazione della intelligenza,
e inoltre agli studi di psicologia e pedagogia dei deficienti («Educazione dei
deficienti») si dedicò SANCTIS (vedasi), prof, di psicol. a Roma, autore anche
di apprezzate ricerche sopra i sogni. Benemerito della pedagogia correttiva è
Q. C. Ferrari, direttore della Rivista di Psicologia. BROFFERIO (vedasi), prof,
di st. della fil. a Milano («La filosofia delle Upanishadas », postumo),
esercitò la propria attività nella sistemazione della psicologia e, sopra saldo
fondamento psicologico, della gnoseologia positivistica : si propose il
problema della classificazione delle specie della cognizione, come propedeutico
rispetto al problema dell’origine, razionale o sperimentale, della cognizione,
e ridusse le intuizioni, per le quali la esperienza è resa possibile, alla
intuizione fondamentale del numero (unità e molteplicità), la quale s’integra
in quelle della quantità (intensità) e della qualità; ma di quella intuizione
egli illustrò la natura sperimentale: Scarso è il contributo recato dai
positivisti, alla estetica : oltre all’antro¬ pologo Mantegazza, professore a
Firenze (« Epicuro »), autore anche di molto fortunati studi sulle emozioni, si
può appena ricordare Mario Pilo («Estetica» «Psicologia musicale») e Adelchi
Baratono («Sociol. estetica»): quest’ultimo, autore anche di lodati «Fondamenti
di psicologia sperimentale» ha coltivato
poi di preferenza la pedagogia, con indirizzo criticistico. il preteso a priori
non è se non la esperienza accumulata della razza. Il positivismo affermando,
in contrasto con il materialismo degli scienziati, la relatività della
cognizione e precludendosi la via alla ricerca della realtà assoluta, lascia la
possibilità di fondare sovra prove morali la credenza nella esistenza di Dio e
di appagare la invincibile aspirazione alla immortalità. Il B. ravvisò poi
nelle esperienze spiritiche la verificazione sperimentale di quelle ipotesi che
aveva da prima accolte per volontà di credere («Le specie dell’esperienza» « Man. di psic. » « Per lo spiritismo »). Anche Ettore Galli,
lib. doc. a Padova, pone a fondamento della filosofia la psicologia, analitica
e genetica: origine del conoscere è il sentire, che è fatto biologico. Le leggi
della ragione sono le leggi dell’apprendere; e si apprende quando un fatto di
sentire - secondo una legge dinamica universale - si fonde, in ciò che ha di
comune, con virtualità di sensazioni anteriori: tale processo si ripete in
tutte le operazioni del pensiero. La realtà è tutta relativa al conoscere, e
quindi al sentire: dal sentire nascono così l’io come il non-io. E il sentire è
anche base della morale. La vita, la quale per conservarsi e integrarsi
suggerisce agli uomini la collaborazione e la divisione del lavoro, ha nel
dovere un mezzo che poi agli effetti pratici vien postulato come fine delle
azioni. E al dovere s’informa anche la educazione, in quanto è mossa
dall’esigenze della vita («Nel regno del conoscere e del ragionare» «Alle
radici della morale» «Nel dominio dell’io»
«Alle soglie della metafisica»). Dell’attività esplicata dall’Ardigò,
dal Marchesini, dal Tarozzi come pedagogisti, già si è fatto cenno. L’indirizzo
positivistico ebbe, in generale, grande influenza sopra la scienza della
educazione: e si onora anzitutto del nome di GABELLI (vedasi), che professò un
positivismo agnostico, combattendo le degenerazioni materialistiche; ma più che
ai problemi speculativi, volse la mente ai problemi della pratica: propugnò
l’applicazione del metodo sperimentale alle scienze morali, e delineò un’etica
utilitaria, fondata sopra l’amor di sè, distinto daH’amor proprio (« L’uomo e
le scienze morali »). Esplicò la sua missione socratica (Credaro) con la
diagnosi severa condotta da un punto di vista rigidamente conservatore dei mali
morali del popolo italiano e con la indicazione del rimedio, che doveva
consistere in una educazione diretta a formare le teste, a bandire l’artifizio,
il verbalismo, la retorica, ad assumere come elementi integranti del carattere
idee chiare verificate al paragone della esperienza: il miglioramento morale è
indissolubilmente legato al progresso intellettuale: non sussiste
contraddizione tra il fine umanistico e l’indirizzo realistico della educazione
(«Il metodo d’insegnamento nelle scuole elementari d'Italia » 1880 «
Riordinamento dell’istruzione elementare. Relazione, Istruzioni e
programmi» «L’istruzione in Italia»). ANGIULLI
(vedasi), prof, di ped. a Napoli, reagisce contro l’imperante hegelismo con un
sistema, ispirato alla fede nel valore teoretico e sociale della scienza
positiva, .che è legata con la filosofia da un vincolo d’interdipendenza:
ripudia l’Inconoscibile e ammette la possibilità, per la virtualità
dell’astrazione, di una metafisica critica e scientifica, evoluzionistica e
relativistica. La dottrina della evoluzione cosmica informa di sè anche la
morale scientifica progressiva (migliorismo), la quale s’integra con la
cosmologia in una religione nuova: l’A., determinista, ammette negl’individui
anche il determinismo dell’ideale. Ma l’ideale non si realizza se non nella e
per la educazione, intesa non come sempiice adattamento alle condizioni
esistenti, ma come preparazione a nuove conquiste. Tutti i problemi sociali
s’incontrano nel problema pedagogico, che dev’essere risolto teoricamente con
la costituzione della pedagogia sopra fondamento scientifico e filosofico,
praticamente con l’attuazione sua negli ordini della scuola e della vita.
Liberale in politica, l’A. rivendica allo Stato il diritto, che è dovere, d’impartire
la educazione nazionale e la istruzione obbligatoria e laica. L’incremento
della cultura femminile deve render possibile che si armonizzino, nella
scienza, la educazione domestica e la pubblica. La istruzione scientifica deve
in tutti i suoi gradi essere animata da spirito filosofico («La Filosofia e la
ricerca positiva » 1868 «La Ped., lo Stato e la Famiglia» «La Fil. e la Scuola»). Siciliani, prof, di
ped. a Bologna, aspirò a una sistemazione del positivismo italiano, sulla
traccia di Galileo e del Vico e in armonia con l’evoluzionismo («Sul
Rinnovamento della Fil. pos. in Italia»). La sua pedagogia ha a fondamento la
storia della educazione e ne ricava i due principii della dignità intrinseca
della «santa» personalità umana, e dell’autodidattica (« La Scienza nell’Educ.
» «Rivoluzione e Ped. moderna»).
Fornelli, prof, di ped. a Napoli, contribuì a diffondere in Italia la dottrina
herbartiana (« Studi herbartiani »), la quale tuttavia dovette la sua maggiore
fortuna fra noi all’opera di Luigi Credaro (« La Ped. di G. F. Herbart »): ebbe
vivo il senso della importanza del problema pedagogico nello Stato liberale e
propugnò la laicità della scuola che deve trovare nella scienza il proprio
centro. La misura dell’esigenze che si pongono sopra il fanciullo dev’essere
ricavata dalla considerazione non della sua costituzione psicologica, ma della
finalità civile della educazione. La volontà è determinata, ma tra i fattori
che la determinano è compresa anche la individualità: e in ciò la
responsabilità trova il proprio fondamento. Fu sostenitore, nella istruzione
secondaria, di un temperato classicismo («Educazione moderna» «L’Insegnamento pubblico ai tempi
nostri» «L'adattamento
nell’educazione»). DOMINICIS (vedasi), già prof, dì ped. a Pavia, si è ispirato
ai principii dell’evoluzionismo e del darwinismo («La dottrina dell’evoluzione»
1878-81); ha determinato, in base alla esperienza naturalistica e storica, i
fattori, le leggi, i fini della educazione, il fondamento e i limiti della sua
efficacia, acutamente analizzando la vita interna della scuola (« Scienza
comparata della Educ. »), e ha esercitato grande influenza («Linee di Ped.
elem. ») sopra la formazione dei maestri. COLOZZA (vedasi), prof, di ped. a
Palermo, concepisce non diversamente dal suo maestro Angiulli la scienza della
educazione nel sistema della filosofia scientifica ed evoluzionistica («Saggio
di Ped. comparata» «La Ped. nei suoi
rapporti con la Psic. e le Se. Soc. »): ma ha temprato il forte e indipendente
ingegno nell’analisi psicologica, nella ricerca del fondamento psicologico
della pedagogia, nello studio di problemi educativi e didattici, nella
revisione di concetti comunemente accolti senza discernimento critico: dal
ripensamento originale della dottrina del Rousseau ha tratto conforto alla fede
nella virtù del metodo attivo; ha risposto negativamente al quesito se esista
la educazione dei sensi («Il giuoco nella psic. e nella ped.» «Del potere d’inibizione» «La meditazione» «Questioni di Ped.» «Il metodo attivo nell 'Emilio. Ripensando l
’Emilio » «La matematica nell’opera
educativa»). VALLE (vedasi), prof, di ped. a Napoli, studiò la formazione
dell’autocoscienza, nel riguardo della forma e del contenuto (« La Psicogenesi
della coscienza »): ma prevale nell’opera sua il gusto delle vaste costruzioni.
La vita umana dà materia alla indagine sperimentale del lavoro mentale (che è
sempre un mezzo), e alla indagine speculativa del Valore (che è sempre un
fine,): donde due dottrine pure (Psicoenergetica, Axiologia) e due dottrine applicate
(Psicotecnica, Teleologia). Il D. V. può dirsi positivista, quando ricava « Le
Leggi del lavoro mentale » per induzione da esperienze, anche originali, e
ravvisa nella pedagogia sperimentale un capitolo della psicotecnica (come la
ped. fil. è un capitolo della teleologia). Ma la sua axiologia realistica lo
allontana dal positivismo. I Valori (esistenziali, logici, estetici, morali,
economici) sono rivelati ma non contenuti dalla coscienza: sono il prodotto di
una sintesi a priori ; possono esser creduti, ma non dimostrati; sono assoluti,
trascendenti, cioè indipendenti da ogni singola mente e validi potenzialmente,
anche se non intuiti empiricamente da alcuno. Si unificano oggettivamente nella
Realtà assoluta trascendente (Dio), soggettivamente nella coscienza generica
assoluta. L’educazione consiste nella creazione e acquisizione delle varie
classi di valore (« Teoria Gen. e Formale del Valore, come fondamento di una
ped. fil.: Le premesse dell’Axiol. pura» ,). Montessori ha coltivato l’«
Antropologia pedagogica », ma il suo nome è soprattutto legato alle Case dei
bambini, che hanno avuto ampia diffusione anche all’estero e nelle quali il
principio di spontaneità è portato alle sue estreme applicazioni («Il met.
della ped. scient. applicato all’educ. inf. nelle Case dei bambini» « L’autoeduc. nelle se. elem. » «Manuale di ped. scient. »). TAURO (vedasi), Tauro,
lib. doc. a Roma, autore di un lodato profilo del Pestalozzi, ha propugnato il
metodo positivo ed evoluzionistico nella ped., scient. e filosofica, della
quale ha delineato un piano sistematico (« Introd. alla ped. gen. * 1906): ha
studiato « Il probi, delia coltura nelle sue attinenze con la scienza e con la
scuola», ha affrontato questioni di ped. applicata, relative alla educaz.
intellettuale (« L’unità mentale e la concentraz. della istruz. » 1907) e alla
formazione del maestro (« La preparaz. degl’insegnanti elem. e lo studio della
ped. »), ha, infine, assunto il silenzio a oggetto di analisi psicologiche e di
ricerche storiche accurate, fermandosi a considerare il silenzio interiore come
mezzo e processo dell’autoeducazione («Il Silenzio e l’Educazione dello
Spirito»). Per RESTA (vedasi), lib. doc. a Roma, realtà propria del vivere
umanno è non l’errare a caso in balia delle contingenze (attualità,ed
eterogenesi dei fini), ma la conformità dei risultati complessivi a un piano di
svolgimenti progressivi (persistenza, e omo-genesi dei fini). Occorre perciò
(ed è tendenza dell’uomo) una forma o norma di vita, per la progressiva
riduzione dell’ordine naturale e attuale dello sviluppo umano, secondo l’ordine
ideale o finale della vita. Una tale forma o legge delle realizzazioni umane è
la educazione: e questa è, da un lato, inerente al vivere umano, ma si rivela
anche, dall’altro lato, specifica cioè distinta e originale, in quanto si
definisce come legge di maestria, cioè come il farsi maestro e far da maestro,
mediante una progressiva azione di corrispondenza delle potenzialità ed
inclinazioni del soggetto (ordine attuale) alle finalità della vita (ordine
finale). La educazione è dunque attività di sforzi perfettivi possibili (legge
di convenienza progressiva) che si trasformano in abilità o autonomia (legge di
maestria) del soggetto nei fini della vita: suo modello dev’essere la
personalità più saldamente autarchica (l’autonomia) nella migliore
realizzazione dell’ordine ideale (Peunomia) « L’anima del fanciullo e la ped.
» «I probi, fond. della ped. » «Trattato di Ped. 1 » « L’educaz. del geografo ». Il carattere
umanistico della morale dei positivisti è stato già rilevato. Paolo Raffaello
Troiano, prof, di fil. mor. a Torino, studioso benemerito dell’etica greca,
defini come umanismo la sua filosofia : umanismo critico e integrale, distinto
dall’umanismo pragmatistico, perchè tien separate le categorie gnoseologiche e
quelle pratiche. L’uomo è il centro teoretico e appreziativo del mondo: tutto
da lui prende luce e si predica, tutto da lui prende senso e si avvalora.
Fondamento di ogni valutazione è uno spirito individuale, che è l’unico reale: lo
spirito assoluto è impensabile, lo spirito collettivo una metafora. Ma
nell’individuo esistono pure tendenze collettive e storiche, e tendenze
universali: individualismo e universalismo sono aspetti inseparabili
deH’umanesimo concreto. Ogni etica metafisica è essenzialmente eteronoma e
dogmatica: la concezione subbiettivi- stica dei valori porta a costruire la
morale sopra fondamento psicologico. Centro della vita psichica, organo dei
valori finali, regolatore supremo della vita è il sentimento, che è il Iato
subbiettivo e vissuto d’ogni fenomeno psichico, e però espressione immediata
dello stato del soggetto: fondamento di una morale autonoma è il sentimento non
come dolore (tendenza) o piacere (fruizione), bensì come sentimento di calma
che rivela lo stato di tregua per la so- disfazione avvenuta e l’armonia di
tutte le tendenze: all’edonismo va sostituito l’alipismo: il senso di tutto il
mondo dello spirito umano è spirito, sospiro o conato di pace, di liberazione
dal dolore. L’umanismo pedagogico assume a fine della educazione la perfetta
formazione degli organi individuali dei valori umani, informandoli al sistema
storico della coltura: la educazione deve tendere a sostituire i valori
religiosi con valori spirituali più alti, vincendo la superstizione del divino
con la celebrazione divina dell’umano (« Etilica. I » « Ricerche sistematiche per una fil. del
costume. I «La fi!, mor. e i suoi probi,
fond. » « Le basi dell’umanismo » «L’umanismo ped. ). L’umanismo etico di CESCA
(vedasi), prof, di st. della fil. e di ped. a Messina, è fondato sul
fenomenismo gnoseologico ed esclude da sè il trascendentalismo, ma culmina
nella concezione di una religione morale e umanitaria (« La religione morale
dell’umanità» «La Fil. della vita» « La Fil. del- l’az. »). La religione
identificata con la forza della idealità continuamente aspirante al meglio,
viene anche a identificarsi con la educazione moderna che, distinguendosi
dall’addestramento, deve rivolgersi all’Io profondo dell’educando («Religiosità
e ped. mod.). Il C. costruisce la pedagogia generale sopra fondamento
evoluzionistico: il suo pluralismo critico tende a superare « Le antinomie
psicologiche e sociali della educazione»
nella concezione della educazione stessa come processo unitario, realiz-
zantesi nella concordia di discordi molteplici fattori. In JUVALTA (vedasi),
prof, di fil. mor. a Torino, è particolarmente viva la consapevolezza della
esigenza critica. Non ha scritto molto: ma gli scritti suoi (« Prolegomeni a
una morale distinta dalla metafisica » «
Su la possibilità e i limiti della morale come scienza» 1907 «II vecchio e il
nuovo problema della morale » « I limiti
del razionalismo etico ») son tutti il frutto di meditazione severa, promossa
da un irresistibile bisogno di chiarezza che lo trae a rivedere assiduamente
non soltanto le soluzioni dei problemi etici che sono state proposte nel corso
della storia, ma anche i termini e la posizione dei problemi stessi. Le
esigenze di ordine morale sono fondamentali e decisive nella posizione e nella
soluzione dei problemi di ordine metafisico; e direttamente o indirettamente ne
dipendono anche le questioni filosofiche, che a primo aspetto si presentano
come d’interesse prevalentemente teoretico. È dunque, nonché opportuno,
necessario affrontare i problemi morali indipendentemente da presupposti di
qualsiasi indirizzo filosofico, implicanti una particolare soluzione dei
problemi della realtà e della conoscenza. Nella scelta fra le diverse
intuizioni religiose, o fra i diversi sistemi filosofici, prevale
l’atteggiamento personale della coscienza morale. Lo J. crede alla possibilità
di una scienza normativa etica, ma la fa consistere in un sistema di relazioni
e di leggi, le quali non hanno valore di norme da seguire, se non nella ipotesi
che sia assunto come fine quell’effetto o quell’ordine di effetti, del quale
esse leggi esprimono le condizioni e i fattori. Una tale scienza differisce
dalle altre scienze precettive soltanto perchè suppone che al fine suo sia
riconosciuto un valore di universale preferibilità e precedenza sopra ogni
altro fine. Perchè la determinazione delle norme etiche possa dirsi
scientifica, si richiede che il fine sia umanamente possibile, cioè in
relazione di dipendenza da una certa forma di condotta collettiva o individuale
(e particolarmente per questa maniera d’intendere il carattere scientifico
della morale, il punto di vista dello J. si differenzia da quello che ha
prevalso tra i positivisti). Perchè le norme sieno norme etiche, si richiede
che sia ammesso come postulato che il riconoscere al fine assunto valore di
universale preferibilità e precedenza rispetto a qualsiasi altro fine
umanamente possibile, è una esigenza morale. L’esigenza caratteristica di una
norma morale (esigenza giustificativa, diversa dalla esigenza esecutiva, che è
relativa ai mezzi di assicurare la osservanza della norma stessa) è quella di
una universale giustizia; e il fine che sodisfa a questa esigenza è una forma
di società umana tale, che tutti i socii trovino nelle sue stesse condizioni di
esistenza la medesima o equivalente possibilità esteriore di rivolgere la loro
attività alla ricerca di qualsivoglia dei beni ai quali la convivenza e
cooperazione sociale è mezzo. Allo studio del conflitto fra i criteri
fondamentali di valutazione morale, lo J. ha recato, e ancora promette,
notevoli contributi. ORESTANO (vedasi), prof, di st. della fil. a Palermo, ha
coltivato la storia della filosofia e della pedagogia («Der Tu- gendbegriff bei
Kant» 1901 «Le idee fondam. di F. Nietzsche»
«L’originalità di Kant» « Comenio
» « Angiulli » «Rosmini» « L. da Vinci»)
e la filosofia morale (« I Valori umani»
«La scienza del bene e del male»
« Gravia Levia» «Prolegomeni alla
scienza del bene e del male » «
Pensieri. Meglio che fra i positivisti, va annoverato fra i seguaci
dell’indirizzo critico. Egli ritiene che il positivismo coerente non possa
uscire dalla descrizione della vita morale: ma la scienza si rivela
insufficiente di fronte alle questioni più essenziali che la mente umana può
proporsi di fronte alla realtà, e delle quali nell’operare umano è implicita
una soluzione : la esperienza morale, forse tutta la esperienza umana, non
rivela al pensiero la totalità delle condizioni sue: non tutta la realtà è
nell’esperienza. 11 progresso dello spirito è segnato dall’accrescimento dei
problemi. D’altra parte l’O. ha finora soprattutto inteso a costruire sul
terreno della esperienza una scienza del bene e del male, che si limita alla
descrizione più economica, cioè più semplice e più completa, dei rapporti
funzionali elementari (espressi possibilmente nella forma del calcolo) dei
fenomeni morali; e ha portato nn ricco geniale contributo al problema del
valore e della valutazione, considerato cosi in generale come dal punto di
vista etico. Ogni sistema di vita morale consiste infatti in un complesso di
valutazioni, tendenti a obicttivarsi mediante azioni e a svilupparsi in un
sistema di prin- cipii e di leggi. Ammessa la subbiettività del valore, non per
questo se ne assume come sufficiente la spiegazione psicologica: la coscienza
non è che una piccola sezione della personalità: e quest’ul- tima è coestensiva
col sistema della vita, il quale presenta, nell’aspetto organico psicologico
sociale, una composizione multipla e pluricentrica. L’unità trascendentale
dell’io è un mito che non spiega nulla. La valutazione è una funzione
dell’interesse (che è reazione totale dell'io): è la coscienza riflessa di uno
stato d’interesse riferito al suo oggetto. Il concetto ontologico del valore
non può essere fondamento della scienza morale, la quale deve adoperare il
concetto del valore come un principio formale di sintesi dell’esperienza morale
senza obbedire ad alcuna intuizione concreta; caratteristico della reazione
morale è pertanto il riferimento di un oggetto particolare d’interesse al
concetto fondamentale che si ha della vita nella totalità de’ suoi scopi:
questo concetto è il vero fondamento di tutt’i giudizi etici: fondamento
relativo, ma che una volta fissato, agisce come principio assoluto. Tale
definizione s’integra nella definizione del fatto morale come impiego
effettivo, cosciente e volontario della vita in funzione di un tale concetto
unitario, esplicito o implicito, di essa: è la vita che pensa e vuole se
stessa, che sceglie da sè i suoi propri modi di essere: il mondo morale è una
teleologia in azione. Ma la vita non può pensarsi nè volersi che socialmente:
la personalità sociale è il soggetto della esperienza etica, la quale presenta
cosi due aspetti, sociale e personale. L’O. riconduce tutte le valutazioni a un
comune denominatore, la vita, che è la massima misura umana della realtà e del
valore: il valore della vita, poi, è una funzione dipendente del valqre supremo
idealmente concepito: per VALLI (vedasi), lib. doc. a Roma, «Il Valore Supremo
» s’identifica con la vita stessa. La sua teoria generale del valore come
simbolo di una corrente d’impulsi o di volontà concordi in una direzione, mette
in luce la legge di proiezione dei valori, per la quale la coscienza crea ai
valori stessi una meta fittizia, considerando come valore proprio l’ujtima
parte consapevole di ogni processo vitale, e con ciò crea i falsi assoluti
della morale, che devono via via decadere. Valore proprio, rispetto al quale
tutti gli altri sono valori relativi, è soltanto la vita, unico valore vero e
perciò supremo, nel quale e per il quale esistono gli altri valori, compresi i
valori conoscitivi che sono anch’essi valori strumentali della vita. In questa
stessa Rivista, il V. ha presentato modificata in senso antiintellettualistico,
la teoria della religione sostenuta nel libro « Il fondamento psicol. della
religione. ZINI (vedasi), lib. doc. a Torino, aderisce, sul terreno della
gnoseologia, al realismo critico: afferma l’intima unità o mutua
compenetrazione dello spazio e del tempo, e svolge una teoria dinamica dello
spazio, concepito come emanazione del tempo: la nostra sensibilità, cioè ia
nostra vera vita spirituale in quanto è formata di rappresentazioni e di
sentimenti, d’intuizione e di volontà, è soggetta alla legge fondamentale del
tempo e delio spazio; ma le condizioni per cui nella realtà soggettiva sorgono
queste forme fonda- mentali, esistono nella realtà oggettiva, nella natura («
La doppia maschera dell’universo»). Nel campo della morale, lo Z. haprofessato
sempre la insufficienza dell’empirismo e si è venuto sempre più accostando («
La morale al bivio») alla posizione cri- ticistica, in antitesi con il
naturalismo etico e il determinismo: ma può essere annoverato qui per l’opera
data alla costruzione di una morale logica, la quale sia l’applicazione alla
condotta dei sistemi di cognizioni formulati dalla scienza. Lo Z. ha
vigorosamente criticato la morale religiosa, emotiva ed eteronoma, tutta volta
alla espiazione del passato e alla redenzione dai peccato, e, svelandone il
meccanismo psicologico, l’ha presentata come impedimento alla formazione della
personalità libera e responsabile (« Il pentimento e la morale ascetica» 1902):
egli ha ricostruito la storia psicologica del sentimento e della idea di «
Giustizia », e studiato il problema sociale come problema che è anche morale e
che trova la sua soluzione non nella socializzazione della proprietà, ma nella
partecipazione di tutti alle condizioni di una civiltà superiore (« Proprietà
individuale o proprietà collettiva?» 1902). Scolaro dell’Ardigò e del
Marchesini, LIMENTANI (vedasi), prof, di fil. inor. a Firenze, ha sostenuto che
un’etica indi- pendente dalla metafisica deve abbandonare ogni pretesa
normativa o deontologica: il valore morale si specifica come rapporto formale
fra la coscienza del dovere la quale si spiega con la costituzione pluralistica
della personalità e della società e la condotta effettivamente praticata:
misura del valore morale è lo sforzo, ed è però competente a giudicarne, in più
eminente grado, lo stesso soggetto agente. Dalla valutazione morale strido
sensu vanno distinte come « quasi morali » altre valutazioni, fra le quali
caratteristiche son quelle dipendenti dalla relazione fra la condotta del soggetto
e le aspettazioni dei socii (« I presupposti formali della indagine etica »
1912 «La morale della simpatia»
«Moralità e normalità» «L’onore e
la vita morale»). SALVADORI (vedasi), lib. doc. a Roma, contribuì efficacemente
alla diffusione della dottrina evoluzionistica, con traduzioni di opere dello
Spencer e monografie illustrative (« H. S. e l’opera sua» 1900 «La scienza
economica e la teoria dell’evoluzione. Saggio sulle teorie econ.-soc. di H. S.»
1901 «L’etica evoluzionista. Studio sulla fil. mor. di H. S.»); combattè gli
errori del trasformismo meccanico («Natura, evoluzione e moralità» 1909) ed
ebbe a guida l’evoluzionismo così nel sostituire una spiegazione razionale dei
sentimenti morali alle spiegazioni metafisica e puramente empirica, rivelatesi
insufficienti ( « Determinaz., classificaz. e spiegaz. dei sent. mor.»), come
nel fondare sopra la conciliazione dell’antitesi essere-divenire, un concetto
positivo del diritto naturale («Das Naturrecht und der Entwicklungsgedanke»
1905). 9. Il positivismo italiano già nel suo fondatore, il Cattaneo, è, sulle
orme del Vico, storicismo: Marselli, scolaro del De Sanctis, dopo avere, ne’
primi suoi lavori di fil. della st. e di estetica, ormeggiato lo Hegel, provò
poi il disgusto dello abuso che gli hegeliani avevano fatto della Idea astratta
e della scienza a priori, e concepì la storia come la più alta tra le scienze
di osservazione, che con lo stesso metodo adottato dalle scienze naturali, deve
rivelarci le manifestazioni della natura umana e le sue leggi. Il positivismo
del M. è una metafisica monistica, che non oppone lo spirito alla natura, nè
risolve questa in quello, ma spiega con la legge di evoluzione il progresso da
una all’altro («La scienza dellastoria»
«Le leggi storiche dell’incivilimento», postumo). P. R. Troiano diede
opera alla costituzione de «La storia come scienza sociale», combattendo il
concetto dellastoria come opera d’arte. Da apprezzate ricerche d’etnologia
preistorica e protostorica («L’origine degli Indoeuropei»), condotte sulla
traccia luminosa d’intuizioni del Cattaneo, Enrico De Michelis procedette ad
approfondire il problema della conoscenza storica. Le scienze di leggi dalla
matematica alla sociologia e la storia lato sensu, rispondono a due distinte
esigenze del pensiero: le prime hanno per oggetto quei rapporti
condizionalmente necessari delle cose e dei fenomeni che costituiscono la
«Natura»: la seconda riesce invece alla costruzione e rappresentazione del
reale a titolo di « mondo » o «universo». Hanno torto quei positivisti che
vorrebbero sostituire la storia con le scienze di leggi, estendendo a quella il
contenuto logico e il tipo epistematico di queste; ma è anche infondata (o
fondata soltanto sopra un’analisi insufficiente delle categorie sotto le quali
viene pensato il reale come natura, e sovra persistenti vedute astrattistiche e
sostanzialistiche) la svalutazione del conoscere matematico-naturalistico. Se
la costruzione della storia è il termine d’arrivo di tutto il conoscere, ogni
progresso della conoscenza storica ha per condizione il progredire delle
scienze di leggi; e se queste avessero un valore puramente convenzionale,
neanche la storia potrebbe aspirare a un valore filosofico («II problema delle
scienze storiche»). BERTAZZI (vedasi), prof, di st. della fil. a Catania,
fecondo studioso del pensiero antico, medievale e moderno, ha avviato ampie
ricerche sovra «I presupposti fondamentali della storia della filosofia. Asturaro,
prof, di fil. mor. a Genova, considerò i problemi morali dal punto di vista
dell’evoluzionismo, che, meglio del semplice associazionismo, offre il modo di
conciliare il naturale egoismo con l’ideale del disinteresse («Saggi di fil.
mor.»): si adoperò sopratutto a sistemare la sociologia mediante la
classificazione e seriazione dei fatti sociali : approfondì la dottrina del
metodo delle scienze morali e la dottrina della classificazione delle scienze (
« La sociologia, i suoi metodi e le sue scoperte»). Ma della vastissima
letteratura sociologica che dilagò per l’Italia sul finire dello scorso secolo
e nel primo decennio del presente, non è il caso di far parola: sopra quella
emergono per l’austera serietà degli intendimenti e la rigorosa fedeltà al
metodo positivo gli « Elementi di scienza politica» di MOSCA (vedasi), prof, di
diritto costituzionale a Roma, e il «Trattato di sociologia generale» di
Pareto: questi scrittori, se pure non fecero professione di filosofia, con il
loro pensiero robusto e originale esercitarono grandissima influenza sopra la
formazione delle giovani generazioni. Scolaro dell’Ardìgò, LORIA (vedasi),
prof, di economia politica a Torino, sociologo ed economista dei più eminenti,
ricercò un principio che lo guidasse alla spiegazione organica della vita
sociale: non si propose la soluzione di problemi speculativi, ma intese il
materialismo storico come un ferreo determinismo economico e ne trasse nel modo
più intransigente estreme illazioni («Le basi economiche della costituzione
sociale). Diffuse con parola lucida colorita efficace la conoscenza del
movimento sociologico contemporaneo («La sociologia, il suo compito, le sue
scuole, i suoi recenti progressi» «Verso
la giustizia sociale »). La concezione della storia come divenire automatico e
fatale dei processi economici, e la interpretazione del materialismo storico
come applicazione della filosofia materialistica alla storia, sono state
vigorosamente combattute da MONDOLFO (si veda), prof, di st. della fi!, a
Bologna. Già Labriola, prof, di fil. mor. a Roma, aveva sostenuto che il
materialismo storico deve fondarsi sopra una dottrina di attività, sopra la
marxista filosofia della praxis: l’uomo non è un essere passivo e inerte, docile
all’azione delle condizioni esistenti: queste, mentre limitano e ostacolano la
sua azione, lo stimolano a volgersi contro di esse per reagirvi e trasformarle:
le condizioni stesse che l’uomo ha create sono da lui, nel processo della lotta
fra le classi, superate e trasformate. Il mar- ximo del L., contro ogni teoria
dei fattori storici, artificiosamente separati ed entificati, rivendica il principio
della unità della vita e della storia («Saggi intorno alla concez. mater. della
st. »). Anche il Mondolfo, autore di pregevoli saggi di psicologia (Studi sui
tipi rappresentativi») e di storia della filosofia (« E. B. de Condillac » « La
morale di Hobbes » « Le teorie mor. e poi. di Helvétius » 1904 «Il dubbio
metodico e la st. della fil.» «Il
pensiero di Ardigò» «La fil. di Bruno
nella interpretaz. di F. Tocco» «
Rousseau nella formaz. della cose, mod. » 1913 « F. Acri e il suo pensiero) e
studioso di problemi pedagogici e culturali («Libertà della scuola»),
interpreta il materialismo storico come intuizione volontaristica della vita e
concezione critico-pratica della storia (« 11 materialismo stor. di F.
Engels» «Sulle orme di Marx J »). A
fondamento della ricostruzione della dottrina sta lo stesso criterio, per cui
la dialettica reale del Marx si opponeva alla dialettica hegeliana della idea,
ossia il principio, derivato dall’umanismo del Feuerbach, che restituisce
all’uomo la sua concreta realtà ed azione nella vita, affermando di fronte alla
realtà dello spirito la realtà della natura. La conoscenza e la storia umana si
sviluppano in un rapporto dialettico fra soggetto (bisogni, aspirazioni,
volontà degli uomini) e oggetto (condizioni naturali e storiche): questo si
pone come limite, ostacolo e perciò stimolo progressivo all’attività umana e
alle conquiste e creazioni, ch’essa compie nella diuturna sua lotta, e che si
convertono nelle condizioni nuove, alle quali nuovamente spetterà la funzione di
limite e perciò d’impulso a nuovi sforzi di superamento. In questo volontarismo
concreto, che riconosce fra i bisogni umani la preminente impellenza del
bisogno economico, è l’essenza del processo storico e, insieme, la direttiva di
ogni azione aspirante a inserirsi efficacemente nella storia. Alla conoscenza
della dottrina e dell’attività politica degli estremi partiti rivoluzionari ha
contribuito validamente Ettore Gambigliani Zoccoli (« L’anarchia - Gii
agitatori - Le idee - I fatti), autore anche di saggi sopra la filosofia dello
Schopenhauer e del Nietzsche e già prof, di fil. mor. a Catania. 11 - Largo
contributo recarono i positivisti agli studi di filosofia giuridica, nei quali
aveva già stampato un’orma profonda Roberto Ardigò con la sua Sociologia. Uno
sforzo di conciliazione fra le dottrine positivistiche e il criticismo si
ravvisa nei tre volumi delle Opere di VANNI (vedasi), prof, di f. d. d.° a
Roma, che assegnò alla fil. del dir. il triplice problema gnoseologico,
fenomenologico, deontologico: mise in luce la esigenza gnoseologica implicita
nello stesso positivismo conitiano e illustrò la dottrina etico-giuridica dello
Spencer: segnò le linee fondamentali di un programma critico di sociologia,
riconoscendo la caratteristica della vita sociale nella «storicità-. Le sue
Lezioni ebbero grande efficacia sulla educazione mentale di parecchi giuristi.
Piuttosto eclettica che propriamente positivistica è la dottrina di CARLE
(vedasi), prof, di f. d. d.° a Torino (« La vita del diritto nei suoi rapporti
colla vita soc.» «La F. d. d°. nello
Stato mod.), ispirata ai principii dello storicismo. La necessità di una larga
concezione sociologica e storicistica del diritto fu sostenuta da Biagio Brugi,
prof, d’istituz. di d° civ. a Pisa: « Introduzione enciclopedica alle Se. giur.
e soc. 4 » 1907), seguace e propugnatore dei principii della scuola storica, il
quale accolse e illustrò la dottrina dell’Ardigò ; da Dallari (: «La esigenza
del posit. crit. per lo studio fil. del dir. »
« Il pensiero fil. di Spencer » «
Il nuovo contrattualismo nella fil. soc. e giur.» « F. d. d.° e scienza storica
dell’incivilimento»); e da Gioele Solari (n. 1872: «La scuola del diritto
naturale nelle dottrine etico-giuridiche dei sec. XVII e XVIII» 1904 «La idea
individ. e la idea soc. nel d°. privato»
«li probi, mor. »), professori di f. d. d°. a Pavia e Torino. Rigoroso
positivista fu Salvatore Fragapane, prof, di f. d. d°. a Bologna, che sostenne
contro il contrattualismo l’unità dell’individuo e del gruppo, dell’idea e del
fatto, della coscienza e della società («Contrattualismo e sociol. contemp. »
1892), applicò al campo della filosofia giuridica il metodo genetico evolutivo
(« Il probi, delle origini del dir. ») e combattè l’eclettismo del Vanni,
negando il compito deontologico della f. d. d.° (« Obbiettò e limiti della f.
d. d.° »). Scolaro del Fragapane e illustratore dell’opera del Vanni è FALCHI
(vedasi), prof, di f. d. d.° a Parma («L’opera di I. Vanni» «Sulla differenziaz. del diritto dalla mor.
» «Le mod. dottrine teocratiche» « I fini dello Stato e la funz. del Potere»),
che negò la legittimità della esigenza metafisica nella f. d. d.° Particolare
attenzione all’aspetto psicologico della fenomenologia giuridica prestò
Vincenzo Miceli, prof, di f. d. d.° a Pisa, che sostenne la riduzione della f.
d. d.° per la parte speculativa alla filosofia morale, e per la parte tecnica
alla dottrina generale del diritto (« Le fonti del d.° dal p. d. v.
psichico-soc. » « Prin- cipii di F. d.
d.° »). Considerarono la vita del diritto da un punto di vista evoluzionistico
e antropologico Schiattarella, Giuseppe d’Aguanno e PAPALE (vedasi), prof, di
f. d. d.° rispettivamente a Palermo, Messina, Catania. Dalla scuola dell’Ardigò
sono usciti Alessandro Grappali e Alessandro Levi: il primo, prof, di f. d. d.°
a Modena, contribuì alla critica della Sociologia del Maestro dal punto di
vista del materialismo storico (« La genesi soc. del fenomeno scientifico»),
fece conoscere in Italia le principali correnti del pensiero sociologico straniero
(« Saggi di sociologia » « I fondamenti
giu.el solidarismo » 1914) e assegnò alla sociologia la triplice funzione
critica, sintetica e teleologica («Sociologia e psicologia»). LEVI (vedasi),
prof, di f. d. d.°a Catania, assegna alla filosofia il compito di discutere il
problema gnoseologico, e conseguentemente intende la f. d. d.°come logica o
gnoseologia del diritto, differenziato dalla economia e dall’etica come una
distinta forma logica o «guisa» dello spirito umano; assume come concetto
fondamentale dell’ordinamento giuridico, quello di rapporto giuridico,
individuazione della forma logica del diritto, che è l’apprezzamento delle
attività nel loro profilo intersoggettivo: «ubi societas, ibi ius».
(«Contributi ad una teoria fil. dell’ordine giur.» « F. d. d.°e tecnicismo giuridico» «Saggi di teoria del d.° » « La Fil. poi. di G. Mazzini »). BARTOLOMEI
(vedasi), prof, di f. d. d.° a Napoli, in un saggio giovanile discusse, alla
stregua di una metafisica monistica e apprezzò con equanimità e acume « I
principii fondam. dell’etica di R. Ardigò e le dottrine della fi], scientifica
», ma il suo ulteriore pensiero si svolse in direzione piuttosto criticistica
che non positivistica. DONATI (vedasi), prof, di f. d. d.° a Macerata, ha
portato contributi allo studio del diritto come fenomeno, e si è poi rivolto
specialmente alle ricerche storiche, rendendosi benemerito degli studi vichiani
(«Interesse e attività giuridica» «11 socialismo giur. e la riforma del d.°
» « Il rispetto della legge dinanzi al
principio di autorità. Critica alla Fil. civ. di Hobbes » 1919 «Autografi e
documenti vichiani inediti o dispersi » 1921 « Essenza e finalità della scienza
del d° »). VACCA (vedasi) ha tracciato le linee di un programma di f. d. d.°
sulla base del metodo sperimentale («Il d.° sperimentale»). Il positivismo fu
portato naturalmente a contribuire a quel movimento che può definirsi di
filosofia della scienza. Positivistico è l'atteggiamento assunto nel suo libro
«Scienza e opinioni» da Bernardino Varisco (n. 1850), prof, di fil. a Roma, il
quale non potrebbe esser annoverato oggi più tra i positivisti, dopo la
revisione e le integrazioni alle quali è stato indotto dal suo indomito spirito
di ricerca. Il V. distingue assolutamente pensiero e realtà. Questa si compone
d’infiniti corpuscoli, estesi ma fisicamente indivisibili, dotati di proprietà
psico-fisiche. Fisicamente, i corpuscoli si muovono e all’occasione si urtano;
e, quantunque duri, negli urti si comportano come se fossero elastici. La
fisica del V. si riduce integralmente a una meccanica, sul genere di quella del
P. Secchi: l’accadere fisico è quello che ha luogo tra i corpuscoli, mentre
l’accadere psichico è provocato, In ogni corpuscolo, degli urli a cui va
soggetto. Non esistono mentalità indipendenti dal fatto del nostro pensare (il
V. mantiene anche oggi questo suo concetto, che per altro ha reso più
coerente). L’esigenza del nostro pensiero non è se non l’esigenza causale dei
fatti psichici che lo costituiscono, Ciascun fatto psichico (separatamente
preso) è insieme una forza, e un conoscere affatto embrionale, ma certo
assolutamente. Quello che è vero va distinto da quello che consta. P. es.:
consta che C è conseguenza necessaria di P; consta che il remo nell’acqua si
vede spezzato. Ma C non è vera che sotto condizione; e che il remo sia
spezzato, non è punto- vero. Quello che consta non è dunque vero, in generale,
che relativamente; peraltro è un vero noto e certo. Al di là di quello che
consta c’è un vero assoluto (p. es., la dipendenza necessaria di C da P è
assolutamente vera), che può essere in parte ignoto, o non conosciuto con
certezza. Per giungere alla cognizione del vero assoluto, è necessario che ci
fondiamo su quello che consta. E a ciò si riduce quello, che dal V. fu chiamato
il suo positivismo: constano soltanto le conclusioni delle scienze positive
(dimostrative, secondo Galileo, il quale riteneva opinabili tutte le altre
dottrine). Fine della filosofia,secondoilV.,ilqualeinpropositononmutò molto le
sue opinioni, è la discussione del problema, se oltre alla natura psico-fisica
ci sia o non ci sia un soprannaturale, cioè se la religione sia o non sia
giustificata. Ed egli rispondeva allora che alla riflessione il soprannaturale
non può constare; il sentimento del soprannaturale, qualunque ne sia il valore
oggettivo, non può essere tradotto in cognizione distinta, non può servire di
fondamento alla costruzione del sapere. 1 nomi di Federigo Enriques e di
Eugenio Rignano si trovano associati nell’impresa di promuovere con la rivista
« Scientia > (fondata nel 1907 e tuttora fiorente sotto la direzione del R.)
la coordinazione del lavoro scientifico, la critica dei metodi e delle teorie,
e di affermare un apprezzamento più largo dei problemi della scienza. «Problemi
della scienza» s’intitola il libro (1906) con il quale l’E. (n. 1871),
matematico di fama già mondiale, si annunziò come rappresentante di un
positivismo che può dirsi critico, dominato come tale, dalla consapevolezza
della esigenza gnoseologica. La teoria della conoscenza, sostenuta dall’E.,
deriva dall’esame della scienza, non accettata dogmaticamente ma investigata
nelle sue origini e nel suo significato: ed è ben giustificata la definizione
della sua costruzione come positivismo critico: l’E. infatti elimina il
dualismo di assoluto e relativo, sostanza e fenomeno rappresenta il lavoro
scientifico come un progresso senza fine, perchè sono senza fine i rapporti che
legano fra loro le cose, e il concatenamento delle cause naturali: e questo
progresso concepisce come procedimento di approssimazioni successive, dove
dalle deduzioni parzialmente verificate e dalle contraddizioni eliminanti
l’errore delle ipotesi implicite, sorgono nuove induzioni più precise, più
probabili, più estese ricerca la origine empirica delle concezioni metafisiche,
alle quali può attribuirsi soltanto il valore d’ipotesi, capaci talora di
preparare scoperte e teorie scientifiche fa oggetto di studio il fondamento
psicologico e il contenuto sperimentale delle supreme categorie logiche opera
una revisione delle stesse dottrine positivistiche, con il fine di escluderne i
residui metafisici assume come criterio della verità la esperienza, la quale
dimostra se sussista o meno l’accordo fra l’elemento subiettivo della
previsione e l’elemento obbiettivo della realtà riconosce come dati immediati
della realtà non le sensazioni pure, ma piuttosto i rapporti fra sensazioni e
volizioni che condizionano le nostre aspettative, e ne esprimono gl’invarianti
elementari riconosce pertanto che la nostra credenza a qualcosa di reale
suppone un insieme di sensazioni che invariabilmente susseguono a certe
condizioni volontariamente disposte riesce con la definizione del reale come
invariante della corrispondenza fra volizioni e sensazioni a unificare, contro
le teorie della scienza, nominalistiche e convenzionalistiche, la comprensione
del «fatto bruto» e quella del «fatto scientifico». Tutta l’opera dell’E. è
ispirata alla fede razionale nel valore della scienza e al principio della
continuità e interdipendenza di scienza e filosofia. Nella valutazione del
contrasto « razionalismo-storicismo » il pensiero dell’E. va sempre più
evolvendosi nel senso del razionalismo, ch’egli cerca tuttavia di comporre con
l’empirismo da un lato e con lo storicismo dall’altro («Scienza è razionalismo»
1912 «Per la storia della logica » 1922). Rignano, lib. doc. a Pavia, ha
coltivato gli studi sociologici biologici psicologici: ha esposto criticamente
la sociologia comtiana, soprattutto dal punto di vista metodologico («Là
sociol. nel Corso di Fil. pos. di A. C. » ): ha spiegato il meccanismo di
trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti con una ipotesi ontogenetica,
che rende conto dei fatti recati a favore così del preforniismo come della
epigenesi. L’altra ipotesi sussidiaria suH’accutnulazione specifica, che sarebbe
la proprietà fondamentale ed esclusiva della energia nervosa, base della vita,
spiega i fenomeni mnemonici propriamente detti e la proprietà mnemonica della
sostanza vivente in generale. Così la ipotesi centroepigenetica rientra fra le
teorie delio sviluppo, ed è fornito un modello energetico, capace di dare una
idea della natura intima della vita («Sulla trasmissibilità dei caratteri
acquisiti). Hanno origine e natura mnemonica anche le tendenze affettive («
Essais de synthèse scien- tifique» ). L’analisi del ragionamento, cioè del più
complesso tra i fatti psichici, porta a studiare gli altri fatti, sempre meno
complessi, che lo costituiscono, fino ai due più elementari, che dànno luogo a
tutti gli altri: da un lato, cioè, sensazioni ed evocazioni sensoriali,
dall’altro, tendenze affettive (« Psicologia del ragionamento » 1920). Così la
sola proprietà mnemonica spiega e unifica tutte le manifestazioni finalistiche
della vita, dalla ontogenesi e dal preadattamento anatomo-fisiologico
ali’ambiente, fino agl’istinti più complessi e alle più alte manifestazioni del
pensiero (« La memoria biologica » 1922). I nomi del Varisco, dell’Enriques e
del Rignano mostrano come il pensiero italiano abbia preso parte attiva a quel
movimento di revisione critica della scienza, che è una delle caratteristiche
più notevoli del pensiero contemporaneo. Ma non debbo dimenticare pur vedendomi
costretto, per non esorbitare dai limiti del mio tema, a un accenno sommario e
pur troppo insufficiente — l’opera di Peano (Calcolo geometrico 1 principii di
Geometria logicamente esposti) e de’ suoi discepoli Mario Pieri, Alessandro
Padoa, Cesare Burali-Forti, la quale tanto ha contribuito a dare alla
matematica una rigorosa sistemazione logico-deduttiva, con tendenza
nominalistica, escludendo qualsiasi appello all'intuizione. E vuol essere anche
ricordato il valore logico e filosofico che, partendo dagl’insegnamenti del
Peano e di Antonio Gar- basso (« Fisica d’oggi. Filosofia di domani » 1910),
Annibaie Pastore, prof, di fil. teor. a Torino, ha dato alla logica-matematica
e alla teoria dei modelli meccanici (« Sopra una teoria della scienza » 1903 «
Logica formale dedotta dalla consideraz. di modelli meccanici » 1906 «Del nuovo
aspetto della scienza e della fil.» 1907 «Sillogismo e proporzione» 1910 «Il
pensiero puro» 1913 «Il problema della causalità» 1921). Il calcolo logico,
secondo il P., non è che uno degl’infiniti modelli con cui si può rappresentare
l’ordine dei fenomeni e prevederli; e tutti sono immagini o simboli equivalenti
dell’infinita verità. Ma nelle sue ultime opere il P., superando la posizione
di questo suo iniziale nominalismo, accenna ad orientarsi verso unaforma di
panlogismo. 13. — Al positivismo — anzi al positivismo più rigoroso ed estremo
— va pure ascritta la « filosofia scettica » di Rensi, prof, di fil. mor. a
Genova, pensatore fervido, scrittore suggestivo, polemista animoso. Egli muove
in tutt’i suoi libri principali una vivace battaglia contro l’idealismo
assoluto, negando radicalmente ogni assolutezza delle forme o attività
spirituali, e sostenendo che nell’ambito della sfera della pura ragione (in
quanto cioè la pura ragione, o lo spirito, costruisca cavando esclusivamente
dal proprio fondo, a priori, e si concepisca non come determinata dal fatto,
dal dato, ma come generante essa l’oggetto) impera sovrana e invincibile
l’antinomica ossia lo scetticismo. Ma, quindi, certezza v’è solo nella
constatazione sensibile del fenomeno come tale, e a questa certezza è parallelo
l’accordo universale, in ciò, delle menti. Comincia il regno dell’incertezza,
della mera opinione, e quindi della fantasia (e perciò in un certo senso
dell’arte) quando si vuole salire oltre la constatazione del fenomeno per
interpretarlo. Dunque, o la filosofia è la constatazione del fenomeno, ed è
positivismo e scienza; o è l'interpretazione di esso, ed è mera espressione
d'impressioni, cioè arte, e, dal punto di vista del sapere, scetticismo («
Lineamenti di Fil. scettica » 1919). Di conseguenza, anche nel campo pratico,
morale e diritto non sono costruzioni razionali che lo spirito cavi con
apodittica assolutezza dal proprio fondo, ma sono determinati, qua e là
variamente, dalla «Autorità» del fatto esteriore, come il positivismo sofistico
e quello hobbesiano avevano scorto («Il diritto», ib. «Filosofia dell’Autorità»
1920 «Introduzione alla scepsi etica» 1921). Anche l’estetica è, come forma a
priori dello spirito, nient’altro che scepsi estetica (« La scepsi estetica»
1919) e come «bello» non può valere se non la valutazione di fatto che pronuncia
il gruppo sociale o la specie. Negli ultimi suoi scritti («L'irrazionale, il
lavoro, l’amore» 1923 « Interiora Rerum » « Realismo » 1924) il R. accentua i
caratteri realistici e nello stesso tempo pessimistici del suo scetticismo. Non
come positivista, ma come scettico, vuol essere qui ricordato Levi, prof, di
st. d. fil. a Pavia e operoso cultore della st. d. fil. ant. (« Il concetto del
tempo nei suoi rapporti coi probi, dell’essere e del divenire nella fil. gr.
sino a Platone» 1910 « Id. nella fil. di Platone» 1920 «Sulle interpretaz.
immanentistiche della fil. di PI.» 1920), mod. («La fil. di Berkeley» 1922) e
conteinp. (« L’indeterminismo nella fil. frane, contemp. » 1904 ecc.). Il L.
(«Sceptiea*) rappresenta un radicale scetticismo che eliminando da sè ogni
elemento dommatico, sfugge alla consueta accusa d’intima contraddizione. Tutte
le metafisiche, compreso l’idealismo assoluto, si fondano sopra una concezione
realistica, che, in quanto voglia rispondere a esigenze non pratiche ma
puramente teoretiche, è senza giustificazione, anzi in contrasto con il
presupposto fondamentale del conoscere (costituito dal mio io pensante): tutte
- dico fuorché una, il solipsismo, che da questo presupposto direttamente
deriva, e che, sebbene criticabile perchè includente innegabili irrazionalità,
è fra tutte la più plausibile. Contro il positivismo, il solipsismo sostiene
che il dato dell’esperienza esige una interpretazione del pensiero, e però non
ha valore per sè. L’estetica del L. («La fantasia estetica» 1913) si riassume
nella tesi che « l’opera d’arte nasce dal mistero, ha caratteri non
determinabili completamente ed esaurientemente e suscita in chi la contempla
uno stato particolarissimo, irreducibile e non del tutto definibile ». 14 In
Sicilia il positivismo si presenta con aspetti caratteristici nella filosofia
dell’identità di Corleo, prof, di fil. mor. a Palermo, e nel radicale empirismo
di Cosmo Guastella (1854-1922), prof, di fil. teor. a Palermo. Nel C.,
positivistico è il metodo, o il punto di partenza: ma egli con la pura
osservazione dei fatti e senza nulla presupporre vuol giungere alla metafisica
e a conclusioni eminentemente razionalistiche. Non vi è qualità la quale non si
riduca a quantità, e questa riduzione che è il compito della scienza, rende
possibile la costruzione di una filosofia che adegui la esattezza della
matematica. Il C. ha una concezione atomistica della vita psicologica: dalle
percezioni che sono gli atti primordiali del pensiero, e, presentandosi come in
parte identiche, in parte non identiche fra loro, sono tutte complessi,
identici con la somma delle parti risultano l’analisi e la sintesi spontanee,
che operano sopra le percezioni stesse, onde i punti simili di queste si
presentano similmente, e i punti per cui si differenziano si separano
naturalmente: così si spiegano le formazioni mentali superiori. Lo stesso
fondamentale assioma della identità non è dunque che un dato della esperienza,
emergente dalla osservazione del fatto del pensiero: ma è un tale dato che
consente di trovare nell’empirico l’assoluto, perchè assoluto è che
identicamente apparisca ciò che identicamente apparisce. La noologia del C. è
per un verso psicologia empirica: ma per l’altro verso è, in quanto la sua
psicologia è piuttosto una schematizzazione matematica di esperienze
psicologiche, anche logica e gnoseologia. La esperienza si eleva al grado di
concetto per virtù della legge di priorizzazione, onde gli elementi costanti
della rappresentazione di un oggetto «prendono il davanti», diventando tipo e
norma degli altri, e quel che vieti dopo, o si assimila a ciò che precedette e
riproduce quegli elementi costanti, o non si assimila e non li riproduce: qui è
la fonte della universalità e della necessità: ma i giudizi si fondano tutti
sull’analisi del fatto o del concetto e sul riconoscimento d’un’identità
parziale o totale: non esistono giudizi sintetici a priori. Alla stregua del
principio d’identità il C. esamina e critica le idee madri (categorie) e
procede a rettificare e giustificare, contro i positivisti, le idee della
metafisica, da quella di atomo a quella di Dio, mostrando che esse hanno pure
fondamento positivo e valore obiettivo, perchè sono composte con elementi presi
dalla esperienza mediante l’astrazione e la sintesi degli astratti (« Fil.
univ. » 1860-3 «Il sistema della fil. univ. ovvero la fil. dell’identità»
1880). Guastella procede sulle orme del Mill, sforzandosi di ridurre il
pensiero di lui a maggior coerenza, e professa un assoluto nominalismo. Il suo
sistema nell’aspetto ontologico, è un fenomenismo radicale (esse est percipi)
e, nell’aspetto logico, psicologico e gnoseologico, un non meno radicale
empirismo. Fenomenismo, perchè questa dottrina non afferma niente, nè come
conosciuto nè come inconoscibile, ai di là del mondo empirico, intendendosi per
mondo empirico l’insieme dei fatti di cui si ha esperienza o che s’inferiscono
da questi in virtù della generalizzazione dei rapporti costanti osservati fra
di essi, ed essendo esso null’altro che la stessa esperienza. Empirismo, cioè
una dottrina sul criterio della verità, che tra i motivi delle nostre
affermazioni di quelle che non sono semplici atti di memoria o comparazione non
ammette come legittimo che la induzione, e respinge come illegittimi l’evidenza
intrinseca (non confermata dall’induzione) e l’influenza della passione e della
volontà. Il pensiero ha natura sensibile, e non è costituito se non da imagini
concrete e particolari: non esistono giudizi a priori : tutte le nostre
proposizioni sono affermazione o negazione della esistenza di certi fatti
particolari. Anche le nozioni di causa (notevole la critica dissolvente del
concetto di causa efficiente) e di sostanza derivano daglielementi del senso.
Non si può affermare altra esistenza che quella dei fenomeni: fenomeni interni
o subbiettivi nei quali si risolve il Me, fenomeni della natura esteriore, che
si risolvono in sensazioni reali o possibili: non vi è altra scienza possibile
che quella delle uniformità di successione, coesistenza, somiglianza tra i
fenomeni. E il fenomeno è il fatto dell’esperienza, e non esiste se non in
quanto se ne ha esperienza: ma questa conoscenza fenomenica è completa e
assoluta. Anche la credenza nella esistenza degli altri soggetti ha fondamento
nella esperienza, che dà cosi la via di sfuggire al solipsismo. Il postulato
della corrispondenza tra spirito e realtà deve essere ammesso come
obbiettivamente valido, senza uopo di prova, perchè esso è anzi implicito in
ogni prova, e non si potrebbe contestarlo senza rinunziare all’uso del
pensiero: rientra, in sostanza, nel postulato universale, che noi dobbiamo aver
fiducia nelle nostre facoltà. La parte più originale della dottrina dei G. è la
Filosofia della Metafisica, cioè la ricerca del fondamento psicologico delle
costruzioni metafisiche e la dimostrazione del loro carattere illusorio. Quel fatto
che è la metafisica, richiede di essere spiegato: come nasce la tendenza
irresistibile a trascendere la esperienza, e come si determinano le varie forme
sotto cui ci apparisce questo preteso al di là dei fenomeni? Tale tendenza è
tutt’uno con quella che porta ad assimilare tutti i fenomeni e tutte le idee
che ci formiamo su di essi ai fenomeni, e alle idee sui fenomeni, che ci sono
più familiari: particolarmente ai fenomeni dell’azione della volontà sul nostro
corpo donde la filosofia volizionale e del movimento per urto donde la
filosofia meccanica o impulsionistica («Saggi sulla teoria della con. I. Sui
limiti e l’ogg. della con. a priori 1897. II. Fil. della Metafisica 1905» «Le
ragioni del fenomenismo» 1921-3). Non era mio compito considerare le relazioni
del positivismo italiano con le filosofie ch’esso trovò già vigoreggianti al
suo primo manifestarsi, e con le altre correnti che successivamente, in
antitesi o in continuità con esso, hanno avuto o'ritrovato fortuna tra noi. La
precedente rassegna analitica basta a dimostrare la profondità, l’ampiezza, la
fecondità di un movimento che scaturisce da una necessità, immanente allo
spirito umano. Fin dal suo apparire il positivismo fu accompagnato in Malia con
i segni aperti di una ostilità che non ha disarmato mai : è leggenda tanto più
insistentemente ripetuta quanto più esaurientemente sfatata ch’esso abbia mai
ottenuto il predominio nell’insegnamento superiore o aspirato a esercitarvi una
tirannica dittatura. Ha tenacemente resistito all’imperversare di polemiche, le
quali hanno sovente trasceso i limiti segnati alla critica onesta e serena,
mossa unicamente da zelo di verità. Seguendo la traccia di Roberto Ardigò, e
trovando in sè la virtù di reagire contro la tendenza al semplicismo e al rozzo
empirismo, è venuto progressivamente interiorizzandosi e affinando in sè il
senso della esigenza storica e critica: inflessi- bile nel rivendicare alla
filosofia la stffi autonomia e la sua distinta funzione, ha tenuto fede al patto
di alleanza con la scienza, stretto sul fondamento della unità di metodo : e
non è certamente questa la sua minore benemerenza verso la cultura nazionale.
Firenze, R. Università. Dice MASNOVO (si veda) in “IL NEOTOMISMO IN ITALIA” che
nel tracciare in poche pagine le vicende del TOMISMO (AQUINO (si veda))
italiano ferma l’attenzione piuttosto sulle situazioni che sugl’uomini: la
quale cosa, se torna utile sempre nella storia della filosofia, molto più torna
utile quando il periodo a cui si guarda è abbastanza recente. Le ragioni sono
di prima evidenza. Entriamo in argomento. Non ò possibile caratterizzare
secondo verità l’AQUINO AQUINISMO senza prima formarsi un’idea esatta dell’AQUINO
AQUINISMO anteriore. Certo le scuole domenicane italiane mantenneno sempre in
qualche efficenza il loro AQUINO (si veda) AQUINISMO e prima e dopo.
Nonpertanto se l’AQUINISMO d’AQUINO italiano s’afferma vivamente e
risolutamente e via via negli anni successivi, ciò è dovuto principalmente al
canonico piacentino BUZZETTI (si veda), le cui lezioni sono già diffuse in
manoscritti per l’Italia, e i cui scolari avevano già iniziato all’AQUINISMO
d’Aquino, più o meno fortunatamente, TAPARELLI (si veda), LIBERATORE (si veda) e
tant’altri dentro e fuori della compagnia di Gesù. PECCI (si veda) a Perugia è
certamente sotto, l’influsso di Sordi, piacentino e scolaro di Buzzetti: è
lecito pensare il medesimo del canonico napoletano Gaetano Sanseverino
(3). A. Masnovo, Il Neotomismo in
Italia, p. 129. Società Editrice « Vita e Pensiero», Milano. Cfr. «L’amico d’Italia», anno IV, Torino,
1825, voi. Vii, p. 200. Quivi Don Carlo Gazola, tessendo l’elogio In morte
dello zio Vincenzo Buzzetti, ci fa sapere che lo zio « tracciò egli un corso
breve di filosofia, che tiensi nel seminario vescovile di Piacenza e nelle
pubbliche scuole di Reggio e in quelle di Napoli; filosofia in che null’altro
difetto ritrovasi fuor quello di sommamente piacere a tutti i giovani
d’ingegno». (3) A. Masnovo, Il Neotomismo in Italia. Buzzetti rimetteva a nuovo
il tomismo, consapevolmente o no, sotto la spinta del movimento romantico, e
l’inseriva, certo consapevolmente, nella reazione che, tra la fine del 1700 e
l’inizio del 1800, si scatenava anche in Italia, compreso il ducato di Parma,
avverso l’empirismo del Locke e il sensismo del Condillac. Anzi si può e si
deve dire che in Italia il Buzzetti è (cronologicamente almeno) il primo grande
rappresentante della reazione anti- sensistica. Certo non può venire in gara
col Buzzetti il Rosmini, la cui attività letteraria comincia quando il Buzzetti
è morto (1824). Quanto al Galluppi la sua reazione all’empirismo data dal 1819:
anno nel quale egli inizia la pubblicazione del «Saggio filosofico sulla
critica della conoscenza... ». Or noi sappiamo che prima del 1816 il Buzzetti
professava il suo battagliero tomismo in contrasto al sensismo. Infatti il P.
Serafino Sordi, entrato nella Compagnia di Gesù, aveva già seguito il corso
tomistico dettato nel Seminario di Piacenza sotto l’ispirazione del Buzzetti.
Questo tomismo, per cosi dire, buzzettiano, che riprende non già come un
effimero capriccio ma come sforzo e forza davvero vitali, e che, col Sordi e
col Taparelli col Liberatore e col Sanseverino, si svolge perennemente a
contatto del pensiero e delle preoccupazione ambienti, a che punto trovasi del
suo svolgimento nel decennio 1870-1880? A questa dimanda risposi ampiamente in
altra circostanza (3). Qui basti ricordare che il Liberatore nel 1858 aveva già
scritto i due volumi « Della conoscenza intellettuale » destinati ad affermare
la dottrina tomistica della conoscenza frammezzo alle opposte correnti del
tradizionalismo, dell’ontologismo e del rosmi- nianesimo; che nel 1875 aveva
terminato il trattato «Dell’uomo» risultante dei due volumi «Del composto
umano» già pubblicato nel 1862 e dell’« Anima »; che fin dal 1860 aveva
impresso alle sue « Institutiones » l’indirizzo decisamente tomistico (4), svolgendovi
la metafisica generale e la speciale. Quanto al Sanseverino, egli 0) L’opuscolo
galluppiano «Dell’analisi e della sintesi», scritto fino dal 1807, prescindeva
dall’origine semplicemente sensistica o no delle idee che entrano a formare le
nostre conoscenze ossia i nostri giudizi (Galluppi, Saggio filosofico. . .,
Libro 1, c. Il, paragr. 37 e ss.). A.
Masnovo, // Neotomismo in Italia. Masnovo, Il Neotomismo in Italia, p. 115. (4)
Cfr. «Institutiones Philophiae .. Romae, Typis Civilitatis Catholicae. Quivi da
pag. 3 a p. G è riportata la prefazione dell’edizione del 1860; la quale
prefazione appunto ci avverte del deciso indirizzo tomistico che ormai assumono
le «Institutiones» liberatoriane. E l'avvertimento non è disdetto dall’opera. era
sceso prematuramente sì nel sepolcro il 1865 a soli 54 anni, ma ci aveva
lasciato di suo « I principali sistemi della filosofia sul criterio», e la
monumentale « Pliilosophia Christiana cum antiqua et nova comparata ». Non occorrono aggiunte per convincersi
che, mentre il decennio 1870-1880 fila i suoi giorni, la restaurazione del
tomismo quanto a metafisica, cioè per la sua parte capitale, è già un fatto
compiuto. Il dualismo di Dio immobile e del mondo diveniente, nonché l’altro
dualismo di potenza e di atto in ogni cosa creata e più precisa- mente di
materia e di forma nelle cose corporee, il Neotomismo li ha già affermati
risolutamente. Di più il Ncotomismo ha già applicato l’ilemorfismo ai viventi
in genere (dove la forma è l’anima) e in particolare al composto umano che è
una unità sostanziale vivificata da un’anima sussistente, spirituale,
immortale. A proposito della cognizione umana il Ncotomismo ha già proclamato
l’irriducibilità della medesima a semplice risultato di senzazioni, e insieme
riconosciuto per ciascun uomo la necessità dell'intervento di un proprio e
intimo principio spirituale (l’intelletto agente) affine di universalizzare il
dato del senso. I principii poi onde si svolge la vita conoscitiva dominano
soggetto ed oggetto. Passando dall’ordine speculativo a quello pratico, Dio
(ben inteso, personale e trascendente) è già stato proclamato fonte del dovere
nella vita morale e fonte dell’autorità nella vita sociale. Ma il Neotomismo
italiano del periodo 1870-1880 oltre a trovarsi dinnanzi a la metafisica
dell’Aquinate, già restaurata, ha piena consapevolezza della cosa. Nel 1875
sulla Civiltà Cattolica il Liberatore
dichiara che « rimessa oggimai in onore la vera metafisica, è mestieri porre in
armonia con essa la scienza fisica»; parimenti nel 1875 lo stesso Liberatore
nell’ultima pagina del suo « Dell’anima umana » ripete che « la vittoria per
ciò che riguarda la parte metafisica sembra assicurata massimamente dopo che il
movimento ristoratore dall’Italia si propagò nella Francia, nella Germania e
nella Spagna. Ma il trionfo della sana dottrina non è compiuto se non viene
esteso anche alla fisica, compilandone una che stia in perfetta armonia colla
metafisica, e che, facendo tesoro Com’è
detto nel Monitum Editorum apposto al primo dei sette volumi della «
Philosophia Christiana » (ed. 1878), il Can. Nunzio Signoriello, dopo la morte
del Sanseverino suo maestro —, « bisce voluminibus manus admovit eaque in
meliorern ordinem redegit, et quartum Logicai voliimen condidit prae-
cedentibus omnino aequale». Civiltà
Cattolica. di tutti i progressi delle scienze esperimentali, mostri come essi,
lungi dal contrastare, confermano anzi la parte razionale dell’antica
filosofia. A questo convien che sieno volte quinci innanzi le cure dei veri
sapienti; e io non dubito che il provvido Iddio susciterà tra breve tra i
cultori delle scienze naturali chi sappia trionfalmente applicarvi l’ingegno e
la fatica». Al Liberatore fa eco il Card. Giuseppe Pecci, il quale
aH’inaugurazione dell’Accademia Romana di San Tommaso d’Aquino il giorno 8
Maggio 1880 pronunciava queste parole all’indirizzo degli accademici: «Dunque
la vostra restaurazione (filosofica) si stende per indiretto ma efficacemente
alla restaurazione eziandio di tutte le scienze. E quanto alle scienze razionali,
richiamata una volta in luce la dottrina di San Tommaso, la restaurazione può
dirsi quasi fatta: non rimane che arricchirla e ampliarla nelle applicazioni.
Più lungo studio richiederanno dal vostro ingegno le scienze naturali... ». Adunque secondo il Pecci, come secondo il
Liberatore, non vanno cercati nel decennio 1870-1880 gl’inizi del neotomismo:
che anzi, secondo loro, il movimento neotomistico propriamente filosofico si
conclude in questo stesso decennio. Che se particolari caratteri assume, comeassumeeffettivamente.il
Neotomismo in questo decennio, uno possiamo riporlo fin d’ora, come autorizzano
e ce ne fanno dovere il Liberatore e il Card. Giuseppe Pecci, nel tentativo di
porre a contatto la filosofia scolastica, ormai risorta, con il mondo delle
scienze fisiche e naturali. Col bisogno di penetrazione nel campo scientifico
si fa sentire anche il bisogno d’intensificare la volgarizzazione. Appunto sui
mezzi di diffondere la ristorata filosofia chiama l’attenzione una serie di
articoli della Civiltà Cattolica, comparsi nel 1870. Mentre caratterizziamo
cosi il neotomismo dopo il 1870 non vogliamo escludere da questo periodo ogni
sviluppo di speculazione; come non vogliamo escludere dal periodo precedente
l’opera di volgarizzazione e di penetrazione scientifica. Caratterizzando, ci
basta guardare agli elementi che, pur non essendo esclusivi, hanno una
prevalenza indiscussa. Vediamo dunque quali forme concrete vanno assumendo dal
1870 in poi i propositi di penetrazione scientifica e di volgarizzazione. * * *
Guardiamo anzitutto all’opera di volgarizzazione. Se la restaurazione del
tomismo nel secolo XIX è dovuta all’iniziativa privata L’accademia Romana di S. Tommaso d’Aquino
(pubblicazione periodica). che deve superare autorevoli contrasti (I), la
divulgazione si compie in gran parte per l’intervento dell’autorità
ecclesiastica e più precisamente dal Pontificato Romano. Ed è naturale.
Filosofia e Chiesa, in fondo in fondo, risolvono il problema della vita. Quando
le due soluzioni armonizzano, benché ottenute dalla Filosofia e dalla Chiesa
con mezzi propri anzi finché cosi ottenute , il mutuo appoggio torna onorevole
e vantaggioso per entrambe, e risponde certo a un diritto, ma più ancora a un
preciso dovere. Nell’opera di volgarizzamento dopo il 1870 possiamo distinguere
due aspetti: uno positivo consistente nell’emissione di documenti ecclesiastici
a favore del Neotomismo, nell’istituzione di accademie, nella pubblicazione di
riviste e simili; uno, per cosi dire, negativo consistente nell’eliminare dalla
circolazione dottrine che si fanno passare come di ispirazione tomistica, ed
effettivamente tali non sono. I due aspetti, idealmente distinti, praticamente
si confondono. L’aspetto positivo richiama subito alla mente l’enciclica «
Aeterni Patris» ossia «De Philosophia Christiana ad mentem S. Thomae Aquinatis
doctoris Angelici in scholis catholicis instauranda », prò mulgata nel 1879
addi 4 agosto festa di San Domenico dal pontefice Leone XIII, fratello dell’ex
gesuita e fervido tomista Card. Giuseppe Pecci. Da questa enciclica i cattolici
sono invitati a dare il loro nome alla filosofia che si ispira a San Tommaso
d’Aquino. Nello stesso anno 1879 si imprende, per ordine e per munificenza del
Pontefice, una grande edizione delle opere dell’Aquinate, non ancora terminata
oggidì. Un anno dopo, cioè nel 1880, e ancora il 4 agosto, San Tommaso è
proclamato da Leone XIII patrono delle scuole cattoliche. È facile comprendere
l’influsso capitale di questi documenti, che non creano certo il neotomismo;
cooperano però validissimamente alla sua diffusione. Le accademie tomistiche
pullulano per ogni diocesi accanto ai vescovadi e ai seminari. Si può convenire
che il movimento guadagnando in estensione perde in proti) Basti pensare
all’iiitervento dello stesso Superiore Generale contro quei gesuiti che a
Napoli circa il 1833 tentarono la restaurazione del tomismo. (Cfr. A. Masnovo.
Il Ncotomismo in Italia, p. 61). Se il
Gentile, dedicando sulla «Critica» del 20 novembre 1911 un capitolo della sua
Filosofia in Italia dopo il 1850 ai Neotomisti, e parimenti il Saitta nel suo
volume Le origini del Neotomismo nel secolo XIX avessero ben notato il momento
esatto e il significato preciso dell’intervento ecclesiastico a prò’ del
Neotomismo, già spontaneamente affermatosi prima del 1870, non avrebbero tratto
motivo da questo stesso intervento per svalutare il Neotomismo. Fatto questo
rilievo, è giusto tributare omaggio tanto al Gentlte quanto al Saitta per
l’interesse addimostrato verso il neotomismo. fondita. Ma è questa la naturale
vicenda delle cose umane, e meravigliarsene sarebbe da ingenui. Tra le
accademie del periodo che c’interessà merita particolare men 2 ione l’«
Accademia Romana di S. Tommaso d’Aquino» , inaugurata, come sopra fu detto,
l’otto maggio 1880. Suo organo è il periodico omonimo « L’accademia romana di
San Tommaso d’Aquino », che inizia le pubblicazioni subito nel 1881 ed esce
annualmente in due fascicoli. 1 collaboratori principali sono, oltre il Card.
Giuseppe Pecci, i professori Francesco Satolli, Benedetto Lorenzelli, Giuseppe
Prisco e i P.P. Tommaso Zigliara O. P. e Camillo Mazzella S. I. , che, tutti,
finiranno cardinali della Chiesa Romana. Si aggiungano i padri gesuiti
Liberatore e Cornoldi, il can. Nunzio Signoriello, mons. Salvatore Talamo,
l’avv. Giovanni Fabri, il prof. Giannantonio Zanon ed altri ancora. Abbondano
naturalmente i commenti a San 1 ommaso. Il Card. Pecci pubblica nel volume
secondo la sua « Parafrasi e dichiarazione dell’opuscolo di San Tommaso «De
ente et essentia » ; altri si fermano di preferenza intorno agli articoli che AQUINO
(vedasi) dedica alla cognizione umana nella Somma Teologica dalla questione
LXXXIV alla LXXXVIII. Questi commenti anche oggi si possono leggere con
profitto. Oltre i commenti a San Tommaso, trovano largo posto gli attacchi al
rosminianesimo, come portava la necessità del momento. Non era infatti
possibile diffondere la genuina filosofia dell’Aquinate senza incrociare le
armi con i fautori del rosminianesimo, i quali tenevano a far apparire
coincidenti rosminianesimo e tomismo: coincidenza perfettamente illusoria,
sopratutto dopo che, morto il Ro- mini, era venuta alla luce la sua «Teosofia»,
sdrucciolante ornai, sulla buccia dell’ente ideale, troppo apertamente ancorché
preterin- tenzionalmeute, verso l’ontologismo o intuizionismo divino che dir si
voglia, e verso il panteismo. A mente calma e fredda, con animo scevro da ogni
passione di parte, oggi si può convenire che il sistema ideologico del « Nuovo
Saggio sull origine delle idee » prc disponeva ai mali passi. Ebbi altra volta
occasione di scrivere che Già a Napoli nel 1874, ricorrendo il sesto centenario
della morie di San Tommaso d’Aquino, era stata istituita un’« Accademia di S.
Tommaso d’Aquino» ; e pure in Roma nello stesso anno 1874 aveva incominciato a
vivere !’« Accademia filosofico medica di San Tommaso d Aquino. Nel 1892 dalla
tipografia vaticana usciva, sotto il velo dell’anonimo, la celebre «
Rosminianarum propositionum quas S. R. U Inquisitio, approbante S. P. Leone
XIII, reprobavit, proscripsit, damnavit Trutina theologica ». Si seppe di poi
esserne autore il Card. Mazzella. Rosmini disimpegnò nella prima metà del
secolo XIX una funzione veramente utile in prò’ del Neotomismo, sospingendone i
cultori a prendere contatto con la filosofia ambiente estranea od avversa.
Aggiungo ora che gli si può e gli si deve riconoscere il merito di aver
insistito, sia pure deviando, sull’elemento divino nella cognizione umana. Il
domani filosofico ritornerà sicuramente su questo elemento. Ma fu, almeno
almeno, un gran perditempo quel volersi da troppi e sistematicamente nella
seconda metà del secolo XIX indurare, o per illusione o per arte polemica, nel
difendere una coincidenza assolutamente irreale. Questo nocque oltremodo al
rosminianesimo nel giudizio degli uomini imparziali ed equilibrati, che
dovettero scorgervi o troppa ingenuità o troppa (come dire?) virtuosità. Certo
San Tommaso non ha nulla di comune con le debolezze intuizionistiche e
panteistiche del Rosmini: senza dire che San Tommaso attribuisce proprio all’astrazione
la formazione degli universali, mentre il misconoscimento di questo potere
dell’astrazione è la base stessa della speculazione rosminiana nel « Nuovo
saggio sull’origine delle idee ». Fra coloro che sulle pagine dell’* Accademia
Romana di San Tommaso d’Aquino » polemizzarono più diffusamente e più
autorevolmente contro il rosminianesimo va ricordato Liberatore. Il neotomismo
aveva chiarita e giustificata le sua posizione speculativa di fronte al
rosminianesimo ed alla sua ideologia pericolosa fino dall’opuscolo di Sordi.
Dice VOLPE nel “HEGELIANISMO ITALIANO”, 6,P Svill, PP° dell ° he g elis
"'° SUl !° He sei, dopo aver affermato che il gran mento dello H. sta
nella scoperta della dialettica come relazione sintesi di opposti e aver
soggiunto che oltre la sintesi degli opposti c è la sintesi dei distinti, conclude
che il torto dello H è di aver confuso quella dialettica con questa. Oltre gli
opposti, essere e nulla, spiiito e natura, vero e falso, ecc., i quali non sono
reali che nella sintesi di cui costituiscono i momenti astratti ; ci sono,
dunque, pel Croce, i distinti: bello, vero, utile, buono, i quali non si
trovano fra loro nella stessa relazione degli opposti, reali solo nella
sintesi- ma sono, invece, egualmente, tutti reali e concreti, così da poter
sussistere I nno accanto all’altro. Posto ciò, il rapporto fra i gradi orme
dello spinto è, pel C., questo: esso procede per diadi (invece che per triadi),
nelle quali il primo termine sussiste da sè cornar 0 ’ PU k aV, end ° anch ’
esso una sua sussistenza concreta come tale, assorbe .1 primo: così, l’arte, si
è visto, è alogica, ma filosofia, sintesi di intuizione e concetto, è anche
arte, cioè ha etica^ ° rC espress . lv ° : la volizione economica è amorale, ma
quella senni n* V, ’T economica > la volizione morale essendo anche sempre
utile Lo spinto, poi, è di natura circolare, e però passa da un grado all
altro: passa dal grado intuitivo al logico, all’economico, all etico, e
dall’ultimo trapassa ancora al primo, all’intuitivo ornendo .1 contenuto
pratico alla nuova intuizione, e così in eterno’ nfa°tfi ni a gra t ÌmP ' ÌCÌta
resistenza di tu, “ i quattro gradii nfatti, appunto perchè nel grado
intuitivo, ad es., è già implicito 11 ’° glC0 Sl P uò P assa re dall’uno
all’altro. E il passaggio consisterebbe, infine, nel divenire esplicito ciò che
era Lplidtò Ili Ora è necessario osservare subito, che in questa teoria del
Croce vengono così in contatto due dialettiche contrarie: quella degli opposti
e quella dei distinti. Sono, dunque, due differenti specie di rapporti che
concorrono al ritmo dialettico, crociano, dei gradi: il mutuo rapporto dei
gradi in quanto tali, cioè distinti, concreti, e quello degli stessi in quanto
astratti momenti di ognuno dei gradi concreti. Il grado intuitivo, ad es., ha
due significati ben diversi, quello di momento della sintesi a priori logica
(sintesi, si è visto, d’intuizione e concetto), e quello di sintesi a priori
estetica, grado concreto e indipendente, come tale, dal grado logico, che, a
sua volta, come tale, è in egual relazione verso di quello. Ove è palese, che,
nel primo caso su accennato, si ha una relazione di opposti, e nel secondo una
relazione di distinti. È in questo punto dell’incontro delle due dialettiche,
che si sono soffermati più a lungo i critici del Croce. È stato osservato, ad
esempio, che le due dialettiche si annullano l’un l’altra ; che il concetto
dell’implicito-esplicito, che deve spiegare il passaggio da un distinto
all’altro, è un semplice mito, non differente, essenzialmente, da quello del
passaggio dall’inconscio al conscio ; che il concetto stesso di circolo è
mitologico, e così via. Il carattere espositivo di questo scritto c’impedisce
di entrare nella questione: si è ricordato ciò per informazione del lettore.
Fin’ora si è discorso dell’estetica, della logica, della filosofia della
pratica: veniamo ora alla Teoria della storiografìa (1917) che conclude il
sistema della filosofia dello spirito quasi con una brusca correzione. In
quest’ultima opera il C. vuole integrare la sua unificazione precedente della
filosofia e della storia nel giudizio percettivo, col concetto della
contemporaneità della storia. La storia, antichissima o recente che sia, è
storia contemporanea, cioè sempre relativa al soggetto presente, che col
pensarla la suscita, la fa; badando però a intendere questa presenza come
assoluta e ideale, tale, cioè, che condizioni essa e superi l’empirico presente
e passato del tempo. Ma intesa così la storia, come procedente
dall’universalità del soggetto, come attualità piena dello spirito, essa appaga
allora l’esigenza filosofica di possedere la realtà nella sua pienezza e
totalità, e la filosofia come Logica, come un distinto momento dello spirito,
viene sminuita di valore. In relazione, infatti, al nuovo concetto di storia,
la filosofia, nel senso più adeguato e profondo, viene ad G. De Ruggiero, La Filosofia Contemporanea,
voi. Il, p. 164. N. Spirito, Il nuovo
idealismo italiano. essere il momento trascendentale della conoscenza storica,
alla quale appresta le categorie necessarie a pensare la totalità del reale. «
La filosofia non può essere altro che il momento metodologico della
storiografia, dilucidazione delle categorie costitutive dei giudizi
storici...». Dilucidazione che «si muove nelle distinzioni dell’Estetica e
della Logica, dell’Economica e dell’Etica; e tutte le congiunge nella filosofia
dello spirito ». Il pensiero del C. conclude, dunque, ad una sopravvalutazione
della storia, o filosofia in largo senso, di fronte alla logica, o filosofia
stricto sensu: conclude, infine, parrebbe a due concetti di filosofia: la
logica, o filosofia stretta, che come tale resta al di qua dell 'atto
storiografico, o filosofico in senso profondo. Ecco quel ch’è sfato chiamato,
anche recentemente, l’umanismo del Croce. Umanismo, si è detto, perchè tutta la
storia della storiografia assume il valore di una storia della filosofia
incentrata nel concetto dell’uomo, del mondo ch’è il suo mondo (Vico), e dei
suoi bisogni spirituali . È stato ancora osservato, che quel ch’è la funzione
della filosofia rispetto al problema della scienza nei filosofi del
neo-criticismo positivista, si ritrova nel Croce, come coscienza critica
immanente all’atto storiografico, di cui essa è il momento puramente
trascendentale . IL La formazione mentale di G. Gentile ha origini diverse da
quella crociana. A Bertrando Spaventa, e, attraverso questi, a Hegel, Fichte,
Kant, Cartesio, e ai nostri Gioberti, Vico e Bruno, si riallaccia, fin dagli
inizi, la meditazione del fondatore dell’idealismo dell’atto. È, poi, partendo
in particolare dallo Hegel, con la riforma ch’ei propone, indipendentemente dal
Croce, e sulle orme dello Spaventa, della dialettica hegeliana, che il pensiero
del G. dà i primi frutti originali. Lo Spaventa, studiando le tre prime
categorie della Logica hegeliana, essere, non-essere, divenire, aveva
osservato, sorpassando i precedenti interpreti (Trendelenburg, Vera etc.), che
« questa posizione imbrogliata dell’essere e del non-essere (lo stesso e non-lo
stesso) è la viva espressione della natura del pensare. Se si toglie di mezzo
il pensare non se ne capisce niente». E il Gentile, negli studi intitolati,
appunto, La Riforma della dialettica hegeliana (1913), affermò, che « Se
l’essere non è più un’idea in sè, ma una cate (Carlini) goria, e categoria è
atto mentale, come può realizzarsi l’atto della mente altrimenti che come unità
di essere e non-essere, cioè divenire? L’atto si fa, fit, diviene. È in quanto
diviene... Quando è semplicemente, non è». E potè concludere, altrove: « L’essere
che Hegel dovrebbe mostrare identico al non-essere nel divenire che solo è
reale, non è l’essere che egli definisce come l’assoluto indeterminato
(l’assoluto indeterminato non può essere che l’assoluto indeterminato I); ma
l’essere del pensiero che definisce, e, in generale, pensa: ed è, come vide
Cartesio, in quanto pensa, ossia non essendo (perchè, se fosse, il pensiero non
sarebbe quello che è, ossia un atto), e perciò ponendosi, divenendo». In
conclusione, l’essere, il non-essere, il divenire, non sono più, pel G.,
posizioni logiche, obbiettive del reale, com’erano per ('Hegel, ma momenti
della coscienza in atto, del pensiero pensante, in cui il divenire, come
sintesi degli altri due termini, esprime nient’altro che il processo del
sapere, che vince nella sua concretezza i momenti astratti, rigidi, in cui
l’analisi lo rompe : e cosi, com’è stato già osservato, tutta la sovrastruttura
della logica hegeliana crolla. Crolla, perchè vien mostrato che la deduzione
hegeliana delle categorie, che voleva essere sistematica, contro quella
empirica di Kant, e conciliare la molteplicità con l’assoluta unità, non riesce
a questa conciliazione, perchè anche in essa vi si analizzano concetti invece
di realizzarli nella loro unità vivente: è dialettica di pensieri pensati
usando la terminologia gentiliana; e cioè non-dialettica, perchè il pensato,
come tale, non si svolge, non si dialettizza. Manca, insomma, l’unità, la vita:
anche Hegel si smarrisce, a un tratto, dietro ipostasi, immobili e ferme:
platonismo, in fondo. L’unità, dice il G., non può esser data che dal pensiero
in atto, dall’atto in atto. La vera Idea è atto, l’unica categoria è Yatto
spirituale ; onde «tutti gli atti del pensiero, quando non si considerino come
meri fatti, quando non si guardino dall’esterno, sono un atto solo. E però per
il nuovo idealismo le categorie sono infinite di numero, in quanto categorie
del pensare che si guarda come pensato (la storia); e sono una sola infinita
categoria, in quanto categoria del pensare nella sua attualità». Ma allora la
deduzione hegeliana si risolve proprio, anch’essa, in fondo, in una deduzione
empirica (anche Hegel ha, come Kant, numerato le categorie!); e la sua non può
essere la deduzione delle categorie, ma « un caso fra infiniti casi possibili
di deduzione, o meglio... un frammento o un moti ) Cfr. De Ruoqiero. mento
della eterna deduzione, in cui consiste la storia non pure del pensiero, come
s’intende comunemente, ma del mondo ». Non pure del pensiero, ma del mondo,
perchè l’atto, a cui si riduce l’Idea pel ò., è occorre dirlo? actus purus, nel
senso più moderno e integrale, come atto che è tutta forma perchè è tutta
materia, generata dalla forma: forma formante, davvero: è quel processo
autocreatore del puro pensiero ch’è l’Autocoscienza nella sua concreta
individualità: onde l 'io empirico e particolare non è che l’attuarsi dell’Io
puro, trascendentale. La stessa istanza critica che la Riforma compie in
rapporto alla Logica hegeliana, l’Introduzione del Sommario di Pedagogia
(1913-14) la compie come è stato acutamente osservato in rapporto alla
Fenomenologia. Come il pensiero puro non ha bisogno di percorrere i gradi
categorici dell’essere, del conosciuto, secondo gli schemi della logica
formale, per giungere alla piena coscienza di sè, perchè si pone a priori come
pensiero consapevole e attuale; cosi non ha nemmeno bisogno di passare per i
gradi psicologici della conoscenza, la sensazione, la percezione, la
rappresentazione, etc., perchè non può mutuare da altri che da sè, non soltanto
la sua forma, ma anche il suo contenuto . La dottrina psicologica tradizionale
che concepisce il processo psichico effettuantesi per gradi monadisticamente
distinti, è possibile soltanto per una concezione analitica dello spirito; onde
questo può essere di volta in volta, sensazione, percezione, concetto etc.,
solo in quanto venga considerato, naturalisticamente, come un aggregato di
momenti giustapposti, gli uni fuori degli altri. Ma se si concepisce io spirito
come vivente unità originaria, come pensiero pensante, pensare e non pensato,
ogni molteplicità scompare e tutti i gradi psichici si risolvono n eli’unico
atto dello spirito. Nella sensazione è già lo spirito nella sua intierezza, e
la sensazione è perciò necessariamente anche percezione, giudizio, concetto, conoscenza,
volontà, come tutti questi gradi non sono che sensazione: quel sensus sui ch’è,
infatti, lo spirito. Tuttavia non si creda che manchi nel O. il concetto di un
processo fenomenologico: c’è anzi, e originale: ed è una fenomenologia che,
identificatasi con la logica, non è altro che la stessa storia dello spirito.
Le distinzioni risorgono, dunque, nel processo spirituale, ma non più come
gradi tipici, giustapposti, ma come distinzioni concrete, storiche, vieppiù
ricche col progredire del processo. Cioè, ogni
De Ruooiero. atto dello spirito non è che la coscienza più profonda di
un atto anteriore, che è il contenuto del primo, il quale naturai mente è la
forma di quello. « La sensazione-contenuto è dentro la sensazione- forma,
risolta e assorbita nell’attualità di questa ». Ogni atto di coscienza può
dirsi percezione rispetto a una sensazione precedente, la quale, in quanto atto
spirituale, fu anch’essa percezione. Cosicché si passa da percezione a
percezione, o, è Io stesso, da sensazione a sensazione. E in sostanza la
sensazione è una sola: l’atto spirituale nel suo interno mediarsi, e che,
mediandosi m eterno, si svolge attraverso infiniti momenti, infinite
sensazioni. Venendo alla dottrina propriamente pedagogica del Sommano, ne
accenneremo il concetto fondamentale: che educatore e educando sono due momenti
di un’unica realtà, l’Universale, io Spirito, onde hanno in esso la loro
profonda unità: scompare così ogni hiatus fra l’uno e l’altro; e il processo
educativo non è che processo di reciproca autoeducazione: ognuno vede
nell’altro sè stesso, lo Spirito, e attraverso l’altro forma un migliore, un
più alto sè stesso. Processo di universalizzazione, dunque, processo
eminentemen e etico. 11 miracolo dell'educazione è spiegato; e la prassi
educativa ha nel concetto d e\\’autoeducazione il suo miglior lume, la guida
più certa. È stato riconosciuto che nella storia della pedagogia 1 Sommario
segna una tappa ideale confrontabile solo con YEmilio. Questo realismo
spiritualistico del Sommario venne assumendo - è stato osservato - negli scritti successivi, L'esperienza pura
e la realtà storica, e Teoria generale dello spinto come atto puro un carattere
più univeversale in quanto dal problema del a formazione dell’uomo si passò a
quello di dimostrare in esso la radice di tutti gli altri problemi concernenti
la realta e le sue categorie. Il principio dell’idea come atto acquistò sempre
piu carattere metafisico. . Già nel primo dei due scritti suaccennati 1 atto
viene concepito come pura esperienza che lo spirito fa di sè, eliminando in tal
modo qualunque presupposto dello spirito, sia oggettivo che soggettivo, e
generando da sè ogni realtà: tutta l’esperienza nelle sue infinite concrete
distinzioni è posta dall’atto e. nell’atto in un'esperienza storica, non nei senso
della storia presupposta all atto e quindi empiricamente concepita, ma della
storia che si attua quale vita eterna dello spirito. Nell’atto veniva così
risolta l’antitesi di a priori Carlini, op. cit., p. 232. e di a posteriori, e
si concludeva a un formalismo assoluto, o, che è lo stesso, a un empirismo
assoluto . Ma questo esplicito significato metafisico appare in tutto il suo
sviluppo nella Teoria, uno dei capolavori del G. Qui, attraverso i problemi
della storia della filosofia, attraverso soprattutto il problema kantiano e
hegeliano, è dimostrato dal G. come lo spirito generi da sè stesso la natura:
il mondo del molteplice e crei nella sua dialettica unificatrice
moltiplicatrice spazio e tempo. Lo spirito viene concepito come conceptussui,
concetto che pone sè stesso, autoctisi. Ma questo porsi è, naturalmente, non
immediato, ma mediato. Lo spirito si pone attraverso la natura, l’oggetto; il
soggetto si pone mediandosi come oggetto. Quell’unità ch’è lo spirito si pone,
perciò, come molteplicità, attraverso la molteplicità, appunto perchè non è
unità immediata, statica, ma mediata in sè stessa, dialettica, unità, insomma,
dinamica e concreta, vivente. In altri termini, lo spirito si afferma negando,
non si svolge se non negando perennemente il suo opposto, la natura, che è per
ciò suo essenziale momento dialettico, e però spirito anch’essa, e non
un’entità a sè, concepibile come astratta dallo spirito. La natura, insomma,
come non-essere di quell’essere ch’è lo spirito: e cosi l’errore, il male, il
dolore sono egualmente il non-essere di quell’essere; eterno momento del
processo della verità, del bene, della vita. Certo, se la verità, il bene, si
concepiscono immutabili, ab aeterno, l’errore, il male sono inconcepibili. Ma
se la verità e il bene, come pensa il Gentile, sono divenire, atto, essi devono
perennemente superare sè stessi, ritrovando in sè l’errore, il male da
superare. E però, errore e verità, male e bene non sono realtà distinte,
indipendenti, ma i momenti di una sintesi, che è « errore nella verità, come
suo contenuto che si risolve nella forma», è «male onde il bene si nutre, nel
suo assoluto formalismo». Finiremo con un cenno, purtroppo frettoloso e assai
inadeguato, dell ultima grande opera del G., forse il suo maggior capolavoro,
certo, a tutt oggi, il suo testamento filosofico, per la compiutezza della
sistemazione: il Sistema di logica come teoria del conoscere. Uno dei concetti
fondamentali della speculazione gentiliana, naturalmente implicito nei
precedenti, è quello dell’identità della filosofia con la sua storia: infatti
se la filosofia è concepita come processo di autocoscienza, essa è storia,
storia eterna in tempo; e però Carlini. ogni sistema coincide col corso storico
del pensiero, in quanto esso riassume e potenzia in sè, giustificandoli, i
sistemi precedenti, che non sono che momenti idealmente anteriori di que\Yunico
processo di pensiero autocosciente, ch’è — eminenter — la filosofia. Orbene, il
sistema di logica attinge certo la sua capitale impor¬ tanza, nell’assieme
dell’opera del G., da questo: che esso vuol es¬ sere ed è l’ultima riprova
concreta, effettuale del suaccennato prin¬ cipio dell’identità di filosofia e
storia della filosofia. Esso ci mostra, di fatti, come il sistema gentiliano,
la nuova logica del pensiero pensante, si costituisca a patto di ricapitolare
in sè, di conservare e giustificare, inverandola, l’antica logica ari¬
stotelica, la logica del pensiero pensato. Infatti, la dialettica aristo-
teiico-scolastica vien mostrata come grado necessario alla dialettica del
concreto, in quanto essa, dandoci la legge del pensiero pensato (A — A) ci
spiega il momento dell 'oggettività del pensiero a sè stesso, oggettività
necessaria, se —ricordiamolo — il puro pensiero dev’essere concepito non come
immediata soggettività, ma come soggettività-oggettività, soggetto-oggetto,
mediazione, dialetticità. Occorre osservare, che qui il logo della logica del
pensato, del¬ l’astratto, cioè A = A, viene negato al tempo stesso che conser¬
vato, perchè non è più considerato a sè, da un punto di vista astratto, ma è
considerato dal punto di vista concreto, cioè in fun¬ zione del logo della
logica concreta, cioè del pensiero pensante, A = non A? Conservare ch’è negare;
inverare, come è, difatti, di quel divenire ch’è lo spirito, la filosofia. E
però è giusto -riconoscere, ancora, che in tal modo « tutto il processo storico
del concetto di logica si risolve, identificandovisi, nel nuovo concetto
dialettico » : quello del Gentile; e che, ripetiamolo, la verità del principio
del circolo di filosofia e storia della filosofia, è dimostrata dal sistema
stesso del G.; che, mentre convalida quel principio, ne è, a sua volta, — si noti
— convalidato, fondato po¬ sitivamente: storicamente. Croce e Gentile hanno
suscitato, da anni, un gran movi¬ mento di idee, e di discepoli, attorno a sè:
il primo soprattutto nell’ampio campo della cultura letteraria e storica in
genere: il se¬ condo nel campo della filosofia teoretica e della storia della
filosofia. Nominare discepoli del Croce non è cosa facile, perchè, facen¬ ti)
Spirito. dosi sentire il suo influsso nel largo campo della cultura storico-
letteraria, tutti, in quest’ultimo ventennio, sono stati e sono ancora, in
certo senso, crociani: in ispecie i critici di letteratura e arte e gli storici
sono permeati di pensiero crociano, anche se lo negano- Soprattutto, il
concetto crociano dell’arte è, si può dire, entrato a far parte del patrimonio
di idee necessario a chi voglia pensare e vivere in armonia col progresso
effettivo del pensiero della storia. Dei critici letterari, che hanno subito,
consapevolmente o no, l’influsso dell’estetica crociana, ricordiamo qui G. A.
Borgese, che, per quanto staccatosi in seguito da Croce, serba traccie di
pensiero crociano nelle pagine migliori; Emilio Cecchi; Alfredo Gargiulo,
autore d’un d’Annunzio; Luigi Russo, autore d’on Di Giacomo e di un Verga; e
infine Attilio Momigliano ( Studi Manzoniani, Goldoni, Verga). Nella critica
delle arti figurative ci piace notare Lionello Venturi; nella critica musicale
F. Torrefranca e G. Bastianeili. Piò facile è far qualche nome di discepoli del
Gentile, essendo più tecnico, e quindi più ristretto, il campo su cui si è
irradiato il pensiero gentiliano: filosofia teoretica e storia del pensiero
speculativo, come si è detto. Ricorderemo, anzitutto, due pensatori, Armando
Carlini e Giuseppe Saitta, che si posson dire i rappresentanti di due
interpretazioni e svolgimenti opposti del pensiero del Maestro: la dottrina di
destra come è stato detto (I) - del Carlini, in cui si tenta di svolgere entro
l’ambito de\V attualismo alcune esigenze empiristiche come quella della
pluralità dei soggetti e quella di un mondo soggettivo, morale, distinto dal
mondo oggettivo, della percezione, della conoscenza: si veda La vita dello
Spirito (1921); e la dottrina di sinistra del Saitta, che tende a un’ulteriore,
più profonda identificazione di io empirico e Io trascendentale: si legga Lo
spirito come eticità (1920). « Armando Carlini, professore nella R. Univ. di
Pisa, proviene dalla filosofia crociana. Egli tende a elaborare il lato
spiritualistico piuttosto che quello logico-dialettico della filosofia
gentiliana. L’attualismo del maestro ubbidisce, a suo avviso, a due motivi
diversi: l’uno costituisce l'originalità propria della filosofia gentiliana, ed
è il motivo psicologico e lo sforzo di risolvere la dialettica nel ritmo stesso
della vita interiore, onde l’autocoscienza e la personalità coincidono nel
processo autocreatore dello spirito; l’altro è un ritorno al problema
hegeliano-spaventiano della dialettica come logica melati) Cfr. Spirito. fisica,
onde l’atto, più che spiegare se stesso si assume il compito di spiegare il
mondo della natura e dello spirito. L’attualismo diventa cosi, dice il C., un
puntualismo, in cui tutte le distinzioni di problemi spirituali si
neutralizzano in un concetto generico dell’attività del pensare. Egli tenta,
perciò, di ripigliare la prima posizione e di svolgere il concetto del ritmo
interno all’atto come il problema fondamentale dell’attualismo. L’atto realizza
se stesso come quello. « Io penso» ch’è unità in una dualità di vita e di
pensiero, di personalità morale e di riflessione filosofica su essa. La
distinzione posta in seno all’atto gli permette di riguardare questo come
condizione trascendentale di una dualità tra il mondo dell’esperienza sensibile
o mondo del conoscere, e quello dell’azione ch’è propriamente il mondo
storico-morale. Nello stesso tempo, l’atto, non coincidendo più dentro sè con
se stesso, fa appello a un punto di vista trascendente, in cui quel dissidio
venga pacificato, e pone così il problema fondamentale della vita religiosa. Il
Carlini e il Saitta sono anche storici, in ispecie il secondo: al Carlini si
deve un’ampia monografia sul Locke, al Saitta monografie sul Gioberti, sul
Ficino e vari saggi. Alla destra appartengono ancora il Ferretti e il
Codignola, pedagogisti; alla sinistra Guido De Ruggiero, autore di un saggio
sulla Filosofia contemporanea e di una Storia della Filosofia, opere di
carattere critico, prevalentemente. La posizione mentale del de Ruggiero, di
fronte aH’idealismo del Croce e del Gentile, può essere caratterizzata da una
più viva preoccupazione dell’importanza speculativa dei problemi sulla scienza
della natura. Il D. R. fin dal 1913 in una monografia dal titolo : La scienza
come esperienza assoluta ripudiava nettamente le dottrine prammatistiche della
scienza accolta nel sistema crociano e poneva il problema dell’unità della
scienza della natura e della filosofia, abbozzando una teoria del positivismo
assoluto, in cui le scienze, guardate nella loro intima genesi spirituale,
piuttosto che nell’astratta oggettivazione naturalistica, erano reintegrate
nella vita speculativa dello spirito. E più recentemente in un saggio sui
Problemi della scienza e della umanità ha ulteriormente sviluppato questo punto
di vista, mostrando la necessità che le due correnti dell’idealismo moderno,
quello storicista che fa capo al Vico e allo Hegel e quella scientifica, che fa
capo alla Critica della ragion pura di Kant, a torto dissociate dall’idealismo
contemporaneo, vengano ricomposte in una unità articolata e sintetica, per cui,
pur riconoscendo il carattere storico della vita spirituale, questa storia non
s’isterilisca in un mero umanesimo, ma includa in sè l’opera delle scienze
naturali, e attraverso di esso, il mondo stesso della natura nella sua
pienezza. Ampia attività storica hanno esercitato altri due pensatori più ligi
alle dottrine del Maestro: Vito Fazio-Allmayer, con saggi.su Galileo e sulla
Teoria della libertà in Hegel-, e Adolfo Omodeo autore di una Storia delle
origini cristiane in più volumi. È da ricordarsi ancora Antonio Anzilotti,
autore di un Gioberti, studiato nella sua filosofia e prassi politica e Cecilia
Dentice D’Accadia, che ha dedicato specialmente la sua attività allo studio del
problema religioso in Schleiermacher e Kant. In pedagogia, Giuseppe Lombardo-
Radice, autore di una Teoria e storia dell'educazione e di molti saggi
pedagogici, è il maggiore interprete e prosecutore della pedagogia idealistica
del Maestro, nella teoria e nella pratica. POSTILLA BIBLIOGRAFICA SU CROCE E
GENTILE. Delle seguenti opere si cita solo l’ultima ediz. Croce (Pescasseroli,
prov. di Aquila): Estetica come, scienza dell’espressione e linguistica
generale. Teoria e Storia 5» ediz. Bari, Laterza; Logica come scienza del
concetto puro. 4‘ ediz. Bari, Laterza, 1920; Filosofia della pratica. Economica
ed etica. 9* ediz. Bari, Laterza, 1923; Teoria e storia della storiografia. 2*
ediz. Bari, Laterza, 1920; Problemi di Estetica e contributi alla storia
dell’Estetica italiana. Bari, id. 1910; La Filosofia di G. B. Vico. 2 1 ed.
Bari, id. 1922; Saggio sullo Hegel. 2” ed. Bari, id. 1913; Nuovi Saggi di
estetica. Bari, id. 1921. Giovanni Gentile (n. a Castelvetrano, prov. di
Trapani): La riforma della dialettica hegeliana. 2* ed. Messina, Principato; 1
problemi della scolastica e il pensiero italiano. 2» ed. Bari, Laterza, 1923;
Sommario di Pedagogia come scienza filosofica. 2* ed. Bari, id. 1920-22; Teoria
generale dello Spirito come atto puro. 3* ed. Bari, id. 1920; Sistema di logica
come teoria del conoscere. 2» ed. Bari, id. 1921-23; Discorsi di religione.
Firenze, Vallecchi, 1920; Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento.
Firenze, id. 1920; La Riforma dell’educazione. Bari, Laterza, 1920; Frammenti
di estetica e letteratura. Lanciano, Carabba. Dice Lamanna in “IL REALISMO
PSICOLOGISTICO NELLA NUOVA FILOSOFIA ITALIANA” che Sarlo, nato nel 1864 in un
paesello della Basilicata (San Chirico Raparo), venne alla filosofia dalla
medicina. E ve Io condusse intima vocazione, oltre, e più, che esterna vicenda
di casi. Già durante gli studi universitari, a Napoli, si compiaceva di frequentare,
con le lezioni della Facoltà cui era iscritto, quelle di lettere e filosofia: e
fu, tra l’altro, uditore dello Spaventa negli ultimi anni del suo insegnamento.
La stessa sua prima pubblicazione un volumetto di Studi sul Darwinismo, ch’egli
scrisse ancor giovanetto nel 1887 attesta la tendenza di lui a studiare, anche
nel campo delle scienze biologiche, le questioni più generali, quelle che sono
poi stimolo e offrono motivi alla speculazione filosofica. Questa tendenza
divenne in lui sempre più consapevole durante gli anni che passò, come medico,
nel Manicomio di Reggio Emilia, dove compì ricerche psichiatriche che, mettendolo
a contatto più diretto con i problemi dell’anima, determinarono il suo
passaggio alla psicologia e alla filosofia. In questo campo non ebbe maestri:
fu un autodidatta: dovette cercar da sè, come a tentoni, la sua strada, ed era
naturale che la trovasse solo attraverso deviazioni, incertezze, ritorni. La
sua educazione naturalistica e l’influenza dell’ambiente culturale del tempo,
impregnato di positivismo, lo portarono dapprima a seguire questo indirizzo di
pensiero: e in uno degii organi della filosofia positivistica, la Rivista
dell’Angiulli, egli fece le sue prime armi. Ma non tardò ad allontanarsi dal
positivismo, a mano a mano che venne ac - quistando coscienza delle deficienze
di quella dottrina cosi in ordine all’interpretazione del fatto conoscitivo
come in ordine alla fondazione della moralità e religiosità umana: deficienze,
che illustrò poi in quelle Note sul positivismo contemporaneo in Italia,
pubblicate in appendice agli « Studi sulla Filosofia contemporanea » nel 1901,
una delle critiche più penetranti e conclusive che della gnoseologia
positivistica siano state fatte in Italia. La sua coscienza filosofica si venne
formando nel decennio 1890- 1900. Concorsero a questa formazione lo studio del
Rosmini, i rapporti personali o spirituali con alcuni dei più cospicui
rappresentanti italiani dello spiritualismo e del neo-criticismo, come Luigi
Ferri, Filippo Masci e, in particolare, Francesco Bonatelli, e, più
specialmente, lo studio diretto delle correnti più significative del pensiero
filosofico e psicologico contemporaneo, segnatamente inglese e tedesco, alcune
delle quali egli per primo, o tra i primi, fece conoscere in Italia. E di
questa sua attività furono frutto due saggi rosminiani: La logica di A. Rosmini
e i problemi della logica moderna e Le basi della psicologia e della biologia
secondo A. Rosmini considerate in rapporto ai risultati della scienza moderna
(Roma) poi rifusi in altri lavori ; due volumi di Saggi filosofici (Torino,
Clau- sen) posteriormente anch’essi rielaborati e rifusi —; studi su autori
stranieri sparsi in varie riviste, alcuni dei quali furono poi, con altri di
epoca posteriore, raccolti nel volume Filosofi del tempo nostro (Firenze, La «
Cultura Filosofica» editrice); saggi di psicologia; il volume Metafisica,
Scienza e Moralità (Roma, Balbi, 1898), e il volume già ricordato Studi sulla
Filosofia contemporanea : La Filosofia scientifica (Roma, Loescher, 1901).
L’esigenza che si rivela come fondamentale in questi studi del De Sarlo, è
quella di mostrare le vie per le quali le scienze positive, e più
particolarmente quelle naturali, sboccano, per una necessità imposta dalla
logica a loro immanente, in una concezione filosofica nella quale il
naturalismo è superato, cosi per il riconoscimento dei poteri originari e
irriducibili dello spirito quale soggetto conoscente e quale persona morale,
come per il coronamento del sapere filosofico in un’interpretazione teistica
della realtà universale; mentre, dall’altro lato, la filosofia stessa, come
sistemazione e critica del sapere, riceve dalle scienze particolari continuo
alimento e stimolo. E la necessità di questo connubio fecondo, nella loro
reciproca azione, della scienza e della filosofia, è rimasta come uno dei
motivi principali del pensiero del De Sarlo, anche quando, nel periodo di piena
maturità della sua attività di studioso, ha tratto i principii del suo
filosofare non più dal neo-criticismo, di cui si sente l’influsso neghi scritti
sinora citati, ma dallo sperimentalismo inglese da Locke a Mill —;
dall’intuizionismo della scuola scozzese specie per il rilievo costantemente
dato agli assiomi così gnoseologici come etici, costitutivi dello spirito
umano, e apprensibili con evidenza immediata nell’esperienza interna e infine
dal realismo dell’Her- bart e del Lotze. Conseguita nel 1894 la libera docenza
in filosofia presso l'Università di Roma, insegnò questa disciplina nei licei
di Benevento, di Torino, di Roma, fino al 1900, quando ottenne per concorso la
cattedra di filosofia teoretica all’Istituto di Studi Superiori di Firenze,
cattedra ch’egli ha tenuto e tiene ancor oggi con l’autorità e l’efficacia di
un Maestro. Presso lo stesso Istituto Superiore fondò nel 1903 un Gabinetto di
Psicologia Sperimentale, il primo del genere in Italia, e che è rimasto anche
oggi il più ricco di apparecchi: molte e importanti ricerche vi sono state
compiute sotto la sua direzione, sebbene, in questi ultimi anni, la
potenzialità scientifica- mente produttiva del Gabinetto sia stata assai
ridotta per le condizioni materiali veramente miserevoli nelle quali si è
venuto a trovare. Dal 1907 al 1917 il De Sarlo ha diretto la Cultura
Filosofica, una Rivista che ebbe un programma ben definito e, specie nei primi
anni, fu vivacemente battagliera cosi contro il positivismo ormai declinante,
come, e più, contro il risorgente idealismo. La sua operosità di studioso ha
dispiegato con assiduità e intensità instancabile nel campo della psicologia,
dell’etica, della filosofia generale, pubblicando poderosi volumi, ai quali
specialmente noi ci riferiremo nella esposizione e caratterizzazione della sua
filosofia. Il valore della sua opera ha avuto riconoscimento ufficiale nel
premio Reale per la filosofia, conferitogli dall’Accademia dei Lincei, della
quale egli è, dal 1921, socio nazionale. Elenchiamo qui le opere principali del
De Sarlo, escluse le prime già citate che poi sono state rifuse nelle
successive: Metafisica Scienza e Moralità. Studi di Filosofia morale. Roma,
Balbi. Contiene: Il naturalismo Il telismo L’idealismo e la moralità Il
socialismo come concezione filosofica Vita morale e vita sociale]. Studi sulla
Filosofia contemporanea. Prolegomeni : La « Filosofia scientifica ». Roma,
Loescher. Sarlo d’ordinario è presentato come un teista e uno spiritualista.
Tale egli stesso ha sovente dichiarato esplicitamente [Contiene : Du
Boys-Reymond, Helmholtz, Darwin, Il positivismo contemporaneo in Italia ]. I
dati dell’esperienza psichica. Firenze, Pubblicazioni del R. Istituto di Studi
Superiori, 1903, 1. voi. di pagg. 430 in-8. L’attività pratica e la coscienza
morale. Firenze, Seeber. Principii di Scienza etica, con un’Appendice su La
patologia mentale in rap- perto all’etica e al diritto. Palermo, Sandron, in
collaborazione con Q. Calò). II Pensiero Moderno. Palermo, Sandron, 1 voi. di
pagg. 410 in-8. [Contiene: a) Tre studi che possiamo dire introduttivi : La
formazione della coscienza filosofica odierna Uno sguardo alla filosofia I
compiti della filosofia nel momento presente. b) Altri tre studi che
costituiscono come la parte centrale del volume, la più vasta per il contenuto
che abbraccia e per l’estensione che ha: ! problemi gnoseologici nella
filosofia contemporanea Lo psicologismo nelle sue principali forme; I diritti
della Metafisica, nel quale ultimo specialmente sono sottoposti a un rapido e
vigoroso esame critico i principali indirizzi della filosofia contemporanea. c)
Altri quattro studi su particolari problemi o correnti filosofiche : Il
significato filosofico dell'evoluzione [Filosofia e scienza dei valori Stillo
spiritualismo odierno]. Filosofi del tempo nostro. Firenze, La «Cultura
Filosofica» editrice, 1916. [Contiene studi su Paulsen, Hodgson, Ward, Bradley,
Reitike, Hartmann, Zeller, Bonatelli]. Psicologia e Filosofìa. Studi e
ricerche. Firenze, La « Cultura Filosofica » [Contiene: Alcuni studi di
filosofia generale, importantissimi per la comprensione della posizione del De
Sarlo nel campo filosofico, e della concezione dei rapporti tra filosofia e
psicologia: Vecchia e nuova Psicologia
La psicologia e le scienze normative L’esperienza psichica L’individuo
dal punto di vita psicologico Il soggetto La causalità psichica Sensazione e
coscienza. b ) Due ampi studi di psicologia metafisica: Il concetto dell'anima
nella psicologia contemporanea Idee metafisiche intorno all’anima Saggi
contenenti la materia per un orgànico trattato sulle funzioni psichiche : La
classificazione dei fatti psichici L’attività conoscitiva L’attività immaginativa Vita affettiva ed
attività pratica, con i quali saggi è strettamente connesso un amplissimq
studio intorno a Le determinazioni formali della vita psichica, e più
particolarmente all'azione dell’esercizio e dell'abitudine su tutte le funzioni
fisiologiche e psichiche. (Appartengono a questo gruppo altri saggi minori.-
Sulla teoria somatica delle emozioni Sullo studio dei sentimenti nella
psicologia inglese contemporanea - Sulla percezione delle forme). d) Studi di
psicologia fisiologica e patologica: Cervello e attività psichica L’attività psichica incosciente Sulla psicologia della suggestione Le
alterazioni della vita psichica La
psicologia degli animali]. di essere. E tale, certo, egli si rivela nei suoi
scritti, dai più antichi ai più recenti. Ma, è da aggiungere subito, non è data
così la caratteristica più saliente della sua figura di pensatore: sfugge a
quella designazione gran parte, e forse la più significativa, della sua opera
filosofica; viene, comunque, lasciata cosi nell’ombra quella concezione della
filosofia e del metodo di filosofare che, meglio d’ogni altro elemento, vale a
individuare la sua posizione personale nel movimento filosofico italiano
contemporaneo. Uno dei suoi primi lavori, anzi il primo veramente organico che
l’ulteriore sviluppo del suo pensiero abbia lasciato immune da quelle
rielaborazioni più o meno sostanziali cui, come abbiamo già detto, egli ha
sottoposto altri suoi scritti di quel tempo, voglio dire il volume Metafìsica,
Scienza e Moralità, è tutto una riaffermazione dei princìpi fondamentali della
dottrina teistica cosi contro il naturalismo come contro l’idealismo assoluto.
La concezione di Dio quale Ragione che si esprime continuamente ed eternamente
nel mondo, e non come legge o ordinamento astratto, bensì come soggetto
concreto e vivente, è in quel libro svolta e presentata come la sola concezione
metafisico-religiosa, che, gravitando sulle esigenze morali più profonde della
coscienza umana, sulla considerazione del valore assoluto della persona,
contenga di queste esigenze il riconoscimento e la giustificazione più piena, e
fornisca per ciò stesso il principio di quella sistematica unificazione di
tutta la realtà, a cui la mente umana tende per sua natura, e in cui possono
essere inverate le particolari connessioni di frammenti di realtà che le
scienze della natura stabiliscono mediante le serie causali dei fenomeni. E tra
gli scritti meno antichi, due saggi, dei più elaborati e ricchi d’idee, I
diritti della Metafìsica (nel volume « Pensiero Moderno ») e Idee metafìsiche
intorno all’anima (nel II voi. di « Psicologia e Filosofia »), giungono,
attraverso l’analisi dei concetti di causa e di sostanza, alle medesime
conclusioni teistico-spiritualistiche intorno a Dio e all’anima umana. Dio è la
Causa prima, la causa che non è effetto, postulata qual condizione essenziale
della comprensibilità di qualsiasi fatto particolare in quanto anello di una
serie causale: causa la quale non può esser concepita, se non come analoga alla
sola causa vera a noi nota, che è la nostra stessa volontà in quanto libera, in
quanto costitutiva d’un cominciamento assoluto; non può quindi esser concepita
se non come volere essa stessa, e quindi come causa finale. E Dio è la Sostanza
Assoluta. l’Essere nel quale trova compiuto soddisfacimento l’esigenza del
pensiero a cui risponde il concetto di sostanza: che è il concetto di essere
che non è in altro nè per altro, ma è essere per sè, condizione e presupposto
di ogni altra determinazione, principio e unità reale di ogni molteplicità. E
anche per questo rispetto esso non può venir concepito se non in analogia con
quella che è per noi l’espressione più immediata e genuina della sostanzialità,
ossia la coscienza, che è appunto esistenza per sè, l’io che è immediatamente
percepito come principio unico di una molteplicità di funzioni e di atti, in
cui manifesta la sua realtà. E le sostanze finite possono anche esser
considerate come pensieri di Dio, e quindi come atti di quest’Essere per sè per
eccellenza, purché però l’atto e la funzione di Dio siano intesi come tali che
il termine di essi abbia un essere almeno parzialmente indipendente e sia
fornito della capacità di esistere per sè, di spontaneità e di libertà. Appunto
queste proprietà degli esseri finiti rileva e illustra il De S. nel tentativo
di determinare cosi l’origine come il destino delle anime. L’origine dell’anima
la quale implica, per un lato, la produzione di qualcosa di nuovo e, per
l’altro, la conformità a un ordine di leggi immutabile, può, secondo il De S.,
esser posta in rapporto con l’azione divina, purché questa s’intenda appunto
come sostrato reale in cui ha il suo sostegno quell’ordinamento di leggi, per
il quale, in date condizioni, nuovi fatti accadono o nuovi fini e valori
vengono realizzati. E poiché quelPordinamento è eterno, anche delle anime può
dirsi che esistono ab aeterno, come principi potenziali, i quali aspettano che
i destini si maturino per poter divenire attuali. E una volta divenuti attuali,
i centri reali di vita e di coscienza sono, secondo il De S-, indistruttibili,
appunto in forza del pregio intrinseco che essi posseggono come sostanze: onde
l'affermazione dell’immortalità di tutte le anime. È innegabile, dunque, che
del problema metafisico per eccellenza il De S. presenta costantemente una
soluzione conforme, nei suoi principii fondamentali, al teismo e spiritualismo
tradizionale. Ma bisogna subito aggiungere che nella trattazione di questo
problema della realtà egli è sempre consapevole del carattere meramente
congetturale di quella soluzione, quantunque questa gli sembri meno inadatta
delle altre a dare dei fatti e della realtà conoscibile una certa quale
interpretazione sistematica. Egli non si nasconde mai le oscurità che si
oppongono alla piena intelligibilità dell’Assoluto: non dissimula le antinomie
tra le quali la ragione umana si dibatte ogni volta che pretende di dare della
realtà ultima una definizione esauriente. E’ troppo persuaso dello scarso
valore dimostrativo che possono avere le analogie in base alle quali noi
trasportiamo dal finito all’infinito o estendiamo da una ad altra sfera di
realtà i nostri concetti, perchè si possa credere che egli s’illuda sulla
portata effettiva di quelle ipotesi, anche se l’intimo convincimento suo della
preferibilità di quelle ad altre ipotesi dia talora alla sua trattazione un
tono che può parere alquanto dommatico. Le riserve prudenziali che spesso
interrompono la sua trattazione di tali problemi potrebbero anzi indurre a
ritenere ch’egli sia in fondo un agnostico in fatto di metafisica: ed egli non
disdegnerebbe certo questo epiteto, se per agnosticismo s’intende la
persuasione che il mistero dell’universo è e rimarrà ineluttabilmente un
mistero per la mente umana. Agnosticismo, che ben si concilia in lui con la
fede questa, si, veramente dommatica nel senso migliore delia parola con la
fede sulla validità assoluta dei princìpi razionali, con l’affermazione che nel
fondo della realtà è la Ragione : si concilia, perchè, data appunto
l’ind'pendenza relativa delle coscienze finite dall’Essere assoluto di Dio,
possono da ognuna di quelle essere colti soltanto frammenti della razionalità
in cui questo si rivela come immanente all'universo. È uno dei caconi della
maniera di filosofare del De S. questo, che l’esigenza dell’unità, la quale è
essenziale alla ragione e si esprime nel suo grado più alto nella posizione del
problema metafisico, non può e non deve essere sodisfatta con l’eliminazione
delle differenze che la realtà presenti e la ragione stessa riconosca come
irriducibili, anche se non riesca poi facile o possibile alla mente umana
stabilire come questa molteplicità irreduttibile possa esser ricondotta o
comunque messa in relazione con quel principio reale di unità assoluta che è
Dio. Cito due esempi caratteristici, relativi al concetto fondamentale di
sostanza. Della sostanza, come s’è visto, noi abbiamo, secondo il D. S., una
conoscenza immediata nell’apprensione del nostro io, in quanto questo è un
essere per sè e si manifesta nei fatti psichici come in atti suoi, senza
esaurirsi in nessuno di essi. Da ciò parrebbe lecito dedurre che il mondo sia
costituito di sostanze omogenee, ossia di esseri che siano per sè come unità di
coscienza, anche se tra le varie sostanze si debba stabilire una differenza di
grado: parrebbe cioè giustificato il monismo spiritualistico. Invece il De S.
dedica due saggi ad una critica stringente di questa soluzione del problema
metafisico, che pur parrebbe la più conforme ai suoi supposti spiritualistici
(// monismo psichico e Sullo spiritualismo odierno, nel volume « Pensiero
Moderno »). È vero, egli dice, che tutto ciò che esiste, per il fatto che
esiste, agisce in una data maniera, e noi non possiamo rappresentarci codesta
attività che facendo uso di nozioni attinte alla nostra esperienza intima, e
che quindi in ultimo siamo sempre spinti a identificare l’esistenza con una
forma, per quanto attenuata, di psichicità. Ma l’analogia non deve far perdere
di vista le profonde differenze esistenti se non altro tra il modo di
comportarsi degli obietti e fatti costituenti la natura esterna e quello degli
esseri e processi psichici. Anzi, per il De S., a rigore non basterebbe opporre
al monismo, sia esso materialistico o immaterialistico, il dualismo : sarebbe
più logico parlare di pluralismo senza aggettivi, esprimente una pluralità di
energie e di attività tanto differenti tra loro,' che a rigore non possono
essere accomunate nè sotto la rubrica spirito né sotto qualsiasi altra rubrica.
Come e perchè esista quel dato numero di principii, cornee perchè esistano
quelli e non altri, non è possibile dire: è un fatto che va constatato, e non
si può e non si deve spiegare; come vanno indagate, constatate e descritte le
varie maniere di agire e reagire reciprocamente di questi vari esseri, ma non
si può presumere di spiegare, nel vero senso della parola, come e perchè si
stabilisca la connessione reciproca di tali esseri che sono esistenti per sè,
sebbene nelle maniere speciali di agire e reagire essi affermino e rivelino la
loro esistenza. Ma vi ha di più: la sostanza vivente e, più in particolare, la
sostanza psichica esiste ed agisce in quanto si sviluppa. Ora uno dei saggi più
penetranti del De S. (Il significato filosofico dell'evoluzione, nel volume «
Il Pensiero moderno ») è dedicato all’analisi del concetto di evoluzione, ed è
uno dei più significativi per dimostrare come nella concezione metafisica del
De S. si conciliino un temperato razionalismo e un prudente agnosticismo. Il
concetto di evoluzione, lungi dall’essere come vuole, ad es., l’hegelismo un
principio esplicativo, e lungi dal dare un’espressione compiuta della realtà
ultima, ha bisogno esso stesso di venir reso intelligibile. E l’analisi critica
di tal concetto rivela la presenza in esso di vere e proprie contradizioni, che
non possono essere eliminate se non considerando lo sviluppo non già come il
prius della realtà, ma come qualcosa di accessorio e di secondario. Il processo
evolutivo, mentre implica necessariamente il tempo, esige l’illusorietà del
tempo; mentre vuol essere creazione, implica già la preesistenza del termine a
cui arriva; si può leggere in esso, almeno post factum, la rispondenza a un
ordine razionale, ma chi dice razionalità, dice estra- temporaneità. Ogni
evoluzione implica dunque qualcosa di assoluto, di perfetto, di stabile, che
rappresenta il principio vero dell’evoluzione. Ecco il risultato, positivo,
certo, cui conduce l’analisi del concetto di evoluzione: ma è una certezza che
fa sorgere nuovi interrogativi: allora, ci si domanda, come e perchè i reali
concreti e finiti sono cosi fatti da dover attuare i fini solo mediante il
processo evolutivo, come e perchè l’ordine si realizza per gradi e attraverso
lo sviluppo? Il che equivale a domandarsi come e perchè esistano esseri finiti
che si trovano con l’assoluto in quegli speciali rapporti. E a questi
interrogativi non è possibile rispondere: ed ecco come, conclude il De S.,
l’evoluzione è un aspetto del « my- sterium magnurn » della realtà. Il problema
dell’evoluzione reale conduce al problema del tempo, e come questo resulta
dalla connessione del flusso con la permanenza, della successione con la
durata, così l’evoluzione poggia sul rapporto del divenire o variare con ciò
che è immutabile, permanente e eterno. Compito df;fa filosofia, dunque, di
fronte al problema più propriamente metafisico sembrerebbe essere, per il De
S., quello di rendere chiare e in un certo senso acuire e dimostrare
insuperabili, piuttosto che superare, le difficoltà che quel problema offre
alla mente umana; di illuminare i limiti di essa, piuttosto che additarle un
varco alla conoscenza piena dell’Assoluto. Ma non è questo, per il De S.,
l’unico compito della filosofia: o meglio, per assolvere questo stesso compito,
per condurre la mer*e umana appunto a queste posizioni che sono al margine del
mistero, a queste che possono dirsi frontiere della conoscenza umana, e per
dimostrare che sono frontiere invalicabili, la filosofia deve, secondo il De
S., percorrere il dominio stesso che innanzi alla conoscenza si stende, di qua
da quelle frontiere: ed è il dominio dell’esperieza nel senso più pieno e più
ampio di questa parola. Prima della « Dialettica trascendentale » e quindi
prima della Critica della Ragion pratica con i suoi postulati, vi è e vi deve
essere una « Estetica » e una «Analitica», per servirci della terminologia
usata da Kant, a designare un atteggiamento di pensiero analogo, per questo
rispetto, a quello criticistico, anche se, come vedremo, muova da supposti e
segua un. procedimento e giunga a risultati profondamente diversi. L’attività
filosofica del De S. ha avuto sempre, sin dalle sue prime manifestazioni,
un’impronta di positività, disdegnosa di ogni audacia speculativa, derivante
così dalla tempra del suo spirito come dalla sua educazione scientifica, oltre
che dal convincimento del valore nullo di ogni concezione che non sia un
portato necessario della critica della conoscenza positiva e non abbia quindi
una larga base empirica. Ma questo convincimento, si può dire, si è venuto in
lui sempre più radicando col maturarsi del suo pensiero, sino a divenire il
motivo fondamentale sempre più insistente del suo filosofare; sì che con questa
designazione appunto di filosofia dell'esperienza egli ama contrassegnare la
sua dottrina e il suo metodo, in recisa opposizione alla speculazione
idealistica dei neo hegeliani, che si è andata sempre più affermando in Italia.
Si direbbe che il diffondersi di quell’antiempirismo dialettico ch’egli
considera un vero « contagio » delle menti, l’abbia indotto ad accentuare
sempre più la necessità di ricorrere a cautele immunizzatrici, in un contatto
sempre più stretto, e più esclusivo, della filosofia col sapere empirico; di
ricondurre la filosofia, come in rifugio sicuro, in quei confini entro i quali
essa possa mantenere il carattere di scienza, essere, ai pari delle altre
scienze, un prodotto dei processi logici comuni della mente umana, anziché
l’espressione mistica o lirica che sia, notevole quanto si voglia per novità e
originalità, ma non suscettibile d’una dimostrazione razionale l’espressione,
dicevo, di una coscienza e quasi d’un temperamento individuale traverso il
quale la realtà si rifranga. E inaugurando, nello scorso ottobre, l’ultimo
Congresso italiano di filosofia a Firenze, giunse alle affermazioni estreme che
le attuali condizioni della cultura filosofica in Italia esigono un più o meno
lungo periodo di astinenza dall’alta speculazione, e che non il problema
filosofico, quello metafisico intorno alla natura della realtà ultima e
assoluta, ina / problemi filosofici particolari, o meglio questi prima e con
più fiducia e anzi con più sicurezza di successo che quello, e come condizione
per la stessa impostazione non che per ogni tentativo di soluzione di quello,
meritano di essere oggetto dell’indagine filosofica. Ma con ciò, si può
osservare, non è stato sacrificato proprio quello che è il carattere distintivo
del sapere filosofico rispetto alle scienze particolari, e che è appunto la
determinazione della relazione dei distinti, il riferimento della molteplicità
delle distinzioni a un principio unitario? Il De S. risponde che la filosofia è
aspirazione alla unità dell’Essere, senza che perciò il filosofo debba
trasformarsi in un allucinato dell’unità. La varietà e la inconciliabilità dei
tentativi compiuti nella storia della filosofia per unificare i reali e-le
conoscenze e per dedurre la complessità dei fatti da un unico principio, sta a
dimostrare, secondo lui, che all’unificazione si giunge colmando con
l’immaginazione le lacune della conoscenza certa e dimostrabile. Gli si può
replicare con l’obiezione consueta, che la vanità di quei tentativi risulta
dall’aver cercato la unità nell’oggetto invece che nel soggetto, nella natura
(o in Dio, che è lo stesso) invece che nello Spirito. Ma il De S. ribatte che
anzi appunto attraverso quel riferimento degli oggetti al soggetto conoscente,
appunto attraverso quella unificazione, diremmo, metodologica e gnoseologica,
di tutto il reale nell’io che è propria del sapere filosofico —, si rivela la
irriducibilità, diremo, ontologica degli oggetti e dei valori. Infatti, per il
De S., se da un lato la filosofia non può non scindersi in una molteplicità di
discipline, fondate su principii irriducibili (essere e valere, p. es.), dall’altro
lato queste hanno caratteri comuni, che valgano a fare di esse appunto un unico
gruppo, quello delle disciplini; filosofiche. E questi caratteri comuni sono:
I) determinazione dei concetti universali, attraverso i quali la realtà può
essere razionalizzata; 2) riferimento di tutta la realtà allo spirito del
soggetto, in cui e per cui l’esperienza in ogni sua forma si costituisce. Due
caratteri, questi, che sono per il De S. strettamente uniti e come
interdipendenti: perchè le idee universali ossia le nozioni metafisiche
fondamentali intanto assurgono a quel grado di fecondità per cui rappresentano
i mezzi di razionalizzazione della realtà, in quanto o sono il risultato della
giustii.jata estensione a tutta la realtà di concetti che abbiamo direttamente
appreso nella coscienza (sostanza, fine, causa), ovvero sono il prodotto della
riflessione sui modi in cui la realtà diviene intelligibile e acquista
consistenza nella mente umana. Lo spirito, in quanto termine comune di
riferimento di tutti gli elementi e fatti della realtà, viene ad occupare una
posizione centrale nel mondo, e la psicologia, come scienza dello spirito,
costituisce il terreno di incontro delle diverse discipline filosofiche. Si è
detto, la psicologia come scienza dello spirito : e di questa determinazione
v’è bisogno per non cadere nei facili equivoci cui può dar luogo la parola
psicologia o psicologismo. Già nei 1903, nel suo poderoso volume I dati
dell'esperienza psichica, il De S. insisteva sulla profonda differenza
esistente tra la psicologia come scienza empirica e la psicologia coinè scienza
filosofica. La prima, quale si è venuta costituendo negli ultimi decenni,
studia l’anima umana come un « obietto» tra gli altri obietti della natura, ha
aspetto e procedimento di una scienza naturale e non mira che alla spiegazione
causale dei fenomeni. Per essa la vita psichica è un complesso di « stati » di
coscienza: i quali, sì, implicano tutti una certa coscienza dell’io (in maniera
che per il De S. non è possibile una psicologia « senz’anima », anche se sia
psicologia empirica): ma il soggetto non è còlto, da questa, in funzione, ossia
nella sua attività tendente a determinati scopi. Si tratta di una
considerazione statico di dati, a cui il concetto di atto è necessariamente
estraneo; di una considerazione che tende a fissare i rapporti condizionali dei
vari ordini di stati psichici e a ridurre il complesso al semplice. La
psicologia empirica deve quindi limitarsi all’«analisi morfologica» della
coscienza, escludente qualunque funzionalità e quindi qualunque dinamismo. Ora
« lo spirito dice il De Sarlo (p. 412) non è una cosa tra le altre cose, ma è
il mezzo di rivelazione della realtà. Come tale lo spirito è universale:
universalizza sè stesso nelle sue funzioni ed universalizza per ciò stesso
l’obietto a cui è rivolta la sua attività ». Ecco perchè lo spirito può
considerarsi come in una posizione centrale rispetto a tutte le cose: e la
scienza che lo studia, ossia la psicologia come “ fisiologia „ dello spirito, è
necessariamente scienza filosofica. Nella considerazione funzionale dello
spirito s’impone il concetto di valore e quindi di fine. Le funzioni dello
spirito mercè i loro atti oggettivano i dati e stati soggettivi; perchè sono
determinazioni che qualificano, sì, il soggettò, ma lo qualificano in rapporto
all’oggetto, e danno quindi luogo a ciò che è universalmente valido, a quelli
che sono i valori oggettivi. La verità, il bene, il bello non sono dei dati o
dei fatti: sono degl’ideali, sono appunto valori, distinti da ogni altro valore
unicamente soggettivo per questo carattere, che sono forniti di una speciale
necessità che è la necessitàdi diritto ben diversa dalla necessità di fatto
degli stati psichici. Quest’ultima denota soltanto che uno stato è
inevitabilmente determinato, nella sua insorgenza, da certe condizioni, una
volta che queste siano date, cioè siano determinate da altre condizioni, e così
via; denota cioè che uno stato o un fatto psichico ha sempre la sua ragione
d’essere in altro. Ma è indifferente al valore di quello stesso stato o fatto,
se per valore s’intende ciò che ha la ragion d’essere in sè e non in altro
ossia un valore incondizionato e assoluto, ciò che deve essere anche se le
condizioni dell’essere non sussistano e quindi la realtà non sia ad esso
adeguata. La necessità psicologica abbraccia indifferentemente nella sua
spiegazione così il valore come il disvalore, così il vero, il bello, il bene,
come l’errore, il brutto, il male. Una tale distinzione di valore, come
distinzione obiettiva e universale, non si può avere se non mediante il
riferimento alle leggi costitutive delle funzioni originarie ed essenziali
dello spirito, leggi non meccaniche, superiori anzi al meccanismo psichico,
perchè essenzialmente teleologiche, indicanti cioè la maniera in cui quelle
funzioni agiscono ogni volta che raggiungono il termine che è costitutivo della
loro natura spirituale, leggi rivelanti la loro natura attraverso una forma di
evidenza che è indizio della loro necessità e universalità. Le leggi logiche e
gnoseologiche definiscono la natura del pensiero, le leggi etiche quelle della
volontà, le leggi estetiche quelle della fantasia. Sono principii o assiomi i
quali significano che il pensiero, il volere e la fantasia in tanto meritano
veramente questo nome e in tanto raggiungiamo il termine che ad esse è proprio,
in quanto si esplicano nel senso indicato da quelle leggi piuttosto che in
altro senso. La distinzione tra psicologia empirica, come scienza dell’anima
morfologica, naturalistica e la psicologia come scienza dello spirito
funzionale e filosofica, così nettamente affermata dal De S. nell’opera su
citata del 1903, è forse stata successivamente attenuata in altri scritti, nel
senso che, a suo giudizio, la conoscenza del meccanismo psichico risulta utile
alla determinazione dei modi in cui lo spirito si eleve al di sopra di esso r e
reciprocamente la conoscenza dei fini dello spirito è indispensabile per
l’apprensione esatta del meccanismo che serve di mezzo al raggiungimento di
t'°i. Ma l’attenuazione si riferisce ai rapporti tra le due considerazioni
dell’anima e non elimina con ciò la distinzione. E comunque il De S. non ha mai
cessato di differenziare nettamente ed energicamente il suo psicologismo da
quello naturalistico, che considera i valori dello spirito come « o
applicazioni di leggi psicologiche già operative in altre direzioni, ovvero
particolari, originarie manifestazioni dell’attività psichica, le quali però
attingono il loro significato dall’essere effetti necessari di certe cause
psichiche o risultati inevitabili di processi mentali naturali, e non già dal
rispondere a certi fini od esigenze valide anche se non mai realizzate». Si
leggano specialmente, in proposito, i saggi Lo psicologismo nelle sue
principali forme (nel voi. < Pensiero Moderno »), Vecchia e nuova
psicologia, La psicologia e le scienze normative, e La classificazione dei
fatti psichici (nel I voi. di « Psicologia e Filosofia. Lo psicologismo del De
S. non è dunque naturalismo, ma non è neppure immanentismo: offre anzi a lui il
mezzo per affermare e dimostrare, contro ogni forma d’idealismo immanentistico,
il suo realismo gnoseologico. Se nella determinazione di ciò che è l’essere e,
in genere, di ciò che è oggetto di conoscenza, il De S. ritiene di dovere
attenersi ai criteri generali su esposti del suo psicologismo, non è già perchè
egli ritenga che la psiche e i processi psichici costituiscano la stessa
realtà, anzi lo stesso essere, ma è solo in considerazione delle prerogative
che, in ordine alla conoscenza, sono proprie dell’esperienza psichica di fronte
ad ogni altra forma di esperienza. E queste prerogative sono due: 1) innanzi
tutto la così detta esperienza estèrna si rivela e acquista consistenza sempre
attraverso l'interna, perchè ciò che è direttamente percepito, anche in quelli
che sono comunemente detti oggetti esterni, è sempre il contenuto d’un atto
psichico; l’esperienza interna presenta la nota dell’evidenza (evidenza di
fatto) derivante dalla coincidenza del percepire col percepito; e perciò
l’esperienza psichica rappresenta il vero fondamento per la constatazione di
qualunque esistenza reale, e quindi di ogni sapere empirico. 2) In secondo
luogo, l’esperienza psichica è il solo tramite attraverso il quale tutto ciò
che è (reale o pensabile che sia), l’essere in generale ci si può rivelare.
L’io distinguendosi da tutta la realtà traspare a sè medesimo, e insieme tutta
la realtà diviene trasparente attraverso di esso. Nulla esiste che sia
propriamente nell’io, tranne l’io stesso, e insieme, in un certo senso, nulla
di cui si può discorrere esiste al di fuori dell’io, perchè la cosa, per essere
affermata e riconosciuta, deve in qualche maniera esser presente alla
coscienza. In questo consiste ciò che si può chiamare funzione rappresentativa
della mente. Ma proprio da questo carattere essenziale alla mente il De S.
deriva la necessità di affermare la trascendenza dell’oggetto rispetto alla
mente che lo afferma e lo pone. Noi, egli dice, arriviamo, è vero, al concetto
di essere e di obietto solo mediante la riflessione sull’atto di riconoscimento:
ma questo in tanto è tale, in quanto è provocato da qualcosa di diverso da sè.
La mente, non contenendo la realtà come tale, nè identificandosi con essa, non
può giungervi se non attraverso qualcosa che rappresenti o sostituisca la
realtà medesima. Le rappresentazioni mentali forniscono i segni in base a cui
l’intelletto costituisce la realtà. La realtà, si può anche direche sia «
percipi « e « intelligi », purché con ciò non si voglia significare che
l’essere si esaurisca nel fatto di essere percepito e inteso, ma solo che non
si ha modo di definire quest’essere prescindendo dalle sue rivelazioni nella
coscienza individuale. La conoscenza vale sempre per altro, si riferisce sempre
ad altro. Non che si tratti di una specie di corrispondenza tra l’obietto
trascendente e la rappresentazione mentale come grossolanamente si ritiene da
molti critici di tale concezione —, quasi fosse ammissibile un’apprensione
dell’oggetto qual’è in sé al di fuori della coscienza e quindi un confronto tra
la Cosa e 1 idea- L affermazione della trascendenza è imposta dal bisogno di
dare un senso alla funzione conoscitiva qual’è còlta in atto, al fatto
conoscitivo nel suo significato e nell’intendimento che lo anima. Certo, per il
De S., non si deve con Jiò pregiudicare la soluzione del problema metafisico
della costituzioile intima della realtà ultima. La metafisica può anche
giungere alla conclusione che la realtà, divelta da qualsiasi rapporto con la
coscienza, è un non senso, che tutto ciò che esiste, esiste in quanto è connesso
con una coscienza. Ma questo rapporto metafisico non può essere identificato
col rapporto gnoseologico tra obbietto e coscienza in quanto conoscente. La
coscienza nel riferimento alla quale può farsi consistere la realtà di tutto
ciò che è, non è certo la coscienza individuale del soggetto che conosce questa
realtà e la conosce riferendola a sé come altro da sè: anche quando si sia
ridotta metafisicamente la realtà a coscienza, tale coscienza rispetto al
soggetto conoscente, a questo o quel soggetto, è sempre un reale, un oggetto, è
sempre appresa da esso come altro da sè. Il quale ultimo punto non potrebbe
essere negato se ì.'in dimostrando che la distinzione delle singole coscienze è
illusoria e che i rapporti tra gli obietti costituenti l’universo sono identici
ai rapporti tra i fatti psichici di ciascuno. Questa dimostrazione, per il De
S., non può essere data: e ne vedremo il perchè, tra poco, a proposito della
natura del soggetto come reale. E, comunque, allo stesso modo che la soluzione
del problema gnoseologico non deve accogliersi come tale da contenere o
assorbire in sè la soluzione del problema metafisico, cosi questa che,
d’altronde, può essere solo punto d’arrivo dell’indagine filosofica, e irta,
come s’è già detto, di difficoltà e oscurità d’c^ni sorta —, non può e non deve
pregiudicare la soluzione del problema gnoseologico, sino a eliminare ciò che è
costitutivo del fatto della conoscenza, la dualità di soggetto e oggetto.
L’esperienza psichica l’abbiamo già detto è, per il De S., costituita di atti :
e perciò anche il pensiero è atto. Ma chi dice atto, dice qualcosa che accade
nel tempo, qualcosa che sorge e si dilegua in un determinato punto della
durata. E allora, secondo il De S., non si può sfuggire a questo quesito: se
tutta l’esperienza psichica si risolve in un complesso di atti e se in
conseguenza tutto ciò che può essere conosciuto non lo può che attraverso atti,
come é possibile arrivare al concetto di ciò che non è atto, al concetto,
poniamo, di una relazione universale e necessaria tra idee, com'è possibile
arrivare al concetto del mondo della pensabilità, che esclude qualsiasi
elemento di efficienza, di azione reale, e che non è nel tempo? Appunto per
rispondere a questo quesito, occorre negare l’immanenza o l’inclusione dell’oggetto
nell’atto psichico corrispondente. Mentre vi sono contenuti di coscienza i
quali si moltiplicano come si moltiplicano i centri di coscienza, ve ne sono
altri che, pur essendo in speciale rapporto con i primi, rimangono unici e anzi
non sono concepibili che come unici. E anche quando agli obietti in quanto
parvenze non è attribuibile nessuna consistenza reale, non è lecito affermare
che essi si identifichino con gli atti stessi, giacché anche in tali casi è
sempre necessario presupporre ddle condizioni indipendenti atte a provocare
l’esplicazione dell’attività psichica riconosciuta poi come illusoria.
L’esistenza di siffatte condizioni è un presupposto ineliminabile : o
l’attività psichica ch’esse hanno provocata è adeguata alle condizioni medesime,
e allora si è autorizzati a identificarle con obietti reali, aventi
un’esistenza indipendente; o tale esplicazione è inadeguata, e allora s’impone
la necessità di ricercare quale forma di realtà e di esistenza possa essere
attribuita a quelle condizioni. Ma come si può decidere se vi sia o no
adeguazione dell’atto all’oggetto? Qui il De S. insiste sulla distinzione tra i
due ordini di oggetti conoscibili: gli obietti concreti e individuali (con le
loro qualità) da una parte, e gli elementi ideali o intelligibili, dall’altra.
L’esistenza è fornita sempre dall’esperienza: o è dato sensoriale, o è dato
della coscienza, e non può non occupare tempo ; l’intelligibile, invece, è
sempre formulabile per mezzo di un rapporto o di un complesso di rapporti, ed è
estraneo alle vicende del tempo. E il fondamento della cognizione, in rapporto
a questi due ordini di obietti, è da un lato la percezione dei fatti psichici e
di ciò che è relativo ad essi, e dall’altro la conoscenza di certi principii e
assiomi costituenti come l’ossatura della ragione; da un lato, cioè, l’evidenza
di fatto, fornita, come si è già accennato, dalla diretta esperienza che
abbiamo di noi stessi, e, dall’altro, la necessità razionale, qual’è còlta nei
principii logici. Questa distinzipne, però, non è da intendere, secondo il De
S., nel senso che l’apprensione dell’esistente e della sua qualità possa farsi
indipendentemente dal pensiero logico. Il fatto individuale non è
caratterizzabile che mediante nozioni universali; e 1 intelligibile, se può essere
considerato per sè (astratto) solo per opera della mente, è tanto intimamente
connesso (consubstanziale) con resistente, col puro fatto, che questo non può
formare oggetto di conoscenza se non per ciò che contiene di inttj ligibile. È
il pensiero che deve in certo modo investire di sè i dati'dell’esperienza
psichica per og- gettivarli affermandoli, facendone cioè termini di atti
giudicativi, e trasformarli così in reali conosciuti. Più in particolare, è il
pensiero che fa di quella sfera dell’esperienza psichica che è la sensibilità,
il tramite di una realtà trascendente la coscienza, e fa delle qualità
sensoriali non soltanto contenuti psichici aventi la realtà stessa di altri
contenuti psichici, come sentimenti, volizioni ecc., aventi cioè resistenza che
è propria degli stati o atti di quel prototipo di realtà individuale che è l’io
—, ma fenomeni d’una realtà trascendente. Il pensiero pone e risolve il
problema della realtà di un correlato obiettivo delle q alità sensoriali, in
quanto da un Iato queste non sono meri contenuti di coscienza o creazione del
soggetto come dimostrano la coerenza e permanenza che presenta l’esperienza
sensibile e le variazioni a cui questa può andar soggetta indipendentemente da
qualsiasi rapporto con la coscienza individuale ; e dall’altro lato non sono
cose in sè come dimostra la loro relatività alle condizioni subiettive, per cui
è impossibile dire chiaramente in che cosa consistano, per sè prese. D’onde
risulta che esse hanno una forma di esistenza speciale che è appunto l’essere
proprio dei fenomeni. Ora questo correlato obiettivo delle qualità sensoriali
può essere raggiunto solo per opera del pensiero e non è determinabile nei suoi
tratti essenziali che in base ai principii razionali. Il pensiero rappresenta,
pertanto, il solo mezzo per distinguere l’apparenza dalla realtà, anzi il solo
mezzo per attribuire un significato a tale distinzione. Le parvenze sensoriali,
i puri fenomeni e le forme intuitive dello spazio e del tempo non possono non
essere constatati, e quindi come pseudo-esistenze, non possono non divenire
obietti di conoscenze immediate, nella forma di giudizi percettivi (pensiero
tetico, immediato, concreto). E quando i dati così affermati si trovino in
contrasto col sistema delle conoscenze organizzate intorno ai principii
razionali, il pensiero medesimo è chiamato a decidere in ultima istanza su ciò
che va affermato come reale e ciò che va riguardato come apparenza, è chiamato
a decidere intorno all’obbiettivo e al subbiettivo. Se già l’esistenza come
tale esige, secondo il De S., l’intervento del pensiero logico, s’intende che
anche l’essenza del reale non possa, e con più forte ragione, esser determinata
che dal pensiero. Essa consiste in relazioni, nelle quali la mente traduce ciò
che dapprima è soltanto sperimentato e vissuto (somiglianza e differenza, nesso
di dipendenza, rapporti quantitativi, rapporti di azione e passione, rapporti
spaziali e temporali atti a fornire le coordinate per l’individuazione).
L’intelligibile, distrigato dal reale per mezzo dei processi intellettivi,
finisce per assumere l’ufficio di segno rispetto a ciò che è posto come
indipendente dal soggetto e come sussistente. E il progressivo sviluppo della
conoscenza è determinato dal bisogno di fissare ciò che nella realtà vi ha di
conforme alla ragione e quindi di assimilabile da essa mediante la traduzione
della realtà stessa in rapporti razionali. La credenza che l’obietto sia sempre
risolubile in elementi intellettuali è il presupposto e anzi l’anima di
qualsiasi conoscenza. La realtà esistente, dunque, non può essere posta che dal
pensiero in quanto giudizio tetico; e non può essere conosciuta nella sua
struttura se non nella misura in cui il pensiero la traduce in un complesso di
rapporti intelligibili. Ma e con ciò il De Sarlo riafferma il carattere
nettamente realistico del suo razionalismo i termini di questi rapporti e il
contenuto di quelle « tesi » non sono risolvibili in pensiero.Vi è sempre
distinzione, secondo il De S., tra lo sperimentare e il pensare, nel senso che
quello non è derivabile da questo, anche se non possa divenire sperimentare
«obiettivo », e quindi conoscere, che per mezzo dell’attività del pensiero; vi
è distinzione tra il pensiero come oggetto di conoscenza, come pensabile o
pensato, e il pensiero come attività d’un soggetto, volta a raggiungere la
verità sia questa un dato di fatto o un’idea —, come pensiero pensante. È
questa la natura dei rapporti, il cui complesso costituisce la pensabilità del
reale: da un lato essi sono il risultato di atti (riferimento) compiuti dal
soggetto, sì che, come tali, parrebbero immanenti a una mente e quindi il
prodotto di un soggetto. Ma dall’altra parte IL REALISMO PSICOLOGISTICO 139 non
sono posti arbitrariamente; sono, più che suggeriti, imposti da esigenze
obiettive. Nè l’inlelligibiiità dei rapporti viene ad essere facilitata dal
riferimento di essi ad una Mente universale. Con ciò i rapporti vengono
consideratifcome creazione arbitraria di tale Mente ? E allora ogni analogia di
questa con la mente umana verrebbe ad essere cancellata, e il ricorso ad essa
diverrebbe inutile allo scopo. Vengono, invece, i rapporti considerati come
espressione di una necessità intrinseca alla natura delle cose? E allora la
Mente universale non è che il nome per esprimere la coerenza logica, l'intelligibilità
nel suo aspetto obiettivo; i»/telligibilità che può condurre la mente ad
ammettere un’Intelligenz.l! assoluta, senza che però questa sia assunta a
principio esplicativo della razionalità: la razionalità vale per sè,
indipendentemente dall’essere insidente in una mente. Quel che noi possiamo
dire, conclude in proposito il De S. t è che i rapporti, quali possono essere
studiati dall’intelletto finito individuale, suppongono obietti (termini) nella
cui proprietà hanno il loro fondamento, e che le relazioni, realizzate in
questa o quella coscienza mediante gli atti di riferimento, sono il riflesso
delle relazioni obiettive. Il problema gnoseologico, s’è visto, non può,
secondo il De S., essere convenientemente trattato se non quando si tenga presente
che il soggetto a cui, nel fatto conoscitiva, vien riferito l’oggetto, è il
soggetto individuale; e la soluzione réalistica ch’egli ha dato al problema
potrebbe essere compromessa esclusivamente nel caso che si fosse riusciti a
dimostrare, in sede metafisica, non solo che la realtà non può esser resa
intelligibile che quando sia considerata come il pensiero di una Mente
Universale, ma anche che la distinzione delle coscienze individuali tra loro e
dalla Mente Universale sia illusoria. La dimostrazione di questo secondo punto
è per il De S. impossibile. Intanto l’aver riconosciuto che l’esperienza
psichica è costituita essenzialmente di atti, non significa per il De S.
affermare che il soggetto dell’esperienza psichica si risolve in null’altro che
in un complesso di atti. È il concetto e l’esperienza stessa di atto che rinvia
per necessità al concetto di soggetto come di un reale distinto da ogni altro
reale e quindi da ogni altro soggetto. Certo, non è possibile determinare la
natura del soggetto (unità reale) senza riferirsi agli atti ch’esso compie: ma
alla variabilità degli atti non corrisponde la variabilità dell’unità del
soggetto. L’individuo non può non aver coscienza di essere in rapporto con
altro da sè per mezzo di atti da sè stesso compiuti; ma se esso non
distinguesse sè (come principio degii atti) dagli atti stessi, e questi dagli
obietti a cui gli atti sono rivolti, non potrebbe parlare di atti suoi
numericamente distinti da quelli degli altri individui. Inoltre il soggetto si
fa, si crea con i suoi atti, ma perchè possa farsi e crearsi, occorre che vi
sia un principio reale, un dato iniziale e quindi qualcosa di già fatto. La
creazione non è ex nihilo; e la stessa potenzialità o capacità è concepibile
soltanto come inerente a qualcosa di attuale, come funzione possibile di un
essere. Non può, dunque, la coscienza essere ridotta al mero complesso degli
atti e fatti psichici. Ma non può neppure, d’altra parte, sostiene il De S.,
confutando in svariatissime occasioni la tesi idealistica —, non può neppure
essere ridotta a una mera equazione di pensante e pensato, alla pura relazione
formale d’identità tra conoscente e conosciuto. L’idealismo afferma che la
suicoscienza è il grado supremo dell’evoluzione d’un principio ideale, d’una
legge, d’un universale; quello in cui la realtà, che negli stadi inferiori si
presenta come scissa dall’idea, come essere distinto dal pensiero, come oggetto
opposto al soggetto, rivela invece la sua più intima natura, che è appunto
unità e identità di soggettivo e di oggettivo, di pensante e di pensato, di
essere e di pensiero. Quest’affermazione è per il De S. risultato d’una
confusione derivante dal significato equivoco della parola coscienza. Quando si
parla di coscienza e di suicoscienza, egli dice, bisogna distinguere tra la
suicoscienza vera e propria, fondata sulla capacità che ha l’io di ripiegarsi
su se stesso e di percepire il complesso dei fatti psichici come incentrantisi
in un punto; e la coscienza, in senso largo, come espressione dello speciale
rapporto che può esistere tra l’oggetto e l’io come conoscente. Quanto alla
prima, l’equazione di pensiero e di pensato non è che l’espressione, in termini
intellettuali, d’una esperienza vissuta sui generis, di un fatto che può essere
indicato ma non definito, perchè per sè preso oltrepassa il pensiero, e non può
assumere carattere di necessità razionale. E quanto alla seconda, la
identificazione dei due termini del rapporto conoscitivo non può ottenersi se
non sostituendo all’io empirico il cosi detto io universale o coscienza in
generale o io trascendentale. Ma osserva il De S., o con ciò s’intende quello
che è comune alle menti individuali ; e allora non si vede come si possa
distinguere il soggettivo psicologico dal soggettivo gnoseologico. 0 s’intende
qualcosa che vale indipendentemente da questa o quella coscienza empirica, che
esprime il modo come lo spirito deve operare perchè sia veramente tale, le
esigenze dell’intelligibilità significanti veri e propri compiti impditi da ciò
che è indipendente dal soggetto; e allora non v’è più ragione di parlare di io,
di soggetto, quando la soggettività si è identificata/con la razionalità, con
l’intelligibilità, che è anzi l 'oggetto della conoscenza e del pensiero
pensante. Ma da tale concezione della coscienza come di categoria delle
categorie, questo solo, secondo il De S., si ricava, che la realtà in tanto può
essere conosciuta ed essere compenetrata dal pensiero, in quanto è concepita
essa tessa come implicante pensiero. Il che poi significa che la realtà è fcosì
fatta da imporre certe esigenze alla mente individuale, ossia che nell’obietto
vi è qualcosa atto a provocare il riconoscimento. Ma il passaggio dalla
intelligibilità in quanto esigenza del riconoscimento da parte del soggetto,
alla riduzione della realtà a un processo di autocoscienza, all’affermazione
che nella realtà stessa non si trovi niente di più di ciò che è in noi stessi
quando giungiamo a identificarci e a riconoscerci, non è affatto giustificato.
L’autocoscienza, piuttosto, è già nel fondo della realtà, indipendentemente da
noi: non è dunque l’autocoscienza, quale si presenta negli individui singoli,
l’espressione genuina e compiuta della realtà. Nè vale ammettere
l’autocoscienza come potenzialmente esistente ab aeterno e attuantesi poi negli
individui: si riaffaccia allora quella suprema difficoltà contro cui, come già
si è accennato, urta sempre il pensiero umano, la difficoltà d’intendereA:ome
da ciò che è puramente pensabile, ideale, estratemporaneo, uno, si passi a ciò
che è reale, attuale, temporaneo, contingente, diverso, mutevole. Non è
possibile considerare soggetti molteplici che sono nel tempo e hanno uno
sviluppo e sono direttamente impenetrabili e incomunicabili, come
determinazioni, differenziazioni o sezioni dell’Uno, sol perchè essi hanno il
potere di superarci limiti del tempo idealmente e di elevarsi al mondo della
pura razionalità. E una riprova di questo è l’esistenza dell’errore logico,
etico, estetico che dimostra, come già si è visto, la possibilità d’una
discrepanza fra le funzioni psichiche e le categorie o principii ideali, di
qualunque ordine siano, tra la necessità psicologica e quella deontologica.
Questa distinzione tra la necessità di fatto e la necessità di diritto, tra ciò
che è ed è per opera di un soggetto reale e quel che dovrebbe essere in virtù
di principii razionali, è il presupposto da cui, è naturale, muove più
particolarmente il De S., nelle sue indagini di etica (per cui v. specialmente
VAttività pratica e la coscienza morate e i Principii di scienza etica). Per lui
tutta la vita morale ha il suo fondamento in certi principii valutativi che si
rivelano alla coscienza come forniti d’evidenza immediata analoga a quella
logica: veri e propri assiomi morali, la cui azione pervade le particolari
contingenze della vita pratica. Compiti dell’Etica sono perciò questi: a)
determinare la natura del- Vevidenza pratica (necessità e universalità) e- il
contenuto di queste condizioni essenziali nella vita morale (e per il De S.
tali principii si riducono a quelli della dignità e della perfezione personale,
della giustizia e della benevolenza); porre in luce lo svolgimento storico di
tali principii, in quanto, pur essendo stati sempre operativi, hanno dispiegato
variamente la loro efficacia in relazione con il variare delle condizioni della
civiltà; considerare tutte le istituzioni per qualunque via primamente sorte
alla luce degl’ideali etici, come organi dell’attuazione di essi. II De S.,
nella trattazione di questi problemi, afferma l’autonomia dello spirito nel
senso che il soggetto è tratto dalla sua stessa natura a dare l’assentimento a
principii superiori al suo io empirico. Egli quindi ammette una forma di
esperienza morale specifica e distinta da ogni altra forma di esperienza
spirituale, scientifica, estetica, religiosa ecc. La specificità di questa
esperienza è la condizione che rende possibile una scienza etica: della quale
egli insiste nel rivendicare l’autonomia e la priorità rispetto a qualsiasi
concezione propriamente metafisica. La Metafisica ha nell’etica una delle sue basi
più solide e a tal principio è ispirato, come abbiamo visto, tutto il volume
del De Sarlo "Metafisica, Scienza e Moralità „ ; ma nessuna teoria morale
può, secondo lui, essere costruita alla luce di una determinata concezione
generale dell’universo, piuttosto che sulla base dell’analisi dell’esperienza
morale. Come si vede, di fronte al problema etico il De S. mantiene fermo
quello stesso atteggiamento che abbiamo più particolarmente illustrato a
proposito del problema gnoseologico di stretta aderenza all’esperienza, come
tramite traverso il quale soltanto ci si rivela nella sua efficienza e nella
pienezza del suo contenuto ciò è che universale e razionalmente necessario. A
coloro che trovassero troppo modesto il compito cosi assegnato alla filosofia,
il De S opporrebbe volentieri le parole che Kant scrisse all’indirizzo dei
«metafisici» del suo tempo: «Il nostro disegno può mirare a costruire una torre
alta fino al cielo: ma il materiale è appena sufficiente per una casa, spaziosa
tuttavia abbastanza per le occupazioni nostre sul piano dell’esperienza e alta
a sufficienza per abbracciare questa d’uno sguardo ». E comunque « le alte
torri e i grandi metafisici simili ad esse, intorno a cui (sia le une che gli
altri) generalmente spira molto vento, non sono fatti Der me. Il mio posto è la
feconda bassura dell’esperienza. Dalla scuola di SARLO (si veda) usce A. (n.
Palermo, professore di filosofia nell’Università di Napoli). A. inizia la sua
attività di studioso con un saggio sulla misura in psicologia sperimentale,
Firenze, R. Istituto di Studi. Nel campo specificamente FILOSOFICO, A. si
afferma, oltre che con saggi minori e con l’attivissima sua collaborazione alla
Cultura Filosofica di Sarlo, col saggio, “La reazione idealistica contro la
scienza” (Palermo), che è una bella battaglia in difesa del valore della
scienza contro tutte le forme d’intuizionismo, di prammatismo e d’idealismo
assoluto, che tendono a svalutare i concetti scientifici. (cf. H. P. Grice, IL
DIAVOLO DEL SCIENTISMO]. Il motivo centrale di questo saggio è che i concetti
della scienza – e. g. psico-logia -- non sonò un impoverimento della realtà, ma
un arricchimento del mondo dell’intuizione. Il concetto, infatti, non è nello
schema convenzionale che serve a comunicarlo praticamente, e che per se stesso
non ha certamente valore di realtà, ma nella sintesi di esperienze concrete che
attraverso quello schema si realizza e nella quale l’intuizione si eleva ad una
superiore potenza, inquadrandosi in un contesto più largo di relazioni,
completandosi con altr’intuizioni che sfuggono alla veduta dell’attimo
fuggitivo e ai nostri sensi limitati. Questo modo d’INTENDERE IL CONCETTO
SCIENTIFICO, come processo d’integrazione dell’esperienza, che non sostituisce
l’intuizione e non può mettersi al suo posto, ma la completa ed arricchisce,
già nelle sue discussioni con CROCE (si veda), ora raccolte in L’estetica del
Croce e la crisi dell’idealismo moderno, Napoli. A. contrappone alla teoria
dello pseudo-concetto, con la quale Croce innesta nel ne^hegelianismo la
dottrina di Mach intorno al valore puramente pratico ed economico dei concetti.
E questo motivo di ri-vendicazione del valore teoretico della scienza è il
nucleo che è rimasto costante nel pensiero d’A. anche quando dal teismo delle
sue prime Linee d’una concezione spiritualistica del mondo, La Cultura
filosofica, comparse poi come conclusioni della traduzione inglese del suo saggio
La reazione idealistica contro la scienza (The Idealistic Reaction against
Science, London) egli passa attraverso la crisi della guerra mondiale a una
concezione pluralistica del mondo. Questa fase della sua filosofia, che
comincia col saggio, La guerra eterna e il dramma dell’esistenza (Napoli) e si
sviluppa e completa per la parte gnoseologica nei saggi La teoria di Einstein e
le mutevoli prospettive del mondo (Palermo), Relativismo e Idealismo (Napoli),
Il problema di Dio e il nuovo pluralismo (Città di Castello), è caratterizzata
da un radicale sperimentalismo, il quale però sia per i principi! da cui muove
e le conclusioni a cui arriva, sia specialmente per gli arditi procedimenti che
segue, si allontana di parecchio dallo sperimentalismo di Sarlo, come è facile
scorgere dalla esposizione che segue. La realtà, per A., è l’atto stesso di
esperienza che ha due aspetti, distinti, ma sempre uniti, il soggettivo e
l’oggettivo. Non posso aver coscienza di me senza distinguermi dal mondo e
dalle altre persone. L’affermazione della mia individualità implica dunque
l’affermazione degl’altri individui e del mondo, da cui mi distinguo. Non ha
senso parlare d’un soggetto in sè o d'un oggetto in sè, nè di soggetti come
monadi solitarie fuori di questa relazione. L’io e il mondo e le varie anime
non esistono che nella sintesi concreta dell’esperienza, come momenti,
distinguibili, ma inseparabili, del suo processo. Questa sintesi è, per A.,
l’unico vivente modello a immagine del quale possiamo costruire le altre
attività reali che non ci son date all’intuizione immediatamente. E l’atto di
esperienza col suo processo di unificazione e distinzione del soggettivo e
dell’oggettivo, come dell’individuo e delle altre persone, col suo ritmo di
concreta durata e la sua intuizione dello spazio concreto, è l’unica forma a
priori, soggettiva ed oggettiva insieme. Le forme della nostra conoscenza,
dunque, non sono pure apparenze; bensì le forme stesse della realtà che si
svolge, essendo questa appunto il concreto processo dell’esperienza. Questo
processo, per A., è inesauribile; non ha nè principio, nè fine. Non ha senso
domandarsi donde sia derivata la esperienza. Ed è originaria la forma della sua
distinzione nella pluralità degli individui; pluralità che non esclude, come
abbiamo già detto, la concreta unità dell’esperienza, perchè nell’atto stesso
in cui si coglie la distinzione, si coglie insieme indissolubilmente l’unità
dei termini distinti. I soggetti d’esperienza son dunque originarli e
imperituri nella loro eterna correlazione. Possono da una forma oscura di vita
elevarsi a una forma più consapevole e chiara, o dalla luce della coscienza
discendere nella penombra, ma non si estinguono mai, non cessano di essere e di
agire come spontanee energie motrici del processo della realtà. Queste attività
non sono originariamente coordinate al raggiungimento d’un fine, allo
svolgimento di un piano razionale che si at- turi nella storia del mondo. La
materia corrisponde alla fase in cui esse si urtano disordinatamente in
continui conflitti, dirigendosi a caso per la loro spontaneità in tutte le
direzioni. Statisticamente ne risultano medie costanti di azioni complessive
delle masse; onde l’apparente inerzia e uniformità della materia. La vita dalle
sue forme più semplici alle più complesse è il coordinarsi di quella attività a
un fine comune, che si raggiunge provando e riprovando attraverso secolari
esperimenti nell’evoluzione biologica e sociale. E l’armonia del mondo non è
mai completa, ma si va ancora realizzando attraverso le più alte funzioni dello
spirito: l’arte, la scienza, la religione e la filosofia, che sono tutte forme
diverse per le quali la vita dell’individuo si integra progressivamente con la
vita degli altri. E le sintesi più alte si raggiungono sempre con
l’esperimento: non c’è nessuna teoria e nessun sistema che possa pretendere una
giustificazione a priori: la dialettica è arbitraria e infeconda. Agli abusi
logici dei neo-hegeliani l’Aliotta contrappone l’assoluto sperimentalismo della
sua dottrina della verità. Il vero non è nella corrispondenza a un modello
oggettivo, sussistente in sè; ma non è neppure nel processo puramente
dialettico del pensiero. Una teoria è vera se le azioni da essa suggerite
riescono a realizzare un superiore accordo delle nostre attività umane e delle
altre innumerevoli energie operanti nel mondo. E questo criterio non vale
soltanto per le teorie scientifiche, ma anche per i sistemi religiosi e filosofici
che debbono sottoporsi anch’essi all’esperimento storico. Non vi sono categorie
immutabili e definitive, nè nel mondo della natura nè in quello dello spirito.
Tutte le forme di sistemazione sono provvisorie e relative. Non c’è una verità
assoluta, ma gradi diversi di verità e realtà, secondo che realizzano forme più
complete e integrali di vita d’esperienza. L’errore, il falso non è quindi
neppur esso tale in senso assoluto; ma è una visione parziale, frammentaria,
unilaterale rispetto a una veduta più alta e più comprensiva. Tutte le
intuizioni individuali, tutte le varie prospettive sono vere e reali, ciascuna
dal suo punto di vista; ma è più vera e reale quella che riesce a coordinarle
in una visione più completa da un punto di vista più alto. E questo non esclude
e cancella i punti di vista inferiori, ma in sè li comprende integrandoli;
dimodoché il progresso verso i più alti gradi di verità è insieme un elevarsi a
una maggiore ricchezza di vita. Nel nostro pensiero è la realtà stessa che si
tormenta nello sforzo di attingere una superiore armonia. CALÒ (si veda) (n.
Francavilla Fontana, in prov. di Lecce) è professore di pedagogia nell’Istituto
di Studi di Firenze. Rivolse la sua attenzione dapprima ai problemi morali, ma
con preferenza a quelli che più direttamente si connettono a problemi
filosofici d’ordine generale e metafisico. Il suo primo lavoro importante,
infatti, è quello intorno al Problema della libertà nel pensiero contemporaneo
(Palermo, Sandron), che contiene un’analisi molto penetrante e un’ampia e
sottile critica del contingentismo e del prammatismo e di altre correnti
contemporanee come il neo-criticismo renouvieriano; e giunge all’affermazione
del potere di libertà come attitudine propria dello spirito individuale,
presupposto indispensabile della libertà etica; attitudine che si confonde con
la stessa proprietà della coscienza di porsi come un io, cioè come centro
assoluto indeducibile e irreducibiie d’ordinamento della realtà psichica e
insieme d’energia produttrice di fatti. Altri lavori ha dedicato il Calò a
esaminare particolari tendenze dell’etica moderna, come quello su l’
Individualismo etico nel sec. XIX, premiato dall’Accademia Reale di Napoli, un
quadro vasto e vivace delle varie forme d’individualismo affermatesi non
soltanto nella filosofia ma anche nella letteratura del secolo scorso. Di
fronte ad esse il C., mentre afferma l’obiettività e universalità dei valori
morali, riconosce insieme che questi non hanno esistenza concreta nè azione
effettiva se non nella sintesi vivente della personalità, che è per ciò da
porre come il valore etico supremo, come la sola realtà fornita d’intrinseco
valore morale. Queste idee che, nei due citati lavori, costituiscono la
conclusione o i principii ispiratori dell’esame critico di svariati indirizzi
dell’etica contemporanea, furono poi sviluppate e sistemate, in forma di
trattazione teorica della coscienza morale, nel volume Principii di Scienza
etica (Palermo, Sandron), preparato insieme col De Sarlo e scritto dal C. In
esso si illustra la specificità e l’immediatezza dell’esperienza morale
attraverso la quale si rivelano i principii etici fondamentali, contro tutte le
teorie che vogliono ridurre la necessità ideale a necessità d’altro genere al che il C. ha dedicato anche altri scritti
minori, tra cui notevole il saggio su L’in- terpretàzione psicologica dei
concetti etici (in « Atti del Congresso di psicologia » Roma). Vi sono inoltre
definiti nel loro contenuto gli oggetti-fini dell’attività umana, il cui va-
ìore intrinseco è connaturato all’esperienza etica. Ed è dato infine
particolare sviluppo all’evoluzione storica dei principii morali, la quale si
fa consistere dal C. come, l’abbiamo
visto, dal De S. nel successivo
chiarirsi e purificarsi di quei principii da elementi extramorali o paramorali;
nella loro più rigorosa e coerente esplicazione, resa possibile dallo sviluppo,
oltre che della sensibilità e della discriminazione etica, della cultura e del
pensiero ; nella successiva soluzione dei conflitti nei quali essi a volte
vengono a trovarsi, e nello sforzo sempre meglio riuscito di armonizzarli in
valutazioni sintetiche; nella estensione della loro applicazione a una sfera di
realtà sempre più larga. Pur occupandosi di problemi etici, il C. non ha
mancato di portare il suo contributo ad altri campi di discipline filosofiche
(notevoli, p. es., i suoi studi sulla dottrina del Brentano intorno al giudizio
tetico e intorno alla classificazione dei processi psichici, e parecchi saggi
storici e critici sul Boutroux, sul Bergson, sull’Allievo, sul Naville, sul
Ladd, ecc.). Da questi studi risulta che il C. è un seguace dello spiritualismo
realistico, e concorda sostanzialmente, in metafisica e gnoseologia, con le
idee sopra esposte del De Sarlo. Voltoli alla Pedagogia, il C. ha lavorato
sulle medesime basi. In questo campo i suoi principali lavori sono: La
Psicologia dell'attenzione in rapporto alla scienza educativa (Firenze, Tip.
Cooperativa); Fatti e problemi del mondo educativo (Pavia, Mattei e Speroni);
Il problema della coeducazione e altri studi pedagogici (Roma, Soc. ed. D.
Alighieri); L'educazione degli educatori. (Napoli, Perrella); Dalla guerra
mondiale alla scuola nostra (Firenze, Bemporad); per non citare i suoi scritti
minori, specie di storia della pedagogia, come quelli sul Lambruschini e sul
Rousseau, premessi ai volumi di questi autori, da lui stesso curati, nella
Biblioteca pedagogica ch’egli di¬ rige presso l’editore Sansoni. Il valore e il
carattere dell’opera pedagogica del Calò furono rilevati, con giudizio non
sospetto, dal Codignola, che nel 1916 af¬ fermò essere Calò « il più serio
avversario della pedagogia idea¬ listica in Italia » . Invero, il C., mentre
ammette una filosofia del¬ l’educazione e ne riconosce la fecondità,' non crede
peraltro, come l’idealismo sostiene, che la dottrina dell’educazione si riduca
a filosofia. Vi sono metodi relativi allo sviluppo delle attività psichiche, sia
in sè stesse sia in rapporto con quelle organiche, i quali non possono non
essere ricavati direttamente dalla conoscenza della realtà psichica e delle sue
leggi, quali si offrono all’esperienza e alla sperimentazione; vi sono norme
educative che si ricavano dalla determinazione dei fini etici dell’attività
umana, considerati in rap¬ porto al progressivo potere d’attuazione del
fanciullo; vi sono in¬ fine tipi e norme didattiche che si ricavano
dall’esperienza storica e da necessità storiche. Per il C., perciò, la
pedagogia non può trovare la sua sicura costituzione e la sua vera fecondità di
vedute e di applicazioni che in una concezione la quale, correggendo e
integrando, riprenda la posizione herbartiana e consideri le leggi psicologiche
in funzione delle finalità etiche. L’educazione è per lui pur sempre fatto
essenzialmente spiri¬ tuale, che si distingue da ogni altra forma di sviluppo o
di perfezio¬ namento in quanto vi collabora la libera attività del soggetto
educando, e porta a un sempre più pieno uso della propria libertà e
all’acquisto sempre più consapevole di valori intrinseci alla persona. Ciò che
il C. nega è che l’azione educativa si definisca per questo solo rispetto e
sussista indipendentemente da ogni forma di eteronomia: là dove i’eteronomia
svanisce ovvero si riduce a pura materia della libera determinazione del
soggetto, si ha l’attività etica strettamente intesa, non più il processo
educativo. Per la tendenza a psicologizzare il metodo, l’educazione appare al
C. come un processo di formazione nel quale le attività del soggetto e la forma
valgono anche più dei contenuto, degli oggetti, della materia del sapere o
dell’operare, e gl 'interessi, nel senso her- bartiano, sono le forze che si
tratta di nutrire e di promuovere in
Kant nella storia della pedagogia e dell'etica, Napoli Nonostante
ciò o forse appunto per ciò —Codignola,
facendo la storia della pedagogia italiana contemporanea (nel libro Monroe
Codignola, Breve corso di storia dell’educazione, voi. II, Vallecchi, Firenz),
si è contentato di accennare al Calò ponendolo accanto a G. M. Ferrari, come
seguace di un «indirizzo spiritualistico eclettico»; e questo raccostamelo come questa
caratterizzazione sono stati poi echeggiati dal Saitta nel suo Disegno storico
della educazione, Bologna, Cappelli. modo da creare la personalità più viva e
compiuta e armonica. Perciò egli ha insistito sui diritti della cultura
Jormale, senza peral¬ tro porre nel nulla il valore degli acquisti concreti
(conoscenze e abilità), come vorrebbe fare un certo formalismo e subiettivismo
pedagogico superficiale. Ha mostrato la rispettiva necessità e in¬
sostituibilità della cultura umana e storica e di quella realistica e
scientifica. Ha rivendicato l'esigenza d’un’educazione religiosa, elementare e
aconfessionale prima, storica poi nella scuola, confessio- sionale nella
famiglia. Infine dalla legge della storicità come aspet¬ to essenziale
dell’anima umana, egli deduce l'immanenza dell’idea di patria alla vita dello
spirito e quindi alla sua educazione. Questa perciò non può, secondo il C., non
essere nazionale, non può cioè non curare che ideali di cultura e di moralità
traggano dalla tradi zione storica e dalla organizzata esperienza del fanciullo
forma e colore che ne facciano, traverso le coscienze individuali, elemento di
vita, di coesione, di prosperità della società nazionale. E perciò, in tutto
quel che abbia riflessi e importanza per questo fine, l’istruzione,
l’educazione, la scuolà non possono non costituire ufficio e dovere dello
Stato, che è coscienza suprema, organizzazione unita¬ ria, garanzia
conservatrice della vita della nazione. Alla luce di questa concezione il C. ha
discusso e non soltanto in sede
scientifica, ma anche in Parlamento, dove egli ha seduto per due
legislature problemi concreti, come
quello del¬ l’ordinamento della Scuola media, della preparazione magistrale,
della riforma universitaria, dei rapporti tra scuola e famiglia, della
coeducazione ecc., mostrando sempre lucidità e prontezza di visione dei termini
essenziali di ogni problema e dei rapporti di esso con i principii dottrinari
generali, calore vivace e penetrazione nelle proposte di soluzioni. Lamanna (n.
a Matera, in Basilicata, professore di filosofia nell’Università di Messina) ha
spiegato la sua attività nel campo della filosofia della religione, dell’etica,
e della filosofia del diritto e della politica. Dopo alcuni studi minori sulle
dottrine religiose dello Schleiermacher, del Pfleiderer e delle scuole
sociopsicologiche più recenti, pubblicò un volume su La religione nella vita
dello spirito, (Firenze, La «Cultura Filosofica» edit.,), nel quale, attraverso
un ampio esame critico dei principali indirizzi di filosofia religiosa del sec.
XIX, da Kant a Blondel e a James, si sforza di determinare quale è per lui
l’essenza della religione, intesa questa essenza come il sostrato spirituale di
tutte le forme storiche della religione, come il principio dinamico informante
e determinante l’evoluzione della vita religiosa attraverso i secoli. Per il L.
la religiosità è elemento essenziale e perenne della vita spirituale umana: è
un’esigenza irriducibile alla coscienza dell’ideale (conoscitivo o estetico o
morale), sebbene nella coscienza dell’ideale, o, meglio, nella coscienza
dell’universalità e necessità dei valori costitutivi degli ideali immanenti
allo spirito, essa trovi la sua radice. In ogni atto spirituale v’è la
rivelazione, fatta a un’autocoscienza individuale, di qualcosa d 'assoluto
(universalità e necessità dei prin- cipii della ragione, intesa questa nel suo
senso più ampio) e, insieme, di qualcosa di relativo (elementi naturali,
particolaristici e contingenti, nei quali l’universale e il necessario volta a
volta si determina, ma sempre inadeguatamente). La natura stessa della
razionalità, la quale o è tutto o è nulla, o è universale o è una
fantasmagoria, determina nell’uomo l’aspirazione ad attuare pienamente in sè e
ad estendere a tutto l’universo il dominio dell’Assoluto. Ma, d altra parta, la
presenza del «relativo» dimostra per un lato che l’oggetto della razionalità,
il vero, il bene, il bello è indefinito, e contingente e parziale e
continuamente minacciato ne è, per l’attività umana, il possesso; e per l’altro
lato che nella realtà v’è qualcosa che non dev essere, qualcosa di anormale, di
opposto alla razionalità. Da questa situazione tragica lo spirito si libera
mercè la credenza in Dio, come fondamento reale di quello che nell’uomo è
ideale, che spiega, per una parte, la validità delle leggi ideali costitutive
della razionalità, e garantisce, per l’altro, l’indefinita attuabilità di esse,
nonostante l’inadeguazione ad esse della realtà empirica. Dimostrare come
dall’esercizio stesso delle funzioni fondamentali dello spirito scaturisca
necessariamente l’idea di Dio, nell’affermazione che quel che dev’essere è, quel
che pér noi è soltanto un ideale, ha già la sua piena attuazione in una sfera
trascendente di realtà, questo è il termine a cui tendono le dimostrazioni del
volume del L. I problemi morali sono stati dal L. esaminati specialmente nei
due volumi II sentimento del valore e la morale criticistica (Firenze,) e II
fondamento morale della politica secondo Kant (Firenze), a cui si collegano
studi minori, Il bene per il bene, L’amoralismo politico, L'esperienza
giuridica, Il diritto correlativo al dovere nell’idea di bene. In quei due
volumi si prende lo spunto dall’esame critico della dottrina Kantiana,
rilevandovi il contrasto, così tra il principio dell’autonomia e le conclusioni
rigoristiche dell’etica in generale, come tra le premesse idealistiche e democratiche
e alcune conclusioni assolutistiche e realistiche della morale politica; e si
dimostra che quel contrasto è conseguenza necessaria del formalismo nella
determinazione dell’ideale e del pessimismo nella considerazione della realtà,
inquanto, ipostatizzata la legislazione autonoma nella volontà in sè e nella
respublica noumenon, Kant vede nella realtà individuale e sociale null’altro
che inclinazioni al male e giuoco meccanico di passioni. Da questi rilievi e
dimostrazioni di carattere storico il L.. prende occasione per affermare la
necessità di un tramite che, eliminando il dualismo tra l’ideale e il reale,
renda possibile la compenetrazione di questo da parte di quello. E siffatto
tramite egli trova nella caratteristica funzione della valutazione morale,
rivelante con evidenza immediata oggetti della volontà forniti d’intrinseco
valore (beni universali e necessari), nell’amore attivo per i quali si
costituisce come valore supremo la personalità, e nella cui indefinita
attuabilità attraverso il succedersi delle generazioni è posta la possibilità
del progresso morale e della unificazione spirituale sempre più piena della
specie umana. Alla luce di questo principio il L.: 1) riconduce nell’ambito
della nozione di dovere —caratteristica dell’esperienza morale anche quegli
elementi che in opposizione al rigorismo kantiano son posti in rilievo nella
concezione morale dell’* anima bella» (Schiller e Fics), a proposito della
quale egli fa un ampio esame dei rapporti tra la funzione etica e quella
estetica. Illustra l’ordinamento giuridico come tecnica per l’ordinamento
morale: confutando i tentativi di ridurre il diritto a qualche concetto
estramorale, ne trova la radice nell’idea di bene morale e nella correlatività
al concetto di dovere, in quanto l’idea di lecito scaturisce dalla coscienza
della legittimità di respingere il limite e l’ostacolo postoda altri individui all’attuazione di un
bene conforme a un principio etico riconoscibile anche da questi ultimi: onde
la conclusione che se il contrasto è occasione per l’insorgenza della coscienza
del diritto, la sostanza ideale di questo è Varmonia, Y accordo-, e da questo
punto di vista sono idealmente giustificati gli elementi empirici costitutivi
della giuridicità (potere supremo e coattività). Afferma, infine, la sovranità
della morale in politica, mostrando come, entro l’amb'to stesso di una rigorosa
moralità politica, possano essere pienamente sodisfatte quelle esigenze alle
quali l’amoralismo politico dà il massimo rilievo; e dimostra, rimettendo in
valore alcuni elementi delle concezioni giusnaturalistiche, il valore
deontologico e il concetto ideale di certe nozioni della coscienza politica
moderna (come volontà generale, contratto originario, società dei popoli ecc.).
BONAVENTURA (si veda), libero docente e incaricato di psicologia nell’Istituto
di Studi Superiori di Firenze e assistente del De Sarlo nel Laboratorio di
psicologia sperimentale, dopo alcuni scritti minori di psicologia e di logica,
pubblicò un grosso volume su Le qualità del mondo fisico: studi di filosofia
naturale (Firenze, « Pubblicazioni del R. Ist. di St. Sup. »,), in cui i dati
della fisica, della chimica, della fisiologia non dirò solo che siano
largamente utilizzati, ma costituiscono addirittura la base per la soluzione
del problema, se sia o no possibile spiegare le differenze qualitative tra le
diverse energie fisiche riducendole ad un unico tipo di energia: problema che
il B. risolve in modo negativo, dimostrando che la riduzione delle molteplicità
qualitative delle energie fisiche ad un’unica forma nel senso del meccanismo e
di taluni indirizzi energetici, è illusoria. Posteriormente egli ha volto la
sua attività più in particolare agli studi e alle ricerche di psicologia,
compiuti, nel laboratorio diretto dal De Sarlo, coi metodi rigorosi propri
della psicologia moderna; ma la ricerca psicologica sebbene abbia anche, per
lui, un valore in sè stessa, come ricerca scientifica, e un valore sociale, per
le sue applicazioni, è stata ed è sempre, nell’economia dal suo pensiero, il
punto di partenza e di appoggio per salire verso la filosofia. Tra i problemi
psicologici, oltre ad alcune questioni di metodo (come queile del valore
dell’introspezione e- delle sue illusioni, a cui è dedicato il volume
intitolato appunto Ricerche sperimentali sulle illusioni dell'introspezione,
Firenze, 1915), quello che lo ha più attratto e su cui ha più lavorato, è il
problema della percezione, concepita come elaborazione intellettuale dei dati
sensoriali, e in ispecie della percezione dello spazio e del tempo: problema
che da un lato connette la ricerca psicologica con concezioni d’importanza
fondamentale per la fisica e per la matematica, dall’altra forma il punto
centrale della teoria della conoscenza. Intorno a questo problema egli ha
lavorato da vari anni, sia sottoponendo a revisione critica tutto il lavoro
sinora compiuto sull’argomento, sia compiendo egli stesso ricerche sperimentali
per chiarire quei punti che ancora gli sembravano non abbastanza illuminati.
Alcune di queste ricerche (concernenti l’attività del pensiero nella percezione
tattile dello spazio; i mezzi coi quali si stabilisce e i limiti entro i quali
si contiene l’accordo tra dati spaziali visivi e dati spaziali tattili; le
illusioni ottico-geometriche; l’importanza dei giudizi spaziali visivi nella
psicofisica) sono state già pubblicate in Riviste di psicologia italiane e
straniere; ma la somma di tutte le ricerche e di tutti gli studi costituisce un
grosso volume già pronto, ma ancora inedito —, in cui il problema psicologico
dello spazio e del tempo e le conseguenze filosofiche che ne scaturiscono, sono
trattati in tutti loro asp. Nome compiuto: Antonio Aliotta. Aliotta. Keywords:
esperienza, l’implicatura di Lucrezio, sacrificare, significare, sacrificare,
guerra eternal. aliotta l’implicatura di lucrezio il
filosofo di campagna la guerra eterna — sacrificare/significare — croce — il
latinismo dello storicismo — galilei — vico – lucrezio -- epicureismo campano
-- Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Aliotta,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Allegretti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della colloquenza – la scuola di Forlì –filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Lugi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool
Library (Forlì).
Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Forli, Forli-Cesena, Emilia-Romagna. Grice:
“I love Alegretti; very Italian; imagine: after tutoring for a while on
dialettica at Firenze,, he retires to Villa Allegretti, Rimini, where he
philosophises ‘De propositionibus’ (sulle enunciate) as part of the
Dialettica!” Grice:
“He was so proud of the meetings at his villa that he called it ‘our
Parnassus’!” Grice: “Allegretti’s idea of the villa meetings was modeled after
Plato who, with fewer means, met at the gym in theVIlla Echademo!” -- – cf.
Raffaello, “Il Parnaso.” -- Stemma della famiglia Allegretti Coa fam ITA
allegretti Blasonatura cuore d'oro su campo azzurr. Noto per aver fondato,
secondo alcuni storici, la prima accademia letteraria d'Italia. Fu figlio di Leonardo A., giudice a Forlì, di
parte guelfa. Appartene ad un'antica e cavalleresca famiglia, il cui
capostipite fu Mazzone A. (Mazzonius Alegrettus), che prende parte alla
crociata in Terra Santa e per arma scelse un cuore d'oro su campo azzurro. Legge filosofia a Bologna e Firenze. Fonda la prima accademia con un gruppo di
intellettuali: Calbolo, Orgogliosi, Sigismondi, Speranzi, Arfendi, Morandi,
Aldrobandini, Aspini e A.. Per motivi politici, gl’Ordelaffi, signori di Forlì
ghibellini, imposero il confino ai fratelli Si trasfere perciò a Rimini. Richiamato
dall'esilio, coinvolto in una faida familiare degl’Ordelaffi, è nuovamente
costretto a fuggire a Rimini, ove fonda una accademia, dei Filergiti – cf.
Firlegito -- con vocazione insieme letteraria e scientifica. La sua prosapia s'innestò negl’Aspini
mediante una Margherita di Francesco A., che sposa un Lodovico, che è erede
degl’averi e del cognome degl’A.. Si trova il seguito di questa famiglia nel
senese e nel modenese (a Ravarino).
Note Fonte: Valenti, Dizionario
Biografico degli Italiani, riferimenti in. Il suo saggio principale e
considerato il “Bucolicon”. Ma scrive
anche un epicedio per la morte di Galeotto I Malatesta, signore di Rimini; un
carme al Conte di Virtù; un carme per la divisa della tortora; Eglogae, in
latino; un carme sulla bissa milanese, cioè lo stemma dei Visconti, il
biscione.Marchesi, Memorie storiche dell'antica, ed insigne Accademia de'
Filergiti della città di Forlì..., Forlì, per Barbiani, Bonoli, Storia di Forlì
scritta da Bonoli corretta ed arricchita di nuove addizioni, Forlì, Bordandini,
Valenti, A. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. A., Filosofi. Nasce a Ravenna, da Leonardo A., appartenente a
famiglia guelfa di Forlì, in un anno da porsi tra quelli immediatamente
precedenti il 1326. È supposizione abbastanza fondata (cfr. Massera) che legge FILOSOFIA
nello studio bolognese. Lettore di DIALETTICA a Firenze. Benché se ne perdano
poi le tracce, è indubbio che si trova da qualche tempo a Forlì quando e
colpito, nella sua qualità di guelfo, dal bando d’Ordelaffi. Ma la fama di
dottrina in filosofia che lo circonda e tale che egli e ben presto richiamato
alla corte forlivese, dalla quale, però, dovette di nuovo fuggire per aver
rivelato la congiura che Ordelaffi tramando contro suo zio. A. si rifugia a
Rimini, dove e precettore di Malatesta. La sua villa e luogo di raccoglimento,
di studio e, di dotti convegni, cui si compiace di dare il nome di Parnaso;
donde la notizia, tratta dagl’annali forlivesi di Ravennate, secondo cui A.
"Arimini novum constituit Parnasum", notizia ripetuta ed elaborata
poi da vari scrittori nel senso, del tutto fantastico, che egli fonda già
allora una vera e propria accademia. Ha rapporti abbastanza stretti con la
corte viscontea. Muore a Rimini. A. gode di non piccola fama. Citato nel “De
fato et fortuna” di Salutati, e in corrispondenza col Salutati di cui si ha una
lettera a lui con unito un lungo carme latino, e con Loschi, del quale si
conservano due epistole metriche (ed. in Massera) a lui dirette. Fatta
eccezione per un problematico trattato in prosa “DE PROPOSITIONIBVS”, attribuitogli
da Cobelli nelle sue Cronache forlivesi (Bologna), tutte le opere d’A. di cui
si ha notizia si riferiscono alla sua attività fantasiosa. Ci rimangono: un
lungo carme a sfondo mitologico-pastorale intitolato Falterona, pieno di IMPLICATURE
– o CONTORTE ALLEGORIE POLITICHE (Venezia, Bibl. Marciana); un componimento a
carattere araldico-encomiastico dedicato a Visconti (ed. da Novati in appendice allo studio Il Petrarca
ed i Visconti in Petrarca e la Lombardia, Milano); un Epitaphium in onore di
Malatesta (Milano, Bibl. Ambriosana); un carme Ad Ludovicum Ungariae
inclitissimum Regem (Venezia, Bibl. Marciana). La sua fama, però, e legata
soprattutto al “Bucolicon,” che Biondo, nella sua Italia illustrata (Basilea),
giudica seconda soltanto alle Bucoliche di VIRGILIO e che Massera ha tentato
con buoni argomenti di identificare in una raccolta di egloghe attribuita a Mussato.
Ad A., infine, come opina Sabbadini, andano attribuiti i cosiddetti
Endecasyllabi di Gallo, che egli ha, secondo la tradizione, scoperti a Forlì ma
che, invece, molto probabilmente contraffa, credendo erroneamente che quel poeta
e nativo di Forlì. Epistolario di Salutati, ed. Novati, Roma, in Fonti per
la storia d'Italia, Sabbadini, Le scoperte dei codici latini, Firenze, Carrara,
La Poesia pastorale, Milano, Massera, A. da Forlì, Atti e memorie d. R. Deput.
di storia patria per le prov. di Romagna, Thorndike, A history of magic and
experimental science, New York, Bertalot, L'antologia di epigrammi d’Abstemio
nelle edizioni sonciniane, Miscellanea Mercati, Città del Vaticano. La stessa
origine hanno le presunte accademie di Rimini e di Forli, che gli scrittori
fanno fondare a A. da Mantova, uomo versato nella filosofia. Uno storico di
Forli, Bonoli, appunto nelle sue Istorie della Città di Forlì? Dice. Strepita ancora
di Forlivesi la fama d’A., FILOSOFO. Compone La Bucolica, che doppo quella di VIRGILIO
non vede forse il mondo la più bella; tra le tenebre dell'antichità, manifesta
molte compositioni del nostro Gallo, e in Rimini, ove poi ricovrossi, per
schivar l'ira degl’Ordelaffi, erresse una fioritissima Accademia. La notizia
passa indi nel proemio delle Leggi vecchie, di stinte in XII Tavole,
dell'antica Accademia de’ Filergiti di Forlì e nuovi ordini-sopra essa
Accademia, aggiungendovisi però oltre l'Accademia riminese anche un'Accademia
in Forli, che e pure stata fondata d’A: l'Accademia dei Filergiti. A. – vi si
dice – Filosofo illustre, non si contenta di esercitare in Forli sua patria
virtuose sessioni, che ancora in Rimini, dove sbandito ricovrossi, er gette una
nuova Accademia. Queste parole sono ripetute tali e quali da Malatesta nel
L'Italia Accademica però nella parte ancora inedita di quest'opera che giace
nella Gamba lunghiana, e dove si tratta appunto in particolare delle Accademie.
Petrarcae Epistolae de Rebus Familiaribus et Variae, curate da FRACASSETTI, Firenze.
Forli, In Memorie storiche dell'antica
ed insigne Accademia de'Filergiti della città di Forlì, Rimini. Ma anche qui si
tratta di un abbaglio. Aspettando che maggior luce venga data in proposito in
quella vita d’A., che Novati promette da parecchio tempo, basta notare che a
base delle notizie circa queste due Accademie stanno le seguenti parole degl’Annales
Forolivienses. Tempore ecclesiae Arces in his civitatibus factae sunt:
Bononiae, Imolae, Faventiae et Forolivii. A. Forli viensis philosophus clarus
agnoscitur, qui plures Endecasyllabos Galli civis Forliviensis poetae invenit
et Arimini novum constituit. Par Quest'ultima parola e interpretata senz'altro
per Accademia, a cui, come al solito, furono ascritti i personaggi principali
del tempo, perfino Petrarca. Cfr. La Coltura letteraria e scientifica in Rimini
di Tonini, Rimini; cfr. anche del medesimo: VitaeVirorum Illustrium Foroliviensium.
Forli Cfr. Della vita e delle opere d’Urceo detto Codro di Carlo MALAGOLA. Bologna.
Cfr.Epistolario di Salutati per cura di Novati, Roma, Rerum Italicarum
Scriptores, Milano, di Rimini. Egli dice di più che l'Accademia fondata d’A. in
Rimini si radunava in una sala del palazzo Malatesta, adornata dei ritratti dei
filosofi più celebri,e che vi e ascritto anche il Petrarca. Marchesi dal canto
suo circa l'Accademia fondata d’A. in Forli dice che costui lasciata da parte
la se verità degli studi filosofici, ne'quali aveva spesi con molta gloria i suoi
giorni, fraccolti in una degna Assemblea i filosofi più perspicaci, fa la
memorabile fondazione, benchè senza nome particolare, regolamento ed impresa,
invenzioni delle succedute età, ma col solo generico d’Accademia. Sono i suoi
colleghi, o piuttosto discepoli Calbolo, Orgogliosi, Sigismo ndi, Speranza dei Speranzi,
Arsendi, Morandi, Aldobrandini, Aspini e A., tutti illustri per sangue, ed
assai più per l'affetto che professavano per la filosofia. Per le frequenti
sessioni che, tenevano a porte aperte, e per gli ammaestramenti e saggi dati d’A,
il fondatore, s'avanzarono molto i primi Accademici colla coltivazione della
filosofia, sopra ogni altra scienza da essi tenuta in pregio. Esiliato poi A.
da Forli, l'Accademia anda dispersa, eleraunanze vennero riprese solo nel
secolo xv per opera d’Urceo. nasum DELLA TORRE Orbene si osservi che A. e in
Rimini maestro di filosofia di Malatesta; e qual cosa più naturale che assieme
al Malatesta si trovassero altri membri delle principali stirpi Riminesi?
Epperò quel Parnasum va senza dubbio inteso per scuola di umanità e non già per
Accademia nel senso che l'intendono gli scrittori su riferiti. Quanto poi
all'Accademia di Forli, come osserva giustamente Tiraboschi, severamente e esistita,
lo scrittore degl’Annales Forolivienses che nota il Parnasum aperto d’Allegretti
in Rimini, ha a tanto maggior ragione notata un'Accademia. fondata in Forli, le
cui vicende appunto egli si propone di narrare; ed invece nulla. Come alsolito,
gli scrittori di cose forlivesi, che, interpretando Parnasum per Accademia
credevano che A. fonda appunto un'Accademia in Rimini, sapendo che A. e anche a
Forli, gliene fa fondare sen z'altro una anche in Forli, ascrivendovi come al
solito quanti in quel tempo vi erano di filosofi insigni per ingegno e per
cultura. E con questa mania, si andò tanto oltre, che si raggrupparono insieme
perfino gli architetti del duomo di Milano per farne un'Accademia; la quale e
cominciata mentre Visconti anda pensando di gettar le fondamenta del Duomo. Vi
si sarebbe atteso a quella maniera di fabricare,che i moderni chiamano alemana.
Avrebbe àvuto sede nella corte ducale compiacendosi in estremo quello stesso duca
del fabricare e dell'udirne talvolta discorrere i maggiori architetti di
que'tempi, che sono Giovannuolo e Michelino, da'quali sono ammaestrati i
compagni di Bramante. Non occorre certamente fermarci piú a lungo per
dimostrare l'assurdità di queste affermazioni. Basti il dire che questa volta a
base di esse non sta il più piccolo dato di fatto. Cfr.ANGELO BATTAGLINO, Della
corte filosofica di Malatesta Signore di Rimini in Basinii Parmensis poetae
Opera prae stantiora. Rimini, e Lettera di Salutati a Malatesta in Epistolario
di Salutati a cura di NOVATI, Roma. Velim igitur, simichicredideris, eum
(Giovanni da Ravenna) decernas inter tuos recipere et in locum magistri tui,
viri quidem eruditissimi, quondam A. et in eius provisionem acceptes et loces. Cfr.
BORSIERI Il supplimento della Nobiltà ili Milano. Milano, e ZANON, Catalogo etc.iSi
dia in proposito la più semplice scorsa alla prima parte di il duomo di Milano
di Boito, Milano. Nome compiuto: Jacopo Allegretti. Giacomo Allegretti.
Allegretti. Keywords: colloquenza, dialettica, villa, villa Allegretti a
Rimini, Bucolicon, Andrea Speranzi, i filergiti, “De propositionibus”, scuola
di Firenze, dialettica a Firenze, accademie italiane dall’A alla Z, Andrea
Speranzi, il primo accademico italiano a Firenze. Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Allegretti,” The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Allievo: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – scuola di San Germano Vercellese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (San Germano Vercellese). Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. San Germano Vercellese, Vercelle, Piemonte. Grice:
“I love Allievo; of course he reminds me of all those scholars back in the day
that I relied on for my philosophising on ‘intending’ – since isn’t this an act
of the ‘soul’ – I mean Stout, and the rest – I once was a Stoutian, and then
for better or worse, I became a Prichardian!” -- Grice: “Now Oxford never knew what to do with
people like Stout – surely ‘the Wilde’ readership was a possibility, but Lit.
Hum. and the Sub-Faculty of Philosophy always considered ‘mind’ – (as in the
journal, ‘a journal of psychology and philosophy’) secondary to metaphysics! We
thought The Aristotelian Society had more prestige than the Mind Association,
and we still do!” – Grice: “So Allievo, like myself, was fascinated by Stout
and Spencer and Bain and – in the continent, closer to Allievo, and always
having more prestige than the barbiarian islanders! – Grice: “Add to that the
charm of his italinanness versus the Germanic coldness of a Wundt – his name is
unpronounceable to Allievo – and you get to the heart of his philosphising on
‘psicofisiologia’ – where the ‘io’ meets the ‘tu’ – and his focus, having
studied the philosophical tradition in Rome – to ‘educatio fisica’ – which
obviously needs to be psicofisica!” -- Wundtan d Flechner!”. Frequenta la facoltà di
filosofia di 'Torino e segue l'insegnamento di Rayneri, filosofo di matrice
rosminiana. Laureatosi, insegna a Novara e Domodossola -- dove conosce SERBATI
(si veda), Ivrea e Ceva. Collabora alla Rivista contemporanea di Chiala. Arriva
alla cattedra a Torino. Spiritualista, e propugnatore del cosiddetto sintesismo
degl’esseri, principio secondo il quale nessuna parte di un ente può sussistere
divisa dal tutto dell'ente stesso, e nessun essere può sussistere né operare
diviso dagl’enti che costituiscono l'universo. Socio dell'Accademia delle
scienze di Torino. Critico dell'hegelismo, A. sostene doversi rifare alla
tradizione filosofica spiritualista per combattere sia la dottrina hegeliana
che quella positivista si sta in diffondendo. Si dedica a ricerche di
antropologia. E autore anche di un saggio di vaste proporzioni dedicata a Il
problema metafisico studiato nella storia della filosofia, dalla scuola ionica
a Bruno (Torino). Altre saggi: “Saggi filosofici”; “Studi antropologici”;
“L’uomo e il cosmo”; Si espone e si
disamina l'opinione di Brothier. Si espone e si giudica la teoria di Hirn. Segue
l'esposizione critica della teoria di Hirn. Büchner. Si pone la questione e si
accenna il come risolverla. Si accenna la differenza tra l'uomo ed il bruto. Concetto
definitivo dell'antropologia. Valore ed importanza dell'antropologia. Del
metodo in antropologia. Divisione dell'antropologia. Concetto della persona
umana. Analisi della persona umana. La virtù intellettiva. Della coscienza
personale. La coscienza di sè e la conoscenza esteriore. Individualità soggettiva
della conoscenza esteriore. Universalità oggettiva della conoscenza esteriore
-- Il potere animatore ed affettivo -- Del corpo umano in sè e nelle sue
attinenze col potere animatore -- L'organismo esanime ed il potere animatore --
Unità sintetica della persona umana TEORICA DELLA VITA UMANA -- La vita latente
anteriore alla nascita -- L'infanzia -- Le prime origini dei problemi
psico-fisiologici. L'attività volontaria -- La suprema libertà dello spirito --
Varie forme della personalità umana derivanti dall'attività volontaria --
Attinenze tra la facoltà conoscitiva e l'attività volontaria -- Corrispondenza
dell'organismo col potere affettivo -- Trapasso dalla teorica dell'essenza
umana alla teorica della vita umana -- Il corso della vita umana -- Della
conoscenza esteriore -- Mente e corpo distinti ed uniti nella persona umana --
La gioventù -- La virilità -- I poteri della vita -- Teorica della
sensitività -- L'atteggiamento esteriore dell'organismo ed il potere animatore
-- Concetto comprensivo della persona e dell'essenza umana La vita maschile --
La vecchiaia -- Delle potenze in riguardo all'oggetto -- Delle potenze in
rapporto col soggetto umano -- Delle potenze umane in particolare -- Specie del
potere affettivo -- Del potere animatore -- Distinzione essenziale tra la mente
e l'organismo corporeo -- Unione personale della mente coll'organismo corporeo
-- Del potere affettivo -- Carattere universale ed ufficio del sentimento --
Concetto e forme della vita umana -- La vita propria e la vita comune --
Divisione del corso temporaneo della vita ne'suoi periodi fondamentali --
Durata della vita umana -- Dei periodi della vita umana in particolare --
Considerazioni generali in torno i periodi della vita -- La vita oltremondana
-- Delle potenze umane in generale -- Delle potenze considerate nel loro
sviluppo -- La vita fisica e la vita mentale -- Del senso fisico e delle
sensazioni -- Del senso spirituale e de' sentimenti -- Del sentimentalismo --
Dell'istinto -- Della percezione sensitiva -- Della fantasia sensitiva --
Teorica dell'intelligenza -- Della speculazione e della memoria. Dell'intelligenza
in riguardo al soggetto conoscente -- Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto
pensabile -- L'esperienza e -- L'intelligenza umana e LA PAROLA --
Dell'immaginazione. Concetto generale dell'immaginazione. Specie
dell'immaginazione. Efficacia dell'immaginazione. Delle potenze estetiche.
Teorica della volontà. Potere della volontà. L'operare della volontà. La
libertà del volere. TEORICA DEL CARATTERE UMANO E DEL TEMPERAMENTO -- Ragione e
genesi del carattere -- Concetto generale del carattere id. Dell'intuizione. Dell'attenzione
intermedia tra l'intuizione e la riflessione -- Della riflessione --
Dell'istinto in ordine all'oggetto -- Trapasso dalla teorica della sensitività
alla teorica dell'intelligenza -- Concetto generale dell'intelligenza --
Dell'intelligenza in riguardo al soggetto pensante -- La libertà del volere e
la scuola positivistica -- Critica del determinismo positivistico -- La libera
volontà e l'ambiente Art.7. Sintesismo dei poteri della vita -- Del senso --
Dell'istinto rispetto allo scopo la ragione. Dell'intelligenza in riguardo
all'oggetto conosciuto -- Del carattere in ispecie -- Del carattere riguardato
nella sua fonte -- Del carattere rispetto alle potenze ed alle forme
dell'attività umana -- Del carattere morale -- Il carattere umano nella specie,
nelle stirpi, nelle nazioni -- Del temperamento -- De'temperamentiinparticolare
-- De'temperamenti in rapporto fra di loro “Studi pedagogici”; “Attinenze
tra l'antropologia e la pedagogia”; Il
linguaggio e la scrittura -- Dell'attenzione -- Dell'immaginazione sensitiva --
Dell'arguzia -- Della riflessione -- La memoria ed il ricordo -- Educazione del
senso del bello -- La Levana di Giovanni Paolo Richter – Cenni biografici
dell'autore --- Concetto generale -- Importanza ed efficacia dell'educazione --
La Levana o Scienza dell'educazione -- Appendice: Dell'educazione fisica
infantile -- Dell'educazione della donna. “Esame dell'hegelianesimo”; “Il ritorno
al principio della personalità”. Corvino, Dizionario biografico degli Italiani alla
voce corrispondente in F. Corvino, Op.
cit. ibidem A., su accademia delle scienze. A., su
Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giuseppe A.,
in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A. in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Giuseppe A., su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Giuseppe A., Filosofia Filosofo Filosofi San Germano Vercellese Torino Membri
dell'Accademia delle Scienze di Torino. L'intelligenza
umana e la PAROLA (dal greco, parabola) sono due termini,che mostrano l'uno
verso l'altro armonica corrispondenza e vicendevolmente si spiegano e
s'illustrano, come lo spirito ed il corpo nell'uomo. Il conoscere ed il sapere
umano ritrae dalla ‘parola’, che lo riveste, una peculiare impronta, che lo
distingue dal conoscere proprio degli spiriti puri, e la lingua rivela la tempra
mentale. L'intelligenza infantile si schinde dal suo germe in grazia della
‘parola’, con essa va via via sviluppandosi e progredendo, con essa ha comuni
le vicende e le fasi. Infatti, la ‘parola’ torna necessaria all'effettivo
pensare, all'effettivo conoscere. Finchè il pensiero non si concreta nella ‘parola’,
ed in essa per così dire non s'incorpora, nès'incarna, è inconsistente, sfuggevole,
vago, non per anco formato, ma solo rudimentale ed appena sbozzato. Le
percezioni, che si hanno degli oggetti esterni mercè isensi, sono confuse,
indistinte, e si dileguano col dileguarsi degli oggetti percepiti. Ben si
possono in certo qual modo fissare colle immagini, le quali rimangono anche
nell'assenza degli oggetti materiali. Ma le immagini sono pur sempre *individuali*,
come gli oggetti, cui si riferiscono, e per di più sfuggevoli e vane.Veri
pensieri e vere cognizioni propriamente dette non si hanno se non mercè la ‘parola’.
E e questa torna tanto più necessaria, quanto più la idea da SIGNI-ficare (o
segnare) e generale ed astratta, ed ecco ragione per cui I BRUTI NON ‘PARLANO’
(Monkeys can talk) siccome quelli, che sono destituiti della facoltà di
generaleggiare e di astratteggiare. Che se ponga si mente non più alla
percezione esteriore, ma alla ragione ed alle funzioni diverse della
riflessione, la necessità della ‘parola’ si chiarisce ancora più evidente a
segno che senza di essa tornerebbe impossibile la formazione di qualsi voglia
specie dell'umano sapere. Se adunque la ‘parola’ è vincolo necessario, che lega
la mente col mondo delle idee e mezzo es -- Vedi la nota g in fine del
volume. Due altre ragioni si aggiungono a confermare vie meglio la
necessità di siffatto studio, l'una sociale, pedagogica l'altra. La ‘parola’ non
solo è mezzo alla formazione dei pensieri e delle idee, ma altre sì organo il più
acconcio A MANIFERSTAR la proposizione ALTRUI, epperò vincolo necessario, che
congiunge l'uomo co'suoi simili in comunanza di vita, condizione potissima
della società umana. Gli spiriti umani, perchè ravvolti nell'involucro dell'organismo
corporeo, non possono rivelarsi l'uno all'altro, nè intendersi, nè mutuamente
rispondersi senza qualche MEZZO SENSIBILE riposto in qualche atto o movimento
del corpo: quale è appunto la ‘parola’, la cui potenza ed efficacia sugli animi
altrui è meravigliosa. Ancora, essa non solo è una necessità sociale, ma altre sì
pedagogica, perchè è vincolo essenziale, che unisce in armonia di intendimenti
e di voleri l'educatore coll'alunno, il maestro col discepolo, tanto chè senza
di essa ogni educazione ed istruzione vera ed efficace rimane un vano e sterile
desiderio. La ‘parola’ e l'immaginazione, quando vengono raffrontate l'una coll'altra,
appariscono convenire insieme in ciò, che entrambe importano una dualità di
elementi, sensibile ed intelligibile [[psico-fisico]] insieme accoppiati, e
sono potenze individualizzatricie rappresentative dell'idea sotto forma
sensibile. Ond'è che tal fiata l'immagine ridesta la ‘parola’, tal altra la ‘parola’
ri sveglia l'immagine, ed amendue rinvengono un punto di comune contatto nel
linguaggio metaforico, figurato, immaginoso. Ciò nulla meno evvi tra queste due
potenze siffatto divario, che l'immagine essenzialmente si di spaia dal
semplice SEGNO, ed oltre di ciò la ‘parola’ è un sensibile tolto dall'organismo
umano, l'immagine per contro è un sensibile attinto dalla natura esterna.
Riguardata nella sua nativa essenza la ‘parola’ può venire definita un
sensibile umano SEGNANTE (o significante) un intelligibile. Umano, dico, perchè
riposto in qualche atto o movimento del nostro corporeo organismo, quale il
gesto, la voce pronunciata ed udita. Rintracciando la ragione spiegativa
dell'essenza della ‘parola’ noi la rinveniamo nell'essenza stessa dell'uomo.
Infatti i due costitutivi della ‘parola’, quali sono IL SEGNO [o SEGNANTE] sensibile e l'e lemento intelligibile [IL
SEGNATO], ritrovano la ragione ed il fondamento loro nei due supremi
costitutivi dell'essere umano, quali sono l'organismo corporeo [il segnante] e
la mente [il segnato]; e come all'essenza dell'uomo torna tanto necessario lo
spirito, quanto il corpo, così è tanto necessario alla ‘parola’ il SEGNO quanto
l' idea significata [IL SEGNATO]. Onde si vede ragione, percui ai bruti,
destituiti di mente, fallisce la ‘parola’. Inoltre a costituire la ‘parola’ non
basta la dualità degli accennati elementi, ma occorre, che siano contemperati
ad unità, essendochè il sensibile debbe essere SEGNO [segnante] di un
intelligibile. -- esenziale alla formazione de' pensieri ed all'acquisto
delle conoscenze effettive, appare manifesto, che l'intelligenza umana, ad
essere compiutamente compresa, va altresì studiata nelle sue attinenze colla ‘parola’.
Ora quest'unità importa un primato dell'intelligibile sul sensibile, ed ha la
sua ragione nel dominio della mente sull'organismo corporeo, ciò è dire
nell'armonia stessa dei due supremi costitutivi dell'uomo. In fatti la mente
nostra padroneggiando l'organismo, con cui è naturalmente congiunta, essa è che
eleva i gesti, la voce, l'udito, il moto delle membra alla virtù di significare
[O SEGNARE] una idea o un sentimento dell'animo, vincolando questi con quelli.
Di qui la bella sentenza di Cicerone intorno l'origine della ‘parola’. Vox
principium a mente ducens (De natura Deorum). Nella parola adunque il segno O
SEGNANTE sensibile e l'idea, o IL SEGNATO, sono due termini inseparabili tanto,
quanto sono nell'uomo indisgiungibili lo spirito ed il corpo. Da siffatto interiore e naturale
compenetramento fluiscono alcuni corollarii, che reputo opportuno di accennare.
Il pensiero progredisce di pari passo col linguaggio. La lingua corre le
medesime sorti e segue le stesse fasi che il pensiero,tanto chè la ragion
spiegativa delle origini, dei progressi, delle trasformazionie del corrompersi
di un idioma va rintracciata nello studio delle vicende, a cui soggiace il
pensiero di un popolo, che lo parla. Dichesi pare quanto vadano errati non pochi
cultori della filologia, i quali la segregano onninamente d allo studio del
pensiero umano, di cui il linguaggio è l'ESPRESSIONE esteriore, togliendole di
tal modo il carattere di scienza, non solo, ma trasmutandola in un tessuto di
errori. Lo stampo e l'indole peculiare di un idioma arguisce uno stampo o
tempra singolare di mente in chi lo adopera. Epperò come gli è vero, che la
lingua genericamente presa è nota specifica, che distingue l'umano pensare e
conoscere da quello di altri esseri intelligenti, così è pur vero, che i
differenti idiomi in particolare sono note altresì distintive, che
differenziano le une dalle altre le menti umane individue e nazionali. Tuttavia
in mezzo a questa tra grande varietà di lingue etnografiche apparisce un
fondo comune, su cui tutte sono intessute, e, direi, uno spirito universale,
che tutte le informa e le solleva ad una unità superiore, essendochè la mente
umana, se si manifesta molteplice e varia nelle molteplici nazioni e nei varii
individui, risguardata nella suas pecifica essenza è una ed identica, perchè,
governata dalle medesime leggi logiche e rivolta all'universalità del vero. E
quest’unità radicale delle lingue riverberata dall'unità specifica della mente
umana arguisce logicamente l'unità originaria e specifica del genere umano, come
la loro moltiplicità arguisce la varietà delle razze,in cui esso è distribuito
sulla faccia della terra. Consegue ancora dal principio stabilito, che il
tradizionalismo, il quale pronuncia, che l'uomo riceve dalla società insieme
colla ‘parola’ anche le idee e la virtù dello intendimento, apparisce erroneo,
siccome quello, che disconosce il primato dell'idea sul segno vocale, e
l'ingenita virtù della mente di elevare la voce a dignità dinunzia del
pensiero. Se l'uomo impara dalla società il linguaggio, ciò è dovuto alla
virtù, che possiede la sua intelligenza, di intenderne il significato o SEGNATO.
Infine discende quest'altro corollario, che non manca della sua importanza
pedagogica. Vera istruzione non è, quando il discepolo riceva passive la parola
del maestro, come se questa dia bell'e fatta all'alunno l'idea, la quale invece
vuol essere un portato del suo lavoro mentale, e quindi si deve cooperare alla
forma zione della ‘parola’. Poichè altro è ricevere la ‘parola e meccanicamente
ripeterla, altro è FARLA NOI. IMPLICATURA. La’ parola’ ‘altrui ha sempre
alcunchè di vago, di incerto e di oscuro per CHI LA RICEVE, mentre presenta un
SENSO FERMO e più o men definito per chi
se la forma, come si avvera nella formazione di un neologismo come
‘implicatura’. Il linguaggio umano trae le sue prime origini da quell'impulso
spontaneo della NATURA, che spinge l'infante a significare O SEGNARE mercè di
una GRIDA INARTICOLATA il suo BISOGNO, il suo desiderio, la sua sensazione, e
già abbiamo chiarito altrove, come a poco a poco egli ne abbia svolto il suo
linguaggio ARTICOLATO. Ma la grida primitiva, onde si svolse il linguaggio
articolato e convenzionale, non costituiscono tutto quanto il linguaggio
naturale, spontaneo o di azione, il quale abbraccia altresì IL GESTO, il movimento,
la fisionomia ed altri segni ed atteggiamenti esteriori della persona. Ora
GESTO può anch'esso svolgersi e perfezionarsi, o come complemento del
linguaggio o accompagnando e compiendo il linguaggio articolato, o da sè solo
sotto forma di linguaggio mimico, quale lo scenico dei drammatici e lo
educativo dei sordo-muti. Il linguaggio articolato primeggia sul naturale,
perchè il suono articolato o l'organo vocale, accompagnato dall’organo auditivo,è
più pie ghevole, più facile, più svariato e perfettibile,più acconcio ad
esprimere le idee in tutte le loro articolazioni. Esso può essere o parlato, o
scritto. La ‘parola’ parlata riesce più viva della scritta, più ESPRESSIVA, più
animata, ma alla sua volta questa è stabile e permanente, quella sfugge vole e
mobile. Il linguaggio articolato riveste forme diverse corrispondenti alle forme
progressive dell'intelligenza nelle varie età degli individui. Quindi si
distingue un linguaggio proprio dell'intuizione e del sentimento, un altro
della riflessione e della coscienza, un altro della scienza e dell'arte. Il
linguaggio dei popoli e degli individui fanciulli è povero, sintetico,
metaforico e figurato. Quello dei popoli e degli individui adulti è più o meno
concettoso, la grammatica ne è fissa, la prosa misurata. Quello dei popoli
colti e dei pensatori è dotto, analitico e sintetico ad un tempo. Imparare a parlare
è qualche cosa di più elevato che non imparare le lingue particolari; e noi
impariamo a parlare apprendendo LA LINGUA MATERNA. Questa lingua, che abbiamo
imparato da piccini, quando la nostra intelligenza cominciava a schiudersi, costituisce
per noi il linguaggio per eccellenza. Ogni altra nuova lingua, che sia pprenda,
si capisce soltanto mediante il suo paragone o rapporto colla lingua materna,
ed a questa con maggior ragione convengono tutte le lodi, che noi attribuiamo
alla lingua dei Romani come mezzo di coltura. Il bambino è sempre tanto desideroso
di udirvi, che spesso vi interroga anche su cose conosciute, unicamente per
aver occasione di ascoltarvi. Or bene tutto il mondo esteriore vien fatto
comparire e brillare davanti alla fantasia del bambino mediante il nome, con
cui vien designato ciascun oggetto. Tutto ciò, che è corporeo, venga analizzato
sotto gli occhi del fanciullo durante i suoi due primi lustri, ma non gli si
faccia analizzare affatto tutto ciò, che è solo spirituale. La lingua materna
siccome e la più innocente delle filosofie pel fanciullo, siccome il più valido
esercizio di riflessione. Parlategli molto e con precisione, ed anche da lui esigete
la precisione.Una PROPOSIZIONE oscura, ma che diventa chiara se ripetuta una
volta, provoca l'attenzione e rinforza l'intelligenza. Non temete mai di non
essere intesi, e nemmeno se si tratta di intere proposizioni. La vostra faccia,
il vostro accento, e il vivo bisogno che sente il fanciullo di comprendere, rendono
chiara la cosa per metà. E questa prima metà farà col tempo capire anche
l'altra. Pensate che I fanciulli. [SVILUPPO DELLA TENDENZA ALLA COLTURA DELLO SPIRITO]
come facciamo noi per la lingua greca o per qualunque altra lingua straniera,
imparano prima a CAPIRE la nostra lingua, che a ‘parlar’-la. Al bambino parlate
sempre come se avesse qualche anno di più. L'educatore, il quale a torto
attribuisce al suo insegnamento troppa parte di ciò, che impara l'alunno, ricordi
che il bambino porta già pronto in se medesimo ed imparato tutto il suo mondo
spirituale (cio è le idee morali e metafisiche), e che la lingua con tutte le
sue immagini sensibili non serve che a rischiarare questo mondo interiore. Qui
trova suo luogo la questione dello studio della lingua dei romani come mezzo di
coltura mentale. Lo studio della lingua de romani e come una ginnastica dello
spirito, che ne riceve una scossa ed eccitazione salutare.Esso studio, non
tanto in virtù del mero vocabolario, quanto in forza della grammatica, che è la
logica della lingua, costringe lo spirito a ripiegarsi sopra di sè, a
riflettere sulla ‘parola’, considerandole come un riverbero della propria
attività intuitiva. Dal linguaggio si passa a dire dello scrivere, ed anche su
questo punto non sono meno assennati ed acuti I suoi accorgimenti. In sua
sentenza, lo scrivere, ancora più che il ‘parlare’, separa e concentra le idee,
perchè il suono meccanico della ‘parola’ parlata insegna a scosse e passa
rapido, mentre i caratteri della scrittura ‘parlano’ in modo continuato e
distinto. Lo scrivere facilita la produzione delle idee assai più che il suono
rapido della ‘parola’, essendo esse una veduta interiore più che un'audizione esteriore.
Sotto altri riguardi la ‘parola’ parlata assai sovrasta alla parola scritta,
essendochè quella è ‘parola’viva, che esce animata dall'interiore organismo e
discende potente nell'anima di chi la ascolta, mentre questa è parola morta,
che esce dalla penna inanimata e non è che una debole eco della prima.
Esercitate di buon’ora, e gli prosegue, il fanciullo a scriver e I pensieri
suoi proprii piuttostochè ivostri. Risparmiategli i temi comunissimi, quali
sarebbero le lodi della diligenza, del maestro di scuola,dei governanti
ecc.Niente più nuoce a qual siasi componimento, quanto la mancanza di un
oggetto proprio e di inspirazione. Una lettera, provocata unicamente dalla
volontà del maestro, e non da un bisogno del cuore, diventa una morta
apparenza di pensiero,un inutile consumo di materia mentale. Se fate scrivere
lettere, siano rivolte ad una persona determinata e sopra un determinato
oggetto. Lo scrivere una pagina eccita e sveglia l'intelligenza assai più che
il leggere un libro intiero. Vi è tanto poca gente,che sappia scrivere con un
po'di garbo, quanto son pochi coloro, che sanno dire quattro periodi continuati
[2. Dell'attenzione. È avviso dell'autore,che l'attenzione,riguardata non in
generale,ma specialeerivolta ad un particolare oggetto,non va raccomandata,nè
suscitata o promossa con mezzi esteriori, quali sarebbero il premio od il
castigo, poichè in tal caso il fanciullo più che all'oggetto proposto all'osservazione,
terrebbe l'animo attento al premio, che lo attrae, od al castigo minacciato.
Pongasi mente, che esso non è atto a sostenere un'atten zione prolungata e non
mai interrotta;perciò non pretendete, che anche trattandosi d'un argomento, che
possa interessarlo, vi presti la sua attenzione in qualunque ora e luogo e per
tutto il tempo prescritto dai nostri regolamenti scolastici. La novità è pure
una potente attrattiva per l'attenzione, m a per ciò stesso non va sciupata
ripetendo troppo spesso le medesime cose sicchè diventino monotone e
stucchevoli.] Chi dovrà un giorno fare giustizia e scrivere veramente la storia
del pensiero filosofico italiano nell’ultimo secolo, non potrà non dare una
gran parte allo spiritualismo: del quale certo uno dei più illustri e
combattivi rappresentanti è stato ed è»1. Le parole di Calò attestano una
realtà difficilmente discutibile per chi si approcci anche alle vicende della
pedagogia italiana nel mezzo secolo successivo all’Unità. A. compì gli studi al
seminario arcivescovile di Vercelli. Vinta una borsa al collegio Carlo Alberto
di Torino, si iscrive nella Facoltà di filosofia della Regia Università. Si
distinse per la preparazione e l’applicazione negli studi. In un saggio
pubblicato sulla «Rassegna Nazionale», Cottini riporta una lettera scritta da
Aporti che comunica ad A. la vincita di un premio che ammontava a trecento lire
per i suoi meriti filosofici, segno premunitore di una carriera accademica di
primo piano. Laureato, e chiamato alla direzione di una scuola di metodo presso
Novara. Iniziò così una serie di seminarii che lo portarono in diversi centri
piemontesi. Trasferito a Domodossola, poi ad Ivrea, quindi nel collegio di Ceva
e successivamente a Casale Monferrato. E destinato all’insegnamento di
filosofia al Regio Liceo di Porta Nuova a Milano. Calò, A. Filosofo, in Vita e
mente di A., Torino, Scuola Salesiana; Gerini, Filosofi italiani, Torino,
Paravia; Braido, A., Dizionario Enciclopedico, Torino, S.A.I.E.; Biagini, A. Enciclopedia;
Brescia, La Scuola; Cottini, A. «Rassegna Nazionale», ogica e metafisica,
all’Academia Scientifica – Letteraria. Ebbe modo di stringere rapporti con
alcune delle personalità di spicco della cultura milanese: Pestalozza, Poli,
Cantù, Dandolo. Continua a tenere i rapporti con l’università torinese, dove
supera l’aggregazione nella Facoltà di lettere e filosofia, con giudizi molto
positivi di Mamiani ROVERE (si veda) e di Rayneri. Sonno anni di intenso studio.
Torna a Torino nominato insegnante di filosofia al Regio Liceo Cavour e
incaricato del corso all’Università, dopo la morte di Rayneri. Continua ad
insegnare nella scuola sino a quando e nominato titolare della cattedra.
Divenne ordinario ed insegn ininterrottamente all’Università di Torino. La sua
produzione e copiosa. I suoi saggi più importanti sono: Saggi filosofici, Della
filosofia in Italia, L’antropologia e l’hegelismo, L’Hegelismo e la scienza, la
vita, L’educazione e la nazionalità, L’educazione e la Scienza, Del positivismo;
Delle idee dei Greci, Studi, Riforma 4 Cottini riporta un ricordo di Parato,
risalente al giorno A. passa il concorso per l’aggregazione a Torino. Parato,
anch’esso decoro e vanto della scuola italiana, dice nella sua Vita, che avendo
nel giorno stesso della pubblica prova incontrato Rayneri, allora professore
nel Torinese Ateneo, gli venne dal medesimo annunciato con trasporto di gioia
che il Collegio Universitario ha allora allora accolto nel suo seno una sicura
speranza della filosofia italiana. Cottini, A. Nel suo articoli, Cottini
trascrive una lettera di A. indirizzata a Raineri, rinvenuta dallo studioso Roca
tra le carte che Raineri affide agl’archivi dei padri rosminiani. Si tratta di
pagine molto significative, scritte poco dopo la morte del figlio Giulio,
deceduto all’età di soli dieci anni: «Professore carissimo, Vi sonon grato e
riconoscente della vostra lettera consolatoria. La profonda e grave ferita, che
mi sta aperta nell’animo, è insanabile, ma pure ringrazio di cuore gl’uomini
del loro pietoso ufficio. L’immagine del mio povero Giulio mi accompagna
dovunque, eppure so che vivo non lo rivedrò mai più sulla terra. La mia mente è
con lui nel sepolcro, dove assisto col pensiero alla dissoluzione delle sue
povere membra, che si confondono colla polvere della terra e in ogni passo che
faccio, mi pare ci sentirmi dire: Padre, perché mi calpesti? Ah, se io avessi
la sventura di essere materialista, vedendo che il mio Giulio è tutto finito in
un pugno di polvere, non saprei resistere all’idea di rinunciare anch’io alla
vita in modo violento. La fede, solo la fede cristiana, mi fa forte nella lotta
tremenda, e rassegnato ai duri, eppur sempre adorabili voleri di Dio. La natura
mi ha strappato dal seno il mio diletto per convertirmi il corpo in poca
polvere; la fede miaddita il suo spirito sempre vivo in cielo e mi assicura che
quella poca polvere si rifarà corpo vivo per mantenerla. Non ho voluto che la
salma di mio figlio giacesse qui a Milano, dove non si pensa più ai poveri
morti: l’ho fatto in quel campestre cimitero, accanto ai sepolcri, dove
riposano lacrimate le ossa de’ miei genitori. E vorrei anch’io abbandonare per
sempre Milano, ma non posso nulla per me. I molti miei amici vivamente mi
solleticano di chiedere la cattedra di pedagogia vacante nell’Università di
Torino, e ci andrei volentieri, ma io mi tengo forte nel mio proposito di non
chiedere più nulla al Potere. Ieri mi è giunto notizia che è morto un mio
fratello ammogliato, lasciando dietro di sé tre creature. E quasi tutto ciò non
bastasse, ho il mio ultimo bimbo di quatto anni ammalato da 25 giorni di febbre
miliare, in grave pericolo di vita ed ormai disperato dai medici. Sono
infelice, ma l’infelicità non è così, quando si è con Dio, il quale ci addolora
quaggiù per bearci in cielo. Ricambiate i mieri saluti a quall’anima di Iacopo
Bernardi: ditegli che gli sono proprio riconoscente della parte che prese al
mio dolore, e voi vogliatemi sempre bene»] dell’educazione mediante la riforma
dello Stato, Esame dell’hegelismo, La filosofia antica, Opuscoli, Rousseau
filosofo; Breve compendio di filosofia elementare ad uso de’ licei; Elementi di
filosofia ad uso delle Scuole normali del Regno e il Compendio di Etica ad uso
dei Licei, con più edizioni e ampiamente adottati nelle scuole italiane. A.
collabora attivamente alla pubblicistica pedagogica e filosofica del tempo. Con
Passaglia e il principale animatore del Gerdil, organo dei giobertiani e
spiritualisti torinesi, che ha però breve durata non riuscendo a superare
l’anno. Vi scriveno, tra gli altri, Bertini e Bertinaria. Diresse “Il campo dei
filosofi,” un periodico fondato a Napoli da Milone, poi trasferito a Torino. Si
tratta di un’esperienza pubblicistica che ha una certa rilevanza nel dibattito
filosofico italiano, come ha già sottolineato Garin. Vi collaborarono autori
come Giovanni, Toscano, Morgott, Peyretti, Rayneri, Tagliaferri, Bonatelli,
Marsella, Tiberghien, e Bosia, Cfr. Chiosso, La stampa filosofica scolastica in
Italia, Brescia, La Scuola. Dopo aver citato alcuni brani della rivista, Garin
osserva. Il “Campo dei filosofi”, la rivista vissuta a Napoli e poi passata a
Torino sotto la direzione d’A., si propone di combattere soprattutto
l’idealismo dell’Hegel e il positivismo del Comte – come scrive A. nel
programma, continuando del resto l’attività iniziata a Napoli dal barnabita
Milone. Oltre i saggi di critica all’hegelismo, altri ve ne comparvero, d’A., di
Giovanni, di Donati, di Selvaggi, e di Tagliaferri. E l’attività della rivista
in questo settore merita di essere studiata tanto più che non è privo
d’interesse il legame subito stabilito fra hegelismo e positivismo, quasi
gemelli nemici. Dopo aver ricordato la facilità con cui diversi idealisti si
convertirono al positivismo negli anni seguente all’Unità, Garin spiega questo
fenomeno riprendendo e valorizzando l’analisi d’A. che vede in queste due
teorie apparentemente distanti, un comune denominatore. Quell’onesto filosofo
che e A., professore a Torino, che alimenta una vivace e seria discussione
intorno all’hegelismo sul “Campo dei Filosofi Italiani”, che mette insieme un
onesto libretto su L’hegelismo, la scienza e la vita, pubblicando a Torino, un
Esame dell’hegelianismo, che vuole essere un bilancio, crede di poter
individuare una convergenza profonda fra positivismo e hegelismo. L’Hegelianismo
– scrive – e il positivismo, che a tutta prima hanno sembianza di due dottrine
diametralmente opposte e riluttanti, in realtà sono fra loro congiunti da un
punto di contatto intimo e profondo. Assoluta IMMANENZA, realtà come processo e
sviluppo, celebrazione della scienza. Ecco alcuni dei punti su cui insiste A.,
pur avverso a entrambe le concezioni. Ma comunque si valuti la sua disamina, e
al di là dei casi degl’hegeliani passati al positivismo, una cosa certa A.
coglie esattamente: l’esistenza di una ‘riforma’ in atto della dialettica del
senso dell’evoluzionismo, con tutto quello che una veduta del genere implica,
in metafisica, in politica, in diritto, e in morale, per usare le sue parole.
Proprio dentro questo processo, già avviato nell’ambito dell’eredità
feurbachiana, si muove fra tensioni e polemiche Labriola: contro
l’evoluzionismo spenceriano al posto del moto dialettico della storia, contro
il socialismo neo-kantiano-positivistico al posto del marxismo, per una
rinnovata filosofia della prassi, ma anche – lo dichiara a Engels per una
sostituzione del metodo genetico a quello dialettico, il che non e solo
questione di parole. Garin, Filosofia in Italia, Bari, De Donato. Polla,
Leonardi, Naville, Passaglia e altri. In seguito pubblica una serie di articoli
sulla Rivista filosofica. Quando e ormai divenuto uno tra i principali
protagonisti del dibattito nazionale, A. assunse la direzione de «Il Baretti»,
un foglio dedicato a questioni scolastiche. Qui vi apparvero per lo più una
serie di saggi utili a lumeggiare le sue posizioni in merito alla libertà e,
più in generale, alla politica ministeriale. A. rappresenta una delle
personalità di primo piano del spiritualismo italiano. I suoi saggi divennero
un punto di riferimento per la riflessione, trovando una considerevole
circolazione pedagogica, per riprendere una categoria riproposta da Prellezo. La
Bertoni Jovine ne parla come il maggiore esponente dello spiritualismo, sino a
considerarlo, esagerando, come la guida della corrente. A. insegna in un Ateneo
come quello torinese che oltre ad avere con quello napoletano il primato, rappresenta
uno dei poli principali del dibattito italiano, sia in campo accademico, che in
quello pubblicistico e scolastico. Cfr. Chiosso, La stampa scolastica in Italia;
Chiosso, I giornali scolastici torinesi dopo l’Unità; Stampa nell’Italia
liberale. Giornali e riviste. In un saggio dedicato a Rayneri, a cui ne segue
uno analogo su A., Prellezo invita ad approfondire la capacità di influenza dei
spiritualisti più impegnati teoreticamente con la realtà filosofica. Egli parla
della necessità di promuovere ricerche puntuali allo scopo di definire limiti e
portata dell’incidenza delle dottrine non solo nell’ambito delle riforme
dell’insegnamento pubblico, ma anche, ad esempio, in quello dell’azione dei
fondatori e primi membri delle istituzioni dedicate all’insegnamento. Prellezo,
Pensiero e politica scolastica. Il caso di Rayneri, in «Annali di Storia delle
Istituzioni scolastiche», Brescia, La Scuola, Bertoni Jovine, F. Malatesta,
Breve storia della scuola italiana, Roma, Editori riuniti, Il neo spiritualismo
d’A. se riuscì a creare una corrente alla quale aderirono studiosi come Conti e
Alfani e tutto il gruppo della Rassegna Nazionale non ha la capacità intrinseca
di operare un capovolgimento della filosofia e neanche quella di combattere
efficacemente il positivismo che, benché debole dal punto di vista speculativo,
e portatore di vivissime esigenze socali, sostenute dai partiti democratici» D.
Bertoni Jovine, La scuola italiana, Roma, Editori Riuniti; Serafini, Cultura
italiana, Roma, Bulzoni. Riguardo alla circolarità d’A. nello spiritualismo,
merita di essere accennata la collaborazione con i salesiani. Il docente
vercellese poté conoscere presumibilmente l’esperienza educativa della
congregazione già negli anni dell’Università, prima come studente della città
di Torino, e poi quando divenne professore. Diversi collaboratori di Don Bosco
frequentarono infatti l’ateneo subalpino. In seguito, uno dei suoi figli studiò
al collegio salesiano di Mirabello. Il docente vercellese si avvicinò sempre
più alla congregazione: collaborò nel collegio salesiano di Valsalice,
partecipò alle numerose manifestazioni scolastiche e culturali dei salesiani in
città15, fece spesso visita in qualità di «esperto» alle scuole del santo
piemontese. Alcuni studiosi salesiani hanno parlato di una vera e propria
amicizia tra Don Bosco e il pedagogista vercellese16. Un episodio risulta
significativo nella ricostruzione di questo rapporto. Quando l’oratorio di
Valdocco rischiò di essere chiuso per dei provvedimenti voluti dal Ministro
Correnti, A. si offrì per cercare di salvare l’istituto. Aiutò don Bosco nella
compilazione dell’istanza da inviare al Ministero e si impegnò per inoltrare un
ricorso al Consiglio di Stato. Negli anni seguenti mantenne stretti i rapporti
con gli altri salesiani più giovani, soprattutto con don Durando, direttore
generale degli studi delle scuole salesiani. Il pensiero dello studioso
vercellese ispirò anche alcune opere dei primi pedagogisti salesiani17.
Prellezo documenta l’influenza della pedagogia di A. sulla Storia della
pedagogia di Cerruti e sugli Appunti di pedagogia di Barberis18. Una certa
influenza è anche rilevabile nelle Lezioni di pedagogia di don Vincenzo
Cimatti. Sul tema si rinvia al documentato e approfondito studio di: J. M.
Prellezo, A.negli scritti pedagogici salesiani, «Orientamenti pedagogici»,
Proverbio ricorda la presenza dell’A. alla seconda rappresentazione del
Phasmatonices di Rosini. «Le insistenza per la replica furono tali che il
sipario si riaprì l’otto giugno: vi accorsero molti torinesi, tra cui il
professor G. A., docente di pedagogia alla Università di Torino, il quale
“andava per la sala del teatro a trarre innanzi persone ragguardevoli”, mentre
negli intervalli venivano eseguite le romanze verdiane di G. Cagliero» G.
Proverbio, La scuola di don Bosco e l’insegnamento del latino, in F. Traniello
(ed.), Don Bosco nella storia della cultura popolare, Torino, Sei,
Trat tando del santo piemontese, Braido ha osservato: «reali furono le
relazioni, perfino di cordialità e di amicizia, con alcuni teorici della
pedagogia contemporanei, come A. Rosmini, Rayneri, G. A.» P. Braido,
L’esperienza pedagogica preventiva, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di
Pedagogia cristiana nella storia, Si veda anche: J. M. Prellezo, A.negli
scritti pedagogici salesiani, Su tale legame Pietro Braido ha rilevato:
«Giannantonio Rayneri e A.esercitarono un palese influsso diretto su due note
figure di studiosi salesiani di pedagogia, rispettivamente Cerruti e Barberis;
gli inediti Appunti di Pedagogia sacra di quest’ultimo rivelano un’evidente
dipendenza. A., benefattore e sostenitore di Don Bosco, si batté strenuamente
per la sopravvivenza delle scuole di Valdocco, mettendo a disposizione, in
difesa della libertà educativa, la sua energica contrarietà al centralismo
burocratico del Ministero della P.I.» in P. Braido, L’esperienza pedagogica
preventiva nel secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia
cristiana nella storia, 313. 18 J. M. Prellezo, A.negli scritti pedagogici
salesiani, 406-412. 19 413. 26 verità, anche altri manuali
pedagogici del tempo si ispirarono alla riflessione dell’A.20. Se l’opera del
vercellese fu accolta subito con favore dal circuito cattolico liberale e da
quello salesiano, il gruppo intransigente non sembrò accorgersi del suo
contributo. Solo all’inizio del Novecento, quando la dialettica interna nel
mondo cattolico assunse toni meno aspri, anche «La Civiltà cattolica» lo
menzionò per le sue posizioni a favore della libertà d’insegnamento21. Sebbene
l’opera di A. mantenne una dimensione prevalentemente nazionale, egli attirò
l’attenzione di alcuni studiosi stranieri come Naville, Daguet, Blum. Dopo una
lunga esistenza spesa interamente alle riflessione educativa si spense a Torino.
Influenze rosminiane e dimensione europea Alla costruzione del sistema
pedagogico e filosofico dell’A., contribuirono molteplici scuole e
sollecitazioni. Gran parte degli studi dedicati al pedagogista vercellese hanno
rilevato un’«evidente traccia della riflessione rosminiana»22, come già aveva
sottolineato nelle sue ricerche Gentile23. Per cogliere le ragioni di tale
influenza, occorre in primo luogo considerare il peso del rosminianesimo nella
cultura pedagogica e filosofica piemontese della prima metà dell’Ottocento.
L’Ateneo torinese rappresentò con i seminari lombardi uno dei maggiori centri
di influenza e propagazione della filosofia del roveretano24. Si tratta di un
afflato radicato, che si conservò ancora a lungo nella cultura subalpina25. A.
trascorse, pertanto, gli anni della sua formazione universitaria in un contesto
permeato dal pensiero rosminiano. Diversi dei suoi professori erano discepoli
rigorosi del roveretano. Grazie ad un suo docente, A. poté avere un primo
contatto con Rosmini: Pier Antonio Corte inviò al pensatore roveretano un breve
scritto dello studente vercellese per averne un parere. Poco tempo dopo,
Rosmini rispose all’invito del professore e 20 Tra gli altri, Arcomano,
sottolinea come il saggio di Costanzo Malacarne, Sunti di pedagogia, un
classico della manualitstica pedagogica del tempo, appaia fortemente
influenzato dalla pedagogia di A.. Cfr. A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed
educazione in Italia, Chiosso, Editoria e stampa scolastica tra otto e
novecento, in L. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio
– culturali in Italia tra Otto e Novecento, Chiosso, Novecento pedagogico,
Brescia, La Scuola, Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in
Italia. I platonici, Messina, Principato, Gambaro, Antonio Rosmini nella
cultura del suo tempo, «Il Saggiatore», Traniello, Cattolicesimo conciliarista,
Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, Stresa, Edizioni rosminiane] apprezzò
il lavoro pur sottolineando i limiti dello scritto di A., allora solo
ventiduenne26. Pochi anni dopo, il pedagogista vercellese ebbe anche
l’occasione di conoscere personalmente il Rosmini, poichè allora dirigeva un
corso di Metodica a Domodossola, frequentato da alcuni allievi dell’Istituto di
Carità. Del roveretano ebbe una impressione eccezionale. Ricordando quella
circostanza, ne parlò come di una persona dotata di una «modestia pari alla sua
grandezza», ma anche di una profonda serenità, probabilmente legata, in quel
periodo, al recente Dimmitantur per le sue opere. Il legame con il
rosminianesimo fu corroborato da Giovanni Antonio Rayneri, da cui A. ereditò la
cattedra all’Università di Torino. Professore e sacerdote, il Rayneri
rappresentò un protagonista nel fermento educativo e pedagogico piemontese tra
gli anni ’40 e ’50 dell’Ottocento. Il suo sistema pedagogico si innestava
sull’impianto filosofico del roveretano, di cui offrì un’organica
riproposizione in chiave educativa. L’elaborazione di Rayneri fu di vitale
importanza per la circolazione della pedagogia rosminiana. La lezione del suo
predecessore rimase un costante punto di riferimento per l’A.. Lo studioso
vercellese curò a pubblicazione postuma del saggio Della pedagogica, una summa
in cinque volumi del pensiero del Rayneri, «supplendo il libro e mezzo, che
mancava, con pochi appunti rinvenuti fra le carte dell’autore»29. Si tratta di
un’opera considerata da A. come una delle maggiori confutazioni agli errori
della pedagogia moderna30. In una delle sue prime opere più importanti,:
L’Hegelismo e la scienza, la vita si trova una dedica molto significativa al
suo maestro31. 26 In una lettera datata 17 febbraio 1852, il Rosmini scrisse al
Corte: «La ringrazio d’avermi comunicato lo scritto del signor Giuseppe A..
L’ho letto con piacere e confermo pienamente il giudizio favorevole da lei
portato e mi congratulo colla R. Università se fa di tali allievi, mi
congratulo con Lei e coll’autore del detto scritto, che mi par l’ugna del
leone. Quello che può mancare alla proprietà del linguaggio verrà in appresso,
essendo cosa che solo s’impara cogli anni... Queste sottili osservazioni però
non impediscono che il lavoro favoritomi sia degnissimo di lode» Citata in G.
B. Gerini, La mente di A., Torino, Tipografia S. Giuseppe degli artigianelli, A.,
Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, Milano,
Cogliati, Chiosso, Rosmini e i rosminiani nel dibattito pedagogico e scolastico
in Piemonte in Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, 102. 29 G.
Cottini, A., 71. 30 Nella commemorazione già citata scrive: «La Pedagogica mi
apparisce una spiccata antitesi dell’Emilio di Gian Giacomo Rousseau; in quella
tutto è semplice, connesso, lucido, ordinato e preciso: in questo tutto è
sconnesso, incoerente, saltuario; il nostro Pedagogista ha la coscienza del suo
pensiero, misura i suoi conoscimenti, non trascorre mai gli estremi; il
ginevrino scatta fuori con grandi paradossi che colpiscono, con pensieri
sublimi, grandi originali, dove la verità è in lotta continua con l’errore;
Un’altra idea della vita, un giusto sentimento della natura umana, un vivo ed
operoso concetto del dovere, sono questi i principi filosofici, che informano
la Pedagogica del RAYNERI, principi diamentralmente opposti a quelli
dell’umanismo contemporaneo, che fa dell’uomo Dio a se stesso» G. A.,
Commemorazione del primo Centenario della nascita di Rayneri, letta in
Carmagnola, Asti, Tipografia Popolare Astigiana, La dedica recita: «Alla cara e
venerata memoria di Rayneri, Che primo fra gl'italiani tentò elevare all'unità
sistematica della scienza la. Pedagogica da lui per un ventennio professata
all'Università di Torino questo tenue lavoro con riverenza di discepolo
piamente consacro». Il vercellese fu invitato a tenere un discorso in
occasione del centenario dalla nascita di Rayneri32. Ormai prossimo alla
pensione, ripercorrendo quasi cinquant’anni di insegnamento universitario,
ricordò con queste parole il maestro: «Gran parte della mia vita pedagogica sta
collegata col nome di lui, essendochè negli anni miei giovanili, sedendo sui
banchi dell’Università io ascoltava la sua magistrale parola, e che egli ha
illustrato per poco più di un ventennio quella cattedra, che io tengo da quasi
mezzo secolo»33. Durante gli anni del suo magistero, A. rimase sempre in
contatto con gli ambienti rosminiani, collaborando anche ad alcune riviste ad
esso legato34. Diversi concetti e posizioni del sistema del vercellese sono
chiaramente mutuati dall’alveo rosminiano. Un primo elemento è l’idea della
personalità, che A. pone al centro della sua pedagogia35. In questo campo,
accolse gran parte dell’impianto psicologico e antropologico del roveretano,
riproponendo la tripartizione delle facoltà: senso, volontà e intelletto,
largamente utilizzate e approfondite dal professore piemontese. Al Rosmini lo
legano anche ragioni e argomenti di critica alla filosofia moderna. Al pari del
roveretano, ma anche di altri autori spiritualisti, A. riunì Kant e i pensatori
idealisti sotto la stessa etichetta di «scettici». Un altro elemento riguarda
l’unità di filosofia e pedagogia, di cui A. si fece araldo di fronte agli
eccessi di metodologismo cui erano tentati anche alcuni studiosi cattolici36.
All’idea di unità, è collegato un altro concetto rosminiano accolto da A., vale
a dire quello del «sintetismo»37, strettamente connesso a quello di «armonia»,
considerato nodale per comprendere la sua idea di educazione38. Non senza
motivo, Berardi riassunse la teoria della personalità dell’A. come una
«traduzione del sintetismo di origine A., Commemorazione del primo Centenario
della nascita di Giovanni Antonio Rayneri, letta in Carmagnola.Tra le altre,
offrì la sua collaborazione alla rivista La Sapienza, Rivista di filosofia e di
Lettere, diretta da Papa. Cfr. Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e
Testimonianze, 65. 35 Giovanni Calò sostenne come, in fondo, «Quella del
Rosmini è una pedagogia della personalità» G. Calò, Pedagogia del Risorgimento,
Sansoni, Firenze, Commentando un breve intervento dello studioso vercellese
sulla pedagogia del Rosmini, Cavallera ho osservato come «l’A. individua nel
concetto di unità la forza del pensiero pedagogico rosminiano uscendo dai
consueti schemi della illustrazione della metodica, ma non va oltre tale
precisazione» Cavallera, Rosmini nella Pedagogia dell’Ottocento, Come conferma
Mazzantini: «Rimasero sempre per lui fari di orientamento, nella sua vita di
studioso, le dottrine ontologiche (già in gioventù manifestateglisi evidenti)
della gradualità e del sintetismo degli esseri» Mazzantini, I capisaldi del
sistema filosofico pedagogico di G. A., «Rivista Pedagogica» In merito la
Quarello, che ha dato alle stampe uno dei lavori più precisi ed elaborati sull’A.,
ha osservato: «Nella dottrina pedagogica dell’A. la legge fondamentale è dunque
l’armonia, legge che necessariamente deriva da quella suprema filosofica: “Il
sintetismo universale”» V. Quarello, G. A., studio critico, Lanciano, Carabba] rosminiana»39.
Sebbene il vercellese, ad esempio nei Saggi filosofici, sul tema si rifaccia
alle opere del Krug, le tracce del discorso rosminiano sono evidenti. Se tali
elementi mostrano un chiaro ancoraggio all’opera rosminiana, da una lettura più
attenta delle opere di A. emerge tuutavia anche una serie di differenze con il
roveretano che non permettono di ascrivere in toto l’opera del professore
piemontese tra quello del circuito rosminiano vero e proprio, rispetto al
quale, al contrario, manifestò l’esplicita intenzione di differenziarsi. Si
tratta di una posizione che, secondo uno dei più importanti pedagogisti di
scuola rosminiana, poteva tuttavia essere letto in modo positivo40. Già
Francesco Paoli, curatore di alcune delle più importanti opere postume del
Rosmini e suo ultimo segretario, nel saggio Della scuola di Antonio Rosmini,
recentemente ripubblicato, nel disegnare la geografia del rosminianesimo in
Italia sottolineava la dissonanza tra l’A. e il roveretano41. Questa
precisazione di Paoli, peraltro in un libro con toni marcatamente apologetici,
denota come tra i seguaci «osservanti» del roveretano, l’A. non fosse
considerato un rosminiano «ortodosso», nonostante la riconosciuta prossimità.
La distanza tra i due pensatori è documentata dal fatto che nelle opere del
vercellese i richiami e le influenze dell’opera rosminiana si diradano. La
maggior parte dei espliciti riferimenti al roveretano, infatti, si riscontrano
nei primi lavori dell’A., in specie nei Saggi filosofici, con chiari rinvii
all’ontologia, alla metafisica e alla logica. Ma già in un’opera dell’anno
seguente, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, il legame con il sistema
del roveretano appare più distaccato. In particolare, si coglie un certo
ridimensionamento dell’apporto del Rosmini. Delineando l’itinerario della
pedagogia italiana del primo Ottocento, sebbene non manchino apprezzamenti
positivi, A. sottolinea come il vero innovatore della pedagogia italiana fu il
Rayneri. Si tratta, senza dubbio, di un’interpretazione impensabile per
qualsiasi studioso rosminiano42. 39 R. Berardi, La libertà d’insegnamento in
Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di A., «Quaderni di cultura e storia
sociale», febbraio 1953, p. 62. 40 Cottini rileva come: «Circa la discordia fra
l’A. e il sommo Roveretano, osservò giustamente il mio quondam condiscepolo
Prof. Giuseppe Morando, che il dissenso aperto e leale dell’A. porge maggiore
rilievo alla riverenza sconfinata che questi gli professò, ed all’omaggio,
ch’egli gli rese in ogni occasione» G. Cottini, Giuseppe A., 67. 41 Scrive il
pedagogista di Pergine: «Di presente l’onore della Filosofia e della Pedagogia
è sostenuto nell’Università di Torino dal Prof. Giuseppe A., che se non
professa del tutto la filosofia del Rosmini, l’accetta in gran parte e la onora
colla esemplarità della vita e colle molte gravi sue pubblicazioni pedagogiche»
F. Paoli, Della scuola di Antonio Rosmini (a cura di Ottonello), 38. 42 Scrive:
«Del Rosmini, per quel che spetta alla pedagogia rigorosamente intesa, non si
aveva che il Saggio sull’unità dell’educazione, opuscoletto di poche pagine. I
lavori del Tommaseo sono studi serii, monografie peregrine, pensieri,
desiderii, come egli stesso li intitola, sono preziosi elementi scientifici, ma
un organico sistema di scienza non fanno; egli stesso si tiene in guardia dalla
mania de’ sistemi anche in 30 In alcune opere degli anni ’70,
quando il sistema dell’A. si consolidò, il vercellese si discostò
esplicitamente da elementi non secondari della filosofia rosminiana. Nell’opera
in cui sistematizza con più rigore le sue teorie ontologiche, vale a dire Il
problema della metafisica, si affranca dal roveretano in merito alla dottrina
dell’essere. Mentre Rosmini crede che l’oggetto primo della metafisica sia
l’essere categorico, astratto e comunissimo, egli lo identifica nella realtà
infinita e finita considerate nel loro insieme e nelle «vicendevoli loro
attinenze». Nello stesso saggio, riconoscendo nel fatto di pensare il primo
noto della metafisica, si preoccupa di sottolineare l’assenza di tale idea in
Rosmini44. Sempre in campo gnoseologico, A. contesta inoltre la teoria secondo
cui dall’intuito si arrivi alla visione dell’essere ideale universalissimo.
Stando al pedagogista vercellese, l’intuito percepisce la realtà confusa ed
indeterminata, opponendosi così ad uno degli elementi caratterizzanti la
gnoseologia del roveretano, oltre che oggetto di aspre contese con la filosofia
neoscolastica. Pare ancora più netta la posizione esposta negli Studi
psicofisiologici in merito alla psicologia e al rapporto tra anima e corpo: «In
che ripone il Rosmini l’essenza dell’anima umana? È assai malagevole impresa il
cogliere su questo punto della psicologia capitalissimo il suo pensiero; tanto
parmi intricato, inconsistente, incerto!». E poi motiva: «Il concetto
psicologico del Rosmini oscilla incerto tra questi tre pronunciati: 1° l’anima
umana è sentimento dell’Io e niente di più: il sentire animale sta all’infuori
di essa, ossia non è contenuto nella sua essenza; 2° l’anima possiede di fatto,
siccome suoi essenziali costitutivi, il principio sensitivo animale ed il
principio intellettivo; 3° il principio sensitivo è virtualmente contenuto
nelle intellettivo». Contrario a tali posizioni considerate equivoche, proporrà
un duo dinamismo coordinato su cui avremo modo di trattare in seguito. La
valenza delle critiche mosse al pensatore roveretano dall’A., è confermata
dalle dure repliche di alcuni dei più «fedeli» epigoni di Rosmini. A questo proposito,
sono molto significativi due scritti di Pietro De Nardi, rosminiano ortodosso,
che stampò due severi pamphlet contro l’A.. pedagogia, e crede che addestrando
in maniera variata il pensiero si serva, meglio che con severe teoriche,
all’unità dell’idea. Il Rayneri seppe far tesoro de’ profondi e svariati lavori
parziali de’ pedagogisti, che lo precedettero, coll’intendimento di ricondurli
all’unità della scienza» A., La pedagogia italiana antica e contemporanea,
Torino, Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1901, pp. 148-149. 43 G. A., Il
problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a
Giordano Bruno, Torino, Stamperia reale, 1877, pp. 35, 46. 44 47. 45 G. A.,
L’uomo e il cosmo, Torino, Tipografia Subalpina, 1891, p. 298. 46 G. A., Studi
psicofisiologici, Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli; 47 Ibid.,
62; 31 Nel 1883, pubblicò La teorica rosminiana dello sviluppo
graduato della ragione umana difesa da P. De Nardi contro la traccia di
contradditoria che ad essa ha dato G. A.. In questo saggio lo studioso
rosminiano considerava «gravissima nella sostanza»48 la critica mossa da A.
riguardo lo sviluppo della mente nell’opera del roveretano, esposta ne Il
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico. L’anno seguente De Nardi pubblicò
Due sillogismi di A.contro la percezione intellettiva come viene percepita da
A. Rosmini49, nel quale contestava al pedagogista vercellese prima il merito di
un appunto sulla filosofia del roveretano riguardanti i rapporti tra l’anima sensitiva
e intellettiva, e poi criticò un presunto pensiero del vercellese secondo il
quale «oggetti» di natura diversa non possano comunicare fra loro. Una prima
risposta alle accuse del De Nardi appare ne L’uomo e il cosmo (1891), dove A.
confuta i pamphlet e una recensione apparsa su Il Rosmini del marzo 1887,
sostenendo che fossero state travisate le sue parole. Dopo aver mostrato
l’infondatezza delle critiche fattegli, muove una critica molto significativa a
certi epigoni del Rosmini i quali «s’immaginano, che il sistema rosminiano sia
tutto quanto verità esso solo, sicché chiunque osa muovergli qualche appunto,
bisogna dire che cammina nella via dell’errore»50. Per lumeggiare più
chiaramente il rapporto tra A. e Rosmini, è inoltre indispensabile citare i due
testi in cui l’A. trattò specificatamente dell’opera del roveretano: il
brevissimo saggio, Il concetto pedagogico di A. Rosmini51 e il più sostanzioso
articolo dal titolo Antonio Rosmini uscito prima nella rivista universitaria
«Studium», e poi pubblicato nel 191252. Il primo lavoro, seppure breve, appare
tuttavia molto significativo. Tale saggio fa parte del già citato Per Antonio
Rosmini, un’opera che raccolse in due volumi gli interventi al congresso
commemorativo per il centenario dalla nascita del filosofo, organizzato
dall’Accademia degli Agiati di Rovereto nel Maggio del 1897. 48 P. De Nardi, La
teorica rosminiana dello Sviluppo Generale della Ragione umana difesa da Pietro
De Nardi contro la taccia di contradditoria che ad essa ha dato Giuseppe A.,
professore all’Università di Torino, Intra, Bertolotti, 1883, p. 3. 49 P. De
Nardi, Due sillogismi di Giuseppe A., Professore all’Università di Torino,
contro la percezione intellettiva come viene concepita da Antonio Rosmini
esaminati da Pietro De Nardi, Professore di Filosofia nel Collegio
Internazionale Italiano di Torino, con appendice del medesimo in risposta a T.
Mamiani, Modena, Vincenzi, 1884. 50 G. A., L’uomo e il cosmo, 417-418. 51 G. A.,
Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, A. Antonio
Rosmini, Pavia, Tipografia Fratelli Fusi, 1912. 32 Nel suo intervento A.
riconobbe in prima istanza le virtù filosofiche di Rosmini53, attestando
l’importanza di lavori come il Saggio sull’unità dell’educazione e Del supremo
principio della metodica per lo studio della filosofia e della pedagogia. Tra i
principali meriti, individuò l’aver difeso l’idea che l’educazione è vera,
efficace e perfetta solo quando è «schiettamente cristiana». Un concetto che,
secondo A., intuirono in tanti ma «niuno meglio del Rosmini seppe farla
risplendere di quella lucentezza ideale, che scaturisce dalla ragione
speculativa»54. Nella stessa sede, tuttavia, A. volle sottolineare le
differenze tra il suo sistema e quello di Rosmini55. Questa precisazione in un
consesso con chiari intenti apologetici a pochi anni dal Post obitum, conferma
con limpidità la volontà di A. di smarcarsi dalla discendenza rosminiana. Il
secondo saggio citato, Antonio Rosmini, è molto più consistente e permette di
approfondire le idee di A. circa il roveretano. Introducendo il lavoro, fa
notare la grande risonanza che ebbe il pensiero di Rosmini, e cita tra i suoi
discepoli Tommaseo, Cantù, Sciolla, Berti, Cavour, Bonghi, Pestalozza, Corte,
Rayneri. Conduce poi un’analisi particolareggiata dell’opera filosofica e
pedagogica del Rosmini, muovendo una serie di critiche e «correzioni» al
pensiero del roveretano. Riguardo l’articolazione delle scienze nel sistema del
roveretano, parla di un’ambiguità del Rosmini circa il legame tra la psicologia
e l’antropologia56. In seguito contesta la seguente definizione di uomo tratta
dall’Antropologia di Rosmini: «l’uomo è un soggetto animale, dotato
dell’intuizione dell’essere ideale indeterminato e operante secondo l’animalità
e l’intelligenza». A. trova in questo enunciato un eccessivo risalto per la
parte «naturale» dell’uomo. Nel definire la persona, A. preferisce mettere
l’accento sulla natura spirituale dell’uomo, poiché in esso l’animalità «è
subordinata alla spiritualità, che la informa e la governa»57. Tale critica è
poi smussata tenendo conto del modo in cui Rosmini affronta e suddivide la
scienza antropologica. Riprende inoltre la critica al concetto dell’intuizione
primaria dell’uomo dell’essere ideale indeterminato: «Questo - dice A. - è un
pronunciato fondamentale del sistema di Rosmini, ma è impugnato da molti, e non
è una verità dimostrata con tanto rigore, che debba essere accettata da
tutti»58. Sempre in campo gnoseologico corregge l’espressione rosminiana di
«sentimento corporeo» che secondo 53 «È virtù propria del genio speculativo
risalire ai supremi principi dell’essere e del sapere, e nella loro unità
comprensiva raccogliere tutto un intero ordine di idee organate da questo
sistema» G. A., Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio
Rosmini. Ed io, sebbene da lui discorde in alcuni punti delle sue dottrine
filosofiche, mando questo mio lavoruccio in attestato della mia scienza sincera
e profonda ammirazione verso tant’Uomo» Ibid, vol. II, p. 523. 56 G. A.,
Antonio Rosmini, 8. 57 Ibid., 9-10. 58 10. 33 A. dovrebbe essere
«senso corporeo», e poi aggiunge: «Come pure io non so capire come mai il senso
intellettivo, la cui esistenza è innegabile, possa essere compreso come parte
nel tutto, nella sensitività animale, come fece l’autore»59. Anche in campo pedagogico,
fa degli appunti alquanto critici. Trattando dell’unità dell’educazione
sostenuta dal Rosmini, lamenta l’assenza di un adeguato approfondimento del
concetto di varietà60. Un'altra definizione contestata riguarda il rapporto tra
le affezioni casuali e l’ordine interiore. A. riporta senza rinvii al testo
originale: «si conduca l’uomo ad assimilare il suo spirito all’ordine delle
cose fuori di lui, e non si vogliano conformare le cose fuori di lui alle
casuali affezioni dello spirito suo». E poi ne prende le distanze, «correggendo»
le posizioni del Rosmini»61. Sullo stesso argomento, commentando poco dopo la
parte del Saggio sull’unità dell’educazione relativa all’«Unità degli oggetti»
sostiene che è «alquanto sconnessa». A. fa notare come il Rosmini abbia
dedicato molto spazio all’analisi dell’apprendimento e dell’educazione durante
l’infanzia, soffermandosi sullo sviluppo delle facoltà del bambino. Il
pensatore vercellese, tuttavia, fa notare come un corretto sistema pedagogico
debba tener conto dell’intervento educativo, e del fatto che spesso si
insegnino cose che il bambino non sa ancora, e che quindi lo studio delle
naturali facoltà del bambino non sia sufficiente ma debba essere integrato dai
metodi educativi esterni62. Anche se riconosce al Rosmini il contributo sulla
libertà d’insegnamento, a dispetto per esempio di un Gioberti giudicato
eccessivamente statalista, l’A. contesta al Rosmini l’affermazione secondo cui
la scuola dovrebbe «guardarsi dallo spirito individuale siccome 59 12. 60
«L’autore ripone nell’unità la legge suprema dell’educazione; nel che io non
convengo pienamente con lui. L’unità vera, effettiva, feconda non può andare
disgiunta dalla varietà, né questa può andare scissa da quella. Unità senza
varietà è arida, sterile, priva di moto e di vita; varietà senza unità è
sparpagliata, dissipata, che si sciupa nel vuoto. L’uno nel vario, il vario
nell’uno, ossia l’armonia è la legge suprema della vita in ogni ordine di cose.
Epperò all’umana educazione l’unità e la varietà tornano essenziali amendue ad
un modo. Certamente l’autore non esclude, né perde di vista la varietà, giacché
riconosce la molteplicità delle dottrine, che si insegnano, e delle potenze,
che vanno educate; ma occorreva che avesse in modo esplicito riconosciuta e
formulata la varietà accanto all’unità, siccome egualmente necessaria» G. A.,
Rosmini, «Però in riguardo alla dottrina
del Rosmini, a me par giusto l’osservare, che se per una parte sonvi nel nostro
spirito affezioni casuali, le quali vanno acconciate e conformate all’ordine
oggettivo delle cose fuori di noi, per l’altro anche nell’ordine esteriore vi
hanno accidentalità e turbamenti casuali e fortuiti, a cui lo spirito nostro
non che adattarsi, deve seguire una reazione, conservando intatta la sua
indipendenza. Anche nel nostro spirito esiste un ordine oggettivo posto dalla
nostra natura, sicché la formula del Rosmini sembra bisognevole di essere
corretta e parmi più conforme a verità l’affermazione che il supremo principio
pedagogico dimora nel mantenere in perfetta armonia l’ordine oggettivo dello
spirito dell’alunno coll’ordine oggettivo delle cose fuori di lui. S’intende da
sé, che quest’armonia importa il riconoscimento di un principio superiore
divino, ed inoltre supremo, in cui l’ordine oggettivo esteriore e l’ordine
oggettivo interiore hanno il loro centro di unità e la loro cagione
efficiente» «Il Rosmini, intento, alla
legge suprema direttiva dell’umano pensiero descrive per filo e per segno i
momenti successivi, per cui progredisce e per cui va condotta la mente
infantile, il Pestalozzi in iscuola tracciava sulla lavagna a’ suoi fanciulli
una proposizione, che di presente essi non comprendevano, ma avrebbero compreso
col tempo» 29. 34 da suo capitale difetto», e osserva: «Questa
opinione dell’autore parmi bisognevole di essere ritoccata. Sta bene che
l’educazione pubblica non debba tener conto delle singole famiglie e de’
singoli individui, ma se non vuole incorrere nel dispotismo e trasmodare,
occorre che essa rispetti mai sempre lo spirito informatore della famiglia e la
personalità individuale di ciascun uomo, essendochè lo stato è fatto per le
famiglie e per le persone singolari, non questo per quello»63. Oltre alle
critiche, emergono anche una serie di considerazioni positive. A. considera di
vitale importanza il contributo di Rosmini nell’aver mostrato la conciliabilità
tra lo spiritualismo e la realtà naturale dell’uomo64, di aver riportato la
pedagogia ad un metodo realista65, il richiamo all’armonia come principio
educativo, valorizza il tentativo di salvare l’unità della persona, l’idea di
sviluppo armonico delle facoltà umane ed elogia il merito di aver unito
didattica ed l’educazione. Vivo apprezzamento egli esprime circa il legame tra
pensiero e nazionalità. A. scrive che «è meritevole di nota il rapporto, che il
Rosmini istituisce fra il metodo filosofico e la diversa tempra degli ingegni
proprii delle singole nazioni». Lontano da tentazioni sciovinistiche e da forme
di autarchia culturale, il vercellese sostenne l’importanza di conservare le
tradizioni della filosofia italiana. In questo senso cita la lezione III Del
metodo filosofico in cui Rosmini scrive «Il vero metodo è indigeno all’Italia:
il carattere dell’ingegno italiano consiste nella chiarezza» e ne sottolinea
l’importanza66. Altri autori spiritualisti influenzarono A.. Tra questi
esercitò un considerevole ascendente il Bertini67, almeno «quello» precedente
alla conversione razionalista. Lo studio della sua opera, l’Idea d’una
filosofia della vita, rappresentò un momento importante nello sviluppo del
pensiero di A.. Il pensiero di Bertini lo convinse ad affermare il Primo
teologico, vale a dire Dio inteso come potenza, sapienza, amore infinito, il
Primo cosmologico e cioè che il creato è l’essere che partecipa della potenza,
amore di Dio, e 63 21. 64 Come la sua filosofia è essenzialmente spiritualistica,
così il carattere, che informa la sua dottrina pedagogica, è lo spiritualismo,
non però lo spiritualismo gretto ed esclusivo, che sacrifica la materia allo
spirito, bensì lo spiritualismo largo e comprensivo, che riconosce come parte
anch’essa essenziale dell’umano composto l’organismo corporeo, ma lo vuole
subordinato all’impero dell’anima razionale» Trattando del contributo
pedagogico e scolastico dell’impostazione rosmininana osserva: «Un secondo
punto di capitalissima importanza per la scuola normale è questo: “prima regola
del metodo filosofico (scrive l’autore) è che l’osservazione precede il
ragionamento”. Questa norma riguarda propriamente il procedimento, che deve
tenere il pensiero nella costruzione della scienza» Sull’influenza del Bertini
sull’A., Virginia Quarello che pubblicò nel 1936 uno dei lavori più completi e
attenti sulla filosofia dell’A. scrisse: «L’influenza del Bertini sull’A.,
specie nel campo religioso, è stata fortissima tanto che il pensiero dell’uno
non solo si connette, ma perfettamente aderisce a quello dell’altro» V.
Quarello, G. A., studio critico, 62. 35 quindi il Primo
enciclopedico per cui «l’infinito s’intria nel finito»68. Secondo Vidari oltre
che il Rosmini, proprio al Bertini, A. dovrebbe la fondazione del suo sistema
filosofico69. Stretti rapporti ebbe anche con Augusto Conti. Nei Saggi
filosofici (1866) riportò tre scritti sull’opera del samminiatese: uno
riguardante la Storia della filosofia, una recensione di un libro scritto sul
toscano da Pietro Dotti, e un lavoro sui legami tra il pensiero di Naville e
quello di Conti, con particolare attenzione alle considerazioni espresse dal
filosofo ginevrino nel testo La vie éternelle. A. condivide una serie di
concetti del Conti, come la critica al principio moderno secondo cui la
filosofia nasca dal dubbio e non dalla sorpresa dell’essere70, l’analisi dei
criteri della filosofia e il legame con il senso comune, il concetto di errore
e di distinzione. Nel commento alla Storia della filosofia si possono
riconoscere diverse analogie tra le concezioni dei due pensatori. Del testo
citato, A. sottolinea diversi elementi positivi: l’idea che la storia della
filosofia debba essere un confronto tra le teorie filosofiche e la filosofia
perenne, l’importanza attribuita alla biografia e al contesto culturale per
cogliere la filosofia, e il criterio «cronologico» con cui il Conti conduce la
narrazione della storia della filosofia guidati da cause di relazione e
connessione. L’unico appunto mosso dall’A. al Conti riguarda la questione degli
universali71. A. fu anche un buon conoscitore del panorama culturale europeo e
dei maggiori pedagogisti e filosofi stranieri. Si tratta di un elemento non
così comune tra gli autori della seconda metà dell’Ottocento. Nonostante
diffidasse di una certa esterofilia, che contestava 68 G. Calò, Il pensiero
filosofico – pedagogico di Giuseppe A., «La Cultura filosofica», n. 5,
Sett-Ott. 1910, p. 447. 69 «Movendo dalla formula giobertiana «l’ente crea
l’esistente», che non lo soddisfaceva del tutto, e passando attraverso all’Idea
di una filosofia della vita del Bertini, che ad A. era parsa un’opera
provvidenziale per la filosofia italiana dopo i traviamenti a cui l’aveva
esposta il Gioberti, Egli si arresta al concetto cristiano – cattolico della
creazione, per cui da una parte è Dio infinito creatore libero, dall’altra gli
enti finiti e reali che trovano in quella la loro causa prima» G. Vidari,
Giuseppe A., Torino, Stamperia Reale Paravia, 1914, p. 6. 70 «Ripudiando il
criticismo come propedeutica della filosofia, egli vuole che il conoscere sia
fin dalle prime tenuto per vero, e come tale riconosciuto ed esaminato dappoi,
e non già posto in problema. La natura umana, perché ragionevole, è nella
verità, opperò il conoscere naturale è di per sè evidènte, non già problematico
nè bisognevol di prova. In questa evidenza del vero o del conoscere ci ripone
il supremo ed intrinseco criterio della filosofia, dal quale fluiscono poi e
nel quale si appuntano come criterii secondarii ed estrinseci l'affetto della
verità, il senso comune, la tradizione scientifica e la rivelazione» G. A.,
Saggi filosofici, Milano, Gareffi, Osserva il pedagogista: «Quanto è poi al
concetto filosofico del nostro Autore, sebbene mi paja più comprensivo assai e
più conforme a verità che non altri parecchi, durerei tuttavia non poca fatica
ad accoglierlo come definitivo e perfetto. E veramente (per tacere qui di altri
argomenti in contrario ) io non so fare buon viso a quella ontologia
scolastiso-wolfiana non ancora abbandonata a' di nostri, che egli pone come
parte integrale, anzi sublimissima della filosofia; giacché l'essere
astrattissimo e onninamente indeterminato, in cui si vogliono concentrati i
sommi universali di essa ontologia, ove si pigli da sè, disgiuntamente da Dio e
dalle realtà finite, convertasi in un aereo ed inconsistente fantasma, che mal
reggendosi di per sè è quindi impotente ad ammanire un saldo fondamento alla
protologia, cardine di tutto il sapere» Ibid., soprattutto ai positivisti e
agli hegeliani, accolse nel suo sistema diversi elementi di autori stranieri:
«Dello spiritualismo tedesco accetta e il sintetismo trascendentale del Krug
(l’io riflette sui “fatti della conoscenza” anzi nella coscienza, per
l’originaria armonia di pensiero e realtà, ideale e reale si sintetizzano) e in
concetto del Krause della personalità ed essenza divina (“l’essere Dio è il
principio personale del mondo”) e il suo Panenteismo, conciliante in sintesi
sia la ragione con l’esperienza, sia il processo analitico (dall’io e dal
finito a Dio) con il processo sintetico (da Dio all’io ed al finito.)»72. Nel
Krug apprezzò la capacità di conciliare il realismo con l’idealismo73. Dello
studioso riprese nei Saggi filosofici (1866)74 il principio della sintesi a
priori, nel tentativo di spiegare l’origine dell’unità tra oggetto e soggetto.
Si tratta di un concetto facilmente accostabile all’idea primaria di Rosmini. A.
raccolse così soprattutto le tesi di quanti cercarono di superare le antinomie
dell’idealismo75. Un altro autore molto importante nella biografia
intellettuale di A. fu Lotze76, il successore di Herbart all’Università di
Gottinga. Del filosofo sassone cita i Principes généraux de psychologie
physiologique77 che definisce un «lavoro magistrale»78. A. lo cita
nell’elaborazione della sua psicofisiologia, nel tentativo di sostenere con il
suo «duodinamismo coordinato» un approccio che coniugasse gli studi
sperimentali con la struttura spirituale della persona. Importante anche il
legame con Maine de Biran di cui accoglie le idee circa il legame tra la
persona umana e la persona divina, A. oltre che il principio de
«l’autocoscienza della personalità vivente»79. Spesso citato fu anche Heinrich
Pestalozzi. Il pedagogista vercellese fu quasi «devoto» all’esempio e alla
pedagogia dell’educatore svizzero. Non senza ragioni Calò lo definì un «pestalozziano».
L’unica critica che gli mosse riguardò l’utilizzo del termine «organismo», al
quale A. preferisce quello di persona. 72 V. Quarello, G. A., studio critico,
cit., A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, Milano, Agnelli, 1868, p. 42. 74
G. A., Saggi filosofici, 30. 75 «E dirò che, con il Krause e con il Jacobi,
proprio lo Stahl fu sempre presente all’A., nella sua opposizione decisa
all’idealismo post-Kantiano» V. Quarello, G. A., studio critico. 76 A riguardo,
la Quarello ha osservato: «Più forte, certamente, fu l’influsso di Lotze specie
nel campo psicologico, benché, a mio credere, si possa pure far risalire al
Lotze il concetto di Dio come suprema realtà personale, che crea il mondo degli
spiriti personali» 82. 77 H. Lotze Principes généraux de psychologie physiologique, nouvelle
edition, traduite de l'allemand par A. Penjon, Paris, Bailliere. Si tratta di una traduzione del primo
capitolo del testo H. Lotze, Medizinische Psychologie oder Physiologie der
Seele, Leipzig, Weidmann’sche bucchandlung, 1852. 78 G. A., Studi
psicofisiologici, cit. 79 V. Quarello, G. A., studio critico, 29.
37 Altri autori hanno sottolineato il ruolo del vercellese nella
ricezione dell’herbartismo in Italia80. Sempre Calò lo giudicò «più herbartiano
di quello ch’egli stesso non creda»81, un giudizio che fu in seguito
emendato82. L’opera dell’A. è anche segnata dall’opera del Naville, a cui lo
accomuna la convinzione che alla base della pedagogia ci debba essere
l’antropologia e non l’etica come per Herbart o la psicologia scientifica come
per molti positivisti. Nella voce sull’A., presente nell’Enciclopedia
Filosofica di Sansoni83 e riportata in quella Bompiani84, Pozzo accosta A.
perfino a Plotino, riprendendo la valutazione del Gentile, sostenendo che il
vercellese aveva una concezione teistica di «tipo plotiniano (l’ente uno
infinito pone fuori di sé il molteplice e a sé lo richiama) da cui deriva il
concetto di armonia dell’universo, come “coesistenza” (o “sintetismo”) di
esseri che cooperano sotto l’imperio dell’inesauribile atto di Dio». In
sintesi, ci sembra di poter ragionevolmente sostenere che nonostante i diversi
apporti e «contaminazioni» con diversi autori, il professore piemontese abbia
preferito smarcarsi da discendenze unidirezionali. Più che di Rosmini, di
Pestalozzi, di Rayneri, egli si sentiva un rappresentante dello «spiritualismo
italiano». Egli considerava questa corrente come la più genuina tradizione
nazionale85, oltre che in linea con la più autentica pedagogia e 80 In merito
alla crisi del positivismo iniziata già negli anni ’80 dell’Ottocento,
Malatesta e la Bertoni Jovine commentarono: «Il Labriola prima, il Fornelli e
l’A. poi e in ultimo il Credaro, avevano prodotto una svolta molto sensibile
negli studi introducendo nella pedagogia i princìpi più validi
dell’herbartismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola
italiana, 43. 81 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di A., Prato,
Tipografua Carlo Collini, Calò, Dottrine e Opere, Lanciano, Carabba, 1932, p.
262. 83 Enciclopedia Filosofica, Firenze, Sansoni, 1967, vol. I, pp. 192-193.
84 Enciclopedia Filosofica, Milano, Bompiani, Nel testo già citato Della
pedagogia in Italia ripercorre la storia della pedagogia italiana e chiosa: «Le
opere pedagogiche chiamate fin qui a rassegna rivelano un carattere comune, che
tutte le segna di una medesima impronta: lo spiritualismo. È questo il
carattere dominante e tradizionale di tutta la pedagogia italiana da Vittorino
da Feltre al Rayneri. Essa riconosce nel perfezionamento dell’uomo la
preccelenza del principio spirituale sull’organismo corporeo, l’immortalità
personale dello spirito umano e la dipendenza di esso da Dio risguardato come
spirito conscio di sé, distinto sostanzialmente dal mondo, causa creatrice e
finale di quanto sussiste. Essa considera la nostra temporanea esistenza
siccome tirocinio e preludio di una esistenza oltremondana, e conseguentemente
vuol preparare il fanciullo alla sua duplice destinazione, vuol educare in lui
l’uomo temporaneo che passa quaggiù soffrendo, e lo spirito immortale fatto per
una seconda vita. Essa ripudia siccome offensiva della dignità della persona
umana la dottrina che vuole il fanciullo esclusivamente allevato per la patria
e pel reggimento politico dominante, facendolo così, di essere avente ragione
di fine, un semplice mezzo agli arbitrii del Governo e della società. L’ideale
dell’uomo perfetto che la natura ha preformato nell’infante, essa lo addita
vivente in Cristo, assegnando per iscopo all’opera educativa la virtù
cristiana, non la virtù naturale, né la civile, né lo sterile misticismo. Per
lei non si da istruzione vera ed efficace senza l’educazione dell’animo; non
vera educazione morale senza religiosità; non religiosità vera senza
Cristianesimo cattolico, sicché l’educazione ha da abbracciare tutto l’uomo e
con tale universalità ed armonia, che i sensi vengano subordinati alla ragione,
il corpo allo spirito, la libertà a Dio, la vita temporanea alla oltremondana.
Mercé questo carattere dello spiritualismo la pedagogia italiana contemporanea
mantiensi fedele alle sue tradizioni secolari e si ricongiunge colla scuola
spiritualistica platonica di Firenze, perché discepolo ed amico di Giovanni di
Ravenna, il grande scuolaro del Petrarca» A. La pedagogia italiana antica e
contemporanea, 158. 38 filosofia greca86. A. era convinto che fosse
una tradizione che andasse difesa87, soprattutto dall’idealismo e dal
positivismo, considerate teorie di «importazione» aliene allo spirito
filosofico italiano. I. 2. Gnoseologia e metafisica I testi in cui A. affronta
i problemi più specificatamente metafisici e gnoseologici sono i Saggi
filosofici, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla
scuola Jonica a Giordano Bruno e Studi antropologici: l’uomo e il cosmo. Non si
può affermare che su tali questioni il contributo di A. abbia avuto una reale
originalità. Lo studioso si è limitato piuttosto alla ricerca di alcune basi
teoretiche che gli permettessero di fondare la sua pedagogia su una prospettiva
«realistica», com’è stata definita la sua filosofia88. La carenza di approfondimenti
è stata oggetto delle critiche di alcuni studiosi dell’A. come la Quarello89 e
Mazzantini90. Sebbene il contributo di A. non abbia apportato novità rilevanti
nel discorso gnoseologico e metafisico del tempo, espose comunque il suo
pensiero in modo organico e coerente. Egli considera la Metafisica come il
momento fondamentale della ricerca filosofica, caratterizzata dall’universalità
e dalla trascendenza. La definisce come «scienza del Primitivo»91 o «Scienza
de’ supremi principii del sapere e dell’essere»92. Contro gli orientamenti
antimetafisici di marca positivista e scettica, considerava l’abrogazione del
problema del senso e del «tutto» come un tradimento della filosofia. Essa
trovava la sua ragion d’essere in quel mandato della persona umana, che
strutturalmente e spontaneamente interroga l’Universo e ne pretende un
significato. In questo senso la metafisica collocava la sua origine nel
desiderio dell’uomo di «rendersi ragione di questo 86 G. A., Studi pedagogici,
Torino, Tipografia Subalpina. Accusato di nazionalismo, A. si difese: «Noi siam
lontanissimi dall'assumere il nazionalismo per sommo ed infallibil criterio del
Vero; che anzi arditamente sosteniamo, che nel principio di nazionalità qual è
universalmente ammesso v'è del troppo e del vano assai da tor via, e gli
bisogna essere ricondotto entro a più ragionevoli e modesti confini. Noi invece
propugniamo l'italiana filosofia non per ciò solo che è italiana, ma primamente
e precipuamente perché fondata sulla verità del Teismo cristiano, siccome
ripudiamo l'Idealismo di Hegel ed il Positivismo di A. Comte perché disformi
entrambi dal Vero, e non già perché l'uno di tedesca, l'altro di francese
origine» A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 14. 88 V. Suraci, A. filosofo e
pedagogista, «Educare», maggio - giugno 1952, p. 151. 89 V. Quarello, A.,
studio critico, 21. 90 C. Mazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi
della seconda metà del sec. XIX, «Archivio di Filosofia, organo del R. Istituto
di Studi Filosofici», Roma. A., Saggi filosofici, 284. 92 G. A., Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, 5. 39 gran tutto, che dicesi universo»93, un’esigenza che
non può essere soppressa, pena la negazione dell’identità umana. Sulla scorta
del rosminianesimo e di molta filosofia cristiana, A. rileva come la crisi
della metafisica fu prima inaugurata dal soggettivismo di Cartesio e poi
consacrata dal criticismo di Kant. La gnoseologia moderna era soggiogata, a suo
giudizio, da un equivoco legato alla volontà di condurre in dubbio il valore
veritativo e orientativo dei criteri dell’evidenza e del senso comune insiti
nell’uomo. Si tratterebbe di un cortocircuito conoscitivo dai corollari
disparati. Se, infatti, da un lato si svaluta la ragione riducendone il dominio
(kantismo), dall’altra si arriva a «divinizzare» l’Io (idealismo), attribuendo
alla razionalità umane quasi gli stessi attribuiti che i teologi avevano sino
ad allora riservato al Creatore. Per superare l’impasse, A. sollecitò in coro
con il resto degli spiritualisti una correzione radicale della prospettiva. La
filosofia non poteva uscire dalla palude dello scetticismo, se non «attestando»
e «accettando» dei criteri conoscitivi immanenti all’uomo. Questa soluzione era
considerata l’unica possibilità per uscire dall’equivoco gnoseologico moderno.
Le sue posizioni gli costarono la critica del Gentile, che nel saggio sulle
origini della filosofia contemporanea, inserisce l’A. tra i «mistici», cioè tra
quei filosofi che continuavano a «credere» nell’esistenza di una realtà
«esterna» all’Io pensante. Non potendo «dimostrare» l’esistenza del mondo e
spiegare il suo rapporto con lo spirito, secondo Gentile, i realisti accettano
in modo fideistico il senso comune. Per questa ragione, ossrvò che quella di A.
è «una filosofia fondata sul mistero dell’evidenza»94, una critica poi ripresa
e approfondita dalla Quarello95. Il sintetismo, cioè un’interpretazione della
relazione intima tra l’essere e il pensiero in un’ottica realista, era
considerato da Gentile come una soluzione non fondata per motivare la relazione
tra la mente e il «supporto» mondo esteriore96. Questa visione armonica
dell’essere, è anzi letta da Gentile, nella sua tipica riduzione della storia
della filosofia a preambolo di un compiuto Io spirituale, come delle tesi
idealiste «mancate». 93 G. A., Il problema metafisico studiato nella storia
della filosofia dalla scuola ionica a Bruno, 2-3. 94 G. Gentile, Le origini
della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, 366. 95 V. Quarello, A.,
sudio critico, 20. 96 «Il sintetismo dell’A., dunque, non vale più dell’ordine
del Conti. Anche per A. basta il sintetismo ad aprire tutte le porte e svelare
tutti gli enimmi. Così il gran problema gnoseologico del rapporto del pensiero
con l’essere, per A. è prima risoluto che formulato. Criticismo o scetticismo?
Separazione dell’essere dal pensiero, o identità dell’uno con l’altro? Ma il
sintetismo c’insegna che tutto è unito e distinto in natura, e ciascuna forza
opera consociata con tutte le altre! Anche il soggetto e l’oggetto vorranno
essere insieme connessi, ma non confusi: conciliati in un armonia, che non sia
per altro la negazione delle loro differenze» G. Gentile, Le origini della
filosofia contemporanea in Italia. I platonici, 366. 40 Il filosofo
siciliano riconobbe in ogni caso in A. «una certa inquietudine circa la
saldezza del suo principio filosofico»97, originata dal confronto con la logica
hegeliana, che gli avrebbe «turbato i sonni» nel corso della sua opera. Di
fronte alla tesi idealista, A. reputava l’accettazione dell’essere come l’atto
più consono alla natura razionale dell’uomo98. Si tratta di un’attestazione
«misteriosa», ma non per questo irrazionale99. Il primo dato della coscienza è
la percezione di un mondo fuori di noi, tale dato si può o accettare o
rifiutare, non si può dimostrare. Secondo A. la filosofia trova il suo
fondamento nella constatazione dell’esistenza dell’essere. Il pedagogista
sollecita perciò a tornare ad un sano realismo, a ripartire dal mondo delle
cose, dal dato semplice della sua esistenza, dal mistero del sé, per giungere
solo dopo all’Eterno. Ciò ha conseguenze gnoseologiche importanti, tra le quali
il fatto che stando all’A. il ruolo iniziale nel ragionamento risiede
nell’intuito che si muove verso la comprensione. Nel saggio Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, egli traccia una serie di stadi, o passaggi, con cui si sviluppa un
pensiero filosofico compiuto. Un primo livello della riflessione riguarda la constatazione
dell’esistenza di un senso comune e di criteri con i quali di norma si valuta e
si giudica, in un secondo momento vi è un pensiero critico che si interroga
sulla veridicità di quanto pensato, nell’ultimo passaggio il pensiero
speculativo indaga e verifica con criteri validi e veritativi. Per l’A., la
riflessione speculativa non è la negazione del senso comune, ma ad esso è
strettamente legato, poiché i criteri veritativi emergono spontaneamente nella
persona, e non sono la costruzione dell’impegno filosofico. Il compito della
metafisica è dunque proprio quello di riconoscere la «realtà della vita, pur
mentre la spiega e si solleva al di sopra di essa per dominarla dall’alto: essa
rispetta le credenze universali del genere umano, conformasi alle esigenze
della natura umana, tien conto de’ suoi bisogni, soddisfa le sue imperiose
aspirazioni, e non disconosce veruno degli elementi integrali dell’umanità». Osserva
a proposito «Nel fatto della cognizione il soggetto e l’oggetto si compenetrano
misteriosamente l’un l’altro senza però smettere ciascuno la sua la propria ed
individua natura» A., Saggi filosofici, In un brano molto significativo, quasi
replicando a tale obbiezione, A. enuclea la sua concezione del mistero: «La
ragione ha certamente il diritto di respingere l’assurdo, perché l’assurdo
ripugna, ma non ha diritto di respingere il mistero, perché il mistero è una
proposizione, di cui si conoscono i singoli termini, che la compongono e non si
comprende bene il nesso, che collega il soggetto col predicato. Quindi possiamo
affermare che in ogni mistero dogmatico vi è sempre alcunché di conosciuto
accessibile alla ragione, come in fondo di ogni verità conosciuta dalla ragione
umana vi è sempre alcunché di ignoto, di tenebroso, un’ombra del mistero» A.,
Appunti di Antropologia e Psicologia, Torino, Carlo Clausen, A., Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, 41 A. identifica nel «primo noto», evidente e concreto, la base
della sua speculazione metafisica. Si tratta di quanto il vercellese chiama
anche Io penso, da cui nasce la constatazione che l’essere esista e che possa
essere riconosciuto nella sua realtà e verità. Sulla relazione tra il pensiero
e il reale, si pone in continuità con il concetto di sintetismo esposto da
Rosmini. A. ammetteva un Universale ontologico assoluto a cui erano subordinati
i singoli universali ontologici, attraverso la legge del sintetismo e
dell’armonia101. Il suo realismo gli impedisce di ammettere sia tesi che vorrebbero
la causa del reale come qualcosa di non reale, sia quelle le forme di
spiritualismo che identificano Dio con qualsiasi essere ideale. Secondo A.
sebbene Dio sia l’origine dell’uomo e di tutte le cose non si identifica con
esse. E anche qui applica una delle regole classiche della sua filosofia, il
«Distinguere per unire», enunciato già nei primi libri, e posto alla base della
sua gnoseologia102. In questo senso, avversa sia l’identificazione del pensiero
con l’essere di origine idealista, sia il monismo materialista. La Quarello ha
considerato insufficiente la spiegazione della relazione tra l’Io e il non Io
nel pensiero del Vercellese: «Il punto debole del sistema d’A. è proprio qui,
in sede gnoseologica, nell’avere, cioè, posto a base della speculazione
puramente filosofica l’evidenza dei dati della realtà, nell’avere voluto che il
sapere filosofico non fosse che elaborazione del sapere naturale (oggettività
della conoscenza) ammettendo poi, senza spiegarla, un’intima “conciliazione”
fra ragione ed esperienza»103. E ribadisce «L’A. non ci spiega il come
dell’atto conoscitivo anche se ampiamente ha tentato di svolgere la sua tesi di
una corrispondenza tra pensiero e realtà, tra soggetto ed oggetto, tale da
essere considerata una unione stabilita da natura, secondo la legge dell’ordine
universale per la quale tutti gli esseri armonizzano in unità una molteplicità
di parti e cooperano e sono uniti fra loro, pur rimanendo distinti, sì da
formare una totalità armonica» Il principio della personalità. Suraci spiega
con le seguenti parole il «percorso» che va dal primo nota alla vera conoscenza.
A. nota che il pensiero, nel suo movimento dialettico, descrive un circolo non
vizioso, ma solido per cui dall’uno gnoseologico, l’universale oggetto
dell’intuito primitivo, si passa al molteplice della cognizione determinata,
distinta, oggetto della riflessione: dal molteplice si passa poi alla visione
comprensiva delle cose e quindi alla visione mentale dell’Uno ideale.
Dialetticamente la mente umana, secondo A., non fa che “discorrere dalla
cognizione intuitiva o virtuale dell’Uno gnoseologico alla cognizione riflessa
o attuale del suo molteplice ideale, e dalla cognizione attuale del molteplice
ideale alla cognizione attuale dell’Uno gnoseologico”. Questa formula del
movimento del pensiero somiglia molto da vicino a quella enunciata dal Rosmini
nel n. 701 della sua Logica, al quale A. si attiene, citandolo spesso nel corso
di questi “Saggi” e, potremo dire, in tutte le sue Opere» V. Suraci, A.
filosofo e pedagogista, 158. 102 G. A., Saggi filosofici, 3. 103 V. Quarello, A.,
studio critico, 21. Lesse all’Università di Torino una prolusione dal titolo,
Il ritorno al principio della personalità105. In quella occasione, ripercorse
l’itinerario delle sue opere identificando in questo concetto il punto cardine
di tutto il suo pensiero106. Questa considerazione fu poi ribadita qualche anno
dopo nella prefazione degli Opuscoli pedagogici107. Oltre a riprendere il
contenuto di questo principio e a mettere in luce la rilevanza nell’economia
del suo pensiero, diversi autori hanno considerato l’elaborazione del principio
della personalità come il più importante contributo di A. alla storia del
pensiero pedagogico e filosofico108. Calò ne ha ricordato la valenza
pedagogica, osservando come «nessuno con tanta consapevolezza e chiarezza aveva
prima di lui messo in luce quel principio e mostratane la fecondità e
illuminatane vivamente tutta quanta l’opera educativa»109. Con questo
principio, A. affronta la più profonda questione antropologica, vale a dire la
specificità dell’uomo rispetto al resto della natura. Di fronte alla domanda
«chi è l’uomo?» A. parla della persona come «una mente informante un organismo
corporeo»110. Egli individua due piani strettamente connessi: «nell’uomo la
mente ed il corpo sono due sostanze diverse, eppur fatte l’una per l’altra il
corpo è animato, l’anima è [A., Il ritorno al principio della personalità,
Prolusione letta all’Università di Torino. Torino, Tipografia degli
Artigianelli. Citò la prima prolusione letta all’Università nel 1870, in cui
già enucleò tale principio. Scrisse: «Questo nuovo concetto, che allora mi era
balenato alla mente, fece la sua prima apparizione nella mia Prolusione
universitaria del 1870, intitolata appunto Il principio della personalità, base
della scienza e della vita. “Questo principio (io scriveva allora) è quel
centro ideale, che vale a comporre le antinomie tra le dissidenti scuole
filosofiche nel mondo del sapere, ed i dissidi tra gli elementi sociali nel
mondo dell’operare, e questi due mondi della scienza e della vita insieme
composti solleva ad una unità superiore, che è il punto di contatto e di
armonia di entrambi. Enunciando in una breve e chiara formola questo concetto,
poniamo che, senza il riconoscimento speculativo e pratico della personalità,
non si dà né vera scienza, né vera vita per l’uomo.” Da quel punto questo
principio diventò il pensiero dominante della mia mente, il tema perpetuo delle
mie meditazioni, lo spirito animatore de’ miei lavori e delle mie lezioni, la
mia credenza filosofica rimasta incrollabile e costante in tanto volgere di
anni, in mezzo a tante rivolture e volteggiamenti d’ingegni e di dottrine,
l’arma della mia critica contro tutte quelle teoriche e quei sistemi che
inchiodarono la scienza e la vita sul nudo calvario dei fenomeni sensibili,
senza uno spirito che li animi e li illumini»
«Tutti i miei lavori pedagogici, a qualunque punto della umana
educazione si riferiscano, sono informati da una idea unica e suprema, il
concetto della personalità umana: da esso si vanno logicamente esplicando, in
esso si ritrovano il loro principio di armonia, in esso si compongono ad una
comprensiva e potente unità» G. A., Opuscoli pedagogici, Torino, Tipografia del
Collegio degli Artigianelli, Cannella, che peraltro afferma come il pedagogista
piemontese non sia stato «in Italia conosciuto ed apprezzato abbastanza» scrive
sul principio di personalità: «Lasciando da parte le sue critiche storiche,
acute, precise, e bene spesso pregevolissime, io credo, per esempio, che la sua
idea fondamentale pedagogica dell’educazione della personalità meriti molta
considerazione e racchiuda in sé il nucleo vero, intorno a cui si deve aggirare
una dottrina pedagogica. E così si può dire di molte sue opinioni sui problemi
pratici, dove tanta confusione regna oggi, e dove l’A. ha già disegnato
soluzioni assai giuste» G. Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di
Giuseppe A., in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Calò, Dottrine e Opere, 261-262. 110 G. A.,
La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, Torino, Tipografia Subalpina] incorporata»111.
L’uomo è definito «sintesi vivente di un’anima razionale e di un corpo
organico, insieme composti ad unità di essere; o meglio ancora è una mente
informante un organismo corporeo, prendendo qui il vocabolo mente come sinonimo
di spirito, ossia di anima razionale»112. Questo primo antropologico scaturisce
dalla sua profonda origine: «Lo spirito umano, ossia la mente sostanziale è
persona per essenza, il corpo umano con essa congiunto in unità di essere è
personale per derivazione e partecipazione, ossia è della nostra personalità
complemento estrinseco, non già principio intrinseco»113. Si tratta di una
prospettiva che ha implicazioni teologiche. Trattando di questo principio
Mazzantini ha osservato: «non è, dico, d’importanza suprema solo in quanto
rivela l’uomo a se stesso, ma in quanto altresì offre un principio supremo
interpretativo della realtà universale, compresa la stessa realtà divina»114.
Su questo versante, è stato osservato come il principio della personalità sia
imprescindibile dal teismo di A. Per il vercellese, infatti, il concetto di
persona trova la sua ragion d’essere e il suo compimento nella relazione con la
Persona infinita116. In una radicale e metafisica indagine antropologica, A.
individuava la questione nodale della scienza pedagogica: «Ora l’idea fra tutte
la più comprensiva, la più feconda, la generatrice di tutto il sapere
speculativo, è, se io ben veggo, l’idea della personalità. Il moto riformatore
della scienza debbe esordire da lei»117. Il destino della pedagogia era legato
al rispetto di questo principio, che invece considerava minacciato dalle teorie
coeve. Nel saggio già citato Sulla personalità umana, elenca una serie di
orientamenti che [A., Appunti di Antropologia e Piscologia, 3. 113 G. A.,
L’uomo e il cosmo, cMazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi Ha
scritto in merito Suraci: «Il principio “personalistico” serve all'A. per
affermare senz'altro in sede pedagogica, che, “la personalità finita dell'educatore
e quella dell'educando si reggono sulla personalità infinita di Dio, trovano in
questa la loro ragione sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la
loro ragione di essere la loro causa efficiente”. Ebbene, bisogna porsi da
questo punto di vista ontologico ed essenzialmente religioso per intendere a
pieno il valore e il vero significato della pedagogia dell'A., nella quale
convergono con ricchezza di argomenti e di ampia e, spesso, di esauriente
trattazione scientifica, tutti i temi relativi all'essenza e allo svolgimento
della natura umana e della educazione dell'uomo. La religiosità, la credenza di
Dio e nella immortalità dell'anima, rimane, per il nostro autore, il punto di
partenza e di arrivo dell'azione educativa, il cardine essenziale in cui si
radica e gira la pedagogia; è luce inoffuscabile che deve rischiare l'idea e il
fatto dell'educazione: “l'uomo si muove in Dio, principio della sua vita, fine
supremo della sua esistenza”» V. Suraci, A. filosofo e pedagogista, La
coscienza personale è il primo, fondamentale pronunciato da cui esordisce la
scienza. La persona umana sovrasta per eccellenza e nobiltà di natura su tutto
il corporeo universo; ma finito qual è sottostà alla personalità infinita
divina. Non bisogna mai perdere di vista questa dualità di essere personali,
che si richiamano e si corrispondono; poiché, tolta la prima, l’uomo rimane
oltraggiato nella sua dignità personale e diventa una cosa; tolta la seconda,
si apre il varco al più ignobile egoismo, alla libertà più sfrenata, alla più
selvaggia indipendenza. L’uomo riconosce l’esistenza di un essere personale
infinito, dacchè egli stesso è una persona finita, e con esso si congiunge con
un vincolo d’intelligenza e di amore. Questo vincolo costituisce la religione,
la quale forma l’oggetto della disciplina religiosa» A., Il ritorno al
principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino. A.,
Sulla personalità umana, Torino, Fina, reputava nocivi a tale principio118.
Divide queste teorie in due gruppi. Nel primo inserisce i sistemi che
disconoscono la persona nella vita speculativa: il panteismo, il calvinismo, il
fatalismo, il materialismo e l’ipermisticismo. Si tratta di teorie accomunate
dalla svalutazione dell’apporto dell’individualità nella storia e nella vita.
Nel secondo raggruppa gli orientamenti che menomano il ruolo della persona
nella vita pratica: il socialismo, la statolatria, il dispotismo del costume.
Si tratta di teorie che riducono la persona ad un «mezzo» per il raggiungimento
del progresso della società. Nell’ultimo sistema citato, il dispotismo del
costume, A. si schiera contro certa sociologia «per cui ciascuno vien tratto a
conformare il proprio vivere e pensare, al vivere ed al pensare altrui come a
norma suprema»119. Oltre alle teorie citate, il pedagogista vercellese
denunciava il rischio di ingigantire il ruolo di un aspetto della persona a
discapito della sua totalità. Il professore vercellese riconosce questa
tendenza in due grandi sistemi che allora si contendevano il campo della filosofia:
il positivismo e l’idealismo. Secondo A. la mente non è quella degli idealisti,
staccata dal corpo e superiore ad esso, ma non è neanche quello dei positivisti
e di certi psicologi sperimentali che riducevano il pensiero ad un’espressione
materiale. Anche se non si confonde con essa, la vita della mente e dello
spirito è intimante connessa con quella carnale120. La loro relazione non deve
condurre all’assimilazione di una delle due nature che compongono l’uomo 121.
Entrambi i livelli sono distinti in una stretta «collaborazione»: «l’essere
umano possedendo un corpo organato alla vita materiale non può essere spiegato
tutto quanto senza la materia, ma neanco può essere spiegato colla sola
materia, dacchè il suo organismo è informato di una sostanza spirituale»122.
Sebbene il rapporto tra materia e spirito nell’uomo rimanga un «mistero»123,
non è ammissibile assimilare su questo presupposto la persona al resto della
natura determinata. Nella vita dell’uomo, infatti, emergono proprietà
irriducibili alle dinamiche delle entità. L’uomo è siffattamente costituito,
che non vi ha parte del suo essere, la quale non viva congiunta coll’universo
corporeo esteriore. Sentire, pensare, volere, sono i tre supremi attributi
costitutivi dell’umano soggetto; e tutti e tre si svolgono in intima ed operosa
corrispondenza colla natura, fuor della quale rimarrebbero atrofizzati» A.,
L’uomo e la natura, Torino, Carlo Clausen, La natura e lo spirito sono uniti
«ma sarebbe gravissimo errore il credere, che siffatta unione si converta in
una identità, negando così ogni sostanziale distinzione fra l’uno e l’altra, e
confondendoli in una comune essenza. La distinzione esiste e non distrugge
l’unione. Poiché nel mondo esteriore le sostanze sono corporee, e quindi i
fenomeni e le forze sono fisici; nel mondo interiore la sostanza è l’anima, i
fenomeni sono psichici, le forze sono facoltà o potenze. Ma il punto più
spiccato, che distingue questi due mondi, malgrado la loro cospicua armonia,
sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’suoi fenomeni, il dominio delle sue
potenze; e questa coscienza di sé, questo dominio di sé manca alla natura» A.,
La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, A., Studi psicofisiologici] fisiche. Come osserva
A.: «il punto più spiccato che distingue questi due mondi malgrado la loro
cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’ suoi fenomeni, il
dominio delle sue potenze»124. Negando la natura spirituale dell’uomo, la
realtà effettiva della persona sfugge alla comprensione: «È un dogma del senso
comune ed un pronunciato della sapienza filosofica tradizionale, che l’uomo non
è tutto quanto materia organata, come non è neppure uno spirito puro, bensì una
sintesi stupenda, un’armonia vivente di questi due distinti principii insieme
composti ad unità di persona: ponete che tutto il suo essere si risolva in un
composto di molecole organate a vita materiale, e voi non capirete più nulla
dei solenni problemi, che agitano la coscienza dell’umanità, più nulla delle
sublimi aspirazioni, che fervono indomabili nei penetrati dello spirito
umano»125. Per il vercellese, è lo spirito che dà dignità all’uomo,
sollevandolo dal resto della natura. La persona esprime il grado sommo
dell’essere e lega l’individuo all’eterno. La coscienza dell’esistere colloca
la persona in una dimensione irraggiungibile per qualsiasi altro essere della
natura. L’esigenza di sottolineare il primato spirituale lo portò il docente
piemontese a criticare in una serie di lavori la definizione aristotelica
dell’uomo come animale politico126, che reputava ambigua. Data la confusione antropologica
coeva, A. non reputava conveniente indicare primariamente nell’uomo la natura
animale. Si rischiava di avallare le tesi dei materialisti positivisti e di un
certo evoluzionismo, che volevano ridotto l’uomo ad un «bruto», per usare le
parole di A.128. Il pedagogista avvertiva il rischio di ridurre lo studio della
persona, al solo aspetto materiale: «Per conseguente l’antropologia, anziché
scienza distinta e superiore, apparirà niente più che una parte della zoologia,
parte la più sublime, se vuolsi, ma pur sempre una parte» A., L’uomo e il cosmo.
Osserva: «La tristissima definizione, l’uomo è animal ragionevole, non solo
capovolge l’ordine naturale, che regna tra questi due elementi, ma soppianta
ben anco la stessa personalità umana, la quale ha la sua propria sede e radice
nella mente imperante sull’organismo corporeo e fornita di una perenne
sussistenza, mentre essa pone l’animalità siccome soggetto, di cui la
ragionevolezza apparisce un mero e semplice predicato, tantochè venendo meno la
prima, cessa issofatto la seconda, né questa può spiegare altra virtù, che non
sia compresa nella cerchia di quella»127. In seguito ribadisce che accoppiare
«all’animalità la ragionevolezza come ad un soggetto un attributo suo è un
disconoscere il primato dello spirito sulla materia e della mente
sull’organismo corporeo nell’uomo, ed un aggiudicarlo alla materia sullo
spirito, al corporeo organismo sul principio pensante» A/, Della vecchia e della nuova antropologia
di fronte alla società, Genova, Tipografia del R. Istituto dei sordo – muti,
1874, p. 7. 128 «Mentre il bruto opera per impulso irresistibile di cieco
istinto, l’uomo opera consapevole di sé e del fine a cui mira, ed è arbitro
delle sue azioni. Questa potenza, per cui l’umano soggetto si determina da sé
ad operare per un fine conosciuto, è la volontà» A., La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, 46. 129 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di
fronte alla società, Per riscoprire l’autentica alterità umana, era invece
compito dell’antropologia evidenziare nello sviluppo della persona quegli
aspetti irriducibili al divenire determinato. A. richiama all’osservazione
dell’uomo, delle sue facoltà, e della sua azione. Egli afferma che in ogni uomo
inizia, prima o dopo, la «vita spirituale» che consiste nella coscienza del sé
e del mondo: «Io sono: con questo pronunciamento un essere personale si desta
alla vita, annunzia la propria esistenza, afferma se stesso, rivela sé a se
medesimo, e specificamente si differenzia dagli esseri impersonali che
esistono, pur non sapendo di esistere. Questa coscienza di sé può essere più o
meno viva, più o meno ampia e potente, ma è pur sempre necessaria all’io,
poiché una incoscienza assoluta ripugna alla natura di un essere intelligente,
qual è la persona»130. Nella visione di A., l’affiorare dell’Io, diviene così
la prova della natura spirituale della persona: «Il vocabolo io chiude esso
solo in sé la più decisiva confutazione del materialismo, essendochè il
ripiegarsi che fa l’io sopra di sé ed il riconoscersi siccome sostanzialmente
identico nella dualità del soggetto riflettente e dell’oggetto riflettuto è
dote propria dello spirito ed affatto ripugnante all’essenza medesima della
materia, che è di sua natura impenetrabile, cioè tale da non poter compenetrare
interiormente sé stessa e tutta riconcentratasi siccome in semplicissimo punto:
chè in tal caso cesserebbe di essere materia»131. L’emergere della
individualità personale all’interno del mondo, indica anche lo sviluppo della
coscienza alla scoperta della propria esistenza132. L’Io emerge primariamente
in due connotati propri, vale a dire l’intelligenza e l’attività volontaria133.
In questo senso definisce la persona come «sostanza dotata di intelligenza,
mercé cui ha coscienza di sé affermandosi quale unità vivente di vita sua
propria distinta dalla realtà esteriore e pur con questa unità, e di attività
volontaria, per cui possiede sé stessa e dispiega liberamente la virtualità sua
in ordine al fine universale segnato dalla personalità infinita di Dio»134.
Questi due attributi sono l’espressione della coscienza, in A., Il ritorno al
principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino A.,
Sulla personalità umana, 17. 132 «La coscienza personale è l’io, che rivela sé
a se medesimo. Ora quali sono le rivelazioni della coscienza interiore? L’io
sente di essere uno od identico con se medesimo, di possedere un’esistenza
effettiva e reale, si riconosce e si afferma una sostanza sussistente, attiva,
semovente, operosa, che svolge la sua intima virtù in una molteplicità di
pensieri, di affetti, di voleri, ed in sé li raccoglie ad unità» A., Il ritorno
al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino i«Lo
studio della personalità umana è lo studio dela mente contemplata primariamente
in sé medesima, poi nelle attinenze su coll’organismo corporeo. La mente, sede
della personalità, emerge da due supremi costitutivi, che sono l’intelligenza
conoscitiva e l’attività volontaria» G. A., Sulla personalità umana, 16.
134 55. 47 cui l’uomo trova la sua indipendenza, alterità e potenza
rispetto al resto della natura135. Con altre parole, A. osserva: «Dovunque c’è
la persona, cioè un soggetto dotato di intelligenza ed attività volontaria, là
vi è lo spirito. La persona è una energia, un’attività, una forza, non cieca,
ma intelligente e conscia di sé, non fatale e necessitata, ma libera e signora
di sé, lo domina e lo trasforma informandolo giusta il suo ideale: ma la
materia non conosce né se stessa, né lo spirito, non domina sé medesima, ma è
irrepugnabilmente dominata dalle forze, che la investono»136. Nell’uomo,
infatti, la volontà è radicata nell’intelligenza137. Solo una prospettiva
simile, per A., è capace di comprendere la vita della persona, e salvare la sua
unità138. Commentando una parte del celebre libro di Smiles, Self – help,
tradotto in Italia con il titolo Chi si aiuta Dio l’aiuta, A. scrive che
ognuno: «sente di essere un’attività consapevole di sé ed arbitra del proprio
operare, una forza morale, che si muove all’atto non per esteriore
costringimento, ma per intrinseco impulso intelligente e libero. “Se ciò non
fosse (scrive lo Smiles nel capitolo VIII della sua opera Chi si aiuta Dio
l’aiuta), dove sarebbe la responsabilità? A che gioverebbe lo insegnare,
l’ammonire, il consigliare, il correggere? A che servirebbero le leggi, ove non
fosse la credenza universale, come è un fatto universale, che gli uomini
obbediscono o no ad esse, secondo che deliberarono individualmente?”»139. 135
«La persona è un tutto individuo e sostanziale, che afferma sé come distinto
dalla realtà universa; un soggetto, che possiede sé stesso mercè il pensiero e
la volontà; una monade, che è conscia sui et compos sui, è presente a sé ed è
tutta in ciascuna delle molteplici sue forme, determinazioni, momenti e stati,
sicché il secreto de’ grandi caratteri dimora nel conservare la propria
individualità personale in mezzo alle forze contrarie padroneggiandole; una
sostanza dispiegantesi per intrinseca sua virtù da un centro o principio
supremo di vita suo proprio e che nello esplicamento del suo contenuto
compenetra tutta sé stessa in una viva ed attuosa unità di intendere e di
volere» A., Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo,
Torino, Carlo Clausen, 1903, p. 15. 137 Secondo A. l’attività volontaria è «la
fonte secreta, inesauribile, da cui prorompe tutta la corrente della vita
umana, ed a cui rifluisce con perpetuo circolar movimento. Il voglio
pronunciato dall’io attesta l’atto di una coscienza personale ed annuncia il
lavoro. S’intende da sé che questa forza, quest’attività interiore dell’io non
è una volontà cieca, inconsapevole di sé, bensì illuminata dall’intelligenza,
essendochè chi dice coscienza, dice conoscenza, e propriamente conoscenza di
sé» A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 8. 138 «La coscienza è la
rivelazione dell’anima a sè stessa nella sua natura e ne’ suoi fenomeni, nella
sua sostanza e ne’ suoi modi, nella sua essenza e nella sua attività, nel suo
essere e nelle sue manifestazioni. Così il concetto della personalità umana,
vale a dire di un soggetto sostanziale fornito di intelligenza e di libera
volontà, è il solo, che concilii la molteplicità dei fenomeni coll’unità del
loro comune soggetto, sicché questi due termini nello sviluppo della vita umana
si mantengano indisgiungibili, e si rischiarano l’un l’altro» G. A., Studi
psicofisiologici, 74. 139 G. A., La scuola educativa, principi di antropologia
e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 47.
48 L’esistenza nella persona di una unità tra mente e corpo, rappresenta
una premessa incontrovertibile su cui dipanare il discorso antropologico e
pedagogico140. Negare questa dualità nell’uomo, significherebbe disconoscere un
dato di realtà. Stando al pedagogista, la stessa idea di scienza appare
contenere implicitamente l’affermazione dell’esistenza della coscienza141. A.
dedicò ampio spazio al rapporto tra la dimensione spirituale e quella
corporale. Com’è già stato osservato, l’uomo è sintesi tra persona e corpo, due
nature che si mantengono in una relazione di armonia nell’uomo. In questo senso
egli definisce l’uomo come «persona organata»142 o «persona incorporata».
Questa relazione, pone il problema di come i due livelli siano coordinati tra
loro. Come premessa a questo problema, A. scrive che «nell’uomo non vi sono due
esseri, ma uno solo; quindi in lui le potenze mentali dell’anima e le funzioni
animali del corpo si svolgono complicate insieme, sicché non si può tracciare
una linea di separazione tra i fenomeni psichici ed i fisiologici»143. Contro i
positivismi chiarisce in più di un’occasione che la vita della mente va
distinta da quella materiale. Osserva: «L’anima non trae la sua origine dagli
organi del corpo, ma (dicevano i pitagorici) vien dal di fuori nel corpo è
un’emanazione dell’etere, simbolo dell’anima universale, ossia di Dio animatore
supremo»144. Nel testo Studi psicofisiologici, si occupa in specie della
relazione tra la natura spirituale e quella fisiologica, citando diverse opere
di studiosi tra cui Marat, Lèlut, Lotze, Cerisem, Cabanis, Broussais ed Herzen.
Polemico contro il monismo scientista, propone una teoria chiamata
duodinamismo, che spiega in questo modo: «Mentre il monodinamismo concentra la
vita umana tutta quanta in una sostanza, cioè o nel solo spirito o nella sola
materia componente l’organismo corporeo, il duodinamismo riconosce nell’uomo
due centri di vita sostanzialmente distinti, cioè l’anima razionale e la forza
vitale, e da quella fa rampollare i fenomeni mentali, da questa i fenomeni
fisiologici ed animali»145. La teoria si 140 Per A. l’uomo è «La persona,
sostanza individua, sussistente in sé, volontariamente attiva; l’unità è
l’identità dell’io nella molteplicità e varietà dei suoi modi e dei suoi
fenomeni; la vita intima ed individuale intrecciata colla vita esterna e
comune; la vita mentale svolgentesi insieme colla vita organica. Ecco le
rivelazioni della coscienza personale, rivelazioni, che costituiscono le prime,
spontanee intuizioni dello spirito umano, salde, inconcusse, irrepugnabili. Ora
da ciascuna di queste rivelazioni la ragione vede spuntare una serie ordinata
di problemi, che ammaniscano la materia, su cui la scienza ordisce le sue trame
e compie il suo lavoro speculativo» A., Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 10.
141 «Così coscienza e scienza sono i due poli, fra cui si muove il mondo della
speculazione: la coscienza ci rivela la personalità dell’essere, ed alla luce
di questo principio la ragione costruisce la scienza» 10. 142 G. A., Della
vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, 14. 143 G. A., Studi
psicofisiologici, 26. 144 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, Cuneo,
Tipografia Subalpina di Pietro Oggero e C., A., Studi psicofisiologici,
69. 49 rifà ad autori come Barthez, Montpellier, Lordat. Essa
«concilia insieme la molteplicità della natura umana coll’unità dell’Io
individuale. Infatti l’anima razionale non essendo uno spirito puro, ma
congiunto colla materia, è essa che informa ed avvia il corpo, è il suo
principio ed animatore: così il principio corporeo produce i fenomeni della
vita fisica ed animale, ma in grazia della forza vitale ricevuta dall’anima, la
quale in tal modo produce direttamente e per se stessa i fenomeni della vita
mentale, ed indirettamente, ossia per mezzo del corpo i fenomeni della vita
corporea»146. Al naturalismo e al positivismo contestò, come già accennato, la
riduzione dell’antropologia a un «capitolo della fisiologia, ad un ramo della
zoologia»147. A. chiarisce è che non è contrario alla fisiologia, ma al
«fisiologismo». Negli Studi pedagogici cita il caso dei fisiologi come Salvatore
Tommasi, che sostengono come la disciplina non porti necessariamente al
materialismo148. Inoltre osserva come anche alcuni positivisti abbiano ammesso
una serie di difficoltà nello spiegare la vita mentale con la sola fisiologia.
Per suffragare la sua tesi rinvia al saggio Herzen, Il cervello e l’attività
celebrale, nel quale lo studioso riconosce quanto sia ancora lontana la
possibilità di chiarire aspetti fondamentali del funzionamento della mente
umana. A. trae queste conclusioni: «Così i più grandi rappresentanti del
positivismo contemporaneo riconoscono l’ignoto, che giace in fondo al problema
dell’unione tra la vita fisica e la vita mentale dell’uomo. Certamente la
fisiologia moderna co’suoi luminosi ed incontestabili progressi ha sparso molta
luce su questo problema, ma non ha svelato il mistero che lo avvolge»149. A. si
poneva come obiettivo di salvare insieme le esigenze spirituali e i dati
fisiologici. Osserva: «Il principio antropologico da me propugnato è antico
quanto l’uomo, il quale intuisce per natura la personalità del suo essere, ma è
pur fecondo di novità e di progressivo sviluppamento, perché ammette insieme
armonizzati i due supremi fattori della scienza, voglio dire l’esperienza, che
apprende la fenomenalità delle cose, e la ragione, che coglie il loro essere
sostanziale»150. Nel principio della personalità si palesa lo spiritualismo di
A., che viene spiegato così dalla Quarello: «Realismo spiritualistico e
spiritualismo teistico: tale è la filosofia d’A.. È realismo in quanto il
pensiero è l’ “attività” di un essere reale (io = persona); è spiritualismo in
quanto la persona è essere uno, sostanziale cosciente di sé (“lo 146 72 147 G. A.,
L’uomo e la natura, A., Studi pedagogici, A., Studi psicofisiologici, A., Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, 14. 50 spiritualismo, egli scrive,
proclama la personalità umana”); è teismo in quanto Dio è pensato come persona
(“il teismo proclama la personalità infinita di Dio”)»151. Lo spiritualismo
dell’A. trae alimento dal principio della personalità. Se da una parte,
infatti, si afferma una dimensione irriducibile alle dinamiche nell’uomo, e
dall’altra l’attestazione di questa «natura» dell’uomo conferma il suo
spiritualismo. «Preso nel suo ampio senso – osserva il pedagogista vercellese -
lo spiritualismo risiede nell’ammettere l’esistenza di sostanze immateriali,
che cioè non cadono sotto i sensi e non hanno le proprietà della materia, quali
sono la figura, la grandezza, l’estensione, la divisibilità, il movimento
locale, bensì sono fornite di intelligenza e di libera volontà»152. In questa
duplice difesa dello spirito e della realtà materiale, sembra di poter
affiancare A. al personalismo nato in Francia diversi decenni dopo, a cui lo
accomunò la volontà di «evitare che la persona umana fosse schiacciata dal
materialismo positivistico o assorbita nel vortice del monismo idealistico»153.
I. 4. Antropologia e pedagogia Secondo A., la pedagogia deve fare i conti con
la realtà educativa e le sue dinamiche154. La riflessione teorica e la vita
formativa rappresentano due poli indispensabili l’uno all’altro155. A.
prospetta, in questo senso, un metodo di ricerca pedagogico sia empirico che
razionale. Egli lo definisce «dialettico» in quanto «contempera insieme
l’esperienza e la ragione, i fatti e i principi»156. La storia della pedagogia
documenta come qualsiasi riflessione sistematica sull’educazione, abbia sempre
fondato le sue posizioni su una concezione dell’uomo e del suo ideale. Anche
per A., l’antropologia come «scienza dell’essere umano»157 si 151 V. Quarello,
A., Studio critico, A., Appunti di Antropologia e Psicologia, 8. 153 Pedagogie
personalistiche e/o della Pedagogie della persona, Brescia, La Scuola, 1994, p.
15. 154 «Siccome l’educazione è ad un tempo un’idea ed un fatto, così la
Pedagogia, che ne rampolla, assume il duplice carattere di scienza e di arte.
Essa è scienza perché l’esplicazione razionale di quell’idea; è arte, perché ideale
tipico di quel fatto. Come scienza è un sistema di cognizioni, una teoria
speculativa intorno l’educazione umana, epperò potrebbe appellarsi pedagogia
pratica» A., Studi pedagogici, cit., 1889, p. 25. 155 «Così la scienza
pedagogica è la teoria dell’educazione, l’arte pedagogica è la pratica
dell’educazione; scienza ed arte, teoria e pratica bisognevoli l’una
dell’altra. Poiché la mera pratica dell’educazione, non illuminata dalla
scienza pedagogica, non è vera arte, bensì cieco empirismo; la scienza
pedagogica alla sua volta, non tradotta in pratica, né fecondata dal magistero
dell’arte, rimane una vana e sterile teoria» A., Concetto generale della storia
della pedagogia, Pavia, Bizzoni, A., Studi pedagogici, A., L’uomo e il cosmo,
1. 51 prospetta come uno studio di fondamentale importanza tanto
per la teoria quanto per la pratica educativa158. A.colloca l’antropologia al
centro dell’organigramma di tutte le scienze. Egli individua il suo obiettivo
nella conoscenza dell’essenza unitaria della persona. A. non pensa
all’antropologia come ad una etnografia, ma come «scienza generale sull’uomo»
connotata da un orizzonte metafisico. Dallo studio generale sull’uomo,
discendono due gruppi di discipline, quelle che lo studiano nella sua accezione
individuale, e quante ne approfondiscono l’aspetto sociale160. Le scienze che
studiano l’uomo sotto l’aspetto individuale si dividono a loro volta in altri
due gruppi. Del primo fanno parte tutte le discipline che si occupano della
mente: logica, estetica, etica, eudemonologia, filologia, pedagogia. Al secondo
gruppo afferiscono le scienze che riguardano l’organismo corporeo: fisiologia,
anatomia umana, patologia, terapeutica, igiene, ginnastica. Le scienze che
riguardano l’uomo sociale sono secondo A. la politica, la giuridica, l’economia
pubblica colle scienze industriali e commerciali, la storia, l’etnografia, la
filosofia della storia. Tutte queste discipline sono legate all’antropologia,
che permea e fonda qualsiasi aspetto dello scibile umano. Secondo A., la prospettiva
sulla natura e il senso della persona, permea le possibili soluzioni avanzate
riguardo la vita della società, le sue leggi, le sue prospettive, il suo
sviluppo. Osserva: «Ogni problema sociale, vuoi politico, vuoi artistico, vuoi
religioso, cova in sé un problema antropologico»161. Questa relazione è ancora
più evidente per quanto concerne la scienza pedagogica, con la quale
l’antropologia ha un «vincolo indissolubile»162. Lo studioso piemontese,
infatti, pur riconoscendo un proprium alla pedagogia nell’affrontare dei
problemi fondativi e generali sull’educazione, considerava necessario il
contributo delle altre scienze, indispensabili per completare e integrare la
ricerca pedagogica163. Tra queste primeggia l’antropologia filosofica poiché
necessaria per chiarire 158 «L’educazione dell’uomo presuppone la conoscenza
dell’uomo stesso, epperò la pedagogia o scienza dell’educare e la didattica o
scienza dell’istruire, hanno il loro fondamento nell’antropologia, o scienza
che studia l’essere umano» A., La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 3. 159 A. sostiene
che l’antropologia studia «l’uomo nella sua intima e generalissima essenza,
ossia nell’integrità e pienezza complessiva del suo essere» A., Studi
psicofisiologici, Cfr. A., Appunti di Antropologia e Psicologia, A., Della
vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, 4. 162 G. A., Studi
pedagogici, 39. 163 Nel seguente brano elenca le discipline ausiliarie alla
pedagogia, che sono: «1° L’antropologia generale, che studia l’uomo nella
dualità di anima e di corpo e nella unità della sua persona; 2° la psicologia,
che studia l’anima umana nelle proprietà della sua natura e nella varietà delle
sue potenze; 3° la logica riguardata siccome la teorica della verità e della
scienza; 4° l’etica, che studia il Buono, norma ed oggetto della libertà morale
umana; 5° la cosmologia, che è una spiegazione scientifica del mondo; 6° la
metafisica, 52 la natura e il fine dell’educando, e quindi
dell’educazione. Nonostante i diversi ambiti di ricerca «tra l’antropologia e
la pedagogia intercedono le due fondamentali attinenze della distinzione e
dell’unione»164. Se il principio della personalità è il fulcro dell’opera d’A.,
l’antropologia è il centro della pedagogia. Non a caso, quando il professore
vercellese sostituì Rayneri sulla cattedra di pedagogia all’Università di
Torino, cambiò il nome dell’insegnamento da «Metodica» in «Antropologia e
Pedagogia». Il carattere di ciascun sistema pedagogico dipende dalla
prospettiva antropologica: «le diverse e contrarie teorie pedagogiche
professate dai cultori di questa disciplina traggono appunto la loro ragione e
origine dai diversi e contrari concetti antropologici, da cui essi hanno preso
le mosse, e su cui hanno costrutto il sistema»165. Per capire e pensare
l’educazione occorre una chiara idea su cosa sia l’uomo, se ci sia e quale
debba essere il suo compito nel mondo: «Ogni dottrina pedagogica ritrae dai
principi antropologici su cui si regge, la virtù peculiare, che la informa, e
lo stampo singolare, che la individua»166. Non si possono slegare questi due
aspetti nella riflessione: «L’uomo e la sua educazione sono due termini insieme
compenetrati, come un principio e la conseguenza sua, e che li disgiunge, è
mente piccina che né l’uno, né l’altra intende. L’uomo spiega se stesso
nell’educazione e l’educazione riflette se stessa nell’uomo; e sempre il
concetto antropologico ed il concetto pedagogico serbano l’uno coll’altro
rispondenza esatta o veri o fallaci che siano entrambi»167. La correlazione è
necessaria. In un altro brano chiarisce gli scopi delle due discipline: «La
distinzione delle singole scienze origina dalla distinzione dei loro oggetti:
l’una non è l’altra, perché versa sopra un oggetto suo proprio, che non è
quello dell’altra. Per conseguente la scienza antropologica dalla pedagogica si
differenzia essendochè quella ha per oggetto suo l’essere umano, questa
l’educazione umana, l’una studia l’uomo nell’integrità e compitezza dell’esser
suo, l’altra sotto il peculiare riguardo della sua educabilità; la prima si
propone di rispondere alla domanda: Che cosa è l’uomo; la seconda ha per
ufficio di soddisfare all’inchiesta: Che l’educazione e come l’uomo va educato.
Ecco il rapporto di distinzione, ma da questo stesso già si rileva il vincolo
unitivo, che stringe l’una all’altra le due discipline, essendochè l’uomo e la
educazione sua sono due termini inseparabili. La pedagogia ha coll’antropologia
un vincolo così intimo e necessario, che trova in questa il fondamento e che
studia l’Essere primitivo in sé e ne’ suoi rapporti col mondo e coll’uomo» A.,
Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, Torino,Tipografia Subalpina di
Stefano Marino, A., Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, «Rivista
Pedagogica Italiana», Asti; A., Delle idee pedagogiche presso i greci, A.,
Opuscoli pedagogici, cit., 1909, p. 10. 53 la ragion sua ed in ogni
punto del suo processo si regge sui principii supremi della scienza
antropologica»168. Per fare pedagogia occorre dunque possedere una «conoscenza
scientifica dell’origine, della natura, del fine dell’uomo»169. Bisogna tenere
conto del fatto che nella temperie culturale in cui A. sosteneva queste
posizioni, porre l’antropologia filosofica a fondamento della pedagogia, non
era un’ovvietà, soprattutto quando essa era collocata entro un contesto
metafisico. Porre il baricentro del discorso pedagogico sulla questione
antropologica, era considerato da A. come la risposta emergente ad una
problematica educativa reale. Si trattava di un problema radicale che faceva da
discriminante tra le varie teorie. Le risposte alla questione circa la natura
dell’uomo, non erano infatti da considerare secondarie per la qualità della
relazione pedagogica: «Educare è sviluppare le virtù insite dell’uomo
fanciullo. Ma che cosa e quale è mai l’uomo che si vuol educare? Forse l’uomo
di Molescott, un mero giuoco di elementi chimici colla predominanza del fosforo
pensiero, e niente più? O l’uomo-scimmia de’ moderni naturalisti? O l’uomo de’
panteisti tedeschi fatto una cosa sola con Dio? O l’uomo de’ razionalisti trasformato
in libero pensiero? O l’uomo de’ mistici che lo spiritualeggiano per intero,
mentre i materialisti lo abbruttiscono?»170. Per A., si trattava di domande
impellenti. La pedagogia esigeva nuova chiarezza sull’idea di persona: «Oggi
più che mai essa reclama un supremo principio vitale, che risponda al suo
altissimo compito, ricomponga ad unità di organismo potente la sua squilibrata
compagine e le additi l’ideale suo, verso cui cammina franca e sicura»171.
Secondo il pedagogista, la domanda circa la natura dell’uomo non poteva essere
affrontata con gli strumenti epistemologici delle scienze esatte, incapaci di
cogliere l’essenza della persona. Tale compito spetta alla filosofia, che
diviene la prima interlocutrice della pedagogia. In più di una occasione chiarì
che la sua era una «pedagogia filosofica»172 poiché si «fonda sopra un
principio essenzialmente vero ed inconcusso, quale è quello della natura umana
riposta nella personalità dell’io, e nel suo procedimento adopera non la sola
esperienza disgiunta dalla ragione, né la sola ragione astratta, che disdegna
la realtà dei fatti, bensì entrambe queste due potenze conoscitive, e l’una in
armonia coll’altra» A., Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, A., La
pedagogia italiana antica e contemporanea, A., Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino, A., La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Torino, Carlo Clausen. Stando a Calò, uno
dei punti centrali nell’opera dell’A. è questo: «Non trascurare le esigenze
dell’esperienza né quelle della ragione; ecco, secondo l’A., il primo canone
del metodo filosofico»174. Ciò è confermato anche dall’esigenza di rompere le
catene del misurabile, e allargare la pedagogia alla profondità e al mistero
della persona. Solo «La pedagogia filosofica riconosce nell’alunno un’anima
razionale non già separata dal corpo, ma con esso vitalmente congiunta in unità
di persona, sebbene da esso distinta, un’anima, che sviluppa di continuo le sue
energie in una successione di fenomeni, che formano la sua vita, epperò vuole
un’educazione, che si estenda a tutto quanto l’uomo nella dualità delle sue
sostanze e nell’unità della sua persona, alla vita temporanea e alla
futura»175. La natura delle domande che l’esigenza dell’educazione ci pone, non
si possono risolvere con il metodo scientifico176. A. non portò sostanziali
novità nella riflessione epistemologica, ma difese la prospettiva pedagogica
spiritualista, confutando i detrattori della metafisica in campo antropologico.
Secondo Serafini, nonostante «il modello disciplinare intorno al quale egli
lavora è ancora, in larga misura quello di una pedagogia come scienza pratica
(quantunque punti particolarmente sulla figura d’una disciplina complessa) che
si differenzia dal modello elaborato in ambito positivistico particolarmente
per gli effetti che su questo ha il suo personalismo»177. Un altro carattere
distintivo della pedagogia d’A. è l’idea della specificità nazionale della
pedagogia. Occorre secondo il pedagogista pensare in continuità con la storia
del proprio popolo e con le proprie attitudini. Su questo tema trovò una
consonanza con il saggio di Antonino Parato dal titolo «La scuola pedagogica
nazionale», non senza motivo diverse volte citato d’A.. I. 5. L’educazione 174
G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico d’A., 8. 175 G. A., La nuova
scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Spiega A. «La pedagogia è la
scienza dell’educazione umana; e siccome l’uomo non può essere convenientemente
educato se prima non è conosciuto secondo verità, quindi è che la pedagogia
dipende ed attinge da tutte quelle scienze, che hanno per oggetto la conoscenza
ragionata dell’uomo riguardato in sé ed in rapporto colla realtà universale.
Ciò posto, che cosa è l’uomo, donde esso viene e dove va? Come si congiungono
in lui ad unità di vita il corpo e la mente? I suoi destini si compiono quaggiù
o in una vita ultramondana? Esiste la verità e la scienza, a cui aspira la sua
intelligenza? Esiste una legge morale, norma della sua libera volontà? Che cos’è
questo mondo esteriore, che lo circonda, ed in cui è posto a vivere? Qual
concetto dobbiamo formarci di quell’essere assoluto ed infinito, che è
l’oggetto della moralità e religiosità umana, origine prima e fine ultimo di
lui?» G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 245-246. 177
G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana dell’Ottocento, cIn più
di un’opera, il pedagogista vercellese denunciò una grave crisi educativa, che
egli imputava alla confusione imperante circa i caratteri di una formazione
adeguata178. Sulla base del principio della personalità, egli considerava
l’efficacia educativa legata alla previa soluzione data al senso della
perfettibilità dell’uomo179. Mancando, come già si è accennato, una concezione
adeguata sulla natura dalla persona, anche la pratica educativa ne veniva fuori
menomata. Tra i fondamenti pedagogici di A. si colloca questa massima: «Sul
sentimento e sul rispetto della dignità della persona si fonda l’arte
dell’educare»180. Al pari di un ampio stuolo di pedagogisti ed educatori, il
docente vercellese era convinto che non si dà autentico sviluppo della persona
senza un intervento formativo181. La natura esteriore, infatti, «non è per se
stessa educativa nel senso rigoroso della parola, bensì tale diventa
allorquando il fanciullo in sé accogliendola l’accompagna e la feconda colla
coscienza del suo sviluppo»182. Per tratteggiare i caratteri precipui
dell’educazione, A. si rifà alla lezione di Rayneri, che nella Pedagogica
enumerò cinque attributi imprescindibili: Unità rispetto al fine, Universalità
rispetto a tutte le facoltà umane che devono essere medesimamente sviluppate,
Armonia tra le potenze umane, Gradazione, Convenienza, cioè – oggi diremmo –
personalizzazione dell’intervento educativo183. Mentre il suo maestro
considerava la «convenienza» come la più importante di queste leggi, A.
sostiene il primato dell’armonia184, quale condizione necessaria per
un’educazione efficace185. 178 G. A., Studi pedagogici, 21-22. 179 «L’opera
educativa si modella sul concetto dell’uomo: quale noi lo conosciamo, tale lo
educhiamo, e per conseguente ogni dottrina pedagogica si informa e si esempla
sopra una dottrina antropologica.(...) L’educazione muove dalla natura
originaria dell’uomo, come da suo fondamento, lo segue nel corso progressivo
della sua vita governando lo sviluppo delle sue potenze, mira ad un ideale di
perfezione, a cui intende sollevarlo» G. A., G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista, Tipografia Subalpina, Torino, 1910, pp. 81-82. 180 G. A., La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, G. A.,
Studi pedagogici, 67-68. 182 G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 68.
183 G. A., Studi pedagogici, 106. 184 109-112; 185 L’educazione deve essere
armonica rispetto a tutte le facoltà della persona «Che l’alunno debba essere
educato in armonico accordo colla natura fisica circostante, colla famiglia e
colla nazione, a cui appartiene, coll’organamento sociale, in cui vive, col
grado di civiltà e collo spirito proprio del tempo, è una verità già
riconosciuta e proclamata dalla pedagogia filosofica. Poiché l’alunno non è una
monade solitaria ed isolata, chiusa ad ogni comunicazione esteriore, bensì
abbisogna della convivenza di altri esseri, a fine di espandere la sua vitalità
interiore e compiere il suo esplicamento. Ma egli possiede una personalità sua,
che non può essere sacrificata al mondo fisico sociale; è fornito di una
libertà interiore, che gli conferisce il dominio di sé medesimo, sicché egli è
quale vuole essere, non quale lo fa la necessità insuperabile dell’ambiente;
non potrebbe vivere una vita comune nel consorzio con altri esseri se anzi
tutto non vivesse in se medesimo di una vita tutta sua propria; non potrebbe
mettersi in conformità di accordo coll’ambiente, se da prima non fosse in
concorde armonia con sé stesso; non potrebbe acconciarsi alle impressioni del
grande organismo 56 Sebbene guidata da un criterio unitario,
l’educazione può essere analizzata nella sua molteplicità. A. parla di
un’educazione fisica, intellettuale, estetica, morale, religiosa. Distingue tra
quella naturale, che segue lo sviluppo delle facoltà della persona, e quella
esterna, guidata da modelli valoriali, culturali e intellettuali dal discente.
Il perno dell’educazione della persona è la sua razionalità ed intelligenza.
Riprendendo la tripartizione rosminiana delle facoltà umane186, A. ricorda come
l’interiorità della persona sia il vero oggetto dell’educazione, mistero non
materiale187, ed eccedente i meccanismi fisiologici188. I fenomeni
dell’interiorità sono governati da leggi come quella di associazione,
simultaneità, successione, e si fondano sulla dinamica delle potenze umane,
tratto tipico della pedagogia rosminiana, che si dividono in corporee o fisiche
e in spirituali o mentali189. Compito dell’educazione è di sviluppare le
potenze umane, in cui l’intelligenza umana si esprime come desiderio
spirituale190. Se l’educazione è il mezzo attraverso cui l’uomo può essere se
stesso, questa va rivolta a chiunque. A. considerava necessario offrire a
qualsiasi persona l’educazione e l’istruzione, senza discriminazioni per le
condizioni economiche, sociali, o di genere. In questo senso contesta i
positivisti che negavano la possibilità e l’utilità di occuparsi
dell’educazione e dell’istruzione dei diversamente abili. Negli Opuscoli
Pedagogici191 sostiene la necessità di educare i sordomuti, i nevrastenici, i
balbuzienti, i ciechi, ed esorta ad approfondire gli studi sui mezzi con i
quali sia meglio educarli, richiamando a prendere esempio da altre nazioni
europee come la Francia. Nel saggio su Rousseau, contesta l’idea difesa
nell’Emilio, secondo cui i della natura, se anzi tutto non sentisse il vitale
influsso dell’organismo corporeo suo proprio; infine egli aspira ad un ideale
della vita futura, il quale non può trovar luogo nella cerchia dell’ambiente
della natura tutto circoscritto ad un punto del tempo e dello spazio» G. A., La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 19-20. 186 «Sentire,
intendere e volere, in questa triplice classe di fenomeni psicologici si
raccoglie tutto lo sviluppo del nostro essere spirituale» G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 6. 187 «I fenomeni interni o psicologici non si veggono
cogli occhi del corpo, non si toccano, non si odono, non si odorano: un
pensiero, un affetto, un volere non hanno forma o figura, non divisione o dimensione,
non grandezza o misura: essi soltanto alla coscienza si mostrano e sono oggetti
di osservazione interiore» 7. 188 «I fenomeni interni sono di loro natura
superiori all’organismo; i sentimenti, i pensieri, i propositi deliberati sono
manifestazioni esclusivamente proprie dello spirito, al cui compiuto sviluppo i
fenomeni dell’organismo corporeo intervengono bensì, ma come condizione
soltanto, non some causa» 7-8. 189 «Ciò posto, siccome i fenomeni interni ci
vennero superiormente distribuiti in tre classi supreme, affettivi cioè,
intellettivi e volitivi, così siamo condotti ad ammettere tre supreme potenze
umane corrispondenti, la sensitività, l’intelligenza e la volontà, intendendole
con tale larghezza, che la sensitività comprende tanto la sensazione animale,
quanto il sentimento spirituale, l’intelligenza abbracci tanto la percezione o
fantasia sensitiva quanto la ragione, e similmente la facoltà spirituale della
volontà si mostri preceduta dagli appetiti inferiori e con essi collegata» 12.
190 «Come l’istinto animale provvede alle esigenze della nostra vita fisica,
così l’istinto spirituale fornisce alla vita mentale i beni, che le sono
proprii. Ora lo spirito vive del Vero, del Bello, del Buono, e vi si sente
portato da naturale istinto, il quale viene così a distinguersi in
intellettivo, estetico e morale» 29. 191 G. A., Opuscoli pedagogici,
94-97. 57 diversamente abili, A. parla di «storpi», non abbiano diritto
all’istruzione e all’educazione192, ribadendo la convinzione che l’educazione
sia un diritto per tutti. Tutti gli uomini sono persone, qualunque sia la loro
condizione, e ognuno merita di essere educato e istruito, anche se ciò deve
essere fatto secondo le inclinazioni e le potenzialità di ciascuno.
Analogamente contestò Platone quando estromette i «malconformati di corpo»
dalla cerchia degli educabili. Inoltre fa notare come «anche lo Spencer a’ di
nostri muove rimprovero alla società che si prende cure dei miserabili, dei
poveri, degli infermi, fino a dichiarare una grande crudeltà il nutrire gli
inetti a spese dei capaci degli operosi»193. A. considera questa prospettiva
come una diretta conseguenza del materialismo: disconoscendo il valore assoluto
dell’uomo, non ha più senso la cura di quanti non «funzionano», non
«producono», quanti insomma sarebbero solo un peso per il sistema economico.
Secondo A. solo il riconoscimento della dignità suprema dell’individuo permette
il rispetto di ciascuno e la sua valorizzazione. Dimenticata la persona
nell’uomo, si elimina la ragione dell’eguaglianza degli esseri umani e dunque
il diritto all’educazione per tutti. Sulla base del principio della
personalità, il pedagogista vercellese fu altresì un difensore dell’istruzione
e dell’educazione delle donne. Anche per l’A., come per molti altri studiosi
della seconda metà dell’Ottocento, era necessario concepire l’educazione della
donna in armonia con l’ufficio della maternità e la cura della famiglia,
compiti a cui secondo il pedagogista la donna era naturalmente destinata. Dopo
aver difeso il ruolo della donna nella famiglia, spiega: «Né altri di qui
inferisca, che la donna circoscrivendo nel recinto della casa il suo genere
peculiare di vita debba crescervi e passarvi i suoi giorni solitari, ignorante,
incolta, spregiata e negletta. Anch’essa possiede per natura tutte le facoltà
costitutive della specie umana, a cui appartiene; epperò ha, quanto l’uomo,
diritto alla verità, alla felicità, alla virtù, al rispetto della dignità
umana, che in lei rifulge, al perfezionamento suo proprio. E se abbia da natura
sortito qualche raro pregio di mente e di spirito, qualche felice attitudine al
culto di qualche disciplina, od arte, o nobile professione sociale, chè non
venga mai meno alla sua prima e natural missione, alla quale è chiamata nel
santuario domestico»194. A. reputa che sia necessario offrire un percorso
educativo e di istruzione anche alle donne meno abbienti. Dopo aver analizzato
le opere della Saussure, contesta il fatto che si parli dell’educazione solo
per i ceti sociali più alti: «Però io non posso passare sotto 192 G. A., G. G.
Rousseau filosofo e pedagogista, 160. 193 G. A., Delle idee pedagogiche presso
i greci, 113. 194 117-118. 58 silenzio, che in questo eletto lavoro
pedagogico della Saussure è tutto rivolto alla coltura della donna di agiata e
civil condizione, come lo sono altresì le opere pubblicate dalle due egregie
donne italiane, la Colombini e la Ferrucci intorno l’educazione femminile.
Eppure anche l’educazione della donna popolana ed operaia può e deve fornire al
cultore della pedagogia bello e grande argomento di studio e di meditazione,
per quantunque debba essere discorso sott’altra forma ed in proporzioni più modeste»195.
Nonostante l’inciso finale, il discorso dell’A. sembra innovativo rispetto alle
comuni pratiche e teorie pedagogiche. La donna inoltre, in quanto persona, non
poteva essere considerata proprietà di alcuno. Per questo motivo critica
Rousseau che aveva fatto di Sofia una moglie totalmente asservita al marito. Al
contrario: «La donna non è nata per essere la schiava né dello Stato, né
dell’uomo»196. L’attività dell’educatore e della scuola deve anche essere in
armonia con quella familiare. La famiglia è l’inizio e il paradigma
dell’educazione. Chi si occupa di educazione deve avere come modello
l’istituzione familiare. A. sostiene la necessità di una famiglia generosa,
laboriosa e aperta. Contesta la famiglia rappresentata nell’Emilio, considerata
isolata ed egoista. Invero, persistono nella sua opera ancora alcuni stereotipi
sul sesso femminile. A. parla di un’inferiorità fisica197, e sostiene che
«nella donna il sentimento e l’affetto predominano sull’intelligenza e sulla
volontà», e sebbene sottolinei i vantaggi di questa caratterustica
femminile198, considera l’uomo maggiormente capace di sottomettere la volontà
alla ragione199. Secondo A. la durata dell’educazione abbraccia tutta la vita.
L’uomo ha sempre da essere perfezionato. Il suo cammino verso il compimento di
se stesso è costante200. È tuttavia vero che la vita è composta da diverse
fasi, ognuna ha delle particolari esigenze educative. A. contesta cesure nette
nella teorizzazione dello sviluppo della persona. 195 G. A., Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, Torino, Libreria Scolastica di Grato Scioldo, 1884,
p. 222. 196 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 159. 197 «Insegna la
fisiologia, che l’organismo corporeo è più gagliardo e più robusto nell’uomo,
più esiguo e più delicato nella donna; questa diversità di struttura deve
naturalmente riuscire ad una differenza tra le potenze fisiche del sentire e
del muoversi corporeo» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 16-17. 198 «Essa
pensa più col cuore, che col cervello. La verità la sente più che non la
mediti, la intuisce più che non la ragioni, la crede senza avvolgerla fra le
tortuose spire del dubbio, la accoglie tutta quanta viva ed intiera senza
dissolverla e notomizzarla col coltello dell’analisi; pensa e riconosce Dio
come un bisogno del cuore, anziché come un principio della ragione; posa il suo
pensiero sulla realtà concreta e vivente e mal si rivolge alle aride
astrattezze, alle generalità trascendetali» 17. 199 «Venendo alla volontà,
anch’essa nella donna soggiace alla influenza del sentimento, nell’uomo procede
a tenore della ragione» 18. 200 «L’educazione comincia colla vita e mai non
cessa, perché la nostra perfettibilità dura quanto la nostra mortale esistenza;
però essa muta tenore ed ufficio ed indirizzo secondo il mutare delle diverse
età» G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 33. 59 La vita
non può essere divisa in tappe con demarcazioni rigide, dato che la crescita è
graduale e soggettiva. A tal proposito critica Rousseau, il quale «ha rotto
l’uomo (e con esso l’educazione) in tre pezzi, che spuntano non si sa come,
l’un dopo l’altro, il fanciullo, l’adolescente, il giovinetto: e sotto il
taglio della sua anatomia psicologica la personalità è finita»201. Tale istanza
è legata ad uno dei principi cardine dell’educazione in A., vale a dire
l’armonia. «Se la virtù e l’anima e l’universo e Dio medesimo e tutto quanto
esiste è armonia, appar manifesto, che anche essa l’educazione deve posare e
reggersi tutta quanta sull’armonia, come suo fondamentale principio, val quanto
dire essenzialmente ed integralmente ordinata all’armonico sviluppo delle forze
del corpo e delle facoltà dell’anima»202. Importanti appaiono alcune
annotazioni sul rapporto educatore-educando. Se la persona è libera e tende
alla sua libertà, l’educatore non può agire sull’educando non tenendo conto di
questo aspetto proprio della persona. Dato che l’uomo è libero, non si potrà
ridurre l’educazione ad un meccanismo, l’educatore non costringe, non forza,
non chiude, ma mostra, fa ammirare, interroga, sollecita, suscita. Su tale
principio l’A. riprende fortemente il modello della paideia greca, contrapposto
alla modernità che confusa sulla natura spirituale della persona e dunque sulla
sua libertà, ha costretto l’insegnamento in un procedimento vuoto e disumano.
Non c’è libertà senza l’autorità. La pedagogia moderna, di cui Rousseau è il
più alto rappresentante, ha disconosciuto tale evidenza. Nonostante sia giusto
assecondare la crescita naturale del bambino, non lo si può privare
dell’intervento esterno: «Mai non ci deve cadere di mente, che nell’educazione
umana suolsi seguire come infallibil maestra la natura medesima, sicché nulla
mai si tenti, né si faccia, che contraddica a’ suoi principii, nulla si
dimentichi, né si trascuri, che torni opportuno o necessario a secondarlo nel
suo spontaneo sviluppo. Ai dì nostri vide questa potenza educatrice della
natura Rousseau, ma di troppo la esaltò fino a bandire siccome inutile e nocivo
il magistero dell’arte. Aristotele non disconobbe la virtù educatrice, che
giace nella consuetudine o costume, e nella coltura della ragione o disciplina.
Poiché i germi del Bello e del Buono deposti in noi da natura non crescono già
né maturano mercé l’opera dei beni esterni, né il caso e la sorte fa sì che noi
diventiamo onesti; bensì richiedesi a tanto fine l’esercizio della facoltà del
volere e del sapere»203. 201 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
117. 202 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 34. 203 155.
60 Per questo stesso motivo mette in guardia da una sopravvalutazione
dell’autodidattica: «L’io umano è un soggetto personale, e quindi fornito di
una energia pensante sua propria, per cui aspira scientemente e liberamente
alla conoscenza della verità, siccome suo naturale obbietto; ecco l’origine ed
il fondamento dell’autodidattica. Ma la personalità umana individua è limitata
per natura, e quindi bisognevole di un intervento esteriore: ecco la ragione
dei limiti, che circoscrivono l’autodidattica»204. La persona ha bisogno di
altre persone per essere introdotta nell’esistenza. In un altro brano, A.
individua nella «nuova psicologia» l’origine dell’equivoco: «L’autodidattica si
regge tutta quanta sulla personalità dell’io, riguardato come un soggetto
sostanziale fornito di una individualità singolare, per cui è consapevole che
l’energia pensante, di cui è fornito, è tutta sua propria, e che gli atti
intellettivi, in cui si svolge, vengono da lui ed a lui appartengono come loro
principio originario e comune soggetto. Ora i fautori della nuova psicologia
rinnegano apertamente la libera attività e la personalità dell’io umano
riducendolo ad un insieme complessivo di fenomeni mentali, che non appartengono
a nessun soggetto e si succedono a tenore di leggi ineluttabili, facendo
dell’anima umana una mera funzione dell’organismo corporeo»205. La prima regola
del maestro è il rispetto per il discente, che è l’attore principale dell’atto
educativo. Una vera educazione è contraddistinta dal rispetto e dalla pazienza.
L’educatore è chiamato a essere umile, non c’è inoltre insegnamento quando l’insegnante
non impara a sua volta: «Il maestro deve di sicuro sovrastare al discepolo per
ampiezza di dottrina, per coltura e sviluppo mentale, ma non dimentichi mai,
che in faccia all’immensità dello scibile quel tanto, che egli sa, è poco meno
che nulla, e gli bisogna perciò imparare sempre, ed imparare nell’atto
medesimo, che istruisce gli altri»206. A. riprende la celebre frase di Plutarco
che critica l’insegnamento come «riempimento», e sostiene che «Il vero imparare
è un lavorare colla propria mente ed avere consapevolezza della verità scoperta
e del come siamo giunti a scoprirla; il vero insegnare è un accendere la
scintilla del pensiero e mantener viva la fiamma della riflessione. La parola
del maestro riesce all’alunno necessaria in quella guisa, che ad un seme l’aria
e la luce esteriore del sole, il quale destando la virtù sopita in esso lo
schiude dal suo germe e lo tien vivo ed atto a spiegare le sue forme.
L’acquisto della scienza è un martirio per uno spirito giovanile abbandonato
alle solitarie ed isolate sue forze, come il possesso materiale 204 G. A., La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 16. 205 17. 206 G. A., Delle
idee pedagogiche presso i greci, 83. 61 della scienza non
conquistata colla nostra meditazione somiglia a splendido patrimonio avito,
eredato da nepoti degeneri e dappoco»207. Educare è dunque far cresce
armonicamente le capacità dell’alunno, è un atto della vita che fa entrare
nella vita, sviluppa e forma il carattere, ma soprattutto tende a far essere se
stessi, e cioè autocoscienza del mondo. Educare significa formare le capacità
umane, ma soprattutto interrogare il discente, contagiare l’esigenza di
conoscersi e di capire se stessi. Nel suo studio, la Quarello riporta una frase
della Marchesa di Lambert citata dall’A. nello Studio Storico critico di
pedagogia femminile (1896), in cui la pedagogista sostiene che: «La più grande
scienza sta nel sapere essere in sé»208. L’educatore è chiamato a condurre
l’educando a questa vetta. L’azione formativa risulta dunque una continua
interrogazione ed esortazione. È molto interessante la considerazione di Calò,
secondo cui l’A. puntava ad un’azione educativa che «correggesse con un
movimento centripeto verso il nucleo più profondo dell’io il movimento
centrifugo verso l’esterno, che sapesse fare procedere l’educazione dal di
dentro, non dal di fuori». In questo
«stare in sé» l’uomo scopre una dimensione infinita che lo interroga, lo
spiazza. La persona sente in sé il richiamo di un’alterità misteriosa ma a cui
si sente inesorabilmente legato: «Dovunque si muova l’educazione trovasi in
faccia all’infinito sempre, perché l’educando è persona finita sì, ma che pur
si muove e gravita verso l’infinito». Su questi presupposti, A. è convinto che
non si possa negare l’educazione religiosa ai giovani: «La coltura impertanto
dell’intelligenza, e dell’attività volontaria va ordinata a Dio. Così la
personalità finita dell’educatore e dell’educando si regge sulla personalità
infinita di Dio, e trova in questa la sua ragion di essere, del pari che la sua
cagione efficiente. Educazione vera non è, che non sia personale sotto entrambi
questi riguardi. Il materialismo, che spegne nel fango la personalità
dell’uomo, l’ateismo, che nega a Dio la sua personalità infinita, il panteismo,
che nega all’uomo ed a Dio una personalità loro propria per confonderli in una
medesima sostanza, conducono ad un’educazione disumana, omicida, perché è
negazione della persona. La formazione del carattere, intorno alla quale si
travaglia tutta l’arte educativa, torna opera impossibile, ove non si regga
sulla personalità dell’essere infinito»210. Strettamente legato alla questione
della vocazione umana ed educativa, è il concetto di «carattere», con cui A.
riprende un tema caro ad altri pedagogisti cattolici e non. Il carattere è
definito come «quello stampo, o quell’impronta speciale, che configura 207
84-85. 208 V. Quarello, G. A., Studio critico, 106. 209 G. Calò, Dottrine e
Opere, 25. 210 G. A., Opuscoli pedagogici, 31. 62 ciascuna natura
umana»211. Con questo concetto intende l’universalità dell’essere persona nella
particolarità del singolo. «L’alunno accoppia in sé l’umanità comune a tutti i
suoi simili, e l’individualità propria di lui solo»212. Un altro passo
chiarisce tale relazione: «il genere (umano) vive nell’individuo sotto forma
del carattere»213. È compito dell’ufficio educativo riconoscere e far fruttare
l’individualità della persona214. Secondo l’A.: «l’uomo di carattere è colui,
che pensa con verità e colla propria testa, è arbitro del suo operare e conforma
le sue azioni esterne coi suoi interiori convincimenti, sempre mirando
all’ideale divino della perfezione»215. Ma per condurre al vero carattere
bisogna educare, non basta istruire. A. definisce l’educazione del carattere
come il «punto di gravitazione» e l’ «apogeo»216 dell’educazione. All’educatore
spetta il riconoscere il carattere dell’alunno, la sua coltivazione, e l’aiuto
verso la vocazione personale di ciascuno. Così «Il fanciullo è persona, cioè
sostanza individua, che in sé armonizza la virtù conoscitiva, fonte della vita
operativa, congiunta con un organismo corporeo, sede della vita fisica e
ministro della vita spirituale. La vita speculativa si sviluppa mercé
l’acquisto del sapere, oggetto dell’educazione intellettuale, la vita operativa
mercé la formazione del carattere, compito dell’educazione civile, morale,
religiosa, la vita fisica mercé il rinvigorimento, la salute e la destrezza del
corpo, termine dell’educazione fisica; e tutte e tre queste forme di educazione
deggiono armonizzare insieme, come armonizzano dell’unità dell’umano soggetto
le tre forme di vita umana»217. Il carattere va educato sin dalla prima
infanzia, e in esso l’esempio è il principale fattore218. L’apice della
formazione è il carattere morale, vale a dire la libertà dell’uomo di obbedire
esclusivamente alla legge morale insita nell’uomo. A. considerava il rispetto e
obbedienza a questa legge, come il compimento della libertà, che certo non
riteneva essere un arbitrio assoluto del 211 G. A., L’uomo e il cosmo, G. A., Studi pedagogici, 336. 213 G. A.,
L’uomo e il cosmo, 357. 214 «La formazione del carattere è opera nostra,
sebbene abbia suo fondamento in natura, e le occorra il sussidio dell’arte
educativa» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad
uso delle scuole normali maschili e femminili, 50. 215 G. A., La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 4. 216 G. A., Studi pedagogici, 322. 217
G. A., Opuscoli pedagogici, 31. 218 «Il carattere morale non forma lì per lì
come per incanto nell’età virile; ma, come ogni opera grande e duratura, che
sorge da piccoli inizii, esso fa le sue prime prove nella puerizia, e
progredisce con lento lavorio sino alla compiuta sua forma mediante l’opera
concorde dell’alunno, del maestro, dei genitori, durante tutto quel lungo
periodo educativo, che dalla prima puerizia si stende sino al termine della
gioventù» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad
uso delle scuole normali maschili e femminili, 91. 63 soggetto219.
Il pedagogista vercellese è, infatti, convinto che «Volere liberamente il
dovere, ecco, secondo me, la formula di tutto l’ordine morale»220. Per
un’educazione efficace è imprescindibile lo sviluppo della capacità di volere e
seguire ciò che è bene. «La dignità umana rifulge nel carattere. Plasmare nel
fanciullo il carattere dell’uomo, che esprime la santità della vita in sé,
nella famiglia, nella patria, questo è dell’arte educativa il supremo,
altissimo ufficio»221. Parlando dell’insegnamento in classe dice che «ogni atto
educativo dev’essere un’affermazione, un’impronta della sua individualità
personale. Così si forma il carattere, così l’alunno impara a diventare uomo
maturo di senno, esperto della vita, arbitro delle sue sorti»222. L’ultima
opera dell’A., datata 1913, è dedicata allo studio comparato tra Giobbe e
Schopenhauer. Contrapposto al nichilismo, al pessimismo, e al disimpegno del
secondo, Giobbe rappresenta la vera statura umana, colui che nonostante le
circostanza si spende per la verità. Osserva A.: «L’operosità della vita,
perché si compia con efficacia, con dignità e decoro, richiede in noi la
coscienza della nostra libertà personale rivolta ad un ideale supremo, il
sentimento della nostra propria vigoria, il voglio imperioso dello spirito
pronto a lottare contro le difficoltà, gli ostacoli, con imperturbabile
costanza sino al sacrificio, riverente a quanto si presenta di grande, di
nobile, di sacro, di divino»223. L’A. critica la riduzione dell’intervento
educativo all’istruzione, riprendendo una battaglia tipica della pedagogia
spiritualista. Sulla base dell’antimetafisica e del relativismo etico di certo
positivismo, più di un pedagogista ridusse il compito dell’educazione
all’istruzione, estromettendo dai suoi compiti la formazione del carattere, e
quindi dell’autocoscienza e della libera volontà. Tale approccio ha come
premessa fondamentale la convinzione che non ci sia nulla di vero, e quindi di
insegnabile, fuori dalle asserzioni scientificamente dimostrabili. A questo
proposito può essere utile richiamare un aneddoto raccontato da A. riferito ad
una visita di Padre Girard all’Istituto del Pestalozzi: «Nell’atto che il Padre
Girard stava visitando l’Istituto di lui, egli uscì fuori con queste parole: “È
mio intendimento, che i miei 219 Per queste posizioni fu criticato da Santoni
Rugiu: «L’A. ha della moderna pedagogia una concezione normativa (come sempre,
d’altronde, nella concezione cattolica), la vede cioè non come un’indagine
libera e obiettiva sulla natura e sulle condizioni reali in cui si svolge la
formazione dei soggetti, ma come l’elaborazione di un insieme di indiscusse
norme, appunto, che guidino alla perfezione morale e spirituale. Guai a
lasciarsi travolgere dal «gran movimento sociale» e ritenere che esso indichi
sempre la via del progresso e della civiltà» A. Santoni Rugiu, Storia sociale
dell’educazione, Milano, Principiato, 1987, p. 528. 220 G. A., Del positivismo
in sé e nell’ordine pedagogico,89. 221 G. A., Opuscoli pedagogici, 18. 222 G. A.,
Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, in «Rivista Pedagogica», n. 10,
1930, p. 687. 223 G. A., Giobbe e Schopenhauer, Torino, Tipografia Subalpina,
1912, p. 41. 64 alunni non tengano per vero, tranne ciò solo, che
possa essere loro dimostrato come due e due fan quattro”. Al che il Girard
rispose: “Se io fossi padre di trenta figli, nemmeno un solo ve ne affiderei ad
essere ammaestrato, perché non vi verrà mai fatto di dimostrargli come due e
due fan quattro, che io sono suo padre, e che egli è tenuto di amarmi»224. Le
parole di Padre Girard erano utili a spiegare quali fossero i rischi
dell’ipertrofia della ragione scientifica e matematica. Limitando il veritativo
al «misurabile», infatti, si escludevano dall’educazione tutta una serie di
apprendimenti e principi morali indispensabili alla vita e alla formazione del
carattere. Anche su questo punto A. esorta a distinguere ma senza dividere.
L’educatore deve far crescere tutte le capacità umane, sia quelle del «cuore»
che quelle della «mente». Era convinto che «la natura non si riforma, bensì va
riconosciuta e rispettata»225. E la natura della persona non può essere ridotta
alla pura istruzione, ma ha bisogno della certezza morale, dei principi, dei criteri
per distinguere bene e male. I. 6. Critica all’idealismo e al positivismo Una
parte considerevole delle opere di A. è destinata alla critica dell’idealismo e
del positivismo. A tali correnti, sin dai primi lavori, A. addossò le
responsabilità della profonda «crisi»226 e confusione che ammorbava la
filosofia italiana. Oltre ad una lunga serie di studi dedicati a questi
sistemi, anche negli altri saggi di A. appaiono frequenti incisi polemici
contro queste teorie. Calò ha rilevato come questa ricorrente confutazione e
polemica del positivismo e dell’idealismo, rappresentò un tratto specifico del
pensiero del pedagogista vercellese «L’atteggiamento critico contro le due
correnti suddette forma la preoccupazione costante e costituisce, insieme con
il principio della personalità, svolto dall’A. in tutti i suoi aspetti, il
motivo fondamentale e la sostanza del suo pensiero filosofico»227. Secondo
alcuni studiosi A. avrebbe avuto nei confronti delle teorie coeve un
atteggiamento difensivo ed eccessivamente «polemista»228. Caramella, un
gentiliano che certo non concordava con le critiche dell’A. all’hegelismo e ai
suoi epigoni, fu molto severo con il pedagogista, e ne sminuì il contributo,
riducendolo ad una lamentela sterile e arretrata: «Ma venendo ai risultati effettivi
della sua vasta opera di più che mezzo secolo, 224 G. A., Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, 89. 225 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine
pedagogico, 261. 226 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 6. 227 G. Calò,
Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe A., 4. 228 S. Caramella, Lo
spiritualismo pedagogico in Italia, «La nostra scuola», n 13-14, 1921, p.
9. 65 qual è il significato storico dell’A.? Niente di meno ma
niente di più che un’ostinata battaglia cattolica contro lo scientifismo, senza
che dal cozzo si generasse mai una scintilla nuova»229. Una critica analoga gli
venne mossa da Vidari230. È facile riscontrare nell’opera di A. toni duri, se
non apocalittici, nei confronti di teorie giudicate dannose non solo alla
pedagogia, ma anche alla vita educativa e sociale del paese. In molti saggi
mancano aperture concilianti, mentre le posizioni espresse sono spesso risolute
e poco inclini ad aperture. Ma, a onor del vero, va riconosciuto che le
critiche portate dal pedagogista sono sempre articolate e suffragate da una
conoscenza precisa degli autori e delle scuole esaminate. «L’A. non fa mai la
critica per la critica: il suo scopo è sempre molto preciso, quello di
dimostrare e di salvare certi principi e certe verità filosofiche»231.
All’interno del lungo itinerario delle opere dell’A. possiamo distinguere due
momenti. Sino agli anni ’70 dell’Ottocento, si concentrò in particolare
sull’idealismo, mentre in seguito si occupò quasi esclusivamente del
positivismo, data l’incipiente influenza che iniziava ad avere sulla pedagogia
e filosofia italiana. Già alla fine degli anni ’60, A. notava come il
positivismo si accingesse a dominare il clima nelle Università italiane e negli
studi filosofici e pedagogici, mentre l’idealismo era destinato a restare ai
margini del dibattito. Nel 1903, ricordando quel tornante storico, commentò:
«Il campo filosofico era in allora combattuto da due scuole di tutto punto
opposte, l’idealismo hegeliano, che andava declinando dal suo apogeo, ed il
positivismo anglo-francese, che si annunziava ristauratore sovrano della
scienza e della vita»232. In quegli anni, la scuola idealistica era viva quasi
esclusivamente a Napoli grazie a Spaventa e Vera. A., peraltro docente in una
sede dove l’idealismo era quasi inesistente, si misurò criticamente soprattutto
con i positivisti. Come accennato, i lavori di critica all’idealismo si
concentrano in larga parte nelle opere giovanili, in particolare nei Saggi
filosofici (1866) ne L’hegelismo, la scienza e la vita, e nell’ Esame
dell’hegelismo, un saggio più breve di quello precedente dove riprende
pressappoco le stesse tematiche. 229 9-10. 230 «In tutti questi lavori la mente
dell’A. si presenta sempre nell’atteggiamento di chi, incrollabilmente fermo e
sicuro nelle proprie convinzioni maturate in uno studio severo e diuturno, vede
nell’avversario e nelle dottrine da lui rappresentate un pericolo esiziale per
la società e per la scuola, in cui esse si diffondano. Onde non tanto Egli mira
a penetrare ed esporre l’idea dell’avversario nella sua genesi e nelle sue
eventuali giustificazioni, quanto a metterne in rilievo le deficienze o le
contraddizioni o le inaccettabili conseguenze» G. Vidari, Giuseppe A., 8. 231
Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di A., 447. 232 G. A., Il ritorno al
principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18
novembre 1903, 3. 66 Alcuni cenni polemici contro l’idealismo sono
presenti anche in altri testi, tra cui L’antropologia e l’umanesimo (1868),
Della vecchia e della nuova pedagogia (1873), L’Antropologia ed il movimento
filosofico sociale (1869); La pedagogia e lo spirito del tempo, Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia Studi filosofici sul carattere
delle nazioni Sulla personalità. Il
testo in cui espone in modo più articolato le sue tesi contro l’idealismo è
L’hegelianismo la scienza e la vita, un lavoro giudicato da Eugenio Garin
«onestamente espositivo»233. L’opera fu scritta in occasione del concorso
Ravizza del 1865-1866, che chiedeva agli scrittori di cimentarsi con questo
tema: «Quali pratiche conseguenze derivino dall’idealismo assoluto di G. Hegel
nella morale, nel diritto, nella politica e nella religione?». Il testo, che
vinse il premio, fu poi rivisto e pubblicato. Nell’opera, l’A. delinea
l’origine dell’hegelismo, mettendo in luce l’humus kantiano da cui nacque
l’idealismo. Il pedagogista enuclea i passaggi che portarono dalle posizioni
del filosofo di Königsberg ad Hegel. A. ricorda come Kant fosse allora
considerato il nuovo «Socrate» per aver salvato la scienza dallo scetticismo,
mentre egli pensava che il kantismo fosse stato la «tomba» della scienza e
della filosofia234. L’errore di Kant fu quello di disconoscere il primo dato
filosofico, vale a dire l’evidenza dell’essere. Egli perpetuò quella torsione
prospettiva cartesiana che si piegò sull’affidabilità della ragione,
dimenticando lo stupore e l’attestazione del mondo. A. osserva che l’uomo
neanche penserebbe se non ci fosse quel «fuori». Così Kant aveva «condannato il
soggetto ad un perpetuo e violento celibato segregandolo dalla realtà
oggettiva»235. Osserva A.: «Scienza assoluta intorno il pensiero umano,
ignoranza assoluta intorno la realtà universale, ecco i due poli del Criticismo
di Kant, la finale risposta che egli diede alla sua prima domanda. Con questo
suo sistema originale Kant reputava di avere ricostrutto su salda base il
sapere speculativo, e quetati una volta i dissidii che da secoli sconvolgevano
il regno della metafisica: Ubi solitudinem faciunt (direbbe qui Tacito), pacem
appellant»236. Ma se lo scopo di Kant era quello di salvare la scienza, egli
superò lo scetticismo di Hume, in quanto non riuscì a riconoscere il senso e i
motivi della scienza metafisica. E ciò fu confermato dagli sviluppi successivi
della filosofia. Nei cinquant’anni trascorsi tra la pubblicazione della Critica
della Ragion Pura, 1781, e la morte di Hegel, 1831, la Germania visse un
radicale cambiamento culturale. Dallo scetticismo di Kant si arrivò attraverso
Fichte e Schelling, all’affermazione dell’idealismo 233 E. Garin, Tra due
secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità. A., L’Hegelismo e la
scienza, la vita, 22. 235 31. 236 29. 67 assoluto di Hegel, che
secondo A. non fa altro che trarre le nefande conseguenze di quel divorzio tra
l’io e il mondo, che se aveva portato Kant allo scetticismo, conduceva Fichte
alla tesi dell’Io assoluto, origine e creatore del mondo. Si trattò di una
deriva di quelli che chiamò in un altro testo i «trascendetalisti tedeschi», i
quali «estendendo fuor di misura il potere dell’io umano, lo posero creatore
dell’essere e del sapere, e finirono collo spogliarlo della soggettività ed
individualità sua, confondendolo col massimo degli universali»237. Nel saggio A.
dedica diversi capitoli a questi passaggi, concentrandosi dopo Kant, su Fichte
e Schelling. In ultimo affronta in modo analitico la figura e la filosofia di
Hegel, introducendo il suo pensiero con un’accurata esposizione della vita,
oltre che un’analisi degli apporti e delle influenze che ne condizionarono il
pensiero. Successivamente, ne enuclea il sistema filosofico, con un’analisi
articolata. A. parte dal concetto generale di filosofia, quindi affronta il
metodo dialettico, il concetto dell’Idea e il suo sviluppo nel Sistema. Poi
tratta della Logica, della filosofia della Natura e infine della filosofia
dello Spirito. In conclusione sintetizza i motivi della critica all’idealismo.
Il seguente brano compendia la critica di A.: «Il nome di Idealismo assoluto
con cui viene designata la dottrina di Hegel, ne rivela tutto lo spirito e ne
compendia il contenuto. Il suo sistema è tutto in queste due parole: Idea
assoluta, od in altri termini Idea e sviluppo, giacché l'essenza dell'Assoluto
è un esplicamento universale, un moto continuo e senza fine. Come per Condillac
tutto è sensazion trasformata, così per Hegel tutto è Idea trasformante. L'idea
essendo assoluta si fa tutte le cose, e con questo suo diventare universale
spiega successivamente tutto l'essere, perché riproducendolo rivela le intime
essenze delle singole cose, sicché l'Idea assoluta si manifesta ad un tempo
siccome il sistema della scienza e l'insieme della realtà, identità universale
delle idee e delle cose, del pensiero e dell'essere. Datemi materia e moto,
diceva Cartesio, ed io creerò l'universo. Hegel pigliando in senso
trascendentale il motto cartesiano avrebbe potuto ripeterlo dicendo: Datemi
Idea e sviluppo, ed io vi ridarò rifatta e spiegata la realtà universale»238.
L’identificazione dell’essere con l’idea conduceva l’idealismo a numerose
antinomie ed epicicli, elencati dall’A.. Il pedagogista fa notare come Hegel,
mentre tacciava di misticismo i realisti, chiedeva un atto di fede nel
riconoscimento dell’Io assoluto. In conclusione, A. ripropone la ragionevolezza
del realismo. Secondo il pedagogista vercellese, il reale anticipa, sporge e
supera il razionale. Una frase dell’Amleto di 237 G. A., Sulla personalità
umana, 18. 238 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 59. 68
Shakespeare è ripresa dall’A. come legge della filosofia, «v'hanno cose e in
cielo e in terra di cui le nostre filosofie non si sognano neppure»239. La diaspora
degli hegeliani e le numerose critiche fattegli dai suoi discepoli evidenziano
tanto il fascino della prospettiva hegeliana, quanto la sua fragilità. L’errore
cruciale dell’idealismo è la negazione della validità di quella serie di
evidenze e strumenti che l’uomo ha nel suo naturale rapporto con il mondo: «il
sistema dell’identità assoluta contraddice ai pronunciati della coscienza e si
oppone ai dati del senso comune e del sapere naturale; dunque è
insussistente»240. Per questa ragione, A. definisce Hegel come uno «spietato
Torquemada del senso comune»241. Il pedagogista riprende l’analisi rosminiana e
considera gli idealisti fondamentalmente degli scettici. Osserva: «La scienza è
la spiegazione razionale della realtà sussistente: ora la realtà va anzitutto
schiettamente osservata quale si presenta alla nostra percezione, e non già
indovinata a priori e ricercata attraverso le pieghe del nostro cervello. Una
teoria della realtà, costrutta col puro ragionamento e non fondata
sull’osservazione, non è scienza seria e verace, ma un tessuto di astruserie,
che potrà tutt’al più dimostrare la potenza immaginativa di chi l’ha costrutta.
L’idealismo trascendentale germanico de’ tempi nostri ha sacrificato
l’osservazione della realtà al puro ragionamento. Esso ha preso le mosse dal
concetto più astratto, a cui si possa giungere ragionando, e colla virtù di
quel concetto vuoto ed indeterminato pretese di costruire la realtà
universale»242. Prima Gentile243 e poi la Quarello244, criticarono all’A. una
conoscenza poco approfondita di Hegel. Se non si può considerare il pedagogista
vercellese tra i massimi studiosi di Hegel, dai suoi lavori emerge un confronto
nel merito con il cuore delle posizioni idealiste. Altri autori, come il
Suraci, parlarono dell’opere sull’Hegelismo come «una critica quanto mai acuta
e serrata»245. Anche per altre teorie, A. non bada ad una erudizione pedante
sulle vicende di una corrente, ma al cuore e al significato delle sue
principali direttrici filosofiche. Come è già stato accennato, dopo alcuni
lavori dedicati all’idealismo, A. diede largo spazio alla critica del
positivismo, che occupò gran parte della sua attenzione nella sua carriera
seguente. Il pedagogista si accorse della rapida diffusione del positivismo
nelle Università. Uno degli atenei in cui tali teorie presero piede e si
diffusero era proprio quello 239 143. 240 G. A., Saggi filosofici, 6. 241 372.
242 G. A., Antonio Rosmini, 33. 243 G. Gentile, Le origini della filosofia
contemporanea in Italia. I platonici, 370. 244 V. Quarello, G. A., Studio
critico. Suraci, A.filosofo e pedagogista, 84. 69 di Torino, che
era stata sino a pochi anni prima una roccaforte del rosminianesimo e dello
spiritualismo cristiano. Come ha ricordato Giorgio Chiosso: «Proprio a Torino
la cultura positivista stava compiendo il massimo sforzo con Moleschott,
Lessona, Lombroso, Mosso per tracciare una antropologia incentrata su esclusivi
tratti fisio – psichici e fortemente condizionata dalla cultura
evoluzionista»246. Come ebbe a scrivere Norberto Bobbio, Torino rappresentava
sul finire dell’Ottocento «la citta più positivista d’Italia»247. A.
individuava come ragione della diffusione di tale corrente un forte appoggio
politico, che era diventato come abbiamo già rilevato, il braccio ideologico
dei gruppi anticlericali che spesso sedevano nelle poltrone più importanti del
neonato Stato italiano. Il pedagogista aveva una chiara percezione di tale
egemonia e non mancò di denunciarla. Scrisse a proposito «Il partito
iperdemocratico, che nei lontani sfondi della rivoluzione italiana del 47
appena s’intravvede indistinto e sfumato, prese a poco a poco forme più
spiccate e concrete, e fattosi potente tende oggidì a tenere esso solo il
campo. Esso novera potenti ingegni fra i suoi numerosi seguaci, che ne bandiscono
i principii dalle cattedre universitarie, dalle tribune parlamentari, dalle
officine della pubblica stampa. La sua arma è la critica, il suo dogma supremo
è l’umanesimo sociale, ossia il naturalismo pagano razionalizzato. E la
critica, dacché fu inaugurato il Regno dell’Italia una, si spiegò con forze
maggiori che mai. Essa si pose ad abbattere il principio di autorità
nell’ordine del pensiero e della vita, a dissolvere le credenze morali e
religiose dell’universale, a minare le fondamenta di tutta la dommatica del
cristianesimo, a snaturare l’indole nativa e tradizionale della filosofia
italiana»248. Nonostante il peso del positivismo fosse riscontrabile già nei
citati dibattiti del ’47, fu solo con l’Unità che ai positivisti fu concesso
quello spazio privilegiato col quale poterono diffondere le loro teorie e avere
una inaspettata diffusione. Come denunciò A.: «Ai seguaci e promotori della
nuova scuola pedagogica il Governo prodiga la pienezza de’ suoi favori, e sotto
la potente sua egida assicura il trionfo»249. Se i capi scuola europei del
positivismo meritarono, da parte dell’A., delle analisi approfondite e alcuni,
rari, apprezzamenti, la valutazione degli epigoni italiani fu molto severa.
Essi vennero ridotti al rango di semplici ripetitori di autori più organici
come Spencer, Comte, Bain. A. si limitò ad affrontarne in modo sbrigativo la
produzione positivistica italiana nel saggio La pedagogia italiana antica e
contemporanea (1901). In 246 G. Chiosso, L'interpretazione rosminiana di
Giuseppe A., «Pedagogia e vita», n. 6, 1997, p. 152. 247 N. Bobbio,
Introduzione, in E. R. Papa (ed.), Il positivismo e la cultura italiana,
Milano, Angeli, 1985, p. 13. 248 G. A., La pedagogia italiana antica e
contemporanea, 161-162. 249 168. 70 esse il pedagogista si lasciò
andare a valutazione in parte ingenerose e tranchant. Affrontò le teorie di
Angiulli, Siciliani, Gabelli, e di altri pedagogisti minori. Il primo è
considerato il «principe» fra i cultori del positivismo in Italia. Viene
definito come un «pensatore robusto e profondo, ma non originale»250 che
ricalca fondamentalmente le posizioni di Spencer, e dunque tutti i suoi errori.
La riduzione spencieriana dell’uomo ad un animale, mina le basi del pensiero di
Angiulli: «Lottando contro la realtà dell’io, che egli ha negato e che s’impone
inesorabile al suo pensiero, si vede costretto a ricorrere ad una novità di
linguaggio, ad una dicitura attortigliata ed involuta, ad un ritornello di
espressioni stereotipate, che spargono una nebulosa caligine sul tutt’insieme
della sua dottrina»251. Un altro errore a cui lo conduce la negazione del
principio della personalità è la statolatria nel campo dell’istruzione
pubblica. Pietro Siciliani è invece accusato di eclettismo e di aver mal
combinato istanze inconciliabili, producendo un sistema contradditorio e
instabile. In una prelazione risalente al 1882, rammentò il cambio di opinione
sul positivismo, prima criticato e poi elogiato252. Del sistema del Siciliani
l’A. denunciò l’incapacità di giustificare sui presupposti positivisti
l’esistenza della libertà e i fondamenti della morale. Negli Opuscoli lo accusa
di trasformismo e scrive che «muta di dosso i panni a tenor della moda»253.
Stando ad A., questa «accozzaglia» di principi spuri condanna alla mediocrità
la pedagogia del Siciliani: «Egli non si afferma né spiritualista, né
materialista, né idealista, né ontologista, né trasformista, né positivista, e
lascia capire che vuol essere qualche cosa di più e di meglio di tutto ciò; ma
non ci presenta un principio superiore a tutti questi sistemi, che impronti il
suo pensiero e lo determini per quello che è»254. Si occupò anche di altri
autori come Emanuele Latino, Aristide Gabelli, Edoardo Fusco in cui rileva
sostanzialmente gli stessi errori di Siciliani e dell’Angiulli. Saluta invece
con soddisfazione il ritorno allo spiritualismo di Ausonio Franchi, al secolo
Cristiano 250 169. 251 174. 252 Nel saggio cita direttamente le parole di
Siciliani e poi le commenta: «“Troppo scettici, noi Italiani abbiamo bisogno di
fede: troppo anneghittiti dal positivismo, abbiamo bisogno di sacro entusiasmo
nella scienza, nell’onestà, nell’onore, nei principii di giustizia,
nell’attività del lavoro, nell’autorità creata da noi stessi, nell’Italia.
Possiamo dunque accettare il Positivismo? No. Inteso come sistema, il
Positivismo è dottrina assolutamente negattiva, non ha storia, non ha
principii; è contrario allo spirito filosofico di nostra età, è dannevole nelle
sue applicazioni morali, estetiche, politiche, religiose, storiche. Nol
possiamo accettare come sistema, perché contrario alla nostra istoria, alla
mente dei nostri padri, all’indole nostra, al nostro genio, alle nostre
tendenze, contrario ai nostri bisogni fisici e intellettuali [in nota: P.
Siciliani, Critica del positivismo]”. Chi pubblicava or non è molto queste
righe contro il sistema positivistico, è quegli stesso, che oggi ha inalberato
il vessillo del positivismo dlla sua cattedra di pedagogia in una
celebratissima Università italiana, mutando dottrine con quella leggerezza medesima,
con cui altri muta di dosso i panni a tenor della moda» G. A., L’educazione e
la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881,
Torino, Marino, G. A., Opuscoli
pedagogici, 122. 254 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea. Bonavino,
di cui esalta le Lezioni di pedagogia che viene indicato come un testo
fondamentale per la pedagogia spiritualista. Le considerazioni dell’A.
restarono severe. Valuto le teorie positiviste «disumane e liberticide»255.
Inoltre avversò una certa indifferenza degli epigoni di Comte che sembravano
sordi agli appunti delle altre correnti pedagogiche. In più d’una occasione A.
lamentò la loro indifferenza alle critiche, oltre alla poca onestà
intellettuale256 Come già accennato, i suoi studi si concentrarono soprattutto
sui fondatori del positivismo europeo: Comte, Spencer, e Bain. Le sue numerose
opere dedicate a questa corrente, rappresentano una prima sistematica reazione
dello spiritualismo italiano al positivismo europeo. Il lavoro più preciso e
sistematico su tale corrente è Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico
(1883), definito dalla «Civiltà Cattolica» come una «splendida e serrata
critica di questo sistema»257. Nella prelazione tenuta per l’anno accademico
1881-1882, A. annunciò che durante il corso sarebbe sceso «nell’arringo a
combattere il positivismo riguardandolo siccome una larva ingannevole della
scienza, siccome un pericolo esiziale della pedagogica»258. Nel solco di quelle
lezioni pubblicò poi il lavoro. L’opera si divide in due parti principali:
nella prima tratta delle origini del positivismo e ne mette in discussione i
fondamenti filosofici, nella seconda critica le conseguenze pedagogiche ed
educative. A. identifica come causa prima del positivismo, la stessa dell’idealismo,
vale a dire la crisi della metafisica avvenuta con la modernità, che Kant sancì
nella Critica della ragion pura, sostenendo la sostanziale inconoscibilità del
non sperimentalmente. Il metodo scientifico si dogmatizzò, pretendendo di
estromettere dalla conoscenza e dalla vita privata e pubblica tutto ciò che non
è misurabile. Il positivismo si configurò come una nuova prospettiva
epistemologica, metodologica e antropologica, fondata sulla negazione di tutte
le conoscenze non verificabili sperimentalmente. In questo senso, si oppone a
qualsiasi 255 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, I. 256 Nel saggio
su La scuola educativa, A. riporta una critica fattagli da Fornelli che nel
testo La pedagogia e l’insegnamento classico, accusò il professore vercellese
di aver travisato le posizioni di Comte. Dopo essersi difeso, critica anche una
evidente storture delle sue posizioni, avendolo assimilato all’idealismo: «Ma
il più grosso abbaglio del mio critico è questo: io non sono punto
quell’idealista, che egli s’immagina mostrando di non aver letti i miei lavori
filosofici, o di averne frainteso il significato malgrado la loro conveniente
chiarezza. Mi additi un solo passo, da cui risulti che io ripongo le origini
prime del pensiero in concetti astrattissimi, anteriori e superiori ad ogni
realtà concreta e sussistente, ed io mi do’ per vinto» G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 218. 257 Linee di pedagogia moderna, «La Civiltà Cattolica»,
quaderno 1565, 1915, vol. III, p. 542. 258 G. A., L’educazione e la scienza.
Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881, 15.
72 considerazione metafisica, di cui è «la sua negazione assoluta ed
esclusiva»259. In questo rifiuto consiste, per il pedagogista vercellese, anche
«il carattere direi negativo del positivismo»260. Va tenuto conto, che A.
riconosce l’apporto positivo delle scienze sperimentali e della metodologia
scientifica. Senza alcun timore verso gli esiti della ricerca empirica, il
pedagogista attribuisce alla scienza (non al positivismo) il merito di aver
accresciuto notevolmente la conoscenza del mondo e il benessere materiale.
Tuttavia, A. individua proprio nell’euforia per gli esiti della tecnologia la
presunzione di certo positivismo. Galvanizzata dalle scoperte scientifiche:
«esaltò l’esperienza sensibile siccome l’unica e suprema ed assoluta fonte di
tutto lo scibile umano, rigettò tra le illusioni tutto ciò, che trascende i
suoi confini, assegnò unico oggetto della scienza i fenomeni disgiunti dalle
sostanze e respinse la ragione siccome facoltà trascendente che contempla la sostanzialità
delle cose»261. A. ricorda come il metodo sperimentale non possa racchiudere
tutto il campo dello scibile, pena l’esclusione di ambiti conoscitivi
fondamentali per la vita umana. Rivolgendosi ai positivisti A. scrive: «No, la
mente umana non può fermarsi ai confini dell’esperienza, come alle colonne di
Ercole: i grandi problemi dell’esistenza, soffocati dalla vostra dottrina,
risorgono davanti alla ragione e le si impongono irremovibili. Voi non
riuscirete mai a cancellare dalla coscienza del genere umano questo
indestruttibile sentimento, che noi non siamo sfuggevoli fenomeni, quasi ombre
erranti alla ventura nel deserto, bensì persone vive, forniti di una ragione
che trascende la cerchia dell’esperienza sensibile e si innalza alle supreme idealità
della vita. Gli ingegnosi apparecchi meccanici, di cui avete forniti i vostri
laboratori di psicologia sperimentale, potranno procacciarsi nuove ed
interessanti notizie intorno la vita sensitiva dell’uomo esteriore, ma non ci
sapranno dir nulla intorno i misteri dell’anima, il secreto lavorio della sua
vita intima, le sue sublimi aspirazioni»262. La scienza esatta e sperimentale
non può esaurire tutto il campo della conoscenza dell’uomo. Inoltre, secondo A.,
l’esautorazione della metafisica dal campo dello scibile danneggia la stessa
scienza. Essa, infatti, nasce da domande metafisiche, si nutre di concetti e di
una logica che non può essere rinvenuta nella esperienza materiale, ma solo in
quella spirituale. L’antimetafisica getta il positivismo in un paradosso: lo
scientismo, 259 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 13. 260
10. 261 G. A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 14. 262 14-15. 73
infatti, nega le premesse della scienza. Con l’affermazione «non esistono che
fatti» si esprime un giudizio generale e veritativo sul mondo, portando avanti
un discorso propriamente metafisico. Scrive A.: «Dicono infine che, seguendo la
dottrina evoluzionistica, le teorie non sono più campate in aria quali sono
foggiate dall’apriorismo, ma riescono l’interpretazione oggettiva dei fatti.
Sta bene: i fatti vanno adunque interpretati; ma con quale criterio? Certamente
con qualche concetto o principio ideale, superiore ai fatti stessi, perché
questi per sé sono lettera morta, bisognevole dello spirito, che la vivifichi e
la illustri. Eccon quindi chiarita l’insufficienza dell’esperienza alla
formazione della psicologia e della pedagogia»263. Il positivismo si
autodefinisce teoria delle scienze positive, ma secondo A., la costruzione di
un sistema filosofico accede già ad una dimensione della riflessione che
travalica i confini dell’esperienza empirica. Si tratta di una «astrazione» che
si serve della logica, del giudizio, dell’argomento. In questo senso, se i
positivisti volessero essere coerenti con le loro posizioni, dovrebbero
«liberarsi da concetti «metafisici» come quelli di causalità, identità, o di
non contraddizione. In questo senso, per il pedagogista vercellese, l’assoluta
antimetafisica del positivismo, si traduce in un suicidio della scienza stessa:
«Dacchè dunque l’antropologia studia l’uomo pensante, il quale sovrasta alla
materia e possiede in sé i principi ideali necessarii alla costruzione del
sapere, consegue che essa è lo spirito informatore delle discipline positive e
naturali, e che il naturalismo, che la impugna, distrugge le stesse scienze
della natura e contraddicendo a se medesimo fa della metafisica col proclamare
che la materia è l’essenza universale di tutto, che è infinita, eterna, mentre
tutto questo trascende i limiti dell’esperienza e dell’osservazione
sensibile»264. A. giudica la posizione gnoseologica dei positivisti
fondamentalmente scettica, in quanto le loro premesse conducono all’inevitabile
dissoluzione della conoscenza: «Una critica priva di principii universali ed
assoluti, che la rischiarino, è una critica, che pretende di essere fine a se
stessa, anziché mezzo potente per giungere al Vero, ossia è criticismo
scettico. Il positivismo contemporaneo ha menato un gran guasto nel campo della
critica odierna, la quale è insorta a dissolvere e disfare quelle medesime
verità universali, che è tenuta a rispettare siccome fondamento della sua
esistenza»265. A proposito di tali nefande conseguenze, A. ebbe modo di
criticare il Romagnosi, che vicino a posizioni simili 263 G. A., Gli
evoluzionisti e il metodo in pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana», Asti,
1897, vol. I, pp. 305-306. 264 G. A., L’uomo e la natura, 17. 265 G. A., Delle
dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, 9. 74 sosteneva che è sano
solo colui che la pensa come la maggior parte dei suoi concittadini, non avendo
più un riferimento metafisico su cui fondare la validità delle posizioni266.
Inoltre il materialismo non può che portare ad una confusione nella scienza, in
quanto se la conoscenza è un prodotto necessario dell’esperienza personale, e
nasce da questa in modo spontaneo e incontrollabile, perde di significato la
valutazione delle teorie che non sono né vere né false, ma unicamente frutto
della determinazione. Scrive a proposito: «Ora se il pensiero è sempre di
necessità quale lo forma l’esperienza, ossia quale lo esige la condizione
fisiologica, in cui versiamo, allora cessa ogni distinzione tra un vero ed un
falso pensiero, e così il pensiero a priori, o sarà vero anch’esso, oppure
dovrebbe negarsene l’esistenza, siccome di un fatto impossibile, mentre
l’evoluzionista lo piglia ad oggetto della sua critica»267. Invece l’esistenza
della scienza conferma la presenza di una natura non materiale nell’uomo, solo
la persona ha coscienza del mondo e cerca la verità. Un altro nodo insolubile
per il positivismo è l’esistenza della libertà. La scienza esatta, come ha
insegnato Kant, non può attestare la sua esistenza, e il materialismo e
determinismo di certi positivisti la negano. Se l’uomo non è più libero, si
chiede A., come lo potrà essere la scienza? Inoltre ad A. pare pretestuoso
l’uso della scienza contro la metafisica e la religione. Le scienze naturali
«anziché escludere di loro natura la metafisica, rinvengono in questa sola la
loro suprema ragione, sì che non lasciano più luogo alla filosofia positiva.
Infatti, un fisico, un chimico, un astronomo, può ammettere i pronunciati del
teismo e dello spiritualismo, senza punto rinunciare ad un solo dei teoremi
della propria scienza (valga l’esempio di Newton, del Galilei, del Padre
Secchi, del Pasteur)»268. Un'altra «vittima» del positivismo è l’antropologia,
che da tale corrente viene snaturata. La negazione della metafisica ha notevoli
ripercussioni sulla scienza dell’uomo, poiché getta nell’indecifrabile la sua
essenza personale. Il positivista non può conoscere la vera essenza dell’uomo,
in quanto la persona non può essere raggiunta e compresa nell’esprit del
finesse. Scrive A. «Colla loro antropometria non giungeranno mai a misurare le
profondità dell’anima, a scandagliare gli immensi problemi, che si agitano
nelle intimità dello spirito umano»269. La persona non è rilevabile
nell’esperienza come se fosse un fenomeno fisico, è riscontrabile solo nella
riflessione oltre il sensibile. Occorre, stando ad A., sollevarsi dal fatto,
per constatare l’Io: «Il positivista vuol fatti, nient’altro che fatti, né vuol
saperne di esseri individui, di sostanze permanenti. Ma il factum (e chi nol
266 G. A., Studi psicofisiologici, 29. 267 G. A., Gli evoluzionisti e il metodo
in pedagogia, 304-305. 268 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine
pedagogico, 16. 269 G. A., Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il
corpo nell’uomo, 6. 75 sa?) è un sostantivo verbale derivante dal
verbo facere, è un participio che presuppone l’ego facio, tu facis, ille facit:
importa l’essere, che fa, il soggetto operante, e rompe in una contraddizione
il positivista separando l’un termine dall’altro»270. Ma tale agnosticismo si
trasformò presto in una negazione. Infatti, per i positivisti, «L’uomo non è
una sintesi vivente di due sostanze, spirito e corpo essenzialmente distinte,
eppur composte ad unità di persona, bensì un complesso di fenomeni fisiologici
e psicologici, diversi di grado soltanto, ma non di essenza da quelli
animali»271. Osserva nei già citati Opuscoli pedagogici: «Negli intimi recessi
dell’anima, dove non penetra coltello di anatomico, dove non giunge lente
microscopica di fisiologo e naturalista, si nascondono secreti che accennano
all’Infinito, si destano aspirazioni, che vengono dall’alto e nell’alto
ritornano. Quei secreti, quelle aspirazioni il positivista riguarda quali vani
fantasmi, e lo spirito umano quale un fantasma multiforme errante fuori del
mondo della realtà. Duri tempi per questi tempi»272. Così la prospettiva
epistemologica dei positivisti mette in discussione la scienza dell’uomo e
sfigura la persona. Osserva A.: «il sistema antropologico dei materialisti non
è la scienza nuova, che cerchiamo, ma la negazione della scienza»273. La loro
antropologia risulta dunque un grande «equivoco»274. Per questo chi approccia
l’antropologia positivistica è «trascinato entro una selva intricata di
osservazioni senza un’idea suprema dominante, che lo sorregga e le dia unità,
anima e vita a quel tritume di particolari»275. Il miglior esponente di questa
prospettiva è Spencer che enuclea tali concetti nel Primi Prinicipii, così
commentati dall’A.: «Per quantunque la credenza nella realtà dello spirito
individuale sia inevitabile, e benché sia riaffermata non solo dall’unanime
consenso del genere umano, ed adottata da tanti filosofi, ma ben anco dal
suicidio dell’argomento scettico, pur tuttavia non può venire per nulla
giustificata dalla ragione: havvi ancora di più; allorquando la ragione è messa
alle strette di pronunciare un giudizio formale, essa condanna tale credenza...
di guisa che la personalità di ciascuno ha coscienza, e la cui esistenza è da
tutti avuta per un fatto certissimo sopra ogni altro, è tal cosa che non può in
veruna guisa essere conosciuta; la conoscenza della personalità è vietata dalla
natura medesima del pensiero»276. 270 G. A., Delle idee pedagogiche presso i
greci, 87. 271 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 243. 272
G. A., Studi pedagogici, 13. 273 G. A., Della vecchia e della nuova
antropologia di fronte alla società, 13. 274 12. 275 G. A., La pedagogia
italiana antica e contemporanea, 58. 276 G. A., Del positivismo in sé e
nell’ordine pedagogico, 315. 76 Il filosofo britannico non può che
giungere ad un riduzionismo antropologico. Scrive ancora A.: «Lo Spencer fa sua
(né vi ha di che stupirne) l’osservazione di uno scrittore, che cioè a riuscire
nella vita occorre primamente essere un buon animale»277. Tale prospettiva è
inaccettabile per l’A., secondo cui l’uomo è strutturalmente differente dal
resto della natura: «L’umano soggetto, insino dal primissimo istante della sua
mortale esistenza, è non solo di grado, ma di specie differente dal bruto,
perché la mente, ossia l’anima razionale, che lo costituisce uomo, ei la
possiede per natura, e non l’acquista punto col tempo, non la vede allo
sviluppo progressivo dell’organismo corporeo. Questo giustissimo concetto
pitagorico, che tanto bene risponde al sentimento naturale della dignità umana,
sta diametralmente opposto alla moderna dottrina del positivismo
evoluzionistico, il quale sentenzia che nel neonato l’animalità si viene a poco
a poco trasformando in unità in virtù delle leggi fisiologiche dell’organismo
animale, il quale, mentre nella prima infanzia della vita si manifesta mercé le
sole funzioni inferiori del senso fisico e del cieco istinto, proseguendo nel
suo sviluppamento, acquista la virtù di esercitare esso stesso la facoltà
superiore dell’intendere, del ragionare e del volere, sicché la mente, lo
spirito, l’anima razionale, che tanto ci sublima e ci differenzia dal bruto,
non sarebbe già una sostanza diversa dall’organismo corporeo, bensì rimarrebbe
pur sempre in fondo l’animalità stessa che funziona sott’altra forma più
elevata»278. L’uomo è ontologicamente differente rispetto al resto della
natura. Il positivismo al contrario «afferma che l’io umano non è un’energia
vivente, un’attività libera e conscia della sua personalità sostanziale, bensì
un mero complesso di fenomeni che non appartengono a nessuno»279. Queste
posizioni antropologiche, denuncia A., portano ad inevitabili corollari
pedagogici: «ai giorni nostri e nella nostra Italia in fatto di pubblica
educazione si trascorre agli estremi, sicché questa gran legge dell’armonia
rimane offesa. All’educazione fisica si attribuisce una importanza esorbitante,
e assai più di quanto le convenga ed in suo servizio si lavora in tutti i rami
ed in tutte le guise, mentre la formazione del carattere che è di tutta l’umana
educazione la parte più nobile e più prestante, giace pressoché dimenticata e
negletta. Lo Spencer esaltando sopra misura la cultura dell’organismo corporeo
ha asserito che l’uomo debb’essere anzi tutto e soprattutto un buon animale, ma
ha dimenticato che si può essere un buon animale ed un pessimo soggetto ad un
tempo»280. 277 322. 278 G. A., Delle idee pedagogiche presso i greci, 28-29.
279 G. A., Opuscoli pedagogici, G. A.,
Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, 680. 77 Invece la
persona è quella briciola dell’Universo che appartiene a se stessa, e a ciò
deve essere educata. La persona sente, capisce e vuole. La riduzione dell’uomo
ad animale compromette la morale, e cioè l’immanenza dei criteri di bene e di
male e la responsabilità personale. A. individua le conclusioni di queste
premesse nell’opera di Spencer, il quale negando la libertà, «nella sua
psicologia riguarda la volontà quale una evoluzione dell’istinto fisico ed
assoggetta perciò l’opera umana ad un fatale e necessario determinismo, in cui
i fenomeni psichici si succedono gli uni agli altri con un intreccio
indissolubile. Torna quindi inutile, anzi contrario a ragione, il pronunciare,
che siamo moralmente tenuti a compiere le azioni per noi vantaggiose ed
astenerci dalle dannose se esse non dipendono dal nostro libero volere, ma sono
per insuperabile necessità predeterminate le une alle altre»281. Si tratta di
una posizione con nefandi corollari morali e pedagogiche. «Rigettando la
libertà – infatti - viene per ciò stesso a mancare ogni ragione di
responsabilità morale, in quella guisa che, rovesciato un principio, cadono
tutte le conseguenze sue»282. Si tratta di una corollario spesso negato dai
positivisti. A. ben evidenzia questa contraddizione e osserva «parlano della
necessità imperiosa di formare il carattere dell’alunno, di promuovere lo
sviluppo spontaneo della sua attività mentale, di educarlo alla libertà di
pensiero; ma in tal caso la logica li costringe ad accogliere il concetto
filosofico dell’uomo, da cui discendono tutte queste conseguenze pedagogiche, e
rigettare il concetto antropologico positivistico da cui fioriscono conseguenze
pedagogiche diametralmente opposte»283. Si tratta di un’aporia che emerge con
chiarezza nella «retorica» sull’autodidattica284. Privato della libertà e del
fine, l’uomo si rifugia nell’accidia: «Vivere adunque alla giornata secondochè
porta il caso fino a che venga l’unus interitus hominum et iumentorum, ecco
l’unica morale a cui possa logicamente far luogo il positivismo»285. A. critica
ancora lo Spencer quando nella sua Educazione morale, intellettuale e fisica
riduce la morale a «conservazione propria diretta», una considerazione che se è
281 G. A., Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 309. 282 109. 283 G.
A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 5. 284 Scrive
sull’argomento: «I propugnatori della nuova scuola positivistica vanno
proclamando la somma importanza dell’autodidattica e dell’educazione del
carattere, e se ne fanno banditori come di una loro scoperta; ma con ciò non si
avvedono, che danno una smentita alla loro dottrina, la quale facendo dell’io
umano un mero fenomeno senza sostanza, e rigettando fra le illusioni la libertà
dello spirito, toglie di mezzo quella personalità, per cui l’alunno colla sua
interiore energia conquista le conoscenze e vi attinge la fermezza incrollabile
del volere» G. A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 13. 285 G. A., Del
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 262. 78 spiegabile col suo
darwinismo non è accettabile ai fini di una convivenza e di una prassi
educativa. La vita diviene adattamento e sopravvivenza. Senza un fine ultimo
non può esistere educazione, ma solo adattamento, e cioè in qualche modo
abbruttimento e alienazione. Il positivismo è la negazione della vera
educazione e «non ha ragione di usurpare il posto della scienza, così
compromette fatalmente le sorti dell’educazione umana»286. In questo senso, non
sconsacra solo la fede e la metafisica, ma anche la vita umana, la fiducia,
l’amore, la morale, gli ideali. La nuova antropologia dei positivisti ha
conseguenze nefaste sull’educazione. Negato il principio della personalità e il
valore della libertà, l’educazione è declassata ad adattamento. Il fine della
formazione si riduce all’ «allevamento» di un buon animale, il suo unico interesse
e scopo dovrà essere quello di collaborare al benessere dell’Umanità. Nella
prospettiva positivistica perde di significato quella formazione del carattere,
della volontà, e di emancipazione dalle funzioni biologiche, in cui risiede
secondo A. lo scopo dell’educazione umana. Anche l’istruzione, come contesta A.
al Bain, è ridotta a comunicazione di nozioni, sempre funzionali alla
produzione o alle condizioni sociali, e senza nessun riferimento
all’educazione, agli ideali, ai valori. Non si bada più alla formazione del
carattere, ma alle capacità cognitive, privandole però del fine e della
direzione. L’educazione cessa di essere esortazione per divenire
condizionamento. Il suo senso nella pedagogia positivistica viene svilito in
quanto «manca il pensare grandioso, elevato, che raccoglie una molteplicità
svariatissima di idee particolari in una potente ed organica unità; manca quel
soffio di idealità, che innalza lo spirito dell’educatore al sentimento del suo
arduo e sublime magistero»287. Oltre all’idea di libertà, di morale, e di
educazione sono le stesse scienze umane che vengono ribaltate sulla base dei
principi antimetafisici, materialisti e naturalisti. A. denuncia che «Le
scienze della natura hanno usurpato il posto delle scienze dello spirito: la
psicologia, la morale, la filosofia in genere non hanno più una esistenza loro
propria e distinta, ma sono trasformate in altrettanti rami delle scienze
naturali»288. La pedagogia vede messi in discussioni i suoi principi
fondamentali: «Una scienza pedagogica senza verità universali e necessarie,
un’educazione senza ideale, ecco le conseguenze, che derivano dal principio,
che l’esperienza è la norma unica e suprema della disciplina pedagogica»289.
286 G. A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, G. A., La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 27. 288 G. A., Lo spirito e la materia
nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, 4. 289 G. A., La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 8. 79 Il primo dato necessario
alla pedagogia che il positivismo confonde è la natura non materiale della
persona: «La nuova scuola, mentre proclama di non voler accogliere nella
cerchia della scienza altro che fatti, inconseguente a se medesima rinnega
alcuni fatti di singolarissima importanza. Giacché è un fatto irrepugnabile,
che l’educatore e l’alunno, l’uno di fronte all’altro, sentono di essere non
già meri fenomeni insieme implicati, bensì due persone vive e reali, che hanno
ciascuna affetti, intendimenti e voleri suoi propri, ed affermano la loro
individualità col vocabolo io; sentono di essere attività libere, consapevoli
di sé, arbitre del proprio operare. Ora la nuova scuola proclama illusorii
questi due solennissimi fatti, che sono il fondamento primo dell’opera
educativa». L’antimetafisica mette in discussione un altro elemento necessario
per la pedagogia, vale a dire l’evidenza che «L’uomo è un soggetto educabile.
Questo concetto semplicissimo ed elementare trascende la sfera
dell’esperienza»290, e non può dunque essere incastonato nell’architettura
positivista. La persona inoltre ha bisogno di un ideale, di un fine a cui
piegare la sua esistenza. «Senza ideale non si vive da uomo, non si vive
personalmente; e l’ideale vero non ci viene da una scuola, la quale insegni che
la vita umana si risolve tutta quanta in un gabinetto di fisiologia, non ci
viene dalla nuda esperienza. Essa mi dirà quello che io sono di fatto, o
integro o corrotto che io mi sia; l’ideale invece mi rivela quello che io debbo
essere; quello dell’esperienza è l’ideale del momento che passa, del punto che
scompare; il vero ideale abbraccia l’universalità del tempo e dello spazio»291.
In un altro saggio osserva: «L’esperienza mi dice quello, che è di fatto, non
quel che debb’essere; mi apprende cioè che l’uomo viene realmente educato, ma
non già che lo debba essere; è dessa la ragione, che muovendo dal concetto
della persona umana ne argomenta che l’educazione le è necessaria ed
essenziale. Così la sola esperienza non vale a somministrarci la verità
universale e necessaria dell’educabilità»292 L’educazione ha bisogno di un
ideale. Questo brano sintetizza chiaramente i concetti suaccennati: «Che se il
soggetto educando de’ positivisti, conscia ed arbitra di sé e cagione
efficiente degli atti suoi, è niente più che una mera successione de’ fenomeni,
i quali non appartengono a nessuno, ognun vede, 1° che voi farete del vostro
alunno non già una libera individualità, che pensi da sé e si regga per virtù
interiore, bensì un meccanismo di fenomeni insieme raccostati dalla forza dell’abitudine;
2° che la santità del dovere è sfatata e l’educazione morale torna impossibile,
perché i fenomeni passano senza lasciar traccia di sé, e le nostre risoluzioni
290 6. 291 G. A., Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, 15. 292 G. A., La nuova
scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, 6. 80 volontarie sarebbero
una risultante di fenomeni ossia di forze meccaniche cooperanti; 3° che
anch’essa l’educazione religiosa non ha più ragione di essere, perché il
positivismo è la negazione della metafisica, come scienza dell’Essere assoluto,
e la negazione della religione, come amore intelligente ed operoso dell’Essere
divino»293. La pedagogia positivista viene inoltre criticata in quanto si
fregia di aver portato fondamentali novità per la pratica educativa. A.
chiarisce che: «I positivisti s’immaginano di avere dato alla scienza dell’uomo
e della sua educazione un impulso affatto nuovo e potente, di averle impresso
il suo vero indirizzo, di averla ricostruita sulle sue giuste fondamenta come
se tutti i grandi pensatori, che meditarono prima di essi intorno a queste due
discipline, avessero brancolato alla cieca; e tutta la riforma, della quale
vanno altieri, sta nell’aver circoscritto tutto il compito dell’antropologia e
della pedagogia allo studio de’ fatti umani ed alla ricerca delle loro leggi,
indipendentemente da ogni considerazione relativa alla sostanzialità del me, in
cui essi fatti hanno il loro comune principio, il loro punto centrale ed
armonizzatore»294. Ne La nuova scuola pedagogica analizza le novità che i
positivisti si prendono il merito di aver apportato alla pedagogia: metodo
intuitivo, autodidattica e adattamento. A. fa notare come siano tutte
intuizioni e nozioni assai note prima della nascita del positivismo e prima
ancora della comparsa della pedagogia. Per quanto riguarda le scienze umane, A.
contesta la trasformazione positivistica della psicologia in una branca della
fisiologia. Tale critica è legata alla battaglia per la difesa della
personalità umana e della sua libertà. Ciò che A. intendeva difendere era
l’idea che i fatti psicologici non fossero solo fisici, ma fondamentalmente
spirituali. Il mentale non può essere trattato come il biologico, per cui
l’oggetto della psicologia deve essere l’io sostanziale e non la sua espressione
fisiologica o fenomenica. Per tale motivo la psicologia deve seguire, a detta
di A., un metodo filosofico e non scientifico, con cui invece si può indagare
l’uomo da un punto di vista anatomico o fisiologico. Così per l’A. «la
psicologia è quella parte di filosofia, che ha per oggetto l’anima umana
studiata ne’ suoi fenomeni e nel suo essere sostanziale mediante la coscienza
perfezionata dalla riflessione al ragionamento»295. Tale concezione deve essere
contestualizzata in un periodo in cui la scienza italiana era parecchio lontana
dagli approcci e dai risultati dei laboratori psicologici svizzeri, tedeschi e
francesi. Questa difesa del collocamento della psicologia nella filosofia da
quanti la volevano ridotta a pura fisiologia, nacque dalla paura 293 G. A., Del
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, 409. 294 G. A., Delle idee
pedagogiche presso i greci, 87. 295 G. A., Appunti di Antropologia e
Psicologia, 24. 81 che tale prospettiva avallasse la riduzione
dell’essere umano a un mero meccanismo biologico. Occorre inoltre far notare
che A. tenne in grande considerazione le scienze sperimentali, anche se
denunciò l’alto rischio dello scadimento della scienza in scientismo. Osserva
«Non vi è amatore del vero sapere, che non riconosca e non ammiri i grandi
progressi fatti dalle scienze naturali, e lo splendido avvenire, a cui sono
chiamate, proseguendo per la retta via dell’osservazione sincera e compiuta dei
fatti fisici, fecondata da una lenta e prudente induzione verificata mediante
la prova e riprova di ben condotto esperimento. Questo successo e sicuro
progredire del pensiero nella scoperta delle leggi e delle forze della natura
avvantaggia le sorti dell’umanità e conferisce potentemente alla civiltà ed al
perfezionamento sociale, essendochè l’uomo la fa sua rivolgendola al compimento
del suo ideale. Se non che mentre per una parte il progresso delle scienze
naturali conforta l’animo di liete speranze, per l’altra si nota con
rincrescimento la tendenza di alcuni illustri ingegneri contemporanei a
trascendere i confini proprii di esse scienze e riguardarle siccome la vera e
sola scienza, a cui tutte le altre vanno sacrificate, come se in esse sole
fosse incarnato lo spirito scientifico»296. Appare dunque poco fondato
l’appunto mosso dalla Bertoni Jovine all’A., che criticò al vercellese una
presunta ostilità nei confronti della scienza e del suo valore educativo.
Secondo la studiosa emiliana, per A.: «Tutte le scienze che si valgano di
questo metodo e che inducono l’educando all’osservazione spregiudicata dei
fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno
non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che
rafforzano la fede»297. In un lavoro successivo provò a giustificare la
supposta contrarietà all’insegnamento della scienza, con l’esigenza di
difendere il «dogmatismo» in funzione dell’ostruzionismo al progresso sociale e
civile298. 296 G. A., L’uomo e la natura, 12-13. 297 D. Bertoni Jovine, Storia
della scuola popolare in Italia, Torino, Einaudi, 1954, p. 387. 298 «Ad ogni
modo, pur attraverso una prosa gonfia e nello stesso tempo reticente, è
opportuno districare il filo delle argomentazioni del pedagogista torinese. Il
punto sostanziale della sua polemica è la critica del valore educativo della
scienza. La scuola moderna si fa un feticcio della scienza sottovalutando altri
elementi formativi dello spirito umano. Ma di quale scienza parla A.? Lo
chiarirà in una nota inviata alla Reale Accademia di Scienze di Torino. Si
tratta soprattutto si quel complesso di problemi e di studi che si raggruppa
sotto il nome di “sociologia” e che interessa tutti i problemi della vita
moderna, compresi quelli educativi. Egli non avrebbe probabilmente trovato
tanto rivoluzionarie le teorie del positivismo, dello scientificismo, dello
storicismo, se tutte insieme queste nuove teorie non avessero giusitificata
l’esigenza di dare un nuovo sviluppo e un nuovo orientamento alla scuola; se in
altri settori della vita pubblica quell’esigenza non si fosse collegata con
necessità fatte sull’analfabetismo non avessero messo l’accento sull’influsso
che una struttura economica arretrata aveva sulla scarsa efficienza della
scuola. In questo legame l’A. trova il punto più pericoloso delle nuove
dottrine pedagogiche che segnavano il tramonto di quello spiritualismo al quale
egli si richiamava con nostalgia. Ad esse attribuisce il fallimento scolastico
italiano, richiamando gli educatori ad una maggiore prudenza nell’accettare
quel metodo positivistico che 82 Nel testo Studi Psico fisiologici
(1896) riprese diverse scoperte fatte in ambito sperimentale e ne valorizzò i
meriti e la valenza pedagogica. In più d’una occasione dovette difenderne
l’importanza per la pedagogia da quanti, come gli idealisti, ne contestavano il
senso e l’utilità299. Tale avvicinamento alla psicologia sperimentale gli costò
la critica dell’idealista Santamaria Formiggini che avversando l’ilemorifismo
dell’A. vide nell’apertura alla psicologia sperimentale un tradimento della
realtà spirituale:300 D’altra parte pare chiaramente inesatto il giudizio di
Vidari che fa dell’A. un osteggiatore della psicologia, sostenendo che il
principio della personalità è «anti-sperimentalista» e «anti – sociologico»301.
Invece l’armonia tra il materiale e lo spirituale, il loro “accordo”, era
proprio ciò a cui A. puntava. Le due discipline, psicologia e fisiologia, non
dovevano essere confuse ma ben distinte nel comune studio sull’uomo. Scrive a
proposito: «La psicologia si trova in intimo contatto colla fisiologia, ma
ciascuna di queste due scienze va distinta dall’altra, perché la prima ha per
oggetto suo proprio la mente co’ suoi fenomeni psichici, la seconda l’organismo
corporeo colle sue funzioni vitali; e tuttavia sono unite insieme da quel
medesimo vincolo, che congiunge nell’uomo l’anima razionale ed il corpo
organico, e così unite costituiscono l’antropologia»302. A causa di ciò A. non
può essere considerato come un nemico della psicologia sperimentale, ma contro
quella che esclude la «natura personale» nell’uomo. La critica del positivismo
e del materialismo è connessa a quella sull’evoluzionismo. A. fa notare come il
darwinismo non sia una necessaria conseguenza del positivismo, ciò è confermato
dal fatto che non fosse condivisa da autori come Auguste Comte o Stuart Mill.
Nella Nuova scuola pedagogica (1905) A. osserva: «La nuova scuola pedagogica
annovera nel suo seno alcuni seguaci dell’evoluzionismo darviniano, i quali
accusano la distruggerà il metodo dogmatico [in nota: G. A., L’indirizzo
storico e sociologico della pedagogia contemporanea, Torino]. Tutte le scienze
che si valgono di questo metodo e che inducono il fanciullo all’osservazione
spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto
meno non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che
rafforzano la fede» D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in
Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 221-223. 299 G. A., Il problema metafisico
studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, 14.
300 «Forse l’A. si lasciò trascinare nella sua vita dal desiderio di porre la
sua psicologia in maggiore armonia con le teorie scientifiche sull’emozione che
allora si diffondevano in seguito all’indirizzo di studi del Wundt; volle
dimostrare la possibilità di coordinare il suo sistema coi risultati della
scienza più moderna; ma naturalmente non poté riuscire bene nel suo intento,
perché l’eclettismo è il più difficile di tutti i sistemi» E. Santamaria
Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I,
gli spiritualisti, Roma, A. F. Formiggini, 1920, p. 281. 301 Vidari sostiene
che l’A. è contrario alla «psicologia fenomenistica, che è per la Pedagogia
rovinosa, negando essa il principio fondamentale della sostanzialità e unità
della Persona» G. Vidari, Giuseppe A., 8-9. 302 G. A., Appunti di
Antropologia e Psicologia, 26. 83 vecchia pedagogia di posare sopra una
psicologia astratta e dualistica, per cui mancava di salde basi scientifiche,
adoprava un metodo puramente soggettivo ed astratto e toglieva di mezzo ogni
raffronto tra i fenomeni psichici dell’uomo e quelli degli animali. Tutte
queste accuse presuppongono che l’evoluzionismo, a cui si appoggiano, sia una
verità scientifica rigorosamente dimostrata, ma cadono l’una dopo l’altra,
dacché il Darwinismo è una mera ipotesi sostenuta da pochi pensatori, che lo
scambiano per un teorema scientifico dimostrato. Anche riguardato come una pura
ipotesi bisognevole di conferma, l’evoluzionismo è ben lontano dallo adempiere
i difetti ingiustamente attribuiti alla pedagogia filosofica e rinnovare di
sana pianta la scienza educativa nelle sue basi, nel suo metodo, nelle sue
attinenze sociali»303. In tale testo conferma una considerazione fatta già nel
1874: «L’alterazione della specie sostenuta da Darwin è una mera ipotesi, che
va ogni di più perdendo valore e seguaci»304. Di certo la previsione è
risultata sbagliata. Tuttavia, il fatto che A. considerasse la teoria
dell’evoluzionismo come una probabilità appare giustificabile sulla base delle
conoscenze scientifiche e delle prove addotte dal darwinismo alla fine
dell’Ottocento. Va peraltro tenuto conto che la critica dell’A. fu abbastanza
superficiale e incentrata su questioni filosofiche più che scientifiche (non ne
aveva gli strumenti). L’idea che il pedagogista vercellese difendeva era
comunque la stessa, l’irriducibilità dell’uomo alla natura. Nel testo L’uomo e
la natura (1906) si interroga: «possiamo noi ammettere che la specie umana
abbia avuto origine dalla materia universale diffusa nello spazio per via di
una lenta e progressiva trasformazione degli organismi viventi? Lo asseriscono
i seguaci dell’evoluzionismo materialistico, ma non lo hanno mai dimostrato
seriamente né punto, né poco; né dimostrare lo possono perché nemo dat, quod
non habet, e la materia bruta primitiva non racchiudeva certamente in sé il
germe di quella sublime razionalità, che è il carattere costitutivo della
specie umana. Carlo Vogt nelle sue Lezioni sull’uomo si sbraccia a dimostrare,
che le diverse razze umane originarono dalle differenti famiglie di scimmie, ma
ristrinse tutto il suo esame alla morfologia del cranio umano raffrontato con
quello scimmiesco, e non disse verbo delle facoltà mentali proprie
dell’umanità: che veramente avrebbe avuto un disperato partito per le mani, se
avesse preteso che la mentalità dell’uomo è sbocciata dalla brutalità della
scimmia»305 Stando all’A. il positivismo non è perdente solo sul piano
teoretico. È la vita a condannare questo sistema. Nell’introduzione degli Studi
Pedagogici, A. riprende il 303 G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, 12. 304 G. A., Della vecchia e della nuova antropologia di
fronte alla società, 10. 305 G. A., L’uomo e la natura, 10. 84
romanzo di Dickens, Duri tempi per questi tempi, e cita diversi brani al fine
di mostrare la confusione a cui porta il positivismo nella vita reale, infatti
è inevitabile che venga svilito il compito dell’educatore, svalutata
l’immaginazione, sminuito il sentimento e l’amore. Il positivismo soffoca
l’esistenza. Anche se A. ricorda che «il cuore è tal forza che più di ogni
altra della natura scoppia irresistibile quanto più lungamente e violentemente
repressa»306, il positivismo conduce inevitabilmente alla «ruina e lo sfacelo
della vita domestica e sociale»307. A. contesta anche le posizioni
positivistiche sulla scuola. Critica Comte che impone alle prime classi un
quadro orario composto quasi esclusivamente con materie matematico
scientifiche, sminuendo quelle umanistiche. Nonostante le critiche A. riconosce
alla nuova pedagogia anche dei meriti308. Uno degli apporti importanti del
positivismo è stato quello di riavvicinare la scienza pedagogica all’analisi e
all’osservazione degli aspetti empirici dell’educazione. Comunque se A. dopo
gli anni ’70 risultava preoccupato per l’avanzata del positivismo, alla fine
della sua carriera ebbe occasione di esultare per la sua decadenza. A. poteva
scrivere che «Il positivismo pedagogico attraversa una grandissima crisi e va
via via smarrendosi in mezzo a diversi e contrari indirizzi. La mancanza
assoluta di critica, la cieca fidanza si sé, il dogmatismo sostituito al
ragionamento ed alla discussione, la noncuranza delle dottrine contrarie, il
disprezzo della tradizione, tolgono a questo sistema ogni efficacia scientifica
e segnano il suo decadimento»310. 306 G. A., Studi pedagogici, «Nessuno mai, che abbia fior di senno,
rigetterà siccome sciupato, fallito e contrario al vero tutto il lavoro della
nuova scuola pedagogica. Anch’essa ha le sue parti buone e commendevoli accanto
alle malsane e morbose; ha messo in bella luce alcuni punti, che non erano
stati sufficientemente lumeggiati; ha posto in rilievo alcuni fatti educativi
mediante un’analisi sottile ed accurata; ha dato un nuovo impulso
all’educazione fisica ed alla coltura del pensiero; ma il principio
fondamentale, su cui essa posa, è radicalmente sbagliato; epperò tutte le verità,
che essa contiene nella sua dottrina, non le può logicamente ammettere, se non
a condizione di rigettare il suo principio supremo, mentre la pedagogia
filosofica le può accogliere tutte quante, perché rientrano nel principio che
le è proprio» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, «Il
positivismo (sarebbe ingiustizia il disconoscerlo) ha recato non poco
giovamento agli studi antropologici coll’averli ritirati dalla via
dell’incompiuto ed esclusivo metodo trascendentale dell’antica scuola e
condotti su quella dell’osservazione e della storia; ma è solenne errore quel
suo fermarsi alla nuda osservazione dei fatti e delle loro leggi senza punto
assorgere allo studio delle origini, della natura e della destinazione
dell’uomo che è causa efficiente e ragione spiegativa di quei medesimi
fatti.”309 Osserva ancora: “Certamente dimostrerebbe ingiusto verso la nuova
scuola chi le negasse il merito di avere efficacemente contribuito
all’incremento della scienza pedagogica; ma dall’altro lato è giuoco – forza
riconoscere, che nel corso delle sue indagini ha passato sotto silenzio
argomenti e problemi pedagogici di altissimo rilievo» 27. 310 G. A.,
Opuscoli pedagogici, 6. 85 Concludendo, si può rilevare come A. abbia
scovato nelle critiche al positivismo e all’idealismo un errore comune.
Entrambe mancano infatti di realismo, e riducono sia il campo dello scibile che
quello dell’esistente Il contributo alla storia della pedagogia Gli studi di
storia della pedagogia costituiscono una parte cospicua nella produzione di A.,
che nella sua lunga carriera si è occupato di diversi periodi, che vanno dalla
pedagogia antica greca e romana, all’itinerario della riflessione europea tra
il XVIII e il XIX secolo, alla storia dello spiritualismo italiano.
L’importanza data agli studi storici è inoltre confermata dal fatto che i testi
in cui A. espone il “suo” sistema pedagogico e filosofico sono lavori di storia
della pedagogia, vale a dire i Saggi filosofici, gli Opuscoli e Il problema
metafisico. Tra le opere più importanti vi è il già citato Del positivismo in
sé e nell’ordine pedagogico (1883), che non si limita ad una critica sui
contenuti ma riprende con precisione lo sviluppo delle teorie pedagogiche di
Comte, Spencer, Bain. Sulla stessa corrente, è particolarmente significativo il
testo La psicologia di Herbert Spencer: studio espositivo-critico (1898). Al
contributo della pedagogia svizzera dedica il libro: Delle dottrine pedagogiche
di E. Pestalozzi, A. Necker de Saussure, F. Naville e G. Girard (1884). Un altro
testo importante è Delle idee pedagogiche presso i Greci (1887). Nel 1901
pubblicò La pedagogia italiana antica e contemporanea in cui in un capitolo è
riportato un testo pubblicato quaranta anni prima: Della pedagogia in Italia
dal 1846 al 1866 (1867). Negli Opuscoli pedagogici (1909) presenta saggi su
l’Helvetius, Gerdil, Jacotot, Kant, Herbart, Blackie ed altri. Importante anche
lo studio sul fondatore della pedagogia moderna, G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista (1910) e l’ultima opera che rappresenta il testamento pedagogico
dell’A.: Giobbe e Schopenhauer (1912). Un altro importante contributo fu la
traduzione e l’introduzione della Levana di Richter, e lo studio su Maine de
Biran e la sua dottrina antropologica (1895). 311 Sui punti in comune delle due
teorie scrive: «Queste due specie di umanismo filosofico hanno due punti comuni
in cui convengono, ai quali corrispondono due punti di discrepanza, in cui esse
differiscono. Anzi tutto entrambe concordano nel proclamare l'autonomia
illimitata del pensiero umano, che nulla più riconosce oltre di sè: da ciò poi
che l'attività del pensiero si spiega e come ragione avente per oggetto il
mondo soprasensibile, immutabile ed assoluto delle essenze, e come esperienza
la quale coglie il mondo sensibile, mutabile e relativo de' fenomeni, ne viene
una ragion soggettiva per cui l'umanismo filosofico si specifica in
razionalismo assoluto ed in empirismo universale. Ancora, esse convengono nel
proclamare il moto indefinito delle cose e delle idee, mercè il quale l’uomo,
disertando il posto segnatogli dalla propria natura, o si faccia identico con
Dio, che gli sovrasta, trasumanando, o si confonda colla materia che gli
soggiace. disumanandosi; e di qui una ragione oggettiva, per cui l'umanismo
differenziasi in antropoteismo ed in naturalismo» G. A., L’Hegelismo e la
scienza, la vita, 9-10. 86 Uno dei periodi più studiati dall’A. fu
la pedagogia del XIX secolo. Nel testo Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
(1884), innalza la scuola svizzera come un momento importante per l’intera
scienza e storia della pedagogia, una scuola che seppe integrare le spinte
della modernità con una prospettiva antropologica spiritualista. Un altro testo
molto significativo è il già citato Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866
(1867). Questo saggio ripercorre con precisione lo sviluppo della cultura
pedagogica e della legislazione scolastica in Piemonte e in Italia, in un
decennio decisivo per la costruzione della scuola italiana. Commentando questo
saggio Gerini ha scritto: «La monografia, composta per incarico del Ministro
della P.I., è il primo saggio di storia pedagogica scritto in Italia, che sarà
sempre consultato da quanti vorranno conoscere il nostro risorgimento
educativo»312. Dello stesso avviso anche Arcomano, che commenta: «È una
rassegna delle situazioni, delle attività e delle opere del ventennio
1846-1866, in fatto di istruzione ed educazione, e si può considerare un
capolavoro di chiarezza nella interpretazione degli avvenimenti e nella
presentazione delle idee che circolavano»313, anche se poi rileva come il testo
è forse troppo concentrato sulla realtà subalpina. Il testo ebbe vasta eco nel
dibattito pedagogico, lo troviamo spesso citato in opere di altri autori314,
abbastanza rare sono le critiche315. In questo saggio A. esalta i protagonisti
di quella stagione come Vincenzo Troya, Agostino Fecia, Vincenza Garelli, Carlo
Boncompagni. Riprende poi tutte le discussioni sulla riforma della scuola, e
trova nell’esperienza pedagogica del Piemonte e della Toscana nella metà
dell’Ottocento i due laboratori della nuova scuola e della nuova pedagogia. È
molto significativo il peso dato dall’A. alla «Società pedagogica» e anche alle
riviste del tempo. Questo testo, contribuì a dimostrare come fosse solo un mito
l’idea propagandata dai positivisti secondo la quale la pedagogia precedente
alla loro non avesse avuto nulla da dire. A. fa risaltare la pedagogia
spiritualista risorgimentale e quel clima di liberalismo educativo che sarà
tradito e defraudato dalla statolatria e dal positivismo. 312 G.
B. Gerini, La mente di Giuseppe A., 44. 313 A. Arcomano, Pedagogia,
istruzione ed educazione in Italia, 56. 314 Cfr. C. Uttini, Nuovo compendio di
pedagogia e didattica: ad uso delle scuole e delle famiglie, Torino, Libreria
scolastica di Grato-Scioldo, 1884, p. XIV. 315 Si vedano per esempio gli
appunti negativi di Vidari: «Abbastanza buono per la parte della pedagogia
contemporanea è il Saggio dell’A., il quale porta in esso il contributo delle
sue proprie memorie e impressioni; ma anche qui il senso della vita storica,
cioè della interiore unità onde si collegano nel loro svolgimento le dottrine,
è quasi del tutto assente, e invece prevalgono le preoccupazioni personali
dell’autore» G. Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo
storico, 4. 87 Senza dubbio lo studioso può essere considerato uno
tra i primi storici della pedagogia italiana, e non solo per il numero dei
lavori pubblicati, ma anche per la teorizzazione dell’ambito disciplinare e
delle metodologie di ricerca. A. espone il suo pensiero circa il fine e il
metodo della Storia della pedagogia nel breve opuscolo Concetto generale della
storia e della pedagogia (1901), anche se accenna a tale questione in diversi
altri saggi. Nel lavoro citato, parte dalla considerazione dell’educazione come
fatto e concetto comune. La pratica e la teorizzazione educativa sono
imprescindibili, e la scienza pedagogica si sviluppò sotto la spinta di voler
vedere perfezionata l’arte educativa. In questo senso continua: «La necessità
di una scienza pedagogica emerge dal difetto inerente all’inconscia educazione
naturale, e quindi dall’insufficienza del suo concetto»316. Egli rivendica uno
statuto epistemologico propria alla storia della pedagogia, che distingue tanto
dalla pedagogia in sé, che dalla storia dell’educazione. In questa direzione
critica Paroz che nella Histoire universelle de la Pédagogie non separa le due
discipline317. A. distingue anche la storia dell’educazione in generale, vale a
dire i tratti tipici dell’educazione e la sua storia universale, dalla storia
dell’educazione di una particolare tradizione o società318. Nei suoi studi
richiama l’importanza della precisione storiografica ed uno studio approfondito
delle fonti. In particolare rimarca come la storia dell’educazione debba
essere: ordinata, veridica, ragionata, compiuta. Chiede di riferirsi sempre a
«fonti accurate e sicure»319. Uno degli aspetti innovativi dei lavori dell’A. è
il peso dato allo studio del contesto e della personalità dell’autore320. 316
G. A., Concetto generale della storia della pedagogia, 1. 317 «La storia
dell’educazione ha per ufficio suo proprio di esporre le diverse forme, che
prese l’educazione presso i diversi popoli antichi e moderni; per contro la
storia della pedagogia espone le origini e lo sviluppo di questa scienza
attraverso le dottrine, i sistemi, le teorie de’ pensatori, che la coltivarono.
[...] Per certo queste due specie di storie sono fra di loro congiunte da intime
attinenze e si lumeggiano a vicenda, ma la loro distinzione va tenuta in conto
per non confondere due ordini di cose affatto diversi, quali sono le idee
pedagogiche de’ pensatori e le azioni educative degli istitutori» 3. 318 «La
storia dell’educazione, riguardata rispetto alla sua estensione, viene a
diversi in universale, particolare e singolare. La storia universale si estende
all’educazione di tutti i tempi dai più remoti ai contemporanei, di tutti i
popoli e barbari e civili, e antichi e moderni. La particolare comprende un
periodo storico generale, quale sarebbe la storia dell’educazione antica, o
parte di un periodo storico, come ad esempio la storia dell’educazione dal 1500
a noi. In entrambi i casi abbraccia l’educazione presso tutti i popoli
ristretti però ad un tempo determinato. È altresì particolare quella, che
espone l’educazione di una nazione considerata o in tutta la durata della sua
esistenza (quale l’educazione presso i romani) o in uno de’ suoi periodi
storici (quale l’educazione dei romani nel periodo repubblicano). Infine è
singolare, se si restringe o ad un dato secolo (come la storia dell’educazione
ai tempi della rivoluzione francese), o ad un Istituto educativo, quale
l’Istituto pitagorico o l’Istituto educativo di Vittorino da Feltre; ed allora
piglia più propriamente nome di monografia storica» 3-4; 319 4. 320 Già in uno
dei primi saggi esponeva con chiarezza tale principio: «La critica ha da
descrivere la genealogia del genio speculativo; ha da seguirlo in tutto il suo
periodo evolutivo ricordando i sentieri e le vie riposte per cui è passato
prima di giungere al suo ideale definitivo; ha da studiare il movimento
speculativo dell'epoca in mezzo al quale si svolse; ha da sceverare nelle
pagine della storia le idee di cui ha elementato il proprio sistema e
significare come queste nel proprio sistema s'intrecciarono e vi ricevettero
un'impronta peculiare e sistematica. Tale è l'ufficio narrativo della critica.
Oltre a tutto questo, apprezzare nel suo giusto 88 Come la storia
dell’educazione, anche la storia della pedagogia si può dividere in generale e
particolare. Il suo fine non si limita ad una narrazione asettica della
riflessione educativa, ma trova il suo senso nella valutazione delle teorie
pedagogiche rispetto all’autentica scienza pedagogica. Scrive A.: «Da queste
generali considerazioni intorno al come si forma e si va svolgendo la pedagogia
emerge da sé il concetto della sua storia, la quale apparisce una ordinata e
razionale narrazione dello svolgimento progressivo della scienza pedagogica
attraverso i tentativi fatti dai pensatori di tutti i tempi e luoghi a fine di
determinare l’ideale tipico dell’umana scienza»321. In particolare, sono
significativi alcuni brani presenti negli Studi pedagogici (1889)322 e ne La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, in cui mostra come lo scopo
dell’approfondimento storico è strettamente connesso al fine della scienza
pedagogica. L’A. sostiene che l’educazione possa essere studiata o nel suo
svolgimento pratico o da un punto di vista speculativo. La pratica educativa
può essere di tre tipi: quella che normalmente le persone attuano, quella di
una determinata società, e la vera arte di educare. Come l’educazione, anche la
teoria pedagogica sembra connaturale alla vita umana. Per tale motivo in ogni
epoca l’uomo si è fatto un’idea circa il miglior modo di educare. Così, secondo
A., esistono tre tipi di teorie pedagogiche: la pedagogia volgare, quella del
singolo pensatore, e la scienza pedagogica. Il compito della storia della pedagogia
quello di individuare il differenziale tra quanto pensato in passato e la
scienza pedagogica. La storia ha così un valore fondamentale della riflessione
pedagogica, poiché propone agli studiosi interlocutori di vaglia, anche sé A.
ricorda di distinguere la scienza dalla storia324. Il seguente brano ben
lumeggia la distanza tra ciò che si è pensato e la scienza: «Fu detto che la
storia universale è tutta una congiura contro la verità: nell’ipotesi che
stiamo valore il punto iniziale da cui un sistema piglia le mosse, il processo
a cui s'informa il suo sviluppamento, il termine finale in cui si è chiuso;
pronunziare se nella storia del pensiero speculativo esso segni un periodo di
sosta o di progresso; giudicare se il problema filosofico sia stato concepito
in tutta la sua integrità e giustezza, e risoluto a dovere; epperò se siano
state convenientemente satisfatte le esigenze del pensiero spéculativo senza
punto disconoscere i pronunziati universali della sapienza comune, anzi armonizzandoli
colle conclusioni della ragion filosofica: ecco l'altro ufficio della critica
che discute» G. A., L’Hegelismo e la scienza, la vita, 18. 321 G. A., Concetto
generale della storia della pedagogia,
G. A., Studi pedagogici. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
7. 324 «I cultori della pedagogia trovano nella storia una saggia maestra, che
additando gli errori dei pensatori che li precedettero, da un lato, e
dall’altro le verità da essi scoperte e lumeggiate, li consiglia a procedere
ammisurati e guardinghi nei loro tentativi, li anima e li sorregge all’amore ed
alla conquista del vero, ed allarga l’orizzonte del loro pensiero. Riconoscendo
l’utilità e l’importanza della storia della pedagogia, guardiamoci però
dall’ingrandirla oltre il convenevole.» G. A., Concetto generale della storia
della pedagogia, 8. 89 discutendo, bisognerebbe ripetere, che
anch’essa la storia della pedagogia è tutta una congiura contro la scienza
pedagogica»325. Nel stesso saggio critica il Siciliani e il suo testo Storia
critica delle teorie pedagogiche nel quale sostiene che la scienza pedagogica
si fonda sulla esperienza storica dell’educazione326. Se per Siciliani la
scienza pedagogica è frutto di evoluzione, per lo spiritualista A. la «vera»
scienza pedagogica è una, e ad essa ci si può avvicinare o allontanare. Entra
poi in merito a come si fa la storia della pedagogia. Spesso si è costretti a
raccogliere le «idee slegate e frammentate» in opere non propriamente
pedagogiche, scovando le «teorie particolari intorno a qualche punto di
educazione, o sia che esse formino un tutto da sé distinto da ogni altro, o sia
che giacciano implicata ed involte in opere di altra natura», ma anche «i
trattati che abbracciano un compiuto sistema pedagogico, dove l’educazione è
contemplata in tutta l’integrità del suo organismo, quali ce ne porge in copia
moderna». Bisogna quindi studiare le opere dell’autore, i frammenti della sua
opera presente in altri autori, la tradizione su di lui. «Gli scritti originali
di un pedagogista sono essi soli le vere fonti, da cui si attinge limpida e
netta la sua dottrina, mentre i frammenti registrati nelle opere di altri
scrittori, e la tradizione scritta od orale, anziché fonti, sono rivi più o
meno puri». Dai suoi scritti occorre innanzitutto cogliere in concetto centrale
di un autore, cercandone poi le cause. Occorre comunque valutare la pedagogia
degli autori studiati: «Ma il compito più elevato, più grave e ad un tempo più
arduo della critica storica risiede nel cernere nelle esposte dottrine la parte
vera dalla erronea, la certa dall’incerta ed opinabile, l’elemento soggettivo,
particolare, relativo, dall’oggettivo, universale, assoluto, che solo può
passare nel dominio della scienza pedagogica»327. Lo storico dovrà stare
attento ad ancorarsi sempre alla scienza pedagogica328. In conclusione
sintetizza così il compito dello storico della pedagogia: «Ai quattro uffici
propri della storia pedagogica ora accennati fanno natural corrispondenza
quattro distinte e successive forme speciali, che essa può rivestire nel suo
progressivo sviluppo. La storia della pedagogia rintraccia primamente i
materiali, che entrano a comporla, ed in questo suo primo studio riveste la
forma di memorie e frammenti. Poi si accinge ad esporre e descrivere le
raccolte dottrine, e qui assume la forma di cronaca, alla quale succede la
forma di storia propriamente detta, 325 9. 326 10. 327 15. 328 «Lo storico deve
scansare due estremi; da un lato la troppa fidanza di sé ed il cieco
immobilismo nelle proprie idee, dall’altro l’incostanza e la volubilità del
pensiero, a cui potrebbe essere trascinato dallo spettacolo di tanti sistemi
diversi e contrari» 16. 90 che corrisponde all’ufficio etiologico
od inquisitivo, finché s’innalza alla sua più perfetta forma, quale è la
filosofia della storia, che risponde all’ufficio critico e speculativo»329. Il
senso della Storia della pedagogia ha appunto lo scopo di rilevare il
differenziale presente sia tra i modi che le popolazioni che ci hanno preceduto
avevano di educare in confronto con la vera arte di educare, sia il confronto
tra le varie teorie pedagogiche e la vera scienza pedagogica. Osserva A.:
«Quindi ancora ne consegue, che introno al medesimo oggetto conoscibile (ad
esempio intorno l’essenza dell’educazione, od al suo fine, od alle sue leggi)
possono darsi e si danno di fatto molte teoriche, e quel che è più le une dalle
altri discordi ed avverse, mentre una sola è la scienza e sempre a se stessa
concorde, perché una sola è la verità, in quella guisa che nell’ordine
geometrico tra due punti dati non può correre che una sola linea retta, mentre
di linee curve se ne possono condur chi sa quante». Il senso della Storia della
pedagogia è analizzare i sistemi pedagogici confrontandoli con la vera scienza
pedagogica. Dunque: «La storia de’ sistemi pedagogici è sostanzialmente la
storia de’ tentativi felici od infelici, retti o traviati, fatti dai cultori
dell’arte educativa per giungere al Vero siccome fondamento di essa; per lo
contrario la storia della scienza pedagogica è la storia della Verità educativa
riguardata nel suo progressivo esplicamento»330. Sulla base di questa
prospettiva, i numerosi studi di storia della pedagogia di A., sono un dialogo
rispetto a determinati principi pedagogici con gli autori trattati, più che
un’esposizione oggettiva del loro pensiero. Lo studio della storia della
pedagogia secondo A. può condurre a una migliore comprensione dell’educazione e
a quei tratti unici e particolari che la caratterizzano. Per tale ragione nelle
sue ricerche spesso trova degli spunti per confermare alcune delle sue tesi o
muove critiche agli altri sistemi pedagogici, in primis ai già citati
positivisti. I testi sono dunque ripetutamente accompagnati da valutazioni
personali, commenti, paragoni, e non pochi giudizi sferzanti. Ha scritto
puntualmente Vidari «Si comprende da tutto questo come l’A. nei suoi studii di
storia delle dottrine antropologiche e pedagogiche fosse guidato e mosso più
che dal proposito di comprenderle nel loro processo di formazione, di
inquadrarle nel momento storico a cui appartennero, di seguirle nei loro
sviluppi, nelle loro irradiazioni e conseguenze, da quello piuttosto di
saggiarle e 329 16. 330 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi,
Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, 6.
91 giudicarle in rapporto a quei principi fondamentali di scienza
dell’educazione, che egli andò illustrando in tutto il resto della sua
produzione filosofica»331. Dalle posizioni prese di fronte al «laboratorio
della storia della pedagogia» si precisa ancora meglio il sistema pedagogico di
A.. Forse anche per questo la lettura di questi testi aiuta a cogliere il cuore
e le preoccupazioni pedagogiche dell’A.. Il tema principale su cui A. si
confronta è per la maggior parte legato a prospettive antropologiche e alle
loro conseguenze in campo educativo e scolastico. Giustamente Valdarnini
osserva: «qual criterio adotta l’A. per giudicare della verità o della falsità
delle dottrine di cui è intessuta la storia della Pedagogia? Questo: il
sentimento e il concetto della dignità propria della specie umana»332. Da
Seneca a Rousseau ciò che l’A. valuta è quale l’idea di uomo essi comunicano e
difendono. Ma tale prospettiva ha secondo alcuni studiosi portato a esiti
negativi. La Quarello, ad esempio, critica il fatto che certi giudizi storici
siano «troppo soggettivi»333 e fa notare che alcune valutazioni dell’A. partono
«talora da “presupposti dommatici” più che da dimostrazioni convincenti»334.
Tra le altre, critica la scarsa considerazione data al Kant della Critica della
ragion pratica. Di un’idea contraria è Vidari quando osserva che «alcune delle
osservazioni critiche che l’A. muove alla dottrina morale di Kant, per quanto
non nuove, sono giuste e fondate»335. Come già accennato, sempre stando alla
Quarello, A. non avrebbe colto il contenuto della filosofia di Hegel, riducendo
la portata dello Spirito e dell’Assoluto hegeliano336. Tra gli altri, il
principio della libertà d’insegnamento è uno dei criteri con cui valuta le
teorie pedagogiche. Nel testo Delle idee pedagogiche presso i greci la
questione della libertà d’insegnamento decide della divisione degli autori. A.
affronta prima Pitagora e Socrate, che sono considerati i difensori di
un’educazione libera, e poi Senofonte, Platone e Aristotele, che considera
difensori di una visione spartana e statolatrica dell’educazione. Affrontando
tali autori esprime la sua idea di educazione e di libertà. Scrive: «Plutarco
non separa la famiglia dallo Stato, né la confonde con esso. Per lui la
famiglia non è solo un grado della gerarchia dello Stato, ma un centro, che ha
uno sviluppo suo proprio. 331 G. Vidari, Il contributo di A. alla Storia della
Pedagogia, «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 689. 332 A. Valdarnini, A.storico
della pedagogia, in Vita e mente di Giuseppe A., cit., 1913, p. 56. 333 V.
Quarello, G. A., Studio critico, 124. 334 124. 335 G. Vidari, Il contributo di A.
alla Storia della Pedagogia, 692. 336 V. Quarello, G. A., Studio critico,
128-129. 92 L’educazione, senza punto dimenticare di preparare il
fanciullo a divenire buon cittadino, ha sovra tutto per compito suo di formare
in lui l’uomo mercè il culto della famiglia»337. Sugli «avversari» della libertà
scrive invece: «Platone aveva confuso la famiglia collo Stato fino ad
introdurre il Governo nei penetrali del santuario domestico, e colla famiglia
anch’esso l’individuo veniva assorbito nella comanza politica. Aristotele
giunse a distinguere la famiglia dallo Stato, ma il suo pensiero su questo
grave argomento mostrasi perplesso ed oscuro, tant’è che l’uomo in sua sentenza
non è tale, perché persona individua, perché padre o marito, o figlio, ma
perché cittadino»338. Un altro brano su Platone mostra la pertinenza tra il
concetto di persona e quello della libertà d’insegnamento, e come la perdita
del primo faccia necessariamente scivolare nello statalismo: «Il massimo e
capitale errore, che falsa la politica e conseguentemente la pedagogia di
Platone e scorre e s’inviscera in tutte le parti della sua teoria, questo è di
avere sacrificato l’attività personale dell’individuo all’onnipotenza dello
Stato, di avere assorbito l’uomo nel cittadino. La dottrina politica di Platone
è un esplicito socialismo governativo: l’individuo esiste e vive in servigio
esclusivo dello Stato, è niente più che una molla, un ordigno del gran
meccanismo sociale, giacché nell’assoluta ed oppressiva unità della comunanza
politica si perde ogni libertà personale. Epperò l’educazione riesce essenzialmente
ed onninamente politica, mentre dovrebb’essere primamente e sostanzialmente
personale: l’umana persona, spogliata della sua dignità finale, viene educata
come semplice mezzo e strumento della civil società»339. Concludendo la
parentesi greca scrive: «Lo Stato adunque non prevale sull’individuo, bensì gli
sottostà come effetto della sua cagione; e quando Aristotele a sostenere la
supremazia naturale dello Stato sulla famiglia e sui singoli uomini osserva,
che il tutto trionfa sulla parte, perché distrutto quello, anche questa vien
meno, possiamo ritorcere il suo argomento contro di lui avvertendo che la parte
congregandosi con altre parti, forma essa il tutto, e se quella scompare, anche
questo ruina. In una parola non l’individuo è fatto per lo Stato, bensì lo
Stato è fatto per tutti e per ciascuno, epperò l’educazione debb’essere umana e
personale, prima che politica e civile»340 In alcuni punti le valutazioni dell’A.
sono decisamente esagerate. Nel testo su Giobbe e Schopenauer apre una
parentesi molto sommaria contro il popolo ebraico341, rasentando il razzismo.
In altre occasioni il suo giudizio è palesemente sproporzionato. 337 G. A.,
Delle idee pedagogiche presso i greci, 163. 338 162. 339 131-132. 340 148. 341
G. A., Giobbe e Schopenhauer, 36-37. 93 Come quando
nell’introduzione al lavoro su Delle idee pedagogiche presso i greci (1887)
osserva «Pitagora e Socrate ci appariscono gloriosi campioni di una pedagogica,
che si muove libera di sé, franca da ogni ressura governativa, sorretta da un
ideale divino, che consacra la persona, santifica il dovere, suggella
l’immortalità della vita personale. Platone ed Aristotele ci si mostrano
fautori dello Stato educatore, che disconoscendo ne’ singoli uomini la dignità
della persona individua, trae con sé a perdimento tutta la Grecia»342. Anche
Santamaria Formiggini contesta all’A. la scarsa precisione su taluni lavori, in
particolare fa riferimento agli studi su Rousseau ed Herbart. Inoltre sostiene
che l’A. non riuscì a «penetrare oggettivamente nel pensiero degli autori che
studia e che critica»343. Però poi ammette che «Come pedagogista egli lascia a
grande distanza gli altri per la larga informazione storica, che è uno degli
elementi essenziali per la trattazione ponderata ed illuminata delle questioni
educative, è condizione per un vero progresso delle teorie. Egli può
considerarsi veramente uno dei primi pedagogisti che abbiano indirizzato gli
studiosi italiani a mettere in raffronto e in rapporto i loro studi con i risultati
del pensiero pedagogico straniero, perché dai confronti scaturisca più viva e
più nuova la verità, perché si evitino ripetizioni di teorie discusse e
superate»344. Oltre ad imprecisioni, i lavori dell’A. risultano approfonditi e
curati. Lo studio su Rousseau criticato dalla Formiggini, è ricco di
riferimenti bibliografici ma soprattutto offre una chiave di lettura molto
interessante del pensatore ginevrino non temendo di evidenziarne i pregi, ma
anche le contraddizioni, le ambiguità e i rischi. Non pensiamo di essere
lontani dal vero affermando che nonostante la sterminata bibliografia
sull’autore dell’Emilio, il libro di A. risulta ancora oggi ricco di spunti e
di considerazioni. Il merito di A. come storico della pedagogia emerge
ulteriormente se paragonato ai lavori coevi di storia della pedagogia, dai
quali si distanzia per riferimento alle fonti e immedesimazione. Senza dubbio
si può affermare che A. può essere considerato uno tra i primi storici della
pedagogia italiani. I. 8. La scuola educativa 342 G. A., Delle idee pedagogiche
presso i greci, II. 343 E. Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella
seconda metà del secolo XIX, parte I, gli spiritualisti, 12. 344 322-323.
94 Nel corso della sua carriera, A. diede ampio spazio alla riflessione
sulla scuola, cui attribuiva un ruolo decisivo per il destino delle nazioni345.
Se riferimenti e accenni su questioni scolastiche sono disseminati in molti dei
suoi libri, in un saggio del 1904, La scuola educativa, è presente una
sistematizzazione più articolata e completa delle sue posizioni. Riflettendo
sulla funzione di questo istituto, A. racchiude le questioni più importanti del
problema in quattro semplici domande: «1° in servizio di chi è ordinata la
scuola? 2° a chi spetta il diritto di governarla? 3° in quale giusto rapporto
deve serbarsi colla famiglia e colla società? 4° come debb’essere organata
l’educazione e l’istruzione nella scuola?»346. A. è convinto che l’autentico e
principale scopo della scuola sia lo sviluppo perfettivo della persona nella
sua totalità. Caratterizzata da una appassionata ricerca della verità e del
bene dell’alunno347, auspicava fosse animata da un vero «culto della personalità
dell’alunno»348. Contro il determinismo di certa didattica, sosteneva l’idea di
una scuola in cui il rispetto della vera libertà potesse divenire il fine e lo
stile della vita educativa349. Su queste prospettive invocò una convergenza
dell’istruzione e dell’educazione, che dovevano coabitare e collaborare in
vista di uno sviluppo integrale della personale350. La conoscenza e
l’educazione, dovevano potenziarsi a vicenda. In questo senso considerava
l’istruzione anche come un aspetto necessario per la formazione solida del
carattere351. 345 «La casa dunque, il tempio, la scuola sono i tre grandi centri
dell’umana coltura, i tre solenni convegni sacri alla comune educazione. La
scuola segnatamente apparisce il santuario del sapere, il tirocinio della vita
sociale, il vivaio della civiltà; epperò essa racchiude nelle sue modeste
pareti le sorti di un popolo e collo splendore o coll’oscuramento del suo
ideale segna i giorni di grandezza o di decadenza di una nazione.
Dall’importanza massima della scuola agevolmente si misura la necessità di
formarcene un concetto adeguato e verace, che risponda al suo intimo organismo
ed al suo ideale» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 68. 346 69. 347 «La
scuola è luogo sacro al culto del Vero e del Buono, ciò è dire è il santuario
della sapienza, essendochè questa congiunge in sé il lume speculativo della
scienza e la pratica onestà della vita. Oggidì il carattere educativo della
scuola è misconosciuto. La scienza ha cacciato fuor della scuola la virtù e la
divinità. Si è consumato un divorzio tra l’istruzione della mente e
l’educazione del cuore. Istruzione in iscuola, educazione in casa. Si aprono
ogni dì nuovi edifizi scolastici per piantarvi l’albero della scienza, senza
badar più che tanto, se all’ombra dell’albero germogli e si spieghi il fiore
delle virtù domestiche, civili e religiose. Quest’eresia pedagogica va ogni di
più propagandosi, e minaccia giorni luttuosi alla famiglia ed alla patria. La
scuola (ripeto col Tommaseo) se non è tempio, è tana; e quando mai fosse tana,
dovrei ripetere col Rousseau: L’uomo che pensa, è animal depravato. Gli è
allora che la scuola diventa davvero un semenzaio di socialismo, perché i
giovani ne escono poi gonfi di borra enciclopedica, quanto vuoti di ogni
principio morale e religioso, e riversandosi nella gran società diffondono la
corruzione, che portano in seno, pretensioni, sprezzanti, spostati, scontenti
di tutti e di tutto, gittando qua e là il disordine e lo scompiglio» 78. 348
70. 349 «Se l’alunno non è lui il primo educatore di se medesimo, che spiega la
personalità sua e la afferma spiegandola, gli altri educatori persona la vera
loro ragione di essere, perché non formano più una persona, ma foggiano una
macchina» 67. G. A., Studi pedagogici,
65-67. 351 «Lo studio è un dovere, e dall’idea del dovere sorge appunto il
carattere» G. A., La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad
uso delle scuole normali maschili e femminili, 92. 95 Uno degli
errori maggiori individuati da A. era quanto chiamava «enciclopedismo», vale a
dire la riduzione del ruolo della scuola a veicolo di nozioni da sommare nelle
menti degli allievi: «L’enciclopedismo (perché tacerlo?) è il verme roditore
delle nostre scuole, il cancro dell’educazione moderna»352. A. auspica che
l’accumulo di conoscenze si coniughi con lo sviluppo di uno spirito libero e
creativo: «L’enciclopedismo violenta, tortura, conquide, le potenze mentali del
giovine: la virtù intellettiva, che concepisce l’ideale, il sentimento, che lo
accalora, l’immaginazione, che lo colorisce, giacciono spossate»353. Il
pedagogista osservò come la scuola somigliasse sempre più «all’aria morta di
una biblioteca»354. Mancava quella spinta ideale che è invece propria
dell’educazione. A questa stortura del compito educativo, concorse un
traviamento del ruolo dell’insegnante: «Pur troppo si è ormai perduta di vista
questa gran verità pedagogica, che il maestro, segnatamente delle scuole
elementari e secondarie, debb’essere non solo l’insegnante, ma ben anco
l’educatore de’ suoi alunni, interessandosi delle loro persone, vegliando sulle
loro sorti, vivendo con essi la vita del cuore, come fa un padre, una madre co’
figli suoi»355. Da queste premesse, era convinto che il “cuore” degli educatori
fosse il ganglio vitale della pratica educativa e al contempo il discriminante
della sua efficacia356. A. si sofferma a considerare come l’insegnamento sia
un’azione propria della persona, ed espressione della sua specificità. Si
impara e si insegna con le parole, suoni che uniscono nel significato le
coscienze e le conoscenze dell’educatore e dell’educando. Poter capire
costituisce la superiorità dell’uomo sulle cose357. In questo senso, A.
sottolinea come: «Lo sviluppo dell’intelligenza è intimamente connesso colla
parola, la quale è un segno sensibile esteriore, che esprime un’idea»358. La
parola si impone così come 352 G. A., Opuscoli pedagogici, 14. 353 425. 354 G. A.,
Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, 250. 355 249. 356«Pestalozzi, Girard, De
la Salle furono grandi istitutori, perché furono grandi cuori, che sentirono la
santità del loro apostolato, e fecero di sé nobile sacrificio per loro alunni.
Senza cuore non si educa con dignità, non si ammaestra con verità, non si
impara con senno; e la scuola diventa essa stessa corpo senz’anima. Ed in
quella guisa che le istituzioni politiche anche ottime declinano, si disfanno e
finiscono, quando sono guaste dallo spirito settario, dall’ambizione sfrenata
dei reggitori, dal dispotismo sotto maschera di libertà, così gli istituti
scolastici anche meglio organati languiscono e cadono giù, quando nei
governanti che li dirigono e nei maestri che professano, sottentra
l’indifferenza e l’apatia, il mestierismo e la cupidigia del guadagno, la
vanità pretensiosa e lo scetticismo demolitore» in G. A., La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, 182-183. 357 G. A., Studi pedagogici, 102-107. 358 G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 44. 96 «necessità pedagogica», da indirizzare
verso l’educazione della persona359. Per tali motivi il fulcro della scuola è
la spiegazione360. La sua importanza è attestata, secondo A., anche dalle
difficoltà di relazione e di formazione dei sordo - muti361. Considerava un
grave errore pensare che la mera istruzione potesse bastare all’educazione:
«Che l’istruzione faccia colla educazione un’adequazione perfetta e si converta
con essa, è fatale errore, il quale trascina la società a distrette più
deplorande, che non quelle medesime dell’ignoranza e della rozzezza. L’uomo non
vive di sola conoscenza, ma ben anco di virtù e d’amore, perché alla potenza
dell’intendere accoppia la libertà del volere e la facoltà del sentire. Laonde
la scienza è sibbene una splendida manifestazione dell’umana essenza, ma non è
punto l’umanità tutta quanta: nell’immensa sfera dello svolgimento umano essa
tiene un posto luminoso, ma non il solo, né il più elevato, sottostando alla
vita morale e religiosa»362. Questa mancanza, era colta da A. soprattutto nella
scuola secondaria, dove lo sviluppo razionale e il prossimo approccio alla
vita, meritavano una relazione educativa e valoriale piena, e non solo limitata
all’istruzione: «La nostra scuola secondaria non educa, perché è tutta
nell’istruire: le materie di studio sono tenute estranee allo sviluppo del
sentimento morale e religioso. La cattedra non è un apostolato di civile e
morale insegnamento, ma di puro sapere: rilassati e pressochè spezzati i
vincoli tra la scuola e la famiglia, e maestri ed i discepoli». L’assenza di
un’educazione morale e religiosa, senza la quale lo sviluppo integrale della
persona era reputato da A. impossibile, fu variamente ripresa: «Questa
idolatria della scienza fa le sue tristissime prove nel campo della pubblica
istruzione; l’istruzione è come una gran fiumana che allarga il santuario della
scuola e caccia via la coltura morale e religiosa, come se vi fossero soltanto
teste da riempire, e non anco anime da ispirare, cuori da educare. Questa
specie di fanatismo per il culto del sapere è la piaga precipua, che vizia
oggidì l’organismo della pubblica educazione.»363 Due delle sue citazioni
preferite erano la celebre frase di Tommaseo: «La scuola se non è tempio, è
tana» e il motto socratico Non scholae sed vitae discendum. Oltre che culto 359
«La parola è pur anco una necessità pedagogica, perché vincolo essenziale, che
unisce le intelligenze e le volontà del maestro e del discepolo, dell’educatore
e dell’alunno, ma a tale riguardo occorre, che la parola del maestro sia luce
intellettuale piena d’amore, e che il discente non la riceva passivo, ma la
faccia ripensandola. Un insegnamento parolaio sciupa se stesso in un’intrinseca
contraddizione, essendochè appartiene all’essenza medesima della parola
l’ufficio di significare un’idea» 45. 360 «Il programma governativo è, per così
dire, l’embrione della materia d’insegnamento, il didattico ne mostra le
giunture, le articolazioni in forma di compagine, il libro di testo porge
l’organismo in carne ed ossa e polpa e sangue, la spiegazione del testo è la
vita, che circola per entro l’organismo» . 361 98. 362 G. A., L’educazione e la
scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881,
6. 363 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 59. 97 della
verità, la scuola doveva infatti divenire tirocinio alla vita, e non doveva
essere staccata da essa364. Ciò implicava anche un assetto didattico in cui era
prevista la formazione professionale e la ginnastica. Sotto questo profilo
critica la proposta educativa di Platone365, considerata eccessivamente
spiritualista. La scuola deve preparare soprattutto alla partecipazione alla
società, della quale essa può diventare importante fermento di progresso e
umanizzazione. In questo senso, contestò posizioni come quelle di Rousseau, che
mettevano in evidenza le ingiustizie perpetuate nella socialità scolastica,
invece che i suoi aspetti formativi366. A. sottolinea il rapporto virtuoso tra
educazione e società. Solo se cresce il singolo, progredisce la comunità.
Giustamente A. ricorda che «La personalità umana giustamente intesa ed educata
a dovere porta la floridezza sociale»367. La scuola non poteva, tuttavia,
essere vista come funzione della società, e soprattutto del suo potere
politico368. Il controllo sociale esercitato mediante la scuola rischiava di
tradire il principio della personalità369. Il legame con la vita e l’unità
dell’educazione, doveva essere corroborato da una stretta collaborazione tra
gli istituti scolastici e la famiglia. Per questa ragione propone l’abolizione
dei convitti, preferendo che gli allievi restassero nella loro famiglia370. In
caso di necessaria lontananza dalla propria casa, A. indica come modello le
pensioni libere inglesi in cui gli alunni seppur lontano dalla propria casa
vivono con un’altra famiglia, a 364 «Quest’armonia tra la scuola e la società
esige che nell’ordinamento delle discipline scolastiche si abbia speciale riguardo
a quelle che sono peculiarmente reclamate dallo spirito del tempo, dai bisogni
sociali, dall’indole della nazione. Però anche qui non va dimenticato, che la
scuola, pur mentre si attempera alle condizioni della società, non debbe
servire alle medesime, come se fossero l’ideale supremo e definitivo di ogni
umano consorzio» G. A., Opuscoli pedagogici, 37. 365 G. A., Delle idee
pedagogiche presso i greci, 103. 366 «Il mio concetto della persona umana, in
servigio della quale dico ordinata la scuola, è ben altro dal concetto della
natura umana, in cui Rousseau vuole riposto il fine supremo della educazione.
Nell’essenza medesima della persona umana, che è intelligenza ed attività
volontaria, io scorgo la fonte medesima della socievolezza, ossia la virtù di
stringersi in comunanza di intendimenti e di voleri con altre persone, mentre
l’autore dell’Emilio reputa le istituzioni sociali natefatte a snaturar l’uomo,
spogliandolo dell’unità sua per assorbirlo come parte nel tutto» G. A., La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, 71. 367 71. 368 «La scuola non può, non
debb’essere una funzione della società, perché ne verrebbe essenzialmente
snaturata. Infatti, la scuola è un santuario di persone, ossia di creature
intelligenti e libere, e non già una agglomerazione di bruti o di cose. Ora la
persona non è uno strumento ai voleri altrui, ma è una creatura sacra, fornita
di diritti, che vanno rispettati da qualunque potere sociale, da qualunque
autorità umana, il diritto all’esistenza, alla verità, alla felicità, alla
virtù, sicché se ad esempio la prosperità di un popolo intiero costasse la
schiavitù o la distruzione di una sola creatura umana, già per ciò stesso
dovrebb’essere detestata come un delitto. Orbene, ponete che la scuola sia una funzione,una
proprietà, un’appartenenza della società e soggiaccia al suo assoluto dominio,
e allora gli alunni non verranno più educati siccome persone, che appartengono
a sé stesse, ed ordinate ad un fine, da cui hanno diritto di non essere
deviate, bensì come mancipii del volere sociale, come cose o strumenti in
servizio della società» G. A., La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, 23. 369 «L’individualismo egoistico ed il socialismo oppressivo
sono due estremi, che contraddicono agli intendimenti della natura, la quale
mentre chiama gli uomini alla convivenza sociale, vuole ad un tempo salva la
personalità di ciascuno». G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista,
99. 370 G. A., Studi pedagogici, 333-335. 98 volte la stessa dei
propri insegnanti. Ciò aiuta a supplire la funzione dei genitori, che deve
rimanere un paradigma. Non è un caso che parlò della scuola come «seconda
famiglia»371. In merito all’organizzazione della scuola avanzò una serie di
proposte. Sosteneva il primato degli asili italiani rispetto a quelli
fröbeliani372, auspicava una scuola elementare unica senza distinzione di
censo373, mostrandosi fortemente preoccupato per una divisione della scuola
classista374. Propose la fusione del ginnasio con la scuola tecnica per
rimandare la scelta della scuola superiore di tre anni, ipotizzando così la
nascita di una scuola media unica. Sostenne il valore dell’educazione classica,
un insegnamento della filosofia armonico con le altre discipline, un più ampio
spazio alla storia italiana. Della scuola superiore critica l’eccessivo numero
di materie, e il quadro orario troppo lungo. Inoltre contestò i criteri di
valutazione negli esami, nei quali si preferisce la quantità alla qualità degli
apprendimenti, inducendo ad una mentalità enciclopedica e non critica. Anche
per questo motivo propone di eliminare la Giunta centrale per gli esami di
licenza liceale. Per quanto riguarda le scuole normali prospetta un quadro
orario in cui si affermi il 371 G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, 86.
372 «I nostri asili infantili sono una creazione del genio nazionale e per un
trentennio conservarono la loro originale impronta. Verso il 1860 entrarono in
lotta coi seguaci della scuola germanica, che insorsero coll’intendimento di
atterrarli e sulle loro rovine costrurre i giardini fröbeliani. I novatori
lottarono e lottano tutt’ora coll’opera e colla parola, nelle Conferenze
pedagogiche e nei privati convegni, con ardore sempre vivo, invocando ben anco
in loro aiuto la potenza ministeriale (Vedi l’opuscolo Società dei giardini
d’infanzia di Udine, ecc. Udine, 1981, pag. 24). Ed il Ministero non nascose la
sua simpatia pel fröebelismo. Già nel regolamento del 188°, all’art. 28, esso
sostituiva alla denominazione asili d’infanzia il vocabolo giardini; poi impose
ai professori di pedagogia presso le scuole normali l’obbligo di insegnare alle
allieve maestre in teoria ed in pratica il metodo di Fröebel, prescrivendo lo
stesso metodo alle scuole italiane aperte all’estero, e nella sua Circolare del
27 gennaio 1889 manifestava l’intendimento di «trasformare man mano i numerosi
asiloi, secondo vecchi metodi governativi, in istituti educativi informati a
una dottrina che prenda il nome dal Pestalozzi o da Fröebel, o meglio da
entrambi; tal fine si può ben dire ci abbia segnata la via, nella quale
dobbiamo metterci». Nel fervore della lotta non mancarono valenti istitutori,
che, come l’Uttini a Piacenza, il Colomiatti a Verona, la Goretti – Veruda a
Venezia, si adopravano con saggio accorgimento a riparare gli abusi ingenerati
nelle scuole aportiane da sbagliate applicazioni pratiche, ad adempiere i
difetti ed introdurvi le ragionevoli migliorìe, pur conservando intatto il
principio interiore della loro origine» 127-128. 373 Attacca quanti volevano
fare una scuola per il popolo e una per la classi agiate e scrive: «Quindi si
fa necessaria una scuola, la quale abbia appunto per iscopo di fornire quella
coltura, la quale occorre a tutte le classi sociali senza riguardo ed eccezione
di sorta. La scuola che risponde a questo fine universale è appunto la scuola
elementare, così denominata, perché ha per oggetto gli elementi della coltura umana.
Da questo suo concetto si scorge che essa non ammette disparità tra i figli
dell’operaio e i figli del facoltoso, perché la coltura primordiale è la stessa
per tutti: non deve mirare agli uni piuttosto che agli altri, ma va ordinata in
servigio di ambedue: essa è ad un tempo democratica ed aristocratica, rurale ed
urbana, popolare e borghese. Alle corte, intendete voi che la scuola elementare
accolga a comune ammaestramento i figli di tutte le classi sociali, o quelle
soltanto della classe operaia? Nel primo caso, la trasformazione, che
propugnate, non più ragione di essere: nel secondo caso, create un dualismo
irragionevole» 140. 99 «primato» alla pedagogia, mentre nei licei,
legandosi ad una battaglia tipica di quegli anni, fu fautore della centralità
della filosofia375. Da un punto di vista metodologico richiama alla necessità
di conoscere le facoltà psicologiche dell’A. e denuncia l’ignoranza della
classe magistrale su tali tematiche. Gli insegnanti sembrano essere più
preoccupati di offrire agli alunni conoscenze precise e copiose, rispetto a
capire quanto i loro alunni possano imparare. Un altro aspetto avversato dall’A.
è un’idea caporalesca della disciplina, che dimentica l’importanza della
libertà e del consenso per un’educazione efficace. Voleva che la scuola
educasse al patriottismo. Ciò non deve far pensare ad un A. nazionalista e
sciovinista, il pedagogista era però convinto che la scuola dovesse difendere
la tradizione, la cultura e la filosofia italiana376, di cui i giovani
avrebbero dovuto acquisire consapevolezza e orgoglio. Inoltre considerava
importante l’assimilazione dell’idea di nazione, intesa come comunità a cui
appartenere e da servire. Per questo propose di sostituire all’ «educazione
civile», la materia di «educazione italiana». Riguardo al tema dell’obbligo
scolastico, che coinvolse il dibattito pedagogico durante la costruzione del
sistema scolastico nazionale, A. si oppose alla sua applicazione, perché lo
considerava illiberale. Il pedagogista non intendeva restringere il diritto
all’educazione ad un’élite, ma riteneva che l’obbligo non fosse un mezzo adatto
per la diffusione dell’istruzione e dell’educazione. Egli era altresì convinto
che bisognasse convincere alla scuola e non costringere378. Come non si possono
obbligare le persone ad essere virtuose o a lavorare, così non le si può
costringere ad istruirsi, mentre può moltiplicare le scuole e formare bravi
insegnanti che attirino le famiglie ad iscrivere i figli nelle scuole379. Dove
c’è costrizione, secondo l’A., non può esserci una vera educazione. I. 9. La
libertà d’insegnamento e la riforma della scuola 375 «Nelle scuole normali
spetta alla pedagogia il posto supremo ed intorno ad essa vanno coordinate
tutte le altre materie. Nei licei la filosofia deve tenere il campo, siccome
quella, che in virtù del suo carattere universale è atta a collegare in
armonico accordo tutte le altre discipline» 116. 376 Cfr. G. A., Studi
pedagogici, 36. 377 G. A., Dell’istruzione obbligatoria, Torino, Tipografia
Subalpina. Sull’argomento, in un saggio cita Lambruschini, che in una relazione
presentata al Ministro Berti scrisse »L’istruzione e l’educazione son cosa di
sì alto ordine, e così degna di essere desiderata e cercata per se medesima,
che la violenza nell’imporle ne scema il pregio agli occhi si chi deve
riceverle, e ne spegne l’amore. Da un altro canto, comechè si adoperi il Comune
acciocchè l’istruzione sia ricevuta da tutte le famiglie, non riuscirà mai
nell’intelletto, se nelle famiglie non nasce l’amore dell’istruzione”, dopo di
ciò commenta “In Prussia erasi organizzato un sistema di polizia, per cui
allorquando un fanciullo si rifiutava di recarsi a scuola, né il padre ve lo
mandava egli stesso, un poliziotto lo pigliava a casa e lo trascinava a scuola
come un pubblico malfattore» G. A., La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
137. 379 G. A., Dell’istruzione obbligatoria, 12. 100 Le posizioni
di A. sulla scuola e sulla libertà d’insegnamento sono state in parte già
oggetto di studio380. Si tratta, infatti, di un contributo di rilevante
importanza nell’economia delle vicende scolastiche del secondo Ottocento. Le
opere più importanti in cui affronta tali questioni sono: L’educazione e la
nazionalità, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, Intorno le
scuole normali e gli asili di infanzia fröbeliani, Lo Stato educatore ed il
Ministro Boselli, Della istruzione obbligatoria e La scuola educativa, poi
rivisto e pubblicato. A questi vanno aggiunti altri come: La Riforma
dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato, Il Classicismo nelle
scuole, Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il
rapporto tra l’educazione privata e la pubblica, Delle condizioni presenti
della pubblica educazione (1886)391, raccolti negli Opuscoli pedagogici. In
realtà, l’intera produzione dell’A. è disseminata di richiami e rilievi su tali
questioni392. 380 I lavori sinora pubblicati lasciano spazio per ulteriori
studi e considerazioni. Il testo di Bonghi, Idee di A. circa la libertà
d’insegnamento, «Cultura», è scritto nel vivo delle polemiche scolastiche del
tempo e manca di una necessaria distanza critica e storica; il lavoro di R.
Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di
G. A., 60-74, prende in esame una sola opera del pedagogista, vale a dire Della
pedagogia in Italia, e soffre di una conoscenza parziale dell’opera del
pedagogista; il saggio di A. Consorte, Scuola e Stato in Giovanni A., «Ricerche
Pedagogiche, seppur significativo, approfondisce soprattutto le polemiche tra
lo studioso piemontese e l’apparato ministeriale, tenendo peraltro conto solo
di alcune sue opere. A., L’educazione e la nazionalità, Torino, Tip. del
giornale Il Conte Cavour, A., La legge Casati e l’insegnamento privato
secondario, Torino, Tip. Salesiana, 1879. 383 G. A., Intorno le scuole normali
e gli asili di infanzia fröbelliani, Torino, Tip. Subalpina,1888. 384 G. A., Lo
Stato educatore ed il Ministro Boselli, Torino, Tip. del Collegio degli
artigianelli, 1889. 385 G. A., Della istruzione obbligatoria, Torino, Tip.
Subalpina. A., La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica:
pedagogia elementare, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 387 G. A., La scuola
educativa. Principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, cit., 1904. 388 G. A., La Riforma dell’educazione moderna
mediante la riforma dello Stato, Torino, Tip. Subalpina, 1879. 389 G. A., Il
classicismo nelle scuole, Torino, Tip. M. Artale, A., Esposizione critica delle
opinioni di illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione privata e
la pubblica, «Rivista pedagogica italiana», 1-2, 1898. 391 G. A., Delle
condizioni presenti della pubblica educazione. Prolusione letta nella R.
Università di Torino il 25 novembre 1886, Torino, Tip. Subalpina, 1886. 392 In
tutte le opere dell’A. sono ricorrenti degli incisi nei quali lo studioso
propone parallelismi con le condizioni scolastiche coeve. Il seguente brano
pare particolarmente paradigmatico. Dopo aver esposto i caratteri della
pedagogia romana, ad esempio, A. riporta un passo di una lettera scritta da
Plinio il giovane ed indirizzata a Corellia Ispulla, nel quale le suggerisce di
scegliere con oculatezza l’insegnante di retorica per il figlio. Subito dopo, A.
chiosa: «Qual profondo divario tra i tempi di Plinio ed i nostri in riguardo ai
pubblici studi! Allora la scuola si muoveva libera da ogni potere governativo,
epperò la scelta dei maestri spettava ai genitori come un sacro e coscienzioso
dovere. Ora invece lo Stato impone alle famiglie i maestri da lui solo
fabbricati ad immagine e somiglianza sua. Una radicale riforma intorno a questo
rilevantissimo punto della vita civile e sociale è una necessità pedagogica. La
libera attività dei cittadini, su cui posa in gran parte la civiltà moderna,
non consente che essi vengano trattati come fanciulli, i quali hanno nel
governo il loro supremo educatore ed assoluto maestro. La libertà non è
privilegio esclusivo di nessuno. 101 Il problema della libertà
d’insegnamento occupa un posto privilegiato nell’opera di A.. Quest’attenzione
è indubbiamente legata all’evoluzione del sistema scolastico italiano, di cui
il pedagogista vercellese denunciò la deriva monopolistica ed un assetto
contrario alla libertà d’insegnamento. Stando allo studioso, tali politiche
avevano profonde radici filosofiche e pedagogiche. In particolare, erano la
conseguenza da una parte della crisi del concetto di libertà, e dall’altra, del
«mito» dello Stato nato con la modernità. Lo sbriciolamento della metafisica,
inaugurato nel ‘600, condusse alla confusione circa l’esistenza e il ruolo
della libertà personale. Ciò portò ad una certa sfiducia verso l’iniziativa
privata, preferendo al rischio educativo la gestione del processo formativo.
D’altra parte con la modernità si impose il profilo di uno Stato simile al
«Leviatano» prospettato da Hobbes, nel quale il governo di pochi si arrogava il
diritto di fagocitare e sacrificare le singole individualità in nome del bene
della collettività. Un «mostro», come lo definì A., ingombrante, fatto di
meccanismi politici e burocratici. Da ciò la scuola e l’educazione non erano
più considerate una responsabilità della famiglia, ma dello Stato393. Il
vercellese definiva questo statalismo anche «socialismo governativo». In una
sua opera spiega: «socialismo dico ogni istituzione che la santa autonomia
della persona e della famiglia disconosca in qualsiasi modo, rimestando ad
arbitrio quella convivenza sociale che ha da posare sicura sulle leggi eterne
dell’umanità»394. In un altro saggio commenta: «Socialismo governativo è lo
Stato moderno; socialismo pedagogico è l’educazione moderna. Lo vuole la
logica, lo proclamano i fatti. Onnipotente è lo Stato? Dunque onnisciente.
Creazione sua la società? Dunque suo feudo la scuola. Esso, che si reputa
l’umanità, ben può dire di sé: l’educatore sono io»395. Secondo A., da tale
pretesa nacque il controllo sul sistema scolastico, sui programmi, sul
reclutamento degli insegnanti, sull’organizzazione degli esami, sui libri di
testo. La monopolizzazione della scuola era sentita dall’A. in modo
catastrofico: «Là dove l’educazione propria della famiglia viene sacrificata
all’educazione dello Stato, vano è lo sperar bene delle sorti di una
nazione»396. Scrive: «Non si dà libero cittadino senza il governo di sé, né si
da governo Governi lo Stato le sue pubbliche scuole; ma siano libere le
famiglie di associarsi insieme per fondare istituti educativi ed imprimere ad
essi un indirizzo rispondente alle loro aspirazioni egualmente che allo spirito
del tempo. Così sorgerebbe una nobile gara, da cui la pubblica educazione
trarrebbe singolare e felice incremento», in G. A., La pedagogia italiana
antica e contemporanea, 40. 393 Commentando il progetto di legge di Baccelli
sul riordinamento degli studi universitari, lo studioso vercellese scrive: «Il
Ministro, che l'ha proposto, sente che nella coscienza universale ferve irrefrenabile
l'aspirazione alla libertà; ma ad un tempo è imbevuto del dominante
pregiudizio, che il Governo è lui il primo e sovrano motore di tutta la vita
pubblica e civile, è lui l'unico ed assoluto maestro ed educatore della
nazione, che la legge è lui, come Luigi XIV proclamava sé lo Stato» G. A.,
L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da
Giuseppe A., Torino, Tip. Subalpina, , p. 5. 394 G. A., Opuscoli pedagogici,
11. 395 11-12. 396 G. A., G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, 89.
102 di sé quando lo Stato siede arbitro e donno di tutte le attività
umane. Tolta di mezzo l’autonomia personale de’ singoli cittadini anche
l’indipendenza della nazione diventa ingannevol menzogna; e verrà giorno in cui
suprema battaglia per un popolo quella sarà che esso combatterà non per
l’indipendenza dalla straniero, ma dalla statolatria»397. Va notato che nella
prospettiva di A., il concetto di Stato è ben separato da quello di Nazione,
come giustamente ha rilevato polemicamente la Bertoni Jovine398. Per il
pedagogista la Nazione è espressione della civiltà, di valori, di tradizioni,
di una storia, mentre lo Stato non necessariamente ne rappresenta e asseconda
gli interessi. La famiglia rappresenta il punto di congiunzione tra l’individuo
e la Nazione, e ad essa lo Stato deve rispondere nell’organizzazione della
scuola. Lo stato è nato per servire la famiglia, e suo compito è garantirne la
libertà. Secondo A.: «È necessario far penetrare nella coscienza sociale questa
gran verità, che principio, cardine e ragion d’essere dello Stato è la
famiglia, che fondamento e centro unificatore della vita pubblica e civile è la
vita domestica, e che perciò i primi educatori per diritto e per natura sono i
genitori, che lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto
e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia»399. Per queste
ragioni: «Il Governo non può avere altro diritto scolastico, se non quello, che
gli venga implicitamente o esplicitamente consentito dalla famiglia, ciò è a
dire un diritto relativo, non assoluto, secondario e non supremo, partecipato e
non originario»400. Non sembrano dunque fondate le critiche mosse ad A., circa
la connessione tra l’antistatalismo e un presunto individualismo scaturigine
del principio della personalità, segnalato da Vidari401. Il pedagogista non
professava una totale anarchia in campo educativo, ma esautorava lo Stato dal
diritto assoluto sull’educazione. 397 G. A., Opuscoli pedagogici, 18. 398 «Uno
dei più forti oppositori della preminenza dello Stato nell’educazione fu
Giuseppe A., dell’università di Torino, che svolse il concetto di “nazione”
distinguendolo da quello di Stato. Lo Stato non ha alcun diritto ad educare,
mentre la nazione che “è lo stesso uomo collettivo”, influisce con tutti i suoi
elementi sullo sviluppo dell’individuo; onde nazionalità ed educazione sono due
fatti inseparabili. È naturale che fra i più importanti elementi della nazione
l’A. collochi la religione e la Chiesa pur accettando dagli avversari alcuni
elementi più moderni diventati realtà con le vittorie liberali. Con l’esigenza
di uscire dal ristretto cerchio della famiglia, si assimila infatti, in questa
ideologia, il concetto basilare di patria. Si supera così il punto critico che
divideva i liberali dai clericali: “Dio, patria e famiglia” divengono i tre
pilastri fondamentali dell’educazione sui quali i cattolici più avanzati e i
liberali moderati vi ritrovano la concordia; ma se i clericali assimilavano
l’educazione patriottica, esigevano che i liberali accettassero l’educazione
religiosa. E questo era possibile perché nonostante la vittoria laicista ottenuta
con la legge Coppino, non era mai stata definita la questione dell’insegnamento
del catechismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola
italiana, 25. 399 G. A., Opuscoli pedagogici, 43. 400 G. A., La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, 73. 401 «In fondo l’impronta fortemente individualistica,
un po’ derivata dal principio della persona, ma molto anche da una deficienza
del senso della continuità e unità storica nella vita dello spirito, è
prevalente in tutta la pedagogia dell’A.; e si presenta poi in forma estrema là
dove, applicando alla politica e al diritto i 103 Sulla paternità
della responsabilità educativa, famiglia o stato, si giocò il dibattito
pedagogico sul tema, considerato tale non solo in ambito spiritualista402. A.
attribuisce alla famiglia la responsabilità educativa. La famiglia è il nucleo
che solo può permettere il futuro della Nazione e una vera educazione delle
giovani generazioni. Sugli stessi principi, critica aspramente anche Fröbel per
non aver riconosciuto il primato della famiglia sulla società.403 Sotto questo
profilo sono evidenti i richiami alla tradizione del cattolicesimo liberale,
che attribuiva alla famiglia un valore educativo centrale, nelle opere di
autori come Berti, Gustavo di Cavour e Rosmini, i quali fondavano la libertà
d’insegnamento proprio sul principio della libertà e sul protagonismo educativo
della famiglia. Attacca in più di un’occasione gli hegeliani come Spaventa e i
positivisti come Siciliani, Angiulli, De Dominicis, considerati fiancheggiatori
della statolatria. Il seguente brano lumeggia le sue idee: «Riponendo nella
famiglia la suprema autorità scolastica noi ci troviamo collocati nel giusto
punto di mezzo tra i due opposti sistemi, dei quali l’uno attribuisce al
Governo un assoluto e supremo diritto sopra la scuola, l’altro gli niega ogni e
qualunque siasi ingerimento pedagogico. Se lo Stato possiede bensì un’autorità
nell’ordine scolastico, ma subordinata a quella della famiglia e de’ privati
cittadini, ne consegue che esso deve lasciare luogo alla libertà della scuola,
e potersi con questa conciliare. E qui si vede la ragione di ammettere, oltre
le scuole pubbliche governative, anche le scuole private, le quali però non
devono essere una storpiatura, una copia forzata e stereotipata delle scuole
governative, ma hanno diritto di muoversi libere e spontanee dentro un’orbita
loro propria. Il libero insegnamento va riconosciuto siccome una delle più
splendide forme della libertà politica e civile, che informa la scuola
moderna»404. Egli non teorizzava l’anarchia in campo educativo, ma uno Stato
meno opprimente e più rispettoso della libertà. Come ha fatto notare Giorgio
Chiosso, egli preferiva allo «Stato educatore» uno «Stato regolatore»405. Egli,
infatti, non escludeva il controllo dello Stato suoi concetti, arriva a
concepire la libertà d’insegnamento in modo essenzialmente antistatale, così da
affermare che “lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto
e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia”» G. Vidari, Il
pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, 86-87. 402 Non è un caso
che la voce “Libertà d’istruzione” curata da Fornari nel Dizionario Illustrato
di pedagogia di Credaro e Martinazzoli, che rappresenta uno spaccato della
pedagogia italiana di fine Ottocento, introduca il tema con la domanda «A chi
appartengono i figlioli?» Cfr. P. Fornari, Libertà d’istruzione, in A.
Martinazzoli e L. Credaro (ed.), Dizionario illustrato di Pedagogia, Milano,
Vallardi, 1895, vol. II, p. 62. 403 G. A., Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
117. 404 G. A., Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, 24-25. 405 G.
Chiosso, Alfabeti d’Italia, Torino, Sei, 2011, p. 93. 104
sull’istruzione406. Nonostante la comune rivendicazione della libertà di
insegnamento, le tesi dell’A. si discostavano da quelle allora prevalenti nel
mondo cattolico, in particolare negli ambienti dell’intransigentismo. In questo
caso il principio della libertà d’insegnamento era alquanto strumentale e
sostenuto più per ragioni pragmatiche che per la sua validità pedagogica. La
vera scuola era quella «cristiana» e in nome di questa si avvertì l’esigenza di
creare una scuola cristiana parallela a quella statale, in linea con quella
logica «separatista» dal “paese legale” che ebbe largo corso dopo Porta Pia.
Per questo motivo era chiaro che una rivendicazione simile sarebbe stata
immotivata in uno Stato rispettoso dell’educazione religiosa e cristiana407.
Per A. invece, la libertà rappresentava un valore effettivo per la scuola. In
questo senso contestava la contraddizione di molti sedicenti liberali, che in
molti paesi europei negavano la «lotta»408, cioè la concorrenza, proprio in
campo educativo. Secondo il pedagogista il concorso di soggetti privati
all’istruzione del popolo, il confronto e il «gareggiamento» tra le diverse
realtà, rappresentava un volano per il miglioramento della scuola. Per mostrare
i vantaggi dell’applicazione di tale principio, A. approfondì con appositi
studi i sistemi di istruzione di Gran Bretagna e degli Stati Uniti, dove i
principali liberali avevano forgiato anche le istituzioni scolastiche. Un altro
stato indicato come modello da A. per quanto riguarda l’autonomia scolastica è
il Belgio, di cui cita ed elogia gli articoli della Costituzione concernenti la
libertà d’insegnamento409. Alla realtà educativa degli Stati Uniti dedicò un
saggio dettagliato intitolato Dell’educazione pubblica negli Stati Uniti
D’America410. In esso sostiene come la peculiarità del sistema scolastico
americano fosse la libertà dei cittadini di fondare e 406 Sempre criticando il
citato progetto di legge Baccelli sull’Università scrive: «Ecco il primo
articolo della sua proposta: “Alle regie Università e a tutti gli altri
Istituti d'istruzione superiore è concessa personalità giuridica ed autonomia
didattica, amministrativa, disciplinare sotto la vigilanza dello Stato”. È cosa
manifesta, che autonomia e vigilanza sono i due concetti supremi, a cui
s'informa questo disegno di legge; ma è pur evidente, che il giusto significalo
dell'autonomia dipende dai limiti, che vengono segnati alla vigilanza. Che lo
Stato vegli, bene sta: ma la vigilanza sua va circoscritta entro determinati
confini, sicché non trasmodi in un illimitato ingerimento e soppianti la
libertà» G. A., L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed
esaminata da Giuseppe A., 5. 407Luciano Pazzaglia ha rilevato come, soprattutto
dopo l’Unità, più che la difesa del principio della libertà d’insegnamento in
quanto tale, prevalse nella Chiesa la rivendicazione della sua prerogativa
educativa. Commentando la significativa allocuzione di Pio IX alla Gioventù
italiana del 6 gennaio 1875, lo studioso della Cattolica osserva: «Pur
continuando a sostenere la tesi del monopolio educativo della Chiesa e a
condannare, parallelamente, la libertà d’insegnamento come principio che mal si
conciliava con i diritti della verità di cui solo il magistero sarebbe
l’autentico interprete, concedeva che in certe condizioni la libertà
d’insegnamento potesse diventare per i cattolici uno strumento essenziale al
raggiungimento dei loro obiettivi» in L. Pazzaglia, Educazione e scuola nel
programma dell’Opera dei Congressi (1874-1904), in Cultura e società in Italia
nell’età umbertina, 426. 408 G. A., L’autonomia universitaria proposta dal
Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe A., 8. 409 G. A., Lo Stato
educatore, in Opuscoli pedagogici, 68-69. 410 Il saggio è inserito negli
Opuscoli pedagogici, 380-406. 105 mantenere delle scuole. Secondo A.
ciò permise di far sorgere tantissime scuole pubbliche non statali che hanno
accresciuto la vita scientifica e sociale della giovane nazione, che seppur
fondata da poco, aveva di gran lunga superato nella libertà e nella
preparazione le scuole del vecchio continente. Sostiene inoltre che
l’Università americana fosse molto più democratica di quella italiana. Seppur
finanziata dalle tasse di tutti i cittadini le Università italiane erano
frequentate quasi solo da persone benestanti, a causa delle alte tasse che
venivano chieste alle famiglie di studenti. Negli Stati Uniti invece anche se
le Università si mantengono quasi esclusivamente sulle tasse degli studenti
gravando relativamente poco sui bilanci statali, esistevano numerose borse di
studio che permettevano agli studenti capaci, ma con pochi mezzi, di poter
frequentare prestigiose Università. Nel testo valorizza anche le «Scuole di
scienza» e cioè le Università scientifiche di medicina e ingegneria che si
diffondevano nel paese. Gli Stati Uniti erano un chiaro esempio del fatto che
il monopolio dell’istruzione fosse in contraddizione con i principi dello
stesso liberalismo. A. sostiene che «Il libero insegnamento va riconosciuto
siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che
informa la società moderna»411, i liberali italiani erano incoerenti con i loro
stessi principi. Scrive su tale contraddizione: «La libertà delle scuole è la
suprema necessità del momento, se già non fosse un principio sacrosanto scritto
nel codice della civiltà vera; è l’unica tavola di salvamento nel presente
naufragio della nostra istruzione. Ma qual è l’opinione dominante su questo
vitale argomento? Anche qui dissidio di menti e lotta di idee. Propugnatori del
libero insegnamento non mancano, ma ad esso non sanno fare buon viso i novatori
e gli iperdemocratici, i quali lo vogliono angustiato in tale strettoie governative
da farne un monopolio per sé e per i loro seguaci. Ingrato spettacolo di gente
che vela con una mano la statua della libertà dopo di averla coll’altra levata
alla pubblica venerazione»412. Ma le posizioni dell’A. erano in controtendenza
rispetto agli indirizzi del Ministero. La lobby massonico liberale che tenne le
fila della Minerva nei decenni successivi all’Unità contrastava la battaglia
per la libertà d’insegnamento dietro la quale vedeva la mano della Chiesa
preoccupata di non perdere l’egemonia sull’istruzione e sull’educazione, messa
in seria discussione dopo l’Unità. L’istruzione pubblica e l’Università
resteranno sotto il totale controllo del Ministero, le scuole libere saranno
tollerate, ma discriminate sotto il profilo giuridico ed economico. Niente fu
fatto per una vera parità nell’erogazione dei titoli di studio, una delle
questioni da 411 G. A., Lo Stato educatore, in Opuscoli pedagogici, 68. 412 G.
A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 164-165. 106 cui
dipende l’effettiva libertà d’insegnamento. Lo statalismo scolastico, infatti,
è primariamente un monopolio di «abilitazioni», controllando le quali il
governo «obbliga» e i giovani a frequentare le sue scuole. D’altra parte,
costringeva le scuole libere ad adeguarsi ai dettami governativi. In un testo
osserva: «Bella concorrenza davvero sarebbe quella di Istituti privati ridotti
ad una storpiatura o miserevole copia dei governativi! Bella libertà scolastica
quella di chi fosse legato mani e piedi ai ceppi dell'Autorità ufficiale».
Paradossalmente il percorso di statalizzazione della scuola e di riduzione
degli spazi di autonomia per le iniziative educative libere iniziò in un
periodo in cui la pedagogia sembrava andare in una direzione opposta. La
libertà d’insegnamento fu, infatti, un tema largamente sviluppato nella
riflessione cattolico liberale che aveva caratterizzato la stagione
risorgimentale. Lambruschini, Rosmini, Tommaseo, Gioberti, con le dovute
differenze, auspicavano per lo Stato un ruolo da supervisore nell’educazione
pubblica, non quello di gestore e macchinatore dell’istruzione e
dell’educazione. Il percorso di statalizzazione tradiva quei principi di
libertà caratteristici del clima culturale del ’48. A. denunciò questa
inversione di tendenza, riprendendo i temi della Società pedagogica: «Il primo
Congresso generale tenuto dalla Società in Torino nell’ottobre del ‘49 rivelava
in modo solenne l’unità di disegno e l’universalità del concetto che la governava:
senatori del Regno e deputati del Parlamento, autorità ministeriali e
scolastiche, membri di Accademie scientifiche e reggitori di istituti
educativi, professori e dottori di Università e maestri elementari, sacerdoti e
laici, esuli degli altri Stati della patria comune illustri per sapere,
intelligenti promotori della pubblica educazione, là convenivano a pubblica
discussione, e nella arena del dibattimento discendevano insieme affratellati i
cultori degli studi classici e speculativi coi maestri dell’istruzione tecnica
e professionale, i reggitori di pubblici e governativi istituti scolastici ed i
favoreggiatori del privato e libero insegnamento. Così il Piemonte, appena
sorto a nuova vita, adoperava in servigio di nobilissima causa il diritto di
libera associazione allora sancito nel nuovo Statuto Carlalbertino, ma, prima
che negli stati politici, scritto a caratteri indelebili nel gran codice della
natura; così esso porgeva uno splendido esempio di attività cittadina e di
privata entratura, che sole sanno a tenere a modo la podestà del governo così
lesta ad invadere diritti non suoi. E si fosse mantenuta costante
quell’attività e quell’entratura privata, e propagatasi più rigogliosa e
compatta in tutte le regioni d’Italia! Chè ora la pubblica istruzione del
nostro paese non gemerebbe soffocata da alcuni anni sotto lo strettoio del
potere esecutivo»414. Già nel saggio sull’hegelismo del 1868 attribuì a A., La
legge Casati e l’insegnamento privato secondario, A., La pedagogia italiana
antica e contemporanea, Cavour e al «cavourinismo» la colpa per il profilo
illiberale della scuola italiana415. Una simile lettura del pensiero e delle
responsabilità dello statista piemontese sembra essere confermata dall’iter
della legge Lanza416. Esso quindi vedeva nei principi della legge Casati degli
aspetti positivi, poi traditi dalle politiche successive. Le polemiche con la
Minerva Il docente dell’ateneo subalpino non si limitò a teorizzare i princìpi
intorno a cui si sarebbe dovuta realizzare la libertà scolastica, ma entrò in
diretta polemica con gli esponenti politici più o meno «statolatri» che, tra la
sua giovinezza e la maturità, governarono il Dicastero dell’Istruzione
Pubblica. Qualche anno dopo la laurea, già noto per alcune pubblicazioni, A. fu
incaricato dal Ministro Berti di scrivere un saggio sulla scuola e la pedagogia
italiana in occasione della mostra universale della Arti e delle industrie a
Parigi. Ne uscì il saggio Della pedagogia in Italia, che, tuttavia, non
incontrò il parere positivo del ministero, motivo per il quale il libro non fu
presentato alla fiera419. Commentando quell’episodio Gerini osservò come mentre
il positivismo fosse una dottrina «protetta in alto», «agli avversari della
pedagogia spiritualistica furono prodigati tutti i favori del Ministero, a lui
l’oblio»420. Le posizioni espresse dall’A., considerando le quali non desta
meraviglia la censura ministeriale, sono utili per introdurre le sue critiche
alla politica scolastica post unitaria. Già nello scritto del 1867, l’A. nel
ripercorrere gli anni del riformismo 415 G. A., L’Hegelismo e la scienza, la
vita, Morandini, Da Boncompagni a Casati: l’affermazione del modello
centralistico nella costruzione del sistema scolastico preunitario, in Pruneri,
Il cerchio e l’ellisse, centralismo e autonomia nella storia della scuola. 417
Tale lettura è confermata in un opera della fine del secolo. Scrive: «Or mezzo
secolo fa veniva promulgata la legge pel riordinamento della pubblica
istruzione, che ancora oggidì governa il nostro insegnamento universitario.
Quella legge porta l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili
aspirazioni e di grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio,
ma una santa realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente
armonizzata col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano
assorbiti nella grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla
coscienza del popolo italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire.
Ora non ci riconosciamo più. Siamo discesi sempre più giù per la china del
decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività
dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» A.,
L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da A., A.,
Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, cit.; poi in A., La pedagogia
italiana antica e contemporanea, 84-168. Lo stesso pedagogista racconta la
vicenda in A., Della pedagogia in Italia; Gerini, La mente d’A., pedagogico
subalpino all’origine della riforma Boncompagni del 1848421, lamentava che gli
ideali originari – ispirati al principio della libertà scolastica – fossero
stati in seguito gravemente compromessi dalle iniziative successive che avevano
invece rafforzato il ruolo dello Stato422. Secondo Gerini, l’ostilità del
ministero ebbe delle conseguenza nella progressione di carriera dell’A.:
Straordinario, ottenne la promozione ad Ordinario. In un’altra occasione sembrò
al pedagogista vercellese di aver subito un torto dalle autorità politiche,
quando cioè, eletto consigliere comunale, fu volutamente escluso
dall’assessorato all’istruzione424. La lettura di A. sull’evoluzione del
sistema scolastico italiano fu ripresa nel già citato La Legge Casati e
l'insegnamento privato secondario apparso nel 1879. In questo scritto l’A.
denunciava la contraddizione tra le norme a tutela della libertà scolastica
prevista dal testo del 1859 e la loro attuazione pratica, sulla base del
principio politico secondo cui il Governo «sopravveglia il privato a tutela
della morale, dell'igiene, delle istituzioni dello Stato e dell'ordine
pubblico». Per quanto la Casati riconoscesse l’utilità di una proficua
«concorrenza degli insegnamenti privati con quelli ufficiali»426, le norme e
gli atti successivi andarono contro questo principio. Per A. era evidente che
politiche simili fossero dettate dal timore del Clero e della sua presenza
educativa, ma ciò non poteva minimamente giustificare la soppressione della
libertà. Va sottolineato come il principale redattore del testo legislativo, fu
il sacerdote Rayneri. Cfr. M.C. Morandini, Da Boncompagni a Casati:
l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema
scolastico preunitario A., La pedagogia italiana antica e contemporanea, 90.
423Secondo Gerini, genero dell’A. (ne aveva sposato la figlia), curatore di
numerosi saggi sul pedagogista, il ritardo non fu casuale. Citando una lettera
dello stesso A. al ministro De Sanctis e alcune considerazioni di Parato, egli
sostiene che ci fu una ostruzione ministeriale alla carriera del vercellese,
motivata dal suo credo spiritualista e dalle sue posizioni critiche nei
confronti delle politiche ministeriali. Cfr. Gerini, La mente di A., Come
racconta Gerini: «Dopo le elezioni amministrative del 1895, essendo riuscito
con bella votazione consigliere (il 20° su 80), l’A. venne chiamato a far parte
della Giunta. Costituita la quale “l’opinione generale e più favorevole, specie
nel corpo insegnante di tutti i gradi d’istruzione, dalla elementare alla
universitaria, era che nella distribuzione dei varii rami di amministrazione
fra gli assessori, al prof. A. sarebbe toccato il governo dell’istruzione,
essendo egli la persona meglio indicata, per attitudini particolari ben note, a
tenerlo: invece venne destinato dal sindaco alla direzione della Biblioteca dei
Musei”. Naturalmente l’A. con sua lettera in data 5 luglio rinunziava
all’assessorato. Il sindaco Rignon, cui non menziono in questo luogo a titolo
d’onore, non gli affidava l’ufficio dell’istruzione perché non si conoscevano
ancora abbastanza le sue idee intorno al governo delle scuole, pur essendo
disposto a commetteglielo quanto avesse avuto campo di far conoscere il suo
modo di pensare (Osservatore scolastico di Torino, 13 luglio 1895). Il fatto
non abbisogna di commenti. Basti il dire, che qualche tempo dopo il Rignon chiamava
all’assessorato dell’istruzione un avvocato, il quale non aveva mai dimostrato
d’intendersi d’amministrazione scolastica. – Nelle successive elezioni l’A.
declinò in modo irremovibile la candidatura» R. D. art. A., La legge Casati e
l’insegnamento privato secondario, 12. 427 “La potenza che voi paventate nel
clero; non la distruggerete colla forza dei divieti, ma la fortificate colla
mostra della persecuzione e colla vostra sfiducia nella libertà. Voi la volete
la libertà, ma per voi e per 109 Nell'appendice l’A. dimostra tale
tesi, analizzando nel dettaglio i diversi provvedimenti elaborati dai
successori di Casati, tra cui Natoli, Coppino e Correnti, criticandone lo
scarto rispetto ai principi della legge fondativa del ’59. E così icasticamente
conclude: «Da vent'anni e più anni la legge riconobbe e sancì il principio del
libero insegnamento: da quasi venti anni il Governo continua a misconoscerlo,
la burocrazia a manometterlo»428. La stessa lettura dell'evoluzione
dell'ordinamento scolastico italiano è confermata in un altro testo di
vent’anni dopo. Un caso esemplare del «tradimento della Casati» riguarda la
figura dell’istitutore libero. Come spiega A., secondo la legge: «L’istitutore
è governativo o libero, secondochè la scuola, in cui esercita il suo magistero
educativo, è retta dallo Stato o da privati cittadini. All’uno il governo
prescrive la sostanza e la forma del suo insegnamento, la misura, il
procedimento, il criterio direttivo. Dall’altro la vigente legge 13 novembre
1859 esige i titoli, che lo autorizzano, ed il rispetto dell’igiene, della
morale e delle patrie istituzioni, epperò la sua libertà non è assoluta; ma non
concede al Governo di sindacare, se e quanto, e come egli educhi e insegni; chè
altramente la libertà dell’istitutore si risolverebbe in una vana parola»430.
Ma alla libertà riconosciuta dalla Casati, conclude l’A., corrisposero norme
restrittive che di fatto compromisero l’iniziativa dei liberi insegnanti. Non
meno severa era la denuncia dei rischi dell’ingerenza statale sull’identità
delle scuole private: «Dalle recenti statistiche – così scrive – si rileva come
gli istituti secondari liberi affidati alle provincie, ai comuni alle
corporazioni religiose, ai privati, gareggino per numero con quelli del
Governo; il che è splendido argomento del grande amore, che nutrono i
cittadini, per l’incremento degli studi e lo sviluppo della coltura sociale; ma
non si può non provare ad un tempo un sentimento increscevole e doloroso in
veggendo come tanti nobili sforzi vengano in gran parte sciupati dallo smodato
ingerimento del Governo, il quale introduce la monotona e rigida uniformità de’
suoi gli amici vostri; a siffatta guisa di libertà anche i vostri avversarii
potrebbero fare buon viso, anche la Czar delle Russie: di una veneranda matrona
ne avete fatto una brutta ed intollerabile Megera.” A., La legge Casati e
l’insegnamento privato secondario, 28. 428 Ibid, p. 26. 429 Un passo di un
saggio del 1899 conferma la lettura di A.: «Or fa mezzo secolo fa veniva
promulgata la legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che ancora
oggidì governa il nostro insegnamento universitario. Quella legge porta
l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di
grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio, ma una santa
realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata
col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella
grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo
italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci
riconosciamo più. Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china
del decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo riservato
all'attività dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le energie
individuali» A., L’autonomia universitaria proposta da Baccelli ed esaminata da
A., 3. 430G. A., La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica:
pedagogia elementare, metodi, de’ suoi programmi, de’ suoi studi là dove
dovrebbe lasciare, che si svolga libera, varia e feconda la vita
scolastica»431. Ciò dipendeva, a giudizio del pedagogista piemontese, dal
monopolio statale dei titoli di studio, mediante il quale il Governo
disincentivava l’iscrizione negli istituti liberi. Inoltre il «pareggiamento»
delle scuole libere, condizione per erogare titoli equiparati a quelli statali,
era regolamentato da norme restrittive e obbligava all’omologazione con il
sistema statale. Come denunciò il vercellese: «A chiunque si muova fuori
dell’orbita degli studi segnata dal Governo, è chiuso irrevocabilmente l’adito
alle professioni liberali; potrà procacciarsi una coltura scientifica e
letteraria ampia ed eletta per quanto si voglia, ma prima pur sempre di un
carattere pubblico e legale, e ridotta ad un puro ornamento dell’animo e nulla
più»432. A. leggeva bene la situazione della concorrenza tra scuole statali e
non statali. La Talamanca, riprendendo il dibattito parlamentare su tali
argomenti, fa notare come le scuole private cattoliche avessero un numero
maggiore di studenti rispetto a quelle statali. Cita il senatore Menabrea che
nel maggio del 1872 fa notare come sui 4136 studenti che avevano sostenuto la
licenza liceale, ben 2670 provenivano da scuole private e seminari433. Ma come
dimostrano le vicende successive, il sistema nato dalla Casati avrebbe portato,
come denunciato dall’A., all’assottigliamento delle scuole private. Sulla
volontà del governo di attuare la libertà d’insegnamento è particolarmente
significativo un breve saggio dal titolo: L’autonomia universitaria proposta
dal Ministro Baccelli ed esaminata da A.434. Il testo non riporta la data di
pubblicazione, ma si può desumere da alcuni brani che sia stato dato alle
stampe nel 1899. A. critica nel testo della legge una profonda ipocrisia. Da
una parte si affermava il principio dell’autonomia, ma nei fatti esso rimaneva
un flatus vocis, in quanto veniva contraddetto dal resto della legge. Infatti
il progetto non segnava i limiti della “vigilanza” governativa; sanciva che i
confini dell’autonomia sarebbero stati in seguito definiti dal Consiglio
Superiore e dal Consiglio di Stato (senza contrattazione con gli atenei);
affermava che la nascita di nuove Università, Istituti o Scuole d'istruzione
superiore, o di Facoltà poteva avvenire esclusivamente per decreto; attribuiva
al Ministero il potere di respingere le 431 G. A., Opuscoli pedagogici,
Talamanca, La scuola tra Stato e Chiesa dopo l’Unità, in Chiesa e religiosità
in Italia dopo l’Unità, cit., vol. I, p. 365. 434G. A., L’autonomia
universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da A., proposte di
nomina o di conferma dei professi ordinari e straordinari avanzate dalle
Università. In questo modo, ironizza A., «il Governo lascia alle Università il
governarsi da sé, purché si governino a modo suo»435. Il pedagogista guarda
così al modello medioevale, tornando a contestare l’idea secondo cui gli
istituti nascano per legge e non dalla libera associazione. Conclude citando
Villari, correlando la mancanza di autonomia con la crisi dell’Università. Un
altro aspetto che A. considerava illiberale e nefasto era il controllo dei
libri di testo, con cui il Ministero poteva indirizzare politicamente e
culturalmente l’insegnamento. Lo stesso pedagogista pubblicò un pamphlet nel
quale difese un saggio di un professore siciliano438 che, stando alla sua
narrazione, incorse ingiustamente nella censura ministeriale439 a motivo del
suo orientamento filo cattolico440. 435 7. 436 «Seguendo l'ordine numerico del
disegno di legge, passiamo all'art. 3 che suona cosi: “La creazione di nuove
Università, Istituti o Scuole d'istruzione superiore, o di loro Facoltà o
sezioni, non potrà avvenire se non per legge”. Anche qui abbiamo un segno del
tempo. Sentendo proclamare l'autonomia degli Istituti scolastici superiori, il
nostro pensiero corre spontaneo alle gloriose Università medioevali, che
sorsero e fiorirono non per decreti di Stato, ma per libero valore di insigni
maestri, di studiosi discepoli, di privali cittadini, fervidi amatori della
scienza, e ci immaginiamo di essere ritornati a quo' felici tempi di scolastica
libertà. Illusione! A nessuno si concede di creare nuove Università, o facoltà
universitarie, o Scuole d'istruzione superiore senza il placet regio o
parlamentare. Non si osa proclamare francamente e incisamente il principio, già
sancito dal Belgio coll'articolo della sua Costituzione: “L'insegnamento è
libero; ogni misura preventiva è vietata”» «Io potrei proseguire più oltre la
mia critica, ma dalle poche considerazioni, clic sono venuto fin qui esponendo,
emerge, per quel che a me ne pare, la conclusione, clic la proposta autonomia è
irretita fra tali e tante strettoie da essere ridotta ad una vana parvenza,
mentre la vigilanza dello Stato non ha confini, che la circoscrivano, non ha
norme, da cui sia vincolata. 11 segnare i giusti limiti della vigilanza
governativa, non è qui luogo da ciò: questo solo panni di potere
ragionevolmente affermare, che questo disegno di legge conferisce al Governo
poteri assolutamente inconciliabili colla autonomia universitaria veramente
intera. Qualche anno fa Pasquale Villari scriveva: “Colle libertà, eolie nuove
leggi, regolamenti e mutamenti, con nuovi professori italiani e stranieri, noi
non siamo ancora riusciti a far nascere nelle nostre Università una vera vita
scientifica: esse non rispondono all'aspettazione giustissima del paese. E
perché, dimando io? Perché il Ministero arrogandosi il diritto supremo ed
assoluto della pubblica istruzione ed educazione, ha governato a sua posta le
Università invece di mostrarsi ossequente alla legge non mai abolita, informata
ai più larghi o giusti principii di libertà /in nota cita il libro di Martelli,
La decadenza dell’Università italiana”» Si tratta del libro di G.B. Santangelo,
La Famiglia e la Scuola, letture proposte alle allieve delle classi femminili,
esercizi fondamentali di lettura, scrittura e calcolo per le bambine, Palermo,
Amenta, A., Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof.
Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da A.,
Palermo, Tip. delle letture domenicali, Nella relazione del Ministro in cui si
valutava negativamente il testo difeso dall’A., si accusava il libro di un
certo «odore di sagrestia». A tale accusa, lo studioso piemontese replicò: «Ah
finalmente ecco qui la chiave omerica, che apre l’arcano di una critica
spigolistra, permalosa, assassina! L’Autore per ragione pedagogica e per debito
di programma ha qua e là nei suoi libri (e non dalla prima all’ultima parola,
come, bugiardamente asserisce il Relatore) parlato di Dio e delle cose sante:
dunque giù botte da orbo sulla sua mal battezzata cervice! In verità addolora
il vedere il Ministero suggellare coll’autorità sua il giudizio di chi parla un
linguaggio tanto plateale e lacera il primo articolo dello Statuto fondamentale
del Regno e l’articolo della vigente legge organica della pubblica istruzione!
Ma già il sentimento religioso è puzza di sagrestia, che ammorba e va
proscritto in nome della nuova Igiene! L’Ermenegarda morente del Manzoni
sclamava: “Parlatemi di Dio, sento ch’ei giunge”: il moderno epicureo grida:
Non parlatemi di Dio, sento che mi si guasta la digestione. Se il Santangelo
fosse stato un prete spretato, che avesse gettato il tricorno alle ortiche,
o L’unico momento in cui sembrò potersi fermare la parabola
monopolistica, fu la nomina a Ministro dell’istruzione del senatore palermitano
Perez. Il neoministro mostrò la volontà di mettere mano ad una riforma della
scuola volta a difendere il principio della libertà d’insegnamento. L’A. prese
subito le difese del Ministro in un articolo pubblicato nella Gazzetta
piemontese e stese il saggio La riforma dell’educazione moderna mediante la
Riforma dello Stato, che trovò l’apprezzamento del neoministro. Gerini
documenta come Perez avesse l'intenzione di chiamare A. stabilmente al
Ministero, con lo scopo di redigere una riforma della scuola e dell’Università
incentrata sulla libertà d’insegnamento e contraria alla deriva monopolistica
intrapresa dai suoi predecessori442. L’A. fu infatti presto coinvolto nella
compilazione di un nuovo Regolamento per la licenza liceale in sostituzione di
quello precedente definito dal ministero Correnti. Il nuovo regolamento, nel
quale A. ebbe «non poca e vivissima parte, intendeva ricondurre gli esami di
licenza liceale alla loro «primiera forma legale, allorquando l'alunno privato
si presentava a sostenerli presso qualunque pubblico liceo dello Stato e
senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio. Il
suo scopo era quello di restituire più ampia libertà agli studenti delle scuole
non statal. Il pedagogista documentò nel saggio sulla legge Casati come il
testo trovò il consenso della maggior parte dei provveditori e dei presidi sui
quali era stato fatto un sondaggio preliminare. Ma il progetto suscitò anche
numerose polemiche. Accusato dagli ambienti liberal-democratici di voler
favorire la scuola libera (e quella cattolica in specie), a pochi mesi dal suo
insediamento, Perez dovette abbandonare il un frate sfratato, che avesse
bruciato il convento per andare a godersi la vita, i suoi libri avrebbero
incontrato ben altro giudice ed altro mecenate» in A., Clericalismo e
liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo, In un
autografo il Ministro scrisse ad A. «...m’accorgo come Ella sia fra quei pochi
cui non travolge la mente l’idolatria dello Stato onnipotente e onnisciente» in
A. Consorte, Scuola e Stato in A., Gerini, La mente d’A., A., La legge Casati e
l’insegnamento privato secondario, Così il professore piemontese sintetizza i
punti salienti del Regolamento: «Gli articoli più sostanziali di esso
Regolamento, che avrebbero radicalmente mutato l'attuale sistema degli esami di
licenza, sono: il quinto, che restringe l'esame sulle materie nei limiti, in
cui esse furono svolte nel terzo anno, quando si siano superati gli esami di
promozione dei due primi anni; il settimo, che lascia libero il candidato
privato di iscriversi presso qualunque pubblico liceo del Regno; il nono, che
lo proscioglie dall'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso
triennio; il dodicesimo, che incarica i professori liceali della preparazione
di temi per le prove scritte, ed inchiude l'abolizione della Giunta centrale. Eppure
quel regolamento era un semplice richiamo alla legge Casati: si intendeva di
ricondurre gli esami d licenza liceale alla loro primiera forma legale,
allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli presso qualunque
pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale
e del percorso triennio. E se ne fece una questione di clericalismo, mentre era
una questione di legalità. dicastero. Il caso sembra confermare quanto annotato
da Limiti: «Il problema della scuola privata sembra essere fatale per la sorte
di taluni ministri della Pubblica Istruzione e qualche volta per la sorte degli
stessi governi!»449. Sebbene impossibilitato ad incidere effettivamente negli
indirizzi della scuola, la sua collaborazione con il Ministero continuò negli
anni seguenti. Come ricorda Prellezo: « esprime il suo parere sui programmi
delle Scuole normali; nel 1885 viene incaricato dal Ministro Coppino
dell’ispezione delle Scuole normali del Piemonte e della Liguria; lo stesso
Ministro Coppino lo chiama a far parte della Commissione reale per il
riordinamento della scuola popolare. Molto più duro fu il rapporto con il
Ministro Paolo Boselli, che guidò la Minerva durante i due primi governi
Crispi. Qualche mese dopo il suo insediamento, A. criticò Boselli a motivo
della censura di un testo già citato. Questo iniziale contrasto probabilmente
convinse il pedagogista piemontese, chiamato a far parte della commissione
presieduta da Villari per stendere i nuovi programmi delle scuole elementari, a
non partecipare a buona parte delle sedute. Pesò probabilmente la convinzione
di rappresentare un’esigua minoranza all’interno della commissione, formata in
larga maggioranza da studiosi di area laicista e positivista. Qualche tempo
dopo l’A. attaccò più severamente il Ministro con il pamphlet dal titolo Lo
Stato educatore ed il ministro Boselli452. Si tratta di un saggio con toni
molto 448Così commentò l’A.: «Il Ministro Perez, rara avis, ritornando al
concetto della legge arditamente si accingeva a spastoiare le scuole private ed
a redimere gli istituti governativi da quel formalismo artifiziato e da quel
enciclopedismo, che insieme congiuravano a sciupare gl’intelletti giovanili e
sfibrare i caratteri. Ma il dio Stato colpiva a mezzo del lavoro la mano
ribelle del suo Ministro. La genìa burocratica con ignobili e subdole manovre,
la stampa liberalesca con una critica sleale ed assassina lo precipitarono ben
presto di seggio miterandolo da clericale! Come avevano adoprato alcuni anni
prima verso il Ministro Berti, propugnatore sincero di libertà» in A., Lo Stato
educatore ed il Ministro Boselli, 4. 449G. Limiti, Momenti e motivi della
legislazione sulla scuola non statale in Italia, in S. Valitutti, Scuola
pubblica e scuola privata, Bari, Laterza. Prellezo, A. negli scritti pedagogici
salesiani. Introducendo il lavoro A. denuncia: «Questa turba liberalesca altro
non vede e non adora che se medesima, e va gridando: l’Italia siamo noi, noi
siamo il patriottismo, la libertà, la Costituzione, lo Stato: chiunque non ci appartiene
è nemico della patria, chi non è con noi, è contro di noi. Sì, i clericali sono
contro di voi, perché i nemici della patria siete voi, voi i demolitori delle
franchigie costituzionali e della indipendenza politica, gli oppressori della
libera attività dei privati cittadini. Oh benedette rimembranze del 1848,
allorchè si vagheggiava, anelando, un ideale di unità e di floridezza sociale,
di dignità e di indipendenza nazionale, di vera e larga libertà politica e
civile, sorretta dalla religiosità e dall’integrità del costume! In omaggio a
quell’ideale languivano nelle carceri del dispotismo austriaco o cadevano
decapitati sul palco i martiri italiani; cimentavano sui campi lombardi la vita
contro gli stranieri i prodi. Orta quel santo ideale conquistato con inauditi
sacrifici di sangue e di danaro, è buttato nel fango da una turba di affamati,
di ambiziosi e di settarii» in G. A., Clericalismo e LIBERALISMO, ossia i libri
di lettura di Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e
difesi da A.. Solo la prima parte del saggio, intitolata Lo Stato educatore, è
stata ripubblicata in G. A., Opuscoli pedagogici. aspri, ma composto da
critiche precise e circostanziate come è stato notato da Bonghi. Nel saggio
ribadì le accuse al sistema statolatrico italiano e stigmatizzò una serie di
provvedimenti emanati dal Ministro: criticò il decreto il quale prescriveva che,
per le sole scuole statali, la licenza elementare fosse titolo sufficiente per
l’ammissione alla prima classe del ginnasio e della scuola tecnica; contestò la
circolare dell’8 agosto 1889 con cui, in mancanza di maestri legalmente
abilitati, dava la possibilità ai militari congedati che avevano superato
l'esame prescritto per gli aspiranti sergenti, di insegnare nelle scuole
assicurando la metà della copertura con fondi ministeriale, al contrario di
quanto avveniva per gli altri insegnanti; protestò contro una circolare
ministeriale nella quale, a dispetto dell’art. della legge Casati, s’impediva
ai parroci di presiedere gli esami di istruzione religiosa; recriminò che il
corso di pedagogia non risultasse tra i corsi obbligatori per il conseguimento
della laurea in Lettere e Filosofia454. Criticò, inoltre, i toni di una
circolare finalizzata al riordino degli Orfanotrofi e dei Conservatorii e
stigmatizzò la «faziosità» con cui il Ministro gestì i trasferimenti tra le
diverse Università per influenzare le vicende concorsuali. Questi elementi
condussero A. a tacciare Boselli di «cesarismo scolastico». In conclusione
avanzò una proposta provocatoria e risoluta: «Delenda Carthago. Il ministero
della pubblica istruzione va annullato. La proposta dell'abolizione del
dicastero, peraltro avanzata già in Parlamento dal deputato libertario e
socialista Morelli, non rappresentava in effetti agli occhi di A. la condizione
ideale per il governo dell’istruzione pubblica, ma costituiva la fatale
soluzione alla «metastasi statalista» che soffocava la scuola italiana.
Confermò le stesse posizioni in un 453 Commentando il saggio, il Bonghi
osserva: «L’A. è professore di pedagogia come tutti sanno, e tanto ha scritto
della scienza che professa, e posto molta cura a’ problemi, che vi si trattano,
da meritare, di certo, che un suo studio sulla materia dell’educazione, teorica
e pratica, non passi inosservato. Quello che annunciamo, è diviso in due parti.
Nella prima tratta la questione se e quale parte spetti allo Stato
nell’educazione; e viene alla conclusione media e vera, che la suprema autorità
scolastica risiede nella famiglia, e allo Stato spetta un ufficio complementare
e di vigilanza. La seconda è una critica minuta – e talvolta, il che non è
bene, acre – della condotta dell’attuale ministro di Pubblica Istruzione. Né si
può negare che una buona parte dele osservazioni sia giusta, e a ogni modo
consigliamo il ministro di darvi peso, e non immaginarsi, che, prima o dopo,
non ne avranno. Soprattutto le considerazioni intorno al concetto e alla
condizione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, come appaiono
nelle più recenti circolari del ministro, ci paion degne ch’egli vi rivolga la
sua attenzione» R. Bonghi, Idee di A. circa la libertà d’insegnamento, Sullo
stesso tema il pedagogista aveva già scritto un pamphlet: A., Il ministro
Coppino e la pedagogia, Torino, Borgarelli, A., Lo Stato educatore ed il
Ministro Boselli, Concludendo il saggio A. ricorda la sua fedeltà alle
istituzioni dello Stato Italiano: «Pubblicando questo lavoro io non ho inteso
di venir meno ala ragionevole riverenza dovuta all'autorità ministeriale; e ne
fa prova manifesta il rispetto, che io professo sincero per le leggi dello
Stato, per le patrie istituzioni, per le franchigie costituzionali, per la
nazionale indipendenza. Ho censurato gli atti governativi adoperando quella
crudezza di forma, che risponde alla gravità del male, esercitando un diritto,
che lo Statuto conferisce ad ogni libero cittadino, adempiendo un dovere
impostomi dalla carità del loco natio e dalla coscienza del mio mandato. Ho
parlato il linguaggio dei fatti; ed i fatti li smentisca chi può, li riconosca
chi deve. articolo intitolato Salviamo la scuola!, nel quale dopo essersi
soffermato sulle storture della scuola statale e sul suo ordinamento illiberale
ritornò a prospettare la soppressione del Ministero. Un attacco così diretto
non restò senza conseguenze. All’opuscolo del pedagogista replicò infatti un
libretto anonimo intitolato Lo Stato educatore – botte di un educatore –
risposte di un educato458 che, stando al Gerini, sarebbe stato redatto negli
uffici del ministero. La risposta alle critiche è non solo pungente quanto, del
resto, le denunce d’A., ma scade a livello di attacco personale. Oltre a
difendere ogni singolo provvedimento annotato dallo studioso vercellese,
l’autore si abbandona alla denigrazione della sua attività didattica e
scientifica: «Ha una famiglia pedagogica A.? No. E la ragione è una sola, ed è
naturale e chiara, non si può dar famiglia senza amore. Omnia vincit amor. Ma
l’A. non ha amore, se non verso sé medesimo. Il sentimento che noi scorgiamo
nel prof. A. non è, no, mal volere; è piuttosto un affetto immoderato che lo
muove a far troppo di sé centro a sé stesso; talmente che egli rende, senza
forse accorgersene, l’immagine dantesca di cosa che sé in sé rigiri; e
rigirandosi, egli nella sua vaga visione si esalta così, che gli par di
poggiare su, ad un punto superiore a quello di chi nella scala sociale e nella
realtà dei fatti è più alto di lui»460. L’acida polemica continuò con un
ulteriore passaggio in una replica d’A. nel breve saggio: Risposte di un
educato: un educato. Fin dalla prima pagina lo scritto era poco conciliativo,
sia nel difendere le sue tesi sia nel contestare le accuse, così chiosando
ironicamente lo statalismo ministeriale: «Beati i popoli (ripiglio io), retti
da un governo così raccolto ne’ suoi giusti confini, così ossequiante alle
leggi ed ordinato in ogni atto suo, così alieno dallo esclusivismo e tanto
rispettoso della libera attività de’ cittadini All'educazione nazionale peggior
ventura che quella del Ministero di Boselli non è toccata mai. Il dilemma si
affaccia irrevocabile. Delenda Carthago! L’abolizione del Ministero di pubblica
istruzione si impone imperioso, urgente, indeclinabile. La salute della nostra
grande ammalata, che è la scuola, è a questo prezzo. Per questa via sola si
giunge a smantellare la roccia della vastissima setta, che impera sovrana alla
Minerva. Dacchè il parlamentarismo rasenta la bancarotta, può ben far senza di
un Ministero, liberandoci da quella smania di legiferare, da quel subisso di
leggi e regolamenti e decreti e circolari scolastiche, che intralciano il
regolare processo della pubblica istruzione e comprimono la libertà degli
studi» Salviamo la scuola! in «La libertà d’insegnamento. Bollettino
trimestrale della “Unione pro Schola Libera”», Torino, Tip. S.A.I.D. Lo Stato
educatore – botte di un educatore – risposte di un educato, Roma, Stabilimento
Civelli. segnatamente nel campo pedagogico, che alla famiglia non venga
impedito di comporsi nell’ordine suo ed adempiere la sua missione educatrice. Torna
a criticare Boselli sulle pagine de Il nuovo Risorgimento. Alle accuse
precedenti ne aggiunse altre come quelle circa l’ingerenza della Minerva sulla
scuola dell’infanzia, la nomina di un impiegato di biblioteca ad ispettore
scolastico di prima classe, e il fatto che «il ministro Boselli con una sua
ordinanza deferiva l’anno scorso alle singole Commissioni esaminatrici la
proposta dei temi per le prove scritte della licenza liceale, offendendo
l’articolo del R. regolamento allora
vigente. Si trattava secondo l’A. della persistenza di una serie di «abusi del
potere esecutivo», in cui scorgeva il tradimento dello Stato di diritto e della
libertà: L’Italia è tutta infesta da una turba di pseudo-liberali, che la
libertà fanno strumento di servitù, e della patria, delle franchigie
costituzionali, delle leggi dello Stato si fanno sgabello per salire in alto
sitisbondo di dominio e di oro, corrompendo il pubblico costume e le
istituzioni politiche e civili della nazione»464. Un altro episodio che segnò
lo scontro con la Minerva, risale al pensionamento di A., quando il dicastero
era guidato dall’onorevole Credaro. Il pedagogista, ormai anziano e con poche
forze, chiese al Ministero che gli affidasse un sostituto. La Facoltà nominò il
pedagogista Romano, «ex» spiritualista e cattolico convertito al positivismo.
Lo studioso era già stato bocciato in una serie di concorsi per conseguire la
libera docenza a Torino, Milano, Palermo e Bologna. A Catania addirittura tutti
e cinque membri della commissione esaminatrice diedero esito negativo. La
nomina di un candidato simile come suo supplente, peraltro agli antipodi
rispetto alla sua linea pedagogica, portò l’A. a prendere dura posizione contro
la Facoltà e il preside Vidari, e poi a chiedere di andare definitivamente in
pensione, per impedire al Romano di insegnare sulla sua cattedra. Raccogliendo
una serie di articoli apparsi su giornali e riviste come Italia Reale, L’Unione
di Vercelli, Il Momento, Il Corriere d’Italia, I diritti della scuola Studium,
fu pubblicato un pamphlet sulla vicenda. Furono inserite anche due lettere
inviate da A. a due di queste riviste come ringraziamento della solidarietà
dimostrata, e un piccolo scritto dallo stesso pedagogista in cui chiariva
ulteriormente i contorni della vicenda. La posizione di A. sulla vicenda è
molto significativa: G. A., Un educato anonimo, Torino, Tip. Subalpina, A.,
Boselli e la legge, «Il nuovo Risorgimento. A. e la sua cattedra, Torino, Tip.
S, Giuseppe degli artigianelli. emergono sia un vivo attaccamento all’impegno
pedagogico e magistrale466, ma anche forti dissidi con l’ambiente
universitario. Nelle sue ricostruzioni A. attribuì a Vidari, allora preside
della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino, la responsabilità dello smacco
subito, collegando l’appoggio da parte del preside del Romano e un generale
poco rispetto dimostrato anche con altri episodi, in virtù della sua aderenza
ai principi spiritualisti e alla sua fede. Un altro testo in cui attacca il
Ministero è il testo Del realismo in pedagogia, nel quale contesta le posizioni
espresse da SANCTIS (vedasi) in uno scritto pubblicato ne la «Gazzetta
letteraria di Torino», in cui lo statista napoletano sosteneva come la classe
magistrale dovesse ispirarsi ad un realismo di impronta pragmatista. A. è
invece convinto che l’anima della scuola poteva essere un solido ideale umano.
Senza valori certi, Si tratta di una
lettera inviata a l’Unione di Vercelli, per ringraziare delle parole in sua
difesa. Scrisse: «Io non sono più maestro. Non è la morte, che mi abbia rapito
alla cattedra, ma è qualche cosa di peggio. In questi ultimi anni la mia vita
universitaria fu amareggiata da grandi dolori. Pur tuttavia avrei continuato
nel mio insegnamento; ma quando mi si volle imposto per supplente un rifiuto di
tutti i concorsi universitari, a cui egli si è presentato, esclamai: Basta
così; e mi ritirai nel santuario della vita privata, abbandonando alla
dimenticanza ed all’oblio quei tra infelici che malignavano sulla mia persona.
Abbandono con certo qual rammarico la cattedra, che per più di cinquant’anni mi
fu cara compagna di lotta del pensiero, nella conquista della verità, e vedendo
scomparire a me d’intorno quella folla sempre nuova di giovani studiosi che nel
volgere degi anni veniva ad ascoltare la mia povera parola, mi pare quasi che la
mia vita si spenga nell’isolamento. No, non si spegne, ma semplicemente si
trasforma. Veggo che la mia più che attuagenaria esistenza volge al tramonto,
ma io mi esalto pensando al Divino Maestro, al Pedagogo eterno, al Verbo
vivente, al Redentore dell’umanità. Dopo aver accennato i concorsi falliti da
Romano, A. commenta l’ultimo a Catania «quest’ultimo poi gli fu veramente
disastroso, non avendo riportato nemmeno un voto favorevole. Tanto è che coloro
stessi fra i miei colleghi che per lo passato lo avevano sempre protetto e
difeso a spada tratta, in faccia a quel disastro esclamarono: È un uomo
liquidato! Ma che? Questi medesimi lo proposero per mio supplente e poi
riuscirono ad insediarlo sulla Cattedra di Pedagogia da me lasciata vacante.
Viva la libertà del dire e del disdire! Il Romano deve il presente suo
splendido successo a Vidari, il quale rifiutando di interpellarmi intorno la
scelta del mio supplente, sostenne in Consiglio di Facoltà insieme con sei
altri professori presenti all’adunanza (senza contare tre altri, che diedero
voto contrario) che fosse proposto il libero docente, fallito in tutti i
concorsi universitari di pedagogia specie in quel disastroso di Catania. A.
riporta nello scritto un brano di una lettera uffficiale scritta da Vidari in
occasione delle sue dimissioni, e così la lo commenta: Egli mi rivolse un
saluto perché abbandoni l’Università, ma non aggiunge sillaba, che esprima il
menomo rincrescimento di aver perduto in me un collega, e quando presentai le
mie dimissioni non mi ha significato il menomono desiderio che fossero
ritirate. L’augurio anche’esso mi sa di forte agrume. Che nel placido riposo io
possa lungamente deliziarmi nei prediletti miei studi? – Ma questi cari miei
studi prendono forma e vita dalla pedagogia italiana tradizionale fondata sul
teismo cristiano. Ora questa pedagogia l’avete cacciata via dalla mia Cattedra
per fare luogo alla dottrina razionalistica del mio supplente, sicché l’augurio
a me rivolto viene a tradursi in questi termini: Deliziati senza fine negli
studi tuoi, ma non qui in queste aule universitarie in mezzo a noi e nella
realtà della vita sociale, ma in mezzo alle mi- stiche regioni del
soprannaturale, nelle sedi beate dei Campo elisi conversando cogli spiriti
magni di Aporti e Rayneri. Sì, io serberà sempre viva la mia ragione filosofica
sorretta dalla fede religiosa in Cristo; ma voi vi vantate razionalisti e
calpestate la scienza collocando sulla cattedra chi non la possiede; voi
esaltate la libertà del pensiero, e v’inchinate a tutte le dottrine, fossero
pur dissolventi e scettiche: soltanto il pensiero cristiano non trova grazia
presso di voi. A., Del realismo in pedagogia, Torino, Roux e Favale, inserito
in Id., Opuscoli pedagogici, si sarebbero abbandonate le giovani generazioni a
progetti e prospettive volgarmente materiali e pragmatiste, condannandole
all’alienazione. La battaglia d’A. in favore della libertà d’insegnamento si
tradusse – per quanto egli fosse già avanti negli anni – nel sostegno alla
fondazione dell’associazione «Unione pro schola libera. Società nazionale per
la libertà d’insegnamento», fermamente voluta da Piovano e da Bettazzi,
finalizzata diffondere le ragioni della libertà scolastica, contro lo
statalismo e i suoi fautori. A. è scelto come presidente generale effettivo,
carica che ricoprì solo per un anno, dopo il quale si allontana
progressivamente dal nucleo direttivo e organizzativo dell’associazione, a cui
continuarono a legarlo comunque lo spirito e le motivazioni di fondo. Inizia ad
essere pubblicato anche il Bollettino dell’associazione, La libertà
d’insegnamento, un trimestrale a diffusione nazionale pubblicato inizialmente
in circa tremila copie. La nascita e l’attività del sodalizio ebbero notevole
risonanza contribuendo a vivificare il dibattito sulla libertà scolastica che
stava registrando in quegli anni una notevole ripresa. In un convegno svoltosi
a Genova, dal titolo Istruzione ed educazione cristiana del popolo italiano gli
eredi dell’Opera dei Congressi, confluiti nelle Unioni Cattoliche, lodarono
l’iniziativa d’A. e nella seconda delle tre risoluzioni fu sancito uno stretto
rapporto con l’Unione torinese. La Civiltà Cattolica – che a lungo aveva
praticamente ignorato le tesi d’A. – dedicò al Convegno un articolo, riportando
le conclusioni dell’assise cattolica ed encomiando l’operato dell’A. e
dell’«Unione pro schola libera. Appaiono significative le affermazioni
conclusive dell’articolo, nel quale si celebrano affianco agli allievi i più
importanti rappresentanti del cattolicesimo liberale francese. G. Chiosso, La
stampa pedagogica e scolastica in Italia. Chiosso, Gentile, i cattolici e la
libertà di insegnamento nei primi anni del Novecento, in G. Spadafora (ed.),
Gentile. La pedagogia, la scuola, Roma, Armando. Nella seconda delle tre
risoluzioni fu scritto che il Congresso «Plaude all’Unione pro schola libera
sorta in Torino sotto gli auspici del venerando prof. A., e a tutte le altre
istituzioni aventi lo scopo di tutelare i diritti dell’insegnamento libero; Fa
voti che l’azione in favore della scuola libera sia efficacemente coadiuvata
dai padri di famiglia, dagli insegnanti degli istituti privati e specialmente
dall’azione illuminatrice della stampa quotidiana; Delibera di affidare
all’Unione stessa l’incarico di studiare ed attuare quei mezzi pratici, che
valgano a salvare quanto resta ancora di libertà d’insegnamento nella vigente
legislazione e di ottenere dai pubblici poteri quegli immediati temperamenti,
che servano a sopprimere le più odiose disposizioni regolamentari contro
l’insegnamento privato» Il congresso cattolico di Genova, La Civiltà Cattolica,
quaderno. Scrive l’autore dell’articolo: Dopo queste semplici osservazioni
intorno alla prima risoluzione, lasciamo ai lettori di apprezzare l’importanza
della seconda risoluzione del congresso; in cui si traggono con un senno
pratico degno di ogni encomio, le conseguenze legittime del principio fissato
nella prima. Quale campo fecondo di attività, non meno benefica che urgente
nelle singole deliberazioni di questa seconda Èa partire da questo periodo
che il pensiero pedagogico del pedagogista vercellese iniziò a essere
apprezzato e diffuso anche al di fuori del circuito del cattolicesimo liberale.
Lo confermano una serie di articoli pubblicati sulla «Civiltà Cattolica,
l’attenzione delle «Rivista di Filosofia neoscolastic, i meriti riconosciutigli
da Meda, e un celebre saggio di Monti, La libertà della scuola in cui si
trovano citati gli scritti d’A. e si ricordano le sue battaglie scolastiche.
Nel frattempo A.aveva lasciato questo mondo. risoluzione! Le ponderino
attentamente i cattolici italiani; i giornalisti, i conferenzieri e gli stessi
sacerdoti, in Chiesa e fuori di Chiesa, ne facciano il soggetto del loro
apostolato, finché il popolo se ne impossessi e ne sappia fare buon uso
specialmente in tempo di elezioni: da ciò dipende la salvezza della gioventù e
della patria! Noi ne siamo sì profondamente persuasi, che non possiamo fare a
meno di mandare da queste pagine un saluto e un augurio solenne all’Unione pro
schola libera di Torino e al suo venerando presidente A., il più illustre pedagogista che oggi
vanti l’Italia, degno rappresentante delle tradizioni filosofiche ed educative
veramente italiane; la cui fama è pur troppo assai inferiore al merito, perché
ingiustamente eclissata dal predominio del positivismo anglo – sassone e
teutonico negli atenei e nelle scuole normali del regno. Possa il suo nome
tramandarsi ai posteri con quelli di Montalembert, di Falloux e di Dupanloup
per la Francia, come simbolo della conquistata libertà d’insegnamento per
l’Italia!” Il congresso cattolico di Genova. In tre articoli pubblicati sulla
pedagogia contemporanea sono citate le opere di A. e le sue critiche al
positivismo. Cfr: Linee di pedagogia moderna, cFinalità educative, quaderno;
L’opera educativa positivista, quaderno; Cannella, Opuscoli pedagogici inediti
ed editi di A., cMeda, Universitari cattolici italiani, Monti, La libertà della
scuola, principi, storia, legislazione comparata, Milano, Vita e Pensiero. Antropologia
e di pedagogia nell'Università di Torino Torino,Carlo, Clausen. In un'opera
assai importante pubblicata dall'illustre prof. A., della quale ho a suo tempo
discorso in questa autorevole Rivista,leggeşi un capitolo inscritto: Prime
origini dei problemi psico. fisiologici,checontieneingermelamateria della
presente memoria, la quale richiama a sè l'attenzione di tutti coloro che s'interessano
dei più gravi problemi della scienza antropologica. Pigliando le mosse
dall'origine storica e psicologica dell'Antropo logia,dellaqualedeterminapurei
limiti,l’A.poneinsodo ilVero, l'incerto e l'ignoto di questa disciplina, per
dichiarare quindi l'ana. logia tra il mondo esteriore della natura ed il mondo
interiore dell'anima. Ma se il mondo esterno ed il mondo psicologico interiore
si rispecchiano e si rassomigliano sotto certi riguardi, tra l'anima ed il
corpo nell'uomo, intercedono analogie assai più intime, spiccate e na• turali,
intorno alle quali si trattiene a lungo l'Al. Ora uno dei più cospicui punti di
corrispondenza tra l'anima ed il corpo si manifesta nel parallelismo di
sviluppo attraverso le successive età della vita umana: parallelismo però, che
non è nè assoluto, nè continuato,tanto meno poi un'identità. Un'altra
corrispondenza è quella che intercede tra la mente sada ed il corpo sano, tra le
malattie dell'anima o quelle del corpo. L'A. Studi antropologici– L'uomo ed il Cosmo
Unvol. in 8gr. circa Torino Tipogr. Subalpina editrice. Psicologia. Studi
psico-fisiologici. Memoria di A., professore BOLLETTINO PEDAGOGICO E
FILOSOFICO. ripone la sanità della mente nell'armonico e regolare sviluppo
della medesima, e la sanità del corpo, nell'equilibrio operoso delle funzioni
fisiologiche. Conseguentemente distingue una duplice specie d'igiene, di
patologia e di terapeutica, corrispondenti alle due sostanze componenti
l'essere umano. Anche i duestati della veglia e del sonno si corrispondono fra
di loro, essendochè su ciascuno di essi le potenze dell'anima e le funzioni dell'organismo
si mostrano sotto forme speciali edana. loghe. Lo spirito poi ed il corpo in tutto
ilcorso ascensivo del loro perfezionamento si prestano vicendevoli uffici,
poichè lo spirito deve ai sensi esterni la prima conoscenza del mondo sensibile
corporeo; a LA PAROLA, che è un SEGNO SENSIBILE ordinato ad esprimere un
intelligibile, lo svilnppo del suo pensiero; alla mano (nella cui struttura
Elvezio non dubita di riporre la superiorità dell'uomo sul bruto) lo strumento
della sua attività artistica e morale. Lo spirito alla sua volta ricambia dei
suoi servigi ilcorpo,inpalzandolo alla dignità prco pria della persona umana,e
conferendogli virtù singolari,assai supe jiori alla sua costitutiva essenza.
Iofatti il corpo umano, informato dalla mente che lo governa, è reso capace di
compiere azioni a cui non arrivano i corpi dei bruti, sia che venga riguardato
nell'intiera compagine del suo organismo, sia che lo si consideri nella
speciale struttura delle sue parti e nelle funzioni de'suoi sensi particolari. A
questo punto l'A. richiama ad un'ordinata rassegna la molteplice varietà dei
fenomeni, che si svol gono nell'interiorità del nostro essere, e che forniscono
argomento di una specialedisciplina,lapsico-fisiologia,dellaqualetraccialelinee
generali, non senza avvertire che di essa ai nostri tempitrovansicenai
nelSaggio sui'principiiedilimitidellascienzadeirapportidelfisico e del morale
del Cerice, e più ancora nei Principi generali di psico login fisiologica di Lotze.
La scienza psico-fisiologica, dice l'A.,suppone come sua condizione la
psicologia e la fisiologia e facendo tesoro delle cognizioni che le ammannisce
l'unaintorno all'anima umana,l'altra intornoall'organismo corporeo,s'innalza a
studiare ilsupremo principio generatore di tutti i fenomeni della vita umana
che forma il problema fondamentale di tale disciplina.Ilquale può ricevere due
soluzioni principali, secondo che ilprincipio generatore di tutti ifenomeni
riponsi in una sostanza o nei fenomeni stessi. Nel primo caso abbiamo il
dinamismo; nel secondo il fenomenismo. Il primo può essere mono-dinamismo, se
riconduce tutti i fenomeni umani ad una sola sostanza, la quale potendo essere
o l'anima od il corpo, bipartisce il mono-dinamismo in animismo e materialismo:
duo-dinamismo se pone una differenza essenziale tra ifenomeni mentali ed i fisiologici.
Il fenomenismo si bipartisce pure, potendo essere dualistico od e
voluzionistico, secondo che riconosce una linea di distinzione trai due ordini
di fenomeni, ovvero sostiene che sitrasformano gli uni ne gli altri. A. esamina
con singolare lucidezza di pensiero e grande chiarezza d'esposizione queste
diverse classi di sistemi psico-fisiologici, considerandoli nei loro più noti
rappresentanti; ed è degno di consi derazione l'esame della dottrina di Serbatti
su questo punto. Venendo allo scioglimento del problema,vuolsi distinguere il
duodinamismo esclusivo dal temperato. Ora se il primo non risolve il problema
perchè separa l'uno dall'altro idue principii costitutivi dell'uomo, per guisa
chel'anima razionale è causa unica essa sola di tutti e soli i fenomeni mentali
e non interviene per nulla nella produzione dei fenomeni fisio logici ed animali,
il principio vitale poi è esso solo il generatore dei fenomeni della vita
corporea e mantiensi affatto estraneo ai fenomeni mentali; il secondo pel
contrario siccome quello che mantiene distinti i due principii costuitutivi
dell'uomo, e riconosce ad un tempo la loro vicendevole influenza, talch è i fenomeni
mentali si compenetrano coi fenomeni animali e si condizionano a vicenda, dà
un'equa soluzione al problema. a Cosi, conclude l’A., il concetto della
personalità umana, vale a dire di un soggetto sostanziale fornito
d'intelligenza e di libera volontà, è il solo,che conciliila molteplicità dei
fenomeni coll'unità delloro umano soggetto, sicchè questi due termini nello
sviluppo della vita umana, si mantengono indiegiungibili, e si rischiarano l'un
l'altro. Su questo concetto si fonda appunto la notissima divisione della psi
cologia in empirica e razionale.» Tale è nelle sue linee generali lo studio
dell'insigne filosofo subal pino che mostra un ingegno vigoroso sempre ed
acutissimo:e siamo certi che l'accoglienza fatta alle altre opere di lai, sarà
rinnovata per questa memoria,nella quale si scrutano ipiù ardui problemi della
scienza dell'uomo. Nome compiuto: Giuseppe Allievo. Keywords. Refs.: Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “Grice ed Allievo,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Allioni: deutero-esperanto – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Torino). Abstract. Grice: “We can conceive of pirot as a talking pirot – cf. talking parot
--. Its language, pirotese, must be allowed to undergo phases, which I call
proto-pirotese – the mere natural manifestation of a groan --,
deuteron-pirotese --- where the pirot now MEANS that he is in pain --,
tritio-pirotese – when we add ‘negation’ --, tetarto-pirotese – when we add
conjunction --; pempto-pirotese – when we add disjunction --; hector-pirotese –
when we add ‘if’ --; hebdomo-pirotese – when we add substitutional universal
quantification --; ogdo-pirotese – when we add substittuioanl existential
quantification --,, enato-pirotese – when we add the iota operator --;
decato-pirotese – when we add the assertion sign versus the imperative sign --;
endecato-pirotese – when we add the ‘therefore’ operator --; dodecato-pirotese –
when we allow for implicature and disimplicature.” Filosofo italiano. Roma, Lazio. Con Allioni.
Novecento novantanove Cod.: codice di corrispondenza amichevole internazionale,
Torino, Impronta. Dulichenko’s
Boellu is a misspelling). A code for friendly international
correspondence. Digital pasigraphy is indicated in DIAL under the number
901.121. In the same edition, Dulichenko mentions the linguistic project
Arioni-Boera, number 854.74, referring to Fuishiki Okamoto (Rikichi, or
Fuishiki, Okamoto. Perhaps we are dealing with the same project. Indeed,
in the introduction, Okamoto lists several works that influenced the
Babm9 language, including Arioni-Boera. Taking into account that Oka moto’s
native language is Japanese, it can be assumed that the Japanese spelling is
the source of the confusion. The thing is that there is no “l” sound in
the Japanese language. Instead, they pronounce “r” (voiced alveolar flap
[ɾ]). The surnames Allioni and Boella could easily have been transformed into
Arioni-Boera in some Japanese source. In order to distinguish cardinal
numerals from other numbers corresponding to code words, they are written
in parentheses: (1), (2), (3), etc. References: [2], [17], [45], [53]. Ernesto Boella.
Boella. Keywords: deutero-esperanto.
Grice e Boella. Con Boella. 999 Cod.: coice di corrispondenza
amichevole internazionale. Nome compiuto: Allioni. Keywords: deutero-esperanto,
proto-pirotese, deutero-pirotese. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, “Grice ed Allioni,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice ed Alminusa:
all’isola – l’implicatura conversazionale dei nobili siciliani – filosofia
siciliana – la scuola di Catania -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Catani, Sicilia. Grice: “Cutelli is like Hart, a
jurisprudent, rather than a philosopher!” Si laurea a Catania. Un saggio e il
“Patrocinium pro regia iurisdictione inquisitoribus siculis concessa”. Vuole
escludere dal "privilegium fori" numerosi delitti come la resistenza
a pubblico ufficiale, ed omicidio anche tentato. Altro saggio: “Codicis legum sicularum libri
quattuor” dove manifesta un'idea di politica amministrativa che mira a creare
un centro unificatore e un ministro superiore, cui fosse affidato il compito di
amministrare e dirigere la monarchia, ottenendo il rilancio economico, la
riduzione delle spese e il riequilibrio del conto fiscale. Si reca a Napoli.
Acquista il feudo di Mezza Mandra Nova.
Altro saggio: “Catania restaurata”. Altro saggio: “Supplex
libellus.”Acquista il feudo di Alminusa e il borgo già creato da Giuseppe
Bruno, figlio del fondatore Gregorio, per atto del notaro Pietro Cardona di
Palermo. Ad Aliminusa dota la chiesa di Santa Anna e stabilisce un legato di
maritaggio di dieci onze l'anno in favore di una figlia dei suoi vassalli, come
si scorge dal suo testamento redatto innanzi al notaio Giovanni Antonio
Chiarella di Palermo. Acquista il feudo di Cifiliana. Il suo testamento rivela la volontà di
destinare una parte dei suoi possedimenti alla fondazione di un collegio
d'huomini nobili in cui si dovesse studiare filosofia: il Convitto Cutelli, o
Cutelli. A Catania gli sono dedicati una piazza sita sul percorso della
centrale via Vittorio Emanuele II e il Liceo Classico "Mario
Cutelli". Dizionario biografico
degl’italiani. Una utopia di governo. La
formazione dell'élite in Sicilia tra Settecento ed Ottocento. Il "Collegio
Cutelliano" di Catania, in "Quaderni di Intercultura". Nome
compiuto: Conte di Villa Rosata. Conte Mario Cutelli di Villa Rosata e signore
dell’Alminusa. Alminusa. Keywords: i nobili, i nobili siciliani, homosocialite,
boys-only, male-only, Convitto Cutelli, élite filosofica, all-male
establishment, Oxford as non-co-educational – the coming of Somerville! –
Grice’s play group as an all-male play group, the idea of nobilita, nobility.
--. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Alminusa,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi
Speranza -- Grice ed Alopeco: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
italiana – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. According
to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Alopeco was a Pythagorean. Alopeco.
Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Alopeco,”
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Altan: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del soggeto -- simbolo, valore – ermeneutica antropologica – la
scuola di San Vito al Tagliamento – filosofia friulana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (San Vito al Tagliamento). Filosofo friulano. Filosofo
italiano. San Vito al Tagliamento, Pordenone, Friuli-Venezia Giulia. Grice: “I like Altan; he is
of course an anthropologist and not a philosopher, although his first rambles
were on Croce and philosophy as synthesis of history! – but then I lectured on
Peirce’s misuse of ‘symbol,’ and Altan, not a philosopher, just like Peirce was
not – repeats the mistake – Welby should possibly know better – Grice: “Altan
fails to explain why the Romans felt the need to borrow ‘symbolum’ from the
Greeks, and never return it!” Grice: “The examples in Short and Lewis for the
Roman use of ‘symbol’ are extravagant – Peirceian almost!” – Grice: “Altan’s
point is that a ‘soggeto,’ to communicate via ‘logos’ with another ‘soggeto’ in
a colloquium, must rely on this or that symbol, which means that he must rely
on this or that ‘valore’ – and unless you share those values, you don’t quite
grasp the implicatum in the use of the symbol.” Nato da un'antica famiglia friulana. Uno dei massimi
esperti di antropologia culturale. Destinato dalla famiglia alla carriera
diplomatica, si laurea in giurisprudenza a Roma. In Albania durante la
seconda guerra mondiale, partecipa alla resistenza, militando nel partito d'azione.
Dopo le vicende belliche, conosce CROCE (si veda) grazie a cui fa il suo
ingresso nel panorama culturale italiano. L'incontro con CROCE, avvicina la
sua filosofia all'idealismo crociano ed allo spiritualismo etico, come
testimoniano i suoi saggi di questo periodo. Trascorre quindi dei periodi di
studio e di ricerca a Vienna, Parigi e Londra, dove si accosta pure
all'antropologia e all'etnologia. Grazie all'influsso di MARTINO (si
veda), CANTONI (si veda) (di cui e anche assistente volontario) e Tentori, si
dedica all'antropologia secondo un approccio che non si basi esclusivamente
sulla ricerca sul campo e l'etnografia ma che fa soprattutto ricorso alla filosofia.
Influenzato pure da Malinowski, si oppone allo strutturalismo, aderendo
successivamente al FUNZIONALISMO nonché a un marxismo mediato dalla scuola
francese degl’Annales. Insegna antropologia culturale alla Facoltà di
Filosofia di Pavia, Trento, Firenze e Trieste. Organizza a Roma un convegno di
antropologia della società complessa. Vive tra Milano e la sua villa a Grado.
Sulla base della sua iniziale formazione in filosofia del diritto nonché della
sua vasta conoscenza filosofica generale, dopo una fase di ricerche sulla
fenomenologia del simbolo, volge la sua attenzione verso i metodi applicati
all'analisi semiotico, quindi si dedica allo studio dei comportamenti e dei
valori che lo hanno poi condotto ad approfondire, da una prospettiva
storico-culturale e con una visione alquanto critica, la dimensione identitaria
degl’italiani. A. cerca di far capire sia all'opinione pubblica che ai
politici italiani l'importanza e la necessità di dare al loro paese una
religione civile, come la degl’antichi romani. In questo progetto, vanno
inserite alcune fra le sue opere come La coscienza civile degl’italiani e il
manuale di Educazione civica. Si dedica allo studio delle basilari
componenti simboliche dell'identità etnica italiana – specialmente friuliana --,
concentrandosi, a tale scopo, sulla categoria dell'ethnos, individuandone ed
analizzandone cinque principali componenti: I l'"epos" -- cioè, la
memoria storica collettiva; II l'"ethos" -- cioè, la sacralizzazione
di una norma e di una regola in un valore) III il "logos" -- cioè, il
linguaggio interpersonale e la conversazionale; IV il "genos" -- cioè,
l'idea di una comune discendenza: la ‘gens’ degl’antichi romani -- ed V il
"topos" -- cioè, il SIMBOLO di una identità collettiva comunitaria
stanziata su un dato territorio – come il Friuli -- allo scopo di trovare una
possibile soluzione razionale, dal punto di vista dell'antropologia, ai
conflitti tra i vari etno-centrismi. Altre saggi: “La filosofia come
sintesi esplicativa della storia. Spunti critici sul pensiero di CROCE e
lineamenti di una concezione moderna dell'Umanesimo” (Longo e Zoppelli,
Treviso); “Pensiero d'Umanità. Sommario breve d'una moderna concezione
speculativa dell'Umanesimo” (Bianco, Udine); “Parmenide in Eraclito, o della
personalità individuale come assoluto nello storicismo (Udine); “Lo spirito
religioso del mondo primitivo” (Saggiatore, Milano); “Proposte per una ricerca
antropologico-culturale sui problemi della gioventù” (Mulino, Bologna); “Antropologia
funzionale” (Bompiani, Milano); “La sagra degl’ossessi: il patrimonio delle
tradizioni popolari italiane nella società settentrionale” (Sansoni, Firenze);
“Personalità giovanile e rapporto inter-personale” (ISVET, Roma); “Le origini
storiche della scienza delle tradizioni popolari” (Sansoni, Firenze); “Atteggiamenti
politici e sociali dei giovani in Italia” (Mulino, Bologna); “I valori
difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche in Italia”
(Bompiani, Milano); “Comunismo e società” (Mulino, Bologna); “Valori, classi
sociali, scelte politiche” (Bompiani, Milano); Manuale di antropologia
culturale. Storia e metodo” (Bompiani, Milano); “Modi di produzione e lotta di
classe in Italia” (Mondadori, Milano); “Tradizione e modernizzazione: proposte
per un programma di ricerca sulla realtà del Friuli (Campo, Udine); “Antropologia.
Storia e problemi” (Feltrinelli, Milano); “La nostra Italia: arretratezza socio-culturale,
clientelismo, trasformismo e ribellismo dall'Unità ad oggi” (Feltrinelli,
Milano); “Populismo e trasformismo. Saggio sull’ideologie politiche”
(Feltrinelli, Milano); “Per una storia dell'Italia arretrata” (Monnier,
Firenze); “Una modernizzazione
difficile. Aspetti critici della società italiana” (Liguori Editore, Napoli); “Soggetto,
simbolo e valore. Per un'ermeneutica antropologica” (Feltrinelli, Milano); “Un
processo di pensiero” (Lanfranchi, Milano); “Ethnos e Civiltà. Identità etniche
e valori democratici” (Feltrinelli, Milano); Italia: una nazione senza
religione civile. Le ragioni di una democrazia incompiuta” (IEVF-Istituto editoriale
veneto friulano, Udine); “La coscienza civile degli italiani. Valori e
disvalori nella storia nazionale” (Gaspari, Udine); “Religioni, simboli,
società: sul fondamento umano dell'esperienza religiosa” (Feltrinelli, Milano);
“Gl’italiani”: Profilo storico comparato delle identità nazionali europee” (Mulino,
Bologna); “Per un dialogo fra la ragione e la fede” (Olschki, Firenze); “Le
grandi religioni a confronto. L'età della globalizzazione (Feltrinelli,
Milano); Identità etniche, Una religione civile per l'Italia d'oggi, emsf. biografie/
anagrafico.asp?d=328 Il crogiolo, archive. web/ emsf.rai/biografie/ anagrafico ?d=328;
“L'esperienza dei valori”, “Identità etniche e valori universali” archive./ /http://emsf.
biografie/anagrafico.as Modelli concettuali antropologici per un discorso inter
disciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in: Psicoterapia e scienze
umane, polser.wordpress.carlo-tullio-%altan-modelli- concettuali- antropologici-per-un-discorso
-interdisciplinare-tra-psichiatria- e-scienze-sociali-in- psicoterapia- e-scienze
-umane -Citazioni «Per la destra l'antropologia è roba per selvaggi; la
sinistra pensa solo all'economia; altri sono ancorati a schemi anglosassoni,
che vedono le strutture politiche come realtà a sé», da un'intervista
rilasciata a Rumiz e pubblicata in La secessione leggera, Roma, Riuniti, Cfr.
il saggio autobiografico: C. Tullio-Altan, "Un percorso di pensiero",
Belfagor. Rivista di varia umanità, nonché il testo autobiografico Un processo di
pensiero, Lanfranchi Editore, Milano, Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, Dizionario di
Antropologia. Etnologia, Antropologia Culturale, Antropologia Sociale,
Zanichelli, Bologna, voce A. 772.
Cfr.//controluce notizie-old-html/giornali/a 14n03/18-culturaecostume- altan.htm Cfr.//segnalo/ TRACCE/ NONPIU/ tullio-altan
Frutto di questo nuovo programma di ricerca, e peraltro la monografia Lo
spirito religioso nel mondo primitivo.
Cfr. A. Rigoli, Lezioni di etnologia, Renzo e Reau Mazzone editori, Ila
Palma, Palermo, Cfr. Fabietti, Remotti, cit.
Fra cui Catemario, Cardona, Galli, Lanternari, Musio, Remotti, Rigoli, Satriani,
Tentori. Cfr. Tentori, Antropologia
delle società complesse, Armando, Roma. Da un punto di vista storico, è da
ricordare come l'antropologia culturale ha origini giuridiche. Invero, molti
dei maggiori antropologi della seconda metà Professore sono giuristi o,
quantomeno, avevano una formazione giuridica. Ciò fondamentalmente è dovuto al
fatto basilare per cui nessuna società umana è priva di una qualche forma di
diritto, anzi tutte le istituzioni sociali hanno una imprescindibile dimensione
giuridica; cfr. Fabietti, Remotti, "Antropologia giuridica". Cfr. Ignazi, "Populismo e trasformismo
nell'analisi di A.", il Mulino. Rivista di cultura e politica. Angioni,
"A.: un antropologo "anti-italiano". Familismo amorale e
clientelismo tra i mali del Paese", in: Il Sole 24 Ore, Cfr. Enciclopedia delle scienze
filosofiche in. Cfr. A., "La dimensione simbolica
dell'identità etnica", Finis e Scartezzini,
Universalità e differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra
identità e culture, Angeli, Milano. Qui,
per regola, si intende una norma, in genere non necessariamente codificata,
suggerita dall'esperienza o stabilita per convenzione o consuetudine, spesso in
riferimento al modo usuale di vivere e di comportarsi, sia individualmente che
collettivamente; cfr. A. Ethnos e
civiltà. Identità etniche e valori democratici, Feltrinelli, Milano -- nonché i
ricordi di Galimberti e di Massenzio comparsi su La Repubblica e reperibili
all'indirizzo Cfr. pure Rigoli, A., Un
processo di pensiero, Lanfranchi, Milano; A. "Un percorso di
pensiero", Belfagor. Rassegna di varia umanità, Ferigo, di A., Metodi et Ricerche.
Rivista di studi regionali, Atti del
Convegno Storia comparata, antropologia e impegno civile. Una riflessione su A.,
Udine-Aquileia, i cui sunti sono stati pubblicati, Candidi, sulla rivista
Italia Contemporanea. Fascicolo speciale dedicato ad A. della rivista Metodi et
Ricerche. Rivista di studi regionali.
L'antropologia italiana. Laterza, Roma; Alliegro, Antropologia italiana.
Storia e storiografia, SEID, Firenze, A., C. Signorelli, "A proposito di
alcune critiche: dibattito A.-Signorelli", in Rivista della Fondazione
Italiana dei Centri Sociali, Roma; Forniz, "Il Palazzo A. in S. Vito al
Tagliamento: dimore illustri nel Friuli occidentale", in Itinerari. A. su
Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; A. Dizionario biografico dei
friulani. Nuovo Liruti; Istituto Pio Paschini per la storia della Chiesa in
Friuli. Biografia su feltrinellieditore.
Biografia, su blog.graphe. Convegno in memoriam, su qui. uniud. Ricordo
biografico, su contro luce. Filosofia Sociologia Sociologia Categorie: Antropologi italiani Sociologi
italiani Filosofi italiani Professore, San Vito al Tagliamento Palmanova Accademici
italiani Studenti della Sapienza Roma Professori dell'Università degli Studi di
Pavia Professori dell'Università degli Studi di Trento. Nome compiuto: Carlo
Tullio-Altan. Altan. Keywords: soggeto, simbolo, valore – ermeneutica
antropologica, Croce, filosofia come sintesi, Velia, la porta rossa di Velia,
fascismo, ideologia politica italiana, ideologie politiche italiane,
simbologia, simbolismo, ermeneutica, mercurio, ermete, mercurio, humano, uomo,
umanesimo, Altan e Passolini, Palazzo Altan – Altan nobile friulese, il conte
Carlo Tullio-Altan – la etnia friulese, ‘friulese, non italiano’ – dizionario
biografico dei friulesi – friul – la lingua friulese – la base romana – la occupazione
romana. Aquileia – i friulesi durante il fascismo – contro il friulese,
italisazzione – Altan e la resisenza – etnia e italianita, -- romanita ed
italianita – friulesita -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, “Grice ed Altan,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Alvarotti:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale retorica – la scuola
di Padova – filosofia padovana –filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Padova). Abstract.
Grice: “Most philosophers at Oxford hardly understood my motivation in bringing
in conversation into the philosophical picture—it would have been a far cry in
the Italy of Alvarotti – where ‘conversazione’ reigned supreme!” Filosofo padovano. Filosofo veneto. Filosofo
italiano. Padova, Veneto. Nacque nell'antica famiglia nel palazzo di famiglia
in contrà Sant'Anna. Il padre e archiatra di Leone X. Insegna semiotica a
Padova e studia a Bologna sotto Pomponazzi (si veda) Alla morte di Pomponazzi,
ritorna a Padova dove insegna fino al decesso del padre; dopo di ciò dove occuparsi
attivamente della sua famiglia. A questo periodo risale la composizione
che verranno pubblicati da Barbaro con
il titolo di dialoghi filosofici: Dialogo d'amore”, “ Dialogo della dignità
delle donne”; “Dialogo del tempo di partorire delle donne” e “Dialogo della
cura famigliare”; due dialoghi lucianei “Della usura” e “Della Discordia”,
seguiti da quello “dialogo delle lingue” e da “Dialogo della retorica” e infine
quello “Delle laudi del Catajo, villa della S. Beatrice Pia degli Obici e
quello Intitolato Panico e Bichi. Questi dialoghi sono le opere più note di A.,
nonostante siano stati pubblicati a sua insaputa e non siano mai stati
riconosciuti, e hanno avuto decine di ristampe. C’e anche un “Dialogo
della vita attiva e contemplativa” che non venne però inserito nei Dialogi per
motivi tuttora sconosciuti. Degl’infiammati, amico di Tasso, si occupa
della revisione della Gerusalemme liberata. Autore della Canace, pubblicata a
Venezia, tragedia che da seguito a
un'accesa polemica tra l'autore e Cinzio. In seguito intervenne anche
nella polemica tra lo stesso Cinzio e Pigna a proposito dell'”Orlando furioso”
e del romanzo come genere letterario. Si trasfere a Roma dove divenne amico di
Caro. Tornato a Padova compose i “Discorsi Su Alighieri”, “Sull'Eneide”;
“Sull'Orlando furioso” e il “Dialogo della istoria.” Fautore di un classicismo
ancor più estremo di quello del vicentino Trissino, cui rimprovera di aver
tratto dalla storia e non dalla mitologia il soggetto della sua Sofonisba.
Conformemente all'uso greco e, naturalmente, nel pieno rispetto delle unità
aristoteliche, si ispira all’Eroides ovidiane per la Canace. Sepolto nella
Cattedrale di Padova negl’avelli degl’Alvarotti. Nell'andito della porta
settentrionale gli venne eretto un monumento ad opera di Campagna. A
Opere tratte da' mss. originali, Forcellini, Venezia, Occhi, A., in Trattatisti,
Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, Cammarosano, La vita e le opere di A., Empoli,
Tipografia R. Noccioli; Bruni, A. gl’infiammati, in Filologia e letteratura,
Bruni, Sistemi critici e strutture narrative, Ricerche sulla cultura fiorentina
del Rinascimento, Napoli, Liguori, Fano, Notizie storiche sulla famiglia e
particolarmente sul padre e sui fratelli di A., in Atti e memorie
dell'Accademia di Padova, Padova, Randi; Fano, A., Saggio sulla vita e sulle
opere, Padova, Drucker; Floriani, I
gentiluomini filosofi. Il dialogo culturale, Napoli, Liguori; Fiorato, Fournel,
Il “camaleonte” e il “cuoco”. A. e la critica del romanzo, in « Schifanoia,
Jossa, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche
rinascimentali, Napoli, Vivarium; Jossa, Verso il barocco. A. e Borromeo: tra
retorica e mistica, in Aprosiana, Pozzi,
Le lettere familiari d’A., in «Giornale storico della letteratura italiana »
Pozzi, La critica fiorentina fra Bembo e Speroni: Varchi, Lenzoni, Borghini, in
M. Pozzi, Ai confini della letteratura. Aspetti e momenti di storia della
letteratura italiana, Alessandria, Edizioni dell'Orso, Sperone Speroni, volume
monografico di « Filologia veneta », Padova, Editoriale Programma,
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Camillo Guerrieri Crocetti, Sperone Speroni,
in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Sperone Speroni, su sapere, De Agostini. Luca Piantoni, Sperone Speroni, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Sperone Speroni, su Liber
Liber. Opere di Sperone Speroni, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Sperone Speroni,. Audiolibri di
Sperone Speroni, su LibriVox. Michele
Messina, Sperone Speroni, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. DIALOGO DELLE UNGVE. I NT ERLttC VTO R I, Tìembo l Lazaro,
Cortegwo, Scolte, 1 Lafcari, Perette. odo dir,mcffer Lazaro, che la
Signoria di Vettetia iìb\é condotto a legger greco, la» tino nello jìudto di
Padoua:è ite ro qucUot Lai. Monfignorp. BtM. Che prouificnc è lauo* fira:Ls z.
Trecào feudi d'oro. SEM. Mcffir Lazaro,io me n'allegro co mi,con le buo ne
lettere, cr con li lludiojì dtqucUeicon noi prona,pe» roche mnonsòbuomonifjuno
della uojìraprofcfiiioue t che andaffe prejjb d quclfegnOìOite fetc armato :
eoa le buone lettere pOÌ,le qualida qui innanzi non mendicherà no la uìta loro
pot(erc s <£r nude; cerne fono ite per Io puf* fitojrì allegro etìandia con
lo jìudioj^rglijiudkfidi pa doua;cut finalmente è tocca in forte tale macero
iquale tingo tempo hanno cercato,?? difidetatoMabuauifo^ the egli ui bifognerà
fedisfar r.an tanto aSmmetsjo difiàtrio, che hanno gli huomn i i d'imparare,
quanto adunai infinta {paranza, che sha diuoijZrdetk uojha dottrina. Ikhe fare
nuoua cofanon iti farà i cofifetc tifato d'affati* carni, cr con le uofbre
bieuoli fatiche operar gloria in uoi,et in
aiuruiuertù.LA2.Mojignor,(cmpremaiionba pregato Dommcdio^hc mi du grattaci
occajìosc una N uotd DIALOGO me ut concia: patti catdtopmow di Kd.RU per
ztr* LtLmi^rtouoglu lidia, ^nadoncam ritti che mfTuno a* è ^op^ etw / M
g" S I itine pnfettmcntc . On* egl. e Jt m* CT MU fi hLnU Éfee«W»e«^
è Aium» fi fattamente, f, prtri n***rrL«i Hetmi /ìmilmcOTtnaa *d £
feeinpret». ^mbeamcj^e^ndcmg^dacbe m fammorttlipcrfM*. LA2, Ifcgjucojif
<U«,fenr icWi delolw&tectwto altre f ^«"f* frtae:>£ di
<pdk<dtre ne il deh «e W4, DELLE LINGVE. t)g può recare il
parlar bene attamaniera del uolgo. Bem. 1*2$ è ben uero,cbe tanto più
uolontieri fi dotterebbe iin parar lalingua grecarla latina, che la Tofcanaì
quan to di quc^a quelle altre due fono più perfette, er più ca* re. ma che la
Tcfcafia da [prezzare dei tutfypermcn* te lo direi j parte per non
èrebugia,parte per non parer dbauer perduto tutto quel tempo,che prender udii in
ap prenderU DcUa bebrea.io non ne fo nulla: ma per quel* lo che io n'oda
dirc,quan;o la Utina gli italiani, altrettan to o poco meno fiata la li
Genna>ua.LAT.A me pare, quando m guardo, che talefia la uolgar Tofcana perù*
fretto atta lingua Uttna ; quale la feccia al u'mo : pero* che la uolgar e non
ì altroché la latina guatla^? corrot U boggimai dalla lunghezza del tempo, o
dalla forza de barbari ; o dalla mjira uiltlPer la qual cofa gli italiani, U
quali atto'ftudto della Imgualatina la uolgarc anttpon gono,o fono fcnzagiudiw,
non dtjcerncndo tra ytcU lo, chcè buono, crnon buono io priui in tutto d'inge-
gno non fon poffenti di pofiedert il migliore . Onde quthììauuiene,che noi
ueggiamo auucnire di alcuna human* compietene :la quale fiemadi uigor natura* le
nonbauendouertùdifare del cibo fangue, onde m m ilfuo corpo, quello in flemma
cornate, che rende lo buomo da pocoì^r nelle proprie operatimù il fa ef= fere
conforme atta qualità dcWbumore . Ma egli fi ud- rebbe dare per legge ad
ogn'uno :a uolgariilncn parla- re latinamente, per non diminuir la riputatione
di me- fìa lingua diurna: a letterati, che mai da loro, fe non . cojbrtìti di
alcuna ncceftità, non fi parlale volgare U i atta Si maniera de gli
ignorantùacciocbel uclgo arrogante ton Vcfiempio&r autoritàde grandi
huamini, no» preti* iefle argomento di far conferita delle fue proprie brutta
rei et ai arte ridurre la fu* ignorantia. cort e G.Mef* (er haxaro, qui tranoi
ditene il male che uoi tioiete di ùueflilmgm Tofamaifolamente quello non falche
fe- ce Vanno pacato mejfer ROMOLO (vedasi) in quejia città ; il quale orando
pubbcamente,con tante, er taliraghni biafimo total lingudAordfujbc innanzi
bareitolto d'effer mor to famiglio di CICERONE (vedasi), per batter bene
latinamente par iato : che uiuer bora con quejia Tdpa Tofcano. L a z. Se io
crcdefii bifognami perfuadere <t ifcokridi Padova, che la lingua latina
fuffe cofa da feguitare, er da fuggir U Tofcana ; 6 io non u onderei a legger
latino, ofbcrc* rei che delle mie letttoni paco frutto fe ne doueffe piglia*
re, ebe dafe flcfli noi conofcendo t giudicarei,cb'ef$i man zafferò
d'intelletto,non fapendodtilmgueretra pnnei* pij perfe noti, strale conclufioni
: il quale difetto non ha rimedio niffuno . Onde io tti dico, che pia toflo
«or* retjiper parlare, comeparlaua Marco TuUio latino, che effer papa Clemente
. Costig, Et io cono* feo di motti kuomini, che per effer mediocri Signori, fi
(ontentarebbono d'effer muti, già non dico che iofta una didaeSo numero -.ma
dico bene dicob con uofbra grati*, poi che il affitto è dal mio poco
intetiettojo non tiedo per qual ragione debba Ibuomo apprezzare la Un gua greca,
ne la latina > che per f aperte [prezzare, mi* tre, er corone, che fe ciò
fujjfc, flato ferebbe di maggior égtàti il«iteJMK>i ol cuoco di Demoéìhene,
er di CICERONE (vedasi): che non è bora f imperio, et il Papato, EhmbJ Non
creggiate, etw incjjèr L«&fre bramifolamente Lt lingua latmadi Cicerone, la
quale era commune a lui t cr gli altri Romani : ma mfieme con le parole latine
e* gli difìdera [eloquenza » o 1 ftpienza di lui : che fu fu* propria y ertoli
d'altriita quale tanto più ecceUentt dee riputar fi d'ogni mondana grandezza,
quanto aWal* tezza de principati fi [ale per fucccfbonc,o perforte,out a quella
delle feienze monta. [anima nofira non con altre: ali, che con quelle del fuo
ingegno,%r della fua indù* foia . Io fo nuUa per rifletto a quegloriofi : ma
qudpo* coccio nefo delle lingue, non lo cangierei al Marche* fttodi
t&antoua . Laz, lonontredo Monfìgnor mio, ckeuoicrcggiate>cbe molti de
Senatori, vde Confala* ri di Roma, non che tutta la plebe coft latino parlale »
come faceua lAarco TuIlioiaMicuilìudijpiu fu Rem* obligata,èic alte vittorie di
Cefare. Onde io difli,ty />£>= n dicodinuouo, che più i)limo,& ammiro
U linguaio» tino, di ciccronctcbe [imperio d'AUgujìo. T>eUe laudi del la
qual lingua parlarci al predente >non tantoperfodhfa* re aldiftderio di
quefìo gentiluomo da bene, quato per che io fono obligato di farlo.ma otte
uoificte,non fi con* «iene, ée altri che uoi ne ragioni : 0* chi faceffe altra'
mcnteftrebbe ingiuria alla linguai egli farebbe («ih» toprofontuofo. Bem,
Quejlo ufficio dilodar Ulingu* latina per molte ragioni dee effere mjbro ;
parte per ef» fergiàdejlinatoad infegnarla pubicamente : parte per ejferltpiu
partigiano che non fono io, il quale non tifli* no cotante: fi che però io
difèregi la uolgare Tofana : n $ cr <jr a tcbe io non la prepofi fe
non ad un Mirebefatoyoue ci Ihauctc me [fa difopra all'imperio di tutto l mondo
. Dunque a uoi tocca il lodarlaicbe il lodandola farete grt to iUa ]xngui,atta
quale il nome uoflro,cr la fama uofhra è grandmane obligata: cr con quello
buongentilbuo* ma corte fanente apcrarcte, il quale dianzi non fi curò di
confeffire d'bauere anzi dello feemo, che nò, per udir uoi ragionar della fua
ecceUenZd.L AZ.Et io, poi che UO lete cofi ; uolontieri la loderò, con pitto di
potere ìnfìe* inamente bufano- la uolgarcje uoglii me ne uerrà; feri* ZA che
uoi (babbiate per mule. B e m. San contento : mi fu ilpatto communc,cbe quaio
uoi uituperarete; io pofa fa difendere. L a z . Volontieri. ma a noi gentiVbmmo
dico,cbc io poffo bene incominciare a lodare labuond lin gua latina,
rendendouila ragione perche io la preponga, atta fignark del mondo ; ma finire
non neramente, tanto ho da dire intorno a quella materia : non per tato mi ren
do fìcuro, che quelpoco } cliio ne dirò, ui perfuadcrà ai efferle molto più
amico, che uoi non fiete al prefente al* Ù corte di Roma. Corteg, Qucfto uoi
farete da* poi. bora io uoglio per lamia parte, che qual bora cofi direte,cbe
io non intenda, interrompendo il ragionamen to,poffapregarui, che la chiariate.
Laz. So» contento. Dunque fenza altro proemio farejo dico incornine cimio,cbt
quantunque in mite cofe ftamo differenti dalli Muti animali, in quejl'una
principalmente ci difcoliiamo da Lorójche ragionado^fcriuèdo comunichiamo (un
(al tro il cuor nojbro: laqualcofanon poffano fare le bel tic. Dunque fe cofi
è, quettipiu diuerfo fari dotta natura dé bruti, il qu*k parto ì er fcriuerà
meglio. Per la cofa chiunque ama d'ejfer kuomo perfettamente, ceti o= giti
Audio dee cerare 'dì parlare, er fcriuere perfetta* mente : er chi ha ucrtìi di
poterlo fare, ben fi può dire * ragione lui effer tale fra gli
altribuomini,quali fatigli buomini iftcfc per ricetto alle tejiie . qua! tutti
di parlare,^ deferiucre i Greci e? Latini quafi uguabnè* te j appropriarono.
Onde le loro lingue uègono adefur qucUexbcfole tra tutte {altre del mondo ci
(anno diuerfi per eccellenza dalle barbare^ dalle irratioitaU creata re. Et è
hi drittoiccnciofta cofa che tra poeti volgari ufi
tiouerìhabbiajhy.taleagiudicio de liarcntinipcffitag* guagliarft a virgdio,ad
Homero, ne tra foratori a De= molibene,oaì\ùrco Tullio, Lodate quaiouoltte il?c
trarca,et i 1 Bocca«io,Nci no farete fi arditi,cbe ne egua Upò>ne inferiori
troppo nicini li facciate alli antichwn- Zi da loro tanto lontani li
lrouerete,cbe tra quei rifares- te cft d'annoverarli . Hcra no ucglio nominar
d'un in n* no i jeriffori Greci, et Latini di gradcjcccllòta,cb'io «3 ne Marci
a capo in unmefe : ma fon cotento di quelle due copie. troucrajii a cofloro in
altra lingua alcun paref di" rò di memai no fono di fi rea uoglia,ej fi
fW/to.cbe leg* gelido i lor uer/i er Icrationi Icro^on mirallegri . tutti gli
altri piacer iMtigU altri diletti, fejìcgiuochijuoni, caulinno dietro a
que^uno.ne dee b«omo merauigliar fene,però the gli altri folazzifono del corpo
jet quello è dell'animo . onde quanto èpiunobile cofa rinteflettodel Jen/o,
tante è maggiore et più grato quejlo diletto di tutti gli altri. Coki. Beri iti
credo ciò ebe dicete iperoche qunlunche uolta io leggo «tirane noueUe del
nojbro Boccaccio, hnorno certamente di minor fa\na t che Cice- rone nmè,Ìo mi
fento tutto cangiare : majìtmamente leg genda quelli di Rujlico,&- d'
Alibechrf Akthiel, di Pc ranella,^ altre cot4li,liqualtgouernatioiftntimenti di
chi le legge, cr fanno fagli a lor modo, Ver tutto ciò io non direi ioutr buomo
arguire f eccellenza d'alcuni lingua : più lofio credo U natura de le cofe
deforme bd= vere uirtà d'immutare il cerpo,er la. mente di chi legge. B e m.
Qucjìo nò,ma la facondia è fola,o principale c#> gtone di far in noi cofi
mirabili effati. ey elicgli fìa ti ue rojeggetc Virgilio uolgareMo'-o Remerò,
ey il Boc* caccio mnthofcanoiv non faranno quefti miracoli, dunque meffer
Lazaro dice il «ero, quando di idi effetti pone la cagione nelle lingue . JM i
non proua per qucjìo tafua ragione non fi doucr imparar altra, lingua, che U
Istmo, i ej la greca : perocbejc la nofha volgare froggi= di no» è dotata di co
fi nobili autori: già nonècoftimpof: fMe,cbe ella nbabbia,quando chejia poco
meno ecc cl- ienti di Virgilio,©* d*Romero : cioè che tali fiano nella Ungi
wAgare,qualifono cofloro nella greca,ty nella la* lina. Lai. Quando cgliamtcrra,
che la hngtu hoU gxrehabbiaifuoi Ciceroni,ifuoi Virgili j,ifuot Romes rUy i
[noi Xìemoflbcni iOÌlhoraconpglierò che ella fia cofa da imparare, come è bora
la latina, ©- lagreca Ma qucjìo mai non
farà: conciona cofa che la lingua non lo patifee per efjer barbara,fi come ella
è ; er non capace ne di numerose di ornamento . Che fe que quat* tro,non che
altri, rinafeejfero un'altra uolta, © con l'ingegno. pgm,e con {"industria
mcdefima,con la quale grecami" te cr ùtinmente poetarono cr orarono,
parlaffero er feriueffero uoìgmncte^i no [{irebbero degnidel nome foro . Non
uedete mi qaejìa pouera lingua batterci no* mi non declinabili, i utrbifetrzA
coniugatone, cr /f nzd participio ;er tutta finalmente fetxtd niffuna bontà*
CJ* meritamente per certo: contiofiaa>fa,cbe per quello che io n oda dire da
fuoifeguaci, la fua propria perfettionc eofftc nel dilungarfi dalla
lamaìneUaquale Miele parti dell or adone fono intere e? perfette.cbe fe ragione
mi tajje di biafmurla, quejìofuo primo principio, cioè/co* farfi dalla latina,*
ragione dùneflrdtìua dcSafua pravi* tà . Ma che i ella moiira ncUafua fronte
d'bauer battuto la origine,e taccrtfeimcnto da barbari, cr da quelli pritt
cipalmente,piu che odiarono li Komam t cioè da fracefv, tt da Provenzali : da
quali non pur i nomi,i uerbi, ©* gii tduerbi di leim torte anebora deh"
orare,*? del poeta* refiderittò. O gloriofo linguaggio . nominatelo come ni
piacevole che italiano nòn lo chiamiate s effendo uenm to tra noi d'oltre il
mare, 0* di Ila daUdpi } onde è chtufc f [Un : che gii non è propria de Frane*
fi la gloria, che fiatine fiano inuentori,cjr accrefeitorim deh" inclinata
ncMlmperiodiRomain quamainon uennein Italia ttatiom niffuna fi barbara,??
«>fi primi dtbumanità, Hwwi > Goffi, Vandali* Umgobardi,ctiaguifadi tro*
pheo, non ni lafcùffe alcun nome, o alcun nerbo de pi» eleganti,
ctìeUababbiaifj mi diremmo ibe Hoig<o» mente parlando poffa nafeere CICERONE
(vedasi), o Virgilio i Ve rmente fequejhkngM fujjc colonia delklatina ;non
oferei «/era eonfefftrb : moiro meno il dirò,effendo lei una m óiftinti
canfufione di tutte le barbarie del mondo.nelqui k Cbioi prego Dio che mandi
ancbora li fu* difcordia ; U quale sparando una par oh daU altra, er ognun* di
loro mandando alla propria fua regione ; finalmente ri* mmga a queHapouera
Italia il fuo primo idioma : per lo quale non meno fu merita dalle altre
prouincie ; che te muta per le anni . Io uerame nte poco ho letto di quefte
tofe uolgari,?? guadagnato pimi d'baucre affai in per Aere di fìudiarlexb'egli
è meglio non lefdpere che faper termi quante uolte per mia disgratia rìbo
alcuna ueduta iltrettante meco medefmo ho Ugrimatokncftri mi/és ridtpenfando
fra me quale fu già, er quale è bora li Un* gud,onds parliamo er fcriuiamo.zT
noi uedranogUmai Cicerone } o Virgilio tbofcanofpiu tojto rmaf. eranno Schiumi,
che Italiani uolgari ; faluo fe per gioco non fi dirà in quel modo, che iferui
fanno ri lor Re ; er i prU gionieri iUor poderi. Ma tal Virgilio, er Mi
Cicerone, Morder Turchi pofìonobauer nelle lor liiiguc;pa-ò parlando una uolu
con un mio amico, che moto ben sin tendea della lingua Arabefca ; ini ricordo
udir dire, chi Auicenna banca, compojìe di molte opere ; Uqualt fi con nofceumo
efferfuenon tutto iWinuentione delle cofa quanto allo fide, ndquale di gran
lunga auanxaua tutti gli altri fcrittori di quella lingua, eccetto quelbde
l'Ai* corano. Dunque come proportioneuobncntc Auicenm fi direbbe Marco Tullio
fi-agli Arabi ;cofi confeffodi.* vere nafcare,<mzi effer già nato er forfè
morto il Virgi* Ito uolgare ; ma èco bene che tal Virgilio è un Virgilio.
dipmto. Ma il buono cr il nero Virgilio, ìlquale, k* f dando fornire da
canto, dotterebbe rbuomo abbraccia* re,ba Ut lingua Latina, come k Greca ha f
Homero ; cr facendo altramente fimo a peggìor conditione, che non fono gli
oltramontani, li quali esaltano cr riucrijcono fommamentek nojìralmgua Latina
;er tanto ne ap* prendono, quanto poffono adoprar ? ingegno ; il quale fe pare
in loro fuffe al difio ; mirendo certo che di breue k Gcrmmia,et kGallia
produrrebbe di molti ueri Virgilif Ma noi altri fuoi cittadini(cclpa er
uergogna del nojiro pocogiudicio)non fokmcnte non l'honoriamoynaa guì*
ftdiperfone feditiofe tutta uk procuriamo di cacciarla della fuapdtrkìzr in fuo
luoco far federe queffaltra-Ael U quale ( per non dir peggio ) non fi fa
patria, ne nome. Cori, A me pare meffer Lax<iro,che le uofbre ragia mperfuadano
dltruia non parlar mai uolgarmente :U qulcofd non ft può far e, fatuo fenon
fifabric&ffetmd nmua città* k quale habìtajferoìlitterati ; oue non fi
parUfjefe non latino . Ma qui iti Bologna chinop. par.* laffe uolgare t non
barebbecbil'intcndeffi,ey pareb* be un pedante; ìlquale con gli artigiani
fitceffe il TwI* Ho fuor di propofito . L a z. Anzi uoglio, che cofi come per U
granari dì quelli ricebi fono grani d'ogni manierd,orzo,migUo,fromentOiO- altre
biade fi fata- te, dtUe quali altre mangiano gli buemini, altrele be*
fliediqueUa caja;cofi fi parli diuerjamente bor lati* no, bar uolgare, oue er
quando è mejlieri . Onde fe Ibuomo è in piazza, in uiSa, o in cafa col uolgo,
co* contadini, co' ferui, parli uolgare, cr non altramente : ma nelle
[cole delle dottrine er tra i dotti, oue pofii/cmo Cr debbiamo effer huominifu
bumano,eioè Ittino il ra* $jonamento.cr altrettanto fia detto della
fcrittura:k* quale fard ti/Agar Lnecefìita,ma la elettrone latina, «taf
imamente quando alcuna cofa faiuemo per defide* rio di gloria ; la quale mal ci
può dar quella lingua, che «acque, er crebbe conia nofbra calmiti* fj tuttauia
fi tonfava con krouina dinoi.'B et m. Troppo afpr amen \e acculate qucfta
innocente lingua: la quale pare che molto più ui fu in odio : che non amate la
lattina er k greca.Terocbe oue ci baueuatepromeffo di lodar quel* k
principalmente, er k thofcana alcuna mito, uencndo il cafo,mtuperare; bora
bautte fatto in contrario: quelle non bauete lodatoci quella una fieramente ci
biafimate; et per certo a gran tcrto: peroebe ella non è punto fi bar tarara,
ne fi priua di numero er ibarmonia, come la ci bauete dipinta, che fe la
origine di lei fu barbara da prùt ciptoi non uolete uoi che in ifyatio di
quattrocento o cin* qucccntoannifia diuenuta cittadina d'Italia? per certo
fhaltramente liKomanimedefmi,liqualidi phrigia cac dati uennero ad babitarc in
Italia, farebbero barbari: le perfone, i coflumi,ryk Imgualoro farebbe barbara
: lUalia, k Grecia, ©" ogni altra prouinàa, quantunque manfueta, er bumana
fi potrebbe dir barbara fe l'erigi* ne delle cofefuffe bafìate di recar tcro
quefìa infame de» nominatione . Confcffo adunque k lingua nojtramaterz
tiaeffere una certa adunanza non con fu fa, maregokta di molte er diuerfe uocijnomi,uerbi
t ZF altre parti dora tione ile quali primier amenti da prone ©* mie natani
d e 1 1 v l i H o v i. ro^ in Italia iiffemirutcpid cr
artificiofa cura denojìn prò genitori in fime raccolje : er ad m fuono, ad uru
nor* md, dà un ordine ft fittamente compofe, ebe c$i ne/or* «uro» qttctk imgtu,
k quale bora è propria nofha,cr tion d'alai, imitando in quefìo ld madre nofbd
natura: U qudle di quattro elementi diuerfi molto fra loro per qua» liti, er
per [ito ci ha formiti noi altri più perfetti, er più nabli i che gli clementi
non fono, imaginatcui, mefi fer UXtro, di uedere [imperio, k dignità, le ricche
zc, le dottrine, er finalmente le perfone, er la lingua £ Italia in forza de
barbari in maniera, che il trark lor Me mani fu cofa quafi imponibile : ttoi
non vorrete m uerc al mondo imercantarie ifiudiarc! parkre uoicuo fb-i
figliuoli ì Ma kfckndo da parte [altre cofe t parla* rete latino, cioè
inguifa,cbe no it intendano iBolognefi; o parlante in maniera ch'altri
intenda,^ rif^odat Dan qut una uolta il parkr uolgarmente era fona in ìtalk ;
ma in proceffo di tempo fece Ibuomo ( come fi dice > di quella faxa, er
neceflita torte, er l'inéujìria detUfud lingud.Zt co/ì come nel principio del
mondo gli fcuouii- mdaUefiere fi difendevano fuggendo,®- uccidendo few za
altro; bor paffundo pia oltre a beneficio er ornamene to deUd perfona ci
uefiiamo delle lor petit: co/ì da primi, d fine follmente d'effere intefi da
chi regnata, perlaM* mo uolgdre: bord a diletto,er a menarla del nojbo no me
parliamo, crfcriuiamo uolgdre . O egli farebbe me* g(io che fi rdgiondffe
latino: non lo nego; ma meglio }w febbe anebord, che i barbari mai non
baueffero prefa, ne dibatta [Udii i cr the l'imperio dì Komafuffe du- motato in
eterno, Dunque fendo altramente., àie fi dee fa* re f uoglùtm morir il dolore!
réiar mutolii V non partar man finche torni arinafcere Cicerone Virgàoì Le afe,
i feinpi/jCr finalmente ogni artificio moderno, i difegni, i ritratti di
metallo er di marno non fono da e\ fer pareggiatiagli antichi-Aoutrno però
habitare tri ho fchi f non dipingere, noufmdcre, non ifculpirc, nanfa criccare,
non adorar Dio i bafla a rfciwwo mffer L*= zaro mio caro, che egli faccia ciò
che egli fa, er può fa* re,wfi contcntideUefue fòrze. Coniglio adunque, et mmonifco
ciafcuno, che egli impare la lìnguagreca,er Utina, quelle abbracàe,queHehabbia
career con l'aiu* to di quelle fludie a farfi immortale.m a tutti quanti no ha
partito ugualmente nomenedio ne Fmgegno,neUcm po P w ui uuò dtre, farà alcuno
perauentura,cui ne na* turale wdufb-ianon mancherà ;nu&tdimeno egli ferì
auafi che dalle fiette mimato a parlare o-fcrwer me* vUouolgare, ée latino
inunfeggetto, rjmuna ma ìerkmedefma; che dee fare egli f Cbecio fiadueroi
vedete le cofe latine del Petrarca, cr del Boccaccio, et tagliatele aUc loro
uolgarUi quelle niuna peggiore iiquelicniunamigUore giudicarete. Dimqmda capo
confei» et ammonifeo noi meffer Lazaro, [cratere er parlare Unno, comequetio
che $ai meglio jatuete& parlate latino, che non uolgare : tua ira
gcntilhuomo, il quale ì Ut pratica della corte,o {inclinatione del uoftro
nlcanentollrmgedfar altramente, olir amente confidio • cf /scendo altramente
nmfolmente non muerett l^ Q mrato, m4mopmghrÌpfo,qimtofamndo,&
parlando" bene ttolgarc t almeno a ualgari farete caro ; ouetnalamentc
fcrtuendo,et parlando latino,udt farelìe a dottiparimentc,cr indotti Ne
làperfuadaTtloquen* tiadimejfer L-axaro più tofio a diuenir mutuiate com pontre
uolgarmcnte,peroche co/i la prcja 7 comeil uerfo della lingua moderna, è in
alcune materie poco meno nu torrefa, & di ornamenti capace delia grecai
della fd=» ima. I uerft hanno lor piedijor harmonia,lor numeri le profe il
lorfluffo di orationeje lorjigure,ey le loro eie* gonfie di parlare, rcpetitioni,
conucrfioni } complefiioni cr altre tai cofe-per le quali uon è forfe t come
credetegli uerfa una lingua dall'altra : chefe te parole fono diuerfr. Torte
del cottiporteiet deU 'adunarle è una eoft mede firn* nella Lima, ey nella
tbojcana . Se meffer tataro ci ne gaffe quefio: io li dcm4ndercì,onde è adunque
^che le cen to noueUe non fono beUe egualmente,™ ifcnettt delVe trarca tutti
parimente perfetti* Certo bifognarcbbe,che egli dkeffe niuna or ottone, niun
uerfo tbofeano non ef* fer più brutto, ne piti bello dell'olir o,w per
confeguen* te il Serapbmo ejfcr eguale al Petrarc&o neramente con
feffarebbefra le molte compojìtioni uolgari alcuna più, alcuna meno clegóte et
ornata demolirà trouarfhla qual cofa non farebbe cojj, quando eUefuffero del
tutto priue dell'arte de Tarare, zj del portare. Lai. Alou/ignore io negai k
lingua moderna bauer infe numero, ne orno* ' mentore confonantia,w lo nego di
nuouo, non per ejbe rknta ch'io rìbabbiama per ragione;chefc Thmmo,fttt za
punto faptr fonare ne camburro, ne tromba, jolo che gUoiama mito, per la loro
fpiacciiokzxa, pttogùtdicare ure non effere firomcnti atti tifare hamtmU, ne Mo
; coft udendo, formando per me mcdefimo que* fte parole uolgari, alfuomdi
ciafeunadi loro feparat*. tkU'altreifcnza ch'io la compone altramente affai
bene comprendo, che diletto poffanorecare agli orecchi de gii afeokanti le
profe, <y i uerfuchefe ne fanno : itero è, che queflogiudicianon Uhi ogrìuno
t ma colora foUmcn te, i quéi fono ufatx a ballare al fuano de i liuti, er de i
titoloni . E mi ricorda, emendo una nota in Ve:ietii,oue eri/io giunte alcune
natii de Turchi, udire in quelle mi tornare di molti fbramenUi dei quale nel
più. fpkceuole, nel piti noiofo non udì mai alla ulta tnkynondimeno a\co loro,
che non fono ufi Se dclkie fìtalit, pareua quella una dolce muftea ndtrettanto
fi puodire della numero? fità dett'omianc, er delnerfo di quefta lingua. Alcuna
ttolta qualche confonanza ui fi ritratta, che meno i»gr*« (4 er mcn brutta fa
CtmdeR'altrayna quella infe è tur* mania?? mufm di tamburri,anzi d'archibufì e
di falco* netti, che introna altrui [intelletto, er fere,?? (ìroppia fi
fattamente, che egli non è pw atto a riceuere impref* Clone di
pindelicatoflromento, ne fecondo quello ape* rare. Per la qual cofa chi non ha
tempora «erta di food* re i liuti, er i unioni deUa latina; più toflofi dee
fare o* tiofo, che por mano a i tambum traile campane delia volgare:
imitandoieffempio di PaUadede quak-per non fi dilìorcere ttelk faccia
fonandogittò uia la piuaji che era data inuentrice va' fu a lei più gloria il
partirla da .f<„er nondegnar d'dppreffarlafi attafuabocca, che non fu utile
a mrfia il ruoglterla, a 1 fonarla,, onde ne perdette DELLE
I.IHGVI, IOJ perdette la pelle. Vero écefìe Mofignore quéprinùm tiebi
Tofani efferc fiati sforzati a parlare inquet?amd nicrjjHow udendo con /fatto
trappaffar la hr uita : er àie noialtri pojìeriori habbiomo fatto dellahriii
forza titsjba virtù i qucflo è uero : ma maggior laude dà altrui quelli
violenza ; che a nei non reca quefla virtù . gloria fu a loro l'ejjlr folerti
nelle miferie : ma biafmc,crfcor* noianatltrijhora che liberi femojl dar
ricette &con jeruare lungamente un perpetuo tejlimcnio della ncjìra
utrgognd>o quello ncnfoLmcntc nudrire j ma ornare : altro non effetido quefla
ìmgua ualgarc, che uno iv.ditio dimojlratiuo della ftruitù che gli Italiani
Guerreggiane do una j olla U uoibra Rcp iìbhca,crnon le baftavdo fo= ro tri
argento a pagare t faldati ;fcc e ( cerne fi dice) Rampare gran quanta di
danari di cuoio cotto col cerno di fan Marco, er con quelli fcjlcntò, tj uùifc
laguerrai cr fu fapientùt Venetiana quefla .mafea tempo di pace hmeffero
continuato a prendere quella moneta, ejrafar h digiorno in giorno più bclla,tj
dimiglior ccramegià farebbe contienila in auaritia lafapienza. tiara fc alcuno
ci hiuejfejl quale, prezzato loro, cr f argento,fa* eeffe del cuoio the foro ;
non farebbe egli pazzo coftuiifì ueramtnte . Ma noialtri, cui mancando
iltheforo lati* no, li ncftrd calamità fece prouedere dimoneta uolgare ; quelli
non cibajla di jpendere tuttauia col uolgo*he étto nonne conofee, «e tocca, ma
uenutone fatto di ri* courarlc perdute ricchezze ; lei tuttauia conferiamo :
crne ijecreit dell'anima nofca, ouefùkuano ferrar lo* ro, er l'argento di Roma,
diamo ricetto alle reliquie di O tutta DI A I O G O iultta la
barbaria deh nondo. Cori. A me paremef* fer Lazaro,che quello non fu ne lodar
la lingua Latin*, ne uitupcrar la uolgareyna più tojlo un certo lamentar fi
drtìti reuma, d'ìtalia : la qual cefi, cerne i poco fruttile >ft t cofi è
molto difcojla dal nofiro proponùnento ; onde non vi uedo partir ttobntieri. L
a z. Varui che"! bufimo di quefta lingua fta poco, quando io congiungo
ilnafcimen to di lei alla diftruttione deU'hìipaio,0' del nome latinai CT
l'accrefcimcnto dilei dimane mento delnojìro intel* letto tgi'a me non laudante
in que&a maniera, per farmi piacere . Cor t. Citi non giudico biafmo-ma me*
Tauìglia più to&o : che gran cofa dee effer quella, di cui non può Ihuómo
parlare y tacendo larouìna di Rem, che fu capo del mondo . cr che quello fta
ucro ì poniamo che non i Barbari, ma i Greci Ib^ejfcro disfatta,cr che da indi
In qnaparlaffero Atemefegli Italiani ; un biaft* mrefte la lingua Àttica
iperoebe tufo di lei fuffe con- giunto alla frittiti nojhra-L a 7. Se ciò jiato
fujfe,no finb be fulaguafta,ma riformata l'Italia .perche non fola* mente non
biaftmerei il disfacimento di quejio imperio, ma loderei Dio che lui batte ffc
uoluto ornare di linguag già conueneuoU alla fu* dignità. Cobt. Dunque mag
giare il danno Sbatter perduta la lingua, che la libertà ì L A z. Si
fenxadubbio : peroche in qualunque Stato fu fbuamo,o franco,ofoggettOì
fempremai è huomo, ne da ra più d"huomo ima li lingua Latinaha uirtudiftre
di buomini Dei, cy di morti, non che di mortali che ftamo, immortali
perfamx.V,tcbe ciò fia uero$imperù> stoma* pò, efee/t dijìefe per tutto, è
gii guajìo ; m U memori* dm IQ<
J detta grZdexza di hà conferita* neUhijhrie ai Saltijlh, CT di Limojura
ancora, durerà fin cbe'l deh fi mal uerauzr altrettanto fi può dire delF
imperio^- della /w* gita de Greci. Cor. Quejìa ttirtà di far leperfone fmà le p
molti fccoli non l'ba,cb'io credala bijùria arerai latinawne Greca, e Latinayna
come l'bifiorid ch'èttà èi laqualejn qualuque idioma fu feruta da alcuno:i
fempre mai (tome alcun due) testimonio del tempo, luce della ucriù, utta della
memora, maefko della ima d'altrui, crnnoucUamento dell'antichità. Lat.
Voiditeilucro no effer propria qucfla uirt* delibijìorie Greche,?? La Une,non
che altra lingua ne fa partecipe, ma percioebe tutte l h,)lorie Gre. he, et Latine
non hanno battuto tal pnuilegioi ma quelle jolamente, li quali artificio) ameme
compoje alcuno hitomo eloquente ; fendo perfette quelle die lingue. Onde gli
animali di KomaM quali lenza aiu no ornamento, ccnfanplki, er anclwra rozze
parole, narrammo gli auenimenti di lei, non durarono molti an* ni m di hro fi
parlerebbe ; fe altro fcrùtore,quafidaco paltone molfo, non ne faceffe parola.
Dunque fe quelli il tempo ha fato dtuenir nulli, li quali affai doueuam ha* tur
di elegantia, effeuio ferini latinamente, bar che}* dell btjhrie uolgart ì cui
ne naturale dolcezza di lingua, ne artifiaofa eloquenza diferittori non può far
care, ne gratiofegiamaif corteo. Non intendo anchcra ben bene in che coft
confitta la foauit* della lingua, cj-dcUe parole latine, er la barbara
jbiaceuotezza deRe uM* gari, anzL,conje}fandoui liberamente la mia ignoranza,
grandìfiÒM numero di nomi, participi Latini con O 1 Lro toro ftrana
prowntidtione, le più mite mi fuortd.no non fo che Bcrgamtfco nel capo :
àkrdtant ù fogliano forcai ami modi cr tempi de ucrbi ; ttUe quéi parole una
fimilc ielle uolgari la nojira corte Rom<m<t non degnerebbe di proferire.
hte.louiricordogentil'buomocbe l'autori' Ù concijtor iole non è giudice
competente del fuow, CT degli accenti deSe parole latine ; onde fé alcuna nota
k Itnguaktindle pare tener della BergamafcdìeUd noni però Bergamafcd : ne
perche tdefidgiudicdta^iumdo ffete merdMgliare,cbegia ui fiate merauiglkto,
hiueda letto in Ouidio, lAida Re più falere lodare Io Ridere delle cannucae di
Vdth che kfoautù deUd cetra fApal Ìo. C o r t. Ecco io fon contento
diconfejfxrui, chele crecchie in tal eafo non fidilo bumanc, ma d'Afmojc uoi
\nì due, per qual cagione la imncrofiù, ej confotidnza delle ordtioni, er de
uerft di queftd lingua chiamale ma ftutarcbàuft : condofucofd che i gran mdejlri
di con' tOyeui è propria profefÀone Ibannonidi rade uolte,o non mùfamo canto, o
mottetto,cbe le parole di lui nofiano Sonetti, o Casoni uelgari.qucflo è pur
fegno che i no» fai uerft fon da fe pieni dì melodia . l a 2. Già non è,
gentilbuomo)come forfè penfate ) l'harmonk del canto, CT quella delle profe, cr
de' uerfi una cofa medefimam suite fono,& diuerfe, onde non fotmente delle
coft malgari, ma di chirìe anchcra,cr de ifantut fi fanno con fi, c>~
mottetti t della cui barmonix generabnente sinica 4c ogni oreccbia;pcroche
quali fono ifaporidUa lingua, fj a gli occhi, CT di ndfo i colori, et gli odori,
tale i il J'iuw u gli orecctó degUhuoìnini ; li <{u4li per lor tutura, etfenzd
jìudio ueruno facilmente difcmtono trai pia ccuotc,cl dijjikceuole.Mail
numero,?? -Ubarmonk dei l'or ationc,&- del uerfo latino, nonè altroché
artifìcio* fa dijpofitione di parole ; dalle cuifittabe, fecondo labrt uitì, er
li lunghezza di quelle, nafeono alcuni nmerk che noi altri cbimkmopicdi, onde
mi fioratamente carni m dal principio atta fine il utrjb, <cr loratione . er
fono dìdiuerfe maniere quefìitai piedi, facendo i loro pafii lunghi,®- corti,
tardi,?? ueloci, ciascheduno alfuo mo- do, er c beWarte quelli inficine adunare
fi fattamète,cht iten disordino fra fc ftefiijna tuno, atfaltroyt? tutti in*
ficmefiano conformi al foggetto : peroebe d'alcune ma* teric alami piedi fono
qujfi peculkrhetfra lor piedi qua li meglio,quali peggio s'accompagnano al loro
ukggio i CT qualunque perfona quelli a cafo congiugne, no bauen do riguardo ne
atta natura diqueUitne atte cofe,diche iit tende di ragionare i uerfì,^
torationifue nafeono zop* pe,CT non dourebbe nutrirgli: et' di queftd eotal
melodia non ne fono capacigli orecchi del uolgo : ne lei altreft poffmto
formare le uocidella lingua uolgare : k cuipro* faianonfodireperquairagione
fiammerofa chiama* ta,fe Hbuomo in lei non s'accorge,o non cura ne di fpon*
dei,ne didattili, ne di trocbei,ne danapejU, er finabnè* te diniuna maniera di
piedi : onde fi moue l'oraitone bea regolata . Veramente quefìa nuoua befìia di
profit uol* gare,o èfenza piedi, er fdrucciok aguìfa di bifeia, o ha quelli
dijpetie diuerfe molto dati Greca, er dalla Latina : er per confeguente dì coft
fatto animale, come di tncftro <t cafo creato,oltrdticojlume,a- l'ùitentione
di O 3 egli 6%ni buono inteUclto ; non fi dovrebbe fare ne arte, ne
faenza . iuerfi neramente, inquanto fon fatti iundiàfìl libc t rion.paionoin
tutto priui di piedi, che lefllibe in loro hanno luogo, rj- nfficio di piedi :
ma in quanto qneUc cotal poffono effer lunghe, er breui a lor uoglia; m ti
non.d'trò che fia diritto il lor eaUefaluo fe M ojìgnor non Jkeffelc rime effer
fabpo^gio de uerfi, rbe zìi fi* ftaigono,zr fano andare dirittamente, la qual
ofa non itti par itera ; pcroche, per quelle ch'io n'oda dir; le rime fono pia
tefìo come catena del Sonetto&aUa Cannone; che piedino nunì, di uerfi loro,
et tanto uoglio che ne fu detto da me breuemente certo ; per rijpetto a quello
che fe ne può ragionare ; ma a bajlanza, fe alla uofbra richie jìacr troppa
forf?, (e aUaerefenza Monfignore firn guarderà : il quale meglio di me conofe,
er piton'ame* rare i difetti diquefla lingua. B e m. Quefta cofa de mt
mcrì,come fi (lia&fe cofi la prefa, come il ucrfo Tofa no riha lafua parte,
er m à>e modo la fi babbix, per ef fere affé facile da uedere,ma lontana dal
noftro propos nimento ; bora con effò uoi non intendo di iifbutarldan* zi
confidando quello effer itereche ne dicelie, non tan* to perche fa uero, quoto
perche fi ueda ciò che nefegm io ni dico quefla linguamoderna, tutteche fidanzi
dttem patena che nò-, effer però anchora affi picchia, er fot* tile uerga la
quale non haappieno fioritolo che i frutti prodottile ella può fare: certo non
per difetto della ni tura di lei,effcndo co/i atta agenerare s come le altre;
ma p:r colpa di loro, che Fbebbero in guardia, che no la col tiuorono abaftazam
aguiftt dipianta feludggiajn quel medeftmo deferto, atte perfe a nafctre
cominciò, fenzai vidi ne adacquarU,ne potarla, ne difenderla da i pruni, che le
fano ombra,lbdnno Itfciata inocchiare, et quafi morire . Etfeque primi antichi
Romani foffero fiati jì negligenti in colature la Latina, quanto 4 pullular co*
tnwciò i per arto in fi poco tempo non farebbe diuenu* td fi grande ; ma cfii,*
grafi di ottimi agricoltori, lei pri* interamente tramutarono da
luogofdudggioadomeftU co ; poi,percbe er pw toflo,cy piit belli, rt maggior
frut ti faceffe,leuandolc aia dattorno le inutili frafchezn lo* ro (ambio
lùmcftarono d'alcuni ramo felli maefircuol* mente detratti dalla Greca : li quali
fóltamente inguift le t'appiccarono,^ in guifa.fi fama fintili al tronca che
boggimat non paiono rami adottiuijna naturali . Quin* di nacquero in lei que
fiorì, et qui frutti fi coloriti deli e - hquetiza-con quel numero,?? con qucU
ordine ifltffo, A quale tanto cfftliate : li quali non tanto per fua natura
> quanto d'altrui artificio aiutata, fuol produrre ogni Un gua . Perochel
numero nato per magiflero di Tbraft* macho,di Gorgia,di Tbecdoro ; ìfocrate
finalmente fc* ce perfetto dunque f Greci, er Latini huominì pi» foUeciti alia
coltura della lor lingtù,ckc noi non fetno al* U nofka j noi; trouarono in
quelle fe non dopo alcun tmpo,cr dopo molta fatica, ne leggiadria:, ne numero i
già non de parer marauiglia, fenoi anebora non rìbaue* mo tanto, che bafìì,
neSa uolgare ; ne quindi de prcn» der Ihuomo argomento a [brezzarla, come uil
cefa, er dapoco . Oja Latina è migliore d'affai . ò quanto fa* rtbbt meglio dk
fu >z? none una fa Ilota, per lo paf* o 4 /fife, fato, cr fa
Mchor tuttauid fi gentil cofa : tempo forfè uerrà, che (f altra tinta
eccellenza fia la volgere dotatd, che [e per effer e a wfhi giorni di ninno
flato s crmen gradita,non fi doueffe apprezzare U Greca; la quale e* ra gii
grande fui nafeimento della Latina : ne uoftri ani mi non douea kfeiar fermare
le radici furi ultra lingua nomila altrettanto direi àcllt Grecaper rifletto aU
la Hebrea, Cancludcrebbefi finalmente dalle uofh-epre miffe Àouer effere al
mondo fola una lingua t ej non più » anele [ertueffero, ey parkfjero li mortali,
cr aiterebbe #f>e oue uoi crederefle d'argomentar folamente cantra U lìngua
Thofcani, cr quella con uofbre ragioni efìirpare del inondo, uoi parlarefle
etiandto cantra li "Latina, et U Greca . benché <j:«/f a pugna ftefìtn
'crebbe non fo* lamente contrai linguaggi del mondo ima cantra Dio: ilquale ab
eterno diede per legge immutabile ad agni co fa creata non durare eternamente ;
ma di continuo duna in altro fiato mulxrfi: bora duanzando,et bora diminuì* do
fin che jinifea stili uolta che mai più pofcUnon rìno* ttarjt. Voi mi direte }
troppo indugia boggitìtai la perfet* tione della lingua, materni : er io ui
dico che cofs è,come dite imitale indugio non dee far credere altrui effer co*
fi imponibile, che elk diuenga perfetta : anzi ui può fif eerto lei douerfi
lungo tempo godere la fua perfezione, quarhora egli auuerrà ch'eUafe l'babbia
acquiftata. Che cofì usici la natura : la quale ha deliberato, che qual or* ber
tojlo nafce,fìorifcc,& fa frutto: tale tofla inuecebìe, ZTfs muoia : er in
contrario, che quello duri per molti ami, il quale lunga Ragione bar a penato a
far fronde. Sarà adunque U nofira lingua in conferuarfì la fua dota» ti
perfettione lungamente difidcrata, ey cerati* lìmite forfè dd alami ingegni ;
fi quali, qmnì o tnen fàa'&ttenfe dpprcnJoro le (kttrine;f auto pi»
dijjìcìtmcntr le fi k/ei< no «/ciré (fella memoria. Q,eUa è tcjlìmonio della
noftré vergogna >effendo uenuta in Italiainfieme con la rovi* wa di lei .
Viu f o/Ìo efid è teftmonio dcUa nofìra folertia, cr del noflro buono or
dimenio : che, cofì come uenenda Enea dt Troia in Italia ad bonor fi recò
lafcìare fcrìtto in un certo trofico drizzato da lui,queUe cjfere (lato fe
armideuincitoridelkfu4palm t cofi vergogna non ci puooffere l'hauer cofa in
Italia tolta di mano a coloro, che noitolfero di libertà .
virtifinabnente^itando effer uolcfti maligno, più toflo douerfì adorar daRe
genti il So le orientc^c l'occidente: la lingua Greca & "Ldtinagii
effer giunte ah"occafo:ne quelle effer più lunge,ma ebar tafoUmente tj
ingk>flro:ouc quanto fio, difficile cof* Imparare a parlare : ditelo uoi per
me,cbe non ofate dir cofa latinamente con altre parole, ebe con quelle di Ciee
reme . Onde quanto parlate, uferiuete latino non è al* tro,che CICERONE
(vedasi) trafyoflo più tofio da ebarta a Siria, ebedamaterka materia : benebe
queflo non è fi uofhro peccato, che egli non fu anebe mio s c d'altri affai tj
maggiori, er migliori di me i peccata però non indegno difeuft, non
poffendofarfi altramente . Ma quejìepo* che parole dette da me cantra U lingua
latina per land gare non difiiper uero dire : /o/o uolfmcfbrare quanto bene
difenderebbe ejucjla lingua nouette chiper lei far uolcjfedifféfa : quando a
lei non mancOttK cuore, ne or* mictoffendere lAtrui. Cori. Pormi Monfignore che
cofUetniatc dì dir maledeUa lìngua lattina ; cernie fe eU U f 'offe k lingua
del uoflro Sant o di Padoua : alla quale è ditanto conforme, checome quella fu
dipcrfimagin ui uaUctàfantitÀè cagione che bora pofla in un taberna* colo di
criHallo fu dalle genti adorata; cofi quejU degna reliquia del capo del mondo R
orna, guaflo er corrotto fià molto tempo, quantunque boggimai fredda crfecca fi
taceu inondimene fatta idolo dalcune pqcbeeyjuper jlieiofe per folte, colui da
loro non è Cbrtfìiano tenuto t the non l adora per Dio . lAa adoratela a
uojb-ofetmo, fola che non parliate con effo ki. er «olendo tenerla in tocca
cofi morta come è, firn lecito di poterlo fare : ma parlate tra uoi ciotti le
uofhe morte Latine parole ; er d noi idioti le noflre uiue uolgari,con la
lingttd che Dio ci dteiejafitte in pace parldre.BE ti . Doueuate, per ag*
Quagliarla compitamente alla lìngua del j 'anta, foggion* gere qualmente
torationidi Cicerone,* i tierfi divirgì Uo le fono degnLcr pretioftftimi
tabernacoli ; onde ki co tuie cofa beata riuerìamo,et incbìniamoMa per certo ne
lma,nt [altra non mcritaua che la tenejìe per morta-fi* perando tutt'horanewrpi
nofìri et nei 'anime quella fa* httc,qnefla utrtutez con tutto ciò lodo
fommamente la no fha lingua uotgare,cioè Thofcana ; aceìoebe non fta al arno
che intenda della uolgare di tutta italia: Toscana dicojion la moderna, che vfa
il nolgr hoggidi ;ma fanti eamde fi dolcemente pariamo il Petrarca tj il Boccac
ào:rhe la lingua di "Dante fente bene^et fyeffo più del lo bardo,chc del
Tbofcanoì tt oue è Thofcam, è più toflo Tbofrdiìo di contado,ehe di città.
Cunque di quella par* h,quella lodo,queÙa vi perfuado apparare, ebequantm que
ella nenfugiunta aìlafua uera perfettione, ella non dimeno le è gii uenutafi
preffo ; che poco tempo ut è 4 uolgere ; oue poi che arriuata farà ; non
itibito punto, che quale è nella Grecaci nelk Latina, talefia in lei us- ti di
far uiitere altrui mirabilmente dopò la tnorte, cr «I Ibora fi k uedremo mi
fare dimoltinon tabernacoli, m*t tempi;, V ultori : alla cui uìfitatione
concorrerà, da tutte, le parti del mondo brigata di fpirii i pellegrini j che
le fi ranno lor tìo!t,er far amo efpatditi da lei . Co ut. Dime quefeiouorrò
bene fcriuere uolgarmète, couerramitòr nare anafeer Tbof^ano! Bem. Kafcer nò ma
fìudìar Tbofcano,cb"egli è meglio per auentura nafeer Lombar do,che Fior
ent ino i per oche Tufo del parlar Thofcobog gidiètanto cÓtrario dUe regole
della buona lingua ibo /tini, che piti nuoce altrui e ffernato di quella
prpuincia. cbenongligiaua. Cosi, ÌDunque unaperfenamedefì ma wn può effer
Thofca per natura cr per arte B E v. Difficilmente per certo^ffendoTujanza,che
per lughe% za di tempo è quafi ccnuertita in natura, diuerfa in tutto
dalTarte,Onde,eome cbiè Giudeo,o Ueretico,rade mi tediuienebuon Cbrijìiano,
arpia crede in Cbrijh chi mila credcua,q'ianto fu battexata ; cofì qualunque
tton è nato Tbofcano più meglio imparare la buona lingui Tbofcana, cfie colui
non fa, il quale da fanciullo in fu, fempremai parlò peruerfamente Thifcano .
Cort. Io, the mai non nacqui,ne fludiai Tbofcano, male pofjò rivendere alle
ucftre parole ; mndimmo 4 me pare.cbe DIALOGO piti fi cormengd col uofho
Boccàccio il parlar Fiorentino madcrno;cbe non fi il Bergamasco. Onde
eglipotreb he effcr molto benebbe huomo nato in Milano,fenza b4 Ucr mai parlato
alla maniera Lombarda, meglio appren ieffe k regole deUa buona lingua
Thofcana,cbe nanfarebbe il Fiorentino per patruàtia che egli nafca,et park
lombardo boggidì,crdiman d^matàmparle,etfcrìud regolatamente Thofcano meglio,
e? pi» facilmente del Thofcano medcftmo i non mi può entrare nel capo : al
trainane a tempo antico per bene parlare Greco,& Ld t ino, farebbe (iato
meglio nafeere Spagnuolo,cbe Komai HOì& Macedone, che Atbenkfc. Bem.
Quefìotw: perche h Uugud Greca et Latina a lor tépo erano egual tnevtc in ogni
perfona pure,et non contaminate dSk bar borie dell'altre UnguexT coft bene fi
parlauadalpopolo per le pìtzZCcottte tra dotti nelle lor [cole fi ragionata.
Onde egli fi legge di Theophrafìo, che fu tun de lumi della Greca
elcquenza,effendo in Atbene,*Ue parole ef fer fiato giudicato foreftiere da una
pouera feminetta di contado . Cojt. lo per me non fo come fi fila quejì* coja;
ma fi ui dico, che douendo Studiare in apprendere dama lingua ; più tcflo
uoglio imparar la Latina c h Greca, che la uolgar : la quale mi contento ihauer
por* tato con effo meco dalla cuna et dotte fafcie t fenz* eer* caria
altramaite, quando tra te prefe, quando tra uerft degliauttorìThofcaniB i m.
Cofi facendo ucifcriue* rete, et parlante a cafo,non per ragione: peroebe nium
altra lìngua ben regolata a tltalkfenon queu n ma,di cui vi parlo, Cosi, Almeno
dirò quello che io baucrò BELI, I t I M fi T li HI in cuore et Io jludìo
che. io porrei in wfik&parolctte di qucfh et di quellofi lo porrò in
trottare et dijporrc i con cotti del? animo mioionde fi Aerina la
uitadellafcrittura: che male giudicò poterfi ufare da noialtri a figafkttre i
nofìri concetti qucUalingtia, Thofca, o Latina ch'ella fi fu.U quale
impariamo,®- effercàiamo non ragionando tra noi i nojbi accidenti,ma leggendo
gli altrui, QueSa d di notori chiaramente fi uede in un giouane Vadouano di
nobili^imo ingegno, ilqttdk>ben che talhoracon mol- to (indio, che egli ui
mette, akutid coft componga atU manieri di Petrarca, er fld lodato dulie
perfone non» dimeno non fono da pareggiare i Sonetti, er le Canzo* ni di lui
atte fu* comedie, le quaUnelldfua lingua natk Mturabnente,<cr damma arte
aiutato par che gli efebi* no della bocca: non dico però che huomo farina ne
Vada uano, ne Eergdmafco ; mt uoglio bene, che di tutte le lingue d'Italia
paliamo accogliere parole,?? alcun mo* do didire, quello tifando cornea
noipiacaji fdttMcntti ehe'l nome non fi difcordi dal uerbo > ne l'adiettro
dalfo? Slantiuù; la qual regola di parlare fi può imparare in tre giorni, non
tra grammatici nelle [cole ; ma nelle corti ed gentilhiiommnon ijìudiando,
maginocattdo er ritów do, fenza alcuna fatica » er con diletto de difcepoli, cT
de precettori . B e m. Bene jlarebbe,fe quefìa guift di fiudio bajtaffe altrui
a far cofa degna di laude,®- dt me r duiglu, ma egUftrebbe troppo leggera cofa
il farli e* terno per fama, er d numero de buoni er lodati lentia* ri in
picelo/ tempo denterebbe molto maggiore, che egli non è. Btfognageuù^uomamio
caro, uolèdo andar e f> perlemmì,w per le bocScdeUe perfonedel monda, lungo
tempo jcderfi ntUafua camera, er chi morto m fé flclfo } difa di ù Mammona
degli huomintjudar et agghiacciar più wltetct quanto altri itungii, et dùT* me
a tuo Agio . pmr /urne, et mgghure .Cor t. Contatto ciò muffirebbe faalcofail
diuemr ghrwfo j cucaltrc bifogna chcfaperfauelìarc.ée ne dite Hot mef (er
Lataro.iopermefoncontento^ontenlandof: Hon- fenorèi che (i «o/ìr a JcntetEci
ponga fine die nojhrt M L a z. Cote/io non/Vò w, cb'w uorrei éetditfen
(oridiquefìa lingua uolgare foffero difeordt tra (ora, « cùct» d«ettt ^guìfa
diregno partito, pw ^«ofmm- *erorà#ro kdifknfkmciiiilL Cobt. Dmpem Memi contro
aftopimm dì lAonftgnore, moffo noiifoU mente dati 'amor denutriti lavale douete
amare, er riuerire fapra ogm cofa, ma daltodw che uoi portate 4 ùue&a
lingua uolgare,che mncendo,utncerete il miglior- «JiWtijidgmafdo del
quale prende dmodo argomento impararla, a «ti • L A C"»^* fM ^
totidcchdie con quelle armi mcdcfme,òe noi opra* tecomr*ULatùia,v la GrecaM
wMra lingua «olg** refi M«> CT fi 4mua. Cobi. MWigmw . ne i rwilaretóe
giorti Kwer me debole combattitore, et gii itinco«e& battagltadianzi Stinti
conmeffer Lazaroì tauttonta, et dottrina Kotfro ledili ambedue mfiane mi
datmaguerra fi fjwmte/b'uni conojco qualpm. perche, non ttokndo mjfer
Lazmcongwar con ejjo *. - meco <t difendermi^ ego uoifrgnor Scolare, che con
fi lungo I '.kntìo, cj fi attentamente ci bauete afcoltatUcbe baimdo alcuna
arma,con la quale noi mi poetate aiuta* re, fiate contento di trarla fuori per
me,che poi che <jue« fla pugna non è martak,potete entraruifenza pma^ac
cofiandoni a quella parte,cbe piti ui piace: benché più to fio ui douete
accodare aSa mia,ouejete ricbie8o,ct oue è gloriai' effer uintodacofi degno
auuerfarìo.S c no u Gcntffbuomo io non parlifìnhcra,pcrocbe io non japed che m
dire, non effendo mia profetatone lo fatato delle linguema uolontieri afcoltati
bramando, CT fperando pur d'imparare. Dunque bauenda a combattere m difejtt
d'alcuna uo&ra ftntenza > non ui pojfendo aiutare, to ui coniglio, che
fenzame combattiate; che eghè meglio per uoi il combatter foh,che da perfona
accompagnato* la quée, come inejperta deformi, cedendo in fui prin- àpio della
battagli ui dia cagione di temere, Cf fard dare al fuggire. Corteo. Con tutto
ciò,fe mipo* tete aiutare, che a pena credo che fia altramente } fendo fiato ft
attento al nvfìro contratto, aiutatemi, che io uc ne prego,faluofe non
jprexzate tal queBione, come uil cofa, (jdift poco ualore, che non degniate di
entrare in campo con cjfonoi.ScHÓL A. Come non degnarci di parlar di materia,
di che ti Bembo al prefente, cr altra uoìtail Peretta mio precettore inficine
conme})er Lrf* fcari con non minor fapienz*, che eleganza ne ragionò ì troppo
mi degnarei,jei fapefii, ma di ognicvja tufo poco, cr delle lingue niente, come
queiio, che della tìr«4 comfc<ì a pena, le kttere, CT dsfo togfM Lati*
B I A L o e o tu. Unto follmente importi i quanto baflaffe
per farmi intendere t li&rt di philofophia d'Arrotile ; U quali,per tjueUo
che io noda dire di meffer Lazaro,non fena ktU ni,ma barbari: della uolgare non
parb;cbe di fi fatti Un* guaggì mai non feppi,ne maìcurdidifapercjdlua ilmio
Fado nano ; del quale, dopo iilatte delia nutrice, mi fu il uolgomaeSlro . C o
r t. Tur a wi cor.ucrrà diparlare, fenm altro, quello almeno,cbe ri apparale àd
vcreito, eydal Lafcari ; liquali cofi fauuinente ( ceree mi dite) parlarono
intorno a qucUa mai erid .Scaoi, Poche cofe delle infmite,che a tal materia
pertengono,puo im» parare > in un giorno, chi non le afcolta per impa* rare;
penfando che non b'tfogni imparare, Beh. Dit ene almeno quel poeo, che ut
rimafe neUi memòrid} che a mefic caro [intenderlo . Laz, Volentieri in tal cd/o
udirò recitare lopenione del mio macibro Peretta il quale, auiiegna cheniuna
lingua fapeffe dalla Manto' ima infuori; nondimeno come huomo giudiciofo, er
ufi rade uoltc a ingannar fi, ne può bauer detto alcuna cofi eo'l Ldfcorixbe
Fafcoltarla mi pucerà. Pregoui adùqu e, chefe niente ue ne ricordatdlcuna cofa
delfuo paffuto n gionamentonon ni flagrane diriferire.S c h o l, Cofi ft faccia,
poi che iti piace ; che anzi uogUo effer tenuto ignorante,cofa dicendo non
canofeiuta da. mei ebedifeor tc/e rifiutando que prieghi^be deano effermi
common* fomenti, ma ciò fi faccia conpatto, che cornea me non è bonore il
riferirui gli altrui dotti ragionamenti ', cofi il tacere alcuna parali, li
quale dailbora in qua mi fu «« fcit4detitt memoria t nonmifia ferino a
vergogna. Corte g. Ad ogni paltò mifottofcriuo t purche dicU te. Se ho L. L.
"ultima itolta che mcjfer Lafckari uen* ne di Trancia in Italia j fondo in
Bologna, oueuolontie ri habkaua i cr tuffandola il Perttto,come era ufo di fu
re; un di tra gli nitri, poi che alquato fu dimorato con ef* fo lui, lo dimandò
meffer Lafcbari, Vofira cccelienza macflro Piero mio caro,chc legge quejYamoiP
e k. Si* gnor mio io leggo i quattro libri della Meteora d'Anito tele, L asc.
Per certo bella lettura è la ucshra: ma come fate d'cjpofitorìt Per, De latini
non troppo bene ; ma alcun mio amico m'ha feritilo duna AkffandrO. Lasc.
"Buona ckttioncfacejìciperocbe Aleffandroè Ariftcte le doppo Arinotele :
ma io non credeua che noi fapefìe lettere greie . P b ». Io t'ho Uttno,non
greco. Lasc. Poco frutto doucte prendere, pir. Perche? Lasc. Perche io giudico
Aleffandro Apbrodifco greco come c, tanto diuerjo da fé medejìmo, poi che
latino è ridotto, quanto è uiuo damorto. Per. Qnejìo potrebbe efjer che uero
fuffe : ma io non uifaceua differenza, anzi pai faua, che tanto mi doueffe
gwuare la lettione latina, cr uolgare(fe uolgttre fi ritrattale
Aleffandro)quàto a gre ci la grecai con quefia jperanza incominciai a jiudiar
fo. Lasc. Vero è,cbe egli è meglio che noi I'babbut* te latino, che non
Chabbiate del tutta, ma per certo la noe jka dottrina farebbe il doppio,^
maggiore, cr mr^/io* re, che ella non è,fc Aratotele cr Akffandro fuffè'ktto da
uot inquelLi ltngua,nella quale l'imo fcnffe,cr l'altro lejpoje. Per. Per qual
cagione,'Lajc, Verciocht piufacilryeittc, cr con maggiore eleganza di parole jo
P no DIALOGO no tfbrefii da là ifuoi concetti ntUa fud
Ungiti, che nel* l'altrui.V e r.V ero forfè direfìefe io fufiigreco,fi come
nacque Aristotile : mw che huomo lobardo fludid greco, per douer far fi più
facilmente pbdcfopbo,mi pur cofa. no ragioncuok,anzi difconuencuole, non
ifcemandof pun* to,maraddoppiandoji U faccia dell'imparare: percioebe meglio, et
più toh può àudiar lo [colare Loic<*/ok,o fa lamente pbibfopbu,cbc non
farebbe, dando opera alla, grammatica-, fcetiahnente alla grcca.L \ s c . Per
quefla ijtcffd ragione non doueuate imparar ne Latino,™ Greco ; ma follmente il
uolgare Mattonano ; a" con quefo phibfopkare. Pee.Dk) uoleffe in feruigio
di cbi uerri doppo mc,cl:c tatui libri di.ogni fdenzA, quanti ne fono greci,cjr
latinùcr bebrei; alcuna dotta, et pictofa perfo* ni fi deffe a fare uolgari :
forfè i buoni phibfopbantiff rebbom in numero affai pia jbefii,che a di noétri
non/o* iios er k loro eccellenza diuentarebbe più rara. La se, O non u intendono
uoiparlate con ironia. Peb. Anzf parlo per dire il nero ; er conte buomo tenero
deU'honor degli Italiani, che fc ^ingiuria de nofbri tempi, cofì pre*
f°nti,come paffuti «olle priuanni di quciìa gratin dio mi guardi,cbe io fu
pienone cofi ar fo d'inuidta, che io dift* deri di priuarne chi nafeeràdoppo
me. La s c. Volon* ticri tidfcokcròje ui da. il cuor di prouami quefìa nuo* tu
conclufìone,cbc io non fintendo,ne la giudico intelligibile. p e r.
DttcmiprintOyOnde è,cbc gUbuominidi quella età generalmente in ogni fetenza fon
men dotti, et di minor prezzo, che gii non furon gli antichi f Oche e centrati
dome icondofu copi che molto meglio, et DELIE LINGVt, 114 pia
fàcilmente fi poffa aggiugnere Acmi cofa alla dot* trina trouaU, che trovarla]
da fe medcfimo ? La st. Che fi può dire altrove non che indiamo diw.ée in peg-
giof? t r. Queflo è uerojtta le cagioni fon molte, tra le quéi mia ne n'ha, er
ofo dire la principale, che noi aM modeniuiuiamo uhiirnogran tempro, confinando
la mi glior parie de nolbi anni la qual cofa non aueniua agli anticbi.epcr
dijling'iere il mio parlare, porto ferma i pe nione,che lojludio della lingua
Greca, cr Latinaji* ca gione dell'ignoranza: che fc'l tempo, che intorno ad
effe perdiJìno,li fbendejfc da noi impavido phihfophiaipcr auetitura Feta
miderna generarebbe quei piatovi, ry quelli A rifloteh, che proda eua Cantica .
M<i noi tim più che le canne,pentitiquafi Shauer UfcUto la cuna,ey
efierhuemini diuemti, torniti un altra uoita fanciulli, altro non facciamo
dieci,cr urtiti anni di quella uita,cbe imparare a parlare chi
hiino,chigreco,cs akuno(ccme Dio utiolc) Tofano : li quali anni finiti,??
finito con ef= fo loro quel uigore,zr quella prontezza, la quale natu* ralmente
/«o/c recare alTtnteUettolagioucntù ; aVhora procuriamo difarcipbilofopbi,
quando non ftamo atti al Ufheculatione delle cefe . Onde feguendo l 'altrui
giudi* ciò altra cofa non uìcne ad e(fere quejla moderna Yilofo fa, che
ritratto di quell'antica . però coft come ìlritrat= to,quaiitunquefato d'
artificio f fimo dipintore, non può efier del tutto fintile all'idei ; cofi
noi,benche forfè per al tezza d'ingegno nofamoputo inferiori a gli antichi ! 0*
dimeno in dottrina tanto fiamo minori, quanto lungi > ì m po fiati fuiati
dietro aUefaucle dcUe parole colera final* p i mente n I A
LOGO mente mitwnopHklophando m^UakunACofié^ emiendodcemnw knojtra mduUru.
Lasc. Dm IJcljhdiodeUe lingue nuoce altrui finalmente, co* Itici ditele fi dee
f^kieivb? 9t% AnjA JW/i far deismo per taire, che d ogni coja per tutto
Imoniopoffaparlcreogmlmgua. La se. Come wdfro pietrose i ciò cbc«oì4itef D«gtó
d-reWe- uiihuorc diphilofopbare wlgarmenteta-fenxa bauer cogmtionedellalingua
Greca, er UHM Vt% fiLrfupur che gli autori Greci,V Latmifmduceffe* rou dlani,
Lasc. Tinto farebbe fruire Anftoff ledi line** Grw tn umbri ; fatto
trafbmtareun MMCKfi unaolm di un ben colto horUceUojn un bo* C CQ di
pruni.oltracbe le cofe di plnlofophufono pefo A ai tre (ballcòe da queRe di
aueU lìngua Volgare Per. Io bo per ferra*!* le Imgucd'ogm paefe, cefi 1 Arabi*
ta er r ibJww, come U Kòmma, cr 1 Atemefefma d'un medino wforr.rt d« mortoli^
un fine ccnungm dici* formatele io non uorreiebe uoine parlato come di coLdaUa
natura prodotte ; effendo fatte,cr regolate dallo artifìcio delle perfone a
beneplacito loro, non pian ^Jmih^io^mimcemiAv^.
ondetutto^belecofedanamturacreate^tlejcicnzedi «uekJtatomMoytttro le
parte delmndo una cofa mdefum ^nondimeno, perciò che diuerfi huomm fono
didaerfo m lere,perèicriuono,o- parlano dwcrjamcnte, la qitaU diucrfttà, er
confufìane delle uoglìe mortali degnamente è nominata torre di B<tM. Dunque
non nafcono k ''»g" e pw f e medefme, a giàfadi albergo <fber he ;
quale debbolc,w inferma nella fua fyetic,qu*kfaif<t ^rrobufla, etatU meglio
aportarlafommsdinofbi kit mani concetti . ma ogni loro uertit nafce al mondo
dal uo ter de" mortali, Per la qualcofa, cofi come fcn%a mutarfi di
co!ìume,o di natione, il Trandofo,et l'lngle{e,non pur il Qfccojy il Romano, fi
può dare a philefophare, coft eredo ebe la fua lingna natia poffa dir iti
compiutamente communicare la fua dottrina. Dunque traducendof; a no flri giorni
la pbilofophia jeminata dal nofìro Arrotile nebuoni campi tf Atbene, dilegua
Greca in uolgare,ciò farebbe non gittarU trafili in mezo a bofcbi.oue fìerile
àueniffejna farebbe fi di kntam propinqua, V di for e* {licra > cbe etU è y
cittadina (fogni prouinàa . Et forfè in quel modo che le fbeciarie^zr i'^rc
cofe orientali ano* yroutile porta alcun mercatante d'india in ìtalia,oue
meglio perauentura fon ccnofciute,cr tratMc,cbe da co loro non fono the olirà
Umore lefeminorno > er ricolfc* ro; fnnihnente le fpeculaticm delnofko
Arrotile cidi* ucmbbono più famigliarle non fon lwra-&' più faci* mente
farebbero mtefedanai, fe di Greco in ttòlgare al* cuna dotto Imomo le
riducejfe. L a s c. Hiuerfe Imguefo* no atte afìgmficarc diuer fi concetti,
alcune i concetti di dotti,alcune altre de gli indotti, la. Greca ueramente Un
to fi conuiaw con le dcttrincycbe a doucr quelle fignijicd re,natura ifieffxjio
banano prouedimeto pare che ihab bu formata : er fe credere non mi miete,
credete abne* P 3 f» no d Platone, mentre ne parla mljuo CrrfiRo .
Onde ci fi può dir di tal lingua., che (piale è il lume a colori, tale di i fu
alle dijcipkne ifenza il cui lume nulla itcdrcbbc il ivijiro bumano intelletto;
mi in continua notte d'ignoran tii fi dormirebbe. Per. Più toilo uò credere ad
Arijìo tilt, CT alla ucriùycbc lingua alcuna del mondo{fu editai fi uoglia) non
pojfa hauer da fe jlcjfa priuilegio di fignifi care i concetti del nollro animo
>ma tutto confìtta nello arbitrio delle perfone. onde chi uorrì parlar di
pbilofo* phia con parole Mamouane,o Milane fi inoligli può ef* /tv difdetto a
ragione ; pia òe difdetto gli jìa il pbibfa* pbarc,or l'intender la cagion
delle cofe, nero è,cbe,per* ebe limonio nonba incollameli parlar di phibfophia
jc non greco et latino sgià credimi che far non pojfa aU frinente : cr fain di
uiene ebe follmente di co/e tuli, er algori uolgarnun'e parla, orferiue la
nofhra eti Et co m: i corpi,®- le reliquie de fanti non con kmani,ma con alcuna
uerghsita per riuerenza to:cbiamv ; cafi i fieri mhleri della diurna
philofophia più tojlo c5 le lettere del l'altrui lingue, che con li tiiua uoce
di queila noBra mo* icrn a,à muiamo a lignificare : il quale errore conofei» to
da molti, ninno ardtfcediripigliarb. Ma tempo forfè pochi anni apprejfo uerrà
ebe alcuna buona perfona non meno arditi,che ingcnÌofx,porrà mano a cofufatto mercatantia
: cr per giouare aUdgente, non curando dell'oc dio,ne della inuidia de
litterati, condurrà d'altrui lingua dia noilra le gioie, ryi frutti delle
feicntie j le quallibo r.i perfettanente nongujliamo.nc compriamo. Lasc,
Veramente ne di fama, ne di gloria fi curerà, chi uvrrà prender la imprefa di
portar k philofophk dati lìngua £-A tbene nella Lombarda : che tal fatica
itow,cr bufi" mo gli recar a. P a s. Noia con/rflò, per fa Doniti dc/k
ic/j<,ttM non kiir/rmo,cow:e credete: clic per uno che<U prima ne dica
male,poco da pei mille, er mille altri lode. ramo,tt benediranno
ìlfuoj\udio,queUo ritenendogli che antenne di Giefu Cimilo ; iìquale, togliendo
di mo* rir per la fallite degli buomim,fcbernito primieramen* te,bujmato,cr
trucifìffo d'alcuni tippocriti.hcra alla fi ne da chi! conof<e,come iddio,
et Saluttor noflro ft ritte rifce.& adora, Lasc. Tanto dkefte di <jae/fo
uoftro buonbuomo; che di picciolo mercatante l'bxuete fatta Mefia : il quale,
Dio uogliacbefta fintile* quello che anebora affrettano li giudei; acciò che
berefia cofi itile mai non guafìi per alcun tempo k philofophk d'Arifioti le .
Ma/e noi fitte in effetto di cofi fìrano parere ; che non ut fate a di noflri
il redentore di quejla lingua uoU gare f Per. Perche tardi ccnobbi la ucritk
;er a tari po,qumdo la fòrza dettinteQetto non è eguale al uolere. Lasc. Cofi
Dbirìaiuti ;comc io credo che motteg* giite;faluofe,comè fanno i maliticft,
queQovicco no bU fonate, ebe non potete ottenere. Per. Mon/ìgnor le ragioni dk
nxi addotte da n!e 3 non fono lieui ; che io deb* ha dirle per ifberxare
icrnonè cofi eoft éffiàle U co* gnition delle lingue ; che bucino di meno che
di me* diocre memoria, er fenz* ingegno ueruno, non le pcfft imparare : quando
non pur a dotti, ma d forfennati Atbenicft, er Romani, folea parlare
eloquentemente CICERONE (vedasi),?? Demojlhette, er era intefo (Utero . Cerio
P 4 «tfnif «inijgr Ufirimiferamente poniamo in apprender queU le dite
lingue t non per grandezza d'oggetto ; ma) olamen, te perche aUo lludio delle
parole contri la naturale meli nxtione del nojlro bumatio intelletto ci
riuolgiamoul qua le difiderofo di fermar)] nella cognitione detle.cofè, onde
diurna perfetto, non contenta d'efferc altroue piegato, otte ornando la lingua
di parolctte er di dande refli uas ttd Li nofbra mente. Dunque dal contrailo
che è tnttauid tra la natura dell'animi, er trai cojlume del nojlro jlu*
dio,dipende la difficultàdcRa cogmtion delle lingue, de* gna neramente non
d'wuìdktma d'odio: non di fatica 3 mt difajlidio : er degna finalmente di
douere effere non ap prefajna ripreja dalle p.rfone : fi come coftMqualc non è
cìboma fogno, er ombra deluero cibo delTinteUetto . V a s c, Mentre noi
piatiate cofi, io imaginaua di ittderc krittalapbitcfopbiad'Ariftotikin
Unguabm* barda udirne parlai e tra loro ogni tùie maniera di
gentcJaecbinUontadinhbarcaroli, er altre tali per fané, con certi fuoni,<cr
con certi accenti, i più noiofi, er ipitt {brani, che mai udijii alla tòta mia
. In quejlo mezzo, mi fi paraua dinanzi effa madre philofopbia utilità affai po
veramente di rontagniuolo piangendo, er lamentando^ i' Arijlotih,cbe
difprezzando lafua eccellcnzatbautft fediate condotta, et minacciando di non
twlre fior piti in terra : fi bello bonore ne te era fatto dalle fue opere :
ilquale ifeufandofi con effo lei „ negaua d'bauerU offefa giamai : fempremai
bauerla amata, er lodata ne me* no che borreuolmente batterne fcritto, o
parlato men* tre egli luffe ; lui effer nato tj morto greco,non Brefciae no
ncVergomafco, er mentire chi dir uolcffc aUranvm te : olla qui uifione
diftderaua che noi mfujHe prefetste. •P e i. Et io (e fiato ui f«j?t > harei
tetto non douerfi U pbthfopkia dolere ; perche ogni buomofer ogni luogfc con
ogni linguai (ho ualorc effàhaffc : quefiofarfi an# a gloria, che a ucrgogm di
hi . la quale (e non fi (degni Stergare negli intelletti Lombardi, non fi dee
ancb$ (degnare (Teff, r tratta daHU br lingua : l'Indù, la Srtf tbia,CT f
Egitto, cue babitaua fi uokntieri, produrrc gc* ti cr parole molto pi.i jkane e
pi» bai bare, che non fono bora le Mantouanc, er le Eoiogw/i : lei lo (ìndio
tkU Ungua greca,® 1 latina bauer quaft delnoflro mondo crftf ciato ; mentre
hv.cmo non curando di faper, che fi dica } nanamente fnok imparare a parlarci
et lafciandof Intel letto dormire, fucglu er opra la lingua. Notar in ogni
ct4,m ogni prouincid, cr in ogni babùo effer (emprcnai ma cofa medeftma ;
Lupaie, cefi cerne uolonticrifa fuz arti per tutto l mcndc,non meno in tcrra,cbc
in cielo; cr per effer intenta aUa produttione delle creature rationa* Unon
fifeorda delle irratiotitlii ma con eguale artifìcia genera noi,er t bruti
animaliicofi da ricchi parimentc,et peneri huommi, da nobili, er «ili perfone
con ogni Un* glia, greca, latina, hebrea, cr lombarda, degna
d'effere&-conofcittta,cr lodata. Gli auge Hypcfci er tre be(ìie terrene
d'ogni maniera,bora con un (uovo, ho u con altro fenza dijìintione di parolai
loro affetti f già (icore ì molto meglio douer ciò (are noi buomini, ciafeu no
con la fua liìtgud ;fcnz<tricorrere aWaltruidcfcrittu* re,cr i linguaggi
efferc fiati trottati ma ajaltite teUa n* turala quahicome diumd,cbe etk è)non
ha mefticri iti mftro diutojmafolamentea utilitaet commodità nojìra, gecioée
abfenti, prcfenti 3 uiui,& marti, manife\ìando (un Ultra ifecreti dei cuore,
più facilmente canfeguias no la noflra propri* fe liciti ; laquale è pefìd
neUmtcU tetto delle dottrine > non nel fuono delle parole : er per
confeguente quella lingua,?? quella fcritturddouerfi u* fare da mortali, la
quale con più agio apprtndemo: er €omemeglio farebbe itatele foffe fiato
pofiibilc) Chaue re un sol linguaggio, l'i quale naturalmente fuffe ufato
da gli huomiri, cofi bora ejfer meg^ebe tbuoma (crina, et ragioni neUamaniera,
ebemen fi fcofladatta natura : k qualìTumicrd di ragionare appcnanati impariamo
:ey a tempo-, quando altra ecft non fono atti ad apprendere, et étrotavto barri
detto al mio maeflro Anjlotilc ideila etti eleganza goratione poco mi i urarei,
quando fènza ragione fusero da lui ferita i fuoi libri ; natura bauer lui
mietuta per figliuolo, non pcrtffer nato in Atbcne, ma per bauer bene in atto
intefo<bcne pérldtOi&benclcrit to di tei : la verità trouata da hi,
tadifpofitene, cr Cor* dine delle coje,la grauità er breuitì del parlare
eflerfua propria,®- non d'alìrme quella poter)] mutare per mu* tomento di uoce
: il nome falò di lui difeampagnato dalla ragione ( quanto a me ) ejjere di
affai piatola auttoritd, a lui fiore, fe ( emendo Lem bardo ridotto) effer
uelef* fc Annotile .noimirtali di quella eùcojì bauer cani f noi libri tramuta
incluùm i '.inguaiarne glibcbberoi greci = mentre greci gli jludu iurta . li
quai libri con ogni iniujbia procuriamo d'intendere per diuenire una uolta
non Athcniefi ima philofophiicr con quefìa riftojl* mi farci pai-tito da
lui . L a s c. Di'fe pure, CT diff derate aè che uolete j m i io Jprro, òe a di
uoftri non utdrete Arijhtik fitto minare. Per. Perciò mi doglio
delhmiferaccnditione di quefli tempi moderni, ne quali fi finiti non ad ejfer,
mt a parer fauio : che ohc fola una liti di ragione in qualnnque linguaggio può
con du ne alla cogniimedeìh iteriti ; quella da canto lafdi ta, ci mettiamo per
jìrada,ti quale in eff. tto tanto ci dfc lunga dal noftrofme {quanto altrui
pare, che ni ci metà uicini ; che affai credemo d'alcuna cofa faperc, quando,
fenza conofeerc la natura di ki:pofi mio dire in che mo- do In nominali CICERONE
(vedasi), PLINIO (vedasi), tmctfo, cr VIRGILIO (vedasi) tra latini fcrittori
;cr tra greci Platone, Arijhtile t De mojlbene, cr Efclme ideile cuifemplici
parolctte fan- noglìbuominidiquefta etàlc loro arti, cr fcicntiejn giujx, che
dir lingua greca, C latina par dire lingua di ulna, cr che la lingua volgare fa
una lingua inhu* man, prilli al tutto del difeorfo dcU 'intelletto ; for* fe
non per altra rdgione, faluo perche qucftunx da fanciulli, cr fina jhidio
imperimi) ; oue a quel* laltre con molta cura ciconuertiamo icome a lingue,
lequali giudichiamo più conuenirji con le doArine, che non fanno le parole
della E «griffa, cr del batte f* ino con ambidue tai facramentii la quale
feioccaop* penione è fi fiffanc gli animidc mortai, che molti fi fanno a
credere, che a douere farfi philofophi bxjti lo* rofapcrefriuere, cr leggere
greco fenza più : non aU tramente, chefe lo fòirito dì Ari] fatile, aguija
difolkt* to in cr&aUofieffe rmchiufo neWabhabeto di Grechiti
con lui mfiemefuffc corretto a entrar loro neWinteSct* tea fargli propbeti:
onde molti n'ho già vedutiti miei giorni fi arroganti,cbe priid in tutto d'ogni
fdcnza,con fidundofi folamentc neUacognition della lingua, bmm hauuto ardimento
di por mano afuoi libri, quelli a guifa de gli altri libri d'bumanità
publicamtnie ponendo . Dùque a colìoro il far uolgan le dottrine di Grecia par
rebbe opra, perduta fi per la indegniti della linguaicome per l'angujHa de'
termini, dentro a quali col fuo Ikguag gioè r'màiiufahtaha, uanaiflimando
l'imprefa dello Jciuere, er delparlare in maniera, ebe non [intendano, li
iìudiofi di tuttol mondoMa quello che non è fiato ue* duto da meìfpero douer
uedere (quando che fia) chi no* /ceni dopo mc&r 4 tempo t che le perfone
certo piti dot' te t ma meno ambitiofe delie brefenti, degneranno £ef* jer
lodate nella lor patria, femy. curar fi, che la Magna, c .diro fìrano paefe
riticrifca i lor nomi ichefela forma delle parole, onde i futuri pbibfopbi
ragioneranno, er fermeranno delle fetenze, farà commune alla plebe, tin*
iellato, er il fentimento di quelle farà proprio de gli a* autori, V jiudiofi
delle dottrinerò quali hanno ricetto, noiicUelinguefmanegUatiimidimcrtali.S c a
ol.Gw sapparcccbiauamcffer LafcariaUarijj>ojla,quando fo* prauenne brigata
di gentillniomini, che ueniuano a uifì* tarb, da quali fu interrotto [incominciato
ragionamene toipercbc faktati [un [altro con prameffa di tornare al* tra
uoltajl Peretto,et io co lui ci partimmo. Cojteg. Co fi bene mi difendere con
[annidelmacftro Peretta che DELLE UNCVt. "9 che l'I por mano
alle uojire, farebbe cofdfuperfbd per- ii <M cofa auegnd,cbe Hparkrt intorno
a quefìamate rid fulfe iiojìra profetane > nondimeno io mi contento, ée uì
tacciate: ma del foccorfo preftatcmi.partt dd Tdii tariti di coft degno
philofophofdrte dette rdgionUnte* dettelo ue ne muto immite grdtici&uiprometto,
che perfinire ilfdjìidio dello imparare a parlare con le Un gue de' morti;
feguitando il coniglio del maeflro Perei* tadorne fon nato.cofi uoglio iti uere
Romam,parlar Ko mano, 0-fcriutre Romano : V * uoì meffer L4Zaro, cornea perjona
d'altro parere,predico,che indarno tcn* tate di ridurre Mjuo lungo eftlio in
ltdlidktwjhra Un* gua Latina, cr dopo la totale réna di tei, fottcuM*
terraxhefc quando Jk comineidud a cadere,nonfu huo mojhefojlcnere ue la
poteffext chiuque atta rumasi pofe>aguifd di Polidamante fu oppreffodalpefoi
feoM, cUgìdce del tutto, rotta parimente dal principio et dal dal tempo; quale
Aéletd, o qual gigante potrà uantarft ii rQtmWne a me parere a uofbri fritti
riguardose ne uogliate far pruoua-xonftderando chel mètro jerme* re latino non
è altroché mandare ritogliendo per que» fì'auttore, cr per queUo,bora un nome,
bora un ucrbo, hard un'dduerbo della fu lingua: il che facendo,/e noi fperate
(quafmuouo Efculapio) che il porre mjir.ne
cotdikagmentipo^farldrifufcitdre^iu'mgamuU; non ui accorgendo, che nel cader ^
dififuperbo edificio, una parte diuenne poluerej? un'altrd dee effer rotta («
più pczzdt quali uolcre in uno ridurre, farebbe cofdim* paRibik Jenzd, 'he
molte fono dell'altre parti, k quii r ' ' ruiwfe timafè in fondo delmucchio, o
mudate daltempo,Hen fon trottate d'dkwno:onde minore,cy men ferma rifarete
lafabrica, ch'eUa non erida prima : cr uettendoui fatto di ridur lei alla fu*
prima grandezza ; mai non fa acro, (he «01 le ditte Inferma, che antkaincte
ledicrono que" fn'mi buoni architetti, quado mona la [abbicarono: anzi
oucfoleua effer la fala, farete le camere, cmfjnddrete le pori e, cr delle
jineftre di lei } que&a alta, quell'altra baffa nformarete: iuifode tutte,
£r intere rifugeranno tefue mmtglie, onde primieramente s'i&unwaua il pa*
lazzo:?? altronde dentro di lei con la luce del Sole alctt fiato di trijlo
uento entrerà, che fari inferma la flanzd, finalmente fari miracolo più, che
httmano prottadimen* fo il rifarla mai più cguale,o fintile a quetTantic^ejfen*
do mancata (idea, onde il mondo tolfe l'effempio di edì* ficatU . perche io ui
etnforto et lafciar ttmprefa dì uoler faruifmguUre dagli altri buominh
affaticandoti uana* mente fenz4prouolhro ì et 1 d'altrui. Lai. Perdonate*
migentdbuomo f uoinonponeSeben mentealle parole delmiomacftro
perettoUqualenonfolainentenon rie» faua,eome Mifdtc^i^&Mgr&^O'bxmmzifi
bt* puntava d'effere a farlo sforzato ; dtftdcrando macia, neUd quaUfenzA
l'aiuto di quelle lmgue,potef]e il popò* b }ludiare,& farft perfetto in ogmjaenzaJa
quale ope nione io non hudo, ne uitupero, perche quello nonpofa fo,quejlo non
uogUoìdico follmente non effere Hata hene intefa da uoimde la deUberatione
uoiìra non hauerk origine ne de£t4Utorità 3 nc delle ragioni del maejiro Pe*
retto :m àalm&ro appetita ì hqmlefeguite quanta n'aggrada, che
altrettanto iofaròdelmioiéhefcl «ag- gio, the io tenga, è più lungo cr piti
fatkofo del «oSroì ptraftenttar* non fjajluanoiO'd fine delk magioni* ti a
buona albergo fmo 3 quantimqic Sa no, mi condur* ù, B £ m, Mefier LdZaro dice
il uero,& u\ggiungù cbe'l Peretta in qucll'hota{comefime pare) attuto del
le UngueMuendo ricetto ali* phibfophk,et altre /imi li fetente. Perche
po\ìo,che uerafu kfua cpmonr.zT cofì bene poteffe pbilofopbareil contadino, come
il gen (fl/7«o»io,er il Lombardo, come il Romano; non è però the in ogni lingua
egualmente fi poJ?rf poetar eg? crare^ tonciofiacofa che fra loro luna frn pia
et meno dotata de gli orn ament i della profa, er del uerfojbe taUra non è. ha
cjualcofafu tra noi difputata da prima, fenZftjar p< role deBe dottrinexT
eome albera ui difìi,cofi uì dico di nuouoìche fe uoglia ut urna mai di
comporre o canzoni; c noueUe al modo uoiìro, cioè in lingua, che fia diuerft
dalla Thofca>ìd,etfenza unitateli Petrarca, o Boccac tioyper duentura noi {irete
buon cortigiano, ma. poeta,o oratore non mai. Onde tmto diuoifi ragionerà,ej
fare* te conofeiuto dal mondo, quanto k usta uidurerà, ey no più ; < ociofta
che la uofbra lingua RotiMiw hébk uerti tt forili piutoBogratiofo, cheghriofo.
Dialogo della rhetorica. Valerio, Brocdrio, Soranzo. A l. Horrf mentre,
che noi ridiamo,?? giuochiamo o Bro cardo Jl Cardinale Don Her* cole col
Friuli, e col Nauagc* ro,w cafa de lambafciador co t armi, dieno effere a
quejlion* dijputado fra loro detta nojìra mrnortalìtkq-im forfè n'iettano, ej
duole loro il nofbro tardare, perche a me pare, cbcfenz* indugio niuuo noi
andiamo a trouarlikqual cofajhieri diferainful par tir fi da lorojagionduamo
diàouer farext quello, fenoli penaltrofi atmeno t percbe il soràio fludiofifìimo
gioua ne,©" no bene ufo difoler perder te fuegiornate,delfm iffer co noi
coglier poffa alcun frtitto.w pur otwxt joU l.tZZo.'B r o. Io ho openiane*
cbeiefferprefente a loro dotti ragionamenitfarebbe indarno per noixociofìa t
cht «Ut nojbri fludij mal fi confaccia k questo dijputata.per chepiutofìo
configlierei,chefra tui,cofa parlando, (he ti conuenga,fì comoartiffe qwcjta
giornata* t /ìa la co/a, qtule il Soranzo U eleggerai al cuiferuigio il prww
di, che iol iQnabbi t di tutto cuore moferfi, et offero hoggi, (ytuttauia. Val.
Dite-id^ueo Sorarc?o,aò che ut parcchemifacciamo, chelparer ucftro d'mbidue noi
uotenticrifijeguarà. S o a. Forfè accettando le uoihre offerte farò tenuto
profontiwfo; ma a mio danno non io fdrò. Quiftaremoje egli tdpidce, w a phdojopbi
io fbc cular rimettendo,dcUa ulta ciuile,nolha humana profef*
fione,dìquaittodegnaretc di [duellarmi. Chiamo uiuci* mìe nonfoUmcnte la bontà
de cojlumi col morahnete o per ore, ma il parlar beat a beneficio ddl'haucre.,
delle ferfoneg? deKbonore de mortali: Lt qua! cofa perauentura è utrtu non mcn
bella infe jlefi^omen gicucuole al li bumankjJeUa prudenza, et detkgwfiitUi ma
in m* siero difficile do poter effer'apprefdst effercitata da noi tbenuUdpiu.lo
ueramente quato ho di tempo, cr dOnge gtìo uohntmi tutto dono dllo jìudio dell'
eloquenzdMcbc faccio $arte leggendo, parte fcriuende ; er quei precetti
tdempicndo^he CICERONE (vedasi), ey Quintiliano con meli* cu ra lìudivrono
d'infegnore : eoa tutto ciò io non nc jò nuU k ; nefo s'io fyerifaperncjcrm.,
rj legga quanto io mi troglker ciò è, perciobe a me pare t cbe iprecettìdeSar
te loro fono infittiti i e7$<$é uolte (òche io m'inganno) f uno aSdkro fi
contradice : io giudico, Cicerone tfferc fitto oratore moka miglior, che
Rbetore:fì come quel* b,cbe meglio parla,chenon ci infogna a parlare . Oltr4 di
quejlty, io fono in dubbio fe Torte Oratoria deSd Un* pia Latina fi conuegno
con Poltre lingue, jbetuimaitc con la Tofcana,die noi uftamoboggià > nel
quale io ho opinione che a dilettare alcunmamnconico, mutando il Boccaccio
gualche noueUéft pojfafcriuere fenzdpm co fa ueramente ditterfa dalle tre guifh
dicduje .; le quali da latini fcrittori fola, cr generd!t materia deUd loro
arte Rhetowa fi nominarono . Do quejH adunque, rydaah* <C tri tdi dubij,
che di continuo mi s'aggirano neu"inte n etto t infm bor j. non ho
trottato chi mi fuiluppi ; che di miti, che io n'ho pregati più mite, a tale
manca ilfapere, a U le il modo dellinfcgnare : mi affai nefapcte,er d'ogni cofa
da uoifapuU con bcUo, er difereto ordine [lete ufo.* tidiragionare.
percbe,hora, che uaipottte,io ttiprego, che de precetti di cotale arte, quanto
a uoi pare, che mi fu lecita di conoscerne, liberamente mi [duelliate. V Ala
Cerio egli è il nero quel che uoi dite, cheli Khetorica è buoni parie di nojtra
iuta cmU ; fenZA là quale rimane mutola ogniutrtu : ma ella è cofa da ogni
parte infini* t a, er è difficile parimente il tronarui cofi il principio, come
il fine, quindi ddiuiene, che Cicerone in molti fuoi libri parlandone, mai non
ne parla in un modo : come e Adunque pojiibile che dWimproiafo in un giorno,
tale& Unti arte vii fu mojìrata da noi ì Bróc. Quejìo è cofi imponibile m
lo dimanda il Stronzo, ma alprc ferite tf una parte dì Uì, er fu la parte che
uoi uorrete, famìgliarmente parlando, è ben degno che'l campiacia* te. Vai. Io
per me in quanto poffo pronto fono d douerU piacere > dicale? chiede ciò che
a lui piace,ch'io ne ragioni. S o tL.Miodifiderio farebbe da principio face»
doro/, (fogni fua parte infmo afta fine mformareùkbe effere non potendo,
ditejni almeno una cofa, cioè,chefetf do ufficio decoratore il perfuader
gliafcoUanti dilef tando,infegnando,rj mouédo,ìn qual modo di quefìi tre, più
conueneuole affarte fua con maggior laude dife, re chi ad effetto il fua
diftderio .Val. Molte cofe in foche parole mi domandate; onde io comprendo j
che piu fapete dcSa Khctortca, che non ui atunza impararne. La quefiione è
bellif?ima,aMa quale non terminando* me dijputondo rifonderò.
Voiopporecchiateuinonfo* Unente od udire, ma a contradire : cr cefi ficài il
Bro cardo, il cui parere nella preferite materici perauentura farà diuerfo dal
mio. B r oc. Senza altramente poi* faruijl mio parere fi è, cbe'l diletto fta U
uertu deKord* tione,onde ella prende la bcttezzd,zr U forza d perfua* derechìl
accolta : che poflo cafo che f Oratore, quanto è in lui,habbia uirtu
£mfcgnare,ct di mjiiere,infinitifon gli accidenti, dalli quali impedito non può
fornire a fuo ufficio. Ciò fono U bruttezza del corpo fuc,U dijpropor tion
della itoccj.i mala fama del fuo cliente, h dtshonc fladclla confa, cr
finalmente la (lanchezza de glt auditori, li quali lungamente fiati attenti
alle parole de gli auuerfarij,fchùà fono daffofcoltare : fenza che il fuo nome
altrui ad ira, a mifericordia, o ad altro affit « to coUle, dee effere co/a non
sforzala, ej per confeguente noiofa 5 ma fornmamente piaceuole a quel cotale,
cui egli muoue, ©" jojpmge . Segno ueggiamo, che A precettori dell'arte
non bafiando il darci tonofeereinge nerale in qual modo lOratorria poffentt di
comouere li noftri affètti idiflintamentc quali fiata i coflumi de ighuani,
uecebi nobili, itili, ricchi, c poueri cidi* moftrano : itile nature de i quali
con bell'arte tantedet* to lor motùmento uomo cercando dtaccommodare .
Dettinfegnare non parlo, che non ha il mondo la mag* gior pena, che [imparare
mal mtontieri.quefìojàoe grìwto, che fi morda, fofferc fiato fanciullo, cr
f>l* fb io,per quel ch'io prono al prefente mczo vecchio Jì co me io fono ;
che mai non odo il Koinojne leggo Bartolo, c Bili) (il che faccio ognigiorno
per compiacere a mio fière ) ch'io non bclìemmi gii occhigli orecchilo ingcgno
fflio,©" lo uitamia condannata innocentemente afa ucr cofa imparare, che
mi fio noia il faperhMdarm adu que iinfegnare, 0" dì moucr non dilettando
ci fatichi uno i zi dilettando fenza altro(quanta è la forza del com
piactre)ftasno polenti di perfuader gliafcoltantitripor tondo U difiato
tintoria non per forzarne quali merito di ragione, ma come gratta a noi fatta
da gli afcoltanti, per quel diletto, che nelle menti di quelli fuol partorire
Torà* tione ben compojìd, ©" bea recitata, E f ucr amete quella ì buono
Oratore, il quale parlando £ alcuna cofa princi palmcntcnon con U confa
trattata, fi come fanno ì philo fophi,mo con tarbìtrio^ol nuto&col piacere
degli au* ditori,tenta,cr procura dì convenire,qucUi allcttando in maniera, che
altrettanto dì gioia rechi loro loratione la otte eUamoue, ©" infegna,
quanto fare ne la ueggiamo mentre ci lo adorna per dilettare . er queSio è
quanto mi par di dire nella prefente materia . Val. No» pen* pie dtcofi tatto
ifbedirui dalla imprefa già cominciata, the le ragwtJJ,efw ci adducete, quelle
meglio non diflm* guendo, nonfonbajlattti di farne credere fopenicne prò polla,
adunque egliè meflicri che in qnefla confa medefì* ma argomentiate altramente
:ilche fatto, perche al So* rmzopienainentefcÀisfocciatejpmmimfacédouitCoa
bello ordine mofhrarete in che modo, er per qual uia prò udendo coté uicà del
dilettar gli afcoltanti poffa acquifiarft f orario)» uotgare : che a tal
fineife io non ntingaa mìgli udimmo fjre kfm dimanda. Broc, Molte fon le
ragioni, per le quali fi può Koftrar chiarantnteipet fetto Oratorcdilettandopiu
che tnfcgnxndo,omouenda ti fttóttfficio adempire: te quai ragioni, {Indiando
dejfet brieue,perche a uoi pia tojlo il douer dire uemffe,dc(ibt rai di tacere
s ma fé mi o Scròto, cotanto difiderate (fòt lèderle, er ciò ut pare che molto
bene al fatto uojiro per Ugna io che ne parlo per cMpiaccrtà aclentieri
incornili darò i quindi ti principio prendendo j che la Rhetoriat non è
étro,cbe un gentile artificio d'acconciar bene, et leggiadramente quelle parole,
onde noi buominifignifi* marno Um (altro i concetti de nofìri cuori. Diremo adu
que, che le parole nafeono al mondo dalla bocca del noi* goderne i colori dulie
herbe ì ma il Grammatico <fWf Orator famigliare t quafi fante di
dipintore,queBa decada* Cr polifcctonde il macjlro della Khetorka dipingendo U
ucritiyparlit er ori a fuo modo. Che cofi come col pendei 10 materiale t
uolti, er i corpi delle perfonefa dipingere 11 dipintore la natura
imitando, che cefi fatti ne generò s cofi k lingua decoratore con lo flilc
delle parole bora in Senato, bora ingiudkio, bora al uotgo parlando, ci
ritragge la ueritÀ ila quale proprio obietto delle dottrine fyecuUtiuejwn
altroue che nelle fcboleg? tra pbilo* fophi corniciando ; finalmente dopo alcun
tempo d grufi pena con molto fludio impariamo .Ut è il nero, che coji come a
ben dipingere Ut mia effgie,è afpti il ueder>ni,fn Za Altramente hauer
contezza de miei coltumi, o lunga* «ente con effo meco domfkarf: » dipingendo
l'artefice DIALOGO miffabra cofa di me.faluo U ejhrema mixfuperficie,nota
agli occhi di ciafcheduno j fmitmcnte a bene orare in o* giù materia ball<i
ti conofecre un certo no /o che detta tic ritk che di continuo ci jia innanzi
fi come cofa, ti quale ne i nofìri aitimi naturalmét e difaperk itftderofi, fin
di principio uoik imprimer Domenedio, Può bene effere, tyfbefic uolte adiiuenc
che la ignoranti* del uutgo f 0« rotore afcoltando,colga in f cambio cotale
effigie dipinta, lei ifìimando U uerità ; non altr umente per anenturd>chc
l'idolatra plebeioje dipinture^- le 0atttc,nojkc buma* ne operationi s f accia
fuo Dio, er come Dio le riuerifed* Può anche ejfere che Foratore ori a fine
d'ingannar le. perfonerfando loro ad intendere, che'lfuo diffegm fìa il
uero,non del nero ftmilitudìne ; nclquat cafo quello coM lejnon ofìante il fuo
ingegno merauigtivfo, meritarebbe, che fi sbandiffe del mondo itydift fatti
oratori fi deono intender le parole di chi biafima la Khetorka ; cioè colo ro
che ad altro fine la effercùancyhe tindulìria ciuile no U fermò. La qual cofi
no pur a lci,ma a qualunque altra più honoreuole,et utile arte è tra
noi,facilmente intrauit ne.Uora al propofito ritornado, certo per le cofe già
det te, in qualche parte no fìa difficile il giudicare la queflian coiiiweiittJ,
percioebe Cinfegnare, il quale è jtrada alla uerità propriamente parlandolo è
cofa da Oratore; piti tofto è opra diUe dottrine fpectdatitte; le quali fono
fden Ze non di parole, mi di cofe, parte dìuine, parte prò* dotte dadi natura .
Kelìa adunque che noi tteg giamo quale ufficio f ìa più proprio deli"
Oratore trai ddstta* re, zi d mouere, fi mamme, che innanzi tratto; un COROLARIO
inferiamo ; cioè, conciofia cofi chel perfetta Oratore tuie fappia,qual parli ;
e quale in fegna tale imm par affé i troppo ora chi ha opinione cbe'lfuo
intelletto^ che non fa nidla 3 fìa uno armarlo d'ogni fetenza : non per Unto
fempremai in ogni età rari furono non pur li buoni ma i mediocri Oratori ;
ertili nofìri fono ronfimi ino gm lingua ; fi è coft diffìcile non follmente il
faper bene U miti, ma ii pxrcr difaperk, Hor di quejìo non più i er aUe l te
del diletto, et del mouimento conferiate che io ini riuolga .
Certo,nattfrabnente parlando,ogni dilettofièiHomnentojna. in contrario, fiando
ne itcrmini di quella arte, ogni Oratorio mouimento è diletto; concio», fu cofi
che'l perfetto Oratore muoue altrui non per fcr za, er con uìoknx.4, in quel
modo che noi mouiamo le cofe graia aRinju, o k leggieri a!? ingiù ;md fempremai
muoue ha cotifome affindination del fm affetto : U* <jiol cofa non può effer,
che non glifia altra modo pù* ce«oJr,cr giowfi molto i ne ad altro fine ( fi
come dian* Xt io diceua)da maefhideUa Khetonca fono dijìinte. «•mutamente le
dijhofitioni degli ascoltasti : i cui affet» ti col mutamento della fortuna, rj
degli anni fono u* fati di ttarùrfi ifalxo, accioebe tomfeenda il buon».
Oratore otte pieghino k pacioni de petti lpro,iui col ut* gore delle parole
(indie, ©" f enti dì ritirarli. Et per «r (o,fèl mouimento rhetorico fuffe
Saltra maniera } ogni mgenua perfona come sforzata, ty tiranneggiata dall’Oratore
mortalmente Codiarebbe : ne pofp credere che ninna Kepublica, bene o male
ordin.it*, fol che tJU tmajfe U l/bcrtà, comporujje 4 fuoì cittadini befferei*
SI 4 Urft in una arte; con k quale non porgli equaU,m i mi gijbr-ttiiZr
le leggi loro di dominar stttgegniffro . Re* jta a dirut in qttal inoliti
diletti tal mcwmai ù, er onde uegm cfje*/ diletto che ne gli afitti dcUbuomo
partorii fcc i'orotiùne,fia muramento appellato: che tutto che co* taitofe
paiono alquanto più pkfcefoWie . ck orione, tttttauia egli è hello ilfaperlt;
miggiormenle Se alla ma tem di che partiamo, grandemente fon pt t'inaiti . Mi
deUa prima brievemente miefbedirò : Che fi come i^di* pintore, or il poeta t
dite artefici il? Oratore fmbùnti, per diletto di noi fanno tterfì, er imagim
di diuerfe mi* nieraquali hombili,quai pkceuolì,qtat dolenti^ qud liete *po/i
i't buono Oratore nm folamente con le [accie, con gli ornamentici co numeri, ma
ad ira, ad odio or ai inuidia mentendo, fuol dilettar gli afcoltanti . lo ucramen
te mai non leggo in Virgilio k tragedia di ElijajVìo no pianga con effofeco
ilftto mah;non per tanto eonfideran io con che gentile artificio ci dipingefp
il poeta l'amor fuo,et k morte fua : cofì uinto, come io mi trotto d.dli pie
tà,non pofio itero che fomm&ìientc allegrarmi ita qual cofa non dee parer
merauiglia a chi per troppa aUegrez ti alcuni uolti fu cofbrctto di lagrimare .
E ti uero che una tallettione è polènte di più, or meno commettermi, fecondo
che et più t er meno fon dijhojh a compaflione t ma in ogniguifa più mi è
agrado il lagrùnnr con virgi* Ito, die non è Under con klartkle : Md tornando
oSl* rottone,ame pare che in quel modo 3 cheti trafitto dalli l 'aranti pudendo
il fuono coniteniente alfuo morfoji le* uifufo i er filta tanto fin che fbwmor
perturbato fi rifolitc in [udore er qaafi marefenzà onda queto flafii nr! Iwcgo
jtto ;/MHfciiefiff><UJc parole d'uno Oratore eceet* lòtte ntoffo udirà
alcuno buono «r(icondo,nonfenz<t mal to piacere sfoga il cédo f cbe k
complelìione naturale, o altro tirano accidente gli tiene accefo nell'animo ;
il quat piacere.perciocbe nafee da cofa per fe medefxma óifpk* ceuole,et noiofa
moltOtcbc non diletta,fe non per queU4 conformiti eb'è tra lci,ty l'affetto
deWafcoltanteila quaì cofa mafie PbikRrato effóndo Re detta fm giornata i «
comandare a ciimpagni, che di cokrojcuiamorimiferé méte fìn'mmojfi
ragionaffe)perb è ben fatto ebe proprii mente park ndo,taipmere non diletto, nw
mournié to ft& nomiìuto'a cuinatura odioft.acciocbe a litigo andàe non « fi
(àcckfentire i ty altrotanto per feci annoienti* to dinar zi nel conformar fi
aWaffctto nedtkttaua(concia fia coft che corta fìa k concordia delle cofe non
buone ) pere uolferoiKbetorkbe l'oratore bricuemente,^- in pothe parole fe ne
doueffe efpedòrt.Mtnel nero il diletto di l mouimento è coni un rifo nato
innoinondi uerà atte* fktIBtijm di foUetìco ; il quale continuato da noi final»
mente in doglia,cr foafmo fi conuerte . Md le facetie » ì motti,kfcntemie,k
figurej colori,k elettione, il nume» rorfilfitodcUeparole ; l'ufeer fuord
delkmateria, et al quanto,a guifa d'buomo di fokxzo difiderofo,per logkr dino
dell'altre cofe uicinegir uagando con l'inteHcttofo* no cofe tutte quante per
far natura fommamente pìaeeuo li i nelle quali di continuo non altramente fuol
compiacer fi k nofkd mentCiChe degli odori,de fuoni, er de colorì materiali fi
dilettino ì fentimenti del corpo. V a l. Fera tutetà tnatetà m poco o
Brocardo, mentre ancora ( benché di kmge ) noi feorgiamo l 'entrata del
cominciato ragiona" mento,z? innanzi che la dolcezza deldtlettog? del max
fttmento tratto ultracorte più altra yio at flagrate d'in- dire eiòy che ante
pare di poter dire con uertta de gli *f* fettig? de movimenti di quelli: perciò
cheto ho per fera ino, che f Oratore principalmente habbkatra non di co movere,
ma £ acquetar le procelle, che neUe parti pia bajfe de nofbri animi, Ora,
fottìo, er la màdia (uenti contrari] al fereno deJkragionc ) fono ufatidi
coautore; 0- ciò può far l Oratore non folamente nel fine, ma mi principio del
fio fermane jnutando foratone, chefe Cefare nel Senato a [onore de' congiuntati
prigioni. E k il Vero the quello iiìeffo Oratore che ha uirt* di rafferend re,
può turbare i fentimeni: ma chi ciò face,o è perfom vittima, che male adopera
lo [uà fetenza > quafi medico, che auelena gl'infermi ; o è di farlo
corrette, fendo coft mbojjibilt il torre altrui fèdamente dallo ejlremodel* f
oiioit? nel mezo della ragiaue riporlo, fenza alquanto fargli jentire
dell'altro efìremo contrario, La qual cofé auegnadio che ver afta, non per
tanto, uolgarmente par landò, fìamoufai Udire efjer proprio deU" Oratore
ìt cominoiter gii jifeta, fecondo il qual modo di faueUare fece il Soranzoùfua
dimanda :percìocbe il mouimento èautÀgaripmnoto,a'pareopradimagporforzache la
quiete mnè: fenza che la maggior parte de gii Or j* tori orano apnc non
d'acquetare, ma di commouere gli af cattanti. Io iter amen te per una terza
ragione, ho api mone, che ali Oratore {hu portegna d commouere, che
tacqm^ tacqttetare iconcioftacofacbe iartefua non fokmente
turbando(ilche è noto per fe medeftmo ) m componete dogUaffettì t queUimmua
> a'fofp'tngaìche grandifiima noientu deeefferqueUa decoratore ne nofhri
animi» qtulbora a benfare ne perlmde,cofaoprandù con le p4 role in unahor^che
inmolti anni utrtuofanentc uiuen* do,a gran penartele acquijiarfi il pbtiafopho
. Hor ne* dete hoggimaific k R betono* è atte comeniente atta ci ittita della
uita,cr aUa public* libertà) cr fe ilcommottcr gli affètti è operatione piti,
ometto aU 'Oratore bonore* itole de$infegnare,w del dilettare, Eroc. Certo fe
il mouimento oratorio fuffe tale, er ft fatto,quale dianzi il
defcr'iMuatejmakfecel Ariopago a divietarlo agli Athenkfi i maio non uedoebe
egli fiatale, confideranno the Foratore nel trattar de gli affitti, ponga mente
pili tofio aUa etagj atta fortuna che ciperturba,òealkr4 gione,cuifola tocca di
temperarne . Ma pojìo cèfo che eofi }ìa, come mi dite, io ho per fermo, che
cofi come per le ragioni già dette concludemmoicbc la dottrina del foratore a
gli afcoltanti infegnata non è (denta di ueri td.nw opinione, cr di nero
Jhntlitudwe,fmelcmentc k quiete dcfeiitimeiiti,che negli animi bumani fuolgene
rarela Grattane none umii,ma dipintura delia, uirtu: eonciofia cofa che U uirtù
è un buono babito di cofiunù, ilqualencn con parole in ijlantejnu con
penfieri,or con opre a lungo andare ci guadagmmo . Wrf accioche non creggute
che U buona arte Rhe* torica di tutte Urti reinajia una eerta buffonariadd far
ridere t benché egli tibabbhdi queUi chealk cucina cimi la^imigliarono) noi
douete fapere, che dd numero dcu"arti,altre fono piaceuolij^ altre utili :
quelle fono le utili, le quali communementc nominiamo mecanke: delle piaceuolt
parte Im uiriù di dilettar l'animo, parte il cor» po delle perfonew parlando
più chiaramente pjrte il feti fojparte la mente fuol dilettare. La dipintura,et
la rnufì* Citigli occhiagli orecchi'; gli unguentari},il j;<j/ó i! cww co,
li gujìo j er la Jiufa ccn la temperanza del c.ddo Ino, tutto l corpo con
magHìerio piaceuolc,fono tifali di con* fortareittu te artiche Ciiìtdletto
dlcitano,qvMtù al prò pofito fi conuiene,fono due ; cioè rhetorica cr Voefta:
le quali, muegnadio che altramente che per gli orecchi paffando, non peruegnano
aU\ntelletto, nondimeno perciò fono da effer dette intctkttudi, che elle fono
arti deU le parole, ijkometi deltinteuettoi con li quali figmfìchia tao lun
tauro ciò che intende U nojira mente. Certo del la «o£rc,cr de fuoni è la
mufìca, con la quale annoucrando igrauijzr gli acuti } quegli in manier4
tempriamole diuerfì ( fs come fono ) jì congìungono infieme a generar
thartnoniaxhe non pur noijma moki bruti animali muo* «c,CT diletta
mirabilmente; ma la Rbeloricajy la pot* fia fono artifici] delle noci de gli
huomini, nocome gratti C7 acute t ma propriamente come parole, cioè in quanto
elle fonfegni delTinteUetto, quelle accordando fi fatta' mente, che ne nefea.
una confonantia, U quale, metaphoriamente parlandola primi rhetori al numero mufteo
dflimighandola, numero anch'effa fu nominata: fcnxA d qital numero,non è
oratione la erottone; er col qml nu* imo ogni mlgarttet inerudite ragionamento
più hauer nome ioratìone. Ma quello è punto ì che aben uolcrlo
mm0are(conciofucbe in Mfolo,quaf in contro /ir* mifiimo, è fondato il dìfcorfo
di tutu Urte oratori* ) c mefòeri che un'altra nolta per altrajìrada noi ci
faccia tuo da capo,conftderando che tutto ì corpo detta eloquen tia quanto
egliè grande, non è altro che cinque membra, CT non piu,cìoè parlando
latinamente jnttentione,difj>o* fttione, elocutione, attiene, CT memoria .
Infra le quali, finta alcun dubbio la ebcutioneè la prima parte, quafì fuo
cuora effe anima la chiamafihnon crederei di mentire: dalla quale, non
chealtrojl nome proprio della eh* quentìa, comeuiuodauitauien deriuando . Et
per certa la muentioncjty dift>ofttione,fono parti che alle cofe per tengono
: le quS ritrattate nelle feienze uà ordinando U erottone } ma la terza, per
quel chefuona il uocabob,i propria parte delle parole, le quali non à cafo, ma
eoa giudicio eleggiamo,*? dette leghiamo. Adunque aiate* gna che la elocutionc
fia un terzo membro della chqitett tia, iiuerfomolto da primi duci nondimeno
ella è fuo membro fj principale, che netta ifleffa elocutione nuoti*
inuentìone, et dijpofitionc oratoria ut fi poffono annouerare. etctoè, perciochenon
ciafehedma elocutione è or* toru,anxi in ogni linguaggio «vite fon k
paroltjequali ttilitroppa,o uabgari,o afbre,o uecch'te, umciuile per* fona
mninfmtofi in gtudicio, m con gli amici, cr co' famigliari parlandoci
guarderebbe di proferire: etguar derebbeft fxcèntnte fenxA arte adoperare, foi
che un tempo dèh fu uiti con gentili^ difereii kuomwifuffe ufato di conuerfaram
le parole gUruromte dfikhcbia fe,& fotmtijporreinftemeycr otte prima ddfe
mdefime <tUc cofe fignifkite faccomodawtno, hor trifefìeffe gli decenti
loro,cr le loro fiUibe inmuerandoyidmark è «-ti/few: it quale folo,o primo fa
Orator lOrat ore. Et ttenmente,fc quello è nero che io trono fcritto né"
Rbeto ri, ftmtentione,cr dijba fittone (fette co/e effere opri più toflo di
prudenti, cr accorti huomini, che di eloquenti Oratori Job il [ito Me parole è
tutta Ixrte Oratoria: onde tutu è k quejìione del dilettare, del mettere, cr
AcU'infegnire . Che, come il mcttere,& Sdegnare fono frutti cCinuentione,
le cui parti fon proemio^arrattone, diuifione, eonfìmationc, confutinone, cr
epilogo; cofi il diletto fi dee dire opra deUi Oratoria elocutione. "gorfe
io u annoio mentre con le parole ualgari, k Ixtine, CT le greche uà
mcfcolxndogr contri quello ch'io ui di* teua pur dianzi > non difecrnendo
frale parole come io U trotto coft le ammaffo, cr confondo. Ma che poffo iot
cèrto qucjti è colpi de nofki padri Tbofcamjt quali fion curando k cofe grani,
che aUedottrmepertengono, follmente deUeamorofe con nouellettt, cr con rime fi
dettarono dt parkreiben u y hi di quelli che fumo arditi in tentar le fetenze^
pochi fono,crfeit&t fama ; CT fi anticbiycbel ngionarne co' uocaboli loro,
per la loro UtcchiaXi, uta più jirani che i Latini non fono, fareb* he opri perduta
. Io uermente qualunque wua in uece ài njtrationcii amftrmdtme.cr di
confutarne, diui* [mento, confirmamento, cr dif ermamente dicefii, me tnedefìmo
tra gli intrichi di total nomi facilmente rauol perei m marna* ebe in qudparte
Sortitone fidjc intra. topcr to per ragionarne, potrebbe effcrcbe io r,d
fcorclifii . F, v adunque mn mule iìrkorrere a forrejìicri, le cuiuoci
intendiamo, che a mftrani che non i'mtcnàano,imàando i Latmìi quatt dd padri
Grechi le dottrine,?? le parole prendendo, ferono lor priuitegio di poter tffer
Ro>w« ne cornetti in lor feruigio le adoperarono .Val. Infitto a qui uoi non
ufajle parola, che alcun uolgare a fiottandola fe ne douefa merauigUd re: ; ma
procedendo pinoltrit uoi incaperete in concetti che ragionandone, a volere
efiere intefo, uifid meflieri di proueder di «dei* toh, che a gli orecchi di
Italia fi confacciano un poco meglio, che t Latini non fanno, B k o c.
Ragionando con efio uoi netti prefente materia, la cui mente di gran lunga
lentie parole preuiene, non ho paura di doucr dire ucabolo che peregrino to
ejitjlimiaie . Val. kvxgnadio che delta arte oratoria tra mi pochi, et con
jtiUrimofio molto (quale* camera fi conmene > habbiate tolto a parlare:
nientedimeno io tri configlio, che cenquetTammo, er in epteimodonefautUiate,
che mifartpejeinprefentia di motti cofi dotti, comeigno untine ragionafte;
laqualcofa perauentura auerrà t perciochtl Soranxo Mgentifiimo gnardatort de
ho* fhi detti, quelli in uno raccoglier k, CT raevUì, non pò* irà fare che moki
just amici diftderofi di novità, non ne faccia partecipi .So% Certo m fui
partir di Vincgia mio germano mefier eteronimo grettamente mi comandò, che
mentre io \\efiiin Kotogna, d'ogni cofa^he h giudicaci notabile, ne lo donefit
auifare, er botte fot* to infttìhmspenfate qutUhe io fatò permmvdicoft DIALOGO
tmbit r<tgtonmento:dopol qua^permio gtudkb, um* ito ì
Papi,ctgflmpcrddorì.B boc. Ben conofeo meffar Gieronimo, atk prefenza dd quale
ne paroline oprc,fe non elette jion fon degne diperuenire . Ma noi Soranzp
foche fare ilpotrejle) farcjìe bene, detto che io xrihébk mia opinione,queUa
jlelfa con altro jìilc di feri uere,che non V udite dame; che una coft è il
pastore prk «diamente,?? dà omico,fi come io fdfeio con ttcixt altro, i lor
fmuere altrui d perpetudmemork de paffati ragio- namenti .r?ncl aero,fcciò
hauefii penfato *thor, the fejle li qucjìione.Q io taceua del tatto, o cofì
tojio non r| fbondetm cbelcpdrote>a' le cofeche a cotale arteper' tengono,*?
foprd tutto il porle inficine, con heUo or« ime ckfcheduna afuo luogo
dijliutamctc efbticareèfat tura di motti giorni, non d'unbora, o diàicsna rio
errai neWmcomnciare, forfè net perfegwe tiimaidarò, Se otte io pen fitte
hoggidiaìqnanto ufctndo detta mteritt di tutta l'arte oratoria (che ch'io
nefappk) Ifaermcnte- parkruiiadoprando quelle parolesou le quali tw Latini
frittali '.ftitdki d'imparark i bora alcune poche cofette^ che al fitto
mffroccwengonojwieucmente percorrerò: coft ài un tratto pagarò il debito del
dmer dirui mia opi Bi«te,et ddftQgli dth)e parole latine, nelle opali d lungo
Mudare il parlamento fi ramperebbcbelkmcnte miguar dirómpili faggio nocchiero
di me kfeiando k cura di do utrfarefi perigliofa «àggio, nùque al prcpofito
ritorni do,bécbe diati ftcÓdo i rhctorijo ui dicefU £mfegnarc,e U mauere effer
due opre d'muentione conciofiacofa che
quoto motte il proemio,®- [epilogavamo infegtia la tur rottone,
ratione,et cottftrmatione ; nondimeno mutando in meglio mi* openione,cr cofa a
coft proportionando j a me pare di douer direbbe impegnare propriamente alia
dijj>oft* tiene portegna ; tome in contrario k confufion delle cofe ci
partorifee ignoranti, Adunque [empremai col mo lamento la àutentione, et con k
dijfccfitione Cuifegnare > dm il dilettoci che parliamo, con lafua madre
clocutio* ne,forma,',a' aita dell'eloquenza, meritamente accampi gnarerao.
Quindi pacando alle treguife di caufe dall'O rotore confìderatcg? a tre jìiU
ucnendo,cioè che tre mo di di dbrejuna aU "altro con mijura agguagliatilo,
io li con giungo in maitiera,cbe la ciufa giudicale, cui è proprio la grattiti
dello jlilc,al mouuncntow inucntvmeJa deli beratiua coljuo }Ul bajfo,&
minuto alla dtfbofitìonc, cr aUo infegnarcuuimamente la caufa dimojiratiua
medio* cremente trattata.aUa elocutione,et al diktto,dirittamctt ttfta
ribadente. Le quai cofe m cotal modo difpoéìe,pro cedendo più oltra facilmente
fi può concludere, che cofì come tra le parti d oratìone la elocutione è la
prima, CT k caufa dimojiratiua è k più nobiie,ct più capace d'opti ornamento,
che d'altre ducnonfono&glifìili del dtre, l'I più perlettto,zx più uirtuofo
è il medmera ilquale non è auarojx prodigo,ma liberale wn fuperbo,ne abietto,
ma altero, non audace, ne piiftUxiìimo, ma ualorofo; non kfciuojte (lupido, ina
temperato,coful diletto oratorio al mouimento, ey affmfegnare è ben degno, che
fi pre* ponga . Però ueggiamo non fempre mauere,o magnar Voratore > ben
quello ijleffo per ogni parte ioratione, in ogni cauja con parole
elegàttjiudiarc di dilettarne: dqtu K le
te non contento del diletto delle parole, per raddoppiar* ne il
piacere*? compitamente addolcirne,r icone ai ge* flo^dff 'attiene detoratione
condimento, cr mele, er Zucchero foauifiimo degli orecchi, et degli occhi
nojìri, X)aQaqu<tleattione,perqueliagratia,cbe è in ki.dcpen de in gwi/rf la
uertù deli'oratu ne, che ella è nuUajcn* %ieffa;la quale fentenza da Dcmojlhene
data, E/cIn* lìt fuo auuerfmo poco appreffo con bcllaproua ci con' fermò i
mentre leggendo a KhodianiU oratione di De* tnojlhene, marauigliandofi gli
afeoitanti, bebbe a dire Ueramente m^rauigliofa effere Hata la oratione, effoDe
tnojlhme recitandola iquafi dire mlejle,Cattentioncdel recitatore potere
feentare,cr accrescer forza aU'oratio* tic j er in maniera da fe mcdeflma
tramutarla che non pa rejjè pia d'ejfa. Val. inu jrc&cfori/ Soranzo
eonfentd^ cbedikttattdopiu, che infegnando, omoitcndopcrfuadd la oratione,egli
difetta d'intendere con quat ragioni con tra la mente di Cicerone gli
protiarcfe, che la caufa de* mofìrattua fiapiu nobile dell'altre due,0-che
defliliil migliore fia il mediocre : ef per certo da due colali pre* ìmffe più
tojfofalfe,che dubbiofe^alanetcfipuo decide re U queflion dijbutota. ErOc. Qui
dfbcttaud,che inter rompere le mie parole ì fendo certo,chcctò io difii dcUd
tanfi dmoflratiua, cr delio Me mediocre Subitamente
rifìiitarejle.Peròfxppidte,ct)dppìalo anche il Soranzo» che ragionata di cotai
cofe con mufemplice narrattone, cr fenza dkmodrgomentojvbebbiinanimodich'giun*
gere infime ì tre jhU,te tre caufe, er i tre modi del per* imicretCW k tre fwM
d'erottone m maniera che atta in ucn l^O ucntione il mouimentonelkcdufa
giuàicìak t conlo jUl graie principalmente correfpondelfe : ma éU dtfeofuio ne
Fmfegnare,tiella caufa, deliberatila con lo /iti baffo:ul tintamente ti diletto
ali a docutioue, nettd caufa demojìra tiut con lo Ihlc metano propriamente fmferiffe
Al qud* le ordine da tutti i Rbetori cofi greci,come latini, effere flato
offriuto,cbi le loro opre riguarda, fidimele giudi cari laqual cofafe eofi
è(cbe certamente è cofi)uoi me de fimi per una ijleffa ragione argomentando k
oratoria. tlocutione,con tutta quanta la fchierd fua, alle altre due
partid'oraticne con le loro ordinate debitamente prepo nercte;cbs no è honejlo
ilbncn col ti ijlo agguagliarexia. il tuono al buono,etal migliorejl miglior
fliie,fwfe-,c<t« fdyCt per Jual ione, co rdgtoneuolmtfura dee pareggiai, M a
de (itli poco appreffo perauctura ragionaremoye del diletto fi èfauellato a
bajlàza. Dunque alle caufe ucnen* 4o>come io dilUjtoji ridico di nuouo, che
la caufa demo* fìratiudè laputborreuole, la più perfetta, la più difficì
le&finahnente la più oratoria,che tutina deU'dltrc due: la qual cofa mentre
io tento di dimofirarui, io iti prega, che non guardando alh fama de gli
faritlori detta Kheto rka, poniate mente atta uerka : la quale da ragione aiti*
tataro mi apparecchio di palcfarui. Perciò che altra co* fa è il parlar di
quejla arte, le ucne fue, ifuoi membri » l'offa, i ncrui, er la carne fud
dnnoaerdndo, partendo: la quA guifd d'anatomia, hi infegmtndo con Itrd* gioii!
operiamo ; cr altra cofa è il parlare oratoriamen* te al uolgo, àgiudteio, d
Senatori, <fteìUaUettando,cr mouendo iti che non faccio ai prefente orje una
uol* Ri U U(che Dio noi uogtkyjl farò : quando t ubìdiendo,a mio padre,
la «o«,er il fìtto, che ei mi donò penderò a litiganti. Hot di quefio non più,
et al propoftto ritorniamo. Io ucrmentc le tre caufe oratorie per li lor fini,
per Ufo ro ufficij,et per te loro materie 3 con diligenza confiderai dojia
pojfo akro,ée credere, che la cattfa dimofkatm fta infra tutta la principdled
cui fine è koncflà; U cui ma teria è uertù^cr il cui ufficio è il dilettar
intelletto, ®- di ien fare ammonirlo. Quindi nacque il coflunte nella republica
ateniese, publicamente ognanno queicittadi* ni lodare,iquali fortemente per la
br patria combattei dojfuffero flati ammazzati. La quale annua aratiom (fe A
Vintone crediamo}lodando i morti,® le uertti lorojut to in un tempo le madrij
padri,® le mogli confolaua he nignamente 5 ma ifrate&j figliuoli,®- i
«ipoteche doppo lor rimaneuano, a douer quelli imitare, ®- farfì loro fintili
mirabilmente accendeua . Adunque non indarno fo ìeua dir CiceroneCICERONE
(vedasi), ninna guisa d'or ottone potere efferne più ornila nel dire,ne più
utile alle Kep.di quefia una,di mojìr attua : i cui precetti bornio uertu non
folamente di farne buoni oratori,ma a douer uiuere honejìamente con bella arte
ne efortano ; il che di queUìdeUaltre due non amene ; con effe qudifpeffe fiate
guerre mgiuBe perfm demo, er uendieando le nofìre ingiuricjhor gliimtocenti
offendiamo, bor difendiamo i nocenti.Confufamente peruuentura più, che io non
debbio, uà comparando fra loro le tre caufe oratorie ; il che faccio, perche io
difidt* ro divedimene, ®-adar luoco al Valerio^he s'appre flaper contradire: mi
ambiiue col uojìro ingegno il mio difetto adempiendoci parte in parte k mie
parole d$in guerete. Adunque,feguitando il ragionmnento t etfra me jìeffo
confìderando ciò, che dianzi dicem deltoration di Demollkene, fomm<mentc
daWattion dependente Jbofer minima openione,cbe nelle caufe deliberatine, cr
guidi* cidi molto più opri la natura decoratore, cr della mate rid,cbe non
ftttarte oratoria, il cetraria è della caufa di* mojhratiud,neUd quale
kggendo,non è men bella U ora» tione, che recitando iperò ueggiamo mediocri
Oratori bene informiti delle ciudi materie, cr aiutati dattattio* ne, tj dalla
memoriajn Senato^ er in giudiciofoler par htre affai bene : che in té cafi
dalle cofe trattate nafeono in noi le parole ; le qualiconcordate con li
concetti deffa nimo, ne riejce queUa barmonia, che fa 3upir chi l'afols td.Verk
qual cofa molte fiate ne comandano i Kbctori, che non curado della uaghezza
delle parole efqmftte, ad alcune altre non coft beUe,ma proprie molto» cr di
gran forza neWefplìcare i concetti,uolgarmente parlando, ci debbiamo appigliare
: ma nella caufa dimoflratiua è ine* flierinon foLonente di concordare le
parole a i concetti^ ma quelle fcielte,ey dette fi fattamente ddunare, chepa*
re a pare t tyfmile a fimik con belld arte fi referifed :& quelle ijìefji parole
bor raddoppiare, er replicarle pia mite jhora a contrari) eògiungerlc ;
imitando la projpet tùia de depintori,iquali molte fiate il negro al bianco oc*
compignano,a fme,che più beUa&r più alta, et più ilhi* (Ire cifimojbri
lafua bianchezza- Le quai cofe,tutte qua* te fono puro artificio, ma in mdniera
difficile, che dWitnprouifo poter lodare, o uituperare eloquentemente, farette
opra miracolosa. E il uero che nell'altre due cdU f edema uolta tutta betta, er
tutti ornata ua emulando U oratione ; cioè a dire negli epiloghi, V ne proemij
i il quali proemij ; benché primi fi proferivano, nondimeno ft come co/c più
oratorie,et di «tàggìor magiflerio, gli ut timi fono > che fi compongono :
cr li quali CICERONE (vedasi), padre, cr principe degli ebquéù douédo orda rc, di
parolai» parola bnparaua^ 4 memoria gli fi man dalia. Adunque può bene
efjer,cbe le due guife, Senato* riae giudicale ftano agli fotimmi pi»
neceffarie di que* &a terza demo\bratiua;et che da loroifi come prime che
fi trattarono ) Thiftd, Corace, o altro antico Qra ore l'arte Rbetorica
i'infegnaffe di generare ima lepiuuot te quel, ch'è ultimo per origine,àuenta
primo in perfet* rione j fempremai neUbumxne oper adoni, iui è »wggior
l'artificio, oueil bìfogno è minore : eonciofiacofa, che nei bifognila nojlra
madre Naturaper fe fola, da niund arte aiutata è tenuta diprouederne. Naturalmente
con le xmpe, O* «> danti pugna t Orfeo" fi L ione ; et U damma con U
preSexx.* del cor/o /ho fifotragge aU fmgittrié. F<* ilfuo nido la Kondine ;
nj la Ragna teffendo fi pr xura di nutricar ji una noi buominicrea'ure
ciuilicontaiutodeUe parole, mefU cfegnideU'inteUet* to, con gli amici dell'
auenir configliamo ; a" raffrenai* dole mani delTìrdccndia minijìre,hor
dar.entcid noi prefenti ci difendiamo ;hor quelli tfìejii offendiamo. Poco
adunque miai caft ci puoinfegnar l'artificio ìfc non dijponere, er ordinare U
inueiuione naturale ì ma mila caufa demo(bratm non ncceffamalk wftraui ti a k
parole, le cofe col loro ordine, CT col /j(o /cw ro jóro puro artificio : il
<jMd!e /cmiiufo nefk «afwa <fc/» le due prime, cr dafl 'indujlria nudrito
divenne grande » CT neilff f er^J dcmojiratiua,quafi terza fui età, fi fc in*
tiero.et perfetta,?? coft intiero cr perfetto, non pur ititi lira la buona
confà demojìratiuà, itero nido Mfuo iplen dcre,ntà riflettendo ifuoi ràggi le
altre due pia inferiori f caldai alluma mirabilmente. Quindi adititene, che
v.ei kcaufegiudicialild gii$itia,eyleleggimoltc uolte fon laudate, erbiafunato
cln le perturba ;et ne confglidel* k Kepttblicc la libertà, la pace, er la
giuda guerra con /ornine Ludi fi effaltano ; er i tirami con uùuperiofon U
cerati . Là quaUnijlura di oratione nelle Pbilippice di DemoBbcne,neUe Verrine
et Antonimie di Cicerone,, riufei opra meraitigliofa. Finalmente Carte jet le
caufe 0* ratorie a fentùnem di nofìra uita agguagliando, ofo di* rcj che le due
prime fono il fenfo del tatto, fenzà le quili non nafceua,ne uiuerebbe la
oratione : ma la caufa demo flratiuotornamcnto della Kbetorka,è oeebìoet luce
->che fa chiara la uitd ju.tykiagr.de inalzandole nulla del* Maitre iutnon
èpofjcnte dipcruentre . Sia dimando m buono buomo pien d'ELOQUENZA,??
d'ingegnojlqudle u* feito della fua patria folo,z? mdo{quafi utìaltro BÙnteX
«e/ig.1 a Harfi in Bologna^ be farà egli deSarte fuaife e*. gli accu[a,o
difcnde,ecco un tale amocato, che uendc al uolgo lefue parole :fe delibcra,non
fendo parte deUs Re publica, i fuoi configli non fono uditi . tacerà egli, er
jiafua uita otiofa ì non ueramentc, ma di continuo con lajua penna nella caufa
danofìratiuabiafìttmdùtty R 4 lo toltitelo Ufua eloquenza
effercitara . La qttat cofa non per odio>o per premio, ma per itero dire
facendo jn poco tempo non follmente da pari fuoijma da signori, et da regi (ari
temuto,?? Stonato. Sor, Qkc/ìo ttojìro eh t{! lente (fe non m'inganna
lafimiglianza)è il ritratto delt Aretino. Enoc, Io non nomino alcuno; ma chiun*
quefì è,einon può efferefe non grand'bmmo,ondc ante pare, che quefìa caufa
demofkatiaa tale fid alla fenatoria, w giudidale, quali fono le dignità
ecclefiafticbe aUe grandezze de fecolari ; queUe fono naturali fucceftioni t
qnejieper propria indufbia acquisiamo . er ro/ì come un ^articolar gentWhuomo
fatto Papa è adorato da (noi /ignori, cofì al buono Oratore per la fua caufa
demofbra tiua cedono igrandi del mondo : che ilcaufidico,w il Se nitore non
degnarebbeno di guardare. Ncn per tanto jon de uegnaxbe neff altre due cavfe i
parlaméti aratori) per li lor grattiti nonfonmen cari ad udire deU'orationi
demoflratiue, non è difficile il giudicare. Perciò che ifog* getti di quelle
due fon cofe trance pertinenti parte alla uita della perfona, parte aUo Hata
della Kepublìca : wt4 quefU terza demoftr attua i uiui,imorti lafciando flare,
folmente gli altrui nomi, cr memorie, d*ogn'm(orno di tode,z? biafimi ita
dipìngendo . Adunque, cofì come il tteder pugnare a. corpo a corpo due nemici
in camifeia co le coltella affilate, è affetto non men grato per le ferite
typel ftngue, che fta il combattere a giuoco esercitato da fehermidori con
artificio merauighofo,caft te caufe ciudi altrettanto per le materie trattate
fono ufate di di* Iettarne, quanto quefìa demofkatm con Ufua arte del dire ne
recagioia,cr fotiaxzo. Quindi adiuiene(fì come dmziio dicetu)cbein Senato, et in
giudkio i medio* tri Oratori uolontieri affidino, out il difetto dell'arte col
[oggetto ali che ragionano, facilmente fi ricompenfaz m le orationi demofkdtiue
( fi come ancora i poemi ) /e «ori fon cofd perfetta,non è chi degni ne
d'udire, ne di He ocre . Et queflo batti al diletto, ey dSd cdujd demojbati
Ud-m Vderìo,cbe ccnofcctc i miei falli, ghdicateìi, et correggeteli. Val. Può
ben effer, che quel ck'è detto bdjlì al diletto^ alìd ciuf a demollratiua, ma
non balli a gli Mi,dc quali,fbecialmentedel mediocre, fiete obli' g<rto di
(duellare, B e o c. Veruna ifteffit ragione po tria parlare de gii ornamenti^
delle fomcdcldirt,o' dello flil mediocrexoneicfìd cofd che L ebcutionc è quei k
punte della Kbctoriat, antiquate,®- col diletto, cf con lo jìil mediocre
kbltondcaufd demofhriìiua fa decompdgnata da me : mi qucflaè opra d'altro
ingegno, et tfdlìriindufhridrcbedetli urna, fenza che ciò farebbe uri njcir
fuori di quel proposto, interno di quale pideque al Soranxo,cbeiofaueUaffc,
Sor. Come Brocdrdo, è fuor di propofito il ragionar dello fìile, con effol
quale Urationc genera in noi il diletto,cbt al mouimento,r? d l'infegnate
facete proua di proferìref Broc. Ocià ìfuordipropofito,oiofonfuor dimeflcffo,
cr non Cmtendo come io deurei i per la qua! cofa in ogniguifd io ho ragion di
tdeere, Val, Ecco Brocardo noi conferii' tìamo,che'l parlamento de lìili,quando
a uoipiace,in ah trofempo fi diffcrifcd.Uori(il che negare noncipctete)
infegnatene ài che nwùera ì O' quai precetti o fermando, IL TOSCANO ORATORE
[cf. Grice, “The Oxonian philosopher”] in ciafcheduna delle tre cdufe,pof* fa
ornarli di quel diletto, il qual impreffo ne noftri annui ne perfuade a
douerfarc a fsto modo :che con ul patto noi rijbemdefìe alia qucjìian del
SorM^o. Bnoc, Guardate che d dbrcofa non m'induciate, che la lingua Tofcana tri
faccia battere in difbctto,cbe molte co/è puh tio beUe,cr nobili molto, quando
fon fitte ; la cui origine è ui\ifiimd,et ripiena d'ognibruttura . V a l. Già a
feotari di medefima,per fare ogni amo urta anatomia di cor pi bitmani,cj in
quelli uedera,oue er come notte meft ne portino le nojìre madri,®' portati
cipartortfconojio fon men care te belle donne,che elle fxmo agli idioti, che té
fccreti non fanno : però dite ficur amente, che'l parlamen toma cominciato
farebbe nuUa.fe in tal fmeiton terminaf fe. B r oc. Vorrò pofeia, che
minfegnate an àie noi i udiri madidi
perfuadere, con li quali, benché molto taoff.-ndano.me al prefente fignor
ergiate sfor, %ate . Sor. Duolui t-mto ch'io impari t B r oc. Per certo fi,
percioebe attendendo aSe mie panie, noi iatparsrete quel? ijteffa ignoranza,
che in mollami con moka indultria, er con poco honore la mia fcioccbexzA mha
guadagnato : cmciofucofa,cbe i precetti ch'io ubo da dtre nonfono altro,che la
bidona de i miei dudij; con effo i quali fon fatto t Acquale io mi fono. Sor.
ogni punto mi pare una bora yebe de precetti mi faiieUutc,con U quali brutti er
uih{came diccjie)diuenti atto a far bella la or ariane italgare. Adunque
incominciate,(euci me am.tte, CT quanto più facilmente potete,diclmtr atemi il
itero, che non ha faccia ài uerijmile, Broc, ìacil cofa fìe Udopra-e
ìprecem,Uquali intendo di dìmojtrar uima al mio iudìcio non fon cofa,che uno
ingegno par 110 fìro debbia degnarfi d'adoperarli i però uditemi, ma con animo
d'ammendarmi, non d'imitarmi, lo neramente fin da primi anni dijìierando altra
modo di parlare, cr di fcriuerc twlgarmente i concetti del mìo intelletto, c
que* /io «on tanto per deuere eflere intefo(il che è cofa da ogiù mlgare)quanto
a fine chc'l nome mio co qualche latt de tì-a ifamofi fi tiumeraffe;ogn 'altra
curapofipojìa,aU(t tettiott del Petrarca~,ey delle cento Nouelk, confommo
fludio mi riuolgeÌJicUa qual lettione con poco frutto non pochi meft per me
mede fimo effercìi atomi, ultimamente da Dio infbirato, rkorfi al noftro Mefjer
Tripbon GabrieUe-AÀ qiule benignamente aiutato uidi, Cr intefi per fett amente
<]i<ei due autori i li quak\nonfapcndo,cbe no* tar mi doueffe,hauea
trafeorfo piu uolte . QKejìo noliro buon paére primieramente mi fece noti i
uocabolipci mi die regole da conofeere le declinationi-,et coniugationide nomi,
er uerbi Tofcani : finalmente gli articoli j prono* ttiij participif,glì
aduerbii,^ l'altre parti dtoratìone di* fiìntmentc mi dichiarò : tanto, che
accolte in uno le co* fette imparate, io ne compofi una mia grammatica: con la
quale fcrìuendo, io mi reggeua : in maniera,che in poco tempo il mondo m'hebbe
per dotto, ty tienimi anche* ra per tale. Sor. infmhcra non dite cofaxbe ci
peti* tiamo ^udirla icr cofifbero the dek'auanzo atterrà, fe colmaefko,eycon
gli autori antedetti d'impararlo ut configliajle . Bkoc. Dunque al rimanente
ucnendo, poi che a me parue ieffer fatto un foknne grammatico, DIALOGO
tonfberanzagrandijlima di ekfcheduno,cbe miconofce m, io ini diedUlfar
uerfiiaUbora pieno tutto di numeri, ài fententie,pr di parole Vetrarcbefcbe ì
er Boccacciane, per certi anni feicofe amici amici marauiglhfe . po* fck
parendomi,ehe la mia uena iincmtinckffe afeccare ipcrcioebe alcune uoìtemi
mancaua i uocabott, er non battendo che dire in dmerfi fonetti, uno ifleflò
concetto mera venuto ritratto ) a quello ricorfì, chefe il mondo boggidi ; er
congraudifiima diligenza feì un rimario, o vocabolario «algore:
nelqualeperàlphabeto ognipa* rok,cbegk ufarono cjueftc due,dijiintamenteripofmy
tra di ciò in un altro libro i modi loro del deferiuer le co* fegiorno, notte,
ira, pace, odio, amore, paura, jberan* Xst, bellezza fi fattamente racolfi, che
ne parolaie con* tetto non ufcitu di me, che le NootSc, er ì Sottetti foro non
me nefuffero effempio. Vedete uoi boggimai <t qual haffex&t dijeefi ; er
È» che Bretta prigione, cr con che Ucci m'incatenai . Ma molto più bo da dirui,
che io non u'hodettofm'qukperciocbe bauèdo io(come dinoto {Tom biàut foro)ogni
lor cofa cofi latina come uolgarc trafeor fb i cr ueggendo le foro cofe latine
per rifletto alle To* fee, non effer degne de nomi lorogiudicéctò douere aite
ttircperciocbe a uarie lingue uarie grammatiche, fegtien temente uarie arti
poetiche, er uarie arti oratorie corre fpondcfferczrcbe Petrarca, e Boccaccio
le lor uol garifapcndo, ma le latine (colpa o" agogna de tempi loro)
ignorando, tante bene Tofcdnamente fcriueffero; quanto male latinamente
poetarono; er orarono. Perk qual coftkfciaifiareitonfìgli detnofoo padre Mejfer
Triphone, Triphonejlquale a poetar uolgarmente con Forticcio U tino mi
richiamano, tener uoUi altra (froda : per la quale mcttendomijon giunto a tale
} cbe io ueio il male^non lo poffofchiuarcMaperchc il tutto fappiate.foleua
dir* miMejfer Tripbone,che al Petrarca teffer nato To/r,c m,&fiper ben kfua
lingua,et in contrario il non [aper- ta latina, benché Torte tenefje, fu
cagione difarbgran* de neffuna, ma neSaltra molto manco, che mediocre .
UaaVincontro mi fi paratia tefoerienza ; percioche 4 di nojhri U città di
Fiorenza cofì Tbofcana, come è,non ha poeta, ne oratore pare al Bembo
gentiluomo Vini* tiano . A dunque potuto barebbe PETRARCA (vedasi) con VIRGILIO
(vedasi), cr con CICERONE (vedasi) far fi tal oratore, ®- tal poeta latino,
quale U Bembo con Petrarca, cr con le Ranelle è diuenti to Tofcano : la qualcofi
non emendo auucnuta,/cgno è t óc in due lingue ha due arUi però il Petrarca con
l'arte fui uolgare componendo latinamente,^ minor dife flef* fomentre egli
fcrifjh nella fualingua Tofcana. Conftr* mauamiaopenione iluedere ogni giorno
alcuni buomi* ni pur Tofcani latrati, er digrand^ima fama, li quali tolti dal
Petrarca&hor Tibulb,bora Ouidio,hor Vir gilio imitando faceuan uerfi
uolgari ; li quali mezzo tré volgari,®" latmi,parimentc a volgari,?? a
latini jpiace* nano iinfra li quali chiunque con nuoua gutfa dt rime t
afenzarima ninna ilatini inùtaua, meno errano- al mio parere, er con
giudiciopiu ragioneuale kpoeftecon* fundeuaipcrciocbe toglièdo a uerfi la
rimo,o delfuo loco mouendolx fileiubro gran parte di quella formami* gare ; che
i latini, er loro arte naturalmente ékonfee . qualcoft fi pronai ia in quel
tempo, quando (q&tfì nitouù akbimilìa)lungamente mi faticai per trottare
ìhe roteo ; il qual nome ninna guifa di rima dehetrarca tef* futa, itone degnai
appropriar fi. Mouemianchora <t douer creder eofi la nojbra guifa dì uerfa
il quale contri i precetti latini fenz<t piedi, er con rime non è mai dolce
Agli orecchi, ne men leggiadro nel caminare, di qual jì uttol dcgliantiévAc
quaipiedi poco appreffo perauen* tura fi parlari . Vinto adunque dalle ragioni,
er effe* rienze predette, a primi jludif tornai ; er aU'bora, oh tra'l continuo
ejfercitarmineUa lettion del Petrarca ( U quakofa perfe fola fenza altro
artificio può partorire di gran bene ) con maggior cura di prima ponendo mente
«fmìmoài alcune coje offernai fommamente (come io tredeua) al poetai
all'oratore pertinenti ; le quali,poi che uokte,che tal faccia, brieuemente ui
cjblicarò. Pria meramente le [ite parole d'una in una annouerando ey penfando,
ninna uile,niuna turpe,ajbre pocbe,tutte cbk re, tutte eleganti, mi fu auifo di
ritrouarle ; er quelle in modo al commttne ufo conuenienti, che eglipareua, che
col cònfigUo di tutta. Italia, thaueffe elette, er molte, In frale quali (
qttafifìeUe per lo jereno dimezzami* te ) nluccunto alcune poche, parte antiche,
ma di uec* Metz* non difaiaceuole s buopo, unquanco,fouentc : parte mghe, er
leggiadre molto, le quali, quafi gemme belle agli occhi di cufcbeduno,folamente
digentiti, et alti ingegni fono adoprate : quali fòno>gioia, fpeinejrai,
dijìojoggmno jjekà, er altre a lor fmglianti ; le quali mm lingua erudii* non
parlerebbe, ne ferimebbe k mano. Ci maio, fé gli orecchi noi
cofcntiftero. L ungo farebbe ti co Uriti dijimtamète tutti i uerbiigli
aducrbijxt l'altre parti doratione> che fanno illumini juoi iter fuma una co
fa non tacerò.cbe parlado della fua dbna,et di la bora il corpo, hard
Tamma,bora ìlpiantojbora il rt)o,hora ràdare,hor lo (ìdrc,hor ltifdegno,horla
pietà,bor la etàfmfinalmé te bar uiua 3 bor morta deferiuendo, ty magnificando,
k più mite i propri) nomi tacendo* mirabilmente ogni cof<t dell'altrui
Uocifuote adortiarxbiamàdo la teiìa oro }mo t tj tetto d'oragli occhi
folitfìelletZapbiro, nido cr alber go d'amore de guancie,bor neue et rofe,bor
latte cr fuo co; rubini i labri, perle i dentista gola cr 1/ petto, bora moria,
bora akbaBro appellando : cr quejìo bajìi alle ditùonhiai dalpoco,cbe io dìcojl
rimanente, che è ntols to,pcr tioi medefsmi oficru&rete. Hor venendo alia
ora* tiotte, mila quale quejlo raro buomo le parole, che io ui lodai co bella
arte ua coponendojifguardado alla copia, io m'accotfi che bauedo detto Una mlta
litme,fitoco,cate ftajdilcttOjdoloreft altri tai nomi,maì 1 mede fimi in quel
Sonetto no ridiceuajna in lor loco raggio,luce,fp lèaorei
fÌMU^rdoreffamUe^nodOfUccioJegame^ioia^piaccre,
pena,doglia,martiro,fìrato,affatmo et tormèto }i ddetta ua di reppticare. Oltra
di ciò io comprefrxbe egli *<naM di contraporr e i cantrarif& a quelli i
propri) affetti, cr le proprie opre, propriamente parlandoci cogmnger di ftderauddella
difeordia de quiltj'uno aU'altro co mijura correjpotidcndo)ì,ufciuafuora il
contètOicbejente 1 gn'u noi cr pochi fanno la [ita cagione . Ma ueramaiteqicHx
cracoja mdrmghejx,iry-dcgn*certQ didouerc e);cre uff tan diligenza
offeruata, che té contrari], crtaiuod, quafi (ili della fua telajn teffendo U
ormone fono ordì* te in manieri, che ne afare per U fhrettezza, ne troppo
motiijO <dUrg<Uc > ma falde.piane,et eguali per ogni parte (tanno
mfiemc le fue giunture : il che è tanto maggior uertu, quanto men della profa i
noBri uer(t uotgart atte lor rime legati fon tenuti di adoprarU. Ma perciò che
nei la orationc,non folamenle le dittimi, cr il loro [ito confi deriamojni
farma,et fine determinato, cifrai quale non fpetie, è mefiierì di fiatubrr. la
qualcofa non è altro che'l numero ( cofi il cbiamorno gli antichi ) del qual
numero hoggipromifì, gt incomìnàai, ma non compiei di par* Urui. accioche piena
informatione d'ogni mio jtudio por tiatCyitoi douete [opere che'lnoftro numero
fi come quel lo demolire lingue : propriamente è mifura della gra&ez ZA del
utrfo : le cui parole ben dijpojte, er ben termi* nate a Urotanto, er più
piacciono a&'inteUetto quanto ti fuono, quanto lauoce, quanto
ilntouerdeUdperfona t CT de piedi de baRatori, er de muftei gli occhi, er gli
orecchi fuol dilettare. Onde io giudico al tempo antico forfè in Prouen%a,o in
Skika,queimedeftmi, che erano mujìci cr danzatori, effere flati poetiiiquati
pareggiati do i lor uerftai balli, aicami,ejafuoni, borfonettì bor canx,one,et
hor ballate i lor poemi fi nominarono. E l'I «ero che altramente mifurauano i
uerft foro i latini, er altramente noi uolgari li mifurìamo: quelli, in fillabe
d l ui dendo le ditioni,di effeftàabe alcuna %J,er alcuna brie ne feceuatmk
quali infteme adunate norie mifure,cr uà rie forme di numeri (piedi dicono li
fcrittori) iombi,tro cheì,fboiidci,dattili, er mapcfti ne uaiimnoa rùtfcirc :
con effe i quali i'ìorucrfi a oncia a oncia fmifuralfcro', et ttmerajfero. Ma
noi altri i wflri ucrfi uotgari con mi nore arte, a 1 con più ragion
mijuradofrutto eguale ala. tini finalmente ne riportiamo, percioche non curando
del la htngbezz<t,nc breuità delle ftltabe piamente contane dclc, quelle
in.uno accogliamo; o~ cofi accolte ceti dilete to de gliafcoltanti rendono
intiera la claufula,cr in ucr< fo ne la cpnuertcno . il quai modo da
mifurjrc è ccffyu* ra,w falcerà moho.cbenon perturba le fiUabe, nell'epa, ro'.e
di cuifon parti, fccma,o rompe nel meza : ma ne lor. luoghi co lorofuoni&r
intendimenti kfcÌMidole,fanr,cr falue per tutto l v.erfo le ci conferitale quai
cofe non finno forfè i Latóri, o non le [aiuto fi bene : i quali cenfidee randa
IcfUabe non come patii di dittionc, ma inquanto brietii, cr iti quarti lunghe,
troncando col loro /««ae- re le parole, cr non parole tendendole, fanno numeri,
(he non fon numeruna pagi, o braccia, o altra cofa cou lemifurante la oratione,
non altramente, chefe ella M* fe\unafuperftcic ben continua, cr di un ptzzo
/c/o : nel qual cahjpejfe mite quello <t Latini fuole auuenire men- tre efii
fondono i ucrfi faro,, he a Latini, cr a noi con li cantori adiuienc-J quali
concordando le parole al/e note, fenza curar de lignificanti, fan barbarifmi
nonfoppor tèdi. Non uuò però,che crcggLte,che la volgare fcan* fioncfiapuro
numcro,tai:to, àie fole undici fdlabe, co» munqttc infoile fe adunino, facciano
il uerfo Tofcano; ma è meltìeri in ntmeràdolc anziché all'ultima fi
perucgna^lquuuoinfa la quarta a in fu k fefia, o infila otta S ua Ua
fèdere; ouerkogkcndo lo fpirko,fdcilmenlònfmo al fine ci conduciamo. Bifogna
adttque che la quartajafe* (ìa,& la ottaua fiUaba fu ecft piana, in maniera,
che k uocegia faticata comodamele uifiripofi,et adagie.Verò non è uerfo, Voi
ch"m rime fparfo afeohate il f nono ; ne quelk.Voi Min rime fparfo il fuono
afcoltate.ma bene è bello, et buon uerfo con tutti gli altri di quel sonetto,
Voi che afcoltate in rime fparfo il fuono . Forfè direte co yual ragia da poeti
udgm la undecima fiRaba(quafì Fu* M delie colme d'Hcrcele)fu pofta al uerfo per
termine, oltre al quale non fi mettejje f A che rijpondo, che cofi uolfero i
primi padri del uerfo di quefla lingua; li quali per auentura mal poteuano
accommoiarlo a fuoni, a contà& <* balli lom fi più oltra lo
diflendeuatto, o è più to iìocbe'lnojhronerfo Tofcano allhora è uerfo perfetto,
quando egli è giunto alla rima. Adunque perche più fo* Ilo ft conducete a
perfetti: ne, di fole undici fillabe, alla più
lunga,ilformarono,concedendo il priuilegio di poter farft più brieue : er col
conftglio di chi l'afcolta, alcuna folta con cinque, mafouente con fette fiUabe
mtieramat te prommtiarfi.Molte altre cofe uipotrei dir delk rima, ma non ho
tempo da ragionarne iperò paffando alla prò fa, nofhra propria materia, nella
quale [e egltu'hanume ro alcuno ; noi il togliamo dal uerfo,ty in lei lo
trappian turno, o inefliamo -.facilmente dalle cofe già dette fi può coeludere
che i fuoi numerino so dattiliffle fpodei, mafo Ito appunto i medefmi che noi
trouiamo nel uerfo, fc non che! uerfo ripofando in fu le quattrojinfu le fei,o
in fu le vttofue ftltabe^ neUe undici terminando, ha più certi, r pi» noti ifuoi numeri che U profi non hainéSa
quale farebbe uitio non picciolo, fc k fua ckufuk po(ata alqua to in fui quarto
paffo,totalmente in fu l' undecime fi fer» maffc . Dunque in qual moda iti dirò
io cbe'l boccaccio fuggendo iluerfo, loratione deUe fue Cento noueUe sin*
gegnaffe di numeraref certo quejU no è imprefa dafeher Zo, ne io l'ho prefa
perche io mi uantidi confumark, Z7 condurk k buon fine ; ma aecioche conofeiate
quali, er quanti infm horafiano jlati i miei Budip et di che piccia k utilità ;
doppo lunga faticaci fono futi cagione. Voi hoggidl,fè non altro, fi almeno di
meglio fpcndere il uo* flro tempo,che io il mio ncnfeppifarejmpararete a mie
fpefe. Conftderando con diligenza hor le parole, le quali ufi il Boccdccio, et'4i
cui dunzi ui ragionai,hor k kr co pofitkmejbora i fini de alcune ckufuk, hor le
materie del le NoKeifo ninna cofa mi fi paraua innanzi che numero fa s cioè
compita, ®- da ogni parte perfetta non mi pareffe di ritrouark.E' il ucro
cheper diuerfe cagioni ciò auuenir giudicaudtCr hor natura, et bora arte lo
cfiftimaua ; C per dirui ogni cofa, hor con gli orecchi del corpo,hor con la
mente deh" intelletto di cofì credere mi configliuà . La elegantk, er
antichità de uocaboli, co ì loro fuonipkeeuoU, le mie orecchie naturalmente di
diletto defiderofe, compitamente addolcivano, La proprietà, er trasktione, k
natura d'alcune cofe perfettamente aU [intelletto rapprefentando,fenz<t modo
mi diUttauano. Tanno anebora in unaltraguifa numerofe le fue Nouek te i pari,
ifmili, er i contrariai quali fi come è loro natura, alcune stolte in alcune
ckujule pienamente corre* $ x fyondcndofìjiel paragone acquetandomi, non
poteuano non contentarmi . Per U qud ragione,a me par tua di po- ter dire gli
au uenbnenti di Pinnuccio, cr di Nicotofaji Spinelloccio, er del Ceppa di
Cimone, di Salabetto, di Mibrogiuolo, er di Bernabò, beffa a beff ^ingiuria ad
ingiuria, er cafo a cafo totalmente quadrando, le ter no uelk far numerofe.
Kmneroja altrcfi poliamo dire la orationc,oue il fante di frate Cipolla guccìo
imbratta, oue la bellezza iella uaUe dette donne, la greffezza di Fero» do, la
uanttà dinudana Lifctta, la cofcjUonedi Ser Ciap pettetto, «r finalméte la
mortalità di Firenze ci è deferite ta,ft fattamente, che più altra non fi defidcra
: parla anebora in alcun hiogbibarkLìcifca, bar ta Bentiuegna del Mazza, hor
lafuoccra di Arriguccio, bar la moglie di quel di Cbinzica,®- dice o>/fr,er
parole in maniera al la ojona comtcnicti,cbe par che intiera ne la ritraggono;
quello Jonnado co'lpuro inchiollro,cheTitianófoléni0 mo dipintore co colorile
con l'arte fua no potrebbe adont bfare. Ma il numcrofo,di che ubo detto fin
qui,pche può effcre, ej è forje non poche uolte dàniun numero accorri
pagnato,non è il buono,di cui ho tolto a parlarui, bene è cofa da farne fltma,
er ebeà trottare quel, che cerehiamo facilmente r.e può guidare,?? far lume :
però, pajjan do più altra al componer dette parole, ©" <d finir deU le
claufaie,come douemo, armiamo . Dette quali due cofe, l'una
nonèpoftibile,cbcfenr.amtmero fu numero* fa U 'altra è fontana del mmero,et
d'ogni bene che fa par fetta {a oratici ne. Adunque incominciando dalla
fontana, quindi a rufeetti imiendo 3 a me pare, er in effetto è cojì, che
torrione delle noucìle è talmente coìnpofli, che chi hi orecchie non
inbumane,ftcibnente s'auede quanto eU U tiene di perfetto, er di numcrefo: la
cagione oltre a queUo,che pur dianzi ucne diceua > non le orecchie, ma
[intelletto dee far prona di ritrouare.zt per certa yuan tunque uolte
ddiuiene,che con parole gentili^ fi tra fos ro adunatele ne aftra. ne aperta la
lorofabrica ne rie fca,akun concetto cfplichimo; altrotanto fenza altro mt mero
è mtmerofa la oratione. Et talee quella delle novd le : alla qaale\fu fi
intento il Boccaccio, che alcune uolte uno, cr due ucrfi iv.fcendcne,o non gli
uidc, o minti di kuarli non fi\urè,ma qua}] hellci-a [o caprifico che da fe
8efiifvafxf.o,et faffo germogliano, nelle fitc profe li coportò, &U cefi
cane dalle parole ben compojle,frafe medefme alcuna uolta per k profa
deUe\nouclle nafeono verfi,de quali quanto fono miglìori,ta)ito è peggio abbati
dare; coft in effe molte fiate, anzifanpre uarij nmrteri dì oratione parte
graui,parte uaglù,cr leggiadri fono ufati dipulkhre . con effo i quali U
Boccaccio non più a cafo t per natura delie parole, ma cv leggiadro
artificio ua te gando le fue fentcntte ; quelle in quadro acconciando, eP fra i
termini delle Icr claufule compitamente acceglièdo, 1 quài mauri
moderando la oratione,et la vaghezza del torfqfuo con piaceuolì intoppi
foauanente a frenando, hamio uertù non fokmente di dilettarne, ma dì
giouarne,che in quelmodo, che la dejhezza della perfona con lapofjanza
congiunta, le mftre forze fa gròtte fe^ mi defbuamonel difender fi pi» ficuro,
ey neUo fendere più itnpctuofo, cr più fiem coft k profa da cotainume ri
rfceofflprfgriirtrf è più cara ad udire ; cr <J»« concrfft,
cb'ellafignifica, con maggiore efficacici fuol imprimer neWinteSetto . Forfè
affrettate ch'io ue li nomini t cr che in trocbei,iambi 3 dattiÙ, CT piedi
colali latinamente parlàdogli uì dìlìinguafmain darno affrettate, che {enei
acrfo,ouc nafeono, er onde li prende toratione,non fon nomati, ne figurati 3
neRa profa, oue cfiìfon peregrini, quai figure, quai nomi può toro dare che ne
ragiona ì Adunque a luoghi dotte efii albergano conducendotti, et quafì muto
additandogli, il rimanente al uofbrofiudio co metterò. Ma itoi deuete fapere
che enfi come la compofì tion della profa è ordinanza delle noci delle
porole,ccfj i numeri fono ordini delle fiUabe loro i con U quali dilet* tondo
gli orcchbi, la buona arte oratoria incominciamoti tinua, er finifee la oratone
: percioche ogni cUufula co* me ha principio cofi ha mezp, cr fine, nel
principio fi M mouendo, cr afeende meUnezo quafi fianca dalla fati* cacando m
piè fi pofa alquantopoi difende, cr uola a\ fine per acquetarfi. Hora in quoti
luoghi deUa fua uia di qua dal fine debbia pofarfì l'oratione,et quote fiUabe
dal principio fta totani la prima paufa, no è precetto che nel comanàixt
comodandolo, ragion farebbe il no ubbidirlo; ft perche la profa uttók effer
liberajonde il numero no le è legamela compimento ; fi per fuggire ilfafiidio
ycbe co i medefimi numeri,detthet ridetti più udtc,ci recar eh be loratione :
fi anchora perche afententie.er affètti di* jfrari,partinteruaUi diparole non
fi couengono . Che fe'l nerfonon fallidifce, ciò odimene perche ì fuo numero è
puro numero, cr quafi muro della fua fabrica ; il male [mattato con altri
numeripiu rileuatifdrijmàli, cr co» trurifcr d'ognintorno di
rime,d'tpitbeti,& di figure di* pinto perde il colore, maggiorméte che
molte mite il fin del ucrfò è principio, et talhor mezo della fentcn%a i ma
nelk proft un medefmo numero è dette co/c, cr delle pa role iperò abondando ài
dipintore farebbe operaaffet* tata,nm dilettevole jet oratoria,ma ridienti,
puerile . Adunquerkoghendo le cofe dettcjpfrafe ftcfji para* gonandok,
concluderemo mi medefima oratione per di ucrfe cagioni poter effer numerofa, cr
non numero fi, perciocbel uerfo può effer nero, ma di parole ÙSfóme, €7 mal
compofte: zrètdhora che la rima,et quei cafri* ., rij.ct quei fimili fan
fonorajtta afyra molto lorationezr la caporione elegante [beffe fiate guafla il
ucrfox? non uerfofagiudicarlo, Similmente la profa alcuna uolta ben capane le
parok non bette, cr dura wka belle malamcn te ua componendo 5 et può occorrere
che cofì come nella mufìca bencfpefjh le buone uoci difeordano,^ k no bua ik,o
per ufanza, per arte fono tra loro concordi ì cefi ì pari>i fnmliw i
contrari}, cofe tutte per lor natura ben rifonanti,qualche uolta co uoce
a$ra,ty àfforme, qual, che uolta feioce mentc^ et a bocca aperta ua e faticando
U oratione. finalmente molte fiate intrauienecke Ltpm /<* perfettamente
compofta, quafi fiume del proprio cor p dppagandofi,nonfi cura non cht
digìugere al fine,m di pofarft per lo camino,^ uafemprawfe'l fiato non le
mancale, continuamente tutta firn uita eminareb* be . però a numeri ricorriamo,
lìquali attrauerfando I4 (tratte pkccxoinmtc con Infinge, cr con uezzi ariti*
' £ 4 jre* f-efcarfi,ey albergare con loro la vantino, er non ualcn do la
cortcfta,ucgliom uftr le forze; er per benfuo,mal fio grado,con violenza
tarrefìino. Sor. Qae/fd leg gede nwnerideUa profauolgarepar molto incerta, er
confufa nondOìinguendo otte, quando, et quante fiate dì qua dal fine debbia
fermarli Toratione ; ne con quai pie* di cammì,o a qual termine fi conduci per
ripofarfi . Md che è quello che ttoi dicefìe,che a fententie, er affetti di*
fiori, pari intervalli non fi contengono f er come è uero che nella profa
pitiche neluerfi,un medefimo numero fta delle cofe,ct delle parole tBxoc.
BrieuementerìjbS derò,uoi(comefate)attentamcnte afcoltatemUo pur dia zi
detCoratore,^ del muftcP-XT àc hr numeri ragiona ioui,hebbi a dire, che mufico
ponedo infieme le mei gra tii,<y acute, et co fuoi numeri mifwrandolc
campuceua a gli orecchimi lo ratore con le parole della mente fìmiii
tudìnuVanìma noftra difoUazzo difiderofa, s'ingegna di dilettare. Adunque egli
è ufficio d'oratore dir parole non solamente ben rifonanti, mamtctligibìli } ey
a comete ti signiftcati correfhonientì, chc si come nei ritraiti dì Titiano, oltra
il diffegno, la fimiglianzà confideriamo(et fendo tali(fi come sono veramente) che
i loro essempij pie namente ci rapprefentìno, opra perfetta, eydilui degni gli
efiiflìmiamo > co fi ancora nell’oratione conia teflura delle parole, con i
loro numeri, er con la loro concinnità tintentionifigrìfìcate paragoniamo:
procurando che le parole pronunciate si pareggino alla sentenza, et co quel lo ORDINE
[Grice, “Be orderly”] le significhino, che [ha notate la mente. Ver la qual
cofafe i concetti sono gravi, le parole a dover loro rifondere deano farjì di
fiUabe>cbe U lingm peni alcjua to nel PROFERIRLE [Grice, UTTER]; fiano
jpefiiiripofi, ey non s’mdugie il finire ìil contrario nelle parole jo' nella SENTENZA
piace* uoliueggofare a BOCCACCIO (si veda), w altrettanto pofimo dir degl’affetti.
Perciocke i colerici con parole udibili, e prcjìe molto, mu imanm conicipi gramentc
y agguaglun= do conle parole ?humor e, sono da esser PRO-NUNCIATI: che
tuiegnadio chel Tbcfctno nel numerar delle ftlabe non pc ngd mente alla
Uinghezz^o BREVITÀ (Grice, “Be brief, avoid unnecessary prolixity [sic]) loro,f,
che piedi [e ne cempongd ; nondimeno nci prouiamo ogni giorno, che in cffefUabe
con pia tcmpo, et più dffrdn; entefi prò fc.ifconoleconfoiuntii bclciiocaliìion
fanno, llke Da te considerando,alcund tic Ita nelle canzoni ; er nella ce*
mcdia,non d cdfo,o per confuctudìtte,md a bello fludic e<f léffe rime molto
dfprc, non per dltrofaluo perche al feg getto di che pdrhatdyi^ro molto, er
priuo aitato d'u- gni dolcezza fi comtemffero. i\u per cicche 1 poeta altro non
uuole, che dilettarne,!* l’oratore dilettando ci per» fuade ; però è
mefticrìche le parole decoratore totalmente si confacciavo a CONCETTI
SIGNIFICATI, er che i ntmte ri deÙa prefa, cioè il principio i! mezo, et il fin
fuo.uada <t paro col mezo, et col principio della SENTENZA, ikhe de uersi
non adiviene, i cuinumsri non da concetti deWinttì IcttoTtiaddbdUifunm acanti
fon dependenti, El efuin* di uiene, cbe I PERFETTI ORATORI SONO RARI IN NUMERO piu,chc
i poeti non femodi quali auegnadio ebegradanente fimo obligati d lor numeri, et
però il uerso paia oprat Uberto fd&digrmdifiimo magislerio ; nondimeno
certieffm do jnqualfad parte cotdimnerifmpariiiOffenztttnol to lo
penfari(ifufo,fufo i . fubitamcnte li ritrouiamùì CrdagU orecchi guidati A
mezo,ey al fine facilmente con esso lo ro ci conduciamo. Ma altra cofa è la
profa,laquale dilet tondo er pervadendo congl’orecchi,- con Cintetiettcr, fumo
oblìgati di misurare; guardando sempre che te parò le nonfian più corte, opiu
lunge della SENTENZA SIGNIFICA fa : che ciò effendo, troppoo fcura, o troppo
fredda riufei rcbbcTcratione. Sono adunque i fuoì numeri meno [enfi Mùtua affé
più nobiliiun po più Uberi, ma non men certi di quei del uerfo i manon appare
Uhr certezza, albergando neUe SENTENZA <>kquai sono cose intellettuali.
E< ofo dirc, che cq/ì come più perfetta è la muficddelletre uod the deUe
due; come mchoraè pm perfeita U dipintura de più coìori s che non è queUa de
pockixojììa prefa, nelhi quale agl’orecchi ci all'inteUetto fi cecorda la
lingua è oratione più numerosa del uerfome la Ungua, ctgl’orecchi aiue sole
membra del nostro corpo t sono usate dì co Uenirsi Qjtefioè il conto de fludij da ine fatti
fmhorA in PETRARCA (si vda), et nelle NoueUe con fatica grandifimu, er con quel
frutto che uoi uedete; ne me ne pento del tutto, fyeràdo che i mici errori funo
altrui occafione di dauer bene opcrareia me nmgii, tiquale auezxo a fallire
appe na ueggo ti miofallom cheiopoff a ammendarmi Sor. Seti uojbro fallo è fi
picciolo che uoi peniate a uederb, fiate certo che agli altrui occhi fe
totalncte imtiféile^e rò potete non curare. BkOc. L'errore è grande et da fe
flefouffainoto t imldmk uifta ufa alle tenebre deWigno ronzammo che bafìi, nÓ
lo difcernc:ct(che è peggiorai taddlme diuerttà non puo affiffarfinel fuo
fbkndorc. Sor, Ver grulli additatemi quefìo more, er fe k m* (fra ignoranza ha
prìmlegio di potarmi giouare infogni domiaicana cofa,non ktentteociofa. B«oc.
Hohijono gli mori onde io mi trotto impacciato; ma tutti nafcono daìiaradiccji
che dianzi ui RAGIONAI [conversazione e ragione]: cioè, che torte lati tu
deh"orare>o- dei poetatela diverfa dalla Toscani, tìqttakerrore
doterebbe effer e a cufchedtmo manifejliffimo. quindi or gomento^bek mie
lunghe, zrpueriliof fauationifiano'morì j fbetkbnente quelli de numeri, deUa
cui l’armonia k mie orecchie s di miglior [nono difi* derofe, compitamctite non
fi contentano. Sor. Deffrf m<t ierk de numeri poco baurete dafaueUare, fe a
lombi, er 4 dattili non ricorrete, maionottuedoin qual modo co te MISURE LATINE
knojira prof a uolgarefi pojfafar numero fa. B roc N«o ii uedo,ma altri forfè
fri ueder. Sor. Vrimier amente Magnerebbe far uerfi effametri, er peti
tametriin quefla littgua, dando loro quei piedi^nde itati tiifono ujatidi
cammare-.pofckaUa profawnendo, con quei medefmi in altra guifa dijpofli
faticarci dinumerar la . ma ciò è cofa impofiMe,però il ?etrarca,iie il Boc<
caccio non k tentò, Noiadtmque che fatto hr militiamo, per le loro-orme uenendo
procuriamo difeguitarli, con* tentandoci ebe dopo loro nei loro ordme,non
fecondi,ma terzi quarti ci nominiamo. Bsoc. Certo quefìo bo fat (io, mentre io
era d'opinione che k nojbra arte oratoria, cr poetica, attro non foffè che
imitar loro ambidue; prò fa,zj uerfi a loro modo fmuenàoxs' al prcfente,piu che
tnaifcfitilfarei^into dal piacer della lettione, ry dal di* fw dclfhonore, chcfa
ilmatido 4 ebigliafitmiglia j fe do non Mn fcffe che CICERONE (si veda)
in alcun libro àeUdfud arte orato rid, cotdlguifa difludio da Carbone
adoprdtcgrandemé tefuol bùftmare; lodando aWmcontro il tradurre cCun4 ìingua
iti un'altra i poemi, er la ratiomdc piufamofrXa* qual cofa(per uero dire)
ionon bo fatto fin qui dubitarti do per le ragioni antedette, che la fententia
fritta da CICERONE (si veda) delle due lingue piudnì'.cbe^eHa moderna non fi
effequiffe cofi ufeito de i primi liudif, w ne fecondi no fendo ofo di
effercitarmi, molti mefi fono'uiuuto otiofo et fél Valeriononmi conftglia t non
fo che farmine Waue* iwe. V a l. Hord4 uoi tocca di configliare Soranzoì '
perojdfcidndo i afa uofhri ne loro termini fiore, condii dete IL RAGIONAMENTO principiato;
il cui fine ( fc il difiderio deU'afcoltar non m'inganna) ci è lontano
parecchie yùglia. Broc, Anzi io parlotta defdttimìeh percbe di quei di Soranzo
non mièrimafo chefauellaretcbe battedo detto per quii ragioni, fecando me,il
diletto fta la airtit de![ordtione,zT la eattfa demoftratiud, inquato io poj
fo, foprd t 'altre effahttd, olirà di ciò della forma deWcf ferrite che tiene
Umondo hoggìdì, zrde numeri quel io n intendo, er quanto io dubìto ragiona tom,o
bene, c male che io ne parlafiijo pretendo ibaucr rifpofìo 4* Idcjueflìone
ifahofe io non entraci tra quei PRECETTI INFINITI [Grice: “Conversational
maxims – how many? Ten: a decalogue!] precetti infiniti H far proemij, di
narrare J argomentare, er di epi \ogar rATaratìone, o a fitte, ake figure, a GL’ORNAMENTI
DEL DIRE, o dltattione, odUa memoria mi riuoglie(fe, o degl’afctti, o de flati
dipintamente uifaueUajìi. ìlebe fare ttonfaperei s'io nolefti, ne dotterei fe
io fdpef.ifendo cofa mnpertmente, a fuori al tutto di qucl propojìto, tutor no
al quelle fcìlsoranzo la fita dimanda. Val. Vc&t tdrtìi farebbe qucUadeS
Oratore, feragionando fuor di propofito dilcttajfe in maniera che chi ludiffe
noi difeet neffe. B eocar. Alita cofa è IL PARLAMENTO [PARABOLA] àeWQra*
torc,cj -altra è quello del KhetorcSun diletta,®- l'altro infegnaj bench'ìo fia
rhetore atto meglio a dovere irnpa rarc, chc IN-SEGNARE. Val. Almeno
rttinfegnarete rìfho dere a gli argomenti d'alcuni grandi, i quali confcffcmdo
{quel che noi dite ) la Rhetorica essere arte, U quale ne nofkri animi piacere,
®- gratta partorifea figuentementt non àmie utrtit, maperuerfa adulatione fi
fanno lecito di chìmxrU,<£r,come uirìo di makguifajei fbandifeono delle Republiche.
Bkoc. Dell’ACCADEMIA parlateci quale inperfonadi Socrate jtonper uer dire, ma
Polo,®- Gcrgià tettando, coquello animo bìafimò U rhetorica, che altra uolta a
Trafimacho, et Glaucone fe leuar Fingiuftì f i'i . Che cofì come fecondo lui, a
cittadini, ey guardiani delle republiche è neceffaria la muftea, arte più
ditette uole che utile, cofi a medefmi è buona cofa tmparare et teffercitarfì
nella rhetorica, gioia s cr ditetto dell’inteletto. Ma accioche molto bene
ilmio intento dpprendidte, Koi douete fipcre che i sentimenti degl’animali{ da
i qualicomeda cose più note, è bé fatto che il nofhro efìent pio prciidiitmo) inféntcndo
gli obietti loro, fe buoni fono s'allegrano, ® fe rcì,cioè àamofì alle ulti
loro, fono ujati di contriftarft. Adunque, come ti cane ha piacere di ue deregr
fiutare, etmngiare cibo che lo conferma li di fbiuciono tema-zzate, cofì
tamente di fapere defidcroft ji dtletta del uero, cr ilfaljb, cofa contraria al
fdo difiderio, twjommmenteper sua natura abbonda : er per c erto quale è il
cibo càio Homaca, tale è k uerità all’intelletto} ma la bugia è il veleno che
lo difhrugge: cr d'immortale die nacque, peggio che morto fa divenirlo. Hora et
(enfi tornando, cetto l'huomo è animale pia gentilefco, et di na tura migliore
che le bcHie non fono,il quale foUeuato dai LA BRUTTURA DI BRUTTI ad altro
attende, che ad empiexfi U gold, er molte fkte, per uedere una. dipintura,
udire una muflcafaniettfete pdtifcejoglknda anzi dipafeer gli occhi, er gl’orecchi,
non jenzA damo della perfona, the di uuundcm MeridlineUa cucina ingnfftrfi. Laqml
cofd,fì carne è uera de fentimetiicofi ha luogo nell’inteìlct to,alqmle
fimilméte dee ejfer tecitojafckndo il uero che b mtrica.akuna uoìta per
dilettar fupoter gujiare il pk ceuole. Nclqual cafo perauentura il noftrohumino
intel letto è più dttànOytbe humano,percioche inquanto bumno cioè nudo d'ogni
dottrinaci <f imparare difìderofo,cor re al uero che'l fatiama co uerft,et
co profeper fuo dilet to fcherzando fimile è molto alle inteMigèzeJe quali non
per faper più ch'elle sappiano, ma per fokzzo fotta d pì« di,miradofi,fono
uaghe di riguardarne. Che }e noi forno FILOSOFI, tali a noi fono k Retorici et
k poefid quali i frutti dUe tduole de fgnoriìlt quali dopo ceni quando fon fatiji
Cùpiacendo al pakìo } alquanti per gentilezza ne ma giano-Mi d coloro che gii
no fono, et fon perfarfì FILOSOFI, ledue arti predette fono i fiori che innanzi
d i frutti JeRe fcienze, ù miti loro di fruttare difiderofe^uafi pia ta k
primauera, fi dilettano di fiorare. Aluotgo poi che non fa mJkjte fa péfier di
ftpere^tpur i parte delk rc piètica, pub\ka,loratiani,et U rime fon tatto
l cibori tutto l fi-ut ta deUd fui tàa . li qttd «oìgo non Ktutndo «irti didige
rir ìefcknzejzT mfm prò conuertirk,de hro odori* cr delle toro finulitudmi gli
Oratori afcoltandofuokiippat gdrfyo'coft ume,et mantienft, Dunque io non uedo
per quul cagion k Rhetor icet debbufbanda fi delle Repiéli che, fendo arte che
baper fubietto te nojhre bumane opt rttionkonde hanno origine le Republkhe: che
bauegn<t dio che Foratore con ragioni probabili, cr anzi ùiccrte che
nòidilettando, cr pervadendo giudichi, cr regga le diali operationii nondimeno
fommamente è di con* mcndaretCr dbauer cara la fua folertiaxkfla quale le co
fawflre perfettamente, zrproprimente, m quel moda che a loro effèrt fi
conukne,fono trattde&r còfiderate. Quejlodko prefupponedo che
uoifappiate(ikhe è noto ad ognuno)cbe l'huomo e mezzo teagf animali, cr
fuitcUigenze, però comfee fe (ìeffo in un modo mezzana tra la fcienza,ebe egli
ha de Brutti, cr ti fede, onde egli adora Domenedio, Il qual modo non è amo che
openione generata dalla Rbetorka, con U quale il uohrfuo Cr faitrtuka parenti,
cr amici, neUafua patria ciuil* mente uiuendojee curar di corregger cxbe}e una opera
medefima in uarij tempi dalle leggi cktadinefcbe,hor uie tata,<er hor
comnandata può effer aitio,®- uirtà-ragio* ne è bene che k nollrc Republkhe,
non <k faenze dima firatiue, uere,^ certe per ogni tempojma con Rhetori che
opmiotìiuariabih^rtramutabiìi(,qual fontopre,^ U kggi nojhre)pr udentemente
finn gouermte. Vero Sa erate dannato a torto dell'ignoranza de giudici, abbi*
DIALOGO dendo dUaopinione della fin patrìd,uolontieri fi fe
incori tra alla inortc:U quale, pbilojophicamente argomentane do,come iniqua,??
mgruffc peiujoue tentar di fuggire. Etne! uc ro,comc il pinlofopbo ufo di
intender nuTaltrd cofa filno quelk, che per li fenfi uenendogli ua ad dlber
gare neffbitcUeitOjtMto men crede, quanto più fa cojj il medcfimo,ufo aVopre
della natura,laquale eterna co leg g'e eterna,ct mconiutabilc ijuoi effetti
produce,makmcn te può effere atto algouerno deRa Repubtica: le cui leggi per
boneHe cagioni battendo ricetto a tempi, a hogbi % dUa
!<tiht4,dUefttefoize,ct 4Wakm,fyeffc fiate da (tv. di altro mutano
fornu&fembiahte; però ji creaiìo i magi- iìrati, li quali non altramente
reggano lorotbc effe noi Sono adunque le legginon acri dei, quali fono la
natura,. CT rinteUtgéze,nu fono idoli da quelli ijlefii adorate poi che fon
fatte,che con loro arti le fabricaroiio.'Però è ben fatto,che con faenza non
necefforia, ma ragioneuole,no pcrfctta,ma aìl'cffer loro perfettamente
correfyondente, foratore, di cui parliamo, kèbia cura di conferuarle : chefe il
noBro intelletto intendendo fi fa fimile alla cofi intefa, come può effer àie
Thnomo auczzo a contemplar hfutìanza, er le maniere de bruttifi confacela col
xege giment o della, città f più toflo c da credcre,quel che ogni giorno
ueggiamo, che quejlo tale al fio fapcrfimiglim- dofi,udda cercado k}'olitndme,w
in quella phiiofipbM do (ìfepelifca. li contrario fa Foratore, la cui arteji
cui gouerno,i cui cafìumi, er le cui parole fono cofe propria, mente
ciuadinefcbe,non credutc,non japutenu perfuafe co maggior dMtatione di qtfeUa,
che k fciéza dnnojh-a tìwt det altre cofe più biffe, cr meno a noi pertinenti
ci 4pporta:che maggior dtlettatione è il ueder jokmentc, o fenz4 <tiiro,udir
parlare tino amico da noi amato, ®- ha* vuto caro,che ttedtrc,udire,gttjiare,
er toccare tuttele befìic del mondo : con k quàl dilettatone perfttadcndo^
gloria,®- (tinte afuoi cittadini fuolgcnetar loratcre t non altramente, che co
i dilpttt carnati gli mimali fenz* ragione generUo l un labro, facciano intera
k toro fpt eie che altro non fendo k nójìra gloru, che openione, che hanno gl’uomini
dell'altrui fenno cr ual/orejagio nt è bene, che k rhetoricótartipcio delle
ciuHiopcnioni, fenza altramente philofophare, de nofiri nomi k partorifea,,
Quatito adunque è più nobile,®- più amabtlco* fa del generar de figliuoli
latterà gloria frutto (temo della uirtii,per k quale, a Dio ottimo mafiimo
ueramen* te ci afiimigliamo, tanto è più utile aUa Kepublica labuo ita arte
oratoria di qualfi ueglk fetenza, che delle cofe de&ttnatuxt. con ragioni
infallibili puQacquijlar fi k no* iira mente . VoLadunque Soranzo ( che già è
tempo, che t ttoi riuotga il parlare,®- in (otMx, cerne 4.a mi ì incominciò }
continuate Imtprcfa, ® alloflu* dio detfelpquentia, che fi per tempo tentajìe,
bora, che già ne è tempo, con tutto i[ cuore donai cut, cr confacrateui,
Conofco per. mote pruouc il ualor dello ingegno uoftroal quale benché fio,
attoafapere, ®- operare ogni coft,che a gentiluomo pertenga, nondimeno,fea fan*
biantidellaperfonajcjìimoni dell'anima, fi dcedarjede, conftderando la figura
deUafacck,et del corpo uopro, i mouùnenti di queko,U leggiadria defk linguaja
uoce,ei T i fìait {fianchi piati tutti di molto &mta, chiaramente
compri do uoi c/Jir nato 4 cfowere effer oratore,il quale neUa wo« firn Rep,tra
Scnatori,e tragittici acculiate,et deliberi* tc,o nella corte di Roma tra
letterati uiuendo,pcr diletto Ìel mondo,ccn grandilf ma uojbra ghria,bkfimando^
lodando componiate CT fermiate, quale bo fperanza che mi farete, fe
accompagnando co la natura la indujhriajn quella parte riuctgtrete la mfte, oue
tti chiama U uojìrd neUd x contentandola d'effer buomo,le cofebumanehua
mattamente curaretc,ey apprezz&ctejche ejfendo imagine e finuglknxa di Dio,
ben può bajlam che la uojìra fetenza fia una nobile dipintura,deUa medefma
turiti dì tettante la ttoflra mcnte,m quel modo che de ritrattimi* terialifiwl
dilettar fi U ttijìa. Che fe l'anima rationalefor Iftdjef uitd de noflri corpi,
è immortale intelletto ( il che hoggiXambafciadot Contarmi col Cardinale »Cf
cogli akri,fì come io ttimo,a ncluderanno > creder debbiamo t che'l itero
cibo,cbe la nutrica, fia non faenza mortale da\ mi in terra aequijìdta, ma
alatm cofa diurna conuenìéte ti f ito efferrJcUa quale alia gran menfa di Dio
eipafcìd* moticlparadifo. ryurtqueintalcafofolamentea dilettar (intelletto
fludiaremo t rt impararmoMpingendo con le parole la ucritk daquale liberi fatti
dalla prigìo della cor* tte,in propria forma uede,et confèpla la mjlra méfe.Mi
polio cafo(cbe Dio noi uoglia)che la ragione fta cofa hit mana,come noi
ftamojaqual najca uiua,et inora con effo noijcertofuo ufficio dee effere
ildifeorrere hunanamen» tejetqueUo principalmente confidcrare, ebefìconuiene
éUa bumanità, torte oratoria adoprando,con la quale in I^ff tjue (là uita
ciuSe,lemfìre Immane opcratiotà moderi» mo,et reggiamo. Ef per certo conte i
colori materiali^* do fermine luoghi loro, mandano a gli occhi Fmagini, per lo
cui mezo ti a>nojciamo,coft il itero dcUa naturai di Dio,m>n
mfejìe([o,chenon poliamo, ma nell'ombra delle noBre opinioni contentiamo di
Acculare: le quati (pitto piti ne dilett<tno t t<tnto più douemo credere
che fio* nofmtli altiero, oue è npojh il piacere, che neramente ne fa felici.
Ma acciò che neU'tmparar cr effercUar U Khetorica,queUo a uoi che a me auate,
non intrauegtiai appigliateti intieramente a configli di Meffcr Tripbon
Gabric&c,nmuo Socrate diquefìa etile cui uiue parole bene ìntefe da uoi,piu
dì bene u'apportaraimo in un gior* nojolo,che a me non fece in due mefi la lettion
del Boc* caccio,col rimario ch'io ne carni . Qjufìinon men corte fe,che dotto
uohntieri il fentiero^h'à buono albergo co* duce con diligenza Hi moftrark con
quello uno il Petrar ca V il Boccaccio leggendo } non pur le ciancie da me of*
feruate,(y notate, ma i fecreti dettate laro mi ben notf a mlgarUfacihnente
penetrarcte: imparando in qualma do latinamente, cr grecamente parlando 3 queUi
imitiate, CT loro fintile diuctitiatc . il quale M. Tripbonefebora fufic in
Bobgna s me certamente dagli errori del mìo paf fato ragionamento, et il
Valerio dalla fatica del fuo fuiu ro,perauentttra hbcrarebbe, terminando la
quejìione in manierarne poco,o nulla uauanzarcbbe da dubitarci!} tanto uoi
udirete il Valerio, ilquale fi puodirluidopà UUal cuiparere(che dianzi io
dicefii) io ui conforto che iààttentate. Vai. Ricordini.maca alcuna cosa. Keywords:
“Dialogo della lingua”--. Nome compiuto: Speroni degli Alvarotti. Speroni
degl’Alvarotti. Alvarotti. Keywords: retorica. Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice ed Alvarotti,” The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.


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