Wednesday, May 30, 2012
Il canto del capro: carmine qui tragico vilem certavit ob hircum -- "e chi gareggiò nell'agone tragico per il misero caprone" Orazio, Arte poetica 220
Ossia il melodramma.
Speranza
La tragedia greca è un genere teatrale nato nell'antica Grecia.
Sorta dai riti sacri della Grecia e dell'Asia minore raggiunse la sua forma più significativa nell'Atene del V secolo a.C. Precisamente, la tragedia è l'estensione in senso drammatico, cioè secondo criteri prettamente teatrali, di antichi riti in onore di Dioniso, dio della natura.
Come tale fu tramandata fino al romanticismo, che apre, molto di più di quanto non avesse fatto il Rinascimento, la discussione sui generi letterari.
Il motivo della tragedia greca è strettamente connesso con l'epica, cioè il mito, ma dal punto di vista della comunicazione la tragedia sviluppa mezzi del tutto nuovi.
Il mythos (μύθος, parola, racconto) si fonde con l'azione, cioè con la rappresentazione diretta (δρᾶμα, dramma, deriva da δρὰω, agire), in cui il pubblico vede con i propri occhi i personaggi che compaiono come entità distinte che agiscono autonomamente sulla scena (σκηνή, in origine il tendone dei banchetti), provvisti ciascuno di una propria dimensione psicologica.
I più importanti e riconosciuti autori di tragedie furono Eschilo, Sofocle ed Euripide, che affrontarono i temi più sentiti della Grecia del V secolo a.C.
Il problema dell'origine della tragedia non appartiene alla storia della letteratura greca.
Per essa, la tragedia comincia soltanto con Eschilo, tutt'al più con Frinico, poiché per essa non esiste una tragedia prima della tragedia, e il problema dell'origine è un problema di preistoria.
L'origine della tragedia greca è uno dei tradizionali problemi irrisolti della filologia classica.
La fonte primaria di questo dibattito è "La Poetica" d'Aristotele.
Aristotele poté raccogliere una documentazione di prima mano, a noi oggi inaccessibile, sulle fasi più antiche del teatro in Attica, la sua opera è dunque contributo inestimabile per lo studio della tragedia antica, anche se la sua testimonianza non è esente da dubbi.
Secondo Aristotele, la tragedia sarebbe un'evoluzione del
"ditirambo satiresco",
un particolare tipo di ditirambo eseguito da satiri e introdotto da Arione di Metimna.
Il termine "τραγῳδία", pertanto, deriverebbe da τράγος[ e significherebbe «canto del capro», in riferimento al coro dei satiri.
Il genere sarebbe sorto nel Peloponneso.
I grammatici alessandrini intesero il termine "τραγῳδία" come «canto _per il sacrificio_ del capro» o «canto _per il_ capro», ritenendo l'animale premio di una gara, come attestato anche dall'"Arte poetica" d'Orazio:
"carmine qui tragico vilem certavit ob hircum" ("e chi gareggiò nell'agone tragico per il misero caprone")
-- Quinto Orazio Flacco, Ars poetica, v. 220.
Il genere sarebbe nato in Attica e avrebbe affondato le proprie radici in alcuni particolari riti del culto locale di Dioniso[4].
All'origine della tragedia gli antropologi avrebbero individuato, come appunto sembrerebbe confermare l'etimologia stessa della parola, un rito sacrificale propiziatorio in cui molte popolazioni tribali offrono ancora oggi animali agli déi, soprattutto in attesa della messe o di una partita di caccia.
Momenti cruciali che scandivano la vita degli antichi erano infatti i mutamenti astrali (equinozi e solstizi che segnavano il passaggio da una stagione all'altra).
I sacrifici avvenivano dunque in questi momenti, ad esempio poco prima dell'equinozio primaverile, per assicurarsi l'avvento della buona stagione.
In epoca preistorica recente, tali sacrifici dovettero trasformarsi in danze rituali in cui era raffigurata la lotta primordiale del bene, il giorno, la luce, quindi la bella stagione, contro il male (la notte e l'inverno), e il trionfo finale del bene sul male.
Rimangono però molti punti oscuri sull'origine della tragedia, a partire dall'etimologia stessa della parola
τραγῳδία.
Si distinguono in essa le radici di "capro" (τράγος) e "cantare" (ᾄδω), sarebbe quindi
"il canto per il capro".
Il senso da attribuire al "capro" è ancora oggetto di numerose interpretazioni.
Di certo, l'animale (sia esso capretto o agnello) è da intendersi come primizia da offrire, come bene del quale l'uomo si priva in un momento sacro (sia che esso venga offerto al dio stesso come vittima sacrificale, e si ricordi che il capretto è animale sacro a Dioniso, sia che esso sia premio consegnato al vincitore dell'agone tragico che si svolgeva durante le feste in onore di Dioniso).
Una teoria più recente (J. Winkler) fa derivare "tragedia" dal vocabolo raro "τραγὶζειν", che significa "cambiare voce, assumere una voce belante come i capretti", in riferimento agli attori.
A meno che, suggerisce D'Amico, "tragoidía" non significhi più semplicemente «canto dei capri», dai personaggi satireschi che componevano il coro delle prime azioni sacre dionisiache.
Altre ipotesi sono state tentate, in passato, tra cui una etimologia che definirebbe la tragedia come un'ode alla birra.
Quello che è possibile affermare con certezza è che la radice "trag-" , anche prima di riferirsi al dramma tragico, fu utilizzata per significare l'essere "simile ad un capro", ma anche la selvatichezza, la libidine, il piacere del cibo, in una serie di parole derivate che gravitano intorno alla «zona» linguistica del rito dionisiaco.
Scrive Aristotele nella Poetica che la tragedia nasce all'inizio dall'improvvisazione, precisamente "da coloro che intonano il ditirambo" (ἀπὸ τῶν ἐξαρχόντων τὸν διθύραμβον,
apò tōn exarchòntōn tòn dithýrambon),
un canto corale in onore di Dioniso.
All'inizio queste manifestazioni erano brevi e di tono burlesco perché contenevano degli elementi satireschi.
Poi il linguaggio si fece man mano più grave e cambiò anche il metro, che da tetrametro trocaico, il verso più prosaico, divenne trimetro giambico.
Questa informazione è completata da un passo delle Storie (I, 23) di Erodoto e da fonti successive, in cui il lirico Arione di Metimna è definito inventore del ditirambo.
Il Ditirambo, in origine improvvisato, assume poi una forma scritta e prestabilita. Il coro s'indirizzava al thymele (θυμέλη), l'ara sacrificale, e cantava in cerchio, disponendosi intorno ad essa.
Gli studiosi hanno formulato una serie di ipotesi riguardo al modo in cui si sia compiuta l'evoluzione dal ditirambo alla tragedia.
In generale, si ritiene che ad un certo momento dal coro che intonava questo canto in onore di Dioniso il corifeo, ossia il capocoro, si sarebbe staccato e avrebbe cominciato a dialogare con esso, diventando così un vero e proprio personaggio.
In seguito sarebbe stato aggiunto un ulteriore personaggio, che non cantava ma parlava, chiamato hypocritès (ὑποκριτής, ossia "colui che risponde", parola che in seguito prenderà il significato di attore).
Probabilmente, il dialogo che in questo modo nacque tra attore, corifeo e coro diede vita alla tragedia.
Da canto epico-lirico, il
ditirambo diventa teatro.
Mentre nasceva e si strutturava la tragedia vera e propria, lo spirito più popolare dei riti e delle danza dionisiache sopravvissero nel dramma satiresco.
La tradizione attribuisce a Tespi la prima rappresentazione tragica, avvenuta nel 534 a.C. durante le Dionisie istituite da Pisistrato.
Si presuppone che fosse attico, appartenente al demo di Icaria.
Delle sue tragedie sappiamo poco, se non che il coro era ancora formato da satiri e che fu certamente il primo a vincere un concorso drammatico.
Aristotele sostiene che introdusse l'attore (ὑποκρίτης) che rispondeva al coro.
Inoltre Temistio, scrittore del IV secolo a.C., riferisce che sempre secondo Aristotele, Tespi abbia inventato il prologo e la "parte parlata" (ῥῆσις, rhesis).
Gli altri drammaturghi dell'epoca furono Cherilo, autore di probabilmente centosessanta tragedie (con tredici vittorie), e Pràtina di Fliunte autore di cinquanta opere di cui 32 drammi satireschi, di cui però ci sono pervenuti solo i titoli.
Da quel momento i drammi satireschi affiancarono la rappresentazione delle tragedie.
Pratina gareggiò sicuramente con Eschilo e operò dal 499 a.C.
Di Frinico cominciamo ad avere maggiori informazioni.
Aristofane ne tesse le lodi nelle sue commedie.
Nelle Vespe lo presenta come un democratico radicale vicino a Temistocle.
Oltre a introdurre nei dialoghi il trimetro giambico e ad utilizzare per la prima volta personaggi femminili, inventò il genere della tragedia ad argomento storico (La presa di Mileto), introducendo una seconda parte.
Ci si avviava, quindi alla trilogia, che sarà definitivamente adottata da Eschilo e dai suoi contemporanei.
La sua prima vittoria in un agone avvenne nel 510 a.C.
Sarebbe stato Eschilo a fissare le regole fondamentali del dramma tragico. A lui viene attribuita l'introduzione del secondo attore, che rese possibile la drammatizzazione di un conflitto, e della trilogia legata, che attraverso tre tragedie raccontava un'unica lunga vicenda. Le tragedie venivano rappresentate in sequenza nell'arco di un'intera giornata, dall'alba al tramonto. Alla fine della trilogia, veniva infine messo in scena un dramma satiresco per risollevare l'animo degli pubblico, incupito dalle vicende tragiche.
Nell'opera di Eschilo, confrontando le prime tragedie con quelle di anni successivi, notiamo una evoluzione e un arricchimento degli elementi propri del dramma tragico: dialoghi, contrasti, effetti teatrali[11]. Questo si deve anche alla concorrenza che il vecchio Eschilo aveva nelle gare drammatiche, soprattutto dal giovane Sofocle, che introdusse un terzo attore, rese più complesse le trame e sviluppò personaggi più umani, nei quali il pubblico potesse identificarsi.
Eschilo si mostrò almeno in parte recettivo nei confronti delle innovazioni sofoclee, ma rimase sempre fedele ad un estremo rigore morale e ad una religiosità molto intensa, che ha il suo perno in Zeus (che in Eschilo è sempre portatore del modo corretto di ragionare ed agire)[12]. Musicalmente Eschilo resta legato ai nomoi, strutture ritmico-melodiche sviluppatesi in età arcaica.
Plutarco, nella Vita di Cimone, racconta il primo trionfo del giovane talentuoso Sofocle contro il celebre e fino a quel momento incontrastato Eschilo, conclusasi in modo insolito, senza il consueto sorteggio degli arbitri, e che provocò il volontario esilio di Eschilo in Sicilia. Le innovazioni che Sofocle introdusse, e che gli guadagnarono almeno venti trionfi, riguardarono molti aspetti della rappresentazione tragica, dai dettagli più insignificanti (come i calzari bianchi e i bastoni ricurvi) fino a riforme più dense di conseguenze. Introdusse un terzo attore, che permetteva alla tragedia di moltiplicare il numero dei personaggi possibili, aumentò a quindici il numero dei coreuti, ruppe l'obbligo della trilogia, rendendo possibile la rappresentazione di drammi autonomi, introdusse l'uso di scenografie.[10]
Rispetto a Eschilo, i cori tragici sofoclei si defilano dall'azione, partecipano sempre meno attivamente e diventano piuttosto spettatori e commentatori dei fatti. Sofocle tentò di togliere l'enfasi (ónkos / ὄγκος) ai suoi personaggi, per restituirgli completamente la drammaticità, in un mondo descritto come ingiusto e privo di luce. Nell'Edipo a Colono, il coro ripete «la sorte migliore è non nascere». Gli eventi che schiacciano le esistenze degli eroi non sono in alcun modo spiegabili o giustificabili, e in questo possiamo vedere l'inizio di una sofferta riflessione sulla condizione umana, ancora attuale nel mondo contemporaneo.
Le peculiarità che distinguono le tragedie euripidee da quelle degli altri due drammaturghi sono da un lato la ricerca di sperimentazione tecnica attuata da Euripide in quasi tutte le sue opere e la maggiore attenzione che egli pone nella descrizione dei sentimenti, di cui analizza l'evoluzione che segue il mutare degli eventi narrati.
La sperimentazione attuata da Euripide nelle sue tragedie è osservabile essenzialmente in tre aspetti che caratterizzano il suo teatro: il prologo, che diventa sempre più un monologo espositivo che informa sull'antefatto, l'introduzione del deus ex machina e la progressiva svalutazione del coro dal punto di vista drammatico a favore della monodia cantata dai personaggi.
La novità assoluta del teatro euripideo è comunque rappresentata dal realismo con il quale il drammaturgo tratteggia le dinamiche psicologiche dei suoi personaggi. L'eroe descritto nelle sue tragedie non è più il risoluto protagonista dei drammi di Eschilo e Sofocle, ma sovente una persona problematica ed insicura, non priva di conflitti interiori. Le protagoniste femminili dei drammi, come Andromaca, Fedra e Medea, sono le nuove figure tragiche di Euripide, il quale ne tratteggia sapientemente la tormentata sensibilità e le pulsioni irrazionali che si scontrano con il mondo della ragione.[13]
La tragedia greca è strutturata secondo uno schema rigido, di cui si possono definire le forme con precisione. La tragedia inizia generalmente con un prologo[14] (da prò e logos, discorso preliminare), in cui uno o più personaggi introducono il dramma e spiegano l'antefatto; segue la parodo (ἡ πάροδος), che consiste in un canto del coro effettuato mentre esso entra in scena attraverso i corridoi laterali, le pàrodoi; l'azione scenica vera e propria si dispiega quindi attraverso tre o più episodi (epeisòdia), intervallati dagli stasimi, degli intermezzi in cui il coro commenta o illustra la situazione che si sta sviluppando sulla scena (o, più raramente, compie delle azioni); la tragedia si conclude con l'esodo (ἔξοδος), in cui si mostra lo scioglimento della vicenda.
I dialetti greci utilizzati sono l'attico (parlato ad Atene) per le parti parlate o recitate, e il dorico (dialetto letterario) per le parti cantate. Sul piano metrico, le parti parlate utilizzano soprattutto i ritmi giambici (trimetro giambico), giudicati i più naturali da Aristotele[15], mentre le parti corali ricorrono ad una grande varietà di metri, mescolando sovente giambi e dattili[16].
Come è già stato detto, il primo studio critico sulla tragedia è contenuto nella Poetica di Aristotele.
In esso troviamo elementi fondamentali per la comprensione del teatro tragico, in primis i concetti di
"mimesi" (μίμησις, dal verbo μιμεῖσθαι, imitare) e di
"catarsi" (κάθαρσις, purificazione).
Scrive nella Poetica:
"La tragedia è dunque
imitazione di una azione nobile e
compiuta [...] la quale per mezzo
della pietà e della paura provoca
la purificazione da
queste passioni".
In altre parole, gli eventi terribili che si susseguono sulla scena fanno sì che lo spettatore si immedesimi negli impulsi che li generano, da una parte
empatizzando
con l'eroe tragico attraverso le sue emozioni ("pathos"), dall'altra condannandone la malvagità o il vizio attraverso la hýbris (ὕβρις - Lett. "superbia" o "prevaricazione", i.e. l'agire contro le leggi divine, che porta il personaggio a compiere il crimine).
La nemesis finale rappresenta la "retribuzione" per i misfatti, punizione che fa nascere nell'individuo proprio quei sentimenti di pietà e di terrore che permettono all'animo di purificarsi da tali passioni negative che ogni uomo possiede.
La catarsi finale, per Aristotele rappresenta la presa di coscienza dello spettatore, che pur comprendendo i personaggi, raggiunge questa finale consapevolezza distaccandosi dalle loro passioni per raggiungere un livello superiore di saggezza.
Il vizio o la debolezza del personaggio portano necessariamente alla sua caduta in quanto predestinata (il concatenamento delle azioni sembra in qualche modo essere favorito dagli déi, che non agiscono direttamente, ma ex machina).
La caduta dell'eroe tragico è necessaria, perché da un lato possiamo ammirarne la grandezza (si tratta quasi sempre di persone illustri e potenti) e dall'altra possiamo noi stessi trarre profitto dalla storia.
Per citare le parole di un grande grecista, la tragedia «è una simulazione», nel senso utilizzato in campo scientifico, quasi un esperimento da laboratorio:
La tragedia monta un' esperienza umana a partire da personaggi noti, ma li installa e li fa sviluppare in modo tale che [...] la catastrofe che si produce, quella subita da un uomo non spregevole né cattivo, apparirà come del tutto probabile o necessaria. In altri termini, lo spettatore che vede tutto ciò prova pietà e terrore, ed ha la sensazione che quanto è accaduto a quell'individuo avrebbe potuto accadere a lui stesso.
Diversa fu però la posizione anti-classicista, frutto della polemica romantica contro la poetica aristotelica che dovettero trovare priva di sentimento e distante dai tempi moderni.
Succede allora che l'elemento di "pathos" sia esaltato talvolta eccessivamente e che il personaggio tragico appaia come vittima di una sorte ingiusta.
L'elemento psicologico tende a giustificare il cattivo, malvagio perché solo e incompreso dalla società e ad esaltarne le qualità prometeiche ed eroiche.
L'eroe tragico tende da questo punto ad avvicinarsi sempre di più alle classi sociali medio-basse e quindi ad assumere il tono della denuncia politica.
La famosa questione delle cosiddette tre unità aristoteliche, di tempo, di luogo e d'azione ha interesse puramente storico.
Aristotele aveva affermato che la favola deve essere compiuta e perfetta, deve in altre parole avere unità, ossia un inizio, uno svolgimento ed una fine.
Aristotele aveva anche asserito che l'azione dell'epopea e quella della tragedia differiscono nella lunghezza
"perché la tragedia fa tutto il possibile per svolgersi in un giro di sole o poco più, mentre l'epopea è illimitata nel tempo".
Le tre unità si riferiscono dunque all'unità di tempo (la vicenda si svolge in un giorno), di tema (un solo tema portante) e di spazio (un luogo soltanto, difatti la scenografia all'epoca dei tre grandi tragici era statica).
Tali unità sono state considerate elementi fondamentali del teatro fino ad un paio di secoli fa, anche se non sempre sono state rispettate (autori del calibro di Shakespeare, Calderón de la Barca e Molière non ne fecero assolutamente uso).
Come data convenzionale della fine dell'utilizzo delle tre unità può essere preso il 1822, anno in cui Alessandro Manzoni pubblica la sua "Lettre à monsieur Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie".
Fu Friedrich Nietzsche alla fine del XIX secolo a mettere in evidenza il contrasto tra due elementi principali.
Da un lato quello dionisiaco (la passione che travolge il personaggio) e quello apollineo (la saggezza e la giustizia l'elemento razionale simboleggiato appunto dal Dio Apollo).
Contrasto che sarebbe alla base della nemesis, la punizione divina che determina la caduta o la morte del personaggio.
Nella cultura greca antica, afferma Nietzsche, «esiste un contrasto, enorme per l'origine e i fini, fra l'arte plastica, cioè l'apollinea, e l'arte non plastica della musica, cioè la dionisiaca».
Questi due istinti così diversi camminano uno accanto all'altro, per lo più in aperto dissidio, stimolandosi reciprocamente a sempre nuove e più gagliarde reazioni per perpetuare in sé incessantemente la lotta di quel contrasto, su cui la comune parola di "arte" getta un ponte che è solo apparente: finché in ultimo, riuniti insieme da un miracolo metafisico prodotto dalla "volontà" ellenica, essi appaiono finalmente in coppia e generano in quest'accoppiamento l'opera d'arte della tragedia attica, che è tanto dionisiaca quanto apollinea.
La tragedia antica non era solo uno spettacolo, come lo intendiamo oggi, ma piuttosto un rito collettivo della pòlis.
Si svolgeva durante un periodo sacro, in uno spazio consacrato (al centro del teatro sorgeva l'altare del dio).
Il teatro assunse la funzione di cassa di risonanza per le idee, i problemi e la vita politica e culturale dell'Atene democratica.
La tragedia parla di un passato mitico, ma il mito diventa immediatamente metafora dei problemi profondi della società ateniese.
A questo proposito è emblematica la tragedia I Persiani di Eschilo.
La storia è ambientata nella reggia di Susa, capitale dell'impero persiano, dove fin dall'inizio una serie di oscuri presagi, finanche il fantasma del defunto re Dario che accusa il suo successore Serse di aver peccato di superbia, preludono ad una grande catastrofe, annunciata alla fine da un messaggero che con straordinaria drammaticità racconta come la flotta persiana sia stata distrutta a Salamina.
La tragedia (l'unica ad argomento storico a noi pervenuta) venne rappresentata nel 472 a.C. ad Atene, otto anni dopo la battaglia di Salamina, quando la guerra con la Persia era ancora in corso.
la voce di Eschilo fu così un forte strumento di propaganda, e non a caso il corego dei Persiani fu Pericle.
Una tragedia di argomento mitico come riusciva però a veicolare messaggi di tale rilievo d'interesse civile e sociale da coinvolgere il pubblico in modo così diffuso e partecipe?
Aristotele risponde a questa domanda formulando il concetto di
"catarsi" (κάθαρσις, purificazione),
secondo cui la tragedia pone di
fronte agli uomini gli
impulsi passionali e irrazionali
(matricidio, incesto, cannibalismo, suicidio, infanticidio...)
che si trovano, più o meno inconsciamente, nell'animo umano, permettendo agli individui di sfogarli innocuamente, in una sorta di esorcizzazione di massa.
Le rappresentazioni delle tragedie ad Atene si svolgevano in occasione delle grandi Dionisie, feste in onore di Dioniso celebrate nel mese di Elafebolione, verso la fine di marzo[21].
Le Dionisie erano organizzate dallo Stato e l'arconte eponimo, appena assunta la carica, provvedeva a scegliere tre dei cittadini più ricchi ai quali affidare la "coregia", cioè l'allestimento di un coro tragico: nell'Atene democratica i cittadini più abbienti erano tenuti a finanziare servizi pubblici come "liturgia", cioè come tassa speciale (oltre alla coregia una delle liturgie più importanti era ad esempio l'allestimento di una nave per la flotta, la trierarchia).
Durante le Dionisie si svolgeva un agone tragico, cioè una gara tra tre poeti, scelti dall'arconte eponimo forse sulla base di un copione provvisorio, ognuno dei quali doveva presentare una tetralogia composta di tre tragedie e un dramma satiresco; ogni tetralogia veniva recitata nello stesso giorno a partire dal mattino, così che le rappresentazioni tragiche duravano tre giorni, mentre il quarto giorno era dedicato alla messa in scena di cinque commedie[22]. Alla fine dei tre giorni di gara si attribuiva un premio al miglior coro, al miglior attore e al miglior autore. Il sistema utilizzato prevedeva che le giurie fossero composte da dieci persone (non esperti, ma cittadini comuni estratti a sorte secondo una procedura piuttosto complessa). Al termine delle rappresentazioni, i giurati ponevano in un'urna una tavoletta con scritto il nome del vincitore prescelto. Infine venivano estratte a sorte cinque tavolette, e solo in base a quelle veniva proclamato il vincitore. In questo modo la classifica finale era influenzata non solo dalla scelta dei giurati, ma anche in parte dalla fortuna.
Agli spettacoli la popolazione partecipava in massa e probabilmente già nel V secolo a.C. erano ammessi anche donne, bambini e schiavi[23].
La passione dei greci per le tragedie era travolgente.
Atene, dicevano i detrattori, spendeva più per il teatro che non per la flotta.
Quando il costo per gli spettacoli si fece sensibile, fu istituito un contenuto prezzo d'ingresso, affiancato al cosiddetto Teorico, un fondo speciale per pagare il biglietto ai meno abbienti[24].
Della grande produzione tragica dell'Atene democratica ci sono rimaste solamente alcune tragedie di tre autori: Eschilo, Sofocle ed Euripide.
Di Eschilo sono noti i titoli di 79 opere (su circa una novantina di opere[25]), fra tragedie e drammi satireschi; di queste ne sopravvivono 7, fra cui l'unica trilogia completa pervenutaci dall'antichità,
"L'Orestea"", e alcuni frammenti papiracei[26]:
I Persiani (Πέρσαι / Pèrsai) del 472 a.C.;
I Sette contro Tebe, ossia il Polinice (Ἑπτὰ ἐπὶ Θήβας / Heptà epì Thèbas) del 467 a.C.;: dalla trilogia: Enomao, Laio, I Sette contro Tebe.
Supplici (Ἱκέτιδες / Hikètides) probabilmente del 463 a.C.;
La trilogia
"Orestea" (Ὀρέστεια / Orèsteia) del 458 a.C., costituita da:
1. Agamennone (Ἀγαμέμνων / Agamèmnon);
2. Coefore (Χοηφόροι / Choefòroi);
3. Eumenidi (Εὐμενίδες / Eumenìdes);
Prometeo incatenato (Προμηθεὺς δεσμώτης / Prometheus desmòtes) di data incerta, ritenuta spuria da alcuni studiosi[27].
Secondo Aristofane di Bisanzio, Sofocle compose 130 drammi, di cui 17 spuri; il lessico Suda ne annoverava 123[28]. Di tutta la produzione sofoclea, sono pervenute integre 7 tragedie:
Aiace (Αἴας / Aias) intorno al 445 a.C.;
Antigona(Ἀντιγόνη / Antigone) del 442 a.C.;
Trachinie (Tραχίνιαι / Trachìniai);
Edipo re (Οἰδίπoυς τύραννoς / Oidìpous Tyrannos) circa 430 a.C.;
Elettra (Ἠλέκτρα / Helèktra);
Filottete (Φιλοκτήτης / Philoktètes) del 409 a.C.;
Edipo a Colono, Edipo Coloneo (Oἰδίπoυς ἐπὶ Κολωνῷ / Oidìpous epì Kolonò) del 406 a.C.
Inoltre, nel XX secolo un ritrovamento papiraceo ha restituito circa tre quarti di un dramma satiresco di datazione ignota, Ἰχνευταί, I cercatori di tracce (o I segugi)[29].
Di Euripide si conoscono novantadue drammi; sopravvivono diciotto tragedie di cui una, il Reso, è generalmente considerata spuria, e un dramma satiresco, il Ciclope.
I drammi superstiti sono[30]:
Alcesti (Ἄλκηστις / Alkestis) del 438 a.C.;
Medea (Μήδεια / Mèdeia) del 431 a.C.;
Ippolito (Ἱππόλυτος στεφανοφόρος / Ippòlytos stephanophòros) del 428 a.C.;
Gli Eraclidi (Ἡρακλεῖδα / Herakleìdai);
Troiane (Τρώαδες / Troàdes) del 415 a.C.;
Andromaca (Ἀνδρομάχη / Andromàche);
Ecuba (Ἑκάβη / Hekàbe) del 423 a.C.;
Supplici (Ἱκέτιδες / Hikétides), del 414 a.C.;
Ione (Ἴων / Ion);
Ifigenia in Tauride (Ἰφιγένεια ἡ ἐν Ταύροις / Iphighèneia he en Taùrois);
Elettra (Ἠλέκτρα / Helèktra);
Elena (Ἑλένη / Helène) del 412 a.C.;
Eracle (Ἡρακλῆς μαινόμενος / Heraklès mainòmenos);
Il Polinice, ossia le Fenicie ( Φοινίσσαι / Phoinìssai) del 410 a.C. circa -- dalla trilogia: Crisippo, Edipo, il Polinice.
Oreste (Ὀρέστης / Orèstes) del 408 a.C.;
Ifigenia in Aulide (Ἰφιγένεια ἡ ἐν Αὐλίδι / Iphighèneia he en Aulìdi) del 410 a.C.;
Le Baccanti (Βάκχαι / Bàkchai) del 406 a.C.;
Ciclope (Κύκλωψ / Kùklops) (dramma satiresco);
Reso (Ῥῆσος / Rèsos) (probabilmente spuria).
Note [modifica]
1.^ Perrotta, op. cit., 42.
2.^ a b Rossi-Nicolai, op. cit., 11.
3.^ In dorico σάτυρος.
4.^ Rossi-Nicolai, op. cit., 11-12.
5.^ a b Etimologia della parola "tragedia". URL consultato il 20-01-2011.
6.^ Silvio D'Amico. Storia del Teatro drammatico, parte I: Grecia e Roma. Garzanti, 1960.
7.^ Jane Ellen Harrison ((EN) Prolegomena to the Study of Greek Religion, 1903, cap. VIII.) ha sottolineato come Dioniso, dio del vino (bevanda dei ceti agiati) fosse in realtà preceduto dal Dioniso dio della birra (bevanda dei ceti popolari). La birra ateniese era ottenuta dalla fermentazione del farro, trágos in greco. Così è probabile che il termine originariamente abbia significato « odi al farro », e solo in seguito sia stato esteso ad altri significati omonimi.
8.^ Aristotele. Poetica, 4.
9.^ (GRC) Aristotele. Poetica, 4.
10.^ a b c Sinisi Silvana, Innamorati Isabella. Storia del teatro: lo spazio scenico dai greci alle avanguardie storiche. Bruno Mondadori, Milano 2003, pag. 3
11.^ Eschilo su Italica.rai.it.
12.^ Fa eccezione il Prometeo incatenato, in cui Zeus assume atteggiamenti tirannici
13.^ Anne Norris Michelini, Euripides and the Tragic Tradition, University of Wisconsin Press, 2006 ISBN 0299107647
14.^ I Persiani ed I sette contro Tebe di Eschilo sono prive di prologo
15.^ Poetica 1449a
16.^ Per uno studio metrico dettagliato, si veda Philippe Brunet, La naissance de la littérature dans la Grèce ancienne, Paris, Le Livre de Poche, 1997, p. 140-146.
17.^ Aristotele, Poetica, 49b, 6, 24-28.
18.^ Jean-Pierre Vernant. Mito e tragedia nell'antica Grecia. La tragedia come fenomeno sociale, estetico e psicologico. Einaudi, Torino 1976. Vedasi anche l'enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche Rai.
19.^ F. Nietzsche. La nascita della tragedia. In Opere scelte, trad. it. di L. Scalero, Longanesi, Milano 1962, pp. 85 e 173
20.^ Non per niente Paolo Emilio Giudici, nel suo Storia del teatro in Italia, sottolinea come la costruzione dei teatri necessitava di una certa ampiezza per contenere tutti i liberi cittadini di Atene. Cfr. pag. 18
21.^ Le Dionisie erano anche dette Grandi Dionisie per distinguerle da quelle rurali, rappresentazioni teatrali di minore importanza che si svolgevano in inverno nei paesi intorno ad Atene. Cfr. Vincenzo Di Benedetto ed Enrico Medda. Il teatro antico in La storia del teatro. Einaudi, Torino 1991, p. 7.
22.^ Durante la guerra del Peloponneso, forse per motivi economici, le commedie furono ridotte a tre, da rappresentarsi una al giorno alla fine delle tetralogie
23.^ Abbiamo la certezza che le donne fossero ammesse a teatro nel IV secolo a.C., ma per il V secolo si tratta solo di un'ipotesi
24.^ Plutarco. Vite Parallele, "Vita di Pericle", 9.1.
25.^ Secondo il lessico bizantino Suda, Eschilo compose novanta drammi; cfr. Privitera-Pretagostini, op. cit., 218.
26.^ Rossi-Nicolai, op. cit., 27-28.
27.^ La presenza di attacchi a Zeus hanno fatto dubitare sulla proprietà di Eschilo del Prometeo incatenato.
28.^ Alcuni studiosi fanno coincidere le due fonti ipotizzando un errore di Aristofane, che così avrebbe voluto dire 7 anziché 17; cfr. Rossi-Nicolai, op. cit., 93.
29.^ Privitera-Pretagostini, op. cit., 276.
30.^ Rossi-Nicolai, op. cit., 184.
Bibliografia [modifica]
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Letteratura Greca, dall'età arcaica alla letteratura cristiana - Principato 1995 - ISBN 88-416-2749-2
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Voci correlate [modifica]
Teatro greco
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Altri progetti [modifica]
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Collegamenti esterni [modifica]
Rai Educational - EMSF: interventi sul tema di D. Del Corno E. Lledó E. Medda J.P. Vernant S. Givone
Carlo Fatuzzo, La musica nella tragedia greca
Rush Rehm - trad. P. Merciai, Teatro radicale: tragedia greca e mondo moderno
Università Le Monnier - M. McDonald, Trad. di Francesca Albini, L'arte vivente della tragedia greca
Politecnico di Torino - Il Limite quale elemento fecondo di origine della tragedia
Intervista a Salvatore Natoli, La tragedia greca e il Cristianesimo
Università di Bologna - Michele Napolitano, Tragedia greca e opera in musica. Appunti su un matrimonio mancato
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