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Thursday, May 31, 2012

Seicento

Speranza L’introduzione del teatro d’opera è una delle novità musicali più rilevanti del secondo Cinquecento e Seicento italiano. Allo spettacolo operistico concorrono risorse produttive e organizzative molteplici: librettisti, compositori, cantanti, scenografi, ballerini partecipano ad un prodotto artistico che si fa ora pubblica esibizione dell’autorità sovrana di chi sovvenziona l’allestimento, ora divertimento cittadino collettivo del pubblico pagante. Il libretto, riflesso della messa in scena, è spesso l’unica testimonianza di uno spettacolo. Per i tecnici, esso è un materiale artistico da rielaborare. Per i lettori-spettatori, esso è tanto un sussidio all’ascolto e alla visione quanto un testo letterario autonomo. Opera di corte e Opera impresariale Nel trattato Della cristiana moderazione del teatro (Firenze, Bonardi, 1652), il gesuita Giovan Domenico Ottonelli individua tre diverse fasi dell’opera in musica: La prima fase cortigiana comprende «commedie cantate [...] ne’ palazzi de’ principi grandi e d’altri signori secolari o ecclesiastici». Ne è un esempio l’"Orfeo" data a Firenze nel 1600 per le nozze regie di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia (libretto di Ottavio Rinuccini e musiche di Peri e Caccini. La seconda fase raduna le opere rappresentate da «gentiluomini o cittadini virtuosi o accademici eruditi»; come l’"Orfeo" di Alessandro Striggio (musica di Claudio Monteverdi), dato a Mantova nel 1607 dai membri dell’Accademia degli Invaghiti, protetta dai Gonzaga. La terza fase include le produzioni fatte nei teatri pubblici «da que’ mercinarii musici che sono commedianti di professione». Il fenomeno ha il suo fulcro a Venezia, dove prende piede a partire dalla recita dell’"Andromeda" di Manelli e Ferrari (1637). L’opera di corte – come quella accademica – è un evento celebrativo unico, irripetibile, decoro di una circostanza dinastica o diplomatica, offerta a un pubblico selezionato di invitati e prova della munificenza del sovrano che ne stampa musiche, descrizioni e scene perché ne giunga notizia anche a chi non vi ha assistito di persona. La sfarzosità degli allestimenti, l’impiego della manodopera di corte, l’esaltazione della munificenza e del saldo potere sovrano sono quelli degli spettacoli di corte del ’500. L’opera impresariale è invece per sua natura ripetibile, è un investimento incerto per gli organizzatori e gli spettatori vi partecipano acquistando il biglietto d’ingresso a teatro e i libretti stampati in-12°. Contamina le fattezze e le pretese dell’opera di corte coi modelli organizzativi della commedia dell’arte, di cui occupa “fisicamente” gli stessi teatri. Alla fine del ’600 questo modello soppianta quasi del tutto quello curtense. Il dramma per musica dei primi del ’600 è in rapporto stretto col teatro rinascimentale. Il nesso emerge sin dalla forma in versi sciolti (endecasillabi e settenari concatenati senza una successione di rime prestabilita), tipica del teatro regolare italiano e teorizzata da G. B. Giraldi Cinzio (1504-1573) come la più adatta ai dialoghi e ai monologhi scenici. Cfr. "Discorso over lettera intorno al comporre delle comedie e delle tragedie, Venezia, De Ferrari, 1554. I modelli letterari più diretti sono le favole pastorali del Tasso e del Guarini. Via via che si consolida, il nuovo genere codifica le sue leggi. Secondo l’anonimo autore del Corago (post 1628), il metro poetico dei drammi per musica deve «usare varietà e stravaganze» che permettano «al musico di uscire dall’uniformità»: a questo servono le «canzonette di diverse arie», spesso strofiche su versi misurati o modellate su forme letterarie canoniche (madrigale, ottava rima, canzone), in uso tra i monodisti. Nel "Apollo e Dafne" (1594) e nell'"Orfeo" (1600) di Rinuccini, nel "Rapimento di Cefalo" (1600) del Chiabrera esse si situano soprattutto nei prologhi e nei cori. Quanto ai soggetti da sceneggiare, si scelgono le favole mitiche, i testi ovidiani e le invenzioni pastorali: la Favola d’"Orfeo" di Striggio (1607), l’"Aurora ingannata" di Ridolfo Campeggi (1608), la "Galatea" del Chiabrera (1614). Nei primi quarant’anni del ’600 molte corti italiane ( Ferrara Firenze Mantova Parma Piacenza Roma) eleggono l’opera a forma d’intrattenimento ufficiale. L’apporto maggiore al consolidamento delle convenzioni è dato dall’ambiente romano degli anni ’30 e ’40, con gli spettacoli patrocinati dai nipoti di papa Urbano VIII Barberini. I soggetti variano e le opere, allestite su base stagionale, mancano del contesto celebrativo occasionale dei lavori fiorentini e mantovani. Più che al mito e alla pastorale, pur presenti ("L’Eumelio" del 1606, la "Morte d’Orfeo" del 1619, la "Diana schernita" del 1629) si predilige l’agiografia. Tra i culturi del genere vi è Giulio Rospigliosi (1600-1669), futuro papa Clemente IX, con il "Sant’Alessio" (1631), i Santi Didimo e Teodora (1635), il San Bonifazio (1638), La Genoida (1641), il Sant’Eustachio (1643), la Comica del cielo (1668). Il dialogo recitativo è interrotto da cori e scenette buffonesche. Più innovativo è l’altro filone coltivato da Rospigliosi, quello della drammatizzazione d’episodi di celebri opere letterarie: l’"Erminia" sul Giordano dalla Gerusalemme liberata del Tasso (1633, musica di Michelangelo Rossi), "Chi soffre speri" da Boccaccio (1637, musica di Virgilio Mazzocchi e Marco Marazzoli), la Lealtà con valore ossia Il palazzo d’Atlante dall’Ariosto (1642) affiancano "La catena d’Adone" dal Marino (1626) e il Ritorno d’Angelica nell’Indie dall’Ariosto (1632) di Tronsarelli. Il recitativo s’abbassa di tono ed evidenzia i momenti di canto arioso, i lamenti dei protagonisti, le ariette comiche dei subalterni. A Padova, dove manca una corte principesca, la cura degli spettacoli è affidata al nobile Pio Enea degli Obizzi, promotore di tornei e feste teatrali anche a Ferrara e Bologna. L’opera in musica non è pensata come forma di spettacolo autonoma, ma è parte integrante di eventi cui la recitazione, la danza, il canto, la scenotecnica conferiscono varietà. Rientra in questa tradizione l’Ermiona datal’11 aprile 1636 (testi dello stesso Obizzi e musiche di Giovanni Felice Sances) che conserva la sontuosità e lo sfoggio macchinistico dell’opera di corte, ma si rivolge a un pubblico misto di «nobili stranieri», «scolari», «rettori e nobili veneti», «gentildonne» e «gentiluomini». Nel carnevale del 1637 il reggiano Benedetto Ferrari, alla guida una compagnia composta da alcuni dei musicisti dell’Ermiona e da cantanti della cappella di San Marco, affitta il Teatro San Cassiano e mette in scena a spese proprie l’Andromeda (testo di Ferrari e musiche di Francesco Manelli). L’anno seguente lo stesso gruppo dà la Maga fulminata, ancora a spese proprie. Nel 1639 Ferrari e Manelli passano al Teatro SS. Giovanni e Paolo. In concorrenza, nel S. Cassiano subentra una nuova compagnia capeggiata da Francesco Cavalli (1602-1676), che debutta con "Le Nozze di Teti e di Peleo" (libretto di Orazio Persiani). D’ora in poi lo spettacolo musicale s’inserirà istituzionalmente negli annuali festeggiamenti di carnevale. Da subito si dedicano al teatro musicale esponenti dei rami cadetti di famiglia aristocratica e letterati di professione. La regolarità della vita teatrale veneziana esige sempre nuovi testi da mettere in musica; ciò spinge i letterati a prestazioni concorrenziali e a ritmi produttivi frenetici. Le tecniche di scrittura degl’intrecci sono gradualmente standardizzate: due (o tre) coppie d’amanti sono prima separate e poi ricongiunte dopo equivoci e peripezie. Colpi di scena, canti nel sonno, monili scambiati, liete agnizioni costellano la narrazione e divengono convenzioni irrinunciabili. Il libretto assume stabilmente la forma in tre atti. Contribuiscono allo sviluppo dell’opera commerciale i librettisti vicini all’Accademia degli Incogniti, club di intellettuali libertini professanti lo scetticismo verso ogni autorità precostituita. Gli autori rivendicano la novità letteraria dei loro drammi in nome del gusto del secolo “moderno” anche nell’aperta violazione delle unità pseudoaristoteliche di tempo e di luogo. Seguono queste tendenze la Delia (1639)e la Finta pazza (1641) di Giulio Strozzi, l’Amore innamorato (1642) di Giovan Battista Fusconi, l’Incoronazione di Poppea (1643) di Giovan Francesco Busenello , il Giasone , l’Orontea e gli Amori di Alessandro Magno e Rossane di Giacinto Andrea Cicognini. La struttura economica ed artistica del teatro d’opera veneziano si diffonde in breve tutta Italia. La finta pazza di Strozzi, celebrata per la novità del soggetto e per le sontuose scenografie, fu scelta da una delle prime compagnie itineranti, i Febiarmonici di Giovan Battista Balbi, per una tournée attraverso il circuito dei teatri pubblici italiani nel 1644-1645. Tra le opere più fortunate fuori Venezia vi sono la Delia e la Maga fulminata di Manelli-Ferrari, il Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi, l’Egisto di Faustini-Cavalli http://amsdottorato.cib.unibo.it/226/, il Giasone di Cicognini-Cavalli. Alla fortuna dei Febiarmonici segue l’istituzione di teatri d’opera stabili nelle maggiori città d’Italia. A Napoli l’opera serve alla propaganda politica e all’intrattenimento di corte: il viceré spagnolo Oñate recluta professionisti dell’opera per l’allestimento, con ingresso a pagamento, della Didone di Busenello-Cavalli (1650) nella stanza del Pallonetto di Palazzo Reale; nel 1652 la Veremonda di Strozzi-Cavalli inaugura la nuova sala per gli spettacoli nel Palazzo Reale. La vita teatrale italiana mostra tendenze locali autonome; ne sono esempio le allegorie politiche di Francesco Sbarra recitate a Lucca (La corte, 1657 e La tirannide dell’interesse, 1658) o i drammi di Carlo Maria Maggi dati al Regio Teatro Ducale di Milano tra il 1672 e il 1675 (Il trionfo d’Augusto in Egitto, La Bianca di Castiglia, Affari ed amori) e ammiccanti alla drammaturgia spagnola coeva. Il genere comico s’irradia in particolare a Roma: Filippo Acciaiuoli con Il Girello (1668), Domenico Contini con La donna ancora è fedele (1676) e Gl’equivoci nel sembiante (1679). Ancora sul finire del secolo sopravvivono i temi mitologici (Elena rapita da Paride, 1674, Medea in Atene, 1676 e Teseo tra le rivali, 1685 di Aurelio Aureli; Amore innamorato di Matteo Noris, 1686). Perdura la vena romanzesca e furoreggiano le vicende storiche greche, ellenistiche e romane (Leonida in Tegea di Minato, 1676; Germanico sul Reno di Corradi, 1676; Laodicea e Berenice di Noris, 1695; Gl’inganni felici di Zeno, 1696).

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