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Tuesday, May 26, 2015

RUGGERIANA

Speranza

Il desiderio di un saggio speciale intorno alle fonti dell’“Orlando Furioso” nacque anzitutto nella mente di Giosuè Carducci.

Da Carducci, in nome del comitato che veniva preparando le feste della celebrazione ariostea, io ebbi l’invito a intraprenderlo.

E la pubblicazione si sarebbe dovutafare in occasione appunto della celebrazione ma l’estensione impensata del lavoro produsse un inevitabile ritardo, e il volume vide la luce solo nell’anno successivo.

Gli andava innanzi una prefazione che mi giova riportare quasi per intero, non senza permettermi di ritoccarla dove di ritocchi abbia bisogno, senza l’affettazione e l’ingombro di segnalazioni speciali.

Distinguerò bensì coll’omissione delle virgolette le aggiunte di qualcherilievo.

Il soggetto del saggio è ben lontano dall’essere una novità.

Le fonti dell’“Orlando Furioso” cominciarono ad osservarsi fin dalla prima apparizione del poema e poco o tanto attrassero sempre l’attenzione degli eruditi.

Già nel 1540 Sebastiano Fausto da Longiano scriveva una succinta, ma copiosa "Citatione de luochi, onde tolsero Le Materie il Conte Matteo Maria e M. Ludovico". 

Alcune osservazionicrenologiche, spesso insussistenti, talora giuste, si trovano anche nella “Spositione sopra l’Orlando Furioso” di Simone Fornari.

Altre, nel terzo libro dei "Romanzi" ne vien facendo Giambattista Pigna, studioso soprattutto di rilevare conformità coll’ “Iliade” e coll’ “Eneide”.

V’era poi nel tempo stesso chi attendeva in particolar modo a rilevare e raccogliere le imitazioni in senso stretto: similitudini, pensieri, sentenze, che Lodovico aveva tratto dai classici.

Così fece il Dolce, in servigio delle edizioni del Giolito (1542), e, senza averne l’intenzione, di non so quante altre, tra cui quelle del Valgrisi (1556), foggiate da un emulo acerbo, GirolamoRuscelli.

Questi, mentre qui si contenta, o press’a poco, di far suo l’altrui, dichiara che moltissimo aggiungerà di proprio nel libro sulle "Bellezze del Furioso", non venuto poi in luce, per ragione della morte, sopraggiunta al Ruscelli nel 1566.

Bensì nel 1566 medesimo uscì un "Furioso" edito da Giorgio Andrea Valvassori, dove il materiale messo insieme dal Dolce si presenta arricchito.

Vi si additano, tra l’altre cose, parecchie notevoli derivazioni da Stazio, dando in più d’un luogo espressamente il merito dell’averle rilevate ad Erasmo di Valvasone, certo già intento alla versione in ottava rima della "Tebaide". 

Ma l’esplorazione delle fonti nei vari suoi aspetti ebbe unincremento maggiore qualche decennio più tardi.

Nel 1584, sotto il titolo di "Osservazioni sopra il Furioso di M. Lodovico Ariosto, Nelle quali si mostrano tutti i luoghi imitati dall’Autore nel suo Poema", Alberto Lavezuola pubblicò una specie di commento pel quale egli merita d’esser detto il più accurato osservatore delle imitazioni ariostee nei secoli scorsi. Invece fu.

S’incontra per la prima volta in un’edizione del 1542.

Alla Citatione tien dietro un "Epilogo de le materie delo inamoramento d’Orlando", in cui si afferma nientemeno che il Boiardo e l’Ariosto hanno tolto non solamente lematerie principali e particolari, le cortesie, gl’amori, le giostre, gl’incanti, gli abbatimenti esimili, ma i nomi anchora da un libro  il quale si chiama “Specchio di cavalleria” de li fatti di Rinaldo’. Da un libro comparso nel 1533.

Il vero si è che la prima parte di questo romanzo lo appurò il Panizzi è una traduzione inprosa del nostro Innamorato. 

E non so se già l’edizione principe, ma almeno un’altra del 1586, non cerca punto dinasconderlo, giacché dice il libro ‘traduzido de Italiano en prosa Castellana’.

 «Firenze, Torrentino, 1549 e 1550.» 

V. Simon Fòrnari da Rheggio Primo espositore dell’Orlando Furioso nel 1549; Saggio storico-critico di LUIGI FURNARI; Reggio di Calabria, 1897.

Venezia, Valgrisi, 1554.

Si leggano le parole proemiali al ‘Raccolto di molti luoghi’ ecc., dentro alle Annotationi et Avvertimenti.Alle Bellezze il Ruscelli rimanda molte volte.

A certi esemplari fu apposta la data del 1567. 

Ogni cosa e però anche alcune inezie spettanti al Ruscelli è messa erroneamente sotto il nome del Dolce dentro al Furioso in foglio pubblicato a Venezia nel 1730, che, insieme col 2o volume fatto poi tener dietro nonso precisar quando, costituisce una raccolta di materiale ariosteo singolarmente ricca. 

Queste Osservazioni fanno corpo colla bellissima edizione del Furioso data fuori a Venezia da Francescode Franceschi. Hanno peraltro una numerazione e un frontespizio distinto. 

Il Lavezuolastava scrivendo il lavoro nel 1579. 

È detto espressamente nelle note al canto X. semplicemente un rimasticatore delle cose dette dal Fausto e dal Dolce, quel Paolo Beni, che, neiprimi anni del secolo XVII, scrisse, sotto l’infelicissima forma di discorsi pronunziati da accademici immaginari, una Comparatione di Homero Virgilio e Torquato (Padova, 1607). 

Il settimo di cotali discorsi tratta dell’Ariosto, e l’argomento delle imitazioni vi ha una parte abbastanza considerevole.

Un nudo indice, ma assai copioso, ci è offerto vent’anni dopo da Udeno Nisiely (Benedetto Fioretti) in uno de’ suoi Proginnasmi Poetici.

Diversi scrittori, aperti usurpatori delle cose altrui, edelle proprie loro: specialmente l’Ariosto, e Virgilio.

Pedante e novatore ardito al tempo stesso, il Nisiely non rispetta, come si vede, né le grandezze antiche né le moderne. 

E pur di accrescere la suaenumerazione, Nisiely raccoglie senza esame di sorta da quanti scrittori gli vengono alla mano.

Tuttavia bisogna ben concedergli la lode di una vasta erudizione, che gli permette di rilevare molte cose non avvertite prima di lui.

Dal Nisiely, non volendo qui tener conto di singole osservazioni, bisogna saltare ai moderni:al Panizzi, al Mazuy ed al Bolza. 

I due primi discorsero di fonti ariostee nelle note, quegli alla sua edizione (Londra, Pickering, 1834), questi alla sua traduzione del Furioso (Parigi, Knab, 1839).

Il terzo, prima in un articolo di rivista, e poi in un capitolo del Manuale Ariostesco (Venezia,Münster, 1866). 

Il Panizzi, citato ben di rado dagli altri due, è nondimeno la sorgente principaledelle loro informazioni. 

Ed io gli darò lode soprattutto della somma cura colla quale, editore dell’Innamorato, egli viene segnalando il molto che l’Ariosto tolse di lì. Solo dal Nisiely tra tutti iprecedenti s’erano avute per questa parte indicazioni specifiche.

Inoltre il Panizzi comincia acercare con diligenza nell’antica letteratura romanzesca, che fino a qui aveva soltanto dato luogo aqualche osservazione del Lavezuola e dello Zeno.

Su questa via lo seguono e il Mazuy ed ilBolza, aggiungendo, com’è naturale, parecchi nuovi fatti.

Questi i principali miei antecessori.

Altri, che occasionalmente parlarono di qualcheepisodio, si vedranno menzionati a suo luogo. 

Poiché mi è parso utile, e doveroso soprattutto, diindicare volta per volta, o appiè di pagina o nel testo, i nomi di coloro che mi avevano preceduto,quand’anche mi dicessero cose che avessi già osservato da me.

I rapporti miei cogli scrittori che si occuparono per l’addietro di fonti e di imitazioniariostee, consistono in ciò, che da codesta schiera onorata ebbi in eredità un cumulo di materiali, trabuoni e cattivi. 

Erano in generale semplici indicazioni e notizie, senza legame di sorta. 

A me parveche si dovesse ora battere altra via; che non bastasse più l’affermare, ma convenisse ragionaresempre e discutere. 

Inoltre, invece di limitarmi a un certo numero di episodi, che sono nel Furioso,ma non sono il Furioso, credetti necessario di sottoporre ad analisi l’invenzione di tutto quanto ilpoema. L’invenzione: quindi furono di regola lasciate in disparte, e accennate solo per incidenza, leimitazioni di singoli versi, immagini, similitudini, che non importassero per il concepimento. Diqueste si può vedere un catalogo segnatamente copioso nell’opera del Bolza. 

Trovati gli elementi,restava la parte più difficile: esaminare il modo della loro composizione, osservarne letrasformazioni, studiare insomma la genesi e le evoluzioni del pensiero. A questo modo il problemaprendeva spesso aspetto ed importanza generale. Peccato che all’opera fossero X così inadeguatele forze dell’operaio, che ha cercato di fare quello che poteva, e avrà fatto assai poco«Considerando le cose sotto questo aspetto, era ben naturale sentirsi ad ogni momento tentati8 3

È il 152o del volume terzo»: uno dei ventisette che furono aggiunti, ristampando solo qualche pagina, a unaparte della tiratura di questo volume. La data apposta agli esemplari dell’una e dell’altra specie è la medesima: 1627.

Varia bensì l’editore, che è Zanobi Pignoni negli originarî, e Pietro Cecconcelli negli amplificati.

A questo si riferiscono sempre le mie citazioni.

Dello Speroni non ci son da allegare che dichiarazioni generali. V. pag. 42  1 e 611  2 i rimandi siriferiscono alle pagine dell’edizione cartacea, qui segnate tra parentesi quadre. Tra parentesi quadre sono indicati anchei numeri delle note a piè di pagina dell’originale. – Nota per l’edizione elettronica Manuzio. Quanto a Jacopo Gaddi,De scriptoribus non ecclesiasticis, t. I, Firenze, 1648, 70-71 (sotto BOIARDUS), non fece che prendere tacitamente dalNisiely. 

Ben altro parevan promettere le parole sue: ‘Hic referenda sunt palmaria furta luculentissimi Ludovici, utmerita poena hic afficiatur, merito praemio laudis Boiardus, qui, evisceratus, exoculatus, expectoratus a cive suo,implorat opem a me externo, vel affine pronepotis Areosti.’ Curioso procedere in un’occasione cosiffatta.

Nelle note alla Biblioteca del Fontanini, I, 198.di non fermarsi alle fonti dirette, e di cercare più addentro. A questa tentazione cedetti quando miparve che fosse veramente prezzo dell’opera.«Il mio lavoro è di natura essenzialmente analitica. Tuttavia non avrei potuto mettermi ascomporre il poema senza aver prima cercato di rendermi ragione esatta dei rapporti suoi colle fasianteriori dell’epopea cavalleresca, per ciò che si riferisce al mondo epico, all’orditura generale, aicaratteri. 

Di qui l’Introduzione, che per motivi di vario genere credetti necessario di cominciareproprio ab ovo.«Basta aprire il libro per accorgersi che non ho inteso di dirigermi ai soli specialisti. Lo dicesubito l’intonazione; lo grida quel secondo strato di note che si vede spesso appiè di pagina.

Lo studio fu di tenere una certa via di mezzo, la quale mi potesse conciliare due diverse classi dilettori.

L’effetto sarà forse che me le sarò allontanate entrambe.

Potevo esser più breve: ho preferito rendermi chiaro, e soprattutto fornire materiali di studio.Sono costretto a valermi continuamente di roba inedita o rara, e che in parte rimarrà forseperpetuamente in queste condizioni. Specialmente dai romanzi originarî della Tavola Rotonda nonho esitato a riportare lunghi brani.

Se non l’avessi fatto io fino da ora, altri lo avrebbe dovuto farpoi. Nel pubblicare questi brani ho conservato la lezione dei codici da cui li prendevo, salvolievissime correzioni grafiche, volute dalla chiarezza, delle quali, considerata la natura dell’opera,non sto neppure a dar conto altro che in qualche caso eccezionale. 

E qui mi corre l’obbligo diun’avvertenza: la correzione delle stampe non poté eseguirsi sui codici; donde saranno nate dinecessità parecchie inesattezze.«Anche rispetto alle cose si verranno certo a manifestare omissioni ed errori in buon numero.Vuol dire che cercherò di rimediarvi, se mai si desse quandochessia lo strano caso di una secondaedizione.

Estendo le ricerche alle biblioteche di Parigi.

Bensì ottenni dal governo francese il prestito di due codici di molta importanza.

Ne siano rese le più sincere grazie a chi di ragione.

E del pari siano resegrazie alla costante cortesia di D. Alessandro de’ conti Melzi, alla cui ricchissima collezione diromanzi cavallereschi italiani ricorsi parecchie volte. 

Né potreicerto tacere che più di un favoredello stesso genere, e inoltre più di un’utile indicazione, devo alla preziosa amicizia del marchese Gerolamo dAdda.

Il caso, a cui guardavo con incredulità, di una seconda edizione, dopo un quarto di secoloviene ad avverarsi. 

Esaurita due anni addietro la prima, l’editore ebbe desiderio di metterne fuoriun’altra; ed io consentii di buon grado ad allestirla. 

Siccome nella copia che tenevo a mano, imargini, sui quali ero venuto facendo appunti, si mostravano per lo più immacolati, speravo che,all’infuori di qualche parte, come a dire delle pagine concernenti la novella di Giocondo ed Astolfo,una semplice ristampa con un certo numero di aggiunte potesse bastare. Beata illusio

I libri invecchiano al pari degli uomini.

Solo, più fortunati di essi, possono molte volte, purché le fatichenon si risparmino, essere ringiovaniti con altro effetto che quello che s’ottiene a forza ditinture e cosmetici.All’idea di una ristampa si surrogò dunque presto quello di una revisione accurata dell’operadal principio alla fine. 

Che fosse da tener conto di tutto ciò che nel frattempo s’era detto da altriintorno all’argomento mio, questo, s’intende, non pativa discussione neppure nel concetto deldisegno più comodo; particolarmente bisognava aver riguardo al volume Le Fonti Latinedell’Orlando furioso di A. Romizi (Torino ecc., Paravia, 1896), quante volte mettesse avanti delnuovo, o discutesse il vecchio, in cose che toccassero l’invenzione. Ma poi, conveniva approfittaredelle pubblicazioni d’ogni genere uscite in questo lungo intervallo; per esempio, del materialeromanzesco francese dato in luce o fatto meglio conoscere. 

E dovevo ripensare le cose pensate;guardarmi dattorno per vedere quel che avessi ora da dire di più e di diverso; ed anche la formavoleva essere ripulita.Conseguenza di questo lavorìo si è che, se guardo ora l’esemplare sul quale ho eseguito icambiamenti, più non trovo pagine che siano rimaste quali erano,12 e ne trovo un grandissimonumero dove la parte manoscritta, ossia nuova o rinnovata, è considerevole, fino a raggiungere inparecchi casi il segno di una totale sostituzione. 

Quantitativamente ne è resultato un accrescimentonon lieve. 

Mi affretto tuttavia ad avvertire che esso non è così grande quale apparirebbe dal confronto materiale dei due volumi. Delle ottantadue pagine di cui i miei venti capitoli sonocresciuti, provengono, credo, da incremento vero una cinquantina all’incirca, mentre il restodipende da ragioni tipografiche. È seguito cioè che nel testo ‘la giustezza’ della linea fosse più cortadi una lettera; e nelle note, a questa differenza s’aggiunge che il carattere, pur essendo dello stesso‘corpo’, usurpi uno spazio qualche poco maggiore.Molto studio ho posto nel rendere il libro di uso più facile. Però ho messo in testa alle pagine la designazione del contenuto portata dai sommarî; e nell’indice di questi sommarî ho introdotto perciascun punto il rinvio numerico. 

Ho poi aggiunto due indici nuovi affatto. L’uno segueordinatamente passo passo, per canti e stanze, il poema ariostesco, rimandando via via alle paginecorrispondenti della mia trattazione. L’altro consiste nell’elenco delle fonti e dei riscontri che si sonvenuti additando; e si lusingherebbe di fornire un utile materiale anche all’osservazione e allariflessione. A un indice alfabetico di cose notevoli rinunziai dopo aver cominciato a prepararlo,adempiendone già le funzioni l’‘Indice’ mio ‘ariostesco’ messo in rapporto con un’altra tavolaqualsivoglia delle materie contenute nel Furioso.

Non si sarebbe del resto trattato oramai che diripresentare diversamente ciò che s’ha nei sommarî, dentro ai quali non ci vuol molto neppure nellacondizione loro naturale a trovare quel che si cerchi, per poca famigliarità che s’abbia col poema.Avevo avuto l’intenzione di distendermi maggiormente nelle considerazioni di ordinegenerale al termine dell’opera; ma poi finii per rinunziarci e per non trascendere neppur lì i limitisegnati in origine al lavoro attuale, a quel modo che dentro ad essi m’ero contenuto lungo ilcammino. 

Ciò mi farà probabilmente ribadire l’accusa che m’ebbi da un critico della prima edizione(così potess’essere ribadita dalle mani medesime), di aver ‘paura delle idee’. Delle idee, non hopaura; bensì, là dove si tratta di scienza, ho paura di ciò che senza essere idea se ne dà l’aria; hopaura delle concezioni subiettive; ho paura di quel fenomeno per cui nelle nubi ci accade di vederdraghi, giganti, eserciti, castelli, che, vissuti un momento nella nostra fantasia, bentosto sitrasformano e si dissolvono.

Fra i cambiamenti minuti, ne segnalerò due che ritornano in un gran numero di luoghi.

Alla denominazionedi Guiron e Bret per i due romanzi della Tavola Rotonda a cui accade di riferirsi più spesso, ho sostituito Palamedès eTrista

Le ragioni che m’hanno determinato, resultano nel primo caso da ciò che dico a pag. 60.

Quanto all’originespuria del ‘Bret’ per il romanzo di Tristano, V. G. PARIS, in Romania, XV, 600, e nell’introduzione al Merlin del cod.Huth (Collezion della Société des Anciens Textes Français), pag. XXVIII sgg., LXXII sgg.

Quando l’Ariosto si metteva a scrivere il suo poema, il romanzo cavalleresco era un genere vecchio e stravecchio, che aveva da raccontare di sé una lunghissima storia.

Cittadino italiano dasecoli, non poteva dissimulare le sue origini oltramontane.

E forse gliene rincresceva; giacché s’eragiunti ad un tempo, in cui non pareva possibile nessuna specie di nobiltà, che non si riconnettesse inqualche modo coi Latini.

Di questa storia del romanzo mi pongo a tracciare le line principali; voglio mettere sotto gli occhi dei lettori l’albero genealogico dell’immortale poema, perdeterminare che posto esso occupi nella stirpe. Il far ciò è una preparazione necessaria allo studioanalitico che mi sono prefisso.

Prima di ricorrere ai crogiuoli, sento il bisogno di conoscere e farconoscere la provenienza del corpo che prendo tra le mani, e di considerarne i caratteri generali.

Procederò dunque sinteticamente, e sarò parco di nomi e di date; ché non intendo punto dicomporre un sommario, e meno che mai un indice. Quindi la moltiplicità infinita degli autori e delleopere mi deve scomparire davanti; il romanzo cavalleresco mi diventa quasi un essere vivente, dicui ho da studiare e rappresentare le graduali evoluzioni; che devo prendere in 4 lontane regionidella Francia, per accompagnarlo fino a Ferrara.

La Francia, come oramai sanno tutti, si affaticò specialmente dattorno a due cicli di narrazionipoetiche: il Carolingio ed il Brettone.

Il primo era indigeno, e s’era venuto foggiando e tramutandolentamente, per opera di tutta la nazione; invece il secondo, straniero di nascita, aveva fattoun’apparizione, che, vista di lontano, par quasi subitanea, e aveva percorso tutto il periodo delle suevicende in un giro di tempo relativamente assai breve.Pur seguendo, per quanto si può, fino alle origini il ciclo carolingio, non è ancora a vereorigini che nemmeno per esso ci si trova essere arrivati. Ma dei problemi inevitabilmente intricatied oscuri, e quindi soggetti a dispareri, che qui sorgono, non è ora da discorrere.13 Le cose che ho dadire in questo luogo son di quelle che si vedono ed osservano, non che si deducono ed inducono;per conseguenza non cadono in controversia.Il ciclo carolingio sgorga dai fatti. Però ama attenersi al reale ed al verosimile; reale e verosimile da giudicarsi, naturalmente, secondo le idee dei tempi. La figura di Carlo Magno vitorreggia, e costituisce come il centro, dattorno a cui s’aggruppano e coordinano gli altripersonaggi, quand’anche, come accade il più delle volte, sia secondaria nell’azione e resti offuscata dalla luce delle glorie altrui. Guerre e battaglie ne sono il perpetuo argomento. E son guerre ebattaglie di due specie assai diverse: le une combattute contro Saracini e Pagani, o invasori dellaFrancia e dell’Italia, o invasi nei loro paesi; le altre contro vassalli potenti e prepotenti, poco docilialla volontà, non sempre ragionevole, del loro sovrano. Nella prima classe è principalissima lanarrazione che perpetua la memoria del disastro di Roncisvalle, ed è Orlando l’eroe piùcelebrato. 

Della seconda, si è acquistata ed ha conservato maggior popolarità la lotta contro ifigliuoli di Amone, ed il tipo più noto è Rinaldo. Giacché, le simpatie dei narratori, e certo anchedel pubblico, sono per i ribelli, anziché per l’imperatore: questi trionfa sempre nell’ordine materiali.

I resultati delle ricerche che venni esponendo nel volume Le origini dell’Epopea francese furono in questiultimi anni oppugnati vivamente da taluni. Riesaminai dopo di ciò le fondamenta del mio edificio, e non mi parve divederle indebolite. Certo non è stato possibile di costruirle con pietre soltanto; ma io non credo che ci si devarinchiudere negli angusti limiti di un gretto materialismo storico-letterario; e trovo assurdo non voler ammettere se nonciò che si discerne, quando le condizioni di luce son tali, da costringere a camminare tentoni.ma moralmente soccombe ed è umiliato. Per conseguenza qui non ci può essere quella medesimaprevalenza di un eroe su tutti gli altri, che s’ha nelle guerre contro i Saracini: quante le lotte, altrettanti i protagonisti; e se fra tutti Rinaldo è rimasto il più popolare, un tempo rivaleggiavano con lui Gherardo da Fratta, Uggeri il Danese, Gherardo da Rossiglione, e non so quanti altri.

Le guerre, siano chi si vuole i nemici e i combattenti, riescono sempre argomento fiero. Però il ciclo carolingio s’impronta d’una serietà e severità, che desta in noi un sentimento simile a quello di cui siamo compresi sotto le volte d’una cattedrale gotica, quando calpestiamo le immagini stecchite di uomini armati, scolpite rozzamente sulle pietre che ne chiudon le tombe. 

Qui si ride ben poco. Il sentimento religioso ha un’importanza grandissima; rende prodi, ma spesso anche crudeli, e riduce di regola ad essere rappresentati con tinte punto seducenti quanti non professano la religion di Cristo. Scarsissima la parte delle passioni gentili: il che val quanto dire che le donne vengon di rado in iscena, e non fermano mai durevolmente il nostro interesse. Tale ci apparisce il ciclo di Carlo Magno, se ci collochiamo per guardarlo in un punto di dove tutto si abbracci e donde i particolari non si discernano. Seguitandolo nel suo svolgimento, lo vediamo più secco, più grave, più barbaro nei principî. A poco a poco si va ammansando: smette via via la rozzezza primitiva, sì nella forma che nel contenuto, ma pur troppo a scapito delle doti più sostanziali. Per sostituire la rima all’assonanza, rinunzia all’efficace brevità e proprietà dell’espressione. Per desiderio di variare la materia, o svolge certi motivi secondarî, ripetendoli senza discrezione alcuna, tanto da farli diventare luoghi comuni; o introduce elementi estranei, senza poterli amalgamare compiutamente coi primitivi. 

L’ingegno di qualche rimatore supplisce a volte ai difetti intrinseci, tanto da produrre opere attraenti e assai pregevoli, se non perfette; ma sono eccezioni. Insomma, quando la severa robustezza della Chanson de Roland non appagava più gli animi degli ascoltatori; quando lo spirito e l’entusiasmo delle crociate, se non l’abitudine di passar il mare in cerca di gloria e d’indulgenze, erano venuti a spegnersi negli animi; quando si porgeva orecchio alle recitazioni dei giullari unicamente per sollazzo e passatempo, il ciclo carolingio era un cadavere, e più non ci si poteva infondere nuova vita. Prevalere sui rivali che gli si levavano contro da ogni parte, gli era tanto impossibile, quanto ad un vecchio canuto, sfinito, che appena si regge, il contrastare ad un giovanotto le grazie d’una bella donnina, a forza di tinture, di parrucche, di unguenti.

La parte del giovanotto, in questo caso, la facevano i romanzi d’avventura, e particolarmente quelli della Tavola Rotonda,14 che vediam pullulare dopo la metà del secolo XII. La loro storia non è ancora ben chiara; manca tuttavia un lavoro rigorosamente critico, che, senza dissimulare né le lacune, né le difficoltà, e non son poche abbracci il soggetto in tutta la sua estensione, determini nettamente le questioni, non affermi, ma provi. 

Tuttavia nessuno dubita più che il ciclo brettone non meriti veramente questo nome per le sue origini, e che sotto ai romanzi in prosa e in verso pervenuti a noi, non giaccia uno strato considerevole di tradizioni e di lais celtici. Il difficile sta nel definire esattamente i rapporti di questo strato inferiore col superiore; nel distinguere con precisione la parte dei Brettoni insulari e quella degli Armoricani; nel determinare come penetrasse tra i Francesi codesta materia di Brettagna, quanto aggiungessero essi di loro creazione, qual fosse il processo di svolgimento. Insomma, c’è qui una quantità 7 di problemi, che giova sperare si vedranno presto sciolti definitivamente.

Ma qui pure è inutile ch’io mi stia a insanguinar tra le 14 1 Non mi so acconciare per nulla a quella terminologia francese, che, contro l’uso antico e la ragione intrinseca delle cose, esclude dai romans d’aventure i romanzi della Tavola Rotonda, ossia appunto i romanzi d’avventura per eccellenza. La mancanza di un vocabolo specifico per designare comodamente le composizioni più o meno congeneri, ma non rannodate al ciclo brettone, non mi pare un motivo sufficiente per confiscare a loro esclusivo beneficio questa espressione, privandone chi ci ha maggior diritto.

Son passati ventiquattr’anni dacché scrivevo queste parole; e ancora non è arrivato il tempo di cancellarle, o
mutarle.

Quanto al «presto», la mia speranza è dunque riuscita vana. Certo in questo frattempo s’è fatto molto per avvicinarci allo scopo; i diritti celtici, che io non supponevo neppur più contestabili e che nondimeno trovarono ancora degl’increduli, furono messi per sempre fuori di contestazione; intorno alla partecipazione degli Armoricani e dei loro confratelli d’Oltre Manica si sono avute dispute quanto mai istruttive; l’azione rinnovatrice francese fu per qualche caso studiata profondamente e genialmente: ma che la meta sia stata raggiunta, non si può dire davvero, e l’opera da me spine, mentre per il momento posso camminare con tutto il comodo in un terreno sgombro. 

A me basta di ragionare un pochino dei romanzi del ciclo brettone quali noi li abbiamo, senza perdermi in indagini sulla loro formazione.

Ne vedo dunque di due sorta: in verso, ed in prosa. Comprendo nella prima classe anche quelle composizioni più brevi e più semplici, che conservano, o si sono appropriate, il nome di lais.

Dei romanzi della seconda, parte furono composti in prosa originariamente, parte giunsero alla forma prosaica per opera di compilatori e raffazzonatori.

Che anche quando i racconti sono celtici di provenienza, vestendo le forme della lingua d’oïl abbiano altresì dovuto subire una trasformazione più profonda, è cosa manifesta a priori per chiunque conosca l’indole dei tempi. Il medioevo è cosiffatto: soggettivo per eccellenza, accomoda inconsciamente ogni cosa al suo io. Questa narrazione sarà un portato della mitologia greca; quest’altra, invenzione d’un romanziere dei bassi tempi; quella trarrà origine dalla Germania: basta che tutta questa roba attraversi una mente medievale, perché ne esca con un colorito uniforme, che dissimula le differenze sostanziali. E se questo è, ognuno vede quanto più profondamente francesi devano essere tutte quelle creazioni, che furono immaginate bensì sotto l’impulso e anche ad imitazione dei racconti di origine celtica, ma da fantasie normanne, picarde, o che altro so io.

Però, se nei romanzi della Tavola Rotonda il fondo è straniero, lo spirito, il sentimento, appartiene alla nazione che dava la forma; e ciò che dentro vi si riflette, è la società elegante francese ed anglonormanna della seconda metà del secolo XII e della prima del XIII, co’ suoi sogni, le sue tendenze. i suoi vizi, le sue virtù. Non dico già, è scolpita, ma si riflette: a quel modo che uno specchio accoglie e rimanda gli atteggiamenti fuggevoli d’una fanciulla fantastica, che nel segreto della sua camera si compiace d’immaginarsi amante, principessa, donna tradita, e dà effimero sfogo ed espressione alle passioni ed ai grilli della mobile testolina.

Questo ci spiega, come mai, accanto ai romanzi dei cavalieri erranti, il secolo XII e il seguente ne abbian prodotto una moltitudine che nessun legame ricongiunge colla Brettagna, e che pure, mutati certi accidenti, ed anche solo i nomi, potrebbero esser creduti emanazioni del ciclo d’Artù. Ed anche nel fatto sono molti i romanzieri che rannodarono in tal modo con questo ciclo racconti provenienti da tutt’altra origine.

Conseguenza necessaria di uno stato di cose siffatto è la straordinaria varietà della roba, che si può comprendere sotto il titolo di materia di Brettagna. Ciò non impedisce che si ravvisino certi caratteri generali, i quali ci fanno apparire il ciclo brettone antitesi del carolingio. Mentre l’uno emanava dal sentimento nazionale e feudale, l’altro, trasportato in Francia, trovava ragion d’essere nella curiosità e nella passione per tutto quanto sapesse di avventuroso. 

Nell’uno, la donna aveva una parte affatto secondaria: nell’altro, era inspiratrice e ricompensa di opere ardite e magnanime, sospiro e conforto, principio e fine di ogni azione. Quindi l’amore, che dalle vere chansons de geste si potrebbe togliere con danno lieve, anzi molte volte con vantaggio non piccolo, è la nota predominante dei romanzi d’avventura. E voglio dire con ciò, l’amore in tutte le sue forme; dalla più pura e casta, alla più brutale. Ma la sua manifestazione più caratteristica è qui un sentimentalismo, partecipe nella stessa misura dello spirito e della materia, dell’angelico e del diabolico: l’amore adultero di Tristano ed Isotta, di Lancilotto e Ginevra, dal quale involontariamente corriamo col 9 pensiero alla letteratura moderna, per poi domandarci, se sia casuale, oppur no, questo perpetuo ritorno d’un popolo a uno stesso ordine di concezioni.

L’amore è uno degli elementi principali di quel sentimento cavalleresco, che è codice, morale, religione, di tutti gli eroi del ciclo d’Artù. Giacché i monasteri, le chiese, i romitaggi, insieme coi loro abitatori, si riducono nei romanzi della Tavola Rotonda a un mero apparato. Gli animi non riconoscono nel fatto altra legge, che la protezione del debole, la lealtà verso la dama e il signore, il disprezzo dei pericoli, l’abbominio d’ogni frode e vigliaccheria. Però, cristiano, pagano, si riducono a epiteti vuoti di senso; né si saprebbe dire in che differisca Palamidesse, ostinato a non voler ricever battesimo, da Lancilotto, Galvano, Girone, e tanti altri, che ascoltan la messa quasi ogni invocata si aspetta sempre. Tanta è ancora l’oscurità, che le più antiche tracce della presenza della materia di Brettagna nel mondo romanzo paiono fino a qui scorgersi in Italia, ossia in un paese che non presume sicuramente di contestare alla Francia la priorità.

mattina.

E così anche il meraviglioso del ciclo brettone non è già quello del carolingio e delle chansons de geste. Se accade cosa che turbi l’ordine naturale, non è per volontà di Dio, ma per forza d’incanto. Gli angeli scompaiono dalla scena; i miracoli cedono il luogo alle malìe. E alla differenza qualitativa s’aggiunge la quantitativa, ragguardevole ancor essa. 

Né le imprese dei cavalieri della corte di Artù hanno somiglianza con quelle del ciclo di Carlo. Là s’avevano guerre vere e proprie, combattute da eserciti numerosi, con tutte le norme tattiche e strategiche del tempo; qui guerre cosiffatte sono rade, e, quando occorrono, producono l’effetto di una solenne stonatura. I cavalieri vanno errando, ciascuno per conto suo, in traccia di avventure e di avversarî contro cui mettere la vita a repentaglio, siano poi mostri, giganti, maghi, o signori prepotenti. A tutti costoro si fa una guerra di sterminio; ma siccome il combattere è fine a sé stesso, i cavalieri, quante volte s’incontrano sopra una via, si sfidano ed azzuffano anche tra di loro, per lo più senz’altra ragione, che di far prova di valore. Né si muta sistema perché spesso spesso accada ad amici e compagni di fracassarsi le armi indosso e di cincischiarsi le carni; le ferite non producono mai odio, purché fatte lealmente. Anzi, affinché le armi non abbiano mai a posare, si bandiscono frequenti tornei, dove, sotto gli occhi delle dame, si giostra, si ferisce, si ammazza, per puro esercizio e diletto.

Queste due classi così diverse, le chansons de geste e i romans d’aventure, il ciclo di Carlo Magno e quello d’Artù, si trovavano a fronte tra il secolo decimosecondo e il decimoterzo. Non ci fu lotta, nel senso stretto della parola; ma la specie meno rigogliosa, perché vecchia e sorta da uno stato di cose oramai scomparso, sentì, come ho già detto, il bisogno di procacciarsi attrattive che la rendessero ugualmente accetta, accattandole dalla sua antagonista, e falsò la propria natura. Con tutto ciò aveva radici troppo profonde, perché potesse perire; la moltitudine le rimase sempre fedele. Però, quando più tardi le chansons vennero a morte, il popolo n’ebbe in legato la suppellettile di quei libercoli in prosa, di cui ha continuato finora a deliziarsi. 

In Tristano e Lancilotto solo le classi elevate potevano ravvisare il loro ideale; quindi fu presso di loro che I romanzi della Tavola Rotonda, e in generale, d’avventura, ebbero grandissima voga. Fu un fuoco senza durata; è unicamente del popolo il contentarsi sempre di uno stesso cibo intellettuale, a quell modo che si contenta ogni giorno di mangiare lo stesso pane, di bere la medesima acqua. Le classi elevate cercarono presto altri passatempi; e se non dimenticaron del tutto, curarono assai mediocremente gli eroi di Brettagna. Al doppio ordine di composizioni di cui s’è venuto dicendo, cooperarono efficacemente I Normanni: i Normanni, insediatisi dominatori, al modo stesso come nell’Inghilterra, anche nella Sicilia e nel mezzogiorno dell’Italia peninsulare. Da ciò una partecipazione del paese nostro alla letteratura epica e romanzesca.16 Cotal modo di partecipazione non fu tuttavia fecondo di effetti durevoli. Per le vicende italiane importò senza confronto di più l’infiltrazione avutasi via via attraverso alle Alpi, per opera dei recitatori girovaghi, che, nel loro perpetuo vagabondaggio, si mischiavano ad ogni corteo signorile, seguivano la fiumana che scorreva continua verso le tombe degli Apostoli, e dalla via «Romea» o «Francesca» si sbandavano a destra 11 e a sinistra, dovunque loro si offrisse speranza di doni, rassegnati poi anche al mero sostentamento. Così vennero diffondendosi per l’Italia copiosi germi, ai quali occorrevano solo condizioni esteriori favorevoli per dar luogo a una vegetazione copiosa. 

E le condizioni si produssero anzitutto al nord dell’Appennino, dove i germi abbondavano in modo affatto particolare e la predisposizione era quindi più intensa. Singolarmente vivace lo spettacolo che presentava nella seconda metà del dodicesimo secolo e lungo il tredicesimo la gran vallata del Po. Da un lato i comuni, che, fattisi padroni del loro 16 1 È da leggere il succoso scritto di G. Paris, La Sicile dans la litterature française du moyen-âge, nella Romania, V, 108. 17 2 Trattai di ciò, a proposito di una nota iscrizione di Nepi del 1131, nell’Archivio Storico Italiano, S.e IVa, t. XIX, 24. 18 1 Oltre all’articolo riguardante l’iscrizione nepesina (Arch. St., XVIII, 329, XIX, 23), citerò i i V-IX dei miei Contributi alla Storia dell’Epopea e del Romanzo medievale (Romania, XVII, 161 e 355, XVIII, 1, XXIII, 36, XXVI, 34). reggimento, difendono con somma tenacia le proprie libertà, accanitamente assalite, e riescono a trionfare; dall’altro signorie feudali vigorose, che coi comuni ora lottano, ora si rappacificano; poi, a evante Venezia, sempre più potente sul mare e che dal mare ritrae ricchezze inesauribili; mentre a ponente giunge il riflusso della prosperità genovese. Ferve dunque la vita: e tutto quel rimescolìo di popoli e di signori che s’agitano, accresce e propaga lusso, feste, leggiadri costumi. Particolarmente ebbe a segnalarsi durante un certo periodo la regione che chiamavano, «Marca Trivigiana». Allude a quel periodo l’Alighieri in un passo ben noto del Purgatorio (XVI, 115). 

Cortesia e valore erano allora, per servirmi di un’espressione del Poeta, le faville che accendevano i cuori. Quindi amori, giostre, conviti, spettacoli di vario genere; tutto ciò insomma che costituiva la vita lieta ed elegante del tempo. La Marca n’ebbe gli epiteti di amorosa e di gioiosa.19 A quel fervore di civiltà non doveva mancare l’ornamento della poesia e della letteratura. Non già di una letteratura da stufa, quale fu troppo spesso la nostra dopo il rinnovamento degli studi classici; bensì di una letteratura che crescesse all’aperto; di una letteratura, che, come il sangue nel corpo, scorresse per tutte le vene della società. Né ci fu bisogno di 12 creare per venirne in possesso. 

Bastò sul principio porgere viepiù attento l’orecchio a quelle voci oltramontane, a cui già si dava ascolto. Le quali, grazie alle affinità di razza e ai molti contatti, riuscivano qui non difficilmente intelligibili senza che si dovessero piegare ad altro suono; e quel tanto di sforzo che s drichiedeva perché l’intelligenza fosse più piena, facevano di buon grado i signori, meritevoli sempre almeno in parte di quei fieri rimproveri che l’Alighieri incise nel capitolo undecimo del primo trattato del Convivio, «a perpetuale infamia e depressione delli malvagi uomini d’Italia, che  commendano lo volgare altrui e lo proprio dispregiano». E non un solo linguaggio straniero, ma due corsero il paese: il francese per i generi narrativi, il provenzale per la lirica. Quanto al volgo, anch’esso s’ingegnò, e s’ingegnava da un pezzo, di capire; e il francese (del provenzale c’è poco da parlare, perché la lirica provenzale volava solitamente troppo alto per lui) rimase teoricamente il linguaggio dell’epica. Ma quel francese venne mano mano spogliandosi degli abiti proprî e indossando quelli della gente tra cui viveva, fino a che non ebbe oramai più nulla di esotico:20 cosa tanto più naturale, dacché frattanto c’eran ben stati di coloro, che, in generi di composizione non francesi di soggetto, sebbene francesi d’ispirazione, si erano, in servigio del popolo, valsi senza ritegno delle parlate indigene. Lasciando ogni altro genere, m’ho qui da occupare unicamente delle chansons de geste e dei romanzi d’avventura. Questi e quelle ebbero dunque nell’Italia del settentrione, e in particolare verso le sue parti orientali, assai largo favore. Con quanta avidità fossero letti e ascoltati nelle corti, e dai signori in genere, i romanzi di Tristano, di Lancilotto, di Girone, si vede già dalla moltitudine di esemplari trascritti e miniati da mani italiane, o che anche solo occuparono un posto nelle nostre librerie principesche.21 Ed anche al popolo ne giunse l’eco; ed 13 esso pure conobbe quei personaggi e quelle costumanze. 

Rammentiamoci ciò che narra Martino da Canale, là dov’egli, testimonio oculare, descrive le feste del 1267, per l’elezione del doge Lorenzo Tiepolo.22 Tutte le Corporazioni vanno a rendere omaggio in splendidi addobbi; quella dei barbieri, preceduta da due uomini a cavallo, che rappresentano cavalieri erranti. Questi conducono quattro donzelle; e giunti al doge, dicono d’averle conquistate e d’esser pronti a difenderle contro chiunque le voglia loro contrastare. Il fatto è notevole. Ma non se ne inferisca che i romanzi della Tavola Rotonda fossero divenuti addirittura popolari nel senso stretto della parola; una mascherata è sempre 19 2 Quando cessasse di esser detta così, non so precisare; ma all’amorosa allude bene ancora, e non per via di semplice riferimento al passato, Benvenuto da Imola, commentando il S’io nol togliessi da sua figlia Gaia. 20 1 Molto istruttiva la doppia forma in cui ci si presenta uno degli Ugoni d’Alvernia, nel codice berlinese e in quello di Torino; e più ancora poi, trattandosi di roba più umile, il frammentario Bovo d’Antona, (V. Zeitschrift für romanische Philologie, XI, 155). 21 2 PARIS, Les Mss. fr. de la Bibl. du Roi. RAJNA, Ricordi di Codici francesi posseduti dagli Estensi (Romania, II, 49). D’ADDA, Indagini sulla Libreria Visconteo-Sforzesca del Castello di Pavia, Parte 1a; Milano, Brigola, 1875. BRAGHIROLLI,MEYER, PARIS, Inventaire des Mss. en langue franç. possédés par Francesco Gonzaga (Romania, IX, 497). 22 1 Arch. Stor. It., S.e Ia , t. VIII, 622. qualcosa d’insolito, di cui l’idea nasce in un solo cervello, e che piace tanto più, quanto più par nuova. Del resto anche le classi elevate ebbero allora famigliari solo i romanzi in prosa. Né c’è da meravigliarsene. In questi il genere del romanzo d’avventura aveva toccato il massimo grado del suo svolgimento. E anche quanto alla forma, le narrazioni in versi d’otto sillabe non possedevano le grazie ingenue di quell’antica prosa francese, che tanto ancora ci seduce. 

Ben maggiore, senza confronto, fu l’importanza e la diffusione della «materia di Francia». La memoria di Carlo Magno, distruttore del Regno Longobardo, restitutore dell’Impero Romano d’Occidente, non poteva non rimanere nelle menti italiane; l’aureola di eroe cristiano, di cui in parte i fatti, in parte travisamenti dei fatti, ed anche mere favole, lo vennero a circondare, aumentavano l’interesse per lui; sicché i cantari che lo celebravano, e in primissimo luogo la Chanson de Roland, non avevano avuto bisogno che di essere portati al di qua delle Alpi per trovare orecchie vogliose. Dalla persona di Carlo il favore s’irradiava ben naturalmente su chi gli stava dintorno, sì da rimanerne, prima attenuata, e poi offuscata addirittura la luce sua propria. E anche di alter generazioni, anteriori o posteriori, si sentì narrare con desiderio. A poco a poco quei personaggi parvero tanto cosa nostra, che molte famiglie, specialmente 14 nella Marca di Treviso, ambirono di rannodarvi le origini proprie.23 Peccato che di siffatta letteratura genealogica restino notizie assai scarse È del resto disgraziatamente la sorte comune a tutto ciò che concerne questa prima fase del romanzo cavalleresco, che, in grazia di quel che s’è visto riguardo al linguaggio, si suol chiamare «franco-italiana». La propagazione della materia dalla regione transalpina alla cisalpina par seguita soprattutto di buon’ora ed essersi poi rallentata; ché altrimenti poco si capirebbe come l’Italia abbia conosciuto meglio gli strati arcaici delle chansons de geste che i successivi, tanto da conservare racconti e  orme di racconto dimenticati poi e alterati nella Francia, e da ignorare invece quasi affatto le creazioni ibride che introdussero nel genere il meraviglioso dei romanzi d’avventura. Ma l’attività nostra non si ridusse già nemmeno nella prima fase a conservare e ripetere. A differenza di quanto seguiva per il ciclo brettone, molto si rifece e molto si aggiunse di nuovo. E tra le innovazioni e creazioni non mancarono le ingegnose e felici; ma ingegnose e felici non furon tutte di certo. Per un processo di evoluzione, che equivaleva qui a un corrompimento, venne a moltiplicarsi sempre più un certo genere di racconti, di cui nella Francia non s’era ancora abusato. Lo schema presso di noi si può dire il seguente. Un barone della corte di Carlo, o di sua propria volontà, ed allora di nascosto, oppure costretto da un bando, lascia la Francia, e va errando sconosciuto per la Paganìa. Là compie ogni sorta di prodezze: uccide mostri, vince tornei, decide della sorte delle guerre. 

Un po’ di salsa erotica non deve mancare. Fanciulle saracine innamorano del cavaliere, e senza troppi ritegni fanno conoscere le loro fiamme. La manifestazione suole aver luogo in momenti difficili; Gano, il perfido traditore, per mezzo di messi e di lettere, ha svelato a nemici crudeli chi sia il cavaliere, e procurato così all’infelice le durezze di una prigione e gravissimo pericolo di vita. Intanto di Francia si partono altri baroni per andar in traccia del compagno. Nuove avventure, nuovi 15 pericoli. Essi giungono appunto in tempo per campare l’amico; e quindi nsieme, dopo aver battezzato città e regni, ritornano verso l’Occidente. Per solito il ritorno è sommamente salutare alla Cristianità, giacché serve a dissipare gli eserciti sterminati, che qualche fiero Saracino ha condotto nel frattempo sotto Parigi. Tale è il tipo più comune del romanzo cavalleresco italiano: tipo che si venne pur troppo a sostituire a racconti senza paragone più variati e più ricchi d’interesse. Come si vede, credo di doverlo presupporre anche nella prima fase della nostra letteratura romanzesca, sebbene tra il poco che a noi ne è pervenuto io non ne ritrovi alcun esemplare completo. La persuasione mia si fonda sull’esame minuto dei testi toscani, e sopra argomentazioni di vario genere. Del resto, precisare il momento in cui questa forma venne a prevalere, non si potrà forse mai. Rincresce l’ignoranza, quantunque in fondo non faccia poi un gran strappo nelle nostre cognizioni. L’importante a conoscere è la successione dei fatti, la cronologia senza cifre; la data si potrebbe anche trasportare 23 1 Bisogna che rimandi a uno scritto mio nella Romania, IV, 161: Le Origini delle Famiglie Padovane e gli Eroi dei Romanzi cavallereschi. 

dal primo periodo al secondo, senza che la sostanza mutasse. Questo secondo periodo si distingue nettamente dal primo per ciò che spetta al suo focolare; cronologicamente i lembi, e più assai che i lembi,24 si sovrappongono, allo stesso modo come la nostra età franco-italiana combina coll’ultimo periodo dell’attività produttrice nei paesi di lingua d’oïl. 

Dunque il centro 16 si sposta; dalle rive della Brenta e dell’Adige si trasporta a quelle dell’Arno. Né si tratta di un fatto isolato; tutta la nostra vita intellettuale, che nel secolo XIII era stata rigogliosa in molti punti del Bel Paese, par quasi raccogliersi nella Toscana, anzi in Firenze, per riespandersi poi di colà tutto all’intorno. Lo spostamento, quanto al romanzo cavalleresco, produce di necessità condizioni nuove e alterazioni di forme; ma l’evoluzione degli elementi, il processo biologico, continua. Continua, dopo un certo ristagno; giacché un tempo considerevole è occupato specialmente dalla trasfusione di quanto aveva conservato e prodotto, e ancora veniva producendo. l’Italia settentrionale. La trasfusione ha luogo per opera di penna, dopo che il popolo vi era già stato largamente disposto dalla bocca dei giullari. Questa volta una metamorfosi parziale non basta più. La Toscana è in possesso d’una lingua conscia delle sue forze e addestrata da molte prove; essa, non solo non prende a prestito le favelle straniere, ma quasi non le intende neppure. Bisogna dunque tradurre tutto ciò che si vuol far conoscere: i romanzi della Tavola Rotonda, non meno che i cantari di gesta. Di qui, supposta la medesima diffusione e un’egual durata di attività parimente intensa, conseguirebbe di già che la massa della letteratura cavalleresca toscana dovesse superare d’assai quella dell’Italia settentrionale. E s’aggiunge un altro fattore: l’importanza nuova acquistata dalla
prosa, grazie alla ferma e salda costituzione della lingua letteraria. In prosa volgare gli abitanti della valle del Po scrissero poco; poco in francese, poco in linguaggio indigeno, fino a che almeno non dettero loro animo e sostegno gli esempi toscani, e un nuovo genere d’ibridismo non si surrogò all’ibridismo franco-italiano. E ibride sono manifestamente le più delle prose romanzesche che conosco finora. Ma di là dall’Appennino le cose andarono in ben altro modo. Quasi d’ogni romanzo s’ebbe accanto alla poetica una forma prosaica. 

Se taluno fa eccezione, se a volte le versioni poetiche sono due, e perfino tre, in compenso ci sono racconti, che paiono essersi contentati sempre della sola prosa. I rapporti tra le due forme non sono gli stessi in ogni caso. In generale la letteratura prosaica e la poetica rassomigliano a due fiumi che scorrano paralleli, derivando le loro acque da un bacino comune. Non si può dire che l’uno esca dall’altro, quantunque numerosi canali li facciano comunicare, e portino ora a questo, ora a quello, un contributo considerevole. Fuori di figura, la letteratura romanzesca toscana, senza distinzione di prosa e di rima, ha rapporti diretti e immediate colle età precedenti. Naturalmente bisogna mettere in disparte tutte le creazioni nuove, non troppo difficili da riconoscere. Poi, sono necessarie altre restrizioni. Non mancano testi in prosa fabbricati sulle versioni rimate, oppure ad un tempo su queste e sulle forme anteriori, francesi o francoitaliane. Viceversa, ci sono testi in rima che derivano da versioni prosaiche toscane, alle quali allora sogliono attenersi con una fedeltà singolare. Giacché, le forme rimate emanano per lo più da una sola fonte; invece i romanzi in prosa hanno spesso carattere di compilazione, e fondono insieme 24 1 La frase «più assai che i lembi», colla quale insisto maggiormente sul concetto già manifestato nella prima edizione, è una giunta impostami dai fatti venuti a galla nel frattempo. Ché, se l’imitazione dantesca in uno degli Ugoni d’Alvernia e ciò che veniva a dedursi dall’Attila di Nicola da Casola mi facevano ben pensare fin d’allora che l’attività franco-italiana si fosse anche nel dominio del romanzo cavalleresco continuata fino alla metà almeno del secolo XIV, non credevo che fosse da collocare verso quel tempo l’importantissima Prise de Pampelune; né sospettavo l’esistenza di un romanzo in prosa francese qual è l’Aquilon de Bavière, cominciato nel 1379, finito nel 1407 (THOMAS, Aquilon de Bavière, Roman franco-italien inconnu, in Romania, XI, 538). Vero che l’Aquilon, come mise bene in evidenza il suo ritrovatore (543), suona in pari tempo a funerale per il romanzo franco-italiano colle «dolce rime d’otto versi», di cui l’autore s’è, con rammarico, limitato a valersi in un proemio, scritto probabilmente a opera finita, e nell’epilogo. Intorno al fatto resultato per la Prise ha ragionato sagacemente e dottamente il Crescini

Di una data importante nella storia della epopee franco-veneta, negli Atti dell’Istit. Ve, S.e 7a, t. VII 1895-96 1150); il quale tuttavia s’è spinto tropp’oltre, e s’immagina d’altronde di essere in opposizione con me assai più di quel che gli mostreranno, rilette ttentamente, le mie vecchie pagine 14 e 15. 17 materiali cavati da non so quante miniere. Siano esempio e prova i Reali di Francia, e in particolare il libro quarto, che narra di Buovo d’Antona. 

Il carattere e il fine di questa rapida scorsa non mi permettono di definire, quanto ci può essere di peculiare, sotto questo rispetto, nelle vicende dei due cicli, presi a considerare separatamente. Qui mi basta di vederli concordi nell’andamento generale. Per l’età più antica le somiglianze apparirebbero forse minori; ma quell’età è tuttavia troppo oscura, perché i fatti si possano ridurre a leggi non fantastiche. Aver dato una parte così considerevole alla prosa, è certo una grande novità per la letteratura romanzesca toscana; eppure non è la maggiore. Effetti più durevoli e potenti ebbe l’applicazione di una forma ritmica adatta alla materia, e ricca di attitudini artistiche. L’età franco-italiana non aveva fatto nulla in proposito; s’era contentata di adoperare come meglio sapeva le forme venute di Francia; e, a dire la verità, molto 18 spesso non aveva proprio saputo. E se anche i suoi decasillabi e dodecasillabi avessero sempre rispettato la misura legittima, la tirade monorime non era fatta per noi. 

Figuriamoci come si poteva mai metter d’accordo coi nostri volgari, trocaici e baritonali per eccellenza, una forma nata per le assonanze e le rime maschili, e che delle femminili avrebbe dovuto servirsi solo per rompere la monotonia Però un’innovazione era necessaria; né l’Italia settentrionale, colle sue indecisioni in fatto di linguaggio, era il paese meglio preparato per compierla. Colà l’abitudine dell’orecchio, prodotta dalla lunga famigliarità colle favelle di Francia, e insieme una minore distanza dal loro tipo, rendeva anche il difetto assai meno sensibile. Fu dunque la Toscana che eseguì la riforma. Per opera sua alla «lassa», o serie ad una rima, subentrò’ottava, forma primitivamente lirica, ma popolare più che altra mai, e applicata assai di buon’ora senza dubbio, nell’opinione mia, fino dal secolo XIII alla materia narrativa. 

La tradizione degli eruditi, che la voleva invenzione del Boccaccio, e adoperata la prima volta nella Teseide, intorno all’anno 1340, va messa senz’altro tra le anticaglie L’introduzione dell’ottava sembrò forse da principio un mutamento di poco rilievo; eppure noi, che abbiamo il comodo di osservare le cose dopo che sono avvenute e di fare i profeti del passato, possiamo per lei pronosticare sorti splendide alla poesia romanzesca. Senza l’ottava, non il Boiardo, non l’Ariosto. Certo anch’essa ha qualche magagna; del tono lirico, che porta con sé dall’origine, non può spogliarsi del tutto. La vera epopea non se ne sarebbe appagata. Ma nel nostro caso è ridicolo parlare di epopea: l’Innamorato e il Furioso, quest’ultimo un po’ a dispetto dell’Autore, sono romanzi, ed hanno tanto che fare coll’Iliade, quanto un aerostato con un uccello. Chiamare l’Ariosto «Omero Ferrarese» poteva correre nei tempi andati; ma è un’improprietà non più giustificabile nei nostri.25 Or 19 bene, s’ha un bel guardarsi attorno: dopo aver cercato, esaminato, confrontato, bisogna convenire che l’ottava è la forma narrativa più felice delle letterature moderne. 

Sicuro che, trasportata ad altre lingue, all’inglese, alla francese, alla tedesca, non ha più gli stessi pregi; ma i suoi grandi meriti le vengono appunto dall’essere indigena, uscita dalla nostra favella, e però conforme alle sue condizioni e ai bisogni suoi. È un abito fatto sul nostro dorso, e giusto perché a noi sta benissimo, stringe troppo o fa le grinze se altri l’indossa. Succede anche all’ottava ciò che accade ai metri greci, costretti a parlare le lingue moderne. Aver trovato la sua forma poetica, significava per il romanzo cavalleresco essersi accaparrato ’avvenire. Ci volle tuttavia del tempo assai, perché ai germogli succedessero i fiori ed i frutti. In quel lungo periodo di preparazione, i due cicli, il brettone e il carolingio, continuarono a proceder divisi. Contatti, rapporti, ce ne furono in gran numero; ma sempre parziali e momentanei. E le loro sorti furono ben diverse. Il ciclo brettone mise al mondo pochi figliuoli; e quelli ancora semplici ritratti dei babbi. Al contrario il carolingio fu spaventosamente prolifico, tantoché la famiglia si cambiò presto in tribù. Alla quantità non corrispose per nulla la qualità; e più s’andava innanzi, più pareva che la razza degenerasse. Per buona sorte arrivò a tempo il rimedio, quando del romanzo 25 1 Primo a designarlo così fu il Tasso, nella lettera ad Orazio Ariosti (Epist., I, 235). Sennonché ivi, come mi fa osservare Francesco d’Ovidio, la frase è posta di sbieco ed esce fuori da un’associazione di idee, senza che ci sia l’intenzione di pronunziare un giudizio: «Io non negherò che le corone semper florentis Homeri (parlo del vostro Omero ferrarese)» ecc. cavalleresco s’impadronirono i poeti d’arte. Il primo tentativo fu il Morgante. Il Pulci non creò la sua tela. Fino ai casi che preparano Roncisvalle, egli fu rifacitore geniale dell’opera di un rimatore oscuro;26 da indi in là caracollò molto più liberamente, ma ancora sul cavallo della tradizione. Da questa si discostò, è vero, oltreché nei particolari, quando fece intervenire Rinaldo alla famosa rotta;27 ma allora 20 ricorse all’espediente di trincerarsi dietro autorità di sua invenzione; e lo seppe fare così bene, che anche i moderni si lasciarono cogliere all’inganno. Le due parti del Morgante sono semplicemente appoggiate l’una sull’altra, e paiono un tutto, solo perché non si è soliti guardarci con attenzione. Per noi l’importante si è, che appartengono entrambe al ciclo carolingio. Nella prima si ravvisa, in fondo, uno dei tanti esemplari di quel tipo volgarissimo, descritto a proposito dell’età francoitaliana. Gli episodî presi o ispirati da romanzi della Tavola Rotonda vi sono certamente assai umerosi; ma con tutto ciò, restando sempre allo stato d’infiltrazioni, non bastano a trasformare sostanzialmente la materia. La seconda parte è nel complesso una metamorfosi della Chanson de Roland, vale a dire del poema centrale del ciclo. In che consistono dunque le novità del Morgante? Nello stile, fresco, snello, scintillante di brio; in certi episodî, dove l’Autore introduce curiosi personaggi di sua fattura e si scapriccia tanto colla fantasia quanto colla ragione; soprattutto poi nella dimostrazione del suo io e nell’atteggiamento che prende di fronte all’opera sua. Questa diventa per il poeta un vero balocco. Egli m’ha l’aspetto d’un uomo maturo, che s’è messo a fabbricare castelli di carte. Per un pezzo continua il lavoro con una gravità infantile. Vi è così assorto, che in vita sua si direbbe non abbia mai preso tanto sul serio alcun’altra occupazione. 

Ma eccolo, sul più bello, buttare con uno scappellotto ogni cosa all’aria, e dare in una sonora risata. Basta questo brevissimo cenno intorno al poema del Pulci,29 per vedere che di lì non poteva prender le mosse un nuovo 21 indirizzo del romanzo cavalleresco. Né il gaio Fiorentino aveva mai sognato di mettersi avanti con una bandiera di riforma. 

Egli era uno spirito libero e bizzarro, che pensava e operava come piaceva a lui, e al quale l’idea del proselitismo non passava nemmeno per il cervello. Per andargli dietro sarebbe stato necessario esser dotati della stessa natura e aver attraversato le medesime vicende. E invece degli originali del genere di messer Luigi madre natura non è mai prodiga; e certo fa bene. Però il Morgante resta lì come un monumento sui generis; preparato dalle età anteriori, ma scarso di efficacia sull’avvenire. La riforma vera si stava maturando altrove, nel tempo stesso che il Pulci metteva insieme l’opera sua. La gloria ne spetta ad uno di quei paesi, dove il romanzo aveva avuto un primo period di rigoglio. Il fatto non mi par punto casuale. Nella Toscana la letteratura cavalleresca godeva il favore di un pubblico numerosissimo, ma volgare. Da un gran pezzo la classe colta se ne sollazzava più per capriccio, che perché ci trovasse un trattenimento conforme al suo genio. Che a volte ci prendesse gusto, non è niente strano. E a chi di noi non accadde talora, anche dopo essere entrati nella categoria degli adulti, se non degli uomini serî, di fermarsi davanti alla baracca dei burattini, e di ridere un momento delle spavalderie d’Arlecchino e della melensaggine astuta di Pulcinella? Invece sulle rive del Po tutti avevano preso amore e interesse ai personaggi dei romanzi. Le condizioni si son già descritte, né c’è bisogno di tornarci su. Giacché, anche quando la produzione venne quasi a cessare, non si buttò per questo in disparte la roba che già si possedeva. Solo si 26 1 La Materia del Morgante in un ignoto poema cavalleresco (nel Propugnatore II, I, 7; e in forma d’estratto, Bologna, 1869). L’«ignoto poema» fu poi pubblicato da J. Hübscher: «Orlando» die Vorlage zu Pulci’s «Morgante».  Marburg, 1886 ( LX delle Ausgaben und Abhandlungen date fuori dallo Stengel). 27 2 La Rotta di Roncisvalle (nel Propugnatore IV, II, 102; e nella tiratura a parte, Bologna, 1871. 158).

Rinaldo è nominato tra gli eroi della funesta battaglia anche nella Crónica General de España (non posso assicurare se già nella redazione primitiva di Alfonso il Savio), probabilmente in grazia del «Rainaldus de Alba Spina» della Cronaca turpiniana (caXI). E il nostro Giacomo d’Acqui dà luogo ad entrambi: «Raynaldus de Monte Albano.... Raynaldus de Alba Spina» (Mo Hist. Pat., Scr., III, 1508). 28 1 Di uno di questi, il più notevole, o poco manca, discorsi nella Romania, IV, 432. 29 2 Col titolo Il «Morgante» di Luigi Pulci, Fr. Foffano ha pubblicato nel 1891 (Torino, Loescher) un volumetto, dove è assai lodevole la diligenza. Chi ci ricorra, non trascuri la recensione di G. Volpi nel Gior stor. Della Lett. it., XVII, 421. accolsero, alterandoli più o meno, anche i nuovi prodotti della Toscana, particolarmente i poetici. E questi, a poco a poco, vennero acquistando terreno, tantoché finirono per far dimenticare quasi del tutto al popolo ed ai cantastorie le rozze composizioni che prima costituivano il loro patrimonio. La serie ad una rima dovette battere in ritirata davanti all’ottava; la quale, insieme con un linguaggio che si sforzava di essere quanto poteva toscano, divenne la sola forma usata anche in ciò che di poetico si produsse di nuovo. 22 E in un certo modo popolo e gente colta qui s’integravano a vicenda: l’uno, più fedele alle memorie di Carlo Magno e dei Paladini; l’altra, più devota ad Artù e agli Erranti. A conservare in onore i romanzi di Lancilotto e di Tristano contribuivano più d’ogni altra causa le corti di Ferrara, di Milano, di Mantova, veri focolari di costumi gentili. Quel continuo contatto di dame e cavalieri, quegli ozi agiati ed eleganti, quelle feste, quelle giostre, servivano a mantenere in un gran numero di spiriti le disposizioni necessarie per appassionarsi ai casi di Ginevra e d’Isotta. E badiamo che nelle corti dell’Italia settentrionale la coltura continuava ad essere piuttosto francese che italiana. Basta esaminare gl’inventarî delle Biblioteche dei Gonzaga, degli Estensi, dei Visconti, perché il fatto appaia manifesto.30 Era appunto un uomo di nobile schiatta, imbevuto fino al midollo delle idee e delle letture in voga ad una di queste corti, colui che doveva farsi rinnovatore del nostro romanzo cavalleresco: il Conte Matteo Maria Boiardo. Nell’opera sua meravigliosamente ravvivatrice una parte ragguardevole ebbe il mondo che lo circondava e l’educazione che n’era resultata; prodotto di forze e di cause estrinseche, più che libera creazione della mente, vuol bene dirsi, ne’ suoi fondamenti, il sistema dell’Orlando Innamorato. Il punto capitale consisteva nell’intendere che i personaggi d’un poema cavalleresco s’avevano a togliere dal ciclo carolingio, non dal brettone. Per comprender ciò era solo necessaria una mente limpida, che accogliesse i fatti quali erano, senza travisarli coll’inopportuno intervento della sua propria attività. 

Il romanzo in ottava rima era un genere essenzialmente popolare; e un genere che al popolo narrava d’invasioni saracine; di assedî posti a Parigi; di Carlo, d’Orlando, di Rinaldo; di pericoli e d’imprese di baroni cristiani in remoti paesi di Paganìa. Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda solo di rado gli servivan di tèma; ed erano soggetto di composizioni relativamente brevi, più simili, per più d’un lato, a novelle che a poemi. Però, per attenersi 23 alla materia di Francia bastava abbandonarsi alla china; per scegliere quella di Brettagna sarebbe bisognato rimontar la corrente. E non è questa la sola spinta che agisse in siffatta direzione. 

Se i casi che i nuovi romanzi raccontavano di Carlo e dei Paladini riuscivano piuttosto a stuccare che a divertire la gente colta edi gusto fine, il nome del grande Imperatore era pur sempre per tutti quanti il più noto, il più splendido, dai tempi di Roma in qua. E dopo tanta insistenza, dopo tanto lavoro delle fantasie, quell nome, e gli altri che gli facevan corona, parevano nostri più che mai. Popolari dunque nel senso più assoluto e rigoroso della parola, offrivano una base così solida, da potercisi fabbricar sopra anche la torre di Babele, se mai si volesse. E badiamo, che la fantasia ne’ suoi voli sente pure il bisogno di qualcosa su cui posare tratto tratto sicura; nello spazio sconfinato non s’abbandona se non eccezionalmente, oppure se il poeta è mal fornito di ragione e di buon senso. Ciò che si dice dei personaggi si potrebbe applicare, suppergiù, anche alle scene; le quali nei romanzi della Tavola Rotonda erano dappertutto nomi senza significato per lettori e ascoltatori italiani; nell’altra classe presentavano quella temperata mescolanza di noto e d’ignoto, che soddisfa il raziocinio, ed insieme accontenta l’immaginazione. Secondo me, era dunque naturale, quasi direi necessario, che il Boiardo prendesse lo scheletro dal ciclo di Carlo Magno. Ma era ben altra cosa quando si trattava di rivestirlo di polpe. Allora doveva tornare a galla il nobile conte, il cortigiano, l’uomo colto e di mondo. I Rinaldi e gli Orlandi dei soliti cantari ai suoi occhi erano figure ridicole, goffe, degne di quei buoni antenati, che, al grido d’un frate fanatico, abbandonavano ogni cosa diletta, mettendo in cima d’ogni cura il pensiero d’ammazzare Saracini e di riacquistare il sepolcro di Cristo. Ma adesso, nel secolo XV, tra le 30 1 Vedi le indicazioni date nella  2 della 12. 20 raffinatezze di una corte elegante, chi saprebbe mai concepire cavalieri senza amori, senza cortesie, senza giostre e tornei? I veri tipi della specie s’avevano dunque in Lancilotto e in Tristano; sicché,
se i Paladini volevano conservare il loro posto, dovevano accomodarsi a 24 mutar costumi e sentimenti, e mettersi in avventura alla maniera e colle idee degli Erranti. S’avrà dunque la fusion delle materie di Francia e di Brettagna; i due fiumi che prima scorrevan paralleli, ora si congiungeranno in un solo letto. L’onore di dare il nome al nuovo corso resterà al ciclo di Carlo; ma la massa più considerevole delle acque verrà dai dominî di Artù. S’ha tuttavia un bel parlare di fusione, come se chiedo scusa del paragone bastasse ad un cuoco mescolare ingredienti svariati per comporre un piatto prelibato. Mescolanze se n’erano già avute molte volte, e sempre senza effetti durevoli, o con esito addirittura infelice. Perché la fusion non riuscisse confusione, occorreva un uomo di genio. Il Boiardo pareva creato apposta per quest’opera. La natura gli aveva concesso, e i tempi avevano favorito ed accresciuto in lui, una facoltà preziosa di combinare, di accordare, di trar fuori un mondo nuovo da un caos di elementi. Giacché, se il poema suo è costituito soprattutto dei due cicli di Carlo Magno e d’Artù congiunti insieme, non è che non ci si contenga moltissima roba derivata da ben altre origini. La mitologia e la poesia dell’antichità hanno dato un contributo assai considerevole. Il poeta da Scandiano, non solo leggeva con passione Virgilio; ma componeva egloghe latine a sua imitazione. Gli stessi Greci sapeva intendere discretamente: qualità inaudita per un poeta romanzesco. A molti siffatta erudizione sarebbe riuscita fatale. Non so se altri avrebbe saputo resistere al prurito delle imitazioni servili, che avrebbero avuto per conseguenza deplorevoli discordanze, e forse qualche cosa di peggio. Ma il Boiardo grazie, lo ripeto, alla fortunata cooperazione dei tempi colla natura sa far miracoli; prende la materia classica e la trasforma completamente, in modo da renderla, per così dire, medievale. Col suo cervello egli compie le funzioni della fantasia e tradizione popolare. Però può intingere i pennelli dovunque gli piaccia, senza recare sfregio a quell’armonia di colorito e d’intonazione, da cui resulta un’unità, alla quale presta omaggio anche chi non è troppo tenero delle pastoie rettoriche. 

Per ricreare a questa maniera si richiedeva un’immaginazione trapotente. Né chi la possedeva tale, si poteva contentare 25 di un’opera d’accordi. L’accoppiarsi di tanti elementi disparati doveva dar vita a un’infinità di nuovi germi. 

E questi non avevano qui a temere che mancasse loro l’alimento per crescere adulti e robusti. Ogni nuova creazione ne generava non so quante altre; ogni causa si trascinava dietro una catena di effetti. Così si veniva producendo un nuovo mondo, che, dopo il dantesco, è ai miei occhi il più mirabile che sia uscito dalla fantasia italiana. In questo mondo una passione predomina: l’amore. L’amore è anima universale qua dentro; un amore, col quale ha ben poco di comune, sia l’affetto verginalmente pudico di Orlando per Alda nella Chanson de Roland, siano le vampe lussuriose, altrettanto facili ad accendersi quanto pronte a spegnersi, che accoppiano spesso eroi cristiani e femmine saracine in tutti i nostri romanzi del ciclo di Carlo. E con tutto ciò l’amore del nostro poema non si può nemmeno dir quello dei romanzi della Tavola Rotonda. Non già che non ne sia la continuazione; ma il Boiardo era l’uomo della vita, non solo dell’arte, né aveva passato indarno molti e molti anni tra i Fedeli d’Amore. Però questa passione non ha segreti per lui; egli la può ritrarre in tutte le sue forme con mano maestra. Chi ne soffre, sono i tipi femminili, che, avvicinati alla realtà, conservano intera la potenza delle Ginevre e delle Isotte, ma vedono dissipata quell’aureola, dentro alla quale non osavano penetrare sguardi profani. Le dee diventan tiranne. Il poeta fa le vendette dell’amante. L’artista che qui crea, è, rammentiamocene, l’uomo stesso che aveva detto ad una sua donna: Già me mostrasti, et hor pur me ne avedo, Rose de verno e neve al caldo sole: L’alma tradita più creder non vole, Né io credo a pena più quell che non vedo. Sonetto Non più losinghe. Nell’ed. del Solerti (Le rime volgari e latine di M. M. BOIARDO, Bologna, 1894) a 162. 

Da questo connubio dell’arte colla realtà nasce il tipo di Angelica: così vero, e nel tempo stesso così ideale. Amor omnia vincit, era il motto assunto per impresa dal Conte Matteo Maria. Ebbene: la sua opera è l’espressione 26 artistica di queste tre parole. O che fanno quei paladini di Carlo, sempre intenti a guerre e a battaglie? Finché combattevano per Cristo, pazienza le loro fatiche erano indirizzate ad uno scopo. Ma adesso, a che vanno tanto errando per i paesi di Paganìa, uccidendo mostri, sbaragliando eserciti? Tutto codesto non ha senso alcuno, finché il cavaliere non ama; la gloria è meno che un vano nome, quando non può essere un’offerta da deporre al piede di una Diva. Quanto più hanno tardato, tanto più ardenti devono essere le loro fiamme; così si vendica dei ribelli il cieco dio. Ecco quindi il martire di Roncisvalle vittima designata della nuova passione. Orlando è prode, e sta bene; prode continuerà ad essere, anzi, gli si decuplerà, se occorre, il valore; ma lo vogliamo vedere innamorato.32 In questa semplice parola, applicata ad un uomo cosiffatto, si può dire che si contenga in germe tutto il poema. Né meno chiaramente ci si può leggere espressa la combinazione dei due cicli. Non si pensi che Orlando, una volta fatto partecipe della malattia di Tristano e di Lancilotto, non deva conservare dell’uomo antico altro che il nome e gli accidenti esteriori. Il poeta lo ha voluto collocare in una situazione nuova, impensata, e vedere come ci si contenesse. Se il fondo del carattere non restasse il medesimo, avremmo un innamorato di più, e null’altro. Discorrere di creazione e d’originalità sarebbe allora sciocchezza. Ora, immaginiamoci amante il guercio conte di Brava. Sarà un amante timido, credulo, pudico, insomma, discretamente goffo. Si sarebbe tentati di paragonarlo all’asino che volle imitare il cagnolino, e far vezzi al padrone. Ecco dunque erompere una vena copiosa di umorismo e di burlesco. E il 27 Boiardo la lascierà sgorgare? Ma se ce l’ha aperta egli stesso, con piena coscienza di ciò che faceva Certo il sentir parlare di burlesco e umorismo, a proposito dell’Innamorato, deve far meraviglia, e non poca. Si è tanto avvezzi a sentir ripetere su tutti i toni, e da uomini autorevolissimi e giudiziosissimi,33 che il Boiardo canta le guerre d’Albraccà, e le avventure d’Orlando e di Rinaldo, con quella medesima serietà e convinzione, colla quale il Tasso celebrava un secolo dopo le imprese dei Cristiani in Palestina e l’acquisto di Gerusalemme È un errore, di cui mi par superflua la confutazione. Sarebbe come voler dimostrare, a cielo sereno, di bel mezzogiorno, che il sole risplende. S’alzino gli occhi, e non s’avrà fatica a vedere. Del resto non è difficile rendersi ragione di codesto abbaglio singolare. Fu, secondo me, una specie d’induzione, fabbricata su quell notissimo rifacimento, che tanto contribuì all’ingiusta dimenticanza dell’originale. Poiché l’opera aveva una tinta comica dopo esser passata per le mani del Berni, bisognava che nella forma sua propria fosse la stessa serietà. Il poeta fiorentino poteva averla travestita; poteva: quindi doveva.

Non vorrei esser io l’autore di questo bel ragionamento, né mi prenderò la briga d’indagare, a chi ne spetti il merito. Una volta concepito, servì ad alimentarlo l’antico vezzo dei critici, di discorrere delle cose anche non le conoscendo, anzi, tanto più volentieri, quanto meno le conoscono. Né ci possiamo meravigliare che poi si perpetuasse di bocca in bocca e prendesse sempre maggiore consistenza, alla maniera dei dogmi. D’altronde, supporre serio il Boiardo, pareva bello per la distribuzione delle parti tra lui e l’Ariosto. E, santo Dio come si fa a resistere alla tentazione di dire e di credere vero quello che piacerebbe che fosse?

Né è solo l’innamorarsi d’Orlando che introduce nel poema un elemento comico. Non ci vuol molto ad accorgersi che tra il Boiardo ed il mondo da lui preso a rappresentare, c’è un vero -- Qualcosa che conduce verso questa strada, possiamo dire di avere anche presso il Pulci (Morg., XII, 78; XV, 89), preceduto fino ad un certo punto dall’autore dell’Orlando (XXIV, 31), nei rapporti del paladino con
Chiariella. Ma sono sintomi, e nulla più. Orlando rappresenta una parte passiva (XIII, 3; XV, 15); se risponde con qualche parola dolce alle dichiarazioni di Chiariella, gli è più che altro per amore della sua libertà (XIII, 9). Quanto alle dicerie del pubblico (XV, 92), sarebbe poco giudizio badarci. Però Rinaldo parla anche dopo al cugino come al cavaliere disamorato, ossia, che fa press’a poco il medesimo, fedele all’unico e purissimo amore per Alda (XVI, 56): «Io non vo’ disputar quel ch’Amor sia Con un che sol conosce Alda la bella».

Il Dunlop, History of Fiction, osa chiamare l’Innamorato addirittura «il più serio di tutti i poemi cavallereschi italiani» (Pag. 121 nella versione del Liebrecht). contrasto, dissimile soltanto per grado e per tono da 28 quello che impediva al Pulci d’immedesimarsi colla sua materia. Ché agli occhi di ogni Italiano colto del secolo XV erano ridicoli quei terribili colpi di lancia e di spada, che al paragone avrebbero fatto apparir fanciulli gli eroi d’Omero; ridicolo quel frapparsi le armature e le carni per le ragioni più futili, od anche senza un motivo al mondo; ridicole le profonde meditazioni amorose, che assorbivano tutta l’anima per ore ed ore, e sopprimevano ogni ombra di coscienza; ridicole, insomma, tutte le esagerazioni dei romanzi cavallereschi. O come si vuole che un uomo imbevuto fino al midollo di coltura classica, e dotato di un buon senso a tutta prova, avesse a contemplare e rappresentare questo mondo senza mai prorompere in uno scoppio di riso? E infatti il Boiardo ride, e si studia di far ridere; anche in mezzo alle narrazioni più serie esce in frizzi e facezie; e più d’una volta egli crea scene, che si potrebbero credere trovate dal Cervantes per beffare la cavalleria ed i suoi eroi.

Non so se abbia saputo esprimermi in modo abbastanza chiaro; ma, per carità, non mi si faccia dire che il Boiardo abbia scritto l’Innamorato proponendosi come fine di mettere in derision la cavalleria ed i romanzi cavallereschi. Di grazia, non abusiamo di codesto vocabolo fine, reo di tanti spropositi, passati, presenti, futuri. Soprattutto quando si discorre di letteratura romanzesca sarebbe prudente mandarlo a domicilio coatto. Il Boiardo, badando a sollazzare sé e gli altri, scherza, se così gli torna, alle spese de’ suoi personaggi e della sua materia. Ma intenzioni satiriche non ce ne sono, né ce ne potevano essere. C’è bensì una fantasia capricciosa e mobile, che percorre rapidamente tutti i toni, dal più elevato al più basso; che usa tutti i generi, dalla tragedia alla farsa.

L’elemento comico entra nella composizione per una dose; ma non più che per una. E dicendo l’elemento comico, intendo di comprendere ogni manifestazione che abbia il riso per causa o per effetto, sia poi umorismo, sia ironia, sia buffonata, o che altro si voglia. Questo che son venuto dicendo non impedisce menomamente che il Conte di Scandiano non sia stato tratto verso il mondo 29 dei romanzi da una profonda simpatia per i costumi e I sentimenti cavallereschi, cioè per l’amore, la gentilezza, il valore, la cortesia. Se in ciò v’è qualcosa di donchisciottesco, di ridicolo, bisognerà rassegnarsi a ridere anche dell’Alighieri e delle lagrime che fa spargere a Guido del Duca, quando rimembra Le donne e i cavalier, gli affanni e gli agi, Che ne invogliava amore e cortesia, Là dove i cor son fatti sì malvagi. (Purg., XIV, 109.) In Dante c’è un profondo senso di rammarico per un bene che non è più; nel Boiardo si manifesta la letizia del vedere la pianta, dopo un periodo squallido, vestirsi nuovamente di foglie e di fiori: Nel grazïoso tempo onde natura Fa più lucente la stella d’amore, Quando la terra copre di verdura, E l’arboselli adorna di bel fiore, Giovani e dame, et ogni creatura, Fanno allegrezza con zoglioso core; Ma poi ch’il verno vien e ’l tempo passa, Fugge il diletto e quel piacer si lassa. Così nel tempo che virtù fioria Ne l’antiqui signori e cavallieri, Con nui stava allegrezza e cortesia, E poi fuggirno per strani sentieri, Sì ch’un gran tempo smarrirno la via, Né del più ritornar fenno pensieri. Ora è il mal vento e quel verno compito E torna il mondo di vertù fiorito. Et io cantando torno alla memoria De le prodezze de’ tempi passati.... (In, II, I, 1-3.) Insomma, nel sentimento cavalleresco spoglio delle sue esagerazioni ridicole, è riposta, secondo me, la verità oggettiva delle creazioni del Boiardo; tutto il resto è del dominio dell’arte e della fantasia. Non meravigliamoci quindi dei tanti ghiribizzi che ci si affacciano nella lettura; se il poeta non ha ritegno a scherzare col soggetto, né ha rimorso di esporre alla derisione i suoi personaggi, gli è che egli intende a celebrare la prodezza, la cortesia e l’amore, non già Orlando e Ferraguto.

Dei due caratteri principali del poema, Angelica e Orlando, ho detto qualche cosa. Se non mi dovessi affrettare verso 30 la meta e non discorressi dell’Innamorato solo per arrivare al Furioso, ce ne sarebbero molti altri degni di studio. Li dividerei allora in due categorie: nuovi e rinnovati. Fra i caratteri rinnovati collocherei anche quelli, di cui l’Autore non ha alterato propriamente i tratti, ma ai quali egli ha creato situazioni adatte a metterne in maggior evidenza la fisonomia. I nuovi appartengono quasi tutti al mondo pagano. E così è sempre nel romanzo cavalleresco, anzi in tutti I cicli epici. Ché, se i nemici non mutassero, non sarebbero possibili nuovi racconti; se non rimanessero gli eroi nazionali, s’avrebbero altrettante narrazioni staccate, e non mai dei cicli. Sennonché nell’Orlando Innamorato la distinzione tra Saracini e Cristiani ha perduto affatto il suo antico significato. Al sentimento religioso, così vivo nella Chanson de Roland, e perpetuatosi, per forza di abitudine e di tradizione, fino agli ultimi rampolli del ciclo carolingio, si è sostituito il sentimento cavalleresco. È questo un effetto della coltura italiana e della libertà del pensiero che ne derivò; ma insieme anche una conseguenza immediata del connubio col ciclo d’Artù, dove, come s’è visto a tempo e luogo, il Cristianesimo sta solo alla superficie. Però, anche nel nuovo mondo del Boiardo, Cristiani e Saracini vivono sotto una medesima legge: la Cavalleria. Credere in Cristo o in Maometto, è poco meno che indifferente. Importerà, forse, per un’altra vita; ma di quella i cavalieri non si danno, per verità, una gran cura. S’arriva tant’oltre, che mentre si decidono in una tremenda battaglia le sorti della Cristianità, Orlando, il santo, il pio, il futuro martire di Roncisvalle, si ritrae in disparte a pregare Domeneddio per la sconfitta de’ suoi (II, XXX, 61). E perché? Perché Carlo, ridotto agli estremi, abbia bisogno assoluto del suo braccio, e sia costretto a concedergli (Ib., XXIX, 36) il sospiro dell’anima sua, la saracina Angelica. Naturalmente rimangono sempre due campi avversi. Senza di ciò, come si farebbe a combattere battaglie? Ma Cristiani e Infedeli si trovano spesso frammischiati in ognuno dei due. E anche là dove l’azione piglia a soggetto invasion saracene, foggiate sullo schema dei romanzi anteriori, le cause della lotta non sono più le antiche. A far mangiare i cavalli 31 sull’altare di Pietro, nessuno più pensa da senno; Gradasso conduce dall’India centocinquantamila cavalieri per acquistare la spada Durlindana e il cavallo Baiardo (I, I, 4); Agramante passa il mare per sete di gloria, per emulare il suo antenato Alessandro (II, I, 35-37), ben più che Per aggrandir la legge di Macone. Dell’antecedente condizione di cose restano solo I detriti: frammenti fossili sparsi qua e là alla rinfusa, che soltanto un difetto incurabile della vista potrebbe far scambiare per elementi costitutivi del nuovo cosmo. Queste poche pagine son cosa ben meschina per un soggetto di tanta ampiezza e varietà. Ma non potevo io già pensare a trattarlo diffusamente.34 Lo scopo mio era solo di dare un’idea del come, secondo me, il mondo epico dell’Innamorato, che ha per il nostro studio un’importanza veramente capitale, fosse venuto a formarsi.

Dal Boiardo si amerebbe passar subito all’Ariosto. Parenti così stretti rincresce separarli, anche solo per poco. Ma il Cieco da Ferrara chiede di sedersi di mezzo un momento. E per verità conviene riconoscere legittima la domanda; ché egli, posteriore all’uno, aiutò più volte, come si vedrà via via, le creazioni dell’altro. Cos’è il Mambriano considerato coll’occhio del genealogista?35 Non è facilissimo il 34 1 E troppo non mi potei dilungare neppure nella conferenza L’Orlando innamorato del Boiardo, che per le stampe venne in luce dentro al volume La vita italiana del Rinascimento, Milano. Treves (1a ed. 1893), e che fu poi riprodotta negli Studi su Matteo Maria Boiardo, Bologna, Zanichelli, 1894, dati fuori in occasione del centenario del Conte di Scandiano. Sul Mambriano sono da menzionare gli Studi e ricerche di C. Cimegotto, Padova, 1892. rispondere. C’è in esso un tal guazzabuglio di elementi e di maniere, che non si sa a prima giunta qual posto assegnargli. Da un rimatore d’umile condizione e di coltura imperfettissima, che in un’età di rinnovamento classico si trovò trasportato nelle corti a esercitar la poesia come un mestiere, non possiamo pretendere, né il retto istinto, né la coscienza illuminata, che, per vie diverse, conducono sole a conseguire l’armonia della composizione. Ottenerla nel romanzo cavalleresco era forse allora più difficile che in qualunque 32 altro genere. S’avevano dinanzi esempi diversissimi: tutta la vecchia e multiforme scuola dei romanzieri popolari, e le ardite e geniali innovazioni del Conte di Scandiano. Se pertanto dentro all’opera del Cieco troveremo affettazione e rozzezza, latinismi crudi e inflessioni dialettali, mitologia pagana e sentiment cristiano, prediche morali e sconcezze plebee, non dovremo per ciò meravigliarci. Quanto alla materia vera e propria, il Cieco rassomiglia al Boiardo nel prenderla da qualunque parte. Egli attinge, ora di prima, ora di seconda mano, al ciclo di Carlo, ai romanzi della Tavola Rotonda, all’antichità classica. Disgraziatamente non possiede come il Conte la facoltà di ridurre ad un tutto armonico codesta farragine di roba; il fiat, che potrebbe trasformare il caos, non è pronunziato, e ogni cosa rimane, più o meno evidentemente, allo stato di confusione. Di ciò l’autore non s’accorge punto. Il che è ben naturale in un uomo che canta, canta, canta, per aggradire ad un signore, non perché lo vivifichi internamente il sacro fuoco dell’arte.

Eppure il Cieco è senza dubbio un rimatore d’ingegno non comune e di facile fantasia.

S’incontrano presso di lui, a uno stato di elaborazione imperfetta, belle scene, vivaci descrizioni, comparazioni efficaci in gran numero. Le sue invenzioni si vedono derivate da questo o quell modello, senza che mai, o quasi mai, si possan dir copie. Guardiamoci tuttavia dal prestar fede a chi gli vuole munificentemente attribuire l’introduzione delle fate nel romanzo cavalleresco. Quasi che lasciando stare certi esempi francesi, poco o punto noti in Italia il Boiardo non avesse, nonce composto, perfino stampato sei settimi del suo poema parecchi anni prima che il Cieco si mettesse all’opera E poi, le pretese fate del Mambriano non sono nient’affatto ciò che si crede. Vere fate diremo Morgana ed Alcina; Carandina, Fulvia, Uriella, sono semplici maliarde, le quali, o smetteranno il loro brutto mestiere e prenderanno marito come qualunque altra femmina, oppure termineranno i giorni con qualche orribile supplizio. Se esse fanno delle arti loro un uso alquanto diverso da Malagigi, n’è il Boiardo la causa. Invece mi par davvero una novità la parte 33 assegnata allo Spirito del male. Mentre fino allora i demonî non erano apparsi nei nostri romanzi che come docili ministri degli incantatori, qui vediamo Belzebù operare di suo arbitrio, in opposizione a costoro, e intervenire nell’azione come un vero e proprio personaggio (XXX, XXXI), Per ciò che spetta al tono, il Cieco risente ancor egli la influenza del Conte di Scandiano, se non del Pulci. Il riso è contagioso, sicché anche questo rimatore goffamente solenne nell’esordio e sinceramente intenzionato di cantare con serietà epica, non può a meno talvolta non spesso, sia pure di permettersi qualche bizzarria. Egli, che s’è dato tanta briga per accaparrarsi l’aiuto di Clio, d’Euterpe, di Polinnia, termina poi il poema con una certa affermazione della veridicità di Turpino, della quale il buon Arcivescovo farebbe a meno assai volentieri;36 tanto più dopo che il poeta s’è preso il gusto, nel corso dell’opera, di renderlo mallevadore, con intenzioni peggio che sospette, di talune fra le cose più strane che gli accadde di raccontare.37 E si vuole di peggio? O non s’è permesso il Cieco di esprimere perfino un dubbio irriverente sull’esistenza reale di Rinaldo?38 Davvero, poiché lo scetticismo ha intaccato anche le anime più candide, è tempo di vedere il termine di questa storia. Sia dunque il ben venuto l’Ariosto, che mi si fa qui innanzi, e mi avverte che sono finalmente giunto al sommo della scala che m’ero proposto di salire. 36 1 Ult. st.: «.... Io vo’ che Mambrïan sia intitulato Il libro ove è fondata l’opra mia, Ché simel titol da Turpin gli è dato, Scrittor famoso, il qual non scriverria Per tutto l’or del mondo una menzogna; E chi ’l contrario tien, vaneggia e sogna.»

Per es. XXXIII, 90: «E i troncon de le lancie andâr sì in su, Scrive Turpin, se l’è vero, io nol so, Che ben tre giorni stêrno a tornar giù; Judicate fra vui come l’andò.» XXIV, 2: «Ma conoscendo in le cose moderne De non poter ben satisfar a tutti,.... Dirò de tal che Dio sa se ’l fu mai» Dovendo dire di lui, comincio dall’osservare che il mondo epico del Furioso è ancora quello dell’Innamorato. 

L’Ariosto trovò già compiuta l’opera creativa, e non ebbe che a passeggiare in questo nuovo mondo. Però, quanto alla materia, se c’è un abisso tra il Boiardo e tutti i suoi antecessori, il 34 Furioso non si presenta come una novità a chi conosca l’altro poema. Né questa è una colpa nell’Autore; anzi, a me pare un merito non piccolo. Significa ch’egli ha inteso che ogni poesia epica ha bisogno di un gran fondo di cose note universalmente. Non potendo mai dar altro che un frammento di narrazione, trovandosi costretta a segnarsi essa stessa limiti angusti in un campo per sé sconfinato, quanto è maggiore la copia dei presupposti che può ammettere, quanto più sono famigliari agli ascoltatori certe sue figure, tanto maggiore è la quantità di forza che le rimane disponibile, tanto più è sicura di destare interesse. Giacché, i casi noti di personaggi vecchi rischiano di non attrarre se non i semplici, popolo e bambini; ma se i personaggi son vecchi, e nuovi i casi, la partecipazione dell’animo è in tutti fino dal principio sommamente viva e pronta. Perfino nei nostri romanzi moderni, che pure si muovono nella nostra medesima società, il leggere le prime pagine costa sempre una certa fatica. Orbene, nell’epopea vera, in quella a cui il nome si conviene a rigore, tutto questo fondo di cose note è dato dalla tradizione popolare. Per l’Ariosto tenne luogo di tradizione l’Innamorato; e l’aver sentito il bisogno, e saputo cavar partito dalle condizioni esistenti, è cosa, secondo me, da meritar lode al poeta. Ma poi sarebbe la massima delle ingiustizie il disconoscere, che là dove il Boiardo si fa innanzi come riformatore e creatore, l’Ariosto è solo continuatore dell’opera altrui. 

Sotto questo aspetto il Furioso non ci presenta dunque una nuova evoluzione del romanzo cavalleresco. 

Ma sarebbe strano, se per ciò gli si volesse negare un carattere suo specifico, che lo distingua dall’Innamorato, e in generale dalla letteratura cavalleresca anteriore. Che una distinzione ci sia, e spiccatissima, si sente da ognuno. Tutto sta nel rilevarla e definirla rettamente, prendendola dalle cose, in cambio di mettercela di proprio arbitrio. La faremo noi consistere nella cosiddetta ironia ariostesca? Certo starebbe bene, se fosse vero, come si pretende, che l’Ariosto avesse, con un sorriso incredulo, sciolto in fumo l’edificio del Boiardo, e trasformato in fantasmi i personaggi dell’Innamorato. Il male si è che quell’edificio, quei 35 personaggi, erano già una fantasmagoria anche per il Conte di Scandiano. Se Lodovico non crede al mondo che canta e se ne fa giuoco, non ci crede maggiormente e all’occasione non se ne fa meno giuoco il suo predecessore e maestro; se  ronia c’è nel Furioso, non ne manca nemmeno nell’Innamorato. E del resto si commettono strane esagerazioni ed abusi a proposito di codesta benedetta ironia. Chi ne fa addirittura la notafondamentale dello stile ariostesco, mi rassomiglia un pochino a quel tale, che nello spettacolo d’un mare sconfinato non aveva mai saputo avvertire altra cosa che i pesci che tratto tratto si mostravano a fior d’acqua, e a forza di fissarci su l’attenzione e la fantasia, aveva finito per veder pesci su tutta quanta l’immensa superficie. Insomma, sotto questo aspetto, chi parla di opposizione tra l’Ariosto e il Boiardo, si prende l’incomodo di sognarla. 

Né il primo ha nulla che fare col Cervantes, né il secondo cogli autori dell’Amadis e di tutta la roba consimile. A giudicare senza pregiudizi, l’Ariosto prende anzi maggiormente sul serio l’opera sua.39 Sono in essa parti considerevolissime, che, quanto al tono, potrebbero star tali e quali nel poema del Tasso. Mostrare la ragione di questo fatto, vale lo stesso come assegnare al poeta il posto che veramente gli si conviene nella storia del romanzo cavalleresco italiano. L’Ariosto non si mise a comporre un poema romanzesco, perché le tendenze dell’ingegno, gli affetti del cuore, i sogni della fantasia, ve lo trascinassero irresistibilmente. Egli era un artista che 39 1 Naturalmente sono costretto a toccare di volo cose, le quali avrebbero bisogno d’esser trattate ampiamente. Il confronto della maniera e dello stile dei due poeti sarebbe argomento pieno d’interesse, ch’io non so ancora trattato di proposito, salvo di recente da Micheli, in un opuscolo (Dal Boiardo all’Ariosto, Conegliano, 1898) dove le cose buone non difettano, ma di cui l’autore stesso riconosce le manchevolezze. Uno studio metodico porterebbe, credo, a distinguere diverse fasi nell’Ariosto medesimo. Come ogni scrittore, egli non fu fino dal principio ciò che poi diventò. In generale, mano mano che procedeva, si venne accostando maggiormente al Boiardo; intese meglio la natura della materia romanzesca, scherzò più spesso e con miglior garbo, e riuscì più felice nella digestione e nella trasformazione degli elementi. Questo nella composizione del Furioso. Terminato il poema, le tendenze sue proprie, fomentate dalle condizioni esterne, paiono aver ripreso il sopravvento. andava in traccia d’un soggetto. Le fole della 36 cavalleria, quali le aveva trasformate e concepite il Boiardo, gli parvero materia opportuna; e queste pertanto prese a foggiare, sia pur dando poi al suo lavoro tutto sé stesso. Quasi lo paragonerei a Raffaello, che consacra il genio a immaginare e dipinger Madonne, avendo nel cuore la Fornarina; e gli vorrei contrapporre l’estatico Frate da Fiesole, con quelle sue creature celesti, espressione sensibile di aspirazioni e credenze. Per l’Ariosto l’arte stessa diventa fine.40 E non si tratta qui di un fatto eccezionale. Se la formola, l’arte per l’arte, è invenzione recente, la cosa è antica assai, e l’età che si è voluta denominare da Leone X, n’è, senza dubbio, una delle manifestazioni più schiette e più splendide.

Di qui, se l’Ariosto fosse venuto al mondo anche solo trent’anni dopo, sarebbero nate conseguenze deplorevoli in sommo grado. Egli avrebbe piegato il giogo alle cosiddette leggi aristoteliche; leggi tiranniche, se applicate da cattivi interpreti. Ma quando egli scriveva, i dogmi della Poetica non s’erano ancora ribanditi solennemente; si poteva sempre in buona fede credersi ortodossi, anche non essendo ossequenti a tutto ciò che si contiene nel Sillabo e disconoscendo l’Infallibilità. 

Però l’Ariosto si permise di comporre un poema ribelle all’unità dell’azione; e non ebbe alcun ritegno di dichiararlo apertamente, coll’aria d’un uomo non punto conscio a sé stesso di colpa. 

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