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Monday, September 23, 2024

GRICE ITALO A/Z L L4

 

 

Grice e Limone: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della simbolica del potere – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Atella). Filosofo italiano. Atella, Potenza, Basilicata. Grice: “I like Limone; like me, he has explored the idea of value in terms of catastrophe – I didn’t. He has explored the poetics of philosophy – and he has investigated on a concept that Strawson and I always found fascinating, that of a person!” -- “Che cosa è, nel mondo umano, la persona?” “Tutto.” “Che cosa è, nel mondo contemporaneo, la persona?”” Nulla.” Persona e memoria, Rubbettino. La sua ricerca filosofica si inserisce nel solco del personalismo comunitario. Si laurea a Napoli e il  Roma. Studia a Parigi e a Châtenay-Malabry, sede dell'Association des amis de Mounier, presso la Comunità dei muri bianchi, cui appartenevano Fraisse, Ricœur, Mounier, Domenach. Insegna a Napoli. I suoi interessi di ricerca abbracciano aspetti epistemologici, etici, filosofico-pratici e simbolici. Al centro della sua attenzione teoretica è “la persona”. Fonda la rivista "Persona” e "Symbolicum" sulla simbolica. SIMBOLO. Sonda in profondità l’idea di persona. Là dove la persona non è né la semplice nobilitazione dell’essere umano in generale, né una singola unità seriale. Della persona si può dare idea, non “concetto”, perché l’idea è aperta come la vita, mentre il concetto è chiuso. L’idea di persona, però, non è l’idea di un quid ma di un “QVIS” perché la persona è un “chi” (“Someone is hearing a noise”) non un “che” (“Something is hearing a noise”)– That’s why it’s very wrong to call “the chair is red” as third-PERSON seeing that the chair is hardly a person!” è l’idea di un’essenza che non può essere separata dalla concreta singola esistenza, originalissima e dotata di dignità. In quanto idea di un “quis”, la persona si presenta come l’altro versante del teorema d’incompletezza di Gödel. Il significato della persona si delinea all’interno di una costellazione in cui essa: -è realtà singolare e la sua idea; -è prospettiva ontologica sussistente e la sua verità; -è la parte di un tutto che solo parzialmente è parte, perché per altro verso si presenta come un tutto, in quanto è irriducibile al tutto e indivisibile in sé; -è l’eccezione istituente una regola che riesce, e non riesce, a farsene istituire; -è l’idea di qualcosa che resiste alla possibilità di essere ricondotto a un’idea; -è l’idea di un appartenere che resiste all’idea di appartenere. L’essere della persona richiama, a suo modo, il problema delle antinomie di Russell. Un tale arcipelago di paradossi costituisce, però, una forza virtuosa che interroga ogni sistema. La persona si configura come invenzione teorica, paradosso logico e misura epistemologica, e rappresenta il punto strutturale di base che istituisce la visione del gius-personalismo. Altri saggi: “Tempo della persona e sapienza del possibile: Valori, politica, diritto (ESI, Napoli); “Tempo della persona e sapienza del possibile: Per una teoretica, una critica e una metaforica del personalismo (ESI, Napoli); La catastrofe come orizzonte del valore, Monduzzi, Milano. Bellezza e persona, su “Aisthema” “La macchina delle regole, la verità della vita. Appunti sul fondamentalismo macchinico nell’era contemporanea, in La macchina delle regole, la verità della vita (Angeli, Milano); Che cos’è il gius-personalismo? Il diritto di esistere come fondamento dell’esistere del diritto, Monduzzi, Milano. Ars boni et aequi. Ovvero i paralipòmeni della scienza giuridica. Il diritto fra scienza, arte, equità e tecnica (Angeli, Milano), Filosofia e poesia come passioni dell’anima civile. La persona fra potere e memoria in Persona, Artetetra, Capua. Persona e memoria – cf. Grice, “Personal identity” -- “Oltre la maschera” il compito del pensare come diritto alla filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli. Poesia Polifonia d’un vento (Salerno-Roma). Dentro il tempo del sole (Salerno-Roma). Ore d’acqua (Salerno-Roma). Incontrando il possibile re (Salerno-Roma). “Notte di fine millennio” (Bari). Fenicia, sogno di una stella a nord-ovest (Roma). L'angelo sulle città, in onore del figlio (Roma ). Le ceneri di Pasolini (Pasturana, Alessandria). Aforismi di un impiccato felice (Salerno). Aforismi del passato duemila: distruzioni per l'uso (Salerno). Ossi di limone. Aforismi di uno scostumato (Vatolla). Sierra Limone. Dai taccuini fenici di Er Limonèro (Vatolla). NV. Melchiorre, Essere persona, Fondazione A. e G. Boroli, Milano Fondazione roberto farina. Giuseppe Limone. Limone. Keywords: simbolo, simbolismo, la dimensione del simbolo,  ventennio, fascismo, simbolica del potere, mistica fascista, damnatio memoriae, la composita, la simbolica, simbolo, composito. Strawson, “The concept of a person” – Ayer: “The concept of a person” – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Limone: la composita” --.  Luigi Speranza, “Grice e Limone: umano e persona” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lisi: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean. When the Pythagoreans were being persecuted in Italy, L. escapes and makes his way to Teba. There he becomes the tutor of Epaminonda, the city’s military leader. He writes a letter to Ipparco. Lisi

 

Grice e Lisiade: all’isola – la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia siciliana – scuola di Catania. filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Catania, Sicilia. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lisibio: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese – scuola di Taranto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lisimaco: la ragione conversazionale al portico romano --  Roma – filosofia toscana – filosofia fiorentina – scuola di Firenze -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. He belonged to The Porch. The tutor of Amelio Gentiliano. Since Amelio comes from Firenze, that may be taken as having been the home of L. as well.

 

Grice e Livio: la ragione conversazionale e la storia romana come fonte della morale romana – etica togata -- Roma – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova) Filosofo italiano. Padova, Veneto. Although famous as one of the great Roman historians, he is also a philosopher, who popularises the genre of the ‘dialogo filosofico.’ Pre-testo. DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI LIVIO di MACHIAVELLI, FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. MACHIAVELLI A ZANOBI BUONDELMONTI E COSIMO RUCELLÀI SALUTE. o  vi  mando  un  presente, il quale se non corrisponde agl’obblighi clic io ho con voi,  è tale senza dubbio, quale ha potuto Machiavelli mandarvi maggiore. Perchè in quello io ho espresso quanto io so, quanto io ho imparato per una lunga pratica e continova lezione delle cose del mondo. E non  porlendo    voi    altri  disiderare  da  me più,  non  vi  potete  dolere  se  io  non  vi ho  donato  più.  Bene  vi  può  incrcsccre della  povertà  dello  ingegno  mio,  quando siano  queste  mie  narrazioni  povere ; e della fallacia del  giudizio, quando  io in  molte  parli , discorrendo, m'inganni. Il che  essendo , won  so  quale  di  noi  si abbia  ad  esser  meno  obbligato  all’altro; o io  a voi , che  mi  avete  forzalo  a scrivere quello  ch’io  mai  per  me  medesimo non  arci  scritto;  o voi  a me,  quando scrivendo  non  abbi  soddisfatto. Pigliate, adunque,  questo  in  quello  modo  che  si pigliano  tulle  le  cose  degli  amici:  dove si considera  più  sempre  la  intenzione di chi  manda,  che  le  qualità  della  cosa che  è mandata.  E crediate  che  in  questo io  ho  una  salis fazione , quando  io penso  che,  sebbene  io  mi  fussi  ingannato in  molle  sue  circostanze,  in  questa sola  so  eh io  non  ho  preso  errore,  di avere  delti  voi,  ai  quali  sopra  tutti  gli altri  questi  miei  Discorsi  indirizzi : sì perché,  facendo  questo,  ini  pnre  aver mostro  qualche  gratitudine  de  benefizii ricevuti : si  perchè  e  mi  pare  esser uscito  fuora  dell’uso  comune  di  coloro che  scrivono , i quali  sogliono  sempre le  loro  opere  a qualche  principe  indirizzare ; e,  accecati  dall’ambizione  c dall’avarizia,  laudano  quello  di  tutte le  virtuose  qualitadi,  quando  di  ogni vituperevole  parte  doverrebbono  biasimarlo. Onde  io,  per  non  incorrere  in questo  errore,  ho  eletti  non  quelli  che sono  Principi,  ma  quelli  che  per  le  infinite buone  parti  loro  meriterebbono  di essere ; nè  quelli  che  polrebbono  di  gradi, di  onori  e di ricchezze riempiermi, ma  quelli  che,  non  polendo,  vorrebbono farlo.  Perchè  gli  uomini,  volendo  giudicare dirittamente,  hanno  a stimare quelli  che  sono , non  quelli  che  possono esser  liberali;  e così  quelli  che  sanno , non  quelli  che, senza  sapere,  possono governare  un  regno.  E gli  scrittori  laudano più  Icronc  Siracusano  quando  egli era  privato,  che  Perse Macedone quando egli  era  re:  perchè  a Icronc  a esser principe  non  mancava  altro  che il principato; quell’altro  non  avera  parte alcuna  di  re,  altro  che  il  regno.  Godetevi, pertanto  quel  bene  o quel  male  che voi  medesimi  avete  voluto  : e se  voi  starete in  questo  errore,  che  queste  mie oppinioni  vi  siano  grate , non  mancherò di  seguire  il  resto della  istoria,  secondo che  nel  principio  vi  promisi. Valete Ancouaciiè,  per  la invida  natura  degli uomini,  sia  sempre  stato  pericoloso il  ritrovare  modi  ed  ordini  nuovi,  quanto il  cercare  acque  e terre  incognite,  per essere  quelli  più  pronti  a biasimare  che a laudare  le  azioni  d’ altri  ; nondimeno, spinto  da  quel  naturale  desiderio  che fu  sempre  in  me  di  operare,  senza  alcun rispetto,  quelle  cose  che  io  creda rechino  comune  benefìzio  a ciascuno,  ho deliberato  entrare  per  una  via,  la  quale, non  essendo  stata  per  ancora  da  alcuno pesta,  se la mi arrecherà fastidio e diffìcultù,  mi potrebbe  ancora  arrecare  premio,  mediante  quelli  che  umanamente di  queste  mie  fatiche  conside-rassero. E se  T ingegno  povero,  la  pocoesperienza  delle  cose  presenti,  la  de-bole notizia  delle  antiche,  faranno  que-sto mio  conato  difettivo  e di  non  moltautilità  ; daranno  almeno  la  via  ad  al-cuno, che  con  più  virtù,  più  discorso  egiudizio,  potrà  a questa  mia  intenzionesatisfare:  il  che  se  non  mi  arrecheràlaude,  non  mi  dovrebbe  partorire  bia-simo. E quando io  considero quantoonore si attribuisca all’antichità,  c comemolte  volte,  lasciando andare  moltialtri  esempi,  un  frammento  d’ una  antica statua  sia  stato  comperato  granprezzo,  per  averlo  appresso  di  sè,  onorarne la  sua  casa,  poterlo  fare  imitareda  coloro  che  di  quella  arte  si  diletta-no; e come  quelli  poi  con  ogni  indu-stria si  sforzano  in  tutte  le  loro opererappresentarlo:  e vcggendo,  dall’altrocanto,  le  virtuosissime  operazioni  che  leistorie  ci  mostrano,  che  sono  state  operate  da  regni  cda  repubbliche  auliche,dai  re,  capitani,  cittadini,  datori  di  leggi,ed  ultri  che  si  sono  per  la  loroatfaticati,  esser  più  presto  ammirate  cheimitate;  au/i  in  tanto  da  ciascuno  inogni  parte  fuggite,  che  di  quella  anticavirtù  non  ci  è rimaso  alcun  seguo:posso  fare  che  insieme  non  me  nelavigli  e dolga;  e tanto  più,  quantoveggio  nelle  differenze  che  intra  iladini  civilmente  nascono,  o nelle  inalattie  nelle  quali  gli  uomini  incorrono,essersi  sempre  ricorso  a quelli  giudiciio a quelli rimedi che dagli antichi sonostati giudicati  o ordinati.  Perchè  le  leggicivili  non  sono  altro  che  sentenzio  datedagli  antichi  iurcconsulti,  le  quali,  ridotte in  ordine,  a’ presenti  nostri  iure-consulti  giudicare  insegnano;    ancorala  medicina  è altro  che  cspcrienzia  fattadagli  antichi  medici,  sopra  la  quale  fon-dano i medici  presenti  li  loro  giudicii. Nondimeno,  nello  ordinare  le  repubbli-che, nel  mantenere  gli  Stati,  nel  govcr-nai  e i regni,  nell’  ordinare  la  milizia  edamministrar  la  guerra,  nel  giudicare  isudditi,  nello  accrescere  lo  imperio,  nonsi  trova    principi,    repubbliche,  nècapitani,    cittadini  che  agli  esempidegli  antichi  ricorra.  Il  che  mi  persuadoche  nasca  non  tanto  dalla  debolezzanella  quale  la  presente  educazione  hacondotto  il  mondo,  o da  quel  male  cheuno  ambizioso  ozio  ha  fatto  a molteprovincie  c città  cristiane,  quanto  dalnou  avere  vera  cognizione  delle  istorie,per  non  trarne,  leggendole,  quel  senso,nè  gustare  di  loro  quel  sapore  che  lehanno  in  sè.  Donde  nasce  che  infinitiche  leggono,  pigliano  piacere  di  udirequella  varietà  delli  accidenti  che  in  essesi  contengono,  senza  pensare  altrimeuted’ imitarle,  giudicando  la  imitazione  nonsolo  difficile  ma  impossibile:  come  se  ilcielo,  il  sole,  gli  elementi,  gli  uominifossero  variati  di  moto,  d’ordine  e dipotenza,  da  quello  eli’ egli  erano  antica-mente. Volendo,  pertanto,  trarre  gli  uo-mini  di  questo  errore,  ho  giudicalo  ne-cessario scrivere  sopra  tutti  quelli  libri di  L. che  dalla  malignità  deitempi  non  ci  sono  stati  interrotti,  quelloche  io,  secondo  le  antiche  e modern cose,  giudicherò  esser  necessario  permaggiore  intelligenzia  d'essi;  acciocchécoloro  che  questi  miei  discorsi  legge-ranno, possino  trarne  quella  utilità  perla  quale  si  debbe  ricercare  la  cogni-zione della  istoria.  G benché questa impresa sia  difficile,  nondimeno,  aiutato  dacoloro  che  mi  hanno  ad  entrare,  sotto  aquesto  peso  confortato,  credo  portarloin  modo,  che  ad  un  altro  resterà  brevecammino  a condurlo  al  luogo  destinato. I.  Quali  siano  stati  universalmente i pr  incipit’  di  qualunque  città ,c quale  fosse  quello  di  ROMA. Coloro  che  leggeranno  qual  principio fosse  quello  della  città  di  ROMA,  e da quali  legislatori  e come  ordinato,  non si  maraviglieranno  che  tanta  virtù  sisia  per  più  secoli  mantenuta  in  quella città;  e che  dipoi  ne  sia  nato  quello  im-perio, al  quale  quella  repubblica  ag-giunse. E volendo  discorrere  prima  il nascimento  suo,  dico  che  tutte  le  cittàsono  edificate  o dagli  uomini  natii  delluogo  dove  le  si  edificano,  o dai  forestieri. Il primo  caso  occorre  quandoagli  abitatori  dispersi  in  molte  e piccole parli  non  par  vivere  sicuri,  nonpotendo  ciascuna  per  sè,  e per  il  sitoe per  il  piccol  numero,  resistere  all’impeto di  chi  le  assaltasse;  e ad  unirsi  perloro  difensione,  venendo  il  nemico,  nonsono  a tempo;  o quando  fossero,  converrebbe loro  lnsciare  abbandonati  molti de’ loro  ridotti,  e cosi  verrebbero  ad  esser sùbita  preda  dei  loro  nemici:  talmente che,  per  fuggire  questi  pericoli, mossi  o da  loro  medesimi,  o da  alcunoche  sia  infra  di  loro  di  maggior  autorità, si  ristringono  ad  abitar  insieme  in luogo  eletto  da  loro,  più comodo a vivere  e più  facile  a difendere.  Di  queste,infra  molle  altre,  sono  state  Atene  e Vincaia. La  prima,  sotto  l’autorità  di  Teseo, fu  per simili  cagioni  dalli  abitatoridispersi  edificata;  l’altra,  sendosi  moltipopoli  ridotti  in  certe  isolette  che  eranonella punta del mare Adriatico, per fuggire quelle  guerre  che  ogni  dì,  per  loavvenimento  di  nuovi  barbari,  dopo  ladeclinazione  dello  imperio  romano,  na-scevano in  ITALIA,  cominciarono  infra loro,  senza  altro  principe  particolareclic  gli  ordinassi,  a vivere  sotto  quelleleggi  che  parvono  loro  più  atte  a mantenerli. Il  che  successe  loro  felicemente per  il  lungo  ozio  che  il  sito  dette  loro, non  avendo  quel  mare  uscita,  e nonavendo  quelli  popoli  che  affliggevano ITALIA,  navigi  da  poterli  infestare:  talché ogni  picciolo  principio  li  potò  fare  ve-nire a quella  grandezza  nella  quale  sono. Il  secondo  caso,  quando  da  genti  forestiere è edificata  una  città,  nasce  o dauomini  liberi,  oche  dipendano  da  altri come  sono  le  colonie  mandate  o da  unarepubblica  o da  un  principe,  per  Sgra-vare le  . loro  terre  d’abitatori,  o per  di-fesa di  quel  paese  che,  di  nuovo  acqui-stato, vogliono  sicuramente  e senzaspesa  mantenersi;  delle  quali  città  IL POPOLO ROMANO ne  edificò  assai,  e pertutto  l’imperio  suo:  ovvero  le  sono  edi-ficate da  un  principe,  non  per  abitarvi,nia  per  sua  gloria;  come  la  città  di Alessandria  da  Alessandro.  E per  nonavere  queste  cittadl  la  loro  origine  libera,rade  volte  occorre  che  le  facciano  pro-gressi grandi,  e possinsi  intrai  capi  deiregni  numerare.  Simile  a queste  fu  V edificazione di  FIRENZE,  perchè  (fi  edificatada’ soldati  di  SILLA,  o,  a caso,  dagli  abitatori dei  monti  di  Fiesole,  i quali,  confi-datisi in  quella  lunga  pace  che  sotto  OTTAVIANO nacque  nel  mondo,  si  ridusseroad  abitare  nel  piano  sopra  Arno)  si  edi-ficò sotto  l’imperio  romano;    potette,ne’  principii  suoi,  fare  altri  augumentiche  quelli  che  per  cortesia  del  principe li  erano  concessi.  Sono  liberi  li  edificatori delle  cittadi,  quando  alcuni  popoli,o sotto  un  principe  o da  per  sé,  sonocostretti,  o per  morbo  o per  fame  o perguerra,  od  abbandonare  il  paese  potrio,e cercarsi  nuova  sede  : questi  tali,  oegli  abitano  le  cittadi  elle  e’ trovano  neipaesi  eli’ egli  acquistano,  come  fece  Moisè;  o ne  edificano  di  nuovo,  come  fe ENEA.  In  questo  caso  è dove  si  conosce la  virtù  dello  edificatore,  e la  fortunadello  edificato:  la  quale  è più  o menomeravigliosa,  secondo  che  più  o menoè virtuoso  colui  che  ne  è stato  principio.La  virtù  del  quale  si  conosce  in  duoimodi:  il  primo  è nella  elezione  del  sito;F altro  nella  ordinazione  delle  leggi.  Eperchè  gli  uomini  operano  o per  necessità o per  elezione;  e perchè  si  vede quivi  esser  maggiore  virtù  dove  la  elezione ha  meno  autorità;  è da  considerare se  sarebbe  meglio  eleggere,  per  laedificazione  delle  cittadi,  luoghi  sterili,acciocché  gli  uomini,  costretti  ad  indùstriarsi,  meno  occupati  dall’ozio,  vives-sino  più  uniti,  avendo,  per  la  povertàdel  sito,  minore  cagione  di  discordie;come  intervenne  in  Raugia,  e in  moltealtre  cittadi  in  simili  luoghi  edificate:la  quale  elezione  sarebbe  senza  dubbiopiù  savia  e più  utile,  quando  gli  uo-  .mini  fossero  contenti  a vivere  delloro,e non  volcssino  cercare  di  comandarealtrui.  Pertanto,  non  potendo  gli  uominiassicurarsi  se  non  con  la  potenza,  ènecessario  fuggire  questa  sterilità  del pnese,  e porsi  in  luoghi  fertilissimi  ;dove,  potendo  per  la  ubertà  del  sito  ampliare, possa  e difendersi  da  chi  l’ assaltasse, e opprimere  qualunque  alla  grandezza sua  si  opponesse.  G quanto  a quell’ozio  che  le  arrecasse  il  sito,  si debbe  ordinare  che  a quelle  necessitadi le  leggi  la  costringhino  che  ’l  sito  non la  costringesse;  ed  imitare  quelli  che sono  stati  savi,  ed  hanno  abitato  in  paesiamenissimi  e fertilissimi,  c alti  a pròdurre  uomini  oziosi  ed  inabili  ad  ogni virtuoso  esercizio:  chè,  per  ovviare  aquelli  danni  i quali  l’amenità  del  paese,mediante  l’ozio,  arebbero  causati,  hannoposto  una  necessità  di  esercizio  a quelliche  avevano  a essere  soldati:  di  qualitàche,  per  tale  ordine,  vi  sono  diventatimigliori  soldati  che  in  quelli  paesi  i qualinaturalmente  sono  stati  aspri  e steriliIntra  i quali  fu  il  regno  degli  Egizi,  chenon  ostante  che  il  paese  sia  amenissi-mo, tanto  potette  quella  necessità  ordi-nata dalle  leggi,  che  vi  nacquero  uo-mini eccellentissimi;  e se  li  nomi  loronon  fussino  dalla  antichità  spenti,  sivedrebbe  come  meriterebbero  più  laudeche  Alessandro  Magno,  c molti  altri  deiquali  ancora*  è la  memoria  fresca.  E chiavesse  considerato  il  regno  del  Soldano,e l’ordine  de’Mammaluchi.  e di  quellaloro  milizia,  avanti  che  da  Sali,  GranTurco,  fusse  stata  spenta  ; arebbe  ve-duto ili  quello  molti  esercizi  circa  i sol-dati, ed  arebbe  in  fatto  conosciutoquanto  essi  temevano  quell’ozio  a che la  benignità  del  paese  gli  poteva  con-durre, se  non  vi  avessino  con  leggi  for-tissime ovviato.  Dico,  adunque,  esserepiù  prudente  elezione  porsi  in  luogofertile,  quando  quella  fertilità  con  leleggi  infra*  debili  termini  si  restringe.Ad  Alessandro  Magno,  volendo  edificareuna  città  per  sua  gloria,  venne  Dino-erate  architetto,  e gli  mostrò  come  eila  poteva  fare  sopra  il  monte  Albo;  ilquale  luogo,  oltre  allo  esser  forte,  po-trebbe ridursi  in  modo  che  a quellacittà  si  darebbe  forma  umana;  il  chesarebbe  cosa  meravigliosa  e raro,  e de-gna della  sua  grandezza:  e domandan-dolo Alessandro  di  quello  che  quelli  abi-tatori viverebbono,  rispose,  non  ci  averepensato:  di  che  quello  si  rise,  e lasciatostare  quel  monte,  edificò  Alessandria,dove  gli  abitatori  avessero  a stare  vo-lentieri per  la  grassezza  del  paese,  e perla  comodità  del  mare  e del  Nilo.  Chi  esa-minerò, adunque,  la  edificazione  di  Ro-ma, se  si  prenderà  Enea  per  suo  primoprogenitore,  sarà  di  quelle  citladi  edifi-cate da’  forestieri  ; se  Romolo,  di  quelleedificate  dagli  uomini  natii  del  luogo;ed  in  qualunciic  modo,  la  Vedrà  avereprincipio  libero,  senza  depcndere  da  al-cuno: vedrà  ancora,  come  di  sotto  sidirà,  a quante  necessitadi  le  leggi  fatteda  Romolo,  Numa,  e gli  altri,  la  costrin-gessino  ; talmente  clic  la  fertilità  del  sito,la  comodità  del  mare,  le  spesse  vittorie,la  grandezza  dello  imperio,  non  la  po-terono per  molti  secoli  corrompere,  e Ir»    **mantennero  piena  di  tante  virtù,  djp^quante  mai  fusse  alcun’ altra  repubblicaornata.  E perchè  le  cose  operate  da  lejj,  ^e che  sono  da  Tito  Livio  celebrate,  sonoseguite  o per  pubblico  o per  privatoconsiglio,  o dentro  o fuori  della  cittade,io  comincerò  a discorrere  sopra  quellecose  occorse  dentro,  e per  consiglio  pub-blico, le  quali  degne  di  maggiore  an-notazione giudicherò,  aggiungendovi  tut-to quello  che  da  loro  dependessi  : coni quali  Discorsi  questo primo libro, ovvero  Questa  prima  parte,  si  terminerà. Di  quante  spezie  sono  le  *epnbbtiche , e di  quale  fu  la  Repubblica Romana. Io  voglio  porre  da  parte  il  ragionare di  quelle  cittadi  clic  hanno  avuto  il  loro principio  sottoposto  ad  altri;  e parlerò di  quelle  che  hanno  avuto  il  principio 'ontano  do  ogni  servitù  esterna,  nia  si ; j sono  subito  governate  per  loro  arbitrio, o come  repubbliche  o come  principato: U quali  hanno  avuto,  come  diversi  principi, diverse  leggi  ed  ordini.  Perchè  ad alcune,  o nel  principio  d’esse,  o dopo non  molto  tempo,  sono  state  date  da  un

solo  le  leggi,  e ad  un  tratto  ; come  quelle che  furono  date  da  Licurgo  agli  Spartani: alcune  le  hanno  avute  a caso,  ed in  più  volte,  e secondo  li  accidenti,  come Roma.  Talché,  felice  si  può  chiamare quella  repubblica,  la  quale  sortisce  uno uomo    prudente,  che  le  dia  leggi  ordinate in  modo,  che  senza  avere  bisogno di  correggerle,  possa  vivere  sicuramente sotto  quelle.  E si  vede  che  Sparta  le osservò  più  che  ottocento  anni  senza corromperle,  o senza  alcuno  tumulto  pericoloso: e,  pel  contrario,  tiene  qualche grado  d’  infelicità  quella  città,  che,  non si  sendo  abbattuta  ad  uno  ordinatore prudente,  è necessitata  da    medesima riordinarsi:  e di  queste  ancora  è più infelice  quella  che  è più  discosto  dall’ordine; e quella  è più  discosto, con  suoi  ordini  è al  tutto  fuori  del  dritto cammino,  che  la  possi  condurre  al  perfetto e vero  fine:  perchè  quelle  clic  sonoiu  questo  grado,  è quasi  impossibile  che per  qualche  accidente  si  rassettino. Quel le altre  che,  se  le  non  hanno  V ordine perfetto,  hanno  preso  il  principio  buono,e atto  a diventare  migliori,  possono  perla  occorrenza  delli  accidenti  diventareperfette.  Ma  fia  ben  vero  questo, mai  non  si  ordineranno  senza  pericolo

perchè  li  assai  uomini  non  si  accordano mai  ad  una  legge  nuova  che  riguardi uno  nuovo  ordine  nella  cit tà,  se  non  è mostro  loro  da  una  necessità  che  bisogni farlo  ; e non  potendo  venire  questa necessità  senza  pericolo,  è facil  cosa  che quella  repubblica  rovini,  avanti  che  la si  sia  condotta  a una  perfezione  d’ordine. Di  che  ne  fa  fede  appieno  la  re-pubblica di  Firenze,  la  quale  fu  dalloaccidente  d’  Arezzo,  nel  11,  riordinata,  eda  quel  di  Prato,  nel  XII,  disordinata.Volendo,  adunque,  discorrere  quali  fu-rono li  ordini  della  città  di  Roma,  equali  accidenti  alla  sua  perfezione  lacondussero)  dico,  come  alcuui  che  hannoscritto  delle  repubbliche,  dicono  essere in  quelle  uno  de' tre stati,  chiamati daloro  Principato,  d’Ottimati  e Popolare; e come  coloro  che  ordinano  una  città, debbono  volgersi  ad  uno  di  questi,  secondo pare  loro  più  a proposito.  Alcuni altri,  e secondo  la  oppinione  di  molti più  savi,  hanno  oppinione  che  siano  di sei  ragioni  governi;  delti  quali  tre  ne siano  pessimi;  tre  altri  siano  buoni  in loro  medesimi,  ma    focili  a corrompersi, che  vengono  ancora  essi  ad  essere perniziosi.  Quelli  che  sono  buoni, sono  i soprascritti  tre:  quelli  clic  sono rei,  sono  tre  altri,  i quali  da  questi  tre dependono;  c ciascuno  d’  essi  è in  modo simile  a quello  che  gli  è propinquo,  che facilmente  saltano  dall’  uno  all’  altro: perchè  il  Principato  facilmente  diventa tirannico;  li  Ottimati  con  facilità  diventano stato  di  pochi  ; il  Popolare  senza diflìcultà  in  licenzioso  si  converte.  Talmente che,  se  uno  ordinatore  di  repubblica ordina in una città uno  di  quelli tre  stati,  ve  lo  ordina  per  poco  tempo; perchè  nessuno  rimedio  può  farvi,  a far che  non  sdruccioli  nel  suo  contrario, per  la  similitudine  che  ha  in  questo caso  la  virtù  ed  il  vizio.  Nacquono  queste variazioni  di  governi  a caso  intra li  uomini:  perchè  nel  principio  del  mondo, sendo  li  abitatori  rari,  vissono  un tempo  dispersi,  a similitudine  delle  bestie; dipoi,  multiplicando  la  generazione, si  ragunorno  insieme,  e,  per  potersi meglio  difendere,  cominciorno  a riguardare fra  loro  quello  che  fusse  più  robusto c di  maggiore  cuore,  c fecionlo come  capo,  e lo  obedivano.  Da  questo nacque  la  cognizione  delle  cose  oneste e buone, differenti dalle perniziose  e ree:  perchè,  veggendo  che  se  uno  noceva  al  suo  benefattore,  ne  veniva  odio e compassione  intra  gli  uomini,  biasimando li  ingrati  ed  onorando  quelli  che fusscro  grati,  e pensando  ancora  che quelle  medesime  ingiurie  potevano  esser fatte  a loro;  per  fuggire  simile  male,  si riducevano  a fare  leggi,  ordinare  punizioni a chi  contea  facesse:  donde  venne la  cognizione  della  giustizia.  La  qual cosa  faceva  che  avendo  dipoi  ad  eleggere un  principe,  non  andavano  dietro al  più  gagliardo,  ma  a quello  che  fussi più  prudente  c più  giusto.  Ala  come  di poi si  cominciò  a fare  il  principe  per successione,  e non  pei*  elezione,  subito cominciorno  li  eredi  a degenerare  dai loro  antichi  ; e lasciando  1’  opere  virtuose, pensavano  che  i principi  non avessero  a fare  altro  clic  superare  li  altri di  sontuosità  e di  lascivia  c d’  ogni  altra' qualità  deliziosa:  in  modo  che,  cominciando il  principe  ad  essere  odialo,  e per  tale  odio  a temere,  e passando  tosto dal  timore  all’  offese,  ne  nasceva presto  una  tirannide.  Da  questo  nacquero appresso  i principi»  delle  rovine,  c delle conspirazioni  e congiure  contea  i principi; non  fatte  da  coloro  clic  fussero  o timidi  o deboli,  ma  da  coloro  che  per genei'osità,  grandezza  d’  animo,  ricchezza e nobiltà,  avanzavano  gli  altri;  i quali non  potevano  sopportare  la  inonesta  vita di  quel  principe.  La  moltitudine,  adunque, seguendo  l’ autorità  di  questi  potenti, si  armava  contra  al  principe,  c quello  spento,  ubbidiva  loro  come  a suoi liberatori.  E quelli,  avendo  in  odio  il nome  d’  uno  solo  capo,  constituivano  di loro  medesimi  un  governo;  e nel  piincipio,  avendo  rispetto  alla  passata  tiratinide,  si  governavano  secondo  le  leggi ordinate  da  loro,  posponendo  ogni  loro comodo  alla  comune  utilità  ; e le  cose private  e le  pubbliche  con  somma  diligenzia  governavano  c conservavano.  Venuta  dipoi  questa  amministrazione  ai loro  figliuoli,  i quali,  non  conoscendo  la variazione  della  fortuna,  non  avendo mai  provato  il  male,  e non  volendo  stare contenti  alla  civile  equalità,  ma  rivoltisi alla  avarizia,  alla  ambizione,  alla  usurpazione delle  donne,  feciono  clic  d’  uno governo  d’  Ottimati  diventassi  un  governo di  pochi,  senza  avere rispetto ad alcuna  civiltà  : tal  che  in  breve  tempo intervenne  loro  come  al  tiranno;  perchè infastidita  da’  loro  governi  la  moltitudine, si  fe  ministra  di  qualunque  disegnassi in  alcun  modo  offendere  quelli governatori;  e cosi  si  levò  presto  alcuno che,  con  I’  aiuto  della  moltitudine, li  spense.  Ed  essendo  ancora  fresca  la memoria  del  principe  e delle  ingiurie ricevute  da  quello,  avendo  disfatto  lo Stato  de’  pochi  e non  volendo  rifare  quell del  principe,  si  volsero  allo  Stato  popolare; c quello  ordinarono  in  modo,  che nè  i pochi  potenti,    uno  principe  vi avesse  alcuna  autorità.  E perchè  tutti gli  Stali  nel  principio  hanno  qualche  reverenza, si  mantenne  questo  Stato  popolare un  poco,  ma  non  molto,  massime spenta  che  fu  quella  generazione  che l’aveva  ordinato;  perchè  subito  si  venne alla  licenzia,  dove  non  si  temevano nè  li  uomini  privati    i pubblici;  di qualità  che,  vivendo  ciascuno  a suo  modo, si  facevano  ogni  di  mille  ingiurie:  talché, costretti  per  necessità,  o per  suggestione  d’ alcuno  buono  uomo,  o per fuggire  tale  licenzia,  si  ritorna  di  nuovo al  principato;  e da  quello,  di  grado  in grado,  si  riviene  verso  la  licenzia,  nei modi  e per  le  cagioni  dette.  E questo  è il  cerchio  nel  quale  girando  tutte  le  repubbliche si  sono  governate,  e si  governano:  ina  rade  volte  ritornano  nei governi  medesimi;  perchè  quasi  nessuna repubblica  può  essere  di  tanta  vita, che  possa  passare  molle  volte  per  queste mutazioni,  c rimanere  in  piede.  Ma bene  interviene  che,  nel  travagliare,  una repubblica,  mancandoli  sempre  consiglio e forze,  diventa  suddita  d'uno  Stato  propinquo, clic  sia  meglio  ordinato  di  lei  : ina  dato  che  questo  non  fusse,  sarebbe atta  una  repubblica  a rigirarsi  infinito tempo  in  questi  governi.  Dico,  adunque, che  lutti  i detti  modi  sono  pestiferi,  per la  brevità  della  vita  che  è ne’  tre  buoni, e per  la  malignità  che  è ne*  tre  rei.  Talché, avendo  quelli  che  prudentemente ordinano  leggi  conosciuto  questo  difetto, fuggendo  ciascuno  di  questi  modi  per se  stesso,  n’  elessero  uno  che  partieipasse  di  lutti,  giudicandolo  più  fermo  e più  stabile  ; perchè  l’uno  guarda  l’altro, scudo  in  una  medesima  città  il  Principato, li  Ottimati  ed  il  Governo  Popolare. Infra  quelli  che  hanno  per  simili constituzioni  meritato  più  laude,  è Licurgo; il  quale  ordinò  in  modo  le  sue leggi  in  Sparta,  che  dando  le  parti  sue ai  He,  agli  Ottimali  e al  Popolo,  fece uno  Stato  che  durò  più  che  ottocento anni,  con  somma  laude  sua,  e quiete  di quella  città.  Al  contrario  intervenne  a Solone,  il  quale  ordinò  le  leggi  in  Atene che  per  ordinarvi  solo  lo Stato  popolare lo  fece  di    breve  vita,  che  avanti  morisse vi  vide  nata  la  tirannide  di  Pisistrato:  e benché  dipoi  anni  quaranta ne  fusscro  cacciati  gli  suoi  eredi,  c ritornasse Atene  in  libertà,  perchè  la  riprese lo  Stato  popolare,  secondo  gli  ordini di  Solone;  non  lo  tenne  più  cliccento  anni,  ancora  che  per  mantenerlo facesse  molte  constituzioni,  per le  quali  si  reprimeva  la  iusolenzia grandi  c la  licenzia  dell’  universale,  le quali  non  furou  da  Solonc  considerate nientedimeno,  perchè  la  non  le  mescolò con  la  potenzia  del  Principato  e con quella  dclli  Ottimali,  visse  Atene, spetto  di  Sparla,  brevissimo  tempo.  Ria vegniamo  a ROMA  ; la  quale  nonostante che  non  avesse  uno  Licurgo  che  la  ordinasse in  modo,  ilei  principio,  che  la  potesse vivere  lungo  tempo  libera,  nondimeno furon  tanti  gli  accidenti  che  in quella  nacquero,  per  la  disunione  che era  intra  la  Plebe  ed  il  Senato,  che quello  che  non  aveva  fatto  uno  ordinatore, lo  fece  il  caso.  Perchè,  se  ROMA non  sortì  la  prima  fortuna,  sortì  la  seconda; perchè  i primi  ordini  se  furono defettivi,  nondimeno  non  deviarono  dalla diritta  via  che  li  potesse  condurre  alla perfezione.  Perchè  ROMOLO  e tutti  gli  altri Re  fecero  molte  e buone  leggi,  conformi ancora  al  vivere  libero:  ma  perchè il  fine  loro  fu  fondare  un  regno  e non una  repubblica,  quando quella  città  rimase libera,  vi  mancavano  molte  cose che  era  necessario  ordinare  in  favore della  libertà,  le  quali  non  erano  state da  quelli  Re  ordinate.  E avvengachè quelli  suoi  Re  perdessero  V imperio  per le  cagioni  e modi  discorsi;  nondimeno quelli  clic  li  cacciarono,  ordinandovi  subito duoi  Consoli,  che  stessino  nel  luogo del  Re,  vennero  a cacciare  di  Roma  il nome,  e non  la  potestà  regia:  talché, essendo  in  quella  Repubblica  i Consoli ed  il  Senato,  veniva  solo  ad  esser  mista di  due  qualità  delle  tre  soprascritte: cioè  di  Principato  e di  Ottimali.  Restavali  solo  a dare  luogo  al  Governo  Popolare: onde,  essendo  diventatala  Nobiltà romana  insolente  per  le  cagioni  che  di sotto  si  diranno,  si  levò  il  Popolo  contro di  quella  ; talché,  per  non  perdere il  tutto,  fu  costretta  concedere  al  Popolo la  sua  parte;  e,  dall’altra  parte,  il  Senato e i Consoli  restassino  con  tantaautorità,  che  potcssino  tenere  in  quella Repubblica  il  grado  loro.  E cosi  nacque la  creazione  de’  Tribuni  della  plebe  ; dopo la  quale  creazione  venne  a essere  più stabilito  lo  stato  di  quella  Repubblica,

avendovi  tutte  le  tre  qualità  di  governo la  parte  sua.  E tanto  li  fu  favorevole  la fortuna,  che  benché  si  passasse  dal  governo de’ Re  e delli  Ottimati  al  Popolo, per  quelli  medesimi  gradi  e per  quelle medesime  cagioni  che  di  sopra  si  sono discorse  : nondimeno  non  si  tolse  mai, per  dare  autorità  alli  Ottimati,  tutta l’autorità  alle  qualità  regie;    si  diminuì l’autorità  in  tutto  alli  Ottimati,  per darla  al  Popolo;  ina  rimanendo  mista, fece  una  repubblica  perfetta  : alla  quale perfezione  venne  per  la  disunione  della Plebe  e del  Senato,  come  nei  duoi  prossimi seguenti  capitoli  largamente  si  dimostrerà. III. Quali  accidenti  facessino creare  in  Roma  i Tribuni  della  plebe ; il  che  fece  la  Repubblica  più  perfetta. Come  dimostrano  lutti  coloro  che  ragionano del  vivere  civile,  e come  ne  è piena  di  esempi  ogni  istoria,  è necessario a chi  dispone  una  repubblica,  ed ordina  leggi  in quella,  presupporre  tuttigli  uomini  essere  cattivi,  e clic  li  abbinosempre  od  usure  la  malignità  dello  animo loro,  qualunchc  volta  ne  abbino  libera occasione:  e quando  alcuna  malignità sta  occulta  un  tempo,  procede  da una  occulta  cagione,  ebe,  per  non  si  essere veduta  esperienza  del contrario, non  si  conosce;  ma  la  fa  poi  scoprire il  tempo,  il  quale  dicono  essere  padre d’ogni  verità.  Pareva  clic  fusse  in  Roma intra  la  Plebe  cd  il  Senato,  cacciati  I Tarquiili,  una  unione  grandissima;  e che  i Nobili,  avessino  deposta  quella  loro superbia,  c russino  diventati  d'animo popolare,  c sopportabili  da  qualuncbc, ancora  ebe  infimo. Stette  nascoso  questo inganno,    se  ne  vide  la  cagione, infino  ebe  i Tarquini  vissono;  de’ quali temendo  la  Nobiltà,  ed  avendo  paura che  la  Plebe  mal  trattata  non  si  accostasse loro,  si  portava  umanamente  con quella:  ma  come  prima  furono  morti  I Tarquini,  e die  a’ Nobili  fu  la  paura fuggita,  cominciarono  a sputare  contro Olla  Plebe  quel  veleno  che  si  avevàno tenuto  nel  petto,  ed  in  tutti  i modi  che potevano  la  offendevano:  la  qual  cosa  fa testimonianza  a quello  che  di  sopra  ho detto,  che  gli  uomini  non  operano  mai nulla  bene,  se  non  per  necessità;  ma dove  la  elezione  abbonda,  e che  vi  si può  usare  licenzia,  si  riempie  subito  ogni cosa  di  confusione  e di  disordine.  Però  si dice  che  la  fame  e la  povertà  fu  gli  uomini industriosi,  e le  leggi  gli  fanno buoni.  E dove  una  cosa  per    medesima senza  la  legge  opera  bene,  non  è necessaria la  legge;  ma  quando  quella  buona consuetudine  manca,  è subito  la  legge necessaria.  Però,  mancati  i Tarqnini, che  con  la  paura  di  loro  tenevano  laNobiltà  a freno,  convenne  pensare  a unonuovo  ordine  ehe  facessi  quel  medesimoeffetto  che  facevano  i Tarquini  quandoerano  vivi.  E però,  dopo  molte  confu-sioni, romori  e pericoli  di  scandali,  chenacquero  intra  la  Plebe  c la  Nobiltà,  sivenne  per  sicurtà  della  Plebe  alla  creazionc  ile* Tribuni  ; e quelli  ordinaronocon  laute  preminenze  e tanta  riputa-zione, che  potcssino  essere  sempre  dipoi  mezzi  intra  la  Plebe  e il  Senato,  eovviare  alla  insolenzia  de’ Nobili. IV.  Che  la  disunione  della  Plebe c del  Senato  romano  fece  libera  e polente  quella  Repubblica. H0U njt  fil  ùi  òVvil  tf,  ; il  "iit* lo  non  voglio  mancare  di  discorrere sopra  questi  tumulti  che  furono  in  Roma dalla  morte  de’ Tarquini  alla  creazione de’  Tribuni;  e di  poi  alcune  cose contro  la  oppinionc  di  molti  clic  dicono. Roma  esser  stata  una  repubblica  tumultuaria, e piena  di  tanta  confusione,  clicse  la  buona  fortuna  c la  virtù  militare non  avesse  supplito  a’  loro  difetti,  sarebbe stata  inferiore  ad  ogni  altra  repubblica. Io  non  posso  negare  che  la fortuna  e la  milizia  non  fussero  cagioni dell’imperio  romano;  ma  e’ mi  pare bene,  che  costoro  non  si  avvegghino, clic  dove  è buona  milizia,  conviene  clic sia  buono  ordine,  e rade  volte  anco  occorre clic  non  vi  sia  buona  fortuna.  Ma vegniamo  all i altri  particolari  di  quella città.  Io  dico  clic  coloro  clic  dannano  I tumulti  intra  i Nobili  c la  Plebe,  mi pare  clic  biasimino  quelle  cose  che  furono prima  cagione  di  tenere  libera  Roma ; c clic  considerino  più  a’  romori  ed alle  grida  clic  di  tali  tumulti  nascevano, che  a’ buoni  effetti  clic  quelli  partorivano: e che  non  considerino  come  ei sono  in  ogni  repubblica  duoi  umori  diversi, quello  del  popolo,  c quello  dei grandi  ; c come  tutte  le  leggi  che  si  fanno in  favore  delia  libertà,  nascono  dalla disunione  loro,  come  facilmente  si  può vedere  essere  seguito  in  Roma:  perchè da’ Tarquini  ai  Gracchi,  che  furono  più di  trecento  anni,  i tumulti  di  Roma  rade volte  partorivano  esilio,  radissime  sangue. Nè  si  possono,  per  tanto,  giudicare questi  tumulti  nocivi,    una  repubblica divisa,  che  in  tanto  tempo  per  le  sue differenze  non  mondò  in  esilio  più  che otto  o dieci  cittadini,  e ne  ammazzò  pochissimi, e non  molti  ancora  condennò in  danari.    si  può  chiamare  in  alcun modo,  con  ragione,  una  repubblica  inordinata, dove  siano  tanti  esempi  di  virtù; perchè  li  buoni  esempi  nascono  dalla buona  educazione;  la  buona  educazione dalle  buone  leggi  ; e le  buone  leggi  da quelli  tumulti  che  molti  inconsideratamente dannano:  perchè  chi  esaminerò bene  il  fine  d’essi,  non  troverà ch’egliabbino  partorito  alcuno  esilio  o violenza in  disfavore  del  comune  bene,  ma  leggi ed  ordini  in  benefizio  della  pubblica  libertà. E se  alcuno  dicesse  : i modi  erano straordinari,  e quasi  efferati,  vedere  il Popolo  insieme  gridare  contro  il  Senato, il  Senato  contra  il  Popolo,  correre  tumultuariamente per  le  strade,  serrare  le botteghe, partirsi tutta la  Plebe  di  Roma. le  quali  tutte  cose  spaventano,  nonclic  altro,  chi  legge;  dico  come  ogni città  debbe  avere  i suoi  modi,  con  i  quali  il  popolo  possa  sfogare  l’ambizione sua,  e massime  quelle  ciltadi  che uelle  cose  importanti  si  vogliono  valere del  popolo:  intra  le  quali  la  città di  Roma  aveva  questo  modo,  che  quando quel  Popolo  voleva  ottenere  una  legge, o e’  faceva  alcuna  delle  predette  cose, o e’  non  voleva  dare  il  nome  per andare  alla  guerra,  tanto  che  a placarlo bisognava  in  qualche  parte  satisfargli.  E i desiderò  de’  popoli  liberi,  rade  volle sono  perniziosi  alla  libertà,  perchè  e’na- seono  o da  essere  oppressi,  o da  suspizionc  di  avere  a essere  oppressi.  E quando queste  oppinioni  fussero  false,  e’  vi  è il rimedio  delle  concioni,  che  sorga  qualche uomo  da  bene,  che,  orando,  dimostri loro  come  c’  s’  ingannano:  e li  popoli, come  dice  Tullio CICERONE,  benché  siano  ignoranti, sono  capaci  della  verità,  e facilmente cedono,  quando  da  uomo  degno di  fede  è detto  loro  il  vero.  Debbesi, adunque,  più  parcamente  biasimare  il governo  romano,  e considerare  che  tanti buoni  effetti  quanti  uscivano  di  quella repubblica,  non  erano  causati  se  non  da ottime  cagioni.  E se  i tumulti  furono  cagione della  creazione  dei  Tribuni,  meritano somma  laude;  perchè,  oltre  al  dare la  parte  sua  all’ amministrazione  popolare, furono  constituiti  per  guardia  della libertà  romana,  come  nel  seguente  capitolo si  mostrerà. V.  Dove  più  sccurnmentc  si  ponga la  guardia  della  libertà , o nel Popolo  o ne * Grandi  ; c c/uali  hanno maggior  cagione  di  tumultuare , o chi vuole  acquistare  o chi  vuole  mantenere. Quelli  clic  prudentemente  hanno  constituita  una  repubblica,  intra  le  più necessarie  cose  ordinate  da  loro,  è stato constituire  una  guardia  alla  liberta:  e secondo  che  questa  è bene  collocala,dura  più  o meno  quel  vivere  libero.  Eperché  in  ogni  repubblica  sono  uomingrandi  e popolari,  si  è dubitato  nellemani  di  quali  sia  meglio  collocata  dettaguardia.  Ed  appresso  i Lacedemoni,  c,ne’  nostri  tempi,  appresso  de’  Viniziani,la  è stata  messa  nelle  mani  de’  Nobili  ;ma  appresso  de’ Romani  fu  messa  nellemani  della  Plebe.  Per  tanto,  è necessa-rio esaminare,  quale  di  queste  repub-bliche avesse  migliore  elezione.  E se  siandassi  dietro  alle  ragioni,  ci  è chedire  da  ogni  pajte:  ma  se  si  esaminassiil  fine  loro,  si  piglierebbe  la  partede’  Nobili,  per  aver  avuta  la  libertà  diSparla  c di  Vinegia  più  lunga  vita  chequella  di  Roma.  E venendo  alle  ragio-ni, dico,  pigliando  prima  la  parte  de’  Ro-mani, come  e’  si  debbe  mettere  in  guar-dia coloro  d’  una  cosa,  che  hanno  menoappetito  di  usurparla.  E senza  dubbio,se  si  considera  il  fine  de’  nobili  e deiliignobili,  si  vedrà  in  quelli  desideriogrande  di  dominare,  cd  in  questi  solodesiderio  di  non  essere  dominati;  e, perconseguente,  maggiore  volontà  di  vivereliberi,  potendo  meno  sperare  d’ usurparla  che  non  possono  li  granili:  tal-ché, essendo  i popolani  preposti  a guar-dia d’ una  libertà,  ò ragionevole  neabbino più  cura  : e non  la  putendo  occu-pare loro,  non  permettino  clic  altri  laoccupi.  Dall’  altra  parte,  chi  difendel’ordine  sparlano  e veneto,  dice  cliccoloro  che  mettono  la  guardia  in  inanode’  potenti,  fanno  due  opere  buone:I’  una,  che  satisfanno  più  all’  ambizionedi  coloro  che  avendo  più  parte  nellarepubblica,  per  avere  questo  bastone  inmano,  hanno  cagione  di  contentarsi  più;I’  altra,  clic  bevano  una  qualità  di  au-torità dagli  animi  inquieti  della  plebe,che  è cagione  d’ infinite  dissensioni  escandali  in  una  repubblica,  e alta  a ri-durre la  nobiltà  a qualche  disperazio-ne, che  col  tempo  faccia  cattivi  eliciti.E ne  danno  per  esempio  la  medesimaRoma,  che  per  avere  i Tribuni  dellaplebe  questa  autorità  nelle  mani,  nonbastò  loro  aver  un  Consolo  plcbeio,  chegli  vollono  avere  ambedue.  Da questo, c*  voltano  la  Censura,  il  Pretore,  e tuttili  altri  gradi  dell’imperio  della  città:nè  bastò  loro  questo,  chè,  menati  dalmedesimo  furore,  cominciorno  poi,  coltempo,  a adorare  quelli  uomini  che  ve-devano atti  a battere  la  Nobiltà  ; dondenacque  la  potenza  di  Alarlo,  e la  rovinadi  Roma.  E veramente,  chi  discorressebene  I’  una  cosa  c l’ altra,  potrebbestare  dubbio,  quale  da  lui  fusse  elettoper  guardia  tale  di  libertà,  non  sapen-do quale  qualità  d’uomini sia  più  no-civa in una  repubblica,  o quella  ohedesidera  acquistare  quello  che  non  ha,‘ o quella  che  desidera  mantenere  V ono-re già  acquistato.  Ed  in  fine,  chi  sot-tilmente esaminerà  tutto,  ne  farà  que-sta conclusione:  o tu  ragioni  d’  unarepubblica  che  vogli  fare  uno  imperio,come  Roma  ; o d’  una  che  li  basti  man-tenersi. Nel  primo  caso,  gli  è necessa-rio fare  ogni  cosa  come  Roma;  nel  se-condo, può  imitare  Yinegia  e Spartaper  quelle  cagioni,  e come  nel  seguente capitolo  si  dirà.  .Ma,  per  tornare  a di-scorrere quali  uomini  siano  in  una  re-pubblica piu  nocivi,  o quelli  clic  desi-derano d’acquistare,  o quelli  clic  te-mono di  perdere  lo  acquistato;  dicodie,  scudo  fatto  Marco  Meiiennio  ditta-tore, e Marco  Fulvio  maestro  de’ caval-li, tutti  duoi  plebei,  per  ricercare  certecongiure  clic  si  erano  falle  in  Capovaconlro  a Roma,  fu  dato  ancora  loro  au-torità dal  Popolo  di  poter  ricercare  chiin  Roma  per  ambizione  e modi  straor-dinari s’ingegnasse  di  venire  al  con-solato, ed  agli  altri  onori  della  città.  Eparendo  alla  Nobiltà,  che  tale  autoritàfusse  data  al  Dittatore  contro  a lei,sparsero  per  Roma,  clic  non  i nobilierano  quelli  che  cercavano  gli  onoriper  ambizione  e modi  straordinari,  magl’  ignobili,  i quali,  non  confidatisi  nelsangue  e nella  virtù  loro,  cercavano  pervie  straordinarie  venire  a quelli  gradi;e particolarmente  accusavano  il  Ditta-tore. E tanto  fu  potente  questa  accusa, che  Mencnnio,  fatta  una  conclone  c do-lutosi deite  calunnie  dategli  da*  Nobilidepose  la  dittatura,  e sottomessesi  aigiudizio  che  di  lui  fussi  fatto  dal  Po*polo;  c dipoi,  agitala  la  causa  sua,  nefu  assoluto:  dove  si  disputò  assai,  qualesia  più  ambizioso,  o quel  che  vuolemantenere  o quel  che  vuole  acquistare;perchè  facilmente  1*  uno  e V altro  ap-petito può  essere  cagione  di  tumultigrandissimi.  Pur  nondimeno,  il  più  dellevolte  sono  causali  da  chi  possiede,  per-chè la  paura  del  perdere  genera  in  lorole  medesime  voglie  che  sono  in  quelliche  desiderano  acquistare;  perchè  nonpare  agli  uomini  possedere  sicuramente quello  clic l’uomo  ha,  se  non  si  acqui-sta di  nuovo  dell’  altro.  E di  più  vi  è,che  possedendo  molto,  possono  con  mag-gior potenzia  c maggiore  moto  fare  alterazione. Ed  ancora  vi  è di  più,  che li  loro  scorretti  e ambiziosi  portamenti accendono  ne’  petti  di  chi  non  possiede voglia  di  possedere,  o per  vendicarsi  contro  di  loro  spogliandoli,  o per  potere ancora  loro  entrare  in  quella  ricchezza c in  quelli  onori  clic  veggono essere  male  usati  dagli  altri. Se  in  1 ionia  si  poteva  ordinare uno  stalo  che  togliesse  via  le inimicizie  intra il  Popolo  ed  il  Senato. Noi  abbiamo  discorsi  di  sopra  gli  effetti che  facevano  le  controversie  intra il  Popolo  ed  il  Senato.  Ora,  sendo  quelle seguitate  in  fino  al  tempo  de’ Gracchi, dove  furono  cagione  della  rovina  del  vivere libero,  potrebbe  alcuno  desiderare che  Roma  avesse  fatti  gli  effetti  grandi  che la  fece,  senza  che  in  quella  fussino  tali inimicizie.  Però  mi  è parso  cosa  degna  di considerazione,  vedere  se  in  Roma  si  poteva ordinare  uno  stato  che  togliesse  via dette  controversie.  Ed  a volere  esaminare questo,  è necessario  ricorrere  a quelle repubbliche  le  quali  senza  tante  inimicizie c tumulti  sono  state  lungamente  libere,  e vedere  quale  stato  era  il  loro,  e se  si  poteva  introdurre  in  Roma.  In esempio  tra    antichi  ci  è Sparta,  tra i moderni  Yinegia,  state  da  me  di  sopra uominate.  Sparla  fece  uno  Re,  con  unpicciolo  Senato,  che  la  governasse.  Vinegia  non  ha  diviso  il  governo  con  i nomi  ; ma,  sotto  una  appellazione,  lutti quelli  che  possono  avere  amministrazione si  chiamano  Gentiluomini.  Il  quale modo  lo  dette  il  caso,  più  che  la  prudenza di  elùdette  loro  le  leggi:  perchè, sendosi  ridotti  in  su  quegli  scogli  dove è ora  quella  città,  per  le  cagioni  dette di  sopra,  molti  abitatori;  come  furon cresciuti  in  tanto  numero,  che  a volere vivere  insieme  bisognasse  loro  far  leggi, ordinorono  una  forma  di  governo;  c convenendo  spesso  insieme  ne’  consigli  a deliberare  della  città,  quando  parve  loro essere  tanti  che  fussero  a sufficienza  ad un  vivere  politico,  chiusono  la  via  a tutti quelli  altri  che  vi  venissino  ad  abitare di  nuovo,  di  potere  convenire  ne’ loro governi:  e,  col  tempo,  trovandosi  in quel  luogo  assai  abitatori  fuori  del  governo, per  dare  riputazione  a quelli  clic governavano,  gli  chiamarono  Gentiluomini, e gli  altri  Popolani.  Potette  questo modo  nascere  e mantenersi  senza  tumulto, perchè  quando  e’  nacque,  qualunque allora  abitava  in  Vinegia  fu  fatto del  governo,  di  modo  che  nessuno  si  poteva dolere;  quelli  che.  dipoi  vi  vennero ad  abitare,  trovando  lo  Stato  fermo  c terminato,  non  avevano  cagione    comodità di  fare  tumulto.  La  cagione  non y*  era,  perchè  non  era  stato  loro  tolto cosa  alcuna:  la  comodità  non  v’era, perché  chi  reggeva  gli  teneva  in  freno, c non  gli  adoperava  in  cose  dove  e’ potessino  pigliare  autorità.  Oltre  di  questo, quelli  che  dipoi  vennono  ad  abitare Vinegia,  non  sono  stali  molli,  c di  tanto numero,  che  vi  sia  disproporzione  da chi  gli  governa  a loro  che  sono  governati; perchè  il  numero  de’ Gentiluomini o egli  è eguale  a loro,  o egli  è superiore:  sicché,  per  queste  cagioni,  Vinegia  potette  ordinare  quello  Stalo,  e mantenerlo unito.  Sparta,  come  ho  detto,  essendo governata  da  un  Re  c da  una stretto  Senato,  potette  mantenersi  così lungo  tempo,  perchè  essendo  in  Sparta pochi  abitatori,  ed  avendo  tolta  la  via n chi  vi  venisse  ad  abitare,  ed  avendo prese  le  leggi  di  Licurgo  con  reputazione, le  quali  osservando,  levavano via  tutte  le  cagioni  de’  tumulti,  poterono vivere  uniti  lungo  tempo:  perchè Licurgo con le sue leggi fece in  Sparta più  cqualità  di  sustanze,  e meno  equalità  di  grado;  perchè  quivi  era  una eguale  povertà,  ed  i plebei  erano  manco ambiziosi,  perchè  i gradi  della  città  si distendevano  in  pochi  cittadini,  ed  erano tenuti  discosto  dalla  plebe,    gli  nobili col  trattargli  male  dettero  mai  loro  desiderio di  avergli.  Questo  nacque  dai  Re spartani,  i quali  essendo  collocati  in quel  principato  e posti  in  mezzo  diquella  nobiltà,  non  avevano  maggiore  ri-medio  a tenere  fermo  la  loro  degnità,ehc  tenere  la  plebe  difesa  da  ogni  in-giuria : il  che  faceva  che  la  plebe  nontemeva,  c non  desiderava  imperio  ; e nonavendo  imperio    temendo,  era  levatavia  la  gara  che  la  potessi  avere  con  !unobiltà,  c la  cagione  de’ tumulti;  e po-terono vivere  uniti  lungo  tempo.  Ma  duecose  principali  causarono  questa  unione:T una  esser  pochi  gli  abitatori  di  Sparta,e per  questo  poterono  esser  governatida  pochi;  l’altra,  che  non  accettandoforestieri  nella  loro  repubblica,  non  ave-vano occasione    di  corrompersi,    dicrescere  in  tanto  che  la  fusse  insoppor-tabile a quelli  pochi  che  la  governavano.Considerando,  adunque,  tutte  queste  cose ,si  vede  come  a’ legislatori  di  Roma  eranecessario  fare  una  delle  due  cose,  a volere che  Roma  stessi  quieta  come  le  so-praddette repubbliche:  o non  adoperarela  plebe  in  guerra,  corne  i Viniziani;onon  aprire  la  via  a’ forestieri,  come  gliSpartani.  E loro  feceno  1’una  e l’altra; il  che  dette  alla  plebe  forza  ed  augu-mento,  ed  infinite  occasioni  di  tumul-tuare. E se  lo  stato  romano  veniva  adessere  più  quieto,  ne  seguiva  questo  in-conveniente, ch’egli  era  anco  più  debile,perchè  gli  si  troncava  la  via  di  poterevenire  a quella  grandezza  dove  ei  per-venne: in  modo  che  volendo  Roma  le-vare le  cagioni  de’  tumulti,  levava  ancole  cagioni  dello  ampliare.  Ed  in  tutte  lecose  umane  si  vede  questo,  chi  le  esa-minerà bene:  che  non  si  può  mai  can-cellare uno  inconveniente,  che  non  nesurga  un  altro.  Per  tanto,  se  tu  vuoifare  un  popolo  numeroso  ed  armato  perpotere  fare  un  grande  imperio,  lo  faidi  qualità  che  tu  non  lo  puoi  poi  ma-neggiare a tuo  modo:  se  tu  lo  mantienio piccolo  o disarmato  per  potere  ma-neggiarlo, se  egli  acquista  dominio,  nonlo  puoi  tenere,  o diventa    vile,  che  tusei  preda  di  quaiunche  ti  assalta.  E però,in  ogni  nostra  deliberazione  si  debbeconsiderare  dove  sono  meno  inconve-nienti,  c pigliare  quello  per  migliorepartito:  perchè  tutto  netto,  tutto  senzasospetto  non  si  trova  mai.  Poteva,  adun-que, Roma  a similitudine  di  Sparta  fareun  Principe  a vita,  fare  un  Senato  pic-colo; ma  non  poteva,  come  quella,  noncrescere  il  numero  de’  cittadini  suoi,  vo-lendo fare  un  grande  imperio;  il  chefaceva  che  il-  Re  a vita  ed  il  picciol  numero del  Senato,  quanto  alla  unione,  glisarebbe  giovato  poco.  Se  alcuno  volesse,per  tanto,  ordinare  una  repubblica  dinuovo,  arebbe  a esaminare  se  volessech’ella  ampliasse,  come  Roma,  di  domi-nio e di  potenza,  ovvero  ch’ella  stessedentro  a brevi  termini.  Nel  primo  caso,è necessario  ordinarla  come  Roma,  edare  luogo  a’ tumulti  e alle  dissensioniuniversali,  il  meglio  che  si  può;  perchèsenza  gran  numero  di  uomini,  e benearmati,  non  mai  una  repubblica  potràcrescere,  o se  la  crescerà,  mantenersi.Nel  secondo  caso,  la  puoi  ordinare  comeSparta  c come  Yinegia:  ma  perchè  l’anipitale  è il  veleno  di  simili  repubbliche, tlebbc,  in  tutti  quelli  modi  che  si  può,citi  le  ordina  proibire  loro  lo  acquistare;  perchè  tali  acquisti  fondati  sopra una  repubblica  debole,  sono  al  tutto  la rovina  sua.  Come  intervenne  a Sparta ed  a Yinegia  : delle  quali  la  prima  avendosi sottomessa  quasi  tutta  la  Grecia, mostrò  in  su  uno  minimo  accidente  il debole  fondamento  suo  ; perchè,  seguita la  ribellione  di  Tebe,  causata  da  Pelopitia,  ribellandosi  V altre  cittadi,  rovinò al  tutto  quella  repubblica.  Similmente Yinegia,  avendo  occupato  gran  parte d’Italia,  e la  maggior  parte  non  con guerra  ma  con  danari  e con  astuzia, come  la  ebbe  a fare  prova  delle  forze sue,  perdette  in  una  giornata  ogni  cosa. Crederei  bene,  che  a fare  una  repubblica che  durasse  lungo  tempo,  fussi  il miglior  modo  ordinarla  dentro  come Sparla  o come  Yinegia  ; porla  in  luogo forte,  e di  tale  potenza,  che  nessuno  cre-desse poterla  subito  opprimere;  e dal-l’altra  parte,  non  fussi  si  grande,  che la  fussi  formidabile  a’  vicini  : c così  potrebbe  lungamente  godersi  il  suo  stato. Perchè,  per  due  cagioni  si  fa  guerra ad  una  repubblica:  Cuna  per  diventarne signore,  l’altra  per  paura  ch’ella non  ti  occupi.  Queste  due  cagioni  il  sopraddetto modo  quasi  in  tutto  toglie  via; perchè,  se  la  è difficile  ad  espugnarsi, come  io  la  presuppongo,  sendo  bene  ordinata alla  difesa,  rade  volte  accadere, o non  mai,  che  uno  possa  fare  disegno d’ acquistarla.  Se  la  si  starà  intra  i termini suoi,  e veggasi  per  esperienza,  che in  lei  non  sia  ambizione,  non  occorrerà mai  che  uno  per  paura  di    gli  faccia guerra  : e tanto  più  sarebbe  questo,  se e’  fusse  in  lei  constituzione  o legge  che le  proibisse  l’ampliare.  E senza  dubbio credo,  clic  polendosi  tenere  la  cosa  bilanciata in  questo  modo,  che  e’ sarebbe il  vero  vivere  politico,  e la  vera  quiete di  una  città.  Ma  scudo  tutte  le  cose  degli uomini  in  moto,  c non  potendo  stare salde,  conviene  che  le  saglino  o clic  le scendino  ; e a molte  cose  che  la  ragione non  t' induce,  t’  induce  lo  necessità:  talmente che,  avendo  ordinata  una  repubblica atta  a mantenersi  non  ampliando, e la  necessità  la  conducesse  ad  ampliare, si  verrebbe  a torre  via  i fondamenti suoi,  ed  a farla  rovinare  più  presto. Così,  dall’altra  parte,  quando  il  Cielo  le fusse  si  benigno,  che  la  non  avesse  a fare  guerra,  ne  nascerebbe  che  l’olio  la farebbe  o effeminata  o divisa;  le  quali due  cose  insieme,  o ciascuna  per  sè, sorebbono  cagione  della  sua  rovina.  Pertanto, non  si  potendo,  come  io  credo, bilanciare  questa  cosa,    mantenere questa  via  del  mezzo  a punto  ; bisogna, nello  ordinare  la  repubblica,  pensare alla  parte  più  onorevole;  ed  ordinaria in  modo,  che  quando  pure  la  necessità la  inducesse  ad  ampliare,  ella  potesse quello  ch’ella  avesse  occupato,  conservare. E,  per  tornare  al  primo  ragionamento, credo  che  sia  necessario  seguire l'ordine  romano,  e non  quello  dell’altre repubbliche;  perchè  trovare  un  modo, mezzo  infra  l’uno  e l’altro,  non  credosi  possa:  e quelle  inimicizie  che  intra  il popolo  ed  il  senato  nascessino,  tollerarle, pigliandole  per  uno  inconveniente necessario  a pervenire  alla  romana  grandezza. Perchè,  oltre  all’ altre  ragioni  allegate dove  si  dimostra  Y autorità  tribun zia  essere  stata  necessaria  per  la  guardia della  libertà,  si  può  facilmente  considerare il  benefizio  che  fa  nelle  repubbliche l’autorità  dello  accusare,  la  quale era  intra  gli  altri  commessa  a’  Tribuni  ; come  nel  seguente  capitolo  si  discorrerà. VII. Quanto siano necessarie in una  repubblica  le  accuse  per  mante-nere la  libertà.A coloro  che  in  una  città  sono  preposti per  guardia  della  sua  libertà,  non si  può  dare  autorità  più  utile  e necessaria, quanto  è quella  di  potere  accasare  i cittadini  ai  popolo,  o a qualunque magistrato  o consiglio,  quando  che pcccassino  in  alcuna  cosa  contea  allo stato  libero.  Questo  ordine  fa  duoi  effetti utilissimi  ad  una  repubblica.  Il primo  è che  i cittadini,  per  paura  di non  essere  accusati,  non  tentano  cose contro  allo  Stato:  e tentandole,  sono  incontinente e senza  rispetto  oppressi. 1/  altro  è che  si    via  onde  sfogare  a quelli  umori  che  crescono  nelle  citladi, in  qualunque  modo,  contea  a qualunque cittadino:  e quando  questi  umori non  hanno  onde  sfogarsi  ordinariamente, ricorrono  a’  modi  straordinari,  che fanno  rovinare  in  tutto  una  repubblica. G non  è cosa  che  faccia  tanto  stabile  e ferma  una  repubblica,  quanto  ordinare quella  in  modo,  che  l’ alterazione  di questi  umori  che  la  agitano,  abbia  una via  da  sfogarsi  ordinata  dalie  leggi.  Il che  si  può  per  molti  esempi  dimostrare, e massime  per  quello  che  adduce Livio  di CORIOLANO,  dove  ei  dice, che  essendo  irritala  contro  alla  Plebe la  Nobiltà  romana,  per  parerle  che  l Plebe  avesse  troppa  autorità  mediante la  creazione  de’  Tribuni  che  la  difendevano; ed  essendo  Roma,  come  avviene, venuta  in  penuria  grande  di  vettovaglie, ed  avendo  il  Senato  mandato  per grani  in  Sicilia;  Coriolano,  nimico  alla fazione  popolare,  consigliò  come  egli era  venuto  il  tempo  da  potere  gastigare  la  Plebe,  e torte  quella  autorità die  ella  si  aveva  acquistata  c in  pregiudizio della  nobiltà  presa,  tenendola affamata,  c non  li  distribuendo  il  frumento; la  qual  sentenza  sendo  venuta alii  orecchi  del  Popolo,  venne  in  tanta indegnazione  contro  a Coriolano,  che allo  uscire  del  Senato  lo  arebbero  tumultuariamente morto,  se  gli  Tribuni non  1’  avessero  citato  a comparire  a difendere la  causa  sua.  Sopra  il  quale accidente,  si  nota  quello  che  di  sopra si  è detto, #quanto  sia  utile  e necessario che  le  repubbliche,  con  le  leggi  loro, diano  onde  sfogarsi  oli’  ira  clic  concepc la  universalità  contra  a uno  cittadino; perchè  quando  questi  modi  ordinari  non vi  siano,  si  ricorre  agli  estraordinari; c senza  dubbio  questi  fanno  molto  peggiori effetti  che  non  fanno  quelli.  Perchè, se  ordinariamente  uno  cittadino  è oppresso,  ancora  che  li  fusse  fatto  torto, ne  seguita  o poco  o nessuno  disordine in  la  repubblica:  perchè  la  esecuzione si  fa  senza  forze  private,  e senza forze  forestiere,  che  sono  quelle  che rovinano  il  vivere  libero;  ma  si  fa  con forze  ed  ordini  pubblici,  che  hanno  i termini  loro  particolari,    trascendono a cosa  che  rovini  la  repubblica.  E quanto a corroborare  questa  oppinione  con gli  esempi,  voglio  che  degli  antichi  mi basti  questo  di  Coriolano;  sopra  il  quale ciascuno  consideri,  quanto  male  saria resultato  alla  repubblica  romana,  se tumultuariamente  ci  fussi  stato  morto; perchè  ne  nasceva  offesa  ila  privati  a privati,  la  quale  offesa  genera  paura; la  paura  cerca  difesa;  per  la  difesa  si procacciano  i partigiani;  dai  partigiani nascono  le  parti  nelle  cittadi;  dalle parti  la  rovina  di  quelle.  Ma  sendosi governata  la  cosa  mediante  chi  ne  aveva autorità,  si  vennero  a tór  via  tutti quelli  mali  che  ne  potevano  nascere  governandola con  autorità  privata.  Noi avemo  visto  ne’  nostri  tempi,  quale  novità ha  fatto  alla  repubblica  di  Firenze non  potere  la  moltitudine  sfogare  l’ nniino  suo  ordinariamente  contra  a un  suo cittadino;  come  accadde  nel  tempo  di VALORI,  clic  era  come  principe della  città  : il  quale  essendo  giudicalo ambizioso  da  molti,  e uomo  che volesse  con  la  sua  audacia  e animosità trascendere  il  vivere  civile;  e non  essendo nella  repubblica  via  a poterli  resistere se  non  con  una  setta  contraria alla  sua  ; ne  nacque  che  non  avendo paura  quello,  se  non  di  modi  straordinari, si  cominciò  a fare  fautori  che  lo difendessino;  dall’  altra  parte,  quelli  clic lo  oppugnavano  non  avendo  via  ordinaria a reprimerlo,  pensarono  alle  vie straordinarie  : intanto  che  si  venne  alle armi.  E dove,  quando  per  l’ordinario si  fusse  potuto  opporseli,  sarebbe  la  sua autorità  spenta  con  suo  danno  solo; avendosi  a spegnere  per  lo  straordinario, seguì  con  danno  non  solamente suo,  ma  di  molti  altri  nobili  cittadini. Potrebbesi  ancora  allegare,  a fortificazione della  soprascritta  conclusione, l’ accidente  seguito  pur  in  Firenze  sopra SODERINI;  il  quale  al  tutto segui  per  non  essere  in  quella  Repubblica alcuno  modo  di  accuse  contra  alla ambizione  de’ potenti  cittadini:  perchè lo  accusare  un  potente  a otto  giudici in  una  repubblica,  non  basta  : bisogna che  i giudici  siano  assai,  perchè  pochi sempre  fanno  a modo  de’  pochi.  Tanfo che,  se  tali  modi  vi  fussono  stati,  o icittadini  lo  arebbono  accusato,  vivendo egli  male;  e per  tal  mezzo,  senza  far venire  l’ esercito  spagnuolo,  arebbono sfogato  l’animo  loro:  o non  vivendo male,  non  arebbono  avuto  ardire  operarli contra,  per  paura  di  non  essere accusati  essi  : e cosi  sarebbe  da  ogni parte  cessato  quello  appetito  che  fu  cagione di  scandalo.  Tanto  che  si  può concludere  questo,  che  qualunque  volta si  vede  che  le  forze  esterne  siano  chiamate da  una  parte  d’ uomini  che  vivono in  una  città,  si  può  credere  nasca da’  cattivi  ordini  di  quella,  per  non esser  dentro  a quello  cerchio,  ordine da  potere  senza  modi  islraordinari  sfogare i maligni  umori  che  nascono  nelli uomini:  a che  si  provvede  al  tutto  con ordinarvi  le  accuse  alii  assai  giudici,  e dare  riputazione  a quelle.  Li  quali  modi furono  in  Roma    bene  ordinati,  che in  tante  dissensioni  della  Plebe  e del Senato,  mai  o il  Senato  o la  Plebe  o alcuno  particolare  cittadino  non  disegnò valersi  di  forze  esterne;  perche avendo  il  rimedio  in  casa,  non  erano necessitati  andare  per  quello  fuori.  E benché  gli  esempi  soprascritti  siano  assai sufficienti  a provarlo,  nondimeno ne  voglio  addurre  un  altro,  recitato  da L.  nella  sua  istoria:  il  quale riferisce  come,  scudo  stato  in  Chiusi, città  in  quelli  tempi  nobilissima  in  TOSCANA, da  uno  Lucumone  violata  una sorella  di  Aruntc,  c non  potendo  Arunte vendicarsi  per  la  potenia  del  violatore, se  n'andò  a trovare  i Franciosi,  che  allora regnavano  in  quello  luogo  che  oggi si  chiama  Lombardia;  e quelli  confortò a venire  con  annata  mano  a Chiusi, mostrando  loro  come  con  loro  utile  lo potevano  vendicare  della  ingiuria  ricevuta : che  se  Arunte  avesse  veduto  potersi vendicare  con  i modi  della  città, non  arebbe  cerco  le  forre  barbare.  Ma come  queste  accuse  sono  utili  in  una repubblica,  così  sono  inutili  e dannose le  calunnie  ; come  nel  capitolo  seguente discorreremo. Vili.  — Quanto  le  accuse  sono utili  alle  repubbliche,  tanto  sono  perniziose  le  calunnie.Non  ostante  che  la  virtù  di Cnmmillo,  poi  ch’egli  ebbe  libera  Roma dalla  oppressione  de’ Franciosi,  avesse fatto  che  tutti  i cittadini  romani, parer  loro  tòrsi  reputazione  o cedevano  a quello;  nondimeno  MAULIO Capitolino  non  poteva  sopportare  chegli  fusse  attribuito  tanto  onore  e tanta gloria;  parendogli,  quanto  alla  salute di  Roma,  per  avere  salvato  il  Campidoglio, aver  meritato  quanto  CAMMILLO; c quanto  all’  altre  belliche  laudi,  non essere  inferiore  a lui.  Di  modo  che,  carico d’  invidia,  non  potendo  quietarsi per  la  gloria  di  quello,  c veggendo  non potere  seminare  discordia  infra  i Padri, si  volse  alla  Plebe,  seminando  varie oppinioni  sinistre  intra  quelfb.  E intra V altre  cose  che  diceva,  era  come  il  tesoro  il  quale  si  era  adunato  insieme per  dare  ai  Franciosi,  e poi  non  dato loro,  era  stato  usurpalo  da  privati cittadini  ; e quando  si  riavesse,  si  poteva convertirlo  in  pubblica  utilità,  alleggerendo la  Plebe  da’  tributi,  o da qualche  privato  debito.  Queste  parole poterono  assai  nella  Plebe;  talché  cominciò avere  concorso,  ed  a fare  u sua  posta  tumulti  assai  nella  città:  la qual  cosa  dispiacendo  al  Senato,  e parendogli di  momento  e pericolosa,  creò uno  Dittatore,  perchè  ei  riconoscesse questo  caso,  e frenasse  lo  impeto  di MANLIO.  Onde  che  subito  il  Dittatore  lo fece  citare,  e eondussonsi  in  pubblico all’incontro  l’uno  dell’altro;  il  Dittatore in  mezzo  de’  Nobili,  e MANLIO  in mezzo  della  Plebe.  Fu  domandato  Manlio che  dovesse  dire,  appresso  a chi  fusse questo  tesoro  che  ei  diceva,  perchè  ne era  cosi  desideroso  il  Senato  d’ intenderlo come  la  Plebe:  a che  MANLIO  non rispondeva  particularmenfe;  ma,  andando  fuggendo,  diceva  come  non  era necessario  dire  loro  quello  die  e’  si  sapevano: tanto  che  il  Dittatore  lo  fece mettere  in  carcere.  È da  notare  per questo  testo,  quanto  siano  nelle  città libere,  ed  in  ogni  altro  modo  di  vivere, detestabili  le  calunnie;  e come  per  reprimerle, si  debbe  non  perdonare  a ordine alcuno  che  vi  faccia  a proposito. Nè  può  essere  migliore  ordine  a torle via,  che  aprire  assai  luoghi  alle  accuse; perchè  quanto  le  accuse  giovano alle  repubbliche,  tanto  le  calunnie  nuocono:  e dall’ altra  parte  è questa  differenza, che  le  calunnie  non  hanno  bisogno di  testimone,    di  alcuno  altro particulare  riscontro  a provarle,  in  modo che  ciascuno  da  ciascuno  può  essere calunniato;  ma  non  può  già  essere  accusato, avendo  le  accuse  bisogno  di  riscontri veri,  e di  circostanze,  che  mostrino la  verità  dell’  accusa.  Accusatisi gli  uomini  a’  magistrati,  a’ popoli,  a’ consigli ; calunniatisi  per  le  piazze  è per  le logge.  Usasi  più  questa  calunnia  dove si  usa  meno  1’  accusa,  c dove  le  città sono  meno  ordinate  a riceverle*  Però, uno  ordinatore  d’  una  repubblica  debbe ordinare  che  si  possa  in  quella  accusare ogni  cittadino,  senza  alcuna  paura o senza  alcuno  sospetto;  e fatto  questo e bene  osservato,  debbe  punire  aeremente  i calunniatori:  i quali  non  si possono  dolere  quando  siano  puniti, avendo  i luoghi  aperti  a udire  le  accuse di  colui  che  gli  avesse  per  le  logge calunniato.  E dove  non  è bene  ordinata questa  parte,  seguitano  sempre  disordini grandi  : perchè  le  calunnie  irritano, c non  castigano  i cittadini;  e gli irritali  pensano  di  valersi,  odiando  più presto,  che  temendo  le  cose  che  si  dicono contea  a loro.  Questa  parte,  come è detto,  era  bene  ordinata  in  Roma  ; ed  è stata  sempre  male  ordinala  nella nostra  città  di  FIRENZE.  E come  a Roma questo  ordine  fece  molto  bene,  a FIRENZE questo  disordine  fece  molto  male. E chi  legge  le  istorie  di  questa  città, vedrà  quante  calunnie  sono  state  in ogni  tempo  date  a’  suoi  cittadini  che  si sono  adoperati  nelle  cose  importanti  di quella.  Dell’  uno  dicevano,  ch’egli  aveva rubati  danari  al  comune;  dell’  altro,  che non  aveva  vinto  una  impresa  per  essere stato  corrotto;  e che  quell’  altro per  sua  ambizione  aveva  fatto  il  tale  e tale  inconveniente.  Del  che  ne  nasceva che  da  ogni  parte  ne  surgeva  odio  : donde  si  veniva  alla  divisione;  dalla  di- visione alle  sètte;  dalle  sètte  alla  rovina. Che  se  fusse  stato  in  Firenze  ordine d’  accusare  i cittadini,  c punire  i calunniatori,  non  seguivano  infiniti  scandali che  sono  seguiti:  perchè  quelli  cittadini, o condennati  o assoluti  che  russino, non  arebbono  potuto  nuocere  alla città;  e sarebbono  stati  accusati  meno assai  clic  non  ne  erano  calunniali,  non si  potendo,  come  ho  detto,  accusare come  calunniare  ciascuno.  Ed  intra  l’ altre cose  di  clic  si  è valuto  alcuno  citadino  per  ventre  alla  grandezza  sua, sono  state  queste  calunnie:  le  quali  venendo conira  a’  cittadini  potenti  che allo  appetito  suo  si  opponevano,  facevano assai  per  quello;  perchè,  pigliando la  parte  del  Popolo,  e confirmandolo nella  mala  oppiatone  eh’  egli  aveva  di loro,  se  lo  fece  amico.  E benché  se  ne potesse  addurre  assai  esempi,  voglio essere  contento  solo  d’  uno.  Era  lo  esercito fiorentino  a campo  a Lucca,  coman- dato da  GUICCIARDINI (si veda), commissario  di  quello.  Vollono  o i cattivi suoi  governi,  o la  cattiva  sua  fortuna, che  Ja  espugnazione  di  quella città  non  seguisse.  Pur,  comunque  il caso  stesse,  ne  fu  incolpato  inesser  Giovanni, dicendo  com’  egli  era  stato  corrotto da’  Lucchesi:  la  quale  calunnia sendo  favorita  da’  nimici  suoi,  condusse messer  Giovanni  quasi  in  ultima  disperazione. E benché,  per  giustificarsi,  ei si  volessi  mettere  nelle  mani  del  Capitano; nondimeno  non  si  potette  mai giustificare,  per  non  essere  modi  in quella  repubblica  da  poterlo  fare.  Di che  ne  nacque  assai  sdegno  intra  li amici  di  messer  Giovanni,  che  erano  la maggior  parte  delli  uomini  Grandi,  ed infra  coloro  che  desideravano  fare  novità in  Firenze.  La  qual  cosa,  e per queste  e per  altre  simili  cagioni,  tanto crebbe,  che  ne  seguì  la  rovina  di  quella repubblica.  Era  dunque  MANLIO  Capitolino calunniatore,  e non  accusatore*,  ed i Romani  mostrarono  in  questo  caso appunto,  come  i calunniatori  si  debbono punire.  Perchè  si  debbe  fargli  diventare accusatori;  e quando  1’  accusa  si  riscon- tri vera,  o premiarli,  o non  punirli  : ma  quando  la  non  si  riscontri  vera Uf»5  IX. Come  egli  è necessario  esser solo  a volere  ordinare  una  repubblica di  nuovo , o al  lutto  fuori  delti  antichi suoi  ordini  riformarla.  E’ porrà  forse  ad  alcuno,-  che  io  sia troppo  trascorso  dentro  nella  istoria  romana, non  avendo  fatto  alcuna  menzione ancora  degli  ordinatori  di  quella  Repubblica, nè  di  quelli  ordini  che  o alla  religione o alla  milizia  riguardassero.  E però,  non  volendo  tenere  più  sospesi  gli animi  di  coloro  che  sopra  questu  parte volessino  intendere  alcune  cose;  dico, come  molti  per  avventura  giudicheranno di  cattivo  esempio,  che  uno  fondatore d’  un  vivere  civile,  quale  è  ROMOLO,  abbia prima  morto  un  suo  fratello,  dipoi consentito  alla  morte  di  Tito  TAZIO Sabino, eletto  da  lui  compagno  nel  regno; giudicando  per  questo,  che  gli  suoi  cittadini potessero  con  T autorità  del  loro principe,  per  ambizione  e desiderio  di comandare,  offendere  quelli  che  alla  loro autorità  si  opponessino.  La  quale  oppinionc  sarebbe  vera,  quando  non  si  considerasse che  line  l’avesse  indotto  a fare lai  OMICIDIO. E debbesi  pigliare  questo per  una  regola  generale:  clic  non  mai  o di  rado  occorre  che  alcuna  repubblica o regno  sia  da  principio  ordinato  bene,  o al  tutto  di  nuovo  fuori  delti  ordini  vecchi riformato,  se  non  è ordinato  da  uno;  anzi è necessario  che  uno  solo  sia  quello  clic dia  il  modo,  e dalla  cui  mente  dependa qualunque  simile  ordinazione.  Però,  uno prudente  ordinatore  d’ una  repubblica,  e che  abbia  questo  animo  di  volere  giovare non  a sé  ma  al  BENE COMUNE,  non alla  sua  propria  successione  ma  alla  comune patria,  debbe  ingegnarsi  di  avere l’autorità  solo;    mai  uno  ingegno  savio riprenderà  alcuno  di  alcuna  azione istraordinaria,  che  per  ordinare  un  regno o constituire  una  repubblica  usasse. Conviene  bene,  che,  accusandolo  il  fallo, lo  effetto  lo  scusi  ; e quando  sia  buono, come  quello  di  ROMOLO,  sempre  lo  scuserà: perchè  colui  che  è violento  per guastare,  non  quello  che  è per  racconciare, si  debbe  riprendere.  Debbe  bene in  tanto  esser  prudente  e virtuoso,  che quella  autorità  che  si  ha  presa,  non  la lasci  ereditaria  ad  un  altro  : perchè,  essendo gli  uomini  più  proni  al  male  che al  bene,  potrebbe  il  suo  successore  usare ambiziosamente  quello  che  da  lui  virtuosamente fusse  stato  usato.  Oltre  di questo,  se  uno  è atto  ad  ordinare,  uoti è la  cosa  ordinata  per  durare  molto, quando  la  rimanga  sopra  le  spalle  d’  uno; ma  si  bene,  quando  la  rimane  alla  cura di  molti,  e che  a molti  stia  il  mantenerla. Perchè,  cosi  come  molti  non  sono atti  ad  ordinare  una  cosa,  per  non  conoscere il  bene  di  quella,  causato  dalle diverse  oppinioni  che  sono  fra  loro; cosi  conosciuto  che  lo  hanno,  non  si accordano  a lasciarlo.  E che  ROMOLO fusse  di  quelli  che  NELLA MORTE DEL FRATELLO e del  compagno  meritasse  scusa; e che  quello  che  fece,  fusse  per  IL BENE COMUNE,  e non  per  ambizione  propria  ; lo  dimostra  lo  avere  quello  subito  ordinato uno  Senato,  con  il  quale  si  consigliasse, e secondo  l’oppinione  del  quale deliberasse.  E chi  considera  bene  P autorità che  ROMOLO  si  riserbò,  vedrà  non se  ne  essere  riserbata  alcun’  altra  che comandare  alli  eserciti  quando  si  era deliberata  la  guerra,  e di  ragunare  il Senato.  Il  che  si  vide  poi,  quando  Roma divenne  libera  per  la  cacciata  de’  Tarquini;  dove  da’  Romani  non  fu  innovato alcun  ordine  dello  antico,  se  non che  in  luogo  d’  uno  Re  perpetuo,  fussero  duoi  Consoli  annuali;  il  che  testifica, tutti  gli  ordini  primi  di  quella città  essere  stati  più  conformi  ad  uno vivere  civile  e libero,  che  ad  uno  assoluto e tirannico.  Polrebbesi  dare  in corroborazione  delle  cose  sopraddette infiniti  esempi;  come  Licurgo, Solonc,  ed  nitri  fondatori  di  regni  e di repubbliche,  i quali  poterono,  per  aversi attribuito  un’  autorità,  formare  leggi  a proposito  del  bene  comune;  ma  gli  voglio lasciare  indietro,  come  cosa  nota. Addurronne  solamente  • uno,  non  si  celebre,  ma  da  considerarsi  per  coloro che  desiderassero  essere  di  buone  leggi ordinatori:  il  quale  è,  che  desiderando Agide  re  di  Sparta  ridurre  gli  Spartani intra  quelli  termini  che  le  leggi  di Mcurgo  gli  avessero  rinchiusi,  parendoli che  per  esserne  in  parte  deviati, la  sua  città  avesse  perduto  assai  di quella  antica  virtù,  e,  per  conseguente, di  forze  e d’ imperio  ; fu  ne'  suoi  primi principii  ammazzato  dalli  Efori  spartani, come  uomo  che  volesse  occupare  la tirannide.  .Ma  succedendo  dopo  lui  . nel regno  Cleomene  c nascendogli  il  medesimo desiderio  per  gli  ricordi  e scritti eh’  egli  aveva  trovati  di  Agide,  dove  si vedeva  quale  era  la  mente  ed  intenzione sua,  conobbe  non  potere  fare  questo bene  alla  sua  patria  se  non  diventava solo  di  autorità;  parendogli,  per  1*  arabizione  degli  uomini,  non  potere  fare utile  a molti  contra  alla  voglia  di  pochi:  e presa  occasione  conveniente,  fece ammazzare  tutti  gli  Efori,  e qualunque altro  gli  potesse  contrastare  ; dipoi  rinnovò in  tutto  le  leggi  di  Licurgo.  La quale  deliberazione  era  atta  a fare  risuscitare Sparta,  e dare  a Clcomcne quella  reputazione  che  ebbe  Licurgo, se  non  fussc  stato  la  potenza  de’  Macedoni e la  debolezza  delle  altre  repubbliche greche.  Perchè,  essendo  dopo tale  ordine  assaltato  da’  Macedoni,  e trovandosi per    stesso  inferiore  di  forze, c non  avendo  a chi  rifuggire,  fu vinto;  e restò  quel  suo  disegno,  quantunque giusto  e laudabile,  imperfetto. Considerato  adunque  tutte  queste  cose, conchiudo,  come  a ordinare  una  repubblica è necessario  essere  solo;  c ROMOLO per  LA MORTE DI REMO E DI TAZIO meritare iscusa,  e non  biasmo. Quanto  sono  laudabili  * fondatori d*  una  repubblica  o dJ  uno  regno, tanto  quelli  dJ  una  tirannide sono  vituperabili. Intra  tutti  gli  uomini  laudati,  sono  i laudatissimi  quelli  die  sono  stati  capi e ordinatori  delle  religioni.  Appresso dipoi,  quelli  che  hanno  fondato  o repubbliche o regni.  Dopo  costoro,  sono celebri  quelli  che,  preposti  alti  esercìti,  hanno  ampliato  o il  regno  loro,  o quello  della  patria.  A questi  si  aggiungono gli  uomini  iilterati;  e perchè  questi  sono  di  più  ragioni,  sono  celebrati ciascuno  d’ essi  secondo  il  grado  suo. A qualunque  altro  uomo,  il  numero de’  quali  è infinito,  si  attribuisce  quut* che  parte  di  laude,  la  quale  gli  arreca l’ arte  e V esercizio  suo.  Sono,  per  lo contrario,  infumi  e detestabili  gli  uomini destruttori  delle  religioni,  dissipatori de’  regni  e delie  repubbliche,  inimici  delle  virtù,  delle  lettere,  e d'ogni altra  arte  che  arrechi  utilità  ed  onore alla  umana  generazione;  come  sono  gli empii  e violenti,  gl*  ignoranti,  gli  oziosi, i vili,  e i dappochi.  E nessuno  sarà mai    pazzo  o si  savio,  si  tristo  o si buono,  che,  propostogli  la  elezione  delle due  qualità  d’  uomini,  non  laudi  quella che  è da  laudare,  e Biasini  quella  che  è da  biasmare:  nientedimeno,  dipoi,  quasi tutti,  ingannati  da  un  falso  bene  e da una  falsa  gloria,  si  lasciano  andare, o voluntariamente  o ignorantemente, ne’ gradi  di  coloro  che  meritano  più  biasimo che  laude;  c potendo  fare,  con perpetuo  loro  onore,  o una  repubblica o un  regno,  si  volgono  alla  tirannide: nè  si  avveggono  per  questo  partito quanta  fama,  quanta  gloria,  quanto  onore, sicurtà,  quiete,  con  satisfazione  d’animo, e’fuggono;  e in  quanta  infamia, vituperio,  biasimo,  pericolo  e inquietudine incorrono.  Ed  è impossibile  che quelli  che  in  stato  privato  vivono  in  una repubblica,  o che  per  fortuna  o virtù ne  diventano  principi,  se  leggcssino l’ istorie,  e delle  memorie  delle  antiche cose  facessino  capitale,  che  non  volessero  quelli  tali  privati,  vivere  nella loro  patria  piuttosto  Soipioni  che  Cesari; e quelli  che  sono  principi,  piuttosto Agesilai,  Timolconi  e Dioni,  clic Nabidi,  Falari  e Dionisi  : perchè  vedrebbono  questi  essere  sommamente  vituperati, e quelli  eccessivamente  laudati. Vedrebbono  ancora  come  Timoleone  e gli  altri  non  ebbero  nella  patria  loro meno  autorità  che  si  avessiuo  Dionisio e Falari;  ma  vedrebbono  di  lungo  avervi avuto  più  sicurtà.    sia  alcuno  che  si inganni  per  la  gloria  di  Cesare,  sentendolo, massime,  celebrare  dagli  scrittori: perchè  questi  che  lo  laudano,  sono  corrotti dalla  fortuna  sua,  e spauriti  dalla lunghezza  dello  imperio,  il  quale  reggendosi sotto  quel  nome,  non  permetteva che  gli  scrittori  parlassero  liberamente  di  lui.  Ma  chi  vuole  conoscere quello  che  gli  scrittori  liberi  ne  direbbono,  vegga  quello  che  dicono  di  CATILINA. E tanto  è più  detestabile  GIULIO (si veda) CESARE , quanto  più  è da  biasimare  quello  che ha  fatto,  che  quello  che  ha  voluto  fare un  inule.  Vegga  ancora  con  quante  laudi celebrano  BRUTO (si veda);  talché,  non  potendo  biasimare  quello  per  la  sua  potenza,  e’ celebrano il  nemico  suo.  Consideri  ancora quello  eh’  è diventato  principe  in  una repubblica,  quante  laudi,  poiché  ROMA fu  diventata  imperio,  meritarono  più quelli  imperadori  che  vissero  sotto  le leggi  e come  principi  buoni,  che  quelli che  vissero  al  contrario:  e vedrà  come a Tito,  Nerva,  Traiano,  ADRIANO,  Antonino e Marco,  non  erano  necessari  i soldati pretoriani    la  moltitudine  delle legioni  a difenderli,  perchè  i costumi L loro,  la  benivolenza  del  Popolo,  lo  amore i del  Senato  gli  difendeva.  Vedrà  ancora come  a Caligola,  Nerone,  Vitellio,  ed  a tanti  altri  scellerati  imperadori,  non  bastarono gli  eserciti  orientali  ed  occidenItili  a salvarli  conira  a quelli  nemici,  che li  loro  rei  costumi,  la  loro  malvagia  vita aveva  loro  generati.  E se  la  istoria  di costoro  fusse  ben  considerata,  sarebbe assai  ammaestramento  a qualunque  priucipe,  a mostrargli  la  via  della  gloria  o del  biasmo,  e della  sicurtà  o del  timore suo.  Perchè,  di  ventisei  imperadori  che furono  da  Cesare  a Massimiuo,  sedici  ne furono  ammazzati,  dicci  morirono  ordinariamente; c se  di  quelli  che  furono morti  ve  ne  fu  alcuno  buono,  come Galba  e Pertinace,  fu  morto  da  quella corruzione  che  lo  antecessore  suo  aveva lasciata  nc’ soldati.  E se  tra  quelli  che morirono  ordinariamente  ve  ne  fu  alcuno scellerato, nome  Severo,  nacque  da una  sua  grandissima  fortuna  e virtù  ; le quali  due  cose  pochi  uomini  accompagnano. Vedrà  ancora,  per  la  lezione  di questa  istoria,  come  si  può  ordinare  un regno  buono:  perchè  tutti  gl' imperadori che  succederono  all*  imperio  per  eredità, eccetto  Tito,  furono  cattivi  ; quelli  che  per adozione, furono  tutti  buoni,  come  furono quei  cinque  da  Nervo  a Marco:  e come P imperio  cadde  negli  eredi,  ei  ritornò nella  sua  rovina.  Pongasi,  adunque,  innanzi un  principe  i tempi  da  Nerva  a Marco,  e conferiscagli  con  quelli  che erano  stati  prima  e che  furono  poi;  edipoi  elegga  in  quali  volesse  essere  nato,o a quali  volesse  essere  preposto.  Per-chè in  quelli  governali  da’ buoni,  vedràun  principe  sicuro  in  mezzo  de’ suoi  si-curi cittadini,  ripieno  di  pace  e di  giu-stizia il  mondo:  vedrà  il  Senato  con  lasua  autorità,  i magistrati  con  i suoi  ono-ri ; godersi  i cittadini  ricchi  le  loro  ric-chezze ; la  nobiltà  c la  virtù  esaltata  :vedrà  ogni  quiete  ed  ogni  bene;  e,  dal-l’altra parte,  ogni  rancore,  ogni  licenza,corruzione  e ambizione  spenta:  vedrà  itempi  aurei,  dove  ciascuno  può  tenere  edifendere  quella  oppinione  che  vuole.  Ve-drà, in  fine,  trionfare  il  mondo;  pienodi  riverenza  e di  gloria  il  principe,d’  amore  e di  sveurilà  i popoli.  Se  con-sidererà,  dipoi,  tritamente  i tempi  deglialtri  imperadori,  gli  vedrà  atroci  per  leguerre,  discordi  per  le  sedizioni,  nellapace  e nella  guerra  crudeli:  tanti  prin-cipi morti  col  ferro,  tante  guerre  civili,tante  esterne  ; P Italia  afflitta,  e piena  dinuovi  infortunii  ; rovinate  e saccheggiatele  città  di  quella.  Vedrà  Roma  arsa,  ilCampidoglio  da’ suoi  cittadini  disfatto,desolati  gli  antichi  templi,  corrotte  lecerimonie,  ripiene  le  città  di  adulterii:vedrà  il  mare  pieno  di  esilii,  gli  scoglipieni  di  sangue.  Vedrà  in  Roma  seguireinnumerabili  crudeltadi  ; e la  nobiltà,  le ricchezze,  gli  onori,  e sopra  tutto  ia  virtùessere  imputata  a peccato  capitale.  Ve-drà premiare  li  accusatori,  essere  corrotti i sèrvi  contro  al  signore,  i liberi contro  al  padrone;  e quelli  a chi  fusscro  mancati  i nemici,  essere  oppressi dagli  amici.  E conoscerà  allora  benissimo quanti  obblighi  Roma,  Italia,  e il mondo  abbia  con  Cesare.  E senza,  dubbio, se  e*  sarà  nato  d’uomo,  si  sbigottirà I da  ogni  imitazione  dei  tempi  cattivi,  c accenderassi  d’uno  immenso  desiderio  di seguire  i buoni.  E veramente,  cercando un  principe  la  gloria  del  mondo,  doverrebbe  desiderare  di  possedere  una  città corrotta,  non  per  guastarla  in  tutto  come Cesare,  ma  per  riordinarla  come  lloinolo.  E veramente  i cieli  non  possono dare  all i uomini  maggiore  occasione  di gloria,    li  uomini  la  possono  maggiore desiderare.  E se,  a volere  ordinare  bene una  città,  si  avesse  di  necessità  n dcporrc  il  principato,  meriterebbe  quello clic  non  la  ordinasse,  per  non  cadere di  quel  grado,  qualche  scusa:  ma  potendosi tenere  il  principato  ed  ordinarla, non  si  merita  scusa  alcuna.  E in  somma, considerino  quelli  a chi  i cieli  danno tale  occasione,  come  sono  loro  proposte due  vie:  1’  una  che  gli  fa  vivere sicuri,  e dopo  la  morte  gli  rende  gloriosi ; I’  altra  gli  fa  vivere  in  continove angustie,  e dopo  la  morte  lasciare  di  sè una  sempiterna  infamia. Delta  religione  de*  Romani. Ancora  che  Roma  avesse  il  primo  suo ordinatore  ROMOLO,  e che  da  quello  abbia riconoscere  come  figliuola  il  nascimento e la  educazione  sua;  nondimeno, giudicando  i cieli  che  gli  ordini  di  ROMOLO non  bastavano  a tanto  imperio, niessono  nel  petto  del  Senato  romano  di eleggere  NUMA (si veda)  Pompilio  per  SUCCESSORE A ROMOLO,  acciocché  quelle  cose  che  da lui  fossero  state  lasciate  indietro,  fossero da  Numa  ordinate.  II  quale  trovando  un popolo  ferocissimo,  e volendolo  ridurre nelle  ubbidienze  civili  con  le  arti  della pace,  si  volse  alla  religione,  come  oosa al  tutto  necessaria  a volere  mantenere una  civiltà  ; e la  costituì  in  modo,  che per  più  secoli  non  fu  mai  tanto  timore di  Dio  quanto  in  quella  Repubblica  : ilche  facilitò  qualunque  impresa  che  ilSenato  o quelli  grandi  uomini  romanidisegnassero  fare.  E ehi  discorrerà  in-finite  azioni,  e del  popolo  di  Roma  lutto insieme,  e di  molli  de’ Romani  di  per  sé, vedrà  come  quelli  cittadini  temevano  più assai  rompere  il  giuramento  che  le  leggi  ; come  coloro  clic  stimavano  più  la  potenza di  Dio,  che  quella  degli  uomini: come  si  vede  manifestamente  per  gli esempi  di  SCIPIONE  e di  MANLIO TORQUATO. Perchè,  dopo  la  rotta  che  Annibale  aveva dato  a’ Romani  a Canne,  molti  cittadini si  erano  adunati  insieme,  c sbigottiti  e paurosi  si  erano  convenuti  abbandonare l’ITALIA,  e girsene  in  Sicilia:  il  che  sentendo SCIPIONE,  gli  andò  a trovare,  e col  ferro  ignudo  in  mano  gli  costrinse a giurare  di  non  abbandonare  la  patria. LUCIO MANLIO, padre di TITO MANLIO, che fu  dipoi  chiamato  Torquato,  era  stato accusato  da  MARCO POMPONIO,  Tribuno della  plebe  ; ed  innanzi  che  venissi  il di  del  giudizio,  Tito  andò  a trovare Marco,  e minacciando  d’ ammazzarlo  se non  giurava  di  levare  l’accusa  al  padre, lo  costrinse  al  giuramento  ; e quello, per  timore  avendo  giurato,  gli  levò  t'accusa. E cosi  quelli  cittadini  i quali l'amore  della  patria  e le  leggi  di  quella non  ritenevano  in  ITALIA,  vi  furon  ritenuti da  un  giuramento  che  furono  forzati a pigliare;  e quel  Tribuno  pose  da parte  l'odio  che  egli  aveva  col  padre, la  ingiuria  che  gli  aveva  fatta  il  figliuolo, c i’  onore  suo,  per  ubbidire  al  giuramento preso:  il  che  non  nacque  da  altro, che  da  quella  religione  che  Numa aveva  introdotta  in  quella  città.  E vedesi,  chi  considera  bene  le  istorie  romane, quanto  serviva  la  religione  a comandare agli  eserciti,  a riunire  la  plebe, a mantenere  gli  uomini  buoni,  a fare vergognare  li  tristi.  Talché,  se  si  avesse a disputare  a quale  principe  Roma  fusse più  obbligata,  o a ROMOLO  o a Numa, credo  più  tosto  Numa  otterrebbe  il  primo grado:  perchè  dove  è religione,  facilmente si  possono  introdurre  l’armi; e dove  sono  l’armi  e non  religione,  con diflìcultà  si  può  introdurre  quella.  E si vede  che  a ROMOLO  per  ordinare  il  Senato, e per  fare  altri  ordini  civili  e militari, non  gli  fu  necessario  dell’ autorità di  Dio;  ma  fu  bene  necessario  a Numa, il  quale  simulò  di  avere  congresso  con una  Ninfa,  la  quale  lo  consigliava  di quello  ch’egli  avesse  a consigliare  il popolo  : e tutto  nasceva  perchè  voleva mettere  ordini  nuovi  ed  inusitati  in quella  città,  e dubitava  che  la  sua  autorità non  bastasse.  G veramente,  mai  non fu  alcuno  ordinatore  di  leggi  straordinarie in  uno  popolo,  che  non  ricorresse a Dio  ; perchè  altrimenlc  non  sarebbero accettate:  perchè  sono  molli  beni  conosciuti da  uno  prudente,  i quali  non hanno  in    ragioni  evidenti  da  potergli persuadere  ad  altri.  Però  gli  uomini savi,  che  vogliono  torre  questa  diflìcultà, ricorrono  a Dio.  Cosi  fece  Licurgo,  cosi Solone,  cosi  molti  altri  che  hanno  avuto il  medesimo  fine  di  loro.  Ammirando, adunque,  il  popolo  romano  la  bontà  e la prudenza  sua,  cedeva  ad  ogni  sua  deliIterazione,  Ben  è vero  che  l’essere  quelli tempi  pieni  di  religione,  e quelli  uomini, con  i quali  egli  aveva  a travagliare, grossi,  gli  detlono  facilità  grande  a conseguire i disegni  suoi,  potendo  imprimere in  loro  facilmente  qualunche  nuova forma.  E senza  dubbio,  ehi  volesse  ne’presenti  tempi  fare  una  repubblica,  più  facilità troverebbe  negli  uomini  montanari, dove  non  è alcuna  civilità,  che  in quelli  che  sono  usi  a vivere  nelle  città, dove  la  civilità  è corrotta:  ed  uno  scultore trarrà  più  facilmente  una  bella  statua d’  uno  marmo  rozzo,  che  d’ uno  male abbozzato  d’altrui.  Considerato  adunque tutto,  conchiudo  che  la  religione introdotta  da  Piuma  fu  intra  le  primecagioni  della  felicità  di  quella  città:  perchè quella  causò  buoni  ordini;  i buoni ordini  fanno  buona  fortuna  ; e dalla buona  fortuna  nacquero  i felici  successi delle  imprese.  E come  la  osservanza  del culto  divino  è cagione  delia  grandezza delle  repubbliche,  cosi  il  dispregio  di quella  è cagione  della  rovina  d’esse.  Perchè, dove  manca  il  timore  di  Dio,  conviene che  o quel  regno  rovini,  o che sia  sostenuto  dal  timore  d’  un  principe che  supplisca  a’ difetti  della  religione.  E perchè  i principi  sono  di  corta  vita, conviene  che  quel  regno  manchi  presto, secondo  che  manca  la  virtù  d’  esso.  Donde nasce  che  i regni  i quali  dependono solo  dalla  virtù  d’ uno  uomo,  sono  poco durabili,  perchè  quella  virtù  manca  con la  vita  di  quello  ; e rade  volte  accade che  la  sia  rinfrescata  con  la  successione, come  prudentemente  ALIGHIERI (si veda) dice: tt  Rade  volte  risurge  per  li  ramiL'umana  probitade:  e questo  vuoloQuel  che  la  dà,  perchè  da  lui  si  chiami.  „Non  è,  adunque,  la  salute  di  una  repubblica o d’uno  regno  avere  uno  principe che  prudentemente  governi  mentre  vive  ; ma  uno  che  l’ordini  in  modo,  clic,  morendo ancora,  la  si  mantenga.  E benché agli  uomini  rozzi  più  facilmente  si  persuade uno  ordine  o una  oppinione  nuova,  non  è per  questo  impossibile  persuaderla ancora  agli  uomini  civili,  e che si  presumono  non  essere  rozzi.  Al  popolo di  Firenze  non  pare  essere    ignorante nè  rozzo:  nondimeno  da  frate  Girolamo Savonarola  fu  persuaso  che  parlava con  Dio.  lo  non  voglio  giudicare s’egli  era  vero  o no,  perchè  d’ un  tanto uomo  se  ne  debbe  parlare  con  reverenza : ma  io  dico  bene,  che  infiniti  lo credevano,  senza  avere  visto  cosa  nessuna istraordinaria  da  farlo  loro  credere; perchè  la  vita  sua,  la  dottrina,  il soggetto  che  prese,  erano  sufhzienti  a fargli  prestare  fede.  Non  sia,  pertanto, nessuno  che  si  sbigottisca  di  non  potere conseguire  quello  che  è stato  conseguito da  altri  ; perchè  gli  uomini,  come  nella Prefazione  nostra  si  disse,  nacquero, vissero  e morirono  sempre  con  un  medesimo ordine. Di  quanta  importanza  sia tenere  conto  della  religione j e come la  Italia  per  esserne  mancata  mediante la  Chiesa  romana y è rovinata. Quelli  principi,  o quelle  repubbliche, le  quali  si  vogliono  manienere  incorrotte, hanno  sopra  ogni  altra  cosa  a mantenere incorrotte  le  cerimonie  della  religione, e tenerle  sempre  nella  loro venerazione;  perchè  nissuno  maggiore indizio  si  puote  avere  della  rovina  d’una provincia,  che  vedere  dispregiato  il  culto divino.  Questo  è facile  a intendere,  conosciuto che  si  è in  su  che  sia  fondata la  religione  dove  V uomo  è nato;  perchè ogni  religione  ha  il  fondamento  della vita  sua  in  su  qualche  principale  ordine suo.  La  vita  della  religione  gentile  era fondata  sopra  i responsi  delti  oracoli e sopra  la  setta  delli  aridi  e delli aruspici:  tutte  le  altre  loro  cerimonie, sacrifìcii,  riti,  dependevano  da  questi; perchè  loro  facilmente  credevano  che quello  Dio  che  ti  poteva  predire  il  tuo futuro  bene  o il  tuo  futuro  male,  te lo  potessi  ancora  concedere.  Di  qui nascevano  i tempii,  di  qui  i sacrifici!, di  qui  le  supplicazioni,  ed  ogni  altra cerimonia  in  venerarli:  perchè  l’oracolo di  Deio,  il  tempio  di  GIOVE  Aminone,  ed altri  celebri  oracoli,  tenevano  il  mondo in  ammirazione,  e devoto.  Come  costoro cominciarono  dipoi  a parlare  n modo de’  potenti,  e questa  falsità  si  fu  scoperta ne’  popoli,  divennero  gli  uomini increduli,  ed  atti  a perturbare  ogni  ordine  buono.  Debbono,  adunque,  i Principi d’uria  repubblica  o d’un  regno,  i fondamenti  della  religione  che  loro  tengono, mantenerli;  e fatto  questo,  sarà loro  facil  cosa  a mantenere  la  loro  repubblica religiosa,  e,  per  conseguente, buona  ed  unita.  C debbono,  tutte  le cose  che  nascono  in  favore  di  quella, come  che  le  giudicassino  false,  favorirle ed  accrescerle;  e tanto  più  Io  debbonofare,  quanto  più  prudenti  sono,  e quanto più  conoscitori  delle  cose  naturali.  E perchè  questo  modo  c stato  osservato dagli  uomini  savi,  ne  è nata  l’oppinione dei  miracoli,  che  si  celebrano  nelle  religioni eziandio  false:  perchè  i prudenti gli  aumentano,  da  qualunche  principio e’ si  nascano;  e l’autorità  loro    poi a quelli  fede  appresso  a qualunque.  Di questi  miracoli  ne  fu  a Roma  assai;  e intra  gli  altri  fu,  che  saccheggiando  i soldati  romani  la  città  de’ Veienti,  alcuni di  loro  entrarono  nel  tempio  di  Giunone, ed  accostandosi  alla  immagine  di quella,  e dicendole  vis  venire  Romani ,parve  od  alcuno  vedere  che  la  accennasse; ad  alcun  altro,  che  ella  dicesse di  si.  Perchè,  sendo  quelli  uomini  ripieni di  religione  (il  che  dimostra  L.  perchè  nell’entrare  nel  tempio, vi  entrarono  senza  tumulto,  tutti  devoti e pieni  di  reverenza),  parve  loro  udire quella  risposta  che  alla  domanda  loro per  avventura  si  avevano  presupposta  : la  quale  oppiuione  e credulità,  da  Cammillo  e dagli  altri  principi  della  città  fu ni  tutto  favorita  ed  accresciuta.  La  quale religione  se  ne’ Principi  della  repubblica cristiana  si  fusse  mantenuta,  secondo  che dal  datore  d’ essa  ne  fu  ordinato,  sarebbero gli  stati  e le  repubbliche  cristiane più  unite  e più  felici  assai  ch’elle non  sono.    si  può  fare  altra  maggiore conieltura  della  declinazione  d’essa, quanto  è vedere  come  quelli  popoli  che sono  più  propinqui  alla  Chiesa  romana, capo  della  religione  nostra,  hanno  meno religione.  E chi  considerasse  i fondamenti suoi,  e vedesse  l’ uso  presente quanto  è diverso  da  quelli,  giudicherebbe esser  propinquo,  senza  dubbio,  o la  rovina  o il  flagello.  E perchè  sono alcuni  d’oppinione,  che  ’l  ben  essere delle  cose  d’ Italia  dipende  dalla  Chiesa di  Roma,  voglio  contro  ad  essa  discorrere quelle  ragioni  che  mi  occorrono  :e ne  allegherò  due  potentissime,  le  quali, secondo  me,  non  hanno  repugnanza.  La, prima  è,  che  per  gli  esempi  rei  di  quella i corte,  questa  provincia  ha  perduto  oguI divozione  ed  ogni  religione:  il  clic  si i lira  dietro  infiniti  inconvenienti  e infi-niti disordini;  perchè,  così  come religione  si  presuppone  ogni  bene, dove  ella  manca  si  presuppone  il  contrario. Abbiamo,  adunque,  con  la  Chiesa e con  i preti  noi  Italiani  questo  primo obbligo,  d’essere  diventati  senza  religione c cattivi:  ma  ne  abbiamo  ancora un  maggiore,  il  quale  è cagione  della rovina  nostra.  Questo  è die  la  Chiesa ha  tenuto  e tiene  questa  nostra  provincia divisa. E veramente,  alcuna  provincia non  fu  mai  unita  o felice,  se  la  non viene  tutta  alla  obedienza  d’  una  repubblica o d’uno  principe,  come  è avvenuto alla  Francia.  E la  cagione che  la  Italia  non  sia  in  quel  medesimo termine,    abbia  aneli’  ella  o una  repubblica  o uno  principe  che  la governi,  è solamente  la  Chiesa  ; perchè, avendovi  abitalo  e tenuto  imperio  temponile,  non  è stata    potente      tal virtù,  che  l'abbia  potuto  occupare  il  restante d’Italia,  e farsene  principe;  e non  è stata,  dall’altra  parte,  si  debile, che,  per  paura  di  non  perder  il  dominio delie  cose  temporali,  la  non  abbi potuto  convocare  uno  potente  che  la  difenda contra  a quello  che  in  Italia  fusse diventato  troppo  potente:  come  si  è veduto anticamente  per  assai  esperienze, quando  mediante  Carlo  Magno  la  ne  cacciò i Lombardi,  eh’ era  no  già  quasi  re di  tutta  Italia;  e quando  ne’ tempi  nostri ella  tolse  la  potenza  a’  Veneziani  con l’aiuto  di  Francia;  dipoi  ne  cacciò  i Franciosi  eoa  l’aiuto  de’ Svizzeri.  Non essendo,  dunque,  stata  la  Chiesa  potente da  potere  occupare  l’ Italia,    avendo permesso  che  un  altro  la  occupi,  è stata cagione  che  la  non  è potuta  venire  sotto un  capo;  ma  è stata  sotto  più  principi e signori,  da’ quali  è nata  tanta  disunione e tanta  debolezza,  che  la  si  è condotta ad  essere  stata  preda,  non  solamelile  di  barbari  polenti,  ma  di  qualunque I*  assalta.  Di  clic  noi  altri  Italiani abbiamo  obbligo  con  la  Chiesa,  c non con  altri.  E chi  ne  volesse  per  esperienza certa  vedere  più  pronta  la  verità,  bisognerebbe che  fusse  di  tanta  potenza,  che mandasse  ad  abitare  la  corte  romana,  con l’autorità  che  l’ha  in  Italia,  in  le  terre de’ Svizzeri;  i quali  oggi  sono  quelli  soli popoli  che  vivono,  e quanto  alla  religione e quanto  agli  ordini  militari,  secondo  gli antichi  : e vedrebbe  che  in  poco  tempo furebbero  più  disordine  in  quella  provincia i costumi  tristi  di  quella  corte, che  qualunchc  altro  accidente  clic  in qualunche  tempo  vi  potessi  surgere.  Come  t Romani  si  servirono della  religione  per  ordinare  la città,  e per  seguire  le  loro  imprese  e fermare  i tumulti.Ei  non  mi  pare  fuor  di  proposito  ad-durre alcuno  esempio  dove  i Romani  si servirono  della  religione  per  riordinare la  cillà,  e per  seguire  l’imprese  loro;  e quantunque  in  L.  ne  siano  molti, nondimeno  voglio  essere  contento  a questi. Avendo  creato  il  Popolo  romano  i Tribuni,  di  potestà  consolare,  e,  fuorché uno,  tutti  plebei;  ed  essendo  occorso quello  anno  peste  c fame,  e venuti  certi prodigii  ; usorono  questa  occasione  i Nobili nella  nuova  creazione  de’  Tribuni, dicendo  che  li  Dii  erano  adirati  per  aver Roma  male  usata  la  maestà  del  suo  imperio, e che  non  era  altro  rimedio  a placare  gli  Dii,  che  ridurre  la  elezione de’ Tribuni  nel  luogo  suo:  di  che  nacque che  la  Plebe,  sbigottita  da  questa  religione, creò  i Tribuni  tutti  nobili.  Vedesi ancora  nella  espugnazione  della  città de’  Ycienti,  come  i capitani  degli  eserciti si  valevano  della  religione  per  tenergli disposti  ad  una  impresa  : ehè  essendo  il lago  Albano,  quello  anno,  cresciuto  mirabilmente, ed  essendo  i soldati  romani  in fastiditi per  la  lunga  ossidione,  e volendo tornarsene  a Roma,  trovarono  i Romani, come  Apollo  e certi  altri  responsi  dicevano che  quell*  anno  si  espugnerebbe  la  città de’ Veienti,  che  si  derivasse  il  Ingo  Albano  : la  qual  cosa  fece  ai  soldati  sopportare  i fastidi  della  guerra  e della  ossidione, presi  da  questa  speranza  di  espugnare la  terra  ; e stettono  contenti  a seguire  la impresa,  tanto  che  Cammillo  fatto  Dittatore espugnò  detta  città,  dopo  dieci  anni che  l’era  stala  assediata.  E cosi  la  religione, usata  bene,  giovò  e per  la  espugnazione di  quella  città,  e per  la  restituzione dei  Tribuni  nella  Nobiltà:  chè senza  detto  mezzo  difficilmente  si  sarebbe condotto  e l’uno  e l’altro.  Non voglio  mancare  di  addurre  a questo proposito  un  altro  esempio.  Erano  nati in  Roma  assai  tumulti  per  cagione  di Terentillo  Tribuno,  volendo  lui  promulgare certa  legge,  per  le  cagioni  che  di sotto  nel  suo  luogo  si  diranno  ; e tra  i primi  rimedi  che  vi  usò  la  Nobiltà,  fu la  religione:  della  quale  si  servirono  i duo  modi.  Nel  primo  fecero  vedere  i li- bri Sibillini,  e rispondere,  come  alla città,  mediante  la  civile  sedizione,  soprastavano quello  anno  pericoli  di  non  perdere la  libertà  : la  qual  cosa,  ancora  che fusse  scoperta  da’ Tribuni,  nondimeno messe  tanto  terrore  ne*  petti  della  plebe, che  la  raffreddò  nel  seguirli.  L’altro modo  fu,  che  avendo  uno  APPIO ERDONIO,  con  una  moltitudine  di  sbanditi  e di  servi,  in  numero  di  quattromila  uomini, occupato  di  notte  il  Campidoglio, in  tanto  che  si  poteva  temere,  che  se gli  Equi  ed  i Volsci,  perpetui  nemici  al nome  romano,  ne  fossero  venuti  a Roma, la  arebbono  espugnata  ; e non  cessando i Tribuni  per  questo  di  insistere nella  pertinacia  loro  di  promulgare  la legge  Terentilla,  dicendo  che  quello  in- sulto era  fittizio  c non  vero:  uscì  fuori del  Senato  uno  Publio  Rubezio,  cittadino grave  e di  autorità,  con  parole  parte amorevoli,  parte  minacciatiti,  mostrandoli i pericoli  della  città,  e la  intempestiva  domanda  loro;  tanto  che  e’ constrinse la  Plebe  a giurare  di  non  si  partire dalla  voglia  del  Consolo:  onde  che la  Plebe  obediente,  per  forza  ricuperò il  Campidoglio.  Ma  essendo  in  tale  espu-gnazione morto  Publio  Valerio  consolo, subito  fu  rifatto  consolo  Tito  Quinzio;  il quale  per  non  lasciare  riposare  la  Plebe, nè  darle  spazio  a ripensare  alla  legge  Terentilla,  le  comandò  s’  uscissi  di  Roma per  andare  contra  a’  Volsci,  dicendo  che per  quel  giuramento  aveva  fatto  di  non abbandonare  il  Consolo,  era  obbligata  a seguirlo:  a che  i Tribuni  si  opponevano, dicendo  come  quel  giuramento s’era  dato  al  Consolo  morto,  e non  a lui.  Nondimeno  L.  mostra,  come la  Plebe  per  paura  della  religione  volle più  presto  obedire  al  Consolo,  che  credere a’ Tribuni;  dicendo  in  favore  della antica  religione  queste  parole:  Nondum htiDPj  quce  nunc  tenet  sceculum,  negligcntict  Dcùm  venerai , nec  interpretando sibi  quisque  jasjurandum  et  legcs  aplas■ a La  *faciebal.  Per  la  qual  cosa  dubitando  i Tribuni  di  non  perdere  allora  tutta  la lor  degnila,  si  accordarono  col  Consolo di  stare  alla  obedienza  di  quello;  e che per  uno  anno  non  si  ragionasse  della legge  Terentilla,  ed  i Consoli  per  uno anno  non  potessero  trarre  fuori  la  Plebe alla  guerra.  E cosi  la  religione  fece  al Senato  vincere  quella  diffìcultà,  che  senza essa  mai  non  arebbe  vinto.  I Romani  interpretavano gli  auspicii  secondo  la  necessità , con  la  prudenza  mostravano  di  osservare la  religione j quando  forzali  non V osservavano  ; c se  alcuno  (emwariamente  la  dispregiava , lo  punivano. Non  solamente  gli  auguri!,  come  di  sopra si  è discorso,  erano  il  fondamento in  buona  parte  dell'antica  religione de’ Gentili,  ma  ancora  erano  quelli  che erano  cagione  del  bene  essere  della  Repubblica romana.  Donde  i Romani  ne uvevano  più  cura  che  di  alcuno  altro  ordine di  quella;  ed  usavangli  ne’ comizi consolari,  nel  principiare  le  imprese, nel  trai*  fuori  gli  eserciti,  nel  fare  le giornate,  ed  in  ogni  azione  loro  importante, o civile  o militare;    maisarebbono  iti  ad  una  espedizionc,  che  non avessino  persuaso  ai  soldati  che  gli  Dei promettevano  loro  la  vittoria.  Ed  infra gli  altri  nuspicii,  avevano  negli  eserciti certi  ordini  di  aruspici,  che  e’ chiamavano Pollarii:  e qualunque  volta  eglino ordinavano  di  fare  la  giornata  col  nemico, volevano  che  i Pollarii  fucessino i loro  auspicii;  e beccando  i polli,  combattevano con  buono  augurio:  non  beccando, si  astenevano  dalla  zuffa.  Nondimeno, quando  la  ragione  mostrava  loro una  cosa  doversi  fare,  non  ostante  che gli  auspicii  fossero  avversi,  la  facevano in  ogni  modo;  ma  rivoltavanla  con termini  e modi  tanto  attamente,  che non  paresse  che  la  fucessino  con  dispregio dello  religione  : il  quale  termine  fu  usato  da  Papirio  consolo  in una  zuffa  clic  fece  importantissima  coi Sanniti,  dopo  la  quale  restorno  in  lutto deboli  ed  afflitti.  Perchè  sendo  Papirio in  su’  campi  rincontro  ai  Sanniti,  e parendogli avere  nella  zuffa  la  vittoria certa,  e volendo  per  questo  fare  la  giornata, comandò  ai  Pollarii  che  fucessino i loro  auspicii;  ma  non  beccando  i polli, e veggendo  il  principe  de’ Pollarii  la gran  disposizione  dello  esercito  di -combattere, e la  oppinione  che  era  nei  capitano cd  in  tutti  i soldati  di  vincere, per  non  torre  occasione  di  bene  operare a quello  esercito,  riferi  al  Consolo  come gli  auspicii  procedevano  bene:  talché Papirio  ordinando  le  squadre,  ed  essendo da  alcuni  de' Pollarii  detto  a certi soldati,  i polli  non  aver  beccato,  quelli lo  dissono  a Spurio  Papirio  nipote  del Consolo;  e quello  riferendolo  al  Consolo, rispose  subito,  eh’  egli  attendesse a fare  l’oflìzto  suo  bene,  e che  quanto a lui  ed  allo  esercito  gli  auspicii  erano rolli;  e se  il  Pollarlo  aveva  detto  le  bugie, ritornerebbono  in  pregiudicio  suo. E perchè  lo  effetto  corrispondesse  al pronostico,  comandò  ni  legati  clic  constituìssino  i Pollarii  nella  primo  fronte della  zuffa.  Onde  nacque  che,  andando contra  ai  nemici,  sendo  da  un  soldato romano  tratto  uno  dardo,  a caso  ammazzò il  principe  de’ Pollarii;  la  qual cosa  udita  il  Console,  disse  come  ogni cosa  procedeva  bene,  e col  favore  degli Dii;  perchè  lo  esercito  con  la  morte  di quel  bugiardo  si  era  purgato  da  ogni colpa,  e da  ogni  ira  che  quelli  avessino preso  contra  di  lui.  E cosi,  col  sapere bene  accomodare  t disegni  suoi agli  auspicii,  prese  partito  di  azzuffarsi, senza  clic  quello  esercito  si  avvedesse che  in  alcuna  parte  quello  avesse  negletti gli  ordini  della  loro  religione.  Al contrario  fece APPIO Pillerò  in  Sicilia, nella  prima  guerra  punica:  che  volendo azzuffarsi  con  P esercito  cartaginese,  fece fare  gli  auspicii  a’ Pollarii;  e referendogli  quelli,  come  i polli  non  beccavano, disse  : veggiamo  se  volessero  bere  ; e gli  fece  giUare  in  mare.  Donde  che,  azzuffandosi, perdette  la  giornata  : di  che egli  ne  fu  a Roma  condennato,  e Papirio onorato;  non  tanto  per  aver  V uno  vinto e P altro  perduto,  quanto  per  aver  1’  uno fatto  contra  agli  auspicii  prudentemente e l’altro  temerariamente.    ad  altro line  tendeva  questo  modo  dello  aruspicare, che  di  fare  i soldati  confidentemente ire  alla  zuffa  ; dalla  quale  confidenza quasi  sempre  uasce  la  vittoria.  La qual  cosa  fu  non  solamente  usala  dai Romani,  ma  dalli  esterni  : di  che  mi  pare di  addurre  uno  esempio  nel  seguente capitolo. XV. Come  i Sanniti,  per  estremo rimedio  alle  cose  loro  afflitte,  ricorsono  alla  religione. Avendo  i Sanniti  avute  più  rotte  dai Romani,  ed  essendo  stati  per  ultimo  distrutti  in  Toscana,  e morti  i loro  eserciti e gli  loro  capitani  ; ed  essendo  stali  vinti  i loro  compagni,  come  Toscani,  Franciosi ed  Umbri  ; ncc  suis,  nec  extcrnis  viribus  jam  slare  polcrant  : t amen  bello  non abstinebantj  adeo  ne  infeliciler  quidem defensae  libcrtatis  tcedcbalj  et  vinci > quarti  non  tentare  victorianij  malebant. Onde  deliberarono  far  ultima  prova:  e perché  ei  sapevano  che  a voler  vincere era  necessario  indurre  ostinazione  negli animi  de’ soldati,  c che  a indurla  non v’ era  miglior  mezzo  che  la  religione; pensarono  di  ripetere  uno  antico  loro  sacrifìcio, mediante  Ovio  Faccio,  loro  sacerdote. Il  quale  ordinarono  in  questa forma  : che,  fatto  il  sacrificio  solenne,  e fatto  intra  le  vittime  morte  e gli  altari accesi  giurare  lutti  i capi  dello  esercito, di  non  abbandonare  mai  la  zuffa,  citarono i soldati  ad  uno  ad  uno  ; ed  intra quelli  altari,  nel  mezzo  di  più  centurionicon  le  spade  nude  in  mano,  gli  face-vano prima  giurare  che  non  ridirebbono cosa  che  vedessino  o sentissino;  dipoi,con  parole  esecrabili  e versi  pieni  di  spa-vento, gli  facevano  giurare  e promettereagli  Dii,  d’essere  presti  dove  gli  impe-radori  gli  comandassino,  c di  non  si  fug-gire mai  dalla  zuffa,  e d’ ammazzarequalunque  vedessino  che  si  fuggisse:  laqual  cosa  non  osservata,  tornasse  soprail  capo  della  sua  famiglia  e della  sustirpe.  Ed  essendo  sbigottiti  alcuni  diloro,  non  volendo  giurare,  subito  da’ lorocenturioni  erano  morti;  talché  gli  altriche  succedevano  poi,  impauriti  dalla  fe-rocità dello  spettacolo,  giurarono  tutti.E per  fare  questo  loro  assembramentopiù  magnifico,  sendo  quarantamila  uo-mini, ne  vestirono  la  metà  di  pannibianchi,  con  creste  e pennacchi  sopra  lecelate  ; e così  ordinati  si  posero  pressoad  Aquilonia.  Contra  a costoro  vennePapirio;  il  quale,  nel  confortare  i suoisoldati,  disse:  Non  enim  crislas  vulnerafacere,  et  pietà  alque  aurata  scuta  tran-sirc  ttomanum  pileum.  E per  debilitarela  oppinione  clic  avevano  i suoi  soldatide’ nemici  per  i)  giuramento. preso,  disseche  quello  era  per  essere  loro  a timore,non  a fortezza;  perchè  in  quel  medesi-mo tempo  avevano  uvere  paura  de’ cit-tadini, degli  Dii,  c de*  nemici.  E venutial  conflitto,  furono  superati  i Sanniti;perchè  la  virtù  romana,  ed  il  timoreconccputo  per  le  passate  rotte,  superòqualunque  ostinazione  ei  potessino  averepresa  per  virtù  della  religione  e per  ilgiuramento  preso.  Nondimeno  si  vedecome  a lóro  non  parve  potere  avere  al-tro rifugio,    tentare  altro  rimedio  apoter  pigliare  speranza  di  ricuperare  laperduta  virtù.  Il  che  testifica  appieno,quanta  confidcnzia  si  possa  avere  me-diante la  religione  bene  usata.  E benchéquesta  parte  piuttosto,  per  avventura,  sirichiederebbe  esser  posta  intra  le  coseestrinseche  ; nondimeno,  dependendo  dauno  ordine  de’  più  importanti  dellaRepubblica  di  Roma,  mi  è parso  dacommetterlo  in  questo  luogo,  per  nondividere  questa  materia,  cd  averci  aritornare  più  volte. Un  popolo  uso  a vìveresotto  un  principe,  se  per  qualche  ac-cidente diventa  libero,  con  difficultàmantiene  la  libertà.Quanta  difficultà  sia  ad  uno  popolouso  a vivere  sotto  un  principe,  preser-vare dipoi  la  libertà,  se  per  alcuno  ac-cidente l’acquista,  come  l’acquistò  Ro-ma dopo  la  cacciala  de’Tarquini;  iodimostrano  infiniti  esempi  che  si  leggononelle  memorie  delle  antiche  istorie.  Etale  difficultà  è ragionevole;  perchè  quelpopolo  è non  altrimenti  che  uno  ani-male bruto,  il  quale,  ancora  che  di  fe-roce natura  e silvestre,  sia  stato  nu-drito  sempre  in  carcere  ed  in  servitù,che  dipoi  lasciato  a sorte  in  una  cam-pagna libero,  non  essendo  uso  a pa-scersi, nè  sappiendo  le  latebre  dove  siabbia  a rifuggire,  diventa  preda  delprimo  che  cerca  rincatenarlo.  Questo  me-desimo interviene  ad  uno  popolo,  il  qualesetido  uso  a vivere  sotto  i governi  d’al-tri, non  snppiendo  ragionare    delledifese  o offese  pubbliche,  non  cogno-scendo  i principi    essendo  conosciutoila  loro,  ritorna  presto  sotto  un  giogo,il  quale  il  più  delle  volte  è più  graveche  quello  che  per  poco  innanzi  si  avevalevato  d’ in  su  ’1  collo  : e trovasi  in  que-ste difficullà,  ancora  che  la  materia  nonsia  in  tutto  corrotta;  perchè  in  unopopolo  dove  in  lutto  è entrata  la  corru-zione, non  può,  non  che  picciol  tempo,ma  punto  vivere  libero,  come  di  sotto  sidiscorrerà:  e però  i ragionamenti  no-stri sono  di  quelli  popoli  dove  la  corru-zione non  sia  ampliata  assai,  c dove  siapiù  del  buono  che  del  guasto.  Aggiun-gesi  alla  soprascritta,  un’  altra  difficultò;la  quale  è,  che  lo  Stato  che  diventa  li-bero, si  fa  partigiani  nemici,  e nonpartigiani  amici.  Partigiani  nemici  glidiventano  tutti  coloro  che  dello  Stalo  ti-nodei  dìscorsi Tannico  si  prevalevano,  pascendosi  dellericchezze  del  principe;  a’ quali  sendotolta  la  facoltà  del  valersi,  non  possovivere  contenti,  e sono  forzati  ciascunodi  tentare  di  riassumere  la  tirannide,per  ritornare  nell’ autorità  loro.  Non  siacquista,  come  ho  detto,  partigiani  ami-ci ; perchè  il  vivere  libero  propone  onorie premii,  mediami  alcune  oneste  e de-. terminate  cagioni,  e fuori  di  quelle  nonpremia    onora  alcuno;  e quando  unoha  quelli  onori  e quelli  utili  che  gli  paremeritare,  non  confessa  avere  obbligo  concoloro  che  lo  rimunerano.  Oltre  a que-sto, quella  comune  utilità  che  del  viverelibero  si  trae,  non  è da  alcuno,  mentreche  ella  si  possiede,  conosciuta:  la  qualeè di  potere  godere  liberamente  le  cosesue  senza  alcuno  sospetto,  non  dubitaredell’onore  delle  donne,  di  quel  de’ fi-gliuoli, non  temere  di  sè;  perchè  nis-suno  confesserà  mai  aver  obbligo  conuno  che  non  1’  offenda.  Però,  come  disopra  si  dice,  viene  ad  avere  lo  Statolibero  c che  «li  nuovo  surge,  partigianinon  partigiani  amici.  E vonemicilendo  rimediare  a questi  inconvenienti,c a quegli  disordini  che  le  soprascrittediflìculta  si  arrecherebbono  seco,  non  ciè più  potente  rimedio,    più  valido,  nèpiù  sano,    più  necessario,  che  am-mazzare i figliuoli  di  Bruto:  i quali,come  l’istoria  mostra,  non  furono  in-dotti, insieme  con  altri  gioveni  romani,n congiurare  contra  alla  patria  per  al-tro, se  non  perchè  non  si  potevano  va-lere straordinariamente  sotto  i Consoli,come  sotto  i Re;  in  modo  che  la  libertàdi  quel  popolo  pareva  che  fusse  diven-tata la  loro  servitù.  E chi  prende  a go-vernare una  moltitudine,  o per  via„dilibertà  o per  via  di  principato,  e non si  assicura  di  coloro  che  a quell’ ordine nuovo  sono  nemici,  fa  uno  Stato  di  poca vita.  Vero  è ch’io  giudico  infelici  quelli principi,  che  per  assicurare  lo  Stato  loro hanno  a tenere  vie  straordinarie,  avendo per.  nemici  la  moltitudine:  perchè  quello che  ha  per  nemici  i pochi,  facilmente e senza  molti  scandali,  si  assicura;  ma chi  ha  per  nemico  1’  universale,  non  si assicura  mai;  e quanta  più  crudeltà  usa, tanto  diventa  più  debole  il  suo  principalo.  Talché  il  maggior  rimedio  che  si abbia,  è cercare  di  farsi  il  popolo  amico. E benché  questo  discorso  sia  disformo dal  soprascritto,  parlando  qui  d’  un principe  e quivi  d’ una  repubblica  ; nondimeno, per  non  avere  a tornare  più  in su  questa  materia,  ne  voglio  parlare  bre-vemente. Volendo,  pertanto,  un  principe guadagnarsi  un  popolo  che  gli  fusse  nemico, parlando  di  quelli  principi  che sono  diventati  della  loro  patria  tiranni  ; dico  eh’ ci  debbe  esaminare  prima  quello che  il  popolo  desidera,  e troverà  sempre ch’ei  desidera  due  cose;  Y una  vendicarsi contro  a coloro  che  sono  cagione che  sia  servo;  l’altra  di  riavere  la  sua libertà.  Al  primo  desiderio  il  principe può  satisfare  in  tutto,  al  secondo  in parte.  Quanto  al  primo,  ce  n’  è lo  csempio  appunto.  Clearco,  tiranno  di  Eraelea,  scudo  in  esilio,  occorse  che,  per controversia  venuta  intra  il  popolo  e gli ottimati  di  Eraclea,  veggendosi  gli  ottimati inferiori,  si  volsono  a favorire Clearco,  c congiuratisi  seco  lo  missono, contea  alla  disposizione  popolare,  in Eraclea,  c toisono  la  libertà  al  popolo. In  modo  che,  trovandosi  Clearco  intra la  insolenzia  degli  ottimati,  i quali  non poteva  in  alcun  modo    contentare  nè correggere,  c la  rabbia  de’  popolari,  che non  potevano  sopportare  lo  avere  perduta la  libertà,  deliberò  ad  un  tratto liberarsi  dal  fastidio  de’ grondi,  c guadagnarsi il  popolo.  E presa  sopra  questo conveniente  occasione,  tagliò  a pezzi tutti  gli  ottimali,  con  una  estrema  satisfazione  de’ popolari.  E così  egli  per  questa via  satisfece  ad  una  delle  voglie  che hanno  i popoli,  cioè  di  vendicarsi.  Ma quanto  all’altro  popolare  desiderio  di riavere  la  sua  libertà,  non  potendo  il principe  satisfargli,  debbe  esaminare quali  cagioni  sono  quelle  che  gli  fanno desiderare  d’essere  liberi;  e troverà  che una  piccola  parte  di  loro  desidera  d’essere libera  per  comandare;  ma  tutti  gli altri,  che  sono  infiniti,  desiderano  la  libertà per  vivere  securi.  Perchè  in  tutte le  repubbliche,  in  qualunque  modo  ordinate, ai  gradi  del  comandare  non  aggiungono mai  quaranta  o cinquanta  cittadini: e perchè  questo  è piccolo  numero, è facil  cosa  assicurarsene,  o con levargli  via*  o con  far  lor  parte  di  tanti onori,  che  secondo  le  condizioni  loro  essi abbino  in  buona  parte  a contentarsi. Quelli  altri,  ai  quali  basta  vivere  securi, si  satisfanno  facilmente,  facendo  ordini e leggi,  dove  insieme  con  la  potenza  sua si  comprenda  la  sicurtà  universale.  E quando  uno  principe  faccia  questo,  e che  il  popolo  vegga  che  per  accidente nessuno  ei  non  rompa  tali  leggi,  comincerà  in  breve  tempo  a vivere  sccuro  e contento.  In  esempio  ci  è il  regno  di Francia,  il  quale  non  vive  securo  per altro,  che  per  essersi  quelli  Re  obbligati ad  infinite  leggi,  nelle  quali  si  comprende la  securtn  di  tutti  i suoi  popoli. E chi  ordinò  quello  Stato,  volle  che  quelli Re,  dell’  arme  e del  danaio  facessino  a loro  modo,  ma  che  d’ogni  altra  cosa non  ne  potessino  altrimenti  disporre  che le  leggi  si  ordinassino.  Quello  principe, adunque,  o quella  repubblica  che  non si  assicura  nel  principio  dello  stato  suo, conviene  che  si  assicuri  nella  prima  occasione, come  fecero  i Romani.  Chi  lascia passare  quella,  si  pente  tardi  di  non aver  fatto  quello  che  doveva  fare.  Sendo, pertanto,  il  popolo  romano  ancora  non corrotto  quando  ci  recuperò  la  libertà, potette  mantenerla,  morti  i figliuoli  di BRUTO e spenti  i Tarquini,  con  tutti quelli  rimedi  ed  ordini  che  altra  volta si  sono  discorsi.  Ma  se  fussc  stato  quel popolo  corrotto,    in  Roma    altrove si  trovano  rimedi  validi  a mantenerla; come  nel  seguente  capitolo  mostreremo. Uno  popolo  coitoIIo , venuto in  libertà,  si  può  con  difficullà ( grandissima  mantenere  libera. lo  giudico  che  gli  era  necessario,  o die  i Re  si  estinguessino  in  Roma,  o che Roma  in  brevissimo  tempo  divenissi  debole, e di  nessuno  valore:  perchè,  considerando a quanta  corruzione  erano venuti  quelli  Re,  se  l'ussero  seguitati così  due  o tre  successioni,  e che  quella corruzione  che  era  in  loro,  si  fossi  cominciata a distendere  per  le  membra; come  le  membra  fussino  state  corrotte, era  impossibile  mai  più  riformarla.  Ma perdendo  il  capo  quando  il  busto  era intero,  poterono  facilmente  ridursi  a vivere liberi  cd  ordinati.  E debbesi  presupporre per  cosa  verissima,  che  una città  corrotta  che  vive  sotto  un  principe, ancora  che  quel  principe  con  tutta la  sua  stirpe  si  spenga,  inai  non  si  può ridurre  libera;  anzi  conviene  che  Putì principe  spenga  l’ allro;  e senza  creazione d’un  nuovo  signore  non  si  posa mai,  se  già  la  bontà  d’  uno,  insieme  con la  virtù,  non  la  tenessi  libera  ; ma  durerà tanto  quella  libertà,  quanto  durerà la  vita  di  quello:  come  intervenne  a Siracusa di  Dione  e di  Timoleone,  la  virtù de’  quali  in  diversi  tempi,  mentre  vissero, tenne  libera  quella  città;  morti  clic furono,  si  ritornò  nell'antica  tirannide. Ma  non  si  vede  il  più  forte  esempio  che quello  di  Roma;  la  quale  cacciati  i Tarquini,  potette  subito  prendere  e mantenere quella  libertà:  ma  morto  Cesare, morto  Caligula,  morto  Nerone,  spenta tutta  la  stirpe  cesarea,  non  potette  inai, non  solamente  mantenere,  ma  pure  dare principio  alla  libertà.    tanta  diversità di  evento  in  una  medesima  città  nacqueda  altro,  se  non  da  non  essere  ne’ tempi de’Tarquini  il  popolo  romano  ancora corrotto;  ed  in  questi  ultimi  tempi  essere corrottissimo.  Perchè  allora,  a mantenerlo saldo  e disposto  a fuggire  i Re, bastò  solo  furio  giurare  che  non  eon sentirebbe  mai  che  a Roma  alcuno  regnasse; e negli  altri  tempi,  non  bastò T autorità  e severità  di  BRUTO,  con  tutte le  legioni  orientali,  a tenerlo  disposto  a volere  mantenersi  quella  libertà  che  esso, a similitudine  del  primo  BRUTO,  gli aveva  rendutu.  Il  che  nacque  da  quella corruzione  che  le  parli  mariane  avevano messa  nel  popolo;  delle  quali  essendo capo  Cesare  potette  accecare  quella  moltitudine, eh* ella  non  conobbe  il  giogo che  da    medesima  si  metteva  in  sul collo.  E benché  questo  esempio  di  Roma sia  da  preporre  a qualunque  altro  esempio, nondimeno  voglio  a questo  proposito addurre  innanzi  popoli  conosciuti  ne*  nostri tempi.  Pertanto  dico,  che  nessuno  accidente, benché  grave  e violento,  potrebbe redurre  mai  Milano  o Napoli  libere,  per essere  quelle  membra  tutte  corrotte.  H che  si  vide  dopo  la  morte  di VISCONTI; che  volendosi  ridurre  Milano  alia libertà,  non  potette  e non  seppe  mantenerla.  Però,  fu  felicità  grande  quella di  Koma,  che  questi  Re  diventassero corrotti  presto,  acciò  ne  fussino  cacciati, cd  innanzi  che  la  loro  corruzione  fosse passata  nelle  viscere  di  quella  città:  la quale  incorruzione  fu  cagione  che  gl’ infiniti tumulti  che  furono  in  Roma,  avendo gli  uomini  il  fine  buono,  non  nocerouo, anzi  giovarono  alla  Repubblica.  E si  può fare  questa  conclusione,  che  dove  la materia  non  è corrotta,  i tumulti  cd altri  scandali  non  nuòcono:  dove  la  è corrotta,  le  leggi  bene  ordinate  non  giovano, se  già  le  non  son  mosse  da  uno che  con  una  estrema  forza  le  facci  osservare, tanto  che  la  materia  diventi buona.  Il  che  non  so  se  sie  mai  intervenuto, o se  fusse  possibile  ch’egli  intervenisse: perchè  c’  si  vede,  come  poco di  sopra  dissi,  che  una  città  venuta  in declinazione  per  corruzione  di  materia, se  mai  occorre  che  la  si  levi,  occorre per  la  virtù  d’ uno  uomo  eh’  è vivo  allora, non  per  la  virtù  dello  universale clic  sostengo  gli  ordini  buoni  ; c subito che  quei  tale  è morto,  la  si  ritorna  nei suo  pristino  abito;  come  intervenne  a Tebe,  la  quale  per  la  virtù  di  Epaminonda, mentre  lui  visse,  potette  tenere forma  di  repubblica  e di  imperio  ; ma morto  quello,  la  si  ritornò  ne’  primi  disordini suoi.  La  cagione  è,  che  non  può essere  un  uomo  di  tanta  vita,  che  ’l tempo  basti  ad  avvezzare  bene  una  città lungo  tempo  male  avvezza.  E se  unod’  una  lunghissima  vita,  o due  successioni virtuose  conlinove  non  la  dispongono; come  una  manca  di  loro,  come di  sopra  è detto,  subito  rovina,  se  già con  molti  pericoli  c molto  sangue  c’  non la  facesse  rinascere.  Perchè  tale  corruzione e poca  attitudine  olla  vita  libera, nasce  da  una  inequulità  che  è in  quella città:  e volendola  ridurre  equale,  è necessario usare  grandissimi  estraordinari; i quali  pochi  sanno  o vogliono usare,  come  in  altro  luogo  più  particolarmente si  dirà. XVIII.  — In  che  modo  «ci.c;  mi corrotte  si  potesse  mantenere  tino  stalo liòerOj  essendovi;  o non  essendovi , ordinartelo. Io  credo  clic  non  sia  fuori  di  proposito, nè  disformo  dal  soprascritto  discorso, considerare  se  in  una  città  corrotta si  può  mantenere  lo  stato  libero, scndovi  ; o quando  e’  non  vi  fosse,  se vi  si  può  ordinare.  Sopra  la  qual  cosa dico,  come  gli  è mollo  difficile  fare  o l’uno  o l' altro:  e benché  sia  quasi  impossibile darne  regola,  perchè  sarebbe necessario  procedere  secondo  i gradi della  corruzione;  nondimnneo,  essendo bene  ragionare  d’ogni  cosa,  non  voglio lasciare  questa  indietro.  E presuppongo una  città  corrottissima,  donde  verrò  ad accrescere  più  tale  difficoltà;  perché  non si  trovano    leggi    ordini  che  bastino a frenare  una  universale  corruzione. Perchè,  così  come  gli  buoni  costumf,  per  mantenersi,  hanno  bisogno delle  leggi;  cosi  le  leggi,  per  osservarsi, hanno  bisogno  de’  buoni  costumi.  Oltre di  questo,  gli  ordini  e le  leggi  fatte  in una  repubblica  nel  nascimento  suo, quando  erano  gli  uomini  buoni,  non  sono dipoi  più  a proposito,  divenuti  che  sono tristi.  E se  le  leggi  secondo  gli  accidenti in  una  città  variano,  non  variano  mai, 0 rade  volte,  gli  ordini  suoi:  il  che  fa che  le  nuove  leggi  non  bastano,  perchè gli  ordini,  che  stanno  saldi,  le  corrompono. E per  dare  ad  intendere  meglio questa  parte,  dico  come  in  Roma  era l’ordine  del  governo,  o vero  dello  Stato; c le  leggi  dipoi,  che  con  i magistrati frenavano  i cittadini.  L’ordine  dello Stato  era  l’ autorità  del  Popolo,  del  Senato, dei  Tribuni,  dei  Consoli,  il  modo di  chiedere  e del  creare  i magistrati, ed  il  modo  di  fare  le  leggi.  Questi  ordini poco  o nulla  variarono  nelii  accidenti. Variarono  le  leggi  che  frenavano 1 cittadini;  come  fu  la  legge  degli  adulferi!,  la  suntuaria,  quella  della  ambizione, e molte  altre  ; secondo  clic  di mano  in  mano  i cittadini  diventavano corrotti.  Ma  lenendo  fermi  gli  ordini dello  Stato,  che  nella  corruzione  non erano  più  buoni,  quelle  leggi  che  si  rinnovavano, non  bastavano  a mantenere gli  uomini  buoni;  ma  sarebbonn  bene giovate,  se  con  la  innovazione  delle  leggi si  fussero  rimutati  gli  ordini.  G che  sia il  vero  che  tali  ordini  nella-  città  corrotta non  fossero  buoni,  e’ si  vede espresso  in  due  capi  principali.  Quanto al  creare  i magistrati  e le  leggi,  non dava  il  Popolo  romano  il  consolato,  e gli altri  primi  gradi  della  città,  se  non  a quelli  che  lo  dimandavano.  Questo  ordine fu  nel  principio  buono,  perchè e’ non  gli  domandavano  se  non  quelli cittadini  che  se  ne  giudicavano  degni, ed  averne  la  repulsa  era  ignominioso; si  che,  per  esserne  giudicati  degni,  ciascuno operava  bene.  Diventò  questo modo,  poi,  nella  città  corrotta  perniziosissiiuo  ; perchè  non  quelli  che  avevano più  virtù,  ma  quelli  che  avevano  più potenza,  domandavano  i magistrali;  e gl’ impotenti,  comecché  virtuosi,  se  ne astenevano  di  domandargli  per  paura. Vcnnesi  a questo  inconveniente,  non  ad un  tratto,  ma  per  i mezzi,  come  si  cade in  tutti  gli  altri  iuconveiiienti  : perchè avendo  i Romani  domata  l’Affrica  e l’Asia, e ridotta  quasi  tutta  la  Grecia  a sua  ohidienza,  erano  divenuti  sicuri  della  libertà loro,    pareva  loro  avere  più nimici  che  dovessero  fare  loro  paura. Questa  securtà  e questa  debolezza  de’  nemici fece  che  il  Popolo  romano,  nel  dare il  consolato,  non  riguardava  più  la  virtù, ma  la  grazia  ; tirando  a quel  grado quelli  che  meglio  sapevano  iutrattenere gli  uomini,  non  quelli  che  sapevano  meglio vincere  i nemici:  di  poi,  da  quelli che  avevano  più  grazia,  discesero  a dargli a quelli  che  avevano  più  potenza;talché  i buoni,  per  difetto  di  tale  ordine, ne  rimasero  al  tutto  esclusi.  Poteva uno  Tribuno,  e qualunque  altro  cittadino, proporre  al  Popolo  una  legge;  sopra la  quale  ogni  cittadino  poteva  parlare, o in  favore  o incontro,  innanzi  che la  si  deliberasse.  Era  questo  ordine  buono, quando  i cittadini  erano  buoni  ; perche sempre  fu  bene,  che  ciascuno  clic intende  uno  bene  per  il  pubblico,  lo possa  proporre;  ed  è bene  che  ciascuno sopra  quello  possa  dire  l’oppinione  sua, acciocché  il  Popolo,  inteso  ciascuno, possa  poi  eleggere  il  meglio.  Ma  diventati i cittadini  cattivi,  diventò  tale  ordine pessimo,  perchè  solo  i potenti  proponevano leggi,  non  per  la  comune  libertà, ina  perla  potenza  loro;ccontra a quelle  non  poteva  parlare  alcuno  per paura  di  quelli  : talché  il  Popolo  veniva o ingannato  o sforzato  a deliberare  la sua  rovina.  Ero  necessario,  pertanto,  a volere  che  Roma  nella  corruzione  si mantenesse  libera,  che,  cosi  come  aveva nel  processo  del  vivere  suo  fatte  nuove leggi,  l’avesse  fatti  nuovi  ordini:  per-«thè  altri  ordini  e modi  di  vivere  si debbe  ordinare  in  un  soggetto  cattivo, che  in  un  buono  ; nè  può  essere  la  forma simile  in  una  materia  al  tutto  contraria. Ma  perchè  questi  ordini,  o e’ si hanno  a rinnovare  tutti  ad  un  tratto, scoperti  che  sono  non  esser  più  buoni, o a poco  a poco,  in  prima  che  si  conoschiuo  per  ciascuno  ; dico  che  1*  una e l’altra  di  queste  due  cose  è quasi  impossibile. Perchè,  a volergli  rinnovare a poco  a poco,  conviene  che  ne  sia  cagione uno  prudente,  che  veggio  questo inconveniente  assai  discosto,  e quando e’ nasce.  Di  questi  tali  è facilissima  cosa che  in  una  città  non  ne  surga  mai  nessuno : e quando  pure  ve  ne  surgesse, non  potrebbe  persuadere  mai  ad  altrui quello  che  egli  proprio  intendesse;  perchè gli  uomini  usi  a vivere  in  un  modo, non  lo  vogliono  variare;  e tanto  più non  veggiendo  il  male  in  viso,  ma  avendo ad  essere  loro  mostro  per  con  letture. Quando  ad  innovare  questi  ordini  ad  un (ratio,  quando  ciascuno  conosce  clic  non sono  buoni,  dico  che  questa  inutilità, clic  facilmente  si  conosce,  è diffìcile  a ricorreggerla:  perchè  a fare  questo,  non basta  usare  termini  ordinari,  essendo  i modi  ordinari  cattivi;  ma  è necessario venire  allo  istraordinario,  come  è alla violenza  ed  all’ armi,  e diventare  innanzi  ad  ogni  cosa  principe  di  quella città,  e poterne  disporre  a suo  modo.  E perchè  il  riordinare  una  città  al  vivere politico  presuppone  uno  uomo  buono, ed  il  diventare  per  violenza  principe  di una  repubblica  presuppone  un  uomo cattivo;  per  questo  si  troverà  che  radis- sime volte  accaggia,  che  uno  uomo  buono voglia  diventare  principe  per  vie  cattive, ancoraché  il  fine  suo  fusse  buono;  e che uno  reo  divenuto  principe,  voglia  operare bene,  e che  gli  caggia  mai  nell’animo usare  quella  autorità  bene,  che  egli ha  male  acquistata.  Da  tutte  le  soprascritte  cose  nasce  la  diffìcultà,  o impossibilità, che  è nelle  città  corrotte,  a mantenervi  una  repubblica,  o a crearvela  di  nuovo.  E quando  pure  la  vi  si avesse  a creare  o a mantenere,  sarebbe necessario  ridurla  più  verso  lo  stato  regio, che  verso  lo  stato  popolare;  acciocché quelli  uomini  i quali  dalle  leggi,  per la  loro  insolenzia,  non  possono  essere corretti,  lusserò  da  una  podestà  quasi regia  in  qualche  modo  frenati.  Ed  a volergli fare  per  altra  via  diventare  buoni, sarebbe  o crudelissima  impresa,  o al  tutto  impossibile;  come  io  dissi  di  sopra che  fece  Cleomene;  il  quale  se,  per essere  solo,  ammazzò  gli  Efori;  e se  ROMOLO, per  le  medesime  cagioni, AMMAZZO IL FRATELLO E TITO TAZIO SABINO, e dipoi usarono  bene  quella  loro  autorità  ; nondimeno si  debbe  avvertire  che  V uno  e T altro  di  costoro  non  avevano  il  soggetto di  quella  corruzione  macchiato della  quale  in  questo  capitolo  ragioniamo, e però  poterono  volere  e,  volendo, colorire  il  disegno  loro. XIX. Dopo  uno  eccellente  principio si  può  mantenere  un  principe debole ; ma  dopo  un  debole,  non  si può  con  un  (diro  debole  mantenere alcun  regno. Considerato  la  virtù  ed  il  modo  del procedere  di ROMOLO, NUMA e TULIO, I PRIMI TRE RE ROMANI,  si  vede  come Roma  sortì  una  FORTUNA GRANDISSIMA, AVENDO IL PRIMO RE FEROCISSIMO E BELLICOSO, 1’altro  quieto  e religioso,  il  terzo simile  di  ferocia  a Romolo,  e più  amatore della  guerra  che  della  pace.  Perchè in  Roma  era  necessario  che  surgesse ne’  primi  principii  suoi  un  ordinatore «lei  vivere  civile,  ina  era  bene  poi necessario  che  gli  altri  Re  ripigliassero LA VIRTU DI ROMOLO;  ALTRIMENTI QUELLA CITTA SAREBBE DIVENTATA EFFEMINATA, e preda  de’  suoi  vicini.  Donde  si  può notare,  che  uno  successore  non  di  tanta virtù  quanto  il  primo,  può  mantenere uno  Stato  per  la  virtù  di  colui  che  PImretto  innanzi,  e si  può  godere  te  sue fatiche:  ma  s’ egli  avviene  o che  sia  di lunga  vita,  o che  dopo  lui  non  surga un  altro  che  ripigli  la  virtù  di  quel  primo, è necessitato  quel  regno  a rovinare. Cosi,  per  il  contrario,  se  due,  1*  uno  dopo P altro,  sono  di  gran  virtù,  si  vede  spess che  fanno  cose  grandissime,  e che  ne vanno  con  la  fama  in  fino  al  cielo.  Davit,  senza  dubbio,  fu  un  uomo  per  arme, per  dottrina,  per  giudizio  eccellentissimo; e fu  tanta  la  sua  virtù,  che,  avendo vinti  ed  abbattuti  tutti  i suoi  vicini,  lasciò a Salomone  suo  figliuolo  un  regno pacifico:  quale  egli  si  potette  con  le  arti «Iella  pace,  e non  della  guerra,  conservare; e si  potette  godere  felicemente  la virtù  di  suo  padre.  Ma  non  potette  già lasciarlo  a Roboan  suo  figliuolo;  il  quale non  essendo  per  virtù  simile  allo  avolo, nè  per  fortuna  simile  al  padre,  rimase con  fatica  erede  della  sesta  parte  del rt'guo.  Baisit,  sultan  de’ Turchi,  ancora die  fusse  più  amatore  della  pace  che della  guerra,  potette  godersi  le  fatiche di  Maumelto  suo  padre;  il  quale  avendo, come  Davit,  battuti  i suoi  vicini,  gli  lasciò un  regno  fermo,  e da  poterlo  con F arte  della  pace  facilmente  conservare. Ma  se  il  figliuolo  suo  Salì,  presente  signore, fusse  stalo  simile  al  padre,  c non all’avolo,  quel  regno  rovinava  : ma  e’ si vede  costui  essere  per  superare  la  gloria dell'avolo.  Dico  pertanto  con  questi esempi,  clic  dopo  uno  eccellente  principe si  può  mantenere  un  principe  debole; ma  dopo  un  debole  non  si  può  con  un altro  debole  mantenere  alcun  regno,  se già  e’  non  fusse  come  quello  di  Francia, che  gli  ordini  suoi  antichi  lo  mantenessero: e quelli  principi  sono  deboli,  che non  stanno  in  su  la  guerra.  Couchiudo pertanto  con  questo  discorso,  clic  LA VIRTU DI ROMOLO E TANTA che  la  potette dare  spazio  a Numa  Pompilio  di potere  molti  anni  con  1’  arte  della  pace reggere  Roma  : ma  dopo  lui  successe Tulio,  il  quale  pei*  la  sua  ferocia  riprese la  reputazione  di  ROMOLO:  dopo il  quale  venne  Anco,  in  modo  dalla  natura dotato,  che  poteva  usare  la  pace, e sopportare  la  guerra.  E prima  si  dirizzò a volere  tenere  la  via  della  pace: ma  subito  conobbe  come  i vicini,  giudicandolo effeminato,  lo  stimavano  poco: talmente  che  pensò  che,  a voler  mantenere Roma,  bisognava  volgersi  alla  guerra, e somigliare  Romolo,  e non  Numa. Da  questo  piglino  esempio  tutti  i principi che  tengono  stato,  che  chi  somiglierà Numa,  lo  terrà  o non  terrà,  secondo ehe  i tempi  o la  fortuna  gli  girerà sotto:  ma  chi  somiglierà  Romolo,  e lui come  esso  armato  di  prudenza  e d’armi, lo  terrà  in  ogni  modo,  se  da  una  ostinata ed  eccessiva  forza  non  gli  è tolto. K certamente  si  può  stimare,  che  se Roma  sortiva  per  terzo  suo  Re  un  uomo che  non  sapesse  con  le  armi  renderle la  sua  reputazione,  non  arebbe  mai  poi, o con  grandissima  dilTìcultà,  potuto  pigliare  piede,    fare  quelli  effetti  ch’ella fece.  E così,  in  mentre  eh’ ella  visse  sotto i Re,  la  portò  questi  pericoli  di  rovinare sotto  un  Re  o debole  o tristo.  Due  continove  successioni  di principi  virtuosi  fanno  grandi  effetti: c come  le  repubbliche  bene  ordinate hanno  di  necessità  virtuose  successioni: c però  gli  acquisti  ctl  auQumcnli loro  sono  grandi. Poi  che  Roma  ebbe  cacciati  i Re,  mancò di  quelli  pericoli  i quali  di  sopradetti  che  la  portava,  succedendo  in  lei uno  Re  o debole  o tristo.  Perchè  la somma  dello  imperio  si  ridusse  nc’  Consoli, i quali  non  per  eredità  o per  inganni o per  ambizione  violenta,  ma  per suffragi  liberi  venivano  a quello  imperio, ed  erano  sempre  uomini  eccellentissimi: de’quali  godendosi  Roma  la  virtù e la  fortuna  di  tempo  in  tempo,  potette venire  a quella  sua  ultima  grandezza  in altrettanti  unni,  che  la  era  stata  sotto  i Re.  Perchè  si  vede,  come  due  coutinove successioni  di  principi  virtuosi  sono  suffìzienti  ad  acquistare  il  mondo:  come  furono Filippo  di  Macedonia  ed  Alessandro Magno,  il  clic  tanto  più  debbe  fare  una repubblica,  avendo  il  modo  dello  eleggere non  solamente  due  successioni,  ma infiniti  principi  virtuosissimi,  che  sono l’uno  dell'altro  successori:  la  quale  virtuosa successione  fia  sempre  in  ogni  repubblica bene  ordinata. Quanto  biasimo  meriti  quel principe  e quella  repubblica  che  manca d'armi  proprie. Debbono  i presenti  principi  c le  moderne repubbliche,  le  quali  circa  le  difese ed  offese  mancano  di  soldati  propri, vergognarsi  di  loro  medesime  j e pensare,  con  lo  esempio  di  Tulio,  tale difetto  essere  non  per  mancamento  d’uomini alti  alla  milizia,  ma  per  colpa  loro, che  non  hanno  saputo  fare  i loro  uomini militari.  Perchè  Tulio,  scudo  stata Roma  in  pace  quaranta  anni,  non  trovò, succedendo  lui  nel  regno,  uomo  che  fussc stato  mai  alla  guerra  : nondimeno,  disegnando lui  fare  guerra,  non  pensò  di valersi    di  Sanniti,    di  Toscani,  nè di  altri  che  fussero  consueti  stare  nell'armi;  ma  deliberò,  come  uomo  prudentissimo, di  valersi  de’ suoi.  E fu  tanta la  sua  virtù,  che  in  un  tratto  il  suo  governo gli  potè  fare  soldati  eccellentissimi. Ed  è più  vero  che  alcuna  altra  verità, che  se  dove  sono  uomini  non  sono soldati,  nasce  per  difetto  del  principe, e non  per  altro  difetto  o di  sito  o di natura  : di  che  ce  n’*è  uno  esempio  freschissimo. Perchè  ognuno  sa,  come ne’ prossimi  tempi  il  re  d’Inghilterra  assaltò il  regno  di  Francia,    prese  altri soldati  clic  i popoli  suoi  ; e per  essere stato  quel  regno  più  clic  trenta  anni senza  far  guerra,  non  aveva    soldato nè  capitano  che  avesse  mai  militato: nondimeno,  ei  non  dubitò  con  quelli  assaltare uno  regno  pieno  di  capitani  e di  buoni  eserciti,  i quali  erano  stati continovamcnte  sotto  l'armi  nelle  guerre d’Italia.  Tutto  nacque  da  essere  quel  re prudente  uomo,  e quel  regno  bene  ordinato; il  quale  nel  tempo  della  pace  non intermette  gli  ordini  della  guerra.  Pelopida  ed  Epaminonda  tebani,  poiché  gli ebbero  libera  Tebe,  e trattola  dalla  servitù dello  imperio  spartano;  trovandosi in  una  città  usa  a servire,  ed  in  mezzo di  popoli  effeminati  ; non  dubitarono, tanta  era  la  virtù  loro  ! di  ridurgli  sotto Parrai,  e con  quelli  andare  a trovare alla  campagna  gli  eserciti  spartani,  e vincergli  : e chi  he  scrive,  dice  come questi  due  in  breve  tempo  mostrarono, che  non  solamente  in  bacedemonia  nascevano gli  uomini  di  guerra,  ma  in  ogni altra  parte  dove  nascessino  uomini, pur  che  si  trovasse  chi  li  sapesse  indirizzare alla  milizia,  come  si  vede  che Tulio  seppe  indirizzare  i Romani.  E VIRGILIO non  potrebbe  meglio  esprimere questa  oppinione,    con  altre  parole mostrare  di  aderirsi  a quella,  dove  dice: u ...  . Desidesque  movebit Tullus  in  arma  viros. Quello  che  sia  da  notare nel  caso  dei  tre  Orazi  romani , e dei Tulio,  re  di  Roma,  e Mezio,  re  di  Alba, convennero  che  quel  popolo  fusse  signore dell’ altro,  di  cui  i soprascritti  tre uomini  vincessero.  Furono  MORTI TUTTI I CURIAZI albani,  restò  vivo  uno  degli Orazi  romani;  e per  questo,  restò  Mezio, re  albaiio,  con  il  suo  popolo,  suggello ai  Romani.  E tornando  quello ORAZIO VINCITORI IN ROMA e scontrando  una sua  sorella,  che  era  ad  uno  de’ tre  Curiazi morti  maritata,  clic  PIANGEVA LA MORTE DEL MARITO, L’AMMAZZO. Donde quello  Orazio  per  questo  fallo  fu  messo' in  giudizio,  e dopo  molte  dispute  fu  libero,  più  per  li  prìeglii  del  padre,  clic per  li  suoi  meriti.  Dove  sono  da  notare Ire  cose:  una,  che  mai  non  si  debbe con  parte  delle  sue  forze  arrischiare tutta  la  sua  fortuna  ; l’ altra,  che  non mai  in  una  città  bene  ordinata  li  devmeriti  con  li  ineriti  si  ricompensano;  la terza,  che  non  mai  sono  i partiti  savi, dove  si  debba  o possa  dubitare  della inosservanza.  Perchè,  gl’  importa  tanto a una  città  lo  essere  serva,  che  mai  non si  doveva  credere  che  alcuno  di  quelli Re  o di  quelli  Popoli  stessero  contenti che  tre  loro  cittadini  gli  avessino  sotto* messi  ; come  si  vide  che  volle  fare  Mezio:  il  quale,  benché  subito  dopo  la  vittoria de’ Romani  si  confessassi  vinto,  e promettessi  la  obedienza  a Tulio;  nondimeno nella  prima  espedizione  che  egli ebbono  a convenire  contra  i Veienli,  si vide  come  ci  cercò  d’ ingannarlo  ; come quello  che  tardi  s’era  avveduto  della temerità  del  partito  preso  da  lui.  E perchè di  questo  terzo  notabile  se  n’’è  pnr luto  assai,  parleremo  solo  degli  altri  due ne’ seguenti  duoi  capitoli. Che  non  si  debbe  mettere a pericolo  tutta  la  fortuna  e non tutte  le  forze  ; c per  questo j spesso  il guardare  i passi  è dannoso. Non  fu  mai  giudicato  partito  savio mettere  a pericolo  tutta  la  fortuna  tua, e non  tutte  le  forze.  Questo  si  fu  in  più modi.  L’uno  è facendo  come  Tulio  e Mezio,  quando  e’  commissouo  la  fortuna tutta  della  patria  loro,  e la  virtù  di tanti  uomini  quanti  avea  l’uno  e l’altro di  costoro  negli  eserciti  suoi,  alla  virtù  e fortuna  di  tre  de’loro  cittadini,  clic  veniva ad  essere  una  minima  parte  delle  forze di  ciascuno  di  loro.    si  avvidono,  come per  questo  partito  tutta  la  fatica  che avevano  durata  i loro  antecessori  nell’ ordinare  la  repubblica,  per  farla  vivere lungamente  libera  e per  fare  i suoi  cittadini difensori  della  loro  libertà,  era quasi  che  suta  vana,  stando  nella  potenza di    pochi  a perderla.  La  qual  cosa da  quelli  Re  non  potè  esser  peggio  considerata. Cadesi  ancora  in  questo  inconveniente quasi  sempre  per  coloro,  che, venendo  il  nemico,  disegnano  di  tenere i luoghi  diffìcili,  e guardare  i passi:  perchè quasi  sempre  questa  deliberazione sarà  dannosa,  se  giù  in  quello  luogo diffìcile  comodamente  tu  non  potessi  tenere tutte  le  forze  tue.  In  questo  casotuie  partito  è da  prendere;  ma  scndo  il luogo  aspro,  e non  vi  potendo  tenere tutte  le  forze  tue,  il  partito  è dannoso. Questo  mi  fa  giudicare  cosi  lo  esempio di  coloro  che,  essendo  assaltati  da  un nemico  potente,  ed  essendo  il  paese  loro circondato  da’  monti  e luoghi  alpestri, noti  hanno  mai  tentato  di  combattere  il nemico  in  su’  passi  e in  su’  monti,  ma sono  iti  ad  incontrarlo  di    da  essi:  o, quando  non  hanno  voluto  far  questo,  lo hanno  aspettato  dentro  a essi  monti,  in luoghi  benigni  e non  alpestri.  E la  cugioite  ne  è suta  la  preallegata  : perchè, non  si  polendo  condurre  alla  guardia de’ luoghi  alpestri  molli  uomini,    per non  vi  potere  vivere  lungo  tempo,  si per  essere  i luoghi  stretti  e capaci  di pochi;  non  è possibile  sostenere  un  nemico clic  venga  grosso  ad  urtarti:  ed  al nemico  è facile  il  venire  grosso,  perchè la  intenzione  sua  è passare,  e non  fermarsi; ed  a chi  l’ aspetta  è impossibile aspettarlo  grosso,  avendo  ad  alloggiarsi per  più  tempo,  non  sapendo  quando  il nemico  voglia  passare  in  luoghi,  com’  io ho  detto,  stretti  e sterili.  Perdendo, adunque,  quel  passo  che  tu  ti  avevi presupposto  tenere,  e nel  quale  i tuoi popoli  e lo  esercito  tuo  confidava,  entra il  più  delle  volte  ne’ popoli  e nel  residuo delle  genti  tue  tanto  terrore,  che  senza potere  esperimentare  la  virtù  di  esse, rimani  perdente;  c così  vieni  ad  avere perduta  tutta  la  tua  fortuna  con  parte delle  tue  forze.  Ciascuno  sa  con  quanta diftìcultà  Annibaie  passasse  r Alpi  che dividono  la  Lombardia  dalia  Francia,  e con  quanta  difficoltà  passasse  quelle  che dividono  la  Lombardia  dalla  Toscana  : nondimeno  i Romani  l’aspettarono  prima in  sul  Tesino,  e dipoi  uel  piano  d’Arezzo;  e vollon  più  tosto,  che  il  loro  esercito fusse  consumato  dal  nemico  nelli luoghi  dove  poteva  vincere,  che  condurlo su  per  l’Alpi  ad  esser  destrutto dalla  malignità  del  sito.  E chi  leggerà sensatamente  tutte  le  istorie,  troverà  pochissimi virtuosi  capitani  over  tentato di  tenere  simili  passi,  e per  le  ragioni dette,  e perchè  e'  non  si  possono  chiudere tutti;  sendo  i monti  come  campagne, ed  avendo  non  solamente  le  vie consuete  e frequentate,  ma  molte  altre, le  quali  se  non  sono  note  a’ forestieri, sono  note  a’ paesani  ; con  l’aiuto  de’quali sempre  sarai  condotto  in  qualunque  luogo, contra  alla  voglia  di  citi  ti  si  oppone. Di  che  se  ne  può  addurre  uno freschissimo  esempio,  nel  T 51 5 . Quando Francesco  re  di  Francia  disegnava  passare  in  Italia  per  lu  recuperatone  dello Stalo  di  Lombardia,  il  maggiore  fondamento clic  facevano  coloro  eli’ erano  alla sua  impresa  contrari,  era  che  gli  Svizzeri lo  terrebbono  a’ passi  in  su’ monti.  E, come  per  esperienza  poi  si  vide,  quel  loro fondamento  restò  vano:  perché,  lasciato quel  re  da  parte  due  o tre  luoghi  guardati da  loro,  se  ne  venne  per  un’  altra  via incognita  ; e fu  prima  in  Italia,  e loro  appresso, che  lo  avessino  presentilo.  Talché loro  isbigottiti  si  ritirarono  in  Milano,  e tutti  i popoli  di  Lombardia  si  aderiron alle  genti  franciose;  sendo  mancali  di quella  oppinione  avevano,  che  i Franciosi dovessino  essere  tenuti  su’ monti. Le  repubbliche  bene  ordinate costituiscono  premii  c pene aJ  loro  cittadini;  ne  compensano  mai r uno  con  l*  altro. Erano  stati I MERITI D’ORAZIO GRANDISSIMI, avendo  con  la  sua  virtù  VINTI I CURIAZIl. Era  stato  il  fallo  suo  atroce, avendo  MORTO LA SORELLA: nondimeno  dispiacque tanto  tale  omicidio  ai  Romani, che  io  condussero  a disputare  della  vita, non  ostante  che  gli  meriti  suoi  fossero tanto  grandi  c sì  freschi.  La  qual  cosa a chi  superficialmente  la  considerasse, parrebbe  uno  esempio  d’ ingratitudine popolare:  nondimeno  chi  la  esaminerà meglio,  e con  migliore  considerazione ricercherà  quali  debbono  essere  gli  ordini delle  repubbliche,  biasimerà  quel popolo  più  tosto  per  averlo  assoluto, che  per  averlo  voluto  condeunare.  E la ragione  è questa,  che  nessuna  repubblica bene  ordinata,  non  mai  cancellò  i demeriti  con  gli  meriti  de’ suoi  cittadini; ma  avendo  ordinati  i preraii  ad una  buona  opera  e le  pene  ad  una  cattiva,  ed  avendo  premiato  uno  per  aver bene  operato,  se  quel  medesimo  opera dipoi  male,  lo  gastica,  senza  avere  riguardo alcuno  alle  sue  buone  opere.  E quando  questi  ordini  sono  bene  osservati,  una  città  vive  libera  molto  tempo; altrimenti,  sempre  rovinerà  presto.  Perchè, se  ad  un  cittadino  che  abbia  fatto qualche  egregia  opera  per  la  città,  si aggiugne,  oltre  alla  riputazione  che quella  cosa  gli  arreca,  una  audacia  e confidenza  di  potere,  senza  temer  pena, fare  qualche  opera  non  buona  ; diventerà in  brievc  tempo  tanto  insolente,  che si  risolverà  ogni  civilità.  È ben  necessario, volendo  clic  sia  temuta  la  pena per  le  triste  opere,  osservare  i premii per  le  buone;  come  si  vede  che  fece Roma.  C benché  una  repubblica  sia  povera, e possa  dare  poco,  debbe  di  quel poco  non  astenersi;  perchè  sempre  ogni piccolo  dono,  dato  ad  alcuno  per  ricompenso di  bene  ancora  che  grande,  sarà stimato,  da  chi  lo  riceve,  onorevole  e grandissimo.  È notissima  la  istoria  di ORAZIO CODE e quella  di  MUZIO SCEVOLA: come  V uno  sostenne  i nemici  sopra  un ponte,  tanto  che  si  tagliasse:  l’altro  si arse  la  mano,  avendo  errato,  volendo ammazzare  Porscna,  re  delli  Toscani.  A costoro  per  queste  due  opere  tanto  egregie, fu  donato  dal  pubblico  due  staiora di  terra  per  ciascuno.  È nota  ancora  la istoria  di  MANLIO  Capitolino.  A costui, per  aver  salvato  il  Campidoglio  da' Galli che  vi  erano  a campo,  fu  dato  da  quelli che  insieme  eon  lui  vi  erano  assediati dentro,  una  piccola  misura  di  farina,  il quale  premio,  secondo  la  fortuna  che  allora correva  in  Roma,  fu  grande;  e di qualità  che,  mosso  poi  Manlio,  o da  invidia o dalla  sua  cattiva  natura,  a far nascere  sedizione  in  Roma,  e cercando guadagnarsi  il  popolo,  fu,  senza  rispetto alcuno  de’ suoi  meriti,  gittato  precipite da  quello  Campidoglio  ch’egli  prima,  cou tanta  sua  gloria,  aveva  salvo. Chi  vuole  riformare  uno stalo  antico  in  una  città  libera,  ritenga almeno  l’ombra  desmodi  antichi. Colui  che  desidera  o clic  vuole  riformare uno  stato  d’una  città,  a volere  elle sia  accetto,  e poterlo  con  satisfazione  di ciascuno  mantenere,  è necessitato  a ritenere l’ombra  almanco  de’ modi  antichi, acciò  che  a’ popoli  non  paia  avere mutato  ordine,  ancora  che  in  fatto  gli ordini  nuovi  fussero  al  tutto  alieni  dai passati;  perchè  lo  universale  degli  uomini si  pasce  così  di  quel  che  pare,  come di  quello  che  è;  anzi  molte  volte  si muovono  più  per  le  cose  che  paiono, che  per  quelle  clic  sono.  Per  questa  cagione i Romani,  conoscendo  nel  principio del  loro  vivere  libero  questa  necessità, avendo  in  cambio  d’ un  Re  creali duoi  Consoli,  non  vollono  ch’egli  avessino più  clic  dodici  littori,  per  non  passare  il  numero  di  quelli  che  ministravano ai  Re.  Olirà  di  questo,  facendosi in  Roma  uno  sacrifizio  anniversario,  il quale  non  poteva  esser  fatto  se  non dalla  persona  del  Re;  e volendo  i Romani che  quel  popolo  non  avesse  a desiderare per  la  assenzia  degli  Re  alcuna cosa  dell’  antiche j,  creorono  un  capo  di detto  sacrifìcio,  il  quale  loro  chiamorono  Re  Sacrifìcolo,  e lo  sottomessono  al sommo  Sacerdote  : talmentechè  quel  popolo per  questa  via  venne  a satisfarsi di  quel  sacrifizio,  e non  avere  mai  cagione, per  mancamento  di  esso,  di  desiderare la  tornata  dei  Re.  E questo  si debbe  osservare  da  tutti  coloro  che  vogliono scancellare  uno  antico  vivere  in una  città,  e ridurla  ad  uno  vivere  nuovo c libero.  Perchè  alterando  le  cose  nuove le  menti  degli  uomini,  ti  debbi  ingegnare che  quelle  alterazioni  ritenghino  più  del-r antico  sia  possibile;  e se  i magistrati variano  e di  numero  e d'autorità  e di tempo  dagli  antichi,  che  almeno  ritengliino  il  nome.  E questo,  come  ho  detto, debbe  osservare  colui  che  vuole  ordinare  una  potenza  assoluta,  o per  via  di repubblica  o di  regno:  ma  quello  che  vuol fare  una  potestà  assoluta,  quale  dagli autori  è chiamala  tirannide,  debbe  rinnovare ogni  cosa,  come  nel  seguente  capitolo si  dirò. Un  principe  nuovo , in i ima  città  o provincia  presa  da  lui , 1 debbe  fare  ogni  cosa  nuova. Qualunque  diventa  principe  o d’  unacittà  o d’uno  Stato,  e tanto  più  quando i fondamenti  suoi  lussino  deboli,  c non si  volga  o per  via  di  regno  o di  repubblica alla  vita  civile;  il  mcgliore  rimedio che  egli  abbia  a tenere  quel  principato, è,  sendo  egli  nuovo  principe, fare  ogni  cosa  di  nuovo  in  quello  Stalo: come  è,  nelle  città  fare  nuovi  governi con  nuovi  nomi,  con  nuove  autorità,  con nuovi  uomini;  fare  i poveri  ricchi, fece  Davil  quando  ei  diventò  Re:  qui csuricnles  implevil  bonis,  et  divites  dimirti  inanes  ; edificare  oltra  di  questo nuove  città,  disfare  delie  fatte,  cambiare gli  abitatori  da  un  luogo  ad  un  altro; ed  in  somma,  non  lasciare  cosa  niuna intatta  in  quella  provincia,  e che  non vi  sia    grado,    ordine,    stato,  uè ricchezza,  che  chi  la  tiene  non  la  riconosca da  te;  c pigliare  per  sua  mira Filippo  di  Macedonia,  padre  di  Alessandro, il  quale  con  questi  modi,  di  piccolo Re,  diventò  principe  di  Grecia.  E chi  scrive  di  lui,  dice  che  tramutava  gl uomini  di  provincia  in  provincia,  come i mandriani  tramutano  le  mandrie  loro. Sono  questi  modi  crudelissimi,  e nemici d’ogni  vivere,  non  solamente  cristiano, ma  umano;  e debbegli  qualunche  uomo fuggire,  c volere  piuttosto  vivere  privato, che  Re  con  tanta  rovina  degli  uomini : nondimeno,  colui  che  non  vuole pigliare  quella  prima  via  del  bene, quando  si  voglia  mantenere,  convien die  entri  in  questo  male.  >la  gli  uomini pigliano  certe  vie  del  mezzo,  clic  sono dannosissime;  perchè  non  sanno  essere nè  tutti  buoni    tutti  cattivi:  come  ne seguente  capitolo,  per  esempio,  si  mostrerà. Sanno  rarissime  volle gli  uomini  essere  al  lutto  tristi  o al fulto  buoni. Papa  Giulio  secondo,  andando  na Bologna  per  cacciare  di  quello  Stato la  casa  de’Bentivogli,  la  quale  aveva  tenuto il  principato  di  quella  città  cento anni,  voleva  ancora  trarre  Giovampagoto  Buglioni  di  Perugia,  della  quale  era tiranno,  come  quello  che  aveva  congiurato contro  a tutti  gli  tiranni  che  occupavano le  terre  della  Chiesa.  E pervenuto presso  a Perugia  con  questo  animo e deliberazione  nota  a ciascuno,  non aspettò  di  entrare  in  quella  città  con  lo esercito  suo  che  lo  guardasse,  mn  % entrò  disarmato,  non  ostante  vi  fusse dentro  Giovampagolo  con  genti  assai, quali  per  difesa  di    aveva  ragunate. Sicché,  portato  da  quel  furore  con  il quale  governava  tutte  le  cose,  con  la semplice  sua  guardia  si  rimesse  nelle mani  del  nemico  ; il  quale  dipoi  ne  menò seco,  lasciando  un  governadore  in  quella citta,  che  rendesse  ragione  per  la  Chiesa. Fu  notala  dagli  uomini  prudenti  che col  papa  erano,  la  temerità  del  papa  e la  viltà  di  Giovampagolo  ; uè  potevano stimare  donde  si  venisse  che  quello  noti avesse,  con  sua  perpetua  fama,  oppresso ad  un  tratto  il  nemico  suo,  e sè  arricchito di  preda,  sendo  col  papa  tutti  li cardinali,  con  tutte  le  lor  delizie.    si poteva  credere  si  fusse  astenuto  o per bontà,  o per  conscienza  che  lo  ritenesse; perchè  in  un  petto  d’ un  uomo  facinoroso, che  si  teneva  la  sorella,  che  aveva  morti i cugini  cd  i nepoti  per  regnare,  non poteva  scendere  alcuno  pietoso  rispetto: ina  si  conchiuse,  che  gli  uomini  no sanno  essere  onorevolmente  tristi,  o perfettamente buoni;  e come  una  tristizia ha  in    grandezza,  o è in  alcuna  parte generosa,  eglino  non  vi  sanno  entrare. Cosi  Giovampagolo,  il  quale  non  stimava essere  incesto  e pubblico  parricida,  non seppe,  o,  a dir  meglio,  non  ardì,  avendon giusta  occasione,  fare  una  impresa, dove  ciascuno  avesse  ammirato  l’animo suo,  e avesse  di    lasciato  memoria eterna;  sendo  il  primo  che  avesse  dimostro ai  prelati,  quanto  sia  da  stimar poco  chi  vive  c regna  come  loro;  ed avesse  fatto  una  cosa,  la  cui  grandezza avesse  superato  ogni  infamia,  ogni  pericolo, clic  da  quella  potesse  depeudere. Per  qual  cagione  i Romani furono  meno  ingrati  agli  loro cittadini  che  gli  Ateniesi. Qualunque  legge  le  cose  fatte  dalle repubbliche,  troverà  in  tutte  qualche spezie  di  ingratitudine  contro  a’  suoi  citladini;  ma  ne  troverà  meno  in  Roma che  in  Atene>  e per  avventura  in  qualunque altra  repubblica.  E ricercando  la cagione  di  questo,  parlando  di  Roma  c di  Atene,  credo  accadesse  perchè  i Romani avevano  meno  cagione  di  sospettare de’ suoi  cittadini,  che  gli  Ateniesi. Perchè  a Roma,  ragionando  di  lei  dalla cacciata  dei  Re  intino  a Siila  e Mario, non  fu  mai  tolta  la  libertà  da  alcuno .suo  cittadino:  in  modo  che  in  lei  non era  grande  cagione  di  sospettare  di  loro, e,  per  conseguente,  di  offendergli  inconsideratamente. intervenne  bene  ad  Atene il  contrario:  perché,  sendole  tolta  la  libertà da  Pisistrato  nel  suo  più  florido tempo,  e sotto  uno  inganno  di  bontà  ; come  prima  la  diventò  poi  libera,  ricordandosi delle  ingiurie  ricevute  e della passata  servitù,  diventò  acerrima  vendicatrice non  solamente  degli  errori,  ma delP  ombra  degli  errori  de' suoi  cittadini. Di  qui  nacque  l’esilio  e la  morte di  tanti  eccellenti  uomini;  di  qui  Pordine  dello  ostracismo,  ed  ogni  altra  violenza che  contra  i suoi  ottimati  in  vari tempi  da  quella  città  fu  fatta.  Ed  è verissimo quello  che  dicono  questi  scrittori della  civiltà:  che  i popoli  mordono più  fieramente  poi  ch’egli  hanno  recuperala la  libertà,  che  poi  che  l’hanno conservala.  Chi  considerrà  adunque, quanto  è detto,  non  biasimerà  in  questo Atene,    lauderà  Roma;  ma  ne  accuserà solo  la  necessità,  per  la  diversità degli  accidenti  che  in  queste  città  nacquero. Perchè  si  vedrà,  chi  considererà  le cose  sottilmente,  che  se  a Roma  fusse siila  tolta  la  libertà  come  a Atene,  non sarebbe  stata  Roma  più  pia  verso  i suoi cittadini,  che  si  fusse  quella.  Di  che  si può  fare  verissima  conieltura  per  quello che  occorse,  dopo  la  cacciata  dei  Re, contra  a Collatino  ed  a Publio  Valerio: de’ quali  il  primo,  ancora  elicsi  trovasse a liberare  Roma,  E MANDATO IN ESILIO NON PER ALTRA CAGIONE CHE PER TENERE IL NOME DE’ TARQUINI; P altro,  avendo  sol «lato  di    sospetto  per  edificare  una casa  in  sul  monte  Celio,  fu  ancora  per essere  fatto  esule.  Talché  si  può  stimare, veduto  quanto  Roma  fu  in  questi due  sospettosa  e severa,  che  Farebbe usata  la  ingratitudine  come  Atene,  se da’suoi  cittadini,  come  quella  ne’ primi tempi  ed  innanzi  allo  augumento  suo, fosse  stata  ingiuriata.  G per  non  avere a tornare  più  sopra  questa  materia  della ingratitudine,  ne  dirò  quello  ne  occorrerà nel  seguente  capitolo. Quale  sia  più  ingrato , o un  popolo j o un  principe. Egli  mi  pare,  a proposito  della  soprascritta materia,  da  discorrere  quale usi  con  maggiori  esempi  questa  ingratitudine, 0 un  popolo,  o un  principe.  E per  disputare  meglio  questa  parte,  dico, come  questo  vizio  della  ingratitudine nasce  o dalla  avarizia,  o dal  sospetto. Perchè,  quando  o un  popolo  o un  priacipe  ha  mandato  fuori  un  suo  capitano in  una  cspedizione  importante,  dove quel  capitano,  vincendola,  ne  abbia acquistata  assai  gloria  ; quel  principe  o quel  popolo  è tenuto  allo  incontro  a premiarlo: e se,  in  cambio  di  premio,  o ei lo  disonora  o ei  T offende,  mosso  dalla avarizia,  non  volendo,  ritenuto  da  questa cupidità,  satisfarli;  fa  uno  errore che  non  ha  scusa,  anzi  si  tira  dietro una  infamia  eterna.  Pure  si  trovano  molti principi  che  ci  peccano.  E Cornelio TACITO  dice,  con  questa  sentenzia,  la  cagione: Proclivius  est  inj ur ite,  quarti  beneficio vicem  cxsolvcre,  quia  grafia  oneri, ultio  in  questu  fiabe  tur.  Ma  quando ei  non  lo  premia,  o,  a dir  meglio,  l’offende, non  mosso  da  avarizia,  ma  da  sospetto; allora  merita,  e il  popolo  e il principe,  qualche  scusa.  E di  queste  ingratitudini usate  per  tal  cagione,  se  ne legge  assai  : perchè  quello  capitano  il quale  virtuosamente  ha  acquistato  uno imperio  al  suo  signore,  superando  i ne-mici,  e riempiendo    di  gloria  e gli suoi  soldati  di  ricchezze;  di  necessità,  e con  i soldati  suoi,  e con  i nemici,  e coi sudditi  propri  di  quel  principe  acquista tanta  reputazione,  che  quella  vittoria non  può  sapere  di  buono  a quel  signore che  lo  ha  mandato.  G perchè  la  natura degli  uomini  è ambiziosa  e sospettosa, e non  sa  porre  modo  a ntssuna  sua  fortuna, è impossibile  che  quel  sospetto  che subito  nasce  nel  principe  dopo  la  vittoria di  quel  suo  capitano,  non  sia  da quel  medesimo  accresciuto  per  qualche suo  modo  o termine  usato  insolentemente.  Talché  il  principe  non  può  peusare  ad  altro  che  assicurarsene;  e per fare  questo,  pensa  o di  farlo  morire,  o di  torgli  la  reputazione  che  egli  si  ha guadagnala  nel  suo  esercito  e ne’ suoi popoli:  e con  ogni  industria  mostrare che  quella  vittoria  è nata  non  per  la virtù  di  quello,  ma  per  fortuna,  o per viltà  dei  nemici,  o per  prudenza  degli altri  capitani  clic  sono  stati  seco  in  tale l’azione.  Poiché  Vespasiano,  sendo  in  Giudea fu  dichiarato  dal  suo  esercito  imperadore  ; Antonio  Primo,  che  si  trovava con  un  altro  esercito  in  llliria,  prese  le parti  sue,  e ne  venne  in  Italia  contea  a Vitellio  il  quale  regnava  a Roma,  e virluosissimamente  ruppe  due  eserciti  Vitelliani,  c occupò  Roma  ; talché  Muziano, mandato  da  Vespasiano,  trovò  per  la virtù  d’Antonio  acquistato  • il  tutto,  e vinta  ogni  di ffìcultà.  11  premio  che  Autonio  ne  riportò,  fu  che  Muziano  gli tolse  subito  la  ubidienza  dello  esercito, e a poco  a poco  io  ridusse  in  Roma senza  alcuna  autorità:  talché  Antonio  ne andò  a trovare  Vespasiano,  il  quale  era ancora  in  Asia;  dal  quale  fu  in  modo ricevuto,  che,  in  breve  tempo,  ridotto  in nessun  grado,  quasi  disperato  morì.  E di  questi  esempi  ne  sono  piene  le  istorie.  Ne’  nostri  tempi,  ciascuno  che  al presente  vive,  sa  con  quanta  industria e virtù  Consalvo  Ferrante,  militando  nel regno  di  Napoli  contra  a’ Franciosi  per Ferrando  Re  di  Ragona,  conquistasse  e vincesse  quel  regno;  e come,  per  premio di  vittoria,  ne  riportò  che  Ferrando si  parti  da  Ragona,  e,  venuto  a Napoli, in  prima  gli  levò  la  obedienza  delle genti  d’ arme,  c dipoi  gli  tolse  le  fortezze, ed  appresso  lo  menò  seco  in  Spagna; dove  poco  tempo  poi,  inonorato,  mori. È tanto,  dunque,  naturale  questo  sospetto ne’ principi,  che  non  se  ne  possono difendere;  ed  è impossibile  ch’egli usino  gratitudine  a quelli  che  con  vittoria hanno  fatto  sotto  le  insegne  loro grandi  acquisti.  E da  quello  che  non  si difende  un  principe,  non  è miracolo,  nè cosa  degna  di  maggior  considerazione, s.e  un  popolo  non  se  ne  difende.  Perchè, avendo  una  città  che  vive  libera,  duoi fini,  V uno  lo  acquistare,  l’altro  il  mantenersi libera  ; conviene  che  nell’  una cosa  e nell’  altra  per  troppo  amore  erri. Quanto  agli  errori  nello  acquistare,  se ne  dirà  nel  luogo  suo.  Quanto  agli  errori per  mantenersi  libera,  sono,  intra gli  altri,  questi:  di  offendere  quei  cittadini elicla  doverrebbe  premiare;  aver sospetto  di  quelli  in  cui  si  doverrebbe confidare.  E benché  questi  modi  in  una repubblica  venuta  alla  corruzione  siano cagione  di  grandi  mali,  c che  molle volte  piuttosto  la  viene  alla  tirannide, come  intervenne  a Roma  di  Cesare,  che per  forza  si  tolse  quello  che  la  ingratitudine gli  negava;  nondimeno  in  una repubblica  non  corrotta  sono  cagione  di gran  beni,  e fanno  che  la  ne  vi\e  libera più,  mantenendosi  per  paura  ili punizione  gli  uomini  migliori,  e meno ambiziosi.  Vero  è che  infra  tutti  i popoli che  mai  ebbero  imperio,  per  le  cagioni di  sopra  discorse,  Roma  fu  la  meno ingrata  : perchè  della  sua  ingratitudine si  può  dire  che  non  ci  sia  altro  esempio che  quello  di  Scipione;  perchè  Coriolano  c Cammillo  fumo  fatti  esuli per  ingiuria  che  l’uno  e l’altro  aveva fatto  alla  Plebe.  Ma  all’  uno  non  fu  perdonato,  per  aversi  sempre  riserbato contea  al  Popolo  l’animo  nemico;  Paiteo  non  solamente  fu  richiamato,  ma per  tutto  il  tempo  della  sua  vita  adorato  come  principe.  Ma  la  ingratitudine usata  a Scipione,  nacque  da  un  sospetto che  i cittadini  cominciorno  avere  di  lui, che  degli  altri  non  s’era  avuto:  il  quale nacque  dalla  grandezza  del  nemico  che Scipione  aveva  vinto;  dalla  reputazione che  gli  aveva  data  la  vittoria  di    lunga e pericolosa  guerra;  dalla  celerità  di essa  ; dai  favori  che  la  gioventù,  la  prudenza,  e le  altre  sue  memorabili  virtuti gli  acquistavano.  Le  quali  cose  furono tante,  che,  non  che  altro,  i magistrati  di Roma  temevano  della  sua  autorità:  la qual  cosa  spiaceva  agli  uomini  savi, come  cosa  inconsueta  in  Roma.  E parve tanto  straordinario  il  vivere  suo,  che CATONE PRISCO, riputato  santo,  fu  IL PRIMO a fargli  contra  ; e a dire  che  una  città non  si  poteva  chiamare  libera,  dove  era un  cittadino  che  fusse  temuto  dai  magistrati. Talché,  se  il  popolo  di  Roma 1 seguì  in  questo  caso  L’OPINIONE DI CATONE, merita  quella  scusa  che  di  sopra ho  detto  meritare  quelli  popoli  e quelli principi  che  per  sospetto  sono  ingrati. Conchiudendo  adunque  questo  discorso, dico,  che  usandosi  questo  vizio  della  ingratitudine o per  avarizia  o per  sospetto, si  vedrà  come  i popoli  non  mai  per T avarizia  la  usorno,  e per  sospetto  assai i manco  che  i principi,  avendo  meno  cagione di  sospettare:  come  di  sotto  si dirà. Quali  modi  debbo  usare un  principe  o una  repubblica  per  fuggire questo  vizio  della  ingratitudine  : c quali  quel  capitano  o quel  cittadino per  non  essere  oppresso  da  quella. Un  principe,  per  fuggire  questa  necessità di  avere  a vivere  con  sospetto, o esser  ingrato,  debbe  personalmente andare  nelle  espedizioni;  come  facevano nel  principio  quelli  imperadori  romani, come  fu  ne’ tempi  nostri  il  Turco,  c come hanno  fatto  e fanno  quelli  che  sono virtuosi.  Perchè,  vincendo,  la  gloria  e lo acquisto  è tutto  loro;  e quando  non  vi sono,  sendo  la  gloria  d’altrui,  non  pare loro  potere  usare  quello  acquisto,  s’ ei non  spengono  in  altrui  quella  gloria  che loro  non  hanno  saputo  guadagnarsi,  e diventare  ingrati  ed  ingiusti  : e senza dubbio,  è maggiore  la  loro  perdita,  che il  guadagno.  Ma  quando,  o per  negligenza o per  poca  prudenza,  e’ si  rimangono a casa  oziosi,  c mandano  un  capitano; io  non  ho  che  precetto  dar  loro altro,  che  quello  che  per  lor  medesimi si  sanno.  .Ma  dico  bene  a quel  capitano, giudicando  io  che  non  possa  fuggire  i morsi  della  ingratitudine,  che  faccia  una delle  due  cose:  o subito  dopo  la  vittoria lasci  lo  esercito  c rimettasi  nelle  mani del  suo  principe,  guardandosi  da  ogni atto  insolente  o ambizioso;  acciocché quello,  spogliato  d’ogni  sospetto,  abbia cagione  o di  premiarlo  o di  non  lo  offendere  : o,  quando  questo  non  gli  paia di  fare,  prenda  animosamente  la  parte contraria,  e tenga  tutti  quelli  modi  per li  quali  creda  che  quello  acquisto  sia suo  proprio  e non  del  principe  suo,  facendosi benivoli  i soldati  ed  i sudditi; e faccia  nuove  amicizie  coi  vicini,  occupi con  li  suoi  uomini  le  fortezze,  corrompa i principi  del  suo  esercito,  e di quelli  che  non  può  corrompere  si.  assicuri; e per  questi  modi  cerchi  di  punire il  suo  signore  di  quella  ingratitudine che  esso  gli  userebbe.  Altre  vie non  ci  sono:  ma,  come  di  sopra  si  disse, gli  uomini  non  sanno  essere    al  tutto tristi,    al  tutto  buoni:  e sempre  interviene che,  subito  dopo  la  vittoria, lasciare  lo  esercito  non  vogliono,  portarsi modestamente  non  possono,  usare termini  violenti  e che  abbino  in    Tonorevole,  non  sanno;  talché,  stando  ambigui, intra  quella  loro  dimora  ed  ambiguità, sono  oppressi.  Quanto  ad  una repubblica,  volendo  fuggire  questo  vizi dello  ingrato,  non  si  può  dare  il  medesimo rimedio  che  al  principe;  cioè  che vadia,  e non  mandi,  nelle  cspedizioni sue,  sendo  necessitate  a mandare  un  suo cittadino.  Conviene,  pertanto,  che  pei*rimedio  io  le  dia,  che  la  tenga  i medesimi modi  che  tenne  la  repubblica  romana, ad  esser  meno  ingrata  che  l’altre: il  che  nacque  dai  modi  del  suo  governo. Perchè,  adoperandosi  tutta  la  città,  e gli nobili  e gli  ignobili,  nella  guerra,  surgeva sempre  in  Roma  in  ogni  età  tanti uomini  virtuosi,  ed  ornati  di  varie  vittorie, che  il  popolo  non  avea  cagione  di dubitare  di  alcuno  di  loro,  sendo  assai, c guardando  P uuo  Patirò.  E in  tanto si  mantenevano  interi,  e respettivi  di non  dare,  ombra  di  alcuna  ambizione, uè  cagione  al  popolo,  come  ambiziosi, d*  offendergli  ; che  venendo  alla  dittatura, quello  maggior  gloria  ne  riportava, che  più  tosto  la  deponeva.  E cosi,  non potendo  simili  modi  generare  sospetto, non  generavano  ingratitudine.  In  modo che,  una  repubblica  che  nott  voglia avere  cagione  d’essere  ingrata,  si  debbo governare  come  Roma  ; c uno  cittadino che  voglia  fuggire  quelli  suoi  morsi, debbc  osservare  i termini  osservati  dai cittadini  romani. Che  » capitani  romani per  errore  commesso  ?io«  furono  mai istraordinariamcnlc  puniti;    furono mai  ancora  puniti  quando,  per  la ignoranza  loro  o tristi  partiti  presi da  loro,  ne  fissino  seguiti  danni  alla repubblica. 1 Romani,  non  solamente,  come  di  sopra avemo  discorso,  furono  manco  ingrati die  V altre  repubbliche,  ma  furono ancora  più  pii  e più  respctlivi  nella  punizione de’ loro  capitani  degli  eserciti, che  alcune  altre.  Perchè,  se  il  loro  errore fussc  stato  per  malizia,  e’  lo  gastigavano  umanamente;  se  gli  era  per ignoranza,  non  che  lo  punissino,  e’ lo premiavano  ed  onoravauo.  Questo  modo del  procedere  era  bene  considerato  da -loro:  perchè  e' giudicavano  che  fusse  di tanta  importanza  a quelli  che  governavano  gli  eserciti  loro,  lo  avere  l’animo libero  ed  espedito,  e senza  altri  estrinsechi rispetti  nel  pigliare  i parliti,  che non  volevano  aggiugnere  ad  una  cosa per    stessa  difficile  e pericolosa,  nuove difficultà  c pericoli  ; pensando  che  aggiugttendovcli,  nessuno  potesse  essere che  operasse  mai  virtuosamente.  Verbigrazia,  e’ mandavano  uno  esercito  in Grecia  contra  a Filippo  di  Macedonia,  o in  Italia  contra  ad  Annibale,  o contro  a quelli  popoli  che  vinsono  prima.  Era questo  cupitano  clic  era  preposto  a tale espedizione,  angustiato  da  tutte  quelle cure  che  si  arrecavano  dietro  quelle faccende,  le  quali  sono  gravi  e importantissime. Ora,  se  a tali  cure  si  fus»sino  aggiunti  più  esempi  di  Romani ch’eglino  avessino  crucifissi  o altrimenti morti  quelli  che  avessino  perdute  le giornale,  egli  era  impossibile  che  quello capitano  intra  tanti  sospetti  potesse  deliberare strenuamente.  Però,  giudicando essi  che  a questi  tali  fusse  assai  pena la  ignominia  dello  avere  perduto,  non gli  vollono  con  altra  maggior  pena  sbigottire. Uno  esempio  ci  è,  quanto  allo errore  commesso  non  per  ignoranza. Erono  Sergio  e Virginio  a campo  a Veio, ciascuno  preposti  ad  una  parte  dello esercito;  de’ quali  Sergio  era  all’incontro donde  potevano  venire  i Toscani,  c Virginio  dall’  altra  parte.  Occorse  che sendo  assaltato  Sergio  dai  Falisci  e da altri  popoli,  sopportò  d’  essere  rotto  c fugato  prima  che  mandare  per  aiuto  a Virginio.  E dall’altra  parte,  Virginio aspettando  che  si  umiliasse,  volle  piuttosto vedere,  il  disonore  della  patria  sua, e la  rovina  di  quello  esercito,  clic  soccorrerlo. Caso  veramente  esemplare  e tristo,  c da  fare  non  buona  coniettura della  Repubblica  romana,  se  1’  uno  c l’altro non  fusscro  stati  gasligali.  Vero  è che,  dove  un’altra  repubblica  gli  a r ebbe puniti  di  pena  capitale,  quella  gli  punì in  danari.  II  che  nacque  non  perchè  i peccali  loro  non  meritassino  maggior punizione,  ma  perchè  -gli  Romani  voiiono  in  questo  caso,  per  le  ragioni  già dette,  mantenere  gli  antichi  costumi  loro. E quanto  agii  errori  per  ignoranza,  non ci  è il  più  bello  esempio  che  quello  di VARRRONE (si veda):  per  la  temerità  del  quale  sendo rotti  i Romani  a Canne  da  Annibaie, dove  quella  Repubblica  portò  pericolo della  sua  libertà;  nondimeno,  perchè  vi fu  ignoranza  e non  malizia,  non  solamente  non  lo  gastigorno  ma  lo  onororno,  e gli  andò  incontro  nella  tornata sua  in  Roma  tutto  l’Ordine  senatorio; e non  lo  potendo  ringraziare  della  zuffa, Io  ringraziarono  eh’  egli  era  tornato  in Roma,  c non  si  era  disperato  delle  cose romane.  Quando  Papirio  Cursore  volevu fare  morire  Fabio,  per  avere  contea  al suo  comandamento  combattuto  coi  Sanniti; intra  le  altre  ragioni  che  dal  patire  di  Fabio  erano  assegnale  conira  alla ostinazione  del  Dittatore,  era  che  il  Popolo romano  in  alcuna  perdita  de’ suoi Capitani  non  aveva  fatto  mai  quello  che Papirio  nella  vittoria  voleva  fare. XXXII. Una  repubblica  o uno principe  non   e sia  conira ad  una  consuetudine  antica  della  città , è scandalosissimo. Egli  è sentenza  degli  antichi  scrittori, come  gli  uomini  sogliono  affliggersi  nel male  c stuccarsi  nel  benej  e come  dul1’  una  e dall*  altra  di  queste  due  passioni nascono  i medesimi  effetti.  Perchè,  qualunque volta  è tolto  agli  uomini  il  combattere per  necessità,  combattono  per ambizione:  la  quale  è tanto  potente  ne’ petti  umani,  che  mai,  a qualunque  grado si  salgano,  gli  abbandona.  La  cagione  è, perchè  la  natura  ha  creati  gli  uomini in  modo,  che  possono  desiderare  ogni cosa,  e non  possono  conseguire  ogni cosa  : talché,  essendo  sempre  maggiore il  desiderio  che  la  potenza  dello  acquistare, ne  risulta  la  mala  contentezza  di quello  che  si  possiede,  e la  poca  satisfazionc  di  esso.  Da  questo  nasce  il  variare della  fortuna  loro:  perchè  desiderando gli  uomini,  parte  di  avere  più, parte  temendo  di  non  perdere  lo  acquistato, si  viene  alle  inimicizie  ed  alla guerra  ; dalla  quale  nasce  la  rovina  di quella  provincia,  e la  esaltazione  di  quel1’  altra.  Questo  discorso  ho  fatto  perchè alla  Plebe  romana  non  bastò  assicurarsi de’  Nobili  per  la  creazione  de’  Tribuni, al  quale  desiderio  fu  constretta  per  necessità ; che  lei  subito,  ottenuto  quello, cominciò  a combattere  per  ambizione, e volere  con  la  Nobiltà  dividere  gli  onori e le  sustanze,  come  cosa  stimata  più dagli  uomini.  Da  questo  nacque  il  morbo che  partorì  la  contenzione  della  legge agraria,  ed  in  (ine  fu  causa  della  distruzione della  Repubblica  romana.  E perchè le  repubbliche  bene  ordinate  hanno a tenere  ricco  il  pubblico,  e li  loro  cittadini poveri  ; convenne  che  fusse  nella città  di  Roma  difetto  in  questa  legge: la  quale  o non  fusse  fatta  nel  principio in  modo  che  la  non  si  avesse  ogni  di  a ritrattare;  o che  la  si  differisse  tanto in  farla,  che  fusse  scandotoso  il  riguardarsi indietro;  o sendo  ordinata  bene da  prima,  era  stata  poi  dall’  uso  corrotta; talché,  in  qualunque  modo  si  fusse, mai  non  si  parlò  di  questa  legge  in Roma,  che  quella  città  non  andasse  sottosopra. Aveva  questa  legge  duoi  capi principali.  Ter  l’ uno  si  disponeva  clic non  si  potesse  possedere  per  alcun  cittadino più  che  tanti  iugeri  di  terra; per  V altro,  che  i campi  di  che  si  privavano i nimici,  si  dividessino  intra  il popolo  romano.  Veniva  pertanto  a fare di  duoi  sorte  offese  ai  Nobili:  perchè quelli  che  possedevano  più  beni  non permetteva  la  legge  (quali  erano  la  maggior  parte  de’  Nobili),  ne  avevano  ad  esser privi  ; e dividendosi  intra  la  Plebe i beni  de’  nimici,  si  toglieva  a quelli  la via  dello  arricchire.  Sicché,  venendo  ad essere  queste  offese  contra  ad  uomini potenti,  e che  pareva  loro,  contrastandola, difendere  il  pubblico;  qualunque volta,  com’ è detto,  si  ricordava,  andava sottosopra  quella  città  : ed  i Nobili  con pazienza  ed  industria  la  temporeggiavano, o con  trac  fuora  un  esercito,  o che a quel  Tribuno  che  la  proponeva  si  opponesse uno  altro  Tribuno;  o talvolta cederne  parte;  ovvero  mandare  una  colonia in  quel  luogo  che  si  avesse  a distribuire:  come  intervenne  del  contado di  Anzio,  per  il  quale  surgendo  questa disputa  della  legge,  si  mandò  in  quel luogo  una  colonia  traila  di  Roma,  alla quale  si  consegnasse  detto  contado.  Dove L.  usa  un  termine  notabile, dicendo  clic  con  ditTìcultà  si  trovò  in Roma  eli i desse  il  nome  per  ire  in  detta colonia:  tanto  era  quella  Plebe  più  pronta a volere  desiderare  le  cose  in  Homa, che  a possederle  in  Anzio  ! Andò  questo umore  di  questa  legge  così  travagliandosi un  tempo,  tanto  che  i Romani  cominciarono a condurre  le  loro  armi  nelle estreme  parti  di  Italia,  o fuori  di  Italia; dopo  al  qual  tempo  parve  che  la  restasse. Il  che  nacque  perchè  i campi  che  possedevano i nimici  di  Roma  essendo  discosti dagli  occhi  della  Plebe,  cd  in  luogo dove  non  gli  era  facile  il  coltivargli, veniva  meno  ad  esserne  desiderosa:  ed ancora  i Romani  erano  meno  punitori tic’ loro  nemici  in  siinil  modo;  e quando pure  spogliavano  alcuna  terra  del  suo contado,  vi  distribuivano  colonia.  Tanto che  per  tali  cagioni  questa  legge  stette come  addormentata  inOno  a’  Gracchi: da’  quali  essendo  poi  svegliata,  rovinò al  tutto  la  libertà  romana;  perchè  la trovò  raddoppiata  la  potenza  de’  suoi avversari,  e si  accese  per  questo  tante odio  intra  la  Plebe  ed  il  Senato,  che  si venne  all’  armi  ed  al  sangue,  fuor  d’ogni modo  e costume  civile.  Talché,  non  potendo i pubblici  magistrati  rimediarvi, nè  sperando  più  alcuna  delle  fazioni  in quelli,  si  ricorse  a’ rimedi  privati,  e ciascuna delle  parti  pensò  di  farsi  uno  capo che  la  difendesse.  Pervenne  in  questo scandalo  e disordine  la  Plebe,  e volse  la sua  riputazione  a Mario,  tanto  che  la  lo fece  quattro  volte  Consolo;  ed  in  tanto continuò  con  pochi  intervalli  il  suo  consolato, che  si  potette  per    stesso  far Consolo  tre  altre  volte.  Contra  alla  qual peste  non  avendo  la  Nobiltà  alcuno  rimedio, si  volse  a favorir  Siila;  e fatto quello  capo  della  parte  sua,  vennero  alle guerre  civili  * e dopo  molto  sangue  e variar  di  fortuna,  rimase  superiore  la Nobiltà.  Risuscitorono  poi  questi  umori a tempo  di  Cesare  c di  Pompeo;  perchè, fattosi  Cesare  capo  della  parte  di  Mario, c Pompeo  di  quella  di  Siila,  venendo alle  mani  rimase  supcriore  GIULIO CESARE: IL QUALE E IL PRIMO TIRANNO IN ROMA, TALCHE MAI E POI LIBERA QUELLA CITTA. Tale,  adunque, principio  e fine  ebbe  la  legge  agraria. E benché  noi  mostrassimo  altrove, come  le  inimicizie  di  Roma  intra  il  Senato c la  Plebe  mantenessero  libera  Roma, per  nascerne  da  quelle  leggi  in  favore della  libertà  ; e per  questo  paia disforme  a tale  conclusione  il  fine  di questa  legge  agraria  ; dico  come,  per questo,  io  non  mi  rimuovo  da  tale  oppinionc:  perchè  egli  è tanta  P ambizione de’  grandi,  che  se  per  varie  vie  ed in  vari  modi  la  non  ò in  una  città  sbattuta, tosto  riduce  quella  città  alla  rovina sua.  In  modo  che,  se  la  contenzione  della legge  agraria  penò  trecento  anni  a fare Roma  serva,  si  sarebbe  condotta,  per avventura,  molto  più  tosto  iti  servitù, quando  la  Plebe,  e con  questa  legge  c con  altri  suoi  appetiti,  non  avesse  sempre frenato  la  ambizione  de’  Nobili.  Vedasi per  questo  ancora,  quanto  gli  uomini stimano  più  la  roba  che  gli  onori. Perchè  la  Nobiltà  romana  sempre  negli onori  eedè  senza  scandali  istraordinari alla  Plebe;  ma  come  si  venne  alla  roba, fu  tanta  la  ostinazione  sua  nel  difenderla, che  la  Plebe  ricorse,  per  Sfo-gare 1’  appetito  suo,  a quelli  istraordinari che  di  sopra  si  discorrono.  Del  quale disordine  furono  motori  i Gracchi; de’  quali  si  dcbbe  laudare  più  la  intenzione che  la  prudenza.  Perchè,  a voler levar  via  uno  disordine  cresciuto  in  una repubblica,  e per  questo  fare  una  legge che  riguardi  assai  indietro,  è partito male  considerato;  e,  come  di  sopra  largamente si  discorse,  non  si  fa  altro  che accelerare  quel  male  a che  quel  disordine ti  conduce  : ma  temporeggiandolo, o il  male  viene  più  tardo,  o per    medesimo col  tempo,  avanti  che  venga  al fine  suo,  si  spegne. XXXVIII.  — Le  repubbliche  deboli sono  male  risolute , e non  si  sanno deliberare  ; c se  le  pigliano  mai  alcuno partito j nasce  più  da  necessità che  da  elezione. Essendo  in  Roma  una  gravissima  pestilenza, e parendo  per  questo  agli  Volaci ed  agli  Equi  che  fusse  venuto  il tempo  di  potere  oppressar  Roma;  fatti questi  due  popoli  uno  grossissimo  esercito, assalirono  gli  Latini  e gli  Ernici, e guastando  il  loro  paese,  furono  constretti gli  Latini  c gli  Ernici  farlo  intendere a Roma,  c pregare  che  fussero difesi  da' Romani:  ai  quali,  sendo  i Romani gravati  dal  morbo,  risposero  che pigliassero  partito  di  difendersi  da  loro medesimi  e con  le  loro  armi,  perchè essi  non  li  potevano  difendere.  Dove  si conosce  la  generosità  e prudenza  di quel  Senato,  e come  sempre  in  ogni  fortuna volle  essere  quello  che  fusse  principe delle  deliberazioni  che  avessero  a pigliare  i suoi;    si  vergognò  mai  deliberare una  cosa  che  fusse  contraria al  suo  modo  di  vivere  o ad  altre  deliberazioni fatte  da  lui,  quando  la  necessità gliene  comandava.  Questo  dico  perchè altre  volte  il  medesimo  Senato  aveva vietato  ai  detti  popoli  l’armarsi  e difendersi ; talché  ad  uno  Senato  meno prudente  di  questo,  sarebbe  parso  cadere del  grado  suo  a concedere  loro tale  difensione.  Ma  quello  sempre  giudicò le  cose  come  si  debbono  giudicare, e sempre  prese  il  meno  reo  partilo  per migliore;  perchè  male  gli  sapeva  non potere  difendere  i suoi  sudditi;  male gli  sapeva  che  si  armassino  senza  loro, per  le  ragioni  dette,  e per  molte  altre che  si  intendono:  nondimeno,  conoscendo che  si  sarebbono  armati,  per  necessità, a ogni  modo,  avendo  il  nimico  addosso;  prese  la  parte  onorevole,  e volle che  quello  clic  gli  avevano  a fare,  lo facessino  con  licenzia  sua,  acciocché avendo  disubbidito  per  necessità,  non si  avvezzassino  a disubbidire  per  elezione. E benché  questo  paia  partito  che da  ciascuna  repubblica  dovesse  esser preso;  nientedimeno  le  repubbliche  deboli e male  consigliate  non  gli  sanno pigliare,    si  sanno  onorare  di  simili necessità.  Aveva  il  duca  Valentino  presa Faenza,  e fatto  calare  Bologna  agli  accordi suoi.  Dipoi,  volendosene  tornare  a Roma  per  la  Toscana,  mandò  in  Firenze uno  suo  uomo  a domandare  il passo  per    e per  il  suo  esercito.  Consultossi  in  Firenze  come  si  avesse  a governare questa  cosa,    fu  mai  consigliato per  alcuno  di  concedergliene.  In che  non  si  seguì  il  modo  romano:  perchè, sendo  il  Duca  armatissimo,  ed  i Fiorentini  in  modo  disarmati  che  non gli  potevano  vietare  il  passare,  era  molto piu  onore  loro,  che  paresse  che  passasse con  permissione  di  quelli,  che  a forza; perchè,  dove  vi  fu  al  tutto  il  loro  vituperio, sarebbe  stato  in  parie  minore quando  I*  avessero  governata  altrimenti. Ma  la  più  cattiva  parte  che  abbino  le repubbliche  deboli,  è essere  irresolute; in  modo  che  lutti  i partili  che  le  pigliano, gli  pigliano  per  forza;  e se  vieti loro  fatto  alcuno  bene,  lo  fanno  forzato, c non  per  prudenza  loro.  Io  voglio  dare di  questo  duoi  altri  esempi,  occorsi ne*  tempi  nostri  nello  stato  della  nostra città,  nel  mille  cinquecento.  Ripreso  che il  re  Luigi  XII  di  Francia  ebbe  Milauo, desideroso  di  rendergli  Pisa,  per  aver cinquanta  mila  ducati  che  gli  erano  stati promessi  da’  Fiorentini  dopo  tale  restituzione, mandò  gli  suoi  eserciti  verso Pisa,  capitanati  da  monsignor  Beaumonte;  benché  francese,  nondiraanco uomo  in  cui  i Fiorentini  assai  confidavano. Condussesi  questo  esercito  e questo capitano  intra  Cascina  e Pisa,  per andare  a combattere  le  mura;  dove  dimorando  alcuno  giorno  per  ordinarsi alla  espugnazione,  vennero  oratori  Pisani a Beaumonte,  e gli  offerirono  di dare  la  città  allo  esercito  francese  con questi  patti:  che,  sotto  la  fede  del  re, promettesse  non  la  mettere  in  mano de’  Fiorentini,  prima  che  dopo  quattro mesi.  Il  qual  partito  fu  dai  Fiorentini al  tutto  rifiutato,  in  modo  che  si  seguì nello  andarvi  a campo,  e partissene  con vergogna.    fu  rifiutato  il  partito  per altra  cagione,  che  per  diffidare  dellafede  del  re;  come  quelli  che  per  debolezza di  consiglio  si  erano  per  forza messi  nelle  mani  sue:  e dall’altra  parte, non  se  ne  fidavano,    vedevano quanto  era  meglio  che  il  re  potesse  rendere loro  Pisa  sendovi  dentro,  e non  la rendendo  scoprire  P animo  suo,  che  non la  avendo,  poterla  loro  promettere,  e loro  essere  forzati  comperare  quelle promesse.  Talché  molto  più  utilmente arebbono  fatto  a consentire  che  Beaumonlc  V avesse,  sotto  qualunque  pròmessa,  presa:  come  se  ne  vide  la  espcrienza  dipoi,  die  essendosi ribellato  Arezzo,  venne  a’  soccorsi  de*  Fiorentini mandato  dal  re  di  Francia  monsignor Imbalt  con  gente  francese;  il qual  giunto  propinquo  ad  Arezzo,  dopo poco  tempo  cominciò  a praticare  accordo con  gli  Aretini,  i quali  sotto  certa fede  volevano  dare  la  terra,  a similitudine de’ Pisani.  Fu  rifiutato  in  Firenze tale  partito  ; il  che  veggendo  monsignor Imbalt,  e parendogli  come  i Fiorentini se  ne  inlendessino  poco,  cominciò  a tenere le  pratiche  dello  accordo  da  se, senza  participazione  de’  Commessaci  : tanto  che  e’  io  conchiuse  a suo  modo,  e sotto  quello  con  le  sue  genti  se  ne  entrò in  Arezzo,  facendo  intendere  a’  Fiorentini come  egli  erano  matti,  e non  si intendevano  delle  cose  del  mondo:  che se  volevano  Arezzo,  lo  fucessino  intendere al  re,  il  quale  lo  poteva  dar  loro molto  meglio,  avendo  le  sue  genti  in quella  città,  che  fuori.  Non  si  restava  in  Firenze  di  lacerare  e biasimare  detto Imbalt;    si  restò  mai,  infino  a tanto che  si  conobbe  che  se  Beaumonte  fusse stato  simile  a Imbalt,  si  sarebbe  avuto Pisa  come  Arezzo.  E cosi,  per  tornare a proposito,  le  repubbliche  irresolute non  pigliano  mai  partiti  buoni,  se  non per  forza,  perchè  la  debolezza  loro  non le  lascia  mai  deliberare  dove  è alcuno dubbio;  e se  quel  dubbio  non  è cancellalo da  una  violenza,  che  le  sospinga, stanno  sempre  mai  sospese. XXXIX.  — In  diversi  popoli si  veggono  spesso  i medesimi  accidenti. E’  si  conosce  facilmente  per  chi  considera le  cose  presenti  e le  antiche,  come in  tutte  le  città  ed  in  tutti  i popoli sono  quelli  medesimi  desiderii  e quelli medesimi  umori,  e come  vi  furono  sempre : in  modo  che  gli  è facil  cosa  a chi esamina  con  diligenza  le  cose  passate, prevedere  in  ogni  repubblica  le  future, c farvi  quelli  rimedi  che  dagli  antichi sono  stati  usati  ; o non  ne  trovando  degli usati,  pensarne  de’ nuovi,  per  la  similitudine degli  accidenti.  Ma  perchè queste  considerazioni  sono  neglette,  o non  intese  da  chi  legge  ; o se  le  sono intese,  non  sono  conosciute  da  chi  governa ; ne  seguita  che  sempre  sono  i medesimi  scandali  in  ogni  tempo.  Avendo la  città  di  Firenze perduto parte  dello  imperio  suo,  come  Pisa  ed altre  terre,  fu  necessitata  a fare  guerra* a coloro  che  le  occupavano.  E perchè chi  le  occupava  era  potente,  ne  seguiva che  si  spendeva  assai  nella  guerra,  senza alcun  frutto  ; dallo  spendere  assai  ne risultava  assai  gravezze  ; dalle  gravezze, infinite  querele  del  popolo  ; e perchè questa  guerra  era  amministrata  da  uno magistrato  di  dieci  cittadini  che  si  chiamavano i Dieci  della  guerra,  1*  universale cominciò  a recarselo  in  dispetto, come  quello  che  fusse  cagione  della guerra  e delle  spese  di  essa;  e corniliciò  a persuadersi  che  tolto  via  detto magistrato,  fusse  tolto  via  la  guerra  : tanto  che  avendosi  a rifare,  non  se  gli fecero  gli  scambi  ; e lasciatosi  spirare, si  commisero  le  azioni  sue  alla  Signoria. La  qual  deliberazione  fu  tanto  perniziosa,  che  non  solamente  non  levò  la  guerra, come  lo  universale  si  persuadeva  ; ma  tolto  via  quelli  uomini  che  con  prudenza la  amministravano,  ne  seguì  tanto disordine,  die,  oltre  a Pisa,  si  perde Arezzo  e molti  altri  luoghi:  in  modo che,  ravvedutosi  il  popolo  dello  errore suo,  e come  la  cagione  del  male  era  la febbre  e non  il  medico,  rifece  il  magistrato de’  Dieci.  Questo  medesimo  umore si  levò  in  Roma  conira  al  nome  de’ Consoli : perchè,  veggendo  quello  Popolo  nascere 1’  una  guerra  dall'  altra,  e non  poter mai  riposarsi  ; dove  e'  dovevano pensare  che  la  nascesse  dalla  ambizione de’ vicini  che  gli  volevano  opprimere; pensavano  nascesse  dall’  ambizione  dei Nobili,  che  non  potendo  dentro  in  Roma gastigar  la  Plebe  difesa  dalla  potestà  tribunizia, la  volevano  condurre  fuori  di Roma  sotto  i Consoli,  per  opprimerla dove  non  aveva  aiuto  alcuno.  E pensarono per  questo,  che  fusse  necessario  o levar  via  i Consoli,  o regolare  in  modo la  loro  potestà,  che  e*  non  avessino  autorità sopra  il  popolo,    fuori    in casa.  11  primo  che  tentò  questa  legge,  fu uno  Terentillo  tribuno  ; il  quale  proponeva che  si  dovessero  creare  cinque uomini  che  dovessino  considerare  la  potenza de*  Consoli,  e limitarla.  II  che  alterò assai  la  Nobiltà,  parendoli  che  la maiestà  dell’  imperio  fusse  al  tutto  declinata, talché  alla  Nobiltà  non  restasse più  alcuno  grado  in  quella  Repubblica. Fu  nondimeno  tanta  la  ostinazione  dei Tribuni,  che  il  nome  consolare  si  spense ; e furono  in  fine  contenti,  dopo qualche  altro  ordine,  piuttosto  creare Tribuni  con  potestà  consolare,  che  i Consoli : tanto  avevano  più  in  odio  il  nome che  le  autorità  loro.  E cosi  seguitorno lungo  tempo,  infino  che  conosciuto  io errore  loro,  còme  i Fiorentini  ritornorno ai  Dieci,  così  loro  ricreorno  i Consoli.  La  creazione  del DECEMVIRATO in  Roma,  e quello  che  in  essa  è da notare:  dove  si  considera , intra  molte altre  cose,  come  si  può  salvare  per simile  accidente,  o oppressore  una  repubblica. Volendo  discorrere  particolarmente sopra  gli  accidenti  che  nacquero  in  Roma per  la  creazione  del  decemvirato, non  mi  pare  soperchio  narrare  prima tutto  quello  che  segui  per  simile  creazione, e dipoi  disputare  quelle  porti  che sono  in  esse  azioni  notabili  : le  quali  sono molte,  e di  grande  considerazione,  cosi per  coloro  che  vogliono  mantenere  una repubblica  libera,  come  per  quelli  che disegnassino  sommetterla.  Perchè  in  tale discorso  si  vedranno  molti  errori  fatti dal  Senato  e dalla  Plebe  in  disfavore della  libertà;  e molli  errori  fatti  da  APPIO,  capo  del  decemvirato;  in  disfavore di  quella  tirannide  che  egli  si  aveva  pre-supposto stabilire  in  Roma.  Dopo  molte deputazioni  c contenzioni  seguite  intra il  Popolo  e la  Nobiltà  per  fermare  nuove leggi  in  Roma,  per  le  quali  e’  si  stabilisse più  la  libertà  di  quello  stato;  mandarono, d’  accordo,  Spurio  Postumio  con duoi  altri  cittadini  ad  Atene  per  gli  essenti di  quelle  leggi  che  Solone  dette  a quella  città,  acciocché  sopra  quelle  potessero fondare  le  leggi  romane.  Andati e tornati  costoro,  si  venne  alla  creazione degli  uomini  eh’  avessino  ad  esaminare e fermare  de.tte  leggi;  e ercorno  dieci cittadini  per  un  anno,  tra  i quali  fu creato  APPIO CLAUDIO,  il primo filosofo romano, uomo  sagace  ed inquieto.  E perchè  e'  potessimo  senza  alcuno rispetto  creare  tali  leggi,  si  levarono di  Roma  tutti  gli  altri  magistrati, ed  in  particolare  i Tribuni  e i Consoli, e levossi  lo  appello  al  Popolo  ; in  modo che  tale  magistrato  veniva  ad  essere  al tulio  principe  di  Roma.  Appresso  ad APPIO  si  ridusse  tutta  1’  autorità  degli altri  suoi  compagni,  per  gli  favori  clic gli  faceva  la  Plebe  : perché  egli  s’ era fatto  in  modo  popolare  con  le  dimostrazioni, che  pareva  meraviglia  eh’  egli  avesse preso    presto  una  nuova  natura  c uno  nuovo  ingegno,  essendo  stato  tenuto innanzi  a questo  tempo  un  crudele persecutore  della  Plebe.  Governaronsi  questi  Dieci  assai  civilmente,  non tenendo  più  che  dodici  littori,  i quali andavano  davanti  a quello  ch’era  infra loro  preposto.  E bench’egli  avessino 1’ autorità  assoluta,  nondimeno  avendosi a punire  un  cittadino  romano  per  omicidio, lo  citorno  nel  conspelto  del  Popolo, e da  quello  lo  fecero  giudicare. Scrissero  le  loro  leggi  in  dicci  tavole, ed  avanti  che  le  confirmassero,  le  messono  in  pubblico,  acciocché  ciascuno  le potesse  leggere  c disputarle;  acciocché si  conoscesse  se  vi  era  alcuno  difetto, per  poterle  binanti  alla  confirmazionc loro  emendare.  Fece,  in  su  questo,  Appio nascere  un  rornorc  per  Bomn,  che se  a queste  dieci  tavole  se  n’  aggiungcssiuo  due  altre,  si  darebbe  a quelle  la loro  perfezione  ; talché  questa  oppinionc dette  occasione  al  Popolo  di  rifare  i Dieci per  uno  altro  anno:  a che  il  Popolo  si  accordò volentieri;  si  perchè i Consoli  non  si rifacessino;    perchè  speravano  loro  potere stare  senza  Tribuni,  sendo  loro  giudici delle  cause,  come  di  sopra  si  disse. Preso,  adunque,  partito  di  rifargli,  tutta la  Nobiltà  si  mosse  a cercare  questi  onori, ed  intra  i primi  era  Appio;  ed  usava tanta  umanità  verso  la  Plebe  nel  domandarla, che  la  cominciò  ad  essere  sospetta a suoi  compagni  : credebant  cnim  liaud gratuitam  in  lanla  superbia  comilatcmfore.  E dubitando  di  opporsegli  apertamente, diliberarono  farlo  con  arte;  e benché  e’  fusse  minore  di  tempo  di  tutti, dettono  a lui  autorità  di  proporre  i futuri Dieci  al  popolo,  credendo  eh*  egli osservasse  i termini  degli  altri  di  non proporre    medesimo,  sendo  cosa  inusitata e ignominiosa  in  Roma,  Me  vero imprdimentum  prò  occasione  arripuit ; e nominò    intra  i primi,  con meraviglia  e dispiacere  di  tutti  i Nobili: nominò  poi  nove  altri  al  suo  proposito. La  qual  nuova  creazione  fatta  per  uu altro  anno,  cominciò  a mostrare  al  Popolo cd  alla  Nobiltà  lo  error  suo.  Perchè subito  Appio:  finem  fedi  ferenda aliena  persona  ; e cominciò  a mostrare la  innata  sua  superbia,  ed  in  pochi  dì riempiè  di  suoi  costumi  i suoi  compagni. E per  Sbigottire  il  Popolo  ed  il  Senato, in  scambio  di  dodici  littori,  ne  feciono  cento  venti.  Stette  la  paura  eguale qualche  giorno  ; ma  cominciarono  poi ad  intrattenere  il  Senato,  e battere  la Plebe:  e s’ alcuno  battuto  dall*  uno,  appellava ali’  altro,  era  peggio  trattalo  nelP appeltagione  che  nella  prima  causa.  In modo  che  la  Plebe,  conosciuto  lo  errore suo,  cominciò  piena  di  afflizione  a riguardare in  viso  i Nobili;  et  inde  libcrtatis captare  a urani , linde  servitutem  tiinendoj in  cum  s taluni  rempublicam  adduxerant. E alla  Nobiltà  era  grata  questa  loro  afflizione, ut  ipsij  teedio  prcesenliunij  Consules  desiderar ent.  Vennero  i di  clic terminavano  l’anno:  le  due  tavole  delle leggi  erano  fatte,  ma  non  pubblicate.  Da questo  i Dicci  presono  occasione  di  continovare  nel  magistrato,  c cominciorono a tenere  con  violenza  lo  Stato,  e farsi satelliti  della  gioventù  nobile,  alla  quale davano  i beni  di  quelli  che  loro  condannavano. Quibus  donis  Juventus  coirumpebatur , et  malebat  liccnliam  suoni , i quatn  omnium  liberlatcm.  Nacque  in  questo tempo,  che  i Sabini  ed  i Volsci  mossero guerra  a’ Romani:  in  su  la  qual paura  cominciarono  i Dieci  a vedere  la debolezza  dello  Stato  loro;  perchè  senza il  Senato  non  potevano  ordinare  la  guerra, e ragunando  il  Senato  pareva  loro perdere  lo  Stato.  Pure,  necessitati,  presono questo  ultimo  partito:  e ragunali i Senatori  insieme,  molti  de’ Senatori parlorono  contro  alla  superbia  de’Dieci, ed  in  particolare  Valerio  ed  Orazio  : e la  autorità  loro  si  sarebbe  al  tutto  spenta, se  non  che  il  Senato,  per  invidia della  Plebe,  non  volle  mostrare  l’autorità sua,  pensando  che  se  i Dieci  deponevano  il  magistrato  voluntarii,  che  potesse essere  che  i Tribuni  della  plebe non  si  rifacessero.  Dcliberossi  adunque la  guerra;  uscissi  fuori  con  due  eserciti guidati  da  parte  di  detti  Dieci;  APPIO rimase  a governare  la  città.  Donde nacque  che  si  innamorò  di  Virginia,  e che  volendola  torre  per  forza,  il  padre VIRGINIO, PER LIBERARLA, L’AMMAZZO:  donde seguirono  i tumulti  di  Roma  e degli eserciti  ; i quali  ridottisi  insieme  con  il rimanente  della  Plebe  romana,  se  ne  andarono nel  Monte  Sacro,  dove  stettero tanto  clic  i Dieci  deposono  il  magistrato, e che  furono  creali  i Tribuni  ed  i Consolide ridotta  Roma  nella  forma  della antica  sua  libertà.  Notasi,  adunque,  per questo  testo,  in  prima  esser  nato  in  Roma  questo  inconveniente  di  creare  questa tirannide,  per  quelle  medesime  cagioni che  nascono  la  maggiore  parte delie  tirannidi  nelle  città:  e questo  è da  troppo  desiderio  del  popolo  d* esser libero,  e da  troppo  desiderio  de’  nobili di  comandare.  E quando  c’  non  convengono a fare  una  legge  in  favore  della libertà,  ma  gettasi  qualcuna  delle  parti a favorire  uno,  allora  è che  subito  la tirannide  surge.  Convennono  il  Popolo ed  i Nobili  di  Poma  a creare  i Dieci,  e crearli  con  tanta  autorità,  per  desiderio che  ciascuna  delle  parti  aveva,  1’  una  di spegnere  il  nome  consolare,  l’altra  il tribunizio.  Creati  che  furono,  parendo alla  Plebe  che  Appio  fusse  diventato popolare  c battesse  la  Nobiltà,  si  volse il  Popolo  a favorirlo.  E quando  un  popolo si  conduce  a far  questo  errore  di dare  riputazione  ad  uno  perchè  balta quelli  che  egli  ha  in  odio,  e che  quello uno  sia  savio,  sempre  interverrà  che  diventerà tiranno  di  quella  città.  Perchè egli  attenderà,  insieme  con  il  favore  del popolo,  a spegnere  la  nobiltà  ; e non  si volterà  inai  alla  oppressione  del  popolo, se  non  quando  ei  V arà  spenta;  nel  qual tempo  conosciutosi  il  popolo  essere  servo, non  abbi  dove  rifuggire.  Questo  modo hanno  tenuto  tutti  coloro  che  hanno  fondato tirannidi  in  le  repubbliche:  c se questo  modo  avesse  tenuto  APPIO,  quella sua  tironnide  arebbe  preso  più  vita,  e non  sarebbe  mancata  si  presto.  Ma  ei fece  tutto  il  contrario,    si  potette  governare più  imprudentemente;  cliè  per tenere  la  tirannide,  c’si  fece  inimico  di coloro  che  glie  T avevano  data  c che gliene  potevano  mantenere,  ed  amico  di quelli  che  non  erano  concorsi  a dargliene e che  non  gliene  arebbono  potuta mantenere;  e perdèssi  coloro  che  gli erano  amici,  e cercò  di  avere  amici  quelli che  non  gli  potevano  essere  amici.  Perchè, ancora  che  i nobili  desiderino  tiranneggiare, quella  parte  della  nobiltà che  si  truova  fuori  della  tirannide,  è sempre  inimica  al  tiranno;    quello  se la  può  mai  guadagnare  tutta,  per  l’ambizione grande  e grande  avarizia  che  .è in  lei,  non  polendo  il  tiranno  avere  nè tante  ricchezze    tanti  onori,  che  a tutta satisfaccia.  E così  Appio,  lasciando  il Popolo  ed  accostandosi  a’ Nobili,  fece  uno errore  evidentissimo,  e per  le  ragioni dette  di  sopra,  e perchè  a volere  con violenza  tenere  una  cosa,  bisogna  che sia  più  potente  chi  sforza,  che  chi  è sforzato.  Donde  nasce  che  quelli  tiranni che  hanno  amico  lo  universale  ed  mimici i grandi,  sono  più  sicuri;  per  essere la  loro  violenza  sostenuta  da  maggior forze,  che  quella  di  coloro  che  hanno per  inimico  il  popolo  ed  amica  la  nobiltà. Perchè  con  quello  favore  bastano a conservarsi  le  forze  intrinseche;  come bastorno  a Nabide  tiranno  di  Sparta, quando  tutta  Grecia  ed  il  popolo  romano lo  assaltò  : il  quale  assicuratosi  di  pochi nobili,  avendo  amico  il  popolo,  con  quello si  difese;  il  che  non  arebbe  potuto  fare avendolo  inimico.  In  quello  nitro  grado per  aver  pochi  amici  dentro,  non  bastano le  forze  intrinseche,  ma  gli  conviene  cercare di  fuora.  Ed  hanno  ad  essere  di tre  sorti:  1’ una  satelliti  forestieri,  die li  guardino  la  persona;  l’altra  armare il  contado,  che  faccia  quell’  oflìzio  che arebbe  a fare  la  plebe;  la  terza  aderirsi co’  vicini  potenti,  che  li  difendino*  Chi tiene  questi  modi  e gli  osserva  bene, ancora  ch’egli  avesse  per  inimico  il  popolo, potrebbe  in  qualche  modo  salvarsi. Ma  APPIO non  poteva  far  questo  di  guadagnarsi il  contado,  scudo  una  medesima cosa  il  contado  e Roma;  c quel  che  poteva fare,  non  seppe:  talmente  che  rovinò nc’  primi  principii  suoi.  Fecero  il Senato  ed  il  Popolo  in  questa  creazione del  decemvirato  errori  grandissimi  : perchè ancora  che  di  sopra  si  dica,  in  quel discorso  che  si  fa  del  Dittatore,  che quelli  magistrati  che  si  fanno  da  per loro,  non  quelli  che  fa  il  popolo,  sono nocivi  alla  libertà;  nondimeno  il  popolo debbe,  quando  egli  ordina  i magistrali, fargli  in  modo  che  gli  abbino  avere  qualche rispetto  a diventare  tristi.  E dove e’ si  debbe  proporre  loro  guardia  per mantenergli  buoni,  i Romani  lalevorono, facendolo  solo  magistrato  in  Roma,  ed annullando  tutti  gli  altri,  per  la  eccessiva voglia  (come  di  sopra  dicemmo)  che il  Senato  aveva  di  spegnere  i Tribuni, e la  Plebe  di  spegnere  i Consoli;  la  quale gli  accecò  in  modo,  che  concorsono  in tale  disordine.  Perchè  gli  uomini,  come diceva  il  re  Ferrando,  spesso  fanno  come certi  minori  uccelli  di  rapina  ; ne’ quali  è tanto  desiderio  di  conseguire la  loro  preda,  a che  la  natura  gli  incita, che  non  sentono  un  altro  maggior  uccello che  sia  loro  sopra,  per  ammazzargli. Conoscesi,  adunque,  per  questo  discorso, come  nel  principio  proposi,  lo errore  del  Popolo  romano,  volendo  salvare la  libertà  ; e gli  errori  di  APPIO, volendo  occupare  la  tirannide.  Sahare  dalla  Umilila  alla superbia j dalla  pietà  alta  crudeltà senza  debiti  mezzij  è cosa  imprudente ed  inutile. Oltre  agli  altri  termini  male  usati  da APPIO  per  mantenere  la  tirannide,  non fu  di  poco  momento  saltare  troppo  presto da  una  qualità  ad  un’altra.  Perchè la  astuzia  sua  nello  ingannare  la  Plebe, simulando  d’essere  uomo  popolare,  fu bene  usata;  furono  ancora  bene  usati  i termini  che  tenue  perchè  i Dieci  si avessino  a rifare;  fu  ancora  bene  usata quella  audacia  di  creare    stesso  contra  alla  oppinione  della  Nobiltà;  fu bene  usato  creare  colleghi  a suo  proposito: ma  non  fu  già  bene  usato,  come egli  ebbe  fatto  questo,  secondo  che  di sopra  dico,  mutare  in  un  subito  natura; e di  amico,  mostrarsi  nimico  alla Plebe;  di  umano,  superbo;  di  facile, difficile;  e farlo  tanto  presto,  che  senza scusa  veruna  ogni  uomo  avesse  a conoscer  la  fallacia  dello  animo  suo.  Perchè chi  è paruto  buono  un  tempo,  e vuole a suo  proposito  diventar  tristo,  io  debbe  fare  per  gli  debiti  mezzi  ; ed  in  modo condurvisi  con  le  occasioni,  che  innanzi che  la  diversa  natura  ti  tolga  de’ favori vecchi,  la  te  ne  ubbia  dati  tanti  degli nuovi,  che  tu  non  venga  a diminuire  la tua  autorità:  altrimenti,  trovandoti  scoperto e senza  amici,  rovini. Quanto  gli  uomini facilmente  si  possono  corrompere. Notasi  ancora  in  questa  materia  del decemvirato,  quanto  facilmente  gli  uomini si  corrompono,  e fatinosi  diventare di  contraria  natura,  ancora  che  buoni e bene  educati;  considerando  quanto quella  gioventù  che  Appio  si  aveva eletta  intorno,  cominciò  ad  essere  amica della  tirannide  per  uno  poco  d’utilità che  gliene  conseguiva  ; e come Quinto  Fabio,  uno  del  numero  de’ secondi Dieci,  sendo  uomo  oliimo,  accecalo da  un  poco  di  ambizione,  e persuas dulia  malignità  di  APPIO,  mutò  i suoi  buoni  costumi  in  pessimi,  e diventò simile  a lui.  Il  che  esaminato  bene, farà  tanto  più  pronti  i legislatori  delle repubbliche  o de’ regni  a frenare  gli appetiti  umani,  c torre  loro  ogni  speranza di  potere  impune  errare. Quelli  che  combattono  per la  gloria  propria,  sono  buoni  e fedeli soldati. Considerasi  ancora  per  il  soprascritto trattato,  quanta  differenza  è da  uno esercito  contento  e che  combatte  per  la gloria  sua,  a quello  che  è male  disposto e che  combatte  per  la  ambizione  d’  altri. Perchè,  dove  gli  eserciti  romani  solevano sempre  essere  vittoriosi  sotto  i Consoli, sotto  i Decemviri  sempre  perderono.  Da questo  essempio  si  può  conoscere  parte delle  cagioni  della  inutilità  de’ soldati mercenurii;  i quali  non  hanno  altra  cagione clic  li  tenga  fermi,  che  un  poco di  stipendio  che  tu  dai  loro.  La  qual cagione  non  è nè  può  essere  bastante  a fargli  fedeli,    tanto  tuoi  amici,  che voglino  morire  per  le.  Perchè  in  quelli eserciti  che  non  è una  affezione  verso di  quello  per  chi  e’  combattono,  che  gli facci  diventare  suoi  partigiani,  non  mai vi  potrà  essere  tanta  virtù  che  basti  a resistere  ad  uno  nimico  un  poco  virtuoso. G perchè  questo  amore  non  può nascere,    questa  gara,  da  altro  che da’ sudditi  tuoi;  è necessario  a volere tenere  uno  stato,  a volere  mantenere una  repubblica  o uno  regno,  armarsi de’  sudditi  suoi  : come  si  vede  che  hanno fatto  tutti  quelli  che  con  gli  eserciti hanno  fatti  grandi  progressi.  Avevano gli  eserciti  romani  sotto  i Dieci  quella medesima  virtù;  ma  perchè  in  loro  non era  quella  medesima  disposizione,  non facevano  gli  usilati  loro  effetti.  Ma  com prima  il  magistrato  de’  Dieci  fu  spento, e che  loro  come  liberi  cominciorno  amilitare,  ritornò  in  loro  il  medesimo animo;  e per  conscguente,  le  loro  imprese avevano  il  loro  fine  felice,  secondo la  antica  consuetudine  loro. Una  moltitudine  senza capo,  è inutile:  e non  si  debbo  minacciare prima,  c poi  chiedere  l'autorità. Era  la  Plebe  romana  per  lo  accidente di  Virginia  ridotta  armata  nel  Monte Sacro.  Mandò  il  Senato  suoi  ambasciadori  a dimandare  con  quale  autorità egli  avevano  abbandonati  i loro  capitani, e ridottisi  nel  Monte.  E tanta  era stimata  l’autorità  del  Senato,  che  non avendo  la  Plebe  intra  loro  capi,  ninno si  ardiva  a rispondere.  E L. dice,  ohe  e’  non  mancava  loro  materia a rispondere,  ma  mancava  loro  chi  facesse la  risposta.  La  qual  cosa  dimonstra  appunto  la  inutilità  d’  una  moltitudine  senza  capo.  Il  qual  disordinefu conosciuto  da  Virginio,  e per  suo  ordine si  creò  venti  Tribuni  militari,  che fussero  loro  capo  a rispondere  e convenire col  Senato.  Ed  avendo  chiesto  che si  mandasse  loro  Valerio  ed  Orazio,  ai quali  loro  direbbono  la  voglia  loro,  non vi  volsono  andare  se  prima  i Dieci  non deponevano  il  magistrato:  ed  arrivati sopra  il  Monte  dove  era  la  Plebe,  fu domandato  loro  da  quella,  che  volevano che  si  creassero  i Tribuni  della  plebe, e che  si  avesse  ad  appellare  al  Popolo da  ogni  magistrato,  e che  si  dessino loro  tutti  i Dieci,  chè  gli  volevano  ardere vivi.  Laudarono  Valerio  cd  Orazio le  prime  loro  domande;  biasimorono P ultima  come  impia,  dicendo  : Crude - litatcm  dannatisj  in  crudclitaiem  ruitis ; e consigliamogli  che  dovessino  lasciare il  fare  menzione  de’ Dieci,  e ch’egli  attendessino  a pigliare  V autorità  e potestà loro:  dipoi  non  mancherebbe  loro modo  a satisfarsi.  Dove  apertamente  si conosce  quanta  stultizia  c poca  prudenza è domandare  una  cosa,  e dire prima:  io  voglio  far  male  con  essa; perchè  non  si  debbo  mostrare  l’animo suo,  ma  vuoisi  cercare  d’ottenere  quel suo  desiderio  in  ogni  modo.  Perchè e’  basta  a dimandare  a uno  le  armi, senza  dire:  io  ti  voglio  ammazzare  con esse;  potendo  poi  che  tu  bai  l’arme  in mano,  satisfare  allo  appetito  tuo. E cosa  di  malo  esempio | non  osservare  una  legge  falla , c massime  dallo  autore  d'essa:  e rinfre- scare  ogni  di  nuove  ingiurie  in  una t città,  è a chi  la  governa  dannosis-i simo. Seguito  lo  accordo,  e ridotta  Roma  in la  antica  sua  forma,  Virginio  citò  Appio innanzi  al  Popolo  a difendere  la  sua causa.  Quello  comparse  accompagnato da  molti  Nobili.  Virginio  comandò  che fussc  messo  in  prigione.  Cominciò  Appio a gridare,  ed  appellare  al  Popolo.  Virginio diceva  che  non  era  degno  di  avere quella  nppellagionc  che  egli  aveva distrutta,  ed  avere  per  difensore  quel Popolo  che  egli  aveva  offeso.  Appio  replicava, come  e’  non  aveano  a violare quella  appellagionc  ch'egli  avevano  con tanto  desiderio  ordinata.  Pertanto  egli fu  INCARCERATO ED AVANTI AL DI DEL GIUDIZIO AMMAZZO SE STESSO. E benché  la scellerata  vita  di  Appio  meritasse  ogni supplicio,  nondimeno  fu  cosa  poco  civile violare  le  leggi,  e tanto  più  quella  che era  fatta  allora.  Perchè  io  non  credo che  sia  cosa  di  più  cattivo  esempio  in una  repubblica,  che  fare  una  legge  e non  la  osservare;  e tanto  più,  quanto la  non  è osservata  da  chi  l’ ha  falla. Essendo  Firenze stala riordinala  nel  suo  stato  con  l'aiuto  di frate  Girolamo  Savonarola,  gli  scritti del  quale  mostrano  la  dottrina,  la  prudenza, la  virtù  dello  animo  suo  ; ed avendo  intra  P altre  conslituzioni  per assicurare  i cittadini,  fatto  fare  una legge,  che  si  potesse  appellare  al  popolo dalle  sentenze  che,  per  caso  di  Stato, gli  Otto  c la  Signoria  dessino;  la  qual legge  persuase  più  tempo,  e con  difficoltà grandissima  ottenne:  occorse  che, poco  dopo  la  confirmazicne  d’essa,  furono condcunati  a morte  dalla  Signoria per  conto  di  Stato  cinque  cittadini;  e volendo  quelli  appellare,  non  furono lasciati,  e non  fu  osservata  la  legge.  Il che  tolse  più  riputazione  a quel  frate, che  nessun  altro  accidente:  perchè,  se quella  appellagione  era  utile,  ei  doveva farla  osservare;  s’ ella  non  era  utile, non  doveva  farla  vincere.  E tanto  più fu  notato  questo  accidente,  quanto  che il  frate  in  tante  predicazioni  che  fece poi  clic  fu  rotta  questa  legge,  non  mai o dannò  chi  P aveva  rotta,  o lo  scusò  ; come  quello  che  dannare  non  voleva, come  cosa  che  gli  tornava  a proposito  ; e scusare  non  la  poteva.  Il  che  avendo scoperto  l’animo  suo  ambizioso  e paitigiano,  gii  tolse  riputazione,  e dettegli assai  carico.  Offende  ancora  uno  Stato assai,  rinfrescare  ogni    nello  animo de’  tuoi  cittadini  nuovi  umori,  per  nuove ingiurie  ebe  a questo  e quello  si fucciano  : come  intervenne  a Roma  dopo il  decemvirato.  Perché  tutti  i Dieci,  ed altri  cittadini,  in  diversi  tempi  furono accusati  e condannati:  in  modo  che  gli era  uno  spavento  grandissimo  in  tutta la  Nobiltà,  giudicando  che  e’ non  si  avesse mai  a porre  fine  a simili  condennagioni,  fino  a tanto  che  tutta  la  Nobiltà non  fusse  distrutta.  Ed  arebbe  generato in  quella  città  grande  inconveniente,  se da  Marco  Duellio  tribuno  non  vi  fusse stato  provveduto;  il  qual  fece  uno  edit-to, che  per  uno  anno  non  fusse  lecito ad  alcuno  citare  o accusare  alcuno  cittadino contano  : il  che  rassicurò  tutta la  Nobiltà.  Dove  si  vede  quanto  sia  dannoso ad  una  repubblica  o ad  un  principe, tenere  con  le  continove  pene  ed offese  sospesi  e paurosi  gli  animi  dei sudditi.  E senza  dubbio,  non  si  può  tenere il  più  pernicioso  ordine:  perchè  gli uomini  che  cominciano  a dubitare  di avere  a capitar  male,  in  ogni  modo  si assicurano  ne’ pericoli,  e diventano  più audaci,  e meno  rispettivi  a tentare  cose nuove.  Però  è necessario,  o non  offendere mai  alcuno,  o fare  le  offese  ad  un tratto;  e dipoi  rassicurare  gli  uomini, e dare  loro  cagione  di  quietare  e fermare l’animo. Gli  uomini  salgono  da una  ambizione  ad  unJ  altra  ; c prima si  cerca  non  essere  offeso t dipoi  di offendere  altrui. Avendo  il  Popolo  romano  ricuperala la  libertà,  ritornato  nel  suo  primo  grado, ed  in  tanto  maggiore,  quanto  si erano  fatte  dimolte  leggi  nuove  In  corroborazione della  sua  potenza  ; pareva ragionevole  che  Roma  qualche  volta  quictasse.  Nondimeno,  per  esperienza  si  vide il  contrario;  perchè  ogni  di  vi  surgeva nuovi  tumulti  e nuove  discordie.  E perchè Tito  Livio  prudentissimamente  rende la  ragione  donde  questo  nasceva,  non mi  pare  se  non  a proposito  riferire  appunto le  sue  parole,  dove  dice  che  sempre o il  Popolo  o la  Nobiltà  insuperbiva, quanto  V altro  si  umiliava  ; e stando la  Plebe  quieta  intra  i termini  suoi,  cominciarono i giovani  nobili  ad  ingiuriarla ; ed  i Tribuni  vi  potevano  farepochi  rimedi,  perchè  ancora  loro  erano violati.  La  Nobiltà,  dalP  altra  parte,  ancora che  gli  paresse  che  la  sua  gioventù fusse  troppo  feroce,  nondimeno  aveva  a caro  che  avendosi  a trapassare  il  modo, lo  trapassassino  i suoi,  e non  la  Plebe. E cosi  il  desiderio  di  difendere  la  libertà faceva  che  ciascuno  tanto  si  prevaleva, eh’  egli  oppressava  l’ altro.  E V ordine di  questi  accidenti  è,  che  mentre clic  gli  uomini  cercano  di  non  temere, cominciano  a far  temere  altrui;  e quell ingiuria  ch’egli  scacciano  da  loro,  la pongono  sopra  un  altro:  come  se  fussc necessario  offendere,  o essere  offeso.  Vedesi,  per  questo,  in  quale  modo,  fra  gli altri,  le  repubbliche  si  risolvono;  e in che  modo  gli  uomini  salgono  da  una ambizione  ad  un’  altra  ; e come  quella sentenza  salustiaua  posta  in  bocca  di Cesare,  è verissima  : quod  omnia  mala exempla  bonis  mitiis  orla  sunt.  Cercano, come  di  sopra  è detto,  quelli  cittadini clie  ambiziosamente  vivono  in  una repubblica,  la  prima  cosa  di  non  potere essere  offesi,  non  solamente  dai  privati, ma  eziam  da’  magistrali  : cercano,  per potere  fare  questo,  amicizie  ; e quelle acquistano  per  vie  in  apparenza  oneste, o con  sovvenire  di  danari,  o con  difendergli da’  potenti  : e perchè  questo  pare virtuoso,  s’ inganna  facilmente  ciascuno, c per  questo  non  vi  si  pone  rimedio  ; intanto  che  egli  senza  ostacolo  perseverando, diventa  di  qualità,  che  i privati cittadini  ne  hanno  paura,  ed  i magistrati gli  hanno  rispetto.  E quando  egli  è saJito  a questo  grado,  c non  si  sia  prima ovvialo  alla  sua  grandezza,  viene  od  essere in  termine,  che  volerlo  urtare  è pericolosissimo,  per  le  ragioni  che  io dissi  di  sopra  del  pericolo  che  è nello urtare  uno  inconveniente  che  abbi  di  già fatto  augumento  in  una  città:  tanto  che la  cosa  si  riduce  in  termine,  che  bisogna  o cercare  di  spegnerlo  con  pericolo  di  una subita  rovina  j o lasciandolo  fare,  entrare in  una  servitù  manifesta,  se  morte  o qualche accidente  non  te  ne  libera.  Perchè, venuto  a’soprascrilti  termini,  che  i cittadini ed  i magistrati  abbino  paura  ad  offender lui  e gli  amici  suoi,  non  dura  dipoi molta  fatica  a fare  che  giudichino  ed  offendino  a suo  modo.  Donde  una  repubblica intra  gli  ordini  suoi  debbe  avere  questo, di  vegghiarc  che  i suoi  cittadini  sotto ombra  di  bene  non  possino  far  male  ; e di’  egli  abbino  quella  riputazione  che giovi,  e non  nuoca,  alla  libertà:  come nel  suo  luogo  da  noi  sarà  disputato.  Gli  nomini j ancora  clic si  ingannino  ncJ  generali j nei  particolari non  si  ingannano. Essendosi  il  Popolo  romano,  come  di sopra  si  dice,  recato  a noia  il  nome consolare,  e volendo  che  potessiao  esser fatti  Consoli  uomini  plebei,  o che  fusse limitata  la  loro  autorità  ; la  Nobiltà,  per non  deonestare  l’ autorità  consolare  nè con  Tuna    con  1’  altra  cosa,  prese  una via  di  mezzo,  e fu  contenta  che  si  creassino  quattro  Tribuni  con  potestà  consolare,  i quali  potcssino  essere  cosi  plebei come  nobili.  Fu  contenta  a questo  la Plebe,  parendogli  spegnere  il  consolato, ed  avere  in  questo  sommo  grado  la  parte sua.  Nacquene  di  questo  un  caso  notabile  : che  venendosi  alla  creazione  di questi  Tribuni,  e potendosi  creare  tutti plebei,  furono  dal  Popolo  romano  creati tutti  fiobiii.  Onde  L.  dice  queste parole:  Quorum  comitiorum  eoenlus  docuit,  alias  animo s in  contcntione  l ib erta ti  s et  honoris,  alios  secundum  deposita certamina  in  incorrupto  judicio esse.  Ed  esaminando  donde  possa  procedere questo,  credo  proceda  che  gii  uomini nelle  cose  generali  s’ ingannano assai,  nelle  particolari  non  tanto.  Pareva generalmente  alla  Plebe  romana  di  meritare il  consolato,  per  avere  più  parte in  la  città,  per  portare  più  pericolo  nelle guerre,  per  esser  quella  che  con  le  braccia sue  manteneva  Roma  libera,  e la  faceva potente.  E parendogli,  come  è detto, questo  suo  desiderio  ragionevole,  volse ottenere  questa  autorità  in  ogni  modo. Ma  come  la  ebbe  a fare  giudizio  degli uomini  suoi  particolarmente,  conobbe  la debolezza  di  quelli,  e giudicò  che  nessuno di  loro  meritasse  quello  che  tutta  insieme gli  pareva  meritare.  Talché  vergognatasi di  loro,  ricorse  a quelli  che  Io meritavano.  Della  quale  deliberazione meravigliandosi  meritamente  L., dice  queste  parole  : /lane  modestiam , aquila IcmquCj  et  allitudinem  animi,  ubi moie  in  uno  inveneris , qua:  lune  populi universi  fuit  ? In  corroborazione  di  questo, se  ne  può  addurre  un  altro  notabile essempio,  seguito  in  Capova  da  poi  che Annibaie  ebbe  rotti  i Romania  Canne; per  la  qual  rotta  sendo  tutta  sollevata Italia,  Capova  stava  ancora  per  tumultuare, per  P odio  eli’  era  intra  il  Popolo ed  il  Senato;  e trovandosi  in  quel  tempo nel  supremo  magistrato  Pacuvio  Calano, e conoscendo  il  pericolo  che  portava quella  città  di  tumultuare,  disegnò  con suo  grado  riconciliare  la  Plebe  con  la Nobiltà  ; e fatto  questo  pensiero,  fece ragunare  il  Senato,  c narrò  loro  Podio che  M popolo  aveva  contra  di  loro,  ed  i pericoli  che  portavano  di  essere  ammazzati da  quello,  e data  la  città  ad  Annibaie, sendo  le  cose  de’  Romani  afflitte  : dipoi  soggiunse,  che  se  volevano  lasciaregovernare  questa  cosa  a lui,  farebbe  in modo  che  si  unirebbono  insieme  ; ma  gli voleva  serrare  dentro  al  palazzo,  e co fare  potestà  al  popolo  di  potergli  gastigare,  salvargli.  Cederono  a questa  sua oppinione  i Senatori,  e quello  chiamò  il Popolo  a coocione,  avendo  rinchiuso  in palazzo  il  Senato  ; e disse  com’  egli  era venuto  il  tempo  di  potere  domare  la  superbia  della  Nobiltà,  e vendicarsi  delle ingiurie  ricevute  da  quella,  avendogli rinchiusi  tutti  sotto  la  sua  custodia  : ma perchè  credeva  che  loro  non  volessino che  la  loro  città  rimanesse  senza  governo, era  necessario,  volendo  ammazzare i Senatori  vecchi,  crearne  de*  nuovi. E per  tanto  aveva  messo  tutti  gli  nomi degli  Senatori  in  una  borsa,  e comincierebbe a trargli  in  loro  presenza  j ed egli  farebbe  i tratti  di  mano  in  mano morire,  come  prima  loro  avessino  trovato il  successore.  E cominciato  a trarne uno,  fu  al  nome  di  quello  levato  un  rumore grandissimo,  chiamandolo  uomo superbo,  crudele  ed  arrogante  : e chiedendo Paeuvio  che  facessino  lo  scambio, si  racchetò  tutta  la  conclone  ; c dopo alquanto  spazio,  fu  nominato  uno  della plebe  ; al  nome  del  quale  chi  cominciò a fischiare,  chi  a ridere,  chi  a dirne male  in  uno  modo,  e chi  in  un  altro: o così  seguitando  di  mano  in  mano,  tutti quelli  che  furono  nominati,  gli  giudicavano indegni  del  grado  senatorio.  In modo  che  Pacuvio,  presa  sopra  questo occasione,  disse:  Poiché  voi  giudicate  che qucslu  città  stia  male  senza  Senato,  ed a fare  gii  scambi  a’  Senatori  vecchi  non vi  accordate,  io  penso  che  sia  bene  che voi  vi  riconciliate  insieme  ; perchè  questa paura  in  la  quale  i Senatori  sono stati,  gli  arà  fatti  in  modo  raumiliare, che  quella  umanità  che  voi  cercavate  altrove, troverete  in  loro.  Ed  accordatisi a questo,  ne  segui  la  unione  di  questo ordine  ; e quello  inganno  in  che  egli erano  si  scoperse,  come  e’  furono  constretti venire  a’  particolari.  Ingannansi, olirà  di  questo,  i popoli  generalmente nel  giudicare  le  cose  e gli  accidenti  di esse  j le  quali  dipoi  si  conoscono  particolamento,  si  avveggono  di  tale  inganno. Sendo  stati  i principi della  città  cacciati  da  Firenze,  e non  vi essendo  alcuno  governo  ordinato,  ma piuttosto  una  certa  licenza  ambiziosa,  ed andando  le  cose  pubbliche  di  inale  in peggio  ; molti  popolari  veggiendo  la  rovina della  città,  e non  ne  intendendo  altra cagione,  ne  accusavano  la  ambizione di  qualche  potente  che  nutrisse  i disordini, per  poter  fare  uno  Stato  a suo  proposito, c torre  loro  la  libertà  : c stavano questi  tali  per  le  logge  c per  le  piazze, dicendo  male  di  molti  cittadini,  e minacciandoli che  se  mai  si  trovassero  de’ Signori, scoprirebbono  questo  loro  inganno, e gli  gastigarebbono.  Occorreva spesso  che  de’  simili  ne  ascendeva  al supremo  magistrato;  e come  egli  era salilo  in  quel  luogo,  e che  e*  vedeva  le  i cose  più  dappresso,  conosceva  i disordini donde  nascevano,  ed  i pericoli  che soprastavano,  e la  difficoltà  del  rimecitarvi.  C veduto  come  i tempi,  e no gli  uomini,  causavano  il  disordine,  diventava subito  d’ un  altro  animo,  c di un’  altra  fatta  ; perché  la  cognizione  delle cose  particolari  gli  toglieva  via  quello inganno  che  nel  considerare  generalmente si  aveva  presupposto.  Dimodoché,  quelli che  lo  avevano  prima,  quando  era  privato, sentito  parlare,  e vedutolo  poi  nel supremo  magistrato  stare  quieto,  credevano che  nascesse,  non  per  più  vera  cognizione delle  cose,  ma  perchè  fusse  stalo aggirato  e corrotto  dai  grandi.  Ed  accadendo questo  a molti  uomini  c molte volte,  ne  nacque  tra  loro  un  proverbio, che  diceva  : Costoro  hanno  uno  animo in  piazza,  cd  uno  in  palazzo.  Considerando, dunque,  tutto  quello  si  è discorso, si  vede  come  e’  si  può  fare  tosto aprire  gli  occhi  a’  popoli,  trovando  modo, veggendo  che  uno  generale  gl’  inganna, ch’egli  abbino  a descenderc  ai particolari  ; come  fece  Pacuvio  in  Capova,  ed  il  --Senato  in  Roma.  Credo  ancora, che  si  possa  conchiudere,  che  mai  un uomo  prudente  non  debbe  fuggire  il giudizio  popolare  nelle  eo9e  particolari, circa  le  distribuzioni  de' gradi  e delle dignità  : perchè  solo  in  questo  il  popolo non  si  inganna  ; e se  si  inganna  qualche volta,  Ha    raro,  che  s’ inganneranno più  volte  i pochi  uomini  che  avessino  a fare  simili  distribuzioni.    mi  pare  superfluo mostrare  nel  seguente  capitolo, P ordine  che  teneva  il  Senato  per  isgannare  il  popolo  nelle  distribuzioni  sue. Chi  vuole  che  uno  magistrato non  sia  dato  ad  un  vile  o ad un  tristo j lo  facci  domandare  o ad un  troppo  vile  e troppo  tristo , o ad uno  troppo  nobile  c troppo  buono. Quando  il  Senato  dubitava  che  i Tribuni con  potestà  consolare  non  fussino fatti  d’  uomini  plebei,  teneva  uno  de’duoi modi:  o egli  faceva  domandare  ai  più riputati  uomini  di  Roma;o  veramente, per  i debiti  mezzi,  corrompeva  qualche plebcio  sordido  ed  ignobilissimo,  che  mescolati con  i plebei  che,  di  miglior  qualità, per  T ordinario  lo  domandavano, anche  loro  lo  domandassino.  Questo  ultimo modo  faceva  che  la  Plebe  si  vergognava a darlo  ; quel  primo  faceva  che la  si  vergognava  a torlo,  li  che  tutto  torna a proposito  del  precedente  discorso, dove  si  mostra  che  il  popolo  se  s’ inganna de’  generali,  de’particolari  non  s’inganna. Se  quelle  città  che  hanno avuto  il  principio  libcrOj  come  Romaj hanno  diffìcultà  a trovare  leggi  che le  mantenghino ; quelle  che  lo  hanno immediate  servo , ne  hanno  quasi  una impossibilità. Quanto  sia  difficile,  nello  ordinare  una  repubblica,  provvedere  a tutte  quelle leggi  che  la  mantenghino  libera,  lo  dimostra assai  bene  il  processo  della  Repubblica romana:  dove  non  ostante  che fussino  ordinate  di  molte  leggi  da  ROMOLO  prima,  dipoi  da  Nuraa,  da  Tulio Ostilio  e Servio,  ed  ultimamente  dai dieci  cittadini  creali  a simile  opera  ; nondimeno sempre  nel  maneggiare  quella città  si  scoprivano  nuove  necessità,  ed era  necessario  creare  nuovi  ordini:  come intervenne  quando  crearono  i Censori, i quali  furono  uno  di  quelli  provvedimenti che  aiutarono  tenere  Roma libera,  quel  tempo  che  la  visse  in  libertà. Perchè,  diventati  arbitri  de’ costumi  di Roma,  furono  cagione  potissima  che  i Romani  diflerissino  più  a corrompersi. Feciono  bene  nel  principio  della  creazione di  tal  magistrato  uno  errore,  creando quello  per  cinque  anni;  ma,  dipoi non  molto  tempo,  fu  corretto  dalla  prudenza di  Mamereo  dittatore,  il  qual  per nuova  legge  ridusse  detto  magistrato  a diciolto  mesi.  Il  che  i Censori  che  vegghiavano,  ebbono  tanto  per  male,  che privorno  Mamcrco  del  senato:  la  qual cosa  e dalla  Plebe  c dai  Padri  fu  assai biasimata.   perchè  la  istoria  non  ino*stra  che  Mamerco  se  ne  potesse  difen-dere, conviene  o che  lo  istorico  sia  difettivo, o gli  ordini  di  Roma  in  questa parte  non  buoni  : perchè  non  è bene  che una  repubblica  sia  in  modo  ordinata, ebe  un  cittadino  per  promulgare  una legge  conforme  al  vivere  libero,  ne  possa essere  senza  alcuno  rimedio  offeso.  Ma tornando  al  principio  di  questo  discorso, dico  che  si  dehbe,  per  la  creazione  di questo  nuovo  magistrato,  considerare, che  se  quelle  città  che  hanno  avuto  il principio  loro  libero,  e che  per  se  medesimo si  è retto,  come  Roma,  hanno difHcultà  grande  a trovar  leggi  buone per  mantenerle  libere  ; non  è meraviglia che  quelle  città  che  hanno  avuto  il principio  loro  immediate  servo,  abbino, non  che  dilfìcultà,  ma  impossibilità  ad. ordinarsi  mai  in  modo  che  le  possino vivere  civilmente  e quietamente.  Come si  vede  che  è intervenuto  alla  città  di Firenze;  la  quale,  per  avere  avuto  il principio  suo  sottoposto  allo  imperio  romano,  ed  essendo  vivuta  sempre  sotto governo  d* altri,  stette  un  tempo  soggetta, e senza  pensare  a sè  medesima: dipoi,  venuta  la  occasione  di  respirare, cominciò  a fare  suoi  ordini;  i quali  sendo mescolati  con  gli  antichi,  che  erano  tristi, non  poterono  essere  buoni:  e così è ita  maneggiandosi  per  dugento  anni che  si  lia  di  vera  memoria,  senza  avere mai  avuto  stato  per  il  quale  ella  possa veramente  essere  chiamata  repubblica. E queste  diflicultà  che  sono  state  in  lei, sono  state  sempre  in  tutte  quelle  città che  hanno  avuto  i principii  simili  a lei. E benché  molte  volte,  per  suffragi  pubblici e liberi,  si  sia  dato  ampia  autorità a pochi  cittadini  di  potere  riformarla; non  pertanto  mai  l’ hanno  ordinata  a comune  utilità,  ma  sempre  a proposito della  parte  loro  : il  che  ha  fatto  non ordine,  ma  maggiore  disordine  in  quella città.  E per  venire  a qualche  essempio particolare,  dico  come  intra  le  altre  cose che  si  hanno  a considerare  da  uno  ordinatore  d’  una  repubblica,  è esaminare nelle  mani  di  quali  uomini  ci  ponga 1’  autorità  del  sangue  coutra  de’  suoi cittadini.  Questo  era  bene  ordinato  in Roma,  perchè  e’  si  poteva  appellare  al Popolo  ordinariamente  : e se  pure  fussc occorsa  cosa  importante,  dove  il  differire la  esecuzione  mediante  la  appellagione fusse  pericoloso,  avevano  il  refugio  del Dittatore,  il  quale  eseguiva  immediate; al  qual  rimedio  non  rifuggivano  mai,  se non  per  necessità.  Ma  Firenze,  c Y altre città  nate  nel  modo  di  lei,  sendo  serve, avevano  questa  autorità  collocata  in  un forestiero,  il  quale  mandato  dal  principe faceva  tale  uffizio.  Quando  dipoi  vennono  in  libertà,  mantennero  questa  autorità in  un  forestiero,  il  quale  chiamavano Capitano:  il  che,  per  potere  essere facilmente  corrotto  da’  cittadini  potenti, era  cosa  perniciosissima.  Ma  dipoi,  murandosi per  la  mutazione  degli  Stati  questo ordine,  creorno  otto  cittadini  che  facessino  V uffizio  di  quel  Capitano.  Il  quale ordine,  di  cattivo,  diventò  pessimo,  per le  cagioni  che  altre  volte  sono  dette: che  i pochi  furono  sempre  ministri  dc’po-ehi,  e de*  più  potenti.  Da  che  si  è guardata la  città  di  Vinegia;  la  quale  ha dieci  cittadini,  che  senza  appello  possono punire  ogni  cittadino.  E perchè  e*  non basterebbono  a punire  i potenti,  ancora die  ne  nvessino  autorità,  vi  hanno  constituito  le  Quarnntie:  c di  più,  hanno voluto  che  il  Consiglio  de’ Pregai,  elicè il  Consiglio  maggiore,  possa  gastigargli; In  modo  che  non  vi  mancando  lo  accusatore, non  vi  manca  il  giudice  a tener gli  uomini  potenti  a freno.  Non  è dunque meraviglia,  reggendo  come  in  Roma, ordinata  da    medesima  e da  tanti uomini  prudenti,  surgevano  ogni  di nuove  cagioni  per  le  quali  si  aveva  a fare  nuovi  ordini  in  favore  del  viver  libero j se  nelle  altre  città  che  hanno più  disordinalo  principio,  vi  surgono tuli  difficoltà,  che  le  non  si  possino  riordinar mai. L.  — iVon  dcbbc  uno  consiglio  o uno  magistrato  potere  fermare  le  azioni della  città. tirano  consoli  in  Roma  Tito  Quinzio Cincinnato  c Gneo  Giulio  Mento,  i quali sendo  disuniti,  avevano  ferme  tutte  le azioni  di  quella  Repubblica.  11  che  veggcndo  il  Senato,  gli  confortava  a creare il  Dittatore,  per  fare  quello  che  per  le discordie  loro  non  poteva  fare.  Ma  i Consoli discordando  in  ogni  altra  cosa,  solo in  questo  erano  d’accordo,  di  non  voler creare  il  Dittatore.  Tanto  che  il  Senato, non  avendo  altro  rimedio,  ricorse  allo aiuto  de’ Tribuni;  i quali,  con  l’autorità del  Senato,  sforzarono  i Consoli  ad  ubbidire. Dove  si  ba  a notare,  in  prima, la  utilità  del  tribunato;  il  quale  non  era solo  utile  a frenare  l’ ambizione  che  i potenti  usavano  contra  alla  Plebe,  ma quella  ancora  ch’egli  usavano  infra  loro: 1’  altra,  che  mai  si  debba  ordinare  in una  città,  che  i pochi  possino  tenere  alcuna deliberazione  di  quelle  che  ordinariamente sono  necessarie  a mantenere la  repubblica.  Yerbigrazia,  se  tu  dai  una autorità  nd  uno  consiglio  di  fare  una distribuzione  di  onori  c di  utile,  o ad uno  magistrato  di  amministrare  una  faccenda; conviene  o imporgli  una  necessità perchè  ei  l’ abbia  a fare  in  ogni modo;  o ordinare,  quando  non  la  voglia fare  egli,  che  la  possa  e debba  fare  un altro:  altrimenti,  questo  ordine  sarebbe difettivo  e pericoloso;  come  si  vedeva che  era  in  Roma,  se  alla  ostinazione  di quelli  Consoli  non  si  poteva  opporre P autorità  de’ Tribuni.  Nella  Repubblica veneziana  il  Consiglio  grande  distribuisce gli  onori  e gli  utili.  Occorreva  alle volte  che  P universalità,  per  isdegno  o per  qualche  falsa  suggestione,  non  creava i successori  ai  magistrati  della  città, ed  a quelli  che  fuori  amministravano  lo imperio  loro.  Il  che  era  disordine  grandissimo: perchè  in  un  tratto,  e le  terre suddite  e la  città  propria  mancavano de’ suoi  legittimi  giudici;    si  poteva ottenere  cosa  alcuna,  se  quella  universalità  di  quel  Consiglio  non  si  satisfaceva, o non  s’ingannava.  Ed  avrebbe ridotta  questo  inconveniente  quella  città a mal  termine,  se  dagli  cittadini  prudenti non  vi  si  fusse  provveduto:  i quali, presa  occasione  conveniente,  fecero  una legge,  che  tutti  i magistrati  che  sono  o fussino  dentro  e fuori  della  città,  mai vacassero,  se  non  quando  fussino  fatti gli  scambi  e i successori  loro.  E cosi  si tolse  la  comodità  a quel  Consiglio  di  potere, con  pericolo  della  repubblica,  fermare le  azioni  pubbliche. LI.  Una  repubblica  o uno  principe debbe  mostrare  di  fare  per  liberalità quello  a che  la  necessità  lo  consiringe. Gli  uomini  prudenti  si  fanno  grado sempre  delle  cose,  in  ogni  loro  azione, ancora  che  la  necessità  gli  constringesse a farle  in  ogni  modo.  Questa  prudenza fu  usata  bene  dal  Senato  romano,  quando ei  deliberò  che  si  desse  lo  stipendio del  pubblico  agli  uomini  che  militavano, essendo  consueti  militare  del  loro  proprio. Ma  veggendo  il  Senato  come  in quel  modo  non  si  poteva  fare  lungamente guerra,  e per  questo  non  potendo nè  assediare  terre,    condurre  gli  eserciti discosto;  e giudicando  essere  necessario potere  fare  1*  uno  e 1’  altro  ; deliberò che  si  dessino  detti  stipendi;  ina lo  feciono  in  modo,  che  si  fecero  grado di  quello  a che  la  necessità  gli  constringeva; e fu  tanto  accetto  alla  Plebe  questo presente,  che  Roma  andò  «sottosopra per  la  allegrezza,  parendole  uno  benefizio grande,  quale  mai  speravano  di avere,  e quale  mai  per  loro  medesimi arebbono  cerco.  E benché  i Tribuni  s*  ingegnassero di  cancellare  questo  grado, mostrando  come  ella  era  cosa  che  aggravava, non  alleggeriva,  la  Plebe,  scodo necessario  porre  i tributi  per  pagare questo  stipendio  ; nientedimeno  non  potevano fare  tanto  che  la  Plebe  non  lo avesse  accetto:  il  che  fu  ancora  augumentalo  dal  Senato  per  il  modo  che  distribuivano i tributi;  perchè  i più  gravi ed  i maggiori  furono  quelli  chVposono alla  Nobiltà,  e gli  primi  che  furono  pagati.  LII.  — A reprimere  la  insolenza  di uno  che  surga  in  una  repubblica  potente , non  vi  c più  securo  e meno  scandaloso modo , che  preoccuparli  quelle vie  per  le  quali  e*  viene  a quella  potenza. Yedesi  per  il  soprascritto  discorso, quanto  credito  acquistasse  la  Nobiltà  con la  Plebe  per  le  dimostrazioni  fatte  in benefizio  suo,    del  stipendio  ordinato, si  ancora  del  modo  del  porre  i tributi. Nel  quale  ordine  se  la  Nobiltà  si  fosse mantenuta,  si  sarebbe  levato  via  ogni tumulto  in  quella  città,  e sarebbesi  tolto ai  Tribuni  quel  credito  che  egli  avevano con  la  Plebe,  e,  per  conseguente,  quella autorità.  E veramente,  non  si  può  in una  repubblica,  e massime  in  quelle  che sono  corrotte,  con  miglior  modo,  meno scandaloso  e più  facile,  opporsi  alla  ambizione di  alcuno  cittadino,  che  preoccuparli quelle  vie,  per  le  quali  si  vede che  esso  cammina  per  arrivare  al  grado che  disegna,  li  qual  modo  se  fusse  stalo usato  contra  Cosimo  de’ Medici,  sarebbe stato  miglior  partito  assai  per  gli  suoi avversari,  che  cacciarlo  da  Firenze:  perchè, se  quelli  cittadini  che  gareggiavano seco,  avessino  preso  lo  stile  suo  di  favorire il  popolo,  gli  venivano  senza  tumulto e senza  violenza  a trarre  di  mano quelle  arme  di  che  egli  si  valeva  più. SODERINI si  aveva  fatto  riputazione nella  città  di  Firenze  con  questo  solo,  di favorire  l’universale:  il  che  nello  universale gli  dava  riputazione,  come  amatore della  libertà  della  città.  E veramente, a quelli  cittadini  che  portavano  invidia alla  grandezza  sua,  era  molto  più  facile ed  era  cosa  molto  più  onesta,  meno  pericolosa, e meno  dannosa  per  la  repubblica, preoccupargli  quelle  vie  con  le quali  si  faceva  grande,  che  volere  contrapporsegli,  acciocché  con  la  rovina  sua rovinasse  tutto  il  resto  della  repubblica: perchè,  se  gli  avessero  levate  di  mano quelle  armi  con  le  quali  si  faceva  gagliardo (il  che  potevano  fare  facilmente), arebbono  potuto  in  lutti  i consigli,  e in tutte  le  deliberazioni  pubbliche,  opporsegli  senza  sospetto,  e senza  rispetto  alcuno. E se  alcuno  replicasse,  che  se  i cittadini  che  odiavano  Piero,  feciono  errore a non  gli  preoccupare  le  vie  con le  quali  ei  si  guadagnava  riputazione nel  popolo,  Piero  ancora  venne  a fare errore,  a non  preoccupare  quelle  vie  per le  quali  quelli  suoi  avversari  lo  facevano temere;  di’ che  Piero  merita  scusa,  si perchè  gli  era  difficile  il  farlo,    perchè le  non  erano  oneste  a lui  : imperocché le  vie  con  le  quali  era  offeso, ciano  il  favorire  i Medici;  con  li  quali favori  essi  io  battevano,  e alla  fine  !o rovinorno.  Non  poteva,  pertanto,  Piero onestamente  pigliare  questa  parte,  per non  potere  distruggere  con  buona  fama quella  libertà  alla  quale  egli  era  stato preposto  a guardia  : dipoi,  non  potendo questi  favori  farsi  segreti  e ad  uno  tratto, erano  per  Piero  pericolosissimi;  perchè comunelle  ei  si  fusse  scoperto  amico de’ Medici,  sarebbe  diventato  sospetto  ed odioso  al  popolo;  donde  ai  nimici  suoi nasceva  molto  più  comodità  di  opprimerlo, che  non  avevano  prima.  Debbono, pertanto,  gli  uomini  in  ogni  partito  considerare i difetti  ed  i pericoli  di  quello, e non  gli  prendere,  quando  vi  sia  più del  pericoloso  che  dell’  utile  ; nonostante che  ne  fusse  stata  data  sentenza  conforme alla  deliberazion  loro.  Perchè,  facendo altrimenti,  in  questo  caso  interverrebbe a quelli  come  intervenne  a Tullio;  il  quale  volendo  torre  i favori  a Marc’  Antonio,  gliene  accrebbe.  Perchè, sondo  Marc’ Antonio  stato  giudicalo  inimico del  Senato,  ed  avendo  quello  grande esercito  insieme  adunato,  in  buona  parte, dei  soldati  che  avevano  seguitato  la  parte di  Cesare;  Tullio,  per  torgli  questi  soldati, confortò  il  Senato  a dare  riputazione ad  Ottaviano,  e mandarlo  con  lo esercito  e con  i Consoli  contra  a Marc' Antonio: allegando,  che  subito  che  i soldati che  seguitavano  Marc’  Antonio,  scntissino  il  nome  di  Ottaviano  nipote  di Cesare,  e che  si  faceva  chiamar  Cesare, lascerebbono  quello,  c si  aceosterebbono a costui  ; e così  restato  Marc’  Antouio ignudo  di  favori,  sarebbe  facile  lo  opprimerlo. La  qual  cosa  riuscì  tutta  al  contrario; perchè  Marc’ Antonio  si  guadagnò Ottaviano;  e lasciato  Tullio  ed  il  Senato, si  accostò  a lui.  La  qual  cosa  fu  al  tutto la  destruzione  della  parte  degli  Ottimati. 11  che  era  facile  a conietturare:    si doveva  credere  quel  che  si  persuase  Tullio, ma  tener  sempre  conto  di  quel  nome che  con  tanto  gloria  aveva  spenti  i nimici  suoi,  ed  acquistatosi  il  principato in  Roma;    si  dovea  credere  mai  potere, o da  suoi  eredi  o da  suoi  fautori,  avere cosa  che  fusse  conforme  al  nome  libero. LUI.  — Il  popolo  molte  volte  desidera la  rovina  sua j ingannato  da  una falsa  spezie  di  bene  : e come  le  grandi speranze  e gagliarde  promesse  facilmente lo  muovono. Espugnata  che  fu  la  città  de’  Veienti, entrò  nel  Popolo  romano  una  oppinione, che  fusse  cosa  utile  per  la  città  di  Roma,  che  la  metà  de’  Romani  andasse  ad abitare  a Veio  ; argomentando  che,  per essere  quella  città  ricca  di  contado, piena  di  edifizii  e propinqua  a Roma,  si poteva  arricchire  la  metà  de’  cittadini romani,  e non  turbare  per  la  propinquità del  sito  nessuna  azione  civile.  La qual  cosa  parve  al  Senato  ed  a’  più  savi Romani  tanto  inutile  e tanto  dannosa, che  liberamente  dicevano,  essere  piuttosto  per  patire  la  morte,  che  consentire ad  una  tale  deliberazione.  In  modo che,  venendo  questa  cosa  in  disputa,  si accese  tanto  la  Plebe  contra  al  Senato, che  si  sarebbe  venuto  alle  armi  cd  al sangue,  se  il  Senato  non  si  fusse  fatto scudo  di  alcuni  vecchi  e stimati  cittadini ; la  riverenza  dc’quali  frenò  la  Plebe, che  la  non  procede  più  avanti  con la  sua  insolenza.  Qui  si  hanno  a notare due  cose.  La  prima,  che  ’l  popolo  molte volte,  ingannato  da  una  falsa  immagine di  bene,  desidera  la  rovina  sua  ; e se non  gli  è fatto  capace,  come  quello  sia male,  e quale  sia  il  bene,  da  alcuno  in chi  esso  abbia  fede,  si  pone  in  le  repubbliche infiniti  pericoli  c danni.  E quando  la  sorte  fu  che  il  popolo  non abbi  fede  in  alcuno,  come  qualche  volta occorre,  sendo  stato  ingannato  per  lo addietro  o dalle  cose  o dagli  uomini; si  viene  alla  rovina  di  necessità.  Ed ALIGHIERI (si veda) dice  a questo  proposito,  nel  discorso  suo che  fa  De  Monarchia > che  il  popolo  molte  volte  grida  viva  la  sua  morie j C muoia la  sua  vita.  Da  questa  incredulità  nasce, che  qualche  volta  in  le  repubbliche  i buoni  partiti  non  si  pigliano  : come  di sopra  si  disse  de’  Veneziani,  quando  assaltati da  tanti  inimici  non  poterono prendere  partito  di  guadagnarsene  alcuno con  la  restituzione  delle  cose  tolte ad  altri  (per  le  quali  era  mosso  loro  la 'guerra,  e fatta  la  congiura  de’  principi loro  contro),  avanti  che  la  rovina  venisse. Pertanto,  considerando  quello  che è facile  o quello  che  è diffìcile  persuadere ad  un  popolo,  si  può  fare  questa distinzione:  o quel  che  tu  hai  a persuadere rappresenta  in  prima  fronte guadagno,  o perdita  ; o veramente  pare partito  animoso,  o vile:  e quando  nelle cose  che  si  mettono  innanzi  ai  popolo, si  vede  guadagno,  ancora  che  vi  sia  nascosto sotto  perdila;  e quando  e* paia animoso,  ancora  che  vi  sia  nascosto  sotto la  rovina  della  repubblica,  sempre  sarà facile  persuaderlo  alla  moltitudine:  e così  fia  sempre  difficile  persuadere  quelli partiti  dove  apparisce  o viltà  o perdita, ancoraché  vi  fusse  nascosto  sotto  salute e guadagno.  Questo  che  io  ho  detto,  si conferma  con  infiniti  esempi,  romani  e forestieri,  moderni  ed  antichi.  Perchè  da questo  nacque  la  malvagia  opinione  che surse  in  Roma  di  Fabio  Massimo,  il  quale non  poteva  persuadere  al  Popolo  romano, che  fusse  utile  a quella  Repubblica procedere  lentamente  in  quella  guerra, e sostenere  senza  azzuffarsi  V impeto  di Annibaie;  perchè  quel  Popolo  giudicava questo  partito  vile,  c non  vi  vedeva  dentro quella  utilità  vi  era  ; nè  Fabio  aveva ragioni  bastanti  a dimostrarla  loro:  c tanto  sono  i popoli  accecati  in  queste oppinioni  gagliarde,  che  benché  il  Popolo romano  avesse  fatto  quello  errore di  dare  autorità  al  Maestro  de’ cavalli  di Fabio  di  potersi  azzuffare,  ancora  che Fabio  non  volesse;  e che  per  tale  autorità il  campo  romano  fusse  per  esser rotto,  se  Fabio  con  la  sua  prudenza  non vi  rimediava;  non  gli  bastò  questa  esperienza, che  fece  dipoi  consolo  VARRONE (si veda), non  per  altri  suoi  meriti  che  per  avere, per  tutte  le  piazze  e tutti  i luoghi  pubblici di  Roma,  promesso  di  rompere  Annibaie, qualunque  volta  gliene  fusse  data autorità.  Di  che  ne  nacque  la  zuffa  e rotta  di  Canne,  e presso  che  la  rovina di  Roma.  Io  voglio  addurre  a questo proposito  ancora  uno  altro  essempio  romano. Era  stato  Annibaie  in  Italia  otto o dieci  anni,  aveva  ripieno  di  occhione de’  Romani  tutta  questa  provincia, quando  venne  in  Senato  Marco  Centenio Penula,  uomo  vilissimo  (nondimanco aveva  avuto  qualche  grado  nella  milizia), ed  offersegli,  che  se  gli  davano  autorità di  potere  fare  esercito  di  uomini  volutitari  in  qualunque  luogo  volesse  in  Italia, ei  darebbe  loro,  in  brevissimo  tempo, preso  o morto  Annibaie.  Al  Senato  parve la  domanda  di  costui  temeraria;  nondimeno ei  pensando  che  s’ ella  se  gli negasse,  e nel  popolo  si  fusse  dipoi  sapula  la  sua  chiesta,  che  non  ne  nascesse qualche  tumulto,  invidia  e mal  grado  contro all’ordine  senatorio,  gliene  concessono  : volendo  più  tosto  mettere  a pericolo tutti  coloro  che  lo  seguitassino,  che  fare surgere  nuovi  sdegni  nel  Popolo;  sappiendo  quanto  simile  partito  fusse  per essere  accetto,  e quanto  fusse  difficile il  dissuaderlo.  Andò,  adunque,  costui con  una  moltitudine  inordinata  ed  incomposita  a trovare  Annibaie;  e non gli  fu  prima  giunto  all*  incontro,  che  fu con  tutti  quelli  che  lo  seguitavano  rotto e morto.  In  Grecia,  nella  città  di  Atene, non  potette  mai  Nicia,  uomo  gravissimo e prudentissimo,  persuadere  a quel  popolo, che  non  fusse  bene  andare  ad  assaltare Sicilia:  talché,  presa  quella  deliberazione contra  alla  voglia  de’  savi, ne  seguì  al  tutto  la  rovina  di  Atene.  Scipione quando  fu  fatto  consolo,  e che desiderava  la  provincia  di  Affrica,  promettendo al  tutto  la  rovina  di  Cartagine; a che  non  si  accordando  il  Senato per  la  sentenza  di  Fabio  Massimo,  minacciò di  proporla  nel  Popolo,  come quello  clic  conosceva  benissimo  quanto simili  deliberazioni  piaccino  a’  popoli. Potrebbesi  a questo  proposito  dare  esempi della  nostra  città  : come  fu  quando messere  Ercole  Bentivogli,  governadore delle  genti  fiorentine,  insieme  con  Antonio Giacomini,  poiché  ebbono  rotto llartolommeo  d’  Alviano  a San  Vincenti, andarono  a campo  a Pisa  ; la  qual  impresa fu  deliberata  dal  popolo  in  su  le promesse  gagliarde  di  messcr  Ercole, ancora  che  molti  savi  cittadini  la  biasimassero: nondimeno  non  vi  ebbero rimedio,  spinti  da  quella  universale  volutila, la  qual  era  fondata  in  su  le  promesse gagliarde  del  governadore.  Dico, adunque,  come  non  è la  più  facile  via a fare  rovinare  una  repubblica  dove  il popolo  abbia  autorità,  che  metterla' in imprese  gagliarde  : perchè,  dove  il  popolo sia  di  alcuno  momento,  sempre  fieno accettale;    vi  arà,  chi  sarà  d’  altra oppinione,  alcuno  rimedio.  Ma  se  di  questo nasce  la  rovina  della  città,  ne  nasce ancora,  e più  spesso,  la  rovina  particolare de*  cittadini  che  sono  preposti  a simili  imprese  : perchè,  avendosi  il  popolo presupposto  la  vittoria,  eomee’vienc la  perdita,  non  ne  accusa    la  fortuna, nè  la  impotenza  di  chi  ha  governato, ma  la  tristizia  e la  ignoranza  sua;  e quello  il  più  delle  volte  o ammazza,  o imprigiona,  o confina:  come  intervenne  a infiniti  capitani  Cartaginesi,  ed  a molti Ateniesi.    giova  loro  alcuna  vittoria che  per  lo  addietro  avessino  avuta,  perchè tutto  la  presente  perdita  cancella  : come  intervenne  ad  Antonio  Giacomini nostro,  il  quale  non  avendo  espugnata Pisa,  come  il  popolo  aveva  presupposto ed  egli  promesso,  venne  in  tanta  disgrazia popolare,  che  non  ostante  infinite sue  buone  opere  passate,  visse  più  per umanità  di  coloro  che  ne  avevano  autorità, che  per  alcun’  altra  cagione  che nel  popolo  lo  difendesse. liv#  — Quanta  autorità  abbia  uno uomo  grande  a frenare  una  moltitudine  concitata. Il  secondo  notabile  sopra  il  testo  nel superiore  capitolo  allegato,  è,  che  veruna cosa  è tanto  atta  a frenare  una moltitudine  concitata,  quanto  è la  riverenza di  qualche  uomo  grave  e di  autorità, che  se  le  faccia  incontro  j nè  senza cagione  dice  VIRGILIO (si veda): “Tutn  vietate  graverà  ac  meritis  si  forte  virum Conspexere , sileni , arrectisque  aur^®n^ci* Per  tanto,  quello  che  è proposto  a uno esercito,  o quello  che  si  trova  in  una città,  dove  nascesse  tumulto,  debbe  rappresentarsi in  su  quello  con  maggior grazia  e piu  onorevolmente  che  può,  mettendosi intorno  le  insegne  di  quel  grado che  tiene,  per  farsi  più  reverendo.  Era, pochi  anni  sono,  Firenze  diviso  in  due fazioni,  Fratesche  ed  Arrabbiate,  che  cosi si  chiamavano;  e venendo  ali’ arme,  ed essendo  superati  i Frateschi,  intra  i quali era  Pagolantonio  Soderini,  assai  in  quelli tempi  riputato  cittadino;  cd  andandogli in  quelli  tumulti  il  popolo  armato  a casa per  saccheggiarla;  messer  Francesco  suo fratello,  allora  vescovo  di  Volterra,  ed oggi  cardinale,  si  trovava  a sorte  in  casa  : il  quale,  subito  sentito  il  romore  e veduta la  turba,  messosi  i più  onorevoli panni  indosso,  e di  sopra  il  rocchetto episcopale,  si  fece  incontro  a quelli  armati, e con  la  persona  e con  le  parole gli  fermò  ; la  qual  cosa  fu  per  tutta  la città  per  molti  giorni  notata  e celebrata. Conchiudo,  adunque,  come  e’ non  è il più  fermo    il  più  necessario  rimedio a frenare  una  moltitudine  concitata,  che la  presenza  d’  uno  uomo  che  per  presenza paia  e sia  reverendo.  Vedesi,  adunque, per  tornare  al  preallegato  testo, con  quanta  ostinazione  la  Plebe  romana accettava  quel  partito  d’  andare  a Yeio, perchè  Io  giudicava  utile,    vi  conosceva  sotto  il  danno  vi  era  ? e come  nascendone assai  tumulti,  ne  sarebbero nati  scandali,  se  il  Senato  con  uomini gravi  e pieni  di  riverenza  non  avesse frenato  il  loro  furore. lv.  — Quanto  facilmente  si  conduellino  le  cose  in  quella  città  dove la  moltitudine  non  è corrotta:  e che dove  è e qualità , non  si  può  fare principato  / e dove  la  non  èj  non  si può  far  repubblica. Ancora  clie  di  sopra  si  sia  discorso assai  quello  sia  da  temere  o sperare delle  città  corrotte;  nondimeno  non  mi pare  fuori  di  proposito  considerare  una deliberazione  del  Senato  circa  il  voto ehe  Cammillo  aveva  fatto  di  dare  la decima  parte  ad  Apolline  della  preda de’  Veienti  : la  qual  preda  sendo  venuta nelle  mani  della  Plebe  romana,    se  ne potendo  altrimenti  riveder  conto,  fece il  Senato  uno  editto,  che  ciascuno  dovesse  rappresentare  al  pubblico  la  decima parte  di  quello  gli  aveva  predalo. E benché  tale  deliberazione  non  avesse luogo,  avendo  dipoi  il  Senato  preso  altro modo,  c per  altra  via  satisfatto  ad Àpolliue  in  satisfazione  della  Plebe;  nondimeno si  vede  per  tali  deliberazioni quanto  quel  Senato  confidasse  nella  bontà di  quella,  e come  e’  giudicava  che  nessuno fusse  per  non  rappresentare  appunto tutto  quello  che  per  tale  editto gli  era  comandato.  E dall’  altra  parte  si vede,  come  la  Plebe  non  pensò  di  fraudare in  alcuna  parte  lo  editto  con  il dare  meno  che  non  doveva,  ma  di  liberarsi da  quello  con  il  mostrarne  aperte indignazioni.  Questo  essempio,  con  molti altri  che  di  sopra  si  sono  addotti,  mostrano quanta  bontà  e quanta  religione fusse  in  quel  Popolo,  e quanto  bene fusse  da  sperare  di  lui.  E veramente, dove  non  è questa  bontà,  non  si  può sperare  nulla  di  bene;  come  non  si  può sperare  nelle  provincic  che  in  questitempi  si  veggono  corrotte:  come  è la Italia  sopra  tutte  le  altre;  ed  ancora  la Francia  di  tale  corruzione ritengono  parte.  E se  in  quelle  provincie  non  si  vede  tanti  disordini  quanti nascono  in  Italia  ogni  di,  deriva  non tanto  dalla  bontà  de'  popoli,  la  quale  ìh buona  parte  è mancata;  quanto  dallo avere  uno  re  che  gli  mantiene  uniti, non  solamente  per  la  virtù  sua,  ma  per l’ordine  di  quelli  regni,  che  ancora  non sono  guasti.  Vedesi  bene  nella  provincia della  Magna,  questa  bontà  e questa religione  ancora  in  quelli  popoli  esser grande;  la  qual  fa  che  molte  repubbliche vi  vivono  libere,  ed  in  modo  osservano le  loro  leggi,  che  nessuno  di  fuori nè  di  dentro  ardisce  occuparle.  E che sia  vero  che  in  loro  regni  buona  parte di  quella  antica  bontà,  io  nc  voglio  dare uno  essempio  simile  a questo  detto di  sopra  del  Senato  e della  Plebe  romana. Usano  quelle  repubbliche,  quando gli  occorre  loro  bisogno  di  avere  a spendere  alcuna  quantità  di  danari  per  conto pubblico,  che  quelli  magistrati  o consigli che  ne  hanno  autorità,  ponghino  a tutti  gli  abitanti  della  città  uno  per  cento, o dua,  di  quello  che  ciascuno  ha  di valsente.  E fatta  tale  deliberazione  secondo 1’  ordine  della  terra,  si  rappresenta ciascuno  dinanzi  agli  esecutori  di tale  imposta;  e,  preso  prima  il  giuramento di  pagare  la  conveniente  somma, getta  in  una  cassa  a ciò  deputata  quello clic  secondo  la  conscienza  sua  gli  pare dover  pagare:  del  qual  pagamento  non è testimonio  alcuno,  se  non  quello  che paga.  Donde  si  può  conictturare,  quanta bontà  e quanta  religione  sia  ancora  in quelli  uomini.  E debbesi  stimare  che ciascuno  paghi  la  vera  somma:  perchè, quando  la  non  si  pagasse,  non  pitterebbe la  imposizione  quella  quantità che  loro  disegnassero  secondo  le  antiche che  fussino  usitate  riscuotersi;  e non  gitlando,  si  conoscerebbe  la  fraude; e conoscendosi,  arebbon  preso  altro  modo che  questo.  La  quale  bontà  è tanto  più da  ammirare  in  questi  tempi,  quanto ella  è più  rara  : anzi  si  vede  essere  rimasa  sola  in  quella  provincia.  Il  che nasce  da  due  cose  : Y una,  non  avere avuti  commerzi  grandi  co’ vicini;  perchè nè  quelli  sono  ili  a casa  loro,  nè essi  sono  iti  a casa  altrui;  perchè  sono stati  eontenli  di  quelli  beni,  e vivere  di quelli  cibi,  vestire  di  quelle  lane  che  dà il  paese:  d’onde  è stata  tolta  via  la cagione  d’ogni  conversazione,  ed  il  principio di  ogni  corruttela;  perchè  non hanno  possuto  pigliare  i costumi  nè franciosi    spagnuoli    italiani,  le quali  nazioni  tutte  insieme  sono  la  corruttela del  mondo.  L’ altra  cagione  è, che  quelle  repubbliche  dove  si  è mantenuto il  vivere  politico  ed  incorrotto, non  sopportano  che  alcuno  loro  cittadino nè  sia    viva  ad  uso  di  gentiluomo: anzi  mantengono  infra  loro  una pari  equalità,  ed  a quelli  signori  e gentiluomini che  sono  in  quella  provincia, sono  inimicissimi  ; c se  per  caso  alcuni pervengono  loro  nelle  mani,  come  priacipi  di  corruttela  e cagione  di  ogni  scandalo, gli  ammazzano.  E'  per  chiarire questo  nome  di  gentiluomini  quale  e’  sia. dico  che  gentiluomini  sono  chiamali quelli  che  ociosi  vivono  de’  proventi delle  loro  possessioni  abbondantemente, senza  avere  alcuna  cura  o di  coltivare, o di  alcuna  altra  necessaria  fatica  a vivere.  Questi  tali  sono  perniciosi  in ogni  repubblica  ed  in  ogni  provincia; ma  più  perniciosi  sono  quelli  che,  oltre alle  predette  fortune,  comandano  a ca- stella, ed  hanno  sudditi  che  ubbidiscono a loro.  Di  queste  due  sorti  di  uomini ne  sono  pieni  il  regno  di  Napoli,  terra di  Roma,  la  Romagna  e la  Lombardia. Di  qui  nasce  che  in  quelle  provincie non  è mai  stata  alcuna  repubblica,  nè alcuno  vivere  politico;  perchè  tali  generazioni di  uomini  sono  al  tutto  nemici di  ogni  civiltà.  Ed  a volere  in  provincie fatte  in  simil  modo  introdurre una  repubblica,  non  sarebbe  possibile: ma  a volerle  riordinare,  se  alcuno  ne fusse  arbitro,  non  arebbe  altra  via  che farvi  un  regno.  La  ragione  è questa, che  dove  è tanto  la  materia  corrotta che  le  leggi  non  bastino  a frenarla,  vi bisogna  ordinare  insieme  con  quelle maggior  forza  ; la  quale  è una  mano regia,  che  con  la  potenza  assoluta  ed eccessiva  ponga  freno  alla  eccessiva  ambizione e corruttela  de’  potenti.  Verificasi questa  ragione  cou  lo  esempio  di Toscana  : dove  si  vede  in  poco  spazio di  terreno  stale  longamente  tre  repubbliche, Firenze,  Siena  e Lucca  ; e le  altre città  di  quella  provincia  essere  in modo  serve,  che,  con  l’ animo  e con T ordine,  si  vede  o che  le  mantengono, o che  le  vorrebbono  mantenere  la  loro libertà.  Tutto  è nato  per  non  essere  in quella  provincia  alcun  signore  di  castella, c nessuno  o pochissimi  gentiluomini ; ma  esservi  tanta  equalità,  che facilmente  da  uno  uomo  prudente,  e che delle  antiche  civilità  avesse  cognizione, vi  si  introdurrebbe  un  viver  civile.  Ma lo  infortunio  suo  è stato  tanto  grande, che  infino  a questi  tempi  non  ha  sortito alcuno  uomo  che  lo  abbia  potuto o saputo  fare.  Trassi  adunque  di  questo discorso  questa  conclusione:  che  colui che  vuole  fare  dove  sono  assai  gentiluomini una  repubblica,  non  la  può fare  se  prima  non  gli  spegne  tutti:  e che  colui  che  dove  è assai  equalità  vuole fare  uno  regno  o uno  principato,  non lo  potrà  mai  fare  se  non  trae  di  quella «qualità  molti  di  animo  ambizioso  ed inquieto,  e quelli  fa  gentiluomini  in  fatto, e non  in  nome,,  donando  loro  castella e possessioni,  c dando  loro  favore di  sustanze  e d’uomini  ; acciocché, posto  in  mezzo  di  loro,  mediante  quelli mantenga  la  sua  potenza  ; cd  essi, mediante  quello,  la  loro  ambizione;  e gli  altri  siano  constretti  n sopportare quel  giogo  che  la  forza,  e non  altro mai,  può  far  sopportare  loro.  Ed  essendo  per  questa  via  proporzione  da  chi sforza  a chi  è sforzato,  stanno  fermi gli  uomini  ciascuno  nello  ordine  loro. E perchè  il  fare  d’una  provincia  atta ad  essere  regno  una  repubblica,  c d’ una atta  ad  essere  repubblica  farne  un  regno, è materia  da  uno  uomo  che  per cervello  e per  autorità  sia  raro;  sono stati  molti  che  Io  hanno  voluto  fare,  e pochi  che  lo  abbino  saputo  condurre. Perchè  la  grandezza  della  cosa  parte sbigottisce  gli  uomini,  parte  in  modo gli  ’mpedisce,  che  ne’ primi  principii mancano. Credo  che  a questa  mia  oppiatone, che  dove  sono  gentiluomini  non si  possa  ordinare  repubblica,  parrà  contraria la  esperienza  della  Repubblica veneziana,  nella  quale  non  usano  avere alcuno  grado  se  non  coloro  che  sono gentiluomini.  A che  si  risponde,  come questo  essempio  non  ci  fa  alcuna  oppugnazione, perchè  i gentiluomini  in quella  Repubblica  sono  piu  in  nome  che in  fatto;  perchè  loro  non  hanno  grandi entrate  di  possessioni,  sendo  le  loro ricchezze  grandi  fondate  in  sulla  mercanzia e cose  mobili;  e di  più,  nessuno di  loro  tiene  castella,  o ha  alcuna  iurisdizione  sopra  gli  uomini:  ma  quel  nome di  gentiluomo  in  loro  è nome  di degnila  e di  riputazione,  senza  essere fondato  sopra  alcuna  di  quelle  cose  che fa  che  nell’  altre  città  si  chiamano  i gentiluomini.  E come  le  altre  repubbliche hanno  tutte  le  loro  divisioni  sotto vari  nomi,  così  Vinegia  si  divide  in gentiluomini  e popolari  ; e vogliono  che quelli  abbino,  ovvero  possino  avere,  tutti gli  onori;  quelli  altri  ne  sieno  al  tutto esclusi.  Il  che  non  fa  disordine  in  quella terra,  per  le  ragioni  altra  volta  dette. Gonstituisca,  adunque,  una  repubblica colui  dove  è,  o è fatta  una  grande  egualità; ed  alP  incontro  ordini  un  principato dove  è grande  inequalità  : altrimenti farà  cosa  senza  propprzione,  e poco  durabile. Innanzi  che  segnino  i grandi  accidenti  in  una  città  o in  una provincia , vengono  segni  che  gli  pròìioslicanOj  o uomini  che  gli  predicono. Donde  e*  si  nasca  io  non  so,  ina  si vede  pei*  gli  antichi  e per  gli  moderni essempi,  che  mai  non  venne  alcuno  grave accidente  in  una  città  o in  una  provincia, che  non  sia  stato,  o da  indovini  o da  revelazioni  o da  prodigi,  o da  altri segni  celesti,  predetto.  E per  non  mi  discostare da  casa  nei  provare  questo,  saciascuno  quanto  da  frate  Girolamo  Savonarola fusse  predetta  innanzi  la  venuta del  re  Carlo  Vili  di  Francia  in  Italia; e come,  olirà  di  questo,  per  tutta  Toscana si  disse  esser  sentite  in  aria  e vedute genti  d’ arme,  sopra  Arezzo,  che  si azzuffavano  insieme.  Sa  ciascuno  olirà di  questo,  come  avanti  la  morte  di  Lorenzo de’  Medici  vecchio  fu  percosso  il duomo  nella  sua  più  alta  parte  con  una saetta  celeste,  con  l'ovina  grandissima di  quello  edilìzio.  Sa  ciascuno  ancora,, come  poco  innanzi  che  Soderini, quale  era  stato  fatto  gonfaloniere  a vita dal  popolo  fiorentino,  fosse  cacciato  e privo  del  suo  grado,  fu  il  palazzo  medesimamente da  un  fulgore  percosso.  Potrcbbesi,  olirà  di  questo,  addurre  più essempi,  i quali  per  fuggire  il  tedio  lascerò.  Narrerò  solo  quello  che  L.,  innanzi  alla  venuta  de’  Franciosi in  Roma  : cioè,  come  uno  Marco Cedizio  plebeio,  riferì  al  Senato  avere udito  di  mezza  notte,  passando  per  la Via  Nuova,  una  voce  maggiore  che  umana, la  quale  lo  ammoniva  che  riferisse ai  magistrati,  come  i Franciosi  venivano a Roma.  La  cagione  di  questo  credo  sia da  essere  discorsa  ed  interpretata  da uomo  che  abbia  notizia  delle  cose  naturali e soprannaturali:  il  che  non  abbiamo noi.  Pure,  potrebbe  essere  che,  sendo questo  aere,  come  vuole  alcuno  filosofo, pieno  d’ intelligenze  ; le  quali  per  naturale  virtù  prevedendo  le  cose  future, ed  avendo  compassione  agli  uomini,  acciò si  possino  preparare  alle  difese,  gli avvertiscono  con  simili  segni.  Pure,  comunelle si  sia,  si  vede  cosi  essere  la verità;  e che  sempre  dopo  tali  accidenti sopravvengono  cose  istraordinarie  e nuove alle  provincie.  La  plebe  insieme  è gagliarda; di  per  se  è debole. Erano  molti  Romani,  scudo  seguita per  la  passata  de*  Franciosi  la  rovina della  lor  patria,  andati  ad  abitare  a Yeio, contea  alla  constituzione  ed  ordine  del Senato:  il  quale,  per  rimediare  a questo disordine,  comandò  per  i suoi  editti pubblici  che  ciascuno,  infra  certo  tempo e sotto  certe  pene,  tornasse  ad  abitare a Roma.  De’quali  editti,  da  prima  per coloro  contea  a chi  e*  venivano,  si  fu fatto  beffe;  dipoi,  quando  si  appressò  il tempo  dello  ubbidire,  tutti  ubbidirono. E Tito  Livio  dice  queste  parole  : Ex  fcrocibus  universtSj  singtili  metti  suo  obedienfes  fuere.  E veramente,  non  si  può mostrare  meglio  la  natura  d’ una  moltitudine in  questa  parte,  che  si  dimostri in  questo  testo.  Perchè  la  moltitudine  è audace  nel  parlare  molte  volte  contra alle  deliberazioni  del  loro  principe;  dipoi, come  veggono  la  pena  in  viso,  non si  fidando  Y uno  dell’  altro,  corrono  ad ubbidire.  Talché  si  vede  certo,  che  di quel  che  si  dica  uno  popolo  circa  la mala  o buona  disposizion  sua,  si  debbe tenere  non  gran  conto,  quando  tu  sia ordinato  in  modo  da  poterlo  mantenere, s’ egli  è ben  disposto;  s’ egli  è mal  disposto, da  poter  provvedere  che  non  ti offenda.  Questo  s’intende  per  quelle  male disposizioni  che  hanno  i popoli,  nate  da qualunque  altra  cagione,  che  o per  avere perduto  la  libertà,  o il  loro  principe stato  amato  da  loro,  e che  ancora  sia vivo;  perchè  le  male  disposizioni  che nascono  da  queste  cagioni,  sono  sopra ogni  cosa  formidabili,  e che  hanno  bisogno di  grandi  rimedi  a frenarle  : 1'  altre sue  indisposizioni  fieno  facili,  quando ci  non  abbia  capi  a chi  rifuggire.  Perchè non  ci  è cosa,  dall’  un  canto,  più formidabile  che  una  moltitudine  sciolta e senza  capo;  e,  dall’  altra  parte,  non  è cosa  più  debole  : perchè,  quantunque  ella abbi  1’  armi  in  mano,  fia  facile  ridurla, purché  tu  abbi  ridotto  da  potere  fuggire il  primo  impeto;  perchè  quando  gli animi  sono  un  poco  raffreddi,  e che  ciascuno vede  di  aversi  a tornare  a casa sua,  cominciano  a dubitare  di  loro  medesimi, e pensare  alla  salute  loro,  o con fuggirsi  o con  l’accordarsi.  Però  una moltitudine  così  concitata,  volendo  fuggire questi  pericoli,  ha  subito  a fare  infra sè  medesima  un  capo  che  la  corregga, tenghila  unita  e pensi  alla  sua  difesa ; come  fece  la  Plebe  romana,  quando dopo  la  morte  di  Virginia  si  partì  da Roma,  e per  salvarsi  feciono  infra  loro venti  Tribuni:  e non  facendo  questo,  interviene  loro  scmj)re  quel  che  dice  L.  nelle  soprascritte  parole,  che  tutti insieme  sono  gagliardi;  e quando  ciascuno poi  comincia  a pensare  al  proprio pericolo,  diventa  vile  e debole. La  moltitudine  è più  savia e più  costante  che  un  principe. Nessuna  cosa  essere  più  vana  e più inconstante  che  la  moltitudine:  cosi  L.  nostro,  come  tutti  gli  altri  istorici affermano.  Perchè  spesso  occorre, nel  narrare  le  azioni  degli  uomini,  vedere la  moltitudine  avere  condannato alcuno  a morte,  e quel  medesimo  di  poi pianto  e sommamente  desiderato:  come si  vede  avere  fatto  il  Popolo  romano  di Manlio  Capitolino,  il  quale  avendo  CONDENNATO A MORTE,  sommamente  dipoi  desiderava. E le  parole  dell*  autore  son queste:  Populum  brevi,  posteaquam  ab co  periculum  nullum  eral , dcsidcrium rjus  tenuit.  Ed  altrove,  quando  mostra gli  accidenti  che  nacquero  in  Siracusa dopo  la  morte  di  Girolamo  nipote  di  Ierone,  dice:  Hcec  natura  mulliludinis  est : aut  umiliter  servii , aut  superbe  domi • natur.  Io  non  so  se  io  mi  prenderò  una provincia  dura,  e piena  di  tanta  difficoltà, che  mi  convenga  o abbandonarla con  vergogna,  o seguirla  con  carico; volendo  difendere  una  cosa,  la  quale, come  ho  detto,  da  tutti  gli  scrittori  è accusata.  Ma,  comunehc  si  sia,  io  non giudico    giudicherò  mai  essere  difetto difendere  alcune  oppinioni  con  le  ragioni, senza  volervi  usare  o la  autorità  o la forza.  Dico  adunque,  come  di  quello  difetto di  che  accusano  gli  scrittori  la moltitudine,  se  ne  possono  accusare  tutti gli  uomini  particolarmente,  e massime i principi;  perchè  ciascuno  che  non  sia regolato  dalle  leggi,  farebbe  quelli  medesimi errori  che  la  moltitudine  sciolta. E questo  si  può  conoscere  facilmente, perchè  e’  sono  c sono  stati  assai  principi, e de’ buoni  e de’ savi  ne  sono  stati pochi;  io  dico  de’ principi  che  hanno potuto  rompere  quel  freno  che  gli  può correggere;  intra  i quali  non  sono  quegli re  che  nascevano  in  Egitto,  quando in  quella  antichissima  antichità  si  governava quella  provincia  con  le  leggi; nè  quelli  che  nascevano  in  Sparta;  nè quelli  che  a’  nostri  tempi  nascono  in Francia:  il  quale  regno  è moderato  più dalle  leggi,  che  alcuno  altro  regno  di che  ne’ nostri  tempi  si  abbi  notizia.  E questi  re  che  nascono  sotto  tali  constituzioni,  non  sono  da  mettere  in  quel numero,  donde  si  abbia  a considerare la  natura  di  ciascuno  uomo  per  sè,  e vedere  se  egli  è simile  alla  moltitudine: perchè  a rincontro  loro  si  debbe  porre una  moltitudine  medesimamente  regolata dalle  leggi  come  sono  loro;  e si  troverà in  lei  essere  quella  medesima  bontà  che noi  veggiamo  essere  in  quelli,  e vedrassi quella    superbamente  dominare  nè umilmente  servire:  come  era  il  Popolo romano,  il  quale  mentre  durò  la  Repubblica  incorrotta,  non  servì  mai  umilmente nè  mai  dominò  superbamente; anzi  con  li  suoi  ordini  e magistrati  tenne il  grado  suo  onorevolmente.  E quando era  necessario  insurgerc  contra  a uno potente,  lo  faceva;  come  si  vede  in  Manlio, ne’  Dieci,  ed  in  altri  che  cercorno opprimerla  : e quando  era  necessario ubbidire  a’  Dittatori  ed  a’ Consoli  per  la salute  pubblica,  lo  faceva.  E se  il  Popolo romano  desiderava  Manlio  Capitolino morto,  non  è meraviglia;  perchè e*  desiderava  le  sue  virtù,  le  quali  erano state  tali,  che  la  memoria  di  esse  recava compassione  a ciascuno;  cd  arebbono avuto  forza  di  fare  quel  medesimo  effetto in  un  principe,  perchè  1*  è sentenza di  tutti  li  scrittori,  come  la  virtù  si lauda  e si  ammira  ancora  negli  inimici suoi:  e se  Manlio,  infra  tanto  desiderio, fusse  risuscitato,  il  Popolo  di  Roma  arebbe dato  di  lui  il  medesimo  giudizio,  come ei  fece,  tratto  che  lo  ebbe  di  prigione, che  poco  di  poi  lo  condennò  a morte; nonostante  die  si  vegga  di  principi  tenuti savi,  i quali  hanno  fatto  morire qualche  persona,  e poi  sommamente  desideratala : come  Alessandro,  Clito  ed altri  suoi  amici  ; ed  Erode,  Marianne.  Ma quello  che  lo  istorico  nostro  dice  della natura  della  moltitudine,  non  dice  di quella  che  è regolata  dalle  leggi,  come era  la  romana;  ma  della  sciolta,  come era  la  siracusana:  la  quale  fece  quelli errori  che  fanno  gli  uomini  infuriati  e sciolti,  come  fece  Alessandro  magno,  ed Erode,  ne’ casi  detti.  Però  non  è più  da incolpare  la  natura  della  moltitudine  che de’ principi,  perchè  tutti  egualmente  errano, quando  tutti  senza  rispetto  possono errare.  Di  che,  oltre  a quello  che ho  detto,  ci  sono  assai  essempi,  ed  intra gli  imperadori  romani,  ed  intra  gli altri  tiranni  e , principi;  dove  si  vede tanta  incostanza  e tanta  variazione  di vita,  quanta  mai  non  si  trovasse  in  alcuna moltitudine.  Conchiudo,  adunque, contea  olla  comune  oppimene,  la  qual dice  come  i popoli,  quando  sono  principi,  sono  vari,  mutabili,  ingrati;  affermando che  in  loro  non  sono  altrimente questi  peccati  che  si  siano  ne’  principi particolari.  Ed  accusando  alcuni  i popoli ed  i principi  insieme,  potrebbe  dire  il vero;  ma  traendone  i principi,  s’inganna; perchè  un  popolo  che  comanda  e sia bene  ordinato,  sarà  stabile,  prudente  e grato  non  altrimenti  che  un  principe,  o meglio  che  un  principe,  eziandio  stimato savio:  e dall’altra  parte,  un  priucipe sciolto  dalle  leggi,  sarà  ingrato,  vario ed  imprudente  più  che  uno  popolo.  E che la  variazione  del  procedere  loro  nasce non  dalla  natura  diversa,  perchè  in  tutti è ad  un  modo:  e se  vi  è vantaggio  di bene,  è nei  popolo;  ma  dallo  avere  più o meno  rispetto  alle  leggi,  dentro  alle quali  l’uno  e l’altro  vive.  E chi  considerrà  il  Popolo  romano,  lo  vedrà  essere stato  per  quattrocento  anni  iuimico  del nome  regio,  ed  amatore  della  gloria  e del  bene  comune  della  sua  patria:  vedrà tanti  essempi  usati  da  lui,  clic  testiiuoniauo  1’  una  cosa  e V altra.  £ se  alcuno mi  allegasse  la  ingratitudine  eh7  egli  usò centra  a Scipione,  rispondo  quello  die di  sopra  lungamente  si  discorse  in  questa  materia,  dove  si  mostrò  i popoli  essere  meno  iugraii  de’ principi.  Ma  quanto alla  prudenza  ed  alla  stabilità,  dico,  come uno  popolo  è più  prudente,  più  stabile e di  miglior  giudicio  che  un  principe. E uon  senza  cagione  si  assomiglia la  voce  d7  un  popolo  a quella  di  Dio; perchè  si  vede  una  oppinioue  universale fare  effetti  meravigliosi  ne’ pronostichi suoi:  talché  pare  che  per  occulta virtù  e’ prevegga  il  suo  male  ed  il  suo bene.  Quanto  al  giudicare  le  cose,  si vede  rarissime  volte,  quando  egli  ode due  concionanti  che  tendino  in  diverse parti,  quando  e’ sono  di  egual  virtù,  che non  pigli  *ia  oppinione  migliore,  e che non  sia  capace  di  quella  verità  ch’egli  ode. £ se  nelle  cose  gagliarde,  o che  paiano utili,  come  di  sopra  si  dice, egli  erra  ; molte  volte  erra  ancora  uri  principe  nelle  sue proprie  passioni,  le  quali  sono  molle  più che  quelle  de’  popoli.  Yedesi  ancora,  nelle sue  elezioni  ai  magistrati,  fare  di lunga  migliore  elezione  che  uno  principe; nè  mai  si  persuaderà  ad  un  popolo, che  sia  bene  tirare  alla  degnila uno  uomo  infame  e di  corrotti  costumi: il  che  facilmente  e per  mille  vie  si  persuade ad  un  principe.  Yedesi  un  popolo cominciare  ad  avere  in  orrore  una  cosa, e molti  secoli  stare  in  quella  oppinione: il  che  non  si  vede  in  uno  principe.  E dell’  una  e dell’  altra  di  queste  due  cose voglio  mi  basti  per  testimone  il  Popolo romano:  il  quale,  in  tante  centinaia d’anni,  in  tante  elezioni  di  Consoli  e di Tribuni,  non  fece  quattro  elezioni  di  che quello  si  avesse  a pentire.  Ed  ebbe,  come ho  detto,  tanto  in  odio  il  nome  regio, che  nessuno  obbligo  di  alcuno  suo  cittadino, che  tentasse  quel  nome,  potette fargli  fuggire  le  debite  pene.  Yedesi, oltra  di  questo,  le  città  dove  i popoli sono  principi,  fare  in  brevissimo  tempo augumenti  eccessivi,  e molto  maggiori che  quelle  che  sempre  sono  state  sotto un  principe  ! come  fece  Roma  dopo  la cacciata  de’  re,  ed  Atene  da  poi  che  la si  liberò  da  Pisistrato.  11  che  non  può nascere  da  altro,  se  non  che  sono  migliori governi  quelli  de*  popoli  che  quelli de*  principi.    voglio  che  si  opponga  a questa  mia  oppinione  tutto  quello  che lo  istorico  nostro  ne  dice  nel  preallcgato testo,  ed  in  qualunque  altro;  perchè,  se si  discorreranno  tutti  i disordini  de’popoli,  tutti  i disordini  de*  principi,  tutte le  glorie  de*  popoli,  tutte  quelle  de’ principi, si  vedrà  il  popolo  di  bontà  e di gloria  essere  di  lunga  supcriore.  E se  i principi  sono  superiori  a*  popoli  nello ordinare  leggi,  formare  vite  civili, ordinare  statuti  ed  ordini  nuovi  ; i popoli  sono  tanto  superiori  nel  mantenere le  cose  ordinate,  eh’  egli  aggiungono senza  dubbio  alla  gloria  di  coloro che  l’ordinano.  Ed  in  somma,  per  epilegare  questa  materia,  dico  come  hanno durato  assai  gli  stati  de’ principi,  hanno durato  assai  gli  stati  delle  repubbliche, e l’uno  e l’  altro  ha  avuto  bisogno  d’essere regolato  dalle  leggi  : perchè  un  principe che  può  fare  ciò  che  vuole,  è pazzo; un  popolo  che  può  fare  ciò  che  vuole, non  è savio.  Se,  adunque,  si  ragionerà d' un  principe  obbligato  alle  leggi,  ed’  un  popolo  incatenalo  da  quelle,  si  vedrà più  virtù  nel  popolo  che  nel  principe: se  si  ragionerà  dell’ uno  e dell’altro sciolto,  si  vedrà  • meno  errori  nel popolo  che  nei  principe;  e quelli  minori, ed  aranno  maggiori  rimedi.  Perchè  ad un  popolo  licenzioso  e tumultuario,  gli può  da  un  uomo  buono  esser  parlato, e facilmente  può  essere  ridotto  nella  via buona  : ad  un  principe  cattivo  non  è alcuno che  possa  parlare,    vi  è altro rimedio  che  il  ferro.  Da  che  si  può  far coniettura  della  importanza  della  malattia dell’uno  e dell’altro:  chè  se  a curare la  malattia  del  popolo  bastano  le parole,  ed  a quella  del  principe  bisogna il  ferro,  non  sarà  mai  alcuno  che  non giudichi,  che  dove  bisogna  maggior  cura, siano  maggiori  errori.  Quando  un  popolo è bene  sciolto,  non  si  temono  le  pazzie che  quello  fa,    si  ha  paura  del  mal presente,  ma  di  quello  che  ne  può  nascere, potendo  nascere  infra  tanta  confusione un  tiranno.  Ma  ne’ principi  tristi interviene  il  contrario:  che  si  teme il  male  presente,  e nel  futuro  si  spera; persuadendosi  gli  uomini  che  la  sua  cattiva vita  possa  far  surgere  una  libertà. Sì  che  vedete  la  differenza  dell’  uno  e dell’  altro,  la  quale  è quanto  dalle  cose che  sono,  a quelle  che  hanno  ad  essere. Le  crudeltà  della  moltitudine  sono  contra  a chi  ei  temono  clic  occupi  il  ben comune  : quelle  d’  un  principe  sono  contro a chi  ci  temono  che  occupi  il  bene proprio.  Ma  la  oppiti  ione  contro  ai  popoli nasce  perchè  de’  popoli  ciascuno dice  male  senza  paura  e liberamente, ancora  mentre  che  regnano:  de’  principi si  parla  sempre  con  mille  paure  e mille rispetti.    mi  pare  fuor  di  proposito, poiché  questa  materia  mi  vi  tira,  disputare nel  seguente  capitolo  di  quali  confederazioni altri  si  possa  più  fidare,  o di  quelle  falle  con  una  repubblica,  o di quelle  fatte  con  ui>  principe. Di  quali  confederazioni , o lega,  altri  si  può  più  fidare  ; o di quella  fatta  con  una  repubblica , o di quella  fatta  con  uno  principe. Perchè  ciascuno    occorre  che  P uno principe  con  l’altro,  o V una  repubblica con  l’altra,  fanno  lega  ed  amicizia  insieme ; ed  ancora  similmente  si  contrae confederazione  ed  accordo  intra  una  repubblica  ed  uno  principe  mi  pare  di esaminare  qual  fede  è più  stabile,  e di quale  si  debba  tenere  più  conto,  o di quella  d’  una  repubblica,  o di  quella d’ uno  principe,  lo,  esaminando  tutto, credo  che  in  molti  casi  e’ siano  simili. ed  in  alcuni  vi  sia  qualche  disformità. Credo  per  tanto,  che  gli  accordi  fatti  per forza  non  ti  saranno    da  un  principe nè  da  una  repubblica  osservali;  credo che  quando  la  paura  dello  stato  venga, l'uno  e l'altro,  per  non  lo  perdere,  ti romperà  la  fede,  e ti  userà  ingratiludine.  Demetrio,  quel  che  fu  chiamato espugnatore  delle  cittadi,  aveva  fatto  agli Ateniesi  infiniti  benefici!  : occorse  dipoi, che  sendo  rotto  da’ suoi  inimici,  e rifuggendosi in  Atene,  come  in  città  amica ed  a lui  obbligata,  non  fu  ricevuto  da quella  : il  che  gli  dolse  assai  più  che non  aveva  fatto  la  perdita  delle  genti  e dello  esercito  suo.  Pompeio,  rotto  che fu  da  Cesare  in  Tessaglia,  si  rifuggì  in Egitto  a Tolomeo,  il  quale  era  per  lo addietro  da  lui  stato  rimesso  nel  regno; e fu  da  lui  morto.  Le  quali  cose  si  vede che  ebbero  le  medesime  cagioni;  nondimeno  fu  più  umanità  usata  e meno  •ingiuria  dalla  repubblica,  che  dal  principe. Dove  è,  pertanto,  la  paura,  si  troverà  in  fallo  la  medesima  fede.  E se  si troverà  o una  repubblica  o uno  principe, che  per  osservarti  la  fede  aspetti di  rovinare,  può  nascere  questo  ancora da  simili  cagioni.  E quanto  al  principe, può  molto  bene  occorrere  che  egli  sia amico  d’  un  principe  potente,  che  se bene  non  ha  occasione  allora  di  difenderlo, ei  può  sperare  che  col  tempo  e*  lo restituisca  nel  principato  suo;  o veramente che,  avendolo  seguito  come  partigiano, ei  non  creda  trovare    fede nè  accordi  con  il  nimico  di  quello.  Di questa  sorte  sono  stati  quelli  principi del  reame  di  Napoli  che  hanno  seguite le  parti  franciose.  E quanto  alle  repubbliche, fu  di  questa  sorte  Sagunto  in Ispagna,  che  aspettò  la  rovina  per  seguire le  parti  romane;  e di  questa  Firenze, per  seguire  nel  4512  le  parti franciose.  E credo,  computata  ogni  cosa, che  in  questi  casi,  dove  è il  pericolo urgente,  si  troverà  qualche  stabilità  più nelle  repubbliche,  che  ne’  principi.  Perche,  sebbene  le  repubbliche  avessino quel  medesimo  animo  e quella  medesima voglia  che  un  principe,  lo  avere  il  moto loro  tardo,  farà  che  le  porranno  sempre  più  a risolversi  che  il  principe,  e per  questo  porranno  più  a rompere  la fede  di  lui.  Romponsi  le  confederazioni per  lo  utile.  In  questo  le  repubbliche sono  di  lunga  più  osservanti  degli  accordi, che  i principi.  E potrebbesi  addurre essempi,  dove  uno  miuinio  utile ha  fatto  rompere  la  fede  ad  uno  principe, e dove  una  grande  utilità  non  ha fatto  rompere  la  fede  ad  una  repubblica  : come  fu  quello  partito  che  propose  Temistocle agli  Ateniesi,  a’ quali  nella  conclone disse  che  aveva  uno  consiglio  da fare  alla  loro  patria  grande  utilità  ; ma non  lo  poteva  dire  per  non  lo  scoprire, perchè  scoprendolo  si  toglieva  la  occasione del  farlo.  Onde  il  popolo  di  Atene elesse  Aristide,  al  quale  si  comunicasse la  cosa,  e secondo  dipoi  che  paresse  a lui  se  ne  deliberasse:  al  quale  Temistode  mostrò  come  I*  armata  di  tutta  Grecia, ancora  che  stesse  sotto  la  fede  loro, era  in  lato  che  facilmente  si  poteva  guadagnare o distruggere;  il  che  faceva  gli Ateniesi  al  tutto  arbitri  di  quella  provincia. Donde  Aristide  riferì  ai  popolo, il  partito  di  Temistocle  essere  utilissimo, ma  disonestissimo  : per  la  qual  cosa il  popolo  al  tutto  lo  ricusò.  II  che  non arebbe  fatto  Filippo  Macedone,  e gli  altri principi  che  più  utile  hanno  cerco e più  guadagnato  con  il  rompere  la  fede, che  con  verun  altro  modo.  Quanto  a rompere  i patti  per  qualche  cagione  di inosservanza,  di  questo  io  non  parlo come  di  cosa  ordinaria;  ma  parlo  dì quelli  che  si  rompono  per  cagioni  istrasordinarie:  dove  io  credo,  per  le  cose (lette,  che  il  popolo  facci  minori  errori che  il  principe,  e per  questo  si  possa Fidar  più  di  lui  che  del  principe. LX.  — Come  il  consolato  e qualungue  altro  magistrato  in  Roma  si  (lava senza  rispetto  di  età. E’  si  vede  per  V ordine  della  istoria, come  la  Repubblica  romana,  poiché  ’i consolato  venne  nella  Plebe,  concesse quello  ai  suoi  cittadini  senza  rispetto  di età  o di  sangue;  ancora  cbe  il  rispetto della  età  mai  non  fusse  in  Roma,  ma sempre  si  andò  a trovare  la  virtù,  o in giovane  o in  vecchio  cbe  la  fusse.  Il  che si  vede  per  il  testimone  di  Valerio  Corvino, che  fu  fatto  Consolo  nell!  Ventitré anni:  e Valerio  detto,  parlando  ai  suoi soldati,  disse  come  il  consolato  crai  prcetnium  virfulisj,  non  sanguinis.  La  qual cosa  se  fu  bene  considerata,  o no,  sarebbe da  disputare  assai.  E quanto  al  sangue,  fu concesso  questo  per  necessità  ; e quella  necessità che  fu  in  Roma,  sarebbe  in  ogni città  che  volesse  fare  gli  effetti  che  fece Roma,  come  altra  volta  si  è detto:  per-  i! chè  e’  non  si  può  dare  agli  uomini  disagio senza  premio,    si  può  torre  la SPERANZA di  conseguire  il  premio  senza pericolo.  E però  a buona  ora  convenne che  la  Plebe  avesse  speranza  di  avere il  consolato  ; e di  questa  SPERANZA  si nutrì  un  tempo  senza  averlo.  Dipoi  non bastò  la  speranza,  che  e’ convenne  che si  venisse  allo  effetto.  Ma  la  città  che non  adopera  la  sua  plebe  ad  alcuna  cosa gloriosa,  la  può  trattare  a suo  modo, come  altrove  si  disputò:  ma  quella  elle vuole  fare  quel  che  fe  Roma,  non  ha  a fare  questa  distinzione.  E dato  che  così sia,  quella  del  tempo  non  ha  replica  ; anzi  è necessaria  : perchè  nello  eleggere uno  giovane  in  uno  grado  che  abbi  bisogno d’ una  prudenza  di  vecchio,  conviene, avendovelo  ad  eleggere  la  moltitudine, che  a quel  grado  lo  facci  pervenire qualche  sua  nobilissima  azione. E quando  un  giovane  è di  tanta  virtù, che  si  sia  fatto  in  qualche  cosa  notabile conoscere  ; sarebbe  cosa  dannosissima che  la  città  non  se  «e  potesse  valere  allora, e che  la  avesse  ad  aspettare  che fusse  invecchiato  con  lui  quel  vigore deir  animo,  quella  prontezza,  della  quale in  quella  età  la  patria  sua  si  poteva  valere : come  si  valse  Roma  di  Valerio  Corvino, di  Scipione,  di  Pompeio  e di  molti altri  che  trionfarono  giovanissimi. Laudano  sempre  gli  uomini,  ma  noti sempre  ragionevolmente,  gli  antichi  tempi, e gli  presenti  accusano:  ed  in  modo sono  delle  cose  passate  partigiani,  che non  solamente  celebrano  quelle  etadi che  da  loro  sono  state,  per  la  memoria che  ne  hanno  lasciata  gli  scrittori,  conosciute ; ma  quelle  ancora  che,  sendo già  vecchi,  si  ricordano  nella  loro  giovanezza avere  vedute.  E quando  questa loro  oppinionc  sia  falsa,  come  il  più delle  volte  è,  mi  persuado  varie  essere le  cagioni  che  a questo  inganno  gli  conducono. E la  prima  credo  sia,  che  delle cose  antiche  non  s’intenda  al  tutto  lu verità;  e che  di  quelle  il  più  delle  vollesi  nasconda  quelle  cose  che  recherebbono  a quelli  tempi  infamia;  e quelle altre  che  possono  partorire  loro  gloria, si  remlino  magnifiche  ed  amplissime. Però  che  i più  degli  scrittori  in  modo  * alla  fortuna  de’  vincitori  ubbidiscono, che  per  fare  le  loro  vittorie  gloriose, non  solamente  accrescono  quello  che  da loro  è virtuosamente  operato,  ma  ancora le  azioni  de’  nimici  in  modo  illustrano, che  qualunque  nasce  dipoi  in qualunque  delle  due  provincie,  o nella vittoriosa  o nella  vinta,  ha  cagione  di maravigliarsi  di  quelli  uomini  e di  quelli tempi,  ed  è forzato  sommamente  laudargli ed  amargli.  Olirà  di  questo, odiando  gli  uomini  le  cose  o per  timore o per  invidia,  vengono  ad  essere spente  due  potentissime  cagioni  delP odio  nelle  cose  passate,  non  ti  potendo quelle  offendere,  e non  ti  dando cagione  d’  invidiarle.  Ma  al  contrario interviene  di  quelle  cose  che  si  maneggiano e veggono  ; le  quali,  pei*  la  intera cognizione  di  esse,  non  ti  essendo  in alcuna  parte  nascoste*  e conoscendo  in quelle  insieme  con  il  bene  molte  altre cose  che  ti  dispiacciono,  sei  forzato  giudicarle alle  antiche  molto  inferiori,  ancora  che  in  verità  le  presenti  molto  più di  quelle  di  gloria  e di  fama  meritassero: ragionando  non  delie  cose  pertinenti alle  arti,  le  quali  hanno  tanta chiarezza  in  sè,  che  i tempi  possono torre  o dar  loro  poco  più  gloria  che per  loro  medesime  si  meritino  ; ma  parlando di  quelle  pertinenti  alla  vita  e costumi  degli  uomini,  delle  quali  non se  ne  veggono    chiari  testimoni.  Replico, pertanto,  essere  vera  quella  consuetudine del  laudare  e biasimare  soprascritta ; ma  non  essere  già  sempre vero  che  si  erri  nel  farlo.  Perchè  qualche volta  è necessario  che  giudichino la  verità  ; perchè  essendo  le  cose  umane sempre  in  molo,  o le  salgono,  o lescendono.  E vedesi  una  città  o una  provincia essere  ordinata  al  vivere  politico da  qualche  uomo  eccellente;  ed,  un  tempo, per  la  virtù  di  quello  ordinatore, andare  sempre  in  augumento  verso  il meglio.  Chi  nasce  allora  in  tale  stato, ed  ei  laudi  più  li  antichi  tempi  che  i moderni,  s’ inganna  ; ed  è causato  il  suo inganno  da  quelle  cose  che  di  sopra  si sono  dette.  Ma  coloro  che  nascono  dipoi, in  quella  città  o provincia,  che  gli  è venuto  il  tempo  che  la  scende  verso  la parte  più  rea,  allora  non  s’  ingannano. E pensando  io  come  queste  cose  procedino,  giudico  il  mondo  sempre  essere stalo  ad  un  medesimo  modo,  ed  in  quello esser  stato  tanto  di  buono  quanto  di tristo  ; ma  variare  questo  tristo  e questo buono  di  provincia  in  provincia: come  si  vede  per  quello  si  ha  notizia  di quelli  regni  antichi  che  variavano  dall’uno all’altro  per  la  variazione  de’ costumi; ma  il  mondo  restava  quel  medesimo. Solo  vi  era  questa  differenza, che  dove  quello  aveva  prima  collocata la  sua  virtù  in  Assiria,  la  collocò  in Media,  dipoi  in  Persia,  tanto  che  la  ne venne  in  Italia  ed  a Roma:  e se  dopo 10  imperio  romano  non  è seguito  imperio che  sia  durato,    dove  il  mondo abbia  ritenuta  la  sua  virtù  insieme;  si vede  nondimeno  essere  sparsa  in  di molte  nazioni  dove  si  viveva  virtuosamente; come  era  il  regno  de’  Franchi, 11  regno  de’ Turchi,  quel  del  Soldano; ed  oggi  i popoli  della  Magna  ; e prima quella  setta  Saracina  che  fece  tante  gran cose,  ed  occupò  tanto  mondo,  poiché  la distrusse  lo  imperio  romano  orientale. In  tutte  queste  provincie,  adunque,  poiché i Romani  rovinorono,  ed  in  tutte queste  sètte  è stata  quella  virtù,  ed  è ancora  in  alcuna  parte  di  esse,  che  si desidera,  e che  con  vera  laude  si  lauda. E chi  nasce  in  quelle,  e lauda  i tempi passati  più  che  i presenti,  si  potrebbe ingannare;  ma  chi  nasce  in  Italia  ed  in Grecia,  e non  sia  divenuto  o in  Italia oltramontano  o in  Grecia  turco,  ha  ragione di  biasimare  i tempi  suoi,  e laudare gli  altri  : perchè  in  quelli  vi  sono assai  cose,  che  gli  fanno  meravigliosi  ; in  questi  non  è cosa  alcuna  che  gli  ricomperi da  ogni  estrema  miseria,  infamia e vituperio:  dove  non  è osservanza di  religione,  non  di  leggi,  non  di  milizia; ma  sono  maculati  d’ ogni  ragione bruttura.  E tanto  sono  questi  vizi  più detestabili,  quanto  ei  sono  più  in  coloro che  seggono  prò  tribunali,  comandano a ciascuno,  e vogliono  essere  adorati. .Ha  tornando  al  ragionamento  nostro, dico  che  se  il  giudicio  degli  uomini  è corrotto  in  giudicare  quale  sia  migliore, o il  secolo  presente  o l’antico,  in  quelle cose  dove  per  l’antichità  ei  non  ha  possuto  avere  perfetta  cognizione  come  egli ha  de’  suoi  tempi  ; non  doverrebbe  corrompersi ne’  vecchi  nel  giudicare  i lempi  della  gioventù  e vecchiezza  loro,  avendo quelli  e questi  egualmente  conosciuti e visti.  La  qual  cosa  sarebbe  vera,  se gli  uomini  per  tutti  i tempi  della  lor vita  l'ussero  del  medesimo  giudizio,  ed avessero  quelli  medesimi  appetiti  : ma variando  quelli,  ancora  che  i tempi  nou variino,  non  possono  parere  agli  uomini quelli  medesimi,  avendo  altri  appetiti, altri  diletti,  altre  considerazioni  nella vecchiezza,  che  nella  gioventù.  Perchè, mancando  gli  uomini  quando  li  invecchiano di  forze,  e crescendo  di  giudizio e di  prudenza;  è necessario  che  quelle cose  che  in  gioventù  parevano  loro  sopportabili e buone,  ineschino  poi  invecchiando insopportabili  e cattive  ; e dove quelli  ne  doverrebbono  accusare  il  giudicio  loro,  ne  accusano  i tempi. Sendo. ultra  di  questo,  gli  appetiti  umani  insaziabili, perchè  hanno  dalla  natura  di potere  e voler  desiderare ogni  cosa,  e dalla  fortuna  di  potere  conseguirne  poche; ne  risulta  continuamente  una  mala contentezza  nelle  menti  umane,  ed  un fastidio  delle  cose  che  si  posseggono:  il che  fa  biasimare  i presenti tempi,  laudare  i passati,  e desiderare  i futuri  ; ancora  che  a fare  questo  non  fussino mossi  da  alcuna  ragionevole  cagione.  Non so,  adunque,  se  io  meriterò  d’ essere numerato  tra  quelli  che  si  ingannano, se  in  questi  mia  discorsi  io  lauderò troppo  i tempi  degli  antichi  Romani,  e biasimerò  i nostri.  E veramente,  se  la virtù  che  allora  regnava,  ed  il  vizio  che ora  regna,  non  fussino  più  chiari  che il  sole,  andrei  col  parlare  più  rattenuto, dubitando  non  incorrere  in  quello inganno  di  che  io  accuso  alcuni.  Ma  essendo la  cosa  si  manifesta  che  ciascuno la  vede,  sarò  animoso  in  dire  manifestamente quello  che  intenderò  di  quelli e di  questi  tempi;  acciocché  gli  animi de’  giovani  che  questi  mia  scritti  leggeranno, possino  fuggire  questi,  e prepararsi ad  imitar  quegli,  qualunque  volta la  fortuna  ne  dessi  loro  occasione.  Perchè gli  è offizio  di  uomo  buono,  quel bene  che  per  la  malignità  de’  tempi  e della  fortuna  tu  non  hai  potuto  operare. insegnarlo  nd  altri,  acciocché  sendone molti  capaci,  alcuno  di  quelli,  più  amato dal  Cielo,  possa  operarlo.  Ed  avendo ne’  discorsi  del  superior  libro  parlato delle  deliberazioni  fatte  da*  Romani  pertinenti al  di  dentro  della  città,  in  questo parleremo  di  quelle,  che  ’\  Popolo romano  fece  pertinenti  allo  augumento dello  imperio  suo. Quale  fu  più  cagione  dello imperio  che  acquistarono  i Romani , o la  virtùj  o la  fortuna. Molti  hanno  avuta  oppinione,  intra  i quali  è Plutarco,  gravissimo  scrittore, che  ’1  Popolo  romano  nello  acquistare lo  imperio  fusse  più  favorito  dalla  fortuna che  dalla  virtù.  Ed  intra  le  altre ragioni  che  ne  adduce,  dice  che  per  confessione di  quel  popolo  si  dimostra, quello  avere  riconosciute  dalla  fortuna tutte  le  sue  vittorie,  avendo  quello  edificati più  templi  alla  Fortuna,  che  ad alcun  altro  Dio.  E pare  che  a questa oppinione  si  accosti  Livio;  perchè  rade volte  è che  facci  parlare  ad  alcuno  Romano, dove  ei  racconti  della  virtù,  che non  vi  aggiunga  la  fortuna.  La  qual cosa  io  non  voglio  confessare  in  alcun modo,    credo  ancora  si  possa  sostenere. Perchè,  se  non  si  è trovato  mai repubblica  che  abbi  fatti  i progressi  che Roma,  è nato  che  non  si  è trovata  mai repubblica  che  sia  stata  ordinata  a potere acquistare  come  Roma.  Perchè  la virtù  degli  eserciti  gli  feciono  acquistare Io  imperio;  e l’ordine  del  procedere, ed  il  modo  suo  proprio,  e trovato dal  suo  primo  legislatore,  gli  fece mantenere  lo  acquistato:  come  di  sotto largamente  in  più  discorsi  si  narrerà. Dicono  costoro,  che  non  avere  mai  accozzate  due  potentissime  guerre  in  uno medesimo  tempo,  fu  fortuna  e non  virtù del  Popolo  romano  ; perchè  e’  non ebbero  guerra  con  i Latini,  se  non quando  egli  ebbero  non  tanto  battuti i Sanniti,  quanto  che  la  guerra  fu  da*  Romani fatta  in  difensione  di  quelli  ; non combatterono  con  i Toscani,  se  prima non  ebbero  soggiogati  i Latini,  ed  enervati con  le  spesse  rotte  quasi  in  tutto i Sanniti:  che  se  due  di  queste  potenze intere  si  fussero,  quando  erano  fresche, accozzate  insieme,  senza  dubbio  si  può facilmente  conietturare  che  ne  sarebbe seguito  la  rovina  della  romana  Repubblica. Ma,  comunelle  questa  cosa  nascesse, mai  non  intervenne  che  eglino  avessino due  potentissime  guerre  in  un medesimo  tempo:  anzi  parve  sempre, o nel  nascere  dell’ una,  l’altra  si  spegnesse; o nel  spegnersi  dell’ una,  l’altra nascesse.  11  che  si  può  facilmente  vedere per  T ordine  delle  guerre  fatte  da loro:  perchè,  lasciando  stare  quelle  che feciono  prima  che  Roma  fusse  presa dai  Franciosi,  si  vede  che,  mentre  che combatterno  con  gli  Equi  e con  i Volsci,  mai,  mentre  questi  popoli  furono potenti,  non  si  levarono  contro  di  lor uitre  genti.  Domi  costoro,  nacque  la guerra  contea  ai  Sanniti;  e benché  innanzi che  finisse  tal  guerra  i popoli latini  si  ribellassero  da’  Romani,  nondimeno quando  tale  ribellione  segui,  i Sanniti  erano  in  lega  con  Roma,  e con il  loro  esercito  aiutorono  i Romani  domare la  insolenza  latina.  I quali  domi, risurse  la  guerra  di  Sannio.  Battute  per molte  rotte  date  a’  Sanniti  le  loro  forze, nacque  la  guerra  de’ Toscani;  la  qual composta,  si  rilevarono  di  nuovo  i Sanniti per  la  passata  di  Pirro  in  ITALIA. Il  quale  come  fu  ribattuto,  e rimandato in  Grecia,  appiccarono  la  prima  guerra con  i Cartaginesi:    {ìrima  fu  tal  guerra finita,  che  tutti  i Franciosi,  e di  là e di  qua  dall’ Alpi,  congiurarono  conti  a i Romani;  tanto  che  intra  Popolonia  e Pisa,  dove  è oggi  la  torre  a San  Vincenti, furono  con  massima  strage  superati. Finita  questa  guerra,  per  ispazio di  venti  anni  ebbero  guerra  di  non molta  importanza;  perchè  non  eombatterono  con  altri  che  con  i Liguri,  c con quel  rimanente  de’  Franciosi  che  era  in Lombardia.  E così  stettero  tanto  che nacque  la  seconda  guerra  cartaginese, la  qual  per  sedici  anni  tenne  occupata Italia.  Finita  questa  con  massima  gloria, nacque  la  guerra  macedonica  ; la  quale tìnita,  venne  quella  d’ Antioco  e d’ Asia. Dopo  la  qual  vittoria,  non  restò  in  tutto il  mondo    principe    repubblica  che, di  per  sè,  o tutti  insieme,  si  potessero opporre  alle  forze  romane.  Ma  innanzi a quella  ultima  vittoria,  chi  considerrà l’ ordine  di  queste  guerre,  ed  il  modo del  . procedere  loro,  vedrà  dentro  mescolate con  la  fortuna  una  virtù  e prudenza  grandissima.  Talché,  chi  esaminasse la  cagione  di  tale  fortuna,  la  ritroverebbe facilmente:  perchè  gli  è cosa certissima,  che  come  un  principe  e un popolo  viene  in  tanta  riputazione,  che ciascuno  principe  e popolo  vicino  abbia di  per    paura  ad  assaltarlo,  e ne  tema, sempre  interverrà  che  ciascuno  d essi  mai  lo  assalterà,  se  non  necessitato ; in  modo  che  e’  sarà  quasi  come nella  elezione  di  quel  polente,  far  guerra con  quale  di  quelli  suoi  vicini  gli parrà,  e gii  altri  con  la  sua  industria quietare.  I quali,  parte  rispetto  alla  potenza suo,  parte  ingannati  da  quei  modi che  egli  terrà  per  nddormentargli,  si quietano  facilmente;  e gli  altri  potenti che  sono  discosto,  e che  non  hanno coinmerzio  seco,  curano  la  cosa  come cosa  longinqua,  e che  non  appartenga loro.  Nel  quale  errore  stanno  tanto  che questo  incendio  venga  loro  presso  : il quale  venuto,  non  hanno  rimedio  a spegnerlo se  non  con  le  forze  proprie;  le quali  dipoi  non  bastano,  sendo  colui diventato  potentissimo.  Io  voglio  lasciare andare,  come  i Sanniti  stettero  a vedere vincere  dal  Popolo  romano  i Yolsci  e gli  Equi;  e per  non  essere  troppo  prolisso, mi  farò  da’  Cartaginesi  : i quali erano  di  gran  potenza  c di  grande  estimazione quando  i Romani  combattevano con  i Sanniti  e con  i Toscani  ; perchè tii  già  tenevano  tutta  1’  Affrica,  tenevano ia  Stintigna  e la  Sicilia,  avevano  dominio in  parte  della  Spagna.  La  quale  polenza  loro,  insieme  con  V esser  discosto ne’ confini  dal  Popolo  romano,  fece  che non  pensarono  mai  di  assaltare  quello, nè  di  soccorrere  i Sanniti  e Toscani: anzi  fecero  come  si  fa  nelle  cose  che crescono,  più  tosto  in  lor  favore  collegandosi con  quelli,  e cercando  l’amicizia loro.    si  avviddono  prima  del1’  errore  fatto,  che  i Romani,  domi  tutti i popoli  mezzi  infra  loro  ed  i Cartaginesi, cominciarono  a combattere  insieme dello  imperio  di  Sicilia  e di  Spagna. Intervenne  questo  medesimo  a’  Franciosi che  a’ Cartaginesi,  e cosi  a Filippo  re de’ Macedoni,  e ad  Antioco;  e ciascuno di  loro  credea,  mentre  che  il  Popolo  romano era  occupato  con  l’altro,  che quell’  altro  lo  superasse,  ed  essere  a tempo,  o con  pace  o con  guerra,  difendersi da  lui.  In  modo  che  io  credo  che la  fortuna  che  ebbono  in  questa  parte i Romani,  1’  arebbono  tutti  quelli  principl  che  procedessero  come  i Romani,  c fussero  di  quella  medesima  virtù  che loro.  Sarebbeci  da  mostrare  a questo proposito  il  modo  tenuto  dal  Popolo romano  nello  entrare  nelle  provincie d’  altri,  se  nei  nostro  trattato  de’  principati  non  ne  avessimo  parlato  a lungo  ; perchè  in  quello  questa  materia  è diffusamente disputata.  Dirò  solo  questo  brevemente, come  sempre  s’ingegnarono avere  nelle  provincie  nuove  qualche  amico che  fusse  scala  o porta  a salirvi  o entrarvi,  o mezzo  a tenerla  : come  si vede  che  per.  il  mezzo  de’ Capovani  entrarono in  Sannio,  de’ Camertini  in  Toscana, de’  Mamertini  in  Sicilia,  de’  Saguntini  in  Spagna,  di  Massinissa  iti Affrica,  degli  Eloli  in  Grecia,  di  Eumene ed  altri  principi  in  Asia,  de’ Massiliensi e deili  Edui  in  Francia.  E così  non  mancarono mai  di  simili  appoggi,  per  potere facilitare  le  imprese  loro,  e nello acquistare  le  provincie  e nel  tenerle.  Il che  quelli  popoli  che  osserveranno,  vedranno avere  meno  bisogno  della  fortuna, che  quelli  che  ne  saranno  non buoni  osservatori.  E perchè  ciascuno possa  meglio  conoscere,  quanto  potè  più la  virtù  che  la  fortuna  loro  ad  acquistare quello  imperio  ; noi  discorreremo nel  seguente  capitolo  di  che  qualità  furono quelli  popoli  con  i quali  egli  ebbero a combattere,  e quanto  erano  ostinati a difendere  la  loro  libertà. 11.  — Con  quali  popoli  i Romani  ebbero a combattere , e come  ostinatamente quelli  difendevano  la  loro  libertà. Nessuna  cosa  fece  più  faticoso  a*  Romani superare  i popoli  d*  intorno,  c parte  delle  provincie  discosto,  quanto  lo amore  che  in  quelli  tempi  molti  popoli avevano  alla  libertà;  la  quale  tanto  ostinatamente difendevano,  che  mai  se  non da  una  eccessiva  virtù  sarebbono  stati * soggiogati.  Perchè,  per  molti  essempi  si conosce  a quali  pericoli  si  mettessino per  mantenere  o ricuperare  quella  ; quali  vendette  e’  facessino  contra  a coloro che  V avessino  loro  occupata.  Conoscesi  ancora  nelle  lezioni  delle  istorie, quali  danni  i popoli  e le  città  riccvino per  la  servitù.  E dove  in  questi  tempi ci  è solo  una  provincia  la  quale  si  possa dire  che  abbia  in    città  libere,  ne*  tempi antichi  in  tutte  le  provincie  erano  assai popoli  liberissimi.  Vedesi  come  in  quelli tempi  de’  quali  noi  parliamo  al  presente, in  Italia,  dall’  Alpi  che  dividono  ora  la Toscana  dalla  Lombardia,  insino  alla punta  d’Italia,  erano  molti  popoli  liberi; com’erano  i Toscani,  i Romani,  i Sanniti, e molti  altri  popoli  che  in  quel  resto d’ Italia  abitavano.    si  ragiona  mai che  vi  fusse  alcuno  re,  fuora  di  quelli che  regnarono  in  Roma,  e Porsena  re di  Toscaua;  la  stirpe  del  quale  come  si estinguesse,  non  ne  parla  la  istoria.  Ma si  vede  bene,  come  in  quelli  tempi  che  i . Romani  andarono  a campo  a Veio,  la Toscana  era  libera  : e tanto  si  godea della  sua  libertà,  e tanto  odiava  il  nome del  principe,  che  avendo  fatto  i Veienti per  loro  difensione  un  re  in  Veio,  e domandando  aiuto  a' Toscani  contra  ai Romani  ; quelli,  dopo  molte  consulte  fatte, deliberarono  di  non  dare  aiuto  a’Veienti, infino  a tanto  che  vivessino  sotto  ’1  re; giudicando  non  esser  bene  difendere  la patria  di  coloro  che  V avevano  di  già sottomessa  ad  altrui.  E facil  cosa  è conoscere donde  nasca  ne’  popoli  questa affezione  del  vivere  libero;  perchè  si  vede per  esperienza,  le  cittadi  non  avere  mai ampliato    di  domiuio    di  ricchezza, se  non  mentre  sono  state  in  libertà.  E veramente  meravigliosa  cosa  è a considerare, a quanta  grandezza  venne  Atene per  ispazio  di  cento  anni,  poiché  la  si liberò  dalla  tirannide  di  Pisistrato.  Ma sopra  tutto  meravigliosissima  cosa  è a considerare,  a quanta  grandezza  venne Roma,  poiché  la  si  liberò  da’  suoi  Re. La  cagione  è facile  ad  intendere;  perchè  non  il  bene  particolare,  ma  il  bene comune  è quello  che  fa  grandi  le  città. E senza  dubbio,  questo  bene  comune  non è osservato  se  non  nelle  repubbliche; perchè  lutto  quello  che  fa  a proposito suo,  si  eseguisce;  e quantunque  e’ torni in  danno  di  questo  o di  quello  privato, e’  sono  tanti  quelli  per  chi  detto  bene fa,  che  lo  possono  tirare  innanzi  contra alla  disposizione  di  quelli  pochi  che  ne fussino  oppressi.  Al  contrario  interviene quando  vi  è uno  principe;  dove  il  più delle  volte  quello  che  fa  per  lui,  offende la  città;  e quello  che  fa  per  la  città, offende  lui.  Dimodoché,  subito  che  nasce una  tirannide  sopra  un  viver  libero,  il manco  male  che  ne  resulti  a quelle  città, è non  andare  più  innanzi,    crescere più  in  potenza  o in  ricchezze  ; ma  il  più delle  volte,  anzi  sempre,  interviene  loro, che  le  tornano  indietro.  E se  la  sorte facesse  che  vi  surgesse  un  tiranno  virtuoso, il  quale  , per  animo  e per  virtù d’  arme  ampliasse  il  dominio  suo,  non ne  risulterebbe  alcuna  utilità  a quella repubblica,  ma  a lui  proprio:  perchè e’  non  può  onorare  nessuno  di  quelli cittadini  che  siano  valenti  c buoni,  che egli  tiranneggia,  non  volendo  avere  ad avere  sospetto  di  loro.  Non  può  ancora le  città  che  egli  acquista,  sottometterle o farle  tributarie  a quella  città  di  che egli  è tiranno:  perchè  il  farla  potente non  fa  per  lui;  ma  per  lui  fa  tenere  lo Stato  disgiunto,  e che  ciascuna  terra  e ciascuna  provincia  riconosca  lui.  Talché di  suoi  acquisti,  solo  egli  ne  profitta,  e non  la  sua  patria.  E chi  volesse  confermare questa  oppinione  con  infinite  altre ragioni,  legga  Senofonte  nel  suo  trattato che  fa  De  Tirannide.  Non  è meraviglia adunque,  che  gli  antichi  popoli con  tanto  odio  perseguitassino  i tiranni, ed  nmassiiio  il  vivere  libero,  e che  il nome  della  libertà  fusse  tanto  stimato da  loro:  come  intervenne  quando  Girolamo nipote  di  lerone  siracusano  fu morto  in  Siracusa,  che  venendo  le  novelle della  sua  morte  in  nel  suo  esercito, che  non  era  molto  lontano  da  Siracusa,  cominciò  prima  a tumultuare,  e pigliare  1’  armi  contro  agli  ucciditori  di quello;  ma  come  ei  sentì  che  in  Siracusa si  gridava  libertà,  allettato  da  quel nome,  si  quietò  tutto,  pose  giti  V ira contra  a’  tirannicidi,  e pensò  come  iti quella  città  si  potesse  ordinare  un  viver libero.  Non  è meraviglia  ancora,  che  i popoli  faccino  vendette  istraordinaric contra  a quelli  che  gli  hanno  occupata la  libertà.  Di  che  ci  sono  stali  assai esempi,  de’ quali  ne  intendo  referire  solo uno,  seguilo  in  Coreica,  città  di  Grecia, ne’ tempi  della  guerra  peloponnesiaca; «love  sendo  divisa  quella  provincia  in due  fazioni,  delle  quali  1’  una  seguitava gli  Ateniesi,  V altra  gli  Spartani,  ne  nasceva che  di  molte  città,  che  erano  infra loro  divise,  T una  parte  seguiva  F amicizia di  Sparta,  l’altra  di  Atene:  ed  essendo occorso  clic  nella  detta  città  prcvalessino  i nobili,  e togliessino  la  libertà al  popolo,  i popolari  per  mezzo  degli Ateniesi  ripresero  le  forze,  e posto  le mani  addosso  a tutta  la  nobiltà,  gli  rinchiusero in  una  prigione  capace  di  tutti loro;  donde  gli  traevano  ad  otto  o dieci per  volta,  sotto  titolo  di  mandargli  in esilio  iti  diverse  parli,  e quelli  con  molti crudeli  essempi  facevauo  morire.  Di  che sendosi  quelli  che  restavano  accorti,  deliberarono, in  quanto  era  a loro  possibile, fuggire  quella  morte  ignominiosa  ; ed  armatisi  di  quello  potevano,  combattendo con  quelli  vi  volevano  entrare,  la entrata  della  prigione  difendevano;  di modo  che  il  popolo,  a questo  romore fatto  concorso,  scoperse  la  parte  superiore di  quel  luogo,  e quelli  con  quelle rovine  sufìbeorno.  Seguirono  ancora  in delta  provincia  molti  altri  simili  casi orrendi  e notabili  : talché  si  vede  esser vero,  che  con  maggiore  impeto  si  vendica una  libertà  che  ti  è suta  tolta,  che quella  che  li  è voluta  torre.  Pensando dunque  donde  possa  nascere,  che  in  quelli tempi  antichi,  i popoli  fussero  più  amatori della  libertà  che  in  questi;  credo nasca  da  quella  medesima  cagione  che fa  ora  gli  uomini  manco  forti  : la  quale credo  sia  la  diversità  della  educazione nostra  dalla  antica,  fondata  nella  diversità della  religione  nostra  dalla  antica. Perchè  avendoci  la  nostra  religione mostra  la  verità  e la  vera  via, ci  fa  stimare  meno  l’onore  del  mondo: onde  i Gentili  stimandolo  assai, ed  avendo  posto  in  quello  il  sommo  bene, erano  nelle  azioni  loro  più  feroci. Il  che  si  può  considerare  da  molte  loro constituzioni,  cominciandosi  dalla  magnificenza de’  sacrificii  loro,  alla  umilila de’  nostri  ; dove  è qualche  pompa  più dilicata  che  magnifica,  ma  nessuna  azione feroce  o gagliarda.  Quivi  non  mancava la  pompa    la  magnificenza  delle  cerimonie, ma  vi  si  aggiungeva  1*  azione del  sacrificio  pieno  di  sangue  e di  ferocia, ammazzandovisi  moltitudine  di  animali  : il  quale  aspetto  sendo  terribile,  rendeva gli  uomini  simili  a lui.  La  religione  antica, oltre  di  questo,  non  beatificava  se non  gli  uomini  pieni  di  mondana  gloria: come  erano  capitani  di  eserciti,  e principi di  repubbliche.  La  nostra  religione ha  glorificato  più  gli  uomini  umili  e contemplativi,  che  gli  attivi.  Ha  dipoi posto  il  sommo  bene  nella  umilila,  abiezione, nello  dispregio  delle  cose  umane: quell’  altra  lo  poneva  nella  grandezza dello  animo,  nella  fortezza  del  corpo,  ed in  tutte  le  altre  cose  atte  a fare  gli  uomini fortissimi.  E se  la  religione  nostra richiede  che  abbi  in  te  fortezza,  vuole che  tu  sia  atto  a patire  più  che  a fare una  cosa  forte.  Questo  modo  di  vivere, adunque,  pare  che  abbi  rendutoil  mondo debole,  e datolo  in  preda  agli  uomini scellerati;  i quali  sicuramente  lo  possono maneggiare,  veggendo  come  la  università degli  uomini,  per  andare  in  paradiso, pensa  più  a sopportare  le  sue battiture,  che  a vendicarle.  E benché  paia che  si  sia  effeminato  il  mondo,  e disarmato il  cielo,  nasce  più  senza  dubbio dalla  viltà  degli  uomini,  che  hanno  interpretato la  nostra  religione  secondo l’  ozio,  e non  secondo  la  virtù.  Perchè, se  considerassino  come  la  permette  la esultazione  e la  difesa  della  patria,  vedrebbono  come  la  vuole  che  noi  l’amiaino  ed  onoriamo,  e prepariamoci  ad  esser tali  che  noi  la  possiamo  difendere. Fanno  adunque  queste  educazioni,  e si false  interpretazioni,  che  nel  mondo  non si  vede  tante  repubbliche  quante  si  vedeva aulicamente;  nè,  per  conscguente, si  vede  ne’  popoli  tanto  amore  alla  libertà quanto  allora  : ancora  che  io  creda  piuttosto essere  cagione  di  questo,  che  lo imperio  romano  con  le  sue  arme  e sua grandezza  spense  tutte  le  repubbliche  e lutti  i viveri  civili  E benché  poi  tal  imperio si  sia  risoluto,  non  si  sono  potute le  città  ancora  rimettere  insieme    riordinare alla  vita  civile,  se  non  in  pochissimi luoghi  di  quello  imperio.  Pure, comunelle  si  fusse,  i Romani  in  ogni minima  parte  del  mondo  trovarono  una congiura  di  repubbliche  armatissime,  ed ostinatissime  atia  difesa  della  libertà  loro. Il  che  mostra  che  '1  Popolo  romano  senza una  rara  ed  estrema  virtù  mai  non  le arebbe  potute  superare.  E per  darne esseinpio  di  qualche  membro,  voglio  mi basti  lo  essempio  de’  Sanniti  : i quali pare  cosa  mirabile,  e Tito  Livio  lo  confessa, che  fussero    potenti,  e 1’  arme loro  si  valide,  che  potessero  infino  al tempo  di  Papirio  Cursore  consolo,  figliuolo del  primo  Papirio,  resistere  a’  Romani (che  fu  uno  spazio  di  XLVI  anni),  dopo tante  rotte,  rovine  di  terre,  e tante  stragi ricevute  nel  paese  loro;  massime  veduto ora  quel  paese  dove  erano  tante  cittadi e tanti  uomini,  esser  quasi  che  disabitato : ed  allora  vi  era  tanto  ordine,  e tanta  forza,  eh’  egli  era  insuperabile, se  da  una-  virtù  romana  non  fusse  stato assaltato.  E facil  cosa  è considerare  donde nasceva  quello  ordine,  c donde  proceda questo  disordine;  perchè  tutto  viene  dal viver  libero  allora,  ed  ora  dal  viver  servo. Perchè  tutte  le  terre  e le  provincie  che vivono  libere  in  ogni  parte,  come  di  sopra dissi,  fanno  i progressi  grandissimi. Perchè  quivi  si  vede  maggiori  popoli, per  essere  i matrimoni  più  liberi,  e più desiderabili  dagli  uomini  : perchè  ciascuno procrea  volentieri  quelli  figliuoli che  crede  potere  nutrire,  non  dubitando che  il  patrimonio  gli  sia  tolto;  thè  eT conosce non  solamente  che  nascono  liberi e non  schiavi,  ma  che  possono  mediante la  virtù  loro  diventare  principi.  Veggonvisi  le  ricchezze  multiplicare  in  maggiore numero,  e quelle  che  vengono  dalla cultura,  e quelle  che  vengono  dalle  arti. Perchè  ciascuno  volentieri  multiplica  in quella  cosa,  e cerca  di  acquistare  quei beni,  che  crede  acquistati  potersi  godere. Onde  ne  nasce  che  gli  uomini  a gara  pensano ai  privati  ed  a’ pubblici  comodi;  e l’ uno  e l’altro  viene  meravigliosamente  a crescere.  II  contrario  di  tutte  queste  cosesegue  in  quelli  paesi  che  vivono  scivi; c tanto  più  mancano  del  consueto  bene, quanto  è più  dura  la  servitù.  E di  tutte" le  servitù  dure,  quella  è durissima  che li  sottomette  ad  una  repubblica  : E una, perchè  la  è più  durabile,  e manco  si  può sperare  d’  uscirne;  Y altra,  perchè  il  fine della  repubblica  è enervare  ed  indebolire. per  accrescere  il  corpo  suo,  tutti gli  altri  corpi.  11  che  non  la  un  principe che  ti  sottometta,  quando  quel principe  non  sia  qualche  principe  barbaro, destruttore  de’  paesi,  e dissipatore di  tutte  le  civilità  degli  uomini,  come sono  i principi  orientali.  Ma  s’ egli  ha in    ordini  umani  ed  ordinari,  il  più delle  volte  ama  le  città  sue  soggette egualmente,  ed  a loro  lascia  T arti  tutte, e quasi  lutti  gli  ordini  antichi.  Talché, se  le  non  possono  crescere  come  libere, elle  non  rovinano  anche  come  serve;  intendendosi della  servitù  in  quale  vengono le  città  servendo  ad  un  forestiero, perchè  di  quella  d’ uno  loro  cittadino ne  parlai  di  sopra.  Chi  considerrù,  adunque, tutto  quello  che  si  è detto,  non  si meraviglierà  della  potenza  che  i Sanniti avevano  sendo  liberi,  e della  debolezza in  che  e’ vennero  poi  servendo:  e L.  ne  fa  fede  in  più  luoghi,  e massime nella  guerra  d’ Annibaie,  dove  ei mostra  che  essendo  i Sanniti  oppressi da  una  legione  d’  uomini  che  era  in  Nola, mandorono  oratori  ad  Annibale,  a pregarlo che  gli  soccorresse;  i quali  nel parlar  loro  dissono,  che  avevano  per cento  anni  combattuto  con  i Romani  con i propri  loro  soldati  e propri  loro  capitani, e molte  volte  avevano  sostenuto duoi  eserciti  consolari  e duoi  consoli;  e che  allora  a tanta  bassezza  erano  venuti, che  non  si  potevano  a pena  difendere da  una  piccola  legione  romana  che  era. Roma  divenne  grande  città  rovinando le  città  circonvicine , e ricevendo i forestieri  facilmente  aJ  suoi  onori. Crescit  inlerea  Roma  Albce  ruinis. Quelli  che  disegnano  che  una  città  faccia grande  imperio,  si  debbono  con  ogni industria  ingegnare  di  farla  piena  di abitatori  ; perchè  senza  questa  abbondanza di  uomini,  mai  non  riuscirà  di fare  grande  una  città.  Questo  si  fa  in duoi  modi;  per  amore,  e per  forza. Per  amore,  tenendo  le  vie  aperte  e secure  a’  forestieri  che  disegnassero  venire ad  abitare  in  quella,  acciocché  ciascuno vi  abiti  volentieri  : per  forza,  disfacendo le  città  vicine,  e mandando  gli abitatori  di  quelle  ad  abitare  nella  tua città.  Il  che  fu  tanto  osservato  in  Roma, che  nel  tempo  del  sesto  Re  in  Roma abitavano  ottantamila  uomini  da  portare armi.  Perchè  i Romani  vollono  fare  ad uso  del  buono  cultivatore;  il  quale,  perche  una  pianta  ingrossi,  e possa  pròdurre  e maturare  i fruiti  suoi,  gli  taglia i primi  rami  che  la  mette,  acciocché, rimasa  quella  virtù  nel  piede  di  quella pianta,  possino  col  tempo  nascervi  più verdi  e più  fruttiferi.  E che  questo  modo tenuto  per  ampliare  e fare  imperio, fusse  necessario  e buono,  lo  dimostra Io  essempio  di  Sparta  e di  Atene  : le quali  essendo  due  repubbliche  armatissime, ed  ordinate  di  ottime  leggi,  nondimeno non  si  condussono  alla  grandezza dello  imperio  romano;  e Roma pareva  più  tumultuaria,  e non  tanto bene  ordinata  quanto  quelle.  Di  che non  se  ne  può  addurre  altra  cagione, che  la  preallegata:  perchè  Roma,  per avere  ingrossato  per  quelle  due  vie  il corpo  della  sua  città,  potette  di  già mettere  in  arme  dugentottantamila  uomini; e Sparta  ed  Atene  non  passarono mai  ventimila  per  ciascuna.  Il  che  nacque, non  da  essere  il  sito  di  Roma  più benigno  che  quello  di  coloro,  ma  solamente  da  diverso  modo  di  procedere. Perché  Licurgo,  fondatore  della  repubblica spartana , considerando  nessuna cosa  potere  più  facilmente  risolvere  le sue  leggi  che  la  commistione  di  nuovi abitatori,  fece  ogni  cosa  perchè  i forestieri non  avessino  a conversarvi:  ed, oltre  al  non  gli  ricevere  ne’ matrimoni, alla  civiltà,  ed  alle  altre  conversazioni che  fanno  convenire  gli  uomini  insieme, ordinò  che  in  quella  sua  repubblica  si spendesse  monete  di  cuoio,  per  tor  via a ciascuno  il  desiderio  di  venirvi  per portarvi  mercanzie,  o portarvi  alcuna arte;  di  qualità  che  quella  città  non potette  mai  ingrossare  di  abitatori.  E perchè  tutte  le  azioni  nostre  imitano  la natura,  non  è possibile    naturale  che uno  pedale  sottile  sostenga  un  ramo grosso.  Però  una  repubblica  piccola  non può  occupare  città    regni  che  siano più  validi    più  grossi  di  lei;  e se  pure gli  occupa,  gP  interviene  come  a quello albero  che  avesse  più. grosso  il  ramo che  ’l  piede,"  che  sostenendolo  con  fatica, ogni  piccolo  vento  lo  fiacca:  come si  vede  che  intervenne  a Sparla,  la  quale avendo  occupate  tutte  le  città  di  Grecia, non  prima  se  gli  ribellò  Tebe,  che  tutte P altre  cittadi  se  gli  ribellarono,  e rimase i!  pedale  solo  senza  rami.  Il  che non  potette  intervenire  a Roma,  avendo il  piè  si  grosso,  che  qualunque  ramo poteva  facilmente  sostenere.  Questo  modo adunque  di  procedere,  insieme  con gli  altri  che  di  sotto  si  diranno,  fece Roma  grande  e potentissima.  Il  che  dimostra L.  in  due  parole,  quando disse:  Crcscit  intcrea  Roma  Albce  ruinis. Le  repubbliche  hanno  tentili tre  modi  circa  lo  ampliare. Chi  ha  osservato  le  antiche  istorie, Iruova  come  le  repubbliche  hanno  tre modi  circa  lo  ampliare.  L*  uno  è stato quello  che  osservorono  i Toscani  antichi, di  essere  una  lega  di  più  repubbliche  insieme,  dove  non  sia  alcuna  che avanzi  l’ altra    di  autorità    di  grado; e nello  acquistare,  farsi  1’ altre  città compagne,  in  simil  modo  come  in  questo tempo  fanno  i Svizzeri,  e come  nei tempi  antichi  feciono  in  Grecia  gli  Achei e gli  Etoli.  E perchè  gli  Romani  feciono assai  guerra  con  i Toscani,  per  mostrar meglio  la  qualità  di  questo  primo  modo, ini  distenderò  in  dare  notizia  di  loro particolarmente.  In  Italia,  innanzi  allo imperio  romano,  furono  i Toscani  per mare  e per  terra  potentissimi:  e benché delle  cose  loro  non  ce  ne  sia  particolare istoria,  pure  c’è  qualche  poco di  memoria,  e qualche  segno  della  grandezza  loro;  e si  sa  come  e*  mandarono una  colonia  in  su  ’l  mare  di  sopra,  la quale  chiamarono  Adria,  che  fu  si  nobile, che  la  dette  nome  a quel  mare  che ancora  i Latini  chiamano  Adriatico.  Intendesi  ancora,  come  le  loro  arme  furono ubbidite  dal  Tevere  per  infìno  ai piè  dell’  Alpi,  che  ora  cingono  il  grosso di  Italia;  non  ostante  che  dugento  anni innanzi  che  i Romani  crescessino  in molte  forze,  detti  Toscani  perderono  lo imperio  di  quel  paese  che  oggi  si  chiama la  Lombardia;  la  quale  provincia  fu occupata  da’ Franciosi  : i quali  mossi  o da  necessità,  o dalla  dolcezza  dei  frutti, e massime  del  viuo,  vennono  in  Italia sotto  Bellovcso  loro  duce;  e rotti  e cacciati i provinciali,  si  posono  in  quel luogo,  dove  edificarono  di  molte  cittadi, e quella  provincia  chiamarono  Gallia, dal  nome  che  tenevano  allora  ; la  quale tennono  fino  che  da’  Romani  fussero domi.  Vivevano,  adunque,  i Toscani  con quella  equalità , e procedevano  nello ampliare  in  quel  primo  modo  che  di sopra  si  dice:  e furono  dodici  città,  tra le  quali  era  Chiusi,  Yeio,  Fiesole,  Arezzo, Volterra,  e simili:  i quali  per  via di  lega  governavano  lo  imperio  loro; nè  poterono  uscir  d’Italia  con  gli  acquisti ; e di  quella  ancora  rimase  intatta gran  parte,  per  le  cagioni  che  di  sotto si  diranno.  V altro  modo  è farsi  compagni j  non  tanto  però  che  non  ti  rimanga il  grado  del  comandare,  la  sedia dello  imperio  ed  il  titolo  delle  imprese  : il  quale  modo  fu  osservato  da’  Romani. 11  terzo  modo  è farsi  immediate  sudditi, e non  compagni;  come  fecero  gli Spartani  e gli  Ateniesi.  De'  quali  tre modi,  questo  ultimo  è al  tutto  inutile; come  c’  si  vide  che  fu  nelle  sopraddette due  repubbliche:  le  quali  non  rovinarono per  altro,  se  non  per  avere  acquistato quel  dominio  che  le  non  potevano tenere.  Perchè,  pigliar  cura  di  avere  a governare  città  con  violenza,  massime quelle  che  tassino  consuete  a viver  libere, è una  cosa  diffìcile  e faticosa.  E se  tu  non  sei  armato  e grosso  d’  armi, non  le  puoi    comandare    reggere. Ed  a voler  esser  così  fatto,  è necessario farsi  compagni  che  ti  aiutino  ingrossare la  tua  città  di  popolo.  E perchè queste  due  città  non  feciono  nè1’  uno    I’  altro,  il  modo  del  procedere loro  fu  inutile.  E perché  Roma,  la  quale è nello  esempio  del  secondo  modo,  fece l’uno  e T altro;  però  salse  a tanta  eccessiva potenza.  E perchè  la  è stata  sola a vivere  cosi,  è stata  ancora  sola  a diventar tanto  potente  : perchè,  avendosi ella  fatti  di  molti  compagni  per  tutta Italia,  i quali  in  di  molte  cose  con  eguali leggi  vivevano  seco;  e dall’ altro  canto» come  di  sopra  è detto,  sendosi  riservato sempre  la  sedia  dello  imperio  ed il  titolo  del  comandare;  questi  suoi  com-pagni venivano,  che  non  se  ne  avvedevano, con  le  fatiche  e con  il  sangue loro  a soggiogar    stessi.  Perchè,  come cominciorono  a uscire  con  gli  eserciti di  Italia,  e ridurre  i regni  in  provincie,  e farsi  soggetti  coloro  che  per esser  consueti  a vivere  sotto  i Re,  non si  curavano  d*  esser  soggetti;  ed  avendo governadori  romani,  ed  essendo  stati vinti  da  eserciti  con  ii  titolo  romano  ; non  riconoscevano  per  superiore  altro che  Roma.  Di  modo  che  quelli  compagni  di  Roma  che  erano  in  Italia,  si  trovarono in  un  tratto  cinti  da’  sudditi romani,  cd  oppressi  da  una  grossissima città  come  era  Roma  ; e quando  e’  si avviddono  dello  inganno  sotto  i!  quale erano  vissuti,  non  furono  a tempo  a rimediarvi:  tanta  autorità  aveva  presa Roma  con  le  provincie  esterne,  e tanta forza  si  trovava  in  seno,  avendo  la  sua città  grossissima  ed  armatissima.  E benché quelli  suoi  compagni,  per  vendicarsi delle  ingiurie,  gli  congiurassino  contea, furono  in  poco  tempo  perditori  della guerra,  peggiorando  le  loro  condizioni; perchè  di  compagni,  diventarono  ancora loro  sudditi.  Questo  modo  di  procedere, come  è detto,  è stato  solo  osservato da’  Romani:    può  tenere  altro modo  una  repubblica  che  voglia  ampliare; perchè  la  esperienza  non  te  ne ha  mostro  nessuno  più  certo  o più vero.  11  modo  preallegato  delle  leghe, come  viverono  i Toscani,  gii  Achei  e gli  Etoli,  e come  oggi  vivono  i Svizzeri,  è dopo  a quello  de’  Romani  il miglior  modo;  perchè  non  si  potendo con  quello  ampliare  assai,  ne  seguitano duoi  beni:  l’  uno,  che  facilmente  non  ti tiri  guerra  addosso;  l’altro,  che  quel tanto  che  tu  pigli,  lo  tieni  facilmente. La  cagione  del  non  potere  ampliare,  è lo  essere  una  repubblica  disgiunta,  e posta  in  varie  sedi:  il  che  fa  che  difficilmente possono  consultare  e deliberare. Fa  ancora  che  non  sono  desiderosi  di dominare:  perchè  essendo  molte  comunità a*  participarc  di  quel  dominio,  non istimano  tanto  tale  acquisto,  quanto  fa una  repubblica  sola,  che  spera  di  goderselo tutto.  Governansi,  oltra  di  questo, per  concilio,  c conviene  che  siano più  tardi  ad  ogni  deliberazione,  che quelli  che  abitano  dentro  ad  un  medesimo cerchio.  Vedesi  ancora  per  esperienza, che  simile  modo  di  procedere  ha un  termine  fisso,  il  quale  non  ci  è esempio che  mostri  che  si  sia  trapassato:  e questo  è di  aggiugnere  a dodici  o quattordici  comunità  ; dipoi  non  cercare di  andare  più  avanti  : percliè  sendo giunti  al  grado  che  par  loro  potersi  difendere da  ciascuno,  non  cercano  maggiore dominio  ; sì  perchè  la  necessità non  gli  stringe  di  avere  piò  potenza; si  per  non  conoscere  utile  negli  acquisti, per  le  cagioni  dette  di  sopra.  Perchè gli  arebbono  a fare  una  delle  due cose;  o seguitare  di  farsi  compagni,  e questa  moltitudine  farebbe  confusione; o gli  arebbono  a farsi  sudditi  : e perchè e’  veggono  in  questo  difficultà,  e non  molto  utile  nel  tenergli,  non  lo  stimano. Pertanto,  quando  e’  sono  venuti a tanto  numero  che  paia  loro  vivere sicuri,  si  voltano  a due  cose:  P una  a ricevere  raccomandati,  e pigliare  protezioni ; c per  questi  mezzi  trarre  da ogni  parte  danari,  i quali  facilmente intra  loro  si  possono  distribuire:  1*  altra è militare  per  altrui,  e pigliar  stipendio da  questo  e da  quello  principe che  per  sue  imprese  gli  soldo  ; come  si vede  che  fanno  oggi  i Svizzeri,  e come si  legge  che  facevano  i preallegati.  Di che  il*  è testimone  Tito  Livio,  dove  dice che,  venendo  a parlamento  Filippo  re di  Macedonia  con  Tito  Quinzio  Flamminio,  e ragionando  d'accordo  alla  presenza d’  un  pretore  degli  Etoli  ; in  venendo a parole  detto  pretore  con  Filippo, gli  fu  da  quello  rimproverato  la avarizia  e la  infidelità,  dicendo  che  gli Etoli  non  si  vergognavano  militare  con uno,  e poi  mandare  loro  uomini  ancora al  servigio  del  nimico  ; talché  molte volte  intra  dnoi  contrari  eserciti  si  vedevano le  insegne  di  Etolia.  Conoscesi, pertanto,  come  questo  modo  di  procedere per  leghe,  è stato  sempre  simile, ed  ha  fatto  simili  effetti.  Vedesi  ancora, che  quel  modo  di  fare  sudditi  è stato sempre  debole,  ed  avere  fatto  piccoli profitti;  e quando  pure  egli  hanno  passato il  modo,  essere  rovinati  tosto.  E se questo  modo  di  fare  sudditi  è inutile nelle  repubbliche  armate,  in  quelle  che sono  disarmate  è inutilissimo:  come  sono state  ne’  nostri  tempi  le  repubbliche  di Italia.  Conoseesi,  pertanto,  essere  vero modo  quello  che  tennono  i Romani  5 il quale  è tanto  più  mirabile,  quanto  e’  non ee  il’  era  innanzi  a Roma  essempio,  e dopo Roma  non  è stalo  alcuno  elio  gli abbi  imitati.  E quanto  alle  leghe,  si trovano  solo  i Svizzeri  e la  lega  di  Svevia  che  gli  imita.  E,  come  nel  fine  di questa  materia  si  dirà,  tanti  ordini  osservati da  Roma,  così  pertinenti  alle cose  di  dentro  come  a quelle  di  fuora, non  sono  ne*  presenti  nostri  tempi  non solamente  imitati,  ma  non  n’è  tenuto alcuno  conto  ; giudicandoli  alcuni  non veri,  alcuni  impossibili,  alcuni  non  a proposito  ed  inutili  : tanto  che  standoci con  questa  ignoranza,  siamo  preda  di qualunque  ha  voluto  correre  questa  provincia. E quando  la  imitazione  de’  Romani paresse  difficile,  non  doverrebhe parere  cosi  quella  degli  antichi  Toscani, massime  a’  presenti  Toscani. Perchè,  se quelli  non  poterono,  per  le  cagioni  dette, fare  uno  imperio  simile  a quel  di  Roma, poterono  acquistare  in  Italia  quella  potenza che  quel  modo  del  procedere  concesse loro.  11  che  fu  per  un  gran  tempo securo,  con  somma  gloria  d’ imperio  e d’arme,  e massima  laude  di  costumi  e di  religione.  La  qual  potenza  e gloria fu  prima  diminuita  da’  Franciosi,  dipoi spenta  da’ Romani;  e fu  tanto  spenta, che,  ancora  che  duemila  anni  fa  la  potenza de’  Toscani  fusse  grande,  al  presente non  ce  n’  è quasi  memoria.  La qual  cosa  mi  ha  fatto  pensare  donde nasca  questa  oblivione  delle  cose:  come nel  seguente  capitolo  si  discorrerà. V.  — Che  la  variazione  delle  sèlle e delle  lingue insieme  con  l'accidente de'  diluvi  o delle  pesti  j spegno  la  memoria  delle  cose. A quelli FILOSOFI che  hanno  voluto  che’l mondo  sia  stato  eterno,  credo  che  si potesse  reificare,  che  se  tanta  antichità fusse  vera,  e’ sarebbe  ragionevole  che ci  fusse  memoria  di  più  che  cinque mila  anni;  quando  e’  non  si  vedesse  come queste  memorie  de*  tempi  per  diverse cagioni  si  spengano:  delle  quali parte  vengono  dagli  nomini,  parte  dal cielo.  Quelle  che  vengono  dagli  uomini, sono  LE VARIAZIONI DELLE SETTE E DELLE LINGUE. Perchè  quando  surge  una  setta nuova,  cioè  una  religione  nuova,  il  primo studio  suo  è,  per  darsi  reputazione, estinguere  la  vecchia;  e quando  egli  occorre che  gli  ordinatori  delia  nuova setta  siano  di  lingua  diversa,  la  spengono facilmente.  La  qual  cosa  si  conosce considerando  i modi  che  ha  tenuti la  religione  cristiana  contra  alla  SETTA GENTILE;  la  quale  ha  cancellati  tutti  gli ordini,  tutte  le  ceremonie  di  quella,  e spenta  ogni  memoria  di  quella  antica teologia.  Vero  è che  non  gli  è riuscito spegnere  in  tutto  la  notizia  delle  cose fatte  dagli  uomini  eccellenti  di  quella: il  die  è nato  per  AVERE QUELLA MANTENUTA LA LINGUA LATINA; il  che  fecero forzatamente,  avendo  a scrivere  questa legge  nuova  con  essa.  Perchè,  se  V avessino potuta  scrivere  con  nuova  lingua, considerato  le  altre  persecuzioni  gli  feciono,  non  ci  sarebbe  ricordo  alcuno delle  cose  passate.  E chi  legge  i modi tenuti  da  san  Gregorio  e dagli  altri capi  della  religione  cristiana,  vedrà  con quanta  ostinazione  e’  perseguitarono tutte  le  memorie  antiche,  ardendo  P opere  de*  poeti  e delli  istorici,  minando le  immagini,  e guastando  ogni  altra  cosa che  rendesse  alcun  segno  della  antichità. Talché,  se  a questa  persecuzione  egli avessino  aggiunto  una  nuova  lingua,  si sarebbe  veduto  in  brevissimo  tempo ogni  cosa  dimenticare.  È da  credere, pertanto,  che  quello  che  ha  voluto  fare la  religione  cristiana  contra  alla  setta gentile,  la  gentile  abbi  fatto  contra  u quella  che  era  innanzi  a lei.  E perchè queste  sètte  in  cinque  o in  seimila  anni variarono  due  o tre  volle,  si  perdè  in memoria  delle  cose  fatte  innanzi  a quel tempo.  E se  pure  ne  resta  alcun  segno, si  considera  come  cosa  favolosa,  e non è prestato  loro  fede  : come  interviene alla  istoria  di  Diodoro  Siculo,  che  benché e’  renda  ragione  di  quaranta  o cinquanta mila  anni,  nondimeno  è riputata, come  io  credo  che  sia,  cosa  mendace. Quanto  alle  cause  che  vengono  dal  cielo, sono  quelle  che  spengono  la  umana generazione,  e riducono  a pochi  gli  abitatori di  parte  del  mondo.  E questo viene  o per  peste  o per  fame  o per  una inondazione  d*  acque: e la  più  importante è questa  ultima,    perchè  la  è più  universale,    perchè  quelli  che  si salvano  sono  uomini  tutti  montanari  e rozzi,  i quali  non  avendo  notizia  di  alcuna antichità,  non  la  possono  lasciare a’  posteri.  E se  infra  loro  si  salvasse alcuno  che  ne  avesse  notizia,  per  farsi riputazione  e nome,  la  nasconde,  e la perverte  a suo  modo  ; talché  ne  resta solo  a*  successori  quanto  ei  ne  ha  voluto scrivere,  e non  altro.  E che  queste inondazioni,  pesti  e fami  venghino,  non credo  sia  da  dubitarne;    perchè  ne sono  piene  tutte  le  istorie,    perchè  si vede  questo  effetto  della  oblivione  delle cose,    perchè  e’  pare  ragionevole  che sia:  perchè  la  natura,  come  ne’ corpi semplici,  quando  vi  è ragunato  assai materia  superflua,  muove  per    medesima molte  volte,  e fa  una  purgazione, la  quale  è salute  di  quel  corpo  ; così interviene  in  questo  corpo  misto  della umana  generazione,  che  quando  tutte  le provincie  sono  ripiene  di  abitatori,  in modo  che  non  possono  vivere,    possono andare  altrove,  per  esser  occupati e pieni  tutti  i luoghi;  e quando  la  astuzia e malignità  umana  è venuta  dove la  può  venire,  conviene  di  necessità  che il  mondo  si  purghi  per  uno  de’  tre  modi ; acciocché  gli  uomini  essendo  divenuti pochi  e battuti,  vivano  più  comodamente, e diventino  migliori.  Era adunque,  come  di  sopra  è detto,  già  tu Toscana  potente,  piena  di  religione  e di  virtù  ; aveva  i suoi  costumi  e la  sua LINGUA PATRIA:  il  che  tutto  è stato  spento dalla  potenza  romana.  Talché,  come  si è detto,  di  lei  ne  rimane  solo  la  memoria del  nome. Come  i Romani  procedevano nel  fare  la  guerra. Avendo  discorso  come  i Romani  procedevano nello  ampliare,  discorreremo ora  come  e’  procedevano  nel  fare  la guerra  ; ed  in  ogni  loro  azione  si  vedrà con  quanta  prudenza  ei  diviarono dal  modo  universale  degli  altri,  per  facilitarsi la  via  a venire  a una  suprema grandezza.  La  intenzione  di  chi  fa guerra  per  elezione,  o vero  per  ambizione, è acquistare  e mantenere  lo  acquistato; e procedere  in  modo  con  esso, che  I’  arricchisca  c non  impoverisca  il paese  e la  patria  sua.  È necessario  dunquc,  e nello  acquistare  e nel  mantenere,  pensare  di  non  spendere;  anzi  far ogni  cosa  con  utilità  del  pubblico  suo. Chi  vuol  fare  tutte  queste  cose,  conviene che  tenga  lo  stile  e modo  romano: il  quale  fu  in  prima  di  fare  le  guerre, come  dicono  i Franciosi,  corte  e grosse; perchè,  venendo  in  campagna  con eserciti  grossi,  tutte  le  guerre  eh’  egli ebbono  co’  Latini,  Sanniti  e Toscani  le espedirono  in  brevissimo  tempo.  E se si  noteranno  tutte  quelle  che  feciono  dal principio  di  Roma  infino  alla  ossidione de’  Yeienti,  tutte  si  vedranno  espedite, quale  in  sei,  quale  in  dieci,  quale  inventi  di.  Perchè  l’uso  loro  era  questo: subito  che  era  scoperta  la  guerra,  egli uscivano  fuori  con  gli  eserciti  all’incontro del  nimico,  e subito  facevano  la giornata.  La  quale  vinta,  i nimici,  perchè non  fussc  guasto  loro  il  contado affatto,  venivano  alle  condizioni;  ed  i Romani  gli  condennavano  in  terreni:  i quali  terreni  gli  convertivano  in  privati comodi,  o gli  consegnavano  ad  una  colonia; la  quale  posta  in  su  le  frontiere di  coloro,  veniva  ad  esser  guardia  de’  confini romani,  con  utile  di  essi  coloni,  che avevano  quelli  campi,  e con  utile  del pubblico  di  Roma,  che  senza  spesa  teneva quella  guardia.    poteva  questo modo  esser  più  seeuro,  o più  forte,  o piu  utile:  perchè  mentre  che  i nimici non  erano  in  su  i campi,  quella  guardia bastava  : come  e’ fussino  usciti  fuori grossi  per  opprimere  quella  colonia, ancora  i Romani  uscivano  fuori  grossi, e venivano  a giornata  con  quelli;  e fatta e vinta  la  giornata,  imponendo  loro  più gravi  condizioni,  si  tornavano  in  casa. Così  venivano  ad  acquistare  di  mano in  mano  riputazione  sopra  di  loro,  e forze  in    medesimi.  E questo  modo vennono  tenendo  infino  che  mutorno modo  di  procedere  in  guerra:  il  che  fu dopo  la  ossidione  de’  Veienti  ; dove,  pei*potere  fare  guerra  lungamente,  gli  ordinarono di  pagare  i soldati,  che  prima,  per  non  essere  necessario,  essendo le  guerre  brevi,  non  gli  pagavano.  E benché  i Rotflani  dessino  il  soldo,  e che per  virtù  di  questo  ei  potessino  fare  le guerre  più  lunghe,  e per  farle  più  discosto la  necessità  gli  tenesse  più  in su’  campi  ; nondimeno  non  variarono mai  dal  primo  ordine  di  finirle  presto, secondo  il  luogo  ed  il  tempo;    variarono mai  dal  mandare  le  colonie.  Perchè nel  primo  ordine  gli  tenne,  circa il  fare  le  guerre  brevi,  olirà  il  loro  naturale uso,  T ambizione  de’  Consoli  ; i quali  avendo  a stare  un  anno,  e di quello  anno  sei  mesi  alle  stanze,  volevano finire  la  guerra  per  trionfare.  Nel mandare  le  colonie,  gli  tenne  1’utile  e la  comodità  grande  che  ne  risultava. Variarono  bene  alquanto  circa  le  prede, delie  quali  non  erano  cosi  liberali  come erano  stati  prima ; sì  perchè  e  non  pareva loro  tanto  necessario,  avendo  i soldati lo  stipendio;    perchè  essendo  le prede  maggiori,  disegnavano  d*  ingrassaie  di  quelle  in  modo  il  pubblico,  che non  lussino  constretti  a fare  le  imprese con  tributi  della  città.  li quale  ordine in  poco  tempo  fece  il  loro  erario  ricchissimo. Questi  duoi  modi,  adunque,  e circa  il  distribuire  la  preda,  e circa  il mandar  le  colonie,  feciono  che  Roma  arricchiva della  guerra  j dove  gli  altri principi  e repubbliche  non  savie  ne impoveriscono.  E ridusse  la  cosa  in  termine, che  ad  un  Consolo  non  pareva poter  trionfare,  se  non  portava  col  suo trionfo  assai  oro  ed  argento,  e d’ ogni altra  sorte  preda,  nello  erario.  Cosi  i Romani  con  i soprascritti  termini,  e coti il  finire  le  guerre  presto,  sendo  contenti con  lunghezza  straccare  i nemici, e con  rotte  e con  le  scorrerie  e con accordi  a loro  avvantaggi,  diventarono sempre  più  ricchi  e più  potenti. Quanto  terreno  i Romani davano  per  colono. Quanto  terreno  i Romani  distribuiisino  per  colono,  credo  sia  molto  diffìcile trovarne  la  verità.  Perchè  io  credo  ne dessino  più  o manco,  secondo  i luoghi dove  e  mandavano  le  colonie.  E giudicasi che  ad  ogni  modo  ed  in  ogni  luogo la  distribuzione  fusse  parca  : prima,  per poter  mandare  più  uomini,  sendo  quelli diputati  per  guardia  di  quel  paese;  dipoi perchè  vivendo  loro  poveri  a caso, non  era  ragionevole  che  volessino  che  I loro  uomini  abbondassino  troppo  fuora.  E Tito  Livio  dice,  come  preso  Veio e’  vi  mandorno  una  colonia,  e distribuirono a ciascuno  tre  iugeri  e sette  once di  terra;  che  sono  al  modo  nostro. Perchè,  oltre  alle  cose soprascritte,  e giudicavano  che  non  lo assai  terreno,  ma  il  bene  coltivato  bastasse. È necessario  bene,  che  tutta  la colonia  abbi  campi  pubblici  dove  ciascuno possa  pascere  il  suo  bestiame,  e selve  dove  prendere  del  legname  per  ardere ; senza  le  quali  cose  non  può  una colonia  ordinarsi. La  cagione  perchè  i popoli si  partono  da * luoghi  patriij  cd inondano  il  paese  altrui. Poiché  di  sopra  si  è ragionato  del modo  nel  procedere  della  guerra  osservato da’  Romani,  c come  i Toscani  furono assaltati  da*  Franciosi  ; non  mi  pare alieno  dalla  materia  discorrere,  come  e’  si fanno  di  due  generazioni  guerre.  L’una è fatta  per  ambizione  de*  principi  o delle repubbliche,  che  cercano  di  propagare lo  imperio;  come  furono  le  guerre  che fece  Alessandro  Magno,  e quelle  che  feciono  i Romani,  e quelle  che  fanno  ciascuno di,  1*  una  potenza  con  F altra.  Le quali  guerre  sono  pericolose,  ma  non cacciano  al  tutto  gli  abitatori  d*  una  provincia  ; perchè  e’  basta  al  vincitore  solo la  ubbidienza  de’  popoli,  e il  più  delle volte  gli  lascia  vivere  con  le  loro  leggi, e sempre  con  le  loro  case,  e ne’  loro beni.  L’altra  generazione  di  guerra  è, quando  un  popolo  intero  con  tutte  le sue  famiglie  si  beva  d’  uno  luogo,  necessitato o dalla  fame  o dalla  guerra,  e va  a cercare  nuova  sede  e nuova  provincia; non  per  comandarla,  come  quelli di  sopra,  ma  per  possederla  tutta  particolarmente, e cacciarne  o ammazzare gli  abitatori  antichi  di  quella.  Questa guerra  è crudelissima  e paventosissima. E di  queste  guerre  ragiona  Salustio  nel fine  dell’  Iugurtiuo,  quando  dice  che  vinto lugurta,  si  senti  il  moto  de’  Franciosi  che venivano  in  Italia  : dove  e’  dice  che  ’l Popolo  romano  con  tutte  le  altre  genti combattè  solamente  per  chi  dovesse  comandare, ma  con  i Franciosi  si  combattè sempre  per  la  salute  di  ciascuno. Perchè  ad  un  principe  o una  repubblica spegnere  solo  coloro  che  comandano  ; ma a queste  popolazioni  conviene  spegnere ciascuno,  perchè  vogliono  vivere  di  quello che  altri  viveva.  I Romani  ebbero  tre di  queste  guerre  pericolosissime.  La  prima fu  quella  quando  Roma  fu  presa,  la  quale fu  occupata  da  quei  Franciosi  che  avevano tolto,  come  di  sopra  si  disse,  la Lombardia  a’ Toscani,  e fattone  loro  sedia; della  quale  L.  ne  allega  due cagioni:  la  prima,  come  di  sopra  si  disse, che  furono  allettati  dalla  dolcezza delle  frutte,  c del  vino  di  Italia,  delle quali  mancavano  in  Francia;  la  seconda che,  essendo  quel  regno  francioso moltiplicato  in  tanto  di  uomini,  che  non vi  si  potevano  più  nutrire,  giudicarono i principi  di  quelli  luoghi,  che  fusse  necessario che  una  parte  di  loro  andasse a cercare  nuova  terra;  e fatta  tale  deliberazione, elcssono  per  capitani  di quelli  che  si  avevano  a partire,  Belloveso  e Sicoveso,  duoi  re  de’  Franciosi  : de’  quali  Belloveso  venne  in  Italia,  e Si» coveso  passò  in  Ispagna.  Dalla  passata del  quale  Belloveso,  nacque  la  occupazione di  Lombardia,  c quindi  la  guerra che  prima  i Franciosi  fecero  a Roma. Dopo  questa,  fu  quella  che  fecero  dopo la  prima  guerra  cartaginese,  quando  tra Piombino  e Pisa  ammazzarono  più  che dugentomila  Franciosi. La  terza è quando i Todeschi  e Cimbri  vennero  in  Italia  : i quali  avendo  vinti  più  eserciti  romani, furono  vinti  da  Mario.  Vinsero  adunque i Romani queste  tre  guerre  pericolosissime. Ne  era  necessario  minore  virtù  a vincerle;  perchè  si  vede  poi,  come  la virtù  romana  mancò,  e che  quelle  arme perderono  il  loro  antico  valore,  fu  quello imperio  distrutto  da  simili  popoli  : i quali furono  Goti,  Vandali  c simili,  che  occuparono tutto  lo  imperio  occidentale. Escono  tali  popoli  de*  paesi  loro,  rome di  sopra  si  disse,  cacciati  dalla  necessitò: e la  necessitò  nasce  o dalla  fame, o da  una  guerra  ed  oppressione  clic ne’ paesi  propri  è loro  fatta;  talché  e’ sono  constretti  cercare  nuove  terre.  E questi  tali,  o e’  sono  grande  numero  ; ed  allora  con  violenza  entrano  ne'  paesi altrui,  ammazzano  gli  abitatori,  posseggono i loro  beni,  fanno  uno  nuovo  regno, mutano  il  nome  della  provincia: come  fece  Moisè,  e quelli  popoli  che  occuparono lo  imperio  romano.  Perchè  questi nomi  nuovi  che  sono  nella  Italia  e nelle altre  provincie,  non  nascono  da  altro  che da  essere  state  nomate  così  da’  nuovi occupatoci  : come  è la  Lombardia,  che si  chiamava  Gallia  Cisalpina:  la  Francia si  chiamava  Gallia Transalpina,  ed  ora è nominata  da’  Franchi,  chè  cosi  si  chiamavano quelli  popoli  che  la  occuparono: la  Schiavoniu  si  chiamava  Illiria,  l’Ungheria Pannonia;  l’Inghilterra  Britannia:  c molte  altre  provincie  che  hanno mutato  nome,  le  quali  sarebbe  tedioso raccontare.  Moisè  ancora  chiamò  Giudea quella  parte  di  Soria  occupata  da  lui. E perchè  io  ho  detto  di  sopra,  che  qualche volta  tali  popoli  sono  cacciati  della propria  sede  per  guerra,  donde  -sono constretti  cercare  nuove  terre;  ne  voglio addurre  lo  essempio  de’  Maurusii, popoli  anticamente  in  Soria  : i quali,  sentendo  venire  i popoli  ebraici,  e giudicando non  poter  loro  resistere,  pensarono essere  meglio  salvare  loro  medesimi,  t* lasciare  il  paese  proprio,  che  per  volere salvare  quello,  perdere  ancora  loro;  e levatisi  con  loro  famiglie,  se  ne  andarono in  Affrica,  dove  posero  la  loro  sedia, cacciando  via  quelli  abitatori  che  in quelli  luoghi  trovarono. G così  quelli  che non  avevano  potuto  difendere  il  loro paese,  poterono  occupare  quello  d’  altrui. E Procopio,  che  scrive  la  guerra  che fece  Bellisario  co’ Vandali  occupatori  della Affrica,  riferisce  aver  letto  lettere  scritte in  certe  colonne  ne’  luoghi  dove  questi Maurusii  abitavano,  le  quali  dicevano: S os  Maurusii , qui  fugimus  a facie  Jesu latronis  filii  flava.  Dove  apparisce  In cagione  della  partita  loro  di  Soria.  Sono, pertanto,  questi  popoli  formidolosissimi, sendo  cacciati  da  una  ultima  necessità  ; e s’  egli  non  riscontrano  buone  armi,  non saranno  mai  sostenuti.  Ula  quando  quelli che  sono  constretti  abbandonare  la  loro patria  non  sono  molti,  non  sono    pericolosi come  quelli  popoli  di  chi  si  è ragionato;  perchè  non  possono  usare tanta  violenza,  ma  conviene  loro  con arte  occupare  qualche  luogo,  e,  occupatolo, mantenervisi  per  via  di  amici  e di confederali  : come  si  vede  che  fece  ENEA, Didone,  i Massiliesi  e simili  ; i quali  lutti, per  consentimento  de’  vicini,  dove  e’ posorno,  poterono  mantenervisi.  Escono  i popoli  grossi,  e sono  usciti  quasi  tutti de’  paesi  di  Scizia  ; luoghi  freddi  e poveri: dove,  per  essere  assai  uomini,  cd il  paese  di  qualità  da  non  gli  potere  nutrire, sono  forzati  uscire,  avendo  molte cose  che  gli  cacciano,  e nessuna  che  gli ritenga.  E se  da  cinquecento  anni  in  qua, non  è occorso  che  alcuni  di  questi  popoli abbino  inondato  alcuno  paese,  è nato per  più  cagioni.  La  prima,  la  grande evacuazione  che  fece  quel  paese  nella declinazione  dello  imperio;  donde  uscirono più  di  trenta  popolazioni.  La  seconda è che  la  Magna  e 1’  Ungheria,  donde ancora  uscivano  di  queste  genti,  hanno ora  il  loro  paese  bonificato  in  modo,  che vi  possono  vivere  agiatamente;  talché non  sono  necessitati  di  mutare  luogo. Dall’  altra  parte,  sendo  loro  uomini  bellicosissimi, sono  come  uno  bastione  a tenere  che  gli  Sciti,  i quali  con  loro  confinano, non  presumino  di  potere  vincergli o passargli.  E spesse  volte  occorrono movimenti  grandissimi  da’ Tartari,  che sono  dipoi  dagli  Ungheri  e da  quelli  di Polonia  sostenuti;  e spesso  si  gloriano, che  se  non  fussino  1’  arme  loro,  la  Italia e la  Chiesa  arebbe  molle  volle  sentito  il peso  degli  eserciti  tartari.  E questo  voglio basti  quanto  a’  prefati  popoli. Quali  cagioni  comunemente faccino  nascere  le  guerre  intra  i polenti. La  cagione  che  fece  nascere  guerra intra  i Romani  ed  i Sanniti,  che  erano stati  in  lega  gran  tempo,  è una  cagione comune  che  nasce  infra  tutti  i principati potenti.  La  qual  cagione  o la  viene a caso,  o la  è fatta  nascere  da  colui  che desidera  muovere  la  guerra.  Quella  che nacque  intra  i Romani  ed  i Sanniti,  fu a caso;  perchè  la  intenzione  de’ Sanniti non  fu,  muovendo  guerra  a’Sidicini,  e dipoi  a’  Campani,  muoverla  ai  Romani. .\Ia  sendo  i Campani  oppressati,  e ricorrendo a Roma  fuora  della  oppinione de’  Romani  e de’  Sanniti,  furono  forzati, dandosi  i Campani  ai  Romani,  come  cosa loro  difendergli,  e pigliare  quella  guerra che  a loro  parve  non  potere  con  loro onore  fuggire.  Perchè  e’pareva  benea’Romani  ragionevole  non  potere  difendere i Campani  come  amici,  eontra  ai  Sanuiti  amici,  ma  pareva  ben  loro  vergogna non  gli  difendere  come  sudditi,  ovvero raccomandali;  giudicando,  quando e’  non  avessino  presa  tal  difesa,  torre la  via  a tutti  quelli  che  disegnassino  venire sotto  la  potestà  loro. Ed  avendo Roma  per  fine  lo  imperio  e la  gloria,  e non  la  quiete,  non  poteva  ricusare  questa impresa.  Questa  medesima  cagione dette  principio  alla  prima  guerra  conira a’  Cartaginesi,  per  la  difensione  che  i Romani  presono  de*  Messinesi  in  Sicilia: la  quale  fu  ancora  a caso. Ma  non  fu già  a caso di  poi  la  seconda  guerra  che nacque  infra  loro;  perchè  Annibaie  capitano Cartaginese  assaltò  i Saguntini amici  de’  Romani  in  Ispagna,  non  per offendere  quelli,  ma  per  muovere  l’arme romane,  ed  avere  occasione  di  combatterli, c passare  in  Italia.  Questo  modo nello  appiccare  nuove  guerre  è stato sempre  consueto  intra  i potenti,  e che si  hanno  e della  fede,  e d’altro,  qualche rispetto.  Perchè,  se  io  voglio  fare guerra  con  uno  principe,  ed  infra  noi siano  fermi  capitoli  per  un  gran  tempo oservati,  con  altra  giustificazione  e con altro  colore  assalterò  io  un  suo  amico che  lui  proprio  5 sappiendo  massime,  che nello  assaltare  lo  amico,  o ci  si  risentirà, ed  io  arò  V intento  mio  di  fargli guerra  ; o non  si  risentendo,  si  scuoprirà  la  debolezza  o la  infidelità  sua  di non  difendere  un  suo  raccomandato.  E l’ una  e I'altra  di  queste  due  cose  è per torgli  riputazione,  e per  fare  più  facili i disegni  miei.  Debbesi  notare,  adunque, e per  la  dedizione  de' Campani,  circa  il muovere  guerra,  quanto  di  sopra  si  è detto;  e di  più,  qual  rimedio  abbia  una città  che  non  si  possa  per    stessa  difendere, e voglisi  difendere  in  ogni  modo da  quel  clic  l'assalta:  il  quale  è darsi Uberamente  a quello  che  tu  disegni  che ti  difenda;  come  feciono  i Capovani  ai Romani,  ed  i Fiorentini  al    Roberto di  Napoli  : il  quale  non  gli  volendo  difendere come  amici,  gli  difese  poi  come sudditi  contra  alle  forze  di  Castruceio da  Lucca,  die  gli  opprimeva. X.  — I danari  non  sono  il  nervo della  guerra j secondo  che  è la  comune oppi  ninne. Perchè  ciascuno  può  cominciare  una guerra  a sua  posta,  ma  non  finirla,  debbe uno  principe,  avanti  che  prenda  una  impresa, misurare  le  forze  sue,  e secondo quelle  governarsi.  Ma  debbe  avere  tanta prudenza,  che  delle  sue  forze  ei  non s’inganni;  ed  ogni  volta  s’ingannerà, quando  le  misuri  o dai  danari,  o dal sito,  o dalla  benivoienza  degli  uomini, mancando  dall’  altra  parte  d’  arme  proprie. Perchè  le  cose  predette  ti  accrescono bene  le  forze,  ma  le  non  te  ne danno  ; e per    medesime  sono  nulla  ; e non  giovano  alcuna  cosa  senza  l’arme fedeli. Perchè  i danari  assai,  non  ti  bastano senza  quelle;  non  ti  giova  la  fortezza de!  paese;  e la  fede ‘e  benivoienza degli  uomini  non  dura,  perchè  questi non  ti  possono  essere  fedeli,  non gli  potendo difendere. Ogni  monte,  ogni  lago, ogni  luogo  inaccessibile  diventa  piano, dove  i forti  difensori  mancano.  I danari ancora  non  solo  non  ti  difendono,  ina ti  fanno  predare  più  presto.    può  essere più  falsa  quella  comune  oppinione che  dice  che  i danari  sono  il  nervo  della guerra.  La  quale  sentenza  è detta  da Quinto Curzio  nella  guerra  che  fu  intra A'ntipatro  macedone  c il  re  spartano: dove  narra,  che  per  difetto  di  danari  il re  di  Sparta  fu  necessitato  azzuffarsi, e fu  rotto;  che  se  ei  differiva  la  zuffa pochi  giorni,  veniva  la  nuova  in  Grecia della  morte  di  Alessandro,  donde  e  sarebbe rimaso  vincitore  senza  combattere. Ma  mancandogli  i danari,  e dubitando che  lo  esercito  suo  per  difetto  di  quelli non  Io  abbandonasse,  fu  constretto  tentare la  fortuna  della  zuffa:  talché  Quinto Curzio  per  questa  cagione  afferma,  i danari essere  il  nervo  della  guerra.  La qual  sentenza  è allegata  ogni  giorno,  v da’  principi  non  tanto  prudenti  che  basti, seguitata.  Perchè,  fondatisi  sopra quella,  credono  che  basti  loro  a difendersi avere  tesori  assai,  e non  pensano che  se’1  tesoro  bastasse  a vincere,  che Dario  arebbe  vinto  Alessandro, i Greci nrebbon  vinti  i Romani;  ne’ nostri  tempi il  duca  Carlo  arebbe  vinti  i Svizzeri; e pochi  giorni  sono,  il  Papa  ed  i Fiorentini insieme  non  arebbono  avuta  difficultà  in  vincere  Francesco  Maria,  nipote di  papa  Giulio  II,  nella  guerra  di Urbino.  Ma  tutti  i soprannominali  furono vinti  da  coloro  che  non  il  danaro, ma  i buoni  soldati  stimano  essere  il  nervo della  guerra.  Intra  le  altre  cose  che Creso  re  di  Lidia  mostrò  a Solone  ateniese, fu  un  tesoro  innumerabile  ; c domandando quel  che  gli  pareva  della  potenza sua,  gli  rispose  Solone,  che  per quello  non  lo  giudicava  più  potente;  perchè la  guerra  si  faceva  col  ferro  e non con  P oro,  e che  poteva  venire  uno  che avesse  piu  ferro  di  lui,  e torgliene.  Olir’ a questo,  quando,  dopo  la  morte  di Alessandro  Magno,  una  moltitudine  di Franciosi  passò  in  Grecia,  e poi  in  Asia; e mandando  i Franciosi  oratori  al  re  di Macedonia  per  trattare  certo  accordo  ; quel  re,  per  mostrare  la  potenza  sua  e per  {sbigottirli,  mostrò  loro  oro  ed  argento assai:  donde  quelli  Franciosi  che di  già  avevano  come  ferma  la  pace,  la j uppono  ; tanto  desiderio  in  loro  crebbe di  torgli  quell’oro:  e cosi  fu  quel  re spogliato  per  quella  cosa  che  egli  aveva per  sua  difesa  accumulata.  1 Yeniziani, pochi  anni  sono,  avendo  ancora  lo  erario loro  pieno  di  tesoro,  perderono  tutto lo  Stato,  senza  potere  essere  difesi  da quello.  Dico  pertanto,  non  l’ oro,  come grida  la  comune  oppinione,  essere  il nervo  della  guerra,  ma  i buoni  soldati : perchè  1’  oro  non  è suflìzienle  a trovare i buoni  soldati,  ma  i buoni  soldati  son ben  sutlìzienti  a trovare  l’ oro.  Ai  Romani, s’egli  avessero  voluto  fare  la  guerra più  con  i danari  che  con  ii  ferro,  non sarebbe  bastato  avere  tutto  il  tesoro  del  mondo,  considerato  le  grandi  imprese che  fcciono,  e le  difficoltà  che  vi  ebbono dentro.  Ma  facendo  le  loro  guerre  con il  ferro,  non  patirono  mai  carestia  dell' oro;  perchè  da  quelli  cheli  temevano era  portato  Toro  infino  ne’ campi.  E se quel  re  spartano  per  carestia  di  danari ebbe  a tentare  la  fortuna  della  /uffa, intervenne  a lui  quello,  per  conto  de’danari,  che  molte  volte  è intervenuto  per altre  cagioni;  perchè  si  è veduto  che, mancando  ad  uno  esercito  le  vettovaglie, ed  essendo  necessitati  o a morire  di fame  o azzuffarsi,  si  piglia  il  partito sempre  di  azzuffarsi,  per  essere  più  ono*revole,  e dove  la  fortuna  ti  può  in  qualche modo  favorire.  Ancora  è intervenuto molte  volte,  che  veggendo  uno capitano  al  suo  esercito  nimico  venire soccorso,  gli  conviene  o azzuffarsi  con quello  e tentare  la  fortuna  della  zuffa  ; o aspettando  eh’  egli  ingrossi,  avere  a combattere  in  ogni  modo,  con  mille  suoi disavvantaggi.  Ancora  si  è visto  (come intervenne  ad  Asdrubale  quando  nella Marca  fu  assaltato  da  Claudio Verone, insieme  con  l’altro consolo romano), che un  capitano  che  è necessitato  o a fuggirsi o a combattere,  come  sempre  elegge il  combattere  ; parendogli  in  questo  partito, ancora  che  dubbiosissimo,  potere vincere;  ed  in  quello  altro,  avere  a perdere in  ogni  modo.  Sono,  adunque,  molte necessitati  che  fanno  a uno  capitano  fuor della  sua  intenzione  pigliare  partito  di azzuffarsi;  intra  le  quali  qualche  volta può  essere  la  carestia  de’  danari  : nè  per questo  si  debbono  i danari  giudicare essere  il  nervo  della  guerra,  più  che  le altre  cose  che  inducono  gli  uomini  n simile  necessità.  Non  è,  adunque,  replicandolo di  nuovo.  1’  oro  il  nervo  della guerra;  ma  i buoni  soldati.  Son  bene necessari  i danari  in  secondo  luogo,  ina è una  necessità  che  i soldati  buoni  per sè  medesimi  la  vincono;  perchè  è inipossibile  che  a’  buoni  soldati  manchino i danari,  come  che  i denari  pei*  loro medesimi  truovino  i buoni  soldati.  Mostra questo  che  noi  diciamo  essere  vero, ogni  istoria  in  mille  luoghi;  non  ostante che  Pericle  consigliasse  gli  Ateniesi  a fare  guerra  con  tutto  il  Peloponneso, mostrando  che  e*  potevano  vincere  quella guerra  con  la  industria  e con  la  forza del  danaio.  E benché  in  tale  guerra  gli Ateniesi  prosperassino  qualche  volta,  in ultimo  la  perderono;  e valsoti  più  il  consiglio e gli  buoni  soldati  di  Sparta,  che la  industria  ed  il  danaio  di  Atene.  Ma L.  è di  questa  oppinione  più  vero testimone  che  alcuno  altro,  dove  discorrendo se  Alessandro  Magno  fusse  venuto in  Italia,  s’ egli  avesse  vinto  i Romani, mostra  esser  tre  cose  necessarie  nella guerra  ; assai  soldati  e buoni,  capitani prudenti,  e buona  fortuna: dove  esaminando quali  o i Romani  o Alessandro prevalessino  in  queste  cose,  fa  dipoi  la sua  conclusione  senza  ricordare  mai  i danari.  Doverono  i Capovani,  quando furono  ricfiiesti  da’  Sidicini  che  prendessino  l’arme  per  loro  contea  ai  Sanniti, misurare  la  potenza  loro  dai  danari,  c non  dai  soldati:  perchè,  preso  ch’egli ebbero  partito  di  aiutarli,  dopo  due  rotte furono  constretti  farsi  tributari  de’  Romani, se  si  vollono  salvare. Non  è partito  prudente  fare amicizia  con  un  principe  che  abbia più  oppinionc  che  forze. Volendo  L.  mostrare  lo  errore de’  Sidicini  a fidarsi  dello  aiuto de’  Campani,  e lo  errore  de’  Campani  a credere  potergli  difendere,  non  lo  potrebbe dire  con  più  vive  parole,  dicendo: Campani  magie  nomen  in  auxilium Sidicinorunij  quam  vires  ad  prcesidium atlulcrunl.  Dove  si  debbe  notare,  che  le leghe  si  fanno  co’ principi  che  non  abbino o comodità  di  aiutarti  per  la  distanzia del  sito,  o forze  di  farlo  per  suo disordine  o altra  sua  cagione,  arrecano più  fama  che  aiuto  a coloro  ehe  se  ne fidano:  come  intervenne  ne’ dì  nostri a*  Fiorentini,  quando il  papa ed  il  re  di  Napoli  gli  assaltarono;  che essendo  amici  del  re  di  Francia,  trassono di  quella  amicizia  magis  nomcn , r/nam  praesidium  : come  interverrebbe ancora  a quel  principe,  che  confidatosi di  Massimiliano  imperatore,  facesse  qualche impresa;  perchè  questa  è una  di quelle  amicizie  che  arrecherebbe  a chi la  facesse  magis  nomcn 9 quam  prassi -ditinij  come  si  dice  in  questo  testo,  che arrecò  quella  de’ Capovani  ai  Sidicini. Errarono,  adunque,  in  questa  parte  i Capovani,  per  parere  loro  avere  più forze  che  non  avevano.  E così  fa  la poca  prudenza  delti  uomini  qualche  volta, che  non  sappiendo    potendo  difendere sè  medesimi,  vogliono  prendere imprese  di  difendere  altrui  : come  fecero ancoro  i Tarentini, i quali,  sendo  gli eserciti  romani  allo  Incontro  dello  esercito  de’ Sanniti,  mandorono  ambasciadori al  Consolo  romano,  a fargli  intendere come  ci  volevano  pace  intra  quelli  duoi popoli,  e come  erano  per  fare  guerra centra  a quello  che  dalla  pace  si  discostasse*, talché  il  Consolo,  ridendosi di  questa  proposta,  alla  presenza  di detti  ambasciadori  fece  sonare  a battaglia, ed  al  suo  esercito  comandò  che andasse  a trovare  il  nimico,  mostrando ai  Tarentini  con  1’  opera,  e non  con  le parole,  di  che  risposta  essi  erano  degni. Ed  avendo  nel  presente  capitolo ragionato  dei  parliti  che  pigliano  i principi al  contrario  per  la  difesa  d’  altrui, voglio  nel  seguente  parlare  di  quelli  che si  pigliano  per  la  difesa  propria.  Scegli  è meglio , temendo di  essere  assaltalo > inferire , o aspettare la  guerra. lo  lio  sentito  da  uomini  assai  pratichi nelle  cose  della  guerra  qualche  volta disputare,  se  sono  duoi  principi  quasi di  eguali  forze,  se  quello  più  gagliardo abbi  bandito  la  guerra  contra  a quello altro,  quale  sia  miglior  partito  per  Poltro; o aspettare  il  nimico  dentro  ai  confini suoi,  o andarlo  a trovare  in  casa, ed  assaltare  lui:  e ne  fio  sentito  addurre ragioni  da  ogni  parte.  E chi  difende lo  andare  assaltare  altrui,  nc  allega il  consiglio  che  Creso  dette  a Ciro, quando  arrivato  in  su*  confini  de’  Massageli  per  fare  lor  guerra,  la  lor  regina Tarniri  gli  mandò  a dire, che  eleggesse quale  de'  duoi  partiti  volesse;  o entrare  nel  regno  suo,  dovè  essa  Ip aspetterebbe;  o volesse  che  ella  venisse a trovar  lui.  E venuta  la  cosa  in  disputazionc,  Creso,  contra  alla  oppinione degli  altri,  disse  che  si  andasse  a trovar lei  ; allegando  che  se  egli  la  vincesse discosto  al  suo  regno, che  non  gli torrebbe  il  regno,  perchè  ella  arebbe tempo  a rifarsi;  pia  se  la  vincesse  dentro a’ suoi  confini,  potrebbe  seguirla  in su  la  fuga,  e non  le  dando  spazio  a rifarsi,  torli  io  Stato.  Allegane  ancora  il consiglio  che  dette  Annibaie  ad  Antioco, quando  quel  re  disegnava  fare  guerra ai  Romani:  dove  ei  mostrò  come  i Romani non  si  potevano  vincere  se  non in  Italia,  perchè  quivi  altri  si  poteva valere  delle  arme  e delle  ricchezze  e degli  amici  loro  ; chi  gli  combatteva fuora  d’ Italia,  e lasciava  loro  la  Italia libera,  lasciava  loro  quella  fonte,  che mai  li  mancava  vita  a somministrare forze  dove  bisogna  ; e conchiuse  che  ai Romani  si  poteva  prima  torre  Roma che  lo  imperio;  prima  la  Italia  che  le altre  provincie.  Allega  ancora  Agatocle. che  non  potendo  sostenere  la  guerra  di casa,  assaltò  i Cartaginesi  clic  glieuc facevano,  e gli  ridusse  a domandare pace.  Allega  SCIPIONE,  che  per  levare  la guerra  d’  Italia,  assaltò  la  Affrica. Chi parla  al  contrario  dice,  che  chi  vuole fare  capitare  male  uno  nimico,  lo  discosti da  casa.  Allegane  gli  Ateniesi, che  mentre  che  feciono  la  guerra  comoda alla  casa  loro,  restarono  superiori; e come  si  discostarono,  ed  andarono con  gli  eserciti  in  Sicilia,  perderono la  libertà.  Allega  le  favole  poetiche,  dove si  mostra  che  Anteo,  re  di  Libia,  assaltato da  Ercole  Egizio,  fu  insuperabile mentre  che  Io  aspettò  dentro  a*  confini del  suo  regno;  ma  come  e’ se  ne  discosto per  astuzia  di  Ercole,  perdè  lo  Stalo e la  vita.  Onde  è dato  luogo  alla  favola di  Anteo,  che  sendo  in  terra  ripigliava le  forze  da  sua  madre,  che  era  la  Terra; e che  Ercole  avvedutosi  di  questo, lo  levò  in  alto,  e discostollo  dalla  terra. Allegane  ancora  i giudizi  moderni.  Ciascuno sa  come  Ferrando  re  di  .Napoli fu  ne’  suoi  tempi  tenuto  uno  savissimo principe:  e venendo  la  fama,  duoi  anni avanti  la  sua  morte,  come  il  re  di  Francia Carlo  Vili  voleva  venire  ad  assaltarlo, avendo  fatte  assai  preparazioni, ammalò;  e venendo  a morte,  intra  gli altri  ricordi  che  lasciò  ad  Alfonso  suo figliuolo,  fu  che  egli  aspettasse  il  nimico dentro  al  regno;  e per  cose  del mondo  non  traesse  forze  fuori  dello Stato  suo,  ma  lo  aspettasse  dentro  aisuoi  confini  tutto  intero;  il  che  non  fuosservato  da  quello;  ma  mandato  uno esercito  in  Romagna,  senza  combattere perdè  quello  c lo  Stato.  Le  ragioni  che, oltre  alle  cose  dette,  da  ogni  parte  si adducono,  sono  : che  chi  assalta  viene con  maggiore  animo  che  chi  aspetta,  il che  fa  più  confidente  lo  esercito;  toglie, oltra  di  questo,  molte  comodità  al  nimico di  potersi  valere  delle  sue  cose, non  si  potendo  valere  di  quei  sudditi che  sieno  saccheggiati;  e per  avere  il nimico  in  casa,  è constretto  il  signore avere  più  rispetto  a trarre  da  loro  danari ed  affaticargli  : sicché  e’  viene  a seccare  quella  fonte,  come  dice  Annibaie, che  fa  che  colui  può  sostenere  la guerra.  Oltre  di  questo,  i suoi  soldati, per  trovarsi  ne*  paesi  d’  altrui,  sono  più necessitati  a combattere;  e quella  nccessila  fa  virtù,  come  più  volte  abbiamo detto.  Dall’  altra  parte  si  dice  ; come aspettando  il  nimico,  si  aspetta  con  assai vantaggio,  perchè  senza  disagio alcuno  tu  puoi  dare  a quello  molti  disagi di  vettovaglia,  e d’  ogni  altra  cosa che  abbia  bisogno  uno  esercito  : puoi meglio  impedirli  i disegni  suoi,  per  la notizia  del  paese  cheta  hai  più  di  lui: puoi  con  più  forze  incontrarlo,  per  poterle facilmente  tutte  unire,  ma  non  potere già  tutte  discostarle  da  casa:  puoi sendo  rotto  rifarti  facilmente;    perchè del  tuo  esercito  se  ne  salverà  assai, per  avere  i rifugi  propinqui;  si  perchè il  supplemento  non  ha  a venire  discosto: tanto  che  tu  vieni  arrischiare  tutte le  forze,  e non  tutta  la  fortuna  ; e discostandoti, arrischi  tutta  la  fortuna,  e non  tutte  le  forze.  Ed  alcuni  sono  stati che  per  indebolire  meglio  il  suo  nimico, Io  lasciano  entrare  parecchie  giornate in  su  il  paese  loro,  e pigliare  assai terre;  acciò  che  lasciando  i presidii  in tutte,  indebolisca  il  suo  esercito,  e possiulo  dipoi  combattere  più  facilmente. Ma,  per  dire  ora  io  quello  che  io  ne intendo,  io  credo  che  si  abbia  a fare  questa distinzione:  o io  ho  il  mio  paese armato,  come  i Romani,  o come  hanno i Svizzeri;  o io  l’ho  disarmato,  come avevano  i Cartaginesi,  o come  Y hanno  i re  di  Francia  e gli  Italiani.  In  questo caso,  si  debbe  tenere  il  nimico  discosto a casa;  perchè  scudo  la  tua  virtù  nel danaio  e non  negli  uomini,  qualunque volta  ti  è impedita  la  via  di  quello,  tu sei  spacciato;    cosa  veruna  te  lo  impedisce quanto  la  guerra  di  casa.  In  essempi  ci  sono  i Cartaginesi;  i quali mentre  che  ebbero  la  casa  loro  libera, poterono  con  le  rendite  fare  guerra  con i Romani;  e quando  la  avevano  assaltata, non  potevano  resistere  ad  Agatoeie. I Fiorentini  non  avevano  rimedio ulcuuo  con Castruccio signore  di  Lucca, perchè  ci  faceva  loro  la  guerra  in  casa; tanto  che  gli  ebbero  a darsi,  per  essere difesi,  al  re  Roberto  di  Napoli.  Ma  morto Castruccio,  quelli  medesimi  Fiorentini ebbero  animo  di  assaltare  il  duca  di Milano  in  casa,  ed  operare  di  torgli  il regno:  tanta  virtù  monstrarono  nelle guerre  louginque,  e tanta  viltà  nelle propinque.  Ma  quando  i regni  sono  armati, come  era  armata  Roma  e come sono  i Svizzeri,  sono  più  difficili  a vincere quanto  più  ti  appressi  loro:  perchè questi  corpi  possono  unire  più  forze  a resistere  ad  uno  impeto,  che  non  possono ad  assaltare  altrui.    mi  muove in  questo  caso  I’  autorità  di  Annibaie, perchè  la  passione  e Y utile  suo  gli  faceva cosi  dire  ad  Antioco.  Perchè,  se  i Romani  avessino  avute  in  tanto  spazio di  tempo  quelle  tre  rotte  in  Francia* ch’egli  ebbero  in Italia  da  Annibaie, senza  dubbio  erano  spacciati:  perchè non  si  sarebbono  valuti  de’ .residui  degli eserciti,  come  si  valsono  in  Italia; non  arebbono  avuto  a rifarsi  quelle  comodità; nè  potevano  con  quelle  forze resistere  ai  nimico,  che  poterono.  Non si  trova  che,  per  assaltare  una  provincia, loro  mandassino  mai  fuora eserciti clic  passassino  cinquantamila  persone; ma  per  difendere  la  casa  ne  misono  in arme  conira  ai  Franciosi,  dopo  la  prima guerra  punica,  diciotto  centinaia  di  migliaia. Nè  arebbono  potuto  poi  romper quelli  in  Lombardia,  come  gli  ruppono in  Toscana;  perchè  contro  a tanto  numero  di  ninnici  non  arebbono  potuto condurre  tante  forze    discosto,    combattergli con  quella  comodità.  I Cimbri ruppono  uno  esercito  romano  in  la  Magna, nè  vi  ebbono  i Romani  rimedio. Ma  come  egli  arrivorono  in  Italia,  e che poterono  mettere  tutte  le  loro  forze  insieme, gli  spacciarono.  I Svizzeri  è facile vincergli  fuori  di  casa,  dove  e’ non possono  mandare  più  che  un  trenta  o quarantamila  uomini;  ma  vincergli  in casa,  dove  e’  ne  possono  raccozzare  centomila, è difficilissimo.  Conchiuggo  adunque di  nuovo,  che  quel  principe  che  ha i suoi  popoli  armati  ed  ordinali  alla guerra,  aspetti  sempre  in  casa  una guerra  potente  e pericolosa,  e non  la vadia  a rincontrare:  ma  quello  che  ha i suoi  sudditi  disarmati,  ed  il  paese inusitato  della  guerra,  se  la  discosti sempre  da  casa  il  più  che  può.  E così r uno  e l*  altro,  ciascuno  nel  suo  grado, si  difenderà  meglio. Che  si  viene  di  bassa  a gran  fortuna  più  con  la  fraude,  che con  la  forza. Io  stimo  essere  cosa  verissima,  che rado,  o non  mai,  intervenga  che  gli uomini  di  piccola  fortuna  venghino  a gradi  grandi,  senza  la  forza  e senza  la fraude;  purché  quel  grado  al  quale  altri è pervenuto,  non  ti  sia  o donalo,  o lasciato  per  eredità.    credo  si  truovi mai  che  la  forza  sola  basti,  ma  si  troverà bene  che  la  fraude  sola  basterà: còme  chiaro  vedrà  colui  che  leggerà  la vita  di  Filippo  di  Macedonia,  quella  di Agatocle  siciliano,  e di  molti  altri  simili, che  d’ infima  ovvero  di  bassa  fortuna, sono  pervenuti  o a regno  o ad  imperi grandissimi.  Mostra  Senofonte,  nella  sua vita  di  Ciro,  questa  necessità  delio  ingannare; consideralo  che  la  prima  ispedizione  che  fa  fare  a Ciro  contea  il  re di  Armenia,  è piena  di  fraude,  e come con  inganno,  e non  con  forza,  gli  fa  occupare il  suo  regno;  e non  conchiude altro  per  tale  azione,  se  non  che  ad  un principe  che  voglia  fare  gran  cose,  è necessario  imparare  a ingannare.  Fagli, olirà  di  questo,  ingannare  Ciassare,  re de’  .Medi,  suo  zio  materno,  in  più  modi; senza  la  quale  fraude  mostra  che  Ciro non  poteva  pervenire  a quella  grandezza che  venne.    credo  che  si  truovi mai  alcuno  constiluito  in  bassa  fortuna, pervenuto  a grande  imperio  solo  con la  forza  aperta  ed  ingenuamente,  ma  sì bene  solo  con  la  fraude  : come  fece  Giovanni Galeazzo  per  tor  lo  Stato  e lo imperio  di  Lombardia  a messer  Bernabò suo  zio.  E quei  che  sono  necessitati  fare i principi  ne’  principi!  degli  augumenti loro,  sono  ancora  necessitate  a fare  le repubbliche,  infimo  che  le  sieno  diventate potenti,  e che  basti  la  forza  sola. E perchè  Roma  tenne  in  ogni  parte,  o per  sorte  o per  elezione,  tutti  i modi necessari  a venire  a grandezza,  non mancò  ancora  di  questo.    potè  usare, nel  principio,  il  maggiore  inganno,  che pigliare  il  modo  di  sopra  discorso  da noi,  di  farsi  compagni  ; perchè  sotto questo  nome  se  li  fece  servi:  come  furono i Latini,  ed  altri  popoli  all’  intorno. Perchè  prima  si  valse  dell*  arme  loro in  domare  i popoli  convicini,  e pigliare la  riputazione  dello  Stato:  dipoi,  domatogli, venne  in  tanto  augumento,  che  la poteva  battere  ciascuno.  Ed  i Latini  non si  avviddono  mai  di  essere  al  tutto  servi, se  non  poi  che  viddono  dare  due  rotte ni  Sanniti,  e costrettigli  ad  accordo.  La (piale  vittoria,  come  ella  accrebbe  gran riputazione  ai  Romani  eoi  principi  longinqui,  clic  mediante  quella  sentirono  il nome  romano  e non  l’armi;  così  generò invidia  e sospetto  in  quelli  che vedevano  e sentivano  l’armi,  intra  i quali  furono  i Latini.  E tanto  potè  questa invidia  e questo  timore,  che  non solo  i Latini,  ma  le  colonie  che  essi  avevano in  Lazio,  insieme  con  i Campani, stati  poco  innanti  difesi,  congiurarono contra  al  nome  romano.  E mossono  questa guerra  i Latini  nel  modo  che  si  dice di  sopra,  che  si  muovono  la  maggior parte  delle  guerre,  assaltando  non  i Romani, ma  difendendo  i Sidicini  contra ai  Sanniti;  a’ quali  i Sanniti  facevano guerra  con  licenza  de’  Romani.  E che  sia vero  che  i Latini  si  movessino  per  avere conosciuto  questo  inganno,  lo  dimostra L.  nello  bocca  di  Annio  Setiuo pretore  latino,  il  quale  nel  consiglio  loro disse  queste  parole  : Nam,  si  ctìam  mine sub  umbra  feederis  cequi  servilutem  pati possumus  ctc. Yedesi  pertanto  i Romani ne’ primi  augumenti  loro  non  essere mancati  eziam  della  fraude;  la  quale fu  sempre  necessaria  ad  usare  a coloro che  di  piccoli  principii  vogliono  a sublimi gradi  salire  : la  quale  è meno  vituperabile quanto  è più  coperta,  come fu  questa  de’  Romani. Ingannatisi  molte  volle  gli uomini j credendo  con  la  umilila  vincere la  superbia. Vedesi  molle  volte  come  la  umilila  non solamente* non  giova,  ma  nuoce,  massimamente usandola  con  gli  uomini  insolenti, che,  o per  invidia  o per  altra cagione,  hanno  concetto  odio  teco.  Di che  ne  fa  fede  lo  istorico  nostro  in  questa cagione  di  guerra  intra  i Romani ed  i Latini.  Perchè,  dolendosi  i Sanniti con  i Romani,  che  i Latini  gli  avevano assaltati,  i Romani  non  vollono  proibire ai  Latini  tal  guerra,  desiderando  non gli  irritare:  il  che  non solamente  non gli  irritò,  ma  gli  fece  diventare  più  animosi contro  a loro,  e si  scopersono  più presto  inimici.  Di  che  ne  fanno  fede  le parole  usate  da!  prefato  Annio  pretore latino  nel  medesimo  concilio,  dove  dice: Tentaslis  patientiam  negando  mililem: (jais  dubitai  cxarsisse  eos ? Pcrtulerunt (amen  hunc  dolorem.  Excrcitus  nos  parare adversus  Snmnilcs  feederatos  suos audierunl,  ncc  mnverunt  se  ab  urbe. I Inde hcec  illis  tanta  modestia j,  ni  si  a eonscienlia  virium , et  n os trarum , et suarum?  Conoscesi,  pertanto,  chiarissimo per  questo  testo, quanto  la  pazienza de’ Romani  accrebbe l’arroganza de’  Latini.  E però,  mai  uno  principe debbe  volere  mancare  del  grado  suo,  e non  debbe  mai  lasciare  alcuna  cosa  d’accordo, volendola  lasciare  onorevolmente, se  non  quando  e’  la  può,  o e’  si  crede che  la  possa  tenere  : perchè  gli  è meglio quasi  sempre,  sendosi  condotta  la cosa  in  termine  che  tu  non  la  possa  lasciare nel  modo  detto,  lasciarsela  torre con  le  forze,  che  con  la  paura  delle forze.  Perchè  se  tu  la  lasci  con  In  paura, lo  fai  per  levarli  la  guerra,  ed  il  più delle  volte  non  te  la  lievi:  perche  colui a chi  tu  arai  con  una  viltà  scoperta concesso  quella,  non  starà  saldo,  rao  ti vorrà  torre  delle  altre  cose,  e si  accenderà più  contra  di  te,  stimandoti  meno; e dall'altra  parte,  in  tuo  favore  troverai i difensori  più  freddi,  parendo  loro che  tu  sia  o debole,  o vile:  ma  se  tu, subito  scoperta  la  voglia  dello  avversario, prepari  le  forze,  ancoraché  le  siano inferiori  a lui.  quello  ti  comincia  a stimare; stimanti  più  gli  altri  principi allo  intorno;  ed  a tale  viene  voglia  di aiutarti,  sendo  in  su  P arme,  che  abbandonandoti non  ti  aiuterebbe  mai. Questo  si  intende  quando  tu  abbia  uno inimico;  ma  quando  ne  avessi  più,  rendere delle  cose  che  tu  possedessi  ad  al  •euno  di  loro  per  riguadagnarselo,  ancoraché fusse  di  già  scoperta  la  guerra, e per  smembrarlo  dagli  altri  confederati  tuoi  inimici,  fia  sempre  partito  prudente. XV.  — Gli  Stati  deboli  sempre fieno  ambigui  nel  risolversi : e sempre le  deliberazioni  lente  sono  nocive. in  questa  medesima  materia,  ed  in questi  medesimi  principi!  di  guerra  intra i Latini  ed  i Romani,  si  può  notare come  in  ogni  consulta  è bene  venire  allo individuo  di  quello  die  si  ha  a deliberare, e non  stare  sempre  in  ambiguo, nè  in  su  lo  incerto  della  cosa.  Il  che  si vede  manifesto  nella  consulta  che  feciono  i Latini,  quando  c’pensavano  alienarsi da’  Romani.  Perchè  avendo  presentito questo  cattivo  umore  che  ne’  popoli latini  era  entrato,  i Romani,  per  eertificarsi  della  cosa,  c per  vedere  se  potevano senza  mettere  mano  all’arme  riguadagnarsi quelli  popoli,  fecero  loro intendere,  come  e’  mandassero  a Roma otto  cittadini,  perchè  avevano  a consullare  con  loro.  I Latini,  inteso  questo  ed avendo  conscienza  di  molte  cose  fatte centra  alla  voglia  de’  Romani,  fcciono consiglio  per  ordinare  chi  dovesse  ire a Roma,  e dargli  commissione  di  quello ch’egli  avesse a dire.  E stando  nel  consiglio in  questa  disputa,  ANNIO  loro  pretore disse  queste  parole:  Ad  sumiuam veruni  nostrarum  pertinerc  arbitrar , ut vogilctis  magis , quid  agendum  nobis, quam  quid  loqucndum  sii.  Facile  crii, cxphcatis  consiliis j accommodarc  rebus nerba.  Sono,  senza  dubbio,  queste  parole verissime,  e debbono  essere  da  ogni principe  e da  ogni  repubblica  gustate  : perchè  nella  ambiguità  e nella  incertit udine  di  quello  che  altri  voglia  fare, non  si  sanno  accomodare  le  parole;  ma fermo  una  volta  1’  animo,  e deliberalo quello  sia  da  eseguire,  è facil  cosa  trovarvi le  parole,  lo  ho  notato  questa parte  più  volentieri,  quanto  io  ho  molte volte  conosciuto  tale  ambiguità  avere nociuto  alle  pubbliche  azioni,  con  danno i*  con  vergogna  della  repubblica  nostra. E sempre  mai  avverrà,  che  ne*  partiti ilubbii,  e dove  bisogni  animo  a deliberargli, sarà  questa  ambiguità,  quando abbino  ad  esser  consigliati  e deliberati da  uomini  deboli.  Non  sono  meno  nocive ancora  le  deliberazioni  lente  e tarde, che  ambigue  ; massime  quelle  che  si hanno  a deliberare  in  favore  di  alcuno amico  : perchè  con  la  lentezza  loro  non si  aiuta  persona,  e nuocesi  a sè  mede- simo. Queste  deliberazioni  così  fatte  procedono o da  debolezza  di  animo  e ili forze,  o da  malignità  di  coloro  che  hanno a deliberare;  i quali,  mossi  dalla  passimi propria  di  volere  rovinare  lo  Stato o adempire  qualche  suo  desiderio,  non lasciano  seguire  la  deliberazione,  ma  la impediscono  e la  attraversano.  Perchè  i buoni  cittadini,  ancora  che  vegghino  una foga  popolare  voltarsi  alla  parte  perniciosa, mai  impediranno  il  deliberare, massime  di  quelle  cose  che  non  aspettano tempo.  Morto  che  fu  Girolamo  liranno  in  Siracusa,  essendo  la  guerra grande  intra  i Cartaginesi  ed  i Romani, vennono  i Siracusani  in  disputa  se  dovevano seguire  V amicizia  romana  o la cartaginese.  E tanto  era  lo  ardore  delle parti,  che  la  cosa  stava  ambigua,    se ne  prendeva  alcuno  partito;  insino  a tanto  che  Apollonide,  uno  de’  primi  in Siracusa,  con  una  sua  orazione piena di  prudenza,  mostrò  come  non  era  da biasmare  chi  teneva  E oppinione  ili  aderirsi ai  Romani,    quelli  che  volevano seguire  la  parte  cartaginese;  ma  era bene  da  detestare  quella  ambiguità  e tardità  di  pigliare  il  partito,  perchè  vedeva al  tutto  in  tale  ambiguità  la  rovina della  repubblica;  ma  preso  che  si fusse  il  partito,  qualunque  e’  si  fosse,  si poteva  sperare  qualche  bene.    potrebbe mostrare  più  L.  che  si faccia  in  questa  parte,  il  danno  che  si tira  dietro  lo  stare  sospeso.  Dimostralo ancora  in  questo  caso  de’  Latini  : perchè, sendo  i Latini  ricerchi  da  loro gli  stessine  neutrali,  e che  il  re  venendo in  Italia  gli  avesse  a mantenere nello  Stato  e ricevere  in  proiezione:  e dette  tempo  un  mese  alla  città  a ratificarlo. Fu  differita  tale  ratificazione  da chi  per  poca  prudenza  favoriva  le  cose di  Lodovico:  intantoehè,  il  re  già  sendo in  su  la  vittoria,  e volendo  poi  i Fiorentini ratificare , non  fu  la  ratificazione accettata  ; come  quello  che  conobbe i Fiorentini  essere  venuti  forzati,  e non voluntari  nella  amicizia  sua.  Il  che  costò alla  città  di  Firenze  assai  danari,  e fu per  perdere  lo  Stato  : come  poi  altra volta  per  simile  causa  li  intervenne.  E tanto  più  fu  dannabile  quel  partito,  perchè non  si  servi  ancora  il  duca  Lodovico;  il  quale  se  avesse  vinto,  arebbe mostri  molti  più  segni  di  inimicizia  conira ai  Fiorentini,  che  non  fece  il  re.  E benché  del  male  che  nasce  alle  repubbliche di  questa  debolezza  se  ne  sia  di sopra  in  uno  altro  capitolo  discorso; nondimeno,  avendone  di  nuovo  occasione per  un  nuovo  accidente,  ho  voluto  replicarne', parendomi,  massime,  materia che  debba  esser  dalie  repubbliche  simili alla  nostra  notala. Quanto  i soldati  ne’  nostri tempi  si  disformino  dalli  anttcht  ordini. ha  più  importante  giornata  che  fu  mai fatta  in  alcuna  guerra  con  alcuna  nazione dal  Popolo  romano,  fu  questa  che ei  fece  con  i popoli  latini,  nel  consolato di  Torquato  e di  Decio.  Perchè  ogni  ragione vuole,  che  cosi  come  i Latini  per averla  perduta  diventarono  servi,  così sarebbono  stati  servi  i Romani,  quando non  la  avessino  vinta.  E di  questa  oppinone è L.;  perchè  in  ogni parte  fa  gli  eserciti  pari  di  ordine,  di virtù,  di  ostinazione  c di  numero  : solo vi  fa  differenza,  che  i capi  dello  esercito romano  furono  più  virtuosi  che  quelli dello  esercito  latino.  Yedesi  ancora  come nel  maneggio  di  questa  giornata  nacquero duoi  accidenti  non  prima  nati,  e che dipoi  hanno  rari  esempi:  che  de’ duoi Consoli,  per  tenere  fermi  gli  animi de’ soldati,  ed  ubbidienti  al  comandamento loro,  e diliberati  al  combattere, 1’  uno  ammazzò    stesso,  e I’  altro  il figliuolo.  La  parità,  che L.  dice essere  in  questi  eserciti,  era  che,  per avere  militato  gran  tempo  insieme,  erano pari  di  lingua,  d’  ordine  e d’arme:  perchè nello  ordinare  la  zuffa  tenevano  uno modo  medesimo  $ e gli  ordini  ed  i capi degli  ordini  avevano  medesimi  nomi. Era  dunque  necessario,  sondo  di  pari forze  e di  pari  virtù,  che  nascesse  qualche cosa  istraordinaria, che  fermasse  e facesse  più  ostinati  gli  animi  dell’  uno che  dell’altro:  nella  quale  ostinazione consiste,  come  altre  volte  si  è detto,  la vittoria;  perchè,  mentre  che  la  dura ne’  petti  di  quelli  che  combattono,  mai non  danno  volta  gli  eserciti.  E perchè la  durasse  più  ne’  petti  de’  Romani  che de’  Latini,  parte  la  sorte,  parte  la  virtù de’  Consoli  fece  nascere,  che  Torquato ebbe  ad  ammazzare  il  figliuolo,  e Decio sè  stesso.  Mostra  Tito  Livio,  nel  mostrare questa  purililà  di  forze,  tutto l’ ordine  che  tenevano  i Romani  nelli eserciti  e nelle  zuffe.  Il  quale  esplicando egli  largamente,  non  replicherò  altrimenti; ma  solo  discorrerò  quello  che  io vi  giudico  notabile,  e quello  che  per  essere negletto  da  tutti  i capitani  di  questi tempi,  ha  fatto  negli  eserciti  e nelle zuffe  di  molti  disordini.  Dico,  adunque, che  per  il  testo  di  Livio  si  raccoglie, come  lo  esercito  romano  aveva  tre  divisioni principali,  le  quali  toscanamente si  possono  chiamare  tre  schiere;  e nominavano la  prima  astati,  la  seconda principi,  la  terza  triarii:  e ciascuna  di queste  aveva  i suoi  cavalli.  Nello  ordinare una  zuffa,  ei  mettevano  gli  astatiinnanzi  ; nel  secondo  luogo,  per  diritto, dietro  alle  spalle  di  quelli,  ponevano  i principi; nel  terzo,  pure  nel  mede»imo filo,  collocavano  i triadi.  I cavalli  di tulli  questi  ordini  gli  ponevano  a destra ed  a sinistra  di  queste  tre  battaglie;  le schiere  de’  quali  cavalli,  dalla  forma  loro e dal  luogo,  si  chiamavano  alce , perchè parevano  come  due  alie  di  quel  corpo. Ordinavano  la  prima  schiera  delli  astati, che  era  nella  fronte,  serrata  in  modo insieme  che  la  potesse  spignere  e sostenere il  nimico. La  seconda  schiera de’  principi,  perchè  non  era  la  prima a combattere, ma  bene  le  conveniva  soccorrere alla  prima  quando  fusse  battuta o urtata,  non  la  facevano  stretta,  ma mantenevano  i suoi  ordini  radi,  e di qualità  che  la  potesse  ricevere  in  sè senza  disordinarsi  la  prima,  qualunque volta,  spinta  dal  nimico,  fusse  necessitata ritirarsi.  La  terza  schiera  de*  triadi aveva  ancora  gli  ordini  più  radi  che  la seconda,  per  potere  ricevere  in  sè,  bisognando, le  due  prime  schiere  de’  principi e degli  astati.  Collocate,  dunque, queste  schiere  in  questa  forma,  appiccavano  la  zuffa: e se  gli  astati  erano sforzati  o vinti, si  ritiravano  nella  ra-dila degli  ordini  de’  principi  ; e tuttiinsieme  uniti,  fatto  di  due  schiere  un J corpo,  rappiccavano  la  zuffa:  se  questi ancora  erano  ributtati  e sforzati,  si  ritiravano tutti  nella  radila  degli  ordini de*  trioni;  e tutte  tre  le  schiere  diventate un  corpo,  rinnovavano  la  zuffa  : dove  essendo  superati,  per  non  avere più  da  rifarsi,  perdevano  la  giornata. E perchè  ogni  volta  che  questa  ultima schiera  de’  triarii  si  adoperava,  lo  esercito era  in  pericolo,  ne  nacque  quel  proverbio: Res  redacta  est  ad  triarios  ; che ad  uso  toscano  vuol  dire:  Noi  abbiamo messo  I’  ultima  posta.  I capitani  dei  nostri tempi,  come  egli  hanno  abbandonato tutti  gli  altri  ordini,  e della  antica disciplina  ei  non  ne  osservano  parte  alcuna, cosi  hanno  abbandonata  questa parte,  la  quale  non  è di  poca  importanza: perchè  chi  si  ordina  da  potersi nelle  giornate  rifare  tre  volte,  ha  ad avere  tre  volte  inimica  la  fortuna  a volere perdere,  ed  ha  ad  avere  per  riscontro una  virtù  che  sia  atta  tre  volte  a vincerlo.  Ma  chi  non  sta  se  non  in  su  M primo  urto,  come  stanno  oggi  gli eserciti cristiani,  può  facilmente  perdere  ; perchè  ogni  disordine,  ogni  mezzana virtù  gli  può  torre  la  vittoria.  Quello che  fa  agli  eserciti  nostri  mancare  di potersi  rifare  tre  volte,  è lo  avere  perduto il  modo  di  ricevere  I*  una  schiera uelP  altra.  Il  che  nasce  perchè  al  presente sf  ordinano  le  giornate  con  uno di  questi  duoi  disordini:  o ei  mettono le  loro  schiere  a spalle  P una  delP  altra, e fanno  la  loro  battaglia  larga  per traverso,  e sottile  per  diritto;  il  che  la fa  più  debole,  per  aver  poco  dal  petto alle  schiene.  E quando  pure,  per  farla più  forte,  ei  riducono  le  schiere  per  il verso  de’ Romani,  se  la  prima  fronte  è rotta,  non  avendo  ordine  di  essere  ricevuta dalla  seconda,  s’ ingarbugliano insieme  tutte,  e rompono    medesime: perché  se  quella  dinanzi  è spinta,  ella urta  la  seconda;  se  la  seconda  si  vuol far  innanzi,  ella  è impedita  dalla  prima  : donde  che  urlando  la  prima  la  seconda, e la  seconda  la  terza,  ne  nasce  tanta confusione,  che  spesso  uno  minimo  accidente rovina  uno  esercito.  Gli  eserciti spagnuoli  e franciosi  nella  zuffa  di  Ravenna, dove  mori  monsignor  de  Pois, capitano  delle  genti  di  Prandi  (la  quale fu,  secondo  i nostri  tempi,  assai  bene combattuta  giornata)  s’  ordinarono  con uno  de’ soprascritti  modi;  cioè  clic  l’uno e 1’altro esercito  venne  con  tutte  le  sue genti  ordinate  a spalle: in  modo  che non  venivano’  avere    1’uno    1’altro se  non  una  fronte,  ed  erano  assai  più per  il  traverso  cìie  per  il  diritto.  E questo avviene  loro  sempre  dove  egli  hanno la  campagna  grande,  come  gli  avevano a Ravenna  : perché,  conoscendo  il  disordine che  fanno  nel  ritirarsi,  mettendosi per  un  filo,  lo  fuggouo  quando  e’  possono col  fare  la  fronte  larga,  coni’  t detto; ma  quando  il  paese  gli  ristringe, si  stanno  nel  disordine  soprascritto, senza  pensare  il  rimedio.  Con  questo medesimo  disordine  cavalcano  per  il paese  inimico,  o se  e’  predano,  o se e’  fanno  altro  maneggio  di  guerra. Ed a santo  Regolo  in  quel  di  Pisa,  ed  altrove, dove  i Fiorentini  furono  rotti da' Pisani  ne’ tempi  della  guerra  che  fu tra  i Fiorentini  e quella  città,  per  la  sua ribellione  dopo  la  passata  di  Carlo  re di  Francia  in  Italia,  non  nacque  tal  rovina d’ altronde,  clic  dalla  cavalleria amica;  la  quale  sendo  davanti  e ributtata da’  nimici,  percosse  nella  fanteria fiorentina,  e quella  ruppe  : donde  tutto il  restante  delle  genti  dierono  volta  : e messcr  Ciriaco  dal  Borgo,  capo  antico delle  fanterie  fiorentine,  ha  affermato alla  presenza  mia  molte  volle,  non  essere mai  stato  rotto  se  non  dalla  cavalleria degli  amici.  1 Svizzeri,  che  sono  i maestri  delle  moderne  guerre,  quando ei  militano  coi  Franciosi,  sopra  tulle  le cose  hanno  cura  di  mettersi  in  lato, che la  cavalleria  amica,  se  fusse  ributtata, non  gli  urti.  E benché  queste  cose paiano  facili  ad  intendere,  e facilissime a farsi;  nondimeno  non  si  è trovato  ancora alcuuo  de’  nostri  contemporanei  capitani, che  gli  antichi  ordini  imiti,  e gli  moderni  corregga.  E benché  gli  abbino ancora  loro  tripartito  lo  esercito, chiamando  1’una  parte  antiguardo,  l’altra battaglia  e l’altra  retroguardo;  non se  ne  servono  ad  altro  che  a comandargli nelli  alloggiamenti: ma  nello  adoperargli, rade  volte  è,  come  di  sopra  è detto,  che  a tutti  questi  corpi  non  faccino correre  una  medesima  fortuna.  E perchè  molti,  per  scusare  la  ignoranza loro,  allegano  che  la  violenza  delle  artiglierie non  patisce  che  in  questi  tempi si  usino  molti  ordini  degli  antichi,  voglio disputare  nel  seguente  capitolo  que-sta materia,  ed  esaminare  se  le  artiglierie impediscono  che  non  si  possa usare  l’ antica  virtù. Quanto  si  debbino  sii inave  dagli  eserciti  ne'  presenti  tempi le  artiglierie;  e se  quella  oppiatone che  se  ne  ha  in  universale j è vera. Considerando  io,  oltre  alle  cose  soprascritte, quante  zuffe  campali  (chiamate ne’ nostri  tempi,  con  vocabolo francioso,  giornate,  e dagl’  Italiani  fatti d’arme)  furono  fatte  dai  Romani  in  diversi tempi; mi  è venuto  in  considerazione la  oppinione  universale  di  molti,  che vuole  che  se  in  quelli  tempi  fussino state  le  artiglierie,  non  sarebbe  stato lecito  a’  Romani,      facile,  pigliare le  provincie;  farsi  tributari  i popoli, come  e’  feciono  ; nè  arebbono  in  alcuno modo  fatti  si  gagliardi  acquisti.  Dicono aiTcora,  che  mediante  questi  instrumenti de’  fuochi,  gli  uomini  non  possono  usare nè  mostrare  la  virtù  loro,  come  e’ potevano anticamente.  E soggiungono  una terza  cosa  : che  si  viene  con  piu  diflìeultà  alle  giornale  che  non  si  veniva allora,    vi  si  può  tenere  dentro  quegli ordini  di  quelli  tempi; talché  la guerra  si  ridurrà  col  tempo  in  su  le artiglierie.  E giudicando  non  fuora  di proposito  disputare  se  tali  oppiuioui sono  vere,  e quanto  le  artiglierie  abbino cresciuto  o diminuito  di  forze  agli eserciti,  e se  le  tolgano  o danno  occasione ai  buoni  capitani  di  operare  virtuosamente ; comiucerò  a parlare  quanto alla  prima  loro  oppinione: che  gli  eserciti antichi  romani  non  arebbono  fatto gli  acquisti  che  feciono,  se  le  artiglierie lussino  state.  Sopra  che,  rispondendo, dico:  come  e’si  fa  guerra  o per  difendersi, o per  offendere;  donde  si  ha  prima ad  esaminare  a quale  di  questi  duoi modi  di  guerra  le  faccino  più  utile,  o più  danno.  E benché  sia  che  dire  fla ogni  parte,  nondimeno  io  credo  che senza  comparazione  faccino  più  danno a chi  si  difende,  che  a chi  offende.  La ragione  che  io  ne  dico  è,  che  quel  che si  difende,  o egli  è dentro  a una  terra, o egli  è in  su’  campi  dentro  ad  uno  steccato. S*  egli  è dentro  ad  una  terra,  o questa  terra  è piccola,  come  sono  la maggior  parte  delle  fortezze,  o la  è grande:  nel  primo  caso,  chi  si  difende è al  tutto  perduto,  perchè  P impeto  delle artiglierie  è tale,  che  non  trova  muro, ancoraché  grossissimo,  che  in  pochi giorni  ei  non  abbatta;  e se  chi  è dentro non  ha  buoni  spazi  da  ritirarsi  c con fossi  e con  ripari,  si  perde;    può  sostenere 1*  impeto  del  nimico  che  volesse dipoi  entrare  per  la  rottura  del  muro, nè  a questo  gli  giova  artiglieria  che avesse:  perchè  questa  è una  massima, che  dove  gli  uomini  in  frotta  e con  impeto possono  andare,  le  artiglierie  non gli  sostengono.  Però  i furori  oltramontani nella  difesa  delle  terre  non  sono sostenuti: sou  bene  sostenuti  gli  assalti italiani,  i quali  non  in  frolla,  ma  spicciolati si  conducono  alle  battaglie,  le quali  loro,  per  nome  mollo  proprio, chiamano  scaramuccio. E qucsli  che vanno  con  questo  disordine  e questa freddezza  ad  una  rottura  d’  un  muro dove  sia  artiglierie,  vanno  ad  una  manifesta morte,  c conira  a loro  le  artiglierie vogliono:  ma  quelli  clic  in  frotta condensati,  e che  runo  spinge  l’altro, vengono  ad  una  rottura,  se  non  sono sostenuti  o da  fossi  o da  ripari,  entrano in  ogni  luogo,  c le  artiglierie  non gli  tengono;  e se  ne  muore  qualcuno, non  possono  essere  tanti  che  gl’  impedischino  la  vittoria.  Questo  esser  vero, si  è conosciuto  in  molte  espugnazioni fatte  dagli  oltramontani  in  Italia,  e massime in  quella  di  Brescia  : perchè,  sendosi  quella  terra  ribellata  da’  Franciosi, e tenendosi  ancora  per  il  re  di  Francia la  fortezza,  avevano  i Veneziani,  per  sostenere V impeto  che  ila  quella  potesse venire  nella  terra,  munita  tutta  la  strada di  artiglierie  che  dalla  fortezza  alla  città scendeva,  e postane  a fronte  e ne’  fianchi, ed  in  ogni  altro  luogo  opportuno. Delle  quali  monsignor  di  Fois  non  fece alcuno  conto  ; anzi  quello  con  il  suo squadrone,  disceso  a piede,  passando  per il  mezzo  di  quelle,  occupò  la  città,  nè per  quelle  si  sentì  eli’  egli  avesse  ricevuto alcuno  memorabile  danno. Talché, chi  si  difende  in  una  terra  piccola,  conte è detto,  c trovisi  le  mura  in  terra,  e non  abbia  spazio  di  ritirarsi  con  r ripari e con  fossi,  ed  abbiasi  a fidare  in su  le  artiglierie,  si  perde  subito.  Se  tu difendi  tuta  terra  gronde,  e che  tu  abbia comodità  di  ritirarti,  sono  nondiinanco  senza  comparazione  più  utili  le artiglierie  a chi  è di  fuori,  che  a chi  è dentro. Prima,  perchè  a volere  che  una artiglieria  nuoca  a quelli  che  sono  di fuora,  tu  sei  necessitato  levarti  con  essa dal  piano  della  terra;  perchè,  stando in  sul  piano,  ogni  poco  di  argine  e di riparo  che  il  nimico  faccia,  rimane  sicuro, e tu  non  gli  puoi  nuocere.  Tanto che  avendoti  ad  alzare,  e tirarti  sul  corridoio delle  mura,  o in  qualunque  modo levarti  da  terra,  tu  ti  tiri  dietro  due difficoltà:  la  prima,  che  non  puoi  condurvi artiglieria  della  grossezza  e della potenza  che  può  trarre  colui  di  fuora, non  si  potendo  ne’  piccoli  spazi  maneggiare le  cose  grandi ; I’  altra,  che  quando bene  tu  ve  la  potessi  condurre,  tu  non puoi  fare  quelli  ripari  fedeli  e sicuri, per  salvare  detta  artiglieria,  che  possono fare  quelli  di  fuora,  essendo  in  su  terreno,  ed  avendo  quelle  comodità  e quello  spazio  che  loro  medesimi  vogliono: talmentechè,  gli  è impossibile  a chi difende  una  terra,  tenere  le  artiglierie ne’  luoghi  alti,  quando  quelli  che  soli  di fuora  abbino  assai  artiglierie  e polenti; e se  egli  hanno  a venire  con  essa  ne’ luoghi bassi,  ella  diventa  in  buona  parte inutile,  come  è detto.  Talché  la  difesa della  città  si  ha  a ridurre  a difenderla con  le  braccia,  come  anticamente  si  faceva, e con  la  artiglieria  minuta  : di che  se  si  trae  un  poco  di  utilità  rispetto a quella  artiglieria  minuta,  se  ne  cava incomodità  che  contrappesa  alia  comodità della  artiglieria  ; perchè,  rispetto a quella,. si  riducono  le  mura  delle  terre, basse  e quasi  sotterrate  ne’ fossi:  talché, com’e’  si  viene  alle  battaglie  di mano,  o per  essere  battute  le  mura  o per  essere  ripieni  i fossi,  ha  chi  è dentro molti  più  disavvantaggi  che  non aveva  allora,  E però,  come  di  sopra  si disse,  giovano  questi  instrumenti  molto più  a chi  campeggia  le  terre,  che  a chi è campeggiato.  Quanto  alla  terza  cosa, di  ridursi  in  uno  campo  dentro  ad  uno steccato  per  non  fare  giornata,  se  non a tua  comodità  o vantaggio;  dico  che in  questa  parte  tu  non  hai  più  rimedio ordinariamente  a difenderti  di  non  combattere, che  si  avessino  gli  antichi;  e qualche  volta,  per  conto  delle  artiglierie, hai  maggiore  disavvantaggio.  Per- chè, se  il  nimico  ti  giunge  addosso,  ed abbia  un  poco  di  vantaggio  del  paese, come  può  facilmente  intervenire;  e truovìsi  più  alto  di  te;  oche  nello  arrivare alio  tu  non  abbi  ancora  fatti  i gini,  e copertoli  bene  con  que luto,  e senza  che  tu  abbi  alcun ti  disalloggia,  e sei  forzato  usci fortezze  tue,  e venire  alla  zuffa intervenne  agli  Spagnuoli  nel nata  di  Ravenna  i quali  essent nili  tra  il  fiume  del  Ronco  ed gine,  per  non  lo  avere  tirato  U che  bastasse,  e per  avere  i Frai poco  il  vantaggio  del  terreno, constretti  dalle  artiglierie  usci fortezze  loro,  e venire  alla  zi dato,  come  il  più  delle  volte  de sere,  che  il  luogo  che  tu  avess con  il  campo  fusse  più  eminenti altri  all’incontro,  e che  gli  ar; sino  buoni  e sicuri,  tale  che,  r il  sito  e 1’  altre  tue  preparazio miro  non  ardisse  di  assaltarti; in  questo  caso  a quelli  modi  c cainente  si  veniva,  quando  uno il  suo  esercito  in  lato  da  non  pi sere  offeso:  i quali  sono,  co paese,  pigliare  o campeggiare  le  terre tue  amiche,  impedirti  le  vettovaglie; tanto  che  tu  sarai  forzato  da  qualche necessità  a disalloggiare,  e venire  a giornata ; dove  le  artiglierie,  come  di  sotto si  dirà,  non  operano  molto.  Considerato, adunque,  di  quali  ragioni  guerre  feciono i Romani,  e reggendo  come  ei  feciono quasi  tutte  le  lor  guerre  per  offendere altrui,  e non  per  difender  loro;  si  vedrà, quando  sieno  vere  le  cose  dette  di sopra,  come  quelli  arebbono  avuto  più vantaggio,  e piu  presto  arebbono  fatto i loro  acquisti,  se  le  fussino  state  in quelli  tempi.  Quanto  alla  seconda  cosa, che  gli  uomini  non  possono  mostrare la  virtù  loro,  come  ei  potevano  anticamente, mediante  la  artiglieria  ; dico eh’  egli  è vero,  che  dove  gli  uomini spicciolati  si  hanno  a mostrare,  eh’  e’ portano  più  pericoli  che  allora,  quandoavessino  a scalare  una  terra,  o fare  simili assalti,  dove  gli  uomini  non  ristretti insieme,  ma  di  per    1’  uno  dall’  altro avessiuo  a comparire.  E vero die  gli  capitoni  e capi  degli stanno  sottoposti  più  al  perii! morte  che  allora,  potendo  esser con  le  artiglierie  in  ogni  lu giova  loro  lo  essere  nelle  ultii «Ire,  e muniti  di  uomini  fortissi dimeno  si  vede  che  l’uno  c P questi  duoi  pericoli  fanno  ra danni  istraordinari : perchè munite  bene  non  si  scalano,  i con  assalti  deboli  ad  assaltarh volerle  espugnare,  si  riduce  la una  ossidionc,  come  anticamen ceva.  Ed  in  quelle  clic  pure  pe si  espugnano,  non  sono  molto i pericoli  che  allora:  perchè  n cavano  anche  in  quel  tempo  a fendeva  le  terre,  cose  da  trarre se  non  erano  si  furiose,  facevam all’ ammazzare  gli  uomini,  *il  s fello.  Quanto  alla  morte  de’ci de’  condottieri,  ce  ne  sono,  in  v tro  anni  che  sono  state  le  guerre simi  tempi  in  Italia,  meno  esempi,  che non  era  in  dieci  anni  di  tempo  appresso agii  antichi.  Perchè,  dal  conte  Lodovico della  Mirandola,  che  morì  a Ferrara quando i Veniziani  pochi  anni  sono  assaltarono quello  Stato,  ed  il  Duca  di Nemors,  che  muore  alla  Ciriguuola,  in fuori;  non  è occorso  che  d’artiglierie ne  sia  morto  alcuno;  percdiè  monsignor di  Pois  a Ravenna  mori  di  ferro,  e non di  fuoco.  Tanto  che,  se  gli  uomini  non dimostrano  particolarmente  la  loro  virtù, nasce  non  dalle  artiglierie,  ma  dai  cattivi ordini,  e dalla  debolezza  degli  eserciti; i quali,  mancando  di  virtù  nel tutto,  non  la  possono  dimostrare  nella parte.  Quanto  alla  terza  cosa  detta  da costoro,  che  non  si  possa  venire  alle mani,  fc  che  la  guerra  si  condurrà  tutta in  su  P artiglierie,  dico  questa  oppinione essere  al  tutto  falsa;  e così  ila  sempre tenuta  da  coloro  che  secondo  P antica virtù  vorranno  adoperare  gli  eserciti loro.  Perchè,  chi  vuole  fare  uno  esercito buono,  gli  conviene,  con  eserpiù  apertamente  questo  errore, mare  più  i cavalli  che  le  fantei uno  altro  essempio  romano.  E Romani  a campo  a Sora,  ed  i usciti  fuori  della  terra  una  tu cavalli  per  assaltare  il  campo, fece  all’  incontro  il  Maestro  de romano  con  la  sua  cavalleria,  e di  petto,  la  sorte  dette  che  nel scontro  i capi  dell’  uno  e dell’ alticito  morirono;  e restali  gli  alti*governo,  e durando  nondimeno  I i Romani  per  superare  più  fac lo  inimico,  scesono  a piede,  e cc sono  i cavalieri  nimici,  se  si  voi fendere,  a fare  il  simile:  e co questo,  i Romani  ne  riportarom toria.  Non  può  esser  questo  eì maggiore  in  dimostrare  quanto virtù  nelle  fantericche  ne’ cavag che  se  nelle  altre  fazioni  i Con cevano  discendere  i cavalieri  i era  per  soccorrere  alle  fanterie  i tivano,  e che  avevano  bisogno  ili  aiuto; ma  in  questo  luogo  e’  discesono,  non  per soccorrere  alle  fanterie    per  eombattere  con  uomini  a piè  de’  nimici,  ma combattendo  a cavallo  co’ cavalli,  giudicareno,  non  potendo  superargli  a cavallo, potere  scendendo  più  facilmente vincergli.  Io  voglio  adunque  conchiudere,  che  una  fanteria  ordinata  non  possa senza  grandissima  diffìcultà  esser  superata,  se  non  da  una  altra  fanteria. Crasso  e Marc’  Antonio  romani  corsone per  il  dominio  de’  Parti  molte  giornate con  pochissimi  cavalli  ed  assai  fanteria, ed  all’  incontro  avevano  innumerabili cavalli  de’  Parti.  Crasso  vi  rimase  con parte  dello  esercito  morto.  Marc’  Antonio virtuosamente  si  salvò.  Nondimanco, in  queste  afflizioni  romane  si  vede  quanto le  fanterie  prevalevano  ai  cavalli  : perchè essendo  in  un  paese  largo,  dove  i monti  son  radi,  ed  i fiumi  radissimi,  le marine  longinque,  e discosto  da  ogni  comodità; nondimanco  Marc’ Antonio,  al giudicio  de’  Parti  medesimi, mente  si  salvò;    mai  ebbe tutta  la  cavalleria  pnrtica  te ordini  dello  esercito  suo.  Se rimase,  chi  leggerà  bene  le  s vedrà  come  e’  vi  fu  piuttosto che  forzato:    mai,  in  tutti sordini,  i Parti  ardirono  di  uri sempre  andando  costeggiando pedendogli  le  vettovaglie,  prò gli  e non  gli  osservando,  lo  et od  una  estrema  miseria.  Io avere  a durare  più  fatica  in  p quanto  la  virtù  delle  fanterie lente  ebe  quella  de’ cavalli, fussino  assai  moderni  essenv rendono  testimonianza  pieniss è veduto  novemila  Svizzeri  i da  noi  di  sopra  allegata,  and frontale  diecimila  cavalli  ed fanti,  e vincergli:  perchè  i cf li  potevano  offendere:  i fanti,  ] gente  in  buona  parte  guascoi ordinata,  stimavano  poco.  Yi ventiseimila  Svizzeri  andare  a trovare sopra  Milano  Francesco  re  di  Francia, che  aveva  seco  ventimila  cavalli,  qua-♦ rantamila  fanti  e cento  carra  d’artiglieria ; e se  non  vinsono  la  giornata come  a Novara,  combatterono  due  giorni virtuosamente;  e dipoi,  rotti  che  furono, la  metà  di  loro  si  salvarono.  Presunse Marco  Regolo  Attilio,  non  solo  con  la  fanteria sua  sostenere  i cavalli,  ma  gli  elefanti; e se  il  disegno  non  gli  riuscì, non  fu  però  che  la  virtù  della  sua  fanteria non  fusse  tanta,  che  ei  non  confidasse tanto  in  lei  che  credesse  superare quella  difficoltà.  Replico,  pertanto, che  a voler  superare  i fanti  ordinati,  è necessario  opporre  loro  fanti  meglio  ordinati di  quelli:  altrimenti,  si  va  ad  una perdita  manifesta.  Ne’ tempi  di  Filippo Visconti,  duca  di  Milano,  scesouo  ili Lombardia  circa  sedicimila  Svizzeri: donde  il  Duca  avendo  per  capitano  allora il  Carmignuola,  lo  manda  con  circa mille  cavalli  e pochi  fanti  allo  incontro loro.  Costui  non  sappiendo  1*  01 combatter  loro,  ne  anda  ad  inc nari  o di  amici  ei  non  può  tenere  lun-gamente tale  esercito,  è matto  al  tuttose  non  tenta  la  fortuna  innanzi  che  taleesercito  si  abbia  a risolvere:  perchèaspettando,  ei  perde  al  certo;  tentando, potrebbe  vincere.  Un’altra  cosa  ci  èancora  da  stimare  assai: la  quale  è,che  si  debbe,  eziandio  perdendo,  volereacquistar  gloria;  e più  gloria  si  ha  adesser  vinto  per  forza,  che  per  altro  in-conveniente che  t’abbia  fatto  perdere.Sì  che  Annibaie  doveva  essere  constretto«la  queste  necessità.  E dìScipione,  quando  Anuibaferita  la  giornata,  e nonstalo  l’animo  andarlo  a tghi  forti,  non  pativa,  pevinto  Siface,  e acquistateAffrica,  che  vi  poteva  stacomodità  come  in  Italia,terveniva  ad  Annibaie,  qV incontro  di  Fabio  ; nèciosi,  che  erano  all’  inctzio.  Tanto  meno  ancoragiornata  colui  che  con  l’il  paese  altrui; perchè,trare  nel  paese  del  niiviene  quando  il  nimico  scontro,  azzuffarsi  seco;  er  la  più  corta,  e per  vin-cere ogni  di  (Tic  ulta    dar  tempo  al  mar-chese a diliberarsi,  ad  un  tratto  mossele  sue  genti  per  quella  via,  cd  al  marchese significa  gli  mandasse  le  chiavi  diquel  passo.  Talché  il  marchese,  occupato da  questa  subita  diliberazione,  glimandò  le  chiavi:  le quali  mai gli  arebbemandate  se  Pois  più  lepidamente  si  fusscgovernato,  essendo  quel  marchese  in  legaeoi  papa  e coi  Viniziani,  ed  avendo  uusuo  figliuolo  nelle  mani  del  papa;  lequali  cose  gli  davano  molte  oneste  scusea negarle.  Ma  assaltato  dal  subito  partito, per  le  cagioni  che  di  sopra  si  dicono, le  concesse.  Cosi  feciono  i Toscanieoi  Sanniti,  avendo  per  la  presenza  dell’esercito  di  Sannio  preso  quelle  armeche  gli  avevano  negato  per  altri  tempipigliare. Qual  sia  miglior  partitonelle  giornale, o sostenere  lf  impetode*  nimicij  c sostenuto  urtargli; ovvero dapprima con furia assaltargli. Erano  Decio  e Fabio,  consoli  romani,con  due  eserciti  all’  incontro  degli  eser-citi dei  Sanniti  e dei  Toscani;  e venendoalla  zuffa  ed  alla  giornata  insieme,  è danotare  in  tal  fazione,  quale  di  due  di-versi modi  di  procedere  tenuti  dai  dueConsoli  sia  migliore.  Perchè  Decio  conogni  impeto  e cor  ogni  suo  sforzo  assalta il  nimico;  Fabio  solamente  lo  sostenne, giudicando  V assalto  lento  es-sere più  utile,  riserbando  l' impeto  suonell’  ultimo,  quando  il  nimico  avesseperduto  il  primo  ardore  del  combat-tere, e come  noi  diciamo,  la  sua  foga. Dove  si  vede,  per  il  successo  della  eosa, che  a Fabio  riuscì  molto  meglio  il  disegno che  a Decio  : il  quale  si  straccònei  primi  impeti  ; in  modo  che,  veden-do  la  banda  sua  piuttosto  in  volta  diealtrimenti,  per  acquistare  con  la  mortequella  gloria  alla  quale  con  la  vittorianon  aveva  potuto  aggiungere,  ad  imita-zione del  padre  sacrificò    stesso  perle  romane  legioni.  La  qual  cosa  intesada  Fabio,  per  non  acquistare  manco  ono-re vivendo,  che  s’avesse  il  suo  collegaacquistato  morendo,  spinse  innanzi  tuttequelle  forze  che  s’  aveva  a tale  necessitàriservate  ; donde  ne  riportò  una  felicissima vittoria.  Di  qui  si  vede  che  ’l  mododel  procedere  di  Fubio  è più sicuro e più  imitabile. Donde  nasce  che  una  fa-mìglia iìi  una  città  tiene  un  tempo  imedesimi  costumi. E’  pare  clic  non  solamente  1’  una  cittàdall*  altra  abbi  certi  modi  ed  institutidiversi,  e procrei  uomini  o più  duri  opiù  effeminati;  ma  nella  medesima  cittàsi  vede  tal  differenza  esser  nelle  fumiglie  I’  una  dall’  altra.  H che  si  riscontraessere  vero  in  ogni  città,  e nella  cittàili  Roma  se  ne  leggono  assai  essempi  :perché  e’  si  vede  i Manlii  essere  statiduri  ed  ostinati,  i Pubi icoli  uomini  benigni ed  amatori  del  popolo,  gli  Appiiambiziosi  e ni  mici  della  Plebe:  e cosimolte  altre  famiglie  avere  avute  ciascunale  qualità  sue  spartite  dall’  altre.  La  qualcosa  non  può  nascere  solamente  dal  sangue, perchè  e’ conviene  eh’ ei  varii  mediante la  diversità  dei  matrimoni;  maè necessario venga  dalla  diversa  educa-zione che  ha  una  famiglia  dall’  altra.Perchè  gl’  importa  assai  che  un  giovanetto dai  teneri  anni  cominci  a sentirdire  bene  o male  di  una  cosa;  perchèconviene  che  di  necessità  ne  faccia  im-pressione, e da  quella  poi  regoli  il  mododel  procedere  in  tutti  i tempi  della  vitasua.  E se  questo  non  fosse,  sarebbe  im-possibile che  tutti  gli  Appii  avessinoavuta  la  medesima  voglia,  c Rissino  statiagitati  dalle  medesime  passioni,  comenota  Tilo  L.  in  molti  di  loro:  e perultimo,  essendo  uno  di  loro  fatto  Censore, ed  avendo  il  suo  collega  alla  finede*  diciotto  mesi,  come  ne  disponeva  lalegge,  deposto  il  magistrato,  Àppio  nonlo  volle  deporre,  dicendo  che  lo  potevatenere  cinque  anni  secondo  la  primalegge  ordinata  dai Censori. E benchésopra  questo  se  ne  facessero  assai  con-cioni, e se  ne  generassino  assai  tumulti,non  pertanto  ci'  fu  mai  rimedio  che  volesse deporlo,  conira  alla  volontà  delPopolo  e della  maggior  parte  del  Senato. E chi  leggerà  P orazione  che  gli  fececontro  Publio  Sempronio  tribuno  dellaplebe,  vi  noterà  tutte  l’ insolenze  oppiane,e tulle  le  bontà  ed  umanità  usale  da  in-finiti cittadini  per  ubbidire  alle  leggi  edagli  auspicii  della  loro  patria. Che  un  buon  cittadinoper amore della patria debbo dimenticare l’ingiurie’ private.Era  Manlio  consolo  con  l’esercito  con-ira ai  Sanniti*  ed  essendo  stato  in  unazuffa  ferito,  e per  questo  portando  legenti  sue  pericolo,  giudicò  il  Senato  es-ser necessario  mandarvi  Papirio  Cursore dittatore,  per  sopplire  ai  difetti  del Consolo.  Ed  essendo  necessario  che  ’lDittatore  fusse  nominato  da  Fabio,  ilquale  era  con  gli  eserciti  in  Toscana;  edubitando,  per  essergli nimico,  che  nonvolesse  nominarlo; gli  mandarono  i Senatori due  ambasciadori  a pregarlo,  che,posti  da  parte  gli  privati  odii,  dovesseper  benefìzio  pubblico  nominarlo.  Il  cheFabio  fece,  mosso  dalla  carità  della  pa-tria; ancora  che  col  tacere  e con  mol-ti altri  modi  facesse  segno  che  talenominazione  gli  premesse.  Dal  qualedebbono  pigliare  essempio  tutti  quelli,che  cercano  d*  essere  tenuti  buoni  cit-tadini.  Quando  si  vede  fareuno  errore  grande  ad  un  nimico ,si  debbe  credere  che  vi  sia  sono  in-ganno.Essendo  rintaso  Fulvio  Legato  nelloesercito  che  i Romani  avevano  in  Toscana, per  esser  ito  il  Consolo  per  al-cune cerimonie  a Roma;  i Toscani,  pervedere  se  potevano  avere  quello  allatratta,  posono  un  aguato  propinquo  aicampi  romani,  e mandarono  alcuni  sol-dati con  veste  di  pastori  con  assai  ar-mento, e gli  feciono  venire  alla  vista dello  esercito  romano:  i quali  così  tra-vestiti si  accostarono  allo  steccato  delcampo;  onde  il  Legato  meravigliandosidi  questa  loro  presunzione,  non  gli  pa-tendo ragionevole,  tenne  modo  ch’egliscoperse  la  fraude;  e cosi restò il di*>igno de Toscani rotto. Qui si può comoramente  notare,  che  un  capitano  dieserciti  non  debbe  prestar  fede  ad  unoerrore  che  evidentemente  si  vegga  fareal  nimico:  perchè  sempre  vi  sarà  sottofronde,  non  sendo  ragionevole  che  gliuomini  siano  tanto  incauti.  Ma  spesso  ildisiderio  del  vincere  acceca  gli  animi degli  uomini,  che  non  veggono  altro  chequello  pare  facci  per  loro.  I Franciosi avendo  vinti  i Romani  ad  Allia,  e venendo a Roma,  e trovando  le  porte  aperte e senza  guardia,  stettero  tutto  quel  giorno e la  notte  senza  entrarvi,  temendo  di fraude,  e non  potendo  credere  clic  fusse tanta  viltà  c tanto  poco  consiglio  ne’ petti  romani,  che  gli  nbbandonassino  la patria.  Quando  nel  4508  s’andò  per  gli Fiorentini  a Risa  a campo,  Alfonso  del Mutolo,  cittadino  pisano,  si  trovava  prigione dei  Fiorentini,  e promise  che  s’egli era  libero,  darebbe  una  porta  di  Pisa all’esercito  fiorentino.  Fu  costui  libero. Di poi,  per  praticare  la  cosa,  venne  molte volte  a parlare  coi  mandati  dc’commissari;  e veniva  non  di  nascosto,  ma  scoperto, ed  accompagnato  da’ Pisani;  i quali  lasciava  da  parte,  quando  parlava eoi  Fiorentini. Talmentechè  si  poteva conietturare  il  suo  animo  doppio  ; perchè non  era  ragionevole,  se  la  pratica fussc  stata  fedele,  eh’  egli  1’  avesse  trattata sì  alla  scoperta.  .Ma  il  disiderio  che s*  aveva  d’  aver  Pisa,  accecò  in  modo  i Fiorentini,  che  condottisi  con  l’ ordine suo  alla  porta  a Lucca,  vi  lasciarono più  loro  capi  ed  .altre  genti  con  disonore loro,  per  il  tradimento  doppio  che fece  detto  Alfonso. Una  repubblica,  a volerla mantenere  libera,  ha  ciascuno  di  bisogno di  nuovi  provvedimenti  ; e per guali  meriti  Quinto  Fabio  fu  chiamato Massimo.  E di  necessità,  come  altre  volte  s’  è letto,  che  ciascuno    in  una  città  grande 'taschino'  accidenti  che  abbino  bisogno elei  medico  ; e secondo  che  gli  importano più,  conviene  trovare  il  medico  più  savio. E se  in  alcune  città  nacquero  mai  simili accidenti,  nacquero  in  t\oma  e strani ed  insperati;  come  fu  quello  quando  e’parve  cha  tutte  le  donne  romane  avessino congiurato  contra  ai  loro  maritid’  ammazzargli  :  tante  se  ne  trovò  clicgli  avevano  avvelenati,  e tante eh’ ave-vano preparato il veleno per avvelenargli. Come  fu  ancora  quella  congiura  de’baccanali,  clic  si  scopri  nel  tempo  dellaguerra  macedonica,  dove  erano  già  in-viluppati molti  migliaia  d’  uomini  e didonne;  e se  la  non  si  scopriva,  sarebbestata  pericolosa  per  quella  città  ; o seppure i Romani  non  fussino  stati  con-sueti a gasligare  le  muititudiui  degli  uo-mini erranti:  perchè,  quando  e’  non  sivedesse  per  altri  infiniti  segni  la  gran-dezza di  quella  Repubblica,  e la potenza delle esecuzioni sue,  si vede per la qualità della pena che la impone  a chi erra.    dubita far morire per via di giustizia  una  legione  intera  per  volta, ed  una  città  tutta;  e di  confinare ottoo diecimila  uomini  con  condizioni  straordinarie, da  non  essere  osservate  da  unsolo,  non  che  da  tanti:  come  intervennea quelli  soldati  che infelicement combatteno  a Canne,  i quali  confina in  Sicilia,  e impose  loro che  non alkergassino  in  terre,  e che  mangiassino ritti.  Ma di tutte 1’altre esecuzioni era  terribile il decimare gl’eserciti, dove a scorte da tutto uno esercito è morto d’ogni dieci uno. Nè si poteva,  a gasligare una multitudine,  trovare più  spaventevole punizione di questa. Perchè quando una moltitudine erra,  dove  non sia 1’autore certo,  tutti non si possono gastigare, per esser troppi; punirne parte e parte lasciare impuniti,  si farebbe torto  a quelli che si punissino,  e gl’impuniti arebbono animo di errare un’altra volta. Ma ammazzare la decima parte a sorte, quando tutti la meritano, o, 1'è punito si duole della sorte;  ehi non  è punito, ha paura che un’altra volta non tocchi alui, e guardasi di errare. Sono punite, adunque, le venefiche e le baccanali secondo che meritano i peccali loro. K. benché questi morbi in una repubblica faccino cattivi effetti, non sono a morte, perchè sempre quasi s’ha tempo a correggerli: ma non s’ha già tempo in quelli che riguardano lo stato, i quali se non sono da un  pru-dente corretti,  rovinano  la  città.  Eranoin  Roma,  per  la  liberalità  che  i Romani usavano  di  donare  la  civilità  a’ forestieri, nate  tante  genti  nuove,  che  le  comincia avere  tanta  parte  ne’ suffragi, che’l  governo  comincia  a variare,  epartivasi  da  quelle  cose  e da  quelli  uomini dove  era  consueto  andare.  Di  che accorgendosi  Quinto  Fabio  che  è  Censore, messe  tutte  queste  genti  nuoveda  chi  dipendeva questo  disordine  sot-to quattro Tribù,  acciocché  non  potessino,  ridotte  in  si  piccioli  spazi,corrompere  tutta  Roma. È questa cosa ben conosciuta da Fabio,  e postovi  senza  alterazione  conveniente  rimedio;  il quale  è  tanto  accetto  a quella  civilità,  che  merita  d’esser  chiamato  Masssirno Machiavelli  a Zanobi  Buondel-monti  e Cosimo  Rucellai  salute. Quali siano stati universalmente  i principii di qualunque città,  e quale è  quello  di  Roma Di  quanto  spezie  sono  le  repubbliche,e di  quale  fu  la  Repubblica  Romana. Quali  accidenti  facessino  creare  inRoma  i Tribuni  della  plebe;  il  che fece la Repubblica più perfetta che la disunione della Plebe e del Senato  romano fece  libera  e potente quella  Repubblica. Dove  più  securamente  si  ponga  laguardia  della  libertà,  o nel  Popolo  one’ Grandi;  e quali hanno maggiore cagione di tumultuare,  o chi  vuole acquistare  o chi  vuole  mantenere. Se  in  Roma  si  poteva  ordinare  uno sstato  che  togliesse  via  le  inimicizie intra  il  popolo  ed  il senato Quanto  siano  necessarie  in  una  Repubblica le  accuse  per  mantenere  lalibertà Quanto  lo  accuse  sono  utili  allerepubbliche,  tanto  sono  perniziose  le calunnie. Come  egli  è necessario  esser  soloavolere  ordinare  una  repubblica  dinuovo,  oal  tutto  fuori  delli  antichi suoi  ordini  riformarla Quanto  sono  laudabili  i fondatori d’una  repubblica  o d’uno  regno,  tanto quelli  d’ una  tirannide  sono  vituperabili Della  religione  de’  Romani. Di  quanta  importanza  sia  teneroconto  della  religione,  e come  la  Italia per  esserne  mancata  mediante  la  Chiesa romana,  è rovinata Come i Romani  si  servirono  dellareligione  per  ordinare  la  città,  e per seguire  le  loro  imprese  e fermare  i tumulti. I Romani  interpretavano  gli  auspicii  secondo  la  necessità,  o con  la prudenza  mostravano  di  osservare  la religione,  quando  forzati  non  1’osser-vavano; e se  alcuno  temerariamentela  dispregiava,  lo  punivano 100dio  alle  cose  loro  afflitte,  ricorsonoalla  religione Un  popolo  USO  a vivere  sotto  unprincipe,  se  per  qualche  accidente  diventa libero,  con  difficultà  mantienela  libertà. Uno  popolo  corrotto,  venuto  in  libertà, si  può  con  dit'ticnltà  grandissima mantenere  libero   In  che  modo  nelle  città  corrotte si  potesse  mantenere  uno  Stato  libero, essendovi;  o non  essendovi,  ordinarvelo Dopo  uno  eccellente  principe  si  puòmantenere  un  principe  debole;  madopo  un  debole,  non  si  può  con  un altro debole mantenere alcun regno. Due continove successioni  di  principi virtuosi  fanno  grandi  effettivecome  le  repubbliche  bene  ordinatehanno  di  necessità  virtuose  successioni: e però gli acquisti ed augumenti loro sono grandi Quanto biasimo meriti quel principe e quella repubblica che manca d’armi proprie Quello che sia da notare nel caso dei tre Orazi romani,  e dei tre Curiazi albani che non si debbe mettere a pericolo tutta  la  fortuna  e non  tutte le  forze;  e per  questo,  spesso  il  guardare i passi  è dannoso  Le  repubbliche  bene  ordinatecostituiscono  premii  e pene  a’ loro cittadini,    compensano  mai  l’uno con  l’altro Chi  mole  riformare  nno  Stato antico  in  una  città  libera,  ritenga  almeno l’ombra  desmodi  antichi  Un  principe  nnoro,  in  nna  cittào provincia  presa  da  Ini,  debbo  faro ogni  cosa  nnova Sanno  rarissime  volte  gli  nomini essere  al  tutto  tristi  o al  tatto buoni.  IniPer  qual  cagione  i Romani  furono meno  ingrati  agli  loro  cittadini che  gl’ateniesi Quale  sia  più  ingrato,  o un  popolo, o un  principe Quali  modi  debbe  usare  un  prìncipe o nna  repubblica  per  fuggirò  questo vizio  della  ingratitudine;  e qnali quel  capitano  o quel  cittadino  per non essere  oppresso  da  quella Che i capitani romani per errore commesso non  furono  mai  istraordinariamente  puniti;    furono  inai  ancora puniti  quando,  per  la  ignoranza loro  o tristi partiti presi  da  loro  ne fussino  seguiti  danni  alla  repubblica,  lfil Una repubblica o nno  principe non  dobbe differire a beneficare  gli uomini  nelle  sue  necessitati.  Quando  uno  inconveniente  è cresciuto  o in  uno  Stato  o contra  ad uno  Stato,  è più  salutifero  partito  temporeggiarlo che  urtarlo. L'autorità  dittatoria  fece  tene, e non  danno,  alla  repubblica  romana: o come  lo  autorità  che  i cittadini  si  toPgono,  non  quelle  che  sono  loro  dai suffragi  liberi  date,  sono  alla  vita  civile  perniciose La  cagione  perchè  in  Roma  la creazione  del  decemvirato  fu  nociva alla  libertà  di  quella  repubblica,  non ostante  che  fosse  creato  per  suffragi pubblichi  e liberi Non  debbono  i cittadini  che hanno  avuti  i maggiori  onori,  sdegnarside'  minoriQuali  scandali  partorì  in  Roma la  legge  agraria:  e come  fare  una legge  in  una  repubblica  che  risguardi assai  indietro,  e sia  contra  ad  unaconsuetudine  antica  della  città,  èscandolosissimo Le  repubbliche  deboli  sonomale  risolute,  e non  si  sanno  delibe-rare; e se  le  pigliano  mai  alcuno  par-tito, nasce  più  da  necessità  che  daelezione  In  diversi  popoli  si  veggonospesso  i medesimi  accidenti. La  creazione  del  decemvirato  in Roma,  e quello  che  in  essa  è da  notare:  dove  si  considera,  intra  moltealtre  cose,  come  si  può  salvare  persimile  accidente,  o oppressare  una  repubblica  Saltare  dalla  urailità  alla  superbia, dalla  pietà  alla  crudeltà,  senza  debiti mezzi,  è cosa  imprudente  ed  inutile. Quanto  gli  uomini  facilmente  si possono  corrompere. Quelli che combattono per la gloria propria,  sono  buoni  e fedeli  soldati  Una  moltitudine  senza  capo  èinutile:  e non  si  debbe  minacciare prima,  e poi  chiedere  P autorità  È cosa  di  malo  esempio  non  osservare una  legge  fatta,  e massimedallo  autore  d'essa:  e rinfrescare  ogni dì  nuove  ingiurie  in  una  città,  è a chi  la  governa  dannosissimo Gli  uomini  salgono  da  un'  ambizione ad  un'altra;  e prima  si  cercanon  essere  offeso,  dipoi  di  offendere altrui Gli  uomini,  ancora  che  si  ingannino ne’ generali,  nei  particolari  non si  ingannano  Chi  vuolo  che  uno  magistrato non  sia  dato  ad  un  vile  o ad  un  tristo, lo  facci  domandare  o ad  un troppo  vile  e troppo  tristo,  o ad  uno troppo  nobile  e troppo  buono Se  quelle  città  che  hanno  avuto il  principio  libero,  come  Roma,  hanno difficoltà  a trovare  leggi  che  le  mantenghino;  quelle  che  lo  hanno  immediate servo,  ne  hanno  quasi  una impossibilita. Non  debbo  uno  consiglio  o uno  magistrato potere  fermare  le  azioni  della città.  Una  repubblica  o uno  principe  debbo mostrare  di  fare  per  liberalità  quello a che  la  necessità  lo  constringe  A reprimere  la  insolenza  di  uno che  sorga  in  una  repubblica  potente, non  vi  è piu  securo  e meno  scandoloso  modo,  che  preoccuparli  quelle  vie per  lo  quali  o’vieno  a quella  potenza.  Il  popolo  molte  volto  desidera  la rovina  sua,  ingannato da  una  falsa spezie  di  bene: e come  le  grandi  speranze e gagliardo  promesse  facilmente lo  muovono. Quanta  autorità  abbia  uno  uomo grande  a frenare  una  moltitudine Quanto  facilmente  si  conduchino  le cose  in  quella  città  dove  la  moltitu-dine non  è corrotta:  e che  dove  è eqnalità,  non  si  può  faro  principato;e dove  la  non  è,  non  si  può  far  repubblica. Innanzi  che  seguino  i grandi  accidenti in  una  città  o in  una  provincia,  vengono  segui  che  gli  pronosti-cano, o Domini  che  gli  predicono. La  plebe  insieme  è gagliarda;  diper  se  è debole La  moltitudine  è più  savia  e piùcostante  che  un  principe altri  si  può  più  fidare; o di  quellafatta  con  una  repubblica,  o di  quellafatta  con  nno  principe Come il consolato o qualunque  altro magistrato  in  Roma  si  dava  senzarispetto  di  età Quale  fu  più  cagione  dello  imperioche  acquistorono  i Romani,  o la  virtù,o la  fortuna Con  quali  popoli  i Romani ebbero acombattere,  e come  ostinatamente quelli  difendevano  la  loro  libertà. Roma  divenne  grande  città  rovinando le  città  circonvicine,  e ricevendo i forestieri  facilmente  a'  suoionori Le  repubbliche  hanno  tenuti  tre  modicirca  lo  ampliare lingue,  insieme  con  l’accidente  de1  diluvio delle  pesti,  spegno  la  memoria dello  cose. Come  i Romani  procedevano  nel  farela  guerra Quanto  terreno  i Romani  davanoper  colono La  cagione  perchè  i popoli  si  partono da’ luoghi  patrii,  ed  inondano  ilpaose  altrui Quali  cagioni  comunemente  faccino.  I danari non sono  il  nervo  dellaguerra,  secondo  elio  è la  comune  op-pinone Non  è partito  prudento  fare  amicizia con  un  principe  che  abbia  piùoppinione  che  forze assaltato,  inferire,  o aspettare  laguerra Che  si  viene  (li  bassa  a gran  fortuna più  con  la  fraude,  che  con  laforza t Ingannansi  molte  volto  gli  uomini,credendo  con  la  nmilità  vincere  la  superbia  Gli  stati  deboli  sempre  fieno  ambi-gui nel  risolversi:  e sempre  le  deli-berazioni lente  sono  nocive Quanto  i soldati  ne’  nostri  tempi si  disformino  dalli  antichi  ordini. Quanto  si  debbino  stimare  daglieserciti  ne’  presenti  tempi  le  artiglie-rie; e se  quella  oppinione  che  se  neha  in  universale,  è vera Come  per  I’  autorità  de*  Romani,e per  lo  essempio  della  antica  milizia, si  debbe  stimare  più  le  fanterieche  i cavagli . Che  gli  acquisti  nelle  repubbli-che non  bene  ordinate  e che  secondola  romana  virtù  non  procedono,  sonoa rovina,  non  a esaltazione  di  esse. Quale  pericolo  porti  quel  principeo quella  repubblica  che  si  vale  dellamilizia  ausiliare  a mercenaria Il primo  Pretore  che  i Romani mandarono  in  alcun  luogo,  fu  a Capo-va,  dopo  quattrocento  anni  che  cominciarono a far  guerra Quanto  siano  false  molte  volte  leoppinioni  degli  uomini  nel  giudicarele  cose  grandi Quanto  i Romani  nel  giudicarei sudditi  per  alcuno  accidente  che  necessitasse tal  giudizio,  fuggivano  lavia  del  mezzo Le  fortezze  generalmente  sonomolto  più  dannose  che  utili Che  Io  assaltare una città disunita,  per occuparla  mediante la  sua disunione,  è partito  contrario. Il vilipendio e l’improperio genera odio  contra  a coloro  che  l’usano, senza  alcuna  loro  utilità Ai  principi  e repubbliche  prudenti debbe  bastare  vincere; perchè  ilpiù  delle  volte,  quando  non  basti,  siperde  Quanto  sia  pericoloso  ad  una repubblica  o ad  uno  principe  non  vendicare una  ingiuria  fatta  contra  alpubblico  o contra  al  privato La  fortuna  accieca  gl’animi  degl’uomini,  quando  la  non  vuole  chequelli  si  opponghino  a’  disegni  suoi Le repubbliche e gli  principi  veramente potenti  non  comperano  l'amicizie con  danari,  ma  con  la  virtù  econ  la  riputazione  delle  forzo. Quanto  sia  pericoloso  credere  agli sbanditi In  quanti  modi  i Romani  occupano le  terre Come  i Romani  davano  agliloro  capitani  degli  eserciti  le  commissioni libere A volere  che  una  setta  o una  repubblica viva  lungamente,  è necessarioritirarla  spesso  verso  il  suo  principio.  Come  gli  è cosa  sapientissima  simulare in  tempo  la  pazzia. Come  egli  è necessario,  a volermantenere  una  libertà  acquistata  dinuovo,  ammazzare  i figliuoli  di  Bruto  Pag-Non  vive  sicuro  un  principe  in  un principato,  mentre  vivono  coloro chene  sono  stati  spogliati Quello  che  fa  perdere  uno  regno  aduno  re  che  sia  ereditario  di  quello. Delle congiure Donde  nasce  che  le  mutazioni  dallalibertà  alla  servitù,  e dalla servitùalla libertà,  alcuna  n1  è senza sangue, alcuna  n’è piena chi vuole alterare  una  repubblica, debbo  considerare  il  soggetto  diquella Come  conviene  variare  coi  tempi, volendo  sempre  aver  buona  fortuna  . Che  uu  capitano  non  può  fuggire  lagiornata, quando  1’avversario  la  vuolfare  in  ogni  modo Che  chi  ha  a fare  con  assai,  ancora che  sia  inferiore, purché possasostenere  i primi  impeti,  vince. Come  un  capitano  prudente  debboimporre  ogni  necessità  di  combattereai  suoi  soldati,  e a quelli  delli  minicitorla gol. Più  confidare,  o innuo  buono  capitano  che abbia  l’eser-cp°  debole,  o in  uno  buono  esercito che  abbia  il  capitano  debole. Le  invenzioni  nuove  che  appariscono nel  mezzo  della  zuffa,  e le  vocinuove  che  si  odono,  quali  effetti  faccino   Come  uno  e non  molti  siano  preposti ad  uno  esercito,  o come  i piùcomandatori  offendono Che  la  vera  virtù  si  va  ne' tempidifficili  a trovare;  e ne tempi  facilinon  gli  uomini  virtuosi,  ma  quelliche  per  ricchezze  o per  parentado  prevagliono,  hanno  più  graziaChe  non  si  offenda  uno,  e poiquel  medesimo  si  mandi  in  ammini-strazione e governo  d’ importanza. Nessuna  cosa  è più  degna  d' uncapitano, che presentire i partiti  delnimico.  Se  a reggere  una  moltitudine  èpiù  necessario  lo  ossequio  che  la  pena. Uno  essempio  d'umanità  appresso ai  Falisci  potette  più  d' ogni  forza romana Donde nasce che Annibale con diverso modo di procedere da Scipione,  fa quelli  medesimi  effetti  in Italia  che  quello in  Ispagna. Come  la  durezza  di  Manlio  Torquato e l’umanità  di Valerio  Corvino acquistò  a ciascuno la medesima gloria. Per quale cagione Cammillo fnsse cacciato di Roma. La prolungazione degl’imperi  fa  serva  Roma. Della  povertà di Cincinnato,  e dimolti  cittadini  romani. Come per cagione di femmine si rovina uno Stato. Come  e'  si  ha  a nnire  una  città divisa;  e come  quella  oppinione  non è vera,  che  a tenere le  città  bisogna tenerle  disunite. Che si debbe  por  mente  alle opere  de’  cittadini,  perchè  molte  volte sotto  un’opera  pia  si nasconde  un principio di  tirannide. Che gli peccati dei popoli nascono dai  principi. Ad  uno cittadino  che  voglia  nella sua  repubblica  far  di sua  autorità  alcuna opera  buona,  è necessario  prima spegnere l’invidia:  e come,  venendo il  nimico,  s’ha a ordinare  la  difesa d’una  città  Le  repubbliche  forti  o gli  uomini eccellenti  ritengono  in  ogni  fortuna il  medesimo  animo  e la  loro  medesima dignità. Quali  modi  hanno  tenuti  alcuni a turbare  una  paco. Egli  è necessario,  a voler  vincere una  giornata,  fare l’esercito  conattente  ed  infra  loro,  e con  il  capittano. Quale  fama o voce o oppinione fa  che il  popolo  comincia  a favorire un  cittadino:  e se  ei distribuisce  I magistrati  con  maggior  prudenza  che un principe. Quali  pericoli  si portino  nel  farsi capo a consigliare  una  cosa; e quanto ella ha più dello  straordinario,  maggiori pericoli  vi  si  corrono. La cagione  perchè  i Franciosi sono  stati  e sono  ancora  giudicati nelle zuffe da  principio  più  che  uomini, e dipoi  meno che  femmine. Se  le piccolo battaglie  innanzi alla  giornata  sono  necessarie,  e come si  debbo  fare  a conoscere  un  nimico nuovo,  volendo  fuggire  quelle. Come  debbe esser fatto un capitano nel  quale  1’esercito  suo  possa confidare Che  un  capitano  debbe  esser conoscitore  dei  siti  Come usare la fraudo nel  maneggiare la  guerra  è cosa  gloriosa. Che la patria si debbe difendere o con  ignominia  o con  gloria;  ed  in qualunque  modo  è ben  difesa Che  le  promesse  fatte  per  forza non  si  debbono  osservare Clie  gli  uomini  che  nascono  in una  provincia,  osservano  per  tutti  I tempi  quasi  quella  medesima  natura  E’ si  ottiene  con  l'impeto  e con 1’audacia  molte  volte  quello  che con modi  ordinari  non  si  otterrebbe  mai. Qual sia miglior partito nelle giornate, o sostenere l'impeto de'  nimici, e sostenuto  urtargli;  ovvero  dapprima con  furia  assaltargli  Donde  nasce  che  una  famiglia  in una  città  tiene  un  tempo  i medesimi costumi Che un buon cittadino per amore della patria debbe dimenticare l’ingiurie private. Quando  si vede fare uno errore, grande ad un nimico,  si debbe credere die  vi  sia  sotto  inganno. Una  repubblica,  a volerla  mantenere libera,  ha  ciascuno  di  bisogno di  nuovi  provvedimenti;  e per  quali meriti  Quinto  Fabio  è  chiamato  Massimo. Tito Livio. Keywords: filosofia romana, Romolo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livio” – The Swmming-Pool Library, Villa Speranza. For H. P. G. Grice’s Gruppo di Gioco.  Tito Livio.

 

Grice e Lodovici: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della virtù – verso la meta – la meta è l’origine -- filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Messina). Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Grice: “I like Emanuele Samek Lodovici – very Italian – his metamorfosi della gnosi is good!” -- samek lodovici -- one of the two. Il suo pensiero d'impronta metafisica si oppone al materialismo e al riduzionismo. Esperto della filosofia di Plotino, Sant'Agostino e Marx, si occupa dello gnosticismo che a suo parere si trova ripresentato in diverse filosofie e ideologie dell'età moderna e contemporanea. Figlio del bibliotecario e bibliografo Sergio Samek Lodovici, nativo di Carrara, che lo chiamò come suo fratello maggiore, noto medico e politico. Rimase in Sicilia per breve tempo per poi vivere sempre a Milano. Scampò a soli cinque anni alla tragedia di Albenga, quando dopo il naufragio di un'imbarcazione carica di bambini era stato inserito nel gruppo delle piccole salme, ma il tempestivo intervento di un medico lo salvò. Di formazione e cultura cattoliche, studia a Milano dove si laurea con «Filosofia classica e spiritualità cristiana nel Commento di Sant'Agostino al Vangelo di San Giovanni». Insegna aTorino. Pubblicò due monografie, una su Agostino (con il contributo del C.N.R.), e l'altra sulla gnosi moderna, che gli valsero la cattedra di Filosofia a Trieste.  In una lettera Noce si riferiva così. Nella prima delle sue due opere fondamentali, Dio e mondo, inizia considerando la grave accusa rivolta da Heidegger alla metafisica, ovvero di non aver compreso che cos'è l'«essere» e di aver reificato Dio, di averlo cioè reso una «cosa». Questa critica può essere legittima ma non nei riguardi della metafisica neoplatonica nella forma in cui è stata mediata da Agostino. Individua il fulcro di tale metafisica nella dottrina della «partecipazione» delle idee col mondo, in forza della quale il rapporto di Dio col mondo è una relazione sostanziale e non oggettualità.  In Metamorfosi della gnosi, delinea una fenomenologia della cultura come influenzata da una mentalità inconsciamente gnostica. Tale mentalità ha assunto in sé le tesi dello gnosticismo antico, ovvero la sostanziale negatività del mondo, la possibilità di redenzione dalla oscurità del mondo attraverso un sapere salvifico (gnosi) e la possibilità di un redenzione del mondo realizzata, senza bisogno della grazia divina, dalla sola azione dell'uomo tramite la politica e/o la scienza.  Così nel pensiero gnostico la finitezza e la creaturalità vengono disprezzate e rifiutate, con l'ambizione di creare l'Uomo Nuovo e la Gerusalemme terrena. Insomma, sintesi del pensiero gnostico è quella formulazione che trova il proprio culmine nel «rifiuto di non poter essere Dio»; in tal modo nella visione gnostica non è più Dio, ma l'uomo gnostico a identificarsi con l'infinito, sgravato com'è da qualsiasi limite.  Da ciò appaiono evidenti gli obiettivi polemici e critici di ogni metamorfosi dello gnosticismo rappresentato nelle forme del riduzionismo antireligioso, del prometeismo marxista, della filosofia radical-relativista diffusa attraverso i media, della corruzione della memoria storica attuata anche attraverso la corruzione del linguaggio ed infine nella strategia della distruzione della famiglia, che è stata potentemente colpita in particolare con la rivoluzione sessuale e con alcuni tipi di femminismo.  Per quanto riguarda la sua pars construens, Safferma che proprio a partire dalla post-marxistica crisi del pensiero secolarista gnostico si deve delineare la necessità di ritornare alla tradizione metafisica, da lui indicata sulla linea di Platone, Plotino e soprattutto Agostino.  In sintonia con l'ermeneutica contemporanea, e pur evitandone le derive nichilistiche, riconosce la struttura storicamente condizionante del linguaggio nei confronti dell'esistenza e della conoscenza, secondo una sua favorita formula per cui «chi non ha le parole non ha le cose», e d'altra parte il filosofo riconosce anche la funzione inversa del linguaggio per cui, oltre che elemento condizionante, esso è anche il mezzo con cui l'uomo storico può trascendere i vincoli della storia e del linguaggio stesso (i baconiani «idola fori» e «idola theatri») ed esprimere le verità eterne. Rievoca la valenza dell'autocoscienza della ragione e delle sue vastissime potenzialità, sia in bene che in male, e a partire da queste, ne ricorda i limiti, i fallimenti storici e le costitutive incapacità che emergono specialmente nel momento in cui essa viene elevata ad una illuministica idolatria, concretizzandosi nella moderna vita di massa che  «ha affermato la libertà politica da ogni autorità spirituale, finendo per favorire il potere dell’uomo sull’uomo; ha affermato la libertà dell’amore dalla morale per vanificarlo nel sesso; ha affermato di lottare contro ogni religione in quanto superstizione, solo per prepararne una più esiziale, quella della scienza e del successo.»  Piuttosto, una ragione accorta deve, restando autonoma, interagire con la religione, per corroborarla e giustificarla razionalmente o per cercarvi le risposte prime ed ultime.  Tipica poi del suo pensiero  è la «cultura del ricordo», intesa come cultura non di una memoria archeologica bensì di una memoria che guardando ai fallimenti del passato possa liberare il presente dalle menzogne ideologiche e dai progetti utopistici che, ripetendosi nella storia, hanno generato i totalitarismi del XX secolo, e che oggi producono la dittatura del relativismo e del nichilismo. Così la memoria assume una funzione spirituale nel senso che  «mi rende migliore di quello che sono».  La riflessione è dunque nel complesso di carattere etico-sapienzale, consapevole che in ogni agire umano si esplica la ricerca della felicità, una ricerca che, per essere efficace e compiuta, deve però essere immune da qualsiasi utopismo onirico: è alla luce di questa precisazione che può affermare che «non vi è nessuna felicità senza virtù, in altre parole non vi è nessuna felicità senza quell'unica attività che è in grado di rendere l'uomo pienamente umano», perciò «non si può pretendere che l'acquisto della felicità non passi attraverso lo sforzo, la lotta, e in ultima analisi la sofferenza», ed è in tal modo che trovano un senso il limite umano e la sofferenza. Non sfugge al filosofo la coscienza della precarietà della felicità umana, però questa «ben lungi dallo spingerci alla tristezza per l'insaziabilità dell'uomo, va tuttavia vistaottimisticamente, come l'indizio che è un'altra la felicità conforme al livello spirituale degli esseri umani», perché «ultima hominis felicitas non est in hac vita. Saggi: “ Plotino nel In Johannis Evangelium di Agostino, in  Contributi dell'Istituto di filosofia, Vita e Pensiero, La Lettera ai Galati” in Marcione e Tertulliano, in «Aevum», Milano, Agostino, in  Questioni di storiografia filosofica, La Scuola, Brescia); Sul processo di Gesù e su Gesù e gli zeloti, Vita e Pensiero, Marxismo o Cristianesimo, Ares, Sesso, matrimonio e concupiscenza in, Etica sessuale (Milano); Tra cosmologia e metafisica. Note sul concetto di cosmo, in “Il demoniaco nella musica, Giappichelli,  La felicità e la crisi della cultura radicale ed illuministica, in  La crisi della coscienza politica e il pensiero personalista, Libreria Gregoniana, “Dio e mondo: relazione, causa e spazio” (EStudium); “Metamorfosi della gnosi” Ares,  Dominio dell'istante, dominio della morte. Alla ricerca di uno schema gnostico, in «Archivio di Filosofia», Istituto di studi filosofici, Roma, “La gnosi e la genesi delle forme, in «Rivista di Biologia», Il gusto del sapere, Universitas); “L'arte di non disperare. Il gusto del sapere  Estratti di L'arte di non disperare  M.  Picker, Il mio professore di filosofia, Studi Cattolici, Alabiso, La critica dell'attacco macro-strutturale al cristianesimo, Catania. Giacomo L., Profili. L., Studi Cattolici, Sciffo, Le maschere della gnosi, «Avvenire», Barbiellini Amidei, Il filosofo che insegna l'arte della speranza., in «Corriere della Sera», filosofo che insegna arte_della_co shtml G. Feyles, La battaglia di Samek, in «Tempi», tempi la-battaglia-di-samek Fumagalli, L. e Noce: Gnosi e secolarizzazione, Santa Croce, Roma //sergiofumagalli/files/ tesi.pdf  Taddeo, Verità e diritto, Trento G. Segre, una vita per la Verità, «la Bussola Quotidiana» /la nuova bussola quotidiana.com/it/archivio Storico Articolo-emanuele-samek- lodoviciuna vita-per-la-verit- A. Galli, Il ritorno della gnosi, in «Avvenire», Anna, L'origine e la meta. Ares, Milano.  Gnosticismo Cattolicesimo, Noce, Voegelin, Mathieu   su Santi, beati e testimoni, santiebeati.  Il gusto del sapere Universitas, Documentazione interdisciplinare di scienza e fede, Gnosi moderna e secolarizzazione nell'analisi” Fumagalli, Pontificia Università della Santa Croce, Roma, “la gnosi come vero avversario della verità di Restelli, sito "Cultura Cattolica. Emanuele Samek Lodovici. Lodivici. Keywords. la virtù, l’amore sessuuale, il sessuale – la sessualita, il maschile, il machio, il sesso maschile, il vir, virile, virilita. Refs.: Luigi Speranza, “ Grice e Lodovici” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lodovici: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) The author of a fascinating essay on philosophical psychology. Figlio di Emanuele Samek Ludovici. Giacomo Samek Lodovici. Lodovici.

 

Grice e Lombardi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia campanese – filosofia napoletana -- scuola la filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Lombardi; he took seriously my idea of Philosophy’s Longitudinal Uniity, and like Passmore or Warnock, engaged iin a study of the ‘last hundred years of Italian philosophy. This shows that his interests on Kant, etc., are Italian-based, mainly!” Il padre e avvocato e docente di diritto e procedura penale a Napoli, già allievo prediletto di Bovio, deputato prima e dopo il fascismo, autore di scritti vari di sociologia. La madre Rosa Pignatari fu nipote di  Ciccotti, nella cui casa era cresciuta. Tradusse alcuni degli scritti di Marx nelle Opere edite dal Ciccotti e la Storia del movimento operaio di Edouard Dolleans.  Laureato e libero docente in filosofia lavora in filosofia. Pubblica “Il mondo degli uomini” (Firenze, Le Monnier) Insegna a Roma. Presidente della Società Filosofica Italiana e (sin dalla fondazione) della Società filosofica romana, diresse il "Centro di Ricerca per le Scienze Morali e Sociali" presso l'Istituto di filosofia della Roma. Direttore della rivista De Homine cui si è affiancato il Bollettino Bibliografico per le Scienze morali e sociali. Membro dell’Accademia nazionale dei Lincei. Gli e conferito il premio nazionale "Croce" per la filosofia.  Saggi: “L'esperienza e l'uomo.”“Fondamenti di una filosofia umanistica” (Firenze: Sansoni); “Il mondo morale;”“Feuerbach” (Firenze: Nuova Italia); “Feuerbach e Marx: “Kierkegaard” (Firenze: La Nuova Italia); “La libertà del volere” (Milano: Bocca); La filosofia critica, Roma: Tumminelli; “Il problema kantiano, “Commento alla Critica della ragion pura” Kant vivo (Firenze: Sansoni); Nascita del mondo modern (Firenze: Sansoni); Concetto e problemi di Storia della filosofia” (Asti: Arethusa); “Le origini della filosofia” (Asti: Arethusa); “Libertà” (Asti, Arethusa); “Dopo lo Storicismo” (Firenze: Sansoni); “Ricostruzione filosofica” (Asti: Arethusa); “La filosofia italiana” Asti: Arethusa, Il piano del nostro sapere, Asti: Arethusa); “La posizione dell'uomo nell'universo, Firenze: Sansoni); “Problemi della libertà, Firenze: Sansoni,  Filosofia e civiltà” (Firenze: Sansoni, Saggi Manoscritti inediti Scritti vari di filosofia, Scritti politici Filosofia e Società, Firenze: Sansoni, Filosofia e Società Firenze: Sansoni, Il senso della storia” (Firenze: Sansoni); Aforismi inattuali sull'arte” (Firenze: Sansoni); Galilei: un ante-signano”(Firenze: Sansoni, scritti per l'università, Firenze: Sansoni, “Continuità e Rottura, Firenze: Sansoni, Una svolta di civiltà, n.d.: ERI, Gaetano Calabrò, Torino: Filosofia, Atti del Congresso internazionale di Filosofia, Milano: Castellani & C Editori, Il materialismo storico Atti del Congresso internazionale di Filosofia; Roma: Fratelli Bocca, Il problema della filosofia oggi Varie Taccuini di viaggio Dodici canzoni napoletane, su versi di Salvatore Di Giacomo, Firenze: Forlivesi, Torino: Edizioni di Filosofia, Treccani L'Enciclopedia italiana. Un contributo significativo per la costruzione della filosofia italiana contemporanea, Lincei, in Biblioteca di Filosofi, Sapienza Roma. Franco Lombardi. Lombardi. Keywords: la filosofia italiana, Galilei.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lombardi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Longino: la ragione conversazionale e il filosofo della regina -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. An adviser to Queen Zenobia. Oddly, when Zenobia is defeated by the Romans, she is taken off to Rome, whereas her adviser is executed.

 

Grice e Longino: la ragione conversazionale e il diritto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A legal scholar and theorist. Uno degl’uccisori di GIULIO (si veda) Cesare. Gaio Cassio Longino. Longino

 

Grice e Longano: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’uomo naturale – filosofia molisese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ripalimosani). Filosofo italiano. Ripalimosani, Campobasso, Molise. Grice: “Longano took ‘naturalness’ so seriously that he would apply it to anything: ‘man’ (‘uomo naturale’) and morals (‘morale naturale’).” “I like Longano; he is a systematic logician, as I’m not – therefore he thinks that to study semantics, which logic is, starts with studying signs – as I did in my seminars on Peirce – so Longano is the one I was referring when I mentioned what ‘people were at when they display an interest in natural versus conventional signs; he also has interesting things to say about my favourite parts of speech, syncategoremata!””Allievo di  ZURLO, si trasfere a Campobasso e quindi a Napoli dove divenne allievo di GENOVESI. Fa parte della massoneria ed è considerato un importante esponente dell'illuminismo, fu sostenitore dello stretto rapporto tra anima e corpo e di una visione dell'uomo nella sua interezza. Propugna la rinascita dell'Italia, proponendo un piano di riforme e il superamento del feudalesimo. Altri saggi: “Piano di un corpo di filosofia morale; ossia, Estratto d'un corso di Etica, di economia e di politica” (Napoli,“Dell'Uomo Natural Napoli, “Saggio sul commercio” (Napoli, presso Vincenzo Flauto, Raccolta di Saggi economici per gli abitanti delle due Sicilie, Napoli,  presso Sangiacomo e Campo, “Dell'uomo e della sua morale natura -- Esame fisico, e morale dell'uomo, Napoli, Morelli, Dell'uomo, e sua morale natural, Della morale naturale, Napoli, M. Morelli, Dell'uomo Religioso e cristiano,  Dell'uomo religioso, Napoli, Morelli, “Logica” Viaggio per lo contado di Molise ovvero descrizione fisica, economica e politica del medesimo, Napoli, Viaggio per la Capitanata, Napoli, Sangiacomo, Il Purgatorio ragionato, Lepore, postfazione di Martelli, Campobasso, Palladino, Philosophiae rationalis elementa; De arte logica, Napoli; De metaphysica, Napoli, Orsino; De Jure humanae, Napoli, Biblioteca provinciale di Foggia; L'anno di Genovesi, su biblioteca provincial foggia. Gaetano, su webcache .googleusercontent.com A. Rao, L'amaro della feudalità: la devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli, Guida, Rizzo, La civiltà del Purgatorio: riformismo e anti-clericalismo nella provincia molisana,  S. Borgna,  su delpt.unina, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. I I BIBLIOTECA NAZ~   Vlttorlo Emanuele III   i  \.A  NAPOLI  t V' PHILOSOPHIAE RATIONALI*?   ELEMENTA   A V f T.     ' N ’ ’  DE ARTE £OGIC4  r i u ^ u A   Pe rerum ideis , et signi 'f , Jej% erroribus et ycritate   NEAp0Ll s   fcE CLARIS DIALE C TIGiE  SCRIPTORIBUS. AD JOSEPHUM GANTORIUM.  > . • I 1 V   v ; , % r   P Hilosopkia , Josephe pr^claridiime , in quam  uno Dialectica studio ingredimur, rerun divinarum , kumanarumque sapientiam con-  ticet » Hinc Dialectica inchoat , qutf sapientia  perficit . At vir acerrimi ingenii , divine me-  mori e , et per quam longa meditatione , ac le-  ctione contritus Antonius Genuensis meus ami-  cus , et magister , multa in sua arte logica >  pluraque in aliis desiderans , neminem plane,  qui jure appellari Dialecticus posset , dicebat .  Habebat itaque vir magnus comprehensam ani-   * f.    \   4   m  quem si imitari non possfimifs , at qualif esse  debeat , poterimus fortasse dicere i “   Ars disserendi licet a ratione proficiscatur j  proindeque quolibet in homine ingenita ; verum,-  tamen a Graecis primo elaborata, atque ab usdem et monumentis , et literis est cepta man-  dari . Testes enim sunt , j arieter plurimos philosophos illustres, etiam *pene innumerabiles  oratores , uti Lysias , Isocrates , Hyperides ,  JEschines , Lycurgus , Pericles , DemOslheoes ,  aliique plures . Quibus si artem disserendi de-  mas , omnem eorum vim , atque loquendi ce -  piam prorsus evertes . “   . Equidem si hac arte Pericles ( mitto eet«-  fos ) fuisset orbatus', quo pacto tanta cum de-  lectatione aculeos, reliquisset in animis eorum ,  i . a a qui-    %    Digitized by Google     O qi/ibns esset auditus i Quis putet suhtUitateni  ingenii L. Bruto defuisse , qui ex oraculo A-  pollinis tam acute conjecerit , qui summam  prudentiam simulatione stu/titi.c texerit , quique  Civitatem perpetuo dominatu llt er at am fAagi-  stratibus annuis , legibus , ju liciisque devinxe-  rit ? Quis denique putet Appium Cvium , Cato-  nem majorem , Cn. Servilium, Tib. Gracchum ,  t-. Cott..m , P. Scxvolam , L. Crassum , C.  Antonium, Hortensium , C. Cxsarem , Cicero-  nem , aliosque disertissimos Itali x oratores nul-  la Qialecticx Arte fuisse imbutos ? Verum huc  In loco non quxrimus , qui fuerint clari Did-  fectici , sed quanti pretii eorum scripta ; tempus est igiiur , ai id quod instituimus , ac-  ie edere .   Dialectica a Grxcis exorta } ut superius j  bnte Christum an. 4 66. , Zenoni ex urbe P,lea  in hucahia postea Velia Parmenidis Auditori  tribuitur , At Zenonis Logica , quid aliud ,  hi si ars nixandi , cavilldndique , ex qua Elea-  tici Sophistx profanarunt , quorum intolerabi-  lem arrogantiam Socrates Atheniensis prxstan -  tissi no vir ingenio j atque morum probitate it - -  lustris abhorrens , irohica subtilitate eorum iru  st i tuta refellere solebat .   Eleaticam scholam Leucippus Abderita Ze-  lionis discipu'us ante Christum an. 452. sum-  thopere illustravit . Etenim is fuit atomorum  sententix auctor , cujus doctrinam primus in-  stauravit Democritus etiant Abderita , ante Chri-   s 3 stuni      stum 420. ac postremo Epicurus Atheniensis ,  a quo initium schola Epicurea ante Chr . 300.  an. accxpit . , ,   At Socrates , qui cum floreret ante Chr. 41S.  >»• owi«/ genere virtutis r hac tamen fuit luit-  de clarissimus , quod omnium primus homines fe-  lices. reddere studuit . Ille enim non de rerum  natura , atque astrorum motu , iit superiores  philosophi , sed de animo , de perturbationibus ,  de bonis et malis , deyue humana vita , aC mo-  ribus sdpienter disputavit . Quantum vero ad  ijusdem Dialecticam y tota versabatur in eo t  quod principio omnia vocabula definita vellet ,  deinde quibusdam minutis interrogatiunculis pro-  positiones per necessariam consecutionem ita  acute teperet , donec adprxceps inconsideratos  adversarios perduceret. Hujus tanti viri domus t  ciinctx Greci.e quasi ludus cum esset , atque  officina dicendi , minime mirum , si ejus ex  uberrimis sermonibus extiterint tot , thntique  doctissimi viri .   Sed ,, inquies , qui isti tandem fuerint ? Hoc  in nomine , inquam , non sunt habendi , nisi ii  qui maxima cum citra Dialecticam coluerunt ,  quorum illustriores fuerunt Plato , ei qito Aca-  demici , Euclides , ex quo Megarenses ptoma-  narunt . Itemque Anihistenes Cynicorum p arens %  atque Aristippus sbct.t Cyren.torum Conditor .  Hisce veluti ouatuor familiis universd veterum  Dialecticorum multitudo conclusu , ad hxc usque  tempora est 'ptopagata . Quare distincte me pro-   kejm iessisse deliror,, si eorundem Xripta Logici  'perpendam *   Plato ante Chr. 39 ^- an ‘ Codrit ex parte p!U  iris , et Solone ex parte .matris editus , in sua  adolescentia exercitationibus gymnasticis , pictu -  ¥  pro morum philosophia Dialecticam praecipuum  m medum f eluit • Hinc ejus auditorei , ut ex       #   Laertio discimus dicti sUAt ,et Megarenses Ut  Dialectici Quantum ad ejusdem disserendi  artem , tota erat iA quadam inductionum , ac  conclusionum serie , eX qua disputandi pressa ,  ratione Eubolides illius distipuius muti a so-  phismatum genera invertit , adhibuitqhe .. At  Diodorus, qui dicitkr . Crbhus , hujus schoU  alumnus sumtno nitore conjectus est , quoniam  Stilponis argutias refellere ignoravit i Megareu i  urguendi modus in Europi barbarie renovatus  inter NOmirta/ium , et Singularium , atque in u  ter Thomistarum et Scotistarum scholas diutii -  sime regnavit . ... ... j   Altet ' Sacratis discipulus fuit Aristippus ]  qui ante Chr. 406. an, floruit i Hic , r* l/r^/  Cyrenarum Socratis fama fercitUs , Athenas  Venit , ut eum audiret , Aristippus fuit Secta  CyrenuicX auctor 4 At tjus sequaces j eque Phy-  sicam ac Dialecticam n egi exedunt . Non miretis  l & tur ) si ‘tohr.em ititer et voluptatem nbllum  discrimen (funerent. Quin imo interiorem dumi-  taxat voluptatis , uut doloris Sensum putabant  ven es^f judicium , quia sentiatur . Verum pb-  testne quisquam dicere, inter eUm , qhi doleat t  et inter eum qui in 'voluptate sit , nihil inter-   esse . Aut ita, qui sentiat f non apertissime  msamai. 1 ix..J   Postremiis Socratis disciphlus fuit Anthiste- '  • n * s -Atheniensis , Cynicorum secta; Jnstituior i  Paucissima hic de arte disserendi scripsit, ut  ex Laertio, in ejus vita » _ Dos iit in gymnasio ,  Otqtie Diogenem Sinopeuhl , quem Cynicum co-  gnominant , ' habuit auditorem . En , Josepht  doctissime , Pelui i surculos Dia/ecticie piante ,  quam Zerin seruit Soctates y fj usque discipuli  excoluerunt . Dicendum medo est f quales ei  quatito? fructus unhsquisque eorum produxerit i  iLx Platonis auditoribus , ceteris presiitere  Aristoteles Schole Peripatetice institutor et  princeps , atque Xenocrates Magister Xenonis  Cittici , aili Stoicorum est parens i   Aristoteles Stagirites N icomachi Filius , ma-  gnique Alexandri preceptor , floruit ante Chn  an. 350. Hic enim adeo prestavit , ut excepto  Platone , parem noti invenias . Quis enim illo  gravior in loqtiendo , in sententiis argui ior } iri  docendo copiosiot * in edisserendo subtilior , a’c  tandem in inveniendo , disponendoque admirabi-  lior ? Referti sunt ejus libri et omnigena rerum  cognitioni , et verbis illustribus i Senex impie -  tatis crimine a sacerdotibus accusatus , aufugit t  ln Isyceeo eidem successit Theophrastus il/iai  auditor , quo mortuo pene siluit licet in ets  docuerint Eicon , Aristo , Critolaus , Demetrius -  Phalereus ) et Strato cognomento physicus 4  Quod spectat ad Aristotelis Dialecticam , in  qua fuit pnestantissimus y ejus libri sunt de rct-  tione disserendi multi , et multum probati 4  Etenim veteres scriptores artis hujus usque a  principe illo , atque inventore Zenone repetitos  unum in locum conduxit , et naminatim cujus -  que prscepta magna conquisita tura perspiouS   00 *    te>   Conscripsit , et enodata diligentissime exposuit i  Scis enim nihil esse simul et inventum , et  perfectum . Stagirites itaque omnium primus  attulit hanc artem omnium artium maximam ,  - et quasi lucem ad ea , quit- confusa , jejuna , et  exilia cntum ante annos scripta erant .   Ad Platonis scholdrti refertur quoque Zeno  Cittieus ante Chr. 300. an. qui fuit Xenocratis  Chalcedonii discipulus . Trigesimo sum xtatii  anno Athenais ivit , ht iiras illos nosceret ,  'quorum opeta lectitarat . Principio Craten *  deinde Stilponefn i Xenocratem , atque Diodo-  rum Crontim audivit . In Stoa scholam ape*  ruit , habuit que nonnullos discipulos , quos mo-  rum honestate plus , quam scientiis informabat i  Etenint multa de justitia , de fortitudine , de  temperantia , de amicitia , deque hujusmodi ahis  Stoici graviter , et enucleate scripserunt. Quan-  tum autem ad artem disserendi , quam ab  Oratoria arte sej ungerent , nihil in eo gene-  te , quod ad disputandum valet , praetermis-  sum est. Quaque Dialectici nunc tradunt , et  docent, nomie ab illis philosophis instuta suhtj  ' kt inventa ?   At, inquies, pr teter dinumeratos iisdem fere  iempbrihus floruerunt etiam Parmenides , Xe-  nocrates Ciren.ei , Stilpo Megarensis , ac deni-  que Epicurus tantx scholte conditor , qui si  Dialectici non sunt habendi , nescio hoc nometi  cui tribui possit . Sed quid insipientius , quarti  isti omnes i Parmenides enim , et Xenocrates   iritrtt H   increpabant eorum arrogantiam , quasi irafi ,  Hui cum sciri nihil possit , audeant se scire  dicere . Uipsum dicendum de Cyrenxis qdi  hegant esse quid quam , qtlod percipi possit ex-  trinsecus , sed ea se sola percipere , qti.e tactil  intimo sentiant . Nihil de Stilpone. Quam  fnu'ta ille cofitra sensus , 'quam multa contra  omnia , qu.e in consuetudine probantur ? Nihil-  que de Epicuro , 1 eujus tt>ta Dialectiea in sen-  sibus erat . It e mq ile ex Dialectica tollit defi-  nitiones : nihil de diitisione ddcet : non quomo-  do efficiatur concludaturqile ratio , tradit : non  qua via captiosa solvantur , ambigua distinguari -  tar , oftetidit. Tu quidem, inquis, loiurrt  Epicurum e philosophorum choro sustulisti .  Ita sane, flatu qtiomodo philosophiis, qui disse-  rendi artem nullam habuit ? qui in physicis tam  plumbeus , qui Solem bipedalem facit , qui de  atomis tot puerilia fingit ', qiii tandem regulam  veri , et falsi in sensibus ponit ? Nonne hxc  discere liidus esset ? Verum ab hoc tam credii-  lo , qui numquam setlsus mentiri putat , disci-  damus.   Insuper pressifis affis , et inquis , quod Arce  silas , ChrysippuS , Pyrrho , et Carneades sum-  mi Dialectici fuerint , qtioniam Arcesilas fuit  medix Academix parens , Chrysippus fitlcire  putabatur porticuih Stoicorum , Pyrrho scepil -  eorum' sectam , et Carneades novam Academiam  eonJidit .   Primum Arcesilas Pilanx natus in JEolide-   *ntc    !   • ^   ante Chr. 290. floruit ; Cratique in Academia  successit . Juxta Laertium Arcesilus omnium -  primus utramque in partem disserere aggressus  est . Quod esi omnino falsum ex ipso Laertio ,  qui in ejusdem vita etiam scripsit : Primui  Orationis modos , quos Plato tradiderat , novit ,  'effecitque per interrogationem ct resportsionem  contentiosius Id ipsum asserit Cic. libro de   • Oratore tertio: Arce silis primum. , qui Polemo-   nem audierat , ex variis Platonis libris , et  sermonibus Socratis , hoc maxime arripuit f  nihil esse certi * quod aut sensibus , aut animo  percipi possit : quem fuerunt eximio qubdar/i  Usum lepore dicendi , aspernatum esse omne  animi , sensusque judicium ; primumque insti-  tuisse , tlon quid ipse sentiret , ostendere ; sed  centra id quod quisque se sentire dixisset , di-  sputare . Ai darius libro de finibus secundo :  Socrates percontando , atque interrogando elicere  solebat eorum opinibnes , quibuscum disserebat j  iit ad ea , qu.c hi respo id ssent , si quid vi le-  tetur , diceret . Qui mos cum a posterioribus  non esset retentus , Arcesilus euiti revocavit ,  tt instituit • Hoc ipsum in questionibus Aca-  demicis novam appellant , qux milii vetus vi-  detur ; siquidem Platonem ex illa veteri nume -  • j. ramus , cujus in libris nihil affirmatur , ei iri   utramque partem multa disseruntur , de omni-  bus queritur , nihil certi dicitur . Hac de cau-  . sa sicut i Tib. Gracchum populi Poma ni per-   ' . turbatorem , ita Arcesi/am Reip. philosophorum   • „ e  fversorem appellavit : Habendus ergo Dialecticus ,  pt quidem summus , qui negat quicquam sciri y  neque comprehendi posse , ne illud ipsum quod  fi. ocrates , st nihil scire ? Sed si nihil sciri ;  ni hi /que comprehendi possit, quo pacto rationis  artificia convellere posse , dicebat ? Insuper not-  iis innotescit probabilitatem maximam vim ha-  bere in artibus . Artes autem sine»scientiis esse  non posse . Qua cum fint , pateretur fortasse  hoc "Raffael Urbinus aut Michael- An gelus , aut  Titianus nihil se scire , cum in eorum operibus  esset tanta solerjia ? Vide quxso , quos , et  quantos laqueos sibi Scepticf texuerunt .   Quantum ad Chrysippum Cilicum professione  Stoicum , et Zenonis Auditorem, qui ante Chr.  £ 30 . an. vixit , scis illum fuisse virum et  vafrum , et ingeniosum . Scis etiam eundem  scriptitasse plusquam septigentos libros , quorum  pars maxima in Dialecticis versabatur . Sed  intellege , ouid Scioppius in Elementis philoso-  phia sioictp moralis : neque tamen , ait , defen-  dere , ac negare velim fuisse Stoicorum non  paucos , qui specie ingenui illecti >, inanibus ar-  gutiis Ipdibria quadam excitando severissima ,  et gravissima ortionis in contemptum adduxe-  rint ; quorum princeps jure dici possit Chry-  sippus , qui cum esset magna ingenii vi p ra-  dit us , mireque ad quidvis excogitandum celer  et acutus , nihil aque solebat labofare , quam  ut non reliquarum tantum' sectarum inventori-  bqs contradiceret , sed a Magistris etiam su/q   Zeno»    % e none , et Cieant e pleri sque in rebuS dissideret,,  1'uitne summus Dialecticus , teste eodem Sciop-  pio , qui persep.e scripsit eadem , saepius sibi  contraria , ac repugnautia ?   Sequitur Pyrrho Peloponesiacus , qui primo '  picturam exercuit , atque artate Alexandri Ma-  gni , quem suis in bellis comitatus est , floruit.  Pyrrho Anaxagarxr auditor , illa ipsa Sentiit ,  qur Arcesilas , proindeque nihil decerni > neque  quidquam comprehendi posse dicebat . At de  Pyrrhoniis ita A. Gellius lib. %l. Cum h.ec  autem consimiliter tam Pyrrhanii dicant , quam  Academici , dtjjtrre tamen inter sese , et propter  alia qu.edam , et vel maxime propter ea existimati  sunt , quod Academici quidem ipsui/t illud nihil  posse comprehendi comprehendunt ; et nihil posse s  discerni , quasi discernunt : Pyrnhoaiii ne ii qui-  dem ullo pacto videri verum dicunt , quod aihil  esse verum videtur . Sextus autem Empyricuf  Pyrrhonios inter , et Academicos aliud discri- '  pien invenit , scilicet : Arcesi/as amnem judicii  suspensionem habuit bonam , atque solam adji-  piationem uti semper malam putavit. Sed Pyr-  rho , ej usque auditares adfirmationem non esse  secundum naturam , verum secundum id quod  apparet , disputabant . Qui i multa ? Inter mor-  tem , et vitam Pyrrho nullum discsrimcn agno-  vit , quod Epictetus, licet hanc sectam dilige-  ret , damnabat .   Sequitur po (tremo loco Carneades illustris  philosophus Grecus , qui habetur teri i a- Acas/t-    'Digitized by Google    pii* parens , et floruit ante Ckr. 160. an. ve-  gum qui Academi ,e auctor ? nonne scis Carnea -  liem fuisse veteris instaut atorem , vel venuq  assertorem ? Hinc f icero hero de nat . Deor.  primo : la philosophia , ratio contra omnia dis-  serendi , nullamque rem aperte judicandi , pro-  fecta a Socrate , repetita ah Arcesila , confir-  mata a Carneade usque ad nostram viguit xta-  tem. Hic enim disputans , omnibus veris false;  quicdam adjuncta esse tanta similitudine , ut in  iis nulla insit judicandi , ac assentiendt nota «  At, inquies , eum maximum fuisse Dialecticum, quoniam de eo sic CICERONE (si veda) scripsit • Carneadis  yis incredibilis illa dicendi , et varietas argu-  mentorum perquam esset optanda nobis : qui  pullam in illis suis disputationibus rem defen-  dit , quam non probarit , nullam oppugnavit ,  quam non everterit • Ulterius dices ? Nonne,  ipse Cicero eum extimuit , cum it; libro de legibus primo ait : perturbatricem autem harum  omnium Academiam hanc ab Arcesila , et Car-  neade recentem exoremus , ut sileat . Nam si  invaserit in hxc , que satis scite nobis instru-  cta , et composita videntur , nimias edet ruinas .  Quam quidem ego placare cupio , submovere  tton audeo . Ex quibus tandem optime concludis ^  Carneadem summum fuisse Dialecticum •   Sit sane Carneades Dialecticus , et quident  nummus . Dic mihi , vir prestantissime , cum  Logici finis sit veritatem cujusque generis in -  pdtiqare , estne Dialecticus f qui eam tollit ,    tf   ejusdemque est eversor ? nonne in Senatu Rol\  mano maxima populi frequentia cum is pro  justitia , et in justitiam Jisputasset , eam radici-  tus evulserit i Ulterius qui de omnibus dubitat t  dubiamne quoque reddit sui ipsius assertionem ?  Similiter } qui universa ut falsa habet , nonne  eidem est quoque falsum , quod ipse asserit l  Hinc profecto intelliges Ciceronem timuisse  Carneadem , non ut potentem Logicum , sed ut  iniqu.e mentis hominem , quem sapienter placa-  tum malebat , quam submotum ; amicum potius  quam hostem implacabilem , inexpiabi/emque  optabat . Quid tnirum ? Diis manibus ne noceant)  fortasse nos ip i quotidie non litamur 1   Satis multa de veterrimis Dialecticae Scripto-  ribus . qui eam /em vel invenerunt , vel auxe-  runt^ vel perpoliverunt ad Cx-aris usque aetatem.  Secundo autem ecclesi.e s.ecu/o , Alexandriae , ad  quam veluti meYcutum bonarum artium cum  literati omnes confluerent , invaluit quadam phi-  losophandi ratio , quae ecclectica , dicebatur . Ejus  erat ex singulis philosophorum scholis tum tem-  poris florentibus qux-dam exprcepere , aliaque  mutare . Qu.e phihj^Qpnsndi ratio adeq placuit  sanctissimis , ct doctissimis ecclesia.' Patribus ,  Ut 'statim per universum Christianorum orbem  propagata fuerit. Huic accessit , quod novatores  quinti suculi Aristoteleis , ac Stoicis praesidiis  abutentes no tros Doctores adgrediebantur , qui  ut adversantium argumentationibus occurrerent ,  fadem deputandi arte etiam, imbuebantur. Quamobrem "Dialectica iTla ex Stoica , atque  Peripatetica conflabatur , qute usque ad sxculum  duodecimum in occidente fuit tradita , maxime  quia S. Augustinus eam discipulis suis com-  mendasse dicitur .   Verum labente duodecimo saeculo , scholastici t  sive christiani occidentales Aristotelis libros  • ab Arabibus versos , atque ab iisdem interpretatos accepere . Sed pernimio rixandi ardore  ducti , Dialecticam , ac Metaphysicam per se  obscuras , atque involutas novis subtilitatibus ,  novisque contortissimis qucstiunculis ac laqueis  ideo foedarunt , ut nihil supra • Etenim cum  linguie Grxc  saltem praecipuos , minime expendit ? Qui ver  sabulorum , et propositionum naturam non ex-  ponit ? lllene Dialecticus , qui veritates cujus-  fue generis non videt , et principia , ex quibus  oriuntur , /10« ostendit ? lllene denique Diale •  cticus , 71« /k*Ai 7 4/f rerum definitionibus , ac  divisionibus , nihilque de errorum caussis , >0-  rumque emendatione , t/oeer .   Petrus Ramus ex pauperrimis editus paren-  tibus anno 1516., quamvis hebes , , ac   /cr/zf stupidus , quamvis sero , ef duram servi-  tutem in Navarrte collegio serviret ; verumtamen  Cleantis instar oleo , ef lucerna mafkpuum di-  sciplinarum lumen sibi comparavit . Quin imo  tanto sciendi desiderio exarsit , ut solo labore ,  et diligentia in id Hierarum splendoris perve-  nerit , ut trigesimo sue etatis anno adversus  Aristotelem scripserit , atque sequentem thesin  sustinere ausus sit : Quaecumque ab Aristotele  dicta fuissent, esse commentitia. Rei novi-  tate attoniti , atque temeritate judices percussi  irrito conatu per diem integrum fuit Magistra-  tus . Ita barbari barbare vocabant ejusmodi  scholastica exercitia . Sic Freigius in vita Pe-  tri Rami . Scripsit Ramus istitutiones Logicas r  qu  ali ia. plures .   Lockiuf suam Logicam e fi Jit.  ouatuor libris comprehensam , in quorum primo  pro aris , et focis disputavit universas rerum  ideas repetendas esse partim a sensibus exterio-  ribus , partim a mentis reflexione . Quamobrem  hac in re Aristotelis opinionem instauravit , et  Cartesianorum Doctrinam sustulit . In secundo  libro agit , quo pacto ide.e ipsae acquiruntur .  Tractat in tertio de vocibus , earumque proprie-  tatibus . Quartus denique in cognitionibus hu-  manis in genere , Ac sigillat im in veritatibus y  qux tam ex ratione y quam ex historia eruun-  tur , versatur .   Sed qu* viri docti in eo damnant , sunt 1.  repetitio earumdem rerum , et quod maxime  mirum , nullius momenti: 2. res involutas ,  vel non extricat , vel male enodat, g. irrito  conatu autesivit materiam esse cogitantem . His  dictis , nunc reliquorum Dialecticorum , si pla-  cet , States , et gradus prosequamur .   Quod in Anglia Lokius , idipsum fecerunt  in Gallia Manotte ; in Germania Christianus  ThomasiuSy Andreas Rudigerus , et Christianus  V/olfius ; in Italia denique Antonius Genuensis t  A/oysius Verneus Lusitanus , atque Ab. Ange-  lonus.De quibus singillatim, et ne nimius sim ,  ■ Stricte dicam .   fc 4 Ma-    t \  Mari oli e m rebus phy sitis diutissime versa-  tus , etiam logicam edidit duas in partes tri-  butam , quarum aiteru quasdam propositione *  per se claras , ceu principia continet . Alter m  vero modos , ex quibus veritates cujusque gene-  ris 'ab iisdem principiis deduci possunt. Hinc  qute arguendi ratio , et quo pacto errores , er  sophismata internoscenda sunt , notat , Summo-  pere hic auctor commendandus ob claritatem  suarum cogitationum , ob rerum ordinem , at-  que ob exemplorum delectum . Verum , quia  artem Criticam tam necessariam ne quidem  tetigit : nihil de veritate probabili egit : omni-  genus errorum caussas non vidit : sequitur Ma~  riotti Logicam mancam esse’, et imperfectam .   Christianus Thomasius Hahe natus anno 1 727.  in Introductione ad philosophiam Aulicam nie-  vis , atque erroribus , quibus Dialectici supe-  riores Logicam infuscarunt , detersit . Verum  tanta Eruditionis moles viris doctis est omnino  inutilis , tyrones opprimit. Hoc in' numero ha*  bendus quoque Audreas Eudigerus.   Denique Christianus Wofius maximi nominis  vir accuratissime vocabula definivit , atque acu-  tissime veritates cujusque generis detexit , de-  monstravitque . Inquis ergo , hanc unam esse  Logicam perfectam ? Minime , inquam , nam le-  ctores rerum minutissimarum atque inutilium  perpetua demonstratione laborant . Insuper exem-  plorum copia eosdem fatigat, i. perfectam cri-  ticam    t' picam M* tradidit i Denique hctienom tine  ulla delectatione homines negligunt.   • Sequitur Antonius Gt nuens is ai omnia sumi  na natus , qui a magistris parum institutus,  naturam habuit admirabilem * Omnia magna  erant in eo , sed corporis actio singularis •  .Manus enim , humeri , latera , oc«/i , status proce-  ritas , gratia , incessus , omnisque motus cum ver-  bis 4 , sententiisque consentiens , erant hujusmo-  di , ut statuo nihil fieri potuisse perfectius. .  Unus, ut scis , Josepkus Ciri Ilus omnium elo-  quentium jurisperitissimus , • « jurisperitorum  emnium eloquentissimus cum eo in Cathedra-  poterat decertare . Illius viri domus cuncte Ita U  lia , quasi ludus quidam patuit , atque officina  docendi . M«g nus philosophus , et perfectus ma-  gister inter parietes aluit illam gloriam, quam  nemo quidem est postea consequutus • Hujus  viri egregii interitus , non modo prasentem li-  teratorum Civium , bonorumque penuriam attu-  lit , sed etiam et auctoritatis , et prudentia  triste nobis desiderium reliquit • Verum id ,  quod propositum erat , prosequamur .   Quinque in libros tribuit ejus Dialectice  Institutiones tertio editas anno 1 7-66. , quarum  finis cum sU humane rationis perf ectio , act  eam comparandam gradatim accedere curavit ,  proindeque libro primo mentem emendare tot ,  tantisque erroribus tum animi , tum corporis  foedissime inquinatam , studuit • Illam reddidit   y rerum omnium inventricem in secundo . Hin *  idearum origo, et genera. Hinc sensuum usus>  efue humana ,  ARTIS   O G I C M   f UM.ENTA INTRODUCTIO. .   y f , . ( 'trf I • ••rt' *1 ' • * -I • v • Logic 9 Rorumque progressibus « %   P A R S I.   De Logica Docente •   • L I B. I.   De mentis humana actibus»   Quibus partibus constat homo »   5. Homo est animal rationis compos»   Q Uisqu* scit hominem esse rationis cofri»  _ potem , per quam consequentia cernit,  pene universas rerum causas cognoscit . Insu-  per plurima inter se componens , atque rebus  prresentibus annectens futuras , non modo to-  tius vitae cursum facile videt , sed etiam cor-  porum coelestium ordinem intelligit . Prsete-  rea hac divina rationis vi , nonne innumera-  biles scientias , artes , atque infinita instru-  mentorum , et machinarum genera invenit ?  Quid plura ? Huic uni tribuenda sunt societa-  tis primordia , hominum juta , atque officia *  Denique ratio ipsa est nostra morum norma,  quam si sequamur ducem, non aberrabimus»  Spiritus a corpore , in quo discriminatur •  Qu* cum sint, quisque intelligit naturairf  mentis humame toto coelo ab illa corporis  differre . Etenim corporis est divisibilitas , co-   A 3 lor «    De mentis actibus   lor , figura, inertia, partium resolutio. De-  nique neque movit , neque movetur , nisi ab  alio corpore impellatur . Nulla itaque vis in  eo, nulla comprehensio , nullaque judicandi,  ratiocinandi , reminiscenaique vis inhopret .  Verum hrec , atque alia ejusdem generis injiint  in homine . Tribuenda sunt igitur ejus men-  ti , cujus .natura quicquid extensum , divisibi-  le , figuratum , atque corporeum respuere de-  bet. Ex quibus perspicue constat ex corpore,  atque anima hominem constare .*   {. Mens sensuum exteriorum ope ideis imbuitur ,  Ex dictis liquido patet corpus esse in ho-  mine unam ex partibus praecipuis. Hinc etiam  patet non posse universas mentis humanae vi.  res comprehendi , multoque minus explicari ,  nisi prius quae in ipso- corpore obveniunt , in-  telligantur . Etenim a natura ita comparati  sumus , quod sicuti corporum ictus nostros  sensus veluti explicant , ita sensus externi ,  mentis vires ceu creant atque exsuscitant .   Ex quo sequitur nullam posse dari ia mente  actionem, nisi a sensibus exterioribus ea com-  moveatur , et sensus ipsi delitescerent , si in  iisdem nulla corporum heret percussio . A sen-  sibus igitur exterioribus exordiendum esse  ducp •  tum salina ,  quae ad nares ducuntur, ac 'nervos olfactorios  afficiunt , ex quo in cerebro odoris , vel faetoris  sensatio excitatur. Maximae utilitatis est hic sen-  sus gustui . Animalibus autem suffiicit ad ci-  bos distinguendos , proindeque in illis est ex  quisitior , nam iisdem deficit alius judicandi  modus .   16. Quid gustus, ejusque fabricatio •  ([ustus situs est in parte exteriori lingux ,‘   qux    tt £> vel in  basi . Tactus in lingua exercetur , sed alio  sensu . Nam partes oleosae ; atque salinx ci-  borum cum liquoribus salivalibus mixtae , et  resolutae linguae papillas quodam rriodo affi-  ciunt * Ex quo oritur saporum perceptio ,  qux in variis hominibus , atque animalibus  vari» est , pro papillarum dispositione . Hinc  tantae in saporibus vatietates, qux xtatis, se-  xus , consuetudinis , morbi , atque tempera-  menti retionem sequuntur* Hinc denique tan-  ta hujus sensus inconstantia»   1 8. Quid Tactus .   Tactus denique est unus sensus in universa  corporis superficie diffusus , licet in extremis  digitorum , atque pedum sit vividior . Sensa-  tio oritur ex corporum impressionibus, qux  in nostro corpore fiunt . Impressiones vero ,  nervorum . ope in cerebro transferuntur. Hinc  eorporum multitudo, durities , frigus, calor,  gravitas, asperitas.   Sensus cur non perfectiores .   if. Verum multi exquirunt, £iir sensus tara  pauci , et tani imperfecti * Utraque exquisi-  Eorumque progressibus ,  tio inepta . Primum si sensus essent etiam  jniUe , fortasse mentis operationes essent plu-  res , quam modo sunt? minime quidem . Quin  imo pro universis mentis actibus explicandis ,  sufficit unus sensus . Quid si deinde perfectio-  res ? Dicam , quod eadem ratione , qua in ho-  minibus augerentur voluptates , augerentur  quoque molesti*. Ha?c de sensibus exterioribu*   , . De t ensibus interiobus ,   19, Numerantur sensus interiores .  OEnsus interiores, ut superius, sunt«e-  V 3 moria , vis %emreramenti y \is affectuum,  etttentio , ac sensus moralis . De omnibus, quam  breviter ad tyronum captum. t.   02. Q uiJ cerebrum , et cerebellum . • • :  10. Universa cerebri massa, duas in partes  praecipuas ab anatomi* peritis dispescitur ,  quarum altera cerebrum , altera Vero cere-  bellum appellatur . Cerebri substantia natu,  jra mollis , atque pene infinitis cellulis re-,  pletur , in quibus modo nobis .prorsus inco-  gnito , non solum imprimuntur, verum etiam  diutissime retinentur bbjectorum exteriorum  idex , sive simulacra , sive species , cum eo-  rumdem relationibus etiam abstractis, et per-  quam longo ordine implicatis . Mihi sufficit vel-  le, statimque idex bovis , canis , domus , urbis  teproducuntur , eaque distinte tissime quasi in-   tua.     *& I>' mentis actibus .   que eomposita distinguuntur . Primi generi»  »unt illa quatuor omnibus nota : videlicet cku-  lericum , sanguineum , melancolicum , ac fleg-  snuticum . Ad secundum genus referuntur ea ,  qus ex iisdem componuntur , ut sunt choxt-  T ico sanguineum , cholerico melancolicum , et eho-  -lerico JLeg muticum. Sanguineo-melancolicum, etc.  Rari homines dantur , qui ab uno dumtaxat  temperamento dominantur . In pniversis tem-  peramentum mixtum reperitur . joc   25 . AUi temperamentorum effectus , , ir _  Hominum temperamenta si quis consideret,  profecto iptelliget rationem, cur alii sunt pae-  ne stupidi ac bardi, alii vero ingeniosi: Cur  alii pro rebus metaphysicis , atque abstractis  sunt facti , alii pro enucleanda solummodo  verborum vi . Alii videntur pene nati phi-  losophi , alii oratores, aliique pqetx . Nonne  -temperamentorum vis amnium artium , et  teieutiarum ; utiune omnium virtutum , ac vi-  siorum velu|i officina sit -habenda ? £x hac de,-  nique homines inertes , mendaces , flagitiosi t  «c sacrilegi oriuntur .   06. Animi quid passiones.   Accedunt te.tio loco passiones , sive affe-  fctus , sive perturbationes; qux non sunt, nisi  quedam animi , atque corporis .commotiones  ab objectis exterioribus in nobis ope -sensuum  excitato . Harum .omnium sedes in cqrde  collocatur , qupd nervorum intercostalx pro-  pagatione cerebro adhaeret , Hac de causa ce-      t    Eor umque protrusimus . \j   februm , et cor amice i ater se conspirant .  Etenim pro ut ideae boni , vel mali in cere-  bro ceu pinguntur , et sunt viviJ* } sic cordis  vibrationes vel retardantur , vel adceleran-  tur . En ratio , quare modo animus cordis  motibus, modoque cor animi commotionibus  inservit .   2 7* Prxcipua passionum divisio .   Multiplex est passionum partitio . Praecipuae  vero sunt amor , odium , timor , spes , ambitio ,  avaritia , etc. qua? cujusque vis sit , et quid  in nostris judiciis hac induunt , suo loco dice-  mus. Si quis vero amplissimam tractationem  desideret , legat opus , inscriptum : Homo na~  tur.i/is a me tertio editus anno 1778«   28. Quid Attentio .   . Quid meditatio •   Quarta mentis operatio est meditatio , quS  quoddam vinculum ac nexum inter ideas po-  nimus . In meditatione profunda sensuum exer-  citatio relaxatur » Parum differt homo per-  quam longa meditatione contritus ab eo , qui   sen-    Rorumque progressibus • *S   sensibus caret . Hujusmodi fuit Nicolaus ar-  canus pnestantissimus Mathematicus , as  Antonius Genuensis recentissimoj-um philoso-  phorum facile princeps , ac denique N artus  Lama rerum physicarum , ac mathematicarum  peritissimus quibuscum familiariter viri •   47. Q uid obstructio , rationisque compositio .   Sed mens non modo percipit , reagit , re-  cordatur , ac diutina meditatione conteritur ,  sed ideas etiam sua natura conjuctas, concipit  divisas . Et e contrario , qux reapse sunt  divisae, ut conjunctus percipit. Harum a tera  vocatur mentis abstractio , altera vero ratio-  .nis compositio dicitur . Ad primum actum  idex justitir , prudenti )iodo easdem iterum com-  ponens veritates invenit , easque in infinitum  auget .   49 .Qui rationis compositione magis polient*  Sed est obtusi , atque hebetis ingenii ideas  sejungere , easdemque, recte componere ? mi-  nime quidem . Imo 'est dumtaxat virorum   acris ingenii, naturas vi; atque arte prxstan-   tis-    *   T    X Google    9   tilius Regulus, est aequalitatis , sive convenien-  tix judicium. At si dicam. Italia modo flaret,  ut in Augusti t itate , continetur hoc in judi-  cio inaequalitatis narratio . Nam falsum est ,  quod nunc Italia floret .   - s . Eoruniaue progressibus , 27,   51. Quid ratiocinatio .   Quid si mens duas inter se ideas comparans,  non distinguit, num hae inter se conveniant,  vel disconveniant ? Tum illas cum tertia idea  comparat jquacunt convenire ,vel disconvenire  inteliigit . En octava mentis operatio , quae ra-  tiocinatio nuucupatur . ex gr. Ignoro num so-  lis materia sit necne ignea . Dico . Quicquid  urit , est ignis • Verum radii sons urunt . Er-  go solis materia est ignea . Insuper : Quicquid  est ponderosum , est corpus . At lapides sunt pon-  derosi . Lapides igitur sunt corpora 1   52. Duplex ratiocinandi vis ,   Ex dictis facile intelligitur duo ratiocinii  genera dari . Aliud dicitur adfirmans , aliud  vero negans. Ratiocinatio vocatur affirmans,  dummodo ideae conveniunt cum teitia , cum  qua comparantur . Alias dicitur negans . 1 li-  mi generis est hoc : Corpus in partes dividi »  fur , Sed piant £ suas in paries resolvuntur .  Flaatte igitur sunt corpora . Secundi gereris  est illud: quicquid cogitat , judicat , raioci na-  tur , quoque vult , et recordatur , non est cor-  poreum . Mens autem humana ‘ percipit , judicat ,  ratiocinatur , et recordatur . Mens igitur huma-  na non est natura corporea .   53. Quid ratiociniotum senes •   Quid si una idea non sufficiat pro enu-  cleando nostro ratiocinio ? Tunc accipiantur  duae , vel tres , vel quatuor aliae ideae , et fiat  quxdant ratiocinationum series . ex. gr. estne   spi-    «t De mentis actibus ,   spiritus humanus immortalis ? Hunc in modum  ratiocinor . Spiritus cogitat . QuicquiJ cogitat  est natura simplex . Quod ejusmodi est , mu-,  tationi non est obnoxium . Quod autem non  mutatur , non destruitur * Spiritus igitur est  immortalis .   54. Quid methodus »   Postrema mentis operatio consistit in quo-  dam rerum ordine ac via ' quem ipsa sequi-  tur tum in veritatum investigatione , tum que  in earumdem explicatione ; qui modus metho-  dus appellatur .   55. Pr .edictorum actuum reductio •   Hujusmodi sunt universi mentis huma-  nae actus , qui licet facillime reduci possent  *d simplicem perceptionem , etenim simplex  comprehensio est reflexio , abstractio , com-  positio , meditatio , recordatio , atque ipsa ju-  dicandi , ratiocinandique vis Verumtamen .  Mens vel ope sensuum exteriorum , vel  propria reflexione ideis imbuatur ; Si primo  modo ideae dicuntur directx . Si secundo vo-  cantur reflexae . Insuper reflexae vel duarum  Idearum comparatione , vel ex duarum com-  paratione cum tertia oriuntur . Hinc duobus  capitibus universa comprehendam. Primo enim  capite de ideis directis , in sequenti de ideis  reflexis sermo erit •    Eo^umqifb progressibus i »f   Pe Ueis directis , quas ope sensuum exsteriorum  mens excipit ,   5 *- Idearum partitio •   I N recesendis omnibus ideis , ut ordine piT>-  cedam , exquiram primo earum originem,  deinde illarum naturam, tum quo pacto menti  obversantur, distinguuntur.   Que idee sensibiles , et objectio %   57. Quantum ad Originem , aliae dicuntur  sensibiles, directa , atque adventitia’ , qui omnes  a sensibus proveniunt . Aliae vero reflexae, quae  ex earumdem comparatione fiunt . Primi ge-  neris sunt ideae fi gurae , coloris , saporis , som t  frigeris , ac caloris . Ad secundum genus re-  feruntur omnes ideae abstractae , uti sunt idee  justitiae , pulchritudinis , prudenti e , liberalitfr  tis , magnitudinis , etc.   Quid idete primitivte , et quid secundari* •  Hinc patet ompes ideas vel a sensibus , vel  ab ipsa mente oriri • Qux a sensibus , dicun-  tur ideae primitive , qux autem ab ipsa men-  te oriuntur, vocantur secundarie . Patet etiam  nullo pacto mentem posse ideas abtractas ef-  ficere , nisi adsint primitivae . Dicito igitur  ruentis vires a sensuum impulsionibus excita-  ri , ac ceu creari .   59. Quid idee simplices , et composite •  ldeje, quo ad earumdem naturam in simpli-  ces,    j6 De intnth actibus ,   ces, et in compositas distinguuntur . Ide?e sim-  plices sunt ilice , in quibus partes , seu alix  idex non interveniunt , ut idea coloris , fri-  goris , motus , voluptatis , ac doloris. Composi-  tx vero dicuntur idex , si in iisdem alix idex  simplices distinguntur . Hujusmodi sunt idex  corporis , navis, urbis, domus, etc* etenim hx  plurimis ideis simplicibus componuntur.   6q. Quotuplicis generis sunt i dee compos it. e.   Prxterea idex compositx vel aliis ideis sim-  plicibus ejusdem generis , vel diversi generis  constant. Si primum , idex compositx dicun-  tur similares , si alterum dissimilares . Ad  primum genus revocantur idex diei, et mil-  liarii , qux constant ex ideis ejusdem gene-  ris . Ut idex urbis , domus , exercitus . Nam  uti partes diei sunt hoax , minuta prima , et  minuta secunda , et milliarii partds sunt sta-  dia , pas r us , pedes , et pollices , ipsae non  sunt nisi vel temporis , vel mensurx longitu-  dines , /’ '   6 1 . Quid idea clarte et obscur.e , etc.   Tertio loco Idex ad mentem relatx, multi-  plicis sunt generis . Primo alix sunt clare ,  vel obscure ; alix distincte vel confuge ; alie  complete vel incomplete ; alix denique adequa-  te atque inadeqvate . i. si lapidem ab arbore  dignoscam , »4ea dicitur clara, alias obscura.  q. Si- meum horologium a mille aliis distin-  guam , idea dicitur distincta ; siu minus con-  fusa. 3* Si omnes magnetis proprietates sciam,  «'■' mi- E orumque progressibus. 31   mihi est idea cnmpleta hujus lapidis , aliter  est incompleta . Denique si mihi innote-  scant non solum omnes magnetis proprieta-  tes , sed gradus etiam cujusque proprietatis ,  tunc illa idea dicitur adaequata , alias inadxquata. Qua: substantiarum , et modorum i de. e .   Itemque ad mentem referuntur ideae sub-  stantiarum , et modorum . Primi generis sunt  idea? tabulae , in qua scribo, chartae , equi , bo-  vis , etc. quae ex se subsistunt . Secundi ge-  neris sunt ideae figurx , caloris , saporis , gra-  vitatis , et frigoris , quae non existunt a sub-  stantiarum ideis sejunctae.      de causa, neque puelli, neque senes sunt va-  lido judicio , quoniam puellis deest idearum  multitudo, et quaedam fluidorum xquabilitas,  atque elasvicius , Viris autem senio confectis  deficiunt idex , ob memorix labilitatem .  f6. Quid vis ratiocinatrix ,   At sive mentis imbecillitate , sive idearum  multitudine , et varietate raro contingit , ut  ex simplici idearum comparatione , earum  convenientis, vel disconvenientis relationem  quis inveniat , requiritur itaque ut easdem  cum tertia comparet . Hujusmodi mentis actus ,  ratiocinatio appellatur . ex. gr. scire quis aveat,  num planta. sit corpus . Hunc in modum ra-  tiocinatur. Quicquid videtur , ac tangitur, vo-  catur corpus . Sed piant* videntur , atque tan-  guntur . Piant x igitur sunt corpora,   Duplex est ratiocinandi genui ,   Duo ratiocinandi genera dari possunt . Vel  enim dux idex , quarum relatio nobis est  incognita , cum tertia conveniunt , necne . Si  primum ratiocinatio dicitur adfirmans . Si  alterum negans nuncupatur • Primi generis  est hoc ratiocinium. Quacumque videmus , tan-  gimus , atque in partes dividimus , sunt corpo-  ra . Piant x autem , et animantia videmus, tan-  gimus, atque suas in partes dividimus . Planta  igitur, et animantia sunt corpora . Secundi ger  netis est hoc aliud. Qu*vis substantia cogitans,  ratiocinanS , et memoria, est prxdita spiritum no-  minamus • Nullum vero corptj cogitat , neque   r. In quo ratiocinandi vis consistat.   Ex dictis manifesto colligitur omnem viin *  ratiocinii huic uni principio inniti . Qu,   . Quantum ad primum in veterrima; histo-  ria sacra omnium gentium , etiam imiTnnium  jnvenitur , quod Dei idea fuerit omnibus ho-  minibus ubique locorum , ac temporum pene  insita . Ab illis annalibus discimus , quibus  cxiemoniis eumdem coluerunt , quibus sym-  bolis designarunt, quomodo in calamitatibus  invocarunt, et qua ratione placarunt ceu iratum*  Insuper notantur in iis annalibus tormentorum  Rorumque progressibus . 43   genera , atque execrabiles formulae , quibus  impii publice excruciabantur . Quid plura ?  Scimus etiam ex ipsis populorum praejudicia,  superstitiones, deliria, absurditates , fxditates,  aliaque innumerabilia , quae Dei cultum vel  foedarunt , vel destruxerunt .  De memoria ad naturam relata ( , ex quo  historia naturalis Eorumque progressibus . 4^   hac tantae rationis vi Theologia oritur , quae  Dei existentiam , ejusque adtributa rimatur t  cujus abusus , sunt impietas , et superstitio ,  quarum altera rerum omnium opificem arro-  ganter oppugnat, altera vero faedat . Praeterea  rationi quoque spirituum tum bonorum, tuin  malorum cognitio est adtribuenda. Nonne deni-  que tantae rationis auxilio ipsam rationem intel-  ligimus ? Nonne eidem etiam debemus notitiam  vitx futurae , morum regulam nostrorum , quae  sint praemia ,ac penae? Item quae sunt sperantia , credenda , et timenda ?   93. De ratione ai naturam relata , ex qua  physica .   Alterum rationis objectum est natura , sive  munius , quod in corporibus in genere , atque  in eorumdem proprietatibus , et qualitatibus  versatur. Etenim ratio vel abstracte corporum  proprietates Gonsiderat , vel ipsa corporum ge-  nera . Utraque hxc contemplatio scientiam  physicam eificit . Ipsa est , quae quicquid in  coelo , in atmospharra , in tellure , ejusque in  visceribus continetur , proindeque astra , me  theora , universa animantium genera , omne-'  plantarum classes, fossilium , ac metallorum  et mineralium series comprehendit. Ad plenis-  simam hujus d i vinar scientis cognitionem con-  jungitur mathesis , tum pura , tum mixta , ut  Arithmetica , Geometria plana, ac solida , at-  que Algebra , Mechanica, Dinamica, Hidraiv  ika , Ars B^llistica , Cosmographia , Optica,   Dio-:    Di    I      Dc mentis actibus .   Dioptriaa , Catoptrica , Sectiones Conicae ,  Trigonometria tam spharica, quam triangularis . Ad naturae scientiam quoque referuntur  Astronomia , Anatomia , Physiologia , Medici-  na , Botanica, Venatio , Agricultura, chyinica , Metallurgica , atque pmnium animalium,  et plantarum historia,   94. De ratione quo ad hominem , ex quo  ethica, /* ■**»*  UB.If,    •» Ej usque progressibus . 49   L | B, tl.   - Signorum Artificialium ortu , ac progressu  quibus humanae mentis actus clarius  explicantur .  '*ne innumerabiles aliae voces , quae substantias  videntur notare , sed revera earumdem re-  lationes exprimunt , Hujusmodi sunt pulchri-  tudo , deformitas , stupiditas \ paupertas , nobi-  •iitas , sanctitas , justitia , alixqqe . Iri ipsum  .dici posset de adverbiis docte , erudite , ele-  fitnter } diligenter , recte , etc. Octava vocum classis •   Octavo loco distinguuntur rerum si-   S na , sive voces in claras er obscuras ; in  istinctas et confusas ; in completas et in  incompletas; tandem in ad.equatas , atque in  inadxquatas . Primi generis sunt voces :  quercus , ovis , aper : obscurae vero sunt vo-  ces , vis , energia , atfractio , gravitas . Di-  stinet* sunt Cicero , C.csar , Pompejus , Ser-  toriut , Sylla . Circuli autem trianguli , qua-  drati , etc. sunt voces complet* . Contraq.  incompletx sunt sequentes , lignum , lapis ,  pisces. Denique adxquatx sunt: linea , super-  ficies et trian°ulum-,\ndiA?e aliquis Italus.  Htec de sermqnis elementis , tam in genere,  quam in specie . A* quo pacto hujusmodi  voces sunt inter se , vel cum tertia conjun-  gendae , vel separandae , px quibus propositiones, et syllogismi efficiuntur, in sequentibus  capitibus fuse disseretur . Quid propositio , qua judicia explicantur .  Jidicium alibi definitum , est mentis actus,  quo duas ideas inter se comparans , ipsa  percipit illarum aequalitatem , aut inaequalitatem  illarumque convenientiam , ve| disconvenien-  tiam. Qua de re propositio non est aliud nisi  mentis judicium , quod verbis exprimitur .  Ex. gr. Sol est ingentissima Mundi moles .  Luna est corpus opacujn . In quibus proposi-  tionibus : soli tribuitur maxima moles jl unse  Alitem opacitas. Dicitur etiam propositio ,    De Lojuela ,   licet si subjecto removetur qualitas quaedam.  JEx, gr, Itali hodierni non habent suorum  majorum virtutem . Qua in propositione se-  jungitur virtus ab illis Italis qui modo vivunt. Duobus terminis constat propositio»   Hinc patet unamquamque propositionem  ex duobus terminis constare debere, quorum  alter dicitur subjectum , alter vero praedicatum ,  quod plerumque est aliqua subjecti quali-  tas. Sic in prima propositione : sol est sub-  jectum • Ingentissim* vero moles f est prxdica-  tuin.In secunda luna dicitur subjectum, opa-  citas vero praedicatum. Propositio constat etiam ex verbo »  Hinc etiam patet , quod propositionis termini   conjungendi sunt , vel separandi cum verbo,  alias nulla habetur judicii expressio. Etenirti  sublato verbo , quod affirmationem , aut ne-  gationem continet , termini neque affirmant,  neque negant , sed dumtaxat res designant. Ex  quo sequitur, quod quaevis propositio, praeter  duos terminos , constare quoque debet ex  popula , quae plerumque sumitur ex verbo  sum , es , est , Sic corpus est extensum • Spi-  ritus est substantia cogitans .   40. Duplex est propositionum genus .   Ex quo sequitur tertio , quod ut judi-  ciorum ,sic etiam duplex datur propositionum  genus .Sunt enim propositionum aliae affirman-  tes alia? nega/ttes. Dicuntur propositiones affir-  mantes illae, in quibus prxdicgta cum Subjectis  Ejusque progressibus . 6 $   etis conjunguntur . In quibus vero prjedicata  a subjectis separantur , propositiones negati-  vae appellantur . Ad primum genus revocan-  tur : Leo est ferox . Homo est rationis compos ,  Samnites sunt bellicosi . Ad secundum refe-  runtur : Materia non cogitat . Spiritus non est  extensus . Deus non est ipse mundus .   41. Aliud est judicium verum , alia autem  propositio adfirtnans .   Priusquam ad alia deveniamus , duo  hic notanda ducimus . Primum est , quod  persarpe evenit , quod licet judicium sit ve*  rum , ejus tamen enunciatio est negativa .  Gontraq. judicium falsum cum enunciatione  affirmativa quandoq.exponitur.Primi generis est  propositio: Deus non est ipse mundus . Secundi  generis est bxc altera : Deus est ipse mundus.  In primo exemplo judicium verum , negati-  ve exprimitur . In secundo judicium falsum  adiirmative enunciatur .   42. Quandoq. propositiones carent terminis ,  ft ipso verbo.   Notandum secundo , quod quaevis pro-  positio non semper habet duos terminos , sed  quandoq. omittitur unus , vel alter . Ex. gr.  Dux regit , deest pr-xdicatuin , nempe miti-  tes. Filium verberat , deticit subjectum, sci-  licet Pater . Inveniuntur fandem qujedam pro-  positiones, in quibus et subjectum , et prae-  dicatum omittuntur, ut in illis Caesaris, per quam  notis yerbis ad Senatum , populum q. Koma-   E *um    t •   JJe Loquela.   num scriptis : Veni , vi di , vici . propo.   sitio nes sunt , et reapse continent suos ter-  minos , hoc est 2 Ego fui videns. Ego fui ve-  nien*,'Ego fui victor . De Materiat Forma, e t propositioni*   Quantitate * /"*,   ■Otk    44. Quid propositio necessaria , repugnans. ,   ti’cmtins. gr. Amicitia homines supponit equa-  l (S , vel ipsa ejjicit Conditionales sunt, in quibus inest aliqua conditio, sine qua prxdicatum nullo pacto subjecto convenire potest, ex. gr. Si spiritus  t st sui naturi substantia cogitans , nequit esse ^  corporeus ^   50. Que causales .   4. Causales sunt illx propositiones , in  quibus notatur causa , qua pfxdicatum subje-  cto convenit , necne . ex. gr. Deus non po-  test innocentem punire , quia justus . Que relate . Delate sunt illx * in quibus inest  aliqua terminorum ratio, ex.gr. Homo in ar-  tibus , atq. scientiis projicit , f>ro ut est atten-  tus j et labor at »   * ■=• i  |    ftjusque progressibus i iff   52. Qule Jiscretiva . Deniqufc , appellantur discreiiva , si in-  ter terminos notetur quidim collisib . ex.  gr. Castruccius Castracanus fioh militum nume-  fro, sed virtute Flerentinos vicit i   5$. De aliis propositionibus compositis .   Sequuntur propositiones secundi gene-  ris, qui vidfcntur esse simplices , at resolnt*  Sunt iquoqbe tompositx , ipsiq. sex in classes  etiahi distingubntur .   54. Qua dicuntur exilusivtt . '   1. Vocantilr prbpdsitiones exclusivx illae  bmnes, in quibus praedicatum universa subjecta  excludit , ptxtfer udum . e*, gr. Una felicitas  ex omnibus bonis , est Optabilis .   55* Qua comparativae .   2. Comparativa surit illa: , quae oriuntur  ex subjectorum , vel prxdicatbrum relatione,  ex. gr. Scipio Africanus fuit prxstantiorfAnni-  bale . Q. I ab iUs Maximus fuit prudcntior Mi  Terentio Varrone.   i> 6. Qua ihcaptiva.   3. Inceptiva sunt illae , In quibiis prae-  dicatum nusquam subjecto convenit , sed fcse-  pit convenire . eX. gr. Regnum Neapolis inci*  pit modo artibus , scientiisque florere .   57. Qua desit iv a .   4. Desitiva dicuntur propositidnes J iri  qbibus pridicatum desinit subjecto conve-  ni e. ex. gr. Roma cessavit eloquentia cum  Ciceronis interitu i   t s   S    yo De Loquela ,   Qu.e continuativ* Postremo loco , si pridicatum, quod  antea subjecto convenit, etiam in presens  convenit, hujusmodi propositio appellatur coi 1-  tinuativa . e*.; gr. hali etiatnniim perseverant  esse sagacissimi . Prmdctx propositiones , cur compositie.   At dicetis, quomodo mpdicgr propo-  sitiones habendi' sunt compositx Responde-  tur, quod harum unaquteq.' duas in nobis ex-  citat ideas , temporis nempe vel persona-  rum , vel qualitatum . Sic in primo e-xemp 6^  jam allato: Sota felicitas ex omnibus bonis est ^  expetibilis , aequivalet huic : neque diviti*, ne-  que scienti* , neque gloria, neque honores, sed  una felicitas maximum continet hdnum , proirf-  deque expetibilis. Irt Comparativa. Dicemus,^  quod Scipio, et Atmibal fuerunt ambo duces , ■.  verum Scipio in gradu majori. Illudque ipSum  dici posset de inceptivis , de desitivis , neque continuativis, etenim irt incasptivis ,  praedicatum quod nuittquam retro convenit  modo competit . In Desitivis contra , quod  retro couvenit , non amplius competit. .  Denique iri ultimis quod retro convenit , m  prxsens etiam competit. Nonne ha: tres pio-  positiones quantam temporum: rationem con-   tinent? v _   6o. Quid propositio incidens »•  frater huc usqtTe dinumeratas proposi-  tiones j tam siriiglic* , luam’    Ej usque progressibus . 71   flantur et aliae , quar incidentes nuncupantur ,  quae ad compositas referri commode possunt.  Incidentes aeque subjecto , ac praedicato con-  veniunt . Subjecti incidens est haec : Attilius  Regulus omnium Romanorum fortissimus a Poe-  nis interficitur . Praedicati incidens est hxc  alia . Octavianus deseruit Ciceronem , qui omnium  philosophorum , et oratorum fuit jacile princeps.  In utroq. etiam datur propositio incidens .  Antonius , Lepidus , et Octavianus Senatum ,  populumq. Romanum confregerunt , non eorum  virtute , sed audacia. Hxc de propositionis  materia , sequitur ejusdem forma .  Propositionis cu jusque FORMA in terminorum unione, vel in eorumdem separatione  consistit , ex quo propositionum c;j)irmatio,ve l  earumdem negatio oritur, ex. gr. Beneficentia  exercitium hominem reddit Deo gratum. Dicitur  hxc adfirmativa propositio . Et contra nomina-  tur n-gativa , si subjecto prtedicatum non con-  veniat ut : .Horno intemperans nequit esse sanus i Quo in loco notandum ut alibi, quod  judicia vera cum propositionibus negdntibusi  et judicia falsa cum propositionibus adhrmati-  vis enunciari possint, attamen ipsa judicia eo-  rum vim nusquam amittunt . Qur notanda in propositionis forma .   Notatur secundo , quod in omnibus proposi*  tionibus affirmantibus terminorum unip necessario sequi debeat subjecti, non autem prjedicoti   E 4 si-    ' De LoyOeli ,   SIGNIFICATIONEM : ex. gr. Omnis leo est animali  Non intelligitur , quod omnis leo sit omne  genus animalis. At in propositionibus negan-  tibus, praedicatum prorsus excluditur, ex. gr*  Nulla planta est animal . ^Equivalet huic : nul-  la planta est ulla animantium species. Hi-  sce expositis , reliquum est , ut de proposi-  tionis quantitati aliqua dicantur .   6 3. Quid ouantitds propositionis. Hic pro propositionis quantitate haud  intelligitur, quam major, aut minor termi-  norum significationis extensio, qui in propositione continentur . Hinc primo sequitur  posse dari duas propositiones inter se maxi-  me discrepantes , quarum altera dicitur uni-  versalis : altera vero singularis . Primi gene-  ris est haec : omnes homines ratione sunt proditi * Alterius generis est haec alia : Petrus ra*  tiocinatur.  Alia propositionurh vatietai. Praeterea tam propositio universalis ,   quam singularis esse possunt ambae affirmantes , vel artihx negantes * Propositiones ojnnes universales sive sunt affirmativae ,  sive negativae, quibusdam notis distinguuntur}  qtix siirtt : omnis , et nullus. Prima universalibus affirmantibus, altera universalibus negantibus inservit . Singulares vero propositiones  articulis , hic, et ille notantur.   •»; t   4» ■■ • . . .    •? quibusdam vulgaribus propositionum adjectionibus Qitid propositionum oppositio •   H Oc in loco nomine adjectionis veniune  qucedam propositionum qualitates , qu»  sunt oppositio y icquipollentia j atque conversio  propositionum . Principio? oppositio duarum  propositionum comparationem exprimit, qu*  licet iisdem terminis constent , attamen ipsae  differre possunt inter se , vel solS forma , vel  sola quantitate , vel in utraque. Si pugnent in  sola forma , retenta quantitate , hae propositiones  vel sunt ambae universales , vel ambae peculia-  res. Si primum, dicuntur contrari dicen-  dum est , quod tunc duce propositiones sunt  ejusdem vis, ac valoris et arquepollent , quan-  do altera alteri substitui possit , quin earum  vis mutetur 1 ex. gr. Quicquid est justum., esi  etiam honestum . Contraque fuod est honestum,  est quoq. justum . Ex quo patet tunc dari  requipollentiam , atq. Conversionem inter duas  propositiones , quando ha? reciprocari possint.  Hujusmodi sunt jam jam allata? .   71. Huc revocantur rerum definitiones, eaturnque divisiones . Cum autem definitiones, ac rerum divi-  siones non sint , nisi totidem mentis judicia,  intelligitur easdem locum habere in proposi-  tionibus . Dicamus itaq. quid sint , et quotu-  pliciter , maxime quod quamplures Dialectici  JLogicam esse artem bene definiendi, atque di-  lidendi dixerunt .  Definitio est propositio, quS terminorum    Ejusque progressibus . 7 ?   rtam ope aliqua idea completa , et determi,  nata explicatur . ex. gr. Homo est animal  quoddam ratione preditum , civile , atq. ad felicia  tatem aptum natum. Itemq. definitiones adhibe-  mus pro rerum notis distinguendis, ut eas ab  aliis facillime secernamus . Nonne cum dicam  hominem esse, animal ratione praeditum, civile %  atq. ad propriam felicitatem naturo, factum a  exteris animantibus eundem non distinquamusS  73» Bone definitionis not.e. Ex quo sequitur Debere ingredi  in definitionibus rerum notas intrinsecas :  quandoq. etiam possibiles . ex. gr. Homo non  modo es% animal rationale , civile , et ad feli -  citatem comparandam factam , sed quoque har-  bitauin moralium capax , Alite bone definitionis note ,   Ex quo consequitur *. pro omni rerum ambi-  guitate removenda, necessum est, ut definitionis  termini sint clari , atque definitiones cum re-  bus definitis reciprocentur. Hinc bene defini-  tur. homo animal ratiocinaris , nam ott)ne ani-  mal ratione pr editum , est homo.,   75 * Definitiones rea/es , sunt quoq. nominales.  Ex quo tertio, colligitur non dari definitio,  lies reales , atq. essentiales , ut scholx loquun-  tur , nam rerum essentialia nobis non inno-  tescunt. Omnes itaque definitiones sunt nQ«  minum definitiones , vel potius descriptiones,  7 6. Quid rerum divisio .   Deniq, rerum divisio est resolutio totius in suas   par.    Ue Loquela, ,   parte? prscipuas , qur dicitur physica in  quantitatibus solidis, idealis autem in abstra~  ftis . Ad primam divisionem spectat illa cor-  poris humani partitio jn partes solidas, etjluidas.  Ad alteram retertur illa hgurarum planarum  apud Geometras in trilateras , quatrilateras ,  ct multilateras . Divisionis utilitas est maxima  jn rebus per quam maxime implicitis, et per  quam longis , quoe uno veluti mentis intuitu,  ne q. videri , neq. comprehendi possunt. Sed  ex quo orationis claritas , nisi ex recte defi-  citis , et rectius divisis propositionibus ?   77. Alia propositionum penera .   Postremo semigeometroe jrecentes, qui nomi-  nibus mathematicis tantopere abuntuntur, dictis  quoque accensent propositiones, quas ipsi dicunt  practieas, Theoreticas, demonstrabiles , indemon-  strabiles , axiomata , postulata , problemata ,  Theoremata , schflta , corollaria, lemmata, et  si qu* sint alia vobis omnibus per quam co-  wnita . Sequitur syllogismus de quo Aristote-  les apud Grsecos quarnplurimos libros scripsis-  se scin)us ex Laertro ,    i C *      *• ir    v . •t ■ 4   Ejusjue pragrf sibus.    \l »'* .-ia «    c   , if*    A' P. VIII.   : » » * * *V » , J • i    •r«r    ; *A    ■f -- *    ^ V^- ;   *#•* >5 ,I    His omnibus ultimo loco addendum est  ixemplum , quod fit , cum ex rebus notis ad  incognita profcedamus. Ex. gr. Lacedemones ,  Athenienses , et Romani fuerunt liberi , qui  agriculturam , et militiam exercuerunt • Q UI "  cumque igitur Status has artes maximo animi,  tardore colit, erit etiam liber. Ex antedicti  jnodis hic est prsestantior , etenim ab exem-  plis ortum habuerunt et progressus ars medi-  ca ; agrorum cultura, navigatio, pictura, sculptura, poesis, tactica, etc. Ecquis est inter homines, qui aliquo exemplo cognito non lucitur, btiatn ad aliquod scelus patrandum j  ftonne Alexander Mstgnus Achillem , « L.l  Caesar Alexandrum est imitatus? Quid plura-   • F 4 N? Ue erruriubs .^■accenduntur et inflammantur* i \-  m ul ac accensa sunt , ex statu, tanta; omni-  genae ignorantiae trans.it homo in rerum quam-  plurimarnm scientiam. Verumtamen in tanti  temporis longinquitate , atq. in tanta artium,,  scientiarumq. progressione mens humana ad-  huc res infinita», ignorat , atq. omnfgeqa er-  rorum colluvie pxne tabescit . Eam itaque  curare tabescentem unius .philosophi est cum  prxceptis', et institutis . Sed prius tantx im-  beci i' itatis causas noscere, atq. praecipuas ex-  tricare , fit opus Difficultas in addiscendo «> Quicumque artem aliquam, etiamsi mecha»  liicam , vel scientiam sibi comparare sedulo  studet , quandain difficultatem in se sentit ,  qux fere adeo magna est , ut eam difficilli-  me superet . Quid hoc manifestius jn sbcie-  tate civili? Forsitan esse possunt, ut iisdem  lubet , omnes maximi philosophi , omnes  Poetx , matheniatum cultores , atq. artifices  magni nominis ? .  Rerum sciendarum infinita multitudo .   Tanta es.t rerum, naturalium copia , tanta  artium, scientiarumq. multitudo, tantaq. re-,  rura falsarum , vel dubiarum infinitas , ut  mens iisdem prope obruatur . Nonne hoc de-  legare dementis esset. Libido rerum multiplicium Quid si hisce errorum causis, libido quoque  «ccedat multas , ac diversas artes j multas et   e ’ di-     JSorumque progressibus * jf   diversas scientias eodem teinporfe comparan»  di ? Profecto quxvis mens ex imbecilla eva-  det imbecillior , et majorum errorum fiet  capax. Alia errorum cauta in sensuum obtusi-   ' i ' *   tat e . ‘ v   Addite bis omnibus sensuum exteriorum  quandam obtusitatem , atq. sonsuum interio-  rum naturalem dispositionem , quibus rerum  corporearum ceu venenantur , et mutantqr  jmagines . Nonne eadem de re diversi judi-  cant varii homines , quia djversa corporis  temperatione dominantur £ Marius Pater na-  tura audax agebat audacter . Contrft Q. P':j-  bius maximus verrucosus natura lentus , left-  tjssinie proqessit , adeoq. ille pro Cimbris de-  lendis , hic pro Annibale delassando, factus Alienationes , et distractiones.   Mentis imbecillitas etiam eruitur ex tot ,  tantisq. alienationibus tum voluntariis , tunt  physicis, quae nonnullis hominibus adeo in-  ficerent, ut pacne insensiles appareant. In  flcgmaticis inertia solet esse maximi Altera errorum causa in nuturie phaeno-  menis . 1 Deducitur etiam errorum causa ex indeclinabj T  li difficultate cojvnoscencfi rerum vires, essentias,  relationes , et fines. Ausi sunt quamplurimi hrec  omnia rimari ; at eorum absurditates nemo  nus adhuc dinumerare potuit .   De erroribus Jn repetitionibus et contradictionibus.  Mentis imbecillitas quoqu^ eruitur ex tot,  tantisque repetitionibus parumdem rerum, atque ex tot, tantjsq. contrarietatibus , quibus  ne quidem summi viri carent . Hujusmodi  exempla sunt sexcenta, qux hic recensere  t»eque liibet, neq. juvat. In systematum absurditatibus .   His omnibus adjungite tot systemata absurda , tot phaenomena inenodabilia , tot hy-  potheses commentitias , quibus maxime re-  eentiorum libri scatent . E x meditationis inertia ^   Mentis item imbecillitas colligitur e? me-  ditandi inertia, quoe omnibus hominibus est  pxne communis. Hac de causa paucissimi  sunt , qui rerum causas cognoscere curant •  Quid turpius, quam se ipsum nescire, et cu-  jam sui corporis artis medies imperitis com-  mittere ? Ex corporis humani lentitudine .   At animum inbecijlimupi reddunt qusdam  forporis lentitudo , atque affectuum vjs , quie  eum ita percutiunt , conturbant , et commo-  vent , ut mens sola rerum superficie sit con-  tenta. Ex nimio sui ipsius amore .   His omnibus addendum , quod nemo unus  propriae debilitatis, sit conscius , neque sibi  testis esse velit . Quisquis enim aliqua de re   j ud i-Eornmaue progressibus , gg   judicium affert , putat non posse melius di-  judjcari.   14. Alia errorum causa ex parentibus .   Quid si hisce omnibus breviter adumbratis  prsecipuis errorum causis, ultimo loco addal  tis, quod parentes, nutrjces , magistri , theatra, ineptorum librorum lectio, ipse multi-  tudinis consepsus pueros depravant', atque  abducunt a vero ? En errorum omnium prin-  cipes causas, quas singillatim indicare cura,  bo, ut declinare possitis. P ex judicia populari.   Praeter jam dic$a , sunt et alia , uti pr*ju*  dicia popularia, quae ut piant» , et animan-  tia regionibus sunt adcpmodata . Quis ea cognoscit, et cognita ab iisdem audeat se li-  berare ? Nonne decipi , et decipere seculuiq  ▼peitaturDe erroribus j  De erroribus mentis t - quo ad Sensus  exteriores. Visus prostantia.  * X sensibus, visus est reliquis pr®stantior,  quia illius ope majori 'idearum numero  mens perfunditur, quam cum cjrteris. Ptenim hoc uno corporum colbres, 'Hgurts, magnitudines', distantiis, motum , atq. hu usce  immensae universitatis pulchritudinem perci-  pimus , quo orbati, nulla esset coeli fornicepS,  nulla prtur® et scnlptth® proportio , nulla  rerum dispositio, nullaq. tantae natur® immensitas nobis obversaretur . Attamen quis  crederet ? Ilcc sensu mens niaximopere de-  cipitur .   x 7» Ex visu .   i. Mens errat , cum quis objectorum exi-  stentiam , qu® non videt, audacter negat .  Profecto nemo aeris fluidum , neque inhnita  animalcula , neq. corpora longe procul dissi-  ta jntuetur , licet existant .   I P. Ex visu .   IT. Decipimur in judicando de rerum di-  stantiis , eteniin credimus solem, lunam, et  nubes ®qualiter a nobis distare. Verumtamen  nubes non attolluntur , prxterquam ad duo, vel milliaria. Luna funerat distantiam Eorumque progressibus. 07   33 Sol denique juxta Kebleri supputatione nonagintas miriones excedit.  Ex visu. HI. Sj inter dyas Urbes, vel montes maxime dj^ijos, interposita sit vallis etiamsi  amplissima, 'procul visi', apparet una eadem-  que urbs , atq. unus idemq. mons. ac. Ex visu ,   Fallimur etiam, quo ad corp.orum figuras. Nam ellypsis cominus perspecta a circii.  lp non distinguit ujr . Et Turris angularis videtur sphaerica . rtemq. du lineae parallela longissime protensse, videntur convergentes. Qontraq, duo parietes divergentes APPARENT paraliel Quid amplius? linea tortuosa procul visa, nobis recta apparet. Campanæ fremitus, dum sonat, non  intuetur, etiamsj sonitus. audiri nequeat, nisi  partium metallicarum vibrationibus > at 4 * aerl 5  undis . liludq. ipsum dicito de aquis paludosis ac lutulentis. no. Ex VISU. Eademq. deceptio notatur in lucis propagatione, cujus motus putatur fieri puncto temporis, attamen est successivus  licet celerrimus . New/tonus enim eam percurrere  quolibet minuto. secundo 20. semidiametros  terrestres, scii., 202. milli^ria Italica putavit. Ex visu: Prxterea sol. videtur diametri bipedaroribus, lis . Itemq. Planetx majores, atq. stellx prirus magnitudinis apparent tanquam faculae  accensa;, verumtamen. praestantissimi Astro-  nomi recentes Tellurem esse asserunt solis vix partem milionesimam . Nihil dicendum  de Jove , deque Saturno. Decipimur quoque cum judicamus colores omnes corporibus adhaerere , licet in iis  non reperitur, nisi quaedam radiorum lucis  retlexio, cujus angulum si varies, motatur quoque color Si in fili extremo ponatur carbo accensus, atq. tanta celeritate circum torqueatur , ut minuto secundo circulus absolvatuy, circulum igneum minime interruptum distinctissime intuemur. Ex visu.  Decipimur item adspicientes remum in aqua aliqua immersum , ruptum judicamus.  In apice akissimi montis solem videmus matutino tempore , attamon est ejusdem ctrum. Vf. Ex visa . / - -V t V';  Ex audit - ’ 'vc«*Jdl  Ut lucis radii, sic acris und.e obstaculi inipactx resiliunt* £* hac aer» rep$fCu*,  sio ne , oritur vocis repetitio , quam aech uro  dicimus , hujusmodi vocis repetitiones. fiud  ratis locorum distantiis. V Sylvestres autem credunt esse homines, qui eosdem ‘ludificant. Quod est iaW. n •" * &* odMTMPk'* A Odoratus menti quoq.i causas errorum tri-  fcuit , qui sunt sequentes. Brimo putamus  omnes odores ac fxtores corporibus inessed.  Quod est omuino falsum . Nam corporibus  non inhxrent, prxterquam effluvia , sive paf-  m insensibiles   nobis voluptatem, vel  jbolestjam excitant . Si primufn , sensa-  odorem . Si secundum  wem . Hinc, sequitur, quod si toi-  xmktitur odor , vel fator. E odoratu*. ' . m'-Secundo decipimur, diim judicamus ofnn   honines qtte ac nos odorem , vel fetorem  alicujus qprporis sentire . Fortasse est una  eademq* nari««nfebricatio m amnibus homi,bus  Quis eniifa ignorat eundem hominem  rtfdrbo- laborantem non sentire odores , titl  prius ? Cur fta ? quia sensus dispositio non  est eadem . Hinc bjwfnali - tempore non setr-  + s* I '4 aL    M i   Eorumqut progm rsi&us timus , quae tempore aestivo nos conturbant.  Ex gustatu. Sequitur gustatus. Hic sensus licet no-  bis maximae utilitati, attamen est etiam multorum errorum causa. Primo judicamus sapore ni , sci!, amarum vel dulcem esse in dapi-  bus. Verumtamen in ipsis non inest , quam  qujedam particularum multitudo , quae linguae  nervulos plus, minusve afficiunt.  Ex gustatu.  o. Decipimur, cum putamus omnes honu-  nes ceque ac nos sentite saporem in dapibus,  amaritudinem, aut dulcedinem in vino , etc.  Quod ne quidem in ipso homine contingere  . «otest, quoniam ejusdem linguae dispositio  perpetuis mutationibus subjacet. Ex tactu. Sequitur ultimo loco tactus •, qui reliquis  est minus erroneus. Corpora enim, quae video esse possunt spectra [MACBETH saw Banquo; Hamlet saw his father – DISIMPLICATVRA]; sonitus, quem atu  dio esse potest vis phantasiae , illud, ipsum  dicito de' faetor ibus, et saporibus. At equum,  parietem, aquam, ignem si tetigero, de eorum existentia dementis esset addubitare.  Quid plura? U110 judice tactu , scimus nos  existere , atq. extare infinita alia corpora  extra nos\ a quibus continuo impellimur, et  commovemur . Licet res sic se habet, verumtamen hoc sensu mens decepta, frequentissime errat.   . r* 'Wfc* ttt tn»,« • «oWawtf x   4% / q q 40.  Ex tactu.Vas aere repletum *qufc ponoerostnh   putamus, ac si ab illo fluido esset orbatum.  Quis nescit aerem ponderare , uti extera cor*  pora ? atque ex hoc errore oritur alter. Arbitrantur en ; tn otunfcs homines aeiem in  nobis, neq. in se i so gravitare, attamen re-  Centissimi philosophi centies experti sunt ae-  rem gravitate, illiusq. columnam , qus nobis  imminet, aequari ponderi  asperrimas intuemur. Ex tactu.  Insuper judicamus quaedarri corpora esse sua natura frigida , quaedam alia ex se calida. Calorem, itaq. et frigus corporibus inesi  se credimus. Quod est omnino falsum . Eto-  nim calor , et frigus sunt qnxdam anitni no-  stri sensationem; quas in nobis, uti odores,  ' 1 * ' k ' tft   f   / qigjped (S Eorurtique progressibus.   et Sapores, corpora exteriora in nobis excitant. Ex tactu 4   V. Decipimur quoque , cum manum ca  dam irt aqua frigida mergamus, aqoam sentimus calidam , et contra . Quin advertatur *  quod ma«us, aqua sit calidior, vel rigl,  dior. Ex. gr. Si in manu sint calonS 8. S ra ‘  dus, in aqua autem frigiditatis. Aqua sentiri debet calida , uti Contra si in aqua sint decem frigiditatis gradus, et in manu  caloris. Manus sentitur frigida, ut sex. Ex tactu denique decipimur, curri a , s ?  th judicium feramus de corporum duiitie, mollitudine , flexibilitate, etc. qux suos gra-  dus habent. Nonne quotidie experimur > quo  uni durum , alteri molle videtur*vv, »* ». f  Jflu. O/i  •jv 5.'*' ir:-k   ,K P-  qui temperamento  cholerico dominantur, sunt rmgmt.nm rerum  promissores, superbi , audaces, vaferrimi,  ambitiosi , crudeles . Sanguinei amem sunt Venerei, vinosi, voluptuarii , brevius ad Sa  omnia. rapiuntur, qu* sensus alliciunt , et  mulcent . Melancolici plerumq. sunc confusi,  laboribsi, diffidentes , atq. acerrimi judicii Flegmaticos denique experimur pavidos, superstitiosos , somnolentos, serviles, confusos,  atq. tam in virtutum , quini in vitiorum  exercitatione inerres.  Ex temperamento. Quæ cum ita sint, quisjue intelligit, quod  hi omnes eodem de objecto diverse jfidl are  debeant , e >rUmque judicia natur* cujasque  e«e adtemperata. Ex qno necessario sequitur idem periculum sanguineis minimi, rnelancolicis, et flegmacicis Maxirhi moifienti obve rsari . Ex quo etiam sequitur , quod  una , eademqtie res esse debet uni maxirrce  voluptatis, alteri vero maximi doloris. Hinc  quoque redditur ratio , quare unus judex illum  ipsum absolvit , quem alter damnat. Nonne  tanta judiciorum varietas , a diversa corpo-  j-Um constituzione repetenda ? Nonne hac est  multorum causa errorum?  Mentis errores ex passionum vehementia. III nostrorum errorum fons, idtmque   uber. th 6 fi e erroribus ,   liberrimus in passionibus inest. Quid singula»  jjersequar , cutn omnes ad unum sui ipsiu»';  amorem reducantur? Etenim ex immoderato  sui ipsius amore exortae sunt tot populorum caedes, patri» proditiones, parricidia, flagitia, scelera, incendia, provinciarum, urbiumque direptiones. Quis ea recensere valeret,  quar Cyrus major Persarum Rex, quae Alexander Macedo, quxque tandem ipsi ROMANI gesserunt ? Legite quaeso vitae humanae  monumenta historica H tam recentia, quam  illa ab ultima antiquitate repetita, in iis tanquam in tabula innumerabiles amicos proditos, Sanctiora iaedera neglecta, innocentium  tnilliones modo unius ambitioni, modo avaritix , modo libidini, modoque crudelitati  immolatos esse videbitis. Dici posset hoc  ipsum singillatim de timore, de spe, de am-  bitione, coeterisque. Quid plura ? Nulla in  homine passio immodica ,qux martyrum mil-  'lione» non recenset. Ex attentionis defectu «ja. Sequitut attentio, ex cujus neglecta  plurimum quoque decipimur. Erramus ,  cum nostra attentio licet finita, eam in quam piurima objecta distrahamus, a. Saepissime  attentio uni objecto adhaerens, reliqua nos ignorare facit. Ipsaq. augetur vel minui-  ut , pro ut nostra militas est major , vel mi-  ti >r .Ex attentionis neglectu fere contirf-  tt.t, quod de rebus involutis, et implicitis judi-  delationes noverimus ? Deniq. ex slttentioni defectu ortum ducunt tot, ac tanta præjudicia popularia, mentis alienationes , atq. aWrdi*  tates . Nihil dicarri de sensu mbrali , qui  tiumq. nos decipit v Ha-e de mentis erroribus  quo ad sensus exteriores, et interiores i ertorib . , guo ai animi sensationes. Ex sensationibus errores. ITT' X omnibus iis , qua? huc usque maxima  P.f curti brevitate extricata sunt , liquido  patet universaS animi sensationes praedictorum  sensuum tam naturalem, quam temporaneam  dispbsitionem sequi debere. Cum hi sensua  jnagna sunt in \'arietate, non modo inter homines, sed fctiam in ipso homine , sequi quoque debet, quod unius sensatio abs alterius 4  serisatlone distinguenda. En ratio cur  idem corpus , neq. :eque durum , neq. atque  pohderosum , vel molle , vel odorum, vel  faetidum omnes sentiunt . En quoque ratio #  quare dictatum illud sit verum . Quot homines , tot sententia. Rerum enim judicia a senr  sationibus, sensationes vero a sensuum textura oriuntur. Varietas itaq. sensuum, etiam judici orum diversitatem affert. Qua? cum sint*  videamus ftiodo f quo pacto a sensationibus Recipiamur.   quæ non sunt nisi  r ‘ to- •  y %   t t® , P? errjg/fyt * ,   totidem rectiones no is conspnse, vel dissq-   «ce , habeantur absolutae.  ajcfe/hr Jfceptio m   IV. Decipitor quo® e cum Dei, horainunj,  et plant»‘win actiones putentur ejusdem generis , tametsi tofo cxlo differant. Sequitur aiiu deceptio. V. Sim ; it r Dliitur, dym ideas spirituales onnhi extensas , et mitf riales ^oncipiat.  Judicia fa^sa 'x prava idearum unione •  i. JEr^at e-inn, si qu* sint conjuncta,,  separata esse ju icet . Coi.traque qu?e nonnisi  jn tote separantur , concipit conjuncta.,, Suoqi  noris gereris suat Poetarum fabuljp. Secunda  autem sunt to F-,oms irrotibus. Omfiis eirctilus qua tuor angulis rectis equahit  Circulus autem est figura plana. Omnis itaqui  figura plana quatuor rectis tequatur. V syllogismi vitiositas. Syllogismus est vitiosus, si quis e praemissis negantibus velit affirmativi concludere. Contraqi si e* praemissis ajentibus velit aliquid negativi concludere « Primi generis  fcst : Arabes non sunt Christiani. ITALI non sunt  Arabes. Ergo ITALI sunt jChristiani » Secundi  generis est hic : Africani sunt inertes. Eurtrpaei autem stmt naturS laboriosi. Africani igitur non Sunt Europii. Alter syllogismi defectus. Erratur etiam vi haspirationis. Ex. gn  Quicquid amas , non comedis . Sed pisces hatnai  pisces ergo non comedis rir. VII syllogismi defectus. Mens errat in syllogismo conficiendo j  si quid pro causa ponatur, quod reapse non sit Causa. Ex. gr. Literarum studium  breviorem reddit Litbratorum vitam.  Octava syllogismi vitiositas  Illud quoq. dicendum si quis pro deffioti-  Strato habeat, quod est in qUatstiotie . Ex. gr»  Si quis diceret . Mundi cl atrum ist illud , ii i  quo universi corpora tendunt 1 Atqui omnia mun-  di corpora in Tellurem decidunt . TellitS igitu?  ttst mundi centrum. Nona syllogismorum vitiositas Vili. Vitiosus pariter est Syllogismus, si quid Ttorumque progressibus « t 4 f  qtlidquam alicui substanti* absolute tribuatur t  qiiod eidem per decidens competit. Ex. gr.  P/anetx f uti tellus, sunt corpora opaca . Ergo  habitatores habent.   1 14* Error ab exemplo.   Mens errat in exemplo, quando ex r t  cognita ad incognitam quis deveniat , quin eidem rtJrum circumstanti* non concurrant. Ex. gr. Prima bella civilia inter pairicios , et  plebeos , fecerunt Romam maximam, atque potentissimam. Ergo si omnes Europx status bella intestina foverent .(Q tiod utiq. est falsum) Redderentur potentiores.  Ex enthymemate i  Errat mens in enthimemate ob idem  principium. Ex. gr. Dux valentinus statum  Ecclesia a tyrannis vindicavit . Fuit ergo maximtis imperator. Duodecima ex sorite vitiositas. Captiosa est argumentatio si in aliqua  jiroposititinum serie, una est erronea. Tunc  Quotquot sunt, omnes rUunt . Ex.gr. Ex omnibus terrx partibus Europa est melior . Ex EUiopse statibiis Italia . Ex Italiis regionibus regnum Neapolis et ex sensu exteriori fqi  cilhme decipiatur , neces/e duco, V t uni  stnsui nusquam dedatis ; Quamobrem plures  Vint adhibendi. Sic visus ab auditu: et tactus  ex gustu emendatur. Propria Votura tst notanda. nus. homine adeo discriminatur. Vt raro eveniat , dW «fc conspirent ami est eorundem memori, temperationis, passionum, atque attentionis differentia, ex quibus  * iam tanta judiciorum varietas , atque tanta  errorum origo. Si quis igitur eosdem velit def mare, sedulo perpendat hxc omnia. Quod si errores si nequeat evellere, salaem eosdem minuit,  Sensationes sunt cuique proprix . H>Sensationes cujusq. generis sunt cuiq.komini   JS orumque progressibus. ilf   peculiares , atque in ipso homine variant. Qua  igitur in iis contentio . Si ipse sint re/at.e ?  Excitanda est attentio.  Ex attentionis contemptu, quamplurimi  errores. Ipsa igitur est excitanda , et adhiben-  da. Ratio est quoque excolenda , quam si unans  sequamur ducem , nusquam aberrabimus.  Vpcabula obscura vitanda. Quid vocibus, uti animi nostri SIGNIS, utilius? Sint itaque clare, perspicua, et non  a communi usu remote. ltemque vocabula complicata , emphatica, methaphorica , atque SIGNIFICATIONIS expertia, vitato. Declinanda sunt enunciationes absurd.t,  Sint enunciationes judiciis conformes, decliaenturque falsa; , obscure, atque absurde. Ars Sophistica philqsopho est ableganda t   Definito res. Sed definitiones sint rebus   clariores . Ille autem amnibus prestant , que  cum rebus definitis reciprocentur. Vitato syl ^g is mos erroneos. Ars enim  Sophistica a philosopho est ableganda.Nusquam a re cognita ad incognitam deveniatis , nisi prius omnes rerum circumstantias  perpendatis. Soritem raro adhibito Soritem raro adhibito t quia plerumq. est  argumentatio captiosa De erroribus,   A scepticismi spiritu procul estote. A scepticismi spiritu , maxime inconsiderato longe procul abesto. Argumentum, analogi£ fugito. Neq. immodica sciendi curiositas  vos abripiat. Quamobrem. Libidinem comparandi multas, et diversas scientias uno eodemaue tempore vitato. Alienationes voluntarias fugito. Ab alienat usibus voluntariis vos ab  alienato . Phisic.r autem si sint, attentione miniiendtt. i* tll 1Rc- Morumque progressibus . is J   Rerum causas cognoscere studeto.  Rerum omnium causas, et fines cognoscere studeto . Aliter nemo esse potest felix . Contrarietates , et repetitiones fuggito. Contrarietates , ac repetitiones fuggito. Contrarietas enim mentis defectum, repetitio  vero memori labilitatem accusat scriptoris.  Inertiam vitato . Prxterea perquam longa meditatione vos  contritissimos volo } et quandam insitam iner-  tiam vitato. Affectuum vis immodica est temperanda.  Quid vehementius , quam passionum vis\  maxime rn at at e vestra tam fervida\ Eam igi-  tur compescite catenis.   146, Propria debilitas est cognoscenda, et cwranda. Pandem nemo unus homo adhuc inventus est propria debilitatis conscius , neque  sibi tesris voluit esse . Eam igitur cognoscere  prius curato , de in adsidua librorum lectione,  virorum consuetudine bonorum } atq. ex sui ipsius  meditatione vel minuito , vel eradicato .   Hactenus de errorum ortu , ac progressibus.  I    PARS    Ej usque progressibus Qua veritas moralis  Itemq. si nostra jqdicia factis respondeant,  Veritas dicitur moralis. Hujusmodi sunt histo-  rica? narrationes ; qusq. nos ab aliis quotidie  inaudimus , yel legimus .   Qu£ veritas certa.   Praeterea si veritas ita  est quotuplex sit dubietas.   Denique dubietas , vel ponitur in squali  rationum contrariarum squalitate , ut omnia  insecta ortiuntur ex ovis , vel ab animalculis spermaticis , vel a putredine. H.xc dicitur positiva.   I a ‘ Illa  De Veritate • '   Illa vero ; «Jirs i.n idearum ignoratione consi-  Stic, aopellatur negativa . ' Estne stellarum mt~  tperus par', vel impar ?   .g. Quid' , et quot u ple x sit f alsit as*   Ex dictis clare ihtettigituf falsitatem esse  disconvenientiam nostrorum judiciorum ab. objectis exterioribus , vel. ab eorumdem. relationibus , vel ab ipsis fecti$ auditis, vel lectis,  ex quo consequitur tot dari genera falsitatum, 1  quot numerantur veritatis' genera . Dantur itaque fahitates sensibiles , discursive ac morales. Q intus ita delinitis, priusquam veritas cujusque  generis investigetur , de veritatis existepti  paucissima dicam. De Cujusq. veritatis exist entia. Exiseit veritas sensibilis. fTlAmetsi mens nostra ek unoquoque sensu,  X atq. ex sui ipsius judiciis, et ratiociniis  quandoque decipiatur , existunt tamen verita-  tes sensibiles,, atq. abstractae, ut ex sequentibus . I. Quis addubitare potest de tot , tantorumque. Corporum existentia, qua?, nos ambiunt? Nonne paene infinita objecta nostris sensibus  quotidie obversantur ? quot , et quantos Ho-  mines , plantas, animalia , atq. xdilicia videmur.' Idipsum dicito de sonis, de saporibus, de odoribus, atque de sensationibus quas i n No- Hjustpit progresiibus Yfobis ex tactu oriuntur. Quas veritates si quis  denegaret, habendus esset demens ac delinis.  Existunt itaque veritates sensibiles. Quid plura ? Nisi extarent hujusmodi veritates, ne quidem existentiam nostram sentiremus. Existunt veritates abstracte. Mens humana prarter ideas sensibiles,  quamplurimas alias investigat illas comparans  inter se , vel cum tertia . Ex qua compara-  tione judicia , et ratiocinia nascuntur. Hinc  veritates methaphysicae, et matematicæ. Hinc  artium, scientiarumq. principia , ex quibus  infinitae demonstrationes oriuntur. It. Existunt veritates morales. Denique si in aliqua narratione constabilienda , non modo testes, historia, et traditio  sive oralis, sive scripta, verum etiam monumenta concurrant, non est de illa minime  dubitandum . Quis enim sane mentis homo  dubitaret CICERONE (si veda) fuisse Consulem , in Formiano habuisse villam ? Quis dubitaret GIULIO (si veda) CESARE fuisse .occisum , OTTAVIANO (si veda) fuisse  Romanum Imperatorem ? Existunt itaque, veritates sensibiles, demonstrativae, et morales. Error scepticorum. Ex His huc usque adumbratis sane eruitur afnotx mentis fuisse illos omnes, qui prædictas veritates acerrime, ac pugnacissime denegarunt, uti fuerunt Accademici, Pyrrhonii,  Cyrenaici, qui ausi sunt ipsas nostras comprehensiones impugnare . GIRGENTI (si veda) enim Ve Veritate,   asservit abstrusa esse omnia, nibil nes sentire, nihilque cernere. Nonne hi excxcant nos orbantq. sensibus ? Philo negavit quidquam  esse, quod comprehendi posset , sic judicium  tollit incogniti, et cogniti i Democritus contra solis sensibus credidit. VELIA (si veda), et  Xenophanes quasi irati increpabant eorum arrogantiam , qui cuin sciri nihil possent, au-  deant se scire dicere. Neque sunt audienda  contorta, et aculeata Diodori, atque Alexini  sophismata. Quid absurdius illorum fallacibus  j.onclusiunculis ? ad unum itaq. omnes veritatis impiignatores disputarunt nihil percipi , ni-  hil congnosci , nihilq. sciri posse , sed veritates in profundo esse demersas. Cur ita?, Quia  angusti sunt sensus , imbecilli animi > brevii  curricula vitae.   EJasyue progressibus  De cu. yusq. veritatis /tota.   t .*3« fuo cntenum veritatis *   Q Uaeritur hoc in capite , quo criterio verum a falso distinguimus. L’ORTO, qui  soUs sensibus credebant, veritates alterius gelieris respuebant: Platonici ; atq; Stoici judicium veri } ac falsi in una mente potiebant i  Fuerunt, et sunt, qui in ntroq. veritatis notam colldcant . Sensus scilicet i ri veritatibus  physicis, mentem vero, in abstractis. Denique judiciorum' certitudinem in evidentia po-  tuit Cartesius, quatti in physicam, methaphysicam, et moralem dispescuit; Prima locun? habet in rebus sensibilibus; in veritatibus abitractis altera ; ultima vero in auctoritate; Refelluntur eptcurei i ; At harum omnium opinionuni qualis vera  tit , an falsa liHbrriirife dicarri Quommodd  soli sensus esse possUnt judicium veri , ac  falsi f si ipsi sint tam fallaces ? non ne deci-  pimur nos ab oculis , ab auribus, ab olfactu,  gustatu t tactuque ? si soli sensus riotant veri,  ac falsi comprehenderent , sol esset magnitu-  dine bipedalis j stellae rion essent plures,  quani videntur. REMVS IN AQUA ESSET FRACTVS,  parelii essent soles reales ec. Denique si soli   tdnsus judicium veri, ac falsi continerent,  i .   L 4 quae-  Refellantur platonici , ac Stoici .   An ponenda veritatis noti in una mente,  sensibus exclusis ? Falluntur quoque , qui ita  philosophantur . Nam sublatis sensibus, nullum daretur in mente judicium, nulla ratiocinatio , nullaque veritas, Quae mens sine judi-  «*ts , et quae judicia, et ratiocinia sine ideis,  et quae tandem idae sine sensibus ; quibus  sublatis , nulla esset in mente operatio ? Constat itaq. Pluton icorum , ac Stoicorum opi-  nionem esse fallacem. Quid si in utroaue.  Q n 'd dicendum, si tam in sensibus , quam  in mente , quod erat tertia ex notis propositis ? Sensus quippe mentem corrigere possunt, mens autem emendare sensus . Sed in  mente ipsa ponendum est principium , quod  quaerimus , quoniam una mens capax est veritatis, sensus enim materiam»judicandi eidem  dumtaxat praebent.'   17* NH novi in Cartesii evidentia.    Ultimo loco , quo ad Cartesii evidentiam,  dico , quod haec opinio eadem difficultate  qua praedictae opiniones, laboret . Etenim  cum Cartesius tot evidentiae genera posuisset^  quot sunt veritatis species , vellem ab eo sci-  re, quo pacto, quod mihi visum est evidens,  esse evidens sciam ? quomodo judiciorum meorum. Ejustque progrehibus . f%%   rum evidentiam cognoscam quomodo deniq.  rerum auditarum quamobrem non ab alio  quaerendum principio, nisi a sensibus in veritatibus physicis, u mente in abstractis, atque ab aliorum fide in narrationibus historicis. Quæ omnia singillatim disputata sunt , ac refutata.   Quid veritatis crittrium. Hisce quam breviter enucleatis, ad propositum. Exquirimus hoc in loco veritatem primam, qui alia demonstratur. Propositionem nempe hic quaerimus ex se certam,  cuique cognitam, atque cujusque veritatis cew  fulcrum, quæ sui natura demonstrari nequit  ipsi omnes alias demonstrare possumus.  iq. A dubietate oritur veritas.  Principio veritatis est capax, qui dubitat. Nam qui omnia adfirmat, propositionem etiam sui adversarii esse veram dicit. Contra qut  Universa negat, quaeque ipse dicit , quoque negat. Philosophus itaque in veritatis investigatione a dubitatione incipere delet. Sunt enim dubietates tamqaam nodi, quos philosophus resolvere debpt. At qui semper dubitat, nnsquam  veritates invenit, prqindeq. a dubitando debet desistere. Nam. in dubietatum catena, si daretutf  progressus in infinitum , nihil sciremus.  Idem nequit esse-» et non esse. Principium itaque pro omnigena veritate reperienda, est illud ipsum, qiiod LIZIO  initio suae Methaphysicae praescripsit . JSIihil  pots$ n* Veritate, potest simul esse, et noti esse. Videamus ttuS-  do, num haec propositio sit certa, evidens ^  atque adaequata . Expendendum nempe num  hujusmodi principium sit clarum cuiq; cognitum, num denique cujusq; veritatis genera  constabiliat ; Ex quo veritas sensibilis,   L Veritas phisica a sensibus oritur. Si mihi igitur obversetur vesevus ignivomus, dubito de ejusdem existentia ? Turic tactum adhibeo, aliosq'. homines sentio  Si mihi alii, uti  ego, judicent vesuvium esse ignivomurri . Nori  potest non existere. Alias esset , et non esset  mons ignivomus. Quo nihil absurdius;  Si dicat. Illa musica, quae me tantopere  allicit, alios excruciat. Esto. Sed si musici  existet , nenio negat . Istudq. ipsum dicito de  odoribus , saporibus , ac de sensationibus frigoris, ac, caloris  quæ nori extarent * nisi earum objecta existerent. Ex qud veritas methaphisica. Ratiocinia tunc efficimus dum duas ideas cuni  tertia comparemus, ex qua comparatione ea-  rumdem aequalitas y vel inaequalitas deducitur;  ex f gr. Quiequid est extensum est corporeum. Tabula vero est extensa i Tabula igitur est corporea. Extensionis itaq. idea convenit tam corpori , quam tabulæ; Corpus igitur , et tabula conveniunt inter se; Alias tabula esset, et  non esset corpus. Quod est iterum absurdum;   ai i   V. , > ,   £jusque progressibus i Sx quo veritas historica. Tertio loco , si in aliqua historica narratione testes sunt oculati , historia, traditio , atque itionuihenta aeque concurrant, potestne de facto quis dubitare ? Demus igitur Medos, Babilonios, Græcos, et ROMANOS numquam extitisse, nonne essent, et non essertt simul tot  historise, totq. ac tanta monumenta ab ultima antiquitate repetita? Concludamus omne verum,  ac falsum a dubietate oriri, et cujusq. veritatis notam positam asse in constabilita superius allata propositione sua natura certa, cuiq.cogni-  ta, atq. adaequata. Quæ cum sint, jid ulter  riora procedamus. Quid } et quotuplex sit methodus. Methodus est via quaedam, qua nostra ju-J  dicia i ac ratiocinia ita disponimus , ut  Veritates invenire , vel jam inventas cum aliis  communicare possimus . Licet alii regulas tradant inveniendi ; addiscendi ; exponendi , atqv  disputandi j duae tamen mihi videntur praecipuae, alteri, inveniendi, altera explicandi. Pri- 1  Cia analytica, secunda vero synthetica. Una via.  conjuncta separamus, altera disjuncta unimus. Primus modus rerum inventioni j alter earum-  dim explicationi inseruit .   winalysis , idem est ac totius suas in partes 1  k4 quibus cdti*  flantur lapides montis vesevi, eosdem in su  ultima principia reducit, ita illorum componentia reperit. Analytkicae contraria est sinthetica methodus , sive compositio , quae ex quibusdam  generalibus principiis varia componendo in  unum colligimus, itt alios doceamus. Regulæ utriusq. methodi , in sequentibus  capitibus fuse exponantur.  Et Methodo reperiendte veritatis sensibilis Oq. Htcc a sensibus, Certitudo, quam physicam adpellavimus; ex sensibus exterioribus provenit  eaq.  nuncupatur etiam intuitiya. Quare si objecta  exteriora a sensibus retnpveas , hxc veritas on amplius extat. Hinc ruitur primo , quod  haec certitudo nostrorum sensuum rationem  sequi debet. Etenim pro ut sensus sunt bene  conformati, et objecta exteriora multiplicia,,  eo major nostrarum cognitionum sphaera fit,  atq. augetur. Sensus esse debent bene constituti •   Sequitur secundo , quod si nostrorum sen*  suum fabricatio sit vitiosa, objecta non cernimus distinta. En ratio, cur ii, qui morbd  hjcterico laborant, universa objecta sub coloro Ei usque progressibus M* croceo 'vi/ent. En quo* ratio, «nny^  fci corpora remota , et presbyti,qu* sibi sont  proximiora, non cernunt. veritates referuntur , quae constan-  tissima observatione , atq. diutinis experimen-  tis liquido constant. Hujusmodi sunt, quae ex antiquis LIZIO, iElianus, Plinius, tum jecta impellit. Def. Benevolentia est quoddam animidtsiderium , quo ad egenos juvandos rapimur. ax. 1, Bona in natura sunt paene infinita.   et viem  sceleratus.  Quid monumenta i    Quid si pr®dictis ultimo loco momi-i  intenta, qu® modo extant , addatis, nemo .  «anus dubitat . Reapse quis dubitat Samnites  £xtitisse , et fuisse tam bellicosos. si urbes   a Lb  ttjusgiii progressiius  aestus marini causa , et  sexcenta alia Reg. Si qutesilurti resolvi possit, tunc  videto si resolvi posset in omnes ejus partes ,  vel in una,   Hujus generis sunt quaedam quaesita, qua  plures in partes adspicienda sum ex. gr. ltius refertur ad familias, ad civitates , ad imperia, ad hominum coetum , nisi hac omnia  considerentur quaesitum non potest Bene definiri, maxime quod uni familiae, uni civi,  tati , uniq. imperio potest' esse u ilis, aliis  vero maximo detrimento. Quam ad regulam  si animadvertissent tot tantique recentes luxus  scriptores, non consenuissent vel in eo laudando, vel vituperando. Reg. Si quxsitum sit solutionis capax t  extricandum tunc remanet, num sit simplex, vel compositum scilicet num unum, vel plura  membra habeat. Illud quippe est perquam adcuratfc definiendum, alias -erratur. Sic in malorum origine  videndum primo quid sit malum. Deinde  num existat in universo, tum si sit ejusdem,  vel multiplicis generis Demum si sit multi-  plex, distinguendum in omnes ejusdem cl astes.  Eorumque progressibus  'fes . Dicito hoc ipsum de voce luxus superius  memorata. Reg. Si q tussitum resolvi possit , tunc  constabilienda sunt principia clara frnm, ata.  omni ex parte manifesta px contemptu hujus praeclarissimi reguli Hobbesii conclusiones sunt falsæ, quia la Isis  principiis innituntur. Hunc in errorem inci-  derunt quoq. omnes Pyrrhonii , aliiq. veritatis  infipugnatores.   Reg. Propositiones quot quot sunt , omnes  Jluere debent veluti totidem illationes ex prin-  cipiis superius , firmatis ac stabilitis . Quod  tunc evenit , quando omnes ita inter se conneetantur , ut ceu quandum catenam efficiant atq.  una ab alia nascatur. Qui id non consequuntur , habendi sunt ingenii plumbei . En ratio cur juventus neccsse  est, ut; consenescat in addiscendis Euclidis  Geometriae libris planis . Etenim in illorum  lectione modus adquiritur demonstrandi , admiratur in iis, quo pacto secunda de monstra-  tur ex prima propositione , et tertia ex secunda. Sic deinceps . Aristotelis aethica eodem ordine est conscripta , qua in addiscen-  da juvenum profectas esset major . Nam non  de rebus abstractis, sed de homine agitur, verumtamen nemo unus eam legit, accurat. Cur  ita ? quia eorum institutores nondum sciunt  Aristotelem extitisse, fuisse virum doctissiunim j   Br Peritote-». . gt   mmn, ad Nicomacum scripsisse decem de  sethica libros. Reg. Conditis , sub qnk subjecto prgdicutum convenit, est adcuratissime definiendum* Eapnitn philosophi munus est rationem, reddere t  fiio pacto effectu! ad causatn referatur. Queritur enim a seeulo praeterito usq.* ad  prarsentem diem , num luxus sit statui alicui  UtiSfS'? 1 ' . J '.w,;-' j, fi ; -i 't . •• *>fi-   Huc usq, universi scriptores in genere quae-  situm extricarunt. Sed false omnes. Itaq. eum  vel commendarunt , vel vituperarunt. Cur  ita ? Quia quarsitum non fuit iniqua m bene  ptopositum i Sed dicendum tst : pratsens luxus  est utilitati , vel detrimento regno neapolis I,  vel Rom.el Quaesito ita proposito , videndum  mini otnnes artes primitiva , et secundaria  possint ne numerum artificum majorem h«»  bere? Si possint, necessum est , ut ii^plean-  tWr . Siti aditer , et remanent in toto regno  centum millia qui laborare possunt , iisdemqj  -Occupatio deficit . Quaro isti centum millia  vuftis , ut iiiOpes vagentur, vel ut expellantur  e* statu, vel occidantur , num denique in artibds itfjAis Occupandi ? Quis npn videt 1»^  xum non modo esse huit statui uttlem , sed  ilittirti decemriufn' ? ‘-fi   RVg. 9 . Si in qudsitb rOfoleemdo , vobis non  ebniiiigat cettiiadiheth repetite , tunc probabio-  llialtm auffite, riebir eyuhg.antd» niti MafKiri l V ' pro -Ejusque progressibus 1 6f   probabilitas. Verum cavete , ne hypotheses ve-  lati theses habeatis. Quaeritur nuin sol , circa tellurem, ve] haec circa illum moveatur. Certitudo omnino defecit. Quaerenda est probabilita. Utraq. est  probabilis. Tunc quaere probabiliorem. Mibi  videtur illa Cupertiici, quia mjnus me allicit.  Nam facillime intelligo revolutionem diur-  nam terrx circa seipsam , atq. illam annuam  circa solem in eccliptica „ et sojis re : «jlunonem circa proprium axem vigmti septem die-  rum spatio.   Reg. Non omnia quxsita sunt ejusdem geperis, alia enim sunt physica , alia metaphysica t aha denique moraba . Si physica sensus ,  observationes , a/iosq. homines interrogate. Si  i nethaphysica, adhibenda est ratio , ac demon-  stratio . Sin denique moralia . Notate testes,  historiam, traditionem, ac monumenta.   Licet hxc sint per se clara, verumtarnen  in rebus facti , nulla ratioctnii. Dum facta  video, rationem non audio Sxpe etiam in  re clara , et manifesta , qua mpluri mi testibus  utuntur. Fortasse testes imiorem rationem  habent j quam ipsa ratiocinia firmissimis prin-  cipiis constabilita ?   Reg. ii. Quo pacto in narrationibus histori-  cis procedendum, si monumenta amplius non  extern ? Codices consulite , quibus in legendis  funditus sciri debet scriptoris lingua. At ca~   L 4 vrr#   De Veritate ,*j t t ' J ^   veto ne Verslones vulgares , Hef. itxicos conmunes adhibeatis. Seri quorsuih hcpc - Quia 'nulla lingua in  aliam translatari optime potest. Quatvis .enim  lingua suas habet pecujiares proprietates, sectam, religionem, imperiv firmam, mores  denique y 'propensiones, adjectus, educationem,  studia, exercitia, ac partium studium. Hrc enim omhia ad plenissima scriptoris  sensa intelligenda mixime conducunt • Natn  quiiumque- scribit etiam nolens suis in libris I  transfundit suos mores , adfectus y temperamentum, opiniones, scientiam, oartium studium, atq. alia sibi propria . Brevius sjui-  cumq. scribit , se ipsum describit , Quid liber, quam Sermo scriptus Nonne sermone,  aliorum animos paene videmus?. Hoc fusius, ac   1»T  Ejusqie progrersibnj • i   est diligentissime versandum, verum maxima,  cura lectitanda , sunt omnia, ut scriptoris mens  ex universis ejusdem operibus constet Potent  enim esse , quod aliquod rejecisset .   En ratio quare quampluritni in judicando  errant . Quia vel integrum librum non legunt , vel non intelligunt. Quid si. reliqua  scriptoris opera , ignorent , vel non curant  scire ? At quid statuendum , si scriptor de  aliorum opiaionibus, vel factis agat?   Reg. 14. Tunc exquirite primo , an scire potuerit, Num fuerit perspicax. 3. An in judicando adeuratus . 4« Num in referendo since-  rus • In quibus si uni eorum defecerit, fidem  ei denegate. Sin minus , eundem habete et dili-  gentem , et sincerum , et veracem.   Hujusmodi sunt optimi historici noti . LIVIO (si veda), SALLUSTIO (si veda), Cornelius TACITO (si veda) praestantis-  simi fuerunt historiae scriptores . Apud recen-  tiores MACHIAVELLI (si veda), Franciscus  GIUCCIARDINI (si veda), Bernardus SEGNI (si veda), Angelus de  Constantia, Robertson , Hum, atq. historix universalis anglJci scriptores . Quid si  ex uno scriptore quamplures acceperint. Reg.Si quamplurimi , etiamsi mille ex  uno scriptore sua traxerunt , omnes simul tatl%.  valent, quantum unus, quem transcripserunt .   Quod si clare constet historicum fuisse J cujus nomen praefert . Sic  Jjbnr de consolatione CICERONE (si veda) adscriptus ; est '  Hgarjii .Ergo spurius. Contra VirgHii .®nei-  dos., suflt Virgilii , nam, ab ejus obitu ad  praesentem usque aetatem eidem tribuitur. Il-  Judq. ipsum dicitp de CICERONE (si veda), ORAZIO (si veda), COLUMELLA (si veda), M. VARRONE (si veda) operibus. Tertio loco  si in Codice m°dp aliquid legitur, quod in  scriptqcis :$t#te , vel antiquis Codicibus non  legentur , dicitur interpolatus . Denique si  jaunc aliquid desideretur , quod fa antiquis  :jpndieihu» e*tfeat, appellatur mutilatus. Hd-  Sjjtm omnium exempla surtt paene infinita ,  jju* brevitatis gratia omittuntur ; ^t quS rd-  tione fiaec omnia internosci possunt ?   Reg. Dicito illum librum esse spurium ,  jt. -Si scribendi stylus , vel cogitdndi ratio non  sit illius scriptoris, cujus nonfen profert .  . j&i a scriptoribus corvis non sit memora-  V* Si adeo ineptus, ut cui tribuatur , nullo .    EjuspK progressibus n *7P  lo modo possit convenire. 4. Dengue libe*  habendus eit 'spurius,* -si antiqui eum rejecet irini* /; - iV .. ..Reg. Contra^ liber habendus est genuinus  I. Si stylus , et cogitandi modus illi conve •  ni aut , cujus nomen > prxsefert : 2» Si a scri-  ptoribus Coxvis sit memoratus : Si antiqui   de libri genuitaie , minime dubitarim .   Reg. Lib^r habendus est interpolatus t vel  spurius y si facta , et personor memorentur scri-  ptoris xtate posteriores . Ipsum dicito de voci-  bus , ac locutionibus . Ultimo loco si doctrinas  •Si st e mati sibi proposito contrarias contineat  Quid si scriptor fuerit ineptissimus*.   Reg. Codex est mutilatus si in eo aii-  quid desit , quod vetustissimis in codicibus le-  gebatur : 2. Si qux continet y vani , cottfuseq leguntur. Haec pro auctoritate humana satis esse du-  co . Quo ad divinam , praeter ea superius di-  cta notanda sunt etiam quae sequuntur.   Reg* Oportet perpendere .Nam Deus  loquutus fuerit'  Cui loquutus : Quo in  loco:  quando :  quid'., Haec omnia manifestissima sunt in quin-  que Pentafheuchi libris a Mose scriptis. Nam Deus loquu,tus cum universo Populo Haebrreorum . In mote Sinai , post eorum egressum  ab iEgypto. Quæ autem loquutus fuerit in  duabus Tabulis lapideis continebatur * Quse   licet j De Veritate, j' v> •.  licet constent ; , veruuuamen videndam insu-  , i  f *.   Per. Reg, . Num qu& Deus dixit , ai/ aoj incorrupta, vel interpolata , vel mutilata pervene-  rint. 2. i 1 / sensus , ac vrria possint varii accipi . Si autem varie accipi possint , nemo «aaa  fuo arbitratu , ac teneri intellegat , W aat  (Catholicae Scclesix judicio , standam erit.,  Hujusmodi sunt praecipuae rCgulae , qua? me-  thodo analitic.e maxime inserviunt . Quae autem sequuntur ad syntketicam spectant. Ej usque progressibus De regulis explicanda veritatis , tam viva voce,  quam scriptis  I T' X omnibus animantium generibus unus  1/ homo veritatis capax , est quoq. loquela  praeditus, qii^ sui animi intimiora sensa expri-  mit . At mirabilior ejt scriptura , qua cum  absentibus temporis, ac loci loquimur Sed  si philosqphi, si parentes, si ludimagistri  desiderent , ut juventus utiliter haec divina  rationis instrumenta adhibeant, sequentes regulas ob oculos habeant. r Reg. i. Initio cujusq. facultatis , magister  doceat, quid ea" sit , que fuerit ejusdem origo,  progressus , vicissitudines , scriptores , atq. quas  in partes ea distinquatur. v ; • , Cur itl ? ut sciant auditores, quae ipsi comparant , atq. univers® scienti® quandam designationem ceu^ in parva tabula adumbratam  habesmt . In quibus enucleandis una , vel ake-  ia lectio sufficit, ne rerum multitudine detineantur ii, qui paucis prsceptis sunt imbuendi. Reg. st. Maxima cum brevitate [H. P. GRICE: Quantitas: be maximally brief], ac claritate  simul primo controversis: status proponatur, deinde suas in paries dividatur ; tum inutilibus  resectis , omnia sensim sine sensu explicentur In hoc a quatnplnrimis erratur. Neq.enim  -v t pro- «r    ffif •• - J-dolemata sciunt acute propd n ere, neque omnes,  nodos extricare. Veriwn omne tempus in  congerenda cujtisq. generis eruditione sine  ullo ordine, judicio,  lepore tevurit. Qujf  GrammaticorutntForensium^c medicorum pleynmq. est perquam inepta scribendi ratio. Reg. Vocabula omnia definiantur, ut quid  sit res de qua agitur, plenissime intelligatur l Hujus iftilissim* regulæ contemptus juvenes impedit, ut bene iatelligant, atque addiscant. Reg. 4. Ex definitionibus officiantur axioma*  ta ; atq % postulata, ex quibus clein emitis praepositionum series eruatur. Haec rectissima docendi ratio, quam sibi  sumunt Geometr, est illorum omnium, tjui  sciunt ratiocinari . Divus Thfcmav’ non erat  Geometra , veramtamtn quia divino ingenio  praeditus ordine scripsit . Quid dicendum de  Aristotelis ethica tam pressp et ta!n stricto  ordine Conscripta Reg. ij. Definitis universe scientia voca-  bulis , initium sumatur a rebus simplicifribus t  ac facilioribus, atq. ad maximi Compositas 9  jfuxijpeq. difficiles procedatur.   Sin aliter fiat., discipuli non krtelligunt.  Reg.' In rationum ''catena conficienda , ita  ordiatur , ut altera 1 alteri prxluceat , atq. alte-  ra alteri inserviat . Ex quo tandem integrum  disciplinae systema compingatur omni ex parte    connexum.  Reg. Ej usque progressibus .    ut sciatur tempus, « W, «■ w   r«nf gesta. • • • fc '- • •. „ Reg. 14. natUrd  j '   ac pravus . Ergo pontus ut educationi defrrtur , proinde?* magister curat auditores* redde-,  re laboriosos   longius, quam res tanta dici poscit.. Pritpo arithmetica est scientia , qua  mentem instruit , ut ea expedite ac recte  super qtiibusdam cyphris numericis operetur. At qua de causa ? ut nempe veritates inveniat. Hac scientia licet quamplurimis continea-  tur regulis, ut additione, subtractione , multi -  plicatione , ac divisione, attamen additio, subtractio, multiplicatio, ac divisio tam in quantitatibus integris, quam in fractionibus cujusque  generis ad additionem , atque subtractionem  reducuntur. Itemque regula aurea , societatis,  alligationis , positionis, ac combinationis ; non-  ne ha? omnes, et si qua? sint alia? etiam infinitae , revocantur ad unicam regulam aure-  Etenim multiplicatio nihil aliud est,  quam ipsa additio concisa: et divisio est ipsa  subtractio . Sic si mihi multiplicandum esset  g. per 4. duos modos adhibere possum, vel  M fi 8. qua- « \1   lif * , .  quatuor seriam , factaque summa habebitur 32. alter modus est si 4. accipiam octo:  vel octo accipiam quater , productus erit sem-  jper 32. ex quo pate't multiplicationem non  esse, nisi ipsam additionem compendiosam .  Id i^nm dicendum est de "divisione ;  nam ha?c est ipsa subtractio, cum hoc uno  discrimine , .quod subtraetio fiat semel , scili-  cet ex quantitate majori dematur minor, ut  quod remanet, videatur . In divisione vero  subtractio fieri debet secundum numeros divisoris. Sic si dividere vellem 484. per quatuor . Fieri debet in uno quoque .numero  hinc primo ingreditur semel, in secundo bis,  ip tertio etiam semel, quotus erit 121. Ergo  in primo numero subtractio fuit unius numeri 4. in secundo subtractio dupli 4. et postremo etiam unius 4. Ex quo 'etiam liquet divisionem non esse, nisi ipsam subtractionem.  Quod quidem non inteligendum solum de nu-  meris integris, verum etiam de fractis , ac  de fractorum fractis.  At si quis inquiet; ad quam regulam  referuntur potentiarum elevationes , atque ra-  dicum omnium extractiones Respondebitur,  quod potentiarum elevationes sola multiplicatione conficiuntur 1 ' extractftfnes vero radicum cujusque generis et multiplicatione, ac  divisione, hoc est ex additione , et subtractione simul. Sequitur postrema scientias nume ricae regula , qu* est sola aurea , ad quam quot-  . quot sunt, omnes reducantur. Verum quid  continet hrec: nisi quo pacto fex tribus numeris cognitis inveniri possit quartus numerus proportionalis incognitus Hoc parumper perpendamus in tyromim gratiam.  Ad quatuor classes , omnes problematum numericorum resolutiones vulgares ari-  / thmetki reducunt , nempe ad regulam auream sive trium; ad societatem : ad alligatio-  nem , atque ad falsam et duplicem positionem.  Primo regula aurea sive directa, vei  indirecta: sive simplex vel composita est inven-  tio quarti numeri proportionalis, post tres alios  datos: ut 4. boves ararunt I. terr® jugera,  quot jugera arassent 16. eodem tempore ? I-  temque 4. messores metunt quandam segetum  quantitatem 8.diebus, quaeritur quanto tempore eundem campum messuissent if. messores? In  utroque problemate semper quartus proportionalis inveniendus est, cum hoc uno* discrimine, quod In primo problemate multiplicatur  secundus , cum tertio , productufn dividatur  per primum, hoc est te3. per -4. quartus pfo»  portionalis est ja. In secundo autem proble-  mate 'multiplicatur inter se primus cum secundo-, productum dividatur per tertium, vi-  delicet 3*. per 16. quotus, hoc est quartus  proportionalis est. Sin autem utraque sit  M 4 cora- quibus mentis adus clarius explicantur De Jignorum artificialium origine De linguatum omnium natura De linguarum artate conjicienda De vocum divijione De propojitionibus De mater i a, forma, £r propofitionis quantitate 6e errorib.me ntis quo ad jenjus exteriors De errorib, quo ad animi /enfationes De errorib. quo ad ip/ius mentis adtus.iOQ  De errorib. quo ad animi Jigna relatis,  de illorum abufu De errorib. quo ad propo [itiones De errorib, quo ai /yllogi/mos, aliofq.   arguendi modo s. De errorib. qui ex prava puerorum eJucurione oriuntur Ve errorum emendatione De veritatis ortu , ejufq. p r Ogre£ibus Quid , O quotuplex Jtt veritas  cujufq. veritatis exifientiaJ   uip , & quotuplex Jtt veritas De cujufq. veritatis nota. Quid, & quotuplex Jit methodus De methodo inueniind.e veritatis fenftbilis Dg methodo demon/irqnd £ Veritatis De methodo reperiendx veritatis prob De veritate probabili De regulis pradlicis reiie philo fophandi De regulis explicande veritatis, tu n: viva voce, tum {criptis De Logices redudione ad arithmeticam. ACJA.jpfd/L<rsa SLIOTECA NAZ. Vittorlo Emanuele III NAPOLI DE ARTE  RECTE COGITANDE LECTIONES SEX. DE ARTE RECTE COGITANDI  LECTIONES SEX NEAPOLI EX OFFICINA MICHAELIS MORELLI. PUBLICA AUCTORITATE. IILUSTRISS. AC REVSRftfWSS. VIRO   MATTHjEO JANUARIO  T E S T iE-P ICCOLOmINEO  ARCHIEPISOOPO CARTHAGINIENSI, j  ET FERDINANDI IV REGIS A SACRIS, ET COWSILIIS, AC REGU  AR-CHIGYMSfASII prefecto Q Uct omnia Deus Opt. Max. d  rerum primordiis condidit homini condidit hominemque i~  ppfum alteri homini. Hinc  fit , ut qui ex hominibus majori cura j diligentiaque aliorum quarunt utilitatem, ac praCtpue in literis, artibufquc  provehendis, qua funt cujufque bene conflitutee Retpublics ornamentum, ii exteris  proflantes, jure inclyti habeantur, *f§r-  namque flbi comparent famam. Inter hu-jufmodi viros quinam hac noflra tempeflate  merito adnumerandus, quam tu vir Illuflrijftme, ac Rcverendijftme ? qui ft in exteris dignitatibus Tibi collatis pro tua humanitate, prudentia, juflitia quod Caput 1 cfl, pro tua in omni re liter aria, penitiori cognitione ipfarum literarum, ear umque cultorum Te praflanttjftmum patronum femper prafliteris, tamen ab eo  tempore , gwo //£* Regii Archigymnafli Prx-  fcllura fuit demandata, ita eas, eofque  provexifli } ut fub te uno utrique nati videantur 4 Pro tuo igitur bumanijjimo ingenio, «r me, ac meum libellum   de arte rcSle cogitandi , qui nunc primum  in lucem prodit , ac tibi libenti animo nun-  cupo , rogo excipias optime vale. Neap. pridie non. Ap.iyy'/* \s.LE- DE EXIGUO HISTORIjC LOGIGE  COMMENTARIO ale£tica, qua» eft ars perficienda rationis humana, a  Gracis exorta Zenonii Elea-  ti Parmenidis auditori , 8 c  adoptione filio tribuitur, ut  ex Ariftotele, Sexto Empi-  ribo, & Laertio. Verum Zenonis Logica  reapfe non fuit, nifi ars rixandi * & cavillandi (a) i ex qua Eleatici Sophifta profluxerunt | quorum audaciam Socrates pra- • a 4 ftan- [Floruit Zeno circa olympiadem 79.,  qui juxta Valerium Maximum lib. 3*cap.  3. Nearco Agrigenti Tyranno aurem morfu corripuit . Plutarchus Vero ad verfus 'Colotem fcripfit Zenonem fuam linguam  dentibus amputatam in Tyrannum expuifle. Hujus philofophi principia natura-  lia rejecit LIZIO libro Metaphysico-  autn tertio cap. 4. ftantiflimo vir ingenio, atque morum in-  nocentia Angularis retundens, non aperto marte eos aggrediebatur, .fed quadam  difputandi dexteritate proprios errores confiteri eofdem cogebat. Hinc Socratis Logica tota erat in eo, ut primo vocabula  omnia vellet defjnita, deinde quibufdam,  minutis interrogationibus propofitiones omnes per neceffariam confecutionem ita te?  xeret , donec ad praeceps inconfideratos  adverfarios perduceret. A Socrate quamplurimae philofophorum  familiae profe&ae funt, quarum celebra- [Ante Socratem philofophi JE-  thicae ftudium neglexerant . Hic vero  maximo ingenio , corde , ac fpiritu omfiium primus homines felices reddere curavit. Is enim de anima , de paflkmibus,  d'. vitiis, virtutibus, pulcritudine, deque  hujufmodi aliis, quæ vel cum nobis, vel  cum focietate conjunfta funt , fapientifli-  me difputavit. Adverfarios hironia, atque  induftione refutabat . Xenophon , & ACCADEMIA ejus do&rinam, & vitam fcripferunt.  Irreligionis crimine adcufatos, quia Græcis fuperftidonem deteftabatur , ac Dei bratiffimae, quasque Diale&icam furtimo  cum honore excoluerunt, memorantur ACCADEMIA a ACCADEMIA Athenienfi, Meg a unitatem confitebatur, veneno obiit in  carcere . Quae hujus praiftantiflimi viri  fenfa fuerunt , quo ad Deum , animam ,  res morales , aconomicas , atque politicas leggi poffunt in Laertio. Plato jEgynenfis, Codro ex parte  Patris , & Soloni ex Matre conjun&us,  87. olympiade natus eft . In pueritia in  exercitationibus gymnafticis, pi£lurae,mu-  ficas , poefis , atque eloquentias ftudio operam navavit. Verum cum Homerum le-  geret fe excuflit , ac philofophiac fe totum  dedit . Principio Cratilum, atque Heraclitum, poftremo o£lo annis Socratem audivit, quem in fuis cafibus non deferuit.  Quin imo univerfa ejus bona pro Magi-  ftri incolumitate judicibus obtuLit. Poft  Socratis mortem petivit jEgyptum, deinde  ITALIAM, atque in fchola Pythagorica CROTONE METAPONTO TARANTO REGGIO initiatus. Athenas redux , fcholam aperuit  prope Ceramicum , in quo monumenta  eorum erant , qui Marathone tam glo-  ri ofe occubuerant. Plato moriens fua   bolo   garici ab Euclide Megarensi, Cyrenai-    bona illis reliquit , qui folitudini, quieti,  meditationi , atque filentio vacarent . In-  ter quam plurimos ejus difcipulos recenfentur LIZIO, Speufippus, Xenocrates,  Hyperides, Lygurgus , Demoftenes, atque  Ifocrates* Plato fuit vir divini ingenii,  laboriosus, temperans, agendo loquendoque gravis, patiens, atque urbanus. To-  to vitae curriculo juventutem inftituit,  obiitque aetate 81. Annorum Perfeus Mitridates ftatuarrt, et LIZIO altare elevaverunt. Itemque dies fu» nativitatis  habitus eft facer. Qu* autem de Diale&ica, de rebus phyficis moralibus , politicifque pertra&avit, funt pene divina.  Is fuit Primae ACCADEMIA au&or, cui fucceflerunt Speufippus, Xenocrates, Polemon, Crates, & Crantor, quam deinceps inftauravit Arcefilas, poftremo Carneades , qui  Medi, ac Terti ACCADEMIA principes fue-  runt. Platonis do£irina primum inftaura-  ta fuit fub Augufto, & Tiberio a Theone Smyrnenfi, atque Alcinoo; fub TRAIANO (si veda) a Phavorino; fub ANTONINO (si veda) Pio a  L. Apulejo, & Numcnio Apamenfi: fub Ccmtiaici ab Ariftipo Cyrene Afri es urbe; na- ‘    COMMODO  a Maximo Tyrio, Plut. ac Galeno.Exa£la autem barbarie eam excoluerunt  BefTarionus FICINO (si veda),  Angelus POLIZIANO (si veda) Aretinus Calderinus, Joannes Picus PICO (si veda) Mirandolanus. In ACCADEMIA libris aliquam Trinitatis notionem deprehendifle nonnulli fibi vifi funt.  Sed hac in re videnda eft Joannis Frederici  Meyer diflertatio, Samuel Crellius, Joannes Clericus. Euclides fpiriturri fui magillri non  feq nutus eft, etenim pro morum philofophia, Logicam coluit , ex quo ut in  Laertio ejus auditores di£U funt & Me -  garenjes & Dialctttci. Is Athenas no£lu  ibat tunica muliebri indutus , pallio ver-  ficolore amiflus* caputque rica velatus e  domo fua Megara ad Socratem commeabat, ut ejus sermonum ac confiliorum  fieret particeps . Rurfumque fub lucem  millia pafluum paulo amplius viginti, ea-  dem tunica teftus redibat * Ita A GELLIO (si veda) lib. Euclides enim in arguendo nonnifi conclufionibus utebatur. Qua-  •r$ Eubulides ejus fucceftor multa fophifmatum genera invenit , adhibuitque. At   nato, LIZIO ab LIZIO (e) LIZIO   Diodorus hujus auditor moerore mortuus  eft, quoniam Stilponis argutias refellere  ignoravit , quique Euclidseus fpiritus Europse regnavit inter Nominales, ac Reales;  inter Thomiftas & Schotiftas. LIZIO Macedo Nicomachi ,  ac Pheftiadis filius, Platonem audivit cir-  citer 20. annos, immenfam au£orum. le-  gionem habuit. In Lycaeo fchoiam ape-  ruit abfente Speufippo Platonis nepote. Alexandrum Philippi Macedonum Regis filium docuit . Senefcens impietatis  crimine adcufarur a Sacerdotibus, fugi it . Quo ad ejus mortem alii 0 in  ./Euripum fe praecipitaffe, alii fibi ipli  necem intulifle ferunt. Hujus philosophi opera sunt pene innumera, ut  ex Laertio. Quas LIZIO de historia  naturali, de arte oratoria, de poesi, de  ethica, de rebus aiconomicis, politicisque sunt quippe admiranda. Eidem in Lyc2eo fucceflit TheoDhraftus suus discipulus,  quo mortuo pene filvit , licet in eo docuerit Lycon, Ariston, Critolaus, Diodorus , Demetrius Phalaraeus, ac LIZIO, denique PORTICO a Zenone Cittieo. ' 1 r princognomerito phy (iens. Verum fub Imperatoribus Romanis alias viguit haec doftrina. At illo imperio proftrato omnino  evanuit . Sed iterum Romanorum Pontificum cura poft ^urops barbariem denuo  inftaurata, eam fummopere excoluerunt  Albertus Magnus, D. Thomas, LOMBARDO (si veda), Scotus, aliique. Majori autem cum fucceffu dein culta a POMPONAZZI (si veda), ZABARELLA (si veda), Francifco atque Alexandro PICCOLOMINI (si veda) Senenfibus: Itemque ab Andrea Cassalpino, Caesare Cremonino CREMONINI ROBERTI (si veda), qui Harveo praefuit in  nobili fanguinis circulatione. Hac in philefophia floruit quoque Melan&onius Ger-  manus , qui poftea Nominales  et Reales, variafqne fcholafticorum feftas infe-  quutus eft , Quiq. etiam PORTICO, Scepticos,  atque L’ORTO damnabat. Pcftremo hanc  do&rinam coluerunt Nicolaus Taurellius,  Michael Picartus, Cornelius Martini, &  Hermannus Corringius cum quo LIZIO philofophia corruit.  Zeno Cittieus Mnefii filius aetate  triginta trium annorum Athenas primum   ivit  cipium habuerunt. Verum qua» , aq  qualis fuit illorum omnium ars disputandi: Itemque in quibus laudanda ,sVei  culpanda, licet a propofito non eflet aliecurri , attamen quia hujufmodi exquifitiome ivit, ut purpuram venderet, iliofque tam  celebres viros cognofcerct, quorum libros  perlegerat. Quo cum perveniflet, Cratem  primum, illoque religio Stilponem decem  annos audivit, coluit etiam Xenocratem,  Diodorum Cronum , Polemonem inter»  rogavit , quorum omnium cognitionibus  maxime imbutus fcholam aperuit in PORTICO, quamplurimofque habuit auditores, quos vita? potius honeftate, quam  leflionibus inftituere folebat. Zeno 88  annorum artate occubuit , Artam oratoriam a Diale&ica non dillinxit. Zenonifc  dtfcipuli fuerunt Philonides, Calippus,  Pofidonius, Zenodes , Scion , Cleantes, Ariston Chius Miltiadis ftlius, Herillus Carthaginenfis, Sphoerus, Cleantes Lycius,  Zeno & Antipater Tharfenfes , Diogenes  Babylonius . Apud Romanos ftoica doflrlna in fummo fuit honore. Poft literarum  inftaurationem eam coluerunt Juftus Lypfius me ab inftituto fummopere abalienaret præteritur, atque oculo peregrino reliqua  percurram. Poft hos omnes floruit L’ORTO Arhenienlis, qui Xenocratem, & Pamphilumflus, Gafpar Scioppius, Daniel Heinhus, aliique complures, L’ORTO maximus philofcphus Gargetti L’ORTO in Attica ojfymp.Top. ex Neocle  & Chereftrata editus unus eorum fuit, quos  Atfienienfes in Infulam Samos miferunt ,  Hic puer Matri piaculari praeibat, atque  aliquo piaculo domos conta&as circumibat. Ita Lomeyer de Lujtrationibus. Hoc  exorciftx genus inhonorum erat apud  antiquos. Rediit Athenas decimo fux setatis anno, trigeflmo vero fexro scholam  in viridario aperuit, ibique cum fuis amicis tranquille vixit, Quamplurimos habuit difcipulos, ad quem ex omnibus  Graecia: urbibus confluebant, quocum etiam vitam vivebant, nam L’ORTO dicere folebat, ut ex CICERONE (si veda), de finibus lib:  *• omn r f »™ rerum, quas ad beate vivendum faptentia comparaverat, nihil ejfe amscitia majus, nihil uberius, nihilque ju-cun Ium Platonicos, & Theophraflum Ve-  ri pzcundius. ^Jeque hoc oratione folum , fed  etiam moribus, ac vita comprobabat. Ejus fequaces adeo Magiflro adhasferunt ,  ut etiam mortuus fpiraret in fummailla  tot animorum confenfione fui memoria.  ita Gajfcndus de vita, (y moribus L’ORTO. Philofophia» corpufcularis Epicurus non  fuit au£lor, fed infkurator . Hunc momordit ejus difcipulus Metrodorus, qui ad  Carneadem tranfiit. Etiam CICERONE (si veda) GIARDINO convitiis laceffivit, at ejus caufam dixerunt Alexander ab Alexandro, Cœlius  Rhodiginus, Joannes Francifcus PICO (si veda) Mirandolanus, Marcus Antonius Bonciajius, Palingeniur, Andreas Arnaldus, Francifcus  de Quaevedo, denique Gassendus. Quibus omnibus praefuit ipfe Laertius,  qui fcripfit in ejus vita: nam fan&itatis  in Deos , & charitatis in patriam fuit in  eo affe£tus ineffabilis. Ipfe CICERONE (si veda) de finibus lib. Ac mihi quidem, quod ipse bonus vir fuit, & multi epicurei fuerunt , & hodie funt , & in amicitiis fide-  les, &.in omni vita conflantes , Sc graves, nec voluptate, fed officio confilia, LIZIO audivit . Hujus Canonica sive   b Diamoderantes, hsec videtur major vis honeflatis, & minor voluptatis . Ita enim  vivunt quidam, ut eorum vitam refellat  oratio, atque ut caeteris exiftimentur, dicere melius , quam facere , at Epicu-  rus voluit melius facere , quam dicere.  Quamobrem Seneca de vita beata cap.  2. fcripfit : non ab Epicuro impulfi luxu-  riantur , fed vitiis dediti luxuriam fuam  in philofophiae finu abfcondunt; 8c eo con-  currunt , ubi audiunt laudari voluptatem .  Nec aeftimatur voluptas illa Epicuri quam  fobria, & ficca fit: fed ad nomen ipfum  ad volant, quaerentes libidinibus fuis patrocinium aliquod ac velamentum . Hic in  inultis culpatur, ut ex tot |§ntifque fcriptoribus tam antiquis , quani recentibus .  Maxima vero animi conflantia, qua femper  vixerat urinae doloribus correptus aetatis 67 .  an. 0 lymp.Hic vocabulo voluptatis  juventutem allexit, at in fuis le£lionibus  nihil aliud , quam virtutes , temperantiam,  frugalitatem, bonum publicum, an imi fortitudinem, vita; negle&um , ac voluptates  animi, non autem corporis difcipuios docebat.  Dialc&ica paucas regulas de fermoris per-  fpicuitate , deque reflo ratiocinandi ordi-  ne, quas fophiflis fu aetatis oppofuit,  continebat. Qu*que legi poflunt in Laertio fuo difcipulo, in Stanleyo, in l'hpr  mafio , atque in Bruckero,   H*c de veteribus celebrioribus philosophis , qui Dialefticam vel invenerunt,  vel auxerunt, vel perpoliverunt ad Caela-  ris ufque jEtatem, at fecundo ecclefi* fe-  culo Alexandri* , ad quam quafi ad bo-  narum artium mercatum literati omnes  confluebant , invaluit quadam philofo-  phia,'qu* ccclettlca dicebatur, cujus nobile  inllitutum erat ex fingulis philofophi  fe- Ad ejus fcholam pr*ter 'virbs confluxerunt  etiam muliqp?s celeberrimas , ut Themiflia Leontii uxor, Philenides, Erotia,  Hedia, Marmaria, Bodia, Phedria, neq. ejus cives , neque ejus adverfarii eum vel  libidinis, vel impietatis crimine adcufa-  runt. GIARDINO ORTO Philofophia fine ulla interruptione culta fuit ad Augqflum ufque, LUCREZIO (si veda) eandem collegit . Eandem quoque coluerunt Celfus , Lucianus, &   Diogenis Laertius, H*c phjlofophicum  Ceftis tunc temporis florentibus qimlam  excerpere, quxdam mutare , aliterque exprimere. Verum hsc philofophandi ratio  dofliflimis ecclefias Patribus adeo placuit,  ut ftatim per omnem Chriflianum orbem  fuerit ditfufa. His acceflit , quod ha:reti-  ci quinti feculi Ariftotelads , ac PORTICO  prafidiis abutentes, dolores noftros adgrederentur, qui ut adverfariorum argu-  mentationibus , atque irrifionibus occurrerent, eadem difputandi arte etiam imbuti funt. Dialectica itaque eccle&ica ex PORTICO, atque ex Ariftotelica componeba-  tur, qua2 ufque ad duodecimum ieculum  in occidente fuit tradita , maxime quia   b z B.. cum ROMA sepulta iterum revixit initid  feculi decimi feptimi, atque ignominia  formarum plafticarum alias atomos in pri-  ftinum fplendorem alii reponunt Magnarius  Luxemburgenfis edidit primus ejus Demotritum revivtfcentem, Magnano fucceflit Gaffendus vir pradlantiflimo ingenio  an. 15P2. Poft Gassendum coluerunt raolierius, Bumerius,.‘Vandomus, Bovillonius, Catinat, Polignac itemque abbas  Gennet,Fontauellius aliique quarn plurimi, viri. Aliguftinus fuis difcipiilis eam commendaflfe fertur. Seculo autem duodecimo ScholalHci?fivt Chriftiani occidentales LIZIO libros  ab Arabibus versos, ab iifdem interpretatos accepere. At hi nimio rixandi ftudio  du&i Logicam, ac Metaphyficam fatis  quidem obscuras atque IMPLICITAS novis  subtilitatibus, novifque quseftiunculis ac  laqueis foedarunt. Etenim cum linguam  Grxcam ignorarent , Ariftotelem neque  legere , neque interpretari poffent , ejuR   dem  VALLA (si veda) Roriis natus.  anno quinquagefinio suæ statis occubuit . Is incultam fermonis barbariem elegantiarum libris dsfasdare curavit. Ut  ex Jovio. Natnra mordacilTimus CICERONE (si veda)  vellicabar, LIZIO carpebat, VIRGILIO (si veda) fubfannabat , uni tantum GIARDINO af-  furgebat. Hic cum pauca in Logica fui  temporis animadvertilfet, adverfus Magiftros fe fe offerebat , ac planum diceret  nullam efle Logicam, prater Laurentianam. In libro de voluptate, ac vero bono GIARDINO .adhaefit. Hic omnium primus  philosophiam ex pyriffimis fontibus, non   ex dem Utiliora neglexerunt, fophiftica duntaxat amplificarunt. Scholaftici itacjuc LIZIO denominati funt, & denominantur, licet eorum pauciflimi LIZIO legerint. Hujulmodi Logica futnmo in  honore habita fuit ufque ad feculum XV.  illiufque veftigia etiamnum manent in  quamplurimis Monacorum familiis.   Verum initio decimi fexti fcculi, primum VALLA (si veda) et  Agricola, dein*   b 3 de   ex lutulentis rivulis falubriter hauriendam  effe docuit , explofa penitus fcholallicorum difciplina, qui tunc temporis prin-  cipatum obtinebat. Rodolphus Agricola apud Frifios ortus Hic enim tanquam athle-  ta multa tulit, fudavit,& allit abftinuit-  que venere, & vino, ut magis magifque  literis vacaret. Poltque Parifiis, et Ferrarii Gricam, ac LATINAM LINGVAM comparavit, reliquum itatis partim Hebdcrbergi, partimque Wormatii duxir. Pofl:  ejus mortem Lovanii editus fuit liber  temeritate judices concuffi , irrito conatu  per diem integrum imagiftramvt fuit i ut  barbari barbare vocabant. ItaFreigius in  vita Petri Rami. Scripfit inftirutioves Logicas, atque in LIZIO trviniadverfhnes, Ex Triumvirali fenrentia ejus libri  damnati furtt. At paulo poft Diaia&tcx,  atque eloquentia Cathedras obtraurtTTandem in S. Bartolomad praelio occifus eft. Baco magnus Cancellarii  fub Jacobo i. unuseorum eft qui ora*  nes perfefliones, atque imperfectiones  fcholaftica; philofophiae cognovit, oftenditque: itetftque vehementi (lime laboravit  pro ea perficienda. Hujus traClatio de aug-  mentis ferendarum eft perquam utilis Literarqmafliduitate dx ditiflimo obiit pauper. In fcientiarum organo do  rebus Logicis difertiflime difputavic, in  quibus modum optime conficiendae Induclionis difleruit, cum AriftotelicI methodum docerent conficiendi fylidgifmi . Quo   in  mas Hobbefius, qui licet luam  Logicam computandi anem infcripferit,  verum tamen ut caeterae illius temporis  fcholaftiGa garrulitate etiam fcatet. a Poft hos meliori methodo atque acriori ingenii acumine de Logica egit  Cartesius vir doctifiimus y cujus  libellus de methodo rationis rettc dirigendae,  inquirenda in J cientiis veritatis eft valde praftans. Etenim is primus fuit, qui.  conculcatis vetuftiffimis au&oritatis praejudiciis  ad veritatem inveniendam aljos  excitavit • Itemque non ex aliorum judicio, virum ex propriis viribus omnia explir in opere o&odecim annds confumpfit. Hic  unus novae philofophue praxurfor fuit. Hobbefius Malmesburii ornis pfiuja aetate piaxiraos habuit progreffus in linguis, quinquennio philolophiae scholafticae operam dedit. Deinde  ITALIAM, ac Galliam peragravit. Tucididem in linguam artglicam vertit, ut fbtus Democratici conftifiones notaret. Lutetiae an. i) Lockius Vyrigton prope  Briftblium natus an. i6p. prima literarum rudimenta in Collegio Oxfortenfi,  accepit, quaque illi eide tn -puerilia vifa  funt. At Cartefti opera illum acuerunt. A Cartefii operibus ad medicinam tranfir,  qua de re anathomen, hiftoriam naturalem, atque chymicam comparavit. Peragravit primo Germaniam ac Pruffiam,  deinde Galliam atque ITALIAM cu«l Comite Noftumberlando-Heflico morbo  correptus Galliam venit 1 qua benigne  exceptus fuit » Vix ad Angliam redux y   Babris anglice editis artem cogi-  tandi comprehendit. Hos Petrus Coste  in Gallicum sermonem , Burrigidius vero  IN LATINVM VERTIT. Lockius enim fummo mentis acumine rerum caufas rimatur, vires humana rationis computat, denique Logicos docuit qua via (e explica-  ripoflent , neque erubefeere fe nefeire,  quod reapfe ignorant. Cartefianos aggreditur , ac difputat omnes ideas vel fen-  fuum ope , vel meditatione oriri:  Ostendit quo pa&o unaquaque idea adquiratur: 3. Diligentiffime artem criticam  expofuit. Poftremo de humana cognitione, de veritate cujuslibet generis, de ratione, de fide , ceterifque aliis fufe lateque pertraftavit. Attamen reprehenditur. Bataviam petivit, atque ab Anglia rege  requifitus ire noluit. De Intelle£lu humano  librum confecit, quem edidit:  rure compofuit librum de Imperio civili , in quo tyrannidis injuftiriam expofuit: eoque in loco compofuit prater librum de puerorum educatione , etiam aliquas epifiolas, ac Chriflianifmum ratiocinatum, quo in libro Rationis vires nimium, Quod faepiffime eadem magno  verborum adparatu repetat. Quod quædam inutilia addat: Quod exempla neceflaria omittat, Quod libertatis arbitrium non re£le explicuerit. Ex Lockii Schola Joannes Clericus praeftantiffimus philofophus prodiit, qui univerfa judicandi prscepta ia fu a arte critica complexus cft. Nam 1. de ideis. de judiciis, ac propofitionibus: de methodo, poftremo de argumentatione ac  fvllogifmo difleruit.   Poft Clericum mariotte Gallus doflif  fimus vir Logicam duas in partes divifam edidit, quarum altera in quibusdam  propofitionibus evidentilTimis verfatur; altera vero qua via ex praemiffis propofirid mium y quam par eft, praedicat, vitamque sternam iis offert, qui Chrifto credunt, legemque naturalem exercent. Occubuit num materia poflit cogitare , conatus eft oftendere. At quid in-  tereft utrum materia fit cogitans, nec nej?  Quid enim intereft, fi medtis human®  fimplicitas in tuto collocetur ? Fortaffe  ipfa efficere poffet, juftitiam injuftiriamve  noftrarum a&ionum , noftram futuram felicitatem , veritatefque fyftematis politici ?.  1  tionibus alis deduci re£te poflint , perrra£lat. Culpatur primo quod de veritate probabili, deque arte critica nihil dixerit ;  Itemque quod ratiocinandi artem confufe  tranaverit \ quod omnium errorum cau-  fas non patefecerit,   Quod in Anglia Lockius, atque in Gallia Clericus, ac Mariorte, identidem in Germania fecerunt Chriltianus Thomasius, Eeibnitzius, Wolfius,  aliique complures. Primus enim fine prateriti feculi introduttione ad Philosopbiam  Aulicam, Dialecticam a nugis, atque er-  roribus , quibus eam maxime infufcaverant fcholaftici , emendavit . Id quoque  fecit Andreas Rudigerus etiam Germanus  in fua pbilofopbia Syntbetica , atque in  libello de fenfu veri, ac falfi. Id ipfum   dici » i ' {q) Leibnitzius Lypfis natus in Saxo-  nia editus elt in lucem ex Schmuch , illi prae-  mortuus pater a matre fuit inftitutus .  Vix ex Ephebis egrelfus maximam librorum copiam, quam eidem pater relique-  „ rat , legit, at «cognita magiftri indigentia, ad Thomasium omni in re literaria,  io  dici poffet de Francjfeo Buddaeo, de Leibnitaio >(q) , Chriftiaoo Wolfio, deque  aliis pene innumeris , de quibus verbum  nullum addam , ne propofita: brevitatis li-  mites praft^iantur. His omnibus accenlendi denique lune  præclariflimi viri Antonius Genuenfis (GENOVESI, si veda) neapolitanus noster præceptor maximo vir  ingenio, ac per quam longa meditatione,  ac lectione contritus aliaue. fortuna dignus,  Aloysius Vernejus Lusitanus, Sorias Pisanus PISANO (si veda), Salvator Rugerius (ROGERIO – si veda), atque Angelonus P. Cœlestinus (CELESTINO – si veda) ambo Neapolitani. Quorum omnium opera amo, atque excolo, primum ob rerum gravitatem , fecundum ob methodi claritatem,  in tota Germania infignem avolavit. Sub  tanto præceptore historiam, & Politices  artem calluit, Peragravit deinde omnem  Germaniam, atque ITALIAM pro describenda Ducum Brunswifcorum hiftoria. Cum rediiffet Codicem Juris Qentium diplomaticum edidit..  ejus vita legitur m Kortholt, Eckard,   » s   tem , k SERMONIS LATINI nitorem, Pifanum ob methodum, atque præcepta Logica, alium praeter res, etiam OB LINGVA LATINA ELEGANTIAM postremum propter ejus methodum darifliraam. VMnis humana perfe&io ab officiorum, & virtutum adcurato exercitio unice pendet. Verum nulJum eft officiorum, ac virtutum laudabile  exercitium, nifi a natura: notitia, ejufque.  auftore, qui eam ad proprium dirigit finem: haec vero rerum Iatebrofarum cognitio. eft laborum, ac speculationum profundiffimarum fru&us, quæ, rationem requirunt omni ex pane illuftratam. Ratio  autem est quaedam ip homine vis y five  facultas, qua 8c noeram, & aliorum corporum exiftentiam, eorumque relationes  cognofcimus ; qua fumus liberi; qua alia  feparamus, aliaque conjungimus; qua praeterea a quantitatibus cognitis ad occultas incognitas pervenimus; ac idearum, $c  judiciorum feries neceflario vinculo conne£timus: & qua, SIGNORVM ope , noftra  intimiora animi sensa ALIIS COMMVNICAMVS, errores cognofcimus, veritates detegimus: qua denique juftum abinjufto, bonum a malo, honeftum a turpi facile decernimus, Haic vis, quaecumque illa fit,  dum vivimus ex sensuum applicatione oritur; experientiis, atque obfervationibus  augetur, Audio vero Logices perficitur. Ex  quibus fane concluditur, Logicam elfe fummo emolumento iis omnibus, qui vel fe  ipfos , vel alios perficere curant , Cum igitur mihi propofitum fuerit ipfam juven-  tuti enucleare , refla via ac ratione  proceflifle arbitror, fi primo de mentis  humanae operationum ortu , ac progrelfibus, tum DE SIGNIS, quibus eas aliis explicamus; deinde de errorum, ac veritatum fontibus, atque augmentis pertractaverim. Haec vero omnia quatuor leflionibus compleflar: quarum prima: duae do-  centem, dqae vero poftremae leflioqes Lo-  gicam utentem., yt ajunt , cohflituent.  Quibus ultimo loco accedet de Logicas  redu&ione ad Arithmeticam breviflima  leflio, ut a Dhfiefttco fupputandi necefi  fitas agnofeatur. LE- DE ORIGINE OPERATIONUM RATIONIS  HUMANÆ, E1USQUE MAXIMIS  PROGRESSIBUS. Illud quidem maximum efl, »g/a   animum videre. CICERONE (si veda) Tufc.t.   Quibus partibus confiet homo.  'X omnibus animantium  generibus nobis ufque ad-  huc cognitis, unus homo  vi fuz rationis ceteris  praftat , quia hujus fa-  cultatis beneficio non modo feipfum, fed  infinita quoque obje&a exteriora cognofcit. Etenim diutina corporum imprefiione in fuos fenfus, eorum exiftentiam primo intelliglt, deinde mentis meditatione  illorum adtributa, qualitates, 8 c relationes comprehendit. Itemque natur* leges,  rerum ordinem rimatur: rerum praeterita-  rum recordatur, eafque cum praefentibus  conjungens, futuras pr*fcit, ac veluti. intuetur. Quid multa? ad propriam felicitatem  contendit, proprise exiftenti* principium  mundique conditorem fk intelligit, & colit.  Hanc maximam ac pene divinam rationis  vim mihi delineare nitenti , vifum eft,  primo idearum originem enucleare, tum  quo paflo eajdem vel inter fe, vel cum  aliis pofltnt combinari. Sed priufquam ad  h*c perpendenda aggrediamur, de hominis partibus paucifiima dicamus. Principio infunt in homine par.  tes, quas videmus, dividimus, contremamus, dimetimur; quaque funt extenf*,  relilleffres, mutabiles. Verum haec, atqu$  ejufmodi alia corporis funt adtributa . Homo itaque ex corpore conftat,  Infuper quilibet homo quodam vehementiflimo natur* impetu ad veritatis  mfrxime utilis ftudium, ad bonum com.  parandum, ad malum declinandum ducitur. Rurfus ordinem, pulchritudinem , perfeftionem amat; eidemque jullitia , honsr   flas,  De mentis aftibus . 5   flas, libertafque placet . Praterea flepe magno  animi mrcrore angitur, eodem tempore quo  elt omni ex parte fanus. Contra quandoque ell hilaris, licet ejus corpus maximis  cruciatibus torqueatur. His omnibus accedunt tot abftraftiones, atque alienatio-  nes invita:, tot rerum peregrinarum inventa, tot artes, tot difciplina. Qua: omnia  ronnifi ab homine prorfus hebete, ac veluti plumbeo, materia: folida, atque in ertiflima: tribui poflunt. Quamobrem homo corpore, & fpiritu conflat.  Quod (i quis ulterius urgeret , ac  diceret , hominem ex fola materia conflari; quaererem ab eo : unde tanta cogi-  tandi vis , tanta agendi libertas, tantaque  rerum etiam abditiflimarum fcientia? uflde tanta fciendi, dominandique cupiditas?  unde denique tanta fenlationum contrarietas, a&ionum oppofitio, virium interiorum pugna, tot tantique confciefni» laniatus. Ex quibus omnibus planiflime deduci arbitror: primo hominem ex corpore, & fpiritu conflari: errafle eos, qui  vel solo corpofe, vel uno fpiritu ipsum  conflare crediderunt: eos quoque fuiffe deceptos, qui fpiritum ipfius Dei modificationera , vel particulam efle fcripferunt .  Qua autem ratione fpiritus io corpus , corpus vero in fpiritum agat , & in-  ter fe mutuo pene colloquantur, ac fe intelligant, omnino ignoratur, ficuti etiam igno-  ratur in qua corporis parte animus loca-  tus fit. Cordatiflimorum quippe virorum  hac de re opinio eft pro capite. At amotis his tricis, quseraraus feria, atque ad  propofitum accedamus.  XUifque Icit omnem cerebri  raaffam per concavum fpinas  ufque ad ejus os facrum protendi. Quifque etiam Icit ex hac mafla  telam nervofam oriri, qua: fenfuum texturam efficit. De quibus mox.  Senfus igitur efl: quadam animi vis , qua corporum externorum impreffiones fentimus. Verum latiore SIGNIFICATIONE fenfus omnem vim mentis exprimit, qua objeciorum exteriorum ideas,  sive simuhcra, sive fpecies, sive idola De mentis aftibus. 7   concipimus, five quicquid interius fentimus . Primi generis fune ideae omnium  rerum, quas vel videmus, vel tangimus,  vel audimus. Secundi vero generis funt  omnium voluptatum, ac dolorum ideae.  Ex quibus intelligitur, fenfus vel  esse interiores, vel exteriores. Exteriores funt  quinque notiflimi, quorbnl quatuor fedes habent peculiares, unus vero tactus efl in toto  corpore diffufus f imo & reliqui ad hunc  folum reducuntur. Interiores autem fenfus  funt totidem alii , fcilicet memoria, temperamentum, pajjiones, attentio , ac denique fenfus moralis* Senfus porro tam interiores, quam exteriores in omnibus lio»-  minibus diflinguuntur; etenim omnes par-  tes folida: , ac fluid* in quoque homine  toto cado inter fe funt diverbe, varieque  complicatae. Quid multa? In eodem homine temporis progreffu omnis flru&ura  muratur. De fmgulis, 8c primo loco de  exterioribus. Vifus efl fenfuurti eminentiflimus,  nam vis vifiva ita requirebat, cum ipfa  fit orizontis extenfioni proportionalis, &  propter hominis .indigentias efl duplex. Oculi funt duo globuli, tribus praecipuis  tunicis fepti , quarum concavitates totidem A 4 humoribus replentur , adeo denfis , ut lucem refrangere poflint. Hujus autem  refraftio ita a natura comparata eft, ut  in oculorum fundo, five retina objeftorum inverfas pingat imagines. Qu« porro a nervo optico excepta, ignoto nobis  modo, in cerebro, non folum imprimuntur fecundum reales corporum magnitudines, figuras, fitus, colores, fed quoque  diutiffime in ipfo cerebro, quin deleantur,  impreflse remanent. Cum autem in omni animantium  genere, maximeque in homine iapfu temporis hujus organi figura, humoruni den-  iitas , atque ipfa fibrarum textura mutetur, inexplicabilis ideo eife debet videndi  differentia. Qua: omnia fi quis adcurate  fupputaret, univerfam vis vifiva: quantitatem habebit. Auditus eft alter senfus duplicatus, in auribus fitus. Auricula exterior  pro aeris undulationibus, ex corporis fonori vibratione produ£tis excipiendis, infervit. Hic aer tamquam in infundibulo  tortuofo receptus tympanum ingreditur, atque ex hoc tranfit in labyrinthum, cui  nervi acuftici adharent, quorum ope ufque  ad cerebri fibras communicatur corporis De mentis actibus. £ fonori fremitus, qui etiam ignota ratione  in nobis ideam foni excitat. Qux cum ita fint , patet quod  pro defipiendo foni gradu , fupputanda  eft primo corporis fonori elafticitas: iftus quantitas: obje&i fonori diftantia. æris reflftentia : denique ipfius or-  gani a&ualis ftatus.  In naribus porro eft odoratus ;  quae quibufdam nervulis capillaribus velli untur, ab ipfo cerebro produ&is. Scitur  vero ex corporibus fetidis , atque odorir maximam effluviorum copiam continuo  exhalare, qua: aerem circumvolant. Scitur etiam , quod ejufmodi particulae infenfiles narium nervulos olfa&orios vel-  licant, ex quibus excitatur in cerebro odoris, vel fetoris fenfatio. Hujus senfus propterea vis habetur ex effluviorum numero, eorumque impetu , ex fucci nervei fubtilitate, atque ex  fibrarum cerebri elafticitate.  Quam proximus odoratui eft guJius, in lingua, ac palaro fitus. Lingua  enim eft fuperius te£la quadam membrana quaqua verfus iqnumeris foraminibus  repleta, ex quibus innumerabiles papilfe nerveas taftui rigidae fe produnt. Particufe \x falinas, oleofas, fulphureas, aliaeqige  quamplurima: in cibis contentae iftos nervulos titillant, ex quibus rerum fapidarum,  vel infipidarum idea in tlobis excitatur. Gradus hujus fenfationis fupputatur: i. ex particularum numero, &  qualitate, 2. ex noftra naturali, & momentanea difpolitione. Tandem taStus in omnes corporis, tam interiores, quam exteriores partes eft diffufus. Medulla enim oblongata  inter colli vertebras , & fpinas lateraliter  nonnulla nervorum paria protendit, qui  v in omnem corporis fuperficiem propagan-  tur, atque ita mirabiliter inter fefe ordiuntur, ut portentofam membranas reticularis telam efficiant. Hinc evenit, quod  quaslibet impreffio,quas in hac fit,ftatim  cerebro communicatur, atque imprimatur  idea corporis exterioris. Ad hunc fenfum  referuntur omnes fenfationes frigoris, caloris, gravitatis, afperitatis, &c. Vis hujus fenfus habetur ex, vi  premente, atque ex noftra aquali, & naturali difpofitione. Hujufmodi eft fabrica fenfuum  exteriorum, quos vulgus multiplicatos vellet, atque etiam perferiores. At fi sensus eflent etiam centum, attamen humanat  mentis operationes eflent ilis ipfe, quas  modo habemus, nam fenfuum multiplicitate  non augerentur, verum fola idearum sphoera  evaderet major. Quantum vero ad horum  imperfe&ionem, eft quoque inepta quere-  la , nam fx fenfus eflent perferiores , illa  ipfa ratione, qua voluptatum numerus  fieret major, eadem quoque dolorum copia fieret numerofior « Nefcimus igitur  quid petamus. TpXpofita hominis parte exteriore , perpendendum nunc  eft ejus interius mirabile magifterium,  quod fummopere in cognitiones , atque  in aftus humanos influit. Senfus interiores funt memoria, temperamentum, paffiones, attentio, ac fenfus moralis. De  quibus quambreviter ad Tyronum captum  verba faciam. Univerfa cerebri maflfa duas in  partes difpefcirur, quarum altera cerebrum, alterum cerebellum nuncupatur.  Haec fubftantia mollis infinitis peno cellulis , five flexionibus repletur, in quibus, modo nobis incognito, non folum imprimuntur, fed quoq. retinentur objectorum exteriorum imprefliones, cum eo-  rundem relationibus, etiam abftra&is, &  perquam longo ordine implicatis. Mihi  fufficiet duntaxat velle , & itatim in hac  fubftantia imagines canis, bovis, equi,  domus, navis, exercitus &c. diftinCte intueor. Itemq. hujufmodi ideae tanta vi  imprimuntur, ut iis licet femel vilis, recorder tamen cujufq. magnitudinem , co-  lorem , litum , dimenliones , & cetera. His accedit , quod in hac mirabili cerebri fabrica, manent non folum  obje&orum ideae hefterna die mihi obverfatae, fed etiam illae, quae olim meam  pueritiam profperam, hilaremque reddide-  runt. Itemq. in ea pilae celeritatem, teftudinis tarditatem, ignis vim , vulpis vafritiem , Sinenfium vanitatem, a1 iaque infinita quafi lego. Quid multa. In hac una tanquam in libro diftinCtiflimis characteribus obfignato tot philofophicarum meditationum feriem, tot  fyftematurn abfurditates, tot imperiorum  yiciflitudines, uno verbo univerfos humanae rationis progreflus , & natura ipfius  revolutiones pene intueor. Haic vis , quaecumq. illa fit , memoria nominatur: I-  pfaq. crefcit, decrefcitq. in eodem homine; fere femper in fene£lute debilitatur,  & nimia morborum vi etiam prorfus ammittitur, ut ex hiftoria. Temperamentum eft folidorum ,  ac fluidorum conftitutio, quae fere in An-  gulis hominibus differt. Ex hoc facile  enodatur, cur ex hominibus alii funt obtufi , torpidi, ac lenti ; alii contra a&uofi, violenti, iracundi. Itemq. dantur ho-  mines fere femper hilares , feftivi, &  laetantes ; alii contra taciturni, maerentes,  triftefque. Denique funt 8c qui facillime  omnia, ac clare intelligunt. Sunt alii,  qui pauciflima, & obfcure concipiunt.  Unde haec tanta varietas, nifi ex varia  folidorum, & fluidorum permixtione. In quamplurimis porro fibra  funt debiles; in aliis vero refiftentes. I-  temque dantur fibra magis, vel minus  elafticac, magis vel minus molles, ac caedentes , atque ex vafis alia funt latiora ,  alia mediocria, aliaque anguftiora. Quibus pofitis, fequi neceflario deber, fluida  non poffe in omnibus a*que circulare. Ex quo intelligltur dari cfiverfa temperamentorum genera. Datur ideo cbolericum sanguineum , melancholicum, O phlegmaticum  in hominibus temperamentum.  Et quoniam in fanguineis fluida  aequabiliter cwrunt, ideo funt hilares, aperti, fecuri, eloquentes, benefici, urbani, intrepidi. At quia in cholericis fluida  funt fubtiliora, & vafa apertiora, idcirco  cholerici funt celeres, impetuofi, iracundi , ambitiofi, atque ad vindi&am pro-  penfi. Temperamentum melaocolicum  eft fanguineo inferius. Etenim melancoli-  ci funt lenti, taciturni, acri ingenio, acrique judicio. At omnium lentiflimi funt  phlegmatici , ob eorundem fluidorum  fpiffitudinem, & vaforum anguftias. Hinc  fit, quod phlegmatici funt vultu triftes ,  tardi, timidi, diffidentes, avari, obtufi,  denique in virtutibus, $c vitiis mediocres. Quicunque igitur omnem terrae  fuperficiem mente perluftraverit, generarim  inveniet, primo climata frigida homines  modificare ad temperamentum phlegmaticum, calida vero ad cholericum : deinde  inveniet in quam proxime frigidis homines effe melancholicos; in quam proxime calidis efle fanguineos. Verum hac in genere. Nam indifcriminattm ubique locorum omnia temperamenta dominamur.  Quin imo in ipfo homine, eademque familia notantur diverfa hominum temperamenta. Quae cum ita fint, fenfationes non  poliunt elfe easdem in omnibus hominibus , & ne in ipfo quidem homine, Pajfiones, five affe&us, iive perturbationes, five quodvis aliud vocabulum  adhibeas, funt quadam animi commotiones ab objeflis exterioribus excitata. Ha*  rum omnium fedes eft in corde , quo4  nervorum ope cerebro adhaeret, Partiones  licet multas, ac vari®, omnes tamen totidem amoris fui ipfius funt modificatio-  nes ac veluti reafliones, quarum unaqua-  que in noftras ideas, & judicia maxime  influit. Verum partionum vis , atque energia a tyronibus facilius fentitur, quam iifdem explicari poflit. Quartus fenfus interior eft atten-  tio, qua nihil aliud eft , quam quadam  infita mentis occupatio in objeSo nobis  cognito. Ex quo ftatim intelligitur, quod  attentio fit quadam vis obje£H impreffione anterior, nobis a Deo data, ut minutim rerum qualitates explorare valeamus. Hinc etiam intelligitur, attentionem, efle quandam mentis energiam, qua; vel  in toto objefto, vel in aliqua ejus parte  occupatur, ut illius ideam adsquatam habeat. Attentionis vis eft in ratione com-  pofita tum indigentiae prsfentis, tum temperamenti, atque educationis : Itemque  attentio varia eft pro finium diverfirate Denique fcnfus moralis eft quaedam anterior animi difpofitio, qua, fine  ullo magiftro turpia ab honeftis, bona a  malis, folo natur® impetu, diftinguimus.  Eadem igitur ratione , qua quis dulcia  potius, quam amara guftat , ita honefta  & bona potius confequi, quam turpia, 8 c  mala amat. Hsc animi humani vis eft  phyfica , ac veluti mechanica, ipfoque  Rationis prscclaro lumine multo anterior , & vividior, atque ex fe ipfa  explicatur in quolibet homine. Hinc pene infinita hominum multitudo beneficentiam, & juftitiam amat, earumque oppo-  fita deteftatur, etiamfi ignoret in natura  inefle quandam vivendi normam omnibus  communem, conflantem, sternam; quam  quifque fine magiftro fcit, fine interprete  intelligit, fine coailione fequitur : quaque  denique omnes pueri, adulti, urbani, fyi-  , veftrefque homines, ut oculis, ut auribus,  ut guftu libere utuntur. Ex hoc fenfu oritur in quovis  'homine illa probitas, qua: ingenita dicitur , quasque lenti tur ab omni humana  coniideratione, a qualibet rationum fubtilirate, a praemiis, atque a poenis iplis femota, ac diftintia. Ex di&is clarilTime intelligittir, animum percipere bonum, & malum cum  eorumdem gradibus non dillimili ratic-  ne , quam qua colores intuetur, harmoniam concipit , odores lentit , pulchritudinem diligit, & abnormia deteftaiur.  Ex ditiis quoque colligitur , hunc fenfum  effe univerlalem, reliquofque completii ,  nam ex unoquoque fe inflruit,ut de objettorum exteriorum bonitate , ac pravitate dijudicare poflit . Haec de lenfibus tam exterioribus , quam interioribus, qui veluti totidem fenfationum animi fulcra , ac fundamenta habendi fuut . Qua: omnia , nifi  quis diltin&c comprehenderit, nullo pa£lo intelligcre poterit , quid ex tot tantilque obje&orum imprelfionibus animo  ipfi contingat, ut ex fequentibus clarum  erit. De Animi Scnfattonibus,  OI ne objeftis exterioribus nullap  eflent in homine fenfationes,  & fine his nulla in eo eflfet fcientia, vel  ars. ScnJ 'ationis nomine hic venit illa interior animi commotio , qui ex corpo-  rum prifentia, five preflione in nobis ex-  citatur . Cum autem fenfationes fenfuum  numerum, Sc difpofitionem fequantur, fecundum eorumdem ordinem explicabuntur. Si quis autem quacfiverit, Utrum idei , Sc fenfationes fint ejedem,  vel diverlse : Num fenfationes, quas  animus ab objeftis excipit fibi ipfi , vel  objectis fint confom : Ex quo oritur  tanta impreflionum vis, atque impetus:  Quare inter fe non confundantur tot  fenfationes , & fibrarum fremitus, qui  animum concutiunt: Tandem quo pa£Io easdem nofiro arbitratu comparemus,  cum ipfi non fint , nifi totidem cerebri commotiones , & rea&iones ab ipso  animo difitinfl® : ex quibus omnibus, aliifque tandem is concludit.• fenlationum De mentis anibus. i»   ertum , earumque progrefTum , & varietatem inexplicabiles nodos continere  Principio fenfationes vifu defini-'  tx non verfantur , nifi in corporum figuris, coloribus, magnitudinibus, diftantiis,  & motu determinando. Preliis enim o-  cuhs ex luce a corporibus reflexa, fenfa-  tio fecundum vim prementenj , atque ocuh flruauram modificatur. Ex his 'pref.   1 lombus in nobis attentio excitatur, qu  primum de noftri exiftentia, deinde de  objecto exteriori nos inftruir. Tum an  prefliones lint nobis confentanea, necne  ex quibus denique fenfationes grata vel  molefla eruuntur , atque ex his volupta-  tes , vel dolores producuntur: qua postrema non folum animi, fed etiam omnium e ju felem deliberationum fulcra ac  vires motrices habenda funt. Secundo animus ex una in aliam  fenfationem tranfir, id elt ex voluptate  m dolorem, atque ex hoc in illam ex  quo tranfitu, 8c cenationis; & Jurationis  lenfationes adquirit. Cellatio itaque efl '  dolorum ,. vel voluptatum fufpenfio; du-  ratio autem ell horum continuata fuccef-  Ex ejufmodi fenfationum vel fufpenfione, vel alterna fucceflione oriuntur in  nobis defdcris , & detcflationes . Quia ubi  voluptas, vel dolor , ibi attentio . Itemque ubi fenfatio nobis confona ; ibi voluptas ; ubi fenfatio nobis diffona , ibi dolor . Amamus autem voluptates, dolores  odimus. Ex primis igitur oriri debent desideria erga voluptatum objeela; atque  ex fecundis deteflationes erga dolorum caulas . Quapropter defideria , atque abomi-  nationes ex fenfationibus ipfis pratentibus  cum praeteritis germinant. Senfationum  itaque memoria noftrum fpiritum, tum  ipfiufque progreffus excitat. Sed ex quo  fenfationum memoria. Quum ab aliquo objefto procul   abfumus, ipfum neque flati m, neque totum ex animo deletur , nam pro ut at-  tentio fuerit major , vel minor , diutius  in animo ejus imprefiio remanet. Memoria igitur ex attentione , Sed ex quo attentio ?   Ex di£lis , nulla memoria fine  attentione. Nulla autem attentio fine indigentiis, vsl noflris,vel alioruui. Item-  t|ue quilibet homo jugiter eget, alias non  confervatur. Ergo quilibet indiget, ut  ,fc tueatur , necdfaria fibi comparet , no-  De trientis risibus. ' '  citura declinet: verum neutrum fine atternione obtinetur, necefiitate itaque ha*  mo eil attentus , adfcoque fublata attentione, nulla hominis dari poteft tuitio;  & eontraquc remotis omnibus indigentiis j  nulla in eo attentio. Denique memoria differt ab ifriaginatione, I.-Quia memoria efl: imbecil*  la , vivida imaginatio. Prima locum  habet arque in rebus abftraftis, & materialibus, altera vero in folis corporeis . 3. Vis  memoris ideas ordinate unit, i magi natrix  autem eafdern unit difpares, confundit &  difiociat fimilares.4. Tandem memoria ex  a&uum repetitione & fit, & corroboratur;  imaginatio ex fola natura oritur.  Ex huc ufque expolitis, fequitur r.  Animum humanum variis habitibus posse imbui, ut (impliciter fentiendi , & fen*  tiendi tam voluptates quam dolores, de*  fiderandi , abominandi , reminifeendi , ima*  ginandi. Sequitur 2. Mentem ab uno fenfii  tot habitibus imbui , quot ex quinque  imbuitur . Qui non alia de caula nobis  multiplicati funt, quam pro fenfationuni  multitudine augenda.  Sequitur Univerfos mentis habitus effe totidem attentionis ac defideriorum gradus diverfos.At fenlationes, ac  defideria ipfa non funt, nifi totidem merse fenfationes, videtur itaque quod quot  quot funt mentis a£lus , omnes ad lolas  fenfationes revocari poflint.  Sequitur denique 4. pro omni  mentis humana: energia enucleanda fuffi-  cere unum fehfum , minime vero depravatum , ut clarius ex fequentibus fiet. Auditus fonos percipit , quin ad  majorem, vel minorem obje&i fonori diitantiam advertat . Initio quilibet amat  fonos fimplices , poftea etiam maxime  compofitos . Identidem de odoratu dici  poflet . Guftu eafdem facultates , ac vi-  res adquirimus, quas vifu, auditu, atque  odoratu comparamus. In faporum multi-  plicitate vix unus & confufe fentitur. Hic  fenfus eft cseteris charior , nam pro vita  fufti nenda unice neceflarius . Tametfi homo videat, audiat ,  contre&et, itcmque odores ,& fapores fen-  tiat, verumtamen harum omnium ortum  ignorat. Deinde etiamli ta&us ex reliquis  fenfibus minimam habeat vim, homo ta-  men omnis omnino ta£lus fenfationis expers,    De menti s aElibus . 25   pers, non poflet vivere. Ita fere fenfuum corporis EXPLANATA analyfi , fenlationumque natura , ac  varietate expofita , ordo poftulat , ut de  prajcipuis mentis humanne a&ibus aliqua  dicamus.   Dtf mentis aftibm in genere .. T)Rinium Perceptio , five a/mt,  X ell primus mentis a£Ius , quo  fenfuum ope corporum externorum exiftentiam,five impreffiones fentimus: Hinc  fenfatio, idea ,  quomodo in neceffitatibus  invocarunt, quaque ratione iratum pla-  cabant. Itemquc notau funt tormentorum De mentis attibus, 4 j   genera , atque execrabiles formula:, qui-  bus impii excruciabantur . Contra qux  vitx honeftas , qux morum innocentia ,  qux jullitia , qux pietas pro futura feli-  citate confequenda requirebantur. ScimuS  denique ex ipfis tot populorum prxjudi-  eia, fuperftitiones, deliramenta , abfurdi-  tates, foeditates, aliaque innumera puerilia , qux Dei cultum vel foedarunt , vel  deflruxcrunt.    Secundo quantum ad naturx hisloriam , eidem debentur aflrorum notitix ; fcilicet quid fint aflra, quo ordine  difpofita, quibus in orbitis, & quomodo  moveantur, quibus viribus xquilibrantur,  quibus ratis temporibus proprios cuffus conficiant . Eidem debetur metheororum hifloria , maris, St terrx, animalium j plan-  tarum , & foffilium cognition. Eidem denique totius naturx revolutionum periodicarum defcriptio debetur.  Tertio humana hiftoria quid  eft, nifx ipfius memorix produ£tio. In  hac enim videtur qualis fuit primitivus  humani generis flatus , qux focietatuia  civilium origo , imperiorum omnium viciffitudines, tyrannorum feritas , heroum  gloria, ambitioforum vafrities, qui navigatio, quale commercium, terne productiones, hominum induftria, leges ,  ufus, con fuet udi nes , bella, foedera, magiflratus, militia i ve&igalia, fcientia; litterati, morbi, exercitia gymnaftica populorum tranfmigrationes, linguaz, urbium, provinciarumque devaftationes , fpirituum vis, juventutis inftitutio, ludi,  feftivitates , feri» , aliaque Ad Rationem referuntur etiam  Deus, natufa, & homo. Quantum ad  Deum Philofophia, qu» eft tam excelfa, ut hominem pene divinum reddat,  Rationis eft filia. H»C licet infinite ex-  tenfa , attamen tria funt ejufdem pracipua obje£ta , nempe Deus, natura , & homo. Profe&o naturalis Rationis progref-  fio eft incipere ab individuis ad fpecies  ab his ad genera \ atque a generibus ad  univerfalia * Hax mentis vis metaphyfi-  cam produxit^ quam tanta cum utilitate  quotidie adplicamus ad Deum, ad naturam , ad hominem  Quae  fcientia minime feparari poteft a mathematicis, qua; in puras, Se in mixtas dif-  pefcuntur. Arithmetica, Geometria, Al-  gebra , ad primas; ad alteras vero Mechanica , Dinamica, Hidraulica , Balliftica , Cofmographia , Geographia , Chrono-  logia , Gnomonica, Optica,  Dioptrica, Catoptrica, coniiciendique ars referuntur.  Similiter ad natura fcientias fpeftant etiam Notomia phyfiologia, Medicina,  Botanica, Venatio, Agricolrura, paftora-  lis , metallurgica , Chymica , magia naturalis, aliaque hujufmodi pvero ipfx hominum indigentis. En quo pafto LINGVA mentis vires, contraque mens vocum  multitudinem, proprietatem, atque energiam invenit, & auxit. Ex diflis fane colligitur duplicem clari in homine fe exprimendi modum. Alter nempe eft naturalis, qui in corporis motibus; alter vero artificialis, qui m  lingux modificatione sive in vocis modulatione confiftit.  Ex di&is quoque colligitur vocum ortum, cuidam lingux conatui, augmentum indigentiis , denique perieftionem fpiritus culturae, afliduifque vitae uftbus deberi. Verum ita femel enodata LINGVA,  IDEÆ APVD HOMINES fic redditae funt COMMVNES, ac familiares, ut nihil fupra.  Deinceps cognira etiam fuit neceflitas loquendi hominibus loci, vel temporis ra*  tione remotis. Quapropter varias imagi-  nes excogitarunt , quibus mentis a£lus EXPLICATI sunt. Hinc pro defignandis homine, equo, leone, bove, eorum figuras  defignarunt. En quo pafto a&ioni LINGVÆ NATVRALI, accelferunt primo foni articulati pro præsentibus, et scriptura pro  abfentibus. Quæ scriptura initio fuit tota  SYMBOLICA, ut tres frumenti fpica: tres  annos notabant. Ex SYMBOLICA evafit Hieroglyphica, quam etiamnum frequentiflime adhibemus in nummis , in pi&uris ,  in fculpturis . Sed ad exprimendos noftri  animi impetus poftremo maximum in  modum influxerunt quoque pene infinita  belli, pacifque inftrumenta. Atque hinc facile eruitur 1. voces nihil aliud efle, quam quadam figna  abitraria, quæ prater fonum , in nobis  -quoque excitant CONCEPTVM MENTIS, ut  horno j praeter fonum huic voci proprium,  * D 2 ex 'Ac Progrejffu SIGNORVM .' 6 r   gnum, & parvum ; re&um & curvum ,  grave 8 c leve . Sic Gallia eft magna cum  Regno Neapolis comparata, at eft per-  quam parva Sinenfium Imperio relata .  Hinc intelligitur, quod licet omnes rela-  tiones fint ideales, vcrumtamen Diale&i-  ci eas diftinguunt in ideales , atque reales.  Ideales funt, qua: intercedunt inter ideas  abftradas, ut inter Tacqueti , & Cavalle-  rii Geometrias . Reales funt, qua: reperiuntur inter pondus auri, & argenti.  In hunc cenfum referri quoque  poflunt pene innumeras voces, qua; fub-  ftantias videntur notare, fed vere relationes exprimunt, quia ipfae non explicant,  nifi qualitates, ut pulcritudo, deformitas, do&rina, ftupiditas, vitiofitas, fon&itas, juftitia. Itemque hujufmodi nomina videntur effe abfoluta,& funt relativa. Etenim unus homo refpe&u alterius defor-  mis videtur , pulcher, & cetera , Id ip-  fum dici polfet de adverbiis dofle , erudi-  te, diligenter &c.  Ultimo loco dantur termini, sive voces simplices, (y compostt a ; C lar ce ,   8c obscura ; dijlintta, & confufce, compleice , fk incompleta j adaequata, (D 1 inadaquata. Primi generis fuqc linea; & superfides.  Dc Ortu , ficies Protomartyr , & archimandrita  Secundi generis , funt corpus, & anima.  Tertii generis funt Petrus, & homo. Ultimi vero generis funt circulus, & vis.  His omnibus accenfenda: etiam funt voces fmgulares, ut Annibal; generales , ut  planta ; univerfales , ut res ; determinata ,  ut equus a , canis b ; indeterminata, ut  equus, & leo. Si quae fint alia; voces,  quas praetereo , etiam facili negotio reduci poffunt ad has jam expofitas. Haec  de elementorum orationis do&rina', five  de vocibus tam in genere, quam in fpe-  cie ; verum quo pa 6 to eaedem vel inter  fe, vel cum aliis poflint combinari, dicam brevius, quam res tanta pofcat ,  adeoque,   De ftmplici vocum combinatione 3 ftve de  propofttione,   r   Alibi diftum e/1 judicium duas  ideas , vel fenfationes requirere; unam  rei, quacum conjungitur, vel feparatur  •aliqua qualitas; alteram vero illius, quae  eidem tribuitur, vel removetur . Ex g.    . i 1 v Sol eft ingentiflima ignis moles . Luna  i • eft corpus opacum . In prima propofitione : ignis a6lio foii, 8c in altera terra;  opacitas Lunae tribuitur. Contraque fi  judicium ex qualitatum remotione a rebus, quibus non conveniunt .Sic i ITALI ho-  dt emi non habent prijlinam virtutem. Et:  homo in maximis divitiis innutritus raro  eji mi/cricors. In quibus fane propofitio-  i nibus ab Italis pratentibus majorum gloria, atque ab opulentis mifericordia feparatur.   Ex quibus liquet, quod cum fit  judicium oratio verbis exprefla, ea conflare debet ex duobus terminis, quorujn  alter rem, de qua agitur, exprimat, alter quod eidem tribuitur, vel removetur. Sic agrorum cultura cfi utilis. Ha:c  propolitio duos habet terminos: alter eft  agrorum cultura; alter utilis , quorum  primus dicitur antecedens five fubjeclum;  fecundus vero vocatur confequens five adtributum five praedicatum .   Cum vero voces ex earum inventione non inferviant, nifi pro objcftis  denominandis, hinc fequitur, quod fi quis  adfirmare, vel negare aliquid velit, oportet, ut verbum aliquod adhibeat, cum   quo   At fi dicam : Brutus  Roma pugnavit, ut fervaret reliquias morientis libertatis. Incidens eft in prædicato , Itemque datur etiam propofitio hypothetica, cum nempe fubje&o praedicatum convenit fub aliqua conditione, ut:  Refp. tunc erit florida, cum juventus fuerit optime inftituta. Ha?c de propofitionis  materia, fequitur nunc ejus forma. Propofitionis forma in terminorum unione, vel in eorumdem feparatione confiftit, ex quo oritur propofitionum  adfirmatio vel negatio. Sic: virtute quamprotcime homines accedunt ad Deum. Contraque: vitium non eft utile Harum altera dicitur ajens, altera vero negans. Quo in loco notandum eft  quod in propofitionibus affirmativis ter-  minorum unio fequi debeat fubjetti, non  vero praedicati extenfionem. Ex. g. Omnis leo eft animal . Non intelligitur , quod  omnis leo fit omne animantium genus .  At in propofitionibus negantibus praedica-  tum omnino excluditur. Ex. g. Nulla  planta est anima f sequivalet huic: nulla  planta eft nulla animalium fpecies. Hæc  de forma propofitionum perquam fatis  Reftat, ut poftremo loco de  propofitionis quantitate aliqua dicamus,  quae nihil aliud eft y quam major , aut  minor terminorum vis , quae in propofitionibus continetur. Cum autem termini yo De Ortu,   mini maximam, vel minimam SIGNIFICATIONIS extenfionem habere poftint, hinc  fequitur , dari debere duas propofitiones  inter fe maxime diftantes, quarum altera dicatur univerfalis , altera vero fingularis. Ut: univerfi homines ratiocinantur t  eft primi generis: Petrus ratiocinatur, efl  fecundi generis. Itemque amba; effe pof-  funt vel' adfirmativa, vel negativa . Nota propolitionum univerfalium eft vel  omnis, vel nullus . Singularium vero propofitionum nota eft , hic , ille , & cetera.  Inter has duas propofitiones maxime extremas dantur & alias interme-  dias, qua: particulares atque indeterminata;  vocantur. Ut: aliquis homo ejl dottus. I*  temque: aliqua figura omnes angulos ha-  bet duobus redis aquale Notandum hoc in loco eft quod poflit dari propofitio qua; videatur  fingularis,verumtamen eft univerfalis. Et  con tra. Hi nefit, quod; ut propofitio fit univerfalis, requiritur . Ut plures rerum fpecies fub fe comprehendat . Ex. g.  Omne triangulum ; Omnes planta , omnes  lapides . 2. Requiritur ut praedicatum ab-  folure, vel faltem hypbthetice alicui fpeciei Ac Progrejf 4 SIGNORVM ciei conveniat. Ex. g. homo honestus ejl  Reip. utilis. Requiritur, ut generis  praedicatum etiam omnibus individuis conveniat. Ex. g. aurum in fluido demerfum  in eius fundum incidit . Idem eft ac (t  dicerem; Omne /olidum gravitate fpeciflca majus aqua in fundum decidit. Omnes propofitiones univerfales  in metapbyflcas , & morales dividuntur.  Primae funt , in quibus neque genus aliquod , neque individuum excipitur. Ex.  gr. omnis homo ex corpore, (D* fpiritu conflat . Haec propofitio adpellatur quoque  abfoluta, utpote fubftantiae elfentialibus  innixa . In quibus vero aliquod genus,  vel fpecies, vel individuum excipitur,  denominantur morales, ut.* omnes Galli a  temperamento /anguineo , (y omnes Hifpa.  ni a cbolerico dominantur. Nam falfum eft,  quod omnes Galli, vel omnes Hifpani,  nullo excepto, fint fanguinei, et cholerici. Denique quotquot funt univerfa-  les propofitiones, omnes funt vel adflr-  mativa , vel negativa , quas brevitatis  gratia fcholaftici hifGe quatuor alphabeti  Uteris indigitant , quaeque funt . A, E ,  1 , 0 . Prima; duae affirmativas , duae autem poftremae negativas defignant . Infu-   E 4 , P«    De Ortu ,'   per A denotat univerfalem affirmativam, E negativam. Ex poftremis I affirmativam particularem , O negativam quoque  particularem. Denique E continetur in A ,  & O in E-, dummodo propofitiones fmt  ejufdem generis. Sic: Omnia animantium  genera fentiunt . Oves vero funt animantes.’ Ergo fentiunt. Et fic : quicquid non  componitur , nequit in partes clivuli. Spiritus non componitur. Non ejl itaque diviftbilis. De quibufditm vulgaribus propofitionum  adfetlionibus. Hic affe£lionum nomine veniunt  quxdam propofitionum qualitates, qua;  funt : oppofttio, a qui poli enti a , & converfto.  Primo oppofitio duarum propofitionum comparationem denotat, qua;  licet iifdem terminis conflent, attamen  ipfae variare pofTunt v$l in fola forma,  vel in fola quantitate, vel in utraque. Si  pugnent in fola forma, retenta quantita-  te , tunc vel funt amba; univerfales ,  vel ambae particulares , Si primum, dicuntur     Ac Prdgrcjfu SIGNORVM   iur contraria , ut .* OMNIS ITALVS EST SAGAX. NVLLVS ITALVS EST SAGAX. Sin alias, dicun-,  tur fubcontraria : ut .* aliquis l iteratus ejl  boneflus\ aliquis liter atus non ejl bonejlus f  Si vero pugnent in quantitate,  retenta forma, tunc vocantur fubaltema ,  quae efle poffunt , vel ambae affirmantes,  vel negantes Primi generis eft haec;  omnis homo laboriofus ejl etiam bonejlus:  aliquis laboriofus ejl bonejlus  Secundi generis eft haec altera: nulla fuperjlitio ejl  utilis : aliqua fuperjlitio ejl utilis.   Poftremo duae propofitiones poffunt inter fe aeque pugnare tum in quantitate , tum in forma , quo cafu dicuntur contradi Horia; ut: omnis tyrannus  ejl generi humano detrimento: aliquis ty-  rannus non ejl generi humano detrimento.  Quantum ad aequipollentiam,dico  quod tunc du$ propofitiones fint ejufdem  valoris , vel aequepollent, cum altera alteri fubftituti poteft , quin earum vis ,  vel. valor mutetur; ut : quicquid ejl vere  jujlum ejl utile. Et contra: quod sjl vere utile , ejl jujlum. Quo 1 eft de unica  aequi pollentia fimplici. Ex quo fequitur primo, quod tunc  detur aequipollintia inter duas propofitiones , cum definitio reciprocari poteft cum  definito. Ex. g. machina, qux horas diei  defxgnat, horologium adpcllatur . Et con*  tra : horologium ejl machina, qua horas  diei deftgnat. Secundo fit, ut quod  fubje&o convenit, praidicato quoque conveniat . Sic omnis Japiens legislator Reipu-  hlica tranquillitatem promovet. Et vice-  verfa * omnis Reip . proj perit as a fapientijfimo legislatore provenit . Ex quo etiam  fit , quod omnis propofitionum converfio  fit etiam sequipollentia > proindeque de ea.  nullum verbum.  Cum definitiones , ac divifiones  non fint, nili totidem judicia, hinc intelligitur eafdem locum habere in propofitionibus . Definitio itaque eft propofitio,  qua quorumdam terminorum ope aliqua  idea completa , vel determinata exprimitur. Ex. g. Homo eft animal ratione pra$  ditum, civile, atque ad propriam felicitatem propenfum. Itemque definitiones ad-  hibemus pro rerum notis diftinguendis,  ut eas ab aliis facile fecernamus. Sic:  homo efl animat rationale, civile , ad bea -  titudinem f alium. Hlfce notis diftingui-  tur adeo a ceteris animantibus, ut aliter  ab iifdem diftingui non pollet .Ac Progrcjfu SIGNORVM Ex his fequitur. Debere ingredi in definitionibus folas notas intrinfecas.  Sequitur pofle quoque ingredi poflibiles , 8 c impoflibiles, dummodo impoflibi-  litas non fit abfoluta , ut : homo eft ani-  mal ratiocinans, politicum, ad felicitatem  fatlum, vaiiifque habitibus moralibus imbutum.  Ex his fequitur. Pro omni  rerum ambiguitate removenda  neceffe  eft , ut termini fint perquam clari. Quod tunc definitio dicitur generis, aut  fpeciei , cum utriufque effentialia dinumerantur. Quod illa fit definitio particularis, quae eft rei adeommodata.  Verum cum pmer rerum eflentialia etiam nomina definire poflimus,  propterea dantur quoque definitiones nominales. Hinc univerfae definitiones in  reales, 8 c nominales diftinguuntur . Primi  generis funt definitiones circuli, quadrati,  trianguli. Secundi generis funt definitio-  nes infiniti, trilaterae , quatrilateræ figuræ. In quo notent juvenes, quod licet Diale&ici definitiones reales adpellent  illas, quae ex genere, & differentia confiant, verumtamen ipfae quoque funt »0-  minalcs . Nam etiam definitionibus realibus nihil aliud intelligitur, quam illud  ipfum , quod illo vocabulo Philofophi  comprehendunt. Sic : homo ejl animal rationis compos, humana figura praditum,  quid eft aliud , quam hujus nominis de*  finitio? Cur ita ? Quia nemo unus adhuc fcivit rerum effentias, aut Tuet unquam. Denique divifio eft totius refohitio in fuas partes componentes. Quæ dicitur phyfica in quantitatibus extenfis r  & compofitis : idealis in 'abftra&is . Ad  phyficam refertur humani corporis divifio in partes solidas, & fluidas. Ad alteram vero figurarum planarum partitio in  trilateras, quatrilateras , & multilateras.  Divifionis utilitas eft maxima in rebus  maxime complicatis ac longis, quae uno  veluti mentis intuitu videri, aut comprehendi minime poliunt. Præterea iftis propofitionibus accedunt quadam alia, quæ apud Geometras palfim inveniuntur, fcilicet propofitio  T beor cHica & praftica, demonflrabilis  in demonflrabilis. Itemque axioma, pofiulatum, problema, theorema, fcholium, corollarium lemma, & si quae fint alia, quae  utpote omnibus notæ, de iifdem locati  non arbitror. Ac Progrejfu SIGNORVM De Compofita Terminorum combinatione J  five de syllogifmo, m   Cum ratiocinatio fit convenientis, vel difconvenientis ratio, quam duas  idea: habent cum tertia; intelligifur inde,  quod ficuri ideae cum terminis , & judicia cum propofitionibus explicantur , fic  fyllogifmo ratiocinatio enunciatur. Ex  quo intelligitur , quod fyllogifmus fit oratio, qua mentis vis aliis communica-  tur : atque etiam intelligitur , quod omnis fyllogifmus ex tribus propofitionibus  conflare debeat. Verum ejufmodi proportiones inter fe ita funt colliganda, ut  non modo terminum medium habeant  communem , fed requiritur etiam, ut termini extremi inter fe uniantur. Ex. g. Omne grave tendit deorfum. Lapis autem  eji gravis. Cadit ergo. In quo fyllogifmo tres termini vel propofitiones funtropofitiones, Termini funt gravis, apis, deorfum, Propofitiones vero funt  Omne grave tendit deorfum. Lapis  ejl gravis, Ergo tendit deorfum. Quarum duae prima: dicuntur pramijfa, poflrema vero vocatur conci ufio nuenfis, aliique complures late fufeque  de tot tantifque variis fyllogifmorum figuris difputaverint, attamen eaj mihi femper vira: funt mera» fubtilitates fcholaftica:, omnino inutiles, hoc confilio potius  ea pmerire volui, quam juventutem in  nugis detinere. Ac ProgreJJu SIGNORVM. De quibufdam vulgaribus argumentandi  i modis. Primo pra fua maxima claritate poteft in fyllogifmo omitti major propofitio, qui argumentandi 'modus 'dicitur  eutbimeema . Ex. g. Hic homo cbolerico  temperamento dominatur . Ergo e fi cru ielis y  ubi ioielligitur hax major propofitio:  £foirumque temperamento cbolerico domina «   t. r efl crudelis. Hic autem bomo temperamtnto cbolerico dominatur . Ergo efl crudelis ,  Secundo cuique propofitioni ad-  di poteft ratio, qua praedicaturi convenit  fubje&o, idque fieri poteft in utrifque  propofitionibus. Hic modus apud orato-  res frequentiffimus, apud Diale&icos perquam rarus, dicitur; Epicberema . Sic: in  corpore civili quifque debet alium dilidere y aliter nequit in eodari harmonia po-  litica. Petrus y autem , Francifcus , aliique  funt in corpore civili. Ergo fe mutuo diligere debent. Tertio ficuti. ex tribus fyllogif-  mi propofitionibus, ‘una tac.eri poteft ob   F 2 maximam ejus evidentiam, ita aliquando ad manifeltandum perquam longum,  atque IMPLICATVM ratiocinium tres propoiitiones nou fufficient, fed oportet alias  addere, vel faltim alium fyllogifmum,  vel qnthimema. In primo cafu argumentum dicitur /ornes , in altero Profyllogifmus.  Quantum ad foritem, ipfe e(l  quadam propofitionum feries, ita connexa , ut pradicatum prima propofttionis in  fubjetium fecundec tranfeat: pradicatum fecunda: in fubjettum tertia, & ita deinceps , donec in. concluftone fubjeElum prima uniatur cum pradicato ultima propofttionis.  Sic : lueratur ut laboratur : laboratur ut confumitur : confumitur ut luxus: luxus ex divitiis  divitia vero, ut commercium . Lucratur  itaque ut commercium majus, vel minus efl.  Atque hinc intelligitur, foritem  dici. bypotbeticion , fi ex fyllogifmis hy-  potheticis conflet . Ex„ g. ft Deus efl fapientiffimus, prafcire omnia mala debuit  ft mala prafcita fuerint , fublata funt\ fi  mala fuerint fublata , mundus a Deo creatus efl ceteris melior . Sed Deus efl fapientijjimus. Mundus ergo a Deo creatus  ejl reliquis melior  v  Ac Ptogrejfu /ignorunt» Quantum ad profyllogifmum,  ipfe ejl merus fyllogifmus , cujus conci ufio  in pramijjtam alterius fyllogifmi tranfit.  Ex. g. Omne ens fua natura iners , ejl  corporeum. Spiritus autem non ejl iners,  jed attuo fus . Ergo non ejl corporeus. Verum quicquid non ejl corporeum in partes  dividi nequit. Spiritus itaque humanus non  cjl refolubilis De errorum  fimus l His omnibus additur, natu-  ras res cffe adeo innumeras, ac compli-  catas , ut nemini adhuc contingerit de  iifdem adcurate judica. Denique quis  umquam propria debilitatis libi teftis eft?  Quicumque fane de aliqua re judicium  adfert , exiftimat de ea non poffe melius judicari . Quamobrem ut Intellectus  hos errores vel devitet, vel minuat, hic  pro mea virili nunc curabo , atque ut  ordine noftra procedat oratio, errores fecundum ea ipfa principia, qus in altera  parte enucleata funt, expendam, fcilicet  juxta Mentis, ac lingua; operationes Quod fi dicenda non fuffecerint ad omne  ignoranti, errorumque velum difcindendum, fufficient tamen tyronibus & ut  minus errata fortafle efficient. De Mentis erroribus ad fenfus exteriores  relatis. Sicuti fit ubi optici varient vel in  lentium difpofitione, vel numero, objefta  majora, vel minora, magis, minufve  diftantia adparent, ita oculi cum non Mentis ortu, ne progrcffibusl 95  fint, quam todidem tubuli optici , inter  fs maxime differentes , tam ob eorum  tunicas, quam ob eorum humores; ex  tali varietate variae prorfus fenfationes,  at. proinde ab iis complures errorum caufæ oriantur neceffe eft. Erratur Cum quis objeflorum exiftentiam negat, quae ipfe non  videt oculo inerim ; at oculus microscopio armatus infinita intuetur, qux ei fine tali auxilio non obverfabantur Decipimur in diffantiis; nam fol , luna ^ 8c  nubes videntur ^qualiter diftare, verumtamen nubes non attolluntur nifx ad  duo Y vel tria milliaria Italica: Luna ex-  cedit 333330. fol vero, juxta Kepleri fupputationes, nonaginta miliones fuperat. Duae urbes cum valle intermedia,  etiamfi inter fe diflantiffimae , cominus vifx , videntur 1 una eademque  Decipimur quo ad corporum figuras ellypsis enim procul vifa. a circulo non diftinguitur; Itemque duae lineae parallelae  apparent convergentes ; 8c duo 'parietes divergentes videntur paralleli; & linea flexa ac torfuofa apparet refla. Quarto cam-  pana pulfata , licet ejus partes interiori  fremitu concuffae, attamen videntur omnes    De en orum  nes immobiles. Id ipfum dici poflet de  aquis paludofis, ac lutulentis. In propagatioue Jucis etiam decipimur , cujus  motus pulatur fieri in inflanti , cum tamen iit fuccefiivus. Hinc Newtonus obfervavit quolibet min uto fecundo ea in  percurrere. Semidiametros terreflres,  vid. 8 , 202. milliaria . Poflremo erramus quantum ad rerum magnitudines,  nam folaris difci diameter duorum, vel  trium , pedum videtur, verumtamen folis  magnitudo ab aftronomis eft millione ma-  jor 'if ipfa tellure. Alias mentis deceptiones, quo ad vifum omitto, ne hac in  re nimius efTe videar. Sequitur auditus,. 1. hic fenfusi  nos decipit dum judicamus fonum, vel  concentum effe in ipfis inflrumentis, cum  re vera fit in nobis . Etenim in inftrumentis non reperiuntur, quam cordarum  vibrationes, quae aerem movent. Itaque  aere deficiente, debent etiam deficere ejus  undulationes, adeoque fonus, ut in machina pneumatica, atque in altiffimis  montibus facillime obfervatum. Decipimur, dum judicamus alios eodem modo fentire, ac nos. Quod nequit accidere ob diverfam aurium ftrufturam. Erramus, dum fonum referimus verfus  illam partem, ex qua ad nos pervenit,  iicet corpus fonorum fit alibi Quarto  denique fepiflime unum fonum cum alio  confundimus.   Odoratu , & guftu etiam' falli-  mur. r. Odores, 8 c fapores in objeftis  extare putamus, cum in iis non fit,- nifi fola partium difpofitio , five effluviorum, qu* narium, & linguai papillas nerveas titillant: His fenfibus turbatis fetida , atque infipida corpora judicamus,  qualia reapfe non funt. g.jEflimamus eundem fetoris, odoris , & faporis gradum  ab orpnibus circumflantibus a:que fentiri:  Quod fane eft omnino falfum , nam harum senfationum gradatio fequi debet organorum difpofitiones Ta£us in gravitatis , afperitatft,  caloris , & frigoris fenfationibus verfatur ;  & in his omnibus perpetuo decipimur Vas aere repletum aeftimatur aeque ponderofum , ac fi aere elfet orbatum. Ex  quo judicamus aliquid non gravitare fupra nos , judicamus id elfe ponderis expers . Quapropter aerem non aeftimamus  gravem , attamen columna aeris, quae  nobis imminet , putatur aequalis ponderi. mercurii pollicum: Si folidum  in , fluido demereatur, amittit in eo tantum ponderis, quantum eft volumen fluidi folidi volumini asquale , adeoque ipfamet auri moles gravitat minus in aqua , quam in vino ; & minus in vino,  quam in aere. Corporum quot quot  funt fuperficies, etiamfi omnes appareant  laevisiatae , attamep mycrofcopio yifaf, eas  jntuemur afperas. Judicamus quadam  corpora fua natura calida, contraque alia  frigida ; verumtamen palor, & frigus non  funt, nifi quadam interiores corporis  noftri fenfationes . Hinc fi manu fri-  gida tangatur aqua calida , haec fentitur  frigida. Et contra fi manus calida mer-  gatur in aqua frigida , haec fentitur calida. Sane haec tanta fenfationum contrarietas, eft in nobis ipfls, Id |pfum dicendum eft de voluptatibus , ac doloribus,  corumque gradibus, nam quicquid ipfa  funt , ad nos femper funt referenda . Haec  de mentis erroribus, quo ad fenfus exteriores, illos nunc percurramus , qui ad iq»  feriores fpe&ant.  De mentif prroribus ad fenfus interiores  relatis f  Interiores hominis fenfus alibi  X defcripti, funt memoria, temperamentum, affe&us, attentio, ac fenfus moralis. Perpendatur modo quo pafto ab iifdem decipiamur. Primo memoria, cui univerfam  cognitionum noftrarum fphceram debemus, in quamplurimis nos decipit. Prompte non exhibet nobis ideas alias  conceptas, cujus defe&us quilibet eft con*  fcius, 8 c maxime fcnes; Unam pro  alia idea, unum pro alio nomine, unumque locum pro alio nobis fubminiftrat;  Sua vi , atque energia aliquando mi-rus vividas vividioribus ideis praefert: Saepiffime in ipfis narrationibus maximi  momenti deeft. Idelas , earumque SIGNA, etiam improbo labore difpofitas, inter fe confundit. Facilius retinet ilia y quæ ad nos, quam quae ad alios fpeflant. Denique quandoque eft adeo vivida,  pt phantafia evadat. Hinc fane vifiones,   G 2 , illufiones , abalienationes, phanatifmus y  exftafis, & quidam mentis furor oriuntur : Hinc etiam voluptatis, ac doloris  gradus dependent. Secundo loco cum temperamentum fit certa folidorum,aq fluidorum,  conftitutio, 4ntelligitur, quod ipfum efle  poffit magis, vel minus lentum ; magis  vel minus vividum, adeoque fuftimopere  influere debet in noftras idearum intellectiones , in noftra judicia, atque in ipfa  ratiocinia. En caufa, cur cholerici fere omnes flnt ambitiofl, ac crudeles. Contra fanguinei urbani, & mifericordes. Cur  melancholici taciturni, ac ratiocinatores; contra phlegmatici timidi, pufillanimes,  excordes, avari. Atque hine facile eruitur horum omnium propeniiones & judicia debere  efle varia. Nam primi funt magni pro?  miffores , fuperbi , audaces, vafri , ambitiofl. Secundi apti, nati ad venerem, ad  vinum , ad libidinem , ad ludos, brevius  ad un iverfa, qu® fenfus alliciunt, & mulcent : itcmque funt.hilares, ac ftrenui  milites, conflantes, liberales , fociales,  qd grandia quoque fafti . Melancholici  ftmt mentis coufufe , laboriofi , diffidentes atque acerrimi judicii. Phlegmatici  denique funt natura pavidi, pufillanimes,  fuperftitiofi , fervi nati, confufi, fuperficiales, ignavi. Qua: cum ita fint, neceflario fequi debet, quod circa idem objeftum his  omnibus obferyatum, non aeque judicare  poflint . Itemque idem periculum fanguineis videbitur nullius momenti, melancholicis magnum, phlegmaticis maximum.  Similiter eadem res uni efle debet magna:. voluptati; alteri vero maximo dolori. Praeterea idem ac£ufatus, ab uno excufatur , ab altero damnatur ad mortem,  a tertio ad crucem , ab ultimo ad remos. Unde igitur tanta judiciorum diverfitas,  tiifi ab ideis variis ; unde idearum varia-tas , nift ex fenfationum diverfitate; unde  tandem haec varietas, nili a temperamentis, ad quod nifi mens advertat, non  aequo judicabit Iove, fed potius fecundum  propriam conftitutionem. Tertius noftrorum errorum fons  in pafiionibus confiftit: Primo quotquot  funt in homine pafliones, omnes ad lilium fui ipfius amorem reducuntur; hinc  eft quod noftra judicia femper ad hoc unicum atque indeclinabile obje&um referantur. Hinc quoque eft, quod in noflris  judiciis non aliud legitur, & obfervatur,  quam quo nos temperamento dominamur,   & quo amore nos ipfos diligimus. Legatur  hiftoria Civilis ad hoc evidentiflime comprobandum, e qua videbitur, ob proprium amorem filios Patribus, Patres filiis necem intulilfe  identidem de fingulis animi paflionibus fecUndariis dici poflet. At quis dinumerare poterit univcrfa Intelledus errata,  quæ ex odio, timore i ambitione fpe ,  immodica laetitia defiderio ira, audacia,  timiditate , ceterifque animi modificationibus orta funt , ac quotidie oriuntur Loquacem Fabium, ut ille ait, delalfarem, fi vellem ea omnia fingillatim per-    T    Mentis ortu , ac progrejjib. fgqui; at pauciflima dicam ad Tyronum  captum, qui rerum multitudine ilon funt.  obruendi  ac tot hominum  ftupiditas derivanda eft. Ex ipfa voluntatis alienatio, mentis diftra£lio, judiciorum praecipitantia non modo apud populum , fed penes ipfos viro§ literatos. Nonne haec funt errorum fons , atque   origo. Reflat, ut extremo loco de fen-  fu morali dicamus , ejufque fallacias ostendamus. Verum cum hic fenfus fit omni  reflexione, quolibet examine , & quibuf-  vis praejudiciis anterior * hinc nequaquam  ab eo decipimur» At profequamur reliqua mentis errata. De erroribus ad mentis affus relatis. T ris cogitans , judicatrix ac  V ratiocinatrix eft tam invo-  luta , atque difficilis , ut quafi impoflibile fit omnium errorum analyfim juxta  univerfos mentis a£lus hic exhibere. Quapropter confueta ratione praecipuos tantummodo attingam Mens errat dum fenfationes  concipit tanquam res realiter in objeftis  io 6 De errorum   exiftentes. Hinc judicamus dolorem eflfe  in cultro, faporem in ficubus , dulcedinem in vino * frigorem in aqua, calorem in igne. Dum fenfationes, quas  ut centies diftum eft i funt relate, habentur abfolutse , hinc dicimus fua natura  bonum vel malum aliquod obje&um ,  quod tald eft duntaxat refpe£tu rioftri. Id ipfurri diceridum quoque eft de volup-  tatibus, ac doloribus, qus non funt nili  totidem rea&iones tiobis confonse, vel  diflonas, ddeoque nobis folis tiiric temporis relate 4 Nihil enim in ipfis quidquam  abfolutuni concipiendum eft i 44 Decipimur dum ideas abftra&as , ut Dei , hominum , Sc corporum aSiones habentur  ejufdem generis i licet toto coelo inter  fe diftinguantuT Item durii ideas fpirituales  putamus materiales, uti funt Angeli,  Dsmones, 8 c c. 6 . erramus dum qua: vinita funt , feparata judicamus; & cotitra  quae fola mente fepararitur, natura conjun£Ia putamus Primi generis errata funt  tot Poetarum fabellae ^ atque commenta.  Secundi autem gerieris * funt tot Romanorum Dea: , & Dii, ut juftitia i Visoria, Fortitudo, Februa, Jupiter Terminalis,   Mentis ortu, ac progrejjtb. icj  liatis , Feretrius , & c. 7. falfe judicatur,  fi relationum ideaj ignorentur, ut in malorum origine; in Dei natura, pradcientia. Etiarri falfo judicatur fi hypothefes habentur vera», priufquam ad praxim revocata; fuerint. Hujufmodi funt ACCADEMIA ideaj innata;, noftra intuido in Deo,  qua; Malebranckio placuit  Woowardi,  Wiftoni j & Burnct systemata , aliaque  hujufce commenta pene infinita , potius  delirantium fomnia,quam Philofophorum   opinions. His. 9. additur, quod ex meditationis defe&u facile erramus. Si  ut abfolute accipiantur, quæ ex quodam circumflandarum concurfu intelligenda  funt. Hinc male quis ntentis gradus ex  fortuna determinabit. Facile decipitur  fi a particulari idea ad univerfalem flatim afcendatur, quin omnes fpecies &  genera percurrerit. Quis enim dicet literulis grajcis imbutunl etiam cordatum  efle virum, & folida, magriaque cogitantem? quis Philosophum putabit etiam  bonum agricalam  quis denique Cafuiftam  etiam Theologum, philofophum, hiftoricum, atque aeconomicum  Præterea decipimur, dum ea t   quas De errorum  qux non intelligimus, infipienter, atque  obftinato animo negamus. Decipimur, cum ea quaj nobis funt contraria, fpernimus, minuimus, damnamus novitatis amore: Scepticifmi fpiritu inconfiderat. Erratur ex argumenti analogia, five ex rerum fimilitudine: Ex libertatis abufu: iB. Ex nimia curiofitate: ip. Ex nimio defiderio nos diftinguendi a reliquis hominibus faltem ejufem ordinis. Ex partium ftudio,quod   3 uibufdam temporibus, ac locis nos luificat: Pro privato emolumento,  quod nos oblivifci facit ipfa naturae ligamina, ut liberemur ab interioribus fenfationibus moralibus. Denique quodam ambitionis fpiritu , quo in noftro  cerebro veluti mundum univerfum concipimus, cujus nos centrum evadimus, lætamur dum aliorum opiniones circa nos  gyrant, atque ceu deliquia pati obfervamus.   Di    Mentis ortu , ac progrejftb', iop'  D* erroribus ad animi ftgna relatis i   OUnt voces, aut vocabula totidem ANIMI INSTRVMENTA,  VEL RERVM SIGNA. Cum autem voces considerari possint tam solitariae, quam simul junctae, tum simplici tum compotita ratione, hinc fit , quod totidem modis in iifdem intelle&us errare poterit,  ut ex fequentibus. Primo erramus cum vocibus utimur , quae pmnis omnino fignificationis  funt expertes , ut entelechia , quam adhibuit LIZIO. Cum utimur vocibus  ex fe clariflimis , quae tamen unione  fiunt OBSCVRÆ, ut circulo Quadratus,  corpus spirituale. Si voces adhibeamus ambiguas, ut anima, cujus idea varia philofophorum placita fequitur: Si  putemus abfolutas voces, quæ sunt vere  relatae, ut pulcritudo, deformitas, vitiositas, justitia. Erratur, fi eidem vocabulo eadem vis tribuatur, etiam in maxima locorum, ac temporum diftantia,  yt pileus, calceus, navis, theatrum : fio LcRio Itl, De errorum  Si verba nova, yel METAPHORICA, vel emphatica adhibeantur, quin fit neceffarium. Si vocibus utamur vis INDETERMINATAS, ut odium, amor, voluptas, dolor, sensatio, qux temperamentorum, atque habituum ratipnem conftantiffime fequuntur. Si termini adhibeantur, qui  res minime intelligibiles DESIGNANT, ut  infinitas, xternitas, preatio, annichilatio Earumque progrefftbus. Tertio quoque intelligitur, quod, ex duabus propositionibus una esse potest  altera probabilior; unaque altera verifimiiior. Primi generis eft hæc: Cupcrniei hypotbefis eji fyjiemate Tyconis probabilior. Alterius generis eft fequens: Redi opinio eji vero fwiilior, quam illa Le-  •wenoekH . Quibus ita i:itelle£lis , priufquam invenienda: veritatis regulas in madium proponam, opera pretium duco quædam de ipfa veritatis nota, five criterio  adumbrare.  De veritatis cujufque generis nota. Veritatis nota ab aliis in •   V . Tolis fenfibus, ab aliis in  fola mente, ab aliifque denique in utrifque ponitur. Cartesius. vero in rerum evidentia. Ex quo fit, quod Cartesio est certum quicquid eft evidens. Contraque  omne evidens eft quoque certum. Quapropter evidentia certitudinem, & haec  illam efficit.  At fi Cartefius interrogetur, eique dicatur. Quicunque judicat, ac De veritatum ortu,  ac ratiocinatur, putat fe clare, atque evidentiflime percipere, ac judicare , quis  itaque evidentiam ipfam tutam reddit:  quis meam, quis aliorum evidentiam in  tuto ponit, cum ipfa fenfibus, ac cujufque lumini fit proportionalis. Itemque,ii evidentia omnia certitudinum genera tuta redderet, primo  ipfa non deberet habere gradus; at evidenti phyfic® pr*ftat mathematica, physica autem morali praevalet. Praeterea fi evidentia exifteret,  nufquam efle deberent in collifione  du* evidentiae. At fuperfleies taftui convexa eft oculo plana: quod eft fal vifui  eft: faccharum palato. Ipfeque Jacob erat  Efau taftui, Jacob autem Jfaaci auditui. Quid denique multa? Quilibet fenfus cum  fe ipfo confligatur. Qui pi&uram adfpi-  cit, videt in ea antra , fluvios , urbium  rudera, pontes, praeliaque magis minufve diftantia , attamen eadem & plana te-  la omnia limitat, ac definit. His omnibus addi poteft. Quod corporum exiftentia ex fenfibus ha-  betur. At hi omnes jam demonftrati funt  fallaciflimi. Ipfa itaque corporum exiften-  tia videtur- e fle incerta. Earumqne progrejjibus Secundo ft daretur certitudo, ea  eflet omnium temporum, ac locorum.Verum ipfa eft relata, haud abfolura.  Si ipfa exifteret faltem uni eidemque homini videri poflct eadem. At noftra fenfuum conftitutio, mutabilitas, atque ipfum mentis lumen mutantur  perpetuo. Nequit itaque efle eadem. Denique fi evidentia certitudinis eflet nota, ea efle deberet veritas primitiva, quaz .mihi deberet oftendere secundariam; verum Cartefius dubitando ad evidentiam pervenit. Dubium itaque potius,  quam evidentia eft certitudinis cujufque  generis nota. Hinc Ariftoteles primo metaphyficorum libro fcripfit nos dubitatione veritates pofle confequi. Dubitationes  enim funt veluti quidam nodi, quos ft  quis non videat, (cientia: five veritatis  non eft capax. At hoc pofito nonne  eflet perabfurdum ex dubio fcientiam  prodire. Ex quibus facillime eruitur,  quam inconfiderate nomen doftiflimi, &  fapientiflimi , non dicam GALILEI (si veda), Leibnitzio, Newtono, fed cuilibet alteri tri-  buatur. Quis enim omnia (civit, aut fcire ppteft? De veritatum ortu. Sed ex huc ufque expofitis, nemo velim deducat, non dari cujufcunque  generis veritates. Nam etfi veritas abfoluta  nobis defit, non autem relata, qua prope infinita fcimus. Revera qui poterit  dubitare, de tot corporum, quibus undique premor, exiftentia ? Nihil refert,  quod materiae natura, vires, energia, &  combinationes me lateant , cum ad horum omnium exiftentiam comprobandam  mihi fufficiant folas mei animi interiores commotiones. Exiftit ergo certitudo phyfica ITEMQVE CVM HOMINES INTER SE CONVENERINT SIGNIS 4, 10, ioo. illas indicere quantitates, in quibus numerus tinus, quatuor, decies, & centies repetitur,  quis me poterit reddere dubium, centum  eflfe decuplo majorem numero decem Poftremo antequam ego Romam  ivifiTem, hilari animo de ejus rebus pere-  grinis loqui audiebam. Quum viferera,  eandem inveni, ut millies et audiveram,  & legeram Quæro 11 id dpfum mihi dicatur de .Mediolano, de Florentia, de  Bononia, deque Veneriis, eccur narranti  non credam ? Itemque hiftoricis antiquis  de Babiloniis, Hetrufcis, Samnitibus,   E arum que prorejjtbus Tarentinis, Gallis poft tot fecula jam  elapfa tam multa narrantibus fidem habebo? Praeterea tot recentiflimis hiftoricis  afferentibus effe antipodas, Indos , tam orientales , quam occidentales , aliofue non credam? At haec denegare, infani eft.  Exiftit itaque evidentia, quacum veritatum cujufcunque generis certitudo facillime nobis innotefcit.   c a p. m. De veritatis natura, ejufque divistone. Omnis propofitio ex fe confiderata,  V^/ vel efl vera , vel falfa . Ad nos  autem relata vel eft nerta, vel incerta.  Etenim nos concipere poffumus majofem,  vel minorem relationum numerum inter  duas ideas, quae eafdem ligant . At fub  primo afpeflu nullius effet utilitatis: juvat itaque veritates speculari fecundum noftras cognitiones. Hinc veritas fuperius  definita fuit: quaedam noftrorum judiciorum congruentia cum rebus, vel cum earundem relationibus. Quod fi veritas eft noftrorum judiciorum cum obje&is exterioribus conformitas,  V   De veritatum ortu,  tas , ipsa igitur eft dependens. Nam ubi  defunt fenfationes , deefle quoque debent  cogitationes ; atque ubi deficiunt cogitationes deficere etiam debent veritates Logic*. Contra veritates aetern* in rerum  relatione conftabilit* Dei voluntate, qux  natura fua immutabilis, etiam noftris cogitationibus omnino deftruftis, exiftunt.  Ulterius idearum obje&um dupliciter menti noftrae eft conforme, vel interius, vel exterius. Namobje&um, ad quod  cogitamus; vel ex noftra ipfa cogitatio; vel  exiftentiam realem habet. Prima veritas  dicitur 'interior, altera exterior . Ex quo  fequitur, quod omnis veritas exterior fit  quoque interior. At non contra. In veritatum porro inveftigatione,  vel a principiis eas deducimns; vel ab eorundem conclufionibus. Primo modo ad  veritates pervenimus intuitionc ; alio modo vero ratiocinatione. Ex quo fit, quod  duo veritatum genera habeamus . Primum  eft veritatum objettivarum, five intuitivarum. Altera vero abJhaSta, & difcurfiva y  qu* in idearum connexione confiftit.   Ex quo facile deduco, omnes fcientis  eundem certitudinis gradum habere polfe, nam quot quot fcientiaj , artefque dantur,  uni-  EcrUmquc progrejjtbuiUnlvefa; logicas veritates continent adeoque evidentias capaces. Hinc ethica, metaphysica, Politica, aliasque demonftrari  quoque poflimt. Reapfe ^Ethicas auSor  quinque libris comprehenfas. impietatem  fuam ex falfis priilcipiis oftendit . Identidem fecit Hobbesius; denique Wolfius  univerfa. ejus perquam prolixa opera etiam methodo mathematica confcripfit.   Itemque in hac tanta rerum varietate, fervatur quidam ordo, qui Dei volunta-  ti eft omnino conformis; hujufmodi veritas dicitur metaphyfica, Qua; fane veritas est prorfus extrinfeca, nullimode dependens a noflris cogitationibus, ideoque eft  abfoluta, atque asterna.  Poftremo veritas moralis aliorum  fidei innititur, nempe ipsa est, fpiritus  noftri perfuasio narrantium auftoritate conifabilita.  Ex his, quae ha&enus summa  cum brevitate expofui, apertiflime eruitur , quod veritas fit tanquam totum  quod ex omnium relationum complexione deducitur, quas funt inter ideas. Ex  his quoque intelligitur , quod fi omnes  idearum connexiones, vel contradi&iones  nobis innotefeaut , tunc habebimus veritatis certitudinem . At fi {"dummodo totius aliquam partem agnofcamus, non e rit veritas, fed probabilitas . Qua: ita de-  libatis, reliqua profequamur.  De certitudine tam intuitiva, quam demonslrativa, probabili,  0 ^^ nc ’P'° met h°dus eft via,five or-  . . j do , quo vel incognita invenimus;  vel inventa aliis communicamus. Quibus  in re vel a partibus ad totum; vel ab hoc  ad illas proceditur. Si primum, methodus dicitur analytica, fi alterum fyn-  4 et hic a . Primus modus ex rebus manifeftis,  & fimplicibus procedit ab obfcuras, compofitas, et IMPLICITAS. Contra alter: ut ia  corporis humani anatome , fi omnium  primo difquiram univerfa fluida , deinde  folida , ex quibus poftremo deducam , corporis humani ftructuram ex fluidis, ac solidis conflari, perquam ordinate dispositis. Quod fi hæc vellem aliis enucleare,  principio dicam corpus humanum ex fluidis. Earumque progrejjibus. dis, Sc folidis conflare, tum fingula exponam. Ex quibus fane intelligitur, quod  primus modus pro re invenienda, alter  pro eadem explicanda infervit. His ita expolitis ad propofitum accedamus.   Primo certitudo phyfica eft quaedam  noftri judicii qualitas, quæ forti invi£laque relatione nollrum fpiritum neceflario  unit cum propofitione , quam nos affirmare, vel negare volumus . Hujufmodi  certitudo fentitur tam in omnium corporum exiftentia, quam in eorum fenfationibus, late , fufeque in prima leflione  pertra£latis. Ex quo primo fequitur, hanc certitudinem fequi debere nollrorum fenfuum  rationem, obje&orumque prelftones. Secundo fequitur, quod fi fenfuum  organa ftnt vitiofa,vel non fint in debita  diliantia, obje&a non poffunt videri clare-dilfin£fa, ut in myopis, Sc presbytis.  Tertio fequitur, quod fi unus fenfus  non fufficiat , necelfe elf , ut adhibeatur  alter. Sic fi vifus non diftinguat, utrum  mafla aliqua fit necne metallica , adhi-  betur, etiam taffus. Quarto requiritur, ut medium, per  quod lux tranfit, fit omnino fimplex,   i en    LefDe veritatum ortu,  en ratio, cur remus in aqua videatur  fra&us.  Quinto requiritur quidam lucis gradus pro vifione fufficiens , alias objeftum  non videtur, uti revera est. Sexto convenit obje£la afpicere fecundum omnes eorundem fitus.  Poftremo requiruntur perferiora inftrumenta, quæ oculis funt maximo adjumento . Haec de certitudine phyfica , f«-  tpiitur demonftrativa .  q’ a p. v.   De certitudine dcryonjtrativa. Ri nc ipi° demonftratio nihil aliud  JL eft,quam videre, num prædicatum conveniat, necne, fubje£lo.Qu2 relatio dum a definitionibus, poftulatis, atque  ex axiomatibus deducitur, vocatur direBa . Si autem aliqua contradi6lio, sive  absurdum ostendatur ex proposito principio oriri, vocatur demonftratio indire&a, Primi generis funt pene omnes Euclidis  propofitiones. Secundi vero funt fexta ,  feptima, alixque qpamplurim ejufdem roris. Earumque progrejjibut. Ttemque veritas vel ex efie£libus, vel  cx caufis eruitur . Primo cafu dicitur a  pofleriori, in fecundo a priori. Ad primum genus referuntur omnes illas verita-  tes, quas ex obfervationibus, atque experimentis detegimus . Sic Redus deduxit ,  omnia infefta oriri ex ovis. Ad aliud  porro genus referuntur omnes philosophorum hypothefes. De omnibus fingillatim  dicemus. Qui fibi proponit perpendere, num  aliquod praedicatum fubjetlo conveniat.  Ex integra definitione, vel ex ejus  partibus propofitiones accipiat pro fyllo-  gifmorum catena conficienda. Si circa  idem obje£fum habentur axiomata , vel  poftuiata , vel alis propofitiones jam demonstratæ, iifdem uti poteftin minoribus  fyllogifmorum propositionibus. Data  propositione, quæ sibi cum aliis est medius terminus communis, revocatur ut  fiat major in alio syllogismo. Cum  his præmissis uniatur alia ex antecedentibus jam nota. Tandem quotquot funt  propofitiones ita inter se conne&antur,  donec ad syllogifmum perveniatur, ut ejus conclusio sit ipsa propositio, quam  demonfirandam fufcepimus. Hinc fi quis, I 2 ostendcre v-llet illud ipfum , quod habet  Horatius in fatyris: nemo fua forte contentus ; hunc ia modum procedat.   Def.i. Felicitas eft ille hominis cu-  jufque ftatus, quo omni ex parte eft contentus, cuique ftatui nihil addi, vel detrahi. poteft.   §.4. fuffi-  Eatutnque progrcjpbusl  fufficientem alicujus effe quz in eo locum  habent.   Prsterea notandum, 'quod fi duo effectus quandoque fuerint conjungi , fequi  non debet eofdem femper effe fimul . Ex  g. apparet Cometa id nostro horinzonte,  ergo aerumnae in familiis, in imperiis ?  aliquis literatus eft facinofofus , literae igi*  tut funt Civitati detrimento? Si vero attributum rei adhaereat , tunc concluden-  dum, quod res ita fit. Sic EVROPÆVS non  est fua iotte contentus : de fua forte querantur etiam Africanus, Asiaticus, atque  Americanus. Nullus itaque homo vitam  ducit omni ex parte beatam i   Id ipfum dicendum eft, fi propofitio sit hypothetica, dummodo ex repetitis  experimentis proveniat 4 Ita homo, qui  a temperamento cholerico dominatur , ad  crudelitatem natura rapitur . Sed an vere  fit crudelis, observanda est ejus vita, aliter erratur; etenim inftitutio naturam pote ft j  fcttruthcjue progrefftonibus i 1 jj   tert immutare: ex quo intelligitur, quod  propofitionum univerfalitas a repetitis experimentis , atque obfervationibus deriva-  tur At quo pa£ta> a caufarum cognitio-  ne ad effe&us ratiocinandum sit, videamus.  Primo necefle eft, ttt omnis efFe£lus  fit caufaj proportionalis , fcilicet fi duplex,  vel triplex fit effeftus, dupla , vel tripla  efle quoque debet caufa . Denique erir  phyfica, vel moralis, fi effe&us fuetit ha-  jufmodi. His propofitis, fit igitur. Defii.Deus eft em perfetfijfimum Earumque progrejjtbm . tatorum eft capax. Sane quidam Aftronomi afleruerunt, eandem efle habitatam.  Prima eifc intrinseca, secunda extrinseca. Denique verifimilitudo eft illa, quæ reperitur infra certitudinis dimidium:  Itemque illa probabilitas, qux certitudi,  dinis dimidio ajquivalet, dicitur dubitatio . Primi generis eft haec: Petrus mihi dixit, me vicifle centum fcuta, fi  hoc eft verum illi fpondeo. En verisimilitudo, fin autem spondeo Dubia  mihi videtur notitia, nam ex utroque la-„  tere aequantur . Sed quidnam requiritur ,  ut refle probabilitates fupputentur. Primo neceffe eft videre, num quod quaeritur fit poflibile. Secundo adcurate fupputandi funt omnes refiftentiaj,  vel difficultatis gradus . Ex.g. morietur ne  Sinenfium Imperator in novilunio Aprilis  hujus anni currentis? ut hoc problema ri-  te refolvatur , fupputandus eft numerus ci-  vium : Imperatoris aetas , ejufque vita, deinde fi dari poffit aliquis aeris influxus  perniciofus: medicorum peritia: aliaque.  Tertio notandum, quod fi in  quaefito ex duabus fyllogifmi praemiffis,  una fit certa, altera vero probabilis, conclusio quoque esse debet probabilis. Sia  autem ambae praemiflae fint probabiles,  conclusio continebit probabilitatem probabilitatis. Sic unus tertis oculatus habet  dimidium probabilitatis ; qui illum audivit , & ex eo narrat , habet dimidium  primi; fcillcet dimidium dimidii, hoc eft  quartam probabilitatis partem. Denique fi  illud ipfum narrat tertius, hic habebit di-  midium dimidii , nempe ortavum probabilitatis gradum. Et fic deinceps,   At ex omnibus probabilitatis generibus, quæ mihi maxime cordi funt ,  iunt historia, 8c aeconomica, in quibus  vellem ut confenefcereot juvenes, nam  prima eft objertum innumerabilium domi,  militiceque fartorum. Quæque nos reddit  yeluti præsentes omnibus temporibus, a q  J ocis. Hoc uno facilique medio quin  pniverfam telluris fuperficiem cum tot vita? difcriminibus, ac fumptibus peragremus,  difcimus quicquid in ea agitur ab abfentibus. Hinc ex ea cognofcimus Imperiorum origines, formulas, leges, vires, artes, scientias, vicisiitudines,   In æconomia autem eft major  fupputandi utilitas, etenim ex hac fuppu-  talione habei.ur navium numerus, terra-  rum  m  flatui nocet ? determinanda eft relationis  quantitas . Revocato ad haec pauca universo ratiocinii mystefio, sequentes regulas Dialectici proponunt, ut ejufmodi quæsita enodentur. Reg. In cujufque quaditi fdlutiorte omnium primo determinanda eft  vocabulorum vis, maximeque fi ea fmt  IMPLICITA. Statim legis hujus neceflltas intelligitur, cujus negligentia etiam apud scriptores magni nominis contentiones perpetuas produxit. Definiantur luxus , libertas, inanitas , prafcientia divina , et e*  radicatae erunt decertationes. Vocibus definitis, animadvertatur.  Regula Semel determinata vo»  cabolorum vi , non amplius convenit ab  ea recedere.  Quamplurimi hac in re aberrarunt. Vox Deus apud ipsos dell’ORTO, Sc  Manichteos non fonat idem . Apud Hobbesium natura jura non semper significant eandem rem. Quid multa. Cartesius ipse materiam fubltilem varie accepit# Videatur praterea. Reg. Si quzfitum fit refolationis capax. Quo expenfo, exquirendum   K 3 dein-   't Tt > v m  De veritatum ortu,   deinceps est, num totum, vel ex parte,  limites capacitatis humanas, vel tua; trafcendat. Si primum deferatur inta&um ,  ut in intelligenda unione mentis cum  corpore . Sin alterum te ipfum concute ,  vel alios te praftantiores, ac seniores interroga. Quam regulam fi fciviflent tot  Jiterati viri , non confenuiflent in tot tan-  tifque quadliunculis inexplicabilibus, atque inutilibus , neque poli tot foculorum  focula etiamnum eas ad manus haberent.  Uti eft malorum origo , humani foetus  conceptio , vis elaftica , attraflio, & cetera! Quid fi quicftio fuerit folubilis. Reg. Videndum, num qurefi-  tum fit fimplex, vel compofitum. Si  compofitum dividendum eft in omnia e-  /us membra poflibilia. Ex quibus, inutili-  bus membris refecatis , alia fic extrincentur , ut unum membrum alteri praeluceat , ac contineat.  Sic in hoc quaefito : luxus eftne  flatui utilis? videndum eft. 1. Si flatus,  fit Monarchicus , vel Republicanus; deinde num ex propriis , vel exteris artifici-  bus , ac materiis. Tertio fi ex propriis,  videndum ultimo eft num artes primis . Enrumque progr cjjibus . qu?e raro habetur , probabilitas querenda  eft. At non evulgari debet nifi tanquam  veritas probabilis . In quo cavendum quo-  que eft, ne hypothefes ut thefes habeantur.  Eft ha&enus incertum , num terra, vel fol moveatur . Ergo ad probabi-  litates recurrendum . Itemq. ex variis ve-  ritatibus probabilibus quaeratur probabilior,  ut Redi hypothefis eft probabilior animalculis fpermaticis Leewenhoeckii.  Reg. Obfervandum porro eft  quxfiti genus, nam (i fit de rebus phy-  ficis , fenfus , exprimenta , atque observa*,  tiones funt interroganda . Si de rebus»  abrtra&is , rationem interroga ; fi denique de rebus fa&is, confule Codices faftorum. Reg. In confulendis autem  codicibus, funditus fciri debet lingua , in  qua Codices fuere confcripti. Ac cavendum a tradu&ionibus vulgaribus, aut Le-  xicis communibus. Ad hoc rite, re£leque intelligendum fufficiet legere Cicero-  nis orationes a DOLCE (si veda) IN LINGUAM ITALICAM CONVERSAS: Quininno LUCREZIO (si veda), et VIRGILIO (si veda) verGones. Reg. Ad intimiora fcriptoris  fenfe 1^4 Lett. IK De verttatuni ortu,  fenla penetranda , praeter linguam, fac  etiam fcias fcriptoris patriam ætatem ,  faeculum  adfe&us > ftudia > exercitationes t  Quorfum ha;c omnia. Nam  ea mirum quantum influere poflunt ad  au6loris intelligentiam .Quicunque enim  fcribit his viribus occultis non modo movetur , fed etiam concutitur. Ergo horum omnium cognitio maximopere prodeft . Id libentiflime oftendetem ex multis kriptorum omnium fententiis, atque  opinionibus, fi in te tam clara teftibus  indigetem  Reg. Non unum aliquod Scriptoris opus diligentiffime verfandum.  eft, fed fumma indufiria legenda iunt  omnia ejufdem fcriptoris opera. Quod  fi de ejus fertterttia nihil confiet: Tunc  vel totum 'tei ice s vel dubita. En potiflima ratio, cut innumeri  ltt judicando errent » Id ex eo maxime  provenit quod Vel integrum librum non degunt , vel non intelligent. At quid fi  fcriptor de aliorum opinionibus j vel fa-  4 ftis agat? Eimmque progrcjjibus. Reg. Tunc quaere primo an  fcire potuerit. An fuerit perspicax. 3,   An in judicando adcufatus. An in re-  ferendo fincerus . In quibus omnibus vel  eorum uni fi defecerit, fidem ei dene-  ga ; fin minus, eundem habe aptum, ac  veracem.   r* Duo Vtllani, mundi hiftoriam  fcripferunt . Sed fciveruntne quae in eorum funt libris ? maximis fcatent profeflo erroribus. At non fic Guicciardinus. Quid vero fi quamplurimi ex uno hifiorico acceperunt? Quantum ipfi valenf?  Reg. Si quamplures ex uno  hiltorico fua traxerunt, Omnes fimul va- • 1 .  lSnt, quantum ille unus, ex quo transcripta fuerunt omnia. Quod fi clare  confiet , fcriptorem fuifle faflt fcienthTi.   mum , in cognofcendo p^jfpicacem , in / . »  judicando adcuratum, ad denique irt referendo fincerum, adtribenda eft illis fides.   Reg. Turtc obferva an liber  fit fpurius vel genuinus ; an interpola-  tus, vel mutilatus. Si fpurius, eum reiice : fi genuinus eum tene . Si interpo-  latus , additiones nota ; fi denique mutilatus , lacunas agnofce , & diftingue, poftea fi poter is etiam reftitue .  LcR. Di verir arum nrfu ,  Primo liber eft fpurius,five a Reg. Oportet perpendere,  num Deus loquutus fuerit: Cui : Quo loco:  Quando: Quid: Si  ccnftet reapfe locutum efle, videndum   infuper est, num quae dixerit ad nos incorrupte ac genuina, vel interpolata, aut  mutilata pervenerint. Itemque fi verba  pofiint varie interpretari, tunc nemo fut> arbitratu temere ea intelligat , fed unius  ecclefiae Catholicae judicio standum erit. Hujufmodi est methodus analytica , quae non infervit modo pro veritate  LcH. De veritatum ortu,  tate invenienda, fed etiam juvat pro cu-  jufque feriptoris fcientia definienda. Internofeimns enim ex regulis propofitis,  qui scriptores sint ferviles , fuperficiales ,  duri , difficiles; qui profundi , nobiles,  clari , folidi, philosophi. Itemque inter*  nofeimus qui habendi fint optimi fpi ritus, peregrini . Sed ex quo tanta feriben-  di varietas? Refpondetur,  Hæc varietas partim repetenda  eft ex corpore, partim ex fpiritu humano. Secundo attentio non est eadem in  omnibus, neque fenfuum difpofitio eft  omnino conformis, Denicjue hominum  inftitutio, habitus, exercitia, cultus in  infinitum variant. En feribendi varietas. His omnibus accedunt sensuum  usus, meditandi adfiduitas , librorum Ic-  ilio, literatorum virorum frequentia, itinera , experimenta, obfervatipnes, Item-  que ad hog conferunt Geometriae , at-  que arithmeticae ftudia, quorum primum  reddit faciliores idearum combinationes,  aliud nos adfuefeit ad eafdein inter se  colligandas.   §.ido. Ex his omnibus oriuntur artium,  fcientiarumque progreffus. Ex his ratiocinandi robur, CLARITAS, atque ORDO. Ex E arumque progrejftbusl his denique politica arcana referantur, fuperditionis myderia evanefcunt , ignorantiæ velum vel retrahitur , vel in mini-  mas partes fcinditur. Reliquum ed, ut  de modo, quo veritas inventa aliis com-i»  municatur, fedulo pertrahemus ,  De regulis , quibus explicanda ejl veritas.  LcH. IV. De veritatum ortu,  Reg. Magister {^caveat.  ne sophismata vel paradoxa vel IMPLICATURA sive DISMIMPLICATURA, wl do£lri-  nas novas auditoribus proponat, nam juvenes hifce femel imbuti, facile in tur-  piflimum fcepticifmum incidunt . Quin imo .  ltudiofe doceat , qui libri fint fcepticQ-  rum , ut eofdem vitent.  Reg. Modum doceat , quo  legeqdi funt libri , ut mentem au£loris ,   & fpifitum confequi poflint. Qua in re,  juvat le£lio alicujus libri, atque a magiliro notentur omnia ? ut difcipuli proficiant,  Reg, Doceat, quod pro aliqua hitfaria legenda, addifcantur prius  chronolqgia , ac Geographia ; itemqu®  asthica, ac politica, alias nihil proficient  Reg. In fiiftoria literaria,  cure? -ut juventus prima veluti rationis  (lamina in omqihus artibus, ac scientiis  agnofcar: faciat deinde notare earum progrefliones , atque quibus ex caufis a maximo ad minimum devenere gradum,  Reg. Praeterea homo eft  natura i nertiflimus , ergo quantum ipfe  ell, totum edftcationi debet' adeoque ma-  gilter eum fedulo inftituat, maximeque  io praceptis yit* civilis , nam fi cum   non Earumque p rogrejfibus  non poterit efficere philosophum, faciat  faltem bonum, & pium civem Nam fine fpiritu patriotico ho-  mines fe mutuo deftruant , & fine religionis idea , erunt Deo ingrati , aliis  vero hominibus pemiciofi.  Reg. Sed fupra omnia ju-ventutem ad laborem horetur, & adfuefcat, atque erga alios reddat benevolam ; nam hxc duo funt focietatis veluti  fulcra, qua: corpus civile fullentant.  Reg. Itemque exciretur in  juvenibus amor erga genitores , qui habendi funt totidem Dii terreftres;ex quo  amor , & obedientia in illos oriri debent. Reg. Infuper qui alios do-  cet , excipiat animo grato juvenes , eof*  que curet reddere meliores , tam in eorum parte phyfica, quam morali.  Quo aoftrema cujufque generis fit , fo!a mul-  tiplicatione , .ac divifione, scilicet sola  additione, ae fiibtraftione conficiatur. Sequitur omnes arithmetica; regulas ad falam additionem, ac subtractionem reduci. Dialectica tantopere a Græcis  exculta, deinde a noftris poli literarum  inftaurarionem, ad inftruendum Intelle£hira,  ut omni loco, ac tempore veritatem in*  veniat , tendit . Hinc finis ejus eft men-  tem perficere , errores vitare, veritatefque   fr" Legantur tabula numerica Profla-  fnrafts an, 1610, .ub Erwert odita , quibu%   Rcduftione ad Arithmeticam . que detegere . Sed qu est cogitandi materia, quxque ipfius mentis vis ? atque energia. Respondetur cogitandi materiam a fenfuum ufu provenire, qui cor-  porum imprefliones excipiendo mentem  tion modo quafi excitant, ac acuunt,  fed quoque eandem imbuunt tot tantif-  que rerum ideis, ut quadam nobis inco-  gnita vi eas inter Te modo conjungens,  modoque feparans ex veritatibus notis ad  incognitas deveniat. En itaque totum  fcientiarum abditiflimum mytterium manifeftatum: En fcieqdi arcana referata :  en denique ars illa pene divini, qua intelle&us fupra res humanas fe erigens ad  peleftia perfcrutanda adfpirat, Quibus 1 ex omnibus profero intelligitur fenfationes efle cogitandi objeflum, ac veluti materiam : mentis vero  artificium in judicando, ac ratiocinando  effe pofitum. Sed quid judicium , quidve  ratiocinium. Judicium eft quidam mentis arftus bus multiplicatio, ac divifto additione, 0 *fubtra&atione abfolvuntur. • iy6ftus, quo ideas inter se ieparamus, vel  eaidem conjungimus: fic dicimus: Petrus  e/i dottus: Petrus non efl ovis. In primo  judicio ne6litur do6lrina cum Petro; in alio vero disjungitur ovis proprietas a Petro. Verum dari poliunt certitudines tam  intuitivae, quani demonllrativae . Ia intui-  tiv^s liquet judicia non efl'e, nili itidem,  vel additiones, vel fubtrafliones, hoc eft  judicia affirmativa ad additionem , negati-  va autem ad fubtra&ionem relerri. Quo  autem referuntur ratiocinia , ac tot vul-  gariffimi argumentandi modi. Ex di£lis in toto Logicae curfu,  omnes mentis ratiocinationes fatis confiat  elfe duarum idearum relationes cum ter-  tia : nam fi eontigprit, ut quod inter duas  ideas relatio non mihi innotefeat , tunc  «afdem cum alia confero. Cui tertiae vel  ambae conveniant , vel minime . In pri-  mo cafu ratiocinium dicitur affirmativum,  in fecundo negativum . Sic fi quaeratur ;  folis moles eline ignea. Itemque plantae  funt animatae ? neque in primo , neque  in fecundo quaefito video quid mihi affirmandus vel negandum sit inter ideas ea- M  rundem relationes, hinc ad refolvenduni  primum quaefitum.tertiam ideam veluti in  auxilium fumam, ac dic^n: quidquid u, rit , ejt igneum  fol autem urit, efl igi-  tur igneus. In quo fyllogifmo, tertia id-  ea , oim qua duas alias comparavi, eft  quicquid curit. ut qua; eidem conveniunt,  inter fe quoque conveniunt. Itaque eidem  urere conveniat tam natura ignis , quam  folis . Ex quo poftremo conclufum eft ,  folem efle igneum.  In fecundo quasfito hanc aliam  ideam in auxilium fumam : qua ex fe  moventur , funt animata . Plantae autem ex  fe non moventur, ergo non funt animata.  In hoc Tyllogifmo tertia idea eft cx fe  movere , cui convenit efle animatum, at  quia eidem non convenit plantarum na-  tura, proindeque conclufum eft plantas non  efle animatas.  Ex hifce duobus exemplis ,«fit  manifeftum ratiocinium efle illud ipfum,  quod in Arithmetica regula aurea , five  trium , hoc eft ex datis tribus terminis  vel veritatibus notis , quaritur quarta in-  cognita . Sic in primo fyllogifmo verita-  tes notas, funt. l.Quicquid urit . Iqnis.  Sol urit. Terminus incognitus fol  efi igneus. In alio exemplo. Quod  ex se movetur est animatum. Planta  non se moventur. Ergo planta; non funt ani- M nu- ruat* efl quarta veritas incognita, Con itat itaque ratiocinium efle quoque regulam nurnericam, Quantum ad caetg*as argumeptandi rationes apud vulgares cognitas , ipfe pon iunt, pifi diyerfe unius  fyllpgifmi modificationes,  p. Ex quo fit, ut illud ipfum Diale-  ctico contingat in quxfitorum folutionibus, quod arithmeticis in fuis problematibus refol vendis f Hi enim quartum terminum proportionalem incognitum poft  tres datos nofos , femper inveniunt vel  multiplicando fecundum cum teifio , vel  primum cum fecundo, eorurpque productum yel dividunt per primum, vel per  tertium, Sic quoque Dialeftjci medium  terminum varie combipando cum fuis extremis modo directo, modoque reciproco  omnes fyllogifmorum formas conficiunt ,  Jtemque f; quis ratiocinii naturam per-,  pendat , inyenif eandem ad ipfum judi-  cium referri, etenim in fyllogiljno aliud  pop fit, quam duas yoces prius ad ter-  tiam , deinde inter fe referre, Sicuti igitur quotquot dantur numericae regula: omnes ad additionem atque fubrraftionem revocantur, ita etiam omnes regula: Logica ad unum judicium vel pegativum, vel affir* s R.cduftione ad Arithmeticam  mativum, hoc eft ad ipfam etiam additionem, vel fubtra&ionem referuntur. Hæc cum ita fint, quifque intelligit primo , quod ficuti Diale&icus operetur in ideis , ac fenfationibus, fic  arithmeticus in cyphris numericis:   Intelligitur , quod utriufque finis fit idem hoc eft veritatis inventio Etiam  intelligitur , tot regulas dari in una, quot  in altera. Denique patet mentis operationem in utraque efle eamdem 4 His  demonftratis, nonne fequitur inter has  difciplinas dari maximam analogiam. Nonne Logicaj studiofo esse perquam neceflariam numericam fupputationem? nonne denique fequitur mentem hac exfufcitari,  acui nobilitari. Quibus ita potius inchoabis',  qnam explanatis , patet numericam fupputandi rationem omnibus efle necef-  fariam , maximeque Diale&icis. At fi  jethicas, fi oeconomicus, fi politicus fint  ejusdem expertes , habendi funt bardi, &  tanquam ftipites ac trunci. Quis enim fe  ipfum regere ac vincere potuerit nifi  prius proprias vires tam phyficas , quam  morales fupputaverit ? quo patfto aliquis  fe cohibere prafumat , nifi antea & temperamenti, Sc propenfionum , &affeftuum  impetum definierit ? Quomodo denique  socialis, nifi propria & aliena jura, ni fiqqe propria aliena officia ante pra>calluerit. Quid tandem dices in aeconomia  civili, ac politica ars numerica cum noftro  tempore ^paucis rrtagiftris docenda, paucifli-  jnis vefo difcipulis addifcenda eadem deferatur Q infantuli natura: humanae afelli! Poffuntne refle profpereque procedere a:que  pes domeflicaE , ac civiles fine ulla numerica fupputatione. Quomodo enim fciremus hominum multitudinem, qui hunp  regnum incolunt: quomodo confummatioriis quantitatem frugum copiam, animalium  fruflum, commercii extenfionem, indituri» produ^qm ? fine hac fciremps navium numerum, regni fijperficiem, terrarum omnium produttjones, veftigalium yim , hominum cujufque coetus lahores,  vita: commoda, fortunas, bona, atates,  morbos periodicos, curationes. Penique  fine ulla fppputandi arte quisnam scire  posset, hujus regni prafeqtem, ac pme?  yitum ft^tum, & quodammodo etiam futqrum pracogpofpere. Quid multa. Non RcduEltorte dii Arithndeiicdrti . i8f  fltf prafens totius Europæ floritas 1 uni  computanJi fpiritui tribuenda est. Ex di£lis igkur hanc in apertiflimam coriclufionem venio i quod fi  qui impetent, re£le facillimeque computant, ejus regimen est philosophicum j  artes, scientiæque florere debent , atque flatus omni e parte effe debet fecu-  fus ac potens Contraque fi ubiqud mendici, otiosi, ignavi, fiagitiofi: fi ex flatii extrahantur materiae primae atque im-  mittantur aliorum induflria: i si ars pecuaria negligatus ac commefcium Vilefcat: fi aftifices, agriculæ, ac laboriofi  lngentiffima ve£ligaliuni pondefe dppri-  mantur : fi ftupidi } Vafri, atque iftfcied-  tiffimi fublimantuf, deprifnentufque ho-  li efll et induflriofi: si denique rtlufici f hislriones 1 mimi , balatrones ifiagnifice excipiantur, literatique autem viri faceflt ,  dicendunl in illo flatu artem computandi prorfus ignoraii Inoumbac itaque huic  fcrentiae quilibet logicae studiofus 1 iri  fuifque operationibus confenefcac Marti  visum est, quantum aeque paupefibi»  prodefl i locupletibus arqufe i sfque negle£U viris 1 pueris , fenibufque nocebit. Dialectica, qu# efl afS perficienda rationis humans, a Grsecis orta Zenoni Eleati VELIA (si veda) Parmenidis auditofi i et adoptione  filio tribuitur, cujus progfefiio f ac fata  tum apud antiquos tum apud recemifti-  irtos ufque ad Abbatem Angelorium Patrem Coeleftirtum brevirtime d£fignatitur. Itemque itir praecipuis fcripfofibus, cjuid itl  iis ^culpatur, quidve laudatur fine partiurti lludio exponitur,  De origine aperntiattunt R.ationii humana , ejuj que maximis progrejpbus, Ex omnibus animantium generibus tiobis huc ufque. cognitis 1 unus   M 4 Jio- homo vi j. 12 rationis cæteris prsfcftat  quia hujus facultatis beneficio se ipsum, et peiie, infinita alia objefta exteriora  cognofcit. Sed quo pa£to ; nifi corporum exteriorum diutinis experimentis in fuos  fenfus ? Quid fenfus, iiift qu&dam organa,- quae nos videmus, tangimus, ac dividimus. Verum quae ita funt, corporea  funt . Homo igitur corpore confiat, Itemqae quilibet homo sua natura ducitur ad  veritatis investigandae studium, 3 d bonam  comparandum , ad malum declinandum. Infuper rerum ordinem, pulcritudinem ,  jufiitiam , honeftatem, liberatemque diligit. His addite tot divina rerum inventa , tot artes, tot dtsciplinas, quæ omnia nonnifi ab homine plumbeo materiæ solidæ, atque inertiflitnae tribui poflunt,  Denique nonne maximum eft animo ipfo  animum videre. Quare homo etiam spirito  confiat. Sed qua via is ad veritatem inve-  niendam contendit, ea tam theoretice, quam  practice Logicæ tironibus enucleabitur. Sensus, qui funt totidem animi fenfationum fulcra y quibus mens  veluti excitatur, concutitur, atque augetur, re£U difiiogutmtur in exteriores, et  in interivres. Primi funt V ©mrri- eo fortius ac facilius ratiocinatur. Denique quo plures teftes oculati , veraciores,  ac Tagaciores, eo veritatum multitudo augetur. At sapisntiffime quifque philofophatur, ii fciat, num subjectum, num  pradicatum, vel eorundem relatio eidem  iit quarenda. Ad qua; tria revocatis universis philosophandi mysteriis, curandum  primum est, ut vocabula accurate definiantur, neque ab eorum vi iemel determinata minime recedendam. Curandum secundo est, utrum quafitum iit resolutionis capax, alias defere. Itemque  utrum simplex, vel compositum. Quibus  rite conftitutis: propofitiones omnes ita  ordire, ut una alteri colligatur ceu in  catena annuli. Infuper videndum , utrum  quafiti genus fit de rebus phyficis; tunc  fenfus atque experimenta adhibe: ii   de rebus abftrattis, rationem interroga. Si denique de rebus factis, Codices  consule. Verum his in confulendis, ausiorum lingua funt callenda, atque fcienda eft illorum patria , astas , religio, seculum , imperium , fefta , mores, adfe£lus , exercitiaque. Postremo loco inquirendum est, jnum liber sit spurius vel genuinus , vel interpolatus, vel mutilates. Quibus undique conquifitis,fi  aliis volueris ea tam viva voce, quam scriptis communicare, dic primo quid sit facultas tfadenda , ex quo & quando orta,  qui fuerunt ejufdem progreflus, qua: fata quique fcriptores , eamque denique  in partes diftin£te propone . Qusb omnia  ceu in parva quadam tabula funt tibi perspicue delineanda. Tum cura, ut omnes  rei nodi proponantur , iidemq. fingillatim  in operis progreffu refolvantur. Sed rite  procefferis fi voces definias , fi a rebus  fimplicibus ad compofitas procedas, fi pa*  radoxa devites fi auditores ad laborem  utilem, atque ad vita: honeftatem inflamtnes, fi pedantifmura quo undique laboramur, declines. En universa informandæ rationis ars; en principia, quibus politica arcana formidando velo obdu&a referantur; en fontes quibus ignorantis tenebrae , ac fuperftitionis tctrificse lemures  cvanefcunt. En denique via, qua in faerum veritatis templum ingredi quilibet  poterit. Verum quid funt tot arte» , tot fcien^  tiae ? Quid hiftoria omnigena. Quid ipfk  fidei regula a Christo prædicata , a noftrifi  que majoribus nobis propofita $ ni fi totidem merttis humans Computationes. Nam nifi San&iflimam invenissent, neque ipsi, neque posteris eam colendam commendassent, Nonne ars computandi in arithmetica contineatur. Quotquot  igitur dantur artes quotquot scientiæ  omnes arithmetica sunt regulæ. At jure merito hoc nomen ufurpat Dialectica;  in qua tot regulæ docentur, quot in altera. Principio univeffae Arithmeticae regulae sunt additio, ac subtractio, nam ad  primam revocatur multiplicatio, ad alteram divisio. Hæc tam de integris, quam de numeris fractis. Quo ad potentiarum  elevationes ipfae non sunt, mfi multiplicationes; extractiones vero radicum sunt  multiplicationes, ac divisiones simul, hoc  est additiones, ac subtrctiones. Quid  multa. Nonne ad has quoque duas revocantur omnes trium numerorum regulæ. Quibus ita perspectis, si quis Diale&icae  prscepta perpenderit, identidem inveniet. Nam veritatis objectum eft utrique facultati commune. Altera enim operatur in  numeris, altera in ideis. Itemque mens  combinat in utraque nempe in illa ideas, in hac vero cyphras.Rurfus omnis veritas  vel est intuitiva, vel ex idearum combinatione innoiefcit, scilicet vel addas ideas,  vel eas inter se separes. Nonne ha; sunt  additio, subtractio, ac regula trium. Uti igitur quartus numerus proportionalis cum regula aurea invenitur in arithmetica, ita etiam quarta idea in Logica cum ratiocinatione invenitur. Quisquis igitur Logicam voluerit optime callere, in Arithmetica; fupputationibus se terat ac consenescat; nam. ea, ut bene  Horatius: Æqua pauperibus prodejl, locupletibus. j . æque: Æque neglefta viris, Pueris, Sertibufq nocebit. Francesco Longano. Longano. Keywords: dell’uomo naturale, metafisica, logica. Luigi Speranza, “Grice e Longano: esame fisico dell’uomo” “Grice e Longano: la semiotica” – The Swimming-Pool Library.

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