C’è un luogo in Italia dove la leggenda di Artù e Ginevra è stata scritta sulla pietra, quasi cento anni prima che Chrétien de Troyes scrivesse il poema che rese famoso in tutto il mondo la "materia di Bretagna" e la "Cerca del Graal".
Questo luogo si trova nel cuore della Pianura Padana, lungo quell’asse viario, ancora oggi importantissimo, costruito da Romani e chiamato Via Emilia: Modena.
Qui, nel cuore della città, dove i simboli del potere civile e del potere religioso si affacciano su Piazza Grande, sorge uno degli esempi più belli al mondo di romanico medioevale: il Duomo, dedicato a San Geminiano.
Nelle pagine di questo enorme libro di pietra i nostri antenati hanno lasciato dei messaggi esoterici, raccontati attraverso segni scolpiti, che potevano essere compresi solo da coloro, pochi probabilmente, che erano in grado di decifrarli.
Il Portale della Pescheria del Duomo di Modena
Fra le centinaia di sculture, capitelli, lesene e bassorilievi di questo spettacolare edificio, la porta situata sul lato sinistro che si affaccia a settentrione, detta Porta della Pescheria, così chiamata perché nelle vicinanze si trovava un banco per il commercio del pesce, è sicuramente la porta della chiesa più affascinante e misteriosa per i messaggi in essa scolpiti.
Nella zona centrale più alta, l’archivolto della Porta della Pescheria narra l’assalto di alcuni cavalieri armati di lance ad un castello turrito.
Al centro del castello si trova una prigioniera che congiunge le mani e quasi supplicante guarda verso i cavalieri alla sua destra, mentre il suo carceriere sta sollevando il ponte levatoio.
L'archivolto del Portale della Pescheria
Sull’archivolto, sopra i personaggi scolpiti, si trovano i nomi, di tutti, tranne di uno.
Guardando la porta, partendo da sinistra, il primo cavaliere è Isderno,, il secondo personaggio, senza nome, è il più misterioso di tutta la rappresentazione.
È sicuramente un cavaliere poiché è
dotato di scudo, spada e lancia
ma è senza elmo e armatura.
Peraltro la scritta "Artus de Bretania" è posta fra questi ed il successivo cavaliere che monta sulla lancia uno stendardo, probabilmente un segno di nobiltà.
Rimane il dubbio circa chi dei due sia Artù.
La scena prosegue con un villico appiedato
armato di piccone e pronto a colpire.
L’iscrizione sopra di lui ci dice che è
"Burmalto"
All’interno del castello la prigioniera è Winlogee ed il suo carceriere, che sta sollevando il ponte levatoio per difendere il castello dai nemici è Mardoc.
Proseguendo verso destra troviamo un cavaliere di nome Carrado che difende il castello dai cavalieri in arrivo, Galvagin, Galvariun e Che.
È indubbio.
Nell’archivolto si narra un brano della leggenda di
Artù di Britannia, ma, come si noterà, Artù non è chiamato Re, una narrazione questa che abbraccia la teoria dell’"Artù dux bellorum" o del "Comes Britanniarum", secondo le quali Artù è il comandante britanno romano di truppe celtiche che intorno all’anno 500 d.C. difendevano i confini dell'Impero Romano e la Britannia dalle invasioni dei Sassoni e degli Angli.
Particolare dell'archivolto con Artus De Bretania
Gli altri cavalieri rappresentati nell’archivolto sono i compagni di Artù:
Isdernus (Yder o Sir Ivano)
Galvagin (Gawain o Sir Galvano),
indicato come il migliore dei Cavalieri della Tavola Rotonda e nipote di Artù perché figlio di sua sorella Morgause e del Re Lot di Orkney e
Lothian -- la cui forza sembrava derivasse dal sole (era infatti invincibile di giorno e debole dopo il tramonto)
Galvariun (Galeron o Sir Galleron di Galway) e
Che (Sir Kay l'Alienato) -- uno dei primi Cavalieri della Tavola Rotonda che divenne successivamente Siniscalco, figlio di Sir Ector il quale adottò Artù dopo che Merlino lo portò via dai suoi genitori naturali (Uther Pendragon e Igraine) e lo crebbe come un figlio.
La prigioniera Winlogee (la cui forma gallese Gweenhwyfar significa "anima bianca" o "incantatrice bianca") altro non è che Ginevra, la fanciulla dai capelli scuri e gli occhi verdi sposa di Artù, imprigionata da Mardoc, il signore del castello, difeso da un cavaliere gigante, Carrado (Carados) e da un gigante di nome Burmaltus (Burmalt).
Parte centrale dell'archivolto in cui è rappresentata Winlogee/Ginevra
Certo si tratta di una delle tante leggende che
riguardano Artù, ma la particolarità è che
la narrazione dell’archivolto racconta un
episodio tratto dal Durmat Le Galoise,
opera anonima del XIII secolo,
di cento anni successiva alla
datazione della porta, nel quale Ginevra viene rapita dal cavaliere gigante Carados, che la porta alla Torre Dolorosa da Mardoc, signore della fortezza e della stessa prigioniero.
Artù, insieme a Kay, Yder e Galvano, si
lanciano all’inseguimento del rapitore e
giungono alla Torre Dolorosa,
difesa dal gigante Burmalt, ma non riescono ad entrare.
Sarà una donna, anch’essa rapita da Carados e Mardoc, a donare a Galvano una spada magica (tema ricorrente nei racconti arturiani), con la quale questi uccide Carados.
Artù ed i suoi cavalieri riusciranno ad entrare nella fortezza facendosi consegnare Ginevra e risparmiando Mardoc.
La leggenda narrata nel Durmat Le Galoise, coincide perfettamente con i personaggi e con la storia incisa nella pietra dell’archivolto del Duomo di Modena.
Ma chi aveva portato
nella Pianura Padana,
lontana centinaia di chilometri
dai luoghi in cui la leggenda dovrebbe
essere nata, un racconto che appare ufficialmente
in forma scritta oltre cento anni dopo?
Se analizziamo il corpus letterario delle leggende di Artù usando come linea di confine la datazione (1100/1110 d.C.) del portale di Modena, si può notare che esistevano già prima di tale data una serie di poemi epici che narravano di Artù, come capo guerriero o comandante supremo (e non come re) a partire dal poema epico gallese del VI secolo, il "Gododdin", alle due cronache gallesi scritte in latino: l'"Historia Britonnum" (IX sec.) e gli "Annales Cambriae" (X sec.), fino all’opera gallese Kwlhwch e Olwen (XII sec.).
Solo successivamente a tale data con la "Historia Regum Britanniae" scritta fra il 1136 e il 1138 da Goffredo di Monmouth, si inizia a scrivere di Artù come re e le sue storie si diffondono in tutta Europa, anche se l’apice di tale successo verrà raggiunto da Chrètien de Troyes con i suoi romanzi cavallereschi scritti fra il 1160 e il 1190 dove introduce il tema della Cerca del Graal.
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È probabile perciò che troubadores provenienti dal nord siano giunti nella Pianura Padana per narrare le mitiche gesta di Artù.
Rimane, comunque, il mistero.
Come mai nessuno dei poemi conosciuti all’epoca e sopra citati narra della storia scritta sul portale della Pescheria, e ancora come mai questa appaia ufficialmente solo parecchi anni dopo.
Ma perché i costruttori del Duomo di Modena hanno sentito la necessità di scolpire questa leggenda sull’archivolto della porta attraverso la quale il popolo passava per entrare nella chiesa e rendere omaggio alle spoglie del suo santo protettore: San Geminiano?
Qual era il messaggio che la gente doveva leggere?
La risposta, forse, potrebbe darcela colei che presenziò il 9 giugno 1099 alla posa della prima pietra del Duomo:
Matilde di Canossa, la donna più potente d’Italia che, molto probabilmente, aveva finanziato con le sue immense ricchezze la costruzione di questa opera.
Potrebbe essere stata lei, grande committente, ad aver voluto l’interpretazione della leggenda di Artù, narrata nel portale, forse portata alla sua corte da cantastorie franco bretoni, come allegoria della conquista di Gerusalemme, dove Ginevra è Gerusalemme e Artù con i suoi cavalieri sono Goffredo di Buglione, suo nipote, e i Crociati.
Proprio in quei giorni i Crociati infatti erano giunti alle porte di Gerusalemme (il 14 luglio 1099 ci sarà il primo assalto alla Città Santa) e Matilde, insieme al Papa Urbano II era stata una delle grandi ispiratrici della Prima Crociata guidata dal nipote Goffredo di Buglione.
O forse il mistero che avvolge la Porta della Pescheria è ancora più complesso alla luce di un’analoga rappresentazione a Bari, nella Basilica di San Nicola, nella fascia interna della lunetta della Porta dei Leoni o Porta degli Otto Cavalieri, dove si trovano otto cavalieri, quattro per lato, che attaccano una città, con torre e castello difesa da uomini appiedati.
L’iconografia rappresentata è la stessa di quella del Portale di Modena, così come il periodo di realizzazione del manufatto è lo stesso (inizio del XII secolo).
Non dobbiamo dimenticare che Bari era uno dei porti da cui partivano per le Crociate in Terrasanta e pertanto il richiamo ai cavalieri che liberano Gerusalemme potrebbe essere verosimile.
Ma la Basilica di San Nicola è qualcosa di più di una semplice chiesa poiché oltre a custodire i resti del santo a cui è dedicata, essa è stata indicata come il luogo in cui è stato custodito il Santo Graal e al suo interno come all’esterno vi sono incisi messaggi criptati che, se decifrati, dovrebbero portare alla Sacra Coppa.
Un terzo richiamo alla leggenda di Artù, risalente allo stesso periodo (XII secolo) lo troviamo nel mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, realizzato da uno strano monaco, Pantaleone, che oltre a conoscere l’Antico Testamento sembra avesse anche conoscenze gnostiche, in particolare quelle ricavate degli antichi vangeli apocrifi.
Apparentemente il mosaico rappresenta raffigurazioni tratte dall’Antico Testamento, ma all’interno sono inseriti simboli e immagini che sono completamente al di fuori del contesto. Infatti nel presbiterio, dove è rappresentata la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso, è raffigurato, inspiegabilmente, Re Artù in groppa a un caprone con in mano uno strano scettro ricurvo.
Forse quel legame tra Modena con Bari e Otranto dato dalla figura di Artù, trova la spiegazione non tanto in Matilde e nei Crociati, quanto in qualcosa di più misterioso ed esoterico, il richiamo al Santo Graal, la Sacra Coppa, e il luogo in cui essa è nascosta.
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