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Monday, September 23, 2024

GRICE E LIVIOMONTI E COSIMO RUCELLÀI SALUTE. o vi mando un presente, il quale se non corrisponde agl’obblighi clic io ho con voi, è tale senza dubbio, quale ha potuto Machiavelli mandarvi maggiore. Perchè in quello io ho espresso quanto io so, quanto io ho imparato per una lunga pratica e continova lezione delle cose del mondo. E non porlendo nè voi nè altri disiderare da me più, non vi potete dolere se io non vi ho donato più. Bene vi può incrcsccre della povertà dello ingegno mio, quando siano queste mie narrazioni povere ; e della fallacia del giudizio, quando io in molte parli , discorrendo, m'inganni. Il che essendo , won so quale di noi si abbia ad esser meno obbligato all’altro; o io a voi , che mi avete forzalo a scrivere quello ch’io mai per me medesimo non arci scritto; o voi a me, quando scrivendo non abbi soddisfatto. Pigliate, adunque, questo in quello modo che si pigliano tulle le cose degli amici: dove si considera più sempre la intenzione di chi manda, che le qualità della cosa che è mandata. E crediate che in questo io ho una salis fazione , quando io penso che, sebbene io mi fussi ingannato in molle sue circostanze, in questa sola so eh io non ho preso errore, di avere delti voi, ai quali sopra tutti gli altri questi miei Discorsi indirizzi : sì perché, facendo questo, ini pnre aver mostro qualche gratitudine de benefizii ricevuti : si perchè e mi pare esser uscito fuora dell’uso comune di coloro che scrivono , i quali sogliono sempre le loro opere a qualche principe indirizzare ; e, accecati dall’ambizione c dall’avarizia, laudano quello di tutte le virtuose qualitadi, quando di ogni vituperevole parte doverrebbono biasimarlo. Onde io, per non incorrere in questo errore, ho eletti non quelli che sono Principi, ma quelli che per le infinite buone parti loro meriterebbono di essere ; nè quelli che polrebbono di gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non polendo, vorrebbono farlo. Perchè gli uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno a stimare quelli che sono , non quelli che possono esser liberali; e così quelli che sanno , non quelli che, senza sapere, possono governare un regno. E gli scrittori laudano più Icronc Siracusano quando egli era privato, che Perse Macedone quando egli era re: perchè a Icronc a esser principe non mancava altro che il principato; quell’altro non avera parte alcuna di re, altro che il regno. Godetevi, pertanto quel bene o quel male che voi medesimi avete voluto : e se voi starete in questo errore, che queste mie oppinioni vi siano grate , non mancherò di seguire il resto della istoria, secondo che nel principio vi promisi. Valete Ancouaciiè, per la invida natura degli uomini, sia sempre stato pericoloso il ritrovare modi ed ordini nuovi, quanto il cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti a biasimare che a laudare le azioni d’ altri ; nondimeno, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare, senza alcun rispetto, quelle cose che io creda rechino comune benefìzio a ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo stata per ancora da alcuno pesta, se la mi arrecherà fastidio e diffìcultù, mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante quelli che umanamente di queste mie fatiche conside-rassero. E se T ingegno povero, la pocoesperienza delle cose presenti, la de-bole notizia delle antiche, faranno que-sto mio conato difettivo e di non moltautilità ; daranno almeno la via ad al-cuno, che con più virtù, più discorso egiudizio, potrà a questa mia intenzionesatisfare: il che se non mi arrecheràlaude, non mi dovrebbe partorire bia-simo. E quando io considero quantoonore si attribuisca all’antichità, c comemolte volte, lasciando andare moltialtri esempi, un frammento d’ una antica statua sia stato comperato granprezzo, per averlo appresso di sè, onorarne la sua casa, poterlo fare imitareda coloro che di quella arte si diletta-no; e come quelli poi con ogni indu-stria si sforzano in tutte le loro opererappresentarlo: e vcggendo, dall’altrocanto, le virtuosissime operazioni che leistorie ci mostrano, che sono state operate da regni cda repubbliche auliche,dai re, capitani, cittadini, datori di leggi,ed ultri che si sono per la loroatfaticati, esser più presto ammirate cheimitate; au/i in tanto da ciascuno inogni parte fuggite, che di quella anticavirtù non ci è rimaso alcun seguo:posso fare che insieme non me nelavigli e dolga; e tanto più, quantoveggio nelle differenze che intra iladini civilmente nascono, o nelle inalattie nelle quali gli uomini incorrono,essersi sempre ricorso a quelli giudiciio a quelli rimedi che dagli antichi sonostati giudicati o ordinati. Perchè le leggicivili non sono altro che sentenzio datedagli antichi iurcconsulti, le quali, ridotte in ordine, a’ presenti nostri iure-consulti giudicare insegnano; nè ancorala medicina è altro che cspcrienzia fattadagli antichi medici, sopra la quale fon-dano i medici presenti li loro giudicii. Nondimeno, nello ordinare le repubbli-che, nel mantenere gli Stati, nel govcr-nai e i regni, nell’ ordinare la milizia edamministrar la guerra, nel giudicare isudditi, nello accrescere lo imperio, nonsi trova uè principi, nè repubbliche, nècapitani, nè cittadini che agli esempidegli antichi ricorra. Il che mi persuadoche nasca non tanto dalla debolezzanella quale la presente educazione hacondotto il mondo, o da quel male cheuno ambizioso ozio ha fatto a molteprovincie c città cristiane, quanto dalnou avere vera cognizione delle istorie,per non trarne, leggendole, quel senso,nè gustare di loro quel sapore che lehanno in sè. Donde nasce che infinitiche leggono, pigliano piacere di udirequella varietà delli accidenti che in essesi contengono, senza pensare altrimeuted’ imitarle, giudicando la imitazione nonsolo difficile ma impossibile: come se ilcielo, il sole, gli elementi, gli uominifossero variati di moto, d’ordine e dipotenza, da quello eli’ egli erano antica-mente. Volendo, pertanto, trarre gli uo-mini di questo errore, ho giudicalo ne-cessario scrivere sopra tutti quelli libri di L. che dalla malignità deitempi non ci sono stati interrotti, quelloche io, secondo le antiche e modern cose, giudicherò esser necessario permaggiore intelligenzia d'essi; acciocchécoloro che questi miei discorsi legge-ranno, possino trarne quella utilità perla quale si debbe ricercare la cogni-zione della istoria. G benché questa impresa sia difficile, nondimeno, aiutato dacoloro che mi hanno ad entrare, sotto aquesto peso confortato, credo portarloin modo, che ad un altro resterà brevecammino a condurlo al luogo destinato. I. Quali siano stati universalmente i pr incipit’ di qualunque città ,c quale fosse quello di ROMA. Coloro che leggeranno qual principio fosse quello della città di ROMA, e da quali legislatori e come ordinato, non si maraviglieranno che tanta virtù sisia per più secoli mantenuta in quella città; e che dipoi ne sia nato quello im-perio, al quale quella repubblica ag-giunse. E volendo discorrere prima il nascimento suo, dico che tutte le cittàsono edificate o dagli uomini natii delluogo dove le si edificano, o dai forestieri. Il primo caso occorre quandoagli abitatori dispersi in molte e piccole parli non par vivere sicuri, nonpotendo ciascuna per sè, e per il sitoe per il piccol numero, resistere all’impeto di chi le assaltasse; e ad unirsi perloro difensione, venendo il nemico, nonsono a tempo; o quando fossero, converrebbe loro lnsciare abbandonati molti de’ loro ridotti, e cosi verrebbero ad esser sùbita preda dei loro nemici: talmente che, per fuggire questi pericoli, mossi o da loro medesimi, o da alcunoche sia infra di loro di maggior autorità, si ristringono ad abitar insieme in luogo eletto da loro, più comodo a vivere e più facile a difendere. Di queste,infra molle altre, sono state Atene e Vincaia. La prima, sotto l’autorità di Teseo, fu per simili cagioni dalli abitatoridispersi edificata; l’altra, sendosi moltipopoli ridotti in certe isolette che eranonella punta del mare Adriatico, per fuggire quelle guerre che ogni dì, per loavvenimento di nuovi barbari, dopo ladeclinazione dello imperio romano, na-scevano in ITALIA, cominciarono infra loro, senza altro principe particolareclic gli ordinassi, a vivere sotto quelleleggi che parvono loro più atte a mantenerli. Il che successe loro felicemente per il lungo ozio che il sito dette loro, non avendo quel mare uscita, e nonavendo quelli popoli che affliggevano ITALIA, navigi da poterli infestare: talché ogni picciolo principio li potò fare ve-nire a quella grandezza nella quale sono. Il secondo caso, quando da genti forestiere è edificata una città, nasce o dauomini liberi, oche dipendano da altri come sono le colonie mandate o da unarepubblica o da un principe, per Sgra-vare le . loro terre d’abitatori, o per di-fesa di quel paese che, di nuovo acqui-stato, vogliono sicuramente e senzaspesa mantenersi; delle quali città IL POPOLO ROMANO ne edificò assai, e pertutto l’imperio suo: ovvero le sono edi-ficate da un principe, non per abitarvi,nia per sua gloria; come la città di Alessandria da Alessandro. E per nonavere queste cittadl la loro origine libera,rade volte occorre che le facciano pro-gressi grandi, e possinsi intrai capi deiregni numerare. Simile a queste fu V edificazione di FIRENZE, perchè (fi edificatada’ soldati di SILLA, o, a caso, dagli abitatori dei monti di Fiesole, i quali, confi-datisi in quella lunga pace che sotto OTTAVIANO nacque nel mondo, si ridusseroad abitare nel piano sopra Arno) si edi-ficò sotto l’imperio romano; nè potette,ne’ principii suoi, fare altri augumentiche quelli che per cortesia del principe li erano concessi. Sono liberi li edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli,o sotto un principe o da per sé, sonocostretti, o per morbo o per fame o perguerra, od abbandonare il paese potrio,e cercarsi nuova sede : questi tali, oegli abitano le cittadi elle e’ trovano neipaesi eli’ egli acquistano, come fece Moisè; o ne edificano di nuovo, come fe ENEA. In questo caso è dove si conosce la virtù dello edificatore, e la fortunadello edificato: la quale è più o menomeravigliosa, secondo che più o menoè virtuoso colui che ne è stato principio.La virtù del quale si conosce in duoimodi: il primo è nella elezione del sito;F altro nella ordinazione delle leggi. Eperchè gli uomini operano o per necessità o per elezione; e perchè si vede quivi esser maggiore virtù dove la elezione ha meno autorità; è da considerare se sarebbe meglio eleggere, per laedificazione delle cittadi, luoghi sterili,acciocché gli uomini, costretti ad indùstriarsi, meno occupati dall’ozio, vives-sino più uniti, avendo, per la povertàdel sito, minore cagione di discordie;come intervenne in Raugia, e in moltealtre cittadi in simili luoghi edificate:la quale elezione sarebbe senza dubbiopiù savia e più utile, quando gli uo- .mini fossero contenti a vivere delloro,e non volcssino cercare di comandarealtrui. Pertanto, non potendo gli uominiassicurarsi se non con la potenza, ènecessario fuggire questa sterilità del pnese, e porsi in luoghi fertilissimi ;dove, potendo per la ubertà del sito ampliare, possa e difendersi da chi l’ assaltasse, e opprimere qualunque alla grandezza sua si opponesse. G quanto a quell’ozio che le arrecasse il sito, si debbe ordinare che a quelle necessitadi le leggi la costringhino che ’l sito non la costringesse; ed imitare quelli che sono stati savi, ed hanno abitato in paesiamenissimi e fertilissimi, c alti a pròdurre uomini oziosi ed inabili ad ogni virtuoso esercizio: chè, per ovviare aquelli danni i quali l’amenità del paese,mediante l’ozio, arebbero causati, hannoposto una necessità di esercizio a quelliche avevano a essere soldati: di qualitàche, per tale ordine, vi sono diventatimigliori soldati che in quelli paesi i qualinaturalmente sono stati aspri e steriliIntra i quali fu il regno degli Egizi, chenon ostante che il paese sia amenissi-mo, tanto potette quella necessità ordi-nata dalle leggi, che vi nacquero uo-mini eccellentissimi; e se li nomi loronon fussino dalla antichità spenti, sivedrebbe come meriterebbero più laudeche Alessandro Magno, c molti altri deiquali ancora* è la memoria fresca. E chiavesse considerato il regno del Soldano,e l’ordine de’Mammaluchi. e di quellaloro milizia, avanti che da Sali, GranTurco, fusse stata spenta ; arebbe ve-duto ili quello molti esercizi circa i sol-dati, ed arebbe in fatto conosciutoquanto essi temevano quell’ozio a che la benignità del paese gli poteva con-durre, se non vi avessino con leggi for-tissime ovviato. Dico, adunque, esserepiù prudente elezione porsi in luogofertile, quando quella fertilità con leleggi infra* debili termini si restringe.Ad Alessandro Magno, volendo edificareuna città per sua gloria, venne Dino-erate architetto, e gli mostrò come eila poteva fare sopra il monte Albo; ilquale luogo, oltre allo esser forte, po-trebbe ridursi in modo che a quellacittà si darebbe forma umana; il chesarebbe cosa meravigliosa e raro, e de-gna della sua grandezza: e domandan-dolo Alessandro di quello che quelli abi-tatori viverebbono, rispose, non ci averepensato: di che quello si rise, e lasciatostare quel monte, edificò Alessandria,dove gli abitatori avessero a stare vo-lentieri per la grassezza del paese, e perla comodità del mare e del Nilo. Chi esa-minerò, adunque, la edificazione di Ro-ma, se si prenderà Enea per suo primoprogenitore, sarà di quelle citladi edifi-cate da’ forestieri ; se Romolo, di quelleedificate dagli uomini natii del luogo;ed in qualunciic modo, la Vedrà avereprincipio libero, senza depcndere da al-cuno: vedrà ancora, come di sotto sidirà, a quante necessitadi le leggi fatteda Romolo, Numa, e gli altri, la costrin-gessino ; talmente clic la fertilità del sito,la comodità del mare, le spesse vittorie,la grandezza dello imperio, non la po-terono per molti secoli corrompere, e Ir» -» **mantennero piena di tante virtù, djp^quante mai fusse alcun’ altra repubblicaornata. E perchè le cose operate da lejj, ^e che sono da Tito Livio celebrate, sonoseguite o per pubblico o per privatoconsiglio, o dentro o fuori della cittade,io comincerò a discorrere sopra quellecose occorse dentro, e per consiglio pub-blico, le quali degne di maggiore an-notazione giudicherò, aggiungendovi tut-to quello che da loro dependessi : coni quali Discorsi questo primo libro, ovvero Questa prima parte, si terminerà. Cap. II. — Di quante spezie sono le *epnbbtiche , e di quale fu la Repubblica Romana. Io voglio porre da parte il ragionare di quelle cittadi clic hanno avuto il loro principio sottoposto ad altri; e parlerò di quelle che hanno avuto il principio 'ontano do ogni servitù esterna, nia si ; j sono subito governate per loro arbitrio, o come repubbliche o come principato: U quali hanno avuto, come diversi principi, diverse leggi ed ordini. Perchè ad alcune, o nel principio d’esse, o dopo non molto tempo, sono state date da un solo le leggi, e ad un tratto ; come quelle che furono date da Licurgo agli Spartani: alcune le hanno avute a caso, ed in più volte, e secondo li accidenti, come Roma. Talché, felice si può chiamare quella repubblica, la quale sortisce uno uomo sì prudente, che le dia leggi ordinate in modo, che senza avere bisogno di correggerle, possa vivere sicuramente sotto quelle. E si vede che Sparta le osservò più che ottocento anni senza corromperle, o senza alcuno tumulto pericoloso: e, pel contrario, tiene qualche grado d’ infelicità quella città, che, non si sendo abbattuta ad uno ordinatore prudente, è necessitata da sè medesima riordinarsi: e di queste ancora è più infelice quella che è più discosto dall’ordine; e quella è più discosto, con suoi ordini è al tutto fuori del dritto cammino, che la possi condurre al perfetto e vero fine: perchè quelle clic sonoiu questo grado, è quasi impossibile che per qualche accidente si rassettino. Quel le altre che, se le non hanno V ordine perfetto, hanno preso il principio buono,e atto a diventare migliori, possono perla occorrenza delli accidenti diventareperfette. Ma fia ben vero questo, mai non si ordineranno senza pericolo perchè li assai uomini non si accordano mai ad una legge nuova che riguardi uno nuovo ordine nella cit tà, se non è mostro loro da una necessità che bisogni farlo ; e non potendo venire questa necessità senza pericolo, è facil cosa che quella repubblica rovini, avanti che la si sia condotta a una perfezione d’ordine. Di che ne fa fede appieno la re-pubblica di Firenze, la quale fu dalloaccidente d’ Arezzo, nel 11, riordinata, eda quel di Prato, nel XII, disordinata.Volendo, adunque, discorrere quali fu-rono li ordini della città di Roma, equali accidenti alla sua perfezione lacondussero) dico, come alcuui che hannoscritto delle repubbliche, dicono essere in quelle uno de' tre stati, chiamati daloro Principato, d’Ottimati e Popolare; e come coloro che ordinano una città, debbono volgersi ad uno di questi, secondo pare loro più a proposito. Alcuni altri, e secondo la oppinione di molti più savi, hanno oppinione che siano di sei ragioni governi; delti quali tre ne siano pessimi; tre altri siano buoni in loro medesimi, ma sì focili a corrompersi, che vengono ancora essi ad essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono i soprascritti tre: quelli clic sono rei, sono tre altri, i quali da questi tre dependono; c ciascuno d’ essi è in modo simile a quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall’ uno all’ altro: perchè il Principato facilmente diventa tirannico; li Ottimati con facilità diventano stato di pochi ; il Popolare senza diflìcultà in licenzioso si converte. Talmente che, se uno ordinatore di repubblica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo; perchè nessuno rimedio può farvi, a far che non sdruccioli nel suo contrario, per la similitudine che ha in questo caso la virtù ed il vizio. Nacquono queste variazioni di governi a caso intra li uomini: perchè nel principio del mondo, sendo li abitatori rari, vissono un tempo dispersi, a similitudine delle bestie; dipoi, multiplicando la generazione, si ragunorno insieme, e, per potersi meglio difendere, cominciorno a riguardare fra loro quello che fusse più robusto c di maggiore cuore, c fecionlo come capo, e lo obedivano. Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle perniziose e ree: perchè, veggendo che se uno noceva al suo benefattore, ne veniva odio e compassione intra gli uomini, biasimando li ingrati ed onorando quelli che fusscro grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie potevano esser fatte a loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare punizioni a chi contea facesse: donde venne la cognizione della giustizia. La qual cosa faceva che avendo dipoi ad eleggere un principe, non andavano dietro al più gagliardo, ma a quello che fussi più prudente c più giusto. Ala come di poi si cominciò a fare il principe per successione, e non pei* elezione, subito cominciorno li eredi a degenerare dai loro antichi ; e lasciando 1’ opere virtuose, pensavano che i principi non avessero a fare altro clic superare li altri di sontuosità e di lascivia c d’ ogni altra' qualità deliziosa: in modo che, cominciando il principe ad essere odialo, e per tale odio a temere, e passando tosto dal timore all’ offese, ne nasceva presto una tirannide. Da questo nacquero appresso i principi» delle rovine, c delle conspirazioni e congiure contea i principi; non fatte da coloro clic fussero o timidi o deboli, ma da coloro che per genei'osità, grandezza d’ animo, ricchezza e nobiltà, avanzavano gli altri; i quali non potevano sopportare la inonesta vita di quel principe. La moltitudine, adunque, seguendo l’ autorità di questi potenti, si armava contra al principe, c quello spento, ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli, avendo in odio il nome d’ uno solo capo, constituivano di loro medesimi un governo; e nel piincipio, avendo rispetto alla passata tiratinide, si governavano secondo le leggi ordinate da loro, posponendo ogni loro comodo alla comune utilità ; e le cose private e le pubbliche con somma diligenzia governavano c conservavano. Venuta dipoi questa amministrazione ai loro figliuoli, i quali, non conoscendo la variazione della fortuna, non avendo mai provato il male, e non volendo stare contenti alla civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia, alla ambizione, alla usurpazione delle donne, feciono clic d’ uno governo d’ Ottimati diventassi un governo di pochi, senza avere rispetto ad alcuna civiltà : tal che in breve tempo intervenne loro come al tiranno; perchè infastidita da’ loro governi la moltitudine, si fe ministra di qualunque disegnassi in alcun modo offendere quelli governatori; e cosi si levò presto alcuno che, con I’ aiuto della moltitudine, li spense. Ed essendo ancora fresca la memoria del principe e delle ingiurie ricevute da quello, avendo disfatto lo Stato de’ pochi e non volendo rifare quell del principe, si volsero allo Stato popolare; c quello ordinarono in modo, che nè i pochi potenti, nè uno principe vi avesse alcuna autorità. E perchè tutti gli Stali nel principio hanno qualche reverenza, si mantenne questo Stato popolare un poco, ma non molto, massi- me spenta che fu quella generazione che l’aveva ordinato; perchè subito si venne alla licenzia, dove non si temevano nè li uomini privati nè i pubblici; di qualità che, vivendo ciascuno a suo modo, si facevano ogni di mille ingiurie: talché, costretti per necessità, o per suggestione d’ alcuno buono uomo, o per fuggire tale licenzia, si ritorna di nuovo al principato; e da quello, di grado in grado, si riviene verso la licenzia, nei modi e per le cagioni dette. E questo è il cerchio nel quale girando tutte le repubbliche si sono governate, e si governano: ina rade volte ritornano nei governi medesimi; perchè quasi nessuna repubblica può essere di tanta vita, che possa passare molle volte per queste mutazioni, c rimanere in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una repubblica, mancandoli sempre consiglio e forze, diventa suddita d'uno Stato propinquo, clic sia meglio ordinato di lei : ina dato che questo non fusse, sarebbe atta una repubblica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico, adunque, che lutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni, e per la malignità che è ne* tre rei. Talché, avendo quelli che prudentemente ordinano leggi conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per se stesso, n’ elessero uno che partieipasse di lutti, giudicandolo più fermo e più stabile ; perchè l’uno guarda l’altro, scudo in una medesima città il Principato, li Ottimati ed il Governo Popolare. Infra quelli che hanno per simili constituzioni meritato più laude, è Licurgo; il quale ordinò in modo le sue leggi in Sparta, che dando le parti sue ai He, agli Ottimali e al Popolo, fece uno Stato che durò più che ottocento anni, con somma laude sua, e quiete di quella città. Al contrario intervenne a Solone, il quale ordinò le leggi in Atene che per ordinarvi solo lo Stato popolare lo fece di sì breve vita, che avanti morisse vi vide nata la tirannide di Pisistrato: e benché dipoi anni quaranta ne fusscro cacciati gli suoi eredi, c ritornasse Atene in libertà, perchè la riprese lo Stato popolare, secondo gli ordini di Solone; non lo tenne più cliccento anni, ancora che per mantenerlo facesse molte constituzioni, per le quali si reprimeva la iusolenzia grandi c la licenzia dell’ universale, le quali non furou da Solonc considerate nientedimeno, perchè la non le mescolò con la potenzia del Principato e con quella dclli Ottimali, visse Atene, spetto di Sparla, brevissimo tempo. Ria vegniamo a ROMA ; la quale nonostante che non avesse uno Licurgo che la ordinasse in modo, ilei principio, che la potesse vivere lungo tempo libera, nondimeno furon tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la Plebe ed il Senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso. Perchè, se ROMA non sortì la prima fortuna, sortì la seconda; perchè i primi ordini se furono defettivi, nondimeno non deviarono dalla diritta via che li potesse condurre alla perfezione. Perchè ROMOLO e tutti gli altri Re fecero molte e buone leggi, conformi ancora al vivere libero: ma perchè il fine loro fu fondare un regno e non una repubblica, quando quella città rimase libera, vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della libertà, le quali non erano state da quelli Re ordinate. E avvengachè quelli suoi Re perdessero V imperio per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli clic li cacciarono, ordinandovi subito duoi Consoli, che stessino nel luogo del Re, vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché, essendo in quella Repubblica i Consoli ed il Senato, veniva solo ad esser mista di due qualità delle tre soprascritte: cioè di Principato e di Ottimali. Restavali solo a dare luogo al Governo Popolare: onde, essendo diventatala Nobiltà romana insolente per le cagioni che di sotto si diranno, si levò il Popolo contro di quella ; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte; e, dall’altra parte, il Senato e i Consoli restassino con tantaautorità, che potcssino tenere in quella Repubblica il grado loro. E cosi nacque la creazione de’ Tribuni della plebe ; dopo la quale creazione venne a essere più stabilito lo stato di quella Repubblica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte sua. E tanto li fu favorevole la fortuna, che benché si passasse dal governo de’ Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle medesime cagioni che di sopra si sono discorse : nondimeno non si tolse mai, per dare autorità alli Ottimati, tutta l’autorità alle qualità regie; nè si diminuì l’autorità in tutto alli Ottimati, per darla al Popolo; ina rimanendo mista, fece una repubblica perfetta : alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del Senato, come nei duoi prossimi seguenti capitoli largamente si dimostrerà. III. Quali accidenti facessino creare in Roma i Tribuni della plebe ; il che fece la Repubblica più perfetta. Come dimostrano lutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempi ogni istoria, è necessario a chi dispone una repubblica, ed ordina leggi in quella, presupporre tuttigli uomini essere cattivi, e clic li abbinosempre od usure la malignità dello animo loro, qualunchc volta ne abbino libera occasione: e quando alcuna malignità sta occulta un tempo, procede da una occulta cagione, ebe, per non si essere veduta esperienza del contrario, non si conosce; ma la fa poi scoprire il tempo, il quale dicono essere padre d’ogni verità. Pareva clic fusse in Roma intra la Plebe cd il Senato, cacciati I Tarquiili, una unione grandissima; e che i Nobili, avessino deposta quella loro superbia, c russino diventati d'animo popolare, c sopportabili da qualuncbc, ancora ebe infimo. Stette nascoso questo inganno, nè se ne vide la cagione, infino ebe i Tarquini vissono; de’ quali temendo la Nobiltà, ed avendo paura che la Plebe mal trattata non si accostasse loro, si portava umanamente con quella: ma come prima furono morti I Tarquini, e die a’ Nobili fu la paura fuggita, cominciarono a sputare contro Olla Plebe quel veleno che si avevàno tenuto nel petto, ed in tutti i modi che potevano la offendevano: la qual cosa fa testimonianza a quello che di sopra ho detto, che gli uomini non operano mai nulla bene, se non per necessità; ma dove la elezione abbonda, e che vi si può usare licenzia, si riempie subito ogni cosa di confusione e di disordine. Però si dice che la fame e la povertà fu gli uomini industriosi, e le leggi gli fanno buoni. E dove una cosa per sè medesima senza la legge opera bene, non è necessaria la legge; ma quando quella buona consuetudine manca, è subito la legge necessaria. Però, mancati i Tarqnini, che con la paura di loro tenevano laNobiltà a freno, convenne pensare a unonuovo ordine ehe facessi quel medesimoeffetto che facevano i Tarquini quandoerano vivi. E però, dopo molte confu-sioni, romori e pericoli di scandali, chenacquero intra la Plebe c la Nobiltà, sivenne per sicurtà della Plebe alla creazionc ile* Tribuni ; e quelli ordinaronocon laute preminenze e tanta riputa-zione, che potcssino essere sempre dipoi mezzi intra la Plebe e il Senato, eovviare alla insolenzia de’ Nobili. IV. Che la disunione della Plebe c del Senato romano fece libera e polente quella Repubblica. H0U njt fil ùi òVvil tf, ; il "iit* lo non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in Roma dalla morte de’ Tarquini alla creazione de’ Tribuni; e di poi alcune cose contro la oppinionc di molti clic dicono. Roma esser stata una repubblica tumultuaria, e piena di tanta confusione, clicse la buona fortuna c la virtù militare non avesse supplito a’ loro difetti, sarebbe stata inferiore ad ogni altra repubblica. Io non posso negare che la fortuna e la milizia non fussero cagioni dell’imperio romano; ma e’ mi pare bene, che costoro non si avvegghino, clic dove è buona milizia, conviene clic sia buono ordine, e rade volte anco occorre clic non vi sia buona fortuna. Ma vegniamo all i altri particolari di quella città. Io dico clic coloro clic dannano I tumulti intra i Nobili c la Plebe, mi pare clic biasimino quelle cose che furono prima cagione di tenere libera Roma ; c clic considerino più a’ romori ed alle grida clic di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti clic quelli partorivano: e che non considerino come ei sono in ogni repubblica duoi umori diversi, quello del popolo, c quello dei grandi ; c come tutte le leggi che si fanno in favore delia libertà, nascono dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma: perchè da’ Tarquini ai Gracchi, che furono più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio, radissime sangue. Nè si possono, per tanto, giudicare questi tumulti nocivi, nè una repubblica divisa, che in tanto tempo per le sue differenze non mondò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora condennò in danari. Nè si può chiamare in alcun modo, con ragione, una repubblica inordinata, dove siano tanti esempi di virtù; perchè li buoni esempi nascono dalla buona educazione; la buona educazione dalle buone leggi ; e le buone leggi da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perchè chi esaminerò bene il fine d’essi, non troverà ch’egliabbino partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del comune bene, ma leggi ed ordini in benefizio della pubblica libertà. E se alcuno dicesse : i modi erano straordinari, e quasi efferati, vedere il Popolo insieme gridare contro il Senato, il Senato contra il Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la Plebe di Roma. le quali tutte cose spaventano, nonclic altro, chi legge; dico come ogni città debbe avere i suoi modi, con i quali il popolo possa sfogare l’ambizione sua, e massime quelle ciltadi che uelle cose importanti si vogliono valere del popolo: intra le quali la città di Roma aveva questo modo, che quando quel Popolo voleva ottenere una legge, o e’ faceva alcuna delle predette cose, o e’ non voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo bisognava in qualche parte satisfargli. E i desiderò de’ popoli liberi, rade volle sono perniziosi alla libertà, perchè e’na- seono o da essere oppressi, o da suspizionc di avere a essere oppressi. E quando queste oppinioni fussero false, e’ vi è il rimedio delle concioni, che sorga qualche uomo da bene, che, orando, dimostri loro come c’ s’ ingannano: e li popoli, come dice Tullio CICERONE, benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedono, quando da uomo degno di fede è detto loro il vero. Debbesi, adunque, più parcamente biasimare il governo romano, e considerare che tanti buoni effetti quanti uscivano di quella repubblica, non erano causati se non da ottime cagioni. E se i tumulti furono cagione della creazione dei Tribuni, meritano somma laude; perchè, oltre al dare la parte sua all’ amministrazione popolare, furono constituiti per guardia della libertà romana, come nel seguente capitolo si mostrerà. V. Dove più sccurnmentc si ponga la guardia della libertà , o nel Popolo o ne * Grandi ; c c/uali hanno maggior cagione di tumultuare , o chi vuole acquistare o chi vuole mantenere. Quelli clic prudentemente hanno constituita una repubblica, intra le più necessarie cose ordinate da loro, è stato constituire una guardia alla liberta: e secondo che questa è bene collocala,dura più o meno quel vivere libero. Eperché in ogni repubblica sono uomingrandi e popolari, si è dubitato nellemani di quali sia meglio collocata dettaguardia. Ed appresso i Lacedemoni, c,ne’ nostri tempi, appresso de’ Viniziani,la è stata messa nelle mani de’ Nobili ;ma appresso de’ Romani fu messa nellemani della Plebe. Per tanto, è necessa-rio esaminare, quale di queste repub-bliche avesse migliore elezione. E se siandassi dietro alle ragioni, ci è chedire da ogni pajte: ma se si esaminassiil fine loro, si piglierebbe la partede’ Nobili, per aver avuta la libertà diSparla c di Vinegia più lunga vita chequella di Roma. E venendo alle ragio-ni, dico, pigliando prima la parte de’ Ro-mani, come e’ si debbe mettere in guar-dia coloro d’ una cosa, che hanno menoappetito di usurparla. E senza dubbio,se si considera il fine de’ nobili e deiliignobili, si vedrà in quelli desideriogrande di dominare, cd in questi solodesiderio di non essere dominati; e, perconseguente, maggiore volontà di vivereliberi, potendo meno sperare d’ usurparla che non possono li granili: tal-ché, essendo i popolani preposti a guar-dia d’ una libertà, ò ragionevole neabbino più cura : e non la putendo occu-pare loro, non permettino clic altri laoccupi. Dall’ altra parte, chi difendel’ordine sparlano e veneto, dice cliccoloro che mettono la guardia in inanode’ potenti, fanno due opere buone:I’ una, che satisfanno più all’ ambizionedi coloro che avendo più parte nellarepubblica, per avere questo bastone inmano, hanno cagione di contentarsi più;I’ altra, clic bevano una qualità di au-torità dagli animi inquieti della plebe,che è cagione d’ infinite dissensioni escandali in una repubblica, e alta a ri-durre la nobiltà a qualche disperazio-ne, che col tempo faccia cattivi eliciti.E ne danno per esempio la medesimaRoma, che per avere i Tribuni dellaplebe questa autorità nelle mani, nonbastò loro aver un Consolo plcbeio, chegli vollono avere ambedue. Da questo, c* voltano la Censura, il Pretore, e tuttili altri gradi dell’imperio della città:nè bastò loro questo, chè, menati dalmedesimo furore, cominciorno poi, coltempo, a adorare quelli uomini che ve-devano atti a battere la Nobiltà ; dondenacque la potenza di Alarlo, e la rovinadi Roma. E veramente, chi discorressebene I’ una cosa c l’ altra, potrebbestare dubbio, quale da lui fusse elettoper guardia tale di libertà, non sapen-do quale qualità d’uomini sia più no-civa in una repubblica, o quella ohedesidera acquistare quello che non ha,‘ o quella che desidera mantenere V ono-re già acquistato. Ed in fine, chi sot-tilmente esaminerà tutto, ne farà que-sta conclusione: o tu ragioni d’ unarepubblica che vogli fare uno imperio,come Roma ; o d’ una che li basti man-tenersi. Nel primo caso, gli è necessa-rio fare ogni cosa come Roma; nel se-condo, può imitare Yinegia e Spartaper quelle cagioni, e come nel seguente capitolo si dirà. .Ma, per tornare a di-scorrere quali uomini siano in una re-pubblica piu nocivi, o quelli clic desi-derano d’acquistare, o quelli clic te-mono di perdere lo acquistato; dicodie, scudo fatto Marco Meiiennio ditta-tore, e Marco Fulvio maestro de’ caval-li, tutti duoi plebei, per ricercare certecongiure clic si erano falle in Capovaconlro a Roma, fu dato ancora loro au-torità dal Popolo di poter ricercare chiin Roma per ambizione e modi straor-dinari s’ingegnasse di venire al con-solato, ed agli altri onori della città. Eparendo alla Nobiltà, che tale autoritàfusse data al Dittatore contro a lei,sparsero per Roma, clic non i nobilierano quelli che cercavano gli onoriper ambizione e modi straordinari, magl’ ignobili, i quali, non confidatisi nelsangue e nella virtù loro, cercavano pervie straordinarie venire a quelli gradi;e particolarmente accusavano il Ditta-tore. E tanto fu potente questa accusa, che Mencnnio, fatta una conclone c do-lutosi deite calunnie dategli da* Nobilidepose la dittatura, e sottomessesi aigiudizio che di lui fussi fatto dal Po*polo; c dipoi, agitala la causa sua, nefu assoluto: dove si disputò assai, qualesia più ambizioso, o quel che vuolemantenere o quel che vuole acquistare;perchè facilmente 1* uno e V altro ap-petito può essere cagione di tumultigrandissimi. Pur nondimeno, il più dellevolte sono causali da chi possiede, per-chè la paura del perdere genera in lorole medesime voglie che sono in quelliche desiderano acquistare; perchè nonpare agli uomini possedere sicuramente quello clic l’uomo ha, se non si acqui-sta di nuovo dell’ altro. E di più vi è,che possedendo molto, possono con mag-gior potenzia c maggiore moto fare alterazione. Ed ancora vi è di più, che li loro scorretti e ambiziosi portamenti accendono ne’ petti di chi non possiede voglia di possedere, o per vendicarsi contro di loro spogliandoli, o per potere ancora loro entrare in quella ricchezza c in quelli onori clic veggono essere male usati dagli altri. VI. — Se in 1 ionia si poteva ordinare uno stalo che togliesse via le inimicizie intra il Popolo ed il Senato. Noi abbiamo discorsi di sopra gli effetti che facevano le controversie intra il Popolo ed il Senato. Ora, sendo quelle seguitate in fino al tempo de’ Gracchi, dove furono cagione della rovina del vivere libero, potrebbe alcuno desiderare che Roma avesse fatti gli effetti grandi che la fece, senza che in quella fussino tali inimicizie. Però mi è parso cosa degna di considerazione, vedere se in Roma si poteva ordinare uno stato che togliesse via dette controversie. Ed a volere esaminare questo, è necessario ricorrere a quelle repubbliche le quali senza tante inimicizie c tumulti sono state lungamente libere, e vedere quale stato era il loro, e se si poteva introdurre in Roma. In esempio tra lì antichi ci è Sparta, tra i moderni Yinegia, state da me di sopra uominate. Sparla fece uno Re, con unpicciolo Senato, che la governasse. Vinegia non ha diviso il governo con i nomi ; ma, sotto una appellazione, lutti quelli che possono avere amministrazione si chiamano Gentiluomini. Il quale modo lo dette il caso, più che la prudenza di elùdette loro le leggi: perchè, sendosi ridotti in su quegli scogli dove è ora quella città, per le cagioni dette di sopra, molti abitatori; come furon cresciuti in tanto numero, che a volere vivere insieme bisognasse loro far leggi, ordinorono una forma di governo; c convenendo spesso insieme ne’ consigli a deliberare della città, quando parve loro essere tanti che fussero a sufficienza ad un vivere politico, chiusono la via a tutti quelli altri che vi venissino ad abitare di nuovo, di potere convenire ne’ loro governi: e, col tempo, trovandosi in quel luogo assai abitatori fuori del governo, per dare riputazione a quelli clic governavano, gli chiamarono Gentiluomini, e gli altri Popolani. Potette questo modo nascere e mantenersi senza tumulto, perchè quando e’ nacque, qualunque allora abitava in Vinegia fu fatto del governo, di modo che nessuno si poteva dolere; quelli che. dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo Stato fermo c terminato, non avevano cagione nè comodità di fare tumulto. La cagione non y* era, perchè non era stato loro tolto cosa alcuna: la comodità non v’era, perché chi reggeva gli teneva in freno, c non gli adoperava in cose dove e’ potessino pigliare autorità. Oltre di questo, quelli che dipoi vennono ad abitare Vinegia, non sono stali molli, c di tanto numero, che vi sia disproporzione da chi gli governa a loro che sono governati; perchè il numero de’ Gentiluomini o egli è eguale a loro, o egli è superiore: sicché, per queste cagioni, Vinegia potette ordinare quello Stalo, e mantenerlo unito. Sparta, come ho detto, essendo governata da un Re c da una stretto Senato, potette mantenersi così lungo tempo, perchè essendo in Sparta pochi abitatori, ed avendo tolta la via n chi vi venisse ad abitare, ed avendo prese le leggi di Licurgo con reputazione, le quali osservando, levavano via tutte le cagioni de’ tumulti, poterono vivere uniti lungo tempo: perchè Licurgo con le sue leggi fece in Sparta più cqualità di sustanze, e meno equalità di grado; perchè quivi era una eguale povertà, ed i plebei erano manco ambiziosi, perchè i gradi della città si distendevano in pochi cittadini, ed erano tenuti discosto dalla plebe, uè gli nobili col trattargli male dettero mai loro desiderio di avergli. Questo nacque dai Re spartani, i quali essendo collocati in quel principato e posti in mezzo diquella nobiltà, non avevano maggiore ri-medio a tenere fermo la loro degnità,ehc tenere la plebe difesa da ogni in-giuria : il che faceva che la plebe nontemeva, c non desiderava imperio ; e nonavendo imperio nè temendo, era levatavia la gara che la potessi avere con !unobiltà, c la cagione de’ tumulti; e po-terono vivere uniti lungo tempo. Ma duecose principali causarono questa unione:T una esser pochi gli abitatori di Sparta,e per questo poterono esser governatida pochi; l’altra, che non accettandoforestieri nella loro repubblica, non ave-vano occasione nè di corrompersi, nè dicrescere in tanto che la fusse insoppor-tabile a quelli pochi che la governavano.Considerando, adunque, tutte queste cose ,si vede come a’ legislatori di Roma eranecessario fare una delle due cose, a vo-lere che Roma stessi quieta come le so-praddette repubbliche: o non adoperarela plebe in guerra, corne i Viniziani;onon aprire la via a’ forestieri, come gliSpartani. E loro feceno 1’una e l’altra; il che dette alla plebe forza ed augu-mento, ed infinite occasioni di tumul-tuare. E se lo stato romano veniva adessere più quieto, ne seguiva questo in-conveniente, ch’egli era anco più debile,perchè gli si troncava la via di poterevenire a quella grandezza dove ei per-venne: in modo che volendo Roma le-vare le cagioni de’ tumulti, levava ancole cagioni dello ampliare. Ed in tutte lecose umane si vede questo, chi le esa-minerà bene: che non si può mai can-cellare uno inconveniente, che non nesurga un altro. Per tanto, se tu vuoifare un popolo numeroso ed armato perpotere fare un grande imperio, lo faidi qualità che tu non lo puoi poi ma-neggiare a tuo modo: se tu lo mantienio piccolo o disarmato per potere ma-neggiarlo, se egli acquista dominio, nonlo puoi tenere, o diventa sì vile, che tusei preda di quaiunche ti assalta. E però,in ogni nostra deliberazione si debbeconsiderare dove sono meno inconve-nienti, c pigliare quello per migliorepartito: perchè tutto netto, tutto senzasospetto non si trova mai. Poteva, adun-que, Roma a similitudine di Sparta fareun Principe a vita, fare un Senato pic-colo; ma non poteva, come quella, noncrescere il numero de’ cittadini suoi, vo-lendo fare un grande imperio; il chefaceva che il- Re a vita ed il picciol nu-mero del Senato, quanto alla unione, glisarebbe giovato poco. Se alcuno volesse,per tanto, ordinare una repubblica dinuovo, arebbe a esaminare se volessech’ella ampliasse, come Roma, di domi-nio e di potenza, ovvero ch’ella stessedentro a brevi termini. Nel primo caso,è necessario ordinarla come Roma, edare luogo a’ tumulti e alle dissensioniuniversali, il meglio che si può; perchèsenza gran numero di uomini, e benearmati, non mai una repubblica potràcrescere, o se la crescerà, mantenersi.Nel secondo caso, la puoi ordinare comeSparta c come Yinegia: ma perchè l’anipitale è il veleno di simili repubbliche, tlebbc, in tutti quelli modi che si può,citi le ordina proibire loro lo acquistare; perchè tali acquisti fondati sopra una repubblica debole, sono al tutto la rovina sua. Come intervenne a Sparta ed a Yinegia : delle quali la prima avendosi sottomessa quasi tutta la Grecia, mostrò in su uno minimo accidente il debole fondamento suo ; perchè, seguita la ribellione di Tebe, causata da Pelopitia, ribellandosi V altre cittadi, rovinò al tutto quella repubblica. Similmente Yinegia, avendo occupato gran parte d’Italia, e la maggior parte non con guerra ma con danari e con astuzia, come la ebbe a fare prova delle forze sue, perdette in una giornata ogni cosa. Crederei bene, che a fare una repubblica che durasse lungo tempo, fussi il miglior modo ordinarla dentro come Sparla o come Yinegia ; porla in luogo forte, e di tale potenza, che nessuno cre-desse poterla subito opprimere; e dal-l’altra parte, non fussi si grande, che la fussi formidabile a’ vicini : c così potrebbe lungamente godersi il suo stato. Perchè, per due cagioni si fa guerra ad una repubblica: Cuna per diventarne signore, l’altra per paura ch’ella non ti occupi. Queste due cagioni il sopraddetto modo quasi in tutto toglie via; perchè, se la è difficile ad espugnarsi, come io la presuppongo, sendo bene ordinata alla difesa, rade volte accadere, o non mai, che uno possa fare disegno d’ acquistarla. Se la si starà intra i termini suoi, e veggasi per esperienza, che in lei non sia ambizione, non occorrerà mai che uno per paura di sè gli faccia guerra : e tanto più sarebbe questo, se e’ fusse in lei constituzione o legge che le proibisse l’ampliare. E senza dubbio credo, clic polendosi tenere la cosa bilanciata in questo modo, che e’ sarebbe il vero vivere politico, e la vera quiete di una città. Ma scudo tutte le cose degli uomini in moto, c non potendo stare salde, conviene che le saglino o clic le scendino ; e a molte cose che la ragione non t' induce, t’ induce lo necessità: talmente che, avendo ordinata una repubblica atta a mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a torre via i fondamenti suoi, ed a farla rovinare più presto. Così, dall’altra parte, quando il Cielo le fusse si benigno, che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che l’olio la farebbe o effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o ciascuna per sè, sorebbono cagione della sua rovina. Pertanto, non si potendo, come io credo, bilanciare questa cosa, nò mantenere questa via del mezzo a punto ; bisogna, nello ordinare la repubblica, pensare alla parte più onorevole; ed ordinaria in modo, che quando pure la necessità la inducesse ad ampliare, ella potesse quello ch’ella avesse occupato, conservare. E, per tornare al primo ragionamento, credo che sia necessario seguire l'ordine romano, e non quello dell’altre repubbliche; perchè trovare un modo, mezzo infra l’uno e l’altro, non credosi possa: e quelle inimicizie che intra il popolo ed il senato nascessino, tollerarle, pigliandole per uno inconveniente necessario a pervenire alla romana grandezza. Perchè, oltre all’ altre ragioni allegate dove si dimostra Y autorità tribun zia essere stata necessaria per la guardia della libertà, si può facilmente considerare il benefizio che fa nelle repubbliche l’autorità dello accusare, la quale era intra gli altri commessa a’ Tribuni ; come nel seguente capitolo si discorrerà. VII. Quanto siano necessarie in una repubblica le accuse per mante-nere la libertà.A coloro che in una città sono preposti per guardia della sua libertà, non si può dare autorità più utile e necessaria, quanto è quella di potere accasare i cittadini ai popolo, o a qualunque magistrato o consiglio, quando che pcccassino in alcuna cosa contea allo stato libero. Questo ordine fa duoi effetti utilissimi ad una repubblica. Il primo è che i cittadini, per paura di non essere accusati, non tentano cose contro allo Stato: e tentandole, sono incontinente e senza rispetto oppressi. 1/ altro è che si dà via onde sfogare a quelli umori che crescono nelle citladi, in qualunque modo, contea a qualunque cittadino: e quando questi umori non hanno onde sfogarsi ordinariamente, ricorrono a’ modi straordinari, che fanno rovinare in tutto una repubblica. G non è cosa che faccia tanto stabile e ferma una repubblica, quanto ordinare quella in modo, che l’ alterazione di questi umori che la agitano, abbia una via da sfogarsi ordinata dalie leggi. Il che si può per molti esempi dimostrare, e massime per quello che adduce Livio di CORIOLANO, dove ei dice, che essendo irritala contro alla Plebe la Nobiltà romana, per parerle che l Plebe avesse troppa autorità mediante la creazione de’ Tribuni che la difendevano; ed essendo Roma, come avviene, venuta in penuria grande di vettovaglie, ed avendo il Senato mandato per grani in Sicilia; Coriolano, nimico alla fazione popolare, consigliò come egli era venuto il tempo da potere gastigare la Plebe, e torte quella autorità die ella si aveva acquistata c in pregiudizio della nobiltà presa, tenendola affamata, c non li distribuendo il frumento; la qual sentenza sendo venuta alii orecchi del Popolo, venne in tanta indegnazione contro a Coriolano, che allo uscire del Senato lo arebbero tumultuariamente morto, se gli Tribuni non 1’ avessero citato a comparire a difendere la causa sua. Sopra il quale accidente, si nota quello che di sopra si è detto, #quanto sia utile e necessario che le repubbliche, con le leggi loro, diano onde sfogarsi oli’ ira clic concepc la universalità contra a uno cittadino; perchè quando questi modi ordinari non vi siano, si ricorre agli estraordinari; c senza dubbio questi fanno molto peggiori effetti che non fanno quelli. Perchè, se ordinariamente uno cittadino è oppresso, ancora che li fusse fatto torto, ne seguita o poco o nessuno disordine in la repubblica: perchè la esecuzione si fa senza forze private, e senza forze forestiere, che sono quelle che rovinano il vivere libero; ma si fa con forze ed ordini pubblici, che hanno i termini loro particolari, nè trascendono a cosa che rovini la repubblica. E quanto a corroborare questa oppinione con gli esempi, voglio che degli antichi mi basti questo di Coriolano; sopra il quale ciascuno consideri, quanto male saria resultato alla repubblica romana, se tumultuariamente ci fussi stato morto; perchè ne nasceva offesa ila privati a privati, la quale offesa genera paura; la paura cerca difesa; per la difesa si procacciano i partigiani; dai partigiani nascono le parti nelle cittadi; dalle parti la rovina di quelle. Ma sendosi governata la cosa mediante chi ne aveva autorità, si vennero a tór via tutti quelli mali che ne potevano nascere governandola con autorità privata. Noi avemo visto ne’ nostri tempi, quale novità ha fatto alla repubblica di Firenze non potere la moltitudine sfogare l’ nniino suo ordinariamente contra a un suo cittadino; come accadde nel tempo di VALORI, clic era come principe della città : il quale essendo giudicalo ambizioso da molti, e uomo che volesse con la sua audacia e animosità trascendere il vivere civile; e non essendo nella repubblica via a poterli resistere se non con una setta contraria alla sua ; ne nacque che non avendo paura quello, se non di modi straordinari, si cominciò a fare fautori che lo difendessino; dall’ altra parte, quelli clic lo oppugnavano non avendo via ordinaria a reprimerlo, pensarono alle vie straordinarie : intanto che si venne alle armi. E dove, quando per l’ordinario si fusse potuto opporseli, sarebbe la sua autorità spenta con suo danno solo; avendosi a spegnere per lo straordinario, seguì con danno non solamente suo, ma di molti altri nobili cittadini. Potrebbesi ancora allegare, a fortificazione della soprascritta conclusione, l’ accidente seguito pur in Firenze sopra SODERINI; il quale al tutto segui per non essere in quella Repubblica alcuno modo di accuse contra alla ambizione de’ potenti cittadini: perchè lo accusare un potente a otto giudici in una repubblica, non basta : bisogna che i giudici siano assai, perchè pochi sempre fanno a modo de’ pochi. Tanfo che, se tali modi vi fussono stati, o icittadini lo arebbono accusato, vivendo egli male; e per tal mezzo, senza far venire l’ esercito spagnuolo, arebbono sfogato l’animo loro: o non vivendo male, non arebbono avuto ardire operarli contra, per paura di non essere accusati essi : e cosi sarebbe da ogni parte cessato quello appetito che fu cagione di scandalo. Tanto che si può concludere questo, che qualunque volta si vede che le forze esterne siano chiamate da una parte d’ uomini che vivono in una città, si può credere nasca da’ cattivi ordini di quella, per non esser dentro a quello cerchio, ordine da potere senza modi islraordinari sfogare i maligni umori che nascono nelli uomini: a che si provvede al tutto con ordinarvi le accuse alii assai giudici, e dare riputazione a quelle. Li quali modi furono in Roma sì bene ordinati, che in tante dissensioni della Plebe e del Senato, mai o il Senato o la Plebe o alcuno particolare cittadino non disegnò valersi di forze esterne; perche avendo il rimedio in casa, non erano necessitati andare per quello fuori. E benché gli esempi soprascritti siano assai sufficienti a provarlo, nondimeno ne voglio addurre un altro, recitato da L. nella sua istoria: il quale riferisce come, scudo stato in Chiusi, città in quelli tempi nobilissima in TOSCANA, da uno Lucumone violata una sorella di Aruntc, c non potendo Arunte vendicarsi per la potenia del violatore, se n'andò a trovare i Franciosi, che allora regnavano in quello luogo che oggi si chiama Lombardia; e quelli confortò a venire con annata mano a Chiusi, mostrando loro come con loro utile lo potevano vendicare della ingiuria ricevuta : che se Arunte avesse veduto potersi vendicare con i modi della città, non arebbe cerco le forre barbare. Ma come queste accuse sono utili in una repubblica, così sono inutili e dannose le calunnie ; come nel capitolo seguente discorreremo. Vili. — Quanto le accuse sono utili alle repubbliche, tanto sono perniziose le calunnie.Non ostante che la virtù di Cnmmillo, poi ch’egli ebbe libera Roma dalla oppressione de’ Franciosi, avesse fatto che tutti i cittadini romani, parer loro tòrsi reputazione o cedevano a quello; nondimeno MAULIO Capitolino non poteva sopportare chegli fusse attribuito tanto onore e tanta gloria; parendogli, quanto alla salute di Roma, per avere salvato il Campidoglio, aver meritato quanto CAMMILLO; c quanto all’ altre belliche laudi, non essere inferiore a lui. Di modo che, carico d’ invidia, non potendo quietarsi per la gloria di quello, c veggendo non potere seminare discordia infra i Padri, si volse alla Plebe, seminando varie oppinioni sinistre intra quelfb. E intra V altre cose che diceva, era come il tc- soro il quale si era adunato insieme per dare ai Franciosi, e poi non dato loro, era stato usurpalo da privati cittadini ; e quando si riavesse, si poteva convertirlo in pubblica utilità, alleggerendo la Plebe da’ tributi, o da qualche privato debito. Queste parole poterono assai nella Plebe; talché cominciò avere concorso, ed a fare u sua posta tumulti assai nella città: la qual cosa dispiacendo al Senato, e parendogli di momento e pericolosa, creò uno Dittatore, perchè ei riconoscesse questo caso, e frenasse lo impeto di MANLIO. Onde che subito il Dittatore lo fece citare, e eondussonsi in pubblico all’incontro l’uno dell’altro; il Dittatore in mezzo de’ Nobili, e MANLIO in mezzo della Plebe. Fu domandato Manlio che dovesse dire, appresso a chi fusse questo tesoro che ei diceva, perchè ne era cosi desideroso il Senato d’ intenderlo come la Plebe: a che MANLIO non rispondeva particularmenfe; ma, andando fuggendo, diceva come non era necessario dire loro quello die e’ si sapevano: tanto che il Dittatore lo fece mettere in carcere. È da notare per questo testo, quanto siano nelle città libere, ed in ogni altro modo di vivere, detestabili le calunnie; e come per reprimerle, si debbe non perdonare a ordine alcuno che vi faccia a proposito. Nè può essere migliore ordine a torle via, che aprire assai luoghi alle accuse; perchè quanto le accuse giovano alle repubbliche, tanto le calunnie nuocono: e dall’ altra parte è questa differenza, che le calunnie non hanno bisogno di testimone, nè di alcuno altro particulare riscontro a provarle, in modo che ciascuno da ciascuno può essere calunniato; ma non può già essere accusato, avendo le accuse bisogno di riscontri veri, e di circostanze, che mostrino la verità dell’ accusa. Accusatisi gli uomini a’ magistrati, a’ popoli, a’ consigli ; calunniatisi per le piazze è per le logge. Usasi più questa calunnia dove si usa meno 1’ accusa, c dove le città sono meno ordinate a riceverle* Però, uno ordinatore d’ una repubblica debbe ordinare che si possa in quella accusare ogni cittadino, senza alcuna paura o senza alcuno sospetto; e fatto questo e bene osservato, debbe punire aeremente i calunniatori: i quali non si possono dolere quando siano puniti, avendo i luoghi aperti a udire le accuse di colui che gli avesse per le logge calunniato. E dove non è bene ordinata questa parte, seguitano sempre disordini grandi : perchè le calunnie irritano, c non castigano i cittadini; e gli irritali pensano di valersi, odiando più presto, che temendo le cose che si dicono contea a loro. Questa parte, come è detto, era bene ordinata in Roma ; ed è stata sempre male ordinala nella nostra città di FIRENZE. E come a Roma questo ordine fece molto bene, a FIRENZE questo disordine fece molto male. E chi legge le istorie di questa città, vedrà quante calunnie sono state in ogni tempo date a’ suoi cittadini che si sono adoperati nelle cose importanti di quella. Dell’ uno dicevano, ch’egli aveva rubati danari al comune; dell’ altro, che non aveva vinto una impresa per essere stato corrotto; e che quell’ altro per sua ambizione aveva fatto il tale e tale inconveniente. Del che ne nasceva che da ogni parte ne surgeva odio : donde si veniva alla divisione; dalla di- visione alle sètte; dalle sètte alla rovina. Che se fusse stato in Firenze ordine d’ accusare i cittadini, c punire i calunniatori, non seguivano infiniti scandali che sono seguiti: perchè quelli cittadini, o condennati o assoluti che russino, non arebbono potuto nuocere alla città; e sarebbono stati accusati meno assai clic non ne erano calunniali, non si potendo, come ho detto, accusare come calunniare ciascuno. Ed intra l’ altre cose di clic si è valuto alcuno citadino per ventre alla grandezza sua, sono state queste calunnie: le quali venendo conira a’ cittadini potenti che allo appetito suo si opponevano, facevano assai per quello; perchè, pigliando la parte del Popolo, e confirmandolo nella mala oppiatone eh’ egli aveva di loro, se lo fece amico. E benché se ne potesse addurre assai esempi, voglio essere contento solo d’ uno. Era lo esercito fiorentino a campo a Lucca, coman- dato da GUICCIARDINI (si veda), commissario di quello. Vollono o i cattivi suoi governi, o la cattiva sua fortuna, che Ja espugnazione di quella città non seguisse. Pur, comunque il caso stesse, ne fu incolpato inesser Giovanni, dicendo com’ egli era stato corrotto da’ Lucchesi: la quale calunnia sendo favorita da’ nimici suoi, condusse messer Giovanni quasi in ultima disperazione. E benché, per giustificarsi, ei si volessi mettere nelle mani del Capitano; nondimeno non si potette mai giustificare, per non essere modi in quella repubblica da poterlo fare. Di che ne nacque assai sdegno intra li amici di messer Giovanni, che erano la maggior parte delli uomini Grandi, ed infra coloro che desideravano fare novità in Firenze. La qual cosa, e per queste e per altre simili cagioni, tanto crebbe, che ne seguì la rovina di quella repubblica. Era dunque MANLIO Capitolino calunniatore, e non accusatore*, ed i Romani mostrarono in questo caso appunto, come i calunniatori si debbono punire. Perchè si debbe fargli diventare accusatori; e quando 1’ accusa si riscon- tri vera, o premiarli, o non punirli : ma quando la non si riscontri vera Uf»5 IX. Come egli è necessario esser solo a volere ordinare una repubblica di nuovo , o al lutto fuori delti antichi suoi ordini riformarla. E’ porrà forse ad alcuno,- che io sia troppo trascorso dentro nella istoria romana, non avendo fatto alcuna menzione ancora degli ordinatori di quella Repubblica, nè di quelli ordini che o alla religione o alla milizia riguardassero. E però, non volendo tenere più sospesi gli animi di coloro che sopra questu parte volessino intendere alcune cose; dico, come molti per avventura giudicheranno di cattivo esempio, che uno fondatore d’ un vivere civile, quale è ROMOLO, abbia prima morto un suo fratello, dipoi consentito alla morte di Tito TAZIO Sabino, eletto da lui compagno nel regno; giudicando per questo, che gli suoi cittadini potessero con T autorità del loro principe, per ambizione e desiderio di comandare, offendere quelli che alla loro autorità si opponessino. La quale oppinionc sarebbe vera, quando non si considerasse che line l’avesse indotto a fare lai OMICIDIO. E debbesi pigliare questo per una regola generale: clic non mai o di rado occorre che alcuna repubblica o regno sia da principio ordinato bene, o al tutto di nuovo fuori delti ordini vecchi riformato, se non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo sia quello clic dia il modo, e dalla cui mente dependa qualunque simile ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d’ una repubblica, e che abbia questo animo di volere giovare non a sé ma al BENE COMUNE, non alla sua propria successione ma alla comune patria, debbe ingegnarsi di avere l’autorità solo; nè mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione istraordinaria, che per ordinare un regno o constituire una repubblica usasse. Conviene bene, che, accusandolo il fallo, lo effetto lo scusi ; e quando sia buono, come quello di ROMOLO, sempre lo scuserà: perchè colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare, si debbe riprendere. Debbe bene in tanto esser prudente e virtuoso, che quella autorità che si ha presa, non la lasci ereditaria ad un altro : perchè, essendo gli uomini più proni al male che al bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente quello che da lui virtuosamente fusse stato usato. Oltre di questo, se uno è atto ad ordinare, uoti è la cosa ordinata per durare molto, quando la rimanga sopra le spalle d’ uno; ma si bene, quando la rimane alla cura di molti, e che a molti stia il mantenerla. Perchè, cosi come molti non sono atti ad ordinare una cosa, per non conoscere il bene di quella, causato dalle diverse oppinioni che sono fra loro; cosi conosciuto che lo hanno, non si accordano a lasciarlo. E che ROMOLO fusse di quelli che NELLA MORTE DEL FRATELLO e del compagno meritasse scusa; e che quello che fece, fusse per IL BENE COMUNE, e non per ambizione propria ; lo dimostra lo avere quello subito ordinato uno Senato, con il quale si consigliasse, e secondo l’oppinione del quale deliberasse. E chi considera bene P autorità che ROMOLO si riserbò, vedrà non se ne essere riserbata alcun’ altra che comandare alli eserciti quando si era deliberata la guerra, e di ragunare il Senato. Il che si vide poi, quando Roma divenne libera per la cacciata de’ Tarquini; dove da’ Romani non fu innovato alcun ordine dello antico, se non che in luogo d’ uno Re perpetuo, fussero duoi Consoli annuali; il che testifica, tutti gli ordini primi di quella città essere stati più conformi ad uno vivere civile e libero, che ad uno assoluto e tirannico. Polrebbesi dare in corroborazione delle cose sopraddette infiniti esempi; come Licurgo, Solonc, ed nitri fondatori di regni e di repubbliche, i quali poterono, per aversi attribuito un’ autorità, formare leggi a proposito del bene comune; ma gli voglio lasciare indietro, come cosa nota. Addurronne solamente • uno, non si celebre, ma da considerarsi per coloro che desiderassero essere di buone leggi ordinatori: il quale è, che desiderando Agide re di Sparta ridurre gli Spartani intra quelli termini che le leggi di Mcurgo gli avessero rinchiusi, parendoli che per esserne in parte deviati, la sua città avesse perduto assai di quella antica virtù, e, per conseguente, di forze e d’ imperio ; fu ne' suoi primi principii ammazzato dalli Efori spartani, come uomo che volesse occupare la tirannide. .Ma succedendo dopo lui . nel regno Cleomene c nascendogli il medesimo desiderio per gli ricordi e scritti eh’ egli aveva trovati di Agide, dove si vedeva quale era la mente ed intenzione sua, conobbe non potere fare questo bene alla sua patria se non diventava solo di autorità; parendogli, per 1* arabizione degli uomini, non potere fare utile a molti contra alla voglia di pochi: e presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti gli Efori, e qualunque altro gli potesse contrastare ; dipoi rinnovò in tutto le leggi di Licurgo. La quale deliberazione era atta a fare risuscitare Sparta, e dare a Clcomcne quella reputazione che ebbe Licurgo, se non fussc stato la potenza de’ Macedoni e la debolezza delle altre repubbliche greche. Perchè, essendo dopo tale ordine assaltato da’ Macedoni, e trovandosi per sè stesso inferiore di forze, c non avendo a chi rifuggire, fu vinto; e restò quel suo disegno, quantunque giusto e laudabile, imperfetto. Considerato adunque tutte queste cose, conchiudo, come a ordinare una repubblica è necessario essere solo; c ROMOLO per LA MORTE DI REMO E DI TAZIO meritare iscusa, e non biasmo. X. — Quanto sono laudabili * fondatori d* una repubblica o dJ uno regno, tanto quelli dJ una tirannide sono vituperabili. Intra tutti gli uomini laudati, sono i laudatissimi quelli die sono stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso dipoi, quelli che hanno fondato o repubbliche o regni. Dopo costoro, sono celebri quelli che, preposti alti esercìti, hanno ampliato o il regno loro, o quello della patria. A questi si aggiungono gli uomini iilterati; e perchè questi sono di più ragioni, sono celebrati ciascuno d’ essi secondo il grado suo. A qualunque altro uomo, il numero de’ quali è infinito, si attribuisce quut* che parte di laude, la quale gli arreca l’ arte e V esercizio suo. Sono, per lo contrario, infumi e detestabili gli uomini destruttori delle religioni, dissipatori de’ regni e delie repubbliche, ini- mici delle virtù, delle lettere, e d'ogni altra arte che arrechi utilità ed onore alla umana generazione; come sono gli empii e violenti, gl* ignoranti, gli oziosi, i vili, e i dappochi. E nessuno sarà mai sì pazzo o si savio, si tristo o si buono, che, propostogli la elezione delle due qualità d’ uomini, non laudi quella che è da laudare, e Biasini quella che è da biasmare: nientedimeno, dipoi, quasi tutti, ingannati da un falso bene e da una falsa gloria, si lasciano andare, o voluntariamente o ignorantemente, ne’ gradi di coloro che meritano più biasimo che laude; c potendo fare, con perpetuo loro onore, o una repubblica o un regno, si volgono alla tirannide: nè si avveggono per questo partito quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete, con satisfazione d’animo, e’fuggono; e in quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine incorrono. Ed è impossibile che quelli che in stato privato vivono in una repubblica, o che per fortuna o virtù ne diventano principi, se leggcssino l’ istorie, e delle memorie delle antiche cose facessino capitale, che non volessero quelli tali privati, vivere nella loro patria piuttosto Soipioni che Cesari; e quelli che sono principi, piuttosto Agesilai, Timolconi e Dioni, clic Nabidi, Falari e Dionisi : perchè vedrebbono questi essere sommamente vituperati, e quelli eccessivamente laudati. Vedrebbono ancora come Timoleone e gli altri non ebbero nella patria loro meno autorità che si avessiuo Dionisio e Falari; ma vedrebbono di lungo avervi avuto più sicurtà. Nè sia alcuno che si inganni per la gloria di Cesare, sentendolo, massime, celebrare dagli scrittori: perchè questi che lo laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e spauriti dalla lunghezza dello imperio, il quale reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbono, vegga quello che dicono di CATILINA. E tanto è più detestabile GIULIO (si veda) CESARE , quanto più è da biasimare quello che ha fatto, che quello che ha voluto fare un inule. Vegga ancora con quante laudi celebrano BRUTO (si veda); talché, non potendo biasimare quello per la sua potenza, e’ celebrano il nemico suo. Consideri ancora quello eh’ è diventato principe in una repubblica, quante laudi, poiché ROMA fu diventata imperio, meritarono più quelli imperadori che vissero sotto le leggi e come principi buoni, che quelli che vissero al contrario: e vedrà come a Tito, Nerva, Traiano, ADRIANO, Antonino e Marco, non erano necessari i soldati pretoriani nè la moltitudine delle legioni a difenderli, perchè i costumi L loro, la benivolenza del Popolo, lo amore i del Senato gli difendeva. Vedrà ancora come a Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti altri scellerati imperadori, non bastarono gli eserciti orientali ed occidenItili a salvarli conira a quelli nemici, che li loro rei costumi, la loro malvagia vita aveva loro generati. E se la istoria di costoro fusse ben considerata, sarebbe assai ammaestramento a qualunque priucipe, a mostrargli la via della gloria o del biasmo, e della sicurtà o del timore suo. Perchè, di ventisei imperadori che furono da Cesare a Massimiuo, sedici ne furono ammazzati, dicci morirono ordinariamente; c se di quelli che furono morti ve ne fu alcuno buono, come Galba e Pertinace, fu morto da quella corruzione che lo antecessore suo aveva lasciata nc’ soldati. E se tra quelli che morirono ordinariamente ve ne fu alcuno scellerato, nome Severo, nacque da una sua grandissima fortuna e virtù ; le quali due cose pochi uomini accompagnano. Vedrà ancora, per la lezione di questa istoria, come si può ordinare un regno buono: perchè tutti gl' imperadori che succederono all* imperio per eredità, eccetto Tito, furono cattivi ; quelli che per adozione, furono tutti buoni, come furono quei cinque da Nervo a Marco: e come P imperio cadde negli eredi, ei ritornò nella sua rovina. Pongasi, adunque, innanzi un principe i tempi da Nerva a Marco, e conferiscagli con quelli che erano stati prima e che furono poi; edipoi elegga in quali volesse essere nato,o a quali volesse essere preposto. Per-chè in quelli governali da’ buoni, vedràun principe sicuro in mezzo de’ suoi si-curi cittadini, ripieno di pace e di giu-stizia il mondo: vedrà il Senato con lasua autorità, i magistrati con i suoi ono-ri ; godersi i cittadini ricchi le loro ric-chezze ; la nobiltà c la virtù esaltata :vedrà ogni quiete ed ogni bene; e, dal-l’altra parte, ogni rancore, ogni licenza,corruzione e ambizione spenta: vedrà itempi aurei, dove ciascuno può tenere edifendere quella oppinione che vuole. Ve-drà, in fine, trionfare il mondo; pienodi riverenza e di gloria il principe,d’ amore e di sveurilà i popoli. Se con-sidererà, dipoi, tritamente i tempi deglialtri imperadori, gli vedrà atroci per leguerre, discordi per le sedizioni, nellapace e nella guerra crudeli: tanti prin-cipi morti col ferro, tante guerre civili,tante esterne ; P Italia afflitta, e piena dinuovi infortunii ; rovinate e saccheggiatele città di quella. Vedrà Roma arsa, ilCampidoglio da’ suoi cittadini disfatto,desolati gli antichi templi, corrotte lecerimonie, ripiene le città di adulterii:vedrà il mare pieno di esilii, gli scoglipieni di sangue. Vedrà in Roma seguireinnumerabili crudeltadi ; e la nobiltà, le ricchezze, gli onori, e sopra tutto ia virtùessere imputata a peccato capitale. Ve-drà premiare li accusatori, essere corrotti i sèrvi contro al signore, i liberi contro al padrone; e quelli a chi fusscro mancati i nemici, essere oppressi dagli amici. E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia, e il mondo abbia con Cesare. E senza, dubbio, se e* sarà nato d’uomo, si sbigottirà I da ogni imitazione dei tempi cattivi, c accenderassi d’uno immenso desiderio di seguire i buoni. E veramente, cercando un principe la gloria del mondo, doverrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per riordinarla come lloinolo. E veramente i cieli non possono dare all i uomini maggiore occasione di gloria, nè li uomini la possono maggiore desiderare. E se, a volere ordinare bene una città, si avesse di necessità n dcporrc il principato, meriterebbe quello clic non la ordinasse, per non cadere di quel grado, qualche scusa: ma potendosi tenere il principato ed ordinarla, non si merita scusa alcuna. E in somma, considerino quelli a chi i cieli danno tale occasione, come sono loro proposte due vie: 1’ una che gli fa vivere sicuri, e dopo la morte gli rende gloriosi ; I’ altra gli fa vivere in continove angustie, e dopo la morte lasciare di sè una sempiterna infamia. XI. — Delta religione de* Romani. Ancora che Roma avesse il primo suo ordinatore ROMOLO, e che da quello abbia riconoscere come figliuola il nascimento e la educazione sua; nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di ROMOLO non bastavano a tanto imperio, niessono nel petto del Senato romano di eleggere NUMA (si veda) Pompilio per SUCCESSORE A ROMOLO, acciocché quelle cose che da lui fossero state lasciate indietro, fossero da Numa ordinate. II quale trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle ubbidienze civili con le arti della pace, si volse alla religione, come oosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà ; e la costituì in modo, che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella Repubblica : ilche facilitò qualunque impresa che ilSenato o quelli grandi uomini romanidisegnassero fare. E ehi discorrerà in-finite azioni, e del popolo di Roma lutto insieme, e di molli de’ Romani di per sé, vedrà come quelli cittadini temevano più assai rompere il giuramento che le leggi ; come coloro clic stimavano più la potenza di Dio, che quella degli uomini: come si vede manifestamente per gli esempi di SCIPIONE e di MANLIO TORQUATO. Perchè, dopo la rotta che Annibale aveva dato a’ Romani a Canne, molti cittadini si erano adunati insieme, c sbigottiti e paurosi si erano convenuti abbandonare l’ITALIA, e girsene in Sicilia: il che sentendo SCIPIONE, gli andò a trovare, e col ferro ignudo in mano gli costrinse a giurare di non abbandonare la patria. LUCIO MANLIO, padre di TITO MANLIO, che fu dipoi chiamato Torquato, era stato accusato da MARCO POMPONIO, Tribuno della plebe ; ed innanzi che venissi il di del giudizio, Tito andò a trovare Marco, e minacciando d’ ammazzarlo se non giurava di levare l’accusa al padre, lo costrinse al giuramento ; e quello, per timore avendo giurato, gli levò t'accusa. E cosi quelli cittadini i quali l'amore della patria e le leggi di quella non ritenevano in ITALIA, vi furon ritenuti da un giuramento che furono forzati a pigliare; e quel Tribuno pose da parte l'odio che egli aveva col padre, la ingiuria che gli aveva fatta il figliuolo, c i’ onore suo, per ubbidire al giuramento preso: il che non nacque da altro, che da quella religione che Numa aveva introdotta in quella città. E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare agli eserciti, a riunire la plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare li tristi. Talché, se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obbligata, o a ROMOLO o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perchè dove è religione, facilmente si possono introdurre l’armi; e dove sono l’armi e non religione, con diflìcultà si può introdurre quella. E si vede che a ROMOLO per ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e militari, non gli fu necessario dell’ autorità di Dio; ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di avere congresso con una Ninfa, la quale lo consigliava di quello ch’egli avesse a consigliare il popolo : e tutto nasceva perchè voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse. G veramente, mai non fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo, che non ricorresse a Dio ; perchè altrimenlc non sarebbero accettate: perchè sono molli beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sè ragioni evidenti da potergli persuadere ad altri. Però gli uomini savi, che vogliono torre questa diflìcultà, ricorrono a Dio. Cosi fece Licurgo, cosi Solone, cosi molti altri che hanno avuto il medesimo fine di loro. Ammirando, adunque, il popolo romano la bontà e la prudenza sua, cedeva ad ogni sua deliIterazione, Ben è vero che l’essere quelli tempi pieni di religione, e quelli uomini, con i quali egli aveva a travagliare, grossi, gli detlono facilità grande a conseguire i disegni suoi, potendo imprimere in loro facilmente qualunche nuova forma. E senza dubbio, ehi volesse ne’presenti tempi fare una repubblica, più facilità troverebbe negli uomini montanari, dove non è alcuna civilità, che in quelli che sono usi a vivere nelle città, dove la civilità è corrotta: ed uno scultore trarrà più facilmente una bella statua d’ uno marmo rozzo, che d’ uno male abbozzato d’altrui. Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Piuma fu intra le primecagioni della felicità di quella città: perchè quella causò buoni ordini; i buoni ordini fanno buona fortuna ; e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione delia grandezza delle repubbliche, cosi il dispregio di quella è cagione della rovina d’esse. Perchè, dove manca il timore di Dio, conviene che o quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d’ un principe che supplisca a’ difetti della religione. E perchè i principi sono di corta vita, conviene che quel regno manchi presto, secondo che manca la virtù d’ esso. Donde nasce che i regni i quali dependono solo dalla virtù d’ uno uomo, sono poco durabili, perchè quella virtù manca con la vita di quello ; e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come prudentemente ALIGHIERI (si veda) dice: tt Rade volte risurge per li ramiL'umana probitade: e questo vuoloQuel che la dà, perchè da lui si chiami. „Non è, adunque, la salute di una repubblica o d’uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive ; ma uno che l’ordini in modo, clic, morendo ancora, la si mantenga. E benché agli uomini rozzi più facilmente si persuade uno ordine o una oppinione nuova, non è per questo impossibile persuaderla ancora agli uomini civili, e che si presumono non essere rozzi. Al popolo di Firenze non pare essere nè ignorante nè rozzo: nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. lo non voglio giudicare s’egli era vero o no, perchè d’ un tanto uomo se ne debbe parlare con reverenza : ma io dico bene, che infiniti lo credevano, senza avere visto cosa nessuna istraordinaria da farlo loro credere; perchè la vita sua, la dottrina, il soggetto che prese, erano sufhzienti a fargli prestare fede. Non sia, pertanto, nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quello che è stato conseguito da altri ; perchè gli uomini, come nella Prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono sempre con un medesimo ordine. XIF. — Di quanta importanza sia tenere conto della religione j e come la Italia per esserne mancata mediante la Chiesa romana y è rovinata. Quelli principi, o quelle repubbliche, le quali si vogliono manienere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della religione, e tenerle sempre nella loro venerazione; perchè nissuno maggiore indizio si puote avere della rovina d’una provincia, che vedere dispregiato il culto divino. Questo è facile a intendere, conosciuto che si è in su che sia fondata la religione dove V uomo è nato; perchè ogni religione ha il fondamento della vita sua in su qualche principale ordine suo. La vita della religione gentile era fondata sopra i responsi delti oracoli e sopra la setta delli aridi e delli aruspici: tutte le altre loro cerimonie, sacrifìcii, riti, dependevano da questi; perchè loro facilmente credevano che quello Dio che ti poteva predire il tuo futuro bene o il tuo futuro male, te lo potessi ancora concedere. Di qui nascevano i tempii, di qui i sacrifici!, di qui le supplicazioni, ed ogni altra cerimonia in venerarli: perchè l’oracolo di Deio, il tempio di GIOVE Aminone, ed altri celebri oracoli, tenevano il mondo in ammirazione, e devoto. Come costoro cominciarono dipoi a parlare n modo de’ potenti, e questa falsità si fu scoperta ne’ popoli, divennero gli uomini increduli, ed atti a perturbare ogni ordine buono. Debbono, adunque, i Principi d’uria repubblica o d’un regno, i fondamenti della religione che loro tengono, mantenerli; e fatto questo, sarà loro facil cosa a mantenere la loro repubblica religiosa, e, per conseguente, buona ed unita. C debbono, tutte le cose che nascono in favore di quella, come che le giudicassino false, favorirle ed accrescerle; e tanto più Io debbonofare, quanto più prudenti sono, e quanto più conoscitori delle cose naturali. E perchè questo modo c stato osservato dagli uomini savi, ne è nata l’oppinione dei miracoli, che si celebrano nelle religioni eziandio false: perchè i prudenti gli aumentano, da qualunche principio e’ si nascano; e l’autorità loro dà poi a quelli fede appresso a qualunque. Di questi miracoli ne fu a Roma assai; e intra gli altri fu, che saccheggiando i soldati romani la città de’ Veienti, alcuni di loro entrarono nel tempio di Giunone, ed accostandosi alla immagine di quella, e dicendole vis venire Romani ,parve od alcuno vedere che la accennasse; ad alcun altro, che ella dicesse di si. Perchè, sendo quelli uomini ripieni di religione (il che dimostra L. perchè nell’entrare nel tempio, vi entrarono senza tumulto, tutti devoti e pieni di reverenza), parve loro udire quella risposta che alla domanda loro per avventura si avevano presupposta : la quale oppiuione e credulità, da Cammillo e dagli altri principi della città fu ni tutto favorita ed accresciuta. La quale religione se ne’ Principi della repubblica cristiana si fusse mantenuta, secondo che dal datore d’ essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le repubbliche cristiane più unite e più felici assai ch’elle non sono. Nè si può fare altra maggiore conieltura della declinazione d’essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l’ uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo, senza dubbio, o la rovina o il flagello. E perchè sono alcuni d’oppinione, che ’l ben essere delle cose d’ Italia dipende dalla Chiesa di Roma, voglio contro ad essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono :e ne allegherò due potentissime, le quali, secondo me, non hanno repugnanza. La, prima è, che per gli esempi rei di quella i corte, questa provincia ha perduto oguI divozione ed ogni religione: il clic si i lira dietro infiniti inconvenienti e infi-niti disordini; perchè, così come religione si presuppone ogni bene, dove ella manca si presuppone il contrario. Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obbligo, d’essere diventati senza religione c cattivi: ma ne abbiamo ancora un maggiore, il quale è cagione della rovina nostra. Questo è die la Chiesa ha tenuto e tiene questa nostra provincia divisa. E veramente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla obedienza d’ una repubblica o d’uno principe, come è avvenuto alla Francia. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, nè abbia aneli’ ella o una repubblica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa ; perchè, avendovi abitalo e tenuto imperio temponile, non è stata sì potente nè dì tal virtù, che l'abbia potuto occupare il restante d’Italia, e farsene principe; e non è stata, dall’altra parte, si debile, che, per paura di non perder il dominio delie cose temporali, la non abbi potuto convocare uno potente che la difenda contra a quello che in Italia fusse diventato troppo potente: come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando mediante Carlo Magno la ne cacciò i Lombardi, eh’ era no già quasi re di tutta Italia; e quando ne’ tempi nostri ella tolse la potenza a’ Veneziani con l’aiuto di Francia; dipoi ne cacciò i Franciosi eoa l’aiuto de’ Svizzeri. Non essendo, dunque, stata la Chiesa potente da potere occupare l’ Italia, nè avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto un capo; ma è stata sotto più principi e signori, da’ quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta ad essere stata preda, non solamelile di barbari polenti, ma di qualunque I* assalta. Di clic noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, c non con altri. E chi ne volesse per esperienza certa vedere più pronta la verità, bisognerebbe che fusse di tanta potenza, che mandasse ad abitare la corte romana, con l’autorità che l’ha in Italia, in le terre de’ Svizzeri; i quali oggi sono quelli soli popoli che vivono, e quanto alla religione e quanto agli ordini militari, secondo gli antichi : e vedrebbe che in poco tempo furebbero più disordine in quella provincia i costumi tristi di quella corte, che qualunchc altro accidente clic in qualunche tempo vi potessi surgere. XIII. — Come t Romani si servirono della religione per ordinare la città, e per seguire le loro imprese e fermare i tumulti.Ei non mi pare fuor di proposito ad-durre alcuno esempio dove i Romani si servirono della religione per riordinare la cillà, e per seguire l’imprese loro; e quantunque in L. ne siano molti, nondimeno voglio essere contento a questi. Avendo creato il Popolo romano i Tribuni, di potestà consolare, e, fuorché uno, tutti plebei; ed essendo occorso quello anno peste c fame, e venuti certi prodigii ; usorono questa occasione i Nobili nella nuova creazione de’ Tribuni, dicendo che li Dii erano adirati per aver Roma male usata la maestà del suo imperio, e che non era altro rimedio a placare gli Dii, che ridurre la elezione de’ Tribuni nel luogo suo: di che nacque che la Plebe, sbigottita da questa religione, creò i Tribuni tutti nobili. Vedesi ancora nella espugnazione della città de’ Ycienti, come i capitani degli eserciti si valevano della religione per tenergli disposti ad una impresa : ehè essendo il lago Albano, quello anno, cresciuto mirabilmente, ed essendo i soldati romani in fastiditi per la lunga ossidione, e volendo tornarsene a Roma, trovarono i Romani, come Apollo e certi altri responsi dicevano che quell* anno si espugnerebbe la città de’ Veienti, che si derivasse il Ingo Albano : la qual cosa fece ai soldati sopportare i fastidi della guerra e della ossidione, presi da questa speranza di espugnare la terra ; e stettono contenti a seguire la impresa, tanto che Cammillo fatto Dittatore espugnò detta città, dopo dieci anni che l’era stala assediata. E cosi la religione, usata bene, giovò e per la espugnazione di quella città, e per la restituzione dei Tribuni nella Nobiltà: chè senza detto mezzo difficilmente si sarebbe condotto e l’uno e l’altro. Non voglio mancare di addurre a questo proposito un altro esempio. Erano nati in Roma assai tumulti per cagione di Terentillo Tribuno, volendo lui promulgare certa legge, per le cagioni che di sotto nel suo luogo si diranno ; e tra i primi rimedi che vi usò la Nobiltà, fu la religione: della quale si servirono i duo modi. Nel primo fecero vedere i li- bri Sibillini, e rispondere, come alla città, mediante la civile sedizione, soprastavano quello anno pericoli di non perdere la libertà : la qual cosa, ancora che fusse scoperta da’ Tribuni, nondimeno messe tanto terrore ne* petti della plebe, che la raffreddò nel seguirli. L’altro modo fu, che avendo uno APPIO ERDONIO, con una moltitudine di sbanditi e di servi, in numero di quattromila uomini, occupato di notte il Campidoglio, in tanto che si poteva temere, che se gli Equi ed i Volsci, perpetui nemici al nome romano, ne fossero venuti a Roma, la arebbono espugnata ; e non cessando i Tribuni per questo di insistere nella pertinacia loro di promulgare la legge Terentilla, dicendo che quello in- sulto era fittizio c non vero: uscì fuori del Senato uno Publio Rubezio, cittadino grave e di autorità, con parole parte amorevoli, parte minacciatiti, mostrandoli i pericoli della città, e la intempestiva domanda loro; tanto che e’ constrinse la Plebe a giurare di non si partire dalla voglia del Consolo: onde che la Plebe obediente, per forza ricuperò il Campidoglio. Ma essendo in tale espu-gnazione morto Publio Valerio consolo, subito fu rifatto consolo Tito Quinzio; il quale per non lasciare riposare la Plebe, nè darle spazio a ripensare alla legge Terentilla, le comandò s’ uscissi di Roma per andare contra a’ Volsci, dicendo che per quel giuramento aveva fatto di non abbandonare il Consolo, era obbligata a seguirlo: a che i Tribuni si opponevano, dicendo come quel giuramento s’era dato al Consolo morto, e non a lui. Nondimeno L. mostra, come la Plebe per paura della religione volle più presto obedire al Consolo, che credere a’ Tribuni; dicendo in favore della antica religione queste parole: Nondum htiDPj quce nunc tenet sceculum, negligcntict Dcùm venerai , nec interpretando sibi quisque jasjurandum et legcs aplas■ a La *faciebal. Per la qual cosa dubitando i Tribuni di non perdere allora tutta la lor degnila, si accordarono col Consolo di stare alla obedienza di quello; e che per uno anno non si ragionasse della legge Terentilla, ed i Consoli per uno anno non potessero trarre fuori la Plebe alla guerra. E cosi la religione fece al Senato vincere quella diffìcultà, che senza essa mai non arebbe vinto. XIV. I Romani interpretavano gli auspicii secondo la necessità , con la prudenza mostravano di osservare la religione j quando forzali non V osservavano ; c se alcuno (emwariamente la dispregiava , lo punivano. Non solamente gli auguri!, come di sopra si è discorso, erano il fondamento in buona parte dell'antica religione de’ Gentili, ma ancora erano quelli che erano cagione del bene essere della Repubblica romana. Donde i Romani ne uvevano più cura che di alcuno altro ordine di quella; ed usavangli ne’ comizi consolari, nel principiare le imprese, nel trai* fuori gli eserciti, nel fare le giornate, ed in ogni azione loro importante, o civile o militare; nè maisarebbono iti ad una espedizionc, che non avessino persuaso ai soldati che gli Dei promettevano loro la vittoria. Ed infra gli altri nuspicii, avevano negli eserciti certi ordini di aruspici, che e’ chiamavano Pollarii: e qualunque volta eglino ordinavano di fare la giornata col nemico, volevano che i Pollarii fucessino i loro auspicii; e beccando i polli, combattevano con buono augurio: non beccando, si astenevano dalla zuffa. Nondimeno, quando la ragione mostrava loro una cosa doversi fare, non ostante che gli auspicii fossero avversi, la facevano in ogni modo; ma rivoltavanla con termini e modi tanto attamente, che non paresse che la fucessino con dispregio dello religione : il quale termine fu usato da Papirio consolo in una zuffa clic fece importantissima coi Sanniti, dopo la quale restorno in lutto deboli ed afflitti. Perchè sendo Papirio in su’ campi rincontro ai Sanniti, e parendogli avere nella zuffa la vittoria certa, e volendo per questo fare la giornata, comandò ai Pollarii che fucessino i loro auspicii; ma non beccando i polli, e veggendo il principe de’ Pollarii la gran disposizione dello esercito di -combattere, e la oppinione che era nei capitano cd in tutti i soldati di vincere, per non torre occasione di bene operare a quello esercito, riferi al Consolo come gli auspicii procedevano bene: talché Papirio ordinando le squadre, ed essendo da alcuni de' Pollarii detto a certi soldati, i polli non aver beccato, quelli lo dissono a Spurio Papirio nipote del Consolo; e quello riferendolo al Consolo, rispose subito, eh’ egli attendesse a fare l’oflìzto suo bene, e che quanto a lui ed allo esercito gli auspicii erano rolli; e se il Pollarlo aveva detto le bugie, ritornerebbono in pregiudicio suo. E perchè lo effetto corrispondesse al pronostico, comandò ni legati clic constituìssino i Pollarii nella primo fronte della zuffa. Onde nacque che, andando contra ai nemici, sendo da un soldato romano tratto uno dardo, a caso ammazzò il principe de’ Pollarii; la qual cosa udita il Console, disse come ogni cosa procedeva bene, e col favore degli Dii; perchè lo esercito con la morte di quel bugiardo si era purgato da ogni colpa, e da ogni ira che quelli avessino preso contra di lui. E cosi, col sapere bene accomodare t disegni suoi agli auspicii, prese partito di azzuffarsi, senza clic quello esercito si avvedesse che in alcuna parte quello avesse negletti gli ordini della loro religione. Al contrario fece APPIO Pillerò in Sicilia, nella prima guerra punica: che volendo azzuffarsi con P esercito cartaginese, fece fare gli auspicii a’ Pollarii; e referendogli quelli, come i polli non beccavano, disse : veggiamo se volessero bere ; e gli fece giUare in mare. Donde che, azzuffandosi, perdette la giornata : di che egli ne fu a Roma condennato, e Papirio onorato; non tanto per aver V uno vinto e P altro perduto, quanto per aver 1’ uno fatto contra agli auspicii prudentemente e l’altro temerariamente. Nè ad altro line tendeva questo modo dello aruspicare, che di fare i soldati confidentemente ire alla zuffa ; dalla quale confidenza quasi sempre uasce la vittoria. La qual cosa fu non solamente usala dai Romani, ma dalli esterni : di che mi pare di addurre uno esempio nel seguente capitolo. XV. Come i Sanniti, per estremo rimedio alle cose loro afflitte, ricorsono alla religione. Avendo i Sanniti avute più rotte dai Romani, ed essendo stati per ultimo distrutti in Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro capitani ; ed essendo stali vinti i loro compagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri ; ncc suis, nec extcrnis viribus jam slare polcrant : t amen bello non abstinebantj adeo ne infeliciler quidem defensae libcrtatis tcedcbalj et vinci > quarti non tentare victorianij malebant. Onde deliberarono far ultima prova: e perché ei sapevano che a voler vincere era necessario indurre ostinazione negli animi de’ soldati, c che a indurla non v’ era miglior mezzo che la religione; pensarono di ripetere uno antico loro sacrifìcio, mediante Ovio Faccio, loro sacerdote. Il quale ordinarono in questa forma : che, fatto il sacrificio solenne, e fatto intra le vittime morte e gli altari accesi giurare lutti i capi dello esercito, di non abbandonare mai la zuffa, citarono i soldati ad uno ad uno ; ed intra quelli altari, nel mezzo di più centurionicon le spade nude in mano, gli face-vano prima giurare che non ridirebbono cosa che vedessino o sentissino; dipoi,con parole esecrabili e versi pieni di spa-vento, gli facevano giurare e promettereagli Dii, d’essere presti dove gli impe-radori gli comandassino, c di non si fug-gire mai dalla zuffa, e d’ ammazzarequalunque vedessino che si fuggisse: laqual cosa non osservata, tornasse soprail capo della sua famiglia e della sustirpe. Ed essendo sbigottiti alcuni diloro, non volendo giurare, subito da’ lorocenturioni erano morti; talché gli altriche succedevano poi, impauriti dalla fe-rocità dello spettacolo, giurarono tutti.E per fare questo loro assembramentopiù magnifico, sendo quarantamila uo-mini, ne vestirono la metà di pannibianchi, con creste e pennacchi sopra lecelate ; e così ordinati si posero pressoad Aquilonia. Contra a costoro vennePapirio; il quale, nel confortare i suoisoldati, disse: Non enim crislas vulnerafacere, et pietà alque aurata scuta tran-sirc ttomanum pileum. E per debilitarela oppinione clic avevano i suoi soldatide’ nemici per i) giuramento. preso, disseche quello era per essere loro a timore,non a fortezza; perchè in quel medesi-mo tempo avevano uvere paura de’ cit-tadini, degli Dii, c de* nemici. E venutial conflitto, furono superati i Sanniti;perchè la virtù romana, ed il timoreconccputo per le passate rotte, superòqualunque ostinazione ei potessino averepresa per virtù della religione e per ilgiuramento preso. Nondimeno si vedecome a lóro non parve potere avere al-tro rifugio, nè tentare altro rimedio apoter pigliare speranza di ricuperare laperduta virtù. Il che testifica appieno,quanta confidcnzia si possa avere me-diante la religione bene usata. E benchéquesta parte piuttosto, per avventura, sirichiederebbe esser posta intra le coseestrinseche ; nondimeno, dependendo dauno ordine de’ più importanti dellaRepubblica di Roma, mi è parso dacommetterlo in questo luogo, per nondividere questa materia, cd averci aritornare più volte.Gap. XVI. — Un popolo uso a vìveresotto un principe, se per qualche ac-cidente diventa libero, con difficultàmantiene la libertà.Quanta difficultà sia ad uno popolouso a vivere sotto un principe, preser-vare dipoi la libertà, se per alcuno ac-cidente l’acquista, come l’acquistò Ro-ma dopo la cacciala de’Tarquini; iodimostrano infiniti esempi che si leggononelle memorie delle antiche istorie. Etale difficultà è ragionevole; perchè quelpopolo è non altrimenti che uno ani-male bruto, il quale, ancora che di fe-roce natura e silvestre, sia stato nu-drito sempre in carcere ed in servitù,che dipoi lasciato a sorte in una cam-pagna libero, non essendo uso a pa-scersi, nè sappiendo le latebre dove siabbia a rifuggire, diventa preda delprimo che cerca rincatenarlo. Questo me-desimo interviene ad uno popolo, il qualesetido uso a vivere sotto i governi d’al-tri, non snppiendo ragionare nè delledifese o offese pubbliche, non cogno-scendo i principi nè essendo conosciutoila loro, ritorna presto sotto un giogo,il quale il più delle volte è più graveche quello che per poco innanzi si avevalevato d’ in su ’1 collo : e trovasi in que-ste difficullà, ancora che la materia nonsia in tutto corrotta; perchè in unopopolo dove in lutto è entrata la corru-zione, non può, non che picciol tempo,ma punto vivere libero, come di sotto sidiscorrerà: e però i ragionamenti no-stri sono di quelli popoli dove la corru-zione non sia ampliata assai, c dove siapiù del buono che del guasto. Aggiun-gesi alla soprascritta, un’ altra difficultò;la quale è, che lo Stato che diventa li-bero, si fa partigiani nemici, e nonpartigiani amici. Partigiani nemici glidiventano tutti coloro che dello Stalo ti-nodei dìscorsi Tannico si prevalevano, pascendosi dellericchezze del principe; a’ quali sendotolta la facoltà del valersi, non possovivere contenti, e sono forzati ciascunodi tentare di riassumere la tirannide,per ritornare nell’ autorità loro. Non siacquista, come ho detto, partigiani ami-ci ; perchè il vivere libero propone onorie premii, mediami alcune oneste e de-. terminate cagioni, e fuori di quelle nonpremia nè onora alcuno; e quando unoha quelli onori e quelli utili che gli paremeritare, non confessa avere obbligo concoloro che lo rimunerano. Oltre a que-sto, quella comune utilità che del viverelibero si trae, non è da alcuno, mentreche ella si possiede, conosciuta: la qualeè di potere godere liberamente le cosesue senza alcuno sospetto, non dubitaredell’onore delle donne, di quel de’ fi-gliuoli, non temere di sè; perchè nis-suno confesserà mai aver obbligo conuno che non 1’ offenda. Però, come disopra si dice, viene ad avere lo Statolibero c che «li nuovo surge, partigianinon partigiani amici. E vonemicilendo rimediare a questi inconvenienti,c a quegli disordini che le soprascrittediflìculta si arrecherebbono seco, non ciè più potente rimedio, nè più valido, nèpiù sano, nè più necessario, che am-mazzare i figliuoli di Bruto: i quali,come l’istoria mostra, non furono in-dotti, insieme con altri gioveni romani,n congiurare contra alla patria per al-tro, se non perchè non si potevano va-lere straordinariamente sotto i Consoli,come sotto i Re; in modo che la libertàdi quel popolo pareva che fusse diven-tata la loro servitù. E chi prende a go-vernare una moltitudine, o per via„dilibertà o per via di principato, e non si assicura di coloro che a quell’ ordine nuovo sono nemici, fa uno Stato di poca vita. Vero è ch’io giudico infelici quelli principi, che per assicurare lo Stato loro hanno a tenere vie straordinarie, avendo per. nemici la moltitudine: perchè quello che ha per nemici i pochi, facilmente e senza molti scandali, si assicura; ma chi ha per nemico 1’ universale, non si assicura mai; e quanta più crudeltà usa, tanto diventa più debole il suo principalo. Talché il maggior rimedio che si abbia, è cercare di farsi il popolo amico. E benché questo discorso sia disformo dal soprascritto, parlando qui d’ un principe e quivi d’ una repubblica ; nondimeno, per non avere a tornare più in su questa materia, ne voglio parlare bre-vemente. Volendo, pertanto, un principe guadagnarsi un popolo che gli fusse nemico, parlando di quelli principi che sono diventati della loro patria tiranni ; dico eh’ ci debbe esaminare prima quello che il popolo desidera, e troverà sempre ch’ei desidera due cose; Y una vendicarsi contro a coloro che sono cagione che sia servo; l’altra di riavere la sua libertà. Al primo desiderio il principe può satisfare in tutto, al secondo in parte. Quanto al primo, ce n’ è lo csempio appunto. Clearco, tiranno di Eraelea, scudo in esilio, occorse che, per controversia venuta intra il popolo e gli ottimati di Eraclea, veggendosi gli ottimati inferiori, si volsono a favorire Clearco, c congiuratisi seco lo missono, contea alla disposizione popolare, in Eraclea, c toisono la libertà al popolo. In modo che, trovandosi Clearco intra la insolenzia degli ottimati, i quali non poteva in alcun modo nè contentare nè correggere, c la rabbia de’ popolari, che non potevano sopportare lo avere perduta la libertà, deliberò ad un tratto liberarsi dal fastidio de’ grondi, c guadagnarsi il popolo. E presa sopra questo conveniente occasione, tagliò a pezzi tutti gli ottimali, con una estrema satisfazione de’ popolari. E così egli per questa via satisfece ad una delle voglie che hanno i popoli, cioè di vendicarsi. Ma quanto all’altro popolare desiderio di riavere la sua libertà, non potendo il principe satisfargli, debbe esaminare quali cagioni sono quelle che gli fanno desiderare d’essere liberi; e troverà che una piccola parte di loro desidera d’essere libera per comandare; ma tutti gli altri, che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere securi. Perchè in tutte le repubbliche, in qualunque modo ordinate, ai gradi del comandare non aggiungono mai quaranta o cinquanta cittadini: e perchè questo è piccolo numero, è facil cosa assicurarsene, o con levargli via* o con far lor parte di tanti onori, che secondo le condizioni loro essi abbino in buona parte a contentarsi. Quelli altri, ai quali basta vivere securi, si satisfanno facilmente, facendo ordini e leggi, dove insieme con la potenza sua si comprenda la sicurtà universale. E quando uno principe faccia questo, e che il popolo vegga che per accidente nessuno ei non rompa tali leggi, comincerà in breve tempo a vivere sccuro e contento. In esempio ci è il regno di Francia, il quale non vive securo per altro, che per essersi quelli Re obbligati ad infinite leggi, nelle quali si comprende la securtn di tutti i suoi popoli. E chi ordinò quello Stato, volle che quelli Re, dell’ arme e del danaio facessino a loro modo, ma che d’ogni altra cosa non ne potessino altrimenti disporre che le leggi si ordinassino. Quello principe, adunque, o quella repubblica che non si assicura nel principio dello stato suo, conviene che si assicuri nella prima occasione, come fecero i Romani. Chi lascia passare quella, si pente tardi di non aver fatto quello che doveva fare. Sendo, pertanto, il popolo romano ancora non corrotto quando ci recuperò la libertà, potette mantenerla, morti i figliuoli di BRUTO e spenti i Tarquini, con tutti quelli rimedi ed ordini che altra volta si sono discorsi. Ma se fussc stato quel popolo corrotto, nè in Roma nè altrove si trovano rimedi validi a mantenerla; come nel seguente capitolo mostreremo. XVII. Uno popolo coitoIIo , venuto in libertà, si può con difficullà ( grandissima mantenere libera. lo giudico che gli era necessario, o die i Re si estinguessino in Roma, o che Roma in brevissimo tempo divenissi debole, e di nessuno valore: perchè, considerando a quanta corruzione erano venuti quelli Re, se l'ussero seguitati così due o tre successioni, e che quella corruzione che era in loro, si fossi cominciata a distendere per le membra; come le membra fussino state corrotte, era impossibile mai più riformarla. Ma perdendo il capo quando il busto era intero, poterono facilmente ridursi a vivere liberi cd ordinati. E debbesi presupporre per cosa verissima, che una città corrotta che vive sotto un principe, ancora che quel principe con tutta la sua stirpe si spenga, inai non si può ridurre libera; anzi conviene che Putì principe spenga l’ allro; e senza creazione d’un nuovo signore non si posa mai, se già la bontà d’ uno, insieme con la virtù, non la tenessi libera ; ma durerà tanto quella libertà, quanto durerà la vita di quello: come intervenne a Siracusa di Dione e di Timoleone, la virtù de’ quali in diversi tempi, mentre vissero, tenne libera quella città; morti clic furono, si ritornò nell'antica tirannide. Ma non si vede il più forte esempio che quello di Roma; la quale cacciati i Tarquini, potette subito prendere e mantenere quella libertà: ma morto Cesare, morto Caligula, morto Nerone, spenta tutta la stirpe cesarea, non potette inai, non solamente mantenere, ma pure dare principio alla libertà. Nè tanta diversità di evento in una medesima città nacqueda altro, se non da non essere ne’ tempi de’Tarquini il popolo romano ancora corrotto; ed in questi ultimi tempi essere corrottissimo. Perchè allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i Re, bastò solo furio giurare che non eon sentirebbe mai che a Roma alcuno regnasse; e negli altri tempi, non bastò T autorità e severità di BRUTO, con tutte le legioni orientali, a tenerlo disposto a volere mantenersi quella libertà che esso, a similitudine del primo BRUTO, gli aveva rendutu. Il che nacque da quella corruzione che le parli mariane avevano messa nel popolo; delle quali essendo capo Cesare potette accecare quella moltitudine, eh* ella non conobbe il giogo che da sè medesima si metteva in sul collo. E benché questo esempio di Roma sia da preporre a qualunque altro esempio, nondimeno voglio a questo proposito addurre innanzi popoli conosciuti ne* nostri tempi. Pertanto dico, che nessuno accidente, benché grave e violento, potrebbe redurre mai Milano o Napoli libere, per essere quelle membra tutte corrotte. H che si vide dopo la morte di VISCONTI; che volendosi ridurre Milano alia libertà, non potette e non seppe mantenerla. Però, fu felicità grande quella di Koma, che questi Re diventassero corrotti presto, acciò ne fussino cacciati, cd innanzi che la loro corruzione fosse passata nelle viscere di quella città: la quale incorruzione fu cagione che gl’ infiniti tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini il fine buono, non nocerouo, anzi giovarono alla Repubblica. E si può fare questa conclusione, che dove la materia non è corrotta, i tumulti cd altri scandali non nuòcono: dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano, se già le non son mosse da uno che con una estrema forza le facci osservare, tanto che la materia diventi buona. Il che non so se sie mai intervenuto, o se fusse possibile ch’egli intervenisse: perchè c’ si vede, come poco di sopra dissi, che una città venuta in declinazione per corruzione di materia, se mai occorre che la si levi, occorre per la virtù d’ uno uomo eh’ è vivo allora, non per la virtù dello universale clic sostengo gli ordini buoni ; c subito che quei tale è morto, la si ritorna nei suo pristino abito; come intervenne a Tebe, la quale per la virtù di Epaminonda, mentre lui visse, potette tenere forma di repubblica e di imperio ; ma morto quello, la si ritornò ne’ primi disordini suoi. La cagione è, che non può essere un uomo di tanta vita, che ’l tempo basti ad avvezzare bene una città lungo tempo male avvezza. E se unod’ una lunghissima vita, o due successioni virtuose conlinove non la dispongono; come una manca di loro, come di sopra è detto, subito rovina, se già con molti pericoli c molto sangue c’ non la facesse rinascere. Perchè tale corruzione e poca attitudine olla vita libera, nasce da una inequulità che è in quella città: e volendola ridurre equale, è necessario usare grandissimi estraordinari; i quali pochi sanno o vogliono usare, come in altro luogo più particolarmente si dirà. XVIII. — In che modo «ci.c; mi corrotte si potesse mantenere tino stalo liòerOj essendovi; o non essendovi , ordinartelo. Io credo clic non sia fuori di proposito, nè disformo dal soprascritto discorso, considerare se in una città corrotta si può mantenere lo stato libero, scndovi ; o quando e’ non vi fosse, se vi si può ordinare. Sopra la qual cosa dico, come gli è mollo difficile fare o l’uno o l' altro: e benché sia quasi impossibile darne regola, perchè sarebbe necessario procedere secondo i gradi della corruzione; nondimnneo, essendo bene ragionare d’ogni cosa, non voglio lasciare questa indietro. E presuppongo una città corrottissima, donde verrò ad accrescere più tale difficoltà; perché non si trovano nè leggi nè ordini che bastino a frenare una universale corruzione. Perchè, così come gli buoni costumf, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; cosi le leggi, per osservarsi, hanno bisogno de’ buoni costumi. Oltre di questo, gli ordini e le leggi fatte in una repubblica nel nascimento suo, quando erano gli uomini buoni, non sono dipoi più a proposito, divenuti che sono tristi. E se le leggi secondo gli accidenti in una città variano, non variano mai, 0 rade volte, gli ordini suoi: il che fa che le nuove leggi non bastano, perchè gli ordini, che stanno saldi, le corrompono. E per dare ad intendere meglio questa parte, dico come in Roma era l’ordine del governo, o vero dello Stato; c le leggi dipoi, che con i magistrati frenavano i cittadini. L’ordine dello Stato era l’ autorità del Popolo, del Senato, dei Tribuni, dei Consoli, il modo di chiedere e del creare i magistrati, ed il modo di fare le leggi. Questi ordini poco o nulla variarono nelii accidenti. Variarono le leggi che frenavano 1 cittadini; come fu la legge degli adulferi!, la suntuaria, quella della ambizione, e molte altre ; secondo clic di mano in mano i cittadini diventavano corrotti. Ma lenendo fermi gli ordini dello Stato, che nella corruzione non erano più buoni, quelle leggi che si rinnovavano, non bastavano a mantenere gli uomini buoni; ma sarebbonn bene giovate, se con la innovazione delle leggi si fussero rimutati gli ordini. G che sia il vero che tali ordini nella- città corrotta non fossero buoni, e’ si vede espresso in due capi principali. Quanto al creare i magistrati e le leggi, non dava il Popolo romano il consolato, e gli altri primi gradi della città, se non a quelli che lo dimandavano. Questo ordine fu nel principio buono, perchè e’ non gli domandavano se non quelli cittadini che se ne giudicavano degni, ed averne la repulsa era ignominioso; si che, per esserne giudicati degni, ciascuno operava bene. Diventò questo modo, poi, nella città corrotta perniziosissiiuo ; perchè non quelli che avevano più virtù, ma quelli che avevano più potenza, domandavano i magistrali; e gl’ impotenti, comecché virtuosi, se ne astenevano di domandargli per paura. Vcnnesi a questo inconveniente, non ad un tratto, ma per i mezzi, come si cade in tutti gli altri iuconveiiienti : perchè avendo i Romani domata l’Affrica e l’Asia, e ridotta quasi tutta la Grecia a sua ohidienza, erano divenuti sicuri della libertà loro, nè pareva loro avere più nimici che dovessero fare loro paura. Questa securtà e questa debolezza de’ nemici fece che il Popolo romano, nel dare il consolato, non riguardava più la virtù, ma la grazia ; tirando a quel grado quelli che meglio sapevano iutrattenere gli uomini, non quelli che sapevano meglio vincere i nemici: di poi, da quelli che avevano più grazia, discesero a dargli a quelli che avevano più potenza;talché i buoni, per difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno Tribuno, e qualunque altro cittadino, proporre al Popolo una legge; sopra la quale ogni cittadino poteva parlare, o in favore o incontro, innanzi che la si deliberasse. Era questo ordine buono, quando i cittadini erano buoni ; per- che sempre fu bene, che ciascuno clic intende uno bene per il pubblico, lo possa proporre; ed è bene che ciascuno sopra quello possa dire l’oppinione sua, acciocché il Popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo, perchè solo i potenti proponevano leggi, non per la comune libertà, ina perla potenza loro;ccontra a quelle non poteva parlare alcuno per paura di quelli : talché il Popolo veniva o ingannato o sforzato a deliberare la sua rovina. Ero necessario, pertanto, a volere che Roma nella corruzione si mantenesse libera, che, cosi come aveva nel processo del vivere suo fatte nuove leggi, l’avesse fatti nuovi ordini: per-«thè altri ordini e modi di vivere si debbe ordinare in un soggetto cattivo, che in un buono ; nè può essere la forma simile in una materia al tutto contraria. Ma perchè questi ordini, o e’ si hanno a rinnovare tutti ad un tratto, scoperti che sono non esser più buoni, o a poco a poco, in prima che si conoschiuo per ciascuno ; dico che 1* una e l’altra di queste due cose è quasi impossibile. Perchè, a volergli rinnovare a poco a poco, conviene che ne sia cagione uno prudente, che veggio questo inconveniente assai discosto, e quando e’ nasce. Di questi tali è facilissima cosa che in una città non ne surga mai nessuno : e quando pure ve ne surgesse, non potrebbe persuadere mai ad altrui quello che egli proprio intendesse; perchè gli uomini usi a vivere in un modo, non lo vogliono variare; e tanto più non veggiendo il male in viso, ma avendo ad essere loro mostro per con letture. Quando ad innovare questi ordini ad un (ratio, quando ciascuno conosce clic non sono buoni, dico che questa inutilità, clic facilmente si conosce, è diffìcile a ricorreggerla: perchè a fare questo, non basta usare termini ordinari, essendo i modi ordinari cattivi; ma è necessario venire allo istraordinario, come è alla violenza ed all’ armi, e diventare innanzi ad ogni cosa principe di quella città, e poterne disporre a suo modo. E perchè il riordinare una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, ed il diventare per violenza principe di una repubblica presuppone un uomo cattivo; per questo si troverà che radis- sime volte accaggia, che uno uomo buono voglia diventare principe per vie cattive, ancoraché il fine suo fusse buono; e che uno reo divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nell’animo usare quella autorità bene, che egli ha male acquistata. Da tutte le soprascritte cose nasce la diffìcultà, o impossibilità, che è nelle città corrotte, a mantenervi una repubblica, o a crearvela di nuovo. E quando pure la vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario ridurla più verso lo stato regio, che verso lo stato popolare; acciocché quelli uomini i quali dalle leggi, per la loro insolenzia, non possono essere corretti, lusserò da una podestà quasi regia in qualche modo frenati. Ed a volergli fare per altra via diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa, o al tutto impossibile; come io dissi di sopra che fece Cleomene; il quale se, per essere solo, ammazzò gli Efori; e se ROMOLO, per le medesime cagioni, AMMAZZO IL FRATELLO E TITO TAZIO SABINO, e dipoi usarono bene quella loro autorità ; nondimeno si debbe avvertire che V uno e T altro di costoro non avevano il soggetto di quella corruzione macchiato della quale in questo capitolo ragioniamo, e però poterono volere e, volendo, colorire il disegno loro. XIX. Dopo uno eccellente principio si può mantenere un principe debole ; ma dopo un debole, non si può con un (diro debole mantenere alcun regno. Considerato la virtù ed il modo del procedere di ROMOLO, NUMA e TULIO, I PRIMI TRE RE ROMANI, si vede come Roma sortì una FORTUNA GRANDISSIMA, AVENDO IL PRIMO RE FEROCISSIMO E BELLICOSO, 1’ altro quieto e religioso, il terzo simile di ferocia a Romolo, e più amatore della guerra che della pace. Perchè in Roma era necessario che surgesse ne’ primi principii suoi un ordinatore «lei vivere civile, ina era bene poi necessario che gli altri Re ripigliassero LA VIRTU DI ROMOLO; ALTRIMENTI QUELLA CITTA SAREBBE DIVENTATA EFFEMINATA, e preda de’ suoi vicini. Donde si può notare, che uno successore non di tanta virtù quanto il primo, può mantenere uno Stato per la virtù di colui che PImretto innanzi, e si può godere te sue fatiche: ma s’ egli avviene o che sia di lunga vita, o che dopo lui non surga un altro che ripigli la virtù di quel primo, è necessitato quel regno a rovinare. Cosi, per il contrario, se due, 1* uno dopo P altro, sono di gran virtù, si vede spess che fanno cose grandissime, e che ne vanno con la fama in fino al cielo. Davit, senza dubbio, fu un uomo per arme, per dottrina, per giudizio eccellentissimo; e fu tanta la sua virtù, che, avendo vinti ed abbattuti tutti i suoi vicini, lasciò a Salomone suo figliuolo un regno pacifico: quale egli si potette con le arti «Iella pace, e non della guerra, conservare; e si potette godere felicemente la virtù di suo padre. Ma non potette già lasciarlo a Roboan suo figliuolo; il quale non essendo per virtù simile allo avolo, nè per fortuna simile al padre, rimase con fatica erede della sesta parte del rt'guo. Baisit, sultan de’ Turchi, ancora die fusse più amatore della pace che della guerra, potette godersi le fatiche di Maumelto suo padre; il quale avendo, come Davit, battuti i suoi vicini, gli lasciò un regno fermo, e da poterlo con F arte della pace facilmente conservare. Ma se il figliuolo suo Salì, presente signore, fusse stalo simile al padre, c non all’avolo, quel regno rovinava : ma e’ si vede costui essere per superare la gloria dell'avolo. Dico pertanto con questi esempi, clic dopo uno eccellente principe si può mantenere un principe debole; ma dopo un debole non si può con un altro debole mantenere alcun regno, se già e’ non fusse come quello di Francia, che gli ordini suoi antichi lo mantenessero: e quelli principi sono deboli, che non stanno in su la guerra. Couchiudo pertanto con questo discorso, clic LA VIRTU DI ROMOLO E TANTA che la potette dare spazio a Numa Pompilio di potere molti anni con 1’ arte della pace reggere Roma : ma dopo lui successe Tulio, il quale pei* la sua ferocia riprese la reputazione di ROMOLO: dopo il quale venne Anco, in modo dalla natura dotato, che poteva usare la pace, e sopportare la guerra. E prima si dirizzò a volere tenere la via della pace: ma subito conobbe come i vicini, giudicandolo effeminato, lo stimavano poco: talmente che pensò che, a voler mantenere Roma, bisognava volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e non Numa. Da questo piglino esempio tutti i principi che tengono stato, che chi somiglierà Numa, lo terrà o non terrà, secondo ehe i tempi o la fortuna gli girerà sotto: ma chi somiglierà Romolo, e lui come esso armato di prudenza e d’armi, lo terrà in ogni modo, se da una ostinata ed eccessiva forza non gli è tolto. K certamente si può stimare, che se Roma sortiva per terzo suo Re un uomo che non sapesse con le armi renderle la sua reputazione, non arebbe mai poi, o con grandissima dilTìcultà, potuto pigliare piede, nè fare quelli effetti ch’ella fece. E così, in mentre eh’ ella visse sotto i Re, la portò questi pericoli di rovinare sotto un Re o debole o tristo. Due continove successioni di principi virtuosi fanno grandi effetti: c come le repubbliche bene ordinate hanno di necessità virtuose successioni: c però gli acquisti ctl auQumcnli loro sono grandi. Poi che Roma ebbe cacciati i Re, mancò di quelli pericoli i quali di sopradetti che la portava, succedendo in lei uno Re o debole o tristo. Perchè la somma dello imperio si ridusse nc’ Consoli, i quali non per eredità o per inganni o per ambizione violenta, ma per suffragi liberi venivano a quello imperio, ed erano sempre uomini eccellentissimi: de’quali godendosi Roma la virtù e la fortuna di tempo in tempo, potette venire a quella sua ultima grandezza in altrettanti unni, che la era stata sotto i Re. Perchè si vede, come due coutinove successioni di principi virtuosi sono suffìzienti ad acquistare il mondo: come furono Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno, il clic tanto più debbe fare una repubblica, avendo il modo dello eleggere non solamente due successioni, ma infiniti principi virtuosissimi, che sono l’uno dell'altro successori: la quale virtuosa successione fia sempre in ogni repubblica bene ordinata. Quanto biasimo meriti quel principe e quella repubblica che manca d'armi proprie. Debbono i presenti principi c le moderne repubbliche, le quali circa le difese ed offese mancano di soldati propri, vergognarsi di loro medesime j e pensare, con lo esempio di Tulio, tale difetto essere non per mancamento d’uomini alti alla milizia, ma per colpa loro, che non hanno saputo fare i loro uomini militari. Perchè Tulio, scudo stata Roma in pace quaranta anni, non trovò, succedendo lui nel regno, uomo che fussc stato mai alla guerra : nondimeno, disegnando lui fare guerra, non pensò di valersi nè di Sanniti, nè di Toscani, nè di altri che fussero consueti stare nell'armi; ma deliberò, come uomo prudentissimo, di valersi de’ suoi. E fu tanta la sua virtù, che in un tratto il suo governo gli potè fare soldati eccellentissimi. Ed è più vero che alcuna altra verità, che se dove sono uomini non sono soldati, nasce per difetto del principe, e non per altro difetto o di sito o di natura : di che ce n’*è uno esempio freschissimo. Perchè ognuno sa, come ne’ prossimi tempi il re d’Inghilterra assaltò il regno di Francia, nè prese altri soldati clic i popoli suoi ; e per essere stato quel regno più clic trenta anni senza far guerra, non aveva nè soldato nè capitano che avesse mai militato: nondimeno, ei non dubitò con quelli assaltare uno regno pieno di capitani e di buoni eserciti, i quali erano stati continovamcnte sotto l'armi nelle guerre d’Italia. Tutto nacque da essere quel re prudente uomo, e quel regno bene ordinato; il quale nel tempo della pace non intermette gli ordini della guerra. Pelopida ed Epaminonda tebani, poiché gli ebbero libera Tebe, e trattola dalla servitù dello imperio spartano; trovandosi in una città usa a servire, ed in mezzo di popoli effeminati ; non dubitarono, tanta era la virtù loro ! di ridurgli sotto Parrai, e con quelli andare a trovare alla campagna gli eserciti spartani, e vincergli : e chi he scrive, dice come questi due in breve tempo mostrarono, che non solamente in bacedemonia nascevano gli uomini di guerra, ma in ogni altra parte dove nascessino uomini, pur che si trovasse chi li sapesse indirizzare alla milizia, come si vede che Tulio seppe indirizzare i Romani. E VIRGILIO non potrebbe meglio esprimere questa oppinione, nè con altre parole mostrare di aderirsi a quella, dove dice: u ... . Desidesque movebit Tullus in arma viros. Quello che sia da notare nel caso dei tre Orazi romani , e dei Tulio, re di Roma, e Mezio, re di Alba, convennero che quel popolo fusse signore dell’ altro, di cui i soprascritti tre uomini vincessero. Furono MORTI TUTTI I CURIAZI albani, restò vivo uno degli Orazi romani; e per questo, restò Mezio, re albaiio, con il suo popolo, suggello ai Romani. E tornando quello ORAZIO VINCITORI IN ROMA e scontrando una sua sorella, che era ad uno de’ tre Curiazi morti maritata, clic PIANGEVA LA MORTE DEL MARITO, L’AMMAZZO. Donde quello Orazio per questo fallo fu messo' in giudizio, e dopo molte dispute fu libero, più per li prìeglii del padre, clic per li suoi meriti. Dove sono da notare Ire cose: una, che mai non si debbe con parte delle sue forze arrischiare tutta la sua fortuna ; l’ altra, che non mai in una città bene ordinata li devmeriti con li ineriti si ricompensano; la terza, che non mai sono i partiti savi, dove si debba o possa dubitare della inosservanza. Perchè, gl’ importa tanto a una città lo essere serva, che mai non si doveva credere che alcuno di quelli Re o di quelli Popoli stessero contenti che tre loro cittadini gli avessino sotto* messi ; come si vide che volle fare Mezio: il quale, benché subito dopo la vittoria de’ Romani si confessassi vinto, e promettessi la obedienza a Tulio; nondimeno nella prima espedizione che egli ebbono a convenire contra i Veienli, si vide come ci cercò d’ ingannarlo ; come quello che tardi s’era avveduto della temerità del partito preso da lui. E perchè di questo terzo notabile se n’’è pnr luto assai, parleremo solo degli altri due ne’ seguenti duoi capitoli. Che non si debbe mettere a pericolo tutta la fortuna e non tutte le forze ; c per questo j spesso il guardare i passi è dannoso. Non fu mai giudicato partito savio mettere a pericolo tutta la fortuna tua, e non tutte le forze. Questo si fu in più modi. L’uno è facendo come Tulio e Mezio, quando e’ commissouo la fortuna tutta della patria loro, e la virtù di tanti uomini quanti avea l’uno e l’altro di costoro negli eserciti suoi, alla virtù e fortuna di tre de’loro cittadini, clic veniva ad essere una minima parte delle forze di ciascuno di loro. Nè si avvidono, come per questo partito tutta la fatica che avevano durata i loro antecessori nell’ ordinare la repubblica, per farla vivere lungamente libera e per fare i suoi cittadini difensori della loro libertà, era quasi che suta vana, stando nella potenza di sì pochi a perderla. La qual cosa da quelli Re non potè esser peggio considerata. Cadesi ancora in questo incon- veniente quasi sempre per coloro, che, venendo il nemico, disegnano di tenere i luoghi diffìcili, e guardare i passi: perchè quasi sempre questa deliberazione sarà dannosa, se giù in quello luogo diffìcile comodamente tu non potessi tenere tutte le forze tue. In questo casotuie partito è da prendere; ma scndo il luogo aspro, e non vi potendo tenere tutte le forze tue, il partito è dannoso. Questo mi fa giudicare cosi lo esempio di coloro che, essendo assaltati da un nemico potente, ed essendo il paese loro circondato da’ monti e luoghi alpestri, noti hanno mai tentato di combattere il nemico in su’ passi e in su’ monti, ma sono iti ad incontrarlo di là da essi: o, quando non hanno voluto far questo, lo hanno aspettato dentro a essi monti, in luoghi benigni e non alpestri. E la cugioite ne è suta la preallegata : perchè, non si polendo condurre alla guardia de’ luoghi alpestri molli uomini, sì per non vi potere vivere lungo tempo, si per essere i luoghi stretti e capaci di pochi; non è possibile sostenere un nemico clic venga grosso ad urtarti: ed al nemico è facile il venire grosso, perchè la intenzione sua è passare, e non fermarsi; ed a chi l’ aspetta è impossibile aspettarlo grosso, avendo ad alloggiarsi per più tempo, non sapendo quando il nemico voglia passare in luoghi, com’ io ho detto, stretti e sterili. Perdendo, adunque, quel passo che tu ti avevi presupposto tenere, e nel quale i tuoi popoli e lo esercito tuo confidava, entra il più delle volte ne’ popoli e nel residuo delle genti tue tanto terrore, che senza potere esperimentare la virtù di esse, rimani perdente; c così vieni ad avere perduta tutta la tua fortuna con parte delle tue forze. Ciascuno sa con quanta diftìcultà Annibaie passasse r Alpi che dividono la Lombardia dalia Francia, e con quanta difficoltà passasse quelle che dividono la Lombardia dalla Toscana : nondimeno i Romani l’aspettarono prima in sul Tesino, e dipoi uel piano d’Arezzo; e vollon più tosto, che il loro esercito fusse consumato dal nemico nelli luoghi dove poteva vincere, che condurlo su per l’Alpi ad esser destrutto dalla malignità del sito. E chi leggerà sensatamente tutte le istorie, troverà pochissimi virtuosi capitani over tentato di tenere simili passi, e per le ragioni dette, e perchè e' non si possono chiudere tutti; sendo i monti come campagne, ed avendo non solamente le vie consuete e frequentate, ma molte altre, le quali se non sono note a’ forestieri, sono note a’ paesani ; con l’aiuto de’quali sempre sarai condotto in qualunque luogo, contra alla voglia di citi ti si oppone. Di che se ne può addurre uno freschissimo esempio, nel T 51 5 . Quando Francesco re di Francia disegnava passare in Italia per lu recuperatone dello Stalo di Lombardia, il maggiore fondamento clic facevano coloro eli’ erano alla sua impresa contrari, era che gli Svizzeri lo terrebbono a’ passi in su’ monti. E, come per esperienza poi si vide, quel loro fondamento restò vano: perché, lasciato quel re da parte due o tre luoghi guardati da loro, se ne venne per un’ altra via incognita ; e fu prima in Italia, e loro appresso, che lo avessino presentilo. Talché loro isbigottiti si ritirarono in Milano, e tutti i popoli di Lombardia si aderiron alle genti franciose; sendo mancali di quella oppinione avevano, che i Franciosi dovessino essere tenuti su’ monti. Le repubbliche bene ordinate costituiscono premii c pene aJ loro cittadini; ne compensano mai r uno con l* altro. Erano stati I MERITI D’ORAZIO GRANDISSIMI, avendo con la sua virtù VINTI I CURIAZIl. Era stato il fallo suo atroce, avendo MORTO LA SORELLA: nondimeno dispiacque tanto tale omicidio ai Romani, che io condussero a disputare della vita, non ostante che gli meriti suoi fossero tanto grandi c sì freschi. La qual cosa a chi superficialmente la considerasse, parrebbe uno esempio d’ ingratitudine popolare: nondimeno chi la esaminerà meglio, e con migliore considerazione ricercherà quali debbono essere gli ordini delle repubbliche, biasimerà quel popolo più tosto per averlo assoluto, che per averlo voluto condeunare. E la ragione è questa, che nessuna repubblica bene ordinata, non mai cancellò i demeriti con gli meriti de’ suoi cittadini; ma avendo ordinati i preraii ad una buona opera e le pene ad una cattiva, ed avendo premiato uno per aver bene operato, se quel medesimo opera dipoi male, lo gastica, senza avere riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando questi ordini sono bene osservati, una città vive libera molto tempo; altrimenti, sempre rovinerà presto. Perchè, se ad un cittadino che abbia fatto qualche egregia opera per la città, si aggiugne, oltre alla riputazione che quella cosa gli arreca, una audacia e confidenza di potere, senza temer pena, fare qualche opera non buona ; diventerà in brievc tempo tanto insolente, che si risolverà ogni civilità. È ben necessario, volendo clic sia temuta la pena per le triste opere, osservare i premii per le buone; come si vede che fece Roma. C benché una repubblica sia povera, e possa dare poco, debbe di quel poco non astenersi; perchè sempre ogni piccolo dono, dato ad alcuno per ricompenso di bene ancora che grande, sarà stimato, da chi lo riceve, onorevole e grandissimo. È notissima la istoria di ORAZIO CODE e quella di MUZIO SCEVOLA: come V uno sostenne i nemici sopra un ponte, tanto che si tagliasse: l’altro si arse la mano, avendo errato, volendo ammazzare Porscna, re delli Toscani. A costoro per queste due opere tanto egregie, fu donato dal pubblico due staiora di terra per ciascuno. È nota ancora la istoria di MANLIO Capitolino. A costui, per aver salvato il Campidoglio da' Galli che vi erano a campo, fu dato da quelli che insieme eon lui vi erano assediati dentro, una piccola misura di farina, il quale premio, secondo la fortuna che allora correva in Roma, fu grande; e di qualità che, mosso poi Manlio, o da invidia o dalla sua cattiva natura, a far nascere sedizione in Roma, e cercando guadagnarsi il popolo, fu, senza rispetto alcuno de’ suoi meriti, gittato precipite da quello Campidoglio ch’egli prima, cou tanta sua gloria, aveva salvo. Chi vuole riformare uno stalo antico in una città libera, ritenga almeno l’ombra desmodi antichi. Colui che desidera o clic vuole riformare uno stato d’una città, a volere elle sia accetto, e poterlo con satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere l’ombra almanco de’ modi antichi, acciò che a’ popoli non paia avere mutato ordine, ancora che in fatto gli ordini nuovi fussero al tutto alieni dai passati; perchè lo universale degli uomini si pasce così di quel che pare, come di quello che è; anzi molte volte si muovono più per le cose che paiono, che per quelle clic sono. Per questa cagione i Romani, conoscendo nel principio del loro vivere libero questa necessità, avendo in cambio d’ un Re creali duoi Consoli, non vollono ch’egli avessino più clic dodici littori, per non passare il numero di quelli che ministravano ai Re. Olirà di questo, facendosi in Roma uno sacrifizio anniversario, il quale non poteva esser fatto se non dalla persona del Re; e volendo i Romani che quel popolo non avesse a desiderare per la assenzia degli Re alcuna cosa dell’ antiche j, creorono un capo di detto sacrifìcio, il quale loro chiamorono Re Sacrifìcolo, e lo sottomessono al sommo Sacerdote : talmentechè quel popolo per questa via venne a satisfarsi di quel sacrifizio, e non avere mai cagione, per mancamento di esso, di desiderare la tornata dei Re. E questo si debbe osservare da tutti coloro che vogliono scancellare uno antico vivere in una città, e ridurla ad uno vivere nuovo c libero. Perchè alterando le cose nuove le menti degli uomini, ti debbi ingegnare che quelle alterazioni ritenghino più del-r antico sia possibile; e se i magistrati variano e di numero e d'autorità e di tempo dagli antichi, che almeno ritengliino il nome. E questo, come ho detto, debbe osservare colui che vuole ordinare una potenza assoluta, o per via di repubblica o di regno: ma quello che vuol fare una potestà assoluta, quale dagli autori è chiamala tirannide, debbe rinnovare ogni cosa, come nel seguente capitolo si dirò. Un principe nuovo , in i ima città o provincia presa da lui , 1 debbe fare ogni cosa nuova. Qualunque diventa principe o d’ unacittà o d’uno Stato, e tanto più quando i fondamenti suoi lussino deboli, c non si volga o per via di regno o di repubblica alla vita civile; il mcgliore rimedio che egli abbia a tenere quel principato, è, sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa di nuovo in quello Stalo: come è, nelle città fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi uomini; fare i poveri ricchi, fece Davil quando ei diventò Re: qui csuricnles implevil bonis, et divites dimirti inanes ; edificare oltra di questo nuove città, disfare delie fatte, cambiare gli abitatori da un luogo ad un altro; ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta in quella provincia, e che non vi sia nè grado, nè ordine, nè stato, uè ricchezza, che chi la tiene non la riconosca da te; c pigliare per sua mira Filippo di Macedonia, padre di Alessandro, il quale con questi modi, di piccolo Re, diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice che tramutava gl uomini di provincia in provincia, come i mandriani tramutano le mandrie loro. Sono questi modi crudelissimi, e nemici d’ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunche uomo fuggire, c volere piuttosto vivere privato, che Re con tanta rovina degli uomini : nondimeno, colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere, convien die entri in questo male. >la gli uomini pigliano certe vie del mezzo, clic sono dannosissime; perchè non sanno essere nè tutti buoni nè tutti cattivi: come ne seguente capitolo, per esempio, si mostrerà. Sanno rarissime volle gli uomini essere al lutto tristi o al fulto buoni. Papa Giulio secondo, andando na Bologna per cacciare di quello Stato la casa de’Bentivogli, la quale aveva tenuto il principato di quella città cento anni, voleva ancora trarre Giovampagoto Buglioni di Perugia, della quale era tiranno, come quello che aveva congiurato contro a tutti gli tiranni che occupavano le terre della Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo animo e deliberazione nota a ciascuno, non aspettò di entrare in quella città con lo esercito suo che lo guardasse, mn % entrò disarmato, non ostante vi fusse dentro Giovampagolo con genti assai, quali per difesa di sè aveva ragunate. Sicché, portato da quel furore con il quale governava tutte le cose, con la semplice sua guardia si rimesse nelle mani del nemico ; il quale dipoi ne menò seco, lasciando un governadore in quella citta, che rendesse ragione per la Chiesa. Fu notala dagli uomini prudenti che col papa erano, la temerità del papa e la viltà di Giovampagolo ; uè potevano stimare donde si venisse che quello noti avesse, con sua perpetua fama, oppresso ad un tratto il nemico suo, e sè arricchito di preda, sendo col papa tutti li cardinali, con tutte le lor delizie. Nè si poteva credere si fusse astenuto o per bontà, o per conscienza che lo ritenesse; perchè in un petto d’ un uomo facinoroso, che si teneva la sorella, che aveva morti i cugini cd i nepoti per regnare, non poteva scendere alcuno pietoso rispetto: ina si conchiuse, che gli uomini no sanno essere onorevolmente tristi, o perfettamente buoni; e come una tristizia ha in sè grandezza, o è in alcuna parte generosa, eglino non vi sanno entrare. Cosi Giovampagolo, il quale non stimava essere incesto e pubblico parricida, non seppe, o, a dir meglio, non ardì, avendon giusta occasione, fare una impresa, dove ciascuno avesse ammirato l’animo suo, e avesse di sè lasciato memoria eterna; sendo il primo che avesse dimostro ai prelati, quanto sia da stimar poco chi vive c regna come loro; ed avesse fatto una cosa, la cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni pericolo, clic da quella potesse depeudere. Per qual cagione i Romani furono meno ingrati agli loro cittadini che gli Ateniesi. Qualunque legge le cose fatte dalle repubbliche, troverà in tutte qualche spezie di ingratitudine contro a’ suoi citladini; ma ne troverà meno in Roma che in Atene> e per avventura in qualunque altra repubblica. E ricercando la cagione di questo, parlando di Roma c di Atene, credo accadesse perchè i Romani avevano meno cagione di sospettare de’ suoi cittadini, che gli Ateniesi. Perchè a Roma, ragionando di lei dalla cacciata dei Re intino a Siila e Mario, non fu mai tolta la libertà da alcuno .suo cittadino: in modo che in lei non era grande cagione di sospettare di loro, e, per conseguente, di offendergli inconsideratamente. intervenne bene ad Atene il contrario: perché, sendole tolta la libertà da Pisistrato nel suo più florido tempo, e sotto uno inganno di bontà ; come prima la diventò poi libera, ricordandosi delle ingiurie ricevute e della passata servitù, diventò acerrima vendicatrice non solamente degli errori, ma delP ombra degli errori de' suoi cittadini. Di qui nacque l’esilio e la morte di tanti eccellenti uomini; di qui Pordine dello ostracismo, ed ogni altra violenza che contra i suoi ottimati in vari tempi da quella città fu fatta. Ed è verissimo quello che dicono questi scrit- tori della civiltà: che i popoli mordono più fieramente poi ch’egli hanno recuperala la libertà, che poi che l’hanno conservala. Chi considerrà adunque, quanto è detto, non biasimerà in questo Atene, nè lauderà Roma; ma ne accuserà solo la necessità, per la diversità degli accidenti che in queste città nacquero. Perchè si vedrà, chi considererà le cose sottilmente, che se a Roma fusse siila tolta la libertà come a Atene, non sarebbe stata Roma più pia verso i suoi cittadini, che si fusse quella. Di che si può fare verissima conieltura per quello che occorse, dopo la cacciata dei Re, contra a Collatino ed a Publio Valerio: de’ quali il primo, ancora elicsi trovasse a liberare Roma, E MANDATO IN ESILIO NON PER ALTRA CAGIONE CHE PER TENERE IL NOME DE’ TARQUINI; P altro, avendo sol «lato di sè sospetto per edificare una casa in sul monte Celio, fu ancora per essere fatto esule. Talché si può stimare, veduto quanto Roma fu in questi due sospettosa e severa, che Farebbe usata la ingratitudine come Atene, se da’suoi cittadini, come quella ne’ primi tempi ed innanzi allo augumento suo, fosse stata ingiuriata. G per non avere a tornare più sopra questa materia della ingratitudine, ne dirò quello ne occorrerà nel seguente capitolo. Quale sia più ingrato , o un popolo j o un principe. Egli mi pare, a proposito della soprascritta materia, da discorrere quale usi con maggiori esempi questa ingratitudine, 0 un popolo, o un principe. E per disputare meglio questa parte, dico, come questo vizio della ingratitudine nasce o dalla avarizia, o dal sospetto. Perchè, quando o un popolo o un priacipe ha mandato fuori un suo capitano in una cspedizione importante, dove quel capitano, vincendola, ne abbia acquistata assai gloria ; quel principe o quel popolo è tenuto allo incontro a premiarlo: e se, in cambio di premio, o ei lo disonora o ei T offende, mosso dalla avarizia, non volendo, ritenuto da questa cupidità, satisfarli; fa uno errore che non ha scusa, anzi si tira dietro una infamia eterna. Pure si trovano molti principi che ci peccano. E Cornelio TACITO dice, con questa sentenzia, la cagione: Proclivius est inj ur ite, quarti beneficio vicem cxsolvcre, quia grafia oneri, ultio in questu fiabe tur. Ma quando ei non lo premia, o, a dir meglio, l’offende, non mosso da avarizia, ma da sospetto; allora merita, e il popolo e il principe, qualche scusa. E di queste ingratitudini usate per tal cagione, se ne legge assai : perchè quello capitano il quale virtuosamente ha acquistato uno imperio al suo signore, superando i ne-mici, e riempiendo sè di gloria e gli suoi soldati di ricchezze; di necessità, e con i soldati suoi, e con i nemici, e coi sudditi propri di quel principe acquista tanta reputazione, che quella vittoria non può sapere di buono a quel signore che lo ha mandato. G perchè la natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa, e non sa porre modo a ntssuna sua fortuna, è impossibile che quel sospetto che subito nasce nel principe dopo la vittoria di quel suo capitano, non sia da quel medesimo accresciuto per qualche suo modo o termine usato insolentemente. Talché il principe non può peusare ad altro che assicurarsene; e per fare questo, pensa o di farlo morire, o di torgli la reputazione che egli si ha guadagnala nel suo esercito e ne’ suoi popoli: e con ogni industria mostrare che quella vittoria è nata non per la virtù di quello, ma per fortuna, o per viltà dei nemici, o per prudenza degli altri capitani clic sono stati seco in tale l’azione. Poiché Vespasiano, sendo in Giudea fu dichiarato dal suo esercito imperadore ; Antonio Primo, che si trovava con un altro esercito in llliria, prese le parti sue, e ne venne in Italia contea a Vitellio il quale regnava a Roma, e virluosissimamente ruppe due eserciti Vitelliani, c occupò Roma ; talché Muziano, mandato da Vespasiano, trovò per la virtù d’Antonio acquistato • il tutto, e vinta ogni di ffìcultà. 11 premio che Autonio ne riportò, fu che Muziano gli tolse subito la ubidienza dello esercito, e a poco a poco io ridusse in Roma senza alcuna autorità: talché Antonio ne andò a trovare Vespasiano, il quale era ancora in Asia; dal quale fu in modo ricevuto, che, in breve tempo, ridotto in nessun grado, quasi disperato morì. E di questi esempi ne sono piene le istorie. Ne’ nostri tempi, ciascuno che al presente vive, sa con quanta industria e virtù Consalvo Ferrante, militando nel regno di Napoli contra a’ Franciosi per Ferrando Re di Ragona, conquistasse e vincesse quel regno; e come, per pre- mio di vittoria, ne riportò che Ferrando si parti da Ragona, e, venuto a Napoli, in prima gli levò la obedienza delle genti d’ arme, c dipoi gli tolse le fortezze, ed appresso lo menò seco in Spagna; dove poco tempo poi, inonorato, mori. È tanto, dunque, naturale questo sospetto ne’ principi, che non se ne possono difendere; ed è impossibile ch’egli usino gratitudine a quelli che con vittoria hanno fatto sotto le insegne loro grandi acquisti. E da quello che non si difende un principe, non è miracolo, nè cosa degna di maggior considerazione, s.e un popolo non se ne difende. Perchè, avendo una città che vive libera, duoi fini, V uno lo acquistare, l’altro il mantenersi libera ; conviene che nell’ una cosa e nell’ altra per troppo amore erri. Quanto agli errori nello acquistare, se ne dirà nel luogo suo. Quanto agli errori per mantenersi libera, sono, intra gli altri, questi: di offendere quei cittadini elicla doverrebbe premiare; aver sospetto di quelli in cui si doverrebbe confidare. E benché questi modi in una repubblica venuta alla corruzione siano cagione di grandi mali, c che molle volte piuttosto la viene alla tirannide, come intervenne a Roma di Cesare, che per forza si tolse quello che la ingratitudine gli negava; nondimeno in una repubblica non corrotta sono cagione di gran beni, e fanno che la ne vi\e libera più, mantenendosi per paura ili punizione gli uomini migliori, e meno ambiziosi. Vero è che infra tutti i popoli che mai ebbero imperio, per le cagioni di sopra discorse, Roma fu la meno ingrata : perchè della sua ingratitudine si può dire che non ci sia altro esempio che quello di Scipione; perchè Coriolano c Cammillo fumo fatti esuli per ingiuria che l’uno e l’altro aveva fatto alla Plebe. Ma all’ uno non fu perdonato, per aversi sempre riserbato contea al Popolo l’animo nemico; Paiteo non solamente fu richiamato, ma per tutto il tempo della sua vita adorato come principe. Ma la ingratitudine usata a Scipione, nacque da un sospetto che i cittadini cominciorno avere di lui, che degli altri non s’era avuto: il quale nacque dalla grandezza del nemico che Scipione aveva vinto; dalla reputazione che gli aveva data la vittoria di sì lunga e pericolosa guerra; dalla celerità di essa ; dai favori che la gioventù, la prudenza, e le altre sue memorabili virtuti gli acquistavano. Le quali cose furono tante, che, non che altro, i magistrati di Roma temevano della sua autorità: la qual cosa spiaceva agli uomini savi, come cosa inconsueta in Roma. E parve tanto straordinario il vivere suo, che CATONE PRISCO, riputato santo, fu IL PRIMO a fargli contra ; e a dire che una città non si poteva chiamare libera, dove era un cittadino che fusse temuto dai magistrati. Talché, se il popolo di Roma 1 seguì in questo caso L’OPINIONE DI CATONE, merita quella scusa che di sopra ho detto meritare quelli popoli e quelli principi che per sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque questo discorso, dico, che usandosi questo vizio della ingratitudine o per avarizia o per sospetto, si vedrà come i popoli non mai per T avarizia la usorno, e per sospetto assai i manco che i principi, avendo meno cagione di sospettare: come di sotto si dirà. Quali modi debbo usare un principe o una repubblica per fuggire questo vizio della ingratitudine : c quali quel capitano o quel cittadino per non essere oppresso da quella. Un principe, per fuggire questa necessità di avere a vivere con sospetto, o esser ingrato, debbe personalmente andare nelle espedizioni; come facevano nel principio quelli imperadori romani, come fu ne’ tempi nostri il Turco, c come hanno fatto e fanno quelli che sono virtuosi. Perchè, vincendo, la gloria e lo acquisto è tutto loro; e quando non vi sono, sendo la gloria d’altrui, non pare loro potere usare quello acquisto, s’ ei non spengono in altrui quella gloria che loro non hanno saputo guadagnarsi, e diventare ingrati ed ingiusti : e senza dubbio, è maggiore la loro perdita, che il guadagno. Ma quando, o per negligenza o per poca prudenza, e’ si rimangono a casa oziosi, c mandano un capitano; io non ho che precetto dar loro altro, che quello che per lor medesimi si sanno. .Ma dico bene a quel capitano, giudicando io che non possa fuggire i morsi della ingratitudine, che faccia una delle due cose: o subito dopo la vittoria lasci lo esercito c rimettasi nelle mani del suo principe, guardandosi da ogni atto insolente o ambizioso; acciocché quello, spogliato d’ogni sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di non lo offendere : o, quando questo non gli paia di fare, prenda animosamente la parte contraria, e tenga tutti quelli modi per li quali creda che quello acquisto sia suo proprio e non del principe suo, facendosi benivoli i soldati ed i sudditi; e faccia nuove amicizie coi vicini, occupi con li suoi uomini le fortezze, corrompa i principi del suo esercito, e di quelli che non può corrompere si. assicuri; e per questi modi cerchi di punire il suo signore di quella ingratitudine che esso gli userebbe. Altre vie non ci sono: ma, come di sopra si disse, gli uomini non sanno essere nè al tutto tristi, nè al tutto buoni: e sempre interviene che, subito dopo la vittoria, lasciare lo esercito non vogliono, portarsi modestamente non possono, usare termini violenti e che abbino in sè Tonorevole, non sanno; talché, stando ambigui, intra quella loro dimora ed ambiguità, sono oppressi. Quanto ad una repubblica, volendo fuggire questo vizi dello ingrato, non si può dare il medesimo rimedio che al principe; cioè che vadia, e non mandi, nelle cspedizioni sue, sendo necessitate a mandare un suo cittadino. Conviene, pertanto, che pei*rimedio io le dia, che la tenga i medesimi modi che tenne la repubblica romana, ad esser meno ingrata che l’altre: il che nacque dai modi del suo governo. Perchè, adoperandosi tutta la città, e gli nobili e gli ignobili, nella guerra, surgeva sempre in Roma in ogni età tanti uomini virtuosi, ed ornati di varie vittorie, che il popolo non avea cagione di dubitare di alcuno di loro, sendo assai, c guardando P uuo Patirò. E in tanto si mantenevano interi, e respettivi di non dare, ombra di alcuna ambizione, uè cagione al popolo, come ambiziosi, d* offendergli ; che venendo alla dittatura, quello maggior gloria ne riportava, che più tosto la deponeva. E cosi, non potendo simili modi generare sospetto, non generavano ingratitudine. In modo che, una repubblica che nott voglia avere cagione d’essere ingrata, si debbo governare come Roma ; c uno cittadino che voglia fuggire quelli suoi morsi, debbc osservare i termini osservati dai cittadini romani. Che » capitani romani per errore commesso ?io« furono mai istraordinariamcnlc puniti; nè furono mai ancora puniti quando, per la ignoranza loro o tristi partiti presi da loro, ne fissino seguiti danni alla repubblica. 1 Romani, non solamente, come di sopra avemo discorso, furono manco ingrati die V altre repubbliche, ma furono ancora più pii e più respctlivi nella punizione de’ loro capitani degli eserciti, che alcune altre. Perchè, se il loro errore fussc stato per malizia, e’ lo gastigavano umanamente; se gli era per ignoranza, non che lo punissino, e’ lo premiavano ed onoravauo. Questo modo del procedere era bene considerato da -loro: perchè e' giudicavano che fusse di tanta importanza a quelli che governavano gli eserciti loro, lo avere l’animo libero ed espedito, e senza altri estrinsechi rispetti nel pigliare i parliti, che non volevano aggiugnere ad una cosa per sè stessa difficile e pericolosa, nuove difficultà c pericoli ; pensando che aggiugttendovcli, nessuno potesse essere che operasse mai virtuosamente. Verbigrazia, e’ mandavano uno esercito in Grecia contra a Filippo di Macedonia, o in Italia contra ad Annibale, o contro a quelli popoli che vinsono prima. Era questo cupitano clic era preposto a tale espedizione, angustiato da tutte quelle cure che si arrecavano dietro quelle faccende, le quali sono gravi e importantissime. Ora, se a tali cure si fus»sino aggiunti più esempi di Romani ch’eglino avessino crucifissi o altrimenti morti quelli che avessino perdute le giornale, egli era impossibile che quello capitano intra tanti sospetti potesse deliberare strenuamente. Però, giudicando essi che a questi tali fusse assai pena la ignominia dello avere perduto, non gli vollono con altra maggior pena sbigottire. Uno esempio ci è, quanto allo errore commesso non per ignoranza. Erono Sergio e Virginio a campo a Veio, ciascuno preposti ad una parte dello esercito; de’ quali Sergio era all’incontro donde potevano venire i Toscani, c Virginio dall’ altra parte. Occorse che sendo assaltato Sergio dai Falisci e da altri popoli, sopportò d’ essere rotto c fugato prima che mandare per aiuto a Virginio. E dall’altra parte, Virginio aspettando che si umiliasse, volle piuttosto vedere, il disonore della patria sua, e la rovina di quello esercito, clic soccorrerlo. Caso veramente esemplare e tristo, c da fare non buona coniettura della Repubblica romana, se 1’ uno c l’altro non fusscro stati gasligali. Vero è che, dove un’altra repubblica gli a r ebbe puniti di pena capitale, quella gli punì in danari. II che nacque non perchè i peccali loro non meritassino maggior punizione, ma perchè -gli Romani voiiono in questo caso, per le ragioni già dette, mantenere gli antichi costumi loro. E quanto agii errori per ignoranza, non ci è il più bello esempio che quello di VARRRONE (si veda): per la temerità del quale sendo rotti i Romani a Canne da Annibaie, dove quella Repubblica portò pericolo della sua libertà; nondimeno, perchè vi fu ignoranza e non malizia, non solamente non lo gastigorno ma lo onororno, e gli andò incontro nella tornata sua in Roma tutto l’Ordine senatorio; e non lo potendo ringraziare della zuffa, Io ringraziarono eh’ egli era tornato in Roma, c non si era disperato delle cose romane. Quando Papirio Cursore volevu fare morire Fabio, per avere contea al suo comandamento combattuto coi Sanniti; intra le altre ragioni che dal patire di Fabio erano assegnale conira alla ostinazione del Dittatore, era che il Popolo romano in alcuna perdita de’ suoi Capitani non aveva fatto mai quello che Papirio nella vittoria voleva fare. XXXII. Una repubblica o uno principe non e sia conira ad una consuetudine antica della città , è scandalosissimo. Egli è sentenza degli antichi scrittori, come gli uomini sogliono affliggersi nel male c stuccarsi nel benej e come dul1’ una e dall* altra di queste due passioni nascono i medesimi effetti. Perchè, qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per ambizione: la quale è tanto potente ne’ petti umani, che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La cagione è, perchè la natura ha creati gli uomini in modo, che possono desiderare ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa : talché, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca satisfazionc di esso. Da questo nasce il variare della fortuna loro: perchè desiderando gli uomini, parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie ed alla guerra ; dalla quale nasce la rovina di quella provincia, e la esaltazione di quel1’ altra. Questo discorso ho fatto perchè alla Plebe romana non bastò assicurarsi de’ Nobili per la creazione de’ Tribuni, al quale desiderio fu constretta per necessità ; che lei subito, ottenuto quello, cominciò a combattere per ambizione, e volere con la Nobiltà dividere gli onori e le sustanze, come cosa stimata più dagli uomini. Da questo nacque il morbo che partorì la contenzione della legge agraria, ed in (ine fu causa della distruzione della Repubblica romana. E perchè le repubbliche bene ordinate hanno a tenere ricco il pubblico, e li loro cittadini poveri ; convenne che fusse nella città di Roma difetto in questa legge: la quale o non fusse fatta nel principio in modo che la non si avesse ogni di a ritrattare; o che la si differisse tanto in farla, che fusse scandotoso il riguardarsi indietro; o sendo ordinata bene da prima, era stata poi dall’ uso corrotta; talché, in qualunque modo si fusse, mai non si parlò di questa legge in Roma, che quella città non andasse sottosopra. Aveva questa legge duoi capi principali. Ter l’ uno si disponeva clic non si potesse possedere per alcun cittadino più che tanti iugeri di terra; per V altro, che i campi di che si privavano i nimici, si dividessino intra il popolo romano. Veniva pertanto a fare di duoi sorte offese ai Nobili: perchè quelli che possedevano più beni non permetteva la legge (quali erano la maggior parte de’ Nobili), ne avevano ad esser privi ; e dividendosi intra la Plebe i beni de’ nimici, si toglieva a quelli la via dello arricchire. Sicché, venendo ad essere queste offese contra ad uomini potenti, e che pareva loro, contrastandola, difendere il pubblico; qualunque volta, com’ è detto, si ricordava, andava sottosopra quella città : ed i Nobili con pazienza ed industria la temporeggiavano, o con trac fuora un esercito, o che a quel Tribuno che la proponeva si opponesse uno altro Tribuno; o talvolta cederne parte; ovvero mandare una colonia in quel luogo che si avesse a distribuire: come intervenne del contado di Anzio, per il quale surgendo questa disputa della legge, si mandò in quel luogo una colonia traila di Roma, alla quale si consegnasse detto contado. Dove L. usa un termine notabile, dicendo clic con ditTìcultà si trovò in Roma eli i desse il nome per ire in detta colonia: tanto era quella Plebe più pronta a volere desiderare le cose in Homa, che a possederle in Anzio ! Andò questo umore di questa legge così travagliandosi un tempo, tanto che i Romani cominciarono a condurre le loro armi nelle estreme parti di Italia, o fuori di Italia; dopo al qual tempo parve che la restasse. Il che nacque perchè i campi che possedevano i nimici di Roma essendo discosti dagli occhi della Plebe, cd in luogo dove non gli era facile il coltivargli, veniva meno ad esserne desiderosa: ed ancora i Romani erano meno punitori tic’ loro nemici in siinil modo; e quando pure spogliavano alcuna terra del suo contado, vi distribuivano colonia. Tanto che per tali cagioni questa legge stette come addormentata inOno a’ Gracchi: da’ quali essendo poi svegliata, rovinò al tutto la libertà romana; perchè la trovò raddoppiata la potenza de’ suoi avversari, e si accese per questo tante odio intra la Plebe ed il Senato, che si venne all’ armi ed al sangue, fuor d’ogni modo e costume civile. Talché, non potendo i pubblici magistrati rimediarvi, nè sperando più alcuna delle fazioni in quelli, si ricorse a’ rimedi privati, e ciascuna delle parti pensò di farsi uno capo che la difendesse. Pervenne in questo scandalo e disordine la Plebe, e volse la sua riputazione a Mario, tanto che la lo fece quattro volte Consolo; ed in tanto continuò con pochi intervalli il suo consolato, che si potette per sè stesso far Consolo tre altre volte. Contra alla qual peste non avendo la Nobiltà alcuno rimedio, si volse a favorir Siila; e fatto quello capo della parte sua, vennero alle guerre civili * e dopo molto sangue e variar di fortuna, rimase superiore la Nobiltà. Risuscitorono poi questi umori a tempo di Cesare c di Pompeo; perchè, fattosi Cesare capo della parte di Mario, c Pompeo di quella di Siila, venendo alle mani rimase supcriore GIULIO CESARE: IL QUALE E IL PRIMO TIRANNO IN ROMA, TALCHE MAI E POI LIBERA QUELLA CITTA. Tale, adunque, principio e fine ebbe la legge agraria. E benché noi mostrassimo altrove, come le inimicizie di Roma intra il Senato c la Plebe mantenessero libera Roma, per nascerne da quelle leggi in favore della libertà ; e per questo paia disforme a tale conclusione il fine di questa legge agraria ; dico come, per questo, io non mi rimuovo da tale oppinionc: perchè egli è tanta P ambizione de’ grandi, che se per varie vie ed in vari modi la non ò in una città sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe condotta, per avventura, molto più tosto iti servitù, quando la Plebe, e con questa legge c con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato la ambizione de’ Nobili. Vedasi per questo ancora, quanto gli uomini stimano più la roba che gli onori. Perchè la Nobiltà romana sempre negli onori eedè senza scandali istraordinari alla Plebe; ma come si venne alla roba, fu tanta la ostinazione sua nel difenderla, che la Plebe ricorse, per Sfo-gare 1’ appetito suo, a quelli istraordinari che di sopra si discorrono. Del quale disordine furono motori i Gracchi; de’ quali si dcbbe laudare più la intenzione che la prudenza. Perchè, a voler levar via uno disordine cresciuto in una repubblica, e per questo fare una legge che riguardi assai indietro, è partito male considerato; e, come di sopra largamente si discorse, non si fa altro che accelerare quel male a che quel disordine ti conduce : ma temporeggiandolo, o il male viene più tardo, o per sè medesimo col tempo, avanti che venga al fine suo, si spegne. XXXVIII. — Le repubbliche deboli sono male risolute , e non si sanno deliberare ; c se le pigliano mai alcuno partito j nasce più da necessità che da elezione. Essendo in Roma una gravissima pestilenza, e parendo per questo agli Volaci ed agli Equi che fusse venuto il tempo di potere oppressar Roma; fatti questi due popoli uno grossissimo esercito, assalirono gli Latini e gli Ernici, e guastando il loro paese, furono constretti gli Latini c gli Ernici farlo intendere a Roma, c pregare che fussero difesi da' Romani: ai quali, sendo i Romani gravati dal morbo, risposero che pigliassero partito di difendersi da loro medesimi e con le loro armi, perchè essi non li potevano difendere. Dove si conosce la generosità e prudenza di quel Senato, e come sempre in ogni fortuna volle essere quello che fusse principe delle deliberazioni che avessero a pigliare i suoi; nè si vergognò mai deliberare una cosa che fusse contraria al suo modo di vivere o ad altre deliberazioni fatte da lui, quando la necessità gliene comandava. Questo dico perchè altre volte il medesimo Senato aveva vietato ai detti popoli l’armarsi e difendersi ; talché ad uno Senato meno prudente di questo, sarebbe parso cadere del grado suo a concedere loro tale difensione. Ma quello sempre giudicò le cose come si debbono giudicare, e sempre prese il meno reo partilo per migliore; perchè male gli sapeva non potere difendere i suoi sudditi; male gli sapeva che si armassino senza loro, per le ragioni dette, e per molte altre che si intendono: nondimeno, conoscendo che si sarebbono armati, per necessità, a ogni modo, avendo il nimico addosso; prese la parte onorevole, e volle che quello clic gli avevano a fare, lo facessino con licenzia sua, acciocché avendo disubbidito per necessità, non si avvezzassino a disubbidire per elezione. E benché questo paia partito che da ciascuna repubblica dovesse esser preso; nientedimeno le repubbliche deboli e male consigliate non gli sanno pigliare, nè si sanno onorare di simili necessità. Aveva il duca Valentino presa Faenza, e fatto calare Bologna agli accordi suoi. Dipoi, volendosene tornare a Roma per la Toscana, mandò in Firenze uno suo uomo a domandare il passo per sé e per il suo esercito. Consultossi in Firenze come si avesse a governare questa cosa, nè fu mai consigliato per alcuno di concedergliene. In che non si seguì il modo romano: perchè, sendo il Duca armatissimo, ed i Fiorentini in modo disarmati che non gli potevano vietare il passare, era molto piu onore loro, che paresse che passasse con permissione di quelli, che a forza; perchè, dove vi fu al tutto il loro vituperio, sarebbe stato in parie minore quando I* avessero governata altrimenti. Ma la più cattiva parte che abbino le repubbliche deboli, è essere irresolute; in modo che lutti i partili che le pigliano, gli pigliano per forza; e se vieti loro fatto alcuno bene, lo fanno forzato, c non per prudenza loro. Io voglio dare di questo duoi altri esempi, occorsi ne* tempi nostri nello stato della nostra città, nel mille cinquecento. Ripreso che il re Luigi XII di Francia ebbe Milauo, desideroso di rendergli Pisa, per aver cinquanta mila ducati che gli erano stati promessi da’ Fiorentini dopo tale restituzione, mandò gli suoi eserciti verso Pisa, capitanati da monsignor Beaumonte; benché francese, nondiraanco uomo in cui i Fiorentini assai confidavano. Condussesi questo esercito e questo capitano intra Cascina e Pisa, per andare a combattere le mura; dove dimorando alcuno giorno per ordinarsi alla espugnazione, vennero oratori Pisani a Beaumonte, e gli offerirono di dare la città allo esercito francese con questi patti: che, sotto la fede del re, promettesse non la mettere in mano de’ Fiorentini, prima che dopo quattro mesi. Il qual partito fu dai Fiorentini al tutto rifiutato, in modo che si seguì nello andarvi a campo, e partissene con vergogna. Nè fu rifiutato il partito per altra cagione, che per diffidare dellafede del re; come quelli che per debolezza di consiglio si erano per forza messi nelle mani sue: e dall’altra parte, non se ne fidavano, nè vedevano quanto era meglio che il re potesse rendere loro Pisa sendovi dentro, e non la rendendo scoprire P animo suo, che non la avendo, poterla loro promettere, e loro essere forzati comperare quelle promesse. Talché molto più utilmente arebbono fatto a consentire che Beaumonlc V avesse, sotto qualunque pròmessa, presa: come se ne vide la espcrienza dipoi, die essendosi ribellato Arezzo, venne a’ soccorsi de* Fiorentini mandato dal re di Francia monsignor Imbalt con gente francese; il qual giunto propinquo ad Arezzo, dopo poco tempo cominciò a praticare accordo con gli Aretini, i quali sotto certa fede volevano dare la terra, a similitudine de’ Pisani. Fu rifiutato in Firenze tale partito ; il che veggendo monsignor Imbalt, e parendogli come i Fiorentini se ne inlendessino poco, cominciò a tenere le pratiche dello accordo da se, senza participazione de’ Commessaci : tanto che e’ io conchiuse a suo modo, e sotto quello con le sue genti se ne entrò in Arezzo, facendo intendere a’ Fiorentini come egli erano matti, e non si intendevano delle cose del mondo: che se volevano Arezzo, lo fucessino intendere al re, il quale lo poteva dar loro molto meglio, avendo le sue genti in quella città, che fuori. Non si restava in Firenze di lacerare e biasimare detto Imbalt; nè si restò mai, infino a tanto che si conobbe che se Beaumonte fusse stato simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa come Arezzo. E cosi, per tornare a proposito, le repubbliche irresolute non pigliano mai partiti buoni, se non per forza, perchè la debolezza loro non le lascia mai deliberare dove è alcuno dubbio; e se quel dubbio non è cancellalo da una violenza, che le sospinga, stanno sempre mai sospese. XXXIX. — In diversi popoli si veggono spesso i medesimi accidenti. E’ si conosce facilmente per chi considera le cose presenti e le antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono quelli medesimi desiderii e quelli medesimi umori, e come vi furono sempre : in modo che gli è facil cosa a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni repubblica le future, c farvi quelli rimedi che dagli antichi sono stati usati ; o non ne trovando degli usati, pensarne de’ nuovi, per la similitudine degli accidenti. Ma perchè queste considerazioni sono neglette, o non intese da chi legge ; o se le sono intese, non sono conosciute da chi governa ; ne seguita che sempre sono i medesimi scandali in ogni tempo. Avendo la città di Firenze perduto parte dello imperio suo, come Pisa ed altre terre, fu necessitata a fare guerra* a coloro che le occupavano. E perchè chi le occupava era potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra, senza alcun frutto ; dallo spendere assai ne risultava assai gravezze ; dalle gravezze, infinite querele del popolo ; e perchè questa guerra era amministrata da uno magistrato di dieci cittadini che si chiamavano i Dieci della guerra, 1* universale cominciò a recarselo in dispetto, come quello che fusse cagione della guerra e delle spese di essa; e corniliciò a persuadersi che tolto via detto magistrato, fusse tolto via la guerra : tanto che avendosi a rifare, non se gli fecero gli scambi ; e lasciatosi spirare, si commisero le azioni sue alla Signoria. La qual deliberazione fu tanto perniziosa, che non solamente non levò la guerra, come lo universale si persuadeva ; ma tolto via quelli uomini che con prudenza la amministravano, ne seguì tanto disordine, die, oltre a Pisa, si perde Arezzo e molti altri luoghi: in modo che, ravvedutosi il popolo dello errore suo, e come la cagione del male era la febbre e non il medico, rifece il magistrato de’ Dieci. Questo medesimo umore si levò in Roma conira al nome de’ Consoli : perchè, veggendo quello Popolo nascere 1’ una guerra dall' altra, e non poter mai riposarsi ; dove e' dovevano pensare che la nascesse dalla ambizione de’ vicini che gli volevano opprimere; pensavano nascesse dall’ ambizione dei Nobili, che non potendo dentro in Roma gastigar la Plebe difesa dalla potestà tribunizia, la volevano condurre fuori di Roma sotto i Consoli, per opprimerla dove non aveva aiuto alcuno. E pensarono per questo, che fusse necessario o levar via i Consoli, o regolare in modo la loro potestà, che e* non avessino autorità sopra il popolo, nè fuori nè in casa. 11 primo che tentò questa legge, fu uno Terentillo tribuno ; il quale proponeva che si dovessero creare cinque uomini che dovessino considerare la potenza de* Consoli, e limitarla. II che alterò assai la Nobiltà, parendoli che la maiestà dell’ imperio fusse al tutto declinata, talché alla Nobiltà non restasse più alcuno grado in quella Repubblica. Fu nondimeno tanta la ostinazione dei Tribuni, che il nome consolare si spense ; e furono in fine contenti, dopo qualche altro ordine, piuttosto creare Tribuni con potestà consolare, che i Consoli : tanto avevano più in odio il nome che le autorità loro. E cosi seguitorno lungo tempo, infino che conosciuto io errore loro, còme i Fiorentini ritornorno ai Dieci, così loro ricreorno i Consoli. XL. La creazione del DECEMVIRATO in Roma, e quello che in essa è da notare: dove si considera , intra molte altre cose, come si può salvare per simile accidente, o oppressore una repubblica. Volendo discorrere particolarmente sopra gli accidenti che nacquero in Roma per la creazione del decemvirato, non mi pare soperchio narrare prima tutto quello che segui per simile creazione, e dipoi disputare quelle porti che sono in esse azioni notabili : le quali sono molte, e di grande considerazione, cosi per coloro che vogliono mantenere una repubblica libera, come per quelli che disegnassino sommetterla. Perchè in tale discorso si vedranno molti errori fatti dal Senato e dalla Plebe in disfavore della libertà; e molli errori fatti da APPIO, capo del decemvirato; in disfavore di quella tirannide che egli si aveva pre-supposto stabilire in Roma. Dopo molte deputazioni c contenzioni seguite intra il Popolo e la Nobiltà per fermare nuove leggi in Roma, per le quali e’ si stabilisse più la libertà di quello stato; mandarono, d’ accordo, Spurio Postumio con duoi altri cittadini ad Atene per gli essenti di quelle leggi che Solone dette a quella città, acciocché sopra quelle potessero fondare le leggi romane. Andati e tornati costoro, si venne alla creazione degli uomini eh’ avessino ad esaminare e fermare de.tte leggi; e ercorno dieci cittadini per un anno, tra i quali fu creato APPIO CLAUDIO, il primo filosofo romano, uomo sagace ed inquieto. E perchè e' potessimo senza alcuno rispetto creare tali leggi, si levarono di Roma tutti gli altri magistrati, ed in particolare i Tribuni e i Consoli, e levossi lo appello al Popolo ; in modo che tale magistrato veniva ad essere al tulio principe di Roma. Appresso ad APPIO si ridusse tutta 1’ autorità degli altri suoi compagni, per gli favori clic gli faceva la Plebe : perché egli s’ era fatto in modo popolare con le dimostrazioni, che pareva meraviglia eh’ egli avesse preso sì presto una nuova natura c uno nuovo ingegno, essendo stato tenuto innanzi a questo tempo un crudele persecutore della Plebe. Governaronsi questi Dieci assai civilmente, non tenendo più che dodici littori, i quali andavano davanti a quello ch’era infra loro preposto. E bench’egli avessino 1’ autorità assoluta, nondimeno avendosi a punire un cittadino romano per omicidio, lo citorno nel conspelto del Popolo, e da quello lo fecero giudicare. Scrissero le loro leggi in dicci tavole, ed avanti che le confirmassero, le messono in pubblico, acciocché ciascuno le potesse leggere c disputarle; acciocché si conoscesse se vi era alcuno difetto, per poterle binanti alla confirmazionc loro emendare. Fece, in su questo, Appio nascere un rornorc per Bomn, che se a queste dieci tavole se n’ aggiungcssiuo due altre, si darebbe a quelle la loro perfezione ; talché questa oppinionc dette occasione al Popolo di rifare i Dieci per uno altro anno: a che il Popolo si accordò volentieri; si perchè i Consoli non si rifacessino; sì perchè speravano loro potere stare senza Tribuni, sendo loro giudici delle cause, come di sopra si disse. Preso, adunque, partito di rifargli, tutta la Nobiltà si mosse a cercare questi onori, ed intra i primi era Appio; ed usava tanta umanità verso la Plebe nel domandarla, che la cominciò ad essere sospetta a suoi compagni : credebant cnim liaud gratuitam in lanla superbia comilatcmfore. E dubitando di opporsegli apertamente, diliberarono farlo con arte; e benché e’ fusse minore di tempo di tutti, dettono a lui autorità di proporre i futuri Dieci al popolo, credendo eh* egli osservasse i termini degli altri di non proporre sè medesimo, sendo cosa inusitata e ignominiosa in Roma, Me vero imprdimentum prò occasione arripuit ; e nominò sè intra i primi, con meraviglia e dispiacere di tutti i Nobili: nominò poi nove altri al suo proposito. La qual nuova creazione fatta per uu altro anno, cominciò a mostrare al Popolo cd alla Nobiltà lo error suo. Perchè subito Appio: finem fedi ferenda aliena persona ; e cominciò a mostrare la innata sua superbia, ed in pochi dì riempiè di suoi costumi i suoi compagni. E per Sbigottire il Popolo ed il Senato, in scambio di dodici littori, ne feciono cento venti. Stette la paura eguale qualche giorno ; ma cominciarono poi ad intrattenere il Senato, e battere la Plebe: e s’ alcuno battuto dall* uno, appellava ali’ altro, era peggio trattalo nelP appeltagione che nella prima causa. In modo che la Plebe, conosciuto lo errore suo, cominciò piena di afflizione a riguardare in viso i Nobili; et inde libcrtatis captare a urani , linde servitutem tiinendoj in cum s taluni rempublicam adduxerant. E alla Nobiltà era grata questa loro afflizione, ut ipsij teedio prcesenliunij Consules desiderar ent. Vennero i di clic terminavano l’anno: le due tavole delle leggi erano fatte, ma non pubblicate. Da questo i Dicci presono occasione di continovare nel magistrato, c cominciorono a tenere con violenza lo Stato, e farsi satelliti della gioventù nobile, alla quale davano i beni di quelli che loro condannavano. Quibus donis Juventus coirumpebatur , et malebat liccnliam suoni , i quatn omnium liberlatcm. Nacque in questo tempo, che i Sabini ed i Volsci mossero guerra a’ Romani: in su la qual paura cominciarono i Dieci a vedere la debolezza dello Stato loro; perchè senza il Senato non potevano ordinare la guerra, e ragunando il Senato pareva loro perdere lo Stato. Pure, necessitati, presono questo ultimo partito: e ragunali i Senatori insieme, molti de’ Senatori parlorono contro alla superbia de’Dieci, ed in particolare Valerio ed Orazio : e la autorità loro si sarebbe al tutto spenta, se non che il Senato, per invidia della Plebe, non volle mostrare l’autorità sua, pensando che se i Dieci deponevano il magistrato voluntarii, che potesse essere che i Tribuni della plebe non si rifacessero. Dcliberossi adunque la guerra; uscissi fuori con due eserciti guidati da parte di detti Dieci; APPIO rimase a governare la città. Donde nacque che si innamorò di Virginia, e che volendola torre per forza, il padre VIRGINIO, PER LIBERARLA, L’AMMAZZO: donde seguirono i tumulti di Roma e degli eserciti ; i quali ridottisi insieme con il rimanente della Plebe romana, se ne andarono nel Monte Sacro, dove stettero tanto clic i Dieci deposono il magistrato, e che furono creali i Tribuni ed i Consolide ridotta Roma nella forma della antica sua libertà. Notasi, adunque, per questo testo, in prima esser nato in Roma questo inconveniente di creare questa tirannide, per quelle medesime cagioni che nascono la maggiore parte delie tirannidi nelle città: e questo è da troppo desiderio del popolo d* esser libero, e da troppo desiderio de’ nobili di comandare. E quando c’ non convengono a fare una legge in favore della libertà, ma gettasi qualcuna delle parti a favorire uno, allora è che subito la tirannide surge. Convennono il Popolo ed i Nobili di Poma a creare i Dieci, e crearli con tanta autorità, per desiderio che ciascuna delle parti aveva, 1’ una di spegnere il nome consolare, l’altra il tribunizio. Creati che furono, parendo alla Plebe che Appio fusse diventato popolare c battesse la Nobiltà, si volse il Popolo a favorirlo. E quando un popolo si conduce a far questo errore di dare riputazione ad uno perchè balta quelli che egli ha in odio, e che quello uno sia savio, sempre interverrà che diventerà tiranno di quella città. Perchè egli attenderà, insieme con il favore del popolo, a spegnere la nobiltà ; e non si volterà inai alla oppressione del popolo, se non quando ei V arà spenta; nel qual tempo conosciutosi il popolo essere servo, non abbi dove rifuggire. Questo modo hanno tenuto tutti coloro che hanno fondato tirannidi in le repubbliche: c se questo modo avesse tenuto APPIO, quella sua tironnide arebbe preso più vita, e non sarebbe mancata si presto. Ma ei fece tutto il contrario, nè si potette governare più imprudentemente; cliè per tenere la tirannide, c’si fece inimico di coloro che glie T avevano data c che gliene potevano mantenere, ed amico di quelli che non erano concorsi a dargliene e che non gliene arebbono potuta mantenere; e perdèssi coloro che gli erano amici, e cercò di avere amici quelli che non gli potevano essere amici. Perchè, ancora che i nobili desiderino tiranneggiare, quella parte della nobiltà che si truova fuori della tirannide, è sempre inimica al tiranno; nè quello se la può mai guadagnare tutta, per l’ambizione grande e grande avarizia che .è in lei, non polendo il tiranno avere nè tante ricchezze nè tanti onori, che a tutta satisfaccia. E così Appio, lasciando il Popolo ed accostandosi a’ Nobili, fece uno errore evidentissimo, e per le ragioni dette di sopra, e perchè a volere con violenza tenere una cosa, bisogna che sia più potente chi sforza, che chi è sforzato. Donde nasce che quelli tiranni che hanno amico lo universale ed mimici i grandi, sono più sicuri; per essere la loro violenza sostenuta da maggior forze, che quella di coloro che hanno per inimico il popolo ed amica la nobiltà. Perchè con quello favore bastano a conservarsi le forze intrinseche; come bastorno a Nabide tiranno di Sparta, quando tutta Grecia ed il popolo romano lo assaltò : il quale assicuratosi di pochi nobili, avendo amico il popolo, con quello si difese; il che non arebbe potuto fare avendolo inimico. In quello nitro grado per aver pochi amici dentro, non bastano le forze intrinseche, ma gli conviene cercare di fuora. Ed hanno ad essere di tre sorti: 1’ una satelliti forestieri, die li guardino la persona; l’altra armare il contado, che faccia quell’ oflìzio che arebbe a fare la plebe; la terza aderirsi co’ vicini potenti, che li difendino* Chi tiene questi modi e gli osserva bene, ancora ch’egli avesse per inimico il popolo, potrebbe in qualche modo salvarsi. Ma APPIO non poteva far questo di guadagnarsi il contado, scudo una medesima cosa il contado e Roma; c quel che poteva fare, non seppe: talmente che rovinò nc’ primi principii suoi. Fecero il Senato ed il Popolo in questa creazione del decemvirato errori grandissimi : perchè ancora che di sopra si dica, in quel discorso che si fa del Dittatore, che quelli magistrati che si fanno da per loro, non quelli che fa il popolo, sono nocivi alla libertà; nondimeno il popolo debbe, quando egli ordina i magistrali, fargli in modo che gli abbino avere qualche rispetto a diventare tristi. E dove e’ si debbe proporre loro guardia per mantenergli buoni, i Romani lalevorono, facendolo solo magistrato in Roma, ed annullando tutti gli altri, per la eccessiva voglia (come di sopra dicemmo) che il Senato aveva di spegnere i Tribuni, e la Plebe di spegnere i Consoli; la quale gli accecò in modo, che concorsono in tale disordine. Perchè gli uomini, come diceva il re Ferrando, spesso fanno come certi minori uccelli di rapina ; ne’ quali è tanto desiderio di conseguire la loro preda, a che la natura gli incita, che non sentono un altro maggior uccello che sia loro sopra, per ammazzargli. Conoscesi, adunque, per questo discorso, come nel principio proposi, lo errore del Popolo romano, volendo salvare la libertà ; e gli errori di APPIO, volendo occupare la tirannide. XLI. — Sahare dalla Umilila alla superbia j dalla pietà alta crudeltà senza debiti mezzij è cosa imprudente ed inutile. Oltre agli altri termini male usati da APPIO per mantenere la tirannide, non fu di poco momento saltare troppo presto da una qualità ad un’altra. Perchè la astuzia sua nello ingannare la Plebe, simulando d’essere uomo popolare, fu bene usata; furono ancora bene usati i termini che tenue perchè i Dieci si avessino a rifare; fu ancora bene usata quella audacia di creare sè stesso contra alla oppinione della Nobiltà; fu bene usato creare colleghi a suo proposito: ma non fu già bene usato, come egli ebbe fatto questo, secondo che di sopra dico, mutare in un subito natura; e di amico, mostrarsi nimico alla Plebe; di umano, superbo; di facile, difficile; e farlo tanto presto, che senza scusa veruna ogni uomo avesse a conoscer la fallacia dello animo suo. Perchè chi è paruto buono un tempo, e vuole a suo proposito diventar tristo, io debbe fare per gli debiti mezzi ; ed in modo condurvisi con le occasioni, che innanzi che la diversa natura ti tolga de’ favori vecchi, la te ne ubbia dati tanti degli nuovi, che tu non venga a diminuire la tua autorità: altrimenti, trovandoti scoperto e senza amici, rovini. XL1I. — Quanto gli uomini facilmente si possono corrompere. Notasi ancora in questa materia del decemvirato, quanto facilmente gli uomini si corrompono, e fatinosi diventare di contraria natura, ancora che buoni e bene educati; considerando quanto quella gioventù che Appio si aveva eletta intorno, cominciò ad essere amica della tirannide per uno poco d’utilità che gliene conseguiva ; e come Quinto Fabio, uno del numero de’ secondi Dieci, sendo uomo oliimo, accecalo da un poco di ambizione, e persuas dulia malignità di APPIO, mutò i suoi buoni costumi in pessimi, e diventò simile a lui. Il che esaminato bene, farà tanto più pronti i legislatori delle repubbliche o de’ regni a frenare gli appetiti umani, c torre loro ogni speranza di potere impune errare. XLIII. — Quelli che combattono per la gloria propria, sono buoni e fedeli soldati. Considerasi ancora per il soprascritto trattato, quanta differenza è da uno esercito contento e che combatte per la gloria sua, a quello che è male disposto e che combatte per la ambizione d’ altri. Perchè, dove gli eserciti romani solevano sempre essere vittoriosi sotto i Consoli, sotto i Decemviri sempre perderono. Da questo essempio si può conoscere parte delle cagioni della inutilità de’ soldati mercenurii; i quali non hanno altra cagione clic li tenga fermi, che un poco di stipendio che tu dai loro. La qual cagione non è nè può essere bastante a fargli fedeli, nè tanto tuoi amici, che voglino morire per le. Perchè in quelli eserciti che non è una affezione verso di quello per chi e’ combattono, che gli facci diventare suoi partigiani, non mai vi potrà essere tanta virtù che basti a resistere ad uno nimico un poco virtuoso. G perchè questo amore non può nascere, nè questa gara, da altro che da’ sudditi tuoi; è necessario a volere tenere uno stato, a volere mantenere una repubblica o uno regno, armarsi de’ sudditi suoi : come si vede che hanno fatto tutti quelli che con gli eserciti hanno fatti grandi progressi. Avevano gli eserciti romani sotto i Dieci quella medesima virtù; ma perchè in loro non era quella medesima disposizione, non facevano gli usilati loro effetti. Ma com prima il magistrato de’ Dieci fu spento, e che loro come liberi cominciorno amilitare, ritornò in loro il medesimo animo; e per conscguente, le loro imprese avevano il loro fine felice, secondo la antica consuetudine loro. XLIV. — Una moltitudine senza capo, è inutile: e non si debbo minacciare prima, c poi chiedere l'autorità. Era la Plebe romana per lo accidente di Virginia ridotta armata nel Monte Sacro. Mandò il Senato suoi ambasciadori a dimandare con quale autorità egli avevano abbandonati i loro capitani, e ridottisi nel Monte. E tanta era stimata l’autorità del Senato, che non avendo la Plebe intra loro capi, ninno si ardiva a rispondere. E L. dice, ohe e’ non mancava loro materia a rispondere, ma mancava loro chi facesse la risposta. La qual cosa dimonstra appunto la inutilità d’ una moltitudine senza capo. Il qual disordinefu conosciuto da Virginio, e per suo ordine si creò venti Tribuni militari, che fussero loro capo a rispondere e convenire col Senato. Ed avendo chiesto che si mandasse loro Valerio ed Orazio, ai quali loro direbbono la voglia loro, non vi volsono andare se prima i Dieci non deponevano il magistrato: ed arrivati sopra il Monte dove era la Plebe, fu domandato loro da quella, che volevano che si creassero i Tribuni della plebe, e che si avesse ad appellare al Popolo da ogni magistrato, e che si dessino loro tutti i Dieci, chè gli volevano ardere vivi. Laudarono Valerio cd Orazio le prime loro domande; biasimorono P ultima come impia, dicendo : Crude - litatcm dannatisj in crudclitaiem ruitis ; e consigliamogli che dovessino lasciare il fare menzione de’ Dieci, e ch’egli attendessino a pigliare V autorità e potestà loro: dipoi non mancherebbe loro modo a satisfarsi. Dove apertamente si conosce quanta stultizia c poca prudenza è domandare una cosa, e dire prima: io voglio far male con essa; perchè non si debbo mostrare l’animo suo, ma vuoisi cercare d’ottenere quel suo desiderio in ogni modo. Perchè e’ basta a dimandare a uno le armi, senza dire: io ti voglio ammazzare con esse; potendo poi che tu bai l’arme in mano, satisfare allo appetito tuo. XLV. — E cosa di malo esempio | non osservare una legge falla , c massime dallo autore d'essa: e rinfre- scare ogni di nuove ingiurie in una t città, è a chi la governa dannosis-i simo. Seguito lo accordo, e ridotta Roma in la antica sua forma, Virginio citò Appio innanzi al Popolo a difendere la sua causa. Quello comparse accompagnato da molti Nobili. Virginio comandò che fussc messo in prigione. Cominciò Appio a gridare, ed appellare al Popolo. Virginio diceva che non era degno di avere quella nppellagionc che egli aveva distrutta, ed avere per difensore quel Popolo che egli aveva offeso. Appio replicava, come e’ non aveano a violare quella appellagionc ch'egli avevano con tanto desiderio ordinata. Pertanto egli fu INCARCERATO ED AVANTI AL DI DEL GIUDIZIO AMMAZZO SE STESSO. E benché la scellerata vita di Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno fu cosa poco civile violare le leggi, e tanto più quella che era fatta allora. Perchè io non credo che sia cosa di più cattivo esempio in una repubblica, che fare una legge e non la osservare; e tanto più, quanto la non è osservata da chi l’ ha falla. Essendo Firenze stala riordinala nel suo stato con l'aiuto di frate Girolamo Savonarola, gli scritti del quale mostrano la dottrina, la prudenza, la virtù dello animo suo ; ed avendo intra P altre conslituzioni per assicurare i cittadini, fatto fare una legge, che si potesse appellare al popolo dalle sentenze che, per caso di Stato, gli Otto c la Signoria dessino; la qual legge persuase più tempo, e con difficoltà grandissima ottenne: occorse che, poco dopo la confirmazicne d’essa, furono condcunati a morte dalla Signoria per conto di Stato cinque cittadini; e volendo quelli appellare, non furono lasciati, e non fu osservata la legge. Il che tolse più riputazione a quel frate, che nessun altro accidente: perchè, se quella appellagione era utile, ei doveva farla osservare; s’ ella non era utile, non doveva farla vincere. E tanto più fu notato questo accidente, quanto che il frate in tante predicazioni che fece poi clic fu rotta questa legge, non mai o dannò chi P aveva rotta, o lo scusò ; come quello che dannare non voleva, come cosa che gli tornava a proposito ; e scusare non la poteva. Il che avendo scoperto l’animo suo ambizioso e paitigiano, gii tolse riputazione, e dettegli assai carico. Offende ancora uno Stato assai, rinfrescare ogni dì nello animo de’ tuoi cittadini nuovi umori, per nuove ingiurie ebe a questo e quello si fucciano : come intervenne a Roma dopo il decemvirato. Perché tutti i Dieci, ed altri cittadini, in diversi tempi furono accusati e condannati: in modo che gli era uno spavento grandissimo in tutta la Nobiltà, giudicando che e’ non si avesse mai a porre fine a simili condennagioni, fino a tanto che tutta la Nobiltà non fusse distrutta. Ed arebbe generato in quella città grande inconveniente, se da Marco Duellio tribuno non vi fusse stato provveduto; il qual fece uno edit-to, che per uno anno non fusse lecito ad alcuno citare o accusare alcuno cittadino contano : il che rassicurò tutta la Nobiltà. Dove si vede quanto sia dannoso ad una repubblica o ad un principe, tenere con le continove pene ed offese sospesi e paurosi gli animi dei sudditi. E senza dubbio, non si può tenere il più pernicioso ordine: perchè gli uomini che cominciano a dubitare di avere a capitar male, in ogni modo si assicurano ne’ pericoli, e diventano più audaci, e meno rispettivi a tentare cose nuove. Però è necessario, o non offendere mai alcuno, o fare le offese ad un tratto; e dipoi rassicurare gli uomini, e dare loro cagione di quietare e fermare l’animo. XLVI. — Gli uomini salgono da una ambizione ad unJ altra ; c prima si cerca non essere offeso t dipoi di offendere altrui. Avendo il Popolo romano ricuperala la libertà, ritornato nel suo primo grado, ed in tanto maggiore, quanto si erano fatte dimolte leggi nuove In corroborazione della sua potenza ; pareva ragionevole che Roma qualche volta quictasse. Nondimeno, per esperienza si vide il contrario; perchè ogni di vi surgeva nuovi tumulti e nuove discordie. E perchè Tito Livio prudentissimamente rende la ragione donde questo nasceva, non mi pare se non a proposito riferire appunto le sue parole, dove dice che sempre o il Popolo o la Nobiltà insuperbiva, quanto V altro si umiliava ; e stando la Plebe quieta intra i termini suoi, cominciarono i giovani nobili ad ingiuriarla ; ed i Tribuni vi potevano farepochi rimedi, perchè ancora loro erano violati. La Nobiltà, dalP altra parte, ancora che gli paresse che la sua gioventù fusse troppo feroce, nondimeno aveva a caro che avendosi a trapassare il modo, lo trapassassino i suoi, e non la Plebe. E cosi il desiderio di difendere la libertà faceva che ciascuno tanto si prevaleva, eh’ egli oppressava l’ altro. E V ordine di questi accidenti è, che mentre clic gli uomini cercano di non temere, cominciano a far temere altrui; e quell ingiuria ch’egli scacciano da loro, la pongono sopra un altro: come se fussc necessario offendere, o essere offeso. Vedesi, per questo, in quale modo, fra gli altri, le repubbliche si risolvono; e in che modo gli uomini salgono da una ambizione ad un’ altra ; e come quella sentenza salustiaua posta in bocca di Cesare, è verissima : quod omnia mala exempla bonis mitiis orla sunt. Cercano, come di sopra è detto, quelli cittadini clie ambiziosamente vivono in una repubblica, la prima cosa di non potere essere offesi, non solamente dai privati, ma eziam da’ magistrali : cercano, per potere fare questo, amicizie ; e quelle acquistano per vie in apparenza oneste, o con sovvenire di danari, o con difendergli da’ potenti : e perchè questo pare virtuoso, s’ inganna facilmente ciascuno, c per questo non vi si pone rimedio ; intanto che egli senza ostacolo perseverando, diventa di qualità, che i privati cittadini ne hanno paura, ed i magistrati gli hanno rispetto. E quando egli è saJito a questo grado, c non si sia prima ovvialo alla sua grandezza, viene od essere in termine, che volerlo urtare è pericolosissimo, per le ragioni che io dissi di sopra del pericolo che è nello urtare uno inconveniente che abbi di già fatto augumento in una città: tanto che la cosa si riduce in termine, che bisogna o cercare di spegnerlo con pericolo di una subita rovina j o lasciandolo fare, entrare in una servitù manifesta, se morte o qualche accidente non te ne libera. Perchè, venuto a’soprascrilti termini, che i cittadini ed i magistrati abbino paura ad offender lui e gli amici suoi, non dura dipoi molta fatica a fare che giudichino ed offendino a suo modo. Donde una repubblica intra gli ordini suoi debbe avere questo, di vegghiarc che i suoi cittadini sotto ombra di bene non possino far male ; e di’ egli abbino quella riputazione che giovi, e non nuoca, alla libertà: come nel suo luogo da noi sarà disputato. XLVII. — Gli nomini j ancora clic si ingannino ncJ generali j nei particolari non si ingannano. Essendosi il Popolo romano, come di sopra si dice, recato a noia il nome consolare, e volendo che potessiao esser fatti Consoli uomini plebei, o che fusse limitata la loro autorità ; la Nobiltà, per non deonestare l’ autorità consolare nè con Tuna nè con 1’ altra cosa, prese una via di mezzo, e fu contenta che si creassino quattro Tribuni con potestà consolare, i quali potcssino essere cosi plebei come nobili. Fu contenta a questo la Plebe, parendogli spegnere il consolato, ed avere in questo sommo grado la parte sua. Nacquene di questo un caso notabile : che venendosi alla creazione di questi Tribuni, e potendosi creare tutti plebei, furono dal Popolo romano creati tutti fiobiii. Onde L. dice queste parole: Quorum comitiorum eoenlus docuit, alias animo s in contcntione l ib erta ti s et honoris, alios secundum deposita certamina in incorrupto judicio esse. Ed esaminando donde possa procedere questo, credo proceda che gii uomini nelle cose generali s’ ingannano assai, nelle particolari non tanto. Pareva generalmente alla Plebe romana di meritare il consolato, per avere più parte in la città, per portare più pericolo nelle guerre, per esser quella che con le braccia sue manteneva Roma libera, e la faceva potente. E parendogli, come è detto, questo suo desiderio ragionevole, volse ottenere questa autorità in ogni modo. Ma come la ebbe a fare giudizio degli uomini suoi particolarmente, conobbe la debolezza di quelli, e giudicò che nessuno di loro meritasse quello che tutta insieme gli pareva meritare. Talché vergognatasi di loro, ricorse a quelli che Io meritavano. Della quale deliberazione meravigliandosi meritamente L., dice queste parole : /lane modestiam , aquila IcmquCj et allitudinem animi, ubi moie in uno inveneris , qua: lune populi universi fuit ? In corroborazione di questo, se ne può addurre un altro notabile essempio, seguito in Capova da poi che Annibaie ebbe rotti i Romania Canne; per la qual rotta sendo tutta sollevata Italia, Capova stava ancora per tumultuare, per P odio eli’ era intra il Popolo ed il Senato; e trovandosi in quel tempo nel supremo magistrato Pacuvio Calano, e conoscendo il pericolo che portava quella città di tumultuare, disegnò con suo grado riconciliare la Plebe con la Nobiltà ; e fatto questo pensiero, fece ragunare il Senato, c narrò loro Podio che M popolo aveva contra di loro, ed i pericoli che portavano di essere ammazzati da quello, e data la città ad Annibaie, sendo le cose de’ Romani afflitte : dipoi soggiunse, che se volevano lasciaregovernare questa cosa a lui, farebbe in modo che si unirebbono insieme ; ma gli voleva serrare dentro al palazzo, e co fare potestà al popolo di potergli gastigare, salvargli. Cederono a questa sua oppinione i Senatori, e quello chiamò il Popolo a coocione, avendo rinchiuso in palazzo il Senato ; e disse com’ egli era venuto il tempo di potere domare la superbia della Nobiltà, e vendicarsi delle ingiurie ricevute da quella, avendogli rinchiusi tutti sotto la sua custodia : ma perchè credeva che loro non volessino che la loro città rimanesse senza gover- no, era necessario, volendo ammazzare i Senatori vecchi, crearne de* nuovi. E per tanto aveva messo tutti gli nomi degli Senatori in una borsa, e comincierebbe a trargli in loro presenza j ed egli farebbe i tratti di mano in mano morire, come prima loro avessino tro- vato il successore. E cominciato a trarne uno, fu al nome di quello levato un rumore grandissimo, chiamandolo uomo superbo, crudele ed arrogante : e chiedendo Paeuvio che facessino lo scambio, si racchetò tutta la conclone ; c dopo alquanto spazio, fu nominato uno della plebe ; al nome del quale chi cominciò a fischiare, chi a ridere, chi a dirne male in uno modo, e chi in un altro: o così seguitando di mano in mano, tutti quelli che furono nominati, gli giudicavano indegni del grado senatorio. In modo che Pacuvio, presa sopra questo occasione, disse: Poiché voi giudicate che qucslu città stia male senza Senato, ed a fare gii scambi a’ Senatori vecchi non vi accordate, io penso che sia bene che voi vi riconciliate insieme ; perchè questa paura in la quale i Senatori sono stati, gli arà fatti in modo raumiliare, che quella umanità che voi cercavate altrove, troverete in loro. Ed accordatisi a questo, ne segui la unione di questo ordine ; e quello inganno in che egli erano si scoperse, come e’ furono constretti venire a’ particolari. Ingannansi, olirà di questo, i popoli generalmente nel giudicare le cose e gli accidenti di esse j le quali dipoi si conoscono particolamento, si avveggono di tale inganno. Sendo stati i principi della città cacciati da Firenze, e non vi essendo alcuno governo ordinato, ma piuttosto una certa licenza ambiziosa, ed andando le cose pubbliche di inale in peggio ; molti popolari veggiendo la rovina della città, e non ne intendendo altra cagione, ne accusavano la ambizione di qualche potente che nutrisse i disordini, per poter fare uno Stato a suo proposito, c torre loro la libertà : c stavano questi tali per le logge c per le piazze, dicendo male di molti cittadini, e minacciandoli che se mai si trovassero de’ Signori, scoprirebbono questo loro inganno, e gli gastigarebbono. Occorreva spesso che de’ simili ne ascendeva al supremo magistrato; e come egli era salilo in quel luogo, e che e* vedeva le i cose più dappresso, conosceva i disordini donde nascevano, ed i pericoli che soprastavano, e la difficoltà del rimecitarvi. C veduto come i tempi, e no gli uomini, causavano il disordine, diventava subito d’ un altro animo, c di un’ altra fatta ; perché la cognizione delle cose particolari gli toglieva via quello inganno che nel considerare generalmente si aveva presupposto. Dimodoché, quelli che lo avevano prima, quando era privato, sentito parlare, e vedutolo poi nel supremo magistrato stare quieto, credevano che nascesse, non per più vera cognizione delle cose, ma perchè fusse stalo aggirato e corrotto dai grandi. Ed accadendo questo a molti uomini c molte volte, ne nacque tra loro un proverbio, che diceva : Costoro hanno uno animo in piazza, cd uno in palazzo. Considerando, dunque, tutto quello si è discorso, si vede come e’ si può fare tosto aprire gli occhi a’ popoli, trovando modo, veggendo che uno generale gl’ inganna, ch’egli abbino a descenderc ai particolari ; come fece Pacuvio in Capova, ed il --Senato in Roma. Credo ancora, che si possa conchiudere, che mai un uomo prudente non debbe fuggire il giudizio popolare nelle eo9e particolari, circa le distribuzioni de' gradi e delle dignità : perchè solo in questo il popolo non si inganna ; e se si inganna qualche volta, Ha sì raro, che s’ inganneranno più volte i pochi uomini che avessino a fare simili distribuzioni. Nè mi pare superfluo mostrare nel seguente capitolo, P ordine che teneva il Senato per isgannare il popolo nelle distribuzioni sue. XLYIII. — Chi vuole che uno magistrato non sia dato ad un vile o ad un tristo j lo facci domandare o ad un troppo vile e troppo tristo , o ad uno troppo nobile c troppo buono. Quando il Senato dubitava che i Tribuni con potestà consolare non fussino fatti d’ uomini plebei, teneva uno de’duoi modi: o egli faceva domandare ai più riputati uomini di Roma;o veramente, per i debiti mezzi, corrompeva qualche plebcio sordido ed ignobilissimo, che mescolati con i plebei che, di miglior qualità, per T ordinario lo domandavano, anche loro lo domandassino. Questo ul- timo modo faceva che la Plebe si vergognava a darlo ; quel primo faceva che la si vergognava a torlo, li che tutto torna a proposito del precedente discorso, dove si mostra che il popolo se s’ inganna de’ generali, de’particolari non s’inganna. XLIX. — Se quelle città che hanno avuto il principio libcrOj come Romaj hanno diffìcultà a trovare leggi che le mantenghino ; quelle che lo hanno immediate servo , ne hanno quasi una impossibilità. Quanto sia difficile, nello ordinare una repubblica, provvedere a tutte quelle leggi che la mantenghino libera, lo dimostra assai bene il processo della Repubblica romana: dove non ostante che fussino ordinate di molte leggi da ROMOLO prima, dipoi da Nuraa, da Tulio Ostilio e Servio, ed ultimamente dai dieci cittadini creali a simile opera ; nondimeno sempre nel maneggiare quella città si scoprivano nuove necessità, ed era necessario creare nuovi ordini: come intervenne quando crearono i Censori, i quali furono uno di quelli provvedimenti che aiutarono tenere Roma libera, quel tempo che la visse in libertà. Perchè, diventati arbitri de’ costumi di Roma, furono cagione potissima che i Romani diflerissino più a corrompersi. Feciono bene nel principio della creazione di tal magistrato uno errore, creando quello per cinque anni; ma, dipoi non molto tempo, fu corretto dalla prudenza di Mamereo dittatore, il qual per nuova legge ridusse detto magistrato a diciolto mesi. Il che i Censori che vegghiavano, ebbono tanto per male, che privorno Mamcrco del senato: la qual cosa e dalla Plebe c dai Padri fu assai biasimata. perchè la istoria non ino*stra che Mamerco se ne potesse difen-dere, conviene o che lo istorico sia di-fettivo, o gli ordini di Roma in questa parte non buoni : perchè non è bene che una repubblica sia in modo ordinata, ebe un cittadino per promulgare una legge conforme al vivere libero, ne possa essere senza alcuno rimedio offeso. Ma tornando al principio di questo discorso, dico che si dehbe, per la creazione di questo nuovo magistrato, considerare, che se quelle città che hanno avuto il principio loro libero, e che per se medesimo si è retto, come Roma, hanno difHcultà grande a trovar leggi buone per mantenerle libere ; non è meraviglia che quelle città che hanno avuto il principio loro immediate servo, abbino, non che dilfìcultà, ma impossibilità ad. ordinarsi mai in modo che le possino vivere civilmente e quietamente. Come si vede che è intervenuto alla città di Firenze; la quale, per avere avuto il principio suo sottoposto allo imperio ro- mano, ed essendo vivuta sempre sotto governo d* altri, stette un tempo soggetta, e senza pensare a sè medesima: dipoi, venuta la occasione di respirare, cominciò a fare suoi ordini; i quali sendo mescolati con gli antichi, che erano tristi, non poterono essere buoni: e così è ita maneggiandosi per dugento anni che si lia di vera memoria, senza avere mai avuto stato per il quale ella possa veramente essere chiamata repubblica. E queste diflicultà che sono state in lei, sono state sempre in tutte quelle città che hanno avuto i principii simili a lei. E benché molte volte, per suffragi pubblici e liberi, si sia dato ampia autorità a pochi cittadini di potere riformarla; non pertanto mai l’ hanno ordinata a comune utilità, ma sempre a proposito della parte loro : il che ha fatto non ordine, ma maggiore disordine in quella città. E per venire a qualche essempio particolare, dico come intra le altre cose che si hanno a considerare da uno ordinatore d’ una repubblica, è esaminare nelle mani di quali uomini ci ponga 1’ autorità del sangue coutra de’ suoi cittadini. Questo era bene ordinato in Roma, perchè e’ si poteva appellare al Popolo ordinariamente : e se pure fussc occorsa cosa importante, dove il differire la esecuzione mediante la appellagione fusse pericoloso, avevano il refugio del Dittatore, il quale eseguiva immediate; al qual rimedio non rifuggivano mai, se non per necessità. Ma Firenze, c Y altre città nate nel modo di lei, sendo serve, avevano questa autorità collocata in un forestiero, il quale mandato dal principe faceva tale uffizio. Quando dipoi vennono in libertà, mantennero questa autorità in un forestiero, il quale chiamavano Capitano: il che, per potere essere facilmente corrotto da’ cittadini potenti, era cosa perniciosissima. Ma dipoi, mu- randosi per la mutazione degli Stati questo ordine, creorno otto cittadini che facessino V uffizio di quel Capitano. Il quale ordine, di cattivo, diventò pessimo, per le cagioni che altre volte sono dette: che i pochi furono sempre ministri dc’po-ehi, e de* più potenti. Da che si è guardata la città di Vinegia; la quale ha dieci cittadini, che senza appello possono punire ogni cittadino. E perchè e* non basterebbono a punire i potenti, ancora die ne nvessino autorità, vi hanno constituito le Quarnntie: c di più, hanno voluto che il Consiglio de’ Pregai, elicè il Consiglio maggiore, possa gastigargli; In modo che non vi mancando lo accusatore, non vi manca il giudice a tener gli uomini potenti a freno. Non è dunque meraviglia, reggendo come in Roma, ordinata da sè medesima e da tanti uomini prudenti, surgevano ogni di nuove cagioni per le quali si aveva a fare nuovi ordini in favore del viver libero j se nelle altre città che hanno più disordinalo principio, vi surgono tuli difficoltà, che le non si possino riordinar mai. L. — iVon dcbbc uno consiglio o uno magistrato potere fermare le azioni della città. tirano consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnato c Gneo Giulio Mento, i quali sendo disuniti, avevano ferme tutte le azioni di quella Repubblica. 11 che veggcndo il Senato, gli confortava a creare il Dittatore, per fare quello che per le discordie loro non poteva fare. Ma i Consoli discordando in ogni altra cosa, solo in questo erano d’accordo, di non voler creare il Dittatore. Tanto che il Senato, non avendo altro rimedio, ricorse allo aiuto de’ Tribuni; i quali, con l’autorità del Senato, sforzarono i Consoli ad ubbidire. Dove si ba a notare, in prima, la utilità del tribunato; il quale non era solo utile a frenare l’ ambizione che i potenti usavano contra alla Plebe, ma quella ancora ch’egli usavano infra loro: 1’ altra, che mai si debba ordinare in una città, che i pochi possino tenere alcuna deliberazione di quelle che ordinariamente sono necessarie a mantenere la repubblica. Yerbigrazia, se tu dai una autorità nd uno consiglio di fare una distribuzione di onori c di utile, o ad uno magistrato di amministrare una faccenda; conviene o imporgli una necessità perchè ei l’ abbia a fare in ogni modo; o ordinare, quando non la voglia fare egli, che la possa e debba fare un altro: altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e pericoloso; come si vedeva che era in Roma, se alla ostinazione di quelli Consoli non si poteva opporre P autorità de’ Tribuni. Nella Repubblica veneziana il Consiglio grande distribuisce gli onori e gli utili. Occorreva alle volte che P universalità, per isdegno o per qualche falsa suggestione, non creava i successori ai magistrati della città, ed a quelli che fuori amministravano lo imperio loro. Il che era disordine grandissimo: perchè in un tratto, e le terre suddite e la città propria mancavano de’ suoi legittimi giudici; nè si poteva ottenere cosa alcuna, se quella universalità di quel Consiglio non si satisfaceva, o non s’ingannava. Ed avrebbe ridotta questo inconveniente quella città a mal termine, se dagli cittadini prudenti non vi si fusse provveduto: i quali, presa occasione conveniente, fecero una legge, che tutti i magistrati che sono o fussino dentro e fuori della città, mai vacassero, se non quando fussino fatti gli scambi e i successori loro. E cosi si tolse la comodità a quel Consiglio di potere, con pericolo della repubblica, fermare le azioni pubbliche. LI. Una repubblica o uno principe debbe mostrare di fare per liberalità quello a che la necessità lo consiringe. Gli uomini prudenti si fanno grado sempre delle cose, in ogni loro azione, ancora che la necessità gli constringesse a farle in ogni modo. Questa prudenza fu usata bene dal Senato romano, quando ei deliberò che si desse lo stipendio del pubblico agli uomini che militavano, essendo consueti militare del loro proprio. Ma veggendo il Senato come in quel modo non si poteva fare lungamente guerra, e per questo non potendo nè assediare terre, uè condurre gli eserciti discosto; e giudicando essere necessario potere fare 1* uno e 1’ altro ; deliberò che si dessino detti stipendi; ina lo feciono in modo, che si fecero grado di quello a che la necessità gli constringeva; e fu tanto accetto alla Plebe questo presente, che Roma andò «sottosopra per la allegrezza, parendole uno benefizio grande, quale mai speravano di avere, e quale mai per loro medesimi arebbono cerco. E benché i Tribuni s* ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando come ella era cosa che aggravava, non alleggeriva, la Plebe, scodo necessario porre i tributi per pagare questo stipendio ; nientedimeno non potevano fare tanto che la Plebe non lo avesse accetto: il che fu ancora augumentalo dal Senato per il modo che distribuivano i tributi; perchè i più gravi ed i maggiori furono quelli chVposono alla Nobiltà, e gli primi che furono pagati. LII. — A reprimere la insolenza di uno che surga in una repubblica potente , non vi c più securo e meno scandaloso modo , che preoccuparli quelle vie per le quali e* viene a quella potenza. Yedesi per il soprascritto discorso, quanto credito acquistasse la Nobiltà con la Plebe per le dimostrazioni fatte in benefizio suo, sì del stipendio ordinato, si ancora del modo del porre i tributi. Nel quale ordine se la Nobiltà si fosse mantenuta, si sarebbe levato via ogni tumulto in quella città, e sarebbesi tolto ai Tribuni quel credito che egli avevano con la Plebe, e, per conseguente, quella autorità. E veramente, non si può in una repubblica, e massime in quelle che sono corrotte, con miglior modo, meno scandaloso e più facile, opporsi alla ambizione di alcuno cittadino, che preoccuparli quelle vie, per le quali si vede che esso cammina per arrivare al grado che disegna, li qual modo se fusse stalo usato contra Cosimo de’ Medici, sarebbe stato miglior partito assai per gli suoi avversari, che cacciarlo da Firenze: perchè, se quelli cittadini che gareggiavano seco, avessino preso lo stile suo di favorire il popolo, gli venivano senza tumulto e senza violenza a trarre di mano quelle arme di che egli si valeva più. SODERINI si aveva fatto riputazione nella città di Firenze con questo solo, di favorire l’universale: il che nello universale gli dava riputazione, come amatore della libertà della città. E veramente, a quelli cittadini che portavano invidia alla grandezza sua, era molto più facile ed era cosa molto più onesta, meno pericolosa, e meno dannosa per la repubblica, preoccupargli quelle vie con le quali si faceva grande, che volere contrapporsegli, acciocché con la rovina sua rovinasse tutto il resto della repubblica: perchè, se gli avessero levate di mano quelle armi con le quali si faceva gagliardo (il che potevano fare facilmente), arebbono potuto in lutti i consigli, e in tutte le deliberazioni pubbliche, opporsegli senza sospetto, e senza rispetto alcuno. E se alcuno replicasse, che se i cittadini che odiavano Piero, feciono errore a non gli preoccupare le vie con le quali ei si guadagnava riputazione nel popolo, Piero ancora venne a fare errore, a non preoccupare quelle vie per le quali quelli suoi avversari lo facevano temere; di’ che Piero merita scusa, si perchè gli era difficile il farlo, sì perchè le non erano oneste a lui : imperocché le vie con le quali era offeso, ciano il favorire i Medici; con li quali favori essi io battevano, e alla fine !o rovinorno. Non poteva, pertanto, Piero onestamente pigliare questa parte, per non potere distruggere con buona fama quella libertà alla quale egli era stato preposto a guardia : dipoi, non potendo questi favori farsi segreti e ad uno tratto, erano per Piero pericolosissimi; perchè comunelle ei si fusse scoperto amico de’ Medici, sarebbe diventato sospetto ed odioso al popolo; donde ai nimici suoi nasceva molto più comodità di opprimerlo, che non avevano prima. Debbono, pertanto, gli uomini in ogni partito considerare i difetti ed i pericoli di quello, e non gli prendere, quando vi sia più del pericoloso che dell’ utile ; nonostante che ne fusse stata data sentenza conforme alla deliberazion loro. Perchè, facendo altrimenti, in questo caso interverrebbe a quelli come intervenne a Tullio; il quale volendo torre i favori a Marc’ Antonio, gliene accrebbe. Perchè, sondo Marc’ Antonio stato giudicalo inimico del Senato, ed avendo quello grande esercito insieme adunato, in buona parte, dei soldati che avevano seguitato la parte di Cesare; Tullio, per torgli questi soldati, confortò il Senato a dare riputazione ad Ottaviano, e mandarlo con lo esercito e con i Consoli contra a Marc' Antonio: allegando, che subito che i soldati che seguitavano Marc’ Antonio, scntissino il nome di Ottaviano nipote di Cesare, e che si faceva chiamar Cesare, lascerebbono quello, c si aceosterebbono a costui ; e così restato Marc’ Antouio ignudo di favori, sarebbe facile lo opprimerlo. La qual cosa riuscì tutta al contrario; perchè Marc’ Antonio si guadagnò Ottaviano; e lasciato Tullio ed il Senato, si accostò a lui. La qual cosa fu al tutto la destruzione della parte degli Ottimati. 11 che era facile a conietturare: nè si doveva credere quel che si persuase Tullio, ma tener sempre conto di quel nome che con tanto gloria aveva spenti i nimici suoi, ed acquistatosi il principato in Roma; nè si dovea credere mai potere, o da suoi eredi o da suoi fautori, avere cosa che fusse conforme al nome libero. LUI. — Il popolo molte volte desidera la rovina sua j ingannato da una falsa spezie di bene : e come le grandi speranze e gagliarde promesse facilmente lo muovono. Espugnata che fu la città de’ Veienti, entrò nel Popolo romano una oppinione, che fusse cosa utile per la città di Roma, che la metà de’ Romani andasse ad abitare a Veio ; argomentando che, per essere quella città ricca di contado, piena di edifizii e propinqua a Roma, si poteva arricchire la metà de’ cittadini romani, e non turbare per la propinquità del sito nessuna azione civile. La qual cosa parve al Senato ed a’ più savi Romani tanto inutile e tanto dannosa, che liberamente dicevano, essere piuttosto per patire la morte, che consentire ad una tale deliberazione. In modo che, venendo questa cosa in disputa, si accese tanto la Plebe contra al Senato, che si sarebbe venuto alle armi cd al sangue, se il Senato non si fusse fatto scudo di alcuni vecchi e stimati cittadini ; la riverenza dc’quali frenò la Plebe, che la non procede più avanti con la sua insolenza. Qui si hanno a notare due cose. La prima, che ’l popolo molte volte, ingannato da una falsa immagine di bene, desidera la rovina sua ; e se non gli è fatto capace, come quello sia male, e quale sia il bene, da alcuno in chi esso abbia fede, si pone in le repubbliche infiniti pericoli c danni. E quando la sorte fu che il popolo non abbi fede in alcuno, come qualche volta occorre, sendo stato ingannato per lo addietro o dalle cose o dagli uomini; si viene alla rovina di necessità. Ed ALIGHIERI (si veda) dice a questo proposito, nel discorso suo che fa De Monarchia > che il popolo molte volte grida viva la sua morie j C muoia la sua vita. Da questa incredulità nasce, che qualche volta in le repubbliche i buoni partiti non si pigliano : come di sopra si disse de’ Veneziani, quando assaltati da tanti inimici non poterono prendere partito di guadagnarsene alcuno con la restituzione delle cose tolte ad altri (per le quali era mosso loro la 'guerra, e fatta la congiura de’ principi loro contro), avanti che la rovina venisse. Pertanto, considerando quello che è facile o quello che è diffìcile persuadere ad un popolo, si può fare questa distinzione: o quel che tu hai a persuadere rappresenta in prima fronte guadagno, o perdita ; o veramente pare partito animoso, o vile: e quando nelle cose che si mettono innanzi ai popolo, si vede guadagno, ancora che vi sia nascosto sotto perdila; e quando e* paia animoso, ancora che vi sia nascosto sotto la rovina della repubblica, sempre sarà facile persuaderlo alla moltitudine: e così fia sempre difficile persuadere quelli partiti dove apparisce o viltà o perdita, ancoraché vi fusse nascosto sotto salute e guadagno. Questo che io ho detto, si conferma con infiniti esempi, romani e forestieri, moderni ed antichi. Perchè da questo nacque la malvagia opinione che surse in Roma di Fabio Massimo, il quale non poteva persuadere al Popolo romano, che fusse utile a quella Repubblica procedere lentamente in quella guerra, e sostenere senza azzuffarsi V impeto di Annibaie; perchè quel Popolo giudicava questo partito vile, c non vi vedeva dentro quella utilità vi era ; nè Fabio aveva ragioni bastanti a dimostrarla loro: c tanto sono i popoli accecati in queste oppinioni gagliarde, che benché il Popolo romano avesse fatto quello errore di dare autorità al Maestro de’ cavalli di Fabio di potersi azzuffare, ancora che Fabio non volesse; e che per tale autorità il campo romano fusse per esser rotto, se Fabio con la sua prudenza non vi rimediava; non gli bastò questa esperienza, che fece dipoi consolo VARRONE (si veda), non per altri suoi meriti che per avere, per tutte le piazze e tutti i luoghi pubblici di Roma, promesso di rompere Annibaie, qualunque volta gliene fusse data autorità. Di che ne nacque la zuffa e rotta di Canne, e presso che la rovina di Roma. Io voglio addurre a questo proposito ancora uno altro essempio romano. Era stato Annibaie in Italia otto o dieci anni, aveva ripieno di occhione de’ Romani tutta questa provincia, quando venne in Senato Marco Centenio Penula, uomo vilissimo (nondimanco aveva avuto qualche grado nella milizia), ed offersegli, che se gli davano autorità di potere fare esercito di uomini volutitari in qualunque luogo volesse in Italia, ei darebbe loro, in brevissimo tempo, preso o morto Annibaie. Al Senato parve la domanda di costui temeraria; nondimeno ei pensando che s’ ella se gli negasse, e nel popolo si fusse dipoi sapula la sua chiesta, che non ne nascesse qualche tumulto, invidia e mal grado contro all’ordine senatorio, gliene concessono : volendo più tosto mettere a pericolo tutti coloro che lo seguitassino, che fare surgere nuovi sdegni nel Popolo; sappiendo quanto simile partito fusse per essere accetto, e quanto fusse difficile il dissuaderlo. Andò, adunque, costui con una moltitudine inordinata ed incomposita a trovare Annibaie; e non gli fu prima giunto all* incontro, che fu con tutti quelli che lo seguitavano rotto e morto. In Grecia, nella città di Atene, non potette mai Nicia, uomo gravissimo e prudentissimo, persuadere a quel popolo, che non fusse bene andare ad assaltare Sicilia: talché, presa quella deliberazione contra alla voglia de’ savi, ne seguì al tutto la rovina di Atene. Scipione quando fu fatto consolo, e che desiderava la provincia di Affrica, promettendo al tutto la rovina di Cartagine; a che non si accordando il Senato per la sentenza di Fabio Massimo, minacciò di proporla nel Popolo, come quello clic conosceva benissimo quanto simili deliberazioni piaccino a’ popoli. Potrebbesi a questo proposito dare esempi della nostra città : come fu quando messere Ercole Bentivogli, governadore delle genti fiorentine, insieme con Antonio Giacomini, poiché ebbono rotto llartolommeo d’ Alviano a San Vincenti, andarono a campo a Pisa ; la qual impresa fu deliberata dal popolo in su le promesse gagliarde di messcr Ercole, ancora che molti savi cittadini la biasimassero: nondimeno non vi ebbero rimedio, spinti da quella universale volutila, la qual era fondata in su le promesse gagliarde del governadore. Dico, adunque, come non è la più facile via a fare rovinare una repubblica dove il popolo abbia autorità, che metterla' in imprese gagliarde : perchè, dove il popolo sia di alcuno momento, sempre fieno accettale; nè vi arà, chi sarà d’ altra oppinione, alcuno rimedio. Ma se di questo nasce la rovina della città, ne nasce ancora, e più spesso, la rovina particolare de* cittadini che sono preposti a simili imprese : perchè, avendosi il popolo presupposto la vittoria, eomee’vienc la perdita, non ne accusa nè la fortuna, nè la impotenza di chi ha governato, ma la tristizia e la ignoranza sua; e quello il più delle volte o ammazza, o imprigiona, o confina: come intervenne a infiniti capitani Cartaginesi, ed a molti Ateniesi. Nè giova loro alcuna vittoria che per lo addietro avessino avuta, perchè tutto la presente perdita cancella : come intervenne ad Antonio Giacomini nostro, il quale non avendo espugnata Pisa, come il popolo aveva presupposto ed egli promesso, venne in tanta disgrazia popolare, che non ostante infinite sue buone opere passate, visse più per umanità di coloro che ne avevano autorità, che per alcun’ altra cagione che nel popolo lo difendesse. liv# — Quanta autorità abbia uno uomo grande a frenare una moltitudine concitata. Il secondo notabile sopra il testo nel superiore capitolo allegato, è, che veruna cosa è tanto atta a frenare una moltitudine concitata, quanto è la riverenza di qualche uomo grave e di autorità, che se le faccia incontro j nè senza cagione dice VIRGILIO (si veda): “Tutn vietate graverà ac meritis si forte virum Conspexere , sileni , arrectisque aur^®n^ci* Per tanto, quello che è proposto a uno esercito, o quello che si trova in una città, dove nascesse tumulto, debbe rappresentarsi in su quello con maggior grazia e piu onorevolmente che può, mettendosi intorno le insegne di quel grado che tiene, per farsi più reverendo. Era, pochi anni sono, Firenze diviso in due fazioni, Fratesche ed Arrabbiate, che cosi si chiamavano; e venendo ali’ arme, ed essendo superati i Frateschi, intra i quali era Pagolantonio Soderini, assai in quelli tempi riputato cittadino; cd andandogli in quelli tumulti il popolo armato a casa per saccheggiarla; messer Francesco suo fratello, allora vescovo di Volterra, ed oggi cardinale, si trovava a sorte in casa : il quale, subito sentito il romore e veduta la turba, messosi i più onorevoli panni indosso, e di sopra il rocchetto episcopale, si fece incontro a quelli armati, e con la persona e con le parole gli fermò ; la qual cosa fu per tutta la città per molti giorni notata e celebrata. Conchiudo, adunque, come e’ non è il più fermo nè il più necessario rimedio a frenare una moltitudine concitata, che la presenza d’ uno uomo che per presenza paia e sia reverendo. Vedesi, adunque, per tornare al preallegato testo, con quanta ostinazione la Plebe romana accettava quel partito d’ andare a Yeio, perchè Io giudicava utile, nè vi conosceva sotto il danno vi era ? e come nascendone assai tumulti, ne sarebbero nati scandali, se il Senato con uomini gravi e pieni di riverenza non avesse frenato il loro furore. lv. — Quanto facilmente si conduellino le cose in quella città dove la moltitudine non è corrotta: e che dove è e qualità , non si può fare principato / e dove la non èj non si può far repubblica. Ancora clie di sopra si sia discorso assai quello sia da temere o sperare delle città corrotte; nondimeno non mi pare fuori di proposito considerare una deliberazione del Senato circa il voto ehe Cammillo aveva fatto di dare la decima parte ad Apolline della preda de’ Veienti : la qual preda sendo venuta nelle mani della Plebe romana, nè se ne potendo altrimenti riveder conto, fece il Senato uno editto, che ciascuno dovesse rappresentare al pubblico la decima parte di quello gli aveva predalo. E benché tale deliberazione non avesse luogo, avendo dipoi il Senato preso altro modo, c per altra via satisfatto ad Àpolliue in satisfazione della Plebe; nondimeno si vede per tali deliberazioni quanto quel Senato confidasse nella bontà di quella, e come e’ giudicava che nessuno fusse per non rappresentare appunto tutto quello che per tale editto gli era comandato. E dall’ altra parte si vede, come la Plebe non pensò di fraudare in alcuna parte lo editto con il dare meno che non doveva, ma di liberarsi da quello con il mostrarne aperte indignazioni. Questo essempio, con molti altri che di sopra si sono addotti, mostrano quanta bontà e quanta religione fusse in quel Popolo, e quanto bene fusse da sperare di lui. E veramente, dove non è questa bontà, non si può sperare nulla di bene; come non si può sperare nelle provincic che in questitempi si veggono corrotte: come è la Italia sopra tutte le altre; ed ancora la Francia di tale corruzione ritengono parte. E se in quelle provincie non si vede tanti disordini quanti nascono in Italia ogni di, deriva non tanto dalla bontà de' popoli, la quale ìh buona parte è mancata; quanto dallo avere uno re che gli mantiene uniti, non solamente per la virtù sua, ma per l’ordine di quelli regni, che ancora non sono guasti. Vedesi bene nella provincia della Magna, questa bontà e questa religione ancora in quelli popoli esser grande; la qual fa che molte repubbliche vi vivono libere, ed in modo osservano le loro leggi, che nessuno di fuori nè di dentro ardisce occuparle. E che sia vero che in loro regni buona parte di quella antica bontà, io nc voglio dare uno essempio simile a questo detto di sopra del Senato e della Plebe romana. Usano quelle repubbliche, quando gli occorre loro bisogno di avere a spendere alcuna quantità di danari per conto pubblico, che quelli magistrati o consigli che ne hanno autorità, ponghino a tutti gli abitanti della città uno per cento, o dua, di quello che ciascuno ha di valsente. E fatta tale deliberazione secondo 1’ ordine della terra, si rappresenta ciascuno dinanzi agli esecutori di tale imposta; e, preso prima il giuramento di pagare la conveniente somma, getta in una cassa a ciò deputata quello clic secondo la conscienza sua gli pare dover pagare: del qual pagamento non è testimonio alcuno, se non quello che paga. Donde si può conictturare, quanta bontà e quanta religione sia ancora in quelli uomini. E debbesi stimare che ciascuno paghi la vera somma: perchè, quando la non si pagasse, non pitterebbe la imposizione quella quantità che loro disegnassero secondo le antiche che fussino usitate riscuotersi; e non gitlando, si conoscerebbe la fraude; e conoscendosi, arebbon preso altro modo che questo. La quale bontà è tanto più da ammirare in questi tempi, quanto ella è più rara : anzi si vede essere rimasa sola in quella provincia. Il che nasce da due cose : Y una, non avere avuti commerzi grandi co’ vicini; perchè nè quelli sono ili a casa loro, nè essi sono iti a casa altrui; perchè sono stati eontenli di quelli beni, e vivere di quelli cibi, vestire di quelle lane che dà il paese: d’onde è stata tolta via la cagione d’ogni conversazione, ed il principio di ogni corruttela; perchè non hanno possuto pigliare i costumi nè franciosi nè spagnuoli nè italiani, le quali nazioni tutte insieme sono la corruttela del mondo. L’ altra cagione è, che quelle repubbliche dove si è mantenuto il vivere politico ed incorrotto, non sopportano che alcuno loro cittadino nè sia nè viva ad uso di gentiluomo: anzi mantengono infra loro una pari equalità, ed a quelli signori e gentiluomini che sono in quella provincia, sono inimicissimi ; c se per caso alcuni pervengono loro nelle mani, come priacipi di corruttela e cagione di ogni scandalo, gli ammazzano. E' per chiarire questo nome di gentiluomini quale e’ sia. dico che gentiluomini sono chiamali quelli che ociosi vivono de’ proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare, o di alcuna altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia; ma più perniciosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a ca- stella, ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai stata alcuna repubblica, nè alcuno vivere politico; perchè tali generazioni di uomini sono al tutto nemici di ogni civiltà. Ed a volere in provincie fatte in simil modo introdurre una repubblica, non sarebbe possibile: ma a volerle riordinare, se alcuno ne fusse arbitro, non arebbe altra via che farvi un regno. La ragione è questa, che dove è tanto la materia corrotta che le leggi non bastino a frenarla, vi bisogna ordinare insieme con quelle maggior forza ; la quale è una mano regia, che con la potenza assoluta ed eccessiva ponga freno alla eccessiva ambizione e corruttela de’ potenti. Verificasi questa ragione cou lo esempio di Toscana : dove si vede in poco spazio di terreno stale longamente tre repubbliche, Firenze, Siena e Lucca ; e le altre città di quella provincia essere in modo serve, che, con l’ animo e con T ordine, si vede o che le mantengono, o che le vorrebbono mantenere la loro libertà. Tutto è nato per non essere in quella provincia alcun signore di castella, c nessuno o pochissimi gentiluomini ; ma esservi tanta equalità, che facilmente da uno uomo prudente, e che delle antiche civilità avesse cognizione, vi si introdurrebbe un viver civile. Ma lo infortunio suo è stato tanto grande, che infino a questi tempi non ha sortito alcuno uomo che lo abbia potuto o saputo fare. Trassi adunque di questo discorso questa conclusione: che colui che vuole fare dove sono assai gentiluomini una repubblica, non la può fare se prima non gli spegne tutti: e che colui che dove è assai equalità vuole fare uno regno o uno principato, non lo potrà mai fare se non trae di quella «qualità molti di animo ambizioso ed inquieto, e quelli fa gentiluomini in fatto, e non in nome,, donando loro castella e possessioni, c dando loro favore di sustanze e d’uomini ; acciocché, posto in mezzo di loro, mediante quelli mantenga la sua potenza ; cd essi, mediante quello, la loro ambizione; e gli altri siano constretti n sopportare quel giogo che la forza, e non altro mai, può far sopportare loro. Ed essendo per questa via proporzione da chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi gli uomini ciascuno nello ordine loro. E perchè il fare d’ una provincia atta ad essere regno una repubblica, c d’ una atta ad essere repubblica farne un regno, è materia da uno uomo che per cervello e per autorità sia raro; sono stati molti che Io hanno voluto fare, e pochi che lo abbino saputo condurre. Perchè la grandezza della cosa parte sbigottisce gli uomini, parte in modo gli ’mpedisce, che ne’ primi principii mancano. Credo che a questa mia oppiatone, che dove sono gentiluomini non si possa ordinare repubblica, parrà contraria la esperienza della Repubblica veneziana, nella quale non usano avere alcuno grado se non coloro che sono gentiluomini. A che si risponde, come questo essempio non ci fa alcuna oppugnazione, perchè i gentiluomini in quella Repubblica sono piu in nome che in fatto; perchè loro non hanno grandi entrate di possessioni, sendo le loro ricchezze grandi fondate in sulla mercanzia e cose mobili; e di più, nessuno di loro tiene castella, o ha alcuna iurisdizione sopra gli uomini: ma quel nome di gentiluomo in loro è nome di degnila e di riputazione, senza essere fondato sopra alcuna di quelle cose che fa che nell’ altre città si chiamano i gentiluomini. E come le altre repubbliche hanno tutte le loro divisioni sotto vari nomi, così Vinegia si divide in gentiluomini e popolari ; e vogliono che quelli abbino, ovvero possino avere, tutti gli onori; quelli altri ne sieno al tutto esclusi. Il che non fa disordine in quella terra, per le ragioni altra volta dette. Gonstituisca, adunque, una repubblica colui dove è, o è fatta una grande egualità; ed alP incontro ordini un principato dove è grande inequalità : altrimenti farà cosa senza propprzione, e poco durabile. LYI. — Innanzi che segnino i grandi accidenti in una città o in una provincia , vengono segni che gli pròìioslicanOj o uomini che gli predicono. Donde e* si nasca io non so, ina si vede pei* gli antichi e per gli moderni essempi, che mai non venne alcuno grave accidente in una città o in una provincia, che non sia stato, o da indovini o da revelazioni o da prodigi, o da altri segni celesti, predetto. E per non mi discostare da casa nei provare questo, saciascuno quanto da frate Girolamo Savonarola fusse predetta innanzi la venuta del re Carlo Vili di Francia in Italia; e come, olirà di questo, per tutta Toscana si disse esser sentite in aria e vedute genti d’ arme, sopra Arezzo, che si azzuffavano insieme. Sa ciascuno olirà di questo, come avanti la morte di Lorenzo de’ Medici vecchio fu percosso il duomo nella sua più alta parte con una saetta celeste, con l'ovina grandissima di quello edilìzio. Sa ciascuno ancora,, come poco innanzi che Soderini, quale era stato fatto gonfaloniere a vita dal popolo fiorentino, fosse cacciato e privo del suo grado, fu il palazzo medesimamente da un fulgore percosso. Potrcbbesi, olirà di questo, addurre più essempi, i quali per fuggire il tedio lascerò. Narrerò solo quello che L., innanzi alla venuta de’ Franciosi in Roma : cioè, come uno Marco Cedizio plebeio, riferì al Senato avere udito di mezza notte, passando per la Via Nuova, una voce maggiore che umana, la quale lo ammoniva che riferisse ai magistrati, come i Franciosi venivano a Roma. La cagione di questo credo sia da essere discorsa ed interpretata da uomo che abbia notizia delle cose naturali e soprannaturali: il che non abbiamo noi. Pure, potrebbe essere che, sendo questo aere, come vuole alcuno filosofo, pieno d’ intelligenze ; le quali per naturale virtù prevedendo le cose future, ed avendo compassione agli uomini, acciò si possino preparare alle difese, gli avvertiscono con simili segni. Pure, comunelle si sia, si vede cosi essere la verità; e che sempre dopo tali accidenti sopravvengono cose istraordinarie e nuove alle provincie. L VII. — La plebe insieme è gagliarda; di per se è debole. Erano molti Romani, scudo seguita per la passata de* Franciosi la rovina della lor patria, andati ad abitare a Yeio, contea alla constituzione ed ordine del Senato: il quale, per rimediare a questo disordine, comandò per i suoi editti pubblici che ciascuno, infra certo tempo e sotto certe pene, tornasse ad abitare a Roma. De’quali editti, da prima per coloro contea a chi e* venivano, si fu fatto beffe; dipoi, quando si appressò il tempo dello ubbidire, tutti ubbidirono. E Tito Livio dice queste parole : Ex fcrocibus universtSj singtili metti suo obedienfes fuere. E veramente, non si può mostrare meglio la natura d’ una moltitudine in questa parte, che si dimostri in questo testo. Perchè la moltitudine è audace nel parlare molte volte contra alle deliberazioni del loro principe; dipoi, come veggono la pena in viso, non si fidando Y uno dell’ altro, corrono ad ubbidire. Talché si vede certo, che di quel che si dica uno popolo circa la mala o buona disposizion sua, si debbe tenere non gran conto, quando tu sia ordinato in modo da poterlo mantenere, s’ egli è ben disposto; s’ egli è mal disposto, da poter provvedere che non ti offenda. Questo s’intende per quelle male disposizioni che hanno i popoli, nate da qualunque altra cagione, che o per avere perduto la libertà, o il loro principe stato amato da loro, e che ancora sia vivo; perchè le male disposizioni che nascono da queste cagioni, sono sopra ogni cosa formidabili, e che hanno bisogno di grandi rimedi a frenarle : 1' altre sue indisposizioni fieno facili, quando ci non abbia capi a chi rifuggire. Perchè non ci è cosa, dall’ un canto, più formidabile che una moltitudine sciolta e senza capo; e, dall’ altra parte, non è cosa più debole : perchè, quantunque ella abbi 1’ armi in mano, fia facile ridurla, purché tu abbi ridotto da potere fuggire il primo impeto; perchè quando gli animi sono un poco raffreddi, e che ciascuno vede di aversi a tornare a casa sua, cominciano a dubitare di loro medesimi, e pensare alla salute loro, o con fuggirsi o con l’accordarsi. Però una moltitudine così concitata, volendo fuggire questi pericoli, ha subito a fare infra sè medesima un capo che la corregga, tenghila unita e pensi alla sua difesa ; come fece la Plebe romana, quando dopo la morte di Virginia si partì da Roma, e per salvarsi feciono infra loro venti Tribuni: e non facendo questo, interviene loro scmj)re quel che dice L. nelle soprascritte parole, che tutti insieme sono gagliardi; e quando ciascuno poi comincia a pensare al proprio pericolo, diventa vile e debole. LVIIL — ì.a moltitudine è più savia e più costante che un principe. Nessuna cosa essere più vana e più inconstante che la moltitudine: cosi L. nostro, come tutti gli altri istorici affermano. Perchè spesso occorre, nel narrare le azioni degli uomini, vedere la moltitudine avere condannato alcuno a morte, e quel medesimo di poi pianto e sommamente desiderato: come si vede avere fatto il Popolo romano di Manlio Capitolino, il quale avendo CONDENNATO A MORTE, sommamente dipoi desiderava. E le parole dell* autore son queste: Populum brevi, posteaquam ab co periculum nullum eral , dcsidcrium rjus tenuit. Ed altrove, quando mostra gli accidenti che nacquero in Siracusa dopo la morte di Girolamo nipote di Ierone, dice: Hcec natura mulliludinis est : aut umiliter servii , aut superbe domi • natur. Io non so se io mi prenderò una provincia dura, e piena di tanta difficoltà, che mi convenga o abbandonarla con vergogna, o seguirla con carico; volendo difendere una cosa, la quale, come ho detto, da tutti gli scrittori è accusata. Ma, comunehc si sia, io non giudico nè giudicherò mai essere difetto difendere alcune oppinioni con le ragioni, senza volervi usare o la autorità o la forza. Dico adunque, come di quello difetto di che accusano gli scrittori la moltitudine, se ne possono accusare tutti gli uomini particolarmente, e massime i principi; perchè ciascuno che non sia regolato dalle leggi, farebbe quelli medesimi errori che la moltitudine sciolta. E questo si può conoscere facilmente, perchè e’ sono c sono stati assai principi, e de’ buoni e de’ savi ne sono stati pochi; io dico de’ principi che hanno potuto rompere quel freno che gli può correggere; intra i quali non sono quegli re che nascevano in Egitto, quando in quella antichissima antichità si governava quella provincia con le leggi; nè quelli che nascevano in Sparta; nè quelli che a’ nostri tempi nascono in Francia: il quale regno è moderato più dalle leggi, che alcuno altro regno di che ne’ nostri tempi si abbi notizia. E questi re che nascono sotto tali constituzioni, non sono da mettere in quel numero, donde si abbia a considerare la natura di ciascuno uomo per sè, e vedere se egli è simile alla moltitudine: perchè a rincontro loro si debbe porre una moltitudine medesimamente regolata dalle leggi come sono loro; e si troverà in lei essere quella medesima bontà che noi veggiamo essere in quelli, e vedrassi quella nè superbamente dominare nè umilmente servire: come era il Popolo romano, il quale mentre durò la Repubblica incorrotta, non servì mai umilmente nè mai dominò superbamente; anzi con li suoi ordini e magistrati tenne il grado suo onorevolmente. E quando era necessario insurgerc contra a uno potente, lo faceva; come si vede in Manlio, ne’ Dieci, ed in altri che cercorno opprimerla : e quando era necessario ubbidire a’ Dittatori ed a’ Consoli per la salute pubblica, lo faceva. E se il Popolo romano desiderava Manlio Capitolino morto, non è meraviglia; perchè e* desiderava le sue virtù, le quali erano state tali, che la memoria di esse recava compassione a ciascuno; cd arebbono avuto forza di fare quel medesimo effetto in un principe, perchè 1* è sentenza di tutti li scrittori, come la virtù si lauda e si ammira ancora negli inimici suoi: e se Manlio, infra tanto desiderio, fusse risuscitato, il Popolo di Roma arebbe dato di lui il medesimo giudizio, come ei fece, tratto che lo ebbe di prigione, che poco di poi lo condennò a morte; nonostante die si vegga di principi tenuti savi, i quali hanno fatto morire qualche persona, e poi sommamente desideratala : come Alessandro, Clito ed altri suoi amici ; ed Erode, Marianne. Ma quello che lo istorico nostro dice della natura della moltitudine, non dice di quella che è regolata dalle leggi, come era la romana; ma della sciolta, come era la siracusana: la quale fece quelli errori che fanno gli uomini infuriati e sciolti, come fece Alessandro magno, ed Erode, ne’ casi detti. Però non è più da incolpare la natura della moltitudine che de’ principi, perchè tutti egualmente errano, quando tutti senza rispetto possono errare. Di che, oltre a quello che ho detto, ci sono assai essempi, ed intra gli imperadori romani, ed intra gli altri tiranni e , principi; dove si vede tanta incostanza e tanta variazione di vita, quanta mai non si trovasse in alcuna moltitudine. Conchiudo, adunque, contea olla comune oppimene, la qual dice come i popoli, quando sono principi, sono vari, mutabili, ingrati; affermando che in loro non sono altrimente questi peccati che si siano ne’ principi particolari. Ed accusando alcuni i popoli ed i principi insieme, potrebbe dire il vero; ma traendone i principi, s’inganna; perchè un popolo che comanda e sia bene ordinato, sarà stabile, prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che un principe, eziandio stimato savio: e dall’altra parte, un priucipe sciolto dalle leggi, sarà ingrato, vario ed imprudente più che uno popolo. E che la variazione del procedere loro nasce non dalla natura diversa, perchè in tutti è ad un modo: e se vi è vantaggio di bene, è nei popolo; ma dallo avere più o meno rispetto alle leggi, dentro alle quali l’uno e l’altro vive. E chi considerrà il Popolo romano, lo vedrà essere stato per quattrocento anni iuimico del nome regio, ed amatore della gloria e del bene comune della sua patria: vedrà tanti essempi usati da lui, clic testiiuoniauo 1’ una cosa e V altra. £ se alcuno mi allegasse la ingratitudine eh7 egli usò centra a Scipione, rispondo quello die di sopra lungamente si discorse in questa materia, dove si mostrò i popoli essere meno iugraii de’ principi. Ma quanto alla prudenza ed alla stabilità, dico, come uno popolo è più prudente, più stabile e di miglior giudicio che un principe. E uon senza cagione si assomiglia la voce d7 un popolo a quella di Dio; perchè si vede una oppinioue universale fare effetti meravigliosi ne’ pronostichi suoi: talché pare che per occulta virtù e’ prevegga il suo male ed il suo bene. Quanto al giudicare le cose, si vede rarissime volte, quando egli ode due concionanti che tendino in diverse parti, quando e’ sono di egual virtù, che non pigli *ia oppinione migliore, e che non sia capace di quella verità ch’egli ode. £ se nelle cose gagliarde, o che paiano utili, come di sopra si dice, egli erra ; molte volte erra ancora uri principe nelle sue proprie passioni, le quali sono molle più che quelle de’ popoli. Yedesi ancora, nelle sue elezioni ai magistrati, fare di lunga migliore elezione che uno principe; nè mai si persuaderà ad un popolo, che sia bene tirare alla degnila uno uomo infame e di corrotti costumi: il che facilmente e per mille vie si persuade ad un principe. Yedesi un popolo cominciare ad avere in orrore una cosa, e molti secoli stare in quella oppinione: il che non si vede in uno principe. E dell’ una e dell’ altra di queste due cose voglio mi basti per testimone il Popolo romano: il quale, in tante centinaia d’anni, in tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non fece quattro elezioni di che quello si avesse a pentire. Ed ebbe, come ho detto, tanto in odio il nome regio, che nessuno obbligo di alcuno suo cittadino, che tentasse quel nome, potette fargli fuggire le debite pene. Yedesi, oltra di questo, le città dove i popoli sono principi, fare in brevissimo tempo augumenti eccessivi, e molto maggiori che quelle che sempre sono state sotto un principe ! come fece Roma dopo la cacciata de’ re, ed Atene da poi che la si liberò da Pisistrato. 11 che non può nascere da altro, se non che sono migliori governi quelli de* popoli che quelli de* principi. Nè voglio che si opponga a questa mia oppinione tutto quello che lo istorico nostro ne dice nel preallcgato testo, ed in qualunque altro; perchè, se si discorreranno tutti i disordini de’popoli, tutti i disordini de* principi, tutte le glorie de* popoli, tutte quelle de’ principi, si vedrà il popolo di bontà e di gloria essere di lunga supcriore. E se i principi sono superiori a* popoli nello ordinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi ; i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate, eh’ egli aggiungono senza dubbio alla gloria di coloro che l’ordinano. Ed in somma, per epilegare questa materia, dico come hanno durato assai gli stati de’ principi, hanno durato assai gli stati delle repubbliche, e l’uno e l’ altro ha avuto bisogno d’essere regolato dalle leggi : perchè un principe che può fare ciò che vuole, è pazzo; un popolo che può fare ciò che vuole, non è savio. Se, adunque, si ragionerà d' un principe obbligato alle leggi, ed’ un popolo incatenalo da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe: se si ragionerà dell’ uno e dell’altro sciolto, si vedrà • meno errori nel popolo che nei principe; e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi. Perchè ad un popolo licenzioso e tumultuario, gli può da un uomo buono esser parlato, e facilmente può essere ridotto nella via buona : ad un principe cattivo non è alcuno che possa parlare, nè vi è altro rimedio che il ferro. Da che si può far coniettura della importanza della malattia dell’uno e dell’altro: chè se a curare la malattia del popolo bastano le parole, ed a quella del principe bisogna il ferro, non sarà mai alcuno che non giudichi, che dove bisogna maggior cura, siano maggiori errori. Quando un popolo è bene sciolto, non si temono le pazzie che quello fa, nè si ha paura del mal presente, ma di quello che ne può nascere, potendo nascere infra tanta confusione un tiranno. Ma ne’ principi tristi interviene il contrario: che si teme il male presente, e nel futuro si spera; persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita possa far surgere una libertà. Sì che vedete la differenza dell’ uno e dell’ altro, la quale è quanto dalle cose che sono, a quelle che hanno ad essere. Le crudeltà della moltitudine sono contra a chi ei temono clic occupi il ben comune : quelle d’ un principe sono contro a chi ci temono che occupi il bene proprio. Ma la oppiti ione contro ai popoli nasce perchè de’ popoli ciascuno dice male senza paura e liberamente, ancora mentre che regnano: de’ principi si parla sempre con mille paure e mille rispetti. Nè mi pare fuor di proposito, poiché questa materia mi vi tira, disputare nel seguente capitolo di quali confederazioni altri si possa più fidare, o di quelle falle con una repubblica, o di quelle fatte con ui> principe. LIX. — Di quali confederazioni , o lega, altri si può più fidare ; o di quella fatta con una repubblica , o di quella fatta con uno principe. Perchè ciascuno dì occorre che P uno principe con l’altro, o V una repubblica con l’altra, fanno lega ed amicizia insieme ; ed ancora similmente si contrae confederazione ed accordo intra una repubblica ed uno principe mi pare di esaminare qual fede è più stabile, e di quale si debba tenere più conto, o di quella d’ una repubblica, o di quella d’ uno principe, lo, esaminando tutto, credo che in molti casi e’ siano simili. ed in alcuni vi sia qualche disformità. Credo per tanto, che gli accordi fatti per forza non ti saranno nè da un principe nè da una repubblica osservali; credo che quando la paura dello stato venga, l'uno e l'altro, per non lo perdere, ti romperà la fede, e ti userà ingratiludine. Demetrio, quel che fu chiamato espugnatore delle cittadi, aveva fatto agli Ateniesi infiniti benefici! : occorse dipoi, che sendo rotto da’ suoi inimici, e rifuggendosi in Atene, come in città amica ed a lui obbligata, non fu ricevuto da quella : il che gli dolse assai più che non aveva fatto la perdita delle genti e dello esercito suo. Pompeio, rotto che fu da Cesare in Tessaglia, si rifuggì in Egitto a Tolomeo, il quale era per lo addietro da lui stato rimesso nel regno; e fu da lui morto. Le quali cose si vede che ebbero le medesime cagioni; nondimeno fu più umanità usata e meno •ingiuria dalla repubblica, che dal principe. Dove è, pertanto, la paura, si troverà in fallo la medesima fede. E se si troverà o una repubblica o uno principe, che per osservarti la fede aspetti di rovinare, può nascere questo ancora da simili cagioni. E quanto al principe, può molto bene occorrere che egli sia amico d’ un principe potente, che se bene non ha occasione allora di difenderlo, ei può sperare che col tempo e* lo restituisca nel principato suo; o veramente che, avendolo seguito come partigiano, ei non creda trovare nè fede nè accordi con il nimico di quello. Di questa sorte sono stati quelli principi del reame di Napoli che hanno seguite le parti franciose. E quanto alle repubbliche, fu di questa sorte Sagunto in Ispagna, che aspettò la rovina per seguire le parti romane; e di questa Firenze, per seguire nel 4512 le parti franciose. E credo, computata ogni cosa, che in questi casi, dove è il pericolo urgente, si troverà qualche stabilità più nelle repubbliche, che ne’ principi. Perche, sebbene le repubbliche avessino quel medesimo animo e quella medesima voglia che un principe, lo avere il moto loro tardo, farà che le porranno sempre più a risolversi che il principe, e per questo porranno più a rompere la fede di lui. Romponsi le confederazioni per lo utile. In questo le repubbliche sono di lunga più osservanti degli accordi, che i principi. E potrebbesi addurre essempi, dove uno miuinio utile ha fatto rompere la fede ad uno principe, e dove una grande utilità non ha fatto rompere la fede ad una repubblica : come fu quello partito che propose Temistocle agli Ateniesi, a’ quali nella conclone disse che aveva uno consiglio da fare alla loro patria grande utilità ; ma non lo poteva dire per non lo scoprire, perchè scoprendolo si toglieva la occasione del farlo. Onde il popolo di Atene elesse Aristide, al quale si comunicasse la cosa, e secondo dipoi che paresse a lui se ne deliberasse: al quale Temistode mostrò come I* armata di tutta Grecia, ancora che stesse sotto la fede loro, era in lato che facilmente si poteva guadagnare o distruggere; il che faceva gli Ateniesi al tutto arbitri di quella provincia. Donde Aristide riferì ai popolo, il partito di Temistocle essere utilissimo, ma disonestissimo : per la qual cosa il popolo al tutto lo ricusò. II che non arebbe fatto Filippo Macedone, e gli altri principi che più utile hanno cerco e più guadagnato con il rompere la fede, che con verun altro modo. Quanto a rompere i patti per qualche cagione di inosservanza, di questo io non parlo come di cosa ordinaria; ma parlo dì quelli che si rompono per cagioni istrasordinarie: dove io credo, per le cose (lette, che il popolo facci minori errori che il principe, e per questo si possa Fidar più di lui che del principe. LX. — Come il consolato e qualungue altro magistrato in Roma si (lava senza rispetto di età. E’ si vede per V ordine della istoria, come la Repubblica romana, poiché ’i consolato venne nella Plebe, concesse quello ai suoi cittadini senza rispetto di età o di sangue; ancora cbe il rispetto della età mai non fusse in Roma, ma sempre si andò a trovare la virtù, o in giovane o in vecchio cbe la fusse. Il che si vede per il testimone di Valerio Corvino, che fu fatto Consolo nell! Ventitré anni: e Valerio detto, parlando ai suoi soldati, disse come il consolato crai prcetnium virfulisj, non sanguinis. La qual cosa se fu bene considerata, o no, sarebbe da disputare assai. E quanto al sangue, fu concesso questo per necessità ; e quella necessità che fu in Roma, sarebbe in ogni città che volesse fare gli effetti che fece Roma, come altra volta si è detto: per- i! chè e’ non si può dare agli uomini disagio senza premio, nè si può torre la SPERANZA di conseguire il premio senza pericolo. E però a buona ora convenne che la Plebe avesse speranza di avere il consolato ; e di questa SPERANZA si nutrì un tempo senza averlo. Dipoi non bastò la speranza, che e’ convenne che si venisse allo effetto. Ma la città che non adopera la sua plebe ad alcuna cosa gloriosa, la può trattare a suo modo, come altrove si disputò: ma quella elle vuole fare quel che fe Roma, non ha a fare questa distinzione. E dato che così sia, quella del tempo non ha replica ; anzi è necessaria : perchè nello eleggere uno giovane in uno grado che abbi bisogno d’ una prudenza di vecchio, conviene, avendovelo ad eleggere la moltitudine, che a quel grado lo facci pervenire qualche sua nobilissima azione. E quando un giovane è di tanta virtù, che si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere ; sarebbe cosa dannosissima che la città non se «e potesse valere allora, e che la avesse ad aspettare che fusse invecchiato con lui quel vigore deir animo, quella prontezza, della quale in quella età la patria sua si poteva valere : come si valse Roma di Valerio Corvino, di Scipione, di Pompeio e di molti altri che trionfarono giovanissimi. Laudano sempre gli uomini, ma noti sempre ragionevolmente, gli antichi tempi, e gli presenti accusano: ed in modo sono delle cose passate partigiani, che non solamente celebrano quelle etadi che da loro sono state, per la memoria che ne hanno lasciata gli scrittori, conosciute ; ma quelle ancora che, sendo già vecchi, si ricordano nella loro giovanezza avere vedute. E quando questa loro oppinionc sia falsa, come il più delle volte è, mi persuado varie essere le cagioni che a questo inganno gli conducono. E la prima credo sia, che delle cose antiche non s’intenda al tutto lu verità; e che di quelle il più delle vollesi nasconda quelle cose che recherebbono a quelli tempi infamia; e quelle altre che possono partorire loro gloria, si remlino magnifiche ed amplissime. Però che i più degli scrittori in modo * alla fortuna de’ vincitori ubbidiscono, che per fare le loro vittorie gloriose, non solamente accrescono quello che da loro è virtuosamente operato, ma ancora le azioni de’ nimici in modo illustrano, che qualunque nasce dipoi in qualunque delle due provincie, o nella vittoriosa o nella vinta, ha cagione di maravigliarsi di quelli uomini e di quelli tempi, ed è forzato sommamente laudargli ed amargli. Olirà di questo, odiando gli uomini le cose o per timore o per invidia, vengono ad essere spente due potentissime cagioni delP odio nelle cose passate, non ti potendo quelle offendere, e non ti dando cagione d’ invidiarle. Ma al contrario interviene di quelle cose che si maneggiano e veggono ; le quali, pei* la intera cognizione di esse, non ti essendo in alcuna parte nascoste* e conoscendo in quelle insieme con il bene molte altre cose che ti dispiacciono, sei forzato giudicarle alle antiche molto inferiori, ancora che in verità le presenti molto più di quelle di gloria e di fama meritassero: ragionando non delie cose pertinenti alle arti, le quali hanno tanta chiarezza in sè, che i tempi possono torre o dar loro poco più gloria che per loro medesime si meritino ; ma parlando di quelle pertinenti alla vita e costumi degli uomini, delle quali non se ne veggono sì chiari testimoni. Replico, pertanto, essere vera quella consuetudine del laudare e biasimare soprascritta ; ma non essere già sempre vero che si erri nel farlo. Perchè qualche volta è necessario che giudichino la verità ; perchè essendo le cose umane sempre in molo, o le salgono, o lescendono. E vedesi una città o una provincia essere ordinata al vivere politico da qualche uomo eccellente; ed, un tempo, per la virtù di quello ordinatore, andare sempre in augumento verso il meglio. Chi nasce allora in tale stato, ed ei laudi più li antichi tempi che i moderni, s’ inganna ; ed è causato il suo inganno da quelle cose che di sopra si sono dette. Ma coloro che nascono dipoi, in quella città o provincia, che gli è venuto il tempo che la scende verso la parte più rea, allora non s’ ingannano. E pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo sempre essere stalo ad un medesimo modo, ed in quello esser stato tanto di buono quanto di tristo ; ma variare questo tristo e questo buono di provincia in provincia: come si vede per quello si ha notizia di quelli regni antichi che variavano dall’uno all’altro per la variazione de’ costumi; ma il mondo restava quel medesimo. Solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima collocata la sua virtù in Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia ed a Roma: e se dopo 10 imperio romano non è seguito imperio che sia durato, nè dove il mondo abbia ritenuta la sua virtù insieme; si vede nondimeno essere sparsa in di molte nazioni dove si viveva virtuosamente; come era il regno de’ Franchi, 11 regno de’ Turchi, quel del Soldano; ed oggi i popoli della Magna ; e prima quella setta Saracina che fece tante gran cose, ed occupò tanto mondo, poiché la distrusse lo imperio romano orientale. In tutte queste provincie, adunque, poiché i Romani rovinorono, ed in tutte queste sètte è stata quella virtù, ed è ancora in alcuna parte di esse, che si desidera, e che con vera laude si lauda. E chi nasce in quelle, e lauda i tempi passati più che i presenti, si potrebbe ingannare; ma chi nasce in Italia ed in Grecia, e non sia divenuto o in Italia oltramontano o in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi, e laudare gli altri : perchè in quelli vi sono assai cose, che gli fanno meravigliosi ; in questi non è cosa alcuna che gli ricomperi da ogni estrema miseria, infamia e vituperio: dove non è osservanza di religione, non di leggi, non di milizia; ma sono maculati d’ ogni ragione bruttura. E tanto sono questi vizi più detestabili, quanto ei sono più in coloro che seggono prò tribunali, comandano a ciascuno, e vogliono essere adorati. .Ha tornando al ragionamento nostro, dico che se il giudicio degli uomini è corrotto in giudicare quale sia migliore, o il secolo presente o l’antico, in quelle cose dove per l’antichità ei non ha possuto avere perfetta cognizione come egli ha de’ suoi tempi ; non doverrebbe corrompersi ne’ vecchi nel giudicare i lempi della gioventù e vecchiezza loro, avendo quelli e questi egualmente conosciuti e visti. La qual cosa sarebbe vera, se gli uomini per tutti i tempi della lor vita l'ussero del medesimo giudizio, ed avessero quelli medesimi appetiti : ma variando quelli, ancora che i tempi nou variino, non possono parere agli uomini quelli medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti, altre considerazioni nella vecchiezza, che nella gioventù. Perchè, mancando gli uomini quando li invecchiano di forze, e crescendo di giudizio e di prudenza; è necessario che quelle cose che in gioventù parevano loro sopportabili e buone, ineschino poi invecchiando insopportabili e cattive ; e dove quelli ne doverrebbono accusare il giudicio loro, ne accusano i tempi. Sendo. ultra di questo, gli appetiti umani insaziabili, perchè hanno dalla natura di potere e voler desiderare ogni cosa, e dalla fortuna di potere conseguirne poche; ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane, ed un fastidio delle cose che si posseggono: il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri ; ancora che a fare questo non fussino mossi da alcuna ragionevole cagione. Non so, adunque, se io meriterò d’ essere numerato tra quelli che si ingannano, se in questi mia discorsi io lauderò troppo i tempi degli antichi Romani, e biasimerò i nostri. E veramente, se la virtù che allora regnava, ed il vizio che ora regna, non fussino più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto, dubitando non incorrere in quello inganno di che io accuso alcuni. Ma essendo la cosa si manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi; acciocché gli animi de’ giovani che questi mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e prepararsi ad imitar quegli, qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perchè gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare. insegnarlo nd altri, acciocché sendone molti capaci, alcuno di quelli, più amato dal Cielo, possa operarlo. Ed avendo ne’ discorsi del superior libro parlato delle deliberazioni fatte da* Romani pertinenti al di dentro della città, in questo parleremo di quelle, che ’\ Popolo romano fece pertinenti allo augumento dello imperio suo. I. — Quale fu più cagione dello imperio che acquistarono i Romani , o la virtùj o la fortuna. Molti hanno avuta oppinione, intra i quali è Plutarco, gravissimo scrittore, che ’1 Popolo romano nello acquistare lo imperio fusse più favorito dalla fortuna che dalla virtù. Ed intra le altre ragioni che ne adduce, dice che per confessione di quel popolo si dimostra, quello avere riconosciute dalla fortuna tutte le sue vittorie, avendo quello edificati più templi alla Fortuna, che ad alcun altro Dio. E pare che a questa oppinione si accosti Livio; perchè rade volte è che facci parlare ad alcuno Romano, dove ei racconti della virtù, che non vi aggiunga la fortuna. La qual cosa io non voglio confessare in alcun modo, nè credo ancora si possa sostenere. Perchè, se non si è trovato mai repubblica che abbi fatti i progressi che Roma, è nato che non si è trovata mai repubblica che sia stata ordinata a potere acquistare come Roma. Perchè la virtù degli eserciti gli feciono acquistare Io imperio; e l’ordine del procedere, ed il modo suo proprio, e trovato dal suo primo legislatore, gli fece mantenere lo acquistato: come di sotto largamente in più discorsi si narrerà. Dicono costoro, che non avere mai ac*» cozzate due potentissime guerre in uno medesimo tempo, fu fortuna e non virtù del Popolo romano ; perchè e’ non ebbero guerra con i Latini, se non quando egli ebbero non tanto battuti i Sanniti, quanto che la guerra fu da* Romani fatta in difensione di quelli ; non combatterono con i Toscani, se prima non ebbero soggiogati i Latini, ed enervati con le spesse rotte quasi in tutto i Sanniti: che se due di queste potenze intere si fussero, quando erano fresche, accozzate insieme, senza dubbio si può facilmente conietturare che ne sarebbe seguito la rovina della romana Repubblica. Ma, comunelle questa cosa nascesse, mai non intervenne che eglino avessino due potentissime guerre in un medesimo tempo: anzi parve sempre, o nel nascere dell’ una, l’altra si spegnesse; o nel spegnersi dell’ una, l’altra nascesse. 11 che si può facilmente vedere per T ordine delle guerre fatte da loro: perchè, lasciando stare quelle che feciono prima che Roma fusse presa dai Franciosi, si vede che, mentre che combatterno con gli Equi e con i Volsci, mai, mentre questi popoli furono potenti, non si levarono contro di lor uitre genti. Domi costoro, nacque la guerra contea ai Sanniti; e benché innanzi che finisse tal guerra i popoli latini si ribellassero da’ Romani, nondimeno quando tale ribellione segui, i Sanniti erano in lega con Roma, e con il loro esercito aiutorono i Romani domare la insolenza latina. I quali domi, risurse la guerra di Sannio. Battute per molte rotte date a’ Sanniti le loro forze, nacque la guerra de’ Toscani; la qual composta, si rilevarono di nuovo i Sanniti per la passata di Pirro in Italia. Il quale come fu ribattuto, e rimandato in Grecia, appiccarono la prima guerra con i Cartaginesi: nè {ìrima fu tal guerra finita, che tutti i Franciosi, e di là e di qua dall’ Alpi, congiurarono conti a i Romani; tanto che intra Popolonia e Pisa, dove è oggi la torre a San Vincenti, furono con massima strage superati. Finita questa guerra, per ispazio di venti anni ebbero guerra di non molta importanza; perchè non eombatterono con altri che con i Liguri, c con quel rimanente de’ Franciosi che era in Lombardia. E così stettero tanto che nacque la seconda guerra cartaginese, la qual per sedici anni tenne occupata Italia. Finita questa con massima gloria, nacque la guerra macedonica ; la quale tìnita, venne quella d’ Antioco e d’ Asia. Dopo la qual vittoria, non restò in tutto il mondo nè principe nè repubblica che, di per sè, o tutti insieme, si potessero opporre alle forze romane. Ma innanzi a quella ultima vittoria, chi considerrà l’ ordine di queste guerre, ed il modo del . procedere loro, vedrà dentro mescolate con la fortuna una virtù e prudenza grandissima. Talché, chi esaminasse la cagione di tale fortuna, la ritroverebbe facilmente: perchè gli è cosa certissima, che come un principe e un popolo viene in tanta riputazione, che ciascuno principe e popolo vicino abbia di per sè paura ad assaltarlo, e ne tema, sempre interverrà che ciascuno d essi mai lo assalterà, se non necessitato ; in modo che e’ sarà quasi come nella elezione di quel polente, far guerra con quale di quelli suoi vicini gli parrà, e gii altri con la sua industria quietare. I quali, parte rispetto alla potenza suo, parte ingannati da quei modi che egli terrà per nddormentargli, si quietano facilmente; e gli altri potenti che sono discosto, e che non hanno coinmerzio seco, curano la cosa come cosa longinqua, e che non appartenga loro. Nel quale errore stanno tanto che questo incendio venga loro presso : il quale venuto, non hanno rimedio a spegnerlo se non con le forze proprie; le quali dipoi non bastano, sendo colui diventato potentissimo. Io voglio lasciare andare, come i Sanniti stettero a vedere vincere dal Popolo romano i Yolsci e gli Equi; e per non essere troppo prolisso, mi farò da’ Cartaginesi : i quali erano di gran potenza c di grande estimazione quando i Romani combattevano con i Sanniti e con i Toscani ; perchè tii già tenevano tutta 1’ Affrica, tenevano ia Stintigna e la Sicilia, avevano dominio in parte della Spagna. La quale polenza loro, insieme con V esser discosto ne’ confini dal Popolo romano, fece che non pensarono mai di assaltare quello, nè di soccorrere i Sanniti e Toscani: anzi fecero come si fa nelle cose che crescono, più tosto in lor favore collegandosi con quelli, e cercando l’amicizia loro. Nè si avviddono prima del1’ errore fatto, che i Romani, domi tutti i popoli mezzi infra loro ed i Cartaginesi, cominciarono a combattere insieme dello imperio di Sicilia e di Spagna. Intervenne questo medesimo a’ Franciosi che a’ Cartaginesi, e cosi a Filippo re de’ Macedoni, e ad Antioco; e ciascuno di loro credea, mentre che il Popolo romano era occupato con l’altro, che quell’ altro lo superasse, ed essere a tempo, o con pace o con guerra, difendersi da lui. In modo che io credo che la fortuna che ebbono in questa parte i Romani, 1’ arebbono tutti quelli principl che procedessero come i Romani, c fussero di quella medesima virtù che loro. Sarebbeci da mostrare a questo proposito il modo tenuto dal Popolo romano nello entrare nelle provincie d’ altri, se nei nostro trattato de’ principati non ne avessimo parlato a lungo ; perchè in quello questa materia è diffusamente disputata. Dirò solo questo brevemente, come sempre s’ingegnarono avere nelle provincie nuove qualche amico che fusse scala o porta a salirvi o entrarvi, o mezzo a tenerla : come si vede che per. il mezzo de’ Capovani entrarono in Sannio, de’ Camertini in Toscana, de’ Mamertini in Sicilia, de’ Saguntini in Spagna, di Massinissa iti Affrica, degli Eloli in Grecia, di Eumene ed altri principi in Asia, de’ Massiliensi e deili Edui in Francia. E così non mancarono mai di simili appoggi, per potere facilitare le imprese loro, e nello acquistare le provincie e nel tenerle. Il che quelli popoli che osserveranno, vedranno avere meno bisogno della fortuna, che quelli che ne saranno non buoni osservatori. E perchè ciascuno possa meglio conoscere, quanto potè più la virtù che la fortuna loro ad acquistare quello imperio ; noi discorreremo nel seguente capitolo di che qualità furono quelli popoli con i quali egli ebbero a combattere, e quanto erano ostinati a difendere la loro libertà. 11. — Con quali popoli i Romani ebbero a combattere , e come ostinatamente quelli difendevano la loro libertà. Nessuna cosa fece più faticoso a* Romani superare i popoli d* intorno, c parte delle provincie discosto, quanto lo amore che in quelli tempi molti popoli avevano alla libertà; la quale tanto ostinatamente difendevano, che mai se non da una eccessiva virtù sarebbono stati * soggiogati. Perchè, per molti essempi si conosce a quali pericoli si mettessino per mantenere o ricuperare quella ; quali vendette e’ facessino contra a coloro che V avessino loro occupata. Conoscesi ancora nelle lezioni delle istorie, quali danni i popoli e le città riccvino per la servitù. E dove in questi tempi ci è solo una provincia la quale si possa dire che abbia in sè città libere, ne* tempi antichi in tutte le provincie erano assai popoli liberissimi. Vedesi come in quelli tempi de’ quali noi parliamo al presente, in Italia, dall’ Alpi che dividono ora la Toscana dalla Lombardia, insino alla punta d’Italia, erano molti popoli liberi; com’erano i Toscani, i Romani, i Sanniti, e molti altri popoli che in quel resto d’ Italia abitavano. Nè si ragiona mai che vi fusse alcuno re, fuora di quelli che regnarono in Roma, e Porsena re di Toscaua; la stirpe del quale come si estinguesse, non ne parla la istoria. Ma si vede bene, come in quelli tempi che i . Romani andarono a campo a Veio, la Toscana era libera : e tanto si godea della sua libertà, e tanto odiava il nome del principe, che avendo fatto i Veienti per loro difensione un re in Veio, e domandando aiuto a' Toscani contra ai Romani ; quelli, dopo molte consulte fatte, deliberarono di non dare aiuto a’Veienti, infino a tanto che vivessino sotto ’1 re; giudicando non esser bene difendere la patria di coloro che V avevano di già sottomessa ad altrui. E facil cosa è conoscere donde nasca ne’ popoli questa affezione del vivere libero; perchè si vede per esperienza, le cittadi non avere mai ampliato nè di domiuio nè di ricchezza, se non mentre sono state in libertà. E veramente meravigliosa cosa è a considerare, a quanta grandezza venne Atene per ispazio di cento anni, poiché la si liberò dalla tirannide di Pisistrato. Ma sopra tutto meravigliosissima cosa è a considerare, a quanta grandezza venne Roma, poiché la si liberò da’ suoi Re. La cagione è facile ad intendere; perchè non il bene particolare, ma il bene comune è quello che fa grandi le città. E senza dubbio, questo bene comune non è osservato se non nelle repubbliche; perchè lutto quello che fa a proposito suo, si eseguisce; e quantunque e’ torni in danno di questo o di quello privato, e’ sono tanti quelli per chi detto bene fa, che lo possono tirare innanzi contra alla disposizione di quelli pochi che ne fussino oppressi. Al contrario interviene quando vi è uno principe; dove il più delle volte quello che fa per lui, offende la città; e quello che fa per la città, offende lui. Dimodoché, subito che nasce una tirannide sopra un viver libero, il manco male che ne resulti a quelle città, è non andare più innanzi, nè crescere più in potenza o in ricchezze ; ma il più delle volte, anzi sempre, interviene loro, che le tornano indietro. E se la sorte facesse che vi surgesse un tiranno virtuoso, il quale , per animo e per virtù d’ arme ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna utilità a quella repubblica, ma a lui proprio: perchè e’ non può onorare nessuno di quelli cittadini che siano valenti c buoni, che egli tiranneggia, non volendo avere ad avere sospetto di loro. Non può ancora le città che egli acquista, sottometterle o farle tributarie a quella città di che egli è tiranno: perchè il farla potente non fa per lui; ma per lui fa tenere lo Stato disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna provincia riconosca lui. Talché di suoi acquisti, solo egli ne profitta, e non la sua patria. E chi volesse confermare questa oppinione con infinite altre ragioni, legga Senofonte nel suo trattato che fa De Tirannide. Non è meraviglia adunque, che gli antichi popoli con tanto odio perseguitassino i tiranni, ed nmassiiio il vivere libero, e che il nome della libertà fusse tanto stimato da loro: come intervenne quando Girolamo nipote di lerone siracusano fu morto in Siracusa, che venendo le novelle della sua morte in nel suo esercito, che non era molto lontano da Siracusa, cominciò prima a tumultuare, e pigliare 1’ armi contro agli ucciditori di quello; ma come ei sentì che in Siracusa si gridava libertà, allettato da quel nome, si quietò tutto, pose giti V ira contra a’ tirannicidi, e pensò come iti quella città si potesse ordinare un viver libero. Non è meraviglia ancora, che i popoli faccino vendette istraordinaric contra a quelli che gli hanno occupata la libertà. Di che ci sono stali assai esempi, de’ quali ne intendo referire solo uno, seguilo in Coreica, città di Grecia, ne’ tempi della guerra peloponnesiaca; «love sendo divisa quella provincia in due fazioni, delle quali 1’ una seguitava gli Ateniesi, V altra gli Spartani, ne nasceva che di molte città, che erano infra loro divise, T una parte seguiva F amicizia di Sparta, l’altra di Atene: ed essendo occorso clic nella detta città prcvalessino i nobili, e togliessino la libertà al popolo, i popolari per mezzo degli Ateniesi ripresero le forze, e posto le mani addosso a tutta la nobiltà, gli rinchiusero in una prigione capace di tutti loro; donde gli traevano ad otto o dieci per volta, sotto titolo di mandargli in esilio iti diverse parli, e quelli con molti crudeli essempi facevauo morire. Di che sendosi quelli che restavano accorti, deliberarono, in quanto era a loro possibile, fuggire quella morte ignominiosa ; ed armatisi di quello potevano, combattendo con quelli vi volevano entrare, la entrata della prigione difendevano; di modo che il popolo, a questo romore fatto concorso, scoperse la parte superiore di quel luogo, e quelli con quelle rovine sufìbeorno. Seguirono ancora in delta provincia molti altri simili casi orrendi e notabili : talché si vede esser vero, che con maggiore impeto si vendica una libertà che ti è suta tolta, che quella che li è voluta torre. Pensando dunque donde possa nascere, che in quelli tempi antichi, i popoli fussero più amatori della libertà che in questi; credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti : la quale credo sia la diversità della educazione nostra dalla antica, fondata nella diversità della religione nostra dalla antica. Perchè avendoci la nostra religione mostra la verità e la vera via, ci fa stimare meno l’onore del mondo: onde i Gentili stimandolo assai, ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni loro più feroci. Il che si può considerare da molte loro constituzioni, cominciandosi dalla magnificenza de’ sacrificii loro, alla umilila de’ nostri ; dove è qualche pompa più dilicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o gagliarda. Quivi non mancava la pompa nè la magnificenza delle cerimonie, ma vi si aggiungeva 1* azione del sacrificio pieno di sangue e di ferocia, ammazzandovisi moltitudine di animali : il quale aspetto sendo terribile, rendeva gli uomini simili a lui. La religione antica, oltre di questo, non beatificava se non gli uomini pieni di mondana gloria: come erano capitani di eserciti, e principi di repubbliche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi, che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umilila, abiezione, nello dispregio delle cose umane: quell’ altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo, ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi rendutoil mondo debole, e datolo in preda agli uomini scellerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come la università degli uomini, per andare in paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture, che a vendicarle. E benché paia che si sia effeminato il mondo, e disarmato il cielo, nasce più senza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l’ ozio, e non secondo la virtù. Perchè, se considerassino come la permette la esultazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi l’amiaino ed onoriamo, e prepariamoci ad esser tali che noi la possiamo difendere. Fanno adunque queste educazioni, e si false interpretazioni, che nel mondo non si vede tante repubbliche quante si vedeva aulicamente; nè, per conscguente, si vede ne’ popoli tanto amore alla libertà quanto allora : ancora che io creda piuttosto essere cagione di questo, che lo imperio romano con le sue arme e sua grandezza spense tutte le repubbliche e lutti i viveri civili E benché poi tal imperio si sia risoluto, non si sono potute le città ancora rimettere insieme nè riordinare alla vita civile, se non in pochissimi luoghi di quello imperio. Pure, comunelle si fusse, i Romani in ogni minima parte del mondo trovarono una congiura di repubbliche armatissime, ed ostinatissime atia difesa della libertà loro. Il che mostra che '1 Popolo romano senza una rara ed estrema virtù mai non le arebbe potute superare. E per darne esseinpio di qualche membro, voglio mi basti lo essempio de’ Sanniti : i quali pare cosa mirabile, e Tito Livio lo confessa, che fussero sì potenti, e 1’ arme loro si valide, che potessero infino al tempo di Papirio Cursore consolo, figliuolo del primo Papirio, resistere a’ Romani (che fu uno spazio di XLVI anni), dopo tante rotte, rovine di terre, e tante stragi ricevute nel paese loro; massime veduto ora quel paese dove erano tante cittadi e tanti uomini, esser quasi che disabitato : ed allora vi era tanto ordine, e tanta forza, eh’ egli era insuperabile, se da una- virtù romana non fusse stato assaltato. E facil cosa è considerare donde nasceva quello ordine, c donde proceda questo disordine; perchè tutto viene dal viver libero allora, ed ora dal viver servo. Perchè tutte le terre e le provincie che vivono libere in ogni parte, come di sopra dissi, fanno i progressi grandissimi. Perchè quivi si vede maggiori popoli, per essere i matrimoni più liberi, e più desiderabili dagli uomini : perchè ciascuno procrea volentieri quelli figliuoli che crede potere nutrire, non dubitando che il patrimonio gli sia tolto; thè eT conosce non solamente che nascono liberi e non schiavi, ma che possono mediante la virtù loro diventare principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura, e quelle che vengono dalle arti. Perchè ciascuno volentieri multiplica in quella cosa, e cerca di acquistare quei beni, che crede acquistati potersi godere. Onde ne nasce che gli uomini a gara pensano ai privati ed a’ pubblici comodi; e l’ uno e l’altro viene meravigliosamente a crescere. II contrario di tutte queste cosesegue in quelli paesi che vivono scivi; c tanto più mancano del consueto bene, quanto è più dura la servitù. E di tutte" le servitù dure, quella è durissima che li sottomette ad una repubblica : E una, perchè la è più durabile, e manco si può sperare d’ uscirne; Y altra, perchè il fine della repubblica è enervare ed indebolire. per accrescere il corpo suo, tutti gli altri corpi. 11 che non la un principe che ti sottometta, quando quel principe non sia qualche principe barbaro, destruttore de’ paesi, e dissipatore di tutte le civilità degli uomini, come sono i principi orientali. Ma s’ egli ha in sè ordini umani ed ordinari, il più delle volte ama le città sue soggette egualmente, ed a loro lascia T arti tutte, e quasi lutti gli ordini antichi. Talché, se le non possono crescere come libere, elle non rovinano anche come serve; intendendosi della servitù in quale vengono le città servendo ad un forestiero, perchè di quella d’ uno loro cittadino ne parlai di sopra. Chi considerrù, adunque, tutto quello che si è detto, non si meraviglierà della potenza che i Sanniti avevano sendo liberi, e della debolezza in che e’ vennero poi servendo: e L. ne fa fede in più luoghi, e massime nella guerra d’ Annibaie, dove ei mostra che essendo i Sanniti oppressi da una legione d’ uomini che era in Nola, mandorono oratori ad Annibale, a pregarlo che gli soccorresse; i quali nel parlar loro dissono, che avevano per cento anni combattuto con i Romani con i propri loro soldati e propri loro capitani, e molte volte avevano sostenuto duoi eserciti consolari e duoi consoli; e che allora a tanta bassezza erano venuti, che non si potevano a pena difendere da una piccola legione romana che era. III. — Roma divenne grande città rovinando le città circonvicine , e ricevendo i forestieri facilmente aJ suoi onori. Crescit inlerea Roma Albce ruinis. Quelli che disegnano che una città faccia grande imperio, si debbono con ogni industria ingegnare di farla piena di abitatori ; perchè senza questa abbondanza di uomini, mai non riuscirà di fare grande una città. Questo si fa in duoi modi; per amore, e per forza. Per amore, tenendo le vie aperte e secure a’ forestieri che disegnassero venire ad abitare in quella, acciocché ciascuno vi abiti volentieri : per forza, disfacendo le città vicine, e mandando gli abitatori di quelle ad abitare nella tua città. Il che fu tanto osservato in Roma, che nel tempo del sesto Re in Roma abitavano ottantamila uomini da portare armi. Perchè i Romani vollono fare ad uso del buono cultivatore; il quale, perche una pianta ingrossi, e possa pròdurre e maturare i fruiti suoi, gli taglia i primi rami che la mette, acciocché, rimasa quella virtù nel piede di quella pianta, possino col tempo nascervi più verdi e più fruttiferi. E che questo modo tenuto per ampliare e fare imperio, fusse necessario e buono, lo dimostra Io essempio di Sparta e di Atene : le quali essendo due repubbliche armatissime, ed ordinate di ottime leggi, nondimeno non si condussono alla grandezza dello imperio romano; e Roma pareva più tumultuaria, e non tanto bene ordinata quanto quelle. Di che non se ne può addurre altra cagione, che la preallegata: perchè Roma, per avere ingrossato per quelle due vie il corpo della sua città, potette di già mettere in arme dugentottantamila uomini; e Sparta ed Atene non passarono mai ventimila per ciascuna. Il che nacque, non da essere il sito di Roma più benigno che quello di coloro, ma solamente da diverso modo di procedere. Perché Licurgo, fondatore della repubblica spartana , considerando nessuna cosa potere più facilmente risolvere le sue leggi che la commistione di nuovi abitatori, fece ogni cosa perchè i forestieri non avessino a conversarvi: ed, oltre al non gli ricevere ne’ matrimoni, alla civiltà, ed alle altre conversazioni che fanno convenire gli uomini insieme, ordinò che in quella sua repubblica si spendesse monete di cuoio, per tor via a ciascuno il desiderio di venirvi per portarvi mercanzie, o portarvi alcuna arte; di qualità che quella città non potette mai ingrossare di abitatori. E perchè tutte le azioni nostre imitano la natura, non è possibile nè naturale che uno pedale sottile sostenga un ramo grosso. Però una repubblica piccola non può occupare città nè regni che siano più validi nè più grossi di lei; e se pure gli occupa, gP interviene come a quello albero che avesse più. grosso il ramo che ’l piede," che sostenendolo con fatica, ogni piccolo vento lo fiacca: come si vede che intervenne a Sparla, la quale avendo occupate tutte le città di Grecia, non prima se gli ribellò Tebe, che tutte P altre cittadi se gli ribellarono, e rimase i! pedale solo senza rami. Il che non potette intervenire a Roma, avendo il piè si grosso, che qualunque ramo poteva facilmente sostenere. Questo modo adunque di procedere, insieme con gli altri che di sotto si diranno, fece Roma grande e potentissima. Il che dimostra L. in due parole, quando disse: Crcscit intcrea Roma Albce ruinis. IV. — Le repubbliche hanno tentili tre modi circa lo ampliare. Chi ha osservato le antiche istorie, Iruova come le repubbliche hanno tre modi circa lo ampliare. L* uno è stato quello che osservorono i Toscani antichi, di essere una lega di più repubbliche insieme, dove non sia alcuna che avanzi l’ altra nè di autorità nè di grado; e nello acquistare, farsi 1’ altre città compagne, in simil modo come in questo tempo fanno i Svizzeri, e come nei tempi antichi feciono in Grecia gli Achei e gli Etoli. E perchè gli Romani feciono assai guerra con i Toscani, per mostrar meglio la qualità di questo primo modo, ini distenderò in dare notizia di loro particolarmente. In Italia, innanzi allo imperio romano, furono i Toscani per mare e per terra potentissimi: e benché delle cose loro non ce ne sia particolare istoria, pure c’è qualche poco di memoria, e qualche segno della grandezza loro; e si sa come e* mandarono una colonia in su ’l mare di sopra, la quale chiamarono Adria, che fu si nobile, che la dette nome a quel mare che ancora i Latini chiamano Adriatico. Intendesi ancora, come le loro arme furono ubbidite dal Tevere per infìno ai piè dell’ Alpi, che ora cingono il grosso di Italia; non ostante che dugento anni innanzi che i Romani crescessino in molte forze, detti Toscani perderono lo imperio di quel paese che oggi si chiama la Lombardia; la quale provincia fu occupata da’ Franciosi : i quali mossi o da necessità, o dalla dolcezza dei frutti, e massime del viuo, vennono in Italia sotto Bellovcso loro duce; e rotti e cacciati i provinciali, si posono in quel luogo, dove edificarono di molte cittadi, e quella provincia chiamarono Gallia, dal nome che tenevano allora ; la quale tennono fino che da’ Romani fussero domi. Vivevano, adunque, i Toscani con quella equalità , e procedevano nello ampliare in quel primo modo che di sopra si dice: e furono dodici città, tra le quali era Chiusi, Yeio, Fiesole, Arezzo, Volterra, e simili: i quali per via di lega governavano lo imperio loro; nè poterono uscir d’Italia con gli acquisti ; e di quella ancora rimase intatta gran parte, per le cagioni che di sotto si diranno. V altro modo è farsi compagni j non tanto però che non ti rimanga il grado del comandare, la sedia dello imperio ed il titolo delle imprese : il quale modo fu osservato da’ Romani. 11 terzo modo è farsi immediate sudditi, e non compagni; come fecero gli Spartani e gli Ateniesi. De' quali tre modi, questo ultimo è al tutto inutile; come c’ si vide che fu nelle sopraddette due repubbliche: le quali non rovinarono per altro, se non per avere acquistato quel dominio che le non potevano tenere. Perchè, pigliar cura di avere a governare città con violenza, massime quelle che tassino consuete a viver libere, è una cosa diffìcile e faticosa. E se tu non sei armato e grosso d’ armi, non le puoi nè comandare nè reggere. Ed a voler esser così fatto, è necessario farsi compagni che ti aiutino ingrossare la tua città di popolo. E perchè queste due città non feciono nè1’ uno nè I’ altro, il modo del procedere loro fu inutile. E perché Roma, la quale è nello esempio del secondo modo, fece l’uno e T altro; però salse a tanta eccessiva potenza. E perchè la è stata sola a vivere cosi, è stata ancora sola a diventar tanto potente : perchè, avendosi ella fatti di molti compagni per tutta Italia, i quali in di molte cose con eguali leggi vivevano seco; e dall’ altro canto» come di sopra è detto, sendosi riservato sempre la sedia dello imperio ed il titolo del comandare; questi suoi com-pagni venivano, che non se ne avvedevano, con le fatiche e con il sangue loro a soggiogar sè stessi. Perchè, come cominciorono a uscire con gli eserciti di Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi soggetti coloro che per esser consueti a vivere sotto i Re, non si curavano d* esser soggetti; ed avendo governadori romani, ed essendo stati vinti da eserciti con ii titolo romano ; non riconoscevano per superiore altro che Roma. Di modo che quelli compagni di Roma che erano in Italia, si trovarono in un tratto cinti da’ sudditi romani, cd oppressi da una grossissima città come era Roma ; e quando e’ si avviddono dello inganno sotto i! quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi: tanta autorità aveva presa Roma con le provincie esterne, e tanta forza si trovava in seno, avendo la sua città grossissima ed armatissima. E benché quelli suoi compagni, per vendicarsi delle ingiurie, gli congiurassino contea, furono in poco tempo perditori della guerra, peggiorando le loro condizioni; perchè di compagni, diventarono ancora loro sudditi. Questo modo di procedere, come è detto, è stato solo osservato da’ Romani: nè può tenere altro modo una repubblica che voglia ampliare; perchè la esperienza non te ne ha mostro nessuno più certo o più vero. 11 modo preallegato delle leghe, come viverono i Toscani, gii Achei e gli Etoli, e come oggi vivono i Svizzeri, è dopo a quello de’ Romani il miglior modo; perchè non si potendo con quello ampliare assai, ne seguitano duoi beni: l’ uno, che facilmente non ti tiri guerra addosso; l’altro, che quel tanto che tu pigli, lo tieni facilmente. La cagione del non potere ampliare, è lo essere una repubblica disgiunta, e posta in varie sedi: il che fa che difficilmente possono consultare e deliberare. Fa ancora che non sono desiderosi di dominare: perchè essendo molte comunità a* participarc di quel dominio, non istimano tanto tale acquisto, quanto fa una repubblica sola, che spera di goderselo tutto. Governansi, oltra di questo, per concilio, c conviene che siano più tardi ad ogni deliberazione, che quelli che abitano dentro ad un medesimo cerchio. Vedesi ancora per esperienza, che simile modo di procedere ha un termine fisso, il quale non ci è esempio che mostri che si sia trapassato: e questo è di aggiugnere a dodici o quattordici comunità ; dipoi non cercare di andare più avanti : percliè sendo giunti al grado che par loro potersi difendere da ciascuno, non cercano maggiore dominio ; sì perchè la necessità non gli stringe di avere piò potenza; si per non conoscere utile negli acquisti, per le cagioni dette di sopra. Perchè gli arebbono a fare una delle due cose; o seguitare di farsi compagni, e questa moltitudine farebbe confusione; o gli arebbono a farsi sudditi : e perchè e’ veggono in questo difficultà, e non molto utile nel tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando e’ sono venuti a tanto numero che paia loro vivere sicuri, si voltano a due cose: P una a ricevere raccomandati, e pigliare protezioni ; c per questi mezzi trarre da ogni parte danari, i quali facilmente intra loro si possono distribuire: 1* altra è militare per altrui, e pigliar stipendio da questo e da quello principe che per sue imprese gli soldo ; come si vede che fanno oggi i Svizzeri, e come si legge che facevano i preallegati. Di che il* è testimone Tito Livio, dove dice che, venendo a parlamento Filippo re di Macedonia con Tito Quinzio Flamminio, e ragionando d'accordo alla presenza d’ un pretore degli Etoli ; in venendo a parole detto pretore con Filippo, gli fu da quello rimproverato la avarizia e la infidelità, dicendo che gli Etoli non si vergognavano militare con uno, e poi mandare loro uomini ancora al servigio del nimico ; talché molte volte intra dnoi contrari eserciti si vedevano le insegne di Etolia. Conoscesi, pertanto, come questo modo di procedere per leghe, è stato sempre simile, ed ha fatto simili effetti. Vedesi ancora, che quel modo di fare sudditi è stato sempre debole, ed avere fatto piccoli profitti; e quando pure egli hanno passato il modo, essere rovinati tosto. E se questo modo di fare sudditi è inutile nelle repubbliche armate, in quelle che sono disarmate è inutilissimo: come sono state ne’ nostri tempi le repubbliche di Italia. Conoseesi, pertanto, essere vero modo quello che tennono i Romani 5 il quale è tanto più mirabile, quanto e’ non ee il’ era innanzi a Roma essempio, e dopo Roma non è stalo alcuno elio gli abbi imitati. E quanto alle leghe, si trovano solo i Svizzeri e la lega di Svevia che gli imita. E, come nel fine di questa materia si dirà, tanti ordini osservati da Roma, così pertinenti alle cose di dentro come a quelle di fuora, non sono ne* presenti nostri tempi non solamente imitati, ma non n’è tenuto alcuno conto ; giudicandoli alcuni non veri, alcuni impossibili, alcuni non a proposito ed inutili : tanto che standoci con questa ignoranza, siamo preda di qualunque ha voluto correre questa provincia. E quando la imitazione de’ Romani paresse difficile, non doverrebhe parere cosi quella degli antichi Toscani, massime a’ presenti Toscani. Perchè, se quelli non poterono, per le cagioni dette, fare uno imperio simile a quel di Roma, poterono acquistare in Italia quella potenza che quel modo del procedere concesse loro. 11 che fu per un gran tempo securo, con somma gloria d’ imperio e d’arme, e massima laude di costumi e di religione. La qual potenza e gloria fu prima diminuita da’ Franciosi, dipoi spenta da’ Romani; e fu tanto spenta, che, ancora che duemila anni fa la potenza de’ Toscani fusse grande, al presente non ce n’ è quasi memoria. La qual cosa mi ha fatto pensare donde nasca questa oblivione delle cose: come ' nel seguente capitolo si discorrerà. V. — Che la variazione delle sèlle e delle lingue insieme con l'accidente de' diluvi o delle pesti j spegno la memoria delle cose. A quelli FILOSOFI che hanno voluto che’l mondo sia stato eterno, credo che si potesse reificare, che se tanta antichità fusse vera, e’ sarebbe ragionevole che ci fusse memoria di più che cinque mila anni; quando e’ non si vedesse come queste memorie de* tempi per diverse cagioni si spengano: delle quali parte vengono dagli nomini, parte dal cielo. Quelle che vengono dagli uomini, sono LE VARIAZIONI DELLE SETTE E DELLE LINGUE. Perchè quando surge una setta nuova, cioè una religione nuova, il primo studio suo è, per darsi reputazione, estinguere la vecchia; e quando egli occorre che gli ordinatori delia nuova setta siano di lingua diversa, la spengono facilmente. La qual cosa si conosce considerando i modi che ha tenuti la religione cristiana contra alla SETTA GENTILE; la quale ha cancellati tutti gli ordini, tutte le ceremonie di quella, e spenta ogni memoria di quella antica teologia. Vero è che non gli è riuscito spegnere in tutto la notizia delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella : il die è nato per AVERE QUELLA MANTENUTA LA LINGUA LATINA; il che fecero forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con essa. Perchè, se V avessino potuta scrivere con nuova lingua, considerato le altre persecuzioni gli feciono, non ci sarebbe ricordo alcuno delle cose passate. E chi legge i modi tenuti da san Gregorio e dagli altri capi della religione cristiana, vedrà con quanta ostinazione e’ perseguitarono tutte le memorie antiche, ardendo P opere de* poeti e delli istorici, minando le immagini, e guastando ogni altra cosa che rendesse alcun segno della antichità. Talché, se a questa persecuzione egli avessino aggiunto una nuova lingua, si sarebbe veduto in brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. È da credere, pertanto, che quello che ha voluto fare la religione cristiana contra alla setta gentile, la gentile abbi fatto contra u quella che era innanzi a lei. E perchè queste sètte in cinque o in seimila anni variarono due o tre volle, si perdè in memoria delle cose fatte innanzi a quel tempo. E se pure ne resta alcun segno, si considera come cosa favolosa, e non è prestato loro fede : come interviene alla istoria di Diodoro Siculo, che benché e’ renda ragione di quaranta o cinquanta mila anni, nondimeno è riputata, come io credo che sia, cosa mendace. Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la umana generazione, e riducono a pochi gli abitatori di parte del mondo. E questo viene o per peste o per fame o per una inondazione d* acque : e la più importante è questa ultima, sì perchè la è più universale, sì perchè quelli che si salvano sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali non avendo notizia di alcuna antichità, non la possono lasciare a’ posteri. E se infra loro si salvasse alcuno che ne avesse notizia, per farsi riputazione e nome, la nasconde, e la perverte a suo modo ; talché ne resta solo a* successori quanto ei ne ha voluto scrivere, e non altro. E che queste inondazioni, pesti e fami venghino, non credo sia da dubitarne; sì perchè ne sono piene tutte le istorie, sì perchè si vede questo effetto della oblivione delle cose, sì perchè e’ pare ragionevole che sia: perchè la natura, come ne’ corpi semplici, quando vi è ragunato assai materia superflua, muove per sè medesima molte volte, e fa una purgazione, la quale è salute di quel corpo ; così interviene in questo corpo misto della umana generazione, che quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori, in modo che non possono vivere, nè possono andare altrove, per esser occupati e pieni tutti i luoghi; e quando la astuzia e malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi per uno de’ tre modi ; acciocché gli uomini essendo divenuti pochi e battuti, vivano più comodamente, e diventino migliori. Era adunque, come di sopra è detto, già tu Toscana potente, piena di religione e di virtù ; aveva i suoi costumi e la sua LINGUA PATRIA: il che tutto è stato spento dalla potenza romana. Talché, come si è detto, di lei ne rimane solo la memoria del nome. Vi. — Come i Romani procedevano nel fare la guerra. Avendo discorso come i Romani procedevano nello ampliare, discorreremo ora come e’ procedevano nel fare la guerra ; ed in ogni loro azione si vedrà con quanta prudenza ei diviarono dal modo universale degli altri, per fa- cilitarsi la via a venire a una suprema grandezza. La intenzione di chi fa guerra per elezione, o vero per ambizione, è acquistare e mantenere lo acquistato; e procedere in modo con esso, che I’ arricchisca c non impoverisca il paese e la patria sua. È necessario dunquc, e nello acquistare e nel mantenere, pensare di non spendere; anzi far ogni cosa con utilità del pubblico suo. Chi vuol fare tutte queste cose, conviene che tenga lo stile e modo romano: il quale fu in prima di fare le guerre, come dicono i Franciosi, corte e grosse; perchè, venendo in campagna con eserciti grossi, tutte le guerre eh’ egli ebbono co’ Latini, Sanniti e Toscani le espedirono in brevissimo tempo. E se si noteranno tutte quelle che feciono dal principio di Roma infino alla ossidione de’ Yeienti, tutte si vedranno espedite, quale in sei, quale in dieci, quale inventi di. Perchè l’uso loro era questo: subito che era scoperta la guerra, egli uscivano fuori con gli eserciti all’ incontro del nimico, e subito facevano la giornata. La quale vinta, i nimici, perchè non fussc guasto loro il contado affatto, venivano alle condizioni; ed i Romani gli condennavano in terreni: i quali terreni gli convertivano in privati comodi, o gli consegnavano ad una colonia; la quale posta in su le frontiere di coloro, veniva ad esser guardia de’ confini romani, con utile di essi coloni, che avevano quelli campi, e con utile del pubblico di Roma, che senza spesa teneva quella guardia. Nè poteva questo modo esser più seeuro, o più forte, o piu utile: perchè mentre che i nimici non erano in su i campi, quella guardia bastava : come e’ fussino usciti fuori grossi per opprimere quella colonia, ancora i Romani uscivano fuori grossi, e venivano a giornata con quelli; e fatta e vinta la giornata, imponendo loro più gravi condizioni, si tornavano in casa. Così venivano ad acquistare di mano in mano riputazione sopra di loro, e forze in sè medesimi. E questo modo vennono tenendo infino che mutorno modo di procedere in guerra: il che fu dopo la ossidione de’ Veienti ; dove, pei*potere fare guerra lungamente, gli ordinarono di pagare i soldati, che prima, per non essere necessario, essendo le guerre brevi, non gli pagavano. E benché i Rotflani dessino il soldo, e che per virtù di questo ei potessino fare le guerre più lunghe, e per farle più discosto la necessità gli tenesse più in su’ campi ; nondimeno non variarono mai dal primo ordine di finirle presto, secondo il luogo ed il tempo; nè variarono mai dal mandare le colonie. Perchè nel primo ordine gli tenne, circa il fare le guerre brevi, olirà il loro naturale uso, T ambizione de’ Consoli ; i quali avendo a stare un anno, e di quello anno sei mesi alle stanze, volevano finire la guerra per trionfare. Nel mandare le colonie, gli tenne 1’ utile e la comodità grande che ne risultava. Variarono bene alquanto circa le prede, delie quali non erano cosi liberali come erano stati prima ; sì perchè e* non pareva loro tanto necessario, avendo i soldati lo stipendio; sì perchè essendo le prede maggiori, disegnavano d* ingrassaie di quelle in modo il pubblico, che non lussino constretti a fare le imprese con tributi della città. li * quale ordine in poco tempo fece il loro erario ricchissimo. Questi duoi modi, adunque, e circa il distribuire la preda, e circa il mandar le colonie, feciono che Roma arricchiva della guerra j dove gli altri principi e repubbliche non savie ne impoveriscono. E ridusse la cosa in termine, che ad un Consolo non pareva poter trionfare, se non portava col suo trionfo assai oro ed argento, e d’ ogni altra sorte preda, nello erario. Cosi i Romani con i soprascritti termini, e coti il finire le guerre presto, sendo contenti con lunghezza straccare i nemici, e con rotte e con le scorrerie e con accordi a loro avvantaggi, diventarono sempre più ricchi e più potenti. VII — Quanto terreno i Romani davano per colono. Quanto terreno i Romani distribuiisino per colono, credo sia molto diffìcile trovarne la verità. Perchè io credo ne dessino più o manco, secondo i luoghi dove e* mandavano le colonie. E giudicasi che ad ogni modo ed in ogni luogo la distribuzione fusse parca : prima, per poter mandare più uomini, sendo quelli diputati per guardia di quel paese; dipoi perchè vivendo loro poveri a caso, non era ragionevole che volessino che I loro uomini abbondassino troppo fuora. E Tito Livio dice, come preso Veio e’ vi mandorno una colonia, e distribuirono a ciascuno tre iugeri e sette once di terra; che sono al modo nostro. Perchè, oltre alle cose soprascritte, e’ giudicavano che non lo assai terreno, ma il bene coltivato bastasse. È necessario bene, che tutta la colonia abbi campi pubblici dove ciascuno possa pascere il suo bestiame, e selve dove prendere del legname per ardere ; senza le quali cose non può una colonia ordinarsi. Vili. — La cagione perchè i popoli si partono da * luoghi patriij cd inondano il paese altrui. Poiché di sopra si è ragionato del modo nel procedere della guerra osservato da’ Romani, c come i Toscani furono assaltati da* Franciosi ; non mi pare alieno dalla materia discorrere, come e’ si fanno di due generazioni guerre. L’una è fatta per ambizione de* principi o delle repubbliche, che cercano di propagare lo imperio; come furono le guerre che fece Alessandro Magno, e quelle che feciono i Romani, e quelle che fanno ciascuno di, 1* una potenza con F altra. Le quali guerre sono pericolose, ma non cacciano al tutto gli abitatori d* una provincia ; perchè e’ basta al vincitore solo la ubbidienza de’ popoli, e il più delle volte gli lascia vivere con le loro leggi, e sempre con le loro case, e ne’ loro beni. L’altra generazione di guerra è, quando un popolo intero con tutte le sue famiglie si beva d’ uno luogo, necessitato o dalla fame o dalla guerra, e va a cercare nuova sede e nuova provincia; non per comandarla, come quelli di sopra, ma per possederla tutta particolarmente, e cacciarne o ammazzare gli abitatori antichi di quella. Questa guerra è crudelissima e paventosissima. E di queste guerre ragiona Salustio nel fine dell’ Iugurtiuo, quando dice che vinto lugurta, si senti il moto de’ Franciosi che venivano in Italia : dove e’ dice che ’l Popolo romano con tutte le altre genti combattè solamente per chi dovesse comandare, ma con i Franciosi si combattè sempre per la salute di ciascuno. Perchè ad un principe o una repub- spegnere solo coloro che comandano ; ma a queste popolazioni conviene spegnere ciascuno, perchè vogliono vivere di quello che altri viveva. I Romani ebbero tre di queste guerre pericolosissime. La prima fu quella quando Roma fu presa, la quale fu occupata da quei Franciosi che avevano tolto, come di sopra si disse, la Lombardia a’ Toscani, e fattone loro sedia; della quale L. ne allega due cagioni: la prima, come di sopra si disse, che furono allettati dalla dolcezza delle frutte, c del vino di Italia, delle quali mancavano in Francia; la seconda che, essendo quel regno francioso moltiplicato in tanto di uomini, che non vi si potevano più nutrire, giudicarono i principi di quelli luoghi, che fusse necessario che una parte di loro andasse a cercare nuova terra; e fatta tale deliberazione, elcssono per capitani di quelli che si avevano a partire, Belloveso e Sicoveso, duoi re de’ Franciosi : de’ quali Belloveso venne in Italia, e Si» coveso passò in Ispagna. Dalla passata del quale Belloveso, nacque la occupazione di Lombardia, c quindi la guerra che prima i Franciosi fecero a Roma. Dopo questa, fu quella che fecero dopo la prima guerra cartaginese, quando tra Piombino e Pisa ammazzarono più che dugentomila Franciosi. La terza fu quando i Todeschi e Cimbri vennero in Italia : i quali avendo vinti più eserciti romani, furono vinti da Mario. Vinsero adunque i Romani queste tre guerre pericolosissime. Ne era necessario minore virtù a vincerle; perchè si vede poi, come la virtù romana mancò, e che quelle arme perderono il loro antico valore, fu quello imperio distrutto da simili popoli : i quali furono Goti, Vandali c simili, che occuparono tutto lo imperio occidentale. Escono tali popoli de* paesi loro, rome di sopra si disse, cacciati dalla necessitò: e la necessitò nasce o dalla fame, o da una guerra ed oppressione clic ne’ paesi propri è loro fatta; talché e’ sono constretti cercare nuove terre. E questi tali, o e’ sono grande numero ; ed allora con violenza entrano ne' paesi altrui, ammazzano gli abitatori, posseggono i loro beni, fanno uno nuovo regno, mutano il nome della provincia: come fece Moisè, e quelli popoli che occuparono lo imperio romano. Perchè questi nomi nuovi che sono nella Italia e nelle altre provincie, non nascono da altro che da essere state nomate così da’ nuovi occupatoci : come è la Lombardia, che si chiamava Gallia Cisalpina: la Francia si chiamava Gallia Transalpina, ed ora è nominata da’ Franchi, chè cosi si chiamavano quelli popoli che la occuparono: la Schiavoniu si chiamava Illiria, l’Ungheria Pannonia; l’Inghilterra Britannia: c molte altre provincie che hanno mutato nome, le quali sarebbe tedioso raccontare. Moisè ancora chiamò Giudea quella parte di Soria occupata da lui. E perchè io ho detto di sopra, che qualche volta tali popoli sono cacciati della propria sede per guerra, donde -sono constretti cercare nuove terre; ne voglio addurre lo essempio de’ Maurusii, popoli anticamente in Soria : i quali, sentendo venire i popoli ebraici, e giudicando non poter loro resistere, pensarono essere meglio salvare loro medesimi, t* lasciare il paese proprio, che per volere salvare quello, perdere ancora loro; e levatisi con loro famiglie, se ne andarono in Affrica, dove posero la loro sedia, cacciando via quelli abitatori che in quelli luoghi trovarono. G così quelli che non avevano potuto difendere il loro paese, poterono occupare quello d’ altrui. E Procopio, che scrive la guerra che fece Bellisario co’ Vandali occupatori della Affrica, riferisce aver letto lettere scritte in certe colonne ne’ luoghi dove questi Maurusii abitavano, le quali dicevano : S os Maurusii , qui fugimus a facie Jesu latronis filii flava. Dove apparisce In cagione della partita loro di Soria. Sono, pertanto, questi popoli formidolosissimi, sendo cacciati da una ultima necessità ; e s’ egli non riscontrano buone armi, non saranno mai sostenuti. Ula quando quelli che sono constretti abbandonare la loro patria non sono molti, non sono sì pericolosi come quelli popoli di chi si è ragionato; perchè non possono usare tanta violenza, ma conviene loro con arte occupare qualche luogo, e, occupatolo, mantenervisi per via di amici e di confederali : come si vede che fece ENEA, Didone, i Massiliesi e simili ; i quali lutti, per consentimento de’ vicini, dove e’ posorno, poterono mantenervisi. Escono i popoli grossi, e sono usciti quasi tutti de’ paesi di Scizia ; luoghi freddi e poveri: dove, per essere assai uomini, cd il paese di qualità da non gli potere nutrire, sono forzati uscire, avendo molte cose che gli cacciano, e nessuna che gli ritenga. E se da cinquecento anni in qua, non è occorso che alcuni di questi popoli abbino inondato alcuno paese, è nato per più cagioni. La prima, la grande evacuazione che fece quel paese nella declinazione dello imperio; donde uscirono più di trenta popolazioni. La seconda è che la Magna e 1’ Ungheria, donde ancora uscivano di queste genti, hanno ora il loro paese bonificato in modo, che vi possono vivere agiatamente; talché non sono necessitati di mutare luogo. Dall’ altra parte, sendo loro uomini bellicosissimi, sono come uno bastione a tenere che gli Sciti, i quali con loro confinano, non presumino di potere vincergli o passargli. E spesse volte occorrono movimenti grandissimi da’ Tartari, che sono dipoi dagli Ungheri e da quelli di Polonia sostenuti; e spesso si gloriano, che se non fussino 1’ arme loro, la Italia e la Chiesa arebbe molle volle sentito il peso degli eserciti tartari. E questo voglio basti quanto a’ prefati popoli. IX. Quali cagioni comunemente faccino nascere le guerre intra i polenti. La cagione che fece nascere guerra intra i Romani ed i Sanniti, che erano stati in lega gran tempo, è una cagione comune che nasce infra tutti i principati potenti. La qual cagione o la viene a caso, o la è fatta nascere da colui che desidera muovere la guerra. Quella che nacque intra i Romani ed i Sanniti, fu a caso; perchè la intenzione de’ Sanniti non fu, muovendo guerra a’Sidicini, e dipoi a’ Campani, muoverla ai Romani. .\Ia sendo i Campani oppressati, e ricorrendo a Roma fuora della oppinione de’ Romani e de’ Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani ai Romani, come cosa loro difendergli, e pigliare quella guerra che a loro parve non potere con loro onore fuggire. Perchè e’pareva benea’Romani ragionevole non potere difendere i Campani come amici, eontra ai Sanuiti amici, ma pareva ben loro vergogna non gli difendere come sudditi, ovvero raccomandali; giudicando, quando e’ non avessino presa tal difesa, torre la via a tutti quelli che disegnassino venire sotto la potestà loro. Ed avendo Roma per fine lo imperio e la gloria, e non la quiete, non poteva ricusare questa impresa. Questa medesima cagione dette principio alla prima guerra conira a’ Cartaginesi, per la difensione che i Romani presono de* Messinesi in Sicilia: la quale fu ancora a caso. Ma non fu già a caso di poi la seconda guerra che nacque infra loro; perchè Annibaie capitano Cartaginese assaltò i Saguntini amici de’ Romani in Ispagna, non per offendere quelli, ma per muovere l’arme romane, ed avere occasione di combatterli, c passare in Italia. Questo modo nello appiccare nuove guerre è stato sempre consueto intra i potenti, e che si hanno e della fede, e d’altro, qualche rispetto. Perchè, se io voglio fare guerra con uno principe, ed infra noi siano fermi capitoli per un gran tempo oservati, con altra giustificazione e con altro colore assalterò io un suo amico che lui proprio 5 sappiendo massime, che nello assaltare lo amico, o ci si risentirà, ed io arò V intento mio di fargli guerra ; o non si risentendo, si scuoprirà la debolezza o la infidelità sua di non difendere un suo raccomandato. E 1’ una e I' altra di queste due cose è per torgli riputazione, e per fare più facili i disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per la dedizione de' Campani, circa il muovere guerra, quanto di sopra si è detto; e di più, qual rimedio abbia una città che non si possa per sè stessa difendere, e voglisi difendere in ogni modo da quel clic l'assalta: il quale è darsi Uberamente a quello che tu disegni che ti difenda; come feciono i Capovani ai Romani, ed i Fiorentini al ré Roberto di Napoli : il quale non gli volendo difendere come amici, gli difese poi come sudditi contra alle forze di Castruceio da Lucca, die gli opprimeva. X. — I danari non sono il nervo della guerra j secondo che è la comune oppi ninne. Perchè ciascuno può cominciare una guerra a sua posta, ma non finirla, debbe uno principe, avanti che prenda una impresa, misurare le forze sue, e secondo quelle governarsi. Ma debbe avere tanta prudenza, che delle sue forze ei non s’inganni; ed ogni volta s’ingannerà, quando le misuri o dai danari, o dal sito, o dalla benivoienza degli uomini, mancando dall’ altra parte d’ arme proprie. Perchè le cose predette ti accrescono bene le forze, ma le non te ne danno ; e per sè medesime sono nulla ; e non giovano alcuna cosa senza l’arme fedeli. Perchè i danari assai, non ti bastano senza quelle; non ti giova la fortezza de! paese; e la fede ‘e benivoienza degli uomini non dura, perchè questi non ti possono essere fedeli, non gli potendo difendere. Ogni monte, ogni lago, ogni luogo inaccessibile diventa piano, dove i forti difensori mancano. I danari ancora non solo non ti difendono, ina ti fanno predare più presto. Nè può essere più falsa quella comune oppinione che dice che i danari sono il nervo della guerra. La quale sentenza è detta da Quinto Curzio nella guerra che fu intra A'ntipatro macedone c il re spartano: dove narra, che per difetto di danari il re di Sparta fu necessitato azzuffarsi, e fu rotto; che se ei differiva la zuffa pochi giorni, veniva la nuova in Grecia della morte di Alessandro, donde e* sarebbe rimaso vincitore senza combattere. Ma mancandogli i danari, e dubitando che lo esercito suo per difetto di quelli non Io abbandonasse, fu constretto tentare la fortuna della zuffa: talché Quinto Curzio per questa cagione afferma, i danari essere il nervo della guerra. La qual sentenza è allegata ogni giorno, v da’ principi non tanto prudenti che basti, seguitata. Perchè, fondatisi sopra quella, credono che basti loro a difendersi avere tesori assai, e non pensano che se ’1 tesoro bastasse a vincere, che Dario arebbe vinto Alessandro, i Greci nrebbon vinti i Romani; ne’ nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti i Svizzeri; e pochi giorni sono, il Papa ed i Fiorentini insieme non arebbono avuta difficultà in vincere Francesco Maria, nipote di papa Giulio II, nella guerra di Urbino. Ma tutti i soprannominali furono vinti da coloro che non il danaro, ma i buoni soldati stimano essere il nervo della guerra. Intra le altre cose che Creso re di Lidia mostrò a Solone ateniese, fu un tesoro innumerabile ; c domandando quel che gli pareva della potenza sua, gli rispose Solone, che per quello non lo giudicava più potente; perchè la guerra si faceva col ferro e non con P oro, e che poteva venire uno che avesse piu ferro di lui, e torgliene. Olir’ a questo, quando, dopo la morte di Alessandro Magno, una moltitudine di Franciosi passò in Grecia, e poi in Asia; e mandando i Franciosi oratori al re di Macedonia per trattare certo accordo ; quel re, per mostrare la potenza sua e per {sbigottirli, mostrò loro oro ed argento assai: donde quelli Franciosi che di già avevano come ferma la pace, la j uppono ; tanto desiderio in loro crebbe di torgli quell’oro: e cosi fu quel re spogliato per quella cosa che egli aveva per sua difesa accumulata. 1 Yeniziani, pochi anni sono, avendo ancora lo erario loro pieno di tesoro, perderono tutto lo Stato, senza potere essere difesi da quello. Dico pertanto, non l’ oro, come grida la comune oppinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati : perchè 1’ oro non è suflìzienle a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati son ben sutlìzienti a trovare l’ oro. Ai Romani, s’egli avessero voluto fare la guerra più con i danari che con ii ferro, non sarebbe bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato le grandi imprese che fcciono, e le difficoltà che vi ebbono dentro. Ma facendo le loro guerre con il ferro, non patirono mai carestia dell' oro; perchè da quelli cheli temevano era portato Toro infino ne’ campi. E se quel re spartano per carestia di danari ebbe a tentare la fortuna della /uffa, intervenne a lui quello, per conto de’danari, che molte volte è intervenuto per altre cagioni; perchè si è veduto che, mancando ad uno esercito le vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di fame o azzuffarsi, si piglia il partito sempre di azzuffarsi, per essere più ono*revole, e dove la fortuna ti può in qualche modo favorire. Ancora è intervenuto molte volte, che veggendo uno capitano al suo esercito nimico venire soccorso, gli conviene o azzuffarsi con quello e tentare la fortuna della zuffa ; o aspettando eh’ egli ingrossi, avere a combattere in ogni modo, con mille suoi disavvantaggi. Ancora si è visto (come intervenne ad Asdrubale quando nella Marca fu assaltato da Claudio Verone, insieme con l’altro Consolo romano), che un capitano che è necessitato o a fuggirsi o a combattere, come sempre elegge il combattere ; parendogli in questo partito, ancora che dubbiosissimo, potere vincere; ed in quello altro, avere a perdere in ogni modo. Sono, adunque, molte necessitati che fanno a uno capitano fuor della sua intenzione pigliare partito di azzuffarsi; intra le quali qualche volta può essere la carestia de’ danari : nè per questo si debbono i danari giudicare essere il nervo della guerra, più che le altre cose che inducono gli uomini n simile necessità. Non è, adunque, replicandolo di nuovo. 1’ oro il nervo della guerra; ma i buoni soldati. Son bene necessari i danari in secondo luogo, ina è una necessità che i soldati buoni per sè medesimi la vincono; perchè è inipossibile che a’ buoni soldati manchino i danari, come che i denari pei* loro medesimi truovino i buoni soldati. Mostra questo che noi diciamo essere vero, ogni istoria in mille luoghi; non ostante che Pericle consigliasse gli Ateniesi a fare guerra con tutto il Peloponneso, mostrando che e* potevano vincere quella guerra con la industria e con la forza del danaio. E benché in tale guerra gli Ateniesi prosperassino qualche volta, in ultimo la perderono; e valsoti più il consiglio e gli buoni soldati di Sparta, che la industria ed il danaio di Atene. Ma L. è di questa oppinione più vero testimone che alcuno altro, dove discorrendo se Alessandro Magno fusse venuto in Italia, s’ egli avesse vinto i Romani, mostra esser tre cose necessarie nella guerra ; assai soldati e buoni, capitani prudenti, e buona fortuna : dove esaminando quali o i Romani o Alessandro prevalessino in queste cose, fa dipoi la sua conclusione senza ricordare mai i danari. Doverono i Capovani, quando furono ricfiiesti da’ Sidicini che prendessino T arme per loro contea ai Sanniti, misurare la potenza loro dai danari, c non dai soldati: perchè, preso ch’egli ebbero partito di aiutarli, dopo due rotte furono constretti farsi tributari de’ Romani, se si vollono salvare. Non è partito prudente fare amicizia con un principe che abbia più oppinionc che forze. Volendo Tito Livio mostrare lo errore de’ Sidicini a fidarsi dello aiuto de’ Campani, e lo errore de’ Campani a credere potergli difendere, non lo potrebbe dire con più vive parole, dicendo: Campani magie nomen in auxilium Sidicinorunij quam vires ad prcesidium atlulcrunl. Dove si debbe notare, che le leghe si fanno co’ principi che non abbino o comodità di aiutarti per la distanzia del sito, o forze di farlo per suo disordine o altra sua cagione, arrecano più fama che aiuto a coloro ehe se ne fidano: come intervenne ne’ dì nostri a* Fiorentini, quando, nel 147£t, il papa ed il re di Napoli gli assaltarono; che essendo amici del re di Francia, trassono di quella amicizia magis nomcn , r/nam praesidium : come interverrebbe ancora a quel principe, che confidatosi di Massimiliano imperatore, facesse qualche impresa; perchè questa è una di quelle amicizie che arrecherebbe a chi la facesse magis nomcn 9 quam prassi -ditinij come si dice in questo testo, che arrecò quella de’ Capovani ai Sidicini. Errarono, adunque, in questa parte i Capovani, per parere loro avere più forze che non avevano. E così fa la poca prudenza delti uomini qualche volta, che non sappiendo nè potendo difendere sè medesimi, vogliono prendere imprese di difendere altrui : come fecero ancoro i Tarentini, i quali, sendo gli eserciti romani allo Incontro dello esercito de’ Sanniti, mandorono ambasciadori al Consolo romano, a fargli intendere come ci volevano pace intra quelli duoi popoli, e come erano per fare guerra centra a quello che dalla pace si discostasse*, talché il Consolo, ridendosi di questa proposta, alla presenza di detti ambasciadori fece sonare a battaglia, ed al suo esercito comandò che andasse a trovare il nimico, mostrando ai Tarentini con 1’ opera, e non con le parole, di che risposta essi erano degni. Ed avendo nel presente capitolo ragionato dei parliti che pigliano i principi al contrario per la difesa d’ altrui, voglio nel seguente parlare di quelli che si pigliano per la difesa propria. XII. — Scegli è meglio , temendo di essere assaltalo > inferire , o aspettare la guerra. lo lio sentito da uomini assai pratichi nelle cose della guerra qualche volta disputare, se sono duoi principi quasi di eguali forze, se quello più gagliardo abbi bandito la guerra contra a quello altro, quale sia miglior partito per Poltro; o aspettare il nimico dentro ai confini suoi, o andarlo a trovare in casa, ed assaltare lui: e ne fio sentito addurre ragioni da ogni parte. E chi difende lo andare assaltare altrui, nc allega il consiglio che Creso dette a Ciro, quando arrivato in su* confini de’ Massageli per fare lor guerra, la lor regina Tarniri gli mandò a dire, che eleggesse quale de' duoi partiti volesse; o entrare nel regno suo, dovè essa Ip aspetterebbe; o volesse che ella venisse a trovar lui. E venuta la cosa in disputazionc, Creso, contra alla oppinione degli altri, disse che si andasse a trovar lei ; allegando che se egli la vincesse discosto al suo regno, che non gli torrebbe il regno, perchè ella arebbe tempo a rifarsi; pia se la vincesse dentro a’ suoi confini, potrebbe seguirla in su la fuga, e non le dando spazio a rifarsi, torli io Stato. Allegane ancora il consiglio che dette Annibaie ad Antioco, quando quel re disegnava fare guerra ai Romani: dove ei mostrò come i Romani non si potevano vincere se non in Italia, perchè quivi altri si poteva valere delle arme e delle ricchezze e degli amici loro ; chi gli combatteva fuora d’ Italia, e lasciava loro la Italia libera, lasciava loro quella fonte, che mai li mancava vita a somministrare forze dove bisogna ; e conchiuse che ai Romani si poteva prima torre Roma che lo imperio; prima la Italia che le altre provincie. Allega ancora Agatocle. che non potendo sostenere la guerra di casa, assaltò i Cartaginesi clic glieuc facevano, e gli ridusse a domandare pace. Allega Scipione, che per levare la guerra d’ Italia, assaltò la Affrica. Chi parla al contrario dice, che chi vuole fare capitare male uno nimico, lo discosti da casa. Allegane gli Ateniesi, che mentre che feciono la guerra comoda alla casa loro, restarono superiori; e come si discostarono, ed andarono con gli eserciti in Sicilia, perderono la libertà. Allega le favole poetiche, dove si mostra che Anteo, re di Libia, assaltato da Ercole Egizio, fu insuperabile mentre che Io aspettò dentro a* confini del suo regno; ma come e’ se ne discosto per astuzia di Ercole, perdè lo Stalo e la vita. Onde è dato luogo alla favola di Anteo, che sendo in terra ripigliava le forze da sua madre, che era la Terra; e che Ercole avvedutosi di questo, lo levò in alto, e discostollo dalla terra. Allegane ancora i giudizi moderni. Ciascuno sa come Ferrando re di .Napoli fu ne’ suoi tempi tenuto uno savissimo principe: e venendo la fama, duoi anni avanti la sua morte, come il re di Francia Carlo Vili voleva venire ad assaltarlo, avendo fatte assai preparazioni, ammalò; e venendo a morte, intra gli altri ricordi che lasciò ad Alfonso suo figliuolo, fu che egli aspettasse il nimico dentro al regno; e per cose del mondo non traesse forze fuori dello Stato suo, ma lo aspettasse dentro aisuoi confini tutto intero; il che non fuosservato da quello; ma mandato uno esercito in Romagna, senza combattere perdè quello c lo Stato. Le ragioni che, oltre alle cose dette, da ogni parte si adducono, sono : che chi assalta viene con maggiore animo che chi aspetta, il che fa più confidente lo esercito; toglie, oltra di questo, molte comodità al nimico di potersi valere delle sue cose, non si potendo valere di quei sudditi che sieno saccheggiati; e per avere il nimico in casa, è constretto il signore avere più rispetto a trarre da loro danari ed affaticargli : sicché e’ viene a seccare quella fonte, come dice Annibaie, che fa che colui può sostenere la guerra. Oltre di questo, i suoi soldati, per trovarsi ne* paesi d’ altrui, sono più necessitati a combattere; e quella nccessila fa virtù, come più volte abbiamo detto. Dall’ altra parte si dice ; come aspettando il nimico, si aspetta con assai vantaggio, perchè senza disagio alcuno tu puoi dare a quello molti disagi di vettovaglia, e d’ ogni altra cosa che abbia bisogno uno esercito : puoi meglio impedirli i disegni suoi, per la notizia del paese cheta hai più di lui: puoi con più forze incontrarlo, per poterle facilmente tutte unire, ma non potere già tutte discostarle da casa: puoi sendo rotto rifarti facilmente; sì perchè del tuo esercito se ne salverà assai, per avere i rifugi propinqui; si perchè il supplemento non ha a venire discosto: tanto che tu vieni arrischiare tutte le forze, e non tutta la fortuna ; e discostandoti, arrischi tutta la fortuna, e non tutte le forze. Ed alcuni sono stati che per indebolire meglio il suo nimico, Io lasciano entrare parecchie giornate in su il paese loro, e pigliare assai terre; acciò che lasciando i presidii in tutte, indebolisca il suo esercito, e possiulo dipoi combattere più facilmente. Ma, per dire ora io quello che io ne intendo, io credo che si abbia a fare questa distinzione: o io ho il mio paese armato, come i Romani, o come hanno i Svizzeri; o io l’ho disarmato, come avevano i Cartaginesi, o come Y hanno i re di Francia e gli Italiani. In questo caso, si debbe tenere il nimico discosto a casa; perchè scudo la tua virtù nel danaio e non negli uomini, qualunque volta ti è impedita la via di quello, tu sei spacciato; nè cosa veruna te lo impedisce quanto la guerra di casa. In essempi ci sono i Cartaginesi; i quali mentre che ebbero la casa loro libera, poterono con le rendite fare guerra con i Romani; e quando la avevano assaltata, non potevano resistere ad Agatoeie. I Fiorentini non avevano rimedio ulcuuo con Castruccio signore di Lucca, perchè ci faceva loro la guerra in casa; tanto che gli ebbero a darsi, per essere difesi, al re Roberto di Napoli. Ma morto Castruccio, quelli medesimi Fiorentini ebbero animo di assaltare il duca di Milano in casa, ed operare di torgli il regno: tanta virtù monstrarono nelle guerre louginque, e tanta viltà nelle propinque. Ma quando i regni sono armati, come era armata Roma e come sono i Svizzeri, sono più difficili a vincere quanto più ti appressi loro: perchè questi corpi possono unire più forze a resistere ad uno impeto, che non possono ad assaltare altrui. Nè mi muove in questo caso I’ autorità di Annibaie, perchè la passione e Y utile suo gli faceva cosi dire ad Antioco. Perchè, se i Romani avessino avute in tanto spazio di tempo quelle tre rotte in Francia* ch’egli ebbero in .Italia da Annibaie, senza dubbio erano spacciati: perchè non si sarebbono valuti de’ .residui degli eserciti, come si valsono in Italia; non arebbono avuto a rifarsi quelle comodità; nè potevano con quelle forze resistere ai nimico, che poterono. Non si trova che, per assaltare una provincia, loro mandassino mai fuora eserciti clic passassino cinquantamila persone; ma per difendere la casa ne misono in arme conira ai Franciosi, dopo la prima guerra punica, diciotto centinaia di migliaia. Nè arebbono potuto poi romper quelli in Lombardia, come gli ruppono in Toscana; perchè contro a tanto numero di ninnici non arebbono potuto condurre tante forze sì discosto, nè combattergli con quella comodità. I Cimbri ruppono uno esercito romano in la Magna, nè vi ebbono i Romani rimedio. Ma come egli arrivorono in Italia, e che poterono mettere tutte le loro forze insieme, gli spacciarono. I Svizzeri è facile vincergli fuori di casa, dove e’ non possono mandare più che un trenta o quarantamila uomini; ma vincergli in casa, dove e’ ne possono raccozzare centomila, è difficilissimo. Conchiuggo adunque di nuovo, che quel principe che ha i suoi popoli armati ed ordinali alla guerra, aspetti sempre in casa una guerra potente e pericolosa, e non la vadia a rincontrare: ma quello che ha i suoi sudditi disarmati, ed il paese inusitato della guerra, se la discosti sempre da casa il più che può. E così r uno e l* altro, ciascuno nel suo grado, si difenderà meglio. XIII. — Che si viene di bassa a gran fortuna più con la fraude, che con la forza. Io stimo essere cosa verissima, che rado, o non mai, intervenga che gli uomini di piccola fortuna venghino a gradi grandi, senza la forza e senza la fraude; purché quel grado al quale altri è pervenuto, non ti sia o donalo, o lasciato per eredità. Xè credo si truovi mai che la forza sola basti, ma si troverà bene che la fraude sola basterà: còme chiaro vedrà colui che leggerà la vita di Filippo di Macedonia, quella di Agatocle siciliano, e di molti altri simili, che d’ infima ovvero di bassa fortuna, sono pervenuti o a regno o ad imperi grandissimi. Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro, questa necessità delio ingannare; consideralo che la prima ispedizione che fa fare a Ciro contea il re di Armenia, è piena di fraude, e come con inganno, e non con forza, gli fa occupare il suo regno; e non conchiude altro per tale azione, se non che ad un principe che voglia fare gran cose, è necessario imparare a ingannare. Fagli, olirà di questo, ingannare Ciassare, re de’ .Medi, suo zio materno, in più modi; senza la quale fraude mostra che Ciro non poteva pervenire a quella grandezza che venne. Nè credo che si truovi mai alcuno constiluito in bassa fortuna, pervenuto a grande imperio solo con la forza aperta ed ingenuamente, ma sì bene solo con la fraude : come fece Giovanni Galeazzo per tor lo Stato e lo imperio di Lombardia a messer Bernabò suo zio. E quei che sono necessitati fare i principi ne’ principi! degli augumenti loro, sono ancora necessitate a fare le repubbliche, infimo che le sieno diventate potenti, e che basti la forza sola. E perchè Roma tenne in ogni parte, o per sorte o per elezione, tutti i modi necessari a venire a grandezza, non mancò ancora di questo. Nè potè usare, nel principio, il maggiore inganno, che pigliare il modo di sopra discorso da noi, di farsi compagni ; perchè sotto questo nome se li fece servi: come furono i Latini, ed altri popoli all’ intorno. Perchè prima si valse dell* arme loro in domare i popoli convicini, e pigliare la riputazione dello Stato: dipoi, domatogli, venne in tanto augumento, che la poteva battere ciascuno. Ed i Latini non si avviddono mai di essere al tutto servi, se non poi che viddono dare due rotte ni Sanniti, e costrettigli ad accordo. La (piale vittoria, come ella accrebbe gran riputazione ai Romani eoi principi longinqui, clic mediante quella sentirono il nome romano e non l’armi; così generò invidia e sospetto in quelli che vedevano e sentivano l’armi, intra i quali furono i Latini. E tanto potè questa invidia e questo timore, che non solo i Latini, ma le colonie che essi avevano in Lazio, insieme con i Campani, stati poco innanti difesi, congiurarono contra al nome romano. E mossono questa guerra i Latini nel modo che si dice di sopra, che si muovono la maggior parte delle guerre, assaltando non i Romani, ma difendendo i Sidicini contra ai Sanniti; a’ quali i Sanniti facevano guerra con licenza de’ Romani. E che sia vero che i Latini si movessino per avere conosciuto questo inganno, lo dimostra L. nello bocca di Annio Setiuo pretore latino, il quale nel consiglio loro disse queste parole : Nam, si ctìam mine sub umbra feederis cequi servilutem pati possumus ctc. Yedesi pertanto i Romani ne’ primi augumenti loro non essere mancati eziam della fraude; la quale fu sempre necessaria ad usare a coloro che di piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire : la quale è meno vituperabile quanto è più coperta, come fu questa de’ Romani. XIV. — Ingannatisi molte volle gli uomini j credendo con la umilila vincere la superbia. Vedesi molle volte come la umilila non solamente* non giova, ma nuoce, massimamente usandola con gli uomini insolenti, che, o per invidia o per altra cagione, hanno concetto odio teco. Di che ne fa fede lo istorico nostro in questa cagione di guerra intra i Romani ed i Latini. Perchè, dolendosi i Sanniti con i Romani, che i Latini gli avevano assaltati, i Romani non vollono proibire ai Latini tal guerra, desiderando non gli irritare: il che non solamente non gli irritò, ma gli fece diventare più animosi contro a loro, e si scopersono più presto inimici. Di che ne fanno fede le parole usate da! prefato Annio pretore latino nel medesimo concilio, dove dice: Tentaslis patientiam negando mililem: (jais dubitai cxarsisse eos ? Pcrtulerunt (amen hunc dolorem. Excrcitus nos parare adversus Snmnilcs feederatos suos audierunl, ncc mnverunt se ab urbe. I Inde hcec illis tanta modestia j, ni si a eonscienlia virium , et n os trarum , et suarum? Conoscesi, pertanto, chiarissimo per questo testo, quanto la pazienza de’ Romani accrebbe P arroganza de’ Latini. E però, mai uno principe debbe volere mancare del grado suo, e non debbe mai lasciare alcuna cosa d’accordo, volendola lasciare onorevolmente, se non quando e’ la può, o e’ si crede che la possa tenere : perchè gli è meglio quasi sempre, sendosi condotta la cosa in termine che tu non la possa lasciare nel modo detto, lasciarsela torre con le forze, che con la paura delle forze. Perchè se tu la lasci con In paura, lo fai per levarli la guerra, ed il più delle volte non te la lievi: perche colui a chi tu arai con una viltà scoperta concesso quella, non starà saldo, rao ti vorrà torre delle altre cose, e si accenderà più contra di te, stimandoti meno; e dall'altra parte, in tuo favore troverai i difensori più freddi, parendo loro che tu sia o debole, o vile: ma se tu, subito scoperta la voglia dello avversario, prepari le forze, ancoraché le siano inferiori a lui. quello ti comincia a stimare; stimanti più gli altri principi allo intorno; ed a tale viene voglia di aiutarti, sendo in su P arme, che abbandonandoti non ti aiuterebbe mai. Questo si intende quando tu abbia uno inimico; ma quando ne avessi più, rendere delle cose che tu possedessi ad al •euno di loro per riguadagnarselo, ancoraché fusse di già scoperta la guerra, e per smembrarlo dagli altri confederati tuoi inimici, fia sempre partito prudente. XV. — Gli Stati deboli sempre fieno ambigui nel risolversi : e sempre le deliberazioni lente sono nocive. in questa medesima materia, ed in questi medesimi principi! di guerra intra i Latini ed i Romani, si può notare come in ogni consulta è bene venire allo individuo di quello die si ha a deliberare, e non stare sempre in ambiguo, nè in su lo incerto della cosa. Il che si vede manifesto nella consulta che feciono i Latini, quando c’pensavano alienarsi da’ Romani. Perchè avendo presentito questo cattivo umore che ne’ popoli latini era entrato, i Romani, per eertificarsi della cosa, c per vedere se potevano senza mettere mano all’arme riguadagnarsi quelli popoli, fecero loro intendere, come e’ mandassero a Roma otto cittadini, perchè avevano a consullare con loro. I Latini, inteso questo ed avendo conscienza di molte cose fatte centra alla voglia de’ Romani, fcciono consiglio per ordinare chi dovesse ire a Roma, e dargli commissione di quello ch’egli avesse a dire. E stando nel consiglio in questa disputa, Annio loro pretore disse queste parole: Ad sumiuam veruni nostrarum pertinerc arbitrar , ut vogilctis magis , quid agendum nobis, quam quid loqucndum sii. Facile crii, cxphcatis consiliis j accommodarc rebus nerba. Sono, senza dubbio, queste parole verissime, e debbono essere da ogni principe e da ogni repubblica gustate : perchè nella ambiguità e nella incertit udine di quello che altri voglia fare, non si sanno accomodare le parole; ma fermo una volta 1’ animo, e deliberalo quello sia da eseguire, è facil cosa trovarvi le parole, lo ho notato questa parte più volentieri, quanto io ho molte volte conosciuto tale ambiguità avere nociuto alle pubbliche azioni, con danno i* con vergogna della repubblica nostra. E sempre mai avverrà, che ne* partiti ilubbii, e dove bisogni animo a deliberargli, sarà questa ambiguità, quando abbino ad esser consigliati e deliberati da uomini deboli. Non sono meno nocive ancora le deliberazioni lente e tarde, che ambigue ; massime quelle che si hanno a deliberare in favore di alcuno amico : perchè con la lentezza loro non si aiuta persona, e nuocesi a sè mede- simo. Queste deliberazioni così fatte procedono o da debolezza di animo e ili forze, o da malignità di coloro che hanno a deliberare; i quali, mossi dalla passimi propria di volere rovinare lo Stato o adempire qualche suo desiderio, non lasciano seguire la deliberazione, ma la impediscono e la attraversano. Perchè i buoni cittadini, ancora che vegghino una foga popolare voltarsi alla parte perniciosa, mai impediranno il deliberare, massime di quelle cose che non aspettano tempo. Morto che fu Girolamo liranno in Siracusa, essendo la guerra grande intra i Cartaginesi ed i Romani, vennono i Siracusani in disputa se dovevano seguire V amicizia romana o la cartaginese. E tanto era lo ardore delle parti, che la cosa stava ambigua, uè se ne prendeva alcuno partito; insino a tanto che Apollonide, uno de’ primi in Siracusa, con una sua orazione piena di prudenza, mostrò come non era da biasmare chi teneva E oppinione ili aderirsi ai Romani, nè quelli che volevano seguire la parte cartaginese; ma era bene da detestare quella ambiguità e tardità di pigliare il partito, perchè vedeva al tutto in tale ambiguità la rovina della repubblica; ma preso che si fusse il partito, qualunque e’ si fosse, si poteva sperare qualche bene. Nè potrebbe mostrare più Tito Livio che si faccia in questa parte, il danno che si tira dietro lo stare sospeso. Dimostralo ancora in questo caso de’ Latini : perchè, sendo i Latini ricerchi da loro gli stessine neutrali, e che il re venendo in Italia gli avesse a mantenere nello Stato e ricevere in proiezione: e dette tempo un mese alla città a ratificarlo. Fu differita tale ratificazione da chi per poca prudenza favoriva le cose di Lodovico: intantoehè, il re già sendo in su la vittoria, e volendo poi i Fiorentini ratificare , non fu la ratificazione accettata ; come quello che conobbe i Fiorentini essere venuti forzati, e non voluntari nella amicizia sua. Il che costò alla città di Firenze assai danari, e fu per perdere lo Stato : come poi altra volta per simile causa li intervenne. E tanto più fu dannabile quel partito, perchè non si servi ancora il duca Lodovico; il quale se avesse vinto, arebbe mostri molti più segni di inimicizia conira ai Fiorentini, che non fece il re. E benché del male che nasce alle repubbliche di questa debolezza se ne sia di sopra in uno altro capitolo discorso; nondimeno, avendone di nuovo occasione per un nuovo accidente, ho voluto replicarne', parendomi, massime, materia che debba esser dalie repubbliche simili alla nostra notala. XVI. — Quanto i soldati ne’ nostri tempi si disformino dalli anttcht ordini. ha più importante giornata che fu mai fatta in alcuna guerra con alcuna nazione dal Popolo romano, fu questa che ei fece con i popoli latini, nel consolato di Torquato e di Decio. Perchè ogni ragione vuole, che cosi come i Latini per averla perduta diventarono servi, così sarebbono stati servi i Romani, quando non la avessino vinta. E di questa oppinone è L.; perchè in ogni parte fa gli eserciti pari di ordine, di virtù, di ostinazione c di numero : solo vi fa differenza, che i capi dello esercito romano furono più virtuosi che quelli dello esercito latino. Yedesi ancora come nel maneggio di questa giornata nacquero duoi accidenti non prima nati, e che dipoi hanno rari esempi: che de’ duoi Consoli, per tenere fermi gli animi de’ soldati, ed ubbidienti al comandamento loro, e diliberati al combattere, 1’ uno ammazzò sè stesso, e I’ altro il figliuolo. La parità, che L. dice essere in questi eserciti, era che, per avere militato gran tempo insieme, erano pari di lingua, d’ ordine e d’ arme: perchè nello ordinare la zuffa tenevano uno modo medesimo $ e gli ordini ed i capi degli ordini avevano medesimi nomi. Era dunque necessario, sondo di pari forze e di pari virtù, che nascesse qualche cosa istraordinaria, che fermasse e facesse più ostinati gli animi dell’ uno che dell’altro: nella quale ostinazione consiste, come altre volte si è detto, la vittoria; perchè, mentre che la dura ne’ petti di quelli che combattono, mai non danno volta gli eserciti. E perchè la durasse più ne’ petti de’ Romani che de’ Latini, parte la sorte, parte la virtù de’ Consoli fece nascere, che Torquato ebbe ad ammazzare il figliuolo, e Decio sè stesso. Mostra Tito Livio, nel mostrare questa purililà di forze, tutto l’ ordine che tenevano i Romani nelli eserciti e nelle zuffe. Il quale esplicando egli largamente, non replicherò altrimenti; ma solo discorrerò quello che io vi giudico notabile, e quello che per essere negletto da tutti i capitani di questi tempi, ha fatto negli eserciti e nelle zuffe di molti disordini. Dico, adunque, che per il testo di Livio si raccoglie, come lo esercito romano aveva tre divisioni principali, le quali toscanamente si possono chiamare tre schiere; e nominavano la prima astati, la seconda principi, la terza triarii: e ciascuna di queste aveva i suoi cavalli. Nello ordinare una zuffa, ei mettevano gli astatiinnanzi ; nel secondo luogo, per diritto, dietro alle spalle di quelli, ponevano i principi ; nel terzo, pure nel mede»imo filo, collocavano i triadi. I cavalli di tulli questi ordini gli ponevano a destra ed a sinistra di queste tre battaglie; le schiere de’ quali cavalli, dalla forma loro e dal luogo, si chiamavano alce , perchè parevano come due alie di quel corpo. Ordinavano la prima schiera delli astati, che era nella fronte, serrata in modo insieme che la potesse spignere e sostenere il nimico. La seconda schiera de’ principi, perchè non era la prima a combattere, ma bene le conveniva soccorrere alla prima quando fusse battuta o urtata, non la facevano stretta, ma mantenevano i suoi ordini radi, e di qualità che la potesse ricevere in sè senza disordinarsi la prima, qualunque volta, spinta dal nimico, fusse necessitata ritirarsi. La terza schiera de* triadi aveva ancora gli ordini più radi che la seconda, per potere ricevere in sè, bisognando, le due prime schiere de’ principi e degli astati. Collocate, dunque, queste schiere in questa forma, appiccavano la zuffa : e se gli astati erano sforzati o vinti, si ritiravano nella ra-dila degli ordini de’ principi ; e tuttiinsieme uniti, fatto di due schiere un J corpo, rappiccavano la zuffa: se questi ancora erano ributtati e sforzati, si ritiravano tutti nella radila degli ordini de* trioni; e tutte tre le schiere diventate un corpo, rinnovavano la zuffa : dove essendo superati, per non avere più da rifarsi, perdevano la giornata. E perchè ogni volta che questa ultima schiera de’ triarii si adoperava, lo esercito era in pericolo, ne nacque quel proverbio: Res redacta est ad triarios ; che ad uso toscano vuol dire: Noi abbiamo messo I’ ultima posta. I capitani dei nostri tempi, come egli hanno abbandonato tutti gli altri ordini, e della antica disciplina ei non ne osservano parte alcuna, cosi hanno abbandonata questa parte, la quale non è di poca importanza: perchè chi si ordina da potersi nelle giornate rifare tre volte, ha ad avere tre volte inimica la fortuna a volere perdere, ed ha ad avere per riscontro una virtù che sia atta tre volte a vincerlo. Ma chi non sta se non in su M primo urto, come stanno oggi gli eserciti cristiani, può facilmente perdere ; perchè ogni disordine, ogni mezzana virtù gli può torre la vittoria. Quello che fa agli eserciti nostri mancare di potersi rifare tre volte, è lo avere perduto il modo di ricevere I* una schiera uelP altra. Il che nasce perchè al presente sf ordinano le giornate con uno di questi duoi disordini: o ei mettono le loro schiere a spalle P una delP altra, e fanno la loro battaglia larga per traverso, e sottile per diritto; il che la fa più debole, per aver poco dal petto alle schiene. E quando pure, per farla più forte, ei riducono le schiere per il verso de’ Romani, se la prima fronte è rotta, non avendo ordine di essere ricevuta dalla seconda, s’ ingarbugliano insieme tutte, e rompono sè medesime: perché se quella dinanzi è spinta, ella urta la seconda; se la seconda si vuol far innanzi, ella è impedita dalla prima : donde che urlando la prima la seconda, e la seconda la terza, ne nasce tanta confusione, che spesso uno minimo accidente rovina uno esercito. Gli eserciti spagnuoli e franciosi nella zuffa di Ravenna, dove mori monsignor de Pois, capitano delle genti di Prandi (la quale fu, secondo i nostri tempi, assai bene combattuta giornata) s’ ordinarono con uno de’ soprascritti modi; cioè clic l’uno e 1’ altro esercito venne con tutte le sue genti ordinate a spalle : in modo che non venivano’ avere nè 1’ uno nè 1’ altro se non una fronte, ed erano assai più per il traverso cìie per il diritto. E questo avviene loro sempre dove egli hanno la campagna grande, come gli avevano a Ravenna : perché, conoscendo il disordine che fanno nel ritirarsi, mettendosi per un filo, lo fuggouo quando e’ possono col fare la fronte larga, coni’ t detto ; ma quando il paese gli ristringe, si stanno nel disordine soprascritto, senza pensare il rimedio. Con questo medesimo disordine cavalcano per il paese inimico, o se e’ predano, o se e’ fanno altro maneggio di guerra. Ed a santo Regolo in quel di Pisa, ed altrove, dove i Fiorentini furono rotti da' Pisani ne’ tempi della guerra che fu tra i Fiorentini e quella città, per la sua ribellione dopo la passata di Carlo re di Francia in Italia, non nacque tal rovina d’ altronde, clic dalla cavalleria amica; la quale sendo davanti e ributtata da’ nimici, percosse nella fanteria fiorentina, e quella ruppe : donde tutto il restante delle genti dierono volta : e messcr Ciriaco dal Borgo, capo antico delle fanterie fiorentine, ha affermato alla presenza mia molte volle, non essere mai stato rotto se non dalla cavalleria degli amici. 1 Svizzeri, che sono i maestri delle moderne guerre, quando ei militano coi Franciosi, sopra tulle le cose hanno cura di mettersi in lato, che la cavalleria amica, se fusse ributtata, non gli urti. E benché queste cose paiano facili ad intendere, e facilissime a farsi; nondimeno non si è trovato ancora alcuuo de’ nostri contemporanei capitani, che gli antichi ordini imiti, e gli moderni corregga. E benché gli abbino ancora loro tripartito lo esercito, chiamando 1’ una parte antiguardo, l’altra battaglia e l’altra retroguardo; non se ne servono ad altro che a comandargli nelli alloggiamenti: ma nello adoperargli, rade volte è, come di sopra è detto, che a tutti questi corpi non faccino correre una medesima fortuna. E perchè molti, per scusare la ignoranza loro, allegano che la violenza delle artiglierie non patisce che in questi tempi si usino molti ordini degli antichi, vo-glio disputare nel seguente capitolo que-sta materia, ed esaminare se le artiglierie impediscono che non si possa usare l’ antica virtù. XVII. — Quanto si debbino sii inave dagli eserciti ne' presenti tempi le artiglierie; e se quella oppiatone che se ne ha in universale j è vera. Considerando io, oltre alle cose soprascritte, quante zuffe campali (chiamate ne’ nostri tempi, con vocabolo francioso, giornate, e dagl’ Italiani fatti d’arme) furono fatte dai Romani in diversi tempi ; mi è venuto in considerazione la oppinione universale di molti, che vuole che se in quelli tempi fussino state le artiglierie, non sarebbe stato lecito a’ Romani, nè sì facile, pigliare le provincie; farsi tributari i popoli, come e’ feciono ; nè arebbono in alcuno modo fatti si gagliardi acquisti. Dicono aiTcora, che mediante questi instrumenti de’ fuochi, gli uomini non possono usare nè mostrare la virtù loro, come e’ potevano anticamente. E soggiungono una terza cosa : che si viene con piu diflìeultà alle giornale che non si veniva allora, nè vi si può tenere dentro quegli ordini di quelli tempi ; talché la guerra si ridurrà col tempo in su le artiglierie. E giudicando non fuora di proposito disputare se tali oppiuioui sono vere, e quanto le artiglierie abbino cresciuto o diminuito di forze agli eserciti, e se le tolgano o danno occasione ai buoni capitani di operare virtuosamente ; comiucerò a parlare quanto alla prima loro oppinione : che gli eserciti antichi romani non arebbono fatto gli acquisti che feciono, se le artiglierie lussino state. Sopra che, rispondendo, dico: come e’si fa guerra o per difendersi, o per offendere; donde si ha prima ad esaminare a quale di questi duoi modi di guerra le faccino più utile, o più danno. E benché sia che dire fla ogni parte, nondimeno io credo che senza comparazione faccino più danno a chi si difende, che a chi offende. La ragione che io ne dico è, che quel che si difende, o egli è dentro a una terra, o egli è in su’ campi dentro ad uno steccato. S* egli è dentro ad una terra, o questa terra è piccola, come sono la maggior parte delle fortezze, o la è grande: nel primo caso, chi si difende è al tutto perduto, perchè P impeto delle artiglierie è tale, che non trova muro, ancoraché grossissimo, che in pochi giorni ei non abbatta; e se chi è dentro non ha buoni spazi da ritirarsi c con fossi e con ripari, si perde; nè può sostenere 1* impeto del nimico che volesse dipoi entrare per la rottura del muro, nè a questo gli giova artiglieria che avesse: perchè questa è una massima, che dove gli uomini in frotta e con impeto possono andare, le artiglierie non gli sostengono. Però i furori oltramontani nella difesa delle terre non sono sostenuti: sou bene sostenuti gli assalti italiani, i quali non in frolla, ma spicciolati si conducono alle battaglie, le quali loro, per nome mollo proprio, chiamano scaramuccio. E qucsli che vanno con questo disordine e questa freddezza ad una rottura d’ un muro dove sia artiglierie, vanno ad una manifesta morte, c conira a loro le artiglierie vogliono: ma quelli clic in frotta condensati, e che runo spinge l’altro, vengono ad una rottura, se non sono sostenuti o da fossi o da ripari, entrano in ogni luogo, c le artiglierie non gli tengono; e se ne muore qualcuno, non possono essere tanti che gl’ impedischino la vittoria. Questo esser vero, si è conosciuto in molte espugnazioni fatte dagli oltramontani in Italia, e mas- sime in quella di Brescia : perchè, sendosi quella terra ribellata da’ Franciosi, e tenendosi ancora per il re di Francia la fortezza, avevano i Veneziani, per sostenere V impeto che ila quella potesse venire nella terra, munita tutta la strada di artiglierie che dalla fortezza alla città scendeva, e postane a fronte e ne’ fianchi, ed in ogni altro luogo opportuno. Delle quali monsignor di Fois non fece alcuno conto ; anzi quello con il suo squadrone, disceso a piede, passando per il mezzo di quelle, occupò la città, nè per quelle si sentì eli’ egli avesse ricevuto alcuno memorabile danno. Talché, chi si difende in una terra piccola, conte è detto, c trovisi le mura in terra, e non abbia spazio di ritirarsi con r ripari e con fossi, ed abbiasi a fidare in su le artiglierie, si perde subito. Se tu difendi tuta terra gronde, e che tu abbia comodità di ritirarti, sono nondiinanco senza comparazione più utili le artiglierie a chi è di fuori, che a chi è dentro. Prima, perchè a volere che una artiglieria nuoca a quelli che sono di fuora, tu sei necessitato levarti con essa dal piano della terra; perchè, stando in sul piano, ogni poco di argine e di riparo che il nimico faccia, rimane sicuro, e tu non gli puoi nuocere. Tanto che avendoti ad alzare, e tirarti sul corridoio delle mura, o in qualunque modo levarti da terra, tu ti tiri dietro due difficoltà: la prima, che non puoi condurvi artiglieria della grossezza e della potenza che può trarre colui di fuora, non si potendo ne’ piccoli spazi maneggiare le cose grandi ; I’ altra, che quando bene tu ve la potessi condurre, tu non puoi fare quelli ripari fedeli e sicuri, per salvare detta artiglieria, che possono fare quelli di fuora, essendo in su M terreno, ed avendo quelle comodità e quello spazio che loro medesimi vogliono: talmentechè, gli è impossibile a chi difende una terra, tenere le artiglierie ne’ luoghi alti, quando quelli che soli di fuora abbino assai artiglierie e polenti; e se egli hanno a venire con essa ne’ luoghi bassi, ella diventa in buona parte inutile, come è detto. Talché la difesa della città si ha a ridurre a difenderla con le braccia, come anticamente si faceva, e con la artiglieria minuta : di che se si trae un poco di utilità rispetto a quella artiglieria minuta, se ne cava incomodità che contrappesa alia comodità della artiglieria ; perchè, rispetto a quella,. si riducono le mura delle terre, basse e quasi sotterrate ne’ fossi: talché, com’e’ si viene alle battaglie di mano, o per essere battute le mura o per essere ripieni i fossi, ha chi è dentro molti più disavvantaggi che non aveva allora, E però, come di sopra si disse, giovano questi instrumenti molto più a chi campeggia le terre, che a chi è campeggiato. Quanto alla terza cosa, di ridursi in uno campo dentro ad uno steccato per non fare giornata, se non a tua comodità o vantaggio; dico che in questa parte tu non hai più rimedio ordinariamente a difenderti di non combattere, che si avessino gli antichi; e qualche volta, per conto delle artiglierie, hai maggiore disavvantaggio. Per- chè, se il nimico ti giunge addosso, ed abbia un poco di vantaggio del paese, come può facilmente intervenire; e truovìsi più alto di te; oche nello arrivare alio tu non abbi ancora fatti i gini, e copertoli bene con que luto, e senza che tu abbi alcun ti disalloggia, e sei forzato usci fortezze tue, e venire alla zuffa intervenne agli Spagnuoli nel nata di Ravenna* i quali essent nili tra il fiume del Ronco ed gine, per non lo avere tirato U che bastasse, e per avere i Frai poco il vantaggio del terreno, constretti dalle artiglierie usci fortezze loro, e venire alla zi dato, come il più delle volte de sere, che il luogo che tu avess con il campo fusse più eminenti altri all’ incontro, c che gli ar; sino buoni e sicuri, tale che, r il sito e 1’ altre tue preparazio miro non ardisse di assaltarti; in questo caso a quelli modi c cainente si veniva, quando uno il suo esercito in lato da non pi sere offeso: i quali sono, co paese, pigliare o campeggiare le terre tue amiche, impedirti le vettovaglie; tanto che tu sarai forzato da qualche necessità a disalloggiare, e venire a giornata ; dove le artiglierie, come di sotto si dirà, non operano molto. Considerato, adunque, di quali ragioni guerre feciono i Romani, e reggendo come ei feciono quasi tutte le lor guerre per offendere altrui, e non per difender loro; si vedrà, quando sieno vere le cose dette di sopra, come quelli arebbono avuto più vantaggio, e piu presto arebbono fatto i loro acquisti, se le fussino state in quelli tempi. Quanto alla seconda cosa, che gli uomini non possono mostrare la virtù loro, come ei potevano anticamente, mediante la artiglieria ; dico eh’ egli è vero, che dove gli uomini spicciolati si hanno a mostrare, eh’ e’ portano più pericoli che allora, quandoavessino a scalare una terra, o fare simili assalti, dove gli uomini non ristretti insieme, ma di per sè 1’ uno dall’ altro avessiuo a comparire. E vero die gli capitoni e capi degli stanno sottoposti più al perii! morte che allora, potendo esser con le artiglierie in ogni lu giova loro lo essere nelle ultii «Ire, e muniti di uomini fortissi dimeno si vede che P uno c P questi duoi pericoli fanno ra danni istraordinari : perchè munite bene non si scalano, i con assalti deboli ad assaltarh volerle espugnare, si riduce la una ossidionc, come anticamen ceva. Ed in quelle clic pure pe si espugnano, non sono molto i pericoli che allora: perchè n cavano anche in quel tempo a fendeva le terre, cose da trarre se non erano si furiose, facevam all’ ammazzare gli uomini, *il s fello. Quanto alla morte de’ci de’ condottieri, ce ne sono, in v tro anni che sono state le guerre simi tempi in Italia, meno esempi, che non era in dieci anni di tempo appresso agii antichi. Perchè, dal conte Lodovico della Mirandola, che morì a Ferrara quando i Veniziani pochi anni sono as- saltarono quello Stato, ed il Duca di Nemors, che morì alla Ciriguuola, in fuori; non è occorso che d’artiglierie ne sia morto alcuno; percdiè monsignor di Pois a Ravenna mori di ferro, e non di fuoco. Tanto che, se gli uomini non dimostrano particolarmente la loro virtù, nasce non dalle artiglierie, ma dai cattivi ordini, e dalla debolezza degli eserciti; i quali, mancando di virtù nel tutto, non la possono dimostrare nella parte. Quanto alla terza cosa detta da costoro, che non si possa venire alle mani, fc che la guerra si condurrà tutta in su P artiglierie, dico questa oppinione essere al tutto falsa; e così ila sempre tenuta da coloro che secondo P antica virtù vorranno adoperare gli eserciti loro. Perchè, chi vuole fare uno esercito buono, gli conviene, con eserpiù apertamente questo errore, mare più i cavalli che le fantei uno altro essempio romano. E Romani a campo a Sora, ed i usciti fuori della terra una tu cavalli per assaltare il campo, fece all’ incontro il Maestro de romano con la sua cavalleria, e di petto, la sorte dette che nel scontro i capi dell’ uno e dell’ alti cito morirono; e restali gli alti*governo, e durando nondimeno I i Romani per superare più fac lo inimico, scesono a piede, e cc sono i cavalieri nimici, se si voi fendere, a fare il simile: e co questo, i Romani ne riportarom toria. Non può esser questo eì maggiore in dimostrare quanto virtù nelle fantericche ne’ cavag che se nelle altre fazioni i Con cevano discendere i cavalieri i era per soccorrere alle fanterie i tivano, e che avevano bisogno ili aiuto; ma in questo luogo e’ discesono, non per soccorrere alle fanterie nè per eombattere con uomini a piè de’ nimici, ma combattendo a cavallo co’ cavalli, giudicareno, non potendo superargli a cavallo, potere scendendo più facilmente vincergli. Io voglio adunque conchiudere, che una fanteria ordinata non possa senza grandissima diffìcultà esser superata, se non da una altra fanteria. Crasso e Marc’ Antonio romani corsone per il dominio de’ Parti molte giornate con pochissimi cavalli ed assai fanteria, ed all’ incontro avevano innumerabili cavalli de’ Parti. Crasso vi rimase con parte dello esercito morto. Marc’ Antonio virtuosamente si salvò. Nondimanco, in queste afflizioni romane si vede quanto le fanterie prevalevano ai cavalli : perchè essendo in un paese largo, dove i monti son radi, ed i fiumi radissimi, le marine longinque, e discosto da ogni comodità; nondimanco Marc’ Antonio, al giudicio de’ Parti medesimi, mente si salvò; nè mai ebbe tutta la cavalleria pnrtica te ordini dello esercito suo. Se rimase, chi leggerà bene le s vedrà come e’ vi fu piuttosto che forzato: nè mai, in tutti sordini, i Parti ardirono di uri sempre andando costeggiando pedendogli le vettovaglie, prò gli e non gli osservando, lo et od una estrema miseria. Io avere a durare più fatica in p quanto la virtù delle fanterie lente ebe quella de’ cavalli, : fussino assai moderni essenv rendono testimonianza pieniss è veduto novemila Svizzeri i da noi di sopra allegata, and frontale diecimila cavalli ed fanti, e vincergli: perchè i cf li potevano offendere: i fanti, ] gente in buona parte guascoi ordinata, stimavano poco. Yi ventiseimila Svizzeri andare a trovare sopra Milano Francesco re di Francia, che aveva seco ventimila cavalli, qua-♦ rantamila fanti e cento carra d’artiglieria ; e se non vinsono la giornata come a Novara, combatterono due giorni virtuosamente; e dipoi, rotti che furono, la metà di loro si salvarono. Presunse Marco Regolo Attilio, non solo con la fanteria sua sostenere i cavalli, ma gli elefanti; e se il disegno non gli riuscì, non fu però che la virtù della sua fanteria non fusse tanta, che ei non confidasse tanto in lei che credesse superare quella difficoltà. Replico, pertanto, che a voler superare i fanti ordinati, è necessario opporre loro fanti meglio ordinati di quelli: altrimenti, si va ad una perdita manifesta. Ne’ tempi di Filippo Visconti, duca di Milano, scesouo ili Lombardia circa sedicimila Svizzeri: donde il Duca avendo per capitano allora il Carmignuola, lo mandò con circa mille cavalli e pochi fanti allo incontro loro. Costui non sappiendo 1* 01 combatter loro, ne andò ad inc nari o di amici ei non può tenere lun-gamente tale esercito, è matto al tuttose non tenta la fortuna innanzi che taleesercito si abbia a risolvere: perchèaspettando, ei perde al certo; tentando,potrebbe vincere. Un’altra cosa ci èancora da stimare assai : la quale è,che si debbe, eziandio perdendo, volereacquistar gloria; e più gloria si ha adesser vinto per forza, che per altro in-conveniente che t’abbia fatto perdere.Sì che Annibaie doveva essere constretto«la queste necessità. E dìScipione, quando Anuibaferita la giornata, e nonstalo l’animo andarlo a tghi forti, non pativa, pevinto Siface, e acquistateAffrica, che vi poteva stacomodità come in Italia,terveniva ad Annibaie, qV incontro di Fabio ; nèciosi, che erano all’ inctzio. Tanto meno ancoragiornata colui che con l’il paese altrui ; perchè,trare nel paese del niiviene quando il nimico scontro, azzuffarsi seco; er la più corta, e per vin-cere ogni di (Tic ulta nè dar tempo al mar-chese a diliberarsi, ad un tratto mossele sue genti per quella via, cd al mar-chese significò gli mandasse le chiavi diquel passo. Talché il marchese, occu-pato da questa subita diliberazione, glimandò le chiavi: le quali mai gli arebbemandate se Pois più lepidamente si fusscgovernato, essendo quel marchese in legaeoi papa e coi Viniziani, ed avendo uusuo figliuolo nelle mani del papa; lequali cose gli davano molte oneste scusea negarle. Ma assaltato dal subito par-tito, per le cagioni che di sopra si di-cono, le concesse. Cosi feciono i Toscanieoi Sanniti, avendo per la presenza del-T esercito di Sannio preso quelle armeche gli avevano negato per altri tempipigliare.Cap. XLV. — Qual sia miglior partitonelle giornale , o sostenere lf impetode* nimicij c sostenuto urtargli ; ov-vero dapprima con furia assaltargli. Erano Decio e Fabio, consoli romani,con due eserciti all’ incontro degli eser-citi dei Sanniti e dei Toscani; e venendoalla zuffa ed alla giornata insieme, è danotare in tal fazione, quale di due di-versi modi di procedere tenuti dai dueConsoli sia migliore. Perchè Decio conogni impeto e cor» ogni suo sforzo as-saltò il nimico; Fabio solamente lo so-stenne, giudicando V assalto lento es-sere più utile, riserbando l' impeto suonell’ ultimo, quando il nimico avesseperduto il primo ardore del combat-tere, e come noi diciamo, la sua foga.Dove si vede, per il successo della eosa,che a Fabio riuscì molto meglio il di-segno che a Decio : il quale si straccònei primi impeti ; in modo che, veden-do la banda sua piuttosto in volta diealtrimenti, per acquistare con la mortequella gloria alla quale con la vittorianon aveva potuto aggiungere, ad imita-zione del padre sacrificò sè stesso perle romane legioni. La qual cosa intesada Fabio, per non acquistare manco ono-re vivendo, che s’avesse il suo collegaacquistato morendo, spinse innanzi tuttequelle forze che s’ aveva a tale necessitàriservate ; donde ne riportò una felicis-sima vittoria. Di qui si vede che ’l mododel procedere di Fubio è più sicuro e più imitabile. Donde nasce che una fa-mìglia iìi una città tiene un tempo imedesimi costumi. E’ pare clic non solamente 1’ una cittàdall* altra abbi certi modi ed institutidiversi, e procrei uomini o più duri opiù effeminati; ma nella medesima cittàsi vede tal differenza esser nelle fumi-glie I’ una dall’ altra. H che si riscontraessere vero in ogni città, e nella cittàili Roma se ne leggono assai essempi :perché e’ si vede i Manlii essere statiduri ed ostinati, i Pubi icoli uomini be-nigni ed amatori del popolo, gli Appiiambiziosi e ni mici della Plebe: e cosimolte altre famiglie avere avute ciascunale qualità sue spartite dall’ altre. La qualcosa non può nascere solamente dal san-gue, perchè e’ conviene eh’ ei varii me-diante la diversità dei matrimoni; maè necessario venga dalla diversa educa-zione che ha una famiglia dall’ altra.Perchè gl’ importa assai che un giova-netto dai teneri anni cominci a sentirdire bene o male di una cosa; perchèconviene che di necessità ne faccia im-pressione, e da quella poi regoli il mododel procedere in tutti i tempi della vitasua. E se questo non fosse, sarebbe im-possibile che tutti gli Appii avessinoavuta la medesima voglia, c Rissino statiagitati dalle medesime passioni, comenota Tilo Livio in molti di loro: e perultimo, essendo uno di loro fatto Censore, ed avendo il suo collega alla finede* diciotto mesi, come ne disponeva lalegge, deposto il magistrato, Àppio nonlo volle deporre, dicendo che lo potevatenere cinque anni secondo la primalegge ordinata dai Censori. E benchésopra questo se ne facessero assai con-cioni, e se ne generassino assai tumulti,non pertanto ci' fu mai rimedio che vo-lesse deporlo, conira alla volontà delPopolo e della maggior parte del Senato.E chi leggerà P orazione che gli fececontro Publio Sempronio tribuno dellaplebe, vi noterà tutte l’ insolenze oppiane,e tulle le bontà ed umanità usale da in-finiti cittadini per ubbidire alle leggi edagli auspicii della loro patria. Che un buon cittadinoper amore della patria debbo dimenticare l’ingiurie’ private.Era Manlio consolo con l’esercito con-ira ai Sanniti* ed essendo stato in unazuffa ferito, e per questo portando legenti sue pericolo, giudicò il Senato es-ser necessario mandarvi Papirio Cur-sore dittatore, per sopplire ai difetti delConsolo. Ed essendo necessario che ’lDittatore fusse nominato da Fabio, ilquale era con gli eserciti in Toscana; edubitando, per essergli nimico, che nonvolesse nominarlo; gli mandarono i Senatori due ambasciadori a pregarlo, che,posti da parte gli privati odii, dovesseper benefìzio pubblico nominarlo. Il cheFabio fece, mosso dalla carità della pa-tria; ancora che col tacere e con mol-ti altri modi facesse segno che talenominazione gli premesse. Dal qualedebbono pigliare essempio tutti quelli,che cercano d* essere tenuti buoni cit-tadini. Quando si vede fareuno errore grande ad un nimico ,si debbe credere che vi sia sono in-ganno.Essendo rintaso Fulvio Legato nelloesercito che i Romani avevano in To-scana, per esser ito il Consolo per al-cune cerimonie a Roma; i Toscani, pervedere se potevano avere quello allatratta, posono un aguato propinquo aicampi romani, e mandarono alcuni sol-dati con veste di pastori con assai ar-mento, e gli feciono venire alla vista dello esercito romano: i quali così tra-vestiti si accostarono allo steccato delcampo; onde il Legato meravigliandosidi questa loro presunzione, non gli pa-tendo ragionevole, tenne modo ch’egliscoperse la fraude; e cosi restò il di*>igno de Toscani rotto. Qui si può comoramente notare, che un capitano dieserciti non debbe prestar fede ad unoerrore che evidentemente si vegga fareal nimico: perchè sempre vi sarà sottofronde, non sendo ragionevole che gliuomini siano tanto incauti. Ma spesso ildisiderio del vincere acceca gli animi degli uomini, che non veggono altro chequello pare facci per loro. I Franciosi avendo vinti i Romani ad Allia, e venendo a Roma, e trovando le porte aperte e senza guardia, stettero tutto quel giorno e la notte senza entrarvi, temendo di fraude, e non potendo credere clic fusse tanta viltà c tanto poco consiglio ne’ petti romani, che gli nbbandonassino la patria. Quando nel 4508 s’andò per gli Fiorentini a Risa a campo, Alfonso del Mutolo, cittadino pisano, si trovava prigione dei Fiorentini, e promise che s’egli era libero, darebbe una porta di Pisa all’esercito fiorentino. Fu costui libero. Dipoi, per praticare la cosa, venne molte volte a parlare coi mandati dc’commissari; e veniva non di nascosto, ma scoperto, ed accompagnato da’ Pisani; i quali lasciava da parte, quando parlava eoi Fiorentini. Talmentechè si poteva conietturare il suo animo doppio ; perchè non era ragionevole, se la pratica fussc stata fedele, eh’ egli 1’ avesse trattata sì alla scoperta. .Ma il disiderio che s* aveva d’ aver Pisa, accecò in modo i Fiorentini, che condottisi con l’ ordine suo alla porta a Lucca, vi lasciarono più loro capi ed .altre genti con disonore loro, per il tradimento doppio che fece detto Alfonso. Una repubblica, a volerla mantenere libera, ha ciascuno di bisogno di nuovi provvedimenti ; e per guali meriti Quinto Fabio fu chiamato Massimo. E di necessità, come altre volte s’ è «letto, che ciascuno dì in una città grande 'taschino' accidenti che abbino bisogno elei medico ; e secondo che gli importano più, conviene trovare il medico più savio. E se in alcune città nacquero mai simili accidenti, nacquero in t\oma e strani ed insperati; come fu quello quando e’parve cha tutte le donne romane avessino congiurato contra ai loro maritid’ ammazzargli : tante se ne trovò clicgli avevano avvelenati, e tante eh’ ave-vano preparato il veleno per avvelenargli. Come fu ancora quella congiura de’Baccanali, clic si scopri nel tempo dellaguerra macedonica, dove erano già in-viluppati molti migliaia d’ uomini e didonne; e se la non si scopriva, sarebbestata pericolosa per quella città ; o sep-pure i Romani non fussino stati con-sueti a gasligare le muititudiui degli uo-mini erranti: perchè, quando e’ non sivedesse per altri infiniti segni la gran-dezza di quella Repubblica, e la potenza delle esecuzioni sue, si vede per la qualità della pena che la impone a chi erra. Nè dubita far morire per via di giustizia una legione intera per volta, ed una città tutta; e di confinare ottoo diecimila uomini con condizioni straordinarie, da non essere osservate da unsolo, non che da tanti: come intervennea quelli soldati che infelicement combatteno a Canne, i quali confina in Sicilia, e impose loro che non alkergassino in terre, e che mangiassino ritti. Ma di tutte 1’altre esecuzioni era terribile il decimare gl’eserciti, dove a scorte da tutto uno esercito è morto d’ogni dieci uno. Nè si poteva, a gasligare una multitudine, trovare più spaventevole punizione di questa. Perchè quando una moltitudine erra, dove non sia 1’autore certo, tutti non si possono gastigare, per esser troppi; punirne parte e parte lasciare impuniti, si farebbe torto a quelli che si punissino, e gl’impuniti arebbono animo di errare un’altra volta. Ma ammazzare la decima parte a sorte, quando tutti la meritano, o, 1'è punito si duole della sorte; ehi non è punito, ha paura che un’altra volta non tocchi alui, e guardasi di errare. Sono punite, adunque, le venefiche e le baccanali secondo che meritano i peccali loro. K. benché questi morbi in una repubblica faccino cattivi effetti, non sono a morte, perchè sempre quasi s’ha tempo a correggerli: ma non s’ha già tempo in quelli che riguardano lo stato, i quali se non sono da un pru-dente corretti, rovinano la città. Eranoin Roma, per la liberalità che i Romaniusavano di donare la civilità a’ forestieri, nate tante genti nuove, che le comincia avere tanta parte ne’ suffragi, che’l governo comincia a variare, epartivasi da quelle cose e da quelli uomini dove era consueto andare. Di che accorgendosi Quinto Fabio che è Censore, messe tutte queste genti nuoveda chi dipendeva questo disordine sot-to quattro Tribù, acciocché non potessino, ridotte in si piccioli spazi,corrompere tutta Roma. È questa cosa ben conosciuta da Fabio, e postovi senza alterazione conveniente rimedio; il quale è tanto accetto a quella civilità, che merita d’esser chiamato Mas*sirno Machiavelli a Zanobi Buondel-monti e Cosimo Rucellai salute. Quali siano stati universalmente i principii di qualunque città, e quale è quello di Roma Di quanto spezie sono le repubbliche,e di quale fu la Repubblica Romana. Quali accidenti facessino creare inRoma i Tribuni della plebe; il che fece la Repubblica più perfetta che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella Repubblica. Dove più securamente si ponga laguardia della libertà, o nel Popolo one’ Grandi; e quali hanno maggiore cagione di tumultuare, o chi vuole acquistare o chi vuole mantenere. Se in Roma si poteva ordinare uno sstato che togliesse via le inimicizie intra il popolo ed il senato Quanto siano necessarie in una Repubblica le accuse per mantenere lalibertà Quanto lo accuse sono utili allerepubbliche, tanto sono perniziose le calunnie. Come egli è necessario esser soloavolere ordinare una repubblica dinuovo, oal tutto fuori delli antichisuoi ordini riformarla Quanto sono laudabili i fondatori d’una repubblica o d’uno regno, tanto quelli d’ una tirannide sono vituperabili Della religione de’ Romani. Di quanta importanza sia teneroconto della religione, e come la Italia per esserne mancata mediante la Chiesa romana, è rovinata Come i Romani si servirono dellareligione per ordinare la città, e per seguire le loro imprese e fermare i tumulti. I Romani interpretavano gli auspicii secondo la necessità, o con la prudenza mostravano di osservare la religione, quando forzati non 1’osser-vavano; e se alcuno temerariamentela dispregiava, lo punivano 100dio alle cose loro afflitte, ricorsonoalla religione Un popolo USO a vivere sotto unprincipe, se per qualche accidente diventa libero, con difficultà mantienela libertà. Uno popolo corrotto, venuto in libertà, si può con dit'ticnltà grandissima mantenere libero In che modo nelle città corrotte si potesse mantenere uno Stato libero, essendovi; o non essendovi, ordinarvelo Dopo uno eccellente principe si puòmantenere un principe debole; madopo un debole, non si può con un altro debole mantenere alcun regno. Due continove successioni di principi virtuosi fanno grandi effettivecome le repubbliche bene ordinatehanno di necessità virtuose successioni: e però gli acquisti ed augumenti loro sono grandi Quanto biasimo meriti quel principe e quella repubblica che manca d’armi proprie Quello che sia da notare nel caso dei tre Orazi romani, e dei tre Curiazi albani che non si debbe mettere a pericolo tutta la fortuna e non tutte le forze; e per questo, spesso il guardare i passi è dannoso Le repubbliche bene ordinatecostituiscono premii e pene a’ loro cittadini, nè compensano mai l’uno con l’altro Chi mole riformare nno Stato antico in una città libera, ritenga almeno l’ombra desmodi antichi Un principe nnoro, in nna cittào provincia presa da Ini, debbo faro ogni cosa nnova Sanno rarissime volte gli nomini essere al tutto tristi o al tatto buoni. IniPer qual cagione i Romani furono meno ingrati agli loro cittadini che gl’ateniesi Quale sia più ingrato, o un popolo, o un principe Quali modi debbe usare un prìncipe o nna repubblica per fuggirò questo vizio della ingratitudine; e qnali quel capitano o quel cittadino per non essere oppresso da quella Che i capitani romani per errore commesso non furono mai istraordinariamente puniti; nè furono inai ancora puniti quando, per la ignoranza loro o tristi partiti presi da loro ne fussino seguiti danni alla repubblica, lfil Una repubblica o nno principe non dobbe differire a beneficare gli uomini nelle sue necessitati. Quando uno inconveniente è cresciuto o in uno Stato o contra ad uno Stato, è più salutifero partito temporeggiarlo che urtarlo. L'autorità dittatoria fece tene, e non danno, alla repubblica romana: o come lo autorità che i cittadini si toPgono, non quelle che sono loro dai suffragi liberi date, sono alla vita civile perniciose La cagione perchè in Roma la creazione del decemvirato fu nociva alla libertà di quella repubblica, non ostante che fosse creato per suffragi pubblichi e liberi Non debbono i cittadini che hanno avuti i maggiori onori, sdegnarside' minoriQuali scandali partorì in Roma la legge agraria: e come fare una legge in una repubblica che risguardi assai indietro, e sia contra ad unaconsuetudine antica della città, èscandolosissimo Le repubbliche deboli sonomale risolute, e non si sanno delibe-rare; e se le pigliano mai alcuno par-tito, nasce più da necessità che daelezione In diversi popoli si veggonospesso i medesimi accidenti. La creazione del decemvirato in Roma, e quello che in essa è da notare: dove si considera, intra moltealtre cose, come si può salvare persimile accidente, o oppressare una re-pubblica Saltare dalla urailità alla superbia, dalla pietà alla crudeltà, senza debiti mezzi, è cosa imprudente ed inutile. Quanto gli uomini facilmente si possono corrompere. Quelli che combattono per la gloria propria, sono buoni e fedeli soldati Una moltitudine senza capo èinutile: e non si debbe minacciare prima, e poi chiedere P autorità È cosa di malo esempio non osservare una legge fatta, e massimedallo autore d'essa: e rinfrescare ogni dì nuove ingiurie in una città, è a chi la governa dannosissimo Gli uomini salgono da un' ambizione ad un'altra; e prima si cercanon essere offeso, dipoi di offendere altrui Gli uomini, ancora che si ingannino ne’ generali, nei particolari non si ingannano Chi vuolo che uno magistrato non sia dato ad un vile o ad un tristo, lo facci domandare o ad un troppo vile e troppo tristo, o ad uno troppo nobile e troppo buono Se quelle città che hanno avuto il principio libero, come Roma, hanno difficoltà a trovare leggi che le mantenghino; quelle che lo hanno immediate servo, ne hanno quasi una impossibilita. Non debbo uno consiglio o uno magistrato potere fermare le azioni della città. Una repubblica o uno principe debbo mostrare di fare per liberalità quello a che la necessità lo constringe A reprimere la insolenza di uno che sorga in una repubblica potente, non vi è piu securo e meno scandoloso modo, che preoccuparli quelle vie per lo quali o’vieno a quella potenza. Il popolo molte volto desidera la rovina sua, ingannato da una falsa spezie di bene: e come le grandi speranze e gagliardo promesse facilmente lo muovono. Quanta autorità abbia uno uomo grande a frenare una moltitudine Quanto facilmente si conduchino le cose in quella città dove la moltitu-dine non è corrotta: e che dove è eqnalità, non si può faro principato;e dove la non è, non si può far re-pubblica. Innanzi che seguino i grandi accidenti in una città o in una provincia, vengono segui che gli pronosti-cano, o Domini che gli predicono. La plebe insieme è gagliarda; diper se è deboleLa moltitudine è più savia e piùcostante che un principe altri si può più fidare; o di quellafatta con una repubblica, o di quellafatta con nno principe Come il consolato o qualunque altro magistrato in Roma si dava senzarispetto di età Quale fu più cagione dello imperioche acquistorono i Romani, o la virtù,o la fortuna Con quali popoli i Romani ebbero acombattere, e come ostinatamente quelli difendevano la loro libertà. Roma divenne grande città rovinando le città circonvicine, e ricevendo i forestieri facilmente a' suoionori Le repubbliche hanno tenuti tre modicirca lo ampliare lingue, insieme con l’accidente de1 diluvio delle pesti, spegno la memoria dello cose. Come i Romani procedevano nel farela guerra Quanto terreno i Romani davanoper colono La cagione perchè i popoli si partono da’ luoghi patrii, ed inondano ilpaose altrui Quali cagioni comunemente faccino. I danari non sono il nervo dellaguerra, secondo elio è la comune op-pinone Non è partito prudento fare amicizia con un principe che abbia piùoppinione che forze assaltato, inferire, o aspettare laguerra Che si viene (li bassa a gran fortuna più con la fraude, che con laforza t Ingannansi molte volto gli uomini,credendo con la nmilità vincere la superbia Gli stati deboli sempre fieno ambi-gui nel risolversi: e sempre le deli-berazioni lente sono nocive Quanto i soldati ne’ nostri tempi si disformino dalli antichi ordini. Quanto si debbino stimare daglieserciti ne’ presenti tempi le artiglie-rie; e se quella oppinione che se neha in universale, è vera Come per I’ autorità de* Romani,e per lo essempio della antica milizia, si debbe stimare più le fanterieche i cavagli . Che gli acquisti nelle repubbli-che non bene ordinate e che secondola romana virtù non procedono, sonoa rovina, non a esaltazione di esse. Quale pericolo porti quel principeo quella repubblica che si vale dellamilizia ausiliare a mercenaria Il primo Pretore che i Romanimandarono in alcun luogo, fu a Capo-va, dopo quattrocento anni che cominciarono a far guerra Quanto siano false molte volte leoppinioni degli uomini nel giudicarele cose grandi Quanto i Romani nel giudicarei sudditi per alcuno accidente che necessitasse tal giudizio, fuggivano lavia del mezzo Le fortezze generalmente sonomolto più dannose che utili Che Io assaltare una città disunita, per occuparla mediante la suadisunione, è partito contrario. Il vilipendio e l’improperio genera odio contra a coloro che l’usano, senza alcuna loro utilità Ai principi e repubbliche prudenti debbe bastare vincere; perchè ilpiù delle volte, quando non basti, siperde Quanto sia pericoloso ad unarepubblica o ad uno principe non vendicare una ingiuria fatta contra alpubblico o contra al privato La fortuna accieca gl’animi degl’uomini, quando la non vuole chequelli si opponghino a’ disegni suoi Le repubbliche e gli principi veramente potenti non comperano l'amicizie con danari, ma con la virtù econ la riputazione delle forzo. Quanto sia pericoloso credere agli sbanditi In quanti modi i Romani occupano le terre Come i Romani davano agliloro capitani degli eserciti le commissioni libere A volere che una setta o una repubblica viva lungamente, è necessarioritirarla spesso verso il suo principio. Come gli è cosa sapientissima simulare in tempo la pazzia. Come egli è necessario, a volermantenere una libertà acquistata dinuovo, ammazzare i figliuoli di Bruto Pag-Non vive sicuro un principe in un principato, mentre vivono coloro chene sono stati spogliati Quello che fa perdere uno regno aduno re che sia ereditario di quello. Delle congiure Donde nasce che le mutazioni dallalibertà alla servitù, e dalla servitùalla libertà, alcuna n1 è senza sangue,alcuna n’è piena chi vuole alterare una repubblica, debbo considerare il soggetto diquella Come conviene variare coi tempi, volendo sempre aver buona fortuna . Che uu capitano non può fuggire lagiornata, quando 1’ avversario la vuolfare in ogni modo Che chi ha a fare con assai, ancora che sia inferiore, purché possasostenere i primi impeti, vince. . . . Come un capitano prudente debboimporre ogni necessità di combattereai suoi soldati, e a quelli delli minicitorla golP0Ye 8*a Più confidare, o innuo buono capitano che abbia l’eser-cp° debole, o in uno buono esercito che abbia il capitano debole. Le invenzioni nuove che appari-scono nel mezzo della zuffa, e le vocinuove che si odono, quali effetti faccino Come uno e non molti siano preposti ad uno esercito, o come i piùcomandatori offendono Che la vera virtù si va ne' tempidifficili a trovare; e ne* tempi facilinon gli uomini virtuosi, ma quelliche per ricchezze o per parentado prevagliono, hanno più graziaChe non si offenda uno, e poiquel medesimo si mandi in ammini-strazione e governo d’ importanza. Nessuna cosa è più degna d' uncapitano, che presentire i partiti delnimico. Se a reggere una moltitudine èpiù necessario lo ossequio che la pena. Uno essempio d'umanità appresso ai Falisci potette più d' ogni forza romana Donde nasce che Annibale con diverso modo di procedere da Scipione, fa quelli medesimi effetti in Italia che quello in Ispagna. Come la durezza di Manlio Torquato e l’umanità di Valerio Corvino acquistò a ciascuno la medesima gloria. Per quale cagione Cammillo fnsse cacciato di Roma. La prolungazione degl’imperi fa serva Roma. Della povertà di Cincinnato, e dimolti cittadini romani. Come per cagione di femmine si rovina uno Stato. Come e' si ha a nnire una città divisa; e come quella oppinione non è vera, che a tenere le città bisogna tenerle disunite. Che si debbe por mente alle opere de’ cittadini, perchè molte volte sotto un’opera pia si nasconde un principio di tirannide. Che gli peccati dei popoli nascono dai principi. Ad uno cittadino che voglia nella sua repubblica far di sua autorità alcuna opera buona, è necessario prima spegnere l’invidia: e come, venendo il nimico, s’ha a ordinare la difesa d’una città Le repubbliche forti o gli uomini eccellenti ritengono in ogni fortuna il medesimo animo e la loro medesima dignità. Quali modi hanno tenuti alcuni a turbare una paco. Egli è necessario, a voler vincere una giornata, fare l’esercito conattente ed infra loro, e con il capittano. Quale fama o voce o oppinione fa che il popolo comincia a favorire un cittadino: e se ei distribuisce I magistrati con maggior prudenza che un principe. Quali pericoli si portino nel farsi capo a consigliare una cosa; e quanto ella ha più dello straordinario, maggiori pericoli vi si corrono . La cagione perchè i Franciosi sono stati e sono ancora giudicati nelle zuffe da principio più che uomini, e dipoi meno che femmine . Se le piccolo battaglie innanzi alla giornata sono necessarie, e come si debbo fare a conoscere un nimico nuovo, volendo fuggire quelle. Come debbe esser fatto un capitano nel quale 1’esercito suo possa confidare Che un capitano debbe esser conoscitore dei siti Come usare la fraudo nel maneggiare la guerra è cosa gloriosa. Che la patria si debbe difendere o con ignominia o con gloria; ed in qualunque modo è ben difesa Che le promesse fatte per forza non si debbono osservare Clie gli uomini che nascono in una provincia, osservano per tutti I tempi quasi quella medesima natura E’ si ottiene con l'impeto e con 1’audacia molte volte quello che con modi ordinari non si otterrebbe mai . Qual sia miglior partito nelle giornate, o sostenere l'impeto de' nimici, e sostenuto urtargli; ovvero dapprima con furia assaltargli Donde nasce che una famiglia in una città tiene un tempo i medesimi costumi Che un buon cittadino per amore della patria debbe dimenticare l’ingiurie private. Quando si vede fare uno errore, grande ad un nimico, si debbe credere die vi sia sotto inganno. Una repubblica, a volerla mantenere libera, ha ciascuno di bisogno di nuovi provvedimenti; e per quali meriti Quinto Fabio è chiamato Massimo. Tito Livio. Keywords: filosofia romana, Romolo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livio” – The Swmming-Pool Library, Villa Speranza. For H. P. G. Grice’s Gruppo di Gioco. Tito Livio.

  Grice e Livio: la ragione conversazionale e la storia romana come fonte della morale romana – etica togata -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova) Filosofo italiano. Although famo

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