Powered By Blogger

Welcome to Villa Speranza.

Welcome to Villa Speranza.

Search This Blog

Translate

Sunday, May 27, 2012

La "Tebaide" di Bentivoglio

Speranza Cornelio Bentivoglio d'Aragona, anche noto come Selvaggio Porpora (Ferrara, 27 marzo 1668 – Roma, 30 dicembre 1732), è stato un letterato italiano. Bentivoglio nacque a Ferrara il 27 marzo 1668. Fu parente del cardinale Guido Bentivoglio. Papa Clemente XI lo elevò alla dignità cardinalizia nel concistoro del 29 novembre 1719. Fu sua la più celebre versione poetica della Tebaide di Stazio. Morì il 30 dicembre 1732 all'età di 64 anni. -- LA TEBAIDE L’armi fraterne e con profani sdegni l’empia Tebe contesa e ’l regno alterno furor sacro a cantare il sen m’accende ma qual daremo, o Dee, principio al canto canterem forse la feroce gente forse i ratti sidonii, o d’Agenorre la dura legge, o per lo mar profondo canteremo di Cadmo i lunghi errori ma da troppo remota ed alta fonte origin prenderebbe il nostro canto se ridicesse del cultor che sparse il guerrier seme negl’infami solchi onde poi nacque fratricida messe d’uomini armati; o se ridir volesse Tebe di sette porte e d’ampie mura ornata al suon de l’anfionia cetra; o l’ira di Giunone e l’ingannata Semele accesa dal celeste foco del suo divino non creduto amante; o d’Atamante il reo furor, che scempio feo di Learco, onde ne’ flutti amari ino fuggì con Melicerta in braccio i vari casi e le tue gesta, o Cadmo, restin per or da parte; e sol di Edipo ----- EDIPO l’infame casa e mal concorde al nostro canto porga il principio e porga il fine la cetra accordo, e già le aonie schiere e lo scettro fatale a i due tiranni a cantar prendo: e de l’immonde Erinni gli odii immortali: e la discorde fiamma de i due fratelli e ’l biforcuto rogo e i Regi estinti agli avoltoi lasciati in preda: e le città di popol vuote; allor che Dirce di color sanguigno tinse l’onde cerulee, e stupì Teti e orror la prese nel veder l’Ismeno correre al mar di tante stragi onusto non più contento di sue anguste sponde ma qual fra tanti eroi, Musa, primiero a me presenti? Forse il gran Tideo ----- 40 d’implacabile sdegno? Forse il Vate di sacra fronda il crin canuto cinto, e l’immensa vorago ove fu assorto ma dove lascio Ippomedonte, solo del fiume irato contro l’onde ultrici dove il giovin d’Arcadia a guerra esposto per lui funesta? E Capaneo ben degno di più guerriera e più feroce tromba? Edipo già sè di sua man punendo ----------------- EDIPO gli occhi svelti dal capo, e condannata --- 50 la sua vergogna ad una eterna notte moría vivendo d’una lunga morte ei nei più ascosi, e al sole stesso ignoti, cupi recessi de l’infame ostello chiuso volgea ne l’agitata mente l’orrendo incesto e ’l miserabil giorno -- "l'orrendo incesto" e co i flagelli del rimorso al fianco gli eran le Furie; onde mostrando al cielo le vuote cave de la cieca fronte perpetua pena a l’infelice vita -----------60 e con le man sanguigne il suol battendo, l’orribil voce in cotai detti ei sciolse: O crudi numi de l’eterna notte, che i neri abissi e l’alme scelerate co’ supplicii reggete; e voi, stagnanti laghi di Stige, che senz’occhi ancora io veggo pure; e tu da me sovente, Tesifone, invocata, a i fieri detti porgi l’orecchio e il voto reo seconda se teco meritai, se di te degno -------------70 sono; se ne l’uscir dal matern’alvo mi raccogliesti; se l’infermo piede mi risanasti; se al bicorne giogo ed a l’onda Cirrea mi fosti scorta; (quantunque meglio io mi vivea contento di Focide nel trivio e ne la rocca di Polibo da me creduto padre); ------------- POLIBO se per te sola con quest’empia mano lo sconosciuto vecchio padre uccisi, e spiegai de la Sfinge i sensi oscuri;----- 80 se dolci furie nel materno letto per te gustai e più nefande notti, e a te i miei figli generai; se gli occhi svelsi di fronte e a l’infelice madre gittai d’avanti: or le mie preci ascolta, e accorda a me quel che per te faresti. Gli empi miei figli (e che rileva il modo?) ch’io generai, non che del padre afflitto, de l’alma luce privo e del suo regno, pietà li prenda o cura, e il suo dolore ------ 90 temprin co i detti: essi già Re nel nostro trono sedendo dispettosi a scherno han le tenebre nostre, ed hanno a sdegno le paterne querele. A questi ancora io sono in odio? E pur sel vede Giove? E pur lo soffre? Ma se a lui non cale, fanne tu almeno aspra vendetta, e passi anche a i figli de i figli il rio flagello. Cingi la chioma de l’infausto serto, che di putrido sangue ancora intriso ---- 100 rapito un tempo fu da la mia mano; ed istigata da’ paterni voti va’ tra gli empii fratelli: il ferro ostile tronchi del sangue i sacri nodi; e sia tal l’eccesso che ordisci, o dea d’Averno, ch’io sospiri d’aver lume che il vegga vieni tu quale a te conviensi, e pronti per ogni via ti seguiran gl’iniqui, nè potrai dubitar che sien miei figli.- Alzò la testa a quel parlare, e il voto --- 110 gradì l’orrida Erinne. Ella sedea sul nero margo di Cocito, e agli angui del crin lambir lasciava il flutto immondo. Non sì veloce il fulmine di Giove scende, o vapor ne l’aria acceso, come lasciò le infauste ripe. A lei davante fuggono i neri spirti, e l’ombre vane de la tiranna lor temon l’aspetto. Essa pel folto innumerabil vulgo ---- 120 de l’anime dolenti il passo affretta, e le tartaree porte a l’uscir chiuse passa veloce, ed esce all’aria pura. Sentilla il giorno, e si coprì d’orrore; Febo celò fra dense nubi il volto; Eto e Piroo fur per tornare addietro; tremonne Atlante, ed il celeste incarco fu per cader, e ne temero i numi. Da l’ima valle di Mallea l’Erinne alzossi a volo, e vêr l’iniqua Tebe 130 diritto il cammin prese: a lei men note son le strade d’Abisso; a lei men grato del Tartaro natio sembra il soggiorno: cento ceraste, de l’orrendo crine parte minore, le fann’ombra al volto: 135 gli occhi incavati ne la fronte, e accesi d’una luce ferrigna, appunto quale Cintia rosseggia al suon de’ tracii carmi: putrida tutta e di veleno infetta, che peste e sete e fame e stragi sparge 140 ne’ popoli, e più morti, ed ella sola a tutti è morte; si strascina a tergo lacero il manto, e se l’allaccia al petto con due serpenti: Atropo queste, e queste fogge Proserpina usa: ambe le mani 145 scuote; con l’una feral teda innalza, d’idre vibra con l’altra orribil sferza. Giunta che fu di Citerone in cima, e scoprì Tebe, un sì grand’urlo mise e fischiar feo l’anguicrinita fronte, 150 che ne suonâr per molte miglia i lidi ed i regni di Pelope: Parnaso ed Eurota tremâr: Eta al fragore si curvò in fianco e fu a cader vicino: e l’Istmo ancora da i propinqui mari, 155 ch’egli divide, ebbe a restar sommerso. Vide la madre Palemon per l’onde sovra un delfin gire a diporto e ratta gli diè di piglio e se lo strinse al seno. La Dea di Cadmo appena entrò nel tetto, 160 che de l’usato suo vapor maligno tutti infettò i Penati; allor s’accese ne gli ancor dubbi cor de’ rei germani il natural furor: l’invidia sorse, e l’odio dal sospetto, e la potente 165 brama d’impero; e del secondo regno gl’infidi patti, e del secondo Rege impazïente d’aspettar desio; e gelosia di restar solo in trono, e la sanguigna alfin Discordia pazza. 170 Come talor fuor de la mandra tratti l’agricoltore ad un medesmo aratro tenta accoppiar due fervidi giovenchi, cui non per anche da l’altero collo e non calloso la giogaia pende: 175 essi vanno discordi, e in varie parti traggono il peso indomiti e feroci, e confondono l’un con l’altro solco; non altrimenti la Discordia inaspra il cuor de i due germani: un solo patto 180 resta ancora fra lor, che per un anno tenga un lo scettro, e l’altro esule vada, per poi salir l’anno novello al trono; questa sola pietà fra lor rimase, questa fu del pugnar sola dimora 185 da non durar sino al secondo Rege. Non era allor di lucido metallo il regio tetto adorno: ancor dagli alti monti di Paro i prezïosi marmi non formavan colonne a l’ampie logge, 190 ove s’accoglie adulatrice turba; nè ancor la guardia de i guerrieri armati con alterne vigilie a l’alte porte custodivano i sonni del Tiranno; nè a le tazze gemmate il vin, nè a l’oro 195 commettevasi il cibo: angusto regno cagione fu de la crudel contesa. Or mentre ancor la dubbia sorte pende, chi lasciar debba le ristrette zolle di Dirce, e chi regnar nel trono infausto 200 de l’esule di Tiro, andaro in bando Onestade, Ragion, Giustizia e Fede, e di vita e di morte egual vergogna. Ah miseri fratei! Dove vi tragge cieco furor a scelerate guerre? 205 Perfidi, forse che da voi s’aspira a conquistar quanto da i lidi Eoi trascorre il sole a la marina Ibera? E ciò che obliquo mira? E fin là dove spira Borea gelato? E dove scalda 210 con i tepidi fiati il torrid’Austro? E che fareste, se raccolti in uno di Frigia e Tiro fossero i tesori? Un luogo infausto, una città crudele fur seme d’odio: de l’infame Edippo 215 con sì ree furie fu comprato il trono. Già Polinice da la sorte escluso ad Eteocle il primo onor cedea. Quale per te, crudel, fu mai quel giorno, che solo a te senza rivale al fianco 220 ligio vedesti il regno, e di già tua tutta la corte, e dal tuo solo cenno pender le leggi e ognun di te minore? Ma già comincia l’Echionia plebe a mormorar; e qual del volgo è stile, 225 odia il Rege presente, ama il futuro. Uno fra loro, cui serpeggia in seno venen d’invidia, e impazïente soffre l’esser soggetto: - Ahi queste dunque (grida) aspre vicende i crudi Fati ordiro 230 contro l’ogigia gente? A i gioghi alterni e sempre formidabili supporre il collo, ognor di nostra sorte incerti? Diviso hanno fra loro il destin nostro, e ne le mani lor la nostra sorte 235 instabile divenne: ahi dunque ogni ora un esule servir sarem costretti? E tu de i numi padre e de’ mortali, Giove, inspirasti lor sì fiera mente? Forse tal legge prescrivesti a Tebe 240 fin da quel dì che per lo mare indarno il Toro rapitor Cadmo seguendo, fondò ramingo in questi campi il regno? O le da i solchi nate empie fraterne schiere mandaro a gli ultimi nipoti 245 l’infausto augurio? Or vedi come insulta costui che in sè tutto il poter raccolse, come torvo ne guata e ne minaccia? Con quanto fasto ne conculca e preme? E costui soffrirà scender dal trono? 250 Certo più umano e più gentil sembrava l’altro fratello, e più del giusto amante. Ma che però? Egli non era solo. E noi turba minor de’ vari regi a i rei servigi sarem sempre esposti, 255 siccome nave in procelloso mare al diverso soffiar di Borea e d’Euro. O troppo incerta e intollerabil sorte de i popoli soggetti a due tiranni, che ne minaccia l’un, l’altro comanda! - 260 Di Giove intanto al riverito impero il senato de’ numi era raccolto nel centro interno del girevol Polo. Sorge quivi una reggia alta lucente, ch’è posta in mezzo, ed egualmente siede 265 tra ’l dì e la sera, e l’Aquilone e l’Ostro, donde quanto è quaggiù tutto si scopre e di terre e di mari. Egli sublime, ma placido, in sembiante, in lo stellato trono si posa, e i riverenti Dei, 270 che stangli intorno, dolcemente mira, e lor con mano di seder fa cenno. Empion le logge poi la minor turba de’ Semidei, e delle nebbie affini i fiumi, e per timor placidi e cheti 275 i venti impetuosi: al grave pondo di tanti Numi vacillâr le sfere; e lo splendor de le divine fronti tutte d’intorno feo l’auree pareti folgoreggiare di più chiara luce. 280 Ma dopo ch’egli di tacer fe’ cenno, e s’ammutì lo sbigottito mondo, parlò da l’alto (Li tremendi detti forza han di legge e gli ubbidisce il Fato.) - A voi, numi, de’ perfidi mortali 285 l’opre nefande accuso, e l’empie menti non spaventate da le furie o vinte: cotanto osan tentar lo sdegno nostro? Io sazio son di fulminar; già stanchi sono i Ciclopi nel lavoro; e manca 290 a l’eolie fucine il ferro e il fuoco. Perciò vidi, e ’l permisi, il falso auriga a traverso guidar Eto e Piroo, e da l’ardenti ruote il cielo acceso, e il mondo andar in cenere e in faville. 295 Ma tutto invano: invan col gran tridente, fratello, apristi inusitate strade a l’onde tue ne li vietati campi. Or io stesso le due di Tebe e d’Argo inique stirpi a castigar discendo, 300 sebben ambe da me l’origin hanno: tutti han d’errori l’empie menti infette. Chi di Cadmo non sa le trasformate forme e l’acerbo Fato? E dagli abissi le uscite Furie a perturbare il mondo? 305 Chi de le madri barbare i piaceri ignora? E de le selve i crudi errori? E quei (che pur sotto silenzio premo) delitti de gli dei? Non è bastante del dì la luce e della notte l’ombra 310 tutti a narrar de la profana gente gl’indegni eccessi; anzi che l’empio Erede rivolto, quasi bruto, al ventre, ond’ebbe vital respiro, sul paterno letto macchiò d’incesto l’innocente madre 315 non meritevol di cotanto oltraggio: pur ei pagò del fallo suo le pene a i Numi irati, e si privò del giorno, nè più vagheggia l’aere sereno. Ma i figli, i figli (oh sceleraggin nuova 320 e non intesa più!) del cieco padre calpestan gli occhi. Ah non andranno inulti! Sono esauditi i voti tuoi crudeli; han meritato alfin le tue tenébre Giove vendicator, vecchio infelice. 325 Involverò li due profani regni in nuove guerre: svellerò da l’imo la scelerata stirpe; il vecchio Adrasto, e ’l genero ramingo e le malvage nozze contratte sotto infausti auspici 330 de la Discordia innalzino la face. Anche a costor dovute son le pene. Nè di mente m’uscío l’ingiuria atroce de la tantalea sanguinosa mensa. - Egli qui tacque; e dentro il cuor profondo 335 d’improvviso dolor percossa e punta, così Giuno rispose: - A me tu dunque, o ingiusto Nume, fai di guerra invito? E ben sai tu di qual favore onori le rocche da i Ciclopi al cielo alzate, 340 e qual io porga aita al nobil regno, cui d’Inaco il figliuolo illustre rese. Tacciasi da me pure, e si perdoni de l’adultera vacca il buon custode prima sopito in ingannevol sonno, 345 e poscia ucciso; e la mentita pioggia, con cui di Danae ne la torre entrasti. Non ti rinfaccio le mentite forme, e gl’incogniti stupri. Io quella abborro cittade ove tu vai col proprio aspetto 350 cinto di raggi e fulmini stridenti, e con la maestà che meco giaci. Sconti Tebe i suoi falli: Argo è innocente. Ma che mai dico? Or via: Sparta e Micene, e la mia Samo atterra, e non sia luogo, 355 ove a la Diva tua germana e moglie s’offran vittime e incensi e s’ergan are. Sian più felici d’Io gli augusti tempii, e gli adori tranquillo il vasto Egitto, e di più sistri il risonante Nilo. 360 Ma se pur vuoi de gli avi più remoti ne i nipoti punir le colpe antiche; se riandando i secoli vetusti, ti si risveglia in cuor tarda vendetta; e quando porrai modo a i tuoi flagelli? 365 Quando potrai purgare tutto il mondo? E qual sì pura e non colpevol gente troverai tu che fra li padri e gli avi un reo non conti? Ma se pur desio hai di punir, mira là, dove Alfeo 370 per occulto cammin segue Aretusa: ivi gli Arcadi tuoi t’ergon altari in luoghi infausti; ivi si vede il carro d’Enomao e gli suoi crudi destrieri, degni servire a i fieri Geti e a i Traci. 375 Ivi si miran biancheggiar pe’ campi l’ossa insepolte de’ rivali uccisi. E pur ivi gradisci incensi e voti; e pur Ida nocente e la vinosa Creta ti piace, e ’l tuo mentito avello. 380 Perchè d’Argo a me invidii il bel soggiorno? Volgi altrove la guerra, e del tuo sangue pietà ti prenda: altri più iniqui regni degni vi son del Genero fatale. - Così tra supplichevole e sdegnosa 385 parlò Giunone. Impertubabilmente udilla Giove, e tal le diè risposta: - Che d’Argo tua tu la difesa prenda, già non m’è nuovo, e rivoltar altrove, quantunque giusta, l’ira mia procuri. 390 E Bacco ancora e Citerea per Tebe mi farian voti; ma timor li frena, e riverenza al mio divin volere. Io per l’onda fraterna e spaventosa giuro di Stige: terrò fermo il detto 395 e sarà irrevocabile il Destino. Or tu, messaggio mio, Cillenia prole, fendi l’aere leggero e i venti passa, e giù scendendo al tenebroso regno, al tuo gran zio la mia ambasciata esponi: 400 Laio di sangue ancor bagnato e lordo dal figlio ucciso, e per la dura legge de l’Erebo profondo ancor vagante lungo il margo di Lete, al giorno mandi, e li miei cenni al reo nipote ei porti: 405 l’esule suo fratel fatto superbo e da gli ospizi e da le nozze argive (com’è già suo desire) ei tenga escluso da Tebe, e neghi del paterno regno il vicendevol pattuito onore: 410 quinci a l’ire principio: il resto poi condurrò con cert’ordine di cose. - Ubbidì pronto il messagger celeste a i comandi del padre, e già calzati i talari e adombrati i rai del volto 415 con l’alato cappello, in mano ei prese il caduceo fatal di serpi cinto: egli con questo a suo piacer discaccia da gli occhi il sonno, e a suo piacer l’infonde: con questo aprir può le tartaree porte, 420 e vita dare e spirto a l’ombre esangui. Gittossi poscia nel freddo aer puro, e in un momento con girevol volo a l’ime parti si calò da l’alto. Ramingo intanto e de la patria in bando 425 gía Polinice per l’aonie selve, volgendo ognor ne l’agitata mente il pattuito regno e l’anno alterno, che lento a lui più de l’usato sembra. Questo pensiero il dì, questo la notte 430 gli sta fisso nel cuore, e già si finge esule il fier germano, umíle, abietto, e sè potente dominare in trono. E tanto brama un sì felice giorno, che torria seco a patteggiar la vita. 435 Ora si duol de l’intricate strade, che ritardan sua fuga; ora i reali spirti riprende, e su ’l fratel depresso salir gli sembra su l’avito soglio. L’alma agitata in dubbia speme ondeggia, 440 e in lunghi voti il suo desio consuma. Or sin che Febo tutto compia intero suo vasto giro, ei di ritrarsi agogna a’ Danai campi, d’Inaco a le rocche, od a Micene, onde già il sol fuggio; 445 Nè so ben dir se lo traesse il Fato, o ’l sospingesse pur l’immonda Erinne. Lascia gli urlisonanti antri di Ogige, e dal furor de le Baccanti sparsi di sangue i monti, e scende ove Citero 450 in lieti colli verso il mar s’appiana. Passa oltre, e di Sciron l’infame scoglio vede, e scorre a Megara, e la salubre Corinto a tergo lascia, ove si sente mugghiare il mar da due contrarie sponde. 455 Ma di già Febo il suo diurno corso finito aveva, e la triforme Dea col rugiadoso carro iva vagando per l’alto cielo, e ne piovea vapore che l’aer denso fa freddo e sottile. 460 Già su i rami gli augei, le belve in tane prendon riposo, e di già il dolce sonno molce le cure e infonde oblio de’ mali. Ma il Sol caduto infra le nubi involto, e il non purpureo rosseggiante cielo 465 non promettean sereno il nuovo giorno. S’alzan da terra atri vapori e densi, ch’alto salendo son mutati in nebbia: una tetra caligine profonda copre di Cintia il vacillante lume: 470 già già s’odon sonar l’Eolie chiostre, e un fremer rauco di spezzate nubi la tempesta minaccia. I venti in guerra, mentre il campo del cielo ognun pretende, e l’uno e l’altro incalza, e nessun cede, 475 sembran schiantare dal suo centro il mondo. Ma l’Austro più potente in maggior notte la notte involve, e turbini e procelle mesce, e la pioggia in giù versa a torrenti, che al soffiar poscia d’Aquilon gelato 480 in grandin si condensa e i campi inonda. Serpeggian per lo ciel fulmini ardenti, e spezzan l’aria spessi tuoni e lampi: scorron per tutto l’acque, e la Nemea valle n’è piena, e già ne sono molli 485 d’Arcadia i monti a le Tenarie selve vicini, e per più rivi Inaco altero già soverchia le sponde, e il suo veleno Lerna ripiglia e ne gorgoglia e freme. Argine più non v’è, non v’è riparo, 490 che de i poc’anzi polverosi fiumi possan frenar l’impetuoso corso. Volano infranti i tronchi, e del Liceo i cupi boschi, ove non entra il sole, penetra il turbo impetuoso e rio. 495 Il miser Polinice intorno mira, e vede giù precipitar da’ monti rupi infrante e torrenti: ode il fracasso de la procella, che rapisce seco svelte le case e gli uomini e gli armenti. 500 Egli tremante e del cammino ignaro, per l’ombre cieche de la buia notte il passo affretta, e lo spaventa e turba quinci il tempo crudel, quindi il germano. Così nocchier, che in procelloso mare 505 privo di Cinosura, e senza lume, non vede più dove drizzar la prora, sta fra vari timor dubbio ed incerto: teme le sirti ascose ed i palesi scogli, e ad ognora d’affondar paventa. 510 Il giovane infelice afflitto e lasso per lo più folto de le oscure selve le siepi apre col petto e le boscaglie, e col pesante scudo urta e percuote di qua, di là arbori, tronchi e massi, 515 ove albergan talor feroci belve; e lo stesso timor dà lena al piede. Pur finalmente de l’eccelsa rocca di Larissa ne i tetti alti e sublimi, che d’Inaco già fur, vede una face 520 che l’ombre scaccia e lungi spande il lume. Ei colà s’incammina, e la speranza gli mette l’ali al piede: a tergo lassa Prosina a Giuno sacra, e la palude di Lerna insigne per l’erculeo foco, 525 ed entra d’Argo ne le schiuse porte. Vede le logge del real palagio, ed ei di pioggia ancor stillante e molle vi si ricovra, e sopra il duro suolo stende le membra, e invita gli occhi al sonno. 530 Qui il buon Adrasto i popoli reggea con dolce freno ed in tranquilla pace, uomo d’anni maturo, e più di senno, per avi illustre, e che il suo sangue tragge per ambo i rivi dal supremo Giove. 535 A sua felicità mancavan solo del miglior sesso i figli, e solo a lato due figlie leggiadrissime tenea. A queste Febo con occulte ambagi strani sposi promette e fiere nozze. 540 Un setoso cinghiale a l’una e un biondo leone a l’altra; ed avverossi il detto. Questo enimma funesto il vecchio padre e del futuro Anfiarao presago invan tentan svelare: Apollo il vieta; 545 e un sì tristo pensier nel padre invecchia. Ed ecco intanto il gran Tideo scacciato di Calidonia per crudel destino, e conscio a sè de la fraterna morte, per le stesse procelle e per le stesse 550 folte selve passando, e de la pioggia tutto grondante il crin, grondante il manto, giunge ove Polinice ha preso albergo. Tosto Fortuna a i due guerrieri appresta nuovi furori, e l’uno a l’altro nega 555 sotto un tetto comun prender riposo. Brevi fur le minacce; e tosto accesi d’ira steser le braccia, e disarmati a nuda guerra s’accozzaro insieme. Era grande il Tebano, e in ferma etade; 560 ma Tideo di coraggio a lui non cede, e il suo vigor per tutt’i membri sparso dentro il piccolo corpo era maggiore. Qual su i monti Rifei cadon frequenti e grandini e saette: i due rivali 565 spesseggian le percosse, e fanno al volto od a le cave tempia ingiuria e danno; incurvan le ginocchia, e a lotta stretti si premono a vicenda il petto e ’l fianco. Siccome allor che terminato il lustro 570 rinnova Olimpo i sacri giuochi a Giove, di nobile sudor sparsa è l’arena, e i vari applausi a i giovanetti eroi accrescon forza ne l’amico agone, e aspettan fuori il vincitor le madri; 575 così ne l’ira pronti, e non già mossi da bel desio d’onor, guastansi ’l viso con mani adunche, e non rispettan gli occhi; e forse il ferro avriano preso, e forse tu, Polinice, con men ampio fato 580 cadevi, e t’avria pianto anche il fratello: se non che Adrasto, a cui la molta etade, e più le cure fanno lieve il sonno, ode il fragor de le percosse, e i gridi tratti da l’imo petto, e non usati 585 ne i taciti silenzi de la notte: e ratto corre; esce da l’alte porte, e lo precedon cento faci accese; ma poi che giunge ov’è il conflitto, e vede, orribil vista! i lacerati volti 590 di sangue intrisi: - E qual furor vi mena, o giovani stranieri, a fiera pugna? (dice) perchè so ben che nel mio regno uom sì ardito non fora. E qual sì atroce d’odio cagion de la tranquilla notte 595 turba i riposi? È forse angusto il giorno? Di placida quïete un sol momento invidiate a voi stessi, e un breve sonno? Dite, chi siete? Onde venite? Quali son vostre risse? Le magnanim’ire 600 e le ferite che in voi scorgo impresse segno mi son di chiaro alto lignaggio. - Ed essi allora con turbate voci ed occhi biechi l’un l’altro mirando, così dissero a gara: - O degli Argivi 605 buon re, tu stesso vedi il sangue sparso; a che ce ’l chiedi? - Indi Tideo ripiglia: - Io per sollievo d’infelice colpa lasciata ho Calidonia, e le superbe ricchezze avite, e i campi d’Acheloo: 610 ne i confin vostri tenebrosa notte e procellosa mi sorprende; or quale ha diritto costui nel real tetto, onde mi vieti il necessario albergo? Forse perchè vi giunse egli primiero? 615 I biformi Centauri un sol soggiorno accoglie, ed Etna gli orridi Ciclopi. Hanno le loro leggi anco le fiere: noi non avrem comune il duro suolo? Ma che più tardo? Or tu, chiunque sei, 620 o te n’andrai de le mie spoglie altero, o se il valore antico in me non langue per novello dolor, vedrai ben tosto ch’io son del grand’Eneo degno rampollo, e merto aver fra gli avi miei Gradivo. - 625 - Nè a noi manca valore e chiaro sangue - replica l’altro: ma vergogna il frena, e non ardisce nominare il padre. Allor Adrasto: - La crudel contesa, che l’errore notturno e un improvviso 630 siasi sdegno o valor in voi destaro, deh cessi omai, e ne’ miei tetti entrando datevi d’amistà le destre in pegno. Forse non senza de gli dei mistero questo n’avvenne, e del vicino amore 635 forieri sono gli odii vostri: grato forse vi fia ciò rammentare un giorno. - Sì disse Adrasto, e fu del ver presago; perocchè dopo la crudel tenzone tale nacque tra lor santa amistade, 640 quanta fra Teseo audace e Piritoo, quanta fu mai fra Pilade ed Oreste. Essi allor tranquillando a poco a poco l’alma commossa al suon de’ regii detti, entrâr nel gran palagio. In cotal guisa 645 dopo l’aspra procella il mare accheta l’onde sconvolte, e non però del tutto si tace il vento ne le aperte vele. Or quivi Adrasto attentamente osserva degli ospiti l’aspetto, e l’armi e i manti: 650 vede il tebano entro la spoglia involto di fier leone, a cui dal collo pende l’incolta giuba, da l’erculeo braccio ucciso già ne la Teumessia Tempe: di questo Alcide era vestito, quando 655 il Cleoneo maggior leone estinse. Ma Tideo intorno avea del setoloso aspro cinghial, di Calidonia onore, l’irsuto pelo e le ritorte zanne. Stupisce il vecchio, e nel pensier rivolge 660 il grande augurio, e intende già gli oscuri oracoli di Febo, e de le grotte le risposte fatidiche e veraci. Tien gli occhi a terra fissi, e gli ricerca un lieto orrore le midolla e l’ossa. 665 Conosce ei ben ch’ivi guidollo il Nume, e che son questi i generi promessi sotto il velame de’ ferini volti: allora al cielo alza le mani, e dice: - Notte, che de’ mortali e de’ Celesti 670 le cure abbracci, e teco in giro meni per diverso cammin gli astri splendenti; che dài ristoro a gli animali lassi, fino che il nuovo Sol li desti a l’opre; tu, sacra Notte, volontaria sciogli 675 gli occulti enimmi, e da la dubbia mente mi discacci il timor, riveli il fato; tu a l’opra assisti, e il lieto auspicio avvera. Quantunque volte si rinnovi l’anno, avrai ne le mie case altari e voti: 680 noi t’offriremo nere agnelle e tori scelti dal miglior gregge, e le lustrali viscere avrà Vulcan di latte asperse. Salve, o de’ sacri tripodi e del cieco antro d’Apollo non fallace fede; 685 e tu salve, o Fortuna, che de’ Numi ci discopristi l’infallibil mente. - Tace; e i guerrieri per la man prendendo, con lor s’inoltra nel più interno albergo. Fumavan ivi ancora in su gli altari, 690 da le tepide ceneri coperti, il sacro fuoco e i libamenti sacri. Ordina il re che nuova fiamma splenda, e si preparin nuove cene: pronti accorrono i ministri, e ne rimbomba 695 di vario suono la sublime reggia. Altri portan purpurei aurei tappeti, e n’adornano i letti: altri le mense copron co’ bianchi lini: altri le faci accendon su le pendole lumiere: 700 chi de le uccise vittime le carni ne lo spiedo rivolge, e chi sul desco la macerata cerere dispensa. Ferve ne l’opra la real famiglia. Sel mira Adrasto, e nel suo cuor ne gode; 705 ed egli intanto in su l’eburneo scanno, di ricchi strati adorno, alto s’assise: i giovani stranier, lavate e monde pria le lor piaghe, gli sedeano a fronte: si rimirano in viso, e de le impresse 710 ferite han duolo, e l’un perdona a l’altro. Allora il Re la vecchia e fida Aceste, de le figlie nutrice, a cui la cura n’era commessa e le serbava intatte a i maturi e legittimi imenei, 715 fatta chiamare, ne l’attenta orecchia basso le parla: ella ubbidisce a i detti: ed ecco uscir da le segrete celle le due vergini eccelse, appunto quali (se ne togli il terror) l’egidarmata 720 Palla e la faretrata alta Diana. Ma come vider de i garzon stranieri i nuovi aspetti, con alterni moti di pallor, di rossor tinser le gote; poi gli occhi vergognosi al padre alzando, 725 ivi li tenner sempre immoti e fissi. Intanto vari e prezïosi cibi scacciata avean la fame; allor di Jaso il successore l’aureo nappo chiede tutto d’istorie variato e sculto, 730 con cui solean libare a’ sacri Dei e Danao e Foroneo; da un lato v’era un cavalier sopra destriero alato, che tenea in man le serpentine chiome e il teschio di Medusa: alto ei rassembra 735 levarsi a volo, e ch’essa gli occhi gravi per morte e il volto ancor spirante muova, e il suo pallore anche ne l’oro serba. Da l’altro il Frigio cacciator si vede da l’aquila rapito, e sotto lui 740 Ida s’abbassa, e s’allontana Troia: restan mesti gli amici, e i fidi cani invan latrangli dietro e mordon l’ombra. Ei questo nappo ridondante e colmo di vino in parte versa, i numi invoca; 745 ma Febo in prima; e Febo, Febo intuona la famiglia regal: ciascuno in mano tien la pudica fronda amata tanto dal Nume, a cui sacro è quel giorno, e a cui fuman l’are e gl’incensi. Adrasto allora: 750 - Forse in voi sorge natural desio, giovani, di saper del sacro rito gli alti misteri, e qual cagion ne muova a fare in questo giorno a Febo onore? Non sono a caso i sacrifizi: un tempo 755 il popol d’Argo da gran strage oppresso or questi voti scioglie, e udite come. Poich’ebbe Apollo il gran Pitone ucciso, orribil mostro de la Terra figlio, che co’ suoi tortuosi ampli volumi 760 Delfo tenea ben sette volte cinta, e le piante seccava e i verdi campi col pestifero fiato e con le squamme, tutta vuotando in lui la sua faretra; mentr’ei stendeva nel Castalio rivo 765 il lungo collo e la trisulca lingua, per rinnovar con l’onda il suo veleno, e dopo morto infin de la gran mole stesi gl’immensi avviticchiati giri, di Cirra ricoprì ben cento campi: 770 pria di tornare infra i celesti numi volle espiar quaggiù l’uccisa fiera, e ne i poveri tetti ebbe l’asilo del re Crotopo. Avea questi una figlia giovane e bella di natia bellezza, 775 de i Penati custode, e riserbata a legittime nozze intatta e pura. Felice lei, se del Signor di Delo fuggiva i furti e i clandestini amori! Ma poi che il nume ebbe sofferto, errante 780 lungo il fiume Nemeo (già Cintia avendo ben dieci volte rinnovato il corno) un vezzoso bambino in luce diede; e perchè teme l’implacabil ira del genitor, che il vïolato letto 785 non lascerebbe invendicato, ascosi luoghi ricerca, e in villereccio albergo il caro parto ad un pastore affida. Sventurato fanciul! già non son queste degne del sangue tuo cune reali: 790 tu su l’erba t’adagi, e te ricetta di virgulti e di canne un tetto umíle: tu fra cortecce d’arbori rivolto scaldi le membra: rustica zampogna a te concilia il sonno, e con gli armenti 795 hai comune il soggiorno ed il terreno: e questo ancora t’invidiaro i fati! Perchè, mentr’egli abbandonato e solo sopra verde cespuglio un dì giacea, vivo e tremante il divoraro i cani. 800 Ma non sì tostò a l’infelice madre giunse l’avviso reo, che da sè scaccia ogni vergogna e ’l genitor non teme, e scinta il seno e lacerata il crine, d’urli e di strida i regii tetti empiendo, 805 corre, e il suo fallo al crudo padre accusa: ei da pietà non mosso, a fiera morte, e bramata da lei, tosto l’invia. Ma sebben tardi, a te tornaro in mente i dolci amplessi e la trafitta amante, 810 Febo: però non gli lasciasti inulti. Un mostro orrendo d’Acheronte in fondo da le Furie concetto a noi mandasti. Aveva di donzella il volto e ’l petto, ma bieco il guardo, e le partiva il crine 815 una rabbiosa e sibilante serpe. Or questa peste fra i notturni orrori penetrava le case, e da le culle e dal sen de le vigili nudrici tutti traeva i teneri bambini; 820 e pascendo di lor l’ingorda fame, si satollava de i paterni pianti. Ma il prode in armi e di gran cuor Corebo, fatta di scelti giovani una schiera, vie più d’onore che di vita amanti, 825 più non volle soffrir l’iniquo mostro. Andonne in traccia, e ritrovollo appunto infra due porte d’infelici case dond’era uscito: gli pendean dal fianco due pargoletti, e già le adunche mani 830 ne le viscere d’uno, e i crudi artigli immersi aveva, e ne strappava il cuore. Lo vede, vibra l’asta e gli dà morte; e la piaga allargando e le interiora squarciando, il mostro suo rende a l’inferno. 835 Stupiscon gli altri: e poichè un colpo solo finì l’impresa, prendonsi diletto di rimirar le impallidite luci, e l’immonda pinguedine del ventre, e le viscere orrende e già nudrite 840 de’ nostri figli: già l’Argiva plebe accorre, la rimira, e ancor ne teme, e il nuovo gaudio di pallore è misto. Alfin fatta sicura, altri ne squarcia le scelerate membra a brano a brano: 845 chi l’orribile ceffo e le mascelle, chi l’ampie zanne con i sassi infrange; nè può vendetta sazïar lo sdegno. Da quel sozzo cadavere insepolto fuggîr notturni augelli; e i cani e i lupi 850 s’allontanâr dal velenoso pasto. Ma quando credevam de i lunghi pianti rasciugar gli occhi: ecco che Febo a sdegno presa la morte de la Furia ultrice, dal bicorne Parnaso in noi saetta 855 col crudel arco avvelenati strali. Sorge un vapor maligno, e i campi adugge: una nebbia ferale in cieca notte tutt’Argo involve, e la ritien coperta. Mancan l’alme infelici, e a Stige scendono. 860 Non sì veloce il mietitor recide le spiche, e non sì presto il foco stende in secca stoppia la vorace fiamma, com’empia Morte miete a cento, a mille le vite, e insegne vincitrici spiega. 865 Già scorre la cittade; e vinta e doma tutta la manda in sacrificio a Pluto. Infin l’afflitto re ricorre al tempio, e da l’Autor de’ nostri mali chiede del male la cagion; perchè n’offenda 870 l’aere infetto, e perchè Sirio in cielo oltre l’usato tiranneggi l’anno? Ma il crudo nume una crudel risposta ne dà: che tosto sien mandati a morte quei che la sozza bestia aveano uccisa. 875 O di Corebo invitto animo altero, d’eterno onor, d’immortal fama degno! Non già l’armi nascondi, e non t’infingi, nè ricusi per noi l’estremo fato. Vittima volontaria egli sen corre, 880 e del gran tempio in su la soglia giunto osa il nume irritar co’ detti acerbi: "Nè da altrui mosso, nè a cercar perdono io vengo, o Febo, a i tuoi tremendi altari: me la mia coscïenza, me il valore, 885 me la pietà qui manda: io son colui che la tua Furia uccisi; quella, iniquo, che con l’atre nubi e con gli oscuri giorni, e con l’aria infetta e colla peste, e col lutto comun vendicar tenti: 890 che se lassù fra gl’immortali Numi in tanto pregio son le belve e i mostri, che la morte de gli uomini rassembri recare al mondo minor danno; e quale Argo v’ha colpa? Me, me, giusto Nume, 895 questo mio capo tue vendette adempia. Che giova a te de le deserte case mirare i tetti e le campagne inculte? e gli estinti cultori arder su i roghi? Ma perchè tardo più col parlar mio 900 la tua vendetta? Aspettan già le madri, e già m’onoran degli estremi pianti. Su dunque il dardo scocca, e a Lete manda quest’alma eccelsa che morir non pave; ma da le rocche d’Inaco discaccia, 905 benigno Febo, il velenoso influsso". Sempre arrise fortuna a gran valore. Placossi Febo; serenossi il cielo; cessò l’acerba strage, ed ei tornossi tra gli applausi comuni e i lieti gridi, 910 qual vincitor ne le paterne case. Quindi è che noi, dopo il girare intero de l’anno, a Febo in questo dì solenne rinnoviam queste cene e i nostri voti. E forse ancor qui voi guidò la fama, 915 per star con noi del sacrifizio a parte; sebben tu mi dicesti, e mi sovviene, ch’eri figliuol del Calidonio Eneo e successor del Partaonio regno. Ma tu donde a noi vieni? (Il tempo e il luogo 920 agio ne dan di favellar.) Rivela qual sia la patria, il genitore, il nome. Arrossì Polinice, e il volto a terra chinando, riguardò come di furto l’emulo generoso, ed a la fine, 925 dopo molto pensar, così rispose: - Non chiedermi, o buon Re, fra tanti onori sacri a’ superni Dei, quale il mio nome, qual sia la patria o il genitor, chè ponno del santo rito funestar la pompa. 930 Ma se pur vuoi che l’onte mie palesi, io nato son ne la guerriera Tebe: da Cadmo ho il sangue, e madre m’è Giocasta. Allora il re de l’ospite a pietade mosso: - A che celi a noi le cose note? 935 (disse) dunque in Micene e in Argo solo non si sapranno del Tebano regno gli error, le furie e le accecate fronti? Già ne vola la fama, ovunque splende il Sole, e dov’ei nasce e dove more, 940 e sotto i sette gelidi Trioni, e là di Libia ne le aduste arene. Cessin le tue querele, e l’opre inique de’ tuoi maggiori non recarti a scorno. Anche tra i nostri alcun peccò, nè a noi, 945 nè al sangue nostro il fallir lor s’ascrive. Cancella tu con generose geste le colpe altrui, e te di gloria adorna. Ma già il timon abbassa, e langue e manca il pigro auriga de la gelid’Orsa: 950 Su su, ministri, rinnovate i fuochi, e il vin su vi spargete, e i nostri canti lodino ’l biondo dio, che a gli avi nostri (sua gran mercè) diede salute e vita. "Febo, o sia che di Licia ora pe’ i monti 955 cacci le fiere, e Patareo t’appelli; o che Timbreo ne li Troiani campi abbi soggiorno, ove li Frigi ingrati la promessa mercede a te negaro; o che in Castalia lungo il dolce rivo 960 ti sieda a l’ombra de’ tuoi sacri allori; o più ti piaccia la materna Cinto, che il vasto Egeo co’ suoi gran monti adombra, l’angusta Delo tua posta in oblio: tu l’arco porti, e contro gli empi scocchi 965 le divine infallibili saette: a te diè Giove aver fresche e vermiglie ognor le gote e sempre biondo il crine: a te fu dato antiveder quai stami sia per troncar l’inesorabil Parca, 970 del futuro presago; a te di Giove nota è la mente e l’immutabil fato; tu qual anno fia sterile o fecondo; tu sai qual ne sovrasti o pace o guerra; tu quai regni minaccin le comete; 975 tu vinci con la tua sonora cetra Marsia nel canto; e tu lo leghi e scuoi; Tizio per te di Stige ingombra i campi; e de la madre tua vendichi l’onta; tu il fier Pitone uccidi, e la tremante 980 Niobe de i parti suoi orbata rendi: per te Megera inesorabil tiene Flegia digiuno a sozze mense assiso: tu benigno ci guarda, e tu difendi questo a te già sì caro ospite albergo, 985 e questo di Giunon divoto regno, o che tu Osiri esser chiamato brami, o di Titano più ti piaccia il nome, quali sul Nilo e in Achemenia prendi, o quel di Mitra (c’hai ne’ Persi regni) 990 che il bue restio per le gran corna afferra". Il veloce di Maia alato figlio tornava intanto da le gelid’ombre, eseguito di Giove il gran decreto. Fangli ritardo al piè, ritardo al volo 5 le dense nubi e ’l torbid’aer fosco; nè lo portano i Zeffiri volanti, ma di quel muto ciel l’aura maligna: gli attraversan le strade i fiumi ardenti, e Stige rea, che nove campi cinge. 10 Lo siegue con infermo e tardo passo la pallida di Laio ombra tremante: dal ferro parricida egli ancor porta trafitto il petto, ed altamente impresso lo primo sdegno de le Furie ultrici; 15 pur va, ed appoggia a debil legno il fianco. Ne stupiscono l’ombre, e i boschi e i campi d’Inferno; e il suol, che s’apre e fuor li manda, d’essersi aperto meraviglia prende. Ma il livor, che in se stesso i denti volge, 20 turba gli spirti ancor privi di luce, e del suo rio velen tutti gl’infetta: ed un fra gli altri, cui vivendo increbbe de l’altrui bene e s’allegrò ne’ mali, nè può patir che Laio ora sen torni 25 a vagheggiar la luce, i sensi amari del cuor palesa con maligni accenti. - Oh te felice, a qualunque opra eletta, alma, che torni al chiaro aer sereno! O così Giove il voglia, o te rimeni 30 Tesifone crudele infra i mortali, o te richiami da l’oscuro avello Tessala maga con la bocca immonda. Tu pur vedrai del sole e de le stelle la vaga luce, e i verdeggianti campi, 35 e i puri fonti e i cristallini fiumi: tanto misera più, quanto fra noi hai da tornar ne le ciec’ombre eterne. - Sentilli intanto Cerbero, e rizzossi, e le tre bocche aprendo e le tre gole 40 orrende, mandò fuori urli e latrati. Già prima ancora minacciando stava l’alme scendenti a le tartaree porte; ma con la fatal verga in Lete immersa toccollo il Nume, e de le orrende fronti 45 in grave sonno le sei luci chiuse. È un monte ne l’Inachia, ove s’estolle il capo di Malea, Tenaro detto, sublime sì che non vi giunge il guardo: alza la fronte al cielo, e ognor sereno 50 mira sotto di sè le nebbie, e sprezza e la grandine e i turbini sonori. Le risplendenti stelle e i venti lassi su lui prendon riposo e fan soggiorno: giunger ben ponno a la metà del monte 55 le oscure nubi, ma a l’eccelso giogo salir non può presto volar di penne, nè i rauchi tuoni o le saette ardenti: ma là, dove l’Egeo gli bagna il piede, curva in arco gli scogli, e un porto forma. 60 Ivi quando a la sera il dì s’appressa, e del monte nel mar l’ombra è maggiore, scende Nettun dal carro, e i destrier scioglie. Hanno i destrier la fronte e il largo petto qual hanno i nostri, e il deretano è pesce. 65 In cotal luogo antica fama suona, che s’apra obliqua e tenebrosa via, per cui le pallid’ombre e il vulgo esangue scendon dolenti a le tartaree porte, il regno a popolar del nero Giove. 70 E se diam fede agli arcadi coloni, suonan per molte miglia i campi intorno d’urli e di pianti e di stridor di denti. Sovente udite fur nel pieno giorno le voci de l’Eumenidi spietate, 75 e le sferze e i flagelli, ed i latrati del Can trifauce; onde lasciaro inculti gli sbigottiti agricoltori i solchi. Per questa strada il messaggero alato tra la densa caligine ritorna 80 al chiaro giorno, e giù dal crin scotendo l’infernal nebbia, il puro aer respira. Indi alto va su le cittadi e i campi verso l’Arturo, ed in quell’ora appunto che a mezzo del cammin Cintia risplende. 85 Il Sonno intanto de la Notte il carro guidava e i destrier foschi; e com’ei vide il nume, alzossi ed onorollo, e torse dal cammin dritto, a lui cedendo il passo. Vola più sotto del Tebano l’ombra, 90 e rivagheggia le perdute stelle, il patrio cielo e il suo terren natio. E già di Cirra trapassati i gioghi e Focida di Laio ancor aspersa del fresco sangue, erano giunti a Tebe. 95 Fremè l’ombra superba in su le soglie de’ patrii Lari, e fu a l’entrar restia: ma poich’entrato, le sue spoglie vide pender da le colonne, e il carro, ov’egli ucciso fu, tutto sanguigno e lordo, 100 poco mancò che non volgesse il piede, non curato di Giove il sommo impero, e ’l gran poter del caduceo fatale. Ricorreva in quel tempo il dì festivo segnato già dal fulmine di Giove, 105 allor che Bacco non maturo ancora fu dal materno incenerito seno tratto, e riposto nel paterno fianco a terminar di nove lune il corso. Perciò passata avean l’intera notte 110 senza dormire i popoli feroci che vennero da Tiro, e in feste e in giuochi sparsi pe’ i tetti e per li verdi campi, cinti d’edera il crine, e di già vuote le tazze e i vasi del miglior Lieo, 115 gían esalando su la nuova luce da l’anelante petto il Dio giocondo. S’udian per tutto rimbombare i vuoti bossi, e di bronzo i timpani sonanti: e il Nume, il Nume stesso iva cacciando 120 le non feroci donne in su ’l Citero, le mani armate d’innocenti tirsi. Siccome là sul Rodope gelato i crudi Traci a fier convito uniti di semivive carni e de le prede 125 tratte di bocca de’ leoni ingordi, pascon la dura fame; e il puro latte condisce in parte il sanguinoso pasto, e di lor mense è sol delizia e lusso; se del teban liquor senton a caso 130 l’odore e il gusto, di furor accesi lanciansi e tazze e vasi, e alfin le pietre, e poi di sangue ancor stillanti e molli tornano a desco a rinnovar le feste: Tal fu la notte ch’entro Tebe giunse 135 l’ombra sdegnosa e ’l messaggero alato. Invisibili entrâr per l’aria cheta, ove il signor de l’echionia plebe alto giacea sovra i tappeti assiri d’oro e porpora intesti. Oh de’ mortali 140 de l’avvenir non consapevol mente! Ei le mense ha dinanzi, e dorme e posa, e ’l suo destino ignora. Allora l’Ombra s’accinge a l’opra; e per celar le larve l’oscuro volto di Tiresia finge 145 e ’l parlar noto; ma il canuto crine, e la sua lunga barba e il suo pallore veri ritiene: l’infula, le bende d’oliva intorte son sembianze vane, ed è vana la voce; e pur ei sembra, 150 che la man stenda, e con la sacra verga gli tocchi ’l petto, e il suo destin gli scopra. - Tu dormi, o Re? Ma non è questo il tempo di riposar su l’ozïose piume, senza sospetto aver del tuo germano. 155 Gran nembo ti sovrasta, e gravi cure te richiaman dal sonno; e neghittoso ten stai, come nocchier che ’n mar turbato, commosso intorno da rabbiosi venti, lasci ’l timone, e s’addormenti e posi? 160 Ma già non dorme il tuo fratel, superbo per nuove nozze; e (come fama suona) genti accoglie e soccorsi, ed a te il regno, per non renderlo poi, ritoglier pensa, ed invecchiar ne la natia sua corte. 165 La dote d’Argo e ’l suocero fatale gli aggiungon forza; e seco unito è in lega Tideo macchiato del fraterno sangue. Giove, di te mosso a pietà, da l’alto a te mi manda: Egli per me t’impone 170 che ’l germano crudel, che te dal regno escluder tenta, tu dal regno escluda, e renda vani i suoi pensier funesti, e ’l desio c’ha de la fraterna morte. Tu non soffrir che ad Argo ed a Micene 175 serva divenga la guerriera Tebe. - Disse; e perchè già la novella luce a l’Inferno il respinge, il finto aspetto lascia, e del crin le simulate bende spoglia, e al nipote manifesta l’avo: 180 poi sovra il letto se gli stende, e aperta mostra l’immensa piaga, e lui, che dorme, del sangue, che non ha, tutto ricopre. Quegli allor lascia il sonno, e in terra sbalza da l’alto letto pien di larve e mostri, 185 e ’l vano sangue da sè scuote, e sente orror de l’avo, e già ’l fratel ricerca. Come de’ cacciatori al corso e al grido la tigre arruffa la macchiata pelle, apre le irate fauci, e l’unghie spiega 190 e a battaglia s’appresta: indi si lancia nel folto stuolo, e vivo uno ne prende, ed alto il porta a satollar la fame de’ crudi figli: in cotal guisa acceso d’ira Eteócle incrudelisce e sbuffa, 195 e col fratello in suo pensier guerreggia. Ma già lasciando di Titone il letto sorgea l’Aurora, e dileguava intorno l’umid’ombre notturne, e da le chiome giù stillava rugiade, e rosseggiante 200 era, ed accesa dal vicino Sole. Dinanzi a lei Lucifero il destriero in tarda fuga volge, e tardi spegne la vaga face, e ’l ciel non suo le cede, perfin che Febo, il gran signor de’ lumi, 205 rischiari il mondo e la germana oscuri. A lo spuntar del dì lascian le piume il vecchio Adrasto ed il teban guerriero e ’l calidonio eroe. Dopo la pugna e l’orrida procella aveva il sonno 210 da tutto il corno su gli eroi stranieri versata a piena man l’onda letea. Ma l’Inachio signor, che in mente ha fissi gli augurii e i Numi e ’l nuovo ospizio, e pensa qual sia il destin de’ generi fatali, 215 breve goduta avea pace e riposo. Giunti che furo del real palagio ne la gran sala, si toccâr le destre. Allora Adrasto in più rimota parte, ove soleva i più segreti e gravi 220 affar del regno consultar, guidolli, e assisi in cerchio, agli ospiti sospesi, e che pendean da lui, tai detti sciolse: - Certo non senza de gli Dei mistero, giovani eccelsi, vi guidò la notte 225 entro a’ miei regni, e ’l procelloso nembo e i fulmini di Giove. Apollo istesso, Apollo a i tetti miei drizzovvi il passo. A voi, cred’io, come a la greca gente è noto già con quanti studi e voti 230 stuolo d’illustri Proci a me le nozze chiedano de le figlie. (A me due figlie crescon sotto felice ed ugual stella de’ futuri nipoti unica speme). Quale modestia in lor, qual sia beltade, 235 voi vel vedeste; non si creda al padre. Queste cercano a prova i Regi invitti grandi per armi e per impero. Io taccio i Proceri Laconi e i Foronei, e quante madri le bramâr per nuore: 240 non il tuo Eneo tanti sprezzò mariti a la sua figlia, nè il pisan crudele tanti ne uccise co i cavai veloci. Ma d’Elide o di Sparta il Fato nega che i generi io mi scelga; e a voi destina 245 con lung’ordin di cose il sangue mio, le dolci figlie, e questo trono e il regno. Sien grazie a i Numi: io pur vi veggio quali per stirpe e per valore a me conviene, e fur lieti gli augurii: a tanto onore 250 i procellosi nembi vi guidaro, e questa è al sangue vostro alta mercede. - Qui tacque Adrasto; e si miraro in viso i guerrier, quasi l’uno a l’altro voglia ceder de la risposta il primo onore. 255 Ma Tideo impazïente alfin proruppe: - O quanto parcamente a noi favelli, buon re, de le tue lodi! O quanto vinci con la virtù la tua fortuna! Adrasto a chi cede d’impero? Ed a chi ignoto 260 è omai che tu dal tuo primiero soglio di Sicïon fosti chiamato, i rozzi costumi a raddolcir de’ fieri Argivi? Ed oh così in tua man Giove ponesse quanto l’Istmo riserra, e quanto abbraccia 265 di qua, di là con due diversi mari! Non fuggirebbe da Micene il sole, per non veder le scelerate mense; nè gemerebbe la campagna elea sotto i sanguigni carri; e l’empie Dire 270 non turberian più regni: e ben lo prova or Polinice, e a gran ragion sen duole. Noi accettiamo il dono, e tu disponi, buon Re, di noi, chè ne fia legge il cenno. Così diss’egli; ed il Teban soggiunse: 275 - E chi può ricusar suocero Adrasto? Noi, quantunque l’esilio a noi men grata Venere renda, in te posiam le cure, e le sgombriamo da gli afflitti petti, il dolor nostro convertendo in gioia. 280 Così nocchier respira e si rallegra, che scopre il lido amico e il vicin porto. Or giovi a noi sotto i tuoi fausti auspicii in tua corte passar quanto ne avanza di vita, e in te ripor le nostre sorti. - 285 Sorsero allora, e s’abbracciaro: Adrasto rinnovò i giuramenti e le promesse di ricondurli ne i paterni regni. Tutt’Argo è in festa, e da per tutto il grido si sparge de i due generi novelli; 290 che a l’uno Argia, a l’altro il Re destina Deifile non men vaga e vezzosa, già mature a i legitimi imenei. La Fama intanto ne divulga il suono per le cittadi amiche, e per li regni 295 e prossimi e rimoti, oltre le selve di Licia e di Partenia, e là ne i campi de l’ondosa Corinto, e infin penétra la Dea maligna ne l’Ogigia Tebe, e di sè tutta la riempie intorno. 300 Narra gli ospizi, i giuramenti, i patti, le nuove nozze, e ciò che vide in sogno il Re conferma, e la commuove e turba. Chi tanta libertà, tanto furore concesse a questo mostro? Ei già la guerra 305 minaccia, e di discordia alza la face. Ma già risplende in Argo il dì festivo destinato a le nozze: i regii tetti s’empion di lieta e festeggiante turba. Bello è il veder le immagini de gli avi 310 spirar ne i bronzi tanto al ver simíli, che l’arte reca a la natura oltraggio. Inaco re con le due corna in fronte mirasi in fianco riposar su l’urna; seguono appresso lui Jaso canuto, 315 e Foroneo legislatore, e il forte guerriero Abante; e Acrisio ancor sdegnoso d’aver genero Giove; e ’l buon Corebo col ferro in pugno, de la fiera uccisa alto portando il formidabil teschio; 320 e la torva di Danao austera immago, che sta pensosa ancor sul gran delitto; poscia mill’altri Regi. Intanto accorre il vulgo, e tutto il gran palagio inonda. Ma i senator ne i gradi lor distinti, 325 chi presso e chi lontano al Re fan cerchio. Dentro risuonan le più interne celle di femminil tumulto, e a’ sacri altari ardon gl’incensi, e porgon voti a i Numi. Fanno d’intorno a le reali spose 330 casta corona le matrone argive; e alcuna de le vergini pudiche rassicura il timore, e le dispone a le leggi e a i dover de l’imeneo. Esse sen vanno e d’abito e d’aspetto 335 ragguardevoli in vista e maestose, di modesto rossor tinte le gote, con gli occhi a terra chini; e sol le turba di lor verginità l’ultimo amore, e del loro pudor la prima colpa. 340 Scendon da’ vaghi lumi alcune stille, quasi rugiada ad irrigarne i seni. Il genitor sel vede, e sen compiace. Tali scendon talor Palla e Diana dal cielo insieme ambe di dardi armate, 345 ambe in volto feroci, i biondi crini dietro del capo in vago nodo attorti: l’una da Cinto, d’Aracinto l’altra guida le vaghe sue leggiadre Ninfe; se tu le miri (se mirarle lice), 350 non sai quale più onori, o quale appaia più vaga, o qual sia più di grazie adorna; e se tra lor con egual cambio l’armi volessero mutar, ben converrebbe a Palla la faretra, a Cintia l’elmo. 355 Intanto il popol d’Argo in ogni tempio, ciascun secondo il suo potere, a i Numi fan sacrifici: altri di grassi tori, altri d’agnelle, altri di puro incenso; nè son graditi men, s’è il cor divoto. 360 Quand’ecco strano e subito spavento (così volea la Parca) il lieto giorno turba, e tutto d’orror riempie il padre. Givan al tempio le due vaghe spose, fra lieta turba e mille faci ardenti, 365 de la casta Minerva, a cui Larissa più grata è assai de’ suoi Munichii colli. Ivi solean le verginelle argive, destinate a le nozze, a la gran Dea le primizie libar de i vaghi crini, 370 e scusa far de’ talami novelli. Ora mentre salian lieti e festivi per gli alti gradi al tempio, il grave scudo de l’arcadico Evippo al tetto appeso giù d’improvviso rovinando cadde, 375 e le faci e le tede e il sacro fuoco del tutto spense; e rauco suon di tromba da i sotterranei uscì, che di spavento d’empier finì gli sbigottiti Argivi. Tutti guardano il Re, che non dà segno 380 di tema; allor l’adulatrice turba nega d’avere il tristo augurio udito, ma lo riserba in mente, e sen discorre per tutto, ed il terror cresce parlando. Ma che stupor? Se dal tuo collo pende 385 il fatale d’Harmonia empio monile, dono del tuo consorte, o bella Argia? Lungo, ma noto è l’ordine de’ mali de l’infausto monile, e pur mi giova tutta narrarne la dolente istoria. 390 Dacchè Vulcan ne la nascosa rete prese l’infida sposa e ’l fiero drudo, nè però vide a sè cessar lo scorno, nè le insidie di Marte; ei si dispose in sembianza di dono a far vendetta 395 ne l’innocente lor misera figlia. Impiegò tosto nel feral lavoro i suoi Ciclopi e i tre Telchini infami, ed ei più d’altri faticò ne l’opra: ei v’inserì molti smeraldi ardenti 400 d’occulta luce, e più diamanti impressi d’immagini funeste, e del Gorgone gli occhi maligni, e il cener su l’incude avanzato de i fulmini celesti, e de i dragon le squamme, e l’oro infausto 405 de i pomi de l’Esperidi e del vello del reo monton di Frisso, e varie pesti, e del crin di Megera il maggior serpe, e del venereo cinto il reo potere; e con l’umide spume a Cintia prese 410 temprò il fatal monile, e lo cosperse tutto d’allegro micidial veneno. Non fur presenti Pasitea gentile, nè le minor sorelle, nè il diletto, nè l’Idalio fanciullo: il lutto, l’ira, 415 il dolor, la discordia a l’opra infame porsero aiuto, e n’affrettaro il fine. Prima fu Harmonia a risentirne il danno, chè il serpeggiante suo vecchio marito per gl’Illirici campi or va seguendo 420 mutata in biscia, e sibilando duolsi. Semele poi se n’era ornata appena, che venne a lei l’insidïosa Giuno. Questa in sembianza d’ôr lucida peste te pur fregiò, Giocasta: ed a qual letto, 425 misera! A quali nozze? Indi molt’altre ne provaro il veleno: ora nel petto splende d’Argia, che col monile infausto de la germana il parco culto eccede. Ma del Vate, da’ Fati omai richiesto, 430 l’avara moglie il vide, e in lei destossi tosto l’invidia, ed un’ardente brama di possedere l’esecrabil oro. Che giova a lei l’aver comune il letto con l’argivo indovino? Oh quante stragi! 435 Oh quanti lutti a sè prepara! Degni inver di lei; ma l’innocente sposo in che peccò? Qual v’hanno colpa i figli? Poichè dodici volte ebbe fugate dal ciel le stelle la vermiglia Aurora, 440 a le reali feste ed a i conviti fu posto fine. Polinice allora volse il pensiero a l’anfionie mura, e al patrio regno. A lui ritorna in mente il dì che la Fortuna alzò il fratello 445 a l’echionio trono, ed ei rimase privato e in odio a’ Numi, e con la sorte vide fuggirsi i poco fidi amici. Sol la minor sorella in su l’estreme soglie seguillo ed abbracciollo; ed egli 450 per soverchio furor rattenne il pianto. Or l’infelice in suo pensier rivolge, o spunti in cielo il sole, o ’l dì s’imbruni, quali del suo partir restâr giulivi, e quai dolenti, e l’alterigia e il fasto 455 del superbo germano: il cuor gli rode vendetta e sdegno, e de’ più rei tormenti il maggior, la speranza e lunga e incerta. Da tai cure agitato, egli risolve tornar (segua che puote) a la natia 460 Dirce e a i Beozi campi, e su l’avito trono di Cadmo, che il fratel gli nega. Siccome toro, che guidò l’armento gran tempo, dal rival vinto e fugato lungi dal natio pasco e da l’amata 465 giovenca, mugge dal profondo petto, e disdegnoso sprezza il fonte e l’erba; se le piaghe risana, e il muscoloso petto rinfranca, e il vigor nuovo acquista, torna superbo a miglior pugna accinto 470 al prato antico ed al primiero amore; sparge col piè l’arena, arruota il corno; lo teme il vincitor; restan confusi, e ’l riconoscon i bifolchi appena: non altrimenti il giovane tebano 475 medita nel suo cuor l’alta vendetta. Ma ben s’avvide la pudica moglie, qual ei volgesse in sè consiglio occulto; e in mezzo a i casti mattutini amplessi tra mille baci, a lui piangendo disse: 480 - Quali moti, Signor? Che fuga è questa che ordisci? Non s’inganna accorta amante: i sospiri, i lamenti e gl’inquïeti sonni i disegni tuoi mi fan palesi. O quante volte, o quante io le man stendo, 485 e sento il cuore palpitarti in petto, ed il viso talor di pianto molle! A me non preme l’ancor fresca fede di nostre nozze, nè che tu mi lasci vedova e sola in giovanetta etade; 490 quantunque è in me d’Amor viva la face, e ’l nostro letto non ben caldo ancora; a me, dolce mio sposo, a me sol preme la tua salvezza. E disarmato e solo tu dunque andrai ne’ tuoi paterni regni? 495 E se ’l fratel li nega? ed in qual modo fuggirai tu da la tua Ogigia Tebe? Ahi che la Fama, che più i Regi osserva, narra di lui quant’è superbo e altiero per l’usurpato soglio, e (non ancora 500 finito l’anno) contro te crudele. Io temo e tremo, e accrescono il terrore le fatidiche voci, e le interiora de le vittime infauste e i Numi irati, e il volo de gli augelli e i tristi sogni; 505 ah che giammai non m’ingannaro i sogni, qualor Giuno m’apparve! E dove corri, misero? Se pur te segreto amore e un suocero miglior non chiama a Tebe! - Sorrise allora il giovane Tebano 510 del van sospetto de la cara moglie, e se la strinse al seno, e con più baci tempronne il duolo e rasciugonne il pianto. - Deh sgombra, anima mia, sgombra il timore (disse), e confida: a’ giusti voti i Numi 515 saran propizi, e a le dolenti notti succederà più d’una lieta aurora. L’alte cure di Stato a la tua etade non convengono ancora: il sommo Giove sa qual fine si debba a giusta impresa, 520 se Astrea pur è lassuso, e s’ei riguarda quaggiù le cose e vuol che ’l dritto vinca. Verrà (o ch’io spero) il fortunato giorno che salirai col tuo consorte in trono, e andrai di due città donna e regina. - 525 Qui tacque, e abbandonò le amiche piume: poi con Tideo s’unì, de le sue pene e de le cure sue fido compagno: (cotanto amor dopo la pugna e ’l sangue era nato fra lor), e al vecchio Adrasto 530 chiese dolente il già promesso aiuto. Ei raduna il senato, e dopo molti e diversi pareri, alfine sembra il partito miglior che alcun si mandi, che ’l pattuito vicendevol regno 535 ad Eteocle chieda, e tenti prima le pacifiche vie del suo ritorno. Così conchiuso, il Calidonio audace sè stesso offrì: ma quanto duolo, ahi quanto, Etolo eroe, la tua fedel consorte, 540 Deifile gentil, del tuo partire risente! E che non fece, e che non disse? Quanto pianse e pregò per ritenerti? Ma del padre il voler, ma la pietade de la germana e ’l dritto de le genti 545 che i messaggi assicura, alfin la vinse. Part’egli intanto, e già passato avea aspri cammin per cupe selve e colli, là dove ferve la lernea palude co’ venefici flutti, ancor fumante 550 per gli arsi capi da l’erculeo braccio; e dove in la nemea valle non s’ode de’ timidi pastor voce, nè canto; indi era giunto a le corintie spiagge esposte al soffio orïental de’ venti; 555 ed al porto di Sisifo; e là dove il Lecheo palemonio il mare affrena. Poscia a Niso si volge, e alla sinistra lasciando Eleusi a Cerere diletta, ei calca infine di Teumesia i campi, 560 e pone il piè ne l’Agenorea rocca. Vede Eteócle in alto trono assiso dar legge a Tebe oltre il confin de l’anno, e del regno non suo, ma del fratello: torvo d’aspetto, che ben mostra fuori 565 l’animo aver ad ogni colpa pronto. E appunto ei si ridea che così tardi se gli chiedesse il patto. Allor fermossi Tideo nel mezzo: il ramuscel d’oliva, ch’ei porta in mano, messagger lo scopre. 570 Chiesto poscia del nome e qual cagione ivi lo meni, il tutto fa palese; e come rozzo nel parlar e a l’ira pronto e disposto, la sua giusta inchiesta mischiò in tal guisa con parole amare. 575 - Se in te regnasse fede, e se de’ patti cura prendessi, al tuo fratel ramingo tu dovevi mandar, finito l’anno, ambasciatori e richiamarlo al trono, e con pronto voler, con cuore invitto 580 lasciar la tua fortuna e ’l non tuo regno, tanto che anch’egli da’ suoi lunghi errori per ignote cittadi e da’ disastri ne la promessa sua corte respiri. Ma già che tanto in te può amor d’impero 585 e di comando, che l’altrui ritieni, noi te ’l chiediamo: ha già trascorso il Sole per tutti i segni, da che i duri casi del tristo esilio il tuo fratel sopporta. Or tempo è bene che tu ancora impari 590 andartene ramingo al caldo, al gelo ne l’altrui case a mendicar l’albergo. Pon modo, poni a la tua sorte: assai, ricco d’oro e di gemme e d’ostro adorno, del tuo fratel la povertà schernisti. 595 Il piacer di regnar scordati alquanto; soffri l’esilio, e sofferendo degno ti renderai di ritornar sul trono. - Sì disse: e ’l Re già torbido inquïeto ardea nel cuore di furore e sdegno. 600 Siccome serpe, cui per lunga sete crebbe il velen ne le natie latebre, da tutti i membri lo raccoglie al collo e a la trisulca lingua; indi si lancia contro il pastor, che lo ferì col sasso. 605 Così Eteócle tumido ed altiero diede a i feroci detti aspra risposta: - Certo se l’odio, se ’l furor, se l’ira dubbi fossero a me del mio germano, e non ne avessi manifesti segni, 610 l’altiero tuo parlar ne faria fede. Così al vivo l’esprimi e ne minacci con rabbia tal, come se fosser svelte da’ fondamenti le anfionie mura, e tutta andasse Tebe a ferro e a fuoco. 615 Se a’ feroci Bistonii ed a’ gelati Sciti lontani dal cammin del Sole messaggero tu fosti, in più discreti modi so ben che parleresti, e fiero non calcheresti de le genti il dritto. 620 Ma perchè te accusar? Tu del fratello porti le furie e ’l reo mandato esponi. Or perchè tutto hai di minacce pieno, nè con modi pacifici richiedi il regno e i patti, al mio fratello argivo 625 tale in mio nome porterai risposta: "Quello scettro, che a me la sorte e gli anni hanno concesso, giustamente io tengo, nè lascerollo. Te l’inachia dote, te di Danao i tesor rendan contento; 630 (già non invidio la tua gloria e ’l fasto) tu reggi pure con felici auspicii ed Argo e Lerna: a me l’orride zolle bastan di Dirce, e di Beozia i campi pochi e ristretti da l’euboico mare, 635 nè mi vergogno Edippo aver per padre. Te Tantalo, te Pelope, te Giove, cui più t’accosti, fanno illustre e chiaro. Come potrà la tua Regina, avvezza a lo splendor paterno, a queste case 640 povere e anguste accostumare il guardo, cui le nostre germane umili e abiette già fatte ancelle fileran le lane? Come soffrir potrà la sconsolata suocera antica? E da le sue caverne 645 se urlar sentirà il padre, ahi quale orrore, quale dispetto non ne avrà? Già il vulgo, già i nobili e ’l senato al giogo nostro avvezzi sono, e ne son paghi. Io dunque, io non ne avrò pietà? Soffrir degg’io 650 che mutino ad ognor principe e leggi? Troppo a i popoli è duro un breve regno, e offrir gli omaggi a incognito tiranno. Mira tu stesso qual li prende orrore, e sdegno e tema del periglio nostro: 655 e questi io darò a te, per farne scempio? Or fa’ ch’io ’l voglia: nol vorranno i Padri, (se la lor fede, se l’onor m’è noto), la plebe nol vorrà". - Qui impazïente Tideo interruppe: - Il renderai malgrado, 660 il renderai; non se di ferreo vallo tu ti circondi, o l’anfionia cetra formi triplice muro a Tebe intorno; non le faci, non l’armi il tuo castigo impediranno; e moribondo e vinto 665 al suol percuoterai la regia fronte. E tu a ragion... Ma di costor, crudele, mi duol, che a guisa di giumenti e schiavi tratti dal sen de le consorti afflitte lungi da’ figli, a certa morte mandi. 670 O quante stragi porterà il Citero! Di quanto sangue correrà l’Ismeno! Questa è la tua pietà? Questa è la fede? Ma che stupor, se de l’iniqua schiatta fu crudele l’autore, e incestuoso 675 il padre? Benchè il sangue in Polinice falla, e tu solo de l’infame Edippo sei degno figlio; e patirai le pene tu solo ancor. Noi ti chiediamo il patto, e l’anno nostro. Ma che bado? - Allora 680 fin da l’estreme soglie minacciando urta, ed apre la turba, e irato parte. Così ’l fiero cinghial, che da l’irata Diana offesa a desolar fu spinto d’Oeneo i campi, al suon de l’armi greche 685 arruffò il pelo, e con l’acute zanne rivoltò i sassi e lacerò le piante che su le ripe a l’Acheloo fann’ombra; indi Piritoo e Telamon ferio, poscia pugnò con Meleagro, a cui 690 restò la gloria de l’uccisa belva: tale, e più fiero il calidonio eroe lascia il concilio, e furibondo freme, come se a sè, non al cognato, il regno negato fosse; e ’l ramuscel d’oliva, 695 segno di pace, da sè lungi scaglia. Miranlo d’alto le dolenti spose e le pallide madri, e contro lui fanno orribili voti e contro il rege, che negò ’l giusto e se lo fe’ nemico. 700 Ma il malvagio tiranno, a cui non manca arte e sapere in ordir frodi e inganni, de’ più forti guerrieri e a lui più fidi scelta una schiera, con promesse e doni al tradimento li dispone e compra, 705 e prepara a Tideo notturno assalto; nè al sacro nome d’orator, nè al sacro diritto de le genti omai pon mente. Empio furor di regno, e che non osi? O se dato a costui fosse il fratello, 710 qual ne farebbe scempio? O de l’inique menti ciechi consigli! O da’ delitti non mai disgiunte diffidenza e tema! Ecco come costui contro d’un solo non altrimenti tanta gente aduna, 715 che se ad un campo egli movesse assalto, o col frequente urtar degli arïeti d’assediata città battesse il muro. Escon costoro, e son cinquanta insieme fuor de le porte: o glorioso, o prode 720 guerrier, contro cui sol muovon tant’armi! E vanno per angusta e breve via di spine cinta attraversando il bosco, per assalire al passo il gran campione. Sonvi due colli a la città vicini, 725 cui li monti maggior fann’ombra eterna, cinti d’intorno da un’opaca selva, da’ quali s’esce per angusto calle. È naturale il sito; e pur ei sembra da l’arte fatto ad occultar gli agguati. 730 S’apre per mezzo a’ sassi un piccol varco e disastroso, che conduce a l’erto e periglioso passo: indi i soggetti campi miransi intorno, e valli e fiumi. Sorge a l’incontro la tremenda rupe 735 albergo de la Sfinge: in su quel sasso stava già un tempo la terribil belva pallida il volto e macilente, e gli occhi lividi e torvi, con le immonde penne di sangue intrise, e con le fiere labbia 740 iva lambendo i lacerati avanzi de’ passaggeri uccisi; intanto il guardo girava intorno ad ispiar se alcuno colà salisse, e temerario osasse contender seco a sviluppar gli enimmi: 745 tosto aguzzava i fieri denti, e l’ugne spiegava, e dibattendo i pigri vanni, gli si lanciava al viso, e de la rupe col capo in giù lo fea cader da l’alto. Fur felici gl’inganni, insin ch’Edippo 750 giunse, e spiegò l’ambagi: allora il mostro tristo e confuso, senza batter ali, precipitò se stesso; e ’l fiero ventre, e le viscere infami infrante e sparse andaro per le rocce e pe’ i burroni. 755 Conserva ancor contaminato il bosco l’orror del mostro, e da que’ paschi infami vanno lungi le gregge: a la nocente ombra non vengon mai Fauni o Silvani, nè le Driadi vezzose; ed i rapaci 760 augelli e i fieri lupi il volo e il passo (tal li prende terror) volgono altrove. In questo luogo l’insidiosa turba riserbata a morir s’appiatta, e cinge di guardie il bosco, ed appoggiata a l’aste 765 l’etolo eroe stassi attendendo al varco. Di già Febo è sparito, e già la notte stende l’umido velo e il mondo adombra. Ed ecco ei s’avvicina, e da eminente luogo e di Cintia al vacillante raggio 770 scorge da lungi balenar gli scudi tra ramo e ramo de le turme ostili, e su i cimieri tremolar le piume. Vede, stupisce, e non però s’arretra; ma colla mano il brando tenta, e poi 775 due dardi impugna, e minaccioso grida: - Chi siete voi, guerrier, chè vi celate? - Nissun risponde: ond’ei vie più sospetta che avrà dura al passaggio aspra contesa. Quand’ecco intanto dal robusto braccio 780 di Cromio, condottier de la masnada, vibrata un’asta fende l’aria a volo; ma i Numi e ’l Fato fur contrari al colpo: fora però la setolosa pelle de l’olenio cinghiale, ond’ei si copre, 785 e l’omero sinistro a lui radendo, gli striscia il collo e passa il ferro asciutto. Arruffò il crine allor l’etolo eroe, e tutto se gli strinse il sangue al core: rivolge intorno il guardo e ’l fer sembiante 790 pallido per lo sdegno; e appena crede che contro un sol stieno tant’armi ascose. - Uscite (grida) a campo aperto, uscite, appiattati guerrier, ch’io non m’ascondo. A me, a me vi rivolgete: e quale 795 timore vi raffrena? Oh che viltade! Io solo, io sol tutti vi sfido a guerra. - Rupper gl’indugi al suon de’ detti audaci i tebani guerrieri, e d’ogni parte uscîr d’agguato in numeroso stuolo, 800 maggior di quello ch’ei pensò, da l’alto correndo a lui e da la bassa valle. Così cingon talor di reti e d’aste i cacciatori le feroci belve; e par che al peso di tant’armi e al lume 805 tutt’arda e tremi quella selva antica. Vede Tideo che a sua difesa giova guardar le spalle, e de la Sfinge al sasso sen corre, e benchè sia scosceso ed erto, tanto s’appiglia con le adunche mani 810 a scaglie e a greppi, che a la fin v’ascende. Giunto ch’egli è de l’alta rupe in cima, ne svelse un rozzo e smisurato sasso pesante sì, che strascinarlo appena due affannati giovenchi a collo steso 815 potrian d’un edifizio al gran lavoro. Poi tutte le sue forze in un raccolte l’alza da terra, e lo sospende e libra; indi lo scaglia. Così Folo appunto contro i Lapiti rei lanciò il gran vaso. 820 Mira in aria il gran monte, e ne stupisce l’iniqua turba, che va incontro a morte, e oppressa ne rimane: i visi, i petti, le forti braccia, e in un l’armi e gli armati restano infranti, stritolati e misti. 825 Quattro fur quei che da la grave mole distrutti furo, e non d’ignobil gente; onde gli altri smarriti andaro in fuga. Dorila il primo fu che per valore si pareggiava a’ Regi; indi Terone 830 fiero per gli avi suoi, ch’egli traeva da’ denti del dragon già sacro a Marte; il terzo domatore de’ destrieri, bench’or pedestre muoia, Alì feroce. Tu pur da Penteo discendente, in ira 835 e in odio a Bacco, o Fedimo, cadesti. Poichè li vede in fuga, egli i due dardi, che tiene in man, lor dietro vibra, e poi balza dal monte a più vicina guerra. Vede lo scudo di Teron, che ’l sasso 840 avea lungi da lui fatto cadere, e l’imbraccia e ’l solleva, e contro i dardi e contro l’aste si ricopre, ed usa de l’ostile riparo in sua difesa; indi fermossi: i masnadieri allora, 845 che lo scorsero al pian, voltâr la fronte, e contro lui mosser serrati insieme. Egli trae fuori il formidabil brando, dono di Marte al suo gran padre Eneo, e d’ogni parte mira, e questi assale, 850 e quei respinge, e col fulmineo ferro l’aste recide e le saette ostili. La densa turba s’impedisce, e s’ode elmo con elmo urtar, scudo con scudo: sono vani i loro sforzi, e ben sovente 855 per troppa fretta l’un l’altro ferisce, e l’un su l’altro cade. Egli sta immoto, angusto segno a cotant’armi, e sembra inespugnabil rocca o quercia alpestre. Quale il gran Briareo di tutto il cielo 860 sostenne in Flegra la potenza e l’armi, quando Febo con strali, e col Gorgone Pallade, e Marte col bistonio cerro gli stavan contro, e Sterope era stanco in apprestar tante saette a Giove; 865 da tante forze combattuto e cinto, ei si dolea che fosser pigri i Numi: con non minor furor Tideo combatte, ed or s’avanza, or si ritira, e sempre con lo scudo si copre, e i tremolanti 870 dardi ne svelle, e contro chi lanciolli irato li rimanda, e di già il sangue gli esce da non mortali e lievi piaghe. Deiloco e Fegea, che con la scure già l’assaliva, uccide e a Lete manda; 875 e appresso a questi d’Echion disceso Licofroonte, e il fiero Gía dirceo. Rimirano i fellon la loro schiera scema de’ miglior capi, e in essi il fiero desio di pugna già languisce e manca. 880 Ma Cromio, che da Cadmo il sangue tragge, avanza il passo: (Driope fenice a lui fu madre, e n’avea l’alvo grave, quando ne’ giuochi sacri a Bacco avendo per l’ardue corna un fiero toro preso, 885 nel gran contrasto il partorì immaturo). Fiero ei pe’ dardi, e per la spoglia altero d’un leon, ch’egli avea poc’anzi ucciso, ruotando in giro una nodosa clava, alto gli altri rampogna: - Adunque un solo 890 uom da tant’armi e tanti armati cinto tornerà in Argo vincitore? Appena si troverà chi ’l creda. Ah miei compagni, ove sono le destre, ove il valore? ove le spade e l’aste? È questo quello, 895 Lampo e Cidon, che promettemmo al Rege? - Mentr’ei così minaccia, ecco uno strale che ne le fauci ’l coglie, e per la gola gorgoglia il suono, e gl’impedisce il sangue che di fuor esca. Egli tardò a cadere 900 sinchè, la morte in tutt’i membri sparsa, vie più l’asta mordendo, ei cadde al suolo. Ma già non lascio voi, di Tespio figli, senza il dovuto onor. Perifa il primo, mentre con man pietosa il moribondo 905 fratel sostiene (mai pietà maggiore, nè un’indole miglior de’ due germani fu vista al mondo) e ’l già languente collo; e mentre co’ sospir preme l’usbergo, e l’elmo inonda col dirotto pianto, 910 ecco al fianco gli giunge il crudo cerro de l’etolo campione, e lo conficca al fratel moribondo: ambi cadéro, e l’ultimo ferito al di già estinto germano affissa gli occhi, e con la fioca 915 voce che ancor gli avanza, a Tideo dice: - Tali a te diano abbracciamenti e baci, o barbaro guerriero, i figli tuoi. - Così giacquero entrambi: o dura sorte! Nacquer, visser, moriro uniti insieme. 920 Non bada sopra lor Tideo, ma l’asta ricovra, e con la stessa e con lo scudo Menete fuggitivo incalza e preme: fugg’egli, ma fuggendo inciampa e cade. Allor le mani stende, e mercè grida, 925 e l’asta impugna, e quanto può, dal collo la tien lontana, e in cotai detti prega: - Deh, per queste stellate ombre, per questa tua glorïosa notte e per i Numi perdona a me, tanto che a Tebe vada, 930 a predicare del tuo invitto braccio l’eccelse prove, del tiranno ad onta. Così sian sempre rintuzzate e vane contro te le nostr’armi, ed il tuo petto impenetrabil resti a’ colpi nostri, 935 e al fido amico trionfante rieda. - Tacque; e Tideo, senza mutar sembiante: - Che piangi? (disse) e perchè preghi invano? Tu pur giurasti al fier tiranno, iniquo, questo mio capo: or lascia l’armi, e muori. 940 A che mercare con viltà la vita? Restan stragi maggiori. - E così detto il ferro immerge a lui nel collo, e passa, e insulta a’ vinti con acerbi motti: - Questa non è la sacra al vostro Nume 945 triennal notte; nè guidate in giro gli Orgii di Cadmo, nè ’l furor materno profana quivi i sacrifici a Bacco. Forse vi credevate, ebbri e festosi, cinti d’edera il crine e ’l petto armato 950 del vile cuoio de le belve imbelli, al molle suon di cornamuse e flauti guidar le vostre fanciullesche guerre d’uomini forti indegne? Altr’armi, altr’ire fan d’uopo qui. Gite a portar sotterra, 955 o pochi, o vili, il vostro scorno e l’onta. - Così minaccia; ma le forze intanto mancando vanno, e l’agitato sangue affanna il core; e ’n vani colpi il braccio s’aggira, e sotto gli vacilla il piede: 960 lo scudo grave per tant’armi e rotto più non può sostener: da l’anelante petto distilla un gelido sudore; e tutto è intriso il crin, le mani e ’l volto del tetro sangue de’ nemici uccisi. 965 Qual massile leon, che posti in fuga i guardïani de l’imbelle armento, a quel s’avventa furibondo e altero, e se n’empie le fauci e ’l ventre ingordo: saziata infine la sua ingorda fame, 970 l’ira depone, e le mascelle invano battendo, fra i cadaveri passeggia, e la strage contempla e lambe il sangue: così ancora Tideo di stragi carco, ito sarebbe a Tebe, e al fier tiranno 975 e a l’atterrita plebe il suo trionfo mostrato avrebbe; ma frenò l’ardire e ’l fiero core del gran fatto gonfio la sempre amica a lui Tritonia Dea. - O del grand’Eneo generoso figlio, 980 (diss’ella) a cui già promettiamo in Tebe maggior trionfo, a le felici imprese pon modo omai, nè più tentare i Numi fin qui propizi: a la grand’opra manca sol questo, che tu in Argo ora ritorni 985 sicuro e pago di tua lieta sorte. - Restava vivo sol tra tanti estinti l’emonide Meone: egli del cielo conoscea i moti e degli augelli il volo, e ’l fiero caso avea predetto al Rege, 990 da lui schernito e non creduto: il Fato gli fe’ negar la fede. A l’infelice dona l’odiata vita il gran Tideo, e un crudel patto a lui tremante impone: - O qualunque tu sia, che fra costoro 995 tolto di mano agl’Infernali Dei, rivedrai pure la vicina luce, al tuo spergiuro Re questo dirai: "Rinforza omai le porte, e rinnovella l’armi e raddoppia gli ordini e le schiere, 1000 e Tebe cingi di più forte vallo. Questo campo fumar mira nel sangue de’ tuoi guerrieri da un sol brando uccisi: tali in battaglia ti verrem noi sopra". Ciò detto, a te, sacra Tritonia Dea, 1005 de le acquistate spoglie alto sublime trofeo prepara, e le raccoglie e lieto le porta, e va contando i suoi trionfi. Sovra eminente bica, a’ campi in mezzo posta un’antica annosa quercia sorge 1010 di dura scorza e di frondosi rami, che stende l’ombra largamente intorno. A questa appende l’etolo guerriero gli elmi leggeri ed i forati arnesi, e l’aste e i brandi tronchi; indi su quelle 1015 alto si ferma e su i nemici uccisi, ed apre il varco a la preghiera; al voto eco fanno la notte e i boschi e i monti. - Guerriera Dea, Genio ed onor del padre, cui di terror leggiadro adorna il volto 1020 l’elmo lucente, e ’l fier Gorgone impugni; di cui Bellona e ’l furibondo Marte spingon men fieri a guerreggiar le schiere; tu grata accogli il sacrificio e ’l voto. O ch’or tu venga a rimirar la nostra 1025 pugna da la città di Pandïone; o ne l’aonia Itome ora tu meni danze e carole con le ninfe amiche; o che tu lungo il libico Tritone le sterili giumente al corso affretti: 1030 noi a te i busti de’ guerrieri uccisi sacriamo, e l’armi e le sanguigne spoglie. Ma se avverrà che dal mio duro esilio ritorni un giorno al partaonio regno e a Pleurone guerriera, io ti prometto 1035 nel mezzo a la cittade alzarti un tempio, ricco di scelti marmi e di molt’oro. Quindi grato fia mirar da l’alto L’Ionio procelloso, e l’Acheloo fender il mare, e con la rapid’onda 1040 de l’Echinadi opposte urtar ne’ lidi. Ivi saran degli avi miei le imprese scolpite, e i venerabili sembianti de’ magnanimi Regi: a l’alto tetto staranno appese l’armi, e aggiungerovvi 1045 le spoglie opime che col sangue sparso ho conquistate, e quelle che di Tebe tu mi prometti, o tutelar mio Nume. Ivi a te serviran ben cento e cento d’attico culto vergini pudiche, 1050 che t’arderan le caste faci e ’l puro liquore de la pianta a te diletta. Una sacerdotessa antica e grave conserverà perpetuo il sacro fuoco e terrà occulti i tuoi pudichi arcani. 1055 A te sia in guerra, a te sia in pace, sempre le primizie offrirò d’ogni mio fatto; nè i voti nostri invidierà Diana. - Disse, e ad Argo tornò su l’orme prime. Ma ’l fier tiranno de l’aonia corte, de l’inquïeta notte entro gli orrori, sebben ancor molto di spazio avanzi infra l’umide stelle e la vermiglia 5 Aurora, gli occhi suoi non chiude al sonno. Gli tengon l’alma perturbata e desta l’ordite frodi, e le noiose cure gli anticipan la pena; indi ’l timore, augure infausto de’ vicini danni, 10 gli sconvolge la mente. - E donde mai (dice) tanta dimora? - Egli si crede a tant’armi Tideo facile impresa, nè col valore il numero compensa. - Forse mutò cammin? Forse a lui venne 15 soccorso d’Argo? O le vicine genti mosse la fama del crudel mio fatto? O furon pochi, o padre Marte, e imbelli quei, ch’io scelsi, guerrieri? E pur fra loro v’eran Dorila e Cromio, e i due robusti 20 figli di Tespio a torri eccelse eguali, che basterebber soli a sveller Argo. Già non mi sembra che di bronzo il petto o le braccia di ferro avesse, quando altiero a me sen venne, ond’egli possa 25 essere impenetrabile a tant’armi. O miei vili guerrier, se non valete con tante forze ad atterrare un solo! - Così torbido ondeggia in gran tempesta di contrari pensieri, ed or si duole 30 che di sua man non gli trafisse il petto a la scoperta in mezzo a’ suoi baroni, quando orator gli richiedeva il regno; ed or si pente, e n’ha rimorso, e brama de l’orribil misfatto esser digiuno. 35 Qual calabro nocchier, che ’l mar tranquillo mirando, e balenar d’olenia stella, sciolse dal lido, e ne l’Ionio mare volse la prora, se improvviso sente fremere in alto la procella, e il mondo 40 quasi schiantarsi da’ suoi Poli, e ’l cielo dal torbido Orïon scosso e tremante; esser vorrebbe a terra, e forza ed arte usa per ritornar onde partio; ma gliel contende impetuoso Noto; 45 ond’egli allora s’abbandona e geme, e si dà in preda a’ ciechi flutti insani: tal l’agenoreo Re rinfaccia e sgrida Lucifero di pigro e l’alma Aurora. Ed ecco intanto a lo sparir de l’ombre 50 e al tramontar de gli astri, allora quando Teti affretta ad uscir dal mare Eoo Febo ancor sonnacchioso: ecco dal centro predire i mali, e vacillare il suolo. Scosso Citero mandò giù le nevi: 55 parvero alzarsi i tetti, e i monti e ’l piano tutto intorno scoprir da sette porte. Nè lungi è la cagion: sul mattutino gelo torna Meon sdegnoso e mesto che gl’invidiasse il fato orrevol morte. 60 Non bene ancor si riconosce al volto, ma sospirando e percuotendo il petto, d’immense stragi dà sicuri pegni. Già pianto avea, ma ’l suo dolore estremo gli avea su gli occhi rasciugati i pianti. 65 Così pastor esce dal bosco afflitto, ove la pioggia e ’l procelloso nembo disperse il gregge, e ’l lasciò in preda a’ lupi: scopre il giorno la strage: al suo signore non osa egli portar l’annunzio infausto; 70 e ’l crin sparge d’arena, e di lamenti tutta intorno suonar fa la foresta: odia ’l silenzio de le vuote stalle, e stride, i tori suoi chiamando a nome. Le madri intanto e le dolenti spose, 75 che su le porte aspettano il ritorno de’ mariti e de’ figli, e ’l vedon mesto solo tornar, senza i compagni al fianco, e i magnanimi duci, alzano il grido: siccome avvien, quand’entran vincitrici 80 in ostile città le armate schiere; o come suol la disperata ciurma nel punto che la nave in mar s’affonda. Ma come prima ei giunge al fier cospetto del tiranno odïato: - Ecco ti dona 85 (grida) il fiero Tideo questa infelice anima sola di cotanta schiera; o ciò disposto abbiano i numi o il caso, o che ’l valor (benchè malgrado il dico) de l’invitto campion potuto ha tanto. 90 Io ’l vidi, io ’l narro, e pur lo credo appena: tutti per la sua man giacciono estinti. Voi che girate in ciel, astri notturni, voi pallid’ombre de’ compagni uccisi, e tu che mi conduci, augurio infausto, 95 voi chiamo in testimon, che ’l mio crudele perdono non mercai con un vil pianto; nè con la fuga, o con la frode ottenni di prolungare senza onore i giorni. Ma tal de’ Numi era il decreto, e tale 100 era il voler de l’immutabil Parca, nè ’l mio fatal momento era ancor giunto. E perchè veda ognun che de la vita a me non cale, e non pavento morte, tiranno, ascolta i miei veraci detti: 105 tu, iniquo, tu, per conculcar le leggi ed usurpar de l’esule fratello l’alterno trono, i tuoi guerrier mandasti sotto auspici infelici a guerra infame: te assorderan continuo e gli urli e i pianti 110 de le vedove afflitte e de’ pupilli di tante case per tua colpa estinte; a te s’aggireran con tetre larve cinquant’ombre sdegnose ognor d’intorno, ch’io già le seguo e il lor numero adempio. - 115 Mentr’ei ragiona, in Eteócle ferve l’ira, e ’l dimostra fuor l’acceso volto; e già Labdaco e Flegia, a cui commessa è la cura de l’armi, impetuosi contro ’l saggio indovin stringevan l’aste: 120 ma quegli il brando tratto, ora il tiranno, ed ora il ferro minaccioso guarda; e, - Addietro, (grida) in me ragione alcuna non hai, crudele; e questo sangue e questo petto, che Tideo rispettò, non mai 125 a te fia dato di ferir. Io vado a morte lieto, il mio destin seguendo, e de’ compagni miei m’unisco a l’ombre. Tu resta a’ numi irati e al tuo fratello. - Tal parlava Meon, quando gettossi 130 sulla spada di fianco insino a l’elsa, e morío con la voce infra le labbia contrastando al dolore, ed a vicenda versando or da la bocca, or da la piaga l’irato sangue ne’ singulti estremi. 135 A sì fiero spettacolo ed atroce tutti intorno restâr stupidi e muti. Ei benchè morto ancor in volto serba le feroci minacce e le giust’ire. Intanto lui la sua consorte e i cari 140 parenti, lieti invan del suo ritorno, riportano dolenti in su ’l ferétro. Ma ’l reo tiranno ne la mente volge nuovo furor, e al busto esangue nega l’onor del rogo, e imperïoso vieta 145 a l’ombra non curante il freddo avello. Saggio indovin, che co’ tuoi fatti egregi e con la tua virtude hai vinto e domo il cieco oblio, che del crudel tiranno sprezzasti l’ire, e francheggiasti al vero 150 e libero parlar sì larga strada; quali potrò trovar voci ne’ carmi, che adeguin la tua gloria e le tue lodi? Non a te invano i suoi celesti arcani Febo dischiuse, e ’l crin cinse d’allori. 155 Per lo tuo fato resteranno mute le fatidiche piante di Dodona, e alla vergin cirrea negherà Apollo presagir del futuro i vari casi. Vanne felice pur, anima grande, 160 lungi dal nero Averno a’ fortunati Elisii campi, ove ognor splende il sole, ove non entrò mai ombra tebana, nè giunge d’Eteócle il crudo impero. Ei giace intanto sovra ’l duro suolo 165 a cielo aperto, e non v’è augello o fiera rapace sì, che di toccarlo ardisca: tanta esce maestà dal morto aspetto! Ma le vedove afflitte e gli orbi figli, e i padri e gli avi da l’ogigie porte 170 escono a gara, e per cammini alpestri e disastrosi forsennati vanno ciascuno a ricercare il proprio pianto, e li segue d’amici immensa turba. Molti han desio di rimirar l’impresa 175 d’un braccio solo, e d’una notte l’opra. Bagnan la via di lagrime, e di strida suonan d’intorno le campagne e i monti. Ma come giunti furo afflitti e lassi al sasso infame e a la crudel foresta, 180 rinforzâr gli urli e ’l batter palma a palma, e da più larga vena usciro i pianti. Alzano tutti a un tempo un fiero strido, ed a l’aspetto de l’orribil strage la turba di furor smania e s’accende. 185 Assiste a gl’infelici il Lutto atroce, squallido il volto e lacerato il manto, e ’l petto percuotendosi, a le madri di far lo stesso orribilmente ispira. Ricercan gli elmi e i pallidi sembianti, 190 rivolgono i cadaveri confusi, e si lascian cader dal dolor vinte su i corpi or de’ congiunti, or degli estrani: altre nel sangue putrido e gelato lordan le chiome: de’ guerrieri estinti 195 altre chiudon le luci, e di pietose lagrime lavan le profonde piaghe; altre ne svellon l’aste e i fieri dardi: chi raccogliendo va le sparse membra, chi braccia e teste a’ tronchi busti adatta. 200 Ma Ida intanto, già felice madre de’ due gemelli, or di due corpi esangui, corre baccante per roveti e dumi, e cercando ne va per tutto il campo. Porta ella il crine rabbuffato e sciolto, 205 ed il pallido viso e semivivo squarcia con l’ugne; nè più sembra oggetto di pietà ’l suo dolor, ma di spavento. Già per disperazion fatta sicura passa su l’armi e su i guerrieri uccisi, 210 e nel terren volgendosi, d’arena si copre il volto ed il canuto crine: chiama i suoi figli a nome; ed urla e geme sovra ogni corpo, mentre i suoi ricerca. Così tessala maga, a cui son note 215 l’arti native e i spaventosi carmi per richiamare dal profondo Averno l’alme già spente a rivedere il giorno, fuor se n’esce notturna e scapigliata, dopo la strage di crudel battaglia 220 con face in man di fesso cedro accesa, e rivolge i cadaveri, e spiando va di quale lo spirto al mondo torni. Freme intanto laggiù de l’ombre il vulgo, e Pluton se ne sdegna, e d’ira avvampa 225 che se gli sforzi mal suo grado il regno. Non lungi i due fratei giaceano insieme a piè del monte, in questo almen felici, che un giorno stesso ed una stessa mano, una stess’asta li congiunse in morte. 230 Ma come prima a lei diè triegua il pianto, e li scoperse: - Ahi tali (grida) ahi tali sono, o miei figli, i vostri amplessi e i baci? Dunque la cruda ed ingegnosa morte così v’ha uniti ne’ sospiri estremi? 235 Deh quali prima tratterò ferite? Qual prima bacerò de’ cari volti? Voi mia fortezza un tempo e mio decoro, per cui credea d’esser eguale a’ numi e tutte superar le ogigie madri: 240 quali, o figli, or vi veggio? Oh mille volte fortunata colei che in maritale nodo sterile gode eterna pace, nè Lucina chiamò mai nel suo parto! Ah che da mia fecondità penosa 245 a me vien la cagion d’ogni dolore! Aveste almeno in onorata impresa degna d’eterna fama il sangue sparso, e potesse le nobili ferite con gloria numerar l’afflitta madre. 250 Ma voi cadeste in tenebroso assalto ed in opra furtiva, ed or giacete miseri senza vita e senza onore. Io già non scioglierò questo che veggio del vostro amore indissolubil nodo: 255 ite, figli, concordi, ite sotterra lungamente indivisi, e un solo avello confonda insieme le vostr’ombre e l’ossa. - Intanto l’altre avean trovato i cari congiunti loro, e ne facean lamenti. 260 Chiama il suo Cromio la consorte, e chiama Penteo il figliuolo Astioche dolente: e te, Fedimo, ancor bagnan di pianto gli orfani figli e le tue figlie afflitte: sovra Filleo a lei promesso duolsi 265 Marpissa, e d’Acamante le ferite lavan le sconsolate e pie sorelle. Altri intanto col ferro e con le scuri recidon la gran selva, e ’l faggio e l’olmo, che fean chioma e corona al vicin colle, 270 al colle che del gran fatto notturno fu testimonio, ed i singulti estremi accolse de’ guerrieri moribondi. Già son disposti i roghi, e già la fiamma ratto in essi s’appiglia, e già ciascuna 275 dal proprio funerale immota pende: quando per consolar la turba mesta il vecchio Alete favellò in tal guisa: - Sin da quel dì che ne l’aonie zolle giunse il fenice pellegrino, e i campi 280 sparse di guerrier seme, e inusitati parti fuori ne uscîr, onde tremendi a gli stessi cultor fur resi i solchi, ha il popol nostro del destino avverso provate aspre vicende e duri casi. 285 Ma non già quando il folgore celeste Semele incenerì, credula troppo a la mentita vecchia, e vinse Giuno; nè quando furibondo ebbro Atamante sparse per sassi e macchie il suo Learco, 290 fu tanto danno in Tebe e sì gran lutto; nè di tanti clamor le tirie case suonaro allor che l’infelice Agave al pianto altrui del suo furor s’accorse. Ma ben al nostro fu quel duolo eguale, 295 allor che osò con temerari detti l’orgogliosa di Tantalo figliuola muovere i numi ad ira, onde si vide di qua, di là di differente sesso spenta la prole, per cui gía superba, 300 e andar tanti cadaveri sotterra, e tanti roghi fiammeggiar d’intorno. Tale anche allor era la nostra plebe: così lasciate in abbandon le mura gli uomini più maturi e le dolenti 305 donne, accusando i troppo fieri Numi, due feretri seguian per l’ampie porte. Io era ancora (e men rimembra) in quella età che di dolor non è capace; e perchè il padre mio struggeasi in pianto, 310 senza saper perchè, piangeva anch’io. Così vollero i Dei; nè più mi duole, Cintia, che il miserabile Atteone, perchè spiò del tuo pudico fonte i sacri arcani, fu mutato in fiera, 315 e i suoi stessi molossi il laceraro; nè perchè Dirce già regina nostra divenne fonte, e cangiò il sangue in onda: cotal destin filato avean le Parche, e tal era il voler del sommo Giove. 320 Or noi per colpa del crudel tiranno siam di tanti guerrier vedovi e privi, ch’eran difesa de la patria e scudo. La fama ancora non n’è giunta in Argo, e già provato abbiamo i danni estremi 325 del bellico furore. Oh quanto io veggio sparger sudor in militare arena a gli uomini e a’ destrieri! Oh di qual sangue correran tinti i nostri patrii fiumi! Veggano pure i giovani feroci 330 cotanta guerra: me canuto e bianco arda il mio rogo, e la mia terra copra. - Così ragiona, e al Re debite pene predice, e ’l chiama scelerato ed empio. Ma donde nasce in lui tanta baldanza? 335 Già de l’etade sua passato ha il meglio; poco a viver gli resta, e poco teme, e d’onor brama coronar sua morte. Da l’alto intanto il sommo Re del mondo mirato avea la prima pugna, e ad ira 340 di già disposte l’emule nazioni; e fa tosto chiamar l’orribil Marte. Appunto da l’aver di stragi sparse le città e i campi de’ Biston feroci e de’ Geti crudeli, ei furibondo 345 tornav’al cielo in su ’l sanguigno carro: sembra folgore accesa il gran cimiero, e porta l’armi orribilmente sculte d’immagini funeste in pallid’oro. Al fragor de le ruote e de’ destrieri 350 rimbomba il Polo; ed il rotondo scudo fiammeggia sì, che par che avvampi ed arda, e con l’emulo globo al Sol fa scorno. Giove, che ’l vede ancor ansante e caldo di sarmatiche stragi, e che nel petto 355 del bellico furor dura il tumulto, - Tal, figlio, (dice), tal discendi in Argo terribile in sembianza e minaccioso col ferro in man di sangue ancor stillante. Rompan gl’indugi, e d’ozio impazïenti 360 te chiamin tutti, e al tuo guerriero nume consacrin l’armi e l’alme: a guerra muovi i più feroci, e ’l tuo furor rapisca i vili e i lenti; e quella tregua rompi, ch’abbiam sin or concessa: i Dei del cielo 365 tu sai turbare, e la mia stessa pace. De la discordia ho di già sparso il seme. Tideo scritte a caratteri di sangue riporta in Argo del crudel tiranno, primizie de la guerra, il fier delitto, 370 e le notturne insidie e l’empie frodi, e ’l tradimento infame, che con l’armi ei vendicò: tu aggiungi fede al vero. E voi, progenie mia, Numi superni, state fra voi concordi, e nissun tenti 375 il mio volere di mutar pregando. Cotal ordin di cose a me le dure Parche filaro, e le prescrive il Fato. Fin da quel dì che da l’informe nulla io trassi ’l mondo, a’ popoli feroci 380 fu questo giorno a guerreggiar prefisso. Che se v’ha alcun che d’impedirmi ardisca il gastigar ne gli ultimi nipoti le colpe e sceleraggini de gli avi, giuro per queste stelle e questo Polo, 385 e per i sacri a me fiumi d’Inferno, io colle proprie man spianterò Tebe da le radici, e spargerò le torri d’Inaco su la reggia, e le cittadi cangerò in laghi, aprendo il corso a l’acque; 390 nè se Giunone mia stesse abbracciata al tempio suo, si placherà il mio sdegno. - Così diss’egli; e timidi e tremanti stettero i Numi riverenti e cheti. Non altrimenti avvien, quando riposa 395 tranquillo il mar, ed ha co’ venti pace, e dormon ozïosi i lidi intorno, e de le selve i rami; e senza moto stansi le nubi al calor lento estivo: scemano allor gli stagni ed i sonori 400 laghi, e dal Sole rasciugati i fiumi giaccion nel letto loro umili e bassi. S’allegra Marte al fier comando; e tosto gli anelanti cavalli e ’l ferreo carro e le fervide ruote ad Argo volge. 405 E già era giunto in su’ confini estremi del Polo, onde convien scender volando, quando Venere apparve, e coraggiosa fermossi a fronte de’ destrier: la Dea conobber essi, e soffermaro il corso, 410 e ’l svolazzante crin steser sul collo. Essa al carro appoggiata, e le vermiglie gote di belle lagrime rigando, così parlò: gli adamantini freni rodeano intanto gli accoppiati cigni. 415 - Tu dunque ancora Tebe mia dal fondo, suocero ingrato, d’atterrare hai cuore? Tu muovi guerra a Tebe? E i tuoi nipoti colle tue proprie man di spegner tenti? Nè ti ritarda (e pur è nostro sangue) 420 Harmonia tua, nè le festive nozze che ne fur fatte in ciel, nè il pianto mio? Tal dài mercede a gli amorosi falli? La mia fama, l’onor, che vilipesi, e le catene fabbricate in Lenno 425 tale mertan da te premio crudele? Vanne barbaro pure: il mio Vulcano, quantunque offeso, a me più facil riede; e s’io vorrò che fra’ camini ardenti sudi per farmi nuovi fregi, e intere 430 vegli le notti nel lavoro, ei pronto tutto farà per compiacermi; e tanto ho poter sovra lui, ch’anche a te stesso l’armi fabbricherà: ma tu... ahimè lassa, ch’io prego un duro scoglio, un cor di bronzo! 435 Deh questo almen, pria di partire, ascolta: perchè mi festi a genero tebano sotto infausto imeneo sposar la figlia? Tu mi dicevi pur che i Tirii scesi dal serpentino seme invitti e forti 440 saranno in guerra, e che d’Harmonia nostra nasceria di nipoti al sommo Giove una progenie bellicosa e grande. Ah ch’io vorrei sotto il gelato Arturo, dove Borea mantien perpetue nevi, 445 fra i Traci tuoi, la sfortunata prole congiunta aver a barbaro marito. Forse poco ti par che di Ciprigna solchi la figlia, tramutata in serpe, d’Illiria i campi, vomitando il tosco? 450 Ed or la gente mia... - Ma ’l dio guerriero più non sofferse di vederne il pianto. Passa ne la sinistra il cerro acuto, balza dal carro, e fra lo scudo e ’l seno l’accoglie, e così dolce a lei favella: 455 - Oh amabil mio piacere, e da le pugne caro riposo e mia gradita pace, e sola a cui impunemente lice mirar quest’armi, e nel maggior conflitto frenar a mezzo il corso i miei destrieri, 460 e far a me cader di mano il brando. Non a me Cadmo e la tua cara fede di mente uscîr: perchè mi accusi a torto? Ah pria del zio nel tenebroso regno Giove mi cacci, e disarmato e imbelle 465 mi condanni fra l’ombre. Ora mi sforza il paterno voler e ’l Fato avverso; (nè al tuo Vulcan tal converrebbe impresa) e come ripugnare al suo decreto? Tu pur vedesti di sue voci al tuono 470 tremar le sfere e ’l suolo, e fin dal fondo turbarsi l’Oceàno, e sbigottiti velar le facce gl’immortali Numi. Tu pon modo al timor, e a quel t’accheta che mutar non si può; ma quando a Tebe 475 verranno a pugna i popoli feroci, aiuterò le nostre amiche schiere, e mi vedrai ne la feroce pugna di cadaveri argivi empiere i campi. Questo è in mia man, nè può vietarlo il Fato. - 480 Sì disse; e i suoi destrier giù spinse a volo. Non così presto il fulmine trisulco scaglia da nubi accese irato Giove, qualor ferma le piante in su ’l nevoso Otri, o su ’l gelid’Ossa in mezzo a’ nembi: 485 vola l’ardente folgore fendendo con lunga striscia il cielo, e seco porta i decreti del Nume, e già minaccia le feconde campagne e i naviganti. Ma di già Tideo ritornando in Argo, 490 di Danao i campi e di Prosinna i colli passati aveva orribile in sembianza: il crin sparso ha di polve; e un sudor misto al sangue a lui da tutto il corpo scorre per le illustri ferite infino al piede: 495 ha per troppo vegliar gli occhi sanguigni, e per soverchia sete i labbri asciutti, onde anelante può trar fiato appena; ma lo spirito invitto e l’alta impresa d’onor lo cinge, e gli dà forza al passo. 500 Siccome toro nel crudel conflitto, dal nemico squarciato il petto e ’l fianco, a la sua mandra vincitor ritorna altero sì, che le sue piaghe sprezza; mugge vilmente il suo rival su l’erba, 505 e men gravi a lui fa le sue ferite: tale Tideo ritorna, e ovunque passa, dal fiume Asopo a la città d’Argia, muove i popoli a sdegno, e sparge e narra ch’ito era a Tebe messagger; che ’l regno 510 per Polinice avea richiesto; e quindi le occulte insidie ed il notturno assalto, le frodi, il tradimento e ’l fier delitto: tal essere la fe’ del reo tiranno: ch’ei nega il patto a l’esule fratello: 515 che non si de’ soffrir. Marte a’ suoi detti dà forza, ed il terror la fama accresce. Ma poi che giunge in Argo (Adrasto appunto stava a consiglio co’ maggiori duci) - A l’armi (grida da le porte), a l’armi, 520 generosi guerrieri; e tu, di Lerna buon Re, se ferve in te de gli avi il sangue, l’armi prepara. Non v’è fede in terra, non riverenza de le genti al dritto, non v’è tema di Giove. Io più sicuro 525 ito sarei a’ Saurómati crudeli, o del bebrizio bosco a l’inumano Amico difensor: nè già mi duole l’essere andato, anzi mi piace, e godo del tebano valor fatta aver prova. 530 Io non aggiungo al ver; come s’espugna munita torre, o di ripari cinta forte città, me disarmato e solo, e del cammino ignaro insidïosi, e di tutt’arme cinti, e ne l’oscuro 535 di buia notte i perfidi assaliro. Cinquanta furo: or su l’infami porte de l’orfana città giacciono estinti. Andiamo: il tempo è questo, ora che sono timidi, esangui e nel dolore immersi, 540 in bruna veste a’ lor ferétri intorno. Io sebben de l’aver donato a Pluto tant’ombre, torni sanguinoso e lasso, e col sangue gelato in su le piaghe, io vi precorrerò. - Ma di già sorti 545 da’ scanni stavan tutti a Tideo intorno; e primier Polinice il volto a terra fisso tenendo: - Ah dunque (grida) io sono colpevol tanto, e tanto in ira a’ Numi, che te veggio, Tideo, da le ferite 550 versar il sangue, e me pur anco illeso? Tal dunque preparavi a me il ritorno, fratello iniquo? Eran per me tant’armi? Ah vile amor di vita! Io qui rimasi, misero! E tolsi a te sì gran delitto! 555 Restino omai le vostre mura in pace, Argivi, nè per me straniero afflitto turbisi l’ozio vostro: a me non tanto fortuna arride, ch’io non senta e provi qual sia dolor esser da’ dolci letti 560 e da gli amati figli a forza tolto, e la patria lasciar. Cessino pure le private querele; e con oscuro guardo non mirin me le afflitte madri. Io vado volontario a certa morte; 565 nè riterrammi la diletta sposa, nè col suo impero il suocero temuto. Io deggio a Tebe questo capo, e ’l deggio a te, fratello, e a te, gran Tideo, il deggio. - Così con arte varïando i detti, 570 tenta gli animi e i cuori; e già commossi gli ha tutti, e lor cade dagli occhi ’l pianto, pianto di sdegno più che di pietade. Non i giovani sol, ma i vecchi infermi e con membra tremanti un stesso ardore 575 infiamma tutti; e corron tutti a l’armi. Vogliono unire le vicine schiere, romper tutti gl’indugi e andar a Tebe. Ma Adrasto, a cui la molta etade il senno accrebbe, e tutte del regnar sa l’arti, 580 frena gli animi ardenti: e, - A’ Numi (dice) lasciate questa impresa, e a la mia cura; nè il regno tuo ti riterrà il fratello senza vendetta; e voi non così pronti a la guerra correte. Il gran Tideo 585 di nobil sangue sparso e trionfante lieto intanto s’accolga; e a lui ristoro dal lungo faticar diasi e riposo. Noi tempreremo col consiglio l’ira. - Ma la pallida moglie e i fidi amici 590 erano accorsi intanto, e lui già lasso da la lunga battaglia e dal cammino riconducevan mesti. Egli in sembiante magnanimo e sereno il dorso appoggia ad eccelsa colonna; e mentre Imone, 595 d’Epidauro natio le sue ferite or asterge coll’onda, ora col ferro tratta, or con erbe n’ammollisce il duolo: comecch’ei nulla senta, ardito narra de le risse il principio, e quel che disse 600 ad Eteócle, e qual crudel risposta ne riportò; quale a l’insidie il loco, quale fu il tempo: quali e quanti duci gli furon contro; ove maggior contrasto trovò; come Meon serbato avea 605 per testimon del memorabil fatto. Pendon da lui il suocero e la corte. E d’ira avvampa l’esule di Tiro. Già il Sol avendo negli esperii lidi i focosi destrier sciolti dal giogo, 610 tuffava il biondo crin ne l’Oceàno: lo accolgon le Nereidi, e le veloci Ore corrono pronte: altra le briglie di man gli toglie; lo splendente cerchio dal capo altra gli leva; il rosso manto 615 altra dal petto di sudor stillante discioglie ratta; chi ripone il carro, chi de’ destrieri cura prende, e il fieno ad essi appresta e le celesti biade. Sopraggiunge la notte, e de’ mortali 620 le cure e de le belve i vari moti tutti ripone in calma, e il cielo adombra. Non però trovan nel comun riposo Adrasto e Polinice ora quïeta; ma Tideo sì, di cui lusinga il sonno 625 con fantasmi di onor la sua virtude. Intanto Marte infra i notturni orrori di guerriero rimbombo empie d’intorno i confini d’Arcadia e le nemee campagne, ed i tenarii eccelsi gioghi, 630 e la sacra Terapni al biondo Nume; e gli attoniti cuor di sè rïempie. Gli assettano le piume in su ’l cimiero l’Ira e ’l Furore, e il bellico Spavento conduce il carro. Lo precorre alata 635 la Fama, intenta ad ogni suono e piena di torbide novelle, e perchè a tergo ha l’anelar de’ rapidi destrieri, timida affretta al volo i tardi vanni, e ognor l’incalza con flagel sanguigno 640 il fiero auriga, e vuol che intorno spanda il falso e il ver, e con la scitic’asta le batte il capo e le scompiglia il crine. Così Nettun gli scatenati venti da l’eolia prigion si caccia innanzi 645 tal volta, e a tutto volo entro l’Egeo gli spinge e mesce: stanno a lui d’intorno e nubi e nembi e grandini gelate, e la sozza tempesta, che dal fondo solleva al cielo i procellosi flutti. 650 Al grande urtar le Cicladi vaganti stan salde appena, e Delo istessa teme da Giano e da Micone esser divisa, e de l’allievo suo la fede invoca. Già sette volte la vermiglia Aurora 655 di chiarissima luce avea d’intorno acceso il cielo e serenato il mondo, dal dì che in Argo ritornò Tideo: quando di Perseo il successor canuto lasciò le interne stanze al primo albore. 660 Molto pensa alla guerra, e molto il turba de’ generi novelli il troppo ardire. Sta irresoluto ancor, se ceda a l’armi libero il freno e a’ popoli feroci stimoli aggiunga; o se rattempri l’ire, 665 e scinga lor con miglior senno i brandi. Quinci amore di pace, e quindi il turba lo scorno, e ’l non saper por modo a questo nuovo e primier di guerreggiar furore. Risolve alfin che si ricorra a’ vati 670 per ispiar da’ sacrifici il vero. Anfiarao de l’avvenir presago fu scelto a l’opra, e seco iva Melampo d’Anfitaone già canuto figlio, ma di mente vivace e pien del Nume. 675 Dubbio è fra lor chi più de la cirrea onda bevesse, e a chi più de’ suoi doni Febo dispensi. Ne l’uccise fiere ricercan pria de’ sommi Dei la mente. Ma i cuor macchiati e le corrotte fibre 680 dan funesti presagi. A cielo aperto risolvono tentar novelli auspici. Sorge confine al cielo eccelso monte sacro a gli Argivi, che i lernei bifolchi Afesanto chiamâr: quindi si narra 685 che il gran Perseo giù si calasse a volo a l’alte imprese, e la dolente madre, del figlio in rimirar l’orribil salto, appena di seguirlo si ritenne. Quivi gli auguri il crin cinto d’olivo 690 e di candide bende ambe le tempie, giunsero, allor che in Orïente il Sole con i tepidi raggi i molli campi rasciuga intorno e le notturne brine. E prima d’Ocleo il figlio amico rende 695 a l’opra il Nume coll’usate preci. - Noi ben sappiam, sommo e possente Giove, che virtù desti a li veloci augelli di mostrarci ’l futuro, e co’ lor voli svelar a noi l’alto voler de’ fati. 700 Non più sicuro a noi Febo da l’antro parla di Cirra, nè i loquaci abeti dal fatidico bosco di Dodona; benchè l’arido Hamon d’invidia avvampi, ed osin contrastar le licie sorti; 705 e il bue del Nilo, e l’apollineo Branco pari al padre d’onore, e il Licaone bifolco, che da Pan sente il futuro. Quegli più scorge il ver, Nume Ditteo, cui tu felici augei mandi da l’alto. 710 Ma donde in lor tanta virtù scendesse, di maraviglia è oggetto e di contesa. Forse che allor, che da l’informe Caos fur tratti i semi, e fur distinti in forme, lor toccò in sorte aver menti presaghe: 715 o che fur pria di nostra specie, e poi vestendo piume e sorvolando i venti, serbano ancor de la ragione il lume: o che il loro volar vicini al cielo, e ’l respirar aura più pura, lungi 720 dal nostro fango, e il posar raro in terra, de gli arcani de’ Dei degni li renda. Come ciò sia, tu, che ’l facesti, il sai, primo Autor de’ celesti e de’ mortali. Ora il principio e ’l fin de l’aspra guerra 725 deh per lor mezzo a noi mostrar ti piaccia. E se la Parca l’echionia Tebe concede in preda a le lernee falangi, daccene il segno, e da sinistra tuona; e i fausti augei con misteriosi canti 730 ci annuncino quel ben che a noi destini: ma s’altrimenti hai pur disposto, tardi vengan gli augurii, e da la destra il cielo adombrino co’ vanni i tristi augelli. Così dic’egli, e sovra un sasso siede, 735 ed altri invoca sconosciuti Numi; e sgombra di caligine la mente discopre il ver, per quanto è vasto il mondo. Parton fra loro il campo; e ’l ciel diviso, tengon la mente, e con la mente il guardo, 740 attenti ad osservar ne l’aria i segni. Stetter così gran pezza: alfin Melampo parlò primiero: - Anfiarao, non vedi, com’ogni augel, che spiega a l’aura i vanni, dà tristi indizi con l’infausto volo? 745 Ve’ com’altri si libra in su le penne? Ve’ com’altri sen fugge, e co’ lamenti un infelice augurio a noi ne lascia? Nè v’è fra lor de’ tripodi seguace il nero corvo, nè il reale e grande 750 portatore de’ fulmini di Giove, nè quel sacro a Minerva: alcun migliore del falcon non vegg’io, e questi ancora da superiori augei spiumato e vinto. Io non scorgo volar ch’orridi mostri, 755 nè sento altri gracchiar che gufi e strigi, e darne segno di futuri danni. E con tali portenti andremo a Tebe? A tali mostri si concede il Polo? Mira come con l’ugne i petti e i rostri 760 squarciansi insieme, e dibattendo i vanni mandan fuori un fragor simile a pianto. - Così diss’egli, e Anfiarao rispose: - Molti ho già intesi oracoli febei, padre, fin da quel dì che in fresca etade 765 da’ semidei guerrieri io fui raccolto su la tessala nave: essi m’udiro spesse volte predir co’ sacri carmi quello che in terra e in mar lor poscia avvenne; e ben sovente ne le dubbie cose, 770 più che a Mopso, a me fede ebbe Giasone. Ma non mai tanto di futuri mali ebbi timor, nè più maligne stelle vidi giammai, e peggio ancor m’aspetto. Or volgi gli occhi attento: immenso stuolo 775 mira venir da la serena parte de l’etere profondo a noi di cigni; o dal tracio Strimon Borea gelato li cacci, o cerchin più benigno clima de l’ubertoso Nilo in su le sponde: 780 eccoli fermi, eccoli accolti in giro taciti star come rinchiusi in vallo; or questo a noi finga il tebano campo. Ma venir veggio da l’opposto lato maggior schiera d’alati, e a lei davanti 785 sette d’immensi vanni aquile invitte; or queste a noi sieno gl’inachii duci. Già dan l’assalto al bianco gregge, e i rostri spalancan a le prede, e con gli artigli già stan lor sopra. Ahi quanto sangue piove! 790 Quante cadon dal ciel divelte penne! Ma qual d’avverso Giove ira improvvisa distrugge i vincitori e manda a morte? Ecco il primier come dal Sole acceso cade, e l’alma e l’orgoglio a un tempo spira. 795 L’altro, che ardisce de’ maggiori augelli tentar le imprese, a mezzo il volo manca, e lo lascian cader le imbelli piume. Questi insiem col nemico a terra cade. Il quarto in rimirar de’ suoi compagni 800 l’immensa strage, spaventato fugge. Quegli fra’ nembi soffocato more; questi morendo del nemico vivo fiero si pasce: le volanti nubi tutte in sangue son tinte. E perchè il pianto 805 tenti celar, Melampo? Anch’io conosco colui che cade ne la gran vorago. - Così de l’avvenir sotto il gran peso gemono i vati, e già soffrono i danni veduti in ombra, come fosser veri. 810 Dolgonsi de’ volanti il moto e i voli spiato aver, ed i vietati arcani del cielo; ed esauditi, odiano i Numi. Ma donde mai questo sì folle amore d’antiveder le cose entro le menti 815 de’ miseri mortali origin ebbe? Forse è dono de’ numi? O pur noi stessi non siam di ciò, che possediam, contenti? Noi vogliamo saper qual ne sovrasti dal nascer nostro sino al giorno estremo 820 lieto o infausto destino, e ciò che Giove benigno o l’empia Cloto a noi prepari. Quindi è che si ricercano le fibre, e ’l garrir degli augelli entro le nubi, e i moti de le stelle, e de la luna 825 i vari giri, e alfin le magic’arti. Ma non mai tanto osâr ne l’aurea etade gli avoli nostri e quelle dure genti uscite fuor da roveri e macigni. Era lor sola ed innocente cura 830 amar le selve e coltivare i campi: il cercar oggi quel che ’l dì venturo prometta, era fra lor non picciol fallo. Noi, gente iniqua e vana, i sacri arcani osiam cercar de’ Numi: e quindi poi 835 nascon la tema e l’ira e ’l reo delitto, e le insidie e le frodi; e i nostri voti son privi di modestia e di pietade. Ma Anfiarao scinte dal crin le bende con dispettosa mano, e il sacro serto 840 gettando lungi inonorato e vile, scendea dal monte. Egli ha sì fissi in mente gl’infausti augurii, che già sente e vede le trombe e l’armi e la lontana Tebe. Dolente e mesto entro segreta cella 845 si chiude, e nega rivelare i fati: fugge il vulgo importuno, e del Re amico schiva le inchieste e de’ maggior guerrieri. Melampo anch’ei si cela, e per le ville esercitando va la medic’arte. 850 E già sei volte e sei de l’Orïente schiuse aveva le porte al dì l’Aurora, dacchè stavan sospesi e duci e plebe. Di Giove intanto il gran comando preme, e corron tutti a l’armi, e lascian vuoti 855 i vasti campi e le cittadi antiche. Dietro si tragge il bellicoso Dio mille squadre d’armati: in abbandono si lasciano le case e i dolci figli, e le consorti misere e piangenti: 860 tanto nel petto lor s’infonde il Nume! Spiccan l’armi da’ tetti, e fuor de’ tempii traggono i carri sacri un tempo a’ Dei. Chi a lo girar de la volubil cote affila i dardi, e i rugginosi brandi 865 aguzza e terge e luminosi rende: chi tratta gli elmi lievi, e le corazze a’ petti adatta e le ferrate maglie. Già i vomeri, gli aratri e gli altri arnesi, sì cari un tempo a la sicana Dea, 870 miransi rosseggiar dentro le ardenti fornaci; e a l’alternar di più martelli mutar l’uso pacifico in guerriero. Tagliano i sacri boschi, e ne fann’aste, e al bue già vecchio non si ha più pietade, 875 per coprir col suo cuoio e targhe e scudi. Corrono in Argo, e su le regie soglie gridano guerra; e ’l ciel rimbomba intorno. Non con tanto fragore il procelloso Tirreno freme, nè sì forte scuote 880 Encelado il gran monte, allor che il fianco tenta mutar sotto l’immenso peso: da le profonde sue caverne mugge Etna, e vomita fiamme; in sè ritira Peloro i flutti, e la Sicilia unirsi 885 teme al terren onde fu pria divisa. Ma Capaneo del bellicoso Nume più d’altri acceso, di superbo cuore, e d’ozio impazïente e di riposo, s’era qui tratto al suon di tanta impresa. 890 Scendeva egli per lung’ordine e certo d’avi reali, ma le illustri imprese de’ suoi maggiori avea oscurate e vinte col braccio invitto e col terribil brando sprezzator d’ogni Nume e d’ogni dritto, 895 e prodigo di vita, ov’ira il muova. Un de’ biformi abitator de’ boschi di Foloe sembra, e con gli etnei Ciclopi gareggiar può di mole e di fierezza. Ora costui su le rinchiuse soglie 900 d’Anfiarao, ove fremendo stanno la plebe e i duci, minacciando grida: - Che viltà è questa, Argivi, e voi di sangue congiunti Achei? Oh nostra infamia e scorno! Dunque su ’l limitar d’un uom del vulgo 905 ozïosi staran tanti guerrieri? Tant’alme pronte a generose imprese? Non io, se Apollo (e siasi pur qual finge l’altrui timore) sotto il cirreo giogo muggir udissi dal profondo speco, 910 tanto aspettar potrei, che le tremende ambagi sue la Vergine scoprisse: a me la spada e ’l mio valor è Dio. Esca omai fuor con le mentite frodi, figlie del suo timore, il sacerdote, 915 o ch’io farò veder quanto sia vano il volar degli augelli. - Ei così parla, e il volgo militar con gridi applaude. Ma d’Ocleo il figlio d’altre cure pieno esce costretto alfin dal chiuso ostello. 920 - Me non muove (dic’ei) l’alto clamore del giovane profano, o i fieri detti, benchè minaccin morte. Il mio fatale giorno ancor non è giunto, e questo petto scopo non sarà mai d’armi mortali. 925 Ma l’amore di voi, ma il troppo Nume mi spinge e sforza, e vuol ch’io sveli i fati. Io le cose future, e s’oltre ancora scoprir si può, dolente a voi paleso; nè teco parlo, o giovane feroce, 930 chè per te solo è muto il nostro Apollo. Dove, miseri, andate? A che rapite l’armi in onta de’ Numi e del Destino? Qual Furia vi flagella? In sì vil pregio l’alme vi sono? Argo v’è dunque a schivo? 935 Nè vi son dolci le paterne case? Nè degli augurii alcun pensier vi prende? A che mandarmi a l’inaccesso giogo de l’alato guerrier, l’eterne menti ad ispiar de’ Numi entro il concilio? 940 Ed or che giova che a me sieno noti gli acerbi casi ed il funesto giorno? Qual crudel fato a voi sovrasti? e quale me stesso aspetti? In testimonio io chiamo de l’ampio suol le investigate cose, 945 le voci de gli augelli, e te, o Timbreo, che mai sì fiero a me parlasti: unquanco vidi sì tristi segni e sì palesi indizi di certissima ruina. Vidi le sceleraggini fatali 950 de gli uomini e de’ Numi, e festeggiante vidi Megera, e l’inflessibil Parca vuotare interi i secoli dal fuso. Lungi scagliate l’armi. Ah forsennati! Ecco il Nume, ecco il Nume a voi lo vieta. 955 Miseri! Che follia del vostro sangue gir a impinguar de la Beozia i campi, e del reo Cadmo le profane zolle. Ma perchè parlo indarno, e ’l già prefisso momento io tardo? Noi pur troppo andremo. - 960 Qui troncò i detti, e sospirando tacque. Ma Capaneo: - Questo furor sia teco, augure infausto; e giovi a tua viltade, sicchè tu in Argo inonorato resti, nè turbi i sonni tuoi guerriera tromba. 965 Ma non tardar con queste ciance e fole l’impeto de’ magnanimi guerrieri. Certo, perchè ozïoso i canti e i voli tu osservi de gli augelli, e in molli piume ti goda la consorte, e i cari figli 970 ti scherzino d’intorno, il gran Tideo noi lasceremo inulto, e de le genti le sacre leggi vïolate e infrante. Ma se non vuoi che muovan l’armi i Greci, vanne tu stesso a Tebe, e questo serto 975 t’assicuri le strade; a te del Cielo noti son dunque i più segreti arcani e le prime cagioni? O qual mi prende pietà de’ Numi, se le preci e i carmi di noi ponno turbare il lor riposo! 980 Perch’empi di terror l’anime sciocche? La viltade e il timor fecero i Numi. Pur per or ti si passi, e senza tema sfoga il vano furor; ma ben t’avviso, che al primo suon de’ concavi oricalchi, 985 quando noi beverem dentro gli elmetti Dirce e l’Ismeno, e ch’io correrò a l’armi e a la battaglia, non venirmi innanzi co’ tuoi augelli a ritardar la pugna; non questo Febo tuo, non queste bende 990 ti gioveriano allor: tutte in quel loco io vo’ predir le sorti, e saran meco auguri e vati li più audaci e forti. - Suonan d’intorno nuovi applausi e gridi, e l’immenso rumor giunge a le stelle. 995 Qual rapido torrente, a cui più rivi portan tributo, e le disciolte nevi rendon gonfio e superbo; ogni riparo soverchia, e inonda i campi, e seco tragge ne’ vortici spumosi a un tempo stesso 1000 e le zolle e le case ed i pastori, e le mandre e le greggi, insin che rompe l’impeto a un colle, e ’l suo furor raffrena: così garrían fra lor; ma l’ombre stese la buia notte, e separò le risse. 1005 Intanto Argia, che del consorte amato in sè risente il duolo, e le querele non ne può piú soffrir con cuor tranquillo; come si trova, co’ capelli sparsi, e gli occhi pregni di pietoso pianto, 1010 tra ’l confin de la notte e de l’aurora, quando scendendo in mar le vaghe stelle si duol Boote di restar addietro, sen va notturna al padre, e al bianco seno appeso il suo Tersandro a l’avo porta. 1015 Ma poi ch’entrò, fermossi al letto, e disse: - Perchè piangente, intempestiva e sola senza ’l mesto consorte a te ne venga, padre, tu ’l sai, benchè io me ’l taccia: io chiamo in testimon de’ genïali letti 1020 i tutelari numi, e per te stesso io giuro, o padre, ei non mi manda. Io sono mossa dal mio dolor, che di riposo mi priva da quel dì che infausta Giuno con la sinistra man le nuzïali 1025 tede m’accese: i vicini pianti non mi lascian godere ora di sonno. Non se di tigre avessi ’l petto, o il core duro al par d’uno scoglio, i suoi lamenti senza pietà soffrir potrei. Tu solo 1030 puoi consolarne, ed è in tua man riposta l’unica medicina a’ nostri mali. Dacci la guerra, o padre, e de l’abbietto genero tuo mira lo stato, e mira questo d’un infelice esule figlio. 1035 Non patir tanto scorno al proprio sangue. Deh ti sovvenga il giuramento dato nel primo ospizio, e gl’invocati Numi, e le congiunte destre. Il mio consorte è quello pure che indicaro i Fati, 1040 e che Apollo prescrisse: io già non arsi d’amor furtivo e di colpevol face. Tu me lo desti, e al tuo volere ancella io fui, e ubbidïente: or con qual cuore ne soffrirò i lamenti? Ah tu non sai 1045 quanto accresca l’amor misero sposo! Ahi lassa! Io veggio ben ch’ora ti chiedo dono odïoso e infausto, e che di pianto cagion mi fia. Ma quando il fatal giorno romperà i nostri baci, e che le trombe 1050 daranno il segno di partire, e i cari visi chiudrete ne’ dorati elmetti, padre, allor ti farò contrari voti. - Così diss’ella; e il genitor co’ baci libonne i pianti, e placido rispose: 1055 - Già, figlia, non temer che i tuoi lamenti biasmi o condanni: cose giuste chiedi, e negarle io non so. Ma ancor sospeso tengonmi i Numi, e ragionevol tema, e del mio regno le diverse cure. 1060 Non diffidar però, figlia; anche a questo si darà fin; nè ti dorrai che ’nvano pregato m’abbi. Tu ’l consorte afflitto consola intanto; e non gl’incresca il nostro maturo differir. Le grand’imprese 1065 chieggon grandi apparati; e la tardanza giova a la guerra. - Così dice, e lascia le molli piume a lo spuntar del giorno da’ suoi gravi pensier chiamato a l’opre. E già il terz’anno sciolte avea da’ monti col tepido spirar le bianche nevi zeffiro portator di primavera, e Febo a’ giorni iva aggiungendo l’ore, 5 quando ruppero i Fati ogni consiglio, e a’ miseri fu data alfin la guerra. Dal giogo larisseo con la sinistra Bellona alzò la face, e a tutta forza colla destra scagliò l’asta tremenda, 10 che per lo vano ciel stridendo cadde, e andò a ferir ne gli argini dircei; scend’essa poi nel campo, e fra i guerrieri d’oro e ferro splendenti ella si mesce, e freme in suon di militar tumulto. 15 Porge l’armi a chi parte, e applaude, e ispira lena a’ destrieri, e da la porta affretta i pigri e i lenti; e non che muova i forti, breve virtude ispira anche a’ codardi. Giunto era il dì prefisso: a Giove e a Marte 20 cadon vittime scelte: il sacerdote teme l’infauste fibre e nol dimostra, e finge speme, e ne’ guerrier l’infonde. Ma già i padri, i fanciulli e le innocenti vergini, e le dolenti e caste spose 25 stan su le soglie, e a’ lor congiunti fanno con gli amplessi al partir dolce ritegno. Non ha più freno il pianto; e di chi resta e di chi va molli son l’armi e i manti: pende da ciascun elmo una famiglia; 30 e a le chiuse visiere i dolci baci rinnovar giova, e a gli amorosi amplessi inchinano i guerrier gli alti cimieri. Già quel primo furor d’armi e di morte scemando vassi in ogni petto e langue, 35 e nel partir si raddolciscon l’ire. Non altrimenti avvien, quando s’accinge a solcar lungo e periglioso mare stuolo di naviganti, e già le vele spiegansi al vento, e l’àncora ritorta 40 dal fondo si ritira: a lor d’intorno stassi turba d’amici, e a lor le braccia stendon al collo, e non han gli occhi asciutti; ma poi che alfin sciolta è la prora, stanno immobili sul lido, e la volante 45 nave seguon con gli occhi, e in odio il vento han che lungi la porta, e da lo scoglio salutano co’ cenni i naviganti. Fama, o tu, che conservi a’ giorni estremi la rimembranza de’ famosi eroi, 50 e vivere li fai dopo la morte; e tu, Regina de’ sonori boschi Calliope, a me con più sublime canto Narra, quali movesse invitte schiere, quai duci, e quai città vuote lasciasse 55 d’abitatori il formidabil Marte. Chi più di te bevve al Castalio fonte sacro furore, e n’ha la mente piena? Primo ne viene Adrasto, e nel sembiante molto palesa le sue interne cure; 60 rotto da gli anni e in quell’età che pende inver l’occaso, tratto, anzi rapito da le preghiere altrui, si cinge il brando. Portangli l’armi dietro i suoi scudieri: cento destrier l’attendono a le porte, 65 ed Arïon fra gli altri e freme e sbuffa, batte con l’unghia il suol, nè trova loco. Seguono armate la reale insegna e Prosinna e Larissa; e la d’armenti Midea nutrice; e d’ampie greggi ricca 70 Fillo; e Neri, che teme il suo Caradro gonfio e spumante; e Cleone turrita; e Tire, che vedrà l’atro trïonfo scritto col sangue de’ Spartani uccisi; e quelli ancor che diero il rege ad Argo, 75 abitator di Drépano, e con loro Sicïone fruttifera d’olive mandan le loro schiere, e quei che stanno de la pigra Langía lungo le sponde, ed i vicini al tortuoso Elisso. 80 Immondo è il fiume e infame, e ne’ suoi flutti sozzi soglion lavar le Furie inferne i ceffi, e dissetar gli angui del crine, lasciando illeso Flegetonte; o sia che da tracie stragi, o che da’ tetti 85 empii tornin di Cadmo o da Micene, fuggon l’onde sdegnose al fiero nuoto, e corron tinte di mortal veneno. Poi viene Effira, che i solenni giochi fa a Palemone, e le cencree falangi, 90 ove al ferir del Pegaseo cavallo nacque Ippocrene a’ sacri ingegni amica; e quei ch’abitan l’Istmo, che raffrena gli opposti mari e ne difende il suolo. Tremila in tutto son quelli che Adrasto 95 seguono in guerra baldanzosi, e sono di varie genti e di varie armi instrutti. Altri impugnano i dardi; altri le aduste aguzze travi; altri le lievi fionde ruotan per l’aria con robusti giri. 100 Per anni e per impero ei venerando tutta precede la feroce schiera. Toro così, benchè per molta etade alta non porti più la fronte, e muova per le campagne sue più tardi i passi, 105 guida però l’armento: i più feroci giovenchi a lui non osan muover guerra, e rispettan le vaste cicatrici nel largo petto impresse, e le robuste per molti colpi rintuzzate corna. 110 Il genero dirceo, per cui la guerra si muove e per cui sol milita il campo, la propria insegna dopo il Re dispiega. Molti da Tebe a lui venner guerrieri, chi del suo esiglio per pietà; chi mosso 115 da fe’, che spesso ne’ disastri cresce; chi per mutar signore; ed altri infine, a cui più giusta la sua causa sembra. A questi aggiunge il suocero le schiere d’Arena, d’Egïone e di Trezene 120 superba per Teséo: così provvede ch’egli non resti senza pompa, e senta meno il dolor degli usurpati onori. Altiero ei va con le stess’armi e ’l manto con cui già venne in Argo; e ’l tergo copre 125 del teumessio leone; e al fianco appende il fiero brando, ch’ha nel pomo impressa l’orrenda Sfinge, e porta in man due dardi. Già il regno, già la madre e già le suore possiede con la speme; e pur lo frena 130 d’Argia l’amore, e gli occhi in lei volgendo sovente, la rimira afflitta e mesta, che tutta infuori da una torre pende, e con gli occhi lo siegue: egli a tal vista s’intenerisce, e quasi Tebe oblia. 135 Ecco il fiero Tideo le olenie genti armate guida risanato e franco al primo suon de la guerriera tromba. Qual angue che sotterra ha già lasciata l’antica spoglia, e rinnovati gli anni, 140 fuor se n’esce al tepor de’ nuovi Soli di primavera, e si rabbella e striscia, e minaccioso per l’erbetta serpe: misero quel pastor che a lui vicino passa, e ’l primier veleno in sè riceve! 145 Appena divulgò la fama il grido de l’alta impresa, che d’Etolia tutta la gioventù feroce a lui sen corse. Vengono da Pilene e da Pleurone per lo suo Meleagro ancor dolente; 150 manda i suoi Calidone; e la di Giove nutrice Oleno, che nol cede a l’Ida; e Calcide, che il mare in sè ricetta; e l’Acheloo scornato, e che non osa erger la fronte offesa, e mesto giace 155 ne l’umide caverne, e le sue sponde restano asciutte e squallide d’arena. Tutti sen van di ferro armati i petti co’ pili in mano, e sopra gli elmi splende de’ loro Re progenitor Gradivo. 160 I più robusti e audaci al duce intorno forman corona, ed ei va lieto e noto per le belle ferite, e già non cede di sdegno a Polinice, e dubbio pende in favore di cui si muova il campo. 165 Le doriche falangi in maggior stuolo spiegan l’insegne, e quei, Lirceo, che i tuoi campi soglion solcar con molti aratri; ed i cultori de’ tuoi vasti campi, Inaco Rege degli achivi fiumi: 170 nè già di te più procelloso alcuno scorre il greco terreno, allor che ’l Tauro gonfio ti rende e l’Iadi piovose, e di sè t’empie il genero Tonante. Poi vengon quei che Asterïon veloce 175 cinge co’ flutti, e quei cui l’Erasino inonda i prati e le mature spiche; e quei che d’Epidauro arano i campi: Bacco a’ suoi colli è amico, ma la Dea Sicana a lui è de’ suoi doni avara. 180 E Dimo ancor manda soccorsi; e Pilo di cavalieri grosse squadre invia. Non era allor Pilo famosa, e ’l suo Nestore ancor de la seconda etade era sul fiore, e gir non volle a Tebe. 185 Quindi le genti guida il grande e forte Ippomedonte, e con l’esempio accende di gloria e di virtude in lor l’amore. Sul rilucente elmetto alto egli porta tripartito cimier di bianche penne: 190 veste d’acciaio il duro usbergo, e copre col fiammeggiante scudo il largo petto, in cui di Danao la terribil notte ne l’oro è impressa: le crudeli Erinni fan con le nere lor funeste faci 195 splender cinquanta talami nuziali; su le sanguigne porte il fiero padre si ferma, e tenta i brandi, ed al delitto le incerte figlie minacciando esorta. Lo porta giù dalla Palladia rocca 200 destrier Nemeo precipitoso e lieve, e non avvezzo a l’armi, e in mezzo a un nembo di polvere commossa, e quasi a volo per lo gran campo un’ombra immensa stende. Non altrimenti a precipizio cala 205 da le montane cave Illeo biforme squarciando con due petti e doppie spalle al rapido suo piè quanto s’oppone: Ossa il paventa, e per timore a terra si piegano le fiere e si nascondono, 210 e i Centauri minor n’hanno spavento: finchè d’un salto nel Peneo si lancia, e solo opponsi, e spinge indietro il fiume. Ma qual potria ridir lingua mortale il numero de’ fanti e de’ cavalli 215 che lui sieguono in guerra? Alcide i suoi de l’antica Tirintia abitatori eccita a l’armi; e non è scarso il luogo d’uomini forti, e del feroce Alunno vive in essi la fama ed il valore. 220 Ma al volgersi de gli anni il prisco aspetto de la patria mutossi, e non ritiene più la prima fortuna e le ricchezze. Raro è l’agricoltor che al passaggero le rocche additi, che i Ciclopi alzaro. 225 Pur trecento guerrieri in guerra manda prodi così, che nel valor dell’armi rassembrano essi soli un campo intero: nè già di ferro armano il petto, o al fianco cingon l’orribil brando; il capo e il dorso 230 copron col cuoio de’ leoni, e in giro ruotan nodosa clava, e ne’ turcassi portan cento infallibili saette. Cantan inni ad Alcide, e le da’ mostri purgate terre; ed ei dall’alta cima 235 d’Eta li sente, e ne gradisce i canti. Manda Nemea soccorsi, e da le sacre del cleoneo Molorco ospiti vigne vengon gli agresti abitatori. È noto come Molorco ne l’angusto albergo 240 accolse Alcide: e ne le rozze porte scolpite sono ancor l’armi del Nume; e nel picciolo campo al pellegrino s’addita ov’ei posava l’arco, e dove la mazza, e ’l sito ov’ei talor giacea, 245 che ne conserva le grand’orme impresse. Siegue poi Capaneo di sì gran mole, che quantunque pedon, quasi da colle tutto sotto di sè rimira il campo. A quattro doppi a lui cingon lo scudo 250 di fuor coperto di ferrata piastra di quattro buoi le diseccate cuoia. L’Idra in esso si vede in tre gran giri ravviluppata, e già vicina a morte: tre de’ suoi capi semivivi ancora 255 splendono ne l’argento, e gli altri cela con maestrevol arte il fulgid’oro imitante la fiamma; e Lerna intorno ristagna l’acque, e le ritira indietro livide e infette dal crudel veleno. 260 Poi s’arma i fianchi e lo spazioso petto di ferree squamme, orribile lavoro, e non già de la madre; in cima a l’elmo porta un gigante; e de le frondi nudo un gran cipresso in vece d’asta impugna. 265 Sieguon sì fiero duce Anfigenía; e la piana Messene, e la scoscesa Itome; e posta sovra un alto monte Epi, e Trione e Pteleone ed Hello; e Dorion, che ’l suo poeta piange. 270 Tamiro fu costui, che osò nel canto contender colle Muse. Oh sempre folle, temerario garrir co’ numi eterni! E ne fu in pena de la vista privo, e condannato a viver muti gli anni. 275 Misero! A lui erano forse ignote le vittorie d’Apollo, e lo scuoiato Marsia, per cui famosa è ancor Cellene? Ma di già vinta e ottenebrata in parte d’Anfiarao la mente, egli pur viene; 280 e ben sapea quali funesti segni veduti avesse; ma la fiera Parca in lui soffoca il Nume, e l’armi in mano gli pone, e dietro se ’l rapisce a forza: nè senza colpa è l’infedel consorte, 285 che d’Harmonia il monile empio possiede. All’indovino esser fatal quest’oro prescritto aveano i Fati; e l’empia frode non gli era occulta; ma la moglie avara cambiò il marito ne l’infame dono, 290 e de le spoglie altrui n’andò pomposa. Argia, che vede star incerti ancora i consigli de’ duci, e che dal vate tutta la mole de la guerra pende, volentieri lo cede, e al caro sposo 295 lieta lo rende, e a lui così ragiona: - Di vani fregi non è questo il tempo per me, o signore, nè da te lontana far pompa d’una misera bellezza. Poco non mi parrà fra amiche ancelle 300 temprare il mio dolore, e i sacri altari sovente circondar col crin disciolto. Deh cessi Dio, che mentre tu di ferro suonerai cinto, e che la bionda chioma ti premerà l’elmetto, al collo io porti 305 il dotale d’Harmonia aureo monile. Forse daranci più felici giorni placati i Numi, e di pompose vesti tutte allor vincerò le argive spose, chè di Re moglie, e baldanzosa e lieta 310 di tua salute, fra festivi cori andrò divota a scioglier voti al tempio. Abbiasi l’oro pur colei che ’l brama, e può mirare con sereno volto di Marte infra i perigli il suo marito. - 315 Così passò d’Erifile ne’ tetti il monile fatale, e iniqui semi vi sparse d’odio; e l’avvenir scorgendo Tesifone ne rise. Anfiarao dunque sen viene sovra eccelso carro 320 da’ tenarei destrier tirato, e figli di Cillaro immortale e di mortali giumente: e il furto a Castore fu ignoto. Le sacre bende e l’apollineo culto lo palesan per vate; e su l’elmetto 325 porta i rami d’oliva, e intesse e fregia l’infula bianca di purpuree penne. Ei sostiene lo scudo, in cui risplende il fier Pitone ucciso, e regge il freno de’ focosi destrieri. Al carro intorno 330 vengon squadre d’arcieri, e sotto il peso trema la selva. Egli sta in alto assiso terribile in sembiante, e l’asta impugna. Sieguon il carro in numerose schiere Pilo e Amicle apollinea, e per naufragii 335 Mallea famosa; e Caria, che risuona d’inni a Cintia festivi; e Fari e Messe di colombe nudrice, e di Taigeto vien la falange; e turb’alpestre manda l’Eurota, fiera ed instancabil gente. 340 Mercurio stesso a nude guerre e a risse finte l’indura in militar palestra: quinci in lor spirti generosi infonde, e bel desio d’una onorata morte: esortano a morir le madri i figli; 345 e mentre piange a’ funerali intorno la turba, godon le feroci madri in veder coronati i lor ferétri. San stringere, allentar, girare i freni; insiem legati portano due dardi; 350 coprono il dorso di ferine pelli, e portan tremolanti in su l’elmetto le bianche penne dell’augel di Leda. Nè già son questi sol che il tuo stendardo sieguono, Anfiarao; ma la declive 355 Eli manda guerrieri; e la depressa Pisa; e color che ne’ sicani campi beon dell’ospite Alfeo: d’Alfeo, che l’onde intatte porta per sì lungo mare. Guerreggiano su i carri, e tutti a Marte 360 doman i loro armenti: un cotal uso dura fra lor fin da quel dì che infranse Enomao il cocchio, e cadde su l’arena: mordono il freno i fervidi destrieri, e di spuma e sudor bagnano il campo. 365 Tu pur, Partenopeo, dietro ti meni (nè ’l sa la madre) le parrasie schiere, troppo tenero ancora e mal esperto, per soverchio desio di nuova lode. Ah se Atalanta il risapea, tu certo, 370 tu non andavi; ma la forte donna a suon di corno da le crude fiere de l’opposto Liceo purgava i boschi. Fra tanti eroi di più leggiadro aspetto alcun non v’ha; nè già gli manca ardire, 375 purchè l’età più forte in lui maturi. Arsero al balenar del vago ciglio le Driadi, l’Amadriadi e le Napee. Dicesi che Dïana un dì che ’l vide di Menalo fra l’ombre in su l’erbetta 380 pargoleggiar, e girsen sì leggiero, che nel terreno appena l’orme imprime, se n’invaghisse, e l’amoroso fallo perdonasse a la madre, e di sua mano gli desse i dardi, e la real faretra 385 gli appendesse a le spalle. Egli sen viene ripieno il cuor di marzïal desio; e anela l’armi; e i bellici oricalchi brama sentir; e in militare arena lordare il biondo crin di molta polve; 390 scavalcare un nemico; ed in trionfo riportarne un destrier: già in odio ha i boschi, e si vergogna che d’umano sangue ne la faretra ancor asciutti ha i dardi. Ei risplende ne l’oro, e d’ostro il manto 395 scende ondeggiante, e si restringe al collo con nodi iberi in vaghe crespe accolto. Nel rilucente scudo impresse porta de la madre l’imprese, e di sua mano il fier cinghial di Calidonia estinto. 400 Pende al sinistro fianco il nobil arco, ed il turcasso di lucente elettro di gemme adorno gli risuona a tergo, tutto ripien di cretiche saette; e di minute maglie il petto copre. 405 Regge un corsier che vince i cervi al corso, coperto il dorso e l’uno e l’altro fianco di doppia pelle di macchiata lince, e che in sentir del suo signore armato più grave il peso, maraviglia prende. 410 Egli dolce rosseggia, ed innamora col leggiadro sembiante e co’ freschi anni. Gli Arcadi, che fur pria che fosse in cielo la luna e gli astri, a lui danno le schiere. Di lor si dice che da dure piante 415 fosser prodotti, e che stupì la Terra al primo calpestio de’ piedi umani. Non s’aravano ancora i campi: ancora non v’erano città, principi e leggi; nè v’eran maritaggi. Il faggio e il lauro 420 concepivano i figli, e dagli ombrosi frassini nacquer popoli; e i fanciulli verdi uscian fuor dal rovere e da l’olmo. Costoro il primo dì che usciro in luce, a l’alternar del giorno e della notte 425 stupiro, e nel veder cadere il Sole, gli corser dietro per fermarlo; e tema ebbero di restar sempre fra l’ombre. Già di Menalo i colli e le partenie selve d’abitator rimangon vuote; 430 e Strazia e Rife e la ventosa Enispe mandâr schiere feroci al gran cimento. Non Tegea si rimane, e non Cillene de l’aligero Dio madre felice; nè il rapido Clitone; o quel che Apollo 435 bramò suocero aver, chiaro Ladone; e non Lampía nevosa; o il Feneo lago, ond’è fama che Stige origin abbia. Vengon gli agresti abitator dell’Azza, Azza ch’è in ulular emulo all’Ida; 440 ed i parrasii duci, e di Nonacri la gente, che si rise de gli amori del faretrato Giove; ed Orcomene ricca di greggi; e Cinosura albergo di molte fiere; ed Epito; e la celsa 445 Psofida; e noto per l’erculee imprese l’Erimanto; e lo Stinfalo sonoro. Arcadi tutti son, tutti una gente, ma di culto diversa e di costume. Altri de’ Pafii mirti a sè fan clave: 450 altri s’arman di rustici bastoni: altri tendono gli archi e avventan dardi. Chi copre il crin d’arcadico cappello; e chi de’ Licaon l’uso seguendo, porta vuoto d’un’orsa il capo in fronte. 455 Queste le schiere fur che seguîr Marte. Non armossi Micene ancor turbata per le nefande mense, e per la fuga dell’attonito Sole, e per le guerre di due altri non meno empii fratelli. 460 Ma non sì tosto ad Atalanta giunse il tristo avviso che partiva il figlio, e dietro si traea l’Arcadia in guerra, che sotto si sentì tremar le piante, e i dardi si lasciò cader di mano. 465 Abbandona le selve, e al par del vento, qual si ritrova con il crin disciolto, in abito succinto il corso affretta; nè le arrestano il piè rupi o torrenti; e sembra lieve e inferocita tigre 470 che corra dietro al predator de’ figli. Giunge infine e l’arresta, e sovra il petto al rapido destrier respinge il freno. Impallidisce il giovane: essa allora: - E qual nuovo furor, figlio, t’accende? 475 Qual non matura ancor virtù ti muove? Tu le schiere ordinar? Tu fra i perigli correr di Marte tra le spade e l’aste? Deh fosse in te vigor pari al desio! Non ti vid’io testè pallido in viso, 480 mentre un fiero cinghial coll’asta premi, le ginocchia piegar, e resupino quasi cader? E se men pronto allora era questo mio dardo: ove le guerre? Ove saresti or tu? Nelle battaglie 485 non gioveranti questi strali; e invano ne’ tuoi confidi, e in questo tuo di nere macchie segnato fervido destriero. Tu tenti imprese oltre l’etade, e sei acerbo ancora a’ talami e a gli amori 490 de le leggiadre Ninfe d’Erimanto. Ahi fur veri i presagi! Io vidi il tempio tremar di Cintia, e mesta esser la Dea, e le spoglie cader da’ sacri altari; quindi più lento l’arco, e meno pronte 495 mie mani al saettar, e incerti i colpi. Aspetta almeno di acquistar maggiore forza con gli anni più maturi; aspetta che ’l vago viso il nuovo pel t’adombri, e meno a me somigli; allora il brando, 500 e le bramate guerre a te fien date; nè riterratti de la madre il pianto. E voi, Arcadi, dunque il signor vostro ir lascerete? O veramente dura gente nata da roveri e macigni! - 505 Volea più dir; ma sono a lei d’intorno, confortandola tutti a non temere, il figlio e i duci; e già le trombe il segno dan di partir: ella non sa disciorsi dal figlio; e al buon Adrasto alfin l’affida. 510 Ma la plebe cadmea da l’altra parte mesta, non già per lo vicin periglio, ma per le furie del crudel tiranno (poi ch’ode esser già mosso il campo argivo), vergognosa del Rege e dell’ingiusta 515 guerra, lenta e restia l’armi ripiglia; ma pur si muove mal suo grado alfine. Non han piacer, qual de’ guerrieri è stile, in rapir aste e brandi: a nissun giova vestir l’armi paterne, o de’ destrieri 520 prendersi cura; ma senz’ira e pigri sol promettono al Re le mani imbelli. Chi si duol di lasciare il padre infermo; chi la consorte giovanetta e i figli, che lieti a lui scherzavano d’intorno. 525 In ogni petto intiepidisce Marte. Le mura istesse da l’età corrose, e l’anfionie rocche il lato aperto mostrano rovinose, e un lavor muto quelle ripara, che già furo al cielo 530 alzate al suon dell’armoniosa cetra. Ma ’l guerriero furor, che in essi langue, le città di Beozia all’armi accende, sol per soccorrer la cittade amica, non già per favorir l’empio tiranno. 535 Ei sembra un lupo distruttor del pingue vicino armento, allor che, carco il ventre del crudo pasto, coll’irsute aperte fauci ancor lorde di sanguigna lana, da l’ovil si discosta, e i biechi sguardi 540 memore di sua strage intorno gira, mirando se de’ ruvidi pastori gli sovrasti lo sdegno; indi tra l’anche la coda asconde, e timido s’inselva. Cresce il terror la fama. Altri rapporta 545 che già i lernei corsier bevon l’Asopo: altri, che sono sul Citero; ed altri che accampan sul Teumesso; ed altri infine vide gli ostili fuochi entro Platea. Ognun portenti accresce; e i Tirii Lari 550 chi sudar giura; e correr sangue Dirce; ed esser nati mostruosi parti; la Sfinge urlar di nuovo; e quel che appena saper certo si può, dice che il vide. Ma novello timor turba la plebe. 555 La conduttrice de’ Baccanti Cori, disciolti i crini e dal suo nume invasa, furiosa scende dall’Ogigio monte, e la di pino tripartita face ruotando in giro, e rosseggianti i lumi, 560 l’attonita cittade empie di strida. - Oh gran padre Niseo, che dell’avita gente il primiero amor doni all’obblio, tu sotto il pigro Arturo a guerra muovi con ferreo tirso l’Ismaro feroce, 565 e le tue viti di Licurgo in onta pianti ov’ei proibille; o lungo il Gange tu scorri furibondo e trionfante per la purpurea Teti a’ regni Eoi; od esci fuor per gli aurei fonti d’Ermo. 570 Ma la progenie tua, l’armi deposte sacre al tuo culto, or qual può farti onore, fuor che di guerra, di timor, di pianto, di domestiche risse empie e nefande, premii d’ingiusto Re? Portami, o Bacco, 575 portami sotto ad un perpetuo gelo, e fin là dove il Caucaso risuona dell’armi femminili, anzi ch’io scopra gli error de’ duci e della stirpe infame. Ma tu mi sforzi: io cedo; altri furori 580 a te, Bacco, giurai. Io veggio, io veggio due fieri tori d’uno stesso sangue e d’onor pari insieme urtarsi, e quindi unir le fronti, e le ritorte corna scambievolmente avviticchiar fra loro, 585 e feroci morire in mezzo all’ira. Tu pria cedi, o peggior, tu che contendi il comun pasco al tuo compagno, e vuoi solo tiranneggiar la piaggia e il monte. Oh infelici costumi! Ambi nel vostro 590 sangue cadrete, e sarà d’altri il regno. - Tacque, ciò detto; e abbandonolla il Nume, e fredda cadde e tramortita al suolo. Ma da cotanti mostri il Re commosso si dà per vinto, e (come suol chi teme) 595 a Tiresia ricorre, e le sagaci tenebre ne consulta; e quegli afferma, che non sì certo il gran voler de’ Numi dall’ostie si ritragge, o dall’incise viscere, o dagli augelli, o dagli oscuri 600 tripodi, o dal fumar de’ sacri altari, o da’ moti numerici degli astri: come da’ spirti del profondo Averno richiamati alla luce. E già i letei sacrifici prepara innanzi al Rege, 605 colà, dove l’Ismeno entra nel mare. Ma prima colle viscere lo purga di nere agnelle, e col sulfureo fumo e con fresca verbena, e con un lungo magico mormorar d’ignoti carmi. 610 In questo luogo antica selva sorge di robusta vecchiezza, a cui mai ramo tronco non fu, nè vi penétra il Sole: nulla in lei puote il vento, e di sue frondi Noto non la privò, nè Borea spinto 615 co’ freddi fiati dalla getic’Orsa: un opaco riposo entro vi regna, e il placido silenzio un ozïoso orror vi serba, e dell’esclusa luce appena v’entra un tremolo barlume. 620 Nè senza Nume è il bosco: e di Latona sacro è alla figlia, e la celeste immago in ogni pino, in ogni cedro è impressa, e in ogni pianta; e la nasconde e cela tra le sant’ombre sue la selva annosa. 625 Spesso suonare non veduti strali de la gran Dea s’udiro, ed i notturni latrati de’ molossi; allor che fugge le oscure case del gran zio, e risplende tra noi serena e con più vago volto. 630 Ma quando stanca di cacciar le fiere, il più fitto meriggio a dolce sonno l’invita, i dardi intorno intorno appende, e ’l capo appoggia a la faretra e dorme, s’apre fuori del bosco immenso campo 635 a Marte sacro, ove il cultor fenice sparse guerriero seme. Oh troppo audace colui che dopo le fraterne schiere osò d’aprire nel terreno infame novelli solchi, e rivoltar le zolle 640 d’atro sangue cosperse! Il suolo infausto spira tumulto a mezzo giorno, e freme della notte fra l’ombre, allor che i figli della Terra risorgono, e fra loro rinnovar sembran le passate stragi. 645 Lascian gli agricoltori i campi inculti, ed a le stalle lor fuggon gli armenti spaventati e confusi. In questo luogo proprio a gl’inferni sacrifici, e grato a li tartarei Numi, a cui più in grado 650 son quei terren che pingui son di sangue, il vecchio sacerdote ordina e vuole che le pecore oscure e i neri armenti si radunino, e scelgansi fra loro le cervici più elette e più superbe. 655 Mesta Dirce restò vuota d’armenti, ed il Citero; e si stupîr le valli, che risuonavan pria d’alti muggiti, del silenzio improvviso. Ei pria le corna dell’ostie adorna di ceruleo serto, 660 e di sua man le palpa; indi il terreno nove volte scavato, entro vi versa attico mele, e ’l buon liquor di Bacco, e fresco latte, ed in gran copia il sangue delle vittime uccise, a cui più pronte 665 sogliono correr l’ombre, e non rifina per fin che il suol non è imbevuto appieno. Poi fa troncar la selva, e tre gran pire erge ad Ecate inferna, ed altrettante a l’orribili figlie d’Acheronte. 670 A te, gran Re del tenebroso regno, s’erge di pino un sotterraneo altare, che però colla cima all’aria sorge; ed un altro minore alla profonda Proserpina; e li cinge intorno intorno 675 l’ombra funesta del feral cipresso. E già segnate l’ardue fronti, e ’l farro sparsovi sopra, in su l’opposto ferro cadon tremanti le scannate greggi. Allor la vergin Manto in tazze accoglie 680 il fresco sangue; e come il padre insegna, prima ne liba, indi circonda i roghi tre volte intorno con veloci passi; e a lui descrive quali sien le fibre e gl’intestini palpitanti ancora: 685 nè più ritarda il sottopor le faci a l’alte pire, e in esse il fuoco accende. Ma poi che il Cieco udì strider la fiamma nell’ardenti cataste, onde al suo volto giunse il calore, ed aggirossi il fumo 690 per entro i vani della vuota fronte, alto esclamò; della gran voce al suono tremaro i roghi, e preser forza e lena gli oscuri fuochi: - O voi, tartaree sedi, o fiero regno d’insaziabil morte; 695 e tu, de’ tuoi fratelli il più crudele, a cui fu dato di regnar su l’ombre, e a’ colpevoli impor eterne pene, e comandare al sotterraneo mondo: aprite al batter mio le porte inferne, 700 e i luoghi oscuri e muti, e ’l vano regno di Persefone, e ’l vulgo a me mandate laggiù sepolto in un profondo orrore; e l’infernal nocchiero a me ’l riporti di qua da Stige in su la nera barca. 705 Ombre insieme venite al gridar nostro, ma del vostro venir sien vari i modi. Ecate, quelle, tu, che negli Elisi godono eterne paci, alme innocenti da’ rei dividi; indi Mercurio ombroso 710 colla potente verga a noi le meni. Quelle che stan fra le perdute genti in numero maggior, e la più parte scese da Cadmo, pria tre volte scosso un angue, a noi Tesifone conduca, 715 e lor mostri il cammin col tasso ardente; nè Cerbero crudel le spinga indietro. - Posto fine a’ scongiuri, egli e la figlia attenti stanno, e pieni già del Nume non conoscon timor; ma ’l Re tremante 720 e sbigottito al suon de’ detti orrendi, gli si accosta alle spalle, e per la mano ora lo piglia, ora le sacre bende afferra, e ’l preme, e non vorria l’incanto tentato avere, o tralasciarlo a mezzo. 725 Qual ne’ getuli boschi un fier leone attende al varco il cacciator dubbioso, che sè stesso conforta, e ’l grave dardo sostien con man sudante, e al suo periglio in ripensar, e quale e quanto attenda 730 nemico, impallidisce, e gli vacilla il passo, e lungi il gran ruggito udendo, ne misura le forze e n’ha terrore. Ma poi che tardi a lui vengono l’ombre, grida Tiresia con più fiera voce: 735 - Io vi protesto, orride Erinni, a cui arsi le pire e con sinistra mano versai sanguigne tazze; io vi protesto, che del vostro indugiar ira mi prende. Inutil dunque sacerdote e vano 740 a voi rassembro? Ma se infami carmi udrete susurrar tessala Maga, andrete pronte; o se possente Circe vi sforzerà con scitici veleni, vedrem tremante impallidir l’Inferno. 745 Forse a scherno io vi son perchè dall’urne non traggo a vita i corpi, e non rivolgo l’ossa già stritolate, e riverente non turbo i Dei dell’Erebo e del Cielo? O perchè non vogl’io con empio ferro 750 tagliar gli esangui volti, e da gli estinti strappar le meste fibre? Ah non sprezzate questa cadente etade e dell’opaca fronte le oscure tenebre: anche a noi lice l’incrudelir. Sappiam, sappiamo 755 ciò ch’è orribile a dir, ciò che temete, ed Ecate turbar, se per te, o Apollo, la gran germana tua prezzassi meno. So del triplice mondo il maggior Nume anch’io invocar, cui proferir non lice: 760 ma in questa mia cadente età lo taccio. Ben vi farò... - Ma l’interruppe allora la fatidica Manto; e: - O padre, (grida) t’udîr gli abissi, e s’avvicinan l’ombre: s’apre l’infernal Caos, e si dilegua 765 la caligin che copre il basso mondo. Veggio l’orride selve e i neri fiumi, e d’Acheronte vomitar le arene livide su le sponde; e Flegetonte versar onde di fiamme; e Stige oscura, 770 che il popolo dell’ombre in due diparte. Lo stesso Re veggio sedere in trono squallido in volto, e a lui le Furie intorno stanno di sceleraggini ministre: e le funeste stanze e dell’inferna 775 Giunone io scorgo i talami severi. Veggio a un verone pallida la Morte, che numera al tiranno il popol muto, e la parte maggiore a contar resta. Il cretense Minosse indi li pone 780 nella terribil urna, e con minacce n’esprime il vero, e li costringe e sforza a palesar fin da’ più teneri anni l’opre buone o nefande, e qual si deggia a’ lor merti o al fallir pena o mercede. 785 Dell’Erebo degg’io dir tutti i mostri? E le Scille e i Centauri invan frementi? E i ceppi adamantini de’ Giganti? O del gran Briareo la picciol’ombra? - - Vano è (dic’egli), o della mia vecchiezza 790 solo sostegno, il perder tempo in questo. E chi non sa l’irrevocabil sasso? E l’ingannevol lago? E Tizio in cibo dato a’ rapaci augelli? E d’Issione la volubile ruota e i giri eterni? 795 Ecate a me la regïon profonda tutta mostrò negli anni miei più verdi, prima che il nume a me il veder togliesse da gli occhi, e ’l respingesse entro la mente. Piuttosto i Grechi Spirti ed i Tebani 800 invita e chiama; e gli altri indietro spingi di bianco latte quattro volte aspersi, e via li manda dal funesto bosco. Poi di ciascuno e l’abito e l’aspetto, qual più beva del sangue, e qual più altiero 805 de’ due popoli venga a me fedele, descrivi, e le mie tenebre rischiara. - Essa allor mormorò magico carme, con cui l’alme disperge a suo talento, e a suo talento le disperse aduna. 810 Tali fur già (se l’empietà ne togli) Medea crudele e l’ingannevol Circe; e al sacerdote genitor ragiona: - Il primo a bere nel sanguigno lago è Cadmo; e Harmonia il suo marito siegue, 815 e l’uno e l’altro porta un serpe in fronte. Intorno a loro sta la fiera gente, popol di Marte della Terra figlio, a cui fu vita un giorno: ognun la mano tiene su l’elsa, ognuno l’armi impugna: 820 si assalgon, si respingon, si feriscono, come se fosser vivi; a lor non cale ber del sanguigno gorgo, ed a quel solo aspiran de’ fratelli. Ecco appo loro le cadmee figlie e l’infelice seme 825 de’ compianti nipoti: Autonoe viene orba ed afflitta; ed Ino ansia, anelante, che gli archi mira, e si restringe al petto il caro pegno; e Semele, che copre dal fatal fuoco con le braccia il ventre; 830 e Agave ancor, che libera dal Nume, infranti i tirsi e lacerata il seno, sè stessa accusa, e Penteo siegue e plora: quei per l’inferne vie sdegnoso fugge, e per gli stigii e pe’ superni laghi, 835 ove Echïon lo piange e ne raccoglie le lacerate membra. Io ben conosco Lico infelice, e d’Eolo la prole, che ’l figlio ucciso su le spalle porta. Ecco Atteon, che va cangiando aspetto 840 per lo suo fallo, e non però del tutto mutato è ancor: aspra ha la fronte e dura per l’ardue corna, e tuttavia la mano ritiene i dardi, e de’ rabbiosi cani ripugna a’ morsi, e li respinge indietro. 845 Dagl’invidiati figli accompagnata di Tantalo la prole ecco sen viene, e con altiero lutto i funerali va numerando, e nelle sue sciagure anch’è superba; e poi ch’a lei non resta 850 più che temer de’ Dei, più audace parla. - Mentre così la vergine favella, ecco arricciarsi le canute chiome al genitor, tremar le sacre bende, e leggermente rosseggiare il volto. 855 Scaglia lungi il baston, nè più s’appoggia alla vergine, e s’alza e, - Taci, o figlia, (dice) assai da me veggio, e le mie pigre squamme cadder dagli occhi e la mia lunga notte si dileguò. Ma donde viene 860 lo spirto che di sè tutto m’ingombra? Mi viene ei dall’Inferno, o pur da Apollo? Ecco già scorgo il tutto; e l’Ombre Argive meste abbassare i lumi; e il torvo Abante, e ’l colpevole Preto, e Foroneo 865 placido e mite, e Pelope squarciato, e nella sozza polve Enomao intriso avidamente ber lo sparso sangue: quindi la miglior sorte auguro a Tebe. Ma chi sono costoro insieme uniti? 870 A l’armi, a le ferite a me rassembra che sieno alme guerriere. E perchè mai ci minaccian col volto, e con il sangue e con le mani e con la vana voce? M’inganno, o Re? O quei cinquanta sono 875 che tu mandasti? Vedi Cromio e Cromi e ’l gran Fegea, e della nostra fronda il buon Meone ornato. Ah, duci invitti, deponete lo sdegno: il morir vostro opra non fu d’uman consiglio: a voi 880 questo fine la Parca avea prefisso: voi siete fuor d’ogni vicenda; a noi restano guerre orribili, e Tideo. - Sì dice; e indietro colla sacra fronda di bende cinta le respinge, e addita 885 a loro il sangue, ove saziar la sete. Sovra le sponde di Cocito solo stavasi Laio e abbandonato. Il Nume già l’avea ricondotto al nero Averno. Mirava torvo il reo nipote (e il volto 890 ben ne conosce): egli non corre al sangue col vulgo in folla, e non apprezza il latte, e sta ritroso e immortal odio spira. Ma l’aonio Indovin con dolci note a sè l’invita: - O della tiria plebe 895 inclito duce, al cui morir spariro i giorni lieti dell’Ogigie mura: è la tua morte vendicata assai; e di pena minor, di minor scempio la tua grand’ombra esser potea contenta. 900 Da chi misero fuggi? In lungo duolo giace colui che abborri, e già i confini tocca di morte squallido ed asciutto, pien di lordure il viso e senza lume; credilo a me: è della stessa morte 905 la sua vita peggior. Ma del nipote perchè schivi l’aspetto? A noi rivolgi placato il guardo, e ti disseta in questo sanguigno umor già consacrato a Dite; indi a noi scopri dell’orribil guerra 910 le future vicende, o sia che infausto a’ tuoi ti mostri, o che pietà ten prenda. Ti farò allor co’ sacrifici miei passar l’onda vietata, e ’l tuo insepolto busto ricoprirò di sacra terra; 915 e ti farò propizi i Dei d’Inferno. - Placossi Laio alle promesse, e il labbro nel sangue immerse; indi così rispose: - Deh perchè, mentre co’ possenti carmi turbi l’Inferno, me fra cotant’alme, 920 buon sacerdote, al vaticinio scegli? Forse il migliore le future cose a discoprir ti sembro? A me bastante è il rimembrarmi le passate. E voi, degni nipoti, a che cercar da l’avo 925 le risposte e gli oracoli? Colui, colui s’impieghi ne’ misteri orrendi che lieto uccise il padre, e l’innocente madre compresse, e fratei n’ebbe e figli. Ed or costui fatiga i Numi, e invoca 930 de le Furie il concilio, e le nostr’ombre eccita a l’armi; ma se pur vi piace che in tempi sì funesti augure io parli, quello dirò che a me sarà permesso da Lachesi e da l’orrida Megera: 935 Guerra, gran guerra; innumerabil gente veggio venir da Lerna; e Marte a tergo con sanguigno flagel l’istiga e spinge. Aspettano costor oneste morti: il suol vacilla: fulmina il Tonante; 940 e a’ cadaveri lor tardansi i roghi. Vincerà Tebe, non temer; nè il regno per questo riterrà l’empio germano; ma regneran le Furie e il doppio eccesso; e per le vostre infami spade (ahi lasso!) 945 resterà vincitor l’iniquo padre. - Ciò detto sparve, e li lasciò confusi nel dubbio senso de le oscure ambagi. Erano intanto le pelasghe schiere sparse e attendate nell’ombrosa valle 950 di Neme, nota per l’erculee prove. Tutti aspirano a Tebe, ed a far preda de’ sidonii tesori, arder le case e l’alte rocche, ed appianar le mura. Ma chi frenògli a mezzo il corso, e l’ire 955 ne fe’ più miti, e in vani error gl’involse? Tu che lo sai, Febo, ce ’l narra: a noi ne giunge incerta e non concorde fama. Domato l’Emo e i bellicosi Geti avvezzi al suon degli orgii suoi festivi 960 per ben due verni, e il Rodope nevoso e l’Otri fatto verdeggiar di viti, tornava Bacco, e ’l pampinoso carro indirizzava a le materne case. Nel vino intinti van lambendo i freni 965 le tigri, e molte maculate linci seguono il Nume; le Baccanti in schiera portan le spoglie de gli armenti uccisi, di lupi semivivi e d’orse lacere. L’Ira, il furore, la virtù, la tema 970 gli fan corteggio, e ’l non mai sobrio ardore, e capi vacillanti e incerti passi, di cotal duce esercito ben degno. Ei poi che vede polverosa nube da Neme alzarsi, e Febo trar da l’armi 975 lampi e fiammelle, e Tebe ancor non pronta a le difese, attonito nel volto, e nel cuor tristo fa cessar le tibie, e i cembali ed i timpani, e lo strepito vario e discorde, che rimbomba intorno; 980 e così parla: - Contro me si muove quest’oste immensa e contro il popol mio. Vien d’antica radice il furor nuovo: il crudel Argo è che mi muove guerra, e l’ira dell’indomita matrigna. 985 Forse non basta l’infelice madre in cenere ridotta? E ’l nascer mio tratto da’ roghi? E che lambîr me ancora le folgori paterne? Anche l’avello de l’accesa rival l’empia persegue, 990 e stragi porta a la tranquilla Tebe? Ma so ben io come fermarli: al campo, ite a quel campo, o miei compagni: Euhoè! - Al noto cenno le accoppiate tigri scuoton le giube, e in un balen vel portano. 995 Era ne l’ora che ’n meriggio il Sole rende il dì più affannoso, e gli arsi campi bramano i nembi, ed i più folti boschi più non fan schermo a’ penetranti raggi. Ei chiama allor le Dee de l’acque, e attente 1000 poi che le vede star, così favella: - Agresti Ninfe de le limpid’onde, parte miglior del mio seguace stuolo, deh non v’incresca per me far quell’opra ch’io vi commetto; deh, cortesi Dee, 1005 per poco tempo ritraete a’ fonti l’acque vostre da’ laghi, e i gonfi fiumi scoprano il fondo polveroso e asciutto. Ma più d’ogn’altro d’ogn’umor sia privo Neme, per cui l’ostile campo or passa. 1010 Pur che ’l vogliate, a voi da mezzo il cielo il Sole arride, e vi secondan gli astri, e d’Erigone mia l’estivo Cane. Ite, Ninfe gentili, ite sotterra. Io stesso poi vi chiamerò di sopra, 1015 e ricche vi farò di maggior onda: voi de le offerte e de’ miei doni a parte sarete sempre; ed i notturni furti de’ semicapri Numi e le rapine de’ Fauni ognor da voi terrò lontane. - 1020 Sì disse, e tosto impallidîr le Dee, e su l’umide fronti inaridiro le frondi e le ghirlande, e i campi d’Argo privi del natio umor arser di sete: fuggono l’acque, e più non stilla il fonte; 1025 nè ondeggia il lago, e vergognoso il fiume mostra del fondo l’indurato letto; arido è il suolo, e gli arbori e l’erbette in pallido color mutano il verde; stassi il gregge deluso in su le sponde, 1030 e cerca l’acque ove pria giva a nuoto. Non altrimenti avvien qualora il Nilo chiude ne gli antri l’acque sue feconde, che da l’umido verno ei già raccolse; fuman d’intorno le seccate valli, 1035 e del suo padre e Dio l’arida Egitto aspetta e brama il corso strepitoso; finch’egli a’ voti arride, e i Farii campi rende ubertosi e carichi di messe. Lirceo seccossi, e la nocente Lerna, 1040 e l’Inaco, che dianzi era sì grande, e ’l sassoso Caradro, ed il tranquillo Asterïone; e l’Erasino audace, che non soffre le sponde, e col fragore rompe da lunge a li pastori il sonno. 1045 Sola fra tanti (per voler de’ Numi) Langía ritien tacite l’onde all’ombra di recondita selva. Ancor famosa Langía non era per l’acerbo fato d’Archemoro, nè fama avea di Dea: 1050 ma pur, qual era, conservava intatte e l’onde e ’l bosco; in guiderdon s’appresta grande alla Ninfa e memorando onore, quando li giuochi, che li duci achei d’Isifile dolente in rimembranza 1055 celebrâr ivi e dell’estinto Ofelte, rinnoveransi poscia ogni terz’anno. Da sì cocente ardor vinto ed oppresso non può il soldato sostener lo scudo, e i lacci scioglie del lucente usbergo. 1060 Nè sol l’aride fauci arde la sete, ma ’l sangue asciuga entro le vene, e ’l cuore con aspro palpitare anela e langue. S’alza da terra un vapor tetro e denso di polve e di caligine; i destrieri 1065 non bagnano di spuma i freni aurati, ma portan le cervici a terra chine, e mostran fuori l’assetata lingua: più non temon lo spron, nè de la mano senton la legge, ma furiosi e insani 1070 scorron pe’ campi e van cercando l’acque. Adrasto manda ad ispiar d’intorno, se qualche umore l’Amimon conservi, o pur Licinnia, od altro fonte o fiume; ma fonti e fiumi altro non dan che arena; 1075 nè di piogge o di nembi a gl’infelici riman speranza: quasi i campi adusti calchin di Libia, o l’Affrica arenosa, o la sempre serena aspra Sïene. Pur mentre vanno per le selve errando, 1080 (così Bacco volea) bella nel pianto e nel suo duolo Isifile trovaro. A lei pendea dal seno il non suo figlio Ofelte, di Licurgo infausta prole: scompigliata le chiome e in rozze spoglie 1085 ritiene ancor nel nobile sembiante la maestà regale e ’l primo onore. Adrasto allora attonito e conquiso supplichevole a lei così ragiona: - O de’ boschi possente o Ninfa o Dea 1090 (chè non somigli tu cosa terrena) che siedi lieta, e sotto il Sirio ardente l’onde non cerchi: a queste genti amiche aita porgi; o te la faretrata Dïana scelta dal suo casto coro 1095 abbia ella stessa in imeneo congiunta; o te feconda di sì vaga prole Giove abbia resa (e non è nuovo a lui scendere in Argo agli amorosi furti), pietà ti prenda dell’afflitte schiere. 1100 A Tebe andiamo, a la colpevol Tebe; ma l’aspra sete ogni vigor ne frange, ritienci in ozio e gli animi deprime. Tu ci soccorri; e a noi addita o fiume, o torbida palude: a’ casi estremi 1105 ogni rimedio giova, e nulla a schivo aver si de’: noi t’invochiamo invece e de’ nembi e di Giove; e tu rinfranca in noi le forze, e gli arsi petti inonda: così questo gentil tuo caro pegno 1110 cresca felice. Ed oh, se a noi fia dato vincitori tornar, di quanti doni ti renderem mercede! A te svenati tanti capi cadran del vinto gregge che di costoro il numero compensi 1115 che tu salvasti; ed ergerò un altare in questo bosco in rimembranza eterna del tuo gran dono, o mia propizia Dea. - Così parlò; ma l’affannata lena più volte gl’interruppe i mesti accenti, 1120 e senza spirto titubò sovente tra l’arse fauci l’assetata lingua. Uno stesso pallor si scopre in tutti e uno stesso anelar. Ma gli occhi abbassa la gran donna di Lenno, e sì risponde: 1125 - Quale scorgete in me segno di Dea? Mortal son io, benchè da’ Numi scenda il sangue mio: ed oh così non fossi d’ogni mortal la più infelice ancora! Io d’altri figli madre, a l’altrui figlio 1130 il latte porgo; e sallo Dio, se i nostri altre poppe allattâr, od altro seno accolse. E pur Regina io sono, e un Nume è l’avo mio; ma che ragiono invano, e dal torvi la sete io vi trattengo? 1135 Andiam; forse Langía daravvi l’acque. Ella suol conservarle ognor perenni, e sotto il Cancro e sotto il Sirio ardente. - Disse; e per farsi più spedita e pronta guida de’ Greci, il misero bambino 1140 adagiò sovra tenero cespuglio, (così volean le Parche) e lui piangente rasserenò con dolce mormorio, e gli fe’ letto di fioretti ed erbe. Così già intorno al pargoletto Giove 1145 Cibele pose i Coribanti suoi: fan co’ strumenti lor vari frastuoni, ma del Nume al vagire Ida rimbomba. L’innocente bambin, che riman solo, or va carpone per la molle erbetta, 1150 or piange e chiama la nudrice e ’l latte, or s’allegra e sorride, e balbettante cerca voci formar cui nega il labbro; ora i rumori e ’l mormorar del bosco attento ascolta; or con l’aperta bocca 1155 le dolci aure respira, e de le selve non conosce i perigli, e di sua vita. Marte così sovra le Odrisie nevi; del Menalo così sovra la cima Mercurio; e su gli Ortigii lidi Apollo 1160 pargoleggiaro un tempo. I Greci intanto per selve ascose e per ignote vie colla fedele lor scorta sen vanno, ed altri la precede, altri la segue. Ella per mezzo a l’assetato stuolo 1165 va nobilmente accelerando il passo: e già si sente risuonar la valle per lo fiume vicino, e di sue linfe rotto fra’ picciol sassi un correr lento. Prima l’alfier de’ cavalieri argivi 1170 l’acque scoperse, e da le prime file lieto gridò: - Compagni, eccovi l’acque: - ed acque ed acque replicar si sente da’ primieri a’ sezzai di voce in voce. Alza così tutto ad un tempo il grido 1175 la ciurma allor che il capitan dà il segno, e tempio eccelso su la spiaggia addita: salutan essi il Nume, e ne rimbomba il lido, e l’eco ne rimanda il suono. Lanciansi a gara negli ondosi vadi 1180 e duci e plebe: la rabbiosa sete nulla distingue: li cavalli e i carri co’ lor signori, e di tutt’arme carchi saltan nell’onde; altri ne porta il fiume, altri inciampa ne’ sassi, e vanne al fondo. 1185 Non s’ha rispetto a’ Regi; e sovra loro passa la turba, ed il caduto amico l’amico calca: ne gorgoglia il fiume, e l’assetate squadre insino al fonte l’han quasi asciutto; e n’è corrotta e lorda 1190 l’acqua, che pria correa limpida e pura tra verdi sponde; e benchè fatta un lezzo e già spenta la sete, ancor si bee. Diresti quivi imperversar le schiere in aspra guerra, o saccheggiar già vinta 1195 ed afflitta città per ogni parte. Ma grato uno de’ Re di mezzo al fiume alzò le mani, e così orando disse: - O Neme, o de le verdi ombrose selve Regina, o grata sede al sommo Giove, 1200 non faticosa tanto al forte Alcide, quant’ora a noi, quand’egli al fiero mostro colle robuste braccia il collo strinse, e lo spirto gli chiuse entro le fauci: bastiti aver sin qui de’ Greci tuoi 1205 ritardate le imprese e i giusti sdegni. E tu cortese, avventuroso fiume, dator d’acque perenni, e non mai domo dal più cocente Sol, corri felice. Tu, per qualunque de’ celesti segni 1210 Febo s’aggiri, sempre hai colmo il seno: a te non danno le brumali nevi soccorso d’acque, o l’Iride piovosa, o i nembi pregni di tempeste e tuoni; ma di te stesso ricco eterno corri. 1215 L’apollineo Ladone a te d’onore non si pareggia; o l’uno o l’altro Xanto; o Sperchio minaccevole; o Licormo guardato un tempo dal biforme Nesso. Te dopo Giove, e in mezzo all’armi e in pace, 1220 e a liete mense invocherò qual Nume; pur che fastosi e vincitor ne accolga anche al ritorno, e le ospitali linfe lieto ci porga, e riconosca e accetti queste da te salvate amiche schiere. - Spenta la sete, e saccheggiato e scemo il fiume d’onde, n’escon fuor le schiere: più vivace il destrier trita l’arena; più lieti van per la campagna i fanti; 5 ogni guerrier l’usato ardir riprende, e le prime minacce e i primi voti: sembra che nuovo fuoco abbian con l’onde bevuto, e accese a guerreggiar le menti: torna ciascuno alle sue insegne, a’ duci, 10 all’ordin primo; e già schierato il campo si muove e marcia: alzasi immensa polve, e al balenar di cotant’armi e a’ lampi par ne sfavilli la gran selva ed arda. Sì dal tepido Egitto, ove le nevi 15 fuggîr dell’aspro verno, a noi sen viene stormo di grù dal Paretonio Nilo, allor che scioglie primavera il ghiaccio: esse volan gracchiando, ed al rumore l’aria risuona, e tutte accolte insieme 20 fann’ombra colle penne a’ campi e a’ mari: già piaccion loro i freddi venti e i nembi, ed han diletto di nuotar pe’ fiumi sciolti dal gelo, e l’importuna estate passar su’ monti scarichi di neve. 25 Il figlio allor di Talaone, Adrasto, d’un orno all’ombra, e d’ogn’intorno cinto da’ maggior duci, ed appoggiato a l’asta di Polinice, a Isifile favella: - O tu, chiunque sei, ch’hai gloria e vanto 30 d’aver data salute a tante schiere, (onor di cui si pregierebbe Giove) deh ci racconta, ora che stiam d’intorno, tua gran mercede, alle benefich’onde, qual la tua patria sia, qual la tua stirpe, 35 da qual astro discenda e da qual padre. Certo, sebben te la fortuna prema, il tuo sangue è da’ numi, e lo palesi al nobil volto, e da l’afflitto aspetto esce splendor che riverenza induce. - 40 Sospira allor la donna, e ’l viso bagna d’alquante lagrimucce; indi risponde: - Tu mi comandi, o Re, ch’io rinnovelli l’acerbe piaghe ed il furor di Lenno, l’orrido tradimento, e ’l viril sesso 45 spento da infame ferro. Ah che di nuovo parmi veder l’abbominata impresa, e sento al cuor della gelosa Erinni il velen freddo. Oh sfortunate donne da Furie invase! Oh scelerata notte! 50 Io quella, o duci (acciocchè a voi sì vile non sembri il mio soccorso) io quella sono che, il genitor celando, a morte tolsi. A che tutti riandar sì lunghi affanni? Voi chiaman l’armi e i bellici apparati: 55 basti saper che Isifile son io, figlia di Toante, e di Licurgo or serva. - Stupiro; e parve lor più grande e degna d’onore, e a cui debban salute e vita; e di saper suoi casi in lor s’accese 60 maggior la brama; onde di nuovo Adrasto: - Anzi noi ti preghiam, mentre che ’l calle sgombran le prime schiere, e non sì tosto saran l’altre spedite in tanta selva intralciata di rami e d’ombre eterne; 65 narra gli altrui misfatti e le tue lodi, e di Regina chi ti fece ancella. Giova il dolore mitigar parlando a’ miseri, e trovar chi li compianga. - Ed essa allor: - Lenno dall’onde è cinta 70 del procelloso Egeo: sovente in essa Vulcan riposa dagli etnei sudori; l’Ato sublime tutta intorno intorno l’isola adombra, e di sue molte selve stende l’opaca immagine nel mare: 75 stanno i Traci a rimpetto a noi fatali, e d’ogni nostro mal prima cagione. Di popoli fioriva e di ricchezze l’isoletta felice; e a Samo, e a Delo cotanto per gli Oracoli famosa, 80 e a quant’altre ne abbraccia il vasto Egeo, non cedeva di fama e di valore. Ma piacque a’ Dei turbar le nostre case, nè senza nostra colpa. I tempii e i fuochi non fur fra noi a Venere concessi. 85 Anche ne’ Dei sdegno si desta; e a noi giungon con tardo piè le giuste pene. Fama è che accesa di furor la dea lasciò l’antica Pafo e i cento altari, e mutata d’aspetto e d’ornamenti 90 si sciolse il cinto coniugal da’ fianchi, e degl’Idalii augei più non le calse. Molte vi fur che nella buia notte la vider penetrar ne’ chiusi alberghi, di maggior face e maggior dardi armata, 95 in mezzo a le tre figlie d’Acheronte. Ma non sì tosto le più interne stanze infestò colle serpi, e sparse intorno odi, timori, gelosie e sospetti, sparîr da Lenno i lusinghieri amori: 100 Imeneo sen fuggì, le nuzïali tede rimaser spente; e fur incolti i legittimi letti: alcun piacere non ha seco la notte; e in dolci e casti amplessi più non dorme alcun marito. 105 Sorgon risse per tutto, ire e rancori, e in ogni letto la Discordia giace. Era solo piacer del viril sesso pugnar co’ Traci negli opposti lidi, e col ferro domar la fiera gente; 110 e benchè in faccia abbian le case e i figli, aman piuttosto le bistonie nevi e gli Aquiloni; e di riposo invece dopo il pugnar, con subite ruine torrenti udir precipitar da’ monti. 115 Io era allor in giovinetta etade vergine ancora e d’ogni cura scarca. Ma le donne di Lenno afflitte e immerse in un continuo lutto, ora con gli occhi pendon da’ tracii lidi, ora il dolore 120 cercano insieme mitigar parlando. Tenea sospeso in su ’l meriggio il carro Febo, come se stesse e i suoi destrieri riprendessero lena; e d’ogn’intorno era sereno e senza nubi il cielo: 125 quando ben quattro volte orribil tuono udissi, e quattro volte il mar turbossi senza venti e procelle; ed altrettante gli antri del nostro Dio vomitâr fiamme. Ed ecco uscir contro l’usato fuori 130 del chiuso albergo dalle Furie invasa la canuta Polisso: appunto come suol Menade Baccante, allor che il Nume l’eccita e chiama alle sue feste insane, al suon de’ bossi, onde rimbomba il monte. 135 Costei torve le luci e sanguinose, orribile in sembianza e furibonda, la deserta città confonde e turba: batte le porte, e un reo concilio aduna. Dietro le vanno gl’infelici figli. 140 Ella insta e preme; e già lasciati i tetti, tutte corriamo alla Palladia rocca: senz’ordine e confuse empiamo il tempio. Ma la crudele impon silenzio, e ’l ferro nudo tenendo in man, feroce parla: 145 - Vedove donne, al memorabil fatto, che ispirata da’ Numi io vi propongo, gli animi ergete, ed obblïate il sesso. Se in odio è a voi nelle deserte case viver solinghe, e dell’etade il fiore 150 veder marcir negletto, e menar gli anni sempre infecondi in su le fredde piume: il modo io so (nè mancheranne il Cielo) di trovar nuove nozze e nuovi amori, pur ch’eguale all’affanno in voi si desti 155 valor, ed or da l’opra io ’l riconosca. E chi di voi (e già la terza neve veduta abbiam) ne’ maritali letti gustò piaceri occulti? E chi nel seno si scaldò del marito in casti amplessi? 160 Chi Lucina invocò? Chi portò il ventre gonfio, co’ voti accelerando i mesi? Giungonsi insieme pur e fere e augelli; e noi sole staremo? O vili! O pigre! Potè di ferro alle donzelle greche 165 le mani armare il padre e i dolci sonni de’ generi mirar sparsi di sangue. E noi imbelle vulgo inulte stiamo? Che s’uopo è ancor di più vicini esempi: la gran donna di Tracia a far vendetta 170 v’insegni ultrice dell’offeso letto, che diè al marito i propri figli in cibo. Nè innocente tra voi sola e sicura essere io voglio: io mostrerò il cammino. Molti scherzano a me nelle paterne 175 case miei figli e miei sudori insieme: quattro n’ho meco, cura e amor del padre: vo’ recarmeli in grembo, e questo ferro (nè riterranmi i loro amplessi e i pianti) loro immerger nel cuore, e de’ fratelli 180 mischiarvi insieme il sangue, e ’l genitore trucidar su’ cadaveri spiranti. Ma chi di voi s’offre compagna all’opra?". Più volea dir, quando da l’alto mare lungi fur viste biancheggiar più vele: 185 l’armata era di Lenno; allor l’offerta occasïon Polisso abbraccia, e segue: "Ecco, dio ce li manda: a tanto invito sarem noi sorde? Ei ce li pone in mano, e a le nostr’ire gli abbandona e guida, 190 e l’impresa giustissima seconda. Non fur vani i miei sogni: a me nel sonno Venere armata apparve, e così disse: A che perder l’etade? Ite, e purgate da’ perfidi mariti i vostri letti. 195 Io poi v’accenderò novelle faci, e darò nuove nozze. E questo ferro, partendo, mi lasciò cader sul letto. A che più consultar, se ’l tempo è questo d’eseguire il gran fatto? Ecco già spuma 200 percosso il mar da’ remi, e in ogni nave forse vien qualche barbara consorte". Questa fu l’esca ch’ogni petto accese di rabbia e di furor; e orribil grido tutte ad un tempo alzâr fino alle stelle. 205 Con eguale rumor scendon da’ monti le Amazzoni feroci in curva schiera, qualora il padre lor pon l’armi in mano ed apre della guerra il chiuso tempio. Nè già fra lor, come del vulgo è stile, 210 son diversi i pareri: un sol furore in tutte è fermo: desolar le case; e la canuta e l’ancor fresca etade mandar a morte; e i teneri bambini soffocar tra le tumide mammelle; 215 e col ferro passar per tutti gli anni. Vicino al tempio di Minerva siede un sempre verde bosco, e a tergo s’alza sublime un monte, e nella gemin’ombra rimane oscuro e quasi spento il Sole. 220 Quivi si dier la fede, e fur presenti Proserpina e Bellona; e non chiamate venner le Furie; e non veduta serpe Venere in ogni petto; e ’l ferro in mano essa ci pone; essa ne istiga e accende. 225 Fu d’uman sangue il sacrificio, e l’empia di Caropo consorte il proprio figlio vittima offerse nel concilio orrendo. S’accinsero all’impresa, e ’l molle petto degno di maraviglia, anzi d’amore, 230 squarciâr co’ ferri; e colle destre unite, e sul sangue fumante e vivo ancora giurâr la sceleraggine gradita. Volò intorno alla madre l’ombra esangue. Ahi qual mi feci allor! Quale mi scorse 235 orror per l’ossa! Qual mi tinsi in viso! Così cervetta intimorita e cinta da sanguinosi lupi, e che sol una speranza ha nella fuga, il corso affretta, e la salute sua fidando al piede, 240 teme ognor d’esser presa, e a tergo sente suonar a vuoto l’avide mascelle. Giunt’erano le navi, e ne le prime spiagge molte arenârsi; i padri e i sposi saltano da le poppe e da le sponde 245 precipitosi e impazïenti a terra. Miseri, cui non spense il tracio ferro in valorosa impresa, o il mar crudele non affondò ne’ vortici spumosi! Traggon l’ostie votive a’ sacri tempii: 250 fuman gli altari, e nera fiamma sorge, e in ogni fibra è difettoso il Nume. Giove mosso a pietà, finchè ’l permise l’immutabil Destino, in ciel sospese l’umida notte, e con paterna cura 255 tardò il corso degli astri, e sovra noi (già spento il Sol) venner più lente l’ombre. Sorsero alfin le stelle; e Paro, e Taso per molti boschi ombrosa, e le frequenti Cicladi ne splendean di chiara luce. 260 Tra le tenebre sola ascosa giace Lenno e da nebbie involta, e sopra lei, per non mirar, s’ammantò ’l ciel di nubi; nè la vider da l’alto i naviganti. Già gli uomini infelici, e per le case 265 sparsi e pe’ sacri boschi, a laute mense siedon festosi, e tracannando il vino vuotano gli aurei nappi insin al fondo; e raccontando van l’aspre battaglie del Rodope, di Strimone e dell’Emo. 270 Stanno fra lor cinte di serti il crine, e de’ più vaghi fregi adorne e belle le crudeli consorti. In quell’estreme ore Venere avea degl’infelici sposi placati i cuori, e breve fiamma 275 in loro accesa, e momentanea pace. Posto fine a’ conviti, a poco a poco cessano i salti e i giuochi e de la prima notte il tumulto. E di già il Sonno asperso d’infernale vapor, e de la Morte 280 fratello, versa sopra il viril sesso grave e mortal sopor da tutto il corno. Ma le spose e le vergini al delitto vegliano attente: ognuna il ferro arruota, ognuna ha in petto la sua propria Erinne. 285 Non altrimenti le leonze ircane da fame spinte a lo spuntar del giorno, per gli scitici campi i vili armenti cingon d’intorno, e gli avidi lor parti aspettan desïosi il nuovo latte. 290 In dubbio sto, buon Re, qual pria, qual poi di tanti casi, a te parlando, esponga. Alto dormia sopra tappeti assirii Edimo il crin cinto di frondi, e ’l vino iva esalando: allor l’iniqua Gorge 295 il sen gli scopre, e cerca ove più certa faccia la piaga; e ’l sen gli fere: ei muore, e nel morir si sveglia, e gli occhi gira, e l’inimica sua d’amplessi cinge: ella senza pietade il crudo ferro 300 nuovamente gl’immerge infra le coste a dentro sì, che fuor del petto uscendo a piagar giunge di se stessa il seno. Ei langue e manca, e con tremante sguardo in lei rimira, e singhiozzando dice: 305 - Gorge, o mia Gorge, - e da l’indegno collo non sa staccar l’innamorate braccia. Taccio le stragi de l’ignobil vulgo, benchè crudeli; e sol del regio sangue scegliendo narro, e di mia stirpe, i lutti. 310 Dirò di voi (che meco aveste il latte) figli del padre mio, ma d’altra donna; di te, biondo Cidon, di te, Cremea, cui le non tronche chiome in su le spalle ondeggiavan lascive; e del feroce 315 Gía mio vicino sposo, e da me al pari e temuto e bramato; che per mano de la fiera Mirmidona cadéro. Stava Opopeo cinto di serto il crine tra le mense scherzando e i lieti cori; 320 e la madre crudel da tergo il passa. Geme su Cidimone a lei fratello, ed eguale d’età, fatta pietosa Licaste disarmata: il volto mira già vicino al morir, che a lei somiglia, 325 e le fiorite guance e i biondi crini, ch’essa ornò di sua mano; e geme e plora: giunge la fiera madre che ’l consorte svenato aveva, e la minaccia e spinge al fratricidio, e in man le pone il ferro. 330 Come fiera, cui placido custode tolto abbia l’uso del natio furore, lenta si mostra a l’ira, e ancor che punta sia da’ colpi talor di sferza cruda, non però torna a la fierezza antica: 335 così Licaste s’abbandona e cade sovra ’l fratello, e nel cader lo fere, e in sen ne accoglie lo stillante sangue, e col lacero crin la piaga preme. Ma quando vidi Alcidame spietata 340 portar in man del venerabil padre il capo tronco e mormorante ancora, mi s’arricciâr le chiome, e per le vene mi scorse un freddo orrore: il mio Toante allor mi venne in mente; e la mia destra 345 di ferro armata abominando, io corsi turbata e mesta a le paterne case. Desto ei giaceva: e chi può gli occhi al sonno chiuder tra mille cure? Ancor che lungi da la città l’albergo avesse, a lui 350 era giunto il susurro: - E donde mai (tra sè dicea) il gran tumulto nasce? Qual rumor ne la notte? E perchè i sonni turbati son da fremiti e lamenti? Tutto per ordin narro: qual dolore 355 le donne instighi; quel c’han fisso in mente: chè nulla puote a la lor rabbia opporsi. Vieni meco, infelice: in su le porte già ci son quelle Furie: e se più tardi, forse insieme cadremo. - Egli commosso 360 balza dal letto. Per rimote vie la deserta città passiam scorgendo (cinti d’intorno di mirabil nube) accatastati in ogni parte i morti, ne gli atti stessi e in quella stessa guisa 365 che la notte crudel pe’ sacri boschi gli avea sparsi e distesi: altri del letto alle morbide piume affissa tiene la morta faccia, altri supino in seno immerso ha il brando insino all’elsa; i tronchi 370 miransi qui de l’aste infrante, ed ivi su’ freddi corpi le squarciate vesti; qua rovesciati i vasi, e là disperse le vivande nuotar ne l’empia strage, e a le tazze tornar quasi torrente 375 da le fauci trafitte il vin col sangue. Giaccion confusi i giovani feroci e i venerandi vecchi, che da l’armi esser dovean sicuri, e sovra i padri, languidi e moribondi, i semivivi 380 figli, che a lo spuntar de la prim’alba trovâr del viver lor l’ultima sera. Non con tanto furor su ’l gelid’Ossa turban le mense i Lapiti feroci, se i Centauri biformi e della nube 385 figli muovongli a sdegno: appena i volti veggons’impallidir, dar segno d’ira, che sossopra le tavole volgendo, corrono a l’armi minacciosi e insani. Trepidi fuggivam, quando fra l’ombre 390 Bacco n’apparve, e d’improvvisa luce ne rischiarò il cammin, gli estremi aiuti mesto portando al figlio suo Toante. Il riconobbi: ei non avea le tempie cinte di frondi, e non il crine adorno 395 di pampinosi fregi: il volto a terra mesto teneva; e benchè Nume, in pianto gli occhi stillando, a lui pietoso parla: "Fin tanto, o figlio, che a te diede il Fato di Lenno possedere il nobil regno, 400 e farlo formidabile e temuto a le straniere genti, ogni paterna e giusta cura in tuo favore oprai. Ma le crudeli Parche il primo stame han già troncato; nè le preci e i pianti, 405 che vanamente io sparsi, hanno potuto Giove mutar, nè disturbar la strage. Egli quest’empio onor diede a la figlia. Affrettate la fuga. E tu ben degna d’uscir dal sangue mio, vergine illustre, 410 colà conduci il padre, ove in due braccia diviso il muro si distende al lido: là da quell’altra porta, ov’è maggiore lo strepito e ’l tumulto, armata stassi Venere infesta, e le furiose donne 415 instiga e accende. E donde mai cotanto sdegno e furor nell’amorosa Dea? Chi guerra le ispirò nel molle petto? Tu vanne, e ’l padre affida al mar profondo". Così parlando, in aria si disciolse, 420 e ’l calle tenebroso a noi segnato lasciò con striscia di mirabil luce. Seguo il celeste segno; e ’l genitore a cavo legno affido, e a quanti Numi regnano in mare il raccomando, e a’ venti 425 e a l’Egeo che le Cicladi circonda. Mai non avremmo posto fine a’ pianti, nè a gli amplessi reciprochi, se in cielo non vedevam Lucifero cacciarsi le stelle innanzi, e già spuntar l’aurora. 430 Ci dividiamo alfine: io mi divello da lui, dal lido, rivolgendo in mente molti funesti e timidi pensieri; e de lo stesso Dio mi fido appena. Io vado, e col pensiero indietro torno, 435 e non ho pace. Febo sorge intanto; e da ogni colle io vo guardando il mare. Ma già risplende il vergognoso giorno, e Febo nel varcar gli usati segni torce il lume da Lenno, e tra ’l suo carro 440 e i nostri monti una dens’ombra stende. Scopriro allor gli empii furor notturni le insane donne, e benchè ree del pari, guardârsi in viso, e n’ebber onta e scorno. Altre celan sotterra il reo misfatto 445 e l’empia strage; altre con presti fuochi i cadaveri tronchi ardono in fretta. Da l’afflitta città partono intanto l’Eumenidi spietate, e di vendetta Venere già satolla. Allor potero 450 riconoscer le misere il lor fallo, e strapparsene i crini e pianger tardi. Un’isola di campi e di molt’oro ricca, e famosa per mirabil sito, d’armi e d’eroi possente, e via più chiara 455 fatta pur or dal getico trïonfo; non da l’aria nociva, non dal mare, non da’ nemici vinta, orba rimase del viril sesso, e svelta fu dal mondo: non resta alcun che con gli aratri solchi 460 i campi, e colle navi il mar sonante: tutte le case alto silenzio ingombra; scorre a torrenti per le strade il sangue, tutto è lordo di strage; e in così vasta città sole noi siamo, e sole intorno 465 gemon l’ombre sdegnose a’ nostri tetti. Anch’io frattanto del mio regio albergo ne’ più segreti chiostri alzo una pira di vasta fiamma, e l’armi e l’aureo scettro del padre, e ’l manto e le reali insegne 470 sopra vi gitto; indi col ferro in pugno tinto di sangue assisto al rogo e a’ fuochi, e pianger fingo sovra il corpo vano per timor de le femmine omicide; ma prego i Dei che sia l’augurio vano, 475 e cessi ogni timor de la sua morte. Tal merto m’acquistò l’ordito inganno, che lo scettro paterno a me le donne ne diero in premio, e fu supplicio e pena. Come negar da le lor forze cinta? 480 A lor voler m’arresi; ma co’ Numi protestai la mia fede, e le mie mani de lo scettro del padre essere indegne. Prendo l’imbelle impero, e senza forze Lenno deserta. O infame gloria! O regno! 485 Già fra noi cresce il pentimento, e deste ci tien le menti, e le flagella ed ange. Non son più occulti i pianti; e ’l lor delitto detestan tutte, ed han Polisso in ira. Già si permette alzar altari a l’ombre, 490 e chieder pace al cenere sepolto. Così qualor le attonite giovenche vider squarciato da leon Massile il lor duce e marito, e delle selve gloria, e decoro dell’adulto gregge; 495 meste van senza guida; e ’l Rege estinto piangon i campi e i fiumi e i muti armenti. Ed ecco intanto con ferrata prora fender l’intatto mar tessala nave, vêr noi prendendo il rombo. I Minii audaci 500 ne son duci e nocchieri: e d’ambo i lati l’Egeo diviso ne biancheggia e freme. Diresti qui dalle radici svelta nuotar Ortigia, o sopra l’acque un monte. Ma poi ch’in alto fur sospesi i remi, 505 e tacque il mare, da l’eccelsa poppa voce n’uscì più dolce e più soave de’ moribondi cigni e della cetra del gran nume di Delo; ed al concento corse Nettuno, e avvicinossi al legno. 510 Era il cantor (come fu poscia noto) d’Eagro il figlio, l’immortale Orfeo, che in mezzo a tanti eroi sedendo in alto, coll’aureo plettro a lor rendea soavi le magnanime imprese e le fatiche. 515 Essi il lor corso verso il freddo Scita avean drizzato, e a’ perigliosi vadi delle Ciani sassose: e noi credemmo che fosse un legno trace a noi nemico. Corriamo per le strade e per le case 520 timide a guisa di smarrite agnelle, o di fugaci augelli. Ahi dove allora eran le Furie? Indi ascendiamo al porto, e sovra il muro che circonda i lidi e su l’eccelse torri; e sassi e travi 525 quivi portiamo, e de’ consorti estinti trepide prendiam l’armi e i lordi ferri dell’ancor fresca strage: i petti imbelli copriam d’usberghi, e i delicati visi chiudiam negli elmi; e non n’abbiam vergogna. 530 Mirocci Palla, ed arrossissi in volto; e il Dio guerriero rimirocci e rise. Da le attonite menti allor si scosse il passato furor; e quella nave più che nave ci parve, e che de’ Numi 535 la vendetta portasse a noi su l’onde. Già fatta era vicina un tirar d’arco: quando sovra di lei ceruleo nembo di pioggia colmo condensò il Tonante; più non riluce il Sole; e un denso velo 540 il Cielo ammanta, e se n’oscuran l’acque; spezzan le cave nubi i venti in guerra, e sconvolgono il mare, e gli spumosi vortici turban l’arenoso lido; su le penne de’ venti insino al cielo 545 il mar s’inalza, indi ricade al centro. Non ha più certo corso il legno afflitto, ma gemendo si scuote, ed ora in alto lo solleva Tritone, or il deprime. De’ Semidei guerrieri è vana ogni opra. 550 L’albero ondeggia, e pria l’eccelsa poppa flagella; indi si spezza, e in giù ruina, e piombando nel mare il fende e solca. Cade su’ banchi resupina, e suda la ciurma, e i remi tornan vuoti al petto. 555 Mentr’essi in pugna stan col mar, co’ venti, noi pure da gli scogli e da le torri lanciamo (o folle ardire!) imbelli dardi contro il gran Talamon, contro Peleo, e gli archi nostri osan sfidare Alcide. 560 Al novello periglio i generosi raddoppiano i ripari, e con gli scudi altri copron la nave, ed altri al mare rendono il mare; altri al pugnar s’accingono, ma non stan fermi, e vanno i colpi a vuoto. 565 Noi lanciam aste e dardi, e ’l ferreo nembo col turbine gareggia e colle nubi: volano e sassi e travi, e faci ardenti cadon or su la nave, or dentro l’onde. Scrosciano i tavolati; ed apre i fianchi 570 il tormentato pino. In cotal guisa di grandine iperborea i verdi campi Giove copre talor: armenti e fere cadon oppressi, e non v’ha augel che scampi: s’atterrano le spiche: i fiumi inondano; 575 e d’orribil fragor suonano i monti. Ma poi che Giove fulminò da l’alto, e squarciò il nembo, e rischiaronne il cielo, e chiaro ci mostrò de’ grandi eroi la terribil sembianza, a noi di mano 580 cadder l’armi non nostre e ’l folle ardire, e ripigliammo la viltà del sesso. V’erano i figli d’Eaco e d’Anceo, che minacciavan crudelmente i muri; ed Ifitone, che spezzava i scogli 585 con asta noderosa; e sbigottite fra lor vedemmo torreggiare il grande figlio d’Anfitrione, e col suo peso far inclinar or l’una, or l’altra sponda, e ad or ad or star per lanciarsi in mare. 590 Ma veloce Giason (Giasone, ahi lassa! non a me noto ancor) sen va scorrendo per li banchi e pe’ remi e sovra ’l dorso de’ naviganti afflitti, e chiama e spinge or Talaone, or Ida, ora d’Eneo 595 il magnanimo figlio, ed ora i figli di Tindaro, di spuma aspersi e molli, e con la voce e con i cenni esorta i figli d’Aquilon, ch’erano ascesi nelle paterne nubi, e che all’antenna 600 gían raccogliendo le squarciate vele. Sferzan costoro or con i remi il mare, ora coll’aste fanno a’ muri offesa; ma il mar non cede, e l’aste e l’armi indietro ricadono nell’onde o sopra il legno. 605 Lo stesso Tifi impallidito e lasso siede al timone, e lo governa appena. Muta spesso comandi, ed or rivolge la prora a destra, or a sinistra, e i flutti seconda, e schiva i perigliosi scogli. 610 Quando dal bordo dell’estrema nave il figliuolo d’Eson sospese in alto, a Mopso tolto, un ramuscel d’oliva, e (fremendone gli altri) a noi richiede accordo e pace. Le procelle e i venti 615 cen portaron la voce. Allor cessaro le nostre offese, e quasi a un tempo stesso si calmò la tempesta, e ’l Sole apparve pallido ancora e con incerta luce. Gittano il ponte, e baldanzosi a terra, 620 deposte l’ire, e placidi in sembiante, que’ cinquanta guerrier scendono insieme, gloria e splendor de’ padri; e ci fur noti a le divise lor famose e conte. In cotal guisa scendon giù dall’etra 625 (se il ver narra la fama) i Numi eterni, qualor piacer li prende a parche mense dentro i tugurii de gli Etiopi adusti, abitatori del purpureo mare, seder gustando il villereccio pasto: 630 dan luogo i monti e i fiumi, e sotto l’orme del divin piede si rallegra il suolo, e si riposa dal suo peso Atlante. Era fra questi il gran Teseo superbo del maratonio onore; e li due figli 635 de l’ismaro Aquilon, ch’ambe le tempie aveano armate di purpuree penne; e Admeto, a cui degnò servire Apollo; e Orfeo, che nulla in sè ritien di Trace; e ’l calidonio Meleagro; e ’l prode 640 genero di Nereo; li due simíli di Tindaro gemelli ivan del pari, de gli occhi inganno: ambi uno stesso manto adorna e copre; ambi hanno un’asta in pugno; ambi nude le spalle, e liscio il volto; 645 e portan ambi un’egual stella in fronte. Colle tenere piante Hila fanciullo osa l’orme seguir del grande Alcide; e benchè tardo il generoso muova i lenti passi, egli, correndo appena 650 è che l’aggiunga; e di scudiero in vece dietro l’armi gli porta; e sudar gode de la faretra sotto il grave peso. Ecco di nuovo ne’ feroci petti de le donne di Lenno occulta serpe 655 Venere, e seco il lusinghiero Amore; e le tenta e le infiamma; e Giuno istessa più vaghi a noi dimostra i nuovi visi, gli abiti nuovi e le famose imprese de gli estrani guerrieri. Apriamo a gara 660 i chiusi alberghi, e gli ospiti novelli allegre riceviamo; ardon le fiamme di nuovo in su gli altari, ed i nefandi passati errori ricopriam d’oblio: allor lieti conviti, allor felici 665 sonni godiamo, allor tranquille notti. Nè certo fu senza voler de’ Numi, che confessando noi le colpe nostre piacemmo a’ Semidei: ma forse, o duci, qual trovi scusa al fallo mio amoroso 670 saper vi giova. In testimonio io chiamo de gli antenati miei le Furie e l’Ombre: non da lascivo amor, non di mio grado corsi a straniere nozze (e ben lo sanno l’eterne Menti); il lusinghier Giasone, 675 pur troppo avvezzo ad ingannar donzelle, me pur deluse: de’ suoi finti amori fede può farne il crudel Fasi e Colco. Ma già in sè stesso rientrando l’anno, sciolte le nevi con più lunghi Soli, 680 rendea tepidi il cielo, e gli astri e ’l mondo; e Lenno già di non sperata prole era ripiena, e già s’udian per tutto il gemito e ’l vagir de’ nuovi Alunni. Io pur dal nostro non spontaneo letto 685 ebbi due figli ad un medesmo parto; e benchè sposa a barbaro marito, a l’un del mio Toante il nome imposi. Dal dì che li lasciai, qual sia lor sorte dir non saprei; ma se Licaste mia 690 (qual mi promise) ha di lor cura preso, il quarto lustro avran compiuto appena. Ma già calmati i burrascosi venti invita l’Austro i naviganti al mare: la stessa nave par che aborra il porto, 695 e spezzar brami il canape dal lido. Dispongono la fuga i Minii ingrati, e Giasone i compagni affretta e guida. Deh così ’l vento in più remote spiagge sospinto avesse il traditor, cui nulla 700 de’ figli calse e de la data fede! Dicesi ch’egli del Monton di Frisso in Grecia abbia portato il vello d’oro. Ma poi che Tifi da le note stelle conobbe, e dal rossor de l’Occidente, 705 sereno il nuovo giorno e la stagione di già fatta sicura: al nuovo albore intimò la partita. Allor fra noi si rinnovaro i pianti, e l’aspra notte fu di nuovo per noi la notte estrema. 710 Appena spuntò il dì, che da la poppa diede Giasone il segno e fe’ dal lido scioglier la nave, ed ei primier la fune tagliò d’un colpo. Noi da gli alti scogli e dal monte miriam veloce il pino 715 fender con lungo solco il mar spumante, fin che fur stanchi gli occhi, e la distanza ci fe’ parer che ’l mar s’unisse al cielo. Giunge intanto novella che Toante de la fraterna Chio regna sul trono, 720 che fur vani i miei roghi e che innocente sola fra tante fui. Freme l’iniqua turba; e ’l rimorso suo vie più l’inaspra, e del mio non peccar ragion mi chiede, e già fra ’l vulgo il mormorar ne cresce. 725 Costei sola pietosa, e noi crudeli de la strage godemmo? Ah non lo soffra il nume e ’l Fato che su noi presiede! Da cotai voci spaventata io veggio già certa la mia morte, e che non giova 730 a mia salute il regno. Occulta e sola m’involo, e scendo al lido ove già ’l padre fuggì poc’anzi, e in abbandono io lascio la funesta città; ma non già allora Bacco a me venne: una crudel masnada 735 di corsari rapimmi, e in questi regni al re Licurgo mi vendè per serva. - Mentre in tal guisa con gli argivi duci Isifile rinnova i propri affanni ed inganna il dolor con lungo pianto, 740 posto in obblio (così volendo i Fati) l’Alunno, che lasciò tra’ fiori e l’erba: ei dopo aver pargoleggiato assai, sul fiorito terren posa le membra e gli occhi gravi in dolce sonno chiude: 745 ha una man sotto ’l capo, e l’altra, stesa sul prato, carpe leggermente l’erba. Quand’ecco che sen viene orribil angue, nato dal suolo, sacro orror del bosco, che dispiegando le ritorte squamme, 750 del corpo enorme parte innanzi spinge, parte addietro ne lascia, ed in se stesso ora rientra e si raccoglie, or n’esce: ha di livida fiamma i lumi accesi, e di verde velen spuman le fauci: 755 ha tre schiere di denti, e vibrar sembra tre lingue, e d’aurea cresta ha ’l capo adorno. Disser gli agricoltor che al loro Giove sacro era il drago, e ne guardava il luogo e i boscherecci altari e ’l parco culto. 760 Ei con lubrici giri or ne circonda il tempio, or nel passar la selva scuote, or co’ suoi nodi i pini atterra e gli olmi. Sovente avvien che nel varcare i fiumi, posa col capo su una sponda, e l’altra 765 colla coda ancor preme, e da le squamme l’onda divisa ne gorgoglia e bolle. Ma poi che per voler del Dio Tebano seccârsi l’acque, e l’assetate Ninfe si nascoser negli antri, ei più feroce 770 di qua, di là con tortuosi giri si tragge e volge, e si dibatte e smania per lo calor de l’arido suo tosco: serpe per stagni e laghi, e cerca i fonti, e gli arsi letti de gli asciutti fiumi; 775 e di sè incerto colle fauci aperte or l’umid’aria attragge, ora solcando lo squallido terren, cerca fra l’erbe, se di segreto umor fossero pregne; ma da qualunque parte il capo ei volga, 780 il pestifero fiato ogni erba strugge; e al sibilar muoion d’intorno i campi. Tale divide il ciel con dritta riga da l’Artico gelato al Mezzogiorno il celeste Dragon da polo a polo: 785 tale, o Febo, fu quel che ’l tuo Parnaso attorcigliando, fe’ crollar più volte, finchè da cento e più piaghe trafitto portò una selva de’ tuoi strali addosso. Qual Dio, picciol fanciul, ti diede in sorte 790 morir oppresso da sì grave fato? E perchè mai ne gli anni tuoi primieri da sì grande avversario estinto giaci? Forse per far alle pelasghe genti sacro il tuo nome? E la tua picciol’ombra 795 render più degna di sì illustre avello? Passa il serpente, e coll’estrema coda, senza mirare, il tocca e sì l’uccide. Si risente il meschino, e gli occhi aprendo l’ultima volta, li riserra in morte: 800 qual uom che sogna e parla in tronchi accenti, ma non può intera proferir parola, mise un vagito, ed in eterno tacque. Isifile sentillo, e semiviva e tremante se stessa al corso affretta: 805 già del suo mal presaga il guardo gira per tutto e ’l cerca, e coll’usate voci invan lo chiama. Il reo velen consunto l’avea così che non ne appar vestigio. Vede il serpente, che gran tratto ingombra 810 il prato intorno, ancor che in sè ristretto e in mille giri avvolto, e sotto il ventre tenga celato il capo: inorridisce la misera, e d’un lungo acuto strido tutta fa risuonar l’ampia foresta. 815 Ei, come nulla fosse, immoto giace. L’udiro i Greci, e l’arcade garzone al comandar del Re vola, e ritorna, e ’l caso espone; e muovon tutti insieme. Al balenar de l’armi, e de’ guerrieri 820 al fremito e al rumor la sozza belva si scuote, spiega il dorso e gonfia il collo. Corre il feroce Ippomedonte, e un sasso svelle (meta de’ campi), e l’alza e ’l vibra contro il dragon crudel con quella forza 825 che macchina mural l’avria sospinto; ma torce il collo la volubil fera, e cade il colpo a vuoto: il suol ne trema, e vanno in schegge della selva i rami. Ma Capaneo colla ferrata trave 830 innanzi passa, e se gli ferma a fronte, e, - Tu non fuggirai (grida) i miei colpi, immane belva, o che del sacro bosco tu sia custode, o che agli Dei sii caro. Ed oh fossi tu pur diletto a’ Numi? 835 Non se sul dorso tuo stesse un gigante a tua difesa. - Vola l’asta, ed entra per l’anelante bocca, e la trisulca lingua recide, e l’arruffate squamme penetra sì, che tra l’altera cresta 840 del rilucente capo il ferro uscendo, s’immerge entro il terreno infra le immonde cervella e l’atro sangue; in sì gran mole tardi si sparse della piaga il duolo. Ei l’asta annoda co’ suoi giri e svelle; 845 e corre al tempio, e a piè de’ sacri altari vendetta chiede, e spira l’alma e ’l tosco. Voi lo piangeste, perchè forse trasse, laghi Lernei, dalla vostr’Idra il sangue; voi che di fior l’incoronaste, o Ninfe; 850 e tu, campo Nemeo, per cui strisciando sen giva; e infrante le sonore canne lo pianser vosco i Fauni e i Dei Silvani. E Giove stesso il fulmine avea chiesto; e già correano e turbini e procelle; 855 pur per allor frenò lo sdegno, e l’ira ritenne, e riserbollo a maggior dardo. Ma dal fulmine scosso un lampo scese, che le creste lambìgli in su l’elmetto. Poi che il mostro fuggissi, allor di Lenno 860 fatta sicura l’infelice Donna pallida cerca il caro pegno, e giunta a quel cespuglio ove lasciollo, il vede porporeggiar di sanguinose stille: corre trafitta dal dolore, e certa 865 scopre la sua sciagura. Ella sen cade qual da fulmin percossa in su l’infame terreno, e della strage al primo aspetto resta senza aver voce e senza pianto; sol bacia i mesti avanzi, e par che voglia 870 l’anima intorno errante in sè raccorre: più non si scorge in lui d’uomo sembianza; il viso ’l petto deformati, l’ossa di carni ignude, le compagi e i nervi sudan di nuovo inusitato sangue, 875 e fatto è il corpo suo tutta una piaga. Così poichè sovra d’un’elce ombrosa salì un serpente, e gli augelletti e ’l nido desertò, divorò: torna la madre, e in non sentir del suo loquace albergo 880 il solito garrir sospesa resta, e si libra in su l’ali, e ’l cibo lascia cader di bocca; e fuor che sangue e piume da che null’altro scorge, e geme e plora. Ma quando l’infelice in grembo accolse 885 le misere reliquie, e le coperse col biondo crin disciolto, alfin concesse libero il varco a’ gemiti e a’ lamenti: - O dolce immago de’ lasciati figli, Archemoro, e del mio perduto regno 890 e di mia povertà solo conforto, gioia ed onor del mio servile stato, unica mia delizia e mio contento; qual crudel Nume mi ti ha tolto? Ahi lassa! Io pur qui ti lasciai ridente e lieto 895 brancolante su l’erba: or qual ti trovo? Ove il bel volto? Ove la dolce voce e i tronchi accenti? Ov’è il vezzoso riso, e ’l balbettare da me sola inteso? O quante volte a te di Lenno e d’Argo 900 cantando i casi in placido riposo ti chiusi gli occhi! In guisa tal sovente consolava i miei danni; e già qual madre ti porgeva le poppe. Or a chi serbo questo mio latte, che ridonda e stilla 905 su le ferite tue misto al mio pianto? Conosco i Numi infesti, e i duri sogni del ver presaghi: non apparve indarno a l’attonita mente in mezzo all’ombre Venere minaccevole e sdegnosa. 910 Ma perchè i Numi incolpo? E già sicura della vicina morte il vero adombro? Qual follia mi sedusse? E qual mi prese oblio di tanto prezïoso pegno? Io mentre troppo ambizïosa narro 915 l’origin nostra e i femminil furori, io quella fui che allor t’esposi a morte. Quest’è la mia pietà? quest’è l’amore? Or sei pur paga, o Lenno: o duci, o Regi, se a voi fu caro il beneficio mio, 920 ch’or sovra me ricade; e s’a’ miei detti fede prestaste e onore: ah mi guidate al crudel drago, o colle vostre spade qui m’uccidete, anzi che ’l mesto aspetto de’ miei signori io veggia, e la dolente 925 per mia sola cagion orba Euridice, quantunque il suo dolor sia pari al mio. Quest’empio dono io recherò alla madre? Ah pria s’apra la terra, e nel suo centro viva m’ingoi. - Così dicendo il volto 930 lorda d’arena e sangue, e a’ mesti duci co’ suoi sospir par che rinfacci l’onde. Ma già più nunzi col funesto avviso erano giunti in corte, e in grave lutto l’aveano immersa, e ’l buon Licurgo in pianto: 935 ei pure allor scendea dal sacro giogo d’Afasanto sublime: ivi su l’are aveva offerti sacrifici a Giove, mal graditi dal Nume; e in sè volgendo le minacciose viscere, tornava 940 turbato e mesto e dimenando il capo. Ei sol fra cotant’armi inerme e queto stava, non già perchè gli manchi ardire, ma ’l ritengon gli oracoli e gli altari: le risposte de’ Numi e le minacce 945 de le profonde grotte ha fisse in mente: "Farà Licurgo alla tebana guerra le prime esequie". Ei per fuggire il fato sen sta guardingo, ma ’l vicino Marte e de le trombe il suono il turba e l’ange, 950 e songl’in odio le infelici schiere. Ma chi fugge ’l destino? Ecco sen viene la figlia di Toante in mezzo a’ Greci, mesta portando del bambino estinto i lacerati avanzi: e furibonda 955 le va incontro la madre, e accompagnata da la femminea schiera ed urla e geme. Ma la pietà non è ozïosa e vile nel generoso padre, anzi più forte vien ne’ disastri, e in lui lo sdegno ardente 960 ristagna il pianto. Egli ’l cammin divora a lunghi passi alto gridando: - E dove, dov’è la scelerata, a cui non cale del nostro sangue e del mio mal s’allegra? Viv’ella ancora? Ite veloci e pronti, 965 o miei seguaci, e la guidate presa. Io farò sì che le usciran di mente le favole di Lenno, e di sua stirpe l’origin menzognera e i finti Numi. - Dice; e già tratto il ferro, irato corre 970 per darle morte; ma Tideo feroce col grave scudo lo respinge, e grida: - O tu, chiunque sei, ferma o t’uccido. - E Capaneo v’accorre, e Ippomedonte non resta addietro, e l’Arcade garzone 975 tien alto il brando; onde riman conquiso quel Re infelice di tant’armi al lampo. Ma d’altre parti in sua difesa viene stuol di villani: il buon Adrasto allora e Anfiarao, che le sacrate bende 980 del Re rispetta e di sua vita teme, vengon gridando: - Ah non si faccia: il ferro riponete, o guerrieri: un sangue siamo, siamo tutti una gente; ah cessin l’ire; e tu cedi primiero: - Allor Tideo, 985 sdegnoso ancor, così a Licurgo parla: - E pensi tu che soffrirem che cada, per vendicare d’un fanciul la morte, su gli occhi nostri e di cotante schiere, la nostra duce e redentrice nostra 990 vittima indegna su l’altrui sepolcro? La figlia di Toante, e di Niseo la gran nipote? Anima vile, forse poco ti par che mentre corre all’armi la Grecia tutta, fra cotante trombe, 995 stai neghittoso in ozio infame e lento? Goditi pur la pace, e le vittrici squadre trovinti ancor al lor ritorno piangente stare a le tue esequie accanto. - Disse, e quel Re fatto più mite e l’ira 1000 pur raffrenando, a lui così rispose: - Io già non mi credea che mentre a Tebe ven gite a vendicar le giuste offese, veniste a me nemici. Orsù finite la vostra impresa, e me compagno vostro, 1005 me qui svenate; e se cotanta sete è in voi di sangue, su versate il nostro, e de la nostra gente; e questi tempii di Giove a me nemico abbian le fiamme. Tutto lice al furor: io mi pensai 1010 come Rege e signor nella mia serva per sì giusta cagione aver impero; ma Dio se ’l vede, e benchè tardi giunga, pur vien la pena a’ gran misfatti eguale. - Così dicendo, ode rumor, e ’l guardo 1015 alla sua reggia volge, e nuovo scopre tumulto d’armi. La veloce Fama era arrivata a’ cavalieri argivi col periglio d’Isifile: altri narra che la menano a morte; altri, ch’è morta 1020 colei che a loro fu cagion di vita. Tosto si crede, e ’l fren si lascia a l’ira. Corron con faci e dardi, e la cittade sveller dal fondo, incatenar Licurgo, e trasportare altrove il Nume e ’l culto 1025 minacciano in vendetta: i regii tetti di femminili gemiti rimbombano, e ’l primiero dolor fatto è spavento. Ma il buon Adrasto i suoi destrieri al corso in giro affretta; ed ei sul carro in alto 1030 tien Isifile in braccio, e dove bolle più la tenzon, la mostra a’ cuor feroci. ed, - Oh cessate (grida), ecco colei che v’additò le salutifer’onde; nulla di mal è occorso, e ’l buon Licurgo 1035 non merita da voi cotanto scempio. - Così qualora in varie parti è tratto fra contrarie procelle il mar commosso quinci da l’Euro e da Aquilon, e quindi dal torbid’Austro, il chiaro dì s’imbruna, 1040 e ’l fiero verno in grandine si scioglie: se sublime sen vien su regia conca co’ squammosi destrieri il gran Nettuno, e ’l gemino Triton precede il carro, e pace intíma d’ogn’intorno a l’onde; 1045 tosto spianansi i flutti, e di già i scogli scopron la cima, e già veggonsi i lidi. Ma qual propizio Nume i lunghi pianti d’Isifile pagò d’immenso bene, e la colmò di non sperata gioia? 1050 Tu de la stirpe sua principio e fonte, tu fosti, o Bacco, che da Lenno a Neme guidasti i due gemelli, e di tua mano disponesti il mirabile destino. Givano in traccia de la madre, e giunti 1055 eran pur or negli ospitali tetti del buon Licurgo, quando a lui pervenne de l’estinta sua prole il duro avviso; e lo seguiano a la vendetta: (o sorte! o de’ mortali mal presaghe menti!) 1060 favorivano il Re; ma quando intorno sentiron risuonar Lenno e Toante, tra l’inimiche e tra l’amiche schiere, e tra le faci e i dardi apronsi il varco; e giunti ov’è la madre, a lei d’amplessi 1065 cingon il collo e i fianchi, ed a vicenda piangendo di piacer, le porgon baci. Essa di sasso in guisa immobil resta, nè sa fidarsi de gli avversi Numi. Ma poi che riconobbe entro i lor volti 1070 l’immagine del padre, e ne’ lor brandi l’impresa d’Argo incisa, e su’ lor manti le cifre di Giason da lei conteste, cessaro i lutti; e ’l subito contento l’oppresse sì che semiviva cadde, 1075 e di pianto miglior rigò le gote. Applaudì ’l Cielo; e fra le nubi udîrsi i timpani del Nume, i bossi, i cimbali percossi risuonar di lieto strepito. Allor d’Ocleo il venerabil figlio, 1080 poichè d’intorno a sè tacite e attente vide le schiere, e già placati i sdegni: - Udite (dice), o re di Nemea, e voi gran duci Argivi, ciò che Apollo impone e a me ’l rivela. Questo a l’armi nostre 1085 dolor già da gran tempo era dovuto, e cel guidâr per ordine le Parche: i fiumi asciutti, l’aspra sete, e ’l fiero serpente, ed il fanciul poc’anzi ucciso detto Archémoro (ohimè), da’ nostri fati, 1090 tutto su noi da le superne menti de’ Numi scese. Deponete l’ire e l’aste e i dardi; e di perpetui onori coroniamo il fanciul, che n’è ben degno; e la nostra virtude a la sant’Ombra 1095 porga doni leggiadri ed immortali. Ed oh così Febo sovente intessa nuove tardanze; e nuovi casi ognora differiscan le pugne; e da noi sempre più s’allontani la funesta Tebe. 1100 E voi felici, genitori, a cui fu dato superar d’ogni altro padre la gloria e ’l fato; e ’l di cui nome eterno fia sin che duri la Lernea palude, e che l’Inaco corra, e la Nemea 1105 selva con tremol’ombra i campi fera; non turbate co’ lutti i sacrifici; nè piangete gli Dei, chè questi è un Dio, nè cambiería con la nestorea etade, o di Titon con gli anni il suo destino. - 1110 Disse; e stese la notte il fosco velo. De le greche cittadi era trascorsa per le parti vicine e per l’estreme la Fama intanto, divulgando il grido de’ sacri onori che al novello rogo 5 si preparavan del fanciullo estinto, e de’ bellici giuochi, ove virtude di sè potea far prova e i cuori eccelsi tutti infiammar a generose imprese. Tale de’ Greci era il costume: Alcide 10 pugnò primiero ne’ pisani campi di Pelope in onore, in finto agone, e ’l polveroso crin cinse d’oliva. Focide poi del giovanetto Apollo il valor celebrò co’ Pizi giuochi, 15 in rimembranza del serpente ucciso. Questa superstizione atra e funesta serbasi ancor dalla sidonia gente di Palemone intorno a’ sacri altari, quando nel giorno a lei solenne i pianti 20 rinnovella Leucotoe, e sulle amiche spiagge ritorna: d’urli e d’alte strida da ambedue i corni ne rimbomba l’Istmo, ed urli e strida a lui rimanda Tebe. Ed ora i Regi ed i signori Argivi, 25 che discendon da’ Numi ed al cui nome trema d’Aonia il regno, e dal profondo petto sospiran le sidonie madri, corrono alla palestra, e in finte pugne voglion provar le disarmate forze. 30 Così qualor s’affida al procelloso Tirreno o al vasto Egeo novella nave destinata a solcar il mar profondo: pria lungo il lido, ov’è tranquilla l’onda, a volgere il timon la ciurma impara, 35 e a maneggiar i remi ed a raccorre le sparse vele; indi poi fatta esperta scioglie dal lido, e tanto in alto vola, ch’altro non scorge più che cielo e mare. Ma già l’Aurora a’ miseri mortali 40 riconduceva sul dorato carro le spente cure; e timida la Notte e ’l pigro Sonno con l’esausto corno fuggian dinanzi a’ lucidi destrieri: quando per tutto cominciaro i pianti; 45 d’aspri lamenti l’infelice reggia mugge e rimbomba: la vicina selva riceve il suono, e ’l frange, ed in più suoni moltiplicato lo rimanda indietro. Senza l’onor delle sacrate bende 50 siede l’afflitto genitor, di polve tutto cosperso il crin, la barba e ’l volto. Ma un più fiero dolor la madre inaspra: stassi all’incontro e piange, e a pianger seco invita e spinge le seguaci donne. 55 Si lancia sopra i lacerati avanzi del morto figlio, e quindi svelta torna, ed arder brama su lo stesso rogo. Licurgo stesso la ritien; ma quando entraro i Re delle Pelasghe genti 60 mesti nel viso e al gran dolor conformi, come se nuova strage e nuova morte con essi entrasse ed un novello serpe, con maggior forza da’ già stanchi petti usciron gli urli e ’l batter palma a palma, 65 ed al nuovo fragor suona la reggia. Sentiro i Greci che de’ nuovi gridi eran cagione, e si scusâr co’ pianti. Ma se talor la stupefatta gente cessava gli urli, allor il saggio Adrasto 70 gía consolando il genitor dolente con saggi detti, e gli mettea davanti l’aspre vicende de la vita umana, l’inevitabil fato e l’empia Parca. Poi di novella e più felice prole 75 dava speranza; ma finir nol lascia la turba, e ricomincia il gran lamento. Lo stesso Re così l’ascolta o cura, com’ode il mar de’ naviganti i voti, o la folgore ardente il picciol nembo. 80 Intanto il letto e ’l pueril ferétro destinato alle fiamme è intorno cinto di meste frondi e di feral cipresso. Con umil culto la primiera base fondan su agresti strami; indi s’inalza 85 l’ordin secondo di gramigna intesto e di bei serti di dipinti fiori. Stan sopra il terzo gli odorati incensi, i cinamomi e gli arabi profumi e i tesor d’Orïente. Adorna splende 90 d’oro l’eccelsa cima, ed è coperta di porpora finissima di Tiro, fregiata intorno di topazi e perle. Tessuto è in mezzo fra li fiori e l’erbe Lino e i suoi cani e la sua acerba morte, 95 mirabil opra e di gentil lavoro. Ma come fosse del suo mal presaga, sempre in orror l’ebbe la madre, e volse dal tristo augurio in altra parte il guardo. V’aggiunse poscia de’ passati Regi 100 l’armi e le spoglie, quasi grave peso al picciolo sepolcro e che sul rogo si ponesse un gran corpo, e in mezzo al lutto gir trionfante l’ambizione e ’l fasto. Ma un vano grido e un’infeconda fama 105 giova a gli afflitti; e si consola il padre, che accresca il funeral la picciol’ombra; e per dar maggior lustro al suo gran pianto e un misero conforto al suo dolore, vuol che quei doni gettinsi alle fiamme 110 che per l’età maggior gli eran serbati: perocchè ’l padre, prevenendo gli anni, già gli avea preparati e dardi ed archi e innocenti saette; ed in suo nome nudria i destrier dal maggior gregge scelti; 115 e ’l cinto militar era già pronto, e l’armi, che attendean membra maggiori. La madre ancor con immatura speme avea affrettato all’innocente figlio le regie insegne ed il purpureo manto 120 e ’l picciol scettro. Tutto dassi al fuoco; e ’l genitor v’aggiunge i prezïosi suoi propri arredi, e in cotal guisa rende minor il duol, quant’è più grave il danno. Da un’altra parte, rimembrando i detti 125 del saggio Anfiarao, sudan le schiere ad atterrare il vicin bosco, e quindi ergon qual monte co’ recisi tronchi un’alta pira, che de l’angue ucciso purghi ’l delitto, e de l’infausta guerra 130 dilegui la paura e i tristi auspicii. Pongon ogni opra in far cadere al piano e Neme e Tempe ombrosa, e nel più chiuso de’ boschi al Sol van disserrando il varco. Cade la selva, a cui mai foglia o ramo 135 non fu reciso, di larghissim’ombra, che fra’ boschi Lircei, fra’ boschi d’Argo alzò ’l capo superbo oltre le stelle: sacra per anni immensi era già fatta, e d’uomini non sol diverse etadi 140 avea vedute; ma più volte ancora mutate avea le Ninfe e i Dei Silvani. Ma il giorno irreparabile è omai giunto: fuggon le fiere, e per timor dal nido volan gli augelli; cade il faggio eccelso, 145 e la caonia quercia, ed il ferale contro il verno sicuro alto cipresso, e l’orno e l’elce e ’l velenoso tasso, e ’l frassino che in guerra il sangue beve, ed il rovere annoso, e quel che sprezza 150 il mar sonante temerario abete, e l’odoroso pino, e l’alno amica de l’onde, e l’olmo de le sacre viti. Non con tanto fragor le ismarie selve cadono a terra, s’Aquilon le abbatte, 155 rotti i ritegni dell’eolio claustro; nè sì veloce la notturna fiamma arde l’aride stoppie, allor che Noto la spande intorno ed il vigor le accresce. Lasciano mesti gli ozi a lor sì cari 160 l’antica Pale, e de le selve amico il Dio Silvano, e i Semidei minori: ne piange il bosco, e le dolenti Ninfe svellere non si san dalle lor piante. Così qualor il capitano in preda 165 lascia vinta cittade a le sue schiere; appena è dato il segno, in lei non resta orma più di città: baccanti scorrono, uccidono, respingono, rapiscono, ardon le case, e i sacri tempii abbattono: 170 non con tanto rumor pugnano in campo. Già due pire e due altari eran costrutti del pari a’ Numi ed al fanciullo estinto: quando con grave suon ritorto corno, qual è de’ Frigi lagrimevol uso 175 nell’esequie de’ teneri bambini, diè segno al pianto. Pelope primiero insegnò ’l sacro rito e ’l mesto carme, che giova e piace alle più picciol’ombre, quando mirò da gemina saetta 180 Niobe distrutti i figli, e sette e sette in Sipilo condusse urne lugubri. Portano i doni prezïosi e rari destinati a l’esequie e al pio Vulcano i duci argivi, e sotto i lor stendardi 185 gareggian tutti ne’ pietosi uffizi: vien alfin il ferétro in su le spalle di quattro scelti giovani robusti, con gran rumor di gemiti e di strida. Stanno d’intorno i Proceri Lernei 190 al gran Licurgo; e dal più molle sesso è la misera madre accompagnata. Nè già vien sola Isifile dolente: fanno le grate schiere a lei corona; la sostengono i figli, ed han piacere 195 ch’essa piangendo il suo dolor consoli. Ma poi che uscì da l’infelice tetto l’orba Euridice, il bianco sen discinto, pria di gemiti e d’urli il cielo assorda; e infin prorompe in cotai note amare: 200 - Io già non mi credea seguirti, o figlio, con sì lugubre e sì funesta pompa fra’ mesti cori de le greche madri; nè un tal destino a la tua nuova etade presagivan miei voti. E chi poteva 205 per te giammai temer che sul primiero confin del viver tuo la guerra e Tebe fossero a te fatali? Ahi qual crudele Nume, qual Fato con il sangue nostro ebbe il piacer di cominciar le pugne? 210 e chi fu mai che diè funesti auspicii con sì atroce delitto alle nostr’armi? Son pur fin ora di mestizia privi di Cadmo i tetti, e la tebana plebe non piange ancora alcun fanciullo estinto. 215 Io sola, ahi lassa! le primizie pago di lagrime e di stragi a l’altrui risse, pria de le trombe e del rumor de l’armi; mentre credula troppo a l’altrui fede e a l’altrui seno il dolce pegno affido. 220 Ma chi creduto non le avria? Da morte liberò il padre con pietoso inganno, e dal sangue serbò monde le mani. Ecco colei che ’l sacrificio infame ebbe sola in orror; colei che sola 225 non fu fra l’altre da le Furie invasa. Dopo un tanto delitto ancor si crede insigne per pietade? In abbandono lasciò non il suo re, nè ’l suo signore, che pur sarebbe inescusabil colpa, 230 ma l’altrui figlio a la sua fe’ commesso: basti sol tanto: de l’infame selva ella gittò nel periglioso varco un tenero fanciul, cui l’aura sola, e le commosse frondi e un van timore, 235 non che ’l crudel serpente, eran bastanti a recar morte. Ah che cotanta mole di fato uopo non era al picciol corpo! Nè già di voi mi dolgo, o duci Achei. Già da gran tempo con sì rea nutrice 240 questo acerbo destin m’era prefisso. E forse che non facea vezzi a lei più che a me stessa, e conoscea lei sola me non curando? Ah che nessun piacere ebbe di te la madre! Essa raccolse 245 le tue querele, e misti al pianto i risi vide, e ascoltò le tue primiere voci. Essa, fin che vivesti, a te fu madre; or la madre son io; nè m’è concesso, misera! di punir sì gran delitto? 250 A che gittar sul rogo, o duci Achei, cotanti doni e sacrifici in vano? Lei lei l’ombra vi chiede, ed è contenta. Deh la rendete, o duci, a l’orba madre, e al cenere innocente; io ve ne prego 255 per questo auspicio della vostra guerra, ch’io stessa partorii: così felici sian vostre spade; e a’ lor ferétri intorno gemano al par di me le Tirie donne. - Qui straccia i crini, e pur di nuovo grida: 260 - Deh la rendete; nè di sangue ingorda o crudel mi chiamate. Io, pur che appaghi gli occhi col di lei scempio, io non ricuso di morir seco, e ch’una stessa fiamma arda la madre e l’infedel nutrice. - 265 Mentre così la misera si duole, rivolge gli occhi e Isifile rimira, che al par di lei si straccia i crini e ’l petto; e sdegna averla nel dolor compagna. E, - Questo (grida), questo almeno, o duci, 270 e tu, buon rege, a cui dal sangue nostro vien tanto onor, si tolga empio delitto: tolgasi l’odïosa a’ mesti roghi. E che ha che far il suo col mio dolore? Perchè sta meco nelle mie sciagure? 275 Ed a che piange, se i suoi figli abbraccia? - Sì disse, e cadde; e su l’esangue labbro tronche a mezzo restâr l’aspre querele. Qual vacca, cui sia da le poppe tolto il tenero vitel, che sol dal latte 280 traeva il sangue e si reggeva appena, lacerato dal lupo, o dal pastore svenato in su gli altari; essa commuove or le valli, or i fiumi, ora gli armenti co’ suoi muggiti, e del suo figlio chiede 285 a’ muti campi: ultima al prato viene; ultima torna a l’odïate stalle, bassa la fronte, a passo tardo e lento; e ’l puro fonte le dispiace e l’erba. Ma ’l genitore l’onorato scettro 290 e l’infula e le bende al rogo dona; e parte taglia del suo lungo crine, e sul fanciul lo sparge, e piange e dice: - Io con patto miglior, perfido Giove, t’avea votato il crin, se a’ tempii tuoi 295 la lanugin libar m’era concesso de l’infelice figlio; ma non furo le preci intese e ’l sacerdote accetto: abbiasel or l’Ombra, che n’è più degna. - Già stride il fuoco nelle prime frondi 300 de l’alte pire acceso. Alzasi un grido; ma ’l ritenere i genitor furenti, questa è l’opra maggior: stendonsi i Greci tra essi e ’l rogo, qual pria furo istrutti, alto tenendo i scudi, e a la lor vista 305 van celando in tal guisa il mesto oggetto. Cresce la fiamma, e in alcun tempo mai non fu più ricco e prezïoso fuoco. Stilla l’argento, stridono le gemme, e l’oro piove da’ ricami ardenti: 310 fuman le travi d’odorato cedro umide e asperse de gli assirii succhi, ed ardon seco il dolce mele e ’l croco, e ’l vino e l’atro sangue e ’l puro latte. Poi sette squadre di guerrieri eletti, 315 cento per squadra, i sette Regi in giro da la sinistra man guidan del rogo coll’alte insegne rovesciate al piano; e ’l calpestio de’ fervidi destrieri fa colla polve declinar la fiamma. 320 Tre volte il circondaro, e i dardi e l’aste suonâr tre volte ripercossi insieme; e quattro volte uscì da l’armi un suono orrendo, e quattro volte i molli petti si percosser con man le meste ancelle. 325 Ma l’altra pira ha le svenate agnelle e i semivivi armenti. Il vate allora (benchè sia certo del destin nemico) vuole che il lutto si cancelli, e torni il tristo augurio in lieto, e fa le schiere 330 volger in giro a destra, alte vibrando l’aste, e gittando nell’ardenti fiamme tolti dall’armi proprie i vari doni: chi gitta al fuoco li dorati freni, chi ’l cinto militar, chi gitta il dardo, 335 chi del cimier le tremolanti penne; e in tanto un rauco suono i campi assorda di mesti canti e strepitose trombe. Con eguale rumor svelgon le insegne al noto suon de’ bellici oricalchi 340 le schiere accinte a la campal tenzone: non ancor ardon l’ire, ancor le spade non son tinte nel sangue, e de la guerra bello in sì bella vista anch’è l’orrore; e Marte da le nubi in giù mirando, 345 in dubbio tiene il suo favor sospeso. Ma va mancando il rogo, e già la fiamma in cenere si scioglie, e con molt’onda spengon del busto l’ultime faville; nè da l’opra cessâr, che ’l dì fu spento, 350 ed appena coll’ombre ebber riposo. Già nove volte avea dal ciel fugate Lucifero le stelle, ed altrettante lo splendore di Cintia avea precorso, destrier mutando; e non inganna gli astri, 355 che lo mirano alterno in su le porte de la chiar’alba e de l’oscura sera; quando si vide alto sublime tempio, mirabil opra e non credibil quasi, eretto a l’Ombra, e v’era sculto in marmo 360 l’acerbo caso e del fanciul la morte. Qui mostra il fiume a gli assetati Argivi Isifile, e colà il fanciul per l’erba sen va carpone, e qui s’adagia e dorme. Circonda l’orlo de l’eccelsa tomba 365 lo squammoso serpente, e l’asta annoda co’ suoi lubrici giri, e par sì vero che tu n’aspetti i velenosi fischi. Concorsa intanto era infinita gente da le greche cittadi e da le ville 370 a mirar gli spettacoli novelli: vengono i vecchi infermi ed i fanciulli, cui suol tener dentro i paterni lari la troppo antica e troppo fresca etade; e quelli ancor a cui non giunse unquanco 375 lo strepito e l’orror del fiero Marte: non tante turbe mai de l’Istmo i giuochi furo a mirar, o pur d’Enomao il corso. Siede nel mezzo d’un’antica selva, cinta di colli di boschetti adorni, 380 quasi teatro, deliziosa valle; s’alzan più addietro alti scoscesi monti, e ’l doppio varco de l’uscita è chiuso da rilevati tumuli d’arena: piana è nel mezzo per gran tratto, e adorna 385 di bei cespugli e di ridenti erbette, e dolcemente nell’estremo giro sen va salendo e si congiunge a’ colli. Qui poi che ’l Sol ebbe indorati i campi, si radunâr gli alti guerrieri eletti 390 a l’amichevol pugna e al finto agone. Siedon le turbe in un confuse e miste di varie genti, ed han piacer mirando il numero, gli aspetti e le divise de’ combattenti, e le innocenti pugne, 395 lieto presagio a la vicina impresa. Fur pria condotti del più forte armento cento gran tori più che pece neri, e cento nere madri e cento figli. Seguivan poi le immagini de gli avi, 400 che parevano spirar ne’ sculti bronzi. Ercole è il primo, che al suo petto stringe il fier leone, e lo soffoca e ancide. Lo miran con timor le greche squadre, benchè sia loro onor, benchè sia finto. 405 Inaco segue: ei sul sinistro lato stassi appoggiato a la palustre sponda, e versa l’urna e ne diffonde un fiume, e guarda mesto l’infelice figlia mutata in vacca, e ’l vigile custode 410 che dorme e veglia con cent’occhi in fronte; ma Giove alfin mosso a pietà le rende il primo aspetto, e di già fatta è Dea, e l’adorano i regni de l’Aurora. Tantalo segue poi, non già quell’empio, 415 da cui fuggon del pari i pomi e l’acque, ma ’l pio che siede col Tonante a mensa. Da l’altra parte Pelope si vede co’ destrier di Nettun vincer nel corso le false ruote e l’infedel Mirtillo. 420 Indi Acrisio severo, e ’l gran Corebo, e Danae che nel sen l’oro riceve, e la mesta Amimone intorno al fonte, e Alcmena del suo Ercole superba, che di triplice luna il crin circonda. 425 Dansi le destre d’amistade in segno di Belo i figli; Egisto mostra il volto sereno e lieto, ma nel torvo aspetto di Danao vedi la mentita pace, e l’empietà de la vicina notte: 430 poscia mill’altri simulacri eccelsi. Saziati alfin di sì leggiadra vista, a li premi d’onor chiama virtude i greci eroi. Primi a sudar nel campo furo i destrieri fervidi e spumanti. 435 Or tu de’ duci e de’ cavalli i nomi mi narra, o Febo; in nessun tempo mai più pronti corridor mossero al corso. Men veloci gli augei batton le penne, se contendon nel volo, e andrian più tardi 440 i venti, se il lor Re tutti da un lido gli sciogliesse ad un tempo. Ecco primiero viene Arïon, noto al purpureo pelo. Ei nacque di Nettun (se il ver ci narra l’antica fama); e fu Nettun che al freno 445 prima avvezzollo, e lo sospinse al corso per l’arenoso lido, e tenne ascosa la sferza: chè il destriero avea tal lena, che gareggiar potea col mar fremente. Dicesi che fra quei che in mar son nati 450 guidasse il carro del ceruleo padre per l’immenso Oceàno in varie spiagge: stupîr le nubi, i nembi e le procelle, ed Euro e Noto, che restaro indietro: poscia imprimendo co’ gran piè l’arena, 455 portò sul dorso il valoroso Alcide, che gía spegnendo della terra i mostri per comando del rigido Euristeo, mal ubbidiente ancor a sì gran mano. Ma poi che domo fu l’ardor degli anni, 460 ebbelo Adrasto in dono, e lo reggea con dolce freno, con destrezza ed arte, ed or lo presta al genero tebano. Gli addita i modi onde il destrier s’inaspra, e quelli ancora onde si molce e placa: 465 - Nol batter (dice), e sii del freno avaro; pungi pur gli altri e sferza: egli è nel corso veloce sì, che tu ’l vorresti meno. - In cotal guisa lagrimando Apollo, prima che desse al troppo audace figlio 470 la sferza e i freni e ’l risplendente carro, gl’insegnò quali stelle egli dovea schivar, e quali zone, e ’l luminoso sentiero gli additò, che fende il cielo con spazio egual fra l’uno e l’altro polo: 475 ma ’l Fato già maturo e l’empie Parche quel superbo garzon fatto avean sordo. Appo Arïon Anfiarao conduce i laconi destrier, prossima speme di vincere nel corso; e son tuoi figli, 480 Cillaro, nati di furtivo amore, mentre Castor solcando il tracio mare, cambiò i freni amiclei co’ remi d’Argo. Bianchi erano i destrier, bianch’era il manto del sommo vate, e bianch’eran le penne 485 del gran cimiero e l’infula e le bende. Poi da’ tessali campi il buon Admeto sue sterili giumente al corso mena, seme de’ fier Centauri, e son rubelle al sesso, e in loro l’amoroso caldo 490 vinto e represso si converte in forza: son d’un color simíle al dì e a la notte, di macchie tinte biancheggianti e nere. Tal era forse il pegaseo cavallo, che d’Apollo in sentire il dolce suono 495 tutto allegrossi, e sprezzò il fieno e l’erba. Ed ecco i figli di Giason, novella gioia e onor della madre, entro l’arringo su’ lor carri mostrarsi. Il primo avea de l’avo il nome, e detto era Toante, 500 e l’altro Euneo con più felice auspicio. Simili in tutto son; simili i volti, i carri, li cavalli e gli ornamenti: ognun di vincer brama, e se pur vinto ha da restar, che ’l suo fratel lo vinca. 505 Viene Ippodamo poi d’Enomao figlio, e Cromi nato del famoso Alcide; nè sai ben dir qual con più destra mano i freni regga de’ destrier feroci. Guida il secondo quei che ’l padre tolse 510 a Dïomede, ed il primiero affrena quelli che fur del genitor crudele: ed hanno ancora l’uno e l’altro i carri di putrefatto sangue aspersi e tinti. Stava di meta in guisa a l’un de’ lati 515 d’annosa arida quercia un nudo tronco: da l’altra un sasso, termine de’ campi; ed eran fra di lor tanto distanti, quanto tre volte può tirar un arco, o quattro volte da robusta mano 520 lanciarsi un dardo: or questo spazio assegna Adrasto al corso de’ destrier veloci. Ma Febo intanto su l’eccelsa cima del suo Parnaso fra le caste Muse dolce cantava al suon de l’aureo plettro 525 l’opre dei Numi, e risguardava il mondo. Già Flegra e Giove, e ’l fier Pitone ucciso, e de’ fratelli suoi le glorie e i vanti narrato avea, e allor seguia spiegando come il fulmin si formi, e quale avvivi 530 spirito gli astri e li conduca in giro: ond’abbian vita i fiumi, e d’onde i venti ricevan moto, e come il mar profondo immenso si mantenga e mai non scemi; qual sia il cammin del sol, qual de la notte: 535 se stia la terra nel suo proprio centro librata in mezzo, o pur nell’ima parte: se diansi ignoti mondi e terre ignote. Finito aveva, e de le Muse pronte e desïose di cantare a prova 540 per allor differendo i bei concenti, appesi aveva ad un vicino alloro la cetra, il serto e ’l ricamato cinto. Quando al rumor che del famoso Alcide nella valle sentì, gli occhi rivolse, 545 e vide i corridor starsi a le mosse: li riconosce, e vede a caso giunti Admeto e Anfiarao starsi del pari, e così seco stesso egli ragiona: - Qual nume avverso a la tenzone adduce 550 due Regi a me sì cari ambi e sì pii? Nè so ben dir cui del mio amor più onori. Il primo, allor che per voler di Giove e de le Parche ne’ Peliaci campi a lui fui servo, m’onorò qual Nume, 555 nè mai soffrì ch’io fossi a lui minore: è de’ tripodi miei l’altro compagno, ed ha di mia virtù ricolmo il petto. Ha maggior merto il primo, ma ’l secondo tende al suo fine ed ha ripieno il fuso. 560 Giungerà quegli a la canuta etade; ma per te nulla gioia, e ben lo sai, misero! E tel mostraro i nostri augelli: Tebe è vicina, e la fatal vorago. - Sì disse; e ’l volto ognor sereno e lieto 565 quasi rigò di pianto, e in un baleno in Neme scese più veloce e presto del fulmine di Giove e de’ suoi dardi, lasciando l’aria e ’l ciel col lungo solco, dove passò, di suo splendore impressi. 570 E di già Proto tratte avea da un elmo le sorti de’ guerrieri, e già ciascuno stava al suo luogo per diritta riga. Bello il veder gli eroi, bello i destrieri tutti scesi da’ Numi, onor del mondo, 575 impazïenti ad aspettar le mosse. Speme, audacia, timor ne’ forti petti fanno battaglia e pallida fidanza: incerte hanno le menti, e ’l segno or bramano de la partenza, or di partir paventano, 580 e scorre loro un freddo ardir per l’ossa. Nè più tranquilli o desïosi meno stanno i destrier, spiran dagli occhi fuoco, mordono i fren, gli smaltano di spume, non trovan loco, urtan co’ larghi petti 585 le sbarre e i claustri, e da le nari fumano sdegno e furor; fanno e disfan mill’orme in sul terreno, e la ferrata zampa minacciar sembra di lontano il campo. Son lor d’intorno i fidi amici, e i crini 590 sviluppan de’ cavalli, e gli altri arnesi che far potriano intoppo; e a’ combattenti inspirano coraggio e dan consigli. Quando odesi la tromba: e tutti a un tempo da le mosse partîr. Qual vela in mare? 595 qual nube in ciel? quale mai dardo in guerra va sì veloce? Con minor ruina scendon da’ monti i rapidi torrenti; non tanta forza ha il fuoco, e non sì preste cadon le stelle, e l’orrida tempesta 600 più lenta piomba, e ’l fulmine è più tardo. Quando partîr, fur noti i carri, i duci; ma tale alzossi un turbine di polve, che quasi nube in sè gli ascose, e appena a le voci, al rumor in quel tumulto 605 si conoscon fra lor: van prima uniti, e poi ciascun o meno o più veloce avanza o resta, e già si son divisi. L’orme dal primo impresse annulla e strugge chi vien secondo: ora con tutto il petto 610 s’inchinano sul giogo, e i freni allentano; or fermi su’ ginocchi a sè ritirano le redini, e i cavalli e i carri volgono: gonfiano questi il collo, e a l’aria scherzano gli svolazzanti crini, e ’l campo rigano 615 di nobile sudor. Rimbomba il suolo al grave calpestar de’ gran corsieri, ed al molle girar de l’alte ruote. Non stan ferme le mani, e stride e fischia in spessi colpi l’agitata sferza. 620 Non più frequente esce dal gelid’Arto la grandin procellosa, e in minor copia versa il corno amalteo le piogge e i nembi. Già presago Arïon conosce e sente a le mal rette briglie il signor nuovo, 625 ed ha in orror de l’empio Edippo il figlio: vien furïando e abominando il peso, più dell’usato indomito e feroce; credono i Greci ch’al trionfo aspiri; ma l’auriga egli fugge, e lo minaccia, 630 e l’antico signor con gli occhi cerca: pur tuttavia gli altri gran tratto avanza. Vien, benchè lungi, Anfiarao secondo, e seco al par va gareggiando Admeto. Seguono i due Gemelli, ed or Toante 635 è innanzi, ed or Euneo: or l’uno vince, or l’altro cede, e ambizïon d’onore non mai giunge a turbar l’alme concordi. Veggonsi estremi Ippodamo feroce ed il feroce Cromi: ambo nell’arte 640 esperti; ma i destrieri han gravi e lenti. Ippodamo è primier, ma di sì poco che de’ destrier di Cromi a tergo sente le teste, e l’anelare e ’l caldo fiato. Sperò l’augure argivo (allor che vide 645 Arïone vagar con vari giri e fuor di mano) i suoi destrier volgendo su la sinistra, ov’è la meta, il corso anticipar, ed essere primiero. Admeto anch’ei s’affretta, ed ha gran speme 650 d’esser, se non primiero, almen secondo. E di già le lor brame eran contente: quando Arïon stanco da’ lunghi errori si fu rivolto, e più leggier del vento si mosse, gli arrivò, lasciolli addietro. 655 Vanno i gridi alle stelle, e ’l ciel rimbomba, e da le sedie lor s’alza la turba. Ma Polinice omai pallido e lasso più il fren non regge o lo scudiscio adopra come nocchier, che già confuso e stanco 660 precipita ne’ flutti e contro i scogli; nè più guarda a le stelle, e di già vinta l’arte, la nave lascia in preda a’ venti. Avean già data la primiera volta, e ricorrean lo stadio in vari solchi. 665 Qui s’accozzan di nuovo, e qui si sente asse con asse urtar, ruota con ruota. Nulla pace è fra lor, nullo riguardo: sarian men fieri in guerra, e ben rassembra questa esser pugna fra nemiche schiere. 670 Dassi lode al furor; han tema e speme; minaccian morte, e l’uno all’altro il calle tronca e ritarda, e tal desio gl’infiamma, che non bastano lor stimoli e sferze, ma incitan con la voce i lor corsieri. 675 Admeto chiama a nome or Foloe, or Joi, or lo scapolo Toe; nè Anfiarao sgrida Ascherone meno, o il bianco Cigno di cotal nome degno. I gridi sente Strimòne Erculeo del feroce Cromi; 680 e quei d’Euneo sente Etïon focoso; Ippodamo minaccia il suo Cidone, e ’l suo Podarce maculoso e lento prega Toante ad affrettar il corso. Sol Polinice sbigottito e mesto 685 se ne va errando, e non ardisce il labbro aprir, e quanto può si tien segreto. Appena da le mosse eran partiti, che già la quarta polve alzan sul campo, e già ne’ corridor manca la lena, 690 e vengon men veloci ed anelanti. Sta la Fortuna in mezzo incerta ancora, a cui doni l’onor d’esser primiero. Mentre Toante a pareggiare aspira il re d’Anfriso, si rovescia e cade; 695 nè il buon fratello può recargli aiuto, perchè mentr’ei v’accorre, a lui s’oppone Ippodamo col carro, e l’attraversa. Ma Cromi giunge, e con erculeo braccio e col vigor del padre il carro piglia 700 d’Ippodamo, e lo ferma: invano i colli stendono e i petti i buon cavalli, e invano il crudele signor li punge e sferza. Così talor fra la corrente e ’l vento stan nel siculo mar ferme le navi. 705 Già rotto il carro e ’l cavalier caduto, passava Cromi vincitore innanzi: quando i tracii destrier, che ’l vider steso, rinnovandosi in lor l’antica fame, gli si avventâr co’ morsi; allora Cromi 710 i freni torse, ed oblïò la palma, e vinto si partì colmo di lode. Mentre sta ancora la vittoria in forse, e già vicini sono al fin del corso, per te scende nel circo, Anfiarao, 715 Febo, per darti il già promesso onore. Anguicrinito mostro in campo adduce, che minaccia spavento, orrore e morte (o lo trasse d’Inferno, o in un momento d’aria lo finse): senza tema e gelo 720 nol mireria d’Inferno il fier custode, nè l’empie Furie; torneriano indietro i cavalli del Sole e quei di Marte, non che Arïon, che a sì tremendo oggetto arruffò il crine, e su due piè rizzossi, 725 e seco in alto i suoi compagni trasse. Cadde rovescio l’esule tebano, e strascinato per l’arena, alfine sviluppò il braccio da le briglie, e ’l carro senza rettor sen gì vagando intorno. 730 Mentr’ei giacea sul putrido terreno, passaro a volo le tenaree ruote ed il tessalo giogo e ’l forte Euneo vicini sì, che lo schivaro appena. Corser gli amici, e attonito e confuso 735 l’alzâr da terra, ed ei tremante e lasso ritornò non sperato al vecchio Adrasto. Che nobil morte ti negò Megera, misero Polinice! A quante stragi, a quante guerre avresti posto il fine! 740 Tebe e ’l fratello stesso, ed Argo e Neme t’avrebber pianto. Quanti onori e voti Lerna e Larissa t’avrian fatti! fora d’Archemoro maggiore il tuo sepolcro. Ma Anfiarao, che ha la vittoria certa, 745 benchè secondo e che Arïon preceda senza rettor, pur di passarlo agogna: Febo l’assiste, e gli dà forza e lena. Men presto è il vento, e pur allora sembra che da le mosse ei parta; or prega, or sferza 750 Ascherïon veloce e il bianco Cigno: - E adesso almeno (ei grida), or che Arïone sen va ramingo. - Vola il carro, e fuoco gittan le ruote, e fa la polve un nembo: rimbomba il suolo, ed ei minaccia e punge: 755 e forse Cigno avria lasciato indietro il rapido Arïon; ma nol concesse Nettuno; onde restâr con lance eguale al destriero l’onor, la palma al vate. Della vittoria in prezzo a lui portaro 760 due giovanetti una ben sculta tazza, che d’Ercole fu un tempo. Il forte eroe con una sola man l’ergeva in alto, e ridondante di spumoso vino, dopo aver vinti i mostri e le battaglie, 765 la solea tracannar tutta in un fiato. Sonvi scolpiti i fier Centauri, e l’oro risplende di terribili figure: è de’ Lapiti qui la strage espressa; volano e faci e dardi ed altre tazze, 770 e si scorgon per tutto orridi aspetti di morti e di feriti: Alcide prende, Alcide istesso il furibondo Hileo per la deforme barba, e a sè lo tragge. In ricompensa de’ secondi onori 775 ebbe Admeto un bel manto adorno e pinto di meonio ricamo, e rosseggiante di porpora di Tiro: ivi si scorge Leandro sprezzator del mar d’Abido girsene a nuoto e trasparir per l’onda; 780 sembra muover le mani, ed or le braccia a sè ritrarre, ora allargarle: e tanto l’arte poteo! par ch’abbia molle il crine. Sul lido opposto da un’eccelsa torre Hero dolente mira il mar turbato, 785 e ’l lume amico a’ suoi furtivi amori con funesto presagio ecco si spegne. Ebbero i vincitor sì ricchi doni; ma per conforto al genero tebano Adrasto diede una leggiadra ancella. 790 Poscia la gioventù veloce e lieve al corso invita, facile virtude e di pace esercizio, allor che ’l chiede o sacrificio o festa, e non affatto vana in battaglia, se contrario è Marte. 795 De l’olimpica fronda il capo cinto Ida primo comparve, e gli applaudiro l’elee falangi e i giovani Pisani. Venne secondo il sicionio Alcone, e vincitore ne’ Corintî giuochi 800 per ben due volte Fedimo leggero, e Dima un tempo di sì lievi piante, che lasciò indietro i corridori in corso, ed or più tardo per l’età li siegue. Quindi molt’altri di diverse genti, 805 che lungo fora annoverar; ma il circo mormora, e chiama l’arcade garzone, cui la rapida madre accresce fama. Chi d’Atalanta il sommo pregio ignora, che tanti Proci superò nel corso? 810 Il valor de la madre è al figlio impegno, ed è sprone ed esempio, e già famoso era per molte prove: i cervi avea raggiunti in corso; indi scoccando l’arco, avea ’l dardo ripreso a mezzo il volo. 815 Questo sol chiama il comun grido e aspetta desïando la turba, ed ei d’un salto s’erge sopra le schiere e sbalza in campo. Scioglie l’aurate fibbie e ’l manto spoglia, e nuda mostra la leggiadra e vaga 820 armonia delle membra, e l’ampie spalle, e ’l bianco petto molle al par del viso, che quasi perde in paragon del corpo. Egli non cura la natia beltade, nè chi l’ammira e adorator la loda; 825 ma nell’arte di Pallade maestro di pingue oliva le sue membra infosca. Lo stesso fêro Ida e Dimante, e quanti erano accinti al corso. In cotal guisa quando è sereno il ciel, tranquillo il mare, 830 l’immagine degli astri in mar riflette lucida e pura; ma di maggior lume Espero irradia, e quale e quanto è in cielo tutto risplende ne’ cerulei flutti. Prossimo di bellezza e di speranza 835 Ida si scorge, ma d’età maggiore: il primo pelo gli spuntava appena; ma ’l frequente liquor de la palestra e ’l lungo crine lo nasconde e cela. Così posti a le mosse, ognun le membra 840 snoda con vari moti al vicin corso, e prova fa delle veloci piante. Or piegan le ginocchia, or con le palme fan risuonare i petti, or breve fuga tentan correndo e al posto lor ritornano. 845 Ma come pria rimossa fu da i stalli l’invidïosa corda e ’l campo aperto: tutti a un tempo partiro, e per l’arena splendeano ai rai del sole i corpi ignudi. Non sì veloci da le mosse usciro 850 pur ora i velocissimi destrieri. Sembran da cretic’arco o pur da parto da tergo uscite rapide saette. Così qualor senton ruggir da lungi (o sembra loro) aspro leon feroce, 855 fuggono i cervi timidi e confusi, e insiem ristretti, chè ’l timor gli aduna; e fan miste le corna alto fragore. Fugge da gli occhi più legger del vento il menalio garzon: Ida lo segue, 860 e lo scalda col fiato, e già coll’ombra gli preme il tergo. Fedimo e Dimante van gareggiando insieme, ed il veloce Alcon gl’incalza, e di passarli ha speme. Al bel Partenopeo scendea sul dorso 865 il non tosato crin, ch’egli serbava fin da’ più teneri anni a Trivia in dono; e s’ei tornava vincitor da Tebe, avea promesso con inutil voto reciso offrirlo sovra i patrii altari. 870 Ed or sciolto da’ nodi al vento ondeggia, che seco scherza e lo respinge indietro, e fa ritardo al corso, e svolazzante l’offre al nemico che l’incalza e segue; Ida l’offerta occasïon di frode 875 abbraccia tosto, e ne conosce il tempo. Già già Partenopeo giunge a la meta: ei per lo crine il prende e indietro il tira, e innanzi passa, e pria di lui la tocca. Fremon gli Arcadi irati armi e vendetta, 880 e coll’armi punir voglion la frode, o che si renda al loro Re la palma e ’l meritato onore, e furibondi s’eran già mossi per uscir dal circo. E d’Ida a molti ancor piace l’inganno. 885 Ma ’l leggiadro garzon lorda di polve il crine e ’l volto, e si querela e piange, e grazia accresce a sua beltade il pianto, e l’innocente petto e ’l dolce viso squarcia coll’unghie e la colpevol chioma. 890 Freme discorde e in sè diviso il vulgo; e sta sospeso in suo giudizio Adrasto. Alfin risolve, e dice: - Ogni contesa, giovani, fra voi cessi, e di virtude accingetevi a far novella prova, 895 ma per sentier diverso: Ida da questa, Partenopeo da quella parte muova; lungi sieno da voi frodi ed inganni. - Quelli ubbidîr; ma l’arcade garzone tacito prega la triforme Dea 900 con voci supplichevoli, e l’adora: - O Diva, o de le selve alma Regina, a te questo mio crine era promesso, e tua l’ingiuria fu; s’a te pur grata è la mia genitrice, e se pur degno 905 di te mi resi in seguitar le fiere; deh non voler che con augurio infausto io vada a Tebe, e di sì grave scorno me stesso macchi e la mia gente invitta. - Il favor della Dea mostrossi aperto: 910 corre leggero sì che appena il sente il campo, e fra ’l terreno e fra le piante l’aria trapassa, e su l’intatta polve rare si veggon le vestigie impresse. Partì, corse, tornò fra liete grida, 915 e vincitore lo raccolse Adrasto. Ed ecco i premii: un fervido destriere ebb’egli in dono, e l’ingannevol Ida un grave scudo, e gli altri una faretra. Fa quinci il Re quelli invitare al disco 920 che de le forze lor voglion far prova. Pterela, a cui fu imposto, in campo porta lo sferico metallo, e benchè tutto incurvi il fianco, poco lungi il gitta. Attonite ammiraro il grave peso 925 le greche turbe di sì vasta mole, e pur molti s’offriro al gran cimento; tre Corintii, due Achei, uno Pisano, un d’Acarnania e molti più di Nisa. Ma il grido universale applaude e chiama 930 Ippomedonte, ed ei sen viene altero, sotto il braccio portando un altro disco del primiero maggior, e: - Questo (grida), giovani forti, o voi che a Tebe andate, per atterrar co’ sassi argini e mura, 935 questo s’adopri: e qual sì frale mano l’altro non lancerebbe? - Allor lo prende quasi scherzando, indi lontan lo scaglia. Attoniti restaro i più gagliardi, e si trasser indietro, e al grave pondo 940 si confessâr minori; e Flegia solo e Menesteo, da gran vergogna punti, e da’ natali illustri, a l’ardua impresa offrîr le mani e dimostrâr la fronte. Partiron gli altri inonorati e vili. 945 Tale si mostra ne’ bistonii campi il gran scudo di Marte, allor che fere Pangeo di mesta luce e ’l sol spaventa; e se coll’asta il dio guerrier lo batte, fuor n’esce un suono di muggito in guisa. 950 Flegia il giuoco comincia, e tutti in lui sono de’ spettator rivolti gli occhi, e a le nodose esercitate membra. Prima il disco e la man di polve inaspra; poi la polve ne scuote; e l’alza, e prova 955 ove meglio a le dita, ove a la palma via più s’adatti: esperïenza ed arte in lui si scorge, e quanto ei sia maestro in cotal gioco, onde sua patria è illustre. Spesso il lanciò, dov’ha più largo il corso 960 il vasto Alfeo, da l’una a l’altra sponda, e lo passò, nè mai cadeo nell’acque. Ed or pien di fidanza ei non agogna a misurare il campo, e verso il cielo la mira prende, e le ginocchia inarca 965 e le forze raccoglie, e sovra ’l capo lo ruota in giro, indi lo scaglia in alto. Sale il disco a le nubi; e quando incurva il volo e par che di cader minacci, più d’aria acquista e si solleva: alfine 970 tratto dal peso lento in giù ritorna, e cade su ’l terreno e vi s’immerge. Tal la germana del lucente Dio, svelta da gli astri attoniti e tremanti, cade dal ciel de’ tracii carmi al suono: 975 fanno co’ bronzi strepito le genti; ma vincitrice la possente Maga ride in vederne vacillare il carro. Fer plauso i Greci, e Ippomedonte solo, vedendo il colpo, di pallor si tinse. 980 Pur di ruotar per fianco il grave disco Flegia sperò con più robusta mano; ma la Fortuna, che i disegni nostri tronca nel mezzo e lo sperar soverchio, nol secondò: che puote umana forza 985 contro il voler de’ Numi? Ei già misura cogli occhi immenso spazio, e indietro tira il collo e ’l braccio, e tutto piega il fianco: quando il disco gli fugge e a piè gli cade, e fa suonar la cava palma a vuoto. 990 Dispiacque a’ Greci tutti il caso acerbo, e pochi lo mirâr con lieto ciglio. Ma Menesteo, che a l’altrui spese impara, sen vien più cauto, e pria di Maia il figlio co’ preghi invoca; indi di molt’arena 995 il disco irruvidisce, e si assicura che non gli cada. Esce da tutto il braccio la grave sfera, e con più lieta sorte gran tratto varca de l’immenso campo, e ruinando alfin cade e si posa. 1000 Suonâr gli applausi e i gridi, e con un dardo corsero a porre, ove fermossi, il segno. Ippomedonte al gran cimento viene a passo grave e lento, in sè volgendo di Flegia la sciagura e del secondo 1005 l’avventuroso colpo. Il disco ei prende ben noto a la sua mano, e l’alza e ’l libra e ’l tien sospeso, ed il robusto braccio consulta e prova, e ’l muscoloso tergo: indi da sè con tutto il nerbo il lancia, 1010 e col corpo lo segue: il globo a volo s’inalza, e benchè lungi, ancor rimembra la destra e tutta ne ritien la forza. Nè già di poco o con incerta meta del vinto Menesteo trapassa il segno, 1015 ma di gran tratto il varca, e i verdi colli, che fan cerchio al teatro, urta e flagella e fa tremarli: qual se giù cadesse d’immensa mole altissima ruina. Tale d’Etna fumante un sasso svelse 1020 Polifemo con man di luce priva, e sebben cieco, ove sentì ’l rumore de la nave de’ Greci, ivi lanciollo, e vicin cadde all’inimico Ulisse. Il figlio allor di Talaone in dono 1025 fe’ dare al vincitor fregiata pelle di maculosa tigre, a cui l’estreme unghie da l’oro eran coperte intorno. Di cretic’arco e cretiche saette fu Menesteo contento. A Flegia poi 1030 compassionando si rivolse Adrasto: ed - A te (disse), cui lasciò la sorte deluso; in dono ecco ti porgo un brando, che del nostro Pelasgo un tempo fue ornamento e difesa, e non dispiaccia 1035 l’atto cortese a Ippomedonte invitto. Ma tempo è omai che gli animi feroci scendan de’ cesti a la crudel contesa, c’hanno più d’armi e di tenzon sembianza, che di giuoco e di scherzo. - Ed ecco in campo 1040 Capaneo sorge, e mentre intorno cinge d’aspro e ruvido cuoio, e per lo piombo livido e nero, la robusta mano ed il braccio non men ruvidi e duri: - Datemi (grida) fra cotante schiere 1045 un uomo sol che possa starmi a fronte: ed oh foss’egli de l’aonia gente, onde il mandassi a morte, e monda e pura fosse del civil sangue oggi mia destra. - Attoniti restaro, ed il timore 1050 silenzio impose, e ognun si trasse indietro: quando repente appresentossi in campo Alcidamante; e ne stupiro i Regi. Ma i suoi Lacon son di fidanza pieni, a’ quali è noto com’ei l’arte apprese 1055 dal gran Polluce, ed indurò le membra nelle sacre palestre. Il nume istesso (invaghito di lui) la mano e ’l braccio gli addestrò a’ cesti, e se lo pose a fronte, e vedendolo star con pari sdegno 1060 se ne compiacque, e se lo strinse al petto. Ma Capaneo lo sdegna e se ne ride (mentre quegli lo sfida), e n’ha pietade, e un altro chiede. Alfin dal fier Lacone provocato si ferma, e gonfia il collo 1065 per molto sdegno. Ambo su’ piedi eretti tengon sospese di ferir in atto le fulminanti destre, e i capi indietro sottraggono a l’offese, e con i cesti si fan riparo contro i colpi e schermo. 1070 L’uno a Tizio è simíl, se pur tal volta l’augel lo lascia, e da’ soggetti campi le immense membra e le grand’ossa estolle. L’altro è quasi fanciul; ma in lui la forza gli anni prevenne, e molto più promette 1075 nell’età più matura: il circo a prova in suo favore inclina, e vincitore il brama, e teme che ’l crudel nol fera. Pria si squadrâr cogli occhi, e stero alquanto l’un de l’altro aspettando il primo assalto, 1080 nè s’affrettaro a le percosse e a l’ira: ciascuno e spera e teme, e col consiglio tempra il furor: solo le braccia in giro ruotan al vento e fan de’ cesti prova. Alcidamante nel giuocar maestro 1085 non profonde le forze, e le conserva al maggior uopo, e l’avvenir paventa. Ma Capaneo solo a ferire aspira, nulla di sè curante, e s’abbandona tutto col corpo, e senza legge od arte 1090 stanca le mani, e su due piè’ si leva, e freme e infuria e fa a se stesso impaccio. Va guardingo il Lacon, che tutti apprese de la sua patria i modi, ed ora i colpi ribatte ed or gli sfugge; or la cervice 1095 volubil piega, e con la man respinge gli ostili cesti: spesso il passo avanza e ritira la faccia, e spesso ancora (cotanto ha in sè d’esperïenza e d’arte) a lui sottentra e l’abbarbaglia; ed alto 1100 con forza disugual l’assale e tenta. Siccome sale impetuoso il flutto sovr’erto scoglio, e rotto indietro torna; così ’l Lacon quel furibondo espugna. Alza la destra, e dar gli accenna a’ fianchi, 1105 or lo minaccia a gli occhi, e mentre accorre confuso a le difese, ei fra le mani gli passa il cesto e lo percuote in fronte: n’esce tepido il sangue e riga il volto; e Capaneo nol sente, ed ha stupore 1110 del repentino mormorar del circo. Ma poi che a caso la già stanca mano si pone al volto, e tinta esser la vede d’alquante stille e rosseggiarne il cesto, non Massile leone o tigre Ircana 1115 ferita in caccia in maggior rabbia monta. Segue ’l giovin, che cede, e ’l preme e ’l caccia per tutto ’l campo, e l’urta e lo sospinge con tal furor, che ’l fa piegar supino: freme co’ denti orribilmente, e ruota 1120 ambe le mani, e ’l vento e l’aria fere, e vanno i colpi a vuoto o sopra i cesti. Ma con agili moti e col veloce piede schiva il Lacon ben mille morti che si vede piombar sovra del capo; 1125 e benchè si ritiri, ei non oblia di schermir l’arte, e non rivolge il tergo, e ribatte fuggendo i colpi ostili. Eran ambo già stanchi, e già più lenti l’un segue e l’altro fugge, ed anelanti 1130 non han più fiato, e lor vacilla il piede, ed ambo si fermaro e preser lena. Così dopo solcato immenso mare posa la ciurma, e tien sospesi i remi: ma poco sta chè ’l capitan la chiama 1135 col fischio noto a flagellare i flutti. Tornano a le contese, e pur di nuovo il provido Lacone il tempo aspetta, e pur di nuovo il gran nemico inganna; e mentre quegli sovra lui si scaglia 1140 colle gran braccia, egli s’inchina, e ’l capo nelle spalle restringe, e fugge e passa; quel dal suo peso tratto in giù ruina; ei torna, e mentre si rialza, il fere, e del felice colpo ei stesso teme. 1145 Non da’ venti percossi o lidi o selve fanno tanto fragor, come risuona d’applausi il circo e di festose grida. Ma quando Adrasto il fier gigante vide sorgere furibondo, alzar le mani 1150 ed aspri minacciar colpi mortali: - Ite (disse), o compagni, ite, opponete le destre al suo furor: ei smania e freme: affrettatevi, amici, e gli portate la palma e i premii: ei non avrà mai posa, 1155 per fin che ’l capo, le cervella e l’ossa non ne franga e confonda: itene pronti, e l’infelice sottraete a morte. - Rupper gl’indugi, e Ippomedonte corre e Tideo seco, ed ambo insieme uniti 1160 possono appena a lui frenar le mani. - Hai vinto: basta (or l’uno, or l’altro dice): tua maggior gloria è dar la vita al vinto: questi è pur nostro, ed è compagno in guerra. - Ma non si placa il cuor feroce, e sdegna 1165 gli offerti doni, e colla man respinge il militare arnese, e infuria e grida: - Io dunque non potrò macchiar di sangue e di polvere immonda il vago viso de l’imbelle mezz’uom, che piace tanto, 1170 e merita il favor del vulgo sciocco? non deformarne il corpo? ed al sepolcro mandarlo? o (perchè ’l pianga) al suo Polluce? - Sì dice, e sbuffa, e d’aver vinto nega; ma tanto fero i duo guerrier, che al fine 1175 pur lo placaro e lo tirâr da parte. Ma gli Spartan del Nume lor l’alunno colman d’applausi, e sorridendo, a scherno prendon del fiero le minacce e i vanti. Già buona pezza il suon dell’altrui lodi 1180 e la propria virtù stimola e accende il magnanimo cuor del gran Tideo. Agil era nel corso e al disco esperto, nè meno forte a guerreggiar co’ cesti; ma nel lottar non avea pari al mondo. 1185 Quest’era il suo piacer: così di Marte gli ozi ingannava, e trattenea lottando gli spirti bellicosi, e contro i forti esercitava l’ire in su le sponde dell’Acheloo, ond’ei già l’arte apprese 1190 d’essere vincitor nella palestra. Dunque or che in campo i lottatori adduce desio di gloria, egli dal tergo spoglia l’orrido manto e ’l calidonio vello. Gli vien contro Agileo, che va superbo 1195 del sangue Cleoneo, di quel d’Alcide; nè per grandezza egli è minor del padre. Erge l’ardua cervice e l’ampie spalle e ’l largo petto, e ’l suo nemico adombra; ma non è pari a la paterna forza: 1200 ha languide le membra, e in tanta mole diffuso il sangue intorpidisce e manca. Quindi nasce in Tideo fidanza e speme di vincerlo al cimento, e bench’ei sia picciol di mole, ha muscolose spalle 1205 e forti membra ed indurate in guerra: non tant’animo mai, tanto vigore chiuse natura entro sì picciol corpo. Poichè fur unti, s’incontrâr nel mezzo ambi del circo, e si coprîr d’arena, 1210 e per fermar le man, su l’altrui membra gittâr pugni di polve, e fermi a fronte si restrinsero i colli entro le spalle, ed allargaro ed incurvâr le braccia. Il sagace Tideo chinando il tergo 1215 e le ginocchia a terra, il suo nemico sforza a piegarsi, e se lo rende eguale. Come su monte eccelso alto cipresso, re de le piante, flagellato e scosso dal torbid’Austro, la cervice a terra 1220 inclina e piega, e da le sue radici sembra che svelto in giù ruini e cada; ma più superbo poi risorge in alto: volontario così le immense membra piega Agileo gemendo, e si raddoppia 1225 sovra il picciol nemico, e l’urta e ’l preme: e già sono alle prese, ed a vicenda premonsi il collo, il petto, il dorso, i fianchi, e l’uno a l’altro fa col piede inciampo: avviticchian le braccia, ed or sospesi 1230 tengonsi in alto, or sciolgonsi da’ nodi. Non con tanto furor cozzano insieme due fieri tori conduttor del gregge: la candida giovenca in mezzo al prato timida stassi e ’l vincitore aspetta; 1235 squarciansi il petto: amor li sferza e punge; e amor fa le ferite, amor le salda: pugnan così colle ritorte zanne due fier cinghiali, e con i rozzi amplessi fan ispide battaglie orsi feroci. 1240 Ma tutte ancor mantien le forze intere l’invincibil Tideo, cui sol, nè polve reser mai stanco; e ruvida ha la pelle, e le membra indurate a la fatica. Non è l’altro sì forte, ed anelante 1245 già batte i fianchi e può trar fiato appena: corre il sudore, ed il gran corpo spoglia de la vestita arena, ed ei di furto dal campo la riprende e sen riveste. Tideo nol lascia riposar, e finge 1250 ghermirlo al collo, e per le cosce il prende; ma le picciole mani al gran disegno non furo eguali, e suonâr vuote al vento. Quegli allor su Tideo colla gran mole tutto s’appoggia, e sotto sè l’asconde. 1255 Come colui che là ne’ monti Iberi per sotterranee vie l’oro cercando penetra, e indietro lascia l’aria e ’l giorno; se sopra lui vacilla il suolo e cade con gran fragor di subita ruina, 1260 oppresso resta deformato e infranto, e rende non al Ciel l’alma sdegnosa. Ma se cede di corpo, a lui sovrasta Tideo di forza e di valor, nè teme; anzi ’l vigor rinfranca, e da’ suoi nodi 1265 e dal suo peso si sottragge, e passa, ed improvviso l’assalisce a tergo e gli avviticchia e stringe i lombi e ’l petto; indi ’l ginocchio col ginocchio preme, e mentre quegli si dibatte e tenta 1270 prender Tideo nel fianco (oh meraviglia!), questi l’alza da terra, e tien sospeso, orribile a veder, l’immane pondo. Tale il libico Anteo fra le robuste braccia sudò d’Alcide; allor che ’l forte 1275 di sua frode s’accorse, e ’l tenne in alto sospeso, e di cader tolta ogni speme, non gli lasciò co’ piè toccar la madre. Applaudì ’l campo e rimbombaro i monti. Allor Tideo lo tien un pezzo in alto, 1280 poscia in fianco lo piega, e colla mano lo spinge, e a terra il fa cader disteso, e sovra lui, che giace, egli si gitta, e colla destra la cervice, e ’l ventre colle ginocchia a lui conculca e preme. 1285 Oppresso ei langue, e se resiste ancora, per vergogna resiste: alfin confitto colla faccia e col ventre in sul terreno, tardo e dolente indi risorge, e lascia l’impronta vergognosa in su l’arena. 1290 Con una man la vincitrice palma, l’armatura coll’altra alto sostiene, premii del suo valore, il gran Tideo. Ed, - Oh che fora (dice), e ben v’è noto, se l’ostile terren del nostro sangue 1295 tanto in sè non avesse, onde nel petto porto impressa la fe’ del rio tiranno? - Cotal si vanta, e a’ suoi compagni porge le conquistate spoglie: ebbe Agileo di negletta lorica un umil dono. 1300 Coll’armi ignude l’epidaurio Agreo discende in campo e l’esule tebano al suo destino non maturo ancora, e si sfidan fra loro a far battaglia; ma lo scettro interpone Adrasto, e ’l vieta: 1305 - Non mancheranno, o giovani feroci (dice), l’occasïon d’oneste morti. A miglior tempo riserbate l’ire ed il desio dell’inimico sangue. E tu, per cui lasciammo in abbandono 1310 i patrii campi, e desolate e vuote le dilette cittadi, anzi le pugne non provocar la sorte, e gli empii voti (così li rendan vani i numi eterni) non prevenir del tuo fratello iniquo. - 1315 Dice, e un elmo dorato ad ambi dona. Indi per far che senza onor non resti il genero tebano, il crin gli cinge di regal serto, e a tutto il campo in faccia il fa gridare vincitor di Tebe. 1320 Ma gli augurii deluse il crudel Fato. Finiti i giuochi, i principi lernei stanno intorno ad Adrasto, acciò che degni di qualche colpo le festive pugne, e quest’onore al funerale aggiunga. 1325 E perchè un sol trionfo a un sol de’ duci non manchi, il pregan che le nubi fenda lanciando l’asta in alto, o che da l’arco scocchi gli strali ad un prefisso segno. Lieto ei consente, e dal suo verde trono 1330 scende cinto da’ proceri e da’ Regi, e da la scelta gioventù del campo: portagli dietro l’arco e la faretra il suo fido scudiero, ed ei bersaglio sceglie a le sue saette un orno antico 1335 che in fondo sorge de l’opposto circo. Chi negherà che da cagioni occulte vengan gli augurii? Manifesti e chiari mostransi i fati. Sia pigrezza o sonno, l’uom non gli osserva, e quindi avvien che pera 1340 de l’avvenir la fede e i certi segni: tutto si dona al caso, e la fortuna maggior possanza a’ danni nostri acquista. Il campo varca la fatal saetta e l’orno tocca, e ripercossa indietro 1345 (orribil vista) per le stesse vie, per l’aure stesse, in cui passò, rivola, e a la faretra sua cade vicina. Lo strano caso in molti errori involse i Greci duci: altri a le nebbie, ed altri 1350 n’assegnâr la cagione a’ venti opposti; altri a la dura scorza, onde quell’orno fu al colpo impenetrabile e ’l respinse. Nessuno accerta, e resta a tutti ignoto il grand’evento e il mostrüoso arcano, 1355 che volea dir: che di cotanti duci Adrasto solo tornerebbe in Argo con infelice e tragico ritorno. Mentre in tal guisa a vani giuochi intenti tardano i Greci a cominciar la guerra, mirolli Giove con turbato ciglio, e crollò il capo: al di cui moto scosse 5 treman le sfere, e si querela Atlante che sovra ’l dorso suo s’aggravi il pondo. Mercurio chiama, e: - Fendi (dice) e vola per mezzo l’Aquilone a’ tracii lidi, e de l’Astro nevoso al freddo Polo, 10 là dove l’Orsa, a cui vietato e tolto è l’Oceàno, la sua stella pasce de le invernali piogge e de’ miei nembi: ivi, o deposta l’asta e il fiero brando, Marte riposa (ancor ch’ei l’ozio aborra) 15 o, qual io penso, fra le trombe e l’armi insazïabil gode e lussureggia del popolo diletto in mezzo al sangue: tu pronto il trova, e l’ammonisci e l’ira del genitor gli fa palese, e nulla 20 a lui tacer de’ miei sovrani imperii. Io gli commisi pur che a guerre e a risse tutte accendesse le falangi argive e quanto l’Istmo parte e quanto abbraccia Malea latrando co’ suoi rauchi flutti, 25 ed or usciti da la patria appena si stanno i Greci a’ sacrifici intorno: sembra che riedan vincitori in Argo, in tanti applausi van perduti, e offesi, l’aspra ingiuria crudel posta in oblio, 30 fan lieti giuochi d’un fanciullo all’ombra. Tal dunque, Marte, è il tuo furor? I dischi stridon per l’aria e cogli ebalii cesti si fan le pugne; ma se in lui s’accenda l’innata rabbia ed il crudel diletto 35 di stragi e morti, onde si pasce: al piano farà cader in ceneri e faville le innocenti cittadi, e furibondo ferro e fuoco portando, intere intere struggerà le nazioni, allor che a noi 40 più fanno voti, e desolato e vano renderà il mondo. Ed or che ’l nostro sdegno lo chiama a l’armi, è mansueto e lento. Che s’egli non s’affretta, e se non spinge tosto le greche schiere a’ tirii muri, 45 (non minaccio rigori) egli pur sia placido Nume, e ’l genio suo crudele nell’ozio illanguidisca: il brando scinga, e i cavalli mi renda, e nelle guerre più non abbia ragion. Con lieto aspetto 50 guarderò il mondo, e spanderò la pace sopra la terra, e la tebana impresa condurrà a fine la Tritonia Dea. - Tacque, e Cillenio a’ traci campi scese; ma nell’entrar de l’Iperboree porte, 55 procelle eterne e di quel polo algente i folti nembi e d’Aquilone i fiati lo rivolsero in giro: il manto suona da grandine percosso, e ’l capo appena gli difende l’arcadico cimiero. 60 Mira, e non senza orror, l’erme foreste, che son del fiero Nume albergo e tempio, u’ da mille furori intorno cinta incontro a l’Emo la feroce reggia al ciel s’inalza: son di ferro armati 65 gli angoli de le mura, e son d’acciaio le porte e le colonne che sostengono del tetto di metallo il grave incarco: la gran lampa Febea, che vi riflette, offesa resta, e spaventata fugge 70 la luce, e lo splendor pallido e tristo, che n’esce, in ciel fa impallidir le stelle. Stanza degna del luogo: in su le soglie scherza l’Impeto insano e ’l reo Delitto e l’Ire rubiconde, ed il Timore 75 pallido, esangue; e con occulte spade vi son le Insidie, e la Discordia pazza, che tiene armata l’una e l’altra mano. Suona la reggia di minacce, e stassi nel mezzo la Virtù mesta e dolente, 80 ed il Furor allegro, e armata siede fra lor la Morte con sanguigno volto. Null’altro sangue su gli altari fuma, che sangue in guerra sparso, e non s’adopra altro fuoco che quel che vien rapito 85 dalle cittadi in cenere consunte. Pendon spoglie e trofei del mondo vinto tutti a l’intorno, e ne’ sublimi palchi stanno i cattivi; orribilmente sculte stridon le ferree porte, e vi si scorgono 90 navi guerriere e vuoti carri e i volti sotto le ruote deformati e infranti, e poco men che i gemiti e i lamenti: cotanto al vivo le ferite e gli atti vi sono espressi. In ogni luogo vedi 95 Marte, ma non mai placido in sembianza: tal lo fece Vulcan, che non ancora l’adultero scoperto a’ rai del sole incatenato avea nel letto impuro. Non avea appena a ricercar del Nume 100 dato principio il messaggero alato: ed ecco il suol tremare, e muggir l’Ebro frangendo i flutti, e ’l bellicoso armento, che le valli pascea, di nuove spume tutte smaltar le tremolanti erbette 105 (segno che il Nume giunge), e spalancarsi le porte d’infrangibile adamante. Egli sen vien sul ferreo carro adorno d’ircano sangue, che grondando a’ campi muta l’aspetto, ed ha le spoglie a tergo 110 e de’ cattivi le piangenti turme. S’aprono l’alte nevi, e le boscaglie dan luogo, ovunque passa, e con sanguigna mano Bellona i destrier regge e ’l carro, e con lung’asta li flagella e punge. 115 Inorridissi a sì terribil vista di Cillenio la prole, e chinò ’l volto: lo stesso padre, se in sì fier sembiante scorto l’avesse, riverenza e tema n’avria sentito, e le minacce e l’ire 120 avria frenate e ’l suo crudel comando. Marte parlò primiero: - Or qual mi porti di Giove impero o di lassù novella, fratel? Perch’io so ben che tu non scendi di tuo voler in questo Polo algente 125 e fra gli orrori de le nostre nevi: a te i Menali ombrosi umidi boschi giovano, e del Liceo l’aura più mite. - Quegli di Giove il gran comando espone. Nè Marte indugia; ma i destrier rivolge 130 ansanti e molli, ed egli stesso ha in ira le dimore de’ Greci. Il vide Giove da l’alto soglio, e mitigò lo sdegno, e gravemente torse altrove il guardo. Così qualor Affrico cessa, e ’l mare 135 in pace lascia, procellosa e incerta sorge la calma, e l’onda, che si spiana, la tempesta mancante agita ancora: ancor tutti non son del legno afflitto raddrizzati gli arnesi, e non respira 140 l’affannato nocchier da tutto il petto. Dato avean fine a le battaglie inermi e a’ funerali, e al busto spento intorno stavano i Greci: e già ciascun tacendo, versava Adrasto il vino, e ’l cener freddo 145 d’Archemoro placava in questi sensi: - Danne, sacro fanciul, le triennali tue feste rinnovar per molti lustri: che più non pregherà gli arcadi altari Pelope tronco, nè con mano eburna 150 batterà i tempî elei, nè il fier Pitone curerà i pizii giuochi, e non più a nuoto verrà l’ombra al pinifero Lecheo. Noi frettolosa turba al mesto Averno or t’involiamo, e ti doniamo a gli astri 155 co’ sacrifici. Ma se abbatter Tebe per te ne sarà dato, allor sublime t’ergerem tempio, allor ci sarai Nume; nè sol t’adoreran d’Inaco i regni, ma la pingue Beozia e Tebe vinta. - 160 Così per tutti Adrasto, e nell’interno approvava ciascuno il regio voto. Ma già scendea co’ rapidi destrieri Marte a’ lidi efirei, là dove estolle Acrocorinto il capo e tutti adombra 165 i due mari divisi, e di sua schiera sceglie il Terrore e lo spedisce al campo. Non v’è ’l più destro a insinuar ne’ petti la sollecita tema, o chi più ’l falso col vero adombri: innumerabil mani 170 ha ’l fiero mostro, innumerabil voci, e qual più gli convien, prende sembianza; a lui tutto si crede, e pon sossopra e in furia le cittadi, e s’egli afferma il terreno ondeggiar, splender due Soli, 175 le stelle ruinare, andar le selve, il fantastico vulgo e gl’infelici giureran di vederlo. Ed or che ’l Nume a tant’uopo lo sceglie, egli raddoppia l’arte e l’ingegno. Da l’erculea valle 180 alza turbo di polve, e sbigottiti lo mirano da l’alto i duci argivi. Indi accresce il terror, e un rumor vano imita e finge di cavalli e d’armi, e d’urli orrendi l’aria intorno assorda. 185 Restan sospesi i Greci, e mormorando fremon le turme: - Qual fragor? Qual suono? Noi pur l’udiamo. Quale immensa nube il cielo involve? Sarian mai le schiere de l’oste ismena? Ah certo sono. E tanto 190 Tebe presume? e non paventa? Or stiamo, stiamo a perdere il tempo intorno a’ roghi. - Tai sensi ispira alle confuse menti il fallace Timore, ed or l’aspetto d’un guerriero pisan, or d’un eleo, 195 or d’un lacon ei prende, e giura e afferma che ’l nemico è vicino, e un van terrore sparge per tutto il campo, e lo perturba. Ma poi che all’alme inferocite il Nume, il Nume istesso sopraggiunse involto 200 in un turbin di polve, e che tre volte l’asta crollò, tre volte al corso spinse i feroci cavalli, ed altrettante percosso al petto fe’ suonar lo scudo: - A l’armi, a l’armi - furïosi e insani 205 gridan per tutto: ognun l’armi rapisce, chi le sue, chi le ignote, e chi ’l cimiero cambia, chi l’asta, e chi i non suoi destrieri al carro accoppia; in ogni petto bolle desio di stragi e morti, e nulla frena 210 più il lor furor: precipitosi vanno, e compensan gl’indugi. In cotal guisa al cominciar del vento il lido suona di strepito e tumulto, allor che ’l porto lascia la nave, e dà le vele al vento, 215 e accomoda le sarte. I salsi flutti già flagellano i remi, e di già a galla vengon l’ancore curve, e già l’amata spiaggia d’alto si mira, e quei che a tergo cari pegni restâr, consorti e figli. 220 Vide Bacco partir le squadre argive rapidamente accelerando il corso, e lagrimando a la materna Tebe gli occhi rivolse e al suo natale albergo, e ricordossi il fulmine paterno. 225 Turbato abbassa il rubicondo viso, ed il crine scompon, mentre ne strappa il serto, e mentre da le corna l’uve e ’l tirso da le man cader si lascia. Indi ’l manto discinto e lagrimoso, 230 sen corre a Giove, che in rimota parte stava del cielo, in tal sembiante e mesto che tale unquanco non fu pria veduto (e ben sa ’l padre a che ne venga): allora supplichevole a lui così favella: 235 - Dunque, o buon genitor de’ sommi Dei, la tua Tebe distruggi? A cotant’ira giunge la tua consorte? E non ti muove la terra a te sì cara, e l’ingannata casa, e de’ miei il cenere sepolto? 240 Siasi che già tu involontario fuoco da le nubi scagliasti: ed or di nuovo perchè la terra accendi? Il giuramento già non ti sforza dell’inferna gora, nè de l’amata le preghiere e l’arti. 245 E quando avran mai fine i tuoi rigori? Dunque a noi soli il fulmine riserbi, irato padre? ma non già sì fiero scendi di Danae a’ tetti, e a’ boschi amici d’Arcadia, e al letto dell’amata Leda. 250 Dunque fra tanti figli abietto e vile io sol ti sembro? E pur gradito peso ti fui già un tempo, e pur a me rendesti la vita e l’alvo ed i materni mesi. Arroge a ciò, che i miei Teban non sanno 255 altr’armi maneggiar che l’armi nostre: cinger di frondi il crine, e al suon de’ bossi invasati danzar, e de le spose temere i tirsi e de le fiere madri. Come potran le trombe e ’l suon de l’armi 260 timidi sostener? Ecco rimira con qual furor vien Marte, e forse adduce i tuoi Cureti in guerra? O ci propone pugne innocenti di quadrati scudi? Ahi che incontro ne spingi Argo odïosa. 265 Forse mancan nemici? O duro impero più de’ perigli ancor! Alla matrigna darem le nostre spoglie ed a Micene. Che se pur tale è ’l tuo volere, io cedo. Ma dove poi de la mia gente estinta 270 porterò ’l culto e (se vi son) gli avanzi de l’infelice mal feconda madre? Forse fra’ Traci? O di Licurgo a’ boschi? O a gl’Indi soggiogati andrò cattivo? Se profugo mi vuoi, dammi una sede. 275 Poteo fermar (nè già l’invidio) Apollo Delo materna ne l’Egeo profondo: potè Minerva da l’amata rocca respinger l’acque; e con quest’occhi io vidi Epafo dominar ne’ regni Eoi; 280 e Mercurio e Minosse in dolce pace godon Cillene e Creta. I nostri altari hai solo in odio. Ma se noi men grati ti siam, Tebe rimira: ivi godesti l’erculee notti, e di Nitteo la figlia 285 ivi t’accese di soave fiamma: quivi è il seme di Tiro, e del mio fuoco il toro più felice. Almen ti prenda del sangue d’Agenor qualche pietade. - Sorrise Giove a quel parlar, e ’l figlio, 290 che già prostrato a lui tendea le mani, sollevò al bacio, e placido rispose: - Non è Giunon, come tu pensi, o figlio, che dia impulso al furor; negar saprei le atroci imprese a la consorte ancora, 295 qualor le richiedesse: il giro eterno mi trasporta de’ Fati, e antiche sono le cause de la guerra. In ciel qual mai trovi di me più mansüeto Nume? Chi ha più in orror l’umano sangue? Il vede 300 pur questo Polo e questa immobil reggia, che sarà meco eterna. O quante, o quante volte ho deposto il fulmine già pronto! Come di rado su la terra il vibro! Nè già di mio voler io diedi in preda 305 a Dïana ed a Marte a torto offesi, e gravemente, i Lapiti feroci e i Calidonii antichi. È mia fatica tanti corpi formar, mutar tant’alme. Ma di Labdaco e Pelope i nipoti 310 troppo ho tardato a svellere dal mondo. Quanto sien pronti ad oltraggiare i Numi i tuoi Tebani (restin or da parte i Dorici delitti) è a te ben noto, che anche offeser te stesso, e pur si taccia, 315 giacchè placossi in noi l’antico sdegno. Penteo però le scelerate mani non avea tinte del paterno sangue, nè compressa la madre, e a sè i fratelli procreato nel talamo nefando, 320 e pur fra gli orgii tuoi lacero cadde. Ove i tuoi pianti allor? Ove le preci? Nè già destino al mio privato sdegno l’empia stirpe d’Edippo: a me la chiede la terra, il cielo, la pietà, la fede 325 offesa, la natura, e ’l fier costume de l’empie Furie. Tu per or la tema deponi, o figlio: il fatal giorno ancora non è giunto per Tebe; a più funesta età la serbo e a vindice maggiore: 330 or tutto di Giunon sarà l’affanno. - Bacco a tal dire il manto e ’l cor riprese. Così talora in bel giardin le rose, se ’l fosco Sol le adugge e ’l torbid’Austro, pallide stanno; ma se i dolci fiati 335 spira Favonio e rasserena il cielo, ritornan belle, e i lor novelli germi ridon d’intorno, e si fan verdi i rami. Ma del tiranno a l’atterrite orecchie gli esploratori aveano esposto intanto 340 che vien l’oste nemica a lunghe schiere, e ch’è già su’ confin: che ovunque passa treman le genti, ed han pietà di Tebe: narran le nazïoni, i duci e l’armi. Il Re cela il timore, e più ricerca, 345 ed ha in odio chi ’l narra: alfin risolve d’animar le sue squadre e farne mostra. Tutta l’Aonia avea commossa a l’armi Marte, e l’Eubea e Focide vicina. Tal di Giove è ’l piacer: scorre per tutto 350 il segno militar, e in un momento armate escon le squadre, e vanno al campo alla città soggetto, a cui serbate son le battaglie e i gran furori aspetta. Non hanno ancora gl’inimici intorno: 355 e pur, timida turba, il sesso imbelle su’ muri corre, e a’ pargoletti figli mostran l’armi lucenti, e sotto gli elmi additan loro i genitori ascosi. Stavasi sola sovra eccelsa torre, 360 di nero vel coperto il molle viso, Antigone, non anco a l’altrui sguardo concessa, e seco solo iva Forbante già scudiero di Laio: il venerando vecchio onora la vergine reale, 365 e prima a lui favella: - Abbiam noi speme, padre, che queste insegne abbian possanza per resistere a’ Greci? A noi la fama porta che contro noi vengono in guerra tutti i regni di Pelope. Or ti prego, 370 mostrami i duci e le straniere squadre, chè i nostri ben ravviso, e quali insegne Meneceo porti, e di qual armi adorno splenda Creonte, e per la ferrea Sfinge superbo Emon, come se n’esca altero 375 per l’Emoloida porta. - Ella sì dice semplicemente, e a lei risponde il veglio: - Mille Driante sagittari in guerra da’ freddi colli di Tanagra adduce: egli ha il tridente in bianco scudo impresso, 380 ed aspro d’oro il fulmine trisulco; del gigante Orïon degno nipote per sua virtù: deh stia da lui pur lungi il destino del padre, e l’ira antica la vergine Dïana in tutto oblii. 385 Seguono le sue insegne e fangli omaggio Medeone ed Occalea, e la selvosa Nisa, e Tisbe, che al suon delle colombe, care a Ciprigna, mormora d’intorno. Questi, che porta in man le rusticali 390 armi paterne, è detto Eurimedonte figlio di Fauno, ed ha su l’elmo un pino, che di destrier cadendo imita il crine: quanto ardito fin qui fu nelle selve, tanto sarà nelle sanguigne pugne: 395 lo segue Eritre d’ampie greggi ricca, e de l’arduo Scolon gli abitatori, e quelli d’Eteonon cinti d’intorno d’alte scoscese rupi, e quei che d’Ile stan fra gli angusti lidi, e quei che in Scheno 400 superbi van per Atalanta, e i campi onoran dove ella più volte corse: armati di macedoni zagaglie vengono in guerra e di quadrati scudi, che mal ponno coprir da’ colpi il petto. 405 Quelli d’Onchesto, che a Nettun son cari, ecco scendon nel campo a gran fracasso, e i Micalessi fertili di pini, e quei che ’l Mela ed il Gargafio rio irrora, a Palla sacri ed a Dïana, 410 e gli Aliarti, che le nuove messi invidian de’ vicini, e con dolore miran le loro dal rigoglio oppresse: portan tronchi per aste, e per cimiero i capi de’ leoni, e son le targhe 415 di sovero leggere, e di costoro duce è ’l nostro Anfïon: ben lo ravvisi, vergine, al plettro che su l’elmo porta, e al toro avito nello scudo impresso. Generoso garzon! ei si prepara 420 gir per mezzo le spade, e ’l petto ignudo esporre in guardia de l’amate mura. Voi d’Elicona pur turbe venite a soccorrer nostr’armi; e tu, o Permesso, e tu felice pe i canori flutti, 425 Ormio, non usi a le battaglie i vostri popoli armate: or tu li senti, o figlia, venir cantando i patrii carmi, appunto di cigni, in guisa, che al partir del verno del sereno Strimon lascian le sponde. 430 Itene pur felici: i vostri fasti vivranno sempre, e saran fatti eterni dal dolce canto de le caste Muse. - Egli, così dicea; ma l’interruppe la vergine: - E chi son quei due fratelli 435 che van sì uniti? di qual stirpe? Oh come sono simili all’armi, oh come eguali svolazzano le creste in cima agli elmi! Deh fosse tal concordia anche fra’ nostri! - Cui sorridendo il veglio: - In questo errore 440 tu la primiera, Antigone, non sei: altri ingannati da l’età germani gli hanno creduti, e pur son padre e figlio; ma confusero gli anni; or tu m’ascolta: Lapitonia Dircea ninfa lasciva 445 del primo s’invaghì, che giovinetto era e inesperto e a’ talami immaturo; e tanto fece con lusinghe e vezzi, che seco si congiunse e n’ebbe un figlio, il vezzoso Alatreo, che ’l genitore 450 nella primiera gioventù somiglia al volto, e insieme hanno l’età confusa. Or del nome fraterno, ancor che finto, hanno piacer, e del comune inganno; ma vie più gode il genitor, cui giova 455 sperar compagno in sua vecchiezza il figlio. Trecento in guerra cavalieri eletti il figlio mena, ed altrettanti il padre; se il ver narra la fama, a noi li manda Glisanta angusta e Coronea ferace: 460 è ricca l’una d’ubertose viti, e l’altra pingue di copiose messi. Ma qua rivolgi il guardo, e Ipseo rimira, che i suoi quattro corsieri e ’l carro adombra. Colla sinistra man di sette cuoia 465 di toro cinto alto sostien lo scudo. Copre il gran petto d’interzata maglia, e da tergo non teme. Un’asta impugna che fu onor de le selve, e che vibrata penetra l’armi, e va per l’armi a’ petti, 470 nè mai lanciolla il cavaliere in fallo: generollo il rapace Asopo, e degno padre d’un tanto figlio allor si mostra, che, rotti i ponti e gli argini, sonoro sen corre al mare, e le campagne inonda; 475 o quando a vendicar l’offesa figlia, turgidi alzò contro le stelle i flutti, e sdegnò aver per genero il Tonante. Poichè rapita al patrio fiume Egina fra gli amplessi di Giove ascosa giacque, 480 sdegnossi il fiume, e mosse guerra al cielo. (Non era in quell’età lecito a’ numi contaminar le vergini innocenti). S’alza sovra se stesso a la vendetta, e spinge l’onde in alto, e benchè privo 485 d’ogni soccorso, pur combatte solo; ma dal fulmin percosso oppresso giacque; gode il fiume orgoglioso in su le sponde vedere ancor le ceneri celesti, e va superbo de l’avuta pena 490 contra il cielo esalando etnei vapori. Tale vedremo Ipseo ne’ cadmei campi, se pur Egina a lui placò il Tonante. Seguono il suo stendardo Itone, e a Palla Alalcomene sacra, e Mide ed Arne: 495 quei che in Aulida e in Grea spargono i semi, e la verde Platea doman co’ solchi; e Peteone, e quei che ’l nostro Euripo con eterne tempeste intorno scorre, e tu, Antedone estrema: ove dal lido 500 umiderboso ne’ bramosi flutti si lanciò Glauco, e già ceruleo il crine fatto e le gote, inorridì in mirarsi dal mezzo in giuso trasformato in pesce. Ruotan le frombe, e con piombati globi 505 fendon i venti, e lancian le zagaglie veloci più di cretiche saette. Tu pur, Cefisso a noi mandato avresti il tuo Narciso; ma ne’ tespii campi langue il giovin feroce, e con sue linfe 510 lo sconsolato padre il fior ne irrora. Chi le schiere di Febo e de l’antica Focida potrà mai narrarti a pieno? Daulida, Ciparisso e Panopea, e Lambadia vallosa, e sopra un scoglio 515 Hiampoli fondata, e quei che manda l’uno e l’altro Parnasso, e quei che Cirra hanno per stanza, e Anemoro pendente, e di Coricia i boschi, e di Cefisso Lilea che preme la gelata fonte; 520 là ’ve solea Piton l’immensa sete portando, il fiume divertir dal mare. Mira come ciascun su l’elmo ha il lauro, e portan nello scudo o Tizio o Delo, o le faretre che votò sovente 525 Febo, facendo innumerabil strage. Ifito è il duce loro, a cui poc’anzi Naubolo padre, d’Hipaso disceso, rapì la morte. Naubolo, o buon Laio, un tempo tuo fedel ospite e auriga, 530 che guidava il tuo carro il giorno acerbo in cui cadesti indegnamente esangue de’ tuoi destrier tra le ferrate zampe. Deh foss’io pur teco rimaso estinto! - Qui impallidì Forbante, e da’ singulti 535 gli fur tronchi gli accenti. Il freddo veglio si stringe allor la verginella al seno, e lo consola. Ei con tremante voce ripiglia, e segue: - O Antigone, o mia sola illustre cura ed ultimo piacere, 540 per cui di gire alle ciech’ombre io tardo, e mi serbo a veder forse le avite stragi e le stesse sceleranze antiche, tanto che te consegni intatta e pura a legittime nozze: ah presto sia! 545 ed Atropo il mio fil tronchi dal fuso. Ma mentre il tempo io perdo, o quanti veggio duci trascorsi! e Ctonio tacqui e i figli d’Abante, a cui scendon le chiome a tergo; non Caristo pietrosa a te mostrai, 550 non Ega umíle e Cafarea sublime; e già stanca la vista agli occhi nega discerner gli altri, e già son tutti fermi, e ’l tuo fratello a lor silenzio indice. - Avea finito il suo parlare appena 555 da la torre Forbante, allor che d’alto in cotal guisa favellò il tiranno: - O magnanimi Regi, al cui comando io duce vostro d’ubbidir non sdegno, e privato guerrier difender Tebe; 560 già non imprendo a’ generosi cuori aggiunger sproni: volontari a l’armi correste, e volontari a me giuraste i giusti sdegni e le magnanim’ire. Nè men poss’io rendervi grazie o lodi 565 al benefizio eguali: a voi mercede daranno i Numi e vostre destre invitte, debellati i nemici. Una vicina ed amica città voi difendete, contro di cui non da lontani climi 570 viene il nemico, o in altra terra nato; ma un nostro cittadino a’ nostri danni muove e conduce esercito straniero: e pure ha qui fra noi ne’ nostri muri la madre, il padre e le sorelle afflitte. 575 Anche un fratel tu avevi: or mira, iniquo, tu che a gli avi minacci e stragi e morte, tutta l’Aonia in mio favor s’è mossa, nè sono al tuo furor lasciato solo. Sai tu che voglion queste squadre? Il regno 580 vogliono ch’io ti neghi; - e qui si tacque. Indi gli ordin dispone, e chi le mura difender debba, e chi pugnare in campo, quai schiere in fronte e quali por nel centro. Così qualor nel rusticale albergo 585 l’alba penétra e ancor son l’erbe molli, apre le chiuse stalle il buon pastore, e fuor ne tragge il gregge: escono i primi i robusti montoni, e insiem ristrette seguon le pecorelle; egli con mano 590 sostien le pregne e le pendenti poppe, e pone al latte le cadenti agnelle. Vengono intanto senz’aver mai posa nè dì, nè notte furibondi i Greci spinti da l’ira: appena il cibo o il sonno 595 li tarda alquanto, e van con quella fretta l’inimico a cercar ch’altri lo fugge; nè li arrestan gli augurii e i tristi segni, che la sorte presaga a lor dimostra molti e funesti messagger di morte. 600 Perchè di lor sciagura annunzio certo diedero augelli e fiere, ed astri, e fiumi indietro volti; tuonò Giove irato, strisciaro infesti lampi; orribil voci da’ sotterranei usciro, e i chiusi tempii 605 volontari s’aprîr de’ numi eterni; or piovve sangue, or pietre, ed improvvise apparver ombre, ed a’ nipoti e a’ figli flebili si mostraro i padri e gli avi; gli oracoli febei Cirra allor tacque, 610 e la notturna Eleusi in non usati tempi urlar si sentì; Sparta presaga, aprendo il tempio, gli amiclei fratelli (o sceleranza!) pugnar vide insieme: gli Arcadi udiro infra gli orror notturni 615 Licaone latrar, correr di nuovo Enomao vider nell’infame campo attoniti i Pisani, e quei d’Acarne scorsero l’Acheloo dell’altro corno scemo e deforme; di Perseo l’immago 620 mesta vide Micene, e di Giunone turbato il simulacro, e mercè chiese: udîr gli agricoltori il procelloso Inaco dar muggiti: ambedue i mari udîr suonar di Palemone a’ pianti 625 gli sbigottiti abitator dell’Istmo. Tali avvisi de’ Numi ode e non cura la pelasga falange, e ’l furor cieco di timore la spoglia e di consiglio. Erano giunti di Beozia a’ fiumi 630 e dell’altero Asopo in su le sponde, e non ardiano il periglioso guado tentar le schiere del nemico flutto. Perocchè allor con ridondante piena facea terrore a’ campi, o la piovosa 635 Iride a lui le forze accrebbe o i nembi alpestri, o che pur tal fosse sua mente, del terreno natio chiudere il varco al campo ostile. Ippomedonte allora il destriero restio spinse d’un salto 640 nel fiume, e dietro si tirò la sponda, e in mezzo a’ gorghi alto tenendo il freno e l’armi, volto a gli altri duci grida: - Or me seguite, o valorosi; io scorta primo sarovvi a le nemiche mura, 645 io primo a Tebe spezzerò le porte. - Tutti lanciârsi allor nell’onde a gara vergognando gli estremi. In cotal guisa se dal pastor guidato a fiume ignoto giunge l’armento, timido s’arretra: 650 lontana pargli la contraria ripa, ed in mezzo ha ’l terror; ma se precede il toro condottiero e ’l guado tenta, allor facile il salto, allor vicino il lido, allor più mite l’onda appare. 655 Vider non lungi un rilevato colle cinto da’ campi, ove spiegar le tende potean sicuri i capitani argivi, e donde si scoprian le torri ostili tutte d’intorno e le tebane mura. 660 Piacque la sede ed il fedel ricetto, perocchè il monte dolcemente sale e signoreggia il piano, e non lo copre altro monte vicino, e non fa d’uopo di gran sudore a metterlo in difesa; 665 forte natura il fe’: le rupi in vallo ergeansi, e in fossi era cavato il piano, e quattro sassi gli cingeano i fianchi fatti dal caso di bastioni in guisa; il rimanente terminâr le schiere, 670 finchè il sol cadde e diè riposo all’opre. Ma chi ’l terror può mai ridir di Tebe, città che attende gli ultimi perigli, cui turba l’atra notte e ’l dì vicino! Corrono per le mura, e in quel terrore 675 nulla lor sembra esser sicuro assai; nè fidan più nelle anfionie rocche. Ferve il tumulto, ed il timore accresce degl’inimici il numero e il valore: veggonsi a fronte i padiglioni ostili 680 e splender su’ lor monti estrani fuochi: chi a’ tempii corre e a’ Numi, e chi le spade e i dardi affina, e de’ destrier fa prova: altri si stringe al sen la moglie e i figli, e chiede lor l’estreme esequie e ’l rogo: 685 se alcun le luci in momentaneo sonno chiude, in sogno guerreggia; or la dimora lor sembra avanzo, or han la vita a schivo, ed odian l’ombre ed han timor del giorno. Scorre per ambo i campi ebbra e baccante 690 Tesifone, ed ha in man gemino serpe: mostra un fratello all’altro, e ad ambi il padre. E questi urlando da sue oscure grotte, le Furie invoca e ridomanda il lume. Di già ecclissato avea l’umido corno 695 l’algente luna, e già sparian le stelle a lo spuntar della novella luce, e bollia l’Oceàno al nuovo fuoco del vicin Sole, e quanto vasto è il mare, a’ rai cedendo de’ destrieri ardenti, 700 spianava i flutti e rosseggiava intorno: ed ecco uscir da le tebane porte Giocasta, il guardo torva, e ’l bianco crine sparsa e incomposta, e pallida le gote, e livida di colpi i bracci e ’l petto, 705 quasi Furia antichissima d’inferno, portando in man cinto di nera benda un ramuscel d’oliva, e accompagnata da la gran maestà di sue sciagure. Le due figlie, più quieto e miglior sesso, 710 le fan di qua, di là debil sostegno, mentr’ella sforza le senili membra e sopra il suo potere i passi affretta. Giunta a’ nemici, urta col petto ignuda le sbarre, e chiede con tremante voce 715 interrotta da gli urli essere ammessa; e, - Aprite (grida) il varco, io quella sono dal cui ventre tanta guerra uscío: io son quell’empia, ed ho nel vostro campo anch’io ragione ed esecrabil parte. - 720 Inorridîr le guardie al solo aspetto, molto più a le parole, e di già un messo torna, che fu spedito al Rege Adrasto con ordine che venga: apron le porte, e la fanno passar tra l’armi ignude. 725 Ma come pria de’ principi lernei giunse al cospetto, in suo dolor feroce furïosa gridò: - Deh chi mi mostra quel ch’io mi partorii fiero nemico? Qual elmo il cela, o principi? - A tal voce 730 corre di Cadmo il figlio, e fra le braccia l’accoglie, e ’l seno di gioioso pianto le bagna, e la consola, e, - O madre, o madre, - tra’ singulti ripete; e le sorelle alternamente or si restringe al seno, 735 or alla madre torna. Allor fra’ pianti la fiera vecchia vie più l’ira inaspra. - Che lagrime, o crudel? Quai nomi fingi, Argivo Re? Perchè m’abbracci, e offendi col ferreo petto l’odïosa madre? 740 Tu quell’esule sei? Tu quel meschino che mendicava albergo? E chi pietade non avrebbe di te? Lassa! ma quante schiere da’ cenni tuoi pender vegg’io? Da quante guardie ti rimiro cinto? 745 Misere madri! or qual ti veggio? E pure io piangeva il tuo esilio i dì e le notti. Ma se de’ tuoi la voce udir ti degni, se ne ascolti i consigli, or che le trombe taccion ancora, e la pietà sospesa 750 sta in mezzo a l’armi e l’empia guerra aborre, io, genitrice tua prego e comando: vien meco, e i Dei paterni e i patrii tetti mira pria che gl’incenda, e col fratello (che, torci il guardo?), col fratel ragiona, 755 ed il regno gli chiedi, ed io fra voi giudice sederò: che se lo nega, potrai con più ragione usare il brando. Temi tu forse che la madre ancora a le frodi consenta e che t’inganni? 760 Non uscì già da l’infelice casa ogni pietade: il tuo sospetto appena giusto saria se ti guidasse Edippo. Sposa fui, lo confesso, e le mie nozze ahimè fur empie, e fu nefando il parto; 765 pur tali io v’amo, e i furor vostri io scuso; che se ancor tu resisti, ecco io t’appresto volontario trionfo: a tergo lega le pie sorelle, ed incatena e stringi la genitrice afflitta; e se non basta, 770 da le sue grotte ti si meni il padre. Or i miei pianti e le querele io volgo a voi, principi achivi. In abbandono lasciaste pur le dolci spose e i figli, e i vecchi padri, e questi stessi pianti, 775 ch’io spargo, allor versaste. A me rendete, principi, le mie viscere e ’l mio sangue. Se tanto caro nel suo breve esilio a voi si rese (e siavi prego ancora) quale a me sarà poscia e a questo seno? 780 Non dagli Odrisii regi o dagl’Ircani sariano escluse mie preghiere oneste; o s’altri v’ha, che vinca i furor nostri: o ’l concedete, o duci, o fra le braccia spirar io voglio de l’ingrato figlio, 785 pria di veder le scelerate guerre. - Il flebile parlar mosse a pietade avea le irate schiere, e già d’intorno si vedean vacillar elmi e cimieri, e di lagrime pie l’armi cosperse. 790 Quai feroci leon che con il petto hanno atterrati i cacciatori e l’aste: placano l’ira, e sopra i corpi vinti van passeggiando, e certi già del cibo godon di prolungar l’ingorda fame: 795 Così ne’ Greci s’ammolliano i cuori e l’insano furor d’armi e di morte, e Polinice stesso ora fra i baci de la canuta madre, or fra gli amplessi de la semplice Ismene, ed or nel seno 800 d’Antigone piangente e che lo prega, sta in sè dubbio e confuso, e ’l regno oblia. Già già d’andar non nega, e non gliel vieta placido Adrasto; ma s’oppon Tideo, che si rimembra il ricevuto scorno. 805 - Me (grida), me piuttosto al fier tiranno, che sì fido provai, prenci, opponete (e non gli era fratello), ancor ne porto la finta pace e l’empia fe’ nel petto. Arbitra della fede e della pace, 810 ov’eri, madre allor ch’una sol notte mi diè fra voi così benigno albergo? Ad un sì reo commercio il figlio meni? Menalo prima a quell’infame campo che fuma ancor del vostro sangue e mio. 815 E tu indur vi ti lasci? O troppo mite! Qual sia il furor de’ tuoi più non rimembri? Quando sarai da mille spade cinto, basterà forse che la madre pianga, e cesseranno l’armi? Una sol volta 820 ch’ei t’abbia in suo poter, e che ti chiuda in quelle mura a le sue furie esposto, puoi tu sperar che ti rimandi al campo? Prima vedrai quest’asta, il ferro scosso, rifiorire di frondi e di verdura; 825 l’Inaco prima e l’Acheloo vedremo retrogradi tornare a’ loro fonti. Ma sol si cerca d’abboccarli insieme, e, se possibil fia, compor le risse: questo campo gli è aperto ed è sicuro. 830 Forse di me si teme? Ecco mi parto, e dono al comun ben le mie ferite. Venga egli pure a le sorelle in mezzo, e ’l riconduca qui la stessa madre. Quindi che speri? Fa che ’l regno ei ceda 835 vinto da’ patti: il renderai tu poi? - Dal feroce parlar mosse le schiere mutan consigli, qual se d’improvviso turbasi il cielo, e l’Austro procelloso toglie a Borea del mar tutto l’impero. 840 Si risvegliano l’ire, e pur di nuovo piacciono l’armi ed i furor primieri. Vede Megera il tempo, e pronta il coglie, e sparge a le battaglie il primo seme. Su la sponda dircea givano errando 845 due mansuete tigri, ed eran quelle che ’l carro trionfal da’ lidi Eoi trasser di Bacco, ed ei le avea dal giogo libere fatte negli aonii campi, A queste ancor spiranti arabi odori, 850 e che oblïata han la natia fierezza, solevan le Baccanti e la più antica sacerdotessa ornare il collo e ’l petto di pampinosi serti, e ’l maculoso vello intrecciar di fiori e fregiar d’ostro; 855 e di già care erano a’ campi e a’ colli, e care ancor (chi ’l crederia!) a l’armento; e le giovenche intorno a lor muggendo ardian pascere i prati: ingorda fame non le spinse a le prede, e di chi ’l cibo 860 porgeva lor, lambivano le destre, e aprian le fauci e distendeano i colli a l’infusion del dolce umor di Bacco. Per le selve dormian; ma se talora con pacifico passo entrano in Tebe, 865 fumano in ogni casa, in ogni tempio i sacrifici, e par che Bacco torni. Queste tre volte con viperea sferza batte la Furia, e le rivolge in ira e al furor primo, e dietro sè le mena 870 contro gli Argivi, che non san che sacre sieno ad un Nume: da diverse parti scendon così due folgori dal cielo, solcando l’aria con il crine ardente; non altrimenti rapide e veloci 875 fremendo orribilmente a corso, a salti passano i campi, e l’infelice auriga sbranan d’Anfiarao (presagio infausto al suo signor, di cui guidava al fiume i candidi destrieri), ed Ida appresso 880 di Tenaro, e Acamanta il forte Etólo. Fuggon pei campi e gli uomini e i cavalli; ma Aconteo nel veder cotanta strage (er’Arcade costui e cacciatore) acceso d’ira collo strale in cocca 885 le segue, e scaglia, e replicando i colpi le impiaga nella schiena e nelle coste. Quelle fuggendo, e di sanguigna riga segnando il suol, su le tebane soglie portano le saette, e moribonde 890 gemono in suon di pianto, e a cader vanno dell’amata città sotto le mura. Sembra che i tempii e la cittade a sacco Vada, e sossopra, e le sidonie case ardan le fiamme: tanto e tal s’inalza 895 rumor per tutto: avrian minor dolore, se le cune d’Alcide, o di Semele il talamo fumante, o d’Ermione fossero i tetti in cenere disciolti. Ma del nume ministro il buon Tegeo 900 col brando ignudo Aconteo inerme assale, ch’era già senza dardi, e che godea de la doppia vittoria: il suo periglio miran gli Arcadi, e corrono al soccorso; ma giungon tardi: su le uccise fiere 905 giace a Bacco il meschin pronta vendetta. Dassi a l’armi nel campo, ed il concilio resta disciolto: fra le armate schiere fugge Giocasta, e più non prega, e seco fuggon le figlie, e chi le udì pietoso 910 or le respinge irato e le discaccia. Coglie Tideo l’occasïone, e grida: - Or ite dunque, e fe’ sperate e pace; forse ha potuto il perfido tiranno differire il misfatto in fin che torni 915 da noi partendo la canuta madre? - Sì dice, e tratto il brando, i suoi compagni eccita a l’armi. Un rumor fiero e orrendo s’alza d’urli e di strida, e crescon l’ire. Senz’ordin ferve aspra tenzone, e ’l vulgo 920 va insiem co’ duci, e non ne cura i cenni, e corron misti i cavalieri e i fanti ed i rapidi carri armati in guerra. Infelice colui che inciampa e cade, chè la turba indistinta il calca e preme: 925 non di sè pon far mostra, o del nemico riconoscer le forze; un furor cieco, una rabbia improvvisa ha di già spinte la greca gioventude e la tebana a meschiarsi co’ brandi: insegne e trombe 930 restaro a tergo, e quando diero il segno di guerreggiar, già la battaglia ardea. Da poco sangue tanta guerra uscío? Così ’l vento da prima infra le nubi sue forze accoglie, e lievemente scuote 935 le frondi e i rami; indi robusto e fiero svelle le selve, e d’ombre spoglia i monti. Alme Pierie Dee, le vostre schiere a noi cantate con più gravi carmi, e di Beozia vostra i casi atroci. 940 Non vi chieggiam cose straniere e ignote. Voi le miraste d’Elicona, e mute restâr le vostre cetre, e inorridiro al rimbombo di Marte e delle trombe. Venía Pterela, un giovane tebano, 945 rapito dal destrier, che sprezza il freno, e di sè donno fra le schiere e l’armi a suo talento il porta: ecco Tideo l’astra gli vibra nel sinistro arcione, e ’l cavalier, ch’è per cader di sella, 950 nell’anguinaglia al palafreno inchioda: fugge il caval col suo signor sul dorso, che non più ritien l’armi o regge il freno, come Centauro, che d’un’alma privo, sulla schiena abbandona il busto umano. 955 Ferve la crudel pugna, ed a vicenda Ippomedonte Sibari distende; e Perifanto è da Meneceo ucciso, e da Partenopeo Iti trafitto: un di colpo di spada, un di saetta. 960 Dell’inachio Ceneo l’alta cervice tronca Emone feroce: il capo cade, e ad occhi aperti il tronco busto cerca, e cerca il capo l’alma intorno errante. Abante corre ad ispogliarlo, e un dardo 965 vien d’arco greco, e glie lo stende a canto, e ’l suo gli fa lasciare e l’altrui scudo. Qual consiglio fu il tuo, semplice Euneo, lasciar di Bacco il culto e i sacri boschi, onde uscir è vietato al sacerdote? 970 Chi di Lieo ’l furore in quel di Marte ti fe’ cangiar? Chi d’atterrir presumi? Porta lo scudo fral d’edera intesto, e di frondi di vite: il pampinoso tirso candida fascia intorno cinge; 975 ondeggia il crin sul tergo, e ’l primo pelo adombra il viso, e la lorica imbelle copre un manto di porpora di Tiro. Fra le maniche i bracci, ed i calzari fregiati e pinti, e sottil velo il seno 980 copre, e s’allaccia la tenaria veste con fibbie aurate e con smeraldi ardenti: suonangli a tergo l’arco e cento strali dentro lo spoglio di dorata lince. Costui dal Nume invaso infra le schiere 985 venía gridando: - Omai cessate l’armi: con lieti auspici queste nostre mura col misterioso Bue mostronne Apollo. Cessate, dico; volontari i marmi ne cinsero d’intorno. E noi siam gente 990 a’ Numi sacra, e della nostra Tebe genero è Giove e suocero Gradivo, ed esser nostro cittadin si degna il gran Libero padre e il grande Alcide. - Mentr’ei così ragiona, a lui s’oppone 995 crollando l’asta Capaneo feroce. Qual digiuno leon cui sul mattino sveglia la fame, se da l’antro scorge timida cerva o tenero giovenco mal atto ancor a guerreggiar col corno, 1000 lieto corre fremendo, e non curante lo stuol de’ cacciatori e l’aste e i dardi, vede la preda, e le ferite sprezza, tal Capaneo nell’inegual cimento vien baldanzoso alta brandendo l’asta. 1005 Ma pria lo sgrida: - O tu che a morte corri, perchè vuoi spaventar l’alme guerriere con femminili strida? Oh qui pur fosse teco quel Dio del cui furor sei pieno! Or va, racconta a le tebane madri 1010 coteste fole: - dice, e l’asta scaglia, che, quasi nulla la ritenga, appena tocca lo scudo, che gli passa a tergo. Cadongli di man l’armi, e ’l manto d’oro che ’l sen gli cinge; ne’ singulti estremi 1015 ondeggia e geme, e fuor ne sbocca il sangue. Tu cadi, audace giovanetto, un tempo dolce cura di Bacco, ora dolore: te l’Ismaro ognor ebbro, infranti i tirsi, e te pianse il Timòlo, e la ferace 1020 Nisa, e cara a Teseo l’ondosa Nasso, e ’l Gange, che per tema a gli orgii sacri di Bacco sottopose i flutti altieri. Non men feroce le lernee falangi Eteocle distrugge; assai più lento 1025 vien Polinice, e ’l civil sangue abborre. Ma sopra gli altri Anfiarao si mostra sul carro eccelso, e a tutto corso spinge i suoi destrier presaghi e paurosi per l’infame terren, ch’omai ricusa 1030 portarlo in mezzo a un turbine di polve. L’assiste Apollo, e al suo fedele appresta un vano grido, e a la vicina morte intesse fregi di caduco onore. Ei risplender gli fe’ lo scudo e l’elmo 1035 di nuova luce, di cometa in guisa. Nè tu, Gradivo, al tuo fratel contendi che da mani terrene il suo ministro illeso resti. Venerabil ombra ed ostia intatta si riserba a Dite: 1040 ed ei, che certo il suo morir prevede, va più feroce infra le squadre ostili, e la disperazion forza gli accresce. Già più che d’uom son le sue membra e ’l volto; nè mai più lieto giorno a lui rifulse, 1045 nè mai più certa ebbe del Ciel contezza: se la virtù, che già s’appressa al fine, tutto a sè nol chiamasse. Avvampa ed arde tutto di Marte, e del suo braccio gode, e va de’ colpi suoi l’alma superba. 1050 Questi, che a raddolcir le umane cure era dianzi sì pronto, e che sovente solea scemar di lor ragione i Fati, quanto or diverso appar da quel che i lauri seguia d’Apollo e i tripodi loquaci, 1055 e che, invocato il Nume, in ogni nube de’ volanti intendea volo e favella. Non tanta strage apporta il Sirio ardente ed il pestifer anno e l’aria grave, quante vite egli miete e manda all’Orco 1060 vittime uccise alla sua nobil ombra. Col dardo Flegia, e con il dardo uccide il superbo Fileo; quinci col carro di falci armato a le ginocchia tronca Cromi, e Cremetaon fermo e vicino; 1065 indi coll’asta uccide Ifinoo e Sage, e Gía chiomato, e Licoréo, che a Febo è sacerdote; e con dolor mirollo il buon augure argivo, allor che l’asta vibrata contro lui gli spinse a terra 1070 il cimiero, e la sacra infula apparve. Indi Alcatoo d’un sasso in capo fere, che lungo i stagni di Caristo avea la moglie, il patrio albergo e i dolci figli usi a scherzar su le palustri sponde. 1075 Povero pescator visse contento; ma l’ingannò la terra: egli morendo s’augura i flutti e l’onde ed i perigli delle tempeste, che provò men fiere. Vede d’Asòpo il figlio, il grande Ipseo, 1080 cotanta strage e fuga, ed in sè brama con generoso ardir volger la pugna. Non men feroce anch’ei venía sul carro strage facendo delle squadre greche; ma visto il paragon d’Anfiarao, 1085 sdegna ignobil trofeo di sangue umíle. A lui coll’armi e colla mente aspira, lui solo cerca; ma s’oppon la turba, e l’impedisce: ond’ei sdegnoso allora un’asta svelta dal paterno fiume 1090 impugna, e prega: - O delle aonie linfe copioso donator, che ancor superbo vai de’ fulmini stessi e delle fiamme che uccisero i Giganti; o Asopo, o padre, tuo nume ispira a questa destra: il figlio 1095 è che ten prega, e l’asta istessa un tempo germe delle tue sponde; e se tu osasti pugnar con Giove, al figlio almen concedi svenar il vate e non temer d’Apollo, e le vedove bende e l’armi vuote 1100 giuro dar in tributo al tuo gran fiume. - Udillo il padre, e consentì; ma Febo s’oppose, e torse il colpo, e l’asta il petto d’Herse trafisse condottier del carro. Cade morto il meschin; ma il Nume stesso, 1105 sotto sembianza di Aliamone, il freno prende e succede a l’infelice auriga. Al vivo sfolgorar del Nume ardente fuggon confusi i cavalieri e i fanti; il sol timor li caccia, e senza piaghe 1110 muoion d’imbelle morte i fuggitivi. Dubbio rimane se più aggravi il carro il divin peso, o a’ corridor dia lena. Come qualor precipitosa cade svelta da gli anni, o da rio nembo scossa 1115 d’alpestre monte discoscesa parte; per diversi sentier uomini, alberghi, selve ed armenti in sua ruina involge, sinchè cessando l’impeto, si spiana in cupa valle, o il corso arresta a’ fiumi: 1120 non altrimenti il formidabil carro, che porta il grand’eroe, porta il gran Nume, ferve nel sangue. Delio stesso i dardi vibra, e guida i destrieri, ed egli al vate dirizza i colpi, e in altra parte volge 1125 e rende vane l’aste e i dardi ostili. Cadono a terra Menala pedone, e dal gran corsier coperto invano Antifo, ed Etïon, che d’una ninfa d’Elicona era nato: e per l’ucciso 1130 fratel Polite infame, e Lampo audace, ch’osò tentar la purità di Manto diletta a Febo e di sue bende cinta. Contro il profano le saette sante scoccò egli stesso, e vendicò l’oltraggio. 1135 Ma già su’ corpi estinti e su’ mal vivi gli anelanti destrier cercano indarno il coperto terreno, e duro solco s’apron su membra lacerate e infrante, e ne rosseggian le girevol ruote. 1140 Calca il carro crudel gli esangui busti e già di senso privi; e chi ferito, languendo giace, sul suo capo il vede ratto venir, nè di schivarlo ha speme. E già lordo il timon, lubrici i freni 1145 son di putrido sangue; un denso limo di teschi infranti e di midolle invischia le ruote sì, che le fa lente al moto, e l’ossa de’ cadaveri insepolti a’ già stanchi destrier servon d’inciampo. 1150 Il vate ognor più fiero i dardi svelle nelle ferite infissi, e li rilancia, e fa nuove ferite e nuove morti, e gemon l’alme sciolte al carro intorno. Alfine il Nume al servo suo fedele 1155 si scopre, e dice: - Usa tua forza, e lascia d’immortal fama il tuo gran nome eterno, or ch’io son teco, e l’implacabil Morte sospende ancor l’irrevocabil punto. Omai siam vinti, e la severa Parca 1160 sai ben che a nullo unqua ritorse il filo. Vanne, o promesso, ed aspettato un tempo, gioia ed onore degli Elisii campi; vanne senza temer del reo Creonte le dure leggi, e di mancar d’avello. - 1165 Egli da l’armi respirando, al Nume così risponde: - O gran Padre Cirreo, io te dianzi conobbi, e men diè segno l’asse sotto il maggior peso tremante; ma perchè tant’onore a un infelice, 1170 che tu ne regga il periglioso carro destinato a l’Inferno? E sino a quando terrai sospeso il mio destin maturo? Già sento l’onda rapida di Stige, e i neri fiumi dell’orrenda Dite, 1175 e l’orrido latrar delle tre gole del tartareo custode; omai ripiglia l’a me commesso onor delle tue bende, e ’l sacro allòr, cui profanar non lice, portandolo nell’Erebo profondo. 1180 Ma se pur del tuo vate udir l’estreme voci non sdegni, e i giusti voti suoi; io ti ricordo l’ingannata casa, ed il castigo dell’infame moglie, e del mio figlio il nobile furore. - 1185 Mesto allor scese Apollo, e celò il pianto, e restò afflitto il carro, e i buon destrieri si dolser privi del celeste auriga. Così vede sicuro il suo naufragio nave agitata da notturno Coro, 1190 cui lo splendor della maligna stella d’Elena infesta minaccioso guarda, posti già in fuga Castore e Polluce. Il suol, che tosto s’aprirà in vorago, a vacillar comincia, e scuote il dorso, 1195 e s’alza maggior turbine di polve: mugge sotto l’Inferno; i combattenti credon che sia il rumor della battaglia, e si spingono innanzi: il tremor cresce, e fa l’armi ondeggiare ed i guerrieri 1200 e i trepidi cavalli. I colli intorno piegan le cime ombrose, e l’alte mura già crollano di Tebe. Inalza i flutti gonfio l’Ismeno, e le campagne inonda. Cessano l’ire: ogni guerriero i dardi 1205 in terra affigge, e a l’aste vacillanti il corpo appoggia, e nel pallore alterno conoscendo il reciproco timore, confuso si ritira a le sue insegne. Qual se talor sprezzando il mar profondo 1210 a stretta pugna le gran navi accozza Bellona irata, fervon l’ire e l’armi; ma se opportuna alta tempesta sorge, ciascun pensa al suo scampo, e nuovo aspetto di nuova morte fa deporre i brandi, 1215 ed il timor fa germogliar la pace: tal l’ondeggiante guerra era in quel campo. O che la terra, un turbine concetto, affaticata sprigionò de’ venti la chiusa rabbia e ’l prigionier furore: 1220 o che dall’onde sotterranee rôsa in quella parte ruinando cadde; o quivi in suo girar con l’ampia mole si posò il cielo, o col fatal tridente Nettun la scosse, e con più gravi flutti 1225 appoggiò il mar sovra l’estreme sponde: o il suolo istesso minacciò i fratelli; ecco aprirsi voragine profonda. Vider l’ombre la luce, e gli astri l’ombre, ed ebber vicendevole timore. 1230 L’immane speco nell’immenso vôto assorbì l’Indovino e i suoi corsieri, che per passarlo avean già preso il salto. Non lasciò il sacerdote o l’armi o i freni, ma qual era sul carro al cupo fondo 1235 ritto discese riguardando il cielo. E gemè quando riserrarsi il suolo sopra si vide, e un più legger tremore rimarginar i fessi campi, e ’l giorno celar di nuovo al tenebroso Averno. Poichè fra l’ombre pallide repente discese il vate, e penetrò di Morte l’oscure case, e del sepolto mondo scoprì gli occulti arcani, e diè spavento, 5 ombra armata e guerriera, all’alme ignude, maravigliando inorridîr d’Inferno gli abitatori in rimirar intatte l’armi e i vivi destrieri e ’l sacerdote, spettacol nuovo! d’ossa e di carne cinto: 10 perchè non arso da funerea pira scendea a gli abissi e fuor di nero avello; ma di guerrier sudor grondante e caldo, collo scudo sanguigno e polveroso di militare arena, e non ancora 15 l’avea l’Erinni con il tasso ardente purgato e mondo, nè su l’atra porta Persefone notato infra gli estinti: ma prevenendo il suo destin, le Parche sel videro vicino, e sbigottite 20 lo stame in fretta ne troncâr dal fuso. Spaventò quel rumore i lieti Elisi, e s’oltre il primo baratro profondo sono altre bolge, altri paesi oscuri. Turbârsi i laghi inferni e i neri stagni, 25 e il nocchier della livida palude fremè mirando inusitate strade aprire il suolo al Tartaro profondo, e fuor del legno suo dar varco a l’Ombre. Stava per sorte il Re del basso Mondo 30 assiso in mezzo del funesto regno, del popol morto esaminando i falli e la trascorsa vita. In lui pietade non trova luogo, e a tutte l’Ombre è irato. Stangli intorno le Furie e varie Morti; 35 e in varie guise fa suonar la Pena catene e ceppi. Le spietate Parche traggono i stami delle umane vite, e gli troncan sovente; e pur dell’opra è maggior la fatica ed il lavoro. 40 Ma il placido Minosse e ’l venerando fratello ispira al barbaro tiranno più giuste leggi, e ne rattempra l’ire. Vi assistono Cocito e Flegetonte e Stige, ch’al giurar de’ Numi eterni 45 il freno impon d’invïolabil legge; ed ei quantunque a non temere avvezzo, pure all’aprirsi della terrea mole temè le stelle ignote, e ’l torvo ciglio dal dolce offeso balenar del sole, 50 crollò il gran capo, e minacciando disse: - Qual superior ruina al cieco Inferno mostra il nemico Cielo? E chi rischiara queste tenebre nostre? E chi la morte quasi richiama a vita, e ne minaccia? 55 Qual de’ fratelli miei guerra m’indice? Eccomi pronto. Il mal diviso mondo omai si turbi, e chi di noi più ’l brama? La terza sorte me dal Polo escluse, e del colpevol mondo a me diè ’l regno, 60 e questo ancor mi si contende: or ecco com’egli è aperto alle nemiche stelle. Esplora forse il tumido germano, che regna in cielo, le mie forze ascose? Stansi qui meco gli orridi Giganti 65 che han quasi rotte le catene, e i figli di Titano, che uscir bramano in guerra contro de’ Numi, e l’infelice Padre. Perchè gli ozi miei tristi l’inamena pace mi turba, e fa bramarmi il giorno? 70 Solo ch’il voglia, aprirò i regni oscuri e involgerò fra l’ombre inferne il Sole; io non rimanderò l’Arcade alato a’ Dei superni (a che a me viene e parte messagger fra le tenebre e la luce?): 75 io tirerò quaggiuso ambo i gemelli di Tindaro: e perchè gli eterni giri d’Issione io non fermo? e perchè l’onda dell’assetato Tantalo ancor fugge? Degg’io soffrir che tante volte e tante 80 vengano i vivi a profanar l’Inferno? Di Piritoo l’impresa e di Teseo, troppo fedele al temerario amico, ho ancor in mente, e quando il fiero Alcide Cerbero seco trasse, e restâr prive 85 del triplice latrar le ferree porte. Sento sdegno e rossor che ’l tracio Orfeo penetrasse quaggiù co’ dolci accenti: io vidi, io vidi al lusinghiero canto pianger le Furie, e rannodar lo stame, 90 già tronco al fuso le crudeli Parche. Io stesso... Ma l’irrevocabil legge fu in me più forte; ed io, che una sol volta, nè già di furto, al ciel sereno ascesi, e d’amor punto ne’ sicani campi 95 rapii la sposa, e al letto mio la trassi, lecito disser che non m’era, e Giove tosto fe’ leggi inique, e colla madre barbaramente mi divise l’anno. Ma perchè parlo indarno? Esci, e vendetta 100 fa, Tesifone, omai del nostro Inferno; e s’ognor fosti d’esecrandi mostri feconda, or trova inusitata e grande sceleraggin funesta, e da le stelle non più veduta in alcun tempo, e degna 105 che l’invidin tue suore e ch’io l’ammiri: cadan l’un sovra l’altro in lieto Marte con alterne ferite ambo i fratelli (sian questi esordi a le vendette nostre); altri di fiera in guisa il capo ostile 110 roda feroce con rabbiosa fame: altri gli estremi roghi a’ corpi esangui contenda e neghi, e l’aere puro infetti co’ cadaveri putridi e insepolti. Veggalo il crudo Giove, e sen compiaccia. 115 E perchè i regni nostri a gli altrui sdegni soli non sieno esposti, alcun ritrova che muova guerra a’ Numi, e del Tonante la folgore respinga e al ciel contrasti. Io farò sì che non più facil sembri 120 del Tartaro turbar l’oscure sedi, che monti imporre a monti e Pelio ad Ossa. - Disse, e al suo dir tremò l’orrenda reggia e ’l suol, cui preme, e ’l superior terreno. Non con forza maggior scuote il Tonante 125 le stelle e i Poli, se ’l gran capo muove; e, - A te (soggiunse) che quaggiù scendesti per illecite vie, quai pene appresto? - Il sacerdote allor fatt’ombra lieve ed invisibil quasi a gli occhi altrui, 130 di già consunte l’armi e già pedone, ma conservando (ancor che spirto ignudo) l’onor del sacerdozio, e sulla fronte le oscure bende, e ’l ramuscel d’oliva pallida in mano, al crudo Re rispose: 135 - Se lece, e s’è permesso alle sacr’Ombre scioglier la voce, e in questi luoghi, o estremo ricetto e fine delle cose al vulgo, che poco intende, ma principio e fonte a me, cui le cagioni e gli elementi 140 fur sempre noti; le minacce affrena, e placa il cuor turbato, e non far degno dell’ira tua chi le tue leggi apprezza. A l’erculee rapine io non discendo. Donde in me tanto ardir? Nè impuro amore 145 (credilo a queste bende) è che mi guida. Non si nasconda nelle oscure grotte il can trifauce, nè del nostro carro Proserpina paventi: io fui poc’anzi augure e caro a gli apollinei altari. 150 Giuro per lo tuo Caos (e vano fora giurar quaggiù per Febo), alcun mio fallo reo non mi fe’ di così nuova morte, nè meritai per così strane vie esser tolto a la luce. Il sa ben l’urna 155 del giudice cretense, e può Minosse scoprirne il vero: da l’infida moglie tradito, e a prezzo d’esecrabil oro venduto, e del mio mal certo indovino m’ascrissi a l’armi argive, onde tant’alme 160 scesero a te poc’anzi, e di mia mano certo non poca e non ignobil parte. Con subita vertigine dal mondo (inorridisco!) me fra mille schiere la tua gran notte nel suo abisso immerse. 165 Quale mi feci allor che per lo vano della terra pendente e per l’opaco aere discesi? Ahi che di me non resta nulla agli amici, a la mia patria, o almeno spoglia e trionfo a la nemica Tebe. 170 Io non più rivedrò le argive mura, nè ’l mio mortale in cenere raccolto tornerà al mesto padre; e senza tomba, senza l’onor del rogo e senza pianti coll’esequie mie intere e co’ destrieri 175 (ma per nulla tentare) a te ne vengo. Nè già ricuso convertirmi in ombra, ed i tripodi miei porre in oblio. C’hai tu che far de’ vaticini nostri, se a tuo voler filan le Parche i fati? 180 Deh placa l’ira, e mansueto e pio ti mostra a me più de’ superni Numi. Ma quando a te verrà la moglie infame, a lei serba i supplicii e l’aspre pene: essa, o buon Re, dell’ira tua è più degna. - 185 Pluto esaudì le preci, e n’ebbe scorno. Così leon del cacciator massile se vede incontra balenarsi il ferro, si muove a l’ira, e l’unghie arruota e ’l dente; ma se cade il nemico e a terra giace, 190 sol gli va sopra, e dà la vita al vinto. Cercano intanto sbigottiti i Greci ove sia il carro sì temuto in guerra, e insigne per le bende e per l’alloro, nè da forza mortal vinto o fugato. 195 Si ritiran le schiere, e ognun paventa l’infelice terreno, e al luogo infausto giran da lungi timidi i guerrieri: e ciò ch’è intorno a l’avida vorago cessa da l’armi, e s’ha rispetto e tema 200 alla tomba infernal del vate assorto. Ma Palemon, che da vicin lo scorse precipitar nel cupo fondo, e appena agli occhi propri il crede, al vecchio Adrasto, ch’eccitava le schiere a la battaglia 205 in altra parte, spaventato corre pallido ancora per l’immane speco che dinanzi si vede; e: - Fuggi (grida), fuggi, o buon re, s’ove fuggir ci resta, s’è ancora il suol natio, s’ancora stanno 210 le mura d’Argo e le paterne case. A che l’armi adoprar, spargere il sangue? Che giova il ferro contro Tebe? Il suolo per lei combatte, e i guerrier nostri ingoia e l’armi e i carri: ahi che fuggir mi sembra 215 sotto i piedi il terren che ora calchiamo. Vidi il cieco sentier dell’ombra eterna io stesso, e vidi nell’aperto piano precipitar colui che mentre visse fu così caro a le presaghe stelle, 220 il diletto d’Apollo Anfïarao; e in van gridai, la mano invan gli stesi. Maraviglie io racconto: ancor fumante resta il terreno, e son di spuma aspersi gl’infami campi, e vi son l’orme impresse 225 del carro e de’ destrieri. Il suol crudele non è con tutti; i figli suoi risparmia, e stan sicure le tebane schiere. - Stupisce Adrasto, e non sa ben se ’l creda; ma Mopso e Attor narran le stesse cose, 230 e la Fama le accresce, e forza acquista dal novello terrore, e narra e finge più d’un guerriero assorto. Al fiero annunzio, senz’aspettar che delle trombe il suono chiami a raccolta, di spavento piene 235 fuggon le schiere; ma la fuga è lenta, ed a la brama non consente il piede. Par che i destrieri stessi abbiano mente, così sen van dubbiosi, incerti e lenti, nè temono gli spron, nè mutan passo; 240 ma timidi adombrando e a capo chino non osan sollevar da terra il guardo. Gl’incalzano i Teban: ma fuor conduce i cavalli di Cintia Espero oscuro; breve quïete e momentanea pace 245 ebbero allora i Greci, e l’atra notte più di tema arrecò che di riposo. Qual fu la faccia allor del campo afflitto, poichè il dolersi fu permesso? Quante lagrime uscîr, poichè fur sciolti gli elmi? 250 Nulla a’ miseri giova, ed in non cale pongon gli usi guerrieri, e l’armi e l’aste scagliano lungi, ed i sanguigni scudi, quali di guerra uscîr, nè alcun li terge. Non v’ha chi cura de’ destrier si prenda, 255 o chi su gli elmi le gran piume assetti. Fasciano appena le ferite aperte e le più gravi; tal per tutto è doglia! Nè permette il timore a’ corpi lassi porger ristoro cogli usati cibi, 260 e rinnovar le forze a nuova pugna. Solo delle tue lodi in mezzo a’ pianti, Anfïarao, si parla, e del profondo saper, con cui tu discoprivi il vero. - Teco (dicean) partîr dal campo i Numi. 265 Ov’è il carro laurigero, e le insigni armi, e di bende l’intrecciato elmetto? Son questi gli antri ed i castalii fonti? Questa de’ sacri tripodi è la fede? Così Apollo t’è grato? E chi degli astri 270 fia che sveli gl’influssi; e ciò che voglia la folgore sinistra; e nelle fibre qual Dio si mostri; e del partir il tempo qual sia, qual di fermarsi, e della pace e della guerra ne distingua l’ore? 275 A chi prediran più gli augelli il fato? La pugna a noi funesta e ’l tuo destino tu prevedesti, e pur dell’armi infauste (tant’era in te virtù) fosti compagno. E quando instava già l’ora fatale 280 e l’aperto terreno, era tua cura far de’ Tebani strage: ancor tremendo a gl’inimici in morte, e ti vedemmo scender coll’asta d’ostil sangue aspersa. Or qual è la tua sorte? A te permesso 285 fia mai l’uscir dal tenebroso Inferno, e ritornar di sopra? O pur contento stai con le Parche amiche, ed il futuro con vicenda concorde insegni e impari? O forse impietosito il Re dell’Ombre 290 te mandò a’ boschi del felice Eliso i voli ad osservar de’ fausti augelli? Ovunque sei, tu sarai sempre a Febo rinnovato dolore, eterna pena. Tacerà Delfo, e piangerà gran tempo 295 tua morte acerba: questo dì funesto chiusi terrà di Tenedo gli altari, e Cirra e Delo, cui nascendo Apollo stabile rese, e le presaghe grotte di Branco; nè fia più chi su le soglie 300 di Claro preghi, o chi consulti il tempio di Didime, o le sorti in Licia cerchi: del cornigero Amon fian muti i boschi; e la quercia fatidica e ripiena del molosso Tonante, ed i timbrei 305 oracoli ch’Apollo in Troia rende; anzi gli stessi fiumi e i sacri allori inaridirsi brameran per doglia. Non predirà con i presaghi canti il Ciel più il vero, e non vedrem gli augelli 310 l’aria solcar con misteriosi voli: ma ben tempo verrà che altari e tempii ti fieno eretti, e a le divote turbe renderan tue risposte i sacerdoti. - Questi gli onor fur ch’al duce e vate 315 rese concordemente il campo argivo di pira invece e di funereo rogo, e dell’esequie e della tomba lieve. Quindi cade l’ardire in ogni petto, e s’ha in odio la guerra: in cotal guisa, 320 morto Tifi repente, i Minii audaci restâr conquisi, e men sicuro il pino lor parve, e i remi debili e fallaci, e al lor cammin soffiar più fiacco il vento. Ma negli animi lassi il parlar lungo 325 e ’l molto sospirare a poco a poco scemo aveva il dolore, e l’atra notte sopìa le cure, e fra’ singulti e i pianti facil l’entrata avea trovata il sonno. Simile già non fu la notte in Tebe, 330 e nelle piazze e ne’ paterni alberghi la consumaro in giuochi. In su le mura ebre stanno le guardie e sonnacchiose. I timpani ed i cembali risuonano per tutto a gara, e le forate tibie: 335 allor fra le carole i Numi lodano, e cantano, e raccontano per ordine i cittadini Dei; le fronti e i calici fregian di vaghi serti, e le incoronano: ora d’Anfïarao la tomba irridono; 340 or fin al cielo il lor Tiresia inalzano, ora degli avi lor tesson catalogo, e della lor città dicon l’origine. Cantano questi di Sidone i flutti, e la fanciulla che al divino amante 345 palpa le corna, e ’l bue che solca il mare: quelli rammentan Cadmo, e la già stanca vacca, d’uomini armati il suol fecondo: chi di Semele il parto, e chi racconta della figlia di Venere le nozze 350 al letto nuzïal fra mille faci accompagnata da’ fratelli amori. Cantasi alcun bel fatto in ogni mensa, come se allora il loro nume Bacco col tirso domi i regni dell’Aurora 355 e l’Idaspe gemmato, il popol nero in trionfo traesse e gl’Indi ignoti. Fam’è che allor per la primiera volta Edippo uscisse di sue grotte oscure, ove giacea sepolto agli occhi altrui, 360 nè schivasse seder fra liete mense, e che allegro nel volto il suo canuto squallido crin ricomponesse, e i detti degli amici accogliesse, ed i conforti ed i piaceri fino allora esclusi. 365 Anzi gustò de’ cibi, e terse il sangue su le guance rappreso: ed ei che avvezzo era solo a trattar co’ Numi inferni, con Pluton, con le Furie, e di querele Antigone pagar che lo reggea, 370 fatto repente affabile e cortese, parla e risponde: ognun stupisce, e alcuno la ragion non ne intende. A lui non cale il trionfo de’ suoi: la stessa guerra è che gli piace e giova, e ’l figlio loda, 375 e l’esorta a seguir; nè però brama ch’ei resti vincitor. Con voti iniqui ei già contempla le fraterne spade, e d’ogni sceleranza il primo seme, quindi il piacer de’ cibi e i gaudi nuovi. 380 Così Fineo, dopo una lunga fame sofferta in pena, nel reale albergo, da che più non sentì strider le Arpie (non ben sicuro ancor), le mense, i letti e i calici trattò non più turbati 385 da’ sozzi ventri e dall’immonde penne. Dormiva intanto la falange argiva stanca da l’armi e da’ pensier funesti: ma da la tenda sua, ch’è in alto posta, vegliava Adrasto, ed i tripudii udiva 390 della nemica Tebe, ancor ch’ei fosse per la senile etade infermo e lasso. Ma il supremo comando (o di chi regna misera legge!) su le altrui sciagure a vegliare lo forza. I bronzi cavi 395 e le forate tibie a lui del sonno turban la pace, ed i clamori insani. Vede mancar le faci, e delle scorte quasi i fuochi sopiti e moribondi. Così fra l’onde d’un egual sopore 400 la nave oppressa tace, ed in profondo sonno la gioventù del mar sicura giace sopita. Il nocchier solo è desto, e seco il Nume che presiede al legno. Era già ’l tempo che i febei destrieri 405 sente accoppiarsi al luminoso carro Cintia, e muggire l’Oceàn profondo a lo spuntar della novella luce, e se stessa raccoglie e si ritira, e con lieve flagel scaccia le stelle. 410 Adrasto allor mesto concilio aduna, e ricercan gemendo i Greci afflitti chi a’ tripodi succeda e al sacro alloro, e a le vedove bende, e di concorde voler scelgon fra lor Tiodamante 415 per fama insigne e di Melampo figlio. Seco soleva Anfiarao de’ Numi partir gli arcani e degli augelli il volo; (nè invidïando a sua virtù) godea di vederselo eguale o almen secondo. 420 Quegli per il novello onor confuso, l’alta gloria improvvisa e ’l lauro offerto umile adora, e a sì sublime incarco inegual si confessa e lo ricusa, e in ricusando più sen mostra degno. 425 Così di perso Re tenero figlio, per cui meglio era che vivesse il padre, timido siede su l’avito soglio, e ’l nuovo onor colla paura libra: se i proceri sian fidi, e ubbidïente 430 a le sue leggi il vulgo; a chi commetta le caspie porte, a chi l’Eufrate in guardia: l’arco e ’l destrier paterno ardisce appena trattare: e troppo grave a la sua mano lo scettro sembra, ed il suo capo angusto 435 del serto imperïal non ben capace. Poichè l’infule sacre al capo attorse il nuovo vate, ed ebbe fausti i Numi, tra lieti applausi e tra festive grida girò pel campo, ed a placar la Terra 440 tosto s’accinse, e l’approvaro i Greci. Dunque comanda che di vive piante e di verdi cespugli insieme intesti s’ergan due altari, ed a la madre antica dona i suoi doni: innumerabil fiori, 445 e cumuli di frutta, e ciò che l’anno in sè tornando rinnovella; e ’l latte sopra vi sparge, indi così ragiona: - O madre eterna degli eterni numi e de’ mortali, che produci e crei 450 e fiumi e selve, e innumerabil’alme, e del mondo ogni seme, e che animasti a Prometeo le mani, a Pirra i sassi; che all’uomo desti gli alimenti primi, e che ’l rinnovi ognor col sen fecondo; 455 che l’Oceàn circondi e lo sostenti: tu le innocenti gregge e le iraconde fiere porti sul dorso, e dài riposo a gli augelli volanti, e dell’eterno mondo sei ferma e invïolabil sede; 460 intorno a te, che pendi in l’aer vano, ruotan del cielo le veloci sfere, e de’ maggior pianeti ambedue i carri, o mezzo infra le cose, e non diviso fra’ celesti fratelli e comun regno. 465 Dunque eguale nutrice a tante genti tu sola basti a sostenere il pondo de’ popoli che a te premono in giro sopra, sotto e da’ lati il globo immenso di tante nazïoni, e di tant’alme 470 cittadi eccelse; e ’l mauritano Atlante, che folce gli astri sul tuo dorso, porti quasi leggero peso, e noi ricusi? Noi soli ti siam gravi? E qual ignoto delitto ne fa rei di tanta pena? 475 Forse perchè venghiam gente straniera da le contrade d’Argo? Ogni terreno è patria all’uomo. Ottima madre, a noi non voler assegnar confini angusti, quasi ad ignobil vulgo: a l’armi nostre 480 egual ti mostra e a le tebane, e lascia che spiriam l’alme forti in giusta guerra, e le rendiamo al Cielo, e non rapirci con improvvise tombe i corpi vivi. Non ci affrettare: per diverse vie, 485 qual prescritto è a ciascun, tutti verremo. Noi ti preghiam; sta ferma, e le pelasghe schiere sostenta, e la veloce Parca non prevenire. E tu, diletto a’ Numi, cui non sidonio ferro o mortal destra 490 estinse, ma Natura, il duro seno aperto, nelle viscere t’accolse, quasi entro il meritato antro cirreo; deh in noi, pregato, il tuo saper infondi, ed il Ciel ne concilia e i sacri altari, 495 e i fati a te già noti a me rivela. Io t’offrirò votive ostie presaghe, e interpetre fedel del tuo gran Nume te invocherò, quandunque taccia Apollo. Più di Cirra a me sacro e più di Delo 500 questo luogo sarà, dove cadesti. - Ciò detto, e nere gregge e neri armenti vivi sotterra, e sopra di essi inalza gran tumulto d’arena, e in cotal forma d’immaginario avello il vate onora. 505 Ciò si facea tra’ Greci, allor che udiro di Tebe uscir tale un rumor di guerra, di timpani e di trombe un tale invito, che in fretta li costrinse a prender l’armi. Su la cima di Teumeso Megera 510 scuote la chioma serpentina, e i fischi mesce a le trombe, e fa più acuto il suono. L’ebbro Citero e l’alte torri, avvezze a seguir miglior canto, inorridiro al non usato strepito di Marte. 515 Bellona stessa le ferrate porte urta e spalanca, e tutta Tebe è aperta. Quasi per sette bocche escon al campo confusi e misti e cavalieri e fanti e carri, e fansi l’un a l’altro impaccio. 520 Sembra che i Greci abbiano a tergo; tanto s’affollano a le porte: esce Creonte per l’Ogigia, e sen vien per la Neíta Eteocle feroce; il forte Emone sgorga per l’Emoloida, e la Pretida 525 fuor manda Ipseo; quindi l’Elettra ingombra il gran Driante; con robusta mano l’Ipsista scuote Eurimedonte altero, e la Dircea sta di Meneceo in guardia. Così talora il Nilo in sè nascoso 530 sugge a gran tratti orïentali nembi, e dell’opposto ciel gli umidi influssi; poscia il tesoro dell’ignoto fonte divide, e porta in abbondanza le acque per sette foci all’Oceàn profondo: 535 fuggono le Nereidi, e i dolci flutti non pon soffrir di quei novelli umori. Escon dal vallo a passi tardi e lenti i Greci afflitti, e più d’ogn’altro stuolo vengono meste le falangi elee, 540 quelle di Lacedemone e di Pilo vedove e prive del lor duce e vate, seguendo il nuovo lor Rege improvviso, non bene avvezze ancora al suo comando. Nè solo te cercan tue fide genti, 545 primo fra’ vati; ma ciascuna schiera crede che a lei tu manchi, e men sublime il settimo cimier sorge nel campo. Qual se in l’umido Polo invida nube un astro invola alle parrasie stelle, 550 tronco ne resta il carro, e d’una luce scemo risplende il cielo, e i naviganti in numerar le stelle incerti stanno. Ma già mi chiaman l’armi: in me rinforza, Calliope, i carmi, e più sonora cetra 555 mi doni Apollo: il feral giorno adduce a’ popoli vogliosi e furibondi su facil’ali l’ultimo momento. Uscita fuori della stigia gora la Morte a cielo aperto il campo ingombra 560 co’ tetri vanni, e col suo nero ammanto eccita all’armi le nemiche squadre; nè vuole alme plebee, ma quelle sceglie che per etade e per valor più degne di vita sono, e con sanguigno serpe 565 le nota e le distingue. I fusi interi, tolti a le Parche, delle Parche invece troncan le Furie agl’infelici, e Marte con l’asta ancor non sanguinosa stassi nel mezzo al campo, e ’l risplendente scudo 570 or volge a questi ed or a quelli, e a l’armi tutti gli instiga, ed oblïar lor face i cari alberghi, le consorti e i figli. Scordansi ancor le patrie, e quel, ch’estremo parte da noi, dolce di vita amore. 575 Tiene il furor pronte le mani a’ brandi, bolle l’ardir ne’ petti, e par che voglia uscir fuor degli usberghi, e orribilmente tremano sovra gli elmi i gran cimieri. Ma che stupor se cotant’ira accende 580 l’alme guerriere? Ogni destrier rassembra che spiri fuoco e che la pugna agogni: smalta il molle terren di bianche spume, e quasi al corpo del signore unito par che de’ sdegni suoi tutto s’informi; 585 tutti rodono i freni, e la battaglia col feroce nitrir chiedono a prova: s’ergono in alto, e i cavalier sul dorso scuotono impazïenti, ed ecco il segno, e già spingonsi al corso: immensa polve 590 s’alza per tutto, e l’uno e l’altro stuolo vassi a incontrar con frettolosi passi, e lo spazio di mezzo ognor decresce. Urta scudo con scudo, elmo con elmo, brando con brando, piè con piede, ed urta 595 asta con asta, e in sanguinosa pugna si mischiano le schiere, ed a vicenda si riscaldan co’ fiati, e son confuse insiem le penne de’ nemici elmetti. Pur vago della guerra è ancor l’aspetto. 600 Ogni cavallo ha il cavalier sul dorso; ogni carro il suo auriga, e sovra ogn’elmo svolazzano le creste, ed a lor luogo stanno ancor l’armi, ed ogni scudo splende a’ rai del sole, e sono ancor adorne 605 e le faretre e i militari cinti; nè il sangue ancor toglie splendor a l’oro. Ma poi che crudel rabbia, empia virtude prodiga delle vite i cuori accese: non con impeto tal piomban dall’Arto 610 il Rodope a ferir nevi gelate: non con tanto rumor l’Ausonia turba Giove, qualor tuona da tutto il cielo; nè di grandin maggior le Sirti inonda Borea, qualor da le latine spiagge 615 in Libia porta turbini e procelle. Velano il dì co’ dardi, e per lo cielo volan nubi di ferro, e l’aria immensa appena par che a cotant’armi baste. Altri i dardi avventati, altri i respinti 620 mandan tornando a morte. A mezzo il calle scontransi spesso le ferrate travi, e cadon vane a terra; asta con asta concorre a pugna: grandine di sassi scaglian le frombe, e le veloci palle 625 van del fulmin più preste, e le saette volan per l’aria con diverse morti. Nè più v’è luogo ove un sol colpo a terra cada; ma van tutti a ferir ne’ corpi. L’un l’altro uccide, e l’uno l’altro abbatte 630 spesso senza saperlo, e di virtude sostien le veci il caso; or questa turma s’avanza e incalza, or si ritira e cede, ed or acquista, or va perdendo il campo. Siccome allor che minaccioso Giove 635 scatena i venti e le procelle irate, e con alterno turbine flagella il basso mondo: nel celeste campo stan due contrarie schiere, ed or più forte è il nembo d’Austro, or d’Aquilon la forza, 640 finchè pugnando i turbini, o quel vince colle sue piogge, o questo col sereno. Ecco, figlio d’Asopo, il grande Ipseo dà principio a la pugna, e le spartane squadre respinge (avea la fiera gente 645 per lo natio valor gonfia e feroce co’ scudi aperte le tebane schiere) e primo uccide il duce lor Menalca. Costui per alma e per virtù lacone e dell’Eurota alunno, e che disnore 650 non fece a gli avi, si strappò dal petto per l’ossa e per le viscere squarciate l’asta ch’entrava, acciò che a tergo uscendo non lo macchiasse di vergogna e scorno, e con debile man del proprio sangue 655 tinta al fiero nemico la rimanda. Ei nel morire il suo natio Taigeto Rimembra, e le sue imprese, e quei flagelli cui da fanciullo l’avvezzò la madre. Tende Aminta teban l’arco, e di mira 660 Fedimo prende. O troppo pronta morte! Fedimo sul terren già moribondo langue: nè tace ancor l’arco d’Aminta. Il calidonio Agreo di Fegea tronca la destra mano: essa ancor guizza, e ’l ferro 665 impugna e muove. Tra l’altr’ami sparsa sopra del suolo paventolla Aceste, e benchè tronca la ferì di nuovo. Ifi Atamante, ed il feroce Ipseo Argo distende, e Abante Fereo uccide, 670 ma con diverse morti: è cavaliero Ifi, ed Argo pedone, Abante auriga; uno in gola, un nel fianco e ’l terzo in fronte cadon feriti: due gemelli argivi di Cadmo ucciser due gemelli ascosi 675 sotto gli elmetti chiusi.Oh della guerra ignoranza crudel! Ma poi che scesi li dispogliaro e ’l lor misfatto apparve, mesti, dolenti, afflitti e quasi immoti si miraro i fratelli, e n’ebber doglia. 680 Iön di Pisa abitatore atterra Dafni di Cirra, i suoi destrieri avendo pria spaventati: gli applaudì dall’alto Giove: del suo cirreo sentì pietade, quantunque tardi e inutilmente, Apollo. 685 Ma la fortuna quinci e quindi illustra due forti eroi nel sangue ostil feroci. Emon tebano i Greci urta e flagella, e Tideo preme le dircee falangi. A questo Palla, a quello assiste Alcide. 690 Come scendon da’ monti a un tempo istesso due rapidi torrenti, e ’l piano inondano con subita ruina, e par che a gara faccian tra lor chi più rapisca i campi o più soverchi i ponti: ecco una valle 695 lor dà ricetto, e ne confonde l’acque: ma superbo ciascun del proprio corso negano al mar portar unite l’onde. De’ combattenti in mezzo Ida d’Enchesto giva scorrendo con accesa face, 700 e colla fiamma disgombrando il calle, e scompigliava e ponea in rotta i Greci: allor che da vicin del gran Tideo l’asta gli spezzò l’elmo e lo trafisse. Cad’ei supino, e molto spazio ingombra; 705 tien l’asta in fronte, e la caduta fiamma gli circonda le tempie; allor l’insulta il vincitore: - Non chiamar crudeli gli Argivi, no; noi ti doniamo il rogo colle tue faci e col tuo fuoco: or ardi. - 710 Indi qual tigre che nel primo sangue la rabbia accese e a tutto il gregge anela, Aone con un sasso, e colla spada Folo e Cromi ferisce; indi coll’asta i due fratelli Elicaoni uccide, 715 che già da Mera, dell’egea Ciprigna sacerdotessa, della diva in onta fur generati di furtivo amplesso. Miseri, voi giacete! E i fieri altari circonda ancor la supplichevol madre. 720 Con non minor furor l’erculeo Emone sitibondo è di sangue, e mille schiere col brando insazïabile trascorre. I fieri Calidonii urta e fracassa; turba quei di Pelene, e della mesta 725 Pleurone abbatte i giovani feroci; finchè già rintuzzato il brando e l’asta, l’ollenio Buti, che le schiere affrena e lor vieta la fuga, aggiunge e assalta. Era giovine Buti, e ’l fean palese 730 le intatte guance e ’l non tosato crine, quando improvvisa a lui su l’elmo scese la tebana bipenne. Ambe le tempie cadon partite, e la divisa chioma di qua, di là sovra le spalle pende, 735 e a lui, che non attende e non sen guarda, innanzi tempo il vital filo tronca. Poscia il biondo Polite, Ipari il biondo (l’uno a Febo nudriva il molle viso, e l’altro a Bacco la lasciva chioma) 740 del pari uccide. O troppo ingrati Numi! Appresso a questi Iperion distende, e Damaso, che in fuga era rivolto, ma l’asta del guerrier lo coglie a tergo, e per l’usbergo passa, e nello scudo 745 si caccia, e lungi su la punta il porta. Strage maggior nelle lernee falangi farebbe Emon: perocchè Alcide i dardi gli drizza, e a lui dà forza; ma Tideo Palla gli oppone, e già si stanno a fronte 750 co’ tutelari Numi; allora Alcide parlò primier, ma placido in sembianza: - Fida germana, qual error di guerra, qual sorte insieme a battagliar ne guida? Forse un sì reo misfatto ordisce Giuno? 755 Pria mi vedrà (benchè nefanda ed empia impresa fora) al fulmine trisulco opporre il petto, e contrastar feroce col mio gran padre. Dal mio ceppo scende Emon; ma se tu l’odii, io lo ricuso: 760 nè se contro Ila e contro Anfitrione (qualor tornasse in vita) il tuo Tideo vibrasse l’asta, a lor farei riparo. Ben mi sovvien, nè fia ch’unqua l’obblii, quanto per me questa tua destra invitta 765 sudasse, e questo tuo gorgoneo scudo, allor che tutto andai vagando il mondo servo infelice in duri casi involto: ita saresti meco anche a gli abissi; ma i Dei superni non ammette Averno. 770 Tu il ciel, tu il padre a me donasti. A tante grazie qual mai potrò donar mercede? Se vuoi Tebe appianar, io l’abbandono, e cedo al tuo volere e perdon chieggio. - Sì disse, e già partia: l’altera Dea 775 placossi al suono del parlar gentile, e serenò ’l sembiante, e su ’l Gorgone sgonfiando i colli, si posâr le serpi. Sente partirsi il nume, e già più lenti i dardi vibra l’infelice Emone, 780 e ne’ languidi colpi il vigor primo non riconosce, nè l’usata destra. In lui manca l’ardire, e ’l timor cresce, nè si vergogna ritirarsi: allora più feroce Tideo l’incalza e preme, 785 e maneggevol solo alla sua mano libra un’asta ferrata, e a certo segno la drizza, e al sommo dello scudo mira, ove confina la goletta e ’l colpo è più mortale; nè ingannollo il braccio. 790 Già portava la morte il crudo cerro, ma nol permette, e l’omero sinistro sol gli lascia lambir con lieve piaga grata al fratello la tritonia Dea: più non sta fermo Emon, nè più s’appressa 795 al gran nemico, e non ne soffre il volto, e virtude e speranza in lui vien meno. Qual setoso cinghial, cui nella fronte con non felice man confisse il ferro il cacciator, nè al cerebro pervenne: 800 l’ire esercita in fianco, e più non osa gir contro l’asta che provò sì fiera. Ecco vede Tideo Proteo tebano, condottier d’una squadra, i Greci suoi mandar con certi colpi a certa morte. 805 S’accende ad ira; vibra il pino, e lui d’un colpo solo e ’l suo caval trafigge. Cade il destrier sul cavaliero, e mentre cerca ei la briglia, su la faccia l’elmo gli calca, e sopra il sen preme lo scudo, 810 sin che col sangue il fren gli esce di bocca, e morto cade al suo signore accanto. Così talora avviticchiati insieme cadon dal monte Gauro, e a doppio danno del povero cultor, l’olmo e la vite 815 miseri al par; ma più scontento l’olmo, che i tronchi rami suoi non piange tanto, quanto della compagna i tralci amati e l’uve amiche, suo mal grado infrante. Prese avea l’armi contro il campo greco 820 Corebo d’Elicona, amico un tempo e compagno a le Muse. Il dì fatale, conscia de’ stami inferni, e dalle stelle pria conosciuto, a lui predetto aveva Urania, e pur l’armi e le guerre agogna 825 (e forse per cantarle) il garzon folle. Ei cade, e nel cader degno si rende ch’altri lo canti; ma le afflitte Muse mute restaro, e l’onorâr co’ pianti. Fin da’ più teneri anni era promessa 830 ad Ati Ismene, e non venía straniero, benchè di Cirra, il giovane gentile a questa guerra, e non avea in orrore in suo favor de’ suoceri le colpe: la fa il casto pallor a lui più grata, 835 e le accresce beltà l’indegno lutto. Era anch’egli leggiadro, e non nudria la vergine da lui diverse voglie; e l’un dell’altro, se fortuna a mezzo non troncava i disegni, erano amanti. 840 Ma la guerra crudel vieta le nozze; quinci di maggior ira acceso il seno vien furïando, e le lernee falangi ora pedon col ferro urta e scompiglia, ora sovra un corsier, quasi dall’alto 845 il rimirasse Ismene, i Greci assalta. Di triplicata porpora coperte le spalle ancor crescenti e ’l molle petto gli avea la madre, e del destrier gli arnesi e l’elmo e le saette erano d’oro, 850 e le maniche e ’l cinto, e su ’l cimiero (perch’ei non gisse men d’Ismene adorno) l’oro increspato svolazzava al vento. Misero! ei vano de’ pomposi fregi osa i Greci sfidare, e fatta strage 855 nelle men forti squadre, a’ suoi sen riede colle acquistate spoglie, ed or uccide un guerrier, or ritorna al suo drappello. Qual giovane leon ne’ boschi ircani nudo ancora di pelo, e non tremendo 860 per l’onor delle giube, e non ancora avvezzo a ber de’ generosi il sangue, poco lungi a le stalle il vile armento, quando è il pastor lontano, ardito assalta, e d’un tenero agnel pasce la fame. 865 Tale Ati, a cui noto non è il valore, nè l’armi di Tideo; ma lo misura solo dal corpo, nol paventa, e ardisce con debil dardo, mentre quei minaccia gli altri e gl’incalza, di tentarlo. Al fine 870 gli occhi il fiero rivolge a’ colpi frali, e amaramente ride: e, - Ben m’avveggio, temerario garzon, (dice) che aspiri a glorïosa morte. - Indi sdegnando usar contro un fanciul la spada e l’asta, 875 apre appena le dita, e lieve strale sfuggir ne lascia, che qual fosse un grave acuto cerro e con vigor scagliato gli passa l’anguinaglia e ’l fere a morte. Sdegna Tideo spogliarlo: e, - Non fia mai 880 (grida) che sì vil dono abbia la Madre, o che a te, Palla, tali spoglie appenda. Me lo vieta il rossore; e se nel campo qui Deifile fosse, appena a lei per suo trastullo le porrei davanti. - 885 Dice, e a gloria maggior pugnando aspira. Così leon per molte stragi altero sdegna i molli vitelli e ’l vile armento, e sol de’ generosi il sangue anela, e al toro condottier del gregge agogna 890 star su l’alta cervice e farne scempio. Dal flebile clamor Meneceo accorto del caso d’Ati, i suoi destrieri e ’l carro là volge a tutto corso, e in terra sbalza. Già del Taigeto i giovani feroci 895 stavan su lui, che giace: in abbandono lo lasciavano i Tirii. Alto rampogna Meneceo i vili: - O voi da Cadmo scesi, che da’ solchi guerrier vantate i padri, e ’l valor ne mentite; ove ne andate, 900 ove fuggite? Oh eterna infamia! Oh scorno! Dunque meglio per noi Ati sen giace? Ati stranier, che non aveva in Tebe cui vendicar che la diletta sposa, e questa ancor non sua? Noi tanti nostri 905 pegni, le mogli, i figli, i tempii, i tetti tradirem dunque? - Da vergogna punte fermârsi allor le schiere, e ’l patrio amore tornò ne’ petti, e rivoltâr la fronte. Stavano intanto in solitaria cella 910 del regio albergo le innocenti figlie di Edippo amabil coppia e di costumi dal genitor diversa e da’ germani, rammentando tra lor gli acerbi casi, e de’ vicini e de’ primieri tempi; 915 della madre le nozze una, e del padre l’altra gli occhi rammenta; or questa piange il fratello che regna; or il ramingo quella mesta deplora: ambe le guerre. Quindi più grave a loro è la tardanza 920 degl’infelici e non ben certi voti. Sospese stan qual vincitor, qual vinto bramin veder nel barbaro duello, ma nell’interno l’esule prevale. Così il garrulo augel di Pandïone 925 qualor ritorna al suo fidato albergo, onde cacciollo il verno, e sovra il nido va svolazzando, le sciagure antiche a’ tetti narra e al vento, ed il confuso flebile mormorio crede parole, 930 e ben rassembra a le parole il canto. Dopo un lungo silenzio e dopo i pianti parlò di nuovo alla sorella Ismene: - Qual error turba i miseri mortali? Qual ingannevol fede? In mezzo al sonno 935 veglian le cure, e alla sopita mente tornan distinti e simulacri e larve? Ecco io, che appena, se profonda pace godesse il regno, i talami e le nozze volgerei nella mente (io mi vergogno, 940 sorella, a dirlo), nella buia notte vidi le tede nuzïali: ahi come questo folle sopor mostrommi in sogno lo sposo appena visto! Una sol volta e involontaria in questa reggia il vidi, 945 mentre non so quai patti alle mie nozze stabilivan fra loro. A me parea tutto turbarsi d’improvviso, e spente mancar le faci, e la rabbiosa madre con urli e strida seguitarmi, ed Ati 950 ridomandarmi. E quale annunzio infausto è mai questo di strage? E pur non temo, se staran queste mura, e se lontane andran le greche schiere, e tra’ fratelli s’avremo tempo di compor la pace. - 955 Così dicean tra lor: quand’improvviso mesto clamor la taciturna reggia turba e spaventa, ed ecco Ati, ritolto con gran fatica a le nemiche genti, mal vivo si riporta e senza sangue; 960 ha la man su la piaga, e dallo scudo pende languido il capo, e su la fronte scomposto ha il crin; prima Giocasta il vede, e pallida e tremante Ismene chiama. Questa sol chiede con languente voce 965 il moribondo genero; sol questo nome sta ancor su le gelate labbia. Alzan le ancelle i gridi, e l’infelice vergin portava già le mani al crine, ma vergogna l’affrena: al fin costretta 970 colà si porta: questo estremo dono Giocasta accorda al genero che spira, e a lui la mostra e l’offre. Al dolce nome ben quattro volte su’ confin di morte girò gli occhi ecclissati, e a è fe’ forza, 975 e alzò il volto cadente, e ne’ suoi lumi mirando sol, del ciel la luce ha a schivo; nè può saziarsi dell’amata vista. Ma poi che lungi era la madre, e morto con miglior sorte era poc’anzi il padre, 980 di chiudergli le luci il mesto uffizio dassi a l’afflitta ed infelice sposa, che quando restò sola, allentò il freno a’ gemiti, a’ singulti, e gli cosperse di pie lagrime amare il morto viso. 985 Mentre ciò fassi in Tebe, Enío crudele di nuove serpi e nuove faci armata la battaglia rinforza. Ognuno l’armi brama, come se allora il primo assalto fosse della tenzone, e ch’ogni brando 990 splendesse ancor al sol lucido e terso. Ma sopra tutti il gran figliuol d’Eneo si distingue quel giorno, ancor che molto Partenopeo da l’infallibil arco scocchi dardi sicuri, e Ippomedonte 995 col feroce destrier calpesti i volti de’ nemici abbattuti e moribondi, e Capaneo vibri l’acuto pino pur troppo noto a le sidonie squadre. Di Tideo solo è quell’orribil giorno, 1000 lui sol si teme e da lui sol si fugge, e vien egli gridando: - Ove fuggite? Perchè il tergo volgete? Ora, ora è il tempo di vendicar vostri compagni uccisi, e compensar quell’infelice notte. 1005 Io son colui che cinquant’alme spinsi con brando ancor non sazio in grembo a Dite. Vengan cinquanta, e cinquant’altri insieme, che io qui gli attendo. Quei che dianzi uccisi non han dunque fra voi padri o fratelli 1010 vindici di lor morte? Onde proviene questo sì vile oblio de’ vostri lutti? Io mi vergogno riveder Micene e star contento della prima strage. Tali guerrier restano a Tebe? Queste 1015 son le forze del Re? Ma dove mai, dove s’asconde questo invitto duce? - Ed ecco il vede nel sinistro corno animando le schiere, e lo distingue a lo splendor della superba fronte. 1020 Non sì veloce piomba il grande augello, portatore de’ fulmini di Giove, su bianco cigno, e cogl’immensi vanni tutto l’adombra; come allor Tideo contro del Re si scaglia e lo rampogna: 1025 - O giusto Re della sidonia gente, vuoi tu venir a manifesta guerra, e meco alfin provar del pari il brando? O sol ti fidi nell’amica notte, e le tenebre aspetti? - Ei non risponde, 1030 ma di risposta invece a lui rimanda stridente dardo. L’etolo campione con leggera percossa il colpo torse, quando a lui fu vicino e al fin del volo. Indi con tutto il braccio, e dell’usato 1035 con maggior forza avidamente vibra contro il crudel tiranno asta maggiore. Giva la ferrea trave, e ponea fine al fier düello, e l’applaudian dall’alto de’ Greci e de’ Sidonii i Numi amici; 1040 ma vi si oppone la spietata Erinni, ed Eteòcle al reo fratel riserba. Andò il ferro a piagar Flegia scudiero, ove più ardea la pugna. Allor Tideo il brando stringe, e più feroce corre 1045 contro il Re, che già cede e si ritira, e lo copron co’ scudi i suoi Tebani. Come vorace lupo in buia notte, ch’abbia assalito tenero giovenco, s’è de’ pastor da folto stuol respinto, 1050 in rabbia monta, e disprezzando i dardi, a lor rivolge l’affamato dente, e in quel, per cui già venne, il torvo sguardo fiso tenendo, contro lui s’avventa, sempre fermo in desio di farne preda. 1055 Così Tideo sdegna le opposte schiere e la turba minore, e i colpi affrena. Pure a Toante nel passare il viso, a Deiloco il petto, a Ctonio il fianco, e ad Ippodamo truce il tergo fere. 1060 Sovente a’ corpi le lor membra rende, e manda a l’aria le celate piene. E già fatto a se stesso argine e cerchio ha di corpi e di spoglie, ed in lui solo si consuma la guerra, e contro lui 1065 drizzansi tutti i dardi. Altri a la pelle giungono a vuoto, cadon altri a terra: altri Palla ne svelle, e già lo scudo sostien d’aste e di dardi orrida selva. Ei d’ogni parte è cinto, e già da tergo 1070 squarciato pende il calidonio vello, e con funesto augurio a terra cade Marte, gloria ed onor del suo cimiero: già d’ogni fregio nudo in su le tempie posa l’elmo infiammato, e ripercosso 1075 da sassi e travi orribilmente suona. Gli scorre per la fronte e per lo petto di sangue e di sudor tepido rio. Ode i suoi che l’esortano a ritrarsi, e lungi vede la sua fida duce 1080 collo scudo coprirsi il mesto volto. Essa prendendo verso il cielo il volo giva a placar col pianto il genitore. Ed ecco fende il vento immensa trave, che gran destino e gran vendetta porta, 1085 e l’autor non è noto, e non si scopre. Menalippo uom vulgar d’Astaco figlio fu colui che fe’ il colpo, e non sen vanta, e quanto può cerca occultar la mano, ma il clamor delle turme il fa palese; 1090 poichè al colpo mortal si piegò in dorso Tideo ferito, ed allentò lo scudo, e tutto il fianco gli restò scoperto. Alzan le grida allor le aonie schiere, e piangono i Pelasghi, e co’ lor petti 1095 a lui, che freme, fan riparo e schermo. Egli a traverso le dircee falangi cerca coll’occhio il suo nemico, e tutte le reliquie dell’anima raccoglie, e un’asta, che a lui porse Opleo vicino, 1100 contro gli scaglia, e per lo sforzo estremo l’ultimo sangue dalle vene uscío. Allor gli Etoli mesti il lor signore, che ancor combatter brama e l’aste chiede (ahi qual furor?) e della morte in braccio 1105 di morir nega, riportaro indietro, e le languide membra e ’l corpo frale adagiâr su uno scudo, e lo posaro su ’l margine del campo, e fra’ singulti gli fer sperar di rimandarlo in guerra. 1110 Ed ei, che al fin vede mancarsi il giorno, e nel gelo mortal sente le membra sciogliersi e già fuggir l’alma superba, s’alza qual può su ’l debil braccio, e dice: - Pietà vi prenda del mio caso acerbo, 1115 Greci; non già che questa inutil salma in Argo si riporti od a Pleurone, chè l’esequie io non curo, e sempre odiai queste caduche membra, e ’l debil uso del corpo frale, e peregrina spoglia 1120 che presto manca ed abbandona l’alma; ma se fia che ’l tuo capo alcun mi porti, solo il tuo capo, o Menalippo! e certo so che tu mordi il suolo, e che gli estremi sforzi non m’ingannâr di mia virtude. 1125 Va, Ippomedonte, se in te ferve il sangue d’Atreo; vanne, garzon, d’Arcadia onore e già famoso nelle prime guerre; e tu fra tutti i Greci il più sublime, muoviti, o Capaneo. - Corsero a gara; 1130 ma Capaneo giunge primiero, e trova Menalippo spirante, e se lo getta su la sinistra spalla, ancor che il sangue, che dall’aperta piaga esce a torrenti, gli lordi il largo tergo e ’l ferreo arnese. 1135 Dall’arcadico speco in cotal guisa il predato cinghial riportò Alcide a’ desiosi ed acclamanti Argivi. Tideo s’alza di nuovo, e al suo nemico corre incontro col guardo, e poi che ’l vede 1140 gir boccheggiando ne’ singulti estremi, e colle luci languide ed erranti, e la sua morte riconosce in lui: d’allegrezza e di sdegno ebbro e furente vuol che ’l capo sen tronchi e se gli porga. 1145 Il prende, e torvo il guarda, e si compiace in rimirarlo, ancor che tronco, in giro rivolger gli occhi torbidi e tremanti. Tanto bastava al misero: ma chiede maggior misfatto l’empia Furia ultrice. 1150 E già scendea dal ciel (placato il padre) Pallade non più mesta, e a l’infelice dell’immortalità portava il dono. Ma quando il vide di cervella e sangue ancor fumante satollar le labbra, 1155 nè poterlo staccar dal fiero pasto inorriditi i Greci: in su ’l Gorgone si drizzaro le serpi, e della Dea velâr la faccia, ed essa abbominando il capo torse, e pria di gire a gli astri, 1160 purgò la vista con il sacro fuoco, e dell’Eliso si purgò nell’onda. L’atroce rabbia di Tideo crudele inasprì i Tirii, e mitigò ne’ Greci il dolor di sua morte, e l’atto indegno tutti biasmâr, che di vendetta ruppe 5 ogni legge, ogni dritto. E tu de’ Numi, Marte, il più fiero, ancor che la gran pugna, tua mercè, fosse nel maggior calore, fam’è tra noi che non il volto solo torcesti altrove; ma i destrieri e ’l carro. 10 Dunque la gioventù da Cadmo scesa non altrimenti a vendicar si muove di Menalippo la spietata morte, l’esequie profanate e ’l fiero scempio, che se l’ossa e le ceneri degli avi 15 fossero sparse al vento, e l’urne aperte e date in preda ad esecrandi mostri. Il Re vie più gli accende: e,- Chi pietoso (grida) fia più co’ Greci? E chi da loro spera nulla d’umano? O non più inteso 20 e ferino furore! han dunque in noi tutte vuotate le faretre e gli archi, che d’uopo sia che colle adunche zanne squarcino a brano a bran le membra tronche? Con tigri ircane e co’ leon feroci 25 non vi sembra pugnar di Libia adusta? Ed or colui sen giace (o della morte nobil conforto!) e con i denti afferra il teschio ostile, e le dure ossa e ’l sangue rode e sugge l’infame, e muor contento. 30 Adopriamo noi pure il ferro e ’l fuoco, che basta lor la ferità natia e gli odii soli senz’usare altr’armi. Ma sieno pur crudeli, e questa luce godano lieti; pur che ’l sommo Giove 35 rivolga in lor gli occhi dall’alto e ’l veggia. E si stupiscon poi che s’apra il suolo, e fugga lor di sotto a’ piedi? Io sento maraviglia maggior che anche li porti il lor terren natio. - Così ragiona, 40 e fremendo e scorrendo innanzi spinge le schiere. Tutti un sol furore infiamma a rapir di Tideo le spoglie e ’l corpo. Così veggiam stuolo d’ingordi augelli velar co’ vanni il ciel, qualor da lungi 45 senton l’aria spirar corrotta e guasta da’ cadaveri putridi e insepolti: vengon gracchiando, e l’etere rimbomba, e gli augelli minor cedono il campo. La Fama intanto, più veloce e pronta 50 nelle infauste novelle, era trascorsa di schiera in schiera per lo campo argivo, e giunta a Polinice, a cui maggiore era per recar doglia. Al duro avviso inorridissi il giovane, e su gli occhi, 55 già pronti a uscir, gli si arrestaro i pianti. Ei sta in dubbio se ’l creda, e di Tideo la virtù conosciuta alla sua morte il prestar fede persuade e vieta. Poichè certo ne fu, le luci e ’l senso 60 gli si adombraro, e ristagnato il sangue, languîr le membra e l’armi, e già di pianto asperso è ’l lucid’elmo, ed a’ suoi piedi lo scudo cade. Con tremanti passi se ne va mesto strascinando l’asta, 65 qual se di mille piaghe il sen trafitto ed ogni membro lacerato avesse. Giunge ove Tideo giace intorno cinto da’ fidi amici, che ’l mostrâr piangenti a lui che ’l chiede. Allor l’armi, che appena 70 seco avea tratte, lungi scaglia, e nudo sul cadavere esangue s’abbandona, e a le lagrime il fren scioglie e a la voce: - Dunque, o caro Tideo, delle mie guerre unica speme, tal mercè ti rendo? 75 Son questi i premii a tua virtù dovuti? Che tu, me salvo, sul terreno infame di Cadmo giaccia? Or sì che vinto io sono: or sempr’esule andrò, or che m’è tolto un fratel d’Eteócle assai migliore. 80 Io più l’antiche sorti, e più non chieggio la vïolata mia corona e ’l regno. Qual cosa esser mai può che a tanto prezzo lieta mi sembri? O qual gradito scettro, che non mi porga la tua forte mano? 85 Itene pure, amici, e me qui solo al reo fratel lasciate. A che più giova l’armi tentare, e invan perder tant’alme? che più dar mi potete? Ecco ch’io stesso Tideo condussi a morte: or con qual morte 90 purgar giammai potrò tanto delitto? Oh suocero! Oh Pelasghi! Oh della prima notte risse gradite e pugne alterne! Oh brevi sdegni d’un sì lungo amore forieri e pegno! Ah perchè mai ’l tuo ferro 95 (e ben tu lo potevi) in su le soglie non mi svenò d’Adrasto, o gran Tideo? Anzi per me, qual se i tuoi propri onori e ’l tuo regno chiedessi, a’ tetti infidi, onde tu sol tornar potevi illeso, 100 del reo fratello volontario andasti. Taccia il pio Telamon, taccia Teseo l’antica fama. Ed or ohimè qual giaci! Ahi quali prima ammirerò ferite? E qual è il tuo, qual l’inimico sangue? 105 Qual folta schiera di guerrieri eletti fu che t’oppresse? Il padre, il padre stesso invidïando tua virtù, la morte ti diede: Marte fu quel che t’uccise. - Così dice, e co’ pianti il morto viso 110 di sozzo sangue deformato e lordo lava, e sul petto gli compon le braccia. Indi ripiglia: - Adunque tu cotanto i miei nemici odiasti, ed io ancor vivo? - E di già tratto il ferro, in sè crudele 115 sel rivolgeva al sen per darsi morte; ma il ritengon gli amici, e lo riprende Adrasto, e delle guerre i vari casi a lui narrando e del destin la forza, l’accheta e lo consola, e a poco a poco 120 dal corpo amato, onde s’avviva il duolo e in lui s’accresce di morir la brama, lungi lo guida, e destramente il ferro tra’ discorsi di man gli toglie e il cela. Ei parte, come toro afflitto e lasso, 125 cui venne meno il suo fedel compagno e lasciò il solco non finito ancora: mezzo il giogo sostien sopra il suo collo, mezzo ne regge il villanel piangente. Ed ecco d’Eteócle i detti e l’armi 130 seguendo, vien di giovani feroci eletto stuolo, cui Bellona e Marte non sprezzerieno in guerra. Ippomedonte fermo su’ piedi, collo scudo al petto abbassa l’asta, e a quanti son si oppone. 135 Qual rupe incontro a’ flutti, e che del cielo l’ire non teme, e ’l mar respinge e frange, sta immota a le minacce, e la paventa l’Oceàn procelloso, e d’alto mare la conoscon da lungi i naviganti. 140 Vien Eteòcle, e l’asta scuote e grida: - E non vi vergognate in faccia a’ Numi, del cielo a vista e della pura luce difender queste scelerate membra, che fur della milizia obbrobrio eterno? 145 O nobile sudor, rara virtude per dar tomba ad una fera! Adunque in Argo porterassi costui con mesta pompa, e del rio sangue lorderà il ferétro? Si tralasci tal cura: augelli e mostri 150 nol toccheranno, e dello stesso rogo (se gliel darem) l’abborriran le fiamme. - Tacque, e scagliò sì smisurato dardo, che ritardato ancor dal primo cerchio del forte scudo, penetrò al secondo. 155 Indi l’aste vibrâr Ferete e Lica; ma il colpo di Ferete indarno cadde, e con sorte miglior l’asta di Lica lambìgli l’elmo orribile chiomato. Svelte dal ferro le superbe piume 160 volaron lungi, e inonorata apparve e de’ suoi pregi la celata priva. Non si arretra il guerrier, nè contro l’armi provocato si lancia; in giro volge su l’orme istesse la terribil fronte, 165 e a’ nemici resiste, e ’l suo valore tien che lungi non scorra. In ogni moto guarda l’amato corpo, e lo difende, e al cadavere intorno si raggira. Non con tanto valor, con tanta cura 170 l’ardita vacca il suo vitel difende dal lupo assalitor, ruotando intorno le dubbïose corna; essa non teme, ma del sesso scordata, e freme e sbuffa e i forti tori generosa imita. 175 Ma pure al fine a Ippomedonte è dato, poichè cessaro le saette ostili, di rilanciar suoi dardi e far vendetta. Già il sicïonio Alcone e già i veloci Pisani erano accorsi in sua difesa, 180 e fatto gruppo di guerrieri e d’aste, affidato in costor, trave lernea ei scaglia, e quella va non men veloce di cretica saetta, ed a Polite il petto passa, e a Mopso a lui congiunto 185 fora e varca lo scudo; indi Cidone di Focida, e Falante di Tanagro ed Erice trafigge: Erice addietro s’era rivolto, e mentre sta sicuro e la morte non teme e chiede l’aste, 190 nella nuca lo coglie, e i denti spezza, e per la bocca, u’ non entrò, sen esce. Leuconteo intanto dietro l’armi ascoso e dietro i combattenti, avea di furto stesa la mano, e per lo crin prendendo 195 Tideo, seco il traeva. Ippomedonte, quantunque cinto di minacce e d’armi, il vide, e a terra con un colpo solo gli fa cader la temeraria mano, e grida: - Questa a te Tideo rapisce, 200 Tideo stesso l’ha tronca, e quindi apprendi de’ magnanimi eroi, benchè consunti, a rispettare i fati, e le grand’ombre in avvenire a non tentare impara. - Tre volte i Tirii avean l’orribil corpo 205 rapito, ed altrettante i Greci audaci loro l’avean ritolto. In cotal guisa sta del siculo mar fra le procelle nave agitata, e del nocchiero in onta a gonfie vele e con in poppa il vento 210 s’aggira, e torna ne’ medesmi flutti. Nè di Sidonia avrian tutte le schiere respinto Ippomedonte; nè di loco smosso l’avrian le macchine murali, ed a le torri eccelse anche tremendi 215 nel forte scudo foran vani e cassi caduti gli urti, e ritornati indietro: ma la Furia crudel, che ha fermo in mente di Plutone il comando e di Tideo le colpe in sè rivolge, in mezzo al campo 220 ingannevol si mostra e in finto aspetto. La sentiron le schiere, e un sudor freddo scorse per l’ossa a gli uomini e a’ destrieri, ancor ch’ella d’Alì prendesse il volto, e il ceffo suo coprisse, nascondendo 225 le sferze ed i flagelli: in cotal forma vestita d’armi, e in placido sembiante, con dolce voce, a Ippomedonte a canto fermossi, e pur mentr’ella parla, ei teme, e del nuovo timore ha maraviglia; 230 ed essa allor piangendo: - Ed a che invano, generoso guerriero, adopri l’armi a difender i morti? Adunque solo degl’insepolti corpi e delle tombe avrem noi cura? Ma si mena intanto 235 da l’altra parte prigioniero Adrasto, e pur te solo ei chiama, e colla mano e colla voce il tuo soccorso implora. Ahi quale il vidi sdrucciolar nel sangue privo di serto la canuta chioma! 240 Nè quinci è lungi. In quella parte volgi gli occhi, ove s’alza un turbine di polve, u’ più folto è lo stuol. - Fra due timori sta il dubbio cavalier mesto e sospeso; ma la Furia lo preme: - A che più tardi? 245 Chè non andiamo? Queste morte spoglie ti ritengono forse, e non ti cale di chi ancor vive? - Al fin vincer si lascia Ippomedonte, e a’ forti suoi compagni il corpo raccomanda e le sue pugne. 250 Parte, e abbandona il suo fedele amico: pur indietro si volge, e attento ascolta pronto a tornar, se a sorte altri ’l richiami. Del finto Alì l’orme seguendo intanto di qua, di là per travïate strade 255 si aggira indarno: fin che l’empio mostro gettò lo scudo e sparve, e le ceraste spezzaron l’elmo, e sibilando usciro. Sciolta l’infernal nube, egli rimira starsi sul carro suo sicuro Adrasto, 260 e intorno a lui le guardie sue tranquille. Ma i Tirii intanto han preso il corpo, e lungi il palesâr colle festive voci; e a lui ferîr gli orecchi, e di segreta doglia strinsero il core e gli urli e i gridi 265 de’ vincitor superbi. O del destino tiranna forza! Ecco Tideo si tragge per l’ostil campo: quel Tideo che dianzi, quando i Tirii incalzava, o sul destriero o pedon combattesse, a lui davanti 270 s’aprian di qua, di là tutte le schiere. Non stan l’armi in riposo, e non le destre; nè li ritien, ora che ’l ponno impuni, da l’oltraggiar le già temute membra quella ferocità che pur conserva 275 nel terribil sembiante, ancor ch’estinto. Una sol brama i vili e i forti accende nobilitar le mani, e i dardi tinti serbar nel costui sangue, ed in trionfo mostrarli poscia alle consorti e a’ figli. 280 Così terror de’ mauritani campi leon feroce, per cui stieron chiuse le gregge, e in armi i buon custodi e desti; se cade al fine da’ pastori oppresso, il prato se ne allegra, e d’ogni parte 285 con liete grida accorrono i bifolchi, e gli strappan le giubbe, e l’ampia gola spalancan, rammentando i propri danni. Ei su l’ovile o da una pianta pende, trionfo e gloria dell’antico bosco. 290 Ma il fiero Ippomedonte, ancor che vano vegga il soccorso, e per la tolta spoglia tarda la pugna, pur ruotando il ferro irrevocabilmente il passo avanza; nè l’inimico da l’amico scerne 295 se lo ritarda; ma la fresca strage lubrico fa il terreno, e i semivivi e i carri al suolo rovesciati e infranti gl’impediscono il passo, e ’l fianco aperto da lo stral d’Eteòcle (o della pugna 300 nel calor non sentillo, o di vendetta per troppo amor dissimulò la piaga). Vede Opleo al fin, che fu nelle battaglie al gran Tideo compagno, ed or ne porta inutilmente l’armi, e per lo crine 305 tiene il destrier del cavaliero estinto: il buon destrier, che del signore amato il caso ignora, e co’ nitriti il chiama, e si duol che di sè lo lasci vuoto e che più goda di pugnare a piedi. 310 Ippomedonte (ancor che il nuovo peso portar ricusi su l’altero dorso, siccome avvezzo a quella sola mano che lo domò nella primiera etade) il prende, lo corregge e gli flavella: 315 - Infelice corsier, perchè ripugni al nuovo impero? Il dolce peso amato del tuo primiero eroe più non avrai, tu più non pascerai d’Etolia i campi, e più non scuoterai le altere chiome 320 nell’acque d’Acheloo; quel che ci resta eseguiscasi almen: le care spoglie vien meco a vendicare, o pur mi segui, perchè tu ancor l’ombra raminga errante prigionier non offenda, e dopo lui 325 altro superbo cavalier non porti. - Parve ch’egl’intendesse, e d’ira acceso si mosse al corso, e ’l cavalier sostenne, meno sdegnando un condottier simíle. Tal se da l’Ossa a precipizio cala 330 un biforme Centauro a l’ime valli; temono i boschi l’uom, la belva i campi. Fuggono stretti insieme ed anelanti spaventati i Tebani. Ei sta lor sopra, ed improvviso i capi tronca, e a tergo 335 lascia i tronchi cadaveri cadenti. Eran giunti a l’Ismeno, oltre l’usato (funesto augurio!) per gran mole d’acque gonfio e spumante. Ivi pigliâr respiro per breve tempo i miseri Tebani, 340 e timorosi ivi fermâr la fuga. Stupì l’onda non usa a le battaglie in mirar tante schiere, e ripercossa tutta s’accese di tant’armi a’ lampi. Al fin cacciati dal timor, ne’ gorghi 345 si lanciarono a gara, e dal gran peso l’argine rotto, un turbine di polve involò a gli occhi la contraria sponda. Ma con salto maggior ne’ flutti ostili, così com’era, Ippomedonte allora 350 balzò (nè già ritenne il fren, chè troppo avria tardato), e a l’atterrite turbe terribil sopraggiunse, avendo prima i dardi appesi d’un gran pioppo antico al verde tronco, e a quel lasciati in cura. 355 Trepidi allora i miseri Tebani al flutto rapitor cedono l’armi. Molti vi fur che pria l’elmo deposto, per quanto il fiato ritener potero, stetter sott’acqua infamemente ascosi; 360 altri il fiume passar tentaro a nuoto; ma gl’impediscon l’armi, e lor dà impaccio il cinto al fianco e la corazza al petto. Qual si desta terror ne’ pesci allora che per le vie del mar, sotto dell’onde, 365 il fallace delfin stare a la preda mirano inteso; la squammosa turba al fondo fugge, e per timor s’unisce nell’alghe verdi, e vi si addensa e asconde; e non ardisce uscirne, in fin che sorto 370 nol veggion sopra i flutti, e colle navi da lungi viste gareggiar nel nuoto. Tale il guerrier caccia i Tebani, e in mezzo del fiume alto sostiene il freno, e l’armi regge, e sostenta il suo destrier su’ piedi 375 di remi invece: la ferrata zampa, avvezza al suolo, ondeggia, e al fiume in fondo cerca indarno toccar l’usata arena. Iön da Cromi è ucciso; uccide Cromi Antifo; Antifo Ipseo: quindi del pari 380 Astiage a morte manda, e seco Lino, che già dal fiume uscia, ma vieta il Fato e la Parca crudel ch’in terra ei muoia. Preme i Tebani Ippomedonte, e i Greci turba figlio d’Asopo il grand’Ipseo. 385 Ambi teme l’Ismeno, ed ambi i flutti macchian dell’ostil sangue, e ad ambi il Fato nega l’uscir dal profanato fiume. E già su l’onde volteggiando vanno membra e capi recisi, e spesso a’ busti 390 riporta il flutto le già tronche destre. Si vedon galleggiare e dardi e scudi e gli archi lievi, ed il calare al fondo tolgon le piume eccelse a gli elmi vuoti. Vanno intorno a fior d’acqua armi vaganti, 395 e i miseri guerrier giacciono al fondo: ivi lottando stan coll’empia morte i corpi offesi, e l’anime spiranti il fiume incontra, e le respinge indietro. Da la corrente in giù rapito, aveva 400 Agrio fanciul della vicina sponda afferrata una pianta: a lui da tergo Meneceo sopraggiunge, e da le spalle gli recide le braccia. Egli l’impresa imperfetta abbandona, e in giù cadendo 405 mira le braccia sue pender dal tronco. L’asta d’Ipseo d’immensa piaga uccide Sago, e al fondo lo caccia, e sol di lui resta l’orma sanguigna in cima a l’onde. Per dar soccorso al suo fratel discese 410 Agenor da la sponda, ed afferrollo, misero! chè il ferito a lui le braccia al collo stende, e col suo peso il grava. Potea Agenor da gl’importuni amplessi sciogliersi, e uscir dal periglioso guado; 415 ma arrossì di tornar senza il fratello. Alza Calete di ferire in atto minaccevole il braccio. Il rio crudele ne’ girevoli gorghi ecco l’involge: già la faccia, già il crin, la man si cela: 420 ultimo il ferro fu che si sommerse. In varie guise una sol morte affligge i miseri. Ad Argite il tergo passa de’ Micalesi un’asta: ei si rivolta, e cerca il feritor; ma non appare. 425 Il fiume stesso col veloce corso portò quell’asta micidial sull’onde, ch’a ber sen gì dell’infelice il sangue. Ma l’etolo destrier riman ferito nella spalla: a l’ambascia, al vïolento 430 dolor di morte su due piedi s’alza, e sospeso così l’aria flagella colle ferrate zampe, e versa il sangue. Già non paventa i procellosi gorghi il cavalier; ma del caval pietade 435 sente, e di propria man l’asta ne svelle dolente, e lascia in libertade il freno; indi sbalza di sella, e più sicuro e di mano e di piè pugna di nuovo, e Nomio vile e Mimanto feroce, 440 e Antedonio Liceo, Lica di Tisbe, l’un dopo l’altro uccide, ed il minore de’ due figli di Tespio. A Panemone, che chiede anch’ei la morte, insulta: e, - Vivi (dice) e ritorna alla profana Tebe 445 solo senza il fratel, che non sarai più dolce inganno a’ genitori afflitti: sien grazie a’ Dei, che nel rapace fiume Bellona mi guidò con man sanguigna, u’ da l’onda natia tratti n’andrete 450 timidi, in pasto de’ marini mostri; nè l’ombra ignuda di Tideo insepolto a’ vostri fuochi striderà d’intorno: ei giace in terra, e al suo principio torna. - Così gl’incalza, e con i detti acerbi 455 inaspra le ferite, ed or col brando infuria, or scaglia li nuotanti dardi. Terone amico della casta Dea, e Gía di ville abitator; Ergino per li flutti vagante, Erse chiomato 460 a morte manda, indi Cretea v’aggiunge sprezzatore del mare, e che sovente lo scoglio Cafareo su picciol legno e l’euboiche procelle ardito vinse. Ma che non puote il Fato? Il sen trafitto 465 dal ferro micidial naufrago cade, ed oh in qual flutto! della doric’asta tu pur, Farsalo fosti al primo colpo da l’alto carro rovesciato, in cui, a soccorso de’ tuoi, varcavi il fiume, 470 e rimasti i destrier senza governo, da’ vortici rapiti, insiem congiunti, la funesta unïone ambi sommerse. Ma quanta ebber fatica i flutti insani ad atterrar Ippomedonte, e quale 475 l’Ismeno ebbe cagion di prender l’armi, fate a me noto, alme Castalie Dee. Vostr’opra è il rïandar gli scorsi tempi, e da l’oscuro oblio sottrar la fama. Godea di guerreggiar per le materne 480 onde il giovin Creneo, d’un Fauno nato e d’una Ninfa dell’Ismeno figlia. Egli aprì gli occhi al giorno in queste ripe: a lui fur patria il fiume e cuna l’alghe. Ei dunque non credea ch’entro quell’acque 485 ragion avesser le crudeli Parche, e lieto gía da l’una a l’altra sponda, passando l’avo lusinghiero, e l’onda, o ne seguisse il corso, o pur col nuoto obliquo la fendesse, alto il sostenta; 490 e s’a ritroso va, non lo ritarda, ma lo seconda, e seco torna indietro. Non più placido il mar bagna co’ flutti dell’Antedonio Glauco il ventre e i fianchi; nè più legger su la marina estiva 495 Triton galleggia; nè più pronto torna fra’ dolci amplessi della cara madre Palemone, affrettando il suo delfino, che troppo lento su le spalle il porta. Ben l’adornano l’armi, e per molt’oro 500 fulgido e insigne il grave scudo porta, in cui sta sculta dell’aonia gente l’origin prima: ne’ sidonii flutti del toro mansueto il dorso preme la fanciulla di Tiro, e già sicura 505 fatta del mar, non più le corna afferra colle tenere mani, e lussureggia l’onda baciando a lei le molli piante. Sembra veracemente entro lo scudo nuotare il divin toro e fender l’acque; 510 e l’acque sono tanto al ver simíli, che acquistan fede ed han di mar sembianza. Quindi Crenèo fatto più audace, sfida con orgogliosi detti Ippomedonte: - Questa, Lerna non è d’atro veleno 515 infetta e tinta, nè l’erculee serpi vengono a dissetarsi entro quest’onde. È sacro il fiume, è sacro, e ’l proverai tu, che ’l profani e sanguinoso scorri per l’acque ultrici de’ superni Dei. - 520 Quel non risponde, e s’avvicina: opponsi il fiume a lui con maggior forza d’acque, e gli tarda la man, ma non in guisa ch’essa il colpo non vibri, e nel più interno non giunga a penetrare u’ l’alma ha sede. 525 Inorridissi il fiume, e voi piangeste, de l’una e l’altra sponda o afflitte selve, e d’ululati rimbombâr le ripe. Egli morendo profferì l’estremo suono, e chiamò la madre. I flutti intanto 530 gli passâr sopra e soffocâr la voce; ma la madre infelice, intorno cinta da le cerulee sue meste sorelle, d’improvviso dolore il cor trafitta, lascia le grotte cristalline, e i crini 535 sparsi e confusi, e percuotendo il petto e lacerando il volto e ’l verde crine, accorre furibonda, e poi che fuori uscì da l’acque, con tremante voce, - Creneo, o Creneo - ripete, e indarno il chiama. 540 Ma ben lo scudo galleggiar su l’onde ne vede, a lei troppo sicuro segno di sue sciagure. Egli ben lungi giace, ove l’Ismeno con il mar si mesce. Così Alcïone desolata geme, 545 qualora vede per lo mar vagante il caro nido co’ suoi figli, e vede ch’Austro piovoso ognor l’urta e l’incalza, e finalmente dentro il mar gli asconde: ella al fondo si cala, e sotto i flutti 550 ricerca i figli, ovunque l’onda splende, e in ricercarli si lamenta e piagne. Tal la madre dolente si querela, nè però si ritiene; a’ dardi e a l’aste intrepida va incontro, e colla mano 555 gli elmi ricerca, e i tronchi busti esplora; ma respinta dal mar, ne’ flutti amari gli è tolto entrar, fin che a pietà commosse le Ninfe di Nereo nelle sue braccia meste portaro il già rapito figlio; 560 ed essa allor, come s’ei fosse vivo, al sen lo stringe, e sel riporta indietro, e sulle sponde, qual su letto, il posa: indi col molle crin l’umido volto gli asciuga e terge, e singhiozzando esclama: 565 - Sì fiero dono i Semidei parenti e l’avo tuo immortal ti diero, o figlio? Così tu regni nel materno fiume? Più mite a te fu la straniera terra e discorde da noi: più miti l’onde 570 del mar, che te fino a l’estrema foce portâr del fiume ed aspettâr la madre. Ahi questo è dunque il volto a me simíle? Questo del torvo genitore il guardo? Son questi i crini del grand’avo ondoso? 575 Tu di quest’acque e delle selve un tempo gloria fosti e decoro; io delle Ninfe, mentre vivesti, fui Regina e Dea. Or dove andrà l’ambizïoso e folto stuolo che stava alle mie porte intorno? 580 E di servirti le Napee bramose? Ed io, che teco dentro il mar profondo meglio poteva rimaner estinta, con infelici amplessi, or ti riporto non a me, ma a la tomba; e tu, crudele 585 padre, non hai rossor di tanta strage, e pietà non ne senti? E qual t’asconde nell’imo centro torbida palude, ove non giunga a le tue sorde orecchie del nipote la morte ed il mio pianto? 590 Ecco ne’ gorghi tuoi va furibondo Ippomedonte, e omai di te maggiore nel tuo letto trionfa, e l’acque e i lidi n’hanno spavento, e le nostr’onde tinte sono per lui di sangue; e tu codardo 595 non ricusi servire a’ fieri Greci? A’ roghi almeno, ed a l’esequie estreme vieni, o crudel, de’ tuoi: non sarà solo il tuo nipote, che arderan le fiamme. - E qui rinforza il pianto e squarcia il seno, 600 e l’altre Ninfe a’ pianti suoi fann’eco. Così dell’Istmo in su l’estrema spiaggia (s’ha fede il ver), non ancor fatta Dea, Leucotoe pianse in rimirare il figlio freddo versar da l’affannato petto 605 il già bevuto mar nel sen materno. Ma il padre Ismeno, ch’entro gelid’antro, onde s’imbevon l’aure e l’atre nubi, e si nudrisce l’Iride piovosa, e più fansi fecondi i tirii campi, 610 giacendo stava: poi che lungi intese (bench’egli stesso strepitando corra) della figlia i clamori e i nuovi pianti, alzò il muscoso collo e la di gelo gravosa chioma, e da le man gli cadde 615 l’eccelso pino, e l’urna a terra sparse. Stupir le selve in su le ripe, e i fiumi minori inorridîr, quando da l’onde tutta smaltata dell’antico loto la faccia eresse. Tanto e tale inalza 620 spumoso il crine, e per lo sen gli corrono giù da la barba risuonanti rivi. Della figlia il dolore, e del nipote la morte a lui tutto per ordin narra Ninfa, che lo rincontra, ed il feroce 625 uccisor gli dimostra, e colla mano la man gli preme. Egli su l’onde allora tutto si mostra, e colla man tergendo l’umido volto, e di verdi alghe cinte l’ardue corna scuotendo, irato e gonfio 630 così forte esclamò dal sen profondo: - Questo dunque è l’onor che a me tu rendi, rettor de’ Numi? A me, che tante volte ospite a te divenni, e de’ tuoi fatti consapevole fui? (nè già pavento 635 di rammentarli). Tu d’inique corna vestisti pur la simulata fronte; tu gli umidi destrier scioglier dal carro vietasti a Cintia, e i nuzïali roghi e l’ingannevol folgore io mirai, 640 e i tuoi più cari figli io ti nudrii. Così sprezzar miei doni? E pur fu visto pargoleggiare in questo seno Alcide, e spense l’onda mia di Bacco il fuoco. Mira con quante stragi al mar sen corra, 645 quai cadaveri porti il nostro fiume tutto d’armi coperto e di cataste di morti e di malvivi: entro il suo seno tutta la guerra è accolta; ogni onda spira sceleraggini e lutto; e in cima e al fondo 650 vagando vanno alme novelle, e meste adombrano spirando ambe le sponde. Pur quel son io che i sacri gridi accolgo delle Baccanti; e i tirsi imbelli e i corni mondar ne soglio con mie pure linfe. 655 Ed or ristretto da cotante stragi angusta strada mi procaccio al mare. Non dell’empio Strimon corrono i fiumi di maggior sangue, nè rosseggia tanto, qualor Marte combatte, Ebro spumoso. 660 Nè te muove a pietà l’onda nudrice, nè le tue mani a l’armi irrita, o Bacco? Così gli avi ti scordi? O in orïente meglio Idaspe si doma? E tu, o crudele, che vai altiero delle imbelli spoglie, 665 e d’un fanciul nell’innocente sangue trionfi e godi; non farai ritorno da questo fiume a la crudel Micene, nè vincitore a l’Inaco potente, onde partisti, s’io mortal non sono, 670 o uno tu degl’immortali Numi. - Così sdegnoso parla, e in un istante dà il segno a l’onde: Citerone alpestre manda gli aiuti, e le sue antiche nevi, alimenti del verno, in giù discioglie. 675 Tacite forze per occulte vie manda a l’Ismeno il suo germano Asopo, e somministra l’onde, ed egli stesso della terra le viscere ricerca, e fuor ne caccia i stagni e i tardi laghi 680 e le pigre paludi; indi a le stelle avidamente il volto inalza, e i nembi umidi in seno attragge e l’aria sugge, e tumido soverchia ambe le sponde. Ippomedonte, che già mezzo il fiume 685 varcato avea solo coll’acqua a’ fianchi, si maraviglia come tanto cresca la torbid’onda, e che le braccia e ’l petto omai gli copra, e sè minor conosce: gonfiansi i flutti d’ogni parte, e sorge 690 animosa tempesta al mar simíle, quando assorbe le Pleiadi, e Orïone torbido oppone a’ timidi nocchieri. Non altrimenti del marino assalto scuote il fiume tebano Ippomedonte, 695 e più s’estolle nello scudo urtando, e in quello infranto si dilata e spande, e con onda maggiore indi ritorna; nè contento di ciò svelle ed atterra gli arbuscei da le ripe e i vecchi tronchi, 700 e solleva dal fondo arena e sassi. Sta inegual la tenzon fra l’uomo e ’l Fiume, e la Divinità n’ha sdegno e scorno; perchè non cede il fier, non si ritira, nè paventa minacce, e a’ flutti irati 705 va incontro, e a’ fiumi torbidi e sonori oppon lo scudo e li respinge indietro. Sotto il terren gli sfugge, ed ei sta immoto sovra i lubrici sassi, e le ginocchia tende, e si ferma sul fallace limo, 710 ed oltraggiando parla: - E donde Ismeno questo nuovo furor? E da qual vena, servo d’imbelle Dio, traesti l’acque? O sol avvezzo a rimirare il sangue tra’ femminili cori, allor che i bossi 715 suonan di Bacco e le furenti madri svenan negli orgi trïennali i figli? - Disse: ed a lui tutto mostrossi il Fiume, torbido il viso di stillanti rivi ed offuscato di nuotante arena; 720 nè co’ detti infierì: ma dell’opposto guerrier tre volte e quattro il petto audace, quanto il suo Nume e l’ira sua valea, alzandosi percosse. Allora il passo ritrasse Ippomedonte, e da la mano 725 cadde lo scudo, e tardi volse il tergo. L’incalzan l’onde, e trionfante il Fiume, mentr’ei vacilla, il preme. I Tirii d’alto scaglian d’aste e di sassi orrido nembo, e gli vietano irati ambe le sponde. 730 Or che farà d’acque assediato e d’armi? Non può fuggire il misero, e gli è tolto morir di grande e memorabil morte. Stava frassino eccelso in su l’erbose ripe pendente fra la terra e l’acque, 735 ma più a l’acque proclive, e di grand’ombra copriva il fiume. A questo Ippomedonte stende l’adunca mano, e vi si appiglia (qual rimangli altra via per gire a terra?) ma nol sostien la pianta, ed in giù tratta 740 dal maggior peso, che l’aggrava in cima, da le radici, con cui parte al fiume s’attiene e parte a l’arido terreno, divelta cade, e seco trae la ripa, e ’l trepido guerrier, come se un ponte 745 su lui cadesse, col suo peso opprime. Vi accorron l’onde, ed un tenace limo nel fondo siede, e i vortici profondi fan maggior la vorago: e già le spalle, già il collo del guerrier co’ tortuosi 750 gorghi circonda. Allor si dà per vinto il lasso Ippomedonte, e così parla: - Non ti vergogni, inclito Marte, in questo fiume sommerger mia grand’alma? Io dunque quasi vile pastor, cui d’improvviso 755 la piena oppresse, andrò cibo de’ pesci dentro i torbidi laghi e i pigri stagni? Degno dunque non fui morir di ferro? - Da queste preci al fin mossa a pietade Giuno parlò al Tonante: - E sino a quando, 760 gran genitor de’ Numi, i mesti Argivi opprimerai? Già Pallade ha in orrore il suo Tideo; già per lo vate assorto tacciono in Delfo i tripodi d’Apollo: or ecco Ippomedonte, a cui Micene 765 fu culla ed Argo è patria ed io son Nume, (così a’ miei son fedele?), andrà de’ mostri marini in preda? Tu l’esequie estreme, tu pur le tombe promettesti a’ vinti. Che gioveranno a lui l’attiche fiamme 770 e i roghi di Teseo? - Non sprezzò Giove della consorte i giusti voti, e a Tebe volse placido il guardo, e al primo cenno calmârsi l’onde e si abbassaro i fiumi. Scoprîrsi allor del cavalier ferito 775 l’esangui spalle e il traforato petto; siccome avvien se le procelle scosse dallo spirar d’impetuosi venti cessano in mar, sorgon gli scogli in alto, e la terra cercata a’ naviganti 780 si mostra, e l’onda da i sbattuti sassi al fondo cala. E già preme il terreno: ma che pro, se di strali un folto nembo d’ogni parte il circonda, ed a le membra non ha riparo, e tutto esposto è a morte? 785 Gli si apron le ferite, e ’l congelato sangue, che istupidì sotto dell’onde, a l’aria aperta esposto, ogni meato scioglie a le vene e giù piove a torrenti, e sotto gli vacilla istupidito 790 dal gel del fiume il mal sicuro piede. Al fin ei cade; quale in giù ruina nell’Emo tracio, d’Aquilone a’ fiati, o perchè le radici il tempo edace le abbia corrose, altera quercia e grande, 795 ch’alzò il capo a le stelle, e di sua mole molt’aria sgombra: mentr’essa vacilla, il pian la teme e il monte, e da qual parte cada non sanno, e quali selve opprima. Non v’ha però chi di toccarne ardisca 800 l’elmo, la spada; e a gli occhi propri appena prestano fede, ed han terror mirando quel cadavere immenso, e insiem ristretti coll’armi in pugno a lui si fan vicini. Ma giunge al fine Ipseo, che da la mano 805 (che morta ancor l’impugna) il ferro tragge, e l’elmo scioglie da la torva faccia: indi in cima dell’asta a’ suoi Tebani alto lo mostra, e così fiero esclama: - Questi è il feroce Ippomedonte, e questi 810 dell’immane Tideo l’ultor temuto e il domator del nostro sacro fiume. - Il fiero Capaneo da lungi il vede, e il dolor reprimendo, immensa trave libra col braccio, e la sua destra invoca: 815 - Siimi propizia, o destra, a me sol una presente in guerra, e inevitabil Nume; te sola adoro, e ogni altro Nume sprezzo. - Dice: ed ei stesso il proprio voto adempie. Vola l’asta tremenda, e per lo scudo 820 passa l’usbergo, e mortalmente giunge là dove l’alma nel gran petto ha sede. Allor sen cade Ipseo con quel fragore ch’eccelsa torre da più colpi scossa in giù ruina e al vincitor superbo 825 lascia della cittade aperto il varco. Capaneo gli sta sopra; e, - Della morte non ti fraudo l’onor (dice): rimira quello che ti ferì, quello son io. Or va contento, che riporti il vanto 830 sopra l’altr’ombre. - Indi la spada e l’elmo ripiglia, e a questi il vinto scudo aggiunge, e su l’esangue Ippomedonte in alto le tien sospese; e, - Queste prendi (grida) spoglie tue, spoglie ostili, inclito duce; 835 ben si daranno al cenere famoso gli onor dovuti, e tua magnanim’ombra non se n’andrà raminga e senz’avello: ma intanto che tu aspetti e fiamme e rogo, te con quest’armi, di sepolcro invece, 840 vendicatore Capaneo ricopre. - Così a vicenda fra i Tebani e i Greci dubbioso Marte dividea le stragi. Piangono questi Ippomedonte fiero, e quelli Ipseo non men feroce e pronto, 845 e dal dolore altrui traggon conforto. Dell’arcade garzon la fiera madre turbata intanto da funeste larve, de’ notturni riposi in mezzo a’ sonni, col crin disciolto e colle piante ignude 850 (secondo il rito) e prevenendo l’alba, se ne gía del Ladone a l’onde algenti, per purgar dentro il fiume il sonno infausto. Perocchè fra i sopor dell’atre notti, fatte inquïete da’ pensier molesti, 855 vedute avea cader da’ sacri altari quelle che di sua man spoglie vi appese, e sè da’ boschi esclusa e dalle Ninfe cacciata in bando andar raminga e sola ad ignoti sepolcri errando intorno. 860 Spesso nuovi trofei tornar dal campo, e l’armi e ’l destrier noto ed i compagni del figlio vide, e mai non vide il figlio: talor le parve la faretra a terra da le spalle caderle, e la sua immago 865 e i suoi simulacri arder nel fuoco. Ma presagio più certo e più funesto recò a la madre quella stessa notte, che tutta a lei mise in tumulto l’alma. Sorgea d’Arcadia negli ameni boschi 870 quercia famosa e di felici rami, che scelta fuor da le minori piante aveva di sua man sacra a Dïana, e col suo culto l’avea fatta Dea. A questa essa appendea sovente l’arco 875 e i rintuzzati dardi, e de’ cinghiali le adunche zanne, e de’ leoni uccisi le vuote spoglie, e de’ fugaci cervi pari a le selve le ramose corna. Appena a’ rami luogo resta, tante 880 la circondan per tutto agresti spoglie, e ’l balenar di ferri e d’armi appese toglie della verd’ombra il grato orrore. A lei parea che dal cacciar le fiere scendea da’ monti faticata e lassa, 885 d’orsa feroce alto portando il teschio, terror dell’Erimanto: e quivi giunta vedea la pianta da reo ferro tronca giacer, scosse le chiome, ed ogni ramo stillar di vivo sangue. E a lei, che il chiede, 890 Ninfa racconta che il nemico Bacco e le sanguigne Menadi l’han svelta. Mentr’ella piange e si percuote il seno, si scioglie il sonno; essa abbandona il letto, e il falso pianto invan da gli occhi asciuga. 895 Dunque poichè attuffò, purgando il sogno, tre volte il crin nel fiume, e detti aggiunse delle madri a purgare atti le cure, dell’amata Dïana al tempio corse a lo spuntar del giorno, e lieta vide 900 starsi la selva e la sua quercia intatta. Fermossi allor sul limitar del tempio, e in cotai voci pregò il nume invano: - Vergine Dea, c’hai sovra i boschi impero, di cui le forti insegne e gli aspri studi, 905 sdegnando il sesso, oltre il costume greco sovente seguo, nè di me più fidi sono al tuo culto i popoli di Colco, nè delle scite Amazzoni le schiere; non a me i balli ed i profani giuochi 910 piacquer dell’empie notti, e benchè io giacqui contaminata in odïoso letto, trattare i tirsi e la conocchia imbelle ebbi in orrore, e nelle selve ancora restai dopo le nozze, e dopo il parto 915 vergine colla mente e cacciatrice. Nè già mi piacque entro remoti spechi celar il fallo; ma il fanciul tremante a’ piè ti posi, e confessai l’errore. Ei non mentì il mio sangue, e nelle selve 920 pargoleggiò fra gli archi, e con i pianti e con le prime voci i dardi chiese. Deh questo a me (che mai la spaventosa notte minaccia e l’inquïeto sonno?) questo, che in te fidato a le battaglie 925 con audace desio pur or sen corse, dammi, o gran Dea, che vincitore io miri tornar dal campo: e se pur troppo io chieggio, dammi almen che io lo veggia, e te seguendo, sudi dell’armi tue sotto l’incarco. 930 Fa vani, o Dea, di mie sciagure i segni. E quale han mai ragion delle tue selve le Menadi inimiche e i Dei tebani? Misera! (ahi sian fallaci i tristi augurii) perchè la quercia tua, perchè il mio sogno 935 in così fiero e infausto senso io spiego? Ma se i presagi miei veri pur sono; per lo dolor materno e per quel lume che dal fratel ricevi, io ti scongiuro, co’ dardi tuoi quest’infelice seno 940 trafiggi, o Diva, e pria ch’io la sua morte, permetti ch’egli la mia morte intenda. - Così diss’ella, e lasciò il freno al pianto, e sudar vide il simulacro algente. Lascia Trivia feroce entro il suo tempio 945 l’afflitta madre, che i suoi freddi altari terge col crin disciolto, e addietro lassa velocemente Menalo sublime, ch’alza fra gli astri la frondosa fronte; e per quella del ciel strada più interna, 950 che sol risplende a’ Numi, il volo drizza a le mura di Cadmo, e d’alto scorge sotto a’ suoi piedi quanto è vasto il mondo. E di già mezzo il suo cammin varcato tra i verdi colli di Parnasso avea, 955 quando incontrò il fratel mesto in sembiante da risplendenti nubi intorno cinto. Facea ritorno da’ tebani campi piangendo invano il suo gran vate assorto; all’unïon de’ due maggior pianeti 960 rosseggiò il cielo, e a quel divino incontro splendette accesa di più viva luce d’ambo la chioma, e negli alterni amplessi ripercossi suonâr faretre ed archi. Febo parlò primier: - So ben, germana, 965 che all’arcade garzon, che troppo audace le tirie schiere e le feroci pugne tentare osò, brami recar salute: la fida genitrice è che ten prega. Deh così nol vietasse il fato avverso! 970 Ecco che io stesso del fedel mio vate senza riparo (oh mia vergogna eterna!) l’armi e le sacre bende al vuoto Inferno discender vidi, e lui l’avide luci (precipitando) in me tenere immote; 975 nè il carro io gli ritenni, e non gli chiusi la gran vorago. O veramente fiero, e d’esser adorato indegno Nume! Non vedi, o suora, come stanno mesti i nostri spechi e taciturni i tempii? 980 Questo sol dono al mio fedele io rendo. Cessa tu ancor da la tua vana aita, sorella, e non pigliar fatica indarno. Immutabile è il Fato, e già al suo fine tende Partenopeo, nè sono oscuri 985 gli oracoli fraterni, e non t’inganno. - - Ma di gloria colmar quell’infelice (rispose allor la vergine turbata) e dar alcun sollievo alla sua morte mi fia permesso. Le dovute pene 990 non fuggirà il crudel che l’empia mano profanerà nell’innocente sangue. Anche a’ miei dardi incrudelire è dato. - Parte, ciò detto, ed al fratel le gote più scarsa porge, e a Tebe irata vola. 995 Intanto più crudel ferve la pugna per li due regi estinti, e la vendetta maggior furor d’ambe le parti accende. Piangono Ipseo i Tebani; e maggior duolo a’ Greci apporta Ippomedonte estinto; 1000 vengono a stretta pugna; un solo ardore i cuori accende: uccidere o morire, e trar l’ostile o dare il proprio sangue. Non si arretran d’un passo, e corpo a corpo s’azzuffano rabbiosi, ed a la fuga 1005 antepongon la morte. In su la cima del gran monte Dirceo fermossi allora Cintia discesa per la via de’ venti. La sentirono i colli, e tremò il bosco in riveder la conosciuta Dea, 1010 che in mezzo a le sue piante, ignuda il petto, con saette crudeli a la feconda Niobe spense la prole, e stancò l’arco. Scorreva intanto per le schiere ostili Partenopeo per poche stragi altero 1015 su cacciator destriero, a le battaglie non uso e appena a’ primi freni avvezzo, cui ricopriva il maculoso vello di tigre ircana e colle zampe aurate flagellava le spalle: il collo in arco 1020 curvo e sottile, e la superba chioma ristretta in nodi, e gli pendean sul petto bianchi monili di ritorti denti (trofeo de’ boschi) dell’uccise fiere. Ei con nodo legger succinto il fianco 1025 del manto d’ostro doppiamente tinto, e della ricca d’ôr lucida veste (unico della madre almo lavoro), pender lasciava dal sinistro arcione il forte scudo, e del suo grave brando 1030 con aurea fibbia alleggeriva il peso. Che grato udir lo strepito con cui la vagina, il pendaglio e la faretra eco fanno al fragor delle catene, che, del collo a difesa, in su le spalle 1035 gli cadon da la cima dell’elmetto! Baldanzoso scuoteva egli talora le piume del cimier di gemme adorno. Ma quando, stanco di pugnar, dal volto di sudor molle la celata scioglie 1040 e fa vedersi col bel capo ignudo, dolce allora il veder scherzar col vento la bionda chioma, e di più viva luce sfolgoreggiare le pupille accese e le guance di rose, in cui non spunta 1045 (bench’ei sen dolga) il primo pelo ancora. Egli di sua beltà sprezza le lodi, e il volto inaspra; ma nel vago aspetto leggiadra è l’ira, e venustà gli accresce. Cedongli volontari, e altrove i dardi 1050 in lui drizzati volgono i Tebani, rimembrando i lor figli, ed egli ingrato li tenta, e l’aste vibra, e ognor più fiero contro chi gli perdona incrudelisce. Mentr’ei combatte e più leggiadro appare 1055 tra la polve e il sudor, da’ vicin colli lui vagheggiando le sidonie Ninfe lodanlo a prova, e co’ sospiri interni van traendo del cor le occulte brame. Mentre Cintia ciò vede, e in sen le serpe 1060 pietoso duolo, le virginee gote contamina di pianto, e così dice: - E qual poss’io da la vicina morte, tuo fido Nume, ritrovarti scampo? Oh troppo audace e misero fanciullo! 1065 Tu pur volesti della madre in onta gire a sì crude guerre? In te cotanto poteo virtù immatura e ardente brama di glorïoso e memorabil fine? A te i menali dunque ombrosi boschi 1070 d’anni tenero ancor parvero angusti? Tu, che senza la madre infra i covili delle fiere sicuro andavi appena, nè forza avevi a maneggiarne l’arco e le agresti saette; or che si lagna 1075 la misera, e rinfaccia i sordi Numi, e stanca i nostri tempii e i muti altari: tu godi altero infra le trombe e i gridi delle battaglie, e mentre te non curi, tu morrai solo a l’infelice madre. - 1080 Ciò detto, cinta di purpurea nube (per non essere almen discesa indarno ad onorar del giovane la morte) ov’è lo stuol più folto ella si mesce; ma pria da la faretra i lievi dardi 1085 toglie al folle garzone, e la rïempie di celesti infallibili saette. Quindi il cavallo e ’l cavaliero asperge d’ambrosia, e vuol che sino al punto estremo a’ colpi ostili impenetrabil resti, 1090 e i sacri carmi e i mormorii vi aggiunge ben noti a lei, che ne’ notturni tempi entro le grotte a le profane Maghe gl’insegna, e addita lor l’erbe nocive. Allor Partenopeo, tendendo l’arco 1095 scorre per tutto, nè ragion l’affrena: già la patria, la madre, e già se stesso posto ha in oblio; ma più feroce e ardito usa soverchio de’ celesti dardi. Qual tenero leon, cui nella grotta 1100 la madre arreca il sanguinoso pasto, appena sente svolazzar la giubba su l’altera cervice e torvo mira di novell’unghia il fiero piede armato, sdegna d’esser nudrito, e per li campi 1105 libero scorre, e gli antri angusti oblia. Chi potrà raccontar, giovine ardito, color che da’ tuoi strali ebbero morte? Corebo tanagreo cadde primiero, passando il dardo per angusta via 1110 tra l’orlo dello scudo e ’l fin dell’elmo; gli sgorga da la gola a rivi il sangue, e il volto acceso ha del divin veleno. Più crudelmente ad Etion trafigge tripartita saetta il manco ciglio: 1115 ei fuor la tragge insiem coll’occhio, e corre contro del feritore a far vendetta. Ma che non pon l’armi celesti? Un nuovo strale vola per l’aure, e l’altra luce colpisce, e tutto se gli oscura il giorno; 1120 egli pur segue furïoso, dove il nemico rimembra, infin che d’Ida nel cadavere urtando, inciampa e cade. Qui fra le stragi il misero si giace palpitando e fremendo, e a dargli morte 1125 e i suoi Tebani e gl’inimici invoca. D’Abante i figli a questi aggiunge; il biondo Argo chiomato, e di lascivo amor il bel Cidon dalla sorella amato. Ferì del primo il ventre, e del secondo 1130 con colpo obliquo penetrò le tempie. Là passò il ferro, e qua restâr le penne, e da due parti il caldo sangue uscío. Chi da quei dardi può fuggir la morte? Non Lamo la beltà, Ligdo le bende, 1135 nè l’età giovanile Eolo difese: nell’anguinaglia Ligdo, in volto Lamo, Eolo è ferito nella bianca fronte. Un la scoscesa Eubea, l’altro produsse Tisbe nudrice di colombe; e il terzo 1140 voi più non rivedrete, o verdi Amicle. Colpo in fallo non vibra, e senza piaga strale non parte, nè la man si stanca; ma il primo fischio d’un volante dardo segue il secondo. E chi mai creder puote 1145 che tanto faccia una sol destra, un arco? Or per lo dritto fere, ora inquïeto a destra ed a sinistra i colpi alterna. Fugge talor, ma chi l’incalza mira solo coll’arco, e i dardi a tergo scocca: 1150 e già maravigliando e mossi a sdegno s’univano i Tebani, ed Anfione, che il sangue tragge dal Rettor de’ Numi, cui fino allora erano state ignote le stragi onde il garzon rïempie i campi, 1155 primo a lui si fa incontro, e lo minaccia: - E fino a quando differir la morte speri, o fanciul, che déi lasciare in pianto e di te privi i genitori afflitti? Tanto l’ardire in te cresce e l’orgoglio, 1160 quanto fra tanti un sol guerrier non degna, teco (perchè minor) provarsi in guerra, e sei dell’ire nostre indegno oggetto. Torna in Arcadia, e in fanciullesche guerre scherza co’ tuoi compagni: in questa arena 1165 Marte ferve davvero, e non da giuoco. Che se pur brami di funesta fama ornare il tuo sepolcro e il cener freddo, ti fia concesso. Morirai da forte. - Da stimoli più gravi il sen trafitto 1170 già buona pezza d’Atalanta il figlio ardea di maggior ira, ed al Tebano, che non taceva ancor, fiero rispose: - Troppo anche tardi a Tebe l’armi io porto contro sì vili schiere. E chi è cotanto 1175 fanciul, che contro voi pugnar non possa? Non i Tebani tuoi, ma in noi tu vedi la gran stirpe d’Arcadia e il fiero seme di valorosa infatigabil gente. Ne i taciti silenzi della notte 1180 me già non partorì ministra a Bacco madre profana: di lascive mitre noi non orniamo il crin; nè con infame destra vibriamo i pampinosi tirsi. Io pe’ fiumi gelati a gir carpone 1185 fanciullo appresi, e delle immani belve osai entrar negli orridi covili. Che più? La madre mia di ferro e d’arco va sempre armata. I genitor fra voi solo sanno suonar timpani e bossi. - 1190 Più non soffrì Anfion, ma grave dardo vibrògli al viso: al balenar del ferro spaventato il destrier lanciossi in fianco, e sè da morte e il suo signor sottrasse, e cadde a vuoto il sitibondo colpo. 1195 Quindi Anfion vie più sdegnoso il ferro ignudo stringe, ed al garzon si avventa; ma Cintia allor svelatamente in campo si fe’ vedere, e al suo furor s’oppose. Tra i seguaci dell’arcade garzone 1200 stava Dorcèo menalio, e n’era amante, ma di pudico amore, a cui la madre le guerre, i suoi timori e gli anni audaci dati avea in cura dell’amato figlio. Sotto sembianza di costui la Dea 1205 così parlò: - Partenopeo, ti basti turbate aver sin qui le tirie schiere; assai per te si è fatto: a la dolente madre perdona e a’ tutelari numi. - Non piegossi il garzone, e a lei rispose: 1210 - Lascia, fido Dorceo (nè più ti chieggio) deh lascia almen che costui solo abbatta, ch’emula co’ suoi dardi i dardi miei, che come me s’adorna, e sul destriero alto s’asside e scuote il fren suonante. 1215 Mie fien le briglie, e le acquistate spoglie saranno appese di Dïana al tempio, e la faretra donerò alla madre. - Malgrado del suo duol Cintia sorrise al semplice parlar del giovanetto. 1220 La vide Citerea, che allor del cielo in parte più remota e più segreta tenea fra le sue braccia il Dio guerriero, e rammentava al suo feroce amante i nipoti d’Harmonia e Cadmo e Tebe. 1225 Prende scaltra il suo tempo, ed opportuna l’interno duol, che dentro il cuor si cela, in cotai detti fra gli amplessi esprime: - Vedi, Marte, costei fatta orgogliosa per sua verginità, che ne’ tuoi campi 1230 tra i guerrieri si mesce; osserva come e le schiere e le insegne ordina e regge. Nè contenta di ciò, di nostra gente ve’ quanti manda innanzi tempo a morte. A costei la virtù dunque è concessa? 1235 A costei è il furor? A te sol resta ferir co’ dardi le silvestri damme. - Da sì giusti lamenti il fiero Nume mosso a l’armi sen corre, e mentr’ei scende per lo vano del cielo, ha sola al fianco 1240 l’Ira: gli altri Furor sudano in guerra. Appena giunto, minaccioso sgrida la sconsolata Dea: - Non a te Giove diede le guerre, temeraria; e tosto, se tu non parti dal sanguigno campo, 1245 vedrai che a questo braccio e a questa destra Bellona stessa non può dirsi eguale. - Or che farà? Quinci di Marte il brando, quindi già colmo del fanciul lo stame la preme, e il volto del Tonante irato. 1250 Cede essa al fin da la vergogna vinta, e Marte allora infra le schiere sceglie l’orribile Driante a la vendetta. Dal torbido Orion nacque costui, e del gran genitor l’innato sdegno 1255 contro i seguaci di Dïana serba: questo è del suo furor prima cagione; quinci gli Arcadi turba, e i loro duci dell’armi spoglia: cade a lunghe file il popol di Cilene, e dell’opaca 1260 Tegea gli abitatori; e i capitani fuggon d’Epiro e le fenee falangi. Spera Partenopeo mandare a morte anche costui, e pur la destra ha stanca, nè più le forze intere; e benchè lasso, 1265 or questa turma, ora quell’altra infesta. Mille presagi del vicino fato e una tetra caligine di morte gli si presenta. Già più raro e scemo scorge suo stuolo, e il vero Dorceo vede. 1270 Sente che a poco a poco il vigor manca, e la faretra omai di dardi ha vuota; può l’armi appena sostenere, e tardi si conosce fanciul: ma quando a lui l’orribile Driante appresentossi 1275 col risplendente scudo, un tremor freddo pel volto e per le viscere gli scorse. Qual bianco cigno, che venir si vede sovra del capo il grande augel che a Giove le folgori ministra; entro le sponde 1280 vorria celarsi di Strimon sotterra, ed i timidi vanni al petto stringe. Tal di Driante in rimirar la mole l’Arcade d’ira non s’accende, e sente un insolito orror nunzio di morte. 1285 Pur l’armi appresta pallido, ed invano i Numi e Cintia invoca, e l’arco tende sordo e impotente, e la saetta appresta: tira indietro la destra, e la sinistra innanzi spinge, e le due corna unisce, 1290 e colla corda a sè già tocca il petto. Ma più veloce del Tebano il dardo vola contro il nemico, e del sonoro nervo recide l’incurvato nodo, e rende vano il colpo; e indebolite 1295 le mani, e l’arco rilassato, a terra cadono inutilmente le saette. Lascia quell’infelice e il freno e l’armi, impazïente dell’acerba piaga che nell’omero destro lo trafisse. 1300 Ed ecco nuovo stral giunge, e trapassa la delicata pelle, e le ginocchia tronca al destriero, ed il fuggir gli toglie. Ma nello stesso tempo (oh maraviglia!) cade Driante, e l’uccisore è ignoto; 1305 ma son note le cause, e gli odii antichi. Riportan mesti il lor signor ferito fra le braccia i compagni, ed ei si duole (oh semplicetta età!) più del destriero che di se stesso: sciolto l’elmo, cade, 1310 qual fior reciso, il suo leggiadro volto, e ne’ languidi lumi e moribondi spira la venustade e manca il riso. Tre volte e quattro sollevargli il capo tentâr gli amici, ed altrettante il collo 1315 ricusò sostenerlo. Il bianco petto sgorga purpureo sangue, anche a’ Tebani lagrimevol spettacolo e funesto. Tai voci infine dall’esangui labbra mandò interrotte da’ singulti estremi: 1320 - Noi già manchiam; vanne, Dorceo, e l’afflitta madre consola. Certo io so (se il vero predicono le cure) essa nel sonno, già la mia morte, o fra gli augurii intese. Ma vanne cauto, e con pietoso inganno 1325 la tien sospesa, nè affrettarti, e tosto non darle il tristo annunzio, e quando parli, guarda che l’armi essa non tenga in mano. Ma quando al fine vi sarai costretto, così parla in mio nome a l’infelice: 1330 "Madre, del mio fallir pago le pene, chè rapii l’armi ancor fanciullo, e sordo a’ tuoi consigli fui, nè mi ritenni; nè a mia salute ebbi per te riguardo, nè perdonai al tuo dolor. Tu vivi, 1335 vivi, e piuttosto il nostro ardire a sdegno muovati che a pietade, e omai deponi il superfluo timore. Invan da i colli di Liceo miri se da lungi scorga il mio drappello alzar la polve, o il suono 1340 se senta almen delle guerriere trombe. Io giaccio freddo al terren nudo in braccio; nè tu chiudermi i lumi, e almen gli estremi spirti raccor colle tue labbra puoi. Pur questo crine (ed a tagliar l’offerse), 1345 questo mio crine che tu ornar solevi contro mia voglia, o genitrice, avrai del corpo invece. A questo dona il rogo. Ma nell’esequie mie deh ti ricorda che con mano inesperta altri non osi 1350 spuntar le mie saette, ed i diletti miei cani alcun più non adopri in caccia. Quest’armi infauste nella prima guerra abbian le fiamme, o, se ti piace, in dono dell’ingrata Dïana appendi al tempio". - Sorse l’umida notte, e il Sole ascose innanzi tempo nell’esperie porte per comando di Giove. Ei già non sente delle tebane o delle argive schiere 5 pietà; ma ben gli duol di tante genti, senza colpa e straniere, il grave scempio. Per molto sangue apparve allor del campo orribil la sembianza, e l’armi sparse giaceano e i buon destrier, su cui superbi 10 andâr poc’anzi, e senza rogo e tomba abbandonati i corpi e i membri incisi. Colle lacere insegne e senza pompa si dividon le schiere, e son le porte, che fur strette a l’uscir, larghe al ritorno. 15 D’ambe le parti è lutto, e pure in Tebe senton conforto in rimirar fra i Greci gir quattro squadre erranti e senza duci, di navi in guisa in burrascoso mare prive de’ lor nocchieri, e abbandonate 20 a’ Numi, a la fortuna, a le tempeste. Quindi di non tornar entro le mura prendon consiglio, ed osservar che i Greci, contenti solo di salvar le vite, non fuggano notturni entro Micene. 25 Si dà il nome pel campo, e son le scolte per ordine disposte ed a vicenda. Fu tratto a sorte in quella oscura notte per capitan Megete, e a lui s’aggiunse spontaneo Lico; al comandar de’ duci 30 tosto s’apprestan l’armi e i cibi e i fuochi; e il Re, mentr’essi van, vie più gl’infiamma: - Vincitori de’ Greci (il nuovo giorno non è lontano, e non saranno eterne queste, che li salvâr, cieche tenébre), 35 accrescete l’ardire, e i forti petti mostrate eguali al gran favor de’ Numi. Già la gloria di Lerna è in tutto spenta, e caddero i migliori: entro l’Inferno della sua immanità porta le pene 40 il barbaro Tideo: del greco vate l’ombra improvvisa fe’ stupir la morte: gonfio è l’Ismeno delle spoglie opime d’Ippomedonte, e l’arcade garzone degno non è che fra i trofei si conti. 45 Stan nelle destre i premi: il campo ostile più non apparirà fiero e temuto per sette aurei cimieri e sette duci. Forse d’Adrasto la cadente etade può ritenerci, o il mio fratel peggiore 50 nella sua giovanezza, o pur l’insano sconsigliato furor di Capaneo? Che più dunque si tarda? Ite, cingete di vigilie e di fuochi i vinti Argivi; nullo di essi timor: voi custodite 55 le vostre prede e le ricchezze vostre. Con tali detti i cuor feroci accende, e le fatiche a rinnovar gli spinge. Di polve aspersi, di sudor, di sangue molli e deformi ancor, tornano indietro. 60 Degli amici gl’incontri e le parole soffrono appena, e le consorti e i figli respingono da i baci e da gli amplessi. Divisi in turme, d’inimici fuochi cingon per ogni parte il greco vallo, 65 a fronte, a tergo, a l’uno e a l’altro fianco. Così rabbiosi ed affamati lupi, che invan le prede ricercâr ne’ boschi, dal digiun spinti a le rinchiuse stalle vengon fra l’ombre in isquadron ristretti. 70 Il belar degli agnelli e il pingue odore, che fuori n’esce, le narici pasce di vana speme; e poi ch’altro non ponno, provan contro le porte e l’unghia e il dente. Ma d’altra parte delle donne d’Argo 75 la supplichevol turba a i patrii altari prostrata implora da Giunone aita ed il ritorno de’ consorti amati. Tergon le pinte soglie e i freddi marmi col crin disciolto, ed adorare i Numi 80 insegnano a’ lor figli. Il dì si spense, ma non cessaro i voti, e nella notte vegliâr nel tempio e rinnovaro i fuochi. A la pudica Diva offriro in dono, degno di lei, regio purpureo manto, 85 di cui mano infeconda, o dal marito donna disgiunta non tessè il lavoro: in varie guise ricamato e pinto l’ostro risplende, e folgoreggia l’oro. Ivi ella stessa non sposata ancora, 90 ma promessa al Tonante, ed inesperta di talami e di nozze, e che ben tosto sta per deporre di sorella il nome, cogli occhi bassi semplicetta e schiva liba di Giove pargoletto i baci, 95 da’ suoi furtivi amor non anche offesa. Di cotal veste il simulacro santo ornâr le donne, e fra i singulti e i pianti dal profondo del cor così pregaro: - Mira, del ciel Regina, i tetti, e mira 100 della tebana meretrice il nido. Struggi l’infame tomba, e contro Tebe scaglia (chè ben lo puoi) fulmin novello. - Or che farà? Sa ben che a’ Greci suoi sono i fati contrari e Giove irato, 105 nè vorrebbe però mostrarsi ingrata a tante preci, a così ricchi doni. Ma il tempo a lei l’occasïone appresta di memorabil fatto: essa da l’alto vede le chiuse mura, e il vallo argivo 110 di vigilie e di fuochi intorno cinto. Punta da sdegno inorridì il sembiante, e scosse il crine e il venerabil serto. Non di tant’ira ardè, quando d’Alcide Alcmena vide avere il sen fecondo; 115 nè quando, suo malgrado, i due gemelli innalzò Giove a popolar le stelle. Dunque risolve di mandare a morte da intempestivo sonno i Tirii oppressi. Iride chiama, e degli usati raggi 120 fa che si cinga, e quanto occor le impone. Ubbidì a’ cenni la leggiadra Dea, e giù dal cielo sì strisciò per l’arco. Colà dove la notte alberga e giace fra caligini eterne, ove han soggiorno 125 gli orïentali Etiopi, s’innalza un pigro e a gli astri impenetrabil bosco. Sotto fra cave rupi un antro s’apre nel vuoto monte. All’ozïoso Sonno ivi la reggia ed il sicuro albergo 130 diè la stanca natura; in su le soglie stan la Quïete opaca, e il lento Oblio, e la languida Ignavia e non mai desta: gli Ozi e i Silenzi senza batter penne siedon muti nell’atrio, e lungi scacciano 135 i rumorosi Venti, e foglia in ramo non lascian che si scuota o che augel canti. Ivi del mar, benchè per tutti i lidi romoreggi d’intorno; ivi del cielo non si sente il fragor: lo stesso fiume, 140 che va scorrendo le vicine valli, vicino all’antro, infra gli scogli e i sassi il mormorio sospende: i neri armenti a terra stesi, ed ogni gregge giace; languiscono d’intorno i nuovi fiori, 145 ed un terreo vapor l’erbette aggrava. Egli riposa sopra molli coltri, scarco di cure, nel muscoso speco di sonnacchiosi fior tutto coperto: gli trasudan le vesti, e il corpo pigro 150 scalda le piume; un vapor nero esala da l’anelante bocca; il crin sostenta, da la sinistra tempia in giù cadente, con una mano; abbandonato il corno cade da l’altra; misti a’ falsi i veri, 155 a’ tristi i lieti stangli intorno i Sogni di varie innumerabili sembianze, tenebroso corteggio della Notte: sono a guisa di pecchie a’ travi affissi, o su le porte, o stanno al suol distesi. 160 Pallida incerta luce intorno a l’antro moribonda s’aggira, e moribonde son le lucerne, che al primiero sonno con tremolante luce invitan gli occhi. Da le cerulee sfere in questa grotta 165 scese la vaga Dea fregiata e pinta di ben mille colori: al suo passaggio si rischiarano i boschi, e si rallegra l’ombrosa Tempe: il sonnacchioso albergo da’ rai percosso de’ lucenti globi 170 dal sopor si risveglia e si riscuote. Non però si risente il pigro Sonno a la luce, al rumore ed a la voce, ma nello stesso modo e russa e giace: finchè con tutti i rai nelle pupille 175 oppresse e gravi lo ferì la Dea: indi in tal guisa a favellar gli prese: - O Sonno, o placidissimo fra i Numi, la de’ nembi regina e produttrice Giunone a te mi manda, e vuol che gli occhi 180 delli sidonii duci e della fiera gente di Cadmo in gran letargo opprima: dell’empia gente che, superba e gonfia dell’esterno trionfo, il vallo argivo osserva e cinge, e le tue leggi infrange; 185 non ricusar di tanta Diva i preghi: rari son questi onori, e ben tu puoi per lei sperar renderti amico Giove. - Così dice, e lo sgrida, e perch’ei senta, tre volte e quattro gli percuote il petto. 190 Egli a’ comandi, sonnacchioso e ottuso, solo col capo d’ubbidir fa cenno. Iride allor da quell’oscura grotta esce aggravata da’ vapori, e i rai umidi e quasi spenti accende al giorno. 195 Il Sonno intanto accelerando i passi, e delle tempie dibattendo i vanni, fatto del manto un seno, entro v’accoglie le fredde nebbie dell’ombroso cielo; poi taciturno va per l’aria a volo, 200 e già tutto sovrasta a i tirii campi. Al grave respirare, al pigro fiato cadono al suol distesi augelli e fere e greggi e armenti, e ovunque ei gira il volo, languido nel suo fondo si ritira 205 il mar da scogli, ed ha co’ venti pace: van più lente le nubi, e le alte cime piegan le selve, e fur veduti a terra cader molti astri dal sopito cielo. A l’improvviso orror si accorse il campo 210 dell’arrivo del Nume, e i gridi e i fremiti del vulgo militare a poco a poco andâr cessando, e si abbassâr le voci. Ma poi che tutto si posò su loro coll’umid’ale, e che distese l’ombre 215 non mai più dense nelle aonie tende, si aggravâr gli occhi, e s’inchinaro i colli, e restâr tronche le parole a mezzo; indi gli scudi rilucenti e i pili cadder di mano, e sovra il petto i capi: 220 e già tutto è silenzio, e il campo tace: più non veggonsi in piedi i buon destrieri, e un cenere improvviso i fuochi estingue. Ma sovra i mesti e timorosi Greci tanta quïete non diffuse il Sonno; 225 e la forza piacevole del Nume, per la notte vagante, i nembi oscuri allontanò da’ padiglioni afflitti. Stan d’ogni parte in arme, ed hanno a sdegno l’indegna notte e i vincitor superbi. 230 Quando Tiodamante, il petto invaso e da’ Numi agitato, ecco repente s’accende d’un furor che il preme e sforza con orribile strepito e tremendo a rivelare i fati; o in lui Giunone 235 tai sensi infonda, o al vate suo novello benigno i detti ispiri e arrida Apollo. Terribil nella voce e nell’aspetto se ne va in mezzo al campo impazïente del Nume, che l’invade e che ’l rïempie, 240 di cui non è capace il petto angusto. Stimolato dal Dio suda ed anela, e l’interno furor nel volto appare: talora impallidisce, e talor tinge d’incerto sangue le tremanti gote; 245 travolge gli occhi, e l’agitato crine misto a le bende gli flagella il capo. Tal dagli aditi orribili e tremendi Cibele tragge il sanguinoso frige, e delle braccia lacerate e incise 250 le ferite nasconde: egli col pino percuote il petto, e la sanguigna chioma agita e scuote, e delle piaghe il duolo disacerba col corso; i prati intorno n’hanno terrore e il pino stesso asperso 255 di sangue, ed i leon traggono il carro con maggior fretta attoniti e confusi. Giunge egli intanto al venerando ostello, ove stanno le insegne, e del concilio nella sala più interna, ove dolente 260 per tante stragi, ed i perigli estremi esaminando, invan consulta Adrasto. Siedono a lui d’intorno i nuovi duci più congiunti a gli estinti, e gli alti scanni vedovi fatti di sì grandi eroi 265 occupan mesti, ed han dolor che a tanto onor gli abbia innalzati un tanto danno. In cotal guisa se interrompe il corso, morto il primo nocchier, vedova nave, tosto prende il timon colui che in cura 270 avea la prora o il fianco, e ne stupisce lo stesso legno abbandonato, e tardi ubbidiscono vele, arbori e sarte; e il Nume tutelar non siede al fianco dell’inesperto condottier novello. 275 Ma il vate intanto i dubbïosi Achivi in questi detti a miglior spene accende: - Gli ordini venerabili de’ Numi e i lor consigli vi portiamo, o duci: nostre non son le voci: a voi favella 280 quegli a cui mi donaste, e le cui bende, vostra mercè, lui consentendo, io cingo. Questa mandano a noi notte opportuna a le grand’opre ed a le insidie i Numi; la virtude c’invita, e da noi chiede 285 la Fortuna le destre: in grave sonno posa l’oste tebana; or vendicate gli estinti regi e l’infelice giorno. Su via l’armi rapite, e delle porte i ritegni spezzate; in questa guisa 290 appresterem degni sepolcri e roghi a i corpi esangui de’ compagni uccisi. Io certo vidi nell’esterna pugna, quando più afflitte eran le cose e il tergo davamo a’ vincitori, io vidi (e il giuro 295 per i tripodi sacri, e per l’onore del nuovo sacerdozio) a me d’intorno volar con lieti vanni augei felici. Ma certo ora ne son. Quale discese sotterra Anfiarao, tale mi apparve 300 fra ’l notturno silenzio. I destrier soli eran tinti dall’ombre: io non vi narro notturne larve e non racconto sogni. Egli così mi disse: "Adunque invano lascerai tu che i pigri Greci (rendi 305 a me le bende e gli affidati Dei) perdan cotanta notte? o di me indegno degenerante successore! I voli così apprendesti degli erranti augelli e gli arcani degli astri? A che più tardi? 310 Su vanne, e almen di me prendi vendetta". Sì disse, e mi sembrò che a queste soglie m’incalzasse coll’asta e con il carro. Ubbidiscasi dunque a i Numi, e intanto non fia d’uopo pugnar: nel sonno immersa 315 giace la guerra, e incrudelir n’è dato: ma chi vien meco? E chi sarà che sprezzi, invitato da i Fati, in sì grand’opra fregiare il nome suo d’eterna fama? Ecco di nuovo i fausti augelli: io seguo 320 il lieto augurio, ancor che ogni altro cessi, e vado solo; ecco il suonar de’ freni di nuovo sento, e il gran profeta io veggio. - Così gridando in gran tumulto mette la notte e il campo, e già son tutti accesi 325 (qual se un medesmo Dio tutti rïempia) i maggior duci, e già son tutti mossi. Voglion seguirlo e accomunar le sorti. Trenta ei ne sceglie i più robusti e audaci, nerbo e vigor del campo. A lui d’intorno 330 fremono gli altri, e di restar negletti recansi ad onta in ozio vile e lento: altri la stirpe illustre, altri de’ suoi rammenta i gesti; altri le proprie imprese. Altri voglion che i nomi insiem confusi 335 si commettano al caso, e chiedon l’urna. Quale il signor del generoso armento colà di Foloe su l’eccelse cime, a cui son nati al rifiorir dell’anno i nuovi parti, e rinnovato il gregge, 340 gode in mirarli, altri per ardue coste gir saltellando, altri nuotar ne’ fiumi, altri emulare i genitor correndo: indi tranquillo in suo pensier rivolge quale al giogo destini, e qual sul dorso 345 vaglia a portare il cavaliero, e a l’armi qual sia nato e a le trombe, e qual prometta nell’arena acquistar le palme elee: tal era allor fra i Greci il vecchio Adrasto, nè già manca all’impresa, e così esclama: 350 - E donde in noi sì tardi e sì improvvisi scendono questi Numi? E quali siete, o Dei, che a riveder le afflitte cose d’Argo tornate? È forse il nuovo ardire una virtù infelice? O pure in noi 355 ferve l’antico sangue, e ce l’ispira degli avi nostri il generoso seme? Io certo approvo, o giovani feroci, vostro nobil tumulto e men compiaccio: ma noi tentiam notturna insidïosa 360 guerra, e convien che stiano i moti ascosi, e può la turba discoprir l’inganno. Conservate l’ardire: il nuovo giorno vendicator si appressa; allor palesi saranno l’armi, allora tutti andremo. - 365 Con tali detti li raffrena e molce. Non altrimenti avvien, quando il gran padre Eolo incatena imperïoso i venti, ch’eran già pronti a por sossopra il mare, nell’antro noto, e con il sasso chiude 370 la porta e lor divieta ogn’altra strada. Sceglie allor per compagni a l’alta impresa Tiodamante il gran figliuol di Alcide, Agilleo, e il saggio Attorre: è questi esperto nel facondo parlar; quegli presume 375 essere per vigor eguale al padre. Ciascun di lor dieci guerrieri ha seco, turba a i Tebani orribile e fatale, quando ancor stesser desti. Il vate intanto, che di furtivo Marte al nuovo assalto 380 sen va inesperto, le adorate frondi di Apollo scioglie e le depone in grembo del Re canuto, e il sacro onor gli affida della sua fronte, e la corazza e l’elmo, dono di Polinice, intorno cinge. 385 Ma il fiero Capaneo, che prende a sdegno usar le frodi ed ubbidire i Numi, del pesante suo brando il fianco aggrava al condottiero Attorre; ed Agilleo l’armi cambiò con il feroce Nomi. 390 Ed a che prò fra l’ombre incerte gli archi e l’armi usar dell’immortale Alcide? Ma perchè lo stridor dell’alte porte lungi non si oda, da i ripari a salti precipitaro, ond’era il campo cinto; 395 nè molto andâr, che ritrovâr distesa immensa preda. Ivi di morti in guisa, o come prima da più brandi uccisi, giacevano i Tebani. Il vate allora fatto sicuro, ad alta voce esclama: 400 - Ite, o compagni, d’inesausta strage ove il piacer vi alletta; ite, vi prego, e siate eguali al gran favor de i numi: eccovi tutte oppresse in vil letargo le inimiche coorti. Oh nostro scorno! 405 E questi osâr cinger l’argivo campo d’assedio intorno? Essi tenere a freno tanti invitti guerrieri? - Ei così dice, e il ferro tragge fulminante, e il passa sul moribondo stuol con man veloce. 410 Chi può le stragi annoverar? Chi i nomi rimembrar degli estinti? I terghi e i petti senz’ordine trafigge, e dentro gli elmi lascia rinchiusi i gemiti, e nel sangue l’anime intorno erranti insiem confonde. 415 Quegli, che giace sopra molle strato; questi che tardi cedè al sonno, e cadde sovra lo scudo, e male i dardi impugna; altri distesi fra le tazze e l’armi, altri inclinati su le targhe: come 420 ciascuno aveva in feral sonno oppresso l’infelice sopor, l’estrema notte; tutti senza pietade ei manda a morte: nè lungi è il Nume: Giuno, ignuda il braccio, curva face sospende, ed il sentiero 425 rischiara, e i cuori accende, e i corpi addita. Tacito sente che la Dea gli assiste il sacerdote, e il suo piacere occulta. Ma già lenta è la man, già il ferro ottuso, e vacillanti in tante stragi l’ire. 430 In cotal guisa fiera tigre ircana, che ha fatto scempio de’ maggiori armenti, poichè d’immenso sangue il ventre immane ha già satollo, e le mascelle stanche, e le macchie del vello immonde e guaste 435 da la putrida strage; il suo trïonfo contempla, e duolsi che mancò la fame. Tal nell’aonio strazio il sacerdote intorpidisce, e cento braccia e cento mani di aver desia; già già gl’incresce 440 perdere l’ire invano, e di già brama che sorga l’inimico a giusta guerra. Da l’altra parte li Tebani uccide d’Ercole il figlio, e da quell’altra Attorre. Ciascuna turba per sentier sanguigno 445 segue il suo duce: son di sangue infette l’erbe, e di sangue un rapido torrente scuote le tende. Fuma il suolo intorno, e l’anelar del sonno e della morte si confondono insieme. Un sol tebano 450 non v’ha che il volto innalzi, o ch’apra gli occhi, cotanto il Sonno gli avea oppressi, e solo loro apre in morte l’ecclissate luci. Vedute avea cader l’estreme stelle, per non vedere il dì, fra i giuochi e i suoni, 455 inni cantando in su la cetra a Bacco Alcmeno, allor che il collo alto sopore gli fe’ cader su la sinistra spalla e su la cetra il capo; Agilleo il fere al petto, e la man punge unita al plettro: 460 tremâr le dita, e fer suonar le corde. Turba le mense un liquor tetro, e un rio scorre di sangue, e misto al sangue il vino torna a le prime tazze, a i primi vasi. Giace abbracciato col fratel Tamiro, 465 e il fiero Attor l’uccide. Il tergo fora d’Eteclo coronato il crin di serti, Tago; Danao d’un colpo il capo tronca d’Ebro, che il fato non prevede: lieta fugge la vita sotto l’ombre, e il duolo 470 della morte non sente; in sul terreno umido e freddo infra le ruote e il carro giacea Palpeto, e i corridori suoi, che dell’erbe natie si facean pasto, spaventava russando: esala il volto 475 un sucido sudor, e ferve e anela suffocato nel vino il grave sonno: ecco di lui, che giace, entro la gola Tiodamante il ferro immerge; il sangue il vino espelle, ed il russar gli tronca: 480 forse presaga la quïete a lui e Tebe e il vate avea mostrato in sogno. La quarta parte del notturno corso restava ancora, allor che di rugiade il cielo i campi irrora, e molte stelle 485 perdono il lume, e da più ardente carro il carro di Boote in fuga è posto. Nè più che far lor rimaneva; quando il saggio Attorre al sacerdote vôlto: - Deh basti (disse) l’insperata gioia 490 al greco campo; nè pur un da morte scampò, cred’io, fra tanta gente; solo se alcuno fra i cadaveri e fra ’l sangue non si celò, per conservar la vita. Pon modo a la fortuna; i rei Tebani 495 hanno anch’essi i lor Numi, e forse i nostri, omai stanchi, da noi prendon congedo. - Ubbidì il sacerdote, e al cielo alzando le sanguinose mani, orò in tal guisa: - Queste, che tu additasti, eccelse spoglie, 500 premi della tua notte, immondo e tinto di sangue ancora (perocchè al tuo Nume fei sacrifizio), io sacerdote fido e de’ tripodi tuoi guerrier feroce, a te, gran Febo, ora consacro in dono. 505 Se a’ tuoi cenni ubbidii, se il tuo furore sostenni, deh sovente in me ritorna e la mente m’infiamma. Or noi ti diamo crudele onor di sangue e d’armi tronche; ma se avverrà che le paterne case 510 noi rivediamo e i sacri tempii tuoi, memore allor del voto, o licio Apollo, da noi chieder potrai cotanti doni a le tue sacre soglie, e tanti tori, quanti per nostra man giacciono estinti. - 515 Tacque ciò detto: e i forti suoi compagni ei richiamò da la felice impresa. Eran fra questi il calidonio Opleo e l’arcade Dimante, ambi a’ lor Regi grati, ed ambi compagni, ed ambi a sdegno, 520 dopo la morte loro, avean la vita. Opleo a Dimante favellò primiero: - Dunque, o caro Dimante, a te non cale dell’Ombra errante del tuo Rege estinto? Del tuo signor, che forse è fatto preda 525 delli cani di Tebe e degli augelli? E che di lui riporterete indietro a i patrii Lari? Ecco la fiera madre vi viene incontro, e vi domanda il figlio. Ma privo di sepolcro il mio Tideo 530 mi tien l’alma agitata, e pur le membra ha del tuo più robuste, e come il tuo degno tanto non è de’ nostri pianti, come reciso nel bel fior degli anni. Ma gire io voglio, e dell’infame campo 535 cercarlo in ogni parte, entrare in Tebe, qualor altrove ritrovar nol possa. - Ascoltollo Dimante, indi rispose: - Per queste vaghe stelle, e per l’erranti ombre del mio signor, che a me son Nume, 540 ti giuro, ahi lasso, ch’uno stesso ardore me ancora accende; ma lo spirto oppresso dal grave lutto richiedea compagno, ed or andrò primiero. - E così detto ponsi in cammino, e verso il cielo alzando 545 l’afflitto volto, in cotal guisa prega: - O Dea, che reggi il cheto orror notturno, s’egli è pur ver che in triplicate forme il Nume muti, e nelle selve scendi sotto altro volto; quel già tuo seguace 550 e de’ tuoi boschi alunno, il tuo fanciullo, (or lo riguarda almen), quello si cerca. - Abbassò il carro allor la Diva, e i corni di maggior lume accese, e con un raggio additò lor de’ regi i busti esangui: 555 scoprirsi Citerone, i campi e Tebe. Così qualor tuonando irato Giove spezza l’aria notturna, e l’atre nubi sen vanno in fuga, ed al baleno e al lampo chiari veggonsi gli astri, e di repente 560 a gli occhi appare l’oscurato mondo. Seguì di Cintia il raggio il buon Dimante, ed Opleo ancora ravvisò Tideo. Lieti da lungi de’ trovati corpi si diero il segno, e l’uno e l’altro al dolce 565 peso del suo signor, come se in vita tornato fosse o a fiera morte tolto, sottopongono il dorso, e non ardiscono di piangere o parlare. Il crudel giorno già s’avvicina, e lo minaccia il primo 570 albór che spunta. Essi sen vanno cheti a lunghi passi fra i silenzi mesti, e dolgonsi in veder pallide farsi l’ombre notturne. Oh fati invidïosi a le pietose imprese! Oh rare volte 575 fortuna amica a le magnanim’opre! Già vagheggiano il campo, ed il desio più vicin lor l’addita, e più leggero lor sembra il peso. Quando polve e nembo vidersi a tergo, e udîr fremito e suono. 580 Il feroce Anfione avea la notte per comando del Re menato in giro stuolo di cavalieri. A lui fu dato de’ Greci l’osservar le guardie e il vallo. Ved’egli, o pargli di veder da lungi 585 errar pel campo (e non avea la luce ancor del tutto dileguate l’ombre) un non so che d’incerto, e che rassembra aver moto, aver vita: alfin discerne ch’uomini sono. Allor l’insidie scopre; 590 e, - Olà fermate il passo (altiero grida) chïunque siete. - Alcun non parla, e certi si palesan nemici. Il lor cammino seguon, nè per se stessi hanno timore. Ei la morte minaccia, e l’asta vibra: 595 ma con tal arte che a ferir non vada, e d’errar finge. Iva Dimante il primo, e il balenar del ferro innanzi a gli occhi gli passò, l’abbagliò, fermògli il passo. Ma non già invano lanciar volle Epito, 600 e ferì ad Opleo il tergo, e di Tideo, che ne pendeva, trapassò le spalle. Cade il misero Opleo, nè del suo duce si scorda, nè morendo l’abbandona. Felice lui, che nel morir non vede 605 il cadavere tolto, e in questa spene scende contento infra le pallid’ombre. Si rivolge Dimante, e il mira, e sente stargli già sopra le nemiche schiere; dubbioso sta, se preghi, o se combatta. 610 L’ira l’armi propon, ma la presente fortuna vuol ch’ei preghi, e che non osi. D’ogni parte è periglio. Alfin lo sdegno differì le preghiere. Innanzi a i piedi depon l’amato corpo, e d’una tigre, 615 ond’avea ornato il tergo, il vello avvolge al manco braccio, e ignudo ferro stringe, e la fronte rivolge a l’aste, a i dardi, a uccidere e a morir pronto egualmente. Qual leonessa in cavernoso monte, 620 cui cinse il cacciator numida, sta sopra i figli con incerto core, e freme in suono di pietà e di rabbia: a saltar nello stuolo, a franger dardi furor la spinge, amor l’arresta e sforza 625 a riguardare i figli in mezzo a l’ira. E quantunque Anfion divieti a’ suoi l’incrudelir, già la sinistra mano è tronca a l’infelice, e per la chioma si trae Partenopeo supino il volto. 630 Tardi allor supplichevole Dimante abbassa l’armi, e in cotal detti prega: - Deh più miti il traete. Io ve ne prego per le cune dal fulmine percosse del vostro Bacco; per la fuga d’Ino, 635 e del vostro Palémone per gli anni. Se v’è tra voi cui scherzin figli intorno, s’evvi tra voi un padre, al giovanetto poca terra donate e poca fiamma. Deh il rimirate; il volto suo giacente, 640 il bel volto ven prega. Ah me piuttosto, me lasciate a le fiere ed a gli augelli. Io sono il reo che a guerreggiar l’indussi. - - Anzi (disse Anfion), s’hai tanto a cuore il dar tomba al tuo Re, tosto ci narra, 645 quali di guerra volgano consigli i timidi tuoi Greci, e vinti e rotti che preparino ancora, e a te la vita diasi, e la tomba al tuo signore, e parti. - Dimante inorridissi, e sino a l’elsa 650 s’immerse il ferro in sen: - Questo (gridando) sol manca a mie sciagure e a tante stragi, ch’io traditore Argo infelice infami; nulla compro a tal prezzo, e a cotal prezzo lo stesso duce mio non cura i roghi. - 655 E di gran piaga già squarciato il petto, sopra l’amato corpo si abbandona, e fra i singulti estremi mormorando, - Me (dice) almeno avrai di tomba invece. - Così de’ loro Re fra i grati amplessi, 660 questa del pari generosa coppia, l’Etolo forte e l’Arcade pietoso spiraron l’alme, e sen morîr contenti. Or voi nomi già sacri, ancor che sorga con minor plettro il nostro canto, andrete 665 vincitori degli anni e dell’oblio; nè forse sdegneranvi ombre compagne Eurialo e il troian Niso, e di lor gloria ammetteranvi degli Elisî a parte. Ma superbo Anfion del suo trionfo, 670 ad Eteòcle più d’un messo invia, che novella del fatto e della frode scoperta, e i corpi de’ già vinti Regi racquistati pur ora, a lui riporti; ed egli segue ad insultar gli Argivi 675 assediati nel vallo, alto portando a l’aste affisse le recise teste. Ma da’ ripari aveano i Greci intanto scorto Tiodamante e la sua schiera; e in vederli tornar co’ brandi ignudi 680 di fresco sangue aspersi, il gaudio nuovo ridonda sì, che contener nol sanno. Alzano d’improvviso al cielo i gridi, pendon dal vallo, e ognuno i suoi ricerca. Stuolo d’augelli non pennuti ancora 685 così in vedendo ritornar la madre, bramano andarle incontro, e da l’estremo nido sporgonsi infuori, e già in periglio stan di cadere; ma vi oppone il petto la madre amante, e co’ pietosi vanni 690 addietro li respinge e li riprende. Or mentre il fatto occulto, e del notturno Marte narran l’impresa, e in dolci amplessi stan cogli amici, e d’Opleo e di Dimante van ricercando il ritornar sì tardi: 695 collo stuolo tebano ecco Anfione; ma non andò di sua vittoria lieto gran tempo: vede d’infinito sangue fumar la terra, e ch’una sol ruina ha la sua gente in vasta strage oppressa. 700 Quello stesso terror ch’uomo sorprende del fulmine al cader, quello del duce commosse il petto, ed in un sol orrore mancârgli e voce e vista, e gelò il sangue; e mentre ei pianger vuol, lo volse in fuga 705 volontario il destriero, e lui seguendo alzaro nuova polve i suoi Tebani. Appena eran costor giunti alle porte di Tebe, quando dal trofeo notturno fatti audaci gli Argivi usciro in campo 710 su l’armi e su le membra a terra sparse. Per cataste di morti, e di mal vivi in mezzo al sangue, e cavalieri e fanti vengon correndo, e con le ferree zampe tritan l’ossa i destrieri, ed alle ruote 715 ritarda il corso il sanguinoso umore. Ma piace a i Greci l’orrido sentiero, e già lor sembra le sidonie case calcar co’ piedi e incenerita Tebe; e Capaneo gl’instiga: - Assai (dic’egli) 720 fu, o miei compagni, il valor nostro occulto, ora a me vincer giova: ora che il giorno testimonio è dell’opra. In campo aperto colle grida e coll’armi alla scoperta voi mi seguite, o giovani feroci. 725 Stanno gli augurii anche in man nostra, e il brando, qualor lo stringo, ha i suoi furori anch’egli. - Sì dice: e lieto Adrasto e Polinice vie più gl’infiamman. Privo già del Nume, men baldanzoso vien Tiodamante. 730 E già sono alle mura; ed Anfione narrava ancor la nuova strage; quando poco mancò che non entraron seco nella infelice e desolata terra. Ma Megareo, ch’alla vedetta stava, 735 - Chiudi (gridò), chiudi, guardian, le porte; il nemico c’è sopra. - Anche talora è padre di virtude un gran timore. Tosto tutte son chiuse, e mentre solo Echione a serrar l’Ogigia è lento, 740 v’entra lo stuol di Sparta. In su le prime soglie Panopeo cade: ei sul Taigeto avea il soggiorno; e seco Ebalo forte notator dell’Eurota. E tu cadesti, delle palestre onore e maraviglia, 745 Alcidamante, vincitor felice nell’arena di Neme. A te Polluce adattò i primi cesti; or tu morendo del luminoso tuo maestro miri la risplendente stella, ed ei per doglia 750 la volge altrove, e si nasconde e spegne. Te piangeran l’ebalie selve, e il lido grato tanto alle vergini spartane, e il Fiume ove cantò cigno fallace, e le Ninfe amiclee grate a Dïana, 755 e colei, che a te diè le prime leggi di guerreggiar, che tu poste in oblio l’abbia cotanto, si dorrà la madre. Marte così sul limitar di Tebe incrudelisce; ma il robusto Acrone, 760 e Alimenide in un, quei colle spalle, questi col petto le ferrate porte sforzando a gara, le serraro in fine, non senza pena; in quella guisa appunto che fendon del Pangeo gl’inculti un tempo 765 campi due buoi co’ colli bassi e ansanti. L’util fu pari al danno. Entro le mura chiuser molti nemici, e fuor lasciaro molti de’ loro; e di già il greco Ormeno in su le porte è ucciso, e mentre stende 770 Amintore le mani, e parla e prega, recisa la cervice a terra cade, e cadon seco le parole e il capo, ed il monile, onde fregiava il collo, lungi balzò su l’inimica arena. 775 E già abbattuto il vallo, e le dimore prendendo a sdegno, de i pedon le schiere erano giunte alle anfionie rocche; ma del fosso in mirare il salto immenso e il precipizio orribile e scosceso, 780 s’arretrano i destrieri, e paventando, hanno stupor ch’altri li spinga innanzi. Talor per gir fann’impeto, e talora rivolti contro il fren, giransi addietro. Altri intanto i steccati, altri i rastrelli 785 e i ferrei claustri dell’eccelse porte tentan spezzare; - altri coll’ariéte muovon di luogo gl’incantati marmi e squarciano le mura. Altri han piacere in rimirar le fiamme a i tetti accese, 790 ch’essi avventaro, ed altri a l’ime parti muovono guerra, e ricoperti e ascosi sotto densa testuggine, a le torri scavano di sotterra i fondamenti. Ma d’altra parte le sidonie genti 795 fanno a i muri corona (unica spene che loro avanza di salute), e aduste travi, e lucidi dardi, e le piombate palle, ch’ardon nell’aria, e i sassi stessi svelti da i muri, sovra i Greci a piombo 800 fanno cadere: orrido e fiero nembo piove da l’alto, e da’ forami armati volano mille stridule saette. Come talor pigre procelle mosse da i vicin colli su gl’infami scogli 805 d’Acrocerauno e di Malea sospese fermansi accolte in nembo; indi repente spezzansi, e vanno a flagellar le navi: tal da l’armi tebane eran gli Argivi da ogni parte percossi, e pesti e infranti. 810 Ma l’orribile grandine non piega gli audaci petti, ed i feroci volti sol mirano i ripari, e sol cogli occhi seguono i loro dardi, e della morte non prendon cura. Iva osservando i muri 815 Anteo correndo sul falcato carro, quando d’asta tebana impetuoso e grave colpo lo rovescia al piano. Le redini abbandona, e con un piede (orribile spettacolo di guerra!) 820 pende dal carro, e le due ruote e l’asta forman triplice solco in sul terreno. Va per la polve il capo, e resupini pendon del crin disciolti i lunghi giri. Con strepito feral la tromba intanto 825 Tebe perturba, e con un suono amaro dentro penétra a le rinchiuse porte. Si dividono in schiera i Greci, e ognuna una porta assalisce, e il suo stendardo minaccioso precede, e seco adduce 830 le sue proprie speranze e gli altrui danni. Dell’afflitta città l’orrido aspetto, di Marte stesso avria ammollito il cuore. Dolor, rabbia, timore e fuga infame in luoghi oscuri e ciechi, in varie forme 835 la sbigottita Tebe empie d’orrori. Par che sian dentro gl’inimici: ferve di tumulto ogni rocca, e per le strade s’odon grida confuse, e già davanti veggonsi ’l ferro e ’l fuoco, e nella mente 840 già si figuran servitù e catene. Quanto può mai accader, come presente lor dipinge il timore. E già le case son piene e i tempii, e le piangenti turme circondano gli altari e i Numi ingrati. 845 Questo stesso timor per tutti gli anni passa veloce: i vecchi omai cadenti braman la morte; impallidisce e suda la gioventù robusta, ed ogni albergo s’ode suonar di femminili pianti; 850 e gl’innocenti e teneri bambini piangono anch’essi, e lo perchè non sanno, ma delle madri lor seguon l’esempio. Queste instiga l’amore, e negli estremi casi freno non han più di vergogna. 855 Esse l’armi a i guerrieri, esse il valore somministrano e l’ire, esse con loro van mischiate, e gli esortano, e non cessano d’additar lor le patrie soglie e i figli. Così qualor va per rapire il mele 860 pastore ingordo, e muove l’api a sdegno, ferve l’armata nube, e col stridore s’esortano a ferire, e tutte al viso del rapitor si avventano: ma stanche l’ali nel volo, su le bionde case 865 posansi alfine, e il dolce mel rapito piangono, e al sen stringon le amate cere. Son divisi i parer del dubbio volgo; sorgon moti discordi, e già in palese (non con segreto e tacito susurro) 870 gridan che torni l’esule fratello, che gli si renda il regno. Ogni rispetto, che si aveva del Re, manca e si estingue ne’ solleciti petti. - Oramai venga, gridan tumultuando, e l’anno alterno 875 goda, e di Cadmo il naturale albergo, e le paterne tenebre saluti. - Altri a l’incontro: - Questa nostra fede è intempestiva e tarda. Egli, piuttosto che patteggiar, vincer vorrà coll’armi. - 880 Altri piangenti e in supplichevol schiera pregan Tiresia che il futuro sveli, unico in tanti mali a lor conforto. Ma sta ritroso, e tien rinchiusi in seno gli oracoli de’ Numi. - È certo (dice) 885 certo che dianzi i miei consigli attese il Re, quand’io vietai l’enorme guerra; ma pur, Tebe infelice, e s’io non parlo già vicina a perir, non fia ch’io senta la tua caduta, e colla vuota fronte 890 sorba le fiamme dell’incendio greco. Vinca in noi la pietà. Vergine, poni, poni gli altari, e consultiamo i Dei. - Essa eseguisce, e con sagace sguardo mira le punte della fiamma tinte 895 di sanguigno colore, e in due diviso ergersi ’l fuoco su gli altari, e in mezzo chiara e serena sfavillar la fiamma; indi per l’aria raggirarsi in guisa di tortuosa serpe in vari modi, 900 e mancare il rossore: il vede e il narra al genitor dubbioso, e le paterne tenebre illustra. Ed ei già buona pezza tiene abbracciati i coronati altari, e con la faccia rosseggiante e accesa 905 va bevendo il fatidico vapore. Le sue dimesse e scompigliate chiome s’ergono in alto, e l’agitato e insano crine solleva le tremanti bende. Par che gli occhi rïapra, e che sul volto 910 di giovanezza il primo fior ritorni. Alfin lo strabocchevole furore così esalò da l’infiammato petto: - Quale tremendo sacrifizio estremo chiedano i Numi, empii Tebani, udite: 915 verrà per aspra via l’alma salute. Ma di Marte il Dragon da noi richiede vittima umana, umano sangue: cada chi l’ultimo fra noi scese da l’angue. Solo a tal patto Tebe avrà vittoria. 920 Oh lui felice, che darà la vita a sì gran prezzo d’immortale onore! - Del fatidico vate al fiero altare era vicin Creonte ansio e dolente del patrio suol per lo comun periglio. 925 Quando, come da fulmine percosso, o da ritorto dardo il sen trafitto, semivivo sentì chiedersi a morte Meneceo il figlio, e glielo fa palese e gliel mostra il timor; stupido resta, 930 e intorno al cuor se gli restringe il sangue. Così percossi di Trinacria i lidi sono dal mar, se contro d’essi il spinge Austro talor da l’affricana arena. Del crudel vate, che di Febo ha colmo 935 il vasto seno, le ginocchia abbraccia supplichevole in atto, e lo scongiura a por silenzio al vaticinio orrendo; ma invan lo prega, e già la fama vola con le sacrate voci, e tutta Tebe 940 risuona già della febea risposta. Or chi aggiungesse generosi sproni e d’onorata morte almo desio nel giovane feroce (un cotal dono non scende a noi senza favor de’ Numi) 945 or tu rimembra, o Clio. Tu, che conservi ognor vivaci le memorie antiche e i secoli vetusti, e del Tonante assisti al trono, onde sì raro in terra scender suol la Virtude, o sia che Giove 950 la doni a i suoi più cari, o ch’ella scelga anime generose e di sè degne: siccome allor da le celesti piagge lieta e bella discese! Al suo passaggio dier luogo gli astri e quelle stesse faci 955 che di sua mano ella innalzò fra loro. E di già è in terra, e pur l’eccelsa fronte s’avvicina a le sfere. Il grande aspetto però mutar le piace, e la sembianza di Manto prende; onde più presto a i detti 960 Meneceo porga e a i vaticini fede. Così mutata per celar l’inganno, sparver da gli occhi l’orridezza e il fuoco; ma il primiero decoro e più soave la maestà ritien; deposto il ferro, 965 l’augural verga impugna; a terra il manto lascia cadere, e le confuse chiome attorciglia di bende, e lascia il lauro ch’era suo fregio; ma il feroce aspetto la palesa per Nume, e il passo altiero. 970 Tale già si ridea del fiero Alcide Onfale, allor che in femminili spoglie deposto del leon l’ispido vello, squarciava e manti e gonne; e colla mano troppo grave rompea cembali e fusi. 975 Te forte Meneceo trovò la Dea non di lascive fogge adorno e molle; ma qual conviensi al sacrifizio, e degno del grande onor dell’immortal comando. Della torre dircea schiuse le porte, 980 facea strage de’ Greci, e seco Emone; ma quantunque d’un sangue ambi e fratelli, Meneceo lo precede: a lui d’intorno stan cumoli di morti e di malvivi. Ogni dardo colpisce, ed ogni colpo 985 seco porta la morte, e non ancora presente è la virtù. La mano, il cuore non trovan posa, e il sitibondo brando non cessa: sembra che la Sfinge stessa, che sta in guardia dell’elmo, in rabbia monti, 990 e visto il sangue, l’animata immago fiammeggi e splenda, ed ei n’ha l’armi asperse. Quando a lui, che combatte, il braccio arresta la Diva e il brando, indi così favella: - Generoso garzon, di cui maggiore 995 Marte non vide fra il guerriero seme di Cadmo, lascia queste pugne umíli: non son degne di te vulgari imprese. Te chiaman gli astri (a maggior cose aspira) e renderai al Ciel l’anima grande. 1000 Questo sol grida, a i lieti altari intorno, il genitor; questo le fibre e i fuochi mostrano; questo sol richiede Apollo: ch’uno de i figli della Terra il sangue dia per la patria. Vola intorno il grido; 1005 Tebe n’esulta, e in tuo valor si affida. Rapisci i Numi colla mente; afferra il gran Destino, va, corri, t’affretta pria che t’involi un tanto onore Emone. - Disse; e di lui, che tarda e sta sospeso, 1010 il petto molce colla destra, e tutta in lui s’infonde, e di sè gli empie il cuore. Non così ratta la celeste fiamma serpe da le radici a l’alte cime di cipresso dal fulmine percosso; 1015 come il garzon, pieno del Nume, i sensi a gloria eresse, e s’invaghì di morte. Ma poi che vide della finta Manto le vesti e il portamento, e che da terra s’alza sovra le nubi, inorridissi. 1020 - O chiunque tu sia, Dea, che mi chiami (disse), io ti seguo, e ad ubbidir non tardo. - Parte, e partendo Agrio di Pilo uccide, che ardito l’incalzava: in su le braccia lo riportaro estinto i suoi scudieri. 1025 Dovunque passa, la festosa turba lieta gli applaude, e autor di pace il chiama; liberatore e Nume, e sproni aggiunge, e di fiamma d’onor tutto l’accende. Già con ansante corso a l’alte mura 1030 era egli giunto, ed in suo cuor godea d’aver schivato i genitori afflitti; quando ecco il padre (ambi restaro immoti ed ambi muti, ed abbassâr le fronti); ma il padre in fine lo prevenne, e disse: 1035 - Qual nuovo caso le difese soglie fa che tu lasci? E qual impresa tenti della guerra peggior? Onde, ti prego, nasce il turbato ciglio? Onde il pallore? Perchè non alzi al genitore il guardo? 1040 Ah veggio ben che la fatal risposta, figlio, a te giunse; il veggio certo: ah figlio! Per gli anni miei, pe’ tuoi, figlio, ti prego, e per lo sen dell’infelice madre, non prestar fede al vate. Adunque i Numi 1045 si degneranno nel profano petto scender d’un veglio che nel vuoto viso mostra il furore, e delle luci privo, a l’empio Edippo è nella pena eguale? Forse chi sa? Queste son frodi ordite 1050 dal crudo Re, che nell’estrema sorte teme di noi, del nostro sangue, e teme il tuo valor, che sovra ogni altro duce ti distingue e t’innalza. E questi detti non son de’ Numi (qual Tiresia vanta), 1055 ma del tiranno. Deh ritieni a freno l’animo ardente, e breve indugio accorda, breve dimora al genitor che prega. Ogni bel fatto l’impeto corrompe: così tu ancora a la canizie arrivi; 1060 tu pur sii padre, e questa stessa tema provi, che per te provo. I miei Penati non far orbi di te. Dunque cotanto de’ genitori altrui, degli altrui pegni senti pietà? Se te vergogna muove, 1065 sentila pria de’ tuoi. Questa è pietade, questo è onor vero. Ivi è sol gloria vana, e un inutile nome, e nella morte un vano fregio che si asconde e cela: nè già codardo padre è che ti prega. 1070 Va, pugna misto fra le argive schiere, il petto opponi a l’aste e a l’armi ignude, io non tel vieto: a l’infelice padre almen si dia le glorïose e belle piaghe lavarti, o figlio, e con i pianti 1075 tergerne il sangue, e rimandarti in guerra. Questo è quel che da te la patria chiede. - Così dicendo, dell’amato figlio tien colle braccia e mani e collo avvinti; ma il giovane, che a i Dei s’è offerto in voto, 1080 non cede a i pianti e a le querele, e un nuovo ispirato da i Numi ordisce inganno, con cui dal suo timore il padre affida. - In error sei, buon padre, e di mia tema la verace cagione ancor t’è ignota. 1085 Me non muovon gli Oracoli, o i clamori de i furibondi vati, o l’ombre vane. Canti le fole sue Tiresia astuto a sè e a la figlia: non se Apollo istesso, le fatidiche grotte disserrando, 1090 col suo furore m’agitasse il petto; ma dentro la città mi riconduce dell’amato fratello il caso acerbo. Langue ferito Emon da strale greco; a fatica l’abbiam pur or ritolto, 1095 fra l’uno e l’altro esercito, dal campo, ov’ei giaceva, e da le mani ostili: ma il tempo io perdo. Vanne, o padre, e prendi di lui tu cura, e di’ che mollemente la turba de i sergenti addietro il porti. 1100 Io corro in traccia d’Etïone esperto le piaghe a risanar, stagnare il sangue. - Qui tronca i detti, e fugge. Un altro orrore ingombra allor la mente, e i sensi turba dell’incerto Creonte: errando a caso 1105 va la pietà fra i due timor discordi. Ma la Parca lo sforza, e fa che il creda. Intanto Capaneo torbido e audace i Tirii assale da le porte usciti in campo aperto a guerreggiar co’ Greci. 1110 Ora le corna de’ cavalli, ed ora le squadre de i pedoni urta e scompiglia: gli aurighi abbatte, e mette in fuga i carri che passan sopra i condottier giacenti: or l’alte torri indebolisce e scuote 1115 lanciando spessa grandine di sassi: fuma nel sangue, e gli ordini perturba: lancia piombi volanti, e nuove piaghe piove sopra i Tebani; or vibra in alto con tutto il braccio fulminando i dardi. 1120 A la cima de i muri asta non giunge ch’uom non abbatta, e non ricada al suolo di fresca strage sanguinosa e tinta. Nè già più sembra a la falange argiva che Tideo manchi loro, o Ippomedonte, 1125 o il prisco vate o l’arcade garzone. Ma par che in lui tutte sien l’alme accolte di tanti eroi: così per tutti adempie. Non età, non splendor, non vago aspetto muovono il fiero cuor: del pari ei fere 1130 chi combatte e chi prega. Alcun non osa di stargli a fronte e di tentar la sorte; ma temon di lontan del furibondo l’armi, le creste e l’orrido cimiero. In parte eletta delle patrie mura 1135 fermossi intanto Meneceo pietoso già sacro nell’aspetto e venerando, ed in sembianza, oltre l’usato, augusto; qual se da gli astri pur allor scendesse. E già deposto l’elmo e a tutti noto, 1140 d’alto mirando le guerriere squadre, mise uno strido, e in sè rivolse il campo, e tregua impose a la battaglia, e disse: - Numi dell’armi, e tu, che a me concedi cader di sì gran morte, amico Apollo, 1145 quelle che patteggiai, gioia e riposo, e che comprai con tutto il sangue mio, donate a Tebe. Rivolgete indietro l’orrida guerra, e le reliquie infami. Lerna vinta ne accolga, ed il superbo 1150 Inaco abborra i figli indegni, il tergo impressi di bruttissime ferite. Ma case, campi, tempii, e moglie e figli date a i Tebani di mia morte in prezzo. Se ubbidïente vittima a voi piacqui, 1155 se del gran vate le risposte accolsi con intrepido orecchio, e l’eseguii, Tebe non lo credendo; al patrio suolo per me rendete la mercè ch’io chieggio, e mi placate il genitor deluso. - 1160 Sì disse, e l’alma generosa, e schiva già di sua spoglia e di più star rinchiusa, impazïente in libertà ripose con il lucido acciaro al primo colpo. Di sangue asperse i muri e l’alte torri, 1165 e si lanciò fra i combattenti in guisa che andò a cader su gli odïati Argivi: ma pietà, ma virtude alto su l’ali portaro il corpo, e lo posaro in terra; e già lo spirto sta di Giove al trono, 1170 ed ha fra gli astri la primiera sede. Senza contesa si riporta in Tebe il magnanimo eroe: cedero i Greci, venerando il gran fatto. A lunghe file vien ricondotto su gli altieri colli 1175 de i giovani più scelti. Il vulgo applaude, e fra gl’inni e fra i canti e i lieti gridi maggior di Cadmo e d’Anfion l’appella. Altri l’ornan di serti, altri di fiori spargon le membra; e l’onorato corpo 1180 ripongono degli avi entro la tomba. Dato fine a le lodi, in guerra riedono. Ma il miserabil genitor, che l’ira conversa ha in lutto, piange, ed a la madre è dato al fine il piangere e il dolersi: 1185 - Io dunque ti nudrii, garzone invitto, quasi madre vulgar, vittima a Tebe e capo sacro a la comun salute? E che mai feci? E perchè i Numi in ira m’hanno cotanto? Io già d’impure fiamme 1190 non arsi, o al figlio partorii nepoti. Ma che mi giova, se Giocasta i suoi parti ancor mira e capitani e Regi? Noi diam l’ostie a la guerra (e tu l’approvi, crudo Tonante), perchè i rei fratelli 1195 seme d’Edippo cangin serto e regno. Ma perchè i Numi incolpo? Ah che a la madre tu affrettasti il morir, figlio crudele. E d’onde in te questo desio di morte? Qual, Meneceo, diro furor t’invase? 1200 Qual io mi partorii per mia sciagura figli da me diversi, e appunto scesi dal Dragone di Marte e da la Terra, onde uscì l’avo di nuov’armi adorno! Quinci l’alma feroce e il troppo ardire, 1205 che racchiudevi in sen: tu da la madre nulla traesti. A volontaria morte ecco tu corri, e delle Parche in onta scendi immaturo infra le pallid’Ombre. Io per te ben temea gli Argivi, e l’armi 1210 di Capaneo; ma questa stessa mano, lo stesso ferro che a te, folle, io diedi, questi eran da temer: misera! come l’hai fino a l’elsa nella gola immerso! Non t’avrebbe il più barbaro tra i Greci 1215 di più profonda piaga il seno aperto. - Non dava fine a le querele, a i pianti quell’infelice, onde assordava il cielo. Ma le amiche e le ancelle il suo dolore van consolando, e suo malgrado al fine 1220 la riconducon nel rinchiuso ostello. A terra siede, lacerando il volto, nè ascolta i detti, e non riguarda il giorno, ma i lumi tiene affissi al suolo e immoti. Tale in scitica grotta immane tigre, 1225 cui furò i figli il cacciatore alpestre, giace lambendo il tepido covile, e l’ire scorda e il natural furore, e la rabbia e la fame; armenti e greggi passan sicuri: essa sel vede, e stassi. 1230 E a chi colmar di nuovo latte il seno? A chi portar la conquistata preda? D’armi, d’aste, di trombe e di ferite basti fin qui: di Capaneo il valore or conviensi innalzar sino a le stelle: 1235 non basta a tanta impresa il plettro usato. Uopo è di maggior suono, e che in me spiri nuov’aura, nuovo spirto e maggior fuoco da le selve d’Aonia, e il sen m’accenda. Su, tutte, o voi caste canore Dee, 1240 su, tutte, meco osate, e al gran soggetto uniam le trombe, e solleviamo il canto. O quel furor dal cupo centro uscío del baratro profondo, e contro Giove, di Capaneo seguendo il gran vessillo, 1245 rapiron l’armi le tartaree suore; o la virtù trapassò il segno, o il spinse gloria precipitosa, o colla morte prezzo mercò d’immortal fama e grande: o che lieti principii hanno i disastri; 1250 o lusinghiere son l’ire de i Numi. Sdegna il feroce omai terrene imprese, nausea l’immensa strage: e già consunte l’aste greche e le sue, lo sguardo innalza torvo, e con stanca mano il Ciel minaccia. 1255 Indi aereo cammin di cento e cento gradi fra due gran piante affissi e immoti alto sostenta, onde varcar de i venti osa gli spazi e penetrare in Tebe. Squadra con gli occhi da la cima al fondo 1260 l’eccelse torri, e orribile in sembianza di secca quercia accesa face scuote. Ne rosseggiano l’armi, e nello scudo ripercossa la fiamma, acquista lume. - Questo è, grida, il sentier per cui mi sforza 1265 la virtude a salir: là, ’ve del sangue di Meneceo son l’alte mura sparse; ora vedrem se a lor salute giovi il sacrifizio, o sia fallace Apollo. - Sì dice, e sale, e su i ripari vinti 1270 trionfante passeggia. In cotal guisa gl’immani figli d’Aloo tremendo Giove mirò, quando a far guerra a i Numi sovra sè stessa s’innalzò la Terra: nè Pelia era ancor giunto, e già toccava 1275 le timorose sfere Ossa sublime. Nell’estremo periglio delle cose, attoniti i Tebani e timorosi, qual se l’ultimo eccidio, e se Bellona, la man di face armata, entrasse in Tebe 1280 abbattendo e struggendo altari e tempii; piovon sopra di lui da i tetti a gara immense travi e smisurate pietre e ferrei globi da le frombe usciti. (Perocchè, quale nel vicin conflitto 1285 puot’esser luogo a le saette e a i dardi?) Impazïenti d’atterrarlo, in giuso versan l’intere moli e le guerriere macchine istesse. Egli sicuro vassi, e di colpi percosso il tergo e il petto, 1290 ei non s’arresta; ma per l’aere ascende sicuro sì, qual se posasse in terra, ed entra al fine con ruina estrema. Tal con assidui flutti a ponte antico assalto muove impetuoso fiume; 1295 treman le travi, e svelti i sassi cadono, ed ei con maggior impeto l’incalza, e preme e scuote: alfin l’inferma mole svelle, e seco la tragge, e vincitore respira, e corre più spedito al mare. 1300 Ma poi che torreggiò sull’alte mura, e sotto i piedi rimirossi Tebe, e tutta oppresse la città dolente coll’ombra immensa del feroce corpo, così rampogna gli atterriti cuori: 1305 - Son dunque, sono le anfionie rocche deboli tanto? Oh vostra infamia eterna! Son dunque queste le incantate pietre che menâr danze al suon d’imbelle canto? Son questi i vostri favolosi muri? 1310 Che grande impresa è l’atterrar ripari, di fragil lira a l’armonia contesti! - Così insultando il passo avanza, e abbatte e moli e tavolati e ponti, e scioglie le compagi de’ tetti, e i tetti atterra; 1315 i macigni ne prende, e li rilancia contro i sublimi tempii e l’alte torri, e Tebe pur con Tebe appiana e strugge. Fremon fra lor discordi intorno a Giove intanto i Dei Tebani e i Numi d’Argo. 1320 Già son vicini a l’ire; a tutti eguale, li mira il sommo Padre, ed egli solo li tiene a freno. Geme Bacco e duolsi. La madrigna l’osserva, e torva guata il tonante marito. - Ov’è (dic’egli) 1325 tua mano onnipotente? Ove le fiamme delle mie cune e il fulmine ritorto? Il fulmine dov’è? - Si lagna Apollo che cadan da sè eretti e tempii e case; stassi coll’arco teso incerto Alcide 1330 tra Lerna e Tebe da qual parte scocchi; l’alato cavalier d’Argo materna sente pietade; Venere deplora d’Harmonia il sangue, e sta in disparte e teme il geloso consorte, e l’ira ascosa 1335 palesa a Marte con furtivi sguardi: sgrida gli Aonii Dei Tritonia audace: Giunon sta cheta; ma il silenzio amaro scopre il furore che nel sen racchiude. Gli sdegni lor, le lor contese a Giove 1340 non giungono a turbar l’eterna pace; e già tacean le risse, allor ch’al cielo giunse di Capaneo l’orribil voce: - Nume (dicea) non v’ha che la difesa della città tremante in cura prenda? 1345 E dove siete, dell’infame Terra, Bacco ed Alcide, cittadin codardi? Ma perchè i Dei minori a guerra sfido? Vieni tu stesso, o Giove: e chi più degno è di pugnar con noi? Vedi, io già premo 1350 di Semele le ceneri e l’avello. Or ti risenti, e contro me fa pruova delle tue fiamme. O in atterrir donzelle solo sei forte, e in penetrar di Cadmo, suocero indegno, il vïolato albergo? - 1355 Avvampâr d’ira i Numi; udillo Giove, e sorridendo crollò il capo, e disse: - Dopo lo scempio de’ Giganti in Flegra, cotanto orgoglio in mortal petto vive? È dunque d’uopo fulminar te ancora? - 1360 Stangli d’intorno i Dei sdegnosi, e lento lo chiaman tutti, e le saette ultrici chiedono a prova: non ardisce Giuno confusa e mesta al crudel fato opporsi. Senza il segno aspettare, il ciel turbato 1365 lampeggia e tuona, e già le nubi insieme vanno a trovarsi, e non le spinge il vento; e già i nembi s’addensano. Diresti le tartaree catene avere infrante Iäpeto, ed alzar contro le stelle 1370 Inarime già vinta il capo altero, ed Etna vomitar turbini ardenti. Si vergognano i Dei del lor timore. Ma in cotanta vertigine del mondo, vedendo un uom pieno d’orgoglio e d’ira 1375 star contro loro e disfidarli a guerra, maravigliando stan taciti e mesti, nè dello stesso fulmine han fidanza. Già sordamente su l’Ogigia torre muggiva il cielo, e stava involto il Sole 1380 entro cieca caligine profonda; ma non teme il feroce, e afferra e scuote le mura che non vede, e quando i lampi squarcian le nubi e il fulmine discende; - Questi (grida) son ben fuochi più degni 1385 per arder Tebe, e di mia stanca face per rinforzar la furibonda fiamma: - Giove allora tuonò da tutto il cielo, e scagliò il fatal fulmine trisulco. Primo lungi volò l’alto cimiero; 1390 poi lo scudo abbronzato a terra cadde, e l’indomito corpo è tutto fuoco. Ritiransi i guerrieri, e da qual parte cada, non sanno, e con le ardenti membra quai schiere opprima. La celeste fiamma 1395 sent’ei che gli arde il petto, e l’elmo e il crine. Con disdegnosa man sveller l’usbergo tenta, e sol trova cenere e faville; e pur sta ancora, e il viso ergendo in alto, spira contro del Ciel l’alma sdegnosa: 1400 per non cadere, a l’odïate mura appoggia il petto e le fumanti membra; ma queste membra alfin disciolte in polve lasciano in libertà lo spirto immane. "Poco più che a cader tardato avesse, 1405 meritato avria il fulmine secondo". Poichè tutto il furor d’empia virtude consumò il fiero Capaneo, spirando il ricevuto fulmine, e del fuoco vendicatore lungo orribil solco 5 segnâr nel suolo le cadute membra; il turbamento delle sfere e i moti placò Giove col cenno, e con un guardo serenò il cielo, e rese il lume al Sole. Se n’allegraro i Dei seco non meno 10 che s’ei da Flegra ritornasse ansante, e vincitor con tutto l’Etna il fiero e fulminato Encelado premesse. Orrido in volto ei giace al sen stringendo un grave masso di caduta torre; 15 ma lascia dopo sè di grandi imprese memoria eterna, e degna ben che Giove d’averlo vinto si compiaccia e vanti. Quale e quanto si stende il fiero drudo vïolator dell’apollinea madre; 20 se dal petto talor sospesi in alto stanno gli augelli, hanno terror mirando le immense membra, mentre al crudo pasto riproduce le viscere infelici: tale e cotanto Capaneo prostrato 25 l’inimico terreno ingombra e adugge col sulfureo vapor del divin lampo. Tebe respira, e il supplichevol vulgo sorge da i tempii: dassi fine a i pianti; cessano i voti, e fatte già sicure 30 depongono le madri i dolci figli. Van per il campo dissipati e sparsi i Greci intanto: non le turme ostili, non mortal ferro è che li caccia. Irato veggonsi Giove innanzi: a ciascun sembra 35 sentir su l’elmo o dentro il ferreo arnese, la fiamma, il lampo, la saetta, il tuono. Gl’incalzano i Teban, l’ira e il tumulto del Cielo irato in lor favore usando. Così talor fiero leon massile, 40 se fatto scempio de’ più forti tori, sazio sen parte; da i lor antri in frotta corrono gli orsi ed i voraci lupi sicuri a divorar la preda altrui. Da una parte li preme Eurimedonte 45 di rustic’armi adorno. Agresti dardi impugna, e mesce rustical tumulto, del padre a guisa, ed il gran Pan è il padre. Da l’altra parte, superando gli anni, il leggiadro Alatreo gli Argivi incalza, 50 e del giovane padre egli fanciullo eguaglia la virtude; ambi felici, ma più felice il genitor, che tale sel vede a lato, e non sai ben nell’armi chi più risuoni, o con più forte braccio 55 chi l’aste vibri ed i volanti dardi. Fuggono i Greci in un raccolti e stretti, e fassi angusto a tanta fuga il vallo. Quali mai volgi, o Marte, aspre vicende! Ecco costor che le anfionie mura 60 salian poc’anzi; spaventati e rotti difender ponno i lor ripari appena. Così riedon le nubi, e così i venti piegan di qua di là le bionde ariste, e così copre il mar d’onde l’arena, 65 così la scopre, in sè volgendo i flutti. I giovani Tirintii imitatori del cittadin lor Nume, armati il tergo di pelli di leon, cadon fuggendo: Alcide freme in rimirar dall’alto 70 della belva nemea squarciato il dorso di brutte piaghe, e per lo campo sparse pari a le sue giacer faretre e clave. Stava d’argiva torre in su le soglie Enipeo, avvezzo con guerriera tromba 75 a concitare a le vittorie i Greci; ora con più util suono a la raccolta gl’invita, e chiama nel munito campo. Ecco uno strale il coglie, e la sinistra mano a l’orecchio inchioda. In aura sciolto 80 lo spirto fugge, ma il rinchiuso fiato nel ritorto oricalco il suono adempie. Ma nelle sceleraggini potente Tesifone crudel, che già nel sangue delle due genti esercitate ha l’ire, 85 colla tromba fraterna e col duello finir risolve la spietata guerra; nè crede bastar sola al gran delitto, se da l’inferna sede a sè non chiama in soccorso Megera, e d’ambi i crini 90 non sian congiunte le propinque serpi. Dunque in rimota valle il passo arresta, e scava il suolo col tartareo brando, ed a nome la chiama, e il maggior angue in alto ergendo del vipereo crine 95 sibila e stride; orribil segno e certo, a cui mai sordo non mostrossi Averno. Al subito fragor tremâr le sfere, la terra e il mare; e pur di nuovo Giove a la fucina etnea rivolse il guardo. 100 Udì Megera il suono. Ella si stava del suo padre Acheronte in su la sponda, mentre di Capaneo le furie e l’ire colmavano d’applauso i Numi inferni, e spegnea l’ombra spaventosa il fuoco 105 nell’onda stigia del celeste dardo. Squarcia l’oscuro chiostro, e fuor si mostra: respiran l’alme, e quanto al suo partire scema d’orrore al tenebroso Inferno, tanto manca quassù di luce al giorno. 110 Tesifone l’accolse, e l’empia destra a lei porgendo, favellò in tal guisa: - Potei fin qui del sommo padre inferno, Germana, sostenere il grande impero e gl’imposti furori io sola in terra 115 del mondo esposta all’odïato lume, mentre voi neghittose i muti Elisi reggete e l’ombre facili e ubbidienti. Mira di quante stragi è pingue il suolo, di quanto sangue fervon fiumi e laghi, 120 quante vanno alme erranti a Lete intorno: tutte son opre mie. Ma che mi vanto di sì volgari imprese? Abbiale Marte, abbiale Enío, che importa? Un fiero duce (certo so ben che nell’Inferno suona 125 di ciò la fama) tu pur or vedesti in torvo aspetto, da l’immane bocca stillar putrido sangue: io quella fui che il tronco teschio a manicar gli porsi. Lo strepito e il furor del cielo irato, 130 guari non ha, fin negli abissi è giunto. Un capo a me già sacro il fiero nembo minacciava in quel punto. Ed io fra l’armi del furibondo eroe schernia gli sdegni e le guerre de i Numi, e mi ridea 135 del fulmine di Giove e de’ suoi lampi: ma ti confesso, o suora, al lungo affanno langue l’ardire, e già la destra ho stanca: scema l’infernal face al cielo aperto, e il troppo lume ha di sopore oppresse 140 mie serpi avvezze nell’eterna notte. Tu, che ancor serbi i tuoi furori interi, le cui ceraste di Cocito a l’onda si dissetaro e rinnovaro il tosco, tu mie forze ristora e a me t’unisci. 145 Non le solite schiere e non di Marte le usate pugne prepariam: le spade (invan pietade, invan la fe’ si oppone) concitar ne convien de i due fratelli; spingerli al reo duello. Enorme, grande, 150 malagevole impresa! E pur non temo: gli odii loro, i furor daranci aiuto. Perchè sospesa stai? Su via ti scegli qual de i due più t’aggrada: ambi son nostri, ambi facili e pronti a i nostri cenni. 155 Ben ne potrian tardar gli empii consigli il vulgo incerto e la piangente madre, e d’Antigone i preghi e il parlar blando. Lo stesso Edippo, che invocar solea le nostre Furie a vendicar suoi lumi, 160 or si ricorda d’esser padre, e piange le sue sciagure in solitario luogo. Ma perchè tardo io stessa a l’empia Tebe precipitarmi ed a le note case? Tu prendi cura del ramingo, e sprona 165 l’argolico delitto, e attenta osserva che la plebe lernea, che il mite Adrasto non ti facciano intoppo. Or parti, vola, e torna a me nemica al gran duello. - Gli empi uffizi tra lor così divisi, 170 per diverso cammin presero il volo. Tal da li due del mondo estremi Poli muovono Borea e Noto aspre procelle, l’un da i monti Rifei, l’altro da l’arse libiche arene: e fiumi e mari e selve 175 fremono al gran fragore, e nubi e nembi. Piange dell’anno la matura spene l’agricoltore, e il conosciuto danno: e pur nel suo dolor vie più gli duole mirar le navi ed i nocchier sommersi. 180 Ma poi che Giove rimirò da l’alto l’enormi Dire funestare il giorno, e di sanguigne macchie il sole asperso, con turbato sembiante a i Numi disse: - Mirammo, o Dei, fin che ci fu permesso, 185 le usate pugne ed i furor di Marte, quantunque un empio osò contro me stesso di muover guerra e per mia man sen giacque. Or si prepara fra due rei fratelli, infame coppia, scelerata pugna, 190 nè pria veduta su la terra unquanco. Volgete altrove il guardo, e senza i Numi osin tentar l’iniqua impresa, e resti l’orrido fratricidio ignoto a Giove. Pur troppo vidi le funeste mense 195 di Tantalo, e mirai gl’iniqui altari di Licaone, e da Micene il carro volgere in fuga spaventato il Sole. Ed or di nuovo ha da ecclissarsi il giorno. La caligine inferna abbiasi il suolo; 200 ma ne sian mondi il cielo e i Numi eterni, nè cotanta empietà mirin d’Astrea le pure stelle, nè i ledei gemelli. - Così parlò l’onnipotente Padre, e volse gli occhi da l’infame campo, 205 privando il mondo del suo dolce lume. Già per lo campo e per le tende argive la vergine crudel d’Erebo figlia in traccia va dell’esule fratello. Il ritrovò lungo le porte, incerto 210 se con la morte o con la fuga a i mali il fine imponga, e pien d’augurii infausti. Poichè, mentre pel campo errando giva povero di consiglio, e i casi estremi volgendo in mente, della moglie Argia 215 veduta avea la sconsolata immago, con tronca face a lui mostrarsi innanzi; (tali de i Numi sono i segni, e tale gire al marito ella doveva in questa misera pompa, e con sì mesta fiamma) 220 e mentr’ei le chiedeva ove sen gisse ed a qual uopo in sì funesta guisa, sol rispose col pianto, e in altra parte volse la mano e i moribondi fuochi. Conosce ei ben che sono larve e sogni; 225 perchè come così sola e improvvisa, partirsi d’Argo e penetrar nel vallo? Ma del Fato la voce e la vicina morte egli sente; e perchè teme, il crede. Ma poi che l’empia figlia d’Acheronte 230 tre volte a lui colla viperea sferza la corazza percosse, in tutto privo di consiglio e di senno, avvampa d’ira; nè tanto pensa a racquistare il regno, quanto a le sceleraggini, a le stragi, 235 ed a lavarsi nel fraterno sangue, e a cader sopra lui. Corre ad Adrasto, e in cotai sensi torbido favella: - Tardi, e de’ miei compagni unico avanzo e della greca gente, amato padre, 240 prendo consiglio a i disperati casi. Ben io dovea, prima che il sangue argivo fosse ancor sparso, a volontaria pugna offrirmi solo, e non esporre a morte tanti invitti guerrieri, e di tai Regi 245 l’anime grandi, per ornarmi il crine di corona funesta a tante genti. Ma poi ch’aspra virtù mi spinge e sforza, siami or permesso le dovute pene pagare almen. Quell’infelice io fui 250 (e ben lo sai, ma per pietà mi celi le tue ferite, il tuo dolore interno) io quello fui che, mentre tu reggevi con dolce freno di giustizia e pace i popoli soggetti, te dal regno, 255 te da la patria feci andare in bando. Deh perchè almeno il mio crudel destino ospite non mi spinse ad altre terre! Or prendine il castigo. Il mio fratello (che, inorridisci? il mio voler è fermo) 260 chiamo a mortal düello. Invan mi tieni; lasciami; nol potrai. Non se la madre squallida e mesta e le infelice suore opponessero il petto in mezzo a l’armi; non se frenarmi il cieco padre ardisse, 265 e mi fissasse in fronte i lumi spenti, non cesserò: forse degg’io l’estremo bever del sangue greco? E a mio profitto usar le vostre stragi? Io vidi aperto il suol, nè mi lanciai nella vorago: 270 io colpevole feci il gran Tideo, e il vidi estinto. A me il suo Re domanda sconsolato il Tegeo; per me negli antri parrasii urlando va l’afflitta madre: io non seppi cader ne i procellosi 275 gorghi d’Ismeno, allor che Ippomedonte del suo sangue lo tinse, e non osai salir fra i tuoni l’alte torri, e i miei furori unir di Capaneo a i furori; e perchè mai tanto timor di morte? 280 Or si compensin le passate colpe. Vengan tutte a veder le greche madri e le vedove spose e i padri antichi, cui tolsi ogni piacere, e per me spente restâr le case: io col fratel combatto. 285 E che più resta? Mirino, e coi voti preghin vittoria a l’emulo germano. Addio dunque consorte, addio Micene sì cara un tempo, e tu diletto padre: (s’egli è pur ver che di cotanti danni 290 solo in colpa non fui, ma peccâr meco le Parche e i Numi): del mio cener freddo abbi pietade, e la mia esangue spoglia tolta a i rapaci augelli ed al fratello, riporta indietro e la rinchiudi in urna. 295 Questo sol chieggio, e la tua figlia poi ad altri dona con miglior destino. - Già tutti intorno si scioglieano in pianto; siccome allor che le bistonie nevi sciolgonsi a i lunghi Soli, Emo rassembra 300 liquefatto scemarsi, ed in più rivi scendere al piano Rodope diviso. Già con placidi detti il Re canuto cominciava a placar l’alma superba, ma con nuovo terror la sanguinosa 305 Furia ruppe i discorsi, ed in sembianza di Perinto scudier l’armi fatali e il veloce corsier tosto gli offerse, e chiuse l’elmo, ed il parlar n’escluse: indi soggiunse: - A che più far dimora? 310 su via t’affretta: in su le porte stassi il tuo fratello, e te disfida e chiama; - così, vinto ogn’intoppo, in sul destriero lo sbalza. Ei corre per l’aperto piano pallido, e a tergo si rimira l’ombra 315 della Dea, che l’incalza e che lo preme. Intanto il Re della sidonia gente vane grazie rendeva al gran Tonante per la dovuta folgore, credendo dal fatal colpo disarmati i Greci: 320 non Giove al sacrifizio, e non i Numi furon presenti. A i trepidi ministri mista la Furia profanò gli altari, usurpò i voti, e li rivolse a Dite. - O supremo de i Numi (il Re dicea) 325 da cui Tebe deriva (ancor che avvampi Argo d’invidia e la crudel Giunone) fin da quel dì che rapitor turbasti le sidonie carole, e a la fanciulla di nostra gente sopponesti il dorso, 330 dando finti muggiti in mar tranquillo; nè contento di ciò, ne’ cadmei tetti nuova moglie scegliesti, e fulminante pur troppo entrasti nelle tirie case; benigno al fine il suocero e le mura 335 a te dilette rimirasti, e tuoni di Tebe difensor con tutto il braccio, come se al cielo tuo si desse assalto. Tu fulmini poc’anzi e nubi e nembi, per noi salvar, movesti: e le tue fiamme, 340 gli stessi fuochi riconobbe Tebe, che con terrore i nostri padri udiro. Or prendi in sacrifizio il gregge e il toro a te svenato, e gli odorosi incensi; ma non è già però mortale impresa 345 renderti grazie al benefizio eguali. Te le rendan per noi Bacco ed Alcide, e ad essi, o Giove, queste mura serba. - Mentr’ei ragiona, esce dal fuoco un vampo orrido e nero, che gli fere il viso, 350 e atterra il regal serto e lo consuma: prima del colpo, di rabbiose spume il fiero toro sporca il tempio, e fugge rompendo il cerchio, e con l’insano corno l’altar percuote, e il sacrifizio turba: 355 fuggono i servi, e il sacerdote solo il Re consola, ed ostinato impone che si rinnovi il sacrifizio, e cela sotto forte sembianza il cor dubbioso. Tale sull’Eta il glorïoso Alcide, 360 benchè sentisse in sen l’occulto fuoco, e stargli a l’ossa affisso il reo veleno della biforme spoglia, invitto e forte diè fine al voto ed offerì gl’incensi. Ma poi che Nesso vincitore al fine 365 serpendo al cuor gli giunse, un alto strido mise, e fe’ tutto rimbombare il monte. Ma lasciata la porta a lui commessa Epito corre ansante sì, che appena può avere il fiato, e in male intesi accenti 370 a l’attonito Re così favella: - I voti lascia e il sacrifizio rompi, che fuor di tempo a i sordi Numi fai. Gira a le mura intorno il tuo fratello su feroce destriero, e l’alte porte 375 con l’asta insulta, e te chiamando a nome, te ad alta voce a mortal pugna appella. Piangongli dietro i suoi seguaci, ed ambi gemono i campi, e fan rimbombo e suono d’armi percosse. Ahi qual orrore! adunque 380 un fratel l’altro sfida? Adesso è il tempo, ora il fulmine tuo fora opportuno, sommo rettor de i Numi. E qual delitto fe’ Capaneo più orribile di questo? - A cotant’odio inorridissi ed arse 385 il Re di sdegno, e parte in mezzo all’ira sentì piacere del furor fraterno. Tale il giovenco vincitor, se ascolta, dopo lungo riposo, il fier rivale muggir da lungi e minacciar vendetta, 390 sta innanzi al gregge, e sbuffa d’ira e freme, e versa ardenti spume, e il suol percuote col biforcuto piede, e l’aria vana col corno fere. N’han terrore i campi, e le giovenche timide si stanno 395 ad aspettar della battaglia il fine. Molti dicono al Re: - Lascia che insulti invan le mura, e disperato e vinto osi cotanto; a i miseri sol giova gire incontro a i perigli, e con la speme 400 non librare la tema, ed i sicuri consigli odiare, ed abbracciar gli estremi: sta fermo, e fida nel tuo trono: a noi l’armi commetti, e fugherem gli Argivi. - Così dicean: ma pien di lutto e d’ira, 405 ed a parlar con libertà di guerra del tutto accinto, ecco sen vien Creonte. Gli rode il fiero cuor la rimembranza di Meneceo: nulla del padre afflitto può sedare la pena: a lui sol pensa, 410 lui colla mente abbraccia, e ognor gli sembra vederlo tutto del suo sangue asperso dalla torre lanciarsi. Onde sdegnoso ad Eteòcle, che sta ancor sospeso: - Tu pure andrai (diss’egli) o del fratello 415 e de i duci il peggior: senza vendetta non soffrirem che tu di nostre stragi goda, e de i nostri pianti, unica e infame delle furie cagione e della guerra. Assai per te pagate abbiam le pene 420 a i spergiurati Numi. Una cittade d’armi potente e di ricchezze, e piena poc’anzi pur di cittadine turbe, tu distruggesti, d’atra peste in guisa dal ciel discesa e di nemica fame; 425 e così vôta ancor l’adombri e premi? Manca la plebe al giogo: altri insepolti giaccion privi di fuoco, altri nel mare portò l’Ismeno, altri le membra tronche van ricercando; le profonde piaghe 430 altri curando van laceri e infermi. Rendi, crudele, i figli a i padri; rendi il fratello al fratello; a i tetti, a i campi rendi gli abitator, rendi i bifolchi. E dove è il grande Ipseo? Dove Driante? 435 Dove l’armi di Focida sonora e l’euboiche falangi? In giusto Marte quelli caddero almen: ma tu, mio figlio, vittima giaci dell’infame regno, d’agnello in guisa. Oh mia vergogna e scorno! 440 Tu con rito crudele a i Numi offerto, qual primizia a la guerra, e dato a morte (misero!) fosti, e costui tarda ancora? e v’è chi ’l chiama? e di pugnar ricusa? Forse l’empio Tiresia altri per lui 445 vorrà che vada? E i vaticini infami cercan forse di nuovo i pianti miei? Fuori d’Emone e ch’altro a me più resta? Manda questo in tua vece, e tu sicuro mira da un’alta torre il suo periglio. 450 E perchè fremi? E perchè guardi in volto la servil turba c’hai d’intorno? Chiede ella che tu scenda alla pugna, e paghi le meritate pene: anche la madre, anche le tue sorelle in odio t’hanno: 455 e d’ira acceso l’esule germano armi minaccia e morte e delle soglie spezza i ritegni, e tu sei sordo e lento? - Così Creonte, e d’infelice sdegno smaniava furibondo. A i fieri detti 460 così rispose il Re: - Tu non m’inganni: non il gran fato dell’estinto figlio è che ti muove: un generoso padre dovria vantar la glorïosa impresa. Ma sotto il tuo dolor speme si cela, 465 occulta speme e cupidigia infame. D’infinto lutto infidi voti copri; e già vicino al regno invan mi premi. Ma non sia mai che la fortuna avara tanto abbandoni le sidonie mura, 470 che tu non degno di cotanto figlio re ne divenga. Il vendicarmi fora facile impresa: ma recate l’armi, l’armi recate, o servi: al gran duello discendano i fratelli; il nostro sangue 475 può solo mitigare il costui pianto. Godi del tuo furor; ma al mio ritorno me ne darai le meritate pene. - E qui diè fine alle contese, e l’ira represse, e ritirò la man dal brando. 480 Qual lievemente dal villan percosso sviluppa l’angue i giri, e da le membra tutto accoglie a le fauci il fiero tosco; se dal cammin si leva e cede il passo il percussor, cessano l’ire, e il collo 485 gonfiato indarno s’assottiglia e stende, ed egli stesso il suo velen ribeve. Ma il primo avviso del furor fraterno appena giunge alla furente madre, che gli dà fede, e n’ha spavento, e corre 490 lacera il crine e il volto, e sanguinosa e ignuda il petto di Baccante in guisa, dimenticando la vergogna e il sesso. Tal di Penteo la madre a l’arduo monte salia portando il pattuito capo 495 del figlio ucciso al crudel Bacco in dono. Non le giovani figlie e non le ancelle ponno seguirne i frettolosi passi; tanto il dolor le accresce forza, e tanto nel lutto estremo si rinforzan gli anni. 500 E di già il Re del rilucente elmetto gravava il capo, ed impugnava i dardi, e mirava l’intrepido destriero delle trombe al fragor farsi più lieto; quando l’antica madre a lui dinanzi 505 fermossi: impallidissi egli, e per tema impallidiro i servi, e lo scudiero l’asta, che gli porgea, ritrasse indietro. - Qual furor? (disse) e come mai più forte sorge la Furia a flagellare il regno? 510 Voi dunque al fin dopo cotanti mali, voi pugnerete insieme? E non vi basta le schiere avverse aver condotto a morte, comandato il delitto? E dove poi tornerà il vincitore? In questo seno? 515 O fortunate del crudel consorte cieche palpébre! Di veder la luce voi pagate la pena, occhi miei lassi, costretti a rimirar sì infame giorno. Dove rivolgi il minaccevol volto? 520 Perchè ora impallidisci, ora t’arrossi? E perchè teco mormorando fremi? Misera me! So ben che a mio dispetto tu pure andrai: ma prima in questi tetti forz’è che provi l’ire. In su la soglia 525 starò funesto augurio, orrida immago di vostre sceleranze. A te, crudele, premer fia d’uopo questo crin canuto, questo seno infelice, e della madre spinger feroce il tuo destrier sul ventre. 530 Abbi pietà di me: che mi respingi coll’elsa e collo scudo? A i danni tuoi io non chiamai con scelerati voti i Numi inferni, nè con cieca fronte invocai l’empie Dire. Odi, spietato, 535 questa infelice. Non ti prega il padre, la madre è che ti prega; al gran delitto frappon dimora, e a ciò che ardisci pensa. Ma tu dirai che il tuo fratello insulta le porte e i muri, e te alla pugna appella. 540 È ver: ma non si oppone al suo furore la madre e le sorelle; in questo luogo ogni cosa ti prega, e piangiam tutti: là Adrasto appena lo sconsiglia e tiene, o fors’anche lo spinge; i patrii Lari 545 tu lasci, e fuggi da le nostre braccia precipitoso incontro al tuo fratello. - Ma Antigone dolente in quel tumulto furtiva si sottragge, e non l’arresta il verginal pudor: quasi Baccante 550 vola e non corre, e l’alte mura ascende. La segue il vecchio suo compagno Attorre. Ma per l’età non può eguagliarne i passi, nè giunger de i ripari a l’alte cime. Fermossi ella pensosa; e pria d’intorno 555 rivolse il guardo, e ricercò fra l’armi il nemico fratello, e poi ch’al fine lo riconobbe (oh sceleranza!) e il vide batter coll’asta i muri e colla voce minacciar morte, il ciel di pianti assorda 560 e di querele; indi da l’alte mura par che voglia gettarsi, e così parla: - Raffrena l’armi, e a questa torre alquanto mira, o germano, e il minaccioso elmetto nel mio volto rivolgi: i tuoi nemici 565 conosci tu? La fede e l’anno alterno così domandi, e i patti, e ti quereli? Così la causa del modesto esilio miglior tu rendi? Per gli Argivi Numi (giacchè i Tirii non curi) io ti scongiuro, 570 e per quel che ami, se pur ami, in Argo, fratel, l’ira deponi: ecco ten prega l’un campo e l’altro e le nemiche schiere. Antigone ten prega a i vostri errori vittima destinata, e per tuo amore 575 al Re sospetta, e sol di te sorella. Mostrami almeno il volto, e l’elmo sciogli. Fa ch’io vagheggi almen l’amata faccia forse l’ultima volta, e fa’ ch’io veggia se piangi a i miei lamenti: il tuo fratello 580 già placato ha la madre, e già depone il crudel brando, e tu resisti ancora? A me resisti, che il tuo esilio piango la notte e il giorno, e i tuoi raminghi errori? Se tu nol sai, io t’avea fatto amico 585 il fiero padre. E perchè purghi e lavi d’ogni colpa il germano? Egli la fede, egli corruppe i patti; egli è nocente; egli crudele a i suoi: sì; ma non scende da te chiamato a scelerata pugna. - 590 Malgrado di Tesifone, già l’ira in lui languisce, e già la mano abbassa l’asta, e più lento il destrier muove, e tace. Già il pianto sgorga, e più nol cela l’elmo. Torpe lo sdegno, e sente egual vergogna 595 d’esser venuto e di partirsi reo. Ma respinta la madre, e da l’Erinni cacciato, esce di Tebe il Re crudele, e grida: - Io vengo, e questo sol mi duole, che primier mi chiamasti; e s’io tardai 600 non m’accusar: mi ritenea la madre. O Patria, o fra due Regi incerto regno, oggi il tuo Re nel vincitore avrai. - Nè più placido l’altro: - Alfin (rispose) la fe’ conosci, al fin consenti al giusto. 605 O da gran tempo ricercato invano, or fratel mi ti mostri: a l’armi dunque; meco combatti: questa sola legge, questo è il sol patto che riman fra noi. - Sì dice, e in lui volge nemico il guardo, 610 e invidia il rode in rimirarlo cinto da turba di seguaci, e su la fronte portar elmo regale, e il gran destriero d’ostro coperto, e fiammeggiar lo scudo di fulgid’oro: ancor ch’ei pur non vile 615 splenda nell’armi, e se ne vada adorno di nobil manto, che con frigi modi gli avea tessuto di sua mano Argia, fregiando il bisso con aurate fila. Ma già son scesi al militare arringo 620 sospinti dalle Furie: al suo campione ciascuna assiste, e l’ire desta e il guida. Esse reggono i freni, esse con mano ne tergon l’armi, e de i destrieri i crini rendon più folti d’intrecciate serpi. 625 Vedesi con orrore in mezzo al campo consanguineo delitto, enorme guerra d’un solo ventre uscita, e sotto gli elmi pugnar due pari e somiglianti aspetti. Negâr le trombe il segno, e restâr muti 630 del fiero Marte i bellici strumenti. Ma ben d’Abisso l’avido tiranno tuonò tre volte, e ben tre volte scosse da l’imo centro il vacillante suolo. Fuggîr dell’armi i Numi, e la Virtude 635 non fu presente; le sue faci spense Bellona, e Marte spaventato volse altrove il carro, e del crudel Gorgone Palla coperse il formidabil teschio, e si arrossîr le stesse Furie in volto. 640 Sta lagrimoso il miserabil vulgo sparso su i tetti, ed ogni rocca suona di querele e di pianti: i vecchi han doglia, che visser tanto: stan le madri afflitte ignude il seno, e di mirare a i figli 645 vietan la sceleraggine fraterna. Lo stesso Re del Tartaro profondo apre le porte inferne, e vuol che l’Ombre Tebane a rimirar l’empio duello e l’opre de i nipoti, escano al giorno. 650 Siedon su i patrii colli in mesto giro, e turbano la luce, ed han piacere in veder superati i lor furori. Ma poi che intese il venerando Adrasto che con odii palesi erano a fronte, 655 nè dal delitto gli ritien vergogna; vola, e col carro si frappon tra loro. Per età, per impero egli è ben degno di riverenza: ma che attender puote da due cuor sì feroci e sì superbi, 660 che al proprio sangue lor non han riguardo? E pur li prega: - Mirerem noi dunque o Tirii, o Greci, un sì nefando errore? E dov’è il dritto? Dove sono i Dei? Dove ragion di guerra? I cuor feroci 665 non indurate: te nemico io prego (benchè, se l’ira non t’acceca, teco son pur congiunto); a te l’impongo, e il voglio, genero; e se pur hai tanta vaghezza d’impero e scettro, ecco che il regio manto 670 mi spoglio, e ten fo dono; or vanne, e solo e Lerna ed Argo a tuo piacer governa. - Ma nulla più muove il parlar soave negli odii lor quell’anime ostinate, che lo scitico mar con tutte l’onde 675 a i monti Cïanei vieti l’urtarsi. E poi che invano le preghiere sparse, e vide i corridor già mossi al corso, e i furibondi aver già l’aste in mano, fugge, tutto lasciando in abbandono, 680 il genero, le schiere, e Tebe e il campo, e colla sferza stimola Arïone, che addietro guarda, e che il destin prevede. Tale il rettor dell’Ombre e del diviso mondo l’ultimo erede impallidio 685 per la contraria sorte, e il nero carro spinse sdegnoso nel tartareo centro, dal cielo escluso e da le pure stelle. Non così presto consentì Fortuna a l’empie voglie, ma sospese alquanto 690 lo scelerato barbaro delitto. Mancâr due volte d’incontrarsi in corso: due volte i buon destrieri uscîr d’arringo con lodevole errore, ed altrettante, senza ferire, andâr le lance a vôto. 695 Volgono i freni, e cogli acuti sproni danno a i destrier non meritata pena. Il prodigio de i Numi ambe le schiere commosse, e sorse un mormorare alterno, un bisbigliar, che si riprendan l’armi, 700 che si muovano i campi, e al lor furore tutto s’opponga della guerra il nerbo. Sprezzata da i mortali e da i Celesti stava del cielo in solitaria parte dolente la Pietà; non con quel manto 705 onde pria giva adorna, o col sembiante sereno e lieto, ma discinta il seno, e senza serto, scapigliata i crini, e pure allor, come sorella e madre, piangea le pugne ed i furor fraterni; 710 e il crudel Giove e l’inumane Parche accusando, minaccia ir negli abissi e preferire al ciel le stigie case. - Ed a che mi creasti (essa dicea) o delle cose madre, alma Natura, 715 perchè degli animali io l’ire affreni, e sovente de i Numi? Omai di noi non v’ha chi prenda cura e ne rispetti. Oh seme umano! Oh furor empii! Oh Dire! Oh di Prometeo inique opre nefande! 720 Quanto era meglio che lasciasse vôto Pirra d’abitatori il mondo infame! Ecco quai genti da le pietre usciro. - Tacque, e il tempo osservando, - Andiamo (disse) tentiamo, ancor che invan, turbar la pugna. - 725 Scese dal cielo, e benchè mesta scenda, segna il sentier di luminosa riga. Al giunger suo, nuovo di pace amore nelle schiere s’accese, e del delitto, quant’era, allor tutto l’orrore apparve. 730 D’ogni parte si piange, ed un occulto ribrezzo al cuor de i due germani serpe: prende d’uomo sembianza, e d’armi cinta or questo, or quel rampogna: - E che tardate? Su v’opponete a le lor furie, o voi, 735 a cui fratelli diè natura e figli. Non veggiam noi che n’han pietade i Numi? - Lor cadon l’aste: stan ritrosi e fermi i corridori, e vi si oppon Fortuna. E già i sospesi cuori avea commossi 740 la Dea; ma se ne avvide, e il nuovo inganno Tesifone conobbe, e vi si oppose più del fulmine presta, e così disse: - C’hai tu che far nelle guerriere imprese, codardo Nume, e sol di pace amica? 745 Cedi: è mio questo campo e questo giorno. Tardi di Tebe la difesa prendi. Dov’eri tu quando ne i sacri riti Bacco a l’armi movea le madri insane? Dov’allor che bevea l’iniquo stagno 750 il serpente di Marte? Allor che i solchi apriva Cadmo? Allor che Sfinge cadde? Dove quando d’Edippo a i piè chiedea la vita il padre? O quando al letto infame Giocasta andò di nostre faci al lume? - 755 In tai detti la sgrida; e lei, che abborre l’orrido aspetto e ne ritira il volto, incalza con i serpi e colla face. Coprissi allor la mesta Dea col manto, e andò a farne querele innanzi a Giove. 760 Al suo partir sorgon più ardenti l’ire, e piaccion l’armi, e le nemiche schiere si fermano a mirar l’empio duello. E già i fratelli a rinnovar la pugna si sono accinti, e primo il Re crudele 765 appresta i dardi, e primier l’asta vibra. Vola la feral trave, e per lo scudo cerca al petto varcar: ma si ritiene nell’oro e nell’acciaio, e asciutta cade. L’esule allor sottentra alto gridando 770 con funesta preghiera: - O non indarno Numi invocati dal mio cieco padre, approvate il delitto! Io non vi faccio ingiusti voti: purgherò la mano nel proprio sangue, e questo ferro istesso 775 m’immergerò nel sen: sol ch’ei morendo, collo scettro mi veggia, e questo duolo porti seco a l’inferno Ombra minore. Vola l’asta veloce, e tra l’arcione Passa, e la coscia del nemico, e al fianco 780 (per dar due morti a un colpo) il destrier fere. Ma il cavaliero le ginocchia stende, e schiva la ferita. Il ferro acuto resta a le coste del cavallo infisso. Fugge questo, e non prezza il freno, e in giro 785 segna il suo mal col sangue in su l’arena: n’esulta Polinice, e del fratello lo stima, ed Eteòcle anch’ei sel crede per soverchio timor; l’esule allora tutto il freno rallenta, e forsennato 790 corre ad urtare il corridor ferito. Meschiansi insieme e freni e braccia e dardi, e s’implican co’ piedi, onde in un fascio precipitaro avviluppati a terra. Come due navi, cui confuse il vento 795 nel fosco orror di procellosa notte, spezzano i remi, e mutan vele e sarte, e dopo lungo e disugual contrasto co i tenebrosi nembi e con se stesse nel profondo del mar cadon sommerse: 800 tal della pugna enorme era l’aspetto. Va in bando ogni arte, ogni avvertenza, e invece l’ira e il furor combatte, e fuor degli elmi fiammeggian gli odii accesi; e i visi irati ricercando si van con bieco sguardo. 805 Spazio non resta in mezzo, e insiem ristrette sono mano con man, brando con brando; s’ode un fremer di denti, un mormorio fiero, che serve lor per segno e tromba. Quali da sdegno e da grand’odio mossi 810 due gran cinghiali ad azzuffar si vanno con torti grifi e rabbuffato pelo: treman gli occhi sanguigni, e i curvi denti suonan fremendo: il cacciator da l’alto li mira, e accenna al fido can che taccia: 815 tali pugnano insieme. Ancor mortali non son le piaghe: ma già il sangue è sparso, il delitto è compiuto, e delle Furie più non han d’uopo. Attonite e lodando quelle si stanno, ed hanno invidia e scorno 820 che vinca i lor furori odio mortale. Ciascun di loro del fratello al sangue aspira furïoso, e il suo non sente. L’esule in fine, in cui più forte è l’ira e più giusto il misfatto, il passo avanza, 825 la sua destra animando; e il ferro spinge laddove mal difende il basso ventre l’estremo usbergo e la pendente maglia, ed Eteocle impiaga. Egli ’l dolore sì tosto non sentì; ma della spada 830 inorridillo il gelo, e si restrinse, e tutto si coprì sotto lo scudo. Vie più s’accorge Polinice, e gode che il fratello è ferito, e impazïente vie più l’incalza, il preme, e lo rampogna: 835 - Dove, o fratello, il piè ritiri e cedi? Oh fra i sonni avvilito in molli piume, fra gli agi e gli ozii e dell’impero all’ombra! Tu vedi un corpo a duro esilio avvezzo ed a i disastri: a soffrir l’armi impara, 840 e non fidarti nelle cose liete. - Tale fra gl’infelici era la pugna. Restava ancor qualche di vita avanzo al duce infame, e star poteva ancora: ma volontario cadde, e nella morte 845 ordì l’estremo inganno. I gridi in alto salgono, e Citeron rimbomba intorno. Crede aver vinto Polinice, e al cielo le mani innalza, ed esclamando dice: - Bene sta, che non spesi i voti indarno: 850 veggio gli occhi ecclissati, e il volto esangue tutto dipinto di color di morte. Su tosto alcun lo scettro e il regal serto, fin ch’ei vede, m’arrechi. - In questi detti il passo avanza, e appender pensa in voto, 855 e quasi opime spoglie, a i patrii tempii l’armi fraterne, ed a rapirle aspira; ma il crudel, che ancor vive, e che ritiene l’anima fuggitiva a la vendetta, quando sopra gli fu, tutto nel petto 860 gl’immerse il ferro, e le reliquie estreme supplì coll’ira della vita, e lieto sotto il cuor del fratel lasciò il coltello. - Oh - disse Polinice - ancor tu vivi? Ancora dopo te dura il furore, 865 perfido e indegno di tranquilla sede? Meco scendi a l’Inferno: il regno e il patto ivi ti chiederò, se pur Minosse più muove l’urna, e gli empii Re castiga. - Cadde, ciò detto, ed il germano estinto 870 con tutto il peso del suo corpo oppresse. Andate, alme feroci. Il morir vostro contamini l’Inferno, e tutte in voi si consumin dell’Erebo le pene. E voi, Tartaree Dee, cessate omai 875 dal tormentare i miseri mortali. Un’età sola, un solo giorno vegga, dovunque è Mondo, un sì crudel delitto. La memoria sen perda, e per esempio sen rammentino solo i Re tiranni. 880 Ma poi che il fine del crudel misfatto e degli empii suoi figli intese Edippo, da le profonde tenebre sorgendo, fuori portò la sua imperfetta morte. D’un antico squallore infetta e lorda 885 la canizie del capo e della barba mostra, e nel sangue l’indurata chioma il volto spaventevole gli adombra; scarme ha le guance, e della vôta fronte appaion brutti i sanguinosi fori. 890 Antigone il sostenta al lato manco, ed al baston la destra mano appoggia. Qual se il nocchier dell’infernal palude abbandonando il legno, ed omai stanco di varcar Ombre, esce a l’aperto giorno, 895 e turba il Sole e gli astri; anch’egli offeso e impazïente del soverchio lume, mentr’ei sta lunge da la barca, e cresce il popolo de i morti, e su le ripe stanno aspettando i secoli già spenti: 900 tal Edippo si mostra, e a la sua duce, che seco piange: - Mi conduci (esclama) dove giacciono i figli, e sovra loro tepidi ancora il fiero padre getta. - Sta la giovin sospesa, e dubbia teme 905 di ciò ch’ei volga in mente: e l’armi e i carri e i cadaveri insiem confusi e misti attraversan le strade, e il senil passo lubrico va su tanta strage, e suda la miserabil vergine che il guida. 910 Ma poi ch’al di lei pianto egli s’accorse dove giaceano i figli, abbandonossi con tutto il corpo su le fredde membra. Senza voci rimane, e giace e mugge su le profonde piaghe, e parlar tenta; 915 ma per dolor non può formar parola. Mentr’egli tratta gli elmi, ed i nascosi visi ricerca, furibondo il varco apre a i chiusi sospiri, e così dice: - Tarda, pietà, tu pur tormenti e muovi, 920 dopo tant’anni, la mia fiera mente! Può dunque in questo cuore avere albergo pietade umana? Hai vinto, alma Natura, hai vinto alfin quest’infelice padre. Ecco ch’io pur sospiro, e per le secche 925 piaghe degli occhi miei scorre già il pianto, e la man, che mi squarcia il viso e il seno, lo segue e lo seconda. Or ricevete, oh miei crudeli figli, oh troppo miei! l’estreme esequie d’esecrabil morte. 930 Misero! di vederli ancor mi è tolto, e favellar con essi. E quale abbraccio? Dimmi, vergin, ti prego? A le vostr’ombre qual renderò funerea pompa, o figli? Oh tornassero in me le spente luci, 935 e svellerle di nuovo, e un’altra volta contro il mio capo incrudelir potessi! Oh duolo! Oh inique preci! Oh più del giusto voti esauditi d’un feroce padre! Qual Nume fu che al mio pregar presente 940 mi rapì i detti, e li diè in guardia a i Fati? Ah che a me li dettò l’immonda Erinni, la madre, il genitore, il regno, e gli occhi svelti di fronte, e non fur miei quei detti: per Dite, per le a me grate tenébre, 945 per questa mia duce innocente il giuro, così con degna morte a l’Orco io scenda, nè Laio da me fugga ombra sdegnosa. Ahi che ferite! Che fraterni amplessi misero io tratto! Le inimiche mani 950 allentate, o miei figli, e gl’importuni nodi sciogliete, e questa volta almeno date tra voi al genitore un luogo. - Così mentr’ei si lagna, a poco a poco desio di morte in lui si desta, e il ferro 955 occultamente ricercando giva. Ma lo vietò la vergine, e le spade con casta man sottrasse. Il vecchio allora furibondo esclamò: - Dove spariro l’armi e i ferri omicidi? O Furie, o Dire! 960 Son dunque tutti in questi corpi ascosi? - Mentr’ei così ragiona, indi ’l rimuove la sconsolata vergine, e il suo duolo reprime e tace, e si consola in parte in rimirar che il fiero padre pianga. 965 Ma quando giunse alla regina il grido dell’impreso duello, il brando trasse, che riserbava nel più interno albergo, brando di Laio lagrimevol spoglia: e poi che molto si lagnò co i Numi, 970 col talamo nefando, e colle Furie degli empii figli, e del primier consorte con l’ombra: contrastò col debil braccio, e inclinata sul ferro appena, in petto al fin l’immerse, e sotto il cuor l’ascose; 975 e lacerate le senili vene, purgò col proprio sangue il letto impuro. Su la ferita, che gorgoglia e stride, sen cadde Ismene, e la lavò co i pianti e la terse col crine. In cotal guisa 980 Erigone dolente entro le selve di Maratone al padre ucciso intorno, dopo aver tutti consumati i pianti, disciolse il cinto, ed a morir disposta giva scegliendo i più robusti rami. 985 Ma già lieto il Destin d’aver delusa de’ miseri fratelli la speranza, avea con empia man dato ad un terzo il regno d’Anfione; e già di Cadmo sedea sul trono tumido Creonte. 990 Misero fin di scelerata guerra! Per lui pugnaro i miseri fratelli; e Re l’acclama il bellicoso seme del serpente di Marte; e il sangue sparso da Meneceo per le tebane mura 995 de’ popoli l’affetto in lui rivolge: sovra il soglio fatal sale il tiranno dell’Aonia infelice. Oh di comando lusinghevol potere! Oh mal sicuro e infido consigliero, amor di regno! 1000 Quando sarà che da i passati esempi prendan norma i nipoti? Al fier Creonte ecco già piace star sul trono assiso, ed impugnare il sanguinoso scettro. E che non puote in noi lieta fortuna? 1005 Di già il padre ammollisce, e il nuovo impero gli fa scordar di Meneceo la morte. Gonfio e corrotto dal crudel costume dell’empia corte, un fier presagio diede, un’aspra prova del superbo cuore. 1010 Vietò le fiamme a i Greci e i roghi estremi, e al cielo aperto abbandonò gli avanzi della guerra infelice; e l’Ombre meste sen gîr prive di sede intorno erranti. Quinci tornando vêr l’Ogigia porta, 1015 in Edippo scontrossi: a prima vista restò sospeso, e nel suo sè minore si riconobbe, e raffrenò lo sdegno; poi ripigliando il regio fasto, il cieco suo nemico sgridò con detti acerbi: 1020 - Parti, vattene lungi, a i vincitori funesto augurio, e le tue Furie porta, crudele, altrove, e le anfionie mura purga col tuo partir. Tuoi lunghi voti già s’adempiêr; su via parti, t’invola. 1025 Son morti i figli, e che bramar ti resta? - Per subito furore inorridissi il fiero veglio, e la tremante faccia, quasi il mirasse, gli fissò nel volto: ed oblïando la vecchiezza e gli anni 1030 lascia il bastone a cui s’appoggia, e lascia la fida scorta, ed appoggiato a l’ira, queste voci esalò dal gonfio petto: - E puoi sì presto incrudelir, Creonte? Appena usurpi scelerato regno 1035 (misero!) e prendi il nostro luogo, calchi già le ruine de i passati Regi? Di rogo i vinti, e delle mura privi i cittadini? Or segui, o veramente degno di Tebe sostener lo scettro. 1040 Questo del tuo regnare è il dì primiero. Perchè freni il potere, e il regio onore perchè in sì angusti limiti rinserri? tu m’intími l’esilio? Oh troppo vile crudeltà di chi regna! E che non stringi 1045 piuttosto il ferro del mio sangue ingordo? A me dà fede: il puoi. Su fa che venga il carnefice pronto, e mi recida, senza timor, l’impavida cervice. Ardisci: speri tu che supplicante 1050 tenda le mani, e tue ginocchia abbracci? Fingi ch’io il voglia: il soffrirai? Qual pena puoi minacciarmi? E che temer m’avanza? Tu vuoi ch’io lasci il patrio suolo? Io prima volontario lasciai la terra e il cielo, 1055 e questa man vendicatrice volsi, e nissun mi spingea, contro il mio volto. Or quale impor mi puoi pena maggiore, inimico tiranno? Io parto, io fuggo da queste sedi infami. E che rileva 1060 dovunque io tragga la mia lunga morte e le infelici tenebre? A mie preci qual gente negherà tanto di terra, quant’io n’occupo in Tebe, ove riposi? Ma dolce è il suol natio: certo più chiaro 1065 per me qui sorge il Sole, e più sereni mi splendono sul volto il cielo e gli astri; ed ho qui ancor la genitrice e i figli. Tua sia pur Tebe, e la governa e reggi con quegli auspicii con cui Cadmo e Laio 1070 ed io stesso la ressi; abbi tu ancora eguali nozze e sì pietosi figli; ma non abbia virtù che di tua mano sottrarti ardisca di fortuna a l’onte, ma misero e depresso ami la luce. 1075 Questi sono i miei voti. Or tu mi guida altrove, o figlia. Ma perchè compagna te scelgo al lutto ed a l’esilio? Dammi, dammi, o gran Re, chi mi conduca altrove. - Antigone temè che la lasciasse 1080 il padre sola, e si rivolse a i preghi: - Per lo novello tuo felice regno, e del tuo Meneceo per la sant’Ombra, venerabil Creonte, io ti scongiuro, perdona ad un afflitto i detti altieri. 1085 Tale lo fêr le lunghe sue querele. Nè teco sol, ma col Destin, co i Numi così ragiona, e ben sovente meco non è più mite: tanto il duol l’inaspra. Questa infelice libertà gli ferve, 1090 già buona pezza, nel feroce petto, e insaziabil desio di cruda morte. Non vedi con quant’arte egli procura muoverti a sdegno e provocar le pene? Ma tu (così fortuna ognor t’accresca 1095 impero e onor) non conculcar chi giace, e de i passati Re l’urne rispetta. Anche costui sublime in trono e cinto d’armi e d’armati, un tempo, a gl’infelici aita porse, e a tutti eguale, il giusto 1100 diede a chi ’l chiese; e pur di tanto stuolo una sola compagna a lui rimase, e non ancora era cacciato in bando. E questi può turbar la tua fortuna? Dunque contro costui tutti gli sdegni, 1105 tutte le forze del tuo regno impieghi? Costui mandi in esilio? Forse temi che strida alle tue porte, e a te d’intorno con augurio funesto ognor s’aggiri? Non dubitare: il menerò lontano 1110 dalle tue soglie a lamentarsi, e il fiero animo ammollirò, tanto che impari ad ubbidirti. Io lo terrò diviso da ogni commercio in chiusa cella ascoso. Questo sarà il suo esilio: e quale estrana 1115 terra vuoi tu che l’infelice accetti? Vuoi tu che vada in Argo, o alla nemica Micene errando squallido ed afflitto? O del già vinto Adrasto in su le porte canti le Furie dell’aonio regno? 1120 Vuoi tu che dal Re d’Argo un Re di Tebe mendichi il vitto? Dell’afflitta gente e che mai giova divulgar gli errori, e le nostre vergogne e i nostri scorni? Deh celati li tieni, io te ne prego, 1125 nè già molto ti chieggio: abbi pietade di questo vecchio ed infelice padre. Permetti sol che poca terra il copra, che qui deponga il mortal velo: lice seppellire i Tebani. - In cotal guisa 1130 pregando, sul terren si volge, e piange. Ma il fiero padre indi la svelle, e sdegna chieder perdono, e minaccioso freme. Come leon che nella verde etade fu de i monti terrore e delle selve, 1135 rotto dagli anni, e di già pigro e lento sen sta giacendo sotto eccelsa rupe, ma pur conserva l’orrido sembiante, e terribile è ancor nella vecchiezza: se lungi ode mugghiar giovenche e tori, 1140 alza le inferme orecchie, e di se stesso e del primo vigor ei si rammenta, e geme e duolsi che più forti belve, de i campi suoi, tengano allor l’impero. Si piega a i pianti il Re crudele, e parte 1145 concede, e parte nega: - Al natio suolo non andrai lungi (dice); a me sol basta che non profani coll’infausto aspetto i sacri tempii e i cittadini alberghi. Delle fiere i covili e il tuo Citero 1150 stanza degna saran de la tua notte, e i campi ove già fur l’aspre battaglie, ove nel comun sangue involta giace e l’una e l’altra gente. - Ei così parla, e tumido ritorna al regio albergo 1155 fra i finti applausi e il simulato assenso de i cortigiani e de l’afflitto vulgo. Lasciano intanto l’infelice campo furtivamente gli avviliti Greci. Nissun segue le insegne o il proprio duce, 1160 ma fuggon sparsi; e d’un’indegna vita prendon più cura e d’un ritorno infame, che d’una illustre e glorïosa morte. Li seconda la notte, e li ricopre col grato orror di sue benefich’ombre. Non tutte ancor avea del ciel fugate il mattutin Lucifero le stelle, e con più tenue corno il dì vicino mirava Cintia: al fin l’Aurora sorge 5 e le nubi dilegua, e al Sol nascente prepara il calle, e il vago cielo indora. Errando vanno a i vôti alberghi intorno le tebane falangi, e troppo lenta loro sembra la notte; e ancor che quelli 10 sian, dopo l’armi, i primi sonni, e i primi ozii concessi; pur la pace ancora debile e inferma il lor riposo turba; e li fa ricordar de l’aspra guerra la sanguigna vittoria. Osano appena 15 muovere il passo, abbandonare il vallo, e tutte intere disserrar le porte. Il primiero timore ancor li turba, e miran con orrore il vôto campo; e come il peregrin che in terra scese, 20 dopo che l’agitâr procelle infeste, crede che il suol vacilli, in simil guisa stupisce Tebe che guerrier non muova a rinnovar gli assalti, e ognor paventa che sorga a nuova guerra il campo estinto. 25 Così qualor veggon gl’idalii augelli salir su la lor torre aureo serpente, fan ritirare i figli, e de i fecondi nidi apprestano l’unghie a la difesa, e dibattendo van le imbelli piume: 30 e bench’ei cada, l’aer vôto teme ancor la bianca turba, e al fin se vola, mira da l’alto con orrore il nido. Vanno fra ’l vulgo esangue e le giacenti reliquie della guerra, ove li mena 35 ciascuno il comun lutto, o i propri pianti. Altri l’armi, altri i corpi, alcuni i visi miran sol degli estinti agli altrui busti giacere appresso; parte i vôti carri bagnan di pianto, e co’ destrieri privi 40 del lor signor, poichè null’altro avanza, fanno querele: altri le immense piaghe bacia, e si duol del militare ardire. L’avviluppata strage al fin si stende, e i cadaveri freddi: allor fur viste 45 stringer le man recise ancora i ferri, e nella fronte le saette infisse. Molti, che la cagion del loro lutto trovar non san, sovr’ogni corpo estinto cadono incerti, e stan disposti al pianto. 50 Ma su i deformi e non ben noti tronchi nasce flebil contesa, a chi dell’urne spetti la cura e dell’esequie estreme. E spesso ancor (tanto scherzò Fortuna) pianser sovra i nemici, e stiero incerti 55 qual sangue calpestar lor sia permesso, qual si convenga rispettar: ma quelli cui le famiglie non restâr deserte, nè cagione hanno di privato lutto, scorrendo van le abbandonate tende 60 de i fuggitivi Greci, e colle faci vi destano le fiamme; in varie parti altri dispersi ricercando vanno (con quel piacer ch’alle battaglie segue) ove giaccia Tideo, se alcun vestigio 65 appaia ancor dell’orrida vorago ove fu il vate assorto, ove de i Numi sia l’inimico, e nelle membra enormi se resti segno del celeste fuoco. Già tutto il giorno avean passato in pianti, 70 nè cessaro coll’ombre: agl’infelici giovano le querele, ed han piacere in trattenersi su le lor sciagure. Nè riedono alle case: a i morti intorno veglia la mesta turba, ed a vicenda 75 scaccia le fiere ed i rapaci augelli co i gridi e colle fiamme; al dolce sonno non cede, e non aggrava i stanchi lumi il pianto, ch’esce d’inesausta vena. Ma già tre volte precorrea l’aurora 80 il mattutin Lucifero nel cielo, quando del loro onor spogliati i monti, scendeva dal Teumesso e dal Citero gran salmeria di roveri e di pini. S’alzan le pire, e i lacerati corpi 85 ardono de i Tebani in mezzo a i roghi. Godon gli onori dell’esequie estreme l’ombre d’Ogige: ma la turba mesta delle greche infelici ombre insepolte geme, e s’aggira intorno a i fuochi errante. 90 Arde Eteòcle anch’egli in volgar fiamma, non con pompa regal: ma Polinice, come Greco, s’esclude, e va raminga, dopo la morte ancor, esule l’Ombra. Formaro a Meneceo sublime rogo 95 il padre e Tebe, e non di legna vili, ma di carri, di scudi e d’armi greche gli alzâr superba e bellicosa pira. Di pacifico alloro il capo adorno e delle sacre bende, alto ei sen giace, 100 qual vincitor, su le cataste ostili. Tale arse lieto sovra l’Eta Alcide, quando fra gli astri lo chiamaro i Numi. Vittime ancor spiranti, in cima al rogo, il padre uccise i prigionieri argivi, 105 per suo conforto, e i bellici destrieri. Stride la fiamma, e li consuma. In fine le paterne querele uscîr dal petto. - O se di troppa lode in te il desio e un magnanimo ardor non s’accendea, 110 forte garzon, dell’echionia gente tu meco, e dopo me terresti il regno. Ed or le nuove gioie e il dono ingrato mi rendi amaro del novello scettro. Tu (chè certo io ne son), benchè su gli astri, 115 ove t’alzò virtù, sieda fra i Dei, flebile sempre e lamentevol Nume a me sarai: ergati altari e tempii ricordevole Tebe, e sia permesso onorarti co i pianti al padre solo. 120 Ed or quai sacrifizi (ahi lasso!) e quali esequie di te degne offrir ti posso? Non se dato mi fosse Argo e Micene ridotte in polve di mandar confuse colle ceneri tue; non se sopra esse 125 me stesso anche gettassi, a cui la vita (oh crudel fatto!) conservò del figlio il sangue, e fu cagion del regio onore. Dunque una stessa guerra, un tempo istesso te, figlio, uccise, e i barbari fratelli? 130 E il mio dolore a quel d’Edippo è uguale? Forse, o Giove, piangiam ombre simíli? Ma tu ricevi, o figlio, i primi doni del tuo trionfo, e questo scettro accetta, peso della mia destra, e queste bende, 135 di cui circondo la superba fronte, che troppo, ahi troppo, tu acquistasti al padre. Te vegga Re nel Tartaro profondo, e se ne roda d’Eteòcle l’ombra. - Così dicendo la man spoglia e il crine, 140 e con ira maggiore indi ripiglia: - Me chiamin pur crudel; non vo’ che teco i cadaveri argivi ardan su i roghi. Così dato mi fosse e vita e senso rendere a i corpi, e discacciar dal Cielo 145 e dall’Inferno l’anime nemiche; e dietro me condur fiere ed augelli, e a le lor fauci ed a i lor rostri i membri additar degli estinti empii Regnanti. Ahi lasso, che la terra li ricetta 150 e li consuma il tempo! Onde di nuovo comando e voglio ch’a li greci estinti non sia chi doni l’urna, o il rogo accenda. E chi ’l farà, del tolto corpo il luogo ed il numero adempia, e per lui mora. 155 Così di Meneceo per la grand’Ombra e per lo Cielo e per li Numi il giuro. - Disse, e i servi il portâr nel regio tetto. Ma le vedove greche in mesta schiera lascian Argo deserta, e da la fama 160 guidate van qual prigioniere e serve. Ha ciascuna il suo lutto; a tutte uguali sono gli abiti e i pianti: i crini sparsi ed i seni succinti, e dalle gote lacerate dall’unghie il sangue piove 165 a le lagrime misto, e le percosse livide fanno lor le braccia e il petto. Regina e duce della bruna turba, ora cadendo delle serve in grembo, or risorgendo, e per gran doglia insana 170 prima sen vien la desolata Argia. Non la patria rammenta, e non il padre; ma la fe’ coniugale, e fra i singulti solo di Polinice ha in bocca il nome, e preferisce ad Argo ed a Micene 175 Dirce e del fiero Cadmo i tetti infami. Seconda vien Deifile dolente non men che la germana, e seco adduce di calidonie sconsolate donne miste a le greche numeroso stuolo, 180 al suo Tideo per dar gli estremi onori. Ben sapev’ella l’esecrabil fame del consorte crudel; ma a lui, che giace, tutto perdona amor. Segue Nealce acerba in viso e di pietà ben degna; 185 piange, e piangendo Ippomedonte chiama. Va dopo lei la crudel moglie avara dell’Augure a innalzargli un rogo vano: chiudon la schiera la parrasia madre, di Dïana seguace, orba del figlio, 190 e la feroce Evadne: il troppo ardire quella deplora del garzone audace; questa del gran marito si ricorda, e fiera piagne, e contro il Ciel s’adira. Dal frondoso Liceo mirolle e pianse 195 Ecate, e pianse la tebana madre dal sepolcro dell’Istmo, allor che i passi volsero al doppio lido, e benchè Eleusi per sè si dolga, accompagnò co i pianti la nottivaga turba, e rese chiaro 200 con le mistiche faci il lor cammino. Giunone istessa per occulte strade le guida, a fin che il popol d’Argo accorso non le trattenga o le ritardi, e loro tolga l’onor d’un memorabil fatto. 205 Commette ad Iri il conservare intatti gl’insepolti cadaveri de i Regi. Essa d’ignoti succhi e del divino nettare gli cosperge, acciò che interi e incorrotti così serbinsi a i roghi, 210 nè si consumin pria d’aver le fiamme. Ed ecco Onito: avean costui lasciato in abbandono i fuggitivi Greci; ed ei pallido in viso il piè movea per occulto sentier, debole e infermo 215 per fresca piaga, ed appoggiava il fianco di rotta lancia al tronco. Egli nel bosco, poichè sentì il tumulto, e il femminile stuolo scoprì di già vicino a Lerna, non chiese lor qual del cammin la meta 220 fosse, qual la cagion; chè ben si appose quell’infelice, e favellò primiero: - Dove, misere, andate? A i morti duci sperate voi di dar l’esequie e i roghi? Veglia un custode a l’Ombre, e gl’insepolti 225 corpi va numerando al reo tiranno. Sono inutili i pianti, e da quel luogo ogni uomo si discaccia: augelli e fiere sol v’han l’ingresso: il perfido Creonte credete voi ch’a pietà pieghi, e onori 230 il vostro lutto? I sanguinosi altari di Busiride prima, e l’empia fame de i cavalli di Tracia, e i Dei Sicani placar potrete. Il suo furor mi è noto: voi prenderà; nè su gli amati sposi 235 v’immolerà, ma lungi a l’Ombre amiche. Chè non fuggite, or che il fuggir v’è dato? E ritornando in Argo, a i nomi vani (ciò che solo vi avanza) alzate l’urne; e l’alme richiamate a i vôti roghi. 240 O che non gite alla famosa Atene (dicon che vincitor dal Termodonte Teseo ritorni) ad implorare aita? D’uopo è d’armi e di forza a far che rieda l’empio Creonte ne’ costumi umani. - 245 Così diss’egli, e per orrore i pianti si ristagnaro a le infelici, e in esse stupido restò il moto, e fur nel viso tutte dipinte d’un egual pallore. Così se lungi fremere si sente 250 digiuna ircana tigre, e ne rimbomba e se ne turba il campo; alto spavento occupa le giovenche, e stanno incerte su qual si lanci, e quali membra sbrani. Son divisi i pareri: alcuna a Tebe 255 vuol che si vada a supplicar Creonte, l’altre ad Atene ad implorar pietade, e vendetta e soccorso: a tutte sembra il ritornar ultima cura e infame. Ma non aspira a femminil virtude 260 Argia dolente, e superando il sesso, orribil tenta e generosa impresa. Del periglio la speme il cor le alletta, e vuole andare, e disprezzar le leggi del fiero regno, e provocar la morte. 265 Non l’oserian del Rodope le nuore, nè del Fasi nevoso aspra Regina seguíta da le vergini guerriere. Accorto inganno ordisce, onde abbandoni l’amica schiera, e prodiga di vita 270 e per gran fatto audace, a la vendetta provochi il Re tiranno e i Numi irati; e ve l’esorta la pietà, la fede, l’amor pudico: Polinice istesso l’è sempre avanti in tutti gli atti e modi 275 ch’essa lo vide, or ospite, ora sposo a i sacri altari, or facile marito, ed or già ascoso nel feroce elmetto mesto abbracciarla, e da l’estreme soglie rivolgere amoroso in essa il guardo. 280 Ma niuna immago a lei più torna in mente che di lui, che sen giace in mezzo al campo nel sangue involto e nudo, e chiede il rogo. Da tai cure agitata, essa nel core sente tormento e pena, e, quel ch’è puro 285 e castissimo amore, ama il suo lutto; onde a l’altre si volge, e così dice: - Gite voi pure, e l’attiche falangi e l’armi vincitrici in Maratone a favor vostro usate, e a i vostri voti 290 fortuna arrida; e me, sola cagione di tanto scempio, gir lasciate a Tebe, penetrar nelle case, e prima l’ire e le furie soffrir dell’empio regno. Non fieno al batter mie sorde le porte 295 della città crudele: entro quei muri ho suoceri, ho cognate, e non straniera giungerò a Tebe, e sconosciuta donna. Non m’arrestate i passi: occulta forza colà mi tragge, e nel mio petto io chiudo 300 un grande augurio. - Così dice, e sceglie per compagno Menete, un tempo a lei del verginal pudor custode e mastro; e benchè ignara delle strade, il passo precipitosa a quella parte muove, 305 onde pria venne Onito; e quando lungi da le compagne fu, parlò in tal guisa: - Io dunque aspetterò, mentre tu giaci sul nemico terren, qual sia la mente e l’incerto consiglio di Teseo? 310 Se i duci (ahi lassa!) e il sacerdote approvi la nuova guerra? E tu, mio sposo, intanto mi vai mancando al rogo. E tardo ancora d’espor per te queste mie membra a i morsi delle rapaci fiere e degli augelli? 315 Ed or (s’hai senso), o mio fedel, coll’Ombre di me ti lagni e con i numi inferni, e me di lenta e d’inumana accusi. Ah che o tu sia insepolto, o che di terra altri t’abbia coperto, è mio delitto, 320 se l’uno e l’altro il mio tardar condanna. Temerà dunque il mio dolor la morte, e la forza e il furor del reo Creonte? Onito, a l’andar mio tu aggiungi sprone. - Così dicendo di Megara i campi 325 a gran passi divora; e chi l’incontra il sentiero le addita, e con orrore ne ammira il manto, e ne rispetta il duolo. Feroce in vista ella sen corre, e nulla o che veda o che senta, il cuor le turba: 330 ne i gran mali sicura, appar più degna d’esser temuta, che temere altrui. Siccome avvien nelle troiane notti, quando a gli urli e al fragore Ida risponde; la conduttrice dell’insano Coro, 335 cui Cibele diè il ferro, e il sangue accolse, e il crin le cinse delle sacre bende, rapida va del Simoenta a l’acque. Già nell’onde d’Esperia avea tuffato il luminoso Dio l’ardente carro, 340 per sorger poscia da l’opposto mare. Ma tanto può in Argia l’estremo lutto, che non sente fatica o non l’apprezza, e non s’avvede che già spento è il giorno. Nulla teme l’orror che i campi adombra, 345 nè interrompe il cammin; ma va sicura per sassi aspri e scoscesi, e ferma il passo sovra tronchi caduti, e varca i boschi anche di giorno oscuri e i campi sparsi di cieche fosse, e varca i fiumi, e nulla 350 teme de’ guadi, e intrepida sen passa a le fiere vicina ed a i covili: tanto il dolore in lei puote e l’ardire! Duolsi Menete di seguir più lento, e dell’imbelle Alunna ammira il corso. 355 Di quali case non battè a le porte, modesta nel dolore, ove pastori soggiornassero, o greggi? Oh quante volte errò dolente nel cammino, oh quante l’abbandonò per via spenta la face, 360 guida e conforto de’ suoi lunghi errori, e dal notturno gel fu vinto il lume! Ma già di Penteo superato il giogo, verso Tebe scendean; quando Menete stanco e anelante favellò in tal guisa: 365 - Se del finito nostro aspro cammino non m’inganna la spene, Argia, non lungi siamo a Tebe e a i cadaveri insepolti. Il lezzo sento, e l’aer atro e grave, ed intorno volar rapaci augelli. 370 Questo è il suolo crudele, e son vicine le mura infami: dell’eccelse rocche non vedi tu, come si stende l’ombra vasta pe i campi? Come da i veroni scorgonsi scintillar languide faci? 375 Certo siam giunti. Poco fa la notte era più cheta, e non splendean che gli astri. - Argia fermossi, e di pietade in atto, la man tendendo verso Tebe, disse: - O desïata un tempo e a me diletta 380 cittade, or ostil sede, e pur, se rendi illesa a me del buon consorte l’ombra, ancor grato terreno. Or mira come e di quai fregi adorna, e da qual corte seguíta io tua Regina, e al grand’Edippo 385 nuora, la prima volta a te ne vengo. Cose inique non bramo. Ospite io chieggio che tu m’accolga, e mi permetta i roghi, e al caro sposo dar l’esequie e i pianti. Quello esule dal regno, e da la guerra 390 vinto, e cacciato dal paterno soglio, deh quello solo per pietà mi rendi. E tu, o consorte, s’è pur ver che resti qualche immagine a l’Ombre, e dopo morte s’aggirin l’alme intorno a i corpi errando; 395 a me vieni, ti prego, e mi conduci, e a i funerali tuoi tu mi fa scorta, se giammai ne fui degna. - E qui si tacque: e in un vicino albergo di pastori ravvivò i fuochi moribondi, e corse 400 precipitosa nel funesto campo. Cerer così, poichè l’inferno amante rapì la figlia, con gran face accesa negli etnei fuochi splendere facea di diversi color l’itala spiaggia 405 e la sicana, seguitando l’orme del nero rapitore, e per la polve mirando i solchi del tartareo carro: a gli urli insani Encelado rimugge, e vomitando fiamme, a lei le strade 410 vie più rischiara; e fiumi e selve e mari, e nembi e cielo suonano d’intorno Proserpina, Proserpina. Sol tace del tartareo consorte il regno oscuro, e il dolce nome asconde, e il furto cela. 415 Ma Menete fedel dell’infelice compagno, a lei, che disperata corre, rammenta di Creonte il fiero editto, e la consiglia ad occultare il lume. Una Regina riverita innanzi 420 da le greche cittadi, immensa cura di mille e mille proci, augusta spene della paterna stirpe, or senza duce in buia notte fra nemiche genti sola sen va sull’armi, e calca l’erbe 425 lubriche di putredine e di sangue. Non le tenebre teme, e non dell’ombre la mesta turba, e intorno a le lor membra l’anime che s’aggirano gemendo. Spesso ferita da i giacenti ferri 430 dissimula la piaga, e sol le cale ogni corpo schivar, mentre ogni corpo crede che sia il consorte; e attenta osserva i distesi cadaveri, e li volge supini, e li riguarda, e si lamenta 435 che poco in ciel risplendano le stelle. Giunone intanto del suo gran marito toltasi al letto occultamente, giva per l’ombre sonnacchiose a l’alte mura del vincitor magnanimo Teseo 440 a pregar Palla che in Atene accolga delle supplici greche il mesto volgo. Ma quando vide per lo campo invano volgersi Argia, da gran pietà commossa, verso il carro di Cintia il carro volse, 445 e sì le disse in placida favella: - Deh mi concedi, o Cintia, un picciol dono, se Giuno è degna pur di qualche onore. Tu certo un tempo concedesti a Giove triplice notte a procreare Alcide. 450 Ma pongansi in oblio le andate cose. Or luogo è a compensar le offese antiche. Non vedi tu per qual oscura notte Argia, fedele al nostro culto, indarno per quel campo s’aggiri, e le tenébre 455 le tolgano il trovar l’amato sposo? E tu pallida splendi infra le nubi? Rischiara i corni, io te ne prego, e inchina più verso terra il luminoso carro; e questo tuo sopor, che prono il guida, 460 e che ne regge i rugiadosi freni, negli aonii custodi, o Dea, diffondi. - Appena disse, che squarciò le nubi Cintia, e il gran disco tutto intero apparve. Temeron l’Ombre, impallidiro gli astri, 465 e Giuno appena ne sostenne il lume. A lo schiararsi i campi, Argia conobbe del buon consorte la pomposa veste, opera di sua man; benchè il ricamo sia coperto di sangue, e scolorita 470 la porpora ne resti: e mentre grida - Oh numi! - e che di lui null’altro resti teme quell’infelice, ecco lo scopre: mancârle a un tempo e spirto e vista e voce, e il gran dolor le lagrime respinse. 475 Con tutto il corpo su l’amato viso cade, e co i baci l’anima raminga par che ne cerchi: e con il crin, col manto, per conservarlo ne raccoglie il sangue. Al fin la voce le ritorna, e dice: 480 - Tal dunque ora ti veggio, o caro sposo, ch’a racquistar l’a te dovuto regno gisti poc’anzi del potente Adrasto genero e capitan di tanta impresa? E tale io stessa a i tuoi trionfi or vegno? 485 Innalza il volto, e me riguarda: a Tebe ecco Argia che sen vien. Su via le porgi la destra, e dentro la città la guida: mostrale i patrii tetti, e grato rendi a me l’ospizio; ma che parlo? ahi lassa! 490 Nudo tu giaci sul terreno, e questo solo di tanto regno è che ti resta. Oh guerre! Oh risse! Il tuo fratel non regna. Dunque de’ tuoi nissun ti pianse? Dove, dov’è la madre, e la famosa tanto 495 Antigone sorella? Ahi, ch’a me sola tu giaci, e solo a me sei morto e vinto. Quante volte ti dissi: E dove corri sconsigliato? A che cerchi il regno alterno che ti si niega? Argo ti basti: impera 500 nella corte del suocero: più lunghi tu qui godrai gli onori, e non diviso avrai qui il regno. Ma di chi mi dolgo? Io la guerra affrettai; io fui che il mesto padre pregai, misera! Ed a qual fine? 505 Per abbracciarti in sì crudele stato. Ma pur sian grazie a i Numi, e a te, o Fortuna: del mio lungo cammin non fu delusa la speme: il corpo ho ritrovato intero. Ahi quanto immensa è mai questa ferita! 510 E la fece il fratello? E dove giace quell’infame ladrone? Ah pur ch’il trovi, vincerò gli avvoltoi; caccerò lungi, per lacerarlo io sola, e cani e lupi. Ma forse l’empio ebbe già rogo e tomba? 515 Tu pur l’avrai, nè il tuo natio terreno ti vedrà senza fiamme e senza onori. Arderai; sarai pianto; onor che a’ Regi raro si dona, e la mia fede eterna serberò al tuo sepolcro, e il picciol figlio 520 fia testimonio al mio dolore, e a lui riscalderò le vedovili piume. - Ed ecco nuovo pianto e nuova face portando, a i roghi Antigone sen viene appena uscita da le chiuse soglie; 525 perocchè a lei stavan le guardie intorno, e il Re vuol che s’osservi, onde a vicenda si cambiavan tra loro e più frequenti rinnovavano i fuochi: essa co i Numi e col fratel la sua tardanza scusa. 530 Ma non sì tosto abbandonârsi al sonno stanchi i custodi, dalle mura uscío; come leonza, che la prima volta senza la madre, e libera correndo, sfoga l’innata rabbia, e freme e rugge, 535 e di terror empie le selve e i campi. Nè tardò molto, chè l’è noto il campo, e dove il corpo del fratel sen giace. In vederla venir Menete ha tema, e fa cessar da le querele Argia. 540 Ma quando de i suoi pianti il suono estremo giunse a ferir d’Antigone l’orecchie, e a lo splendor degli astri e al doppio lume d’ambe le faci squallida la vide, e la mirò starsi col crin disciolto 545 infetto di putredine e di sangue: - Quali Ombre (disse) temeraria cerchi in questa notte mia? - Nulla risponde quell’infelice, ma col manto copre il marito e se stessa, il suo dolore 550 per timor sospendendo. Allor di frode più Antigone sospetta, e minacciando la donna a un tempo e il suo compagno incalza. Ma l’uno e l’altra sta confusa e tace. Al fine Argia sempre tenendo al seno 555 stretto il consorte, scoprì il viso, e disse: - Se tu qui meco a ricercar pur vieni un qualche estinto, e se tu pur paventi l’iniqua legge del crudel Creonte, ben sicura scoprirmi a te poss’io. 560 E se infelice sei, qual ti palesa il tuo pianto e il lamento, amica dammi, dammi la fede: io son d’Adrasto figlia. Del caro Polinice alcun non viene, ahi lassa! al rogo, benchè il Re lo vieti? - 565 Stupì a quel dir la vergine tebana, e inorridissi, e l’interruppe: - Adunque da me ti guardi? (oh troppo cieca sorte!) Da me compagna delle tue sciagure? tu le mie membra abbracci, e tu previeni 570 l’esequie mie? Ti cedo. Oh di sorella troppo lenta pietade! Oh mia vergogna! Costei prima sen venne? - E qui sul corpo caddero a un tempo, e l’abbracciaro insieme, e confusero insieme i crini e i pianti. 575 Sel dividon fra loro, ed a vicenda godonsi il volto con alterni baci. E mentre una il fratel, l’altra il marito, e questa Tebe, e quella Argo rimembra, più da lontan così comincia Argia: 580 - Per questo sacro e lagrimoso furto del comune dolor, e per quest’Ombra ad ambe grata, e per le pure stelle che dal ciel ne rimirano, ti giuro: costui non tanto del perduto regno, 585 benchè esule e ramingo, o del terreno a lui nativo, o de la cara madre si ricordò; quanto di te bramoso sol d’Antigone aveva in bocca il nome, e te sola chiamava il dì e la notte. 590 Minor cura io gli fui, e in abbandono più facile a lasciar. Ma tu il vedesti almeno da una torre anzi ’l delitto guidar le squadre greche, ed ei te vide dal campo, e con la spada a te i saluti 595 mandò da lungi, ed inchinò il cimiero. Noi misere e lontane! ahi qual crudele Nume li spinse a così estremi sdegni? Fur vane le tue preci? A te poteo cos’alcuna negar? - Già cominciava 600 Antigone a narrare i fatti antichi dal lor principio; ma il fedel compagno ambo ammonisce: - La proposta impresa prima finite: impallidiscon gli astri e s’avvicina il dì; l’opra avanzate, 605 e a lagrimar fia tempo: abbia le fiamme il rogo prima, e piangerete poi. - Un roco mormorio senton vicino, che addita lor non lungi esser l’Ismeno, che brutto ancor di sangue al mar correa. 610 Quivi il lacero corpo ambe portaro congiungendo le destre, e non più forte il veglio anch’egli vi prestò la mano. Così fumante ancor, lavâr Fetonte dell’Eridano tepido nell’onde 615 le pie sorelle. Ei fu sepolto appena, ch’esse, forma cangiando in un momento, flebili selve fecer ombra al fiume. Mondo che fu di sangue, e che sul viso tornò di morte il natural pallore, 620 gli dier gli ultimi baci, e d’ogni parte cercâr le fiamme; ma gelati e spenti nelle putride fosse erano i fuochi, ed ogni rogo in cenere consunto. O fosse caso, o pur voler de i Numi, 625 un solo ne restava, ove le membra d’Eteocle crudele arser poc’anzi: o nuovi mostri disponea Fortuna, o l’empia Furia lo mantenne acceso, perchè si dividessero le fiamme. 630 Splendere fra i carboni un picciol lume con flebile piacer mirâr le donne, nè san qual busto su quel rogo ardesse. Ma qualunque egli sia, pregando il vanno che mite al cener suo compagno accolga 635 quell’infelice, e insiem confondan l’Ombre. Ecco di nuovo in campo i rei fratelli: caddero appena sul vorace fuoco quei nuovi membri, che tremaro i roghi e da l’esequie l’ospite è respinto; 640 scoppian le fiamme, e s’alzano divise tinte le corna di funerea luce. Così se il torvo regnator d’Averno unì le fiamme di due Furie ultrici, sorgon discordi, ed infra lor disgiunte 645 l’una lungi dall’altra ardere agogna. Gli stessi legni, quasi sentan l’ira, l’un da l’altro si sparte, e il peso scuote. - Ahi! (gridò allor la vergine tebana) Misere! Gli odi antichi e l’ire spente 650 noi rinnovammo. Era il fratel costui. Chi altro che il fratel l’Ombra straniera respinto avria? Del semiadusto cinto mira gli avanzi, e dell’infranto scudo; vedi come la fiamma si divide, 655 e poi di nuovo si raccozza e pugna! Vivono gli odii ancor: non fu bastante la guerra a terminarli. Ah sfortunati! Voi contrastaste, e il fier Creonte ha vinto. Per voi più non v’è regno. Ahi qual furore! 660 E di che contendete? Omai cessate da le minacce: e tu primiero cedi, esule sempre, e ognor dal giusto escluso. La consorte ven prega e la sorella; o in mezzo a voi ci getterem su i fuochi. - 665 Sì disse appena, e dal profondo centro tremò la terra, e vacillâr le mura, e dier muggiti le discordi fiamme del biforcuto rogo. A quel rumore si destaro i custodi, a i quali il sonno 670 pingea l’immago de i vicini mali. Tosto corrono armati e minacciosi, e ricercando van per tutto il campo. Temè in vederli il solo veglio: al rogo stanno le donne intrepide e sicure; 675 e poi che il corpo è in cenere disciolto, palesano co i pianti e colle strida la disprezzata legge di Creonte, e il pietoso lor furto: insiem contesa hanno di morte, e di morir la spene 680 ambe infuria ed accende. - Io del fratello, io del marito (or l’una, or l’altra grida) arse ho le membra. Io tolsi ’l corpo: i fuochi io fui che accesi: me pietà, me amore a ciò sospinse; - e provocando a gara 685 offrono l’innocenti invitte destre: quella che dianzi ne i lor detti apparve riverenza ed amore, ora rassembra furore ed ira; tanto ferve e cresce d’ambe il contrasto e il grido. Intanto i servi 690 le conducon legate al Re crudele. Ma da altra parte avea Giunon condotto (consentendol Minerva) entro le mura d’Atene il mesto attonito drappello delle vedove argive: essa l’affetto 695 lor del popolo acquista. Essa a i lor pianti pietà concilia e onore; essa lor porge di supplichevol benda i rami cinti, e insegna loro a ricoprir col manto il volto e gli occhi, ed a mostrar dolenti 700 delle ceneri vôte in mano l’urne. Fuor dell’attiche case escono a prova d’ogni età, d’ogni sesso, e già le strade sono ripiene, e son coperti i tetti. Onde vien questa turba? E da qual parte 705 tante misere insieme? Ancor non sanno la cagion che le mena e i lor disastri, e già tutti ne piangono. La Dea tra i drappelli si mesce, e il tutto narra: la patria, la cagion de i loro pianti; 710 che bramino in Atene; ed esse ancora in varie parti accusano, fremendo, l’empia legge di Tebe e il fier Creonte. Non con tanto rumor le rondinelle narran con tronchi accenti a i tetti amici 715 del lascivo Tereo lo stupro infame, il doppio letto e la crudel vendetta. Nel mezzo a la città sorgeva un tempio non dedicato a i più possenti Numi, ma eretto in sede a la Clemenza, e sacro 720 fatto l’aveva miserabil gente. Ognor supplici nuovi, e ognor le preci sono esaudite. Ognun s’ascolta: aperto è il dì e la notte, e a mitigar la Dea bastano solo le querele e i pianti. 725 Parco n’è il culto: non l’incenso, o il sangue delle vittime pingui ivi s’adopra. Son di lagrime aspersi i miti altari, pendono in voto le recise chiome e le vesti da i miseri lasciate, 730 che a fortuna miglior condusse il Nume. Placida selva il cinge, in cui verdeggia il sacro lauro e il supplicante olivo. Ma non v’è simulacro, e della Dea nessuna immago in vivo bronzo espressa: 735 le menti e i cori d’abitar sol gode. Sempre di meste turbe e bisognose e supplicanti è pieno il luogo, e solo a i fortunati è quell’altare ignoto. Fam’è che i figli dell’invitto Alcide, 740 poi ch’arse in Eta e al cielo ascese il padre cangiato in Dio, dall’attiche falangi contro Euristeo difesi, alla Pietade ergesser l’ara; ma minor del vero è questa fama; e più credibil sembra 745 che i Numi stessi, a cui diè albergo e sede ospite Atene, come a quella diero leggi e costumi, sacrifizi e l’arte di coltivare e seminar la terra, che fu poi sparsa in peregrine piagge: 750 così sacrasser quivi a gl’infelici un asilo sicuro; onde lontane fosser ire e minacce, e i regni iniqui, e dal quel giusto altare andasse in bando la malvagia Fortuna e i Fati avversi. 755 Ad ogni gente è di già noto il tempio; e i vinti in guerra e gli esuli, e dal trono i Re scacciati, e quei che per errore, non per rea volontà commiser fallo, vi concorreano a gara, e chiedean pace. 760 L’ospital sede avea poc’anzi accolto Edippo, e sciolto da sue furie antiche; e dall’eccidio preservata Olinto; e dalla madre liberato Oreste. Ivi, additando lor l’attica plebe 765 il tempio, entrâr le sconsolate Argive, e dieron luogo le primiere turbe degl’infelici. Appena entrate furo, che ne i lor petti si calmâr gli affanni. Così cacciate dal natio Aquilone 770 dal freddo Polo a più soave clima, in discoprir le gru l’amata Faro, stendon per l’aria la volante nube, e di lieti clamori empiono il cielo. Dolce è loro sprezzar nel caldo Egitto 775 le fredde nevi, e l’importuno gelo scior del tepido Nilo in su le sponde. Ma gli applausi festivi, e della plebe le grida, che feriscono le stelle, e il lieto suon delle guerriere trombe 780 annunzio dàn che di già vinte e dome le fiere Scite, vincitor ritorni sul carro trionfale il gran Teseo. Precedono le spoglie, e pria l’immago del fiero Marte; indi i falcati carri 785 e i destrier privi delle lor guerriere, e le bipenni infrante, onde le donne troncar le selve ed ispezzare il ghiaccio solean della meotica palude; e salmerie d’elmi, di piume e d’archi, 790 e le lievi faretre; e risplendenti di varie gemme i militari cinti, e scudi aspersi del femmineo sangue. Seguono poi le Amazzoni sicure, ancorchè vinte; nè si mostran donne, 795 nè quai donne si lagnano; e a le preci sdegnano di piegarsi, e cercan solo della vergine Palla il culto e il tempio. Ma il più gradito oggetto era Teseo su carro eccelso, cui traean superbi 800 quattro destrier vie più che neve bianchi: nè Ippolita è minor vaghezza e spene del popolo, già placida in sembiante e al dolce nodo maritale avvezza. Ne mormoran fra lor l’attiche donne, 805 e torve la rimirano fremendo ch’essa i patrii costumi in abbandono lasci, e le chiome adorni, i membri copra con lungo manto, e nella grande Atene entri vinta in trionfo, e al vincitore 810 consorte a partorir d’Egeo nel letto. S’allontanaro allor dal sacro altare alcuni passi le dolenti greche, e in ammirare e l’ordine e le spoglie del superbo trionfo, i vinti sposi 815 (crudele oggetto!) a lor tornaro in mente. Ma poi che il carro soffermossi, ed alto richiese la cagion di lor querele il vincitore, e a le preghiere porse favorevole orecchio, a parlar prese 820 di Capaneo la valorosa moglie: - Magnanimo figliuol del grande Egeo, cui da le nostre stragi esce improvvisa occasïon d’eterna lode e fama; noi non venghiamo a te turba straniera, 825 nè rea d’alcun misfatto: Argo la culla ci diede, e furon Regi i nostri sposi; così non fosser stati audaci tanto! Perchè, a qual pro muover ben sette campi, per castigar d’Agenore i nipoti? 830 Nè però ci dogliam della lor morte: queste di guerra son leggi e vicende. Ma quelli che cadêr, non fur Ciclopi mostri prodotti nell’etnee caverne, e non biformi abitator dell’Ossa: 835 taccio la stirpe e i generosi padri. Uomini fur, magnanimo Teseo (basti sol tanto), e d’uman seme nati, ed ebbero con voi comune il cielo, la patria e l’alme e gli alimenti stessi 840 color che esclude da gli estremi fuochi l’empio Creonte e da le stigie porte; (come s’ei fosse il torbido Acheronte, onde nacquer l’Eumenidi spietate, o il reo nocchier dell’infernal palude) 845 e fa gir l’Ombre vagabonde e incerte tra l’Erebo e le stelle. O delle cose produttrice Natura, e tu il consenti? E dove sono i Numi? E dell’ingiusto fulmine vibrator l’iniquo Giove? 850 Atene, e dove sei? Già sette volte sorgendo in cielo, volse altrove il carro spaventata l’Aurora, e oscurò il lume, e con orror li rimirâr le stelle: e già il putrido cibo odian le fiere, 855 e gli avoltoi, e quell’infame campo, che lezzo spira e l’aer puro aggrava. Siane permesso almeno arderne l’ossa e il putridume: e che di lor più resta? Su, Cecropii, affrettatevi; a voi tocca 860 questa vendetta: pria che mossi a sdegno vengan gli Emazi ed i feroci Traci, e quanti son ch’usan d’esequie e fiamme dopo la morte aver gli estremi onori. Perchè a l’incrudelir qual fia prescritto 865 termine o meta? Noi pugnammo, è vero; ma morîr colla morte e gli odii e l’ire. Tu pur (chè ancor a noi delle tue imprese la fama giunse) non lasciasti a i mostri Sini e Cercione, e con dolor mirasti 870 il barbaro Sciron privo di rogo; e ancor la Tana, onde cotante spoglie ora riporti, certa son che vide delle Amazzoni sue fumar le pire. Deh questo ancora a i tuoi trïonfi aggiungi, 875 sol questa impresa al mondo, al cielo, a Dite, questa sol opra intrepido concedi. Se d’ogni tema Maraton sciogliesti, se del Mostro biforme il Laberinto tu superasti, se non pianse invano 880 l’ospite vecchia; così teco ognora sia Minerva in battaglia, e non invidii, già fatto Dio, l’emule imprese Alcide: e sempre in carro trionfal ti veggia la genitrice, e sempre invitta Atene 885 mai non senta un dolor simile al nostro. - Disse; e l’altre approvare, e fra le strida supplichevoli a lui teser le mani. Prima arrossì Teseo mosso da i pianti; indi di giusto sdegno il cuore acceso 890 così esclamò: - Qual nuova Furia a i regni insegnò tai costumi? Io non lasciai così barbari i Greci, allor ch’a i Sciti, varcando il freddo Eusino, il cammin volsi. D’onde il nuovo furor? Forse, Creonte, 895 credevi tu che più Teseo non fosse? Eccomi, e non ancor sazio di sangue. Del sangue de i tiranni è sitibonda ognor quest’asta. Ma che indugio? Sprona a quella parte, o fido Fegeo, e giunto 900 alle anfionie rocche altero intíma o il rogo a i Greci, o mortal guerra a Tebe. - Sì dice; e delle pugne e del cammino scordato, i suoi conforta; e per un poco l’affaticato esercito ristora. 905 Siccome toro che pur or l’amata e il pasco antico vincitore ottenne, e ne gode tranquillo e si riposa; se ode lungi muggir nuovo nemico, quantunque ancor grondino il collo e il petto 910 di fresco sangue, rinnovella l’ire, cela il dolor, sparge col piè l’arena, e le ferite sue copre di polve. Lo scudo scosse, onde si copre il petto, Pallade istessa; e l’orrido Gorgone, 915 e gli angui, che le fan crine e corona, gonfiaro i colli e rimiraron Tebe: nè ancor movevan l’attiche falangi, e già Dirce temea le trombe ostili. Non sol la gioventude a l’armi avvezza, 920 che a parte fu del scitico trionfo, segue l’eccelse vincitrici insegne del duce invitto; ma v’accorron pronti e volontari i popoli vicini. Vengono quei che di Munichio i colli 925 e il gelido Braurona apron co i solchi; e quei che sul Pireo, fido ricetto a i nocchieri e a le navi, hanno la sede: nè ancor famosa per le palme Eoe, sua gente al campo Maratone invia: 930 e le case d’Icario e di Celeo, ospiti amiche a i Genïali Dei; e le verdi Melene; e d’ombre e boschi Egalo pieno, e delle sacre viti abbondevole Parne, e Licabesso 935 stimabil più per le feconde olive. Vengono i fieri Illei, ed i cultori d’Imetto lascian gli odorosi favi; e Acarne, che di verde edera veste i rozzi tirsi; e Sunïone altiera, 940 che da le prore Eoe lungi si scorge; onde ingannato da le false vele Egeo sen cadde, e diè suo nome al mare. E Salamina, e a Cerere divota la sacra Eleusi, le campagne inculte 945 lasciando, spingon le lor genti in guerra; e quelli ancor che nove volte intorno Calliroe cinge con girevol onda, e quei che bevon dell’Iliso l’acque; d’Iliso consapevole del furto 950 della vaga Orizía, e che cortese diede al tracio amatore occulto asilo. Resta deserto ancor l’ameno colle, ov’ebber lite i Dei, finchè repente il pacifico olivo uscì da i sassi, 955 e fe’ coll’ombra ritirare il mare. Ippolita anco l’iperboree schiere a le mura di Cadmo avria condotte; ma la ritarda la sicura spene del ventre grave, e il vincitor la prega 960 che di Marte si scordi, e che consacri al letto d’Imeneo faretra ed arco. Ma poi ch’ei vide intorno a sè raccolti i popoli feroci, e chieder guerra, e respirar sol l’armi, e dare in fretta 965 furtivi abbracci a le consorti e a i figli; da l’alto carro favellò in tal guisa: - O valorose schiere, accinte meco del mondo i patti e delle genti il dritto a vendicare; i generosi cuori 970 mostrate degni di sì giusta impresa. Pugneranno per noi uomini e Dei; ne fia scorta Natura; e fian con noi gli stessi abitator del muto Inferno. Condurran contro Tebe in ordinanza 975 esercito di pene e di tormenti l’anguicrinite Eumenidi spietate. Gitene lieti, e con sicura spene per sì giusta cagion d’aver vittoria. - Sì disse, e lanciò l’asta, e il campo mosse. 980 Così qualor la prima bruma e il gelo sciolse da l’Arto nuvoloso Giove, e irrigidiron gli astri; Eolo le porte disserra a i Venti: e impazïente il verno di più lungo riposo acquista forze, 985 e soffian gli Aquiloni. Allora i monti fremono e il mare; allor spezzate e rotte pugnan le nubi; allora i tuoni in cielo scorrendo vanno, e i fulmini volanti. Al muover dell’esercito possente 990 trema lungi la terra; e i verdi campi tritati e pesti de i destrier feroci da l’unghie gravi, e le campagne intorno, ove passâr di fanti e di cavalli le immense schiere, son ridotte in polve. 995 Nè però basta ad occultare il lume dell’armi; e in mezzo a quella densa nube si veggon balenar corazze ed aste. Vanno correndo il dì, nè li ritarda l’ombra notturna e il placido riposo. 1000 Han contesa tra lor, chi più veloce l’altro preceda, e chi primier discopra da lungi Tebe, e nell’Ogigie mura chi primo vibri il dardo o l’asta affigga. Ma nel lucido scudo impresse porta 1005 il sommo duce sue famose imprese, e delle glorie sue principio e fonte Creta, cento cittadi e il Laberinto. Lui stesso vedi nel confuso albergo torcer l’ispido collo al Minotauro, 1010 e in fiera lotta le robuste braccia legargli a tergo, e l’una e l’altra mano; E dal cozzare delle insane corna ritrarre il volto ed ischivarne i colpi. Quand’egli entra in battaglia e lungi mostra 1015 l’enorme belva, alto spavento ingombra le nemiche falangi in rimirarlo due volte aver le man di sangue tinte, la prima nello scudo, e l’altra in guerra. E s’ei talora vi rivolge il guardo, 1020 vede presenti il memorabil fatto, il drappel de i compagni, e l’aspre porte del formidabil tetto, ed Arïanna mesta temer che a lui non manchi il filo. Mandava intanto il fier Creonte a morte, 1025 legate di durissime catene, Antigone, e la vedova di Tebe, figlia del grande Adrasto. Ambe contente, e per gran voglia di morir superbe, offron la gola al ferro, e del tiranno 1030 deludono la spene e sprezzan l’ire; quand’ecco giunge il messagger d’Atene: porta egli in mano il ramuscel d’oliva segno di pace; ma fremendo e audace, in virtù di chi ’l manda, armi minaccia, 1035 e guerra intíma; e che Teseo è vicino, grida, e già ingombra colle schiere i campi. Restò sospeso fra contrarii nembi di diversi pensier l’empio tiranno, e mitigò l’orgoglio e le minacce. 1040 Pur si rinfranca, e simulando il riso ed il volto infingendo, al fin rispose: - Non basta dunque il memorando esempio d’aver pur or vinte Micene ed Argo, che nuova gente ad insultarci muove? 1045 Venga; ma vinta poi non si quereli, se avrà co i Greci una medesma legge. - Tacque, e vide repente immensa polve velare il giorno, ed adombrare i monti. Impallidisce, e frettoloso impone 1050 che s’armi il vulgo, e l’armatura ei veste. Ma tra fantasmi e larve entro la reggia vede baccar le Furie, e Meneceo torvo e piangente, e su i vietati roghi ardere i Greci, e festeggiarne l’Ombre. 1055 Quale fu mai quel giorno in cui la pace compra con tanto sangue e nata appena sparì da Tebe? Timidi e confusi rapiscon l’armi a i patrii Numi appese, e co i laceri scudi il petto coprono. 1060 Staccano gli elmi d’ogni fregio ignudi, e le saette ancor di sangue lorde. Non v’è chi si distingua, o chi risplenda per gemmata faretra o terso brando, o per destriero d’ostro e d’or guernito. 1065 Non si fidan nel vallo; in mille lati son le mura squarciate, e delle porte cercan le ferree spranghe, e l’opra è vana; chè le spezzaro i Greci; e torri e merli abbattè Capaneo: pigra ed esangue 1070 la gioventù non dà gli usati amplessi a le consorti, e i dolci baci a i figli, nè san quai voti far gli antichi padri. Ma poi che vide il capitan d’Atene spezzar le nubi e rischiarare il mondo 1075 il nuovo sole, e lampeggiar su l’armi; scende nel campo, ove stan l’Ombre inulte e giacciono i cadaveri insepolti; e in respirare, dentro il chiuso elmetto, delle fracide membra il grave olezzo, 1080 intenerissi e pianse, e in lui lo sdegno vie più forte s’accese alla vendetta. Da l’altra parte quest’onore almeno concesse a i Greci il perfido Creonte, che al nuovo Marte non guidò le schiere 1085 su i corpi estinti: della prima strage forse per conservar gli ultimi avanzi, e a bere il sangue un altro campo scelse. Ma già condotte avea le genti a fronte la disugual Bellona: un grido istesso 1090 non è d’ambe le parti, e delle trombe non è simile il suono. Inferma e lenta quindi sen vien la gioventù tebana co i brandi chini, e strascinando l’aste, e cedendo il terren, co i scudi a tergo 1095 mostran grondanti ancor le prime piaghe. E già i Cecropii stessi il primo ardore vanno perdendo, e cessan le minacce, e langue la virtù senza contrasto. Così minor è l’impeto de i venti, 1100 se non s’oppone al lor furor la selva; e se non frange a i lidi, il mar non freme. Ma poi che l’asta maratonia in alto alzò il figlio d’Egeo, la cui grand’ombra stese l’orror su l’inimiche schiere, 1105 e il balenar del ferro ingombrò il campo; qual se da l’Emo i corridori traci Marte sospinga, e seco in carro porti e morte e fuga; le agenoree schiere pallide danno il tergo e in rotta vanno: 1110 fassi della vil plebe aspro governo dagli altri tutti; ma Teseo non degna contro chi fugge usar la forza e l’armi. Così l’esangue ed abbattuta preda a i cani piace ed a i codardi lupi; 1115 ma si pasce il leon di nobil ira. E pure Olenio abbatte, e il fier Tamiro; l’uno scegliea da la faretra i dardi, l’altro alzava da terra un sasso immenso. Quindi i figli d’Alceo, c’hanno fidanza 1120 nella triplice union, con tre grand’aste tutti da lungi un dopo l’altro uccide: a Fileo il petto, ad Elope la gola, e nella spalla Japige trafisse. Poi con quattro destrier su carro eccelso 1125 Emone ei scorge, e orribil asta vibra. Quegli i destrieri timidi rivolge in fianco, e cede; lungo tratto vola la ferrea trave, e due cavalli uccide, ed il terzo fería; ma vi si oppose 1130 il timone, ed in sè ritenne il colpo. Ma gli altri non curando il gran Teseo, solo brama co i voti e colle grida il fier Creonte, e lui sol cerca e chiama. Ed ecco il vede dall’opposto corno 1135 esortar le sue schiere, e con minacce spingerle, lor malgrado, a la battaglia. Al comandar del duce, indietro il passo ritirano i Cecropii, e il lascian solo, affidati ne i Numi e in suo valore; 1140 ma l’altro i suoi ritiene, e li rappella e poi che vide che egualmente in ira era a i nemici ed a le proprie squadre, tutto raccolse il suo furore estremo, e infurïando disperatamente, 1145 lo fe’ più audace la vicina morte. - Queste non son le verginali destre (dice) con cui pugnasti, e qui non sono di lievi targhe le guerriere armate. Qui pugnerai co i forti: e noi siam quelli 1150 per le cui mani il gran Tideo sen giace. Noi uccidemmo Ippomedonte altero, e noi mandammo Capaneo fra l’Ombre; e qual follia ti spinse a farne guerra? Mira color che a vendicare aspiri, 1155 come deformi giacciano e insepolti. - Così diss’egli, e lanciò l’asta indarno, chè lo scudo toccando, a terra cadde. Sorrise amaramente il fiero Egide, e disprezzando le minacce e il braccio, 1160 ferrata trave innalza, e il colpo libra; ma pria lo sgrida con parlar superbo: - Ombre argive insepolte, a cui consacro questa vittima infame in olocausto, spalancate l’Inferno, e preparate 1165 le Furie ultrici, ecco sen vien Creonte. - Vola la fatal asta, e l’aria fende, e le anella del giaco, ond’ei raddoppia, sotto l’usbergo, le difese al petto, smaglia e fracassa, e fuor per cento vie 1170 della rotta lorica il sangue sgorga. Cad’egli, e in morte gli occhi erranti scioglie. Teseo gli è sopra, e col gran pie’ lo preme, e dell’armi lo spoglia, e lo rampogna: - Crudel, ti piace ancor le giuste fiamme 1175 dare agli estinti, e gl’infelici Greci coprir di terra? Or vanne, ove t’aspetta il dovuto supplizio; e va sicuro che il corpo tuo non mancherà d’avello. - Morto il tiranno, l’uno e l’altro campo 1180 mesce le insegne, e porgonsi le destre, e germoglia la pace in mezzo all’armi; ed ospite è Teseo, non più nemico. Lo pregano che il piede entro le mura ponga, ed onori i lor paterni alberghi; 1185 e lor compiace il vincitor cortese. Tutto va in festa, e con piacer l’accoglie la turba delle madri e delle spose. Così già domi i popoli del Gange, ebri e giulivi e ’l crin di fronde cinti, 1190 lodâr di Bacco i sacrifizi insani. Quando di grida e di femminei pianti suonâr le opposte selve, e giù da i colli sceser di Dirce le pelasghe madri e le vedove afflitte; in quella guisa 1195 che van talor le furïose Menadi chiamate al suon de i timpani e de’ cimbali, che par, cotanto son feroci e tumide, che fuggan dal delitto, o che vi corrano. Godono ne i lamenti, e trionfando 1200 vanno fra i pianti: un impeto, un tumulto nasce fra lor; se prima al gran Teseo corrano a rendere i dovuti onori, o a incrudelire nel tiranno ucciso, o ad accender le fiamme a i corpi amati: 1205 vedovanza e pietà le guida a i corpi. Non io, sebben mi fecondasse il petto con cento voci alcun benigno Nume, dell’umil volgo e de i sublimi Regi cotanti roghi e tanti pianti insieme 1210 con degno carme raccontar potrei: come l’audace Evadne in mezzo al fuoco si lanciasse a cercar, del gran consorte per entro il seno, il fulmine celeste: come distesa su le fiere membra 1215 Deifile fra i baci il suo Tideo scolpando vada; come Argia racconti il furor de i custodi a la germana: con quali strida la parrasia madre chiami Partenopeo; Partenopeo, 1220 che serba ancor beltà nel volto esangue; Partenopeo, cui piansero ambi i campi. Non novello furor, novello Apollo tante cose potria stringer cantando. E già rotte ho le vele, e i remi stanchi, 1225 e già la nave mia domanda il porto. Ma tu, cara Tebaide, al cui lavoro sudai due stati sotto ’l Sirio ardente ed altrettanti verni infra le brume alsi e gelai, dopo la morte nostra 1230 avrai tu vita e fama? E fia che alcuno in questo nuovo stil ti legga e onori? Certo, so ben, tra i più sublimi ingegni, che te videro ancora incolta e rozza, molti vi son che me ne dan speranza. 1235 Vivi felice: e come l’altra un tempo l’orme seguì del gran Cantor di Manto, che innalzò al ciel con sì famosa tromba il figliuolo d’Anchise e della Diva; così tu ancor di nuovi fregi adorna 1240 nell’etrusca dolcissima favella l’armi pietose e ’l Capitan rispetta; e se ben nata su le stesse sponde, da lungi adora il Ferrarese Omero. E se avverrà che te l’invidia adombri, 1245 dileguerassi: e la futura etade ti darà forse i meritati onori; posciachè dal suo fral mio spirto sciolto, onde partì, ritornerà fra gli astri.

No comments:

Post a Comment