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Wednesday, March 13, 2013

"di Lanciallotto, come amor lo strinse" -- Lancelot

Speranza

Noi leggevamo un giorno per diletto
di Lanciallotto, come Amor lo strinse…
 
 
Se si parla di una storia d’amore, anzi, della “Storia D’Amore” per eccellenza, a chi pensiamo?

Nel Medioevo, la risposta quasi scontata era “Lanciallotto e Ginevra”.

Tanto che perfino a Dante Alighieri viene subito automatico paragonare la drammatica vicenda dei suoi contemporanei Paolo Malatesta e Francesca Minore da Polenta a questi due leggendari amanti del Ciclo Arturiano.
 
Lanciallotto e Ginevra, ovvero l’amore che diviene tradimento.
 
Per il valoroso Lanciallotto che spezza il giuramento al il suo signore Re Artù innamorandosi di sua moglie, per la regina Ginevra che infrange il patto coniugale, a costo di subire il delitto d’onore.
 
Ciò che attraeva di questa storia è proprio il lacerante conflitto tra amore e dovere, tra il richiamo della passione e il rimorso della coscienza, oltre ovviamente al finale tragico.
 

Oggi, però, è una storia difficile da portare sullo schermo, semplicemente perché è passata di moda.
 
Oggi, non sono più Lanciallotto e Ginevra a evocare l’amore fatale che solo la morte può spegnere, ma Romeo e Giulietta.
 
Il rischio che ne venga fuori uno spettacolone insipido è altissimo, come ne Il primo cavaliere di Jerry Zucker (1995) in cui nemmeno la presenza del divo Richard Gere basta a movimentare una pellicola piatta e manieristica, e incapace di toccare le emozioni dello spettatore.
 
Tutta un’altra storia, invece, se dietro la macchina da presa c’è uno dei più grandi registi della Novelle Vague francese, Robert Bresson, con il suo Lanciallotto e Ginevra.

Il problema era: come far appassionare il pubblico del Novecento a una storia d’amore passata di moda?
 
La risposta di Bresson: togliere tutto il superfluo.

Infatti, Lanciallotto e Ginevra è un film “ridotto all’osso”, in tutto: nei costumi, nelle ambientazioni, nella recitazione, nella sceneggiatura.
 
Via tutto: niente contorno fiabesco, fantasy o storico di qualsiasi tipo. Solo un’atmosfera sospesa, capanne, una cascina in mezzo ai boschi, un cortile pieno di sabbia. I costumi sono mescolati quasi alla rinfusa, come presi in fretta e furia da un vecchio magazzino: quelli dei cavalieri e di Ginevra sembrano ispirati dagli affreschi quattrocenteschi, quelli delle dame di compagnia sono chiaramente ottocenteschi, e novecenteschi quelli dei contadini e degli scudieri.

Così facendo, il tutto si concentra sul problematico “tira-e-molla” tra i due amanti adulterini.
 
Lanciallotto, tornato sconfitto dalla Ricerca del Graal e divorato dai rimorsi, fa voto di non vedere più Ginevra, ma non riuscirà a starle lontano, arrivando addirittura a rapirla e a scatenare uno scontro frontale contro il suo re.
 
Ginevra, dal canto suo, inizialmente sembra non volersi piegare di fronte a nulla, e alla fine, quando tutto sarà perduto, sarà essa stessa a voler essere restituita ad Artù. La lacerante contraddizione della passione può emergere così in tutta la sua drammaticità, attraverso i dialoghi tra i due amanti, serrati e mai banali come in questa scena, ancora più strazianti proprio perché interpretati in modo freddo e asciutto dai bravi Luc Simon e Laura Duke Condominas.

Bresson non interviene, sembra semplicemente assistere agli eventi con la sua cinepresa, quasi dal buco della serratura. Infatti la fotografia scarna e nitida, fatta di pura luce e ombra, inquadra volentieri i particolari: l’occhio di un cavallo, il corpo nudo della regina al bagno, gli zoccoli dei cavalli alla carica durante il torneo, una bandiera che si alza e si abbassa al suono della cornamusa bretone. Lo spettatore assiste inerme agli eventi, a Eros e Tanatos che si avviano inesorabilmente all’epilogo, al compiersi di una tragedia che si è saputa essere tale fin dall’inizio. Come nelle mani congiunte di Romeo e Giulietta, come nel bacio di Paolo e Francesca, nel primo sguardo dei due amanti appena la porta della cascina si apre si vede lampeggiare l’inferno.

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