Sunday, May 27, 2012
Bentivoglio, "Tebaide" (da Stazio)
Speranza
Cornelio Bentivoglio d'Aragona, anche noto come Selvaggio Porpora (Ferrara, 27 marzo 1668 – Roma, 30 dicembre 1732), è stato un letterato italiano.
Bentivoglio nacque a Ferrara il 27 marzo 1668. Fu parente del cardinale Guido Bentivoglio.
Papa Clemente XI lo elevò alla dignità cardinalizia nel concistoro del 29 novembre 1719.
Fu sua la più celebre versione poetica della Tebaide di Stazio.
Morì il 30 dicembre 1732 all'età di 64 anni.
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LA TEBAIDE
L’armi fraterne e con profani sdegni
l’empia Tebe contesa e ’l regno alterno,
furor sacro a cantare il sen m’accende.
Ma qual daremo, o Dee, principio al canto?
Canterem forse la feroce Gente?
Forse i ratti sidonii, o d’Agenorre
la dura legge, o per lo mar profondo
canteremo di Cadmo i lunghi errori?
Ma da troppo remota ed alta fonte
origin prenderebbe il nostro canto,
se ridicesse del cultor che sparse
il guerrier seme negl’infami solchi,
onde poi nacque fratricida messe
d’uomini armati; o se ridir volesse
Tebe di sette porte e d’ampie mura
ornata al suon de l’anfionia cetra;
o l’ira di Giunone e l’ingannata
Semele accesa dal celeste foco
del suo divino non creduto amante;
o d’Atamante il reo furor, che scempio
feo di Learco, onde ne’ flutti amari
Ino fuggì con Melicerta in braccio.
I vari casi e le tue gesta, o Cadmo,
restin per or da parte; e sol di Edippo
l’infame casa e mal concorde al nostro ------ 25
canto porga il principio e porga il fine.
La cetra accordo, e già le aonie schiere
e lo scettro fatale a i due Tiranni
a cantar prendo: e de l’immonde Erinni
gli odii immortali: e la discorde fiamma
de i due Fratelli e ’l biforcuto rogo:
e i Regi estinti agli avoltoi lasciati
in preda: e le città di popol vuote;
allor che Dirce di color sanguigno
tinse l’onde cerulee, e stupì Teti,
e orror la prese nel veder l’Ismeno
correre al mar di tante stragi onusto,
non più contento di sue anguste sponde.
Ma qual fra tanti eroi, Musa, primiero
a me presenti? Forse il gran Tideo ----- 40
d’implacabile sdegno? Forse il Vate
di sacra fronda il crin canuto cinto,
e l’immensa vorago ove fu assorto?
Ma dove lascio Ippomedonte, solo
del fiume irato contro l’onde ultrici?
Dove il giovin d’Arcadia a guerra esposto
per lui funesta? E Capaneo ben degno
di più guerriera e più feroce tromba?
Edippo già sè di sua man punendo
50 gli occhi svelti dal capo, e condannata
la sua vergogna ad una eterna notte,
moría vivendo d’una lunga morte.
Ei nei più ascosi, e al sole stesso ignoti,
cupi recessi de l’infame ostello
55 chiuso volgea ne l’agitata mente
l’orrendo incesto e ’l miserabil giorno;
e co i flagelli del rimorso al fianco
gli eran le Furie; onde mostrando al cielo
le vuote cave de la cieca fronte,
60 perpetua pena a l’infelice vita,
e con le man sanguigne il suol battendo,
l’orribil voce in cotai detti ei sciolse:
- O crudi numi de l’eterna notte,
che i neri abissi e l’alme scelerate
65 co’ supplicii reggete; e voi, stagnanti
laghi di Stige, che senz’occhi ancora
io veggo pure; e tu da me sovente,
Tesifone, invocata, a i fieri detti
porgi l’orecchio e il voto reo seconda.
70 Se teco meritai, se di te degno
sono; se ne l’uscir dal matern’alvo
mi raccogliesti; se l’infermo piede
mi risanasti; se al bicorne giogo
ed a l’onda Cirrea mi fosti scorta;
75 (quantunque meglio io mi vivea contento
di Focide nel trivio e ne la rocca
di Polibo da me creduto padre);
se per te sola con quest’empia mano
lo sconosciuto vecchio padre uccisi,
80 e spiegai de la Sfinge i sensi oscuri;
se dolci furie nel materno letto
per te gustai e più nefande notti,
e a te i miei figli generai; se gli occhi
svelsi di fronte e a l’infelice madre
85 gittai d’avanti: or le mie preci ascolta,
e accorda a me quel che per te faresti.
Gli empi miei figli (e che rileva il modo?)
ch’io generai, non che del padre afflitto,
de l’alma luce privo e del suo regno,
90 pietà li prenda o cura, e il suo dolore
temprin co i detti: essi già Re nel nostro
trono sedendo dispettosi a scherno
han le tenebre nostre, ed hanno a sdegno
le paterne querele. A questi ancora
95 io sono in odio? E pur sel vede Giove?
E pur lo soffre? Ma se a lui non cale,
fanne tu almeno aspra vendetta, e passi
anche a i figli de i figli il rio flagello.
Cingi la chioma de l’infausto serto,
100 che di putrido sangue ancora intriso,
rapito un tempo fu da la mia mano;
ed istigata da’ paterni voti
va’ tra gli empii fratelli: il ferro ostile
tronchi del sangue i sacri nodi; e sia
105 tal l’eccesso che ordisci, o dea d’Averno,
ch’io sospiri d’aver lume che il vegga.
Vieni tu quale a te conviensi, e pronti
per ogni via ti seguiran gl’iniqui,
nè potrai dubitar che sien miei figli.-
110 Alzò la testa a quel parlare, e il voto
gradì l’orrida Erinne. Ella sedea
sul nero margo di Cocito, e agli angui
del crin lambir lasciava il flutto immondo.
Non sì veloce il fulmine di Giove
115 scende, o vapor ne l’aria acceso, come
lasciò le infauste ripe. A lei davante
fuggono i neri spirti, e l’ombre vane
de la tiranna lor temon l’aspetto.
Essa pel folto innumerabil vulgo
120 de l’anime dolenti il passo affretta,
e le tartaree porte a l’uscir chiuse
passa veloce, ed esce all’aria pura.
Sentilla il giorno, e si coprì d’orrore;
Febo celò fra dense nubi il volto;
125 Eto e Piroo fur per tornare addietro;
tremonne Atlante, ed il celeste incarco
fu per cader, e ne temero i numi.
Da l’ima valle di Mallea l’Erinne
alzossi a volo, e vêr l’iniqua Tebe
130 diritto il cammin prese: a lei men note
son le strade d’Abisso; a lei men grato
del Tartaro natio sembra il soggiorno:
cento ceraste, de l’orrendo crine
parte minore, le fann’ombra al volto:
135 gli occhi incavati ne la fronte, e accesi
d’una luce ferrigna, appunto quale
Cintia rosseggia al suon de’ tracii carmi:
putrida tutta e di veleno infetta,
che peste e sete e fame e stragi sparge
140 ne’ popoli, e più morti, ed ella sola
a tutti è morte; si strascina a tergo
lacero il manto, e se l’allaccia al petto
con due serpenti: Atropo queste, e queste
fogge Proserpina usa: ambe le mani
145 scuote; con l’una feral teda innalza,
d’idre vibra con l’altra orribil sferza.
Giunta che fu di Citerone in cima,
e scoprì Tebe, un sì grand’urlo mise
e fischiar feo l’anguicrinita fronte,
150 che ne suonâr per molte miglia i lidi
ed i regni di Pelope: Parnaso
ed Eurota tremâr: Eta al fragore
si curvò in fianco e fu a cader vicino:
e l’Istmo ancora da i propinqui mari,
155 ch’egli divide, ebbe a restar sommerso.
Vide la madre Palemon per l’onde
sovra un delfin gire a diporto e ratta
gli diè di piglio e se lo strinse al seno.
La Dea di Cadmo appena entrò nel tetto,
160 che de l’usato suo vapor maligno
tutti infettò i Penati; allor s’accese
ne gli ancor dubbi cor de’ rei germani
il natural furor: l’invidia sorse,
e l’odio dal sospetto, e la potente
165 brama d’impero; e del secondo regno
gl’infidi patti, e del secondo Rege
impazïente d’aspettar desio;
e gelosia di restar solo in trono,
e la sanguigna alfin Discordia pazza.
170 Come talor fuor de la mandra tratti
l’agricoltore ad un medesmo aratro
tenta accoppiar due fervidi giovenchi,
cui non per anche da l’altero collo
e non calloso la giogaia pende:
175 essi vanno discordi, e in varie parti
traggono il peso indomiti e feroci,
e confondono l’un con l’altro solco;
non altrimenti la Discordia inaspra
il cuor de i due germani: un solo patto
180 resta ancora fra lor, che per un anno
tenga un lo scettro, e l’altro esule vada,
per poi salir l’anno novello al trono;
questa sola pietà fra lor rimase,
questa fu del pugnar sola dimora
185 da non durar sino al secondo Rege.
Non era allor di lucido metallo
il regio tetto adorno: ancor dagli alti
monti di Paro i prezïosi marmi
non formavan colonne a l’ampie logge,
190 ove s’accoglie adulatrice turba;
nè ancor la guardia de i guerrieri armati
con alterne vigilie a l’alte porte
custodivano i sonni del Tiranno;
nè a le tazze gemmate il vin, nè a l’oro
195 commettevasi il cibo: angusto regno
cagione fu de la crudel contesa.
Or mentre ancor la dubbia sorte pende,
chi lasciar debba le ristrette zolle
di Dirce, e chi regnar nel trono infausto
200 de l’esule di Tiro, andaro in bando
Onestade, Ragion, Giustizia e Fede,
e di vita e di morte egual vergogna.
Ah miseri fratei! Dove vi tragge
cieco furor a scelerate guerre?
205 Perfidi, forse che da voi s’aspira
a conquistar quanto da i lidi Eoi
trascorre il sole a la marina Ibera?
E ciò che obliquo mira? E fin là dove
spira Borea gelato? E dove scalda
210 con i tepidi fiati il torrid’Austro?
E che fareste, se raccolti in uno
di Frigia e Tiro fossero i tesori?
Un luogo infausto, una città crudele
fur seme d’odio: de l’infame Edippo
215 con sì ree furie fu comprato il trono.
Già Polinice da la sorte escluso
ad Eteocle il primo onor cedea.
Quale per te, crudel, fu mai quel giorno,
che solo a te senza rivale al fianco
220 ligio vedesti il regno, e di già tua
tutta la corte, e dal tuo solo cenno
pender le leggi e ognun di te minore?
Ma già comincia l’Echionia plebe
a mormorar; e qual del volgo è stile,
225 odia il Rege presente, ama il futuro.
Uno fra loro, cui serpeggia in seno
venen d’invidia, e impazïente soffre
l’esser soggetto: - Ahi queste dunque (grida)
aspre vicende i crudi Fati ordiro
230 contro l’ogigia gente? A i gioghi alterni
e sempre formidabili supporre
il collo, ognor di nostra sorte incerti?
Diviso hanno fra loro il destin nostro,
e ne le mani lor la nostra sorte
235 instabile divenne: ahi dunque ogni ora
un esule servir sarem costretti?
E tu de i numi padre e de’ mortali,
Giove, inspirasti lor sì fiera mente?
Forse tal legge prescrivesti a Tebe
240 fin da quel dì che per lo mare indarno
il Toro rapitor Cadmo seguendo,
fondò ramingo in questi campi il regno?
O le da i solchi nate empie fraterne
schiere mandaro a gli ultimi nipoti
245 l’infausto augurio? Or vedi come insulta
costui che in sè tutto il poter raccolse,
come torvo ne guata e ne minaccia?
Con quanto fasto ne conculca e preme?
E costui soffrirà scender dal trono?
250 Certo più umano e più gentil sembrava
l’altro fratello, e più del giusto amante.
Ma che però? Egli non era solo.
E noi turba minor de’ vari regi
a i rei servigi sarem sempre esposti,
255 siccome nave in procelloso mare
al diverso soffiar di Borea e d’Euro.
O troppo incerta e intollerabil sorte
de i popoli soggetti a due tiranni,
che ne minaccia l’un, l’altro comanda! -
260 Di Giove intanto al riverito impero
il senato de’ numi era raccolto
nel centro interno del girevol Polo.
Sorge quivi una reggia alta lucente,
ch’è posta in mezzo, ed egualmente siede
265 tra ’l dì e la sera, e l’Aquilone e l’Ostro,
donde quanto è quaggiù tutto si scopre
e di terre e di mari. Egli sublime,
ma placido, in sembiante, in lo stellato
trono si posa, e i riverenti Dei,
270 che stangli intorno, dolcemente mira,
e lor con mano di seder fa cenno.
Empion le logge poi la minor turba
de’ Semidei, e delle nebbie affini
i fiumi, e per timor placidi e cheti
275 i venti impetuosi: al grave pondo
di tanti Numi vacillâr le sfere;
e lo splendor de le divine fronti
tutte d’intorno feo l’auree pareti
folgoreggiare di più chiara luce.
280 Ma dopo ch’egli di tacer fe’ cenno,
e s’ammutì lo sbigottito mondo,
parlò da l’alto (Li tremendi detti
forza han di legge e gli ubbidisce il Fato.)
- A voi, numi, de’ perfidi mortali
285 l’opre nefande accuso, e l’empie menti
non spaventate da le furie o vinte:
cotanto osan tentar lo sdegno nostro?
Io sazio son di fulminar; già stanchi
sono i Ciclopi nel lavoro; e manca
290 a l’eolie fucine il ferro e il fuoco.
Perciò vidi, e ’l permisi, il falso auriga
a traverso guidar Eto e Piroo,
e da l’ardenti ruote il cielo acceso,
e il mondo andar in cenere e in faville.
295 Ma tutto invano: invan col gran tridente,
fratello, apristi inusitate strade
a l’onde tue ne li vietati campi.
Or io stesso le due di Tebe e d’Argo
inique stirpi a castigar discendo,
300 sebben ambe da me l’origin hanno:
tutti han d’errori l’empie menti infette.
Chi di Cadmo non sa le trasformate
forme e l’acerbo Fato? E dagli abissi
le uscite Furie a perturbare il mondo?
305 Chi de le madri barbare i piaceri
ignora? E de le selve i crudi errori?
E quei (che pur sotto silenzio premo)
delitti de gli dei? Non è bastante
del dì la luce e della notte l’ombra
310 tutti a narrar de la profana gente
gl’indegni eccessi; anzi che l’empio Erede
rivolto, quasi bruto, al ventre, ond’ebbe
vital respiro, sul paterno letto
macchiò d’incesto l’innocente madre
315 non meritevol di cotanto oltraggio:
pur ei pagò del fallo suo le pene
a i Numi irati, e si privò del giorno,
nè più vagheggia l’aere sereno.
Ma i figli, i figli (oh sceleraggin nuova
320 e non intesa più!) del cieco padre
calpestan gli occhi. Ah non andranno inulti!
Sono esauditi i voti tuoi crudeli;
han meritato alfin le tue tenébre
Giove vendicator, vecchio infelice.
325 Involverò li due profani regni
in nuove guerre: svellerò da l’imo
la scelerata stirpe; il vecchio Adrasto,
e ’l genero ramingo e le malvage
nozze contratte sotto infausti auspici
330 de la Discordia innalzino la face.
Anche a costor dovute son le pene.
Nè di mente m’uscío l’ingiuria atroce
de la tantalea sanguinosa mensa. -
Egli qui tacque; e dentro il cuor profondo
335 d’improvviso dolor percossa e punta,
così Giuno rispose: - A me tu dunque,
o ingiusto Nume, fai di guerra invito?
E ben sai tu di qual favore onori
le rocche da i Ciclopi al cielo alzate,
340 e qual io porga aita al nobil regno,
cui d’Inaco il figliuolo illustre rese.
Tacciasi da me pure, e si perdoni
de l’adultera vacca il buon custode
prima sopito in ingannevol sonno,
345 e poscia ucciso; e la mentita pioggia,
con cui di Danae ne la torre entrasti.
Non ti rinfaccio le mentite forme,
e gl’incogniti stupri. Io quella abborro
cittade ove tu vai col proprio aspetto
350 cinto di raggi e fulmini stridenti,
e con la maestà che meco giaci.
Sconti Tebe i suoi falli: Argo è innocente.
Ma che mai dico? Or via: Sparta e Micene,
e la mia Samo atterra, e non sia luogo,
355 ove a la Diva tua germana e moglie
s’offran vittime e incensi e s’ergan are.
Sian più felici d’Io gli augusti tempii,
e gli adori tranquillo il vasto Egitto,
e di più sistri il risonante Nilo.
360 Ma se pur vuoi de gli avi più remoti
ne i nipoti punir le colpe antiche;
se riandando i secoli vetusti,
ti si risveglia in cuor tarda vendetta;
e quando porrai modo a i tuoi flagelli?
365 Quando potrai purgare tutto il mondo?
E qual sì pura e non colpevol gente
troverai tu che fra li padri e gli avi
un reo non conti? Ma se pur desio
hai di punir, mira là, dove Alfeo
370 per occulto cammin segue Aretusa:
ivi gli Arcadi tuoi t’ergon altari
in luoghi infausti; ivi si vede il carro
d’Enomao e gli suoi crudi destrieri,
degni servire a i fieri Geti e a i Traci.
375 Ivi si miran biancheggiar pe’ campi
l’ossa insepolte de’ rivali uccisi.
E pur ivi gradisci incensi e voti;
e pur Ida nocente e la vinosa
Creta ti piace, e ’l tuo mentito avello.
380 Perchè d’Argo a me invidii il bel soggiorno?
Volgi altrove la guerra, e del tuo sangue
pietà ti prenda: altri più iniqui regni
degni vi son del Genero fatale. -
Così tra supplichevole e sdegnosa
385 parlò Giunone. Impertubabilmente
udilla Giove, e tal le diè risposta:
- Che d’Argo tua tu la difesa prenda,
già non m’è nuovo, e rivoltar altrove,
quantunque giusta, l’ira mia procuri.
390 E Bacco ancora e Citerea per Tebe
mi farian voti; ma timor li frena,
e riverenza al mio divin volere.
Io per l’onda fraterna e spaventosa
giuro di Stige: terrò fermo il detto
395 e sarà irrevocabile il Destino.
Or tu, messaggio mio, Cillenia prole,
fendi l’aere leggero e i venti passa,
e giù scendendo al tenebroso regno,
al tuo gran zio la mia ambasciata esponi:
400 Laio di sangue ancor bagnato e lordo
dal figlio ucciso, e per la dura legge
de l’Erebo profondo ancor vagante
lungo il margo di Lete, al giorno mandi,
e li miei cenni al reo nipote ei porti:
405 l’esule suo fratel fatto superbo
e da gli ospizi e da le nozze argive
(com’è già suo desire) ei tenga escluso
da Tebe, e neghi del paterno regno
il vicendevol pattuito onore:
410 quinci a l’ire principio: il resto poi
condurrò con cert’ordine di cose. -
Ubbidì pronto il messagger celeste
a i comandi del padre, e già calzati
i talari e adombrati i rai del volto
415 con l’alato cappello, in mano ei prese
il caduceo fatal di serpi cinto:
egli con questo a suo piacer discaccia
da gli occhi il sonno, e a suo piacer l’infonde:
con questo aprir può le tartaree porte,
420 e vita dare e spirto a l’ombre esangui.
Gittossi poscia nel freddo aer puro,
e in un momento con girevol volo
a l’ime parti si calò da l’alto.
Ramingo intanto e de la patria in bando
425 gía Polinice per l’aonie selve,
volgendo ognor ne l’agitata mente
il pattuito regno e l’anno alterno,
che lento a lui più de l’usato sembra.
Questo pensiero il dì, questo la notte
430 gli sta fisso nel cuore, e già si finge
esule il fier germano, umíle, abietto,
e sè potente dominare in trono.
E tanto brama un sì felice giorno,
che torria seco a patteggiar la vita.
435 Ora si duol de l’intricate strade,
che ritardan sua fuga; ora i reali
spirti riprende, e su ’l fratel depresso
salir gli sembra su l’avito soglio.
L’alma agitata in dubbia speme ondeggia,
440 e in lunghi voti il suo desio consuma.
Or sin che Febo tutto compia intero
suo vasto giro, ei di ritrarsi agogna
a’ Danai campi, d’Inaco a le rocche,
od a Micene, onde già il sol fuggio;
445 Nè so ben dir se lo traesse il Fato,
o ’l sospingesse pur l’immonda Erinne.
Lascia gli urlisonanti antri di Ogige,
e dal furor de le Baccanti sparsi
di sangue i monti, e scende ove Citero
450 in lieti colli verso il mar s’appiana.
Passa oltre, e di Sciron l’infame scoglio
vede, e scorre a Megara, e la salubre
Corinto a tergo lascia, ove si sente
mugghiare il mar da due contrarie sponde.
455 Ma di già Febo il suo diurno corso
finito aveva, e la triforme Dea
col rugiadoso carro iva vagando
per l’alto cielo, e ne piovea vapore
che l’aer denso fa freddo e sottile.
460 Già su i rami gli augei, le belve in tane
prendon riposo, e di già il dolce sonno
molce le cure e infonde oblio de’ mali.
Ma il Sol caduto infra le nubi involto,
e il non purpureo rosseggiante cielo
465 non promettean sereno il nuovo giorno.
S’alzan da terra atri vapori e densi,
ch’alto salendo son mutati in nebbia:
una tetra caligine profonda
copre di Cintia il vacillante lume:
470 già già s’odon sonar l’Eolie chiostre,
e un fremer rauco di spezzate nubi
la tempesta minaccia. I venti in guerra,
mentre il campo del cielo ognun pretende,
e l’uno e l’altro incalza, e nessun cede,
475 sembran schiantare dal suo centro il mondo.
Ma l’Austro più potente in maggior notte
la notte involve, e turbini e procelle
mesce, e la pioggia in giù versa a torrenti,
che al soffiar poscia d’Aquilon gelato
480 in grandin si condensa e i campi inonda.
Serpeggian per lo ciel fulmini ardenti,
e spezzan l’aria spessi tuoni e lampi:
scorron per tutto l’acque, e la Nemea
valle n’è piena, e già ne sono molli
485 d’Arcadia i monti a le Tenarie selve
vicini, e per più rivi Inaco altero
già soverchia le sponde, e il suo veleno
Lerna ripiglia e ne gorgoglia e freme.
Argine più non v’è, non v’è riparo,
490 che de i poc’anzi polverosi fiumi
possan frenar l’impetuoso corso.
Volano infranti i tronchi, e del Liceo
i cupi boschi, ove non entra il sole,
penetra il turbo impetuoso e rio.
495 Il miser Polinice intorno mira,
e vede giù precipitar da’ monti
rupi infrante e torrenti: ode il fracasso
de la procella, che rapisce seco
svelte le case e gli uomini e gli armenti.
500 Egli tremante e del cammino ignaro,
per l’ombre cieche de la buia notte
il passo affretta, e lo spaventa e turba
quinci il tempo crudel, quindi il germano.
Così nocchier, che in procelloso mare
505 privo di Cinosura, e senza lume,
non vede più dove drizzar la prora,
sta fra vari timor dubbio ed incerto:
teme le sirti ascose ed i palesi
scogli, e ad ognora d’affondar paventa.
510 Il giovane infelice afflitto e lasso
per lo più folto de le oscure selve
le siepi apre col petto e le boscaglie,
e col pesante scudo urta e percuote
di qua, di là arbori, tronchi e massi,
515 ove albergan talor feroci belve;
e lo stesso timor dà lena al piede.
Pur finalmente de l’eccelsa rocca
di Larissa ne i tetti alti e sublimi,
che d’Inaco già fur, vede una face
520 che l’ombre scaccia e lungi spande il lume.
Ei colà s’incammina, e la speranza
gli mette l’ali al piede: a tergo lassa
Prosina a Giuno sacra, e la palude
di Lerna insigne per l’erculeo foco,
525 ed entra d’Argo ne le schiuse porte.
Vede le logge del real palagio,
ed ei di pioggia ancor stillante e molle
vi si ricovra, e sopra il duro suolo
stende le membra, e invita gli occhi al sonno.
530 Qui il buon Adrasto i popoli reggea
con dolce freno ed in tranquilla pace,
uomo d’anni maturo, e più di senno,
per avi illustre, e che il suo sangue tragge
per ambo i rivi dal supremo Giove.
535 A sua felicità mancavan solo
del miglior sesso i figli, e solo a lato
due figlie leggiadrissime tenea.
A queste Febo con occulte ambagi
strani sposi promette e fiere nozze.
540 Un setoso cinghiale a l’una e un biondo
leone a l’altra; ed avverossi il detto.
Questo enimma funesto il vecchio padre
e del futuro Anfiarao presago
invan tentan svelare: Apollo il vieta;
545 e un sì tristo pensier nel padre invecchia.
Ed ecco intanto il gran Tideo scacciato
di Calidonia per crudel destino,
e conscio a sè de la fraterna morte,
per le stesse procelle e per le stesse
550 folte selve passando, e de la pioggia
tutto grondante il crin, grondante il manto,
giunge ove Polinice ha preso albergo.
Tosto Fortuna a i due guerrieri appresta
nuovi furori, e l’uno a l’altro nega
555 sotto un tetto comun prender riposo.
Brevi fur le minacce; e tosto accesi
d’ira steser le braccia, e disarmati
a nuda guerra s’accozzaro insieme.
Era grande il Tebano, e in ferma etade;
560 ma Tideo di coraggio a lui non cede,
e il suo vigor per tutt’i membri sparso
dentro il piccolo corpo era maggiore.
Qual su i monti Rifei cadon frequenti
e grandini e saette: i due rivali
565 spesseggian le percosse, e fanno al volto
od a le cave tempia ingiuria e danno;
incurvan le ginocchia, e a lotta stretti
si premono a vicenda il petto e ’l fianco.
Siccome allor che terminato il lustro
570 rinnova Olimpo i sacri giuochi a Giove,
di nobile sudor sparsa è l’arena,
e i vari applausi a i giovanetti eroi
accrescon forza ne l’amico agone,
e aspettan fuori il vincitor le madri;
575 così ne l’ira pronti, e non già mossi
da bel desio d’onor, guastansi ’l viso
con mani adunche, e non rispettan gli occhi;
e forse il ferro avriano preso, e forse
tu, Polinice, con men ampio fato
580 cadevi, e t’avria pianto anche il fratello:
se non che Adrasto, a cui la molta etade,
e più le cure fanno lieve il sonno,
ode il fragor de le percosse, e i gridi
tratti da l’imo petto, e non usati
585 ne i taciti silenzi de la notte:
e ratto corre; esce da l’alte porte,
e lo precedon cento faci accese;
ma poi che giunge ov’è il conflitto, e vede,
orribil vista! i lacerati volti
590 di sangue intrisi: - E qual furor vi mena,
o giovani stranieri, a fiera pugna?
(dice) perchè so ben che nel mio regno
uom sì ardito non fora. E qual sì atroce
d’odio cagion de la tranquilla notte
595 turba i riposi? È forse angusto il giorno?
Di placida quïete un sol momento
invidiate a voi stessi, e un breve sonno?
Dite, chi siete? Onde venite? Quali
son vostre risse? Le magnanim’ire
600 e le ferite che in voi scorgo impresse
segno mi son di chiaro alto lignaggio. -
Ed essi allora con turbate voci
ed occhi biechi l’un l’altro mirando,
così dissero a gara: - O degli Argivi
605 buon re, tu stesso vedi il sangue sparso;
a che ce ’l chiedi? - Indi Tideo ripiglia:
- Io per sollievo d’infelice colpa
lasciata ho Calidonia, e le superbe
ricchezze avite, e i campi d’Acheloo:
610 ne i confin vostri tenebrosa notte
e procellosa mi sorprende; or quale
ha diritto costui nel real tetto,
onde mi vieti il necessario albergo?
Forse perchè vi giunse egli primiero?
615 I biformi Centauri un sol soggiorno
accoglie, ed Etna gli orridi Ciclopi.
Hanno le loro leggi anco le fiere:
noi non avrem comune il duro suolo?
Ma che più tardo? Or tu, chiunque sei,
620 o te n’andrai de le mie spoglie altero,
o se il valore antico in me non langue
per novello dolor, vedrai ben tosto
ch’io son del grand’Eneo degno rampollo,
e merto aver fra gli avi miei Gradivo. -
625 - Nè a noi manca valore e chiaro sangue -
replica l’altro: ma vergogna il frena,
e non ardisce nominare il padre.
Allor Adrasto: - La crudel contesa,
che l’errore notturno e un improvviso
630 siasi sdegno o valor in voi destaro,
deh cessi omai, e ne’ miei tetti entrando
datevi d’amistà le destre in pegno.
Forse non senza de gli dei mistero
questo n’avvenne, e del vicino amore
635 forieri sono gli odii vostri: grato
forse vi fia ciò rammentare un giorno. -
Sì disse Adrasto, e fu del ver presago;
perocchè dopo la crudel tenzone
tale nacque tra lor santa amistade,
640 quanta fra Teseo audace e Piritoo,
quanta fu mai fra Pilade ed Oreste.
Essi allor tranquillando a poco a poco
l’alma commossa al suon de’ regii detti,
entrâr nel gran palagio. In cotal guisa
645 dopo l’aspra procella il mare accheta
l’onde sconvolte, e non però del tutto
si tace il vento ne le aperte vele.
Or quivi Adrasto attentamente osserva
degli ospiti l’aspetto, e l’armi e i manti:
650 vede il tebano entro la spoglia involto
di fier leone, a cui dal collo pende
l’incolta giuba, da l’erculeo braccio
ucciso già ne la Teumessia Tempe:
di questo Alcide era vestito, quando
655 il Cleoneo maggior leone estinse.
Ma Tideo intorno avea del setoloso
aspro cinghial, di Calidonia onore,
l’irsuto pelo e le ritorte zanne.
Stupisce il vecchio, e nel pensier rivolge
660 il grande augurio, e intende già gli oscuri
oracoli di Febo, e de le grotte
le risposte fatidiche e veraci.
Tien gli occhi a terra fissi, e gli ricerca
un lieto orrore le midolla e l’ossa.
665 Conosce ei ben ch’ivi guidollo il Nume,
e che son questi i generi promessi
sotto il velame de’ ferini volti:
allora al cielo alza le mani, e dice:
- Notte, che de’ mortali e de’ Celesti
670 le cure abbracci, e teco in giro meni
per diverso cammin gli astri splendenti;
che dài ristoro a gli animali lassi,
fino che il nuovo Sol li desti a l’opre;
tu, sacra Notte, volontaria sciogli
675 gli occulti enimmi, e da la dubbia mente
mi discacci il timor, riveli il fato;
tu a l’opra assisti, e il lieto auspicio avvera.
Quantunque volte si rinnovi l’anno,
avrai ne le mie case altari e voti:
680 noi t’offriremo nere agnelle e tori
scelti dal miglior gregge, e le lustrali
viscere avrà Vulcan di latte asperse.
Salve, o de’ sacri tripodi e del cieco
antro d’Apollo non fallace fede;
685 e tu salve, o Fortuna, che de’ Numi
ci discopristi l’infallibil mente. -
Tace; e i guerrieri per la man prendendo,
con lor s’inoltra nel più interno albergo.
Fumavan ivi ancora in su gli altari,
690 da le tepide ceneri coperti,
il sacro fuoco e i libamenti sacri.
Ordina il re che nuova fiamma splenda,
e si preparin nuove cene: pronti
accorrono i ministri, e ne rimbomba
695 di vario suono la sublime reggia.
Altri portan purpurei aurei tappeti,
e n’adornano i letti: altri le mense
copron co’ bianchi lini: altri le faci
accendon su le pendole lumiere:
700 chi de le uccise vittime le carni
ne lo spiedo rivolge, e chi sul desco
la macerata cerere dispensa.
Ferve ne l’opra la real famiglia.
Sel mira Adrasto, e nel suo cuor ne gode;
705 ed egli intanto in su l’eburneo scanno,
di ricchi strati adorno, alto s’assise:
i giovani stranier, lavate e monde
pria le lor piaghe, gli sedeano a fronte:
si rimirano in viso, e de le impresse
710 ferite han duolo, e l’un perdona a l’altro.
Allora il Re la vecchia e fida Aceste,
de le figlie nutrice, a cui la cura
n’era commessa e le serbava intatte
a i maturi e legittimi imenei,
715 fatta chiamare, ne l’attenta orecchia
basso le parla: ella ubbidisce a i detti:
ed ecco uscir da le segrete celle
le due vergini eccelse, appunto quali
(se ne togli il terror) l’egidarmata
720 Palla e la faretrata alta Diana.
Ma come vider de i garzon stranieri
i nuovi aspetti, con alterni moti
di pallor, di rossor tinser le gote;
poi gli occhi vergognosi al padre alzando,
725 ivi li tenner sempre immoti e fissi.
Intanto vari e prezïosi cibi
scacciata avean la fame; allor di Jaso
il successore l’aureo nappo chiede
tutto d’istorie variato e sculto,
730 con cui solean libare a’ sacri Dei
e Danao e Foroneo; da un lato v’era
un cavalier sopra destriero alato,
che tenea in man le serpentine chiome
e il teschio di Medusa: alto ei rassembra
735 levarsi a volo, e ch’essa gli occhi gravi
per morte e il volto ancor spirante muova,
e il suo pallore anche ne l’oro serba.
Da l’altro il Frigio cacciator si vede
da l’aquila rapito, e sotto lui
740 Ida s’abbassa, e s’allontana Troia:
restan mesti gli amici, e i fidi cani
invan latrangli dietro e mordon l’ombra.
Ei questo nappo ridondante e colmo
di vino in parte versa, i numi invoca;
745 ma Febo in prima; e Febo, Febo intuona
la famiglia regal: ciascuno in mano
tien la pudica fronda amata tanto
dal Nume, a cui sacro è quel giorno, e a cui
fuman l’are e gl’incensi. Adrasto allora:
750 - Forse in voi sorge natural desio,
giovani, di saper del sacro rito
gli alti misteri, e qual cagion ne muova
a fare in questo giorno a Febo onore?
Non sono a caso i sacrifizi: un tempo
755 il popol d’Argo da gran strage oppresso
or questi voti scioglie, e udite come.
Poich’ebbe Apollo il gran Pitone ucciso,
orribil mostro de la Terra figlio,
che co’ suoi tortuosi ampli volumi
760 Delfo tenea ben sette volte cinta,
e le piante seccava e i verdi campi
col pestifero fiato e con le squamme,
tutta vuotando in lui la sua faretra;
mentr’ei stendeva nel Castalio rivo
765 il lungo collo e la trisulca lingua,
per rinnovar con l’onda il suo veleno,
e dopo morto infin de la gran mole
stesi gl’immensi avviticchiati giri,
di Cirra ricoprì ben cento campi:
770 pria di tornare infra i celesti numi
volle espiar quaggiù l’uccisa fiera,
e ne i poveri tetti ebbe l’asilo
del re Crotopo. Avea questi una figlia
giovane e bella di natia bellezza,
775 de i Penati custode, e riserbata
a legittime nozze intatta e pura.
Felice lei, se del Signor di Delo
fuggiva i furti e i clandestini amori!
Ma poi che il nume ebbe sofferto, errante
780 lungo il fiume Nemeo (già Cintia avendo
ben dieci volte rinnovato il corno)
un vezzoso bambino in luce diede;
e perchè teme l’implacabil ira
del genitor, che il vïolato letto
785 non lascerebbe invendicato, ascosi
luoghi ricerca, e in villereccio albergo
il caro parto ad un pastore affida.
Sventurato fanciul! già non son queste
degne del sangue tuo cune reali:
790 tu su l’erba t’adagi, e te ricetta
di virgulti e di canne un tetto umíle:
tu fra cortecce d’arbori rivolto
scaldi le membra: rustica zampogna
a te concilia il sonno, e con gli armenti
795 hai comune il soggiorno ed il terreno:
e questo ancora t’invidiaro i fati!
Perchè, mentr’egli abbandonato e solo
sopra verde cespuglio un dì giacea,
vivo e tremante il divoraro i cani.
800 Ma non sì tostò a l’infelice madre
giunse l’avviso reo, che da sè scaccia
ogni vergogna e ’l genitor non teme,
e scinta il seno e lacerata il crine,
d’urli e di strida i regii tetti empiendo,
805 corre, e il suo fallo al crudo padre accusa:
ei da pietà non mosso, a fiera morte,
e bramata da lei, tosto l’invia.
Ma sebben tardi, a te tornaro in mente
i dolci amplessi e la trafitta amante,
810 Febo: però non gli lasciasti inulti.
Un mostro orrendo d’Acheronte in fondo
da le Furie concetto a noi mandasti.
Aveva di donzella il volto e ’l petto,
ma bieco il guardo, e le partiva il crine
815 una rabbiosa e sibilante serpe.
Or questa peste fra i notturni orrori
penetrava le case, e da le culle
e dal sen de le vigili nudrici
tutti traeva i teneri bambini;
820 e pascendo di lor l’ingorda fame,
si satollava de i paterni pianti.
Ma il prode in armi e di gran cuor Corebo,
fatta di scelti giovani una schiera,
vie più d’onore che di vita amanti,
825 più non volle soffrir l’iniquo mostro.
Andonne in traccia, e ritrovollo appunto
infra due porte d’infelici case
dond’era uscito: gli pendean dal fianco
due pargoletti, e già le adunche mani
830 ne le viscere d’uno, e i crudi artigli
immersi aveva, e ne strappava il cuore.
Lo vede, vibra l’asta e gli dà morte;
e la piaga allargando e le interiora
squarciando, il mostro suo rende a l’inferno.
835 Stupiscon gli altri: e poichè un colpo solo
finì l’impresa, prendonsi diletto
di rimirar le impallidite luci,
e l’immonda pinguedine del ventre,
e le viscere orrende e già nudrite
840 de’ nostri figli: già l’Argiva plebe
accorre, la rimira, e ancor ne teme,
e il nuovo gaudio di pallore è misto.
Alfin fatta sicura, altri ne squarcia
le scelerate membra a brano a brano:
845 chi l’orribile ceffo e le mascelle,
chi l’ampie zanne con i sassi infrange;
nè può vendetta sazïar lo sdegno.
Da quel sozzo cadavere insepolto
fuggîr notturni augelli; e i cani e i lupi
850 s’allontanâr dal velenoso pasto.
Ma quando credevam de i lunghi pianti
rasciugar gli occhi: ecco che Febo a sdegno
presa la morte de la Furia ultrice,
dal bicorne Parnaso in noi saetta
855 col crudel arco avvelenati strali.
Sorge un vapor maligno, e i campi adugge:
una nebbia ferale in cieca notte
tutt’Argo involve, e la ritien coperta.
Mancan l’alme infelici, e a Stige scendono.
860 Non sì veloce il mietitor recide
le spiche, e non sì presto il foco stende
in secca stoppia la vorace fiamma,
com’empia Morte miete a cento, a mille
le vite, e insegne vincitrici spiega.
865 Già scorre la cittade; e vinta e doma
tutta la manda in sacrificio a Pluto.
Infin l’afflitto re ricorre al tempio,
e da l’Autor de’ nostri mali chiede
del male la cagion; perchè n’offenda
870 l’aere infetto, e perchè Sirio in cielo
oltre l’usato tiranneggi l’anno?
Ma il crudo nume una crudel risposta
ne dà: che tosto sien mandati a morte
quei che la sozza bestia aveano uccisa.
875 O di Corebo invitto animo altero,
d’eterno onor, d’immortal fama degno!
Non già l’armi nascondi, e non t’infingi,
nè ricusi per noi l’estremo fato.
Vittima volontaria egli sen corre,
880 e del gran tempio in su la soglia giunto
osa il nume irritar co’ detti acerbi:
"Nè da altrui mosso, nè a cercar perdono
io vengo, o Febo, a i tuoi tremendi altari:
me la mia coscïenza, me il valore,
885 me la pietà qui manda: io son colui
che la tua Furia uccisi; quella, iniquo,
che con l’atre nubi e con gli oscuri
giorni, e con l’aria infetta e colla peste,
e col lutto comun vendicar tenti:
890 che se lassù fra gl’immortali Numi
in tanto pregio son le belve e i mostri,
che la morte de gli uomini rassembri
recare al mondo minor danno; e quale
Argo v’ha colpa? Me, me, giusto Nume,
895 questo mio capo tue vendette adempia.
Che giova a te de le deserte case
mirare i tetti e le campagne inculte?
e gli estinti cultori arder su i roghi?
Ma perchè tardo più col parlar mio
900 la tua vendetta? Aspettan già le madri,
e già m’onoran degli estremi pianti.
Su dunque il dardo scocca, e a Lete manda
quest’alma eccelsa che morir non pave;
ma da le rocche d’Inaco discaccia,
905 benigno Febo, il velenoso influsso".
Sempre arrise fortuna a gran valore.
Placossi Febo; serenossi il cielo;
cessò l’acerba strage, ed ei tornossi
tra gli applausi comuni e i lieti gridi,
910 qual vincitor ne le paterne case.
Quindi è che noi, dopo il girare intero
de l’anno, a Febo in questo dì solenne
rinnoviam queste cene e i nostri voti.
E forse ancor qui voi guidò la fama,
915 per star con noi del sacrifizio a parte;
sebben tu mi dicesti, e mi sovviene,
ch’eri figliuol del Calidonio Eneo
e successor del Partaonio regno.
Ma tu donde a noi vieni? (Il tempo e il luogo
920 agio ne dan di favellar.) Rivela
qual sia la patria, il genitore, il nome.
Arrossì Polinice, e il volto a terra
chinando, riguardò come di furto
l’emulo generoso, ed a la fine,
925 dopo molto pensar, così rispose:
- Non chiedermi, o buon Re, fra tanti onori
sacri a’ superni Dei, quale il mio nome,
qual sia la patria o il genitor, chè ponno
del santo rito funestar la pompa.
930 Ma se pur vuoi che l’onte mie palesi,
io nato son ne la guerriera Tebe:
da Cadmo ho il sangue, e madre m’è Giocasta.
Allora il re de l’ospite a pietade
mosso: - A che celi a noi le cose note?
935 (disse) dunque in Micene e in Argo solo
non si sapranno del Tebano regno
gli error, le furie e le accecate fronti?
Già ne vola la fama, ovunque splende
il Sole, e dov’ei nasce e dove more,
940 e sotto i sette gelidi Trioni,
e là di Libia ne le aduste arene.
Cessin le tue querele, e l’opre inique
de’ tuoi maggiori non recarti a scorno.
Anche tra i nostri alcun peccò, nè a noi,
945 nè al sangue nostro il fallir lor s’ascrive.
Cancella tu con generose geste
le colpe altrui, e te di gloria adorna.
Ma già il timon abbassa, e langue e manca
il pigro auriga de la gelid’Orsa:
950 Su su, ministri, rinnovate i fuochi,
e il vin su vi spargete, e i nostri canti
lodino ’l biondo dio, che a gli avi nostri
(sua gran mercè) diede salute e vita.
"Febo, o sia che di Licia ora pe’ i monti
955 cacci le fiere, e Patareo t’appelli;
o che Timbreo ne li Troiani campi
abbi soggiorno, ove li Frigi ingrati
la promessa mercede a te negaro;
o che in Castalia lungo il dolce rivo
960 ti sieda a l’ombra de’ tuoi sacri allori;
o più ti piaccia la materna Cinto,
che il vasto Egeo co’ suoi gran monti adombra,
l’angusta Delo tua posta in oblio:
tu l’arco porti, e contro gli empi scocchi
965 le divine infallibili saette:
a te diè Giove aver fresche e vermiglie
ognor le gote e sempre biondo il crine:
a te fu dato antiveder quai stami
sia per troncar l’inesorabil Parca,
970 del futuro presago; a te di Giove
nota è la mente e l’immutabil fato;
tu qual anno fia sterile o fecondo;
tu sai qual ne sovrasti o pace o guerra;
tu quai regni minaccin le comete;
975 tu vinci con la tua sonora cetra
Marsia nel canto; e tu lo leghi e scuoi;
Tizio per te di Stige ingombra i campi;
e de la madre tua vendichi l’onta;
tu il fier Pitone uccidi, e la tremante
980 Niobe de i parti suoi orbata rendi:
per te Megera inesorabil tiene
Flegia digiuno a sozze mense assiso:
tu benigno ci guarda, e tu difendi
questo a te già sì caro ospite albergo,
985 e questo di Giunon divoto regno,
o che tu Osiri esser chiamato brami,
o di Titano più ti piaccia il nome,
quali sul Nilo e in Achemenia prendi,
o quel di Mitra (c’hai ne’ Persi regni)
990 che il bue restio per le gran corna afferra".
Il veloce di Maia alato figlio
tornava intanto da le gelid’ombre,
eseguito di Giove il gran decreto.
Fangli ritardo al piè, ritardo al volo
5 le dense nubi e ’l torbid’aer fosco;
nè lo portano i Zeffiri volanti,
ma di quel muto ciel l’aura maligna:
gli attraversan le strade i fiumi ardenti,
e Stige rea, che nove campi cinge.
10 Lo siegue con infermo e tardo passo
la pallida di Laio ombra tremante:
dal ferro parricida egli ancor porta
trafitto il petto, ed altamente impresso
lo primo sdegno de le Furie ultrici;
15 pur va, ed appoggia a debil legno il fianco.
Ne stupiscono l’ombre, e i boschi e i campi
d’Inferno; e il suol, che s’apre e fuor li manda,
d’essersi aperto meraviglia prende.
Ma il livor, che in se stesso i denti volge,
20 turba gli spirti ancor privi di luce,
e del suo rio velen tutti gl’infetta:
ed un fra gli altri, cui vivendo increbbe
de l’altrui bene e s’allegrò ne’ mali,
nè può patir che Laio ora sen torni
25 a vagheggiar la luce, i sensi amari
del cuor palesa con maligni accenti.
- Oh te felice, a qualunque opra eletta,
alma, che torni al chiaro aer sereno!
O così Giove il voglia, o te rimeni
30 Tesifone crudele infra i mortali,
o te richiami da l’oscuro avello
Tessala maga con la bocca immonda.
Tu pur vedrai del sole e de le stelle
la vaga luce, e i verdeggianti campi,
35 e i puri fonti e i cristallini fiumi:
tanto misera più, quanto fra noi
hai da tornar ne le ciec’ombre eterne. -
Sentilli intanto Cerbero, e rizzossi,
e le tre bocche aprendo e le tre gole
40 orrende, mandò fuori urli e latrati.
Già prima ancora minacciando stava
l’alme scendenti a le tartaree porte;
ma con la fatal verga in Lete immersa
toccollo il Nume, e de le orrende fronti
45 in grave sonno le sei luci chiuse.
È un monte ne l’Inachia, ove s’estolle
il capo di Malea, Tenaro detto,
sublime sì che non vi giunge il guardo:
alza la fronte al cielo, e ognor sereno
50 mira sotto di sè le nebbie, e sprezza
e la grandine e i turbini sonori.
Le risplendenti stelle e i venti lassi
su lui prendon riposo e fan soggiorno:
giunger ben ponno a la metà del monte
55 le oscure nubi, ma a l’eccelso giogo
salir non può presto volar di penne,
nè i rauchi tuoni o le saette ardenti:
ma là, dove l’Egeo gli bagna il piede,
curva in arco gli scogli, e un porto forma.
60 Ivi quando a la sera il dì s’appressa,
e del monte nel mar l’ombra è maggiore,
scende Nettun dal carro, e i destrier scioglie.
Hanno i destrier la fronte e il largo petto
qual hanno i nostri, e il deretano è pesce.
65 In cotal luogo antica fama suona,
che s’apra obliqua e tenebrosa via,
per cui le pallid’ombre e il vulgo esangue
scendon dolenti a le tartaree porte,
il regno a popolar del nero Giove.
70 E se diam fede agli arcadi coloni,
suonan per molte miglia i campi intorno
d’urli e di pianti e di stridor di denti.
Sovente udite fur nel pieno giorno
le voci de l’Eumenidi spietate,
75 e le sferze e i flagelli, ed i latrati
del Can trifauce; onde lasciaro inculti
gli sbigottiti agricoltori i solchi.
Per questa strada il messaggero alato
tra la densa caligine ritorna
80 al chiaro giorno, e giù dal crin scotendo
l’infernal nebbia, il puro aer respira.
Indi alto va su le cittadi e i campi
verso l’Arturo, ed in quell’ora appunto
che a mezzo del cammin Cintia risplende.
85 Il Sonno intanto de la Notte il carro
guidava e i destrier foschi; e com’ei vide
il nume, alzossi ed onorollo, e torse
dal cammin dritto, a lui cedendo il passo.
Vola più sotto del Tebano l’ombra,
90 e rivagheggia le perdute stelle,
il patrio cielo e il suo terren natio.
E già di Cirra trapassati i gioghi
e Focida di Laio ancor aspersa
del fresco sangue, erano giunti a Tebe.
95 Fremè l’ombra superba in su le soglie
de’ patrii Lari, e fu a l’entrar restia:
ma poich’entrato, le sue spoglie vide
pender da le colonne, e il carro, ov’egli
ucciso fu, tutto sanguigno e lordo,
100 poco mancò che non volgesse il piede,
non curato di Giove il sommo impero,
e ’l gran poter del caduceo fatale.
Ricorreva in quel tempo il dì festivo
segnato già dal fulmine di Giove,
105 allor che Bacco non maturo ancora
fu dal materno incenerito seno
tratto, e riposto nel paterno fianco
a terminar di nove lune il corso.
Perciò passata avean l’intera notte
110 senza dormire i popoli feroci
che vennero da Tiro, e in feste e in giuochi
sparsi pe’ i tetti e per li verdi campi,
cinti d’edera il crine, e di già vuote
le tazze e i vasi del miglior Lieo,
115 gían esalando su la nuova luce
da l’anelante petto il Dio giocondo.
S’udian per tutto rimbombare i vuoti
bossi, e di bronzo i timpani sonanti:
e il Nume, il Nume stesso iva cacciando
120 le non feroci donne in su ’l Citero,
le mani armate d’innocenti tirsi.
Siccome là sul Rodope gelato
i crudi Traci a fier convito uniti
di semivive carni e de le prede
125 tratte di bocca de’ leoni ingordi,
pascon la dura fame; e il puro latte
condisce in parte il sanguinoso pasto,
e di lor mense è sol delizia e lusso;
se del teban liquor senton a caso
130 l’odore e il gusto, di furor accesi
lanciansi e tazze e vasi, e alfin le pietre,
e poi di sangue ancor stillanti e molli
tornano a desco a rinnovar le feste:
Tal fu la notte ch’entro Tebe giunse
135 l’ombra sdegnosa e ’l messaggero alato.
Invisibili entrâr per l’aria cheta,
ove il signor de l’echionia plebe
alto giacea sovra i tappeti assiri
d’oro e porpora intesti. Oh de’ mortali
140 de l’avvenir non consapevol mente!
Ei le mense ha dinanzi, e dorme e posa,
e ’l suo destino ignora. Allora l’Ombra
s’accinge a l’opra; e per celar le larve
l’oscuro volto di Tiresia finge
145 e ’l parlar noto; ma il canuto crine,
e la sua lunga barba e il suo pallore
veri ritiene: l’infula, le bende
d’oliva intorte son sembianze vane,
ed è vana la voce; e pur ei sembra,
150 che la man stenda, e con la sacra verga
gli tocchi ’l petto, e il suo destin gli scopra.
- Tu dormi, o Re? Ma non è questo il tempo
di riposar su l’ozïose piume,
senza sospetto aver del tuo germano.
155 Gran nembo ti sovrasta, e gravi cure
te richiaman dal sonno; e neghittoso
ten stai, come nocchier che ’n mar turbato,
commosso intorno da rabbiosi venti,
lasci ’l timone, e s’addormenti e posi?
160 Ma già non dorme il tuo fratel, superbo
per nuove nozze; e (come fama suona)
genti accoglie e soccorsi, ed a te il regno,
per non renderlo poi, ritoglier pensa,
ed invecchiar ne la natia sua corte.
165 La dote d’Argo e ’l suocero fatale
gli aggiungon forza; e seco unito è in lega
Tideo macchiato del fraterno sangue.
Giove, di te mosso a pietà, da l’alto
a te mi manda: Egli per me t’impone
170 che ’l germano crudel, che te dal regno
escluder tenta, tu dal regno escluda,
e renda vani i suoi pensier funesti,
e ’l desio c’ha de la fraterna morte.
Tu non soffrir che ad Argo ed a Micene
175 serva divenga la guerriera Tebe. -
Disse; e perchè già la novella luce
a l’Inferno il respinge, il finto aspetto
lascia, e del crin le simulate bende
spoglia, e al nipote manifesta l’avo:
180 poi sovra il letto se gli stende, e aperta
mostra l’immensa piaga, e lui, che dorme,
del sangue, che non ha, tutto ricopre.
Quegli allor lascia il sonno, e in terra sbalza
da l’alto letto pien di larve e mostri,
185 e ’l vano sangue da sè scuote, e sente
orror de l’avo, e già ’l fratel ricerca.
Come de’ cacciatori al corso e al grido
la tigre arruffa la macchiata pelle,
apre le irate fauci, e l’unghie spiega
190 e a battaglia s’appresta: indi si lancia
nel folto stuolo, e vivo uno ne prende,
ed alto il porta a satollar la fame
de’ crudi figli: in cotal guisa acceso
d’ira Eteócle incrudelisce e sbuffa,
195 e col fratello in suo pensier guerreggia.
Ma già lasciando di Titone il letto
sorgea l’Aurora, e dileguava intorno
l’umid’ombre notturne, e da le chiome
giù stillava rugiade, e rosseggiante
200 era, ed accesa dal vicino Sole.
Dinanzi a lei Lucifero il destriero
in tarda fuga volge, e tardi spegne
la vaga face, e ’l ciel non suo le cede,
perfin che Febo, il gran signor de’ lumi,
205 rischiari il mondo e la germana oscuri.
A lo spuntar del dì lascian le piume
il vecchio Adrasto ed il teban guerriero
e ’l calidonio eroe. Dopo la pugna
e l’orrida procella aveva il sonno
210 da tutto il corno su gli eroi stranieri
versata a piena man l’onda letea.
Ma l’Inachio signor, che in mente ha fissi
gli augurii e i Numi e ’l nuovo ospizio, e pensa
qual sia il destin de’ generi fatali,
215 breve goduta avea pace e riposo.
Giunti che furo del real palagio
ne la gran sala, si toccâr le destre.
Allora Adrasto in più rimota parte,
ove soleva i più segreti e gravi
220 affar del regno consultar, guidolli,
e assisi in cerchio, agli ospiti sospesi,
e che pendean da lui, tai detti sciolse:
- Certo non senza de gli Dei mistero,
giovani eccelsi, vi guidò la notte
225 entro a’ miei regni, e ’l procelloso nembo
e i fulmini di Giove. Apollo istesso,
Apollo a i tetti miei drizzovvi il passo.
A voi, cred’io, come a la greca gente
è noto già con quanti studi e voti
230 stuolo d’illustri Proci a me le nozze
chiedano de le figlie. (A me due figlie
crescon sotto felice ed ugual stella
de’ futuri nipoti unica speme).
Quale modestia in lor, qual sia beltade,
235 voi vel vedeste; non si creda al padre.
Queste cercano a prova i Regi invitti
grandi per armi e per impero. Io taccio
i Proceri Laconi e i Foronei,
e quante madri le bramâr per nuore:
240 non il tuo Eneo tanti sprezzò mariti
a la sua figlia, nè il pisan crudele
tanti ne uccise co i cavai veloci.
Ma d’Elide o di Sparta il Fato nega
che i generi io mi scelga; e a voi destina
245 con lung’ordin di cose il sangue mio,
le dolci figlie, e questo trono e il regno.
Sien grazie a i Numi: io pur vi veggio quali
per stirpe e per valore a me conviene,
e fur lieti gli augurii: a tanto onore
250 i procellosi nembi vi guidaro,
e questa è al sangue vostro alta mercede. -
Qui tacque Adrasto; e si miraro in viso
i guerrier, quasi l’uno a l’altro voglia
ceder de la risposta il primo onore.
255 Ma Tideo impazïente alfin proruppe:
- O quanto parcamente a noi favelli,
buon re, de le tue lodi! O quanto vinci
con la virtù la tua fortuna! Adrasto
a chi cede d’impero? Ed a chi ignoto
260 è omai che tu dal tuo primiero soglio
di Sicïon fosti chiamato, i rozzi
costumi a raddolcir de’ fieri Argivi?
Ed oh così in tua man Giove ponesse
quanto l’Istmo riserra, e quanto abbraccia
265 di qua, di là con due diversi mari!
Non fuggirebbe da Micene il sole,
per non veder le scelerate mense;
nè gemerebbe la campagna elea
sotto i sanguigni carri; e l’empie Dire
270 non turberian più regni: e ben lo prova
or Polinice, e a gran ragion sen duole.
Noi accettiamo il dono, e tu disponi,
buon Re, di noi, chè ne fia legge il cenno.
Così diss’egli; ed il Teban soggiunse:
275 - E chi può ricusar suocero Adrasto?
Noi, quantunque l’esilio a noi men grata
Venere renda, in te posiam le cure,
e le sgombriamo da gli afflitti petti,
il dolor nostro convertendo in gioia.
280 Così nocchier respira e si rallegra,
che scopre il lido amico e il vicin porto.
Or giovi a noi sotto i tuoi fausti auspicii
in tua corte passar quanto ne avanza
di vita, e in te ripor le nostre sorti. -
285 Sorsero allora, e s’abbracciaro: Adrasto
rinnovò i giuramenti e le promesse
di ricondurli ne i paterni regni.
Tutt’Argo è in festa, e da per tutto il grido
si sparge de i due generi novelli;
290 che a l’uno Argia, a l’altro il Re destina
Deifile non men vaga e vezzosa,
già mature a i legitimi imenei.
La Fama intanto ne divulga il suono
per le cittadi amiche, e per li regni
295 e prossimi e rimoti, oltre le selve
di Licia e di Partenia, e là ne i campi
de l’ondosa Corinto, e infin penétra
la Dea maligna ne l’Ogigia Tebe,
e di sè tutta la riempie intorno.
300 Narra gli ospizi, i giuramenti, i patti,
le nuove nozze, e ciò che vide in sogno
il Re conferma, e la commuove e turba.
Chi tanta libertà, tanto furore
concesse a questo mostro? Ei già la guerra
305 minaccia, e di discordia alza la face.
Ma già risplende in Argo il dì festivo
destinato a le nozze: i regii tetti
s’empion di lieta e festeggiante turba.
Bello è il veder le immagini de gli avi
310 spirar ne i bronzi tanto al ver simíli,
che l’arte reca a la natura oltraggio.
Inaco re con le due corna in fronte
mirasi in fianco riposar su l’urna;
seguono appresso lui Jaso canuto,
315 e Foroneo legislatore, e il forte
guerriero Abante; e Acrisio ancor sdegnoso
d’aver genero Giove; e ’l buon Corebo
col ferro in pugno, de la fiera uccisa
alto portando il formidabil teschio;
320 e la torva di Danao austera immago,
che sta pensosa ancor sul gran delitto;
poscia mill’altri Regi. Intanto accorre
il vulgo, e tutto il gran palagio inonda.
Ma i senator ne i gradi lor distinti,
325 chi presso e chi lontano al Re fan cerchio.
Dentro risuonan le più interne celle
di femminil tumulto, e a’ sacri altari
ardon gl’incensi, e porgon voti a i Numi.
Fanno d’intorno a le reali spose
330 casta corona le matrone argive;
e alcuna de le vergini pudiche
rassicura il timore, e le dispone
a le leggi e a i dover de l’imeneo.
Esse sen vanno e d’abito e d’aspetto
335 ragguardevoli in vista e maestose,
di modesto rossor tinte le gote,
con gli occhi a terra chini; e sol le turba
di lor verginità l’ultimo amore,
e del loro pudor la prima colpa.
340 Scendon da’ vaghi lumi alcune stille,
quasi rugiada ad irrigarne i seni.
Il genitor sel vede, e sen compiace.
Tali scendon talor Palla e Diana
dal cielo insieme ambe di dardi armate,
345 ambe in volto feroci, i biondi crini
dietro del capo in vago nodo attorti:
l’una da Cinto, d’Aracinto l’altra
guida le vaghe sue leggiadre Ninfe;
se tu le miri (se mirarle lice),
350 non sai quale più onori, o quale appaia
più vaga, o qual sia più di grazie adorna;
e se tra lor con egual cambio l’armi
volessero mutar, ben converrebbe
a Palla la faretra, a Cintia l’elmo.
355 Intanto il popol d’Argo in ogni tempio,
ciascun secondo il suo potere, a i Numi
fan sacrifici: altri di grassi tori,
altri d’agnelle, altri di puro incenso;
nè son graditi men, s’è il cor divoto.
360 Quand’ecco strano e subito spavento
(così volea la Parca) il lieto giorno
turba, e tutto d’orror riempie il padre.
Givan al tempio le due vaghe spose,
fra lieta turba e mille faci ardenti,
365 de la casta Minerva, a cui Larissa
più grata è assai de’ suoi Munichii colli.
Ivi solean le verginelle argive,
destinate a le nozze, a la gran Dea
le primizie libar de i vaghi crini,
370 e scusa far de’ talami novelli.
Ora mentre salian lieti e festivi
per gli alti gradi al tempio, il grave scudo
de l’arcadico Evippo al tetto appeso
giù d’improvviso rovinando cadde,
375 e le faci e le tede e il sacro fuoco
del tutto spense; e rauco suon di tromba
da i sotterranei uscì, che di spavento
d’empier finì gli sbigottiti Argivi.
Tutti guardano il Re, che non dà segno
380 di tema; allor l’adulatrice turba
nega d’avere il tristo augurio udito,
ma lo riserba in mente, e sen discorre
per tutto, ed il terror cresce parlando.
Ma che stupor? Se dal tuo collo pende
385 il fatale d’Harmonia empio monile,
dono del tuo consorte, o bella Argia?
Lungo, ma noto è l’ordine de’ mali
de l’infausto monile, e pur mi giova
tutta narrarne la dolente istoria.
390 Dacchè Vulcan ne la nascosa rete
prese l’infida sposa e ’l fiero drudo,
nè però vide a sè cessar lo scorno,
nè le insidie di Marte; ei si dispose
in sembianza di dono a far vendetta
395 ne l’innocente lor misera figlia.
Impiegò tosto nel feral lavoro
i suoi Ciclopi e i tre Telchini infami,
ed ei più d’altri faticò ne l’opra:
ei v’inserì molti smeraldi ardenti
400 d’occulta luce, e più diamanti impressi
d’immagini funeste, e del Gorgone
gli occhi maligni, e il cener su l’incude
avanzato de i fulmini celesti,
e de i dragon le squamme, e l’oro infausto
405 de i pomi de l’Esperidi e del vello
del reo monton di Frisso, e varie pesti,
e del crin di Megera il maggior serpe,
e del venereo cinto il reo potere;
e con l’umide spume a Cintia prese
410 temprò il fatal monile, e lo cosperse
tutto d’allegro micidial veneno.
Non fur presenti Pasitea gentile,
nè le minor sorelle, nè il diletto,
nè l’Idalio fanciullo: il lutto, l’ira,
415 il dolor, la discordia a l’opra infame
porsero aiuto, e n’affrettaro il fine.
Prima fu Harmonia a risentirne il danno,
chè il serpeggiante suo vecchio marito
per gl’Illirici campi or va seguendo
420 mutata in biscia, e sibilando duolsi.
Semele poi se n’era ornata appena,
che venne a lei l’insidïosa Giuno.
Questa in sembianza d’ôr lucida peste
te pur fregiò, Giocasta: ed a qual letto,
425 misera! A quali nozze? Indi molt’altre
ne provaro il veleno: ora nel petto
splende d’Argia, che col monile infausto
de la germana il parco culto eccede.
Ma del Vate, da’ Fati omai richiesto,
430 l’avara moglie il vide, e in lei destossi
tosto l’invidia, ed un’ardente brama
di possedere l’esecrabil oro.
Che giova a lei l’aver comune il letto
con l’argivo indovino? Oh quante stragi!
435 Oh quanti lutti a sè prepara! Degni
inver di lei; ma l’innocente sposo
in che peccò? Qual v’hanno colpa i figli?
Poichè dodici volte ebbe fugate
dal ciel le stelle la vermiglia Aurora,
440 a le reali feste ed a i conviti
fu posto fine. Polinice allora
volse il pensiero a l’anfionie mura,
e al patrio regno. A lui ritorna in mente
il dì che la Fortuna alzò il fratello
445 a l’echionio trono, ed ei rimase
privato e in odio a’ Numi, e con la sorte
vide fuggirsi i poco fidi amici.
Sol la minor sorella in su l’estreme
soglie seguillo ed abbracciollo; ed egli
450 per soverchio furor rattenne il pianto.
Or l’infelice in suo pensier rivolge,
o spunti in cielo il sole, o ’l dì s’imbruni,
quali del suo partir restâr giulivi,
e quai dolenti, e l’alterigia e il fasto
455 del superbo germano: il cuor gli rode
vendetta e sdegno, e de’ più rei tormenti
il maggior, la speranza e lunga e incerta.
Da tai cure agitato, egli risolve
tornar (segua che puote) a la natia
460 Dirce e a i Beozi campi, e su l’avito
trono di Cadmo, che il fratel gli nega.
Siccome toro, che guidò l’armento
gran tempo, dal rival vinto e fugato
lungi dal natio pasco e da l’amata
465 giovenca, mugge dal profondo petto,
e disdegnoso sprezza il fonte e l’erba;
se le piaghe risana, e il muscoloso
petto rinfranca, e il vigor nuovo acquista,
torna superbo a miglior pugna accinto
470 al prato antico ed al primiero amore;
sparge col piè l’arena, arruota il corno;
lo teme il vincitor; restan confusi,
e ’l riconoscon i bifolchi appena:
non altrimenti il giovane tebano
475 medita nel suo cuor l’alta vendetta.
Ma ben s’avvide la pudica moglie,
qual ei volgesse in sè consiglio occulto;
e in mezzo a i casti mattutini amplessi
tra mille baci, a lui piangendo disse:
480 - Quali moti, Signor? Che fuga è questa
che ordisci? Non s’inganna accorta amante:
i sospiri, i lamenti e gl’inquïeti
sonni i disegni tuoi mi fan palesi.
O quante volte, o quante io le man stendo,
485 e sento il cuore palpitarti in petto,
ed il viso talor di pianto molle!
A me non preme l’ancor fresca fede
di nostre nozze, nè che tu mi lasci
vedova e sola in giovanetta etade;
490 quantunque è in me d’Amor viva la face,
e ’l nostro letto non ben caldo ancora;
a me, dolce mio sposo, a me sol preme
la tua salvezza. E disarmato e solo
tu dunque andrai ne’ tuoi paterni regni?
495 E se ’l fratel li nega? ed in qual modo
fuggirai tu da la tua Ogigia Tebe?
Ahi che la Fama, che più i Regi osserva,
narra di lui quant’è superbo e altiero
per l’usurpato soglio, e (non ancora
500 finito l’anno) contro te crudele.
Io temo e tremo, e accrescono il terrore
le fatidiche voci, e le interiora
de le vittime infauste e i Numi irati,
e il volo de gli augelli e i tristi sogni;
505 ah che giammai non m’ingannaro i sogni,
qualor Giuno m’apparve! E dove corri,
misero? Se pur te segreto amore
e un suocero miglior non chiama a Tebe! -
Sorrise allora il giovane Tebano
510 del van sospetto de la cara moglie,
e se la strinse al seno, e con più baci
tempronne il duolo e rasciugonne il pianto.
- Deh sgombra, anima mia, sgombra il timore
(disse), e confida: a’ giusti voti i Numi
515 saran propizi, e a le dolenti notti
succederà più d’una lieta aurora.
L’alte cure di Stato a la tua etade
non convengono ancora: il sommo Giove
sa qual fine si debba a giusta impresa,
520 se Astrea pur è lassuso, e s’ei riguarda
quaggiù le cose e vuol che ’l dritto vinca.
Verrà (o ch’io spero) il fortunato giorno
che salirai col tuo consorte in trono,
e andrai di due città donna e regina. -
525 Qui tacque, e abbandonò le amiche piume:
poi con Tideo s’unì, de le sue pene
e de le cure sue fido compagno:
(cotanto amor dopo la pugna e ’l sangue
era nato fra lor), e al vecchio Adrasto
530 chiese dolente il già promesso aiuto.
Ei raduna il senato, e dopo molti
e diversi pareri, alfine sembra
il partito miglior che alcun si mandi,
che ’l pattuito vicendevol regno
535 ad Eteocle chieda, e tenti prima
le pacifiche vie del suo ritorno.
Così conchiuso, il Calidonio audace
sè stesso offrì: ma quanto duolo, ahi quanto,
Etolo eroe, la tua fedel consorte,
540 Deifile gentil, del tuo partire
risente! E che non fece, e che non disse?
Quanto pianse e pregò per ritenerti?
Ma del padre il voler, ma la pietade
de la germana e ’l dritto de le genti
545 che i messaggi assicura, alfin la vinse.
Part’egli intanto, e già passato avea
aspri cammin per cupe selve e colli,
là dove ferve la lernea palude
co’ venefici flutti, ancor fumante
550 per gli arsi capi da l’erculeo braccio;
e dove in la nemea valle non s’ode
de’ timidi pastor voce, nè canto;
indi era giunto a le corintie spiagge
esposte al soffio orïental de’ venti;
555 ed al porto di Sisifo; e là dove
il Lecheo palemonio il mare affrena.
Poscia a Niso si volge, e alla sinistra
lasciando Eleusi a Cerere diletta,
ei calca infine di Teumesia i campi,
560 e pone il piè ne l’Agenorea rocca.
Vede Eteócle in alto trono assiso
dar legge a Tebe oltre il confin de l’anno,
e del regno non suo, ma del fratello:
torvo d’aspetto, che ben mostra fuori
565 l’animo aver ad ogni colpa pronto.
E appunto ei si ridea che così tardi
se gli chiedesse il patto. Allor fermossi
Tideo nel mezzo: il ramuscel d’oliva,
ch’ei porta in mano, messagger lo scopre.
570 Chiesto poscia del nome e qual cagione
ivi lo meni, il tutto fa palese;
e come rozzo nel parlar e a l’ira
pronto e disposto, la sua giusta inchiesta
mischiò in tal guisa con parole amare.
575 - Se in te regnasse fede, e se de’ patti
cura prendessi, al tuo fratel ramingo
tu dovevi mandar, finito l’anno,
ambasciatori e richiamarlo al trono,
e con pronto voler, con cuore invitto
580 lasciar la tua fortuna e ’l non tuo regno,
tanto che anch’egli da’ suoi lunghi errori
per ignote cittadi e da’ disastri
ne la promessa sua corte respiri.
Ma già che tanto in te può amor d’impero
585 e di comando, che l’altrui ritieni,
noi te ’l chiediamo: ha già trascorso il Sole
per tutti i segni, da che i duri casi
del tristo esilio il tuo fratel sopporta.
Or tempo è bene che tu ancora impari
590 andartene ramingo al caldo, al gelo
ne l’altrui case a mendicar l’albergo.
Pon modo, poni a la tua sorte: assai,
ricco d’oro e di gemme e d’ostro adorno,
del tuo fratel la povertà schernisti.
595 Il piacer di regnar scordati alquanto;
soffri l’esilio, e sofferendo degno
ti renderai di ritornar sul trono. -
Sì disse: e ’l Re già torbido inquïeto
ardea nel cuore di furore e sdegno.
600 Siccome serpe, cui per lunga sete
crebbe il velen ne le natie latebre,
da tutti i membri lo raccoglie al collo
e a la trisulca lingua; indi si lancia
contro il pastor, che lo ferì col sasso.
605 Così Eteócle tumido ed altiero
diede a i feroci detti aspra risposta:
- Certo se l’odio, se ’l furor, se l’ira
dubbi fossero a me del mio germano,
e non ne avessi manifesti segni,
610 l’altiero tuo parlar ne faria fede.
Così al vivo l’esprimi e ne minacci
con rabbia tal, come se fosser svelte
da’ fondamenti le anfionie mura,
e tutta andasse Tebe a ferro e a fuoco.
615 Se a’ feroci Bistonii ed a’ gelati
Sciti lontani dal cammin del Sole
messaggero tu fosti, in più discreti
modi so ben che parleresti, e fiero
non calcheresti de le genti il dritto.
620 Ma perchè te accusar? Tu del fratello
porti le furie e ’l reo mandato esponi.
Or perchè tutto hai di minacce pieno,
nè con modi pacifici richiedi
il regno e i patti, al mio fratello argivo
625 tale in mio nome porterai risposta:
"Quello scettro, che a me la sorte e gli anni
hanno concesso, giustamente io tengo,
nè lascerollo. Te l’inachia dote,
te di Danao i tesor rendan contento;
630 (già non invidio la tua gloria e ’l fasto)
tu reggi pure con felici auspicii
ed Argo e Lerna: a me l’orride zolle
bastan di Dirce, e di Beozia i campi
pochi e ristretti da l’euboico mare,
635 nè mi vergogno Edippo aver per padre.
Te Tantalo, te Pelope, te Giove,
cui più t’accosti, fanno illustre e chiaro.
Come potrà la tua Regina, avvezza
a lo splendor paterno, a queste case
640 povere e anguste accostumare il guardo,
cui le nostre germane umili e abiette
già fatte ancelle fileran le lane?
Come soffrir potrà la sconsolata
suocera antica? E da le sue caverne
645 se urlar sentirà il padre, ahi quale orrore,
quale dispetto non ne avrà? Già il vulgo,
già i nobili e ’l senato al giogo nostro
avvezzi sono, e ne son paghi. Io dunque,
io non ne avrò pietà? Soffrir degg’io
650 che mutino ad ognor principe e leggi?
Troppo a i popoli è duro un breve regno,
e offrir gli omaggi a incognito tiranno.
Mira tu stesso qual li prende orrore,
e sdegno e tema del periglio nostro:
655 e questi io darò a te, per farne scempio?
Or fa’ ch’io ’l voglia: nol vorranno i Padri,
(se la lor fede, se l’onor m’è noto),
la plebe nol vorrà". - Qui impazïente
Tideo interruppe: - Il renderai malgrado,
660 il renderai; non se di ferreo vallo
tu ti circondi, o l’anfionia cetra
formi triplice muro a Tebe intorno;
non le faci, non l’armi il tuo castigo
impediranno; e moribondo e vinto
665 al suol percuoterai la regia fronte.
E tu a ragion... Ma di costor, crudele,
mi duol, che a guisa di giumenti e schiavi
tratti dal sen de le consorti afflitte
lungi da’ figli, a certa morte mandi.
670 O quante stragi porterà il Citero!
Di quanto sangue correrà l’Ismeno!
Questa è la tua pietà? Questa è la fede?
Ma che stupor, se de l’iniqua schiatta
fu crudele l’autore, e incestuoso
675 il padre? Benchè il sangue in Polinice
falla, e tu solo de l’infame Edippo
sei degno figlio; e patirai le pene
tu solo ancor. Noi ti chiediamo il patto,
e l’anno nostro. Ma che bado? - Allora
680 fin da l’estreme soglie minacciando
urta, ed apre la turba, e irato parte.
Così ’l fiero cinghial, che da l’irata
Diana offesa a desolar fu spinto
d’Oeneo i campi, al suon de l’armi greche
685 arruffò il pelo, e con l’acute zanne
rivoltò i sassi e lacerò le piante
che su le ripe a l’Acheloo fann’ombra;
indi Piritoo e Telamon ferio,
poscia pugnò con Meleagro, a cui
690 restò la gloria de l’uccisa belva:
tale, e più fiero il calidonio eroe
lascia il concilio, e furibondo freme,
come se a sè, non al cognato, il regno
negato fosse; e ’l ramuscel d’oliva,
695 segno di pace, da sè lungi scaglia.
Miranlo d’alto le dolenti spose
e le pallide madri, e contro lui
fanno orribili voti e contro il rege,
che negò ’l giusto e se lo fe’ nemico.
700 Ma il malvagio tiranno, a cui non manca
arte e sapere in ordir frodi e inganni,
de’ più forti guerrieri e a lui più fidi
scelta una schiera, con promesse e doni
al tradimento li dispone e compra,
705 e prepara a Tideo notturno assalto;
nè al sacro nome d’orator, nè al sacro
diritto de le genti omai pon mente.
Empio furor di regno, e che non osi?
O se dato a costui fosse il fratello,
710 qual ne farebbe scempio? O de l’inique
menti ciechi consigli! O da’ delitti
non mai disgiunte diffidenza e tema!
Ecco come costui contro d’un solo
non altrimenti tanta gente aduna,
715 che se ad un campo egli movesse assalto,
o col frequente urtar degli arïeti
d’assediata città battesse il muro.
Escon costoro, e son cinquanta insieme
fuor de le porte: o glorioso, o prode
720 guerrier, contro cui sol muovon tant’armi!
E vanno per angusta e breve via
di spine cinta attraversando il bosco,
per assalire al passo il gran campione.
Sonvi due colli a la città vicini,
725 cui li monti maggior fann’ombra eterna,
cinti d’intorno da un’opaca selva,
da’ quali s’esce per angusto calle.
È naturale il sito; e pur ei sembra
da l’arte fatto ad occultar gli agguati.
730 S’apre per mezzo a’ sassi un piccol varco
e disastroso, che conduce a l’erto
e periglioso passo: indi i soggetti
campi miransi intorno, e valli e fiumi.
Sorge a l’incontro la tremenda rupe
735 albergo de la Sfinge: in su quel sasso
stava già un tempo la terribil belva
pallida il volto e macilente, e gli occhi
lividi e torvi, con le immonde penne
di sangue intrise, e con le fiere labbia
740 iva lambendo i lacerati avanzi
de’ passaggeri uccisi; intanto il guardo
girava intorno ad ispiar se alcuno
colà salisse, e temerario osasse
contender seco a sviluppar gli enimmi:
745 tosto aguzzava i fieri denti, e l’ugne
spiegava, e dibattendo i pigri vanni,
gli si lanciava al viso, e de la rupe
col capo in giù lo fea cader da l’alto.
Fur felici gl’inganni, insin ch’Edippo
750 giunse, e spiegò l’ambagi: allora il mostro
tristo e confuso, senza batter ali,
precipitò se stesso; e ’l fiero ventre,
e le viscere infami infrante e sparse
andaro per le rocce e pe’ i burroni.
755 Conserva ancor contaminato il bosco
l’orror del mostro, e da que’ paschi infami
vanno lungi le gregge: a la nocente
ombra non vengon mai Fauni o Silvani,
nè le Driadi vezzose; ed i rapaci
760 augelli e i fieri lupi il volo e il passo
(tal li prende terror) volgono altrove.
In questo luogo l’insidiosa turba
riserbata a morir s’appiatta, e cinge
di guardie il bosco, ed appoggiata a l’aste
765 l’etolo eroe stassi attendendo al varco.
Di già Febo è sparito, e già la notte
stende l’umido velo e il mondo adombra.
Ed ecco ei s’avvicina, e da eminente
luogo e di Cintia al vacillante raggio
770 scorge da lungi balenar gli scudi
tra ramo e ramo de le turme ostili,
e su i cimieri tremolar le piume.
Vede, stupisce, e non però s’arretra;
ma colla mano il brando tenta, e poi
775 due dardi impugna, e minaccioso grida:
- Chi siete voi, guerrier, chè vi celate? -
Nissun risponde: ond’ei vie più sospetta
che avrà dura al passaggio aspra contesa.
Quand’ecco intanto dal robusto braccio
780 di Cromio, condottier de la masnada,
vibrata un’asta fende l’aria a volo;
ma i Numi e ’l Fato fur contrari al colpo:
fora però la setolosa pelle
de l’olenio cinghiale, ond’ei si copre,
785 e l’omero sinistro a lui radendo,
gli striscia il collo e passa il ferro asciutto.
Arruffò il crine allor l’etolo eroe,
e tutto se gli strinse il sangue al core:
rivolge intorno il guardo e ’l fer sembiante
790 pallido per lo sdegno; e appena crede
che contro un sol stieno tant’armi ascose.
- Uscite (grida) a campo aperto, uscite,
appiattati guerrier, ch’io non m’ascondo.
A me, a me vi rivolgete: e quale
795 timore vi raffrena? Oh che viltade!
Io solo, io sol tutti vi sfido a guerra. -
Rupper gl’indugi al suon de’ detti audaci
i tebani guerrieri, e d’ogni parte
uscîr d’agguato in numeroso stuolo,
800 maggior di quello ch’ei pensò, da l’alto
correndo a lui e da la bassa valle.
Così cingon talor di reti e d’aste
i cacciatori le feroci belve;
e par che al peso di tant’armi e al lume
805 tutt’arda e tremi quella selva antica.
Vede Tideo che a sua difesa giova
guardar le spalle, e de la Sfinge al sasso
sen corre, e benchè sia scosceso ed erto,
tanto s’appiglia con le adunche mani
810 a scaglie e a greppi, che a la fin v’ascende.
Giunto ch’egli è de l’alta rupe in cima,
ne svelse un rozzo e smisurato sasso
pesante sì, che strascinarlo appena
due affannati giovenchi a collo steso
815 potrian d’un edifizio al gran lavoro.
Poi tutte le sue forze in un raccolte
l’alza da terra, e lo sospende e libra;
indi lo scaglia. Così Folo appunto
contro i Lapiti rei lanciò il gran vaso.
820 Mira in aria il gran monte, e ne stupisce
l’iniqua turba, che va incontro a morte,
e oppressa ne rimane: i visi, i petti,
le forti braccia, e in un l’armi e gli armati
restano infranti, stritolati e misti.
825 Quattro fur quei che da la grave mole
distrutti furo, e non d’ignobil gente;
onde gli altri smarriti andaro in fuga.
Dorila il primo fu che per valore
si pareggiava a’ Regi; indi Terone
830 fiero per gli avi suoi, ch’egli traeva
da’ denti del dragon già sacro a Marte;
il terzo domatore de’ destrieri,
bench’or pedestre muoia, Alì feroce.
Tu pur da Penteo discendente, in ira
835 e in odio a Bacco, o Fedimo, cadesti.
Poichè li vede in fuga, egli i due dardi,
che tiene in man, lor dietro vibra, e poi
balza dal monte a più vicina guerra.
Vede lo scudo di Teron, che ’l sasso
840 avea lungi da lui fatto cadere,
e l’imbraccia e ’l solleva, e contro i dardi
e contro l’aste si ricopre, ed usa
de l’ostile riparo in sua difesa;
indi fermossi: i masnadieri allora,
845 che lo scorsero al pian, voltâr la fronte,
e contro lui mosser serrati insieme.
Egli trae fuori il formidabil brando,
dono di Marte al suo gran padre Eneo,
e d’ogni parte mira, e questi assale,
850 e quei respinge, e col fulmineo ferro
l’aste recide e le saette ostili.
La densa turba s’impedisce, e s’ode
elmo con elmo urtar, scudo con scudo:
sono vani i loro sforzi, e ben sovente
855 per troppa fretta l’un l’altro ferisce,
e l’un su l’altro cade. Egli sta immoto,
angusto segno a cotant’armi, e sembra
inespugnabil rocca o quercia alpestre.
Quale il gran Briareo di tutto il cielo
860 sostenne in Flegra la potenza e l’armi,
quando Febo con strali, e col Gorgone
Pallade, e Marte col bistonio cerro
gli stavan contro, e Sterope era stanco
in apprestar tante saette a Giove;
865 da tante forze combattuto e cinto,
ei si dolea che fosser pigri i Numi:
con non minor furor Tideo combatte,
ed or s’avanza, or si ritira, e sempre
con lo scudo si copre, e i tremolanti
870 dardi ne svelle, e contro chi lanciolli
irato li rimanda, e di già il sangue
gli esce da non mortali e lievi piaghe.
Deiloco e Fegea, che con la scure
già l’assaliva, uccide e a Lete manda;
875 e appresso a questi d’Echion disceso
Licofroonte, e il fiero Gía dirceo.
Rimirano i fellon la loro schiera
scema de’ miglior capi, e in essi il fiero
desio di pugna già languisce e manca.
880 Ma Cromio, che da Cadmo il sangue tragge,
avanza il passo: (Driope fenice
a lui fu madre, e n’avea l’alvo grave,
quando ne’ giuochi sacri a Bacco avendo
per l’ardue corna un fiero toro preso,
885 nel gran contrasto il partorì immaturo).
Fiero ei pe’ dardi, e per la spoglia altero
d’un leon, ch’egli avea poc’anzi ucciso,
ruotando in giro una nodosa clava,
alto gli altri rampogna: - Adunque un solo
890 uom da tant’armi e tanti armati cinto
tornerà in Argo vincitore? Appena
si troverà chi ’l creda. Ah miei compagni,
ove sono le destre, ove il valore?
ove le spade e l’aste? È questo quello,
895 Lampo e Cidon, che promettemmo al Rege? -
Mentr’ei così minaccia, ecco uno strale
che ne le fauci ’l coglie, e per la gola
gorgoglia il suono, e gl’impedisce il sangue
che di fuor esca. Egli tardò a cadere
900 sinchè, la morte in tutt’i membri sparsa,
vie più l’asta mordendo, ei cadde al suolo.
Ma già non lascio voi, di Tespio figli,
senza il dovuto onor. Perifa il primo,
mentre con man pietosa il moribondo
905 fratel sostiene (mai pietà maggiore,
nè un’indole miglior de’ due germani
fu vista al mondo) e ’l già languente collo;
e mentre co’ sospir preme l’usbergo,
e l’elmo inonda col dirotto pianto,
910 ecco al fianco gli giunge il crudo cerro
de l’etolo campione, e lo conficca
al fratel moribondo: ambi cadéro,
e l’ultimo ferito al di già estinto
germano affissa gli occhi, e con la fioca
915 voce che ancor gli avanza, a Tideo dice:
- Tali a te diano abbracciamenti e baci,
o barbaro guerriero, i figli tuoi. -
Così giacquero entrambi: o dura sorte!
Nacquer, visser, moriro uniti insieme.
920 Non bada sopra lor Tideo, ma l’asta
ricovra, e con la stessa e con lo scudo
Menete fuggitivo incalza e preme:
fugg’egli, ma fuggendo inciampa e cade.
Allor le mani stende, e mercè grida,
925 e l’asta impugna, e quanto può, dal collo
la tien lontana, e in cotai detti prega:
- Deh, per queste stellate ombre, per questa
tua glorïosa notte e per i Numi
perdona a me, tanto che a Tebe vada,
930 a predicare del tuo invitto braccio
l’eccelse prove, del tiranno ad onta.
Così sian sempre rintuzzate e vane
contro te le nostr’armi, ed il tuo petto
impenetrabil resti a’ colpi nostri,
935 e al fido amico trionfante rieda. -
Tacque; e Tideo, senza mutar sembiante:
- Che piangi? (disse) e perchè preghi invano?
Tu pur giurasti al fier tiranno, iniquo,
questo mio capo: or lascia l’armi, e muori.
940 A che mercare con viltà la vita?
Restan stragi maggiori. - E così detto
il ferro immerge a lui nel collo, e passa,
e insulta a’ vinti con acerbi motti:
- Questa non è la sacra al vostro Nume
945 triennal notte; nè guidate in giro
gli Orgii di Cadmo, nè ’l furor materno
profana quivi i sacrifici a Bacco.
Forse vi credevate, ebbri e festosi,
cinti d’edera il crine e ’l petto armato
950 del vile cuoio de le belve imbelli,
al molle suon di cornamuse e flauti
guidar le vostre fanciullesche guerre
d’uomini forti indegne? Altr’armi, altr’ire
fan d’uopo qui. Gite a portar sotterra,
955 o pochi, o vili, il vostro scorno e l’onta. -
Così minaccia; ma le forze intanto
mancando vanno, e l’agitato sangue
affanna il core; e ’n vani colpi il braccio
s’aggira, e sotto gli vacilla il piede:
960 lo scudo grave per tant’armi e rotto
più non può sostener: da l’anelante
petto distilla un gelido sudore;
e tutto è intriso il crin, le mani e ’l volto
del tetro sangue de’ nemici uccisi.
965 Qual massile leon, che posti in fuga
i guardïani de l’imbelle armento,
a quel s’avventa furibondo e altero,
e se n’empie le fauci e ’l ventre ingordo:
saziata infine la sua ingorda fame,
970 l’ira depone, e le mascelle invano
battendo, fra i cadaveri passeggia,
e la strage contempla e lambe il sangue:
così ancora Tideo di stragi carco,
ito sarebbe a Tebe, e al fier tiranno
975 e a l’atterrita plebe il suo trionfo
mostrato avrebbe; ma frenò l’ardire
e ’l fiero core del gran fatto gonfio
la sempre amica a lui Tritonia Dea.
- O del grand’Eneo generoso figlio,
980 (diss’ella) a cui già promettiamo in Tebe
maggior trionfo, a le felici imprese
pon modo omai, nè più tentare i Numi
fin qui propizi: a la grand’opra manca
sol questo, che tu in Argo ora ritorni
985 sicuro e pago di tua lieta sorte. -
Restava vivo sol tra tanti estinti
l’emonide Meone: egli del cielo
conoscea i moti e degli augelli il volo,
e ’l fiero caso avea predetto al Rege,
990 da lui schernito e non creduto: il Fato
gli fe’ negar la fede. A l’infelice
dona l’odiata vita il gran Tideo,
e un crudel patto a lui tremante impone:
- O qualunque tu sia, che fra costoro
995 tolto di mano agl’Infernali Dei,
rivedrai pure la vicina luce,
al tuo spergiuro Re questo dirai:
"Rinforza omai le porte, e rinnovella
l’armi e raddoppia gli ordini e le schiere,
1000 e Tebe cingi di più forte vallo.
Questo campo fumar mira nel sangue
de’ tuoi guerrieri da un sol brando uccisi:
tali in battaglia ti verrem noi sopra".
Ciò detto, a te, sacra Tritonia Dea,
1005 de le acquistate spoglie alto sublime
trofeo prepara, e le raccoglie e lieto
le porta, e va contando i suoi trionfi.
Sovra eminente bica, a’ campi in mezzo
posta un’antica annosa quercia sorge
1010 di dura scorza e di frondosi rami,
che stende l’ombra largamente intorno.
A questa appende l’etolo guerriero
gli elmi leggeri ed i forati arnesi,
e l’aste e i brandi tronchi; indi su quelle
1015 alto si ferma e su i nemici uccisi,
ed apre il varco a la preghiera; al voto
eco fanno la notte e i boschi e i monti.
- Guerriera Dea, Genio ed onor del padre,
cui di terror leggiadro adorna il volto
1020 l’elmo lucente, e ’l fier Gorgone impugni;
di cui Bellona e ’l furibondo Marte
spingon men fieri a guerreggiar le schiere;
tu grata accogli il sacrificio e ’l voto.
O ch’or tu venga a rimirar la nostra
1025 pugna da la città di Pandïone;
o ne l’aonia Itome ora tu meni
danze e carole con le ninfe amiche;
o che tu lungo il libico Tritone
le sterili giumente al corso affretti:
1030 noi a te i busti de’ guerrieri uccisi
sacriamo, e l’armi e le sanguigne spoglie.
Ma se avverrà che dal mio duro esilio
ritorni un giorno al partaonio regno
e a Pleurone guerriera, io ti prometto
1035 nel mezzo a la cittade alzarti un tempio,
ricco di scelti marmi e di molt’oro.
Quindi grato fia mirar da l’alto
L’Ionio procelloso, e l’Acheloo
fender il mare, e con la rapid’onda
1040 de l’Echinadi opposte urtar ne’ lidi.
Ivi saran degli avi miei le imprese
scolpite, e i venerabili sembianti
de’ magnanimi Regi: a l’alto tetto
staranno appese l’armi, e aggiungerovvi
1045 le spoglie opime che col sangue sparso
ho conquistate, e quelle che di Tebe
tu mi prometti, o tutelar mio Nume.
Ivi a te serviran ben cento e cento
d’attico culto vergini pudiche,
1050 che t’arderan le caste faci e ’l puro
liquore de la pianta a te diletta.
Una sacerdotessa antica e grave
conserverà perpetuo il sacro fuoco
e terrà occulti i tuoi pudichi arcani.
1055 A te sia in guerra, a te sia in pace, sempre
le primizie offrirò d’ogni mio fatto;
nè i voti nostri invidierà Diana. -
Disse, e ad Argo tornò su l’orme prime.
Ma ’l fier tiranno de l’aonia corte,
de l’inquïeta notte entro gli orrori,
sebben ancor molto di spazio avanzi
infra l’umide stelle e la vermiglia
5 Aurora, gli occhi suoi non chiude al sonno.
Gli tengon l’alma perturbata e desta
l’ordite frodi, e le noiose cure
gli anticipan la pena; indi ’l timore,
augure infausto de’ vicini danni,
10 gli sconvolge la mente. - E donde mai
(dice) tanta dimora? - Egli si crede
a tant’armi Tideo facile impresa,
nè col valore il numero compensa.
- Forse mutò cammin? Forse a lui venne
15 soccorso d’Argo? O le vicine genti
mosse la fama del crudel mio fatto?
O furon pochi, o padre Marte, e imbelli
quei, ch’io scelsi, guerrieri? E pur fra loro
v’eran Dorila e Cromio, e i due robusti
20 figli di Tespio a torri eccelse eguali,
che basterebber soli a sveller Argo.
Già non mi sembra che di bronzo il petto
o le braccia di ferro avesse, quando
altiero a me sen venne, ond’egli possa
25 essere impenetrabile a tant’armi.
O miei vili guerrier, se non valete
con tante forze ad atterrare un solo! -
Così torbido ondeggia in gran tempesta
di contrari pensieri, ed or si duole
30 che di sua man non gli trafisse il petto
a la scoperta in mezzo a’ suoi baroni,
quando orator gli richiedeva il regno;
ed or si pente, e n’ha rimorso, e brama
de l’orribil misfatto esser digiuno.
35 Qual calabro nocchier, che ’l mar tranquillo
mirando, e balenar d’olenia stella,
sciolse dal lido, e ne l’Ionio mare
volse la prora, se improvviso sente
fremere in alto la procella, e il mondo
40 quasi schiantarsi da’ suoi Poli, e ’l cielo
dal torbido Orïon scosso e tremante;
esser vorrebbe a terra, e forza ed arte
usa per ritornar onde partio;
ma gliel contende impetuoso Noto;
45 ond’egli allora s’abbandona e geme,
e si dà in preda a’ ciechi flutti insani:
tal l’agenoreo Re rinfaccia e sgrida
Lucifero di pigro e l’alma Aurora.
Ed ecco intanto a lo sparir de l’ombre
50 e al tramontar de gli astri, allora quando
Teti affretta ad uscir dal mare Eoo
Febo ancor sonnacchioso: ecco dal centro
predire i mali, e vacillare il suolo.
Scosso Citero mandò giù le nevi:
55 parvero alzarsi i tetti, e i monti e ’l piano
tutto intorno scoprir da sette porte.
Nè lungi è la cagion: sul mattutino
gelo torna Meon sdegnoso e mesto
che gl’invidiasse il fato orrevol morte.
60 Non bene ancor si riconosce al volto,
ma sospirando e percuotendo il petto,
d’immense stragi dà sicuri pegni.
Già pianto avea, ma ’l suo dolore estremo
gli avea su gli occhi rasciugati i pianti.
65 Così pastor esce dal bosco afflitto,
ove la pioggia e ’l procelloso nembo
disperse il gregge, e ’l lasciò in preda a’ lupi:
scopre il giorno la strage: al suo signore
non osa egli portar l’annunzio infausto;
70 e ’l crin sparge d’arena, e di lamenti
tutta intorno suonar fa la foresta:
odia ’l silenzio de le vuote stalle,
e stride, i tori suoi chiamando a nome.
Le madri intanto e le dolenti spose,
75 che su le porte aspettano il ritorno
de’ mariti e de’ figli, e ’l vedon mesto
solo tornar, senza i compagni al fianco,
e i magnanimi duci, alzano il grido:
siccome avvien, quand’entran vincitrici
80 in ostile città le armate schiere;
o come suol la disperata ciurma
nel punto che la nave in mar s’affonda.
Ma come prima ei giunge al fier cospetto
del tiranno odïato: - Ecco ti dona
85 (grida) il fiero Tideo questa infelice
anima sola di cotanta schiera;
o ciò disposto abbiano i numi o il caso,
o che ’l valor (benchè malgrado il dico)
de l’invitto campion potuto ha tanto.
90 Io ’l vidi, io ’l narro, e pur lo credo appena:
tutti per la sua man giacciono estinti.
Voi che girate in ciel, astri notturni,
voi pallid’ombre de’ compagni uccisi,
e tu che mi conduci, augurio infausto,
95 voi chiamo in testimon, che ’l mio crudele
perdono non mercai con un vil pianto;
nè con la fuga, o con la frode ottenni
di prolungare senza onore i giorni.
Ma tal de’ Numi era il decreto, e tale
100 era il voler de l’immutabil Parca,
nè ’l mio fatal momento era ancor giunto.
E perchè veda ognun che de la vita
a me non cale, e non pavento morte,
tiranno, ascolta i miei veraci detti:
105 tu, iniquo, tu, per conculcar le leggi
ed usurpar de l’esule fratello
l’alterno trono, i tuoi guerrier mandasti
sotto auspici infelici a guerra infame:
te assorderan continuo e gli urli e i pianti
110 de le vedove afflitte e de’ pupilli
di tante case per tua colpa estinte;
a te s’aggireran con tetre larve
cinquant’ombre sdegnose ognor d’intorno,
ch’io già le seguo e il lor numero adempio. -
115 Mentr’ei ragiona, in Eteócle ferve
l’ira, e ’l dimostra fuor l’acceso volto;
e già Labdaco e Flegia, a cui commessa
è la cura de l’armi, impetuosi
contro ’l saggio indovin stringevan l’aste:
120 ma quegli il brando tratto, ora il tiranno,
ed ora il ferro minaccioso guarda;
e, - Addietro, (grida) in me ragione alcuna
non hai, crudele; e questo sangue e questo
petto, che Tideo rispettò, non mai
125 a te fia dato di ferir. Io vado
a morte lieto, il mio destin seguendo,
e de’ compagni miei m’unisco a l’ombre.
Tu resta a’ numi irati e al tuo fratello. -
Tal parlava Meon, quando gettossi
130 sulla spada di fianco insino a l’elsa,
e morío con la voce infra le labbia
contrastando al dolore, ed a vicenda
versando or da la bocca, or da la piaga
l’irato sangue ne’ singulti estremi.
135 A sì fiero spettacolo ed atroce
tutti intorno restâr stupidi e muti.
Ei benchè morto ancor in volto serba
le feroci minacce e le giust’ire.
Intanto lui la sua consorte e i cari
140 parenti, lieti invan del suo ritorno,
riportano dolenti in su ’l ferétro.
Ma ’l reo tiranno ne la mente volge
nuovo furor, e al busto esangue nega
l’onor del rogo, e imperïoso vieta
145 a l’ombra non curante il freddo avello.
Saggio indovin, che co’ tuoi fatti egregi
e con la tua virtude hai vinto e domo
il cieco oblio, che del crudel tiranno
sprezzasti l’ire, e francheggiasti al vero
150 e libero parlar sì larga strada;
quali potrò trovar voci ne’ carmi,
che adeguin la tua gloria e le tue lodi?
Non a te invano i suoi celesti arcani
Febo dischiuse, e ’l crin cinse d’allori.
155 Per lo tuo fato resteranno mute
le fatidiche piante di Dodona,
e alla vergin cirrea negherà Apollo
presagir del futuro i vari casi.
Vanne felice pur, anima grande,
160 lungi dal nero Averno a’ fortunati
Elisii campi, ove ognor splende il sole,
ove non entrò mai ombra tebana,
nè giunge d’Eteócle il crudo impero.
Ei giace intanto sovra ’l duro suolo
165 a cielo aperto, e non v’è augello o fiera
rapace sì, che di toccarlo ardisca:
tanta esce maestà dal morto aspetto!
Ma le vedove afflitte e gli orbi figli,
e i padri e gli avi da l’ogigie porte
170 escono a gara, e per cammini alpestri
e disastrosi forsennati vanno
ciascuno a ricercare il proprio pianto,
e li segue d’amici immensa turba.
Molti han desio di rimirar l’impresa
175 d’un braccio solo, e d’una notte l’opra.
Bagnan la via di lagrime, e di strida
suonan d’intorno le campagne e i monti.
Ma come giunti furo afflitti e lassi
al sasso infame e a la crudel foresta,
180 rinforzâr gli urli e ’l batter palma a palma,
e da più larga vena usciro i pianti.
Alzano tutti a un tempo un fiero strido,
ed a l’aspetto de l’orribil strage
la turba di furor smania e s’accende.
185 Assiste a gl’infelici il Lutto atroce,
squallido il volto e lacerato il manto,
e ’l petto percuotendosi, a le madri
di far lo stesso orribilmente ispira.
Ricercan gli elmi e i pallidi sembianti,
190 rivolgono i cadaveri confusi,
e si lascian cader dal dolor vinte
su i corpi or de’ congiunti, or degli estrani:
altre nel sangue putrido e gelato
lordan le chiome: de’ guerrieri estinti
195 altre chiudon le luci, e di pietose
lagrime lavan le profonde piaghe;
altre ne svellon l’aste e i fieri dardi:
chi raccogliendo va le sparse membra,
chi braccia e teste a’ tronchi busti adatta.
200 Ma Ida intanto, già felice madre
de’ due gemelli, or di due corpi esangui,
corre baccante per roveti e dumi,
e cercando ne va per tutto il campo.
Porta ella il crine rabbuffato e sciolto,
205 ed il pallido viso e semivivo
squarcia con l’ugne; nè più sembra oggetto
di pietà ’l suo dolor, ma di spavento.
Già per disperazion fatta sicura
passa su l’armi e su i guerrieri uccisi,
210 e nel terren volgendosi, d’arena
si copre il volto ed il canuto crine:
chiama i suoi figli a nome; ed urla e geme
sovra ogni corpo, mentre i suoi ricerca.
Così tessala maga, a cui son note
215 l’arti native e i spaventosi carmi
per richiamare dal profondo Averno
l’alme già spente a rivedere il giorno,
fuor se n’esce notturna e scapigliata,
dopo la strage di crudel battaglia
220 con face in man di fesso cedro accesa,
e rivolge i cadaveri, e spiando
va di quale lo spirto al mondo torni.
Freme intanto laggiù de l’ombre il vulgo,
e Pluton se ne sdegna, e d’ira avvampa
225 che se gli sforzi mal suo grado il regno.
Non lungi i due fratei giaceano insieme
a piè del monte, in questo almen felici,
che un giorno stesso ed una stessa mano,
una stess’asta li congiunse in morte.
230 Ma come prima a lei diè triegua il pianto,
e li scoperse: - Ahi tali (grida) ahi tali
sono, o miei figli, i vostri amplessi e i baci?
Dunque la cruda ed ingegnosa morte
così v’ha uniti ne’ sospiri estremi?
235 Deh quali prima tratterò ferite?
Qual prima bacerò de’ cari volti?
Voi mia fortezza un tempo e mio decoro,
per cui credea d’esser eguale a’ numi
e tutte superar le ogigie madri:
240 quali, o figli, or vi veggio? Oh mille volte
fortunata colei che in maritale
nodo sterile gode eterna pace,
nè Lucina chiamò mai nel suo parto!
Ah che da mia fecondità penosa
245 a me vien la cagion d’ogni dolore!
Aveste almeno in onorata impresa
degna d’eterna fama il sangue sparso,
e potesse le nobili ferite
con gloria numerar l’afflitta madre.
250 Ma voi cadeste in tenebroso assalto
ed in opra furtiva, ed or giacete
miseri senza vita e senza onore.
Io già non scioglierò questo che veggio
del vostro amore indissolubil nodo:
255 ite, figli, concordi, ite sotterra
lungamente indivisi, e un solo avello
confonda insieme le vostr’ombre e l’ossa. -
Intanto l’altre avean trovato i cari
congiunti loro, e ne facean lamenti.
260 Chiama il suo Cromio la consorte, e chiama
Penteo il figliuolo Astioche dolente:
e te, Fedimo, ancor bagnan di pianto
gli orfani figli e le tue figlie afflitte:
sovra Filleo a lei promesso duolsi
265 Marpissa, e d’Acamante le ferite
lavan le sconsolate e pie sorelle.
Altri intanto col ferro e con le scuri
recidon la gran selva, e ’l faggio e l’olmo,
che fean chioma e corona al vicin colle,
270 al colle che del gran fatto notturno
fu testimonio, ed i singulti estremi
accolse de’ guerrieri moribondi.
Già son disposti i roghi, e già la fiamma
ratto in essi s’appiglia, e già ciascuna
275 dal proprio funerale immota pende:
quando per consolar la turba mesta
il vecchio Alete favellò in tal guisa:
- Sin da quel dì che ne l’aonie zolle
giunse il fenice pellegrino, e i campi
280 sparse di guerrier seme, e inusitati
parti fuori ne uscîr, onde tremendi
a gli stessi cultor fur resi i solchi,
ha il popol nostro del destino avverso
provate aspre vicende e duri casi.
285 Ma non già quando il folgore celeste
Semele incenerì, credula troppo
a la mentita vecchia, e vinse Giuno;
nè quando furibondo ebbro Atamante
sparse per sassi e macchie il suo Learco,
290 fu tanto danno in Tebe e sì gran lutto;
nè di tanti clamor le tirie case
suonaro allor che l’infelice Agave
al pianto altrui del suo furor s’accorse.
Ma ben al nostro fu quel duolo eguale,
295 allor che osò con temerari detti
l’orgogliosa di Tantalo figliuola
muovere i numi ad ira, onde si vide
di qua, di là di differente sesso
spenta la prole, per cui gía superba,
300 e andar tanti cadaveri sotterra,
e tanti roghi fiammeggiar d’intorno.
Tale anche allor era la nostra plebe:
così lasciate in abbandon le mura
gli uomini più maturi e le dolenti
305 donne, accusando i troppo fieri Numi,
due feretri seguian per l’ampie porte.
Io era ancora (e men rimembra) in quella
età che di dolor non è capace;
e perchè il padre mio struggeasi in pianto,
310 senza saper perchè, piangeva anch’io.
Così vollero i Dei; nè più mi duole,
Cintia, che il miserabile Atteone,
perchè spiò del tuo pudico fonte
i sacri arcani, fu mutato in fiera,
315 e i suoi stessi molossi il laceraro;
nè perchè Dirce già regina nostra
divenne fonte, e cangiò il sangue in onda:
cotal destin filato avean le Parche,
e tal era il voler del sommo Giove.
320 Or noi per colpa del crudel tiranno
siam di tanti guerrier vedovi e privi,
ch’eran difesa de la patria e scudo.
La fama ancora non n’è giunta in Argo,
e già provato abbiamo i danni estremi
325 del bellico furore. Oh quanto io veggio
sparger sudor in militare arena
a gli uomini e a’ destrieri! Oh di qual sangue
correran tinti i nostri patrii fiumi!
Veggano pure i giovani feroci
330 cotanta guerra: me canuto e bianco
arda il mio rogo, e la mia terra copra. -
Così ragiona, e al Re debite pene
predice, e ’l chiama scelerato ed empio.
Ma donde nasce in lui tanta baldanza?
335 Già de l’etade sua passato ha il meglio;
poco a viver gli resta, e poco teme,
e d’onor brama coronar sua morte.
Da l’alto intanto il sommo Re del mondo
mirato avea la prima pugna, e ad ira
340 di già disposte l’emule nazioni;
e fa tosto chiamar l’orribil Marte.
Appunto da l’aver di stragi sparse
le città e i campi de’ Biston feroci
e de’ Geti crudeli, ei furibondo
345 tornav’al cielo in su ’l sanguigno carro:
sembra folgore accesa il gran cimiero,
e porta l’armi orribilmente sculte
d’immagini funeste in pallid’oro.
Al fragor de le ruote e de’ destrieri
350 rimbomba il Polo; ed il rotondo scudo
fiammeggia sì, che par che avvampi ed arda,
e con l’emulo globo al Sol fa scorno.
Giove, che ’l vede ancor ansante e caldo
di sarmatiche stragi, e che nel petto
355 del bellico furor dura il tumulto,
- Tal, figlio, (dice), tal discendi in Argo
terribile in sembianza e minaccioso
col ferro in man di sangue ancor stillante.
Rompan gl’indugi, e d’ozio impazïenti
360 te chiamin tutti, e al tuo guerriero nume
consacrin l’armi e l’alme: a guerra muovi
i più feroci, e ’l tuo furor rapisca
i vili e i lenti; e quella tregua rompi,
ch’abbiam sin or concessa: i Dei del cielo
365 tu sai turbare, e la mia stessa pace.
De la discordia ho di già sparso il seme.
Tideo scritte a caratteri di sangue
riporta in Argo del crudel tiranno,
primizie de la guerra, il fier delitto,
370 e le notturne insidie e l’empie frodi,
e ’l tradimento infame, che con l’armi
ei vendicò: tu aggiungi fede al vero.
E voi, progenie mia, Numi superni,
state fra voi concordi, e nissun tenti
375 il mio volere di mutar pregando.
Cotal ordin di cose a me le dure
Parche filaro, e le prescrive il Fato.
Fin da quel dì che da l’informe nulla
io trassi ’l mondo, a’ popoli feroci
380 fu questo giorno a guerreggiar prefisso.
Che se v’ha alcun che d’impedirmi ardisca
il gastigar ne gli ultimi nipoti
le colpe e sceleraggini de gli avi,
giuro per queste stelle e questo Polo,
385 e per i sacri a me fiumi d’Inferno,
io colle proprie man spianterò Tebe
da le radici, e spargerò le torri
d’Inaco su la reggia, e le cittadi
cangerò in laghi, aprendo il corso a l’acque;
390 nè se Giunone mia stesse abbracciata
al tempio suo, si placherà il mio sdegno. -
Così diss’egli; e timidi e tremanti
stettero i Numi riverenti e cheti.
Non altrimenti avvien, quando riposa
395 tranquillo il mar, ed ha co’ venti pace,
e dormon ozïosi i lidi intorno,
e de le selve i rami; e senza moto
stansi le nubi al calor lento estivo:
scemano allor gli stagni ed i sonori
400 laghi, e dal Sole rasciugati i fiumi
giaccion nel letto loro umili e bassi.
S’allegra Marte al fier comando; e tosto
gli anelanti cavalli e ’l ferreo carro
e le fervide ruote ad Argo volge.
405 E già era giunto in su’ confini estremi
del Polo, onde convien scender volando,
quando Venere apparve, e coraggiosa
fermossi a fronte de’ destrier: la Dea
conobber essi, e soffermaro il corso,
410 e ’l svolazzante crin steser sul collo.
Essa al carro appoggiata, e le vermiglie
gote di belle lagrime rigando,
così parlò: gli adamantini freni
rodeano intanto gli accoppiati cigni.
415 - Tu dunque ancora Tebe mia dal fondo,
suocero ingrato, d’atterrare hai cuore?
Tu muovi guerra a Tebe? E i tuoi nipoti
colle tue proprie man di spegner tenti?
Nè ti ritarda (e pur è nostro sangue)
420 Harmonia tua, nè le festive nozze
che ne fur fatte in ciel, nè il pianto mio?
Tal dài mercede a gli amorosi falli?
La mia fama, l’onor, che vilipesi,
e le catene fabbricate in Lenno
425 tale mertan da te premio crudele?
Vanne barbaro pure: il mio Vulcano,
quantunque offeso, a me più facil riede;
e s’io vorrò che fra’ camini ardenti
sudi per farmi nuovi fregi, e intere
430 vegli le notti nel lavoro, ei pronto
tutto farà per compiacermi; e tanto
ho poter sovra lui, ch’anche a te stesso
l’armi fabbricherà: ma tu... ahimè lassa,
ch’io prego un duro scoglio, un cor di bronzo!
435 Deh questo almen, pria di partire, ascolta:
perchè mi festi a genero tebano
sotto infausto imeneo sposar la figlia?
Tu mi dicevi pur che i Tirii scesi
dal serpentino seme invitti e forti
440 saranno in guerra, e che d’Harmonia nostra
nasceria di nipoti al sommo Giove
una progenie bellicosa e grande.
Ah ch’io vorrei sotto il gelato Arturo,
dove Borea mantien perpetue nevi,
445 fra i Traci tuoi, la sfortunata prole
congiunta aver a barbaro marito.
Forse poco ti par che di Ciprigna
solchi la figlia, tramutata in serpe,
d’Illiria i campi, vomitando il tosco?
450 Ed or la gente mia... - Ma ’l dio guerriero
più non sofferse di vederne il pianto.
Passa ne la sinistra il cerro acuto,
balza dal carro, e fra lo scudo e ’l seno
l’accoglie, e così dolce a lei favella:
455 - Oh amabil mio piacere, e da le pugne
caro riposo e mia gradita pace,
e sola a cui impunemente lice
mirar quest’armi, e nel maggior conflitto
frenar a mezzo il corso i miei destrieri,
460 e far a me cader di mano il brando.
Non a me Cadmo e la tua cara fede
di mente uscîr: perchè mi accusi a torto?
Ah pria del zio nel tenebroso regno
Giove mi cacci, e disarmato e imbelle
465 mi condanni fra l’ombre. Ora mi sforza
il paterno voler e ’l Fato avverso;
(nè al tuo Vulcan tal converrebbe impresa)
e come ripugnare al suo decreto?
Tu pur vedesti di sue voci al tuono
470 tremar le sfere e ’l suolo, e fin dal fondo
turbarsi l’Oceàno, e sbigottiti
velar le facce gl’immortali Numi.
Tu pon modo al timor, e a quel t’accheta
che mutar non si può; ma quando a Tebe
475 verranno a pugna i popoli feroci,
aiuterò le nostre amiche schiere,
e mi vedrai ne la feroce pugna
di cadaveri argivi empiere i campi.
Questo è in mia man, nè può vietarlo il Fato. -
480 Sì disse; e i suoi destrier giù spinse a volo.
Non così presto il fulmine trisulco
scaglia da nubi accese irato Giove,
qualor ferma le piante in su ’l nevoso
Otri, o su ’l gelid’Ossa in mezzo a’ nembi:
485 vola l’ardente folgore fendendo
con lunga striscia il cielo, e seco porta
i decreti del Nume, e già minaccia
le feconde campagne e i naviganti.
Ma di già Tideo ritornando in Argo,
490 di Danao i campi e di Prosinna i colli
passati aveva orribile in sembianza:
il crin sparso ha di polve; e un sudor misto
al sangue a lui da tutto il corpo scorre
per le illustri ferite infino al piede:
495 ha per troppo vegliar gli occhi sanguigni,
e per soverchia sete i labbri asciutti,
onde anelante può trar fiato appena;
ma lo spirito invitto e l’alta impresa
d’onor lo cinge, e gli dà forza al passo.
500 Siccome toro nel crudel conflitto,
dal nemico squarciato il petto e ’l fianco,
a la sua mandra vincitor ritorna
altero sì, che le sue piaghe sprezza;
mugge vilmente il suo rival su l’erba,
505 e men gravi a lui fa le sue ferite:
tale Tideo ritorna, e ovunque passa,
dal fiume Asopo a la città d’Argia,
muove i popoli a sdegno, e sparge e narra
ch’ito era a Tebe messagger; che ’l regno
510 per Polinice avea richiesto; e quindi
le occulte insidie ed il notturno assalto,
le frodi, il tradimento e ’l fier delitto:
tal essere la fe’ del reo tiranno:
ch’ei nega il patto a l’esule fratello:
515 che non si de’ soffrir. Marte a’ suoi detti
dà forza, ed il terror la fama accresce.
Ma poi che giunge in Argo (Adrasto appunto
stava a consiglio co’ maggiori duci)
- A l’armi (grida da le porte), a l’armi,
520 generosi guerrieri; e tu, di Lerna
buon Re, se ferve in te de gli avi il sangue,
l’armi prepara. Non v’è fede in terra,
non riverenza de le genti al dritto,
non v’è tema di Giove. Io più sicuro
525 ito sarei a’ Saurómati crudeli,
o del bebrizio bosco a l’inumano
Amico difensor: nè già mi duole
l’essere andato, anzi mi piace, e godo
del tebano valor fatta aver prova.
530 Io non aggiungo al ver; come s’espugna
munita torre, o di ripari cinta
forte città, me disarmato e solo,
e del cammino ignaro insidïosi,
e di tutt’arme cinti, e ne l’oscuro
535 di buia notte i perfidi assaliro.
Cinquanta furo: or su l’infami porte
de l’orfana città giacciono estinti.
Andiamo: il tempo è questo, ora che sono
timidi, esangui e nel dolore immersi,
540 in bruna veste a’ lor ferétri intorno.
Io sebben de l’aver donato a Pluto
tant’ombre, torni sanguinoso e lasso,
e col sangue gelato in su le piaghe,
io vi precorrerò. - Ma di già sorti
545 da’ scanni stavan tutti a Tideo intorno;
e primier Polinice il volto a terra
fisso tenendo: - Ah dunque (grida) io sono
colpevol tanto, e tanto in ira a’ Numi,
che te veggio, Tideo, da le ferite
550 versar il sangue, e me pur anco illeso?
Tal dunque preparavi a me il ritorno,
fratello iniquo? Eran per me tant’armi?
Ah vile amor di vita! Io qui rimasi,
misero! E tolsi a te sì gran delitto!
555 Restino omai le vostre mura in pace,
Argivi, nè per me straniero afflitto
turbisi l’ozio vostro: a me non tanto
fortuna arride, ch’io non senta e provi
qual sia dolor esser da’ dolci letti
560 e da gli amati figli a forza tolto,
e la patria lasciar. Cessino pure
le private querele; e con oscuro
guardo non mirin me le afflitte madri.
Io vado volontario a certa morte;
565 nè riterrammi la diletta sposa,
nè col suo impero il suocero temuto.
Io deggio a Tebe questo capo, e ’l deggio
a te, fratello, e a te, gran Tideo, il deggio. -
Così con arte varïando i detti,
570 tenta gli animi e i cuori; e già commossi
gli ha tutti, e lor cade dagli occhi ’l pianto,
pianto di sdegno più che di pietade.
Non i giovani sol, ma i vecchi infermi
e con membra tremanti un stesso ardore
575 infiamma tutti; e corron tutti a l’armi.
Vogliono unire le vicine schiere,
romper tutti gl’indugi e andar a Tebe.
Ma Adrasto, a cui la molta etade il senno
accrebbe, e tutte del regnar sa l’arti,
580 frena gli animi ardenti: e, - A’ Numi (dice)
lasciate questa impresa, e a la mia cura;
nè il regno tuo ti riterrà il fratello
senza vendetta; e voi non così pronti
a la guerra correte. Il gran Tideo
585 di nobil sangue sparso e trionfante
lieto intanto s’accolga; e a lui ristoro
dal lungo faticar diasi e riposo.
Noi tempreremo col consiglio l’ira. -
Ma la pallida moglie e i fidi amici
590 erano accorsi intanto, e lui già lasso
da la lunga battaglia e dal cammino
riconducevan mesti. Egli in sembiante
magnanimo e sereno il dorso appoggia
ad eccelsa colonna; e mentre Imone,
595 d’Epidauro natio le sue ferite
or asterge coll’onda, ora col ferro
tratta, or con erbe n’ammollisce il duolo:
comecch’ei nulla senta, ardito narra
de le risse il principio, e quel che disse
600 ad Eteócle, e qual crudel risposta
ne riportò; quale a l’insidie il loco,
quale fu il tempo: quali e quanti duci
gli furon contro; ove maggior contrasto
trovò; come Meon serbato avea
605 per testimon del memorabil fatto.
Pendon da lui il suocero e la corte.
E d’ira avvampa l’esule di Tiro.
Già il Sol avendo negli esperii lidi
i focosi destrier sciolti dal giogo,
610 tuffava il biondo crin ne l’Oceàno:
lo accolgon le Nereidi, e le veloci
Ore corrono pronte: altra le briglie
di man gli toglie; lo splendente cerchio
dal capo altra gli leva; il rosso manto
615 altra dal petto di sudor stillante
discioglie ratta; chi ripone il carro,
chi de’ destrieri cura prende, e il fieno
ad essi appresta e le celesti biade.
Sopraggiunge la notte, e de’ mortali
620 le cure e de le belve i vari moti
tutti ripone in calma, e il cielo adombra.
Non però trovan nel comun riposo
Adrasto e Polinice ora quïeta;
ma Tideo sì, di cui lusinga il sonno
625 con fantasmi di onor la sua virtude.
Intanto Marte infra i notturni orrori
di guerriero rimbombo empie d’intorno
i confini d’Arcadia e le nemee
campagne, ed i tenarii eccelsi gioghi,
630 e la sacra Terapni al biondo Nume;
e gli attoniti cuor di sè rïempie.
Gli assettano le piume in su ’l cimiero
l’Ira e ’l Furore, e il bellico Spavento
conduce il carro. Lo precorre alata
635 la Fama, intenta ad ogni suono e piena
di torbide novelle, e perchè a tergo
ha l’anelar de’ rapidi destrieri,
timida affretta al volo i tardi vanni,
e ognor l’incalza con flagel sanguigno
640 il fiero auriga, e vuol che intorno spanda
il falso e il ver, e con la scitic’asta
le batte il capo e le scompiglia il crine.
Così Nettun gli scatenati venti
da l’eolia prigion si caccia innanzi
645 tal volta, e a tutto volo entro l’Egeo
gli spinge e mesce: stanno a lui d’intorno
e nubi e nembi e grandini gelate,
e la sozza tempesta, che dal fondo
solleva al cielo i procellosi flutti.
650 Al grande urtar le Cicladi vaganti
stan salde appena, e Delo istessa teme
da Giano e da Micone esser divisa,
e de l’allievo suo la fede invoca.
Già sette volte la vermiglia Aurora
655 di chiarissima luce avea d’intorno
acceso il cielo e serenato il mondo,
dal dì che in Argo ritornò Tideo:
quando di Perseo il successor canuto
lasciò le interne stanze al primo albore.
660 Molto pensa alla guerra, e molto il turba
de’ generi novelli il troppo ardire.
Sta irresoluto ancor, se ceda a l’armi
libero il freno e a’ popoli feroci
stimoli aggiunga; o se rattempri l’ire,
665 e scinga lor con miglior senno i brandi.
Quinci amore di pace, e quindi il turba
lo scorno, e ’l non saper por modo a questo
nuovo e primier di guerreggiar furore.
Risolve alfin che si ricorra a’ vati
670 per ispiar da’ sacrifici il vero.
Anfiarao de l’avvenir presago
fu scelto a l’opra, e seco iva Melampo
d’Anfitaone già canuto figlio,
ma di mente vivace e pien del Nume.
675 Dubbio è fra lor chi più de la cirrea
onda bevesse, e a chi più de’ suoi doni
Febo dispensi. Ne l’uccise fiere
ricercan pria de’ sommi Dei la mente.
Ma i cuor macchiati e le corrotte fibre
680 dan funesti presagi. A cielo aperto
risolvono tentar novelli auspici.
Sorge confine al cielo eccelso monte
sacro a gli Argivi, che i lernei bifolchi
Afesanto chiamâr: quindi si narra
685 che il gran Perseo giù si calasse a volo
a l’alte imprese, e la dolente madre,
del figlio in rimirar l’orribil salto,
appena di seguirlo si ritenne.
Quivi gli auguri il crin cinto d’olivo
690 e di candide bende ambe le tempie,
giunsero, allor che in Orïente il Sole
con i tepidi raggi i molli campi
rasciuga intorno e le notturne brine.
E prima d’Ocleo il figlio amico rende
695 a l’opra il Nume coll’usate preci.
- Noi ben sappiam, sommo e possente Giove,
che virtù desti a li veloci augelli
di mostrarci ’l futuro, e co’ lor voli
svelar a noi l’alto voler de’ fati.
700 Non più sicuro a noi Febo da l’antro
parla di Cirra, nè i loquaci abeti
dal fatidico bosco di Dodona;
benchè l’arido Hamon d’invidia avvampi,
ed osin contrastar le licie sorti;
705 e il bue del Nilo, e l’apollineo Branco
pari al padre d’onore, e il Licaone
bifolco, che da Pan sente il futuro.
Quegli più scorge il ver, Nume Ditteo,
cui tu felici augei mandi da l’alto.
710 Ma donde in lor tanta virtù scendesse,
di maraviglia è oggetto e di contesa.
Forse che allor, che da l’informe Caos
fur tratti i semi, e fur distinti in forme,
lor toccò in sorte aver menti presaghe:
715 o che fur pria di nostra specie, e poi
vestendo piume e sorvolando i venti,
serbano ancor de la ragione il lume:
o che il loro volar vicini al cielo,
e ’l respirar aura più pura, lungi
720 dal nostro fango, e il posar raro in terra,
de gli arcani de’ Dei degni li renda.
Come ciò sia, tu, che ’l facesti, il sai,
primo Autor de’ celesti e de’ mortali.
Ora il principio e ’l fin de l’aspra guerra
725 deh per lor mezzo a noi mostrar ti piaccia.
E se la Parca l’echionia Tebe
concede in preda a le lernee falangi,
daccene il segno, e da sinistra tuona;
e i fausti augei con misteriosi canti
730 ci annuncino quel ben che a noi destini:
ma s’altrimenti hai pur disposto, tardi
vengan gli augurii, e da la destra il cielo
adombrino co’ vanni i tristi augelli.
Così dic’egli, e sovra un sasso siede,
735 ed altri invoca sconosciuti Numi;
e sgombra di caligine la mente
discopre il ver, per quanto è vasto il mondo.
Parton fra loro il campo; e ’l ciel diviso,
tengon la mente, e con la mente il guardo,
740 attenti ad osservar ne l’aria i segni.
Stetter così gran pezza: alfin Melampo
parlò primiero: - Anfiarao, non vedi,
com’ogni augel, che spiega a l’aura i vanni,
dà tristi indizi con l’infausto volo?
745 Ve’ com’altri si libra in su le penne?
Ve’ com’altri sen fugge, e co’ lamenti
un infelice augurio a noi ne lascia?
Nè v’è fra lor de’ tripodi seguace
il nero corvo, nè il reale e grande
750 portatore de’ fulmini di Giove,
nè quel sacro a Minerva: alcun migliore
del falcon non vegg’io, e questi ancora
da superiori augei spiumato e vinto.
Io non scorgo volar ch’orridi mostri,
755 nè sento altri gracchiar che gufi e strigi,
e darne segno di futuri danni.
E con tali portenti andremo a Tebe?
A tali mostri si concede il Polo?
Mira come con l’ugne i petti e i rostri
760 squarciansi insieme, e dibattendo i vanni
mandan fuori un fragor simile a pianto. -
Così diss’egli, e Anfiarao rispose:
- Molti ho già intesi oracoli febei,
padre, fin da quel dì che in fresca etade
765 da’ semidei guerrieri io fui raccolto
su la tessala nave: essi m’udiro
spesse volte predir co’ sacri carmi
quello che in terra e in mar lor poscia avvenne;
e ben sovente ne le dubbie cose,
770 più che a Mopso, a me fede ebbe Giasone.
Ma non mai tanto di futuri mali
ebbi timor, nè più maligne stelle
vidi giammai, e peggio ancor m’aspetto.
Or volgi gli occhi attento: immenso stuolo
775 mira venir da la serena parte
de l’etere profondo a noi di cigni;
o dal tracio Strimon Borea gelato
li cacci, o cerchin più benigno clima
de l’ubertoso Nilo in su le sponde:
780 eccoli fermi, eccoli accolti in giro
taciti star come rinchiusi in vallo;
or questo a noi finga il tebano campo.
Ma venir veggio da l’opposto lato
maggior schiera d’alati, e a lei davanti
785 sette d’immensi vanni aquile invitte;
or queste a noi sieno gl’inachii duci.
Già dan l’assalto al bianco gregge, e i rostri
spalancan a le prede, e con gli artigli
già stan lor sopra. Ahi quanto sangue piove!
790 Quante cadon dal ciel divelte penne!
Ma qual d’avverso Giove ira improvvisa
distrugge i vincitori e manda a morte?
Ecco il primier come dal Sole acceso
cade, e l’alma e l’orgoglio a un tempo spira.
795 L’altro, che ardisce de’ maggiori augelli
tentar le imprese, a mezzo il volo manca,
e lo lascian cader le imbelli piume.
Questi insiem col nemico a terra cade.
Il quarto in rimirar de’ suoi compagni
800 l’immensa strage, spaventato fugge.
Quegli fra’ nembi soffocato more;
questi morendo del nemico vivo
fiero si pasce: le volanti nubi
tutte in sangue son tinte. E perchè il pianto
805 tenti celar, Melampo? Anch’io conosco
colui che cade ne la gran vorago. -
Così de l’avvenir sotto il gran peso
gemono i vati, e già soffrono i danni
veduti in ombra, come fosser veri.
810 Dolgonsi de’ volanti il moto e i voli
spiato aver, ed i vietati arcani
del cielo; ed esauditi, odiano i Numi.
Ma donde mai questo sì folle amore
d’antiveder le cose entro le menti
815 de’ miseri mortali origin ebbe?
Forse è dono de’ numi? O pur noi stessi
non siam di ciò, che possediam, contenti?
Noi vogliamo saper qual ne sovrasti
dal nascer nostro sino al giorno estremo
820 lieto o infausto destino, e ciò che Giove
benigno o l’empia Cloto a noi prepari.
Quindi è che si ricercano le fibre,
e ’l garrir degli augelli entro le nubi,
e i moti de le stelle, e de la luna
825 i vari giri, e alfin le magic’arti.
Ma non mai tanto osâr ne l’aurea etade
gli avoli nostri e quelle dure genti
uscite fuor da roveri e macigni.
Era lor sola ed innocente cura
830 amar le selve e coltivare i campi:
il cercar oggi quel che ’l dì venturo
prometta, era fra lor non picciol fallo.
Noi, gente iniqua e vana, i sacri arcani
osiam cercar de’ Numi: e quindi poi
835 nascon la tema e l’ira e ’l reo delitto,
e le insidie e le frodi; e i nostri voti
son privi di modestia e di pietade.
Ma Anfiarao scinte dal crin le bende
con dispettosa mano, e il sacro serto
840 gettando lungi inonorato e vile,
scendea dal monte. Egli ha sì fissi in mente
gl’infausti augurii, che già sente e vede
le trombe e l’armi e la lontana Tebe.
Dolente e mesto entro segreta cella
845 si chiude, e nega rivelare i fati:
fugge il vulgo importuno, e del Re amico
schiva le inchieste e de’ maggior guerrieri.
Melampo anch’ei si cela, e per le ville
esercitando va la medic’arte.
850 E già sei volte e sei de l’Orïente
schiuse aveva le porte al dì l’Aurora,
dacchè stavan sospesi e duci e plebe.
Di Giove intanto il gran comando preme,
e corron tutti a l’armi, e lascian vuoti
855 i vasti campi e le cittadi antiche.
Dietro si tragge il bellicoso Dio
mille squadre d’armati: in abbandono
si lasciano le case e i dolci figli,
e le consorti misere e piangenti:
860 tanto nel petto lor s’infonde il Nume!
Spiccan l’armi da’ tetti, e fuor de’ tempii
traggono i carri sacri un tempo a’ Dei.
Chi a lo girar de la volubil cote
affila i dardi, e i rugginosi brandi
865 aguzza e terge e luminosi rende:
chi tratta gli elmi lievi, e le corazze
a’ petti adatta e le ferrate maglie.
Già i vomeri, gli aratri e gli altri arnesi,
sì cari un tempo a la sicana Dea,
870 miransi rosseggiar dentro le ardenti
fornaci; e a l’alternar di più martelli
mutar l’uso pacifico in guerriero.
Tagliano i sacri boschi, e ne fann’aste,
e al bue già vecchio non si ha più pietade,
875 per coprir col suo cuoio e targhe e scudi.
Corrono in Argo, e su le regie soglie
gridano guerra; e ’l ciel rimbomba intorno.
Non con tanto fragore il procelloso
Tirreno freme, nè sì forte scuote
880 Encelado il gran monte, allor che il fianco
tenta mutar sotto l’immenso peso:
da le profonde sue caverne mugge
Etna, e vomita fiamme; in sè ritira
Peloro i flutti, e la Sicilia unirsi
885 teme al terren onde fu pria divisa.
Ma Capaneo del bellicoso Nume
più d’altri acceso, di superbo cuore,
e d’ozio impazïente e di riposo,
s’era qui tratto al suon di tanta impresa.
890 Scendeva egli per lung’ordine e certo
d’avi reali, ma le illustri imprese
de’ suoi maggiori avea oscurate e vinte
col braccio invitto e col terribil brando
sprezzator d’ogni Nume e d’ogni dritto,
895 e prodigo di vita, ov’ira il muova.
Un de’ biformi abitator de’ boschi
di Foloe sembra, e con gli etnei Ciclopi
gareggiar può di mole e di fierezza.
Ora costui su le rinchiuse soglie
900 d’Anfiarao, ove fremendo stanno
la plebe e i duci, minacciando grida:
- Che viltà è questa, Argivi, e voi di sangue
congiunti Achei? Oh nostra infamia e scorno!
Dunque su ’l limitar d’un uom del vulgo
905 ozïosi staran tanti guerrieri?
Tant’alme pronte a generose imprese?
Non io, se Apollo (e siasi pur qual finge
l’altrui timore) sotto il cirreo giogo
muggir udissi dal profondo speco,
910 tanto aspettar potrei, che le tremende
ambagi sue la Vergine scoprisse:
a me la spada e ’l mio valor è Dio.
Esca omai fuor con le mentite frodi,
figlie del suo timore, il sacerdote,
915 o ch’io farò veder quanto sia vano
il volar degli augelli. - Ei così parla,
e il volgo militar con gridi applaude.
Ma d’Ocleo il figlio d’altre cure pieno
esce costretto alfin dal chiuso ostello.
920 - Me non muove (dic’ei) l’alto clamore
del giovane profano, o i fieri detti,
benchè minaccin morte. Il mio fatale
giorno ancor non è giunto, e questo petto
scopo non sarà mai d’armi mortali.
925 Ma l’amore di voi, ma il troppo Nume
mi spinge e sforza, e vuol ch’io sveli i fati.
Io le cose future, e s’oltre ancora
scoprir si può, dolente a voi paleso;
nè teco parlo, o giovane feroce,
930 chè per te solo è muto il nostro Apollo.
Dove, miseri, andate? A che rapite
l’armi in onta de’ Numi e del Destino?
Qual Furia vi flagella? In sì vil pregio
l’alme vi sono? Argo v’è dunque a schivo?
935 Nè vi son dolci le paterne case?
Nè degli augurii alcun pensier vi prende?
A che mandarmi a l’inaccesso giogo
de l’alato guerrier, l’eterne menti
ad ispiar de’ Numi entro il concilio?
940 Ed or che giova che a me sieno noti
gli acerbi casi ed il funesto giorno?
Qual crudel fato a voi sovrasti? e quale
me stesso aspetti? In testimonio io chiamo
de l’ampio suol le investigate cose,
945 le voci de gli augelli, e te, o Timbreo,
che mai sì fiero a me parlasti: unquanco
vidi sì tristi segni e sì palesi
indizi di certissima ruina.
Vidi le sceleraggini fatali
950 de gli uomini e de’ Numi, e festeggiante
vidi Megera, e l’inflessibil Parca
vuotare interi i secoli dal fuso.
Lungi scagliate l’armi. Ah forsennati!
Ecco il Nume, ecco il Nume a voi lo vieta.
955 Miseri! Che follia del vostro sangue
gir a impinguar de la Beozia i campi,
e del reo Cadmo le profane zolle.
Ma perchè parlo indarno, e ’l già prefisso
momento io tardo? Noi pur troppo andremo. -
960 Qui troncò i detti, e sospirando tacque.
Ma Capaneo: - Questo furor sia teco,
augure infausto; e giovi a tua viltade,
sicchè tu in Argo inonorato resti,
nè turbi i sonni tuoi guerriera tromba.
965 Ma non tardar con queste ciance e fole
l’impeto de’ magnanimi guerrieri.
Certo, perchè ozïoso i canti e i voli
tu osservi de gli augelli, e in molli piume
ti goda la consorte, e i cari figli
970 ti scherzino d’intorno, il gran Tideo
noi lasceremo inulto, e de le genti
le sacre leggi vïolate e infrante.
Ma se non vuoi che muovan l’armi i Greci,
vanne tu stesso a Tebe, e questo serto
975 t’assicuri le strade; a te del Cielo
noti son dunque i più segreti arcani
e le prime cagioni? O qual mi prende
pietà de’ Numi, se le preci e i carmi
di noi ponno turbare il lor riposo!
980 Perch’empi di terror l’anime sciocche?
La viltade e il timor fecero i Numi.
Pur per or ti si passi, e senza tema
sfoga il vano furor; ma ben t’avviso,
che al primo suon de’ concavi oricalchi,
985 quando noi beverem dentro gli elmetti
Dirce e l’Ismeno, e ch’io correrò a l’armi
e a la battaglia, non venirmi innanzi
co’ tuoi augelli a ritardar la pugna;
non questo Febo tuo, non queste bende
990 ti gioveriano allor: tutte in quel loco
io vo’ predir le sorti, e saran meco
auguri e vati li più audaci e forti. -
Suonan d’intorno nuovi applausi e gridi,
e l’immenso rumor giunge a le stelle.
995 Qual rapido torrente, a cui più rivi
portan tributo, e le disciolte nevi
rendon gonfio e superbo; ogni riparo
soverchia, e inonda i campi, e seco tragge
ne’ vortici spumosi a un tempo stesso
1000 e le zolle e le case ed i pastori,
e le mandre e le greggi, insin che rompe
l’impeto a un colle, e ’l suo furor raffrena:
così garrían fra lor; ma l’ombre stese
la buia notte, e separò le risse.
1005 Intanto Argia, che del consorte amato
in sè risente il duolo, e le querele
non ne può piú soffrir con cuor tranquillo;
come si trova, co’ capelli sparsi,
e gli occhi pregni di pietoso pianto,
1010 tra ’l confin de la notte e de l’aurora,
quando scendendo in mar le vaghe stelle
si duol Boote di restar addietro,
sen va notturna al padre, e al bianco seno
appeso il suo Tersandro a l’avo porta.
1015 Ma poi ch’entrò, fermossi al letto, e disse:
- Perchè piangente, intempestiva e sola
senza ’l mesto consorte a te ne venga,
padre, tu ’l sai, benchè io me ’l taccia: io chiamo
in testimon de’ genïali letti
1020 i tutelari numi, e per te stesso
io giuro, o padre, ei non mi manda. Io sono
mossa dal mio dolor, che di riposo
mi priva da quel dì che infausta Giuno
con la sinistra man le nuzïali
1025 tede m’accese: i vicini pianti
non mi lascian godere ora di sonno.
Non se di tigre avessi ’l petto, o il core
duro al par d’uno scoglio, i suoi lamenti
senza pietà soffrir potrei. Tu solo
1030 puoi consolarne, ed è in tua man riposta
l’unica medicina a’ nostri mali.
Dacci la guerra, o padre, e de l’abbietto
genero tuo mira lo stato, e mira
questo d’un infelice esule figlio.
1035 Non patir tanto scorno al proprio sangue.
Deh ti sovvenga il giuramento dato
nel primo ospizio, e gl’invocati Numi,
e le congiunte destre. Il mio consorte
è quello pure che indicaro i Fati,
1040 e che Apollo prescrisse: io già non arsi
d’amor furtivo e di colpevol face.
Tu me lo desti, e al tuo volere ancella
io fui, e ubbidïente: or con qual cuore
ne soffrirò i lamenti? Ah tu non sai
1045 quanto accresca l’amor misero sposo!
Ahi lassa! Io veggio ben ch’ora ti chiedo
dono odïoso e infausto, e che di pianto
cagion mi fia. Ma quando il fatal giorno
romperà i nostri baci, e che le trombe
1050 daranno il segno di partire, e i cari
visi chiudrete ne’ dorati elmetti,
padre, allor ti farò contrari voti. -
Così diss’ella; e il genitor co’ baci
libonne i pianti, e placido rispose:
1055 - Già, figlia, non temer che i tuoi lamenti
biasmi o condanni: cose giuste chiedi,
e negarle io non so. Ma ancor sospeso
tengonmi i Numi, e ragionevol tema,
e del mio regno le diverse cure.
1060 Non diffidar però, figlia; anche a questo
si darà fin; nè ti dorrai che ’nvano
pregato m’abbi. Tu ’l consorte afflitto
consola intanto; e non gl’incresca il nostro
maturo differir. Le grand’imprese
1065 chieggon grandi apparati; e la tardanza
giova a la guerra. - Così dice, e lascia
le molli piume a lo spuntar del giorno
da’ suoi gravi pensier chiamato a l’opre.
E già il terz’anno sciolte avea da’ monti
col tepido spirar le bianche nevi
zeffiro portator di primavera,
e Febo a’ giorni iva aggiungendo l’ore,
5 quando ruppero i Fati ogni consiglio,
e a’ miseri fu data alfin la guerra.
Dal giogo larisseo con la sinistra
Bellona alzò la face, e a tutta forza
colla destra scagliò l’asta tremenda,
10 che per lo vano ciel stridendo cadde,
e andò a ferir ne gli argini dircei;
scend’essa poi nel campo, e fra i guerrieri
d’oro e ferro splendenti ella si mesce,
e freme in suon di militar tumulto.
15 Porge l’armi a chi parte, e applaude, e ispira
lena a’ destrieri, e da la porta affretta
i pigri e i lenti; e non che muova i forti,
breve virtude ispira anche a’ codardi.
Giunto era il dì prefisso: a Giove e a Marte
20 cadon vittime scelte: il sacerdote
teme l’infauste fibre e nol dimostra,
e finge speme, e ne’ guerrier l’infonde.
Ma già i padri, i fanciulli e le innocenti
vergini, e le dolenti e caste spose
25 stan su le soglie, e a’ lor congiunti fanno
con gli amplessi al partir dolce ritegno.
Non ha più freno il pianto; e di chi resta
e di chi va molli son l’armi e i manti:
pende da ciascun elmo una famiglia;
30 e a le chiuse visiere i dolci baci
rinnovar giova, e a gli amorosi amplessi
inchinano i guerrier gli alti cimieri.
Già quel primo furor d’armi e di morte
scemando vassi in ogni petto e langue,
35 e nel partir si raddolciscon l’ire.
Non altrimenti avvien, quando s’accinge
a solcar lungo e periglioso mare
stuolo di naviganti, e già le vele
spiegansi al vento, e l’àncora ritorta
40 dal fondo si ritira: a lor d’intorno
stassi turba d’amici, e a lor le braccia
stendon al collo, e non han gli occhi asciutti;
ma poi che alfin sciolta è la prora, stanno
immobili sul lido, e la volante
45 nave seguon con gli occhi, e in odio il vento
han che lungi la porta, e da lo scoglio
salutano co’ cenni i naviganti.
Fama, o tu, che conservi a’ giorni estremi
la rimembranza de’ famosi eroi,
50 e vivere li fai dopo la morte;
e tu, Regina de’ sonori boschi
Calliope, a me con più sublime canto
Narra, quali movesse invitte schiere,
quai duci, e quai città vuote lasciasse
55 d’abitatori il formidabil Marte.
Chi più di te bevve al Castalio fonte
sacro furore, e n’ha la mente piena?
Primo ne viene Adrasto, e nel sembiante
molto palesa le sue interne cure;
60 rotto da gli anni e in quell’età che pende
inver l’occaso, tratto, anzi rapito
da le preghiere altrui, si cinge il brando.
Portangli l’armi dietro i suoi scudieri:
cento destrier l’attendono a le porte,
65 ed Arïon fra gli altri e freme e sbuffa,
batte con l’unghia il suol, nè trova loco.
Seguono armate la reale insegna
e Prosinna e Larissa; e la d’armenti
Midea nutrice; e d’ampie greggi ricca
70 Fillo; e Neri, che teme il suo Caradro
gonfio e spumante; e Cleone turrita;
e Tire, che vedrà l’atro trïonfo
scritto col sangue de’ Spartani uccisi;
e quelli ancor che diero il rege ad Argo,
75 abitator di Drépano, e con loro
Sicïone fruttifera d’olive
mandan le loro schiere, e quei che stanno
de la pigra Langía lungo le sponde,
ed i vicini al tortuoso Elisso.
80 Immondo è il fiume e infame, e ne’ suoi flutti
sozzi soglion lavar le Furie inferne
i ceffi, e dissetar gli angui del crine,
lasciando illeso Flegetonte; o sia
che da tracie stragi, o che da’ tetti
85 empii tornin di Cadmo o da Micene,
fuggon l’onde sdegnose al fiero nuoto,
e corron tinte di mortal veneno.
Poi viene Effira, che i solenni giochi
fa a Palemone, e le cencree falangi,
90 ove al ferir del Pegaseo cavallo
nacque Ippocrene a’ sacri ingegni amica;
e quei ch’abitan l’Istmo, che raffrena
gli opposti mari e ne difende il suolo.
Tremila in tutto son quelli che Adrasto
95 seguono in guerra baldanzosi, e sono
di varie genti e di varie armi instrutti.
Altri impugnano i dardi; altri le aduste
aguzze travi; altri le lievi fionde
ruotan per l’aria con robusti giri.
100 Per anni e per impero ei venerando
tutta precede la feroce schiera.
Toro così, benchè per molta etade
alta non porti più la fronte, e muova
per le campagne sue più tardi i passi,
105 guida però l’armento: i più feroci
giovenchi a lui non osan muover guerra,
e rispettan le vaste cicatrici
nel largo petto impresse, e le robuste
per molti colpi rintuzzate corna.
110 Il genero dirceo, per cui la guerra
si muove e per cui sol milita il campo,
la propria insegna dopo il Re dispiega.
Molti da Tebe a lui venner guerrieri,
chi del suo esiglio per pietà; chi mosso
115 da fe’, che spesso ne’ disastri cresce;
chi per mutar signore; ed altri infine,
a cui più giusta la sua causa sembra.
A questi aggiunge il suocero le schiere
d’Arena, d’Egïone e di Trezene
120 superba per Teséo: così provvede
ch’egli non resti senza pompa, e senta
meno il dolor degli usurpati onori.
Altiero ei va con le stess’armi e ’l manto
con cui già venne in Argo; e ’l tergo copre
125 del teumessio leone; e al fianco appende
il fiero brando, ch’ha nel pomo impressa
l’orrenda Sfinge, e porta in man due dardi.
Già il regno, già la madre e già le suore
possiede con la speme; e pur lo frena
130 d’Argia l’amore, e gli occhi in lei volgendo
sovente, la rimira afflitta e mesta,
che tutta infuori da una torre pende,
e con gli occhi lo siegue: egli a tal vista
s’intenerisce, e quasi Tebe oblia.
135 Ecco il fiero Tideo le olenie genti
armate guida risanato e franco
al primo suon de la guerriera tromba.
Qual angue che sotterra ha già lasciata
l’antica spoglia, e rinnovati gli anni,
140 fuor se n’esce al tepor de’ nuovi Soli
di primavera, e si rabbella e striscia,
e minaccioso per l’erbetta serpe:
misero quel pastor che a lui vicino
passa, e ’l primier veleno in sè riceve!
145 Appena divulgò la fama il grido
de l’alta impresa, che d’Etolia tutta
la gioventù feroce a lui sen corse.
Vengono da Pilene e da Pleurone
per lo suo Meleagro ancor dolente;
150 manda i suoi Calidone; e la di Giove
nutrice Oleno, che nol cede a l’Ida;
e Calcide, che il mare in sè ricetta;
e l’Acheloo scornato, e che non osa
erger la fronte offesa, e mesto giace
155 ne l’umide caverne, e le sue sponde
restano asciutte e squallide d’arena.
Tutti sen van di ferro armati i petti
co’ pili in mano, e sopra gli elmi splende
de’ loro Re progenitor Gradivo.
160 I più robusti e audaci al duce intorno
forman corona, ed ei va lieto e noto
per le belle ferite, e già non cede
di sdegno a Polinice, e dubbio pende
in favore di cui si muova il campo.
165 Le doriche falangi in maggior stuolo
spiegan l’insegne, e quei, Lirceo, che i tuoi
campi soglion solcar con molti aratri;
ed i cultori de’ tuoi vasti campi,
Inaco Rege degli achivi fiumi:
170 nè già di te più procelloso alcuno
scorre il greco terreno, allor che ’l Tauro
gonfio ti rende e l’Iadi piovose,
e di sè t’empie il genero Tonante.
Poi vengon quei che Asterïon veloce
175 cinge co’ flutti, e quei cui l’Erasino
inonda i prati e le mature spiche;
e quei che d’Epidauro arano i campi:
Bacco a’ suoi colli è amico, ma la Dea
Sicana a lui è de’ suoi doni avara.
180 E Dimo ancor manda soccorsi; e Pilo
di cavalieri grosse squadre invia.
Non era allor Pilo famosa, e ’l suo
Nestore ancor de la seconda etade
era sul fiore, e gir non volle a Tebe.
185 Quindi le genti guida il grande e forte
Ippomedonte, e con l’esempio accende
di gloria e di virtude in lor l’amore.
Sul rilucente elmetto alto egli porta
tripartito cimier di bianche penne:
190 veste d’acciaio il duro usbergo, e copre
col fiammeggiante scudo il largo petto,
in cui di Danao la terribil notte
ne l’oro è impressa: le crudeli Erinni
fan con le nere lor funeste faci
195 splender cinquanta talami nuziali;
su le sanguigne porte il fiero padre
si ferma, e tenta i brandi, ed al delitto
le incerte figlie minacciando esorta.
Lo porta giù dalla Palladia rocca
200 destrier Nemeo precipitoso e lieve,
e non avvezzo a l’armi, e in mezzo a un nembo
di polvere commossa, e quasi a volo
per lo gran campo un’ombra immensa stende.
Non altrimenti a precipizio cala
205 da le montane cave Illeo biforme
squarciando con due petti e doppie spalle
al rapido suo piè quanto s’oppone:
Ossa il paventa, e per timore a terra
si piegano le fiere e si nascondono,
210 e i Centauri minor n’hanno spavento:
finchè d’un salto nel Peneo si lancia,
e solo opponsi, e spinge indietro il fiume.
Ma qual potria ridir lingua mortale
il numero de’ fanti e de’ cavalli
215 che lui sieguono in guerra? Alcide i suoi
de l’antica Tirintia abitatori
eccita a l’armi; e non è scarso il luogo
d’uomini forti, e del feroce Alunno
vive in essi la fama ed il valore.
220 Ma al volgersi de gli anni il prisco aspetto
de la patria mutossi, e non ritiene
più la prima fortuna e le ricchezze.
Raro è l’agricoltor che al passaggero
le rocche additi, che i Ciclopi alzaro.
225 Pur trecento guerrieri in guerra manda
prodi così, che nel valor dell’armi
rassembrano essi soli un campo intero:
nè già di ferro armano il petto, o al fianco
cingon l’orribil brando; il capo e il dorso
230 copron col cuoio de’ leoni, e in giro
ruotan nodosa clava, e ne’ turcassi
portan cento infallibili saette.
Cantan inni ad Alcide, e le da’ mostri
purgate terre; ed ei dall’alta cima
235 d’Eta li sente, e ne gradisce i canti.
Manda Nemea soccorsi, e da le sacre
del cleoneo Molorco ospiti vigne
vengon gli agresti abitatori. È noto
come Molorco ne l’angusto albergo
240 accolse Alcide: e ne le rozze porte
scolpite sono ancor l’armi del Nume;
e nel picciolo campo al pellegrino
s’addita ov’ei posava l’arco, e dove
la mazza, e ’l sito ov’ei talor giacea,
245 che ne conserva le grand’orme impresse.
Siegue poi Capaneo di sì gran mole,
che quantunque pedon, quasi da colle
tutto sotto di sè rimira il campo.
A quattro doppi a lui cingon lo scudo
250 di fuor coperto di ferrata piastra
di quattro buoi le diseccate cuoia.
L’Idra in esso si vede in tre gran giri
ravviluppata, e già vicina a morte:
tre de’ suoi capi semivivi ancora
255 splendono ne l’argento, e gli altri cela
con maestrevol arte il fulgid’oro
imitante la fiamma; e Lerna intorno
ristagna l’acque, e le ritira indietro
livide e infette dal crudel veleno.
260 Poi s’arma i fianchi e lo spazioso petto
di ferree squamme, orribile lavoro,
e non già de la madre; in cima a l’elmo
porta un gigante; e de le frondi nudo
un gran cipresso in vece d’asta impugna.
265 Sieguon sì fiero duce Anfigenía;
e la piana Messene, e la scoscesa
Itome; e posta sovra un alto monte
Epi, e Trione e Pteleone ed Hello;
e Dorion, che ’l suo poeta piange.
270 Tamiro fu costui, che osò nel canto
contender colle Muse. Oh sempre folle,
temerario garrir co’ numi eterni!
E ne fu in pena de la vista privo,
e condannato a viver muti gli anni.
275 Misero! A lui erano forse ignote
le vittorie d’Apollo, e lo scuoiato
Marsia, per cui famosa è ancor Cellene?
Ma di già vinta e ottenebrata in parte
d’Anfiarao la mente, egli pur viene;
280 e ben sapea quali funesti segni
veduti avesse; ma la fiera Parca
in lui soffoca il Nume, e l’armi in mano
gli pone, e dietro se ’l rapisce a forza:
nè senza colpa è l’infedel consorte,
285 che d’Harmonia il monile empio possiede.
All’indovino esser fatal quest’oro
prescritto aveano i Fati; e l’empia frode
non gli era occulta; ma la moglie avara
cambiò il marito ne l’infame dono,
290 e de le spoglie altrui n’andò pomposa.
Argia, che vede star incerti ancora
i consigli de’ duci, e che dal vate
tutta la mole de la guerra pende,
volentieri lo cede, e al caro sposo
295 lieta lo rende, e a lui così ragiona:
- Di vani fregi non è questo il tempo
per me, o signore, nè da te lontana
far pompa d’una misera bellezza.
Poco non mi parrà fra amiche ancelle
300 temprare il mio dolore, e i sacri altari
sovente circondar col crin disciolto.
Deh cessi Dio, che mentre tu di ferro
suonerai cinto, e che la bionda chioma
ti premerà l’elmetto, al collo io porti
305 il dotale d’Harmonia aureo monile.
Forse daranci più felici giorni
placati i Numi, e di pompose vesti
tutte allor vincerò le argive spose,
chè di Re moglie, e baldanzosa e lieta
310 di tua salute, fra festivi cori
andrò divota a scioglier voti al tempio.
Abbiasi l’oro pur colei che ’l brama,
e può mirare con sereno volto
di Marte infra i perigli il suo marito. -
315 Così passò d’Erifile ne’ tetti
il monile fatale, e iniqui semi
vi sparse d’odio; e l’avvenir scorgendo
Tesifone ne rise. Anfiarao
dunque sen viene sovra eccelso carro
320 da’ tenarei destrier tirato, e figli
di Cillaro immortale e di mortali
giumente: e il furto a Castore fu ignoto.
Le sacre bende e l’apollineo culto
lo palesan per vate; e su l’elmetto
325 porta i rami d’oliva, e intesse e fregia
l’infula bianca di purpuree penne.
Ei sostiene lo scudo, in cui risplende
il fier Pitone ucciso, e regge il freno
de’ focosi destrieri. Al carro intorno
330 vengon squadre d’arcieri, e sotto il peso
trema la selva. Egli sta in alto assiso
terribile in sembiante, e l’asta impugna.
Sieguon il carro in numerose schiere
Pilo e Amicle apollinea, e per naufragii
335 Mallea famosa; e Caria, che risuona
d’inni a Cintia festivi; e Fari e Messe
di colombe nudrice, e di Taigeto
vien la falange; e turb’alpestre manda
l’Eurota, fiera ed instancabil gente.
340 Mercurio stesso a nude guerre e a risse
finte l’indura in militar palestra:
quinci in lor spirti generosi infonde,
e bel desio d’una onorata morte:
esortano a morir le madri i figli;
345 e mentre piange a’ funerali intorno
la turba, godon le feroci madri
in veder coronati i lor ferétri.
San stringere, allentar, girare i freni;
insiem legati portano due dardi;
350 coprono il dorso di ferine pelli,
e portan tremolanti in su l’elmetto
le bianche penne dell’augel di Leda.
Nè già son questi sol che il tuo stendardo
sieguono, Anfiarao; ma la declive
355 Eli manda guerrieri; e la depressa
Pisa; e color che ne’ sicani campi
beon dell’ospite Alfeo: d’Alfeo, che l’onde
intatte porta per sì lungo mare.
Guerreggiano su i carri, e tutti a Marte
360 doman i loro armenti: un cotal uso
dura fra lor fin da quel dì che infranse
Enomao il cocchio, e cadde su l’arena:
mordono il freno i fervidi destrieri,
e di spuma e sudor bagnano il campo.
365 Tu pur, Partenopeo, dietro ti meni
(nè ’l sa la madre) le parrasie schiere,
troppo tenero ancora e mal esperto,
per soverchio desio di nuova lode.
Ah se Atalanta il risapea, tu certo,
370 tu non andavi; ma la forte donna
a suon di corno da le crude fiere
de l’opposto Liceo purgava i boschi.
Fra tanti eroi di più leggiadro aspetto
alcun non v’ha; nè già gli manca ardire,
375 purchè l’età più forte in lui maturi.
Arsero al balenar del vago ciglio
le Driadi, l’Amadriadi e le Napee.
Dicesi che Dïana un dì che ’l vide
di Menalo fra l’ombre in su l’erbetta
380 pargoleggiar, e girsen sì leggiero,
che nel terreno appena l’orme imprime,
se n’invaghisse, e l’amoroso fallo
perdonasse a la madre, e di sua mano
gli desse i dardi, e la real faretra
385 gli appendesse a le spalle. Egli sen viene
ripieno il cuor di marzïal desio;
e anela l’armi; e i bellici oricalchi
brama sentir; e in militare arena
lordare il biondo crin di molta polve;
390 scavalcare un nemico; ed in trionfo
riportarne un destrier: già in odio ha i boschi,
e si vergogna che d’umano sangue
ne la faretra ancor asciutti ha i dardi.
Ei risplende ne l’oro, e d’ostro il manto
395 scende ondeggiante, e si restringe al collo
con nodi iberi in vaghe crespe accolto.
Nel rilucente scudo impresse porta
de la madre l’imprese, e di sua mano
il fier cinghial di Calidonia estinto.
400 Pende al sinistro fianco il nobil arco,
ed il turcasso di lucente elettro
di gemme adorno gli risuona a tergo,
tutto ripien di cretiche saette;
e di minute maglie il petto copre.
405 Regge un corsier che vince i cervi al corso,
coperto il dorso e l’uno e l’altro fianco
di doppia pelle di macchiata lince,
e che in sentir del suo signore armato
più grave il peso, maraviglia prende.
410 Egli dolce rosseggia, ed innamora
col leggiadro sembiante e co’ freschi anni.
Gli Arcadi, che fur pria che fosse in cielo
la luna e gli astri, a lui danno le schiere.
Di lor si dice che da dure piante
415 fosser prodotti, e che stupì la Terra
al primo calpestio de’ piedi umani.
Non s’aravano ancora i campi: ancora
non v’erano città, principi e leggi;
nè v’eran maritaggi. Il faggio e il lauro
420 concepivano i figli, e dagli ombrosi
frassini nacquer popoli; e i fanciulli
verdi uscian fuor dal rovere e da l’olmo.
Costoro il primo dì che usciro in luce,
a l’alternar del giorno e della notte
425 stupiro, e nel veder cadere il Sole,
gli corser dietro per fermarlo; e tema
ebbero di restar sempre fra l’ombre.
Già di Menalo i colli e le partenie
selve d’abitator rimangon vuote;
430 e Strazia e Rife e la ventosa Enispe
mandâr schiere feroci al gran cimento.
Non Tegea si rimane, e non Cillene
de l’aligero Dio madre felice;
nè il rapido Clitone; o quel che Apollo
435 bramò suocero aver, chiaro Ladone;
e non Lampía nevosa; o il Feneo lago,
ond’è fama che Stige origin abbia.
Vengon gli agresti abitator dell’Azza,
Azza ch’è in ulular emulo all’Ida;
440 ed i parrasii duci, e di Nonacri
la gente, che si rise de gli amori
del faretrato Giove; ed Orcomene
ricca di greggi; e Cinosura albergo
di molte fiere; ed Epito; e la celsa
445 Psofida; e noto per l’erculee imprese
l’Erimanto; e lo Stinfalo sonoro.
Arcadi tutti son, tutti una gente,
ma di culto diversa e di costume.
Altri de’ Pafii mirti a sè fan clave:
450 altri s’arman di rustici bastoni:
altri tendono gli archi e avventan dardi.
Chi copre il crin d’arcadico cappello;
e chi de’ Licaon l’uso seguendo,
porta vuoto d’un’orsa il capo in fronte.
455 Queste le schiere fur che seguîr Marte.
Non armossi Micene ancor turbata
per le nefande mense, e per la fuga
dell’attonito Sole, e per le guerre
di due altri non meno empii fratelli.
460 Ma non sì tosto ad Atalanta giunse
il tristo avviso che partiva il figlio,
e dietro si traea l’Arcadia in guerra,
che sotto si sentì tremar le piante,
e i dardi si lasciò cader di mano.
465 Abbandona le selve, e al par del vento,
qual si ritrova con il crin disciolto,
in abito succinto il corso affretta;
nè le arrestano il piè rupi o torrenti;
e sembra lieve e inferocita tigre
470 che corra dietro al predator de’ figli.
Giunge infine e l’arresta, e sovra il petto
al rapido destrier respinge il freno.
Impallidisce il giovane: essa allora:
- E qual nuovo furor, figlio, t’accende?
475 Qual non matura ancor virtù ti muove?
Tu le schiere ordinar? Tu fra i perigli
correr di Marte tra le spade e l’aste?
Deh fosse in te vigor pari al desio!
Non ti vid’io testè pallido in viso,
480 mentre un fiero cinghial coll’asta premi,
le ginocchia piegar, e resupino
quasi cader? E se men pronto allora
era questo mio dardo: ove le guerre?
Ove saresti or tu? Nelle battaglie
485 non gioveranti questi strali; e invano
ne’ tuoi confidi, e in questo tuo di nere
macchie segnato fervido destriero.
Tu tenti imprese oltre l’etade, e sei
acerbo ancora a’ talami e a gli amori
490 de le leggiadre Ninfe d’Erimanto.
Ahi fur veri i presagi! Io vidi il tempio
tremar di Cintia, e mesta esser la Dea,
e le spoglie cader da’ sacri altari;
quindi più lento l’arco, e meno pronte
495 mie mani al saettar, e incerti i colpi.
Aspetta almeno di acquistar maggiore
forza con gli anni più maturi; aspetta
che ’l vago viso il nuovo pel t’adombri,
e meno a me somigli; allora il brando,
500 e le bramate guerre a te fien date;
nè riterratti de la madre il pianto.
E voi, Arcadi, dunque il signor vostro
ir lascerete? O veramente dura
gente nata da roveri e macigni! -
505 Volea più dir; ma sono a lei d’intorno,
confortandola tutti a non temere,
il figlio e i duci; e già le trombe il segno
dan di partir: ella non sa disciorsi
dal figlio; e al buon Adrasto alfin l’affida.
510 Ma la plebe cadmea da l’altra parte
mesta, non già per lo vicin periglio,
ma per le furie del crudel tiranno
(poi ch’ode esser già mosso il campo argivo),
vergognosa del Rege e dell’ingiusta
515 guerra, lenta e restia l’armi ripiglia;
ma pur si muove mal suo grado alfine.
Non han piacer, qual de’ guerrieri è stile,
in rapir aste e brandi: a nissun giova
vestir l’armi paterne, o de’ destrieri
520 prendersi cura; ma senz’ira e pigri
sol promettono al Re le mani imbelli.
Chi si duol di lasciare il padre infermo;
chi la consorte giovanetta e i figli,
che lieti a lui scherzavano d’intorno.
525 In ogni petto intiepidisce Marte.
Le mura istesse da l’età corrose,
e l’anfionie rocche il lato aperto
mostrano rovinose, e un lavor muto
quelle ripara, che già furo al cielo
530 alzate al suon dell’armoniosa cetra.
Ma ’l guerriero furor, che in essi langue,
le città di Beozia all’armi accende,
sol per soccorrer la cittade amica,
non già per favorir l’empio tiranno.
535 Ei sembra un lupo distruttor del pingue
vicino armento, allor che, carco il ventre
del crudo pasto, coll’irsute aperte
fauci ancor lorde di sanguigna lana,
da l’ovil si discosta, e i biechi sguardi
540 memore di sua strage intorno gira,
mirando se de’ ruvidi pastori
gli sovrasti lo sdegno; indi tra l’anche
la coda asconde, e timido s’inselva.
Cresce il terror la fama. Altri rapporta
545 che già i lernei corsier bevon l’Asopo:
altri, che sono sul Citero; ed altri
che accampan sul Teumesso; ed altri infine
vide gli ostili fuochi entro Platea.
Ognun portenti accresce; e i Tirii Lari
550 chi sudar giura; e correr sangue Dirce;
ed esser nati mostruosi parti;
la Sfinge urlar di nuovo; e quel che appena
saper certo si può, dice che il vide.
Ma novello timor turba la plebe.
555 La conduttrice de’ Baccanti Cori,
disciolti i crini e dal suo nume invasa,
furiosa scende dall’Ogigio monte,
e la di pino tripartita face
ruotando in giro, e rosseggianti i lumi,
560 l’attonita cittade empie di strida.
- Oh gran padre Niseo, che dell’avita
gente il primiero amor doni all’obblio,
tu sotto il pigro Arturo a guerra muovi
con ferreo tirso l’Ismaro feroce,
565 e le tue viti di Licurgo in onta
pianti ov’ei proibille; o lungo il Gange
tu scorri furibondo e trionfante
per la purpurea Teti a’ regni Eoi;
od esci fuor per gli aurei fonti d’Ermo.
570 Ma la progenie tua, l’armi deposte
sacre al tuo culto, or qual può farti onore,
fuor che di guerra, di timor, di pianto,
di domestiche risse empie e nefande,
premii d’ingiusto Re? Portami, o Bacco,
575 portami sotto ad un perpetuo gelo,
e fin là dove il Caucaso risuona
dell’armi femminili, anzi ch’io scopra
gli error de’ duci e della stirpe infame.
Ma tu mi sforzi: io cedo; altri furori
580 a te, Bacco, giurai. Io veggio, io veggio
due fieri tori d’uno stesso sangue
e d’onor pari insieme urtarsi, e quindi
unir le fronti, e le ritorte corna
scambievolmente avviticchiar fra loro,
585 e feroci morire in mezzo all’ira.
Tu pria cedi, o peggior, tu che contendi
il comun pasco al tuo compagno, e vuoi
solo tiranneggiar la piaggia e il monte.
Oh infelici costumi! Ambi nel vostro
590 sangue cadrete, e sarà d’altri il regno. -
Tacque, ciò detto; e abbandonolla il Nume,
e fredda cadde e tramortita al suolo.
Ma da cotanti mostri il Re commosso
si dà per vinto, e (come suol chi teme)
595 a Tiresia ricorre, e le sagaci
tenebre ne consulta; e quegli afferma,
che non sì certo il gran voler de’ Numi
dall’ostie si ritragge, o dall’incise
viscere, o dagli augelli, o dagli oscuri
600 tripodi, o dal fumar de’ sacri altari,
o da’ moti numerici degli astri:
come da’ spirti del profondo Averno
richiamati alla luce. E già i letei
sacrifici prepara innanzi al Rege,
605 colà, dove l’Ismeno entra nel mare.
Ma prima colle viscere lo purga
di nere agnelle, e col sulfureo fumo
e con fresca verbena, e con un lungo
magico mormorar d’ignoti carmi.
610 In questo luogo antica selva sorge
di robusta vecchiezza, a cui mai ramo
tronco non fu, nè vi penétra il Sole:
nulla in lei puote il vento, e di sue frondi
Noto non la privò, nè Borea spinto
615 co’ freddi fiati dalla getic’Orsa:
un opaco riposo entro vi regna,
e il placido silenzio un ozïoso
orror vi serba, e dell’esclusa luce
appena v’entra un tremolo barlume.
620 Nè senza Nume è il bosco: e di Latona
sacro è alla figlia, e la celeste immago
in ogni pino, in ogni cedro è impressa,
e in ogni pianta; e la nasconde e cela
tra le sant’ombre sue la selva annosa.
625 Spesso suonare non veduti strali
de la gran Dea s’udiro, ed i notturni
latrati de’ molossi; allor che fugge
le oscure case del gran zio, e risplende
tra noi serena e con più vago volto.
630 Ma quando stanca di cacciar le fiere,
il più fitto meriggio a dolce sonno
l’invita, i dardi intorno intorno appende,
e ’l capo appoggia a la faretra e dorme,
s’apre fuori del bosco immenso campo
635 a Marte sacro, ove il cultor fenice
sparse guerriero seme. Oh troppo audace
colui che dopo le fraterne schiere
osò d’aprire nel terreno infame
novelli solchi, e rivoltar le zolle
640 d’atro sangue cosperse! Il suolo infausto
spira tumulto a mezzo giorno, e freme
della notte fra l’ombre, allor che i figli
della Terra risorgono, e fra loro
rinnovar sembran le passate stragi.
645 Lascian gli agricoltori i campi inculti,
ed a le stalle lor fuggon gli armenti
spaventati e confusi. In questo luogo
proprio a gl’inferni sacrifici, e grato
a li tartarei Numi, a cui più in grado
650 son quei terren che pingui son di sangue,
il vecchio sacerdote ordina e vuole
che le pecore oscure e i neri armenti
si radunino, e scelgansi fra loro
le cervici più elette e più superbe.
655 Mesta Dirce restò vuota d’armenti,
ed il Citero; e si stupîr le valli,
che risuonavan pria d’alti muggiti,
del silenzio improvviso. Ei pria le corna
dell’ostie adorna di ceruleo serto,
660 e di sua man le palpa; indi il terreno
nove volte scavato, entro vi versa
attico mele, e ’l buon liquor di Bacco,
e fresco latte, ed in gran copia il sangue
delle vittime uccise, a cui più pronte
665 sogliono correr l’ombre, e non rifina
per fin che il suol non è imbevuto appieno.
Poi fa troncar la selva, e tre gran pire
erge ad Ecate inferna, ed altrettante
a l’orribili figlie d’Acheronte.
670 A te, gran Re del tenebroso regno,
s’erge di pino un sotterraneo altare,
che però colla cima all’aria sorge;
ed un altro minore alla profonda
Proserpina; e li cinge intorno intorno
675 l’ombra funesta del feral cipresso.
E già segnate l’ardue fronti, e ’l farro
sparsovi sopra, in su l’opposto ferro
cadon tremanti le scannate greggi.
Allor la vergin Manto in tazze accoglie
680 il fresco sangue; e come il padre insegna,
prima ne liba, indi circonda i roghi
tre volte intorno con veloci passi;
e a lui descrive quali sien le fibre
e gl’intestini palpitanti ancora:
685 nè più ritarda il sottopor le faci
a l’alte pire, e in esse il fuoco accende.
Ma poi che il Cieco udì strider la fiamma
nell’ardenti cataste, onde al suo volto
giunse il calore, ed aggirossi il fumo
690 per entro i vani della vuota fronte,
alto esclamò; della gran voce al suono
tremaro i roghi, e preser forza e lena
gli oscuri fuochi: - O voi, tartaree sedi,
o fiero regno d’insaziabil morte;
695 e tu, de’ tuoi fratelli il più crudele,
a cui fu dato di regnar su l’ombre,
e a’ colpevoli impor eterne pene,
e comandare al sotterraneo mondo:
aprite al batter mio le porte inferne,
700 e i luoghi oscuri e muti, e ’l vano regno
di Persefone, e ’l vulgo a me mandate
laggiù sepolto in un profondo orrore;
e l’infernal nocchiero a me ’l riporti
di qua da Stige in su la nera barca.
705 Ombre insieme venite al gridar nostro,
ma del vostro venir sien vari i modi.
Ecate, quelle, tu, che negli Elisi
godono eterne paci, alme innocenti
da’ rei dividi; indi Mercurio ombroso
710 colla potente verga a noi le meni.
Quelle che stan fra le perdute genti
in numero maggior, e la più parte
scese da Cadmo, pria tre volte scosso
un angue, a noi Tesifone conduca,
715 e lor mostri il cammin col tasso ardente;
nè Cerbero crudel le spinga indietro. -
Posto fine a’ scongiuri, egli e la figlia
attenti stanno, e pieni già del Nume
non conoscon timor; ma ’l Re tremante
720 e sbigottito al suon de’ detti orrendi,
gli si accosta alle spalle, e per la mano
ora lo piglia, ora le sacre bende
afferra, e ’l preme, e non vorria l’incanto
tentato avere, o tralasciarlo a mezzo.
725 Qual ne’ getuli boschi un fier leone
attende al varco il cacciator dubbioso,
che sè stesso conforta, e ’l grave dardo
sostien con man sudante, e al suo periglio
in ripensar, e quale e quanto attenda
730 nemico, impallidisce, e gli vacilla
il passo, e lungi il gran ruggito udendo,
ne misura le forze e n’ha terrore.
Ma poi che tardi a lui vengono l’ombre,
grida Tiresia con più fiera voce:
735 - Io vi protesto, orride Erinni, a cui
arsi le pire e con sinistra mano
versai sanguigne tazze; io vi protesto,
che del vostro indugiar ira mi prende.
Inutil dunque sacerdote e vano
740 a voi rassembro? Ma se infami carmi
udrete susurrar tessala Maga,
andrete pronte; o se possente Circe
vi sforzerà con scitici veleni,
vedrem tremante impallidir l’Inferno.
745 Forse a scherno io vi son perchè dall’urne
non traggo a vita i corpi, e non rivolgo
l’ossa già stritolate, e riverente
non turbo i Dei dell’Erebo e del Cielo?
O perchè non vogl’io con empio ferro
750 tagliar gli esangui volti, e da gli estinti
strappar le meste fibre? Ah non sprezzate
questa cadente etade e dell’opaca
fronte le oscure tenebre: anche a noi
lice l’incrudelir. Sappiam, sappiamo
755 ciò ch’è orribile a dir, ciò che temete,
ed Ecate turbar, se per te, o Apollo,
la gran germana tua prezzassi meno.
So del triplice mondo il maggior Nume
anch’io invocar, cui proferir non lice:
760 ma in questa mia cadente età lo taccio.
Ben vi farò... - Ma l’interruppe allora
la fatidica Manto; e: - O padre, (grida)
t’udîr gli abissi, e s’avvicinan l’ombre:
s’apre l’infernal Caos, e si dilegua
765 la caligin che copre il basso mondo.
Veggio l’orride selve e i neri fiumi,
e d’Acheronte vomitar le arene
livide su le sponde; e Flegetonte
versar onde di fiamme; e Stige oscura,
770 che il popolo dell’ombre in due diparte.
Lo stesso Re veggio sedere in trono
squallido in volto, e a lui le Furie intorno
stanno di sceleraggini ministre:
e le funeste stanze e dell’inferna
775 Giunone io scorgo i talami severi.
Veggio a un verone pallida la Morte,
che numera al tiranno il popol muto,
e la parte maggiore a contar resta.
Il cretense Minosse indi li pone
780 nella terribil urna, e con minacce
n’esprime il vero, e li costringe e sforza
a palesar fin da’ più teneri anni
l’opre buone o nefande, e qual si deggia
a’ lor merti o al fallir pena o mercede.
785 Dell’Erebo degg’io dir tutti i mostri?
E le Scille e i Centauri invan frementi?
E i ceppi adamantini de’ Giganti?
O del gran Briareo la picciol’ombra? -
- Vano è (dic’egli), o della mia vecchiezza
790 solo sostegno, il perder tempo in questo.
E chi non sa l’irrevocabil sasso?
E l’ingannevol lago? E Tizio in cibo
dato a’ rapaci augelli? E d’Issione
la volubile ruota e i giri eterni?
795 Ecate a me la regïon profonda
tutta mostrò negli anni miei più verdi,
prima che il nume a me il veder togliesse
da gli occhi, e ’l respingesse entro la mente.
Piuttosto i Grechi Spirti ed i Tebani
800 invita e chiama; e gli altri indietro spingi
di bianco latte quattro volte aspersi,
e via li manda dal funesto bosco.
Poi di ciascuno e l’abito e l’aspetto,
qual più beva del sangue, e qual più altiero
805 de’ due popoli venga a me fedele,
descrivi, e le mie tenebre rischiara. -
Essa allor mormorò magico carme,
con cui l’alme disperge a suo talento,
e a suo talento le disperse aduna.
810 Tali fur già (se l’empietà ne togli)
Medea crudele e l’ingannevol Circe;
e al sacerdote genitor ragiona:
- Il primo a bere nel sanguigno lago
è Cadmo; e Harmonia il suo marito siegue,
815 e l’uno e l’altro porta un serpe in fronte.
Intorno a loro sta la fiera gente,
popol di Marte della Terra figlio,
a cui fu vita un giorno: ognun la mano
tiene su l’elsa, ognuno l’armi impugna:
820 si assalgon, si respingon, si feriscono,
come se fosser vivi; a lor non cale
ber del sanguigno gorgo, ed a quel solo
aspiran de’ fratelli. Ecco appo loro
le cadmee figlie e l’infelice seme
825 de’ compianti nipoti: Autonoe viene
orba ed afflitta; ed Ino ansia, anelante,
che gli archi mira, e si restringe al petto
il caro pegno; e Semele, che copre
dal fatal fuoco con le braccia il ventre;
830 e Agave ancor, che libera dal Nume,
infranti i tirsi e lacerata il seno,
sè stessa accusa, e Penteo siegue e plora:
quei per l’inferne vie sdegnoso fugge,
e per gli stigii e pe’ superni laghi,
835 ove Echïon lo piange e ne raccoglie
le lacerate membra. Io ben conosco
Lico infelice, e d’Eolo la prole,
che ’l figlio ucciso su le spalle porta.
Ecco Atteon, che va cangiando aspetto
840 per lo suo fallo, e non però del tutto
mutato è ancor: aspra ha la fronte e dura
per l’ardue corna, e tuttavia la mano
ritiene i dardi, e de’ rabbiosi cani
ripugna a’ morsi, e li respinge indietro.
845 Dagl’invidiati figli accompagnata
di Tantalo la prole ecco sen viene,
e con altiero lutto i funerali
va numerando, e nelle sue sciagure
anch’è superba; e poi ch’a lei non resta
850 più che temer de’ Dei, più audace parla. -
Mentre così la vergine favella,
ecco arricciarsi le canute chiome
al genitor, tremar le sacre bende,
e leggermente rosseggiare il volto.
855 Scaglia lungi il baston, nè più s’appoggia
alla vergine, e s’alza e, - Taci, o figlia,
(dice) assai da me veggio, e le mie pigre
squamme cadder dagli occhi e la mia lunga
notte si dileguò. Ma donde viene
860 lo spirto che di sè tutto m’ingombra?
Mi viene ei dall’Inferno, o pur da Apollo?
Ecco già scorgo il tutto; e l’Ombre Argive
meste abbassare i lumi; e il torvo Abante,
e ’l colpevole Preto, e Foroneo
865 placido e mite, e Pelope squarciato,
e nella sozza polve Enomao intriso
avidamente ber lo sparso sangue:
quindi la miglior sorte auguro a Tebe.
Ma chi sono costoro insieme uniti?
870 A l’armi, a le ferite a me rassembra
che sieno alme guerriere. E perchè mai
ci minaccian col volto, e con il sangue
e con le mani e con la vana voce?
M’inganno, o Re? O quei cinquanta sono
875 che tu mandasti? Vedi Cromio e Cromi
e ’l gran Fegea, e della nostra fronda
il buon Meone ornato. Ah, duci invitti,
deponete lo sdegno: il morir vostro
opra non fu d’uman consiglio: a voi
880 questo fine la Parca avea prefisso:
voi siete fuor d’ogni vicenda; a noi
restano guerre orribili, e Tideo. -
Sì dice; e indietro colla sacra fronda
di bende cinta le respinge, e addita
885 a loro il sangue, ove saziar la sete.
Sovra le sponde di Cocito solo
stavasi Laio e abbandonato. Il Nume
già l’avea ricondotto al nero Averno.
Mirava torvo il reo nipote (e il volto
890 ben ne conosce): egli non corre al sangue
col vulgo in folla, e non apprezza il latte,
e sta ritroso e immortal odio spira.
Ma l’aonio Indovin con dolci note
a sè l’invita: - O della tiria plebe
895 inclito duce, al cui morir spariro
i giorni lieti dell’Ogigie mura:
è la tua morte vendicata assai;
e di pena minor, di minor scempio
la tua grand’ombra esser potea contenta.
900 Da chi misero fuggi? In lungo duolo
giace colui che abborri, e già i confini
tocca di morte squallido ed asciutto,
pien di lordure il viso e senza lume;
credilo a me: è della stessa morte
905 la sua vita peggior. Ma del nipote
perchè schivi l’aspetto? A noi rivolgi
placato il guardo, e ti disseta in questo
sanguigno umor già consacrato a Dite;
indi a noi scopri dell’orribil guerra
910 le future vicende, o sia che infausto
a’ tuoi ti mostri, o che pietà ten prenda.
Ti farò allor co’ sacrifici miei
passar l’onda vietata, e ’l tuo insepolto
busto ricoprirò di sacra terra;
915 e ti farò propizi i Dei d’Inferno. -
Placossi Laio alle promesse, e il labbro
nel sangue immerse; indi così rispose:
- Deh perchè, mentre co’ possenti carmi
turbi l’Inferno, me fra cotant’alme,
920 buon sacerdote, al vaticinio scegli?
Forse il migliore le future cose
a discoprir ti sembro? A me bastante
è il rimembrarmi le passate. E voi,
degni nipoti, a che cercar da l’avo
925 le risposte e gli oracoli? Colui,
colui s’impieghi ne’ misteri orrendi
che lieto uccise il padre, e l’innocente
madre compresse, e fratei n’ebbe e figli.
Ed or costui fatiga i Numi, e invoca
930 de le Furie il concilio, e le nostr’ombre
eccita a l’armi; ma se pur vi piace
che in tempi sì funesti augure io parli,
quello dirò che a me sarà permesso
da Lachesi e da l’orrida Megera:
935 Guerra, gran guerra; innumerabil gente
veggio venir da Lerna; e Marte a tergo
con sanguigno flagel l’istiga e spinge.
Aspettano costor oneste morti:
il suol vacilla: fulmina il Tonante;
940 e a’ cadaveri lor tardansi i roghi.
Vincerà Tebe, non temer; nè il regno
per questo riterrà l’empio germano;
ma regneran le Furie e il doppio eccesso;
e per le vostre infami spade (ahi lasso!)
945 resterà vincitor l’iniquo padre. -
Ciò detto sparve, e li lasciò confusi
nel dubbio senso de le oscure ambagi.
Erano intanto le pelasghe schiere
sparse e attendate nell’ombrosa valle
950 di Neme, nota per l’erculee prove.
Tutti aspirano a Tebe, ed a far preda
de’ sidonii tesori, arder le case
e l’alte rocche, ed appianar le mura.
Ma chi frenògli a mezzo il corso, e l’ire
955 ne fe’ più miti, e in vani error gl’involse?
Tu che lo sai, Febo, ce ’l narra: a noi
ne giunge incerta e non concorde fama.
Domato l’Emo e i bellicosi Geti
avvezzi al suon degli orgii suoi festivi
960 per ben due verni, e il Rodope nevoso
e l’Otri fatto verdeggiar di viti,
tornava Bacco, e ’l pampinoso carro
indirizzava a le materne case.
Nel vino intinti van lambendo i freni
965 le tigri, e molte maculate linci
seguono il Nume; le Baccanti in schiera
portan le spoglie de gli armenti uccisi,
di lupi semivivi e d’orse lacere.
L’Ira, il furore, la virtù, la tema
970 gli fan corteggio, e ’l non mai sobrio ardore,
e capi vacillanti e incerti passi,
di cotal duce esercito ben degno.
Ei poi che vede polverosa nube
da Neme alzarsi, e Febo trar da l’armi
975 lampi e fiammelle, e Tebe ancor non pronta
a le difese, attonito nel volto,
e nel cuor tristo fa cessar le tibie,
e i cembali ed i timpani, e lo strepito
vario e discorde, che rimbomba intorno;
980 e così parla: - Contro me si muove
quest’oste immensa e contro il popol mio.
Vien d’antica radice il furor nuovo:
il crudel Argo è che mi muove guerra,
e l’ira dell’indomita matrigna.
985 Forse non basta l’infelice madre
in cenere ridotta? E ’l nascer mio
tratto da’ roghi? E che lambîr me ancora
le folgori paterne? Anche l’avello
de l’accesa rival l’empia persegue,
990 e stragi porta a la tranquilla Tebe?
Ma so ben io come fermarli: al campo,
ite a quel campo, o miei compagni: Euhoè! -
Al noto cenno le accoppiate tigri
scuoton le giube, e in un balen vel portano.
995 Era ne l’ora che ’n meriggio il Sole
rende il dì più affannoso, e gli arsi campi
bramano i nembi, ed i più folti boschi
più non fan schermo a’ penetranti raggi.
Ei chiama allor le Dee de l’acque, e attente
1000 poi che le vede star, così favella:
- Agresti Ninfe de le limpid’onde,
parte miglior del mio seguace stuolo,
deh non v’incresca per me far quell’opra
ch’io vi commetto; deh, cortesi Dee,
1005 per poco tempo ritraete a’ fonti
l’acque vostre da’ laghi, e i gonfi fiumi
scoprano il fondo polveroso e asciutto.
Ma più d’ogn’altro d’ogn’umor sia privo
Neme, per cui l’ostile campo or passa.
1010 Pur che ’l vogliate, a voi da mezzo il cielo
il Sole arride, e vi secondan gli astri,
e d’Erigone mia l’estivo Cane.
Ite, Ninfe gentili, ite sotterra.
Io stesso poi vi chiamerò di sopra,
1015 e ricche vi farò di maggior onda:
voi de le offerte e de’ miei doni a parte
sarete sempre; ed i notturni furti
de’ semicapri Numi e le rapine
de’ Fauni ognor da voi terrò lontane. -
1020 Sì disse, e tosto impallidîr le Dee,
e su l’umide fronti inaridiro
le frondi e le ghirlande, e i campi d’Argo
privi del natio umor arser di sete:
fuggono l’acque, e più non stilla il fonte;
1025 nè ondeggia il lago, e vergognoso il fiume
mostra del fondo l’indurato letto;
arido è il suolo, e gli arbori e l’erbette
in pallido color mutano il verde;
stassi il gregge deluso in su le sponde,
1030 e cerca l’acque ove pria giva a nuoto.
Non altrimenti avvien qualora il Nilo
chiude ne gli antri l’acque sue feconde,
che da l’umido verno ei già raccolse;
fuman d’intorno le seccate valli,
1035 e del suo padre e Dio l’arida Egitto
aspetta e brama il corso strepitoso;
finch’egli a’ voti arride, e i Farii campi
rende ubertosi e carichi di messe.
Lirceo seccossi, e la nocente Lerna,
1040 e l’Inaco, che dianzi era sì grande,
e ’l sassoso Caradro, ed il tranquillo
Asterïone; e l’Erasino audace,
che non soffre le sponde, e col fragore
rompe da lunge a li pastori il sonno.
1045 Sola fra tanti (per voler de’ Numi)
Langía ritien tacite l’onde all’ombra
di recondita selva. Ancor famosa
Langía non era per l’acerbo fato
d’Archemoro, nè fama avea di Dea:
1050 ma pur, qual era, conservava intatte
e l’onde e ’l bosco; in guiderdon s’appresta
grande alla Ninfa e memorando onore,
quando li giuochi, che li duci achei
d’Isifile dolente in rimembranza
1055 celebrâr ivi e dell’estinto Ofelte,
rinnoveransi poscia ogni terz’anno.
Da sì cocente ardor vinto ed oppresso
non può il soldato sostener lo scudo,
e i lacci scioglie del lucente usbergo.
1060 Nè sol l’aride fauci arde la sete,
ma ’l sangue asciuga entro le vene, e ’l cuore
con aspro palpitare anela e langue.
S’alza da terra un vapor tetro e denso
di polve e di caligine; i destrieri
1065 non bagnano di spuma i freni aurati,
ma portan le cervici a terra chine,
e mostran fuori l’assetata lingua:
più non temon lo spron, nè de la mano
senton la legge, ma furiosi e insani
1070 scorron pe’ campi e van cercando l’acque.
Adrasto manda ad ispiar d’intorno,
se qualche umore l’Amimon conservi,
o pur Licinnia, od altro fonte o fiume;
ma fonti e fiumi altro non dan che arena;
1075 nè di piogge o di nembi a gl’infelici
riman speranza: quasi i campi adusti
calchin di Libia, o l’Affrica arenosa,
o la sempre serena aspra Sïene.
Pur mentre vanno per le selve errando,
1080 (così Bacco volea) bella nel pianto
e nel suo duolo Isifile trovaro.
A lei pendea dal seno il non suo figlio
Ofelte, di Licurgo infausta prole:
scompigliata le chiome e in rozze spoglie
1085 ritiene ancor nel nobile sembiante
la maestà regale e ’l primo onore.
Adrasto allora attonito e conquiso
supplichevole a lei così ragiona:
- O de’ boschi possente o Ninfa o Dea
1090 (chè non somigli tu cosa terrena)
che siedi lieta, e sotto il Sirio ardente
l’onde non cerchi: a queste genti amiche
aita porgi; o te la faretrata
Dïana scelta dal suo casto coro
1095 abbia ella stessa in imeneo congiunta;
o te feconda di sì vaga prole
Giove abbia resa (e non è nuovo a lui
scendere in Argo agli amorosi furti),
pietà ti prenda dell’afflitte schiere.
1100 A Tebe andiamo, a la colpevol Tebe;
ma l’aspra sete ogni vigor ne frange,
ritienci in ozio e gli animi deprime.
Tu ci soccorri; e a noi addita o fiume,
o torbida palude: a’ casi estremi
1105 ogni rimedio giova, e nulla a schivo
aver si de’: noi t’invochiamo invece
e de’ nembi e di Giove; e tu rinfranca
in noi le forze, e gli arsi petti inonda:
così questo gentil tuo caro pegno
1110 cresca felice. Ed oh, se a noi fia dato
vincitori tornar, di quanti doni
ti renderem mercede! A te svenati
tanti capi cadran del vinto gregge
che di costoro il numero compensi
1115 che tu salvasti; ed ergerò un altare
in questo bosco in rimembranza eterna
del tuo gran dono, o mia propizia Dea. -
Così parlò; ma l’affannata lena
più volte gl’interruppe i mesti accenti,
1120 e senza spirto titubò sovente
tra l’arse fauci l’assetata lingua.
Uno stesso pallor si scopre in tutti
e uno stesso anelar. Ma gli occhi abbassa
la gran donna di Lenno, e sì risponde:
1125 - Quale scorgete in me segno di Dea?
Mortal son io, benchè da’ Numi scenda
il sangue mio: ed oh così non fossi
d’ogni mortal la più infelice ancora!
Io d’altri figli madre, a l’altrui figlio
1130 il latte porgo; e sallo Dio, se i nostri
altre poppe allattâr, od altro seno
accolse. E pur Regina io sono, e un Nume
è l’avo mio; ma che ragiono invano,
e dal torvi la sete io vi trattengo?
1135 Andiam; forse Langía daravvi l’acque.
Ella suol conservarle ognor perenni,
e sotto il Cancro e sotto il Sirio ardente. -
Disse; e per farsi più spedita e pronta
guida de’ Greci, il misero bambino
1140 adagiò sovra tenero cespuglio,
(così volean le Parche) e lui piangente
rasserenò con dolce mormorio,
e gli fe’ letto di fioretti ed erbe.
Così già intorno al pargoletto Giove
1145 Cibele pose i Coribanti suoi:
fan co’ strumenti lor vari frastuoni,
ma del Nume al vagire Ida rimbomba.
L’innocente bambin, che riman solo,
or va carpone per la molle erbetta,
1150 or piange e chiama la nudrice e ’l latte,
or s’allegra e sorride, e balbettante
cerca voci formar cui nega il labbro;
ora i rumori e ’l mormorar del bosco
attento ascolta; or con l’aperta bocca
1155 le dolci aure respira, e de le selve
non conosce i perigli, e di sua vita.
Marte così sovra le Odrisie nevi;
del Menalo così sovra la cima
Mercurio; e su gli Ortigii lidi Apollo
1160 pargoleggiaro un tempo. I Greci intanto
per selve ascose e per ignote vie
colla fedele lor scorta sen vanno,
ed altri la precede, altri la segue.
Ella per mezzo a l’assetato stuolo
1165 va nobilmente accelerando il passo:
e già si sente risuonar la valle
per lo fiume vicino, e di sue linfe
rotto fra’ picciol sassi un correr lento.
Prima l’alfier de’ cavalieri argivi
1170 l’acque scoperse, e da le prime file
lieto gridò: - Compagni, eccovi l’acque: -
ed acque ed acque replicar si sente
da’ primieri a’ sezzai di voce in voce.
Alza così tutto ad un tempo il grido
1175 la ciurma allor che il capitan dà il segno,
e tempio eccelso su la spiaggia addita:
salutan essi il Nume, e ne rimbomba
il lido, e l’eco ne rimanda il suono.
Lanciansi a gara negli ondosi vadi
1180 e duci e plebe: la rabbiosa sete
nulla distingue: li cavalli e i carri
co’ lor signori, e di tutt’arme carchi
saltan nell’onde; altri ne porta il fiume,
altri inciampa ne’ sassi, e vanne al fondo.
1185 Non s’ha rispetto a’ Regi; e sovra loro
passa la turba, ed il caduto amico
l’amico calca: ne gorgoglia il fiume,
e l’assetate squadre insino al fonte
l’han quasi asciutto; e n’è corrotta e lorda
1190 l’acqua, che pria correa limpida e pura
tra verdi sponde; e benchè fatta un lezzo
e già spenta la sete, ancor si bee.
Diresti quivi imperversar le schiere
in aspra guerra, o saccheggiar già vinta
1195 ed afflitta città per ogni parte.
Ma grato uno de’ Re di mezzo al fiume
alzò le mani, e così orando disse:
- O Neme, o de le verdi ombrose selve
Regina, o grata sede al sommo Giove,
1200 non faticosa tanto al forte Alcide,
quant’ora a noi, quand’egli al fiero mostro
colle robuste braccia il collo strinse,
e lo spirto gli chiuse entro le fauci:
bastiti aver sin qui de’ Greci tuoi
1205 ritardate le imprese e i giusti sdegni.
E tu cortese, avventuroso fiume,
dator d’acque perenni, e non mai domo
dal più cocente Sol, corri felice.
Tu, per qualunque de’ celesti segni
1210 Febo s’aggiri, sempre hai colmo il seno:
a te non danno le brumali nevi
soccorso d’acque, o l’Iride piovosa,
o i nembi pregni di tempeste e tuoni;
ma di te stesso ricco eterno corri.
1215 L’apollineo Ladone a te d’onore
non si pareggia; o l’uno o l’altro Xanto;
o Sperchio minaccevole; o Licormo
guardato un tempo dal biforme Nesso.
Te dopo Giove, e in mezzo all’armi e in pace,
1220 e a liete mense invocherò qual Nume;
pur che fastosi e vincitor ne accolga
anche al ritorno, e le ospitali linfe
lieto ci porga, e riconosca e accetti
queste da te salvate amiche schiere. -
Spenta la sete, e saccheggiato e scemo
il fiume d’onde, n’escon fuor le schiere:
più vivace il destrier trita l’arena;
più lieti van per la campagna i fanti;
5 ogni guerrier l’usato ardir riprende,
e le prime minacce e i primi voti:
sembra che nuovo fuoco abbian con l’onde
bevuto, e accese a guerreggiar le menti:
torna ciascuno alle sue insegne, a’ duci,
10 all’ordin primo; e già schierato il campo
si muove e marcia: alzasi immensa polve,
e al balenar di cotant’armi e a’ lampi
par ne sfavilli la gran selva ed arda.
Sì dal tepido Egitto, ove le nevi
15 fuggîr dell’aspro verno, a noi sen viene
stormo di grù dal Paretonio Nilo,
allor che scioglie primavera il ghiaccio:
esse volan gracchiando, ed al rumore
l’aria risuona, e tutte accolte insieme
20 fann’ombra colle penne a’ campi e a’ mari:
già piaccion loro i freddi venti e i nembi,
ed han diletto di nuotar pe’ fiumi
sciolti dal gelo, e l’importuna estate
passar su’ monti scarichi di neve.
25 Il figlio allor di Talaone, Adrasto,
d’un orno all’ombra, e d’ogn’intorno cinto
da’ maggior duci, ed appoggiato a l’asta
di Polinice, a Isifile favella:
- O tu, chiunque sei, ch’hai gloria e vanto
30 d’aver data salute a tante schiere,
(onor di cui si pregierebbe Giove)
deh ci racconta, ora che stiam d’intorno,
tua gran mercede, alle benefich’onde,
qual la tua patria sia, qual la tua stirpe,
35 da qual astro discenda e da qual padre.
Certo, sebben te la fortuna prema,
il tuo sangue è da’ numi, e lo palesi
al nobil volto, e da l’afflitto aspetto
esce splendor che riverenza induce. -
40 Sospira allor la donna, e ’l viso bagna
d’alquante lagrimucce; indi risponde:
- Tu mi comandi, o Re, ch’io rinnovelli
l’acerbe piaghe ed il furor di Lenno,
l’orrido tradimento, e ’l viril sesso
45 spento da infame ferro. Ah che di nuovo
parmi veder l’abbominata impresa,
e sento al cuor della gelosa Erinni
il velen freddo. Oh sfortunate donne
da Furie invase! Oh scelerata notte!
50 Io quella, o duci (acciocchè a voi sì vile
non sembri il mio soccorso) io quella sono
che, il genitor celando, a morte tolsi.
A che tutti riandar sì lunghi affanni?
Voi chiaman l’armi e i bellici apparati:
55 basti saper che Isifile son io,
figlia di Toante, e di Licurgo or serva. -
Stupiro; e parve lor più grande e degna
d’onore, e a cui debban salute e vita;
e di saper suoi casi in lor s’accese
60 maggior la brama; onde di nuovo Adrasto:
- Anzi noi ti preghiam, mentre che ’l calle
sgombran le prime schiere, e non sì tosto
saran l’altre spedite in tanta selva
intralciata di rami e d’ombre eterne;
65 narra gli altrui misfatti e le tue lodi,
e di Regina chi ti fece ancella.
Giova il dolore mitigar parlando
a’ miseri, e trovar chi li compianga. -
Ed essa allor: - Lenno dall’onde è cinta
70 del procelloso Egeo: sovente in essa
Vulcan riposa dagli etnei sudori;
l’Ato sublime tutta intorno intorno
l’isola adombra, e di sue molte selve
stende l’opaca immagine nel mare:
75 stanno i Traci a rimpetto a noi fatali,
e d’ogni nostro mal prima cagione.
Di popoli fioriva e di ricchezze
l’isoletta felice; e a Samo, e a Delo
cotanto per gli Oracoli famosa,
80 e a quant’altre ne abbraccia il vasto Egeo,
non cedeva di fama e di valore.
Ma piacque a’ Dei turbar le nostre case,
nè senza nostra colpa. I tempii e i fuochi
non fur fra noi a Venere concessi.
85 Anche ne’ Dei sdegno si desta; e a noi
giungon con tardo piè le giuste pene.
Fama è che accesa di furor la dea
lasciò l’antica Pafo e i cento altari,
e mutata d’aspetto e d’ornamenti
90 si sciolse il cinto coniugal da’ fianchi,
e degl’Idalii augei più non le calse.
Molte vi fur che nella buia notte
la vider penetrar ne’ chiusi alberghi,
di maggior face e maggior dardi armata,
95 in mezzo a le tre figlie d’Acheronte.
Ma non sì tosto le più interne stanze
infestò colle serpi, e sparse intorno
odi, timori, gelosie e sospetti,
sparîr da Lenno i lusinghieri amori:
100 Imeneo sen fuggì, le nuzïali
tede rimaser spente; e fur incolti
i legittimi letti: alcun piacere
non ha seco la notte; e in dolci e casti
amplessi più non dorme alcun marito.
105 Sorgon risse per tutto, ire e rancori,
e in ogni letto la Discordia giace.
Era solo piacer del viril sesso
pugnar co’ Traci negli opposti lidi,
e col ferro domar la fiera gente;
110 e benchè in faccia abbian le case e i figli,
aman piuttosto le bistonie nevi
e gli Aquiloni; e di riposo invece
dopo il pugnar, con subite ruine
torrenti udir precipitar da’ monti.
115 Io era allor in giovinetta etade
vergine ancora e d’ogni cura scarca.
Ma le donne di Lenno afflitte e immerse
in un continuo lutto, ora con gli occhi
pendon da’ tracii lidi, ora il dolore
120 cercano insieme mitigar parlando.
Tenea sospeso in su ’l meriggio il carro
Febo, come se stesse e i suoi destrieri
riprendessero lena; e d’ogn’intorno
era sereno e senza nubi il cielo:
125 quando ben quattro volte orribil tuono
udissi, e quattro volte il mar turbossi
senza venti e procelle; ed altrettante
gli antri del nostro Dio vomitâr fiamme.
Ed ecco uscir contro l’usato fuori
130 del chiuso albergo dalle Furie invasa
la canuta Polisso: appunto come
suol Menade Baccante, allor che il Nume
l’eccita e chiama alle sue feste insane,
al suon de’ bossi, onde rimbomba il monte.
135 Costei torve le luci e sanguinose,
orribile in sembianza e furibonda,
la deserta città confonde e turba:
batte le porte, e un reo concilio aduna.
Dietro le vanno gl’infelici figli.
140 Ella insta e preme; e già lasciati i tetti,
tutte corriamo alla Palladia rocca:
senz’ordine e confuse empiamo il tempio.
Ma la crudele impon silenzio, e ’l ferro
nudo tenendo in man, feroce parla:
145 - Vedove donne, al memorabil fatto,
che ispirata da’ Numi io vi propongo,
gli animi ergete, ed obblïate il sesso.
Se in odio è a voi nelle deserte case
viver solinghe, e dell’etade il fiore
150 veder marcir negletto, e menar gli anni
sempre infecondi in su le fredde piume:
il modo io so (nè mancheranne il Cielo)
di trovar nuove nozze e nuovi amori,
pur ch’eguale all’affanno in voi si desti
155 valor, ed or da l’opra io ’l riconosca.
E chi di voi (e già la terza neve
veduta abbiam) ne’ maritali letti
gustò piaceri occulti? E chi nel seno
si scaldò del marito in casti amplessi?
160 Chi Lucina invocò? Chi portò il ventre
gonfio, co’ voti accelerando i mesi?
Giungonsi insieme pur e fere e augelli;
e noi sole staremo? O vili! O pigre!
Potè di ferro alle donzelle greche
165 le mani armare il padre e i dolci sonni
de’ generi mirar sparsi di sangue.
E noi imbelle vulgo inulte stiamo?
Che s’uopo è ancor di più vicini esempi:
la gran donna di Tracia a far vendetta
170 v’insegni ultrice dell’offeso letto,
che diè al marito i propri figli in cibo.
Nè innocente tra voi sola e sicura
essere io voglio: io mostrerò il cammino.
Molti scherzano a me nelle paterne
175 case miei figli e miei sudori insieme:
quattro n’ho meco, cura e amor del padre:
vo’ recarmeli in grembo, e questo ferro
(nè riterranmi i loro amplessi e i pianti)
loro immerger nel cuore, e de’ fratelli
180 mischiarvi insieme il sangue, e ’l genitore
trucidar su’ cadaveri spiranti.
Ma chi di voi s’offre compagna all’opra?".
Più volea dir, quando da l’alto mare
lungi fur viste biancheggiar più vele:
185 l’armata era di Lenno; allor l’offerta
occasïon Polisso abbraccia, e segue:
"Ecco, dio ce li manda: a tanto invito
sarem noi sorde? Ei ce li pone in mano,
e a le nostr’ire gli abbandona e guida,
190 e l’impresa giustissima seconda.
Non fur vani i miei sogni: a me nel sonno
Venere armata apparve, e così disse:
A che perder l’etade? Ite, e purgate
da’ perfidi mariti i vostri letti.
195 Io poi v’accenderò novelle faci,
e darò nuove nozze. E questo ferro,
partendo, mi lasciò cader sul letto.
A che più consultar, se ’l tempo è questo
d’eseguire il gran fatto? Ecco già spuma
200 percosso il mar da’ remi, e in ogni nave
forse vien qualche barbara consorte".
Questa fu l’esca ch’ogni petto accese
di rabbia e di furor; e orribil grido
tutte ad un tempo alzâr fino alle stelle.
205 Con eguale rumor scendon da’ monti
le Amazzoni feroci in curva schiera,
qualora il padre lor pon l’armi in mano
ed apre della guerra il chiuso tempio.
Nè già fra lor, come del vulgo è stile,
210 son diversi i pareri: un sol furore
in tutte è fermo: desolar le case;
e la canuta e l’ancor fresca etade
mandar a morte; e i teneri bambini
soffocar tra le tumide mammelle;
215 e col ferro passar per tutti gli anni.
Vicino al tempio di Minerva siede
un sempre verde bosco, e a tergo s’alza
sublime un monte, e nella gemin’ombra
rimane oscuro e quasi spento il Sole.
220 Quivi si dier la fede, e fur presenti
Proserpina e Bellona; e non chiamate
venner le Furie; e non veduta serpe
Venere in ogni petto; e ’l ferro in mano
essa ci pone; essa ne istiga e accende.
225 Fu d’uman sangue il sacrificio, e l’empia
di Caropo consorte il proprio figlio
vittima offerse nel concilio orrendo.
S’accinsero all’impresa, e ’l molle petto
degno di maraviglia, anzi d’amore,
230 squarciâr co’ ferri; e colle destre unite,
e sul sangue fumante e vivo ancora
giurâr la sceleraggine gradita.
Volò intorno alla madre l’ombra esangue.
Ahi qual mi feci allor! Quale mi scorse
235 orror per l’ossa! Qual mi tinsi in viso!
Così cervetta intimorita e cinta
da sanguinosi lupi, e che sol una
speranza ha nella fuga, il corso affretta,
e la salute sua fidando al piede,
240 teme ognor d’esser presa, e a tergo sente
suonar a vuoto l’avide mascelle.
Giunt’erano le navi, e ne le prime
spiagge molte arenârsi; i padri e i sposi
saltano da le poppe e da le sponde
245 precipitosi e impazïenti a terra.
Miseri, cui non spense il tracio ferro
in valorosa impresa, o il mar crudele
non affondò ne’ vortici spumosi!
Traggon l’ostie votive a’ sacri tempii:
250 fuman gli altari, e nera fiamma sorge,
e in ogni fibra è difettoso il Nume.
Giove mosso a pietà, finchè ’l permise
l’immutabil Destino, in ciel sospese
l’umida notte, e con paterna cura
255 tardò il corso degli astri, e sovra noi
(già spento il Sol) venner più lente l’ombre.
Sorsero alfin le stelle; e Paro, e Taso
per molti boschi ombrosa, e le frequenti
Cicladi ne splendean di chiara luce.
260 Tra le tenebre sola ascosa giace
Lenno e da nebbie involta, e sopra lei,
per non mirar, s’ammantò ’l ciel di nubi;
nè la vider da l’alto i naviganti.
Già gli uomini infelici, e per le case
265 sparsi e pe’ sacri boschi, a laute mense
siedon festosi, e tracannando il vino
vuotano gli aurei nappi insin al fondo;
e raccontando van l’aspre battaglie
del Rodope, di Strimone e dell’Emo.
270 Stanno fra lor cinte di serti il crine,
e de’ più vaghi fregi adorne e belle
le crudeli consorti. In quell’estreme
ore Venere avea degl’infelici
sposi placati i cuori, e breve fiamma
275 in loro accesa, e momentanea pace.
Posto fine a’ conviti, a poco a poco
cessano i salti e i giuochi e de la prima
notte il tumulto. E di già il Sonno asperso
d’infernale vapor, e de la Morte
280 fratello, versa sopra il viril sesso
grave e mortal sopor da tutto il corno.
Ma le spose e le vergini al delitto
vegliano attente: ognuna il ferro arruota,
ognuna ha in petto la sua propria Erinne.
285 Non altrimenti le leonze ircane
da fame spinte a lo spuntar del giorno,
per gli scitici campi i vili armenti
cingon d’intorno, e gli avidi lor parti
aspettan desïosi il nuovo latte.
290 In dubbio sto, buon Re, qual pria, qual poi
di tanti casi, a te parlando, esponga.
Alto dormia sopra tappeti assirii
Edimo il crin cinto di frondi, e ’l vino
iva esalando: allor l’iniqua Gorge
295 il sen gli scopre, e cerca ove più certa
faccia la piaga; e ’l sen gli fere: ei muore,
e nel morir si sveglia, e gli occhi gira,
e l’inimica sua d’amplessi cinge:
ella senza pietade il crudo ferro
300 nuovamente gl’immerge infra le coste
a dentro sì, che fuor del petto uscendo
a piagar giunge di se stessa il seno.
Ei langue e manca, e con tremante sguardo
in lei rimira, e singhiozzando dice:
305 - Gorge, o mia Gorge, - e da l’indegno collo
non sa staccar l’innamorate braccia.
Taccio le stragi de l’ignobil vulgo,
benchè crudeli; e sol del regio sangue
scegliendo narro, e di mia stirpe, i lutti.
310 Dirò di voi (che meco aveste il latte)
figli del padre mio, ma d’altra donna;
di te, biondo Cidon, di te, Cremea,
cui le non tronche chiome in su le spalle
ondeggiavan lascive; e del feroce
315 Gía mio vicino sposo, e da me al pari
e temuto e bramato; che per mano
de la fiera Mirmidona cadéro.
Stava Opopeo cinto di serto il crine
tra le mense scherzando e i lieti cori;
320 e la madre crudel da tergo il passa.
Geme su Cidimone a lei fratello,
ed eguale d’età, fatta pietosa
Licaste disarmata: il volto mira
già vicino al morir, che a lei somiglia,
325 e le fiorite guance e i biondi crini,
ch’essa ornò di sua mano; e geme e plora:
giunge la fiera madre che ’l consorte
svenato aveva, e la minaccia e spinge
al fratricidio, e in man le pone il ferro.
330 Come fiera, cui placido custode
tolto abbia l’uso del natio furore,
lenta si mostra a l’ira, e ancor che punta
sia da’ colpi talor di sferza cruda,
non però torna a la fierezza antica:
335 così Licaste s’abbandona e cade
sovra ’l fratello, e nel cader lo fere,
e in sen ne accoglie lo stillante sangue,
e col lacero crin la piaga preme.
Ma quando vidi Alcidame spietata
340 portar in man del venerabil padre
il capo tronco e mormorante ancora,
mi s’arricciâr le chiome, e per le vene
mi scorse un freddo orrore: il mio Toante
allor mi venne in mente; e la mia destra
345 di ferro armata abominando, io corsi
turbata e mesta a le paterne case.
Desto ei giaceva: e chi può gli occhi al sonno
chiuder tra mille cure? Ancor che lungi
da la città l’albergo avesse, a lui
350 era giunto il susurro: - E donde mai
(tra sè dicea) il gran tumulto nasce?
Qual rumor ne la notte? E perchè i sonni
turbati son da fremiti e lamenti?
Tutto per ordin narro: qual dolore
355 le donne instighi; quel c’han fisso in mente:
chè nulla puote a la lor rabbia opporsi.
Vieni meco, infelice: in su le porte
già ci son quelle Furie: e se più tardi,
forse insieme cadremo. - Egli commosso
360 balza dal letto. Per rimote vie
la deserta città passiam scorgendo
(cinti d’intorno di mirabil nube)
accatastati in ogni parte i morti,
ne gli atti stessi e in quella stessa guisa
365 che la notte crudel pe’ sacri boschi
gli avea sparsi e distesi: altri del letto
alle morbide piume affissa tiene
la morta faccia, altri supino in seno
immerso ha il brando insino all’elsa; i tronchi
370 miransi qui de l’aste infrante, ed ivi
su’ freddi corpi le squarciate vesti;
qua rovesciati i vasi, e là disperse
le vivande nuotar ne l’empia strage,
e a le tazze tornar quasi torrente
375 da le fauci trafitte il vin col sangue.
Giaccion confusi i giovani feroci
e i venerandi vecchi, che da l’armi
esser dovean sicuri, e sovra i padri,
languidi e moribondi, i semivivi
380 figli, che a lo spuntar de la prim’alba
trovâr del viver lor l’ultima sera.
Non con tanto furor su ’l gelid’Ossa
turban le mense i Lapiti feroci,
se i Centauri biformi e della nube
385 figli muovongli a sdegno: appena i volti
veggons’impallidir, dar segno d’ira,
che sossopra le tavole volgendo,
corrono a l’armi minacciosi e insani.
Trepidi fuggivam, quando fra l’ombre
390 Bacco n’apparve, e d’improvvisa luce
ne rischiarò il cammin, gli estremi aiuti
mesto portando al figlio suo Toante.
Il riconobbi: ei non avea le tempie
cinte di frondi, e non il crine adorno
395 di pampinosi fregi: il volto a terra
mesto teneva; e benchè Nume, in pianto
gli occhi stillando, a lui pietoso parla:
"Fin tanto, o figlio, che a te diede il Fato
di Lenno possedere il nobil regno,
400 e farlo formidabile e temuto
a le straniere genti, ogni paterna
e giusta cura in tuo favore oprai.
Ma le crudeli Parche il primo stame
han già troncato; nè le preci e i pianti,
405 che vanamente io sparsi, hanno potuto
Giove mutar, nè disturbar la strage.
Egli quest’empio onor diede a la figlia.
Affrettate la fuga. E tu ben degna
d’uscir dal sangue mio, vergine illustre,
410 colà conduci il padre, ove in due braccia
diviso il muro si distende al lido:
là da quell’altra porta, ov’è maggiore
lo strepito e ’l tumulto, armata stassi
Venere infesta, e le furiose donne
415 instiga e accende. E donde mai cotanto
sdegno e furor nell’amorosa Dea?
Chi guerra le ispirò nel molle petto?
Tu vanne, e ’l padre affida al mar profondo".
Così parlando, in aria si disciolse,
420 e ’l calle tenebroso a noi segnato
lasciò con striscia di mirabil luce.
Seguo il celeste segno; e ’l genitore
a cavo legno affido, e a quanti Numi
regnano in mare il raccomando, e a’ venti
425 e a l’Egeo che le Cicladi circonda.
Mai non avremmo posto fine a’ pianti,
nè a gli amplessi reciprochi, se in cielo
non vedevam Lucifero cacciarsi
le stelle innanzi, e già spuntar l’aurora.
430 Ci dividiamo alfine: io mi divello
da lui, dal lido, rivolgendo in mente
molti funesti e timidi pensieri;
e de lo stesso Dio mi fido appena.
Io vado, e col pensiero indietro torno,
435 e non ho pace. Febo sorge intanto;
e da ogni colle io vo guardando il mare.
Ma già risplende il vergognoso giorno,
e Febo nel varcar gli usati segni
torce il lume da Lenno, e tra ’l suo carro
440 e i nostri monti una dens’ombra stende.
Scopriro allor gli empii furor notturni
le insane donne, e benchè ree del pari,
guardârsi in viso, e n’ebber onta e scorno.
Altre celan sotterra il reo misfatto
445 e l’empia strage; altre con presti fuochi
i cadaveri tronchi ardono in fretta.
Da l’afflitta città partono intanto
l’Eumenidi spietate, e di vendetta
Venere già satolla. Allor potero
450 riconoscer le misere il lor fallo,
e strapparsene i crini e pianger tardi.
Un’isola di campi e di molt’oro
ricca, e famosa per mirabil sito,
d’armi e d’eroi possente, e via più chiara
455 fatta pur or dal getico trïonfo;
non da l’aria nociva, non dal mare,
non da’ nemici vinta, orba rimase
del viril sesso, e svelta fu dal mondo:
non resta alcun che con gli aratri solchi
460 i campi, e colle navi il mar sonante:
tutte le case alto silenzio ingombra;
scorre a torrenti per le strade il sangue,
tutto è lordo di strage; e in così vasta
città sole noi siamo, e sole intorno
465 gemon l’ombre sdegnose a’ nostri tetti.
Anch’io frattanto del mio regio albergo
ne’ più segreti chiostri alzo una pira
di vasta fiamma, e l’armi e l’aureo scettro
del padre, e ’l manto e le reali insegne
470 sopra vi gitto; indi col ferro in pugno
tinto di sangue assisto al rogo e a’ fuochi,
e pianger fingo sovra il corpo vano
per timor de le femmine omicide;
ma prego i Dei che sia l’augurio vano,
475 e cessi ogni timor de la sua morte.
Tal merto m’acquistò l’ordito inganno,
che lo scettro paterno a me le donne
ne diero in premio, e fu supplicio e pena.
Come negar da le lor forze cinta?
480 A lor voler m’arresi; ma co’ Numi
protestai la mia fede, e le mie mani
de lo scettro del padre essere indegne.
Prendo l’imbelle impero, e senza forze
Lenno deserta. O infame gloria! O regno!
485 Già fra noi cresce il pentimento, e deste
ci tien le menti, e le flagella ed ange.
Non son più occulti i pianti; e ’l lor delitto
detestan tutte, ed han Polisso in ira.
Già si permette alzar altari a l’ombre,
490 e chieder pace al cenere sepolto.
Così qualor le attonite giovenche
vider squarciato da leon Massile
il lor duce e marito, e delle selve
gloria, e decoro dell’adulto gregge;
495 meste van senza guida; e ’l Rege estinto
piangon i campi e i fiumi e i muti armenti.
Ed ecco intanto con ferrata prora
fender l’intatto mar tessala nave,
vêr noi prendendo il rombo. I Minii audaci
500 ne son duci e nocchieri: e d’ambo i lati
l’Egeo diviso ne biancheggia e freme.
Diresti qui dalle radici svelta
nuotar Ortigia, o sopra l’acque un monte.
Ma poi ch’in alto fur sospesi i remi,
505 e tacque il mare, da l’eccelsa poppa
voce n’uscì più dolce e più soave
de’ moribondi cigni e della cetra
del gran nume di Delo; ed al concento
corse Nettuno, e avvicinossi al legno.
510 Era il cantor (come fu poscia noto)
d’Eagro il figlio, l’immortale Orfeo,
che in mezzo a tanti eroi sedendo in alto,
coll’aureo plettro a lor rendea soavi
le magnanime imprese e le fatiche.
515 Essi il lor corso verso il freddo Scita
avean drizzato, e a’ perigliosi vadi
delle Ciani sassose: e noi credemmo
che fosse un legno trace a noi nemico.
Corriamo per le strade e per le case
520 timide a guisa di smarrite agnelle,
o di fugaci augelli. Ahi dove allora
eran le Furie? Indi ascendiamo al porto,
e sovra il muro che circonda i lidi
e su l’eccelse torri; e sassi e travi
525 quivi portiamo, e de’ consorti estinti
trepide prendiam l’armi e i lordi ferri
dell’ancor fresca strage: i petti imbelli
copriam d’usberghi, e i delicati visi
chiudiam negli elmi; e non n’abbiam vergogna.
530 Mirocci Palla, ed arrossissi in volto;
e il Dio guerriero rimirocci e rise.
Da le attonite menti allor si scosse
il passato furor; e quella nave
più che nave ci parve, e che de’ Numi
535 la vendetta portasse a noi su l’onde.
Già fatta era vicina un tirar d’arco:
quando sovra di lei ceruleo nembo
di pioggia colmo condensò il Tonante;
più non riluce il Sole; e un denso velo
540 il Cielo ammanta, e se n’oscuran l’acque;
spezzan le cave nubi i venti in guerra,
e sconvolgono il mare, e gli spumosi
vortici turban l’arenoso lido;
su le penne de’ venti insino al cielo
545 il mar s’inalza, indi ricade al centro.
Non ha più certo corso il legno afflitto,
ma gemendo si scuote, ed ora in alto
lo solleva Tritone, or il deprime.
De’ Semidei guerrieri è vana ogni opra.
550 L’albero ondeggia, e pria l’eccelsa poppa
flagella; indi si spezza, e in giù ruina,
e piombando nel mare il fende e solca.
Cade su’ banchi resupina, e suda
la ciurma, e i remi tornan vuoti al petto.
555 Mentr’essi in pugna stan col mar, co’ venti,
noi pure da gli scogli e da le torri
lanciamo (o folle ardire!) imbelli dardi
contro il gran Talamon, contro Peleo,
e gli archi nostri osan sfidare Alcide.
560 Al novello periglio i generosi
raddoppiano i ripari, e con gli scudi
altri copron la nave, ed altri al mare
rendono il mare; altri al pugnar s’accingono,
ma non stan fermi, e vanno i colpi a vuoto.
565 Noi lanciam aste e dardi, e ’l ferreo nembo
col turbine gareggia e colle nubi:
volano e sassi e travi, e faci ardenti
cadon or su la nave, or dentro l’onde.
Scrosciano i tavolati; ed apre i fianchi
570 il tormentato pino. In cotal guisa
di grandine iperborea i verdi campi
Giove copre talor: armenti e fere
cadon oppressi, e non v’ha augel che scampi:
s’atterrano le spiche: i fiumi inondano;
575 e d’orribil fragor suonano i monti.
Ma poi che Giove fulminò da l’alto,
e squarciò il nembo, e rischiaronne il cielo,
e chiaro ci mostrò de’ grandi eroi
la terribil sembianza, a noi di mano
580 cadder l’armi non nostre e ’l folle ardire,
e ripigliammo la viltà del sesso.
V’erano i figli d’Eaco e d’Anceo,
che minacciavan crudelmente i muri;
ed Ifitone, che spezzava i scogli
585 con asta noderosa; e sbigottite
fra lor vedemmo torreggiare il grande
figlio d’Anfitrione, e col suo peso
far inclinar or l’una, or l’altra sponda,
e ad or ad or star per lanciarsi in mare.
590 Ma veloce Giason (Giasone, ahi lassa!
non a me noto ancor) sen va scorrendo
per li banchi e pe’ remi e sovra ’l dorso
de’ naviganti afflitti, e chiama e spinge
or Talaone, or Ida, ora d’Eneo
595 il magnanimo figlio, ed ora i figli
di Tindaro, di spuma aspersi e molli,
e con la voce e con i cenni esorta
i figli d’Aquilon, ch’erano ascesi
nelle paterne nubi, e che all’antenna
600 gían raccogliendo le squarciate vele.
Sferzan costoro or con i remi il mare,
ora coll’aste fanno a’ muri offesa;
ma il mar non cede, e l’aste e l’armi indietro
ricadono nell’onde o sopra il legno.
605 Lo stesso Tifi impallidito e lasso
siede al timone, e lo governa appena.
Muta spesso comandi, ed or rivolge
la prora a destra, or a sinistra, e i flutti
seconda, e schiva i perigliosi scogli.
610 Quando dal bordo dell’estrema nave
il figliuolo d’Eson sospese in alto,
a Mopso tolto, un ramuscel d’oliva,
e (fremendone gli altri) a noi richiede
accordo e pace. Le procelle e i venti
615 cen portaron la voce. Allor cessaro
le nostre offese, e quasi a un tempo stesso
si calmò la tempesta, e ’l Sole apparve
pallido ancora e con incerta luce.
Gittano il ponte, e baldanzosi a terra,
620 deposte l’ire, e placidi in sembiante,
que’ cinquanta guerrier scendono insieme,
gloria e splendor de’ padri; e ci fur noti
a le divise lor famose e conte.
In cotal guisa scendon giù dall’etra
625 (se il ver narra la fama) i Numi eterni,
qualor piacer li prende a parche mense
dentro i tugurii de gli Etiopi adusti,
abitatori del purpureo mare,
seder gustando il villereccio pasto:
630 dan luogo i monti e i fiumi, e sotto l’orme
del divin piede si rallegra il suolo,
e si riposa dal suo peso Atlante.
Era fra questi il gran Teseo superbo
del maratonio onore; e li due figli
635 de l’ismaro Aquilon, ch’ambe le tempie
aveano armate di purpuree penne;
e Admeto, a cui degnò servire Apollo;
e Orfeo, che nulla in sè ritien di Trace;
e ’l calidonio Meleagro; e ’l prode
640 genero di Nereo; li due simíli
di Tindaro gemelli ivan del pari,
de gli occhi inganno: ambi uno stesso manto
adorna e copre; ambi hanno un’asta in pugno;
ambi nude le spalle, e liscio il volto;
645 e portan ambi un’egual stella in fronte.
Colle tenere piante Hila fanciullo
osa l’orme seguir del grande Alcide;
e benchè tardo il generoso muova
i lenti passi, egli, correndo appena
650 è che l’aggiunga; e di scudiero in vece
dietro l’armi gli porta; e sudar gode
de la faretra sotto il grave peso.
Ecco di nuovo ne’ feroci petti
de le donne di Lenno occulta serpe
655 Venere, e seco il lusinghiero Amore;
e le tenta e le infiamma; e Giuno istessa
più vaghi a noi dimostra i nuovi visi,
gli abiti nuovi e le famose imprese
de gli estrani guerrieri. Apriamo a gara
660 i chiusi alberghi, e gli ospiti novelli
allegre riceviamo; ardon le fiamme
di nuovo in su gli altari, ed i nefandi
passati errori ricopriam d’oblio:
allor lieti conviti, allor felici
665 sonni godiamo, allor tranquille notti.
Nè certo fu senza voler de’ Numi,
che confessando noi le colpe nostre
piacemmo a’ Semidei: ma forse, o duci,
qual trovi scusa al fallo mio amoroso
670 saper vi giova. In testimonio io chiamo
de gli antenati miei le Furie e l’Ombre:
non da lascivo amor, non di mio grado
corsi a straniere nozze (e ben lo sanno
l’eterne Menti); il lusinghier Giasone,
675 pur troppo avvezzo ad ingannar donzelle,
me pur deluse: de’ suoi finti amori
fede può farne il crudel Fasi e Colco.
Ma già in sè stesso rientrando l’anno,
sciolte le nevi con più lunghi Soli,
680 rendea tepidi il cielo, e gli astri e ’l mondo;
e Lenno già di non sperata prole
era ripiena, e già s’udian per tutto
il gemito e ’l vagir de’ nuovi Alunni.
Io pur dal nostro non spontaneo letto
685 ebbi due figli ad un medesmo parto;
e benchè sposa a barbaro marito,
a l’un del mio Toante il nome imposi.
Dal dì che li lasciai, qual sia lor sorte
dir non saprei; ma se Licaste mia
690 (qual mi promise) ha di lor cura preso,
il quarto lustro avran compiuto appena.
Ma già calmati i burrascosi venti
invita l’Austro i naviganti al mare:
la stessa nave par che aborra il porto,
695 e spezzar brami il canape dal lido.
Dispongono la fuga i Minii ingrati,
e Giasone i compagni affretta e guida.
Deh così ’l vento in più remote spiagge
sospinto avesse il traditor, cui nulla
700 de’ figli calse e de la data fede!
Dicesi ch’egli del Monton di Frisso
in Grecia abbia portato il vello d’oro.
Ma poi che Tifi da le note stelle
conobbe, e dal rossor de l’Occidente,
705 sereno il nuovo giorno e la stagione
di già fatta sicura: al nuovo albore
intimò la partita. Allor fra noi
si rinnovaro i pianti, e l’aspra notte
fu di nuovo per noi la notte estrema.
710 Appena spuntò il dì, che da la poppa
diede Giasone il segno e fe’ dal lido
scioglier la nave, ed ei primier la fune
tagliò d’un colpo. Noi da gli alti scogli
e dal monte miriam veloce il pino
715 fender con lungo solco il mar spumante,
fin che fur stanchi gli occhi, e la distanza
ci fe’ parer che ’l mar s’unisse al cielo.
Giunge intanto novella che Toante
de la fraterna Chio regna sul trono,
720 che fur vani i miei roghi e che innocente
sola fra tante fui. Freme l’iniqua
turba; e ’l rimorso suo vie più l’inaspra,
e del mio non peccar ragion mi chiede,
e già fra ’l vulgo il mormorar ne cresce.
725 Costei sola pietosa, e noi crudeli
de la strage godemmo? Ah non lo soffra
il nume e ’l Fato che su noi presiede!
Da cotai voci spaventata io veggio
già certa la mia morte, e che non giova
730 a mia salute il regno. Occulta e sola
m’involo, e scendo al lido ove già ’l padre
fuggì poc’anzi, e in abbandono io lascio
la funesta città; ma non già allora
Bacco a me venne: una crudel masnada
735 di corsari rapimmi, e in questi regni
al re Licurgo mi vendè per serva. -
Mentre in tal guisa con gli argivi duci
Isifile rinnova i propri affanni
ed inganna il dolor con lungo pianto,
740 posto in obblio (così volendo i Fati)
l’Alunno, che lasciò tra’ fiori e l’erba:
ei dopo aver pargoleggiato assai,
sul fiorito terren posa le membra
e gli occhi gravi in dolce sonno chiude:
745 ha una man sotto ’l capo, e l’altra, stesa
sul prato, carpe leggermente l’erba.
Quand’ecco che sen viene orribil angue,
nato dal suolo, sacro orror del bosco,
che dispiegando le ritorte squamme,
750 del corpo enorme parte innanzi spinge,
parte addietro ne lascia, ed in se stesso
ora rientra e si raccoglie, or n’esce:
ha di livida fiamma i lumi accesi,
e di verde velen spuman le fauci:
755 ha tre schiere di denti, e vibrar sembra
tre lingue, e d’aurea cresta ha ’l capo adorno.
Disser gli agricoltor che al loro Giove
sacro era il drago, e ne guardava il luogo
e i boscherecci altari e ’l parco culto.
760 Ei con lubrici giri or ne circonda
il tempio, or nel passar la selva scuote,
or co’ suoi nodi i pini atterra e gli olmi.
Sovente avvien che nel varcare i fiumi,
posa col capo su una sponda, e l’altra
765 colla coda ancor preme, e da le squamme
l’onda divisa ne gorgoglia e bolle.
Ma poi che per voler del Dio Tebano
seccârsi l’acque, e l’assetate Ninfe
si nascoser negli antri, ei più feroce
770 di qua, di là con tortuosi giri
si tragge e volge, e si dibatte e smania
per lo calor de l’arido suo tosco:
serpe per stagni e laghi, e cerca i fonti,
e gli arsi letti de gli asciutti fiumi;
775 e di sè incerto colle fauci aperte
or l’umid’aria attragge, ora solcando
lo squallido terren, cerca fra l’erbe,
se di segreto umor fossero pregne;
ma da qualunque parte il capo ei volga,
780 il pestifero fiato ogni erba strugge;
e al sibilar muoion d’intorno i campi.
Tale divide il ciel con dritta riga
da l’Artico gelato al Mezzogiorno
il celeste Dragon da polo a polo:
785 tale, o Febo, fu quel che ’l tuo Parnaso
attorcigliando, fe’ crollar più volte,
finchè da cento e più piaghe trafitto
portò una selva de’ tuoi strali addosso.
Qual Dio, picciol fanciul, ti diede in sorte
790 morir oppresso da sì grave fato?
E perchè mai ne gli anni tuoi primieri
da sì grande avversario estinto giaci?
Forse per far alle pelasghe genti
sacro il tuo nome? E la tua picciol’ombra
795 render più degna di sì illustre avello?
Passa il serpente, e coll’estrema coda,
senza mirare, il tocca e sì l’uccide.
Si risente il meschino, e gli occhi aprendo
l’ultima volta, li riserra in morte:
800 qual uom che sogna e parla in tronchi accenti,
ma non può intera proferir parola,
mise un vagito, ed in eterno tacque.
Isifile sentillo, e semiviva
e tremante se stessa al corso affretta:
805 già del suo mal presaga il guardo gira
per tutto e ’l cerca, e coll’usate voci
invan lo chiama. Il reo velen consunto
l’avea così che non ne appar vestigio.
Vede il serpente, che gran tratto ingombra
810 il prato intorno, ancor che in sè ristretto
e in mille giri avvolto, e sotto il ventre
tenga celato il capo: inorridisce
la misera, e d’un lungo acuto strido
tutta fa risuonar l’ampia foresta.
815 Ei, come nulla fosse, immoto giace.
L’udiro i Greci, e l’arcade garzone
al comandar del Re vola, e ritorna,
e ’l caso espone; e muovon tutti insieme.
Al balenar de l’armi, e de’ guerrieri
820 al fremito e al rumor la sozza belva
si scuote, spiega il dorso e gonfia il collo.
Corre il feroce Ippomedonte, e un sasso
svelle (meta de’ campi), e l’alza e ’l vibra
contro il dragon crudel con quella forza
825 che macchina mural l’avria sospinto;
ma torce il collo la volubil fera,
e cade il colpo a vuoto: il suol ne trema,
e vanno in schegge della selva i rami.
Ma Capaneo colla ferrata trave
830 innanzi passa, e se gli ferma a fronte,
e, - Tu non fuggirai (grida) i miei colpi,
immane belva, o che del sacro bosco
tu sia custode, o che agli Dei sii caro.
Ed oh fossi tu pur diletto a’ Numi?
835 Non se sul dorso tuo stesse un gigante
a tua difesa. - Vola l’asta, ed entra
per l’anelante bocca, e la trisulca
lingua recide, e l’arruffate squamme
penetra sì, che tra l’altera cresta
840 del rilucente capo il ferro uscendo,
s’immerge entro il terreno infra le immonde
cervella e l’atro sangue; in sì gran mole
tardi si sparse della piaga il duolo.
Ei l’asta annoda co’ suoi giri e svelle;
845 e corre al tempio, e a piè de’ sacri altari
vendetta chiede, e spira l’alma e ’l tosco.
Voi lo piangeste, perchè forse trasse,
laghi Lernei, dalla vostr’Idra il sangue;
voi che di fior l’incoronaste, o Ninfe;
850 e tu, campo Nemeo, per cui strisciando
sen giva; e infrante le sonore canne
lo pianser vosco i Fauni e i Dei Silvani.
E Giove stesso il fulmine avea chiesto;
e già correano e turbini e procelle;
855 pur per allor frenò lo sdegno, e l’ira
ritenne, e riserbollo a maggior dardo.
Ma dal fulmine scosso un lampo scese,
che le creste lambìgli in su l’elmetto.
Poi che il mostro fuggissi, allor di Lenno
860 fatta sicura l’infelice Donna
pallida cerca il caro pegno, e giunta
a quel cespuglio ove lasciollo, il vede
porporeggiar di sanguinose stille:
corre trafitta dal dolore, e certa
865 scopre la sua sciagura. Ella sen cade
qual da fulmin percossa in su l’infame
terreno, e della strage al primo aspetto
resta senza aver voce e senza pianto;
sol bacia i mesti avanzi, e par che voglia
870 l’anima intorno errante in sè raccorre:
più non si scorge in lui d’uomo sembianza;
il viso ’l petto deformati, l’ossa
di carni ignude, le compagi e i nervi
sudan di nuovo inusitato sangue,
875 e fatto è il corpo suo tutta una piaga.
Così poichè sovra d’un’elce ombrosa
salì un serpente, e gli augelletti e ’l nido
desertò, divorò: torna la madre,
e in non sentir del suo loquace albergo
880 il solito garrir sospesa resta,
e si libra in su l’ali, e ’l cibo lascia
cader di bocca; e fuor che sangue e piume
da che null’altro scorge, e geme e plora.
Ma quando l’infelice in grembo accolse
885 le misere reliquie, e le coperse
col biondo crin disciolto, alfin concesse
libero il varco a’ gemiti e a’ lamenti:
- O dolce immago de’ lasciati figli,
Archemoro, e del mio perduto regno
890 e di mia povertà solo conforto,
gioia ed onor del mio servile stato,
unica mia delizia e mio contento;
qual crudel Nume mi ti ha tolto? Ahi lassa!
Io pur qui ti lasciai ridente e lieto
895 brancolante su l’erba: or qual ti trovo?
Ove il bel volto? Ove la dolce voce
e i tronchi accenti? Ov’è il vezzoso riso,
e ’l balbettare da me sola inteso?
O quante volte a te di Lenno e d’Argo
900 cantando i casi in placido riposo
ti chiusi gli occhi! In guisa tal sovente
consolava i miei danni; e già qual madre
ti porgeva le poppe. Or a chi serbo
questo mio latte, che ridonda e stilla
905 su le ferite tue misto al mio pianto?
Conosco i Numi infesti, e i duri sogni
del ver presaghi: non apparve indarno
a l’attonita mente in mezzo all’ombre
Venere minaccevole e sdegnosa.
910 Ma perchè i Numi incolpo? E già sicura
della vicina morte il vero adombro?
Qual follia mi sedusse? E qual mi prese
oblio di tanto prezïoso pegno?
Io mentre troppo ambizïosa narro
915 l’origin nostra e i femminil furori,
io quella fui che allor t’esposi a morte.
Quest’è la mia pietà? quest’è l’amore?
Or sei pur paga, o Lenno: o duci, o Regi,
se a voi fu caro il beneficio mio,
920 ch’or sovra me ricade; e s’a’ miei detti
fede prestaste e onore: ah mi guidate
al crudel drago, o colle vostre spade
qui m’uccidete, anzi che ’l mesto aspetto
de’ miei signori io veggia, e la dolente
925 per mia sola cagion orba Euridice,
quantunque il suo dolor sia pari al mio.
Quest’empio dono io recherò alla madre?
Ah pria s’apra la terra, e nel suo centro
viva m’ingoi. - Così dicendo il volto
930 lorda d’arena e sangue, e a’ mesti duci
co’ suoi sospir par che rinfacci l’onde.
Ma già più nunzi col funesto avviso
erano giunti in corte, e in grave lutto
l’aveano immersa, e ’l buon Licurgo in pianto:
935 ei pure allor scendea dal sacro giogo
d’Afasanto sublime: ivi su l’are
aveva offerti sacrifici a Giove,
mal graditi dal Nume; e in sè volgendo
le minacciose viscere, tornava
940 turbato e mesto e dimenando il capo.
Ei sol fra cotant’armi inerme e queto
stava, non già perchè gli manchi ardire,
ma ’l ritengon gli oracoli e gli altari:
le risposte de’ Numi e le minacce
945 de le profonde grotte ha fisse in mente:
"Farà Licurgo alla tebana guerra
le prime esequie". Ei per fuggire il fato
sen sta guardingo, ma ’l vicino Marte
e de le trombe il suono il turba e l’ange,
950 e songl’in odio le infelici schiere.
Ma chi fugge ’l destino? Ecco sen viene
la figlia di Toante in mezzo a’ Greci,
mesta portando del bambino estinto
i lacerati avanzi: e furibonda
955 le va incontro la madre, e accompagnata
da la femminea schiera ed urla e geme.
Ma la pietà non è ozïosa e vile
nel generoso padre, anzi più forte
vien ne’ disastri, e in lui lo sdegno ardente
960 ristagna il pianto. Egli ’l cammin divora
a lunghi passi alto gridando: - E dove,
dov’è la scelerata, a cui non cale
del nostro sangue e del mio mal s’allegra?
Viv’ella ancora? Ite veloci e pronti,
965 o miei seguaci, e la guidate presa.
Io farò sì che le usciran di mente
le favole di Lenno, e di sua stirpe
l’origin menzognera e i finti Numi. -
Dice; e già tratto il ferro, irato corre
970 per darle morte; ma Tideo feroce
col grave scudo lo respinge, e grida:
- O tu, chiunque sei, ferma o t’uccido. -
E Capaneo v’accorre, e Ippomedonte
non resta addietro, e l’Arcade garzone
975 tien alto il brando; onde riman conquiso
quel Re infelice di tant’armi al lampo.
Ma d’altre parti in sua difesa viene
stuol di villani: il buon Adrasto allora
e Anfiarao, che le sacrate bende
980 del Re rispetta e di sua vita teme,
vengon gridando: - Ah non si faccia: il ferro
riponete, o guerrieri: un sangue siamo,
siamo tutti una gente; ah cessin l’ire;
e tu cedi primiero: - Allor Tideo,
985 sdegnoso ancor, così a Licurgo parla:
- E pensi tu che soffrirem che cada,
per vendicare d’un fanciul la morte,
su gli occhi nostri e di cotante schiere,
la nostra duce e redentrice nostra
990 vittima indegna su l’altrui sepolcro?
La figlia di Toante, e di Niseo
la gran nipote? Anima vile, forse
poco ti par che mentre corre all’armi
la Grecia tutta, fra cotante trombe,
995 stai neghittoso in ozio infame e lento?
Goditi pur la pace, e le vittrici
squadre trovinti ancor al lor ritorno
piangente stare a le tue esequie accanto. -
Disse, e quel Re fatto più mite e l’ira
1000 pur raffrenando, a lui così rispose:
- Io già non mi credea che mentre a Tebe
ven gite a vendicar le giuste offese,
veniste a me nemici. Orsù finite
la vostra impresa, e me compagno vostro,
1005 me qui svenate; e se cotanta sete
è in voi di sangue, su versate il nostro,
e de la nostra gente; e questi tempii
di Giove a me nemico abbian le fiamme.
Tutto lice al furor: io mi pensai
1010 come Rege e signor nella mia serva
per sì giusta cagione aver impero;
ma Dio se ’l vede, e benchè tardi giunga,
pur vien la pena a’ gran misfatti eguale. -
Così dicendo, ode rumor, e ’l guardo
1015 alla sua reggia volge, e nuovo scopre
tumulto d’armi. La veloce Fama
era arrivata a’ cavalieri argivi
col periglio d’Isifile: altri narra
che la menano a morte; altri, ch’è morta
1020 colei che a loro fu cagion di vita.
Tosto si crede, e ’l fren si lascia a l’ira.
Corron con faci e dardi, e la cittade
sveller dal fondo, incatenar Licurgo,
e trasportare altrove il Nume e ’l culto
1025 minacciano in vendetta: i regii tetti
di femminili gemiti rimbombano,
e ’l primiero dolor fatto è spavento.
Ma il buon Adrasto i suoi destrieri al corso
in giro affretta; ed ei sul carro in alto
1030 tien Isifile in braccio, e dove bolle
più la tenzon, la mostra a’ cuor feroci.
ed, - Oh cessate (grida), ecco colei
che v’additò le salutifer’onde;
nulla di mal è occorso, e ’l buon Licurgo
1035 non merita da voi cotanto scempio. -
Così qualora in varie parti è tratto
fra contrarie procelle il mar commosso
quinci da l’Euro e da Aquilon, e quindi
dal torbid’Austro, il chiaro dì s’imbruna,
1040 e ’l fiero verno in grandine si scioglie:
se sublime sen vien su regia conca
co’ squammosi destrieri il gran Nettuno,
e ’l gemino Triton precede il carro,
e pace intíma d’ogn’intorno a l’onde;
1045 tosto spianansi i flutti, e di già i scogli
scopron la cima, e già veggonsi i lidi.
Ma qual propizio Nume i lunghi pianti
d’Isifile pagò d’immenso bene,
e la colmò di non sperata gioia?
1050 Tu de la stirpe sua principio e fonte,
tu fosti, o Bacco, che da Lenno a Neme
guidasti i due gemelli, e di tua mano
disponesti il mirabile destino.
Givano in traccia de la madre, e giunti
1055 eran pur or negli ospitali tetti
del buon Licurgo, quando a lui pervenne
de l’estinta sua prole il duro avviso;
e lo seguiano a la vendetta: (o sorte!
o de’ mortali mal presaghe menti!)
1060 favorivano il Re; ma quando intorno
sentiron risuonar Lenno e Toante,
tra l’inimiche e tra l’amiche schiere,
e tra le faci e i dardi apronsi il varco;
e giunti ov’è la madre, a lei d’amplessi
1065 cingon il collo e i fianchi, ed a vicenda
piangendo di piacer, le porgon baci.
Essa di sasso in guisa immobil resta,
nè sa fidarsi de gli avversi Numi.
Ma poi che riconobbe entro i lor volti
1070 l’immagine del padre, e ne’ lor brandi
l’impresa d’Argo incisa, e su’ lor manti
le cifre di Giason da lei conteste,
cessaro i lutti; e ’l subito contento
l’oppresse sì che semiviva cadde,
1075 e di pianto miglior rigò le gote.
Applaudì ’l Cielo; e fra le nubi udîrsi
i timpani del Nume, i bossi, i cimbali
percossi risuonar di lieto strepito.
Allor d’Ocleo il venerabil figlio,
1080 poichè d’intorno a sè tacite e attente
vide le schiere, e già placati i sdegni:
- Udite (dice), o re di Nemea, e voi
gran duci Argivi, ciò che Apollo impone
e a me ’l rivela. Questo a l’armi nostre
1085 dolor già da gran tempo era dovuto,
e cel guidâr per ordine le Parche:
i fiumi asciutti, l’aspra sete, e ’l fiero
serpente, ed il fanciul poc’anzi ucciso
detto Archémoro (ohimè), da’ nostri fati,
1090 tutto su noi da le superne menti
de’ Numi scese. Deponete l’ire
e l’aste e i dardi; e di perpetui onori
coroniamo il fanciul, che n’è ben degno;
e la nostra virtude a la sant’Ombra
1095 porga doni leggiadri ed immortali.
Ed oh così Febo sovente intessa
nuove tardanze; e nuovi casi ognora
differiscan le pugne; e da noi sempre
più s’allontani la funesta Tebe.
1100 E voi felici, genitori, a cui
fu dato superar d’ogni altro padre
la gloria e ’l fato; e ’l di cui nome eterno
fia sin che duri la Lernea palude,
e che l’Inaco corra, e la Nemea
1105 selva con tremol’ombra i campi fera;
non turbate co’ lutti i sacrifici;
nè piangete gli Dei, chè questi è un Dio,
nè cambiería con la nestorea etade,
o di Titon con gli anni il suo destino. -
1110 Disse; e stese la notte il fosco velo.
De le greche cittadi era trascorsa
per le parti vicine e per l’estreme
la Fama intanto, divulgando il grido
de’ sacri onori che al novello rogo
5 si preparavan del fanciullo estinto,
e de’ bellici giuochi, ove virtude
di sè potea far prova e i cuori eccelsi
tutti infiammar a generose imprese.
Tale de’ Greci era il costume: Alcide
10 pugnò primiero ne’ pisani campi
di Pelope in onore, in finto agone,
e ’l polveroso crin cinse d’oliva.
Focide poi del giovanetto Apollo
il valor celebrò co’ Pizi giuochi,
15 in rimembranza del serpente ucciso.
Questa superstizione atra e funesta
serbasi ancor dalla sidonia gente
di Palemone intorno a’ sacri altari,
quando nel giorno a lei solenne i pianti
20 rinnovella Leucotoe, e sulle amiche
spiagge ritorna: d’urli e d’alte strida
da ambedue i corni ne rimbomba l’Istmo,
ed urli e strida a lui rimanda Tebe.
Ed ora i Regi ed i signori Argivi,
25 che discendon da’ Numi ed al cui nome
trema d’Aonia il regno, e dal profondo
petto sospiran le sidonie madri,
corrono alla palestra, e in finte pugne
voglion provar le disarmate forze.
30 Così qualor s’affida al procelloso
Tirreno o al vasto Egeo novella nave
destinata a solcar il mar profondo:
pria lungo il lido, ov’è tranquilla l’onda,
a volgere il timon la ciurma impara,
35 e a maneggiar i remi ed a raccorre
le sparse vele; indi poi fatta esperta
scioglie dal lido, e tanto in alto vola,
ch’altro non scorge più che cielo e mare.
Ma già l’Aurora a’ miseri mortali
40 riconduceva sul dorato carro
le spente cure; e timida la Notte
e ’l pigro Sonno con l’esausto corno
fuggian dinanzi a’ lucidi destrieri:
quando per tutto cominciaro i pianti;
45 d’aspri lamenti l’infelice reggia
mugge e rimbomba: la vicina selva
riceve il suono, e ’l frange, ed in più suoni
moltiplicato lo rimanda indietro.
Senza l’onor delle sacrate bende
50 siede l’afflitto genitor, di polve
tutto cosperso il crin, la barba e ’l volto.
Ma un più fiero dolor la madre inaspra:
stassi all’incontro e piange, e a pianger seco
invita e spinge le seguaci donne.
55 Si lancia sopra i lacerati avanzi
del morto figlio, e quindi svelta torna,
ed arder brama su lo stesso rogo.
Licurgo stesso la ritien; ma quando
entraro i Re delle Pelasghe genti
60 mesti nel viso e al gran dolor conformi,
come se nuova strage e nuova morte
con essi entrasse ed un novello serpe,
con maggior forza da’ già stanchi petti
usciron gli urli e ’l batter palma a palma,
65 ed al nuovo fragor suona la reggia.
Sentiro i Greci che de’ nuovi gridi
eran cagione, e si scusâr co’ pianti.
Ma se talor la stupefatta gente
cessava gli urli, allor il saggio Adrasto
70 gía consolando il genitor dolente
con saggi detti, e gli mettea davanti
l’aspre vicende de la vita umana,
l’inevitabil fato e l’empia Parca.
Poi di novella e più felice prole
75 dava speranza; ma finir nol lascia
la turba, e ricomincia il gran lamento.
Lo stesso Re così l’ascolta o cura,
com’ode il mar de’ naviganti i voti,
o la folgore ardente il picciol nembo.
80 Intanto il letto e ’l pueril ferétro
destinato alle fiamme è intorno cinto
di meste frondi e di feral cipresso.
Con umil culto la primiera base
fondan su agresti strami; indi s’inalza
85 l’ordin secondo di gramigna intesto
e di bei serti di dipinti fiori.
Stan sopra il terzo gli odorati incensi,
i cinamomi e gli arabi profumi
e i tesor d’Orïente. Adorna splende
90 d’oro l’eccelsa cima, ed è coperta
di porpora finissima di Tiro,
fregiata intorno di topazi e perle.
Tessuto è in mezzo fra li fiori e l’erbe
Lino e i suoi cani e la sua acerba morte,
95 mirabil opra e di gentil lavoro.
Ma come fosse del suo mal presaga,
sempre in orror l’ebbe la madre, e volse
dal tristo augurio in altra parte il guardo.
V’aggiunse poscia de’ passati Regi
100 l’armi e le spoglie, quasi grave peso
al picciolo sepolcro e che sul rogo
si ponesse un gran corpo, e in mezzo al lutto
gir trionfante l’ambizione e ’l fasto.
Ma un vano grido e un’infeconda fama
105 giova a gli afflitti; e si consola il padre,
che accresca il funeral la picciol’ombra;
e per dar maggior lustro al suo gran pianto
e un misero conforto al suo dolore,
vuol che quei doni gettinsi alle fiamme
110 che per l’età maggior gli eran serbati:
perocchè ’l padre, prevenendo gli anni,
già gli avea preparati e dardi ed archi
e innocenti saette; ed in suo nome
nudria i destrier dal maggior gregge scelti;
115 e ’l cinto militar era già pronto,
e l’armi, che attendean membra maggiori.
La madre ancor con immatura speme
avea affrettato all’innocente figlio
le regie insegne ed il purpureo manto
120 e ’l picciol scettro. Tutto dassi al fuoco;
e ’l genitor v’aggiunge i prezïosi
suoi propri arredi, e in cotal guisa rende
minor il duol, quant’è più grave il danno.
Da un’altra parte, rimembrando i detti
125 del saggio Anfiarao, sudan le schiere
ad atterrare il vicin bosco, e quindi
ergon qual monte co’ recisi tronchi
un’alta pira, che de l’angue ucciso
purghi ’l delitto, e de l’infausta guerra
130 dilegui la paura e i tristi auspicii.
Pongon ogni opra in far cadere al piano
e Neme e Tempe ombrosa, e nel più chiuso
de’ boschi al Sol van disserrando il varco.
Cade la selva, a cui mai foglia o ramo
135 non fu reciso, di larghissim’ombra,
che fra’ boschi Lircei, fra’ boschi d’Argo
alzò ’l capo superbo oltre le stelle:
sacra per anni immensi era già fatta,
e d’uomini non sol diverse etadi
140 avea vedute; ma più volte ancora
mutate avea le Ninfe e i Dei Silvani.
Ma il giorno irreparabile è omai giunto:
fuggon le fiere, e per timor dal nido
volan gli augelli; cade il faggio eccelso,
145 e la caonia quercia, ed il ferale
contro il verno sicuro alto cipresso,
e l’orno e l’elce e ’l velenoso tasso,
e ’l frassino che in guerra il sangue beve,
ed il rovere annoso, e quel che sprezza
150 il mar sonante temerario abete,
e l’odoroso pino, e l’alno amica
de l’onde, e l’olmo de le sacre viti.
Non con tanto fragor le ismarie selve
cadono a terra, s’Aquilon le abbatte,
155 rotti i ritegni dell’eolio claustro;
nè sì veloce la notturna fiamma
arde l’aride stoppie, allor che Noto
la spande intorno ed il vigor le accresce.
Lasciano mesti gli ozi a lor sì cari
160 l’antica Pale, e de le selve amico
il Dio Silvano, e i Semidei minori:
ne piange il bosco, e le dolenti Ninfe
svellere non si san dalle lor piante.
Così qualor il capitano in preda
165 lascia vinta cittade a le sue schiere;
appena è dato il segno, in lei non resta
orma più di città: baccanti scorrono,
uccidono, respingono, rapiscono,
ardon le case, e i sacri tempii abbattono:
170 non con tanto rumor pugnano in campo.
Già due pire e due altari eran costrutti
del pari a’ Numi ed al fanciullo estinto:
quando con grave suon ritorto corno,
qual è de’ Frigi lagrimevol uso
175 nell’esequie de’ teneri bambini,
diè segno al pianto. Pelope primiero
insegnò ’l sacro rito e ’l mesto carme,
che giova e piace alle più picciol’ombre,
quando mirò da gemina saetta
180 Niobe distrutti i figli, e sette e sette
in Sipilo condusse urne lugubri.
Portano i doni prezïosi e rari
destinati a l’esequie e al pio Vulcano
i duci argivi, e sotto i lor stendardi
185 gareggian tutti ne’ pietosi uffizi:
vien alfin il ferétro in su le spalle
di quattro scelti giovani robusti,
con gran rumor di gemiti e di strida.
Stanno d’intorno i Proceri Lernei
190 al gran Licurgo; e dal più molle sesso
è la misera madre accompagnata.
Nè già vien sola Isifile dolente:
fanno le grate schiere a lei corona;
la sostengono i figli, ed han piacere
195 ch’essa piangendo il suo dolor consoli.
Ma poi che uscì da l’infelice tetto
l’orba Euridice, il bianco sen discinto,
pria di gemiti e d’urli il cielo assorda;
e infin prorompe in cotai note amare:
200 - Io già non mi credea seguirti, o figlio,
con sì lugubre e sì funesta pompa
fra’ mesti cori de le greche madri;
nè un tal destino a la tua nuova etade
presagivan miei voti. E chi poteva
205 per te giammai temer che sul primiero
confin del viver tuo la guerra e Tebe
fossero a te fatali? Ahi qual crudele
Nume, qual Fato con il sangue nostro
ebbe il piacer di cominciar le pugne?
210 e chi fu mai che diè funesti auspicii
con sì atroce delitto alle nostr’armi?
Son pur fin ora di mestizia privi
di Cadmo i tetti, e la tebana plebe
non piange ancora alcun fanciullo estinto.
215 Io sola, ahi lassa! le primizie pago
di lagrime e di stragi a l’altrui risse,
pria de le trombe e del rumor de l’armi;
mentre credula troppo a l’altrui fede
e a l’altrui seno il dolce pegno affido.
220 Ma chi creduto non le avria? Da morte
liberò il padre con pietoso inganno,
e dal sangue serbò monde le mani.
Ecco colei che ’l sacrificio infame
ebbe sola in orror; colei che sola
225 non fu fra l’altre da le Furie invasa.
Dopo un tanto delitto ancor si crede
insigne per pietade? In abbandono
lasciò non il suo re, nè ’l suo signore,
che pur sarebbe inescusabil colpa,
230 ma l’altrui figlio a la sua fe’ commesso:
basti sol tanto: de l’infame selva
ella gittò nel periglioso varco
un tenero fanciul, cui l’aura sola,
e le commosse frondi e un van timore,
235 non che ’l crudel serpente, eran bastanti
a recar morte. Ah che cotanta mole
di fato uopo non era al picciol corpo!
Nè già di voi mi dolgo, o duci Achei.
Già da gran tempo con sì rea nutrice
240 questo acerbo destin m’era prefisso.
E forse che non facea vezzi a lei
più che a me stessa, e conoscea lei sola
me non curando? Ah che nessun piacere
ebbe di te la madre! Essa raccolse
245 le tue querele, e misti al pianto i risi
vide, e ascoltò le tue primiere voci.
Essa, fin che vivesti, a te fu madre;
or la madre son io; nè m’è concesso,
misera! di punir sì gran delitto?
250 A che gittar sul rogo, o duci Achei,
cotanti doni e sacrifici in vano?
Lei lei l’ombra vi chiede, ed è contenta.
Deh la rendete, o duci, a l’orba madre,
e al cenere innocente; io ve ne prego
255 per questo auspicio della vostra guerra,
ch’io stessa partorii: così felici
sian vostre spade; e a’ lor ferétri intorno
gemano al par di me le Tirie donne. -
Qui straccia i crini, e pur di nuovo grida:
260 - Deh la rendete; nè di sangue ingorda
o crudel mi chiamate. Io, pur che appaghi
gli occhi col di lei scempio, io non ricuso
di morir seco, e ch’una stessa fiamma
arda la madre e l’infedel nutrice. -
265 Mentre così la misera si duole,
rivolge gli occhi e Isifile rimira,
che al par di lei si straccia i crini e ’l petto;
e sdegna averla nel dolor compagna.
E, - Questo (grida), questo almeno, o duci,
270 e tu, buon rege, a cui dal sangue nostro
vien tanto onor, si tolga empio delitto:
tolgasi l’odïosa a’ mesti roghi.
E che ha che far il suo col mio dolore?
Perchè sta meco nelle mie sciagure?
275 Ed a che piange, se i suoi figli abbraccia? -
Sì disse, e cadde; e su l’esangue labbro
tronche a mezzo restâr l’aspre querele.
Qual vacca, cui sia da le poppe tolto
il tenero vitel, che sol dal latte
280 traeva il sangue e si reggeva appena,
lacerato dal lupo, o dal pastore
svenato in su gli altari; essa commuove
or le valli, or i fiumi, ora gli armenti
co’ suoi muggiti, e del suo figlio chiede
285 a’ muti campi: ultima al prato viene;
ultima torna a l’odïate stalle,
bassa la fronte, a passo tardo e lento;
e ’l puro fonte le dispiace e l’erba.
Ma ’l genitore l’onorato scettro
290 e l’infula e le bende al rogo dona;
e parte taglia del suo lungo crine,
e sul fanciul lo sparge, e piange e dice:
- Io con patto miglior, perfido Giove,
t’avea votato il crin, se a’ tempii tuoi
295 la lanugin libar m’era concesso
de l’infelice figlio; ma non furo
le preci intese e ’l sacerdote accetto:
abbiasel or l’Ombra, che n’è più degna. -
Già stride il fuoco nelle prime frondi
300 de l’alte pire acceso. Alzasi un grido;
ma ’l ritenere i genitor furenti,
questa è l’opra maggior: stendonsi i Greci
tra essi e ’l rogo, qual pria furo istrutti,
alto tenendo i scudi, e a la lor vista
305 van celando in tal guisa il mesto oggetto.
Cresce la fiamma, e in alcun tempo mai
non fu più ricco e prezïoso fuoco.
Stilla l’argento, stridono le gemme,
e l’oro piove da’ ricami ardenti:
310 fuman le travi d’odorato cedro
umide e asperse de gli assirii succhi,
ed ardon seco il dolce mele e ’l croco,
e ’l vino e l’atro sangue e ’l puro latte.
Poi sette squadre di guerrieri eletti,
315 cento per squadra, i sette Regi in giro
da la sinistra man guidan del rogo
coll’alte insegne rovesciate al piano;
e ’l calpestio de’ fervidi destrieri
fa colla polve declinar la fiamma.
320 Tre volte il circondaro, e i dardi e l’aste
suonâr tre volte ripercossi insieme;
e quattro volte uscì da l’armi un suono
orrendo, e quattro volte i molli petti
si percosser con man le meste ancelle.
325 Ma l’altra pira ha le svenate agnelle
e i semivivi armenti. Il vate allora
(benchè sia certo del destin nemico)
vuole che il lutto si cancelli, e torni
il tristo augurio in lieto, e fa le schiere
330 volger in giro a destra, alte vibrando
l’aste, e gittando nell’ardenti fiamme
tolti dall’armi proprie i vari doni:
chi gitta al fuoco li dorati freni,
chi ’l cinto militar, chi gitta il dardo,
335 chi del cimier le tremolanti penne;
e in tanto un rauco suono i campi assorda
di mesti canti e strepitose trombe.
Con eguale rumor svelgon le insegne
al noto suon de’ bellici oricalchi
340 le schiere accinte a la campal tenzone:
non ancor ardon l’ire, ancor le spade
non son tinte nel sangue, e de la guerra
bello in sì bella vista anch’è l’orrore;
e Marte da le nubi in giù mirando,
345 in dubbio tiene il suo favor sospeso.
Ma va mancando il rogo, e già la fiamma
in cenere si scioglie, e con molt’onda
spengon del busto l’ultime faville;
nè da l’opra cessâr, che ’l dì fu spento,
350 ed appena coll’ombre ebber riposo.
Già nove volte avea dal ciel fugate
Lucifero le stelle, ed altrettante
lo splendore di Cintia avea precorso,
destrier mutando; e non inganna gli astri,
355 che lo mirano alterno in su le porte
de la chiar’alba e de l’oscura sera;
quando si vide alto sublime tempio,
mirabil opra e non credibil quasi,
eretto a l’Ombra, e v’era sculto in marmo
360 l’acerbo caso e del fanciul la morte.
Qui mostra il fiume a gli assetati Argivi
Isifile, e colà il fanciul per l’erba
sen va carpone, e qui s’adagia e dorme.
Circonda l’orlo de l’eccelsa tomba
365 lo squammoso serpente, e l’asta annoda
co’ suoi lubrici giri, e par sì vero
che tu n’aspetti i velenosi fischi.
Concorsa intanto era infinita gente
da le greche cittadi e da le ville
370 a mirar gli spettacoli novelli:
vengono i vecchi infermi ed i fanciulli,
cui suol tener dentro i paterni lari
la troppo antica e troppo fresca etade;
e quelli ancor a cui non giunse unquanco
375 lo strepito e l’orror del fiero Marte:
non tante turbe mai de l’Istmo i giuochi
furo a mirar, o pur d’Enomao il corso.
Siede nel mezzo d’un’antica selva,
cinta di colli di boschetti adorni,
380 quasi teatro, deliziosa valle;
s’alzan più addietro alti scoscesi monti,
e ’l doppio varco de l’uscita è chiuso
da rilevati tumuli d’arena:
piana è nel mezzo per gran tratto, e adorna
385 di bei cespugli e di ridenti erbette,
e dolcemente nell’estremo giro
sen va salendo e si congiunge a’ colli.
Qui poi che ’l Sol ebbe indorati i campi,
si radunâr gli alti guerrieri eletti
390 a l’amichevol pugna e al finto agone.
Siedon le turbe in un confuse e miste
di varie genti, ed han piacer mirando
il numero, gli aspetti e le divise
de’ combattenti, e le innocenti pugne,
395 lieto presagio a la vicina impresa.
Fur pria condotti del più forte armento
cento gran tori più che pece neri,
e cento nere madri e cento figli.
Seguivan poi le immagini de gli avi,
400 che parevano spirar ne’ sculti bronzi.
Ercole è il primo, che al suo petto stringe
il fier leone, e lo soffoca e ancide.
Lo miran con timor le greche squadre,
benchè sia loro onor, benchè sia finto.
405 Inaco segue: ei sul sinistro lato
stassi appoggiato a la palustre sponda,
e versa l’urna e ne diffonde un fiume,
e guarda mesto l’infelice figlia
mutata in vacca, e ’l vigile custode
410 che dorme e veglia con cent’occhi in fronte;
ma Giove alfin mosso a pietà le rende
il primo aspetto, e di già fatta è Dea,
e l’adorano i regni de l’Aurora.
Tantalo segue poi, non già quell’empio,
415 da cui fuggon del pari i pomi e l’acque,
ma ’l pio che siede col Tonante a mensa.
Da l’altra parte Pelope si vede
co’ destrier di Nettun vincer nel corso
le false ruote e l’infedel Mirtillo.
420 Indi Acrisio severo, e ’l gran Corebo,
e Danae che nel sen l’oro riceve,
e la mesta Amimone intorno al fonte,
e Alcmena del suo Ercole superba,
che di triplice luna il crin circonda.
425 Dansi le destre d’amistade in segno
di Belo i figli; Egisto mostra il volto
sereno e lieto, ma nel torvo aspetto
di Danao vedi la mentita pace,
e l’empietà de la vicina notte:
430 poscia mill’altri simulacri eccelsi.
Saziati alfin di sì leggiadra vista,
a li premi d’onor chiama virtude
i greci eroi. Primi a sudar nel campo
furo i destrieri fervidi e spumanti.
435 Or tu de’ duci e de’ cavalli i nomi
mi narra, o Febo; in nessun tempo mai
più pronti corridor mossero al corso.
Men veloci gli augei batton le penne,
se contendon nel volo, e andrian più tardi
440 i venti, se il lor Re tutti da un lido
gli sciogliesse ad un tempo. Ecco primiero
viene Arïon, noto al purpureo pelo.
Ei nacque di Nettun (se il ver ci narra
l’antica fama); e fu Nettun che al freno
445 prima avvezzollo, e lo sospinse al corso
per l’arenoso lido, e tenne ascosa
la sferza: chè il destriero avea tal lena,
che gareggiar potea col mar fremente.
Dicesi che fra quei che in mar son nati
450 guidasse il carro del ceruleo padre
per l’immenso Oceàno in varie spiagge:
stupîr le nubi, i nembi e le procelle,
ed Euro e Noto, che restaro indietro:
poscia imprimendo co’ gran piè l’arena,
455 portò sul dorso il valoroso Alcide,
che gía spegnendo della terra i mostri
per comando del rigido Euristeo,
mal ubbidiente ancor a sì gran mano.
Ma poi che domo fu l’ardor degli anni,
460 ebbelo Adrasto in dono, e lo reggea
con dolce freno, con destrezza ed arte,
ed or lo presta al genero tebano.
Gli addita i modi onde il destrier s’inaspra,
e quelli ancora onde si molce e placa:
465 - Nol batter (dice), e sii del freno avaro;
pungi pur gli altri e sferza: egli è nel corso
veloce sì, che tu ’l vorresti meno. -
In cotal guisa lagrimando Apollo,
prima che desse al troppo audace figlio
470 la sferza e i freni e ’l risplendente carro,
gl’insegnò quali stelle egli dovea
schivar, e quali zone, e ’l luminoso
sentiero gli additò, che fende il cielo
con spazio egual fra l’uno e l’altro polo:
475 ma ’l Fato già maturo e l’empie Parche
quel superbo garzon fatto avean sordo.
Appo Arïon Anfiarao conduce
i laconi destrier, prossima speme
di vincere nel corso; e son tuoi figli,
480 Cillaro, nati di furtivo amore,
mentre Castor solcando il tracio mare,
cambiò i freni amiclei co’ remi d’Argo.
Bianchi erano i destrier, bianch’era il manto
del sommo vate, e bianch’eran le penne
485 del gran cimiero e l’infula e le bende.
Poi da’ tessali campi il buon Admeto
sue sterili giumente al corso mena,
seme de’ fier Centauri, e son rubelle
al sesso, e in loro l’amoroso caldo
490 vinto e represso si converte in forza:
son d’un color simíle al dì e a la notte,
di macchie tinte biancheggianti e nere.
Tal era forse il pegaseo cavallo,
che d’Apollo in sentire il dolce suono
495 tutto allegrossi, e sprezzò il fieno e l’erba.
Ed ecco i figli di Giason, novella
gioia e onor della madre, entro l’arringo
su’ lor carri mostrarsi. Il primo avea
de l’avo il nome, e detto era Toante,
500 e l’altro Euneo con più felice auspicio.
Simili in tutto son; simili i volti,
i carri, li cavalli e gli ornamenti:
ognun di vincer brama, e se pur vinto
ha da restar, che ’l suo fratel lo vinca.
505 Viene Ippodamo poi d’Enomao figlio,
e Cromi nato del famoso Alcide;
nè sai ben dir qual con più destra mano
i freni regga de’ destrier feroci.
Guida il secondo quei che ’l padre tolse
510 a Dïomede, ed il primiero affrena
quelli che fur del genitor crudele:
ed hanno ancora l’uno e l’altro i carri
di putrefatto sangue aspersi e tinti.
Stava di meta in guisa a l’un de’ lati
515 d’annosa arida quercia un nudo tronco:
da l’altra un sasso, termine de’ campi;
ed eran fra di lor tanto distanti,
quanto tre volte può tirar un arco,
o quattro volte da robusta mano
520 lanciarsi un dardo: or questo spazio assegna
Adrasto al corso de’ destrier veloci.
Ma Febo intanto su l’eccelsa cima
del suo Parnaso fra le caste Muse
dolce cantava al suon de l’aureo plettro
525 l’opre dei Numi, e risguardava il mondo.
Già Flegra e Giove, e ’l fier Pitone ucciso,
e de’ fratelli suoi le glorie e i vanti
narrato avea, e allor seguia spiegando
come il fulmin si formi, e quale avvivi
530 spirito gli astri e li conduca in giro:
ond’abbian vita i fiumi, e d’onde i venti
ricevan moto, e come il mar profondo
immenso si mantenga e mai non scemi;
qual sia il cammin del sol, qual de la notte:
535 se stia la terra nel suo proprio centro
librata in mezzo, o pur nell’ima parte:
se diansi ignoti mondi e terre ignote.
Finito aveva, e de le Muse pronte
e desïose di cantare a prova
540 per allor differendo i bei concenti,
appesi aveva ad un vicino alloro
la cetra, il serto e ’l ricamato cinto.
Quando al rumor che del famoso Alcide
nella valle sentì, gli occhi rivolse,
545 e vide i corridor starsi a le mosse:
li riconosce, e vede a caso giunti
Admeto e Anfiarao starsi del pari,
e così seco stesso egli ragiona:
- Qual nume avverso a la tenzone adduce
550 due Regi a me sì cari ambi e sì pii?
Nè so ben dir cui del mio amor più onori.
Il primo, allor che per voler di Giove
e de le Parche ne’ Peliaci campi
a lui fui servo, m’onorò qual Nume,
555 nè mai soffrì ch’io fossi a lui minore:
è de’ tripodi miei l’altro compagno,
ed ha di mia virtù ricolmo il petto.
Ha maggior merto il primo, ma ’l secondo
tende al suo fine ed ha ripieno il fuso.
560 Giungerà quegli a la canuta etade;
ma per te nulla gioia, e ben lo sai,
misero! E tel mostraro i nostri augelli:
Tebe è vicina, e la fatal vorago. -
Sì disse; e ’l volto ognor sereno e lieto
565 quasi rigò di pianto, e in un baleno
in Neme scese più veloce e presto
del fulmine di Giove e de’ suoi dardi,
lasciando l’aria e ’l ciel col lungo solco,
dove passò, di suo splendore impressi.
570 E di già Proto tratte avea da un elmo
le sorti de’ guerrieri, e già ciascuno
stava al suo luogo per diritta riga.
Bello il veder gli eroi, bello i destrieri
tutti scesi da’ Numi, onor del mondo,
575 impazïenti ad aspettar le mosse.
Speme, audacia, timor ne’ forti petti
fanno battaglia e pallida fidanza:
incerte hanno le menti, e ’l segno or bramano
de la partenza, or di partir paventano,
580 e scorre loro un freddo ardir per l’ossa.
Nè più tranquilli o desïosi meno
stanno i destrier, spiran dagli occhi fuoco,
mordono i fren, gli smaltano di spume,
non trovan loco, urtan co’ larghi petti
585 le sbarre e i claustri, e da le nari fumano
sdegno e furor; fanno e disfan mill’orme
in sul terreno, e la ferrata zampa
minacciar sembra di lontano il campo.
Son lor d’intorno i fidi amici, e i crini
590 sviluppan de’ cavalli, e gli altri arnesi
che far potriano intoppo; e a’ combattenti
inspirano coraggio e dan consigli.
Quando odesi la tromba: e tutti a un tempo
da le mosse partîr. Qual vela in mare?
595 qual nube in ciel? quale mai dardo in guerra
va sì veloce? Con minor ruina
scendon da’ monti i rapidi torrenti;
non tanta forza ha il fuoco, e non sì preste
cadon le stelle, e l’orrida tempesta
600 più lenta piomba, e ’l fulmine è più tardo.
Quando partîr, fur noti i carri, i duci;
ma tale alzossi un turbine di polve,
che quasi nube in sè gli ascose, e appena
a le voci, al rumor in quel tumulto
605 si conoscon fra lor: van prima uniti,
e poi ciascun o meno o più veloce
avanza o resta, e già si son divisi.
L’orme dal primo impresse annulla e strugge
chi vien secondo: ora con tutto il petto
610 s’inchinano sul giogo, e i freni allentano;
or fermi su’ ginocchi a sè ritirano
le redini, e i cavalli e i carri volgono:
gonfiano questi il collo, e a l’aria scherzano
gli svolazzanti crini, e ’l campo rigano
615 di nobile sudor. Rimbomba il suolo
al grave calpestar de’ gran corsieri,
ed al molle girar de l’alte ruote.
Non stan ferme le mani, e stride e fischia
in spessi colpi l’agitata sferza.
620 Non più frequente esce dal gelid’Arto
la grandin procellosa, e in minor copia
versa il corno amalteo le piogge e i nembi.
Già presago Arïon conosce e sente
a le mal rette briglie il signor nuovo,
625 ed ha in orror de l’empio Edippo il figlio:
vien furïando e abominando il peso,
più dell’usato indomito e feroce;
credono i Greci ch’al trionfo aspiri;
ma l’auriga egli fugge, e lo minaccia,
630 e l’antico signor con gli occhi cerca:
pur tuttavia gli altri gran tratto avanza.
Vien, benchè lungi, Anfiarao secondo,
e seco al par va gareggiando Admeto.
Seguono i due Gemelli, ed or Toante
635 è innanzi, ed or Euneo: or l’uno vince,
or l’altro cede, e ambizïon d’onore
non mai giunge a turbar l’alme concordi.
Veggonsi estremi Ippodamo feroce
ed il feroce Cromi: ambo nell’arte
640 esperti; ma i destrieri han gravi e lenti.
Ippodamo è primier, ma di sì poco
che de’ destrier di Cromi a tergo sente
le teste, e l’anelare e ’l caldo fiato.
Sperò l’augure argivo (allor che vide
645 Arïone vagar con vari giri
e fuor di mano) i suoi destrier volgendo
su la sinistra, ov’è la meta, il corso
anticipar, ed essere primiero.
Admeto anch’ei s’affretta, ed ha gran speme
650 d’esser, se non primiero, almen secondo.
E di già le lor brame eran contente:
quando Arïon stanco da’ lunghi errori
si fu rivolto, e più leggier del vento
si mosse, gli arrivò, lasciolli addietro.
655 Vanno i gridi alle stelle, e ’l ciel rimbomba,
e da le sedie lor s’alza la turba.
Ma Polinice omai pallido e lasso
più il fren non regge o lo scudiscio adopra
come nocchier, che già confuso e stanco
660 precipita ne’ flutti e contro i scogli;
nè più guarda a le stelle, e di già vinta
l’arte, la nave lascia in preda a’ venti.
Avean già data la primiera volta,
e ricorrean lo stadio in vari solchi.
665 Qui s’accozzan di nuovo, e qui si sente
asse con asse urtar, ruota con ruota.
Nulla pace è fra lor, nullo riguardo:
sarian men fieri in guerra, e ben rassembra
questa esser pugna fra nemiche schiere.
670 Dassi lode al furor; han tema e speme;
minaccian morte, e l’uno all’altro il calle
tronca e ritarda, e tal desio gl’infiamma,
che non bastano lor stimoli e sferze,
ma incitan con la voce i lor corsieri.
675 Admeto chiama a nome or Foloe, or Joi,
or lo scapolo Toe; nè Anfiarao
sgrida Ascherone meno, o il bianco Cigno
di cotal nome degno. I gridi sente
Strimòne Erculeo del feroce Cromi;
680 e quei d’Euneo sente Etïon focoso;
Ippodamo minaccia il suo Cidone,
e ’l suo Podarce maculoso e lento
prega Toante ad affrettar il corso.
Sol Polinice sbigottito e mesto
685 se ne va errando, e non ardisce il labbro
aprir, e quanto può si tien segreto.
Appena da le mosse eran partiti,
che già la quarta polve alzan sul campo,
e già ne’ corridor manca la lena,
690 e vengon men veloci ed anelanti.
Sta la Fortuna in mezzo incerta ancora,
a cui doni l’onor d’esser primiero.
Mentre Toante a pareggiare aspira
il re d’Anfriso, si rovescia e cade;
695 nè il buon fratello può recargli aiuto,
perchè mentr’ei v’accorre, a lui s’oppone
Ippodamo col carro, e l’attraversa.
Ma Cromi giunge, e con erculeo braccio
e col vigor del padre il carro piglia
700 d’Ippodamo, e lo ferma: invano i colli
stendono e i petti i buon cavalli, e invano
il crudele signor li punge e sferza.
Così talor fra la corrente e ’l vento
stan nel siculo mar ferme le navi.
705 Già rotto il carro e ’l cavalier caduto,
passava Cromi vincitore innanzi:
quando i tracii destrier, che ’l vider steso,
rinnovandosi in lor l’antica fame,
gli si avventâr co’ morsi; allora Cromi
710 i freni torse, ed oblïò la palma,
e vinto si partì colmo di lode.
Mentre sta ancora la vittoria in forse,
e già vicini sono al fin del corso,
per te scende nel circo, Anfiarao,
715 Febo, per darti il già promesso onore.
Anguicrinito mostro in campo adduce,
che minaccia spavento, orrore e morte
(o lo trasse d’Inferno, o in un momento
d’aria lo finse): senza tema e gelo
720 nol mireria d’Inferno il fier custode,
nè l’empie Furie; torneriano indietro
i cavalli del Sole e quei di Marte,
non che Arïon, che a sì tremendo oggetto
arruffò il crine, e su due piè rizzossi,
725 e seco in alto i suoi compagni trasse.
Cadde rovescio l’esule tebano,
e strascinato per l’arena, alfine
sviluppò il braccio da le briglie, e ’l carro
senza rettor sen gì vagando intorno.
730 Mentr’ei giacea sul putrido terreno,
passaro a volo le tenaree ruote
ed il tessalo giogo e ’l forte Euneo
vicini sì, che lo schivaro appena.
Corser gli amici, e attonito e confuso
735 l’alzâr da terra, ed ei tremante e lasso
ritornò non sperato al vecchio Adrasto.
Che nobil morte ti negò Megera,
misero Polinice! A quante stragi,
a quante guerre avresti posto il fine!
740 Tebe e ’l fratello stesso, ed Argo e Neme
t’avrebber pianto. Quanti onori e voti
Lerna e Larissa t’avrian fatti! fora
d’Archemoro maggiore il tuo sepolcro.
Ma Anfiarao, che ha la vittoria certa,
745 benchè secondo e che Arïon preceda
senza rettor, pur di passarlo agogna:
Febo l’assiste, e gli dà forza e lena.
Men presto è il vento, e pur allora sembra
che da le mosse ei parta; or prega, or sferza
750 Ascherïon veloce e il bianco Cigno:
- E adesso almeno (ei grida), or che Arïone
sen va ramingo. - Vola il carro, e fuoco
gittan le ruote, e fa la polve un nembo:
rimbomba il suolo, ed ei minaccia e punge:
755 e forse Cigno avria lasciato indietro
il rapido Arïon; ma nol concesse
Nettuno; onde restâr con lance eguale
al destriero l’onor, la palma al vate.
Della vittoria in prezzo a lui portaro
760 due giovanetti una ben sculta tazza,
che d’Ercole fu un tempo. Il forte eroe
con una sola man l’ergeva in alto,
e ridondante di spumoso vino,
dopo aver vinti i mostri e le battaglie,
765 la solea tracannar tutta in un fiato.
Sonvi scolpiti i fier Centauri, e l’oro
risplende di terribili figure:
è de’ Lapiti qui la strage espressa;
volano e faci e dardi ed altre tazze,
770 e si scorgon per tutto orridi aspetti
di morti e di feriti: Alcide prende,
Alcide istesso il furibondo Hileo
per la deforme barba, e a sè lo tragge.
In ricompensa de’ secondi onori
775 ebbe Admeto un bel manto adorno e pinto
di meonio ricamo, e rosseggiante
di porpora di Tiro: ivi si scorge
Leandro sprezzator del mar d’Abido
girsene a nuoto e trasparir per l’onda;
780 sembra muover le mani, ed or le braccia
a sè ritrarre, ora allargarle: e tanto
l’arte poteo! par ch’abbia molle il crine.
Sul lido opposto da un’eccelsa torre
Hero dolente mira il mar turbato,
785 e ’l lume amico a’ suoi furtivi amori
con funesto presagio ecco si spegne.
Ebbero i vincitor sì ricchi doni;
ma per conforto al genero tebano
Adrasto diede una leggiadra ancella.
790 Poscia la gioventù veloce e lieve
al corso invita, facile virtude
e di pace esercizio, allor che ’l chiede
o sacrificio o festa, e non affatto
vana in battaglia, se contrario è Marte.
795 De l’olimpica fronda il capo cinto
Ida primo comparve, e gli applaudiro
l’elee falangi e i giovani Pisani.
Venne secondo il sicionio Alcone,
e vincitore ne’ Corintî giuochi
800 per ben due volte Fedimo leggero,
e Dima un tempo di sì lievi piante,
che lasciò indietro i corridori in corso,
ed or più tardo per l’età li siegue.
Quindi molt’altri di diverse genti,
805 che lungo fora annoverar; ma il circo
mormora, e chiama l’arcade garzone,
cui la rapida madre accresce fama.
Chi d’Atalanta il sommo pregio ignora,
che tanti Proci superò nel corso?
810 Il valor de la madre è al figlio impegno,
ed è sprone ed esempio, e già famoso
era per molte prove: i cervi avea
raggiunti in corso; indi scoccando l’arco,
avea ’l dardo ripreso a mezzo il volo.
815 Questo sol chiama il comun grido e aspetta
desïando la turba, ed ei d’un salto
s’erge sopra le schiere e sbalza in campo.
Scioglie l’aurate fibbie e ’l manto spoglia,
e nuda mostra la leggiadra e vaga
820 armonia delle membra, e l’ampie spalle,
e ’l bianco petto molle al par del viso,
che quasi perde in paragon del corpo.
Egli non cura la natia beltade,
nè chi l’ammira e adorator la loda;
825 ma nell’arte di Pallade maestro
di pingue oliva le sue membra infosca.
Lo stesso fêro Ida e Dimante, e quanti
erano accinti al corso. In cotal guisa
quando è sereno il ciel, tranquillo il mare,
830 l’immagine degli astri in mar riflette
lucida e pura; ma di maggior lume
Espero irradia, e quale e quanto è in cielo
tutto risplende ne’ cerulei flutti.
Prossimo di bellezza e di speranza
835 Ida si scorge, ma d’età maggiore:
il primo pelo gli spuntava appena;
ma ’l frequente liquor de la palestra
e ’l lungo crine lo nasconde e cela.
Così posti a le mosse, ognun le membra
840 snoda con vari moti al vicin corso,
e prova fa delle veloci piante.
Or piegan le ginocchia, or con le palme
fan risuonare i petti, or breve fuga
tentan correndo e al posto lor ritornano.
845 Ma come pria rimossa fu da i stalli
l’invidïosa corda e ’l campo aperto:
tutti a un tempo partiro, e per l’arena
splendeano ai rai del sole i corpi ignudi.
Non sì veloci da le mosse usciro
850 pur ora i velocissimi destrieri.
Sembran da cretic’arco o pur da parto
da tergo uscite rapide saette.
Così qualor senton ruggir da lungi
(o sembra loro) aspro leon feroce,
855 fuggono i cervi timidi e confusi,
e insiem ristretti, chè ’l timor gli aduna;
e fan miste le corna alto fragore.
Fugge da gli occhi più legger del vento
il menalio garzon: Ida lo segue,
860 e lo scalda col fiato, e già coll’ombra
gli preme il tergo. Fedimo e Dimante
van gareggiando insieme, ed il veloce
Alcon gl’incalza, e di passarli ha speme.
Al bel Partenopeo scendea sul dorso
865 il non tosato crin, ch’egli serbava
fin da’ più teneri anni a Trivia in dono;
e s’ei tornava vincitor da Tebe,
avea promesso con inutil voto
reciso offrirlo sovra i patrii altari.
870 Ed or sciolto da’ nodi al vento ondeggia,
che seco scherza e lo respinge indietro,
e fa ritardo al corso, e svolazzante
l’offre al nemico che l’incalza e segue;
Ida l’offerta occasïon di frode
875 abbraccia tosto, e ne conosce il tempo.
Già già Partenopeo giunge a la meta:
ei per lo crine il prende e indietro il tira,
e innanzi passa, e pria di lui la tocca.
Fremon gli Arcadi irati armi e vendetta,
880 e coll’armi punir voglion la frode,
o che si renda al loro Re la palma
e ’l meritato onore, e furibondi
s’eran già mossi per uscir dal circo.
E d’Ida a molti ancor piace l’inganno.
885 Ma ’l leggiadro garzon lorda di polve
il crine e ’l volto, e si querela e piange,
e grazia accresce a sua beltade il pianto,
e l’innocente petto e ’l dolce viso
squarcia coll’unghie e la colpevol chioma.
890 Freme discorde e in sè diviso il vulgo;
e sta sospeso in suo giudizio Adrasto.
Alfin risolve, e dice: - Ogni contesa,
giovani, fra voi cessi, e di virtude
accingetevi a far novella prova,
895 ma per sentier diverso: Ida da questa,
Partenopeo da quella parte muova;
lungi sieno da voi frodi ed inganni. -
Quelli ubbidîr; ma l’arcade garzone
tacito prega la triforme Dea
900 con voci supplichevoli, e l’adora:
- O Diva, o de le selve alma Regina,
a te questo mio crine era promesso,
e tua l’ingiuria fu; s’a te pur grata
è la mia genitrice, e se pur degno
905 di te mi resi in seguitar le fiere;
deh non voler che con augurio infausto
io vada a Tebe, e di sì grave scorno
me stesso macchi e la mia gente invitta. -
Il favor della Dea mostrossi aperto:
910 corre leggero sì che appena il sente
il campo, e fra ’l terreno e fra le piante
l’aria trapassa, e su l’intatta polve
rare si veggon le vestigie impresse.
Partì, corse, tornò fra liete grida,
915 e vincitore lo raccolse Adrasto.
Ed ecco i premii: un fervido destriere
ebb’egli in dono, e l’ingannevol Ida
un grave scudo, e gli altri una faretra.
Fa quinci il Re quelli invitare al disco
920 che de le forze lor voglion far prova.
Pterela, a cui fu imposto, in campo porta
lo sferico metallo, e benchè tutto
incurvi il fianco, poco lungi il gitta.
Attonite ammiraro il grave peso
925 le greche turbe di sì vasta mole,
e pur molti s’offriro al gran cimento;
tre Corintii, due Achei, uno Pisano,
un d’Acarnania e molti più di Nisa.
Ma il grido universale applaude e chiama
930 Ippomedonte, ed ei sen viene altero,
sotto il braccio portando un altro disco
del primiero maggior, e: - Questo (grida),
giovani forti, o voi che a Tebe andate,
per atterrar co’ sassi argini e mura,
935 questo s’adopri: e qual sì frale mano
l’altro non lancerebbe? - Allor lo prende
quasi scherzando, indi lontan lo scaglia.
Attoniti restaro i più gagliardi,
e si trasser indietro, e al grave pondo
940 si confessâr minori; e Flegia solo
e Menesteo, da gran vergogna punti,
e da’ natali illustri, a l’ardua impresa
offrîr le mani e dimostrâr la fronte.
Partiron gli altri inonorati e vili.
945 Tale si mostra ne’ bistonii campi
il gran scudo di Marte, allor che fere
Pangeo di mesta luce e ’l sol spaventa;
e se coll’asta il dio guerrier lo batte,
fuor n’esce un suono di muggito in guisa.
950 Flegia il giuoco comincia, e tutti in lui
sono de’ spettator rivolti gli occhi,
e a le nodose esercitate membra.
Prima il disco e la man di polve inaspra;
poi la polve ne scuote; e l’alza, e prova
955 ove meglio a le dita, ove a la palma
via più s’adatti: esperïenza ed arte
in lui si scorge, e quanto ei sia maestro
in cotal gioco, onde sua patria è illustre.
Spesso il lanciò, dov’ha più largo il corso
960 il vasto Alfeo, da l’una a l’altra sponda,
e lo passò, nè mai cadeo nell’acque.
Ed or pien di fidanza ei non agogna
a misurare il campo, e verso il cielo
la mira prende, e le ginocchia inarca
965 e le forze raccoglie, e sovra ’l capo
lo ruota in giro, indi lo scaglia in alto.
Sale il disco a le nubi; e quando incurva
il volo e par che di cader minacci,
più d’aria acquista e si solleva: alfine
970 tratto dal peso lento in giù ritorna,
e cade su ’l terreno e vi s’immerge.
Tal la germana del lucente Dio,
svelta da gli astri attoniti e tremanti,
cade dal ciel de’ tracii carmi al suono:
975 fanno co’ bronzi strepito le genti;
ma vincitrice la possente Maga
ride in vederne vacillare il carro.
Fer plauso i Greci, e Ippomedonte solo,
vedendo il colpo, di pallor si tinse.
980 Pur di ruotar per fianco il grave disco
Flegia sperò con più robusta mano;
ma la Fortuna, che i disegni nostri
tronca nel mezzo e lo sperar soverchio,
nol secondò: che puote umana forza
985 contro il voler de’ Numi? Ei già misura
cogli occhi immenso spazio, e indietro tira
il collo e ’l braccio, e tutto piega il fianco:
quando il disco gli fugge e a piè gli cade,
e fa suonar la cava palma a vuoto.
990 Dispiacque a’ Greci tutti il caso acerbo,
e pochi lo mirâr con lieto ciglio.
Ma Menesteo, che a l’altrui spese impara,
sen vien più cauto, e pria di Maia il figlio
co’ preghi invoca; indi di molt’arena
995 il disco irruvidisce, e si assicura
che non gli cada. Esce da tutto il braccio
la grave sfera, e con più lieta sorte
gran tratto varca de l’immenso campo,
e ruinando alfin cade e si posa.
1000 Suonâr gli applausi e i gridi, e con un dardo
corsero a porre, ove fermossi, il segno.
Ippomedonte al gran cimento viene
a passo grave e lento, in sè volgendo
di Flegia la sciagura e del secondo
1005 l’avventuroso colpo. Il disco ei prende
ben noto a la sua mano, e l’alza e ’l libra
e ’l tien sospeso, ed il robusto braccio
consulta e prova, e ’l muscoloso tergo:
indi da sè con tutto il nerbo il lancia,
1010 e col corpo lo segue: il globo a volo
s’inalza, e benchè lungi, ancor rimembra
la destra e tutta ne ritien la forza.
Nè già di poco o con incerta meta
del vinto Menesteo trapassa il segno,
1015 ma di gran tratto il varca, e i verdi colli,
che fan cerchio al teatro, urta e flagella
e fa tremarli: qual se giù cadesse
d’immensa mole altissima ruina.
Tale d’Etna fumante un sasso svelse
1020 Polifemo con man di luce priva,
e sebben cieco, ove sentì ’l rumore
de la nave de’ Greci, ivi lanciollo,
e vicin cadde all’inimico Ulisse.
Il figlio allor di Talaone in dono
1025 fe’ dare al vincitor fregiata pelle
di maculosa tigre, a cui l’estreme
unghie da l’oro eran coperte intorno.
Di cretic’arco e cretiche saette
fu Menesteo contento. A Flegia poi
1030 compassionando si rivolse Adrasto:
ed - A te (disse), cui lasciò la sorte
deluso; in dono ecco ti porgo un brando,
che del nostro Pelasgo un tempo fue
ornamento e difesa, e non dispiaccia
1035 l’atto cortese a Ippomedonte invitto.
Ma tempo è omai che gli animi feroci
scendan de’ cesti a la crudel contesa,
c’hanno più d’armi e di tenzon sembianza,
che di giuoco e di scherzo. - Ed ecco in campo
1040 Capaneo sorge, e mentre intorno cinge
d’aspro e ruvido cuoio, e per lo piombo
livido e nero, la robusta mano
ed il braccio non men ruvidi e duri:
- Datemi (grida) fra cotante schiere
1045 un uomo sol che possa starmi a fronte:
ed oh foss’egli de l’aonia gente,
onde il mandassi a morte, e monda e pura
fosse del civil sangue oggi mia destra. -
Attoniti restaro, ed il timore
1050 silenzio impose, e ognun si trasse indietro:
quando repente appresentossi in campo
Alcidamante; e ne stupiro i Regi.
Ma i suoi Lacon son di fidanza pieni,
a’ quali è noto com’ei l’arte apprese
1055 dal gran Polluce, ed indurò le membra
nelle sacre palestre. Il nume istesso
(invaghito di lui) la mano e ’l braccio
gli addestrò a’ cesti, e se lo pose a fronte,
e vedendolo star con pari sdegno
1060 se ne compiacque, e se lo strinse al petto.
Ma Capaneo lo sdegna e se ne ride
(mentre quegli lo sfida), e n’ha pietade,
e un altro chiede. Alfin dal fier Lacone
provocato si ferma, e gonfia il collo
1065 per molto sdegno. Ambo su’ piedi eretti
tengon sospese di ferir in atto
le fulminanti destre, e i capi indietro
sottraggono a l’offese, e con i cesti
si fan riparo contro i colpi e schermo.
1070 L’uno a Tizio è simíl, se pur tal volta
l’augel lo lascia, e da’ soggetti campi
le immense membra e le grand’ossa estolle.
L’altro è quasi fanciul; ma in lui la forza
gli anni prevenne, e molto più promette
1075 nell’età più matura: il circo a prova
in suo favore inclina, e vincitore
il brama, e teme che ’l crudel nol fera.
Pria si squadrâr cogli occhi, e stero alquanto
l’un de l’altro aspettando il primo assalto,
1080 nè s’affrettaro a le percosse e a l’ira:
ciascuno e spera e teme, e col consiglio
tempra il furor: solo le braccia in giro
ruotan al vento e fan de’ cesti prova.
Alcidamante nel giuocar maestro
1085 non profonde le forze, e le conserva
al maggior uopo, e l’avvenir paventa.
Ma Capaneo solo a ferire aspira,
nulla di sè curante, e s’abbandona
tutto col corpo, e senza legge od arte
1090 stanca le mani, e su due piè’ si leva,
e freme e infuria e fa a se stesso impaccio.
Va guardingo il Lacon, che tutti apprese
de la sua patria i modi, ed ora i colpi
ribatte ed or gli sfugge; or la cervice
1095 volubil piega, e con la man respinge
gli ostili cesti: spesso il passo avanza
e ritira la faccia, e spesso ancora
(cotanto ha in sè d’esperïenza e d’arte)
a lui sottentra e l’abbarbaglia; ed alto
1100 con forza disugual l’assale e tenta.
Siccome sale impetuoso il flutto
sovr’erto scoglio, e rotto indietro torna;
così ’l Lacon quel furibondo espugna.
Alza la destra, e dar gli accenna a’ fianchi,
1105 or lo minaccia a gli occhi, e mentre accorre
confuso a le difese, ei fra le mani
gli passa il cesto e lo percuote in fronte:
n’esce tepido il sangue e riga il volto;
e Capaneo nol sente, ed ha stupore
1110 del repentino mormorar del circo.
Ma poi che a caso la già stanca mano
si pone al volto, e tinta esser la vede
d’alquante stille e rosseggiarne il cesto,
non Massile leone o tigre Ircana
1115 ferita in caccia in maggior rabbia monta.
Segue ’l giovin, che cede, e ’l preme e ’l caccia
per tutto ’l campo, e l’urta e lo sospinge
con tal furor, che ’l fa piegar supino:
freme co’ denti orribilmente, e ruota
1120 ambe le mani, e ’l vento e l’aria fere,
e vanno i colpi a vuoto o sopra i cesti.
Ma con agili moti e col veloce
piede schiva il Lacon ben mille morti
che si vede piombar sovra del capo;
1125 e benchè si ritiri, ei non oblia
di schermir l’arte, e non rivolge il tergo,
e ribatte fuggendo i colpi ostili.
Eran ambo già stanchi, e già più lenti
l’un segue e l’altro fugge, ed anelanti
1130 non han più fiato, e lor vacilla il piede,
ed ambo si fermaro e preser lena.
Così dopo solcato immenso mare
posa la ciurma, e tien sospesi i remi:
ma poco sta chè ’l capitan la chiama
1135 col fischio noto a flagellare i flutti.
Tornano a le contese, e pur di nuovo
il provido Lacone il tempo aspetta,
e pur di nuovo il gran nemico inganna;
e mentre quegli sovra lui si scaglia
1140 colle gran braccia, egli s’inchina, e ’l capo
nelle spalle restringe, e fugge e passa;
quel dal suo peso tratto in giù ruina;
ei torna, e mentre si rialza, il fere,
e del felice colpo ei stesso teme.
1145 Non da’ venti percossi o lidi o selve
fanno tanto fragor, come risuona
d’applausi il circo e di festose grida.
Ma quando Adrasto il fier gigante vide
sorgere furibondo, alzar le mani
1150 ed aspri minacciar colpi mortali:
- Ite (disse), o compagni, ite, opponete
le destre al suo furor: ei smania e freme:
affrettatevi, amici, e gli portate
la palma e i premii: ei non avrà mai posa,
1155 per fin che ’l capo, le cervella e l’ossa
non ne franga e confonda: itene pronti,
e l’infelice sottraete a morte. -
Rupper gl’indugi, e Ippomedonte corre
e Tideo seco, ed ambo insieme uniti
1160 possono appena a lui frenar le mani.
- Hai vinto: basta (or l’uno, or l’altro dice):
tua maggior gloria è dar la vita al vinto:
questi è pur nostro, ed è compagno in guerra. -
Ma non si placa il cuor feroce, e sdegna
1165 gli offerti doni, e colla man respinge
il militare arnese, e infuria e grida:
- Io dunque non potrò macchiar di sangue
e di polvere immonda il vago viso
de l’imbelle mezz’uom, che piace tanto,
1170 e merita il favor del vulgo sciocco?
non deformarne il corpo? ed al sepolcro
mandarlo? o (perchè ’l pianga) al suo Polluce? -
Sì dice, e sbuffa, e d’aver vinto nega;
ma tanto fero i duo guerrier, che al fine
1175 pur lo placaro e lo tirâr da parte.
Ma gli Spartan del Nume lor l’alunno
colman d’applausi, e sorridendo, a scherno
prendon del fiero le minacce e i vanti.
Già buona pezza il suon dell’altrui lodi
1180 e la propria virtù stimola e accende
il magnanimo cuor del gran Tideo.
Agil era nel corso e al disco esperto,
nè meno forte a guerreggiar co’ cesti;
ma nel lottar non avea pari al mondo.
1185 Quest’era il suo piacer: così di Marte
gli ozi ingannava, e trattenea lottando
gli spirti bellicosi, e contro i forti
esercitava l’ire in su le sponde
dell’Acheloo, ond’ei già l’arte apprese
1190 d’essere vincitor nella palestra.
Dunque or che in campo i lottatori adduce
desio di gloria, egli dal tergo spoglia
l’orrido manto e ’l calidonio vello.
Gli vien contro Agileo, che va superbo
1195 del sangue Cleoneo, di quel d’Alcide;
nè per grandezza egli è minor del padre.
Erge l’ardua cervice e l’ampie spalle
e ’l largo petto, e ’l suo nemico adombra;
ma non è pari a la paterna forza:
1200 ha languide le membra, e in tanta mole
diffuso il sangue intorpidisce e manca.
Quindi nasce in Tideo fidanza e speme
di vincerlo al cimento, e bench’ei sia
picciol di mole, ha muscolose spalle
1205 e forti membra ed indurate in guerra:
non tant’animo mai, tanto vigore
chiuse natura entro sì picciol corpo.
Poichè fur unti, s’incontrâr nel mezzo
ambi del circo, e si coprîr d’arena,
1210 e per fermar le man, su l’altrui membra
gittâr pugni di polve, e fermi a fronte
si restrinsero i colli entro le spalle,
ed allargaro ed incurvâr le braccia.
Il sagace Tideo chinando il tergo
1215 e le ginocchia a terra, il suo nemico
sforza a piegarsi, e se lo rende eguale.
Come su monte eccelso alto cipresso,
re de le piante, flagellato e scosso
dal torbid’Austro, la cervice a terra
1220 inclina e piega, e da le sue radici
sembra che svelto in giù ruini e cada;
ma più superbo poi risorge in alto:
volontario così le immense membra
piega Agileo gemendo, e si raddoppia
1225 sovra il picciol nemico, e l’urta e ’l preme:
e già sono alle prese, ed a vicenda
premonsi il collo, il petto, il dorso, i fianchi,
e l’uno a l’altro fa col piede inciampo:
avviticchian le braccia, ed or sospesi
1230 tengonsi in alto, or sciolgonsi da’ nodi.
Non con tanto furor cozzano insieme
due fieri tori conduttor del gregge:
la candida giovenca in mezzo al prato
timida stassi e ’l vincitore aspetta;
1235 squarciansi il petto: amor li sferza e punge;
e amor fa le ferite, amor le salda:
pugnan così colle ritorte zanne
due fier cinghiali, e con i rozzi amplessi
fan ispide battaglie orsi feroci.
1240 Ma tutte ancor mantien le forze intere
l’invincibil Tideo, cui sol, nè polve
reser mai stanco; e ruvida ha la pelle,
e le membra indurate a la fatica.
Non è l’altro sì forte, ed anelante
1245 già batte i fianchi e può trar fiato appena:
corre il sudore, ed il gran corpo spoglia
de la vestita arena, ed ei di furto
dal campo la riprende e sen riveste.
Tideo nol lascia riposar, e finge
1250 ghermirlo al collo, e per le cosce il prende;
ma le picciole mani al gran disegno
non furo eguali, e suonâr vuote al vento.
Quegli allor su Tideo colla gran mole
tutto s’appoggia, e sotto sè l’asconde.
1255 Come colui che là ne’ monti Iberi
per sotterranee vie l’oro cercando
penetra, e indietro lascia l’aria e ’l giorno;
se sopra lui vacilla il suolo e cade
con gran fragor di subita ruina,
1260 oppresso resta deformato e infranto,
e rende non al Ciel l’alma sdegnosa.
Ma se cede di corpo, a lui sovrasta
Tideo di forza e di valor, nè teme;
anzi ’l vigor rinfranca, e da’ suoi nodi
1265 e dal suo peso si sottragge, e passa,
ed improvviso l’assalisce a tergo
e gli avviticchia e stringe i lombi e ’l petto;
indi ’l ginocchio col ginocchio preme,
e mentre quegli si dibatte e tenta
1270 prender Tideo nel fianco (oh meraviglia!),
questi l’alza da terra, e tien sospeso,
orribile a veder, l’immane pondo.
Tale il libico Anteo fra le robuste
braccia sudò d’Alcide; allor che ’l forte
1275 di sua frode s’accorse, e ’l tenne in alto
sospeso, e di cader tolta ogni speme,
non gli lasciò co’ piè toccar la madre.
Applaudì ’l campo e rimbombaro i monti.
Allor Tideo lo tien un pezzo in alto,
1280 poscia in fianco lo piega, e colla mano
lo spinge, e a terra il fa cader disteso,
e sovra lui, che giace, egli si gitta,
e colla destra la cervice, e ’l ventre
colle ginocchia a lui conculca e preme.
1285 Oppresso ei langue, e se resiste ancora,
per vergogna resiste: alfin confitto
colla faccia e col ventre in sul terreno,
tardo e dolente indi risorge, e lascia
l’impronta vergognosa in su l’arena.
1290 Con una man la vincitrice palma,
l’armatura coll’altra alto sostiene,
premii del suo valore, il gran Tideo.
Ed, - Oh che fora (dice), e ben v’è noto,
se l’ostile terren del nostro sangue
1295 tanto in sè non avesse, onde nel petto
porto impressa la fe’ del rio tiranno? -
Cotal si vanta, e a’ suoi compagni porge
le conquistate spoglie: ebbe Agileo
di negletta lorica un umil dono.
1300 Coll’armi ignude l’epidaurio Agreo
discende in campo e l’esule tebano
al suo destino non maturo ancora,
e si sfidan fra loro a far battaglia;
ma lo scettro interpone Adrasto, e ’l vieta:
1305 - Non mancheranno, o giovani feroci
(dice), l’occasïon d’oneste morti.
A miglior tempo riserbate l’ire
ed il desio dell’inimico sangue.
E tu, per cui lasciammo in abbandono
1310 i patrii campi, e desolate e vuote
le dilette cittadi, anzi le pugne
non provocar la sorte, e gli empii voti
(così li rendan vani i numi eterni)
non prevenir del tuo fratello iniquo. -
1315 Dice, e un elmo dorato ad ambi dona.
Indi per far che senza onor non resti
il genero tebano, il crin gli cinge
di regal serto, e a tutto il campo in faccia
il fa gridare vincitor di Tebe.
1320 Ma gli augurii deluse il crudel Fato.
Finiti i giuochi, i principi lernei
stanno intorno ad Adrasto, acciò che degni
di qualche colpo le festive pugne,
e quest’onore al funerale aggiunga.
1325 E perchè un sol trionfo a un sol de’ duci
non manchi, il pregan che le nubi fenda
lanciando l’asta in alto, o che da l’arco
scocchi gli strali ad un prefisso segno.
Lieto ei consente, e dal suo verde trono
1330 scende cinto da’ proceri e da’ Regi,
e da la scelta gioventù del campo:
portagli dietro l’arco e la faretra
il suo fido scudiero, ed ei bersaglio
sceglie a le sue saette un orno antico
1335 che in fondo sorge de l’opposto circo.
Chi negherà che da cagioni occulte
vengan gli augurii? Manifesti e chiari
mostransi i fati. Sia pigrezza o sonno,
l’uom non gli osserva, e quindi avvien che pera
1340 de l’avvenir la fede e i certi segni:
tutto si dona al caso, e la fortuna
maggior possanza a’ danni nostri acquista.
Il campo varca la fatal saetta
e l’orno tocca, e ripercossa indietro
1345 (orribil vista) per le stesse vie,
per l’aure stesse, in cui passò, rivola,
e a la faretra sua cade vicina.
Lo strano caso in molti errori involse
i Greci duci: altri a le nebbie, ed altri
1350 n’assegnâr la cagione a’ venti opposti;
altri a la dura scorza, onde quell’orno
fu al colpo impenetrabile e ’l respinse.
Nessuno accerta, e resta a tutti ignoto
il grand’evento e il mostrüoso arcano,
1355 che volea dir: che di cotanti duci
Adrasto solo tornerebbe in Argo
con infelice e tragico ritorno.
Mentre in tal guisa a vani giuochi intenti
tardano i Greci a cominciar la guerra,
mirolli Giove con turbato ciglio,
e crollò il capo: al di cui moto scosse
5 treman le sfere, e si querela Atlante
che sovra ’l dorso suo s’aggravi il pondo.
Mercurio chiama, e: - Fendi (dice) e vola
per mezzo l’Aquilone a’ tracii lidi,
e de l’Astro nevoso al freddo Polo,
10 là dove l’Orsa, a cui vietato e tolto
è l’Oceàno, la sua stella pasce
de le invernali piogge e de’ miei nembi:
ivi, o deposta l’asta e il fiero brando,
Marte riposa (ancor ch’ei l’ozio aborra)
15 o, qual io penso, fra le trombe e l’armi
insazïabil gode e lussureggia
del popolo diletto in mezzo al sangue:
tu pronto il trova, e l’ammonisci e l’ira
del genitor gli fa palese, e nulla
20 a lui tacer de’ miei sovrani imperii.
Io gli commisi pur che a guerre e a risse
tutte accendesse le falangi argive
e quanto l’Istmo parte e quanto abbraccia
Malea latrando co’ suoi rauchi flutti,
25 ed or usciti da la patria appena
si stanno i Greci a’ sacrifici intorno:
sembra che riedan vincitori in Argo,
in tanti applausi van perduti, e offesi,
l’aspra ingiuria crudel posta in oblio,
30 fan lieti giuochi d’un fanciullo all’ombra.
Tal dunque, Marte, è il tuo furor? I dischi
stridon per l’aria e cogli ebalii cesti
si fan le pugne; ma se in lui s’accenda
l’innata rabbia ed il crudel diletto
35 di stragi e morti, onde si pasce: al piano
farà cader in ceneri e faville
le innocenti cittadi, e furibondo
ferro e fuoco portando, intere intere
struggerà le nazioni, allor che a noi
40 più fanno voti, e desolato e vano
renderà il mondo. Ed or che ’l nostro sdegno
lo chiama a l’armi, è mansueto e lento.
Che s’egli non s’affretta, e se non spinge
tosto le greche schiere a’ tirii muri,
45 (non minaccio rigori) egli pur sia
placido Nume, e ’l genio suo crudele
nell’ozio illanguidisca: il brando scinga,
e i cavalli mi renda, e nelle guerre
più non abbia ragion. Con lieto aspetto
50 guarderò il mondo, e spanderò la pace
sopra la terra, e la tebana impresa
condurrà a fine la Tritonia Dea. -
Tacque, e Cillenio a’ traci campi scese;
ma nell’entrar de l’Iperboree porte,
55 procelle eterne e di quel polo algente
i folti nembi e d’Aquilone i fiati
lo rivolsero in giro: il manto suona
da grandine percosso, e ’l capo appena
gli difende l’arcadico cimiero.
60 Mira, e non senza orror, l’erme foreste,
che son del fiero Nume albergo e tempio,
u’ da mille furori intorno cinta
incontro a l’Emo la feroce reggia
al ciel s’inalza: son di ferro armati
65 gli angoli de le mura, e son d’acciaio
le porte e le colonne che sostengono
del tetto di metallo il grave incarco:
la gran lampa Febea, che vi riflette,
offesa resta, e spaventata fugge
70 la luce, e lo splendor pallido e tristo,
che n’esce, in ciel fa impallidir le stelle.
Stanza degna del luogo: in su le soglie
scherza l’Impeto insano e ’l reo Delitto
e l’Ire rubiconde, ed il Timore
75 pallido, esangue; e con occulte spade
vi son le Insidie, e la Discordia pazza,
che tiene armata l’una e l’altra mano.
Suona la reggia di minacce, e stassi
nel mezzo la Virtù mesta e dolente,
80 ed il Furor allegro, e armata siede
fra lor la Morte con sanguigno volto.
Null’altro sangue su gli altari fuma,
che sangue in guerra sparso, e non s’adopra
altro fuoco che quel che vien rapito
85 dalle cittadi in cenere consunte.
Pendon spoglie e trofei del mondo vinto
tutti a l’intorno, e ne’ sublimi palchi
stanno i cattivi; orribilmente sculte
stridon le ferree porte, e vi si scorgono
90 navi guerriere e vuoti carri e i volti
sotto le ruote deformati e infranti,
e poco men che i gemiti e i lamenti:
cotanto al vivo le ferite e gli atti
vi sono espressi. In ogni luogo vedi
95 Marte, ma non mai placido in sembianza:
tal lo fece Vulcan, che non ancora
l’adultero scoperto a’ rai del sole
incatenato avea nel letto impuro.
Non avea appena a ricercar del Nume
100 dato principio il messaggero alato:
ed ecco il suol tremare, e muggir l’Ebro
frangendo i flutti, e ’l bellicoso armento,
che le valli pascea, di nuove spume
tutte smaltar le tremolanti erbette
105 (segno che il Nume giunge), e spalancarsi
le porte d’infrangibile adamante.
Egli sen vien sul ferreo carro adorno
d’ircano sangue, che grondando a’ campi
muta l’aspetto, ed ha le spoglie a tergo
110 e de’ cattivi le piangenti turme.
S’aprono l’alte nevi, e le boscaglie
dan luogo, ovunque passa, e con sanguigna
mano Bellona i destrier regge e ’l carro,
e con lung’asta li flagella e punge.
115 Inorridissi a sì terribil vista
di Cillenio la prole, e chinò ’l volto:
lo stesso padre, se in sì fier sembiante
scorto l’avesse, riverenza e tema
n’avria sentito, e le minacce e l’ire
120 avria frenate e ’l suo crudel comando.
Marte parlò primiero: - Or qual mi porti
di Giove impero o di lassù novella,
fratel? Perch’io so ben che tu non scendi
di tuo voler in questo Polo algente
125 e fra gli orrori de le nostre nevi:
a te i Menali ombrosi umidi boschi
giovano, e del Liceo l’aura più mite. -
Quegli di Giove il gran comando espone.
Nè Marte indugia; ma i destrier rivolge
130 ansanti e molli, ed egli stesso ha in ira
le dimore de’ Greci. Il vide Giove
da l’alto soglio, e mitigò lo sdegno,
e gravemente torse altrove il guardo.
Così qualor Affrico cessa, e ’l mare
135 in pace lascia, procellosa e incerta
sorge la calma, e l’onda, che si spiana,
la tempesta mancante agita ancora:
ancor tutti non son del legno afflitto
raddrizzati gli arnesi, e non respira
140 l’affannato nocchier da tutto il petto.
Dato avean fine a le battaglie inermi
e a’ funerali, e al busto spento intorno
stavano i Greci: e già ciascun tacendo,
versava Adrasto il vino, e ’l cener freddo
145 d’Archemoro placava in questi sensi:
- Danne, sacro fanciul, le triennali
tue feste rinnovar per molti lustri:
che più non pregherà gli arcadi altari
Pelope tronco, nè con mano eburna
150 batterà i tempî elei, nè il fier Pitone
curerà i pizii giuochi, e non più a nuoto
verrà l’ombra al pinifero Lecheo.
Noi frettolosa turba al mesto Averno
or t’involiamo, e ti doniamo a gli astri
155 co’ sacrifici. Ma se abbatter Tebe
per te ne sarà dato, allor sublime
t’ergerem tempio, allor ci sarai Nume;
nè sol t’adoreran d’Inaco i regni,
ma la pingue Beozia e Tebe vinta. -
160 Così per tutti Adrasto, e nell’interno
approvava ciascuno il regio voto.
Ma già scendea co’ rapidi destrieri
Marte a’ lidi efirei, là dove estolle
Acrocorinto il capo e tutti adombra
165 i due mari divisi, e di sua schiera
sceglie il Terrore e lo spedisce al campo.
Non v’è ’l più destro a insinuar ne’ petti
la sollecita tema, o chi più ’l falso
col vero adombri: innumerabil mani
170 ha ’l fiero mostro, innumerabil voci,
e qual più gli convien, prende sembianza;
a lui tutto si crede, e pon sossopra
e in furia le cittadi, e s’egli afferma
il terreno ondeggiar, splender due Soli,
175 le stelle ruinare, andar le selve,
il fantastico vulgo e gl’infelici
giureran di vederlo. Ed or che ’l Nume
a tant’uopo lo sceglie, egli raddoppia
l’arte e l’ingegno. Da l’erculea valle
180 alza turbo di polve, e sbigottiti
lo mirano da l’alto i duci argivi.
Indi accresce il terror, e un rumor vano
imita e finge di cavalli e d’armi,
e d’urli orrendi l’aria intorno assorda.
185 Restan sospesi i Greci, e mormorando
fremon le turme: - Qual fragor? Qual suono?
Noi pur l’udiamo. Quale immensa nube
il cielo involve? Sarian mai le schiere
de l’oste ismena? Ah certo sono. E tanto
190 Tebe presume? e non paventa? Or stiamo,
stiamo a perdere il tempo intorno a’ roghi. -
Tai sensi ispira alle confuse menti
il fallace Timore, ed or l’aspetto
d’un guerriero pisan, or d’un eleo,
195 or d’un lacon ei prende, e giura e afferma
che ’l nemico è vicino, e un van terrore
sparge per tutto il campo, e lo perturba.
Ma poi che all’alme inferocite il Nume,
il Nume istesso sopraggiunse involto
200 in un turbin di polve, e che tre volte
l’asta crollò, tre volte al corso spinse
i feroci cavalli, ed altrettante
percosso al petto fe’ suonar lo scudo:
- A l’armi, a l’armi - furïosi e insani
205 gridan per tutto: ognun l’armi rapisce,
chi le sue, chi le ignote, e chi ’l cimiero
cambia, chi l’asta, e chi i non suoi destrieri
al carro accoppia; in ogni petto bolle
desio di stragi e morti, e nulla frena
210 più il lor furor: precipitosi vanno,
e compensan gl’indugi. In cotal guisa
al cominciar del vento il lido suona
di strepito e tumulto, allor che ’l porto
lascia la nave, e dà le vele al vento,
215 e accomoda le sarte. I salsi flutti
già flagellano i remi, e di già a galla
vengon l’ancore curve, e già l’amata
spiaggia d’alto si mira, e quei che a tergo
cari pegni restâr, consorti e figli.
220 Vide Bacco partir le squadre argive
rapidamente accelerando il corso,
e lagrimando a la materna Tebe
gli occhi rivolse e al suo natale albergo,
e ricordossi il fulmine paterno.
225 Turbato abbassa il rubicondo viso,
ed il crine scompon, mentre ne strappa
il serto, e mentre da le corna l’uve
e ’l tirso da le man cader si lascia.
Indi ’l manto discinto e lagrimoso,
230 sen corre a Giove, che in rimota parte
stava del cielo, in tal sembiante e mesto
che tale unquanco non fu pria veduto
(e ben sa ’l padre a che ne venga): allora
supplichevole a lui così favella:
235 - Dunque, o buon genitor de’ sommi Dei,
la tua Tebe distruggi? A cotant’ira
giunge la tua consorte? E non ti muove
la terra a te sì cara, e l’ingannata
casa, e de’ miei il cenere sepolto?
240 Siasi che già tu involontario fuoco
da le nubi scagliasti: ed or di nuovo
perchè la terra accendi? Il giuramento
già non ti sforza dell’inferna gora,
nè de l’amata le preghiere e l’arti.
245 E quando avran mai fine i tuoi rigori?
Dunque a noi soli il fulmine riserbi,
irato padre? ma non già sì fiero
scendi di Danae a’ tetti, e a’ boschi amici
d’Arcadia, e al letto dell’amata Leda.
250 Dunque fra tanti figli abietto e vile
io sol ti sembro? E pur gradito peso
ti fui già un tempo, e pur a me rendesti
la vita e l’alvo ed i materni mesi.
Arroge a ciò, che i miei Teban non sanno
255 altr’armi maneggiar che l’armi nostre:
cinger di frondi il crine, e al suon de’ bossi
invasati danzar, e de le spose
temere i tirsi e de le fiere madri.
Come potran le trombe e ’l suon de l’armi
260 timidi sostener? Ecco rimira
con qual furor vien Marte, e forse adduce
i tuoi Cureti in guerra? O ci propone
pugne innocenti di quadrati scudi?
Ahi che incontro ne spingi Argo odïosa.
265 Forse mancan nemici? O duro impero
più de’ perigli ancor! Alla matrigna
darem le nostre spoglie ed a Micene.
Che se pur tale è ’l tuo volere, io cedo.
Ma dove poi de la mia gente estinta
270 porterò ’l culto e (se vi son) gli avanzi
de l’infelice mal feconda madre?
Forse fra’ Traci? O di Licurgo a’ boschi?
O a gl’Indi soggiogati andrò cattivo?
Se profugo mi vuoi, dammi una sede.
275 Poteo fermar (nè già l’invidio) Apollo
Delo materna ne l’Egeo profondo:
potè Minerva da l’amata rocca
respinger l’acque; e con quest’occhi io vidi
Epafo dominar ne’ regni Eoi;
280 e Mercurio e Minosse in dolce pace
godon Cillene e Creta. I nostri altari
hai solo in odio. Ma se noi men grati
ti siam, Tebe rimira: ivi godesti
l’erculee notti, e di Nitteo la figlia
285 ivi t’accese di soave fiamma:
quivi è il seme di Tiro, e del mio fuoco
il toro più felice. Almen ti prenda
del sangue d’Agenor qualche pietade. -
Sorrise Giove a quel parlar, e ’l figlio,
290 che già prostrato a lui tendea le mani,
sollevò al bacio, e placido rispose:
- Non è Giunon, come tu pensi, o figlio,
che dia impulso al furor; negar saprei
le atroci imprese a la consorte ancora,
295 qualor le richiedesse: il giro eterno
mi trasporta de’ Fati, e antiche sono
le cause de la guerra. In ciel qual mai
trovi di me più mansüeto Nume?
Chi ha più in orror l’umano sangue? Il vede
300 pur questo Polo e questa immobil reggia,
che sarà meco eterna. O quante, o quante
volte ho deposto il fulmine già pronto!
Come di rado su la terra il vibro!
Nè già di mio voler io diedi in preda
305 a Dïana ed a Marte a torto offesi,
e gravemente, i Lapiti feroci
e i Calidonii antichi. È mia fatica
tanti corpi formar, mutar tant’alme.
Ma di Labdaco e Pelope i nipoti
310 troppo ho tardato a svellere dal mondo.
Quanto sien pronti ad oltraggiare i Numi
i tuoi Tebani (restin or da parte
i Dorici delitti) è a te ben noto,
che anche offeser te stesso, e pur si taccia,
315 giacchè placossi in noi l’antico sdegno.
Penteo però le scelerate mani
non avea tinte del paterno sangue,
nè compressa la madre, e a sè i fratelli
procreato nel talamo nefando,
320 e pur fra gli orgii tuoi lacero cadde.
Ove i tuoi pianti allor? Ove le preci?
Nè già destino al mio privato sdegno
l’empia stirpe d’Edippo: a me la chiede
la terra, il cielo, la pietà, la fede
325 offesa, la natura, e ’l fier costume
de l’empie Furie. Tu per or la tema
deponi, o figlio: il fatal giorno ancora
non è giunto per Tebe; a più funesta
età la serbo e a vindice maggiore:
330 or tutto di Giunon sarà l’affanno. -
Bacco a tal dire il manto e ’l cor riprese.
Così talora in bel giardin le rose,
se ’l fosco Sol le adugge e ’l torbid’Austro,
pallide stanno; ma se i dolci fiati
335 spira Favonio e rasserena il cielo,
ritornan belle, e i lor novelli germi
ridon d’intorno, e si fan verdi i rami.
Ma del tiranno a l’atterrite orecchie
gli esploratori aveano esposto intanto
340 che vien l’oste nemica a lunghe schiere,
e ch’è già su’ confin: che ovunque passa
treman le genti, ed han pietà di Tebe:
narran le nazïoni, i duci e l’armi.
Il Re cela il timore, e più ricerca,
345 ed ha in odio chi ’l narra: alfin risolve
d’animar le sue squadre e farne mostra.
Tutta l’Aonia avea commossa a l’armi
Marte, e l’Eubea e Focide vicina.
Tal di Giove è ’l piacer: scorre per tutto
350 il segno militar, e in un momento
armate escon le squadre, e vanno al campo
alla città soggetto, a cui serbate
son le battaglie e i gran furori aspetta.
Non hanno ancora gl’inimici intorno:
355 e pur, timida turba, il sesso imbelle
su’ muri corre, e a’ pargoletti figli
mostran l’armi lucenti, e sotto gli elmi
additan loro i genitori ascosi.
Stavasi sola sovra eccelsa torre,
360 di nero vel coperto il molle viso,
Antigone, non anco a l’altrui sguardo
concessa, e seco solo iva Forbante
già scudiero di Laio: il venerando
vecchio onora la vergine reale,
365 e prima a lui favella: - Abbiam noi speme,
padre, che queste insegne abbian possanza
per resistere a’ Greci? A noi la fama
porta che contro noi vengono in guerra
tutti i regni di Pelope. Or ti prego,
370 mostrami i duci e le straniere squadre,
chè i nostri ben ravviso, e quali insegne
Meneceo porti, e di qual armi adorno
splenda Creonte, e per la ferrea Sfinge
superbo Emon, come se n’esca altero
375 per l’Emoloida porta. - Ella sì dice
semplicemente, e a lei risponde il veglio:
- Mille Driante sagittari in guerra
da’ freddi colli di Tanagra adduce:
egli ha il tridente in bianco scudo impresso,
380 ed aspro d’oro il fulmine trisulco;
del gigante Orïon degno nipote
per sua virtù: deh stia da lui pur lungi
il destino del padre, e l’ira antica
la vergine Dïana in tutto oblii.
385 Seguono le sue insegne e fangli omaggio
Medeone ed Occalea, e la selvosa
Nisa, e Tisbe, che al suon delle colombe,
care a Ciprigna, mormora d’intorno.
Questi, che porta in man le rusticali
390 armi paterne, è detto Eurimedonte
figlio di Fauno, ed ha su l’elmo un pino,
che di destrier cadendo imita il crine:
quanto ardito fin qui fu nelle selve,
tanto sarà nelle sanguigne pugne:
395 lo segue Eritre d’ampie greggi ricca,
e de l’arduo Scolon gli abitatori,
e quelli d’Eteonon cinti d’intorno
d’alte scoscese rupi, e quei che d’Ile
stan fra gli angusti lidi, e quei che in Scheno
400 superbi van per Atalanta, e i campi
onoran dove ella più volte corse:
armati di macedoni zagaglie
vengono in guerra e di quadrati scudi,
che mal ponno coprir da’ colpi il petto.
405 Quelli d’Onchesto, che a Nettun son cari,
ecco scendon nel campo a gran fracasso,
e i Micalessi fertili di pini,
e quei che ’l Mela ed il Gargafio rio
irrora, a Palla sacri ed a Dïana,
410 e gli Aliarti, che le nuove messi
invidian de’ vicini, e con dolore
miran le loro dal rigoglio oppresse:
portan tronchi per aste, e per cimiero
i capi de’ leoni, e son le targhe
415 di sovero leggere, e di costoro
duce è ’l nostro Anfïon: ben lo ravvisi,
vergine, al plettro che su l’elmo porta,
e al toro avito nello scudo impresso.
Generoso garzon! ei si prepara
420 gir per mezzo le spade, e ’l petto ignudo
esporre in guardia de l’amate mura.
Voi d’Elicona pur turbe venite
a soccorrer nostr’armi; e tu, o Permesso,
e tu felice pe i canori flutti,
425 Ormio, non usi a le battaglie i vostri
popoli armate: or tu li senti, o figlia,
venir cantando i patrii carmi, appunto
di cigni, in guisa, che al partir del verno
del sereno Strimon lascian le sponde.
430 Itene pur felici: i vostri fasti
vivranno sempre, e saran fatti eterni
dal dolce canto de le caste Muse. -
Egli, così dicea; ma l’interruppe
la vergine: - E chi son quei due fratelli
435 che van sì uniti? di qual stirpe? Oh come
sono simili all’armi, oh come eguali
svolazzano le creste in cima agli elmi!
Deh fosse tal concordia anche fra’ nostri! -
Cui sorridendo il veglio: - In questo errore
440 tu la primiera, Antigone, non sei:
altri ingannati da l’età germani
gli hanno creduti, e pur son padre e figlio;
ma confusero gli anni; or tu m’ascolta:
Lapitonia Dircea ninfa lasciva
445 del primo s’invaghì, che giovinetto
era e inesperto e a’ talami immaturo;
e tanto fece con lusinghe e vezzi,
che seco si congiunse e n’ebbe un figlio,
il vezzoso Alatreo, che ’l genitore
450 nella primiera gioventù somiglia
al volto, e insieme hanno l’età confusa.
Or del nome fraterno, ancor che finto,
hanno piacer, e del comune inganno;
ma vie più gode il genitor, cui giova
455 sperar compagno in sua vecchiezza il figlio.
Trecento in guerra cavalieri eletti
il figlio mena, ed altrettanti il padre;
se il ver narra la fama, a noi li manda
Glisanta angusta e Coronea ferace:
460 è ricca l’una d’ubertose viti,
e l’altra pingue di copiose messi.
Ma qua rivolgi il guardo, e Ipseo rimira,
che i suoi quattro corsieri e ’l carro adombra.
Colla sinistra man di sette cuoia
465 di toro cinto alto sostien lo scudo.
Copre il gran petto d’interzata maglia,
e da tergo non teme. Un’asta impugna
che fu onor de le selve, e che vibrata
penetra l’armi, e va per l’armi a’ petti,
470 nè mai lanciolla il cavaliere in fallo:
generollo il rapace Asopo, e degno
padre d’un tanto figlio allor si mostra,
che, rotti i ponti e gli argini, sonoro
sen corre al mare, e le campagne inonda;
475 o quando a vendicar l’offesa figlia,
turgidi alzò contro le stelle i flutti,
e sdegnò aver per genero il Tonante.
Poichè rapita al patrio fiume Egina
fra gli amplessi di Giove ascosa giacque,
480 sdegnossi il fiume, e mosse guerra al cielo.
(Non era in quell’età lecito a’ numi
contaminar le vergini innocenti).
S’alza sovra se stesso a la vendetta,
e spinge l’onde in alto, e benchè privo
485 d’ogni soccorso, pur combatte solo;
ma dal fulmin percosso oppresso giacque;
gode il fiume orgoglioso in su le sponde
vedere ancor le ceneri celesti,
e va superbo de l’avuta pena
490 contra il cielo esalando etnei vapori.
Tale vedremo Ipseo ne’ cadmei campi,
se pur Egina a lui placò il Tonante.
Seguono il suo stendardo Itone, e a Palla
Alalcomene sacra, e Mide ed Arne:
495 quei che in Aulida e in Grea spargono i semi,
e la verde Platea doman co’ solchi;
e Peteone, e quei che ’l nostro Euripo
con eterne tempeste intorno scorre,
e tu, Antedone estrema: ove dal lido
500 umiderboso ne’ bramosi flutti
si lanciò Glauco, e già ceruleo il crine
fatto e le gote, inorridì in mirarsi
dal mezzo in giuso trasformato in pesce.
Ruotan le frombe, e con piombati globi
505 fendon i venti, e lancian le zagaglie
veloci più di cretiche saette.
Tu pur, Cefisso a noi mandato avresti
il tuo Narciso; ma ne’ tespii campi
langue il giovin feroce, e con sue linfe
510 lo sconsolato padre il fior ne irrora.
Chi le schiere di Febo e de l’antica
Focida potrà mai narrarti a pieno?
Daulida, Ciparisso e Panopea,
e Lambadia vallosa, e sopra un scoglio
515 Hiampoli fondata, e quei che manda
l’uno e l’altro Parnasso, e quei che Cirra
hanno per stanza, e Anemoro pendente,
e di Coricia i boschi, e di Cefisso
Lilea che preme la gelata fonte;
520 là ’ve solea Piton l’immensa sete
portando, il fiume divertir dal mare.
Mira come ciascun su l’elmo ha il lauro,
e portan nello scudo o Tizio o Delo,
o le faretre che votò sovente
525 Febo, facendo innumerabil strage.
Ifito è il duce loro, a cui poc’anzi
Naubolo padre, d’Hipaso disceso,
rapì la morte. Naubolo, o buon Laio,
un tempo tuo fedel ospite e auriga,
530 che guidava il tuo carro il giorno acerbo
in cui cadesti indegnamente esangue
de’ tuoi destrier tra le ferrate zampe.
Deh foss’io pur teco rimaso estinto! -
Qui impallidì Forbante, e da’ singulti
535 gli fur tronchi gli accenti. Il freddo veglio
si stringe allor la verginella al seno,
e lo consola. Ei con tremante voce
ripiglia, e segue: - O Antigone, o mia sola
illustre cura ed ultimo piacere,
540 per cui di gire alle ciech’ombre io tardo,
e mi serbo a veder forse le avite
stragi e le stesse sceleranze antiche,
tanto che te consegni intatta e pura
a legittime nozze: ah presto sia!
545 ed Atropo il mio fil tronchi dal fuso.
Ma mentre il tempo io perdo, o quanti veggio
duci trascorsi! e Ctonio tacqui e i figli
d’Abante, a cui scendon le chiome a tergo;
non Caristo pietrosa a te mostrai,
550 non Ega umíle e Cafarea sublime;
e già stanca la vista agli occhi nega
discerner gli altri, e già son tutti fermi,
e ’l tuo fratello a lor silenzio indice. -
Avea finito il suo parlare appena
555 da la torre Forbante, allor che d’alto
in cotal guisa favellò il tiranno:
- O magnanimi Regi, al cui comando
io duce vostro d’ubbidir non sdegno,
e privato guerrier difender Tebe;
560 già non imprendo a’ generosi cuori
aggiunger sproni: volontari a l’armi
correste, e volontari a me giuraste
i giusti sdegni e le magnanim’ire.
Nè men poss’io rendervi grazie o lodi
565 al benefizio eguali: a voi mercede
daranno i Numi e vostre destre invitte,
debellati i nemici. Una vicina
ed amica città voi difendete,
contro di cui non da lontani climi
570 viene il nemico, o in altra terra nato;
ma un nostro cittadino a’ nostri danni
muove e conduce esercito straniero:
e pure ha qui fra noi ne’ nostri muri
la madre, il padre e le sorelle afflitte.
575 Anche un fratel tu avevi: or mira, iniquo,
tu che a gli avi minacci e stragi e morte,
tutta l’Aonia in mio favor s’è mossa,
nè sono al tuo furor lasciato solo.
Sai tu che voglion queste squadre? Il regno
580 vogliono ch’io ti neghi; - e qui si tacque.
Indi gli ordin dispone, e chi le mura
difender debba, e chi pugnare in campo,
quai schiere in fronte e quali por nel centro.
Così qualor nel rusticale albergo
585 l’alba penétra e ancor son l’erbe molli,
apre le chiuse stalle il buon pastore,
e fuor ne tragge il gregge: escono i primi
i robusti montoni, e insiem ristrette
seguon le pecorelle; egli con mano
590 sostien le pregne e le pendenti poppe,
e pone al latte le cadenti agnelle.
Vengono intanto senz’aver mai posa
nè dì, nè notte furibondi i Greci
spinti da l’ira: appena il cibo o il sonno
595 li tarda alquanto, e van con quella fretta
l’inimico a cercar ch’altri lo fugge;
nè li arrestan gli augurii e i tristi segni,
che la sorte presaga a lor dimostra
molti e funesti messagger di morte.
600 Perchè di lor sciagura annunzio certo
diedero augelli e fiere, ed astri, e fiumi
indietro volti; tuonò Giove irato,
strisciaro infesti lampi; orribil voci
da’ sotterranei usciro, e i chiusi tempii
605 volontari s’aprîr de’ numi eterni;
or piovve sangue, or pietre, ed improvvise
apparver ombre, ed a’ nipoti e a’ figli
flebili si mostraro i padri e gli avi;
gli oracoli febei Cirra allor tacque,
610 e la notturna Eleusi in non usati
tempi urlar si sentì; Sparta presaga,
aprendo il tempio, gli amiclei fratelli
(o sceleranza!) pugnar vide insieme:
gli Arcadi udiro infra gli orror notturni
615 Licaone latrar, correr di nuovo
Enomao vider nell’infame campo
attoniti i Pisani, e quei d’Acarne
scorsero l’Acheloo dell’altro corno
scemo e deforme; di Perseo l’immago
620 mesta vide Micene, e di Giunone
turbato il simulacro, e mercè chiese:
udîr gli agricoltori il procelloso
Inaco dar muggiti: ambedue i mari
udîr suonar di Palemone a’ pianti
625 gli sbigottiti abitator dell’Istmo.
Tali avvisi de’ Numi ode e non cura
la pelasga falange, e ’l furor cieco
di timore la spoglia e di consiglio.
Erano giunti di Beozia a’ fiumi
630 e dell’altero Asopo in su le sponde,
e non ardiano il periglioso guado
tentar le schiere del nemico flutto.
Perocchè allor con ridondante piena
facea terrore a’ campi, o la piovosa
635 Iride a lui le forze accrebbe o i nembi
alpestri, o che pur tal fosse sua mente,
del terreno natio chiudere il varco
al campo ostile. Ippomedonte allora
il destriero restio spinse d’un salto
640 nel fiume, e dietro si tirò la sponda,
e in mezzo a’ gorghi alto tenendo il freno
e l’armi, volto a gli altri duci grida:
- Or me seguite, o valorosi; io scorta
primo sarovvi a le nemiche mura,
645 io primo a Tebe spezzerò le porte. -
Tutti lanciârsi allor nell’onde a gara
vergognando gli estremi. In cotal guisa
se dal pastor guidato a fiume ignoto
giunge l’armento, timido s’arretra:
650 lontana pargli la contraria ripa,
ed in mezzo ha ’l terror; ma se precede
il toro condottiero e ’l guado tenta,
allor facile il salto, allor vicino
il lido, allor più mite l’onda appare.
655 Vider non lungi un rilevato colle
cinto da’ campi, ove spiegar le tende
potean sicuri i capitani argivi,
e donde si scoprian le torri ostili
tutte d’intorno e le tebane mura.
660 Piacque la sede ed il fedel ricetto,
perocchè il monte dolcemente sale
e signoreggia il piano, e non lo copre
altro monte vicino, e non fa d’uopo
di gran sudore a metterlo in difesa;
665 forte natura il fe’: le rupi in vallo
ergeansi, e in fossi era cavato il piano,
e quattro sassi gli cingeano i fianchi
fatti dal caso di bastioni in guisa;
il rimanente terminâr le schiere,
670 finchè il sol cadde e diè riposo all’opre.
Ma chi ’l terror può mai ridir di Tebe,
città che attende gli ultimi perigli,
cui turba l’atra notte e ’l dì vicino!
Corrono per le mura, e in quel terrore
675 nulla lor sembra esser sicuro assai;
nè fidan più nelle anfionie rocche.
Ferve il tumulto, ed il timore accresce
degl’inimici il numero e il valore:
veggonsi a fronte i padiglioni ostili
680 e splender su’ lor monti estrani fuochi:
chi a’ tempii corre e a’ Numi, e chi le spade
e i dardi affina, e de’ destrier fa prova:
altri si stringe al sen la moglie e i figli,
e chiede lor l’estreme esequie e ’l rogo:
685 se alcun le luci in momentaneo sonno
chiude, in sogno guerreggia; or la dimora
lor sembra avanzo, or han la vita a schivo,
ed odian l’ombre ed han timor del giorno.
Scorre per ambo i campi ebbra e baccante
690 Tesifone, ed ha in man gemino serpe:
mostra un fratello all’altro, e ad ambi il padre.
E questi urlando da sue oscure grotte,
le Furie invoca e ridomanda il lume.
Di già ecclissato avea l’umido corno
695 l’algente luna, e già sparian le stelle
a lo spuntar della novella luce,
e bollia l’Oceàno al nuovo fuoco
del vicin Sole, e quanto vasto è il mare,
a’ rai cedendo de’ destrieri ardenti,
700 spianava i flutti e rosseggiava intorno:
ed ecco uscir da le tebane porte
Giocasta, il guardo torva, e ’l bianco crine
sparsa e incomposta, e pallida le gote,
e livida di colpi i bracci e ’l petto,
705 quasi Furia antichissima d’inferno,
portando in man cinto di nera benda
un ramuscel d’oliva, e accompagnata
da la gran maestà di sue sciagure.
Le due figlie, più quieto e miglior sesso,
710 le fan di qua, di là debil sostegno,
mentr’ella sforza le senili membra
e sopra il suo potere i passi affretta.
Giunta a’ nemici, urta col petto ignuda
le sbarre, e chiede con tremante voce
715 interrotta da gli urli essere ammessa;
e, - Aprite (grida) il varco, io quella sono
dal cui ventre tanta guerra uscío:
io son quell’empia, ed ho nel vostro campo
anch’io ragione ed esecrabil parte. -
720 Inorridîr le guardie al solo aspetto,
molto più a le parole, e di già un messo
torna, che fu spedito al Rege Adrasto
con ordine che venga: apron le porte,
e la fanno passar tra l’armi ignude.
725 Ma come pria de’ principi lernei
giunse al cospetto, in suo dolor feroce
furïosa gridò: - Deh chi mi mostra
quel ch’io mi partorii fiero nemico?
Qual elmo il cela, o principi? - A tal voce
730 corre di Cadmo il figlio, e fra le braccia
l’accoglie, e ’l seno di gioioso pianto
le bagna, e la consola, e, - O madre, o madre, -
tra’ singulti ripete; e le sorelle
alternamente or si restringe al seno,
735 or alla madre torna. Allor fra’ pianti
la fiera vecchia vie più l’ira inaspra.
- Che lagrime, o crudel? Quai nomi fingi,
Argivo Re? Perchè m’abbracci, e offendi
col ferreo petto l’odïosa madre?
740 Tu quell’esule sei? Tu quel meschino
che mendicava albergo? E chi pietade
non avrebbe di te? Lassa! ma quante
schiere da’ cenni tuoi pender vegg’io?
Da quante guardie ti rimiro cinto?
745 Misere madri! or qual ti veggio? E pure
io piangeva il tuo esilio i dì e le notti.
Ma se de’ tuoi la voce udir ti degni,
se ne ascolti i consigli, or che le trombe
taccion ancora, e la pietà sospesa
750 sta in mezzo a l’armi e l’empia guerra aborre,
io, genitrice tua prego e comando:
vien meco, e i Dei paterni e i patrii tetti
mira pria che gl’incenda, e col fratello
(che, torci il guardo?), col fratel ragiona,
755 ed il regno gli chiedi, ed io fra voi
giudice sederò: che se lo nega,
potrai con più ragione usare il brando.
Temi tu forse che la madre ancora
a le frodi consenta e che t’inganni?
760 Non uscì già da l’infelice casa
ogni pietade: il tuo sospetto appena
giusto saria se ti guidasse Edippo.
Sposa fui, lo confesso, e le mie nozze
ahimè fur empie, e fu nefando il parto;
765 pur tali io v’amo, e i furor vostri io scuso;
che se ancor tu resisti, ecco io t’appresto
volontario trionfo: a tergo lega
le pie sorelle, ed incatena e stringi
la genitrice afflitta; e se non basta,
770 da le sue grotte ti si meni il padre.
Or i miei pianti e le querele io volgo
a voi, principi achivi. In abbandono
lasciaste pur le dolci spose e i figli,
e i vecchi padri, e questi stessi pianti,
775 ch’io spargo, allor versaste. A me rendete,
principi, le mie viscere e ’l mio sangue.
Se tanto caro nel suo breve esilio
a voi si rese (e siavi prego ancora)
quale a me sarà poscia e a questo seno?
780 Non dagli Odrisii regi o dagl’Ircani
sariano escluse mie preghiere oneste;
o s’altri v’ha, che vinca i furor nostri:
o ’l concedete, o duci, o fra le braccia
spirar io voglio de l’ingrato figlio,
785 pria di veder le scelerate guerre. -
Il flebile parlar mosse a pietade
avea le irate schiere, e già d’intorno
si vedean vacillar elmi e cimieri,
e di lagrime pie l’armi cosperse.
790 Quai feroci leon che con il petto
hanno atterrati i cacciatori e l’aste:
placano l’ira, e sopra i corpi vinti
van passeggiando, e certi già del cibo
godon di prolungar l’ingorda fame:
795 Così ne’ Greci s’ammolliano i cuori
e l’insano furor d’armi e di morte,
e Polinice stesso ora fra i baci
de la canuta madre, or fra gli amplessi
de la semplice Ismene, ed or nel seno
800 d’Antigone piangente e che lo prega,
sta in sè dubbio e confuso, e ’l regno oblia.
Già già d’andar non nega, e non gliel vieta
placido Adrasto; ma s’oppon Tideo,
che si rimembra il ricevuto scorno.
805 - Me (grida), me piuttosto al fier tiranno,
che sì fido provai, prenci, opponete
(e non gli era fratello), ancor ne porto
la finta pace e l’empia fe’ nel petto.
Arbitra della fede e della pace,
810 ov’eri, madre allor ch’una sol notte
mi diè fra voi così benigno albergo?
Ad un sì reo commercio il figlio meni?
Menalo prima a quell’infame campo
che fuma ancor del vostro sangue e mio.
815 E tu indur vi ti lasci? O troppo mite!
Qual sia il furor de’ tuoi più non rimembri?
Quando sarai da mille spade cinto,
basterà forse che la madre pianga,
e cesseranno l’armi? Una sol volta
820 ch’ei t’abbia in suo poter, e che ti chiuda
in quelle mura a le sue furie esposto,
puoi tu sperar che ti rimandi al campo?
Prima vedrai quest’asta, il ferro scosso,
rifiorire di frondi e di verdura;
825 l’Inaco prima e l’Acheloo vedremo
retrogradi tornare a’ loro fonti.
Ma sol si cerca d’abboccarli insieme,
e, se possibil fia, compor le risse:
questo campo gli è aperto ed è sicuro.
830 Forse di me si teme? Ecco mi parto,
e dono al comun ben le mie ferite.
Venga egli pure a le sorelle in mezzo,
e ’l riconduca qui la stessa madre.
Quindi che speri? Fa che ’l regno ei ceda
835 vinto da’ patti: il renderai tu poi? -
Dal feroce parlar mosse le schiere
mutan consigli, qual se d’improvviso
turbasi il cielo, e l’Austro procelloso
toglie a Borea del mar tutto l’impero.
840 Si risvegliano l’ire, e pur di nuovo
piacciono l’armi ed i furor primieri.
Vede Megera il tempo, e pronta il coglie,
e sparge a le battaglie il primo seme.
Su la sponda dircea givano errando
845 due mansuete tigri, ed eran quelle
che ’l carro trionfal da’ lidi Eoi
trasser di Bacco, ed ei le avea dal giogo
libere fatte negli aonii campi,
A queste ancor spiranti arabi odori,
850 e che oblïata han la natia fierezza,
solevan le Baccanti e la più antica
sacerdotessa ornare il collo e ’l petto
di pampinosi serti, e ’l maculoso
vello intrecciar di fiori e fregiar d’ostro;
855 e di già care erano a’ campi e a’ colli,
e care ancor (chi ’l crederia!) a l’armento;
e le giovenche intorno a lor muggendo
ardian pascere i prati: ingorda fame
non le spinse a le prede, e di chi ’l cibo
860 porgeva lor, lambivano le destre,
e aprian le fauci e distendeano i colli
a l’infusion del dolce umor di Bacco.
Per le selve dormian; ma se talora
con pacifico passo entrano in Tebe,
865 fumano in ogni casa, in ogni tempio
i sacrifici, e par che Bacco torni.
Queste tre volte con viperea sferza
batte la Furia, e le rivolge in ira
e al furor primo, e dietro sè le mena
870 contro gli Argivi, che non san che sacre
sieno ad un Nume: da diverse parti
scendon così due folgori dal cielo,
solcando l’aria con il crine ardente;
non altrimenti rapide e veloci
875 fremendo orribilmente a corso, a salti
passano i campi, e l’infelice auriga
sbranan d’Anfiarao (presagio infausto
al suo signor, di cui guidava al fiume
i candidi destrieri), ed Ida appresso
880 di Tenaro, e Acamanta il forte Etólo.
Fuggon pei campi e gli uomini e i cavalli;
ma Aconteo nel veder cotanta strage
(er’Arcade costui e cacciatore)
acceso d’ira collo strale in cocca
885 le segue, e scaglia, e replicando i colpi
le impiaga nella schiena e nelle coste.
Quelle fuggendo, e di sanguigna riga
segnando il suol, su le tebane soglie
portano le saette, e moribonde
890 gemono in suon di pianto, e a cader vanno
dell’amata città sotto le mura.
Sembra che i tempii e la cittade a sacco
Vada, e sossopra, e le sidonie case
ardan le fiamme: tanto e tal s’inalza
895 rumor per tutto: avrian minor dolore,
se le cune d’Alcide, o di Semele
il talamo fumante, o d’Ermione
fossero i tetti in cenere disciolti.
Ma del nume ministro il buon Tegeo
900 col brando ignudo Aconteo inerme assale,
ch’era già senza dardi, e che godea
de la doppia vittoria: il suo periglio
miran gli Arcadi, e corrono al soccorso;
ma giungon tardi: su le uccise fiere
905 giace a Bacco il meschin pronta vendetta.
Dassi a l’armi nel campo, ed il concilio
resta disciolto: fra le armate schiere
fugge Giocasta, e più non prega, e seco
fuggon le figlie, e chi le udì pietoso
910 or le respinge irato e le discaccia.
Coglie Tideo l’occasïone, e grida:
- Or ite dunque, e fe’ sperate e pace;
forse ha potuto il perfido tiranno
differire il misfatto in fin che torni
915 da noi partendo la canuta madre? -
Sì dice, e tratto il brando, i suoi compagni
eccita a l’armi. Un rumor fiero e orrendo
s’alza d’urli e di strida, e crescon l’ire.
Senz’ordin ferve aspra tenzone, e ’l vulgo
920 va insiem co’ duci, e non ne cura i cenni,
e corron misti i cavalieri e i fanti
ed i rapidi carri armati in guerra.
Infelice colui che inciampa e cade,
chè la turba indistinta il calca e preme:
925 non di sè pon far mostra, o del nemico
riconoscer le forze; un furor cieco,
una rabbia improvvisa ha di già spinte
la greca gioventude e la tebana
a meschiarsi co’ brandi: insegne e trombe
930 restaro a tergo, e quando diero il segno
di guerreggiar, già la battaglia ardea.
Da poco sangue tanta guerra uscío?
Così ’l vento da prima infra le nubi
sue forze accoglie, e lievemente scuote
935 le frondi e i rami; indi robusto e fiero
svelle le selve, e d’ombre spoglia i monti.
Alme Pierie Dee, le vostre schiere
a noi cantate con più gravi carmi,
e di Beozia vostra i casi atroci.
940 Non vi chieggiam cose straniere e ignote.
Voi le miraste d’Elicona, e mute
restâr le vostre cetre, e inorridiro
al rimbombo di Marte e delle trombe.
Venía Pterela, un giovane tebano,
945 rapito dal destrier, che sprezza il freno,
e di sè donno fra le schiere e l’armi
a suo talento il porta: ecco Tideo
l’astra gli vibra nel sinistro arcione,
e ’l cavalier, ch’è per cader di sella,
950 nell’anguinaglia al palafreno inchioda:
fugge il caval col suo signor sul dorso,
che non più ritien l’armi o regge il freno,
come Centauro, che d’un’alma privo,
sulla schiena abbandona il busto umano.
955 Ferve la crudel pugna, ed a vicenda
Ippomedonte Sibari distende;
e Perifanto è da Meneceo ucciso,
e da Partenopeo Iti trafitto:
un di colpo di spada, un di saetta.
960 Dell’inachio Ceneo l’alta cervice
tronca Emone feroce: il capo cade,
e ad occhi aperti il tronco busto cerca,
e cerca il capo l’alma intorno errante.
Abante corre ad ispogliarlo, e un dardo
965 vien d’arco greco, e glie lo stende a canto,
e ’l suo gli fa lasciare e l’altrui scudo.
Qual consiglio fu il tuo, semplice Euneo,
lasciar di Bacco il culto e i sacri boschi,
onde uscir è vietato al sacerdote?
970 Chi di Lieo ’l furore in quel di Marte
ti fe’ cangiar? Chi d’atterrir presumi?
Porta lo scudo fral d’edera intesto,
e di frondi di vite: il pampinoso
tirso candida fascia intorno cinge;
975 ondeggia il crin sul tergo, e ’l primo pelo
adombra il viso, e la lorica imbelle
copre un manto di porpora di Tiro.
Fra le maniche i bracci, ed i calzari
fregiati e pinti, e sottil velo il seno
980 copre, e s’allaccia la tenaria veste
con fibbie aurate e con smeraldi ardenti:
suonangli a tergo l’arco e cento strali
dentro lo spoglio di dorata lince.
Costui dal Nume invaso infra le schiere
985 venía gridando: - Omai cessate l’armi:
con lieti auspici queste nostre mura
col misterioso Bue mostronne Apollo.
Cessate, dico; volontari i marmi
ne cinsero d’intorno. E noi siam gente
990 a’ Numi sacra, e della nostra Tebe
genero è Giove e suocero Gradivo,
ed esser nostro cittadin si degna
il gran Libero padre e il grande Alcide. -
Mentr’ei così ragiona, a lui s’oppone
995 crollando l’asta Capaneo feroce.
Qual digiuno leon cui sul mattino
sveglia la fame, se da l’antro scorge
timida cerva o tenero giovenco
mal atto ancor a guerreggiar col corno,
1000 lieto corre fremendo, e non curante
lo stuol de’ cacciatori e l’aste e i dardi,
vede la preda, e le ferite sprezza,
tal Capaneo nell’inegual cimento
vien baldanzoso alta brandendo l’asta.
1005 Ma pria lo sgrida: - O tu che a morte corri,
perchè vuoi spaventar l’alme guerriere
con femminili strida? Oh qui pur fosse
teco quel Dio del cui furor sei pieno!
Or va, racconta a le tebane madri
1010 coteste fole: - dice, e l’asta scaglia,
che, quasi nulla la ritenga, appena
tocca lo scudo, che gli passa a tergo.
Cadongli di man l’armi, e ’l manto d’oro
che ’l sen gli cinge; ne’ singulti estremi
1015 ondeggia e geme, e fuor ne sbocca il sangue.
Tu cadi, audace giovanetto, un tempo
dolce cura di Bacco, ora dolore:
te l’Ismaro ognor ebbro, infranti i tirsi,
e te pianse il Timòlo, e la ferace
1020 Nisa, e cara a Teseo l’ondosa Nasso,
e ’l Gange, che per tema a gli orgii sacri
di Bacco sottopose i flutti altieri.
Non men feroce le lernee falangi
Eteocle distrugge; assai più lento
1025 vien Polinice, e ’l civil sangue abborre.
Ma sopra gli altri Anfiarao si mostra
sul carro eccelso, e a tutto corso spinge
i suoi destrier presaghi e paurosi
per l’infame terren, ch’omai ricusa
1030 portarlo in mezzo a un turbine di polve.
L’assiste Apollo, e al suo fedele appresta
un vano grido, e a la vicina morte
intesse fregi di caduco onore.
Ei risplender gli fe’ lo scudo e l’elmo
1035 di nuova luce, di cometa in guisa.
Nè tu, Gradivo, al tuo fratel contendi
che da mani terrene il suo ministro
illeso resti. Venerabil ombra
ed ostia intatta si riserba a Dite:
1040 ed ei, che certo il suo morir prevede,
va più feroce infra le squadre ostili,
e la disperazion forza gli accresce.
Già più che d’uom son le sue membra e ’l volto;
nè mai più lieto giorno a lui rifulse,
1045 nè mai più certa ebbe del Ciel contezza:
se la virtù, che già s’appressa al fine,
tutto a sè nol chiamasse. Avvampa ed arde
tutto di Marte, e del suo braccio gode,
e va de’ colpi suoi l’alma superba.
1050 Questi, che a raddolcir le umane cure
era dianzi sì pronto, e che sovente
solea scemar di lor ragione i Fati,
quanto or diverso appar da quel che i lauri
seguia d’Apollo e i tripodi loquaci,
1055 e che, invocato il Nume, in ogni nube
de’ volanti intendea volo e favella.
Non tanta strage apporta il Sirio ardente
ed il pestifer anno e l’aria grave,
quante vite egli miete e manda all’Orco
1060 vittime uccise alla sua nobil ombra.
Col dardo Flegia, e con il dardo uccide
il superbo Fileo; quinci col carro
di falci armato a le ginocchia tronca
Cromi, e Cremetaon fermo e vicino;
1065 indi coll’asta uccide Ifinoo e Sage,
e Gía chiomato, e Licoréo, che a Febo
è sacerdote; e con dolor mirollo
il buon augure argivo, allor che l’asta
vibrata contro lui gli spinse a terra
1070 il cimiero, e la sacra infula apparve.
Indi Alcatoo d’un sasso in capo fere,
che lungo i stagni di Caristo avea
la moglie, il patrio albergo e i dolci figli
usi a scherzar su le palustri sponde.
1075 Povero pescator visse contento;
ma l’ingannò la terra: egli morendo
s’augura i flutti e l’onde ed i perigli
delle tempeste, che provò men fiere.
Vede d’Asòpo il figlio, il grande Ipseo,
1080 cotanta strage e fuga, ed in sè brama
con generoso ardir volger la pugna.
Non men feroce anch’ei venía sul carro
strage facendo delle squadre greche;
ma visto il paragon d’Anfiarao,
1085 sdegna ignobil trofeo di sangue umíle.
A lui coll’armi e colla mente aspira,
lui solo cerca; ma s’oppon la turba,
e l’impedisce: ond’ei sdegnoso allora
un’asta svelta dal paterno fiume
1090 impugna, e prega: - O delle aonie linfe
copioso donator, che ancor superbo
vai de’ fulmini stessi e delle fiamme
che uccisero i Giganti; o Asopo, o padre,
tuo nume ispira a questa destra: il figlio
1095 è che ten prega, e l’asta istessa un tempo
germe delle tue sponde; e se tu osasti
pugnar con Giove, al figlio almen concedi
svenar il vate e non temer d’Apollo,
e le vedove bende e l’armi vuote
1100 giuro dar in tributo al tuo gran fiume. -
Udillo il padre, e consentì; ma Febo
s’oppose, e torse il colpo, e l’asta il petto
d’Herse trafisse condottier del carro.
Cade morto il meschin; ma il Nume stesso,
1105 sotto sembianza di Aliamone, il freno
prende e succede a l’infelice auriga.
Al vivo sfolgorar del Nume ardente
fuggon confusi i cavalieri e i fanti;
il sol timor li caccia, e senza piaghe
1110 muoion d’imbelle morte i fuggitivi.
Dubbio rimane se più aggravi il carro
il divin peso, o a’ corridor dia lena.
Come qualor precipitosa cade
svelta da gli anni, o da rio nembo scossa
1115 d’alpestre monte discoscesa parte;
per diversi sentier uomini, alberghi,
selve ed armenti in sua ruina involge,
sinchè cessando l’impeto, si spiana
in cupa valle, o il corso arresta a’ fiumi:
1120 non altrimenti il formidabil carro,
che porta il grand’eroe, porta il gran Nume,
ferve nel sangue. Delio stesso i dardi
vibra, e guida i destrieri, ed egli al vate
dirizza i colpi, e in altra parte volge
1125 e rende vane l’aste e i dardi ostili.
Cadono a terra Menala pedone,
e dal gran corsier coperto invano
Antifo, ed Etïon, che d’una ninfa
d’Elicona era nato: e per l’ucciso
1130 fratel Polite infame, e Lampo audace,
ch’osò tentar la purità di Manto
diletta a Febo e di sue bende cinta.
Contro il profano le saette sante
scoccò egli stesso, e vendicò l’oltraggio.
1135 Ma già su’ corpi estinti e su’ mal vivi
gli anelanti destrier cercano indarno
il coperto terreno, e duro solco
s’apron su membra lacerate e infrante,
e ne rosseggian le girevol ruote.
1140 Calca il carro crudel gli esangui busti
e già di senso privi; e chi ferito,
languendo giace, sul suo capo il vede
ratto venir, nè di schivarlo ha speme.
E già lordo il timon, lubrici i freni
1145 son di putrido sangue; un denso limo
di teschi infranti e di midolle invischia
le ruote sì, che le fa lente al moto,
e l’ossa de’ cadaveri insepolti
a’ già stanchi destrier servon d’inciampo.
1150 Il vate ognor più fiero i dardi svelle
nelle ferite infissi, e li rilancia,
e fa nuove ferite e nuove morti,
e gemon l’alme sciolte al carro intorno.
Alfine il Nume al servo suo fedele
1155 si scopre, e dice: - Usa tua forza, e lascia
d’immortal fama il tuo gran nome eterno,
or ch’io son teco, e l’implacabil Morte
sospende ancor l’irrevocabil punto.
Omai siam vinti, e la severa Parca
1160 sai ben che a nullo unqua ritorse il filo.
Vanne, o promesso, ed aspettato un tempo,
gioia ed onore degli Elisii campi;
vanne senza temer del reo Creonte
le dure leggi, e di mancar d’avello. -
1165 Egli da l’armi respirando, al Nume
così risponde: - O gran Padre Cirreo,
io te dianzi conobbi, e men diè segno
l’asse sotto il maggior peso tremante;
ma perchè tant’onore a un infelice,
1170 che tu ne regga il periglioso carro
destinato a l’Inferno? E sino a quando
terrai sospeso il mio destin maturo?
Già sento l’onda rapida di Stige,
e i neri fiumi dell’orrenda Dite,
1175 e l’orrido latrar delle tre gole
del tartareo custode; omai ripiglia
l’a me commesso onor delle tue bende,
e ’l sacro allòr, cui profanar non lice,
portandolo nell’Erebo profondo.
1180 Ma se pur del tuo vate udir l’estreme
voci non sdegni, e i giusti voti suoi;
io ti ricordo l’ingannata casa,
ed il castigo dell’infame moglie,
e del mio figlio il nobile furore. -
1185 Mesto allor scese Apollo, e celò il pianto,
e restò afflitto il carro, e i buon destrieri
si dolser privi del celeste auriga.
Così vede sicuro il suo naufragio
nave agitata da notturno Coro,
1190 cui lo splendor della maligna stella
d’Elena infesta minaccioso guarda,
posti già in fuga Castore e Polluce.
Il suol, che tosto s’aprirà in vorago,
a vacillar comincia, e scuote il dorso,
1195 e s’alza maggior turbine di polve:
mugge sotto l’Inferno; i combattenti
credon che sia il rumor della battaglia,
e si spingono innanzi: il tremor cresce,
e fa l’armi ondeggiare ed i guerrieri
1200 e i trepidi cavalli. I colli intorno
piegan le cime ombrose, e l’alte mura
già crollano di Tebe. Inalza i flutti
gonfio l’Ismeno, e le campagne inonda.
Cessano l’ire: ogni guerriero i dardi
1205 in terra affigge, e a l’aste vacillanti
il corpo appoggia, e nel pallore alterno
conoscendo il reciproco timore,
confuso si ritira a le sue insegne.
Qual se talor sprezzando il mar profondo
1210 a stretta pugna le gran navi accozza
Bellona irata, fervon l’ire e l’armi;
ma se opportuna alta tempesta sorge,
ciascun pensa al suo scampo, e nuovo aspetto
di nuova morte fa deporre i brandi,
1215 ed il timor fa germogliar la pace:
tal l’ondeggiante guerra era in quel campo.
O che la terra, un turbine concetto,
affaticata sprigionò de’ venti
la chiusa rabbia e ’l prigionier furore:
1220 o che dall’onde sotterranee rôsa
in quella parte ruinando cadde;
o quivi in suo girar con l’ampia mole
si posò il cielo, o col fatal tridente
Nettun la scosse, e con più gravi flutti
1225 appoggiò il mar sovra l’estreme sponde:
o il suolo istesso minacciò i fratelli;
ecco aprirsi voragine profonda.
Vider l’ombre la luce, e gli astri l’ombre,
ed ebber vicendevole timore.
1230 L’immane speco nell’immenso vôto
assorbì l’Indovino e i suoi corsieri,
che per passarlo avean già preso il salto.
Non lasciò il sacerdote o l’armi o i freni,
ma qual era sul carro al cupo fondo
1235 ritto discese riguardando il cielo.
E gemè quando riserrarsi il suolo
sopra si vide, e un più legger tremore
rimarginar i fessi campi, e ’l giorno
celar di nuovo al tenebroso Averno.
Poichè fra l’ombre pallide repente
discese il vate, e penetrò di Morte
l’oscure case, e del sepolto mondo
scoprì gli occulti arcani, e diè spavento,
5 ombra armata e guerriera, all’alme ignude,
maravigliando inorridîr d’Inferno
gli abitatori in rimirar intatte
l’armi e i vivi destrieri e ’l sacerdote,
spettacol nuovo! d’ossa e di carne cinto:
10 perchè non arso da funerea pira
scendea a gli abissi e fuor di nero avello;
ma di guerrier sudor grondante e caldo,
collo scudo sanguigno e polveroso
di militare arena, e non ancora
15 l’avea l’Erinni con il tasso ardente
purgato e mondo, nè su l’atra porta
Persefone notato infra gli estinti:
ma prevenendo il suo destin, le Parche
sel videro vicino, e sbigottite
20 lo stame in fretta ne troncâr dal fuso.
Spaventò quel rumore i lieti Elisi,
e s’oltre il primo baratro profondo
sono altre bolge, altri paesi oscuri.
Turbârsi i laghi inferni e i neri stagni,
25 e il nocchier della livida palude
fremè mirando inusitate strade
aprire il suolo al Tartaro profondo,
e fuor del legno suo dar varco a l’Ombre.
Stava per sorte il Re del basso Mondo
30 assiso in mezzo del funesto regno,
del popol morto esaminando i falli
e la trascorsa vita. In lui pietade
non trova luogo, e a tutte l’Ombre è irato.
Stangli intorno le Furie e varie Morti;
35 e in varie guise fa suonar la Pena
catene e ceppi. Le spietate Parche
traggono i stami delle umane vite,
e gli troncan sovente; e pur dell’opra
è maggior la fatica ed il lavoro.
40 Ma il placido Minosse e ’l venerando
fratello ispira al barbaro tiranno
più giuste leggi, e ne rattempra l’ire.
Vi assistono Cocito e Flegetonte
e Stige, ch’al giurar de’ Numi eterni
45 il freno impon d’invïolabil legge;
ed ei quantunque a non temere avvezzo,
pure all’aprirsi della terrea mole
temè le stelle ignote, e ’l torvo ciglio
dal dolce offeso balenar del sole,
50 crollò il gran capo, e minacciando disse:
- Qual superior ruina al cieco Inferno
mostra il nemico Cielo? E chi rischiara
queste tenebre nostre? E chi la morte
quasi richiama a vita, e ne minaccia?
55 Qual de’ fratelli miei guerra m’indice?
Eccomi pronto. Il mal diviso mondo
omai si turbi, e chi di noi più ’l brama?
La terza sorte me dal Polo escluse,
e del colpevol mondo a me diè ’l regno,
60 e questo ancor mi si contende: or ecco
com’egli è aperto alle nemiche stelle.
Esplora forse il tumido germano,
che regna in cielo, le mie forze ascose?
Stansi qui meco gli orridi Giganti
65 che han quasi rotte le catene, e i figli
di Titano, che uscir bramano in guerra
contro de’ Numi, e l’infelice Padre.
Perchè gli ozi miei tristi l’inamena
pace mi turba, e fa bramarmi il giorno?
70 Solo ch’il voglia, aprirò i regni oscuri
e involgerò fra l’ombre inferne il Sole;
io non rimanderò l’Arcade alato
a’ Dei superni (a che a me viene e parte
messagger fra le tenebre e la luce?):
75 io tirerò quaggiuso ambo i gemelli
di Tindaro: e perchè gli eterni giri
d’Issione io non fermo? e perchè l’onda
dell’assetato Tantalo ancor fugge?
Degg’io soffrir che tante volte e tante
80 vengano i vivi a profanar l’Inferno?
Di Piritoo l’impresa e di Teseo,
troppo fedele al temerario amico,
ho ancor in mente, e quando il fiero Alcide
Cerbero seco trasse, e restâr prive
85 del triplice latrar le ferree porte.
Sento sdegno e rossor che ’l tracio Orfeo
penetrasse quaggiù co’ dolci accenti:
io vidi, io vidi al lusinghiero canto
pianger le Furie, e rannodar lo stame,
90 già tronco al fuso le crudeli Parche.
Io stesso... Ma l’irrevocabil legge
fu in me più forte; ed io, che una sol volta,
nè già di furto, al ciel sereno ascesi,
e d’amor punto ne’ sicani campi
95 rapii la sposa, e al letto mio la trassi,
lecito disser che non m’era, e Giove
tosto fe’ leggi inique, e colla madre
barbaramente mi divise l’anno.
Ma perchè parlo indarno? Esci, e vendetta
100 fa, Tesifone, omai del nostro Inferno;
e s’ognor fosti d’esecrandi mostri
feconda, or trova inusitata e grande
sceleraggin funesta, e da le stelle
non più veduta in alcun tempo, e degna
105 che l’invidin tue suore e ch’io l’ammiri:
cadan l’un sovra l’altro in lieto Marte
con alterne ferite ambo i fratelli
(sian questi esordi a le vendette nostre);
altri di fiera in guisa il capo ostile
110 roda feroce con rabbiosa fame:
altri gli estremi roghi a’ corpi esangui
contenda e neghi, e l’aere puro infetti
co’ cadaveri putridi e insepolti.
Veggalo il crudo Giove, e sen compiaccia.
115 E perchè i regni nostri a gli altrui sdegni
soli non sieno esposti, alcun ritrova
che muova guerra a’ Numi, e del Tonante
la folgore respinga e al ciel contrasti.
Io farò sì che non più facil sembri
120 del Tartaro turbar l’oscure sedi,
che monti imporre a monti e Pelio ad Ossa. -
Disse, e al suo dir tremò l’orrenda reggia
e ’l suol, cui preme, e ’l superior terreno.
Non con forza maggior scuote il Tonante
125 le stelle e i Poli, se ’l gran capo muove;
e, - A te (soggiunse) che quaggiù scendesti
per illecite vie, quai pene appresto? -
Il sacerdote allor fatt’ombra lieve
ed invisibil quasi a gli occhi altrui,
130 di già consunte l’armi e già pedone,
ma conservando (ancor che spirto ignudo)
l’onor del sacerdozio, e sulla fronte
le oscure bende, e ’l ramuscel d’oliva
pallida in mano, al crudo Re rispose:
135 - Se lece, e s’è permesso alle sacr’Ombre
scioglier la voce, e in questi luoghi, o estremo
ricetto e fine delle cose al vulgo,
che poco intende, ma principio e fonte
a me, cui le cagioni e gli elementi
140 fur sempre noti; le minacce affrena,
e placa il cuor turbato, e non far degno
dell’ira tua chi le tue leggi apprezza.
A l’erculee rapine io non discendo.
Donde in me tanto ardir? Nè impuro amore
145 (credilo a queste bende) è che mi guida.
Non si nasconda nelle oscure grotte
il can trifauce, nè del nostro carro
Proserpina paventi: io fui poc’anzi
augure e caro a gli apollinei altari.
150 Giuro per lo tuo Caos (e vano fora
giurar quaggiù per Febo), alcun mio fallo
reo non mi fe’ di così nuova morte,
nè meritai per così strane vie
esser tolto a la luce. Il sa ben l’urna
155 del giudice cretense, e può Minosse
scoprirne il vero: da l’infida moglie
tradito, e a prezzo d’esecrabil oro
venduto, e del mio mal certo indovino
m’ascrissi a l’armi argive, onde tant’alme
160 scesero a te poc’anzi, e di mia mano
certo non poca e non ignobil parte.
Con subita vertigine dal mondo
(inorridisco!) me fra mille schiere
la tua gran notte nel suo abisso immerse.
165 Quale mi feci allor che per lo vano
della terra pendente e per l’opaco
aere discesi? Ahi che di me non resta
nulla agli amici, a la mia patria, o almeno
spoglia e trionfo a la nemica Tebe.
170 Io non più rivedrò le argive mura,
nè ’l mio mortale in cenere raccolto
tornerà al mesto padre; e senza tomba,
senza l’onor del rogo e senza pianti
coll’esequie mie intere e co’ destrieri
175 (ma per nulla tentare) a te ne vengo.
Nè già ricuso convertirmi in ombra,
ed i tripodi miei porre in oblio.
C’hai tu che far de’ vaticini nostri,
se a tuo voler filan le Parche i fati?
180 Deh placa l’ira, e mansueto e pio
ti mostra a me più de’ superni Numi.
Ma quando a te verrà la moglie infame,
a lei serba i supplicii e l’aspre pene:
essa, o buon Re, dell’ira tua è più degna. -
185 Pluto esaudì le preci, e n’ebbe scorno.
Così leon del cacciator massile
se vede incontra balenarsi il ferro,
si muove a l’ira, e l’unghie arruota e ’l dente;
ma se cade il nemico e a terra giace,
190 sol gli va sopra, e dà la vita al vinto.
Cercano intanto sbigottiti i Greci
ove sia il carro sì temuto in guerra,
e insigne per le bende e per l’alloro,
nè da forza mortal vinto o fugato.
195 Si ritiran le schiere, e ognun paventa
l’infelice terreno, e al luogo infausto
giran da lungi timidi i guerrieri:
e ciò ch’è intorno a l’avida vorago
cessa da l’armi, e s’ha rispetto e tema
200 alla tomba infernal del vate assorto.
Ma Palemon, che da vicin lo scorse
precipitar nel cupo fondo, e appena
agli occhi propri il crede, al vecchio Adrasto,
ch’eccitava le schiere a la battaglia
205 in altra parte, spaventato corre
pallido ancora per l’immane speco
che dinanzi si vede; e: - Fuggi (grida),
fuggi, o buon re, s’ove fuggir ci resta,
s’è ancora il suol natio, s’ancora stanno
210 le mura d’Argo e le paterne case.
A che l’armi adoprar, spargere il sangue?
Che giova il ferro contro Tebe? Il suolo
per lei combatte, e i guerrier nostri ingoia
e l’armi e i carri: ahi che fuggir mi sembra
215 sotto i piedi il terren che ora calchiamo.
Vidi il cieco sentier dell’ombra eterna
io stesso, e vidi nell’aperto piano
precipitar colui che mentre visse
fu così caro a le presaghe stelle,
220 il diletto d’Apollo Anfïarao;
e in van gridai, la mano invan gli stesi.
Maraviglie io racconto: ancor fumante
resta il terreno, e son di spuma aspersi
gl’infami campi, e vi son l’orme impresse
225 del carro e de’ destrieri. Il suol crudele
non è con tutti; i figli suoi risparmia,
e stan sicure le tebane schiere. -
Stupisce Adrasto, e non sa ben se ’l creda;
ma Mopso e Attor narran le stesse cose,
230 e la Fama le accresce, e forza acquista
dal novello terrore, e narra e finge
più d’un guerriero assorto. Al fiero annunzio,
senz’aspettar che delle trombe il suono
chiami a raccolta, di spavento piene
235 fuggon le schiere; ma la fuga è lenta,
ed a la brama non consente il piede.
Par che i destrieri stessi abbiano mente,
così sen van dubbiosi, incerti e lenti,
nè temono gli spron, nè mutan passo;
240 ma timidi adombrando e a capo chino
non osan sollevar da terra il guardo.
Gl’incalzano i Teban: ma fuor conduce
i cavalli di Cintia Espero oscuro;
breve quïete e momentanea pace
245 ebbero allora i Greci, e l’atra notte
più di tema arrecò che di riposo.
Qual fu la faccia allor del campo afflitto,
poichè il dolersi fu permesso? Quante
lagrime uscîr, poichè fur sciolti gli elmi?
250 Nulla a’ miseri giova, ed in non cale
pongon gli usi guerrieri, e l’armi e l’aste
scagliano lungi, ed i sanguigni scudi,
quali di guerra uscîr, nè alcun li terge.
Non v’ha chi cura de’ destrier si prenda,
255 o chi su gli elmi le gran piume assetti.
Fasciano appena le ferite aperte
e le più gravi; tal per tutto è doglia!
Nè permette il timore a’ corpi lassi
porger ristoro cogli usati cibi,
260 e rinnovar le forze a nuova pugna.
Solo delle tue lodi in mezzo a’ pianti,
Anfïarao, si parla, e del profondo
saper, con cui tu discoprivi il vero.
- Teco (dicean) partîr dal campo i Numi.
265 Ov’è il carro laurigero, e le insigni
armi, e di bende l’intrecciato elmetto?
Son questi gli antri ed i castalii fonti?
Questa de’ sacri tripodi è la fede?
Così Apollo t’è grato? E chi degli astri
270 fia che sveli gl’influssi; e ciò che voglia
la folgore sinistra; e nelle fibre
qual Dio si mostri; e del partir il tempo
qual sia, qual di fermarsi, e della pace
e della guerra ne distingua l’ore?
275 A chi prediran più gli augelli il fato?
La pugna a noi funesta e ’l tuo destino
tu prevedesti, e pur dell’armi infauste
(tant’era in te virtù) fosti compagno.
E quando instava già l’ora fatale
280 e l’aperto terreno, era tua cura
far de’ Tebani strage: ancor tremendo
a gl’inimici in morte, e ti vedemmo
scender coll’asta d’ostil sangue aspersa.
Or qual è la tua sorte? A te permesso
285 fia mai l’uscir dal tenebroso Inferno,
e ritornar di sopra? O pur contento
stai con le Parche amiche, ed il futuro
con vicenda concorde insegni e impari?
O forse impietosito il Re dell’Ombre
290 te mandò a’ boschi del felice Eliso
i voli ad osservar de’ fausti augelli?
Ovunque sei, tu sarai sempre a Febo
rinnovato dolore, eterna pena.
Tacerà Delfo, e piangerà gran tempo
295 tua morte acerba: questo dì funesto
chiusi terrà di Tenedo gli altari,
e Cirra e Delo, cui nascendo Apollo
stabile rese, e le presaghe grotte
di Branco; nè fia più chi su le soglie
300 di Claro preghi, o chi consulti il tempio
di Didime, o le sorti in Licia cerchi:
del cornigero Amon fian muti i boschi;
e la quercia fatidica e ripiena
del molosso Tonante, ed i timbrei
305 oracoli ch’Apollo in Troia rende;
anzi gli stessi fiumi e i sacri allori
inaridirsi brameran per doglia.
Non predirà con i presaghi canti
il Ciel più il vero, e non vedrem gli augelli
310 l’aria solcar con misteriosi voli:
ma ben tempo verrà che altari e tempii
ti fieno eretti, e a le divote turbe
renderan tue risposte i sacerdoti. -
Questi gli onor fur ch’al duce e vate
315 rese concordemente il campo argivo
di pira invece e di funereo rogo,
e dell’esequie e della tomba lieve.
Quindi cade l’ardire in ogni petto,
e s’ha in odio la guerra: in cotal guisa,
320 morto Tifi repente, i Minii audaci
restâr conquisi, e men sicuro il pino
lor parve, e i remi debili e fallaci,
e al lor cammin soffiar più fiacco il vento.
Ma negli animi lassi il parlar lungo
325 e ’l molto sospirare a poco a poco
scemo aveva il dolore, e l’atra notte
sopìa le cure, e fra’ singulti e i pianti
facil l’entrata avea trovata il sonno.
Simile già non fu la notte in Tebe,
330 e nelle piazze e ne’ paterni alberghi
la consumaro in giuochi. In su le mura
ebre stanno le guardie e sonnacchiose.
I timpani ed i cembali risuonano
per tutto a gara, e le forate tibie:
335 allor fra le carole i Numi lodano,
e cantano, e raccontano per ordine
i cittadini Dei; le fronti e i calici
fregian di vaghi serti, e le incoronano:
ora d’Anfïarao la tomba irridono;
340 or fin al cielo il lor Tiresia inalzano,
ora degli avi lor tesson catalogo,
e della lor città dicon l’origine.
Cantano questi di Sidone i flutti,
e la fanciulla che al divino amante
345 palpa le corna, e ’l bue che solca il mare:
quelli rammentan Cadmo, e la già stanca
vacca, d’uomini armati il suol fecondo:
chi di Semele il parto, e chi racconta
della figlia di Venere le nozze
350 al letto nuzïal fra mille faci
accompagnata da’ fratelli amori.
Cantasi alcun bel fatto in ogni mensa,
come se allora il loro nume Bacco
col tirso domi i regni dell’Aurora
355 e l’Idaspe gemmato, il popol nero
in trionfo traesse e gl’Indi ignoti.
Fam’è che allor per la primiera volta
Edippo uscisse di sue grotte oscure,
ove giacea sepolto agli occhi altrui,
360 nè schivasse seder fra liete mense,
e che allegro nel volto il suo canuto
squallido crin ricomponesse, e i detti
degli amici accogliesse, ed i conforti
ed i piaceri fino allora esclusi.
365 Anzi gustò de’ cibi, e terse il sangue
su le guance rappreso: ed ei che avvezzo
era solo a trattar co’ Numi inferni,
con Pluton, con le Furie, e di querele
Antigone pagar che lo reggea,
370 fatto repente affabile e cortese,
parla e risponde: ognun stupisce, e alcuno
la ragion non ne intende. A lui non cale
il trionfo de’ suoi: la stessa guerra
è che gli piace e giova, e ’l figlio loda,
375 e l’esorta a seguir; nè però brama
ch’ei resti vincitor. Con voti iniqui
ei già contempla le fraterne spade,
e d’ogni sceleranza il primo seme,
quindi il piacer de’ cibi e i gaudi nuovi.
380 Così Fineo, dopo una lunga fame
sofferta in pena, nel reale albergo,
da che più non sentì strider le Arpie
(non ben sicuro ancor), le mense, i letti
e i calici trattò non più turbati
385 da’ sozzi ventri e dall’immonde penne.
Dormiva intanto la falange argiva
stanca da l’armi e da’ pensier funesti:
ma da la tenda sua, ch’è in alto posta,
vegliava Adrasto, ed i tripudii udiva
390 della nemica Tebe, ancor ch’ei fosse
per la senile etade infermo e lasso.
Ma il supremo comando (o di chi regna
misera legge!) su le altrui sciagure
a vegliare lo forza. I bronzi cavi
395 e le forate tibie a lui del sonno
turban la pace, ed i clamori insani.
Vede mancar le faci, e delle scorte
quasi i fuochi sopiti e moribondi.
Così fra l’onde d’un egual sopore
400 la nave oppressa tace, ed in profondo
sonno la gioventù del mar sicura
giace sopita. Il nocchier solo è desto,
e seco il Nume che presiede al legno.
Era già ’l tempo che i febei destrieri
405 sente accoppiarsi al luminoso carro
Cintia, e muggire l’Oceàn profondo
a lo spuntar della novella luce,
e se stessa raccoglie e si ritira,
e con lieve flagel scaccia le stelle.
410 Adrasto allor mesto concilio aduna,
e ricercan gemendo i Greci afflitti
chi a’ tripodi succeda e al sacro alloro,
e a le vedove bende, e di concorde
voler scelgon fra lor Tiodamante
415 per fama insigne e di Melampo figlio.
Seco soleva Anfiarao de’ Numi
partir gli arcani e degli augelli il volo;
(nè invidïando a sua virtù) godea
di vederselo eguale o almen secondo.
420 Quegli per il novello onor confuso,
l’alta gloria improvvisa e ’l lauro offerto
umile adora, e a sì sublime incarco
inegual si confessa e lo ricusa,
e in ricusando più sen mostra degno.
425 Così di perso Re tenero figlio,
per cui meglio era che vivesse il padre,
timido siede su l’avito soglio,
e ’l nuovo onor colla paura libra:
se i proceri sian fidi, e ubbidïente
430 a le sue leggi il vulgo; a chi commetta
le caspie porte, a chi l’Eufrate in guardia:
l’arco e ’l destrier paterno ardisce appena
trattare: e troppo grave a la sua mano
lo scettro sembra, ed il suo capo angusto
435 del serto imperïal non ben capace.
Poichè l’infule sacre al capo attorse
il nuovo vate, ed ebbe fausti i Numi,
tra lieti applausi e tra festive grida
girò pel campo, ed a placar la Terra
440 tosto s’accinse, e l’approvaro i Greci.
Dunque comanda che di vive piante
e di verdi cespugli insieme intesti
s’ergan due altari, ed a la madre antica
dona i suoi doni: innumerabil fiori,
445 e cumuli di frutta, e ciò che l’anno
in sè tornando rinnovella; e ’l latte
sopra vi sparge, indi così ragiona:
- O madre eterna degli eterni numi
e de’ mortali, che produci e crei
450 e fiumi e selve, e innumerabil’alme,
e del mondo ogni seme, e che animasti
a Prometeo le mani, a Pirra i sassi;
che all’uomo desti gli alimenti primi,
e che ’l rinnovi ognor col sen fecondo;
455 che l’Oceàn circondi e lo sostenti:
tu le innocenti gregge e le iraconde
fiere porti sul dorso, e dài riposo
a gli augelli volanti, e dell’eterno
mondo sei ferma e invïolabil sede;
460 intorno a te, che pendi in l’aer vano,
ruotan del cielo le veloci sfere,
e de’ maggior pianeti ambedue i carri,
o mezzo infra le cose, e non diviso
fra’ celesti fratelli e comun regno.
465 Dunque eguale nutrice a tante genti
tu sola basti a sostenere il pondo
de’ popoli che a te premono in giro
sopra, sotto e da’ lati il globo immenso
di tante nazïoni, e di tant’alme
470 cittadi eccelse; e ’l mauritano Atlante,
che folce gli astri sul tuo dorso, porti
quasi leggero peso, e noi ricusi?
Noi soli ti siam gravi? E qual ignoto
delitto ne fa rei di tanta pena?
475 Forse perchè venghiam gente straniera
da le contrade d’Argo? Ogni terreno
è patria all’uomo. Ottima madre, a noi
non voler assegnar confini angusti,
quasi ad ignobil vulgo: a l’armi nostre
480 egual ti mostra e a le tebane, e lascia
che spiriam l’alme forti in giusta guerra,
e le rendiamo al Cielo, e non rapirci
con improvvise tombe i corpi vivi.
Non ci affrettare: per diverse vie,
485 qual prescritto è a ciascun, tutti verremo.
Noi ti preghiam; sta ferma, e le pelasghe
schiere sostenta, e la veloce Parca
non prevenire. E tu, diletto a’ Numi,
cui non sidonio ferro o mortal destra
490 estinse, ma Natura, il duro seno
aperto, nelle viscere t’accolse,
quasi entro il meritato antro cirreo;
deh in noi, pregato, il tuo saper infondi,
ed il Ciel ne concilia e i sacri altari,
495 e i fati a te già noti a me rivela.
Io t’offrirò votive ostie presaghe,
e interpetre fedel del tuo gran Nume
te invocherò, quandunque taccia Apollo.
Più di Cirra a me sacro e più di Delo
500 questo luogo sarà, dove cadesti. -
Ciò detto, e nere gregge e neri armenti
vivi sotterra, e sopra di essi inalza
gran tumulto d’arena, e in cotal forma
d’immaginario avello il vate onora.
505 Ciò si facea tra’ Greci, allor che udiro
di Tebe uscir tale un rumor di guerra,
di timpani e di trombe un tale invito,
che in fretta li costrinse a prender l’armi.
Su la cima di Teumeso Megera
510 scuote la chioma serpentina, e i fischi
mesce a le trombe, e fa più acuto il suono.
L’ebbro Citero e l’alte torri, avvezze
a seguir miglior canto, inorridiro
al non usato strepito di Marte.
515 Bellona stessa le ferrate porte
urta e spalanca, e tutta Tebe è aperta.
Quasi per sette bocche escon al campo
confusi e misti e cavalieri e fanti
e carri, e fansi l’un a l’altro impaccio.
520 Sembra che i Greci abbiano a tergo; tanto
s’affollano a le porte: esce Creonte
per l’Ogigia, e sen vien per la Neíta
Eteocle feroce; il forte Emone
sgorga per l’Emoloida, e la Pretida
525 fuor manda Ipseo; quindi l’Elettra ingombra
il gran Driante; con robusta mano
l’Ipsista scuote Eurimedonte altero,
e la Dircea sta di Meneceo in guardia.
Così talora il Nilo in sè nascoso
530 sugge a gran tratti orïentali nembi,
e dell’opposto ciel gli umidi influssi;
poscia il tesoro dell’ignoto fonte
divide, e porta in abbondanza le acque
per sette foci all’Oceàn profondo:
535 fuggono le Nereidi, e i dolci flutti
non pon soffrir di quei novelli umori.
Escon dal vallo a passi tardi e lenti
i Greci afflitti, e più d’ogn’altro stuolo
vengono meste le falangi elee,
540 quelle di Lacedemone e di Pilo
vedove e prive del lor duce e vate,
seguendo il nuovo lor Rege improvviso,
non bene avvezze ancora al suo comando.
Nè solo te cercan tue fide genti,
545 primo fra’ vati; ma ciascuna schiera
crede che a lei tu manchi, e men sublime
il settimo cimier sorge nel campo.
Qual se in l’umido Polo invida nube
un astro invola alle parrasie stelle,
550 tronco ne resta il carro, e d’una luce
scemo risplende il cielo, e i naviganti
in numerar le stelle incerti stanno.
Ma già mi chiaman l’armi: in me rinforza,
Calliope, i carmi, e più sonora cetra
555 mi doni Apollo: il feral giorno adduce
a’ popoli vogliosi e furibondi
su facil’ali l’ultimo momento.
Uscita fuori della stigia gora
la Morte a cielo aperto il campo ingombra
560 co’ tetri vanni, e col suo nero ammanto
eccita all’armi le nemiche squadre;
nè vuole alme plebee, ma quelle sceglie
che per etade e per valor più degne
di vita sono, e con sanguigno serpe
565 le nota e le distingue. I fusi interi,
tolti a le Parche, delle Parche invece
troncan le Furie agl’infelici, e Marte
con l’asta ancor non sanguinosa stassi
nel mezzo al campo, e ’l risplendente scudo
570 or volge a questi ed or a quelli, e a l’armi
tutti gli instiga, ed oblïar lor face
i cari alberghi, le consorti e i figli.
Scordansi ancor le patrie, e quel, ch’estremo
parte da noi, dolce di vita amore.
575 Tiene il furor pronte le mani a’ brandi,
bolle l’ardir ne’ petti, e par che voglia
uscir fuor degli usberghi, e orribilmente
tremano sovra gli elmi i gran cimieri.
Ma che stupor se cotant’ira accende
580 l’alme guerriere? Ogni destrier rassembra
che spiri fuoco e che la pugna agogni:
smalta il molle terren di bianche spume,
e quasi al corpo del signore unito
par che de’ sdegni suoi tutto s’informi;
585 tutti rodono i freni, e la battaglia
col feroce nitrir chiedono a prova:
s’ergono in alto, e i cavalier sul dorso
scuotono impazïenti, ed ecco il segno,
e già spingonsi al corso: immensa polve
590 s’alza per tutto, e l’uno e l’altro stuolo
vassi a incontrar con frettolosi passi,
e lo spazio di mezzo ognor decresce.
Urta scudo con scudo, elmo con elmo,
brando con brando, piè con piede, ed urta
595 asta con asta, e in sanguinosa pugna
si mischiano le schiere, ed a vicenda
si riscaldan co’ fiati, e son confuse
insiem le penne de’ nemici elmetti.
Pur vago della guerra è ancor l’aspetto.
600 Ogni cavallo ha il cavalier sul dorso;
ogni carro il suo auriga, e sovra ogn’elmo
svolazzano le creste, ed a lor luogo
stanno ancor l’armi, ed ogni scudo splende
a’ rai del sole, e sono ancor adorne
605 e le faretre e i militari cinti;
nè il sangue ancor toglie splendor a l’oro.
Ma poi che crudel rabbia, empia virtude
prodiga delle vite i cuori accese:
non con impeto tal piomban dall’Arto
610 il Rodope a ferir nevi gelate:
non con tanto rumor l’Ausonia turba
Giove, qualor tuona da tutto il cielo;
nè di grandin maggior le Sirti inonda
Borea, qualor da le latine spiagge
615 in Libia porta turbini e procelle.
Velano il dì co’ dardi, e per lo cielo
volan nubi di ferro, e l’aria immensa
appena par che a cotant’armi baste.
Altri i dardi avventati, altri i respinti
620 mandan tornando a morte. A mezzo il calle
scontransi spesso le ferrate travi,
e cadon vane a terra; asta con asta
concorre a pugna: grandine di sassi
scaglian le frombe, e le veloci palle
625 van del fulmin più preste, e le saette
volan per l’aria con diverse morti.
Nè più v’è luogo ove un sol colpo a terra
cada; ma van tutti a ferir ne’ corpi.
L’un l’altro uccide, e l’uno l’altro abbatte
630 spesso senza saperlo, e di virtude
sostien le veci il caso; or questa turma
s’avanza e incalza, or si ritira e cede,
ed or acquista, or va perdendo il campo.
Siccome allor che minaccioso Giove
635 scatena i venti e le procelle irate,
e con alterno turbine flagella
il basso mondo: nel celeste campo
stan due contrarie schiere, ed or più forte
è il nembo d’Austro, or d’Aquilon la forza,
640 finchè pugnando i turbini, o quel vince
colle sue piogge, o questo col sereno.
Ecco, figlio d’Asopo, il grande Ipseo
dà principio a la pugna, e le spartane
squadre respinge (avea la fiera gente
645 per lo natio valor gonfia e feroce
co’ scudi aperte le tebane schiere)
e primo uccide il duce lor Menalca.
Costui per alma e per virtù lacone
e dell’Eurota alunno, e che disnore
650 non fece a gli avi, si strappò dal petto
per l’ossa e per le viscere squarciate
l’asta ch’entrava, acciò che a tergo uscendo
non lo macchiasse di vergogna e scorno,
e con debile man del proprio sangue
655 tinta al fiero nemico la rimanda.
Ei nel morire il suo natio Taigeto
Rimembra, e le sue imprese, e quei flagelli
cui da fanciullo l’avvezzò la madre.
Tende Aminta teban l’arco, e di mira
660 Fedimo prende. O troppo pronta morte!
Fedimo sul terren già moribondo
langue: nè tace ancor l’arco d’Aminta.
Il calidonio Agreo di Fegea tronca
la destra mano: essa ancor guizza, e ’l ferro
665 impugna e muove. Tra l’altr’ami sparsa
sopra del suolo paventolla Aceste,
e benchè tronca la ferì di nuovo.
Ifi Atamante, ed il feroce Ipseo
Argo distende, e Abante Fereo uccide,
670 ma con diverse morti: è cavaliero
Ifi, ed Argo pedone, Abante auriga;
uno in gola, un nel fianco e ’l terzo in fronte
cadon feriti: due gemelli argivi
di Cadmo ucciser due gemelli ascosi
675 sotto gli elmetti chiusi.Oh della guerra
ignoranza crudel! Ma poi che scesi
li dispogliaro e ’l lor misfatto apparve,
mesti, dolenti, afflitti e quasi immoti
si miraro i fratelli, e n’ebber doglia.
680 Iön di Pisa abitatore atterra
Dafni di Cirra, i suoi destrieri avendo
pria spaventati: gli applaudì dall’alto
Giove: del suo cirreo sentì pietade,
quantunque tardi e inutilmente, Apollo.
685 Ma la fortuna quinci e quindi illustra
due forti eroi nel sangue ostil feroci.
Emon tebano i Greci urta e flagella,
e Tideo preme le dircee falangi.
A questo Palla, a quello assiste Alcide.
690 Come scendon da’ monti a un tempo istesso
due rapidi torrenti, e ’l piano inondano
con subita ruina, e par che a gara
faccian tra lor chi più rapisca i campi
o più soverchi i ponti: ecco una valle
695 lor dà ricetto, e ne confonde l’acque:
ma superbo ciascun del proprio corso
negano al mar portar unite l’onde.
De’ combattenti in mezzo Ida d’Enchesto
giva scorrendo con accesa face,
700 e colla fiamma disgombrando il calle,
e scompigliava e ponea in rotta i Greci:
allor che da vicin del gran Tideo
l’asta gli spezzò l’elmo e lo trafisse.
Cad’ei supino, e molto spazio ingombra;
705 tien l’asta in fronte, e la caduta fiamma
gli circonda le tempie; allor l’insulta
il vincitore: - Non chiamar crudeli
gli Argivi, no; noi ti doniamo il rogo
colle tue faci e col tuo fuoco: or ardi. -
710 Indi qual tigre che nel primo sangue
la rabbia accese e a tutto il gregge anela,
Aone con un sasso, e colla spada
Folo e Cromi ferisce; indi coll’asta
i due fratelli Elicaoni uccide,
715 che già da Mera, dell’egea Ciprigna
sacerdotessa, della diva in onta
fur generati di furtivo amplesso.
Miseri, voi giacete! E i fieri altari
circonda ancor la supplichevol madre.
720 Con non minor furor l’erculeo Emone
sitibondo è di sangue, e mille schiere
col brando insazïabile trascorre.
I fieri Calidonii urta e fracassa;
turba quei di Pelene, e della mesta
725 Pleurone abbatte i giovani feroci;
finchè già rintuzzato il brando e l’asta,
l’ollenio Buti, che le schiere affrena
e lor vieta la fuga, aggiunge e assalta.
Era giovine Buti, e ’l fean palese
730 le intatte guance e ’l non tosato crine,
quando improvvisa a lui su l’elmo scese
la tebana bipenne. Ambe le tempie
cadon partite, e la divisa chioma
di qua, di là sovra le spalle pende,
735 e a lui, che non attende e non sen guarda,
innanzi tempo il vital filo tronca.
Poscia il biondo Polite, Ipari il biondo
(l’uno a Febo nudriva il molle viso,
e l’altro a Bacco la lasciva chioma)
740 del pari uccide. O troppo ingrati Numi!
Appresso a questi Iperion distende,
e Damaso, che in fuga era rivolto,
ma l’asta del guerrier lo coglie a tergo,
e per l’usbergo passa, e nello scudo
745 si caccia, e lungi su la punta il porta.
Strage maggior nelle lernee falangi
farebbe Emon: perocchè Alcide i dardi
gli drizza, e a lui dà forza; ma Tideo
Palla gli oppone, e già si stanno a fronte
750 co’ tutelari Numi; allora Alcide
parlò primier, ma placido in sembianza:
- Fida germana, qual error di guerra,
qual sorte insieme a battagliar ne guida?
Forse un sì reo misfatto ordisce Giuno?
755 Pria mi vedrà (benchè nefanda ed empia
impresa fora) al fulmine trisulco
opporre il petto, e contrastar feroce
col mio gran padre. Dal mio ceppo scende
Emon; ma se tu l’odii, io lo ricuso:
760 nè se contro Ila e contro Anfitrione
(qualor tornasse in vita) il tuo Tideo
vibrasse l’asta, a lor farei riparo.
Ben mi sovvien, nè fia ch’unqua l’obblii,
quanto per me questa tua destra invitta
765 sudasse, e questo tuo gorgoneo scudo,
allor che tutto andai vagando il mondo
servo infelice in duri casi involto:
ita saresti meco anche a gli abissi;
ma i Dei superni non ammette Averno.
770 Tu il ciel, tu il padre a me donasti. A tante
grazie qual mai potrò donar mercede?
Se vuoi Tebe appianar, io l’abbandono,
e cedo al tuo volere e perdon chieggio. -
Sì disse, e già partia: l’altera Dea
775 placossi al suono del parlar gentile,
e serenò ’l sembiante, e su ’l Gorgone
sgonfiando i colli, si posâr le serpi.
Sente partirsi il nume, e già più lenti
i dardi vibra l’infelice Emone,
780 e ne’ languidi colpi il vigor primo
non riconosce, nè l’usata destra.
In lui manca l’ardire, e ’l timor cresce,
nè si vergogna ritirarsi: allora
più feroce Tideo l’incalza e preme,
785 e maneggevol solo alla sua mano
libra un’asta ferrata, e a certo segno
la drizza, e al sommo dello scudo mira,
ove confina la goletta e ’l colpo
è più mortale; nè ingannollo il braccio.
790 Già portava la morte il crudo cerro,
ma nol permette, e l’omero sinistro
sol gli lascia lambir con lieve piaga
grata al fratello la tritonia Dea:
più non sta fermo Emon, nè più s’appressa
795 al gran nemico, e non ne soffre il volto,
e virtude e speranza in lui vien meno.
Qual setoso cinghial, cui nella fronte
con non felice man confisse il ferro
il cacciator, nè al cerebro pervenne:
800 l’ire esercita in fianco, e più non osa
gir contro l’asta che provò sì fiera.
Ecco vede Tideo Proteo tebano,
condottier d’una squadra, i Greci suoi
mandar con certi colpi a certa morte.
805 S’accende ad ira; vibra il pino, e lui
d’un colpo solo e ’l suo caval trafigge.
Cade il destrier sul cavaliero, e mentre
cerca ei la briglia, su la faccia l’elmo
gli calca, e sopra il sen preme lo scudo,
810 sin che col sangue il fren gli esce di bocca,
e morto cade al suo signore accanto.
Così talora avviticchiati insieme
cadon dal monte Gauro, e a doppio danno
del povero cultor, l’olmo e la vite
815 miseri al par; ma più scontento l’olmo,
che i tronchi rami suoi non piange tanto,
quanto della compagna i tralci amati
e l’uve amiche, suo mal grado infrante.
Prese avea l’armi contro il campo greco
820 Corebo d’Elicona, amico un tempo
e compagno a le Muse. Il dì fatale,
conscia de’ stami inferni, e dalle stelle
pria conosciuto, a lui predetto aveva
Urania, e pur l’armi e le guerre agogna
825 (e forse per cantarle) il garzon folle.
Ei cade, e nel cader degno si rende
ch’altri lo canti; ma le afflitte Muse
mute restaro, e l’onorâr co’ pianti.
Fin da’ più teneri anni era promessa
830 ad Ati Ismene, e non venía straniero,
benchè di Cirra, il giovane gentile
a questa guerra, e non avea in orrore
in suo favor de’ suoceri le colpe:
la fa il casto pallor a lui più grata,
835 e le accresce beltà l’indegno lutto.
Era anch’egli leggiadro, e non nudria
la vergine da lui diverse voglie;
e l’un dell’altro, se fortuna a mezzo
non troncava i disegni, erano amanti.
840 Ma la guerra crudel vieta le nozze;
quinci di maggior ira acceso il seno
vien furïando, e le lernee falangi
ora pedon col ferro urta e scompiglia,
ora sovra un corsier, quasi dall’alto
845 il rimirasse Ismene, i Greci assalta.
Di triplicata porpora coperte
le spalle ancor crescenti e ’l molle petto
gli avea la madre, e del destrier gli arnesi
e l’elmo e le saette erano d’oro,
850 e le maniche e ’l cinto, e su ’l cimiero
(perch’ei non gisse men d’Ismene adorno)
l’oro increspato svolazzava al vento.
Misero! ei vano de’ pomposi fregi
osa i Greci sfidare, e fatta strage
855 nelle men forti squadre, a’ suoi sen riede
colle acquistate spoglie, ed or uccide
un guerrier, or ritorna al suo drappello.
Qual giovane leon ne’ boschi ircani
nudo ancora di pelo, e non tremendo
860 per l’onor delle giube, e non ancora
avvezzo a ber de’ generosi il sangue,
poco lungi a le stalle il vile armento,
quando è il pastor lontano, ardito assalta,
e d’un tenero agnel pasce la fame.
865 Tale Ati, a cui noto non è il valore,
nè l’armi di Tideo; ma lo misura
solo dal corpo, nol paventa, e ardisce
con debil dardo, mentre quei minaccia
gli altri e gl’incalza, di tentarlo. Al fine
870 gli occhi il fiero rivolge a’ colpi frali,
e amaramente ride: e, - Ben m’avveggio,
temerario garzon, (dice) che aspiri
a glorïosa morte. - Indi sdegnando
usar contro un fanciul la spada e l’asta,
875 apre appena le dita, e lieve strale
sfuggir ne lascia, che qual fosse un grave
acuto cerro e con vigor scagliato
gli passa l’anguinaglia e ’l fere a morte.
Sdegna Tideo spogliarlo: e, - Non fia mai
880 (grida) che sì vil dono abbia la Madre,
o che a te, Palla, tali spoglie appenda.
Me lo vieta il rossore; e se nel campo
qui Deifile fosse, appena a lei
per suo trastullo le porrei davanti. -
885 Dice, e a gloria maggior pugnando aspira.
Così leon per molte stragi altero
sdegna i molli vitelli e ’l vile armento,
e sol de’ generosi il sangue anela,
e al toro condottier del gregge agogna
890 star su l’alta cervice e farne scempio.
Dal flebile clamor Meneceo accorto
del caso d’Ati, i suoi destrieri e ’l carro
là volge a tutto corso, e in terra sbalza.
Già del Taigeto i giovani feroci
895 stavan su lui, che giace: in abbandono
lo lasciavano i Tirii. Alto rampogna
Meneceo i vili: - O voi da Cadmo scesi,
che da’ solchi guerrier vantate i padri,
e ’l valor ne mentite; ove ne andate,
900 ove fuggite? Oh eterna infamia! Oh scorno!
Dunque meglio per noi Ati sen giace?
Ati stranier, che non aveva in Tebe
cui vendicar che la diletta sposa,
e questa ancor non sua? Noi tanti nostri
905 pegni, le mogli, i figli, i tempii, i tetti
tradirem dunque? - Da vergogna punte
fermârsi allor le schiere, e ’l patrio amore
tornò ne’ petti, e rivoltâr la fronte.
Stavano intanto in solitaria cella
910 del regio albergo le innocenti figlie
di Edippo amabil coppia e di costumi
dal genitor diversa e da’ germani,
rammentando tra lor gli acerbi casi,
e de’ vicini e de’ primieri tempi;
915 della madre le nozze una, e del padre
l’altra gli occhi rammenta; or questa piange
il fratello che regna; or il ramingo
quella mesta deplora: ambe le guerre.
Quindi più grave a loro è la tardanza
920 degl’infelici e non ben certi voti.
Sospese stan qual vincitor, qual vinto
bramin veder nel barbaro duello,
ma nell’interno l’esule prevale.
Così il garrulo augel di Pandïone
925 qualor ritorna al suo fidato albergo,
onde cacciollo il verno, e sovra il nido
va svolazzando, le sciagure antiche
a’ tetti narra e al vento, ed il confuso
flebile mormorio crede parole,
930 e ben rassembra a le parole il canto.
Dopo un lungo silenzio e dopo i pianti
parlò di nuovo alla sorella Ismene:
- Qual error turba i miseri mortali?
Qual ingannevol fede? In mezzo al sonno
935 veglian le cure, e alla sopita mente
tornan distinti e simulacri e larve?
Ecco io, che appena, se profonda pace
godesse il regno, i talami e le nozze
volgerei nella mente (io mi vergogno,
940 sorella, a dirlo), nella buia notte
vidi le tede nuzïali: ahi come
questo folle sopor mostrommi in sogno
lo sposo appena visto! Una sol volta
e involontaria in questa reggia il vidi,
945 mentre non so quai patti alle mie nozze
stabilivan fra loro. A me parea
tutto turbarsi d’improvviso, e spente
mancar le faci, e la rabbiosa madre
con urli e strida seguitarmi, ed Ati
950 ridomandarmi. E quale annunzio infausto
è mai questo di strage? E pur non temo,
se staran queste mura, e se lontane
andran le greche schiere, e tra’ fratelli
s’avremo tempo di compor la pace. -
955 Così dicean tra lor: quand’improvviso
mesto clamor la taciturna reggia
turba e spaventa, ed ecco Ati, ritolto
con gran fatica a le nemiche genti,
mal vivo si riporta e senza sangue;
960 ha la man su la piaga, e dallo scudo
pende languido il capo, e su la fronte
scomposto ha il crin; prima Giocasta il vede,
e pallida e tremante Ismene chiama.
Questa sol chiede con languente voce
965 il moribondo genero; sol questo
nome sta ancor su le gelate labbia.
Alzan le ancelle i gridi, e l’infelice
vergin portava già le mani al crine,
ma vergogna l’affrena: al fin costretta
970 colà si porta: questo estremo dono
Giocasta accorda al genero che spira,
e a lui la mostra e l’offre. Al dolce nome
ben quattro volte su’ confin di morte
girò gli occhi ecclissati, e a è fe’ forza,
975 e alzò il volto cadente, e ne’ suoi lumi
mirando sol, del ciel la luce ha a schivo;
nè può saziarsi dell’amata vista.
Ma poi che lungi era la madre, e morto
con miglior sorte era poc’anzi il padre,
980 di chiudergli le luci il mesto uffizio
dassi a l’afflitta ed infelice sposa,
che quando restò sola, allentò il freno
a’ gemiti, a’ singulti, e gli cosperse
di pie lagrime amare il morto viso.
985 Mentre ciò fassi in Tebe, Enío crudele
di nuove serpi e nuove faci armata
la battaglia rinforza. Ognuno l’armi
brama, come se allora il primo assalto
fosse della tenzone, e ch’ogni brando
990 splendesse ancor al sol lucido e terso.
Ma sopra tutti il gran figliuol d’Eneo
si distingue quel giorno, ancor che molto
Partenopeo da l’infallibil arco
scocchi dardi sicuri, e Ippomedonte
995 col feroce destrier calpesti i volti
de’ nemici abbattuti e moribondi,
e Capaneo vibri l’acuto pino
pur troppo noto a le sidonie squadre.
Di Tideo solo è quell’orribil giorno,
1000 lui sol si teme e da lui sol si fugge,
e vien egli gridando: - Ove fuggite?
Perchè il tergo volgete? Ora, ora è il tempo
di vendicar vostri compagni uccisi,
e compensar quell’infelice notte.
1005 Io son colui che cinquant’alme spinsi
con brando ancor non sazio in grembo a Dite.
Vengan cinquanta, e cinquant’altri insieme,
che io qui gli attendo. Quei che dianzi uccisi
non han dunque fra voi padri o fratelli
1010 vindici di lor morte? Onde proviene
questo sì vile oblio de’ vostri lutti?
Io mi vergogno riveder Micene
e star contento della prima strage.
Tali guerrier restano a Tebe? Queste
1015 son le forze del Re? Ma dove mai,
dove s’asconde questo invitto duce? -
Ed ecco il vede nel sinistro corno
animando le schiere, e lo distingue
a lo splendor della superba fronte.
1020 Non sì veloce piomba il grande augello,
portatore de’ fulmini di Giove,
su bianco cigno, e cogl’immensi vanni
tutto l’adombra; come allor Tideo
contro del Re si scaglia e lo rampogna:
1025 - O giusto Re della sidonia gente,
vuoi tu venir a manifesta guerra,
e meco alfin provar del pari il brando?
O sol ti fidi nell’amica notte,
e le tenebre aspetti? - Ei non risponde,
1030 ma di risposta invece a lui rimanda
stridente dardo. L’etolo campione
con leggera percossa il colpo torse,
quando a lui fu vicino e al fin del volo.
Indi con tutto il braccio, e dell’usato
1035 con maggior forza avidamente vibra
contro il crudel tiranno asta maggiore.
Giva la ferrea trave, e ponea fine
al fier düello, e l’applaudian dall’alto
de’ Greci e de’ Sidonii i Numi amici;
1040 ma vi si oppone la spietata Erinni,
ed Eteòcle al reo fratel riserba.
Andò il ferro a piagar Flegia scudiero,
ove più ardea la pugna. Allor Tideo
il brando stringe, e più feroce corre
1045 contro il Re, che già cede e si ritira,
e lo copron co’ scudi i suoi Tebani.
Come vorace lupo in buia notte,
ch’abbia assalito tenero giovenco,
s’è de’ pastor da folto stuol respinto,
1050 in rabbia monta, e disprezzando i dardi,
a lor rivolge l’affamato dente,
e in quel, per cui già venne, il torvo sguardo
fiso tenendo, contro lui s’avventa,
sempre fermo in desio di farne preda.
1055 Così Tideo sdegna le opposte schiere
e la turba minore, e i colpi affrena.
Pure a Toante nel passare il viso,
a Deiloco il petto, a Ctonio il fianco,
e ad Ippodamo truce il tergo fere.
1060 Sovente a’ corpi le lor membra rende,
e manda a l’aria le celate piene.
E già fatto a se stesso argine e cerchio
ha di corpi e di spoglie, ed in lui solo
si consuma la guerra, e contro lui
1065 drizzansi tutti i dardi. Altri a la pelle
giungono a vuoto, cadon altri a terra:
altri Palla ne svelle, e già lo scudo
sostien d’aste e di dardi orrida selva.
Ei d’ogni parte è cinto, e già da tergo
1070 squarciato pende il calidonio vello,
e con funesto augurio a terra cade
Marte, gloria ed onor del suo cimiero:
già d’ogni fregio nudo in su le tempie
posa l’elmo infiammato, e ripercosso
1075 da sassi e travi orribilmente suona.
Gli scorre per la fronte e per lo petto
di sangue e di sudor tepido rio.
Ode i suoi che l’esortano a ritrarsi,
e lungi vede la sua fida duce
1080 collo scudo coprirsi il mesto volto.
Essa prendendo verso il cielo il volo
giva a placar col pianto il genitore.
Ed ecco fende il vento immensa trave,
che gran destino e gran vendetta porta,
1085 e l’autor non è noto, e non si scopre.
Menalippo uom vulgar d’Astaco figlio
fu colui che fe’ il colpo, e non sen vanta,
e quanto può cerca occultar la mano,
ma il clamor delle turme il fa palese;
1090 poichè al colpo mortal si piegò in dorso
Tideo ferito, ed allentò lo scudo,
e tutto il fianco gli restò scoperto.
Alzan le grida allor le aonie schiere,
e piangono i Pelasghi, e co’ lor petti
1095 a lui, che freme, fan riparo e schermo.
Egli a traverso le dircee falangi
cerca coll’occhio il suo nemico, e tutte
le reliquie dell’anima raccoglie,
e un’asta, che a lui porse Opleo vicino,
1100 contro gli scaglia, e per lo sforzo estremo
l’ultimo sangue dalle vene uscío.
Allor gli Etoli mesti il lor signore,
che ancor combatter brama e l’aste chiede
(ahi qual furor?) e della morte in braccio
1105 di morir nega, riportaro indietro,
e le languide membra e ’l corpo frale
adagiâr su uno scudo, e lo posaro
su ’l margine del campo, e fra’ singulti
gli fer sperar di rimandarlo in guerra.
1110 Ed ei, che al fin vede mancarsi il giorno,
e nel gelo mortal sente le membra
sciogliersi e già fuggir l’alma superba,
s’alza qual può su ’l debil braccio, e dice:
- Pietà vi prenda del mio caso acerbo,
1115 Greci; non già che questa inutil salma
in Argo si riporti od a Pleurone,
chè l’esequie io non curo, e sempre odiai
queste caduche membra, e ’l debil uso
del corpo frale, e peregrina spoglia
1120 che presto manca ed abbandona l’alma;
ma se fia che ’l tuo capo alcun mi porti,
solo il tuo capo, o Menalippo! e certo
so che tu mordi il suolo, e che gli estremi
sforzi non m’ingannâr di mia virtude.
1125 Va, Ippomedonte, se in te ferve il sangue
d’Atreo; vanne, garzon, d’Arcadia onore
e già famoso nelle prime guerre;
e tu fra tutti i Greci il più sublime,
muoviti, o Capaneo. - Corsero a gara;
1130 ma Capaneo giunge primiero, e trova
Menalippo spirante, e se lo getta
su la sinistra spalla, ancor che il sangue,
che dall’aperta piaga esce a torrenti,
gli lordi il largo tergo e ’l ferreo arnese.
1135 Dall’arcadico speco in cotal guisa
il predato cinghial riportò Alcide
a’ desiosi ed acclamanti Argivi.
Tideo s’alza di nuovo, e al suo nemico
corre incontro col guardo, e poi che ’l vede
1140 gir boccheggiando ne’ singulti estremi,
e colle luci languide ed erranti,
e la sua morte riconosce in lui:
d’allegrezza e di sdegno ebbro e furente
vuol che ’l capo sen tronchi e se gli porga.
1145 Il prende, e torvo il guarda, e si compiace
in rimirarlo, ancor che tronco, in giro
rivolger gli occhi torbidi e tremanti.
Tanto bastava al misero: ma chiede
maggior misfatto l’empia Furia ultrice.
1150 E già scendea dal ciel (placato il padre)
Pallade non più mesta, e a l’infelice
dell’immortalità portava il dono.
Ma quando il vide di cervella e sangue
ancor fumante satollar le labbra,
1155 nè poterlo staccar dal fiero pasto
inorriditi i Greci: in su ’l Gorgone
si drizzaro le serpi, e della Dea
velâr la faccia, ed essa abbominando
il capo torse, e pria di gire a gli astri,
1160 purgò la vista con il sacro fuoco,
e dell’Eliso si purgò nell’onda.
L’atroce rabbia di Tideo crudele
inasprì i Tirii, e mitigò ne’ Greci
il dolor di sua morte, e l’atto indegno
tutti biasmâr, che di vendetta ruppe
5 ogni legge, ogni dritto. E tu de’ Numi,
Marte, il più fiero, ancor che la gran pugna,
tua mercè, fosse nel maggior calore,
fam’è tra noi che non il volto solo
torcesti altrove; ma i destrieri e ’l carro.
10 Dunque la gioventù da Cadmo scesa
non altrimenti a vendicar si muove
di Menalippo la spietata morte,
l’esequie profanate e ’l fiero scempio,
che se l’ossa e le ceneri degli avi
15 fossero sparse al vento, e l’urne aperte
e date in preda ad esecrandi mostri.
Il Re vie più gli accende: e,- Chi pietoso
(grida) fia più co’ Greci? E chi da loro
spera nulla d’umano? O non più inteso
20 e ferino furore! han dunque in noi
tutte vuotate le faretre e gli archi,
che d’uopo sia che colle adunche zanne
squarcino a brano a bran le membra tronche?
Con tigri ircane e co’ leon feroci
25 non vi sembra pugnar di Libia adusta?
Ed or colui sen giace (o della morte
nobil conforto!) e con i denti afferra
il teschio ostile, e le dure ossa e ’l sangue
rode e sugge l’infame, e muor contento.
30 Adopriamo noi pure il ferro e ’l fuoco,
che basta lor la ferità natia
e gli odii soli senz’usare altr’armi.
Ma sieno pur crudeli, e questa luce
godano lieti; pur che ’l sommo Giove
35 rivolga in lor gli occhi dall’alto e ’l veggia.
E si stupiscon poi che s’apra il suolo,
e fugga lor di sotto a’ piedi? Io sento
maraviglia maggior che anche li porti
il lor terren natio. - Così ragiona,
40 e fremendo e scorrendo innanzi spinge
le schiere. Tutti un sol furore infiamma
a rapir di Tideo le spoglie e ’l corpo.
Così veggiam stuolo d’ingordi augelli
velar co’ vanni il ciel, qualor da lungi
45 senton l’aria spirar corrotta e guasta
da’ cadaveri putridi e insepolti:
vengon gracchiando, e l’etere rimbomba,
e gli augelli minor cedono il campo.
La Fama intanto, più veloce e pronta
50 nelle infauste novelle, era trascorsa
di schiera in schiera per lo campo argivo,
e giunta a Polinice, a cui maggiore
era per recar doglia. Al duro avviso
inorridissi il giovane, e su gli occhi,
55 già pronti a uscir, gli si arrestaro i pianti.
Ei sta in dubbio se ’l creda, e di Tideo
la virtù conosciuta alla sua morte
il prestar fede persuade e vieta.
Poichè certo ne fu, le luci e ’l senso
60 gli si adombraro, e ristagnato il sangue,
languîr le membra e l’armi, e già di pianto
asperso è ’l lucid’elmo, ed a’ suoi piedi
lo scudo cade. Con tremanti passi
se ne va mesto strascinando l’asta,
65 qual se di mille piaghe il sen trafitto
ed ogni membro lacerato avesse.
Giunge ove Tideo giace intorno cinto
da’ fidi amici, che ’l mostrâr piangenti
a lui che ’l chiede. Allor l’armi, che appena
70 seco avea tratte, lungi scaglia, e nudo
sul cadavere esangue s’abbandona,
e a le lagrime il fren scioglie e a la voce:
- Dunque, o caro Tideo, delle mie guerre
unica speme, tal mercè ti rendo?
75 Son questi i premii a tua virtù dovuti?
Che tu, me salvo, sul terreno infame
di Cadmo giaccia? Or sì che vinto io sono:
or sempr’esule andrò, or che m’è tolto
un fratel d’Eteócle assai migliore.
80 Io più l’antiche sorti, e più non chieggio
la vïolata mia corona e ’l regno.
Qual cosa esser mai può che a tanto prezzo
lieta mi sembri? O qual gradito scettro,
che non mi porga la tua forte mano?
85 Itene pure, amici, e me qui solo
al reo fratel lasciate. A che più giova
l’armi tentare, e invan perder tant’alme?
che più dar mi potete? Ecco ch’io stesso
Tideo condussi a morte: or con qual morte
90 purgar giammai potrò tanto delitto?
Oh suocero! Oh Pelasghi! Oh della prima
notte risse gradite e pugne alterne!
Oh brevi sdegni d’un sì lungo amore
forieri e pegno! Ah perchè mai ’l tuo ferro
95 (e ben tu lo potevi) in su le soglie
non mi svenò d’Adrasto, o gran Tideo?
Anzi per me, qual se i tuoi propri onori
e ’l tuo regno chiedessi, a’ tetti infidi,
onde tu sol tornar potevi illeso,
100 del reo fratello volontario andasti.
Taccia il pio Telamon, taccia Teseo
l’antica fama. Ed or ohimè qual giaci!
Ahi quali prima ammirerò ferite?
E qual è il tuo, qual l’inimico sangue?
105 Qual folta schiera di guerrieri eletti
fu che t’oppresse? Il padre, il padre stesso
invidïando tua virtù, la morte
ti diede: Marte fu quel che t’uccise. -
Così dice, e co’ pianti il morto viso
110 di sozzo sangue deformato e lordo
lava, e sul petto gli compon le braccia.
Indi ripiglia: - Adunque tu cotanto
i miei nemici odiasti, ed io ancor vivo? -
E di già tratto il ferro, in sè crudele
115 sel rivolgeva al sen per darsi morte;
ma il ritengon gli amici, e lo riprende
Adrasto, e delle guerre i vari casi
a lui narrando e del destin la forza,
l’accheta e lo consola, e a poco a poco
120 dal corpo amato, onde s’avviva il duolo
e in lui s’accresce di morir la brama,
lungi lo guida, e destramente il ferro
tra’ discorsi di man gli toglie e il cela.
Ei parte, come toro afflitto e lasso,
125 cui venne meno il suo fedel compagno
e lasciò il solco non finito ancora:
mezzo il giogo sostien sopra il suo collo,
mezzo ne regge il villanel piangente.
Ed ecco d’Eteócle i detti e l’armi
130 seguendo, vien di giovani feroci
eletto stuolo, cui Bellona e Marte
non sprezzerieno in guerra. Ippomedonte
fermo su’ piedi, collo scudo al petto
abbassa l’asta, e a quanti son si oppone.
135 Qual rupe incontro a’ flutti, e che del cielo
l’ire non teme, e ’l mar respinge e frange,
sta immota a le minacce, e la paventa
l’Oceàn procelloso, e d’alto mare
la conoscon da lungi i naviganti.
140 Vien Eteòcle, e l’asta scuote e grida:
- E non vi vergognate in faccia a’ Numi,
del cielo a vista e della pura luce
difender queste scelerate membra,
che fur della milizia obbrobrio eterno?
145 O nobile sudor, rara virtude
per dar tomba ad una fera! Adunque in Argo
porterassi costui con mesta pompa,
e del rio sangue lorderà il ferétro?
Si tralasci tal cura: augelli e mostri
150 nol toccheranno, e dello stesso rogo
(se gliel darem) l’abborriran le fiamme. -
Tacque, e scagliò sì smisurato dardo,
che ritardato ancor dal primo cerchio
del forte scudo, penetrò al secondo.
155 Indi l’aste vibrâr Ferete e Lica;
ma il colpo di Ferete indarno cadde,
e con sorte miglior l’asta di Lica
lambìgli l’elmo orribile chiomato.
Svelte dal ferro le superbe piume
160 volaron lungi, e inonorata apparve
e de’ suoi pregi la celata priva.
Non si arretra il guerrier, nè contro l’armi
provocato si lancia; in giro volge
su l’orme istesse la terribil fronte,
165 e a’ nemici resiste, e ’l suo valore
tien che lungi non scorra. In ogni moto
guarda l’amato corpo, e lo difende,
e al cadavere intorno si raggira.
Non con tanto valor, con tanta cura
170 l’ardita vacca il suo vitel difende
dal lupo assalitor, ruotando intorno
le dubbïose corna; essa non teme,
ma del sesso scordata, e freme e sbuffa
e i forti tori generosa imita.
175 Ma pure al fine a Ippomedonte è dato,
poichè cessaro le saette ostili,
di rilanciar suoi dardi e far vendetta.
Già il sicïonio Alcone e già i veloci
Pisani erano accorsi in sua difesa,
180 e fatto gruppo di guerrieri e d’aste,
affidato in costor, trave lernea
ei scaglia, e quella va non men veloce
di cretica saetta, ed a Polite
il petto passa, e a Mopso a lui congiunto
185 fora e varca lo scudo; indi Cidone
di Focida, e Falante di Tanagro
ed Erice trafigge: Erice addietro
s’era rivolto, e mentre sta sicuro
e la morte non teme e chiede l’aste,
190 nella nuca lo coglie, e i denti spezza,
e per la bocca, u’ non entrò, sen esce.
Leuconteo intanto dietro l’armi ascoso
e dietro i combattenti, avea di furto
stesa la mano, e per lo crin prendendo
195 Tideo, seco il traeva. Ippomedonte,
quantunque cinto di minacce e d’armi,
il vide, e a terra con un colpo solo
gli fa cader la temeraria mano,
e grida: - Questa a te Tideo rapisce,
200 Tideo stesso l’ha tronca, e quindi apprendi
de’ magnanimi eroi, benchè consunti,
a rispettare i fati, e le grand’ombre
in avvenire a non tentare impara. -
Tre volte i Tirii avean l’orribil corpo
205 rapito, ed altrettante i Greci audaci
loro l’avean ritolto. In cotal guisa
sta del siculo mar fra le procelle
nave agitata, e del nocchiero in onta
a gonfie vele e con in poppa il vento
210 s’aggira, e torna ne’ medesmi flutti.
Nè di Sidonia avrian tutte le schiere
respinto Ippomedonte; nè di loco
smosso l’avrian le macchine murali,
ed a le torri eccelse anche tremendi
215 nel forte scudo foran vani e cassi
caduti gli urti, e ritornati indietro:
ma la Furia crudel, che ha fermo in mente
di Plutone il comando e di Tideo
le colpe in sè rivolge, in mezzo al campo
220 ingannevol si mostra e in finto aspetto.
La sentiron le schiere, e un sudor freddo
scorse per l’ossa a gli uomini e a’ destrieri,
ancor ch’ella d’Alì prendesse il volto,
e il ceffo suo coprisse, nascondendo
225 le sferze ed i flagelli: in cotal forma
vestita d’armi, e in placido sembiante,
con dolce voce, a Ippomedonte a canto
fermossi, e pur mentr’ella parla, ei teme,
e del nuovo timore ha maraviglia;
230 ed essa allor piangendo: - Ed a che invano,
generoso guerriero, adopri l’armi
a difender i morti? Adunque solo
degl’insepolti corpi e delle tombe
avrem noi cura? Ma si mena intanto
235 da l’altra parte prigioniero Adrasto,
e pur te solo ei chiama, e colla mano
e colla voce il tuo soccorso implora.
Ahi quale il vidi sdrucciolar nel sangue
privo di serto la canuta chioma!
240 Nè quinci è lungi. In quella parte volgi
gli occhi, ove s’alza un turbine di polve,
u’ più folto è lo stuol. - Fra due timori
sta il dubbio cavalier mesto e sospeso;
ma la Furia lo preme: - A che più tardi?
245 Chè non andiamo? Queste morte spoglie
ti ritengono forse, e non ti cale
di chi ancor vive? - Al fin vincer si lascia
Ippomedonte, e a’ forti suoi compagni
il corpo raccomanda e le sue pugne.
250 Parte, e abbandona il suo fedele amico:
pur indietro si volge, e attento ascolta
pronto a tornar, se a sorte altri ’l richiami.
Del finto Alì l’orme seguendo intanto
di qua, di là per travïate strade
255 si aggira indarno: fin che l’empio mostro
gettò lo scudo e sparve, e le ceraste
spezzaron l’elmo, e sibilando usciro.
Sciolta l’infernal nube, egli rimira
starsi sul carro suo sicuro Adrasto,
260 e intorno a lui le guardie sue tranquille.
Ma i Tirii intanto han preso il corpo, e lungi
il palesâr colle festive voci;
e a lui ferîr gli orecchi, e di segreta
doglia strinsero il core e gli urli e i gridi
265 de’ vincitor superbi. O del destino
tiranna forza! Ecco Tideo si tragge
per l’ostil campo: quel Tideo che dianzi,
quando i Tirii incalzava, o sul destriero
o pedon combattesse, a lui davanti
270 s’aprian di qua, di là tutte le schiere.
Non stan l’armi in riposo, e non le destre;
nè li ritien, ora che ’l ponno impuni,
da l’oltraggiar le già temute membra
quella ferocità che pur conserva
275 nel terribil sembiante, ancor ch’estinto.
Una sol brama i vili e i forti accende
nobilitar le mani, e i dardi tinti
serbar nel costui sangue, ed in trionfo
mostrarli poscia alle consorti e a’ figli.
280 Così terror de’ mauritani campi
leon feroce, per cui stieron chiuse
le gregge, e in armi i buon custodi e desti;
se cade al fine da’ pastori oppresso,
il prato se ne allegra, e d’ogni parte
285 con liete grida accorrono i bifolchi,
e gli strappan le giubbe, e l’ampia gola
spalancan, rammentando i propri danni.
Ei su l’ovile o da una pianta pende,
trionfo e gloria dell’antico bosco.
290 Ma il fiero Ippomedonte, ancor che vano
vegga il soccorso, e per la tolta spoglia
tarda la pugna, pur ruotando il ferro
irrevocabilmente il passo avanza;
nè l’inimico da l’amico scerne
295 se lo ritarda; ma la fresca strage
lubrico fa il terreno, e i semivivi
e i carri al suolo rovesciati e infranti
gl’impediscono il passo, e ’l fianco aperto
da lo stral d’Eteòcle (o della pugna
300 nel calor non sentillo, o di vendetta
per troppo amor dissimulò la piaga).
Vede Opleo al fin, che fu nelle battaglie
al gran Tideo compagno, ed or ne porta
inutilmente l’armi, e per lo crine
305 tiene il destrier del cavaliero estinto:
il buon destrier, che del signore amato
il caso ignora, e co’ nitriti il chiama,
e si duol che di sè lo lasci vuoto
e che più goda di pugnare a piedi.
310 Ippomedonte (ancor che il nuovo peso
portar ricusi su l’altero dorso,
siccome avvezzo a quella sola mano
che lo domò nella primiera etade)
il prende, lo corregge e gli flavella:
315 - Infelice corsier, perchè ripugni
al nuovo impero? Il dolce peso amato
del tuo primiero eroe più non avrai,
tu più non pascerai d’Etolia i campi,
e più non scuoterai le altere chiome
320 nell’acque d’Acheloo; quel che ci resta
eseguiscasi almen: le care spoglie
vien meco a vendicare, o pur mi segui,
perchè tu ancor l’ombra raminga errante
prigionier non offenda, e dopo lui
325 altro superbo cavalier non porti. -
Parve ch’egl’intendesse, e d’ira acceso
si mosse al corso, e ’l cavalier sostenne,
meno sdegnando un condottier simíle.
Tal se da l’Ossa a precipizio cala
330 un biforme Centauro a l’ime valli;
temono i boschi l’uom, la belva i campi.
Fuggono stretti insieme ed anelanti
spaventati i Tebani. Ei sta lor sopra,
ed improvviso i capi tronca, e a tergo
335 lascia i tronchi cadaveri cadenti.
Eran giunti a l’Ismeno, oltre l’usato
(funesto augurio!) per gran mole d’acque
gonfio e spumante. Ivi pigliâr respiro
per breve tempo i miseri Tebani,
340 e timorosi ivi fermâr la fuga.
Stupì l’onda non usa a le battaglie
in mirar tante schiere, e ripercossa
tutta s’accese di tant’armi a’ lampi.
Al fin cacciati dal timor, ne’ gorghi
345 si lanciarono a gara, e dal gran peso
l’argine rotto, un turbine di polve
involò a gli occhi la contraria sponda.
Ma con salto maggior ne’ flutti ostili,
così com’era, Ippomedonte allora
350 balzò (nè già ritenne il fren, chè troppo
avria tardato), e a l’atterrite turbe
terribil sopraggiunse, avendo prima
i dardi appesi d’un gran pioppo antico
al verde tronco, e a quel lasciati in cura.
355 Trepidi allora i miseri Tebani
al flutto rapitor cedono l’armi.
Molti vi fur che pria l’elmo deposto,
per quanto il fiato ritener potero,
stetter sott’acqua infamemente ascosi;
360 altri il fiume passar tentaro a nuoto;
ma gl’impediscon l’armi, e lor dà impaccio
il cinto al fianco e la corazza al petto.
Qual si desta terror ne’ pesci allora
che per le vie del mar, sotto dell’onde,
365 il fallace delfin stare a la preda
mirano inteso; la squammosa turba
al fondo fugge, e per timor s’unisce
nell’alghe verdi, e vi si addensa e asconde;
e non ardisce uscirne, in fin che sorto
370 nol veggion sopra i flutti, e colle navi
da lungi viste gareggiar nel nuoto.
Tale il guerrier caccia i Tebani, e in mezzo
del fiume alto sostiene il freno, e l’armi
regge, e sostenta il suo destrier su’ piedi
375 di remi invece: la ferrata zampa,
avvezza al suolo, ondeggia, e al fiume in fondo
cerca indarno toccar l’usata arena.
Iön da Cromi è ucciso; uccide Cromi
Antifo; Antifo Ipseo: quindi del pari
380 Astiage a morte manda, e seco Lino,
che già dal fiume uscia, ma vieta il Fato
e la Parca crudel ch’in terra ei muoia.
Preme i Tebani Ippomedonte, e i Greci
turba figlio d’Asopo il grand’Ipseo.
385 Ambi teme l’Ismeno, ed ambi i flutti
macchian dell’ostil sangue, e ad ambi il Fato
nega l’uscir dal profanato fiume.
E già su l’onde volteggiando vanno
membra e capi recisi, e spesso a’ busti
390 riporta il flutto le già tronche destre.
Si vedon galleggiare e dardi e scudi
e gli archi lievi, ed il calare al fondo
tolgon le piume eccelse a gli elmi vuoti.
Vanno intorno a fior d’acqua armi vaganti,
395 e i miseri guerrier giacciono al fondo:
ivi lottando stan coll’empia morte
i corpi offesi, e l’anime spiranti
il fiume incontra, e le respinge indietro.
Da la corrente in giù rapito, aveva
400 Agrio fanciul della vicina sponda
afferrata una pianta: a lui da tergo
Meneceo sopraggiunge, e da le spalle
gli recide le braccia. Egli l’impresa
imperfetta abbandona, e in giù cadendo
405 mira le braccia sue pender dal tronco.
L’asta d’Ipseo d’immensa piaga uccide
Sago, e al fondo lo caccia, e sol di lui
resta l’orma sanguigna in cima a l’onde.
Per dar soccorso al suo fratel discese
410 Agenor da la sponda, ed afferrollo,
misero! chè il ferito a lui le braccia
al collo stende, e col suo peso il grava.
Potea Agenor da gl’importuni amplessi
sciogliersi, e uscir dal periglioso guado;
415 ma arrossì di tornar senza il fratello.
Alza Calete di ferire in atto
minaccevole il braccio. Il rio crudele
ne’ girevoli gorghi ecco l’involge:
già la faccia, già il crin, la man si cela:
420 ultimo il ferro fu che si sommerse.
In varie guise una sol morte affligge
i miseri. Ad Argite il tergo passa
de’ Micalesi un’asta: ei si rivolta,
e cerca il feritor; ma non appare.
425 Il fiume stesso col veloce corso
portò quell’asta micidial sull’onde,
ch’a ber sen gì dell’infelice il sangue.
Ma l’etolo destrier riman ferito
nella spalla: a l’ambascia, al vïolento
430 dolor di morte su due piedi s’alza,
e sospeso così l’aria flagella
colle ferrate zampe, e versa il sangue.
Già non paventa i procellosi gorghi
il cavalier; ma del caval pietade
435 sente, e di propria man l’asta ne svelle
dolente, e lascia in libertade il freno;
indi sbalza di sella, e più sicuro
e di mano e di piè pugna di nuovo,
e Nomio vile e Mimanto feroce,
440 e Antedonio Liceo, Lica di Tisbe,
l’un dopo l’altro uccide, ed il minore
de’ due figli di Tespio. A Panemone,
che chiede anch’ei la morte, insulta: e, - Vivi
(dice) e ritorna alla profana Tebe
445 solo senza il fratel, che non sarai
più dolce inganno a’ genitori afflitti:
sien grazie a’ Dei, che nel rapace fiume
Bellona mi guidò con man sanguigna,
u’ da l’onda natia tratti n’andrete
450 timidi, in pasto de’ marini mostri;
nè l’ombra ignuda di Tideo insepolto
a’ vostri fuochi striderà d’intorno:
ei giace in terra, e al suo principio torna. -
Così gl’incalza, e con i detti acerbi
455 inaspra le ferite, ed or col brando
infuria, or scaglia li nuotanti dardi.
Terone amico della casta Dea,
e Gía di ville abitator; Ergino
per li flutti vagante, Erse chiomato
460 a morte manda, indi Cretea v’aggiunge
sprezzatore del mare, e che sovente
lo scoglio Cafareo su picciol legno
e l’euboiche procelle ardito vinse.
Ma che non puote il Fato? Il sen trafitto
465 dal ferro micidial naufrago cade,
ed oh in qual flutto! della doric’asta
tu pur, Farsalo fosti al primo colpo
da l’alto carro rovesciato, in cui,
a soccorso de’ tuoi, varcavi il fiume,
470 e rimasti i destrier senza governo,
da’ vortici rapiti, insiem congiunti,
la funesta unïone ambi sommerse.
Ma quanta ebber fatica i flutti insani
ad atterrar Ippomedonte, e quale
475 l’Ismeno ebbe cagion di prender l’armi,
fate a me noto, alme Castalie Dee.
Vostr’opra è il rïandar gli scorsi tempi,
e da l’oscuro oblio sottrar la fama.
Godea di guerreggiar per le materne
480 onde il giovin Creneo, d’un Fauno nato
e d’una Ninfa dell’Ismeno figlia.
Egli aprì gli occhi al giorno in queste ripe:
a lui fur patria il fiume e cuna l’alghe.
Ei dunque non credea ch’entro quell’acque
485 ragion avesser le crudeli Parche,
e lieto gía da l’una a l’altra sponda,
passando l’avo lusinghiero, e l’onda,
o ne seguisse il corso, o pur col nuoto
obliquo la fendesse, alto il sostenta;
490 e s’a ritroso va, non lo ritarda,
ma lo seconda, e seco torna indietro.
Non più placido il mar bagna co’ flutti
dell’Antedonio Glauco il ventre e i fianchi;
nè più legger su la marina estiva
495 Triton galleggia; nè più pronto torna
fra’ dolci amplessi della cara madre
Palemone, affrettando il suo delfino,
che troppo lento su le spalle il porta.
Ben l’adornano l’armi, e per molt’oro
500 fulgido e insigne il grave scudo porta,
in cui sta sculta dell’aonia gente
l’origin prima: ne’ sidonii flutti
del toro mansueto il dorso preme
la fanciulla di Tiro, e già sicura
505 fatta del mar, non più le corna afferra
colle tenere mani, e lussureggia
l’onda baciando a lei le molli piante.
Sembra veracemente entro lo scudo
nuotare il divin toro e fender l’acque;
510 e l’acque sono tanto al ver simíli,
che acquistan fede ed han di mar sembianza.
Quindi Crenèo fatto più audace, sfida
con orgogliosi detti Ippomedonte:
- Questa, Lerna non è d’atro veleno
515 infetta e tinta, nè l’erculee serpi
vengono a dissetarsi entro quest’onde.
È sacro il fiume, è sacro, e ’l proverai
tu, che ’l profani e sanguinoso scorri
per l’acque ultrici de’ superni Dei. -
520 Quel non risponde, e s’avvicina: opponsi
il fiume a lui con maggior forza d’acque,
e gli tarda la man, ma non in guisa
ch’essa il colpo non vibri, e nel più interno
non giunga a penetrare u’ l’alma ha sede.
525 Inorridissi il fiume, e voi piangeste,
de l’una e l’altra sponda o afflitte selve,
e d’ululati rimbombâr le ripe.
Egli morendo profferì l’estremo
suono, e chiamò la madre. I flutti intanto
530 gli passâr sopra e soffocâr la voce;
ma la madre infelice, intorno cinta
da le cerulee sue meste sorelle,
d’improvviso dolore il cor trafitta,
lascia le grotte cristalline, e i crini
535 sparsi e confusi, e percuotendo il petto
e lacerando il volto e ’l verde crine,
accorre furibonda, e poi che fuori
uscì da l’acque, con tremante voce,
- Creneo, o Creneo - ripete, e indarno il chiama.
540 Ma ben lo scudo galleggiar su l’onde
ne vede, a lei troppo sicuro segno
di sue sciagure. Egli ben lungi giace,
ove l’Ismeno con il mar si mesce.
Così Alcïone desolata geme,
545 qualora vede per lo mar vagante
il caro nido co’ suoi figli, e vede
ch’Austro piovoso ognor l’urta e l’incalza,
e finalmente dentro il mar gli asconde:
ella al fondo si cala, e sotto i flutti
550 ricerca i figli, ovunque l’onda splende,
e in ricercarli si lamenta e piagne.
Tal la madre dolente si querela,
nè però si ritiene; a’ dardi e a l’aste
intrepida va incontro, e colla mano
555 gli elmi ricerca, e i tronchi busti esplora;
ma respinta dal mar, ne’ flutti amari
gli è tolto entrar, fin che a pietà commosse
le Ninfe di Nereo nelle sue braccia
meste portaro il già rapito figlio;
560 ed essa allor, come s’ei fosse vivo,
al sen lo stringe, e sel riporta indietro,
e sulle sponde, qual su letto, il posa:
indi col molle crin l’umido volto
gli asciuga e terge, e singhiozzando esclama:
565 - Sì fiero dono i Semidei parenti
e l’avo tuo immortal ti diero, o figlio?
Così tu regni nel materno fiume?
Più mite a te fu la straniera terra
e discorde da noi: più miti l’onde
570 del mar, che te fino a l’estrema foce
portâr del fiume ed aspettâr la madre.
Ahi questo è dunque il volto a me simíle?
Questo del torvo genitore il guardo?
Son questi i crini del grand’avo ondoso?
575 Tu di quest’acque e delle selve un tempo
gloria fosti e decoro; io delle Ninfe,
mentre vivesti, fui Regina e Dea.
Or dove andrà l’ambizïoso e folto
stuolo che stava alle mie porte intorno?
580 E di servirti le Napee bramose?
Ed io, che teco dentro il mar profondo
meglio poteva rimaner estinta,
con infelici amplessi, or ti riporto
non a me, ma a la tomba; e tu, crudele
585 padre, non hai rossor di tanta strage,
e pietà non ne senti? E qual t’asconde
nell’imo centro torbida palude,
ove non giunga a le tue sorde orecchie
del nipote la morte ed il mio pianto?
590 Ecco ne’ gorghi tuoi va furibondo
Ippomedonte, e omai di te maggiore
nel tuo letto trionfa, e l’acque e i lidi
n’hanno spavento, e le nostr’onde tinte
sono per lui di sangue; e tu codardo
595 non ricusi servire a’ fieri Greci?
A’ roghi almeno, ed a l’esequie estreme
vieni, o crudel, de’ tuoi: non sarà solo
il tuo nipote, che arderan le fiamme. -
E qui rinforza il pianto e squarcia il seno,
600 e l’altre Ninfe a’ pianti suoi fann’eco.
Così dell’Istmo in su l’estrema spiaggia
(s’ha fede il ver), non ancor fatta Dea,
Leucotoe pianse in rimirare il figlio
freddo versar da l’affannato petto
605 il già bevuto mar nel sen materno.
Ma il padre Ismeno, ch’entro gelid’antro,
onde s’imbevon l’aure e l’atre nubi,
e si nudrisce l’Iride piovosa,
e più fansi fecondi i tirii campi,
610 giacendo stava: poi che lungi intese
(bench’egli stesso strepitando corra)
della figlia i clamori e i nuovi pianti,
alzò il muscoso collo e la di gelo
gravosa chioma, e da le man gli cadde
615 l’eccelso pino, e l’urna a terra sparse.
Stupir le selve in su le ripe, e i fiumi
minori inorridîr, quando da l’onde
tutta smaltata dell’antico loto
la faccia eresse. Tanto e tale inalza
620 spumoso il crine, e per lo sen gli corrono
giù da la barba risuonanti rivi.
Della figlia il dolore, e del nipote
la morte a lui tutto per ordin narra
Ninfa, che lo rincontra, ed il feroce
625 uccisor gli dimostra, e colla mano
la man gli preme. Egli su l’onde allora
tutto si mostra, e colla man tergendo
l’umido volto, e di verdi alghe cinte
l’ardue corna scuotendo, irato e gonfio
630 così forte esclamò dal sen profondo:
- Questo dunque è l’onor che a me tu rendi,
rettor de’ Numi? A me, che tante volte
ospite a te divenni, e de’ tuoi fatti
consapevole fui? (nè già pavento
635 di rammentarli). Tu d’inique corna
vestisti pur la simulata fronte;
tu gli umidi destrier scioglier dal carro
vietasti a Cintia, e i nuzïali roghi
e l’ingannevol folgore io mirai,
640 e i tuoi più cari figli io ti nudrii.
Così sprezzar miei doni? E pur fu visto
pargoleggiare in questo seno Alcide,
e spense l’onda mia di Bacco il fuoco.
Mira con quante stragi al mar sen corra,
645 quai cadaveri porti il nostro fiume
tutto d’armi coperto e di cataste
di morti e di malvivi: entro il suo seno
tutta la guerra è accolta; ogni onda spira
sceleraggini e lutto; e in cima e al fondo
650 vagando vanno alme novelle, e meste
adombrano spirando ambe le sponde.
Pur quel son io che i sacri gridi accolgo
delle Baccanti; e i tirsi imbelli e i corni
mondar ne soglio con mie pure linfe.
655 Ed or ristretto da cotante stragi
angusta strada mi procaccio al mare.
Non dell’empio Strimon corrono i fiumi
di maggior sangue, nè rosseggia tanto,
qualor Marte combatte, Ebro spumoso.
660 Nè te muove a pietà l’onda nudrice,
nè le tue mani a l’armi irrita, o Bacco?
Così gli avi ti scordi? O in orïente
meglio Idaspe si doma? E tu, o crudele,
che vai altiero delle imbelli spoglie,
665 e d’un fanciul nell’innocente sangue
trionfi e godi; non farai ritorno
da questo fiume a la crudel Micene,
nè vincitore a l’Inaco potente,
onde partisti, s’io mortal non sono,
670 o uno tu degl’immortali Numi. -
Così sdegnoso parla, e in un istante
dà il segno a l’onde: Citerone alpestre
manda gli aiuti, e le sue antiche nevi,
alimenti del verno, in giù discioglie.
675 Tacite forze per occulte vie
manda a l’Ismeno il suo germano Asopo,
e somministra l’onde, ed egli stesso
della terra le viscere ricerca,
e fuor ne caccia i stagni e i tardi laghi
680 e le pigre paludi; indi a le stelle
avidamente il volto inalza, e i nembi
umidi in seno attragge e l’aria sugge,
e tumido soverchia ambe le sponde.
Ippomedonte, che già mezzo il fiume
685 varcato avea solo coll’acqua a’ fianchi,
si maraviglia come tanto cresca
la torbid’onda, e che le braccia e ’l petto
omai gli copra, e sè minor conosce:
gonfiansi i flutti d’ogni parte, e sorge
690 animosa tempesta al mar simíle,
quando assorbe le Pleiadi, e Orïone
torbido oppone a’ timidi nocchieri.
Non altrimenti del marino assalto
scuote il fiume tebano Ippomedonte,
695 e più s’estolle nello scudo urtando,
e in quello infranto si dilata e spande,
e con onda maggiore indi ritorna;
nè contento di ciò svelle ed atterra
gli arbuscei da le ripe e i vecchi tronchi,
700 e solleva dal fondo arena e sassi.
Sta inegual la tenzon fra l’uomo e ’l Fiume,
e la Divinità n’ha sdegno e scorno;
perchè non cede il fier, non si ritira,
nè paventa minacce, e a’ flutti irati
705 va incontro, e a’ fiumi torbidi e sonori
oppon lo scudo e li respinge indietro.
Sotto il terren gli sfugge, ed ei sta immoto
sovra i lubrici sassi, e le ginocchia
tende, e si ferma sul fallace limo,
710 ed oltraggiando parla: - E donde Ismeno
questo nuovo furor? E da qual vena,
servo d’imbelle Dio, traesti l’acque?
O sol avvezzo a rimirare il sangue
tra’ femminili cori, allor che i bossi
715 suonan di Bacco e le furenti madri
svenan negli orgi trïennali i figli? -
Disse: ed a lui tutto mostrossi il Fiume,
torbido il viso di stillanti rivi
ed offuscato di nuotante arena;
720 nè co’ detti infierì: ma dell’opposto
guerrier tre volte e quattro il petto audace,
quanto il suo Nume e l’ira sua valea,
alzandosi percosse. Allora il passo
ritrasse Ippomedonte, e da la mano
725 cadde lo scudo, e tardi volse il tergo.
L’incalzan l’onde, e trionfante il Fiume,
mentr’ei vacilla, il preme. I Tirii d’alto
scaglian d’aste e di sassi orrido nembo,
e gli vietano irati ambe le sponde.
730 Or che farà d’acque assediato e d’armi?
Non può fuggire il misero, e gli è tolto
morir di grande e memorabil morte.
Stava frassino eccelso in su l’erbose
ripe pendente fra la terra e l’acque,
735 ma più a l’acque proclive, e di grand’ombra
copriva il fiume. A questo Ippomedonte
stende l’adunca mano, e vi si appiglia
(qual rimangli altra via per gire a terra?)
ma nol sostien la pianta, ed in giù tratta
740 dal maggior peso, che l’aggrava in cima,
da le radici, con cui parte al fiume
s’attiene e parte a l’arido terreno,
divelta cade, e seco trae la ripa,
e ’l trepido guerrier, come se un ponte
745 su lui cadesse, col suo peso opprime.
Vi accorron l’onde, ed un tenace limo
nel fondo siede, e i vortici profondi
fan maggior la vorago: e già le spalle,
già il collo del guerrier co’ tortuosi
750 gorghi circonda. Allor si dà per vinto
il lasso Ippomedonte, e così parla:
- Non ti vergogni, inclito Marte, in questo
fiume sommerger mia grand’alma? Io dunque
quasi vile pastor, cui d’improvviso
755 la piena oppresse, andrò cibo de’ pesci
dentro i torbidi laghi e i pigri stagni?
Degno dunque non fui morir di ferro? -
Da queste preci al fin mossa a pietade
Giuno parlò al Tonante: - E sino a quando,
760 gran genitor de’ Numi, i mesti Argivi
opprimerai? Già Pallade ha in orrore
il suo Tideo; già per lo vate assorto
tacciono in Delfo i tripodi d’Apollo:
or ecco Ippomedonte, a cui Micene
765 fu culla ed Argo è patria ed io son Nume,
(così a’ miei son fedele?), andrà de’ mostri
marini in preda? Tu l’esequie estreme,
tu pur le tombe promettesti a’ vinti.
Che gioveranno a lui l’attiche fiamme
770 e i roghi di Teseo? - Non sprezzò Giove
della consorte i giusti voti, e a Tebe
volse placido il guardo, e al primo cenno
calmârsi l’onde e si abbassaro i fiumi.
Scoprîrsi allor del cavalier ferito
775 l’esangui spalle e il traforato petto;
siccome avvien se le procelle scosse
dallo spirar d’impetuosi venti
cessano in mar, sorgon gli scogli in alto,
e la terra cercata a’ naviganti
780 si mostra, e l’onda da i sbattuti sassi
al fondo cala. E già preme il terreno:
ma che pro, se di strali un folto nembo
d’ogni parte il circonda, ed a le membra
non ha riparo, e tutto esposto è a morte?
785 Gli si apron le ferite, e ’l congelato
sangue, che istupidì sotto dell’onde,
a l’aria aperta esposto, ogni meato
scioglie a le vene e giù piove a torrenti,
e sotto gli vacilla istupidito
790 dal gel del fiume il mal sicuro piede.
Al fin ei cade; quale in giù ruina
nell’Emo tracio, d’Aquilone a’ fiati,
o perchè le radici il tempo edace
le abbia corrose, altera quercia e grande,
795 ch’alzò il capo a le stelle, e di sua mole
molt’aria sgombra: mentr’essa vacilla,
il pian la teme e il monte, e da qual parte
cada non sanno, e quali selve opprima.
Non v’ha però chi di toccarne ardisca
800 l’elmo, la spada; e a gli occhi propri appena
prestano fede, ed han terror mirando
quel cadavere immenso, e insiem ristretti
coll’armi in pugno a lui si fan vicini.
Ma giunge al fine Ipseo, che da la mano
805 (che morta ancor l’impugna) il ferro tragge,
e l’elmo scioglie da la torva faccia:
indi in cima dell’asta a’ suoi Tebani
alto lo mostra, e così fiero esclama:
- Questi è il feroce Ippomedonte, e questi
810 dell’immane Tideo l’ultor temuto
e il domator del nostro sacro fiume. -
Il fiero Capaneo da lungi il vede,
e il dolor reprimendo, immensa trave
libra col braccio, e la sua destra invoca:
815 - Siimi propizia, o destra, a me sol una
presente in guerra, e inevitabil Nume;
te sola adoro, e ogni altro Nume sprezzo. -
Dice: ed ei stesso il proprio voto adempie.
Vola l’asta tremenda, e per lo scudo
820 passa l’usbergo, e mortalmente giunge
là dove l’alma nel gran petto ha sede.
Allor sen cade Ipseo con quel fragore
ch’eccelsa torre da più colpi scossa
in giù ruina e al vincitor superbo
825 lascia della cittade aperto il varco.
Capaneo gli sta sopra; e, - Della morte
non ti fraudo l’onor (dice): rimira
quello che ti ferì, quello son io.
Or va contento, che riporti il vanto
830 sopra l’altr’ombre. - Indi la spada e l’elmo
ripiglia, e a questi il vinto scudo aggiunge,
e su l’esangue Ippomedonte in alto
le tien sospese; e, - Queste prendi (grida)
spoglie tue, spoglie ostili, inclito duce;
835 ben si daranno al cenere famoso
gli onor dovuti, e tua magnanim’ombra
non se n’andrà raminga e senz’avello:
ma intanto che tu aspetti e fiamme e rogo,
te con quest’armi, di sepolcro invece,
840 vendicatore Capaneo ricopre. -
Così a vicenda fra i Tebani e i Greci
dubbioso Marte dividea le stragi.
Piangono questi Ippomedonte fiero,
e quelli Ipseo non men feroce e pronto,
845 e dal dolore altrui traggon conforto.
Dell’arcade garzon la fiera madre
turbata intanto da funeste larve,
de’ notturni riposi in mezzo a’ sonni,
col crin disciolto e colle piante ignude
850 (secondo il rito) e prevenendo l’alba,
se ne gía del Ladone a l’onde algenti,
per purgar dentro il fiume il sonno infausto.
Perocchè fra i sopor dell’atre notti,
fatte inquïete da’ pensier molesti,
855 vedute avea cader da’ sacri altari
quelle che di sua man spoglie vi appese,
e sè da’ boschi esclusa e dalle Ninfe
cacciata in bando andar raminga e sola
ad ignoti sepolcri errando intorno.
860 Spesso nuovi trofei tornar dal campo,
e l’armi e ’l destrier noto ed i compagni
del figlio vide, e mai non vide il figlio:
talor le parve la faretra a terra
da le spalle caderle, e la sua immago
865 e i suoi simulacri arder nel fuoco.
Ma presagio più certo e più funesto
recò a la madre quella stessa notte,
che tutta a lei mise in tumulto l’alma.
Sorgea d’Arcadia negli ameni boschi
870 quercia famosa e di felici rami,
che scelta fuor da le minori piante
aveva di sua man sacra a Dïana,
e col suo culto l’avea fatta Dea.
A questa essa appendea sovente l’arco
875 e i rintuzzati dardi, e de’ cinghiali
le adunche zanne, e de’ leoni uccisi
le vuote spoglie, e de’ fugaci cervi
pari a le selve le ramose corna.
Appena a’ rami luogo resta, tante
880 la circondan per tutto agresti spoglie,
e ’l balenar di ferri e d’armi appese
toglie della verd’ombra il grato orrore.
A lei parea che dal cacciar le fiere
scendea da’ monti faticata e lassa,
885 d’orsa feroce alto portando il teschio,
terror dell’Erimanto: e quivi giunta
vedea la pianta da reo ferro tronca
giacer, scosse le chiome, ed ogni ramo
stillar di vivo sangue. E a lei, che il chiede,
890 Ninfa racconta che il nemico Bacco
e le sanguigne Menadi l’han svelta.
Mentr’ella piange e si percuote il seno,
si scioglie il sonno; essa abbandona il letto,
e il falso pianto invan da gli occhi asciuga.
895 Dunque poichè attuffò, purgando il sogno,
tre volte il crin nel fiume, e detti aggiunse
delle madri a purgare atti le cure,
dell’amata Dïana al tempio corse
a lo spuntar del giorno, e lieta vide
900 starsi la selva e la sua quercia intatta.
Fermossi allor sul limitar del tempio,
e in cotai voci pregò il nume invano:
- Vergine Dea, c’hai sovra i boschi impero,
di cui le forti insegne e gli aspri studi,
905 sdegnando il sesso, oltre il costume greco
sovente seguo, nè di me più fidi
sono al tuo culto i popoli di Colco,
nè delle scite Amazzoni le schiere;
non a me i balli ed i profani giuochi
910 piacquer dell’empie notti, e benchè io giacqui
contaminata in odïoso letto,
trattare i tirsi e la conocchia imbelle
ebbi in orrore, e nelle selve ancora
restai dopo le nozze, e dopo il parto
915 vergine colla mente e cacciatrice.
Nè già mi piacque entro remoti spechi
celar il fallo; ma il fanciul tremante
a’ piè ti posi, e confessai l’errore.
Ei non mentì il mio sangue, e nelle selve
920 pargoleggiò fra gli archi, e con i pianti
e con le prime voci i dardi chiese.
Deh questo a me (che mai la spaventosa
notte minaccia e l’inquïeto sonno?)
questo, che in te fidato a le battaglie
925 con audace desio pur or sen corse,
dammi, o gran Dea, che vincitore io miri
tornar dal campo: e se pur troppo io chieggio,
dammi almen che io lo veggia, e te seguendo,
sudi dell’armi tue sotto l’incarco.
930 Fa vani, o Dea, di mie sciagure i segni.
E quale han mai ragion delle tue selve
le Menadi inimiche e i Dei tebani?
Misera! (ahi sian fallaci i tristi augurii)
perchè la quercia tua, perchè il mio sogno
935 in così fiero e infausto senso io spiego?
Ma se i presagi miei veri pur sono;
per lo dolor materno e per quel lume
che dal fratel ricevi, io ti scongiuro,
co’ dardi tuoi quest’infelice seno
940 trafiggi, o Diva, e pria ch’io la sua morte,
permetti ch’egli la mia morte intenda. -
Così diss’ella, e lasciò il freno al pianto,
e sudar vide il simulacro algente.
Lascia Trivia feroce entro il suo tempio
945 l’afflitta madre, che i suoi freddi altari
terge col crin disciolto, e addietro lassa
velocemente Menalo sublime,
ch’alza fra gli astri la frondosa fronte;
e per quella del ciel strada più interna,
950 che sol risplende a’ Numi, il volo drizza
a le mura di Cadmo, e d’alto scorge
sotto a’ suoi piedi quanto è vasto il mondo.
E di già mezzo il suo cammin varcato
tra i verdi colli di Parnasso avea,
955 quando incontrò il fratel mesto in sembiante
da risplendenti nubi intorno cinto.
Facea ritorno da’ tebani campi
piangendo invano il suo gran vate assorto;
all’unïon de’ due maggior pianeti
960 rosseggiò il cielo, e a quel divino incontro
splendette accesa di più viva luce
d’ambo la chioma, e negli alterni amplessi
ripercossi suonâr faretre ed archi.
Febo parlò primier: - So ben, germana,
965 che all’arcade garzon, che troppo audace
le tirie schiere e le feroci pugne
tentare osò, brami recar salute:
la fida genitrice è che ten prega.
Deh così nol vietasse il fato avverso!
970 Ecco che io stesso del fedel mio vate
senza riparo (oh mia vergogna eterna!)
l’armi e le sacre bende al vuoto Inferno
discender vidi, e lui l’avide luci
(precipitando) in me tenere immote;
975 nè il carro io gli ritenni, e non gli chiusi
la gran vorago. O veramente fiero,
e d’esser adorato indegno Nume!
Non vedi, o suora, come stanno mesti
i nostri spechi e taciturni i tempii?
980 Questo sol dono al mio fedele io rendo.
Cessa tu ancor da la tua vana aita,
sorella, e non pigliar fatica indarno.
Immutabile è il Fato, e già al suo fine
tende Partenopeo, nè sono oscuri
985 gli oracoli fraterni, e non t’inganno. -
- Ma di gloria colmar quell’infelice
(rispose allor la vergine turbata)
e dar alcun sollievo alla sua morte
mi fia permesso. Le dovute pene
990 non fuggirà il crudel che l’empia mano
profanerà nell’innocente sangue.
Anche a’ miei dardi incrudelire è dato. -
Parte, ciò detto, ed al fratel le gote
più scarsa porge, e a Tebe irata vola.
995 Intanto più crudel ferve la pugna
per li due regi estinti, e la vendetta
maggior furor d’ambe le parti accende.
Piangono Ipseo i Tebani; e maggior duolo
a’ Greci apporta Ippomedonte estinto;
1000 vengono a stretta pugna; un solo ardore
i cuori accende: uccidere o morire,
e trar l’ostile o dare il proprio sangue.
Non si arretran d’un passo, e corpo a corpo
s’azzuffano rabbiosi, ed a la fuga
1005 antepongon la morte. In su la cima
del gran monte Dirceo fermossi allora
Cintia discesa per la via de’ venti.
La sentirono i colli, e tremò il bosco
in riveder la conosciuta Dea,
1010 che in mezzo a le sue piante, ignuda il petto,
con saette crudeli a la feconda
Niobe spense la prole, e stancò l’arco.
Scorreva intanto per le schiere ostili
Partenopeo per poche stragi altero
1015 su cacciator destriero, a le battaglie
non uso e appena a’ primi freni avvezzo,
cui ricopriva il maculoso vello
di tigre ircana e colle zampe aurate
flagellava le spalle: il collo in arco
1020 curvo e sottile, e la superba chioma
ristretta in nodi, e gli pendean sul petto
bianchi monili di ritorti denti
(trofeo de’ boschi) dell’uccise fiere.
Ei con nodo legger succinto il fianco
1025 del manto d’ostro doppiamente tinto,
e della ricca d’ôr lucida veste
(unico della madre almo lavoro),
pender lasciava dal sinistro arcione
il forte scudo, e del suo grave brando
1030 con aurea fibbia alleggeriva il peso.
Che grato udir lo strepito con cui
la vagina, il pendaglio e la faretra
eco fanno al fragor delle catene,
che, del collo a difesa, in su le spalle
1035 gli cadon da la cima dell’elmetto!
Baldanzoso scuoteva egli talora
le piume del cimier di gemme adorno.
Ma quando, stanco di pugnar, dal volto
di sudor molle la celata scioglie
1040 e fa vedersi col bel capo ignudo,
dolce allora il veder scherzar col vento
la bionda chioma, e di più viva luce
sfolgoreggiare le pupille accese
e le guance di rose, in cui non spunta
1045 (bench’ei sen dolga) il primo pelo ancora.
Egli di sua beltà sprezza le lodi,
e il volto inaspra; ma nel vago aspetto
leggiadra è l’ira, e venustà gli accresce.
Cedongli volontari, e altrove i dardi
1050 in lui drizzati volgono i Tebani,
rimembrando i lor figli, ed egli ingrato
li tenta, e l’aste vibra, e ognor più fiero
contro chi gli perdona incrudelisce.
Mentr’ei combatte e più leggiadro appare
1055 tra la polve e il sudor, da’ vicin colli
lui vagheggiando le sidonie Ninfe
lodanlo a prova, e co’ sospiri interni
van traendo del cor le occulte brame.
Mentre Cintia ciò vede, e in sen le serpe
1060 pietoso duolo, le virginee gote
contamina di pianto, e così dice:
- E qual poss’io da la vicina morte,
tuo fido Nume, ritrovarti scampo?
Oh troppo audace e misero fanciullo!
1065 Tu pur volesti della madre in onta
gire a sì crude guerre? In te cotanto
poteo virtù immatura e ardente brama
di glorïoso e memorabil fine?
A te i menali dunque ombrosi boschi
1070 d’anni tenero ancor parvero angusti?
Tu, che senza la madre infra i covili
delle fiere sicuro andavi appena,
nè forza avevi a maneggiarne l’arco
e le agresti saette; or che si lagna
1075 la misera, e rinfaccia i sordi Numi,
e stanca i nostri tempii e i muti altari:
tu godi altero infra le trombe e i gridi
delle battaglie, e mentre te non curi,
tu morrai solo a l’infelice madre. -
1080 Ciò detto, cinta di purpurea nube
(per non essere almen discesa indarno
ad onorar del giovane la morte)
ov’è lo stuol più folto ella si mesce;
ma pria da la faretra i lievi dardi
1085 toglie al folle garzone, e la rïempie
di celesti infallibili saette.
Quindi il cavallo e ’l cavaliero asperge
d’ambrosia, e vuol che sino al punto estremo
a’ colpi ostili impenetrabil resti,
1090 e i sacri carmi e i mormorii vi aggiunge
ben noti a lei, che ne’ notturni tempi
entro le grotte a le profane Maghe
gl’insegna, e addita lor l’erbe nocive.
Allor Partenopeo, tendendo l’arco
1095 scorre per tutto, nè ragion l’affrena:
già la patria, la madre, e già se stesso
posto ha in oblio; ma più feroce e ardito
usa soverchio de’ celesti dardi.
Qual tenero leon, cui nella grotta
1100 la madre arreca il sanguinoso pasto,
appena sente svolazzar la giubba
su l’altera cervice e torvo mira
di novell’unghia il fiero piede armato,
sdegna d’esser nudrito, e per li campi
1105 libero scorre, e gli antri angusti oblia.
Chi potrà raccontar, giovine ardito,
color che da’ tuoi strali ebbero morte?
Corebo tanagreo cadde primiero,
passando il dardo per angusta via
1110 tra l’orlo dello scudo e ’l fin dell’elmo;
gli sgorga da la gola a rivi il sangue,
e il volto acceso ha del divin veleno.
Più crudelmente ad Etion trafigge
tripartita saetta il manco ciglio:
1115 ei fuor la tragge insiem coll’occhio, e corre
contro del feritore a far vendetta.
Ma che non pon l’armi celesti? Un nuovo
strale vola per l’aure, e l’altra luce
colpisce, e tutto se gli oscura il giorno;
1120 egli pur segue furïoso, dove
il nemico rimembra, infin che d’Ida
nel cadavere urtando, inciampa e cade.
Qui fra le stragi il misero si giace
palpitando e fremendo, e a dargli morte
1125 e i suoi Tebani e gl’inimici invoca.
D’Abante i figli a questi aggiunge; il biondo
Argo chiomato, e di lascivo amor
il bel Cidon dalla sorella amato.
Ferì del primo il ventre, e del secondo
1130 con colpo obliquo penetrò le tempie.
Là passò il ferro, e qua restâr le penne,
e da due parti il caldo sangue uscío.
Chi da quei dardi può fuggir la morte?
Non Lamo la beltà, Ligdo le bende,
1135 nè l’età giovanile Eolo difese:
nell’anguinaglia Ligdo, in volto Lamo,
Eolo è ferito nella bianca fronte.
Un la scoscesa Eubea, l’altro produsse
Tisbe nudrice di colombe; e il terzo
1140 voi più non rivedrete, o verdi Amicle.
Colpo in fallo non vibra, e senza piaga
strale non parte, nè la man si stanca;
ma il primo fischio d’un volante dardo
segue il secondo. E chi mai creder puote
1145 che tanto faccia una sol destra, un arco?
Or per lo dritto fere, ora inquïeto
a destra ed a sinistra i colpi alterna.
Fugge talor, ma chi l’incalza mira
solo coll’arco, e i dardi a tergo scocca:
1150 e già maravigliando e mossi a sdegno
s’univano i Tebani, ed Anfione,
che il sangue tragge dal Rettor de’ Numi,
cui fino allora erano state ignote
le stragi onde il garzon rïempie i campi,
1155 primo a lui si fa incontro, e lo minaccia:
- E fino a quando differir la morte
speri, o fanciul, che déi lasciare in pianto
e di te privi i genitori afflitti?
Tanto l’ardire in te cresce e l’orgoglio,
1160 quanto fra tanti un sol guerrier non degna,
teco (perchè minor) provarsi in guerra,
e sei dell’ire nostre indegno oggetto.
Torna in Arcadia, e in fanciullesche guerre
scherza co’ tuoi compagni: in questa arena
1165 Marte ferve davvero, e non da giuoco.
Che se pur brami di funesta fama
ornare il tuo sepolcro e il cener freddo,
ti fia concesso. Morirai da forte. -
Da stimoli più gravi il sen trafitto
1170 già buona pezza d’Atalanta il figlio
ardea di maggior ira, ed al Tebano,
che non taceva ancor, fiero rispose:
- Troppo anche tardi a Tebe l’armi io porto
contro sì vili schiere. E chi è cotanto
1175 fanciul, che contro voi pugnar non possa?
Non i Tebani tuoi, ma in noi tu vedi
la gran stirpe d’Arcadia e il fiero seme
di valorosa infatigabil gente.
Ne i taciti silenzi della notte
1180 me già non partorì ministra a Bacco
madre profana: di lascive mitre
noi non orniamo il crin; nè con infame
destra vibriamo i pampinosi tirsi.
Io pe’ fiumi gelati a gir carpone
1185 fanciullo appresi, e delle immani belve
osai entrar negli orridi covili.
Che più? La madre mia di ferro e d’arco
va sempre armata. I genitor fra voi
solo sanno suonar timpani e bossi. -
1190 Più non soffrì Anfion, ma grave dardo
vibrògli al viso: al balenar del ferro
spaventato il destrier lanciossi in fianco,
e sè da morte e il suo signor sottrasse,
e cadde a vuoto il sitibondo colpo.
1195 Quindi Anfion vie più sdegnoso il ferro
ignudo stringe, ed al garzon si avventa;
ma Cintia allor svelatamente in campo
si fe’ vedere, e al suo furor s’oppose.
Tra i seguaci dell’arcade garzone
1200 stava Dorcèo menalio, e n’era amante,
ma di pudico amore, a cui la madre
le guerre, i suoi timori e gli anni audaci
dati avea in cura dell’amato figlio.
Sotto sembianza di costui la Dea
1205 così parlò: - Partenopeo, ti basti
turbate aver sin qui le tirie schiere;
assai per te si è fatto: a la dolente
madre perdona e a’ tutelari numi. -
Non piegossi il garzone, e a lei rispose:
1210 - Lascia, fido Dorceo (nè più ti chieggio)
deh lascia almen che costui solo abbatta,
ch’emula co’ suoi dardi i dardi miei,
che come me s’adorna, e sul destriero
alto s’asside e scuote il fren suonante.
1215 Mie fien le briglie, e le acquistate spoglie
saranno appese di Dïana al tempio,
e la faretra donerò alla madre. -
Malgrado del suo duol Cintia sorrise
al semplice parlar del giovanetto.
1220 La vide Citerea, che allor del cielo
in parte più remota e più segreta
tenea fra le sue braccia il Dio guerriero,
e rammentava al suo feroce amante
i nipoti d’Harmonia e Cadmo e Tebe.
1225 Prende scaltra il suo tempo, ed opportuna
l’interno duol, che dentro il cuor si cela,
in cotai detti fra gli amplessi esprime:
- Vedi, Marte, costei fatta orgogliosa
per sua verginità, che ne’ tuoi campi
1230 tra i guerrieri si mesce; osserva come
e le schiere e le insegne ordina e regge.
Nè contenta di ciò, di nostra gente
ve’ quanti manda innanzi tempo a morte.
A costei la virtù dunque è concessa?
1235 A costei è il furor? A te sol resta
ferir co’ dardi le silvestri damme. -
Da sì giusti lamenti il fiero Nume
mosso a l’armi sen corre, e mentr’ei scende
per lo vano del cielo, ha sola al fianco
1240 l’Ira: gli altri Furor sudano in guerra.
Appena giunto, minaccioso sgrida
la sconsolata Dea: - Non a te Giove
diede le guerre, temeraria; e tosto,
se tu non parti dal sanguigno campo,
1245 vedrai che a questo braccio e a questa destra
Bellona stessa non può dirsi eguale. -
Or che farà? Quinci di Marte il brando,
quindi già colmo del fanciul lo stame
la preme, e il volto del Tonante irato.
1250 Cede essa al fin da la vergogna vinta,
e Marte allora infra le schiere sceglie
l’orribile Driante a la vendetta.
Dal torbido Orion nacque costui,
e del gran genitor l’innato sdegno
1255 contro i seguaci di Dïana serba:
questo è del suo furor prima cagione;
quinci gli Arcadi turba, e i loro duci
dell’armi spoglia: cade a lunghe file
il popol di Cilene, e dell’opaca
1260 Tegea gli abitatori; e i capitani
fuggon d’Epiro e le fenee falangi.
Spera Partenopeo mandare a morte
anche costui, e pur la destra ha stanca,
nè più le forze intere; e benchè lasso,
1265 or questa turma, ora quell’altra infesta.
Mille presagi del vicino fato
e una tetra caligine di morte
gli si presenta. Già più raro e scemo
scorge suo stuolo, e il vero Dorceo vede.
1270 Sente che a poco a poco il vigor manca,
e la faretra omai di dardi ha vuota;
può l’armi appena sostenere, e tardi
si conosce fanciul: ma quando a lui
l’orribile Driante appresentossi
1275 col risplendente scudo, un tremor freddo
pel volto e per le viscere gli scorse.
Qual bianco cigno, che venir si vede
sovra del capo il grande augel che a Giove
le folgori ministra; entro le sponde
1280 vorria celarsi di Strimon sotterra,
ed i timidi vanni al petto stringe.
Tal di Driante in rimirar la mole
l’Arcade d’ira non s’accende, e sente
un insolito orror nunzio di morte.
1285 Pur l’armi appresta pallido, ed invano
i Numi e Cintia invoca, e l’arco tende
sordo e impotente, e la saetta appresta:
tira indietro la destra, e la sinistra
innanzi spinge, e le due corna unisce,
1290 e colla corda a sè già tocca il petto.
Ma più veloce del Tebano il dardo
vola contro il nemico, e del sonoro
nervo recide l’incurvato nodo,
e rende vano il colpo; e indebolite
1295 le mani, e l’arco rilassato, a terra
cadono inutilmente le saette.
Lascia quell’infelice e il freno e l’armi,
impazïente dell’acerba piaga
che nell’omero destro lo trafisse.
1300 Ed ecco nuovo stral giunge, e trapassa
la delicata pelle, e le ginocchia
tronca al destriero, ed il fuggir gli toglie.
Ma nello stesso tempo (oh maraviglia!)
cade Driante, e l’uccisore è ignoto;
1305 ma son note le cause, e gli odii antichi.
Riportan mesti il lor signor ferito
fra le braccia i compagni, ed ei si duole
(oh semplicetta età!) più del destriero
che di se stesso: sciolto l’elmo, cade,
1310 qual fior reciso, il suo leggiadro volto,
e ne’ languidi lumi e moribondi
spira la venustade e manca il riso.
Tre volte e quattro sollevargli il capo
tentâr gli amici, ed altrettante il collo
1315 ricusò sostenerlo. Il bianco petto
sgorga purpureo sangue, anche a’ Tebani
lagrimevol spettacolo e funesto.
Tai voci infine dall’esangui labbra
mandò interrotte da’ singulti estremi:
1320 - Noi già manchiam; vanne, Dorceo, e l’afflitta
madre consola. Certo io so (se il vero
predicono le cure) essa nel sonno,
già la mia morte, o fra gli augurii intese.
Ma vanne cauto, e con pietoso inganno
1325 la tien sospesa, nè affrettarti, e tosto
non darle il tristo annunzio, e quando parli,
guarda che l’armi essa non tenga in mano.
Ma quando al fine vi sarai costretto,
così parla in mio nome a l’infelice:
1330 "Madre, del mio fallir pago le pene,
chè rapii l’armi ancor fanciullo, e sordo
a’ tuoi consigli fui, nè mi ritenni;
nè a mia salute ebbi per te riguardo,
nè perdonai al tuo dolor. Tu vivi,
1335 vivi, e piuttosto il nostro ardire a sdegno
muovati che a pietade, e omai deponi
il superfluo timore. Invan da i colli
di Liceo miri se da lungi scorga
il mio drappello alzar la polve, o il suono
1340 se senta almen delle guerriere trombe.
Io giaccio freddo al terren nudo in braccio;
nè tu chiudermi i lumi, e almen gli estremi
spirti raccor colle tue labbra puoi.
Pur questo crine (ed a tagliar l’offerse),
1345 questo mio crine che tu ornar solevi
contro mia voglia, o genitrice, avrai
del corpo invece. A questo dona il rogo.
Ma nell’esequie mie deh ti ricorda
che con mano inesperta altri non osi
1350 spuntar le mie saette, ed i diletti
miei cani alcun più non adopri in caccia.
Quest’armi infauste nella prima guerra
abbian le fiamme, o, se ti piace, in dono
dell’ingrata Dïana appendi al tempio". -
Sorse l’umida notte, e il Sole ascose
innanzi tempo nell’esperie porte
per comando di Giove. Ei già non sente
delle tebane o delle argive schiere
5 pietà; ma ben gli duol di tante genti,
senza colpa e straniere, il grave scempio.
Per molto sangue apparve allor del campo
orribil la sembianza, e l’armi sparse
giaceano e i buon destrier, su cui superbi
10 andâr poc’anzi, e senza rogo e tomba
abbandonati i corpi e i membri incisi.
Colle lacere insegne e senza pompa
si dividon le schiere, e son le porte,
che fur strette a l’uscir, larghe al ritorno.
15 D’ambe le parti è lutto, e pure in Tebe
senton conforto in rimirar fra i Greci
gir quattro squadre erranti e senza duci,
di navi in guisa in burrascoso mare
prive de’ lor nocchieri, e abbandonate
20 a’ Numi, a la fortuna, a le tempeste.
Quindi di non tornar entro le mura
prendon consiglio, ed osservar che i Greci,
contenti solo di salvar le vite,
non fuggano notturni entro Micene.
25 Si dà il nome pel campo, e son le scolte
per ordine disposte ed a vicenda.
Fu tratto a sorte in quella oscura notte
per capitan Megete, e a lui s’aggiunse
spontaneo Lico; al comandar de’ duci
30 tosto s’apprestan l’armi e i cibi e i fuochi;
e il Re, mentr’essi van, vie più gl’infiamma:
- Vincitori de’ Greci (il nuovo giorno
non è lontano, e non saranno eterne
queste, che li salvâr, cieche tenébre),
35 accrescete l’ardire, e i forti petti
mostrate eguali al gran favor de’ Numi.
Già la gloria di Lerna è in tutto spenta,
e caddero i migliori: entro l’Inferno
della sua immanità porta le pene
40 il barbaro Tideo: del greco vate
l’ombra improvvisa fe’ stupir la morte:
gonfio è l’Ismeno delle spoglie opime
d’Ippomedonte, e l’arcade garzone
degno non è che fra i trofei si conti.
45 Stan nelle destre i premi: il campo ostile
più non apparirà fiero e temuto
per sette aurei cimieri e sette duci.
Forse d’Adrasto la cadente etade
può ritenerci, o il mio fratel peggiore
50 nella sua giovanezza, o pur l’insano
sconsigliato furor di Capaneo?
Che più dunque si tarda? Ite, cingete
di vigilie e di fuochi i vinti Argivi;
nullo di essi timor: voi custodite
55 le vostre prede e le ricchezze vostre.
Con tali detti i cuor feroci accende,
e le fatiche a rinnovar gli spinge.
Di polve aspersi, di sudor, di sangue
molli e deformi ancor, tornano indietro.
60 Degli amici gl’incontri e le parole
soffrono appena, e le consorti e i figli
respingono da i baci e da gli amplessi.
Divisi in turme, d’inimici fuochi
cingon per ogni parte il greco vallo,
65 a fronte, a tergo, a l’uno e a l’altro fianco.
Così rabbiosi ed affamati lupi,
che invan le prede ricercâr ne’ boschi,
dal digiun spinti a le rinchiuse stalle
vengon fra l’ombre in isquadron ristretti.
70 Il belar degli agnelli e il pingue odore,
che fuori n’esce, le narici pasce
di vana speme; e poi ch’altro non ponno,
provan contro le porte e l’unghia e il dente.
Ma d’altra parte delle donne d’Argo
75 la supplichevol turba a i patrii altari
prostrata implora da Giunone aita
ed il ritorno de’ consorti amati.
Tergon le pinte soglie e i freddi marmi
col crin disciolto, ed adorare i Numi
80 insegnano a’ lor figli. Il dì si spense,
ma non cessaro i voti, e nella notte
vegliâr nel tempio e rinnovaro i fuochi.
A la pudica Diva offriro in dono,
degno di lei, regio purpureo manto,
85 di cui mano infeconda, o dal marito
donna disgiunta non tessè il lavoro:
in varie guise ricamato e pinto
l’ostro risplende, e folgoreggia l’oro.
Ivi ella stessa non sposata ancora,
90 ma promessa al Tonante, ed inesperta
di talami e di nozze, e che ben tosto
sta per deporre di sorella il nome,
cogli occhi bassi semplicetta e schiva
liba di Giove pargoletto i baci,
95 da’ suoi furtivi amor non anche offesa.
Di cotal veste il simulacro santo
ornâr le donne, e fra i singulti e i pianti
dal profondo del cor così pregaro:
- Mira, del ciel Regina, i tetti, e mira
100 della tebana meretrice il nido.
Struggi l’infame tomba, e contro Tebe
scaglia (chè ben lo puoi) fulmin novello. -
Or che farà? Sa ben che a’ Greci suoi
sono i fati contrari e Giove irato,
105 nè vorrebbe però mostrarsi ingrata
a tante preci, a così ricchi doni.
Ma il tempo a lei l’occasïone appresta
di memorabil fatto: essa da l’alto
vede le chiuse mura, e il vallo argivo
110 di vigilie e di fuochi intorno cinto.
Punta da sdegno inorridì il sembiante,
e scosse il crine e il venerabil serto.
Non di tant’ira ardè, quando d’Alcide
Alcmena vide avere il sen fecondo;
115 nè quando, suo malgrado, i due gemelli
innalzò Giove a popolar le stelle.
Dunque risolve di mandare a morte
da intempestivo sonno i Tirii oppressi.
Iride chiama, e degli usati raggi
120 fa che si cinga, e quanto occor le impone.
Ubbidì a’ cenni la leggiadra Dea,
e giù dal cielo sì strisciò per l’arco.
Colà dove la notte alberga e giace
fra caligini eterne, ove han soggiorno
125 gli orïentali Etiopi, s’innalza
un pigro e a gli astri impenetrabil bosco.
Sotto fra cave rupi un antro s’apre
nel vuoto monte. All’ozïoso Sonno
ivi la reggia ed il sicuro albergo
130 diè la stanca natura; in su le soglie
stan la Quïete opaca, e il lento Oblio,
e la languida Ignavia e non mai desta:
gli Ozi e i Silenzi senza batter penne
siedon muti nell’atrio, e lungi scacciano
135 i rumorosi Venti, e foglia in ramo
non lascian che si scuota o che augel canti.
Ivi del mar, benchè per tutti i lidi
romoreggi d’intorno; ivi del cielo
non si sente il fragor: lo stesso fiume,
140 che va scorrendo le vicine valli,
vicino all’antro, infra gli scogli e i sassi
il mormorio sospende: i neri armenti
a terra stesi, ed ogni gregge giace;
languiscono d’intorno i nuovi fiori,
145 ed un terreo vapor l’erbette aggrava.
Egli riposa sopra molli coltri,
scarco di cure, nel muscoso speco
di sonnacchiosi fior tutto coperto:
gli trasudan le vesti, e il corpo pigro
150 scalda le piume; un vapor nero esala
da l’anelante bocca; il crin sostenta,
da la sinistra tempia in giù cadente,
con una mano; abbandonato il corno
cade da l’altra; misti a’ falsi i veri,
155 a’ tristi i lieti stangli intorno i Sogni
di varie innumerabili sembianze,
tenebroso corteggio della Notte:
sono a guisa di pecchie a’ travi affissi,
o su le porte, o stanno al suol distesi.
160 Pallida incerta luce intorno a l’antro
moribonda s’aggira, e moribonde
son le lucerne, che al primiero sonno
con tremolante luce invitan gli occhi.
Da le cerulee sfere in questa grotta
165 scese la vaga Dea fregiata e pinta
di ben mille colori: al suo passaggio
si rischiarano i boschi, e si rallegra
l’ombrosa Tempe: il sonnacchioso albergo
da’ rai percosso de’ lucenti globi
170 dal sopor si risveglia e si riscuote.
Non però si risente il pigro Sonno
a la luce, al rumore ed a la voce,
ma nello stesso modo e russa e giace:
finchè con tutti i rai nelle pupille
175 oppresse e gravi lo ferì la Dea:
indi in tal guisa a favellar gli prese:
- O Sonno, o placidissimo fra i Numi,
la de’ nembi regina e produttrice
Giunone a te mi manda, e vuol che gli occhi
180 delli sidonii duci e della fiera
gente di Cadmo in gran letargo opprima:
dell’empia gente che, superba e gonfia
dell’esterno trionfo, il vallo argivo
osserva e cinge, e le tue leggi infrange;
185 non ricusar di tanta Diva i preghi:
rari son questi onori, e ben tu puoi
per lei sperar renderti amico Giove. -
Così dice, e lo sgrida, e perch’ei senta,
tre volte e quattro gli percuote il petto.
190 Egli a’ comandi, sonnacchioso e ottuso,
solo col capo d’ubbidir fa cenno.
Iride allor da quell’oscura grotta
esce aggravata da’ vapori, e i rai
umidi e quasi spenti accende al giorno.
195 Il Sonno intanto accelerando i passi,
e delle tempie dibattendo i vanni,
fatto del manto un seno, entro v’accoglie
le fredde nebbie dell’ombroso cielo;
poi taciturno va per l’aria a volo,
200 e già tutto sovrasta a i tirii campi.
Al grave respirare, al pigro fiato
cadono al suol distesi augelli e fere
e greggi e armenti, e ovunque ei gira il volo,
languido nel suo fondo si ritira
205 il mar da scogli, ed ha co’ venti pace:
van più lente le nubi, e le alte cime
piegan le selve, e fur veduti a terra
cader molti astri dal sopito cielo.
A l’improvviso orror si accorse il campo
210 dell’arrivo del Nume, e i gridi e i fremiti
del vulgo militare a poco a poco
andâr cessando, e si abbassâr le voci.
Ma poi che tutto si posò su loro
coll’umid’ale, e che distese l’ombre
215 non mai più dense nelle aonie tende,
si aggravâr gli occhi, e s’inchinaro i colli,
e restâr tronche le parole a mezzo;
indi gli scudi rilucenti e i pili
cadder di mano, e sovra il petto i capi:
220 e già tutto è silenzio, e il campo tace:
più non veggonsi in piedi i buon destrieri,
e un cenere improvviso i fuochi estingue.
Ma sovra i mesti e timorosi Greci
tanta quïete non diffuse il Sonno;
225 e la forza piacevole del Nume,
per la notte vagante, i nembi oscuri
allontanò da’ padiglioni afflitti.
Stan d’ogni parte in arme, ed hanno a sdegno
l’indegna notte e i vincitor superbi.
230 Quando Tiodamante, il petto invaso
e da’ Numi agitato, ecco repente
s’accende d’un furor che il preme e sforza
con orribile strepito e tremendo
a rivelare i fati; o in lui Giunone
235 tai sensi infonda, o al vate suo novello
benigno i detti ispiri e arrida Apollo.
Terribil nella voce e nell’aspetto
se ne va in mezzo al campo impazïente
del Nume, che l’invade e che ’l rïempie,
240 di cui non è capace il petto angusto.
Stimolato dal Dio suda ed anela,
e l’interno furor nel volto appare:
talora impallidisce, e talor tinge
d’incerto sangue le tremanti gote;
245 travolge gli occhi, e l’agitato crine
misto a le bende gli flagella il capo.
Tal dagli aditi orribili e tremendi
Cibele tragge il sanguinoso frige,
e delle braccia lacerate e incise
250 le ferite nasconde: egli col pino
percuote il petto, e la sanguigna chioma
agita e scuote, e delle piaghe il duolo
disacerba col corso; i prati intorno
n’hanno terrore e il pino stesso asperso
255 di sangue, ed i leon traggono il carro
con maggior fretta attoniti e confusi.
Giunge egli intanto al venerando ostello,
ove stanno le insegne, e del concilio
nella sala più interna, ove dolente
260 per tante stragi, ed i perigli estremi
esaminando, invan consulta Adrasto.
Siedono a lui d’intorno i nuovi duci
più congiunti a gli estinti, e gli alti scanni
vedovi fatti di sì grandi eroi
265 occupan mesti, ed han dolor che a tanto
onor gli abbia innalzati un tanto danno.
In cotal guisa se interrompe il corso,
morto il primo nocchier, vedova nave,
tosto prende il timon colui che in cura
270 avea la prora o il fianco, e ne stupisce
lo stesso legno abbandonato, e tardi
ubbidiscono vele, arbori e sarte;
e il Nume tutelar non siede al fianco
dell’inesperto condottier novello.
275 Ma il vate intanto i dubbïosi Achivi
in questi detti a miglior spene accende:
- Gli ordini venerabili de’ Numi
e i lor consigli vi portiamo, o duci:
nostre non son le voci: a voi favella
280 quegli a cui mi donaste, e le cui bende,
vostra mercè, lui consentendo, io cingo.
Questa mandano a noi notte opportuna
a le grand’opre ed a le insidie i Numi;
la virtude c’invita, e da noi chiede
285 la Fortuna le destre: in grave sonno
posa l’oste tebana; or vendicate
gli estinti regi e l’infelice giorno.
Su via l’armi rapite, e delle porte
i ritegni spezzate; in questa guisa
290 appresterem degni sepolcri e roghi
a i corpi esangui de’ compagni uccisi.
Io certo vidi nell’esterna pugna,
quando più afflitte eran le cose e il tergo
davamo a’ vincitori, io vidi (e il giuro
295 per i tripodi sacri, e per l’onore
del nuovo sacerdozio) a me d’intorno
volar con lieti vanni augei felici.
Ma certo ora ne son. Quale discese
sotterra Anfiarao, tale mi apparve
300 fra ’l notturno silenzio. I destrier soli
eran tinti dall’ombre: io non vi narro
notturne larve e non racconto sogni.
Egli così mi disse: "Adunque invano
lascerai tu che i pigri Greci (rendi
305 a me le bende e gli affidati Dei)
perdan cotanta notte? o di me indegno
degenerante successore! I voli
così apprendesti degli erranti augelli
e gli arcani degli astri? A che più tardi?
310 Su vanne, e almen di me prendi vendetta".
Sì disse, e mi sembrò che a queste soglie
m’incalzasse coll’asta e con il carro.
Ubbidiscasi dunque a i Numi, e intanto
non fia d’uopo pugnar: nel sonno immersa
315 giace la guerra, e incrudelir n’è dato:
ma chi vien meco? E chi sarà che sprezzi,
invitato da i Fati, in sì grand’opra
fregiare il nome suo d’eterna fama?
Ecco di nuovo i fausti augelli: io seguo
320 il lieto augurio, ancor che ogni altro cessi,
e vado solo; ecco il suonar de’ freni
di nuovo sento, e il gran profeta io veggio. -
Così gridando in gran tumulto mette
la notte e il campo, e già son tutti accesi
325 (qual se un medesmo Dio tutti rïempia)
i maggior duci, e già son tutti mossi.
Voglion seguirlo e accomunar le sorti.
Trenta ei ne sceglie i più robusti e audaci,
nerbo e vigor del campo. A lui d’intorno
330 fremono gli altri, e di restar negletti
recansi ad onta in ozio vile e lento:
altri la stirpe illustre, altri de’ suoi
rammenta i gesti; altri le proprie imprese.
Altri voglion che i nomi insiem confusi
335 si commettano al caso, e chiedon l’urna.
Quale il signor del generoso armento
colà di Foloe su l’eccelse cime,
a cui son nati al rifiorir dell’anno
i nuovi parti, e rinnovato il gregge,
340 gode in mirarli, altri per ardue coste
gir saltellando, altri nuotar ne’ fiumi,
altri emulare i genitor correndo:
indi tranquillo in suo pensier rivolge
quale al giogo destini, e qual sul dorso
345 vaglia a portare il cavaliero, e a l’armi
qual sia nato e a le trombe, e qual prometta
nell’arena acquistar le palme elee:
tal era allor fra i Greci il vecchio Adrasto,
nè già manca all’impresa, e così esclama:
350 - E donde in noi sì tardi e sì improvvisi
scendono questi Numi? E quali siete,
o Dei, che a riveder le afflitte cose
d’Argo tornate? È forse il nuovo ardire
una virtù infelice? O pure in noi
355 ferve l’antico sangue, e ce l’ispira
degli avi nostri il generoso seme?
Io certo approvo, o giovani feroci,
vostro nobil tumulto e men compiaccio:
ma noi tentiam notturna insidïosa
360 guerra, e convien che stiano i moti ascosi,
e può la turba discoprir l’inganno.
Conservate l’ardire: il nuovo giorno
vendicator si appressa; allor palesi
saranno l’armi, allora tutti andremo. -
365 Con tali detti li raffrena e molce.
Non altrimenti avvien, quando il gran padre
Eolo incatena imperïoso i venti,
ch’eran già pronti a por sossopra il mare,
nell’antro noto, e con il sasso chiude
370 la porta e lor divieta ogn’altra strada.
Sceglie allor per compagni a l’alta impresa
Tiodamante il gran figliuol di Alcide,
Agilleo, e il saggio Attorre: è questi esperto
nel facondo parlar; quegli presume
375 essere per vigor eguale al padre.
Ciascun di lor dieci guerrieri ha seco,
turba a i Tebani orribile e fatale,
quando ancor stesser desti. Il vate intanto,
che di furtivo Marte al nuovo assalto
380 sen va inesperto, le adorate frondi
di Apollo scioglie e le depone in grembo
del Re canuto, e il sacro onor gli affida
della sua fronte, e la corazza e l’elmo,
dono di Polinice, intorno cinge.
385 Ma il fiero Capaneo, che prende a sdegno
usar le frodi ed ubbidire i Numi,
del pesante suo brando il fianco aggrava
al condottiero Attorre; ed Agilleo
l’armi cambiò con il feroce Nomi.
390 Ed a che prò fra l’ombre incerte gli archi
e l’armi usar dell’immortale Alcide?
Ma perchè lo stridor dell’alte porte
lungi non si oda, da i ripari a salti
precipitaro, ond’era il campo cinto;
395 nè molto andâr, che ritrovâr distesa
immensa preda. Ivi di morti in guisa,
o come prima da più brandi uccisi,
giacevano i Tebani. Il vate allora
fatto sicuro, ad alta voce esclama:
400 - Ite, o compagni, d’inesausta strage
ove il piacer vi alletta; ite, vi prego,
e siate eguali al gran favor de i numi:
eccovi tutte oppresse in vil letargo
le inimiche coorti. Oh nostro scorno!
405 E questi osâr cinger l’argivo campo
d’assedio intorno? Essi tenere a freno
tanti invitti guerrieri? - Ei così dice,
e il ferro tragge fulminante, e il passa
sul moribondo stuol con man veloce.
410 Chi può le stragi annoverar? Chi i nomi
rimembrar degli estinti? I terghi e i petti
senz’ordine trafigge, e dentro gli elmi
lascia rinchiusi i gemiti, e nel sangue
l’anime intorno erranti insiem confonde.
415 Quegli, che giace sopra molle strato;
questi che tardi cedè al sonno, e cadde
sovra lo scudo, e male i dardi impugna;
altri distesi fra le tazze e l’armi,
altri inclinati su le targhe: come
420 ciascuno aveva in feral sonno oppresso
l’infelice sopor, l’estrema notte;
tutti senza pietade ei manda a morte:
nè lungi è il Nume: Giuno, ignuda il braccio,
curva face sospende, ed il sentiero
425 rischiara, e i cuori accende, e i corpi addita.
Tacito sente che la Dea gli assiste
il sacerdote, e il suo piacere occulta.
Ma già lenta è la man, già il ferro ottuso,
e vacillanti in tante stragi l’ire.
430 In cotal guisa fiera tigre ircana,
che ha fatto scempio de’ maggiori armenti,
poichè d’immenso sangue il ventre immane
ha già satollo, e le mascelle stanche,
e le macchie del vello immonde e guaste
435 da la putrida strage; il suo trïonfo
contempla, e duolsi che mancò la fame.
Tal nell’aonio strazio il sacerdote
intorpidisce, e cento braccia e cento
mani di aver desia; già già gl’incresce
440 perdere l’ire invano, e di già brama
che sorga l’inimico a giusta guerra.
Da l’altra parte li Tebani uccide
d’Ercole il figlio, e da quell’altra Attorre.
Ciascuna turba per sentier sanguigno
445 segue il suo duce: son di sangue infette
l’erbe, e di sangue un rapido torrente
scuote le tende. Fuma il suolo intorno,
e l’anelar del sonno e della morte
si confondono insieme. Un sol tebano
450 non v’ha che il volto innalzi, o ch’apra gli occhi,
cotanto il Sonno gli avea oppressi, e solo
loro apre in morte l’ecclissate luci.
Vedute avea cader l’estreme stelle,
per non vedere il dì, fra i giuochi e i suoni,
455 inni cantando in su la cetra a Bacco
Alcmeno, allor che il collo alto sopore
gli fe’ cader su la sinistra spalla
e su la cetra il capo; Agilleo il fere
al petto, e la man punge unita al plettro:
460 tremâr le dita, e fer suonar le corde.
Turba le mense un liquor tetro, e un rio
scorre di sangue, e misto al sangue il vino
torna a le prime tazze, a i primi vasi.
Giace abbracciato col fratel Tamiro,
465 e il fiero Attor l’uccide. Il tergo fora
d’Eteclo coronato il crin di serti,
Tago; Danao d’un colpo il capo tronca
d’Ebro, che il fato non prevede: lieta
fugge la vita sotto l’ombre, e il duolo
470 della morte non sente; in sul terreno
umido e freddo infra le ruote e il carro
giacea Palpeto, e i corridori suoi,
che dell’erbe natie si facean pasto,
spaventava russando: esala il volto
475 un sucido sudor, e ferve e anela
suffocato nel vino il grave sonno:
ecco di lui, che giace, entro la gola
Tiodamante il ferro immerge; il sangue
il vino espelle, ed il russar gli tronca:
480 forse presaga la quïete a lui
e Tebe e il vate avea mostrato in sogno.
La quarta parte del notturno corso
restava ancora, allor che di rugiade
il cielo i campi irrora, e molte stelle
485 perdono il lume, e da più ardente carro
il carro di Boote in fuga è posto.
Nè più che far lor rimaneva; quando
il saggio Attorre al sacerdote vôlto:
- Deh basti (disse) l’insperata gioia
490 al greco campo; nè pur un da morte
scampò, cred’io, fra tanta gente; solo
se alcuno fra i cadaveri e fra ’l sangue
non si celò, per conservar la vita.
Pon modo a la fortuna; i rei Tebani
495 hanno anch’essi i lor Numi, e forse i nostri,
omai stanchi, da noi prendon congedo. -
Ubbidì il sacerdote, e al cielo alzando
le sanguinose mani, orò in tal guisa:
- Queste, che tu additasti, eccelse spoglie,
500 premi della tua notte, immondo e tinto
di sangue ancora (perocchè al tuo Nume
fei sacrifizio), io sacerdote fido
e de’ tripodi tuoi guerrier feroce,
a te, gran Febo, ora consacro in dono.
505 Se a’ tuoi cenni ubbidii, se il tuo furore
sostenni, deh sovente in me ritorna
e la mente m’infiamma. Or noi ti diamo
crudele onor di sangue e d’armi tronche;
ma se avverrà che le paterne case
510 noi rivediamo e i sacri tempii tuoi,
memore allor del voto, o licio Apollo,
da noi chieder potrai cotanti doni
a le tue sacre soglie, e tanti tori,
quanti per nostra man giacciono estinti. -
515 Tacque ciò detto: e i forti suoi compagni
ei richiamò da la felice impresa.
Eran fra questi il calidonio Opleo
e l’arcade Dimante, ambi a’ lor Regi
grati, ed ambi compagni, ed ambi a sdegno,
520 dopo la morte loro, avean la vita.
Opleo a Dimante favellò primiero:
- Dunque, o caro Dimante, a te non cale
dell’Ombra errante del tuo Rege estinto?
Del tuo signor, che forse è fatto preda
525 delli cani di Tebe e degli augelli?
E che di lui riporterete indietro
a i patrii Lari? Ecco la fiera madre
vi viene incontro, e vi domanda il figlio.
Ma privo di sepolcro il mio Tideo
530 mi tien l’alma agitata, e pur le membra
ha del tuo più robuste, e come il tuo
degno tanto non è de’ nostri pianti,
come reciso nel bel fior degli anni.
Ma gire io voglio, e dell’infame campo
535 cercarlo in ogni parte, entrare in Tebe,
qualor altrove ritrovar nol possa. -
Ascoltollo Dimante, indi rispose:
- Per queste vaghe stelle, e per l’erranti
ombre del mio signor, che a me son Nume,
540 ti giuro, ahi lasso, ch’uno stesso ardore
me ancora accende; ma lo spirto oppresso
dal grave lutto richiedea compagno,
ed or andrò primiero. - E così detto
ponsi in cammino, e verso il cielo alzando
545 l’afflitto volto, in cotal guisa prega:
- O Dea, che reggi il cheto orror notturno,
s’egli è pur ver che in triplicate forme
il Nume muti, e nelle selve scendi
sotto altro volto; quel già tuo seguace
550 e de’ tuoi boschi alunno, il tuo fanciullo,
(or lo riguarda almen), quello si cerca. -
Abbassò il carro allor la Diva, e i corni
di maggior lume accese, e con un raggio
additò lor de’ regi i busti esangui:
555 scoprirsi Citerone, i campi e Tebe.
Così qualor tuonando irato Giove
spezza l’aria notturna, e l’atre nubi
sen vanno in fuga, ed al baleno e al lampo
chiari veggonsi gli astri, e di repente
560 a gli occhi appare l’oscurato mondo.
Seguì di Cintia il raggio il buon Dimante,
ed Opleo ancora ravvisò Tideo.
Lieti da lungi de’ trovati corpi
si diero il segno, e l’uno e l’altro al dolce
565 peso del suo signor, come se in vita
tornato fosse o a fiera morte tolto,
sottopongono il dorso, e non ardiscono
di piangere o parlare. Il crudel giorno
già s’avvicina, e lo minaccia il primo
570 albór che spunta. Essi sen vanno cheti
a lunghi passi fra i silenzi mesti,
e dolgonsi in veder pallide farsi
l’ombre notturne. Oh fati invidïosi
a le pietose imprese! Oh rare volte
575 fortuna amica a le magnanim’opre!
Già vagheggiano il campo, ed il desio
più vicin lor l’addita, e più leggero
lor sembra il peso. Quando polve e nembo
vidersi a tergo, e udîr fremito e suono.
580 Il feroce Anfione avea la notte
per comando del Re menato in giro
stuolo di cavalieri. A lui fu dato
de’ Greci l’osservar le guardie e il vallo.
Ved’egli, o pargli di veder da lungi
585 errar pel campo (e non avea la luce
ancor del tutto dileguate l’ombre)
un non so che d’incerto, e che rassembra
aver moto, aver vita: alfin discerne
ch’uomini sono. Allor l’insidie scopre;
590 e, - Olà fermate il passo (altiero grida)
chïunque siete. - Alcun non parla, e certi
si palesan nemici. Il lor cammino
seguon, nè per se stessi hanno timore.
Ei la morte minaccia, e l’asta vibra:
595 ma con tal arte che a ferir non vada,
e d’errar finge. Iva Dimante il primo,
e il balenar del ferro innanzi a gli occhi
gli passò, l’abbagliò, fermògli il passo.
Ma non già invano lanciar volle Epito,
600 e ferì ad Opleo il tergo, e di Tideo,
che ne pendeva, trapassò le spalle.
Cade il misero Opleo, nè del suo duce
si scorda, nè morendo l’abbandona.
Felice lui, che nel morir non vede
605 il cadavere tolto, e in questa spene
scende contento infra le pallid’ombre.
Si rivolge Dimante, e il mira, e sente
stargli già sopra le nemiche schiere;
dubbioso sta, se preghi, o se combatta.
610 L’ira l’armi propon, ma la presente
fortuna vuol ch’ei preghi, e che non osi.
D’ogni parte è periglio. Alfin lo sdegno
differì le preghiere. Innanzi a i piedi
depon l’amato corpo, e d’una tigre,
615 ond’avea ornato il tergo, il vello avvolge
al manco braccio, e ignudo ferro stringe,
e la fronte rivolge a l’aste, a i dardi,
a uccidere e a morir pronto egualmente.
Qual leonessa in cavernoso monte,
620 cui cinse il cacciator numida,
sta sopra i figli con incerto core,
e freme in suono di pietà e di rabbia:
a saltar nello stuolo, a franger dardi
furor la spinge, amor l’arresta e sforza
625 a riguardare i figli in mezzo a l’ira.
E quantunque Anfion divieti a’ suoi
l’incrudelir, già la sinistra mano
è tronca a l’infelice, e per la chioma
si trae Partenopeo supino il volto.
630 Tardi allor supplichevole Dimante
abbassa l’armi, e in cotal detti prega:
- Deh più miti il traete. Io ve ne prego
per le cune dal fulmine percosse
del vostro Bacco; per la fuga d’Ino,
635 e del vostro Palémone per gli anni.
Se v’è tra voi cui scherzin figli intorno,
s’evvi tra voi un padre, al giovanetto
poca terra donate e poca fiamma.
Deh il rimirate; il volto suo giacente,
640 il bel volto ven prega. Ah me piuttosto,
me lasciate a le fiere ed a gli augelli.
Io sono il reo che a guerreggiar l’indussi. -
- Anzi (disse Anfion), s’hai tanto a cuore
il dar tomba al tuo Re, tosto ci narra,
645 quali di guerra volgano consigli
i timidi tuoi Greci, e vinti e rotti
che preparino ancora, e a te la vita
diasi, e la tomba al tuo signore, e parti. -
Dimante inorridissi, e sino a l’elsa
650 s’immerse il ferro in sen: - Questo (gridando)
sol manca a mie sciagure e a tante stragi,
ch’io traditore Argo infelice infami;
nulla compro a tal prezzo, e a cotal prezzo
lo stesso duce mio non cura i roghi. -
655 E di gran piaga già squarciato il petto,
sopra l’amato corpo si abbandona,
e fra i singulti estremi mormorando,
- Me (dice) almeno avrai di tomba invece. -
Così de’ loro Re fra i grati amplessi,
660 questa del pari generosa coppia,
l’Etolo forte e l’Arcade pietoso
spiraron l’alme, e sen morîr contenti.
Or voi nomi già sacri, ancor che sorga
con minor plettro il nostro canto, andrete
665 vincitori degli anni e dell’oblio;
nè forse sdegneranvi ombre compagne
Eurialo e il troian Niso, e di lor gloria
ammetteranvi degli Elisî a parte.
Ma superbo Anfion del suo trionfo,
670 ad Eteòcle più d’un messo invia,
che novella del fatto e della frode
scoperta, e i corpi de’ già vinti Regi
racquistati pur ora, a lui riporti;
ed egli segue ad insultar gli Argivi
675 assediati nel vallo, alto portando
a l’aste affisse le recise teste.
Ma da’ ripari aveano i Greci intanto
scorto Tiodamante e la sua schiera;
e in vederli tornar co’ brandi ignudi
680 di fresco sangue aspersi, il gaudio nuovo
ridonda sì, che contener nol sanno.
Alzano d’improvviso al cielo i gridi,
pendon dal vallo, e ognuno i suoi ricerca.
Stuolo d’augelli non pennuti ancora
685 così in vedendo ritornar la madre,
bramano andarle incontro, e da l’estremo
nido sporgonsi infuori, e già in periglio
stan di cadere; ma vi oppone il petto
la madre amante, e co’ pietosi vanni
690 addietro li respinge e li riprende.
Or mentre il fatto occulto, e del notturno
Marte narran l’impresa, e in dolci amplessi
stan cogli amici, e d’Opleo e di Dimante
van ricercando il ritornar sì tardi:
695 collo stuolo tebano ecco Anfione;
ma non andò di sua vittoria lieto
gran tempo: vede d’infinito sangue
fumar la terra, e ch’una sol ruina
ha la sua gente in vasta strage oppressa.
700 Quello stesso terror ch’uomo sorprende
del fulmine al cader, quello del duce
commosse il petto, ed in un sol orrore
mancârgli e voce e vista, e gelò il sangue;
e mentre ei pianger vuol, lo volse in fuga
705 volontario il destriero, e lui seguendo
alzaro nuova polve i suoi Tebani.
Appena eran costor giunti alle porte
di Tebe, quando dal trofeo notturno
fatti audaci gli Argivi usciro in campo
710 su l’armi e su le membra a terra sparse.
Per cataste di morti, e di mal vivi
in mezzo al sangue, e cavalieri e fanti
vengon correndo, e con le ferree zampe
tritan l’ossa i destrieri, ed alle ruote
715 ritarda il corso il sanguinoso umore.
Ma piace a i Greci l’orrido sentiero,
e già lor sembra le sidonie case
calcar co’ piedi e incenerita Tebe;
e Capaneo gl’instiga: - Assai (dic’egli)
720 fu, o miei compagni, il valor nostro occulto,
ora a me vincer giova: ora che il giorno
testimonio è dell’opra. In campo aperto
colle grida e coll’armi alla scoperta
voi mi seguite, o giovani feroci.
725 Stanno gli augurii anche in man nostra, e il brando,
qualor lo stringo, ha i suoi furori anch’egli. -
Sì dice: e lieto Adrasto e Polinice
vie più gl’infiamman. Privo già del Nume,
men baldanzoso vien Tiodamante.
730 E già sono alle mura; ed Anfione
narrava ancor la nuova strage; quando
poco mancò che non entraron seco
nella infelice e desolata terra.
Ma Megareo, ch’alla vedetta stava,
735 - Chiudi (gridò), chiudi, guardian, le porte;
il nemico c’è sopra. - Anche talora
è padre di virtude un gran timore.
Tosto tutte son chiuse, e mentre solo
Echione a serrar l’Ogigia è lento,
740 v’entra lo stuol di Sparta. In su le prime
soglie Panopeo cade: ei sul Taigeto
avea il soggiorno; e seco Ebalo forte
notator dell’Eurota. E tu cadesti,
delle palestre onore e maraviglia,
745 Alcidamante, vincitor felice
nell’arena di Neme. A te Polluce
adattò i primi cesti; or tu morendo
del luminoso tuo maestro miri
la risplendente stella, ed ei per doglia
750 la volge altrove, e si nasconde e spegne.
Te piangeran l’ebalie selve, e il lido
grato tanto alle vergini spartane,
e il Fiume ove cantò cigno fallace,
e le Ninfe amiclee grate a Dïana,
755 e colei, che a te diè le prime leggi
di guerreggiar, che tu poste in oblio
l’abbia cotanto, si dorrà la madre.
Marte così sul limitar di Tebe
incrudelisce; ma il robusto Acrone,
760 e Alimenide in un, quei colle spalle,
questi col petto le ferrate porte
sforzando a gara, le serraro in fine,
non senza pena; in quella guisa appunto
che fendon del Pangeo gl’inculti un tempo
765 campi due buoi co’ colli bassi e ansanti.
L’util fu pari al danno. Entro le mura
chiuser molti nemici, e fuor lasciaro
molti de’ loro; e di già il greco Ormeno
in su le porte è ucciso, e mentre stende
770 Amintore le mani, e parla e prega,
recisa la cervice a terra cade,
e cadon seco le parole e il capo,
ed il monile, onde fregiava il collo,
lungi balzò su l’inimica arena.
775 E già abbattuto il vallo, e le dimore
prendendo a sdegno, de i pedon le schiere
erano giunte alle anfionie rocche;
ma del fosso in mirare il salto immenso
e il precipizio orribile e scosceso,
780 s’arretrano i destrieri, e paventando,
hanno stupor ch’altri li spinga innanzi.
Talor per gir fann’impeto, e talora
rivolti contro il fren, giransi addietro.
Altri intanto i steccati, altri i rastrelli
785 e i ferrei claustri dell’eccelse porte
tentan spezzare; - altri coll’ariéte
muovon di luogo gl’incantati marmi
e squarciano le mura. Altri han piacere
in rimirar le fiamme a i tetti accese,
790 ch’essi avventaro, ed altri a l’ime parti
muovono guerra, e ricoperti e ascosi
sotto densa testuggine, a le torri
scavano di sotterra i fondamenti.
Ma d’altra parte le sidonie genti
795 fanno a i muri corona (unica spene
che loro avanza di salute), e aduste
travi, e lucidi dardi, e le piombate
palle, ch’ardon nell’aria, e i sassi stessi
svelti da i muri, sovra i Greci a piombo
800 fanno cadere: orrido e fiero nembo
piove da l’alto, e da’ forami armati
volano mille stridule saette.
Come talor pigre procelle mosse
da i vicin colli su gl’infami scogli
805 d’Acrocerauno e di Malea sospese
fermansi accolte in nembo; indi repente
spezzansi, e vanno a flagellar le navi:
tal da l’armi tebane eran gli Argivi
da ogni parte percossi, e pesti e infranti.
810 Ma l’orribile grandine non piega
gli audaci petti, ed i feroci volti
sol mirano i ripari, e sol cogli occhi
seguono i loro dardi, e della morte
non prendon cura. Iva osservando i muri
815 Anteo correndo sul falcato carro,
quando d’asta tebana impetuoso
e grave colpo lo rovescia al piano.
Le redini abbandona, e con un piede
(orribile spettacolo di guerra!)
820 pende dal carro, e le due ruote e l’asta
forman triplice solco in sul terreno.
Va per la polve il capo, e resupini
pendon del crin disciolti i lunghi giri.
Con strepito feral la tromba intanto
825 Tebe perturba, e con un suono amaro
dentro penétra a le rinchiuse porte.
Si dividono in schiera i Greci, e ognuna
una porta assalisce, e il suo stendardo
minaccioso precede, e seco adduce
830 le sue proprie speranze e gli altrui danni.
Dell’afflitta città l’orrido aspetto,
di Marte stesso avria ammollito il cuore.
Dolor, rabbia, timore e fuga infame
in luoghi oscuri e ciechi, in varie forme
835 la sbigottita Tebe empie d’orrori.
Par che sian dentro gl’inimici: ferve
di tumulto ogni rocca, e per le strade
s’odon grida confuse, e già davanti
veggonsi ’l ferro e ’l fuoco, e nella mente
840 già si figuran servitù e catene.
Quanto può mai accader, come presente
lor dipinge il timore. E già le case
son piene e i tempii, e le piangenti turme
circondano gli altari e i Numi ingrati.
845 Questo stesso timor per tutti gli anni
passa veloce: i vecchi omai cadenti
braman la morte; impallidisce e suda
la gioventù robusta, ed ogni albergo
s’ode suonar di femminili pianti;
850 e gl’innocenti e teneri bambini
piangono anch’essi, e lo perchè non sanno,
ma delle madri lor seguon l’esempio.
Queste instiga l’amore, e negli estremi
casi freno non han più di vergogna.
855 Esse l’armi a i guerrieri, esse il valore
somministrano e l’ire, esse con loro
van mischiate, e gli esortano, e non cessano
d’additar lor le patrie soglie e i figli.
Così qualor va per rapire il mele
860 pastore ingordo, e muove l’api a sdegno,
ferve l’armata nube, e col stridore
s’esortano a ferire, e tutte al viso
del rapitor si avventano: ma stanche
l’ali nel volo, su le bionde case
865 posansi alfine, e il dolce mel rapito
piangono, e al sen stringon le amate cere.
Son divisi i parer del dubbio volgo;
sorgon moti discordi, e già in palese
(non con segreto e tacito susurro)
870 gridan che torni l’esule fratello,
che gli si renda il regno. Ogni rispetto,
che si aveva del Re, manca e si estingue
ne’ solleciti petti. - Oramai venga,
gridan tumultuando, e l’anno alterno
875 goda, e di Cadmo il naturale albergo,
e le paterne tenebre saluti. -
Altri a l’incontro: - Questa nostra fede
è intempestiva e tarda. Egli, piuttosto
che patteggiar, vincer vorrà coll’armi. -
880 Altri piangenti e in supplichevol schiera
pregan Tiresia che il futuro sveli,
unico in tanti mali a lor conforto.
Ma sta ritroso, e tien rinchiusi in seno
gli oracoli de’ Numi. - È certo (dice)
885 certo che dianzi i miei consigli attese
il Re, quand’io vietai l’enorme guerra;
ma pur, Tebe infelice, e s’io non parlo
già vicina a perir, non fia ch’io senta
la tua caduta, e colla vuota fronte
890 sorba le fiamme dell’incendio greco.
Vinca in noi la pietà. Vergine, poni,
poni gli altari, e consultiamo i Dei. -
Essa eseguisce, e con sagace sguardo
mira le punte della fiamma tinte
895 di sanguigno colore, e in due diviso
ergersi ’l fuoco su gli altari, e in mezzo
chiara e serena sfavillar la fiamma;
indi per l’aria raggirarsi in guisa
di tortuosa serpe in vari modi,
900 e mancare il rossore: il vede e il narra
al genitor dubbioso, e le paterne
tenebre illustra. Ed ei già buona pezza
tiene abbracciati i coronati altari,
e con la faccia rosseggiante e accesa
905 va bevendo il fatidico vapore.
Le sue dimesse e scompigliate chiome
s’ergono in alto, e l’agitato e insano
crine solleva le tremanti bende.
Par che gli occhi rïapra, e che sul volto
910 di giovanezza il primo fior ritorni.
Alfin lo strabocchevole furore
così esalò da l’infiammato petto:
- Quale tremendo sacrifizio estremo
chiedano i Numi, empii Tebani, udite:
915 verrà per aspra via l’alma salute.
Ma di Marte il Dragon da noi richiede
vittima umana, umano sangue: cada
chi l’ultimo fra noi scese da l’angue.
Solo a tal patto Tebe avrà vittoria.
920 Oh lui felice, che darà la vita
a sì gran prezzo d’immortale onore! -
Del fatidico vate al fiero altare
era vicin Creonte ansio e dolente
del patrio suol per lo comun periglio.
925 Quando, come da fulmine percosso,
o da ritorto dardo il sen trafitto,
semivivo sentì chiedersi a morte
Meneceo il figlio, e glielo fa palese
e gliel mostra il timor; stupido resta,
930 e intorno al cuor se gli restringe il sangue.
Così percossi di Trinacria i lidi
sono dal mar, se contro d’essi il spinge
Austro talor da l’affricana arena.
Del crudel vate, che di Febo ha colmo
935 il vasto seno, le ginocchia abbraccia
supplichevole in atto, e lo scongiura
a por silenzio al vaticinio orrendo;
ma invan lo prega, e già la fama vola
con le sacrate voci, e tutta Tebe
940 risuona già della febea risposta.
Or chi aggiungesse generosi sproni
e d’onorata morte almo desio
nel giovane feroce (un cotal dono
non scende a noi senza favor de’ Numi)
945 or tu rimembra, o Clio. Tu, che conservi
ognor vivaci le memorie antiche
e i secoli vetusti, e del Tonante
assisti al trono, onde sì raro in terra
scender suol la Virtude, o sia che Giove
950 la doni a i suoi più cari, o ch’ella scelga
anime generose e di sè degne:
siccome allor da le celesti piagge
lieta e bella discese! Al suo passaggio
dier luogo gli astri e quelle stesse faci
955 che di sua mano ella innalzò fra loro.
E di già è in terra, e pur l’eccelsa fronte
s’avvicina a le sfere. Il grande aspetto
però mutar le piace, e la sembianza
di Manto prende; onde più presto a i detti
960 Meneceo porga e a i vaticini fede.
Così mutata per celar l’inganno,
sparver da gli occhi l’orridezza e il fuoco;
ma il primiero decoro e più soave
la maestà ritien; deposto il ferro,
965 l’augural verga impugna; a terra il manto
lascia cadere, e le confuse chiome
attorciglia di bende, e lascia il lauro
ch’era suo fregio; ma il feroce aspetto
la palesa per Nume, e il passo altiero.
970 Tale già si ridea del fiero Alcide
Onfale, allor che in femminili spoglie
deposto del leon l’ispido vello,
squarciava e manti e gonne; e colla mano
troppo grave rompea cembali e fusi.
975 Te forte Meneceo trovò la Dea
non di lascive fogge adorno e molle;
ma qual conviensi al sacrifizio, e degno
del grande onor dell’immortal comando.
Della torre dircea schiuse le porte,
980 facea strage de’ Greci, e seco Emone;
ma quantunque d’un sangue ambi e fratelli,
Meneceo lo precede: a lui d’intorno
stan cumoli di morti e di malvivi.
Ogni dardo colpisce, ed ogni colpo
985 seco porta la morte, e non ancora
presente è la virtù. La mano, il cuore
non trovan posa, e il sitibondo brando
non cessa: sembra che la Sfinge stessa,
che sta in guardia dell’elmo, in rabbia monti,
990 e visto il sangue, l’animata immago
fiammeggi e splenda, ed ei n’ha l’armi asperse.
Quando a lui, che combatte, il braccio arresta
la Diva e il brando, indi così favella:
- Generoso garzon, di cui maggiore
995 Marte non vide fra il guerriero seme
di Cadmo, lascia queste pugne umíli:
non son degne di te vulgari imprese.
Te chiaman gli astri (a maggior cose aspira)
e renderai al Ciel l’anima grande.
1000 Questo sol grida, a i lieti altari intorno,
il genitor; questo le fibre e i fuochi
mostrano; questo sol richiede Apollo:
ch’uno de i figli della Terra il sangue
dia per la patria. Vola intorno il grido;
1005 Tebe n’esulta, e in tuo valor si affida.
Rapisci i Numi colla mente; afferra
il gran Destino, va, corri, t’affretta
pria che t’involi un tanto onore Emone. -
Disse; e di lui, che tarda e sta sospeso,
1010 il petto molce colla destra, e tutta
in lui s’infonde, e di sè gli empie il cuore.
Non così ratta la celeste fiamma
serpe da le radici a l’alte cime
di cipresso dal fulmine percosso;
1015 come il garzon, pieno del Nume, i sensi
a gloria eresse, e s’invaghì di morte.
Ma poi che vide della finta Manto
le vesti e il portamento, e che da terra
s’alza sovra le nubi, inorridissi.
1020 - O chiunque tu sia, Dea, che mi chiami
(disse), io ti seguo, e ad ubbidir non tardo. -
Parte, e partendo Agrio di Pilo uccide,
che ardito l’incalzava: in su le braccia
lo riportaro estinto i suoi scudieri.
1025 Dovunque passa, la festosa turba
lieta gli applaude, e autor di pace il chiama;
liberatore e Nume, e sproni aggiunge,
e di fiamma d’onor tutto l’accende.
Già con ansante corso a l’alte mura
1030 era egli giunto, ed in suo cuor godea
d’aver schivato i genitori afflitti;
quando ecco il padre (ambi restaro immoti
ed ambi muti, ed abbassâr le fronti);
ma il padre in fine lo prevenne, e disse:
1035 - Qual nuovo caso le difese soglie
fa che tu lasci? E qual impresa tenti
della guerra peggior? Onde, ti prego,
nasce il turbato ciglio? Onde il pallore?
Perchè non alzi al genitore il guardo?
1040 Ah veggio ben che la fatal risposta,
figlio, a te giunse; il veggio certo: ah figlio!
Per gli anni miei, pe’ tuoi, figlio, ti prego,
e per lo sen dell’infelice madre,
non prestar fede al vate. Adunque i Numi
1045 si degneranno nel profano petto
scender d’un veglio che nel vuoto viso
mostra il furore, e delle luci privo,
a l’empio Edippo è nella pena eguale?
Forse chi sa? Queste son frodi ordite
1050 dal crudo Re, che nell’estrema sorte
teme di noi, del nostro sangue, e teme
il tuo valor, che sovra ogni altro duce
ti distingue e t’innalza. E questi detti
non son de’ Numi (qual Tiresia vanta),
1055 ma del tiranno. Deh ritieni a freno
l’animo ardente, e breve indugio accorda,
breve dimora al genitor che prega.
Ogni bel fatto l’impeto corrompe:
così tu ancora a la canizie arrivi;
1060 tu pur sii padre, e questa stessa tema
provi, che per te provo. I miei Penati
non far orbi di te. Dunque cotanto
de’ genitori altrui, degli altrui pegni
senti pietà? Se te vergogna muove,
1065 sentila pria de’ tuoi. Questa è pietade,
questo è onor vero. Ivi è sol gloria vana,
e un inutile nome, e nella morte
un vano fregio che si asconde e cela:
nè già codardo padre è che ti prega.
1070 Va, pugna misto fra le argive schiere,
il petto opponi a l’aste e a l’armi ignude,
io non tel vieto: a l’infelice padre
almen si dia le glorïose e belle
piaghe lavarti, o figlio, e con i pianti
1075 tergerne il sangue, e rimandarti in guerra.
Questo è quel che da te la patria chiede. -
Così dicendo, dell’amato figlio
tien colle braccia e mani e collo avvinti;
ma il giovane, che a i Dei s’è offerto in voto,
1080 non cede a i pianti e a le querele, e un nuovo
ispirato da i Numi ordisce inganno,
con cui dal suo timore il padre affida.
- In error sei, buon padre, e di mia tema
la verace cagione ancor t’è ignota.
1085 Me non muovon gli Oracoli, o i clamori
de i furibondi vati, o l’ombre vane.
Canti le fole sue Tiresia astuto
a sè e a la figlia: non se Apollo istesso,
le fatidiche grotte disserrando,
1090 col suo furore m’agitasse il petto;
ma dentro la città mi riconduce
dell’amato fratello il caso acerbo.
Langue ferito Emon da strale greco;
a fatica l’abbiam pur or ritolto,
1095 fra l’uno e l’altro esercito, dal campo,
ov’ei giaceva, e da le mani ostili:
ma il tempo io perdo. Vanne, o padre, e prendi
di lui tu cura, e di’ che mollemente
la turba de i sergenti addietro il porti.
1100 Io corro in traccia d’Etïone esperto
le piaghe a risanar, stagnare il sangue. -
Qui tronca i detti, e fugge. Un altro orrore
ingombra allor la mente, e i sensi turba
dell’incerto Creonte: errando a caso
1105 va la pietà fra i due timor discordi.
Ma la Parca lo sforza, e fa che il creda.
Intanto Capaneo torbido e audace
i Tirii assale da le porte usciti
in campo aperto a guerreggiar co’ Greci.
1110 Ora le corna de’ cavalli, ed ora
le squadre de i pedoni urta e scompiglia:
gli aurighi abbatte, e mette in fuga i carri
che passan sopra i condottier giacenti:
or l’alte torri indebolisce e scuote
1115 lanciando spessa grandine di sassi:
fuma nel sangue, e gli ordini perturba:
lancia piombi volanti, e nuove piaghe
piove sopra i Tebani; or vibra in alto
con tutto il braccio fulminando i dardi.
1120 A la cima de i muri asta non giunge
ch’uom non abbatta, e non ricada al suolo
di fresca strage sanguinosa e tinta.
Nè già più sembra a la falange argiva
che Tideo manchi loro, o Ippomedonte,
1125 o il prisco vate o l’arcade garzone.
Ma par che in lui tutte sien l’alme accolte
di tanti eroi: così per tutti adempie.
Non età, non splendor, non vago aspetto
muovono il fiero cuor: del pari ei fere
1130 chi combatte e chi prega. Alcun non osa
di stargli a fronte e di tentar la sorte;
ma temon di lontan del furibondo
l’armi, le creste e l’orrido cimiero.
In parte eletta delle patrie mura
1135 fermossi intanto Meneceo pietoso
già sacro nell’aspetto e venerando,
ed in sembianza, oltre l’usato, augusto;
qual se da gli astri pur allor scendesse.
E già deposto l’elmo e a tutti noto,
1140 d’alto mirando le guerriere squadre,
mise uno strido, e in sè rivolse il campo,
e tregua impose a la battaglia, e disse:
- Numi dell’armi, e tu, che a me concedi
cader di sì gran morte, amico Apollo,
1145 quelle che patteggiai, gioia e riposo,
e che comprai con tutto il sangue mio,
donate a Tebe. Rivolgete indietro
l’orrida guerra, e le reliquie infami.
Lerna vinta ne accolga, ed il superbo
1150 Inaco abborra i figli indegni, il tergo
impressi di bruttissime ferite.
Ma case, campi, tempii, e moglie e figli
date a i Tebani di mia morte in prezzo.
Se ubbidïente vittima a voi piacqui,
1155 se del gran vate le risposte accolsi
con intrepido orecchio, e l’eseguii,
Tebe non lo credendo; al patrio suolo
per me rendete la mercè ch’io chieggio,
e mi placate il genitor deluso. -
1160 Sì disse, e l’alma generosa, e schiva
già di sua spoglia e di più star rinchiusa,
impazïente in libertà ripose
con il lucido acciaro al primo colpo.
Di sangue asperse i muri e l’alte torri,
1165 e si lanciò fra i combattenti in guisa
che andò a cader su gli odïati Argivi:
ma pietà, ma virtude alto su l’ali
portaro il corpo, e lo posaro in terra;
e già lo spirto sta di Giove al trono,
1170 ed ha fra gli astri la primiera sede.
Senza contesa si riporta in Tebe
il magnanimo eroe: cedero i Greci,
venerando il gran fatto. A lunghe file
vien ricondotto su gli altieri colli
1175 de i giovani più scelti. Il vulgo applaude,
e fra gl’inni e fra i canti e i lieti gridi
maggior di Cadmo e d’Anfion l’appella.
Altri l’ornan di serti, altri di fiori
spargon le membra; e l’onorato corpo
1180 ripongono degli avi entro la tomba.
Dato fine a le lodi, in guerra riedono.
Ma il miserabil genitor, che l’ira
conversa ha in lutto, piange, ed a la madre
è dato al fine il piangere e il dolersi:
1185 - Io dunque ti nudrii, garzone invitto,
quasi madre vulgar, vittima a Tebe
e capo sacro a la comun salute?
E che mai feci? E perchè i Numi in ira
m’hanno cotanto? Io già d’impure fiamme
1190 non arsi, o al figlio partorii nepoti.
Ma che mi giova, se Giocasta i suoi
parti ancor mira e capitani e Regi?
Noi diam l’ostie a la guerra (e tu l’approvi,
crudo Tonante), perchè i rei fratelli
1195 seme d’Edippo cangin serto e regno.
Ma perchè i Numi incolpo? Ah che a la madre
tu affrettasti il morir, figlio crudele.
E d’onde in te questo desio di morte?
Qual, Meneceo, diro furor t’invase?
1200 Qual io mi partorii per mia sciagura
figli da me diversi, e appunto scesi
dal Dragone di Marte e da la Terra,
onde uscì l’avo di nuov’armi adorno!
Quinci l’alma feroce e il troppo ardire,
1205 che racchiudevi in sen: tu da la madre
nulla traesti. A volontaria morte
ecco tu corri, e delle Parche in onta
scendi immaturo infra le pallid’Ombre.
Io per te ben temea gli Argivi, e l’armi
1210 di Capaneo; ma questa stessa mano,
lo stesso ferro che a te, folle, io diedi,
questi eran da temer: misera! come
l’hai fino a l’elsa nella gola immerso!
Non t’avrebbe il più barbaro tra i Greci
1215 di più profonda piaga il seno aperto. -
Non dava fine a le querele, a i pianti
quell’infelice, onde assordava il cielo.
Ma le amiche e le ancelle il suo dolore
van consolando, e suo malgrado al fine
1220 la riconducon nel rinchiuso ostello.
A terra siede, lacerando il volto,
nè ascolta i detti, e non riguarda il giorno,
ma i lumi tiene affissi al suolo e immoti.
Tale in scitica grotta immane tigre,
1225 cui furò i figli il cacciatore alpestre,
giace lambendo il tepido covile,
e l’ire scorda e il natural furore,
e la rabbia e la fame; armenti e greggi
passan sicuri: essa sel vede, e stassi.
1230 E a chi colmar di nuovo latte il seno?
A chi portar la conquistata preda?
D’armi, d’aste, di trombe e di ferite
basti fin qui: di Capaneo il valore
or conviensi innalzar sino a le stelle:
1235 non basta a tanta impresa il plettro usato.
Uopo è di maggior suono, e che in me spiri
nuov’aura, nuovo spirto e maggior fuoco
da le selve d’Aonia, e il sen m’accenda.
Su, tutte, o voi caste canore Dee,
1240 su, tutte, meco osate, e al gran soggetto
uniam le trombe, e solleviamo il canto.
O quel furor dal cupo centro uscío
del baratro profondo, e contro Giove,
di Capaneo seguendo il gran vessillo,
1245 rapiron l’armi le tartaree suore;
o la virtù trapassò il segno, o il spinse
gloria precipitosa, o colla morte
prezzo mercò d’immortal fama e grande:
o che lieti principii hanno i disastri;
1250 o lusinghiere son l’ire de i Numi.
Sdegna il feroce omai terrene imprese,
nausea l’immensa strage: e già consunte
l’aste greche e le sue, lo sguardo innalza
torvo, e con stanca mano il Ciel minaccia.
1255 Indi aereo cammin di cento e cento
gradi fra due gran piante affissi e immoti
alto sostenta, onde varcar de i venti
osa gli spazi e penetrare in Tebe.
Squadra con gli occhi da la cima al fondo
1260 l’eccelse torri, e orribile in sembianza
di secca quercia accesa face scuote.
Ne rosseggiano l’armi, e nello scudo
ripercossa la fiamma, acquista lume.
- Questo è, grida, il sentier per cui mi sforza
1265 la virtude a salir: là, ’ve del sangue
di Meneceo son l’alte mura sparse;
ora vedrem se a lor salute giovi
il sacrifizio, o sia fallace Apollo. -
Sì dice, e sale, e su i ripari vinti
1270 trionfante passeggia. In cotal guisa
gl’immani figli d’Aloo tremendo
Giove mirò, quando a far guerra a i Numi
sovra sè stessa s’innalzò la Terra:
nè Pelia era ancor giunto, e già toccava
1275 le timorose sfere Ossa sublime.
Nell’estremo periglio delle cose,
attoniti i Tebani e timorosi,
qual se l’ultimo eccidio, e se Bellona,
la man di face armata, entrasse in Tebe
1280 abbattendo e struggendo altari e tempii;
piovon sopra di lui da i tetti a gara
immense travi e smisurate pietre
e ferrei globi da le frombe usciti.
(Perocchè, quale nel vicin conflitto
1285 puot’esser luogo a le saette e a i dardi?)
Impazïenti d’atterrarlo, in giuso
versan l’intere moli e le guerriere
macchine istesse. Egli sicuro vassi,
e di colpi percosso il tergo e il petto,
1290 ei non s’arresta; ma per l’aere ascende
sicuro sì, qual se posasse in terra,
ed entra al fine con ruina estrema.
Tal con assidui flutti a ponte antico
assalto muove impetuoso fiume;
1295 treman le travi, e svelti i sassi cadono,
ed ei con maggior impeto l’incalza,
e preme e scuote: alfin l’inferma mole
svelle, e seco la tragge, e vincitore
respira, e corre più spedito al mare.
1300 Ma poi che torreggiò sull’alte mura,
e sotto i piedi rimirossi Tebe,
e tutta oppresse la città dolente
coll’ombra immensa del feroce corpo,
così rampogna gli atterriti cuori:
1305 - Son dunque, sono le anfionie rocche
deboli tanto? Oh vostra infamia eterna!
Son dunque queste le incantate pietre
che menâr danze al suon d’imbelle canto?
Son questi i vostri favolosi muri?
1310 Che grande impresa è l’atterrar ripari,
di fragil lira a l’armonia contesti! -
Così insultando il passo avanza, e abbatte
e moli e tavolati e ponti, e scioglie
le compagi de’ tetti, e i tetti atterra;
1315 i macigni ne prende, e li rilancia
contro i sublimi tempii e l’alte torri,
e Tebe pur con Tebe appiana e strugge.
Fremon fra lor discordi intorno a Giove
intanto i Dei Tebani e i Numi d’Argo.
1320 Già son vicini a l’ire; a tutti eguale,
li mira il sommo Padre, ed egli solo
li tiene a freno. Geme Bacco e duolsi.
La madrigna l’osserva, e torva guata
il tonante marito. - Ov’è (dic’egli)
1325 tua mano onnipotente? Ove le fiamme
delle mie cune e il fulmine ritorto?
Il fulmine dov’è? - Si lagna Apollo
che cadan da sè eretti e tempii e case;
stassi coll’arco teso incerto Alcide
1330 tra Lerna e Tebe da qual parte scocchi;
l’alato cavalier d’Argo materna
sente pietade; Venere deplora
d’Harmonia il sangue, e sta in disparte e teme
il geloso consorte, e l’ira ascosa
1335 palesa a Marte con furtivi sguardi:
sgrida gli Aonii Dei Tritonia audace:
Giunon sta cheta; ma il silenzio amaro
scopre il furore che nel sen racchiude.
Gli sdegni lor, le lor contese a Giove
1340 non giungono a turbar l’eterna pace;
e già tacean le risse, allor ch’al cielo
giunse di Capaneo l’orribil voce:
- Nume (dicea) non v’ha che la difesa
della città tremante in cura prenda?
1345 E dove siete, dell’infame Terra,
Bacco ed Alcide, cittadin codardi?
Ma perchè i Dei minori a guerra sfido?
Vieni tu stesso, o Giove: e chi più degno
è di pugnar con noi? Vedi, io già premo
1350 di Semele le ceneri e l’avello.
Or ti risenti, e contro me fa pruova
delle tue fiamme. O in atterrir donzelle
solo sei forte, e in penetrar di Cadmo,
suocero indegno, il vïolato albergo? -
1355 Avvampâr d’ira i Numi; udillo Giove,
e sorridendo crollò il capo, e disse:
- Dopo lo scempio de’ Giganti in Flegra,
cotanto orgoglio in mortal petto vive?
È dunque d’uopo fulminar te ancora? -
1360 Stangli d’intorno i Dei sdegnosi, e lento
lo chiaman tutti, e le saette ultrici
chiedono a prova: non ardisce Giuno
confusa e mesta al crudel fato opporsi.
Senza il segno aspettare, il ciel turbato
1365 lampeggia e tuona, e già le nubi insieme
vanno a trovarsi, e non le spinge il vento;
e già i nembi s’addensano. Diresti
le tartaree catene avere infrante
Iäpeto, ed alzar contro le stelle
1370 Inarime già vinta il capo altero,
ed Etna vomitar turbini ardenti.
Si vergognano i Dei del lor timore.
Ma in cotanta vertigine del mondo,
vedendo un uom pieno d’orgoglio e d’ira
1375 star contro loro e disfidarli a guerra,
maravigliando stan taciti e mesti,
nè dello stesso fulmine han fidanza.
Già sordamente su l’Ogigia torre
muggiva il cielo, e stava involto il Sole
1380 entro cieca caligine profonda;
ma non teme il feroce, e afferra e scuote
le mura che non vede, e quando i lampi
squarcian le nubi e il fulmine discende;
- Questi (grida) son ben fuochi più degni
1385 per arder Tebe, e di mia stanca face
per rinforzar la furibonda fiamma: -
Giove allora tuonò da tutto il cielo,
e scagliò il fatal fulmine trisulco.
Primo lungi volò l’alto cimiero;
1390 poi lo scudo abbronzato a terra cadde,
e l’indomito corpo è tutto fuoco.
Ritiransi i guerrieri, e da qual parte
cada, non sanno, e con le ardenti membra
quai schiere opprima. La celeste fiamma
1395 sent’ei che gli arde il petto, e l’elmo e il crine.
Con disdegnosa man sveller l’usbergo
tenta, e sol trova cenere e faville;
e pur sta ancora, e il viso ergendo in alto,
spira contro del Ciel l’alma sdegnosa:
1400 per non cadere, a l’odïate mura
appoggia il petto e le fumanti membra;
ma queste membra alfin disciolte in polve
lasciano in libertà lo spirto immane.
"Poco più che a cader tardato avesse,
1405 meritato avria il fulmine secondo".
Poichè tutto il furor d’empia virtude
consumò il fiero Capaneo, spirando
il ricevuto fulmine, e del fuoco
vendicatore lungo orribil solco
5 segnâr nel suolo le cadute membra;
il turbamento delle sfere e i moti
placò Giove col cenno, e con un guardo
serenò il cielo, e rese il lume al Sole.
Se n’allegraro i Dei seco non meno
10 che s’ei da Flegra ritornasse ansante,
e vincitor con tutto l’Etna il fiero
e fulminato Encelado premesse.
Orrido in volto ei giace al sen stringendo
un grave masso di caduta torre;
15 ma lascia dopo sè di grandi imprese
memoria eterna, e degna ben che Giove
d’averlo vinto si compiaccia e vanti.
Quale e quanto si stende il fiero drudo
vïolator dell’apollinea madre;
20 se dal petto talor sospesi in alto
stanno gli augelli, hanno terror mirando
le immense membra, mentre al crudo pasto
riproduce le viscere infelici:
tale e cotanto Capaneo prostrato
25 l’inimico terreno ingombra e adugge
col sulfureo vapor del divin lampo.
Tebe respira, e il supplichevol vulgo
sorge da i tempii: dassi fine a i pianti;
cessano i voti, e fatte già sicure
30 depongono le madri i dolci figli.
Van per il campo dissipati e sparsi
i Greci intanto: non le turme ostili,
non mortal ferro è che li caccia. Irato
veggonsi Giove innanzi: a ciascun sembra
35 sentir su l’elmo o dentro il ferreo arnese,
la fiamma, il lampo, la saetta, il tuono.
Gl’incalzano i Teban, l’ira e il tumulto
del Cielo irato in lor favore usando.
Così talor fiero leon massile,
40 se fatto scempio de’ più forti tori,
sazio sen parte; da i lor antri in frotta
corrono gli orsi ed i voraci lupi
sicuri a divorar la preda altrui.
Da una parte li preme Eurimedonte
45 di rustic’armi adorno. Agresti dardi
impugna, e mesce rustical tumulto,
del padre a guisa, ed il gran Pan è il padre.
Da l’altra parte, superando gli anni,
il leggiadro Alatreo gli Argivi incalza,
50 e del giovane padre egli fanciullo
eguaglia la virtude; ambi felici,
ma più felice il genitor, che tale
sel vede a lato, e non sai ben nell’armi
chi più risuoni, o con più forte braccio
55 chi l’aste vibri ed i volanti dardi.
Fuggono i Greci in un raccolti e stretti,
e fassi angusto a tanta fuga il vallo.
Quali mai volgi, o Marte, aspre vicende!
Ecco costor che le anfionie mura
60 salian poc’anzi; spaventati e rotti
difender ponno i lor ripari appena.
Così riedon le nubi, e così i venti
piegan di qua di là le bionde ariste,
e così copre il mar d’onde l’arena,
65 così la scopre, in sè volgendo i flutti.
I giovani Tirintii imitatori
del cittadin lor Nume, armati il tergo
di pelli di leon, cadon fuggendo:
Alcide freme in rimirar dall’alto
70 della belva nemea squarciato il dorso
di brutte piaghe, e per lo campo sparse
pari a le sue giacer faretre e clave.
Stava d’argiva torre in su le soglie
Enipeo, avvezzo con guerriera tromba
75 a concitare a le vittorie i Greci;
ora con più util suono a la raccolta
gl’invita, e chiama nel munito campo.
Ecco uno strale il coglie, e la sinistra
mano a l’orecchio inchioda. In aura sciolto
80 lo spirto fugge, ma il rinchiuso fiato
nel ritorto oricalco il suono adempie.
Ma nelle sceleraggini potente
Tesifone crudel, che già nel sangue
delle due genti esercitate ha l’ire,
85 colla tromba fraterna e col duello
finir risolve la spietata guerra;
nè crede bastar sola al gran delitto,
se da l’inferna sede a sè non chiama
in soccorso Megera, e d’ambi i crini
90 non sian congiunte le propinque serpi.
Dunque in rimota valle il passo arresta,
e scava il suolo col tartareo brando,
ed a nome la chiama, e il maggior angue
in alto ergendo del vipereo crine
95 sibila e stride; orribil segno e certo,
a cui mai sordo non mostrossi Averno.
Al subito fragor tremâr le sfere,
la terra e il mare; e pur di nuovo Giove
a la fucina etnea rivolse il guardo.
100 Udì Megera il suono. Ella si stava
del suo padre Acheronte in su la sponda,
mentre di Capaneo le furie e l’ire
colmavano d’applauso i Numi inferni,
e spegnea l’ombra spaventosa il fuoco
105 nell’onda stigia del celeste dardo.
Squarcia l’oscuro chiostro, e fuor si mostra:
respiran l’alme, e quanto al suo partire
scema d’orrore al tenebroso Inferno,
tanto manca quassù di luce al giorno.
110 Tesifone l’accolse, e l’empia destra
a lei porgendo, favellò in tal guisa:
- Potei fin qui del sommo padre inferno,
Germana, sostenere il grande impero
e gl’imposti furori io sola in terra
115 del mondo esposta all’odïato lume,
mentre voi neghittose i muti Elisi
reggete e l’ombre facili e ubbidienti.
Mira di quante stragi è pingue il suolo,
di quanto sangue fervon fiumi e laghi,
120 quante vanno alme erranti a Lete intorno:
tutte son opre mie. Ma che mi vanto
di sì volgari imprese? Abbiale Marte,
abbiale Enío, che importa? Un fiero duce
(certo so ben che nell’Inferno suona
125 di ciò la fama) tu pur or vedesti
in torvo aspetto, da l’immane bocca
stillar putrido sangue: io quella fui
che il tronco teschio a manicar gli porsi.
Lo strepito e il furor del cielo irato,
130 guari non ha, fin negli abissi è giunto.
Un capo a me già sacro il fiero nembo
minacciava in quel punto. Ed io fra l’armi
del furibondo eroe schernia gli sdegni
e le guerre de i Numi, e mi ridea
135 del fulmine di Giove e de’ suoi lampi:
ma ti confesso, o suora, al lungo affanno
langue l’ardire, e già la destra ho stanca:
scema l’infernal face al cielo aperto,
e il troppo lume ha di sopore oppresse
140 mie serpi avvezze nell’eterna notte.
Tu, che ancor serbi i tuoi furori interi,
le cui ceraste di Cocito a l’onda
si dissetaro e rinnovaro il tosco,
tu mie forze ristora e a me t’unisci.
145 Non le solite schiere e non di Marte
le usate pugne prepariam: le spade
(invan pietade, invan la fe’ si oppone)
concitar ne convien de i due fratelli;
spingerli al reo duello. Enorme, grande,
150 malagevole impresa! E pur non temo:
gli odii loro, i furor daranci aiuto.
Perchè sospesa stai? Su via ti scegli
qual de i due più t’aggrada: ambi son nostri,
ambi facili e pronti a i nostri cenni.
155 Ben ne potrian tardar gli empii consigli
il vulgo incerto e la piangente madre,
e d’Antigone i preghi e il parlar blando.
Lo stesso Edippo, che invocar solea
le nostre Furie a vendicar suoi lumi,
160 or si ricorda d’esser padre, e piange
le sue sciagure in solitario luogo.
Ma perchè tardo io stessa a l’empia Tebe
precipitarmi ed a le note case?
Tu prendi cura del ramingo, e sprona
165 l’argolico delitto, e attenta osserva
che la plebe lernea, che il mite Adrasto
non ti facciano intoppo. Or parti, vola,
e torna a me nemica al gran duello. -
Gli empi uffizi tra lor così divisi,
170 per diverso cammin presero il volo.
Tal da li due del mondo estremi Poli
muovono Borea e Noto aspre procelle,
l’un da i monti Rifei, l’altro da l’arse
libiche arene: e fiumi e mari e selve
175 fremono al gran fragore, e nubi e nembi.
Piange dell’anno la matura spene
l’agricoltore, e il conosciuto danno:
e pur nel suo dolor vie più gli duole
mirar le navi ed i nocchier sommersi.
180 Ma poi che Giove rimirò da l’alto
l’enormi Dire funestare il giorno,
e di sanguigne macchie il sole asperso,
con turbato sembiante a i Numi disse:
- Mirammo, o Dei, fin che ci fu permesso,
185 le usate pugne ed i furor di Marte,
quantunque un empio osò contro me stesso
di muover guerra e per mia man sen giacque.
Or si prepara fra due rei fratelli,
infame coppia, scelerata pugna,
190 nè pria veduta su la terra unquanco.
Volgete altrove il guardo, e senza i Numi
osin tentar l’iniqua impresa, e resti
l’orrido fratricidio ignoto a Giove.
Pur troppo vidi le funeste mense
195 di Tantalo, e mirai gl’iniqui altari
di Licaone, e da Micene il carro
volgere in fuga spaventato il Sole.
Ed or di nuovo ha da ecclissarsi il giorno.
La caligine inferna abbiasi il suolo;
200 ma ne sian mondi il cielo e i Numi eterni,
nè cotanta empietà mirin d’Astrea
le pure stelle, nè i ledei gemelli. -
Così parlò l’onnipotente Padre,
e volse gli occhi da l’infame campo,
205 privando il mondo del suo dolce lume.
Già per lo campo e per le tende argive
la vergine crudel d’Erebo figlia
in traccia va dell’esule fratello.
Il ritrovò lungo le porte, incerto
210 se con la morte o con la fuga a i mali
il fine imponga, e pien d’augurii infausti.
Poichè, mentre pel campo errando giva
povero di consiglio, e i casi estremi
volgendo in mente, della moglie Argia
215 veduta avea la sconsolata immago,
con tronca face a lui mostrarsi innanzi;
(tali de i Numi sono i segni, e tale
gire al marito ella doveva in questa
misera pompa, e con sì mesta fiamma)
220 e mentr’ei le chiedeva ove sen gisse
ed a qual uopo in sì funesta guisa,
sol rispose col pianto, e in altra parte
volse la mano e i moribondi fuochi.
Conosce ei ben che sono larve e sogni;
225 perchè come così sola e improvvisa,
partirsi d’Argo e penetrar nel vallo?
Ma del Fato la voce e la vicina
morte egli sente; e perchè teme, il crede.
Ma poi che l’empia figlia d’Acheronte
230 tre volte a lui colla viperea sferza
la corazza percosse, in tutto privo
di consiglio e di senno, avvampa d’ira;
nè tanto pensa a racquistare il regno,
quanto a le sceleraggini, a le stragi,
235 ed a lavarsi nel fraterno sangue,
e a cader sopra lui. Corre ad Adrasto,
e in cotai sensi torbido favella:
- Tardi, e de’ miei compagni unico avanzo
e della greca gente, amato padre,
240 prendo consiglio a i disperati casi.
Ben io dovea, prima che il sangue argivo
fosse ancor sparso, a volontaria pugna
offrirmi solo, e non esporre a morte
tanti invitti guerrieri, e di tai Regi
245 l’anime grandi, per ornarmi il crine
di corona funesta a tante genti.
Ma poi ch’aspra virtù mi spinge e sforza,
siami or permesso le dovute pene
pagare almen. Quell’infelice io fui
250 (e ben lo sai, ma per pietà mi celi
le tue ferite, il tuo dolore interno)
io quello fui che, mentre tu reggevi
con dolce freno di giustizia e pace
i popoli soggetti, te dal regno,
255 te da la patria feci andare in bando.
Deh perchè almeno il mio crudel destino
ospite non mi spinse ad altre terre!
Or prendine il castigo. Il mio fratello
(che, inorridisci? il mio voler è fermo)
260 chiamo a mortal düello. Invan mi tieni;
lasciami; nol potrai. Non se la madre
squallida e mesta e le infelice suore
opponessero il petto in mezzo a l’armi;
non se frenarmi il cieco padre ardisse,
265 e mi fissasse in fronte i lumi spenti,
non cesserò: forse degg’io l’estremo
bever del sangue greco? E a mio profitto
usar le vostre stragi? Io vidi aperto
il suol, nè mi lanciai nella vorago:
270 io colpevole feci il gran Tideo,
e il vidi estinto. A me il suo Re domanda
sconsolato il Tegeo; per me negli antri
parrasii urlando va l’afflitta madre:
io non seppi cader ne i procellosi
275 gorghi d’Ismeno, allor che Ippomedonte
del suo sangue lo tinse, e non osai
salir fra i tuoni l’alte torri, e i miei
furori unir di Capaneo a i furori;
e perchè mai tanto timor di morte?
280 Or si compensin le passate colpe.
Vengan tutte a veder le greche madri
e le vedove spose e i padri antichi,
cui tolsi ogni piacere, e per me spente
restâr le case: io col fratel combatto.
285 E che più resta? Mirino, e coi voti
preghin vittoria a l’emulo germano.
Addio dunque consorte, addio Micene
sì cara un tempo, e tu diletto padre:
(s’egli è pur ver che di cotanti danni
290 solo in colpa non fui, ma peccâr meco
le Parche e i Numi): del mio cener freddo
abbi pietade, e la mia esangue spoglia
tolta a i rapaci augelli ed al fratello,
riporta indietro e la rinchiudi in urna.
295 Questo sol chieggio, e la tua figlia poi
ad altri dona con miglior destino. -
Già tutti intorno si scioglieano in pianto;
siccome allor che le bistonie nevi
sciolgonsi a i lunghi Soli, Emo rassembra
300 liquefatto scemarsi, ed in più rivi
scendere al piano Rodope diviso.
Già con placidi detti il Re canuto
cominciava a placar l’alma superba,
ma con nuovo terror la sanguinosa
305 Furia ruppe i discorsi, ed in sembianza
di Perinto scudier l’armi fatali
e il veloce corsier tosto gli offerse,
e chiuse l’elmo, ed il parlar n’escluse:
indi soggiunse: - A che più far dimora?
310 su via t’affretta: in su le porte stassi
il tuo fratello, e te disfida e chiama; -
così, vinto ogn’intoppo, in sul destriero
lo sbalza. Ei corre per l’aperto piano
pallido, e a tergo si rimira l’ombra
315 della Dea, che l’incalza e che lo preme.
Intanto il Re della sidonia gente
vane grazie rendeva al gran Tonante
per la dovuta folgore, credendo
dal fatal colpo disarmati i Greci:
320 non Giove al sacrifizio, e non i Numi
furon presenti. A i trepidi ministri
mista la Furia profanò gli altari,
usurpò i voti, e li rivolse a Dite.
- O supremo de i Numi (il Re dicea)
325 da cui Tebe deriva (ancor che avvampi
Argo d’invidia e la crudel Giunone)
fin da quel dì che rapitor turbasti
le sidonie carole, e a la fanciulla
di nostra gente sopponesti il dorso,
330 dando finti muggiti in mar tranquillo;
nè contento di ciò, ne’ cadmei tetti
nuova moglie scegliesti, e fulminante
pur troppo entrasti nelle tirie case;
benigno al fine il suocero e le mura
335 a te dilette rimirasti, e tuoni
di Tebe difensor con tutto il braccio,
come se al cielo tuo si desse assalto.
Tu fulmini poc’anzi e nubi e nembi,
per noi salvar, movesti: e le tue fiamme,
340 gli stessi fuochi riconobbe Tebe,
che con terrore i nostri padri udiro.
Or prendi in sacrifizio il gregge e il toro
a te svenato, e gli odorosi incensi;
ma non è già però mortale impresa
345 renderti grazie al benefizio eguali.
Te le rendan per noi Bacco ed Alcide,
e ad essi, o Giove, queste mura serba. -
Mentr’ei ragiona, esce dal fuoco un vampo
orrido e nero, che gli fere il viso,
350 e atterra il regal serto e lo consuma:
prima del colpo, di rabbiose spume
il fiero toro sporca il tempio, e fugge
rompendo il cerchio, e con l’insano corno
l’altar percuote, e il sacrifizio turba:
355 fuggono i servi, e il sacerdote solo
il Re consola, ed ostinato impone
che si rinnovi il sacrifizio, e cela
sotto forte sembianza il cor dubbioso.
Tale sull’Eta il glorïoso Alcide,
360 benchè sentisse in sen l’occulto fuoco,
e stargli a l’ossa affisso il reo veleno
della biforme spoglia, invitto e forte
diè fine al voto ed offerì gl’incensi.
Ma poi che Nesso vincitore al fine
365 serpendo al cuor gli giunse, un alto strido
mise, e fe’ tutto rimbombare il monte.
Ma lasciata la porta a lui commessa
Epito corre ansante sì, che appena
può avere il fiato, e in male intesi accenti
370 a l’attonito Re così favella:
- I voti lascia e il sacrifizio rompi,
che fuor di tempo a i sordi Numi fai.
Gira a le mura intorno il tuo fratello
su feroce destriero, e l’alte porte
375 con l’asta insulta, e te chiamando a nome,
te ad alta voce a mortal pugna appella.
Piangongli dietro i suoi seguaci, ed ambi
gemono i campi, e fan rimbombo e suono
d’armi percosse. Ahi qual orrore! adunque
380 un fratel l’altro sfida? Adesso è il tempo,
ora il fulmine tuo fora opportuno,
sommo rettor de i Numi. E qual delitto
fe’ Capaneo più orribile di questo? -
A cotant’odio inorridissi ed arse
385 il Re di sdegno, e parte in mezzo all’ira
sentì piacere del furor fraterno.
Tale il giovenco vincitor, se ascolta,
dopo lungo riposo, il fier rivale
muggir da lungi e minacciar vendetta,
390 sta innanzi al gregge, e sbuffa d’ira e freme,
e versa ardenti spume, e il suol percuote
col biforcuto piede, e l’aria vana
col corno fere. N’han terrore i campi,
e le giovenche timide si stanno
395 ad aspettar della battaglia il fine.
Molti dicono al Re: - Lascia che insulti
invan le mura, e disperato e vinto
osi cotanto; a i miseri sol giova
gire incontro a i perigli, e con la speme
400 non librare la tema, ed i sicuri
consigli odiare, ed abbracciar gli estremi:
sta fermo, e fida nel tuo trono: a noi
l’armi commetti, e fugherem gli Argivi. -
Così dicean: ma pien di lutto e d’ira,
405 ed a parlar con libertà di guerra
del tutto accinto, ecco sen vien Creonte.
Gli rode il fiero cuor la rimembranza
di Meneceo: nulla del padre afflitto
può sedare la pena: a lui sol pensa,
410 lui colla mente abbraccia, e ognor gli sembra
vederlo tutto del suo sangue asperso
dalla torre lanciarsi. Onde sdegnoso
ad Eteòcle, che sta ancor sospeso:
- Tu pure andrai (diss’egli) o del fratello
415 e de i duci il peggior: senza vendetta
non soffrirem che tu di nostre stragi
goda, e de i nostri pianti, unica e infame
delle furie cagione e della guerra.
Assai per te pagate abbiam le pene
420 a i spergiurati Numi. Una cittade
d’armi potente e di ricchezze, e piena
poc’anzi pur di cittadine turbe,
tu distruggesti, d’atra peste in guisa
dal ciel discesa e di nemica fame;
425 e così vôta ancor l’adombri e premi?
Manca la plebe al giogo: altri insepolti
giaccion privi di fuoco, altri nel mare
portò l’Ismeno, altri le membra tronche
van ricercando; le profonde piaghe
430 altri curando van laceri e infermi.
Rendi, crudele, i figli a i padri; rendi
il fratello al fratello; a i tetti, a i campi
rendi gli abitator, rendi i bifolchi.
E dove è il grande Ipseo? Dove Driante?
435 Dove l’armi di Focida sonora
e l’euboiche falangi? In giusto Marte
quelli caddero almen: ma tu, mio figlio,
vittima giaci dell’infame regno,
d’agnello in guisa. Oh mia vergogna e scorno!
440 Tu con rito crudele a i Numi offerto,
qual primizia a la guerra, e dato a morte
(misero!) fosti, e costui tarda ancora?
e v’è chi ’l chiama? e di pugnar ricusa?
Forse l’empio Tiresia altri per lui
445 vorrà che vada? E i vaticini infami
cercan forse di nuovo i pianti miei?
Fuori d’Emone e ch’altro a me più resta?
Manda questo in tua vece, e tu sicuro
mira da un’alta torre il suo periglio.
450 E perchè fremi? E perchè guardi in volto
la servil turba c’hai d’intorno? Chiede
ella che tu scenda alla pugna, e paghi
le meritate pene: anche la madre,
anche le tue sorelle in odio t’hanno:
455 e d’ira acceso l’esule germano
armi minaccia e morte e delle soglie
spezza i ritegni, e tu sei sordo e lento? -
Così Creonte, e d’infelice sdegno
smaniava furibondo. A i fieri detti
460 così rispose il Re: - Tu non m’inganni:
non il gran fato dell’estinto figlio
è che ti muove: un generoso padre
dovria vantar la glorïosa impresa.
Ma sotto il tuo dolor speme si cela,
465 occulta speme e cupidigia infame.
D’infinto lutto infidi voti copri;
e già vicino al regno invan mi premi.
Ma non sia mai che la fortuna avara
tanto abbandoni le sidonie mura,
470 che tu non degno di cotanto figlio
re ne divenga. Il vendicarmi fora
facile impresa: ma recate l’armi,
l’armi recate, o servi: al gran duello
discendano i fratelli; il nostro sangue
475 può solo mitigare il costui pianto.
Godi del tuo furor; ma al mio ritorno
me ne darai le meritate pene. -
E qui diè fine alle contese, e l’ira
represse, e ritirò la man dal brando.
480 Qual lievemente dal villan percosso
sviluppa l’angue i giri, e da le membra
tutto accoglie a le fauci il fiero tosco;
se dal cammin si leva e cede il passo
il percussor, cessano l’ire, e il collo
485 gonfiato indarno s’assottiglia e stende,
ed egli stesso il suo velen ribeve.
Ma il primo avviso del furor fraterno
appena giunge alla furente madre,
che gli dà fede, e n’ha spavento, e corre
490 lacera il crine e il volto, e sanguinosa
e ignuda il petto di Baccante in guisa,
dimenticando la vergogna e il sesso.
Tal di Penteo la madre a l’arduo monte
salia portando il pattuito capo
495 del figlio ucciso al crudel Bacco in dono.
Non le giovani figlie e non le ancelle
ponno seguirne i frettolosi passi;
tanto il dolor le accresce forza, e tanto
nel lutto estremo si rinforzan gli anni.
500 E di già il Re del rilucente elmetto
gravava il capo, ed impugnava i dardi,
e mirava l’intrepido destriero
delle trombe al fragor farsi più lieto;
quando l’antica madre a lui dinanzi
505 fermossi: impallidissi egli, e per tema
impallidiro i servi, e lo scudiero
l’asta, che gli porgea, ritrasse indietro.
- Qual furor? (disse) e come mai più forte
sorge la Furia a flagellare il regno?
510 Voi dunque al fin dopo cotanti mali,
voi pugnerete insieme? E non vi basta
le schiere avverse aver condotto a morte,
comandato il delitto? E dove poi
tornerà il vincitore? In questo seno?
515 O fortunate del crudel consorte
cieche palpébre! Di veder la luce
voi pagate la pena, occhi miei lassi,
costretti a rimirar sì infame giorno.
Dove rivolgi il minaccevol volto?
520 Perchè ora impallidisci, ora t’arrossi?
E perchè teco mormorando fremi?
Misera me! So ben che a mio dispetto
tu pure andrai: ma prima in questi tetti
forz’è che provi l’ire. In su la soglia
525 starò funesto augurio, orrida immago
di vostre sceleranze. A te, crudele,
premer fia d’uopo questo crin canuto,
questo seno infelice, e della madre
spinger feroce il tuo destrier sul ventre.
530 Abbi pietà di me: che mi respingi
coll’elsa e collo scudo? A i danni tuoi
io non chiamai con scelerati voti
i Numi inferni, nè con cieca fronte
invocai l’empie Dire. Odi, spietato,
535 questa infelice. Non ti prega il padre,
la madre è che ti prega; al gran delitto
frappon dimora, e a ciò che ardisci pensa.
Ma tu dirai che il tuo fratello insulta
le porte e i muri, e te alla pugna appella.
540 È ver: ma non si oppone al suo furore
la madre e le sorelle; in questo luogo
ogni cosa ti prega, e piangiam tutti:
là Adrasto appena lo sconsiglia e tiene,
o fors’anche lo spinge; i patrii Lari
545 tu lasci, e fuggi da le nostre braccia
precipitoso incontro al tuo fratello. -
Ma Antigone dolente in quel tumulto
furtiva si sottragge, e non l’arresta
il verginal pudor: quasi Baccante
550 vola e non corre, e l’alte mura ascende.
La segue il vecchio suo compagno Attorre.
Ma per l’età non può eguagliarne i passi,
nè giunger de i ripari a l’alte cime.
Fermossi ella pensosa; e pria d’intorno
555 rivolse il guardo, e ricercò fra l’armi
il nemico fratello, e poi ch’al fine
lo riconobbe (oh sceleranza!) e il vide
batter coll’asta i muri e colla voce
minacciar morte, il ciel di pianti assorda
560 e di querele; indi da l’alte mura
par che voglia gettarsi, e così parla:
- Raffrena l’armi, e a questa torre alquanto
mira, o germano, e il minaccioso elmetto
nel mio volto rivolgi: i tuoi nemici
565 conosci tu? La fede e l’anno alterno
così domandi, e i patti, e ti quereli?
Così la causa del modesto esilio
miglior tu rendi? Per gli Argivi Numi
(giacchè i Tirii non curi) io ti scongiuro,
570 e per quel che ami, se pur ami, in Argo,
fratel, l’ira deponi: ecco ten prega
l’un campo e l’altro e le nemiche schiere.
Antigone ten prega a i vostri errori
vittima destinata, e per tuo amore
575 al Re sospetta, e sol di te sorella.
Mostrami almeno il volto, e l’elmo sciogli.
Fa ch’io vagheggi almen l’amata faccia
forse l’ultima volta, e fa’ ch’io veggia
se piangi a i miei lamenti: il tuo fratello
580 già placato ha la madre, e già depone
il crudel brando, e tu resisti ancora?
A me resisti, che il tuo esilio piango
la notte e il giorno, e i tuoi raminghi errori?
Se tu nol sai, io t’avea fatto amico
585 il fiero padre. E perchè purghi e lavi
d’ogni colpa il germano? Egli la fede,
egli corruppe i patti; egli è nocente;
egli crudele a i suoi: sì; ma non scende
da te chiamato a scelerata pugna. -
590 Malgrado di Tesifone, già l’ira
in lui languisce, e già la mano abbassa
l’asta, e più lento il destrier muove, e tace.
Già il pianto sgorga, e più nol cela l’elmo.
Torpe lo sdegno, e sente egual vergogna
595 d’esser venuto e di partirsi reo.
Ma respinta la madre, e da l’Erinni
cacciato, esce di Tebe il Re crudele,
e grida: - Io vengo, e questo sol mi duole,
che primier mi chiamasti; e s’io tardai
600 non m’accusar: mi ritenea la madre.
O Patria, o fra due Regi incerto regno,
oggi il tuo Re nel vincitore avrai. -
Nè più placido l’altro: - Alfin (rispose)
la fe’ conosci, al fin consenti al giusto.
605 O da gran tempo ricercato invano,
or fratel mi ti mostri: a l’armi dunque;
meco combatti: questa sola legge,
questo è il sol patto che riman fra noi. -
Sì dice, e in lui volge nemico il guardo,
610 e invidia il rode in rimirarlo cinto
da turba di seguaci, e su la fronte
portar elmo regale, e il gran destriero
d’ostro coperto, e fiammeggiar lo scudo
di fulgid’oro: ancor ch’ei pur non vile
615 splenda nell’armi, e se ne vada adorno
di nobil manto, che con frigi modi
gli avea tessuto di sua mano Argia,
fregiando il bisso con aurate fila.
Ma già son scesi al militare arringo
620 sospinti dalle Furie: al suo campione
ciascuna assiste, e l’ire desta e il guida.
Esse reggono i freni, esse con mano
ne tergon l’armi, e de i destrieri i crini
rendon più folti d’intrecciate serpi.
625 Vedesi con orrore in mezzo al campo
consanguineo delitto, enorme guerra
d’un solo ventre uscita, e sotto gli elmi
pugnar due pari e somiglianti aspetti.
Negâr le trombe il segno, e restâr muti
630 del fiero Marte i bellici strumenti.
Ma ben d’Abisso l’avido tiranno
tuonò tre volte, e ben tre volte scosse
da l’imo centro il vacillante suolo.
Fuggîr dell’armi i Numi, e la Virtude
635 non fu presente; le sue faci spense
Bellona, e Marte spaventato volse
altrove il carro, e del crudel Gorgone
Palla coperse il formidabil teschio,
e si arrossîr le stesse Furie in volto.
640 Sta lagrimoso il miserabil vulgo
sparso su i tetti, ed ogni rocca suona
di querele e di pianti: i vecchi han doglia,
che visser tanto: stan le madri afflitte
ignude il seno, e di mirare a i figli
645 vietan la sceleraggine fraterna.
Lo stesso Re del Tartaro profondo
apre le porte inferne, e vuol che l’Ombre
Tebane a rimirar l’empio duello
e l’opre de i nipoti, escano al giorno.
650 Siedon su i patrii colli in mesto giro,
e turbano la luce, ed han piacere
in veder superati i lor furori.
Ma poi che intese il venerando Adrasto
che con odii palesi erano a fronte,
655 nè dal delitto gli ritien vergogna;
vola, e col carro si frappon tra loro.
Per età, per impero egli è ben degno
di riverenza: ma che attender puote
da due cuor sì feroci e sì superbi,
660 che al proprio sangue lor non han riguardo?
E pur li prega: - Mirerem noi dunque
o Tirii, o Greci, un sì nefando errore?
E dov’è il dritto? Dove sono i Dei?
Dove ragion di guerra? I cuor feroci
665 non indurate: te nemico io prego
(benchè, se l’ira non t’acceca, teco
son pur congiunto); a te l’impongo, e il voglio,
genero; e se pur hai tanta vaghezza
d’impero e scettro, ecco che il regio manto
670 mi spoglio, e ten fo dono; or vanne, e solo
e Lerna ed Argo a tuo piacer governa. -
Ma nulla più muove il parlar soave
negli odii lor quell’anime ostinate,
che lo scitico mar con tutte l’onde
675 a i monti Cïanei vieti l’urtarsi.
E poi che invano le preghiere sparse,
e vide i corridor già mossi al corso,
e i furibondi aver già l’aste in mano,
fugge, tutto lasciando in abbandono,
680 il genero, le schiere, e Tebe e il campo,
e colla sferza stimola Arïone,
che addietro guarda, e che il destin prevede.
Tale il rettor dell’Ombre e del diviso
mondo l’ultimo erede impallidio
685 per la contraria sorte, e il nero carro
spinse sdegnoso nel tartareo centro,
dal cielo escluso e da le pure stelle.
Non così presto consentì Fortuna
a l’empie voglie, ma sospese alquanto
690 lo scelerato barbaro delitto.
Mancâr due volte d’incontrarsi in corso:
due volte i buon destrieri uscîr d’arringo
con lodevole errore, ed altrettante,
senza ferire, andâr le lance a vôto.
695 Volgono i freni, e cogli acuti sproni
danno a i destrier non meritata pena.
Il prodigio de i Numi ambe le schiere
commosse, e sorse un mormorare alterno,
un bisbigliar, che si riprendan l’armi,
700 che si muovano i campi, e al lor furore
tutto s’opponga della guerra il nerbo.
Sprezzata da i mortali e da i Celesti
stava del cielo in solitaria parte
dolente la Pietà; non con quel manto
705 onde pria giva adorna, o col sembiante
sereno e lieto, ma discinta il seno,
e senza serto, scapigliata i crini,
e pure allor, come sorella e madre,
piangea le pugne ed i furor fraterni;
710 e il crudel Giove e l’inumane Parche
accusando, minaccia ir negli abissi
e preferire al ciel le stigie case.
- Ed a che mi creasti (essa dicea)
o delle cose madre, alma Natura,
715 perchè degli animali io l’ire affreni,
e sovente de i Numi? Omai di noi
non v’ha chi prenda cura e ne rispetti.
Oh seme umano! Oh furor empii! Oh Dire!
Oh di Prometeo inique opre nefande!
720 Quanto era meglio che lasciasse vôto
Pirra d’abitatori il mondo infame!
Ecco quai genti da le pietre usciro. -
Tacque, e il tempo osservando, - Andiamo (disse)
tentiamo, ancor che invan, turbar la pugna. -
725 Scese dal cielo, e benchè mesta scenda,
segna il sentier di luminosa riga.
Al giunger suo, nuovo di pace amore
nelle schiere s’accese, e del delitto,
quant’era, allor tutto l’orrore apparve.
730 D’ogni parte si piange, ed un occulto
ribrezzo al cuor de i due germani serpe:
prende d’uomo sembianza, e d’armi cinta
or questo, or quel rampogna: - E che tardate?
Su v’opponete a le lor furie, o voi,
735 a cui fratelli diè natura e figli.
Non veggiam noi che n’han pietade i Numi? -
Lor cadon l’aste: stan ritrosi e fermi
i corridori, e vi si oppon Fortuna.
E già i sospesi cuori avea commossi
740 la Dea; ma se ne avvide, e il nuovo inganno
Tesifone conobbe, e vi si oppose
più del fulmine presta, e così disse:
- C’hai tu che far nelle guerriere imprese,
codardo Nume, e sol di pace amica?
745 Cedi: è mio questo campo e questo giorno.
Tardi di Tebe la difesa prendi.
Dov’eri tu quando ne i sacri riti
Bacco a l’armi movea le madri insane?
Dov’allor che bevea l’iniquo stagno
750 il serpente di Marte? Allor che i solchi
apriva Cadmo? Allor che Sfinge cadde?
Dove quando d’Edippo a i piè chiedea
la vita il padre? O quando al letto infame
Giocasta andò di nostre faci al lume? -
755 In tai detti la sgrida; e lei, che abborre
l’orrido aspetto e ne ritira il volto,
incalza con i serpi e colla face.
Coprissi allor la mesta Dea col manto,
e andò a farne querele innanzi a Giove.
760 Al suo partir sorgon più ardenti l’ire,
e piaccion l’armi, e le nemiche schiere
si fermano a mirar l’empio duello.
E già i fratelli a rinnovar la pugna
si sono accinti, e primo il Re crudele
765 appresta i dardi, e primier l’asta vibra.
Vola la feral trave, e per lo scudo
cerca al petto varcar: ma si ritiene
nell’oro e nell’acciaio, e asciutta cade.
L’esule allor sottentra alto gridando
770 con funesta preghiera: - O non indarno
Numi invocati dal mio cieco padre,
approvate il delitto! Io non vi faccio
ingiusti voti: purgherò la mano
nel proprio sangue, e questo ferro istesso
775 m’immergerò nel sen: sol ch’ei morendo,
collo scettro mi veggia, e questo duolo
porti seco a l’inferno Ombra minore.
Vola l’asta veloce, e tra l’arcione
Passa, e la coscia del nemico, e al fianco
780 (per dar due morti a un colpo) il destrier fere.
Ma il cavaliero le ginocchia stende,
e schiva la ferita. Il ferro acuto
resta a le coste del cavallo infisso.
Fugge questo, e non prezza il freno, e in giro
785 segna il suo mal col sangue in su l’arena:
n’esulta Polinice, e del fratello
lo stima, ed Eteòcle anch’ei sel crede
per soverchio timor; l’esule allora
tutto il freno rallenta, e forsennato
790 corre ad urtare il corridor ferito.
Meschiansi insieme e freni e braccia e dardi,
e s’implican co’ piedi, onde in un fascio
precipitaro avviluppati a terra.
Come due navi, cui confuse il vento
795 nel fosco orror di procellosa notte,
spezzano i remi, e mutan vele e sarte,
e dopo lungo e disugual contrasto
co i tenebrosi nembi e con se stesse
nel profondo del mar cadon sommerse:
800 tal della pugna enorme era l’aspetto.
Va in bando ogni arte, ogni avvertenza, e invece
l’ira e il furor combatte, e fuor degli elmi
fiammeggian gli odii accesi; e i visi irati
ricercando si van con bieco sguardo.
805 Spazio non resta in mezzo, e insiem ristrette
sono mano con man, brando con brando;
s’ode un fremer di denti, un mormorio
fiero, che serve lor per segno e tromba.
Quali da sdegno e da grand’odio mossi
810 due gran cinghiali ad azzuffar si vanno
con torti grifi e rabbuffato pelo:
treman gli occhi sanguigni, e i curvi denti
suonan fremendo: il cacciator da l’alto
li mira, e accenna al fido can che taccia:
815 tali pugnano insieme. Ancor mortali
non son le piaghe: ma già il sangue è sparso,
il delitto è compiuto, e delle Furie
più non han d’uopo. Attonite e lodando
quelle si stanno, ed hanno invidia e scorno
820 che vinca i lor furori odio mortale.
Ciascun di loro del fratello al sangue
aspira furïoso, e il suo non sente.
L’esule in fine, in cui più forte è l’ira
e più giusto il misfatto, il passo avanza,
825 la sua destra animando; e il ferro spinge
laddove mal difende il basso ventre
l’estremo usbergo e la pendente maglia,
ed Eteocle impiaga. Egli ’l dolore
sì tosto non sentì; ma della spada
830 inorridillo il gelo, e si restrinse,
e tutto si coprì sotto lo scudo.
Vie più s’accorge Polinice, e gode
che il fratello è ferito, e impazïente
vie più l’incalza, il preme, e lo rampogna:
835 - Dove, o fratello, il piè ritiri e cedi?
Oh fra i sonni avvilito in molli piume,
fra gli agi e gli ozii e dell’impero all’ombra!
Tu vedi un corpo a duro esilio avvezzo
ed a i disastri: a soffrir l’armi impara,
840 e non fidarti nelle cose liete. -
Tale fra gl’infelici era la pugna.
Restava ancor qualche di vita avanzo
al duce infame, e star poteva ancora:
ma volontario cadde, e nella morte
845 ordì l’estremo inganno. I gridi in alto
salgono, e Citeron rimbomba intorno.
Crede aver vinto Polinice, e al cielo
le mani innalza, ed esclamando dice:
- Bene sta, che non spesi i voti indarno:
850 veggio gli occhi ecclissati, e il volto esangue
tutto dipinto di color di morte.
Su tosto alcun lo scettro e il regal serto,
fin ch’ei vede, m’arrechi. - In questi detti
il passo avanza, e appender pensa in voto,
855 e quasi opime spoglie, a i patrii tempii
l’armi fraterne, ed a rapirle aspira;
ma il crudel, che ancor vive, e che ritiene
l’anima fuggitiva a la vendetta,
quando sopra gli fu, tutto nel petto
860 gl’immerse il ferro, e le reliquie estreme
supplì coll’ira della vita, e lieto
sotto il cuor del fratel lasciò il coltello.
- Oh - disse Polinice - ancor tu vivi?
Ancora dopo te dura il furore,
865 perfido e indegno di tranquilla sede?
Meco scendi a l’Inferno: il regno e il patto
ivi ti chiederò, se pur Minosse
più muove l’urna, e gli empii Re castiga. -
Cadde, ciò detto, ed il germano estinto
870 con tutto il peso del suo corpo oppresse.
Andate, alme feroci. Il morir vostro
contamini l’Inferno, e tutte in voi
si consumin dell’Erebo le pene.
E voi, Tartaree Dee, cessate omai
875 dal tormentare i miseri mortali.
Un’età sola, un solo giorno vegga,
dovunque è Mondo, un sì crudel delitto.
La memoria sen perda, e per esempio
sen rammentino solo i Re tiranni.
880 Ma poi che il fine del crudel misfatto
e degli empii suoi figli intese Edippo,
da le profonde tenebre sorgendo,
fuori portò la sua imperfetta morte.
D’un antico squallore infetta e lorda
885 la canizie del capo e della barba
mostra, e nel sangue l’indurata chioma
il volto spaventevole gli adombra;
scarme ha le guance, e della vôta fronte
appaion brutti i sanguinosi fori.
890 Antigone il sostenta al lato manco,
ed al baston la destra mano appoggia.
Qual se il nocchier dell’infernal palude
abbandonando il legno, ed omai stanco
di varcar Ombre, esce a l’aperto giorno,
895 e turba il Sole e gli astri; anch’egli offeso
e impazïente del soverchio lume,
mentr’ei sta lunge da la barca, e cresce
il popolo de i morti, e su le ripe
stanno aspettando i secoli già spenti:
900 tal Edippo si mostra, e a la sua duce,
che seco piange: - Mi conduci (esclama)
dove giacciono i figli, e sovra loro
tepidi ancora il fiero padre getta. -
Sta la giovin sospesa, e dubbia teme
905 di ciò ch’ei volga in mente: e l’armi e i carri
e i cadaveri insiem confusi e misti
attraversan le strade, e il senil passo
lubrico va su tanta strage, e suda
la miserabil vergine che il guida.
910 Ma poi ch’al di lei pianto egli s’accorse
dove giaceano i figli, abbandonossi
con tutto il corpo su le fredde membra.
Senza voci rimane, e giace e mugge
su le profonde piaghe, e parlar tenta;
915 ma per dolor non può formar parola.
Mentr’egli tratta gli elmi, ed i nascosi
visi ricerca, furibondo il varco
apre a i chiusi sospiri, e così dice:
- Tarda, pietà, tu pur tormenti e muovi,
920 dopo tant’anni, la mia fiera mente!
Può dunque in questo cuore avere albergo
pietade umana? Hai vinto, alma Natura,
hai vinto alfin quest’infelice padre.
Ecco ch’io pur sospiro, e per le secche
925 piaghe degli occhi miei scorre già il pianto,
e la man, che mi squarcia il viso e il seno,
lo segue e lo seconda. Or ricevete,
oh miei crudeli figli, oh troppo miei!
l’estreme esequie d’esecrabil morte.
930 Misero! di vederli ancor mi è tolto,
e favellar con essi. E quale abbraccio?
Dimmi, vergin, ti prego? A le vostr’ombre
qual renderò funerea pompa, o figli?
Oh tornassero in me le spente luci,
935 e svellerle di nuovo, e un’altra volta
contro il mio capo incrudelir potessi!
Oh duolo! Oh inique preci! Oh più del giusto
voti esauditi d’un feroce padre!
Qual Nume fu che al mio pregar presente
940 mi rapì i detti, e li diè in guardia a i Fati?
Ah che a me li dettò l’immonda Erinni,
la madre, il genitore, il regno, e gli occhi
svelti di fronte, e non fur miei quei detti:
per Dite, per le a me grate tenébre,
945 per questa mia duce innocente il giuro,
così con degna morte a l’Orco io scenda,
nè Laio da me fugga ombra sdegnosa.
Ahi che ferite! Che fraterni amplessi
misero io tratto! Le inimiche mani
950 allentate, o miei figli, e gl’importuni
nodi sciogliete, e questa volta almeno
date tra voi al genitore un luogo. -
Così mentr’ei si lagna, a poco a poco
desio di morte in lui si desta, e il ferro
955 occultamente ricercando giva.
Ma lo vietò la vergine, e le spade
con casta man sottrasse. Il vecchio allora
furibondo esclamò: - Dove spariro
l’armi e i ferri omicidi? O Furie, o Dire!
960 Son dunque tutti in questi corpi ascosi? -
Mentr’ei così ragiona, indi ’l rimuove
la sconsolata vergine, e il suo duolo
reprime e tace, e si consola in parte
in rimirar che il fiero padre pianga.
965 Ma quando giunse alla regina il grido
dell’impreso duello, il brando trasse,
che riserbava nel più interno albergo,
brando di Laio lagrimevol spoglia:
e poi che molto si lagnò co i Numi,
970 col talamo nefando, e colle Furie
degli empii figli, e del primier consorte
con l’ombra: contrastò col debil braccio,
e inclinata sul ferro appena, in petto
al fin l’immerse, e sotto il cuor l’ascose;
975 e lacerate le senili vene,
purgò col proprio sangue il letto impuro.
Su la ferita, che gorgoglia e stride,
sen cadde Ismene, e la lavò co i pianti
e la terse col crine. In cotal guisa
980 Erigone dolente entro le selve
di Maratone al padre ucciso intorno,
dopo aver tutti consumati i pianti,
disciolse il cinto, ed a morir disposta
giva scegliendo i più robusti rami.
985 Ma già lieto il Destin d’aver delusa
de’ miseri fratelli la speranza,
avea con empia man dato ad un terzo
il regno d’Anfione; e già di Cadmo
sedea sul trono tumido Creonte.
990 Misero fin di scelerata guerra!
Per lui pugnaro i miseri fratelli;
e Re l’acclama il bellicoso seme
del serpente di Marte; e il sangue sparso
da Meneceo per le tebane mura
995 de’ popoli l’affetto in lui rivolge:
sovra il soglio fatal sale il tiranno
dell’Aonia infelice. Oh di comando
lusinghevol potere! Oh mal sicuro
e infido consigliero, amor di regno!
1000 Quando sarà che da i passati esempi
prendan norma i nipoti? Al fier Creonte
ecco già piace star sul trono assiso,
ed impugnare il sanguinoso scettro.
E che non puote in noi lieta fortuna?
1005 Di già il padre ammollisce, e il nuovo impero
gli fa scordar di Meneceo la morte.
Gonfio e corrotto dal crudel costume
dell’empia corte, un fier presagio diede,
un’aspra prova del superbo cuore.
1010 Vietò le fiamme a i Greci e i roghi estremi,
e al cielo aperto abbandonò gli avanzi
della guerra infelice; e l’Ombre meste
sen gîr prive di sede intorno erranti.
Quinci tornando vêr l’Ogigia porta,
1015 in Edippo scontrossi: a prima vista
restò sospeso, e nel suo sè minore
si riconobbe, e raffrenò lo sdegno;
poi ripigliando il regio fasto, il cieco
suo nemico sgridò con detti acerbi:
1020 - Parti, vattene lungi, a i vincitori
funesto augurio, e le tue Furie porta,
crudele, altrove, e le anfionie mura
purga col tuo partir. Tuoi lunghi voti
già s’adempiêr; su via parti, t’invola.
1025 Son morti i figli, e che bramar ti resta? -
Per subito furore inorridissi
il fiero veglio, e la tremante faccia,
quasi il mirasse, gli fissò nel volto:
ed oblïando la vecchiezza e gli anni
1030 lascia il bastone a cui s’appoggia, e lascia
la fida scorta, ed appoggiato a l’ira,
queste voci esalò dal gonfio petto:
- E puoi sì presto incrudelir, Creonte?
Appena usurpi scelerato regno
1035 (misero!) e prendi il nostro luogo, calchi
già le ruine de i passati Regi?
Di rogo i vinti, e delle mura privi
i cittadini? Or segui, o veramente
degno di Tebe sostener lo scettro.
1040 Questo del tuo regnare è il dì primiero.
Perchè freni il potere, e il regio onore
perchè in sì angusti limiti rinserri?
tu m’intími l’esilio? Oh troppo vile
crudeltà di chi regna! E che non stringi
1045 piuttosto il ferro del mio sangue ingordo?
A me dà fede: il puoi. Su fa che venga
il carnefice pronto, e mi recida,
senza timor, l’impavida cervice.
Ardisci: speri tu che supplicante
1050 tenda le mani, e tue ginocchia abbracci?
Fingi ch’io il voglia: il soffrirai? Qual pena
puoi minacciarmi? E che temer m’avanza?
Tu vuoi ch’io lasci il patrio suolo? Io prima
volontario lasciai la terra e il cielo,
1055 e questa man vendicatrice volsi,
e nissun mi spingea, contro il mio volto.
Or quale impor mi puoi pena maggiore,
inimico tiranno? Io parto, io fuggo
da queste sedi infami. E che rileva
1060 dovunque io tragga la mia lunga morte
e le infelici tenebre? A mie preci
qual gente negherà tanto di terra,
quant’io n’occupo in Tebe, ove riposi?
Ma dolce è il suol natio: certo più chiaro
1065 per me qui sorge il Sole, e più sereni
mi splendono sul volto il cielo e gli astri;
ed ho qui ancor la genitrice e i figli.
Tua sia pur Tebe, e la governa e reggi
con quegli auspicii con cui Cadmo e Laio
1070 ed io stesso la ressi; abbi tu ancora
eguali nozze e sì pietosi figli;
ma non abbia virtù che di tua mano
sottrarti ardisca di fortuna a l’onte,
ma misero e depresso ami la luce.
1075 Questi sono i miei voti. Or tu mi guida
altrove, o figlia. Ma perchè compagna
te scelgo al lutto ed a l’esilio? Dammi,
dammi, o gran Re, chi mi conduca altrove. -
Antigone temè che la lasciasse
1080 il padre sola, e si rivolse a i preghi:
- Per lo novello tuo felice regno,
e del tuo Meneceo per la sant’Ombra,
venerabil Creonte, io ti scongiuro,
perdona ad un afflitto i detti altieri.
1085 Tale lo fêr le lunghe sue querele.
Nè teco sol, ma col Destin, co i Numi
così ragiona, e ben sovente meco
non è più mite: tanto il duol l’inaspra.
Questa infelice libertà gli ferve,
1090 già buona pezza, nel feroce petto,
e insaziabil desio di cruda morte.
Non vedi con quant’arte egli procura
muoverti a sdegno e provocar le pene?
Ma tu (così fortuna ognor t’accresca
1095 impero e onor) non conculcar chi giace,
e de i passati Re l’urne rispetta.
Anche costui sublime in trono e cinto
d’armi e d’armati, un tempo, a gl’infelici
aita porse, e a tutti eguale, il giusto
1100 diede a chi ’l chiese; e pur di tanto stuolo
una sola compagna a lui rimase,
e non ancora era cacciato in bando.
E questi può turbar la tua fortuna?
Dunque contro costui tutti gli sdegni,
1105 tutte le forze del tuo regno impieghi?
Costui mandi in esilio? Forse temi
che strida alle tue porte, e a te d’intorno
con augurio funesto ognor s’aggiri?
Non dubitare: il menerò lontano
1110 dalle tue soglie a lamentarsi, e il fiero
animo ammollirò, tanto che impari
ad ubbidirti. Io lo terrò diviso
da ogni commercio in chiusa cella ascoso.
Questo sarà il suo esilio: e quale estrana
1115 terra vuoi tu che l’infelice accetti?
Vuoi tu che vada in Argo, o alla nemica
Micene errando squallido ed afflitto?
O del già vinto Adrasto in su le porte
canti le Furie dell’aonio regno?
1120 Vuoi tu che dal Re d’Argo un Re di Tebe
mendichi il vitto? Dell’afflitta gente
e che mai giova divulgar gli errori,
e le nostre vergogne e i nostri scorni?
Deh celati li tieni, io te ne prego,
1125 nè già molto ti chieggio: abbi pietade
di questo vecchio ed infelice padre.
Permetti sol che poca terra il copra,
che qui deponga il mortal velo: lice
seppellire i Tebani. - In cotal guisa
1130 pregando, sul terren si volge, e piange.
Ma il fiero padre indi la svelle, e sdegna
chieder perdono, e minaccioso freme.
Come leon che nella verde etade
fu de i monti terrore e delle selve,
1135 rotto dagli anni, e di già pigro e lento
sen sta giacendo sotto eccelsa rupe,
ma pur conserva l’orrido sembiante,
e terribile è ancor nella vecchiezza:
se lungi ode mugghiar giovenche e tori,
1140 alza le inferme orecchie, e di se stesso
e del primo vigor ei si rammenta,
e geme e duolsi che più forti belve,
de i campi suoi, tengano allor l’impero.
Si piega a i pianti il Re crudele, e parte
1145 concede, e parte nega: - Al natio suolo
non andrai lungi (dice); a me sol basta
che non profani coll’infausto aspetto
i sacri tempii e i cittadini alberghi.
Delle fiere i covili e il tuo Citero
1150 stanza degna saran de la tua notte,
e i campi ove già fur l’aspre battaglie,
ove nel comun sangue involta giace
e l’una e l’altra gente. - Ei così parla,
e tumido ritorna al regio albergo
1155 fra i finti applausi e il simulato assenso
de i cortigiani e de l’afflitto vulgo.
Lasciano intanto l’infelice campo
furtivamente gli avviliti Greci.
Nissun segue le insegne o il proprio duce,
1160 ma fuggon sparsi; e d’un’indegna vita
prendon più cura e d’un ritorno infame,
che d’una illustre e glorïosa morte.
Li seconda la notte, e li ricopre
col grato orror di sue benefich’ombre.
Non tutte ancor avea del ciel fugate
il mattutin Lucifero le stelle,
e con più tenue corno il dì vicino
mirava Cintia: al fin l’Aurora sorge
5 e le nubi dilegua, e al Sol nascente
prepara il calle, e il vago cielo indora.
Errando vanno a i vôti alberghi intorno
le tebane falangi, e troppo lenta
loro sembra la notte; e ancor che quelli
10 sian, dopo l’armi, i primi sonni, e i primi
ozii concessi; pur la pace ancora
debile e inferma il lor riposo turba;
e li fa ricordar de l’aspra guerra
la sanguigna vittoria. Osano appena
15 muovere il passo, abbandonare il vallo,
e tutte intere disserrar le porte.
Il primiero timore ancor li turba,
e miran con orrore il vôto campo;
e come il peregrin che in terra scese,
20 dopo che l’agitâr procelle infeste,
crede che il suol vacilli, in simil guisa
stupisce Tebe che guerrier non muova
a rinnovar gli assalti, e ognor paventa
che sorga a nuova guerra il campo estinto.
25 Così qualor veggon gl’idalii augelli
salir su la lor torre aureo serpente,
fan ritirare i figli, e de i fecondi
nidi apprestano l’unghie a la difesa,
e dibattendo van le imbelli piume:
30 e bench’ei cada, l’aer vôto teme
ancor la bianca turba, e al fin se vola,
mira da l’alto con orrore il nido.
Vanno fra ’l vulgo esangue e le giacenti
reliquie della guerra, ove li mena
35 ciascuno il comun lutto, o i propri pianti.
Altri l’armi, altri i corpi, alcuni i visi
miran sol degli estinti agli altrui busti
giacere appresso; parte i vôti carri
bagnan di pianto, e co’ destrieri privi
40 del lor signor, poichè null’altro avanza,
fanno querele: altri le immense piaghe
bacia, e si duol del militare ardire.
L’avviluppata strage al fin si stende,
e i cadaveri freddi: allor fur viste
45 stringer le man recise ancora i ferri,
e nella fronte le saette infisse.
Molti, che la cagion del loro lutto
trovar non san, sovr’ogni corpo estinto
cadono incerti, e stan disposti al pianto.
50 Ma su i deformi e non ben noti tronchi
nasce flebil contesa, a chi dell’urne
spetti la cura e dell’esequie estreme.
E spesso ancor (tanto scherzò Fortuna)
pianser sovra i nemici, e stiero incerti
55 qual sangue calpestar lor sia permesso,
qual si convenga rispettar: ma quelli
cui le famiglie non restâr deserte,
nè cagione hanno di privato lutto,
scorrendo van le abbandonate tende
60 de i fuggitivi Greci, e colle faci
vi destano le fiamme; in varie parti
altri dispersi ricercando vanno
(con quel piacer ch’alle battaglie segue)
ove giaccia Tideo, se alcun vestigio
65 appaia ancor dell’orrida vorago
ove fu il vate assorto, ove de i Numi
sia l’inimico, e nelle membra enormi
se resti segno del celeste fuoco.
Già tutto il giorno avean passato in pianti,
70 nè cessaro coll’ombre: agl’infelici
giovano le querele, ed han piacere
in trattenersi su le lor sciagure.
Nè riedono alle case: a i morti intorno
veglia la mesta turba, ed a vicenda
75 scaccia le fiere ed i rapaci augelli
co i gridi e colle fiamme; al dolce sonno
non cede, e non aggrava i stanchi lumi
il pianto, ch’esce d’inesausta vena.
Ma già tre volte precorrea l’aurora
80 il mattutin Lucifero nel cielo,
quando del loro onor spogliati i monti,
scendeva dal Teumesso e dal Citero
gran salmeria di roveri e di pini.
S’alzan le pire, e i lacerati corpi
85 ardono de i Tebani in mezzo a i roghi.
Godon gli onori dell’esequie estreme
l’ombre d’Ogige: ma la turba mesta
delle greche infelici ombre insepolte
geme, e s’aggira intorno a i fuochi errante.
90 Arde Eteòcle anch’egli in volgar fiamma,
non con pompa regal: ma Polinice,
come Greco, s’esclude, e va raminga,
dopo la morte ancor, esule l’Ombra.
Formaro a Meneceo sublime rogo
95 il padre e Tebe, e non di legna vili,
ma di carri, di scudi e d’armi greche
gli alzâr superba e bellicosa pira.
Di pacifico alloro il capo adorno
e delle sacre bende, alto ei sen giace,
100 qual vincitor, su le cataste ostili.
Tale arse lieto sovra l’Eta Alcide,
quando fra gli astri lo chiamaro i Numi.
Vittime ancor spiranti, in cima al rogo,
il padre uccise i prigionieri argivi,
105 per suo conforto, e i bellici destrieri.
Stride la fiamma, e li consuma. In fine
le paterne querele uscîr dal petto.
- O se di troppa lode in te il desio
e un magnanimo ardor non s’accendea,
110 forte garzon, dell’echionia gente
tu meco, e dopo me terresti il regno.
Ed or le nuove gioie e il dono ingrato
mi rendi amaro del novello scettro.
Tu (chè certo io ne son), benchè su gli astri,
115 ove t’alzò virtù, sieda fra i Dei,
flebile sempre e lamentevol Nume
a me sarai: ergati altari e tempii
ricordevole Tebe, e sia permesso
onorarti co i pianti al padre solo.
120 Ed or quai sacrifizi (ahi lasso!) e quali
esequie di te degne offrir ti posso?
Non se dato mi fosse Argo e Micene
ridotte in polve di mandar confuse
colle ceneri tue; non se sopra esse
125 me stesso anche gettassi, a cui la vita
(oh crudel fatto!) conservò del figlio
il sangue, e fu cagion del regio onore.
Dunque una stessa guerra, un tempo istesso
te, figlio, uccise, e i barbari fratelli?
130 E il mio dolore a quel d’Edippo è uguale?
Forse, o Giove, piangiam ombre simíli?
Ma tu ricevi, o figlio, i primi doni
del tuo trionfo, e questo scettro accetta,
peso della mia destra, e queste bende,
135 di cui circondo la superba fronte,
che troppo, ahi troppo, tu acquistasti al padre.
Te vegga Re nel Tartaro profondo,
e se ne roda d’Eteòcle l’ombra. -
Così dicendo la man spoglia e il crine,
140 e con ira maggiore indi ripiglia:
- Me chiamin pur crudel; non vo’ che teco
i cadaveri argivi ardan su i roghi.
Così dato mi fosse e vita e senso
rendere a i corpi, e discacciar dal Cielo
145 e dall’Inferno l’anime nemiche;
e dietro me condur fiere ed augelli,
e a le lor fauci ed a i lor rostri i membri
additar degli estinti empii Regnanti.
Ahi lasso, che la terra li ricetta
150 e li consuma il tempo! Onde di nuovo
comando e voglio ch’a li greci estinti
non sia chi doni l’urna, o il rogo accenda.
E chi ’l farà, del tolto corpo il luogo
ed il numero adempia, e per lui mora.
155 Così di Meneceo per la grand’Ombra
e per lo Cielo e per li Numi il giuro. -
Disse, e i servi il portâr nel regio tetto.
Ma le vedove greche in mesta schiera
lascian Argo deserta, e da la fama
160 guidate van qual prigioniere e serve.
Ha ciascuna il suo lutto; a tutte uguali
sono gli abiti e i pianti: i crini sparsi
ed i seni succinti, e dalle gote
lacerate dall’unghie il sangue piove
165 a le lagrime misto, e le percosse
livide fanno lor le braccia e il petto.
Regina e duce della bruna turba,
ora cadendo delle serve in grembo,
or risorgendo, e per gran doglia insana
170 prima sen vien la desolata Argia.
Non la patria rammenta, e non il padre;
ma la fe’ coniugale, e fra i singulti
solo di Polinice ha in bocca il nome,
e preferisce ad Argo ed a Micene
175 Dirce e del fiero Cadmo i tetti infami.
Seconda vien Deifile dolente
non men che la germana, e seco adduce
di calidonie sconsolate donne
miste a le greche numeroso stuolo,
180 al suo Tideo per dar gli estremi onori.
Ben sapev’ella l’esecrabil fame
del consorte crudel; ma a lui, che giace,
tutto perdona amor. Segue Nealce
acerba in viso e di pietà ben degna;
185 piange, e piangendo Ippomedonte chiama.
Va dopo lei la crudel moglie avara
dell’Augure a innalzargli un rogo vano:
chiudon la schiera la parrasia madre,
di Dïana seguace, orba del figlio,
190 e la feroce Evadne: il troppo ardire
quella deplora del garzone audace;
questa del gran marito si ricorda,
e fiera piagne, e contro il Ciel s’adira.
Dal frondoso Liceo mirolle e pianse
195 Ecate, e pianse la tebana madre
dal sepolcro dell’Istmo, allor che i passi
volsero al doppio lido, e benchè Eleusi
per sè si dolga, accompagnò co i pianti
la nottivaga turba, e rese chiaro
200 con le mistiche faci il lor cammino.
Giunone istessa per occulte strade
le guida, a fin che il popol d’Argo accorso
non le trattenga o le ritardi, e loro
tolga l’onor d’un memorabil fatto.
205 Commette ad Iri il conservare intatti
gl’insepolti cadaveri de i Regi.
Essa d’ignoti succhi e del divino
nettare gli cosperge, acciò che interi
e incorrotti così serbinsi a i roghi,
210 nè si consumin pria d’aver le fiamme.
Ed ecco Onito: avean costui lasciato
in abbandono i fuggitivi Greci;
ed ei pallido in viso il piè movea
per occulto sentier, debole e infermo
215 per fresca piaga, ed appoggiava il fianco
di rotta lancia al tronco. Egli nel bosco,
poichè sentì il tumulto, e il femminile
stuolo scoprì di già vicino a Lerna,
non chiese lor qual del cammin la meta
220 fosse, qual la cagion; chè ben si appose
quell’infelice, e favellò primiero:
- Dove, misere, andate? A i morti duci
sperate voi di dar l’esequie e i roghi?
Veglia un custode a l’Ombre, e gl’insepolti
225 corpi va numerando al reo tiranno.
Sono inutili i pianti, e da quel luogo
ogni uomo si discaccia: augelli e fiere
sol v’han l’ingresso: il perfido Creonte
credete voi ch’a pietà pieghi, e onori
230 il vostro lutto? I sanguinosi altari
di Busiride prima, e l’empia fame
de i cavalli di Tracia, e i Dei Sicani
placar potrete. Il suo furor mi è noto:
voi prenderà; nè su gli amati sposi
235 v’immolerà, ma lungi a l’Ombre amiche.
Chè non fuggite, or che il fuggir v’è dato?
E ritornando in Argo, a i nomi vani
(ciò che solo vi avanza) alzate l’urne;
e l’alme richiamate a i vôti roghi.
240 O che non gite alla famosa Atene
(dicon che vincitor dal Termodonte
Teseo ritorni) ad implorare aita?
D’uopo è d’armi e di forza a far che rieda
l’empio Creonte ne’ costumi umani. -
245 Così diss’egli, e per orrore i pianti
si ristagnaro a le infelici, e in esse
stupido restò il moto, e fur nel viso
tutte dipinte d’un egual pallore.
Così se lungi fremere si sente
250 digiuna ircana tigre, e ne rimbomba
e se ne turba il campo; alto spavento
occupa le giovenche, e stanno incerte
su qual si lanci, e quali membra sbrani.
Son divisi i pareri: alcuna a Tebe
255 vuol che si vada a supplicar Creonte,
l’altre ad Atene ad implorar pietade,
e vendetta e soccorso: a tutte sembra
il ritornar ultima cura e infame.
Ma non aspira a femminil virtude
260 Argia dolente, e superando il sesso,
orribil tenta e generosa impresa.
Del periglio la speme il cor le alletta,
e vuole andare, e disprezzar le leggi
del fiero regno, e provocar la morte.
265 Non l’oserian del Rodope le nuore,
nè del Fasi nevoso aspra Regina
seguíta da le vergini guerriere.
Accorto inganno ordisce, onde abbandoni
l’amica schiera, e prodiga di vita
270 e per gran fatto audace, a la vendetta
provochi il Re tiranno e i Numi irati;
e ve l’esorta la pietà, la fede,
l’amor pudico: Polinice istesso
l’è sempre avanti in tutti gli atti e modi
275 ch’essa lo vide, or ospite, ora sposo
a i sacri altari, or facile marito,
ed or già ascoso nel feroce elmetto
mesto abbracciarla, e da l’estreme soglie
rivolgere amoroso in essa il guardo.
280 Ma niuna immago a lei più torna in mente
che di lui, che sen giace in mezzo al campo
nel sangue involto e nudo, e chiede il rogo.
Da tai cure agitata, essa nel core
sente tormento e pena, e, quel ch’è puro
285 e castissimo amore, ama il suo lutto;
onde a l’altre si volge, e così dice:
- Gite voi pure, e l’attiche falangi
e l’armi vincitrici in Maratone
a favor vostro usate, e a i vostri voti
290 fortuna arrida; e me, sola cagione
di tanto scempio, gir lasciate a Tebe,
penetrar nelle case, e prima l’ire
e le furie soffrir dell’empio regno.
Non fieno al batter mie sorde le porte
295 della città crudele: entro quei muri
ho suoceri, ho cognate, e non straniera
giungerò a Tebe, e sconosciuta donna.
Non m’arrestate i passi: occulta forza
colà mi tragge, e nel mio petto io chiudo
300 un grande augurio. - Così dice, e sceglie
per compagno Menete, un tempo a lei
del verginal pudor custode e mastro;
e benchè ignara delle strade, il passo
precipitosa a quella parte muove,
305 onde pria venne Onito; e quando lungi
da le compagne fu, parlò in tal guisa:
- Io dunque aspetterò, mentre tu giaci
sul nemico terren, qual sia la mente
e l’incerto consiglio di Teseo?
310 Se i duci (ahi lassa!) e il sacerdote approvi
la nuova guerra? E tu, mio sposo, intanto
mi vai mancando al rogo. E tardo ancora
d’espor per te queste mie membra a i morsi
delle rapaci fiere e degli augelli?
315 Ed or (s’hai senso), o mio fedel, coll’Ombre
di me ti lagni e con i numi inferni,
e me di lenta e d’inumana accusi.
Ah che o tu sia insepolto, o che di terra
altri t’abbia coperto, è mio delitto,
320 se l’uno e l’altro il mio tardar condanna.
Temerà dunque il mio dolor la morte,
e la forza e il furor del reo Creonte?
Onito, a l’andar mio tu aggiungi sprone. -
Così dicendo di Megara i campi
325 a gran passi divora; e chi l’incontra
il sentiero le addita, e con orrore
ne ammira il manto, e ne rispetta il duolo.
Feroce in vista ella sen corre, e nulla
o che veda o che senta, il cuor le turba:
330 ne i gran mali sicura, appar più degna
d’esser temuta, che temere altrui.
Siccome avvien nelle troiane notti,
quando a gli urli e al fragore Ida risponde;
la conduttrice dell’insano Coro,
335 cui Cibele diè il ferro, e il sangue accolse,
e il crin le cinse delle sacre bende,
rapida va del Simoenta a l’acque.
Già nell’onde d’Esperia avea tuffato
il luminoso Dio l’ardente carro,
340 per sorger poscia da l’opposto mare.
Ma tanto può in Argia l’estremo lutto,
che non sente fatica o non l’apprezza,
e non s’avvede che già spento è il giorno.
Nulla teme l’orror che i campi adombra,
345 nè interrompe il cammin; ma va sicura
per sassi aspri e scoscesi, e ferma il passo
sovra tronchi caduti, e varca i boschi
anche di giorno oscuri e i campi sparsi
di cieche fosse, e varca i fiumi, e nulla
350 teme de’ guadi, e intrepida sen passa
a le fiere vicina ed a i covili:
tanto il dolore in lei puote e l’ardire!
Duolsi Menete di seguir più lento,
e dell’imbelle Alunna ammira il corso.
355 Di quali case non battè a le porte,
modesta nel dolore, ove pastori
soggiornassero, o greggi? Oh quante volte
errò dolente nel cammino, oh quante
l’abbandonò per via spenta la face,
360 guida e conforto de’ suoi lunghi errori,
e dal notturno gel fu vinto il lume!
Ma già di Penteo superato il giogo,
verso Tebe scendean; quando Menete
stanco e anelante favellò in tal guisa:
365 - Se del finito nostro aspro cammino
non m’inganna la spene, Argia, non lungi
siamo a Tebe e a i cadaveri insepolti.
Il lezzo sento, e l’aer atro e grave,
ed intorno volar rapaci augelli.
370 Questo è il suolo crudele, e son vicine
le mura infami: dell’eccelse rocche
non vedi tu, come si stende l’ombra
vasta pe i campi? Come da i veroni
scorgonsi scintillar languide faci?
375 Certo siam giunti. Poco fa la notte
era più cheta, e non splendean che gli astri. -
Argia fermossi, e di pietade in atto,
la man tendendo verso Tebe, disse:
- O desïata un tempo e a me diletta
380 cittade, or ostil sede, e pur, se rendi
illesa a me del buon consorte l’ombra,
ancor grato terreno. Or mira come
e di quai fregi adorna, e da qual corte
seguíta io tua Regina, e al grand’Edippo
385 nuora, la prima volta a te ne vengo.
Cose inique non bramo. Ospite io chieggio
che tu m’accolga, e mi permetta i roghi,
e al caro sposo dar l’esequie e i pianti.
Quello esule dal regno, e da la guerra
390 vinto, e cacciato dal paterno soglio,
deh quello solo per pietà mi rendi.
E tu, o consorte, s’è pur ver che resti
qualche immagine a l’Ombre, e dopo morte
s’aggirin l’alme intorno a i corpi errando;
395 a me vieni, ti prego, e mi conduci,
e a i funerali tuoi tu mi fa scorta,
se giammai ne fui degna. - E qui si tacque:
e in un vicino albergo di pastori
ravvivò i fuochi moribondi, e corse
400 precipitosa nel funesto campo.
Cerer così, poichè l’inferno amante
rapì la figlia, con gran face accesa
negli etnei fuochi splendere facea
di diversi color l’itala spiaggia
405 e la sicana, seguitando l’orme
del nero rapitore, e per la polve
mirando i solchi del tartareo carro:
a gli urli insani Encelado rimugge,
e vomitando fiamme, a lei le strade
410 vie più rischiara; e fiumi e selve e mari,
e nembi e cielo suonano d’intorno
Proserpina, Proserpina. Sol tace
del tartareo consorte il regno oscuro,
e il dolce nome asconde, e il furto cela.
415 Ma Menete fedel dell’infelice
compagno, a lei, che disperata corre,
rammenta di Creonte il fiero editto,
e la consiglia ad occultare il lume.
Una Regina riverita innanzi
420 da le greche cittadi, immensa cura
di mille e mille proci, augusta spene
della paterna stirpe, or senza duce
in buia notte fra nemiche genti
sola sen va sull’armi, e calca l’erbe
425 lubriche di putredine e di sangue.
Non le tenebre teme, e non dell’ombre
la mesta turba, e intorno a le lor membra
l’anime che s’aggirano gemendo.
Spesso ferita da i giacenti ferri
430 dissimula la piaga, e sol le cale
ogni corpo schivar, mentre ogni corpo
crede che sia il consorte; e attenta osserva
i distesi cadaveri, e li volge
supini, e li riguarda, e si lamenta
435 che poco in ciel risplendano le stelle.
Giunone intanto del suo gran marito
toltasi al letto occultamente, giva
per l’ombre sonnacchiose a l’alte mura
del vincitor magnanimo Teseo
440 a pregar Palla che in Atene accolga
delle supplici greche il mesto volgo.
Ma quando vide per lo campo invano
volgersi Argia, da gran pietà commossa,
verso il carro di Cintia il carro volse,
445 e sì le disse in placida favella:
- Deh mi concedi, o Cintia, un picciol dono,
se Giuno è degna pur di qualche onore.
Tu certo un tempo concedesti a Giove
triplice notte a procreare Alcide.
450 Ma pongansi in oblio le andate cose.
Or luogo è a compensar le offese antiche.
Non vedi tu per qual oscura notte
Argia, fedele al nostro culto, indarno
per quel campo s’aggiri, e le tenébre
455 le tolgano il trovar l’amato sposo?
E tu pallida splendi infra le nubi?
Rischiara i corni, io te ne prego, e inchina
più verso terra il luminoso carro;
e questo tuo sopor, che prono il guida,
460 e che ne regge i rugiadosi freni,
negli aonii custodi, o Dea, diffondi. -
Appena disse, che squarciò le nubi
Cintia, e il gran disco tutto intero apparve.
Temeron l’Ombre, impallidiro gli astri,
465 e Giuno appena ne sostenne il lume.
A lo schiararsi i campi, Argia conobbe
del buon consorte la pomposa veste,
opera di sua man; benchè il ricamo
sia coperto di sangue, e scolorita
470 la porpora ne resti: e mentre grida
- Oh numi! - e che di lui null’altro resti
teme quell’infelice, ecco lo scopre:
mancârle a un tempo e spirto e vista e voce,
e il gran dolor le lagrime respinse.
475 Con tutto il corpo su l’amato viso
cade, e co i baci l’anima raminga
par che ne cerchi: e con il crin, col manto,
per conservarlo ne raccoglie il sangue.
Al fin la voce le ritorna, e dice:
480 - Tal dunque ora ti veggio, o caro sposo,
ch’a racquistar l’a te dovuto regno
gisti poc’anzi del potente Adrasto
genero e capitan di tanta impresa?
E tale io stessa a i tuoi trionfi or vegno?
485 Innalza il volto, e me riguarda: a Tebe
ecco Argia che sen vien. Su via le porgi
la destra, e dentro la città la guida:
mostrale i patrii tetti, e grato rendi
a me l’ospizio; ma che parlo? ahi lassa!
490 Nudo tu giaci sul terreno, e questo
solo di tanto regno è che ti resta.
Oh guerre! Oh risse! Il tuo fratel non regna.
Dunque de’ tuoi nissun ti pianse? Dove,
dov’è la madre, e la famosa tanto
495 Antigone sorella? Ahi, ch’a me sola
tu giaci, e solo a me sei morto e vinto.
Quante volte ti dissi: E dove corri
sconsigliato? A che cerchi il regno alterno
che ti si niega? Argo ti basti: impera
500 nella corte del suocero: più lunghi
tu qui godrai gli onori, e non diviso
avrai qui il regno. Ma di chi mi dolgo?
Io la guerra affrettai; io fui che il mesto
padre pregai, misera! Ed a qual fine?
505 Per abbracciarti in sì crudele stato.
Ma pur sian grazie a i Numi, e a te, o Fortuna:
del mio lungo cammin non fu delusa
la speme: il corpo ho ritrovato intero.
Ahi quanto immensa è mai questa ferita!
510 E la fece il fratello? E dove giace
quell’infame ladrone? Ah pur ch’il trovi,
vincerò gli avvoltoi; caccerò lungi,
per lacerarlo io sola, e cani e lupi.
Ma forse l’empio ebbe già rogo e tomba?
515 Tu pur l’avrai, nè il tuo natio terreno
ti vedrà senza fiamme e senza onori.
Arderai; sarai pianto; onor che a’ Regi
raro si dona, e la mia fede eterna
serberò al tuo sepolcro, e il picciol figlio
520 fia testimonio al mio dolore, e a lui
riscalderò le vedovili piume. -
Ed ecco nuovo pianto e nuova face
portando, a i roghi Antigone sen viene
appena uscita da le chiuse soglie;
525 perocchè a lei stavan le guardie intorno,
e il Re vuol che s’osservi, onde a vicenda
si cambiavan tra loro e più frequenti
rinnovavano i fuochi: essa co i Numi
e col fratel la sua tardanza scusa.
530 Ma non sì tosto abbandonârsi al sonno
stanchi i custodi, dalle mura uscío;
come leonza, che la prima volta
senza la madre, e libera correndo,
sfoga l’innata rabbia, e freme e rugge,
535 e di terror empie le selve e i campi.
Nè tardò molto, chè l’è noto il campo,
e dove il corpo del fratel sen giace.
In vederla venir Menete ha tema,
e fa cessar da le querele Argia.
540 Ma quando de i suoi pianti il suono estremo
giunse a ferir d’Antigone l’orecchie,
e a lo splendor degli astri e al doppio lume
d’ambe le faci squallida la vide,
e la mirò starsi col crin disciolto
545 infetto di putredine e di sangue:
- Quali Ombre (disse) temeraria cerchi
in questa notte mia? - Nulla risponde
quell’infelice, ma col manto copre
il marito e se stessa, il suo dolore
550 per timor sospendendo. Allor di frode
più Antigone sospetta, e minacciando
la donna a un tempo e il suo compagno incalza.
Ma l’uno e l’altra sta confusa e tace.
Al fine Argia sempre tenendo al seno
555 stretto il consorte, scoprì il viso, e disse:
- Se tu qui meco a ricercar pur vieni
un qualche estinto, e se tu pur paventi
l’iniqua legge del crudel Creonte,
ben sicura scoprirmi a te poss’io.
560 E se infelice sei, qual ti palesa
il tuo pianto e il lamento, amica dammi,
dammi la fede: io son d’Adrasto figlia.
Del caro Polinice alcun non viene,
ahi lassa! al rogo, benchè il Re lo vieti? -
565 Stupì a quel dir la vergine tebana,
e inorridissi, e l’interruppe: - Adunque
da me ti guardi? (oh troppo cieca sorte!)
Da me compagna delle tue sciagure?
tu le mie membra abbracci, e tu previeni
570 l’esequie mie? Ti cedo. Oh di sorella
troppo lenta pietade! Oh mia vergogna!
Costei prima sen venne? - E qui sul corpo
caddero a un tempo, e l’abbracciaro insieme,
e confusero insieme i crini e i pianti.
575 Sel dividon fra loro, ed a vicenda
godonsi il volto con alterni baci.
E mentre una il fratel, l’altra il marito,
e questa Tebe, e quella Argo rimembra,
più da lontan così comincia Argia:
580 - Per questo sacro e lagrimoso furto
del comune dolor, e per quest’Ombra
ad ambe grata, e per le pure stelle
che dal ciel ne rimirano, ti giuro:
costui non tanto del perduto regno,
585 benchè esule e ramingo, o del terreno
a lui nativo, o de la cara madre
si ricordò; quanto di te bramoso
sol d’Antigone aveva in bocca il nome,
e te sola chiamava il dì e la notte.
590 Minor cura io gli fui, e in abbandono
più facile a lasciar. Ma tu il vedesti
almeno da una torre anzi ’l delitto
guidar le squadre greche, ed ei te vide
dal campo, e con la spada a te i saluti
595 mandò da lungi, ed inchinò il cimiero.
Noi misere e lontane! ahi qual crudele
Nume li spinse a così estremi sdegni?
Fur vane le tue preci? A te poteo
cos’alcuna negar? - Già cominciava
600 Antigone a narrare i fatti antichi
dal lor principio; ma il fedel compagno
ambo ammonisce: - La proposta impresa
prima finite: impallidiscon gli astri
e s’avvicina il dì; l’opra avanzate,
605 e a lagrimar fia tempo: abbia le fiamme
il rogo prima, e piangerete poi. -
Un roco mormorio senton vicino,
che addita lor non lungi esser l’Ismeno,
che brutto ancor di sangue al mar correa.
610 Quivi il lacero corpo ambe portaro
congiungendo le destre, e non più forte
il veglio anch’egli vi prestò la mano.
Così fumante ancor, lavâr Fetonte
dell’Eridano tepido nell’onde
615 le pie sorelle. Ei fu sepolto appena,
ch’esse, forma cangiando in un momento,
flebili selve fecer ombra al fiume.
Mondo che fu di sangue, e che sul viso
tornò di morte il natural pallore,
620 gli dier gli ultimi baci, e d’ogni parte
cercâr le fiamme; ma gelati e spenti
nelle putride fosse erano i fuochi,
ed ogni rogo in cenere consunto.
O fosse caso, o pur voler de i Numi,
625 un solo ne restava, ove le membra
d’Eteocle crudele arser poc’anzi:
o nuovi mostri disponea Fortuna,
o l’empia Furia lo mantenne acceso,
perchè si dividessero le fiamme.
630 Splendere fra i carboni un picciol lume
con flebile piacer mirâr le donne,
nè san qual busto su quel rogo ardesse.
Ma qualunque egli sia, pregando il vanno
che mite al cener suo compagno accolga
635 quell’infelice, e insiem confondan l’Ombre.
Ecco di nuovo in campo i rei fratelli:
caddero appena sul vorace fuoco
quei nuovi membri, che tremaro i roghi
e da l’esequie l’ospite è respinto;
640 scoppian le fiamme, e s’alzano divise
tinte le corna di funerea luce.
Così se il torvo regnator d’Averno
unì le fiamme di due Furie ultrici,
sorgon discordi, ed infra lor disgiunte
645 l’una lungi dall’altra ardere agogna.
Gli stessi legni, quasi sentan l’ira,
l’un da l’altro si sparte, e il peso scuote.
- Ahi! (gridò allor la vergine tebana)
Misere! Gli odi antichi e l’ire spente
650 noi rinnovammo. Era il fratel costui.
Chi altro che il fratel l’Ombra straniera
respinto avria? Del semiadusto cinto
mira gli avanzi, e dell’infranto scudo;
vedi come la fiamma si divide,
655 e poi di nuovo si raccozza e pugna!
Vivono gli odii ancor: non fu bastante
la guerra a terminarli. Ah sfortunati!
Voi contrastaste, e il fier Creonte ha vinto.
Per voi più non v’è regno. Ahi qual furore!
660 E di che contendete? Omai cessate
da le minacce: e tu primiero cedi,
esule sempre, e ognor dal giusto escluso.
La consorte ven prega e la sorella;
o in mezzo a voi ci getterem su i fuochi. -
665 Sì disse appena, e dal profondo centro
tremò la terra, e vacillâr le mura,
e dier muggiti le discordi fiamme
del biforcuto rogo. A quel rumore
si destaro i custodi, a i quali il sonno
670 pingea l’immago de i vicini mali.
Tosto corrono armati e minacciosi,
e ricercando van per tutto il campo.
Temè in vederli il solo veglio: al rogo
stanno le donne intrepide e sicure;
675 e poi che il corpo è in cenere disciolto,
palesano co i pianti e colle strida
la disprezzata legge di Creonte,
e il pietoso lor furto: insiem contesa
hanno di morte, e di morir la spene
680 ambe infuria ed accende. - Io del fratello,
io del marito (or l’una, or l’altra grida)
arse ho le membra. Io tolsi ’l corpo: i fuochi
io fui che accesi: me pietà, me amore
a ciò sospinse; - e provocando a gara
685 offrono l’innocenti invitte destre:
quella che dianzi ne i lor detti apparve
riverenza ed amore, ora rassembra
furore ed ira; tanto ferve e cresce
d’ambe il contrasto e il grido. Intanto i servi
690 le conducon legate al Re crudele.
Ma da altra parte avea Giunon condotto
(consentendol Minerva) entro le mura
d’Atene il mesto attonito drappello
delle vedove argive: essa l’affetto
695 lor del popolo acquista. Essa a i lor pianti
pietà concilia e onore; essa lor porge
di supplichevol benda i rami cinti,
e insegna loro a ricoprir col manto
il volto e gli occhi, ed a mostrar dolenti
700 delle ceneri vôte in mano l’urne.
Fuor dell’attiche case escono a prova
d’ogni età, d’ogni sesso, e già le strade
sono ripiene, e son coperti i tetti.
Onde vien questa turba? E da qual parte
705 tante misere insieme? Ancor non sanno
la cagion che le mena e i lor disastri,
e già tutti ne piangono. La Dea
tra i drappelli si mesce, e il tutto narra:
la patria, la cagion de i loro pianti;
710 che bramino in Atene; ed esse ancora
in varie parti accusano, fremendo,
l’empia legge di Tebe e il fier Creonte.
Non con tanto rumor le rondinelle
narran con tronchi accenti a i tetti amici
715 del lascivo Tereo lo stupro infame,
il doppio letto e la crudel vendetta.
Nel mezzo a la città sorgeva un tempio
non dedicato a i più possenti Numi,
ma eretto in sede a la Clemenza, e sacro
720 fatto l’aveva miserabil gente.
Ognor supplici nuovi, e ognor le preci
sono esaudite. Ognun s’ascolta: aperto
è il dì e la notte, e a mitigar la Dea
bastano solo le querele e i pianti.
725 Parco n’è il culto: non l’incenso, o il sangue
delle vittime pingui ivi s’adopra.
Son di lagrime aspersi i miti altari,
pendono in voto le recise chiome
e le vesti da i miseri lasciate,
730 che a fortuna miglior condusse il Nume.
Placida selva il cinge, in cui verdeggia
il sacro lauro e il supplicante olivo.
Ma non v’è simulacro, e della Dea
nessuna immago in vivo bronzo espressa:
735 le menti e i cori d’abitar sol gode.
Sempre di meste turbe e bisognose
e supplicanti è pieno il luogo, e solo
a i fortunati è quell’altare ignoto.
Fam’è che i figli dell’invitto Alcide,
740 poi ch’arse in Eta e al cielo ascese il padre
cangiato in Dio, dall’attiche falangi
contro Euristeo difesi, alla Pietade
ergesser l’ara; ma minor del vero
è questa fama; e più credibil sembra
745 che i Numi stessi, a cui diè albergo e sede
ospite Atene, come a quella diero
leggi e costumi, sacrifizi e l’arte
di coltivare e seminar la terra,
che fu poi sparsa in peregrine piagge:
750 così sacrasser quivi a gl’infelici
un asilo sicuro; onde lontane
fosser ire e minacce, e i regni iniqui,
e dal quel giusto altare andasse in bando
la malvagia Fortuna e i Fati avversi.
755 Ad ogni gente è di già noto il tempio;
e i vinti in guerra e gli esuli, e dal trono
i Re scacciati, e quei che per errore,
non per rea volontà commiser fallo,
vi concorreano a gara, e chiedean pace.
760 L’ospital sede avea poc’anzi accolto
Edippo, e sciolto da sue furie antiche;
e dall’eccidio preservata Olinto;
e dalla madre liberato Oreste.
Ivi, additando lor l’attica plebe
765 il tempio, entrâr le sconsolate Argive,
e dieron luogo le primiere turbe
degl’infelici. Appena entrate furo,
che ne i lor petti si calmâr gli affanni.
Così cacciate dal natio Aquilone
770 dal freddo Polo a più soave clima,
in discoprir le gru l’amata Faro,
stendon per l’aria la volante nube,
e di lieti clamori empiono il cielo.
Dolce è loro sprezzar nel caldo Egitto
775 le fredde nevi, e l’importuno gelo
scior del tepido Nilo in su le sponde.
Ma gli applausi festivi, e della plebe
le grida, che feriscono le stelle,
e il lieto suon delle guerriere trombe
780 annunzio dàn che di già vinte e dome
le fiere Scite, vincitor ritorni
sul carro trionfale il gran Teseo.
Precedono le spoglie, e pria l’immago
del fiero Marte; indi i falcati carri
785 e i destrier privi delle lor guerriere,
e le bipenni infrante, onde le donne
troncar le selve ed ispezzare il ghiaccio
solean della meotica palude;
e salmerie d’elmi, di piume e d’archi,
790 e le lievi faretre; e risplendenti
di varie gemme i militari cinti,
e scudi aspersi del femmineo sangue.
Seguono poi le Amazzoni sicure,
ancorchè vinte; nè si mostran donne,
795 nè quai donne si lagnano; e a le preci
sdegnano di piegarsi, e cercan solo
della vergine Palla il culto e il tempio.
Ma il più gradito oggetto era Teseo
su carro eccelso, cui traean superbi
800 quattro destrier vie più che neve bianchi:
nè Ippolita è minor vaghezza e spene
del popolo, già placida in sembiante
e al dolce nodo maritale avvezza.
Ne mormoran fra lor l’attiche donne,
805 e torve la rimirano fremendo
ch’essa i patrii costumi in abbandono
lasci, e le chiome adorni, i membri copra
con lungo manto, e nella grande Atene
entri vinta in trionfo, e al vincitore
810 consorte a partorir d’Egeo nel letto.
S’allontanaro allor dal sacro altare
alcuni passi le dolenti greche,
e in ammirare e l’ordine e le spoglie
del superbo trionfo, i vinti sposi
815 (crudele oggetto!) a lor tornaro in mente.
Ma poi che il carro soffermossi, ed alto
richiese la cagion di lor querele
il vincitore, e a le preghiere porse
favorevole orecchio, a parlar prese
820 di Capaneo la valorosa moglie:
- Magnanimo figliuol del grande Egeo,
cui da le nostre stragi esce improvvisa
occasïon d’eterna lode e fama;
noi non venghiamo a te turba straniera,
825 nè rea d’alcun misfatto: Argo la culla
ci diede, e furon Regi i nostri sposi;
così non fosser stati audaci tanto!
Perchè, a qual pro muover ben sette campi,
per castigar d’Agenore i nipoti?
830 Nè però ci dogliam della lor morte:
queste di guerra son leggi e vicende.
Ma quelli che cadêr, non fur Ciclopi
mostri prodotti nell’etnee caverne,
e non biformi abitator dell’Ossa:
835 taccio la stirpe e i generosi padri.
Uomini fur, magnanimo Teseo
(basti sol tanto), e d’uman seme nati,
ed ebbero con voi comune il cielo,
la patria e l’alme e gli alimenti stessi
840 color che esclude da gli estremi fuochi
l’empio Creonte e da le stigie porte;
(come s’ei fosse il torbido Acheronte,
onde nacquer l’Eumenidi spietate,
o il reo nocchier dell’infernal palude)
845 e fa gir l’Ombre vagabonde e incerte
tra l’Erebo e le stelle. O delle cose
produttrice Natura, e tu il consenti?
E dove sono i Numi? E dell’ingiusto
fulmine vibrator l’iniquo Giove?
850 Atene, e dove sei? Già sette volte
sorgendo in cielo, volse altrove il carro
spaventata l’Aurora, e oscurò il lume,
e con orror li rimirâr le stelle:
e già il putrido cibo odian le fiere,
855 e gli avoltoi, e quell’infame campo,
che lezzo spira e l’aer puro aggrava.
Siane permesso almeno arderne l’ossa
e il putridume: e che di lor più resta?
Su, Cecropii, affrettatevi; a voi tocca
860 questa vendetta: pria che mossi a sdegno
vengan gli Emazi ed i feroci Traci,
e quanti son ch’usan d’esequie e fiamme
dopo la morte aver gli estremi onori.
Perchè a l’incrudelir qual fia prescritto
865 termine o meta? Noi pugnammo, è vero;
ma morîr colla morte e gli odii e l’ire.
Tu pur (chè ancor a noi delle tue imprese
la fama giunse) non lasciasti a i mostri
Sini e Cercione, e con dolor mirasti
870 il barbaro Sciron privo di rogo;
e ancor la Tana, onde cotante spoglie
ora riporti, certa son che vide
delle Amazzoni sue fumar le pire.
Deh questo ancora a i tuoi trïonfi aggiungi,
875 sol questa impresa al mondo, al cielo, a Dite,
questa sol opra intrepido concedi.
Se d’ogni tema Maraton sciogliesti,
se del Mostro biforme il Laberinto
tu superasti, se non pianse invano
880 l’ospite vecchia; così teco ognora
sia Minerva in battaglia, e non invidii,
già fatto Dio, l’emule imprese Alcide:
e sempre in carro trionfal ti veggia
la genitrice, e sempre invitta Atene
885 mai non senta un dolor simile al nostro. -
Disse; e l’altre approvare, e fra le strida
supplichevoli a lui teser le mani.
Prima arrossì Teseo mosso da i pianti;
indi di giusto sdegno il cuore acceso
890 così esclamò: - Qual nuova Furia a i regni
insegnò tai costumi? Io non lasciai
così barbari i Greci, allor ch’a i Sciti,
varcando il freddo Eusino, il cammin volsi.
D’onde il nuovo furor? Forse, Creonte,
895 credevi tu che più Teseo non fosse?
Eccomi, e non ancor sazio di sangue.
Del sangue de i tiranni è sitibonda
ognor quest’asta. Ma che indugio? Sprona
a quella parte, o fido Fegeo, e giunto
900 alle anfionie rocche altero intíma
o il rogo a i Greci, o mortal guerra a Tebe. -
Sì dice; e delle pugne e del cammino
scordato, i suoi conforta; e per un poco
l’affaticato esercito ristora.
905 Siccome toro che pur or l’amata
e il pasco antico vincitore ottenne,
e ne gode tranquillo e si riposa;
se ode lungi muggir nuovo nemico,
quantunque ancor grondino il collo e il petto
910 di fresco sangue, rinnovella l’ire,
cela il dolor, sparge col piè l’arena,
e le ferite sue copre di polve.
Lo scudo scosse, onde si copre il petto,
Pallade istessa; e l’orrido Gorgone,
915 e gli angui, che le fan crine e corona,
gonfiaro i colli e rimiraron Tebe:
nè ancor movevan l’attiche falangi,
e già Dirce temea le trombe ostili.
Non sol la gioventude a l’armi avvezza,
920 che a parte fu del scitico trionfo,
segue l’eccelse vincitrici insegne
del duce invitto; ma v’accorron pronti
e volontari i popoli vicini.
Vengono quei che di Munichio i colli
925 e il gelido Braurona apron co i solchi;
e quei che sul Pireo, fido ricetto
a i nocchieri e a le navi, hanno la sede:
nè ancor famosa per le palme Eoe,
sua gente al campo Maratone invia:
930 e le case d’Icario e di Celeo,
ospiti amiche a i Genïali Dei;
e le verdi Melene; e d’ombre e boschi
Egalo pieno, e delle sacre viti
abbondevole Parne, e Licabesso
935 stimabil più per le feconde olive.
Vengono i fieri Illei, ed i cultori
d’Imetto lascian gli odorosi favi;
e Acarne, che di verde edera veste
i rozzi tirsi; e Sunïone altiera,
940 che da le prore Eoe lungi si scorge;
onde ingannato da le false vele
Egeo sen cadde, e diè suo nome al mare.
E Salamina, e a Cerere divota
la sacra Eleusi, le campagne inculte
945 lasciando, spingon le lor genti in guerra;
e quelli ancor che nove volte intorno
Calliroe cinge con girevol onda,
e quei che bevon dell’Iliso l’acque;
d’Iliso consapevole del furto
950 della vaga Orizía, e che cortese
diede al tracio amatore occulto asilo.
Resta deserto ancor l’ameno colle,
ov’ebber lite i Dei, finchè repente
il pacifico olivo uscì da i sassi,
955 e fe’ coll’ombra ritirare il mare.
Ippolita anco l’iperboree schiere
a le mura di Cadmo avria condotte;
ma la ritarda la sicura spene
del ventre grave, e il vincitor la prega
960 che di Marte si scordi, e che consacri
al letto d’Imeneo faretra ed arco.
Ma poi ch’ei vide intorno a sè raccolti
i popoli feroci, e chieder guerra,
e respirar sol l’armi, e dare in fretta
965 furtivi abbracci a le consorti e a i figli;
da l’alto carro favellò in tal guisa:
- O valorose schiere, accinte meco
del mondo i patti e delle genti il dritto
a vendicare; i generosi cuori
970 mostrate degni di sì giusta impresa.
Pugneranno per noi uomini e Dei;
ne fia scorta Natura; e fian con noi
gli stessi abitator del muto Inferno.
Condurran contro Tebe in ordinanza
975 esercito di pene e di tormenti
l’anguicrinite Eumenidi spietate.
Gitene lieti, e con sicura spene
per sì giusta cagion d’aver vittoria. -
Sì disse, e lanciò l’asta, e il campo mosse.
980 Così qualor la prima bruma e il gelo
sciolse da l’Arto nuvoloso Giove,
e irrigidiron gli astri; Eolo le porte
disserra a i Venti: e impazïente il verno
di più lungo riposo acquista forze,
985 e soffian gli Aquiloni. Allora i monti
fremono e il mare; allor spezzate e rotte
pugnan le nubi; allora i tuoni in cielo
scorrendo vanno, e i fulmini volanti.
Al muover dell’esercito possente
990 trema lungi la terra; e i verdi campi
tritati e pesti de i destrier feroci
da l’unghie gravi, e le campagne intorno,
ove passâr di fanti e di cavalli
le immense schiere, son ridotte in polve.
995 Nè però basta ad occultare il lume
dell’armi; e in mezzo a quella densa nube
si veggon balenar corazze ed aste.
Vanno correndo il dì, nè li ritarda
l’ombra notturna e il placido riposo.
1000 Han contesa tra lor, chi più veloce
l’altro preceda, e chi primier discopra
da lungi Tebe, e nell’Ogigie mura
chi primo vibri il dardo o l’asta affigga.
Ma nel lucido scudo impresse porta
1005 il sommo duce sue famose imprese,
e delle glorie sue principio e fonte
Creta, cento cittadi e il Laberinto.
Lui stesso vedi nel confuso albergo
torcer l’ispido collo al Minotauro,
1010 e in fiera lotta le robuste braccia
legargli a tergo, e l’una e l’altra mano;
E dal cozzare delle insane corna
ritrarre il volto ed ischivarne i colpi.
Quand’egli entra in battaglia e lungi mostra
1015 l’enorme belva, alto spavento ingombra
le nemiche falangi in rimirarlo
due volte aver le man di sangue tinte,
la prima nello scudo, e l’altra in guerra.
E s’ei talora vi rivolge il guardo,
1020 vede presenti il memorabil fatto,
il drappel de i compagni, e l’aspre porte
del formidabil tetto, ed Arïanna
mesta temer che a lui non manchi il filo.
Mandava intanto il fier Creonte a morte,
1025 legate di durissime catene,
Antigone, e la vedova di Tebe,
figlia del grande Adrasto. Ambe contente,
e per gran voglia di morir superbe,
offron la gola al ferro, e del tiranno
1030 deludono la spene e sprezzan l’ire;
quand’ecco giunge il messagger d’Atene:
porta egli in mano il ramuscel d’oliva
segno di pace; ma fremendo e audace,
in virtù di chi ’l manda, armi minaccia,
1035 e guerra intíma; e che Teseo è vicino,
grida, e già ingombra colle schiere i campi.
Restò sospeso fra contrarii nembi
di diversi pensier l’empio tiranno,
e mitigò l’orgoglio e le minacce.
1040 Pur si rinfranca, e simulando il riso
ed il volto infingendo, al fin rispose:
- Non basta dunque il memorando esempio
d’aver pur or vinte Micene ed Argo,
che nuova gente ad insultarci muove?
1045 Venga; ma vinta poi non si quereli,
se avrà co i Greci una medesma legge. -
Tacque, e vide repente immensa polve
velare il giorno, ed adombrare i monti.
Impallidisce, e frettoloso impone
1050 che s’armi il vulgo, e l’armatura ei veste.
Ma tra fantasmi e larve entro la reggia
vede baccar le Furie, e Meneceo
torvo e piangente, e su i vietati roghi
ardere i Greci, e festeggiarne l’Ombre.
1055 Quale fu mai quel giorno in cui la pace
compra con tanto sangue e nata appena
sparì da Tebe? Timidi e confusi
rapiscon l’armi a i patrii Numi appese,
e co i laceri scudi il petto coprono.
1060 Staccano gli elmi d’ogni fregio ignudi,
e le saette ancor di sangue lorde.
Non v’è chi si distingua, o chi risplenda
per gemmata faretra o terso brando,
o per destriero d’ostro e d’or guernito.
1065 Non si fidan nel vallo; in mille lati
son le mura squarciate, e delle porte
cercan le ferree spranghe, e l’opra è vana;
chè le spezzaro i Greci; e torri e merli
abbattè Capaneo: pigra ed esangue
1070 la gioventù non dà gli usati amplessi
a le consorti, e i dolci baci a i figli,
nè san quai voti far gli antichi padri.
Ma poi che vide il capitan d’Atene
spezzar le nubi e rischiarare il mondo
1075 il nuovo sole, e lampeggiar su l’armi;
scende nel campo, ove stan l’Ombre inulte
e giacciono i cadaveri insepolti;
e in respirare, dentro il chiuso elmetto,
delle fracide membra il grave olezzo,
1080 intenerissi e pianse, e in lui lo sdegno
vie più forte s’accese alla vendetta.
Da l’altra parte quest’onore almeno
concesse a i Greci il perfido Creonte,
che al nuovo Marte non guidò le schiere
1085 su i corpi estinti: della prima strage
forse per conservar gli ultimi avanzi,
e a bere il sangue un altro campo scelse.
Ma già condotte avea le genti a fronte
la disugual Bellona: un grido istesso
1090 non è d’ambe le parti, e delle trombe
non è simile il suono. Inferma e lenta
quindi sen vien la gioventù tebana
co i brandi chini, e strascinando l’aste,
e cedendo il terren, co i scudi a tergo
1095 mostran grondanti ancor le prime piaghe.
E già i Cecropii stessi il primo ardore
vanno perdendo, e cessan le minacce,
e langue la virtù senza contrasto.
Così minor è l’impeto de i venti,
1100 se non s’oppone al lor furor la selva;
e se non frange a i lidi, il mar non freme.
Ma poi che l’asta maratonia in alto
alzò il figlio d’Egeo, la cui grand’ombra
stese l’orror su l’inimiche schiere,
1105 e il balenar del ferro ingombrò il campo;
qual se da l’Emo i corridori traci
Marte sospinga, e seco in carro porti
e morte e fuga; le agenoree schiere
pallide danno il tergo e in rotta vanno:
1110 fassi della vil plebe aspro governo
dagli altri tutti; ma Teseo non degna
contro chi fugge usar la forza e l’armi.
Così l’esangue ed abbattuta preda
a i cani piace ed a i codardi lupi;
1115 ma si pasce il leon di nobil ira.
E pure Olenio abbatte, e il fier Tamiro;
l’uno scegliea da la faretra i dardi,
l’altro alzava da terra un sasso immenso.
Quindi i figli d’Alceo, c’hanno fidanza
1120 nella triplice union, con tre grand’aste
tutti da lungi un dopo l’altro uccide:
a Fileo il petto, ad Elope la gola,
e nella spalla Japige trafisse.
Poi con quattro destrier su carro eccelso
1125 Emone ei scorge, e orribil asta vibra.
Quegli i destrieri timidi rivolge
in fianco, e cede; lungo tratto vola
la ferrea trave, e due cavalli uccide,
ed il terzo fería; ma vi si oppose
1130 il timone, ed in sè ritenne il colpo.
Ma gli altri non curando il gran Teseo,
solo brama co i voti e colle grida
il fier Creonte, e lui sol cerca e chiama.
Ed ecco il vede dall’opposto corno
1135 esortar le sue schiere, e con minacce
spingerle, lor malgrado, a la battaglia.
Al comandar del duce, indietro il passo
ritirano i Cecropii, e il lascian solo,
affidati ne i Numi e in suo valore;
1140 ma l’altro i suoi ritiene, e li rappella
e poi che vide che egualmente in ira
era a i nemici ed a le proprie squadre,
tutto raccolse il suo furore estremo,
e infurïando disperatamente,
1145 lo fe’ più audace la vicina morte.
- Queste non son le verginali destre
(dice) con cui pugnasti, e qui non sono
di lievi targhe le guerriere armate.
Qui pugnerai co i forti: e noi siam quelli
1150 per le cui mani il gran Tideo sen giace.
Noi uccidemmo Ippomedonte altero,
e noi mandammo Capaneo fra l’Ombre;
e qual follia ti spinse a farne guerra?
Mira color che a vendicare aspiri,
1155 come deformi giacciano e insepolti. -
Così diss’egli, e lanciò l’asta indarno,
chè lo scudo toccando, a terra cadde.
Sorrise amaramente il fiero Egide,
e disprezzando le minacce e il braccio,
1160 ferrata trave innalza, e il colpo libra;
ma pria lo sgrida con parlar superbo:
- Ombre argive insepolte, a cui consacro
questa vittima infame in olocausto,
spalancate l’Inferno, e preparate
1165 le Furie ultrici, ecco sen vien Creonte. -
Vola la fatal asta, e l’aria fende,
e le anella del giaco, ond’ei raddoppia,
sotto l’usbergo, le difese al petto,
smaglia e fracassa, e fuor per cento vie
1170 della rotta lorica il sangue sgorga.
Cad’egli, e in morte gli occhi erranti scioglie.
Teseo gli è sopra, e col gran pie’ lo preme,
e dell’armi lo spoglia, e lo rampogna:
- Crudel, ti piace ancor le giuste fiamme
1175 dare agli estinti, e gl’infelici Greci
coprir di terra? Or vanne, ove t’aspetta
il dovuto supplizio; e va sicuro
che il corpo tuo non mancherà d’avello. -
Morto il tiranno, l’uno e l’altro campo
1180 mesce le insegne, e porgonsi le destre,
e germoglia la pace in mezzo all’armi;
ed ospite è Teseo, non più nemico.
Lo pregano che il piede entro le mura
ponga, ed onori i lor paterni alberghi;
1185 e lor compiace il vincitor cortese.
Tutto va in festa, e con piacer l’accoglie
la turba delle madri e delle spose.
Così già domi i popoli del Gange,
ebri e giulivi e ’l crin di fronde cinti,
1190 lodâr di Bacco i sacrifizi insani.
Quando di grida e di femminei pianti
suonâr le opposte selve, e giù da i colli
sceser di Dirce le pelasghe madri
e le vedove afflitte; in quella guisa
1195 che van talor le furïose Menadi
chiamate al suon de i timpani e de’ cimbali,
che par, cotanto son feroci e tumide,
che fuggan dal delitto, o che vi corrano.
Godono ne i lamenti, e trionfando
1200 vanno fra i pianti: un impeto, un tumulto
nasce fra lor; se prima al gran Teseo
corrano a rendere i dovuti onori,
o a incrudelire nel tiranno ucciso,
o ad accender le fiamme a i corpi amati:
1205 vedovanza e pietà le guida a i corpi.
Non io, sebben mi fecondasse il petto
con cento voci alcun benigno Nume,
dell’umil volgo e de i sublimi Regi
cotanti roghi e tanti pianti insieme
1210 con degno carme raccontar potrei:
come l’audace Evadne in mezzo al fuoco
si lanciasse a cercar, del gran consorte
per entro il seno, il fulmine celeste:
come distesa su le fiere membra
1215 Deifile fra i baci il suo Tideo
scolpando vada; come Argia racconti
il furor de i custodi a la germana:
con quali strida la parrasia madre
chiami Partenopeo; Partenopeo,
1220 che serba ancor beltà nel volto esangue;
Partenopeo, cui piansero ambi i campi.
Non novello furor, novello Apollo
tante cose potria stringer cantando.
E già rotte ho le vele, e i remi stanchi,
1225 e già la nave mia domanda il porto.
Ma tu, cara Tebaide, al cui lavoro
sudai due stati sotto ’l Sirio ardente
ed altrettanti verni infra le brume
alsi e gelai, dopo la morte nostra
1230 avrai tu vita e fama? E fia che alcuno
in questo nuovo stil ti legga e onori?
Certo, so ben, tra i più sublimi ingegni,
che te videro ancora incolta e rozza,
molti vi son che me ne dan speranza.
1235 Vivi felice: e come l’altra un tempo
l’orme seguì del gran Cantor di Manto,
che innalzò al ciel con sì famosa tromba
il figliuolo d’Anchise e della Diva;
così tu ancor di nuovi fregi adorna
1240 nell’etrusca dolcissima favella
l’armi pietose e ’l Capitan rispetta;
e se ben nata su le stesse sponde,
da lungi adora il Ferrarese Omero.
E se avverrà che te l’invidia adombri,
1245 dileguerassi: e la futura etade
ti darà forse i meritati onori;
posciachè dal suo fral mio spirto sciolto,
onde partì, ritornerà fra gli astri.
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