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Tuesday, June 5, 2012

RINALDIANA -- eroe operistico -- Rinaldo

Speranza

Rinaldo è l’eroe per eccellenza della "Gerusalemme liberata" di Tasso, nel quale svolge un ruolo simile a quello dell’Achille omerico, e incarna, forse più di ogni altro personaggio, la parabola del percorso di colpa e di redenzione.

Dotato dal Tasso di una personalità d’eccezione, sin dalla presentazione e dalle prime prove che offre di sé appare al lettore come un predestinato, un eroe dal quale dipende l’esito stesso della crociata. Ma Rinaldo, prima di assicurare alla parte cristiana l’apporto determinante della propria forza, percorre una sorta di “discesa agli inferi” e raggiunge il punto più basso dell’abiezione, macchiandosi del peccato di omicidio e cedendo alla lussuria. In Rinaldo il Tasso fa rivivere un personaggio già collaudato, avendone fatto il protagonista del suo poema giovanile, e assai caro, poiché non è difficile capire che in lui l’autore riflette le proprie passioni e le proprie fragilità. Seguendo la parabola di Rinaldo, si può leggere "La Gerusalemme liberata" come un romanzo di formazione (Bildungsroman), come la storia, cioè, di una drammatica esperienza di vita e di una maturazione spirituale, che frutta acquisizioni e certezze durature. Rinaldo infatti impara dai propri errori, ma non immediatamente.

A causa della giovane età (all’inizio del poema è solo un diciottenne) non dispone del discenimento sufficiente per riconoscerli. Deve essere consigliato, aiutato, guidato a rimettersi sulla giusta via. A tale funzione sono deputati nel poema diversi personaggi, in primo luogo Pietro l’Eremita e i messi Carlo e Ubaldo, oltre, naturalmente, a Goffredo. Nella vicenda di Rinaldo, insomma, Tasso ripercorre il proprio itinerario esistenziale, rivivendo le fasi più tumultuose della propria adolescenza, agitata da un temperamento sensuale e da un carattere impulsivo. Il conciso ritratto che ce ne fornisce l’autore nelle ottave 58-60 del primo canto poggia sui cardini emblematici e topici della bellezza, della giovinezza e del valore guerriero, non disgiunti dalla nobiltà dei costumi. Giovanissimo, prestante e impulsivo come l’Achille omerico, non diversamente da quest’ultimo si sottrae all’autorità del capo supremo e abbandona il campo in cui milita, privandolo del proprio determinante apporto. Per di più si è macchiato di un atroce delitto, avendo ucciso, per difendere il proprio onore, un re alleato. Inizia così un lungo periodo di sbandamento, durante il quale l’eroe si abbandona alle lusinghe del mondo, cede al disordine delle passioni e trascura i sacri doveri di cavaliere e di combattente crociato.

Tuttavia, pur essendo consapevole di essere un “bandito”, un disertore colpito dalla riprovazione del suo duce, e causa di divisione all’interno del campo cristiano, non rinuncia, per quanto può, a mettere il suo braccio al servizio della causa, come quando libera i cavalieri prigionieri di Armida. In questa fase del poema Rinaldo appare quasi sempre manovrato dal caso, quella forza imprevedibile e ineluttabile che governa le vicende umane. Al caso sono dovuti i suoi spostamenti e i suoi incontri; è il caso che pone sulla sua via i prigionieri crisiani e che lo conduce all’isoletta dell’Oronte, dove Armida gli ha teso un agguato. Ma è la curiosità di Rinaldo che lo fa cadere in trappola. Come Ulisse, Rinaldo si lascia sedurre dal canto delle sirene, ma, non avendo l’accortezza dell’eroe omerico, cade facilmente in balìa della bella maga Armida, che può disporne a suo piacimento. Con Armida, Rinaldo conosce per la prima volta i piaceri dell’amore carnale, vivendo una lunga stagione di delizie nelle Isole Fortunate. Ma, a differenza di tutti gli altri cavalieri che hanno ceduto alle seduzioni della maga, non si riduce a un semplice strumento nelle mani di lei, giacché riesce a farla innamorare di sè.

E sarà proprio questo amore all’origine della redenzione della donna.

La svolta decisiva nella sua vicenda è determinata dall’incontro con i due messi inviati da Goffredo, allorché, specchiandosi nello scudo che Carlo e Ubaldo gli pongono innanzi, egli riprende finalmente coscienza di sé. La sua resipiscenza è come il risveglio da un lungo sonno. Vedendosi “tutto odori e lascivie”, prova una profonda vergogna e questo sentimento è il primo segnale di una volontà di redenzione. Da questo momento ha inizio nell’animo di Rinaldo un progressivo, costante e risoluto recupero della coscienza morale, rimasta per lungo tempo muta, e, conseguentemente, della propria matrice cristiana, della propria appartenenza all’armata di Cristo, dello scopo, infine, della sua presenza in Oriente e della sua militanza nell’esercito crociato. Ritornato in seno ai suoi e perdonato da Goffredo, Rinaldo si affida per la necessaria penitenza a Piero l’Eremita, non solo perché questi è il santo monaco che tanto si è prodigato per l’attuazione della Crociata, ed in tale veste assume, per così dire, il ruolo di direttore spirituale dei combattenti, ma anche perché, in virtù del suo carisma di profeta, ha rivelato che solo da Rinaldo dipende l’esito favorevole della Crociata. A Piero del resto il Tasso affida il compito di esaltare la gloriosa discendenza dell’eroe.

La purificazione di Rinaldo, che deve scontare gravissimi peccati -- ira omicidio lussuria diserzione -- comporta innanzitutto, com’è ovvio, la confessione, quindi un pellegrinaggio solitario, a scopo di penitenza, sul Monte Oliveto, o Monte degli Ulivi, il santo luogo in cui Gesù visse la sua agonia prima dell’arresto e della traduzione davanti a Pilato, infine la prova suprema dello scontro con le forze del male nella selva di Saron. La pagina che descrive l’ascesa del cavaliere sul Monte Oliveto ha un fascino straordinario, che le è conferito sia dall’atmosfera di silenzio e di solitudine che avvolge l’eroe, sia dall’ora della giornata scelta per iniziare il pellegrinaggio, l’ultima della notte, così che l’alba sorprenda il giovane in cima alla montagna.

La poesia del Tasso si insinua nella mente del giovane eroe, mettendone a nudo i pensieri: questi rivelano la rigenerazione spirituale in atto, ma manifestano anche la difficoltà di tener fede ai buoni propositi. Quale meraviglioso spettacolo offre il firmamento – pensa fra sé l’eroe - : una visione dell’infinito dalla quale ciascun uomo dovrebbe essere naturalmente attratto; eppure il “breve confin di un fragil viso” ha spesso il potere di distogliere gli occhi da tanta bellezza per volgerli alla “torbida luce e bruna” di uno sguardo o di un sorriso femminile: una bellezza sensuale circoscritta, effimera e caduca riesce ad esercitare un potere di attrazione più forte di una bellezza “incorruttibile e divina” [91]. E’ l’eterno dramma dell’uomo che anela alla purezza e all’innocenza, ma soggiace così facilmente alla seduzione del peccato; e anche quando ha ritrovato tutta la sua forza interiore, quando ha saputo risollevarsi dalla caduta e ha espresso il proponimento di perseverare nel bene, sa che senza l'aiuto della grazia divina è destinato a ricadere inevitabilmente nella colpa. Rinaldo riacquista il favore del Cielo: segno della riconciliazione con Dio è il prodigioso mutamento di colore della sua veste, che da cinerea si fa candida. Ed ecco la prova suprema: l’eroe deve dimostrare di saper riuscire là dove tutti hanno fallito; deve sciogliere l’incantesimo della selva di Saron per permettere ai compagni di procurarsi il legname che servirà a ricostruire le macchine d’assedio. La selva rappresenta il regno della seduzione demoniaca: tutte le apparizioni che hanno luogo in essa attestano l’infaticabile abilità di Satana nel creare illusioni con le quali irretire gli uomini e indurli al peccato. Nulla in quelle apparizioni è reale, tutto è illusorio, ma non per questo meno efficace al raggiungimento dello scopo, che è quello di dissuadere i guerrieri cristiani, ora con la lusinga ora col terrore, dall’attuazione dei loro disegni bellici. Il placido rio che si trasforma in un impetuoso torrente, il mirto che si rivela noce, Armida che si trasforma nel terribile gigante Briareo, le ninfe che assumono le sembianze di orrendi ciclopi sono tutti simboli della vanità dei piaceri terreni, la cui peculiari caratteristiche sono l’instabilità e l’illusorietà: il mondo terreno è il campo del mutevole, del transeunte, di tutto ciò che è precario e caduco, ma, al tempo stesso, ricco di fascino e di attrattiva. Alcuni critici hanno colto nell’episodio di Rinaldo nella selva di Saron echi e suggestioni dell’antico mito del sacro Graal [92]. In effetti Rinaldo può essere accomunato ai santi cavalieri del Graal dall’acquisizione di un perfetto discernimento del bene e del male, che gli impedisce di cadere nelle trappole tesegli dal demonio: le diaboliche tentazioni del maligno, quali le prodigiose metamorfosi del mirto in noce [93], delle ninfe in orribili giganti, di Armida in Briareo, possono disorientare e gettare nello smarrimento chi, non avendo ancorato la propria vita a un significato e a valori costanti ed immutabili, si lascia facilmente sedurre dalla bellezza delle cose terrene, che è sempre illusoria, non chi, forte della Grazia divina, ha imparato a resistere alle lusinghe del male. E tuttavia non si può non avvertire nella descrizione dei falsi piaceri della selva un compiacimento e una carica di sensualità, che sono indizio di un’inconfessata nostalgia dell’autore per il culto rinascimentale della bellezza e per quel raffinato edonismo che lo caratterizzava [94]. Il rientro di Rinaldo in seno all’esercito crociato e il suo decisivo apporto dopo la ripresa delle operazioni belliche costituiscono l’elemento chiave della felice risoluzione della vicenda. Vengono in mente analoghe conclusioni di celebri poemi del passato: dall’ Iliade, dove il ritorno di Achille e la sua riappacificazione col sommo duce sono determinanti per le sorti della guerra, all’ Orlando furioso, dove Orlando, ricuperato il senno, agevola la vittoria dei Franchi nella battaglia di Parigi. Ma ancora una volta, ciò che differenzia Rinaldo da consimili eroi destinati a risollevare le già compromesse sorti di un conflitto è la cifra religiosa del suo agire: nell’intervento dell’eroe predestinato è l’intero ordine delle cose che viene ristabilito, secondo la volontà di Dio stesso. Alla luce di questa interpretazione vanno letti gli atti conclusivi della vicenda di Rinaldo, dall’irresistibile e travolgente assalto agli ultimi baluardi della Città Santa alla riconciliazione con Armida, il matrimonio con la quale sarà possibile solo all’interno di un progetto di vita nuovo e radicalmente cristiano. Il nome di Rinaldo compare per la prima volta nel prologo celeste all’inizio del poema, allorché il Padre Eterno, volgendo gli occhi sul campo cristiano, penetra con lo sguardo nell’anima dei crociati per esplorarne “gl’intimi sensi” e scorge in quella di Rinaldo (canto I, 10) una forte volontà combattiva (animo guerriero), un’acuta insofferenza dell’ inattività (spiriti di riposo impazienti), un’ardente brama di gloria (d’onor brame immoderate, ardenti) e la totale assenza di ogni avidità (non cupidigia in lui d’oro o d’impero). Fin dal principio, dunque, il personaggio appare oggetto di una speciale predilezione da parte del Cielo e dell’ autore stesso, che a lui collega subito il motivo encomiastico (*): il giovinetto, infatti, partecipa alla Crociata con lo zio paterno Guelfo di Baviera, dal quale apprende esempi di valore della propria casata, gli Este. La presentazione vera e propria di Rinaldo avviene nel corso della rassegna dei cavalieri cristiani da parte del duce supremo Goffredo di Buglione. Egli è detto “fanciullo”, dal momento che non aveva ancora compiuto i quindici anni allorché aveva deciso, tre anni prima, di raggiungere da solo il campo cristiano in Oriente per partecipare alla Crociata (I, 60, 1). Al presente, dunque, è un giovinetto diciottenne, al quale è appena spuntata la prima peluria sul mento (60, 7-8).

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Nato da Bertoldo d’Este (Bertoldo il possente), figlio di Azzo IV e fratello di Guelfo, e da Sofia di Zaeringen (Sofia la bella) sulle rive dell’Adige, dove sorge appunto la città di Este, culla dei signori di Ferrara, Rinaldo, appena terminato lo svezzamento, fu allevato alla corte di sua zia, la grande Matilde di Canossa, contessa di Toscana, che lo istruì personalmente nell’arte del regnare. Rinaldo d'Este visse con Matilde finché non udì il richiamo della Crociata (I, 59, 8: la tromba che s’udìa da l’Oriente), che lo indusse a partire immediatamente. Rinaldo è dotato di un naturale carisma, che si manifesta soprattutto nel portamento fiero e regale, ma allo stesso tempo pieno di grazia (I, 58, 3-4: dolcemente feroce alzar vedresti / la regal fronte), che attira l’attenzione di tutti. Precocemente esperto nell’esercizio delle armi e valoroso di là da ogni aspettativa, pare assommare in sé le qualità di Marte e di Amore, ai quali è assimilato rispettivamente per l’impeto guerresco e per la straordinaria bellezza (58, 7-8). Nessun altro cavaliere è degno di stargli alla pari, neppure il prestante e valorosissimo Tancredi (45, 2). Rinaldo è il più magnanimo e il più bello (canto III, 37, 3). In battaglia corre all’attacco davanti a tutti, con la fulmineità di un lampo, ed è distinguibile anche da lontano per la sua insegna, l’aquila bianca in campo azzurro, stemma degli Estensi. Dall’alto della torre di Gerusalemme Erminia lo addita al re Aladino come il più temibile dei nemici. Se ce ne fossero altri sei come lui, l’esercito cristiano avrebbe già conquistato tutti i regni musulmani d’Asia e d’Africa (III, 38). Quando scendono in campo assieme, Rinaldo e Tancredi fanno il vuoto attorno a sé (41). Perfino il campione dei pagani Argante viene abbattuto da Rinaldo e si rialza a stento (41, 7-8). Dopo che Dudone è stato ucciso da Argante, Rinaldo, impaziente di vendicarlo, darebbe senz’altro l’assalto alle mura di Gerusalemme, entro le quali il nemico si è rifugiato, se non fosse fermato da un ordine perentorio di Goffredo, che intende risparmiare inutili pericoli ai suoi guerrieri più valorosi e preservarne le energie per occasioni più propizie. L’episodio che determina l’allontanamento di Rinaldo dal campo crociato e le conseguenti sventure dell’esercito cristiano è narrato nel canto V. Si tratta di eleggere il capo della scorta di dieci cavalieri che dovrà accompagnare Armida in Siria e aiutarla a riconquistare quel regno che, secondo il menzognero racconto della maga, le è stato usurpato dallo zio. Eustazio propone l’investitura di Rinaldo, ma Gernando, re di Norvegia, avido di onore più che delle grazie di Armida e posseduto da un demonio che gli ispira sentimenti e parole di gelosia, inveisce con violenza contro Rinaldo e, ignaro di essere da lui ascoltato, lo copre di insulti e gli rivolge accuse disonorevoli (V, 23-24). A tali parole Rinaldo reagisce con ira. Apertasi senza difficoltà la via tra i commilitoni di Gernando, che tentano di difenderlo, si avventa contro il meschino e lo uccide (27-31), contravvenendo così a un editto di Goffredo che proibisce ai crociati di far duelli fra loro, pena la morte. Informato dell’accaduto, il comandante supremo, consigliato da Arnalto, da Raimondo e da altri nobili duci, decide di arrestare il giovane, ma Tancredi si precipita alla sua tenda per metterlo sull’avviso e per tentare di salvarlo (40). Rinaldo vorrebbe attendere a pie’ fermo l’arrivo di Goffredo e, se occorre, sfidarne l’ira (45), ma Tancredi, approvato da Guelfo, lo convince a reprimere l’orgoglio e a partirsene dal campo, chè allora tutti si renderebbero conto di quale campione sono rimasti privi (47-50). Rinaldo gli dà ascolto, monta a cavallo e parte con due soli scudieri al seguito, animato da un grande desiderio di “magnanime imprese” (52). Di fronte a Goffredo lo zio Guelfo giustifica la decisione del nipote, del cui onore offeso si proclama campione (57-58). Si torna a parlare di Rinaldo nel canto VIII, la prima parte del quale è dedicata alla vicenda di Sveno, l’infelice principe di Danimarca partito per la Terra Santa con il vivo desiderio di emulare la gloria di Rinaldo (VIII, 7), le cui gesta ha udito narrare da un messaggero di Goffredo (9). Ma Sveno muore eroicamente nel primo scontro con i musulmani, ucciso da Solimano. Carlo, l’unico dei suoi cavalieri sopravvissuto alla strage, ne raccoglie la spada per farne dono a Rinaldo, cui il Cielo chiede di vendicare la morte dell’eroico principe. Nel frattempo un gruppo di predatori cristiani trova, durante una sortita, il cadavere decapitato di un guerriero ucciso a tradimento, come dimostrano le ferite alla schiena; le sue armi e l’insegna dell’aquila estense inducono a credere che si tratti di Rinaldo (52).

L’annuncio della tragica scoperta getta il campo cristiano nella costernazione ed alimenta persino un principio di rivolta contro Goffredo, ritenuto da molti il responsabile indiretto della morte dell’eroe a motivo dell’invidia (67). Il duce riesce a soffocare sul nascere la sedizione, ma tutti sono convinti che Rinaldo ormai sia morto. Riaccende le speranze il racconto di Guglielmo, figlio del re d’Inghilterra, uno dei dieci cavalieri partiti con Armida e da lei dapprima imprigionati, successivamente tramutati in bestie o piante, infine destinati in dono al re d’Egitto come schiavi (canto X, 70). Guglielmo narra come, proprio durante il trasferimento in Egitto, incatenati e sorvegliati da cento custodi armati, essi siano stati salvati da Rinaldo, che ha assalito e ucciso l’intera schiera dei custodi e liberato i dieci, a cui ha porto la destra e rivolto parole di saluto. Egli dunque è vivo: l’equivoco della sua morte è sorto dal fatto che dopo la strage egli aveva abbandonato sul posto la sua armatura e le sue vesti lacere ed insanguinate (72). Si inserisce a questo punto la profezia di Piero l’Eremita, che preannuncia la futura gloria di Rinaldo e della sua discedenza. Nelle sue parole il giovane acquista quell’alone di eroe fatale che ne fa un predestinato. La profezia è in parte circonstanziata [spetterà a Rinaldo domare Federico Barbarossa, “l’empio Augusto” (75. 4), e salvare così la Chiesa e Roma dai suoi artigli (75, 5-8)], in parte ricalca genericamente il tòpos del perfetto cavaliere, che umilia i superbi e solleva i deboli, punisce gli empi e difende gli innocenti (76) [95]. LA TRIADA RINALDO/ARMIDA: Dopo un silenzio di ben tre canti (XI-XIII), la narrazione delle vicende dell’eroe riprende nel canto XIV, il primo della triade (XIV-XVI) dedicata agli amori di Rinaldo e Armida. L’anima di Ugone, il defunto condottiero dei crociati francesi [96], appare in sogno a Goffredo e gli rivela che Rinaldo è stato destinato dal Cielo a risollevare le sorti dei Crociati e ad avviare a felice esito la guerra: egli solo è in grado di sciogliere l’incantesimo della selva di Saron [97]; solo con l’apporto della sua mano l’esercito cristiano potrà sbaragliare le possenti armate egiziane e superare le mura di Gerusalemme (XIV, 14).

Goffredo deve quindi richiamarlo dall’esilio e concedergli il suo perdono (16). Ugone gli rivela altresì che presentemente il giovane delira / e vaneggia ne l’ozio e ne l’amore (17, 5-6). Ai cavalieri Carlo e Ubaldo viene assegnata la missione di ricercare Rinaldo e ricondurlo al campo. Dal mago di Ascalona essi vengono a sapere che Rinaldo è stato sedotto da Armida e vive con lei nelle Isole Fortunate una vita di delizie. Il mago narra nei particolari la vicenda di Rinaldo, spiegando come l’eroe, dopo aver liberato i prigionieri di Armida, avesse deposto le sue armi e indossato quelle di un pagano, e come Armida, giunta sul posto e constatato l’eccidio dei suoi, per vendicarsi avesse rivestito con le armi di Rinaldo il corpo decapitato di un guerriero, per far credere che il giovane fosse stato ucciso e per far ricadere su Goffredo la colpa della sua morte. Questo spiega l’equivoco in cui sono incorsi i predatori cristiani che hanno trovato l’armatura di Rinaldo insanguinata e ne hanno dedotto la morte dell’eroe. Armida, poi, per completare la sua vendetta, aveva attirato Rinaldo su un’isoletta del fiume Oronte e lì aveva suscitato davanti a lui l’apparizione di un fantasma con le sembianze di una nuda sirena, la quale, dopo averlo invitato col suo canto seducente ad abbandonarsi ai piaceri terreni (XIV, 62-64), lo aveva fatto cadere in un sonno profondo. Armida allora era uscita dal suo nascondiglio per ucciderlo, ma, contemplando le bellissime fattezze del giovane, se n’era innamorata all’istante e aveva deciso di farne il proprio amante (66-67). Rapitolo, lo aveva trasportato nelle Isole Fortunate, in mezzo all’immensità dell’Oceano, dove in perpetuo april molle amorosa / vita seco ne mena il suo diletto (71, 1-2). Alla descrizione degli amori di Rinaldo e Armida il Tasso dedica una decina di ottave del canto XVI (17-26).

La coppia appare ai messi Carlo e Ubaldo, che la spiano di nascosto, in un atteggiamento e in una posizione che ricordano le effusioni amorose di Venere e Marte descritte da Lucrezio [100]. La donna è seduta sull’erba, il giovane ha il capo posato sul grembo di lei e i famelici sguardi avidamente / in lei pascendo si consuma e strugge (19, 1-2). Armida si gloria del proprio impero su Rinaldo (21, 1-2), forte di quel potere di seduzione che le deriva, oltre che dalla sua bellezza, dal possesso del cinto di Venere, celebrato e descritto da Omero nell’Iliade [101], che né pur nuda ha di lasciar costume (24, 6). Rinaldo è completamente in balìa di lei, dimentico della condizione di cavaliere e dei doveri ad essa connessi. I due si scambiano baci ardenti e parole appassionate, finché Armida non decide di allontanarsi per attendere ad altri impegni. Approfittando della sua assenza Carlo e Ubaldo si rivelano a Rinaldo e lo costringono a specchiarsi in uno scudo d’acciaio lucido come diamante, consegnato loro dal mago di Ascalona proprio a tale scopo (XIV, 77, 3-8; XV, 1-4). Contemplandosi in esso, Rinaldo constata in quali condizioni si sia ridotto a causa della sua vita lussuriosa e ne prova una profonda vergogna (31). Acceso di sdegno verso se stesso, si strappa di dosso i lascivi ornamenti e decide di ritornare al campo cristiano, dove – gli assicurano i due messi – Goffredo e gli altri Crociati lo attendono come un liberatore (33). Armida, accortasi del rinsavimento di Rinaldo, tenta con ogni mezzo di dissuaderlo dalla sua decisione (36-60 !). Dapprima ricorre alle arti magiche (36-37), ma queste sono vanificate dalla volontà divina. Decide quindi di rinunciare agli incanti, per fare appello unicamente al potere di seduzione della sua bellezza e delle sue suppliche [102], ma Rinaldo ormai è determinato.

Tuttavia, dietro consiglio di Ubaldo (41), non si sottrae ad un ultimo colloquio con la maga, per imparare a resistere al canto delle sirene, per non fuggire cioè gli allettamenti dei sensi, ma anzi divenire capace di affrontarli apertamente e vincerli (41, 5-8). E’ questa la prima prova, e forse la più difficile, a cui deve sottoporsi il guerriero rinsavito. Quando Armida sopraggiunge, egli non ha il coraggio di fissarla in volto (42, 7-8); mentre ascolta il lungo discorso della donna, misto di preghiere e di profferte umilianti, l’eroe fa appello alla ragione per non permettere ad Amore di riaccendergli nel cuore la passione: “Non entra Amor a rinovar nel seno, che ragion congelò,la fiamma antica.” (XVI, 52, 1-2) [103] Non può tuttavia impedirsi di provare una profonda compassione per lei (52, 3-6), ma, nel risponderle, riesce a dissimularla. Riconosce la natura peccaminosa del legame che l’ha unito ad Armida, ma non condanna la maga, perché anch’egli, per la sua parte, è colpevole (54, 3: anch’io parte fallii); non le serba rancore, dichiara anzi che ella avrà sempre posto tra i suoi ricordi più cari e accetta di continuare ad essere suo campione per quanto lo consentiranno la guerra santa, il suo onore e la sua fede (54, 5-8). L'onore appunto gli impone di troncare quella vergognosa relazione (55, 1-4) e di far ritorno alla guerra. Rivolge infine ad Armida un augurio di pace, invitandola a ritrovare la saggezza e la misura dell’onore (55, 7-8; 56, 1-4). Ma le sue parole non fanno breccia nel cuore della donna, che reagisce ad esse con violenza e respinge con sarcasmo i consigli (58, 5-8), giurando di perseguitare Rinaldo con tutte le sue forze, novella furia infernale, finché non lo vedrà giacere morente e non lo udrà invocare il nome di lei tra i rantoli dell’agonia (59-60, 1-4). Appena pronunciate queste parole, Armida sviene; non può quindi notare che gli occhi del suo nemico sono bagnati di pianto: il Cielo le nega anche il piccolo conforto di vedere Rinaldo in preda alla commozione (61).

Il viaggio di ritorno di Rinaldo all’esercito cristiano è brevemente narrato nella seconda parte del canto XVII (ottave 54-56): la navicella è guidata dalla Fortuna, che riporta l’eroe e i suoi due salvatori Carlo e Ubaldo sani e salvi in Palestina. Appena sbarcati, i tre guerrieri incontrano il mago di Ascalona, che invita Rinaldo a meditare sul valore della virtù e gli rivela il suo destino di eroe predestinato alla gloria di eccelse imprese (62, 1-4); gli mostra quindi un meraviglioso scudo, nel cui metallo è effigiata tutta la storia della nobile casata d’Este [104]; esso sarà d’ora in poi la sua arma di difesa. Il mago gli illustra il significato delle scene istoriate, eccitando nel giovane mille spiriti d’onor (81, 7-8), che lo rendono desideroso di emulare le gesta degli avi (82). Carlo gli consegna quindi la spada dell’eroico e sfortunato principe Sveno di Danimarca, ucciso da Solimano, perché con essa Rinaldo lo vendichi e se ne serva sempre da guerriero giusto e pio non men che forte (83, 6). Il mago d’Ascalona scorta i guerrieri fino alle tende cristiane e, dopo aver rivelato a Rinaldo i futuri fasti della sua discendenza, si congeda definitivamente. Rinaldo è accolto al campo da Goffredo in persona. (97, 7-8).

Il canto XVIII, quasi per intero imperniato sulle gesta di Rinaldo, consta di tre distinti episodi: la purificazione, la vanificazione dell’incantesimo della selva di Saron e l’assalto alle mura di Gerusalemme. Rinaldo si dichiara pentito dell’uccisione di Gernando e si rimette al giudizio di Goffredo, pronto ad accettare qualunque punizione il duce voglia infliggergli. Ma Goffredo gli impone come “penitenza” di compiere opre famose, cominciando col vincer … de la selva i mostri (2, 8). I Crociati, infatti, non possono prelevare dalla selva il legname occorrente per la costruzione di nuove macchine d’assedio a causa della presenza in essa di mostri terrificanti, che hanno messo in fuga anche i più valorosi, come Tancredi. Rinaldo dà senza esitazione la sua parola, quindi scambia parole e gesti affettuosi con i ritrovati compagni d’arme, infine si apparta da solo con Pietro l’Eremita, il quale lo esorta a confessarsi con spirito di sincero pentimento, per sgravare la coscienza dai peccati e riacquistare la grazia di Dio.

Dopo che l’eroe, piangendo, ha confessato tutte le sue colpe, il santo eremita lo assolve e gli impone come penitenza di ascendere all’alba sul monte Oliveto, a oriente di Gerusalemme, quello stesso monte che vide l’agonia del Cristo prima del suo arresto, e poi di passare immediatamente nella foresta incantata per vincerne i fantasmi ingannevoli e bugiardi (10, 2). Rinaldo obbedisce: dopo aver trascorso la notte in meditazione, poco prima dell’alba indossa l’armatura e, su di essa, una sopravveste di color cinerino (11, 6 e 16, 2), simbolo di penitenza. Quindi si avvia a piedi, solo e silenzioso, su per la montagna, contemplando le bellezze del cielo nel crepuscolo mattutino. Fra sé confronta quello spettacolo meraviglioso, che suggerisce il pensiero dell’infinito e dell’eterno, con la seduzione esercitata da un girar d’occhi o da un balenar di riso in breve confin di fragil viso (13); riflettendo cioè su tale divario tra la vastità del creato, tempio di Dio, e la inconsistente e caduca manifestazione della bellezza umana, egli riconosce quanto spesso l’uomo anteponga questa a quella, dimentico del suo destino ultraterreno: anche lui, Rinaldo, ha dissipato la propria vita, cedendo agli impulsi della carne e delle peggiori tra le passioni umane, la superbia e l’ira (la caligine del mondo e de la carne: 8, 1-2). Ne chiede perdono a Dio e lo ottiene: il Cielo attesta visibilmente il suo ritorno alla grazia, aspergendo la sua sopravveste di una rugiada che ne deterge lo squallido colore e la rende candida e luminosa (16); intanto i primi raggi del sole indorano il mondo. Forte della riconciliazione con Dio, l’eroe scende senza alcun timore nella antica alta foresta (17) e ne vince con irrisoria facilità gli incanti e i terrori: non si lascia sedurre né dai dolci canti delle ninfe e delle sirene (18-19), né dalle attrattive di una natura lussureggiante (20-24); non cede alle lusinghe delle ninfe che, prodigiosamente uscite dalle cavità di cento querce, intrecciano danze e carole sotto isuoi occhi, né si lascia irretire dalla suprema illusione, l’apparizione di Armida, che tenta di ridestare in lui l’antica passione (giungi i labri a le labra, il seno al seno: 32, 7).

E quando, allo scatenarsi di una furiosa tempesta, la falsa Armida e le ninfe si trasformano rispettivamente in un gigante con cento braccia armate e cento occhi e in orrendi ciclopi anch’essi armati, egli non si fa prendere dalla paura, ma si avventa contro il gigantesco mirto (antico simbolo dell’amore), dal quale sono scaturiti tutti i prodigi della selva, e lo fa a pezzi. All’improvviso l’incanto si dissolve: le larve spariscono e la foresta riacquista il suo naturale aspetto fosco e selvaggio (37-38). Ricostruite le macchine d’assedio, i Crociati sferrano l’attacco alle mura di Gerusalemme, ma Rinaldo non stima degno di sé quel rischio. Legato ad una concezione aristocratica della cavalleria, stima onor plebeo quand’egli vada / per le comuni vie co ‘l vulgo in schiera (72, 3-4) e vuol tentare ciò che nessuno mai oserebbe: da solo dà l’assalto a un tratto delle mura non ancora attaccato perché più munito ed alto (72, 7); vi appoggia una scala e, incurante di tutto ciò che piove dall’alto, sale sino ai merli (75-77). Lassù non solo regge all’urto dei difensori, ma aiuta i commilitoni a salire per quella via che egli ha reso sgombra e sicura (78). In seguito fa strage di Siri (97, 6) e ovunque si mostri, incute nei nemici un terrore tale che li spinge alla fuga. Persino il fiero Solimano, allorché venirne Rinaldo in volto orrendo / e fuggirne ciascun vedea lontano (99, 1-2) abbandona il proposito di resistere a piè fermo e cede il passo ai Crociati capitanati da Goffredo, consentendo loro in tal modo di piantare sulle mura il santo vessillo della Croce (99, 5-8).

Nelle vicende belliche narrate nel canto successivo, il XIX, Rinaldo sembra avere un ruolo marginale rispetto ad altri guerrieri. In realtà egli continua a svolgere il suo compito di eroe fatale, giacché ogni suo intervento è decisivo per le sorti della battaglia: tutto del sangue ostile orrido e molle Rinaldo corre e caccia il popolo empio. (XIX, 31, 3-4) Né egli si comporta mai in modo sleale: attacca solo chi è armato e non infierisce sugli inermi (32, 1-4). Per conquistare il tempio di Salomone, occupato dagli infedeli che vi si sono chiusi dentro, ne sfonda la porta con una gigantesca trave (36) e vi fa irruzione, seminandovi strage. Contribuisce poi ad impedire che Raimondo di Tolosa, ferito, venga fatto prigioniero da Solimano, e quando quest’ultimo si chiude, per l’ultima disperata difesa, nella torre di David, Rinaldo non esita ad assaltare il baluardo, deciso a mantenere il giuramento fatto di vendicare la morte del danese Sveno; desiste però dal tentativo quando Goffredo, al calar della notte, dà il segnale della ritirata (49-50). Frattanto, nel campo egiziano, Armida confida ai campioni musulmani la sua impazienza di essere vendicata: ella brama la testa di Rinaldo e più d’uno le promette di recargliela entro breve tempo (70 e sgg.). Ma Raimondo, avendo spiato le mosse dell’esercito egiziano ed essendo scampato alla cattura, mette in guardia Rinaldo (124, 3-4; 7-8). L’eroe torna ad essere il protagonista assoluto nel canto conclusivo del poema. A lui Goffredo affida il comando dei cavalieri di ventura per l’ultimo e definitivo assalto, ribadendo che da lui solo dipende il coronamento dell’impresa (canto XX, 11, 1-2); gli impartisce quindi disposizioni tattiche e strategiche (11, 3-8).

Nell’infuriare della battaglia, allorché Rinaldo e il suo drappello si mettono in movimento parve che tremoto e tuono fosse (53, 8). I colpi dell’eroe non cadono mai a vuoto; spesso con un sol colpo uccide più d’un nemico (55, 1). Armida, sopraggiunta sul suo carro, tenta invano di colpirlo con le sue frecce [106]. Nella sua travolgente avanzata il guerriero trova alfine sulla sua strada Adrasto, che si è proclamato campione di Armida, e Solimano. Con un sol colpo si sbarazza del primo (103) e l’irrisoria facilità di tale successo genera sgomento nel sultano, togliendogli ogni vigore. Il duello tra l’eroe cristiano ed il sovrano di Nicea è impari; Rinaldo trova scarsa resistenza in Solimano, che pure non viene meno alle leggi dell’onore cavalleresco: non si sottrae all’avversario con la fuga, né implora pietà, né emette alcun gemito (107) mentre muore sotto gli implacabili colpi del nemico. Stessa sorte tocca poco dopo a Tisaferno, altro campione di Armida, che cade massacrato da Rinaldo proprio sotto gli occhi della bella maga.

A questo punto la vicenda di Rinaldo si congiunge di nuovo strettamente a quella di Armida, cui si rimanda per i particolari [107]: il guerriero giunge appena in tempo a fermare il braccio della donna, che ha deciso di uccidersi; giura quindi di riportarla sul suo trono e si augura che il Cielo la illumini così che decida di abbandonare la religione pagana e di convertirsi alla vera fede (135). La riconciliazione con Armida conclude la vicenda dell’eroe e precede di poco la conclusione del poema stesso.

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