Speranza
Il primo riferimento di Mozart a Salieri risale
al 1773 circa.
Il sedicenne di Salisburgo, certamente su indicazione del
previdente Leopold, dedica una serie di sei variazioni pianistiche sul tema “Mio
caro Adone” ripreso dall’acclamata opera La fiera di Venezia (Vienna,
gennaio 1772) del ventitreenne operista di Legnago il quale è l’astro nascente
sulla scena teatrale della capitale.
Antonio Salieri, protetto del compositore
di corte Florian Gassmann e devoto amico di Gluck, lavorerà per cinquant’anni
alla corte degli Asburgo (un record insuperato).
Giunto a Vienna nel 1766 dopo
una impressionante serie di successi teatrali (1770-74) viene nominato
compositore da camera a corte (1774) e in seguito, nel febbraio 1788 (alla morte
di Bonno), diviene finalmente Kapellmeister, carica che mantiene fino all’anno
del pensionamento (1824).
Tra i suoi allievi più importanti ricordiamo Sussmayr,
Beethoven, Schubert, Hummel e Liszt, allievi che, senza eccezioni, ebbero parole
di lode per il maestro italiano e spesso gli dedicarono opere importanti.
La
posizione di Salieri è dunque di tale solidità che ogni presunta gelosia
attribuita all’italiano nei confronti di Mozart è totalmente fuorviante.
E’
dunque probabile che le Variazioni mozartiane siano state concepite come un
omaggio da presentare al già influente compositore in occasione del viaggio a
Vienna di Leopold e Wolfgang avvenuto nell’estate del 1773.
Va anche rilevato che quando a Milano viene aperto il Teatro alla Scala (1778; il Teatro Ducale era stato distrutto dalle fiamme nel 1776) è proprio Salieri a ricevere il prestigioso incarico di inaugurarlo e non Mozart, il quale vantava peraltro un’ampia frequentazione della scena musicale milanese avendo composto, su raccomandazione di Firmian, il governatore della Lombardia austriaca, ben tre opere nel periodo 1770-72.
Il lavoro scritto dal compositore veneto per quella importante occasione, Europa riconosciuta (agosto 1778), mostra un autore maturo e capace di coniugare la vocalità italiana virtuosistica e ricca di colorature con le recenti tendenze dell’opera gluckiana.
L'operista utilizza
pienamente l’orchestra con
sonorità dense e sinfoniche, la inserisce
in un fitto
dialogo con le voci -- spesso ridotte
all’arioso declamato, ma altrove condotte in
duetti, terzetti e
quintetti tipici della tradizione italiana.
Non manca, nel
Finale primo, un concertato dello “smarrimento”.
Salieri valorizza l'orchestra facendone sia
uno strumento di “pittura” scenica, sia un mezzo per rendere l’azione drammatica
concisa, animata
e pertanto capace di valorizzare la vicenda teatrale.
Lo stile
delle colorature, poi, spinge più volte il canto
nella direzione dell’imitazione
della scrittura
strumentale, in ciò anticipando
la scrittura di alcune celebri
arie
di bravura del salisburghese.
Europa riconosciuta è una partitura
degna del massimo interesse che segna una tappa
importante nel lavoro di nuova “fusione” tra sinfonismo e vocalità in ambito
teatrale e quindi di ampliamento delle possibilità espressive, senza nulla
togliere al canto italiano.
Il Mozart del 1778, prolifico autore di opere fin
a quel momento di modesto interesse (nel periodo 1768-75), non ha ancora
prodotto niente di paragonabile alla coraggiosa opera destinata
all’inaugurazione scaligera.
Un’antica tradizione musicologica tende a porre Mozart e Salieri in una netta contrapposizione basata su evidenti motivi di concorrenza professionale ed etnica.
Una fredda ricostruzione dei fatti, volta a privilegiare le cose concrete e documentate rispetto alle cose dette (sempre difficili da controllare e collocare nel giusto contesto), porta a conclusioni radicalmente differenti.
Ferma restando l’esistenza di una evidente concorrenza in ambito musicale, nella Vienna degli anni ottanta i due musicisti lavorano in realtà fianco a fianco su progetti operistici ampiamente graditi (quando non esplicitamente commissionati; fa eccezione il Trofonio) dall’imperatore Giuseppe II, innervati dai medesimi riferimenti ideali alle logiche dell’ugualitarismo massonico e imposti a un’aristocrazia viennese in larga parte recalcitrante ai disegni riformatori dell’ audace imperatore.
La politica riformistica di Giuseppe II, come registrato in numerose, attendibili opere storiche, lavora nella direzione di un netto rafforzamento nazionalistico e militare.
Con un’ottica totalmente strumentale Giuseppe II tradisce la classe nobiliare che lo sostiene e si allea alle logge massoniche, alla nobiltà convertitasi al nuovo verbo e alla borghesia produttiva in una logica di incentivazione di tutte le attività produttive nazionali, di guerra aperta ai poteri da sempre alleati quali quello della Chiesa di Roma, apportatrice di una filosofia di vita universalistica, pacifista e “inoperosa” e in un’alleanza strategica con la Russia di Caterina II, volta quest’ultima a finalità espansionistiche nei confronti delle confinanti Prussia e Turchia.
Le vorticose riforme giuseppine prevedono, oltre alla chiusura di numerosi conventi e monasteri (vengono aboliti tra gli altri gli ordini dei Cistercensi, dei Camaldolesi, delle Carmelitane, in totale non meno di settecento conventi; tale politica diventerà un modello per la classe dirigente sabauda negli anni cinquanta dell’Ottocento), la creazione di barriere doganali protezionistiche in grado di difendere e incentivare la crescita del prodotto interno anche con finanziamenti statali, in una logica sostanzialmente autarchica (viene vietata l’importazione di non meno di duecento prodotti).
In ambito religioso si rendono tutti i culti uguali e tollerati, si aboliscono i vincoli che impedivano a protestanti ed ebrei di operare liberamente in ambito economico, si elevano al grado nobiliare numerosi ebrei. Insomma, Giuseppe II incentiva il capitalismo borghese basato su una forte e libera concorrenza, privilegiando le produttive classi medioborghesi a scapito della tradizionale aristocrazia fondiaria, inseguendo l’efficiente modello anglosassone, nordico e protestante.
Giuseppe II è dunque un antesignano
di quel fanatismo modernista (oggi egemone) che pone il lavoro e la conseguente produzione di merci quali attività centrali dell’esistenza (il monarca gode infatti tutt’ora di ottima stampa e di numerosi estimatori perfino tra i cineasti di Hollywood, come dimostra il suo brillante ritratto presente nel celebre "Amadeo" di Milos Forman, 1984.
Invano papa Pio VI, durante l’inconsueta visita di stato nella capitale asburgica (aprile 1782), cerca di porre un freno alle riforme e di salvaguardare il primato cattolico, cerca insomma di sedare quella che molti definiscono una rivoluzione partita dal trono.
Anche la musica, il teatro d’opera e
le accademie nobiliari sono un prodotto commerciale,
utile per creare quel forte senso di identità nazionale, tanto auspicato dall’imperatore.
Ecco dunque l’apertura, già nel 1778 (in epoca teresiana) di un teatro d’opera nazionale a Vienna per il quale vengono composti una serie di Singspiel in lingua tedesca tra i quali Der Rauchfangkehrer (aprile 1781) scritto controvoglia da un Salieri che si trovava a disagio con il tedesco (fino alla morte il compositore italiano ammise di essere in difficoltà con la lingua germanica, in particolare con i testi stampati nei tipici caratteri aulici) e
Il ratto del seraglio
(luglio 1782) di Mozart, opera commissionata da Giuseppe II al “neoviennese” compositore di Salisburgo la quale costituisce l’esordio in grande stile del musicista nella capitale dell’impero.
Il progetto di questo imperatore “illuminista” e ammiratore della cultura francese
è quello di
esautorare progressivamente
l’opera in lingua italiana e
di sostituirla con quella in tedesco
sul modello della pratica (ormai vecchia di un secolo)
dei teatri parigini che Giuseppe II aveva potuto
ammirare durante la lunga permanenza nella capitale francese
nella primavera 1777: l’apertura del teatro nazionale a Vienna avviene infatti a ridosso del viaggio parigino, come un fatto semplicemente imitativo.
Salieri sarebbe dunque dovuto diventare una sorta di Cherubini
o Spontini tedesco (peraltro in anticipo su quelli di almeno un decennio),
adeguandosi a una scrittura germanica che in parte
il compositore di Legnago aveva già accettato, avvicinandosi allo stile di Gluck.
Lo scarso seguito
ottenuto con il teatro
nazionale convince più
avanti Giuseppe II ad
accantonare questo suo ennesimo, (per ora) artificioso
progetto nazionalista e a
riaprire l’opera italiana
nel febbraio 1783, affidandone sostanzialmente la gestione a un rincuorato Salieri.
Da un lato dunque gli inizi di Mozart a Vienna avvengono nel segno della nuova politica nazionalistica di Giuseppe II.
Dall’altro i successivi lavori teatrali (la trilogia italiana 1786-90) si muovono in un ambito rigidamente massonico e antinobiliare, in tandem con le creazioni ben più ardite ed estreme di Salieri.
Il teatro è uno degli strumenti con i quali l’imperatore propaganda il mondo nuovo e ugualitario in cui anche nobili e clero sono tenuti a pagare pesanti tributi (il monarca ha fatto redigere perfino un nuovo catasto) per il funzionamento della macchina dello stato e specialmente di quella militare in vista delle future avventure espansionistiche contro l’impero ottomano.
Una musicologia decisa a innalzare sopra tutto e tutti l’astro mozartiano, ha sempre maltrattato gli esiti musicali di Antonio Salieri, prima vice poi Kapellmeister dei teatri di corte.
Eppure, quanto meno in un’ottica meramente politica, l’operazione in due tempi Tarare - Axur costituisce un evento di portata europea sconvolgente per la sua intrinseca forza democratica, un evento che lascia allibiti per la sfrontatezza che anima la scrittura di Salieri - Beaumarchais (Tarare, Parigi 1787) e Salieri - Da Ponte (Axur, Vienna 1788) e che va bel oltre qualunque simbolica arietta antinobiliare (l’ipercommentata “Se vuol ballare signor contino” dalle Nozze mozartiane).
Salieri, che dopo il grande successo parigino de Le danaidi (1784) si è accreditato come il più competente seguace di Gluck in Europa (prendendo così le distanze dalla scuola italiana, ormai poco popolare presso un imperatore nazionalista), collabora nel 1785-86 con Mozart, dapprima per la composizione della cantata Per la recuperata salute di Ofelia dedicata alla cantante Nancy Storace, poi in occasione della serata musicale del febbraio 1786, in cui vengono messi in scena i due brevi atti musicali di natura satirica Der Schauspieldirector e Prima la musica, poi le parole, entrambi sul tema del teatro lirico (in questo secondo caso, tuttavia, l’operina di Salieri e Casti ironizza bonariamente proprio su Mozart e soprattutto sul suo collaboratore Da Ponte).
Sotto l’egida dell’imperatore i due compositori, dopo questo breve “rodaggio”, operano di comune accordo per portare nei teatri la nuova visione democratica, con grande irritazione di quella parte delle classi nobiliari conservatrici, ancora immune dal “contagio” illuminista.
Con il placet di Giuseppe II Salieri si sposta a Parigi dove collabora nientemeno che con l’avventuriero Beaumarchais, i cui testi sono stati per lungo tempo proibiti dalla censura.
Salieri alloggia per molti mesi nel medesimo appartamento del commediografo, lo segue nelle numerose peripezie ai limiti della legalità (tra l’altro il letterato sta cercando di pubblicare l’opera omnia di Voltaire) e finalmente completa la musica del Tarare (l’unico libretto per l’opera scritto da Beaumarchais, terminato già nel 1784 quando Salieri era a Parigi per Le Danaidi.
Un’attesa spasmodica circonda l’evento: è noto che
si tratta di un testo politico dai
tratti eversivi e la prima esecuzione (giugno 1787)
avviene in un clima di tensione prerivoluzionaria.
Maria Antonietta, regina e sorella di Giuseppe II,
si rifiuta giustamente di presenziare, mentre il lavoro
ottiene il trionfo largamente annunciato.
Per certi aspetti si può dire che Giuseppe II, appoggiando
da lontano l’operazione Tarare (poi Axur)
contribuisce inconsapevolmente alla tragica
morte della sorella (ghigliottinata a Parigi nel 1793).
Mentre il viceKapellmeister di Vienna lavora per
la Rivoluzione a Parigi, lo spregiudicato Lorenzo Da Ponte
traduce in versi Le Mariage de Figaro, opera formalmente vietata
in Austria, per Mozart, sotto lo sguardo benevolo di Giuseppe II.
Il parallelismo, troppo poco noto e sottolineato dai biografi mozartiani, ha dell’incredibile e costituisce in realtà una tipica macchinazione antinobiliare dell’imperatore.
Da Ponte, nelle reticenti e poco affidabili Memorie (1823; in esse non racconta neppure di chiamarsi Emmanuel Conegliano, di essere un ebreo convertitosi nel 1763 al cattolicesimo e di essere stato regolarmente ordinato sacerdote nel 1773 al termine degli studi in seminario), scrive che Salieri gli invia una lettera (oggi perduta) nella quale afferma di avere mostrato a Beaumarchais il nuovo libretto dapontiano del Figaro e che questo è stato ampiamente lodato dal letterato francese.
Salieri e Mozart (coadiuvati da Beaumarchais e Da Ponte) dunque lavorano fianco a fianco per propagandare il nuovo verbo massonico a Parigi e a Vienna e lo fanno per compiacere Giuseppe II.
L’intento di germanizzazione, perseguito in coerenza al quadro generale di politica nazionalista sopra esposto, si attua poi nell’obbligo imposto da Giuseppe II di adottare la lingua tedesca in tutte le istituzioni di Boemia, Ungheria e Croazia, secondo un’ottica centralista e antifederale che irrita non poco le nobiltà locali.
In Ungheria, lo stato più riottoso, Giuseppe II invia anche numerosi coloni tedeschi, secondo una strategia ricorrente di ogni potenza imperiale.
Un’intera classe di nuovi burocrati giuseppini (peraltro severamente controllata da una efficiente polizia segreta, creata dall’imperatore) si oppone alle nobiltà locali, nell’intento di rinsaldare un quadro politico centralistico, liquidando progressivamente ogni tendenza federalista.
In tale direzione va quindi interpretata la massiccia presenza di musiche mozartiane a Praga, quasi un’appendice di quella politica sostanzialmente coloniale.
Il salisburghese, operista oggettivamente poco amato a Vienna (il Figaro era stato solo un mezzo successo) nella seconda metà del decennio, viene impiegato nella capitale boema per dare prestigio e rispettabilità alla cultura tedesca: Figaro, Don Giovanni, i concerti e infine i festeggiamenti del 1791 per l’incoronazione di Leopoldo II (ovvero La clemenza di Tito, una replica del Don Giovanni e numerosi concerti di musiche mozartiane).
Non a caso dunque Giuseppe II non invia un operista italiano ma, probabilmente in accordo con i conti Thun, influenti sia a Vienna, sia a Praga nonché amici di vecchia data di Mozart, decide di far conoscere e rendere popolare la musica di Mozart nella capitale boema.
In quelle settimane invernali nella Praga dove “non si parla che del Figaro, non si suona, si canta, si fischietta altro che il Figaro, non si va all’opera se non per vedere il Figaro, sempre e nient’altro che il mio Figaro” (Mozart, citatissima lettera del 14 gennaio 1787), il musicista è ospitato proprio dal conte Johann Joseph Thun, legato alla Massoneria e agli Illuminati di Baviera.
D’altronde la compagnia teatrale di Pasquale Bondini (condirettore Domenico Guardasoni), la quale gestisce il Teatro nazionale e ha il merito di avere messo in scena il Figaro (dicembre 1786), è stata in precedenza impegnata per circa due anni nel teatro privato del conte Thun.
Ed è ancora Bondini, d’accordo con Guardasoni, a commissionare al salisburghese un’opera nuova per l’autunno 1787.
E’ inoltre significativo che Mozart venga salutato alla prima del Don Giovanni dal tipico applauso massonico, “una triplice ovazione”, sia in apertura sia in chiusura di serata (come riporta un giornale locale nei giorni successivi).
Va infine rilevato che la capitale boema non è certamente un centro di cultura musicale di antica tradizione.
Nel ben noto testo Viaggio in Germania Charles Burney, appassionato di cose musicali europee, giunto nella città nella seconda metà del 1772, ce ne restituisce un quadro tutt’altro che entusiasta, definendo in generale l’intera Boemia una regione povera e depressa.
Basti dire poi che lo studioso inglese rileva che a Praga non è operante alcun teatro musicale e che le poche iniziative in tale direzione sono appannaggio di qualche esclusivo palazzo nobiliare.
Va infine ricordato che la Boemia, pur avendo dato i natali a illustri musicisti del Settecento quali Jan Vaclac Stamitz (Nemecky Brod, 1717- Mannheim, 1757) e Josef Myslivecek (Praga, 1737 - Roma, 1781), incapace di valorizzarne i talenti, li ha lasciati andare a cercar fortuna in Italia e in Germania.
Rimane tuttavia da appurare il grado di
convinzione presente nell’animo e nel lavoro musicale di Salieri.
Nel 1785-86 il
Trofonio e Prima la musica, poi le parole, scritti in
collaborazione con l’enigmatico librettista Casti, dovevano avere irritato non
poco Giuseppe II, trattandosi nel primo caso di una probabile
satira delle sue linee di governo illuminate e nel secondo di una caricatura
dell’attività creativa dei suoi protetti Mozart e Da Ponte.
Ben presto Casti
viene messo nelle condizioni di andarsene e, contemporaneamente, Salieri parte
per Parigi per un lungo anno (luglio 1786 - agosto 1787) dove si accinge a
collaborare con il letterato massonico e rivoluzionario Beaumarchais.
Pur senza
avere alcuna documentazione al riguardo si può pensare che questo allontanamento
e connessa collaborazione al Tarare, sorta di manifesto programmatico dei
principi dell’egualitarismo illuminista (al quale Salieri peraltro aveva
cominciato a lavorare, seppure blandamente, già nel 1785-86 a Vienna -- il
libretto gli era stato consegnato da Beaumarchais stesso a Parigi, nel 1784),
siano stati quasi una punizione (nel tetro Novecento dei totalitarismi si
parlerebbe di “esperienza di rieducazione”) da parte dell’autoritario e
sgradevole Giuseppe II.
Lo confermerebbe il fatto che, ritornato a Vienna,
Salieri viene immediatamente invitato ad approntare una versione italiana
dell’opera francese (Axur, gennaio 1788) e viene inoltre obbligato a
collaborare proprio con quel Da Ponte (nel frattempo diventato popolare, grazie
ai successi firmati in coppia con l’operista spagnolo Martin i Soler nel corso
del 1786-87) che Salieri e Casti avevano irriso nell’operina di Schönbrunn del
febbraio 1786.
A questo quadro congetturale si aggiunge il fatto rilevante che
non c’è certezza intorno all’eventuale affiliazione massonica di Salieri e che,
passata la bufera, il conservatore Francesco II, nemico dichiarato della
Massoneria, lo manterrà nel suo prestigioso incarico di Kapellmeister di corte
(la principale carica musicale dell’impero) fino al suo pensionamento (1824).
In ogni caso, se anche poco convinto, Salieri in quel frangente fa buon viso a cattivo gioco e mette in musica l’opera più rivoluzionaria degli anni ottanta.
Tarare racconta la storia dell’onesto e popolare
soldato Tarare il
quale,
oggetto delle angherie del tiranno
Atar, finisce con il causare,
senza
volerlo, una vera e propria rivoluzione con
la quale il popolo depone il tiranno
ed
elegge democraticamente il valoroso soldato quale nuovo re.
Dunque ben altro
che Figaro, “contino” e jus primae noctis.
Qui si mette in scena una
riflessione sulla fonte
legittima del potere politico, se esso cioè debba
essere
fondato nel diritto di sangue benedetto da
Dio per il tramite di Sacra Romana
Chiesa o nella scelta popolare.
Infatti già nel Prologo, sorta di riassunto teorico dell’intero lavoro,
una capricciosa Natura crea esseri umani identici e
poi
assegna a casaccio i loro ruoli.
Crea così Atar e Tarare, l’uno destinato a governare e a disporre liberamente di tutto, l’altro a obbedire.
Beaumarchais
pone l’accento dunque sulla presunta ingiustizia delle gerarchie sociali, nella
quale individui uguali occupano ruoli radicalmente differenti, gli uni traendone
enormi benefici, gli altri soffrendo senza potere ribellarsi.
Così in chiusura
del Prologo il coro delle ombre, preoccupato per la nascita di due figure tanto
differenti, implora le divinità creatici affinché “Ne souffrez pas que rien
altère / Notre touchante égalité; / Qu’un homme commande à son frère!”.
Più
avanti, in conclusione del quarto atto, dopo che per un semplice capriccio il
barbaro Atar ha ordinato l’esecuzione di un innocente servo muto (sotto le cui
spoglie si nasconde però Tarare), Calpigi, fedele e umile amico del
protagonista, esplode in una bellicosa, audace arringa contro tutti i tiranni
con l’evidente compito di infiammare la platea; essa recita: “Va! l’abus du
pouvoir supr
ême / finit toujours par l’ébranler: / Le méchant qui fait tout trembler
/ Est bien près de trembler lui-meme”.
Dando prova di saggia prudenza, nella
versione italiana, "AXUR", Salieri e Da Ponte tagliano questo episodio di grande effetto
spettacolare e notevole rilevanza politica, chiudendo il corrispondente atto
terzo su imploranti cori di modesto valore musicale.
Nel quinto atto francese
l’irruzione del popolo nel serraglio al fine di salvare il proprio condottiero
da un’ingiusta condanna, la deposizione di Atar e l’incoronazione di un poco
convinto Tarare, preannunciano la presa della Bastiglia.
Le couronnement de Tarare, la
scena finale aggiunta da Salieri per
l’edizione parigina del 3
agosto 1790,
scopre definitivamente le carte, rielabora in modo solenne il
vecchio finale, propone il divorzio e la liberazione degli schiavi di colore
quali fondamentali passi avanti verso una società degli uguali, enfatizza
l’avvenuto cambiamento politico e situa l’opera in modo esplicito entro le
coordinate di un’impostazione ideale segnata da un fervente liberalismo
massonico.
In essa si celebra il valore della libertà regolata dalla legge (“La
liberté consiste à n’obéir qu’aux lois”), si inneggia al nuovo ordine (“Le
soldat monte au tr
ône, et le tyran
est mort!”) con parole che anticipano in modo suggestivo l’era
napoleonica
L’artificiosa cancellazione della naturale diseguaglianza degli
individui, la nuova religione dell’umanitarismo e il fanatico astrattismo
massonico pongono così inquietanti premesse e spingono le classi sociali meno
agiate a ribellarsi in nome di un differente e confuso ordine politico.
Nonostante i nobili propositi impliciti nel testo di Beaumarchais, la smania
materialistica e l’inferno del Terrore (1792-94) sono segretamente impliciti
nella logica di Tarare.
Può sembrare totalmente insensato
che un
monarca faccia
eseguire in pompa magna
un’opera lirica, l'Axur,
che attenta
gravemente ai
fondamenti stessi del potere
regale -- tanto più che l’esecuzione
dell’opera viene programmata da un provocatorio Giuseppe II per i festeggiamenti
del matrimonio di suo nipote e futuro imperatore, l’arciduca Francesco, con la
principessa Elisabeth von Wurttemberg.
All’opposto ciò appare logico
laddove si
pensi che la visione
giuseppina medita di sganciare il
proprio potere dalle
antiche fondamenta
clerico-nobiliari, ossia dalla concezione del potere
conferito da Dio, per abbracciare la tesi antitetica, borghese e massonica del
potere conferito dal popolo -- termine che viene inteso con riferimento alla nuova
e ancora esile nomenclatura composta da una medio-alta borghesia assai
benestante e da nobili “convertiti”, rinsaldati dalla partecipazione al rigido
sistema gerarchico delle logge.
In ambito musicale va rilevato che Tarare è un importante e riuscito esempio di fusione tra sinfonismo gluckiano e cantabilità italiana.
La scrittura di Salieri si adatta
meravigliosamente al testo, senza mai intralciarlo, permettendo così al dramma
teatrale di fluire in modo avvincente.
Al tempo stesso i suoi concisi inserti
nello stile italiano, espressivi e melodici, emergono rapidamente dal contesto
strumentale e presto vi si inabissano, rendendo l’ascolto ricco di seduzioni.
Rispetto a Europa riconosciuta (1778), in cui lo stile italiano delle
forme chiuse era innervato da un sinfonismo gluckiano, ora si può dire,
all’opposto, che una scrittura riformata si apre, di tanto in tanto, alla
cantabilità italiana.
Giustamente Beaumarchais loda il compositore dichiarando
che egli ha rinunciato a moltissime bellezze musicali...solo ed esclusivamente
perché esse avrebbero dilatato la scena, illanguidito l’azione.
Ma il colore
maschio, energico, il tono rapido e fiero dell’opera lo ripagheranno di tanti
sacrifici.
Tarare, testo serio, ricco di autentica tensione, lungo le
sue tre ore riduce al minimo le classiche forme chiuse e costituisce dunque un
impressionante anticipazione della futura riforma wagneriana.
La successiva
versione italiana, (Axur re d’Ormus, è invece assai deludente.
Mentre Da
Ponte si limita, come al solito, a trascrivere fedelmente un testo altrui (con
poche, irrilevanti eccezioni quali l’eliminazione del Prologo e l’inserimento di
un duetto degli amorosi nell’incipit del primo atto), l’aggiustamento di Salieri
trasporta la cifra stilistica in un ambito più tradizionalmente italiano.
Così
la declamazione flessuosa, sinfonica ed espressiva si appiattisce in
insignificanti recitativi secchi mentre i restaurati numeri chiusi non
posseggono respiro sufficiente e materiale tematico abbastanza incisivo per
interessare.
Axur rimane quindi una trasformazione italiana frettolosa
e poco sensata di un materiale inidoneo, nato entro altra veste drammaturgica e
musicale.
In particolare nell’Axur Salieri aggiunge una serie di
concertati assai deboli (si veda il Finale primo), assenti nel Tarare -
condotto secondo logiche di maggiore scorrevolezza e verosimiglianza teatrale
- mentre una grande, scura e tumultuante pagina quale quella del duro scontro
tra il gran sacerdote e Atar (inizio del secondo atto) - ossia tra il potere
clericale e quello monarchico che non può non evocare, con un secolo di
anticipo, il celebre duetto tra il grande Inquisitore e re Filippo nel Don
Carlo verdiano (1867; medesimo ovviamente il contesto ideale massonico e il
tono di opposizione frontale al potere religioso) - si perde completamente nella
revisione viennese che relega buona parte della scena in un tedioso recitativo.
Allo stesso modo numerosi racconti (affidati soprattutto al tormentato, eroico
Tarare, nel secondo e terzo atto) condotti entro un declamato sinfonico, ricco
di sfumature “pittoriche”, si appiattiscono in recitativi poco elaborati
nell’Axur italiano.
Landon ha dimostrato in modo convincente che
Guardasoni aveva più volte pregato Salieri di comporre la musica per La
clemenza di Tito.
Era d’altronde logico che il Kapellmeister nonché massimo
compositore d’opera viennese (nel giudizio diffuso) fosse il primo destinatario
di un’incombenza tanto solenne.
L’opera costituiva il momento culminante delle
celebrazioni praghesi in onore del nuovo imperatore Leopoldo II.
Solo dopo avere
ricevuto un ripetuto rifiuto da parte dell’italiano (così racconta quest’ultimo
in una lettera al principe Anton Esterhazy, scritta a fine agosto 1791) di farsi
carico dell’opera nuova, l’impresario si era rivolto a Mozart.
Se il quadro è
questo, risulta facile comprendere chi sia il misterioso N N di alcune missive
mozartiane: si tratta appunto di Salieri.
Constanze è a Baden e Mozart le scrive spesso.
E’ in ansia per svariati motivi.
Da un lato la presenza di
Sussmayr a Baden (probabile padre dell’ultimo figlio “ufficiale” di Mozart,
Franz Xavier, nato il 26 luglio 1791), dall’altro l’ambita commissione del
Tito, un’occasione fondamentale per la carriera ora pericolante del
compositore, da qualche tempo trascurato dal pubblico viennese e poco amato da
Leopoldo II (il quale, per quanto ci è noto, non scrisse una riga al riguardo).
Dunque ecco Mozart inseguire per intere giornate il fantomatico N N (altrove Z.;
siamo nella prima decina di luglio) al fine assai probabile di farsi cedere
l’incarico praghese.
Scrive infatti.
Devo far la guardia a un certo N N e
non posso lasciarmelo scappare.
Tutti i giorni alle sette del mattino sono già
da lui” (7 luglio 1791); altrove invece “...avevo quasi deciso di partire senza
aver concluso nulla... fra qualche giorno questa storia dovrà pur finire. Z. me
l’ha promesso con troppa serietà e solennità.
E allora verrò subito da te” (va
detto che per alcuni studiosi si tratta invece del barone Wetzlar, intimo amico
del compositore, presso il quale Mozart cercava l’ennesimo prestito).
A metà
luglio finalmente Guardasoni (giunto a Vienna intorno al 14 luglio; in tal senso
non può essere lui il segreto N N quotidianamente implorato da Mozart) affida il
Tito a Mozart.
La storia è dunque finita. Mozart parte per Baden.
A Praga il 6 e il 12 settembre, durante le solenni cerimonie di incoronazione di Leopoldo II e di Maria Luisa nella cattedrale di S. Vito, Salieri dirige soprattutto composizioni sacre di Mozart (probabilmente anche di questo il salisburghese ha lungamente discusso con l’amico in quelle mattinate di luglio): è l’ennesimo riscontro della vicinanza artistica e ideale dei due principali protagonisti della scena musicale viennese.
Peraltro, già il 16 o 17 aprile
1791, in occasione dei tradizionali concerti della Quaresima, Salieri aveva
diretto “Eine neue grosse Simphonie von Herrn Mozart”, probabilmente una delle
ultime quattro partiture (K 503, K 543, K 550, K 551) del
salisburghese.
Nella bellissima lettera del 14 ottobre 1791, l’ultima scritta dal musicista, le ben note frasi dedicate a Salieri spettatore del Flauto magico
rivelano in modo indiscutibile una familiarità e perfino un’amicizia (purtroppo
Salieri non ha mai parlato dell’uomo Mozart nelle lettere a noi note,
limitandosi a citarlo tra i grandi compositori del Settecento): “alle sei sono
andato a prendere Salieri e la Cavalieri e li ho condotti nel palco.
Non puoi
immaginare quanto siano stati gentili entrambi, quanto sia piaciuta loro non
solo la mia musica, ma il libretto e tutto l’insieme.
Hanno detto che è un’opera
degna di essere rappresentata in occasione delle più solenni festività davanti
ai più grandi monarchi, e che certo l’avrebbero rivista altre volte, non avendo
mai assistito a uno spettacolo più bello e più gradevole.
Lui ha ascoltato e
guardato con la massima attenzione, e dalla sinfonia all’ultimo coro non c’è
stato brano che non gli abbia strappato un bravo o un bello, e non finivano mai
di ringraziarmi per il piacere che avevo procurato loro”.
Mozart appare
realmente lusingato dei complimenti di Salieri, e in ciò va rilevata
un’implicita affermazione di stima nei confronti del compositore di Legnago.
Al termine degli anni ottanta Salieri e Mozart
sono i due principali
compositori di corte.
Certamente l’austriaco vive all’ombra dell’italiano, ma
rimane tuttavia, dopo di lui, il principale compositore viennese nonché l’autore
ufficiale di gran parte delle musiche eseguite per le feste di incoronazione di
Leopoldo II a Praga nell’estate 1791.
Non solo: sta per diventare anche, sebbene
con una procedura irregolare (tipica di un “raccomandato”, partecipe della
nomenclatura di corte e importante esponente della Massoneria) che aveva
sollevato interrogativi e irritazioni, il Kapellmeister della cattedrale di
Santo Stefano.
L’incomprensibile piagnisteo di numerosi biografi mozartiani su
un Mozart lasciato ai margini della vita musicale e privo di entrate
finanziarie, consiste in un cumulo di fandonie (reale è semmai l’altro
piagnisteo, quello presente nelle lettere del compositore, perennemente
indebitato e sempre in cerca di prestiti, fatto indiscutibilmente vero e assai
misterioso nelle sue cause) prodotte da una cultura musicologica nazionalista,
nemica della musica italiana, irritata dalla posizione di favore che essa godeva
nella seconda metà del Settecento in Germania e in Austria.
Attraverso la
creazione della mitologia di un Mozart emarginato e incompreso si vuole
soprattutto stigmatizzare, per antitesi, la solida (ma si sottintende ingiusta)
posizione dei Kapellmeister italiani (i vari Fischietti, Bonno, Salieri, Luchesi
ecc.), dipinti come degli intrusi e degli usurpatori.
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