Grice e Limone: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della simbolica del potere – filosofia
basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Atella). Filosofo
italiano. Atella, Potenza, Basilicata. Grice: “I like Limone; like me, he has
explored the idea of value in terms of catastrophe – I didn’t. He has explored
the poetics of philosophy – and he has investigated on a concept that Strawson
and I always found fascinating, that of a person!” -- “Che cosa è, nel mondo
umano, la persona?” “Tutto.”
“Che cosa è, nel mondo contemporaneo, la persona?”” Nulla.” Persona e memoria,
Rubbettino. La sua ricerca filosofica si inserisce nel solco del personalismo
comunitario. Si laurea a Napoli e il
Roma. Studia a Parigi e a Châtenay-Malabry, sede dell'Association des
amis de Mounier, presso la Comunità dei muri bianchi, cui appartenevano
Fraisse, Ricœur, Mounier, Domenach. Insegna a Napoli. I suoi interessi di
ricerca abbracciano aspetti epistemologici, etici, filosofico-pratici e simbolici.
Al centro della sua attenzione teoretica è “la persona”. Fonda la rivista
"Persona” e "Symbolicum" sulla simbolica. SIMBOLO. Sonda in
profondità l’idea di persona. Là dove la persona non è né la semplice
nobilitazione dell’essere umano in generale, né una singola unità seriale.
Della persona si può dare idea, non “concetto”, perché l’idea è aperta come la
vita, mentre il concetto è chiuso. L’idea di persona, però, non è l’idea di un
quid ma di un “QVIS” perché la persona è un “chi” (“Someone is hearing a
noise”) non un “che” (“Something is hearing a noise”)– That’s why it’s very
wrong to call “the chair is red” as third-PERSON seeing that the chair is
hardly a person!” è l’idea di un’essenza che non può essere separata dalla
concreta singola esistenza, originalissima e dotata di dignità. In quanto idea
di un “quis”, la persona si presenta come l’altro versante del teorema
d’incompletezza di Gödel. Il significato della persona si delinea all’interno
di una costellazione in cui essa: -è realtà singolare e la sua idea; -è
prospettiva ontologica sussistente e la sua verità; -è la parte di un tutto che
solo parzialmente è parte, perché per altro verso si presenta come un tutto, in
quanto è irriducibile al tutto e indivisibile in sé; -è l’eccezione istituente
una regola che riesce, e non riesce, a farsene istituire; -è l’idea di qualcosa
che resiste alla possibilità di essere ricondotto a un’idea; -è l’idea di un
appartenere che resiste all’idea di appartenere. L’essere della persona
richiama, a suo modo, il problema delle antinomie di Russell. Un tale
arcipelago di paradossi costituisce, però, una forza virtuosa che interroga
ogni sistema. La persona si configura come invenzione teorica, paradosso logico
e misura epistemologica, e rappresenta il punto strutturale di base che istituisce
la visione del gius-personalismo. Altri saggi: “Tempo della persona e sapienza
del possibile: Valori, politica, diritto (ESI, Napoli); “Tempo della persona e
sapienza del possibile: Per una teoretica, una critica e una metaforica del
personalismo (ESI, Napoli); La catastrofe come orizzonte del valore, Monduzzi,
Milano. Bellezza e persona, su “Aisthema” “La macchina delle regole, la verità
della vita. Appunti sul fondamentalismo macchinico nell’era contemporanea, in
La macchina delle regole, la verità della vita (Angeli, Milano); Che cos’è il
gius-personalismo? Il diritto di esistere come fondamento dell’esistere del
diritto, Monduzzi, Milano. Ars boni et aequi. Ovvero i paralipòmeni della
scienza giuridica. Il diritto fra scienza, arte, equità e tecnica (Angeli,
Milano), Filosofia e poesia come passioni dell’anima civile. La persona fra potere
e memoria in Persona, Artetetra, Capua. Persona e memoria – cf. Grice,
“Personal identity” -- “Oltre la maschera” il compito del pensare come diritto
alla filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli. Poesia Polifonia d’un vento
(Salerno-Roma). Dentro il tempo del sole (Salerno-Roma). Ore d’acqua
(Salerno-Roma). Incontrando il possibile re (Salerno-Roma). “Notte di fine
millennio” (Bari). Fenicia, sogno di una stella a nord-ovest (Roma). L'angelo
sulle città, in onore del figlio (Roma ). Le ceneri di Pasolini (Pasturana, Alessandria).
Aforismi di un impiccato felice (Salerno). Aforismi del passato duemila:
distruzioni per l'uso (Salerno). Ossi di limone. Aforismi di uno scostumato
(Vatolla). Sierra Limone. Dai taccuini fenici di Er Limonèro (Vatolla). NV.
Melchiorre, Essere persona, Fondazione A. e G. Boroli, Milano Fondazione roberto
farina. Giuseppe Limone. Limone. Keywords: simbolo, simbolismo, la dimensione
del simbolo, ventennio, fascismo, simbolica
del potere, mistica fascista, damnatio memoriae, la composita, la simbolica,
simbolo, composito. Strawson, “The concept of a person” – Ayer: “The concept of
a person” – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Limone: la composita” --. Luigi Speranza, “Grice e Limone: umano e
persona” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Lisi: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo
italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean. When the Pythagoreans were being
persecuted in Italy, L. escapes and makes his way to Teba. There he becomes the
tutor of Epaminonda, the city’s military leader. He writes a letter to Ipparco. Lisi
Grice
e Lisiade: all’isola – la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia siciliana –
scuola di Catania. filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Catania,
Sicilia. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice
e Lisibio: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
pugliese – scuola di Taranto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto,
Puglia. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice
e Lisimaco: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia toscana – filosofia fiorentina
– scuola di Firenze -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo
italiano. Firenze, Toscana. He belonged to The Porch. The tutor of Amelio
Gentiliano. Since Amelio comes from Firenze, that may be taken as having been
the home of L. as well.
Grice
e Livio: la ragione conversazionale e la storia romana come fonte della morale
romana – etica togata -- Roma – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Padova) Filosofo
italiano. Padova,
Veneto. Although famous as one of the great Roman historians, he is also a
philosopher, who popularises the genre of the ‘dialogo filosofico.’ Pre-testo. DISCORSI SOPRA LA PRIMA
DECA DI LIVIO di MACHIAVELLI, FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. MACHIAVELLI A
ZANOBI BUONDELMONTI E COSIMO RUCELLÀI SALUTE. o
vi mando un
presente, il quale se non corrisponde agl’obblighi clic io ho con
voi, è tale senza dubbio, quale ha
potuto Machiavelli mandarvi maggiore. Perchè in quello io ho espresso quanto io
so, quanto io ho imparato per una lunga pratica e continova lezione delle cose
del mondo. E non porlendo nè
voi nè altri
disiderare da me più,
non vi potete
dolere se io
non vi ho donato
più. Bene vi può incrcsccre della povertà
dello ingegno mio,
quando siano queste mie
narrazioni povere ; e della
fallacia del giudizio, quando io in
molte parli , discorrendo,
m'inganni. Il che essendo , won so
quale di noi si
abbia ad
esser meno obbligato
all’altro; o io a voi , che mi
avete forzalo a scrivere quello ch’io
mai per me
medesimo non arci scritto;
o voi a me, quando scrivendo non
abbi soddisfatto. Pigliate,
adunque, questo in
quello modo che si
pigliano tulle le
cose degli amici:
dove si considera più sempre
la intenzione di chi manda,
che le qualità
della cosa che è mandata.
E crediate che in
questo io ho una
salis fazione , quando io
penso che, sebbene
io mi fussi
ingannato in molle sue
circostanze, in questa sola
so eh io non
ho preso errore,
di avere delti voi,
ai quali sopra
tutti gli altri questi
miei Discorsi indirizzi : sì perché, facendo
questo, ini pnre
aver mostro qualche gratitudine
de benefizii ricevuti : si perchè
e mi pare
esser uscito fuora dell’uso
comune di coloro che
scrivono , i quali sogliono sempre le
loro opere a qualche
principe indirizzare ; e, accecati
dall’ambizione c
dall’avarizia, laudano quello
di tutte le virtuose
qualitadi, quando di
ogni vituperevole parte doverrebbono
biasimarlo. Onde io, per
non incorrere in questo
errore, ho eletti
non quelli che sono
Principi, ma quelli
che per le
infinite buone parti loro
meriterebbono di essere ; nè quelli
che polrebbono di
gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli
che, non polendo,
vorrebbono farlo. Perchè gli
uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno
a stimare quelli che sono , non
quelli che possono esser
liberali; e così quelli
che sanno , non quelli
che, senza sapere, possono governare un
regno. E gli scrittori
laudano più Icronc Siracusano
quando egli era privato,
che Perse Macedone quando
egli era
re: perchè a Icronc
a esser principe non mancava
altro che il principato;
quell’altro non avera
parte alcuna di re,
altro che il
regno. Godetevi, pertanto quel
bene o quel male
che voi medesimi avete
voluto : e se voi
starete in questo errore,
che queste mie oppinioni
vi siano grate , non
mancherò di seguire il
resto della istoria, secondo che
nel principio vi
promisi. Valete Ancouaciiè,
per la invida natura
degli uomini, sia sempre
stato pericoloso il ritrovare
modi ed ordini
nuovi, quanto il cercare
acque e terre incognite,
per essere quelli più
pronti a biasimare che a laudare
le azioni d’ altri
; nondimeno, spinto da quel
naturale desiderio che fu
sempre in me
di operare, senza
alcun rispetto, quelle cose
che io creda rechino
comune benefìzio a ciascuno,
ho deliberato entrare per
una via, la
quale, non essendo stata
per ancora da
alcuno pesta, se la mi arrecherà
fastidio e diffìcultù, mi potrebbe ancora
arrecare premio, mediante
quelli che umanamente di
queste mie fatiche
conside-rassero. E se T
ingegno povero, la
pocoesperienza delle cose
presenti, la de-bole notizia delle
antiche, faranno que-sto mio
conato difettivo e di
non moltautilità ; daranno
almeno la via
ad al-cuno, che con
più virtù, più
discorso egiudizio, potrà
a questa mia intenzionesatisfare: il
che se non
mi arrecheràlaude, non mi dovrebbe
partorire bia-simo. E quando
io considero quantoonore si attribuisca
all’antichità, c comemolte volte,
lasciando andare moltialtri esempi,
un frammento d’ una
antica statua sia stato
comperato granprezzo, per
averlo appresso di
sè, onorarne la sua
casa, poterlo fare
imitareda coloro che
di quella arte
si diletta-no; e come quelli
poi con ogni
indu-stria si sforzano in
tutte le loro opererappresentarlo: e vcggendo,
dall’altrocanto, le virtuosissime
operazioni che leistorie
ci mostrano, che
sono state operate
da regni cda
repubbliche auliche,dai re,
capitani, cittadini, datori
di leggi,ed ultri
che si sono
per la loroatfaticati, esser
più presto ammirate
cheimitate; au/i in
tanto da ciascuno
inogni parte fuggite,
che di quella
anticavirtù non ci è
rimaso alcun seguo:posso
fare che insieme
non me nelavigli
e dolga; e tanto più,
quantoveggio nelle differenze
che intra iladini
civilmente nascono, o nelle
inalattie nelle quali
gli uomini incorrono,essersi sempre
ricorso a quelli giudiciio a quelli rimedi che dagli antichi
sonostati giudicati o ordinati. Perchè
le leggicivili non
sono altro che
sentenzio datedagli antichi
iurcconsulti, le quali,
ridotte in ordine, a’ presenti
nostri iure-consulti giudicare
insegnano; nè ancorala
medicina è altro che
cspcrienzia fattadagli antichi
medici, sopra la
quale fon-dano i medici presenti
li loro giudicii. Nondimeno, nello
ordinare le repubbli-che, nel mantenere
gli Stati, nel
govcr-nai e i regni, nell’
ordinare la milizia
edamministrar la guerra,
nel giudicare isudditi,
nello accrescere lo
imperio, nonsi trova
uè principi, nè
repubbliche, nècapitani, nè
cittadini che agli
esempidegli antichi ricorra.
Il che mi
persuadoche nasca non
tanto dalla debolezzanella quale
la presente educazione
hacondotto il mondo,
o da quel male
cheuno ambizioso ozio
ha fatto a molteprovincie c città
cristiane, quanto dalnou
avere vera cognizione
delle istorie,per non
trarne, leggendole, quel
senso,nè gustare di
loro quel sapore
che lehanno in
sè. Donde nasce
che infinitiche leggono,
pigliano piacere di
udirequella varietà delli
accidenti che in
essesi contengono, senza
pensare altrimeuted’
imitarle, giudicando la
imitazione nonsolo difficile
ma impossibile: come
se ilcielo, il
sole, gli elementi,
gli uominifossero variati
di moto, d’ordine
e dipotenza, da quello
eli’ egli erano antica-mente. Volendo, pertanto,
trarre gli uo-mini
di questo errore,
ho giudicalo ne-cessario scrivere sopra
tutti quelli libri di
L. che dalla malignità
deitempi non ci
sono stati interrotti,
quelloche io, secondo
le antiche e modern cose, giudicherò
esser necessario permaggiore
intelligenzia d'essi; acciocchécoloro che
questi miei discorsi
legge-ranno, possino trarne quella
utilità perla quale
si debbe ricercare
la cogni-zione della istoria.
G benché questa impresa sia
difficile, nondimeno, aiutato
dacoloro che mi
hanno ad entrare,
sotto aquesto peso
confortato, credo portarloin
modo, che ad
un altro resterà
brevecammino a condurlo al
luogo destinato. I. Quali
siano stati universalmente i pr incipit’
di qualunque città ,c quale fosse
quello di ROMA. Coloro
che leggeranno qual
principio fosse quello della
città di ROMA,
e da quali legislatori e come
ordinato, non si maraviglieranno che
tanta virtù sisia
per più secoli
mantenuta in quella città;
e che dipoi ne sia nato
quello im-perio, al quale
quella repubblica ag-giunse. E volendo discorrere
prima il nascimento suo,
dico che tutte
le cittàsono edificate
o dagli uomini natii
delluogo dove le
si edificano, o dai
forestieri. Il primo caso occorre
quandoagli abitatori dispersi
in molte e piccole parli non
par vivere sicuri,
nonpotendo ciascuna per
sè, e per il
sitoe per il piccol
numero, resistere all’impeto di
chi le assaltasse;
e ad unirsi perloro
difensione, venendo il
nemico, nonsono a tempo;
o quando fossero, converrebbe loro lnsciare
abbandonati molti de’ loro ridotti,
e cosi verrebbero ad
esser sùbita preda dei
loro nemici: talmente che,
per fuggire questi
pericoli, mossi o da loro
medesimi, o da alcunoche
sia infra di
loro di maggior
autorità, si ristringono ad
abitar insieme in luogo
eletto da loro,
più comodo a vivere e più facile
a difendere. Di queste,infra
molle altre, sono
state Atene e Vincaia. La
prima, sotto l’autorità
di Teseo, fu per simili
cagioni dalli abitatoridispersi edificata;
l’altra, sendosi moltipopoli
ridotti in certe
isolette che eranonella punta del mare Adriatico, per
fuggire quelle guerre che
ogni dì, per
loavvenimento di nuovi
barbari, dopo ladeclinazione dello
imperio romano, na-scevano in
ITALIA, cominciarono infra loro,
senza altro principe
particolareclic gli ordinassi,
a vivere sotto quelleleggi
che parvono loro
più atte a mantenerli. Il che
successe loro felicemente per il
lungo ozio che
il sito dette
loro, non avendo quel
mare uscita, e nonavendo
quelli popoli che
affliggevano ITALIA, navigi da
poterli infestare: talché ogni
picciolo principio li
potò fare ve-nire a quella grandezza
nella quale sono. Il
secondo caso, quando
da genti forestiere è edificata una
città, nasce o dauomini
liberi, oche dipendano
da altri come sono
le colonie mandate
o da unarepubblica o da
un principe, per
Sgra-vare le . loro terre
d’abitatori, o per di-fesa di
quel paese che,
di nuovo acqui-stato, vogliono sicuramente
e senzaspesa mantenersi; delle
quali città IL POPOLO ROMANO ne edificò
assai, e pertutto l’imperio
suo: ovvero le
sono edi-ficate da un
principe, non per
abitarvi,nia per sua
gloria; come la
città di Alessandria da Alessandro. E per
nonavere queste cittadl
la loro origine
libera,rade volte occorre
che le facciano
pro-gressi grandi, e possinsi intrai
capi deiregni numerare.
Simile a queste fu V
edificazione di FIRENZE, perchè
(fi edificatada’ soldati di
SILLA, o, a caso,
dagli abitatori dei monti
di Fiesole, i quali,
confi-datisi in quella lunga
pace che sotto
OTTAVIANO nacque nel mondo,
si ridusseroad abitare
nel piano sopra
Arno) si edi-ficò sotto l’imperio
romano; nè potette,ne’
principii suoi, fare
altri augumentiche quelli
che per cortesia
del principe li erano
concessi. Sono liberi
li edificatori delle cittadi,
quando alcuni popoli,o sotto un
principe o da per
sé, sonocostretti, o per
morbo o per fame o
perguerra, od abbandonare
il paese potrio,e cercarsi nuova
sede : questi tali,
oegli abitano le
cittadi elle e’ trovano
neipaesi eli’ egli acquistano,
come fece Moisè;
o ne edificano di
nuovo, come fe ENEA.
In questo caso è
dove si
conosce la virtù dello
edificatore, e la fortunadello
edificato: la quale
è più o menomeravigliosa, secondo
che più o menoè virtuoso colui
che ne è stato
principio.La virtù del
quale si conosce
in duoimodi: il
primo è nella elezione
del sito;F altro nella
ordinazione delle leggi.
Eperchè gli uomini
operano o per necessità o per elezione;
e perchè si vede quivi
esser maggiore virtù
dove la elezione ha
meno autorità; è da
considerare se sarebbe meglio
eleggere, per laedificazione delle
cittadi, luoghi sterili,acciocché gli
uomini, costretti ad
indùstriarsi, meno occupati
dall’ozio, vives-sino più
uniti, avendo, per
la povertàdel sito,
minore cagione di
discordie;come intervenne in
Raugia, e in moltealtre
cittadi in simili
luoghi edificate:la quale
elezione sarebbe senza
dubbiopiù savia e più
utile, quando gli
uo- .mini fossero
contenti a vivere delloro,e non
volcssino cercare di
comandarealtrui. Pertanto, non
potendo gli uominiassicurarsi se non con
la potenza, ènecessario
fuggire questa sterilità
del pnese, e porsi in
luoghi fertilissimi ;dove,
potendo per la
ubertà del sito
ampliare, possa e difendersi da
chi l’ assaltasse, e
opprimere qualunque alla
grandezza sua si opponesse.
G quanto a quell’ozio che
le arrecasse il
sito, si debbe ordinare
che a quelle necessitadi le leggi
la costringhino che
’l sito non la
costringesse; ed imitare
quelli che sono stati
savi, ed hanno
abitato in paesiamenissimi e fertilissimi, c alti
a pròdurre uomini oziosi
ed inabili ad
ogni virtuoso esercizio: chè,
per ovviare aquelli
danni i quali l’amenità
del paese,mediante l’ozio,
arebbero causati, hannoposto
una necessità di
esercizio a quelliche avevano
a essere soldati: di
qualitàche, per tale
ordine, vi sono
diventatimigliori soldati che
in quelli paesi
i qualinaturalmente sono stati
aspri e steriliIntra i quali
fu il regno
degli Egizi, chenon
ostante che il
paese sia amenissi-mo, tanto potette
quella necessità ordi-nata dalle leggi,
che vi nacquero
uo-mini eccellentissimi; e se li
nomi loronon fussino
dalla antichità spenti,
sivedrebbe come meriterebbero
più laudeche Alessandro
Magno, c molti altri
deiquali ancora* è la
memoria fresca. E chiavesse
considerato il regno
del Soldano,e l’ordine de’Mammaluchi. e di
quellaloro milizia, avanti
che da Sali,
GranTurco, fusse stata
spenta ; arebbe ve-duto ili
quello molti esercizi
circa i sol-dati, ed arebbe
in fatto conosciutoquanto essi
temevano quell’ozio a che la
benignità del paese
gli poteva con-durre, se
non vi avessino
con leggi for-tissime ovviato. Dico,
adunque, esserepiù prudente
elezione porsi in
luogofertile, quando quella
fertilità con leleggi
infra* debili termini
si restringe.Ad Alessandro
Magno, volendo edificareuna
città per sua
gloria, venne Dino-erate
architetto, e gli mostrò
come eila poteva
fare sopra il
monte Albo; ilquale
luogo, oltre allo
esser forte, po-trebbe ridursi in
modo che a quellacittà
si darebbe forma
umana; il chesarebbe
cosa meravigliosa e raro,
e de-gna della sua grandezza:
e domandan-dolo Alessandro
di quello che
quelli abi-tatori
viverebbono, rispose, non ci averepensato:
di che quello
si rise, e lasciatostare quel
monte, edificò Alessandria,dove gli
abitatori avessero a stare
vo-lentieri per la grassezza
del paese, e perla
comodità del mare e
del Nilo. Chi
esa-minerò, adunque, la edificazione
di Ro-ma, se si
prenderà Enea per
suo primoprogenitore, sarà
di quelle citladi
edifi-cate da’ forestieri ; se
Romolo, di quelleedificate dagli
uomini natii del
luogo;ed in qualunciic
modo, la Vedrà
avereprincipio libero, senza
depcndere da al-cuno: vedrà ancora,
come di sotto
sidirà, a quante necessitadi
le leggi fatteda
Romolo, Numa, e gli
altri, la costrin-gessino ; talmente
clic la fertilità
del sito,la comodità
del mare, le
spesse vittorie,la grandezza
dello imperio, non la po-terono per
molti secoli corrompere,
e Ir» -» **mantennero
piena di tante
virtù, djp^quante mai
fusse alcun’ altra repubblicaornata. E perchè
le cose operate
da lejj, ^e che
sono da Tito
Livio celebrate, sonoseguite
o per pubblico o per
privatoconsiglio, o dentro o fuori
della cittade,io comincerò
a discorrere sopra quellecose
occorse dentro, e per
consiglio pub-blico, le quali
degne di maggiore
an-notazione giudicherò,
aggiungendovi tut-to quello che
da loro dependessi
: coni quali Discorsi questo primo libro, ovvero Questa
prima parte, si
terminerà. Di quante spezie
sono le *epnbbtiche , e di quale
fu la Repubblica Romana. Io voglio
porre da parte
il ragionare di quelle
cittadi clic hanno
avuto il loro principio sottoposto
ad altri; e parlerò di
quelle che hanno
avuto il principio 'ontano do
ogni servitù esterna,
nia si ; j sono subito
governate per loro
arbitrio, o come repubbliche o come
principato: U quali hanno avuto,
come diversi principi, diverse leggi
ed ordini. Perchè
ad alcune, o nel principio
d’esse, o dopo non molto
tempo, sono state
date da un
solo le
leggi, e ad un
tratto ; come quelle che
furono date da
Licurgo agli Spartani: alcune le
hanno avute a caso,
ed in più volte,
e secondo li accidenti,
come Roma. Talché, felice
si può chiamare quella repubblica,
la quale sortisce
uno uomo sì prudente,
che le dia
leggi ordinate in modo,
che senza avere
bisogno di correggerle, possa
vivere sicuramente sotto quelle.
E si vede che
Sparta le osservò più
che ottocento anni
senza corromperle, o senza alcuno
tumulto pericoloso: e, pel
contrario, tiene qualche grado
d’ infelicità quella
città, che, non si
sendo abbattuta ad
uno ordinatore prudente, è necessitata
da sè medesima riordinarsi: e di
queste ancora è più infelice quella
che è più discosto
dall’ordine; e quella è più discosto, con
suoi ordini è al
tutto fuori del
dritto cammino, che la
possi condurre al
perfetto e vero fine: perchè
quelle clic sonoiu
questo grado, è quasi
impossibile che per qualche
accidente si rassettino. Quel le altre che,
se le non
hanno V ordine perfetto, hanno
preso il principio
buono,e atto a diventare migliori,
possono perla occorrenza
delli accidenti diventareperfette. Ma fia ben
vero questo, mai non si ordineranno
senza pericolo
perchè li
assai uomini non si accordano mai
ad una legge
nuova che riguardi uno
nuovo ordine nella
cit tà, se non è
mostro loro da
una necessità che
bisogni farlo ; e non potendo
venire questa necessità senza
pericolo, è facil cosa
che quella repubblica rovini,
avanti che la si
sia condotta a una
perfezione d’ordine. Di che
ne fa fede
appieno la re-pubblica di Firenze,
la quale fu
dalloaccidente d’ Arezzo,
nel 11, riordinata,
eda quel di
Prato, nel XII,
disordinata.Volendo,
adunque, discorrere quali
fu-rono li ordini della
città di Roma,
equali accidenti alla
sua perfezione lacondussero)
dico, come alcuui
che hannoscritto delle
repubbliche, dicono essere in
quelle uno de' tre stati, chiamati daloro Principato,
d’Ottimati e Popolare; e
come coloro che
ordinano una città, debbono volgersi
ad uno di
questi, secondo pare loro
più a proposito. Alcuni altri,
e secondo la oppinione
di molti più savi,
hanno oppinione che
siano di sei ragioni
governi; delti quali
tre ne siano pessimi;
tre altri siano
buoni in loro medesimi,
ma sì focili
a corrompersi, che vengono ancora
essi ad essere perniziosi. Quelli
che sono buoni, sono
i soprascritti tre: quelli
clic sono rei, sono
tre altri, i quali
da questi tre dependono; c ciascuno
d’ essi è in
modo simile a quello che
gli è propinquo, che facilmente saltano
dall’ uno all’
altro: perchè il Principato
facilmente diventa
tirannico; li Ottimati
con facilità diventano stato di
pochi ; il Popolare
senza diflìcultà in licenzioso
si converte. Talmente che,
se uno ordinatore
di repubblica ordina in una città
uno di
quelli tre stati, ve
lo ordina per
poco tempo; perchè nessuno
rimedio può farvi,
a far che non sdruccioli
nel suo contrario, per la
similitudine che ha
in questo caso la
virtù ed il
vizio. Nacquono queste variazioni di
governi a caso intra li
uomini: perchè nel
principio del mondo, sendo
li abitatori rari,
vissono un tempo dispersi,
a similitudine delle bestie; dipoi, multiplicando
la generazione, si ragunorno
insieme, e, per
potersi meglio difendere, cominciorno
a riguardare fra loro quello
che fusse più
robusto c di maggiore cuore,
c fecionlo come capo, e lo
obedivano. Da questo nacque
la cognizione delle
cose oneste e buone, differenti
dalle perniziose e ree: perchè,
veggendo che se
uno noceva al
suo benefattore, ne
veniva odio e compassione intra
gli uomini, biasimando li
ingrati ed onorando
quelli che fusscro grati,
e pensando ancora che quelle
medesime ingiurie potevano
esser fatte a loro; per
fuggire simile male,
si riducevano a fare leggi,
ordinare punizioni a chi contea
facesse: donde venne la
cognizione della giustizia.
La qual cosa faceva
che avendo dipoi
ad eleggere un principe,
non andavano dietro al
più gagliardo, ma a
quello che fussi più
prudente c più giusto.
Ala come di poi si
cominciò a fare il
principe per successione, e non
pei* elezione, subito cominciorno li
eredi a degenerare dai loro
antichi ; e lasciando 1’
opere virtuose, pensavano che i
principi non avessero a fare
altro clic superare
li altri di sontuosità
e di lascivia c d’
ogni altra' qualità deliziosa:
in modo che,
cominciando il principe ad
essere odialo, e per
tale odio a temere,
e passando tosto dal timore
all’ offese, ne
nasceva presto una tirannide.
Da questo nacquero appresso i principi»
delle rovine, c delle conspirazioni e congiure
contea i principi; non fatte
da coloro clic
fussero o timidi o deboli,
ma da coloro
che per genei'osità, grandezza
d’ animo, ricchezza e nobiltà, avanzavano
gli altri; i quali non
potevano sopportare la
inonesta vita di quel
principe. La moltitudine,
adunque, seguendo l’
autorità di questi
potenti, si armava contra
al principe, c quello
spento, ubbidiva loro
come a suoi liberatori. E quelli,
avendo in odio
il nome d’ uno
solo capo, constituivano
di loro medesimi un
governo; e nel piincipio,
avendo rispetto alla
passata tiratinide, si
governavano secondo le
leggi ordinate da loro,
posponendo ogni loro comodo
alla comune utilità
; e le cose private e le
pubbliche con somma
diligenzia governavano c conservavano. Venuta
dipoi questa amministrazione ai loro
figliuoli, i quali, non
conoscendo la variazione della
fortuna, non avendo mai
provato il male,
e non volendo stare contenti alla
civile equalità, ma
rivoltisi alla avarizia, alla
ambizione, alla usurpazione delle donne,
feciono clic d’ uno
governo d’ Ottimati
diventassi un governo di
pochi, senza avere rispetto ad alcuna civiltà
: tal che in
breve tempo intervenne loro
come al tiranno;
perchè infastidita da’ loro
governi la moltitudine, si fe
ministra di qualunque
disegnassi in alcun modo
offendere quelli
governatori; e cosi si
levò presto alcuno che,
con I’ aiuto
della moltitudine, li spense.
Ed essendo ancora
fresca la memoria del
principe e delle ingiurie ricevute da
quello, avendo disfatto
lo Stato de’ pochi
e non volendo rifare
quell del principe, si
volsero allo Stato
popolare; c quello
ordinarono in modo,
che nè i pochi potenti,
nè uno principe
vi avesse alcuna autorità.
E perchè tutti gli Stali
nel principio hanno
qualche reverenza, si mantenne
questo Stato popolare un
poco, ma non
molto, massime spenta che
fu quella generazione
che l’aveva ordinato; perchè
subito si venne alla
licenzia, dove non
si temevano nè li
uomini privati nè i
pubblici; di qualità che,
vivendo ciascuno a suo
modo, si facevano ogni
di mille ingiurie:
talché, costretti per necessità,
o per suggestione d’ alcuno
buono uomo, o per fuggire
tale licenzia, si
ritorna di nuovo al
principato; e da quello,
di grado in grado,
si riviene verso
la licenzia, nei modi
e per le cagioni
dette. E questo è il
cerchio nel quale
girando tutte le
repubbliche si sono governate,
e si governano: ina
rade volte ritornano
nei governi medesimi; perchè
quasi nessuna repubblica può
essere di tanta
vita, che possa passare
molle volte per
queste mutazioni, c rimanere in
piede. Ma bene interviene
che, nel travagliare,
una repubblica, mancandoli sempre
consiglio e forze, diventa suddita
d'uno Stato propinquo, clic sia
meglio ordinato di
lei : ina dato
che questo non
fusse, sarebbe atta una
repubblica a rigirarsi infinito tempo in
questi governi. Dico,
adunque, che lutti i detti
modi sono pestiferi,
per la brevità della
vita che è ne’
tre buoni, e per la
malignità che è ne*
tre rei. Talché, avendo quelli
che prudentemente ordinano leggi
conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno
di questi modi
per se stesso, n’
elessero uno che
partieipasse di lutti,
giudicandolo più fermo
e più stabile ; perchè
l’uno guarda l’altro, scudo in
una medesima città
il Principato, li Ottimati
ed il Governo
Popolare. Infra quelli che
hanno per simili constituzioni meritato
più laude, è Licurgo; il
quale ordinò in
modo le sue leggi
in Sparta, che
dando le parti
sue ai He, agli
Ottimali e al Popolo,
fece uno Stato che
durò più che
ottocento anni, con somma
laude sua, e quiete
di quella città. Al
contrario intervenne a Solone,
il quale ordinò
le leggi in
Atene che per ordinarvi
solo lo Stato popolare lo
fece di sì
breve vita, che
avanti morisse vi vide
nata la tirannide
di Pisistrato: e benché
dipoi anni quaranta ne
fusscro cacciati gli
suoi eredi, c ritornasse Atene in
libertà, perchè la
riprese lo Stato popolare,
secondo gli ordini di
Solone; non lo
tenne più cliccento
anni, ancora che
per mantenerlo facesse molte
constituzioni, per le quali
si reprimeva la
iusolenzia grandi c la licenzia
dell’ universale, le quali
non furou da
Solonc considerate
nientedimeno, perchè la
non le mescolò con
la potenzia del
Principato e con quella dclli
Ottimali, visse Atene, spetto
di Sparla, brevissimo
tempo. Ria vegniamo a ROMA
; la quale nonostante che non
avesse uno Licurgo
che la ordinasse in
modo, ilei principio,
che la potesse vivere lungo
tempo libera, nondimeno furon tanti
gli accidenti che in
quella nacquero, per
la disunione che era
intra la Plebe
ed il Senato,
che quello che non
aveva fatto uno
ordinatore, lo fece il
caso. Perchè, se
ROMA non sortì la
prima fortuna, sortì
la seconda; perchè i primi
ordini se furono defettivi, nondimeno
non deviarono dalla diritta
via che li
potesse condurre alla perfezione. Perchè
ROMOLO e tutti gli
altri Re fecero molte
e buone leggi, conformi ancora al
vivere libero: ma
perchè il fine loro
fu fondare un
regno e non una repubblica,
quando quella città rimase libera, vi
mancavano molte cose che
era necessario ordinare
in favore della libertà,
le quali non
erano state da quelli
Re ordinate. E avvengachè quelli suoi
Re perdessero V imperio
per le cagioni e modi
discorsi; nondimeno quelli clic
li cacciarono, ordinandovi
subito duoi Consoli, che
stessino nel luogo del
Re, vennero a cacciare
di Roma il nome,
e non la potestà
regia: talché, essendo in
quella Repubblica i Consoli ed
il Senato, veniva
solo ad esser
mista di due qualità
delle tre soprascritte: cioè di
Principato e di Ottimali.
Restavali solo a dare
luogo al Governo
Popolare: onde, essendo diventatala
Nobiltà romana insolente per
le cagioni che di
sotto si
diranno, si levò
il Popolo contro di
quella ; talché, per
non perdere il tutto,
fu costretta concedere
al Popolo la sua
parte; e, dall’altra
parte, il Senato e i Consoli restassino
con tantaautorità, che
potcssino tenere in
quella Repubblica il grado
loro. E cosi nacque la
creazione de’ Tribuni
della plebe ; dopo la
quale creazione venne
a essere più stabilito lo
stato di quella
Repubblica,
avendovi tutte
le tre qualità
di governo la parte
sua. E tanto li
fu favorevole la fortuna,
che benché si
passasse dal governo de’ Re e delli
Ottimati al Popolo, per
quelli medesimi gradi
e per quelle medesime cagioni
che di sopra
si sono discorse : nondimeno
non si tolse
mai, per dare autorità
alli Ottimati, tutta l’autorità alle
qualità regie; nè
si diminuì l’autorità in
tutto alli Ottimati,
per darla al Popolo;
ina rimanendo mista, fece
una repubblica perfetta
: alla quale perfezione venne
per la disunione
della Plebe e del Senato,
come nei duoi
prossimi seguenti capitoli largamente
si dimostrerà. III. Quali accidenti
facessino creare in Roma i
Tribuni della plebe ; il
che fece la
Repubblica più perfetta. Come dimostrano
lutti coloro che
ragionano del vivere civile,
e come ne è piena
di esempi ogni
istoria, è necessario a chi dispone
una repubblica, ed ordina
leggi in quella, presupporre
tuttigli uomini essere
cattivi, e clic li
abbinosempre od usure
la malignità dello
animo loro, qualunchc volta
ne abbino libera occasione: e quando
alcuna malignità sta occulta
un tempo, procede
da una occulta cagione,
ebe, per non
si essere veduta esperienza
del contrario, non si conosce;
ma la fa
poi scoprire il tempo,
il quale dicono
essere padre d’ogni verità.
Pareva clic fusse
in Roma intra la
Plebe cd il
Senato, cacciati I Tarquiili,
una unione grandissima;
e che i Nobili, avessino
deposta quella loro superbia, c russino
diventati d'animo popolare, c sopportabili da
qualuncbc, ancora ebe infimo. Stette nascoso
questo inganno, nè se ne vide
la cagione, infino ebe i
Tarquini vissono; de’ quali temendo la
Nobiltà, ed avendo
paura che la Plebe
mal trattata non
si accostasse loro, si
portava umanamente con quella:
ma come prima
furono morti I Tarquini,
e die a’ Nobili fu
la paura fuggita, cominciarono
a sputare contro Olla Plebe
quel veleno che
si avevàno tenuto nel
petto, ed in
tutti i modi che potevano
la offendevano: la
qual cosa fa testimonianza a quello
che di sopra
ho detto, che gli
uomini non operano
mai nulla bene, se non per
necessità; ma dove la
elezione abbonda, e che
vi si può usare
licenzia, si riempie
subito ogni cosa di
confusione e di disordine.
Però si dice che
la fame e la
povertà fu gli
uomini industriosi, e le leggi
gli fanno buoni. E dove
una cosa per
sè medesima senza la
legge opera bene,
non è necessaria la legge;
ma quando quella
buona consuetudine manca, è subito
la legge necessaria. Però,
mancati i Tarqnini, che con
la paura di
loro tenevano laNobiltà
a freno, convenne pensare
a unonuovo ordine ehe
facessi quel medesimoeffetto che
facevano i Tarquini quandoerano
vivi. E però, dopo
molte confu-sioni, romori e pericoli
di scandali, chenacquero
intra la Plebe
c la Nobiltà, sivenne
per sicurtà della
Plebe alla creazionc
ile* Tribuni ; e quelli ordinaronocon
laute preminenze e tanta
riputa-zione, che potcssino essere
sempre dipoi mezzi
intra la Plebe
e il Senato, eovviare
alla insolenzia de’ Nobili. IV. Che
la disunione della
Plebe c del Senato romano
fece libera e polente
quella Repubblica. H0U njt fil
ùi òVvil tf, ;
il "iit* lo non
voglio mancare di
discorrere sopra questi tumulti
che furono in
Roma dalla morte de’ Tarquini
alla creazione de’ Tribuni;
e di poi alcune
cose contro la oppinionc
di molti clic
dicono. Roma esser stata
una repubblica tumultuaria, e piena di
tanta confusione, clicse
la buona fortuna
c la virtù militare non
avesse supplito a’
loro difetti, sarebbe stata
inferiore ad ogni
altra repubblica. Io non
posso negare che la
fortuna e la milizia
non fussero cagioni dell’imperio romano;
ma e’ mi pare bene,
che costoro non
si avvegghino, clic dove è
buona milizia, conviene
clic sia buono ordine,
e rade volte anco
occorre clic non vi
sia buona fortuna.
Ma vegniamo all i altri particolari
di quella città. Io
dico clic coloro
clic dannano I tumulti
intra i Nobili c la
Plebe, mi pare clic
biasimino quelle cose
che furono prima cagione
di tenere libera
Roma ; c clic considerino più
a’ romori ed alle
grida clic di
tali tumulti nascevano, che a’ buoni
effetti clic quelli
partorivano: e che non considerino
come ei sono in
ogni repubblica duoi
umori diversi, quello del
popolo, c quello dei grandi
; c come tutte le
leggi che si
fanno in favore delia
libertà, nascono dalla disunione loro,
come facilmente si può
vedere essere seguito
in Roma: perchè da’ Tarquini ai
Gracchi, che furono
più di trecento anni,
i tumulti di Roma
rade volte partorivano esilio,
radissime sangue. Nè si
possono, per tanto,
giudicare questi tumulti nocivi,
nè una repubblica divisa, che
in tanto tempo
per le sue differenze non
mondò in esilio
più che otto o dieci
cittadini, e ne ammazzò
pochissimi, e non molti ancora
condennò in danari. Nè
si può chiamare
in alcun modo, con
ragione, una repubblica
inordinata, dove siano tanti
esempi di virtù; perchè
li buoni esempi
nascono dalla buona educazione;
la buona educazione dalle buone
leggi ; e le buone
leggi da quelli tumulti
che molti inconsideratamente dannano: perchè
chi esaminerò bene il
fine d’essi, non
troverà ch’egliabbino partorito alcuno
esilio o violenza in disfavore
del comune bene,
ma leggi ed ordini
in benefizio della
pubblica libertà. E se alcuno
dicesse : i modi erano straordinari, e quasi
efferati, vedere il Popolo
insieme gridare contro
il Senato, il Senato
contra il Popolo,
correre tumultuariamente per le
strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la Plebe
di Roma. le quali
tutte cose spaventano,
nonclic altro, chi
legge; dico come
ogni città debbe avere
i suoi modi, con
i quali il
popolo possa sfogare
l’ambizione sua, e massime quelle
ciltadi che uelle cose
importanti si vogliono
valere del popolo: intra
le quali la
città di Roma aveva
questo modo, che
quando quel Popolo voleva
ottenere una legge, o e’
faceva alcuna delle
predette cose, o e’ non
voleva dare il
nome per andare alla
guerra, tanto che a
placarlo bisognava in qualche
parte satisfargli. E i desiderò
de’ popoli liberi,
rade volle sono perniziosi
alla libertà, perchè
e’na- seono o da essere
oppressi, o da suspizionc
di avere a essere
oppressi. E quando queste oppinioni
fussero false, e’
vi è il rimedio delle
concioni, che sorga
qualche uomo da bene,
che, orando, dimostri loro
come c’ s’
ingannano: e li popoli, come
dice Tullio CICERONE, benché
siano ignoranti, sono capaci
della verità, e facilmente cedono, quando
da uomo degno di
fede è detto loro
il vero. Debbesi, adunque, più
parcamente biasimare il governo
romano, e considerare che
tanti buoni effetti quanti
uscivano di quella repubblica, non
erano causati se
non da ottime cagioni.
E se i tumulti furono
cagione della creazione dei
Tribuni, meritano somma laude;
perchè, oltre al
dare la parte sua
all’ amministrazione popolare,
furono constituiti per
guardia della libertà romana,
come nel seguente
capitolo si mostrerà. V. Dove
più sccurnmentc si
ponga la guardia della
libertà , o nel Popolo o ne *
Grandi ; c c/uali hanno maggior
cagione di tumultuare , o chi vuole acquistare
o chi vuole mantenere. Quelli clic
prudentemente hanno constituita
una repubblica, intra
le più necessarie cose
ordinate da loro,
è stato constituire una guardia
alla liberta: e secondo
che questa è bene
collocala,dura più o meno
quel vivere libero.
Eperché in ogni
repubblica sono uomingrandi
e popolari, si è dubitato
nellemani di quali
sia meglio collocata
dettaguardia. Ed appresso
i Lacedemoni, c,ne’ nostri
tempi, appresso de’
Viniziani,la è stata messa
nelle mani de’
Nobili ;ma appresso
de’ Romani fu messa
nellemani della Plebe.
Per tanto, è necessa-rio esaminare, quale
di queste repub-bliche avesse migliore
elezione. E se siandassi
dietro alle ragioni,
ci è chedire da
ogni pajte: ma
se si esaminassiil
fine loro, si
piglierebbe la partede’
Nobili, per aver
avuta la libertà
diSparla c di Vinegia
più lunga vita
chequella di Roma.
E venendo alle ragio-ni, dico, pigliando
prima la parte
de’ Ro-mani, come e’
si debbe mettere
in guar-dia coloro d’
una cosa, che
hanno menoappetito di
usurparla. E senza dubbio,se
si considera il
fine de’ nobili
e deiliignobili, si vedrà
in quelli desideriogrande di
dominare, cd in
questi solodesiderio di non essere
dominati; e, perconseguente, maggiore
volontà di vivereliberi,
potendo meno sperare
d’ usurparla che non
possono li granili:
tal-ché, essendo i popolani preposti
a guar-dia d’ una libertà, ò ragionevole
neabbino più cura : e non
la putendo occu-pare loro, non
permettino clic altri
laoccupi. Dall’ altra
parte, chi difendel’ordine sparlano
e veneto, dice cliccoloro
che mettono la
guardia in inanode’
potenti, fanno due
opere buone:I’ una,
che satisfanno più
all’ ambizionedi coloro
che avendo più
parte nellarepubblica, per
avere questo bastone
inmano, hanno cagione
di contentarsi più;I’
altra, clic bevano
una qualità di
au-torità dagli animi inquieti
della plebe,che è cagione
d’ infinite dissensioni escandali
in una repubblica,
e alta a ri-durre la nobiltà
a qualche disperazio-ne, che col tempo
faccia cattivi eliciti.E ne
danno per esempio
la medesimaRoma, che
per avere i Tribuni
dellaplebe questa autorità
nelle mani, nonbastò
loro aver un
Consolo plcbeio, chegli
vollono avere ambedue.
Da questo, c* voltano la
Censura, il Pretore,
e tuttili altri gradi
dell’imperio della città:nè
bastò loro questo,
chè, menati dalmedesimo
furore, cominciorno poi,
coltempo, a adorare quelli
uomini che ve-devano atti a battere
la Nobiltà ; dondenacque la
potenza di Alarlo,
e la rovinadi Roma.
E veramente, chi discorressebene I’
una cosa c l’ altra,
potrebbestare dubbio, quale
da lui fusse
elettoper guardia tale
di libertà, non
sapen-do quale qualità d’uomini sia
più no-civa in una repubblica,
o quella ohedesidera acquistare
quello che non
ha,‘ o quella che desidera
mantenere V ono-re già acquistato.
Ed in fine,
chi sot-tilmente esaminerà tutto,
ne farà que-sta conclusione: o tu
ragioni d’ unarepubblica
che vogli fare
uno imperio,come Roma ;
o d’ una
che li basti
man-tenersi. Nel primo caso,
gli è necessa-rio fare ogni
cosa come Roma;
nel se-condo, può imitare
Yinegia e Spartaper quelle
cagioni, e come nel
seguente capitolo si dirà.
.Ma, per tornare
a di-scorrere quali uomini siano
in una re-pubblica piu nocivi,
o quelli clic desi-derano d’acquistare, o quelli
clic te-mono di perdere
lo acquistato; dicodie,
scudo fatto Marco
Meiiennio ditta-tore, e
Marco Fulvio maestro
de’ caval-li, tutti duoi plebei,
per ricercare certecongiure
clic si erano
falle in Capovaconlro
a Roma, fu dato
ancora loro au-torità dal
Popolo di poter
ricercare chiin Roma
per ambizione e modi
straor-dinari s’ingegnasse
di venire al
con-solato, ed agli altri
onori della città.
Eparendo alla Nobiltà,
che tale autoritàfusse
data al Dittatore
contro a lei,sparsero per
Roma, clic non i
nobilierano quelli che
cercavano gli onoriper
ambizione e modi straordinari,
magl’ ignobili, i quali,
non confidatisi nelsangue
e nella virtù loro,
cercavano pervie straordinarie
venire a quelli gradi;e particolarmente accusavano
il Ditta-tore. E tanto fu
potente questa accusa, che
Mencnnio, fatta una
conclone c do-lutosi deite calunnie
dategli da* Nobilidepose
la dittatura, e sottomessesi aigiudizio
che di lui
fussi fatto dal
Po*polo; c dipoi, agitala
la causa sua,
nefu assoluto: dove
si disputò assai,
qualesia più ambizioso,
o quel che vuolemantenere o quel
che vuole acquistare;perchè facilmente
1* uno e V altro
ap-petito può essere cagione
di tumultigrandissimi. Pur
nondimeno, il più
dellevolte sono causali
da chi possiede,
per-chè la paura del
perdere genera in
lorole medesime voglie
che sono in
quelliche desiderano acquistare;
perchè nonpare agli
uomini possedere sicuramente quello clic l’uomo
ha, se non si acqui-sta di
nuovo dell’ altro.
E di più vi
è,che possedendo molto,
possono con mag-gior potenzia c maggiore
moto fare alterazione. Ed ancora
vi è di più,
che li loro scorretti
e ambiziosi portamenti
accendono ne’ petti
di chi non
possiede voglia di possedere,
o per vendicarsi contro
di loro spogliandoli,
o per potere ancora loro
entrare in quella
ricchezza c in quelli onori
clic veggono essere male
usati dagli altri. Se
in 1 ionia si
poteva ordinare uno stalo
che togliesse via le
inimicizie intra il Popolo
ed il Senato. Noi
abbiamo discorsi di
sopra gli effetti che
facevano le controversie
intra il Popolo ed
il Senato. Ora,
sendo quelle seguitate in
fino al tempo
de’ Gracchi, dove furono cagione
della rovina del
vivere libero, potrebbe alcuno
desiderare che Roma avesse
fatti gli effetti
grandi che la fece,
senza che in
quella fussino tali inimicizie. Però
mi è parso cosa
degna di considerazione, vedere
se in Roma
si poteva ordinare uno
stato che togliesse
via dette controversie. Ed a
volere esaminare questo, è necessario
ricorrere a quelle
repubbliche le quali
senza tante inimicizie c tumulti sono
state lungamente libere,
e vedere quale stato
era il loro,
e se si poteva
introdurre in Roma.
In esempio tra lì
antichi ci è Sparta,
tra i moderni Yinegia, state
da me di
sopra uominate. Sparla fece
uno Re, con
unpicciolo Senato, che
la governasse. Vinegia
non ha diviso
il governo con i
nomi ; ma, sotto
una appellazione, lutti quelli
che possono avere
amministrazione si chiamano Gentiluomini.
Il quale modo lo
dette il caso,
più che la
prudenza di elùdette loro
le leggi: perchè, sendosi ridotti
in su quegli
scogli dove è ora quella
città, per le
cagioni dette di sopra,
molti abitatori; come
furon cresciuti in tanto
numero, che a volere vivere insieme
bisognasse loro far
leggi, ordinorono una forma
di governo; c convenendo
spesso insieme ne’
consigli a deliberare della
città, quando parve
loro essere tanti che
fussero a sufficienza ad un
vivere politico, chiusono
la via a tutti quelli altri
che vi venissino
ad abitare di nuovo,
di potere convenire
ne’ loro governi: e, col
tempo, trovandosi in quel
luogo assai abitatori
fuori del governo, per
dare riputazione a quelli
clic governavano, gli chiamarono
Gentiluomini, e gli altri Popolani.
Potette questo modo nascere
e mantenersi senza tumulto, perchè quando
e’ nacque, qualunque allora abitava
in Vinegia fu
fatto del governo, di
modo che nessuno
si poteva dolere; quelli
che. dipoi vi
vennero ad abitare, trovando
lo Stato fermo
c terminato, non avevano
cagione nè comodità di
fare tumulto. La
cagione non y* era,
perchè non era
stato loro tolto cosa
alcuna: la comodità
non v’era, perché chi
reggeva gli teneva
in freno, c non gli
adoperava in cose
dove e’ potessino pigliare
autorità. Oltre di
questo, quelli che dipoi
vennono ad abitare Vinegia, non
sono stali molli,
c di tanto numero, che
vi sia disproporzione da chi
gli governa a loro
che sono governati; perchè il
numero de’ Gentiluomini o
egli è eguale a loro,
o egli è superiore: sicché,
per queste cagioni,
Vinegia potette ordinare
quello Stalo, e mantenerlo unito. Sparta,
come ho detto,
essendo governata da un
Re c da una stretto
Senato, potette mantenersi
così lungo tempo, perchè
essendo in Sparta pochi
abitatori, ed avendo
tolta la via n chi
vi venisse ad
abitare, ed avendo prese
le leggi di
Licurgo con reputazione, le quali
osservando, levavano via tutte
le cagioni de’
tumulti, poterono vivere uniti
lungo tempo: perchè Licurgo con le sue leggi fece in Sparta più
cqualità di sustanze,
e meno equalità di
grado; perchè quivi
era una eguale povertà,
ed i plebei erano
manco ambiziosi, perchè i gradi
della città si distendevano in
pochi cittadini, ed
erano tenuti discosto dalla
plebe, uè gli
nobili col trattargli male
dettero mai loro
desiderio di avergli. Questo
nacque dai Re spartani,
i quali essendo collocati
in quel principato e posti
in mezzo diquella
nobiltà, non avevano
maggiore ri-medio a tenere
fermo la loro
degnità,ehc tenere la
plebe difesa da
ogni in-giuria : il che
faceva che la
plebe nontemeva, c non
desiderava imperio ; e nonavendo
imperio nè temendo,
era levatavia la
gara che la
potessi avere con
!unobiltà, c la cagione
de’ tumulti; e po-terono
vivere uniti lungo
tempo. Ma duecose
principali causarono questa
unione:T una esser pochi
gli abitatori di
Sparta,e per questo poterono
esser governatida pochi;
l’altra, che non
accettandoforestieri nella loro
repubblica, non ave-vano occasione nè di corrompersi,
nè dicrescere in
tanto che la
fusse insoppor-tabile a
quelli pochi che
la governavano.Considerando, adunque,
tutte queste cose ,si
vede come a’ legislatori di
Roma eranecessario fare
una delle due
cose, a volere che Roma
stessi quieta come
le so-praddette repubbliche: o non
adoperarela plebe in
guerra, corne i Viniziani;onon aprire
la via a’ forestieri, come
gliSpartani. E loro feceno
1’una e l’altra; il che
dette alla plebe
forza ed augu-mento,
ed infinite occasioni
di tumul-tuare. E se lo
stato romano veniva
adessere più quieto,
ne seguiva questo
in-conveniente, ch’egli era anco
più debile,perchè gli
si troncava la
via di poterevenire
a quella grandezza dove
ei per-venne: in modo
che volendo Roma
le-vare le cagioni de’
tumulti, levava ancole
cagioni dello ampliare.
Ed in tutte
lecose umane si
vede questo, chi
le esa-minerà bene: che
non si può
mai can-cellare uno inconveniente, che
non nesurga un
altro. Per tanto,
se tu vuoifare
un popolo numeroso
ed armato perpotere
fare un grande
imperio, lo faidi
qualità che tu
non lo puoi poi ma-neggiare a tuo modo:
se tu lo
mantienio piccolo o disarmato per
potere ma-neggiarlo, se egli
acquista dominio, nonlo
puoi tenere, o diventa
sì vile, che
tusei preda di
quaiunche ti assalta.
E però,in ogni nostra
deliberazione si debbeconsiderare dove
sono meno inconve-nienti, c pigliare
quello per migliorepartito: perchè
tutto netto, tutto
senzasospetto non si
trova mai. Poteva,
adun-que, Roma a
similitudine di Sparta
fareun Principe a vita,
fare un Senato
pic-colo; ma non poteva,
come quella, noncrescere
il numero de’
cittadini suoi, vo-lendo fare
un grande imperio;
il chefaceva che
il- Re a vita
ed il picciol
numero del Senato, quanto
alla unione, glisarebbe
giovato poco. Se
alcuno volesse,per tanto,
ordinare una repubblica
dinuovo, arebbe a esaminare
se volessech’ella ampliasse,
come Roma, di
domi-nio e di potenza, ovvero
ch’ella stessedentro a brevi
termini. Nel primo
caso,è necessario ordinarla come
Roma, edare luogo
a’ tumulti e alle dissensioniuniversali, il
meglio che si
può; perchèsenza gran
numero di uomini,
e benearmati, non mai
una repubblica potràcrescere, o se
la crescerà, mantenersi.Nel secondo
caso, la puoi
ordinare comeSparta c come
Yinegia: ma perchè
l’anipitale è il veleno
di simili repubbliche, tlebbc, in
tutti quelli modi
che si può,citi
le ordina proibire
loro lo acquistare;
perchè tali acquisti
fondati sopra una repubblica
debole, sono al
tutto la rovina sua.
Come intervenne a Sparta ed
a Yinegia : delle quali
la prima avendosi sottomessa quasi
tutta la Grecia, mostrò in
su uno minimo
accidente il debole fondamento
suo ; perchè, seguita la
ribellione di Tebe,
causata da Pelopitia,
ribellandosi V altre cittadi,
rovinò al tutto quella
repubblica. Similmente
Yinegia, avendo occupato
gran parte d’Italia, e la
maggior parte non
con guerra ma con
danari e con astuzia, come
la ebbe a fare
prova delle forze sue,
perdette in una
giornata ogni cosa. Crederei bene,
che a fare una
repubblica che durasse lungo
tempo, fussi il miglior
modo ordinarla dentro
come Sparla o come Yinegia
; porla in luogo forte,
e di tale potenza,
che nessuno cre-desse poterla subito
opprimere; e dal-l’altra parte,
non fussi si
grande, che la fussi
formidabile a’ vicini
: c così potrebbe lungamente
godersi il suo
stato. Perchè, per due
cagioni si fa
guerra ad una repubblica:
Cuna per diventarne signore, l’altra
per paura ch’ella non
ti occupi. Queste
due cagioni il
sopraddetto modo quasi in
tutto toglie via; perchè,
se la è difficile
ad espugnarsi, come io
la presuppongo, sendo
bene ordinata alla difesa,
rade volte accadere, o non mai,
che uno possa
fare disegno d’ acquistarla. Se
la si starà
intra i termini suoi, e veggasi
per esperienza, che in
lei non sia
ambizione, non occorrerà mai
che uno per
paura di sè
gli faccia guerra : e tanto
più sarebbe questo,
se e’ fusse in
lei constituzione o legge
che le proibisse l’ampliare.
E senza dubbio credo, clic
polendosi tenere la
cosa bilanciata in questo
modo, che e’ sarebbe il
vero vivere politico,
e la vera quiete di
una città. Ma
scudo tutte le
cose degli uomini in
moto, c non potendo
stare salde, conviene che
le saglino o clic
le scendino ; e a molte cose
che la ragione non
t' induce, t’ induce
lo necessità: talmente che,
avendo ordinata una
repubblica atta a mantenersi non
ampliando, e la necessità la
conducesse ad ampliare, si
verrebbe a torre via i
fondamenti suoi, ed a farla
rovinare più presto. Così,
dall’altra parte, quando
il Cielo le fusse
si benigno, che
la non avesse
a fare guerra, ne
nascerebbe che l’olio
la farebbe o effeminata o divisa;
le quali due cose
insieme, o ciascuna per
sè, sorebbono cagione della
sua rovina. Pertanto, non
si potendo, come
io credo, bilanciare questa
cosa, nò mantenere questa via
del mezzo a punto
; bisogna, nello ordinare la
repubblica, pensare alla parte
più onorevole; ed
ordinaria in modo, che
quando pure la
necessità la inducesse ad
ampliare, ella potesse quello ch’ella
avesse occupato, conservare. E, per
tornare al primo
ragionamento, credo che sia
necessario seguire l'ordine romano,
e non quello dell’altre repubbliche; perchè
trovare un modo, mezzo
infra l’uno e l’altro,
non credosi possa:
e quelle inimicizie che
intra il popolo ed
il senato nascessino,
tollerarle, pigliandole per uno
inconveniente necessario a
pervenire alla romana
grandezza. Perchè, oltre all’ altre
ragioni allegate dove si
dimostra Y autorità tribun zia
essere stata necessaria
per la guardia della
libertà, si può
facilmente considerare il benefizio
che fa nelle
repubbliche l’autorità dello accusare,
la quale era intra
gli altri commessa
a’ Tribuni ; come
nel seguente capitolo
si discorrerà. VII. Quanto siano
necessarie in una repubblica le
accuse per mante-nere la
libertà.A coloro che in
una città sono
preposti per guardia della
sua libertà, non si
può dare autorità
più utile e necessaria, quanto è quella
di potere accasare
i cittadini ai popolo,
o a qualunque magistrato o
consiglio, quando che pcccassino in
alcuna cosa contea
allo stato libero. Questo
ordine fa duoi
effetti utilissimi ad una
repubblica. Il primo è che
i cittadini, per paura
di non essere accusati,
non tentano cose contro
allo Stato: e tentandole,
sono incontinente e senza rispetto
oppressi. 1/ altro è che
si dà via
onde sfogare a quelli
umori che crescono
nelle citladi, in qualunque
modo, contea a qualunque cittadino: e quando
questi umori non hanno
onde sfogarsi ordinariamente, ricorrono a’
modi straordinari, che fanno
rovinare in tutto
una repubblica. G non è cosa
che faccia tanto
stabile e ferma una
repubblica, quanto ordinare quella in
modo, che l’ alterazione di questi
umori che la
agitano, abbia una via
da sfogarsi ordinata
dalie leggi. Il che
si può per
molti esempi dimostrare, e massime per
quello che adduce Livio
di CORIOLANO, dove ei
dice, che essendo irritala
contro alla Plebe la
Nobiltà romana, per
parerle che l Plebe
avesse troppa autorità
mediante la creazione de’
Tribuni che la
difendevano; ed essendo Roma,
come avviene, venuta in
penuria grande di
vettovaglie, ed avendo il
Senato mandato per grani
in Sicilia; Coriolano,
nimico alla fazione popolare,
consigliò come egli era
venuto il tempo
da potere gastigare
la Plebe, e torte
quella autorità die ella
si aveva acquistata
c in pregiudizio della nobiltà
presa, tenendola affamata, c non
li distribuendo il
frumento; la qual sentenza
sendo venuta alii orecchi
del Popolo, venne
in tanta indegnazione contro
a Coriolano, che allo uscire
del Senato lo
arebbero tumultuariamente
morto, se gli
Tribuni non 1’ avessero
citato a comparire a difendere la causa
sua. Sopra il
quale accidente, si nota
quello che di
sopra si è detto, #quanto sia
utile e necessario che le
repubbliche, con le
leggi loro, diano onde
sfogarsi oli’ ira
clic concepc la universalità
contra a uno cittadino; perchè quando
questi modi ordinari
non vi siano, si
ricorre agli estraordinari; c senza dubbio
questi fanno molto
peggiori effetti che non
fanno quelli. Perchè, se
ordinariamente uno cittadino
è oppresso, ancora che
li fusse fatto
torto, ne seguita o poco
o nessuno disordine in la
repubblica: perchè la
esecuzione si fa senza
forze private, e senza forze
forestiere, che sono
quelle che rovinano il
vivere libero; ma
si fa con forze
ed ordini pubblici,
che hanno i termini
loro particolari, nè
trascendono a cosa che rovini
la repubblica. E quanto a corroborare questa
oppinione con gli esempi,
voglio che degli
antichi mi basti questo
di Coriolano; sopra
il quale ciascuno consideri,
quanto male saria resultato alla
repubblica romana, se tumultuariamente ci
fussi stato morto; perchè
ne nasceva offesa
ila privati a privati,
la quale offesa
genera paura; la paura
cerca difesa; per
la difesa si procacciano i partigiani;
dai partigiani nascono le
parti nelle cittadi;
dalle parti la rovina
di quelle. Ma
sendosi governata la cosa
mediante chi ne
aveva autorità, si vennero
a tór via tutti quelli
mali che ne
potevano nascere governandola con autorità
privata. Noi avemo visto
ne’ nostri tempi,
quale novità ha fatto
alla repubblica di
Firenze non potere la
moltitudine sfogare l’ nniino
suo ordinariamente contra
a un suo cittadino; come
accadde nel tempo
di VALORI, clic era
come principe della città
: il quale essendo
giudicalo ambizioso da molti,
e uomo che volesse con
la sua audacia
e animosità trascendere il vivere
civile; e non essendo nella
repubblica via a poterli
resistere se non con
una setta contraria alla sua ;
ne nacque che
non avendo paura quello,
se non di
modi straordinari, si cominciò
a fare fautori che lo
difendessino; dall’ altra
parte, quelli clic lo
oppugnavano non avendo
via ordinaria a reprimerlo, pensarono
alle vie straordinarie : intanto
che si venne
alle armi. E dove, quando
per l’ordinario si fusse
potuto opporseli, sarebbe
la sua autorità spenta
con suo danno
solo; avendosi a spegnere per
lo straordinario, seguì con
danno non solamente suo, ma
di molti altri
nobili cittadini. Potrebbesi ancora
allegare, a fortificazione
della soprascritta conclusione, l’ accidente seguito
pur in Firenze
sopra SODERINI; il quale
al tutto segui per
non essere in
quella Repubblica alcuno modo
di accuse contra
alla ambizione de’ potenti cittadini:
perchè lo accusare un
potente a otto giudici in
una repubblica, non
basta : bisogna che i giudici
siano assai, perchè
pochi sempre fanno a modo
de’ pochi. Tanfo che,
se tali modi
vi fussono stati,
o icittadini lo arebbono
accusato, vivendo egli male;
e per tal mezzo,
senza far venire l’ esercito
spagnuolo, arebbono sfogato l’animo
loro: o non vivendo male,
non arebbono avuto
ardire operarli contra, per
paura di non
essere accusati essi : e cosi
sarebbe da ogni parte
cessato quello appetito
che fu cagione di
scandalo. Tanto che
si può concludere questo,
che qualunque volta si
vede che le
forze esterne siano
chiamate da una parte
d’ uomini che vivono in
una città, si
può credere nasca da’
cattivi ordini di
quella, per non esser
dentro a quello cerchio,
ordine da potere senza
modi islraordinari sfogare i maligni umori
che nascono nelli uomini:
a che si provvede
al tutto con ordinarvi
le accuse alii
assai giudici, e dare
riputazione a quelle. Li
quali modi furono in
Roma sì bene
ordinati, che in tante
dissensioni della Plebe
e del Senato, mai o il
Senato o la Plebe
o alcuno particolare cittadino
non disegnò valersi di
forze esterne; perche avendo
il rimedio in
casa, non erano necessitati andare
per quello fuori.
E benché gli esempi
soprascritti siano assai sufficienti a provarlo,
nondimeno ne voglio addurre
un altro, recitato
da L. nella sua
istoria: il quale riferisce come,
scudo stato in
Chiusi, città in quelli
tempi nobilissima in
TOSCANA, da uno Lucumone
violata una sorella di
Aruntc, c non potendo
Arunte vendicarsi per la
potenia del violatore, se
n'andò a trovare i Franciosi,
che allora regnavano in
quello luogo che
oggi si chiama Lombardia;
e quelli confortò a venire con
annata mano a Chiusi, mostrando loro
come con loro
utile lo potevano vendicare
della ingiuria ricevuta : che se
Arunte avesse veduto
potersi vendicare con i modi
della città, non arebbe
cerco le forre
barbare. Ma come queste
accuse sono utili
in una repubblica, così
sono inutili e dannose le
calunnie ; come nel
capitolo seguente discorreremo.
Vili. — Quanto le
accuse sono utili alle
repubbliche, tanto sono
perniziose le calunnie.Non
ostante che la
virtù di Cnmmillo, poi
ch’egli ebbe libera
Roma dalla oppressione de’ Franciosi, avesse fatto
che tutti i cittadini
romani, parer loro tòrsi
reputazione o cedevano a quello;
nondimeno MAULIO Capitolino non
poteva sopportare chegli
fusse attribuito tanto
onore e tanta gloria; parendogli,
quanto alla salute di
Roma, per avere
salvato il Campidoglio, aver meritato
quanto CAMMILLO; c quanto all’
altre belliche laudi,
non essere inferiore a lui.
Di modo che,
carico d’ invidia, non
potendo quietarsi per la
gloria di quello,
c veggendo non potere seminare
discordia infra i Padri, si
volse alla Plebe,
seminando varie oppinioni sinistre
intra quelfb. E intra V altre cose
che diceva, era
come il tesoro
il quale si
era adunato insieme per
dare ai Franciosi,
e poi non dato loro,
era stato usurpalo
da privati cittadini ; e quando
si riavesse, si
poteva convertirlo in pubblica
utilità, alleggerendo la Plebe
da’ tributi, o da qualche
privato debito. Queste
parole poterono assai nella
Plebe; talché cominciò avere concorso,
ed a fare u sua
posta tumulti assai
nella città: la qual
cosa dispiacendo al
Senato, e parendogli di momento
e pericolosa, creò uno Dittatore,
perchè ei riconoscesse questo caso,
e frenasse lo impeto
di MANLIO. Onde che
subito il Dittatore
lo fece citare, e eondussonsi
in pubblico all’incontro l’uno
dell’altro; il Dittatore in
mezzo de’ Nobili,
e MANLIO in mezzo della
Plebe. Fu domandato
Manlio che dovesse dire,
appresso a chi fusse questo
tesoro che ei
diceva, perchè ne era
cosi desideroso il
Senato d’ intenderlo come la
Plebe: a che MANLIO
non rispondeva particularmenfe; ma, andando fuggendo,
diceva come non
era necessario dire loro
quello die e’
si sapevano: tanto che
il Dittatore lo
fece mettere in carcere.
È da notare per questo
testo, quanto siano
nelle città libere, ed
in ogni altro
modo di vivere, detestabili le
calunnie; e come per
reprimerle, si debbe non
perdonare a ordine alcuno che vi faccia
a proposito. Nè può essere
migliore ordine a torle via,
che aprire assai
luoghi alle accuse; perchè quanto
le accuse giovano alle
repubbliche, tanto le calunnie nuocono:
e dall’ altra parte è questa
differenza, che le calunnie
non hanno bisogno di
testimone, nè di
alcuno altro particulare riscontro
a provarle, in modo che
ciascuno da ciascuno
può essere calunniato; ma
non può già
essere accusato, avendo le
accuse bisogno di
riscontri veri, e di circostanze,
che mostrino la verità
dell’ accusa. Accusatisi gli uomini
a’ magistrati, a’ popoli,
a’ consigli ; calunniatisi
per le piazze
è per le logge. Usasi
più questa calunnia
dove si usa meno
1’ accusa, c dove
le città sono meno
ordinate a riceverle* Però, uno
ordinatore d’ una
repubblica debbe ordinare che
si possa in
quella accusare ogni cittadino,
senza alcuna paura o senza
alcuno sospetto; e fatto
questo e bene osservato, debbe
punire aeremente i calunniatori: i quali
non si possono dolere
quando siano puniti, avendo i luoghi
aperti a udire le
accuse di colui che
gli avesse per
le logge calunniato. E dove
non è bene ordinata questa parte,
seguitano sempre disordini grandi : perchè
le calunnie irritano, c non castigano
i cittadini; e gli irritali pensano
di valersi, odiando
più presto, che temendo
le cose che
si dicono contea a loro.
Questa parte, come è detto,
era bene ordinata
in Roma ; ed è
stata sempre male
ordinala nella nostra città
di FIRENZE. E come
a Roma questo ordine fece
molto bene, a FIRENZE questo disordine
fece molto male. E chi
legge le istorie
di questa città, vedrà
quante calunnie sono
state in ogni tempo
date a’ suoi
cittadini che si sono
adoperati nelle cose
importanti di quella. Dell’
uno dicevano, ch’egli
aveva rubati danari al
comune; dell’ altro,
che non aveva vinto
una impresa per
essere stato corrotto; e che
quell’ altro per sua
ambizione aveva fatto
il tale e tale
inconveniente. Del che
ne nasceva che da
ogni parte ne
surgeva odio : donde
si veniva alla
divisione; dalla di- visione alle sètte;
dalle sètte alla
rovina. Che se fusse
stato in Firenze
ordine d’ accusare i cittadini,
c punire i calunniatori, non
seguivano infiniti scandali che
sono seguiti: perchè
quelli cittadini, o
condennati o assoluti che
russino, non arebbono potuto
nuocere alla città; e sarebbono
stati accusati meno assai
clic non ne
erano calunniali, non si
potendo, come ho
detto, accusare come calunniare
ciascuno. Ed intra
l’ altre cose di clic
si è valuto alcuno
citadino per ventre
alla grandezza sua, sono
state queste calunnie:
le quali venendo conira a’
cittadini potenti che allo
appetito suo si
opponevano, facevano assai per
quello; perchè, pigliando la
parte del Popolo,
e confirmandolo nella mala oppiatone
eh’ egli aveva
di loro, se lo
fece amico. E benché
se ne potesse addurre
assai esempi, voglio essere
contento solo d’
uno. Era lo
esercito fiorentino a campo a Lucca,
coman- dato da GUICCIARDINI (si
veda), commissario di quello.
Vollono o i cattivi suoi governi,
o la cattiva sua
fortuna, che Ja espugnazione
di quella città non
seguisse. Pur, comunque
il caso stesse, ne
fu incolpato inesser
Giovanni, dicendo com’ egli
era stato corrotto da’
Lucchesi: la quale
calunnia sendo favorita da’
nimici suoi, condusse messer Giovanni
quasi in ultima
disperazione. E benché, per giustificarsi, ei si
volessi mettere nelle
mani del Capitano; nondimeno non
si potette mai giustificare, per
non essere modi
in quella repubblica da
poterlo fare. Di che
ne nacque assai
sdegno intra li amici
di messer Giovanni,
che erano la maggior
parte delli uomini
Grandi, ed infra coloro
che desideravano fare
novità in Firenze. La
qual cosa, e per queste
e per altre simili
cagioni, tanto crebbe, che
ne seguì la
rovina di quella repubblica. Era
dunque MANLIO Capitolino calunniatore, e non
accusatore*, ed i Romani mostrarono
in questo caso appunto,
come i calunniatori si
debbono punire. Perchè si
debbe fargli diventare accusatori; e quando
1’ accusa si
riscon- tri vera, o premiarli, o non
punirli : ma quando
la non si
riscontri vera Uf»5 IX. Come
egli è necessario esser solo
a volere ordinare una
repubblica di nuovo , o al lutto
fuori delti antichi suoi
ordini riformarla. E’ porrà
forse ad alcuno,-
che io sia troppo
trascorso dentro nella
istoria romana, non avendo
fatto alcuna menzione ancora degli
ordinatori di quella
Repubblica, nè di quelli
ordini che o alla
religione o alla milizia riguardassero. E però,
non volendo tenere
più sospesi gli animi
di coloro che
sopra questu parte volessino intendere
alcune cose; dico, come
molti per avventura
giudicheranno di cattivo esempio,
che uno fondatore d’
un vivere civile,
quale è ROMOLO,
abbia prima morto un
suo fratello, dipoi consentito alla
morte di Tito
TAZIO Sabino, eletto da lui
compagno nel regno; giudicando per
questo, che gli
suoi cittadini potessero con T
autorità del loro principe, per
ambizione e desiderio di comandare,
offendere quelli che
alla loro autorità si
opponessino. La quale
oppinionc sarebbe vera,
quando non si
considerasse che line l’avesse
indotto a fare lai OMICIDIO. E debbesi pigliare
questo per una regola
generale: clic non
mai o di rado
occorre che alcuna
repubblica o regno sia da
principio ordinato bene,
o al tutto di
nuovo fuori delti
ordini vecchi riformato, se non è ordinato
da uno; anzi è necessario che
uno solo sia
quello clic dia il
modo, e dalla cui
mente dependa qualunque simile
ordinazione. Però, uno prudente
ordinatore d’ una repubblica,
e che abbia questo
animo di volere
giovare non a sé ma
al BENE COMUNE, non alla
sua propria successione
ma alla comune patria, debbe
ingegnarsi di avere l’autorità solo;
nè mai uno
ingegno savio riprenderà alcuno
di alcuna azione istraordinaria, che
per ordinare un
regno o constituire una repubblica
usasse. Conviene bene, che,
accusandolo il fallo, lo
effetto lo scusi
; e quando sia buono, come
quello di ROMOLO,
sempre lo scuserà: perchè colui
che è violento per guastare,
non quello che è
per racconciare, si debbe
riprendere. Debbe bene in
tanto esser prudente
e virtuoso, che quella autorità
che si ha
presa, non la lasci
ereditaria ad un
altro : perchè, essendo gli
uomini più proni
al male che al
bene, potrebbe il
suo successore usare ambiziosamente quello
che da lui
virtuosamente fusse stato usato.
Oltre di questo, se
uno è atto ad
ordinare, uoti è la cosa
ordinata per durare
molto, quando la rimanga
sopra le spalle
d’ uno; ma si
bene, quando la
rimane alla cura di
molti, e che a molti
stia il mantenerla. Perchè, cosi
come molti non
sono atti ad ordinare
una cosa, per
non conoscere il bene
di quella, causato
dalle diverse oppinioni che
sono fra loro; cosi
conosciuto che lo
hanno, non si accordano
a lasciarlo. E che ROMOLO fusse
di quelli che
NELLA MORTE DEL FRATELLO e del
compagno meritasse scusa; e che
quello che fece,
fusse per IL BENE COMUNE, e non
per ambizione propria
; lo dimostra lo
avere quello subito
ordinato uno Senato, con
il quale si
consigliasse, e secondo
l’oppinione del quale deliberasse. E chi
considera bene P autorità che ROMOLO
si riserbò, vedrà
non se ne essere
riserbata alcun’ altra
che comandare alli eserciti
quando si era deliberata la
guerra, e di ragunare
il Senato. Il che
si vide poi,
quando Roma divenne libera
per la cacciata
de’ Tarquini; dove
da’ Romani non
fu innovato alcun ordine
dello antico, se non
che in
luogo d’ uno
Re perpetuo, fussero
duoi Consoli annuali;
il che testifica, tutti gli
ordini primi di
quella città essere stati
più conformi ad uno
vivere civile e libero,
che ad uno
assoluto e tirannico.
Polrebbesi dare in corroborazione delle
cose sopraddette infiniti esempi;
come Licurgo, Solonc, ed
nitri fondatori di
regni e di repubbliche, i quali
poterono, per aversi attribuito un’
autorità, formare leggi
a proposito del bene
comune; ma gli
voglio lasciare indietro, come
cosa nota. Addurronne solamente
• uno, non si
celebre, ma da
considerarsi per coloro che
desiderassero essere di
buone leggi ordinatori: il
quale è, che
desiderando Agide re di
Sparta ridurre gli
Spartani intra quelli termini
che le leggi
di Mcurgo gli avessero
rinchiusi, parendoli che per
esserne in parte
deviati, la sua città
avesse perduto assai
di quella antica virtù,
e, per conseguente, di forze
e d’ imperio ; fu ne'
suoi primi principii ammazzato
dalli Efori spartani, come uomo
che volesse occupare
la tirannide. .Ma succedendo
dopo lui . nel regno
Cleomene c nascendogli il
medesimo desiderio per gli
ricordi e scritti eh’ egli
aveva trovati di
Agide, dove si vedeva
quale era la
mente ed intenzione sua, conobbe
non potere fare
questo bene alla sua
patria se non
diventava solo di autorità;
parendogli, per 1*
arabizione degli uomini,
non potere fare utile
a molti contra alla
voglia di pochi:
e presa occasione conveniente,
fece ammazzare tutti gli
Efori, e qualunque altro gli
potesse contrastare ; dipoi
rinnovò in tutto le
leggi di Licurgo.
La quale deliberazione era
atta a fare risuscitare Sparta, e dare
a Clcomcne quella reputazione che
ebbe Licurgo, se non
fussc stato la
potenza de’ Macedoni e la
debolezza delle altre
repubbliche greche. Perchè, essendo
dopo tale ordine assaltato
da’ Macedoni, e trovandosi per sè
stesso inferiore di
forze, c non avendo a chi
rifuggire, fu vinto; e restò
quel suo disegno,
quantunque giusto e
laudabile, imperfetto. Considerato adunque
tutte queste cose, conchiudo, come a
ordinare una repubblica è necessario essere
solo; c ROMOLO per LA MORTE DI REMO E DI TAZIO meritare
iscusa, e non biasmo. Quanto sono
laudabili * fondatori d* una
repubblica o dJ uno
regno, tanto quelli dJ
una tirannide sono vituperabili. Intra tutti
gli uomini laudati,
sono i laudatissimi quelli
die sono stati
capi e ordinatori delle religioni.
Appresso dipoi, quelli che
hanno fondato o repubbliche o regni. Dopo
costoro, sono celebri quelli
che, preposti alti
esercìti, hanno ampliato
o il regno loro,
o quello della patria.
A questi si aggiungono gli uomini
iilterati; e perchè questi
sono di più
ragioni, sono celebrati ciascuno d’ essi
secondo il grado
suo. A qualunque altro uomo,
il numero de’ quali
è infinito, si attribuisce
quut* che parte di
laude, la quale
gli arreca l’ arte e V esercizio
suo. Sono, per lo
contrario, infumi e detestabili
gli uomini destruttori delle
religioni, dissipatori de’ regni
e delie repubbliche, inimici
delle virtù, delle
lettere, e d'ogni altra arte
che arrechi utilità
ed onore alla umana
generazione; come sono
gli empii e violenti, gl*
ignoranti, gli oziosi, i vili, e i dappochi.
E nessuno sarà mai sì
pazzo o si savio,
si tristo o si buono,
che, propostogli la
elezione delle due qualità
d’ uomini, non
laudi quella che è da
laudare, e Biasini quella
che è da biasmare:
nientedimeno, dipoi, quasi tutti,
ingannati da un
falso bene e da una
falsa gloria, si
lasciano andare, o
voluntariamente o ignorantemente, ne’
gradi di
coloro che meritano
più biasimo che laude;
c potendo fare, con perpetuo
loro onore, o una
repubblica o un regno, si
volgono alla tirannide: nè
si avveggono per
questo partito quanta fama,
quanta gloria, quanto
onore, sicurtà, quiete, con
satisfazione d’animo,
e’fuggono; e in quanta
infamia, vituperio, biasimo, pericolo
e inquietudine incorrono. Ed è impossibile
che quelli che in stato privato
vivono in una repubblica, o che
per fortuna o virtù ne
diventano principi, se
leggcssino l’ istorie, e
delle memorie delle
antiche cose facessino capitale,
che non volessero
quelli tali privati,
vivere nella loro patria
piuttosto Soipioni che
Cesari; e quelli che sono
principi, piuttosto Agesilai, Timolconi
e Dioni, clic Nabidi, Falari
e Dionisi : perchè vedrebbono
questi essere sommamente
vituperati, e quelli
eccessivamente laudati.
Vedrebbono ancora come
Timoleone e gli altri
non ebbero nella
patria loro meno autorità
che si avessiuo
Dionisio e Falari; ma vedrebbono
di lungo avervi avuto
più sicurtà. Nè
sia alcuno che si
inganni per la
gloria di Cesare,
sentendolo, massime,
celebrare dagli scrittori: perchè questi
che lo laudano,
sono corrotti dalla fortuna
sua, e spauriti dalla lunghezza dello
imperio, il quale
reggendosi sotto quel nome,
non permetteva che gli
scrittori parlassero liberamente
di lui. Ma
chi vuole conoscere quello che
gli scrittori liberi
ne direbbono, vegga
quello che dicono
di CATILINA. E tanto è più
detestabile GIULIO (si veda) CESARE
, quanto più è da
biasimare quello che ha
fatto, che quello
che ha voluto
fare un inule. Vegga
ancora con quante
laudi celebrano BRUTO (si
veda); talché, non
potendo biasimare quello
per la sua
potenza, e’ celebrano il nemico
suo. Consideri ancora quello
eh’ è diventato principe
in una repubblica, quante
laudi, poiché ROMA fu
diventata imperio, meritarono
più quelli imperadori che
vissero sotto le leggi
e come principi buoni,
che quelli che vissero
al contrario: e vedrà
come a Tito, Nerva, Traiano,
ADRIANO, Antonino e Marco, non
erano necessari i soldati pretoriani nè
la moltitudine delle legioni
a difenderli, perchè i costumi L loro, la
benivolenza del Popolo,
lo amore i del Senato
gli difendeva. Vedrà
ancora come a Caligola, Nerone,
Vitellio, ed a tanti
altri scellerati imperadori,
non bastarono gli eserciti
orientali ed occidenItili
a salvarli conira a quelli
nemici, che li loro
rei costumi, la
loro malvagia vita aveva
loro generati. E se
la istoria di costoro
fusse ben considerata,
sarebbe assai ammaestramento a qualunque
priucipe, a mostrargli la
via della gloria
o del biasmo, e della
sicurtà o del timore suo.
Perchè, di ventisei
imperadori che furono da
Cesare a Massimiuo, sedici
ne furono ammazzati, dicci
morirono ordinariamente; c se di
quelli che furono morti
ve ne fu
alcuno buono, come Galba
e Pertinace, fu morto
da quella corruzione che
lo antecessore suo
aveva lasciata nc’ soldati. E se
tra quelli che morirono
ordinariamente ve ne
fu alcuno scellerato, nome Severo,
nacque da una sua
grandissima fortuna e virtù
; le quali due cose
pochi uomini accompagnano. Vedrà ancora,
per la lezione
di questa istoria, come
si può ordinare
un regno buono: perchè
tutti gl' imperadori che succederono
all* imperio per
eredità, eccetto Tito, furono
cattivi ; quelli che
per adozione, furono tutti buoni,
come furono quei cinque
da Nervo a Marco:
e come P imperio cadde negli
eredi, ei ritornò nella
sua rovina. Pongasi,
adunque, innanzi un principe
i tempi da Nerva
a Marco, e conferiscagli con
quelli che erano stati
prima e che furono
poi; edipoi elegga
in quali volesse
essere nato,o a quali volesse
essere preposto. Per-chè in
quelli governali da’ buoni,
vedràun principe sicuro
in mezzo de’ suoi
si-curi cittadini, ripieno di
pace e di giu-stizia il
mondo: vedrà il
Senato con lasua
autorità, i magistrati con i
suoi ono-ri ; godersi i cittadini
ricchi le loro
ric-chezze ; la nobiltà c la
virtù esaltata :vedrà
ogni quiete ed
ogni bene; e,
dal-l’altra parte, ogni rancore,
ogni licenza,corruzione e ambizione
spenta: vedrà itempi
aurei, dove ciascuno
può tenere edifendere
quella oppinione che
vuole. Ve-drà, in fine,
trionfare il mondo;
pienodi riverenza e di
gloria il principe,d’
amore e di sveurilà
i popoli. Se con-sidererà,
dipoi, tritamente i tempi
deglialtri imperadori, gli
vedrà atroci per
leguerre, discordi per
le sedizioni, nellapace
e nella guerra crudeli:
tanti prin-cipi morti col
ferro, tante guerre
civili,tante esterne ; P Italia
afflitta, e piena dinuovi
infortunii ; rovinate e saccheggiatele città
di quella. Vedrà
Roma arsa, ilCampidoglio
da’ suoi cittadini disfatto,desolati gli
antichi templi, corrotte
lecerimonie, ripiene le
città di adulterii:vedrà il
mare pieno di
esilii, gli scoglipieni
di sangue. Vedrà
in Roma seguireinnumerabili crudeltadi
; e la nobiltà, le ricchezze,
gli onori, e sopra
tutto ia virtùessere
imputata a peccato capitale.
Ve-drà premiare li accusatori,
essere corrotti i sèrvi contro
al signore, i liberi contro al
padrone; e quelli a chi
fusscro mancati i nemici,
essere oppressi dagli amici.
E conoscerà allora benissimo quanti obblighi
Roma, Italia, e il mondo
abbia con Cesare.
E senza, dubbio, se e*
sarà nato d’uomo,
si sbigottirà I da ogni
imitazione dei tempi
cattivi, c accenderassi d’uno
immenso desiderio di seguire
i buoni. E veramente, cercando un
principe la gloria
del mondo, doverrebbe
desiderare di possedere
una città corrotta, non
per guastarla in
tutto come Cesare, ma
per riordinarla come
lloinolo. E veramente i cieli
non possono dare all i uomini
maggiore occasione di gloria,
nè li uomini
la possono maggiore desiderare. E se,
a volere ordinare bene una
città, si avesse
di necessità n dcporrc
il principato, meriterebbe
quello clic non la
ordinasse, per non
cadere di quel grado,
qualche scusa: ma
potendosi tenere il principato
ed ordinarla, non si
merita scusa alcuna.
E in somma, considerino quelli
a chi i cieli danno tale
occasione, come sono
loro proposte due vie:
1’ una che
gli fa vivere sicuri, e dopo
la morte gli
rende gloriosi ; I’ altra
gli fa vivere
in continove angustie, e dopo
la morte lasciare
di sè una sempiterna
infamia. Delta religione de*
Romani. Ancora che Roma
avesse il primo
suo ordinatore ROMOLO, e che
da quello abbia riconoscere come
figliuola il nascimento e la educazione
sua; nondimeno, giudicando i cieli
che gli ordini
di ROMOLO non bastavano
a tanto imperio, niessono nel
petto del Senato
romano di eleggere NUMA (si veda) Pompilio
per SUCCESSORE A ROMOLO, acciocché
quelle cose che da
lui fossero state
lasciate indietro, fossero da
Numa ordinate. II
quale trovando un popolo
ferocissimo, e volendolo ridurre nelle
ubbidienze civili con
le arti della pace,
si volse alla
religione, come oosa al
tutto necessaria a volere
mantenere una civiltà ; e la
costituì in modo,
che per più secoli
non fu mai
tanto timore di Dio
quanto in quella
Repubblica : ilche facilitò
qualunque impresa che
ilSenato o quelli grandi
uomini romanidisegnassero fare.
E ehi discorrerà in-finite
azioni, e del popolo
di Roma lutto insieme, e di
molli de’ Romani di
per sé, vedrà come
quelli cittadini temevano
più assai rompere il
giuramento che le
leggi ; come coloro
clic stimavano più
la potenza di Dio,
che quella degli
uomini: come si vede
manifestamente per gli esempi
di SCIPIONE e di
MANLIO TORQUATO. Perchè,
dopo la rotta
che Annibale aveva dato
a’ Romani a Canne, molti
cittadini si erano adunati
insieme, c sbigottiti e paurosi
si erano convenuti
abbandonare l’ITALIA, e
girsene in Sicilia:
il che sentendo SCIPIONE, gli
andò a trovare, e col
ferro ignudo in
mano gli costrinse a giurare di non abbandonare
la patria. LUCIO MANLIO, padre di
TITO MANLIO, che fu dipoi chiamato
Torquato, era stato accusato da
MARCO POMPONIO, Tribuno
della plebe ; ed
innanzi che venissi
il di del giudizio,
Tito andò a trovare Marco, e minacciando
d’ ammazzarlo se non giurava
di levare l’accusa
al padre, lo costrinse
al giuramento ; e quello, per timore
avendo giurato, gli
levò t'accusa. E cosi quelli
cittadini i quali l'amore della
patria e le leggi
di quella non ritenevano
in ITALIA, vi
furon ritenuti da un
giuramento che furono
forzati a pigliare; e quel Tribuno
pose da parte l'odio
che egli aveva
col padre, la ingiuria
che gli aveva
fatta il figliuolo, c i’ onore
suo, per ubbidire
al giuramento preso: il che non
nacque da altro, che
da quella religione
che Numa aveva introdotta
in quella città.
E vedesi, chi considera
bene le istorie
romane, quanto serviva la
religione a comandare agli eserciti,
a riunire la plebe, a mantenere gli
uomini buoni, a fare vergognare li
tristi. Talché, se
si avesse a disputare a quale
principe Roma fusse più
obbligata, o a ROMOLO o a Numa, credo più
tosto Numa otterrebbe
il primo grado: perchè
dove è religione, facilmente si
possono introdurre l’armi; e dove sono
l’armi e non religione,
con diflìcultà si può
introdurre quella. E si vede
che a ROMOLO per
ordinare il Senato, e per
fare altri ordini
civili e militari, non gli
fu necessario dell’ autorità di Dio;
ma fu bene
necessario a Numa, il quale
simulò di avere
congresso con una Ninfa,
la quale lo
consigliava di quello ch’egli
avesse a consigliare il popolo
: e tutto nasceva perchè
voleva mettere ordini nuovi
ed inusitati in quella
città, e dubitava che
la sua autorità non
bastasse. G veramente, mai
non fu alcuno ordinatore
di leggi straordinarie in uno
popolo, che non
ricorresse a Dio ; perchè altrimenlc
non sarebbero accettate: perchè
sono molli beni
conosciuti da uno prudente,
i quali non hanno in
sè ragioni evidenti
da potergli persuadere ad
altri. Però gli
uomini savi, che vogliono
torre questa diflìcultà, ricorrono a Dio.
Cosi fece Licurgo,
cosi Solone, cosi molti
altri che hanno
avuto il medesimo fine
di loro. Ammirando, adunque, il popolo
romano la bontà
e la prudenza sua, cedeva
ad ogni sua
deliIterazione, Ben è vero
che l’essere quelli tempi
pieni di religione,
e quelli uomini, con i quali
egli aveva a travagliare, grossi, gli
detlono facilità grande
a conseguire i disegni suoi, potendo
imprimere in loro facilmente
qualunche nuova forma. E senza
dubbio, ehi volesse
ne’presenti tempi fare
una repubblica, più
facilità troverebbe negli uomini
montanari, dove non è alcuna
civilità, che in quelli
che sono usi a
vivere nelle città, dove
la civilità è corrotta:
ed uno scultore trarrà più
facilmente una bella
statua d’ uno marmo
rozzo, che d’ uno
male abbozzato d’altrui. Considerato
adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da
Piuma fu intra
le primecagioni della
felicità di quella
città: perchè quella causò
buoni ordini; i buoni ordini fanno
buona fortuna ; e dalla buona fortuna
nacquero i felici successi delle imprese.
E come la osservanza
del culto divino è cagione
delia grandezza delle repubbliche,
cosi il dispregio
di quella è cagione della
rovina d’esse. Perchè, dove
manca il timore
di Dio, conviene che
o quel regno rovini,
o che sia sostenuto dal
timore d’ un
principe che supplisca a’ difetti
della religione. E perchè
i principi sono di
corta vita, conviene che
quel regno manchi
presto, secondo che manca
la virtù d’
esso. Donde nasce che i
regni i quali dependono solo dalla
virtù d’ uno uomo,
sono poco durabili, perchè
quella virtù manca
con la vita di
quello ; e rade volte
accade che la sia
rinfrescata con la
successione, come prudentemente ALIGHIERI (si veda) dice: tt Rade
volte risurge per
li ramiL'umana probitade:
e questo vuoloQuel che
la dà, perchè
da lui si
chiami. „Non è,
adunque, la salute
di una repubblica o d’uno regno
avere uno principe che
prudentemente governi mentre
vive ; ma uno
che l’ordini in
modo, clic, morendo ancora, la
si mantenga. E benché agli
uomini rozzi più
facilmente si persuade uno
ordine o una oppinione
nuova, non è per
questo impossibile persuaderla ancora agli
uomini civili, e che si
presumono non essere
rozzi. Al popolo di
Firenze non pare
essere nè ignorante nè
rozzo: nondimeno da
frate Girolamo Savonarola fu
persuaso che parlava con
Dio. lo non
voglio giudicare s’egli era
vero o no, perchè
d’ un tanto uomo se
ne debbe parlare
con reverenza : ma io
dico bene, che
infiniti lo credevano, senza
avere visto cosa nessuna istraordinaria da
farlo loro credere; perchè la
vita sua, la
dottrina, il soggetto che
prese, erano sufhzienti
a fargli prestare fede.
Non sia, pertanto, nessuno che
si sbigottisca di
non potere conseguire quello
che è stato conseguito da
altri ; perchè gli
uomini, come nella Prefazione nostra
si disse, nacquero, vissero e morirono
sempre con un
medesimo ordine. Di quanta importanza
sia tenere conto della
religione j e come la Italia per
esserne mancata mediante la
Chiesa romana y è rovinata.
Quelli principi, o quelle
repubbliche, le quali si
vogliono manienere incorrotte, hanno sopra
ogni altra cosa a
mantenere incorrotte le cerimonie
della religione, e tenerle sempre
nella loro venerazione; perchè
nissuno maggiore indizio si
puote avere della
rovina d’una provincia, che
vedere dispregiato il
culto divino. Questo è facile
a intendere, conosciuto che si è
in su
che sia fondata la
religione dove V uomo
è nato; perchè ogni religione
ha il fondamento
della vita sua in
su qualche principale
ordine suo. La vita
della religione gentile
era fondata sopra i responsi
delti oracoli e sopra la
setta delli aridi
e delli aruspici: tutte le
altre loro cerimonie, sacrifìcii, riti,
dependevano da questi; perchè loro
facilmente credevano che quello
Dio che ti
poteva predire il tuo
futuro bene o il
tuo futuro male,
te lo potessi ancora
concedere. Di qui nascevano
i tempii, di qui i
sacrifici!, di qui le
supplicazioni, ed ogni
altra cerimonia in venerarli:
perchè l’oracolo di Deio,
il tempio di
GIOVE Aminone, ed altri
celebri oracoli, tenevano
il mondo in ammirazione,
e devoto. Come costoro cominciarono dipoi
a parlare n modo de’ potenti,
e questa falsità si
fu scoperta ne’ popoli,
divennero gli uomini increduli, ed
atti a perturbare ogni
ordine buono. Debbono,
adunque, i Principi d’uria repubblica
o d’un regno, i fondamenti
della religione che
loro tengono, mantenerli; e fatto
questo, sarà loro facil
cosa a mantenere la
loro repubblica religiosa, e,
per conseguente, buona ed
unita. C debbono, tutte
le cose che nascono
in favore di
quella, come che le
giudicassino false, favorirle ed
accrescerle; e tanto più
Io debbonofare, quanto
più prudenti sono,
e quanto più conoscitori delle
cose naturali. E perchè
questo modo c stato
osservato dagli uomini savi,
ne è nata l’oppinione dei miracoli,
che si celebrano
nelle religioni eziandio false:
perchè i prudenti gli aumentano,
da qualunche principio e’ si nascano;
e l’autorità loro dà poi
a quelli fede appresso
a qualunque. Di questi miracoli
ne fu a Roma
assai; e intra gli
altri fu, che
saccheggiando i soldati romani
la città de’ Veienti,
alcuni di loro entrarono
nel tempio di Giunone,
ed accostandosi alla
immagine di quella, e dicendole
vis venire Romani ,parve
od alcuno vedere
che la accennasse; ad alcun
altro, che ella
dicesse di si. Perchè,
sendo quelli uomini
ripieni di religione (il
che dimostra L.
perchè nell’entrare nel
tempio, vi entrarono senza
tumulto, tutti devoti e pieni di
reverenza), parve loro
udire quella risposta che
alla domanda loro per
avventura si avevano
presupposta : la quale
oppiuione e credulità, da
Cammillo e dagli altri
principi della città
fu ni tutto favorita
ed accresciuta. La
quale religione se ne’ Principi
della repubblica cristiana si
fusse mantenuta, secondo
che dal datore d’ essa
ne fu ordinato,
sarebbero gli stati e le
repubbliche cristiane più unite
e più felici assai
ch’elle non sono. Nè
si può fare
altra maggiore conieltura della
declinazione d’essa, quanto è vedere
come quelli popoli
che sono più propinqui
alla Chiesa romana, capo
della religione nostra,
hanno meno religione. E chi
considerasse i fondamenti
suoi, e vedesse l’ uso
presente quanto è diverso da
quelli, giudicherebbe esser propinquo,
senza dubbio, o la
rovina o il flagello.
E perchè sono alcuni d’oppinione,
che ’l ben
essere delle cose d’ Italia
dipende dalla Chiesa di
Roma, voglio contro
ad essa discorrere quelle ragioni
che mi occorrono
:e ne allegherò due
potentissime, le quali, secondo me,
non hanno repugnanza.
La, prima è, che
per gli esempi
rei di quella i corte, questa
provincia ha perduto
oguI divozione ed ogni
religione: il clic
si i lira dietro infiniti
inconvenienti e infi-niti
disordini; perchè, così
come religione si presuppone
ogni bene, dove ella
manca si presuppone
il contrario. Abbiamo, adunque,
con la Chiesa e con
i preti noi Italiani
questo primo obbligo, d’essere
diventati senza religione c cattivi: ma
ne abbiamo ancora un
maggiore, il quale
è cagione della rovina nostra.
Questo è die la
Chiesa ha tenuto e tiene
questa nostra provincia divisa. E veramente, alcuna
provincia non fu mai
unita o felice, se
la non viene tutta
alla obedienza d’
una repubblica o d’uno principe,
come è avvenuto alla Francia.
E la cagione che la
Italia non sia
in quel medesimo termine, nè
abbia aneli’ ella o
una repubblica o uno
principe che la governi,
è solamente la Chiesa
; perchè, avendovi abitalo e tenuto
imperio temponile, non è
stata sì
potente nè dì tal
virtù, che l'abbia
potuto occupare il
restante d’Italia, e farsene principe;
e non è stata, dall’altra
parte, si debile, che,
per paura di
non perder il
dominio delie cose temporali,
la non abbi potuto
convocare uno potente
che la difenda contra a quello
che in Italia
fusse diventato troppo potente:
come si è veduto anticamente per
assai esperienze, quando mediante
Carlo Magno la
ne cacciò i Lombardi, eh’ era
no già quasi
re di tutta Italia;
e quando ne’ tempi nostri ella
tolse la potenza
a’ Veneziani con l’aiuto
di Francia; dipoi
ne cacciò i Franciosi
eoa l’aiuto de’ Svizzeri.
Non essendo, dunque, stata
la Chiesa potente da
potere occupare l’ Italia,
nè avendo permesso che
un altro la
occupi, è stata cagione che
la non è potuta
venire sotto un capo;
ma è stata sotto
più principi e signori, da’ quali
è nata tanta disunione e tanta debolezza,
che la si è
condotta ad essere stata
preda, non solamelile
di barbari polenti,
ma di qualunque I*
assalta. Di clic
noi altri Italiani abbiamo obbligo
con la Chiesa,
c non con altri. E chi
ne volesse per
esperienza certa vedere più
pronta la verità,
bisognerebbe che fusse di
tanta potenza, che mandasse
ad abitare la
corte romana, con l’autorità che
l’ha in Italia,
in le terre de’ Svizzeri; i quali
oggi sono quelli
soli popoli che vivono,
e quanto alla religione e quanto agli
ordini militari, secondo
gli antichi : e vedrebbe che
in poco tempo furebbero più
disordine in quella
provincia i costumi tristi di
quella corte, che qualunchc
altro accidente clic
in qualunche tempo vi
potessi surgere. Come t
Romani si servirono della religione
per ordinare la città,
e per seguire le
loro imprese e fermare
i tumulti.Ei non mi
pare fuor di
proposito ad-durre alcuno esempio
dove i Romani si servirono
della religione per
riordinare la cillà, e per
seguire l’imprese loro;
e quantunque in L.
ne siano molti, nondimeno voglio
essere contento a questi. Avendo creato
il Popolo romano
i Tribuni, di potestà
consolare, e, fuorché uno,
tutti plebei; ed
essendo occorso quello anno
peste c fame, e venuti
certi prodigii ; usorono questa
occasione i Nobili nella nuova
creazione de’ Tribuni, dicendo che
li Dii erano
adirati per aver Roma
male usata la maestà del
suo imperio, e che non
era altro rimedio
a placare gli Dii,
che ridurre la
elezione de’ Tribuni nel luogo
suo: di che
nacque che la Plebe,
sbigottita da questa
religione, creò i Tribuni tutti
nobili. Vedesi ancora nella
espugnazione della città de’
Ycienti, come i capitani
degli eserciti si valevano
della religione per
tenergli disposti ad una
impresa : ehè essendo
il lago Albano, quello
anno, cresciuto mirabilmente, ed essendo
i soldati romani in fastiditi per la
lunga ossidione, e volendo tornarsene a Roma,
trovarono i Romani, come Apollo
e certi altri responsi
dicevano che quell* anno
si espugnerebbe la
città de’ Veienti, che si
derivasse il Ingo
Albano : la qual
cosa fece ai
soldati sopportare i fastidi
della guerra e della
ossidione, presi da questa
speranza di espugnare la
terra ; e stettono contenti
a seguire la impresa, tanto
che Cammillo fatto
Dittatore espugnò detta città,
dopo dieci anni che
l’era stala assediata.
E cosi la religione, usata bene,
giovò e per la
espugnazione di quella città,
e per la restituzione dei Tribuni
nella Nobiltà: chè senza
detto mezzo difficilmente
si sarebbe condotto e l’uno
e l’altro. Non voglio mancare
di addurre a questo proposito un
altro esempio. Erano
nati in Roma assai
tumulti per cagione
di Terentillo Tribuno, volendo
lui promulgare certa legge,
per le cagioni
che di sotto nel
suo luogo si
diranno ; e tra i primi
rimedi che vi
usò la Nobiltà,
fu la religione: della
quale si servirono
i duo modi. Nel
primo fecero vedere
i li- bri Sibillini, e
rispondere, come alla città,
mediante la civile
sedizione, soprastavano
quello anno pericoli
di non perdere la
libertà : la qual
cosa, ancora che fusse
scoperta da’ Tribuni, nondimeno messe tanto
terrore ne* petti
della plebe, che la
raffreddò nel seguirli.
L’altro modo fu, che
avendo uno APPIO ERDONIO, con
una moltitudine di
sbanditi e di servi,
in numero di
quattromila uomini, occupato di
notte il Campidoglio, in tanto
che si poteva
temere, che se gli
Equi ed i Volsci,
perpetui nemici al nome
romano, ne fossero
venuti a Roma, la arebbono
espugnata ; e non cessando i Tribuni per
questo di insistere nella pertinacia
loro di promulgare
la legge Terentilla, dicendo
che quello in- sulto era
fittizio c non vero:
uscì fuori del Senato
uno Publio Rubezio,
cittadino grave e di autorità,
con parole parte amorevoli, parte
minacciatiti, mostrandoli i
pericoli della città,
e la intempestiva domanda
loro; tanto che e’
constrinse la Plebe a giurare
di non si
partire dalla voglia del
Consolo: onde che la
Plebe obediente, per
forza ricuperò il Campidoglio.
Ma essendo in
tale espu-gnazione morto Publio
Valerio consolo, subito fu
rifatto consolo Tito
Quinzio; il quale per
non lasciare riposare
la Plebe, nè darle
spazio a ripensare alla
legge Terentilla, le
comandò s’ uscissi
di Roma per andare
contra a’ Volsci,
dicendo che per quel giuramento aveva
fatto di non abbandonare il
Consolo, era obbligata
a seguirlo: a che i Tribuni
si opponevano, dicendo come
quel giuramento s’era dato
al Consolo morto,
e non a lui. Nondimeno
L. mostra, come la
Plebe per paura
della religione volle più
presto obedire al
Consolo, che credere a’ Tribuni; dicendo
in favore della antica
religione queste parole:
Nondum htiDPj quce nunc
tenet sceculum, negligcntict
Dcùm venerai , nec interpretando sibi quisque
jasjurandum et legcs
aplas■ a La *faciebal. Per
la qual cosa
dubitando i Tribuni di
non perdere allora
tutta la lor degnila,
si accordarono col
Consolo di stare alla
obedienza di quello;
e che per uno anno
non si ragionasse
della legge Terentilla, ed i
Consoli per uno anno
non potessero trarre
fuori la Plebe alla
guerra. E cosi la
religione fece al Senato
vincere quella diffìcultà,
che senza essa mai
non arebbe vinto. I Romani
interpretavano gli auspicii secondo
la necessità , con la
prudenza mostravano di
osservare la religione j
quando forzali non V osservavano ; c se
alcuno (emwariamente la
dispregiava , lo punivano. Non solamente
gli auguri!, come
di sopra si è discorso,
erano il fondamento in
buona parte dell'antica
religione de’ Gentili, ma ancora
erano quelli che erano
cagione del bene
essere della Repubblica romana. Donde
i Romani ne uvevano più
cura che di alcuno altro
ordine di quella; ed
usavangli ne’ comizi
consolari, nel principiare
le imprese, nel trai*
fuori gli eserciti,
nel fare le giornate,
ed in ogni
azione loro importante, o civile o militare;
nè maisarebbono iti
ad una espedizionc,
che non avessino persuaso
ai soldati che
gli Dei promettevano loro
la vittoria. Ed
infra gli altri nuspicii,
avevano negli eserciti certi ordini
di aruspici, che e’
chiamavano Pollarii: e qualunque volta
eglino ordinavano di fare
la giornata col
nemico, volevano che i Pollarii
fucessino i loro auspicii; e beccando
i polli, combattevano con buono
augurio: non beccando, si
astenevano dalla zuffa.
Nondimeno, quando la ragione
mostrava loro una cosa
doversi fare, non
ostante che gli auspicii
fossero avversi, la
facevano in ogni modo;
ma rivoltavanla con termini
e modi tanto attamente,
che non paresse che
la fucessino con
dispregio dello religione : il
quale termine fu
usato da Papirio
consolo in una zuffa
clic fece importantissima coi Sanniti,
dopo la quale
restorno in lutto deboli
ed afflitti. Perchè
sendo Papirio in su’
campi rincontro ai
Sanniti, e parendogli avere nella
zuffa la vittoria certa, e volendo
per questo fare
la giornata, comandò ai Pollarii che
fucessino i loro auspicii; ma non beccando
i polli, e veggendo il principe
de’ Pollarii la gran disposizione
dello esercito di -combattere, e la oppinione
che era nei
capitano cd in tutti
i soldati di vincere, per
non torre occasione
di bene operare a quello esercito,
riferi al Consolo
come gli auspicii procedevano
bene: talché Papirio ordinando
le squadre, ed
essendo da alcuni de' Pollarii
detto a certi soldati, i polli
non aver beccato,
quelli lo dissono a Spurio
Papirio nipote del Consolo;
e quello riferendolo al
Consolo, rispose subito, eh’
egli attendesse a fare l’oflìzto
suo bene, e che
quanto a lui ed allo
esercito gli auspicii
erano rolli; e se il
Pollarlo aveva detto
le bugie, ritornerebbono in
pregiudicio suo. E perchè lo
effetto corrispondesse al pronostico, comandò
ni legati clic
constituìssino i Pollarii nella
primo fronte della zuffa.
Onde nacque che,
andando contra ai nemici,
sendo da un
soldato romano tratto uno
dardo, a caso ammazzò il
principe de’ Pollarii; la
qual cosa udita il
Console, disse come
ogni cosa procedeva bene,
e col favore degli Dii;
perchè lo esercito
con la morte
di quel bugiardo si
era purgato da
ogni colpa, e da ogni
ira che quelli
avessino preso contra di
lui. E cosi, col
sapere bene accomodare t disegni
suoi agli auspicii, prese
partito di azzuffarsi, senza clic
quello esercito si
avvedesse che in alcuna
parte quello avesse
negletti gli ordini della
loro religione. Al contrario
fece APPIO Pillerò in Sicilia, nella prima
guerra punica: che
volendo azzuffarsi con P esercito
cartaginese, fece fare gli
auspicii a’ Pollarii; e referendogli quelli,
come i polli non
beccavano, disse : veggiamo se
volessero bere ; e gli
fece giUare in
mare. Donde che,
azzuffandosi, perdette la giornata
: di che egli ne
fu a Roma condennato,
e Papirio onorato; non tanto
per aver V uno
vinto e P altro perduto, quanto
per aver 1’ uno
fatto contra agli
auspicii prudentemente e
l’altro temerariamente. Nè
ad altro line tendeva
questo modo dello
aruspicare, che di fare i
soldati confidentemente ire alla
zuffa ; dalla quale
confidenza quasi sempre uasce
la vittoria. La qual
cosa fu non
solamente usala dai Romani,
ma dalli esterni
: di che mi
pare di addurre uno
esempio nel seguente capitolo. XV. Come i Sanniti,
per estremo rimedio alle
cose loro afflitte,
ricorsono alla religione. Avendo i Sanniti
avute più rotte
dai Romani, ed essendo
stati per ultimo
distrutti in Toscana,
e morti i loro eserciti e gli loro
capitani ; ed essendo
stali vinti i loro
compagni, come Toscani,
Franciosi ed Umbri ; ncc
suis, nec extcrnis
viribus jam slare
polcrant : t amen bello
non abstinebantj adeo ne
infeliciler quidem defensae libcrtatis
tcedcbalj et vinci > quarti non
tentare victorianij malebant. Onde deliberarono
far ultima prova:
e perché ei sapevano
che a voler vincere era
necessario indurre ostinazione
negli animi de’ soldati, c che
a indurla non v’ era miglior
mezzo che la
religione; pensarono di ripetere
uno antico loro
sacrifìcio, mediante Ovio Faccio,
loro sacerdote. Il quale
ordinarono in questa forma
: che, fatto il
sacrificio solenne, e fatto
intra le vittime
morte e gli altari accesi
giurare lutti i capi
dello esercito, di non
abbandonare mai la
zuffa, citarono i soldati ad
uno ad uno ;
ed intra quelli altari,
nel mezzo di
più centurionicon le
spade nude in
mano, gli face-vano prima giurare
che non ridirebbono cosa che
vedessino o sentissino; dipoi,con
parole esecrabili e versi
pieni di spa-vento, gli facevano
giurare e promettereagli Dii,
d’essere presti dove
gli impe-radori gli
comandassino, c di non
si fug-gire mai dalla
zuffa, e d’
ammazzarequalunque vedessino che
si fuggisse: laqual
cosa non osservata,
tornasse soprail capo
della sua famiglia
e della sustirpe. Ed
essendo sbigottiti alcuni
diloro, non volendo
giurare, subito da’ lorocenturioni erano
morti; talché gli
altriche succedevano poi,
impauriti dalla fe-rocità dello spettacolo,
giurarono tutti.E per fare
questo loro assembramentopiù magnifico,
sendo quarantamila uo-mini, ne
vestirono la metà
di pannibianchi, con
creste e pennacchi sopra
lecelate ; e così ordinati
si posero pressoad
Aquilonia. Contra a costoro
vennePapirio; il quale,
nel confortare i suoisoldati, disse:
Non enim crislas
vulnerafacere, et pietà
alque aurata scuta
tran-sirc ttomanum pileum.
E per debilitarela oppinione
clic avevano i suoi
soldatide’ nemici per i)
giuramento. preso, disseche quello
era per essere
loro a timore,non a fortezza;
perchè in quel
medesi-mo tempo avevano uvere
paura de’ cit-tadini, degli Dii, c
de* nemici. E venutial
conflitto, furono superati
i Sanniti;perchè la virtù
romana, ed il
timoreconccputo per le
passate rotte, superòqualunque ostinazione
ei potessino averepresa
per virtù della
religione e per ilgiuramento
preso. Nondimeno si
vedecome a lóro non
parve potere avere
al-tro rifugio, nè tentare
altro rimedio apoter
pigliare speranza di
ricuperare laperduta virtù.
Il che testifica
appieno,quanta confidcnzia si
possa avere me-diante la
religione bene usata.
E benchéquesta parte piuttosto,
per avventura, sirichiederebbe esser
posta intra le
coseestrinseche ; nondimeno, dependendo
dauno ordine de’
più importanti dellaRepubblica di
Roma, mi è parso
dacommetterlo in questo
luogo, per nondividere
questa materia, cd
averci aritornare più
volte. Un popolo uso a
vìveresotto un principe,
se per qualche
ac-cidente diventa libero, con
difficultàmantiene la libertà.Quanta difficultà
sia ad uno
popolouso a vivere sotto
un principe, preser-vare dipoi la
libertà, se per
alcuno ac-cidente l’acquista, come
l’acquistò Ro-ma dopo la
cacciala de’Tarquini; iodimostrano
infiniti esempi che
si leggononelle memorie
delle antiche istorie.
Etale difficultà è ragionevole; perchè
quelpopolo è non altrimenti
che uno ani-male bruto, il
quale, ancora che
di fe-roce natura e silvestre,
sia stato nu-drito
sempre in carcere
ed in servitù,che
dipoi lasciato a sorte
in una cam-pagna libero, non
essendo uso a pa-scersi, nè sappiendo
le latebre dove
siabbia a rifuggire, diventa
preda delprimo che
cerca rincatenarlo. Questo
me-desimo interviene ad uno
popolo, il qualesetido
uso a vivere sotto
i governi d’al-tri, non snppiendo
ragionare nè delledifese
o offese pubbliche, non
cogno-scendo i principi nè
essendo conosciutoila loro,
ritorna presto sotto
un giogo,il quale
il più delle
volte è più graveche
quello che per
poco innanzi si
avevalevato d’ in su
’1 collo : e trovasi
in que-ste difficullà, ancora
che la materia
nonsia in tutto
corrotta; perchè in
unopopolo dove in
lutto è entrata la
corru-zione, non può, non
che picciol tempo,ma
punto vivere libero,
come di sotto
sidiscorrerà: e però i ragionamenti no-stri sono
di quelli popoli
dove la corru-zione non sia
ampliata assai, c dove
siapiù del buono
che del guasto.
Aggiun-gesi alla soprascritta,
un’ altra difficultò;la
quale è, che lo Stato
che diventa li-bero, si
fa partigiani nemici,
e nonpartigiani amici. Partigiani
nemici glidiventano tutti
coloro che dello
Stalo ti-nodei dìscorsi Tannico si
prevalevano, pascendosi dellericchezze del
principe; a’ quali sendotolta
la facoltà del
valersi, non possovivere
contenti, e sono forzati
ciascunodi tentare di
riassumere la tirannide,per
ritornare nell’ autorità loro.
Non siacquista, come
ho detto, partigiani
ami-ci ; perchè il vivere
libero propone onorie premii, mediami
alcune oneste e de-. terminate cagioni,
e fuori di quelle
nonpremia nè onora
alcuno; e quando unoha
quelli onori e quelli
utili che gli
paremeritare, non confessa
avere obbligo concoloro
che lo rimunerano.
Oltre a que-sto, quella comune
utilità che del
viverelibero si trae,
non è da alcuno,
mentreche ella si
possiede, conosciuta: la
qualeè di potere godere
liberamente le cosesue
senza alcuno sospetto,
non dubitaredell’onore delle
donne, di quel
de’ fi-gliuoli, non temere di
sè; perchè nis-suno
confesserà mai aver
obbligo conuno che
non 1’ offenda.
Però, come disopra
si dice, viene
ad avere lo
Statolibero c che «li
nuovo surge, partigianinon
partigiani amici. E vonemicilendo rimediare
a questi inconvenienti,c a
quegli disordini che le soprascrittediflìculta si
arrecherebbono seco, non
ciè più potente rimedio,
nè più valido,
nèpiù sano, nè
più necessario, che
am-mazzare i figliuoli di Bruto:
i quali,come l’istoria mostra,
non furono in-dotti, insieme con
altri gioveni romani,n congiurare contra
alla patria per
al-tro, se non perchè
non si potevano
va-lere straordinariamente
sotto i Consoli,come sotto
i Re; in modo
che la libertàdi quel
popolo pareva che
fusse diven-tata la loro
servitù. E chi prende
a go-vernare una
moltitudine, o per via„dilibertà
o per via di
principato, e non si assicura
di coloro che a
quell’ ordine nuovo sono nemici,
fa uno Stato
di poca vita. Vero è
ch’io giudico infelici
quelli principi, che per
assicurare lo Stato
loro hanno a tenere vie
straordinarie, avendo per. nemici
la moltitudine: perchè
quello che ha per
nemici i pochi, facilmente e senza molti scandali, si
assicura; ma chi ha per nemico
1’ universale, non si
assicura mai; e quanta
più crudeltà usa, tanto
diventa più debole
il suo principalo.
Talché il maggior
rimedio che si abbia,
è cercare di farsi
il popolo amico. E benché questo
discorso sia disformo dal
soprascritto, parlando qui d’ un principe
e quivi d’ una repubblica
; nondimeno, per non avere
a tornare più in su
questa materia, ne
voglio parlare bre-vemente. Volendo, pertanto,
un principe guadagnarsi un
popolo che gli
fusse nemico, parlando di
quelli principi che sono
diventati della loro
patria tiranni ; dico
eh’ ci debbe esaminare
prima quello che il
popolo desidera, e troverà
sempre ch’ei desidera due
cose; Y una vendicarsi contro a coloro
che sono cagione che
sia servo; l’altra
di riavere la sua
libertà. Al primo
desiderio il principe può
satisfare in tutto,
al secondo in parte.
Quanto al primo,
ce n’ è lo
csempio appunto. Clearco,
tiranno di Eraelea,
scudo in esilio,
occorse che, per controversia venuta
intra il popolo
e gli ottimati di Eraclea,
veggendosi gli ottimati inferiori, si
volsono a favorire Clearco, c congiuratisi seco
lo missono, contea alla
disposizione popolare, in Eraclea,
c toisono la libertà
al popolo. In modo
che, trovandosi Clearco
intra la insolenzia degli
ottimati, i quali non poteva
in alcun modo
nè contentare nè correggere, c la
rabbia de’ popolari,
che non potevano sopportare
lo avere perduta la
libertà, deliberò ad un tratto liberarsi dal
fastidio de’ grondi, c guadagnarsi il popolo.
E presa sopra questo conveniente occasione,
tagliò a pezzi tutti gli
ottimali, con una
estrema satisfazione de’ popolari.
E così egli per
questa via satisfece ad
una delle voglie
che hanno i popoli, cioè
di vendicarsi. Ma quanto
all’altro popolare desiderio
di riavere la sua
libertà, non potendo
il principe satisfargli, debbe
esaminare quali cagioni sono
quelle che gli
fanno desiderare d’essere liberi;
e troverà che una piccola
parte di loro
desidera d’essere libera per
comandare; ma tutti
gli altri, che sono
infiniti, desiderano la
libertà per vivere securi.
Perchè in tutte le
repubbliche, in qualunque
modo ordinate, ai gradi
del comandare non
aggiungono mai quaranta o cinquanta
cittadini: e perchè questo è piccolo
numero, è facil cosa assicurarsene, o con levargli via* o
con far
lor parte di
tanti onori, che secondo
le condizioni loro
essi abbino in buona
parte a contentarsi. Quelli altri,
ai quali basta
vivere securi, si satisfanno
facilmente, facendo ordini e leggi, dove
insieme con la
potenza sua si comprenda
la sicurtà universale.
E quando uno principe
faccia questo, e che
il popolo vegga
che per accidente nessuno ei
non rompa tali
leggi, comincerà in
breve tempo a vivere
sccuro e contento. In
esempio ci è il
regno di Francia, il
quale non vive
securo per altro, che
per essersi quelli
Re obbligati ad infinite
leggi, nelle quali
si comprende la securtn
di tutti i suoi
popoli. E chi ordinò quello
Stato, volle che
quelli Re, dell’ arme e
del danaio facessino
a loro modo, ma
che d’ogni altra
cosa non ne potessino
altrimenti disporre che le
leggi si ordinassino.
Quello principe, adunque, o quella
repubblica che non si
assicura nel principio
dello stato suo, conviene
che si assicuri
nella prima occasione, come fecero
i Romani. Chi lascia passare quella,
si pente tardi
di non aver fatto
quello che doveva
fare. Sendo, pertanto, il
popolo romano ancora
non corrotto quando ci
recuperò la libertà, potette mantenerla,
morti i figliuoli di BRUTO e spenti i Tarquini,
con tutti quelli rimedi
ed ordini che
altra volta si sono
discorsi. Ma se
fussc stato quel popolo
corrotto, nè in
Roma nè altrove si
trovano rimedi validi
a mantenerla; come nel seguente
capitolo mostreremo. Uno popolo
coitoIIo , venuto in
libertà, si può
con difficullà ( grandissima mantenere
libera. lo giudico che
gli era necessario,
o die i Re si
estinguessino in Roma,
o che Roma in brevissimo
tempo divenissi debole, e di
nessuno valore: perchè,
considerando a quanta
corruzione erano venuti quelli
Re, se l'ussero
seguitati così due o tre
successioni, e che quella corruzione che
era in loro,
si fossi cominciata a distendere per
le membra; come le
membra fussino state
corrotte, era impossibile mai
più riformarla. Ma perdendo
il capo quando
il busto era intero,
poterono facilmente ridursi
a vivere liberi cd ordinati.
E debbesi presupporre per cosa
verissima, che una città
corrotta che vive
sotto un principe, ancora che
quel principe con
tutta la sua stirpe
si spenga, inai
non si può ridurre
libera; anzi conviene
che Putì principe spenga
l’ allro; e senza creazione d’un nuovo
signore non si
posa mai, se già
la bontà d’
uno, insieme con la
virtù, non la
tenessi libera ; ma
durerà tanto quella libertà,
quanto durerà la vita
di quello: come
intervenne a Siracusa di Dione
e di Timoleone, la
virtù de’ quali in
diversi tempi, mentre
vissero, tenne libera quella
città; morti clic furono,
si ritornò nell'antica
tirannide. Ma non si
vede il più
forte esempio che quello
di Roma; la
quale cacciati i Tarquini,
potette subito prendere
e mantenere quella libertà: ma
morto Cesare, morto Caligula,
morto Nerone, spenta tutta
la stirpe cesarea,
non potette inai, non
solamente mantenere, ma
pure dare principio alla
libertà. Nè tanta
diversità di evento in
una medesima città
nacqueda altro, se
non da non
essere ne’ tempi de’Tarquini il
popolo romano ancora corrotto; ed
in questi ultimi
tempi essere corrottissimo. Perchè
allora, a mantenerlo saldo e disposto
a fuggire i Re, bastò solo
furio giurare che
non eon sentirebbe mai
che a Roma alcuno
regnasse; e negli altri tempi,
non bastò T autorità e severità
di BRUTO, con
tutte le legioni orientali,
a tenerlo disposto a volere
mantenersi quella libertà
che esso, a similitudine del
primo BRUTO, gli aveva
rendutu. Il che
nacque da quella corruzione che
le parli mariane
avevano messa nel popolo;
delle quali essendo capo
Cesare potette accecare
quella moltitudine, eh* ella non
conobbe il giogo che
da sè medesima si
metteva in sul collo.
E benché questo esempio
di Roma sia da
preporre a qualunque altro
esempio, nondimeno voglio a questo
proposito addurre innanzi popoli
conosciuti ne* nostri tempi.
Pertanto dico, che
nessuno accidente, benché grave
e violento, potrebbe redurre mai
Milano o Napoli libere,
per essere quelle membra
tutte corrotte. H che
si vide dopo
la morte di VISCONTI; che volendosi
ridurre Milano alia libertà,
non potette e non
seppe mantenerla. Però,
fu felicità grande
quella di Koma, che
questi Re diventassero corrotti presto,
acciò ne fussino
cacciati, cd innanzi che
la loro corruzione
fosse passata nelle viscere
di quella città:
la quale incorruzione fu
cagione che gl’ infiniti tumulti che
furono in Roma,
avendo gli uomini il
fine buono, non
nocerouo, anzi giovarono alla
Repubblica. E si può fare
questa conclusione, che
dove la materia non è
corrotta, i tumulti cd altri
scandali non nuòcono:
dove la è corrotta,
le leggi bene
ordinate non giovano, se
già le non
son mosse da uno
che con
una estrema forza
le facci osservare, tanto che
la materia diventi buona. Il
che non so
se sie mai
intervenuto, o se fusse possibile
ch’egli intervenisse: perchè c’ si vede,
come poco di sopra
dissi, che una
città venuta in declinazione per
corruzione di materia, se
mai occorre che
la si levi,
occorre per la virtù
d’ uno uomo eh’ è
vivo allora, non per
la virtù dello
universale clic sostengo gli
ordini buoni ; c subito che quei
tale è morto, la
si ritorna nei suo
pristino abito; come
intervenne a Tebe, la
quale per la
virtù di Epaminonda, mentre lui
visse, potette tenere forma
di repubblica e di
imperio ; ma morto quello,
la si ritornò
ne’ primi disordini suoi. La
cagione è, che
non può essere un
uomo di tanta
vita, che ’l tempo
basti ad avvezzare
bene una città lungo
tempo male avvezza.
E se unod’ una
lunghissima vita, o due
successioni virtuose
conlinove non la
dispongono; come una manca
di loro, come di
sopra è detto, subito
rovina, se già con
molti pericoli c molto
sangue c’ non la
facesse rinascere. Perchè
tale corruzione e poca attitudine
olla vita libera, nasce
da una inequulità
che è in quella città:
e volendola ridurre equale,
è necessario usare
grandissimi estraordinari; i
quali pochi sanno
o vogliono usare, come in
altro luogo più
particolarmente si dirà. XVIII. — In
che modo «ci.c;
mi corrotte si potesse
mantenere tino stalo liòerOj
essendovi; o non essendovi , ordinartelo. Io credo
clic non sia
fuori di proposito, nè
disformo dal soprascritto
discorso, considerare se in
una città corrotta si
può mantenere lo
stato libero, scndovi ; o quando
e’ non vi
fosse, se vi si
può ordinare. Sopra
la qual cosa dico,
come gli è mollo
difficile fare o l’uno
o l' altro: e benché sia
quasi impossibile darne regola,
perchè sarebbe necessario procedere
secondo i gradi della corruzione;
nondimnneo, essendo bene ragionare
d’ogni cosa, non
voglio lasciare questa indietro.
E presuppongo una città corrottissima, donde
verrò ad accrescere più
tale difficoltà; perché
non si trovano nè
leggi nè ordini
che bastino a frenare una
universale corruzione.
Perchè, così come
gli buoni costumf,
per mantenersi, hanno
bisogno delle leggi; cosi
le leggi, per
osservarsi, hanno bisogno de’
buoni costumi. Oltre di
questo, gli ordini
e le leggi fatte
in una repubblica nel
nascimento suo, quando erano
gli uomini buoni,
non sono dipoi più a
proposito, divenuti che
sono tristi. E se le
leggi secondo gli
accidenti in una città
variano, non variano
mai, 0 rade volte, gli
ordini suoi: il
che fa che le
nuove leggi non
bastano, perchè gli ordini,
che stanno saldi,
le corrompono. E per dare
ad intendere meglio questa
parte, dico come
in Roma era l’ordine
del governo, o vero
dello Stato; c le leggi
dipoi, che con i
magistrati frenavano i cittadini. L’ordine
dello Stato era l’ autorità
del Popolo, del
Senato, dei Tribuni, dei
Consoli, il modo di
chiedere e del creare
i magistrati, ed il modo
di fare le leggi. Questi
ordini poco o nulla variarono
nelii accidenti. Variarono le
leggi che frenavano 1 cittadini; come
fu la legge
degli adulferi!, la
suntuaria, quella della
ambizione, e molte altre ; secondo
clic di mano in
mano i cittadini diventavano corrotti. Ma
lenendo fermi gli
ordini dello Stato, che
nella corruzione non erano
più buoni, quelle
leggi che si
rinnovavano, non bastavano a mantenere gli uomini
buoni; ma sarebbonn
bene giovate, se con
la innovazione delle
leggi si fussero rimutati
gli ordini. G che
sia il vero che
tali ordini nella-
città corrotta non fossero
buoni, e’ si vede espresso
in due capi
principali. Quanto al creare
i magistrati e le leggi,
non dava il Popolo
romano il consolato,
e gli altri primi gradi
della città, se
non a quelli che
lo dimandavano. Questo
ordine fu nel principio
buono, perchè e’ non gli
domandavano se non
quelli cittadini che se
ne giudicavano degni, ed
averne la repulsa
era ignominioso; si che,
per esserne giudicati
degni, ciascuno operava bene.
Diventò questo modo, poi,
nella città corrotta
perniziosissiiuo ; perchè non
quelli che avevano più
virtù, ma quelli
che avevano più potenza,
domandavano i magistrali; e gl’ impotenti, comecché
virtuosi, se ne astenevano
di domandargli per
paura. Vcnnesi a questo inconveniente, non ad
un tratto, ma
per i mezzi, come
si cade in tutti
gli altri iuconveiiienti : perchè avendo i Romani
domata l’Affrica e l’Asia, e ridotta quasi
tutta la Grecia
a sua ohidienza, erano
divenuti sicuri della
libertà loro, nè pareva
loro avere più nimici
che dovessero fare
loro paura. Questa securtà
e questa debolezza de’
nemici fece che il
Popolo romano, nel
dare il consolato, non
riguardava più la
virtù, ma la grazia
; tirando a quel grado quelli
che meglio sapevano
iutrattenere gli uomini, non
quelli che sapevano
meglio vincere i nemici: di
poi, da quelli che
avevano più grazia,
discesero a dargli a quelli che
avevano più potenza;talché i buoni,
per difetto di tale ordine, ne
rimasero al tutto
esclusi. Poteva uno Tribuno,
e qualunque altro cittadino, proporre al
Popolo una legge;
sopra la quale ogni
cittadino poteva parlare, o in
favore o incontro, innanzi
che la si deliberasse.
Era questo ordine
buono, quando i cittadini erano
buoni ; perche sempre fu
bene, che ciascuno
clic intende uno bene
per il pubblico,
lo possa proporre; ed è
bene che
ciascuno sopra quello possa
dire l’oppinione sua, acciocché il
Popolo, inteso ciascuno, possa poi
eleggere il meglio.
Ma diventati i cittadini cattivi,
diventò tale ordine pessimo, perchè
solo i potenti proponevano leggi, non
per la comune
libertà, ina perla potenza
loro;ccontra a quelle non poteva
parlare alcuno per paura
di quelli : talché
il Popolo veniva o ingannato o sforzato
a deliberare la sua rovina.
Ero necessario, pertanto,
a volere che Roma
nella corruzione si mantenesse
libera, che, cosi
come aveva nel processo
del vivere suo
fatte nuove leggi, l’avesse
fatti nuovi ordini:
per-«thè altri ordini
e modi di vivere
si debbe ordinare in
un soggetto cattivo, che
in un buono
; nè può essere
la forma simile in
una materia al
tutto contraria. Ma perchè
questi ordini, o e’ si hanno
a rinnovare tutti ad
un tratto, scoperti che
sono non esser
più buoni, o a poco a poco,
in prima che
si conoschiuo per
ciascuno ; dico che 1* una e l’altra
di queste due
cose è quasi impossibile. Perchè, a volergli
rinnovare a poco a poco, conviene
che ne sia
cagione uno prudente, che
veggio questo inconveniente assai
discosto, e quando e’ nasce. Di
questi tali è facilissima
cosa che in una
città non ne
surga mai nessuno : e quando pure
ve ne surgesse, non
potrebbe persuadere mai
ad altrui quello che
egli proprio intendesse;
perchè gli uomini usi a
vivere in un
modo, non lo vogliono
variare; e tanto più non
veggiendo il male
in viso, ma
avendo ad essere loro
mostro per con
letture. Quando ad innovare
questi ordini ad un
(ratio, quando ciascuno
conosce clic non sono
buoni, dico che
questa inutilità, clic facilmente
si conosce, è diffìcile
a ricorreggerla: perchè a fare
questo, non basta usare
termini ordinari, essendo
i modi ordinari cattivi;
ma è necessario venire allo
istraordinario, come è alla violenza ed
all’ armi, e diventare innanzi
ad ogni cosa
principe di quella città,
e poterne disporre a suo
modo. E perchè il
riordinare una città
al vivere politico presuppone
uno uomo buono, ed
il diventare per
violenza principe di una
repubblica presuppone un
uomo cattivo; per questo
si troverà che
radis- sime volte accaggia, che
uno uomo buono voglia
diventare principe per
vie cattive, ancoraché il
fine suo fusse
buono; e che uno reo
divenuto principe, voglia
operare bene, e che gli
caggia mai nell’animo usare quella
autorità bene, che
egli ha male acquistata.
Da tutte le
soprascritte cose nasce
la diffìcultà, o impossibilità, che è nelle
città corrotte, a mantenervi
una repubblica, o a crearvela
di nuovo. E quando
pure la vi si
avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario ridurla
più verso lo
stato regio, che verso
lo stato popolare;
acciocché quelli uomini i quali
dalle leggi, per la
loro insolenzia, non
possono essere corretti, lusserò
da una podestà
quasi regia in qualche
modo frenati. Ed a
volergli fare per altra
via diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa,
o al tutto impossibile;
come io dissi
di sopra che fece
Cleomene; il quale
se, per essere solo,
ammazzò gli Efori;
e se ROMOLO, per le
medesime cagioni, AMMAZZO IL FRATELLO
E TITO TAZIO SABINO, e dipoi usarono
bene quella loro
autorità ; nondimeno si debbe
avvertire che V uno
e T altro di costoro
non avevano il
soggetto di quella corruzione
macchiato della quale in
questo capitolo ragioniamo, e però poterono
volere e, volendo, colorire il
disegno loro. XIX. Dopo uno
eccellente principio si può
mantenere un principe debole ; ma dopo
un debole, non si
può con
un (diro debole
mantenere alcun regno.
Considerato la virtù
ed il modo
del procedere di ROMOLO, NUMA e
TULIO, I PRIMI TRE RE ROMANI, si vede
come Roma sortì una
FORTUNA GRANDISSIMA, AVENDO IL PRIMO RE FEROCISSIMO E BELLICOSO, 1’altro quieto
e religioso, il terzo simile
di ferocia a Romolo,
e più amatore della guerra
che della pace.
Perchè in Roma era
necessario che surgesse ne’
primi principii suoi
un ordinatore «lei vivere
civile, ina era
bene poi necessario che
gli altri Re
ripigliassero LA VIRTU DI ROMOLO;
ALTRIMENTI QUELLA CITTA SAREBBE DIVENTATA EFFEMINATA, e preda de’
suoi vicini. Donde
si può notare, che
uno successore non
di tanta virtù quanto
il primo, può
mantenere uno Stato per
la virtù di
colui che PImretto
innanzi, e si può
godere te sue fatiche:
ma s’ egli avviene
o che sia di lunga
vita, o che dopo
lui non surga un
altro che ripigli
la virtù di
quel primo, è necessitato quel
regno a rovinare. Cosi, per
il contrario, se
due, 1* uno
dopo P altro, sono di
gran virtù, si
vede spess che fanno
cose grandissime, e che
ne vanno con la
fama in fino
al cielo. Davit,
senza dubbio, fu
un uomo per
arme, per dottrina, per
giudizio eccellentissimo; e
fu tanta
la sua virtù,
che, avendo vinti ed
abbattuti tutti i suoi
vicini, lasciò a Salomone suo
figliuolo un regno pacifico: quale
egli si potette
con le arti «Iella
pace, e non della
guerra, conservare; e si potette
godere felicemente la virtù
di suo padre.
Ma non potette
già lasciarlo a Roboan suo
figliuolo; il quale non
essendo per virtù
simile allo avolo, nè
per fortuna simile
al padre, rimase con
fatica erede della
sesta parte del rt'guo.
Baisit, sultan de’ Turchi,
ancora die fusse più
amatore della pace
che della guerra, potette
godersi le fatiche di
Maumelto suo padre;
il quale avendo, come
Davit, battuti i suoi
vicini, gli lasciò un
regno fermo, e da
poterlo con F arte della
pace facilmente conservare. Ma se
il figliuolo suo
Salì, presente signore, fusse stalo
simile al padre,
c non all’avolo, quel regno
rovinava : ma e’ si vede
costui essere per
superare la gloria dell'avolo. Dico
pertanto con questi esempi, clic
dopo uno eccellente
principe si può mantenere
un principe debole; ma
dopo un debole
non si può
con un altro debole
mantenere alcun regno,
se già e’ non
fusse come quello
di Francia, che gli
ordini suoi antichi
lo mantenessero: e quelli principi
sono deboli, che non
stanno in su
la guerra. Couchiudo pertanto con
questo discorso, clic
LA VIRTU DI ROMOLO E TANTA che
la potette dare spazio
a Numa Pompilio di potere
molti anni con 1’ arte
della pace reggere Roma :
ma dopo
lui successe Tulio, il
quale pei* la
sua ferocia riprese la
reputazione di ROMOLO:
dopo il quale venne
Anco, in modo
dalla natura dotato, che
poteva usare la
pace, e sopportare la guerra.
E prima si dirizzò a volere tenere
la via della
pace: ma subito conobbe
come i vicini, giudicandolo effeminato, lo
stimavano poco: talmente che
pensò che, a voler
mantenere Roma, bisognava volgersi
alla guerra, e somigliare Romolo,
e non Numa. Da questo
piglino esempio tutti
i principi che tengono stato,
che chi somiglierà Numa, lo
terrà o non terrà,
secondo ehe i tempi o la
fortuna gli girerà sotto:
ma chi somiglierà
Romolo, e lui come esso
armato di prudenza
e d’armi, lo terrà in
ogni modo, se
da una ostinata ed
eccessiva forza non
gli è tolto. K certamente si
può stimare, che se
Roma sortiva per
terzo suo Re
un uomo che non
sapesse con le
armi renderle la sua
reputazione, non arebbe
mai poi, o con grandissima
dilTìcultà, potuto pigliare
piede, nè fare
quelli effetti ch’ella fece.
E così, in mentre
eh’ ella visse sotto i Re,
la portò questi
pericoli di rovinare sotto un
Re o debole o tristo.
Due continove successioni
di principi virtuosi fanno
grandi effetti: c come le
repubbliche bene ordinate hanno di
necessità virtuose successioni: c però gli
acquisti ctl auQumcnli loro sono
grandi. Poi che Roma
ebbe cacciati i Re,
mancò di quelli pericoli
i quali di sopradetti
che la portava,
succedendo in lei uno
Re o debole o tristo.
Perchè la somma dello
imperio si ridusse
nc’ Consoli, i quali non
per eredità o per
inganni o per ambizione violenta,
ma per suffragi liberi
venivano a quello imperio, ed
erano sempre uomini
eccellentissimi: de’quali
godendosi Roma la
virtù e la fortuna di
tempo in tempo,
potette venire a quella sua
ultima grandezza in altrettanti unni,
che la era
stata sotto i Re.
Perchè si vede,
come due coutinove successioni di
principi virtuosi sono
suffìzienti ad acquistare
il mondo: come
furono Filippo di Macedonia
ed Alessandro Magno, il
clic tanto più
debbe fare una repubblica, avendo
il modo dello
eleggere non solamente due
successioni, ma infiniti principi
virtuosissimi, che sono l’uno
dell'altro successori: la
quale virtuosa successione fia
sempre in ogni
repubblica bene ordinata.
Quanto biasimo meriti
quel principe e quella repubblica
che manca d'armi proprie. Debbono i presenti
principi c le moderne repubbliche, le
quali circa le
difese ed offese mancano
di soldati propri, vergognarsi di
loro medesime j e pensare,
con lo esempio
di Tulio, tale difetto
essere non per
mancamento d’uomini alti alla
milizia, ma per
colpa loro, che non
hanno saputo fare i
loro uomini militari. Perchè
Tulio, scudo stata Roma
in pace quaranta
anni, non trovò, succedendo lui
nel regno, uomo
che fussc stato mai
alla guerra : nondimeno,
disegnando lui fare guerra,
non pensò di valersi
nè di Sanniti,
nè di Toscani,
nè di altri che
fussero consueti stare
nell'armi; ma deliberò,
come uomo prudentissimo, di valersi
de’ suoi. E fu tanta la
sua virtù, che
in un tratto
il suo governo gli
potè fare soldati
eccellentissimi. Ed è più vero
che alcuna altra
verità, che se dove
sono uomini non
sono soldati, nasce per
difetto del principe, e non per
altro difetto o di
sito o di natura : di
che ce n’*è
uno esempio freschissimo. Perchè ognuno
sa, come ne’ prossimi tempi
il re d’Inghilterra
assaltò il regno di
Francia, nè prese
altri soldati clic i popoli
suoi ; e per essere stato
quel regno più
clic trenta anni senza
far guerra, non
aveva nè soldato nè
capitano che avesse
mai militato: nondimeno, ei
non dubitò con
quelli assaltare uno regno
pieno di capitani
e di buoni eserciti,
i quali erano stati continovamcnte sotto
l'armi nelle guerre d’Italia. Tutto
nacque da essere
quel re prudente uomo,
e quel regno bene
ordinato; il quale nel
tempo della pace
non intermette gli ordini
della guerra. Pelopida
ed Epaminonda tebani,
poiché gli ebbero libera
Tebe, e trattola dalla
servitù dello imperio spartano;
trovandosi in una città
usa a servire, ed
in mezzo di popoli
effeminati ; non dubitarono, tanta era
la virtù loro !
di ridurgli sotto Parrai,
e con quelli andare
a trovare alla campagna gli
eserciti spartani, e vincergli
: e chi he scrive,
dice come questi due
in breve tempo
mostrarono, che non solamente
in bacedemonia nascevano gli
uomini di guerra,
ma in ogni altra
parte dove nascessino
uomini, pur che si
trovasse chi li
sapesse indirizzare alla milizia,
come si vede
che Tulio seppe indirizzare
i Romani. E VIRGILIO non potrebbe
meglio esprimere questa oppinione,
nè con altre
parole mostrare di aderirsi
a quella, dove dice: u ...
. Desidesque movebit Tullus in
arma viros. Quello che
sia da notare nel
caso dei tre
Orazi romani , e dei Tulio, re
di Roma, e Mezio,
re di Alba, convennero che
quel popolo fusse
signore dell’ altro, di cui i
soprascritti tre uomini vincessero.
Furono MORTI TUTTI I CURIAZI
albani, restò vivo
uno degli Orazi romani;
e per questo, restò
Mezio, re albaiio, con
il suo popolo,
suggello ai Romani. E tornando
quello ORAZIO VINCITORI IN ROMA e scontrando una sua
sorella, che era
ad uno de’ tre
Curiazi morti maritata, clic
PIANGEVA LA MORTE DEL MARITO, L’AMMAZZO. Donde quello Orazio
per questo fallo
fu messo' in giudizio,
e dopo molte dispute
fu libero, più
per li prìeglii
del padre, clic per
li suoi meriti.
Dove sono da
notare Ire cose: una,
che mai non
si debbe con parte
delle sue forze
arrischiare tutta la sua
fortuna ; l’ altra, che
non mai in una
città bene ordinata
li devmeriti con
li ineriti si
ricompensano; la terza, che
non mai sono i
partiti savi, dove si
debba o possa dubitare
della inosservanza. Perchè, gl’
importa tanto a una città
lo essere serva,
che mai non si
doveva credere che
alcuno di quelli Re
o di quelli Popoli
stessero contenti che tre
loro cittadini gli
avessino sotto* messi ; come
si vide che
volle fare Mezio:
il quale, benché
subito dopo la
vittoria de’ Romani si confessassi
vinto, e promettessi la
obedienza a Tulio; nondimeno nella prima
espedizione che egli ebbono
a convenire contra i Veienli,
si vide come ci
cercò d’ ingannarlo ; come quello
che tardi s’era
avveduto della temerità del
partito preso da
lui. E perchè di questo
terzo notabile se
n’’è pnr luto assai,
parleremo solo degli
altri due ne’ seguenti duoi
capitoli. Che non si
debbe mettere a pericolo tutta la
fortuna e non tutte le
forze ; c per questo j spesso il guardare
i passi è dannoso. Non fu
mai giudicato partito
savio mettere a pericolo tutta
la fortuna tua, e non
tutte le forze.
Questo si fu
in più modi. L’uno
è facendo come Tulio
e Mezio, quando e’
commissouo la fortuna tutta
della patria loro,
e la virtù di tanti
uomini quanti avea
l’uno e l’altro di costoro
negli eserciti suoi,
alla virtù e fortuna
di tre de’loro
cittadini, clic veniva ad
essere una minima
parte delle forze di
ciascuno di loro.
Nè si avvidono,
come per questo partito
tutta la fatica
che avevano durata i loro
antecessori nell’ ordinare la
repubblica, per farla
vivere lungamente libera e per
fare i suoi cittadini difensori della
loro libertà, era quasi
che suta vana,
stando nella potenza di
sì pochi a perderla.
La qual cosa da
quelli Re non
potè esser peggio
considerata. Cadesi ancora in
questo inconveniente quasi sempre
per coloro, che, venendo
il nemico, disegnano
di tenere i luoghi diffìcili,
e guardare i passi: perchè quasi
sempre questa deliberazione sarà dannosa,
se giù in
quello luogo diffìcile comodamente
tu non potessi
tenere tutte le forze
tue. In questo
casotuie partito è da
prendere; ma scndo
il luogo aspro, e non
vi potendo tenere tutte
le forze tue,
il partito è dannoso. Questo mi
fa giudicare cosi
lo esempio di coloro
che, essendo assaltati
da un nemico potente,
ed essendo il
paese loro circondato da’
monti e luoghi alpestri, noti hanno
mai tentato di
combattere il nemico in
su’ passi e in
su’ monti, ma sono
iti ad incontrarlo
di là da
essi: o, quando non
hanno voluto far
questo, lo hanno aspettato
dentro a essi monti,
in luoghi benigni e non
alpestri. E la cugioite
ne è suta la
preallegata : perchè, non si
polendo condurre alla
guardia de’ luoghi alpestri molli
uomini, sì per non
vi potere vivere
lungo tempo, si per
essere i luoghi stretti
e capaci di pochi; non è
possibile sostenere un
nemico clic venga grosso
ad urtarti: ed al
nemico è facile il
venire grosso, perchè la
intenzione sua è passare,
e non fermarsi; ed a chi
l’ aspetta è impossibile
aspettarlo grosso, avendo
ad alloggiarsi per più
tempo, non sapendo
quando il nemico voglia
passare in luoghi,
com’ io ho detto,
stretti e sterili. Perdendo, adunque, quel
passo che tu
ti avevi presupposto tenere,
e nel quale i tuoi popoli
e lo esercito tuo
confidava, entra il più
delle volte ne’ popoli
e nel residuo delle genti
tue tanto terrore,
che senza potere esperimentare
la virtù di
esse, rimani perdente; c così
vieni ad avere perduta
tutta la tua
fortuna con parte delle
tue forze. Ciascuno
sa con quanta diftìcultà Annibaie
passasse r Alpi che dividono
la Lombardia dalia
Francia, e con quanta
difficoltà passasse quelle
che dividono la Lombardia
dalla Toscana : nondimeno
i Romani l’aspettarono prima in
sul Tesino, e dipoi
uel piano d’Arezzo;
e vollon più tosto,
che il loro
esercito fusse consumato dal
nemico nelli luoghi dove
poteva vincere, che
condurlo su per l’Alpi
ad esser destrutto dalla malignità
del sito. E chi
leggerà sensatamente tutte le
istorie, troverà pochissimi virtuosi capitani
over tentato di tenere
simili passi, e per
le ragioni dette, e perchè
e' non si
possono chiudere tutti; sendo
i monti come campagne, ed
avendo non solamente
le vie consuete e frequentate, ma
molte altre, le quali
se non sono
note a’ forestieri, sono note
a’ paesani ; con l’aiuto
de’quali sempre sarai condotto
in qualunque luogo, contra
alla voglia di
citi ti si
oppone. Di che se
ne può addurre
uno freschissimo esempio, nel T
51 5 . Quando Francesco re di
Francia disegnava passare
in Italia per
lu recuperatone dello Stalo
di Lombardia, il
maggiore fondamento clic facevano
coloro eli’ erano alla sua
impresa contrari, era
che gli Svizzeri lo
terrebbono a’ passi in su’
monti. E, come per
esperienza poi si
vide, quel loro fondamento restò
vano: perché, lasciato quel
re da parte
due o tre luoghi
guardati da loro, se
ne venne per
un’ altra via incognita
; e fu prima in
Italia, e loro appresso, che
lo avessino presentilo.
Talché loro isbigottiti si
ritirarono in Milano,
e tutti i popoli di
Lombardia si aderiron alle
genti franciose; sendo
mancali di quella oppinione
avevano, che i Franciosi dovessino essere
tenuti su’ monti. Le repubbliche
bene ordinate costituiscono premii
c pene aJ loro cittadini;
ne compensano mai r uno
con l* altro. Erano
stati I MERITI D’ORAZIO GRANDISSIMI, avendo con
la sua virtù
VINTI I CURIAZIl. Era stato il
fallo suo atroce, avendo MORTO LA SORELLA: nondimeno dispiacque tanto tale
omicidio ai Romani, che
io condussero a disputare
della vita, non ostante
che gli meriti
suoi fossero tanto grandi
c sì freschi. La
qual cosa a chi superficialmente la
considerasse, parrebbe uno esempio
d’ ingratitudine popolare:
nondimeno chi la
esaminerà meglio, e con migliore
considerazione ricercherà
quali debbono essere
gli ordini delle repubbliche,
biasimerà quel popolo più
tosto per averlo
assoluto, che per averlo
voluto condeunare. E la ragione
è questa, che nessuna
repubblica bene ordinata, non
mai cancellò i demeriti
con gli meriti
de’ suoi cittadini; ma avendo
ordinati i preraii ad una
buona opera e le
pene ad una
cattiva, ed avendo
premiato uno per
aver bene operato, se
quel medesimo opera dipoi
male, lo gastica,
senza avere riguardo alcuno alle
sue buone opere.
E quando questi ordini
sono bene osservati,
una città vive
libera molto tempo; altrimenti, sempre
rovinerà presto. Perchè, se
ad un cittadino
che abbia fatto qualche
egregia opera per
la città, si aggiugne,
oltre alla riputazione
che quella cosa gli
arreca, una audacia
e confidenza di potere,
senza temer pena, fare
qualche opera non
buona ; diventerà in brievc
tempo tanto insolente,
che si risolverà ogni
civilità. È ben necessario, volendo clic
sia temuta la
pena per le triste
opere, osservare i premii per
le buone; come
si vede che
fece Roma. C benché una
repubblica sia povera, e possa dare
poco, debbe di
quel poco non astenersi;
perchè sempre ogni piccolo
dono, dato ad
alcuno per ricompenso di
bene ancora che
grande, sarà stimato, da
chi lo riceve,
onorevole e grandissimo. È notissima
la istoria di ORAZIO CODE e quella di
MUZIO SCEVOLA: come V uno sostenne
i nemici sopra un ponte,
tanto che si
tagliasse: l’altro si arse
la mano, avendo
errato, volendo ammazzare Porscna,
re delli Toscani.
A costoro per queste
due opere tanto
egregie, fu donato dal
pubblico due staiora di
terra per ciascuno.
È nota ancora la istoria
di MANLIO Capitolino.
A costui, per aver salvato
il Campidoglio da' Galli che
vi erano a campo,
fu dato da
quelli che insieme eon
lui vi erano
assediati dentro, una piccola
misura di farina,
il quale premio, secondo
la fortuna che
allora correva in Roma,
fu grande; e di qualità
che, mosso poi
Manlio, o da invidia o dalla sua
cattiva natura, a far nascere
sedizione in Roma,
e cercando guadagnarsi il popolo,
fu, senza rispetto alcuno de’ suoi
meriti, gittato precipite da
quello Campidoglio ch’egli
prima, cou tanta sua
gloria, aveva salvo. Chi
vuole riformare uno stalo
antico in una
città libera, ritenga almeno l’ombra
desmodi antichi. Colui che
desidera o clic vuole
riformare uno stato d’una
città, a volere elle sia
accetto, e poterlo con
satisfazione di ciascuno mantenere,
è necessitato a ritenere
l’ombra almanco de’ modi
antichi, acciò che a’ popoli
non paia avere mutato
ordine, ancora che
in fatto gli ordini
nuovi fussero al
tutto alieni dai passati;
perchè lo universale
degli uomini si pasce
così di quel
che pare, come di
quello che è;
anzi molte volte
si muovono più per
le cose che
paiono, che per quelle
clic sono. Per
questa cagione i Romani, conoscendo
nel principio del loro
vivere libero questa
necessità, avendo in cambio
d’ un Re creali duoi
Consoli, non vollono
ch’egli avessino più clic
dodici littori, per
non passare il
numero di quelli
che ministravano ai Re.
Olirà di questo,
facendosi in Roma uno
sacrifizio anniversario, il quale
non poteva esser
fatto se non dalla
persona del Re; e
volendo i Romani che quel
popolo non avesse
a desiderare per la assenzia
degli Re alcuna cosa
dell’ antiche j, creorono
un capo di detto
sacrifìcio, il quale
loro chiamorono Re
Sacrifìcolo, e lo sottomessono
al sommo Sacerdote : talmentechè
quel popolo per questa
via venne a satisfarsi di quel
sacrifizio, e non avere
mai cagione, per mancamento
di esso, di
desiderare la tornata dei
Re. E questo si debbe
osservare da tutti
coloro che vogliono scancellare uno
antico vivere in una
città, e ridurla ad
uno vivere nuovo c libero. Perchè
alterando le cose
nuove le menti degli
uomini, ti debbi
ingegnare che quelle alterazioni
ritenghino più del-r antico
sia possibile; e se i
magistrati variano e di numero
e d'autorità e di tempo dagli
antichi, che almeno
ritengliino il nome.
E questo, come ho
detto, debbe osservare colui
che vuole ordinare
una potenza assoluta,
o per via di repubblica
o di regno: ma
quello che vuol fare
una potestà assoluta,
quale dagli autori è chiamala
tirannide, debbe rinnovare ogni cosa,
come nel seguente
capitolo si dirò. Un principe
nuovo , in i ima città o provincia
presa da lui , 1 debbe
fare ogni cosa
nuova. Qualunque diventa principe
o d’ unacittà o d’uno
Stato, e tanto più
quando i fondamenti suoi lussino
deboli, c non si volga
o per via di
regno o di repubblica alla vita
civile; il mcgliore
rimedio che egli abbia
a tenere quel principato, è, sendo
egli nuovo principe, fare ogni
cosa di nuovo
in quello Stalo: come
è, nelle città
fare nuovi governi con
nuovi nomi, con
nuove autorità, con nuovi
uomini; fare i poveri
ricchi, fece Davil quando
ei diventò Re:
qui csuricnles implevil bonis,
et divites dimirti
inanes ; edificare oltra
di questo nuove città,
disfare delie fatte,
cambiare gli abitatori da
un luogo ad
un altro; ed in
somma, non lasciare
cosa niuna intatta in
quella provincia, e che
non vi sia nè
grado, nè ordine,
nè stato, uè ricchezza,
che chi la
tiene non la
riconosca da te; c pigliare
per sua mira Filippo
di Macedonia, padre
di Alessandro, il quale
con questi modi,
di piccolo Re, diventò
principe di Grecia.
E chi scrive di
lui, dice che
tramutava gl uomini di
provincia in provincia,
come i mandriani tramutano le
mandrie loro. Sono questi
modi crudelissimi, e nemici d’ogni vivere,
non solamente cristiano, ma
umano; e debbegli qualunche
uomo fuggire, c volere piuttosto
vivere privato, che Re con tanta
rovina degli uomini : nondimeno, colui
che non vuole pigliare quella
prima via del
bene, quando si voglia
mantenere, convien die entri
in questo male.
>la gli uomini pigliano certe
vie del mezzo,
clic sono dannosissime; perchè
non sanno essere nè
tutti buoni nè
tutti cattivi: come
ne seguente capitolo, per
esempio, si mostrerà. Sanno rarissime
volle gli uomini essere
al lutto tristi
o al fulto buoni. Papa Giulio
secondo, andando na Bologna
per cacciare di
quello Stato la casa
de’Bentivogli, la quale
aveva tenuto il principato
di quella città
cento anni, voleva ancora
trarre Giovampagoto Buglioni
di Perugia, della
quale era tiranno, come
quello che aveva
congiurato contro a tutti gli
tiranni che occupavano le
terre della Chiesa.
E pervenuto presso a Perugia con
questo animo e deliberazione nota a
ciascuno, non aspettò di
entrare in quella
città con lo esercito
suo che lo
guardasse, mn % entrò
disarmato, non ostante
vi fusse dentro Giovampagolo
con genti assai, quali
per difesa di sè aveva
ragunate. Sicché, portato da
quel furore con il
quale governava tutte
le cose, con la
semplice sua guardia
si rimesse nelle mani
del nemico ; il
quale dipoi ne
menò seco, lasciando un
governadore in quella citta,
che rendesse ragione
per la Chiesa. Fu
notala dagli uomini
prudenti che col papa
erano, la temerità
del papa e la
viltà di Giovampagolo
; uè potevano stimare donde
si venisse che
quello noti avesse, con
sua perpetua fama,
oppresso ad un tratto
il nemico suo, e
sè arricchito di preda,
sendo col papa
tutti li cardinali, con
tutte le lor
delizie. Nè si poteva
credere si fusse
astenuto o per bontà, o per
conscienza che lo
ritenesse; perchè in un
petto d’ un uomo
facinoroso, che si teneva
la sorella, che
aveva morti i cugini cd i
nepoti per regnare,
non poteva scendere alcuno
pietoso rispetto: ina si
conchiuse, che gli
uomini no sanno essere
onorevolmente tristi, o perfettamente buoni; e come
una tristizia ha in
sè grandezza, o è in
alcuna parte generosa, eglino
non vi sanno
entrare. Cosi Giovampagolo, il
quale non stimava essere incesto
e pubblico parricida, non seppe,
o, a dir meglio,
non ardì, avendon giusta occasione,
fare una impresa, dove
ciascuno avesse ammirato
l’animo suo, e avesse di
sè lasciato memoria eterna; sendo
il primo che
avesse dimostro ai prelati,
quanto sia da
stimar poco chi vive c
regna come loro;
ed avesse fatto una
cosa, la cui
grandezza avesse superato ogni
infamia, ogni pericolo, clic da
quella potesse depeudere. Per qual
cagione i Romani furono meno
ingrati agli loro cittadini che
gli Ateniesi. Qualunque legge
le cose fatte
dalle repubbliche, troverà in
tutte qualche spezie di
ingratitudine contro a’
suoi citladini; ma
ne troverà meno
in Roma che in
Atene> e per avventura
in qualunque altra repubblica.
E ricercando la cagione di
questo, parlando di
Roma c di Atene,
credo accadesse perchè
i Romani avevano meno cagione
di sospettare de’ suoi cittadini,
che gli Ateniesi. Perchè a Roma,
ragionando di lei
dalla cacciata dei Re
intino a Siila e Mario, non
fu mai tolta
la libertà da
alcuno .suo cittadino: in modo che
in lei non era
grande cagione di
sospettare di loro, e,
per conseguente, di
offendergli inconsideratamente.
intervenne bene ad
Atene il contrario: perché,
sendole tolta la
libertà da Pisistrato nel
suo più florido tempo, e sotto
uno inganno di
bontà ; come prima
la diventò poi
libera, ricordandosi delle ingiurie
ricevute e della passata servitù,
diventò acerrima vendicatrice non solamente
degli errori, ma delP
ombra degli errori
de' suoi cittadini. Di qui
nacque l’esilio e la
morte di tanti eccellenti
uomini; di qui
Pordine dello ostracismo,
ed ogni altra
violenza che contra i suoi
ottimati in vari tempi
da quella città
fu fatta. Ed è
verissimo quello che dicono
questi scrittori della civiltà:
che i popoli mordono più
fieramente poi ch’egli
hanno recuperala la libertà,
che poi che
l’hanno conservala. Chi considerrà
adunque, quanto è detto, non
biasimerà in questo Atene,
nè lauderà Roma;
ma ne accuserà solo
la necessità, per
la diversità degli accidenti
che in queste
città nacquero. Perchè si
vedrà, chi considererà
le cose sottilmente, che
se a Roma fusse siila
tolta la libertà
come a Atene, non sarebbe
stata Roma più pia verso
i suoi cittadini, che si
fusse quella. Di
che si può fare
verissima conieltura per
quello che occorse, dopo
la cacciata dei
Re, contra a Collatino ed a
Publio Valerio: de’ quali il
primo, ancora elicsi
trovasse a liberare Roma, E MANDATO IN ESILIO NON PER ALTRA CAGIONE CHE
PER TENERE IL NOME DE’ TARQUINI; P altro,
avendo sol «lato di sè sospetto
per edificare una casa
in sul monte
Celio, fu ancora
per essere fatto esule.
Talché si può
stimare, veduto quanto Roma
fu in questi due
sospettosa e severa, che
Farebbe usata la ingratitudine
come Atene, se da’suoi
cittadini, come quella
ne’ primi tempi ed innanzi
allo augumento suo, fosse
stata ingiuriata. G per
non avere a tornare più
sopra questa materia
della ingratitudine, ne dirò
quello ne occorrerà nel
seguente capitolo. Quale sia
più ingrato , o un popolo j o un
principe. Egli mi pare,
a proposito della soprascritta materia, da
discorrere quale usi con
maggiori esempi questa
ingratitudine, 0 un popolo, o un
principe. E per disputare
meglio questa parte,
dico, come questo vizio
della ingratitudine nasce o dalla
avarizia, o dal sospetto. Perchè, quando
o un popolo o un
priacipe ha mandato
fuori un suo
capitano in una cspedizione
importante, dove quel capitano,
vincendola, ne abbia acquistata assai
gloria ; quel principe
o quel popolo è tenuto
allo incontro a premiarlo: e se, in
cambio di premio,
o ei lo disonora o ei T
offende, mosso dalla avarizia, non
volendo, ritenuto da
questa cupidità, satisfarli; fa
uno errore che non
ha scusa, anzi
si tira dietro una
infamia eterna. Pure
si trovano molti principi che
ci peccano. E Cornelio TACITO dice,
con questa sentenzia,
la cagione: Proclivius est
inj ur ite, quarti beneficio vicem cxsolvcre,
quia grafia oneri, ultio
in questu fiabe
tur. Ma quando ei
non lo premia,
o, a dir meglio,
l’offende, non mosso da
avarizia, ma da
sospetto; allora merita, e il
popolo e il principe, qualche
scusa. E di queste
ingratitudini usate per tal
cagione, se ne legge
assai : perchè quello
capitano il quale virtuosamente
ha acquistato uno imperio
al suo signore,
superando i ne-mici, e riempiendo
sè di gloria
e gli suoi soldati di
ricchezze; di necessità,
e con i soldati suoi,
e con i nemici, e coi sudditi
propri di quel
principe acquista tanta reputazione,
che quella vittoria non
può sapere di
buono a quel signore che
lo ha mandato.
G perchè la natura degli
uomini è ambiziosa e sospettosa, e non sa
porre modo a ntssuna
sua fortuna, è impossibile che
quel sospetto che subito
nasce nel principe
dopo la vittoria di
quel suo capitano,
non sia da quel
medesimo accresciuto per
qualche suo modo o termine
usato insolentemente. Talché
il principe non
può peusare ad
altro che assicurarsene; e per fare
questo, pensa o di
farlo morire, o di
torgli la reputazione
che egli si ha
guadagnala nel suo
esercito e ne’ suoi popoli: e con
ogni industria mostrare che
quella vittoria è nata
non per la virtù
di quello, ma
per fortuna, o per viltà
dei nemici, o per
prudenza degli altri capitani
clic sono stati
seco in tale l’azione. Poiché
Vespasiano, sendo in
Giudea fu dichiarato dal
suo esercito imperadore
; Antonio Primo, che
si trovava con un
altro esercito in
llliria, prese le parti
sue, e ne venne
in Italia contea
a Vitellio il quale
regnava a Roma, e virluosissimamente ruppe
due eserciti Vitelliani,
c occupò Roma ; talché
Muziano, mandato da Vespasiano,
trovò per la virtù
d’Antonio acquistato • il
tutto, e vinta ogni
di ffìcultà. 11 premio
che Autonio ne
riportò, fu che
Muziano gli tolse subito
la ubidienza dello
esercito, e a poco a poco io
ridusse in Roma senza
alcuna autorità: talché
Antonio ne andò a trovare
Vespasiano, il quale
era ancora in Asia;
dal quale fu
in modo ricevuto, che,
in breve tempo,
ridotto in nessun grado,
quasi disperato morì.
E di questi esempi
ne sono piene
le istorie. Ne’
nostri tempi, ciascuno
che al presente vive,
sa con quanta
industria e virtù Consalvo Ferrante,
militando nel regno di
Napoli contra a’ Franciosi
per Ferrando Re di
Ragona, conquistasse e vincesse
quel regno; e come,
per premio di vittoria,
ne riportò che
Ferrando si parti da
Ragona, e, venuto
a Napoli, in prima gli
levò la obedienza
delle genti d’ arme, c dipoi
gli tolse le
fortezze, ed appresso lo
menò seco in
Spagna; dove poco tempo
poi, inonorato, mori. È tanto, dunque,
naturale questo sospetto ne’ principi, che
non se ne
possono difendere; ed è impossibile
ch’egli usino gratitudine a quelli
che con vittoria hanno fatto
sotto le insegne
loro grandi acquisti. E da quello che
non si difende un
principe, non è miracolo,
nè cosa degna di
maggior considerazione, s.e un
popolo non se
ne difende. Perchè, avendo una
città che vive
libera, duoi fini, V uno
lo acquistare, l’altro
il mantenersi libera ; conviene
che nell’ una cosa
e nell’ altra per
troppo amore erri. Quanto
agli errori nello
acquistare, se ne dirà
nel luogo suo.
Quanto agli errori per
mantenersi libera, sono,
intra gli altri, questi:
di offendere quei
cittadini elicla doverrebbe premiare;
aver sospetto di quelli
in cui si
doverrebbe confidare. E
benché questi modi
in una repubblica venuta
alla corruzione siano cagione
di grandi mali,
c che molle volte piuttosto
la viene alla
tirannide, come intervenne a Roma
di Cesare, che per
forza si tolse
quello che la
ingratitudine gli negava; nondimeno
in una repubblica non
corrotta sono cagione
di gran beni, e fanno
che la ne
vi\e libera più, mantenendosi
per paura ili punizione
gli uomini migliori,
e meno ambiziosi. Vero è che
infra tutti i popoli che
mai ebbero imperio,
per le cagioni di
sopra discorse, Roma
fu la meno ingrata
: perchè della sua
ingratitudine si può dire
che non ci
sia altro esempio che
quello di Scipione;
perchè Coriolano c Cammillo
fumo fatti esuli per
ingiuria che l’uno
e l’altro aveva fatto alla
Plebe. Ma all’
uno non fu
perdonato, per aversi
sempre riserbato contea al
Popolo l’animo nemico;
Paiteo non solamente
fu richiamato, ma per
tutto il tempo
della sua vita
adorato come principe.
Ma la ingratitudine usata a Scipione,
nacque da un
sospetto che i cittadini cominciorno
avere di lui, che
degli altri non
s’era avuto: il
quale nacque dalla grandezza
del nemico che Scipione
aveva vinto; dalla
reputazione che gli aveva
data la vittoria
di sì lunga e pericolosa guerra;
dalla celerità di essa
; dai favori che
la gioventù, la
prudenza, e le altre
sue memorabili virtuti gli
acquistavano. Le quali
cose furono tante, che,
non che altro,
i magistrati di Roma temevano
della sua autorità:
la qual cosa spiaceva
agli uomini savi, come
cosa inconsueta in
Roma. E parve tanto straordinario
il vivere suo,
che CATONE PRISCO, riputato
santo, fu IL PRIMO a fargli contra
; e a dire che una
città non si poteva
chiamare libera, dove
era un cittadino che
fusse temuto dai
magistrati. Talché, se il
popolo di Roma 1 seguì
in questo caso
L’OPINIONE DI CATONE, merita
quella scusa che
di sopra ho detto
meritare quelli popoli
e quelli principi che per
sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque
questo discorso, dico, che
usandosi questo vizio
della ingratitudine o per avarizia
o per sospetto, si vedrà
come i popoli non
mai per T avarizia la
usorno, e per sospetto
assai i manco che i principi,
avendo meno cagione di
sospettare: come di
sotto si dirà. Quali modi
debbo usare un principe
o una repubblica per
fuggire questo vizio della
ingratitudine : c quali quel
capitano o quel cittadino per
non essere oppresso
da quella. Un principe,
per fuggire questa
necessità di avere a vivere
con sospetto, o esser ingrato,
debbe personalmente andare nelle
espedizioni; come facevano nel
principio quelli imperadori
romani, come fu ne’ tempi
nostri il Turco,
c come hanno fatto e fanno
quelli che sono virtuosi. Perchè,
vincendo, la gloria
e lo acquisto è tutto loro;
e quando non vi sono,
sendo la gloria
d’altrui, non pare loro
potere usare quello
acquisto, s’ ei non spengono
in altrui quella
gloria che loro non
hanno saputo guadagnarsi,
e diventare ingrati ed
ingiusti : e senza dubbio, è maggiore
la loro perdita,
che il guadagno. Ma
quando, o per negligenza o per poca
prudenza, e’ si rimangono a casa oziosi,
c mandano un capitano; io
non ho che
precetto dar loro altro,
che quello che
per lor medesimi si
sanno. .Ma dico
bene a quel capitano, giudicando io
che non possa
fuggire i morsi della
ingratitudine, che faccia
una delle due cose:
o subito dopo la
vittoria lasci lo esercito
c rimettasi nelle mani del
suo principe, guardandosi
da ogni atto insolente
o ambizioso; acciocché
quello, spogliato d’ogni
sospetto, abbia cagione o di
premiarlo o di non
lo offendere : o,
quando questo non
gli paia di fare,
prenda animosamente la
parte contraria, e tenga tutti
quelli modi per li
quali creda che
quello acquisto sia suo
proprio e non del
principe suo, facendosi benivoli i soldati
ed i sudditi; e faccia nuove
amicizie coi vicini,
occupi con li suoi
uomini le fortezze,
corrompa i principi del suo
esercito, e di quelli che
non può corrompere
si. assicuri; e per questi
modi cerchi di
punire il suo signore
di quella ingratitudine che esso
gli userebbe. Altre
vie non ci sono:
ma, come di
sopra si disse, gli
uomini non sanno
essere nè al
tutto tristi, nè al
tutto buoni: e sempre
interviene che, subito dopo
la vittoria, lasciare lo
esercito non vogliono,
portarsi modestamente non possono,
usare termini violenti e che
abbino in sè
Tonorevole, non sanno;
talché, stando ambigui, intra quella
loro dimora ed
ambiguità, sono oppressi. Quanto
ad una repubblica, volendo
fuggire questo vizi dello
ingrato, non si
può dare il
medesimo rimedio che al
principe; cioè che vadia,
e non mandi, nelle
cspedizioni sue, sendo necessitate
a mandare un suo cittadino. Conviene,
pertanto, che pei*rimedio
io le dia,
che la tenga
i medesimi modi che tenne
la repubblica romana, ad
esser meno ingrata
che l’altre: il che
nacque dai modi
del suo governo. Perchè, adoperandosi
tutta la città,
e gli nobili e gli ignobili,
nella guerra, surgeva sempre in
Roma in ogni
età tanti uomini virtuosi,
ed ornati di
varie vittorie, che il
popolo non avea
cagione di dubitare di
alcuno di loro,
sendo assai, c guardando P uuo
Patirò. E in tanto si
mantenevano interi, e respettivi
di non dare, ombra
di alcuna ambizione, uè
cagione al popolo,
come ambiziosi, d* offendergli
; che venendo alla
dittatura, quello maggior gloria
ne riportava, che più
tosto la deponeva.
E cosi, non potendo simili
modi generare sospetto, non generavano
ingratitudine. In modo che,
una repubblica che
nott voglia avere cagione
d’essere ingrata, si
debbo governare come Roma ;
c uno cittadino che voglia
fuggire quelli suoi
morsi, debbc osservare i termini
osservati dai cittadini romani. Che
» capitani romani per errore
commesso ?io« furono
mai istraordinariamcnlc
puniti; nè furono mai
ancora puniti quando,
per la ignoranza loro o
tristi partiti presi da
loro, ne fissino
seguiti danni alla repubblica. 1 Romani, non
solamente, come di
sopra avemo discorso, furono
manco ingrati die V altre
repubbliche, ma furono ancora
più pii e più
respctlivi nella punizione de’ loro capitani
degli eserciti, che alcune
altre. Perchè, se
il loro errore fussc
stato per malizia,
e’ lo gastigavano
umanamente; se gli
era per ignoranza, non
che lo punissino,
e’ lo premiavano ed onoravauo.
Questo modo del procedere
era bene considerato
da -loro: perchè e' giudicavano che
fusse di tanta importanza
a quelli che governavano
gli eserciti loro,
lo avere l’animo libero ed
espedito, e senza altri
estrinsechi rispetti nel pigliare
i parliti, che non volevano
aggiugnere ad una
cosa per sè stessa
difficile e pericolosa, nuove difficultà c pericoli
; pensando che aggiugttendovcli, nessuno
potesse essere che operasse
mai virtuosamente. Verbigrazia,
e’ mandavano uno esercito
in Grecia contra a Filippo
di Macedonia, o in
Italia contra ad
Annibale, o contro a quelli
popoli che vinsono
prima. Era questo cupitano
clic era preposto
a tale espedizione, angustiato da
tutte quelle cure che si arrecavano
dietro quelle faccende, le
quali sono gravi
e importantissime. Ora, se a tali
cure si fus»sino
aggiunti più esempi
di Romani ch’eglino avessino
crucifissi o altrimenti
morti quelli che
avessino perdute le giornale,
egli era impossibile
che quello capitano intra
tanti sospetti potesse
deliberare strenuamente.
Però, giudicando essi che a
questi tali fusse
assai pena la ignominia
dello avere perduto,
non gli vollono con
altra maggior pena
sbigottire. Uno esempio ci
è, quanto allo errore
commesso non per
ignoranza. Erono Sergio e Virginio
a campo a Veio, ciascuno preposti
ad una parte
dello esercito; de’ quali Sergio
era all’incontro donde potevano
venire i Toscani, c Virginio
dall’ altra parte.
Occorse che sendo assaltato
Sergio dai Falisci
e da altri popoli, sopportò
d’ essere rotto
c fugato prima che
mandare per aiuto
a Virginio. E dall’altra parte,
Virginio aspettando che si
umiliasse, volle piuttosto vedere, il
disonore della patria
sua, e la rovina di
quello esercito, clic
soccorrerlo. Caso veramente esemplare
e tristo, c da fare
non buona coniettura della Repubblica
romana, se 1’
uno c l’altro non fusscro
stati gasligali. Vero è
che, dove un’altra
repubblica gli a r ebbe puniti di
pena capitale, quella
gli punì in danari.
II che nacque
non perchè i peccali
loro non meritassino
maggior punizione, ma perchè
-gli Romani voiiono
in questo caso,
per le ragioni
già dette, mantenere gli
antichi costumi loro. E quanto agii
errori per ignoranza,
non ci è il più
bello esempio che
quello di VARRRONE (si veda): per
la temerità del
quale sendo rotti i Romani
a Canne da Annibaie, dove quella
Repubblica portò pericolo della sua
libertà; nondimeno, perchè
vi fu ignoranza e non
malizia, non solamente
non lo gastigorno
ma lo onororno,
e gli andò incontro
nella tornata sua in
Roma tutto l’Ordine
senatorio; e non lo potendo
ringraziare della zuffa, Io
ringraziarono eh’ egli
era tornato in Roma,
c non si era
disperato delle cose romane.
Quando Papirio Cursore
volevu fare morire Fabio,
per avere contea
al suo comandamento combattuto
coi Sanniti; intra le
altre ragioni che
dal patire di
Fabio erano assegnale
conira alla ostinazione del
Dittatore, era che
il Popolo romano in
alcuna perdita de’ suoi Capitani non
aveva fatto mai
quello che Papirio nella
vittoria voleva fare. XXXII. Una repubblica
o uno principe non e sia
conira ad una consuetudine
antica della città , è scandalosissimo. Egli è sentenza
degli antichi scrittori, come gli
uomini sogliono affliggersi
nel male c stuccarsi nel
benej e come dul1’
una e dall* altra
di queste due
passioni nascono i medesimi effetti.
Perchè, qualunque volta è tolto
agli uomini il
combattere per necessità, combattono
per ambizione: la quale
è tanto potente ne’ petti
umani, che mai, a
qualunque grado si salgano,
gli abbandona. La
cagione è, perchè la
natura ha creati
gli uomini in modo,
che possono desiderare
ogni cosa, e non possono
conseguire ogni cosa : talché,
essendo sempre maggiore il
desiderio che la
potenza dello acquistare, ne risulta
la mala contentezza
di quello che si
possiede, e la poca
satisfazionc di esso.
Da questo nasce
il variare della fortuna
loro: perchè desiderando gli uomini,
parte di avere
più, parte temendo di
non perdere lo
acquistato, si viene alle
inimicizie ed alla guerra
; dalla quale nasce
la rovina di quella
provincia, e la esaltazione
di quel1’ altra.
Questo discorso ho
fatto perchè alla Plebe
romana non bastò
assicurarsi de’ Nobili per
la creazione de’
Tribuni, al quale desiderio
fu constretta per
necessità ; che lei subito,
ottenuto quello, cominciò a combattere
per ambizione, e volere con la Nobiltà
dividere gli onori e le
sustanze, come cosa
stimata più dagli uomini.
Da questo nacque
il morbo che partorì
la contenzione della
legge agraria, ed in
(ine fu causa
della distruzione della Repubblica
romana. E perchè le repubbliche
bene ordinate hanno a tenere ricco
il pubblico, e li
loro cittadini poveri ; convenne
che fusse nella città
di Roma difetto
in questa legge: la
quale o non fusse
fatta nel principio in
modo che la non si
avesse ogni di a
ritrattare; o che la
si differisse tanto in
farla, che fusse
scandotoso il riguardarsi indietro; o sendo
ordinata bene da prima,
era stata poi
dall’ uso corrotta; talché, in
qualunque modo si
fusse, mai non si
parlò di questa
legge in Roma, che
quella città non
andasse sottosopra. Aveva questa
legge duoi capi principali. Ter l’
uno si
disponeva clic non si
potesse possedere per
alcun cittadino più che
tanti iugeri di
terra; per V altro, che i
campi di
che si privavano i nimici, si
dividessino intra il popolo
romano. Veniva pertanto
a fare di duoi sorte
offese ai Nobili:
perchè quelli che possedevano
più beni non permetteva la
legge (quali erano
la maggior parte
de’ Nobili), ne
avevano ad esser privi
; e dividendosi intra la
Plebe i beni de’ nimici,
si toglieva a quelli
la via dello arricchire.
Sicché, venendo ad essere
queste offese contra
ad uomini potenti, e che
pareva loro, contrastandola, difendere il
pubblico; qualunque volta, com’ è detto,
si ricordava, andava sottosopra quella
città : ed i Nobili
con pazienza ed industria
la temporeggiavano, o con trac
fuora un esercito,
o che a quel Tribuno che la proponeva
si opponesse uno altro
Tribuno; o talvolta cederne parte;
ovvero mandare una
colonia in quel luogo
che si avesse
a distribuire: come intervenne
del contado di Anzio,
per il quale
surgendo questa disputa della
legge, si mandò
in quel luogo una
colonia traila di
Roma, alla quale si
consegnasse detto contado.
Dove L. usa un
termine notabile, dicendo clic
con ditTìcultà si
trovò in Roma eli i desse
il nome per
ire in detta colonia: tanto
era quella Plebe
più pronta a volere desiderare
le cose in
Homa, che a possederle in
Anzio ! Andò questo umore
di questa legge
così travagliandosi un tempo,
tanto che i Romani
cominciarono a condurre le loro
armi nelle estreme parti
di Italia, o fuori
di Italia; dopo al
qual tempo parve che la
restasse. Il che nacque
perchè i campi che
possedevano i nimici di Roma
essendo discosti dagli occhi
della Plebe, cd
in luogo dove non
gli era facile
il coltivargli, veniva meno
ad esserne desiderosa:
ed ancora i Romani erano
meno punitori tic’ loro nemici
in siinil modo;
e quando pure spogliavano alcuna
terra del suo contado,
vi distribuivano colonia.
Tanto che per tali
cagioni questa legge
stette come addormentata inOno
a’ Gracchi: da’ quali
essendo poi svegliata,
rovinò al tutto la
libertà romana; perchè
la trovò raddoppiata la
potenza de’ suoi avversari, e si
accese per questo
tante odio intra la
Plebe ed il
Senato, che si venne
all’ armi ed
al sangue, fuor
d’ogni modo e costume civile.
Talché, non potendo i pubblici magistrati
rimediarvi, nè sperando più
alcuna delle fazioni
in quelli, si ricorse
a’ rimedi privati, e ciascuna delle parti
pensò di farsi
uno capo che la
difendesse. Pervenne in
questo scandalo e disordine la
Plebe, e volse la sua
riputazione a Mario, tanto
che la lo fece
quattro volte Consolo;
ed in tanto continuò con
pochi intervalli il suo consolato, che si
potette per sè
stesso far Consolo tre
altre volte. Contra
alla qual peste non
avendo la Nobiltà
alcuno rimedio, si volse
a favorir Siila; e fatto quello capo
della parte sua,
vennero alle guerre civili
* e dopo molto sangue
e variar di fortuna,
rimase superiore la Nobiltà.
Risuscitorono poi questi
umori a tempo di Cesare
c di Pompeo; perchè, fattosi Cesare
capo della parte
di Mario, c Pompeo di
quella di Siila,
venendo alle mani rimase
supcriore GIULIO CESARE: IL QUALE
E IL PRIMO TIRANNO IN ROMA, TALCHE MAI E POI LIBERA QUELLA CITTA. Tale, adunque, principio e fine
ebbe la legge
agraria. E benché noi mostrassimo
altrove, come le inimicizie
di Roma intra
il Senato c la Plebe
mantenessero libera Roma, per
nascerne da quelle
leggi in favore della
libertà ; e per questo
paia disforme a tale conclusione
il fine di questa
legge agraria ; dico
come, per questo, io
non mi rimuovo
da tale oppinionc:
perchè egli è tanta
P ambizione de’ grandi, che
se per varie
vie ed in vari
modi la non ò
in una
città sbattuta, tosto riduce
quella città alla
rovina sua. In modo
che, se la
contenzione della legge agraria
penò trecento anni a
fare Roma serva, si
sarebbe condotta, per avventura, molto
più tosto iti
servitù, quando la Plebe,
e con questa legge
c con altri suoi
appetiti, non avesse
sempre frenato la ambizione
de’ Nobili. Vedasi per
questo ancora, quanto
gli uomini stimano più la roba
che gli onori. Perchè
la Nobiltà romana
sempre negli onori eedè
senza scandali istraordinari alla Plebe;
ma come si
venne alla roba, fu
tanta la ostinazione
sua nel difenderla, che la
Plebe ricorse, per
Sfo-gare 1’ appetito suo, a
quelli istraordinari che di
sopra si discorrono.
Del quale disordine furono
motori i Gracchi; de’ quali
si dcbbe laudare
più la intenzione che la
prudenza. Perchè, a voler levar
via uno disordine
cresciuto in una repubblica, e per
questo fare una
legge che riguardi assai
indietro, è partito male considerato;
e, come di
sopra largamente si discorse,
non si fa
altro che accelerare quel
male a che quel
disordine ti conduce : ma
temporeggiandolo, o il male viene
più tardo, o per
sè medesimo col tempo,
avanti che venga
al fine suo, si
spegne. XXXVIII. — Le repubbliche
deboli sono male risolute , e non si
sanno deliberare ; c se le
pigliano mai alcuno partito j nasce più
da necessità che da
elezione. Essendo in Roma
una gravissima pestilenza, e parendo per
questo agli Volaci ed
agli Equi che
fusse venuto il tempo
di potere oppressar
Roma; fatti questi due
popoli uno grossissimo
esercito, assalirono gli Latini
e gli Ernici, e guastando il
loro paese, furono
constretti gli Latini c gli
Ernici farlo intendere a Roma, c pregare
che fussero difesi da' Romani:
ai quali, sendo
i Romani gravati dal morbo,
risposero che pigliassero partito
di difendersi da
loro medesimi e con le
loro armi, perchè essi
non li potevano
difendere. Dove si conosce
la generosità e prudenza
di quel Senato, e come
sempre in ogni
fortuna volle essere quello
che fusse principe delle deliberazioni
che avessero a pigliare
i suoi; nè si
vergognò mai deliberare una cosa
che fusse contraria al
suo modo di
vivere o ad altre
deliberazioni fatte da lui,
quando la necessità gliene comandava.
Questo dico perchè altre
volte il medesimo
Senato aveva vietato ai
detti popoli l’armarsi
e difendersi ; talché ad uno
Senato meno prudente di
questo, sarebbe parso
cadere del grado suo a
concedere loro tale difensione.
Ma quello sempre
giudicò le cose come
si debbono giudicare, e sempre prese
il meno reo
partilo per migliore; perchè
male gli sapeva
non potere difendere i suoi
sudditi; male gli sapeva
che si armassino
senza loro, per le
ragioni dette, e per
molte altre che si
intendono: nondimeno, conoscendo che si
sarebbono armati, per
necessità, a ogni modo, avendo
il nimico addosso;
prese la parte
onorevole, e volle che quello
clic gli avevano
a fare, lo facessino con
licenzia sua, acciocché avendo disubbidito
per necessità, non si
avvezzassino a disubbidire per
elezione. E benché questo paia
partito che da ciascuna
repubblica dovesse esser preso;
nientedimeno le repubbliche
deboli e male consigliate non
gli sanno pigliare, nè
si sanno onorare
di simili necessità. Aveva
il duca Valentino
presa Faenza, e fatto calare
Bologna agli accordi suoi.
Dipoi, volendosene tornare
a Roma per la
Toscana, mandò in
Firenze uno suo uomo a
domandare il passo per
sé e per il
suo esercito. Consultossi
in Firenze come
si avesse a governare questa cosa,
nè fu mai
consigliato per alcuno di
concedergliene. In che non
si seguì il
modo romano: perchè, sendo
il Duca armatissimo,
ed i Fiorentini in
modo disarmati che
non gli potevano vietare
il passare, era
molto piu onore loro,
che paresse che
passasse con permissione di
quelli, che a forza; perchè, dove
vi fu al
tutto il loro
vituperio, sarebbe stato in
parie minore quando I*
avessero governata altrimenti. Ma la
più cattiva parte
che abbino le repubbliche deboli,
è essere irresolute; in modo
che lutti i partili
che le pigliano, gli
pigliano per forza;
e se vieti loro fatto
alcuno bene, lo
fanno forzato, c non per
prudenza loro. Io
voglio dare di questo
duoi altri esempi,
occorsi ne* tempi nostri
nello stato della
nostra città, nel mille
cinquecento. Ripreso che il
re Luigi XII
di Francia ebbe
Milauo, desideroso di rendergli
Pisa, per aver cinquanta mila
ducati che gli
erano stati promessi da’
Fiorentini dopo tale
restituzione, mandò gli suoi
eserciti verso Pisa, capitanati
da monsignor Beaumonte;
benché francese, nondiraanco uomo in
cui i Fiorentini assai
confidavano. Condussesi
questo esercito e questo capitano intra
Cascina e Pisa, per andare
a combattere le mura;
dove dimorando alcuno
giorno per ordinarsi alla espugnazione,
vennero oratori Pisani a Beaumonte, e gli
offerirono di dare la
città allo esercito
francese con questi patti:
che, sotto la
fede del re, promettesse non la mettere
in mano de’ Fiorentini,
prima che dopo
quattro mesi. Il qual
partito fu dai
Fiorentini al tutto rifiutato,
in modo che
si seguì nello andarvi
a campo, e partissene con vergogna.
Nè fu rifiutato
il partito per altra
cagione, che per
diffidare dellafede del
re; come quelli
che per debolezza di
consiglio si erano
per forza messi nelle
mani sue: e dall’altra
parte, non se ne
fidavano, nè vedevano quanto era
meglio che il
re potesse rendere loro
Pisa sendovi dentro,
e non la rendendo scoprire
P animo suo, che
non la avendo, poterla
loro promettere, e loro
essere forzati comperare
quelle promesse. Talché molto
più utilmente arebbono fatto
a consentire che Beaumonlc
V avesse, sotto qualunque
pròmessa, presa: come
se ne vide
la espcrienza dipoi,
die essendosi ribellato Arezzo,
venne a’ soccorsi
de* Fiorentini mandato dal re di
Francia monsignor Imbalt con
gente francese; il qual
giunto propinquo ad
Arezzo, dopo poco tempo
cominciò a praticare accordo con
gli Aretini, i quali
sotto certa fede volevano
dare la terra,
a similitudine de’ Pisani.
Fu rifiutato in
Firenze tale partito ; il
che veggendo monsignor Imbalt, e parendogli
come i Fiorentini se ne
inlendessino poco, cominciò
a tenere le pratiche dello
accordo da se, senza
participazione de’ Commessaci
: tanto che e’
io conchiuse a suo
modo, e sotto quello
con le sue
genti se ne
entrò in Arezzo, facendo
intendere a’ Fiorentini come egli
erano matti, e non
si intendevano delle cose
del mondo: che se
volevano Arezzo, lo
fucessino intendere al re,
il quale lo
poteva dar loro molto
meglio, avendo le
sue genti in quella
città, che fuori.
Non si restava
in Firenze di
lacerare e biasimare detto Imbalt;
nè si restò
mai, infino a tanto che
si conobbe che
se Beaumonte fusse stato
simile a Imbalt, si
sarebbe avuto Pisa come
Arezzo. E cosi, per
tornare a proposito, le repubbliche
irresolute non pigliano mai
partiti buoni, se non
per forza, perchè
la debolezza loro
non le lascia mai
deliberare dove è alcuno dubbio; e se
quel dubbio non è
cancellalo da una violenza,
che le sospinga, stanno sempre
mai sospese. XXXIX. — In
diversi popoli si veggono
spesso i medesimi accidenti. E’
si conosce facilmente
per chi considera le
cose presenti e le
antiche, come in tutte
le città ed
in tutti i popoli sono
quelli medesimi desiderii
e quelli medesimi umori, e come
vi furono sempre : in
modo che gli è
facil cosa a chi esamina
con diligenza le
cose passate, prevedere in
ogni repubblica le
future, c farvi quelli rimedi
che dagli antichi sono
stati usati ; o non
ne trovando degli usati,
pensarne de’ nuovi, per
la similitudine degli accidenti.
Ma perchè queste considerazioni sono
neglette, o non intese
da chi legge
; o se le sono intese,
non sono conosciute
da chi governa ; ne
seguita che sempre
sono i medesimi scandali
in ogni tempo.
Avendo la città di
Firenze perduto parte dello imperio
suo, come Pisa
ed altre terre, fu
necessitata a fare guerra* a coloro che
le occupavano. E perchè chi
le occupava era
potente, ne seguiva che
si spendeva assai
nella guerra, senza alcun
frutto ; dallo spendere
assai ne risultava assai
gravezze ; dalle gravezze, infinite querele
del popolo ; e perchè questa guerra
era amministrata da uno
magistrato di dieci
cittadini che si
chiamavano i Dieci della guerra,
1* universale cominciò a recarselo
in dispetto, come quello
che fusse cagione
della guerra e delle spese
di essa; e corniliciò
a persuadersi che tolto
via detto magistrato, fusse
tolto via la
guerra : tanto che
avendosi a rifare, non se gli fecero
gli scambi ; e lasciatosi spirare, si
commisero le azioni
sue alla Signoria. La
qual deliberazione fu
tanto perniziosa, che
non solamente non
levò la guerra, come
lo universale si
persuadeva ; ma tolto
via quelli uomini
che con prudenza la
amministravano, ne seguì
tanto disordine, die, oltre
a Pisa, si perde Arezzo
e molti altri luoghi:
in modo che, ravvedutosi
il popolo dello
errore suo, e come la
cagione del male
era la febbre e non
il medico, rifece
il magistrato de’ Dieci.
Questo medesimo umore si
levò in Roma
conira al nome
de’ Consoli : perchè,
veggendo quello Popolo
nascere 1’ una guerra
dall' altra, e non
poter mai riposarsi ; dove
e' dovevano pensare che
la nascesse dalla
ambizione de’ vicini che gli
volevano opprimere; pensavano nascesse
dall’ ambizione dei Nobili,
che non potendo
dentro in Roma gastigar
la Plebe difesa
dalla potestà tribunizia, la volevano
condurre fuori di Roma
sotto i Consoli, per
opprimerla dove non aveva
aiuto alcuno. E pensarono per questo,
che fusse necessario
o levar via i Consoli,
o regolare in modo la
loro potestà, che
e* non avessino
autorità sopra il popolo,
nè fuori nè in
casa. 11
primo che tentò
questa legge, fu uno
Terentillo tribuno ; il
quale proponeva che si
dovessero creare cinque uomini
che dovessino considerare
la potenza de* Consoli,
e limitarla. II che
alterò assai la Nobiltà,
parendoli che la maiestà
dell’ imperio fusse
al tutto declinata, talché alla
Nobiltà non restasse più
alcuno grado in
quella Repubblica. Fu nondimeno
tanta la ostinazione
dei Tribuni, che il
nome consolare si
spense ; e furono in fine
contenti, dopo qualche altro
ordine, piuttosto creare Tribuni con
potestà consolare, che i
Consoli : tanto avevano più
in odio il
nome che le autorità
loro. E cosi seguitorno lungo tempo,
infino che conosciuto
io errore loro, còme i
Fiorentini ritornorno ai Dieci,
così loro ricreorno
i Consoli. La creazione
del DECEMVIRATO in Roma, e quello
che in essa è
da notare: dove si
considera , intra molte
altre cose, come
si può salvare
per simile accidente, o oppressore
una repubblica. Volendo discorrere
particolarmente sopra gli accidenti
che nacquero in
Roma per la creazione
del decemvirato, non mi
pare soperchio narrare
prima tutto quello che
segui per simile
creazione, e dipoi disputare quelle
porti che sono in
esse azioni notabili
: le quali sono molte,
e di grande considerazione, cosi per
coloro che vogliono
mantenere una repubblica libera,
come per quelli
che disegnassino sommetterla. Perchè
in tale discorso si
vedranno molti errori
fatti dal Senato e dalla
Plebe in disfavore della libertà;
e molli errori fatti
da APPIO, capo
del decemvirato; in
disfavore di quella tirannide
che egli si
aveva pre-supposto stabilire in
Roma. Dopo molte deputazioni c contenzioni
seguite intra il Popolo
e la Nobiltà per
fermare nuove leggi in
Roma, per le
quali e’ si stabilisse
più la
libertà di quello
stato; mandarono, d’ accordo,
Spurio Postumio con duoi
altri cittadini ad
Atene per gli
essenti di quelle leggi
che Solone dette
a quella città, acciocché
sopra quelle potessero fondare le
leggi romane. Andati e tornati costoro,
si venne alla
creazione degli uomini eh’
avessino ad esaminare e fermare de.tte
leggi; e ercorno dieci cittadini per
un anno, tra i
quali fu creato APPIO CLAUDIO, il primo filosofo romano, uomo sagace
ed inquieto. E perchè e'
potessimo senza alcuno rispetto creare
tali leggi, si
levarono di Roma tutti
gli altri magistrati, ed in
particolare i Tribuni e i Consoli, e levossi lo
appello al Popolo
; in modo che tale
magistrato veniva ad
essere al tulio principe
di Roma. Appresso
ad APPIO si ridusse
tutta 1’ autorità
degli altri suoi compagni,
per gli favori
clic gli faceva la Plebe : perché
egli s’ era fatto in
modo popolare con
le dimostrazioni, che pareva
meraviglia eh’ egli
avesse preso sì presto
una nuova natura
c uno nuovo ingegno,
essendo stato tenuto innanzi a questo
tempo un crudele persecutore della
Plebe. Governaronsi questi
Dieci assai civilmente,
non tenendo più che
dodici littori, i quali andavano davanti
a quello ch’era infra loro
preposto. E bench’egli avessino 1’ autorità assoluta,
nondimeno avendosi a punire un cittadino
romano per omicidio, lo
citorno nel conspelto
del Popolo, e da quello
lo fecero giudicare. Scrissero le
loro leggi in
dicci tavole, ed avanti
che le confirmassero, le
messono in pubblico,
acciocché ciascuno le potesse
leggere c disputarle; acciocché si
conoscesse se vi
era alcuno difetto, per
poterle binanti alla
confirmazionc loro emendare. Fece,
in su questo,
Appio nascere un rornorc
per Bomn, che se
a queste dieci tavole
se n’ aggiungcssiuo
due altre, si
darebbe a quelle la loro
perfezione ; talché questa
oppinionc dette occasione al
Popolo di rifare
i Dieci per uno altro
anno: a che il
Popolo si accordò volentieri; si
perchè i Consoli non si rifacessino; sì
perchè speravano loro
potere stare senza Tribuni,
sendo loro giudici delle
cause, come di
sopra si disse. Preso,
adunque, partito di
rifargli, tutta la Nobiltà
si mosse a cercare
questi onori, ed intra
i primi era Appio;
ed usava tanta umanità
verso la Plebe
nel domandarla, che la
cominciò ad essere
sospetta a suoi compagni : credebant
cnim liaud gratuitam in
lanla superbia comilatcmfore. E dubitando
di opporsegli apertamente, diliberarono farlo
con arte; e benché
e’ fusse minore
di tempo di
tutti, dettono a lui autorità
di proporre i futuri Dieci al
popolo, credendo eh*
egli osservasse i termini degli
altri di non proporre
sè medesimo, sendo
cosa inusitata e ignominiosa in
Roma, Me vero imprdimentum prò
occasione arripuit ; e
nominò sè intra
i primi, con meraviglia e dispiacere
di tutti i Nobili: nominò poi
nove altri al
suo proposito. La qual
nuova creazione fatta
per uu altro anno,
cominciò a mostrare al
Popolo cd alla Nobiltà
lo error suo.
Perchè subito Appio: finem
fedi ferenda aliena persona
; e cominciò a mostrare la innata
sua superbia, ed
in pochi dì riempiè
di suoi costumi
i suoi compagni. E per Sbigottire
il Popolo ed
il Senato, in scambio
di dodici littori,
ne feciono cento
venti. Stette la
paura eguale qualche giorno
; ma cominciarono poi ad
intrattenere il Senato,
e battere la Plebe: e s’ alcuno
battuto dall* uno,
appellava ali’ altro, era
peggio trattalo nelP appeltagione che
nella prima causa.
In modo che la
Plebe, conosciuto lo
errore suo, cominciò piena
di afflizione a riguardare in viso i
Nobili; et inde
libcrtatis captare a urani ,
linde servitutem tiinendoj in
cum s taluni rempublicam
adduxerant. E alla Nobiltà era
grata questa loro
afflizione, ut ipsij teedio
prcesenliunij Consules desiderar ent. Vennero
i di clic terminavano l’anno:
le due tavole
delle leggi erano fatte,
ma non pubblicate.
Da questo i Dicci presono
occasione di continovare
nel magistrato, c cominciorono a tenere con
violenza lo Stato,
e farsi satelliti della gioventù
nobile, alla quale davano
i beni di quelli
che loro condannavano. Quibus donis
Juventus coirumpebatur , et malebat
liccnliam suoni , i quatn omnium
liberlatcm. Nacque in
questo tempo, che i Sabini
ed i Volsci mossero guerra a’ Romani:
in su la
qual paura cominciarono i Dieci
a vedere la debolezza dello
Stato loro; perchè
senza il Senato non
potevano ordinare la
guerra, e ragunando il Senato
pareva loro perdere lo
Stato. Pure, necessitati,
presono questo ultimo partito:
e ragunali i Senatori insieme, molti
de’ Senatori parlorono
contro alla superbia
de’Dieci, ed in particolare
Valerio ed Orazio
: e la autorità loro
si sarebbe al
tutto spenta, se non
che il Senato,
per invidia della Plebe,
non volle mostrare
l’autorità sua, pensando che
se i Dieci deponevano
il magistrato voluntarii,
che potesse essere che i
Tribuni della plebe non
si rifacessero. Dcliberossi
adunque la guerra; uscissi
fuori con due
eserciti guidati da parte
di detti Dieci;
APPIO rimase a governare la
città. Donde nacque che
si innamorò di
Virginia, e che volendola
torre per forza,
il padre VIRGINIO, PER LIBERARLA,
L’AMMAZZO: donde seguirono i tumulti
di Roma e degli eserciti ; i quali
ridottisi insieme con il
rimanente della Plebe
romana, se ne
andarono nel Monte Sacro,
dove stettero tanto clic i
Dieci deposono il
magistrato, e che furono creali
i Tribuni ed i Consolide ridotta Roma
nella forma della antica
sua libertà. Notasi,
adunque, per questo testo,
in prima esser
nato in Roma
questo inconveniente di
creare questa tirannide, per quelle medesime
cagioni che nascono la
maggiore parte delie tirannidi
nelle città: e questo
è da troppo desiderio
del popolo d* esser libero, e da
troppo desiderio de’
nobili di comandare. E quando
c’ non convengono a fare una
legge in favore
della libertà, ma gettasi
qualcuna delle parti a favorire uno,
allora è che subito
la tirannide surge. Convennono
il Popolo ed i Nobili
di Poma a creare
i Dieci, e crearli con
tanta autorità, per
desiderio che ciascuna delle
parti aveva, 1’ una di spegnere
il nome consolare,
l’altra il tribunizio. Creati
che furono, parendo alla
Plebe che Appio
fusse diventato popolare c battesse
la Nobiltà, si
volse il Popolo a favorirlo.
E quando un popolo si
conduce a far questo
errore di dare riputazione
ad uno perchè
balta quelli che egli
ha in odio,
e che quello uno sia
savio, sempre interverrà
che diventerà tiranno di
quella città. Perchè egli
attenderà, insieme con il favore
del popolo, a spegnere la
nobiltà ; e non si volterà
inai alla oppressione
del popolo, se non
quando ei V arà
spenta; nel qual tempo
conosciutosi il popolo
essere servo, non abbi
dove rifuggire. Questo
modo hanno tenuto tutti
coloro che hanno
fondato tirannidi in le
repubbliche: c se questo modo
avesse tenuto APPIO,
quella sua tironnide arebbe
preso più vita,
e non sarebbe mancata
si presto. Ma ei
fece tutto il
contrario, nè si
potette governare più imprudentemente; cliè
per tenere la tirannide,
c’si fece inimico
di coloro che glie T
avevano data c che gliene
potevano mantenere, ed
amico di quelli che
non erano concorsi
a dargliene e che non gliene
arebbono potuta mantenere; e perdèssi
coloro che gli erano
amici, e cercò di
avere amici quelli che
non gli potevano
essere amici. Perchè, ancora che i
nobili desiderino tiranneggiare, quella parte
della nobiltà che si
truova fuori della tirannide, è sempre
inimica al tiranno;
nè quello se la
può mai guadagnare
tutta, per l’ambizione grande e grande
avarizia che .è in
lei, non polendo
il tiranno avere
nè tante ricchezze nè
tanti onori, che a
tutta satisfaccia. E così Appio,
lasciando il Popolo ed
accostandosi a’ Nobili, fece
uno errore evidentissimo, e per
le ragioni dette di
sopra, e perchè a volere
con violenza tenere una
cosa, bisogna che sia
più potente chi
sforza, che chi è
sforzato. Donde nasce
che quelli tiranni che
hanno amico lo
universale ed mimici i grandi, sono
più sicuri; per
essere la loro violenza
sostenuta da maggior forze, che
quella di coloro
che hanno per inimico
il popolo ed
amica la nobiltà. Perchè con
quello favore bastano a conservarsi le
forze intrinseche; come bastorno
a Nabide tiranno di
Sparta, quando tutta Grecia
ed il popolo
romano lo assaltò : il
quale assicuratosi di
pochi nobili, avendo amico
il popolo, con
quello si difese; il
che non arebbe
potuto fare avendolo inimico.
In quello nitro
grado per aver pochi
amici dentro, non
bastano le forze intrinseche,
ma gli conviene
cercare di fuora. Ed
hanno ad essere
di tre sorti: 1’ una
satelliti forestieri, die li
guardino la persona;
l’altra armare il contado,
che faccia quell’
oflìzio che arebbe a fare
la plebe; la
terza aderirsi co’ vicini
potenti, che li
difendino* Chi tiene questi
modi e gli osserva
bene, ancora ch’egli avesse
per inimico il
popolo, potrebbe in qualche
modo salvarsi. Ma APPIO non
poteva far questo
di guadagnarsi il contado,
scudo una medesima cosa
il contado e Roma;
c quel che poteva fare,
non seppe: talmente
che rovinò nc’ primi
principii suoi. Fecero
il Senato ed il
Popolo in questa
creazione del decemvirato errori
grandissimi : perchè ancora che
di sopra si
dica, in quel discorso
che si fa del Dittatore,
che quelli magistrati che si fanno
da per loro, non
quelli che fa il
popolo, sono nocivi alla
libertà; nondimeno il
popolo debbe, quando egli
ordina i magistrali, fargli in
modo che gli
abbino avere qualche rispetto a diventare
tristi. E dove e’ si debbe
proporre loro guardia
per mantenergli buoni, i Romani
lalevorono, facendolo solo magistrato
in Roma, ed annullando
tutti gli altri,
per la eccessiva voglia (come
di sopra dicemmo)
che il Senato aveva
di spegnere i Tribuni, e la Plebe
di spegnere i Consoli;
la quale gli accecò
in modo, che
concorsono in tale disordine.
Perchè gli uomini,
come diceva il re
Ferrando, spesso fanno
come certi minori uccelli
di rapina ; ne’ quali
è tanto desiderio di
conseguire la loro preda,
a che la natura
gli incita, che non
sentono un altro
maggior uccello che sia
loro sopra, per
ammazzargli. Conoscesi, adunque, per
questo discorso, come nel
principio proposi, lo errore
del Popolo romano,
volendo salvare la libertà
; e gli errori di
APPIO, volendo occupare la
tirannide. Sahare dalla
Umilila alla superbia j
dalla pietà alta
crudeltà senza debiti mezzij
è cosa imprudente ed inutile. Oltre agli
altri termini male
usati da APPIO per
mantenere la tirannide,
non fu di poco
momento saltare troppo
presto da una qualità
ad un’altra. Perchè la
astuzia sua nello
ingannare la Plebe, simulando d’essere
uomo popolare, fu bene
usata; furono ancora
bene usati i termini
che tenue perchè
i Dieci si avessino a rifare;
fu ancora bene usata
quella audacia di
creare sè stesso
contra alla oppinione
della Nobiltà; fu bene
usato creare colleghi
a suo proposito: ma non
fu già bene
usato, come egli ebbe
fatto questo, secondo
che di sopra dico,
mutare in un
subito natura; e di amico,
mostrarsi nimico alla Plebe;
di umano, superbo;
di facile, difficile; e farlo
tanto presto, che
senza scusa veruna ogni
uomo avesse a conoscer
la fallacia dello
animo suo. Perchè chi
è paruto buono un
tempo, e vuole a suo proposito
diventar tristo, io
debbe fare per
gli debiti mezzi
; ed in modo condurvisi con le occasioni,
che innanzi che la
diversa natura ti
tolga de’ favori vecchi, la
te ne ubbia
dati tanti degli nuovi,
che tu non
venga a diminuire la tua
autorità: altrimenti, trovandoti
scoperto e senza amici, rovini. Quanto gli
uomini facilmente si possono
corrompere. Notasi ancora in
questa materia del decemvirato, quanto
facilmente gli uomini si
corrompono, e fatinosi diventare di
contraria natura, ancora
che buoni e bene educati;
considerando quanto quella gioventù
che Appio si
aveva eletta intorno, cominciò
ad essere amica della
tirannide per uno
poco d’utilità che gliene
conseguiva ; e come Quinto Fabio,
uno del numero
de’ secondi Dieci, sendo uomo
oliimo, accecalo da un
poco di ambizione,
e persuas dulia malignità di
APPIO, mutò i suoi
buoni costumi in
pessimi, e diventò simile a lui.
Il che esaminato
bene, farà tanto più
pronti i legislatori delle repubbliche o de’ regni
a frenare gli appetiti umani,
c torre loro ogni
speranza di potere impune
errare. Quelli che combattono
per la gloria propria,
sono buoni e fedeli soldati. Considerasi ancora
per il soprascritto trattato, quanta
differenza è da uno esercito
contento e che combatte
per la gloria sua, a
quello che è male
disposto e che combatte per
la ambizione d’
altri. Perchè, dove gli
eserciti romani solevano sempre essere
vittoriosi sotto i Consoli, sotto i Decemviri
sempre perderono. Da questo
essempio si può
conoscere parte delle cagioni
della inutilità de’ soldati mercenurii; i quali
non hanno altra
cagione clic li tenga
fermi, che un
poco di stipendio che tu dai
loro. La qual cagione
non è nè può
essere bastante a fargli
fedeli, nè tanto
tuoi amici, che voglino
morire per le.
Perchè in quelli eserciti che
non è una affezione
verso di quello per
chi e’ combattono,
che gli facci diventare
suoi partigiani, non
mai vi potrà essere
tanta virtù che
basti a resistere ad
uno nimico un
poco virtuoso. G perchè questo
amore non può nascere,
nè questa gara,
da altro che da’ sudditi tuoi;
è necessario a volere tenere uno
stato, a volere mantenere una
repubblica o uno regno,
armarsi de’ sudditi suoi :
come si
vede che hanno fatto
tutti quelli che
con gli eserciti hanno fatti
grandi progressi. Avevano gli
eserciti romani sotto
i Dieci quella medesima virtù;
ma perchè in
loro non era quella
medesima disposizione, non facevano
gli usilati loro effetti. Ma com
prima il
magistrato de’ Dieci
fu spento, e che loro
come liberi cominciorno
amilitare, ritornò in
loro il medesimo animo; e per
conscguente, le loro
imprese avevano il loro
fine felice, secondo la
antica consuetudine loro. Una
moltitudine senza capo, è inutile:
e non si debbo
minacciare prima, c poi chiedere
l'autorità. Era la Plebe
romana per lo
accidente di Virginia ridotta
armata nel Monte Sacro.
Mandò il Senato
suoi ambasciadori a dimandare
con quale autorità egli
avevano abbandonati i loro
capitani, e ridottisi nel Monte.
E tanta era stimata l’autorità
del Senato, che
non avendo la Plebe
intra loro capi,
ninno si ardiva a rispondere.
E L. dice, ohe e’
non mancava loro
materia a rispondere, ma mancava
loro chi facesse la
risposta. La qual
cosa dimonstra appunto
la inutilità d’
una moltitudine senza
capo. Il qual
disordinefu conosciuto da Virginio,
e per suo ordine si
creò venti Tribuni
militari, che fussero loro
capo a rispondere e convenire col Senato.
Ed avendo chiesto
che si mandasse loro
Valerio ed Orazio,
ai quali loro direbbono
la voglia loro,
non vi volsono andare
se prima i Dieci
non deponevano il magistrato:
ed arrivati sopra il
Monte dove era
la Plebe, fu domandato
loro da quella,
che volevano che si
creassero i Tribuni della
plebe, e che si avesse
ad appellare al
Popolo da ogni magistrato,
e che si dessino loro
tutti i Dieci, chè
gli volevano ardere vivi.
Laudarono Valerio cd
Orazio le prime loro
domande; biasimorono P
ultima come impia,
dicendo : Crude - litatcm dannatisj
in crudclitaiem ruitis ; e consigliamogli che
dovessino lasciare il fare
menzione de’ Dieci, e ch’egli
attendessino a pigliare V autorità
e potestà loro: dipoi non
mancherebbe loro modo a satisfarsi.
Dove apertamente si conosce
quanta stultizia c poca
prudenza è domandare una cosa,
e dire prima: io voglio
far male con
essa; perchè non si
debbo mostrare l’animo suo,
ma vuoisi cercare
d’ottenere quel suo desiderio
in ogni modo.
Perchè e’ basta a dimandare
a uno le armi, senza
dire: io ti
voglio ammazzare con esse;
potendo poi che
tu bai l’arme
in mano, satisfare allo
appetito tuo. E cosa di
malo esempio | non osservare
una legge falla , c massime dallo
autore d'essa: e rinfre- scare ogni
di nuove ingiurie
in una t città, è a chi
la governa dannosis-i simo. Seguito lo
accordo, e ridotta Roma
in la antica sua
forma, Virginio citò
Appio innanzi al Popolo
a difendere la sua causa.
Quello comparse accompagnato da molti
Nobili. Virginio comandò
che fussc messo in
prigione. Cominciò Appio a gridare, ed
appellare al Popolo.
Virginio diceva che non
era degno di
avere quella nppellagionc che
egli aveva distrutta, ed
avere per difensore
quel Popolo che egli
aveva offeso. Appio
replicava, come e’ non
aveano a violare quella appellagionc
ch'egli avevano con tanto
desiderio ordinata. Pertanto
egli fu INCARCERATO ED AVANTI AL
DI DEL GIUDIZIO AMMAZZO SE STESSO. E benché
la scellerata vita di
Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno
fu cosa poco
civile violare le leggi,
e tanto più quella
che era fatta allora.
Perchè io non
credo che sia cosa
di più cattivo
esempio in una repubblica,
che fare una
legge e non la
osservare; e tanto più,
quanto la non è osservata
da chi l’ ha
falla. Essendo Firenze stala
riordinala nel suo
stato con l'aiuto
di frate Girolamo Savonarola,
gli scritti del quale
mostrano la dottrina,
la prudenza, la virtù
dello animo suo ;
ed avendo intra P altre
conslituzioni per assicurare i cittadini,
fatto fare una legge,
che si potesse
appellare al popolo dalle
sentenze che, per
caso di Stato, gli
Otto c la Signoria
dessino; la qual legge
persuase più tempo,
e con difficoltà grandissima ottenne:
occorse che, poco dopo
la confirmazicne d’essa,
furono condcunati a morte dalla
Signoria per conto di
Stato cinque cittadini;
e volendo quelli appellare,
non furono lasciati, e non
fu osservata la
legge. Il che tolse
più riputazione a quel
frate, che nessun altro
accidente: perchè, se quella
appellagione era utile,
ei doveva farla osservare;
s’ ella non era
utile, non doveva farla
vincere. E tanto più fu
notato questo accidente,
quanto che il frate
in tante predicazioni
che fece poi clic
fu rotta questa
legge, non mai o dannò
chi P aveva rotta,
o lo scusò ; come
quello che dannare
non voleva, come cosa
che gli tornava
a proposito ; e scusare non
la poteva. Il
che avendo scoperto l’animo
suo ambizioso e paitigiano,
gii tolse riputazione,
e dettegli assai carico. Offende
ancora uno Stato assai,
rinfrescare ogni dì
nello animo de’ tuoi
cittadini nuovi umori,
per nuove ingiurie ebe a
questo e quello si fucciano
: come intervenne a Roma
dopo il decemvirato. Perché
tutti i Dieci, ed altri
cittadini, in diversi
tempi furono accusati e condannati:
in modo che
gli era uno spavento
grandissimo in tutta la
Nobiltà, giudicando che e’
non si
avesse mai a porre fine a
simili condennagioni, fino a
tanto che tutta
la Nobiltà non fusse
distrutta. Ed arebbe
generato in quella città
grande inconveniente, se da
Marco Duellio tribuno
non vi fusse stato
provveduto; il qual
fece uno edit-to, che
per uno anno
non fusse lecito ad
alcuno citare o accusare
alcuno cittadino contano : il
che rassicurò tutta la
Nobiltà. Dove si
vede quanto sia
dannoso ad una repubblica
o ad un principe, tenere con
le continove pene
ed offese sospesi e paurosi
gli animi dei sudditi.
E senza dubbio, non
si può tenere il
più pernicioso ordine:
perchè gli uomini che
cominciano a dubitare di avere
a capitar male, in
ogni modo si assicurano
ne’ pericoli, e diventano più audaci,
e meno rispettivi a tentare
cose nuove. Però è necessario,
o non offendere mai alcuno,
o fare le offese
ad un tratto; e dipoi
rassicurare gli uomini, e dare loro
cagione di quietare
e fermare l’animo. Gli
uomini salgono da una
ambizione ad unJ
altra ; c prima si cerca
non essere offeso t dipoi di offendere
altrui. Avendo il Popolo
romano ricuperala la libertà,
ritornato nel suo
primo grado, ed in
tanto maggiore, quanto
si erano fatte dimolte
leggi nuove In
corroborazione della sua potenza
; pareva ragionevole che Roma
qualche volta quictasse.
Nondimeno, per esperienza
si vide il contrario;
perchè ogni di
vi surgeva nuovi tumulti
e nuove discordie. E perchè Tito
Livio prudentissimamente rende la
ragione donde questo
nasceva, non mi pare
se non a proposito
riferire appunto le sue
parole, dove dice
che sempre o il Popolo
o la Nobiltà insuperbiva, quanto V altro
si umiliava ; e stando la
Plebe quieta intra
i termini suoi, cominciarono i giovani nobili
ad ingiuriarla ; ed i Tribuni
vi potevano farepochi
rimedi, perchè ancora
loro erano violati. La
Nobiltà, dalP altra
parte, ancora che gli
paresse che la
sua gioventù fusse troppo
feroce, nondimeno aveva
a caro che avendosi
a trapassare il modo, lo
trapassassino i suoi, e non
la Plebe. E cosi il
desiderio di difendere
la libertà faceva che
ciascuno tanto si
prevaleva, eh’ egli oppressava
l’ altro. E V ordine di questi
accidenti è, che
mentre clic gli uomini
cercano di non
temere, cominciano a far temere
altrui; e quell ingiuria ch’egli
scacciano da loro,
la pongono sopra un
altro: come se
fussc necessario offendere, o essere
offeso. Vedesi, per
questo, in quale
modo, fra gli altri,
le repubbliche si
risolvono; e in che modo
gli uomini salgono
da una ambizione ad
un’ altra ; e come
quella sentenza salustiaua posta
in bocca di Cesare,
è verissima : quod omnia
mala exempla bonis mitiis
orla sunt. Cercano, come
di sopra è detto,
quelli cittadini clie ambiziosamente vivono
in una repubblica, la
prima cosa di non potere essere
offesi, non solamente
dai privati, ma eziam
da’ magistrali : cercano,
per potere fare questo,
amicizie ; e quelle acquistano per
vie in apparenza
oneste, o con sovvenire di
danari, o con difendergli da’ potenti
: e perchè questo pare virtuoso, s’ inganna
facilmente ciascuno, c per questo
non vi si
pone rimedio ; intanto
che egli senza
ostacolo perseverando,
diventa di qualità,
che i privati cittadini ne
hanno paura, ed i
magistrati gli hanno rispetto.
E quando egli è saJito
a questo grado, c non
si sia prima ovvialo
alla sua grandezza,
viene od essere in
termine, che volerlo
urtare è pericolosissimo, per
le ragioni che io
dissi di
sopra del pericolo
che è nello urtare uno
inconveniente che abbi
di già fatto augumento
in una città:
tanto che la cosa
si riduce in
termine, che bisogna
o cercare di spegnerlo
con pericolo di una
subita rovina j o lasciandolo fare,
entrare in una servitù
manifesta, se morte
o qualche accidente non te
ne libera. Perchè, venuto a’soprascrilti termini,
che i cittadini ed i magistrati
abbino paura ad
offender lui e gli amici
suoi, non dura
dipoi molta fatica a fare
che giudichino ed
offendino a suo modo.
Donde una repubblica intra gli
ordini suoi debbe
avere questo, di vegghiarc
che i suoi cittadini
sotto ombra di bene
non possino far
male ; e di’ egli
abbino quella riputazione
che giovi, e non nuoca,
alla libertà: come nel
suo luogo da
noi sarà disputato.
Gli nomini j ancora clic si
ingannino ncJ generali j nei particolari non si
ingannano. Essendosi il Popolo
romano, come di sopra
si dice, recato
a noia il nome consolare, e volendo
che potessiao esser fatti
Consoli uomini plebei,
o che fusse limitata la
loro autorità ; la
Nobiltà, per non deonestare
l’ autorità consolare nè con
Tuna nè con
1’ altra cosa,
prese una via di
mezzo, e fu contenta
che si creassino
quattro Tribuni con
potestà consolare, i quali
potcssino essere cosi
plebei come nobili. Fu
contenta a questo la Plebe,
parendogli spegnere il
consolato, ed avere in
questo sommo grado
la parte sua. Nacquene
di questo un
caso notabile : che
venendosi alla creazione
di questi Tribuni, e potendosi
creare tutti plebei, furono
dal Popolo romano
creati tutti fiobiii. Onde
L. dice queste parole: Quorum
comitiorum eoenlus docuit,
alias animo s in contcntione
l ib erta ti s et honoris,
alios secundum deposita certamina in
incorrupto judicio esse. Ed
esaminando donde possa
procedere questo, credo proceda
che gii uomini nelle
cose generali s’ ingannano assai, nelle
particolari non tanto.
Pareva generalmente alla Plebe
romana di meritare il
consolato, per avere
più parte in la
città, per portare
più pericolo nelle guerre,
per esser quella
che con le
braccia sue manteneva Roma
libera, e la faceva potente. E parendogli,
come è detto, questo suo
desiderio ragionevole, volse ottenere questa
autorità in ogni
modo. Ma come la
ebbe a fare giudizio
degli uomini suoi particolarmente, conobbe
la debolezza di quelli,
e giudicò che nessuno di
loro meritasse quello
che tutta insieme gli
pareva meritare. Talché
vergognatasi di loro, ricorse
a quelli che Io meritavano. Della
quale deliberazione
meravigliandosi meritamente L., dice
queste parole : /lane
modestiam , aquila IcmquCj
et allitudinem animi,
ubi moie in uno
inveneris , qua: lune populi universi fuit ?
In corroborazione di
questo, se ne può
addurre un altro
notabile essempio, seguito in
Capova da poi
che Annibaie ebbe rotti
i Romania Canne; per la
qual rotta sendo
tutta sollevata Italia, Capova
stava ancora per
tumultuare, per P odio eli’
era intra il
Popolo ed il Senato;
e trovandosi in quel
tempo nel supremo magistrato
Pacuvio Calano, e conoscendo il
pericolo che portava quella città
di tumultuare, disegnò
con suo grado riconciliare
la Plebe con la
Nobiltà ; e fatto questo
pensiero, fece ragunare il
Senato, c narrò loro
Podio che M popolo aveva
contra di loro,
ed i pericoli che
portavano di essere
ammazzati da quello, e data
la città ad
Annibaie, sendo le cose
de’ Romani afflitte
: dipoi soggiunse, che
se volevano lasciaregovernare questa
cosa a lui, farebbe
in modo che si
unirebbono insieme ; ma
gli voleva serrare dentro
al palazzo, e co fare
potestà al popolo
di potergli gastigare,
salvargli. Cederono a questa
sua oppinione i Senatori, e quello
chiamò il Popolo a coocione,
avendo rinchiuso in palazzo
il Senato ; e disse
com’ egli era venuto
il tempo di
potere domare la
superbia della Nobiltà,
e vendicarsi delle ingiurie ricevute
da quella, avendogli rinchiusi tutti
sotto la sua
custodia : ma perchè credeva
che loro non
volessino che la loro
città rimanesse senza
governo, era necessario, volendo
ammazzare i Senatori vecchi, crearne
de* nuovi. E per tanto
aveva messo tutti
gli nomi degli Senatori
in una borsa,
e comincierebbe a trargli in loro
presenza j ed egli farebbe
i tratti di mano
in mano morire, come
prima loro avessino
trovato il successore. E cominciato
a trarne uno, fu al
nome di quello
levato un rumore grandissimo, chiamandolo
uomo superbo, crudele ed
arrogante : e chiedendo
Paeuvio che facessino
lo scambio, si racchetò
tutta la conclone
; c dopo alquanto spazio, fu
nominato uno della plebe
; al nome del
quale chi cominciò a fischiare, chi a
ridere, chi a dirne male
in uno modo,
e chi in un
altro: o così seguitando di
mano in mano,
tutti quelli che furono
nominati, gli giudicavano indegni del
grado senatorio. In modo
che Pacuvio, presa
sopra questo occasione, disse:
Poiché voi giudicate
che qucslu città stia
male senza Senato,
ed a fare gii scambi
a’ Senatori vecchi
non vi accordate, io
penso che sia
bene che voi vi
riconciliate insieme ; perchè
questa paura in la
quale i Senatori sono stati,
gli arà fatti
in modo raumiliare, che quella
umanità che voi
cercavate altrove, troverete in
loro. Ed accordatisi a questo, ne
segui la unione
di questo ordine ; e quello
inganno in che
egli erano si scoperse,
come e’ furono
constretti venire a’ particolari.
Ingannansi, olirà di questo,
i popoli generalmente nel giudicare
le cose e gli
accidenti di esse j le
quali dipoi si
conoscono particolamento, si
avveggono di tale
inganno. Sendo stati i principi della città
cacciati da Firenze,
e non vi essendo alcuno
governo ordinato, ma piuttosto
una certa licenza
ambiziosa, ed andando le
cose pubbliche di
inale in peggio ; molti
popolari veggiendo la
rovina della città, e non
ne intendendo altra cagione, ne
accusavano la ambizione di
qualche potente che
nutrisse i disordini, per poter
fare uno Stato
a suo proposito, c torre loro
la libertà : c stavano questi tali
per le logge
c per le piazze, dicendo male
di molti cittadini,
e minacciandoli che se mai
si trovassero de’ Signori, scoprirebbono questo
loro inganno, e gli gastigarebbono. Occorreva spesso che
de’ simili ne
ascendeva al supremo magistrato;
e come egli era salilo
in quel luogo,
e che e* vedeva
le i cose più
dappresso, conosceva i disordini donde nascevano,
ed i pericoli che soprastavano, e la
difficoltà del rimecitarvi.
C veduto come i tempi,
e no gli uomini, causavano
il disordine, diventava subito d’ un
altro animo, c di un’
altra fatta ; perché
la cognizione delle cose
particolari gli toglieva
via quello inganno che
nel considerare generalmente si aveva
presupposto. Dimodoché, quelli che
lo avevano prima,
quando era privato, sentito parlare,
e vedutolo poi nel supremo
magistrato stare quieto,
credevano che nascesse, non
per più vera
cognizione delle cose, ma
perchè fusse stalo aggirato e corrotto
dai grandi. Ed
accadendo questo a molti uomini
c molte volte, ne nacque
tra loro un
proverbio, che diceva : Costoro
hanno uno animo in
piazza, cd uno
in palazzo. Considerando, dunque, tutto
quello si è discorso, si vede
come e’ si
può fare tosto aprire
gli occhi a’
popoli, trovando modo, veggendo che
uno generale gl’
inganna, ch’egli abbino a descenderc
ai particolari ; come fece
Pacuvio in Capova,
ed il --Senato
in Roma. Credo
ancora, che si possa
conchiudere, che mai un
uomo prudente non
debbe fuggire il giudizio
popolare nelle eo9e
particolari, circa le distribuzioni
de' gradi e delle dignità : perchè solo
in questo il
popolo non si inganna
; e se si inganna
qualche volta, Ha sì
raro, che s’ inganneranno più volte
i pochi uomini che
avessino a fare simili
distribuzioni. Nè mi
pare superfluo mostrare nel
seguente capitolo, P ordine che
teneva il Senato
per isgannare il
popolo nelle distribuzioni
sue. Chi vuole che
uno magistrato non sia
dato ad un
vile o ad un tristo j lo
facci domandare o ad un
troppo vile e troppo
tristo , o ad uno troppo nobile
c troppo buono. Quando il
Senato dubitava che i
Tribuni con potestà consolare
non fussino fatti d’
uomini plebei, teneva
uno de’duoi modi: o egli
faceva domandare ai più
riputati uomini di
Roma;o veramente, per i debiti
mezzi, corrompeva qualche plebcio sordido
ed ignobilissimo, che
mescolati con i plebei che,
di miglior qualità, per
T ordinario lo domandavano, anche loro
lo domandassino. Questo
ultimo modo faceva che
la Plebe si
vergognava a darlo ; quel primo
faceva che la si
vergognava a torlo, li che tutto
torna a proposito del precedente
discorso, dove si mostra
che il popolo
se s’ inganna de’ generali,
de’particolari non s’inganna. Se
quelle città che
hanno avuto il principio
libcrOj come Romaj hanno
diffìcultà a trovare leggi
che le mantenghino ; quelle che
lo hanno immediate servo , ne
hanno quasi una impossibilità. Quanto sia
difficile, nello ordinare
una repubblica, provvedere
a tutte quelle leggi che
la mantenghino libera,
lo dimostra assai bene
il processo della
Repubblica romana: dove non
ostante che fussino ordinate
di molte leggi
da ROMOLO prima,
dipoi da Nuraa,
da Tulio Ostilio e Servio,
ed ultimamente dai dieci
cittadini creali a simile
opera ; nondimeno sempre nel
maneggiare quella città si
scoprivano nuove necessità,
ed era necessario creare
nuovi ordini: come intervenne quando
crearono i Censori, i quali furono
uno di quelli
provvedimenti che aiutarono tenere
Roma libera, quel tempo
che la visse
in libertà. Perchè, diventati
arbitri de’ costumi di Roma,
furono cagione potissima
che i Romani diflerissino
più a corrompersi. Feciono bene
nel principio della
creazione di tal magistrato
uno errore, creando quello per
cinque anni; ma,
dipoi non molto tempo,
fu corretto dalla
prudenza di Mamereo dittatore,
il qual per nuova
legge ridusse detto
magistrato a diciolto mesi.
Il che i Censori
che vegghiavano, ebbono
tanto per male,
che privorno Mamcrco del
senato: la qual cosa
e dalla Plebe c dai
Padri fu assai biasimata. perchè
la istoria non
ino*stra che Mamerco
se ne potesse
difen-dere, conviene o che lo
istorico sia difettivo, o gli ordini
di Roma in
questa parte non buoni
: perchè non è bene
che una repubblica sia
in modo ordinata, ebe
un cittadino per
promulgare una legge conforme
al vivere libero,
ne possa essere senza
alcuno rimedio offeso.
Ma tornando al principio
di questo discorso, dico che
si dehbe, per
la creazione di questo
nuovo magistrato, considerare, che se
quelle città che
hanno avuto il principio
loro libero, e che
per se medesimo si
è retto, come Roma,
hanno difHcultà grande a trovar
leggi buone per mantenerle
libere ; non è meraviglia che quelle
città che hanno
avuto il principio loro
immediate servo, abbino, non
che dilfìcultà, ma
impossibilità ad. ordinarsi mai
in modo che
le possino vivere civilmente
e quietamente. Come si vede
che è intervenuto alla
città di Firenze; la
quale, per avere
avuto il principio suo
sottoposto allo imperio
romano, ed essendo
vivuta sempre sotto governo
d* altri, stette un
tempo soggetta, e senza pensare
a sè medesima: dipoi, venuta
la occasione di
respirare, cominciò a fare suoi
ordini; i quali sendo mescolati con
gli antichi, che
erano tristi, non poterono
essere buoni: e così è ita
maneggiandosi per dugento
anni che si lia
di vera memoria,
senza avere mai avuto
stato per il
quale ella possa veramente essere
chiamata repubblica. E queste diflicultà
che sono state
in lei, sono state
sempre in tutte
quelle città che hanno
avuto i principii simili
a lei. E benché molte volte,
per suffragi pubblici e liberi, si
sia dato ampia
autorità a pochi cittadini di
potere riformarla; non pertanto
mai l’ hanno ordinata
a comune utilità, ma
sempre a proposito della parte
loro : il che
ha fatto non ordine,
ma maggiore disordine
in quella città. E per
venire a qualche essempio particolare, dico
come intra le
altre cose che si
hanno a considerare da
uno ordinatore d’
una repubblica, è esaminare nelle mani
di quali uomini
ci ponga 1’ autorità
del sangue coutra
de’ suoi cittadini. Questo
era bene ordinato
in Roma, perchè e’
si poteva appellare
al Popolo ordinariamente : e se
pure fussc occorsa cosa
importante, dove il
differire la esecuzione mediante
la appellagione fusse pericoloso,
avevano il refugio
del Dittatore, il quale
eseguiva immediate; al qual
rimedio non rifuggivano
mai, se non per
necessità. Ma Firenze,
c Y altre città nate nel
modo di lei,
sendo serve, avevano questa
autorità collocata in un
forestiero, il quale
mandato dal principe faceva tale
uffizio. Quando dipoi
vennono in libertà,
mantennero questa autorità in
un forestiero, il
quale chiamavano Capitano: il
che, per potere
essere facilmente corrotto da’
cittadini potenti, era cosa
perniciosissima. Ma dipoi,
murandosi per la mutazione
degli Stati questo ordine, creorno
otto cittadini che
facessino V uffizio di
quel Capitano. Il
quale ordine, di cattivo,
diventò pessimo, per le
cagioni che altre
volte sono dette: che
i pochi furono sempre
ministri dc’po-ehi, e de*
più potenti. Da
che si è guardata la
città di Vinegia;
la quale ha dieci
cittadini, che senza
appello possono punire ogni
cittadino. E perchè e* non
basterebbono a punire i potenti,
ancora die ne nvessino
autorità, vi hanno
constituito le Quarnntie:
c di più, hanno voluto
che il Consiglio
de’ Pregai, elicè il Consiglio
maggiore, possa gastigargli; In modo
che non vi
mancando lo accusatore, non vi
manca il giudice
a tener gli uomini potenti
a freno. Non è dunque meraviglia, reggendo
come in Roma, ordinata da
sè medesima e da
tanti uomini prudenti, surgevano
ogni di nuove cagioni
per le quali
si aveva a fare
nuovi ordini in
favore del viver
libero j se nelle altre
città che hanno più
disordinalo principio, vi
surgono tuli difficoltà, che
le non si
possino riordinar mai. L. — iVon
dcbbc uno consiglio
o uno magistrato potere
fermare le azioni della
città. tirano consoli in
Roma Tito Quinzio Cincinnato c Gneo
Giulio Mento, i quali sendo
disuniti, avevano ferme
tutte le azioni di
quella Repubblica. 11
che veggcndo il
Senato, gli confortava
a creare il Dittatore, per
fare quello che
per le discordie loro
non poteva fare.
Ma i Consoli discordando in
ogni altra cosa,
solo in questo erano
d’accordo, di non
voler creare il Dittatore.
Tanto che il
Senato, non avendo altro
rimedio, ricorse allo aiuto
de’ Tribuni; i quali, con
l’autorità del Senato, sforzarono
i Consoli ad ubbidire. Dove si
ba a notare, in
prima, la utilità del
tribunato; il quale
non era solo utile
a frenare l’ ambizione che i
potenti usavano contra
alla Plebe, ma quella
ancora ch’egli usavano
infra loro: 1’ altra,
che mai si
debba ordinare in una
città, che i pochi
possino tenere alcuna deliberazione di
quelle che ordinariamente sono necessarie
a mantenere la repubblica. Yerbigrazia,
se tu dai
una autorità nd uno
consiglio di fare
una distribuzione di onori
c di utile, o ad uno
magistrato di amministrare
una faccenda; conviene o imporgli
una necessità perchè ei l’
abbia a fare in
ogni modo; o ordinare, quando
non la voglia fare
egli, che la
possa e debba fare
un altro: altrimenti, questo
ordine sarebbe difettivo e pericoloso;
come si vedeva che
era in Roma,
se alla ostinazione
di quelli Consoli non si poteva
opporre P autorità de’
Tribuni. Nella Repubblica veneziana il
Consiglio grande distribuisce gli onori
e gli utili. Occorreva
alle volte che P universalità, per
isdegno o per qualche
falsa suggestione, non
creava i successori ai magistrati
della città, ed a quelli
che fuori amministravano lo imperio
loro. Il che
era disordine grandissimo: perchè in
un tratto, e le
terre suddite e la città
propria mancavano de’ suoi legittimi
giudici; nè si
poteva ottenere cosa alcuna,
se quella universalità
di quel Consiglio
non si satisfaceva, o non s’ingannava.
Ed avrebbe ridotta questo
inconveniente quella città a mal
termine, se dagli
cittadini prudenti non vi
si fusse provveduto:
i quali, presa occasione conveniente,
fecero una legge, che
tutti i magistrati che
sono o fussino dentro
e fuori della città,
mai vacassero, se non
quando fussino fatti gli
scambi e i successori loro.
E cosi si tolse la
comodità a quel Consiglio
di potere, con pericolo
della repubblica, fermare le
azioni pubbliche. LI. Una
repubblica o uno principe debbe mostrare
di fare per
liberalità quello a che la
necessità lo consiringe. Gli uomini
prudenti si fanno
grado sempre delle cose,
in ogni loro
azione, ancora che la
necessità gli constringesse a farle in
ogni modo. Questa
prudenza fu usata bene
dal Senato romano,
quando ei deliberò che si desse
lo stipendio del pubblico
agli uomini che
militavano, essendo consueti militare
del loro proprio. Ma
veggendo il Senato
come in quel modo
non si poteva
fare lungamente guerra, e per
questo non potendo nè
assediare terre, uè
condurre gli eserciti discosto; e giudicando
essere necessario potere fare
1* uno e 1’
altro ; deliberò che si
dessino detti stipendi;
ina lo feciono in
modo, che si
fecero grado di quello
a che la necessità
gli constringeva; e fu tanto
accetto alla Plebe
questo presente, che Roma
andò «sottosopra per la
allegrezza, parendole uno
benefizio grande, quale mai
speravano di avere, e quale
mai per loro
medesimi arebbono cerco. E benché
i Tribuni s* ingegnassero di cancellare
questo grado, mostrando come
ella era cosa
che aggravava, non alleggeriva,
la Plebe, scodo necessario porre
i tributi per pagare questo
stipendio ; nientedimeno non
potevano fare tanto che la Plebe
non lo avesse accetto:
il che fu
ancora augumentalo dal
Senato per il
modo che distribuivano i tributi; perchè
i più gravi ed i maggiori
furono quelli chVposono alla Nobiltà,
e gli primi che
furono pagati. LII. —
A reprimere la insolenza
di uno che surga
in una repubblica
potente , non vi c più
securo e meno scandaloso modo , che preoccuparli
quelle vie per le
quali e* viene
a quella potenza. Yedesi per
il soprascritto discorso, quanto credito
acquistasse la Nobiltà
con la Plebe per
le dimostrazioni fatte
in benefizio suo, sì
del stipendio ordinato, si
ancora del modo
del porre i tributi. Nel quale
ordine se la
Nobiltà si fosse mantenuta, si
sarebbe levato via
ogni tumulto in quella
città, e sarebbesi tolto ai
Tribuni quel credito
che egli avevano con
la Plebe, e,
per conseguente, quella autorità. E veramente,
non si può in
una repubblica, e massime
in quelle che sono
corrotte, con miglior
modo, meno scandaloso e più
facile, opporsi alla
ambizione di alcuno cittadino,
che preoccuparli quelle vie,
per le quali
si vede che esso
cammina per arrivare
al grado che disegna,
li qual modo
se fusse stalo usato
contra Cosimo de’ Medici,
sarebbe stato miglior partito
assai per gli
suoi avversari, che cacciarlo
da Firenze: perchè, se
quelli cittadini che
gareggiavano seco, avessino preso
lo stile suo
di favorire il popolo,
gli venivano senza
tumulto e senza violenza a trarre
di mano quelle arme
di che egli
si valeva più. SODERINI si aveva
fatto riputazione nella città
di Firenze con
questo solo, di favorire
l’universale: il che
nello universale gli dava
riputazione, come amatore della
libertà della città.
E veramente, a quelli
cittadini che portavano
invidia alla grandezza sua,
era molto più
facile ed era cosa
molto più onesta,
meno pericolosa, e meno dannosa
per la repubblica, preoccupargli quelle
vie con le quali
si faceva grande,
che volere contrapporsegli, acciocché
con la rovina
sua rovinasse tutto il
resto della repubblica: perchè, se gli avessero
levate di mano quelle
armi con le
quali si faceva
gagliardo (il che potevano
fare facilmente), arebbono potuto
in lutti i consigli,
e in tutte le deliberazioni
pubbliche, opporsegli senza
sospetto, e senza rispetto
alcuno. E se alcuno replicasse,
che se i cittadini
che odiavano Piero,
feciono errore a non gli
preoccupare le vie
con le quali ei
si guadagnava riputazione nel popolo,
Piero ancora venne
a fare errore, a non preoccupare
quelle vie per le
quali quelli suoi
avversari lo facevano temere; di’ che
Piero merita scusa,
si perchè gli era
difficile il farlo,
sì perchè le non
erano oneste a lui
: imperocché le vie con le quali
era offeso, ciano il
favorire i Medici; con
li quali favori essi
io battevano, e alla
fine !o rovinorno. Non
poteva, pertanto, Piero onestamente pigliare
questa parte, per non
potere distruggere con
buona fama quella libertà
alla quale egli
era stato preposto a guardia
: dipoi, non potendo questi favori
farsi segreti e ad
uno tratto, erano per
Piero pericolosissimi; perchè comunelle ei si fusse
scoperto amico de’ Medici, sarebbe
diventato sospetto ed odioso
al popolo; donde
ai nimici suoi nasceva
molto più comodità
di opprimerlo, che non
avevano prima. Debbono, pertanto, gli
uomini in ogni
partito considerare i difetti ed i
pericoli di quello, e non
gli prendere, quando
vi sia più del
pericoloso che dell’
utile ; nonostante che ne
fusse stata data
sentenza conforme alla deliberazion
loro. Perchè, facendo altrimenti, in
questo caso interverrebbe a quelli come
intervenne a Tullio; il
quale volendo torre
i favori a Marc’ Antonio,
gliene accrebbe. Perchè, sondo
Marc’ Antonio stato giudicalo
inimico del Senato, ed
avendo quello grande esercito insieme
adunato, in buona
parte, dei soldati che
avevano seguitato la
parte di Cesare; Tullio,
per torgli questi
soldati, confortò il Senato
a dare riputazione ad Ottaviano,
e mandarlo con lo esercito
e con i Consoli contra
a Marc' Antonio: allegando,
che subito che i
soldati che seguitavano Marc’
Antonio, scntissino il
nome di Ottaviano
nipote di Cesare, e che
si faceva chiamar
Cesare, lascerebbono quello, c si
aceosterebbono a costui ; e
così restato Marc’
Antouio ignudo di favori,
sarebbe facile lo
opprimerlo. La qual cosa
riuscì tutta al
contrario; perchè Marc’ Antonio si
guadagnò Ottaviano; e
lasciato Tullio ed
il Senato, si accostò
a lui. La qual
cosa fu al
tutto la destruzione della
parte degli Ottimati. 11
che era facile
a conietturare: nè si doveva
credere quel che
si persuase Tullio, ma
tener sempre conto
di quel nome che
con tanto gloria
aveva spenti i nimici
suoi, ed acquistatosi
il principato in Roma;
nè si dovea
credere mai potere, o da
suoi eredi o da
suoi fautori, avere cosa
che fusse conforme
al nome libero. LUI.
— Il popolo molte
volte desidera la rovina
sua j ingannato da una falsa
spezie di bene :
e come le grandi speranze e gagliarde
promesse facilmente lo muovono. Espugnata che
fu la città
de’ Veienti, entrò nel
Popolo romano una
oppinione, che fusse cosa
utile per la
città di Roma,
che la metà
de’ Romani andasse
ad abitare a Veio ; argomentando che,
per essere quella città
ricca di contado, piena di
edifizii e propinqua a Roma,
si poteva arricchire la
metà de’ cittadini romani, e non
turbare per la
propinquità del sito nessuna
azione civile. La qual
cosa parve al
Senato ed a’
più savi Romani tanto
inutile e tanto dannosa, che
liberamente dicevano, essere
piuttosto per patire
la morte, che
consentire ad una tale
deliberazione. In modo che,
venendo questa cosa
in disputa, si accese
tanto la Plebe
contra al Senato, che
si sarebbe venuto
alle armi cd al
sangue, se il
Senato non si
fusse fatto scudo di
alcuni vecchi e stimati
cittadini ; la riverenza dc’quali
frenò la Plebe, che
la non procede
più avanti con la
sua insolenza. Qui
si hanno a notare due
cose. La prima,
che ’l popolo
molte volte, ingannato da
una falsa immagine di
bene, desidera la
rovina sua ; e se non
gli è fatto capace,
come quello sia male,
e quale sia il
bene, da alcuno
in chi esso abbia
fede, si pone
in le repubbliche infiniti pericoli
c danni. E quando la
sorte fu che
il popolo non abbi
fede in alcuno,
come qualche volta occorre, sendo
stato ingannato per lo
addietro o dalle cose o
dagli uomini; si viene
alla rovina di
necessità. Ed ALIGHIERI (si veda)
dice a questo proposito,
nel discorso suo che
fa De Monarchia > che il
popolo molte volte
grida viva la
sua morie j C muoia la sua
vita. Da questa
incredulità nasce, che qualche
volta in le
repubbliche i buoni partiti
non si pigliano
: come di sopra si
disse de’ Veneziani,
quando assaltati da tanti
inimici non poterono prendere partito
di guadagnarsene alcuno con
la restituzione delle
cose tolte ad altri
(per le quali
era mosso loro
la 'guerra, e fatta la
congiura de’ principi loro
contro), avanti che
la rovina venisse. Pertanto, considerando
quello che è facile o quello
che è diffìcile persuadere ad
un popolo, si
può fare questa distinzione: o quel
che tu hai a
persuadere rappresenta in prima
fronte guadagno, o perdita ; o veramente
pare partito animoso, o vile:
e quando nelle cose che
si mettono innanzi
ai popolo, si vede guadagno, ancora
che vi sia
nascosto sotto perdila; e quando
e* paia animoso, ancora che
vi sia nascosto
sotto la rovina della
repubblica, sempre sarà facile
persuaderlo alla moltitudine:
e così fia sempre
difficile persuadere quelli partiti dove
apparisce o viltà o perdita, ancoraché vi
fusse nascosto sotto
salute e guadagno. Questo che io ho
detto, si conferma con
infiniti esempi, romani
e forestieri, moderni ed
antichi. Perchè da questo
nacque la malvagia
opinione che surse in
Roma di Fabio
Massimo, il quale non
poteva persuadere al
Popolo romano, che fusse
utile a quella Repubblica procedere lentamente
in quella guerra, e sostenere senza
azzuffarsi V impeto di Annibaie;
perchè quel Popolo
giudicava questo partito vile,
c non vi vedeva
dentro quella utilità vi
era ; nè Fabio
aveva ragioni bastanti a dimostrarla
loro: c tanto sono i
popoli accecati in
queste oppinioni gagliarde, che
benché il Popolo romano
avesse fatto quello
errore di dare autorità
al Maestro de’ cavalli
di Fabio di potersi
azzuffare, ancora che Fabio
non volesse; e che
per tale autorità il
campo romano fusse
per esser rotto, se
Fabio con la
sua prudenza non vi
rimediava; non gli
bastò questa esperienza, che fece
dipoi consolo VARRONE (si veda), non per
altri suoi meriti
che per avere, per
tutte le piazze
e tutti i luoghi pubblici di
Roma, promesso di
rompere Annibaie, qualunque volta
gliene fusse data autorità. Di
che ne nacque
la zuffa e rotta
di Canne, e presso
che la rovina di
Roma. Io voglio
addurre a questo proposito ancora
uno altro essempio
romano. Era stato Annibaie
in Italia otto o dieci
anni, aveva ripieno
di occhione de’ Romani
tutta questa provincia, quando venne
in Senato Marco
Centenio Penula, uomo vilissimo
(nondimanco aveva avuto qualche
grado nella milizia), ed
offersegli, che se
gli davano autorità di
potere fare esercito
di uomini volutitari
in qualunque luogo
volesse in Italia, ei
darebbe loro, in
brevissimo tempo, preso o morto
Annibaie. Al Senato
parve la domanda di
costui temeraria; nondimeno ei
pensando che s’ ella
se gli negasse, e nel
popolo si fusse
dipoi sapula la
sua chiesta, che
non ne nascesse qualche tumulto,
invidia e mal grado
contro all’ordine senatorio, gliene
concessono : volendo più
tosto mettere a pericolo tutti coloro
che lo seguitassino,
che fare surgere nuovi
sdegni nel Popolo;
sappiendo quanto simile
partito fusse per essere
accetto, e quanto fusse
difficile il dissuaderlo. Andò,
adunque, costui con una
moltitudine inordinata ed
incomposita a trovare Annibaie;
e non gli fu prima
giunto all* incontro,
che fu con tutti
quelli che lo
seguitavano rotto e morto. In
Grecia, nella città
di Atene, non potette
mai Nicia, uomo
gravissimo e prudentissimo,
persuadere a quel popolo, che
non fusse bene
andare ad assaltare Sicilia: talché,
presa quella deliberazione contra alla
voglia de’ savi, ne
seguì al tutto
la rovina di
Atene. Scipione quando fu
fatto consolo, e che desiderava la
provincia di Affrica,
promettendo al tutto la
rovina di Cartagine; a che non
si accordando il
Senato per la sentenza
di Fabio Massimo,
minacciò di proporla nel
Popolo, come quello clic
conosceva benissimo quanto simili
deliberazioni piaccino a’
popoli. Potrebbesi a questo proposito
dare esempi della nostra
città : come fu
quando messere Ercole Bentivogli,
governadore delle genti fiorentine,
insieme con Antonio Giacomini, poiché
ebbono rotto llartolommeo d’
Alviano a San Vincenti, andarono a campo
a Pisa ; la qual
impresa fu deliberata dal
popolo in su le
promesse gagliarde di
messcr Ercole, ancora che
molti savi cittadini
la biasimassero: nondimeno non
vi ebbero rimedio, spinti
da quella universale
volutila, la qual era
fondata in su
le promesse gagliarde del
governadore. Dico, adunque, come
non è la più
facile via a fare rovinare
una repubblica dove
il popolo abbia autorità,
che metterla' in imprese gagliarde
: perchè, dove il
popolo sia di alcuno
momento, sempre fieno accettale; nè
vi arà, chi
sarà d’ altra oppinione, alcuno
rimedio. Ma se di questo nasce
la rovina della
città, ne nasce ancora,
e più spesso, la
rovina particolare de* cittadini
che sono preposti
a simili imprese : perchè,
avendosi il popolo presupposto la
vittoria, eomee’vienc la perdita,
non ne accusa
nè la fortuna, nè
la impotenza di chi ha
governato, ma la tristizia
e la ignoranza sua; e
quello il più
delle volte o ammazza,
o imprigiona, o confina: come
intervenne a infiniti capitani
Cartaginesi, ed a molti Ateniesi. Nè
giova loro alcuna
vittoria che per lo
addietro avessino avuta,
perchè tutto la presente
perdita cancella : come
intervenne ad Antonio
Giacomini nostro, il quale
non avendo espugnata Pisa, come
il popolo aveva
presupposto ed egli promesso,
venne in tanta
disgrazia popolare, che non
ostante infinite sue buone
opere passate, visse
più per umanità di
coloro che ne
avevano autorità, che per
alcun’ altra cagione
che nel popolo lo
difendesse. liv# — Quanta autorità
abbia uno uomo grande
a frenare una moltitudine
concitata. Il secondo notabile
sopra il testo
nel superiore capitolo allegato,
è, che veruna cosa
è tanto atta a frenare
una moltitudine concitata, quanto
è la riverenza di qualche
uomo grave e di
autorità, che se le
faccia incontro j nè
senza cagione dice VIRGILIO (si veda): “Tutn vietate
graverà ac meritis
si forte virum Conspexere , sileni , arrectisque aur^®n^ci* Per tanto,
quello che è proposto
a uno esercito, o quello che
si trova in una
città, dove nascesse
tumulto, debbe rappresentarsi in su
quello con maggior grazia e piu
onorevolmente che può,
mettendosi intorno le insegne
di quel grado che
tiene, per farsi
più reverendo. Era, pochi
anni sono, Firenze
diviso in due fazioni,
Fratesche ed Arrabbiate,
che cosi si chiamavano;
e venendo ali’ arme, ed essendo
superati i Frateschi, intra
i quali era Pagolantonio Soderini,
assai in quelli tempi
riputato cittadino; cd
andandogli in quelli tumulti
il popolo armato
a casa per saccheggiarla; messer
Francesco suo fratello, allora
vescovo di Volterra,
ed oggi cardinale, si
trovava a sorte in
casa : il quale,
subito sentito il
romore e veduta la turba,
messosi i più onorevoli panni indosso,
e di sopra il
rocchetto episcopale, si fece
incontro a quelli armati, e con
la persona e con
le parole gli fermò
; la qual cosa
fu per tutta
la città per molti
giorni notata e celebrata. Conchiudo, adunque,
come e’ non è il più
fermo nè il
più necessario rimedio a frenare una
moltitudine concitata, che la
presenza d’ uno
uomo che per
presenza paia e sia reverendo.
Vedesi, adunque, per tornare
al preallegato testo, con
quanta ostinazione la
Plebe romana accettava quel
partito d’ andare
a Yeio, perchè Io giudicava
utile, nè vi
conosceva sotto il
danno vi era ?
e come nascendone assai tumulti,
ne sarebbero nati scandali,
se il Senato
con uomini gravi e pieni
di riverenza non
avesse frenato il loro
furore. lv. — Quanto facilmente
si conduellino le
cose in quella
città dove la moltitudine
non è corrotta: e che dove
è e qualità , non si può
fare principato / e dove la non èj
non si può far
repubblica. Ancora clie di
sopra si sia
discorso assai quello sia
da temere o sperare delle città
corrotte; nondimeno non mi
pare fuori di
proposito considerare una deliberazione del
Senato circa il
voto ehe Cammillo aveva
fatto di dare
la decima parte ad
Apolline della preda de’
Veienti : la qual
preda sendo venuta nelle
mani della Plebe
romana, nè se ne
potendo altrimenti riveder
conto, fece il Senato
uno editto, che
ciascuno dovesse rappresentare
al pubblico la
decima parte di quello
gli aveva predalo. E benché tale
deliberazione non avesse luogo,
avendo dipoi il
Senato preso altro modo,
c per altra via
satisfatto ad Àpolliue in
satisfazione della Plebe;
nondimeno si vede per
tali deliberazioni quanto quel
Senato confidasse nella
bontà di quella, e come
e’ giudicava che
nessuno fusse per non
rappresentare appunto tutto quello
che per tale
editto gli era comandato.
E dall’ altra parte
si vede, come la
Plebe non pensò
di fraudare in alcuna
parte lo editto
con il dare meno
che non doveva,
ma di liberarsi da
quello con il
mostrarne aperte
indignazioni. Questo essempio,
con molti altri che
di sopra si
sono addotti, mostrano quanta bontà
e quanta religione fusse in
quel Popolo, e quanto
bene fusse da sperare
di lui. E veramente, dove non è
questa bontà, non
si può sperare nulla
di bene; come
non si può sperare
nelle provincic che in questitempi
si veggono corrotte:
come è la Italia sopra
tutte le altre;
ed ancora la Francia
di tale corruzione ritengono parte.
E se in quelle
provincie non si
vede tanti disordini
quanti nascono in Italia
ogni di, deriva
non tanto dalla bontà
de' popoli, la
quale ìh buona parte
è mancata; quanto dallo avere
uno re che
gli mantiene uniti, non
solamente per la
virtù sua, ma per
l’ordine di quelli
regni, che ancora
non sono guasti. Vedesi
bene nella provincia della Magna,
questa bontà e questa religione ancora
in quelli popoli
esser grande; la qual
fa che molte
repubbliche vi vivono libere,
ed in modo
osservano le loro leggi,
che nessuno di
fuori nè di dentro
ardisce occuparle. E che sia
vero che in
loro regni buona
parte di quella antica
bontà, io nc
voglio dare uno essempio
simile a questo detto di
sopra del Senato
e della Plebe romana. Usano
quelle repubbliche, quando gli
occorre loro bisogno
di avere a spendere
alcuna quantità di
danari per conto pubblico, che
quelli magistrati o consigli che ne
hanno autorità, ponghino
a tutti gli abitanti
della città uno
per cento, o dua, di
quello che ciascuno
ha di valsente. E fatta
tale deliberazione secondo 1’
ordine della terra,
si rappresenta ciascuno dinanzi
agli esecutori di tale
imposta; e, preso
prima il giuramento di
pagare la conveniente
somma, getta in una
cassa a ciò deputata
quello clic secondo la
conscienza sua gli
pare dover pagare: del
qual pagamento non è testimonio alcuno,
se non quello
che paga. Donde si
può conictturare, quanta bontà
e quanta religione sia ancora in quelli
uomini. E debbesi stimare
che ciascuno paghi la
vera somma: perchè, quando la
non si pagasse,
non pitterebbe la imposizione
quella quantità che loro disegnassero secondo
le antiche che fussino
usitate riscuotersi; e non
gitlando, si conoscerebbe
la fraude; e conoscendosi, arebbon
preso altro modo che
questo. La quale
bontà è tanto più da
ammirare in questi
tempi, quanto ella è più
rara : anzi si
vede essere rimasa
sola in quella
provincia. Il che nasce
da due cose :
Y una, non avere avuti
commerzi grandi co’ vicini;
perchè nè quelli sono
ili a casa loro,
nè essi sono iti a
casa altrui; perchè
sono stati eontenli di
quelli beni, e vivere
di quelli cibi, vestire
di quelle lane
che dà il paese:
d’onde è stata tolta
via la cagione d’ogni
conversazione, ed il
principio di ogni corruttela;
perchè non hanno possuto
pigliare i costumi nè franciosi
nè spagnuoli nè
italiani, le quali nazioni
tutte insieme sono
la corruttela del mondo.
L’ altra cagione è, che
quelle repubbliche dove
si è mantenuto il vivere
politico ed incorrotto, non sopportano
che alcuno loro
cittadino nè sia nè
viva ad uso
di gentiluomo: anzi mantengono
infra loro una pari
equalità, ed a quelli
signori e gentiluomini che sono
in quella provincia, sono inimicissimi
; c se per caso
alcuni pervengono loro nelle
mani, come priacipi
di corruttela e cagione
di ogni scandalo, gli
ammazzano. E' per
chiarire questo nome di
gentiluomini quale e’
sia. dico che gentiluomini
sono chiamali quelli che
ociosi vivono de’
proventi delle loro possessioni
abbondantemente, senza avere alcuna
cura o di coltivare, o di alcuna
altra necessaria fatica
a vivere. Questi tali
sono perniciosi in ogni
repubblica ed in
ogni provincia; ma più
perniciosi sono quelli
che, oltre alle predette
fortune, comandano a ca- stella, ed hanno
sudditi che ubbidiscono a loro. Di
queste due sorti
di uomini ne sono
pieni il regno
di Napoli, terra di
Roma, la Romagna
e la Lombardia. Di qui
nasce che in
quelle provincie non è mai
stata alcuna repubblica,
nè alcuno vivere politico;
perchè tali generazioni di uomini
sono al tutto
nemici di ogni civiltà.
Ed a volere in
provincie fatte in simil
modo introdurre una repubblica,
non sarebbe possibile: ma
a volerle riordinare, se
alcuno ne fusse arbitro,
non arebbe altra
via che farvi un
regno. La ragione
è questa, che dove è tanto
la materia corrotta che
le leggi non
bastino a frenarla, vi bisogna
ordinare insieme con
quelle maggior forza ; la
quale è una mano regia,
che con la
potenza assoluta ed eccessiva
ponga freno alla
eccessiva ambizione e corruttela de’
potenti. Verificasi questa ragione
cou lo esempio
di Toscana : dove si
vede in poco
spazio di terreno stale
longamente tre repubbliche, Firenze, Siena
e Lucca ; e le altre città
di quella provincia
essere in modo serve,
che, con l’ animo
e con T ordine, si vede o
che le
mantengono, o che le vorrebbono
mantenere la loro libertà.
Tutto è nato per
non essere in quella
provincia alcun signore
di castella, c nessuno o pochissimi
gentiluomini ; ma esservi tanta
equalità, che facilmente da
uno uomo prudente,
e che delle antiche civilità
avesse cognizione, vi si
introdurrebbe un viver
civile. Ma lo infortunio
suo è stato tanto
grande, che infino a questi
tempi non ha
sortito alcuno uomo che
lo abbia potuto o saputo fare.
Trassi adunque di
questo discorso questa conclusione:
che colui che vuole
fare dove sono
assai gentiluomini una repubblica,
non la può fare
se prima non
gli spegne tutti:
e che colui che
dove è assai equalità
vuole fare uno regno
o uno principato, non lo
potrà mai fare
se non trae
di quella «qualità molti
di animo ambizioso
ed inquieto, e quelli fa
gentiluomini in fatto, e non
in nome,, donando
loro castella e possessioni, c dando
loro favore di sustanze
e d’uomini ; acciocché, posto in
mezzo di loro,
mediante quelli mantenga la
sua potenza ; cd
essi, mediante quello, la
loro ambizione; e gli
altri siano constretti
n sopportare quel giogo che
la forza, e non
altro mai, può far
sopportare loro. Ed
essendo per questa
via proporzione da chi
sforza a chi è sforzato,
stanno fermi gli uomini
ciascuno nello ordine
loro. E perchè il fare
d’una provincia atta ad
essere regno una
repubblica, c d’ una atta ad
essere repubblica farne
un regno, è materia da uno uomo
che per cervello e per
autorità sia raro;
sono stati molti che
Io hanno voluto
fare, e pochi che
lo abbino saputo
condurre. Perchè la grandezza
della cosa parte sbigottisce gli
uomini, parte in
modo gli ’mpedisce, che
ne’ primi principii mancano. Credo che a
questa mia oppiatone, che dove
sono gentiluomini non si
possa ordinare repubblica,
parrà contraria la esperienza
della Repubblica veneziana, nella
quale non usano
avere alcuno grado se
non coloro che
sono gentiluomini. A che si
risponde, come questo essempio
non ci fa
alcuna oppugnazione, perchè i gentiluomini in quella
Repubblica sono piu
in nome che in
fatto; perchè loro
non hanno grandi entrate di
possessioni, sendo le
loro ricchezze grandi fondate
in sulla mercanzia e cose mobili;
e di più, nessuno di
loro tiene castella,
o ha alcuna iurisdizione
sopra gli uomini:
ma quel nome di
gentiluomo in loro è
nome di degnila e di
riputazione, senza essere fondato sopra
alcuna di quelle
cose che fa che
nell’ altre città
si chiamano i gentiluomini. E come
le altre repubbliche hanno tutte
le loro divisioni
sotto vari nomi, così
Vinegia si divide
in gentiluomini e popolari ; e vogliono
che quelli abbino, ovvero
possino avere, tutti gli
onori; quelli altri
ne sieno al
tutto esclusi. Il che
non fa disordine
in quella terra, per
le ragioni altra
volta dette. Gonstituisca, adunque,
una repubblica colui dove
è, o è fatta una
grande egualità; ed alP
incontro ordini un
principato dove è grande inequalità
: altrimenti farà cosa senza
propprzione, e poco durabile. Innanzi che
segnino i grandi accidenti
in una città
o in una provincia , vengono segni
che gli pròìioslicanOj o uomini
che gli predicono. Donde e*
si nasca io
non so, ina si
vede pei* gli
antichi e per gli
moderni essempi, che mai
non venne alcuno
grave accidente in una
città o in una
provincia, che non sia
stato, o da indovini
o da revelazioni o da
prodigi, o da altri segni
celesti, predetto. E per
non mi discostare da
casa nei provare
questo, saciascuno quanto
da frate Girolamo
Savonarola fusse predetta innanzi
la venuta del re
Carlo Vili di
Francia in Italia; e come, olirà
di questo, per
tutta Toscana si disse
esser sentite in
aria e vedute genti d’ arme,
sopra Arezzo, che si
azzuffavano insieme. Sa
ciascuno olirà di questo,
come avanti la
morte di Lorenzo de’
Medici vecchio fu
percosso il duomo nella
sua più alta
parte con una saetta
celeste, con l'ovina
grandissima di quello edilìzio.
Sa ciascuno ancora,, come
poco innanzi che
Soderini, quale era stato
fatto gonfaloniere a vita dal
popolo fiorentino, fosse
cacciato e privo del
suo grado, fu
il palazzo medesimamente da un
fulgore percosso. Potrcbbesi,
olirà di questo,
addurre più essempi, i quali
per fuggire il
tedio lascerò. Narrerò
solo quello che
L., innanzi alla
venuta de’ Franciosi in
Roma : cioè, come
uno Marco Cedizio plebeio,
riferì al Senato
avere udito di mezza notte, passando
per la Via Nuova,
una voce maggiore
che umana, la quale
lo ammoniva che
riferisse ai magistrati, come i
Franciosi venivano a Roma. La
cagione di questo
credo sia da essere
discorsa ed interpretata
da uomo che abbia
notizia delle cose
naturali e soprannaturali:
il che non
abbiamo noi. Pure, potrebbe
essere che, sendo questo
aere, come vuole
alcuno filosofo, pieno d’ intelligenze ; le
quali per naturale
virtù prevedendo le
cose future, ed avendo
compassione agli uomini,
acciò si possino preparare
alle difese, gli avvertiscono con
simili segni. Pure,
comunelle si sia, si
vede cosi essere
la verità; e che sempre
dopo tali accidenti sopravvengono cose
istraordinarie e nuove alle provincie.
La plebe insieme
è gagliarda; di per se è
debole. Erano molti Romani,
scudo seguita per la
passata de* Franciosi
la rovina della lor
patria, andati ad
abitare a Yeio, contea alla
constituzione ed ordine
del Senato: il quale,
per rimediare a questo disordine, comandò
per i suoi editti pubblici che
ciascuno, infra certo
tempo e sotto certe pene,
tornasse ad abitare a Roma. De’quali
editti, da prima
per coloro contea a chi
e* venivano, si fu
fatto beffe; dipoi,
quando si appressò
il tempo dello ubbidire,
tutti ubbidirono. E Tito Livio
dice queste parole
: Ex fcrocibus universtSj
singtili metti suo
obedienfes fuere. E veramente,
non si può mostrare
meglio la natura
d’ una moltitudine in questa
parte, che si
dimostri in questo testo.
Perchè la moltitudine
è audace nel parlare
molte volte contra alle
deliberazioni del loro
principe; dipoi, come veggono
la pena in
viso, non si fidando
Y uno dell’ altro,
corrono ad ubbidire. Talché
si vede certo,
che di quel che
si dica uno
popolo circa la mala
o buona disposizion sua,
si debbe tenere non
gran conto, quando
tu sia ordinato in
modo da poterlo
mantenere, s’ egli è ben disposto;
s’ egli è mal disposto, da
poter provvedere che
non ti offenda. Questo
s’intende per quelle
male disposizioni che hanno
i popoli, nate da qualunque
altra cagione, che o
per avere perduto la
libertà, o il loro
principe stato amato da
loro, e che ancora
sia vivo; perchè le
male disposizioni che nascono
da queste cagioni,
sono sopra ogni cosa
formidabili, e che hanno
bisogno di grandi rimedi
a frenarle : 1' altre sue
indisposizioni fieno facili,
quando ci non abbia
capi a chi rifuggire.
Perchè non ci è cosa,
dall’ un canto,
più formidabile che una
moltitudine sciolta e senza capo;
e, dall’ altra
parte, non è cosa
più debole : perchè,
quantunque ella abbi 1’
armi in mano,
fia facile ridurla, purché tu
abbi ridotto da
potere fuggire il primo
impeto; perchè quando
gli animi sono un
poco raffreddi, e che
ciascuno vede di aversi
a tornare a casa sua, cominciano
a dubitare di loro
medesimi, e pensare alla salute
loro, o con fuggirsi o con
l’accordarsi. Però una moltitudine così
concitata, volendo fuggire questi pericoli,
ha subito a fare
infra sè medesima un
capo che la
corregga, tenghila unita e pensi
alla sua difesa ; come
fece la Plebe
romana, quando dopo la
morte di Virginia
si partì da Roma,
e per salvarsi feciono
infra loro venti Tribuni:
e non facendo questo,
interviene loro scmj)re
quel che dice
L. nelle soprascritte
parole, che tutti insieme
sono gagliardi; e quando
ciascuno poi comincia a pensare
al proprio pericolo, diventa
vile e debole. La moltitudine
è più savia e più costante
che un principe. Nessuna cosa
essere più vana e
più inconstante che la
moltitudine: cosi L.
nostro, come tutti
gli altri istorici affermano. Perchè
spesso occorre, nel narrare
le azioni degli
uomini, vedere la moltitudine
avere condannato alcuno a morte,
e quel medesimo di poi
pianto e sommamente desiderato:
come si vede avere
fatto il Popolo
romano di Manlio Capitolino,
il quale avendo
CONDENNATO A MORTE, sommamente dipoi
desiderava. E le parole dell*
autore son queste: Populum
brevi, posteaquam ab co
periculum nullum eral , dcsidcrium rjus tenuit.
Ed altrove, quando
mostra gli accidenti che
nacquero in Siracusa dopo
la morte di
Girolamo nipote di
Ierone, dice: Hcec
natura mulliludinis est : aut
umiliter servii , aut superbe
domi • natur. Io non
so se io
mi prenderò una provincia
dura, e piena di
tanta difficoltà, che mi
convenga o abbandonarla con vergogna,
o seguirla con carico; volendo difendere
una cosa, la
quale, come ho detto,
da tutti gli
scrittori è accusata. Ma,
comunehc si sia,
io non giudico nè
giudicherò mai essere
difetto difendere alcune oppinioni
con le ragioni, senza volervi
usare o la autorità
o la forza. Dico adunque,
come di quello
difetto di che accusano
gli scrittori la moltitudine, se
ne possono accusare
tutti gli uomini particolarmente, e massime i principi; perchè
ciascuno che non
sia regolato dalle leggi,
farebbe quelli medesimi errori che
la moltitudine sciolta. E questo si
può conoscere facilmente, perchè e’
sono c sono stati
assai principi, e de’ buoni e de’ savi
ne sono stati pochi;
io dico de’ principi
che hanno potuto rompere
quel freno che
gli può correggere; intra
i quali non sono
quegli re che nascevano
in Egitto, quando in
quella antichissima antichità
si governava quella provincia
con le leggi; nè
quelli che nascevano
in Sparta; nè quelli
che a’ nostri
tempi nascono in Francia:
il quale regno
è moderato più dalle leggi,
che alcuno altro
regno di che ne’ nostri
tempi si abbi
notizia. E questi re
che nascono sotto
tali constituzioni, non
sono da mettere
in quel numero, donde
si abbia a considerare la natura
di ciascuno uomo
per sè, e vedere
se egli è simile
alla moltitudine: perchè a rincontro
loro si debbe
porre una moltitudine medesimamente
regolata dalle leggi come
sono loro; e si
troverà in lei essere
quella medesima bontà
che noi veggiamo essere
in quelli, e vedrassi quella nè
superbamente dominare nè umilmente
servire: come era il Popolo romano, il
quale mentre durò
la Repubblica incorrotta,
non servì mai
umilmente nè mai dominò
superbamente; anzi con li
suoi ordini e magistrati
tenne il grado suo
onorevolmente. E quando era necessario
insurgerc contra a uno potente, lo
faceva; come si
vede in Manlio, ne’
Dieci, ed in
altri che cercorno opprimerla : e quando
era necessario ubbidire a’
Dittatori ed a’ Consoli
per la salute pubblica,
lo faceva. E se
il Popolo romano desiderava
Manlio Capitolino morto, non è
meraviglia; perchè e* desiderava
le sue virtù,
le quali erano state
tali, che la
memoria di esse
recava compassione a
ciascuno; cd arebbono avuto forza
di fare quel
medesimo effetto in un
principe, perchè 1* è
sentenza di tutti li
scrittori, come la
virtù si lauda e si
ammira ancora negli
inimici suoi: e se Manlio,
infra tanto desiderio, fusse risuscitato,
il Popolo di
Roma arebbe dato di
lui il medesimo
giudizio, come ei fece,
tratto che lo
ebbe di prigione, che
poco di poi
lo condennò a morte; nonostante die
si vegga di
principi tenuti savi, i quali
hanno fatto morire qualche persona,
e poi sommamente desideratala : come Alessandro,
Clito ed altri suoi
amici ; ed Erode,
Marianne. Ma quello che
lo istorico nostro
dice della natura della
moltitudine, non dice
di quella che è regolata
dalle leggi, come era
la romana; ma
della sciolta, come era
la siracusana: la
quale fece quelli errori
che fanno gli
uomini infuriati e sciolti,
come fece Alessandro
magno, ed Erode, ne’ casi
detti. Però non è
più da incolpare la
natura della moltitudine
che de’ principi, perchè tutti
egualmente errano, quando tutti
senza rispetto possono errare. Di
che, oltre a quello
che ho detto, ci
sono assai essempi,
ed intra gli imperadori
romani, ed intra
gli altri tiranni e , principi;
dove si vede tanta
incostanza e tanta variazione
di vita, quanta mai
non si trovasse
in alcuna moltitudine. Conchiudo,
adunque, contea olla comune
oppimene, la qual dice
come i popoli, quando
sono principi, sono
vari, mutabili, ingrati;
affermando che in loro
non sono altrimente questi peccati
che si siano
ne’ principi particolari. Ed
accusando alcuni i popoli ed
i principi insieme, potrebbe
dire il vero; ma
traendone i principi, s’inganna; perchè un
popolo che comanda
e sia bene ordinato, sarà
stabile, prudente e grato
non altrimenti che
un principe, o meglio
che un principe,
eziandio stimato savio: e dall’altra
parte, un priucipe sciolto dalle
leggi, sarà ingrato,
vario ed imprudente più
che uno popolo.
E che la variazione del
procedere loro nasce non
dalla natura diversa,
perchè in tutti è ad
un modo: e se
vi è vantaggio di bene,
è nei popolo; ma
dallo avere più o meno
rispetto alle leggi,
dentro alle quali l’uno
e l’altro vive. E chi
considerrà il Popolo
romano, lo vedrà
essere stato per quattrocento
anni iuimico del nome
regio, ed amatore
della gloria e del
bene comune della
sua patria: vedrà tanti
essempi usati da
lui, clic testiiuoniauo
1’ una cosa e
V altra. £ se alcuno mi
allegasse la ingratitudine
eh7 egli usò centra
a Scipione, rispondo quello
die di sopra lungamente
si discorse in
questa materia, dove
si mostrò i popoli
essere meno iugraii
de’ principi. Ma quanto alla
prudenza ed alla
stabilità, dico, come uno
popolo è più prudente,
più stabile e di miglior
giudicio che un
principe. E uon senza cagione
si assomiglia la voce
d7 un popolo
a quella di Dio; perchè
si vede una
oppinioue universale fare effetti
meravigliosi ne’ pronostichi
suoi: talché pare
che per occulta virtù
e’ prevegga il suo
male ed il suo
bene. Quanto al
giudicare le cose,
si vede rarissime volte,
quando egli ode due
concionanti che tendino
in diverse parti, quando
e’ sono di egual
virtù, che non pigli
*ia oppinione migliore,
e che non sia capace
di quella verità
ch’egli ode. £ se nelle
cose gagliarde, o che
paiano utili, come di
sopra si dice, egli
erra ; molte volte erra
ancora uri principe
nelle sue proprie passioni,
le quali sono
molle più che quelle
de’ popoli. Yedesi
ancora, nelle sue elezioni
ai magistrati, fare
di lunga migliore elezione
che uno principe; nè
mai si persuaderà
ad un popolo, che
sia bene tirare
alla degnila uno uomo
infame e di corrotti
costumi: il che facilmente
e per mille vie si persuade ad
un principe. Yedesi
un popolo cominciare ad
avere in orrore
una cosa, e molti secoli
stare in quella
oppinione: il che non si vede
in uno principe.
E dell’ una e dell’
altra di queste
due cose voglio mi
basti per testimone
il Popolo romano: il
quale, in tante
centinaia d’anni, in tante
elezioni di Consoli
e di Tribuni, non fece
quattro elezioni di che
quello si avesse
a pentire. Ed ebbe,
come ho detto, tanto
in odio il
nome regio, che nessuno
obbligo di alcuno
suo cittadino, che tentasse
quel nome, potette fargli fuggire
le debite pene.
Yedesi, oltra di questo,
le città dove i
popoli sono principi, fare
in brevissimo tempo augumenti eccessivi,
e molto maggiori che quelle
che sempre sono
state sotto un principe
! come fece Roma
dopo la cacciata de’
re, ed Atene
da poi che la
si liberò da
Pisistrato. 11 che
non può nascere da
altro, se non
che sono migliori governi quelli
de* popoli che
quelli de* principi. Nè
voglio che si
opponga a questa mia
oppinione tutto quello
che lo istorico nostro
ne dice nel
preallcgato testo, ed in
qualunque altro; perchè,
se si discorreranno tutti
i disordini de’popoli, tutti
i disordini de* principi,
tutte le glorie de*
popoli, tutte quelle
de’ principi, si vedrà il
popolo di bontà
e di gloria essere di
lunga supcriore. E se i
principi sono superiori
a* popoli nello ordinare leggi,
formare vite civili, ordinare statuti
ed ordini nuovi
; i popoli sono tanto
superiori nel mantenere le
cose ordinate, eh’
egli aggiungono senza dubbio
alla gloria di
coloro che l’ordinano. Ed
in somma, per
epilegare questa materia,
dico come hanno durato
assai gli stati
de’ principi, hanno durato assai
gli stati delle
repubbliche, e l’uno e l’ altro
ha avuto bisogno
d’essere regolato dalle leggi
: perchè un principe che
può fare ciò
che vuole, è pazzo; un
popolo che può
fare ciò che
vuole, non è savio. Se,
adunque, si ragionerà d' un principe
obbligato alle leggi,
ed’ un popolo
incatenalo da quelle,
si vedrà più virtù
nel popolo che
nel principe: se si
ragionerà dell’ uno e dell’altro sciolto, si
vedrà • meno errori
nel popolo che nei
principe; e quelli minori, ed
aranno maggiori rimedi.
Perchè ad un popolo
licenzioso e tumultuario, gli può
da un uomo
buono esser parlato, e facilmente può
essere ridotto nella
via buona : ad un
principe cattivo non è
alcuno che possa parlare,
nè vi è altro rimedio che
il ferro. Da
che si può
far coniettura della importanza
della malattia dell’uno e dell’altro:
chè se a curare la
malattia del popolo
bastano le parole, ed a
quella del principe
bisogna il ferro, non
sarà mai alcuno
che non giudichi, che
dove bisogna maggior
cura, siano maggiori errori.
Quando un popolo è bene
sciolto, non si
temono le pazzie che
quello fa, nè
si ha paura
del mal presente, ma
di quello che
ne può nascere, potendo nascere
infra tanta confusione un
tiranno. Ma ne’ principi
tristi interviene il contrario:
che si teme il
male presente, e nel
futuro si spera; persuadendosi gli
uomini che la
sua cattiva vita possa
far surgere una
libertà. Sì che vedete
la differenza dell’
uno e dell’ altro,
la quale è quanto
dalle cose che sono,
a quelle che hanno
ad essere. Le crudeltà
della moltitudine sono
contra a chi ei
temono clic occupi
il ben comune : quelle
d’ un principe
sono contro a chi ci
temono che occupi
il bene proprio. Ma la oppiti
ione contro ai
popoli nasce perchè de’
popoli ciascuno dice male
senza paura e liberamente, ancora mentre
che regnano: de’
principi si parla sempre
con mille paure
e mille rispetti. Nè mi
pare fuor di
proposito, poiché questa materia
mi vi tira,
disputare nel seguente capitolo
di quali confederazioni altri si
possa più fidare,
o di quelle falle
con una repubblica,
o di quelle fatte con
ui> principe. Di quali
confederazioni , o lega,
altri si può
più fidare ; o di quella
fatta con una
repubblica , o di quella
fatta con uno
principe. Perchè ciascuno dì
occorre che P uno principe con
l’altro, o V una repubblica con l’altra,
fanno lega ed
amicizia insieme ; ed ancora
similmente si contrae confederazione ed
accordo intra una
repubblica ed uno
principe mi pare
di esaminare qual fede è
più stabile, e di quale
si debba tenere
più conto, o di quella
d’ una repubblica,
o di quella d’ uno principe,
lo, esaminando tutto, credo
che in molti
casi e’ siano simili. ed
in alcuni vi
sia qualche disformità. Credo per
tanto, che gli
accordi fatti per forza
non ti saranno
nè da un
principe nè da una
repubblica osservali; credo che
quando la paura
dello stato venga, l'uno
e l'altro, per non
lo perdere, ti romperà
la fede, e ti
userà ingratiludine. Demetrio,
quel che fu
chiamato espugnatore delle cittadi,
aveva fatto agli Ateniesi
infiniti benefici! : occorse
dipoi, che sendo rotto
da’ suoi inimici, e rifuggendosi in Atene,
come in città
amica ed a lui obbligata,
non fu ricevuto
da quella : il che
gli dolse assai
più che non aveva
fatto la perdita
delle genti e dello
esercito suo. Pompeio,
rotto che fu da
Cesare in Tessaglia,
si rifuggì in Egitto
a Tolomeo, il quale
era per lo addietro
da lui stato
rimesso nel regno; e fu
da lui morto.
Le quali cose
si vede che ebbero
le medesime cagioni;
nondimeno fu più
umanità usata e meno
•ingiuria dalla repubblica,
che dal principe. Dove è,
pertanto, la paura,
si troverà in
fallo la medesima
fede. E se si troverà
o una repubblica o uno
principe, che per osservarti
la fede aspetti di
rovinare, può nascere
questo ancora da simili
cagioni. E quanto al
principe, può molto bene
occorrere che egli
sia amico d’ un
principe potente, che se
bene non
ha occasione allora
di difenderlo, ei può
sperare che col
tempo e* lo restituisca nel
principato suo; o veramente che, avendolo
seguito come partigiano, ei non
creda trovare nè
fede nè accordi con
il nimico di
quello. Di questa sorte
sono stati quelli
principi del reame di
Napoli che hanno
seguite le parti franciose.
E quanto alle repubbliche, fu di
questa sorte Sagunto
in Ispagna, che aspettò
la rovina per
seguire le parti romane;
e di questa Firenze, per
seguire nel 4512
le parti franciose. E credo,
computata ogni cosa, che
in questi casi,
dove è il pericolo urgente, si
troverà qualche stabilità
più nelle repubbliche, che
ne’ principi. Perche,
sebbene le repubbliche
avessino quel medesimo animo
e quella medesima voglia che un principe,
lo avere il
moto loro tardo, farà
che le porranno
sempre più a risolversi
che il principe,
e per questo porranno
più a rompere la fede
di lui. Romponsi
le confederazioni per lo
utile. In questo
le repubbliche sono di
lunga più osservanti
degli accordi, che i principi.
E potrebbesi addurre essempi, dove
uno miuinio utile ha
fatto rompere la
fede ad uno
principe, e dove una grande
utilità non ha fatto
rompere la fede
ad una repubblica
: come fu quello
partito che propose
Temistocle agli Ateniesi, a’ quali
nella conclone disse che
aveva uno consiglio
da fare alla loro
patria grande utilità
; ma non lo poteva
dire per non
lo scoprire, perchè scoprendolo
si toglieva la
occasione del farlo. Onde
il popolo di
Atene elesse Aristide, al
quale si comunicasse la cosa,
e secondo dipoi che
paresse a lui se
ne deliberasse: al
quale Temistode mostrò
come I* armata
di tutta Grecia, ancora che
stesse sotto la
fede loro, era in
lato che facilmente
si poteva guadagnare o distruggere; il
che faceva gli Ateniesi
al tutto arbitri
di quella provincia. Donde Aristide
riferì ai popolo, il
partito di Temistocle
essere utilissimo, ma disonestissimo : per
la qual cosa il
popolo al tutto
lo ricusò. II
che non arebbe fatto
Filippo Macedone, e gli
altri principi che più
utile hanno cerco e più
guadagnato con il
rompere la fede, che
con verun altro
modo. Quanto a rompere
i patti per qualche
cagione di inosservanza, di
questo io non
parlo come di cosa
ordinaria; ma parlo
dì quelli che si
rompono per cagioni
istrasordinarie: dove io
credo, per le
cose (lette, che il
popolo facci minori
errori che il principe,
e per questo si
possa Fidar più di
lui che del
principe. LX. — Come il
consolato e qualungue altro
magistrato in Roma
si (lava senza rispetto
di età. E’ si
vede per V ordine
della istoria, come la
Repubblica romana, poiché
’i consolato venne nella
Plebe, concesse quello ai
suoi cittadini senza
rispetto di età o di
sangue; ancora cbe
il rispetto della età
mai non fusse
in Roma, ma sempre
si andò a trovare
la virtù, o in giovane
o in vecchio cbe
la fusse. Il che
si vede
per il testimone
di Valerio Corvino, che
fu fatto Consolo
nell! Ventitré anni: e Valerio
detto, parlando ai
suoi soldati, disse come
il consolato crai
prcetnium virfulisj, non
sanguinis. La qual cosa
se fu bene
considerata, o no, sarebbe da
disputare assai. E quanto
al sangue, fu concesso
questo per necessità
; e quella necessità che fu
in Roma, sarebbe
in ogni città che
volesse fare gli
effetti che fece Roma,
come altra volta
si è detto: per-
i! chè e’ non
si può dare
agli uomini disagio senza
premio, nè si
può torre la SPERANZA di conseguire
il premio senza pericolo. E però
a buona ora convenne che
la Plebe avesse
speranza di avere il
consolato ; e di questa
SPERANZA si nutrì un
tempo senza averlo.
Dipoi non bastò la
speranza, che e’ convenne
che si venisse allo
effetto. Ma la
città che non adopera
la sua plebe
ad alcuna cosa gloriosa, la può trattare
a suo modo, come altrove
si disputò: ma
quella elle vuole fare
quel che fe
Roma, non ha a
fare questa distinzione.
E dato che così sia,
quella del tempo
non ha replica
; anzi è necessaria : perchè
nello eleggere uno giovane
in uno grado
che abbi bisogno d’ una prudenza
di vecchio, conviene, avendovelo ad
eleggere la moltitudine, che a quel
grado lo facci
pervenire qualche sua nobilissima
azione. E quando un giovane
è di tanta virtù, che
si sia fatto
in qualche cosa
notabile conoscere ; sarebbe cosa
dannosissima che la città
non se «e
potesse valere allora, e che
la avesse ad
aspettare che fusse invecchiato
con lui quel
vigore deir animo, quella
prontezza, della quale in
quella età la
patria sua si
poteva valere : come si
valse Roma di
Valerio Corvino, di Scipione,
di Pompeio e di
molti altri che trionfarono
giovanissimi. Laudano sempre gli
uomini, ma noti sempre
ragionevolmente, gli antichi
tempi, e gli presenti accusano:
ed in modo sono
delle cose passate
partigiani, che non solamente
celebrano quelle etadi che
da loro sono
state, per la
memoria che ne hanno
lasciata gli scrittori,
conosciute ; ma quelle ancora
che, sendo già vecchi,
si ricordano nella
loro giovanezza avere vedute.
E quando questa loro oppinionc
sia falsa, come
il più delle volte
è, mi persuado
varie essere le cagioni
che a questo inganno
gli conducono. E la prima
credo sia, che
delle cose antiche non
s’intenda al tutto
lu verità; e che di
quelle il più
delle vollesi nasconda
quelle cose che
recherebbono a quelli tempi
infamia; e quelle altre che
possono partorire loro
gloria, si remlino magnifiche
ed amplissime. Però che i
più degli scrittori
in modo * alla
fortuna de’ vincitori
ubbidiscono, che per fare le
loro vittorie gloriose, non
solamente accrescono quello
che da loro è virtuosamente operato,
ma ancora le azioni
de’ nimici in
modo illustrano, che qualunque
nasce dipoi in qualunque
delle due provincie,
o nella vittoriosa o nella vinta,
ha cagione di maravigliarsi di
quelli uomini e di
quelli tempi, ed è forzato
sommamente laudargli ed amargli.
Olirà di questo, odiando gli
uomini le cose o
per timore o per invidia,
vengono ad essere spente
due potentissime cagioni
delP odio nelle cose
passate, non ti
potendo quelle offendere, e non
ti dando cagione d’
invidiarle. Ma al
contrario interviene di quelle
cose che si
maneggiano e veggono ; le quali,
pei* la intera cognizione di
esse, non ti
essendo in alcuna parte
nascoste* e conoscendo in quelle
insieme con il
bene molte altre cose
che ti dispiacciono,
sei forzato giudicarle alle antiche
molto inferiori, ancora
che in verità
le presenti molto
più di quelle di
gloria e di fama
meritassero: ragionando non delie
cose pertinenti alle arti,
le quali hanno
tanta chiarezza in sè,
che i tempi possono torre
o dar loro poco
più gloria che per
loro medesime si
meritino ; ma parlando di
quelle pertinenti alla
vita e costumi degli
uomini, delle quali
non se ne veggono
sì chiari testimoni.
Replico, pertanto, essere vera
quella consuetudine del laudare
e biasimare soprascritta ;
ma non
essere già sempre vero
che si erri
nel farlo. Perchè
qualche volta è necessario che
giudichino la verità ; perchè
essendo le cose
umane sempre in molo,
o le salgono, o lescendono.
E vedesi una città
o una provincia essere ordinata
al vivere politico da
qualche uomo eccellente;
ed, un tempo, per
la virtù di
quello ordinatore, andare sempre
in augumento verso
il meglio. Chi nasce
allora in tale
stato, ed ei laudi
più li antichi
tempi che i moderni,
s’ inganna ; ed è causato
il suo inganno da
quelle cose che
di sopra si sono
dette. Ma coloro
che nascono dipoi, in
quella città o provincia,
che gli è venuto
il tempo che
la scende verso
la parte più rea,
allora non s’
ingannano. E pensando io come
queste cose procedino,
giudico il mondo
sempre essere stalo ad un medesimo
modo, ed in
quello esser stato tanto
di buono quanto
di tristo ; ma variare
questo tristo e questo buono di
provincia in provincia: come si
vede per quello
si ha notizia
di quelli regni antichi
che variavano dall’uno all’altro per
la variazione de’ costumi; ma il
mondo restava quel
medesimo. Solo vi era
questa differenza, che dove
quello aveva prima
collocata la sua virtù
in Assiria, la
collocò in Media, dipoi
in Persia, tanto
che la ne venne
in Italia ed a
Roma: e se dopo 10
imperio romano non è
seguito imperio che sia
durato, nè dove
il mondo abbia ritenuta
la sua virtù
insieme; si vede nondimeno
essere sparsa in di
molte nazioni dove
si viveva virtuosamente; come era
il regno de’
Franchi, 11 regno de’ Turchi,
quel del Soldano; ed
oggi i popoli della
Magna ; e prima quella setta
Saracina che fece
tante gran cose, ed
occupò tanto mondo,
poiché la distrusse lo
imperio romano orientale. In
tutte queste provincie,
adunque, poiché i Romani rovinorono,
ed in tutte queste
sètte è stata quella
virtù, ed è ancora
in alcuna parte
di esse, che si
desidera, e che con
vera laude si
lauda. E chi nasce in
quelle, e lauda i tempi passati più
che i presenti, si
potrebbe ingannare; ma chi
nasce in Italia
ed in Grecia, e non
sia divenuto o in
Italia oltramontano o in Grecia
turco, ha ragione di
biasimare i tempi suoi,
e laudare gli altri : perchè
in quelli vi
sono assai cose, che
gli fanno meravigliosi
; in questi non è
cosa alcuna che
gli ricomperi da ogni
estrema miseria, infamia e vituperio: dove
non è osservanza di religione,
non di leggi,
non di milizia; ma
sono maculati d’ ogni
ragione bruttura. E tanto sono
questi vizi più detestabili, quanto
ei sono più
in coloro che seggono
prò tribunali, comandano a ciascuno, e vogliono
essere adorati. .Ha tornando
al ragionamento nostro, dico
che se il
giudicio degli uomini
è corrotto in giudicare
quale sia migliore, o il secolo
presente o l’antico, in
quelle cose dove per
l’antichità ei non
ha possuto avere
perfetta cognizione come
egli ha de’ suoi
tempi ; non doverrebbe
corrompersi ne’ vecchi nel
giudicare i lempi della
gioventù e vecchiezza loro,
avendo quelli e questi egualmente
conosciuti e visti. La qual
cosa sarebbe vera,
se gli uomini per
tutti i tempi della
lor vita l'ussero del
medesimo giudizio, ed avessero
quelli medesimi appetiti
: ma variando quelli, ancora
che i tempi nou variino,
non possono parere
agli uomini quelli medesimi,
avendo altri appetiti, altri diletti,
altre considerazioni nella vecchiezza, che
nella gioventù. Perchè, mancando gli
uomini quando li
invecchiano di forze, e crescendo
di giudizio e di prudenza;
è necessario che quelle cose
che in gioventù
parevano loro sopportabili e buone, ineschino
poi invecchiando
insopportabili e cattive ; e dove quelli ne
doverrebbono accusare il
giudicio loro, ne
accusano i tempi. Sendo.
ultra di
questo, gli appetiti
umani insaziabili, perchè hanno
dalla natura di potere
e voler desiderare ogni cosa,
e dalla fortuna di
potere conseguirne poche; ne
risulta continuamente una
mala contentezza nelle menti
umane, ed un fastidio
delle cose che si posseggono:
il che fa biasimare
i presenti tempi, laudare i passati,
e desiderare i futuri ; ancora
che a fare questo
non fussino mossi da
alcuna ragionevole cagione.
Non so, adunque, se
io meriterò d’ essere numerato tra
quelli che si
ingannano, se in questi
mia discorsi io
lauderò troppo i tempi degli
antichi Romani, e biasimerò
i nostri. E veramente, se la
virtù che allora
regnava, ed il
vizio che ora regna,
non fussino più
chiari che il sole,
andrei col parlare
più rattenuto, dubitando non
incorrere in quello inganno di
che io accuso
alcuni. Ma essendo la
cosa si manifesta
che ciascuno la vede,
sarò animoso in
dire manifestamente quello che
intenderò di quelli e di
questi tempi; acciocché
gli animi de’ giovani
che questi mia
scritti leggeranno, possino fuggire
questi, e prepararsi ad imitar
quegli, qualunque volta la
fortuna ne dessi
loro occasione. Perchè gli
è offizio di uomo
buono, quel bene che
per la malignità
de’ tempi e della
fortuna tu non
hai potuto operare. insegnarlo nd
altri, acciocché sendone molti
capaci, alcuno di
quelli, più amato dal
Cielo, possa operarlo.
Ed avendo ne’ discorsi
del superior libro
parlato delle deliberazioni fatte
da* Romani pertinenti al
di dentro della
città, in questo parleremo di
quelle, che ’\
Popolo romano fece pertinenti
allo augumento dello imperio
suo. Quale fu più
cagione dello imperio che
acquistarono i Romani , o la virtùj
o la fortuna. Molti hanno
avuta oppinione, intra
i quali è Plutarco, gravissimo
scrittore, che ’1 Popolo
romano nello acquistare lo
imperio fusse più
favorito dalla fortuna che
dalla virtù. Ed
intra le altre ragioni
che ne adduce,
dice che per
confessione di quel popolo
si dimostra, quello avere
riconosciute dalla fortuna tutte
le sue vittorie,
avendo quello edificati più
templi alla Fortuna,
che ad alcun altro
Dio. E pare che a
questa oppinione si accosti
Livio; perchè rade volte
è che facci parlare
ad alcuno Romano, dove
ei racconti della
virtù, che non vi
aggiunga la fortuna.
La qual cosa io
non voglio confessare
in alcun modo, nè
credo ancora si
possa sostenere. Perchè, se
non si è trovato
mai repubblica che abbi
fatti i progressi che Roma,
è nato che non
si è trovata mai repubblica che
sia stata ordinata
a potere acquistare come Roma.
Perchè la virtù degli
eserciti gli feciono
acquistare Io imperio; e l’ordine
del procedere, ed il
modo suo proprio,
e trovato dal suo primo
legislatore, gli fece mantenere lo
acquistato: come di
sotto largamente in più
discorsi si narrerà. Dicono costoro,
che non avere
mai accozzate due
potentissime guerre in uno
medesimo tempo, fu
fortuna e non virtù del
Popolo romano ; perchè
e’ non ebbero guerra
con i Latini, se non
quando egli ebbero
non tanto battuti i Sanniti, quanto
che la guerra
fu da* Romani fatta
in difensione di
quelli ; non combatterono con i
Toscani, se prima non
ebbero soggiogati i Latini,
ed enervati con le
spesse rotte quasi
in tutto i Sanniti: che
se due di
queste potenze intere si
fussero, quando erano
fresche, accozzate insieme, senza
dubbio si può facilmente conietturare
che ne sarebbe seguito la
rovina della romana
Repubblica. Ma, comunelle questa
cosa nascesse, mai non
intervenne che eglino
avessino due potentissime guerre
in un medesimo tempo:
anzi parve sempre, o nel
nascere dell’ una, l’altra
si spegnesse; o nel spegnersi
dell’ una, l’altra nascesse. 11
che si può
facilmente vedere per T ordine
delle guerre fatte
da loro: perchè, lasciando
stare quelle che feciono
prima che Roma
fusse presa dai Franciosi,
si vede che,
mentre che combatterno con
gli Equi e con
i Volsci, mai, mentre
questi popoli furono potenti, non si levarono
contro di lor uitre
genti. Domi costoro,
nacque la guerra contea
ai Sanniti; e benché
innanzi che finisse tal
guerra i popoli latini si
ribellassero da’ Romani,
nondimeno quando tale ribellione
segui, i Sanniti erano
in lega con
Roma, e con il loro
esercito aiutorono i Romani
domare la insolenza latina.
I quali domi, risurse la
guerra di Sannio.
Battute per molte rotte
date a’ Sanniti
le loro forze, nacque
la guerra de’ Toscani;
la qual composta, si
rilevarono di nuovo
i Sanniti per la passata
di Pirro in ITALIA.
Il quale
come fu ribattuto,
e rimandato in Grecia, appiccarono
la prima guerra con
i Cartaginesi: nè {ìrima
fu tal guerra finita, che
tutti i Franciosi, e di
là e di qua dall’ Alpi,
congiurarono conti a i Romani;
tanto che intra
Popolonia e Pisa, dove è
oggi la
torre a San Vincenti, furono con
massima strage superati. Finita questa
guerra, per ispazio di
venti anni ebbero
guerra di non molta
importanza; perchè non
eombatterono con altri
che con i Liguri,
c con quel rimanente de’
Franciosi che era in
Lombardia. E così stettero
tanto che nacque la
seconda guerra cartaginese, la qual
per sedici anni
tenne occupata Italia. Finita
questa con massima
gloria, nacque la guerra
macedonica ; la quale tìnita,
venne quella d’ Antioco
e d’ Asia. Dopo la qual
vittoria, non restò
in tutto il mondo
nè principe nè
repubblica che, di per
sè, o tutti insieme,
si potessero opporre alle
forze romane. Ma
innanzi a quella ultima vittoria,
chi considerrà l’ ordine di
queste guerre, ed
il modo del . procedere
loro, vedrà dentro
mescolate con la fortuna
una virtù e prudenza
grandissima. Talché, chi
esaminasse la cagione di
tale fortuna, la
ritroverebbe facilmente:
perchè gli è cosa certissima, che
come un principe
e un popolo viene in
tanta riputazione, che ciascuno
principe e popolo vicino
abbia di per sè
paura ad assaltarlo,
e ne tema, sempre interverrà
che ciascuno d essi
mai lo assalterà,
se non necessitato ; in modo
che e’ sarà
quasi come nella elezione
di quel polente,
far guerra con quale
di quelli suoi
vicini gli parrà, e gii
altri con la
sua industria quietare. I quali,
parte rispetto alla
potenza suo, parte ingannati
da quei modi che
egli terrà per
nddormentargli, si quietano facilmente;
e gli altri potenti che
sono discosto, e che
non hanno coinmerzio seco,
curano la cosa
come cosa longinqua, e che
non appartenga loro. Nel
quale errore stanno
tanto che questo incendio
venga loro presso
: il quale venuto, non
hanno rimedio a spegnerlo se non
con le forze
proprie; le quali dipoi
non bastano, sendo
colui diventato
potentissimo. Io voglio
lasciare andare, come i Sanniti
stettero a vedere vincere dal
Popolo romano i Yolsci
e gli Equi; e per
non essere troppo
prolisso, mi farò da’
Cartaginesi : i quali erano di
gran potenza c di
grande estimazione quando i Romani
combattevano con i Sanniti e con
i Toscani ; perchè tii già
tenevano tutta 1’
Affrica, tenevano ia Stintigna
e la Sicilia, avevano
dominio in parte della
Spagna. La quale
polenza loro, insieme
con V esser discosto ne’ confini dal
Popolo romano, fece
che non pensarono mai
di assaltare quello, nè
di soccorrere i Sanniti
e Toscani: anzi fecero come
si fa nelle
cose che crescono, più
tosto in lor
favore collegandosi con quelli,
e cercando l’amicizia loro. Nè
si avviddono prima
del1’ errore fatto,
che i Romani, domi
tutti i popoli mezzi infra
loro ed i Cartaginesi, cominciarono a combattere
insieme dello imperio di
Sicilia e di Spagna. Intervenne questo
medesimo a’ Franciosi che
a’ Cartaginesi, e cosi a Filippo
re de’ Macedoni, e ad Antioco;
e ciascuno di loro credea,
mentre che il
Popolo romano era occupato
con l’altro, che quell’
altro lo superasse,
ed essere a tempo,
o con pace o con
guerra, difendersi da lui.
In modo che
io credo che la
fortuna che ebbono
in questa parte i Romani, 1’
arebbono tutti quelli
principl che procedessero
come i Romani, c fussero
di quella medesima
virtù che loro. Sarebbeci
da mostrare a questo proposito il
modo tenuto dal
Popolo romano nello entrare
nelle provincie d’ altri,
se nei nostro
trattato de’ principati
non ne avessimo
parlato a lungo ; perchè
in quello questa
materia è diffusamente disputata. Dirò
solo questo brevemente, come sempre
s’ingegnarono avere nelle provincie
nuove qualche amico che
fusse scala o porta
a salirvi o entrarvi, o mezzo
a tenerla : come si vede
che per. il
mezzo de’ Capovani entrarono in
Sannio, de’ Camertini in
Toscana, de’ Mamertini in
Sicilia, de’ Saguntini
in Spagna, di
Massinissa iti Affrica, degli
Eloli in Grecia,
di Eumene ed altri
principi in Asia,
de’ Massiliensi e deili Edui in
Francia. E così non
mancarono mai di simili
appoggi, per potere facilitare le
imprese loro, e nello acquistare le
provincie e nel tenerle.
Il che quelli popoli
che osserveranno, vedranno avere meno
bisogno della fortuna, che
quelli che ne
saranno non buoni osservatori.
E perchè ciascuno possa meglio
conoscere, quanto potè
più la virtù che
la fortuna loro
ad acquistare quello imperio
; noi discorreremo nel seguente
capitolo di che
qualità furono quelli popoli
con i quali egli
ebbero a combattere, e
quanto erano ostinati a difendere la
loro libertà. 11. — Con
quali popoli i Romani
ebbero a combattere , e come
ostinatamente quelli difendevano la
loro libertà. Nessuna cosa
fece più faticoso
a* Romani superare i popoli
d* intorno, c parte
delle provincie discosto,
quanto lo amore che in quelli
tempi molti popoli avevano alla
libertà; la quale
tanto ostinatamente difendevano, che
mai se non da
una eccessiva virtù
sarebbono stati *
soggiogati. Perchè, per
molti essempi si conosce
a quali pericoli si
mettessino per mantenere o ricuperare
quella ; quali vendette
e’ facessino contra
a coloro che V avessino loro
occupata. Conoscesi ancora
nelle lezioni delle
istorie, quali danni i popoli
e le città riccvino per
la servitù. E dove
in questi tempi ci
è solo una provincia
la quale si
possa dire che abbia
in sè città
libere, ne* tempi antichi
in tutte le
provincie erano assai popoli liberissimi.
Vedesi come in
quelli tempi de’ quali
noi parliamo al
presente, in Italia, dall’
Alpi che dividono
ora la Toscana dalla
Lombardia, insino alla punta
d’Italia, erano molti
popoli liberi; com’erano i Toscani,
i Romani, i Sanniti, e molti altri
popoli che in
quel resto d’ Italia abitavano.
Nè si ragiona
mai che vi fusse
alcuno re, fuora
di quelli che regnarono
in Roma, e Porsena
re di Toscaua; la
stirpe del quale
come si estinguesse, non
ne parla la
istoria. Ma si vede
bene, come in
quelli tempi che i
. Romani andarono a campo
a Veio, la Toscana era
libera : e tanto si
godea della sua libertà,
e tanto odiava il
nome del principe, che
avendo fatto i Veienti per
loro difensione un
re in Veio,
e domandando aiuto a' Toscani
contra ai Romani ; quelli,
dopo molte consulte
fatte, deliberarono di non
dare aiuto a’Veienti, infino a tanto
che vivessino sotto
’1 re; giudicando non
esser bene difendere
la patria di coloro
che V avevano di già
sottomessa ad altrui.
E facil cosa è conoscere donde nasca
ne’ popoli questa affezione del
vivere libero; perchè
si vede per esperienza,
le cittadi non
avere mai ampliato nè
di domiuio nè
di ricchezza, se non
mentre sono state
in libertà. E veramente
meravigliosa cosa è a considerare, a quanta grandezza
venne Atene per ispazio
di cento anni,
poiché la si liberò
dalla tirannide di
Pisistrato. Ma sopra tutto
meravigliosissima cosa è a considerare, a quanta
grandezza venne Roma, poiché
la si liberò
da’ suoi Re. La
cagione è facile ad
intendere; perchè non
il bene particolare,
ma il bene comune
è quello che fa
grandi le città. E senza dubbio,
questo bene comune
non è osservato se non
nelle repubbliche; perchè lutto
quello che fa a
proposito suo, si eseguisce;
e quantunque e’ torni in danno
di questo o di
quello privato, e’ sono
tanti quelli per
chi detto bene fa,
che lo possono
tirare innanzi contra alla
disposizione di quelli
pochi che ne fussino
oppressi. Al contrario
interviene quando vi è uno
principe; dove il più
delle volte quello
che fa per
lui, offende la città;
e quello che fa
per la città, offende lui.
Dimodoché, subito che
nasce una tirannide sopra
un viver libero,
il manco male che
ne resulti a quelle
città, è non andare più
innanzi, nè crescere più
in potenza o in
ricchezze ; ma il più
delle volte, anzi
sempre, interviene loro, che
le tornano indietro.
E se la sorte facesse
che vi surgesse
un tiranno virtuoso, il
quale , per animo
e per virtù d’ arme
ampliasse il dominio
suo, non ne risulterebbe alcuna
utilità a quella repubblica, ma a
lui proprio: perchè e’
non può onorare
nessuno di quelli cittadini che
siano valenti c buoni,
che egli tiranneggia, non
volendo avere ad avere
sospetto di loro.
Non può ancora le
città che egli
acquista, sottometterle o
farle tributarie a quella
città di che egli
è tiranno: perchè il
farla potente non fa
per lui; ma
per lui fa
tenere lo Stato disgiunto,
e che ciascuna terra
e ciascuna provincia riconosca
lui. Talché di suoi
acquisti, solo egli
ne profitta, e non
la sua patria.
E chi volesse confermare questa oppinione
con infinite altre ragioni, legga
Senofonte nel suo
trattato che fa De
Tirannide. Non è meraviglia adunque, che
gli antichi popoli con
tanto odio perseguitassino i tiranni, ed
nmassiiio il vivere
libero, e che il nome
della libertà fusse
tanto stimato da loro:
come intervenne quando
Girolamo nipote di lerone
siracusano fu morto in
Siracusa, che venendo
le novelle della sua
morte in nel
suo esercito, che non
era molto lontano
da Siracusa, cominciò
prima a tumultuare, e pigliare
1’ armi contro
agli ucciditori di quello;
ma come ei
sentì che in
Siracusa si gridava libertà,
allettato da quel nome,
si quietò tutto,
pose giti V ira contra
a’ tirannicidi, e pensò
come iti quella città
si potesse ordinare
un viver libero. Non è
meraviglia ancora, che i
popoli faccino vendette
istraordinaric contra a
quelli che gli
hanno occupata la libertà.
Di che ci
sono stali assai esempi,
de’ quali ne intendo
referire solo uno, seguilo
in Coreica, città
di Grecia, ne’ tempi della
guerra peloponnesiaca; «love sendo
divisa quella provincia
in due fazioni, delle
quali 1’ una
seguitava gli Ateniesi, V altra
gli Spartani, ne
nasceva che di molte
città, che erano
infra loro divise, T una
parte seguiva F amicizia di
Sparta, l’altra di
Atene: ed essendo occorso clic
nella detta città
prcvalessino i nobili, e togliessino
la libertà al popolo,
i popolari per mezzo
degli Ateniesi ripresero le
forze, e posto le mani
addosso a tutta la
nobiltà, gli rinchiusero in una
prigione capace di
tutti loro; donde gli
traevano ad otto o
dieci per volta, sotto
titolo di mandargli
in esilio iti diverse
parli, e quelli con
molti crudeli essempi facevauo
morire. Di che sendosi
quelli che restavano
accorti, deliberarono, in quanto
era a loro possibile, fuggire quella
morte ignominiosa ; ed
armatisi di quello
potevano, combattendo con quelli
vi volevano entrare,
la entrata della prigione
difendevano; di modo che
il popolo, a questo
romore fatto concorso, scoperse
la parte superiore di
quel luogo, e quelli
con quelle rovine sufìbeorno.
Seguirono ancora in delta
provincia molti altri
simili casi orrendi e notabili
: talché si vede
esser vero, che con
maggiore impeto si
vendica una libertà che
ti è suta tolta,
che quella che li è
voluta torre. Pensando dunque donde
possa nascere, che
in quelli tempi antichi,
i popoli fussero più
amatori della libertà che
in questi; credo nasca
da quella medesima
cagione che fa ora
gli uomini manco
forti : la quale credo
sia la diversità
della educazione nostra dalla
antica, fondata nella
diversità della religione nostra
dalla antica. Perchè avendoci
la nostra religione mostra la
verità e la vera
via, ci fa stimare
meno l’onore del
mondo: onde i Gentili stimandolo
assai, ed avendo posto
in quello il
sommo bene, erano nelle
azioni loro più
feroci. Il che si
può considerare da
molte loro constituzioni, cominciandosi
dalla magnificenza de’ sacrificii
loro, alla umilila de’
nostri ; dove è qualche
pompa più dilicata che
magnifica, ma nessuna
azione feroce o gagliarda. Quivi
non mancava la pompa
nè la magnificenza
delle cerimonie, ma vi
si aggiungeva 1*
azione del sacrificio pieno
di sangue e di
ferocia, ammazzandovisi
moltitudine di animali
: il quale aspetto
sendo terribile, rendeva gli
uomini simili a lui.
La religione antica, oltre
di questo, non
beatificava se non gli
uomini pieni di
mondana gloria: come erano
capitani di eserciti,
e principi di repubbliche. La
nostra religione ha glorificato
più gli uomini
umili e contemplativi, che
gli attivi. Ha
dipoi posto il sommo
bene nella umilila,
abiezione, nello dispregio delle
cose umane: quell’ altra
lo poneva nella
grandezza dello animo, nella
fortezza del corpo,
ed in tutte le
altre cose atte a
fare gli
uomini fortissimi. E se la
religione nostra richiede che
abbi in te
fortezza, vuole che tu
sia atto a patire
più che a fare una
cosa forte. Questo
modo di vivere, adunque, pare
che abbi rendutoil
mondo debole, e datolo in
preda agli uomini scellerati; i quali
sicuramente lo possono maneggiare, veggendo
come la università degli uomini,
per andare in
paradiso, pensa più a sopportare
le sue battiture, che a
vendicarle. E benché paia che
si sia effeminato
il mondo, e disarmato il cielo,
nasce più senza
dubbio dalla viltà degli
uomini, che hanno
interpretato la nostra religione
secondo l’ ozio, e non
secondo la virtù.
Perchè, se considerassino come
la permette la esultazione e la
difesa della patria,
vedrebbono come la
vuole che noi
l’amiaino ed onoriamo,
e prepariamoci ad esser tali
che noi la
possiamo difendere. Fanno adunque
queste educazioni, e si false
interpretazioni, che nel
mondo non si vede
tante repubbliche quante
si vedeva aulicamente; nè,
per conscguente, si vede
ne’ popoli tanto
amore alla libertà quanto allora
: ancora che io
creda piuttosto essere cagione
di questo, che lo
imperio romano con
le sue arme e
sua grandezza spense tutte
le repubbliche e lutti
i viveri civili E benché
poi tal imperio si
sia risoluto, non si sono
potute le città ancora
rimettere insieme nè
riordinare alla vita civile,
se non in
pochissimi luoghi di quello
imperio. Pure, comunelle si
fusse, i Romani in
ogni minima parte del
mondo trovarono una congiura
di repubbliche armatissime,
ed ostinatissime atia difesa
della libertà loro. Il
che mostra che
'1 Popolo romano
senza una rara ed
estrema virtù mai
non le arebbe potute
superare. E per darne esseinpio di
qualche membro, voglio
mi basti lo essempio
de’ Sanniti : i quali pare cosa
mirabile, e Tito Livio
lo confessa, che fussero
sì potenti, e 1’
arme loro si valide,
che potessero infino
al tempo di Papirio
Cursore consolo, figliuolo del
primo Papirio, resistere
a’ Romani (che fu
uno spazio di
XLVI anni), dopo tante
rotte, rovine di
terre, e tante stragi ricevute nel
paese loro; massime
veduto ora quel paese
dove erano tante
cittadi e tanti uomini, esser
quasi che disabitato : ed allora
vi era tanto
ordine, e tanta forza,
eh’ egli era
insuperabile, se da una-
virtù romana non
fusse stato assaltato. E facil
cosa è considerare donde nasceva
quello ordine, c donde
proceda questo disordine; perchè
tutto viene dal viver
libero allora, ed
ora dal viver
servo. Perchè tutte le
terre e le provincie
che vivono libere in
ogni parte, come
di sopra dissi, fanno
i progressi grandissimi.
Perchè quivi si
vede maggiori popoli, per
essere i matrimoni più
liberi, e più desiderabili dagli
uomini : perchè ciascuno procrea volentieri
quelli figliuoli che crede
potere nutrire, non
dubitando che il patrimonio
gli sia tolto;
thè eT conosce non solamente
che nascono liberi e non
schiavi, ma che
possono mediante la virtù
loro diventare principi.
Veggonvisi le ricchezze
multiplicare in maggiore numero, e quelle
che vengono dalla cultura, e quelle
che vengono dalle
arti. Perchè ciascuno volentieri
multiplica in quella cosa,
e cerca di acquistare
quei beni, che crede
acquistati potersi godere. Onde
ne nasce che
gli uomini a gara
pensano ai privati ed a’
pubblici comodi; e l’ uno
e l’altro viene meravigliosamente a crescere.
II contrario di
tutte queste cosesegue
in quelli paesi
che vivono scivi; c tanto più
mancano del consueto
bene, quanto è più dura
la servitù. E di
tutte" le servitù dure,
quella è durissima che li
sottomette ad una
repubblica : E una, perchè la è
più durabile, e manco si può
sperare d’ uscirne;
Y altra, perchè il
fine della repubblica è enervare
ed indebolire. per accrescere
il corpo suo,
tutti gli altri corpi.
11 che non
la un principe che
ti sottometta, quando
quel principe non sia
qualche principe barbaro, destruttore de’
paesi, e dissipatore di tutte
le civilità degli
uomini, come sono i principi
orientali. Ma s’ egli
ha in sè ordini
umani ed ordinari,
il più delle volte
ama le città
sue soggette egualmente, ed a
loro lascia T arti
tutte, e quasi lutti gli
ordini antichi. Talché, se
le non possono
crescere come libere, elle
non rovinano anche
come serve; intendendosi della servitù
in quale vengono le
città servendo ad un forestiero, perchè di
quella d’ uno loro
cittadino ne parlai di
sopra. Chi considerrù,
adunque, tutto quello che
si è detto, non si
meraviglierà della potenza
che i Sanniti avevano sendo
liberi, e della debolezza in
che e’ vennero poi
servendo: e L. ne
fa fede in
più luoghi, e massime nella guerra
d’ Annibaie, dove ei mostra
che essendo i Sanniti
oppressi da una legione
d’ uomini che
era in Nola, mandorono oratori
ad Annibale, a pregarlo che gli
soccorresse; i quali nel parlar
loro dissono, che
avevano per cento anni
combattuto con i Romani
con i propri loro soldati
e propri loro capitani, e molte volte
avevano sostenuto duoi eserciti
consolari e duoi consoli;
e che allora a tanta
bassezza erano venuti, che
non si potevano
a pena difendere da una
piccola legione romana
che era. Roma divenne
grande città rovinando le
città circonvicine , e ricevendo
i forestieri facilmente aJ
suoi onori. Crescit inlerea
Roma Albce ruinis. Quelli che
disegnano che una
città faccia grande imperio,
si debbono con
ogni industria ingegnare di
farla piena di abitatori
; perchè senza questa
abbondanza di uomini, mai
non riuscirà di fare
grande una città.
Questo si fa in
duoi modi; per
amore, e per forza. Per
amore, tenendo le
vie aperte e secure
a’ forestieri che
disegnassero venire ad abitare
in quella, acciocché
ciascuno vi abiti volentieri
: per forza, disfacendo le
città vicine, e mandando
gli abitatori di quelle
ad abitare nella
tua città. Il che
fu tanto osservato
in Roma, che nel
tempo del sesto
Re in Roma abitavano ottantamila
uomini da portare armi.
Perchè i Romani vollono
fare ad uso del
buono cultivatore; il
quale, perche una
pianta ingrossi, e possa
pròdurre e maturare i fruiti
suoi, gli taglia i primi rami
che la mette,
acciocché, rimasa quella virtù
nel piede di
quella pianta, possino col
tempo nascervi più verdi
e più fruttiferi. E che
questo modo tenuto per
ampliare e fare imperio, fusse necessario
e buono, lo dimostra Io
essempio di Sparta
e di Atene : le quali
essendo due repubbliche
armatissime, ed ordinate di
ottime leggi, nondimeno non
si condussono alla
grandezza dello imperio romano;
e Roma pareva più tumultuaria,
e non tanto bene ordinata
quanto quelle. Di che
non se
ne può addurre
altra cagione, che la
preallegata: perchè Roma,
per avere ingrossato per
quelle due vie il
corpo della sua
città, potette di già
mettere in arme
dugentottantamila uomini; e
Sparta ed Atene
non passarono mai ventimila
per ciascuna. Il
che nacque, non da
essere il sito
di Roma più benigno
che quello di
coloro, ma solamente
da diverso modo
di procedere. Perché Licurgo,
fondatore della repubblica spartana , considerando nessuna cosa
potere più facilmente
risolvere le sue leggi
che la commistione
di nuovi abitatori, fece
ogni cosa perchè
i forestieri non avessino a conversarvi: ed, oltre
al non gli
ricevere ne’ matrimoni, alla civiltà,
ed alle altre
conversazioni che fanno convenire
gli uomini insieme, ordinò che
in quella sua
repubblica si spendesse monete
di cuoio, per
tor via a ciascuno il
desiderio di venirvi
per portarvi mercanzie, o portarvi
alcuna arte; di qualità
che quella città
non potette mai ingrossare
di abitatori. E perchè
tutte le azioni
nostre imitano la natura,
non è possibile nè
naturale che uno pedale
sottile sostenga un
ramo grosso. Però una
repubblica piccola non può
occupare città nè
regni che siano più
validi nè più
grossi di lei; e
se pure gli occupa,
gP interviene come a
quello albero che avesse
più. grosso il ramo che
’l piede," che
sostenendolo con fatica, ogni
piccolo vento lo
fiacca: come si vede
che intervenne a Sparla,
la quale avendo occupate
tutte le città
di Grecia, non prima
se gli ribellò
Tebe, che tutte P altre
cittadi se gli
ribellarono, e rimase i! pedale
solo senza rami.
Il che non potette
intervenire a Roma, avendo il
piè si grosso,
che qualunque ramo poteva
facilmente sostenere. Questo
modo adunque di procedere,
insieme con gli altri
che di sotto
si diranno, fece Roma
grande e potentissima. Il
che dimostra L. in
due parole, quando disse:
Crcscit intcrea Roma
Albce ruinis. Le repubbliche
hanno tentili tre modi
circa lo ampliare. Chi
ha osservato le
antiche istorie, Iruova come
le repubbliche hanno
tre modi circa lo
ampliare. L* uno è
stato quello che osservorono
i Toscani antichi, di essere
una lega di
più repubbliche insieme,
dove non sia
alcuna che avanzi l’ altra
nè di autorità
nè di grado; e nello acquistare,
farsi 1’ altre città compagne, in
simil modo come
in questo tempo fanno
i Svizzeri, e come nei tempi
antichi feciono in
Grecia gli Achei e gli
Etoli. E perchè gli
Romani feciono assai guerra
con i Toscani, per
mostrar meglio la qualità
di questo primo
modo, ini distenderò in
dare notizia di
loro particolarmente. In Italia,
innanzi allo imperio romano,
furono i Toscani per mare
e per terra potentissimi:
e benché delle cose loro
non ce ne
sia particolare istoria, pure
c’è qualche poco di
memoria, e qualche segno
della grandezza loro;
e si sa come
e* mandarono una colonia
in su ’l
mare di sopra,
la quale chiamarono Adria,
che fu si
nobile, che la dette
nome a quel mare
che ancora i Latini chiamano
Adriatico. Intendesi ancora,
come le loro
arme furono ubbidite dal
Tevere per infìno
ai piè dell’ Alpi,
che ora cingono
il grosso di Italia;
non ostante che
dugento anni innanzi che i
Romani crescessino in molte
forze, detti Toscani
perderono lo imperio di
quel paese che
oggi si chiama la
Lombardia; la quale
provincia fu occupata da’ Franciosi
: i quali mossi o da
necessità, o dalla dolcezza
dei frutti, e massime del
viuo, vennono in
Italia sotto Bellovcso loro
duce; e rotti e cacciati i provinciali, si
posono in quel luogo,
dove edificarono di
molte cittadi, e quella provincia
chiamarono Gallia, dal nome
che tenevano allora
; la quale tennono fino
che da’ Romani
fussero domi. Vivevano, adunque,
i Toscani con quella equalità , e procedevano nello ampliare in
quel primo modo
che di sopra si
dice: e furono dodici
città, tra le quali
era Chiusi, Yeio,
Fiesole, Arezzo, Volterra, e simili:
i quali per via di
lega governavano lo
imperio loro; nè poterono
uscir d’Italia con
gli acquisti ; e di quella
ancora rimase intatta gran
parte, per le
cagioni che di
sotto si diranno. V altro
modo è farsi compagni j non
tanto però che
non ti rimanga il
grado del comandare,
la sedia dello imperio
ed il titolo
delle imprese : il
quale modo fu
osservato da’ Romani. 11
terzo modo è farsi
immediate sudditi, e non compagni;
come fecero gli Spartani
e gli Ateniesi. De'
quali tre modi, questo
ultimo è al tutto
inutile; come c’ si
vide che fu
nelle sopraddette due repubbliche:
le quali non
rovinarono per altro, se
non per avere
acquistato quel dominio che
le non potevano tenere. Perchè,
pigliar cura di
avere a governare città
con violenza, massime quelle che
tassino consuete a viver
libere, è una cosa diffìcile
e faticosa. E se tu
non sei armato
e grosso d’ armi, non
le puoi nè
comandare nè reggere. Ed
a voler esser così
fatto, è necessario farsi compagni
che ti aiutino
ingrossare la tua città
di popolo. E perchè queste due
città non feciono
nè1’ uno nè
I’ altro, il
modo del procedere loro fu
inutile. E perché Roma,
la quale è nello esempio
del secondo modo,
fece l’uno e T altro; però
salse a tanta eccessiva potenza. E perchè
la è stata sola a vivere
cosi, è stata ancora
sola a diventar tanto potente
: perchè, avendosi ella fatti
di molti compagni
per tutta Italia, i quali
in di molte
cose con eguali leggi
vivevano seco; e dall’ altro
canto» come di sopra
è detto, sendosi riservato sempre la
sedia dello imperio
ed il titolo del
comandare; questi suoi
com-pagni venivano, che non
se ne avvedevano, con le
fatiche e con il
sangue loro a soggiogar sè
stessi. Perchè, come cominciorono a uscire
con gli eserciti di
Italia, e ridurre i regni
in provincie, e farsi
soggetti coloro che
per esser consueti a vivere
sotto i Re, non si
curavano d* esser
soggetti; ed avendo governadori romani,
ed essendo stati vinti
da eserciti con
ii titolo romano
; non riconoscevano per
superiore altro che Roma.
Di modo che
quelli compagni di
Roma che erano
in Italia, si
trovarono in un tratto
cinti da’ sudditi romani, cd
oppressi da una
grossissima città come era
Roma ; e quando e’ si
avviddono dello inganno
sotto i! quale erano
vissuti, non furono
a tempo a rimediarvi: tanta
autorità aveva presa Roma
con le provincie
esterne, e tanta forza si
trovava in seno,
avendo la sua città
grossissima ed armatissima.
E benché quelli suoi compagni,
per vendicarsi delle ingiurie,
gli congiurassino contea, furono in
poco tempo perditori
della guerra, peggiorando le
loro condizioni; perchè di
compagni, diventarono ancora loro
sudditi. Questo modo
di procedere, come è detto,
è stato solo osservato da’
Romani: nè può
tenere altro modo una
repubblica che voglia
ampliare; perchè la esperienza
non te ne ha
mostro nessuno più
certo o più vero. 11
modo preallegato delle
leghe, come viverono i Toscani,
gii Achei e gli
Etoli, e come oggi
vivono i Svizzeri, è dopo
a quello de’ Romani
il miglior modo; perchè
non si potendo con
quello ampliare assai,
ne seguitano duoi beni:
l’ uno, che
facilmente non ti tiri
guerra addosso; l’altro,
che quel tanto che
tu pigli, lo
tieni facilmente. La cagione
del non potere
ampliare, è lo essere
una repubblica disgiunta,
e posta in varie
sedi: il che
fa che difficilmente possono consultare
e deliberare. Fa ancora che
non sono desiderosi
di dominare: perchè essendo
molte comunità a* participarc
di quel dominio,
non istimano tanto tale
acquisto, quanto fa una
repubblica sola, che
spera di goderselo tutto. Governansi,
oltra di questo, per
concilio, c conviene che
siano più tardi ad
ogni deliberazione, che quelli
che abitano dentro
ad un medesimo cerchio. Vedesi
ancora per esperienza, che simile
modo di procedere
ha un termine fisso,
il quale non
ci è esempio che mostri
che si sia
trapassato: e questo è di
aggiugnere a dodici o quattordici
comunità ; dipoi non
cercare di andare più
avanti : percliè sendo giunti
al grado che
par loro potersi
difendere da ciascuno, non
cercano maggiore dominio ; sì
perchè la necessità non
gli stringe di
avere piò potenza; si
per non conoscere
utile negli acquisti, per
le cagioni dette
di sopra. Perchè gli
arebbono a fare una
delle due cose; o seguitare
di farsi compagni,
e questa moltitudine farebbe
confusione; o gli arebbono a farsi
sudditi : e perchè e’ veggono
in questo difficultà,
e non molto utile
nel tenergli, non
lo stimano. Pertanto, quando
e’ sono venuti a tanto numero
che paia loro
vivere sicuri, si voltano
a due cose: P una
a ricevere raccomandati, e pigliare
protezioni ; c per questi mezzi
trarre da ogni parte
danari, i quali facilmente intra loro
si possono distribuire:
1* altra è militare per
altrui, e pigliar stipendio da
questo e da quello
principe che per sue
imprese gli soldo
; come si vede che
fanno oggi i Svizzeri,
e come si legge che
facevano i preallegati. Di che
il* è testimone Tito
Livio, dove dice che,
venendo a parlamento Filippo
re di Macedonia con
Tito Quinzio Flamminio,
e ragionando d'accordo alla
presenza d’ un pretore
degli Etoli ; in
venendo a parole detto pretore
con Filippo, gli fu
da quello rimproverato
la avarizia e la infidelità,
dicendo che gli Etoli
non si vergognavano
militare con uno, e poi
mandare loro uomini
ancora al servigio del
nimico ; talché molte volte
intra dnoi contrari
eserciti si vedevano le
insegne di Etolia.
Conoscesi, pertanto, come questo
modo di procedere per
leghe, è stato sempre
simile, ed ha fatto
simili effetti. Vedesi
ancora, che quel modo
di fare sudditi
è stato sempre debole, ed
avere fatto piccoli profitti; e quando
pure egli hanno
passato il modo, essere
rovinati tosto. E se questo
modo di fare
sudditi è inutile nelle repubbliche
armate, in quelle
che sono disarmate è inutilissimo: come
sono state ne’ nostri
tempi le repubbliche
di Italia. Conoseesi, pertanto,
essere vero modo quello
che tennono i Romani
5 il quale è tanto più
mirabile, quanto e’ non
ee il’
era innanzi a Roma
essempio, e dopo Roma non è
stalo alcuno elio
gli abbi imitati. E quanto
alle leghe, si trovano
solo i Svizzeri e la
lega di Svevia
che gli imita.
E, come nel
fine di questa materia
si dirà, tanti
ordini osservati da Roma,
così pertinenti alle cose
di dentro come a
quelle di fuora, non
sono ne* presenti
nostri tempi non solamente
imitati, ma non
n’è tenuto alcuno conto
; giudicandoli alcuni non veri,
alcuni impossibili, alcuni
non a proposito ed
inutili : tanto che
standoci con questa ignoranza,
siamo preda di qualunque
ha voluto correre
questa provincia. E quando la
imitazione de’ Romani paresse difficile,
non doverrebhe parere cosi
quella degli antichi
Toscani, massime a’ presenti
Toscani. Perchè, se quelli non
poterono, per le
cagioni dette, fare uno
imperio simile a quel
di Roma, poterono acquistare
in Italia quella
potenza che quel modo
del procedere concesse loro. 11 che fu
per un gran
tempo securo, con somma
gloria d’ imperio e d’arme,
e massima laude di
costumi e di religione.
La qual potenza
e gloria fu prima diminuita
da’ Franciosi, dipoi spenta
da’ Romani; e fu tanto
spenta, che, ancora che
duemila anni fa
la potenza de’ Toscani
fusse grande, al
presente non ce n’ è
quasi memoria. La qual
cosa mi ha
fatto pensare donde nasca
questa oblivione delle
cose: come nel seguente
capitolo si discorrerà. V. — Che
la variazione delle
sèlle e delle lingue insieme con
l'accidente de' diluvi o delle
pesti j spegno la
memoria delle cose. A quelli FILOSOFI che hanno
voluto che’l mondo sia
stato eterno, credo
che si potesse reificare,
che se tanta
antichità fusse vera, e’ sarebbe
ragionevole che ci fusse
memoria di più
che cinque mila anni;
quando e’ non
si vedesse come queste
memorie de* tempi
per diverse cagioni si spengano: delle
quali parte vengono dagli
nomini, parte dal cielo.
Quelle che vengono
dagli uomini, sono LE VARIAZIONI DELLE SETTE E DELLE LINGUE.
Perchè quando surge
una setta nuova, cioè
una religione nuova,
il primo studio suo
è, per darsi
reputazione, estinguere la vecchia;
e quando egli occorre che
gli ordinatori delia
nuova setta siano di
lingua diversa, la
spengono facilmente. La qual
cosa si conosce considerando i modi
che ha tenuti la
religione cristiana contra
alla SETTA GENTILE; la
quale ha cancellati
tutti gli ordini, tutte
le ceremonie di
quella, e spenta ogni
memoria di quella
antica teologia. Vero è che
non gli è riuscito spegnere in
tutto la notizia
delle cose fatte dagli
uomini eccellenti di
quella: il die è nato
per AVERE QUELLA MANTENUTA LA
LINGUA LATINA; il che fecero forzatamente, avendo
a scrivere questa legge nuova
con essa. Perchè,
se V avessino potuta scrivere
con nuova lingua, considerato le
altre persecuzioni gli
feciono, non ci
sarebbe ricordo alcuno delle
cose passate. E chi
legge i modi tenuti da
san Gregorio e dagli
altri capi della religione
cristiana, vedrà con quanta
ostinazione e’ perseguitarono tutte le
memorie antiche, ardendo
P opere de* poeti
e delli istorici, minando le
immagini, e guastando ogni
altra cosa che rendesse
alcun segno della
antichità. Talché, se a questa
persecuzione egli avessino aggiunto
una nuova lingua,
si sarebbe veduto in
brevissimo tempo ogni cosa
dimenticare. È da credere, pertanto, che
quello che ha
voluto fare la religione
cristiana contra alla
setta gentile, la gentile
abbi fatto contra
u quella che era
innanzi a lei. E perchè queste sètte
in cinque o in
seimila anni variarono due o
tre volle, si
perdè in memoria delle
cose fatte innanzi
a quel tempo. E se pure
ne resta alcun
segno, si considera come
cosa favolosa, e non è prestato loro
fede : come interviene alla istoria
di Diodoro Siculo,
che benché e’ renda
ragione di quaranta
o cinquanta mila anni, nondimeno
è riputata, come io credo
che sia, cosa
mendace. Quanto alle cause
che vengono dal
cielo, sono quelle che
spengono la umana generazione, e riducono
a pochi gli abitatori di
parte del mondo.
E questo viene o per peste
o per fame o per
una inondazione d* acque: e la
più importante è questa ultima,
sì perchè la è
più universale, sì
perchè quelli che si
salvano sono uomini
tutti montanari e rozzi,
i quali non avendo
notizia di alcuna antichità, non
la possono lasciare a’
posteri. E se infra
loro si salvasse alcuno che
ne avesse notizia,
per farsi riputazione e nome,
la nasconde, e la perverte
a suo modo ; talché
ne resta solo a*
successori quanto ei
ne ha voluto scrivere, e non
altro. E che queste inondazioni, pesti
e fami venghino, non credo
sia da dubitarne;
sì perchè ne sono
piene tutte le
istorie, sì perchè
si vede questo effetto
della oblivione delle cose,
sì perchè e’
pare ragionevole che sia:
perchè la natura,
come ne’ corpi semplici, quando
vi è ragunato assai materia
superflua, muove per sè medesima molte volte,
e fa una purgazione, la quale
è salute di quel
corpo ; così interviene in
questo corpo misto
della umana generazione, che
quando tutte le provincie
sono ripiene di
abitatori, in modo che
non possono vivere,
nè possono andare altrove,
per esser occupati e pieni tutti
i luoghi; e quando la
astuzia e malignità umana è venuta
dove la può venire,
conviene di necessità
che il mondo si
purghi per uno
de’ tre modi ; acciocché gli
uomini essendo divenuti pochi e battuti,
vivano più comodamente, e diventino migliori.
Era adunque, come di
sopra è detto, già tu
Toscana potente, piena
di religione e di
virtù ; aveva i suoi
costumi e la sua LINGUA PATRIA: il
che tutto è stato
spento dalla potenza romana.
Talché, come si è detto,
di lei ne
rimane solo la
memoria del nome. Come i Romani
procedevano nel fare la
guerra. Avendo discorso come i
Romani procedevano nello ampliare,
discorreremo ora come e’
procedevano nel fare
la guerra ; ed in
ogni loro azione
si vedrà con quanta
prudenza ei diviarono dal
modo universale degli
altri, per facilitarsi la via a
venire a una suprema grandezza. La
intenzione di chi fa
guerra per elezione,
o vero per ambizione, è acquistare e mantenere
lo acquistato; e procedere in
modo con esso, che
I’ arricchisca c non
impoverisca il paese e la
patria sua. È necessario
dunquc, e nello acquistare
e nel mantenere, pensare
di non spendere;
anzi far ogni cosa
con utilità del
pubblico suo. Chi vuol
fare tutte queste
cose, conviene che tenga
lo stile e modo
romano: il quale fu
in prima di
fare le guerre, come
dicono i Franciosi, corte
e grosse; perchè, venendo in
campagna con eserciti grossi,
tutte le guerre
eh’ egli ebbono co’
Latini, Sanniti e Toscani
le espedirono in brevissimo
tempo. E se si noteranno
tutte quelle che
feciono dal principio di
Roma infino alla
ossidione de’ Yeienti, tutte
si vedranno espedite, quale in
sei, quale in
dieci, quale inventi
di. Perchè l’uso
loro era questo: subito che era scoperta
la guerra, egli uscivano
fuori con gli
eserciti all’incontro del nimico,
e subito facevano la giornata.
La quale vinta,
i nimici, perchè non fussc
guasto loro il
contado affatto, venivano alle
condizioni; ed i Romani
gli condennavano in
terreni: i quali terreni
gli convertivano in
privati comodi, o gli consegnavano
ad una colonia; la
quale posta in
su le frontiere di
coloro, veniva ad
esser guardia de’
confini romani, con utile
di essi coloni,
che avevano quelli campi,
e con utile del pubblico
di Roma, che
senza spesa teneva quella
guardia. Nè poteva
questo modo esser più
seeuro, o più forte,
o piu utile: perchè
mentre che i nimici non
erano in su i
campi, quella guardia bastava : come
e’ fussino usciti fuori grossi
per opprimere quella
colonia, ancora i Romani uscivano
fuori grossi, e venivano a giornata
con quelli; e fatta e vinta la
giornata, imponendo loro
più gravi condizioni, si
tornavano in casa. Così
venivano ad acquistare
di mano in mano
riputazione sopra di
loro, e forze in
sè medesimi. E questo
modo vennono tenendo infino
che mutorno modo di
procedere in guerra:
il che fu dopo
la ossidione de’
Veienti ; dove, pei*potere
fare guerra lungamente,
gli ordinarono di pagare
i soldati, che prima,
per non essere
necessario, essendo le guerre
brevi, non gli
pagavano. E benché i Rotflani
dessino il soldo,
e che per virtù di
questo ei potessino
fare le guerre più
lunghe, e per farle
più discosto la necessità
gli tenesse più in
su’ campi ; nondimeno
non variarono mai dal
primo ordine di
finirle presto, secondo il
luogo ed il
tempo; nè variarono mai
dal mandare le
colonie. Perchè nel primo
ordine gli tenne,
circa il fare le
guerre brevi, olirà
il loro naturale uso,
T ambizione de’ Consoli
; i quali avendo a stare
un anno, e di quello
anno sei mesi
alle stanze, volevano finire la
guerra per trionfare.
Nel mandare le colonie,
gli tenne 1’utile
e la comodità grande
che ne risultava. Variarono bene
alquanto circa le
prede, delie quali non
erano cosi liberali
come erano stati prima ; sì
perchè e non
pareva loro tanto necessario,
avendo i soldati lo stipendio;
sì perchè essendo
le prede maggiori, disegnavano
d* ingrassaie di
quelle in modo
il pubblico, che non
lussino constretti a fare
le imprese con tributi
della città. li quale
ordine in poco tempo
fece il loro
erario ricchissimo. Questi duoi
modi, adunque, e circa
il distribuire la
preda, e circa il mandar
le colonie, feciono
che Roma arricchiva della guerra
j dove gli altri principi e repubbliche
non savie ne impoveriscono. E ridusse
la cosa in
termine, che ad un
Consolo non pareva poter
trionfare, se non
portava col suo trionfo
assai oro ed
argento, e d’ ogni altra sorte
preda, nello erario.
Cosi i Romani con i soprascritti termini,
e coti il finire le
guerre presto, sendo
contenti con lunghezza straccare
i nemici, e con rotte e con
le scorrerie e con accordi
a loro avvantaggi, diventarono sempre più
ricchi e più potenti. Quanto terreno
i Romani davano per colono. Quanto terreno
i Romani distribuiisino per
colono, credo sia
molto diffìcile trovarne la
verità. Perchè io
credo ne dessino più o
manco, secondo i luoghi dove
e mandavano le
colonie. E giudicasi che ad
ogni modo ed
in ogni luogo la
distribuzione fusse parca
: prima, per poter mandare
più uomini, sendo
quelli diputati per guardia
di quel paese;
dipoi perchè vivendo loro
poveri a caso, non era
ragionevole che volessino
che I loro uomini
abbondassino troppo fuora.
E Tito Livio dice,
come preso Veio e’
vi mandorno una
colonia, e distribuirono a
ciascuno tre iugeri
e sette once di terra;
che sono al
modo nostro. Perchè, oltre
alle cose soprascritte, e giudicavano
che non lo assai
terreno, ma il
bene coltivato bastasse. È necessario bene,
che tutta la colonia
abbi campi pubblici
dove ciascuno possa pascere
il suo bestiame,
e selve dove prendere
del legname per
ardere ; senza le quali
cose non può
una colonia ordinarsi. La cagione
perchè i popoli si partono
da * luoghi patriij cd inondano
il paese altrui. Poiché di
sopra si è ragionato
del modo nel procedere
della guerra osservato da’
Romani, c come i Toscani
furono assaltati da* Franciosi
; non mi pare alieno
dalla materia discorrere,
come e’ si fanno
di due generazioni
guerre. L’una è fatta per
ambizione de* principi
o delle repubbliche, che cercano
di propagare lo imperio;
come furono le
guerre che fece Alessandro Magno,
e quelle che feciono
i Romani, e quelle che
fanno ciascuno di, 1*
una potenza con F
altra. Le quali guerre
sono pericolose, ma non
cacciano al tutto
gli abitatori d*
una provincia ; perchè
e’ basta al
vincitore solo la ubbidienza
de’ popoli, e il
più delle volte gli
lascia vivere con
le loro leggi, e sempre con
le loro case,
e ne’ loro beni. L’altra
generazione di guerra
è, quando un popolo
intero con tutte
le sue famiglie si
beva d’ uno
luogo, necessitato o dalla fame o
dalla guerra, e va a
cercare nuova sede e
nuova provincia; non per
comandarla, come quelli di
sopra, ma per
possederla tutta particolarmente, e cacciarne o ammazzare gli abitatori
antichi di quella.
Questa guerra è crudelissima e paventosissima. E di queste
guerre ragiona Salustio
nel fine dell’ Iugurtiuo,
quando dice che
vinto lugurta, si senti
il moto de’
Franciosi che venivano in
Italia : dove e’
dice che ’l Popolo
romano con tutte
le altre genti combattè solamente
per chi dovesse
comandare, ma con i Franciosi
si combattè sempre per
la salute di
ciascuno. Perchè ad un
principe o una repubblica spegnere solo
coloro che comandano
; ma a queste popolazioni conviene
spegnere ciascuno, perchè vogliono
vivere di quello che
altri viveva. I Romani
ebbero tre di queste
guerre pericolosissime. La
prima fu quella quando
Roma fu presa,
la quale fu occupata
da quei Franciosi
che avevano tolto, come
di sopra si
disse, la Lombardia a’ Toscani,
e fattone loro sedia; della
quale L. ne
allega due cagioni: la
prima, come di
sopra si disse, che
furono allettati dalla
dolcezza delle frutte, c del
vino di Italia,
delle quali mancavano in
Francia; la seconda che,
essendo quel regno
francioso moltiplicato in tanto
di uomini, che
non vi si potevano
più nutrire, giudicarono i principi di
quelli luoghi, che
fusse necessario che una
parte di loro
andasse a cercare nuova terra;
e fatta tale deliberazione, elcssono per
capitani di quelli che
si avevano a partire,
Belloveso e Sicoveso, duoi
re de’ Franciosi
: de’ quali Belloveso
venne in Italia,
e Si» coveso passò in
Ispagna. Dalla passata del
quale Belloveso, nacque
la occupazione di Lombardia,
c quindi la guerra che
prima i Franciosi fecero
a Roma. Dopo questa, fu
quella che fecero
dopo la prima guerra
cartaginese, quando tra Piombino
e Pisa ammazzarono più
che dugentomila Franciosi. La terza è quando i Todeschi e Cimbri
vennero in Italia
: i quali avendo vinti
più eserciti romani, furono vinti
da Mario. Vinsero
adunque i Romani queste tre guerre
pericolosissime. Ne era necessario
minore virtù a vincerle;
perchè si vede
poi, come la virtù
romana mancò, e che
quelle arme perderono il
loro antico valore,
fu quello imperio distrutto
da simili popoli
: i quali furono Goti, Vandali
c simili, che occuparono tutto lo
imperio occidentale. Escono tali
popoli de* paesi
loro, rome di sopra
si disse, cacciati
dalla necessitò: e la necessitò
nasce o dalla fame, o da
una guerra ed
oppressione clic ne’ paesi propri
è loro fatta; talché
e’ sono constretti cercare
nuove terre. E questi
tali, o e’ sono
grande numero ; ed
allora con violenza
entrano ne' paesi altrui,
ammazzano gli abitatori,
posseggono i loro beni, fanno
uno nuovo regno, mutano
il nome della
provincia: come fece Moisè,
e quelli popoli che
occuparono lo imperio romano.
Perchè questi nomi nuovi
che sono nella
Italia e nelle altre provincie,
non nascono da
altro che da essere
state nomate così
da’ nuovi occupatoci : come
è la Lombardia, che si
chiamava Gallia Cisalpina:
la Francia si chiamava
Gallia Transalpina, ed ora è nominata da’
Franchi, chè cosi
si chiamavano quelli popoli
che la occuparono: la Schiavoniu
si chiamava Illiria,
l’Ungheria Pannonia;
l’Inghilterra Britannia: c molte
altre provincie che
hanno mutato nome, le
quali sarebbe tedioso raccontare. Moisè
ancora chiamò Giudea quella
parte di Soria
occupata da lui. E perchè
io ho detto
di sopra, che
qualche volta tali popoli
sono cacciati della propria
sede per guerra,
donde -sono constretti cercare
nuove terre; ne
voglio addurre lo essempio
de’ Maurusii, popoli anticamente
in Soria : i quali,
sentendo venire i popoli
ebraici, e giudicando non poter
loro resistere, pensarono essere meglio
salvare loro medesimi,
t* lasciare il paese
proprio, che per
volere salvare quello, perdere
ancora loro; e levatisi
con loro famiglie,
se ne andarono in
Affrica, dove posero
la loro sedia, cacciando via
quelli abitatori che in
quelli luoghi trovarono. G così quelli
che non avevano potuto
difendere il loro paese,
poterono occupare quello
d’ altrui. E Procopio, che
scrive la guerra
che fece Bellisario co’ Vandali
occupatori della Affrica, riferisce
aver letto lettere
scritte in certe colonne
ne’ luoghi dove
questi Maurusii abitavano, le
quali dicevano: S os Maurusii , qui fugimus
a facie Jesu latronis filii
flava. Dove apparisce
In cagione della partita
loro di Soria.
Sono, pertanto, questi popoli
formidolosissimi, sendo
cacciati da una
ultima necessità ; e s’
egli non riscontrano
buone armi, non saranno
mai sostenuti. Ula
quando quelli che sono
constretti abbandonare la
loro patria non sono
molti, non sono
sì pericolosi come quelli
popoli di chi
si è ragionato; perchè
non possono usare tanta
violenza, ma conviene
loro con arte occupare
qualche luogo, e,
occupatolo, mantenervisi per via
di amici e di confederali : come
si vede che
fece ENEA, Didone, i Massiliesi
e simili ; i quali lutti, per
consentimento de’ vicini,
dove e’ posorno, poterono
mantenervisi. Escono i popoli
grossi, e sono usciti
quasi tutti de’ paesi
di Scizia ; luoghi
freddi e poveri: dove, per
essere assai uomini,
cd il paese di
qualità da non
gli potere nutrire, sono
forzati uscire, avendo
molte cose che gli
cacciano, e nessuna che
gli ritenga. E se da
cinquecento anni in
qua, non è occorso che
alcuni di questi
popoli abbino inondato alcuno
paese, è nato per più
cagioni. La prima,
la grande evacuazione che
fece quel paese
nella declinazione dello imperio;
donde uscirono più di
trenta popolazioni. La
seconda è che la Magna
e 1’ Ungheria, donde ancora
uscivano di queste
genti, hanno ora il
loro paese bonificato
in modo, che vi
possono vivere agiatamente;
talché non sono necessitati
di mutare luogo. Dall’
altra parte, sendo
loro uomini bellicosissimi, sono come
uno bastione a tenere
che gli Sciti,
i quali con loro
confinano, non presumino di
potere vincergli o
passargli. E spesse volte
occorrono movimenti
grandissimi da’ Tartari, che sono
dipoi dagli Ungheri
e da quelli di Polonia
sostenuti; e spesso si
gloriano, che se non
fussino 1’ arme
loro, la Italia e la
Chiesa arebbe molle
volle sentito il peso
degli eserciti tartari.
E questo voglio basti quanto
a’ prefati popoli. Quali
cagioni comunemente faccino nascere
le guerre intra
i polenti. La cagione che
fece nascere guerra intra
i Romani ed i Sanniti,
che erano stati in
lega gran tempo,
è una cagione comune che
nasce infra tutti
i principati potenti. La qual
cagione o la viene a caso,
o la è fatta nascere
da colui che desidera
muovere la guerra.
Quella che nacque intra
i Romani ed i Sanniti,
fu a caso; perchè la
intenzione de’ Sanniti non fu,
muovendo guerra a’Sidicini,
e dipoi a’ Campani,
muoverla ai Romani. .\Ia
sendo i Campani oppressati,
e ricorrendo a Roma fuora della
oppinione de’ Romani e de’
Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani
ai Romani, come
cosa loro difendergli, e pigliare
quella guerra che a loro
parve non potere
con loro onore fuggire.
Perchè e’pareva benea’Romani
ragionevole non potere
difendere i Campani come amici,
eontra ai Sanuiti
amici, ma pareva
ben loro vergogna non
gli difendere come
sudditi, ovvero
raccomandali; giudicando, quando e’
non avessino presa
tal difesa, torre la
via a tutti quelli
che disegnassino venire sotto
la potestà loro. Ed
avendo Roma per fine
lo imperio e la
gloria, e non la
quiete, non poteva
ricusare questa impresa. Questa
medesima cagione dette principio
alla prima guerra
conira a’ Cartaginesi, per la difensione
che i Romani presono
de* Messinesi in
Sicilia: la quale fu
ancora a caso. Ma non fu
già a caso di poi
la seconda guerra
che nacque infra loro;
perchè Annibaie capitano Cartaginese assaltò
i Saguntini amici de’ Romani
in Ispagna, non
per offendere quelli, ma
per muovere l’arme romane, ed
avere occasione di
combatterli, c passare in Italia.
Questo modo nello appiccare
nuove guerre è stato sempre consueto
intra i potenti, e che si
hanno e della fede,
e d’altro, qualche rispetto. Perchè,
se io voglio
fare guerra con uno
principe, ed infra
noi siano fermi capitoli
per un gran
tempo oservati, con altra
giustificazione e con altro colore
assalterò io un
suo amico che lui
proprio 5 sappiendo massime,
che nello assaltare lo
amico, o ci si
risentirà, ed io arò V
intento mio di
fargli guerra ; o non si
risentendo, si scuoprirà
la debolezza o la
infidelità sua di non
difendere un suo
raccomandato. E l’ una e I'altra
di queste due
cose è per torgli riputazione,
e per fare più
facili i disegni miei. Debbesi
notare, adunque, e per la
dedizione de' Campani, circa
il muovere guerra, quanto
di sopra si è
detto; e di più,
qual rimedio abbia
una città che non
si possa per
sè stessa difendere, e voglisi difendere
in ogni modo da
quel clic l'assalta:
il quale è darsi Uberamente a quello
che tu disegni
che ti difenda; come
feciono i Capovani ai Romani,
ed i Fiorentini al
ré Roberto di Napoli
: il quale non
gli volendo difendere come amici,
gli difese poi
come sudditi contra alle
forze di Castruceio da
Lucca, die gli
opprimeva. X. — I danari non
sono il nervo della
guerra j secondo che è la
comune oppi ninne. Perchè ciascuno
può cominciare una guerra
a sua posta, ma
non finirla, debbe uno
principe, avanti che
prenda una impresa, misurare le
forze sue, e secondo quelle governarsi.
Ma debbe avere
tanta prudenza, che delle
sue forze ei non
s’inganni; ed ogni
volta s’ingannerà, quando le
misuri o dai danari,
o dal sito, o dalla benivoienza
degli uomini, mancando dall’
altra parte d’
arme proprie. Perchè le
cose predette ti
accrescono bene le forze,
ma le non
te ne danno ; e per
sè medesime sono
nulla ; e non giovano
alcuna cosa senza
l’arme fedeli. Perchè i
danari assai, non
ti bastano senza quelle;
non ti giova
la fortezza de! paese;
e la fede ‘e benivoienza degli uomini
non dura, perchè
questi non ti possono
essere fedeli, non gli
potendo difendere. Ogni
monte, ogni lago, ogni
luogo inaccessibile diventa
piano, dove i forti difensori
mancano. I danari ancora non
solo non ti
difendono, ina ti fanno
predare più presto.
Nè può essere più
falsa quella comune
oppinione che dice che i
danari sono il
nervo della guerra. La
quale sentenza è detta
da Quinto Curzio nella guerra
che fu intra A'ntipatro macedone
c il re spartano: dove narra,
che per difetto
di danari il re
di Sparta fu
necessitato azzuffarsi, e fu rotto;
che se ei
differiva la zuffa pochi
giorni, veniva la
nuova in Grecia della
morte di Alessandro,
donde e sarebbe rimaso vincitore
senza combattere. Ma mancandogli
i danari, e dubitando che lo
esercito suo per
difetto di quelli non
Io abbandonasse, fu
constretto tentare la fortuna
della zuffa: talché
Quinto Curzio per questa
cagione afferma, i danari essere il
nervo della guerra.
La qual sentenza è allegata
ogni giorno, v da’
principi non tanto
prudenti che basti, seguitata. Perchè,
fondatisi sopra quella, credono
che basti loro a
difendersi avere tesori assai,
e non pensano che se’1
tesoro bastasse a vincere,
che Dario arebbe vinto
Alessandro, i Greci nrebbon
vinti i Romani; ne’ nostri
tempi il duca Carlo
arebbe vinti i Svizzeri; e pochi giorni
sono, il Papa
ed i Fiorentini insieme non
arebbono avuta difficultà
in vincere Francesco
Maria, nipote di papa
Giulio II, nella
guerra di Urbino. Ma
tutti i soprannominali furono vinti
da coloro che
non il danaro, ma
i buoni soldati stimano
essere il nervo della
guerra. Intra le
altre cose che Creso
re di Lidia
mostrò a Solone ateniese, fu
un tesoro innumerabile
; c domandando quel che gli
pareva della potenza sua,
gli rispose Solone,
che per quello non
lo giudicava più
potente; perchè la guerra
si faceva col
ferro e non con P oro,
e che poteva venire
uno che avesse piu
ferro di lui, e
torgliene. Olir’ a questo, quando,
dopo la morte
di Alessandro Magno, una
moltitudine di Franciosi passò
in Grecia, e poi
in Asia; e mandando i Franciosi
oratori al re di
Macedonia per trattare
certo accordo ; quel
re, per mostrare
la potenza sua e
per {sbigottirli, mostrò
loro oro ed
argento assai: donde quelli
Franciosi che di già
avevano come ferma
la pace, la j uppono
; tanto desiderio in
loro crebbe di torgli
quell’oro: e cosi fu
quel re spogliato per
quella cosa che
egli aveva per sua
difesa accumulata. 1 Yeniziani, pochi anni
sono, avendo ancora
lo erario loro pieno
di tesoro, perderono
tutto lo Stato, senza
potere essere difesi
da quello. Dico pertanto,
non l’ oro, come grida
la comune oppinione,
essere il nervo della
guerra, ma i buoni
soldati : perchè 1’ oro
non è suflìzienle a trovare i buoni soldati,
ma i buoni soldati
son ben sutlìzienti a trovare
l’ oro. Ai Romani, s’egli avessero
voluto fare la
guerra più con i danari
che con ii
ferro, non sarebbe bastato
avere tutto il
tesoro del mondo,
considerato le grandi
imprese che fcciono, e le
difficoltà che vi
ebbono dentro. Ma facendo
le loro guerre
con il ferro, non
patirono mai carestia
dell' oro; perchè da
quelli cheli temevano era
portato Toro infino
ne’ campi. E se quel re
spartano per carestia
di danari ebbe a tentare
la fortuna della
/uffa, intervenne a lui quello,
per conto de’danari,
che molte volte
è intervenuto per altre cagioni;
perchè si è veduto
che, mancando ad uno
esercito le vettovaglie, ed essendo
necessitati o a morire di fame
o azzuffarsi, si piglia
il partito sempre di
azzuffarsi, per essere
più ono*revole, e dove
la fortuna ti
può in qualche modo
favorire. Ancora è intervenuto molte volte,
che veggendo uno capitano
al suo esercito
nimico venire soccorso, gli
conviene o azzuffarsi con quello
e tentare la fortuna
della zuffa ; o aspettando eh’
egli ingrossi, avere
a combattere in ogni
modo, con mille
suoi disavvantaggi. Ancora si è
visto (come intervenne ad
Asdrubale quando nella Marca
fu assaltato da
Claudio Verone, insieme con l’altro consolo romano), che un capitano
che è necessitato o a fuggirsi o a combattere, come
sempre elegge il combattere
; parendogli in questo
partito, ancora che dubbiosissimo, potere vincere; ed
in quello altro,
avere a perdere in ogni
modo. Sono, adunque,
molte necessitati che fanno
a uno capitano fuor della
sua intenzione pigliare
partito di azzuffarsi; intra
le quali qualche
volta può essere la
carestia de’ danari
: nè per questo si
debbono i danari giudicare essere il
nervo della guerra,
più che le altre
cose che inducono
gli uomini n simile
necessità. Non è,
adunque, replicandolo di nuovo.
1’ oro il
nervo della guerra; ma i
buoni soldati. Son
bene necessari i danari in
secondo luogo, ina è una
necessità che i soldati
buoni per sè medesimi
la vincono; perchè
è inipossibile che a’
buoni soldati manchino i danari, come
che i denari pei*
loro medesimi truovino i buoni
soldati. Mostra questo che
noi diciamo essere
vero, ogni istoria in
mille luoghi; non
ostante che Pericle consigliasse
gli Ateniesi a fare
guerra con tutto
il Peloponneso, mostrando che
e* potevano vincere
quella guerra con la
industria e con la
forza del danaio. E benché
in tale guerra
gli Ateniesi prosperassino qualche
volta, in ultimo la
perderono; e valsoti più
il consiglio e gli buoni
soldati di Sparta,
che la industria ed
il danaio di
Atene. Ma L. è di
questa oppinione più
vero testimone che alcuno
altro, dove discorrendo se Alessandro
Magno fusse venuto in
Italia, s’ egli avesse
vinto i Romani, mostra esser
tre cose necessarie
nella guerra ; assai soldati
e buoni, capitani prudenti, e buona
fortuna: dove esaminando
quali o i Romani o Alessandro prevalessino in
queste cose, fa
dipoi la sua conclusione
senza ricordare mai i
danari. Doverono i Capovani,
quando furono ricfiiesti da’
Sidicini che prendessino
l’arme per loro
contea ai Sanniti, misurare la
potenza loro dai
danari, c non dai
soldati: perchè, preso
ch’egli ebbero partito di
aiutarli, dopo due
rotte furono constretti farsi
tributari de’ Romani, se
si vollono salvare. Non
è partito prudente fare amicizia
con un principe
che abbia più oppinionc
che forze. Volendo L.
mostrare lo errore de’
Sidicini a fidarsi dello
aiuto de’ Campani, e lo
errore de’ Campani
a credere potergli difendere,
non lo potrebbe dire
con più vive
parole, dicendo: Campani magie
nomen in auxilium Sidicinorunij quam
vires ad prcesidium atlulcrunl. Dove
si debbe notare,
che le leghe si
fanno co’ principi che
non abbino o comodità di
aiutarti per la
distanzia del sito, o forze
di farlo per
suo disordine o altra sua
cagione, arrecano più fama
che aiuto a coloro
ehe se ne fidano:
come intervenne ne’ dì
nostri a* Fiorentini, quando il
papa ed il re
di Napoli gli
assaltarono; che essendo amici
del re di
Francia, trassono di quella
amicizia magis nomcn , r/nam
praesidium : come interverrebbe ancora a quel
principe, che confidatosi di Massimiliano
imperatore, facesse qualche impresa; perchè
questa è una di quelle
amicizie che arrecherebbe
a chi la facesse magis
nomcn 9 quam prassi -ditinij come
si dice in
questo testo, che arrecò
quella de’ Capovani ai
Sidicini. Errarono, adunque, in questa
parte i Capovani, per
parere loro avere
più forze che non
avevano. E così fa la
poca prudenza delti
uomini qualche volta, che
non sappiendo nè
potendo difendere sè medesimi,
vogliono prendere imprese di
difendere altrui : come
fecero ancoro i Tarentini, i
quali, sendo gli eserciti
romani allo Incontro
dello esercito de’ Sanniti,
mandorono ambasciadori al Consolo
romano, a fargli intendere come ci
volevano pace intra
quelli duoi popoli, e come
erano per fare
guerra centra a quello che
dalla pace si
discostasse*, talché il Consolo,
ridendosi di questa proposta,
alla presenza di detti
ambasciadori fece sonare
a battaglia, ed al suo
esercito comandò che andasse
a trovare il nimico,
mostrando ai Tarentini con
1’ opera, e non
con le parole, di
che risposta essi
erano degni. Ed avendo
nel presente capitolo ragionato dei
parliti che pigliano
i principi al contrario per
la difesa d’
altrui, voglio nel seguente
parlare di quelli
che si pigliano per
la difesa propria.
Scegli è meglio , temendo di essere
assaltalo > inferire , o aspettare la
guerra. lo lio sentito
da uomini assai
pratichi nelle cose della
guerra qualche volta disputare, se
sono duoi principi
quasi di eguali forze,
se quello più
gagliardo abbi bandito la
guerra contra a quello altro, quale
sia miglior partito
per Poltro; o aspettare il
nimico dentro ai
confini suoi, o andarlo a trovare
in casa, ed assaltare
lui: e ne fio
sentito addurre ragioni da
ogni parte. E chi
difende lo andare assaltare
altrui, nc allega il
consiglio che Creso
dette a Ciro, quando arrivato
in su* confini
de’ Massageli per
fare lor guerra,
la lor regina Tarniri gli
mandò a dire, che eleggesse quale de'
duoi partiti volesse;
o entrare nel regno
suo, dovè essa
Ip aspetterebbe; o volesse che
ella venisse a trovar lui. E
venuta la cosa
in disputazionc, Creso,
contra alla oppinione degli altri,
disse che si
andasse a trovar lei ; allegando
che se egli
la vincesse discosto al suo regno, che
non gli torrebbe il
regno, perchè ella
arebbe tempo a rifarsi; pia se la
vincesse dentro a’ suoi confini,
potrebbe seguirla in su
la fuga, e non
le dando spazio
a rifarsi, torli io
Stato. Allegane ancora
il consiglio che dette
Annibaie ad Antioco, quando quel
re disegnava fare
guerra ai Romani: dove
ei mostrò come i
Romani non si potevano
vincere se non in
Italia, perchè quivi
altri si poteva valere
delle arme e delle
ricchezze e degli amici
loro ; chi gli
combatteva fuora d’ Italia, e lasciava
loro la Italia libera, lasciava
loro quella fonte,
che mai li mancava
vita a somministrare forze dove
bisogna ; e conchiuse che ai
Romani si poteva
prima torre Roma che
lo imperio; prima
la Italia che le
altre provincie. Allega
ancora Agatocle. che non
potendo sostenere la
guerra di casa, assaltò
i Cartaginesi clic glieuc facevano, e gli
ridusse a domandare pace. Allega
SCIPIONE, che per
levare la guerra d’
Italia, assaltò la
Affrica. Chi parla al contrario
dice, che chi
vuole fare capitare male
uno nimico, lo
discosti da casa. Allegane
gli Ateniesi, che mentre
che feciono la
guerra comoda alla casa
loro, restarono superiori; e come si
discostarono, ed andarono con
gli eserciti in
Sicilia, perderono la libertà.
Allega le favole
poetiche, dove si mostra
che Anteo, re
di Libia, assaltato da
Ercole Egizio, fu
insuperabile mentre che Io
aspettò dentro a*
confini del suo regno;
ma come e’ se
ne discosto per astuzia
di Ercole, perdè
lo Stalo e la vita.
Onde è dato luogo
alla favola di Anteo,
che sendo in
terra ripigliava le forze
da sua madre,
che era la
Terra; e che Ercole avvedutosi
di questo, lo levò
in alto, e discostollo
dalla terra. Allegane ancora
i giudizi moderni. Ciascuno sa
come Ferrando re
di .Napoli fu ne’
suoi tempi tenuto
uno savissimo principe: e venendo
la fama, duoi
anni avanti la sua
morte, come il re di
Francia Carlo Vili voleva
venire ad assaltarlo, avendo fatte
assai preparazioni, ammalò; e venendo
a morte, intra gli altri
ricordi che lasciò
ad Alfonso suo figliuolo, fu
che egli aspettasse
il nimico dentro al
regno; e per cose
del mondo non traesse
forze fuori dello Stato
suo, ma lo
aspettasse dentro aisuoi
confini tutto intero;
il che non
fuosservato da quello;
ma mandato uno esercito
in Romagna, senza
combattere perdè quello c lo
Stato. Le ragioni
che, oltre alle cose
dette, da ogni
parte si adducono, sono :
che chi
assalta viene con maggiore
animo che chi
aspetta, il che fa
più confidente lo
esercito; toglie, oltra di
questo, molte comodità
al nimico di potersi
valere delle sue
cose, non si potendo
valere di quei
sudditi che sieno saccheggiati;
e per avere il nimico
in casa, è constretto
il signore avere più
rispetto a trarre da
loro danari ed affaticargli
: sicché e’ viene
a seccare quella fonte,
come dice Annibaie, che
fa che colui
può sostenere la guerra.
Oltre di questo,
i suoi soldati, per trovarsi
ne* paesi d’
altrui, sono più necessitati a combattere;
e quella nccessila fa
virtù, come più
volte abbiamo detto. Dall’
altra parte si
dice ; come aspettando il
nimico, si aspetta
con assai vantaggio, perchè
senza disagio alcuno tu
puoi dare a quello
molti disagi di vettovaglia,
e d’ ogni altra
cosa che abbia bisogno
uno esercito : puoi meglio
impedirli i disegni suoi,
per la notizia del
paese cheta hai
più di lui: puoi
con più forze
incontrarlo, per poterle facilmente tutte
unire, ma non
potere già tutte discostarle
da casa: puoi sendo
rotto rifarti facilmente;
sì perchè del tuo
esercito se ne
salverà assai, per avere
i rifugi propinqui; si
perchè il supplemento non
ha a venire discosto: tanto che
tu vieni arrischiare
tutte le forze, e non
tutta la fortuna
; e discostandoti, arrischi
tutta la fortuna,
e non tutte le
forze. Ed alcuni
sono stati che per
indebolire meglio il suo nimico, Io
lasciano entrare parecchie
giornate in su il
paese loro, e pigliare
assai terre; acciò che
lasciando i presidii in tutte,
indebolisca il suo
esercito, e possiulo dipoi
combattere più facilmente. Ma, per
dire ora io
quello che io ne
intendo, io credo
che si abbia
a fare questa distinzione: o io
ho il mio
paese armato, come i Romani,
o come hanno i Svizzeri; o io
l’ho disarmato, come avevano
i Cartaginesi, o come Y hanno
i re di Francia
e gli Italiani. In
questo caso, si debbe
tenere il nimico
discosto a casa; perchè scudo
la tua virtù
nel danaio e non negli
uomini, qualunque volta ti è
impedita la via
di quello, tu sei
spacciato; nè cosa
veruna te lo
impedisce quanto la guerra
di casa. In
essempi ci sono i
Cartaginesi; i quali mentre che
ebbero la casa
loro libera, poterono con
le rendite fare
guerra con i Romani; e quando
la avevano assaltata, non potevano
resistere ad Agatoeie. I Fiorentini non
avevano rimedio ulcuuo con Castruccio signore di
Lucca, perchè ci faceva
loro la guerra
in casa; tanto che
gli ebbero a darsi,
per essere difesi, al
re Roberto di
Napoli. Ma morto Castruccio, quelli
medesimi Fiorentini ebbero animo
di assaltare il
duca di Milano in
casa, ed operare
di torgli il regno:
tanta virtù monstrarono
nelle guerre louginque, e tanta
viltà nelle propinque. Ma
quando i regni sono
armati, come era armata
Roma e come sono i Svizzeri,
sono più difficili
a vincere quanto più ti
appressi loro: perchè questi
corpi possono unire
più forze a resistere
ad uno impeto,
che non possono ad
assaltare altrui. Nè
mi muove in questo
caso I’ autorità
di Annibaie, perchè la
passione e Y utile suo
gli faceva cosi dire
ad Antioco. Perchè,
se i Romani avessino
avute in tanto
spazio di tempo quelle
tre rotte in
Francia* ch’egli ebbero in Italia
da Annibaie, senza dubbio
erano spacciati: perchè non
si sarebbono valuti
de’ .residui degli eserciti, come
si valsono in
Italia; non arebbono avuto
a rifarsi quelle comodità; nè
potevano con quelle
forze resistere ai nimico,
che poterono. Non si
trova che, per
assaltare una provincia, loro mandassino
mai fuora eserciti clic passassino
cinquantamila persone; ma per
difendere la casa
ne misono in arme
conira ai Franciosi,
dopo la prima guerra
punica, diciotto centinaia
di migliaia. Nè arebbono
potuto poi romper quelli
in Lombardia, come
gli ruppono in Toscana;
perchè contro a tanto
numero di ninnici
non arebbono potuto condurre tante
forze sì discosto,
nè combattergli con quella
comodità. I Cimbri ruppono uno
esercito romano in
la Magna, nè vi
ebbono i Romani rimedio. Ma
come egli arrivorono
in Italia, e che poterono mettere
tutte le loro
forze insieme, gli spacciarono.
I Svizzeri è facile
vincergli fuori di
casa, dove e’ non possono mandare
più che un
trenta o quarantamila uomini;
ma vincergli in casa,
dove e’ ne
possono raccozzare centomila, è difficilissimo. Conchiuggo
adunque di nuovo, che
quel principe che ha
i suoi popoli armati
ed ordinali alla guerra,
aspetti sempre in
casa una guerra potente
e pericolosa, e non la vadia
a rincontrare: ma quello
che ha i suoi sudditi
disarmati, ed il
paese inusitato della guerra,
se la discosti sempre da
casa il più
che può. E così r uno
e l* altro, ciascuno
nel suo grado, si
difenderà meglio. Che si
viene di bassa
a gran fortuna più
con la fraude,
che con la forza. Io
stimo essere cosa
verissima, che rado, o non
mai, intervenga che
gli uomini di piccola
fortuna venghino a gradi
grandi, senza la
forza e senza la fraude;
purché quel grado
al quale altri è pervenuto, non
ti sia o donalo,
o lasciato per eredità.
Xè credo si
truovi mai che la
forza sola basti,
ma si troverà bene
che la fraude
sola basterà: còme chiaro
vedrà colui che
leggerà la vita di
Filippo di Macedonia,
quella di Agatocle siciliano,
e di molti altri
simili, che d’ infima ovvero
di bassa fortuna, sono
pervenuti o a regno o ad
imperi grandissimi. Mostra Senofonte,
nella sua vita di
Ciro, questa necessità
delio ingannare; consideralo che
la prima ispedizione
che fa fare a
Ciro contea il re
di Armenia, è piena
di fraude, e come con
inganno, e non con
forza, gli fa
occupare il suo regno;
e non conchiude altro per
tale azione, se
non che ad un
principe che voglia
fare gran cose,
è necessario imparare a ingannare.
Fagli, olirà di questo,
ingannare Ciassare, re de’
.Medi, suo zio
materno, in più
modi; senza la quale
fraude mostra che
Ciro non poteva pervenire
a quella grandezza che venne.
Nè credo che
si truovi mai alcuno
constiluito in bassa
fortuna, pervenuto a grande imperio
solo con la forza
aperta ed ingenuamente,
ma sì bene solo
con la fraude
: come fece Giovanni Galeazzo per
tor lo Stato
e lo imperio di Lombardia
a messer Bernabò suo zio. E
quei che
sono necessitati fare i principi ne’
principi! degli augumenti loro, sono
ancora necessitate a fare
le repubbliche, infimo che
le sieno diventate potenti, e che
basti la forza
sola. E perchè Roma tenne
in ogni parte,
o per sorte o per
elezione, tutti i modi necessari a venire
a grandezza, non mancò ancora
di questo. Nè
potè usare, nel principio,
il maggiore inganno,
che pigliare il modo
di sopra discorso
da noi, di farsi
compagni ; perchè sotto questo
nome se li
fece servi: come
furono i Latini, ed altri
popoli all’ intorno. Perchè prima
si valse dell*
arme loro in domare
i popoli convicini, e pigliare la
riputazione dello Stato:
dipoi, domatogli, venne in
tanto augumento, che la
poteva battere ciascuno.
Ed i Latini non si
avviddono mai di
essere al tutto
servi, se non poi
che viddono dare
due rotte ni Sanniti,
e costrettigli ad accordo.
La (piale vittoria, come
ella accrebbe gran riputazione ai
Romani eoi principi
longinqui, clic mediante
quella sentirono il nome
romano e non l’armi;
così generò invidia e sospetto
in quelli che vedevano
e sentivano l’armi, intra
i quali furono i Latini.
E tanto potè questa invidia e questo
timore, che non solo
i Latini, ma le
colonie che essi
avevano in Lazio, insieme
con i Campani, stati poco
innanti difesi, congiurarono contra al
nome romano. E mossono
questa guerra i Latini nel
modo che si
dice di sopra, che
si muovono la
maggior parte delle guerre,
assaltando non i Romani, ma
difendendo i Sidicini contra ai
Sanniti; a’ quali i Sanniti
facevano guerra con licenza
de’ Romani. E che
sia vero che i Latini
si movessino per
avere conosciuto questo inganno,
lo dimostra L. nello
bocca di Annio
Setiuo pretore latino, il
quale nel consiglio
loro disse queste parole
: Nam, si ctìam
mine sub umbra feederis
cequi servilutem pati possumus
ctc. Yedesi pertanto i Romani ne’ primi augumenti
loro non essere mancati eziam
della fraude; la
quale fu sempre necessaria
ad usare a coloro che
di piccoli principii
vogliono a sublimi gradi salire
: la quale è meno
vituperabile quanto è più coperta,
come fu questa de’
Romani. Ingannatisi molte volle
gli uomini j credendo con la
umilila vincere la superbia. Vedesi molle
volte come la
umilila non solamente* non giova,
ma nuoce, massimamente usandola con
gli uomini insolenti, che, o per
invidia o per altra cagione, hanno
concetto odio teco.
Di che ne fa
fede lo istorico
nostro in questa cagione di
guerra intra i Romani ed
i Latini. Perchè, dolendosi
i Sanniti con i Romani, che i
Latini gli avevano assaltati, i Romani
non vollono proibire ai
Latini tal guerra,
desiderando non gli irritare:
il che non solamente
non gli irritò, ma
gli fece diventare
più animosi contro a loro,
e si scopersono più presto
inimici. Di che
ne fanno fede
le parole usate da!
prefato Annio pretore latino nel
medesimo concilio, dove
dice: Tentaslis patientiam negando
mililem: (jais dubitai cxarsisse
eos ? Pcrtulerunt
(amen hunc dolorem.
Excrcitus nos parare adversus Snmnilcs
feederatos suos audierunl, ncc
mnverunt se ab
urbe. I Inde hcec illis
tanta modestia j, ni si a eonscienlia
virium , et n os trarum , et
suarum? Conoscesi, pertanto,
chiarissimo per questo testo, quanto
la pazienza de’ Romani accrebbe l’arroganza de’ Latini.
E però, mai uno
principe debbe volere mancare
del grado suo, e
non debbe mai
lasciare alcuna cosa
d’accordo, volendola
lasciare onorevolmente, se non
quando e’ la
può, o e’ si
crede che la possa
tenere : perchè gli è
meglio quasi sempre, sendosi
condotta la cosa in
termine che tu
non la possa
lasciare nel modo detto,
lasciarsela torre con le
forze, che con
la paura delle forze.
Perchè se tu
la lasci con In paura, lo
fai per levarli
la guerra, ed il più delle
volte non te
la lievi: perche
colui a chi tu arai
con una viltà
scoperta concesso quella, non
starà saldo, rao ti
vorrà torre delle
altre cose, e si
accenderà più contra di
te, stimandoti meno; e dall'altra parte,
in tuo favore
troverai i difensori più freddi,
parendo loro che tu
sia o debole, o vile:
ma se tu, subito
scoperta la voglia
dello avversario, prepari le
forze, ancoraché le
siano inferiori a lui. quello
ti comincia a stimare; stimanti più
gli altri principi allo
intorno; ed a tale
viene voglia di aiutarti,
sendo in su P
arme, che abbandonandoti non ti
aiuterebbe mai. Questo si
intende quando tu
abbia uno inimico; ma
quando ne avessi
più, rendere delle cose
che tu possedessi
ad al •euno
di loro per
riguadagnarselo, ancoraché
fusse di
già scoperta la
guerra, e per smembrarlo dagli
altri confederati tuoi
inimici, fia sempre
partito prudente. XV. — Gli
Stati deboli sempre fieno
ambigui nel risolversi : e sempre le deliberazioni
lente sono nocive. in
questa medesima materia,
ed in questi medesimi
principi! di guerra
intra i Latini ed i Romani,
si può notare come
in ogni consulta
è bene venire allo individuo di
quello die si
ha a deliberare, e non stare
sempre in ambiguo, nè
in su lo
incerto della cosa.
Il che si vede
manifesto nella consulta
che feciono i Latini,
quando c’pensavano alienarsi da’
Romani. Perchè avendo
presentito questo cattivo umore
che ne’ popoli latini
era entrato, i Romani,
per eertificarsi della
cosa, c per vedere
se potevano senza mettere
mano all’arme riguadagnarsi quelli popoli,
fecero loro intendere, come
e’ mandassero a Roma otto
cittadini, perchè avevano
a consullare con loro.
I Latini, inteso questo
ed avendo conscienza di
molte cose fatte centra
alla voglia de’
Romani, fcciono consiglio per
ordinare chi dovesse
ire a Roma, e dargli commissione
di quello ch’egli avesse a dire. E stando
nel consiglio in questa
disputa, ANNIO loro
pretore disse queste parole:
Ad sumiuam veruni nostrarum
pertinerc arbitrar , ut
vogilctis magis , quid agendum
nobis, quam quid loqucndum
sii. Facile crii, cxphcatis consiliis j accommodarc rebus nerba.
Sono, senza dubbio,
queste parole verissime, e debbono
essere da ogni principe
e da ogni repubblica
gustate : perchè nella
ambiguità e nella incertit udine di
quello che altri
voglia fare, non si
sanno accomodare le
parole; ma fermo una
volta 1’ animo,
e deliberalo quello sia da
eseguire, è facil cosa
trovarvi le parole, lo ho notato
questa parte più volentieri,
quanto io ho
molte volte conosciuto tale
ambiguità avere nociuto alle
pubbliche azioni, con
danno i* con vergogna
della repubblica nostra. E sempre mai
avverrà, che ne*
partiti ilubbii, e dove bisogni
animo a deliberargli, sarà questa
ambiguità, quando abbino ad
esser consigliati e deliberati da uomini
deboli. Non sono
meno nocive ancora le
deliberazioni lente e tarde, che
ambigue ; massime quelle
che si hanno a deliberare
in favore di
alcuno amico : perchè con
la lentezza loro
non si aiuta persona,
e nuocesi a sè mede- simo. Queste deliberazioni
così fatte procedono o da debolezza
di animo e ili forze,
o da malignità di
coloro che hanno a deliberare; i quali,
mossi dalla passimi propria di
volere rovinare lo
Stato o adempire qualche suo
desiderio, non lasciano seguire
la deliberazione, ma la
impediscono e la attraversano.
Perchè i buoni cittadini,
ancora che vegghino
una foga popolare voltarsi
alla parte perniciosa, mai impediranno
il deliberare, massime di
quelle cose che
non aspettano tempo. Morto
che fu Girolamo
liranno in Siracusa,
essendo la guerra grande
intra i Cartaginesi ed i
Romani, vennono i Siracusani in
disputa se dovevano seguire V amicizia
romana o la cartaginese. E tanto
era lo ardore
delle parti, che la
cosa stava ambigua,
uè se ne prendeva
alcuno partito; insino
a tanto che Apollonide,
uno de’ primi
in Siracusa, con una
sua orazione piena di prudenza,
mostrò come non
era da biasmare chi
teneva E oppinione ili
aderirsi ai Romani, nè
quelli che volevano seguire la
parte cartaginese; ma era
bene da
detestare quella ambiguità
e tardità di pigliare
il partito, perchè
vedeva al tutto in
tale ambiguità la
rovina della repubblica; ma
preso che si fusse
il partito, qualunque
e’ si fosse,
si poteva sperare qualche
bene. Nè potrebbe mostrare più L. che si
faccia in questa
parte, il danno
che si tira dietro
lo stare sospeso.
Dimostralo ancora in questo
caso de’ Latini
: perchè, sendo i Latini ricerchi
da loro gli stessine
neutrali, e che il
re venendo in Italia
gli avesse a mantenere nello Stato
e ricevere in proiezione:
e dette tempo un
mese alla città
a ratificarlo. Fu differita tale
ratificazione da chi per
poca prudenza favoriva
le cose di Lodovico:
intantoehè, il re già sendo in
su la vittoria,
e volendo poi i Fiorentini ratificare , non fu
la ratificazione accettata ; come
quello che conobbe i Fiorentini essere
venuti forzati, e non voluntari nella
amicizia sua. Il che costò alla
città di Firenze
assai danari, e fu per
perdere lo Stato
: come poi altra volta
per simile causa
li intervenne. E tanto
più fu dannabile
quel partito, perchè non
si servi ancora
il duca Lodovico;
il quale se
avesse vinto, arebbe mostri
molti più segni
di inimicizia conira ai
Fiorentini, che non
fece il re. E
benché del male
che nasce alle
repubbliche di questa debolezza
se ne sia di
sopra in
uno altro capitolo
discorso; nondimeno,
avendone di nuovo
occasione per un nuovo
accidente, ho voluto
replicarne', parendomi,
massime, materia che debba
esser dalie repubbliche
simili alla nostra notala. Quanto i soldati
ne’ nostri tempi si
disformino dalli anttcht
ordini. ha più importante
giornata che fu mai
fatta in
alcuna guerra con
alcuna nazione dal Popolo
romano, fu questa
che ei fece con i
popoli latini, nel
consolato di Torquato e di
Decio. Perchè ogni
ragione vuole, che cosi
come i Latini per averla
perduta diventarono servi,
così sarebbono stati servi
i Romani, quando non la
avessino vinta. E di
questa oppinone è L.; perchè
in ogni parte fa
gli eserciti pari
di ordine, di virtù,
di ostinazione c di
numero : solo vi fa
differenza, che i capi
dello esercito romano furono
più virtuosi che
quelli dello esercito latino.
Yedesi ancora come nel
maneggio di questa
giornata nacquero duoi accidenti
non prima nati,
e che dipoi hanno rari
esempi: che de’ duoi Consoli, per
tenere fermi gli
animi de’ soldati, ed ubbidienti
al comandamento loro, e diliberati
al combattere, 1’ uno
ammazzò sè stesso,
e I’ altro il figliuolo.
La parità, che L.
dice essere in questi
eserciti, era che,
per avere militato gran
tempo insieme, erano pari
di lingua, d’
ordine e d’arme: perchè nello
ordinare la zuffa
tenevano uno modo medesimo
$ e gli ordini ed i
capi degli ordini avevano
medesimi nomi. Era dunque
necessario, sondo di
pari forze e di pari
virtù, che nascesse
qualche cosa istraordinaria, che fermasse
e facesse più ostinati
gli animi dell’
uno che dell’altro: nella
quale ostinazione consiste, come
altre volte si è
detto, la vittoria; perchè,
mentre che la
dura ne’ petti di
quelli che combattono,
mai non danno volta
gli eserciti. E perchè la
durasse più ne’
petti de’ Romani
che de’ Latini, parte
la sorte, parte
la virtù de’ Consoli
fece nascere, che
Torquato ebbe ad ammazzare
il figliuolo, e Decio sè
stesso. Mostra Tito
Livio, nel mostrare questa purililà
di forze, tutto l’ ordine che
tenevano i Romani nelli eserciti e nelle
zuffe. Il quale
esplicando egli largamente, non
replicherò altrimenti; ma solo
discorrerò quello che io
vi giudico notabile,
e quello che per
essere negletto da tutti
i capitani di questi tempi,
ha fatto negli
eserciti e nelle zuffe di
molti disordini. Dico,
adunque, che per il
testo di Livio
si raccoglie, come lo
esercito romano aveva
tre divisioni principali, le
quali toscanamente si possono
chiamare tre schiere;
e nominavano la prima astati,
la seconda principi, la
terza triarii: e ciascuna
di queste aveva i suoi
cavalli. Nello ordinare una
zuffa, ei mettevano
gli astatiinnanzi ; nel
secondo luogo, per
diritto, dietro alle spalle
di quelli, ponevano
i principi; nel terzo, pure
nel mede»imo filo, collocavano
i triadi. I cavalli di tulli
questi ordini gli
ponevano a destra ed a sinistra
di queste tre
battaglie; le schiere de’
quali cavalli, dalla
forma loro e dal luogo,
si chiamavano alce , perchè parevano come
due alie di
quel corpo. Ordinavano la
prima schiera delli
astati, che era nella
fronte, serrata in
modo insieme che la
potesse spignere e sostenere il nimico. La
seconda schiera de’ principi,
perchè non era
la prima a combattere, ma bene
le conveniva soccorrere alla prima
quando fusse battuta o urtata, non la facevano
stretta, ma mantenevano i suoi
ordini radi, e di qualità
che la potesse
ricevere in sè senza
disordinarsi la prima,
qualunque volta, spinta dal
nimico, fusse necessitata ritirarsi. La
terza schiera de*
triadi aveva ancora gli
ordini più radi
che la seconda, per
potere ricevere in
sè, bisognando, le due
prime schiere de’
principi e degli astati. Collocate,
dunque, queste schiere in
questa forma, appiccavano
la zuffa: e se gli
astati erano sforzati o vinti, si
ritiravano nella ra-dila degli
ordini de’ principi
; e tuttiinsieme uniti, fatto
di due schiere
un J corpo, rappiccavano la
zuffa: se questi ancora
erano ributtati e sforzati,
si ritiravano tutti nella
radila degli ordini de*
trioni; e tutte tre
le schiere diventate un
corpo, rinnovavano la
zuffa : dove essendo
superati, per non
avere più da rifarsi,
perdevano la giornata. E perchè ogni
volta che questa
ultima schiera de’ triarii
si adoperava, lo esercito era
in pericolo, ne
nacque quel proverbio: Res redacta
est ad triarios
; che ad uso toscano
vuol dire: Noi
abbiamo messo I’ ultima
posta. I capitani dei
nostri tempi, come egli
hanno abbandonato tutti gli
altri ordini, e della
antica disciplina ei non
ne osservano parte
alcuna, cosi hanno abbandonata
questa parte, la quale
non è di poca
importanza: perchè chi si
ordina da potersi nelle
giornate rifare tre
volte, ha ad avere
tre volte inimica
la fortuna a volere perdere, ed ha ad
avere per riscontro una
virtù che sia
atta tre volte
a vincerlo. Ma chi
non sta se
non in su M
primo urto, come
stanno oggi gli eserciti cristiani, può
facilmente perdere ; perchè
ogni disordine, ogni
mezzana virtù gli può
torre la vittoria.
Quello che fa agli
eserciti nostri mancare
di potersi rifare tre
volte, è lo avere
perduto il modo di
ricevere I* una
schiera uelP altra. Il che nasce
perchè al presente sf
ordinano le giornate
con uno di questi
duoi disordini: o ei
mettono le loro schiere
a spalle P una delP
altra, e fanno la loro
battaglia larga per traverso,
e sottile per diritto;
il che la fa
più debole, per
aver poco dal
petto alle schiene. E quando
pure, per farla più
forte, ei riducono
le schiere per il
verso de’ Romani, se
la prima fronte
è rotta, non avendo
ordine di essere
ricevuta dalla seconda, s’ ingarbugliano insieme tutte,
e rompono sè medesime: perché se
quella dinanzi è spinta,
ella urta la seconda;
se la seconda
si vuol far innanzi,
ella è impedita dalla
prima : donde che
urlando la prima
la seconda, e la seconda
la terza, ne
nasce tanta confusione, che
spesso uno minimo
accidente rovina uno esercito.
Gli eserciti spagnuoli e franciosi
nella zuffa di
Ravenna, dove mori monsignor
de Pois, capitano delle
genti di Prandi
(la quale fu, secondo
i nostri tempi, assai
bene combattuta giornata) s’
ordinarono con uno de’ soprascritti modi;
cioè clic l’uno e 1’altro esercito venne
con tutte le sue
genti ordinate a spalle: in
modo che non venivano’
avere nè 1’uno
nè 1’altro se non
una fronte, ed
erano assai più per
il traverso cìie
per il diritto.
E questo avviene loro sempre
dove egli hanno la
campagna grande, come
gli avevano a Ravenna : perché,
conoscendo il disordine che
fanno nel ritirarsi,
mettendosi per un filo,
lo fuggouo quando
e’ possono col fare
la fronte larga,
coni’ t detto; ma quando
il paese gli
ristringe, si stanno nel
disordine soprascritto,
senza pensare il
rimedio. Con questo medesimo disordine
cavalcano per il paese
inimico, o se e’
predano, o se e’ fanno
altro maneggio di
guerra. Ed a santo Regolo in
quel di Pisa,
ed altrove, dove i Fiorentini
furono rotti da' Pisani ne’ tempi
della guerra che fu
tra i Fiorentini e quella
città, per la sua
ribellione dopo la
passata di Carlo
re di Francia in
Italia, non nacque
tal rovina d’ altronde, clic
dalla cavalleria amica; la
quale sendo davanti
e ributtata da’ nimici, percosse
nella fanteria fiorentina, e quella
ruppe : donde tutto il
restante delle genti
dierono volta : e messcr
Ciriaco dal Borgo,
capo antico delle fanterie
fiorentine, ha affermato alla presenza
mia molte volle,
non essere mai stato
rotto se non
dalla cavalleria degli amici.
1 Svizzeri, che sono i
maestri delle moderne
guerre, quando ei militano
coi Franciosi, sopra
tulle le cose hanno
cura di mettersi
in lato, che la cavalleria
amica, se fusse
ributtata, non gli urti.
E benché queste cose paiano
facili ad intendere,
e facilissime a farsi; nondimeno non
si è trovato ancora alcuuo
de’ nostri contemporanei
capitani, che gli antichi
ordini imiti, e gli
moderni corregga. E benché
gli abbino ancora loro
tripartito lo esercito, chiamando 1’una
parte antiguardo, l’altra battaglia e l’altra
retroguardo; non se ne
servono ad altro
che a comandargli nelli alloggiamenti: ma nello
adoperargli, rade volte è,
come di sopra
è detto, che a tutti
questi corpi non
faccino correre una medesima
fortuna. E perchè molti,
per scusare la
ignoranza loro, allegano che
la violenza delle
artiglierie non patisce che
in questi tempi si
usino molti ordini
degli antichi, voglio disputare nel
seguente capitolo que-sta materia, ed
esaminare se le
artiglierie impediscono che non
si possa usare l’ antica
virtù. Quanto si debbino
sii inave dagli eserciti
ne' presenti tempi le
artiglierie; e se quella
oppiatone che se ne ha in
universale j è vera. Considerando
io, oltre alle
cose soprascritte, quante zuffe
campali (chiamate ne’ nostri tempi,
con vocabolo francioso, giornate,
e dagl’ Italiani fatti d’arme)
furono fatte dai
Romani in diversi tempi; mi è venuto
in considerazione la oppinione
universale di molti,
che vuole che se
in quelli tempi
fussino state le artiglierie,
non sarebbe stato lecito
a’ Romani, nè
sì facile, pigliare le
provincie; farsi tributari
i popoli, come e’ feciono
; nè arebbono in
alcuno modo fatti si
gagliardi acquisti. Dicono aiTcora, che
mediante questi instrumenti de’ fuochi,
gli uomini non
possono usare nè mostrare
la virtù loro,
come e’ potevano anticamente. E soggiungono
una terza cosa : che
si viene con
piu diflìeultà alle
giornale che non
si veniva allora, nè
vi si può
tenere dentro quegli ordini
di quelli tempi; talché
la guerra si ridurrà
col tempo in
su le artiglierie. E giudicando
non fuora di proposito
disputare se tali
oppiuioui sono vere, e quanto
le artiglierie abbino cresciuto o diminuito
di forze agli eserciti, e se
le tolgano o danno
occasione ai buoni capitani
di operare virtuosamente ; comiucerò a parlare
quanto alla prima loro
oppinione: che gli eserciti antichi romani
non arebbono fatto gli
acquisti che feciono,
se le artiglierie lussino state.
Sopra che, rispondendo, dico: come
e’si fa guerra
o per difendersi, o per offendere;
donde si ha
prima ad esaminare a quale
di questi duoi modi
di guerra le
faccino più utile,
o più danno. E benché
sia che dire
fla ogni parte, nondimeno
io credo che senza
comparazione faccino più
danno a chi si difende,
che a chi offende.
La ragione che io
ne dico è,
che quel che si
difende, o egli è dentro
a una terra, o egli è in
su’ campi dentro
ad uno steccato. S*
egli è dentro ad
una terra, o questa
terra è piccola, come
sono la maggior parte
delle fortezze, o la è
grande: nel primo
caso, chi si
difende è al tutto perduto,
perchè P impeto delle artiglierie è tale,
che non trova
muro, ancoraché grossissimo, che
in pochi giorni ei
non abbatta; e se
chi è dentro non ha
buoni spazi da
ritirarsi c con fossi e con
ripari, si perde;
nè può sostenere 1*
impeto del nimico
che volesse dipoi entrare
per la rottura
del muro, nè a questo
gli giova artiglieria
che avesse: perchè questa
è una massima, che dove
gli uomini in
frotta e con impeto possono andare,
le artiglierie non gli
sostengono. Però i furori
oltramontani nella difesa delle
terre non sono sostenuti: sou bene
sostenuti gli assalti italiani, i quali
non in frolla,
ma spicciolati si conducono
alle battaglie, le quali
loro, per nome
mollo proprio, chiamano scaramuccio. E qucsli che vanno
con questo disordine
e questa freddezza ad una
rottura d’ un
muro dove sia artiglierie,
vanno ad una
manifesta morte, c conira a loro
le artiglierie vogliono: ma
quelli clic in
frotta condensati, e che runo
spinge l’altro, vengono ad
una rottura, se
non sono sostenuti o da
fossi o da ripari,
entrano in ogni luogo,
c le artiglierie non gli
tengono; e se ne
muore qualcuno, non possono
essere tanti che
gl’ impedischino la
vittoria. Questo esser
vero, si è conosciuto in
molte espugnazioni fatte dagli
oltramontani in Italia,
e massime in quella di
Brescia : perchè, sendosi
quella terra ribellata
da’ Franciosi, e tenendosi ancora
per il re
di Francia la fortezza,
avevano i Veneziani, per
sostenere V impeto che ila
quella potesse venire nella
terra, munita tutta
la strada di artiglierie
che dalla fortezza
alla città scendeva, e postane
a fronte e ne’ fianchi, ed
in ogni altro
luogo opportuno. Delle quali
monsignor di Fois
non fece alcuno conto
; anzi quello con
il suo squadrone, disceso
a piede, passando per il
mezzo di quelle,
occupò la città,
nè per quelle si
sentì eli’ egli
avesse ricevuto alcuno memorabile
danno. Talché, chi si difende
in una terra
piccola, conte è detto, c trovisi
le mura in
terra, e non abbia
spazio di ritirarsi
con r ripari e con fossi,
ed abbiasi a fidare
in su le artiglierie,
si perde subito.
Se tu difendi tuta
terra gronde, e che
tu abbia comodità di
ritirarti, sono nondiinanco
senza comparazione più
utili le artiglierie a chi
è di fuori, che a
chi è dentro. Prima, perchè
a volere che una artiglieria nuoca
a quelli che sono
di fuora, tu sei
necessitato levarti con
essa dal piano della
terra; perchè, stando in
sul piano, ogni
poco di argine
e di riparo che il
nimico faccia, rimane
sicuro, e tu non gli
puoi nuocere. Tanto che
avendoti ad alzare,
e tirarti sul corridoio delle mura,
o in qualunque modo levarti
da terra, tu
ti tiri dietro
due difficoltà: la prima,
che non puoi
condurvi artiglieria della grossezza
e della potenza che può
trarre colui di
fuora, non si potendo
ne’ piccoli spazi
maneggiare le cose grandi ; I’
altra, che quando bene
tu ve la
potessi condurre, tu non
puoi fare quelli
ripari fedeli e sicuri, per
salvare detta artiglieria,
che possono fare quelli
di fuora, essendo
in su terreno,
ed avendo quelle
comodità e quello spazio
che loro medesimi
vogliono: talmentechè, gli è impossibile
a chi difende una terra,
tenere le artiglierie ne’ luoghi
alti, quando quelli
che soli di fuora
abbino assai artiglierie
e polenti; e se egli hanno
a venire con essa
ne’ luoghi bassi, ella diventa
in buona parte inutile, come è
detto. Talché la
difesa della città si
ha a ridurre a difenderla con le
braccia, come anticamente
si faceva, e con la
artiglieria minuta : di che
se si trae
un poco di
utilità rispetto a quella artiglieria
minuta, se ne
cava incomodità che contrappesa
alia comodità della artiglieria
; perchè, rispetto a quella,.
si riducono le
mura delle terre, basse
e quasi sotterrate ne’ fossi:
talché, com’e’ si viene
alle battaglie di mano,
o per essere battute
le mura o per
essere ripieni i fossi,
ha chi è dentro molti più
disavvantaggi che non aveva
allora, E però, come
di sopra si disse,
giovano questi instrumenti
molto più a chi campeggia
le terre, che a
chi è campeggiato. Quanto alla
terza cosa, di ridursi
in uno campo
dentro ad uno steccato
per non fare
giornata, se non a tua
comodità o vantaggio; dico
che in questa parte
tu non hai
più rimedio ordinariamente a difenderti
di non combattere, che si
avessino gli antichi;
e qualche volta, per
conto delle artiglierie, hai maggiore
disavvantaggio. Per- chè, se il
nimico ti giunge
addosso, ed abbia un
poco di vantaggio
del paese, come può
facilmente intervenire; e truovìsi
più alto di
te; oche nello
arrivare alio tu non
abbi ancora fatti
i gini, e copertoli bene
con que luto, e senza
che tu abbi
alcun ti disalloggia, e sei
forzato usci fortezze tue, e
venire alla zuffa intervenne agli
Spagnuoli nel nata di
Ravenna i quali essent nili
tra il fiume
del Ronco ed gine,
per non lo
avere tirato U che
bastasse, e per avere
i Frai poco il vantaggio
del terreno, constretti dalle
artiglierie usci fortezze loro,
e venire alla zi dato,
come il più
delle volte de sere,
che il luogo
che tu avess con
il campo fusse
più eminenti altri all’incontro,
e che gli ar; sino
buoni e sicuri, tale
che, r il sito e
1’ altre
tue preparazio miro non
ardisse di assaltarti; in questo
caso a quelli modi c
cainente si veniva,
quando uno il suo
esercito in lato
da non pi sere
offeso: i quali sono,
co paese, pigliare o campeggiare
le terre tue amiche,
impedirti le vettovaglie; tanto che
tu sarai forzato
da qualche necessità a disalloggiare, e venire
a giornata ; dove le artiglierie,
come di sotto si
dirà, non operano
molto. Considerato, adunque, di
quali ragioni guerre
feciono i Romani, e reggendo come
ei feciono quasi tutte
le lor guerre
per offendere altrui, e non
per difender loro;
si vedrà, quando sieno
vere le cose
dette di sopra, come
quelli arebbono avuto
più vantaggio, e piu presto
arebbono fatto i loro acquisti,
se le fussino
state in quelli tempi.
Quanto alla seconda
cosa, che gli uomini
non possono mostrare la
virtù loro, come
ei potevano anticamente, mediante la
artiglieria ; dico eh’ egli è
vero, che dove
gli uomini spicciolati si
hanno a mostrare, eh’ e’
portano più pericoli
che allora, quandoavessino a scalare
una terra, o fare
simili assalti, dove gli
uomini non ristretti insieme, ma
di per sè 1’ uno
dall’ altro avessiuo a comparire.
E vero die gli capitoni
e capi degli stanno sottoposti
più al perii! morte
che allora, potendo
esser con le artiglierie
in ogni lu giova
loro lo essere
nelle ultii «Ire, e muniti
di uomini fortissi dimeno si
vede che l’uno
c P questi duoi pericoli
fanno ra danni istraordinari : perchè munite bene
non si scalano,
i con assalti deboli
ad assaltarh volerle espugnare,
si riduce la una
ossidionc, come anticamen ceva. Ed
in quelle clic
pure pe si espugnano,
non sono molto i pericoli che
allora: perchè n cavano
anche in quel
tempo a fendeva le
terre, cose da
trarre se non erano
si furiose, facevam all’ ammazzare gli
uomini, *il s fello.
Quanto alla morte
de’ci de’ condottieri, ce
ne sono, in v
tro anni
che sono state
le guerre simi tempi
in Italia, meno
esempi, che non era
in dieci anni
di tempo appresso agii
antichi. Perchè, dal
conte Lodovico della Mirandola,
che morì a Ferrara quando i Veniziani pochi
anni sono assaltarono quello Stato,
ed il Duca
di Nemors, che muore
alla Ciriguuola, in fuori;
non è occorso che
d’artiglierie ne sia morto
alcuno; percdiè monsignor di
Pois a Ravenna mori
di ferro, e non di
fuoco. Tanto che,
se gli uomini
non dimostrano
particolarmente la loro
virtù, nasce non dalle
artiglierie, ma dai
cattivi ordini, e dalla debolezza
degli eserciti; i quali, mancando
di virtù nel tutto,
non la possono
dimostrare nella parte. Quanto
alla terza cosa
detta da costoro, che
non si possa
venire alle mani, fc
che la guerra
si condurrà tutta in
su P artiglierie, dico
questa oppinione essere al
tutto falsa; e così
ila sempre tenuta da
coloro che secondo
P antica virtù vorranno adoperare
gli eserciti loro. Perchè,
chi vuole fare
uno esercito buono, gli
conviene, con eserpiù
apertamente questo errore, mare
più i cavalli che
le fantei uno altro
essempio romano. E Romani
a campo a Sora, ed i
usciti fuori della
terra una tu cavalli
per assaltare il campo,
fece all’ incontro
il Maestro de romano
con la sua
cavalleria, e di petto,
la sorte dette
che nel scontro i capi
dell’ uno e dell’ alticito morirono;
e restali gli alti*governo,
e durando nondimeno I i Romani
per superare più
fac lo inimico, scesono
a piede, e cc sono i cavalieri
nimici, se si voi
fendere, a fare il
simile: e co questo, i Romani
ne riportarom toria. Non
può esser questo
eì maggiore in dimostrare
quanto virtù nelle fantericche
ne’ cavag che se nelle
altre fazioni i Con cevano
discendere i cavalieri i era
per soccorrere alle
fanterie i tivano, e che
avevano bisogno ili aiuto;
ma in
questo luogo e’
discesono, non per soccorrere alle
fanterie nè per
eombattere con uomini
a piè de’ nimici,
ma combattendo a cavallo co’ cavalli,
giudicareno, non potendo
superargli a cavallo, potere scendendo
più facilmente vincergli. Io
voglio adunque conchiudere,
che una fanteria
ordinata non possa senza
grandissima diffìcultà esser
superata, se non
da una altra
fanteria. Crasso e Marc’ Antonio
romani corsone per il
dominio de’ Parti
molte giornate con pochissimi
cavalli ed assai
fanteria, ed all’ incontro
avevano innumerabili cavalli de’
Parti. Crasso vi
rimase con parte dello
esercito morto. Marc’
Antonio virtuosamente si salvò.
Nondimanco, in queste afflizioni
romane si vede
quanto le fanterie prevalevano
ai cavalli : perchè essendo in
un paese largo,
dove i monti son
radi, ed i fiumi
radissimi, le marine longinque,
e discosto da ogni
comodità; nondimanco Marc’
Antonio, al giudicio de’
Parti medesimi, mente si
salvò; nè mai
ebbe tutta la cavalleria
pnrtica te ordini dello
esercito suo. Se rimase,
chi leggerà bene
le s vedrà come
e’ vi fu
piuttosto che forzato: nè
mai, in tutti sordini, i Parti
ardirono di uri sempre
andando costeggiando
pedendogli le vettovaglie,
prò gli e non gli
osservando, lo et od
una estrema miseria.
Io avere a durare più
fatica in p quanto
la virtù delle
fanterie lente ebe quella
de’ cavalli, fussino assai moderni
essenv rendono testimonianza pieniss è veduto novemila
Svizzeri i da noi di sopra
allegata, and frontale diecimila
cavalli ed fanti, e vincergli:
perchè i cf li potevano
offendere: i fanti, ] gente
in buona parte
guascoi ordinata, stimavano poco.
Yi ventiseimila Svizzeri andare
a trovare sopra Milano Francesco
re di Francia, che
aveva seco ventimila
cavalli, qua-♦ rantamila fanti
e cento carra d’artiglieria ; e se non
vinsono la giornata come
a Novara, combatterono due
giorni virtuosamente; e dipoi, rotti
che furono, la metà
di loro si
salvarono. Presunse Marco Regolo
Attilio, non solo
con la fanteria sua
sostenere i cavalli, ma
gli elefanti; e se il
disegno non gli
riuscì, non fu però
che la virtù
della sua fanteria non
fusse tanta, che
ei non confidasse tanto in lei che
credesse superare quella difficoltà.
Replico, pertanto, che a voler
superare i fanti ordinati,
è necessario opporre loro
fanti meglio ordinati di
quelli: altrimenti, si
va ad una perdita
manifesta. Ne’ tempi di
Filippo Visconti, duca di
Milano, scesouo ili Lombardia
circa sedicimila Svizzeri: donde il
Duca avendo per
capitano allora il Carmignuola,
lo manda con
circa mille cavalli e pochi
fanti allo incontro loro. Costui
non sappiendo 1* 01
combatter loro, ne anda ad inc
nari o di amici
ei non può
tenere lun-gamente tale esercito,
è matto al tuttose
non tenta la
fortuna innanzi che
taleesercito si abbia
a risolvere:
perchèaspettando, ei perde
al certo; tentando, potrebbe vincere.
Un’altra cosa ci
èancora da stimare
assai: la quale è,che
si debbe, eziandio
perdendo, volereacquistar gloria;
e più gloria si
ha adesser vinto
per forza, che
per altro in-conveniente che t’abbia
fatto perdere.Sì che
Annibaie doveva essere
constretto«la queste necessità.
E dìScipione, quando Anuibaferita
la giornata, e nonstalo
l’animo andarlo a tghi
forti, non pativa,
pevinto Siface, e acquistateAffrica, che
vi poteva stacomodità
come in Italia,terveniva ad
Annibaie, qV incontro di
Fabio ; nèciosi, che
erano all’ inctzio.
Tanto meno ancoragiornata colui
che con l’il
paese altrui; perchè,trare nel
paese del niiviene
quando il nimico
scontro, azzuffarsi seco;
er la più
corta, e per vin-cere ogni
di (Tic ulta
nè dar tempo
al mar-chese a diliberarsi, ad un tratto
mossele sue genti
per quella via,
cd al marchese significa gli
mandasse le chiavi
diquel passo. Talché
il marchese, occupato da
questa subita diliberazione, glimandò
le chiavi: le quali
mai gli arebbemandate se
Pois più lepidamente
si fusscgovernato, essendo
quel marchese in
legaeoi papa e coi
Viniziani, ed avendo
uusuo figliuolo nelle
mani del papa;
lequali cose gli
davano molte oneste
scusea negarle. Ma assaltato
dal subito partito, per
le cagioni che
di sopra si dicono,
le concesse. Cosi
feciono i Toscanieoi Sanniti,
avendo per la
presenza dell’esercito di
Sannio preso quelle
armeche gli avevano
negato per altri
tempipigliare. Qual sia miglior
partitonelle giornale, o
sostenere lf impetode*
nimicij c sostenuto urtargli; ovvero dapprima con furia
assaltargli. Erano Decio e Fabio,
consoli romani,con due
eserciti all’ incontro
degli eser-citi dei Sanniti
e dei Toscani; e venendoalla
zuffa ed alla
giornata insieme, è danotare
in tal fazione,
quale di due
di-versi modi di procedere
tenuti dai dueConsoli
sia migliore. Perchè
Decio conogni impeto
e cor ogni suo
sforzo assalta il nimico;
Fabio solamente lo sostenne,
giudicando V assalto lento
es-sere più utile, riserbando
l' impeto suonell’ ultimo,
quando il nimico
avesseperduto il primo
ardore del combat-tere, e come noi
diciamo, la sua
foga. Dove si vede,
per il successo
della eosa, che a Fabio
riuscì molto meglio
il disegno che a Decio
: il quale si
straccònei primi impeti
; in modo che,
veden-do la banda
sua piuttosto in
volta diealtrimenti, per
acquistare con la
mortequella gloria alla
quale con la
vittorianon aveva potuto
aggiungere, ad imita-zione del padre
sacrificò sè stesso
perle romane legioni.
La qual cosa
intesada Fabio, per
non acquistare manco
ono-re vivendo, che s’avesse
il suo collegaacquistato morendo,
spinse innanzi tuttequelle
forze che s’ aveva a tale
necessitàriservate ; donde ne
riportò una felicissima vittoria. Di
qui si vede
che ’l mododel
procedere di Fubio
è più sicuro e più imitabile.
Donde nasce che
una fa-mìglia iìi una
città tiene un
tempo imedesimi costumi. E’
pare clic non
solamente 1’ una
cittàdall* altra abbi
certi modi ed
institutidiversi, e procrei uomini
o più duri opiù
effeminati; ma nella
medesima cittàsi vede
tal differenza esser
nelle fumiglie I’
una dall’ altra.
H che si riscontraessere vero
in ogni città,
e nella cittàili Roma
se ne leggono
assai essempi :perché
e’ si vede i
Manlii essere statiduri
ed ostinati, i Pubi icoli
uomini benigni ed amatori
del popolo, gli
Appiiambiziosi e ni mici
della Plebe: e cosimolte
altre famiglie avere
avute ciascunale qualità
sue spartite dall’
altre. La qualcosa
non può nascere
solamente dal sangue, perchè e’ conviene
eh’ ei varii mediante la
diversità dei matrimoni;
maè necessario venga dalla diversa
educa-zione che ha una
famiglia dall’ altra.Perchè
gl’ importa assai
che un giovanetto dai teneri
anni cominci a sentirdire
bene o male di
una cosa; perchèconviene che
di necessità ne
faccia im-pressione, e da quella
poi regoli il
mododel procedere in
tutti i tempi della
vitasua. E se questo
non fosse, sarebbe
im-possibile che tutti gli
Appii avessinoavuta la
medesima voglia, c Rissino
statiagitati dalle medesime
passioni, comenota Tilo L. in
molti di loro:
e perultimo, essendo uno
di loro fatto
Censore, ed avendo il
suo collega alla
finede* diciotto mesi,
come ne disponeva
lalegge, deposto il
magistrato, Àppio nonlo
volle deporre, dicendo
che lo potevatenere
cinque anni secondo
la primalegge ordinata
dai Censori. E benchésopra
questo se ne
facessero assai con-cioni, e se ne
generassino assai tumulti,non
pertanto ci' fu
mai rimedio che volesse
deporlo, conira alla
volontà delPopolo e della
maggior parte del
Senato. E chi leggerà P orazione
che gli fececontro
Publio Sempronio tribuno
dellaplebe, vi noterà
tutte l’ insolenze oppiane,e tulle le
bontà ed umanità
usale da in-finiti cittadini per
ubbidire alle leggi
edagli auspicii della
loro patria. Che un
buon cittadinoper amore della
patria debbo dimenticare l’ingiurie’ private.Era Manlio
consolo con l’esercito
con-ira ai Sanniti* ed
essendo stato in
unazuffa ferito, e per
questo portando legenti
sue pericolo, giudicò
il Senato es-ser necessario mandarvi
Papirio Cursore dittatore, per
sopplire ai difetti
del Consolo. Ed essendo
necessario che ’lDittatore
fusse nominato da
Fabio, ilquale era
con gli eserciti
in Toscana; edubitando,
per essergli nimico, che
nonvolesse nominarlo; gli mandarono
i Senatori due ambasciadori a pregarlo,
che,posti da parte
gli privati odii,
dovesseper benefìzio pubblico
nominarlo. Il cheFabio
fece, mosso dalla
carità della pa-tria; ancora che
col tacere e con
mol-ti altri modi facesse
segno che talenominazione gli
premesse. Dal qualedebbono
pigliare essempio tutti
quelli,che cercano d*
essere tenuti buoni
cit-tadini. Quando si
vede fareuno errore
grande ad un
nimico ,si debbe credere
che vi sia sono
in-ganno.Essendo rintaso Fulvio
Legato nelloesercito che i
Romani avevano in Toscana,
per esser ito
il Consolo per
al-cune cerimonie a Roma; i Toscani,
pervedere se potevano
avere quello allatratta,
posono un aguato
propinquo aicampi romani,
e mandarono alcuni sol-dati con
veste di pastori
con assai ar-mento, e gli feciono
venire alla vista dello
esercito romano: i quali
così tra-vestiti si accostarono
allo steccato delcampo;
onde il Legato
meravigliandosidi questa loro
presunzione, non gli
pa-tendo ragionevole, tenne modo
ch’egliscoperse la fraude;
e cosi restò il di*>igno de Toscani rotto. Qui si può
comoramente notare, che
un capitano dieserciti
non debbe prestar
fede ad unoerrore
che evidentemente si
vegga fareal nimico:
perchè sempre vi
sarà sottofronde, non
sendo ragionevole che
gliuomini siano tanto
incauti. Ma spesso
ildisiderio del vincere
acceca gli animi degli
uomini, che non
veggono altro chequello
pare facci per
loro. I Franciosi avendo vinti
i Romani ad Allia,
e venendo a Roma, e trovando le
porte aperte e senza guardia,
stettero tutto quel
giorno e la notte senza
entrarvi, temendo di fraude,
e non potendo credere
clic fusse tanta viltà
c tanto poco consiglio
ne’ petti romani, che
gli nbbandonassino la patria.
Quando nel 4508
s’andò per gli Fiorentini a Risa
a campo, Alfonso del Mutolo,
cittadino pisano, si
trovava prigione dei Fiorentini,
e promise che s’egli era
libero, darebbe una
porta di Pisa all’esercito fiorentino.
Fu costui libero. Di poi, per
praticare la cosa,
venne molte volte a parlare
coi mandati dc’commissari; e veniva
non di nascosto,
ma scoperto, ed accompagnato
da’ Pisani; i quali lasciava
da parte, quando
parlava eoi Fiorentini. Talmentechè si
poteva conietturare il suo
animo doppio ; perchè non
era ragionevole, se
la pratica fussc stata
fedele, eh’ egli
1’ avesse trattata sì
alla scoperta. .Ma
il disiderio che s*
aveva d’ aver
Pisa, accecò in
modo i Fiorentini, che
condottisi con l’ ordine suo
alla porta a Lucca,
vi lasciarono più loro
capi ed .altre
genti con disonore loro, per il tradimento
doppio che fece detto
Alfonso. Una repubblica, a volerla mantenere libera,
ha ciascuno di
bisogno di nuovi provvedimenti
; e per guali meriti Quinto
Fabio fu chiamato Massimo. E di
necessità, come altre
volte s’ è letto,
che ciascuno dì
in una città
grande 'taschino' accidenti che
abbino bisogno elei medico
; e secondo che gli
importano più, conviene trovare
il medico più
savio. E se in alcune
città nacquero mai
simili accidenti, nacquero in
t\oma e strani ed insperati;
come fu quello
quando e’parve cha
tutte le donne
romane avessino congiurato contra
ai loro maritid’
ammazzargli : tante
se ne trovò
clicgli avevano avvelenati,
e tante eh’ ave-vano preparato il veleno per avvelenargli. Come fu
ancora quella congiura
de’baccanali, clic si
scopri nel tempo
dellaguerra macedonica, dove
erano già in-viluppati molti migliaia
d’ uomini e didonne;
e se la non
si scopriva, sarebbestata
pericolosa per quella
città ; o seppure i Romani non
fussino stati con-sueti a gasligare le
muititudiui degli uo-mini erranti: perchè,
quando e’ non
sivedesse per altri
infiniti segni la
gran-dezza di quella Repubblica,
e la potenza delle esecuzioni sue,
si vede per la qualità della pena che la impone a chi erra.
Nè dubita far morire per via di
giustizia una legione
intera per volta, ed
una città tutta;
e di confinare ottoo
diecimila uomini con
condizioni straordinarie, da non
essere osservate da unsolo, non
che da tanti:
come intervennea quelli soldati
che infelicement combatteno a
Canne, i quali confina in
Sicilia, e impose loro che
non alkergassino in terre,
e che mangiassino ritti. Ma di tutte 1’altre esecuzioni era terribile il decimare gl’eserciti, dove a
scorte da tutto uno esercito è morto d’ogni dieci uno. Nè si poteva, a gasligare una multitudine, trovare più
spaventevole punizione di questa. Perchè quando una moltitudine
erra, dove non sia 1’autore certo, tutti non si possono gastigare, per esser
troppi; punirne parte e parte lasciare impuniti, si farebbe torto a quelli che si punissino, e gl’impuniti arebbono animo di errare
un’altra volta. Ma ammazzare la decima parte a sorte, quando tutti la meritano,
o, 1'è punito si duole della sorte; ehi
non è punito, ha paura che un’altra
volta non tocchi alui, e guardasi di errare. Sono punite, adunque, le venefiche
e le baccanali secondo che meritano i peccali loro. K. benché questi morbi in
una repubblica faccino cattivi effetti, non sono a morte, perchè sempre quasi
s’ha tempo a correggerli: ma non s’ha già tempo in quelli che riguardano lo
stato, i quali se non sono da un
pru-dente corretti, rovinano la
città. Eranoin Roma,
per la liberalità
che i Romani usavano di
donare la civilità
a’ forestieri, nate tante genti
nuove, che le
comincia avere tanta parte
ne’ suffragi, che’l governo comincia
a variare, epartivasi da
quelle cose e da
quelli uomini dove era
consueto andare. Di che
accorgendosi Quinto Fabio
che è Censore, messe tutte
queste genti nuoveda
chi dipendeva questo disordine
sot-to quattro Tribù,
acciocché non potessino,
ridotte in si
piccioli spazi,corrompere tutta
Roma. È questa cosa ben conosciuta da Fabio, e postovi
senza alterazione conveniente
rimedio; il quale è
tanto accetto a quella
civilità, che merita
d’esser chiamato Masssirno Machiavelli a Zanobi
Buondel-monti e Cosimo Rucellai
salute. Quali siano stati universalmente
i principii di qualunque città, e
quale è quello di
Roma Di quanto spezie
sono le repubbliche,e di quale
fu la Repubblica
Romana. Quali accidenti facessino
creare inRoma i Tribuni
della plebe; il che
fece la Repubblica più perfetta che la disunione della Plebe e del Senato romano fece
libera e potente quella Repubblica. Dove più
securamente si ponga
laguardia della libertà,
o nel Popolo one’ Grandi;
e quali hanno maggiore cagione di tumultuare, o chi
vuole acquistare o chi vuole
mantenere. Se in Roma
si poteva ordinare
uno sstato che togliesse
via le inimicizie intra il
popolo ed il senato Quanto siano
necessarie in una
Repubblica le accuse per
mantenere lalibertà Quanto lo
accuse sono utili
allerepubbliche, tanto sono
perniziose le calunnie. Come egli è
necessario esser soloavolere
ordinare una repubblica
dinuovo, oal tutto
fuori delli antichi suoi
ordini riformarla Quanto sono
laudabili i fondatori d’una repubblica
o d’uno regno, tanto quelli
d’ una tirannide sono
vituperabili Della religione de’
Romani. Di quanta importanza
sia teneroconto della
religione, e come la
Italia per esserne mancata
mediante la Chiesa romana, è rovinata Come i Romani si
servirono dellareligione per
ordinare la città,
e per seguire le loro
imprese e fermare i tumulti. I Romani interpretavano gli
auspicii secondo la
necessità, o con la prudenza
mostravano di osservare
la religione, quando forzati
non 1’osser-vavano; e se alcuno
temerariamentela
dispregiava, lo punivano 100dio alle
cose loro afflitte,
ricorsonoalla religione Un popolo
USO a vivere sotto
unprincipe, se per
qualche accidente diventa libero, con difficultà mantienela
libertà. Uno popolo corrotto,
venuto in libertà, si
può con dit'ticnltà
grandissima mantenere libero In
che modo nelle
città corrotte si potesse
mantenere uno Stato
libero, essendovi; o non essendovi,
ordinarvelo Dopo uno eccellente
principe si puòmantenere
un principe debole;
madopo un debole,
non si può
con un altro debole mantenere
alcun regno. Due continove successioni
di principi virtuosi fanno
grandi effettivecome le
repubbliche bene ordinatehanno
di necessità virtuose
successioni: e però gli acquisti ed augumenti loro sono grandi Quanto
biasimo meriti quel principe e quella repubblica che manca d’armi proprie
Quello che sia da notare nel caso dei tre Orazi romani, e dei tre Curiazi albani che non si debbe
mettere a pericolo tutta la fortuna
e non tutte le forze;
e per questo, spesso
il guardare i passi è dannoso
Le repubbliche bene
ordinatecostituiscono premii e pene
a’ loro cittadini, nè compensano
mai l’uno con l’altro Chi
mole riformare nno
Stato antico in una
città libera, ritenga
almeno l’ombra desmodi antichi
Un principe nnoro,
in nna cittào provincia presa
da Ini, debbo
faro ogni cosa nnova Sanno
rarissime volte gli
nomini essere al tutto
tristi o al tatto buoni.
IniPer qual cagione
i Romani furono meno ingrati
agli loro cittadini che
gl’ateniesi Quale sia più
ingrato, o un popolo, o un
principe Quali modi debbe
usare un prìncipe o nna repubblica
per fuggirò questo vizio
della ingratitudine; e qnali quel
capitano o quel cittadino
per non essere oppresso da
quella Che i capitani romani per errore commesso non furono
mai istraordinariamente puniti;
nè furono inai
ancora puniti quando, per
la ignoranza loro o tristi partiti presi da
loro ne fussino seguiti
danni alla repubblica,
lfil Una repubblica o nno
principe non dobbe differire a
beneficare gli uomini nelle
sue necessitati. Quando
uno inconveniente è cresciuto
o in uno Stato
o contra ad uno Stato,
è più salutifero partito
temporeggiarlo che urtarlo.
L'autorità dittatoria fece
tene, e non danno, alla
repubblica romana: o come lo
autorità che i cittadini
si toPgono, non
quelle che sono
loro dai suffragi liberi
date, sono alla
vita civile perniciose La
cagione perchè in
Roma la creazione del
decemvirato fu nociva alla
libertà di quella
repubblica, non ostante che
fosse creato per
suffragi pubblichi e liberi
Non debbono i cittadini
che hanno avuti i maggiori
onori, sdegnarside' minoriQuali
scandali partorì in
Roma la legge agraria:
e come fare una legge
in una repubblica
che risguardi assai indietro,
e sia contra ad
unaconsuetudine antica della
città, èscandolosissimo Le repubbliche
deboli sonomale risolute,
e non si sanno
delibe-rare; e se le pigliano
mai alcuno par-tito, nasce più
da necessità che
daelezione In diversi
popoli si veggonospesso
i medesimi accidenti. La creazione
del decemvirato in Roma,
e quello che in
essa è da notare:
dove si considera,
intra moltealtre cose,
come si può
salvare persimile accidente,
o oppressare una repubblica
Saltare dalla urailità
alla superbia, dalla pietà
alla crudeltà, senza
debiti mezzi, è cosa imprudente
ed inutile. Quanto gli
uomini facilmente si possono
corrompere. Quelli che combattono per la gloria propria, sono
buoni e fedeli soldati
Una moltitudine senza
capo èinutile: e non
si debbe minacciare prima, e poi
chiedere P autorità È cosa
di malo esempio
non osservare una legge
fatta, e massimedallo autore
d'essa: e rinfrescare ogni dì
nuove ingiurie in
una città, è a chi
la governa dannosissimo Gli uomini
salgono da un'
ambizione ad un'altra; e prima
si cercanon essere
offeso, dipoi di
offendere altrui Gli uomini, ancora
che si ingannino ne’ generali, nei
particolari non si ingannano
Chi vuolo che
uno magistrato non sia
dato ad un
vile o ad un
tristo, lo facci domandare
o ad un troppo vile e
troppo tristo, o ad
uno troppo nobile e troppo
buono Se quelle città
che hanno avuto il
principio libero, come
Roma, hanno difficoltà a trovare
leggi che le
mantenghino; quelle che
lo hanno immediate servo, ne
hanno quasi una impossibilita. Non debbo
uno consiglio o uno
magistrato potere fermare le
azioni della città. Una
repubblica o uno principe
debbo mostrare di fare
per liberalità quello a che
la necessità lo
constringe A reprimere la
insolenza di uno che
sorga in una
repubblica potente, non vi è
piu securo e meno
scandoloso modo, che
preoccuparli quelle vie per
lo quali o’vieno
a quella potenza. Il
popolo molte volto
desidera la rovina sua,
ingannato da una falsa spezie
di bene: e come le
grandi speranze e gagliardo promesse
facilmente lo muovono.
Quanta autorità abbia
uno uomo grande a frenare
una moltitudine Quanto facilmente
si conduchino le cose
in quella città
dove la moltitu-dine non è corrotta:
e che dove è eqnalità,
non si può
faro principato;e dove la
non è, non
si può far repubblica.
Innanzi che seguino
i grandi accidenti in una
città o in una
provincia, vengono segui
che gli pronosti-cano, o Domini che
gli predicono. La plebe
insieme è gagliarda; diper
se è debole La moltitudine
è più savia e piùcostante
che un principe altri si
può più fidare; o di
quellafatta con una
repubblica, o di quellafatta
con nno principe Come il consolato o qualunque altro magistrato in
Roma si dava
senzarispetto di età Quale
fu più cagione
dello imperioche acquistorono
i Romani, o la virtù,o la
fortuna Con quali popoli
i Romani ebbero acombattere, e
come ostinatamente quelli difendevano
la loro libertà. Roma
divenne grande città
rovinando le città circonvicine,
e ricevendo i forestieri
facilmente a' suoionori Le
repubbliche hanno tenuti
tre modicirca lo
ampliare lingue, insieme con
l’accidente de1 diluvio delle
pesti, spegno la
memoria dello cose. Come i Romani
procedevano nel farela
guerra Quanto terreno i Romani
davanoper colono La cagione
perchè i popoli si
partono da’ luoghi patrii, ed
inondano ilpaose altrui Quali
cagioni comunemente faccino.
I danari non sono il nervo
dellaguerra, secondo elio è
la comune op-pinone Non
è partito prudento fare
amicizia con un principe
che abbia piùoppinione
che forze assaltato, inferire,
o aspettare laguerra Che si
viene (li bassa
a gran fortuna più con
la fraude, che
con laforza t Ingannansi molte
volto gli uomini,credendo con
la nmilità vincere
la superbia Gli
stati deboli sempre
fieno ambi-gui nel risolversi:
e sempre le deli-berazioni lente sono
nocive Quanto i soldati ne’
nostri tempi si disformino
dalli antichi ordini. Quanto si
debbino stimare daglieserciti
ne’ presenti tempi
le artiglie-rie; e se quella
oppinione che se
neha in universale,
è vera Come per I’
autorità de* Romani,e per
lo essempio della
antica milizia, si debbe
stimare più le
fanterieche i cavagli . Che gli
acquisti nelle repubbli-che non bene
ordinate e che secondola
romana virtù non
procedono, sonoa rovina, non a
esaltazione di esse. Quale
pericolo porti quel
principeo quella repubblica che si vale
dellamilizia ausiliare a mercenaria Il primo Pretore
che i Romani mandarono in
alcun luogo, fu a
Capo-va, dopo quattrocento
anni che cominciarono a far guerra Quanto
siano false molte
volte leoppinioni degli
uomini nel giudicarele
cose grandi Quanto i Romani
nel giudicarei sudditi per
alcuno accidente che
necessitasse tal giudizio, fuggivano
lavia del mezzo Le
fortezze generalmente sonomolto
più dannose che
utili Che Io assaltare una città disunita, per occuparla
mediante la sua disunione, è partito
contrario. Il vilipendio e l’improperio genera odio contra
a coloro che l’usano, senza alcuna
loro utilità Ai principi
e repubbliche prudenti debbe bastare
vincere; perchè ilpiù delle
volte, quando non
basti, siperde Quanto
sia pericoloso ad una
repubblica o ad uno
principe non vendicare una
ingiuria fatta contra
alpubblico o contra al
privato La fortuna accieca
gl’animi degl’uomini, quando
la non vuole
chequelli si opponghino
a’ disegni suoi Le repubbliche e gli principi
veramente potenti non comperano
l'amicizie con danari, ma
con la virtù
econ la riputazione
delle forzo. Quanto sia
pericoloso credere agli sbanditi In quanti
modi i Romani occupano le
terre Come i Romani davano
agliloro capitani degli
eserciti le commissioni libere A volere che
una setta o una
repubblica viva lungamente, è necessarioritirarla spesso
verso il suo
principio. Come gli è
cosa sapientissima simulare in
tempo la pazzia. Come
egli è necessario, a volermantenere una
libertà acquistata dinuovo,
ammazzare i figliuoli di
Bruto Pag-Non vive
sicuro un principe
in un principato, mentre
vivono coloro chene sono
stati spogliati Quello che fa perdere
uno regno aduno
re che sia
ereditario di quello. Delle congiure Donde nasce
che le mutazioni
dallalibertà alla servitù,
e dalla servitùalla libertà,
alcuna n1 è senza sangue, alcuna n’è piena chi vuole alterare una
repubblica, debbo
considerare il soggetto
diquella Come conviene variare
coi tempi, volendo sempre
aver buona fortuna
. Che uu capitano
non può fuggire
lagiornata, quando 1’avversario la
vuolfare in ogni
modo Che chi ha a
fare con
assai, ancora che sia
inferiore, purché possasostenere
i primi impeti, vince. Come
un capitano prudente
debboimporre ogni necessità
di combattereai suoi
soldati, e a quelli delli
minicitorla gol. Più
confidare, o innuo buono
capitano che abbia l’eser-cp°
debole, o in uno
buono esercito che abbia
il capitano debole. Le
invenzioni nuove che
appariscono nel mezzo della
zuffa, e le vocinuove
che si odono,
quali effetti faccino
Come uno e non
molti siano preposti ad
uno esercito, o come
i piùcomandatori offendono
Che la
vera virtù si
va ne' tempidifficili a trovare;
e ne tempi facilinon gli
uomini virtuosi, ma
quelliche per ricchezze
o per parentado prevagliono,
hanno più graziaChe
non si offenda
uno, e poiquel medesimo
si mandi in
ammini-strazione e governo d’
importanza. Nessuna cosa è più
degna d' uncapitano, che
presentire i partiti delnimico. Se a
reggere una moltitudine
èpiù necessario lo
ossequio che la
pena. Uno essempio d'umanità
appresso ai Falisci potette
più d' ogni forza romana Donde nasce che Annibale con
diverso modo di procedere da Scipione,
fa quelli medesimi effetti
in Italia che quello in
Ispagna. Come la durezza
di Manlio Torquato e l’umanità di Valerio
Corvino acquistò a ciascuno la
medesima gloria. Per quale cagione Cammillo fnsse cacciato di Roma. La
prolungazione degl’imperi fa serva
Roma. Della povertà di
Cincinnato, e dimolti cittadini
romani. Come per cagione di femmine si rovina uno Stato. Come e'
si ha a nnire
una città divisa; e come
quella oppinione non è vera,
che a tenere le città
bisogna tenerle disunite. Che si
debbe por mente
alle opere de’ cittadini,
perchè molte volte sotto
un’opera pia si nasconde
un principio di tirannide. Che
gli peccati dei popoli nascono dai
principi. Ad uno cittadino che
voglia nella sua repubblica
far di sua autorità
alcuna opera buona, è necessario
prima spegnere l’invidia: e
come, venendo il nimico,
s’ha a ordinare la difesa d’una
città Le repubbliche
forti o gli uomini eccellenti ritengono
in ogni fortuna il
medesimo animo e la
loro medesima dignità. Quali modi
hanno tenuti alcuni a turbare una
paco. Egli è necessario, a voler
vincere una giornata, fare l’esercito conattente
ed infra loro,
e con il capittano. Quale fama o voce o oppinione fa che il
popolo comincia a favorire un
cittadino: e se ei distribuisce I magistrati
con maggior prudenza
che un principe. Quali
pericoli si portino nel
farsi capo a consigliare una cosa; e quanto ella ha più dello straordinario, maggiori pericoli vi
si corrono. La cagione perchè
i Franciosi sono stati e sono
ancora giudicati nelle zuffe da principio
più che uomini, e dipoi meno che
femmine. Se le piccolo battaglie innanzi alla
giornata sono necessarie,
e come si debbo fare a
conoscere un nimico nuovo,
volendo fuggire quelle. Come
debbe esser fatto un capitano nel
quale 1’esercito suo
possa confidare Che un capitano
debbe esser conoscitore dei
siti Come usare la fraudo nel maneggiare la
guerra è cosa gloriosa. Che la patria si debbe difendere o
con ignominia o con
gloria; ed in qualunque
modo è ben difesa Che
le promesse fatte
per forza non si
debbono osservare Clie gli
uomini che nascono
in una provincia, osservano
per tutti I tempi
quasi quella medesima
natura E’ si ottiene
con l'impeto e con 1’audacia molte
volte quello che con modi
ordinari non si
otterrebbe mai. Qual sia miglior partito
nelle giornate, o sostenere l'impeto de'
nimici, e sostenuto
urtargli; ovvero dapprima con
furia assaltargli Donde
nasce che una
famiglia in una città
tiene un tempo
i medesimi costumi Che un buon cittadino per amore della patria debbe
dimenticare l’ingiurie private. Quando
si vede fare uno errore, grande ad un nimico, si debbe credere die vi
sia sotto inganno. Una
repubblica, a volerla mantenere libera, ha ciascuno di
bisogno di nuovi provvedimenti; e per
quali meriti Quinto Fabio
è chiamato Massimo. Tito Livio. Keywords: filosofia
romana, Romolo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livio” – The Swmming-Pool
Library, Villa Speranza. For H. P. G. Grice’s Gruppo di Gioco. Tito Livio.
Grice e Lodovici: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della virtù – verso la meta –
la meta è l’origine -- filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Messina). Filosofo
italiano. Messina, Sicilia. Grice:
“I like Emanuele Samek Lodovici – very Italian – his metamorfosi della gnosi is
good!” -- samek lodovici -- one of the two. Il suo pensiero d'impronta metafisica si oppone al
materialismo e al riduzionismo. Esperto della filosofia di Plotino,
Sant'Agostino e Marx, si occupa dello gnosticismo che a suo parere si trova
ripresentato in diverse filosofie e ideologie dell'età moderna e
contemporanea. Figlio del bibliotecario e bibliografo Sergio Samek
Lodovici, nativo di Carrara, che lo chiamò come suo fratello maggiore, noto
medico e politico. Rimase in Sicilia per breve tempo per poi vivere sempre a Milano.
Scampò a soli cinque anni alla tragedia di Albenga, quando dopo il naufragio di
un'imbarcazione carica di bambini era stato inserito nel gruppo delle piccole
salme, ma il tempestivo intervento di un medico lo salvò. Di formazione e
cultura cattoliche, studia a Milano dove si laurea con «Filosofia classica e
spiritualità cristiana nel Commento di Sant'Agostino al Vangelo di San
Giovanni». Insegna aTorino. Pubblicò due monografie, una su Agostino (con il
contributo del C.N.R.), e l'altra sulla gnosi moderna, che gli valsero la
cattedra di Filosofia a Trieste. In una
lettera Noce si riferiva così. Nella prima delle sue due opere fondamentali,
Dio e mondo, inizia considerando la grave accusa rivolta da Heidegger alla
metafisica, ovvero di non aver compreso che cos'è l'«essere» e di aver
reificato Dio, di averlo cioè reso una «cosa». Questa critica può essere
legittima ma non nei riguardi della metafisica neoplatonica nella forma in cui
è stata mediata da Agostino. Individua il fulcro di tale metafisica nella
dottrina della «partecipazione» delle idee col mondo, in forza della quale il
rapporto di Dio col mondo è una relazione sostanziale e non oggettualità.
In Metamorfosi della gnosi, delinea una fenomenologia della cultura come
influenzata da una mentalità inconsciamente gnostica. Tale mentalità ha assunto
in sé le tesi dello gnosticismo antico, ovvero la sostanziale negatività del
mondo, la possibilità di redenzione dalla oscurità del mondo attraverso un
sapere salvifico (gnosi) e la possibilità di un redenzione del mondo
realizzata, senza bisogno della grazia divina, dalla sola azione dell'uomo
tramite la politica e/o la scienza. Così nel pensiero gnostico la
finitezza e la creaturalità vengono disprezzate e rifiutate, con l'ambizione di
creare l'Uomo Nuovo e la Gerusalemme terrena. Insomma, sintesi del pensiero
gnostico è quella formulazione che trova il proprio culmine nel «rifiuto di non
poter essere Dio»; in tal modo nella visione gnostica non è più Dio, ma l'uomo
gnostico a identificarsi con l'infinito, sgravato com'è da qualsiasi
limite. Da ciò appaiono evidenti gli obiettivi polemici e critici di ogni
metamorfosi dello gnosticismo rappresentato nelle forme del riduzionismo
antireligioso, del prometeismo marxista, della filosofia
radical-relativista diffusa attraverso i media, della corruzione della memoria
storica attuata anche attraverso la corruzione del linguaggio ed infine nella
strategia della distruzione della famiglia, che è stata potentemente colpita in
particolare con la rivoluzione sessuale e con alcuni tipi di femminismo.
Per quanto riguarda la sua pars construens, Safferma che proprio a partire
dalla post-marxistica crisi del pensiero secolarista gnostico si deve delineare
la necessità di ritornare alla tradizione metafisica, da lui indicata sulla
linea di Platone, Plotino e soprattutto Agostino. In sintonia con l'ermeneutica contemporanea, e
pur evitandone le derive nichilistiche, riconosce la struttura storicamente
condizionante del linguaggio nei confronti dell'esistenza e della conoscenza,
secondo una sua favorita formula per cui «chi non ha le parole non ha le cose»,
e d'altra parte il filosofo riconosce anche la funzione inversa del linguaggio
per cui, oltre che elemento condizionante, esso è anche il mezzo con cui l'uomo
storico può trascendere i vincoli della storia e del linguaggio stesso (i
baconiani «idola fori» e «idola theatri») ed esprimere le verità eterne. Rievoca
la valenza dell'autocoscienza della ragione e delle sue vastissime
potenzialità, sia in bene che in male, e a partire da queste, ne ricorda i
limiti, i fallimenti storici e le costitutive incapacità che emergono
specialmente nel momento in cui essa viene elevata ad una illuministica
idolatria, concretizzandosi nella moderna vita di massa che «ha affermato la libertà politica da ogni
autorità spirituale, finendo per favorire il potere dell’uomo sull’uomo; ha
affermato la libertà dell’amore dalla morale per vanificarlo nel sesso; ha
affermato di lottare contro ogni religione in quanto superstizione, solo per
prepararne una più esiziale, quella della scienza e del successo.»
Piuttosto, una ragione accorta deve, restando autonoma, interagire con la
religione, per corroborarla e giustificarla razionalmente o per cercarvi le
risposte prime ed ultime. Tipica poi del suo pensiero è la «cultura del ricordo», intesa come
cultura non di una memoria archeologica bensì di una memoria che guardando ai
fallimenti del passato possa liberare il presente dalle menzogne ideologiche e
dai progetti utopistici che, ripetendosi nella storia, hanno generato i
totalitarismi del XX secolo, e che oggi producono la dittatura del relativismo
e del nichilismo. Così la memoria assume una funzione spirituale nel senso che «mi rende migliore di quello che sono». La
riflessione è dunque nel complesso di carattere etico-sapienzale, consapevole
che in ogni agire umano si esplica la ricerca della felicità, una ricerca che,
per essere efficace e compiuta, deve però essere immune da qualsiasi utopismo
onirico: è alla luce di questa precisazione che può affermare che «non vi è
nessuna felicità senza virtù, in altre parole non vi è nessuna felicità senza
quell'unica attività che è in grado di rendere l'uomo pienamente umano», perciò
«non si può pretendere che l'acquisto della felicità non passi attraverso lo
sforzo, la lotta, e in ultima analisi la sofferenza», ed è in tal modo che
trovano un senso il limite umano e la sofferenza. Non sfugge al filosofo la
coscienza della precarietà della felicità umana, però questa «ben lungi dallo
spingerci alla tristezza per l'insaziabilità dell'uomo, va tuttavia vistaottimisticamente,
come l'indizio che è un'altra la felicità conforme al livello spirituale degli
esseri umani», perché «ultima hominis felicitas non est in hac vita. Saggi: “
Plotino nel In Johannis Evangelium di Agostino, in Contributi dell'Istituto di filosofia, Vita e
Pensiero, La Lettera ai Galati” in Marcione e Tertulliano, in «Aevum», Milano, Agostino,
in Questioni di storiografia filosofica,
La Scuola, Brescia); Sul processo di Gesù e su Gesù e gli zeloti, Vita e
Pensiero, Marxismo o Cristianesimo, Ares, Sesso, matrimonio e concupiscenza in,
Etica sessuale (Milano); Tra cosmologia e metafisica. Note sul concetto di
cosmo, in “Il demoniaco nella musica, Giappichelli, La felicità e la crisi della cultura radicale
ed illuministica, in La crisi della
coscienza politica e il pensiero personalista, Libreria Gregoniana, “Dio e
mondo: relazione, causa e spazio” (EStudium); “Metamorfosi della gnosi” Ares, Dominio dell'istante, dominio della morte.
Alla ricerca di uno schema gnostico, in «Archivio di Filosofia», Istituto di
studi filosofici, Roma, “La gnosi e la genesi delle forme, in «Rivista di
Biologia», Il gusto del sapere, Universitas); “L'arte di non disperare. Il
gusto del sapere Estratti di L'arte di
non disperare M. Picker, Il mio professore di filosofia, Studi
Cattolici, Alabiso, La critica dell'attacco macro-strutturale al cristianesimo,
Catania. Giacomo L., Profili. L., Studi Cattolici, Sciffo, Le maschere della
gnosi, «Avvenire», Barbiellini Amidei, Il filosofo che insegna l'arte della speranza.,
in «Corriere della Sera», filosofo che insegna arte_della_co shtml G. Feyles,
La battaglia di Samek, in «Tempi», tempi la-battaglia-di-samek Fumagalli, L. e
Noce: Gnosi e secolarizzazione, Santa Croce, Roma //sergiofumagalli/files/ tesi.pdf
Taddeo, Verità e diritto, Trento G. Segre,
una vita per la Verità, «la Bussola Quotidiana» /la nuova bussola quotidiana.com/it/archivio
Storico Articolo-emanuele-samek- lodoviciuna vita-per-la-verit- A. Galli, Il
ritorno della gnosi, in «Avvenire», Anna, L'origine e la meta. Ares, Milano. Gnosticismo Cattolicesimo, Noce, Voegelin, Mathieu
su Santi, beati e testimoni, santiebeati. Il gusto del sapere Universitas, Documentazione
interdisciplinare di scienza e fede, Gnosi moderna e secolarizzazione
nell'analisi” Fumagalli, Pontificia Università della Santa Croce, Roma, “la
gnosi come vero avversario della verità di Restelli, sito "Cultura Cattolica.
Emanuele Samek Lodovici. Lodivici. Keywords. la virtù, l’amore sessuuale, il sessuale – la
sessualita, il maschile, il machio, il sesso maschile, il vir, virile,
virilita. Refs.: Luigi Speranza, “ Grice e Lodovici” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Lodovici: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) The author of a fascinating essay on
philosophical psychology. Figlio di Emanuele Samek Ludovici. Giacomo Samek
Lodovici. Lodovici.
Grice e Lombardi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia campanese – filosofia napoletana -- scuola la
filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano. Grice: “I like Lombardi; he took
seriously my idea of Philosophy’s Longitudinal Uniity, and like Passmore or
Warnock, engaged iin a study of the ‘last hundred years of Italian philosophy.
This shows that his interests on Kant, etc., are Italian-based, mainly!” Il padre e avvocato e docente di diritto e procedura
penale a Napoli, già allievo prediletto di Bovio, deputato prima e dopo il
fascismo, autore di scritti vari di sociologia. La madre Rosa Pignatari fu
nipote di Ciccotti, nella cui casa era
cresciuta. Tradusse alcuni degli scritti di Marx nelle Opere edite dal Ciccotti
e la Storia del movimento operaio di Edouard Dolleans. Laureato e libero docente in filosofia lavora
in filosofia. Pubblica “Il mondo degli uomini” (Firenze, Le Monnier) Insegna a
Roma. Presidente della Società Filosofica Italiana e (sin dalla fondazione)
della Società filosofica romana, diresse il "Centro di Ricerca per le
Scienze Morali e Sociali" presso l'Istituto di filosofia della Roma. Direttore
della rivista De Homine cui si è affiancato il Bollettino Bibliografico per le
Scienze morali e sociali. Membro dell’Accademia nazionale dei Lincei. Gli e
conferito il premio nazionale "Croce" per la filosofia. Saggi: “L'esperienza e l'uomo.”“Fondamenti di
una filosofia umanistica” (Firenze: Sansoni); “Il mondo morale;”“Feuerbach” (Firenze:
Nuova Italia); “Feuerbach e Marx: “Kierkegaard” (Firenze: La Nuova Italia); “La
libertà del volere” (Milano: Bocca); La filosofia critica, Roma: Tumminelli;
“Il problema kantiano, “Commento alla Critica della ragion pura” Kant vivo (Firenze:
Sansoni); Nascita del mondo modern (Firenze: Sansoni); Concetto e problemi di
Storia della filosofia” (Asti: Arethusa); “Le origini della filosofia” (Asti:
Arethusa); “Libertà” (Asti, Arethusa); “Dopo lo Storicismo” (Firenze: Sansoni);
“Ricostruzione filosofica” (Asti: Arethusa); “La filosofia italiana” Asti:
Arethusa, Il piano del nostro sapere, Asti: Arethusa); “La posizione dell'uomo
nell'universo, Firenze: Sansoni); “Problemi della libertà, Firenze: Sansoni, Filosofia e civiltà” (Firenze: Sansoni, Saggi
Manoscritti inediti Scritti vari di filosofia, Scritti politici Filosofia e
Società, Firenze: Sansoni, Filosofia e Società Firenze: Sansoni, Il senso della
storia” (Firenze: Sansoni); Aforismi inattuali sull'arte” (Firenze: Sansoni); Galilei:
un ante-signano”(Firenze: Sansoni, scritti per l'università, Firenze: Sansoni,
“Continuità e Rottura, Firenze: Sansoni, Una svolta di civiltà, n.d.: ERI, Gaetano
Calabrò, Torino: Filosofia, Atti del Congresso internazionale di Filosofia,
Milano: Castellani & C Editori, Il materialismo storico Atti del Congresso
internazionale di Filosofia; Roma: Fratelli Bocca, Il problema della filosofia
oggi Varie Taccuini di viaggio Dodici canzoni napoletane, su versi di Salvatore
Di Giacomo, Firenze: Forlivesi, Torino: Edizioni di Filosofia, Treccani
L'Enciclopedia italiana. Un contributo significativo per la costruzione della
filosofia italiana contemporanea, Lincei, in Biblioteca di Filosofi, Sapienza Roma.
Franco Lombardi. Lombardi. Keywords: la filosofia italiana, Galilei. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lombardi” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Longino: la
ragione conversazionale e il filosofo della regina -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. An adviser
to Queen Zenobia. Oddly, when Zenobia is defeated by the Romans, she is taken
off to Rome, whereas her adviser is executed.
Grice e Longino: la
ragione conversazionale e il diritto romano -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A legal scholar and theorist. Uno degl’uccisori di GIULIO (si veda)
Cesare. Gaio Cassio Longino. Longino
Grice e Longano: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’uomo naturale – filosofia molisese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Ripalimosani). Filosofo italiano. Ripalimosani,
Campobasso, Molise. Grice: “Longano took ‘naturalness’ so seriously that he
would apply it to anything: ‘man’ (‘uomo naturale’) and morals (‘morale
naturale’).” “I like Longano; he is a systematic logician, as I’m not –
therefore he thinks that to study semantics, which logic is, starts with
studying signs – as I did in my seminars on Peirce – so Longano is the one I
was referring when I mentioned what ‘people were at when they display an
interest in natural versus conventional signs; he also has interesting things
to say about my favourite parts of speech, syncategoremata!””Allievo di ZURLO, si trasfere a Campobasso e quindi a
Napoli dove divenne allievo di GENOVESI. Fa
parte della massoneria ed è considerato un importante esponente dell'illuminismo,
fu sostenitore dello stretto rapporto tra anima e corpo e di una visione dell'uomo
nella sua interezza. Propugna la rinascita dell'Italia, proponendo un piano di
riforme e il superamento del feudalesimo. Altri saggi: “Piano di un corpo di filosofia
morale; ossia, Estratto d'un corso di Etica, di economia e di politica” (Napoli,“Dell'Uomo
Natural Napoli, “Saggio sul commercio” (Napoli, presso Vincenzo Flauto, Raccolta
di Saggi economici per gli abitanti delle due Sicilie, Napoli, presso Sangiacomo e Campo, “Dell'uomo e della
sua morale natura -- Esame fisico, e morale dell'uomo, Napoli, Morelli, Dell'uomo,
e sua morale natural, Della morale naturale, Napoli, M. Morelli, Dell'uomo
Religioso e cristiano, Dell'uomo religioso,
Napoli, Morelli, “Logica” Viaggio per lo contado di Molise ovvero descrizione
fisica, economica e politica del medesimo, Napoli, Viaggio per la Capitanata,
Napoli, Sangiacomo, Il Purgatorio ragionato, Lepore, postfazione di Martelli,
Campobasso, Palladino, Philosophiae rationalis elementa; De arte logica, Napoli;
De metaphysica, Napoli, Orsino; De Jure humanae, Napoli, Biblioteca provinciale
di Foggia; L'anno di Genovesi, su biblioteca provincial foggia. Gaetano, su
webcache .googleusercontent.com A. Rao, L'amaro della feudalità: la devoluzione
di Arnone e la questione feudale a Napoli, Guida, Rizzo, La civiltà del
Purgatorio: riformismo e anti-clericalismo nella provincia molisana, S. Borgna,
su delpt.unina, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. I I BIBLIOTECA NAZ~ Vlttorlo
Emanuele III i \.A
NAPOLI t V' PHILOSOPHIAE
RATIONALI*? ELEMENTA A V f T.
' N ’ ’ DE ARTE £OGIC4 r i u ^ u A
Pe rerum ideis , et signi 'f , Jej% erroribus et ycritate NEAp0Ll s
fcE CLARIS DIALE C TIGiE
SCRIPTORIBUS. AD JOSEPHUM GANTORIUM.
> . • I 1 V v ; , % r P Hilosopkia , Josephe pr^claridiime , in
quam uno Dialectica studio ingredimur,
rerun divinarum , kumanarumque sapientiam con-
ticet » Hinc Dialectica inchoat , qutf sapientia perficit . At vir acerrimi ingenii , divine
me- mori e , et per quam longa
meditatione , ac le- ctione contritus
Antonius Genuensis meus ami- cus , et
magister , multa in sua arte logica >
pluraque in aliis desiderans , neminem plane, qui jure appellari Dialecticus posset ,
dicebat . Habebat itaque vir magnus
comprehensam ani- * f. \ 4 m
quem si imitari non possfimifs , at qualif esse debeat , poterimus fortasse dicere i “ Ars disserendi licet a ratione proficiscatur
j proindeque quolibet in homine ingenita
; verum,- tamen a Graecis primo
elaborata, atque ab usdem et monumentis , et literis est cepta man- dari . Testes enim sunt , j arieter plurimos philosophos
illustres, etiam *pene innumerabiles
oratores , uti Lysias , Isocrates , Hyperides , JEschines , Lycurgus , Pericles , DemOslheoes
, aliique plures . Quibus si artem disserendi de- mas , omnem eorum vim , atque loquendi ce
- piam prorsus evertes . “ . Equidem si hac arte Pericles ( mitto
eet«- fos ) fuisset orbatus', quo pacto
tanta cum de- lectatione aculeos,
reliquisset in animis eorum , i . a a
qui- % Digitized by Google O qi/ibns esset auditus i Quis putet
suhtUitateni ingenii L. Bruto defuisse ,
qui ex oraculo A- pollinis tam acute
conjecerit , qui summam prudentiam
simulatione stu/titi.c texerit , quique
Civitatem perpetuo dominatu llt er at am fAagi- stratibus annuis , legibus , ju liciisque
devinxe- rit ? Quis denique putet Appium
Cvium , Cato- nem majorem , Cn.
Servilium, Tib. Gracchum , t-. Cott..m ,
P. Scxvolam , L. Crassum , C. Antonium,
Hortensium , C. Cxsarem , Cicero- nem ,
aliosque disertissimos Itali x oratores nul-
la Qialecticx Arte fuisse imbutos ? Verum huc In loco non quxrimus , qui fuerint clari
Did- fectici , sed quanti pretii eorum
scripta ; tempus est igiiur , ai id quod instituimus , ac- ie edere .
Dialectica a Grxcis exorta } ut superius j bnte Christum an. 4 66. , Zenoni ex urbe
P,lea in hucahia postea Velia Parmenidis
Auditori tribuitur , At Zenonis Logica ,
quid aliud , hi si ars nixandi ,
cavilldndique , ex qua Elea- tici
Sophistx profanarunt , quorum intolerabi-
lem arrogantiam Socrates Atheniensis prxstan - tissi no vir ingenio j atque morum probitate
it - - lustris abhorrens , irohica
subtilitate eorum iru st i tuta
refellere solebat . Eleaticam scholam
Leucippus Abderita Ze- lionis discipu'us
ante Christum an. 452. sum- thopere
illustravit . Etenim is fuit atomorum
sententix auctor , cujus doctrinam primus in- stauravit Democritus etiant Abderita , ante
Chri- s 3 stuni stum 420. ac postremo Epicurus
Atheniensis , a quo initium schola
Epicurea ante Chr . 300. an. accxpit . ,
, At Socrates , qui cum floreret ante
Chr. 41S. >»• owi«/ genere virtutis r
hac tamen fuit luit- de clarissimus ,
quod omnium primus homines fe- lices.
reddere studuit . Ille enim non de rerum
natura , atque astrorum motu , iit superiores philosophi , sed de animo , de
perturbationibus , de bonis et malis ,
deyue humana vita , aC mo- ribus
sdpienter disputavit . Quantum vero
ad ijusdem Dialecticam y tota versabatur
in eo t quod principio omnia vocabula
definita vellet , deinde quibusdam
minutis interrogatiunculis pro-
positiones per necessariam consecutionem ita acute teperet , donec adprxceps
inconsideratos adversarios perduceret.
Hujus tanti viri domus t ciinctx Greci.e
quasi ludus cum esset , atque officina
dicendi , minime mirum , si ejus ex
uberrimis sermonibus extiterint tot , thntique doctissimi viri . Sed ,, inquies , qui isti tandem fuerint ?
Hoc in nomine , inquam , non sunt
habendi , nisi ii qui maxima cum citra
Dialecticam coluerunt , quorum
illustriores fuerunt Plato , ei qito Aca-
demici , Euclides , ex quo Megarenses ptoma- narunt . Itemque Anihistenes Cynicorum p arens % atque Aristippus sbct.t Cyren.torum Conditor
. Hisce
veluti ouatuor familiis universd veterum
Dialecticorum multitudo conclusu , ad hxc usque tempora est 'ptopagata . Quare distincte me
pro- kejm iessisse deliror,, si
eorundem Xripta Logici 'perpendam * Plato ante Chr. 39 ^- an ‘ Codrit ex parte
p!U iris , et Solone ex parte .matris
editus , in sua adolescentia
exercitationibus gymnasticis , pictu -
¥ pro morum philosophia Dialecticam
praecipuum m medum f eluit • Hinc ejus
auditorei , ut ex # Laertio discimus dicti sUAt ,et Megarenses
Ut Dialectici Quantum ad ejusdem
disserendi artem , tota erat iA quadam
inductionum , ac conclusionum serie , eX
qua disputandi pressa , ratione
Eubolides illius distipuius muti a so-
phismatum genera invertit , adhibuitqhe .. At Diodorus, qui dicitkr . Crbhus , hujus schoU alumnus sumtno nitore conjectus est ,
quoniam Stilponis argutias refellere
ignoravit i Megareu i urguendi modus in
Europi barbarie renovatus inter
NOmirta/ium , et Singularium , atque in u
ter Thomistarum et Scotistarum scholas diutii - sime regnavit . ... ... j Altet ' Sacratis discipulus fuit Aristippus
] qui ante Chr. 406. an, floruit i Hic ,
r* l/r^/ Cyrenarum Socratis fama
fercitUs , Athenas Venit , ut eum
audiret , Aristippus fuit Secta
CyrenuicX auctor 4 At tjus sequaces j eque Phy- sicam ac Dialecticam n egi exedunt . Non
miretis l & tur ) si ‘tohr.em ititer
et voluptatem nbllum discrimen (funerent.
Quin imo interiorem dumi- taxat
voluptatis , uut doloris Sensum putabant
ven es^f judicium , quia sentiatur . Verum pb- testne quisquam dicere, inter eUm , qhi
doleat t et inter eum qui in 'voluptate
sit , nihil inter- esse . Aut ita, qui
sentiat f non apertissime msamai. 1
ix..J Postremiis Socratis disciphlus
fuit Anthiste- ' • n * s -Atheniensis ,
Cynicorum secta; Jnstituior i Paucissima
hic de arte disserendi scripsit, ut ex
Laertio, in ejus vita » _ Dos iit in gymnasio ,
Otqtie Diogenem Sinopeuhl , quem Cynicum co- gnominant , ' habuit auditorem . En ,
Josepht doctissime , Pelui i surculos
Dia/ecticie piante , quam Zerin seruit
Soctates y fj usque discipuli
excoluerunt . Dicendum medo est f quales ei quatito? fructus unhsquisque eorum produxerit
i iLx Platonis auditoribus , ceteris
presiitere Aristoteles Schole
Peripatetice institutor et princeps ,
atque Xenocrates Magister Xenonis Cittici
, aili Stoicorum est parens i
Aristoteles Stagirites N icomachi Filius , ma- gnique Alexandri preceptor , floruit ante
Chn an. 350. Hic enim adeo prestavit ,
ut excepto Platone , parem noti invenias
. Quis enim illo gravior in loqtiendo ,
in sententiis argui ior } iri docendo
copiosiot * in edisserendo subtilior , a’c
tandem in inveniendo , disponendoque admirabi- lior ? Referti sunt ejus libri et omnigena
rerum cognitioni , et verbis illustribus
i Senex impie - tatis crimine a
sacerdotibus accusatus , aufugit t ln
Isyceeo eidem successit Theophrastus il/iai
auditor , quo mortuo pene siluit licet in ets docuerint Eicon , Aristo , Critolaus ,
Demetrius - Phalereus ) et Strato
cognomento physicus 4 Quod spectat ad Aristotelis
Dialecticam , in qua fuit
pnestantissimus y ejus libri sunt de rct-
tione disserendi multi , et multum probati 4 Etenim veteres scriptores artis hujus usque
a principe illo , atque inventore Zenone
repetitos unum in locum conduxit , et
naminatim cujus - que prscepta magna
conquisita tura perspiouS 00 * te>
Conscripsit , et enodata diligentissime exposuit i Scis enim nihil esse simul et inventum ,
et perfectum . Stagirites itaque omnium
primus attulit hanc artem omnium artium
maximam , - et quasi lucem ad ea , quit-
confusa , jejuna , et exilia cntum ante
annos scripta erant . Ad Platonis
scholdrti refertur quoque Zeno Cittieus
ante Chr. 300. an. qui fuit Xenocratis
Chalcedonii discipulus . Trigesimo sum xtatii anno Athenais ivit , ht iiras illos nosceret
, 'quorum opeta lectitarat . Principio
Craten * deinde Stilponefn i Xenocratem
, atque Diodo- rum Crontim audivit . In
Stoa scholam ape* ruit , habuit que
nonnullos discipulos , quos mo- rum
honestate plus , quam scientiis informabat i
Etenint multa de justitia , de fortitudine , de temperantia , de amicitia , deque hujusmodi
ahis Stoici graviter , et enucleate
scripserunt. Quan- tum autem ad artem
disserendi , quam ab Oratoria arte sej
ungerent , nihil in eo gene- te , quod
ad disputandum valet , praetermis- sum
est. Quaque Dialectici nunc tradunt , et
docent, nomie ab illis philosophis instuta suhtj ' kt inventa ? At, inquies, pr teter dinumeratos iisdem
fere iempbrihus floruerunt etiam
Parmenides , Xe- nocrates Ciren.ei ,
Stilpo Megarensis , ac deni- que
Epicurus tantx scholte conditor , qui si
Dialectici non sunt habendi , nescio hoc nometi cui tribui possit . Sed quid insipientius ,
quarti isti omnes i Parmenides enim , et
Xenocrates iritrtt H increpabant eorum arrogantiam , quasi irafi
, Hui cum sciri nihil possit , audeant
se scire dicere . Uipsum dicendum de
Cyrenxis qdi hegant esse quid quam ,
qtlod percipi possit ex- trinsecus , sed
ea se sola percipere , qti.e tactil
intimo sentiant . Nihil de Stilpone. Quam fnu'ta ille cofitra sensus , 'quam multa
contra omnia , qu.e in consuetudine
probantur ? Nihil- que de Epicuro , 1 eujus
tt>ta Dialectiea in sen- sibus erat .
It e mq ile ex Dialectica tollit defi-
nitiones : nihil de diitisione ddcet : non quomo- do efficiatur concludaturqile ratio , tradit
: non qua via captiosa solvantur ,
ambigua distinguari - tar , oftetidit.
Tu quidem, inquis, loiurrt Epicurum e
philosophorum choro sustulisti . Ita
sane, flatu qtiomodo philosophiis, qui disse-
rendi artem nullam habuit ? qui in physicis tam plumbeus , qui Solem bipedalem facit , qui
de atomis tot puerilia fingit ', qiii tandem
regulam veri , et falsi in sensibus
ponit ? Nonne hxc discere liidus esset ?
Verum ab hoc tam credii- lo , qui
numquam setlsus mentiri putat , disci-
damus. Insuper pressifis affis ,
et inquis , quod Arce silas , ChrysippuS
, Pyrrho , et Carneades sum- mi
Dialectici fuerint , qtioniam Arcesilas fuit
medix Academix parens , Chrysippus fitlcire putabatur porticuih Stoicorum , Pyrrho scepil
- eorum' sectam , et Carneades novam
Academiam eonJidit . Primum Arcesilas Pilanx natus in JEolide- *ntc
! • ^ ante Chr. 290. floruit ; Cratique in Academia successit . Juxta Laertium Arcesilus omnium
- primus utramque in partem disserere
aggressus est . Quod esi omnino falsum
ex ipso Laertio , qui in ejusdem vita
etiam scripsit : Primui Orationis modos
, quos Plato tradiderat , novit ,
'effecitque per interrogationem ct resportsionem contentiosius Id ipsum asserit Cic. libro
de • Oratore tertio: Arce silis primum.
, qui Polemo- nem audierat , ex variis
Platonis libris , et sermonibus Socratis
, hoc maxime arripuit f nihil esse certi
* quod aut sensibus , aut animo percipi
possit : quem fuerunt eximio qubdar/i
Usum lepore dicendi , aspernatum esse omne animi , sensusque judicium ; primumque
insti- tuisse , tlon quid ipse sentiret
, ostendere ; sed centra id quod quisque
se sentire dixisset , di- sputare . Ai darius libro de finibus secundo : Socrates percontando , atque interrogando
elicere solebat eorum opinibnes ,
quibuscum disserebat j iit ad ea , qu.c
hi respo id ssent , si quid vi le- tetur
, diceret . Qui mos cum a posterioribus
non esset retentus , Arcesilus euiti revocavit , tt instituit • Hoc ipsum in questionibus
Aca- demicis novam appellant , qux milii
vetus vi- detur ; siquidem Platonem ex
illa veteri nume - • j. ramus , cujus in
libris nihil affirmatur , ei iri
utramque partem multa disseruntur , de omni- bus queritur , nihil certi dicitur . Hac de
cau- . sa sicut i Tib. Gracchum populi
Poma ni per- ' . turbatorem , ita
Arcesi/am Reip. philosophorum • „
e fversorem appellavit : Habendus ergo
Dialecticus , pt quidem summus , qui
negat quicquam sciri y neque comprehendi
posse , ne illud ipsum quod fi. ocrates
, st nihil scire ? Sed si nihil sciri ;
ni hi /que comprehendi possit, quo pacto rationis artificia convellere posse , dicebat ?
Insuper not- iis innotescit
probabilitatem maximam vim ha- bere in
artibus . Artes autem sine»scientiis esse
non posse . Qua cum fint , pateretur fortasse hoc "Raffael Urbinus aut Michael- An
gelus , aut Titianus nihil se scire ,
cum in eorum operibus esset tanta
solerjia ? Vide quxso , quos , et
quantos laqueos sibi Scepticf texuerunt . Quantum ad Chrysippum Cilicum
professione Stoicum , et Zenonis
Auditorem, qui ante Chr. £ 30 . an. vixit , scis illum
fuisse virum et vafrum , et ingeniosum .
Scis etiam eundem scriptitasse plusquam
septigentos libros , quorum pars maxima
in Dialecticis versabatur . Sed
intellege , ouid Scioppius in Elementis philoso- phia sioictp moralis : neque tamen , ait ,
defen- dere , ac negare velim fuisse
Stoicorum non paucos , qui specie
ingenui illecti >, inanibus ar-
gutiis Ipdibria quadam excitando severissima , et gravissima ortionis in contemptum
adduxe- rint ; quorum princeps jure dici
possit Chry- sippus , qui cum esset
magna ingenii vi p ra- dit us , mireque
ad quidvis excogitandum celer et acutus
, nihil aque solebat labofare , quam ut
non reliquarum tantum' sectarum inventori-
bqs contradiceret , sed a Magistris etiam su/q Zeno»
% e none , et Cieant e pleri sque in rebuS dissideret,, 1'uitne summus Dialecticus , teste eodem
Sciop- pio , qui persep.e scripsit eadem
, saepius sibi contraria , ac
repugnautia ? Sequitur Pyrrho
Peloponesiacus , qui primo ' picturam
exercuit , atque artate Alexandri Ma-
gni , quem suis in bellis comitatus est , floruit. Pyrrho
Anaxagarxr auditor , illa ipsa Sentiit ,
qur Arcesilas , proindeque nihil decerni > neque quidquam comprehendi posse dicebat . At
de Pyrrhoniis ita A. Gellius lib. %l.
Cum h.ec autem consimiliter tam
Pyrrhanii dicant , quam Academici ,
dtjjtrre tamen inter sese , et propter
alia qu.edam , et vel maxime propter ea existimati sunt , quod Academici quidem ipsui/t illud
nihil posse comprehendi comprehendunt ;
et nihil posse s discerni , quasi
discernunt : Pyrnhoaiii ne ii qui- dem
ullo pacto videri verum dicunt , quod aihil
esse verum videtur . Sextus autem Empyricuf Pyrrhonios inter , et Academicos aliud
discri- ' pien invenit , scilicet :
Arcesi/as amnem judicii suspensionem
habuit bonam , atque solam adji-
piationem uti semper malam putavit. Sed Pyr- rho , ej usque auditares adfirmationem non
esse secundum naturam , verum secundum
id quod apparet , disputabant . Qui i
multa ? Inter mor- tem , et vitam Pyrrho
nullum discsrimcn agno- vit , quod
Epictetus, licet hanc sectam dilige- ret
, damnabat . Sequitur po (tremo loco
Carneades illustris philosophus Grecus ,
qui habetur teri i a- Acas/t-
'Digitized by Google pii*
parens , et floruit ante Ckr. 160. an. ve-
gum qui Academi ,e auctor ? nonne scis Carnea - liem fuisse veteris instaut atorem , vel
venuq assertorem ? Hinc f icero hero de
nat . Deor. primo : la philosophia ,
ratio contra omnia dis- serendi ,
nullamque rem aperte judicandi , pro-
fecta a Socrate , repetita ah Arcesila , confir- mata a Carneade usque ad nostram viguit
xta- tem. Hic enim disputans , omnibus
veris false; quicdam adjuncta esse tanta
similitudine , ut in iis nulla insit
judicandi , ac assentiendt nota « At,
inquies , eum maximum fuisse Dialecticum, quoniam de eo sic CICERONE (si veda)
scripsit • Carneadis yis incredibilis
illa dicendi , et varietas argu-
mentorum perquam esset optanda nobis : qui pullam in illis suis disputationibus rem
defen- dit , quam non probarit , nullam
oppugnavit , quam non everterit •
Ulterius dices ? Nonne, ipse Cicero eum
extimuit , cum it; libro de legibus primo ait : perturbatricem autem harum omnium Academiam hanc ab Arcesila , et
Car- neade recentem exoremus , ut sileat
. Nam si invaserit in hxc , que satis
scite nobis instru- cta , et composita videntur
, nimias edet ruinas . Quam quidem ego
placare cupio , submovere tton audeo . Ex quibus tandem optime
concludis ^ Carneadem summum fuisse
Dialecticum • Sit sane Carneades
Dialecticus , et quident nummus . Dic
mihi , vir prestantissime , cum Logici
finis sit veritatem cujusque generis in -
pdtiqare , estne Dialecticus f qui eam tollit , tf
ejusdemque est eversor ? nonne in Senatu Rol\ mano maxima populi frequentia cum is pro justitia , et in justitiam Jisputasset , eam
radici- tus evulserit i Ulterius qui de
omnibus dubitat t dubiamne quoque reddit
sui ipsius assertionem ? Similiter } qui
universa ut falsa habet , nonne eidem
est quoque falsum , quod ipse asserit l
Hinc profecto intelliges Ciceronem timuisse Carneadem , non ut potentem Logicum , sed
ut iniqu.e mentis hominem , quem
sapienter placa- tum malebat , quam
submotum ; amicum potius quam hostem
implacabilem , inexpiabi/emque optabat .
Quid tnirum ? Diis manibus ne noceant)
fortasse nos ip i quotidie non litamur 1 Satis multa de veterrimis Dialecticae
Scripto- ribus . qui eam /em vel
invenerunt , vel auxe- runt^ vel
perpoliverunt ad Cx-aris usque aetatem.
Secundo autem ecclesi.e s.ecu/o , Alexandriae , ad quam veluti meYcutum bonarum artium cum literati omnes confluerent , invaluit quadam
phi- losophandi ratio , quae ecclectica
, dicebatur . Ejus erat ex singulis
philosophorum scholis tum tem- poris
florentibus qux-dam exprcepere , aliaque
mutare . Qu.e phihj^Qpnsndi ratio adeq placuit sanctissimis , ct doctissimis ecclesia.'
Patribus , Ut 'statim per universum
Christianorum orbem propagata fuerit.
Huic accessit , quod novatores quinti
suculi Aristoteleis , ac Stoicis praesidiis
abutentes no tros Doctores adgrediebantur , qui ut adversantium argumentationibus occurrerent
, fadem deputandi arte etiam,
imbuebantur. Quamobrem "Dialectica iTla ex Stoica
, atque Peripatetica conflabatur , qute
usque ad sxculum duodecimum in occidente
fuit tradita , maxime quia S. Augustinus
eam discipulis suis com- mendasse
dicitur . Verum labente duodecimo
saeculo , scholastici t sive christiani
occidentales Aristotelis libros • ab
Arabibus versos , atque ab iisdem interpretatos accepere . Sed pernimio rixandi
ardore ducti , Dialecticam , ac
Metaphysicam per se obscuras , atque
involutas novis subtilitatibus ,
novisque contortissimis qucstiunculis ac laqueis ideo foedarunt , ut nihil supra • Etenim
cum linguie Grxc saltem praecipuos , minime expendit ? Qui ver sabulorum , et propositionum naturam non
ex- ponit ? lllene Dialecticus , qui
veritates cujus- fue generis non videt ,
et principia , ex quibus oriuntur , /10«
ostendit ? lllene denique Diale • cticus
, 71« /k*Ai 7 4/f rerum definitionibus , ac
divisionibus , nihilque de errorum caussis , >0- rumque emendatione , t/oeer . Petrus Ramus ex pauperrimis editus paren- tibus anno 1516., quamvis hebes , , ac /cr/zf stupidus , quamvis sero , ef duram
servi- tutem in Navarrte collegio
serviret ; verumtamen Cleantis instar
oleo , ef lucerna mafkpuum di-
sciplinarum lumen sibi comparavit . Quin imo tanto sciendi desiderio exarsit , ut solo
labore , et diligentia in id Hierarum
splendoris perve- nerit , ut trigesimo
sue etatis anno adversus Aristotelem
scripserit , atque sequentem thesin
sustinere ausus sit : Quaecumque ab Aristotele dicta fuissent, esse commentitia. Rei
novi- tate attoniti , atque temeritate
judices percussi irrito conatu per diem
integrum fuit Magistra- tus . Ita
barbari barbare vocabant ejusmodi
scholastica exercitia . Sic Freigius in vita Pe- tri Rami . Scripsit Ramus istitutiones Logicas r qu ali
ia. plures . Lockiuf suam Logicam e fi
Jit. ouatuor libris comprehensam , in
quorum primo pro aris , et focis
disputavit universas rerum ideas
repetendas esse partim a sensibus exterio-
ribus , partim a mentis reflexione . Quamobrem hac
in re Aristotelis opinionem instauravit , et
Cartesianorum Doctrinam sustulit . In secundo libro agit , quo pacto ide.e ipsae
acquiruntur . Tractat in tertio de
vocibus , earumque proprie- tatibus .
Quartus denique in cognitionibus hu-
manis in genere , Ac sigillat im in veritatibus y qux tam ex ratione y quam ex historia
eruun- tur , versatur . Sed qu* viri docti in eo damnant , sunt
1. repetitio earumdem rerum , et quod
maxime mirum , nullius momenti: 2. res
involutas , vel non extricat , vel male
enodat, g. irrito conatu autesivit
materiam esse cogitantem . His dictis , nunc reliquorum
Dialecticorum , si pla- cet , States ,
et gradus prosequamur . Quod in Anglia
Lokius , idipsum fecerunt in Gallia
Manotte ; in Germania Christianus
ThomasiuSy Andreas Rudigerus , et Christianus V/olfius ; in Italia denique Antonius
Genuensis t A/oysius Verneus Lusitanus ,
atque Ab. Ange- lonus.De quibus
singillatim, et ne nimius sim , ■
Stricte dicam . fc 4 Ma- t \
Mari oli e m rebus phy sitis diutissime versa- tus , etiam logicam edidit duas in partes
tri- butam , quarum aiteru quasdam propositione
* per se claras , ceu principia continet
. Alter m vero modos , ex quibus
veritates cujusque gene- ris 'ab iisdem
principiis deduci possunt. Hinc qute
arguendi ratio , et quo pacto errores , er
sophismata internoscenda sunt , notat , Summo- pere hic auctor commendandus ob
claritatem suarum cogitationum , ob
rerum ordinem , at- que ob exemplorum
delectum . Verum , quia artem Criticam tam necessariam ne quidem tetigit : nihil de veritate probabili egit :
omni- genus errorum caussas non vidit :
sequitur Ma~ riotti Logicam mancam
esse’, et imperfectam . Christianus Thomasius Hahe
natus anno 1 727. in Introductione ad
philosophiam Aulicam nie- vis , atque
erroribus , quibus Dialectici supe-
riores Logicam infuscarunt , detersit . Verum tanta Eruditionis moles viris doctis est
omnino inutilis , tyrones opprimit. Hoc
in' numero ha* bendus quoque Audreas
Eudigerus. Denique Christianus Wofius
maximi nominis vir accuratissime
vocabula definivit , atque acu- tissime
veritates cujusque generis detexit , de-
monstravitque . Inquis ergo ,
hanc unam esse Logicam perfectam ?
Minime , inquam , nam le- ctores rerum
minutissimarum atque inutilium perpetua
demonstratione laborant . Insuper exem-
plorum copia eosdem fatigat, i. perfectam cri- ticam
t' picam M* tradidit i Denique hctienom tine ulla delectatione homines negligunt. • Sequitur Antonius Gt nuens is ai omnia
sumi na natus , qui a magistris parum
institutus, naturam habuit admirabilem *
Omnia magna erant in eo , sed corporis
actio singularis • .Manus enim , humeri
, latera , oc«/i , status proce- ritas ,
gratia , incessus , omnisque motus cum ver-
bis 4 , sententiisque consentiens , erant hujusmo- di , ut statuo nihil fieri potuisse
perfectius. . Unus, ut scis , Josepkus
Ciri Ilus omnium elo- quentium
jurisperitissimus , • « jurisperitorum
emnium eloquentissimus cum eo in Cathedra- poterat decertare . Illius viri domus cuncte
Ita U lia , quasi ludus quidam patuit ,
atque officina docendi . M«g nus
philosophus , et perfectus ma- gister
inter parietes aluit illam gloriam, quam
nemo quidem est postea consequutus • Hujus viri egregii interitus , non modo prasentem li- teratorum Civium , bonorumque penuriam
attu- lit , sed etiam et auctoritatis ,
et prudentia triste nobis desiderium
reliquit • Verum id , quod propositum
erat , prosequamur . Quinque in libros
tribuit ejus Dialectice Institutiones
tertio editas anno 1 7-66. , quarum
finis cum sU humane rationis perf ectio , act eam comparandam gradatim accedere curavit
, proindeque libro primo mentem emendare
tot , tantisque erroribus tum animi ,
tum corporis foedissime inquinatam ,
studuit • Illam reddidit y rerum omnium
inventricem in secundo . Hin * idearum origo, et genera. Hinc sensuum
usus> efue humana , ARTIS
O G I C M f UM.ENTA INTRODUCTIO.
. y f , . ( 'trf I • ••rt' *1 ' • * -I • v • Logic 9
Rorumque progressibus « % P A R S
I. De Logica Docente • • L I B. I.
De mentis humana actibus» Quibus
partibus constat homo » 5. Homo est
animal rationis compos» Q Uisqu* scit
hominem esse rationis cofri» _ potem ,
per quam consequentia cernit, pene
universas rerum causas cognoscit . Insu-
per plurima inter se componens , atque rebus prresentibus annectens futuras , non modo
to- tius vitae cursum facile videt , sed
etiam cor- porum coelestium ordinem
intelligit . Prsete- rea hac divina
rationis vi , nonne innumera- biles scientias
, artes , atque infinita instru-
mentorum , et machinarum genera invenit ? Quid plura ? Huic uni tribuenda sunt
societa- tis primordia , hominum juta ,
atque officia * Denique ratio ipsa est
nostra morum norma, quam si sequamur
ducem, non aberrabimus» Spiritus a corpore
, in quo discriminatur • Qu* cum sint,
quisque intelligit naturairf mentis
humame toto coelo ab illa corporis
differre . Etenim corporis
est divisibilitas , co- A 3 lor « De mentis actibus lor , figura, inertia, partium resolutio. De- nique
neque movit , neque movetur , nisi ab
alio corpore impellatur . Nulla itaque vis in eo, nulla comprehensio , nullaque judicandi, ratiocinandi , reminiscenaique vis inhopret
. Verum hrec , atque alia ejusdem
generis injiint in homine . Tribuenda
sunt igitur ejus men- ti , cujus .natura
quicquid extensum , divisibi- le ,
figuratum , atque corporeum respuere de-
bet. Ex quibus perspicue constat ex corpore, atque anima hominem constare .* {. Mens sensuum exteriorum ope ideis imbuitur
, Ex dictis liquido patet corpus esse in
ho- mine unam ex partibus praecipuis.
Hinc etiam patet non posse universas
mentis humanae vi. res comprehendi ,
multoque minus explicari , nisi prius
quae in ipso- corpore obveniunt , in-
telligantur . Etenim a natura ita comparati sumus , quod sicuti corporum ictus
nostros sensus veluti explicant , ita
sensus externi , mentis vires ceu creant
atque exsuscitant . Ex quo sequitur
nullam posse dari ia mente actionem,
nisi a sensibus exterioribus ea com-
moveatur , et sensus ipsi delitescerent , si in iisdem nulla corporum heret percussio . A
sen- sibus igitur exterioribus
exordiendum esse ducp • tum salina ,
quae ad nares ducuntur, ac 'nervos olfactorios afficiunt , ex quo in cerebro odoris , vel
faetoris sensatio excitatur. Maximae
utilitatis est hic sen- sus gustui .
Animalibus autem suffiicit ad ci- bos
distinguendos , proindeque in illis est ex
quisitior , nam iisdem deficit alius judicandi modus .
16. Quid gustus,
ejusque fabricatio • ([ustus situs est
in parte exteriori lingux ,‘ qux tt £> vel in basi . Tactus in lingua exercetur , sed
alio sensu . Nam partes oleosae ; atque
salinx ci- borum cum liquoribus
salivalibus mixtae , et resolutae
linguae papillas quodam rriodo affi-
ciunt * Ex quo oritur saporum perceptio , qux in variis hominibus , atque
animalibus vari» est , pro papillarum
dispositione . Hinc tantae in saporibus
vatietates, qux xtatis, se- xus ,
consuetudinis , morbi , atque tempera-
menti retionem sequuntur* Hinc denique tan- ta hujus sensus inconstantia» 1 8. Quid Tactus . Tactus denique est unus sensus in universa corporis superficie diffusus , licet in
extremis digitorum , atque pedum sit
vividior . Sensa-
tio oritur ex corporum impressionibus, qux in nostro corpore fiunt . Impressiones vero
, nervorum . ope in cerebro
transferuntur. Hinc eorporum multitudo,
durities , frigus, calor, gravitas,
asperitas. Sensus cur non perfectiores
. if. Verum multi exquirunt, £iir
sensus tara pauci , et tani imperfecti *
Utraque exquisi- Eorumque progressibus
, tio inepta . Primum si sensus essent
etiam jniUe , fortasse mentis operationes
essent plu- res , quam modo sunt? minime
quidem . Quin imo pro universis mentis
actibus explicandis , sufficit unus
sensus . Quid si deinde perfectio- res ?
Dicam , quod eadem ratione , qua in ho-
minibus augerentur voluptates , augerentur quoque molesti*. Ha?c de sensibus
exterioribu* , . De t ensibus
interiobus , 19, Numerantur sensus
interiores . OEnsus interiores, ut
superius, sunt«e- V 3 moria , vis
%emreramenti y \is affectuum, etttentio
, ac sensus moralis . De omnibus,
quam breviter ad tyronum captum. t. 02. Q uiJ cerebrum , et cerebellum . • •
: 10. Universa cerebri massa, duas in
partes praecipuas ab anatomi* peritis
dispescitur , quarum altera cerebrum ,
altera Vero cere- bellum appellatur .
Cerebri substantia natu, jra mollis ,
atque pene infinitis cellulis re-,
pletur , in quibus modo nobis .prorsus inco- gnito , non solum imprimuntur, verum
etiam diutissime retinentur bbjectorum
exteriorum idex , sive simulacra , sive
species , cum eo- rumdem relationibus
etiam abstractis, et per- quam longo
ordine implicatis . Mihi sufficit vel-
le, statimque idex bovis , canis , domus , urbis teproducuntur , eaque distinte tissime quasi
in- tua. *& I>' mentis actibus . que eomposita distinguuntur . Primi generi» »unt illa quatuor omnibus nota : videlicet
cku- lericum , sanguineum , melancolicum
, ac fleg- snuticum . Ad secundum genus
referuntur ea , qus ex iisdem
componuntur , ut sunt choxt- T ico
sanguineum , cholerico melancolicum , et eho-
-lerico JLeg muticum. Sanguineo-melancolicum, etc. Rari homines dantur , qui ab uno
dumtaxat temperamento dominantur . In
pniversis tem- peramentum mixtum reperitur
. joc 25 . AUi temperamentorum effectus
, , ir _ Hominum temperamenta si quis
consideret, profecto iptelliget
rationem, cur alii sunt pae- ne stupidi
ac bardi, alii vero ingeniosi: Cur alii
pro rebus metaphysicis , atque abstractis
sunt facti , alii pro enucleanda solummodo verborum vi . Alii videntur pene nati
phi- losophi , alii oratores, aliique
pqetx . Nonne -temperamentorum vis
amnium artium , et teieutiarum ; utiune
omnium virtutum , ac vi- siorum velu|i
officina sit -habenda ? £x hac de,- nique homines inertes , mendaces , flagitiosi
t «c sacrilegi oriuntur . 06. Animi quid passiones. Accedunt te.tio loco passiones , sive
affe- fctus , sive perturbationes; qux
non sunt, nisi quedam animi , atque
corporis .commotiones ab objectis
exterioribus in nobis ope -sensuum
excitato . Harum .omnium
sedes in cqrde collocatur , qupd
nervorum intercostalx pro- pagatione
cerebro adhaeret , Hac de causa ce-
t Eor umque protrusimus . \j februm , et cor amice i ater se conspirant
. Etenim pro ut ideae boni , vel mali in
cere- bro ceu pinguntur , et sunt viviJ*
} sic cordis vibrationes vel retardantur
, vel adceleran- tur . En ratio , quare
modo animus cordis motibus, modoque cor
animi commotionibus inservit . 2 7* Prxcipua passionum divisio . Multiplex est passionum partitio .
Praecipuae vero sunt amor , odium ,
timor , spes , ambitio , avaritia , etc.
qua? cujusque vis sit , et quid in
nostris judiciis hac induunt , suo loco dice-
mus. Si quis vero amplissimam tractationem desideret , legat opus , inscriptum : Homo
na~ tur.i/is a me tertio editus anno
1778« 28. Quid Attentio . . Quid meditatio • Quarta mentis operatio est meditatio ,
quS quoddam vinculum ac nexum inter
ideas po- nimus . In meditatione
profunda sensuum exer- citatio relaxatur
» Parum differt homo per- quam longa
meditatione contritus ab eo , qui
sen- Rorumque progressibus • *S sensibus caret . Hujusmodi fuit Nicolaus
ar- canus pnestantissimus Mathematicus ,
as Antonius Genuensis recentissimoj-um
philoso- phorum facile princeps , ac
denique N artus Lama rerum physicarum ,
ac mathematicarum peritissimus quibuscum
familiariter viri • 47. Q uid
obstructio , rationisque compositio .
Sed mens non modo percipit , reagit , re- cordatur , ac diutina meditatione conteritur
, sed ideas etiam sua natura conjuctas,
concipit divisas . Et e contrario , qux
reapse sunt divisae, ut conjunctus
percipit. Harum a tera vocatur mentis
abstractio , altera vero ratio- .nis
compositio dicitur . Ad primum
actum idex justitir , prudenti )iodo
easdem iterum com- ponens veritates
invenit , easque in infinitum auget . 49 .Qui rationis compositione magis
polient* Sed est obtusi , atque hebetis
ingenii ideas sejungere , easdemque,
recte componere ? mi- nime quidem . Imo
'est dumtaxat virorum acris ingenii,
naturas vi; atque arte prxstan-
tis- * T X
Google 9 tilius Regulus, est aequalitatis , sive
convenien- tix judicium. At si dicam.
Italia modo flaret, ut in Augusti t
itate , continetur hoc in judi- cio
inaequalitatis narratio . Nam falsum est ,
quod nunc Italia floret . - s .
Eoruniaue progressibus , 27, 51. Quid
ratiocinatio . Quid si mens duas inter
se ideas comparans, non distinguit, num
hae inter se conveniant, vel
disconveniant ? Tum illas cum tertia idea comparat jquacunt convenire ,vel
disconvenire inteliigit . En octava
mentis operatio , quae ra- tiocinatio
nuucupatur . ex gr. Ignoro num so- lis
materia sit necne ignea . Dico . Quicquid
urit , est ignis • Verum radii sons urunt . Er- go solis materia est ignea . Insuper : Quicquid est ponderosum , est corpus . At lapides sunt
pon- derosi . Lapides igitur sunt
corpora 1 52. Duplex ratiocinandi vis
, Ex dictis facile intelligitur duo
ratiocinii genera dari . Aliud dicitur
adfirmans , aliud vero negans.
Ratiocinatio vocatur affirmans, dummodo
ideae conveniunt cum teitia , cum qua
comparantur . Alias dicitur negans . 1 li-
mi generis est hoc : Corpus in partes dividi » fur , Sed piant £ suas in paries resolvuntur
. Flaatte igitur sunt corpora . Secundi
gereris est illud: quicquid cogitat ,
judicat , raioci na- tur , quoque vult ,
et recordatur , non est cor- poreum . Mens autem humana ‘ percipit , judicat , ratiocinatur , et recordatur . Mens igitur
huma- na non est natura corporea . 53. Quid ratiociniotum senes • Quid si una idea non sufficiat pro enu- cleando nostro ratiocinio ? Tunc
accipiantur duae , vel tres , vel
quatuor aliae ideae , et fiat quxdant
ratiocinationum series . ex. gr. estne
spi- «t De mentis actibus
, spiritus humanus immortalis ? Hunc in
modum ratiocinor . Spiritus cogitat .
QuicquiJ cogitat est natura simplex .
Quod ejusmodi est , mu-, tationi non est
obnoxium . Quod autem non mutatur , non
destruitur * Spiritus igitur est
immortalis . 54. Quid methodus
» Postrema mentis operatio consistit in
quo- dam rerum ordine ac via ' quem ipsa
sequi- tur tum in veritatum
investigatione , tum que in earumdem
explicatione ; qui modus metho- dus
appellatur . 55. Pr .edictorum actuum
reductio • Hujusmodi sunt universi
mentis huma- nae actus , qui licet
facillime reduci possent *d simplicem
perceptionem , etenim simplex
comprehensio est reflexio , abstractio , com- positio , meditatio , recordatio , atque ipsa
ju- dicandi , ratiocinandique vis
Verumtamen . Mens vel ope sensuum
exteriorum , vel propria reflexione
ideis imbuatur ; Si primo modo ideae
dicuntur directx . Si secundo vo- cantur
reflexae . Insuper reflexae vel duarum
Idearum comparatione , vel ex duarum com- paratione cum tertia oriuntur . Hinc duobus capitibus universa comprehendam. Primo
enim capite de ideis directis , in
sequenti de ideis reflexis sermo erit
• Eo^umqifb progressibus i »f Pe Ueis directis , quas ope sensuum
exsteriorum mens excipit , 5 *- Idearum partitio • I N recesendis omnibus ideis , ut ordine
piT>- cedam , exquiram primo earum
originem, deinde illarum naturam, tum
quo pacto menti obversantur,
distinguuntur. Que idee sensibiles , et
objectio % 57. Quantum ad Originem ,
aliae dicuntur sensibiles, directa ,
atque adventitia’ , qui omnes a sensibus
proveniunt . Aliae vero reflexae, quae
ex earumdem comparatione fiunt . Primi ge- neris
sunt ideae fi gurae , coloris , saporis , som t
frigeris , ac caloris . Ad secundum genus re- feruntur omnes ideae abstractae , uti sunt
idee justitiae , pulchritudinis ,
prudenti e , liberalitfr tis ,
magnitudinis , etc. Quid idete
primitivte , et quid secundari* • Hinc
patet ompes ideas vel a sensibus , vel
ab ipsa mente oriri • Qux a sensibus , dicun- tur ideae primitive , qux autem ab ipsa
men- te oriuntur, vocantur secundarie .
Patet etiam nullo pacto mentem posse
ideas abtractas ef- ficere , nisi adsint
primitivae . Dicito igitur ruentis vires
a sensuum impulsionibus excita- ri , ac
ceu creari . 59. Quid idee simplices ,
et composite • ldeje, quo ad earumdem
naturam in simpli- ces, j6 De intnth actibus , ces, et in compositas distinguuntur . Ide?e
sim- plices sunt ilice , in quibus
partes , seu alix idex non interveniunt
, ut idea coloris , fri- goris , motus ,
voluptatis , ac doloris. Composi- tx vero dicuntur idex , si in iisdem alix idex simplices distinguntur . Hujusmodi sunt idex corporis , navis, urbis, domus, etc* etenim
hx plurimis ideis simplicibus
componuntur. 6q. Quotuplicis generis
sunt i dee compos it. e. Prxterea idex
compositx vel aliis ideis sim- plicibus
ejusdem generis , vel diversi generis
constant. Si primum , idex compositx dicun- tur similares , si alterum dissimilares . Ad primum genus revocantur idex diei, et
mil- liarii , qux constant ex ideis
ejusdem gene- ris . Ut idex urbis ,
domus , exercitus . Nam uti partes diei
sunt hoax , minuta prima , et minuta
secunda , et milliarii partds sunt sta-
dia , pas r us , pedes , et pollices , ipsae non sunt nisi vel temporis , vel mensurx
longitu- dines , /’ ' 6 1 . Quid idea clarte et obscur.e ,
etc. Tertio loco Idex ad mentem relatx,
multi- plicis sunt generis . Primo alix
sunt clare , vel obscure ; alix
distincte vel confuge ; alie complete
vel incomplete ; alix denique adequa- te
atque inadeqvate . i. si lapidem ab arbore
dignoscam , »4ea dicitur clara, alias obscura. q.
Si- meum horologium a mille aliis distin-
guam , idea dicitur distincta ; siu minus con- fusa. 3* Si omnes magnetis proprietates
sciam, «'■' mi- E orumque progressibus.
31 mihi est idea cnmpleta hujus lapidis
, aliter est incompleta . Denique si
mihi innote- scant non solum omnes
magnetis proprieta- tes , sed gradus
etiam cujusque proprietatis , tunc illa
idea dicitur adaequata , alias inadxquata. Qua: substantiarum , et modorum i
de. e . Itemque ad mentem referuntur
ideae sub- stantiarum , et modorum .
Primi generis sunt idea? tabulae , in
qua scribo, chartae , equi , bo- vis ,
etc. quae ex se subsistunt . Secundi ge- neris sunt ideae
figurx , caloris , saporis , gra-
vitatis , et frigoris , quae non existunt a sub- stantiarum ideis sejunctae. de causa, neque puelli, neque senes sunt
va- lido judicio , quoniam puellis deest
idearum multitudo, et quaedam fluidorum
xquabilitas, atque elasvicius , Viris
autem senio confectis deficiunt idex ,
ob memorix labilitatem . f6. Quid vis
ratiocinatrix , At sive mentis
imbecillitate , sive idearum multitudine
, et varietate raro contingit , ut ex
simplici idearum comparatione , earum
convenientis, vel disconvenientis relationem quis inveniat , requiritur itaque ut easdem cum tertia comparet . Hujusmodi mentis actus
, ratiocinatio appellatur . ex. gr.
scire quis aveat, num planta. sit corpus
. Hunc in modum ra- tiocinatur. Quicquid
videtur , ac tangitur, vo- catur corpus
. Sed piant* videntur , atque tan- guntur . Piant x igitur sunt corpora, Duplex est ratiocinandi genui , Duo ratiocinandi genera dari possunt .
Vel enim dux idex , quarum relatio nobis
est incognita , cum tertia conveniunt ,
necne . Si primum ratiocinatio dicitur
adfirmans . Si alterum negans nuncupatur
• Primi generis est hoc ratiocinium.
Quacumque videmus , tan- gimus , atque
in partes dividimus , sunt corpo- ra .
Piant x autem , et animantia videmus, tan-
gimus, atque suas in partes dividimus . Planta igitur, et animantia sunt corpora . Secundi
ger netis est hoc aliud. Qu*vis
substantia cogitans, ratiocinanS , et
memoria, est prxdita spiritum no-
minamus • Nullum vero corptj cogitat , neque r. In quo ratiocinandi vis consistat. Ex dictis manifesto colligitur omnem viin
* ratiocinii huic uni principio inniti .
Qu, . Quantum ad primum in veterrima;
histo- ria sacra omnium gentium , etiam
imiTnnium jnvenitur , quod Dei idea
fuerit omnibus ho- minibus ubique
locorum , ac temporum pene insita . Ab
illis annalibus discimus , quibus
cxiemoniis eumdem coluerunt , quibus sym- bolis designarunt, quomodo in
calamitatibus invocarunt, et qua ratione
placarunt ceu iratum* Insuper notantur
in iis annalibus tormentorum Rorumque
progressibus . 43 genera , atque
execrabiles formulae , quibus impii
publice excruciabantur . Quid plura ?
Scimus etiam ex ipsis populorum praejudicia, superstitiones, deliria, absurditates ,
fxditates, aliaque innumerabilia , quae
Dei cultum vel foedarunt , vel
destruxerunt . De memoria ad naturam relata
( , ex quo historia naturalis Eorumque
progressibus . 4^ hac tantae rationis
vi Theologia oritur , quae Dei
existentiam , ejusque adtributa rimatur t
cujus abusus , sunt impietas , et superstitio , quarum altera rerum omnium opificem
arro- ganter oppugnat, altera vero
faedat . Praeterea rationi quoque
spirituum tum bonorum, tuin malorum
cognitio est adtribuenda. Nonne deni-
que tantae rationis auxilio ipsam rationem intel- ligimus ? Nonne eidem etiam debemus
notitiam vitx futurae , morum regulam
nostrorum , quae sint praemia ,ac penae?
Item quae sunt sperantia , credenda , et timenda ? 93. De ratione ai naturam relata , ex
qua physica . Alterum rationis objectum est natura ,
sive munius , quod in corporibus in
genere , atque in eorumdem
proprietatibus , et qualitatibus
versatur. Etenim ratio vel abstracte corporum proprietates Gonsiderat , vel ipsa corporum
ge- nera . Utraque hxc contemplatio
scientiam physicam eificit . Ipsa est ,
quae quicquid in coelo , in atmospharra
, in tellure , ejusque in visceribus
continetur , proindeque astra , me
theora , universa animantium genera , omne-' plantarum classes, fossilium , ac
metallorum et mineralium series
comprehendit. Ad plenis- simam hujus d i
vinar scientis cognitionem con- jungitur
mathesis , tum pura , tum mixta , ut
Arithmetica , Geometria plana, ac solida , at- que Algebra , Mechanica, Dinamica,
Hidraiv ika , Ars B^llistica , Cosmographia
, Optica, Dio-: Di
I Dc mentis actibus . Dioptriaa , Catoptrica , Sectiones Conicae
, Trigonometria tam spharica, quam
triangularis . Ad naturae scientiam quoque referuntur Astronomia , Anatomia , Physiologia , Medici- na , Botanica, Venatio , Agricultura,
chyinica , Metallurgica , atque pmnium animalium, et plantarum historia, 94. De ratione quo ad hominem , ex quo ethica, /* ■**»* UB.If,
•» Ej usque progressibus . 49 L
| B, tl. - Signorum Artificialium ortu
, ac progressu quibus humanae mentis
actus clarius explicantur . '*ne innumerabiles aliae voces , quae
substantias videntur notare , sed revera
earumdem re- lationes exprimunt ,
Hujusmodi sunt pulchri- tudo ,
deformitas , stupiditas \ paupertas , nobi-
•iitas , sanctitas , justitia , alixqqe . Iri ipsum .dici posset de adverbiis docte , erudite ,
ele- fitnter } diligenter , recte , etc.
Octava vocum classis • Octavo loco
distinguuntur rerum si- S na , sive
voces in claras er obscuras ; in
istinctas et confusas ; in completas et in incompletas; tandem in ad.equatas , atque
in inadxquatas . Primi generis sunt
voces : quercus , ovis , aper : obscurae
vero sunt vo- ces , vis , energia ,
atfractio , gravitas . Di- stinet* sunt
Cicero , C.csar , Pompejus , Ser- toriut
, Sylla . Circuli autem trianguli , qua-
drati , etc. sunt voces complet* . Contraq. incompletx sunt sequentes , lignum , lapis
, pisces. Denique adxquatx sunt: linea ,
super- ficies et trian°ulum-,\ndiA?e
aliquis Italus. Htec de sermqnis
elementis , tam in genere, quam in
specie . A* quo pacto hujusmodi voces
sunt inter se , vel cum tertia conjun-
gendae , vel separandae , px quibus propositiones, et syllogismi
efficiuntur, in sequentibus capitibus
fuse disseretur . Quid propositio , qua judicia explicantur . Jidicium alibi definitum , est mentis
actus, quo duas ideas inter se comparans
, ipsa percipit illarum aequalitatem ,
aut inaequalitatem illarumque
convenientiam , ve| disconvenien- tiam. Qua de re propositio non est aliud nisi mentis judicium , quod verbis exprimitur
. Ex. gr. Sol est ingentissima Mundi
moles . Luna est corpus opacujn . In
quibus proposi- tionibus : soli
tribuitur maxima moles jl unse Alitem
opacitas. Dicitur etiam propositio ,
De Lojuela , licet si subjecto
removetur qualitas quaedam. JEx, gr,
Itali hodierni non habent suorum majorum
virtutem . Qua in propositione se-
jungitur virtus ab illis Italis qui modo vivunt. Duobus terminis constat
propositio» Hinc patet unamquamque
propositionem ex duobus terminis
constare debere, quorum alter dicitur
subjectum , alter vero praedicatum ,
quod plerumque est aliqua subjecti quali- tas. Sic in prima propositione : sol est
sub- jectum • Ingentissim* vero moles f
est prxdica- tuin.In secunda luna
dicitur subjectum, opa- citas vero
praedicatum. Propositio constat etiam ex verbo » Hinc etiam patet , quod propositionis
termini conjungendi sunt , vel
separandi cum verbo, alias nulla habetur
judicii expressio. Etenirti sublato
verbo , quod affirmationem , aut ne-
gationem continet , termini neque affirmant, neque negant , sed dumtaxat res designant. Ex quo sequitur, quod quaevis propositio,
praeter duos terminos , constare quoque
debet ex popula , quae plerumque sumitur
ex verbo sum , es , est , Sic corpus est
extensum • Spi- ritus est substantia
cogitans . 40. Duplex est propositionum
genus . Ex quo sequitur tertio , quod
ut judi- ciorum ,sic etiam duplex datur
propositionum genus .Sunt enim
propositionum aliae affirman- tes alia?
nega/ttes. Dicuntur propositiones affir-
mantes illae, in quibus prxdicgta cum Subjectis Ejusque progressibus . 6 $ etis conjunguntur . In quibus vero
prjedicata a subjectis separantur ,
propositiones negati- vae appellantur .
Ad primum genus revocan- tur : Leo est
ferox . Homo est rationis compos ,
Samnites sunt bellicosi . Ad secundum refe- runtur : Materia non cogitat . Spiritus non
est extensus . Deus non est ipse mundus
. 41. Aliud est judicium verum , alia autem propositio adfirtnans . Priusquam ad alia deveniamus , duo hic notanda ducimus . Primum est , quod persarpe evenit , quod licet judicium sit
ve* rum , ejus tamen enunciatio est
negativa . Gontraq. judicium falsum cum enunciatione affirmativa quandoq.exponitur.Primi generis
est propositio: Deus non est ipse mundus
. Secundi generis est bxc altera : Deus
est ipse mundus. In primo exemplo
judicium verum , negati- ve exprimitur .
In secundo judicium falsum adiirmative
enunciatur . 42. Quandoq. propositiones
carent terminis , ft ipso verbo. Notandum secundo , quod quaevis pro- positio non semper habet duos terminos , sed quandoq. omittitur unus , vel alter . Ex.
gr. Dux regit , deest pr-xdicatuin ,
nempe miti- tes. Filium verberat ,
deticit subjectum, sci- licet Pater .
Inveniuntur fandem qujedam pro-
positiones, in quibus et subjectum , et prae- dicatum omittuntur, ut in illis Caesaris, per
quam notis yerbis ad Senatum , populum
q. Koma- E *um t •
JJe Loquela. num scriptis : Veni
, vi di , vici . propo. sitio nes sunt
, et reapse continent suos ter- minos ,
hoc est 2 Ego fui videns. Ego fui ve-
nien*,'Ego fui victor . De Materiat Forma, e t propositioni* Quantitate * /"*, ■Otk
44. Quid propositio necessaria , repugnans. , ti’cmtins. gr. Amicitia homines supponit
equa- l (S , vel ipsa ejjicit
Conditionales sunt, in quibus inest aliqua conditio, sine qua prxdicatum nullo
pacto subjecto convenire potest, ex. gr. Si spiritus t st sui naturi substantia cogitans , nequit
esse ^ corporeus ^ 50. Que causales . 4. Causales sunt illx propositiones ,
in quibus notatur causa , qua pfxdicatum
subje- cto convenit , necne . ex. gr.
Deus non po- test innocentem punire ,
quia justus . Que relate .
Delate sunt illx * in quibus inest
aliqua terminorum ratio, ex.gr. Homo in ar- tibus , atq. scientiis projicit , f>ro ut
est atten- tus j et labor at » * ■=• i
| ftjusque progressibus i
iff 52. Qule Jiscretiva . Deniqufc , appellantur discreiiva ,
si in- ter terminos notetur quidim
collisib . ex. gr. Castruccius
Castracanus fioh militum nume- fro, sed
virtute Flerentinos vicit i 5$. De
aliis propositionibus compositis .
Sequuntur propositiones secundi gene-
ris, qui vidfcntur esse simplices , at resolnt* Sunt iquoqbe tompositx , ipsiq. sex in
classes etiahi distingubntur . 54. Qua dicuntur exilusivtt . ' 1. Vocantilr prbpdsitiones exclusivx illae bmnes, in quibus praedicatum universa
subjecta excludit , ptxtfer udum . e*,
gr. Una felicitas ex omnibus bonis , est
Optabilis . 55* Qua comparativae . 2. Comparativa surit illa: , quae
oriuntur ex subjectorum , vel
prxdicatbrum relatione, ex. gr. Scipio
Africanus fuit prxstantiorfAnni- bale .
Q. I ab iUs Maximus fuit prudcntior Mi
Terentio Varrone. i> 6. Qua
ihcaptiva. 3. Inceptiva sunt illae , In
quibiis prae- dicatum nusquam subjecto
convenit , sed fcse- pit convenire . eX.
gr. Regnum Neapolis inci* pit modo
artibus , scientiisque florere . 57.
Qua desit iv a . 4. Desitiva dicuntur
propositidnes J iri qbibus pridicatum
desinit subjecto conve- ni e. ex. gr.
Roma cessavit eloquentia cum Ciceronis
interitu i t s S
yo De Loquela , Qu.e
continuativ* Postremo loco , si pridicatum, quod antea subjecto convenit, etiam in
presens convenit, hujusmodi propositio
appellatur coi 1- tinuativa . e*.; gr.
hali etiatnniim perseverant esse
sagacissimi . Prmdctx propositiones , cur compositie. At dicetis, quomodo mpdicgr propo- sitiones habendi' sunt compositx
Responde- tur, quod harum unaquteq.'
duas in nobis ex- citat ideas , temporis
nempe vel persona- rum , vel qualitatum
. Sic in primo e-xemp 6^ jam allato:
Sota felicitas ex omnibus bonis est ^
expetibilis , aequivalet huic : neque diviti*, ne- que scienti* , neque gloria, neque honores,
sed una felicitas maximum continet hdnum
, proirf- deque expetibilis. Irt
Comparativa. Dicemus,^ quod Scipio, et
Atmibal fuerunt ambo duces , ■. verum
Scipio in gradu majori. Illudque ipSum
dici posset de inceptivis , de desitivis , neque continuativis, etenim
irt incasptivis , praedicatum quod
nuittquam retro convenit modo competit .
In Desitivis contra , quod retro
couvenit , non amplius competit. .
Denique iri ultimis quod retro convenit , m prxsens etiam competit. Nonne ha: tres
pio- positiones quantam temporum: rationem
con- tinent? v _ 6o. Quid propositio incidens »• frater huc usqtTe dinumeratas proposi- tiones j tam siriiglic* , luam’ Ej usque progressibus . 71 flantur et aliae , quar incidentes
nuncupantur , quae ad compositas referri
commode possunt. Incidentes aeque
subjecto , ac praedicato con- veniunt .
Subjecti incidens est haec : Attilius
Regulus omnium Romanorum fortissimus a Poe- nis interficitur . Praedicati incidens est
hxc alia . Octavianus deseruit Ciceronem
, qui omnium philosophorum , et oratorum
fuit jacile princeps. In utroq. etiam
datur propositio incidens . Antonius ,
Lepidus , et Octavianus Senatum ,
populumq. Romanum confregerunt , non eorum virtute , sed audacia. Hxc de
propositionis materia , sequitur ejusdem
forma . Propositionis cu jusque FORMA in
terminorum unione, vel in eorumdem separatione
consistit , ex quo propositionum c;j)irmatio,ve l earumdem negatio oritur, ex. gr. Beneficentia exercitium hominem reddit Deo gratum.
Dicitur hxc adfirmativa propositio . Et
contra nomina- tur n-gativa , si
subjecto prtedicatum non con- veniat ut
: .Horno intemperans nequit esse sanus i Quo in loco notandum ut alibi,
quod judicia vera cum propositionibus
negdntibusi et judicia falsa cum
propositionibus adhrmati- vis enunciari
possint, attamen ipsa judicia eo- rum
vim nusquam amittunt . Qur notanda in propositionis forma . Notatur secundo , quod in omnibus
proposi* tionibus affirmantibus
terminorum unip necessario sequi debeat subjecti, non autem prjedicoti E 4 si-
' De LoyOeli , SIGNIFICATIONEM :
ex. gr. Omnis leo est animali Non
intelligitur , quod omnis leo sit omne
genus animalis. At in
propositionibus negan- tibus,
praedicatum prorsus excluditur, ex. gr*
Nulla planta est animal . ^Equivalet
huic : nul- la planta est ulla
animantium species. Hi- sce expositis ,
reliquum est , ut de proposi- tionis
quantitati aliqua dicantur . 6 3. Quid
ouantitds propositionis. Hic pro propositionis quantitate haud intelligitur, quam major, aut minor
termi- norum significationis extensio,
qui in propositione continentur . Hinc primo sequitur posse dari duas propositiones inter se
maxi- me discrepantes , quarum altera
dicitur uni- versalis : altera vero
singularis . Primi gene- ris est haec : omnes homines ratione sunt
proditi * Alterius generis est haec alia : Petrus ra* tiocinatur.
Alia propositionurh vatietai. Praeterea tam propositio universalis
, quam singularis esse possunt ambae
affirmantes , vel artihx negantes * Propositiones ojnnes universales sive sunt
affirmativae , sive negativae, quibusdam
notis distinguuntur} qtix siirtt : omnis
, et nullus. Prima universalibus affirmantibus, altera universalibus negantibus
inservit . Singulares vero propositiones
articulis , hic, et ille notantur.
•»; t 4» ■■ • . . . •? quibusdam vulgaribus propositionum
adjectionibus Qitid propositionum oppositio •
H Oc in loco nomine adjectionis veniune
qucedam propositionum qualitates , qu»
sunt oppositio y icquipollentia j atque conversio propositionum . Principio? oppositio duarum propositionum comparationem exprimit,
qu* licet iisdem terminis constent ,
attamen ipsae differre possunt inter se
, vel solS forma , vel sola quantitate ,
vel in utraque. Si pugnent in sola forma
, retenta quantitate , hae propositiones
vel sunt ambae universales , vel ambae peculia- res. Si primum, dicuntur contrari dicen- dum est , quod tunc duce propositiones
sunt ejusdem vis, ac valoris et
arquepollent , quan- do altera alteri
substitui possit , quin earum vis mutetur
1 ex. gr. Quicquid est justum., esi
etiam honestum . Contraque fuod est honestum, est quoq. justum . Ex quo patet tunc
dari requipollentiam , atq. Conversionem
inter duas propositiones , quando ha?
reciprocari possint. Hujusmodi sunt jam
jam allata? . 71. Huc revocantur rerum
definitiones, eaturnque divisiones . Cum autem definitiones, ac rerum
divi- siones non sint , nisi totidem
mentis judicia, intelligitur easdem
locum habere in proposi- tionibus .
Dicamus itaq. quid sint , et quotu- pliciter
, maxime quod quamplures Dialectici
JLogicam esse artem bene definiendi, atque di- lidendi dixerunt . Definitio est propositio, quS terminorum Ejusque progressibus . 7 ? rtam ope aliqua idea completa , et
determi, nata explicatur . ex. gr. Homo est animal quoddam ratione preditum , civile , atq. ad
felicia tatem aptum natum. Itemq.
definitiones adhibe- mus pro rerum notis
distinguendis, ut eas ab aliis facillime
secernamus . Nonne cum dicam hominem esse, animal ratione praeditum,
civile % atq. ad propriam felicitatem
naturo, factum a exteris animantibus
eundem non distinquamusS 73» Bone
definitionis not.e. Ex quo sequitur Debere ingredi in definitionibus rerum notas intrinsecas
: quandoq. etiam possibiles . ex. gr.
Homo non modo es% animal rationale ,
civile , et ad feli - citatem
comparandam factam , sed quoque har-
bitauin moralium capax , Alite bone definitionis note , Ex quo consequitur *. pro omni rerum
ambi- guitate removenda, necessum est,
ut definitionis termini sint clari ,
atque definitiones cum re- bus definitis
reciprocentur. Hinc bene defini- tur.
homo animal ratiocinaris , nam ott)ne ani-
mal ratione pr editum , est homo.,
75 * Definitiones rea/es , sunt quoq. nominales. Ex quo tertio, colligitur non dari
definitio, lies reales , atq.
essentiales , ut scholx loquun- tur ,
nam rerum essentialia nobis non inno-
tescunt. Omnes itaque
definitiones sunt nQ« minum definitiones
, vel potius descriptiones, 7 6. Quid
rerum divisio . Deniq, rerum divisio
est resolutio totius in suas par. Ue Loquela, , parte? prscipuas , qur dicitur physica
in quantitatibus solidis, idealis autem
in abstra~ ftis . Ad primam divisionem
spectat illa cor- poris humani partitio
jn partes solidas, etjluidas. Ad alteram
retertur illa hgurarum planarum apud
Geometras in trilateras , quatrilateras ,
ct multilateras . Divisionis
utilitas est maxima jn rebus per quam
maxime implicitis, et per quam longis ,
quoe uno veluti mentis intuitu, ne q.
videri , neq. comprehendi possunt. Sed ex quo
orationis claritas , nisi ex recte defi-
citis , et rectius divisis propositionibus ? 77.
Alia propositionum penera . Postremo
semigeometroe jrecentes, qui nomi- nibus
mathematicis tantopere abuntuntur, dictis
quoque accensent propositiones, quas ipsi dicunt practieas, Theoreticas, demonstrabiles ,
indemon- strabiles , axiomata ,
postulata , problemata , Theoremata ,
schflta , corollaria, lemmata, et si qu*
sint alia vobis omnibus per quam co-
wnita . Sequitur syllogismus de quo Aristote- les apud Grsecos quarnplurimos libros
scripsis- se scin)us ex Laertro , i C *
*• ir v . •t ■ 4 Ejusjue pragrf sibus. \l »'* .-ia « c ,
if* A' P. VIII. : » » * * *V » , J • i •r«r
; *A ■f -- * ^ V^- ;
*#•* >5 ,I His omnibus
ultimo loco addendum est ixemplum , quod
fit , cum ex rebus notis ad incognita
profcedamus. Ex. gr. Lacedemones ,
Athenienses , et Romani fuerunt liberi , qui agriculturam , et militiam exercuerunt • Q UI
" cumque igitur Status has artes
maximo animi, tardore colit, erit etiam
liber. Ex antedicti jnodis hic est prsestantior , etenim ab
exem- plis ortum habuerunt et progressus
ars medi- ca ; agrorum cultura,
navigatio, pictura, sculptura, poesis, tactica, etc. Ecquis est inter homines,
qui aliquo exemplo cognito non lucitur, btiatn ad aliquod scelus patrandum
j ftonne Alexander Mstgnus Achillem , «
L.l Caesar Alexandrum est imitatus? Quid
plura- • F 4 N? Ue erruriubs
.^■accenduntur et inflammantur* i \- m
ul ac accensa sunt , ex statu, tanta; omni-
genae ignorantiae trans.it homo in rerum quam- plurimarnm scientiam. Verumtamen in tanti
temporis longinquitate , atq. in tanta artium,, scientiarumq. progressione mens humana
ad- huc res infinita», ignorat , atq.
omnfgeqa er- rorum colluvie pxne
tabescit . Eam itaque curare tabescentem unius .philosophi est
cum prxceptis', et institutis . Sed prius tantx im-
beci i' itatis causas noscere, atq. praecipuas ex- tricare , fit opus Difficultas in addiscendo
«> Quicumque artem aliquam, etiamsi mecha»
liicam , vel scientiam sibi comparare sedulo studet , quandain difficultatem in se sentit
, qux fere adeo magna est , ut eam
difficilli- me superet . Quid hoc
manifestius jn sbcie- tate civili?
Forsitan esse possunt, ut iisdem lubet ,
omnes maximi philosophi , omnes Poetx ,
matheniatum cultores , atq. artifices
magni nominis ? . Rerum
sciendarum infinita multitudo . Tanta
es.t rerum, naturalium copia , tanta
artium, scientiarumq. multitudo, tantaq. re-, rura falsarum , vel dubiarum infinitas ,
ut mens iisdem prope obruatur . Nonne
hoc de- legare dementis esset. Libido
rerum multiplicium Quid si hisce errorum causis, libido quoque «ccedat multas , ac diversas artes j multas
et e ’ di- JSorumque progressibus * jf diversas scientias eodem teinporfe
comparan» di ? Profecto quxvis mens ex
imbecilla eva- det imbecillior , et
majorum errorum fiet capax. Alia errorum cauta in sensuum obtusi- ' i ' *
tat e . ‘ v Addite bis omnibus
sensuum exteriorum quandam obtusitatem ,
atq. sonsuum interio- rum naturalem
dispositionem , quibus rerum corporearum
ceu venenantur , et mutantqr jmagines .
Nonne eadem de re diversi judi- cant
varii homines , quia djversa corporis
temperatione dominantur £ Marius Pater na- tura audax agebat audacter . Contrft Q.
P':j- bius maximus verrucosus natura
lentus , left- tjssinie proqessit ,
adeoq. ille pro Cimbris de- lendis , hic
pro Annibale delassando, factus Alienationes , et distractiones. Mentis imbecillitas etiam eruitur ex tot , tantisq. alienationibus tum voluntariis ,
tunt physicis, quae nonnullis hominibus
adeo in- ficerent, ut pacne insensiles
appareant. In
flcgmaticis inertia solet esse maximi Altera errorum causa in nuturie
phaeno- menis . 1 Deducitur etiam
errorum causa ex indeclinabj T li
difficultate cojvnoscencfi rerum vires, essentias, relationes , et fines. Ausi sunt quamplurimi
hrec omnia rimari ; at eorum
absurditates nemo nus adhuc dinumerare
potuit . De erroribus Jn repetitionibus
et contradictionibus. Mentis
imbecillitas quoqu^ eruitur ex tot,
tantisque repetitionibus parumdem rerum, atque ex tot, tantjsq.
contrarietatibus , quibus ne quidem
summi viri carent . Hujusmodi exempla sunt sexcenta, qux hic recensere t»eque liibet, neq. juvat. In systematum
absurditatibus . His omnibus adjungite
tot systemata absurda , tot phaenomena inenodabilia , tot hy- potheses commentitias , quibus maxime
re- eentiorum libri scatent . E x meditationis inertia ^ Mentis item imbecillitas colligitur e?
me- ditandi inertia, quoe omnibus
hominibus est pxne communis. Hac de causa
paucissimi sunt , qui rerum causas
cognoscere curant • Quid turpius, quam
se ipsum nescire, et cu- jam sui
corporis artis medies imperitis com-
mittere ? Ex corporis humani lentitudine . At animum inbecijlimupi reddunt qusdam forporis lentitudo , atque affectuum vjs ,
quie eum ita percutiunt , conturbant ,
et commo- vent , ut mens sola rerum
superficie sit con- tenta. Ex nimio sui
ipsius amore . His omnibus addendum ,
quod nemo unus propriae debilitatis, sit
conscius , neque sibi testis esse velit
. Quisquis enim aliqua de re j ud
i-Eornmaue progressibus , gg judicium
affert , putat non posse melius di-
judjcari. 14. Alia errorum causa
ex parentibus . Quid si hisce omnibus
breviter adumbratis prsecipuis errorum
causis, ultimo loco addal tis, quod
parentes, nutrjces , magistri , theatra, ineptorum librorum lectio, ipse
multi- tudinis consepsus pueros
depravant', atque abducunt a vero ? En
errorum omnium prin- cipes causas, quas
singillatim indicare cura, bo, ut
declinare possitis. P ex judicia populari.
Praeter jam dic$a , sunt et alia
, uti pr*ju* dicia popularia, quae ut
piant» , et animan- tia regionibus sunt
adcpmodata . Quis ea cognoscit, et cognita ab iisdem audeat se li- berare ? Nonne decipi , et decipere
seculuiq ▼peitaturDe erroribus j De erroribus mentis t - quo ad Sensus exteriores. Visus prostantia. * X sensibus, visus est reliquis
pr®stantior, quia illius ope majori
'idearum numero mens perfunditur, quam
cum cjrteris. Ptenim hoc uno corporum colbres, 'Hgurts, magnitudines', distantiis,
motum , atq. hu usce immensae
universitatis pulchritudinem perci-
pimus , quo orbati, nulla esset coeli fornicepS, nulla prtur® et scnlptth® proportio ,
nulla rerum dispositio, nullaq. tantae
natur® immensitas nobis obversaretur . Attamen quis crederet ? Ilcc sensu mens niaximopere de- cipitur .
x 7» Ex visu . i. Mens errat , cum quis
objectorum exi- stentiam , qu® non
videt, audacter negat . Profecto nemo aeris fluidum , neque inhnita animalcula , neq. corpora longe procul
dissi- ta jntuetur , licet existant
. I P. Ex visu . IT. Decipimur in judicando de rerum di- stantiis , eteniin credimus solem, lunam, et nubes ®qualiter a nobis distare.
Verumtamen nubes non attolluntur ,
prxterquam ad duo, vel milliaria. Luna funerat distantiam Eorumque
progressibus. 07 33 Sol denique juxta
Kebleri supputatione nonagintas miriones excedit. Ex visu. HI. Sj inter dyas Urbes, vel montes
maxime dj^ijos, interposita sit vallis etiamsi
amplissima, 'procul visi', apparet una eadem- que urbs , atq. unus idemq. mons. ac. Ex visu
, Fallimur etiam, quo ad corp.orum
figuras. Nam ellypsis cominus perspecta a circii. lp non distinguit ujr . Et Turris angularis
videtur sphaerica . rtemq. du lineae parallela longissime protensse, videntur
convergentes. Qontraq, duo parietes divergentes APPARENT paraliel Quid amplius?
linea tortuosa procul visa, nobis recta apparet. Campanæ fremitus, dum sonat,
non intuetur, etiamsj sonitus. audiri
nequeat, nisi partium metallicarum
vibrationibus > at 4 * aerl 5 undis .
liludq. ipsum dicito de aquis paludosis ac lutulentis. no. Ex VISU. Eademq.
deceptio notatur in lucis propagatione, cujus motus putatur fieri puncto temporis,
attamen est successivus licet celerrimus
. New/tonus enim eam percurrere quolibet
minuto. secundo 20. semidiametros
terrestres, scii., 202. milli^ria Italica putavit. Ex visu: Prxterea
sol. videtur diametri bipedaroribus, lis . Itemq. Planetx majores, atq. stellx
prirus magnitudinis apparent tanquam faculae
accensa;, verumtamen. praestantissimi Astro- nomi recentes Tellurem esse asserunt solis
vix partem milionesimam . Nihil dicendum
de Jove , deque Saturno. Decipimur quoque cum judicamus colores omnes
corporibus adhaerere , licet in iis non
reperitur, nisi quaedam radiorum lucis
retlexio, cujus angulum si varies, motatur quoque color Si in fili
extremo ponatur carbo accensus, atq. tanta celeritate circum torqueatur , ut
minuto secundo circulus absolvatuy, circulum igneum minime interruptum
distinctissime intuemur. Ex visu. Decipimur
item adspicientes remum in aqua aliqua immersum , ruptum judicamus. In apice akissimi montis solem videmus
matutino tempore , attamon est ejusdem ctrum. Vf. Ex visa . / - -V t V'; Ex audit - ’ 'vc«*Jdl Ut lucis radii, sic acris und.e obstaculi
inipactx resiliunt* £* hac aer» rep$fCu*,
sio ne , oritur vocis repetitio , quam aech uro dicimus , hujusmodi vocis repetitiones.
fiud ratis locorum distantiis. V Sylvestres
autem credunt esse homines, qui eosdem ‘ludificant. Quod est iaW. n •" *
&* odMTMPk'* A Odoratus menti quoq.i causas errorum tri- fcuit , qui sunt sequentes. Brimo putamus omnes odores ac fxtores corporibus
inessed. Quod est omuino falsum . Nam
corporibus non inhxrent, prxterquam
effluvia , sive paf- m insensibiles nobis voluptatem, vel jbolestjam excitant . Si primufn , sensa-
odorem . Si secundum wem . Hinc,
sequitur, quod si toi- xmktitur odor ,
vel fator. E odoratu*. ' . m'-Secundo decipimur, diim judicamus ofnn honines qtte ac nos odorem , vel
fetorem alicujus qprporis sentire . Fortasse
est una eademq* nari««nfebricatio m
amnibus homi,bus Quis eniifa ignorat
eundem hominem rtfdrbo- laborantem non
sentire odores , titl prius ? Cur fta ?
quia sensus dispositio non est eadem .
Hinc bjwfnali - tempore non setr- + s* I
'4 aL M i Eorumqut progm rsi&us timus , quae
tempore aestivo nos conturbant. Ex
gustatu. Sequitur gustatus. Hic sensus licet no- bis maximae utilitati, attamen est etiam
multorum errorum causa. Primo judicamus sapore ni , sci!, amarum vel dulcem
esse in dapi- bus. Verumtamen in ipsis
non inest , quam qujedam particularum
multitudo , quae linguae nervulos plus,
minusve afficiunt. Ex gustatu. o. Decipimur, cum putamus omnes honu- nes ceque ac nos sentite saporem in dapibus, amaritudinem, aut dulcedinem in vino ,
etc. Quod ne quidem in ipso homine
contingere . «otest, quoniam ejusdem
linguae dispositio perpetuis
mutationibus subjacet. Ex tactu. Sequitur ultimo loco tactus •, qui
reliquis est minus erroneus. Corpora
enim, quae video esse possunt spectra [MACBETH saw Banquo; Hamlet saw his
father – DISIMPLICATVRA]; sonitus, quem atu
dio esse potest vis phantasiae , illud, ipsum dicito de' faetor ibus, et saporibus. At
equum, parietem, aquam, ignem si
tetigero, de eorum existentia dementis esset addubitare. Quid plura? U110 judice tactu , scimus
nos existere , atq. extare infinita alia
corpora extra nos\ a quibus continuo
impellimur, et commovemur . Licet res
sic se habet, verumtamen hoc sensu mens decepta, frequentissime errat. . r* 'Wfc* ttt tn»,« • «oWawtf x 4% / q q 40.
Ex tactu.Vas aere repletum *qufc ponoerostnh putamus, ac si ab illo fluido esset
orbatum. Quis nescit aerem ponderare ,
uti extera cor* pora ? atque ex hoc
errore oritur alter. Arbitrantur en ; tn otunfcs homines aeiem in nobis, neq. in se i so gravitare, attamen
re- Centissimi philosophi centies
experti sunt ae- rem gravitate, illiusq.
columnam , qus nobis imminet, aequari
ponderi asperrimas intuemur. Ex
tactu. Insuper judicamus quaedarri
corpora esse sua natura frigida , quaedam alia ex se calida. Calorem, itaq. et
frigus corporibus inesi se credimus.
Quod est omnino falsum . Eto- nim calor
, et frigus sunt qnxdam anitni no- stri
sensationem; quas in nobis, uti odores,
' 1 * ' k ' tft f / qigjped (S Eorurtique progressibus. et Sapores, corpora exteriora in nobis
excitant. Ex tactu 4 V. Decipimur
quoque , cum manum ca dam irt aqua frigida
mergamus, aqoam sentimus calidam , et contra . Quin advertatur * quod ma«us, aqua sit calidior, vel rigl, dior. Ex. gr. Si in manu sint calonS 8. S ra
‘ dus, in aqua autem frigiditatis. Aqua
sentiri debet calida , uti Contra si in aqua sint decem frigiditatis gradus, et
in manu caloris. Manus sentitur frigida, ut
sex. Ex tactu denique decipimur, curri a , s ?
th judicium feramus de corporum duiitie,
mollitudine , flexibilitate, etc. qux suos gra-
dus habent. Nonne quotidie experimur > quo uni durum , alteri molle videtur*vv, »* ».
f Jflu. O/i •jv 5.'*' ir:-k ,K P-
qui temperamento cholerico
dominantur, sunt rmgmt.nm rerum
promissores, superbi , audaces, vaferrimi, ambitiosi , crudeles . Sanguinei amem sunt
Venerei, vinosi, voluptuarii , brevius ad Sa
omnia. rapiuntur, qu* sensus alliciunt , et mulcent . Melancolici plerumq. sunc
confusi, laboribsi, diffidentes , atq.
acerrimi judicii Flegmaticos denique experimur pavidos, superstitiosos ,
somnolentos, serviles, confusos, atq.
tam in virtutum , quini in vitiorum
exercitatione inerres. Ex
temperamento. Quæ cum ita sint, quisjue intelligit, quod hi omnes eodem de objecto diverse jfidl
are debeant , e >rUmque judicia
natur* cujasque e«e adtemperata. Ex qno
necessario sequitur idem periculum sanguineis minimi, rnelancolicis, et
flegmacicis Maxirhi moifienti obve rsari . Ex quo etiam sequitur , quod una , eademqtie res esse debet uni
maxirrce voluptatis, alteri vero maximi
doloris. Hinc quoque redditur ratio , quare unus judex
illum ipsum absolvit , quem alter
damnat. Nonne
tanta judiciorum varietas , a diversa corpo- j-Um constituzione repetenda ? Nonne hac
est multorum causa errorum? Mentis errores ex passionum vehementia. III nostrorum errorum fons,
idtmque uber. th 6 fi e erroribus
, liberrimus in passionibus inest. Quid
singula» jjersequar , cutn omnes ad unum
sui ipsiu»'; amorem reducantur? Etenim
ex immoderato sui ipsius amore exortae
sunt tot populorum caedes, patri» proditiones, parricidia, flagitia, scelera,
incendia, provinciarum, urbiumque direptiones. Quis ea recensere valeret, quar Cyrus major Persarum Rex, quae Alexander
Macedo, quxque tandem ipsi ROMANI gesserunt ? Legite quaeso vitae humanae monumenta historica H tam recentia, quam illa ab ultima antiquitate repetita, in iis
tanquam in tabula innumerabiles amicos proditos, Sanctiora iaedera neglecta,
innocentium tnilliones modo unius
ambitioni, modo avaritix , modo libidini, modoque crudelitati immolatos esse videbitis. Dici posset hoc ipsum singillatim de timore, de spe, de
am- bitione, coeterisque. Quid plura ?
Nulla in homine passio immodica ,qux
martyrum mil- 'lione» non recenset. Ex
attentionis defectu «ja. Sequitut attentio, ex cujus neglecta plurimum quoque decipimur. Erramus , cum nostra attentio licet finita, eam in quam
piurima objecta distrahamus, a. Saepissime
attentio uni objecto adhaerens, reliqua nos ignorare facit. Ipsaq.
augetur vel minui- ut , pro ut nostra
militas est major , vel mi- ti >r .Ex
attentionis neglectu fere contirf- tt.t,
quod de rebus involutis, et implicitis judi-
delationes noverimus ? Deniq. ex slttentioni defectu ortum ducunt tot,
ac tanta præjudicia popularia, mentis alienationes , atq. aWrdi* tates . Nihil dicarri de sensu mbrali ,
qui tiumq. nos decipit v Ha-e de mentis
erroribus quo ad sensus exteriores, et
interiores i ertorib . , guo ai animi sensationes. Ex sensationibus errores.
ITT' X omnibus iis , qua? huc usque maxima
P.f curti brevitate extricata sunt , liquido patet universaS animi sensationes
praedictorum sensuum tam naturalem, quam
temporaneam dispbsitionem sequi debere.
Cum hi sensua jnagna sunt in \'arietate,
non modo inter homines, sed fctiam in ipso homine , sequi quoque debet, quod
unius sensatio abs alterius 4
serisatlone distinguenda. En ratio cur
idem corpus , neq. :eque durum , neq. atque pohderosum , vel molle , vel odorum, vel faetidum omnes sentiunt . En quoque ratio # quare dictatum illud sit verum . Quot homines
, tot sententia. Rerum enim judicia a senr
sationibus, sensationes vero a sensuum textura oriuntur. Varietas itaq.
sensuum, etiam judici orum diversitatem affert. Qua? cum sint* videamus ftiodo f quo pacto a sensationibus
Recipiamur. quæ non sunt nisi r ‘ to- •
y % t t® , P? errjg/fyt * , totidem rectiones no is conspnse, vel dissq- «ce , habeantur absolutae. ajcfe/hr Jfceptio m IV. Decipitor quo® e cum Dei,
horainunj, et plant»‘win actiones
putentur ejusdem generis , tametsi tofo cxlo differant. Sequitur aiiu deceptio.
V. Sim ; it r Dliitur, dym ideas spirituales onnhi extensas , et mitf riales
^oncipiat. Judicia fa^sa 'x prava idearum unione • i. JEr^at e-inn, si qu* sint conjuncta,, separata esse ju icet . Coi.traque qu?e
nonnisi jn tote separantur , concipit
conjuncta.,, Suoqi noris gereris suat
Poetarum fabuljp. Secunda autem sunt to F-,oms irrotibus. Omfiis
eirctilus qua tuor angulis rectis equahit
Circulus autem est figura plana. Omnis itaqui figura plana quatuor rectis tequatur. V
syllogismi vitiositas. Syllogismus est vitiosus, si quis e praemissis
negantibus velit affirmativi concludere. Contraqi
si e* praemissis ajentibus velit aliquid negativi concludere « Primi
generis fcst : Arabes non sunt
Christiani. ITALI non sunt Arabes. Ergo ITALI
sunt jChristiani » Secundi generis est
hic : Africani sunt inertes. Eurtrpaei autem stmt naturS laboriosi. Africani
igitur non Sunt Europii. Alter syllogismi defectus. Erratur etiam vi
haspirationis. Ex. gn Quicquid amas ,
non comedis . Sed pisces hatnai pisces
ergo non comedis rir. VII syllogismi defectus. Mens errat in syllogismo
conficiendo j si quid pro causa ponatur,
quod reapse non sit Causa. Ex. gr. Literarum studium breviorem reddit Litbratorum vitam. Octava syllogismi vitiositas Illud quoq. dicendum si quis pro
deffioti- Strato habeat, quod est in
qUatstiotie . Ex. gr» Si quis diceret .
Mundi cl atrum ist illud , ii i quo
universi corpora tendunt 1 Atqui omnia mun-
di corpora in Tellurem decidunt . TellitS igitu? ttst mundi centrum. Nona syllogismorum
vitiositas Vili. Vitiosus pariter est Syllogismus, si quid Ttorumque
progressibus « t 4 f qtlidquam alicui
substanti* absolute tribuatur t qiiod
eidem per decidens competit. Ex. gr.
P/anetx f uti tellus, sunt corpora opaca . Ergo habitatores habent. 1 14* Error ab exemplo. Mens errat in exemplo, quando ex r t cognita ad incognitam quis deveniat , quin
eidem rtJrum circumstanti* non concurrant. Ex. gr. Prima bella civilia inter
pairicios , et plebeos , fecerunt Romam
maximam, atque potentissimam. Ergo si omnes Europx status bella intestina
foverent .(Q tiod utiq. est falsum) Redderentur potentiores. Ex enthymemate i Errat mens in enthimemate ob idem principium. Ex. gr. Dux valentinus statum Ecclesia a tyrannis vindicavit . Fuit ergo
maximtis imperator. Duodecima ex sorite vitiositas. Captiosa est argumentatio
si in aliqua jiroposititinum serie, una
est erronea. Tunc Quotquot sunt, omnes
rUunt . Ex.gr. Ex omnibus terrx partibus Europa est melior . Ex EUiopse
statibiis Italia . Ex Italiis regionibus regnum Neapolis et ex sensu exteriori
fqi cilhme decipiatur , neces/e duco, V
t uni stnsui nusquam dedatis ; Quamobrem
plures Vint adhibendi. Sic visus ab
auditu: et tactus ex gustu emendatur. Propria
Votura tst notanda. nus. homine adeo discriminatur. Vt raro eveniat , dW «fc
conspirent ami est eorundem memori, temperationis, passionum, atque attentionis
differentia, ex quibus * iam tanta
judiciorum varietas , atque tanta
errorum origo. Si quis igitur eosdem velit def mare, sedulo perpendat
hxc omnia. Quod si errores si nequeat evellere, salaem eosdem minuit, Sensationes sunt cuique proprix .
H>Sensationes cujusq. generis sunt cuiq.komini JS orumque progressibus. ilf peculiares , atque in ipso homine variant. Qua igitur in iis contentio . Si ipse sint
re/at.e ? Excitanda est attentio. Ex attentionis contemptu, quamplurimi errores. Ipsa igitur est excitanda , et
adhiben- da. Ratio est quoque excolenda
, quam si unans sequamur ducem , nusquam
aberrabimus. Vpcabula obscura vitanda.
Quid vocibus, uti animi nostri SIGNIS, utilius? Sint itaque clare, perspicua,
et non a communi usu remote. ltemque
vocabula complicata , emphatica, methaphorica , atque SIGNIFICATIONIS expertia,
vitato. Declinanda sunt enunciationes absurd.t,
Sint enunciationes judiciis conformes, decliaenturque falsa; , obscure,
atque absurde. Ars Sophistica philqsopho est ableganda t Definito res. Sed definitiones sint rebus clariores . Ille autem amnibus prestant ,
que cum rebus definitis reciprocentur.
Vitato syl ^g is mos erroneos. Ars enim
Sophistica a philosopho est ableganda.Nusquam a re cognita ad incognitam
deveniatis , nisi prius omnes rerum circumstantias perpendatis. Soritem raro adhibito Soritem raro adhibito t quia
plerumq. est argumentatio captiosa De
erroribus, A scepticismi spiritu procul
estote. A scepticismi spiritu , maxime inconsiderato longe procul abesto.
Argumentum, analogi£ fugito. Neq. immodica sciendi curiositas vos abripiat. Quamobrem. Libidinem comparandi
multas, et diversas scientias uno eodemaue tempore vitato. Alienationes
voluntarias fugito. Ab alienat usibus voluntariis vos ab alienato . Phisic.r autem si sint, attentione
miniiendtt. i* tll 1Rc- Morumque progressibus . is J Rerum causas cognoscere studeto. Rerum omnium causas, et fines cognoscere
studeto . Aliter nemo esse potest felix . Contrarietates , et repetitiones
fuggito. Contrarietates , ac repetitiones fuggito. Contrarietas enim mentis
defectum, repetitio vero memori
labilitatem accusat scriptoris. Inertiam
vitato . Prxterea perquam longa meditatione vos
contritissimos volo } et quandam insitam iner- tiam vitato. Affectuum vis immodica est
temperanda. Quid vehementius , quam
passionum vis\ maxime rn at at e vestra
tam fervida\ Eam igi- tur compescite
catenis. 146, Propria debilitas est
cognoscenda, et cwranda. Pandem nemo unus homo adhuc inventus est propria
debilitatis conscius , neque sibi tesris
voluit esse . Eam igitur cognoscere
prius curato , de in adsidua librorum lectione, virorum consuetudine bonorum } atq. ex sui
ipsius meditatione vel minuito , vel
eradicato . Hactenus de errorum ortu ,
ac progressibus. I PARS
Ej usque progressibus Qua veritas moralis Itemq. si nostra jqdicia factis respondeant, Veritas dicitur moralis. Hujusmodi sunt
histo- rica? narrationes ; qusq. nos ab
aliis quotidie inaudimus , yel legimus
. Qu£ veritas certa. Praeterea si veritas ita est quotuplex sit dubietas. Denique dubietas , vel ponitur in
squali rationum contrariarum squalitate
, ut omnia insecta ortiuntur ex ovis ,
vel ab animalculis spermaticis , vel a putredine. H.xc dicitur positiva. I a ‘ Illa
De Veritate • ' Illa vero ;
«Jirs i.n idearum ignoratione consi-
Stic, aopellatur negativa . ' Estne stellarum mt~ tperus par', vel impar ? .g. Quid' , et quot u ple x sit f alsit as* Ex dictis clare ihtettigituf falsitatem
esse disconvenientiam nostrorum
judiciorum ab. objectis exterioribus , vel. ab eorumdem. relationibus , vel ab
ipsis fecti$ auditis, vel lectis, ex quo
consequitur tot dari genera falsitatum, 1
quot numerantur veritatis' genera . Dantur itaque fahitates sensibiles ,
discursive ac morales. Q intus ita delinitis, priusquam veritas cujusque generis investigetur , de veritatis
existepti paucissima dicam. De Cujusq.
veritatis exist entia. Exiseit veritas sensibilis. fTlAmetsi mens nostra ek
unoquoque sensu, X atq. ex sui ipsius
judiciis, et ratiociniis quandoque
decipiatur , existunt tamen verita- tes
sensibiles,, atq. abstractae, ut ex sequentibus . I. Quis addubitare potest de
tot , tantorumque. Corporum existentia, qua?, nos ambiunt? Nonne paene infinita
objecta nostris sensibus quotidie
obversantur ? quot , et quantos Ho-
mines , plantas, animalia , atq. xdilicia videmur.' Idipsum dicito de
sonis, de saporibus, de odoribus, atque de sensationibus quas i n No- Hjustpit
progresiibus Yfobis ex tactu oriuntur. Quas veritates si quis
denegaret, habendus esset demens ac delinis. Existunt itaque veritates sensibiles. Quid
plura ? Nisi extarent hujusmodi veritates, ne quidem existentiam nostram
sentiremus. Existunt veritates abstracte. Mens humana prarter ideas
sensibiles, quamplurimas alias
investigat illas comparans inter se ,
vel cum tertia . Ex qua compara- tione
judicia , et ratiocinia nascuntur. Hinc
veritates methaphysicae, et matematicæ. Hinc artium, scientiarumq. principia , ex
quibus infinitae demonstrationes
oriuntur. It. Existunt veritates morales. Denique
si in aliqua narratione constabilienda , non modo testes, historia, et
traditio sive oralis, sive scripta,
verum etiam monumenta concurrant, non est de illa minime dubitandum . Quis enim sane mentis homo dubitaret CICERONE (si veda) fuisse Consulem
, in Formiano habuisse villam ? Quis dubitaret GIULIO (si veda) CESARE fuisse
.occisum , OTTAVIANO (si veda) fuisse
Romanum Imperatorem ? Existunt itaque, veritates sensibiles,
demonstrativae, et morales. Error scepticorum. Ex His huc usque adumbratis sane
eruitur afnotx mentis fuisse illos omnes, qui prædictas veritates acerrime, ac
pugnacissime denegarunt, uti fuerunt Accademici, Pyrrhonii, Cyrenaici, qui ausi sunt ipsas nostras
comprehensiones impugnare . GIRGENTI (si veda) enim Ve Veritate, asservit abstrusa esse omnia, nibil nes
sentire, nihilque cernere. Nonne hi excxcant nos orbantq. sensibus ? Philo
negavit quidquam esse, quod comprehendi
posset , sic judicium tollit incogniti,
et cogniti i Democritus contra solis sensibus credidit. VELIA (si veda),
et Xenophanes quasi irati increpabant
eorum arrogantiam , qui cuin sciri nihil possent, au- deant se scire dicere. Neque sunt
audienda contorta, et aculeata Diodori,
atque Alexini sophismata. Quid absurdius
illorum fallacibus j.onclusiunculis ? ad
unum itaq. omnes veritatis impiignatores disputarunt nihil percipi , ni- hil congnosci , nihilq. sciri posse , sed
veritates in profundo esse demersas. Cur ita?, Quia angusti sunt sensus , imbecilli animi >
brevii curricula vitae. EJasyue progressibus De cu. yusq. veritatis /tota. t .*3« fuo cntenum veritatis * Q Uaeritur hoc in capite , quo criterio
verum a falso distinguimus. L’ORTO, qui
soUs sensibus credebant, veritates alterius gelieris respuebant:
Platonici ; atq; Stoici judicium veri } ac falsi in una mente potiebant i Fuerunt, et sunt, qui in ntroq. veritatis
notam colldcant . Sensus scilicet i ri veritatibus physicis, mentem vero, in abstractis. Denique
judiciorum' certitudinem in evidentia po-
tuit Cartesius, quatti in physicam, methaphysicam, et moralem
dispescuit; Prima locun? habet in rebus sensibilibus; in veritatibus abitractis
altera ; ultima vero in auctoritate; Refelluntur eptcurei i ; At harum omnium
opinionuni qualis vera tit , an falsa liHbrriirife
dicarri Quommodd soli sensus esse
possUnt judicium veri , ac falsi f si
ipsi sint tam fallaces ? non ne deci-
pimur nos ab oculis , ab auribus, ab olfactu, gustatu t tactuque ? si soli sensus riotant
veri, ac falsi comprehenderent , sol
esset magnitu- dine bipedalis j stellae rion
essent plures, quani videntur. REMVS IN AQUA ESSET FRACTVS, parelii essent soles reales ec. Denique si soli
tdnsus judicium veri, ac falsi continerent, i . L
4 quae- Refellantur platonici , ac
Stoici . An ponenda veritatis noti in
una mente, sensibus exclusis ? Falluntur
quoque , qui ita philosophantur . Nam
sublatis sensibus, nullum daretur in mente judicium, nulla ratiocinatio ,
nullaque veritas, Quae mens sine judi-
«*ts , et quae judicia, et ratiocinia sine ideis, et quae tandem idae sine sensibus ;
quibus sublatis , nulla esset in mente
operatio ? Constat itaq. Pluton icorum , ac Stoicorum opi- nionem esse fallacem. Quid si in
utroaue. Q n 'd dicendum, si tam in
sensibus , quam in mente , quod erat
tertia ex notis propositis ? Sensus quippe mentem corrigere possunt, mens autem
emendare sensus . Sed in mente ipsa
ponendum est principium , quod quaerimus
, quoniam una mens capax est veritatis, sensus enim materiam»judicandi eidem dumtaxat praebent.' 17* NH novi in Cartesii evidentia. Ultimo loco , quo ad Cartesii
evidentiam, dico , quod haec opinio
eadem difficultate qua praedictae
opiniones, laboret . Etenim cum
Cartesius tot evidentiae genera posuisset^
quot sunt veritatis species , vellem ab eo sci- re, quo pacto, quod mihi visum est evidens, esse evidens sciam ? quomodo judiciorum
meorum. Ejustque progrehibus . f%% rum
evidentiam cognoscam quomodo deniq.
rerum auditarum quamobrem non ab alio
quaerendum principio, nisi a sensibus in veritatibus physicis, u mente
in abstractis, atque ab aliorum fide in narrationibus historicis. Quæ omnia
singillatim disputata sunt , ac refutata.
Quid veritatis crittrium. Hisce quam breviter enucleatis, ad propositum.
Exquirimus hoc in loco veritatem primam, qui alia demonstratur. Propositionem
nempe hic quaerimus ex se certam, cuique
cognitam, atque cujusque veritatis cew
fulcrum, quæ sui natura demonstrari nequit ipsi omnes alias demonstrare possumus. iq. A dubietate oritur veritas. Principio veritatis est capax, qui dubitat. Nam
qui omnia adfirmat, propositionem etiam sui adversarii esse veram dicit. Contra
qut Universa negat, quaeque ipse dicit ,
quoque negat. Philosophus itaque in veritatis investigatione a dubitatione
incipere delet. Sunt enim dubietates tamqaam nodi, quos philosophus resolvere
debpt. At qui semper dubitat, nnsquam
veritates invenit, prqindeq. a dubitando debet desistere. Nam. in
dubietatum catena, si daretutf
progressus in infinitum , nihil sciremus. Idem nequit esse-» et non esse. Principium
itaque pro omnigena veritate reperienda, est illud ipsum, qiiod LIZIO initio suae Methaphysicae praescripsit .
JSIihil pots$ n* Veritate, potest simul
esse, et noti esse. Videamus
ttuS- do, num haec propositio sit certa,
evidens ^ atque adaequata . Expendendum
nempe num hujusmodi principium sit
clarum cuiq; cognitum, num denique cujusq; veritatis genera constabiliat ; Ex quo veritas
sensibilis, L Veritas phisica a
sensibus oritur. Si mihi igitur obversetur vesevus
ignivomus, dubito de ejusdem existentia ? Turic tactum adhibeo, aliosq'.
homines sentio Si mihi alii, uti ego, judicent vesuvium esse ignivomurri .
Nori potest non existere. Alias esset ,
et non esset mons ignivomus. Quo nihil
absurdius; Si dicat. Illa musica, quae
me tantopere allicit, alios excruciat.
Esto. Sed si musici existet , nenio
negat . Istudq. ipsum
dicito de odoribus , saporibus , ac de
sensationibus frigoris, ac, caloris quæ
nori extarent * nisi earum objecta existerent. Ex qud veritas methaphisica.
Ratiocinia tunc efficimus dum duas ideas cuni
tertia comparemus, ex qua comparatione ea- rumdem aequalitas y vel inaequalitas
deducitur; ex f gr. Quiequid est
extensum est corporeum. Tabula vero est extensa i Tabula igitur est corporea.
Extensionis itaq. idea convenit tam corpori , quam tabulæ; Corpus igitur , et
tabula conveniunt inter se; Alias tabula esset, et non esset corpus. Quod est iterum
absurdum; ai i V. , > ,
£jusque progressibus i Sx quo veritas historica. Tertio loco , si in
aliqua historica narratione testes sunt oculati , historia, traditio , atque
itionuihenta aeque concurrant, potestne de facto quis dubitare ? Demus igitur Medos, Babilonios, Græcos, et ROMANOS
numquam extitisse, nonne essent, et non essertt simul tot historise, totq. ac tanta monumenta ab ultima
antiquitate repetita? Concludamus omne verum,
ac falsum a dubietate oriri, et cujusq. veritatis notam positam asse in
constabilita superius allata propositione sua natura certa, cuiq.cogni- ta, atq. adaequata. Quæ cum sint, jid
ulter riora procedamus. Quid } et
quotuplex sit methodus. Methodus est via quaedam, qua nostra ju-J dicia i ac ratiocinia ita disponimus ,
ut Veritates invenire , vel jam inventas
cum aliis communicare possimus . Licet
alii regulas tradant inveniendi ; addiscendi ; exponendi , atqv disputandi j duae tamen mihi videntur
praecipuae, alteri, inveniendi, altera explicandi. Pri- 1 Cia analytica, secunda vero synthetica. Una
via. conjuncta separamus, altera
disjuncta unimus. Primus modus rerum inventioni j alter earum- dim explicationi inseruit . winalysis , idem est ac totius suas in
partes 1 k4 quibus cdti* flantur lapides montis vesevi, eosdem in
su ultima principia reducit, ita illorum
componentia reperit. Analytkicae contraria est sinthetica methodus , sive
compositio , quae ex quibusdam
generalibus principiis varia componendo in unum colligimus, itt alios doceamus. Regulæ
utriusq. methodi , in sequentibus
capitibus fuse exponantur. Et
Methodo reperiendte veritatis sensibilis Oq. Htcc a sensibus, Certitudo, quam
physicam adpellavimus; ex sensibus exterioribus provenit eaq.
nuncupatur etiam intuitiya. Quare si objecta exteriora a sensibus retnpveas , hxc veritas
on amplius extat. Hinc ruitur primo , quod
haec certitudo nostrorum sensuum rationem sequi debet. Etenim pro ut sensus sunt
bene conformati, et objecta exteriora
multiplicia,, eo major nostrarum
cognitionum sphaera fit, atq. augetur. Sensus
esse debent bene constituti • Sequitur
secundo , quod si nostrorum sen* suum
fabricatio sit vitiosa, objecta non cernimus distinta. En ratio, cur ii, qui
morbd hjcterico laborant, universa
objecta sub coloro Ei usque progressibus M* croceo 'vi/ent. En quo* ratio,
«nny^ fci corpora remota , et
presbyti,qu* sibi sont proximiora, non
cernunt. veritates referuntur , quae constan-
tissima observatione , atq. diutinis experimen- tis liquido constant. Hujusmodi sunt, quae ex
antiquis LIZIO, iElianus, Plinius, tum jecta impellit. Def. Benevolentia est
quoddam animidtsiderium , quo ad egenos juvandos rapimur. ax. 1, Bona in natura
sunt paene infinita. et viem sceleratus.
Quid monumenta i Quid si
pr®dictis ultimo loco momi-i intenta,
qu® modo extant , addatis, nemo . «anus
dubitat . Reapse quis dubitat Samnites
£xtitisse , et fuisse tam bellicosos. si urbes a Lb
ttjusgiii progressiius aestus
marini causa , et sexcenta alia Reg. Si
qutesilurti resolvi possit, tunc videto
si resolvi posset in omnes ejus partes ,
vel in una, Hujus generis sunt
quaedam quaesita, qua plures in partes
adspicienda sum ex. gr. ltius refertur ad familias, ad civitates , ad imperia,
ad hominum coetum , nisi hac omnia
considerentur quaesitum non potest Bene definiri, maxime quod uni
familiae, uni civi, tati , uniq. imperio
potest' esse u ilis, aliis vero maximo
detrimento. Quam ad regulam si
animadvertissent tot tantique recentes luxus
scriptores, non consenuissent vel in eo laudando, vel vituperando. Reg.
Si quxsitum sit solutionis capax t
extricandum tunc remanet, num sit simplex, vel compositum scilicet num
unum, vel plura membra habeat. Illud
quippe est perquam adcuratfc definiendum, alias -erratur. Sic in malorum
origine videndum primo quid sit malum.
Deinde num existat in universo, tum si
sit ejusdem, vel multiplicis generis
Demum si sit multi- plex, distinguendum
in omnes ejusdem cl astes. Eorumque
progressibus 'fes . Dicito hoc ipsum de
voce luxus superius memorata. Reg. Si q
tussitum resolvi possit , tunc
constabilienda sunt principia clara frnm, ata. omni ex parte manifesta px contemptu hujus
praeclarissimi reguli Hobbesii conclusiones sunt falsæ, quia la Isis principiis innituntur. Hunc in errorem
inci- derunt quoq. omnes Pyrrhonii ,
aliiq. veritatis infipugnatores. Reg. Propositiones quot quot sunt ,
omnes Jluere debent veluti totidem
illationes ex prin- cipiis superius ,
firmatis ac stabilitis . Quod tunc
evenit , quando omnes ita inter se conneetantur , ut ceu quandum catenam
efficiant atq. una ab alia nascatur. Qui
id non consequuntur , habendi sunt ingenii plumbei . En ratio cur juventus
neccsse est, ut; consenescat in
addiscendis Euclidis Geometriae libris
planis . Etenim in illorum lectione modus adquiritur demonstrandi ,
admiratur in iis, quo pacto secunda de monstra-
tur ex prima propositione , et tertia ex secunda. Sic deinceps . Aristotelis
aethica eodem ordine est conscripta , qua in addiscen- da juvenum profectas esset major . Nam
non de rebus abstractis, sed de homine
agitur, verumtamen nemo unus eam legit, accurat. Cur ita ? quia
eorum institutores nondum sciunt
Aristotelem extitisse, fuisse virum doctissiunim j Br Peritote-». . gt mmn, ad Nicomacum scripsisse decem de sethica libros. Reg. Conditis , sub qnk
subjecto prgdicutum convenit, est adcuratissime definiendum* Eapnitn philosophi
munus est rationem, reddere t fiio pacto
effectu! ad causatn referatur. Queritur
enim a seeulo praeterito usq.* ad
prarsentem diem , num luxus sit statui alicui UtiSfS'? 1 ' . J '.w,;-' j, fi ; -i 't . ••
*>fi- Huc usq, universi scriptores
in genere quae- situm extricarunt. Sed
false omnes. Itaq. eum vel commendarunt
, vel vituperarunt. Cur ita ? Quia
quarsitum non fuit iniqua m bene
ptopositum i Sed dicendum tst : pratsens luxus est utilitati , vel detrimento regno neapolis
I, vel Rom.el Quaesito ita proposito ,
videndum mini otnnes artes primitiva ,
et secundaria possint ne numerum
artificum majorem h«» bere? Si possint,
necessum est , ut ii^plean- tWr . Siti
aditer , et remanent in toto regno
centum millia qui laborare possunt , iisdemqj -Occupatio deficit . Quaro isti centum
millia vuftis , ut iiiOpes vagentur, vel
ut expellantur e* statu, vel occidantur
, num denique in artibds itfjAis Occupandi ? Quis npn videt 1»^ xum non modo esse huit statui uttlem ,
sed ilittirti decemriufn' ? ‘-fi RVg. 9 . Si in qudsitb rOfoleemdo , vobis
non ebniiiigat cettiiadiheth repetite ,
tunc probabio- llialtm auffite, riebir
eyuhg.antd» niti MafKiri l V ' pro -Ejusque progressibus 1 6f probabilitas. Verum cavete , ne hypotheses
ve- lati theses habeatis. Quaeritur nuin
sol , circa tellurem, ve] haec circa illum moveatur. Certitudo omnino defecit.
Quaerenda est probabilita. Utraq. est
probabilis. Tunc quaere probabiliorem. Mibi videtur illa Cupertiici, quia mjnus me
allicit. Nam facillime intelligo revolutionem
diur- nam terrx circa seipsam , atq.
illam annuam circa solem in eccliptica „
et sojis re : «jlunonem circa proprium axem vigmti septem die- rum spatio.
Reg. Non omnia quxsita sunt ejusdem geperis, alia enim sunt physica ,
alia metaphysica t aha denique moraba . Si physica sensus , observationes , a/iosq. homines interrogate.
Si i nethaphysica, adhibenda est ratio ,
ac demon- stratio . Sin denique moralia
. Notate testes, historiam, traditionem,
ac monumenta. Licet hxc sint per se
clara, verumtarnen in rebus facti ,
nulla ratioctnii. Dum facta video,
rationem non audio Sxpe etiam in re
clara , et manifesta , qua mpluri mi testibus
utuntur. Fortasse testes imiorem rationem habent j quam ipsa ratiocinia firmissimis
prin- cipiis constabilita ? Reg. ii. Quo pacto in narrationibus
histori- cis procedendum, si monumenta
amplius non extern ? Codices consulite , quibus in
legendis funditus sciri debet scriptoris
lingua. At ca~ L 4 vrr# De Veritate ,*j t t ' J ^ veto ne Verslones vulgares , Hef. itxicos conmunes
adhibeatis. Seri quorsuih hcpc - Quia 'nulla lingua
in aliam translatari optime potest. Quatvis .enim lingua suas habet pecujiares proprietates,
sectam, religionem, imperiv firmam, mores
denique y 'propensiones, adjectus, educationem, studia, exercitia, ac partium studium. Hrc
enim omhia ad plenissima scriptoris
sensa intelligenda mixime conducunt • Natn quiiumque- scribit etiam nolens suis in
libris I transfundit suos mores ,
adfectus y temperamentum, opiniones, scientiam, oartium studium, atq. alia sibi
propria . Brevius sjui- cumq. scribit , se ipsum describit , Quid
liber, quam Sermo scriptus Nonne sermone,
aliorum animos paene videmus?. Hoc fusius, ac 1»T
Ejusqie progrersibnj • i est
diligentissime versandum, verum maxima,
cura lectitanda , sunt omnia, ut scriptoris mens ex universis ejusdem operibus constet Potent enim esse , quod aliquod rejecisset . En ratio quare quampluritni in
judicando errant . Quia vel integrum
librum non legunt , vel non intelligunt. Quid si. reliqua scriptoris opera , ignorent , vel non
curant scire ? At quid statuendum , si
scriptor de aliorum opiaionibus, vel
factis agat? Reg. 14. Tunc exquirite
primo , an scire potuerit, Num fuerit perspicax. 3. An in judicando adeuratus .
4« Num in referendo since- rus • In
quibus si uni eorum defecerit, fidem ei
denegate. Sin minus , eundem habete et dili-
gentem , et sincerum , et veracem.
Hujusmodi sunt optimi historici noti . LIVIO (si veda), SALLUSTIO (si
veda), Cornelius TACITO (si veda) praestantis-
simi fuerunt historiae scriptores . Apud recen- tiores MACHIAVELLI (si veda), Franciscus GIUCCIARDINI (si veda), Bernardus SEGNI (si
veda), Angelus de Constantia, Robertson
, Hum, atq. historix universalis anglJci scriptores . Quid si ex uno scriptore quamplures acceperint. Reg.Si
quamplurimi , etiamsi mille ex uno
scriptore sua traxerunt , omnes simul tatl%.
valent, quantum
unus, quem transcripserunt . Quod si
clare constet historicum fuisse J cujus nomen praefert . Sic Jjbnr de
consolatione CICERONE (si veda) adscriptus ; est ' Hgarjii .Ergo spurius. Contra VirgHii
.®nei- dos., suflt Virgilii , nam, ab
ejus obitu ad praesentem usque aetatem
eidem tribuitur. Il- Judq. ipsum dicitp
de CICERONE (si veda), ORAZIO (si veda), COLUMELLA (si veda), M. VARRONE (si
veda) operibus. Tertio loco si in Codice
m°dp aliquid legitur, quod in scriptqcis
:$t#te , vel antiquis Codicibus non
legentur , dicitur interpolatus . Denique si jaunc aliquid desideretur , quod fa
antiquis :jpndieihu» e*tfeat, appellatur
mutilatus. Hd- Sjjtm omnium exempla
surtt paene infinita , jju* brevitatis
gratia omittuntur ; ^t quS rd- tione
fiaec omnia internosci possunt ? Reg.
Dicito illum librum esse spurium , jt.
-Si scribendi stylus , vel cogitdndi ratio non
sit illius scriptoris, cujus nonfen profert . . j&i a scriptoribus corvis non sit
memora- V* Si adeo ineptus, ut cui
tribuatur , nullo . EjuspK
progressibus n *7P lo modo possit
convenire. 4. Dengue libe* habendus eit
'spurius,* -si antiqui eum rejecet irini* /; - iV .. ..Reg. Contra^ liber
habendus est genuinus I. Si stylus , et
cogitandi modus illi conve • ni aut ,
cujus nomen > prxsefert : 2» Si a scri-
ptoribus Coxvis sit memoratus : Si antiqui de libri genuitaie , minime dubitarim . Reg. Lib^r habendus est interpolatus t vel spurius y si facta , et personor memorentur
scri- ptoris xtate posteriores . Ipsum
dicito de voci- bus , ac locutionibus .
Ultimo loco si doctrinas •Si st e mati
sibi proposito contrarias contineat Quid
si scriptor fuerit ineptissimus*. Reg.
Codex est mutilatus si in eo aii- quid
desit , quod vetustissimis in codicibus le-
gebatur : 2. Si qux continet y vani , cottfuseq leguntur. Haec pro
auctoritate humana satis esse du- co .
Quo ad divinam , praeter ea superius di-
cta notanda sunt etiam quae sequuntur.
Reg* Oportet perpendere .Nam Deus
loquutus fuerit' Cui loquutus :
Quo in loco: quando :
quid'., Haec omnia manifestissima sunt in quin- que Pentafheuchi libris a Mose scriptis. Nam Deus loquu,tus cum
universo Populo Haebrreorum . In mote Sinai , post eorum egressum ab iEgypto. Quæ autem loquutus fuerit in duabus Tabulis lapideis continebatur *
Quse licet j De Veritate, j' v>
•. licet constent ; , veruuuamen videndam insu- , i f
*. Per. Reg, . Num qu& Deus dixit ,
ai/ aoj incorrupta, vel interpolata , vel mutilata pervene- rint. 2. i 1 / sensus , ac vrria possint
varii accipi . Si autem varie accipi possint , nemo «aaa fuo arbitratu , ac teneri intellegat , W
aat (Catholicae Scclesix judicio ,
standam erit., Hujusmodi sunt praecipuae
rCgulae , qua? me- thodo analitic.e
maxime inserviunt . Quae autem sequuntur ad syntketicam spectant. Ej usque
progressibus De regulis explicanda veritatis , tam viva voce, quam scriptis
I T' X omnibus animantium generibus unus
1/ homo veritatis capax , est quoq. loquela praeditus, qii^ sui animi intimiora sensa
expri- mit . At mirabilior ejt scriptura
, qua cum absentibus temporis, ac loci
loquimur Sed si philosqphi, si parentes,
si ludimagistri desiderent , ut juventus
utiliter haec divina rationis
instrumenta adhibeant, sequentes regulas ob oculos habeant. r Reg. i. Initio
cujusq. facultatis , magister doceat,
quid ea" sit , que fuerit ejusdem origo,
progressus , vicissitudines , scriptores , atq. quas in partes ea distinquatur. v ; • , Cur itl ?
ut sciant auditores, quae ipsi comparant , atq. univers® scienti® quandam
designationem ceu^ in parva tabula adumbratam
habesmt . In quibus enucleandis una , vel ake- ia lectio sufficit, ne rerum multitudine
detineantur ii, qui paucis prsceptis sunt imbuendi. Reg. st. Maxima cum
brevitate [H. P. GRICE: Quantitas: be maximally brief], ac claritate simul primo controversis: status proponatur,
deinde suas in paries dividatur ; tum inutilibus resectis , omnia sensim sine sensu
explicentur In hoc a quatnplnrimis erratur. Neq.enim -v t pro- «r ffif •• - J-dolemata sciunt acute propd n
ere, neque omnes, nodos extricare.
Veriwn omne tempus in congerenda
cujtisq. generis eruditione sine ullo
ordine, judicio, lepore tevurit. Qujf GrammaticorutntForensium^c medicorum pleynmq.
est perquam inepta scribendi ratio. Reg. Vocabula omnia definiantur, ut
quid sit res de qua agitur, plenissime
intelligatur l Hujus iftilissim* regulæ contemptus juvenes impedit, ut bene
iatelligant, atque addiscant. Reg. 4. Ex definitionibus officiantur
axioma* ta ; atq % postulata, ex quibus
clein emitis praepositionum series eruatur. Haec rectissima docendi ratio, quam
sibi sumunt Geometr, est illorum omnium,
tjui sciunt ratiocinari . Divus Thfcmav’
non erat Geometra , veramtamtn quia
divino ingenio praeditus ordine scripsit
. Quid dicendum de Aristotelis ethica
tam pressp et ta!n stricto ordine
Conscripta Reg. ij. Definitis universe scientia voca- bulis , initium sumatur a rebus
simplicifribus t ac facilioribus, atq.
ad maximi Compositas 9 jfuxijpeq.
difficiles procedatur. Sin aliter
fiat., discipuli non krtelligunt. Reg.'
In rationum ''catena conficienda , ita
ordiatur , ut altera 1 alteri prxluceat , atq. alte- ra alteri inserviat . Ex quo tandem
integrum disciplinae systema compingatur
omni ex parte connexum. Reg. Ej usque progressibus . ut sciatur tempus, « W, «■ w r«nf gesta. • • • fc '- • •. „ Reg. 14.
natUrd j ' ac pravus . Ergo pontus ut educationi defrrtur , proinde?*
magister curat auditores* redde-, re
laboriosos longius, quam res tanta dici
poscit.. Pritpo arithmetica est scientia , qua
mentem instruit , ut ea expedite ac recte super qtiibusdam cyphris numericis operetur. At
qua de causa ? ut nempe veritates inveniat. Hac scientia licet quamplurimis
continea- tur regulis, ut additione,
subtractione , multi - plicatione , ac
divisione, attamen additio, subtractio, multiplicatio, ac divisio tam in
quantitatibus integris, quam in fractionibus cujusque generis ad additionem , atque
subtractionem reducuntur. Itemque regula
aurea , societatis, alligationis ,
positionis, ac combinationis ; non- ne
ha? omnes, et si qua? sint alia? etiam infinitae , revocantur ad unicam regulam
aure- Etenim multiplicatio nihil aliud
est, quam ipsa additio concisa: et
divisio est ipsa subtractio . Sic si
mihi multiplicandum esset g. per 4. duos
modos adhibere possum, vel M fi 8. qua-
« \1 lif * , . quatuor seriam , factaque summa habebitur 32.
alter modus est si 4. accipiam octo: vel
octo accipiam quater , productus erit sem-
jper 32. ex quo pate't multiplicationem non esse, nisi ipsam additionem compendiosam
. Id i^nm dicendum est de
"divisione ; nam ha?c est ipsa
subtractio, cum hoc uno discrimine ,
.quod subtraetio fiat semel , scili- cet
ex quantitate majori dematur minor, ut
quod remanet, videatur . In divisione vero subtractio fieri debet secundum numeros
divisoris. Sic si dividere vellem 484. per quatuor . Fieri debet in uno quoque
.numero hinc primo ingreditur semel, in
secundo bis, ip tertio etiam semel,
quotus erit 121. Ergo in primo numero
subtractio fuit unius numeri 4. in secundo subtractio dupli 4. et postremo
etiam unius 4. Ex quo 'etiam liquet divisionem non esse, nisi ipsam
subtractionem. Quod quidem non inteligendum
solum de nu- meris integris, verum etiam
de fractis , ac de fractorum
fractis. At si quis inquiet; ad quam regulam referuntur potentiarum elevationes , atque
ra- dicum omnium extractiones Respondebitur, quod potentiarum elevationes sola
multiplicatione conficiuntur 1 ' extractftfnes vero radicum cujusque generis et
multiplicatione, ac divisione, hoc est
ex additione , et subtractione simul. Sequitur postrema scientias nume ricae
regula , qu* est sola aurea , ad quam quot-
. quot sunt, omnes reducantur. Verum quid continet hrec: nisi quo pacto fex tribus
numeris cognitis inveniri possit quartus numerus proportionalis incognitus Hoc
parumper perpendamus in tyromim gratiam.
Ad quatuor classes , omnes problematum numericorum resolutiones vulgares
ari- / thmetki reducunt , nempe ad
regulam auream sive trium; ad societatem : ad alligatio- nem , atque ad falsam et duplicem
positionem. Primo regula aurea sive
directa, vei indirecta: sive simplex vel
composita est inven- tio quarti numeri
proportionalis, post tres alios datos:
ut 4. boves ararunt I. terr® jugera,
quot jugera arassent 16. eodem tempore ? I- temque 4. messores metunt quandam
segetum quantitatem 8.diebus, quaeritur
quanto tempore eundem campum messuissent if. messores? In utroque problemate semper quartus
proportionalis inveniendus est, cum hoc uno* discrimine, quod In primo
problemate multiplicatur secundus , cum
tertio , productufn dividatur per
primum, hoc est te3. per -4. quartus pfo»
portionalis est ja. In
secundo autem proble- mate
'multiplicatur inter se primus cum secundo-, productum dividatur per tertium,
vi- delicet 3*. per 16. quotus, hoc est
quartus proportionalis est. Sin autem
utraque sit M 4 cora- quibus mentis adus
clarius explicantur De Jignorum artificialium origine De linguatum omnium
natura De linguarum artate conjicienda De vocum divijione De propojitionibus De
mater i a, forma, £r propofitionis quantitate 6e errorib.me ntis quo ad jenjus exteriors
De errorib, quo ad animi /enfationes De errorib. quo ad ip/ius mentis
adtus.iOQ De errorib. quo ad animi Jigna
relatis, de illorum abufu De errorib.
quo ad propo [itiones De errorib, quo ai /yllogi/mos, aliofq. arguendi modo s. De errorib. qui ex prava
puerorum eJucurione oriuntur Ve errorum emendatione De veritatis ortu , ejufq.
p r Ogre£ibus Quid , O quotuplex Jtt veritas
cujufq. veritatis exifientiaJ uip
, & quotuplex Jtt veritas De cujufq. veritatis nota. Quid, & quotuplex
Jit methodus De methodo inueniind.e veritatis fenftbilis Dg methodo demon/irqnd
£ Veritatis De methodo reperiendx veritatis prob De veritate probabili De
regulis pradlicis reiie philo fophandi De regulis explicande veritatis, tu n:
viva voce, tum {criptis De Logices redudione ad arithmeticam.
ACJA.jpfd/L<rsa SLIOTECA NAZ. Vittorlo Emanuele III NAPOLI DE
ARTE RECTE COGITANDE LECTIONES SEX. DE ARTE RECTE COGITANDI
LECTIONES SEX NEAPOLI EX OFFICINA MICHAELIS MORELLI. PUBLICA AUCTORITATE. IILUSTRISS.
AC REVSRftfWSS. VIRO MATTHjEO JANUARIO T E S T iE-P
ICCOLOmINEO ARCHIEPISOOPO CARTHAGINIENSI, j ET FERDINANDI
IV REGIS A SACRIS, ET COWSILIIS, AC REGU AR-CHIGYMSfASII
prefecto Q Uct omnia Deus Opt. Max. d rerum primordiis condidit
homini condidit hominemque i~ ppfum alteri homini. Hinc fit , ut
qui ex hominibus majori cura j diligentiaque aliorum quarunt utilitatem, ac
praCtpue in literis, artibufquc provehendis, qua funt cujufque bene
conflitutee Retpublics ornamentum, ii exteris proflantes, jure inclyti
habeantur, *f§r- namque flbi comparent famam. Inter hu-jufmodi viros
quinam hac noflra tempeflate merito adnumerandus, quam tu vir
Illuflrijftme, ac Rcverendijftme ? qui ft in exteris dignitatibus Tibi collatis
pro tua humanitate, prudentia, juflitia quod Caput 1 cfl, pro tua in omni re
liter aria, penitiori cognitione ipfarum literarum, ear umque cultorum Te
praflanttjftmum patronum femper prafliteris, tamen ab eo tempore , gwo
//£* Regii Archigymnafli Prx- fcllura fuit demandata, ita eas,
eofque provexifli } ut fub te uno utrique nati videantur 4 Pro tuo igitur
bumanijjimo ingenio, «r me, ac meum libellum de arte rcSle
cogitandi , qui nunc primum in lucem prodit , ac tibi libenti animo
nun- cupo , rogo excipias optime vale. Neap. pridie non.
Ap.iyy'/* \s.LE- DE EXIGUO HISTORIjC LOGIGE COMMENTARIO ale£tica,
qua» eft ars perficienda rationis humana, a Gracis exorta Zenonii
Elea- ti Parmenidis auditori , 8 c adoptione filio tribuitur,
ut ex Ariftotele, Sexto Empi- ribo, & Laertio. Verum Zenonis
Logica reapfe non fuit, nifi ars rixandi * & cavillandi (a) i ex qua
Eleatici Sophifta profluxerunt | quorum audaciam Socrates pra- • a 4
ftan- [Floruit Zeno circa olympiadem 79., qui juxta Valerium Maximum
lib. 3*cap. 3. Nearco Agrigenti Tyranno aurem morfu corripuit .
Plutarchus Vero ad verfus 'Colotem fcripfit Zenonem fuam linguam dentibus
amputatam in Tyrannum expuifle. Hujus philofophi principia natura- lia
rejecit LIZIO libro Metaphysico- autn tertio cap. 4. ftantiflimo vir
ingenio, atque morum in- nocentia Angularis retundens, non aperto marte
eos aggrediebatur, .fed quadam difputandi dexteritate proprios errores
confiteri eofdem cogebat. Hinc Socratis Logica tota erat in eo, ut primo
vocabula omnia vellet defjnita, deinde quibufdam, minutis
interrogationibus propofitiones omnes per neceffariam confecutionem ita
te? xeret , donec ad praeceps inconfideratos adverfarios
perduceret. A Socrate quamplurimae philofophorum familiae
profe&ae funt, quarum celebra- [Ante Socratem philofophi JE-
thicae ftudium neglexerant . Hic vero maximo ingenio , corde , ac fpiritu
omfiium primus homines felices reddere curavit. Is enim de anima , de
paflkmibus, d'. vitiis, virtutibus, pulcritudine, deque hujufmodi
aliis, quæ vel cum nobis, vel cum focietate conjunfta funt ,
fapientifli- me difputavit. Adverfarios hironia, atque induftione
refutabat . Xenophon , & ACCADEMIA ejus do&rinam, & vitam
fcripferunt. Irreligionis crimine adcufatos, quia Græcis fuperftidonem
deteftabatur , ac Dei bratiffimae, quasque Diale&icam furtimo
cum honore excoluerunt, memorantur ACCADEMIA a ACCADEMIA Athenienfi, Meg a
unitatem confitebatur, veneno obiit in carcere . Quae hujus
praiftantiflimi viri fenfa fuerunt , quo ad Deum , animam , res
morales , aconomicas , atque politicas leggi poffunt in Laertio. Plato
jEgynenfis, Codro ex parte Patris , & Soloni ex Matre
conjun&us, 87. olympiade natus eft . In pueritia in
exercitationibus gymnafticis, pi£lurae,mu- ficas , poefis , atque
eloquentias ftudio operam navavit. Verum cum Homerum le- geret fe
excuflit , ac philofophiac fe totum dedit . Principio Cratilum, atque
Heraclitum, poftremo o£lo annis Socratem audivit, quem in fuis cafibus non
deferuit. Quin imo univerfa ejus bona pro Magi- ftri incolumitate
judicibus obtuLit. Poft Socratis mortem petivit jEgyptum, deinde ITALIAM,
atque in fchola Pythagorica CROTONE METAPONTO TARANTO REGGIO initiatus. Athenas
redux , fcholam aperuit prope Ceramicum , in quo monumenta eorum
erant , qui Marathone tam glo- ri ofe occubuerant. Plato moriens
fua bolo garici ab Euclide Megarensi, Cyrenai-
bona illis reliquit , qui folitudini, quieti, meditationi , atque
filentio vacarent . In- ter quam plurimos ejus difcipulos recenfentur LIZIO,
Speufippus, Xenocrates, Hyperides, Lygurgus , Demoftenes, atque
Ifocrates* Plato fuit vir divini ingenii, laboriosus, temperans, agendo
loquendoque gravis, patiens, atque urbanus. To-
to vitae curriculo juventutem inftituit, obiitque aetate 81. Annorum Perfeus
Mitridates ftatuarrt, et LIZIO altare elevaverunt. Itemque dies fu»
nativitatis habitus eft facer. Qu* autem de Diale&ica, de rebus
phyficis moralibus , politicifque pertra&avit, funt pene divina. Is
fuit Primae ACCADEMIA au&or, cui fucceflerunt Speufippus, Xenocrates,
Polemon, Crates, & Crantor, quam deinceps inftauravit Arcefilas,
poftremo Carneades , qui Medi, ac Terti ACCADEMIA principes fue-
runt. Platonis do£irina primum inftaura- ta fuit fub Augufto, &
Tiberio a Theone Smyrnenfi, atque Alcinoo; fub TRAIANO (si veda) a Phavorino;
fub ANTONINO (si veda) Pio a L. Apulejo, & Numcnio Apamenfi:
fub Ccmtiaici ab Ariftipo Cyrene Afri es urbe; na- ‘ COMMODO a Maximo Tyrio, Plut. ac Galeno.Exa£la autem
barbarie eam excoluerunt BefTarionus FICINO (si veda), Angelus POLIZIANO
(si veda) Aretinus Calderinus, Joannes Picus PICO (si veda) Mirandolanus. In
ACCADEMIA libris aliquam Trinitatis notionem deprehendifle nonnulli fibi vifi
funt. Sed hac in re videnda eft Joannis Frederici Meyer
diflertatio, Samuel Crellius, Joannes Clericus. Euclides fpiriturri fui
magillri non feq nutus eft, etenim pro morum philofophia, Logicam coluit
, ex quo ut in Laertio ejus auditores di£U funt & Me - garenjes
& Dialctttci. Is Athenas no£lu ibat tunica muliebri indutus , pallio
ver- ficolore amiflus* caputque rica velatus e domo fua Megara ad
Socratem commeabat, ut ejus sermonum ac confiliorum fieret particeps .
Rurfumque fub lucem millia pafluum paulo amplius viginti, ea- dem
tunica teftus redibat * Ita A GELLIO (si veda) lib. Euclides enim in arguendo
nonnifi conclufionibus utebatur. Qua- •r$ Eubulides ejus fucceftor multa
fophifmatum genera invenit , adhibuitque. At nato, LIZIO ab LIZIO
(e) LIZIO Diodorus hujus auditor moerore mortuus eft, quoniam
Stilponis argutias refellere ignoravit , quique Euclidseus fpiritus
Europse regnavit inter Nominales, ac Reales; inter Thomiftas &
Schotiftas. LIZIO Macedo Nicomachi , ac Pheftiadis filius, Platonem
audivit cir- citer 20. annos, immenfam au£orum. le- gionem habuit.
In Lycaeo fchoiam ape- ruit abfente Speufippo Platonis nepote. Alexandrum Philippi Macedonum Regis filium docuit .
Senefcens impietatis crimine adcufarur a Sacerdotibus, fugi it . Quo ad
ejus mortem alii 0 in ./Euripum fe praecipitaffe, alii fibi ipli
necem intulifle ferunt. Hujus philosophi opera sunt pene innumera, ut ex
Laertio. Quas LIZIO de historia naturali, de arte oratoria, de poesi,
de ethica, de rebus aiconomicis, politicisque sunt quippe admiranda.
Eidem in Lyc2eo fucceflit TheoDhraftus suus discipulus, quo mortuo pene
filvit , licet in eo docuerit Lycon, Ariston, Critolaus, Diodorus , Demetrius
Phalaraeus, ac LIZIO, denique PORTICO a Zenone Cittieo. ' 1 r princognomerito
phy (iens. Verum fub Imperatoribus Romanis alias viguit haec doftrina. At illo
imperio proftrato omnino evanuit . Sed iterum Romanorum Pontificum cura
poft ^urops barbariem denuo inftaurata, eam fummopere excoluerunt
Albertus Magnus, D. Thomas, LOMBARDO (si veda), Scotus, aliique. Majori autem
cum fucceffu dein culta a POMPONAZZI (si veda), ZABARELLA (si veda), Francifco
atque Alexandro PICCOLOMINI (si veda) Senenfibus: Itemque ab Andrea Cassalpino,
Caesare Cremonino CREMONINI ROBERTI (si veda), qui Harveo praefuit in
nobili fanguinis circulatione. Hac in philefophia floruit quoque
Melan&onius Ger- manus , qui poftea Nominales et Reales, variafqne fcholafticorum feftas
infe- quutus eft , Quiq. etiam PORTICO, Scepticos, atque L’ORTO
damnabat. Pcftremo hanc do&rinam coluerunt Nicolaus Taurellius,
Michael Picartus, Cornelius Martini, & Hermannus Corringius cum quo LIZIO
philofophia corruit. Zeno Cittieus
Mnefii filius aetate triginta trium annorum Athenas primum
ivit cipium habuerunt. Verum qua» , aq qualis fuit illorum
omnium ars disputandi: Itemque in quibus laudanda ,sVei culpanda, licet a
propofito non eflet aliecurri , attamen quia hujufmodi exquifitiome ivit,
ut purpuram venderet, iliofque tam celebres viros cognofcerct, quorum
libros perlegerat. Quo cum perveniflet, Cratem primum, illoque
religio Stilponem decem annos audivit, coluit etiam Xenocratem,
Diodorum Cronum , Polemonem inter» rogavit , quorum omnium
cognitionibus maxime imbutus fcholam aperuit in PORTICO,
quamplurimofque habuit auditores, quos vita? potius honeftate, quam
leflionibus inftituere folebat. Zeno 88 annorum artate
occubuit , Artam oratoriam a Diale&ica non dillinxit. Zenonifc
dtfcipuli fuerunt Philonides, Calippus, Pofidonius, Zenodes , Scion ,
Cleantes, Ariston Chius Miltiadis ftlius, Herillus Carthaginenfis, Sphoerus, Cleantes
Lycius, Zeno & Antipater Tharfenfes , Diogenes Babylonius .
Apud Romanos ftoica doflrlna in fummo fuit honore. Poft literarum
inftaurationem eam coluerunt Juftus Lypfius me ab inftituto fummopere
abalienaret præteritur, atque oculo peregrino reliqua percurram. Poft hos
omnes floruit L’ORTO Arhenienlis, qui Xenocratem, & Pamphilumflus, Gafpar
Scioppius, Daniel Heinhus, aliique complures, L’ORTO maximus philofcphus
Gargetti L’ORTO in Attica ojfymp.Top. ex Neocle & Chereftrata editus
unus eorum fuit, quos Atfienienfes in Infulam Samos miferunt , Hic
puer Matri piaculari praeibat, atque aliquo piaculo domos conta&as
circumibat. Ita Lomeyer de Lujtrationibus. Hoc exorciftx genus inhonorum
erat apud antiquos. Rediit Athenas decimo fux setatis anno, trigeflmo
vero fexro scholam in viridario aperuit, ibique cum fuis amicis
tranquille vixit, Quamplurimos habuit difcipulos, ad quem ex omnibus Graecia:
urbibus confluebant, quocum etiam vitam vivebant, nam L’ORTO dicere folebat, ut
ex CICERONE (si veda), de finibus lib: *• omn r f »™ rerum, quas ad beate
vivendum faptentia comparaverat, nihil ejfe amscitia majus, nihil uberius,
nihilque ju-cun Ium Platonicos, & Theophraflum Ve- ri pzcundius.
^Jeque hoc oratione folum , fed etiam moribus, ac vita comprobabat. Ejus
fequaces adeo Magiflro adhasferunt , ut etiam mortuus fpiraret in
fummailla tot animorum confenfione fui memoria. ita Gajfcndus de
vita, (y moribus L’ORTO. Philofophia» corpufcularis Epicurus non fuit
au£lor, fed infkurator . Hunc momordit ejus difcipulus Metrodorus, qui ad
Carneadem tranfiit. Etiam CICERONE (si veda) GIARDINO convitiis laceffivit, at
ejus caufam dixerunt Alexander ab Alexandro, Cœlius Rhodiginus, Joannes
Francifcus PICO (si veda) Mirandolanus, Marcus Antonius
Bonciajius, Palingeniur, Andreas Arnaldus, Francifcus de Quaevedo,
denique Gassendus. Quibus omnibus praefuit ipfe
Laertius, qui fcripfit in ejus vita: nam fan&itatis in Deos ,
& charitatis in patriam fuit in eo affe£tus ineffabilis. Ipfe
CICERONE (si veda) de finibus lib. Ac mihi quidem, quod ipse bonus vir fuit,
& multi epicurei fuerunt , & hodie funt , & in amicitiis
fide- les, &.in omni vita conflantes , Sc graves, nec voluptate, fed
officio confilia, LIZIO audivit . Hujus
Canonica sive b Diamoderantes, hsec videtur major vis honeflatis,
& minor voluptatis . Ita enim vivunt quidam, ut eorum vitam
refellat oratio, atque ut caeteris exiftimentur, dicere melius , quam
facere , at Epicu- rus voluit melius facere , quam dicere.
Quamobrem Seneca de vita beata cap. 2. fcripfit : non ab Epicuro impulfi
luxu- riantur , fed vitiis dediti luxuriam fuam in philofophiae
finu abfcondunt; 8c eo con- currunt , ubi audiunt laudari voluptatem
. Nec aeftimatur voluptas illa Epicuri quam fobria, & ficca
fit: fed ad nomen ipfum ad volant, quaerentes libidinibus fuis
patrocinium aliquod ac velamentum . Hic in inultis culpatur, ut ex tot
|§ntifque fcriptoribus tam antiquis , quani recentibus . Maxima vero
animi conflantia, qua femper vixerat urinae doloribus correptus aetatis
67 . an. 0 lymp.Hic vocabulo voluptatis juventutem allexit, at in
fuis le£lionibus nihil aliud , quam virtutes , temperantiam,
frugalitatem, bonum publicum, an imi fortitudinem, vita; negle&um , ac voluptates
animi, non autem corporis difcipuios docebat. Dialc&ica
paucas regulas de fermoris per- fpicuitate , deque reflo ratiocinandi
ordi- ne, quas fophiflis fu aetatis oppofuit, continebat. Qu*que
legi poflunt in Laertio fuo difcipulo, in Stanleyo, in l'hpr mafio ,
atque in Bruckero, H*c de veteribus celebrioribus philosophis , qui
Dialefticam vel invenerunt, vel auxerunt, vel perpoliverunt ad
Caela- ris ufque jEtatem, at fecundo ecclefi* fe- culo Alexandri* ,
ad quam quafi ad bo- narum artium mercatum literati omnes
confluebant , invaluit quadam philofo- phia,'qu* ccclettlca dicebatur,
cujus nobile inllitutum erat ex fingulis philofophi fe- Ad
ejus fcholam pr*ter 'virbs confluxerunt etiam muliqp?s celeberrimas , ut
Themiflia Leontii uxor, Philenides, Erotia, Hedia, Marmaria, Bodia,
Phedria, neq. ejus cives , neque ejus adverfarii eum vel libidinis, vel
impietatis crimine adcufa- runt. GIARDINO ORTO Philofophia fine ulla
interruptione culta fuit ad Augqflum ufque, LUCREZIO (si veda) eandem
collegit . Eandem quoque coluerunt Celfus , Lucianus, & Diogenis
Laertius, H*c phjlofophicum Ceftis tunc temporis florentibus qimlam
excerpere, quxdam mutare , aliterque exprimere. Verum
hsc philofophandi ratio dofliflimis ecclefias Patribus adeo placuit, ut ftatim per omnem Chriflianum orbem
fuerit ditfufa. His acceflit , quod ha:reti- ci quinti feculi
Ariftotelads , ac PORTICO prafidiis abutentes, dolores noftros
adgrederentur, qui ut adverfariorum argu- mentationibus , atque
irrifionibus occurrerent, eadem difputandi arte etiam imbuti funt. Dialectica
itaque eccle&ica ex PORTICO, atque ex Ariftotelica componeba-
tur, qua2 ufque ad duodecimum ieculum in occidente fuit tradita , maxime
quia b z B.. cum ROMA sepulta iterum revixit initid
feculi decimi feptimi, atque ignominia formarum plafticarum alias atomos
in pri- ftinum fplendorem alii reponunt Magnarius Luxemburgenfis
edidit primus ejus Demotritum revivtfcentem, Magnano fucceflit Gaffendus vir
pradlantiflimo ingenio an. 15P2. Poft Gassendum coluerunt raolierius,
Bumerius,.‘Vandomus, Bovillonius, Catinat, Polignac itemque abbas
Gennet,Fontauellius aliique quarn plurimi, viri. Aliguftinus fuis
difcipiilis eam commendaflfe fertur. Seculo autem duodecimo
ScholalHci?fivt Chriftiani occidentales LIZIO libros ab Arabibus versos,
ab iifdem interpretatos accepere. At hi nimio rixandi ftudio du&i
Logicam, ac Metaphyficam fatis quidem obscuras atque IMPLICITAS
novis subtilitatibus, novifque quseftiunculis ac laqueis foedarunt.
Etenim cum linguam Grxcam ignorarent , Ariftotelem neque legere ,
neque interpretari poffent , ejuR dem VALLA (si veda) Roriis
natus. anno quinquagefinio suæ statis occubuit . Is incultam fermonis
barbariem elegantiarum libris dsfasdare curavit. Ut ex Jovio. Natnra
mordacilTimus CICERONE (si veda) vellicabar, LIZIO carpebat, VIRGILIO (si
veda) fubfannabat , uni tantum GIARDINO af- furgebat. Hic cum pauca in
Logica fui temporis animadvertilfet, adverfus Magiftros fe fe offerebat ,
ac planum diceret nullam efle Logicam, prater Laurentianam. In libro de
voluptate, ac vero bono GIARDINO .adhaefit. Hic omnium primus philosophiam
ex pyriffimis fontibus, non ex dem Utiliora neglexerunt,
fophiftica duntaxat amplificarunt. Scholaftici itacjuc LIZIO denominati funt,
& denominantur, licet eorum pauciflimi LIZIO legerint. Hujulmodi Logica
futnmo in honore habita fuit ufque ad feculum XV. illiufque
veftigia etiamnum manent in quamplurimis Monacorum familiis.
Verum initio decimi fexti fcculi, primum VALLA (si veda) et
Agricola, dein* b 3 de ex lutulentis rivulis falubriter
hauriendam effe docuit , explofa penitus fcholallicorum difciplina, qui
tunc temporis prin- cipatum obtinebat. Rodolphus Agricola apud
Frifios ortus Hic enim tanquam athle- ta multa tulit, fudavit,& allit
abftinuit- que venere, & vino, ut magis magifque literis
vacaret. Poltque Parifiis, et Ferrarii Gricam, ac LATINAM LINGVAM comparavit,
reliquum itatis partim Hebdcrbergi, partimque Wormatii duxir. Pofl: ejus
mortem Lovanii editus fuit liber temeritate judices concuffi , irrito
conatu per diem integrum imagiftramvt fuit i ut barbari barbare
vocabant. ItaFreigius in vita Petri Rami. Scripfit inftirutioves Logicas,
atque in LIZIO trviniadverfhnes, Ex Triumvirali fenrentia ejus libri
damnati furtt. At paulo poft Diaia&tcx, atque eloquentia Cathedras
obtraurtTTandem in S. Bartolomad praelio occifus eft. Baco magnus
Cancellarii fub Jacobo i. unuseorum eft qui ora* nes perfefliones,
atque imperfectiones fcholaftica; philofophiae cognovit, oftenditque:
itetftque vehementi (lime laboravit pro ea perficienda. Hujus traClatio
de aug- mentis ferendarum eft perquam utilis Literarqmafliduitate dx
ditiflimo obiit pauper. In fcientiarum organo do rebus Logicis
difertiflime difputavic, in quibus modum optime conficiendae Induclionis
difleruit, cum AriftotelicI methodum docerent conficiendi fylidgifmi .
Quo in mas Hobbefius, qui licet luam Logicam computandi
anem infcripferit, verum tamen ut caeterae illius temporis
fcholaftiGa garrulitate etiam fcatet. a Poft hos meliori methodo atque acriori
ingenii acumine de Logica egit Cartesius vir doctifiimus y cujus
libellus de methodo rationis rettc dirigendae, inquirenda in J cientiis
veritatis eft valde praftans. Etenim is primus fuit, qui. conculcatis
vetuftiffimis au&oritatis praejudiciis
ad veritatem inveniendam aljos excitavit • Itemque non ex aliorum
judicio, virum ex propriis viribus omnia explir in opere o&odecim annds
confumpfit. Hic unus novae philofophue praxurfor fuit. Hobbefius
Malmesburii ornis pfiuja aetate piaxiraos habuit progreffus in linguis,
quinquennio philolophiae scholafticae operam dedit. Deinde ITALIAM, ac
Galliam peragravit. Tucididem in linguam artglicam vertit, ut fbtus Democratici
conftifiones notaret. Lutetiae an. i) Lockius Vyrigton prope Briftblium
natus an. i6p. prima literarum rudimenta in Collegio Oxfortenfi, accepit,
quaque illi eide tn -puerilia vifa funt. At Cartefti opera illum acuerunt.
A Cartefii operibus ad medicinam tranfir, qua de re anathomen, hiftoriam
naturalem, atque chymicam comparavit. Peragravit primo Germaniam ac
Pruffiam, deinde Galliam atque ITALIAM cu«l Comite Noftumberlando-Heflico
morbo correptus Galliam venit 1 qua benigne exceptus fuit » Vix ad
Angliam redux y Babris anglice editis artem cogi- tandi
comprehendit. Hos Petrus Coste in Gallicum sermonem , Burrigidius
vero IN LATINVM VERTIT. Lockius enim fummo mentis acumine rerum caufas
rimatur, vires humana rationis computat, denique Logicos docuit qua via (e
explica- ripoflent , neque erubefeere fe nefeire, quod reapfe
ignorant. Cartefianos aggreditur , ac difputat omnes ideas vel fen- fuum
ope , vel meditatione oriri: Ostendit
quo pa&o unaquaque idea adquiratur: 3. Diligentiffime artem criticam
expofuit. Poftremo de humana cognitione, de veritate cujuslibet generis, de
ratione, de fide , ceterifque aliis fufe lateque pertraftavit. Attamen
reprehenditur. Bataviam petivit, atque ab Anglia rege requifitus ire
noluit. De Intelle£lu humano librum confecit, quem edidit: rure
compofuit librum de Imperio civili , in quo tyrannidis injuftiriam expofuit:
eoque in loco compofuit prater librum de puerorum educatione , etiam aliquas
epifiolas, ac Chriflianifmum ratiocinatum, quo in libro Rationis vires
nimium, Quod faepiffime eadem magno verborum adparatu repetat. Quod quædam
inutilia addat: Quod exempla neceflaria omittat, Quod libertatis arbitrium
non re£le explicuerit. Ex Lockii Schola Joannes Clericus praeftantiffimus
philofophus prodiit, qui univerfa judicandi prscepta ia fu a arte critica
complexus cft. Nam 1. de ideis. de judiciis, ac
propofitionibus: de methodo, poftremo de argumentatione ac fvllogifmo
difleruit. Poft Clericum mariotte Gallus doflif fimus vir
Logicam duas in partes divifam edidit, quarum altera in quibusdam
propofitionibus evidentilTimis verfatur; altera vero qua via ex praemiffis
propofirid mium y quam par eft, praedicat, vitamque sternam iis offert,
qui Chrifto credunt, legemque naturalem exercent. Occubuit num materia poflit
cogitare , conatus eft oftendere. At quid in- tereft utrum materia fit
cogitans, nec nej? Quid enim intereft, fi medtis human® fimplicitas
in tuto collocetur ? Fortaffe ipfa efficere poffet, juftitiam
injuftiriamve noftrarum a&ionum , noftram futuram felicitatem ,
veritatefque fyftematis politici ?. 1 tionibus alis deduci re£te
poflint , perrra£lat. Culpatur primo quod de veritate probabili, deque arte
critica nihil dixerit ; Itemque quod ratiocinandi artem confufe
tranaverit \ quod omnium errorum cau- fas non patefecerit,
Quod in Anglia Lockius, atque in Gallia Clericus, ac Mariorte, identidem
in Germania fecerunt Chriltianus Thomasius, Eeibnitzius, Wolfius, aliique
complures. Primus enim fine prateriti feculi introduttione ad Philosopbiam
Aulicam, Dialecticam a nugis, atque er- roribus , quibus eam maxime
infufcaverant fcholaftici , emendavit . Id quoque fecit
Andreas Rudigerus etiam Germanus in fua pbilofopbia Syntbetica , atque
in libello de fenfu veri, ac falfi. Id ipfum dici » i ' {q)
Leibnitzius Lypfis natus in Saxo- nia editus elt in lucem ex Schmuch , illi
prae- mortuus pater a matre fuit inftitutus . Vix ex Ephebis
egrelfus maximam librorum copiam, quam eidem pater relique- „ rat ,
legit, at «cognita magiftri indigentia, ad Thomasium omni in re literaria, io dici poffet de Francjfeo Buddaeo, de
Leibnitaio >(q) , Chriftiaoo Wolfio, deque aliis pene innumeris , de
quibus verbum nullum addam , ne propofita: brevitatis li- mites
praft^iantur. His omnibus accenlendi denique lune præclariflimi viri
Antonius Genuenfis (GENOVESI, si veda) neapolitanus noster præceptor maximo
vir ingenio, ac per quam longa meditatione, ac lectione contritus
aliaue. fortuna dignus, Aloysius Vernejus Lusitanus, Sorias Pisanus PISANO
(si veda), Salvator Rugerius (ROGERIO – si veda), atque Angelonus P. Cœlestinus
(CELESTINO – si veda) ambo Neapolitani. Quorum omnium opera amo, atque excolo,
primum ob rerum gravitatem , fecundum ob methodi claritatem, in tota
Germania infignem avolavit. Sub tanto præceptore historiam, &
Politices artem calluit, Peragravit deinde omnem Germaniam, atque ITALIAM
pro describenda Ducum Brunswifcorum hiftoria. Cum rediiffet Codicem Juris
Qentium diplomaticum edidit.. ejus vita legitur m Kortholt,
Eckard, » s tem , k SERMONIS
LATINI nitorem, Pifanum ob methodum, atque præcepta Logica, alium praeter res,
etiam OB LINGVA LATINA ELEGANTIAM postremum propter ejus methodum
darifliraam. VMnis humana perfe&io ab officiorum, & virtutum
adcurato exercitio unice pendet. Verum nulJum eft officiorum, ac virtutum
laudabile exercitium, nifi a natura: notitia, ejufque. auftore, qui
eam ad proprium dirigit finem: haec vero rerum Iatebrofarum cognitio. eft
laborum, ac speculationum profundiffimarum fru&us, quæ, rationem requirunt
omni ex pane illuftratam. Ratio autem est quaedam ip homine vis y
five facultas, qua 8c noeram, & aliorum corporum exiftentiam,
eorumque relationes cognofcimus ; qua fumus liberi; qua alia
feparamus, aliaque conjungimus; qua praeterea a quantitatibus cognitis ad
occultas incognitas pervenimus; ac idearum, $c judiciorum feries
neceflario vinculo conne£timus: & qua, SIGNORVM ope , noftra
intimiora animi sensa ALIIS COMMVNICAMVS, errores cognofcimus, veritates
detegimus: qua denique juftum abinjufto, bonum a malo, honeftum a turpi facile
decernimus, Haic vis, quaecumque illa fit, dum vivimus ex sensuum
applicatione oritur; experientiis, atque obfervationibus augetur, Audio
vero Logices perficitur. Ex quibus fane concluditur, Logicam elfe fummo
emolumento iis omnibus, qui vel fe ipfos , vel alios perficere curant ,
Cum igitur mihi propofitum fuerit ipfam juven- tuti enucleare , refla via
ac ratione proceflifle arbitror, fi primo de mentis humanae
operationum ortu , ac progrelfibus, tum DE SIGNIS, quibus eas aliis explicamus;
deinde de errorum, ac veritatum fontibus, atque augmentis pertractaverim. Haec
vero omnia quatuor leflionibus compleflar: quarum prima: duae do- centem,
dqae vero poftremae leflioqes Lo- gicam utentem., yt ajunt ,
cohflituent. Quibus ultimo loco accedet de Logicas redu&ione ad
Arithmeticam breviflima leflio, ut a Dhfiefttco fupputandi necefi
fitas agnofeatur. LE- DE ORIGINE OPERATIONUM
RATIONIS HUMANÆ, E1USQUE MAXIMIS PROGRESSIBUS. Illud quidem
maximum efl, »g/a animum videre. CICERONE (si veda) Tufc.t.
Quibus partibus confiet homo. 'X omnibus animantium
generibus nobis ufque ad- huc cognitis, unus homo vi fuz rationis
ceteris praftat , quia hujus fa- cultatis beneficio non modo
feipfum, fed infinita quoque obje&a exteriora cognofcit. Etenim
diutina corporum imprefiione in fuos fenfus, eorum exiftentiam primo
intelliglt, deinde mentis meditatione illorum adtributa, qualitates, 8 c
relationes comprehendit. Itemque natur* leges, rerum ordinem rimatur:
rerum praeterita- rum recordatur, eafque cum praefentibus
conjungens, futuras pr*fcit, ac veluti. intuetur. Quid multa? ad propriam
felicitatem contendit, proprise exiftenti* principium mundique
conditorem fk intelligit, & colit. Hanc maximam ac pene divinam
rationis vim mihi delineare nitenti , vifum eft, primo idearum
originem enucleare, tum quo paflo eajdem vel inter fe, vel cum
aliis pofltnt combinari. Sed priufquam ad h*c
perpendenda aggrediamur, de hominis partibus paucifiima dicamus. Principio infunt in homine par. tes, quas
videmus, dividimus, contremamus, dimetimur; quaque funt extenf*,
relilleffres, mutabiles. Verum haec, atqu$ ejufmodi alia corporis funt
adtributa . Homo itaque ex corpore conftat, Infuper quilibet homo quodam
vehementiflimo natur* impetu ad veritatis mfrxime utilis ftudium, ad
bonum com. parandum, ad malum declinandum ducitur. Rurfus ordinem,
pulchritudinem , perfeftionem amat; eidemque jullitia , honsr
flas, De mentis aftibus . 5 flas, libertafque placet . Praterea
flepe magno animi mrcrore angitur, eodem tempore quo elt omni ex
parte fanus. Contra quandoque ell hilaris, licet ejus
corpus maximis cruciatibus torqueatur. His omnibus accedunt tot
abftraftiones, atque alienatio- nes invita:, tot rerum peregrinarum
inventa, tot artes, tot difciplina. Qua: omnia ronnifi ab homine prorfus
hebete, ac veluti plumbeo, materia: folida, atque in ertiflima: tribui poflunt.
Quamobrem homo corpore, & fpiritu conflat. Quod (i quis
ulterius urgeret , ac diceret , hominem ex fola materia conflari;
quaererem ab eo : unde tanta cogi- tandi vis , tanta agendi libertas,
tantaque rerum etiam abditiflimarum fcientia? uflde tanta fciendi,
dominandique cupiditas? unde denique tanta fenlationum contrarietas,
a&ionum oppofitio, virium interiorum pugna, tot tantique confciefni»
laniatus. Ex quibus omnibus planiflime deduci arbitror: primo hominem ex
corpore, & fpiritu conflari: errafle eos, qui vel solo corpofe, vel
uno fpiritu ipsum conflare crediderunt: eos quoque fuiffe deceptos, qui
fpiritum ipfius Dei modificationera , vel particulam efle fcripferunt .
Qua autem ratione fpiritus io corpus , corpus vero in fpiritum agat , &
in- ter fe mutuo pene colloquantur, ac fe intelligant, omnino ignoratur,
ficuti etiam igno- ratur in qua corporis parte animus loca- tus
fit. Cordatiflimorum quippe virorum hac de re opinio eft pro capite. At amotis his tricis, quseraraus feria, atque ad
propofitum accedamus. XUifque Icit omnem
cerebri raaffam per concavum fpinas ufque ad ejus os facrum
protendi. Quifque etiam Icit ex hac mafla telam nervofam oriri, qua:
fenfuum texturam efficit. De quibus mox. Senfus igitur efl: quadam animi
vis , qua corporum externorum impreffiones fentimus. Verum latiore SIGNIFICATIONE
fenfus omnem vim mentis exprimit, qua objeciorum exteriorum ideas, sive simuhcra,
sive fpecies, sive idola De mentis aftibus. 7 concipimus, five
quicquid interius fentimus . Primi generis fune ideae omnium rerum, quas
vel videmus, vel tangimus, vel audimus. Secundi vero generis funt
omnium voluptatum, ac dolorum ideae. Ex quibus intelligitur, fenfus
vel esse interiores, vel exteriores. Exteriores funt quinque
notiflimi, quorbnl quatuor fedes habent peculiares, unus vero tactus efl in
toto corpore diffufus f imo & reliqui ad hunc folum reducuntur.
Interiores autem fenfus funt totidem alii , fcilicet memoria,
temperamentum, pajjiones, attentio , ac denique fenfus moralis* Senfus porro
tam interiores, quam exteriores in omnibus lio»- minibus diflinguuntur;
etenim omnes par- tes folida: , ac fluid* in quoque homine toto
cado inter fe funt diverbe, varieque complicatae. Quid multa? In eodem
homine temporis progreffu omnis flru&ura muratur. De fmgulis, 8c
primo loco de exterioribus. Vifus efl fenfuurti
eminentiflimus, nam vis vifiva ita requirebat, cum ipfa fit
orizontis extenfioni proportionalis, & propter hominis .indigentias
efl duplex. Oculi funt duo globuli, tribus
praecipuis tunicis fepti , quarum concavitates totidem A 4 humoribus
replentur , adeo denfis , ut lucem refrangere poflint. Hujus autem
refraftio ita a natura comparata eft, ut in oculorum fundo, five retina
objeftorum inverfas pingat imagines. Qu« porro a nervo optico excepta, ignoto
nobis modo, in cerebro, non folum imprimuntur fecundum reales corporum
magnitudines, figuras, fitus, colores, fed quoque diutiffime in ipfo
cerebro, quin deleantur, impreflse remanent. Cum autem in omni
animantium genere, maximeque in homine iapfu temporis hujus organi
figura, humoruni den- iitas , atque ipfa fibrarum textura mutetur,
inexplicabilis ideo eife debet videndi differentia. Qua:
omnia fi quis adcurate fupputaret, univerfam vis vifiva: quantitatem
habebit. Auditus eft alter senfus duplicatus, in
auribus fitus. Auricula exterior pro aeris undulationibus, ex corporis
fonori vibratione produ£tis excipiendis, infervit. Hic aer tamquam in
infundibulo tortuofo receptus tympanum ingreditur, atque ex hoc
tranfit in labyrinthum, cui nervi acuftici adharent, quorum ope
ufque ad cerebri fibras communicatur corporis De mentis actibus. £ fonori
fremitus, qui etiam ignota ratione in nobis ideam foni excitat. Qux
cum ita fint , patet quod pro defipiendo foni gradu , fupputanda
eft primo corporis fonori elafticitas: iftus quantitas: obje&i fonori
diftantia. æris reflftentia : denique ipfius or- gani a&ualis
ftatus. In naribus porro eft odoratus ; quae quibufdam nervulis
capillaribus velli untur, ab ipfo cerebro produ&is. Scitur vero ex
corporibus fetidis , atque odorir maximam effluviorum copiam
continuo exhalare, qua: aerem circumvolant. Scitur etiam , quod ejufmodi
particulae infenfiles narium nervulos olfa&orios vel- licant, ex
quibus excitatur in cerebro odoris, vel fetoris fenfatio. Hujus senfus
propterea vis habetur ex effluviorum numero, eorumque impetu , ex fucci nervei
fubtilitate, atque ex fibrarum cerebri elafticitate. Quam proximus
odoratui eft guJius, in lingua, ac palaro fitus. Lingua enim eft fuperius
te£la quadam membrana quaqua verfus iqnumeris foraminibus repleta, ex
quibus innumerabiles papilfe nerveas taftui rigidae fe produnt.
Particufe \x falinas, oleofas, fulphureas, aliaeqige quamplurima: in
cibis contentae iftos nervulos titillant, ex quibus rerum fapidarum, vel
infipidarum idea in tlobis excitatur. Gradus hujus fenfationis fupputatur:
i. ex particularum numero, & qualitate, 2. ex noftra naturali, &
momentanea difpolitione. Tandem taStus in omnes corporis, tam
interiores, quam exteriores partes eft diffufus. Medulla
enim oblongata inter colli vertebras , & fpinas lateraliter
nonnulla nervorum paria protendit, qui v in omnem corporis fuperficiem
propagan- tur, atque ita mirabiliter inter fefe ordiuntur, ut portentofam
membranas reticularis telam efficiant. Hinc
evenit, quod quaslibet impreffio,quas in hac fit,ftatim cerebro
communicatur, atque imprimatur idea corporis exterioris. Ad hunc
fenfum referuntur omnes fenfationes frigoris, caloris, gravitatis,
afperitatis, &c. Vis hujus fenfus habetur ex, vi premente, atque
ex noftra aquali, & naturali difpofitione. Hujufmodi
eft fabrica fenfuum exteriorum, quos vulgus multiplicatos vellet, atque
etiam perferiores. At fi sensus eflent etiam centum,
attamen humanat mentis operationes eflent ilis ipfe, quas modo
habemus, nam fenfuum multiplicitate non augerentur, verum fola idearum
sphoera evaderet major. Quantum vero ad horum imperfe&ionem,
eft quoque inepta quere- la , nam fx fenfus eflent perferiores ,
illa ipfa ratione, qua voluptatum numerus fieret major, eadem
quoque dolorum copia fieret numerofior « Nefcimus igitur quid
petamus. TpXpofita hominis parte exteriore , perpendendum nunc eft
ejus interius mirabile magifterium, quod fummopere in cognitiones ,
atque in aftus humanos influit. Senfus interiores funt memoria, temperamentum,
paffiones, attentio, ac fenfus moralis. De quibus quambreviter ad Tyronum
captum verba faciam. Univerfa cerebri maflfa duas in partes
difpefcirur, quarum altera cerebrum, alterum cerebellum nuncupatur. Haec
fubftantia mollis infinitis peno cellulis , five flexionibus repletur, in
quibus, modo nobis incognito, non folum imprimuntur, fed quoq. retinentur
objectorum exteriorum imprefliones, cum eo- rundem relationibus, etiam
abftra&is, & perquam longo ordine implicatis. Mihi
fufficiet duntaxat velle , & itatim in hac fubftantia imagines canis,
bovis, equi, domus, navis, exercitus &c. diftinCte intueor. Itemq.
hujufmodi ideae tanta vi imprimuntur, ut iis licet femel vilis, recorder
tamen cujufq. magnitudinem , co- lorem , litum , dimenliones , &
cetera. His accedit , quod in hac mirabili cerebri fabrica, manent non
folum obje&orum ideae hefterna die mihi obverfatae, fed etiam illae,
quae olim meam pueritiam profperam, hilaremque reddide- runt.
Itemq. in ea pilae celeritatem, teftudinis tarditatem, ignis vim , vulpis
vafritiem , Sinenfium vanitatem, a1 iaque infinita quafi lego. Quid multa. In
hac una tanquam in libro diftinCtiflimis characteribus obfignato tot
philofophicarum meditationum feriem, tot fyftematurn abfurditates, tot
imperiorum yiciflitudines, uno verbo univerfos humanae rationis
progreflus , & natura ipfius revolutiones pene intueor. Haic
vis , quaecumq. illa fit , memoria nominatur: I- pfaq. crefcit,
decrefcitq. in eodem homine; fere femper in fene£lute debilitatur, &
nimia morborum vi etiam prorfus ammittitur, ut ex hiftoria. Temperamentum eft folidorum , ac fluidorum
conftitutio, quae fere in An- gulis hominibus differt. Ex
hoc facile enodatur, cur ex hominibus alii funt obtufi , torpidi, ac
lenti ; alii contra a&uofi, violenti, iracundi. Itemq. dantur ho-
mines fere femper hilares , feftivi, & laetantes ; alii contra
taciturni, maerentes, triftefque. Denique funt 8c qui facillime
omnia, ac clare intelligunt. Sunt alii, qui pauciflima, & obfcure
concipiunt. Unde haec tanta varietas, nifi ex varia folidorum,
& fluidorum permixtione. In quamplurimis porro fibra funt debiles; in
aliis vero refiftentes. I- temque dantur fibra magis, vel minus
elafticac, magis vel minus molles, ac caedentes , atque ex vafis alia funt
latiora , alia mediocria, aliaque anguftiora. Quibus pofitis, fequi
neceflario deber, fluida non poffe in omnibus a*que circulare. Ex quo intelligltur
dari cfiverfa temperamentorum genera. Datur ideo cbolericum sanguineum ,
melancholicum, O phlegmaticum in hominibus temperamentum. Et
quoniam in fanguineis fluida aequabiliter cwrunt, ideo funt hilares,
aperti, fecuri, eloquentes, benefici, urbani, intrepidi. At quia in cholericis
fluida funt fubtiliora, & vafa apertiora, idcirco cholerici
funt celeres, impetuofi, iracundi , ambitiofi, atque ad vindi&am pro-
penfi. Temperamentum melaocolicum eft fanguineo inferius. Etenim
melancoli- ci funt lenti, taciturni, acri ingenio, acrique judicio. At
omnium lentiflimi funt phlegmatici , ob eorundem fluidorum
fpiffitudinem, & vaforum anguftias. Hinc fit, quod phlegmatici funt
vultu triftes , tardi, timidi, diffidentes, avari, obtufi, denique
in virtutibus, $c vitiis mediocres. Quicunque igitur omnem terrae
fuperficiem mente perluftraverit, generarim inveniet, primo climata
frigida homines modificare ad temperamentum phlegmaticum, calida vero ad
cholericum : deinde inveniet in quam proxime frigidis homines effe
melancholicos; in quam proxime calidis efle fanguineos. Verum hac in
genere. Nam indifcriminattm ubique locorum omnia temperamenta dominamur.
Quin imo in ipfo homine, eademque familia notantur diverfa hominum temperamenta.
Quae cum ita fint, fenfationes non poliunt elfe easdem in omnibus
hominibus , & ne in ipfo quidem homine, Pajfiones, five affe&us, iive
perturbationes, five quodvis aliud vocabulum adhibeas, funt quadam animi
commotiones ab objeflis exterioribus excitata. Ha* rum omnium fedes eft
in corde , quo4 nervorum ope cerebro adhaeret, Partiones licet
multas, ac vari®, omnes tamen totidem amoris fui ipfius funt modificatio-
nes ac veluti reafliones, quarum unaqua- que in noftras ideas, & judicia
maxime influit. Verum partionum vis , atque energia a tyronibus facilius
fentitur, quam iifdem explicari poflit. Quartus fenfus interior eft
atten- tio, qua nihil aliud eft , quam quadam infita mentis
occupatio in objeSo nobis cognito. Ex quo ftatim intelligitur, quod
attentio fit quadam vis obje£H impreffione anterior, nobis a Deo data, ut
minutim rerum qualitates explorare valeamus. Hinc etiam intelligitur,
attentionem, efle quandam mentis energiam, qua; vel in toto objefto,
vel in aliqua ejus parte occupatur, ut illius ideam adsquatam habeat.
Attentionis vis eft in ratione com- pofita tum indigentiae prsfentis, tum
temperamenti, atque educationis : Itemque attentio varia eft pro finium
diverfirate Denique fcnfus moralis eft quaedam anterior animi difpofitio, qua,
fine ullo magiftro turpia ab honeftis, bona a malis, folo natur®
impetu, diftinguimus. Eadem igitur ratione , qua quis dulcia
potius, quam amara guftat , ita honefta & bona potius confequi, quam
turpia, 8 c mala amat. Hsc animi humani vis eft phyfica , ac veluti
mechanica, ipfoque Rationis prscclaro lumine multo anterior , &
vividior, atque ex fe ipfa explicatur in quolibet homine. Hinc pene
infinita hominum multitudo beneficentiam, & juftitiam amat, earumque
oppo- fita deteftatur, etiamfi ignoret in natura inefle quandam
vivendi normam omnibus communem, conflantem, sternam; quam quifque
fine magiftro fcit, fine interprete intelligit, fine coailione fequitur :
quaque denique omnes pueri, adulti, urbani, fyi- , veftrefque
homines, ut oculis, ut auribus, ut guftu libere utuntur. Ex hoc
fenfu oritur in quovis 'homine illa probitas, qua: ingenita dicitur ,
quasque lenti tur ab omni humana coniideratione, a qualibet rationum
fubtilirate, a praemiis, atque a poenis iplis femota, ac diftintia. Ex
di&is clarilTime intelligittir, animum percipere bonum, & malum
cum eorumdem gradibus non dillimili ratic- ne , quam qua colores
intuetur, harmoniam concipit , odores lentit , pulchritudinem diligit, &
abnormia deteftaiur. Ex ditiis quoque colligitur , hunc fenfum effe
univerlalem, reliquofque completii , nam ex unoquoque fe inflruit,ut de
objettorum exteriorum bonitate , ac pravitate dijudicare poflit . Haec de
lenfibus tam exterioribus , quam interioribus, qui veluti totidem fenfationum
animi fulcra , ac fundamenta habendi fuut . Qua: omnia , nifi quis
diltin&c comprehenderit, nullo pa£lo intelligcre poterit , quid ex tot
tantilque obje&orum imprelfionibus animo ipfi contingat, ut ex
fequentibus clarum erit. De Animi Scnfattonibus, OI ne objeftis
exterioribus nullap eflent in homine fenfationes, & fine his
nulla in eo eflfet fcientia, vel ars. ScnJ 'ationis nomine hic venit illa
interior animi commotio , qui ex corpo- rum prifentia, five preflione in
nobis ex- citatur . Cum autem fenfationes fenfuum numerum, Sc
difpofitionem fequantur, fecundum eorumdem ordinem explicabuntur. Si quis
autem quacfiverit, Utrum idei , Sc fenfationes fint ejedem, vel diverlse
: Num fenfationes, quas animus ab objeftis excipit fibi ipfi , vel
objectis fint confom : Ex quo oritur tanta impreflionum vis, atque
impetus: Quare inter fe non confundantur tot fenfationes , &
fibrarum fremitus, qui animum concutiunt: Tandem quo pa£Io easdem nofiro
arbitratu comparemus, cum ipfi non fint , nifi totidem cerebri commotiones
, & rea&iones ab ipso animo difitinfl® : ex quibus omnibus,
aliifque tandem is concludit.• fenlationum De mentis anibus. i»
ertum , earumque progrefTum , & varietatem inexplicabiles nodos
continere Principio fenfationes vifu defini-' tx non verfantur ,
nifi in corporum figuris, coloribus, magnitudinibus, diftantiis, &
motu determinando. Preliis enim o- cuhs ex luce a corporibus reflexa,
fenfa- tio fecundum vim prementenj , atque ocuh flruauram modificatur. Ex
his 'pref. 1 lombus in nobis attentio excitatur, qu primum de
noftri exiftentia, deinde de objecto exteriori nos inftruir. Tum an
prefliones lint nobis confentanea, necne ex quibus denique fenfationes
grata vel molefla eruuntur , atque ex his volupta- tes , vel
dolores producuntur: qua postrema non folum animi, fed etiam omnium e ju felem
deliberationum fulcra ac vires motrices habenda funt. Secundo animus
ex una in aliam fenfationem tranfir, id elt ex voluptate m dolorem,
atque ex hoc in illam ex quo tranfitu, 8c cenationis; & Jurationis
lenfationes adquirit. Cellatio itaque efl ' dolorum ,. vel voluptatum
fufpenfio; du- ratio autem ell horum continuata fuccef- Ex ejufmodi
fenfationum vel fufpenfione, vel alterna fucceflione oriuntur in nobis
defdcris , & detcflationes . Quia ubi voluptas, vel dolor , ibi
attentio . Itemque ubi fenfatio nobis confona ; ibi voluptas ; ubi fenfatio
nobis diffona , ibi dolor . Amamus autem voluptates, dolores odimus. Ex
primis igitur oriri debent desideria erga voluptatum objeela; atque ex
fecundis deteflationes erga dolorum caulas . Quapropter defideria , atque
abomi- nationes ex fenfationibus ipfis pratentibus cum praeteritis
germinant. Senfationum itaque memoria noftrum fpiritum, tum
ipfiufque progreffus excitat. Sed ex quo fenfationum memoria. Quum ab
aliquo objefto procul abfumus, ipfum neque flati m, neque totum ex
animo deletur , nam pro ut at- tentio fuerit major , vel minor ,
diutius in animo ejus imprefiio remanet. Memoria igitur ex attentione ,
Sed ex quo attentio ? Ex di£lis , nulla memoria fine
attentione. Nulla autem attentio fine indigentiis, vsl noflris,vel alioruui.
Item- t|ue quilibet homo jugiter eget, alias non confervatur. Ergo
quilibet indiget, ut ,fc tueatur , necdfaria fibi comparet , no- De
trientis risibus. ' ' citura declinet: verum neutrum fine atternione
obtinetur, necefiitate itaque ha* mo eil attentus , adfcoque fublata
attentione, nulla hominis dari poteft tuitio; & eontraquc remotis
omnibus indigentiis j nulla in eo attentio. Denique memoria differt
ab ifriaginatione, I.-Quia memoria efl: imbecil* la , vivida imaginatio. Prima locum habet arque in rebus abftraftis,
& materialibus, altera vero in folis corporeis . 3. Vis memoris ideas
ordinate unit, i magi natrix autem eafdern unit difpares, confundit
& difiociat fimilares.4. Tandem memoria ex a&uum
repetitione & fit, & corroboratur; imaginatio ex fola natura
oritur. Ex huc ufque expolitis, fequitur r. Animum humanum variis
habitibus posse imbui, ut (impliciter fentiendi , & fen* tiendi tam
voluptates quam dolores, de* fiderandi , abominandi , reminifeendi ,
ima* ginandi. Sequitur 2. Mentem ab uno
fenfii tot habitibus imbui , quot ex quinque imbuitur . Qui non
alia de caula nobis multiplicati funt, quam pro fenfationuni
multitudine augenda. Sequitur Univerfos mentis habitus effe totidem
attentionis ac defideriorum gradus diverfos.At fenlationes, ac defideria
ipfa non funt, nifi totidem merse fenfationes, videtur itaque quod quot
quot funt mentis a£lus , omnes ad lolas fenfationes revocari
poflint. Sequitur denique 4. pro omni mentis humana: energia
enucleanda fuffi- cere unum fehfum , minime vero depravatum , ut clarius
ex fequentibus fiet. Auditus fonos percipit , quin ad majorem, vel
minorem obje&i fonori diitantiam advertat . Initio quilibet amat
fonos fimplices , poftea etiam maxime compofitos . Identidem de odoratu dici poflet . Guftu
eafdem facultates , ac vi- res adquirimus, quas vifu, auditu, atque
odoratu comparamus. In faporum multi- plicitate vix unus & confufe
fentitur. Hic fenfus eft cseteris charior , nam pro vita fufti
nenda unice neceflarius . Tametfi homo videat, audiat ,
contre&et, itcmque odores ,& fapores fen- tiat, verumtamen harum
omnium ortum ignorat. Deinde etiamli ta&us ex reliquis fenfibus
minimam habeat vim, homo ta- men omnis omnino ta£lus fenfationis
expers, De menti s aElibus . 25 pers, non poflet
vivere. Ita fere fenfuum corporis EXPLANATA analyfi , fenlationumque
natura , ac varietate expofita , ordo poftulat , ut de prajcipuis
mentis humanne a&ibus aliqua dicamus. Dtf mentis aftibm in genere .. T)Rinium
Perceptio , five a/mt, X ell primus mentis a£Ius , quo fenfuum ope
corporum externorum exiftentiam,five impreffiones fentimus: Hinc
fenfatio, idea , quomodo in neceffitatibus invocarunt, quaque
ratione iratum pla- cabant. Itemquc notau funt tormentorum De mentis
attibus, 4 j genera , atque execrabiles formula:, qui- bus
impii excruciabantur . Contra qux vitx honeftas , qux morum innocentia
, qux jullitia , qux pietas pro futura feli- citate confequenda
requirebantur. ScimuS denique ex ipfis tot populorum prxjudi- eia,
fuperftitiones, deliramenta , abfurdi- tates, foeditates, aliaque
innumera puerilia , qux Dei cultum vel foedarunt , vel
deflruxcrunt. Secundo quantum ad naturx hisloriam , eidem debentur
aflrorum notitix ; fcilicet quid fint aflra, quo ordine difpofita, quibus
in orbitis, & quomodo moveantur, quibus viribus xquilibrantur,
quibus ratis temporibus proprios cuffus conficiant . Eidem debetur metheororum
hifloria , maris, St terrx, animalium j plan- tarum , & foffilium cognition.
Eidem denique totius naturx revolutionum periodicarum defcriptio debetur.
Tertio humana hiftoria quid eft, nifx ipfius memorix produ£tio. In
hac enim videtur qualis fuit primitivus humani generis flatus , qux
focietatuia civilium origo , imperiorum omnium viciffitudines, tyrannorum
feritas , heroum gloria, ambitioforum vafrities, qui navigatio, quale
commercium, terne productiones, hominum induftria, leges , ufus, con fuet
udi nes , bella, foedera, magiflratus, militia i ve&igalia, fcientia;
litterati, morbi, exercitia gymnaftica populorum tranfmigrationes, linguaz,
urbium, provinciarumque devaftationes , fpirituum vis, juventutis inftitutio,
ludi, feftivitates , feri» , aliaque Ad Rationem referuntur etiam
Deus, natufa, & homo. Quantum ad Deum Philofophia, qu» eft tam
excelfa, ut hominem pene divinum reddat, Rationis eft filia. H»C licet
infinite ex- tenfa , attamen tria funt ejufdem pracipua obje£ta , nempe
Deus, natura , & homo. Profe&o naturalis Rationis progref- fio
eft incipere ab individuis ad fpecies ab his ad genera \ atque a
generibus ad univerfalia * Hax mentis vis metaphyfi- cam produxit^
quam tanta cum utilitate quotidie adplicamus ad Deum, ad naturam , ad
hominem Quae fcientia minime feparari poteft a mathematicis, qua; in
puras, Se in mixtas dif- pefcuntur. Arithmetica,
Geometria, Al- gebra , ad primas; ad alteras vero Mechanica , Dinamica,
Hidraulica , Balliftica , Cofmographia , Geographia , Chrono- logia ,
Gnomonica, Optica, Dioptrica,
Catoptrica, coniiciendique ars referuntur. Similiter ad natura fcientias
fpeftant etiam Notomia phyfiologia, Medicina, Botanica, Venatio,
Agricolrura, paftora- lis , metallurgica , Chymica , magia naturalis,
aliaque hujufmodi pvero ipfx hominum indigentis. En quo pafto LINGVA mentis
vires, contraque mens vocum multitudinem, proprietatem, atque energiam
invenit, & auxit. Ex diflis fane colligitur duplicem clari in homine
fe exprimendi modum. Alter nempe eft naturalis, qui in corporis motibus;
alter vero artificialis, qui m lingux modificatione sive in vocis modulatione
confiftit. Ex di&is quoque colligitur vocum ortum, cuidam lingux
conatui, augmentum indigentiis , denique perieftionem fpiritus culturae,
afliduifque vitae uftbus deberi. Verum
ita femel enodata LINGVA, IDEÆ APVD HOMINES fic redditae funt COMMVNES,
ac familiares, ut nihil fupra. Deinceps cognira etiam
fuit neceflitas loquendi hominibus loci, vel temporis ra* tione remotis. Quapropter varias imagi- nes excogitarunt ,
quibus mentis a£lus EXPLICATI sunt. Hinc pro defignandis homine,
equo, leone, bove, eorum figuras defignarunt. En quo pafto a&ioni LINGVÆ
NATVRALI, accelferunt primo foni articulati pro præsentibus, et scriptura
pro abfentibus. Quæ scriptura initio fuit tota SYMBOLICA,
ut tres frumenti fpica: tres annos notabant. Ex SYMBOLICA evafit
Hieroglyphica, quam etiamnum frequentiflime adhibemus in nummis , in
pi&uris , in fculpturis . Sed ad exprimendos noftri animi
impetus poftremo maximum in modum influxerunt quoque pene infinita
belli, pacifque inftrumenta. Atque hinc facile eruitur 1. voces nihil
aliud efle, quam quadam figna abitraria, quæ prater fonum , in
nobis -quoque excitant CONCEPTVM MENTIS, ut horno j praeter fonum
huic voci proprium, * D 2 ex 'Ac Progrejffu SIGNORVM .' 6
r gnum, & parvum ; re&um & curvum , grave 8 c
leve . Sic Gallia eft magna cum Regno Neapolis comparata, at eft
per- quam parva Sinenfium Imperio relata . Hinc intelligitur, quod
licet omnes rela- tiones fint ideales, vcrumtamen Diale&i- ci
eas diftinguunt in ideales , atque reales. Ideales funt, qua: intercedunt
inter ideas abftradas, ut inter Tacqueti , & Cavalle- rii
Geometrias . Reales funt, qua: reperiuntur inter pondus auri, &
argenti. In hunc cenfum referri quoque poflunt pene innumeras
voces, qua; fub- ftantias videntur notare, fed vere relationes exprimunt,
quia ipfae non explicant, nifi qualitates, ut pulcritudo, deformitas,
do&rina, ftupiditas, vitiofitas, fon&itas, juftitia. Itemque hujufmodi
nomina videntur effe abfoluta,& funt relativa. Etenim unus homo refpe&u
alterius defor- mis videtur , pulcher, & cetera , Id ip- fum
dici polfet de adverbiis dofle , erudi- te, diligenter &c.
Ultimo loco dantur termini, sive voces simplices, (y compostt a ; C lar ce
, 8c obscura ; dijlintta, & confufce, compleice , fk incompleta
j adaequata, (D 1 inadaquata. Primi generis fuqc linea; & superfides.
Dc Ortu , ficies Protomartyr , & archimandrita Secundi generis , funt corpus, &
anima. Tertii generis funt Petrus, & homo. Ultimi vero generis funt
circulus, & vis. His omnibus accenfenda: etiam funt voces fmgulares,
ut Annibal; generales , ut planta ; univerfales , ut res ; determinata
, ut equus a , canis b ; indeterminata, ut equus, & leo. Si
quae fint alia; voces, quas praetereo , etiam facili negotio reduci
poffunt ad has jam expofitas. Haec de elementorum orationis do&rina',
five de vocibus tam in genere, quam in fpe- cie ; verum quo pa 6 to
eaedem vel inter fe, vel cum aliis poflint combinari, dicam brevius, quam
res tanta pofcat , adeoque, De ftmplici vocum combinatione 3
ftve de propofttione, r Alibi diftum e/1 judicium
duas ideas , vel fenfationes requirere; unam rei, quacum
conjungitur, vel feparatur •aliqua qualitas; alteram vero illius,
quae eidem tribuitur, vel removetur . Ex g. . i 1 v Sol eft
ingentiflima ignis moles . Luna i • eft corpus opacum . In prima
propofitione : ignis a6lio foii, 8c in altera terra; opacitas Lunae
tribuitur. Contraque fi judicium ex qualitatum remotione a rebus, quibus
non conveniunt .Sic i ITALI ho- dt emi non habent prijlinam virtutem.
Et: homo in maximis divitiis innutritus raro eji mi/cricors. In
quibus fane propofitio- i nibus ab Italis pratentibus majorum gloria,
atque ab opulentis mifericordia feparatur. Ex quibus liquet, quod
cum fit judicium oratio verbis exprefla, ea conflare debet ex duobus
terminis, quorujn alter rem, de qua agitur, exprimat, alter quod eidem
tribuitur, vel removetur. Sic agrorum cultura cfi utilis. Ha:c propolitio
duos habet terminos: alter eft agrorum cultura; alter utilis ,
quorum primus dicitur antecedens five fubjeclum; fecundus vero
vocatur confequens five adtributum five praedicatum . Cum vero
voces ex earum inventione non inferviant, nifi pro objcftis denominandis,
hinc fequitur, quod fi quis adfirmare, vel negare aliquid velit, oportet,
ut verbum aliquod adhibeat, cum quo At fi dicam :
Brutus Roma pugnavit, ut fervaret reliquias morientis libertatis. Incidens
eft in prædicato , Itemque datur etiam propofitio hypothetica, cum nempe
fubje&o praedicatum convenit fub aliqua conditione, ut: Refp. tunc
erit florida, cum juventus fuerit optime inftituta. Ha?c de propofitionis
materia, fequitur nunc ejus forma. Propofitionis forma in terminorum
unione, vel in eorumdem feparatione confiftit, ex quo oritur
propofitionum adfirmatio vel negatio. Sic: virtute quamprotcime homines
accedunt ad Deum. Contraque: vitium non eft utile Harum altera dicitur ajens,
altera vero negans. Quo in loco notandum eft quod in propofitionibus
affirmativis ter- minorum unio fequi debeat fubjetti, non vero
praedicati extenfionem. Ex. g. Omnis leo eft animal . Non
intelligitur , quod omnis leo fit omne animantium genus . At in
propofitionibus negantibus praedica- tum omnino excluditur. Ex.
g. Nulla planta est anima f sequivalet huic: nulla planta eft nulla
animalium fpecies. Hæc de forma propofitionum perquam fatis Reftat,
ut poftremo loco de propofitionis quantitate aliqua dicamus, quae
nihil aliud eft y quam major , aut minor terminorum vis , quae in
propofitionibus continetur. Cum autem termini yo De Ortu, mini
maximam, vel minimam SIGNIFICATIONIS extenfionem habere poftint, hinc
fequitur , dari debere duas propofitiones inter fe maxime diftantes,
quarum altera dicatur univerfalis , altera vero fingularis. Ut: univerfi
homines ratiocinantur t eft primi generis: Petrus ratiocinatur, efl
fecundi generis. Itemque amba; effe pof- funt vel' adfirmativa, vel
negativa . Nota propolitionum univerfalium eft vel omnis, vel nullus .
Singularium vero propofitionum nota eft , hic , ille , & cetera. Inter
has duas propofitiones maxime extremas dantur & alias interme- dias,
qua: particulares atque indeterminata; vocantur. Ut: aliquis homo ejl
dottus. I* temque: aliqua figura omnes angulos ha- bet duobus redis
aquale Notandum hoc in loco eft quod poflit dari propofitio qua;
videatur fingularis,verumtamen eft univerfalis. Et con tra. Hi nefit, quod; ut propofitio fit
univerfalis, requiritur . Ut plures rerum fpecies fub fe comprehendat . Ex.
g. Omne triangulum ; Omnes planta , omnes lapides . 2. Requiritur
ut praedicatum ab- folure, vel faltem hypbthetice alicui fpeciei Ac
Progrejf 4 SIGNORVM ciei conveniat. Ex. g. homo honestus ejl Reip.
utilis. Requiritur, ut generis praedicatum etiam omnibus individuis
conveniat. Ex. g. aurum in fluido demerfum in eius fundum incidit . Idem
eft ac (t dicerem; Omne /olidum gravitate fpeciflca majus aqua in fundum
decidit. Omnes propofitiones univerfales in metapbyflcas , &
morales dividuntur. Primae funt , in quibus neque genus aliquod , neque
individuum excipitur. Ex. gr. omnis homo ex corpore, (D* fpiritu conflat
. Haec propofitio adpellatur quoque abfoluta, utpote fubftantiae
elfentialibus innixa . In quibus vero aliquod genus, vel fpecies,
vel individuum excipitur, denominantur morales, ut.* omnes Galli a
temperamento /anguineo , (y omnes Hifpa. ni a cbolerico dominantur. Nam
falfum eft, quod omnes Galli, vel omnes Hifpani, nullo excepto,
fint fanguinei, et cholerici. Denique quotquot funt univerfa- les
propofitiones, omnes funt vel adflr- mativa , vel negativa , quas
brevitatis gratia fcholaftici hifGe quatuor alphabeti Uteris indigitant
, quaeque funt . A, E , 1 , 0 . Prima; duae affirmativas , duae autem
poftremae negativas defignant . Infu- E 4 , P« De Ortu
,' per A denotat univerfalem affirmativam, E negativam. Ex
poftremis I affirmativam particularem , O negativam quoque particularem.
Denique E continetur in A , & O in E-, dummodo propofitiones
fmt ejufdem generis. Sic: Omnia animantium genera fentiunt . Oves
vero funt animantes.’ Ergo fentiunt. Et fic : quicquid non componitur ,
nequit in partes clivuli. Spiritus non componitur. Non ejl itaque diviftbilis. De
quibufditm vulgaribus propofitionum adfetlionibus. Hic affe£lionum
nomine veniunt quxdam propofitionum qualitates, qua; funt :
oppofttio, a qui poli enti a , & converfto. Primo oppofitio duarum
propofitionum comparationem denotat, qua; licet iifdem terminis conflent,
attamen ipfae variare pofTunt v$l in fola forma, vel in fola
quantitate, vel in utraque. Si pugnent in fola forma, retenta
quantita- te , tunc vel funt amba; univerfales , vel ambae
particulares , Si primum, dicuntur
Ac Prdgrcjfu SIGNORVM iur contraria , ut .* OMNIS ITALVS EST
SAGAX. NVLLVS ITALVS EST SAGAX. Sin alias, dicun-, tur fubcontraria : ut
.* aliquis l iteratus ejl boneflus\ aliquis liter atus non ejl bonejlus
f Si vero pugnent in quantitate, retenta forma, tunc vocantur
fubaltema , quae efle poffunt , vel ambae affirmantes, vel negantes
Primi generis eft haec; omnis homo laboriofus ejl etiam bonejlus:
aliquis laboriofus ejl bonejlus Secundi
generis eft haec altera: nulla fuperjlitio ejl utilis : aliqua fuperjlitio
ejl utilis. Poftremo duae propofitiones poffunt inter fe aeque
pugnare tum in quantitate , tum in forma , quo cafu dicuntur contradi Horia;
ut: omnis tyrannus ejl generi humano detrimento: aliquis ty- rannus
non ejl generi humano detrimento. Quantum ad aequipollentiam,dico
quod tunc du$ propofitiones fint ejufdem valoris , vel aequepollent, cum
altera alteri fubftituti poteft , quin earum vis , vel. valor mutetur; ut
: quicquid ejl vere jujlum ejl utile. Et contra: quod sjl vere utile ,
ejl jujlum. Quo 1 eft de unica aequi pollentia fimplici. Ex quo
fequitur primo, quod tunc detur aequipollintia inter duas propofitiones ,
cum definitio reciprocari poteft cum definito. Ex. g. machina, qux horas
diei defxgnat, horologium adpcllatur . Et con* tra : horologium ejl
machina, qua horas diei deftgnat. Secundo fit, ut quod fubje&o
convenit, praidicato quoque conveniat . Sic omnis Japiens legislator
Reipu- hlica tranquillitatem promovet. Et vice- verfa * omnis Reip
. proj perit as a fapientijfimo legislatore provenit . Ex quo etiam fit ,
quod omnis propofitionum converfio fit etiam sequipollentia >
proindeque de ea. nullum verbum. Cum definitiones , ac
divifiones non fint, nili totidem judicia, hinc intelligitur eafdem locum
habere in propofitionibus . Definitio itaque eft propofitio, qua
quorumdam terminorum ope aliqua idea completa , vel determinata
exprimitur. Ex. g. Homo eft animal ratione pra$ ditum, civile, atque ad
propriam felicitatem propenfum. Itemque definitiones ad- hibemus pro
rerum notis diftinguendis, ut eas ab aliis facile fecernamus. Sic:
homo efl animat rationale, civile , ad bea - titudinem f alium. Hlfce
notis diftingui- tur adeo a ceteris animantibus, ut aliter ab
iifdem diftingui non pollet .Ac Progrcjfu SIGNORVM Ex his fequitur. Debere
ingredi in definitionibus folas notas intrinfecas. Sequitur pofle quoque
ingredi poflibiles , 8 c impoflibiles, dummodo impoflibi- litas non fit
abfoluta , ut : homo eft ani- mal ratiocinans, politicum, ad
felicitatem fatlum, vaiiifque habitibus moralibus imbutum. Ex his
fequitur. Pro omni rerum ambiguitate removenda neceffe eft , ut termini fint perquam
clari. Quod tunc definitio dicitur generis, aut fpeciei , cum utriufque
effentialia dinumerantur. Quod illa fit definitio particularis, quae eft rei
adeommodata. Verum cum pmer rerum eflentialia etiam nomina definire
poflimus, propterea dantur quoque definitiones nominales. Hinc univerfae
definitiones in reales, 8 c nominales diftinguuntur . Primi generis
funt definitiones circuli, quadrati, trianguli. Secundi generis funt
definitio- nes infiniti, trilaterae , quatrilateræ figuræ. In quo notent
juvenes, quod licet Diale&ici definitiones reales adpellent illas,
quae ex genere, & differentia confiant, verumtamen ipfae quoque funt
»0- minalcs . Nam etiam definitionibus realibus nihil aliud
intelligitur, quam illud ipfum , quod illo vocabulo Philofophi
comprehendunt. Sic : homo ejl animal rationis compos,
humana figura praditum, quid eft aliud , quam hujus nominis de*
finitio? Cur ita ? Quia nemo unus adhuc fcivit rerum effentias, aut Tuet
unquam. Denique divifio eft totius refohitio in fuas partes componentes.
Quæ dicitur phyfica in quantitatibus extenfis r & compofitis :
idealis in 'abftra&is . Ad phyficam refertur
humani corporis divifio in partes solidas, & fluidas. Ad alteram vero
figurarum planarum partitio in trilateras, quatrilateras , &
multilateras. Divifionis utilitas eft maxima in rebus maxime
complicatis ac longis, quae uno veluti mentis intuitu videri, aut
comprehendi minime poliunt. Præterea iftis propofitionibus accedunt quadam
alia, quæ apud Geometras palfim inveniuntur, fcilicet propofitio T beor
cHica & praftica, demonflrabilis in demonflrabilis. Itemque axioma,
pofiulatum, problema, theorema, fcholium, corollarium lemma, & si quae fint
alia, quae utpote omnibus notæ, de iifdem locati non arbitror. Ac
Progrejfu SIGNORVM De Compofita Terminorum combinatione J five de syllogifmo,
m Cum ratiocinatio fit convenientis, vel difconvenientis ratio,
quam duas idea: habent cum tertia; intelligifur inde, quod ficuri
ideae cum terminis , & judicia cum propofitionibus explicantur , fic
fyllogifmo ratiocinatio enunciatur. Ex quo intelligitur , quod
fyllogifmus fit oratio, qua mentis vis aliis communica- tur : atque etiam
intelligitur , quod omnis fyllogifmus ex tribus propofitionibus conflare
debeat. Verum ejufmodi proportiones inter fe ita funt colliganda, ut non
modo terminum medium habeant communem , fed requiritur etiam, ut termini
extremi inter fe uniantur. Ex. g. Omne grave tendit deorfum. Lapis
autem eji gravis. Cadit ergo. In quo fyllogifmo tres termini vel
propofitiones funtropofitiones, Termini funt gravis, apis, deorfum,
Propofitiones vero funt Omne grave tendit deorfum. Lapis ejl
gravis, Ergo tendit deorfum. Quarum duae prima: dicuntur pramijfa, poflrema
vero vocatur conci ufio nuenfis, aliique complures late fufeque de tot
tantifque variis fyllogifmorum figuris difputaverint, attamen eaj mihi femper
vira: funt mera» fubtilitates fcholaftica:, omnino inutiles, hoc confilio
potius ea pmerire volui, quam juventutem in nugis detinere. Ac
ProgreJJu SIGNORVM. De quibufdam vulgaribus argumentandi i modis. Primo
pra fua maxima claritate poteft in fyllogifmo omitti major propofitio, qui
argumentandi 'modus 'dicitur eutbimeema . Ex. g. Hic homo cbolerico
temperamento dominatur . Ergo e fi cru ielis y ubi ioielligitur hax major
propofitio: £foirumque temperamento cbolerico domina « t. r
efl crudelis. Hic autem bomo temperamtnto cbolerico dominatur . Ergo efl
crudelis , Secundo cuique propofitioni ad- di poteft ratio, qua
praedicaturi convenit fubje&o, idque fieri poteft in utrifque
propofitionibus. Hic modus apud orato- res frequentiffimus, apud
Diale&icos perquam rarus, dicitur; Epicberema . Sic: in corpore
civili quifque debet alium dilidere y aliter nequit in eodari harmonia
po- litica. Petrus y autem , Francifcus , aliique funt in corpore
civili. Ergo fe mutuo diligere debent. Tertio ficuti. ex tribus
fyllogif- mi propofitionibus, ‘una tac.eri poteft ob F 2
maximam ejus evidentiam, ita aliquando ad manifeltandum perquam longum,
atque IMPLICATVM ratiocinium tres propoiitiones nou fufficient, fed oportet
alias addere, vel faltim alium fyllogifmum, vel qnthimema. In primo
cafu argumentum dicitur /ornes , in altero Profyllogifmus. Quantum ad
foritem, ipfe e(l quadam propofitionum feries, ita connexa , ut
pradicatum prima propofttionis in fubjetium fecundec tranfeat: pradicatum
fecunda: in fubjettum tertia, & ita deinceps , donec in. concluftone
fubjeElum prima uniatur cum pradicato ultima propofttionis. Sic :
lueratur ut laboratur : laboratur ut confumitur : confumitur ut luxus: luxus ex
divitiis divitia vero, ut commercium .
Lucratur itaque ut commercium majus, vel minus efl. Atque hinc
intelligitur, foritem dici. bypotbeticion , fi ex fyllogifmis hy-
potheticis conflet . Ex„ g. ft Deus efl fapientiffimus, prafcire omnia mala
debuit ft mala prafcita fuerint ,
fublata funt\ fi mala fuerint fublata , mundus a Deo creatus efl ceteris
melior . Sed Deus efl fapientijjimus. Mundus ergo a Deo creatus ejl
reliquis melior v Ac Ptogrejfu
/ignorunt» Quantum ad profyllogifmum, ipfe ejl merus fyllogifmus , cujus
conci ufio in pramijjtam alterius fyllogifmi tranfit. Ex. g. Omne
ens fua natura iners , ejl corporeum. Spiritus autem non ejl iners,
jed attuo fus . Ergo non ejl corporeus. Verum quicquid non ejl corporeum in
partes dividi nequit. Spiritus itaque humanus non cjl refolubilis
De errorum fimus l His omnibus additur, natu- ras res cffe adeo
innumeras, ac compli- catas , ut nemini adhuc contingerit de iifdem
adcurate judica. Denique quis umquam propria debilitatis libi teftis
eft? Quicumque fane de aliqua re judicium adfert , exiftimat de ea
non poffe melius judicari . Quamobrem ut Intellectus hos errores vel
devitet, vel minuat, hic pro mea virili nunc curabo , atque ut
ordine noftra procedat oratio, errores fecundum ea ipfa principia, qus in
altera parte enucleata funt, expendam, fcilicet juxta Mentis, ac
lingua; operationes Quod fi dicenda non fuffecerint ad omne ignoranti,
errorumque velum difcindendum, fufficient tamen tyronibus & ut minus
errata fortafle efficient. De Mentis erroribus ad fenfus exteriores
relatis. Sicuti fit ubi optici varient vel in lentium difpofitione, vel
numero, objefta majora, vel minora, magis, minufve diftantia
adparent, ita oculi cum non Mentis ortu, ne progrcffibusl 95 fint,
quam todidem tubuli optici , inter fs maxime differentes , tam ob
eorum tunicas, quam ob eorum humores; ex tali varietate variae
prorfus fenfationes, at. proinde ab iis complures errorum caufæ oriantur
neceffe eft. Erratur Cum quis objeflorum exiftentiam negat, quae ipfe
non videt oculo inerim ; at oculus microscopio armatus infinita intuetur,
qux ei fine tali auxilio non obverfabantur Decipimur in diffantiis; nam fol ,
luna ^ 8c nubes videntur ^qualiter diftare, verumtamen nubes non
attolluntur nifx ad duo Y vel tria milliaria Italica: Luna ex-
cedit 333330. fol vero, juxta Kepleri fupputationes, nonaginta miliones
fuperat. Duae urbes cum valle intermedia, etiamfi inter fe diflantiffimae
, cominus vifx , videntur 1 una eademque
Decipimur quo ad corporum figuras ellypsis enim procul vifa. a circulo
non diftinguitur; Itemque duae lineae parallelae apparent convergentes ;
8c duo 'parietes divergentes videntur paralleli; & linea flexa ac torfuofa
apparet refla. Quarto cam- pana pulfata , licet ejus partes
interiori fremitu concuffae, attamen videntur omnes De en
orum nes immobiles. Id ipfum dici poflet de aquis paludofis, ac
lutulentis. In propagatioue Jucis etiam decipimur , cujus motus pulatur
fieri in inflanti , cum tamen iit fuccefiivus. Hinc Newtonus obfervavit
quolibet min uto fecundo ea in percurrere. Semidiametros
terreflres, vid. 8 , 202. milliaria . Poflremo erramus quantum ad rerum
magnitudines, nam folaris difci diameter duorum, vel trium , pedum
videtur, verumtamen folis magnitudo ab aftronomis eft millione ma-
jor 'if ipfa tellure. Alias mentis deceptiones, quo ad vifum
omitto, ne hac in re nimius efTe videar. Sequitur auditus,. 1. hic
fenfusi nos decipit dum judicamus fonum, vel concentum effe in
ipfis inflrumentis, cum re vera fit in nobis . Etenim in inftrumentis non
reperiuntur, quam cordarum vibrationes, quae aerem movent. Itaque
aere deficiente, debent etiam deficere ejus undulationes, adeoque fonus,
ut in machina pneumatica, atque in altiffimis montibus facillime
obfervatum. Decipimur, dum judicamus alios eodem modo fentire, ac nos. Quod
nequit accidere ob diverfam aurium ftrufturam. Erramus, dum fonum referimus
verfus illam partem, ex qua ad nos pervenit, iicet corpus fonorum
fit alibi Quarto denique fepiflime unum fonum cum alio
confundimus. Odoratu , & guftu etiam' falli- mur. r.
Odores, 8 c fapores in objeftis extare putamus, cum in iis non fit,- nifi
fola partium difpofitio , five effluviorum, qu* narium, & linguai papillas
nerveas titillant: His fenfibus turbatis fetida , atque infipida corpora
judicamus, qualia reapfe non funt. g.jEflimamus eundem fetoris, odoris ,
& faporis gradum ab orpnibus circumflantibus a:que fentiri:
Quod fane eft omnino falfum , nam harum senfationum gradatio fequi debet
organorum difpofitiones Ta£us in gravitatis , afperitatft, caloris ,
& frigoris fenfationibus verfatur ; & in his omnibus perpetuo
decipimur Vas aere repletum aeftimatur aeque ponderofum , ac fi aere elfet
orbatum. Ex quo judicamus aliquid non gravitare fupra nos , judicamus id
elfe ponderis expers . Quapropter aerem non aeftimamus gravem , attamen
columna aeris, quae nobis imminet , putatur aequalis ponderi. mercurii
pollicum: Si folidum in , fluido demereatur, amittit in eo tantum
ponderis, quantum eft volumen fluidi folidi volumini asquale , adeoque ipfamet
auri moles gravitat minus in aqua , quam in vino ; & minus in vino,
quam in aere. Corporum quot quot funt fuperficies, etiamfi omnes
appareant laevisiatae , attamep mycrofcopio yifaf, eas jntuemur
afperas. Judicamus quadam corpora fua natura calida, contraque
alia frigida ; verumtamen palor, & frigus non funt, nifi quadam
interiores corporis noftri fenfationes . Hinc fi manu fri- gida
tangatur aqua calida , haec fentitur frigida. Et contra fi manus calida
mer- gatur in aqua frigida , haec fentitur calida. Sane haec tanta
fenfationum contrarietas, eft in nobis ipfls, Id |pfum dicendum eft de
voluptatibus , ac doloribus, corumque gradibus, nam quicquid ipfa
funt , ad nos femper funt referenda . Haec
de mentis erroribus, quo ad fenfus exteriores, illos nunc percurramus , qui ad
iq» feriores fpe&ant. De mentif prroribus ad fenfus
interiores relatis f Interiores hominis fenfus alibi X
defcripti, funt memoria, temperamentum, affe&us, attentio, ac fenfus
moralis. Perpendatur modo quo pafto ab iifdem decipiamur. Primo memoria,
cui univerfam cognitionum noftrarum fphceram debemus, in quamplurimis nos
decipit. Prompte non exhibet nobis ideas alias conceptas, cujus
defe&us quilibet eft con* fcius, 8 c maxime fcnes; Unam pro
alia idea, unum pro alio nomine, unumque locum pro alio nobis
fubminiftrat; Sua vi , atque energia aliquando mi-rus vividas
vividioribus ideis praefert: Saepiffime in ipfis narrationibus maximi
momenti deeft. Idelas , earumque SIGNA, etiam improbo labore difpofitas, inter
fe confundit. Facilius retinet ilia y quæ ad nos, quam quae ad alios
fpeflant. Denique quandoque eft adeo vivida, pt phantafia evadat.
Hinc fane vifiones, G 2 , illufiones , abalienationes, phanatifmus
y exftafis, & quidam mentis furor oriuntur : Hinc etiam voluptatis,
ac doloris gradus dependent. Secundo loco cum temperamentum fit
certa folidorum,aq fluidorum, conftitutio, 4ntelligitur, quod ipfum
efle poffit magis, vel minus lentum ; magis vel minus vividum,
adeoque fuftimopere influere debet in noftras idearum intellectiones , in
noftra judicia, atque in ipfa ratiocinia. En
caufa, cur cholerici fere omnes flnt ambitiofl, ac crudeles. Contra
fanguinei urbani, & mifericordes. Cur melancholici taciturni, ac
ratiocinatores; contra phlegmatici timidi, pufillanimes, excordes,
avari. Atque hine facile eruitur horum omnium propeniiones &
judicia debere efle varia. Nam primi funt magni pro? miffores ,
fuperbi , audaces, vafri , ambitiofl. Secundi apti, nati ad venerem, ad
vinum , ad libidinem , ad ludos, brevius ad un iverfa, qu® fenfus
alliciunt, & mulcent : itcmque funt.hilares, ac ftrenui milites,
conflantes, liberales , fociales, qd grandia quoque fafti . Melancholici
ftmt mentis coufufe , laboriofi , diffidentes atque acerrimi judicii. Phlegmatici
denique funt natura pavidi, pufillanimes, fuperftitiofi , fervi nati,
confufi, fuperficiales, ignavi. Qua: cum ita fint, neceflario fequi debet,
quod circa idem objeftum his omnibus obferyatum, non aeque judicare
poflint . Itemque idem periculum fanguineis
videbitur nullius momenti, melancholicis magnum, phlegmaticis maximum. Similiter
eadem res uni efle debet magna:. voluptati; alteri vero maximo dolori.
Praeterea idem ac£ufatus, ab uno excufatur , ab altero damnatur ad
mortem, a tertio ad crucem , ab ultimo ad remos. Unde igitur tanta
judiciorum diverfitas, tiifi ab ideis variis ; unde idearum varia-tas ,
nift ex fenfationum diverfitate; unde tandem haec varietas, nili a
temperamentis, ad quod nifi mens advertat, non aequo judicabit Iove, fed
potius fecundum propriam conftitutionem. Tertius noftrorum errorum
fons in pafiionibus confiftit: Primo quotquot funt in homine
pafliones, omnes ad lilium fui ipfius amorem reducuntur; hinc eft quod
noftra judicia femper ad hoc unicum atque indeclinabile obje&um referantur.
Hinc quoque eft, quod in noflris judiciis non aliud legitur, &
obfervatur, quam quo nos temperamento dominamur, & quo
amore nos ipfos diligimus. Legatur hiftoria Civilis ad hoc evidentiflime
comprobandum, e qua videbitur, ob proprium amorem filios Patribus, Patres
filiis necem intulilfe identidem de fingulis animi paflionibus
fecUndariis dici poflet. At quis dinumerare poterit univcrfa Intelledus
errata, quæ ex odio, timore i ambitione fpe , immodica laetitia
defiderio ira, audacia, timiditate , ceterifque animi modificationibus
orta funt , ac quotidie oriuntur Loquacem Fabium, ut ille ait, delalfarem, fi
vellem ea omnia fingillatim per- T Mentis ortu , ac
progrejjib. fgqui; at pauciflima dicam ad Tyronum captum, qui rerum
multitudine ilon funt. obruendi ac tot hominum ftupiditas
derivanda eft. Ex ipfa voluntatis alienatio, mentis diftra£lio, judiciorum praecipitantia
non modo apud populum , fed penes ipfos viro§ literatos. Nonne haec funt
errorum fons , atque origo. Reflat, ut extremo loco de fen-
fu morali dicamus , ejufque fallacias ostendamus. Verum cum hic fenfus fit
omni reflexione, quolibet examine , & quibuf- vis praejudiciis
anterior * hinc nequaquam ab eo decipimur» At profequamur reliqua mentis
errata. De erroribus ad mentis affus relatis. T ris cogitans , judicatrix
ac V ratiocinatrix eft tam invo- luta , atque difficilis , ut quafi
impoflibile fit omnium errorum analyfim juxta univerfos mentis a£lus hic
exhibere. Quapropter confueta ratione praecipuos tantummodo attingam Mens errat
dum fenfationes concipit tanquam res realiter in objeftis io 6 De
errorum exiftentes. Hinc judicamus dolorem eflfe in cultro,
faporem in ficubus , dulcedinem in vino * frigorem in aqua, calorem in igne.
Dum fenfationes, quas ut centies diftum eft i funt relate, habentur
abfolutse , hinc dicimus fua natura bonum vel malum aliquod obje&um
, quod tald eft duntaxat refpe£tu rioftri. Id ipfurri diceridum quoque
eft de volup- tatibus, ac doloribus, qus non funt nili totidem
rea&iones tiobis confonse, vel diflonas, ddeoque nobis folis tiiric
temporis relate 4 Nihil enim in ipfis quidquam abfolutuni concipiendum
eft i 44 Decipimur dum ideas abftra&as , ut Dei , hominum , Sc corporum
aSiones habentur ejufdem generis i licet toto coelo inter fe
diftinguantuT Item durii ideas fpirituales putamus materiales, uti funt
Angeli, Dsmones, 8 c c. 6 . erramus dum qua: vinita funt , feparata
judicamus; & cotitra quae fola mente fepararitur, natura conjun£Ia
putamus Primi generis errata funt tot Poetarum fabellae ^ atque
commenta. Secundi autem gerieris * funt tot Romanorum Dea: , & Dii,
ut juftitia i Visoria, Fortitudo, Februa, Jupiter Terminalis,
Mentis ortu, ac progrejjtb. icj liatis , Feretrius , & c. 7.
falfe judicatur, fi relationum ideaj ignorentur, ut in malorum origine;
in Dei natura, pradcientia. Etiarri falfo judicatur fi hypothefes habentur
vera», priufquam ad praxim revocata; fuerint. Hujufmodi funt ACCADEMIA ideaj
innata;, noftra intuido in Deo, qua; Malebranckio placuit Woowardi, Wiftoni j & Burnct systemata
, aliaque hujufce commenta pene infinita , potius delirantium
fomnia,quam Philofophorum opinions. His. 9. additur, quod ex
meditationis defe&u facile erramus. Si ut abfolute accipiantur, quæ
ex quodam circumflandarum concurfu intelligenda funt. Hinc male quis
ntentis gradus ex fortuna determinabit. Facile decipitur fi a
particulari idea ad univerfalem flatim afcendatur, quin omnes fpecies
& genera percurrerit. Quis enim dicet literulis grajcis imbutunl
etiam cordatum efle virum, & folida, magriaque cogitantem? quis Philosophum
putabit etiam bonum agricalam quis
denique Cafuiftam etiam Theologum, philofophum, hiftoricum, atque
aeconomicum Præterea decipimur, dum ea t quas De
errorum qux non intelligimus, infipienter, atque obftinato animo
negamus. Decipimur, cum ea quaj nobis funt contraria, fpernimus, minuimus,
damnamus novitatis amore: Scepticifmi fpiritu inconfiderat. Erratur ex
argumenti analogia, five ex rerum fimilitudine: Ex libertatis abufu: iB. Ex
nimia curiofitate: ip. Ex nimio defiderio nos diftinguendi a reliquis hominibus
faltem ejufem ordinis. Ex partium ftudio,quod 3 uibufdam
temporibus, ac locis nos luificat: Pro privato emolumento, quod nos
oblivifci facit ipfa naturae ligamina, ut liberemur ab interioribus
fenfationibus moralibus. Denique quodam ambitionis fpiritu , quo in
noftro cerebro veluti mundum univerfum concipimus, cujus nos centrum
evadimus, lætamur dum aliorum opiniones circa nos gyrant, atque ceu
deliquia pati obfervamus. Di Mentis ortu , ac
progrejftb', iop' D* erroribus ad animi ftgna relatis i OUnt
voces, aut vocabula totidem ANIMI INSTRVMENTA, VEL RERVM SIGNA. Cum autem
voces considerari possint tam solitariae, quam simul junctae, tum simplici tum
compotita ratione, hinc fit , quod totidem modis in iifdem intelle&us
errare poterit, ut ex fequentibus. Primo erramus cum vocibus utimur
, quae pmnis omnino fignificationis funt expertes , ut entelechia , quam
adhibuit LIZIO. Cum utimur vocibus ex fe clariflimis , quae tamen
unione fiunt OBSCVRÆ, ut circulo Quadratus, corpus spirituale. Si
voces adhibeamus ambiguas, ut anima, cujus idea varia philofophorum placita
fequitur: Si putemus abfolutas voces, quæ sunt vere relatae, ut
pulcritudo, deformitas, vitiositas, justitia. Erratur, fi eidem vocabulo eadem
vis tribuatur, etiam in maxima locorum, ac temporum diftantia, yt pileus,
calceus, navis, theatrum : fio LcRio Itl, De errorum Si verba nova, yel METAPHORICA,
vel emphatica adhibeantur, quin fit neceffarium. Si vocibus utamur vis
INDETERMINATAS, ut odium, amor, voluptas, dolor, sensatio, qux temperamentorum,
atque habituum ratipnem conftantiffime fequuntur. Si termini adhibeantur,
qui res minime intelligibiles DESIGNANT, ut infinitas, xternitas,
preatio, annichilatio Earumque progrefftbus. Tertio quoque intelligitur,
quod, ex duabus propositionibus una esse potest altera probabilior;
unaque altera verifimiiior. Primi generis eft hæc: Cupcrniei hypotbefis eji
fyjiemate Tyconis probabilior. Alterius generis eft fequens: Redi opinio eji
vero fwiilior, quam illa Le- •wenoekH . Quibus ita i:itelle£lis ,
priufquam invenienda: veritatis regulas in madium proponam, opera pretium duco
quædam de ipfa veritatis nota, five criterio adumbrare. De
veritatis cujufque generis nota. Veritatis nota ab aliis in • V .
Tolis fenfibus, ab aliis in fola mente, ab aliifque denique in utrifque
ponitur. Cartesius. vero in rerum evidentia. Ex quo fit, quod Cartesio est certum
quicquid eft evidens. Contraque omne evidens eft quoque certum.
Quapropter evidentia certitudinem, & haec illam efficit. At fi
Cartefius interrogetur, eique dicatur. Quicunque judicat, ac De veritatum
ortu, ac ratiocinatur, putat fe clare, atque evidentiflime percipere, ac
judicare , quis itaque evidentiam ipfam tutam reddit: quis meam,
quis aliorum evidentiam in tuto ponit, cum ipfa fenfibus, ac cujufque
lumini fit proportionalis. Itemque,ii evidentia omnia certitudinum genera tuta
redderet, primo ipfa non deberet habere gradus; at evidenti phyfic®
pr*ftat mathematica, physica autem morali praevalet. Praeterea fi
evidentia exifteret, nufquam efle deberent in collifione du*
evidentiae. At fuperfleies taftui convexa eft oculo plana: quod eft fal
vifui eft: faccharum palato. Ipfeque Jacob erat Efau taftui, Jacob
autem Jfaaci auditui. Quid denique multa? Quilibet fenfus cum fe
ipfo confligatur. Qui pi&uram adfpi- cit, videt in ea antra , fluvios
, urbium rudera, pontes, praeliaque magis minufve diftantia , attamen
eadem & plana te- la omnia limitat, ac definit. His omnibus addi poteft. Quod corporum exiftentia ex
fenfibus ha- betur. At hi omnes jam demonftrati funt fallaciflimi.
Ipfa itaque corporum exiften- tia videtur- e fle incerta. Earumqne
progrejjibus Secundo ft daretur certitudo, ea eflet omnium temporum, ac
locorum.Verum ipfa eft relata, haud abfolura. Si
ipfa exifteret faltem uni eidemque homini videri poflct eadem. At noftra
fenfuum conftitutio, mutabilitas, atque ipfum mentis lumen mutantur
perpetuo. Nequit itaque efle eadem. Denique fi evidentia
certitudinis eflet nota, ea efle deberet veritas primitiva, quaz .mihi
deberet oftendere secundariam; verum Cartefius dubitando ad evidentiam
pervenit. Dubium itaque potius, quam evidentia eft certitudinis
cujufque generis nota. Hinc Ariftoteles primo metaphyficorum libro
fcripfit nos dubitatione veritates pofle confequi. Dubitationes enim funt
veluti quidam nodi, quos ft quis non videat, (cientia: five
veritatis non eft capax. At hoc pofito nonne eflet perabfurdum ex
dubio fcientiam prodire. Ex quibus facillime eruitur, quam
inconfiderate nomen doftiflimi, & fapientiflimi , non dicam GALILEI
(si veda), Leibnitzio, Newtono, fed cuilibet alteri tri- buatur. Quis
enim omnia (civit, aut fcire ppteft? De veritatum ortu. Sed ex huc ufque
expofitis, nemo velim deducat, non dari cujufcunque generis veritates.
Nam etfi veritas abfoluta nobis defit, non autem relata, qua prope
infinita fcimus. Revera qui poterit dubitare, de tot corporum, quibus
undique premor, exiftentia ? Nihil refert, quod materiae natura, vires,
energia, & combinationes me lateant , cum ad horum omnium exiftentiam
comprobandam mihi fufficiant folas mei animi interiores commotiones.
Exiftit ergo certitudo phyfica ITEMQVE CVM HOMINES INTER SE CONVENERINT
SIGNIS 4, 10, ioo. illas indicere quantitates, in quibus numerus tinus,
quatuor, decies, & centies repetitur, quis me poterit reddere dubium,
centum eflfe decuplo majorem numero decem Poftremo antequam ego
Romam ivifiTem, hilari animo de ejus rebus pere- grinis loqui
audiebam. Quum viferera, eandem inveni, ut millies et audiveram,
& legeram Quæro 11 id dpfum mihi dicatur de .Mediolano, de Florentia,
de Bononia, deque Veneriis, eccur narranti non credam ? Itemque
hiftoricis antiquis de Babiloniis, Hetrufcis, Samnitibus, E
arum que prorejjtbus Tarentinis, Gallis poft tot fecula jam elapfa tam
multa narrantibus fidem habebo? Praeterea tot recentiflimis hiftoricis
afferentibus effe antipodas, Indos , tam orientales , quam occidentales ,
aliofue non credam? At haec denegare, infani eft. Exiftit itaque
evidentia, quacum veritatum cujufcunque generis certitudo facillime nobis
innotefcit. c a p. m. De veritatis natura, ejufque divistone.
Omnis propofitio ex fe confiderata, V^/ vel efl vera , vel falfa . Ad
nos autem relata vel eft nerta, vel incerta. Etenim nos concipere
poffumus majofem, vel minorem relationum numerum inter duas ideas,
quae eafdem ligant . At fub primo afpeflu nullius effet utilitatis: juvat
itaque veritates speculari fecundum noftras cognitiones. Hinc veritas
fuperius definita fuit: quaedam noftrorum judiciorum congruentia cum
rebus, vel cum earundem relationibus. Quod
fi veritas eft noftrorum judiciorum cum obje&is exterioribus
conformitas, V De veritatum ortu, tas , ipsa igitur eft
dependens. Nam ubi defunt fenfationes , deefle quoque debent
cogitationes ; atque ubi deficiunt cogitationes deficere etiam debent veritates
Logic*. Contra veritates aetern* in rerum relatione conftabilit* Dei
voluntate, qux natura fua immutabilis, etiam noftris cogitationibus
omnino deftruftis, exiftunt. Ulterius idearum obje&um dupliciter
menti noftrae eft conforme, vel interius, vel exterius. Namobje&um, ad
quod cogitamus; vel ex noftra ipfa cogitatio; vel exiftentiam
realem habet. Prima veritas dicitur 'interior, altera exterior . Ex
quo fequitur, quod omnis veritas exterior fit quoque interior. At
non contra. In veritatum porro inveftigatione, vel a principiis eas
deducimns; vel ab eorundem conclufionibus. Primo
modo ad veritates pervenimus intuitionc ; alio modo vero ratiocinatione.
Ex quo fit, quod duo veritatum genera habeamus . Primum eft
veritatum objettivarum, five intuitivarum. Altera vero abJhaSta, &
difcurfiva y qu* in idearum connexione confiftit. Ex quo
facile deduco, omnes fcientis eundem certitudinis gradum habere polfe, nam
quot quot fcientiaj , artefque dantur, uni- EcrUmquc
progrejjtbuiUnlvefa; logicas veritates continent adeoque evidentias capaces.
Hinc ethica, metaphysica, Politica, aliasque demonftrari quoque poflimt.
Reapfe ^Ethicas auSor quinque libris comprehenfas. impietatem fuam
ex falfis priilcipiis oftendit . Identidem fecit Hobbesius; denique
Wolfius univerfa. ejus perquam prolixa opera etiam methodo mathematica
confcripfit. Itemque in hac tanta rerum varietate, fervatur quidam
ordo, qui Dei volunta- ti eft omnino conformis; hujufmodi veritas dicitur
metaphyfica, Qua; fane veritas est prorfus extrinfeca, nullimode dependens
a noflris cogitationibus, ideoque eft abfoluta, atque asterna.
Poftremo veritas moralis aliorum fidei innititur, nempe ipsa est,
fpiritus noftri perfuasio narrantium auftoritate conifabilita. Ex
his, quae ha&enus summa cum brevitate expofui, apertiflime eruitur ,
quod veritas fit tanquam totum quod ex omnium relationum complexione
deducitur, quas funt inter ideas. Ex his quoque intelligitur , quod fi
omnes idearum connexiones, vel contradi&iones nobis innotefeaut
, tunc habebimus veritatis certitudinem . At fi {"dummodo totius aliquam
partem agnofcamus, non e rit veritas, fed probabilitas . Qua: ita de-
libatis, reliqua profequamur. De certitudine tam intuitiva, quam demonslrativa,
probabili, 0 ^^ nc ’P'° met h°dus eft via,five or- . . j do , quo
vel incognita invenimus; vel inventa aliis communicamus. Quibus in
re vel a partibus ad totum; vel ab hoc ad illas proceditur. Si primum,
methodus dicitur analytica, fi alterum fyn- 4 et hic a . Primus modus ex rebus manifeftis, &
fimplicibus procedit ab obfcuras, compofitas, et IMPLICITAS. Contra alter: ut
ia corporis humani anatome , fi omnium primo difquiram univerfa
fluida , deinde folida , ex quibus poftremo deducam , corporis humani
ftructuram ex fluidis, ac solidis conflari, perquam ordinate dispositis. Quod
fi hæc vellem aliis enucleare, principio dicam corpus humanum ex fluidis.
Earumque progrejjibus. dis, Sc folidis conflare, tum fingula exponam. Ex
quibus fane intelligitur, quod primus modus pro re invenienda,
alter pro eadem explicanda infervit. His ita expolitis ad propofitum
accedamus. Primo certitudo phyfica eft quaedam noftri judicii
qualitas, quæ forti invi£laque relatione nollrum fpiritum neceflario unit
cum propofitione , quam nos affirmare, vel negare volumus . Hujufmodi
certitudo fentitur tam in omnium corporum exiftentia, quam in eorum
fenfationibus, late , fufeque in prima leflione pertra£latis. Ex quo
primo fequitur, hanc certitudinem fequi debere nollrorum fenfuum
rationem, obje&orumque prelftones. Secundo fequitur, quod fi
fenfuum organa ftnt vitiofa,vel non fint in debita diliantia, obje&a
non poffunt videri clare-dilfin£fa, ut in myopis, Sc presbytis. Tertio fequitur, quod fi unus fenfus non
fufficiat , necelfe elf , ut adhibeatur alter. Sic fi vifus non
diftinguat, utrum mafla aliqua fit necne metallica , adhi- betur,
etiam taffus. Quarto requiritur, ut medium, per quod lux tranfit,
fit omnino fimplex, i en LefDe veritatum ortu,
en ratio, cur remus in aqua videatur fra&us. Quinto
requiritur quidam lucis gradus pro vifione fufficiens , alias objeftum
non videtur, uti revera est. Sexto convenit obje£la afpicere fecundum
omnes eorundem fitus. Poftremo requiruntur perferiora inftrumenta, quæ
oculis funt maximo adjumento . Haec de certitudine phyfica , f«- tpiitur
demonftrativa . q’ a p. v. De certitudine
dcryonjtrativa. Ri nc ipi° demonftratio nihil aliud JL eft,quam
videre, num prædicatum conveniat, necne, fubje£lo.Qu2 relatio dum a
definitionibus, poftulatis, atque ex axiomatibus deducitur, vocatur
direBa . Si autem aliqua contradi6lio, sive absurdum ostendatur ex proposito
principio oriri, vocatur demonftratio indire&a, Primi generis funt
pene omnes Euclidis propofitiones. Secundi vero funt fexta ,
feptima, alixque qpamplurim ejufdem roris. Earumque progrejjibut. Ttemque
veritas vel ex efie£libus, vel cx caufis eruitur . Primo cafu dicitur
a pofleriori, in fecundo a priori. Ad primum genus referuntur omnes illas
verita- tes, quas ex obfervationibus, atque experimentis detegimus . Sic Redus deduxit , omnia infefta oriri ex ovis.
Ad aliud porro genus referuntur omnes philosophorum hypothefes. De
omnibus fingillatim dicemus. Qui fibi proponit perpendere, num
aliquod praedicatum fubjetlo conveniat. Ex integra definitione, vel ex
ejus partibus propofitiones accipiat pro fyllo- gifmorum catena
conficienda. Si circa idem obje£fum habentur axiomata , vel
poftuiata , vel alis propofitiones jam demonstratæ, iifdem uti poteftin
minoribus fyllogifmorum propositionibus. Data
propositione, quæ sibi cum aliis est medius terminus communis, revocatur
ut fiat major in alio syllogismo. Cum his præmissis uniatur alia ex
antecedentibus jam nota. Tandem quotquot funt propofitiones ita inter se
conne&antur, donec ad syllogifmum perveniatur, ut ejus conclusio sit
ipsa propositio, quam demonfirandam fufcepimus. Hinc fi quis, I 2 ostendcre
v-llet illud ipfum , quod habet Horatius in fatyris: nemo fua forte
contentus ; hunc ia modum procedat. Def.i.
Felicitas eft ille hominis cu- jufque ftatus, quo omni ex parte eft
contentus, cuique ftatui nihil addi, vel detrahi. poteft. §.4.
fuffi- Eatutnque progrcjpbusl
fufficientem alicujus effe quz in eo locum habent. Prsterea
notandum, 'quod fi duo effectus quandoque fuerint conjungi , fequi non
debet eofdem femper effe fimul . Ex g. apparet Cometa id nostro
horinzonte, ergo aerumnae in familiis, in imperiis ? aliquis
literatus eft facinofofus , literae igi* tut funt Civitati detrimento? Si
vero attributum rei adhaereat , tunc concluden- dum, quod res ita fit.
Sic EVROPÆVS non est fua iotte contentus : de fua forte querantur etiam
Africanus, Asiaticus, atque Americanus. Nullus itaque homo vitam
ducit omni ex parte beatam i Id ipfum dicendum eft, fi
propofitio sit hypothetica, dummodo ex repetitis experimentis
proveniat 4 Ita homo, qui a temperamento cholerico dominatur , ad
crudelitatem natura rapitur . Sed an vere fit crudelis, observanda est
ejus vita, aliter erratur; etenim inftitutio naturam pote ft j
fcttruthcjue progrefftonibus i 1 jj tert immutare: ex quo
intelligitur, quod propofitionum univerfalitas a repetitis experimentis ,
atque obfervationibus deriva- tur At quo pa£ta> a caufarum
cognitio- ne ad effe&us ratiocinandum sit, videamus. Primo necefle eft, ttt omnis efFe£lus fit caufaj
proportionalis , fcilicet fi duplex, vel triplex fit effeftus, dupla ,
vel tripla efle quoque debet caufa . Denique erir phyfica, vel
moralis, fi effe&us fuetit ha- jufmodi. His propofitis, fit
igitur. Defii.Deus eft em perfetfijfimum Earumque progrejjtbm . tatorum
eft capax. Sane quidam Aftronomi afleruerunt, eandem efle habitatam. Prima
eifc intrinseca, secunda extrinseca. Denique verifimilitudo eft illa, quæ
reperitur infra certitudinis dimidium: Itemque illa probabilitas, qux
certitudi, dinis dimidio ajquivalet, dicitur dubitatio . Primi generis
eft haec: Petrus mihi dixit, me vicifle centum fcuta, fi hoc eft verum
illi fpondeo. En verisimilitudo, fin autem spondeo Dubia mihi videtur
notitia, nam ex utroque la-„ tere aequantur . Sed quidnam requiritur
, ut refle probabilitates fupputentur. Primo neceffe eft videre,
num quod quaeritur fit poflibile. Secundo adcurate fupputandi funt omnes
refiftentiaj, vel difficultatis gradus . Ex.g. morietur ne
Sinenfium Imperator in novilunio Aprilis hujus anni currentis? ut hoc
problema ri- te refolvatur , fupputandus eft numerus ci- vium : Imperatoris
aetas , ejufque vita, deinde fi dari poffit aliquis aeris influxus
perniciofus: medicorum peritia: aliaque. Tertio notandum, quod fi
in quaefito ex duabus fyllogifmi praemiffis, una fit certa, altera
vero probabilis, conclusio quoque esse debet probabilis. Sia autem ambae
praemiflae fint probabiles, conclusio continebit probabilitatem
probabilitatis. Sic unus tertis oculatus habet dimidium probabilitatis ;
qui illum audivit , & ex eo narrat , habet dimidium primi; fcillcet
dimidium dimidii, hoc eft quartam probabilitatis partem. Denique fi
illud ipfum narrat tertius, hic habebit di- midium dimidii , nempe
ortavum probabilitatis gradum. Et fic deinceps, At ex omnibus probabilitatis
generibus, quæ mihi maxime cordi funt , iunt historia, 8c aeconomica, in
quibus vellem ut confenefcereot juvenes, nam prima eft objertum
innumerabilium domi, militiceque fartorum. Quæque nos reddit yeluti
præsentes omnibus temporibus, a q J ocis. Hoc uno facilique medio
quin pniverfam telluris fuperficiem cum tot vita? difcriminibus, ac
fumptibus peragremus, difcimus quicquid in ea agitur ab abfentibus. Hinc
ex ea cognofcimus Imperiorum origines, formulas, leges, vires, artes, scientias,
vicisiitudines, In æconomia autem eft major fupputandi
utilitas, etenim ex hac fuppu- talione habei.ur navium numerus,
terra- rum m flatui nocet ? determinanda eft relationis
quantitas . Revocato ad haec pauca universo ratiocinii mystefio, sequentes regulas
Dialectici proponunt, ut ejufmodi quæsita enodentur. Reg. In cujufque
quaditi fdlutiorte omnium primo determinanda eft vocabulorum vis,
maximeque fi ea fmt IMPLICITA. Statim legis hujus neceflltas
intelligitur, cujus negligentia etiam apud scriptores magni nominis
contentiones perpetuas produxit. Definiantur luxus , libertas, inanitas ,
prafcientia divina , et e* radicatae erunt decertationes. Vocibus
definitis, animadvertatur. Regula Semel determinata vo» cabolorum
vi , non amplius convenit ab ea recedere. Quamplurimi hac in re
aberrarunt. Vox Deus apud ipsos dell’ORTO, Sc Manichteos non fonat idem .
Apud Hobbesium natura jura non semper significant eandem rem. Quid multa. Cartesius
ipse materiam fubltilem varie accepit# Videatur praterea. Reg. Si quzfitum
fit refolationis capax. Quo expenfo, exquirendum K 3 dein-
't Tt > v m De veritatum ortu, deinceps est, num
totum, vel ex parte, limites capacitatis humanas, vel tua; trafcendat. Si
primum deferatur inta&um , ut in intelligenda unione mentis cum
corpore . Sin alterum te ipfum concute , vel alios te praftantiores, ac seniores
interroga. Quam regulam fi fciviflent tot Jiterati viri , non
confenuiflent in tot tan- tifque quadliunculis inexplicabilibus, atque
inutilibus , neque poli tot foculorum focula etiamnum eas ad manus
haberent. Uti eft malorum origo , humani foetus conceptio , vis
elaftica , attraflio, & cetera! Quid
fi quicftio fuerit folubilis. Reg. Videndum, num qurefi- tum fit fimplex,
vel compofitum. Si compofitum dividendum eft in omnia e- /us membra
poflibilia. Ex quibus, inutili- bus membris
refecatis , alia fic extrincentur , ut unum membrum alteri praeluceat , ac
contineat. Sic in hoc quaefito : luxus eftne flatui utilis?
videndum eft. 1. Si flatus, fit Monarchicus , vel Republicanus; deinde
num ex propriis , vel exteris artifici- bus , ac materiis. Tertio
fi ex propriis, videndum ultimo eft num artes primis . Enrumque
progr cjjibus . qu?e raro habetur , probabilitas querenda eft. At
non evulgari debet nifi tanquam veritas probabilis . In quo cavendum
quo- que eft, ne hypothefes ut thefes habeantur. Eft ha&enus
incertum , num terra, vel fol moveatur . Ergo ad probabi- litates
recurrendum . Itemq. ex variis ve- ritatibus probabilibus quaeratur
probabilior, ut Redi hypothefis eft probabilior animalculis fpermaticis
Leewenhoeckii. Reg. Obfervandum porro eft quxfiti
genus, nam (i fit de rebus phy- ficis , fenfus , exprimenta , atque
observa*, tiones funt interroganda . Si de rebus» abrtra&is ,
rationem interroga ; fi denique de rebus fa&is, confule Codices
faftorum. Reg. In confulendis autem codicibus, funditus fciri debet
lingua , in qua Codices fuere confcripti. Ac cavendum a tradu&ionibus
vulgaribus, aut Le- xicis communibus. Ad hoc
rite, re£leque intelligendum fufficiet legere Cicero- nis orationes a DOLCE
(si veda) IN LINGUAM ITALICAM CONVERSAS: Quininno LUCREZIO (si veda), et
VIRGILIO (si veda) verGones. Reg. Ad intimiora
fcriptoris fenfe 1^4 Lett. IK De verttatuni ortu, fenla
penetranda , praeter linguam, fac etiam fcias fcriptoris patriam ætatem
, faeculum adfe&us > ftudia > exercitationes t
Quorfum ha;c omnia. Nam ea mirum quantum influere poflunt ad
au6loris intelligentiam .Quicunque enim fcribit his viribus occultis non
modo movetur , fed etiam concutitur. Ergo horum omnium cognitio maximopere
prodeft . Id libentiflime oftendetem ex multis kriptorum omnium fententiis,
atque opinionibus, fi in te tam clara teftibus indigetem Reg.
Non unum aliquod Scriptoris opus diligentiffime verfandum. eft, fed
fumma indufiria legenda iunt omnia ejufdem fcriptoris opera. Quod
fi de ejus fertterttia nihil confiet: Tunc vel totum 'tei ice s vel
dubita. En potiflima ratio, cut innumeri ltt judicando errent » Id
ex eo maxime provenit quod Vel integrum librum non degunt , vel non intelligent.
At quid fi fcriptor de aliorum
opinionibus j vel fa- 4 ftis agat? Eimmque progrcjjibus. Reg. Tunc quaere
primo an fcire potuerit. An fuerit perspicax. 3, An in
judicando adcufatus. An in re- ferendo fincerus . In quibus omnibus
vel eorum uni fi defecerit, fidem ei dene- ga ; fin minus, eundem
habe aptum, ac veracem. r* Duo Vtllani, mundi hiftoriam
fcripferunt . Sed fciveruntne quae in eorum funt libris ? maximis fcatent
profeflo erroribus. At non fic Guicciardinus. Quid vero fi
quamplurimi ex uno hifiorico acceperunt? Quantum ipfi valenf? Reg. Si
quamplures ex uno hiltorico fua traxerunt, Omnes fimul va- • 1 .
lSnt, quantum ille unus, ex quo transcripta fuerunt omnia. Quod fi clare
confiet , fcriptorem fuifle faflt fcienthTi. mum , in cognofcendo p^jfpicacem , in / . »
judicando adcuratum, ad denique irt referendo fincerum, adtribenda eft illis
fides. Reg. Turtc obferva an liber fit fpurius vel genuinus ;
an interpola- tus, vel mutilatus. Si fpurius, eum reiice : fi genuinus
eum tene . Si interpo- latus , additiones nota ; fi denique mutilatus ,
lacunas agnofce , & diftingue, poftea fi poter is etiam reftitue . LcR. Di verir arum nrfu
, Primo liber eft fpurius,five a Reg. Oportet perpendere, num Deus
loquutus fuerit: Cui : Quo loco: Quando:
Quid: Si ccnftet reapfe locutum efle, videndum infuper est, num quae dixerit ad nos incorrupte
ac genuina, vel interpolata, aut mutilata pervenerint. Itemque fi
verba pofiint varie interpretari, tunc nemo fut> arbitratu temere ea
intelligat , fed unius ecclefiae Catholicae judicio standum
erit. Hujufmodi est methodus analytica , quae non infervit modo pro
veritate LcH. De veritatum ortu, tate invenienda, fed etiam juvat
pro cu- jufque feriptoris fcientia definienda. Internofeimns enim ex
regulis propofitis, qui scriptores sint ferviles , fuperficiales ,
duri , difficiles; qui profundi , nobiles, clari , folidi, philosophi.
Itemque inter* nofeimus qui habendi fint optimi fpi ritus, peregrini .
Sed ex quo tanta feriben- di varietas? Refpondetur, Hæc varietas
partim repetenda eft ex corpore, partim ex fpiritu humano. Secundo
attentio non est eadem in omnibus, neque fenfuum difpofitio eft
omnino conformis, Denicjue hominum inftitutio, habitus, exercitia, cultus
in infinitum variant. En feribendi varietas. His omnibus accedunt sensuum
usus, meditandi adfiduitas , librorum Ic- ilio, literatorum virorum
frequentia, itinera , experimenta, obfervatipnes, Item- que ad hog
conferunt Geometriae , at- que arithmeticae ftudia, quorum primum
reddit faciliores idearum combinationes, aliud nos adfuefeit ad eafdein
inter se colligandas. §.ido. Ex his omnibus oriuntur
artium, fcientiarumque progreffus. Ex his ratiocinandi robur, CLARITAS,
atque ORDO. Ex E arumque progrejftbusl his denique politica arcana
referantur, fuperditionis myderia evanefcunt , ignorantiæ velum vel retrahitur
, vel in mini- mas partes fcinditur. Reliquum ed, ut de modo, quo
veritas inventa aliis com-i» municatur, fedulo pertrahemus , De
regulis , quibus explicanda ejl veritas. LcH. IV. De veritatum
ortu, Reg. Magister {^caveat. ne sophismata vel paradoxa vel
IMPLICATURA sive DISMIMPLICATURA, wl do£lri- nas novas auditoribus
proponat, nam juvenes hifce femel imbuti, facile in tur- piflimum
fcepticifmum incidunt . Quin imo . ltudiofe doceat , qui libri fint
fcepticQ- rum , ut eofdem vitent. Reg. Modum doceat , quo
legeqdi funt libri , ut mentem au£loris , & fpifitum confequi
poflint. Qua in re, juvat le£lio alicujus libri, atque a magiliro
notentur omnia ? ut difcipuli proficiant, Reg, Doceat, quod pro aliqua
hitfaria legenda, addifcantur prius chronolqgia , ac Geographia ;
itemqu® asthica, ac politica, alias nihil proficient Reg. In
fiiftoria literaria, cure? -ut juventus prima veluti rationis
(lamina in omqihus artibus, ac scientiis agnofcar: faciat deinde notare
earum progrefliones , atque quibus ex caufis a maximo ad minimum devenere
gradum, Reg. Praeterea homo eft natura i nertiflimus , ergo quantum
ipfe ell, totum edftcationi debet' adeoque ma- gilter eum fedulo
inftituat, maximeque io praceptis yit* civilis , nam fi cum
non Earumque p rogrejfibus non poterit efficere philosophum,
faciat faltem bonum, & pium civem Nam fine fpiritu patriotico
ho- mines fe mutuo deftruant , & fine religionis idea , erunt Deo
ingrati , aliis vero hominibus pemiciofi. Reg. Sed fupra omnia
ju-ventutem ad laborem horetur, & adfuefcat, atque erga alios reddat
benevolam ; nam hxc duo funt focietatis veluti fulcra, qua: corpus civile
fullentant. Reg. Itemque exciretur in juvenibus amor erga genitores
, qui habendi funt totidem Dii terreftres;ex quo amor , & obedientia
in illos oriri debent. Reg. Infuper qui alios do- cet , excipiat animo
grato juvenes , eof* que curet reddere meliores , tam in eorum parte
phyfica, quam morali. Quo aoftrema cujufque generis fit , fo!a mul-
tiplicatione , .ac divifione, scilicet sola additione, ae fiibtraftione
conficiatur. Sequitur omnes arithmetica; regulas ad
falam additionem, ac subtractionem reduci. Dialectica
tantopere a Græcis exculta, deinde a noftris poli literarum
inftaurarionem, ad inftruendum Intelle£hira, ut omni loco, ac tempore
veritatem in* veniat , tendit . Hinc finis ejus eft men- tem
perficere , errores vitare, veritatefque fr" Legantur tabula
numerica Profla- fnrafts an, 1610, .ub Erwert odita , quibu%
Rcduftione ad Arithmeticam . que detegere . Sed qu est cogitandi materia,
quxque ipfius mentis vis ? atque energia. Respondetur cogitandi materiam a
fenfuum ufu provenire, qui cor- porum imprefliones excipiendo
mentem tion modo quafi excitant, ac acuunt, fed quoque eandem
imbuunt tot tantif- que rerum ideis, ut quadam nobis inco- gnita vi
eas inter Te modo conjungens, modoque feparans ex veritatibus notis
ad incognitas deveniat. En itaque totum fcientiarum abditiflimum
mytterium manifeftatum: En fcieqdi arcana referata : en denique ars illa
pene divini, qua intelle&us fupra res humanas fe erigens ad peleftia
perfcrutanda adfpirat, Quibus 1 ex omnibus profero intelligitur
fenfationes efle cogitandi objeflum, ac veluti materiam : mentis vero
artificium in judicando, ac ratiocinando effe pofitum. Sed quid judicium , quidve ratiocinium. Judicium
eft quidam mentis arftus bus multiplicatio, ac divifto additione, 0
*fubtra&atione abfolvuntur. • iy6ftus, quo ideas inter se ieparamus,
vel eaidem conjungimus: fic dicimus: Petrus e/i dottus: Petrus non
efl ovis. In primo judicio ne6litur do6lrina cum Petro; in alio vero
disjungitur ovis proprietas a Petro. Verum dari poliunt certitudines tam
intuitivae, quani demonllrativae . Ia intui- tiv^s liquet judicia non
efl'e, nili itidem, vel additiones, vel fubtrafliones, hoc eft
judicia affirmativa ad additionem , negati- va autem ad fubtra&ionem
relerri. Quo autem referuntur ratiocinia , ac tot vul- gariffimi
argumentandi modi. Ex di£lis in toto Logicae curfu,
omnes mentis ratiocinationes fatis confiat elfe duarum idearum relationes
cum ter- tia : nam fi eontigprit, ut quod inter duas ideas relatio
non mihi innotefeat , tunc «afdem cum alia confero. Cui
tertiae vel ambae conveniant , vel minime . In pri- mo cafu
ratiocinium dicitur affirmativum, in fecundo negativum . Sic fi quaeratur
; folis moles eline ignea. Itemque plantae funt animatae ? neque in
primo , neque in fecundo quaefito video quid mihi affirmandus vel
negandum sit inter ideas ea- M rundem relationes, hinc ad
refolvenduni primum quaefitum.tertiam ideam veluti in auxilium
fumam, ac dic^n: quidquid u, rit , ejt igneum fol autem urit, efl igi- tur igneus. In
quo fyllogifmo, tertia id- ea , oim qua duas alias comparavi, eft
quicquid curit. ut qua; eidem conveniunt, inter fe quoque conveniunt. Itaque
eidem urere conveniat tam natura ignis , quam folis . Ex quo
poftremo conclufum eft , folem efle igneum. In fecundo quasfito
hanc aliam ideam in auxilium fumam : qua ex fe moventur , funt
animata . Plantae autem ex fe non moventur, ergo non funt animata.
In hoc Tyllogifmo tertia idea eft cx fe movere , cui convenit efle
animatum, at quia eidem non convenit plantarum na- tura, proindeque
conclufum eft plantas non efle animatas. Ex hifce duobus exemplis
,«fit manifeftum ratiocinium efle illud ipfum, quod in Arithmetica
regula aurea , five trium , hoc eft ex datis tribus terminis vel
veritatibus notis , quaritur quarta in- cognita . Sic in primo fyllogifmo verita- tes notas, funt.
l.Quicquid urit . Iqnis. Sol urit. Terminus incognitus fol efi
igneus. In alio exemplo. Quod ex se movetur est animatum. Planta
non se moventur. Ergo planta; non funt ani- M nu- ruat* efl quarta
veritas incognita, Con itat itaque ratiocinium efle quoque regulam nurnericam,
Quantum ad caetg*as argumeptandi rationes apud vulgares cognitas , ipfe pon
iunt, pifi diyerfe unius fyllpgifmi modificationes, p. Ex quo fit,
ut illud ipfum Diale- ctico contingat in quxfitorum folutionibus, quod
arithmeticis in fuis problematibus refol vendis f Hi enim quartum terminum
proportionalem incognitum poft tres datos nofos , femper inveniunt
vel multiplicando fecundum cum teifio , vel primum cum fecundo,
eorurpque productum yel dividunt per primum, vel per tertium, Sic quoque Dialeftjci
medium terminum varie combipando cum fuis extremis modo directo, modoque
reciproco omnes fyllogifmorum formas conficiunt , Jtemque f; quis
ratiocinii naturam per-, pendat , inyenif eandem ad ipfum judi-
cium referri, etenim in fyllogiljno aliud pop fit, quam duas yoces prius
ad ter- tiam , deinde inter fe referre, Sicuti igitur quotquot dantur
numericae regula: omnes ad additionem atque fubrraftionem revocantur, ita
etiam omnes regula: Logica ad unum judicium vel pegativum, vel
affir* s R.cduftione ad Arithmeticam mativum, hoc eft ad ipfam etiam
additionem, vel fubtra&ionem referuntur. Hæc cum ita fint, quifque
intelligit primo , quod ficuti Diale&icus operetur in ideis , ac
fenfationibus, fic arithmeticus in cyphris numericis: Intelligitur
, quod utriufque finis fit idem hoc eft veritatis inventio Etiam
intelligitur , tot regulas dari in una, quot in altera. Denique patet
mentis operationem in utraque efle eamdem 4 His demonftratis, nonne
fequitur inter has difciplinas dari maximam analogiam. Nonne
Logicaj studiofo esse perquam neceflariam numericam fupputationem? nonne
denique fequitur mentem hac exfufcitari, acui nobilitari. Quibus ita
potius inchoabis', qnam explanatis , patet numericam fupputandi rationem
omnibus efle necef- fariam , maximeque Diale&icis. At fi jethicas, fi oeconomicus, fi politicus
fint ejusdem expertes , habendi funt bardi, & tanquam ftipites
ac trunci. Quis enim fe ipfum regere ac vincere potuerit nifi prius
proprias vires tam phyficas , quam morales fupputaverit ? quo patfto
aliquis fe cohibere prafumat , nifi antea & temperamenti, Sc
propenfionum , &affeftuum impetum definierit ? Quomodo
denique socialis, nifi propria & aliena jura, ni fiqqe propria aliena
officia ante pra>calluerit. Quid tandem dices in aeconomia civili, ac
politica ars numerica cum noftro tempore ^paucis rrtagiftris docenda,
paucifli- jnis vefo difcipulis addifcenda eadem deferatur Q infantuli
natura: humanae afelli! Poffuntne refle profpereque procedere a:que pes
domeflicaE , ac civiles fine ulla numerica fupputatione. Quomodo enim fciremus
hominum multitudinem, qui hunp regnum incolunt: quomodo confummatioriis
quantitatem frugum copiam, animalium fruflum, commercii extenfionem,
indituri» produ^qm ? fine hac fciremps navium numerum, regni fijperficiem,
terrarum omnium produttjones, veftigalium yim , hominum cujufque coetus
lahores, vita: commoda, fortunas, bona, atates, morbos periodicos,
curationes. Penique fine ulla fppputandi arte quisnam scire posset,
hujus regni prafeqtem, ac pme? yitum ft^tum, & quodammodo etiam
futqrum pracogpofpere. Quid multa. Non RcduEltorte dii Arithndeiicdrti .
i8f fltf prafens totius Europæ floritas 1 uni computanJi fpiritui
tribuenda est. Ex di£lis igkur hanc in apertiflimam coriclufionem venio i quod
fi qui impetent, re£le facillimeque computant, ejus regimen est philosophicum
j artes, scientiæque florere debent , atque flatus omni e parte effe
debet fecu- fus ac potens Contraque fi ubiqud mendici, otiosi, ignavi,
fiagitiofi: fi ex flatii extrahantur materiae primae atque im- mittantur
aliorum induflria: i si ars pecuaria negligatus ac commefcium Vilefcat: fi
aftifices, agriculæ, ac laboriofi lngentiffima ve£ligaliuni pondefe
dppri- mantur : fi ftupidi } Vafri, atque iftfcied- tiffimi
fublimantuf, deprifnentufque ho- li efll et induflriofi: si denique
rtlufici f hislriones 1 mimi , balatrones ifiagnifice excipiantur, literatique
autem viri faceflt , dicendunl in illo flatu artem computandi prorfus
ignoraii Inoumbac itaque huic fcrentiae quilibet logicae studiofus 1
iri fuifque operationibus confenefcac Marti visum est, quantum
aeque paupefibi» prodefl i locupletibus arqufe i sfque negle£U viris 1
pueris , fenibufque nocebit. Dialectica, qu# efl afS perficienda rationis
humans, a Grsecis orta Zenoni Eleati VELIA (si veda) Parmenidis auditofi i et
adoptione filio tribuitur, cujus progfefiio f ac fata tum apud
antiquos tum apud recemifti- irtos ufque ad Abbatem Angelorium Patrem
Coeleftirtum brevirtime d£fignatitur. Itemque itir praecipuis fcripfofibus,
cjuid itl iis ^culpatur, quidve laudatur fine partiurti lludio
exponitur, De origine aperntiattunt R.ationii humana , ejuj que maximis
progrejpbus, Ex omnibus animantium generibus tiobis huc ufque. cognitis 1
unus M 4 Jio- homo vi j. 12 rationis cæteris prsfcftat quia hujus facultatis beneficio se ipsum, et
peiie, infinita alia objefta exteriora cognofcit. Sed quo pa£to ; nifi corporum exteriorum diutinis
experimentis in fuos fenfus ? Quid fenfus, iiift qu&dam organa,- quae
nos videmus, tangimus, ac dividimus. Verum quae ita funt,
corporea funt . Homo igitur corpore confiat, Itemqae quilibet homo sua
natura ducitur ad veritatis investigandae studium, 3 d bonam
comparandum , ad malum declinandum. Infuper rerum ordinem, pulcritudinem
, jufiitiam , honeftatem, liberatemque diligit. His addite tot divina
rerum inventa , tot artes, tot dtsciplinas, quæ omnia nonnifi ab homine plumbeo
materiæ solidæ, atque inertiflitnae tribui poflunt, Denique nonne
maximum eft animo ipfo animum videre. Quare homo etiam spirito
confiat. Sed qua via is ad veritatem inve- niendam contendit, ea tam
theoretice, quam practice Logicæ tironibus enucleabitur. Sensus, qui funt
totidem animi fenfationum fulcra y quibus mens veluti excitatur,
concutitur, atque augetur, re£U difiiogutmtur in exteriores, et in
interivres. Primi funt V ©mrri- eo fortius ac
facilius ratiocinatur. Denique quo plures teftes oculati , veraciores, ac
Tagaciores, eo veritatum multitudo augetur. At sapisntiffime quifque
philofophatur, ii fciat, num subjectum, num pradicatum, vel eorundem
relatio eidem iit quarenda. Ad qua; tria revocatis universis
philosophandi mysteriis, curandum primum est, ut vocabula accurate
definiantur, neque ab eorum vi iemel determinata minime recedendam. Curandum secundo est, utrum quafitum iit resolutionis
capax, alias defere. Itemque utrum simplex, vel compositum.
Quibus rite conftitutis: propofitiones omnes ita ordire, ut una
alteri colligatur ceu in catena annuli. Infuper
videndum , utrum quafiti genus fit de rebus phyficis; tunc fenfus
atque experimenta adhibe: ii de rebus abftrattis, rationem
interroga. Si denique de rebus factis, Codices consule. Verum his in
confulendis, ausiorum lingua funt callenda, atque fcienda eft illorum patria ,
astas , religio, seculum , imperium , fefta , mores, adfe£lus , exercitiaque.
Postremo loco inquirendum est, jnum liber sit spurius vel genuinus , vel
interpolatus, vel mutilates. Quibus undique conquifitis,fi aliis volueris
ea tam viva voce, quam scriptis communicare, dic primo quid sit facultas
tfadenda , ex quo & quando orta, qui fuerunt ejufdem progreflus, qua:
fata quique fcriptores , eamque denique in partes diftin£te propone . Qusb
omnia ceu in parva quadam tabula funt tibi perspicue delineanda. Tum
cura, ut omnes rei nodi proponantur , iidemq. fingillatim in operis
progreffu refolvantur. Sed rite procefferis fi voces definias , fi a
rebus fimplicibus ad compofitas procedas, fi pa* radoxa devites fi
auditores ad laborem utilem, atque ad vita: honeftatem inflamtnes, fi
pedantifmura quo undique laboramur, declines. En universa informandæ rationis
ars; en principia, quibus politica arcana formidando velo obdu&a
referantur; en fontes quibus ignorantis tenebrae , ac fuperftitionis tctrificse
lemures cvanefcunt. En denique via, qua in faerum veritatis templum
ingredi quilibet poterit. Verum
quid funt tot arte» , tot fcien^ tiae ? Quid hiftoria omnigena. Quid
ipfk fidei regula a Christo prædicata , a noftrifi que majoribus
nobis propofita $ ni fi totidem merttis humans Computationes. Nam nifi
San&iflimam invenissent, neque ipsi, neque posteris eam
colendam commendassent, Nonne ars computandi in arithmetica
contineatur. Quotquot igitur dantur artes quotquot scientiæ omnes arithmetica
sunt regulæ. At jure merito hoc nomen ufurpat Dialectica; in qua tot
regulæ docentur, quot in altera. Principio univeffae Arithmeticae regulae sunt
additio, ac subtractio, nam ad primam revocatur multiplicatio, ad alteram
divisio. Hæc tam de integris, quam de numeris fractis. Quo ad
potentiarum elevationes ipfae non sunt, mfi multiplicationes; extractiones
vero radicum sunt multiplicationes, ac divisiones simul, hoc est
additiones, ac subtrctiones. Quid multa. Nonne ad has quoque duas
revocantur omnes trium numerorum regulæ. Quibus ita perspectis, si quis
Diale&icae prscepta perpenderit, identidem inveniet. Nam veritatis
objectum eft utrique facultati commune. Altera enim operatur in numeris,
altera in ideis. Itemque mens combinat in utraque nempe in illa
ideas, in hac vero cyphras.Rurfus omnis veritas vel est intuitiva,
vel ex idearum combinatione innoiefcit, scilicet vel addas ideas, vel eas
inter se separes. Nonne ha; sunt additio, subtractio,
ac regula trium. Uti igitur quartus numerus proportionalis cum regula aurea
invenitur in arithmetica, ita etiam quarta idea in Logica cum ratiocinatione
invenitur. Quisquis igitur Logicam voluerit optime callere, in Arithmetica;
fupputationibus se terat ac consenescat; nam. ea, ut bene
Horatius: Æqua pauperibus prodejl, locupletibus. j . æque: Æque
neglefta viris, Pueris, Sertibufq nocebit. Francesco Longano. Longano.
Keywords: dell’uomo naturale, metafisica, logica. Luigi Speranza, “Grice e
Longano: esame fisico dell’uomo” “Grice e Longano: la semiotica” – The
Swimming-Pool Library.
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